GIORNALE DI SCIENZE, LETTERE ED ARTI Voi. 379, 380,381 ROMA Tipografla delle Belle Arti 1852 Piazza Poli num. 91. ^Jl^it' GIORPfALE TOMO CXXVII Aprile, Maggio e Giugno 1852 ROMA Tipografia delle Belle Arli ìm Piazza PoHn. 91. Dì alcuni fatti dell'imperatore Tiberio, nuovo esame recitato alla pontificia accademia romana di ar- cheologia dal professore cav. Salvatore Betti socio ordinario e censore. PARTE PRIMA I. il ori v'ha dubbio che tuolti falli della \ila de' prin- cìpi non ci vengano dalla sioria narrati diversamente che accaddero, e come piacque alterarli al parteg- giare degli scrittori : sicché sia avvenuto in antico (trista condizione dell'umano spirilo) quello che mal- grado di tanta luce di religione, di civiltà e di stampa, veggiamo avvenire a' nostri giorni. Ha di ciò ulti- mamente trattato coll'usata gravità e dottrina l'illustre Antonio Zanibelli professore di scienze e leergi poli- tiche neir università di Pavia, prendendo principal- mente a disamina le cose romane nel suo libro in- titolato : Delle cause^ da cui derivarono parecchie al- terazioni nelle storie antiche. Forse (mi sia libero il dirlo) non saprei al tutto concorrere ne' giudizi del- l'uomo sapiente ed amico intorno a certe azioni di alcuni cesari, le quali, data pure qualche esagera- zione degli storici, troppo manifestamente mostrarono in chi le operò una grande ed incontrastabile o viltà d' animo o scelleraggine. Non m' è ignoto , esservi \LS 4 stato chi ha inteso scemare ed anche scusare le colpe di Donjizio Nerone: come a dir-c il nostro Cardano ed il francese De Bullay. Ma d'accostarmi alla loro sentenza mi vieta soprattutto (lasciamo star altro) l'or- rore del matricidio: ancorché fosse vero che Burro e Seneca, gente di corte, lo consentissero. Sì mollo concederò al Zambelli quanto alla vita e alle azioni dell'imperatore Tiberio. Non ch'io voglia far gra- zia a questo famoso principe di tulle le opere sue: alcune delle quali non negherò che possano essere riprovevoli; ma si intendo dire, che in lui gli orna- menti dell' animo supeiarono i malvagi abiti forse più che in altri celebii potentati, a' quali la sloiia è stata benigna di miglior fama. E a chi con Dio- ne (]) volesse chiamarlo persona di molti vizi e di molte virtù^ io oserei rispondere, che d'uomo furono i vizi di Tiberio, e quasi sempre di principe il cuore e la mente. 2. Certo non sembra che possiamo in tutto aver iìdanza di Tacito, il quale compose gli annali sotto l'impero di Traiano, cioè sessanta e più anni dopo morto Tiberio. E su quali testimonianze si fondano i suoi racconti ? Non può non metterci in gran dub- bio del vero egli stesso sul bel principio del libro primo; là dove alFerma , che per niun modo polca fidarsi alle cose scritte o regnante quel principe, o dopo la sua morte: perciocché le rese ugualmente false o il timore di lui vivo, o l'odio di lui estuilo. " Le coso (dic'egli) di Tiberio, di Caio, di Claudio e di Nerone furono compilate false, viventi essi, per (I) l>il). :ì^s ili (ine. jtamn ; e di poi , per li vecchi rnncori. » Anzi non poteva over siciiilà , come avverte nel primo delle storie, neppure in ciò che narravasi degli altri principi, i cpiali seguirono dopo Nerone: tanta fu la corruzione e tanto il manco di lealtà negli spiriti di quel secolo ! « È stala in vari modi (così pur egli) storta la verità; prima, per lo non sapere i fatti pul> hlici, non più nostri: poscia per l'odiare o adulare i padroni, senza curarsi né gli offesi, né gli obbli- gati,degli avvenire: » aggiungendovi quel profondis- simo: (< Ma lo scrittole adulatore è agevole riprovare, l'astioso e mfaldicente volentier s'ode: perchè l'adu- latore si dimostra bruito schiavo, il njaligno par li- bero. ') Ciò che vale per Tacito , dee valere altresì per Svetonio, il quale ebbe forse in Tacito il prin- cipale esempio all'opera sua De"" cesari, come amico che doveva essergli: fiorendo ambidue nella consue- tudine familiare di Plinio il giovane. Gran protesta però fa esso Tacito d'avere scritto « senza tenere ira né parte, come lontano dalle cagioni (1). » Ma non tutti ha persuaso : ed avvi chi assai dubita eh' egli , caldissimo come mostrasi di libertà, non sapesse per- donare a Tibeiio il non essersi fatto restitutore del- l'antica repubblica, morto Augusto: anzi l'avere con quella sua ragion politica, trasferendo al senato i co- mizi del popolo, o sia impedendo al popolo, come dice Giovenale (2), di più far traflico de' suoi suf- fragi, rese in Roma sì ferme le fondamenta del prin- cipato, che neppur valsero a scuoterle quante stol- li) Annal. J. 1. "^* (2) Salirà X. v. 77. 78. 6 tezze e malva{}ità commisero Caligola e Nerone. Deh come mai un prolondo inlelleUo, qual fu certamente quello di Tacito, non giunse in tutto, secondo che pare, a far ragione che Roma dopo le guerre civili non era più in condizione nr di conoscere né di ricevere la libertà, benché spesso la ceicasse, e ghe la offrissero poi, come bene osserva il Filangieri, due grandi principi Traiano e Marco Aurelio ! Tutto finì per sempre a Farsaglia e a Filippi: perchè a costumi nuovi non si affanno ordini vecchi, uè la libertà è cosa d'animi divenuti schiavi di quante mai sono in noi sregolate passioni. Anzi era tutto quasi finito, pe' vizi che si sfacciatamente depravavano Roma , fino da' tempi di Scipione Emiliano : a cui Cicerone fa solutezze, che altro non sono se non Teccesso d'una )• giovinezza sfrenala, e che un imperatore di settant' » anni ad of;iii occliio nasconderebbe con la cura •' slesa, con che una vestale celerebbe in una sa- » era pompa le naturali sue parti. Mai non ho cre- » duto che un uomo cosi scaltro, come fu Tiberio » così dissimulatore, e d'uno spirito così cupo, ab- » bia voluto a tal segno avvilirsi al cospetto de'suoi » familiari, de'suoi soldati, de'suai schiavi, e soprat- .. tutto di quella sorte di schiavi che sono i corti- » giani. Fino nelle voluttà più indegne avvi certa >> qual convenienza (l). >, Pochi forse, o signori, sa- pranno apporre alcun che alla saviezza di quesle con- siderazioni: ed ognuno poi maraviglierà come d'un principe, che si vuole così rotto alle oscenità, non si narri che mai permettesse ad alcuna sua femmi- na d'intrameltersi delle cose dell'impero: secondo che pur troppo si è veduto sì spesso nelle corti d'Euro- pa, con vilipendio de' popoli , e grande onta della religione e del principato ! 11. Essendo slato Tiberio per un decreto del senato , e per la volontà d' Augusto suo patrigno, dopo 1 grandissimi fatti della Germania e della Pan- noma, pareggiato in ogni potestà ad Augusto me- desimo (2) , succedette in fine all'impero in età di cmquantasei anni con tanta riputazione, con quanta negare non possono neppur gli storici a lui più av- versi. E subito un centurione, itone all'isola di Pia- (1) Nota al cap. XIV del lib, Xll dello Spirito delle leggi del Montesquieu. (2) Velleio Palercolo. II. 121: Tacito, Aiinal. i. 3. 22 uos.i , vi triicklò il fi io vane Marco Agrippa nipote d'Augusto , che lo stesso zio per le sue brutalità, chiestone un senatuseonsulto, aveavi fatto confinare. Ciò, con)'è bene a credersi, fu da molti imputato a Tiberio, considerando che poteva quel giovane, adot- talo pure da Augusto per tìglio, essergli nello stato un pericoloso con)[>etitore. Ma il fatto è che né Ta- cilo , né Sveionio, né Dione ardiscono con certezza incolparlo di tal delitto: benché, proclivi sempre a presumere di Tiberio ogni male , lo stimino assai probabile. Che Tiberio però fosse ignaro di tutto , e che verisimilmente debba si quella morie a Livia matrigna, novercalibiis odiis , abbastanza sembra ri- trarsi da ciò che racconta Tacito: che andato il cen- turione a riferire a Tiberio d'aver lollo di vita Agrip- pa, com'era slato suo comando; Non aver dato nes- sun comando , gli rispose 1' accigliato principe : e del fallo renderebbe ragione al senato (l). « Inteso «) ciò Crispo Sallustio (segue a dir Tacito) che sa- » peva i segreti, e ne aveva mandato l' ordine al )) tribuno , temendo d'esamina, pericolosa non me- » no a dir vero che falso , avverti Livia che non » si bandissero i segreti di casa, i consigli degli a- » mici, i servigi de'soldati : non tagliasse Tiberio i » nerbi del principato, rimettendo a'padri ogni co- » sa ". Ora perchè in un vii cortigiano tante solle- citudini ed ansietà ? Perchè quel temere che il prin- cipe ne riferisse al seiiato ? Non è ciò proprio un confessare lo storico, suo malgrado, che non fu dun- (1) Aiinal. I. fi. -Ve, ve imperasse se se, ri rationcm facli rcd- dcinlam mmd scnalum, responiit. 23 qiie (checche dicane anche il Muratori) non fu Ti- berio parteci|De d'un' uccisione , della quale voleva farsi accusatore ejjli stesso: sì furono i nemici del troppo feroce e odiato jjiovane, fu la nrjatrigna Li- via, fu Crispo che ne scrisse ed inviò al tribuno la commissione in nome dell'imperatore che nulla sa- pevane ? Che se Tiberio passò poi oltre, ne più par- lossi d' accusa , a tutti è nota Taltissima riverenza ch'egli portò sempre alla madre, a cui tanto dove- va : sicché non sarebbe stato né della sua gratitu- dine, né del suo filiale ossequio, né del suo pio (tan- to più che non potevasi disfare il fatto) , l'esporre l'augusta donna, d'età più che settuagenaria, in un pubblico giudizio a sì grave offesa e pericolo. 12. Delle morti di Nerone e di Druso nipoti suoi , sentenziati già dal senato per nemici del po- polo romano, fu egli autore non tanto per una tre- menda ragion di stato, quanto per la ferocia di quel- li, e per le male arti dei delatori. Io non lo difen- derò. Dirò solo che Tiberio aveva in ogni occasione mostrato a que'giovani un grande affetto, fino a rac- comandarli con viva istanza al senato (1) , e a lo- dare pubblicamente Druso suo figliuolo , perchè i nipoti amasse da padre (2) ; anzi gli accarezzasse ed allevasse come suo sangue (3). Aggiungerò poi che in Roma il metter mano per la salute della re- pubblica nel sangue de'suoi non era cosa da pren- (1) Tacito, Annal. IV. 8. (2) Tacito, ivi, IV. 4: Quod palria benevolentìa in frafris filios forct. (3) Tacito, ivi, IV. 8: IVon secus quam suum sanguinem foverct ac toUeret. 24 derne maraviglia, quando nessuno ignorava le leggi delle dodici tavole, e non solo con gloria si ricor- davano e Brulo e Postumio e Cassio e Manlio e i due Fulvi, ma in que'teuìpi slcssi Antonia minore, la vir- tuosissima della casa de'cesari, dannava a morir di fame la propria figliuola Livilla, rea della morte di Druso maiito suo: benché Tiberio, patire di esso Dru- so, temperando con antica magnanimità il suo do- lore, non avesse consentito ch'ella fosse giudicata al supplizio. Ma che ? non si narra pure di due fa- mosi imperatori (i quali non per ciò la saggia po- sterità ha osato vituperare; Costantino il grande e Pietro il grande, che facendo iti petto lacere l'amor paterno, i rei loro figliuoli sentenziarono a morte '! 13. Non approverò mai (e chi lo potrebbe?) le asprezze che usò, incitato principalmente da Sciano, contia la sfortunata vedova di Germanico : benché delle atroci particolarità della sua line abbiamo solo narratore Sveionio , di fede assai sospetta in questi racconti: altro non dicendoci Tacito se non ch'ella, rilegata nell'isola Pandataria, levossi il cibo: « Se « già raggiunge però il politico) non le fu tolto, per- « che la morte sua paresse volontaria (1). « Ma non approvo pure che Agrippina, semper ntrox chiaujala da esso Tacito (2) , facesse opera cosi fiera e co- stante d' offendere in ogni occasione il suo suocero e imperatore , e di competere pertinacemente con Livia augusta. E manco male se in lei fosse sla'a solo queir alterigia e caparbietà, di cui Germanico (1) Aniial. VI. 2;;. (2) Annal. IV 52. 25 stesso in punto di morte la pregò ad emendarsi per suo utile e della famiglia (1) ! Ma fondata ne' tanti figliuoli, e resa perciò audacissima , minacciava di fuggirsi agli eserciti e di muoverli contra il prin- cipe (2), come colei che ad ogni modo volea re- gnare: secondo che un dì Tiberio presala per mano rimproverolle con quel verso greco che dice: « A « te pare, figliuola mia, che siati fatta ingiuria per- « che non imperi (3). » Io non so quali virtù avreb- be ella recale sul trono , oltre alla pudicizia: per- ciocché voglio reputar calunnie le sue tresche con Asinio Gallo il giovane, ed esagerate in parte le cose che finalmente Tiberio, coraechè alcun tempo tacesse, rivelò al senato, secondo che narra Tacito (4). Le quali cose dovettero ben esser gravi, se Velleio Pa- tercolo , senatore pretorio e contemporaneo , lasciò scritto: <( Oh quanto Tiberio per la nuora, quanto » pel nipote, fu forzato a dolersi, sdegnarsi, vergognar- » si (5)! » Non lieve danno per la sincerità della sto- ria fu che di sì celebre causa gli scrittori, che indi fiorirono, non potessero in tutto sapere il vero. Per- ciocché Caligola, poco dopo assunto all' impero, fe- ce ardere pubblicamente nel foro tulli i processi e della madre e de' fratelli che in senato si conserva- (1) Tum ad u;rorem versus, per memoriam sui, per communes liberos oravit, cxueret (erociam,, saevienti fortunae submitteret ani- mum, neu regressa in urbem aemulatione potentine vatidiores irri- taret. Tacito, Annal. 11. 72. (2) Svetonio, io Tiberio cap, 53. (3) Tacito, Annal. IV. 52, Svetonio, in Tiberio cap S3 (4) Annal. V. ,5: Caesar repetitis adversum ncpotem ri nuruin probriis. (3) Lib. II. cap, 130. 26 vano(1). Se non che alcune delazioni rimasero pure nelle sue mani: dalle quali poi tiasse cagione d' in- veire conila il senato , scusando Tiberio della ne- cessità di quelle condanne, come vinto dal ninnerò e dall' autorità degli accusatori (2). 14. Che Agrippina fosse ornici stanca di ser- bar fede alle ceneri di Germanico, si aveva in un libro di memorie domestiche scritto dalla minore Agrippina sua figliuola, e letto da Tacilo ^3): dov' era una lettera della vedova sconsolata a Tiberio , nella quale pungendolo insieme e pregandolo: « Sov- « venisse (diceva) alla sua solitudine: le desse ma- « rito : trovarsi ella ancora in abile giovanezya. » Checché sia di ciò , questo so bene, che fra' mostri maggiori dell'umana generazione si ha il diletto suo figliuolo Caligola, forse non dissimile a'due soprad- detti fratelli Nerone e Druso, accusati in fine da Ti- berio in senato per autori di fatti vituperosi e ne- fandi, né dallo stesso Tacilo lodali certamente per buoni, anzi Druso chiamalo praeferox (4): non altri- menti che poco a lui dissimile fu la sorella Agrip- pina per molli delitti infame, e più per aver dato al mondo, ed avviato con ogni mal'arte all'impero, Do- mizio Nerone. Non v'ha dubbio che Germanico in privata fortuna non sia stato il migliore della casa (1) Svetonio, in Caligola cap. lo. (2) Mcpc in cunetos pariter senalnres, ut Seiani clienlcs, aut tnalris ac fralrum suorum dei.itorcs, inveclus isl: prolatis libeUis-, dilli per paura di non essere accusati, non lenla- » no cose coniro allo slato: e tentandole, sono in- » continente e senza rispetto oppressi. L'altro è , » che si dà via onde sfogare a quelli umori , che » crescono nelle cittadi in qualunque modo contro » a qualunque cittadino. » In ciò convengono e il Montesquieu (I) e il Filangieri (2) e altri sommi savi di siffatte dottrine. Ora Tiberio, in quell'apparen- za che tuttavia durava di romana repubblica, tratto dall'esempio di Augusto lasciò al popolo questa li- bertà salutare, avendone solo esclusi, per disciplina di milizia, i soldati (3). Ma i liberi e generosi ani- mi in Roma non erano quasi più: una viltà si vide succeduta loro, la quale di un diritto rimaso quasi unico delle antiche franchigie, e tanto anche racco- mandato dal sublime senno di Trasea (4), abusò a modo di schiavi : non cioè per consiglio di pub- blico bene, né per magnanimità, né per mettere in aperto il vizio e prenderne un' esemplare vendetta: ma per accattare bassamente il favore de' cesari suoi padroni, e per impinguarsi delle spoglie degli oppressi. La quale infamia disonorava non solo il popolo, ma i patrizi ed i senatori (5): sicché divenuta quasi una rabbia , ebbe Seneca a dire che peggio della guerra civile togatam civitatem confecit (6). (1) Esprit des lois lib. VI cap. 8. (2) Loc. ci», lib. Ili par. I cap. 3- (3) Dione, lib. 558. (4) Plinio, Epist. VI. 21).' (o) Tacilo, Ainial. VI. 7. (6) De beneficiis 111. 26. 40 Che Tiberio non incitasse accusatori, ma lasciasse fare , è chiaro massimamente chi legge Tacito e Dione, ne' cui libri non parmi Irovarc che mai al- cuno siasi mosso a chiamar reo un cittadino spin- tovi palesemente dal principe. Com'è chiaro altresì, ch'egli non credeva immune neppur se stesso dal sottostare alla libertà d'un'accusa: il che provasi per un passo notabilissimo di Svetonio fondato sopra un discorso che andava attorno di Tiberio medesimo. teste portato, ma da per se vi s'inerpica. Gli era » stata decredata una statua da doversi collocare » nel teatro di Pompeo, già incendiato , e che ce- » sare faceva rifabbricare; e Cordo esclamò un trat- » lo: Allora sì che il teatro minava ! E chi dun- » que non darebbe in escandescenze nel vedere sul- )> le ceneri di Cn. Pompeo alzarsi un Seiano, e tra' )> monumenti d'un imperatore grandissimo consa- )► orarsi un perfido soldato ? Quella statua venne » consacrata coll'accusa: e que'fierissimi cani che Se- » iano, per farseli mansueti a se solo e feroci a 1) tutti gli altri, del sangue umano pasceva, comin- » ciano ad abbaiare intorno a quell'uomo , ch'era » già condannato. E che doveva egli fare ? Se vo- » leva vivere, gli era giocoforza di supplicarne Se- » iano; se moriva, la figliuola: inesorabile l'uno e « l'altro. Fermò d'ingannare la figliuola. Il perchè » egli si valse del bagno, e per più indebolirsi si (l) Cip. 22. 44 << ritrasse nella camera, facendo le viste di voler « merendare : e licenziati i famigli , giltò per le fi- « nestre certe vivande per sembi-are di averle msn- « giate. Si astenne poscia dalla cena, come s'egli « avesse in camera mangiato abbastanza: e così fé- « ce il secondo ed il teizo giorno. Nel quarto, per 0 la stessa debolezza del corpo già si dava a co- " noscere. Laonde abbracciandoti: 0 carissima fi- « gliuola^ egli disse, tu a cui non ho mai nascosto « in tutta la vita che questo solo, io sono entrato <( nella via della morte^ e già mi vi trovo in mez- « zo. Tu non devi^ né puoi farmi dietreggiare. E « cos'i comandò che si escludesse ogni luce, e nelle « tenebre rirapialtossi. Come si venne a sapere la « risoluzione di lui , fu pubblica la compiacenza, « che tolta si fosse la preda alle fauci di avidissimi « lupi. Gli accusatori, mossi da Sciano, si presen- « lano ai tribunali de'consoli: si rammaricano che (t Cordo se ne muoia , frastornando essi ciò a cui « l'avevano indotto: tanto ;id essi sembrava che Cor- « do se ne scampasse ! Pendeva lite intorno ad una « grave bisogna: 5e con quella morte venisse impe- ci dimento alla loro mercede. Mentre ciò si delibera- « va, e che gli accusatori si presentano di nuovo, (i egli erasi già assolto. « 9. Or dov'è qui Tiberio ? Io non veggo altri che Sciano, il tribunale de'consoli (erano Cornelio Cosso ed Asinio Agrippa) e gli accusatori. Dove l'accusa d'avere Cremuzio Cordo, con ira dell'imperatore, lodali Bruto e Cassio ? Dove l'essere stato questo ap- punto il capo della sua condanna ? E sì che Sene- ca, il quale scriveva del fatto alla figliuola slessa 45 dell'illustre vittima, merita in ciò maggior fede che non insieme uniti Tacito, Svetonio e Dione. Certo è ch'altri pure ne'loro scritti avevano reso onore a'due uccisori di Cesare, e soprattutto a Bruto, non solo senza pericolo, ma senza olfendere la casa de'Giuli; ed oltre a Tito Livio, ne siano esempi Asinio Pol- lione e Messala Corvino amicissimi d'Ottaviano. E Velleio Patercolo, che fu sì devoto e grato a Tibe- rio, e pubblicava la sua storia nell' anno diciasset- tesimo dell'impero, che non disse infine anch'egli di Bruto ? i< Avresti Bruto desiderato per amico, Cassio più temuto per inimico: in questo maggior forza irovavasi, in quello virtù (1). » 10. Debbono anche disaminarsi meglio, secondo che parmi, le cose che sonosi scritte delle sevizie di Tiberio verso Giulia figliuola d' Augusto e già sua moglie. È noto di che sdegno ardesse Augusto con- tro di lei, coltala da se stesso in bordello (2): e come per molti giorni, tocco da vergogna per tanta infa- mia domestica, si nascondesse a ogni sguardo: e fino gli cadesse in animo di darle la morte (3). Ordinò dunque a Tiberio, il quale allora dimorava in Rodi, di ripudiare incontanente colei: anzi Augusto me- desimo le ne mandò il libello, senz'aspettare che lo facesse il genero: di che questi mostrò essere così preso di pietà e dolore, che subito con sue lettere raccomandò la sciagurata all'imperatore, perchè non pure dovesse perdonarle la vita, ma lasciarle anche (1) Lib. II cap. 72. (2) Dione lib. 35. ;3) Svelonio, in Ollavio e. 60. 46 ciò che la sua munificenza le avea donato (1). Vane pero furono e le sue preghiere e quelle che vi si aggiunsero del popolo romano ^2). Augusto, accu- sata pubblicamente la figliuola in senato, secondo la slessa sua legge sugli adulterii; ed imprecato, a chi sentivane compassione, di poter avere siffatte figliuole e mogli ; dannolla a perpetua rilegazione , prima nell'isola Pandataria, poi nella città di Reggio in Ca- labria: e così strettamente, che oltre all'averle vie- tato il ber vino ed ogni delicatezza del corpo, im- pose che nessuno o libero o servo osasse visitarla , se da lui stesso non ne avesse ottenuto licenza (3). In tale miseria durò Giulia tutto il tempo che so- pravvisse l'inesorabile Augusto: e fu lo spazio di ben diciotto anni. Ora ella sperava che il padre almeno in morte avrebbe cessato da sì grande ira: ma qual essere non dovette il suo rammarico, quando apertosi il testamento d'Augusto, di lui cioè che un giorno ì' aveva qua&i adorata, non solo non vi trovò nessun al- leggerimento alla pena, ma videsi affatto diseredata, con più l'atroce ed espresso divieto ai chiamati eredi (^qualunque cosa fosse di lei per avvenire) di non mai permettere che le sue ceneri contaminassero il sepolcro paterno e della casa de' Giuli (4) ! Già in- vecchiata Giulia e mal sana , mancatale la madre Scribonia eh' erasi fatta sua volontaria compagna nelle disgrazie, piena di passione e di cruccio, da tutti deserta , ed ornai disperata di pii\ vedersi alleviare (1) Svetonlo, in Tiberio e. lì. (2) Svetonio, in Ottavio e. 6S. (3) Svetonio, ivi. (4) Svetonio, ivi e. 101; Dione lib. 56. A7 V acerbilà de' suoi palimciili da clii era succeduto all'impero, perchè niente dovevale , anzi era stato da lei disonorato, l'infelice dovette morire d'amba- scia. Ti'oppo alto era il suo spirilo per poter sostenere più oltre l'abbandono , la povertà , l'umiliazione, e l'essere alla mercè , non più d'un padre, ma d'un imperatore divenutole strano, oltreché offeso: il suo spirito, dico, de' cui doni singolarissimi, coltivati già da natura e da educazione, era stata per trentotto anni cotanta gloria nella casa d'Augusto e nelle roma- ne lettere e gentilezze (l) ! Io sono ferrerò forse) in questo parere, non sapendo d'onde Tacito abbia potuto trarre che Tiberio (( la sfiduciata d' ogni speranza uccise di lunga povertà e tabe (2).» Come « di lunga povertà e tabe » quando è certo che Giulia mori pochi mesi dopo aver egli conseguito l' impero ? Forse le tolse il cibo ? Ma se ciò fosse slato , sarà ella in quattro o cinque giorni mancala, e non mar- cita di stento e di lunga tabe. Né parmi che Sve- tonio abbia più ragione di cercare al solito di vitu- perarlo dicendo, ch'ove il padre aveva chiusa Giu- lia in una città, egli le vietò d'uscir di casa e di conversare con alcun uomo (3). Oh perchè non vi- tuperò anzi Augusto, che così appunto aveva ordi- nalo, come altrove afl'erma Svetonio medesimo (4)? Né ciò basta: ma defraudolla Tiberio (egli aggiunge) del peculio dal padre assegnatole e delle provvisioni annue , sotto prelesto di legge : pei ciocché niente (1) Macrohio, Salumai. II. 3. (2) Omnis speiegenam inopia et longa tabe pcrcmit. Aiiiial. I. 53. ^3) 111 Tiberio e. oO. e») In OUavio e. 63, 48 n'aveva determinato Augusto nel testamento. La cosa certo sarebbe stata severa: non oltre però alle strette sue ragioni d' erede. Ma io non so vedere come Tiberio potesse defraudar Giulia delle provvisioni annue^ quando si sa, ripeto, ch'ella non sopravvisse che pochi mesi al padre. Oltreché penso che ad ogni modo poteva e doveva esser soccorsa , almeno del vivere, dalla sua virtuosa figliuola Agrippma moglie di Germanico, allora fortunata e potente: se non an- che da Livia, la quale per venti anni alimentò (e Tiberio facea vista di non avvedersene) nell'isola di Tremiti l'altra Giulia, nata di questa figlia d'Augu- sto e parimente rilegata dall'avo per le sue dissolu- tezze: perchè dice Tacito (1) : u Spense ella in oc- culto i figliastri felici, e mostrò in pubblico a' mi- seri misericordia. >» 11. Non so poi da qual favoleggiatore delle cose di Tiberio togliesse Eusebio (ed è la sola col- pa da lui apposta nella cronaca a questo imperato- re) che nel primo anno dell'impero Caio Asinio Gal- lo fu « con atroci supplizi ucciso da Tiberio (2). « Lo tolse forse da quello stesso, da cui Zosimo ap- prese, che discacciato Tiberio da Roma per le in- tollerabili sue barbarie, andò a celarsi in un'isola, là dove morì ? 0 dall'altro, il quale insegnò a Gior- gio Sincello, che Druso, assunto da Tiberio suo pa- dre nella compagnia dell'impero, venne da lui ucci- so quel reo di veneficio ? 0 da colui che die no- tizia a Giovanni d'Antiochia, detto Maiala, de'son- (1) Annal IV. 71. (2) Diris a Tiberio suppUciis necalur. 49 tuosi edifìci innalzati da esso Tiberio in Antiochia, e delle città da lui fondate nella Tracia e nella Giu- dea ? Non so: so bene che falso è del tutto che Asi- nio Gallo fosse tolto di vita da questo cesare: il qua- le anzi, secondo che narrano Tacito e Dione, aven- do saputo in Capri contie il vecchio e famoso ora- tore ed amicissimo di Seiano era chiamato in giu- dizio da' senatori, ordinò che non si venisse a niu- na decisione della sua causa prima del ritorno che l'impeiatore farebbe in Roma: ritorno che mai più non avvenne: e intanto , come usavasi co'grandi, af- fidollo ad uno de'consoli perchè nella propria casa il tenesse ad onesta custodia: dove tre anni dopo mancò (e Tiberio (1) mostro dolersene) o per vec- chiaia, o per affanno, o per avere, secondo che mol- ti solevano spinti da falsa grandezza d'animo o noia di vivere, rifiutato di più oltre cibarsi. 12. Vuol anche sapersi che alcuna volta il se- nato, usando di quella cavillosa interpretazione che la filosofia della schiavitù (2), spacciato ch'erasi del- la decisione di una causa, senz'attendere la confer- ma dell'imperatore assente faceva subito eseguire al carnefice la sentenza. Siffatta licenza essendo grave a Tiberio, per mettervi freno ordinò nel quarto suo consolato, che nessuna sentenza capitale dovesse più mandarsi ad esecuzione se non dieci giorni dopo il giudizio. Si ha di ciò ricordo in Tacito (3) ed in Svetonio (A): i quali parlano però del senaluscon- (1) Tacito, Annal. VI. 23. (2) Beccaria, Dei delitti e delle pene §. 26. (3) Annal. III. òl. (4) In Tiberio e. 75. G.A.T.CXXVII. 4 50 sullo che allora si fece, senza nominare il principe e console: quando è fuori di dubbio che il partito fu pieso da' senatori per voler di Tiberio , secondo ]uesta testimonianza chiarissima di Dione : « Al- lontanatosi Tiberio per qualche tempo da Roma, nell'assenza di lui Caio Lutorio Prisco, cavaliere e poeta di grido, il quale composti aveva bellis- simi versi per la morie di Germanico, e ricevu- tone in ricompensa una gran qviantità di danaro, venne accusato nella malattia di Druso d'avere scritto una composizione poetica per la morte di lui: e per lai cosa fu costretto a comparire avan- ti al senato, da cui restò condannato, e quindi fu fatto morire. Dispiacque ciò molto a Tiberio, non già perchè gli premesse che colui subito avesse il supplizio, ma sibbene perchè il senato aveva avu- to ardire di condannare uno, prima di chieder- ne a lui il parere. Sgridò dunque i padri, e co- mandò che dal senato stesso si emanasse un se- natusGonsulto, in vigor del quale non fosse lecito di far morire un reo condannato dal medesimo senato , se non dopo dieci giorni : e die ordine ancora, che il decreto fatto .sopra ciò non si por- tasse nel pubblico archivio prima che passasse il dello spazio di tempo, per potere anche assente esaminare il contenuto di esso, e dar poi sopra il medesimo egli siesso il proprio giudizio (1). » An- che Sidonio Apollinare dà il titolo di liberiano a que- .slo senatusconsulto (2): benché erri nel numero de' giorni, recandolo dai dieci ai trenta. (1) Lib. 37. (2) Lib. I e|)is(. 7. , 51 13. Certo per que' giudizi fu sparso in Roma di molto sangue, non essendo stato sempre inclinato Tiberio 'ad usare clemenza ai rei ed ai perduti nel male. Il che io non \orrò approvare: anzi dirò es- sere un fallo il credere, che i molti supplizi rendano migliori i costumi , e raffermino la potestà delle leggi. La pena di morte, questo rimedio della società malata , come chiamala il Montesquieu , scema il suo terrore allorché si abusa: e spesso con la com- passione, mossa facilmente in noi da un uomo che soffre , fa contrario effetto a quello che si richiede per pubblico esempio. Nel non aver sempre Tiberio saputo con equità proporzionare le pene alle colpe, e nel credere che la possanza di esse pene sia nella loro asprezza e violenza , avrà errato : o , per dir meglio, erralo avrà il senato, a cui il principe co- stantemente lasciò giudicare lutti gli alti reati, solo, come ho detto , riserbando a se la sanzione della sentenza. Ma quanto in ciò non si è dagli storici esa- gerato ! 14. Viene egli accu.sato d'aver fatto ree le pa- role, le quali, secondo Tacito (I), non si punivano nelle antiche leggi di maestà. Oserò dire che in que- sto il grande scrittore (e maravigliomi che il Ter- rasson (2) non lo abbia notato) è incorso in gravi abbagli. Perciocché per prima cosa è certissimo che nell'antico stato libero, quando stimavasi reo di mae- stà fino colui che nel passare di un tribuno non dava loco, si avevano anche per colpevoli le parole: (1) Annal. F. 72. '2) Histoirp de la jurispriid. romaine par. Il ^. 11. o2 ed oltre a ciò che se ne trova in un frammento del libro quarto della Repubblica di Cicerone (1), è ce- lebre il fallo di Claudia figliuola dell'antico Appio cieco (2), la quale tornando da vedere una festa, né per la gran calca potendo passar oltre colla carietta che la portava , gridò : Desiderare che Fulcro suo fratello risuscitasse, e perdesse in mare un' altr' ar- mala, affinchè in Roma non fosse l'ingombro di tanto popolo. Di che accusata subito di lesa maestà popo- lare, fu condannata a una multa di assi venticinque mila. Né altro , chi ben lo consideri , era stato in fine che di parole il delitto di Coriolano. Ma que- ste cose, perchè trattavasi di offesa plebe, non che si stimino effetto di tirannide tribunizia, anzi ven- gono facilmente o passate o scusate da certi storici: sì fu imperiale tirannide il punire che talor fecesi alcuno di que' dissoluti e insolenti, i quali insultando la persona di un vecchio principe, non solo vitu- peravano la dignità del grande impero, ma indegna- mente oltraggiavano un capo cìnto degli allori no- bilissimi della Rezia, della Vindelicia, della Germa- nia, e più della Pannonia e della Dalmazia , della cui guerra non era più stato un maggiore spavento in Roma e in Italia dopo la cimbrica. Trovavasi in- falli minacciata la patria quasi alle porte da un eser- cito d'oltre a ducento mila barbari , gente agguer- rita e feroce e odiatrice del nome romano. 15. In secondo luogo qual mai conliaddizionc (1) Cap. 10. (2) Sveloiiio, in Tiberio cap. 2; Floro, Epiloiie ili Livio lib. 19; Uellio, NoUi alticlie lib. X cap. 6. 53 di Tacito in affermare che Tiberio volte appunto aver per ree le parole, quando egli stesso recò si splendidi esempi del raccomandare che fece il prin- cipe a' senatori, che ne' {giudizi non sentenziassero alle parole veruna pena (1): né al criminale traes- sero le cose che si cianciavano nelle allegrezze del- le mense (2) ? E un' altra volta diceva Tiberio in senato: « La lingua e la mente dover esser libe- re (3): » e un'altra ancora, che nell'accusa di Apu- leia Varilia , la quale aveva sbeffeggiato l'impera- tore e la madre, né di se né della madre si ricer- casse (4). Ma egli gittava al vento comandi e pre- ghiere. I senatori precipitavano d' ogni parte alle delazioni, come ho già detto (5): e si trovarono per fino de' non vergognatisi di nasconder se stessi fra il tetto e il soppalco delle altrui camere, e di por- re l'orecchio a'buchi ed a'fessi, per udire i segreti de'malevoli al principe, e denunziarli (6). E ne ave- va maraviglia e pudore Tiberio stesso: il quale uscen- do di là, dove la terra un dì venerava la maggior dignità che potesse mai essere in un concilio di re, usava sciamare: 0 homines ad servitutem paratos (7) ! « Stomacando (aggiunge Tacilo) sì abbietta servitri colui che non voleva la pubblica libertà ». (t) Annal. 111. 31. (2) Ne verba prave detorta , ne.u convivalium Jabularum sùn- plicitas in crimen duceretur, postulavit. Annal. VI. 5. (3) Svetonio, in Tiberio e. 28= Linguam mentemque liberas esse debere. (4) Tacilo, Annal. II. 50. .',■. .ili ivi ,<ìJì (8) Gap. 5. aC V! ?•/? ,o1r. (6) Tacito, Annal. IV. 69. (7) Annal. III. 6«. 54 Ifi, Fu avviso di Siila, che nelle accuse di mae- stà non avessero a portar pena i calunniatori. C'a/w- mniatoribus nulla poena sit , ha la sua legge Cor- nelia. Cesare ed Augusto la iniqua ordinazione tra- scrissero nelle giulie, secondo il Filangieri (1) : il quale dice che ratificolla pure Tiberio. D'onde ab- bialo appreso, noi so: questo so, che di calunniatori puniti secondo l'antica legge remmia da Tiberio ab- biamo non pochi esempi, fra' quali citerò quelli di Firmio Cato senatore (2j , di Abudio Rufone stato edile (3), di Considio Equo e Clelio Cursore cava- lieri (4), e di Calpurnio wSalviano (5). Né gli stessi accusatori andavano franchi dalla sua accortezza e severità. Ao tamen accusatores (dice Tacito) , si fa- ciillas inciderete poenis offtdebantur (6). 17. Sogliono i delatori essere generalmente la feccia degli uomini: ma nouilimeno in qualunque stalo si avrà sempre necessaria l'opera loio. Molto meno poteva un governo passarsene a quell'età: co- me non può passarsene oggi, senza che principi e magistrati rimangano ignari di tanti perfidi accordi, di tanti pravi consigli, di tanti segreti misfatti, in- fine di tante ree macchinazioni che porrebbero al- l'ultimo rischio la privata e pubblica sicurezza. Tut- to sapere, non tutto correggere, voleva nel suo pro- consolato Giulio Agricola (7) : e credo che debba (1) l< Io •SO bene che delle reità de' ministri voglionsi spesso acculare i sovrani, che troppo ciecamente a quelli si abbandonano: essendosi talor veduto per l'onni- potenza ed impunità di chi guidava i supremi con- sigli dello stato mutarsi in malvage le più benigne e patriarcali nature de' principi. Con tutti però vuol usarsi equità: né fallirà chi l'usi pure con Tiberio cesare , non a torgli colpa, ma, se è possibile, a mi- norarla: perchè avendo conosciuto in fine quel per- fido, ch'egli troppo bonariamente stimava socium la^ borum (4) , si è veduto come incontanente denun- ziollo al senato. E lo stesso, se più fosse vissuto, cre- do che fatto avrebbe rispetto a Macrone, Né solo denun- ziò allora Seiano, ma quanti con lui avevano cospi- (1) Tacito, Annal. IH. 48. (2) Tacito, ivi VI. 26. (3) Annal. IV. 59. (4) Tacito, ivi JV. 2. fì3 rato a iugaDiiailo e a liadlie piiucipe e stato. Nel che se apparve severissimo (benché non sempre fu inesorabile], aveva dinanzi l'esempio del magno Ales- sandro che lutti, per alta lagione politica , levò di mezzo gli amici e complici di Parmenionc. Se non che il macedone, più accusatore e giudice che re, da se stesso dannolli forse innocenti : il romano , (juelli che dal subito furore de' soldati e del popolo erano campati, diede a punire alle leggi con ogni forma di civile giudizio. 22. Che incorressero nelle pene coloro, che spar- gessero lagrime nel supplizio degli amici o congiunti,, lo hanno asserito Tacito (1) e Svetonio (2): né sarò io che lo neghi. Ma imputerò un s\ eccessivo ri- gore al zelo servile del senato, anziché all'animo di Tiberio: il quale avvertito in Capri delle persecu- zioni che sostenevano quelli che in alcun modo com- piangevano il caso di Sciano e de' figli, ordinò con editto che a nessuno, contro le ragioni dell'umanità, potesse vietarsi , dice Dione (3), di fare il corrotto per la morte così di Sciano, come d'altro qualsiasi cittadino colpito dalla giustizia. 23. Occorrerebbe qui in fine toccare anche al- cuna cosa della sua religione: ma lacerò. Non tanto però fu vero quel suo Deurum iniurias diis curae (4), che non facesse cessare le atroci superstizioni druidi- che nella Gallia (5) , ossequioso al senatusconsulto (1) Annal. VI. 10. (2) In Tiberio cap. 61. (3) Lili. 38. (4) Tacito, Ann. I. 73. (5) IMinio. Stor. natur. XXX. 1. del 657 in cui proibivasi che nessun uomo più do- Tcsse immolarsi: e non punisse severamente i sacer- doti di Saturno in iVffrica (I), i quali con barba- rie punica sagrificavano ancora i fanciulli all'idolo, dimentichi dell' antico patto di umanità che per la vittoria d' Imera ebbe loro dettato il siciliano Ge- lone. Pose anche pena, se credasi a Tertulliano, a chi accusasse i cristiani (2). Tanto egli si poco cre- dulo alle ciance del volgo, e solo attento, secondo che il loda Velleio, a ciò ch'era da approvarsi an- ziché a ciò che comunemente approvavasi (3) , sì tanto, o signori, fra quelle calunnie pagane e giu- daiche (in ciò maggiore di Traiano e di Marco Aurelio) onorava le virtù di chi seguiva la religio- ne del Nazareno, 24. Torno a dire, che non intendo né di ne- gare né di scusare tutte le colpe che si naiTano di Tiberio: insegnandoci una troppo trista esperienza , che chiunque in terra ha un potere é raro che non sia sovente indotto ad abusarne. Intendo sì di ne- garne alcune, e di scusarne altre; e soprattutto, per la verità della storia , di far ragione a molti beni ch'egli operò, e di non volgere in tutto al pessimo le intenzioni ch'ebbe nell'ordinare o consigliare tan- te cose palesemente rettissime: cose che ne' rovesci delle sue monete gli meritarono (non senza riferirsi certo a qualche suo fatto) le immagini ora della (1) Tertulliano, Apologet. e. 21. (2) Comminatus periculum abcusaloribus christianorum. Apo- loget. e. 3. (3) Quae probanda essent, quam quac utique probarentur , se quens. Lib. II cap. 113. 65 Pietà , della Clemenza e della Giustizia , ora della Provvidenza e della Moderazione: non potendo con- cordarmi in ciò solo (taccio degli altri minori) con Tacito, grave e solenne scrittore, ed anche virtuo- so cittadino, ma forse studioso troppo, malgrado di alcune forzale lodi qua e là, di volere un gran bia- simo di questo cesare: anzi di mostrarlo esempio del perfetto tiranno. Si è detto che i suoi governi fu- rono non che tollerabili, ma ottimi , solamente ne' primi nove anni dei ventitré ch'egli tenne il princi- pato: ed in ciò pure non posso prestare intera fe- de agli storici. Perciocché com'essi nel narrare i fat- ti de' nove anni cercarono sì spesso, secondo che si è veduto, modi e pretesti di vituperare Tiberio: co- si potrebbe sorgere in alcuno il sospetto, che non altrimenti abbiano operato nel riferirci quelli de'quat- lordici anni seguenti. Ne'quali è parimente certissi- mo, per l'autorità de'suoi atti, ch'egli seguitò a fa- re all'impero grandissimi beneficii: dato pure ch'a- vessero inasprito quell'egro e vecchio animo, prima Sciano vivo, poi Sciano morto reo d'una congiura, della quale molti potenti cittadini parteciparono. La perversità, o signori, in un principe che ha si gran- de utile d'esser giusto e benigno, e che non è stol- lo, non parmi cosa che possa leggermente presu- mersi: si accade a lui spesso che il render ragione con retta severità in tempo iniquo faccialo a mol- li odioso. Perciò convengo col professore Zarabelli nel dubitare di certi racconti che vanno attorno sulle azioni de'cesari: racconti, de' quali appunto ebbe a G.A.T.CXXVII. 66 dire il gran Federico di Prussia (1), che dopo quel- li di Giulio Cesare (che le cose proprie narrò), gli altri non sono che o panegirici o satire. Sicché oserei stinoare opera conveniente ad un romano consesso di letterati il tornar sopra con nuovo esame a quelle tante e sì spesso contraddittorie dicerie, per giudicare qua- li possano in buona critica ammettersi, e quali rifiu- tarsi: rifacendo in parte con criterio degno di que- sto secolo la storia imperiale, come si è nobilmente rifatta in più luoghi la pontificia , la quale d'ogni maniera l'eresie e le sette ne'più gloriosi gerarchi avevano depravata. Saggio poetico della marchesa Vittoria Mosca. Firenze tipografìa granducale 1852. N on è meraviglia che nel paese, dove tante e sì illustri donne coltivarono con moltissima lode la poesia, anche oggidì ne sorga qualcuna che il no- bile esempio seguitando conservi all' Italia anche questo grazioso vanto su l'altre nazioni. La donna ha da natura sì delicato sentire, e tanta gentilezza ed intensità d'afletti, che ove queste doli si accona- pagnino alle altre qualità necessarie ad un poeta , può ella felicemente riuscire nella difficile arte. Una mal divisala educazione, che condanna la donna ad attendere quasi solo alle futilità degli abbigliamen- ti, ad ai vani sollazzi d'un vivere molle, o soverchia- ti) Avant - propos de VlHstoire de wion , . Che natura ci die, sola ne basti. tiirao 73 E tornando alla marchesa Mosca, discordi saranno |)arsi a taluno i consigli de'due suoi concittadini che ho sopra nominati: ma io non es!imo cosi, poiché ho per fermo che l'uno mirando senz'altro alla ne- cessità dello studio l'infervorasse a daivisi attesamen- te: e l'altro invece, ponendo mente soltanto agli in- convenienti, che talvolta da esso sogliono provenire, intendesse a temperamela, perchè il soverchio non \enisse a scapito della naturai sua vena. Ma che la Mosca ahhia meditato e studiato nei classici, per quanto però il comportavano le infermità da lei so slenute, si rileva dalla lettura de'suoi versi, dove ri- fulge un bel ordine , un fare nobile e sicuro . un \eslire i concetti di eleganti forme senza togliere punto alla loro etficacia. Scriveva il Pindemonte nel- le sue prose campestri: « La poesia mi fa passar tan- te ore SI piacevolmente, ch'io non posso non aver- ne un alto concetto senza maravigliarmi di coloro, che sentono di lei altrimenti ch'io sento : percioc- ché udendo chiamar poesia certi versi per un ma- trimonio, una laurea, una monacazione, o pedante- schi e servili, o licenziosi e barbari, e forse di lei non sapendo altro, se non merita lode la loro igno- ranza, non è però da biasimare il giudizio, » I ver- si della marchesa Mosca non essendo di questa ri- provata maniera, come ad ognuno , che abbia co- gnizione della vera poesia, parrà manifesto in le.»- gendoh , io credo che gl'italiani assennati faranno \oti perchè ella prosegua a mandarne alla luce , e non defraudi di sì cari gioielli il Parnaso italiano, il quale le appresterà luogo fra le valorose donne, che di vezzoso e gentile ornamento il fecero più bello e gradito. ENRICO SASSOLI. T4 Biografia del cavaliere Francesco Bucci. fritta, reale comune nel 2 Abruzzo ulteriore, com- presa un tempo nell'alta Sabina e surla dalle ro- vine di Raderlo e di Falacrino (culla a Vespasiano imperatore), era la patria di Pietro- Giuseppe Bucci esimio medico. Il quale per amore del suolo nata- le e del materno affetto lasciava Roma, benché fos- «e per conseguire il posto di medico primario nel- l'arcispedale di s. Giovanni in Laterano, dopo aver compiuto quello di medico assistente. Reduce in pa- tria sposa vasi con la gentil donzella Margherita Gra- ziosi del convicino comune di Borhona^ e nipote a quel monsignor vescovo di Adrianopoli per pietà e dottrina assai distinto, e all'altro fratello Gioacchi- no dotto giurisperito, taln)ente accetto al XII Leone che inviavalo pretore nella nobilissima città di Ascoli. Da questo felice imeneo nascevano cinque fi- gliuoli, tre maschi e due femmine. Se non che il primo Antonio quantunque fornito fosse della me- dica laurea, uscito dall' urna fatale della coscrizione ò.e velili reali, perdeva la vita, come infiniti altri suoi connazionali , nella ritirata delle armi francesi da r*Iosca. Francesco 2 figliuolo , nato nel dì 19 dicem- bre 1790, dopo avere diligentemente compiuti gli studi scolastici in patria, portavasi in Roma. Cotan- ta fu l'alacrità e l'indefesso suo studio per appren- dere l'esterna medicina, che non fu mai più diva- gato da quegl' isvariati allettamenti che offre la capitale , atti pur troppo a distrarre la giovenlù. 75 Ma il Bucci altri luoghi non frequentava , se non la romana università , e 1' arcispedale di s. Spirito. Nel quale atten'dendo di proposito alla necroscopia, assorbì quel tifico elemento nosocomiale, cui di rado vanno imnjuni gli studiosi delle mediche discipline: ed i^nponente ne fu la morbosa sindrome che lo ri- dusse vicino a morte. Riavutosi in salute, e pel corso di anni dieci datosi in quest'ospedale vieppixi .sempre allo studio ed al chiiurgico ed anatomico esercizio, di mano in mano ne colse tutti i gi-adi e le onoiifìcenze, senz'es- ser superato da' suoi colleghi: siccome ampiamente rilevasi non solo dai premi e dai documenti oOiciali gelosamente sei'bati da' suoi eredi, ma eziandio da que' pezzi di patologica anatomia, di cui arricchì il museo dell'ospedale, alcuni de'quali, essendo degni di generale animadversione, furon poscia nel 1835 renduli di pubblica ragione. Cosiftatti diportamenti del Bucci non isfuggij rono al penetrante accorgimento dell'ottimo mode- ratore, che con somma lode e manifesto incremento reggeva il timone di s. Spirito." onde dopo essergli stato conferito dall'avvediito prelato il posto di chi- rurgo neir ospedale de' dementi , era con sovrana sanzione nominalo chirurgo primario soprannumero dell'arcispedale suddetto. Indi per suggerimento del valentissimo Gaetano Flaiani, figliuolo degno di quel Giuseppe luminare della romana chiruigia, occupava il Bucci nel 1822 la cattedra di anatomia teorico- pratica, lasciala dal Flaiani per infranta salute, per la quale neppur .sempre attender poteva all'esercizio di chirurgo primario. T6 E incredibile a dirsi le studio messo dal Bucci Dell'adempiere all' onorando incarico: e di anno in anno progredendo in siffatto insegnamento, utilissimi erano i risultamenti ritratti dai numerosi allievi, e da persone anche provette nell'arte salutare frequen- tanti le sue lezioni di patologica anatomia , che di sovente ripeteva in privato. Era uno stupore l'osser- vare con quanta sicurezza questo giovane professore maneggiasse V anatomico coltello , penetrando nelle più recondite fibrille del corpo umano, e rischia- randone sempre non meno i punti più intricati di patologica anatomia che delle stesse fisiologiche fun- zioni. Quanto inoltre nella dottissima Italia e fuori veniva alla luce nelle patologiche anatomiche disqui- sizioni, era tantosto dal Bucci studialo e matura- mente meditato sul cadavere, per indi colla consueta facilità comunicarlo ai suoi allievi. Osiamo quindi dire, che l'ardore e l'impegno grandissimo dal Bucci fino agli estremi di sua vita in cotesti studi praticali, è difficile che vengan da altri eguagliali. Se non che in esso .sì rinnovavano, come avrem qui sotto campo di osservare, que' tristi effetti prodotti dal continuo disecare ed esaminare cadaveri di ogni sorta. Peraltro i meriti, di cui il Bucci vedevasi ador- no, lo eccitarono ad ottare nel 1825 al po.sto di chi- rurgo primario di s. Maria della Consolazione per pubblico concorso, che, superando i suoi emoli, oc- cupava nel 1830 per la morte del famigerato An- tonio Trasmondi. Avvenuta poscia quella del Fla- inni, rinunciavalo per subentrargli in s. Spirito, sic- come avvenne, non senza contrasto de' chirurghi dopo di esso soprannumeri di questo'spedale. Perlocchè fu I 77 tluopo l'iutervenlo dell'autorilà superiore, che de- cretasse esser libero i! Bucci di passare chirurgo primario in s. Spirito. Contemporaneamente il mode- ratore di s. Maria della Consolazione rilasciavagli do- cumenti di sommi elogi. Intanto sparsasi nella capitale la fama del Bucci di valente professore , acquistava clientele di ogni grado e condizione. L'attività, la prudenza, l'amo- revolezza e la fiducia spiegale nel clinico esercizio, accrescevano i suoi pregi : dimodoché non solo in Roma e nelle pontificie province, ma all'estero ancora risonava il suo nome, dandone luminose prove per di- versi anni in queste carte pubblicate (1), che veni- van rimeritate di accademici onori. Né é a dirsi quante poi fossero le caritatevoli cure verso i poveri infermi , sovvenendoli ancora ne'loro bisogni, e fissando giornalmente le ore per esaminarli in una pubblica farmacia. Le quali doli, non disgiunte da pura religione ed integrità di costumi, facevanlo spesso chiamare a consulta ed a perizia nelle cause matrimoniali nella s. congregazicne del con- cilio, e pressoché sempre per quelle molliplici nel tribunale del vicariato, ove officialmente divenne pe- rito: e nel 1833 era fregiato della pelliccia d'onore, come membro del collegio medico-chirurgico. Arroge che i più distinti suoi colleghi, i più il- lustri Italiani cultori dell'arte salutare, gli stranieri medesimi venuti in Roma, desideravano il Bucci, il quale sollecilavasi di esercitar verso di essi ogni cor- i1) Osservazioni pratiche di chirurgia. Giorn. Arcati, tomo 39 p3g. 73 e seg._, tomo il pag. 213 e seg., e tomo 63 pag. 257. tesia : onde tornati nelle loro patrie lo ricordavano con islima e riconoscenza. Di che basti solo qui ac- cennare un Dupuitren^ un Larrey^ un Esquirol^ un Giuseppe Frank. Macome accennossi, se il Bucci s'impossessò pro- fondamente dell'anatomiche patologiche discipline con profitto grandissimo de'suoi allievi, ne fu peraltro la vittima. Imperocché dal continuo ispirare ed as- sorbire cadaveriche emanazioni per ogni sorta di morbi , inquinossi talmente l'albero linfare venoso, che fin da due lustri innanzi la sua morte se ne palesarono morbosi risultati. Fu in questo torno di tempo che, dopo aver corso alcun pericolo per gra- ve malattia, quest' assumeva un' indole cronica con manifesta minaccia di acquoso versamento, che a poco a poco dileguossi, soprattutto col respirare il salubre aere natale. Soggiacque inoltre più volte a calcolo- se affezioni, talora assai moleste. Consigliato da qualche medico suo amico, che per serbar la di lui salute eragli duopo cambiar metodo di vivere, e rinunziare affatto alla scuola di s. Spirito, ei punto non l'attese , ma peiseverò co- stantemente nel prediletto anatomico patologico in- segnamento; d'onde siffattamente si accrebbe l'umo- ral discrasia, or qua or là manifestandosi anche al- l'esterno, in ispecie nell'estremità superiori Eran due anni che profonda tosse ispirava se- rio timore nella gravissima considerazione, che l'u- moral discrasia precedentemente manifestatasi all'e- sterno, fosse la nociva cagione dell'interno apparato morboso nell'organo respiratore: molto più che il Buc- ci era dolalo di sanguigno temperamento con ver- 79 mipli.T e bianca carnagione: né di lieve momenlo era- no i pravi palami di animo in quest'epoca sofferti. Pur lioppo il timore divenne una fatai velila ! La tosse nel 1851 divenne più frequente; e ben- ché fosse associata di tempo in tempo con febbie nel marzo ed aprile, tuttavia pochissima o niuna premu- ra ne prese l'infermo, ma attese sempre alle l.:*zio- ni e visite dell'ospedale. Sopraffatto dal male nel di 19 aprile, fugli duopo allettarsi. Dopo pochi gior- ni accusò un dolore nello spazio triangolare sinistro della clavicola e scapola dello stesso lato, che vide- si, passato alcun di, derivato da tumore, che venu- to a suppurazione, fu aperto nel di 4 maggio, sgor- gando abbondevole marcia. L'infermo, siccome av- viene spesso nella pulmonica tabe, e qualcun altro lusingavansi che critico fosse il tumore, e d'indole catarrale la continua febbre. Ma i medici suoi ami- ci vedevano col massimo dispiacere diametralmente l'opposto: mentre non ignoravano che il fenomeno di tumori non è infrequente nel polmonare esulce- ramento , il quale fatalmente non poteva più revo- carsi in dubbio. Difatti le succennate nocive cagio- ni, la pelle arida con calore urente alla palma della mano, le giornaliere febbrili esacerbazioni talora an- che ingruenti, l'arrossamento circoscritto nelle gote, l'emaciazione , l'espettorazione di spuli sospetti, di- venuti poscia purulenti , e la normalità delle fun- zioni intellettuali, confermavano la funesta diagnosi, senza la minima speranza di guarigione. Contro il parere del malato e di altri si credette istituire una contro-apertura al tumore praticata con grande stento, nella vista di richiamare l'afflusso della 80 marcia; mn non se ne vide un atomo: e le due aperture non mai più si cicatrizzarono. Il male facendo ra- pidi progressi sul finire di luglio, condusse l'infermo a morte nel dì 2 agosto, dopo essere stato nel corso della malattia munito di tutti i soccorsi che la no- stra santa religione ci appresta, da lui stesso con fer- vore ricercati: avendo pochi dì innaazi del trapasso avuto l'onore di vedersi insignito dell'ordine caval- leresco di s. Gregorio Magno per munificenza del sommo regnante pontefice Pio IX.. In che il moribon- do si espresse, che il s. Padre si era degnato onorare la sua tomba. Ma se travagliatissimo fu il vivere del Bucci per lo studio, per l'insegnamento e per 1' esercizio chirurgico inseparabile talora da disgusti, venne pe- rò non lievemente sollevato da ogni specie di re- tribuzioni, e dai maggiori onori che Roma offre ai professori dell'arte salutare. D'altronde, se oltremodo amareggiati furono da patemi d'animo gli ultimi suoi anni, e pochi dì innanzi ancora alla sua morte, di grandissimo conforto fugli l'amorevole assistenza de' suoi congiunti e amici. Imperocché per questi era un debito di grato animo riconoscente verso il Bucci pel sincero affetto da esso mai sempre lor dimostralo, e nei casi di morbose evenienze notte e dì assistiti. Se i vincoli di sangue risvegliano in critiche circostanze le più sollecite ed affettuose cure, ognuno può immaginarsi quali e quante dovevan manifestarsi da'suoi: imperocché il Bucci inlese sempre a dar loro inconcusse liprove d'intenso verace amore non dis- giunto da continui benefizi. Il di lui fratello Luigi, che era stato sempre in patria intento alle domestiche faccende, volava 81 ia Roma appena lo seppe infermo. Maraviglioso si è che i due fratelli Bucci, lungi dal menar moglie, ogni loro studio avevano volto Hiell'amare la sorella Maria maritata in Rinaldi e i due di lei figli Pietro Giuseppe ed Eugenio , che nella loro adolescenza fatti venire in Roma, e datisi di proposito agli stu- di, corrisposero degnamente ai desideri dell'amoro- sissimo zio. Imperocché il primo intrapresa la lumi- nosa carriera ecclesiastica, la percorre con pietà e dot- trina non comune: e distinguesi non solo nelle sacre facoltà, ma eziandio nelle leggi civili e canoniche : meriievoluieute quindi è stato per sovrana benignità noverato fra i maestri delle cerimonie pontificie. Il secondo, seguendo le orme dello zio, le ha fin qui felicemente calcate : mentre ha raggiunti i maggiori onori che possano mai conseguirsi da un giovane chirurgo, nell'avere leste dato termine al cor- so di chirurgo sostituto in quello stesso arcispedale, ove non sarà mai obliata la memoria del zio. La cui morte da ogni ceto di persone in Roma compian- ta, fu sì profondamente sentita da' suoi, che deslava commovente sensazione lo strazio da essi infrenabil- mente manifestato. Ed il grato nipote monsignor Ri- naldi Bucci ne ha data ancora pubblica dimostra- zione col mettere alla luce pochi cenni della vita del dilettissimo zio con grave e dotto sermone latino , di cui noi abbiamo non poco profittato (1). Agost ino Cappello (1) Fila [''rancisci Bucci, domo civitale regali in vcstinis, equi- tis s. Grcgorii magni, breviler conscripta ab illustrissimo domino Petto Josepho Rinaldi-Bucci ex sorore nepote, sacrae falcultatis ac iuris utriusnue doctore, apostoUcarum caeremoniarum antistile eie. «le fìomae ex typographia Salviucci 1851 G.A.T.CVII. 6 82 lìella doltrina che si asconde nell'ottavo e nono can- to deir inferno della Divina Commedia di Dante Allighieri. Esposizione nuova di Michelangelo Cae- tani duca di Sermonela. PARTE PRIMA. xm. ben manifestare una nuova dichiarazione di un passo della Divina Conamedia di Dante Allighieri, rimasto ancora nell'errore della chiosa degli antichi comentatori, conviene che innanzi tratto alquanto si ragioni delle dottrine e delle condizioni che furono argomento al grande concetto del divino poema. Le scienze speculative in .sommo pregio a tem- pi dell' Allighieri erano state prodotte dagli arabi nella origine loro in opposizione alle religiose dot- trine,' quindi era l'opera de'grandi ingegni porre ogni studio alla dimostrazione della concerdia trai lumi naturali e quelli della rivelazione. A questo nobile fine in tutto il trattato della Divina Commedia e nelle altre sue opere adoprò l'Allighieri ogni argomento sì dell'arte e sì della scienza, onde piovere che l'ordine di tutte le cose, tanto negli universali, che ne'particolari, era conso- nante alla rivelazione dell'eterno Vero. Per lo slesso fine nel suo poema ad ogni sagro esempio ivi ricordato allegò a testimonio di concoi- dia altro esempio di storia come verità, o di favo- la come sua immagine. Tutta la morale materia di (jueslo trattato, chiu- sa in gran parte dentro l'allegorìa , e disposta nel 83 più distinto ordinamento, secondo che insegnava la scienza, servì in pari tempo con mirabile magistero a quanto domandava l'aite alla formazione del poe- ma. In questo la mente smarrita di Dante, par soc- corso della grazia divina, ammaestrata dalla ragione in immagine di Virgilio venne condotta per la con- templazione della colpa e della penitenza a Beatri- ce figura della scien/a beatificante , e con questa celeste guida ascese per tutti gli effetti alla mani- festazione della causa prima ; e la visione beatifica fu il fine allegorico e letterale della Divina Commedia. Come concordi apparvero per dottrine all'AlIi- ghieri la scienza sagra e la profana a provare la universale dipendenza da un solo principio , cosi pure volle che a quel modo di necessità ne seguisse rispello all'ordinamento civile, che il mondo dovesse reggersi io monarchia, nella quale l'imperatore come potestà voluta da Dio mantenesse la giustizia e la pace fra tutti i regni della terra. A questa sua persuasione dell' eccellenza della monarchia, dedotta dagli argomenti della scienza, vi si aggiunse pure tutto l'effetto per la imperiale au- torità generalo dalla dolorosa sua esperienza de' gra- vissimi mali che si producevano nella sua patria dai popolari reggimenti, i quali per odi e vendette di parli, nella vicenda di continui mutamenti , in un con la civiltà smarrivano ogni religioso e morale principio. Nel desiderio che la imperiale autorità ponesse fine a tanto male, sostenne l'Allighieri lutto l'amaro dell'esilio, del quale la ingiuria anziché avvilire l'ai- u lezza cieir animo suo, ne sollevò vieppiù la mente allo studio della sua scienza, introducendola fìgura- lamente nel gran lovoro del suo poema, nel quale a modo sensibile descrivendo letteralmente i tre stati spirituali della vita futura, espose in allegorico senso ed in materia le cose e gli affetti della vita presente. Parve all'Allighieri vedere nella fondazione del romano impero un manifesto volere della divina prov- videnza, dappoiché in mezzo a tal monarchia stan- dosi il mondo tutto nella pace, avea dovuto avve- nire il divino nascimento del Redentore , e 1' alma Roma essere convertita nel luogo santo , nel quale poi sedeSvSe il successore di s. Pietro. Quindi pensò esso che ogni precedente avvenimento avesse in se alcun segno di miracolo, e si studiò dimostrare prov- videnziale qualunque persona, o immagine, che aves- se relazione a questa mistica fondazione. Non solamente come il maggiore poeta Ialino elesse l'Allighieri Virgilio per sua guida nella spi- rituale peregrinazione, ma ben anche perchè cantore della fondazione del romano impero; e siccome avea trattato della vita futura, lo chiamò suo maestro e suo autore. Lo bello stile che facea tanto onore, e che disse aver da lui tolto, era l'aver egli preso a cantare l'argomento stesso della saconda vita dalla discesa di Enea nell'inferno trattata da Virgilio. Tolse perciò ancora da quello ogni soggetto che per arte e per mateiia potè introdurre nella Divina Commedia dandogli nuovo uftlzio e allego- rico significato, come più conveniente a poema sacro. F'er tal modo fece che servissero come strumenti ed immagini del divino volere i nomi pagani di Caron- te, di Acheron(e, di Minos, di Cerbero, di Gorgone, di Slige, dì Flegetonle, di cenlauri, di minolauro, di arpìe, di Gerioiie, di Criareo, di Caco, e di molti al- tri, che sono in più luoghi dei poema figurati quan- do in atto e quando in limembranza. A maggior gloria di Virgilio si compiacque immaginare , che per lume di Sibilla, il quale tralucesse ne'ver:-i della sua Buccolica, venisse illuminato il poeta Stazio alla fede. E finalmente volendo significare con esempio il valore infinito della grazia, prescelte Rifeo troia- no, ricordato per giustissimo da Virgilio, e lo col- locò fra i beati splendori del ciglio dell'aquila nella sesta sfera di Giove. Queste cose brevetnente notate sono sufficienti a rammentare con quale intelligenza e con quali dottrine debbasi procedere quando alcuno voglia farsi bene addentro nella sentenza della Divina Comme- dia, la quale se si mostrò difficile, e ben anche ri- mase non intesa in alcun canto, a coloro che furono esercitati nella vecchia scuola di queste scienze e di tali speculazioni, d'essai più faticosa si è fatta al pre- .sente che per le nuove scienze, pel moderno uso , sono quelle interamente smarrite. PARTE SECOiNDA. Fatte queste universali ragioni intorno alla ori- gine ed alla materia della Divina Commedia, onde poi meglio dichiarare la particolare dottrina che si asconde nell'ottavo e nono canto dell'inferno, si vuole prima che sia esposto distesamente lutto quel passo, quale venne dall' Allighieri descritto, e dimostrato l'errore nella sua chiosa introdotto. 86 Pervenuto adunque Dante con Virgilio al quin- to cerchio, ove punivansi {yriracontli sommersi nella palude Stige, che cingeva d'intorno la città di Dite, vide la sua torre far cenni di fuochi perchè Flegias andasse a tragittar Dante di là da quella. Condotto esso con Virgilio dalla nave dì Flegias a piò della torre innanzi alle porle di Dite, apparver su quelle più di mille demoni, che diceano stizzosamente: Chi esser costui che senza morte veniva per lo regno della morta gente ? A' quali Virgdio fé' cenno di voler parlare segretamente. Questi chiusero alquanto il loro gran disdegno, e dissero a lui di venir solo, e che il suo compagno, ohe si ardilo era entralo per cote- sto regno, se ne tornasse solo per la sua folle strada, onde provasse se sapea; e ch'egli sarebbe quivi ri- masto per avergli scorto si buia contrada. Sconfortato Dante si raccomandò a Virgilio, che dissegli non temere, dacché questo passo non potea esser loro tolto da alcuno per esserne da tale dato. Andò poi a parlare a' demoni, e senza udire ciò che Virgilio loro porse, vide ricorrer ciascuno di quelli a prova dentro alle porte , e quindi chiuderle nel petto a Virgilio. Questi si rivolse a passi radi verso lui con gli occhi a terra privi d'ogni baldanza, di- cendo ne" sospiri : Chi n'ha negale le dolenti case I Virgilio si fece quindi a rincorare Dante, per- chè non sbigottisse egli si adirava, mentre avrebbe vinta la prova qualunque si fosse dentro che si ag- girasse alla difensione ; che questa loro tracotanza non era nuova, per averla altra volta usata a quella porla men segreta su cui era la scritta morta, e tro- varsi perciò senza serrami. Aggiunse poi che di qua 87 da detta porla era un «ale che di già discendeva l'erta passando senza scorta per i cerchi infernali, e che per kii sarebbe stata aperta la terra. Aspettando adunque la costui venuta, fermossi Virgilio come uomo che ascolla , poiché V occhio noi potea menare a lunga, cagione dell' aere nero e della nebbia folta: Pure, incominciò a dire, a noi converrà vincere la pugna.... se non... Tale ne si of- ferse.... Oh quanto tarda a me che altri qui giunga ! Ben conobbe Dante com'egli ricoperse con le ultime le sue prime parole tronche, le quali gli davan pau- ra di trarre forse a peggior sentenza ch'ei non tenne. Immaginando che tale persona si attendesse dal primo cerchio del limbo, dimandò a Virgilio, se da quel luogo discendeva mai alcuno in cotal fondo della trista conca; alla qual cosa lispose, di rado in- contrarsi che alcun di loro facesse questo stesso cam- mino: ma ben saperlo egli, e però farlo sicuro, es- .sendo stato altra fiata dentro a quel muro della città di Dite, nella quale ornai non avrebber potuto en- trare senza ira. Mentre che sì diceva, gli occhi di Dante lo avea- no tratto verso la cima rovente dell'alia torre, ove in un punto erano apparse le tre furie infernali , chiedendo Medusa per far Dante di smalto. Virgilio il fece volgere indietro, e tenere il viso chiuso, ag- giungendou anco le sue mani stesse, poiché s'egli veduto avesse il Gorgone sarebbe stato nulla del tor- nar mai suso nel mondo. Giunto a questo passo della sua narrazione l'Al- lighieri invoca la sana intelligenza de'suoi lettori a ricercare la dottrina che vi è nascosta, dicendo Io- 88 ro: « Oh! voi che avete gl'intelletti sani. Mirate la dot- trina che si asconde, Sotto il velame delli versi stra- ni. » Segue poi a narrare, che già veniva su perle tor- bide onde un fracasso di un suono pieno di spaven- to, per cui tremavano ambedue le sponde di Stige, non altrimenti fatto che quello di un vento impetuoso per gli avversi ardori, che fiere la selva senza alcun rattenimento, i rami schianta, abbatte e porta fuori, dinanzi polveroso va superbo, e fa fuggire le fiere ed i pastori. A questo fracasso Virgilio sciolse gli occhi a Dant»!, dicendogli che gli dirizzasse da quella parte ov'era più acerbo il fumo: e di là vide venire uno, che a piante asciutte passava Siige, menando spesso la sinistra mano innanzi a se onde rimuovere dal suo volto quell'aere grasso, sembrando lasso solo di quel- l'angoscia. Le anime degl'iracondi fuggivano al pas- sar di costui, come rane innanzi a biscia nemica. Ben si avvide Dante esser quegli messo pei- volere del cie- lo, perchè Virgilio gli fé' cenno di star quieto e di fargli inchino. Parca veramente costui pieno di disdegno : e giunto alla porta, l'aperse con una verghetta, non es- sendovi alcun ritegno; e dall'orribile soglia di.sse a' demoni: 0 cacciati dal cielo, gente dispetta, d'onde si alletta in voi questa oltracotanza ? Perchè ricalcitrale a quella voglia, alla quale non può mai esser mozzo il fine, e che più volte vi ha cresciuta doglia? Che giova dar di cozzo nella fata ? Il vostro Cerbero, se ben vi ricorda, ne porta ancor pelato il mento e il gozzo. Dopo le quali parole, come uomo sollecito per 89 altra cura che non è quella di colui che gli è da- vanti, si rivolse per la strada lorda, né fece motto a Dante e a Virgilio, che senza alcuna guerra si- curi entrarono nella terra di Dite. PARTE TERZA. La narrazione di questo nrjaraviglioso avveni- mento annunziato dall'Allighieri come cosa, la quale nasconda sotto allegorico velame alcuna dottrina da essere mirata da coloro che hanno intelletti sani, fu da' chiosatori poco sottilmente ricercata. Fei-mandosi essi ad alcuna apparenza, la quale è nel senso let- terale di questo passo, ed all'atto miracoloso di co- tal persona, senza andar più oltre dubbiando intor- no alla convenienza di ogni sua parte, immagina- rono quella essere un angelo messo dal cielo per aprire a Dante le porte di Dite, che i demoni a Vir- gilio aveano negate. Fermata in tal guisa a principio questa mal fon- data opinione, venne poscia seguita dagli altri chio- satori, i quali null'altro cercando tennero per que- sto aversi pienamente dichiarata ogni ascosta dottri- na. Ren fu alcuno fra questi a cui non parve tal cosa sufficiente, perchè conobbe che la supposizione dell' angelo non rispondeva a veruna parte di quella narrazione , né discopriva dottrina alcuna nascosta. Non pertanto nel ricercare sotto a quel velame si smarrì in altro errore, immaginando in quella vece si fosse Mercurio, che aprisse le porte co! suo ca- duceo. Altro vi fu ancora , che con più grave ed inescusabile errore pensò che questi fosse il divino Salvatore venuto a dischiudere quella porta. 90 A provare quanto lungi dal vero siano andate tali chiose, deesi ricordare, rispetto a quella dell'an- gelo, primieramente qua! grande maestro in divinità si fa l'Allighieri, per non dover mai cadere in si grosso abbaglio di far discendere entro l'inferno alcuno de- gli angeli di paradiso, ad esercitarvi qualsiasi mini- stero. La graz-a divma potea ben valersi di ogni altro messaggio più convenevole a quel luogo ed a quel- l'uffizio. Questa ragione meglio si conferma ponendo a confronto le due opposte descrizioni quali furono fatte dall'Allighieri, quanto della ignota persona di questo passo, quanto del primo angelo da lui incon- trato nella sua peregrinazione. Questi gli apparve tale veramente al giungere ch'esso fece con Virgilio in purgatorio; e narra che moslravasi ben da lungi per vivissima luce, li quale ognora cresceva appressan- dosi velocemente a lui, tanto che i suoi occhi non poterono sostenerla. Com' ebbe Virgilio conosciuto l'angelo, gridò a Dante: « Fa, fa che le ginocchia cali: Ecco l'angel di Dio: piega le mani: Oniai vedrai di sì fatti ufiziali. » Dichiarando per queste ultime pa- role, che fino a lai punto non eransi da loro ancora veduti angeli nel peicorso cammino; onde non po- tea essere angelo quello dell'apertura di Dite. Veniva questo vero angelo con le sue bianche ali diritte verso il cielo, trattando l'aere con l'eterne penne che non si mutano come mortai pelo. Nella quale descrizione non vi ha cosa alcuna che si con- fonda con gli attributi della umana natura. Facendosi ora a ricercare la descrizione dall'igno- to personaggio, non si troverà somiglianza alcuna con I 01 quella fatta dell'angelo. Costui a prima jjiunta non si appalesò da lungi per luce chiai'issima, ma in- vece comparve nel mezzo al più acerbo fumo di quella palude. Il muover suo manifeslossi per un fracasso di un suono pien di spavento, comprato a quello di un vento impetuoso, che schianta la selva e mette in fuga fiere e pastori; cose tutte che nulla esprimono di angelico, anzi oppostissime a quanto ad angelo si conviene. Sen venne da pedone, e pri- vo di ali, quali sarebbero state convenienti alla sua natura, alla quale sarebbe pure non poco indecente la comparazione con la biscia nemica delle rane. Fi- nalmente l'andar che facea questi menando spesso la sua sinistra mano dinanzi a se, onde rimuover dal volto r aere grasso della painde , sembrando lasso soltanto di quell'angoscia, disvelava vie più ancora la passione propria della umana natura. Virgilio fece segno a Dante che stesse quieto e inchinasse ad esso, per riveienza a personaggio di gran riguardo, ma non già come ad angelo, innanzi a cui se fosse stato gli avrebbe fatto piegar le ma- ni, e calar le ginocchia, come foce all'apparire del primo angelo di puigalorio. Pieno di sdegno costui aperse la porta di Dite con una verghetta che avea nella sua destra mano, livelandosi tanto dall'atto che dallo strumento sem- pre meglio la sua qualità ben diffeiente da quella dell'angelo descritto, il quale quantunque operante come celestiale nocchiero , tuttavia avea a sdegno gli argomenti umani, né altro remo , né altro velo volea al suo uffizio che le sole sue ali. Colai ver- ghetta fu dall'Ali ighieri posta in mano a costui per 92 chiaro allributo significalivo di più conveniente uft- ziale. Le parole usate contro a' demoni provano ugual- mente la mondana persona; perchè si fece a rim- proverare il vano cozzar loro coi fati, e rammentò i danni di Cerbero, cose che 1' Allighieri non volle mai che per bocca di angelo fossero dette. Anzi vi aggiunse che costui se ne partì come uomo stretto da altra cura , che non è quella di colui che gli é davanti, e non già come angelo , il quale se laggiù fosse venuto, sarebbe stato appunto per la stessa cura di colui che gli era davanti. Per ciò che riguarda la singolare opinione che costui fosse Mercurio, questa non ebbe seguaci , e fu facilmente confutata. Pertanto vuole notarsi che questa fu di uno de' maggiori chiosatori della Divi- na Commedia, il quale se per tale strana supposi- zione non raggiunse il vero , mostrò non pertanto colla sua ricerca di non convenire nella mal fondata interpretazione dell'angelo; e in questo solo lato gio^ \a al presente proposito. La verghetta, colla quale furono aperte le porte di Dite, servi a destare la idea del caduceo e di Mercurio, cose che nuli' hanno a fare col soggetto trattato. Siccome fu dimostrato non esser angelo , ma persona colui che comparve sulla palude Stige, non occorre dichiarare quanto erronea sia stata la opi- nione di chi volle che questi fosse il divino Reden- tore. ÌNè a questa fa mestieri confutazione alcuna. I 93 PARTE QUARTA. Appalesato a questo modo l'errore finora rima- 8lo nella chiosa di questo passo della Divina Com- media, devesi procedere alla nuova esposizione, e dimostrare come la sua ragione alle dottrine dell' Al- lighieri ed alla materia del poema più convenevol- mente si conforma. Vuoisi quindi primieramente rinvenire chi sia la ignota persona che aperse le porle di Dite: ed a tal fine gioverà ricercare ne'precedenti avvenimenti se dall'Allighieri ne venga dato verun indizio. Per- ciò incominciando dal punto in cui a Dante si offer- se Virgilio, è da rammentare che questi si manife- stò a lui dicendogli esser esso slato poeta, che avea cantato di quel giusto figliuolo di Anchise, e lo in- vitò a salire il dilettoso monte della scienza ch'è prin- cipio e cagion di tutta gioia. Avvisandolo doversi da lui tenere altro viaggio , onde campare dal luogo selvaggio ove erasi smarrito, e gli promise esser sua guida onde trarlo di là per luogo eterno, alla con- templazione della colpa, e poi della penitenza, per incontrare anima più degna che lo avrebbe condot- to alle beate genti. Non volendo l'imperatore, che lassù regna, ch'esso il conducesse in sua santa cit- tà, perchè era stato in vita ribellante a sua legge. A tale invito Danle ancor timoroso così rispose a Virgilio: « Tu dici nel tuo libro, che Enea padre di Silvio essendo ancor vivo, e perciò corruttibile, andò a secolo immortale, e fu ciò sensibilmente. Peraltro .se Iddio, avversario di ogni male, fu si cortese ver- so di lui, ciò non deve parere indegno ad uomo di sano intelletto, pensando l'alto effetto che dovea usci- re di lui, e 'I chi e 'I quale; poiché egli fu eletto nell'erapireo cielo per padre dell' alma Roma e del romano impero , la qual Roma e il quale impero furono stabiliti per lo luogo santo, dove risiede il .successore del maggior Piero. Per questa sua anda- ta, onde tu nel tuo libro gli dai vanto, intese Enea cose, le quali furono cagione di sua vittoria e del papale ammanto.» Finalmente conchiuse non essere Enea, né credersi da lui, uè da altri esser esso de- gno di ciò, onde temere la sua venuta non fosse folle. Persuaso da Virgilio essergli questa concedu- ta per dono della grazia, figurata per le tre donne benedette della corte del cielo; preso lui per duce e maestro entrò pel cammino aspro e Silvestro della sua peregrinazione. Gli venne quindi da Virgilio mostrato il limbo qual sua dimora insieme agli altri grandi poeti , e con loro in luogo aperto luminoso ed alto del nobi- le castello delle scienze vide gli spiriti magni di Enea, di Cesare, di Camilla, di Pantasilea in compagnia di Elettra e di molti altri, i quali all'alma Roma, alla fondazione dell' impero, e all' Eneide di Virgilio si appaitenevano. Da questa dimora discendendo i cerchi infer- nali fu Dante guidato alle mura della città di Dite fatta a guisa di fortezza difesa da'demoni. A Vir- gilio venne quivi negata l'entrala, perchè avea seco Dante ancor vivo, a cui mostrar volea le colpe, onde ritrarlo dalla dannazione alla penitenza; alla qual cosa opporsi doveano i demoni , se non si faceva centra loro alcun manifesto segno del divino volere. 95 Questo segno, che aprir dovea quelle porle, era (lato a Virgilio da tale, siccome avea detto a Dan- te, che non potea dubitare che quel passo potesse venir loro tolto da alcuno. E disse che tale gli si fu offerto, il quale non polca essere certamente che nel limbo, luogo di sua dimora. Questi, che già altra volta avea aperto le dolen- ti case colla fatale verghetta, esser dovea Enea, que- gli ch'avea Dante rammentato in principio per iscu- sa, dicendogli non essere esso Enea e temere la sua venuta in inferno non fosse folle; e quegli mostros- .si pure sul verde smallo del nobile castello del lim- bo, il quale ora novel 'amente per Virgilio discen- deva sulla palude Stige per urnhram perqtie domos Ditis^ avendo in mano il venerabile donum fatalia virgae^ onde la porla fosse dischiusa. Così affermò pure da Virgilio che disse a Dan- te, che di qua dalla prima porta d'inferno era un tale che discendeva l'erta,^ e che per lui sarebbe sta- la aperta la terra. E di qua da quella porta era il primo cerchio in cui trovavasi il limbo; ed in quello era Enea, quel solo che doveva essersi offerto a Virgilio per quel- l'ufficio, come suo eioe, già altra volta vincitore di quella fortezza. Il fracasso di un suono pien di spa- vento onde tremavano le sponde, alla venula di uno che passava Stige a piante asciutte; il fuggile e l'ap- piattarsi delle anime degli iracondi innanzi a quel- lo; la comparazione del vento fatto impetuoso dagli avversi ardori, che ferisce la selva, schianta, abbai- le, porta fuori i rami, e mette in fuga fiere e pa- stori; sono cose che ben valgono a raffigurare nella 96 descrizione immaginato il combattere ed il vincere proprio di Enea, dall'Allighieri in questa sua aper- tura di Dite voluta velatamente significare, tanto in ossequio di Virgilio, quanto del fondatore del roma- no impero, a seconda di quelle dottrine da lui se- guite, delle quali a principio si è fatta parola. La domanda che a Virgilio fece Dante: Se al- cuno di loro del primo cerchio del limbo discen- deva mai in quel fondo infernale : fu conseguente alle parole di Virgilio, che aveagli detto, un tale es- serglisi offerto per l'apertura di Dite; non altri po- tendo questi essere che alcun suo consorto di limbo, che con quella apertura e con Virgilio avesse re- lazione: e questi dovea essere Enea senza meno, per- chè per ogni riguardo conveniente al proposito. Dal- la narrazione degli avvenimenti precedenti rilevasi pure, che nessuna persona, tranne Beatrice, erasi of- ferta a Virgilio per l'aiuto di Dante in questo suo viaggio, la quale non fosse di coloro ch'erano nel limbo sospesi. Ne deve opporsi a questa nuova dichiarazione il non aver Dante riconosciuto Enea allorquando giunse ad aprire le porte di Dite; poiché quando egli lo vide la prima volta nel limbo, fra gli spiriti magni del nobile castello, si fu in luogo aperto lu- minoso ed alto: e quando discese nel fondo sulla sti- ge palude fu in mezzo al fumo più acerbo, che l'oc- chio suo no! potea menare a lunga per l'aere nero e per la nebbia folta. La dottrina, che volle l'Allighieri che si ascon- desse sotto il velame de'versi strani, fu che Enea do- vesse .servire come strumento provvidenziale all'aper- 97 tura (li dite, dappoiché Beatrice avea eletto Virgi- lio per guida di Dante nella infernale peregi-inazio- ne. La figura di Enea, aprendo quelle porte, fu dalA l'Allighieri posta per significare con questa origine lutti gli avvenimenti, i quali prepararono la vera aper- tura fatta per Colui che la gran preda levò a Dite del ceichio superno, onde poi senza serrarne erane rimasta le porta, su cui Dante veduto aveva la scrit- ta morta. Che tali fossero le dottrine dell'Allighieri in os- sequio di Enea, ed in questo passo nascoste, rileva- si anche dal libro del Convito, dove trattando dello stesso soggetto così dice: E tutto questo fu in uno temporale che David ìiaeque e nacque Boma, cioè che Enea venne di Troia in Italia che fu origine della nobilissimo città romana., siccome testimoniaho le scritture. Perché assai è manifesta la divina elezione del romano impero per lo nascimento della santa città., che fu contemporaneo alla radice della proge- nie di Maria Certo manifesto esser dee., que- sti eccellentissimi esser stali strumenti., colli quali pro- cedette la. divina provvidenza nello romano impero., dove più volle parve esse hraccedi Dio esser presenti. Io altro luogo dello stesso libro, trattando di nobil- tà, la quale vuole che in giovanezza sia temperata e for- te, perchè l'appetito suo sia cavalcato dalla ragione con freno e con isproni, dice E così infrenato mostra Vigilio., lo maggior poeta nostro., che fosse Enea nella parte della Eneida ove questa età si figu- ra Questo spronare fu quello., quando esso Enea sostenne solo con Sibilla a entrare nello inferno a G.A.T. CXXVII. 7 08 cercare delVivnimo. del suo padre Aiichise contro a tanti pericoli...... ■ Nel libro De Monarchin, iifjualmenle Iraltando di questo soggetto, conferma tale sua opinione di Enea dicendo.... ISam divinus poeta noster Virgilius, per totam Aeneidem., (jloriosum regem Aeneam patrem romani populi fuisse teslalur in memoriam sempiter- nam.... Qui quidem mitissimus atque piissimus pater., quantae nobilitatis fuerit non solum sua considerata virtute^ sed et progenitorum suorum.) quorum utro- rumquc nobilitas hereditario iure in ipso confluxit^ explicare nequirem .... lis itaque ad evidenliam suhas- sumptae praenotatis., cui non satis persuasum est, ro- mani populi palrem.^ et per consequens ipsum popu- lììm^ nobilissum fuisse sub caelo ? Aut quem in ilio duplici concursu sanguinis., a qualihet mundi parte in unum virum praedestinatio divina lalcbit 1 Illud quoque quod ad sui perfeclionem miraculorum suf- fragio iuvatur., est a Dea volitum eie. E nella lette- ra scritta ad Arrigo VII parimente si fa ad invo- care la sua venuta , dicendogli eh' esso appaiisca al mondo in figura di Enea, e suo figlio Giovanni in quella di Ascanio, per spegnere i malvagi, i qua- li alla pace ed al bene della sua patria iniquamen- te si opponevano. AAA%^^@ @^L9^^^ 9'J Discorso recitalo in Arcadia neW adunanza generale del di 3 giugno 1852 da p. Alessandro Checcucci delle scuole j)ie, rettore del collegio nazareno. Quales nascunlur liberi , nulli in manu est ; at ut recta institutione evadant boni, nostrae potestatis est. M lolle volle avviene che si deplorano i mali gra- vissimi di una famiglia, di una cillà, di una nazio- ne, ma peiallio non se ne investigano le cause , o non se ne applicano i limedi : le leggi sou mule , la società indifferente, e ciascuno chiamando altri e non sé in colpa del male, onde è travagliala l'uma- nità , dorme su i propri errori , e sconsigliato non li conosce od avvertito non glii emenda. In si funesta e lagriraevole contingenza ci tro- viamo oggi pur noi, onoratiscsimi soci, che vedemmo rovesciato ognj diritto divino ed umano, rollo il fre- i]0 alla autorità e alle leggi, sbandito il costume, vi- lipesa la religione, turbalo l'oi dine e minacciala d'estre- ma ruina la società. Eppure in si duro e periglioso frangente quelli che potrebbero e dovrebbero dar noano al rimedio pronto ed efficace pare che non in- tendano ad altro che a render più gravi i disordini, che ci travagliano. E questi sono i genitori, i mae- stri. Spetta ai primi il sublime ed importante mi- nistero di formar l'animo de' giovani per tempissimo ai canoni eterni dell' onesto e del retto e ad ogni opera di virtù: a stare in guardia del cuore, per- chè non vi spuntino malnate passioni: a regolare gli affetti e dirigerli al bene: a gettare colla parola e 100 coiresemplo nel vergine animo il seme fecondo, che sì facilmente vi alligna, di nobili e generosi sensi e di egregie opere. A raggiungere pertanto uno scopo si alto e si profittevole importa che gli educatori curino nei fan- ciulli le prime impressioni, che con marchio inde- lebile si suggellano loro nell'anima: che adoperino di maniera che ogni parola, ogni azione siano com- poste a severa moralità: che ogni atto, ogni esempio, ogni mobile di famiglia sieno tacili, ma operosi istru- menti di bene. Curino i genitori che l'amore verso i figliuoli non degeneri in mollezze degradanti. Pen- sino che Dio e la società han posto in loro il me- glio delle speranze, che a loro sta l'obbligo di av- valorarle efiicacen>ente, non già il diritto di distrug- gerle: che essi hanno in mano gli elementi , onde si forma la concordia delle fatniglie , l'onore della religione, i progressi de'buoni studi , il decoro delle nazioni. E finalmente si persuadano che a un fine s\ importante e si universale mancheranno nella edu- cazione dei loro figliuoli, ove la religione non la di- riga, l'autorità non la freni, la disciplina non la cor- regga. Preparate cosi per tempo dai genitori le vie all'edu-^ cazione, agevol cosa sarà il compiere l'altra parte che è l'istruzione, e che spelta ai maestri: ma non però cosi agevole e piana, che non vi si debba usare intorno an- che da loro solertissima diligenza. Perocché delle di- sposizioni dell'animo non richiedono meno d'accorgi- mento e di attenta gelosa cura le facoltà dell'intel-^ letto. Anzi non raro accade che ove queste non sieno dirette a santo fine e governate con buone arti, cpr- •lOf i-ompono nel suo sviluppo il seme della più savia isliUizione. Il maestro pèrlaiUo dee essere ugiialmenCe il sa- cerdote della morale che della scienza: nò dee usare di questa se non perchè quella si abbia incremento e perfezione. Ove manchi di questo scopo, ogni spe- ranza è recisa in mezzo , ogni bene è perduto. A dir tutto in una parola, il precettore dee possedere per il facile e retto sviluppo delle intelligenze que- ste grandi qualità sapienza e amore e virtude , le quali sono come 1' epilogo d' ogni maggior perfe- zione nell'insegnamento. Dee il maestro scrutar den- tro l'indole dei giovani , conoscerne le inclinazioni ^ i bisogni : usare i mezzi convenienti alla natura di ciascheduno, render facili le dilBcoltà: corta e men disagiata al possibile la via che debbono percorrere. I metodi sieno secondo esperienza e ragione: le ma- terie non confuse e riboccanti, ma facili e piane e convenientemente ordinate ad un fine. L'amore e la pazienza suppliscano ai gastighi, l'emulazione ai difetti. Il maestro in breve sia come un padre amore- vole che cerca il maggior profìtto del suo figliuolo: un venerando sacerdote, che promuove gl'interessi della religione, della morale: un savio e dotto citta- dino che si affanna per la felicità della patria, per il decoro delle lettere. Questi, o io m'inganno, sono oggi i bisogni della società : questi i mezzi per ripararli. Che se poi i mali, che vi discorro, esistono veramente (e per mia parte ne ho continue dolorose esperienze) il governo vi provveda; e ciascun uomo, se gli sta a cuore la felicità sì pubblica e sì privata, vi dia mano efficace- 102 mcnle. Ognuno in somma porli la sua pietra airediiìzio sociale, che minaccia ruina. Intanto io penso, o arcadi prestantissimi , che nessuno di voi vorrà darmi per avventura mala vo- ce, se oggi mi fo a svolgere sì importante argo- mento: perchè giudico che ad uomini savi ed illu- minati, come voi siete, nulla è più a cuore che il veder ben diretta ad ogni opera di virtù, ad ogni gentile costume la più preziosa e cara parte della società, speranza e conforto vero delle famiglie e della patria. Che se coututtociò mi si vorrà dar nota per- chè mi sia posto a ragionare siffatta materia; me lo comporterò di quieto animo, bastandomi la coscienza del bene e la viva brama di conseguirlo. Farmi poi che me ne dieno anche obbligo e quasi diritto e il ministero di sacerdote e l'ufficio di educatore, pur troppo a chi ben lo comprende tremJenzini, del Manfredi, del Maffei, del Bian- chini. Eccovi qua 1' Alfieri , ii Goldoni, il Monti , i due Verri, il Cesarotti. Oh perchè ancor non vi appariscono il Parini, il Varano, il Perticari, il Mon- Irone, lo Strocchi ! Uomini di molta ed egregia fa- ma, dei quali se vi volessi parlare parlitamente, vi vorrebbe opera di troppo tempo, e più presto man- cherebbe a voi la voglia d'ascoltarmi, che a mela ma- teria da ragionare. Ma se interrogate questi grandi, con gli altri molli che io mi passo in silenzio, lutti ad una voce vi diranno, che se si partorirono sì larga misura di lode ed alta rinomanza nei secoli , debbesi ciò solo all'aver posto l'ingegno e la vita nelle utili di- scipline, negli o'.timi sludi. E trovando in sé potenza d'intelletto, ed amordi sapere, con degne e memoran- de opere ebbero addimostrato che non parlava jumtu a loro l'Alighieri quando disse che Seggendo in piuma In fama non si \ien, né sotto coltre. Ma se tacerò degli altri, per non andarmene in soverchio di parole, non vo' tacere certamente di te, o anima candida del Tiraboschi, mente lucida e se- rena, cuore aperto ad ogni senso del bello. Vede- 121 telo là quel fyrand' uomo , e sebbene vi apparisca semplice di coslumi e di portamento , è pur quel desso che con critica severa ed inappellabile giu- dizio discorse dei tempi e delle cose nostre, e con pertinace e faticoso studio chiamando a rassegna i procedimenti dell'umana ragione e dell'ingegno ita- liano, mostra con piena evidenza quanto questa clas- sica terra privilegiata da Dio abbia da gloriarsi per la gran copia dei sublimi ingegni, che produsse e nutrì in ogni geneiazione di studi; e come qui fe- licemente s'innestassei'o, e come in proprio terreno germogliassero il genio e le arti nobilissime della Grecia. E questo celebre nostro socio, o illustri ar- cadi, è da pregiare e lodare altamente, non solo per la importanza ed utilità delle opere che ci lasciò , ma eziandio perchè sobbarcandosi a sì grave ed enor- me peso, che pure era da lui e da lui solo , con sottili, minute e profonde disquisizioni, colle regole invariabili del bello e del buono, e con un criterio squisitissimo, formato solo ai canoni eterni della na- tura e dell'arte, seppe gettare le stabili fondamenta della stoiia della letteratura italiana. Ma dove son oggi questi uomini da me discorsi, che forniti d'ingegno e di dottrina valgono a soste- nere e promuovere il decoro delle lettere e la glo- ria d'Italia ? Ah ! questo bene, che è pur grande , ci è mancalo. I migliori si sono già parliti di que- sta vita; e quasi direi non vi è più chi ci conforti della perdita , che tutto giorno si fanno dei pochi valorosi che ancor ci restavano del secolo scorso. Non ci aduliamo, o signori: il nostro pochi ne pro- dusse: e le speranze non sono molto liete e conso- 122 lanti per la generazione che sorge. Di dove nasca in gran parte questa povertà di studi e di lettere lo mostrerò, come dissi , altra volta. Mi basti oggi solamente accennare che la più gran colpa vuoisi attribuire alla educazione domestica, perchè condotta senza scopo, senza leggi, senza morale. A voi dun- que, o genitori, spetta a riparare per una parte (che non è certamente la meno importante) al grand'in- forlunio che c'incolse , ed al maggiore che ci mi- naccia. E se volete (per stringere in poco le cose dette fin qui) che i vostri figliuoli sieno in voce di savi ed onesti uomini , di provvidi magistrati , di veri sapienti , tenete modo di vita che corrisponda al fine: non abbiate su loro profani disegni: infor- mateli a candida semplicità di parole e di atti , a temperanza d'animo, a vera carità e sapienza, ed a quella modestia che supera ogni milana grandez- za. Dirigeteli per il sentiero del buono e del retto. La religione non sia un gergo malinteso, od una ste- rile formula di parole, ma un alto principio , una sublime e benefica idea, un sentimento generoso di volere il bene e di operarlo. Ponete ad essi in amo- re la virtù, vi dirò con quell' anima nobilissima di monsignor Pellegrino Farini, in abbominio la colpa: teneteli avveduti de' pericoli: mostrate loro gli aiu- ti , onde per le buone vie sì cammina : insegnate loro come gli erranti si ravviano; i caduti si rial- zano , i deboli si rinfrancano. Esercitateli nelle opere buone di maniera , che ne piglino gli abiti. Niìtrite di memorie e di affetti quei teneri animi , e non di perniciose dottrine, che fanno più stupida e riprovevole l' ignoranza. Cercale che le attitudi- 123 ni della mente corrispondano al fine delle domesti- che dolcezze , della pubblica utilità. Ammaestrateli che le immagini degli avi pendono dalle pareti do- mestiche non a ridicolo fasto , ma ad utile eccita- mento ed esempio di splendidi fatti. Adoperale di maniera che quei vostri cari figliuoli s'invoglino a svolgere nelle biblioteche (assai volte perduta ric- chezza nelle case degli ignoranti) quei sacri volu- mi, che racchiudono la sapienza di molti secoli: e per ultimo ricordate loro che la storia sta monu- mento eterno cosi alla virti'i, come al vituperio degli uomini. A questo modo, soggiunge lo stesso autore, la volontà si troverà provveduta delle regole, degli avvisi, degli aiuti , degli abiti che bisognano, e da tali provvedimenti vengono le buone opere, e dalle buone opere la felicità privata e la pubblica, quella della vita presente e della futura. o-»-®-f-3^.fHg>f-o- 124 Lettere del marchese Gio. Giacomo Trivulzio^ acca- demico corrispondente della crusca^ al cav. Sai" valore Betti. I I marchese Gio. Giacomo Trivulzio, nato di nobi- lissima famiglia in Milano il 22 di luglio 1774, ed ivi passato a miglior vita il 29 di marzo 1831, fu uno de' più chiari cortesi e splendidi cavalieri ita- liani che abbiano onorato il secolo. Dottissimo com'egli era, ebbe i dotti dell'età sua in grande stima e fa- migliarità: ricco de' beni che dà la fortuna, usò ge- nerosamente di essi in prò delle lettere e de' letterati. Niuno più di Vincenzo Monti gli entrò innanzi nel- l'amicizia: e bene a ragione, perchè niuno altresì lo vinse nell'amore delle opere dell'Alighieri. Senza le cure del Trivulzio non aviemmo né il Convito né la Vita nuova con sì fino giudizio restituite alla loro lezione. Se gli fosse bastata la vita, ci avrebbe an- che dato diligentissimamente corrette le rime del di- vino poeta. E sì che a larghissime spese aveva acquistato molti pieziosi codici, fatto fare accuratis- sime collazioni di quelli che si conoscono in Ita- lia e fuori , e tutto insomma apparecchiato per la |)ronta loro pubblicazione ! Alcuni anni dopo seguita la morte di tanto uo- mo si pensò di stamparne le lettere famigliari: e som- 125 mo n' era il desiderio dell' ejyregia sua vedovi. Fu perciò incaricato l'amico cavalier Frecavalli di chie- dere al Beiti quelle che credesse di poter dire: ed egli infatti ne die venticinque. Consegnate id esso amico, non si sa qual fine abbiano fatto: essendoché e la vedova Trivulzio e il Frecavalli siano passati di vita. Per impedire adunque che , venute in chi sa quali mani, possano escire alle stampe non solo infedelmente, ma forse con onta di alcuno, si è qui stimato di pubblicarle: tanto più che piene di squi- sito giudizio, di dottrina, di bontà, di candore, il- lustrano mirabilmente si la vita del marchese e si le memorie de' suoi studi , da poter essere utili a chi prendeià un giorno a scrivere di lui più ampia- mente, che non ha potuto fare il celebre cav. Giam- batista Zannoni negli elogi degli accademici della crusca defunti. 126 A Salvatore Betti. A Roma. Ajo spontaneo e gentil dono ch'ella ha voluto fare al cav. Monti ed a me di una copia del Convito^ tutto da lei confrontato e postillato da un codice barbe- riniano, si è un tale favore, e tanto ha in se di ge- nerosità e cortesia, ch'io crederei mancare al dover mio se a lei direttamente non mi rivolgessi per at- testarle la riconoscenza, che il mio animo prova per lei, per cui già nutriva ben giustamente un'altissi- ma stima. E una gran fortuna per noi l'avere di si- mili aiuti nel nostro lavoro: e noi ne useremo, àen- za defraudare della sua fama chi ci fu sì largo del- le proprie fatiche. Mi piace assai quell'aria di anti- chità che mostra costantemente la lezione del codice barberiniano, e che noi adotteremo per la nostia: e in alcuni passi ho avuto la compiacenza di vedere dal codice confermato ciò che non era che conget- tura dalla critica accennata. Le rinnovo ben di cuore i più vivi ringrazia- menti per un dono così prezioso, e la prego di per- donarmi se appena a lei noto ardisco di scriverle : ciò che anzi, io spero, ella vorrà attribuire al de- siderio di mostrarle la mia gratitudine , e di strin- gere, benché lontano, un nuovo nodo d'amicizia, qual si conviene a chi coltiva gli stessi studi, e agli ama- tori del divino poeta. 127 Mi faccia la grazia di porgere i miei saluti al signor principe don Pietro Odescalchi, cui sono ben grato e per le lettere scrittemi , e per ciò che ne forma l'argomeoto. Mi creda quale ho il piacere di protestarmi ec. — Milano 9 agosto 1823. II. (1) Al medesimo. A Roma. L'altr' ieri passai alla sua abitazione, non solo per attestarle in persona la sincera mia stima , ma ancora per pregarla (giacché sperava di trovarla in casa) a volermi insegnare ove si possa rinvenire il signor conte Staccoli, verso cui mi corre l'obbligo d'una visita. Ma quesla mattina, ritornando a casa, (1) Il Trivulzio venne a Roma nell'autunno del 182o. Vincen- zo Monti in questa occasione faceva così scrivere da Milano, il 4 di novembre, dalla sua cara figliuola Costanza (vedova Pi'rlicari) al Relli: n Mio padre, per la debolezza de'suoi occhi impedito di scri- vere, vi dice per mezzo mio quanto segue: Il marchese Trivulzio è in Roma. Onoratelo, se non quanto egli merita, almeno quanto po- tete, ch'egli è degno di tutto l'amore e di tutta la venerazione dc'buo- ni letterati. Delle cortesie del nostro don Pietro verso di lui già non dubito, né di quelle di Tambroni. Presentategli Voltimo cima- ti ed il Biondi e quanti stimerete degni della conoscenza di tanto mio padrone ed amico. Fin qui mio padre. Ora seguilo io sola, e prejjovi a darmi vostre notizie. Le mie sarebbero suflieienti, se l'a- nimo potesse {gustare di qualche pace. Ma oltre all'antico intermina- bile dolore che lo travaglia, vi si aggiunge l'altro di vedere mio padre in tanto abbaltiuiento per la quasi del lutto rovinala sua vi- sta, ch'io temo di perdere finalmente quel poco di coraggio che finora mi ha sostenuta. Uaccomaiulale caldamente questo povero vecchio al degno marchese Trivulzio, [x'rchè non veggo altri che lui che valga a guarirlo da sì crudele malinconia ». 128 litrovai sul mio tavolino la copia della Vila di Fe- derigo da Montefeltro^ che dalla spontanea generosi- tà dello Staccoli deriva: ciò che raddoppia verso di lui la mia obbligazione, e desta la più viva grati- tudine nelPaniino mio. S'io dovessi definir Roma da quel che sente il mio cuore, dovrei chiamarla il pae- se della gentilezza : tanta è la cortesia che qui da ogni parte mi viene. Il nuovo dono del conte Stac- coli è una prova di quanto le accenno; esso mi è as- sai caro , e ne farò quell' uso ^ cui lo slesso gentil donatore lo destinava. Io non mancherò di ringraziare in persona lo Staccoli di un sì distinto favore, s'ella vorrà farmi la grazia d'indicarmi di suo alloggio. Ma intanto la prego di far le mie veci ( ed ella il farà al certo meglio di me) presso di lui, onde sappia quanto gli son grato per un tratto s\ fino dì generosità ed ami- cizia. Mi conservi la sua grazia, mio signor Betti, alla quale sempre mi raccomando. — Roma 31 del 1824. III. Al medesimo. A Mondavio. L'ultimo volume della Proposta è, a parer mio, il più bello di tutti, e forse il più utile, per le ag- giunte d'esempi presi per la più parte dall'Ariosto e dal Caro. Le bellezze di Dante non potevano me- glio essere spiegate che dal Monti. E Apollo stesso che discorre dell'arte poetica. Qual differenza colle Bellezze del padre Cesari ! Il nostro Monti, l'ultimo splendore dell'italiana poesia, gradi molto le lodi di 129 cui ella sparse la sua lettera, e la ringrazia e la sa- luta assai caramente. Sono impaziente di vedere le nuove emenda- zioni al Convito, che sta per pubblicare nel gior- nale arcadico il prof. Gerhard. Il nostro lavoro su quel libro e sulla Vita nuova è terminalo e pronto per la stampa. Per più d'un mese ci siamo conti- nuamente uniti, per ben otto ore al giorno, Monti, il suo amico Maggi ed io, onde dar Pultima mano a quelle due opere. Il Convito è tutt'altra cosa da quel ch'era; e il codice Barberini, di cui ella c'in- viò la lezione, ci giovò grandemente , come vedrà e come non abbiamo tralasciato d'accennare. Anche la lezione della Vita nuova fu in parte migliorata, come quella che non avea gran bisogno d'emenda- zione. Quelle poche correzioni però son dovute a due miei codici. Ora attendiamo alle rime, e tutto è già pionlo pel confronto di testi, avendo già da più anni raccolte tutte le varianti: onde spero che la fatica non sarà lunga. Ilo sapulo la gravissima malattia, che pur trop- po ci tenne in forse della sua vita ! Ho tremato per lei, e mi fu di un dolcissimo conforto l'intendere com'ella andava a poco a poco rimettendosi. Or ella può figurarsi di quanto piacere mi sia stato il ri- cevere una sua lettera. Abbia cura di se, e, se può, schivi Paria di Roma, che non mi pare a lei pro- pizia. Prima di tulio cerchiamo la salute, e ad essa si sacrifichino anche le più care aflfezioni. Mi dia nuove del conte Leopoldo Staccoli. 01- tra l'obbligo che a lui legalo mi tiene per la spon- tanea sua gentilezza, io debbo inviargli un catalogo G.A.T.CXXVII. 9 130 di rime di Agostino Slaccoli suo antenato, stampale nella prima edizione, che diilìcile a rinvenirsi non tu dal conte Leopoldo veduta. Scrivendo all'ab. Girolamo Amati, me lo salu- ti particolarmente. Mi rammenti a don Pietro Ode- scalchi , e mi conservi l'amor suo , che di cuore sono ec. — Milano 11 settembre 1824. IV. Al medesimo. A Mondavio. Mi furono assai care le belle varianti da lei mandatemi della canzone di Dante: Donne ^ che avete intelletto d' amore : delle quali sicuramente faremo buon uso, non meno che delle emendazioni sue pub- blicate nell'arcadico. Ora però il nostro lavoro re- sta in sospeso, avendo il Maggi dovuto partire per la campagna, ove si fermerà forse un mese, ed io stesso non contando di restar molto in città in que- sto tempo autunnale. Sono affatto del suo parere intorno alla lezione e spiegazione del Terso: A ciascun alma presa e gentil core: cioè A ciascuna alma gentile innamorata : poicliè , .secondo lo stesso Dante, Amore e il cor gentil sono una cosa^ Siccome il saggio in sua dittato pone: 131 il qiial saggio^ Cornelia sa meglio di tue, è Guido Guinizelli, e il suo dittato si è la bella canzone di quel bolognese: Al cor gentil ripara sempre amore'., ove dice: Non fé' Amore anzi che gentil core^ Né gentil core anzi che Amor Natura: ciò che spiega mirabilmente il concetto dell'Alighieri: onde non vi è dubbio su quella lezione. Sarò lietissimo di vedere nel giornale arcadico le nuove osservazioni del prof. Gerhard sul Convi- to. Se mai al tornare eh' ella farà in Roma mi sa- pesse da que'codici vaticani pescare qualche nuova poesia di Dante, che fosse veramente degna di quel sommo, sarebbe un gioiello per la nuova edizione. L'ab. Rezzi ha in un codice barberiniano trovato quattro canzoni, ch'egli crede dovere assegnare a Dante; ma è duopo far molte indagini, e meditarne lo stile e le frasi, per non errare. È meglio che le rime di Dante siano poche, ma tali da non lasciare alcun sospetto sulla loro autenticità. Per buona sor- te la poesia di Dante ha un'impronta tutta sua, che la distingue da ogni altra e che non si può falsare. La prego far avere la qui inchiusa nota al con- te Leopoldo Staccoli. Essa contiene i capoversi delle rime di Agostino Staccoli, die la prima edizione ha di più della ristampa fatta in Bologna. Frecavalli è sempre a Milano, e la saluta particolarmente. Ab- bia cura della sua salute, e si ricordi de'suoi amici. Perchè non avrebbe ella potuto far una coisa fino a Milano, ove l'aria non è cattiva, anzi è propizia 132 per chi ha solFerto malattia di petto ? Di quanta gio- ia sarebhe la sua visita stata e a Monti e a me ! Mi creda ec. — Milano 20 settembre 1824. V. Al medesimo. A Iloma. La parte eh' ella prende ai nostri studi dante- schi, oltreché la rende benemerita all'italico Parnas- so, le acquista ognor più nuovi diritti alla mia par- ticolare gratitudine. La lettera sua non poteva giun- germi in miglior punto, poiché quando essa mi fu recata dalla posta io stava con Monti e Maggi me- ditando sulla lezione della bella canzone di Dante, che comincia: Amor , da che convien pur eli io mi doglia. Ella può figurarsi quale sia stata la nostra gioia, quali le lodi a lei date per la tanta fatica da lei presa solo per amor nostro, e quali i sentimenti del grato animo nostro. Tutte quelle varianti saran- no da noi consideiate e valutate: né mancheremo di dar merito al gentile ritrovatore di esse. Bellissi- cba e veramente degna di Dante si è la ballata da lei trascrittami , la quale era già stata pubblicata dall'ab. Fiacchi negli Opuscoli letterari che usciva- no alcuni anni sono in Firenze , ma così guasta e sconcia che nulla più. Ora, mercè sua, riducesi ad ottima lezione, e appare in tutto il suo splendore. I suoi primi versi vanno divisi in tre nel modo se- guente: Per ima ghirlaìidetla, Ch'io vidi^ mi farà Sospirare ogni fiore. 133 I due sonedi Veder poteste quando vi scontrai^ e Voi che per gli occhi mi passaste il core^ erano già im- pressi tra le rime di Guido Cavalcanti: ma le nuo- ve varianti migliorano d'assai la lezione. È facile che approfittiamo in seguito dell' indulgenza sua forse per trovar copia di qualche poesia creduta di Dante, e per riscontrare qualche passo delle rime che più ci darà fastidio. Intanto a nome del nostro Monti (che fu il primo a leggere la lettera sua) io avrei a supplicarla di un grandissimo favore. Io non oserei per me stesso darle tanta noia, ma si è lo stesso Monti che il vuole, e che anzi mi ha insegnato uno scon- giuro, al quale (siccome egli mi disse) Betti non può resistere^ e questo è di pregarla per l'amore ch'ella portava e porta al Perticari. Ora il favor grande , di cui abbiamo bisogno, si è di cercare almeno le più importanti varie lezioni del codice vaticano del Convito, segnato num. 686 da lei accennatomi. Ba- sterà eh' ella prenda qualunque edizione di quel li- bro, segnando sopra una carta a parte il numero della pagina di quell'edizione che sceglierà , e le varietà che s'incontreranno nel codice , senza curarsi delle piccole diversità ortografiche, come sarebbe et per e, scienzia per scienza ec. Ma non occorre dire di più a lei, perchè A buon intenditor poche parole: ed ella sa ciò che più preme di vedere in un codice. S'ella potrà favorirci con tutto il suo comodo, e coll'aiuto di monsignor Mai, che mi riverirà particolarmente, SI Monti e sì io le ne saremo senza fine tenuti. Mi saluti l'ab. Amati, il pittore Agricola se lo vede, e il conte Staccoli che gentilmente mi scrisse, tempo fa, aver preparato per mandarmi un quaderno 134 (Kllii vila (li Federigo duca diUibino, rimaso indie- tro per errore e che appartiene al mss. che già con sì Fina oorlesia egli mi ha ceduto. Se altra oc- casione non si presenti , potrà aspettare quella del cav. Frecavalli, che già si prepara a venire a sanli- ticarsi in Roma per l'anno del giubileo. Mi conservi la sua benevolenza, e mi creda ce. — Milano 22 dicembie 1824. VI. Al medesimo. A Roma. Pare che facciamo a gara, ella a favorirmi sem- pre con nuovi doni, io a darle nuovi disturbi. Ilo ri- cevuto le altre varianti del codice valicano da lei spe- ditemi, delle fjuali ci gioveremo nel riscontro che si farà di tutte le rime di Dante, cui ora attendiamo in- defessamente. Ma eccole un'altra preghiera. Quanto prima si comiiiceià la stampa della Vita di Federigo da Montefellru scritta dal Baldi: e questa edizione milanese sarà dovuta a lei, pel cui consiglio il signor conte Staccoli volle generosamente donarmi la copia Hi quell'opera. iJesidcro ch'ella mi faccia grazia di darne avviso allo stesso conte Leopoldo Staccoli (cui non iscrivo per non sapere s'egli trovisi al presente in Roma), onde vegga in quanto conto io tenga il suo dono, e sappia che nel farla di pubblica ragio- ne ho avuto certamente in mira di corrispondere alla sua manifestatami intenzione. Lo preghi a volere con qualche sollecitudine farmi tenere quel quinterno di peiilhnentt\ che,^ siccome mi scrisse, teneva in pronto 135 per me, e che sarà utile d'esaminare prima che s'in- comininci la stampa: e lo assicuri a nome mio, che le prime copie stampale saranno a disposizione sua, Gom' è dovere. Mi taià grazia oltre di ciò a far os- servare se nel bellissimo codice, che di quella Vita si conserva nella vaticana, si trovino i sommari i o jjli argomenti a ciascun libro, come il Baldi ha fatto nella Vita di Guidubaldo, e che mancano nella co- pia di quella di Federigo tratta dal codice Albani. Se mai vi fossero, gradirò che me li faccia tosto co- piare , e sollecitamente mandare: servendosi anche, se il crede per maggior sicurezza , del mezzo del sig. conte Alborghetti console pontifìcio in Milano. Mi perdoni, mio caro Betti, tutte queste noie, e le sopporti con pazienza Per amor delle sanie itale muse. Monti sta benissimo e la risaluta. Mi conservi l'amor suo, mi ricordi agli amici, e mi creda ec. — Milano 8 del 1825. VII, Al medesimo. A Roma. La ringrazio di tutte le varianti del codice va- licano con tanta esattezza cavale e così prontamente speditemi. Esse già furono da noi esaminate tutte e ponderate, e posta i loro luoghi quelle giudicate op- portune a migliorare il lesto del Convito. Poche, per dire la verità, sono le importanti, ma molte quelle che col mutamento di una lettera , o coll'aggiunta di un articolo, accomodano mirabilmente il testo to- gliendogli quella scabra ruvidità, che non da Dante, 136 ma fiali' ignoranza e baibarie de' copisti è derivala. Noi le siamo veramente tenuti per la diligenza ch'ella adopera in un' impresa tanto noiosa da lei assunta per amor nostro e per carità dello straziato Alighie- ri ; ma le confesso però che sento un rimorso nel timore , che la strada del vaticano , da lei troppo spesso in grazia nostra frequentata nella presente ri- gida stagione, sia forse stata la prima cagione della recente indisposizione sua. Se ciò è, abbia cura di non esporsi, ed attenda il ritorno della primavera, che in Pioma non dovrebbe esser lontano, se pure anche il cielo d' Italia non è cangiato: siccome mi può far credere ciò che sento degli eccessivi freddi di Napoli , mentre noi qui presso alle alpi ab- biamo da tre mesi una primavera continuata, sic- ché l'inverno per noi non è che di nome. Solamente l'altr'ieri ho avuto il suo bel dialo- go (1), perchè tutto ciò che qui viene col mezzo della posta va soggetto alla più rigorosa disamina della censura. Finalmente esso mi fu rilasciato come in- nocente, e l'ho subito divorato con sommo piacere. Oh quante notizie e quanti pensieri vi ho ammi- rato, e con quanta dignità e bellezaa di stile espo- sti ! Lo darò a leggere al cav. Monti , se pure ei non l'avrà già letto nel giornale arcadico. Il nostro Monti ai passati giorni fu amareggiato nell'animo per le nuove contumelie del solito Farinello stampate a Firenze. La bile va gonfiandosi nel suo petto : ma (1) Dialogo intorno al ragionamento del marchese Cesare Luc- chesini sulla insliluzionc della vera tragedia greca per ot>era di Eschilo. 437 spero ch'egli ascolterà la voce de' suoi amici, e non si curerà dell'abbaiar di que' botoli. Mi saluti monsignor Mai, don Pietro Odescal- chi^ l'ab. Amati e il conte Staccoli , cui dirà che ho ricevuto da Bologna que' pentimenti del Baldi, che io aspettava, e che già sono in mano dello stam- patore luiitamente alla vita di Federigo. Abbia cura, mio caro Betti, della preziosa sua vita, mi conservi la sua benevolenza e mi creda di cuore ec. — Mi- lano 12 febbraio 1825. Vili x\l medesimo. A Roma. Una breve corsa, che in quaresima ho fatto in Toscana per rivedere una mia figlia, mi ha tenuto fuori di Milano poco meno d' un mese: e ciò è il motivo del mio tardo rispondere alle tre gentilissi- me sue, che qui trovai al mio ritorno, e colle quali rimane compiuto il riscontro del codice vaticano del Convito. Ieri abbiamo tutte riscontrale le manda- teci varianti, ed abbiamo collocate al loro posto le più importanti, che non son poche. Quanto le siamo obbligati dell'ingrata fatica da lei assunta per amor nostro e di Dante ! Ma posso almeno assicurarla , ch'essa molto giovò alla intelligenza e alla retta le- zione di quell'antica e veneranda prosa. Le manderò nota di tre o quattro luoghi difTicili del Convito , perchè ella abbia la bontà di riscontrarli sull' altro codice vaticano da lei novellamente scoperto. Mi pren- do la libertà d'aggiungerle quest'altra noia, poi- 438 che me ne dà coraggio la gemile e spontanea sua oft'erta. Eccole una bell'ode del cav. Monti novellamente stampata. Vegga se la crede degna di trovar luogo nell'arcadico. Ho dato al Monti la lettera del Cassi. Quel buon vecchio già si sentia scorrer lagrime di tenerezza per la generosa carità dell'amico del suo Giulio. Egli m'incarica di pregarla a ringraziare il conte Cassi a suo nome di tanta pietosa amicizia. Si aspetta qui a giorni il cav. Biondi , eh' io muoio di voglia di conoscere. E già qui da due set- timane l'amico suo Gian Carlo di Negro genovese. Mi faccia grazia di salutarmi monsignor Mai, e lo avvisi che le ultime due mìe figlie si fanno spose, Elena al conte Scotti di Piacenza, Vittoria al mar- chese Carandini di Modena: e che questa, tosto che sposata, verrà a Roma, e fin d' ora glie la racco- mando. Mi rammenti al conte Staccoli , a don Pietro Odescalchi , all' ab. Amati , e mi creda con sincera stima. — Milano 2 aprile 1825. IX. Al medesimo. A Iloma. Nel favorirmi le sue notizie ella mi prova che per sua gentilezza non mi ha ancora dimenticalo, e me ne assicura con parole tutto cortesi . le quali fanno fede di un cuore che si pregia di lealtà e di amicizia. Io le ne sono sinceramente grato, e la pro- lesto la più perfetta corrispondenza. 139 Godo ch'ella siasi ricondotta in Roma dopo il solilo suo viaggio pel ducato d'Urbino. Anch'io in quest'anno ho vagato per molli mesi nell'occasione d'andare a Padova a prendere mia moglie, ove tro- vavasi per la cura dei fanghi d'Abano, e passando per Modena e per Piacenza per rivedere la due mie figlie ivi maritale. Ora il verno mi tien chiuso in città; onde più stabilmente posso attendere a'miei studi. 11 cav. Monti, che sta ottimamente, par che non senta l'ingiuria degli anni: anzi, quasi in eterna gio- ventù, con nuovi bellissimi versi mostra che l'animo suo è sempre ardente qual era trentanni sono. Certo quell'uomo è maraviglioso. Ella avrà veduto il bel sermone contro la pazza schiera de' romantici. Essi sono annichilati: ma il cadere per mano di un lauto poeta è la maggior gloria, ch'essi avrebbero giam- mai potuto sperare. Ora il nostro Monti attende di piH)posito a finire la Feroniade, che sarà presto al suo termine. Egli non degnerà (io credo) né pur d' una parola il libello del Torti. E qual parola si può rispondere a tali bestemmie ? Egli vendicar Dante dal cav. Monti ? Egli che lo dipinge de' più neri colori, tacciandolo di cattivo, cittadino, cat- tivo italiano, e perfino cattivo poeta, nelle parti ap- punto ove forse è più sublime che mai, rinnovando così le delfiche conlumeUe delle lettere virgiliane ? Egli non si ricorda che Monti fu il primo a ricon- durre il mondo all'amore di Dante , e che questo studio , per non dire questa moda e questo furore di Dante , si dee tutto al cav. Monti. Confesso che quel libeicolo in sulle prime mi aveva mosso allo sdegno: poi ha finito per farmi ridere , tanta è la 140 Contraddiziotie di quell' insolente rivendicatnre , il quale forse ha stampato lutto quel libro per istam- par con esso i brani di lettere scritte a lui del Mon- ti, e che formano la sua lode. Indegnissimo è ciò che dice di Giulio. Il Convito è in pronto, e se ne comincerà quanto prima la stampa. Esso ha da far parte delle opere minori di Dante che si stampano a Padova: ma per non mandare il mss. col rischio che a bastanza non si attenda alla correzione, ho pensato di farne ese- guir prima qui un'edizione di pochissimi eseaiplari e che non saranno vendibiH. Gli editori non si di- menticheranno di quanto a lei va debitore questo loro lavoro. Ella sarà dei primi ad avere una copia. Sono sotto il torchio anche le nuove lettere del Caro, che m'ebbi in Roma due anni fa. Il qui unito ritratto del Caro, che va posto sul frontispizio, è pre- so da un più grande mandatomi tempo fa per sua gentilezza dal celebre pittore sig. Filippo Agricola. La prego vedendo 1' Agricola salutarlo a mio no- me, e interrogarlo sull' autenticità di quel ritratto , s'egli l'abbia pieso da un dipinto ch'esista in Ro- ma o da altro. Mi rammenti a monsignor Mai, a don Pietro Odescalchi, all'ab. Amati e al cav. Biondi. Le trascrivo qui un sonetto estemporaneo del nostro Monti (1), che forse non le sarà giunto ancora. Mi conservi la sua benevolenza e mi creda ec. — Mi- lano 7 dicembre 1825. (I) IJ il nolo sonetto Nel figo riguardar l'amalo (Mietto, com- posto pf'l rilratto della sua fif;liiiola Costanza. 441 X. Al medesimo. A Roma. Le rendo molte e vive grazie per la risposta del- l'Agricola, la quale pone in calma la mia coscienza sulla legittimità di quel ritratto del Caro, che un co- tale mio sofistico amico voleva porre in sospetto. Or egli è più autentico che mai. Ho ricevuto per la posta le nuove emendazioni di quel tedesco fatte al Convito. Non so se debba ringraziar lei o l'Amati d'avermele spedite, ma certo l'uno e l'altro del troppo grande onore fatto al mio nome: onore che mi farebbe andar superbo, se cre- dessi di meritarlo. La prego testificare la mia gra- titudine all'Amati, di cui mi è cara l'amicizia. Alcune di quelle emendazioni sono bellissime e sicure , e saranno collocate a' loro luoghi , dandone merito a chi tanto ingegnosamente ha saputo trovarle. A me rimane solo il rossore di non averle prima vedute: tuttavia son lieto d'ogni passo che si fa verso la por- zione di quel libro. Di Monti ora non si può trarre costrutto al- cuno; perchè tutto intento ad un altro volume ag- giunto alla nuova Proposta , che a quest' ora sarà stampato, ed alla nuova edizione d'alquante sue poe- sie, per ora altro non ascolta. L'edizione dei Convito s'incomincerà ai primi dell'anno, e dovrebbe essere terminata in febbraio, se lo stampatore non mi tradisce. Mi saluti Mai, Amati, Biondi, e Odescalchi, mi conservi l'amor suo, e mi creda in fretta. -^ Mila- no 5 gennaio 182G. U2 XI. Al medesimo. A Roma. Pur troppo questa volta la fama non fu men- zognera ! Il nostro Monti fu nel giorno 9 di aprile sorpreso da un colpo appopletico, che lo privò d'ogni movimento per tutta la sinistra parte del corpo: gli sopravvenne poscia la febbre , che durò cinque o sei giorni e che finì lasciandolo in qualche miglio- re stato. Egli non sospettò da prima, o non si curò di sapere la qualità del suo male, avendogli i me- dici dato ad intendere, essere la violenza della feb- bre cagione d'aver egli perduto l'uso della gamba e del braccio. Ora solo da pochi giorni, nulla riac- quistando del moto, comincia a dubitare e forse ad avvedersi del vero, e quindi grandemente si affligge. Quando seguì il tristissimo caso io mi trovava in Modena, né lo seppi che al mio ritorno, perchè gli amici vollero ritardare, per quanto era in poter loro, un annunzio che trafigger mi doveva in così viva parte del cuore. Quando col consenso de' me- dici mi fu dato il vederlo, confesso che mi si destò un sentimento di gravissimo cordoglio , perchè mi si era fatto supporre che il suo male fosse assai mi- nore di quello che ho poi trovato essere in effetto. Lo trovai abbattuto e talora sonnolento , e la sua lingua non era affatto sciolta, sicché a fatica s' in- tendeva; serbava però illesa e liberissima la mente e vivissima la memoria. Egli mi parlò subito di ver- si, mi chiese dell'edizione del Convito, rammentò i romantici ed una esecranda bestemmia da taluno di 1A3 coloro vibrata contro al maggior poema del gran Torquato, e ciò per esaltare una loro leggenda ao- \ellameule qui alla luce uscita. Egli conserva tutto l'ardore de' suoi diletti studi , ha tutte vive le sue passioni, vorrebbe leggere ed occuparsi, e si lagna dei medici che gli vietano appunto ogni lettura ed occupazione. Insomma l'anima sua è ancor tutta vi- ta, né punto fu tocca dal colpo mortale; ma tutta- via, a dir vero, io temo che non lo riavremo mai più. Strascinerà forse ancora per lungo tempo (lo spero) una vita, che per la gloria italiana si tenta con ogni cura di conservale, ma più non sarà qual egli era. Dio renda vano il mio funesto pronostico, ma la grave età ed il genere di malattia ond'è af- flitto mi fanno per lui tremare! Egli è continuamente e eoa grandissima diligenza assistito dalla moglie e dalla figlia e da una schiera di amici scelti trai mol- ti, che s'affollano sempre intorno alla stanza di quel gran lume dell'italica poesia. Ecco ciò che di lui posso scrivere per ora. Avrei voluto, mio caro Betti, poterle dare migliori nuove, per- chè so quanto a tutti sia caro in Roma , com' è in Milano, quel vero e sommo onore d'Italia; ma per ora sarebbe vano 1' illudersi. Se lo slato della sua sanità farà ancora rinverdire la nostra speranza, non lascerò di scrivertene prontamente. E qui mi per- metta ch'io non le nasconda la tenerezza che ho pro- vato nel leggere quelle parole della sua lettera, colle quali confessa d'amare il Monti non solo per l'in- gegno suo, ma anc«)ra per essere il suocero di chi ella chiama col solo nome di suo divino hcnefallorc. Sì : quelle parole (noi nego) spuntar mi fecero una 144 lagrima di tenerezza. Troppo è rara la graiitudiue, chiaro segno d'animo generale , percliè onorar si debba chi ben la sente. Mi saluti rOdescalchi, il Biondi, l'Amati, nella cui memoria bramo sempre di esser vivo, e mi cre- da ec— Milano 29 aprile 1826. XII. Al medesimo. A Roma. Sono sul punto di mettermi in cammino per Modena; pure non voglio partire senza prima scri- verle poche righe per avvisarla che ieri ho ricevu- to le due copie delle bellissime sue osservazioni in- torno alcuni lunghi da emendarsi nelle stanze del Poliziano. Farò avere quest' oggi al cav. Monti la copia a lui destinata. Bellissime tutte sono quelle osservazioni e sensatissime; e tutti i passi da lei di- scussi sono infallibilmente da emendarsi secondo la lezione del codice oliveriano da lei difesa (1); cosi pure la maggior parte delle altre da lei poste in fine dell' opuscolo a modo di varianti , delle quali forse solo qualcuna potrebbe essere posposta a quelle della stampa. Del resto è verissimo che intorno alle stanze del Poliziano non si era ancor posta quella cura che esse meritano per la loro eccellenza; anzi pare che quella .stessa loro bellezza abbia quasi no- (1) Queste osservazioni servirono alla ristampa delle stanze del Poliziano nella Raccolta di poeti classici italiani antichi e mo- derni. Volume XLV- Milano dalla società tipografica de^classici ita- liani 1826. V. Gamba, Serie de'testi di lingua n.» 772. 145 eiuto al comparir più peifeKe nelle stampe. Gli edi- loii, riguardandole come cosa sacra , le lasciarono intatte. Io non ho mai veduta l'edizione romana del 1804 da lei lodata. L'edizione milanese fu trascu- ratissima nelle stanze come le altre, ed anche nelle rime non si adoperò forse tutta la diligenza che me- ritavano; e seguendo ciecamente una moderna edi- zione vi si ommisero perfino due bellissime canzoni a ballo ch'erano altrove stampate. Io ne avvisai, ma troppo tardi, l'editore. Il nostro Monti va a poco a poco riacquistando il moto della gamba, e me presente, con sua gran gioia e di tutti noi, per la prima volta pose l'un ginocchio sull'altro liberissimamente, e quasi come fosse sano. Cosi potesse riprendere il molo del brac- cio ! Anche una tosse asprissima lo tormenta ed an- gustia. Ieri gli posero un vescicante al petto: è però alzato dal letto, gode della compagnia degli amici, e fa qualche passo in camera sostenuto. Ei pensa ai fanghi d'Abano. La buona Costanza , che mai non l'abbandona, è il suo conforto. Essa, cui feci legge- re l'ultima sua lettera, m'incaricò di salutarla par- ticolarmente. Mi saluti Odescalchi , Mai, Amati e Biondi. Il lesto del Convito è quasi tutto stampato. Gra- dirò assai s' ella potrà trovare vendibile l'edizione delle stanze del Poliziano fatta in Roma pel Caetani nel 1804, ed acquistarla per me inviandola al li- braio Molini di Firenze, e indicandone il prezzo. Finisco, perchè la carrozza mi aspetta : e già fui più lungo di quello che avrei creduto. Starò a Modena quattro o cinque giorni, poi farò una corsa G.A.T.CXXVIL 10 146 a Firenze per essere in Pisa il 17 di giugno perla luminara. Mi creda fretta, ma sinceramente ec. — Milano 26 maggio 1826. XIII. Ahflfiedesimo. A Roma. Dopo tre mesi di peregrinazione per la Toscana e pel veneziano, eccomi finalmente in patria, ove uno de' miei primi pensieri è quello di richiamar- mi alla sua cara memoria , e significarle le nuove del nostro maggior poeta. A Firenze ho veduto più e più volte l'ottimo giovane conte Staccoli, da cui ebbi le notizie di Betti e di Roma, e dal quale ella pure avrà, io spero, ricevuto più volte i miei saluti. Esso mi annunziò eh' ella avrebbe consegnato per me al conte Velo di Vicenza la desiderata edizione romana delle stanze del Poliziano, qual cortesissimo dono del conte Biondi. Non so poi per quale acci- dente il Velo non ha seco recato l'involto, che forse mi giungerà per altra parte. Intanto la supplico a volere ben vivamente ringraziare a mio nome il gen- til donatore conte Biondi di tanta sua cortesia. A Venezia ebbi la gioia di conoscere il signor Carlo Witte professore di Breslavia, quel bravo gio- vane tedesco che tanto si occupa delle lettere no- stre e specialmente di Dante, e di cui sono alcune emendazioni al Convito pubblicate nel giornale ar- cadico. Egli stampa attvial mente in Lipsia le rime di Dante da lui tradotte e comenlate in tedesco; e non dubito che la molta sua penetrazione non vinca la difficoltà del lavoio. Ora viagjjia le cillà italiane per rintracciar codici della Divina Commedia , su cui medita lunga fatica. E slato in Uomag^na e in Toscana, e fra giorni l'aspetto in Milano, ove però non potrà trattenersi che poco, pel dovere che ha di trovarsi alla sua università prima che termini ottobre. La milanese edizione del Convito è quasi com- piuta. Una delle prime copie verrà tosto a racco- mandarsi a lei, che tanto aiuto e favore ha donato al lavoro. Subito dopo si porrà mano alle lettere del Caro, che in quest'anno spero vedere impresse, e che non formeranno meno di tre volumi. Ho veduto la difesa di monsignor Mai stampa- ta in cotesto giornale arcadico, e mi pare eh' egli abbia gran ragione di vellicare la pigrizia di certi colali bibliotecari , che non fanno e s'arrabbiano ch'altri faccia: per cui la critica loro esser deve in- terpretala per vergogna. Il nostro Monti è nella Brianza a respirar l'a- ria purissima di quei colli, e con lui stanno la mo- glie e la figlia. Da due lunghe lettere che ho ri- cevuto scritte tutte di sua mano, e per sua confes- sione medesima, m'avveggo che la sua sanità ha di molto migliorato. Così egli possa, come lo spero, ri- tornare del tutto neir antico vigore ! Avendogli io mandato un sonetto che il dottor Paravia da Vene- zia scrisse a mia moglie per esso, rispose con uno scherzo poetico che qui unitamente al sonetto tra- scrivo a solo oggetto di mostrarle che la vivacità del suo ingegno e il suo buon umore non sono spen- ti. Del resto non sono che versi scritti all'improvviso 1/i8 e da scherzo : onde la prejjo a non mostrarli ad alcuno. Sonetto del Paravia alla marchesa Beatrice Trivulzio che parte da Venezia e ritorna a Milano. Quando sul patrio Olona, il qual s'abbella De l'invocata tua presenza, o diva, Vedrai quel grande, ne la cui favella Avvien che tutto PAlighier riviva; Gli dirai come a la feral novella, Che l'egro de'suoi dì fiore languiva. Gemer fu intesa in questa parte e in quella La flebil eco de l'adriaca riva. Ed io primo levai le grida e il pianto. Io che primo ringrazio oggi fortuna Che a l'amor nostro lo ridona e al canto; E più gioir m'udresti, ahi ! se la bruna Non ti rapisse gondoletta intanto Al desir lungo della mia laguna. Alla medesima. Scherzo del eav. Monti. Allo spirto gentile Che in sì pietoso stile Si compiange dell'empio mio destino. Rispondi, inclita Bice, Che la musa infelice 149 Del tuo poeta è morta, e che nel pianto Spenta è l'aite del canto; e se talora Tento le coide della cetra, i suoni N'escon sì rozzi e miseri, Che più poveri versi non faria . . . ._ , . (1). Su me dunque s'intuoni L'eterna requie, e quind'innanzi sia Il poeta di Bice Paravia. Mi saluti Odescalchi, Mai, Biondi e Amati; e si ri- cordi di chi si pregia di protestarsi sinceramente ec. — Milano 1 settembre 1826. — Mi ricordi all' Agricola e al Visconti. XIV, Al medesimo. A Roma. Bello, veramente bello e bellissimo è il dialo- go da lei mandatomi intitolalo li Tambroni: evi- dentissimi ne sono gli argomenti, e piene di digni- tà la dizione, e tale in somma è tutta quella squi- sita operetta da acquistar gran pregio al suo auto- re. Questa non è solo opinione mia, che non può aver peso alcuno , ma di quanti hanno letto quel dialogo nobilissimo e tutto pieno di critica e di dot- trina; onde mi permetta che con lei mi rallegri di così vago lavoro, e lo ringrazi insieme d'avermi vo- luto in esso e con tanto mio onore rammentare. (I) Qui sono i nomi ilei Ire clie scrissoro contro il suo sermo- ne sulla mitoloiìia. 150 Ho mandalo al cav. Monti la copia a lui de- stinala , e non dubito che a quest'ora egli non le abbia scritto con quella lode che è ben da lei nae- ritata. Sono molti {giorni ch'io non lo \edo, perchè un piccolo incomodo mi tiene serrato in casa; ma so tuttavia ch'egli continua a star bene suHìcienlemen- le , e che qualche volta esce di casa a piedi. Ella avrà veduto i suoi ultimi versi pubblicati in un nu- mero della Biblioteca italiana. Il Convito è interamente stampato, eccetto la prefazione, che stesa dal nostro buon Maggi ho qui sul mio tavolino, ed altro non aspetta che il ritorno dell'autor suo dalla villa per essere ancor riveduta e stampata. Ho avuto la fortuna d'acquistare in di- versi tempi e luoghi due codici del Convito, entram- bi forse della fine del secolo XIV: ma per disgra- zia l'ultimo mi capitò da pochi giorni e quando il Convito eia già stampalo. Tuttavia trovando qualche buona lezione importante, vi si potrà unire un'ag- giunta di correzioni. Che cosa è questo classico scoperto a Napoli da monsignor Mai ? Egli è il vero Colombo della letteratura; e si potrebbe vaticinare, che se i libri di Tito Livio esistono ancora, essi cadranno nelle sue mani. Che fa e dov'è il conte Leopoldo Slaccoli? Io lo vidi più volte a Firenze, e gli scrissi ad Lrbino, ove credea che fosse, ma non ebbi mai risposta. Mi saluti rOdescalchi , l'Amati, il Biondi e quanti di me si rammentano; mi ami e mi creda ec. — Mi- lano 15 novembre 182G. 151 XV. Al medesimo, A Roma. Prima di partir da Milano ho fallo consegnare al sig. conle Alboighetli, console pontificio, due co- pie del Convito in due separati involti , entrambi per maggior sicurezza indirizzali a S. E. il signor principe don Pietro Odescalchi, uno de'quali è per lei, mio corlesissimo Betti, verso cui ci corre tan- t'obbligo di gratitudine per gli aiuti prestatici nella correzione di quell'opera. L'altro esemplare è per lo slesso Odescalchi: al quale ho scritto in questa oc- casione. Ella vedrà che l'edizione è piuttosto bene che male riuscita., ed a bastanza corretia. Desidero che la molta fatica spesa da noi nel rettificare la lezione di quell'opera, e nell'illustrarla, ottenga l'ap- provazione dei dotti, e la sua principalmente, mio caro signor Betti, della cui fina critica aspettarmi pos- so il più sano e più imparziale giudizio. L'edizione tutta non è che di un picciol numero d'esemplari, cioè 48, nessuno dei quali vendibile: dovendosene eseguire una seconda edizione a Padova nella tipo- grafia della Minerva in seguito alla Divina Corame- dia, e colle altre opere dell'Alighieri che in quella stamperia si stanno imprimendo ; per la qual cosa s'ella credesse potervisi aggiungere nuove correzio- ni od osservazioni , queste non andranno perdute, ma troveranno luogo nella ristampa patavina. Unita alla copia del Convito a lei destinata troverà una Lettera^ in cui si svolgono alcune mie opinioni con- trarie, come vedrà, a quelle dal sig. Wilte spiegale 152 in un numero della fiorentina Antologia. Anche su di essa bramo avere il suo avviso. Ho inteso con vero dolore la morte del Cancel- lieri. Mi scriva se ancora vive il canonico conte Bat- taglini già prefetto della vaticana. Fra pochi giorni spero poterle mandare il primo volume delle nuove lettere del Caro. Ho fatto una corsa a Modena per rivedere l'ul- tima delle mie figlie, e son qui per tener compagnia alla seconda. Domani però mi pongo in cammino per Milano. Mi saluti l'Odescalchi, il Biondi, l'Ama- ti, e mi conservi l'amor suo, cui sempre vivamen- te mi raccomando. — Parma 26 febbraio 1827. XVI. Al medesimo. A Roma. Ricevo qui in villa , ove sono da più giorni , due sue gentilissime quasi a un tempo, dalle quali vedo con mio sommo piacere , che non solo le è finalmente giunto il Convito, ma che lo sta aHual- mente leggendo. Le lodi, ch'ella mi comparte, mi sono dolcissime, perchè il giudizio di lei, che a pro- fonda critica unisce la sicura conoscenza de' nostri classici e de'lor modi, è per me di maggior valore di quello d'ogni altro. Le assicuro però che, quan- to le lodi, giale anco mi saranno tutte quelle osser- vazioni che vorrà fare sul nostro lavoro, sia per l'e- mendazioui, sia per le parli supplite. Ho pregato di ciò già molti altri, e da questi ora si sono raccolte osservazioni in buon numero, che tutte poi faremo 153 passare pel cribro, accellando quelle che ci sembre- ranno più oppoilune a migliorare il testo. Anche il nostro sofocleo Bellotti ci ha favorito d'alcune sue ìiole, che in parte sono giustissime. Il solo desiderio del vero è quello che animò la nostra impresa, e non vanità: onde saremo lietissimi di confessar fran- camente l'aiuto prestatoci da chi vide più di noi. In seguito farò stampare alcuni fogli di correzioni o d'aggiunte: e già ho dovuto far ristampare un fo- glietto per un grosso strafalcione trascorso e non an- cora da altri osservato. Glie lo manderò coli' occa- sione di doverle inviare là Vita nuova^ che qui pure si sta stampando corretta sopra due miei codici. In- tanto le dirò che pel passo da lei notato nell'ultima sua: È impedito Vuno dalla parte del corpo; Valtro dalla parte dell'animo: noi abbiamo seguito la lezio- ne di tutte le antiche edizioni, compresavi la prima, e di tutti i codici da noi consultati, essendoci per noi stessi imposta la legge di non rimuover nulla dal testo senza l'assolata necessità di rettificarne il senso. E qui il senso mi pare chiarissimo ; perchè il dire Vuno è impedito ec. , Valtro è impedito ec, è lo sies»o che dire chi è impedito ec. , e chi è im- pedito: e sicuramente si sottinteìide l'imo uomo e Val- tro. Non so dove mai il Biscioni abbia trovato quella sua variante difetti o impedimenti: noi l'abbiamo data in nota per non defraudare il lettore di nulla di quel del Biscioni, benché da noi non giudicata necessa- ria per migliorare il resto. Circa al verso del sonetto di Gino io sono an- cor di parere, che quel piacer del quarto verso sia veramente un error del copista, che invece di seri- 154 vere poter infinito^ come dovea, ripetè sbadatamente il piacer che aveva scritto nel versa antecedente. La prego rileggere i due versi della canzone: Come m'hai tolto Di riveder lo più bel piacimento^ Che mai formasse naturai potenza: e mi dica se non le pare perfettamente ripetuto il medesimo pensiero , ma con altre parole , nei due del sonetto: E lontanato dal piacer più fino^ Che mai formasse il poter infinito. Come lo più bel piacimento della canzone corrisponde al piacer più fino del sonetto , così il poter infinito dell'una corrisponde alla naturai potenza dell'altra. Tuttavia le confesso, che l'interpretazione da lei fat- ta in favore della lezione il piacer infinito mi pare molto ingegnosa, e non avrei mancato di notarla nella stampa, se giunta mi fosse in tempo. Non so s'ella abbia veduto nel fascicolo XXXI del giornale di Modena una lettela, sottoscritta dal- le iniziali L. R. , diretta al conte Cassi e tutta ne- mica del Perticari e dell'aureo suo stile, e de'meriti suoi, e direi quasi dell' onor suo e della sua fama. Chi crederebbe mai ch'essa scritta fosse nel seco - lo XIX ! Il giornale , che ricusò prima d'inserir quella lettera, è l'Arcadico o la Biblioteca italiana? Il nostro Monti è sempre nello stato di prima in quanto alla mente, che ancora conserva ferma e 155 sana: ma il corpo suo invece di prender forza, sem- bra anzi che l'affievolisca. Mi saluti rOdescalchi, monsignor Mai, il Bion- di, l'Amati, il Frecavalli, il Velo, e quanti si ricor- dano di me. Raccomandi all'Odescalchi l'involto, che avrà ricevuto dall'Alborghetli, diretto al commenda- Jor Delfico , perchè trovi occasione sicura di farlo giungere in Ascoli, da dove facilmente potrà essere spedito a Teramo. Mi creda sinceramente ec. — Di villa 10 aprile 1827. XVII. Al medesimo. A Roma. Mille e mille giazie per le varianti trascrittemi nell'ultime due sue, e per T altre notizie di rime attribuite al massimo Alighieri. Faremo uso di tutto a suo tempo , anzi ben presto. Ma come oserò io supplicarla a farmi trar copia di quelle rime, che ne' due codici vaticani num. 3793 e 3214 trovansi sotto il nome di Dante ? Eppure è necessaiio, ch'ella affronti con molta pazienza tanta fatica, che sarà si- curamente aiutata dalla gentilezza di monsignor Mai, che nei luoghi per iscrittura difficili vorrà per amor mio esser generoso non meno di que'suoi occhi lin- cei, che del suo consiglio. Il nostro Monti è in villa, avendo preso in af- fitto un casino a Monza, ove starà più mesi confor- tandosi della speranza, che l'aria de' vicini colli gli giovi. Io lo visitai tre giorni sono, appunto il gior- no dopo ch'era caduto in giardino mancandogli il 156 piede, ma senza riceverne danno. La sua mente è sem- pre vivace e chiara, ma l'anima sua è percossa dalla sventura: sicché ad ogni tratto gli fa spuntare sul ciglio lagrime involontarie. Egli mi ha stretto il cuo- re! La parte offesa non migliora: ed io ne feci espe- rienza, poiché avendo egli voluto far meco un bre- ve passeggio nel giardino contiguo al suo appar- tamento, ho dovuto , cingendolo del mio braccio , quasi del tutto sostenerlo. Legge , ma si stanca e s'annoia di tutto; sente però assai vivamente le cure e l'amor degli amici, e mi laccontò egli pel primo che i monzesi gli fecero grande onore, e il manda- rono con deputazione a ringraziare d'avere scelto la loro città per ospizio. Stetti con lui per ben due ore, e parlammo anche di lei, e m'incaricò di sa- lutarla. Non ci fu mai alcuna idea di viaggio a Fi- renze. Se mai se n'è fatto parola (il che non so), cer- to non oltrepassò i limiti del complimento. D'altron- de lo slato, in cui trovasi il Monti prementemente, non gli permetterebbe d'approfitlare d'offerta alcuna, benché generosa e sincera. Ho qui finalmente sul mio tavolino il primo volu- me delle lettere del Caro. Ne manderò alcune copie agli amici di Roma, e vi aggiungerò per l'Odescalchi e per lei la Vita nuovii^ che pure é quasi stampata. Vorrei (e la prego e la supplico caldissimamente) che si ricupe- rasse quell'involto contenente una copia del Convito destinato al commendator Delfico, e che debb'essere riraaso tra gii uffizi della segreteria di stato , cui l'Alborghelti l'ha spedito cogli altri. Mi faccia la grazia parlarne a mio nome all' Odescalchi, impe- gnandolo a farne esalta ricerca , polche troppo mi 157 dorrebbe che andasse smarrito , non potendo sup- plire con altro esemplare per la scarsità con cui fu l'edizione eseguita. II Silvestri sta attendendo ciò eh' ella gli vorrà inviare. Mi saluti gli amici tutti, e mi creda sinceramente. — Milano 26 maggio 182T. XVIII. Al medesimo, A Roma. Ho ricevuto ieri l'involto de' suoi opuscoli, ed oggi li consegnerò al Silvestri, il quale non man- cherà al certo di cure perchè vengano correttamente stampati (1) Non ho potuto a meno di cedere al- l'avidità che ho sempre di leggere le cose sue: onde divorai tosto i due opuscoli inediti, che mi piacque- ro grandemente. Belle bellissime sono le cose da lei notate nella Divina Commedia, e tutte giustissime e direi anche infallibili. Ho letto con gran piacere an- che la lettera sul Pindaro del marchese Lucchesini. Quante verità ella ha osato dire contro le torie mas- sime della perturbatrice scuola boreale e con quanta ragione e con quanta forza ! Veramente quel li- bretto mi ha confortato l'animo , perchè tutto se- condo quel ch'io sento, e perchè spero ch'esser possa un antidoto alla crescente peste 'i'' Ella avrà veduto nell'ultimo fascicolo della Bi- blioteca italiana un articolo contro il Witte a pro- posito di un cotale Parnasso che si stampa in Ger- (1) Furono infiliti stampali uell'anno medesimo nella Biblioteca sedia di opere italiane antiche e moderne, voi. 209; ma con pochis- sima correzione. 158 mania. Mi è doluto assai queirarlicolo, perchè ab- borro tali gare letterarie, e perchè nessuno si leverà di testa che quel cenno abbia da me avuto la mossa: quando invece l'avrei con ogni potere impedito se concesso mi fosse stato il prevederlo. Nel Convito ho nuovamente corretto alcuni grossi strafalcioni non veduti da alcuno ne prima né poi. Si sta stampando un'aggiunta di correzioni che le manderò colla Vita nuova. La ringrazio delle can- zoni dantesche trascrittemi dal codice vaticano, ma che io non credo di Dante. Ringrazi anche don Pie- tro Odescalchi del bell'elogio da lui composto e re- citato in onore del padre Petrucci, e che ho que- sta mattina ricevuto per \?\ posta. Avendo avuto occasione di fare una spedizione di libri al De-Romanis vi ho aggiunto alcune copie del primo volume delle Lettere inedite del Caro^ cioè una per lei, una per l'Odescalchi, una per monsi- gnor Mai, una pel marchese Biondi, ed una per l'ab. Amali. Credo che l'involto non tarderà molto a giun- gere costì. Omai dispero che più si rinvenga la co- pia del mio Convito pel Delfico mandata alla se- greteria di stato. Anche l' Alberghetti è maravigliato di ciò, ma non v'è rimedio. Scrivo anche al cav. Fre- cavalli, benché io sappia che non è in Roma, ma vagante nei contorni d'Albano. Ho speranza che qual- cuno andrà alla posta a ritirare le lettere per lui. Ho messo nell'involto anche alcuni ritratti del Caro per l'Agricola. Mi ami e mi creda ec. — Milano 17 luglio 1827. 159 XIX. Al medesimo. A Roma. Lesone sincerametite grato pei due sonetti man- datimi, ma più ancora per la cara memoria che di me serba. Io non saprei veramente dicidermi a sti- mare per opera di Dante que' due sonetti , e par- ticolarmente dubiterei del secondo , in cui i primi due versi sentono alquauto del bisticcio. Tuttavia essendo tratti da antico codice , portando il nome di Dante, ed essendo assai leggiadri (principalmente il primo), essi avranno sicuramente un posto nell'edi- zione delle rime che sto preparando : e non man- cherò di testificare ia faccia al pubblico il debito che a lei ne debbo. Al marchese Pallavicini ho consegnato, in un in- volto diretto alPOdescalchi, due copie della Vita nuo- va^ una delle quali è per lei. Io la supplico a fare che il cav. Frecavalli le procuri la conoscenza (se già non l'ha) del detto Pallavicini, che si è uno de' maggiori amici ch'io m'abbia, e che pel suo inge- gno, per la sua amabilità, e per l'altre esimie qua- lità che l'adornano, si merita l'amore e il rispetto d'ognuno che l'avvicina. Sento che Bartolomeo Borghesi sia in Roma. Mi faccia grazia di salutarlo per parte mia coi senti- menti di quell'antica amicizia che a lui mi lega. Gli dica ch'è sempre vivissimo in me il desiderio d'an- dare a visitarlo sul libero monte eh' egli ha scelto per sua stanza: che se finora non ho potuto per molte ragioni mandare ad eiffetto tale mio proposilo, ver- 160 là, spero, il tempo clie il potrò. Mi saluti pure Mai, Biondi, Odescalchi ed Amati, a' quali tutti son grato della loro memoria. Monti in questi ultimi tempi si risentiva de' suoi iflcomodi, per cui fu obbligato a farsi trar sangue più volte. Egli si è ora stretto in lega più che mai col Manzoni, di cui gode la compagnia quasi ogni giorno. Tuttavia ha mandalo a termine la Feroniade, che è poema tutt'altro che romantico. L'ultima volta che lo vidi il trovai leggendo la tragedia del Car- magnola. Mi conservi la sua benevolenza, e mi cre- da ec. — Milano 15 marzo 1828. XX. Al medesimo. A Roma. ^ Sono tre mesi e più che fo vita vagabonda , avendo trascorsa quasi tutta l'Italia settentrionale, e non sono che pochi giorni che rividi Milano, da cui però ripartirò dopo domani. Per l'incertezza del mio .soggiorno avendo qui dato ordine di ritenere tutte le lettere a me dirette, onde non esporle a smarrimen- to, io non ebbi la cara sua che al mio ritorno. Ec- co la sola e vera cagione del mio tardo rispondere. Ma come mai può nascerle il sospetto, ch'io abbia posto in oblio la sua cara amicizia ! No: troppo e sin- ceri sono i sentimenti di stima e d'affetto che m'ha ispirato la bell'anima di Salvatore Betti, perchè pos- sano venir meno giammai: e il mio cuore non si can- gia iVè per volger di del né di fortuna. Ella dun- que deponga ogni sospetto; che mi farebbe ingiuria. 161 Monti ha da Ire mesi peggiorato assai, per cui ho ritenuto presso di me la lettera ch'ella mi ha man- dato per lui coll'arbitrio di regolarmi secondo la cir- costanza. Egli soffrì due nuovi attacchi d'appoplesia, meno terribili del primo , ma che lo privarono di forze e dell'uso delle membra, per cui ora vive (se tale esistenza può dirsi vita) o disteso nel suo letto o seduto sopra un canapè , dove vien trasportato per fargli cangiar camera ed aria. La sua mente non è confusa, ma o agitata, o addormentata: in somma ei fa pietà, né lascia luogo a speranza alcuna (1). Mi saluti rOdescalchi , il Biondi e l'Amati, e mi creda sempre sempre il suo Trivulzio. — Milano 24 settembre 1828. XXL Al medesimo. A Roma. Dal conte Sanseverino, colto giovane di Crema, il quale è partito questa notte per Roma, ella rice- verà due involti, in uno de'quali troverà due nuovi testi di lingua scritti nel buon secolo: nell'altro, ol- tre ai Cenni biografici di Vincenzo Monti^ una ristam- pa qui fatta or ora, e limitata a 300 esemplari, d'al- cune lettere di Seneca colla traduzione credula d'An- nibal Caro. Desidero che tutte queste inezie le giun- gano prima che d'altra parte, onde almeno la novi- tà supplisca alla loro poca importanza. (1) Infatti il grande poeta cessò di vivere il di 13 di ottobre di questo stesso anno. G.A.T.CXXVIL 1 1 162 Quasi a un medesimo punto ho ricevuto e la gentilissima sua, e l'articolo arcadico suU' interpre- tazione di tre passi della Divina Commedia (1), e la necrologia del cav. Monti. Ho letto con grandis- simo piacere l'interpretazione a quei tre passi, e mi confesso pienamente persuaso e convinto della veri- tà da lei con tanta acutezza d'ingegno e chiarezza d'espressione dimostrata. Bellissima sopra tutte e fi- nissima mi parve la prima, per cui il senso ne rie- sce semplicissimo e affatto nuovo. Mi piace che il buon Girolamo Amali, riponendosi al naso gli occhia- li, l'abbia con un sorriso approvata. Mi saluti, la pre- go, particolarmente quel dottissimo. Piena d'affetto ho trovalo la breve ma bella e patetica necrologia (2) , eh' ella ha voluto per sua cortesia indirizzarmi, e di cui vivissimamente la rin- grazio. Ella non poteva dir di più con più lunghe parole: e mi piacque specialmente il vedere com'el- la abbia cercato a fare spiccare la bontà di quel cuo- re magnanimo e impareggiabile, sempre pronto a perdonare le offese, chiuso all'invidia, ed aperto alla più candida amicizia. Molti hanno conosciuto e ve- nerato Vincenzo Monti come il sommo poeta dell'età nostra: ma per le vicende dei tempi forse pochi fu- rono in grado di valulare l'eccellenti doli dell'ani- mo suo: ond'ella ha fatto ottimamente a rendere a quel generoso spirito tutta la giustizia ch'ei merita- (t) I^ellcre Jel Betti a) Mai, all'OJpscalchi e al Biondi intorno airinlerprelazione rli alcuni passi della Divina Commedia, pubblicate nel tomo XXXIX UhI giornale arcadico. (2) Ivi. 163 ■va. Milaao alzerà un monumento alla fama di lui: ed è già aperta un'associazione. Mi saluti Odescalchi, Mai, Biondi, Agricola, e mi creda di cuore e pieno di gratitudine l'afFeziona- tissimo suo Trivulzio. — Milano 10 dicembre 1828. XXII. Al medesimo. A Roma. L'epigrafe troppo per me onorevole, con cui ella ha voluto rendermi più cara l'inviatami lettera diretta all'ab. Zannoni (1), è un nuovo pegno della bontà e dell'amicizia che per me conserva, e desta in me nuova vivissima gratitudine. Non v'è dubbio che l'interpretazione da lei data a quel passo del canto XXX del Paradiso (con buona pace del Vi- viani) non sia la vera. Quel fulvido sta appunto in luogo d'aureo , ed è epitelo tutto proprio di luce splendidissima e lieta , qual si conviene a luce di Paradiso : diversa affatto da quella spaventosa che usciva dal fuoco clelVali sfolgoranti^ e dalla fulmi- nea fiamma della spada dell'angelo sterminatore Che in notte orribilmente nera — Rotta da rosse folgori scendea : o di quella del cherubino descritto nella Basvilliana: Di lugubre vermiglia orrida luce Una spada brandia, che da lontano Rompca la notte e la rendea più truce. (lì E nel giornale arcadico voi. 138. 104 Ma il Viviani, a dir vero, in quelle sue annolazio" ni ha con arte sì fina adoperato , che spesso ti fa comparir buone e legittime certe lezioni del suo co- dice bartoliniano, che poi un più maturo esame con- danna, siccome questa: facendo così più pompa d'a- cutezza d'ingegno, che di buona critica. Ho già messo a profitto le varie lezioni del co- dici vaticani da lei tempo fa con tanta gentilezza somministratemi per le rime di Dante, cui ora at- tendo, lo spero che nulla abbia a rimanere oscuro e dubbioso nel senso letterale di quelle maravigliose canzoni, ove il divino poeta non è men grande che nella Commedia. Il più scabroso sta nella parte al- legorica; giacché è una follìa il voler tutto riferire alla filosofia e alla politica, come ha preteso taluno, seguendo un sistema falso e stravagante. Molti cora- ponimenri, che hanno finora impinguato quel can- zoniere, saranno restituiti a' loro autori, senza dan- no né invidia dell'Alighieri. È gran tempo ch'io non ho più notizia del sig. Carlo Wilte professore di legge in Breslavla, quell' istesso ch'io conobbi la prima volta per opera sua, avendomi ella comunicato le dotte congetture sopra alcuni passi del Convito, ch'egli inserì nel giornale arcadico. Da più mesi egli non risponde alle mie let- tere; e sapendo per prova quanta sia la gentilezza di lui, non posso attribuire un così lungo silenzio, che a qualche straordinario accidente , o piuttosto (che il ciel non voglia) a qualche sventura. La prego farmi la grazia di domandarne conto a qualcuno dei dotti prussiani, che passano gran tempo in Roma, e che amicissimi del Witte ne saranno benissimo iq-r ir. 5 formati, come i signori Gerhard e Pano fica soci en- trambi dell'accademia iperborea, ora archeologica, protetta dal principe reale di Prussia. Io le ne sarò infinitamente obbligato, avendo in pronto alquanti libri da inviargli, né sapendo come regolarmi. Mi rammenti a monsignor Mai, all'Odescalchi, al Biondi, e all'Amati, e mi creda con sincerissiraa stima. — Milano 16 maggio 1829. XXIII. Al medesimo. A Roma. Sono pochi giorni che il Mattiuzzi , essendo giunto a Bologna, e prima di porsi in cammino per le sue montagne giube, rri ha spedito col mez- zo della diligenza i due libretti ch'ella gli aveva consegnati per me. Ringrazi assai TOdescalchi a mio nome del prezioso libro, di cui si è privalo per fa- vorire la mia domanda , e ringrazi pure il Salva- gnoli de'suoi Dubbi, che per me non sono più dub- bi, ma certezza infallibile. Ieri è comparso un arti- colo sull'ultimo numero della Biblioteca italiana in- torno quest'opera del Salvagnoli; in esso mostrasi di combattere (per onor delle armi) le massime del Sal- vagnoli, ma nel fondo si viene a riconfermare ciò che da lui fu detto. Esso termina con queste paro- le: « 11 parlare di originalità di nuova scuola, d'in- » gegno divino, di culto, è un sostituire l'entusia- » smo alla ragione, un traviare il giudizio de'gio- » vani, e dar nascimento a quelle tante poesie, che » il Manzoni non vorrebbe al certo aver fatte , e 166 » nemmanco approvate, e nondimeno si credono >» manzoniane. » Se potrò avere una copia a parte di quell'ar- ticolo, glie lo manderò per la posta. Del resto mi pare che la Biblioteca italiana abbia questa volta gettato il guanto, facendo una professione di fede contro i romantici, che la comprometterà assai ver- so la nuova setta. Ecco quanto dice nel proemio d'altro articolo intorno ad una novella in versi ro- manticissima di Giovanni Torti: » Le regole o vere o » supposte di Aristotile , e i nomi di Omero e di >> Sofocle, non ponno più citarsi a salvaguardia » della pedanteria; né d'altra parte la letteraria li- » cenza, o l'assoluta incapacità di scrivere secondo » le eterne leggi del bello e del vero, non può più » sostenersi abusando l'autorità di Shakespeare odi » Schiller: né affaticando stranamente l'ingegno per » porre nuovi principii alla filosofia delle arti , o » per dar nuovi nomi alle antiche idee^ si può ve- » nire oggimai in fama di savi. » E così continua- si per ben quattro facce a parlar contro chi prò- cucciasi d'avviare la giovenlù sulle tracce dei tede- schi e degl'inglesi, e si dichiara tale innovazione per falsa^ puerile e dannosa. Credo che l'autore o operatore di questo mira- colo sia stato il Salvagnoli medesimo col suo arti- colo del giornale arcadico, in cui chiama gli esten- sori della Biblioteca romantici per la pelle , e lupi in veste d'agnelli: e infatti v'è una lunga nota intor- no a quell'articolo. Si aspetta la pubblicazione di un poemetto con- tro i romantici intitolato La congiura., e che mi di- 16T cono scritto con frizzo e buongusto. Tosto che po- trò averne copia, mi farò premura d'inviargliela. Qui da un pezzo non si stampano opere di gran valore. L'avv. Rossetti di Trieste sta preparando un' edizione delle egloghe del Petrarca comentate e tra- dotte da altrettanti poeti italiani quante sono le eglo- ghe stesse. Tra questi v'è Giulio Perticari. Non so se la stampa sarà eseguita in Milano. Mi saluti il Biondi (che è pure uno dei traduttori petrarcheschi), l'Amati, rOdescalchi e monsignor Mai^ e mi creda sinceramente ee. — Milano 19 agosto 1829. XXIV. Al medesimo. A Roma. Se ella conoscesse tutte le noie e le faccende che mi sono piombate addosso in queste due setti- mane dopo il mio ritorno in città, son certo che mi concederebbe pietà, non che perdono, pel lungo ri- tardo in rispondere al gentilissimo suo foglio. Rispondo in questo medesimo ordinario anche all'ottimo Agricola, il quale con quell'amabilità, da cui non può andare disgiunto giammai, mi ha di- rettamente avvisato d'aver finito il mio quadretto. So- no intanto lietissimo che quel dipinto sia riuscito degno della mano di si grande e gentile maestro. Sento con piacere che costì si pensi a fare ciò che avrebbe dovuto farsi già da più mesi in Mila- no: dico a pubblicare le lettere del Monti. Qui la speculazione presiede ad ogni onorata impresa. Mi raccomando a lei, quando esciran quelle lettere , 168 perchè me ne mandi un esemplale. Non so s'ella conosca del Monti due canti inediti in continuazione ai già pubblicati della Mascheroniana. S'ella non gli ha, potrò inviartene copia: giacché disperato è il caso che veggano luce in Italia. Il signor conte Machirelli mi ha gentilmente fat- to dono dell'edizione da lui procurata in Pesaro della Vita nuova^ tratta da un codice del secolo XV. Moltissime sono le varietà di lezione che s'incontrano confrontando quel testo colle volgate: ma non tutte sono buone, e varie sono anzi sicuramente errate. Cre- do che contemporaneamente a quell'edizione altra ne sia uscita in Pesaro con varianti e note: ma io non l'ho peranco veduta. La mia è forse ancora la mi- gliore; ma le confesserò schiettamente, che se aves- si a rinnovarla, vi aggingerei molti altri migliora- menti o di congetture o di emendazioni sicure. Ho comperato da'librai nostri, ove Vendesi pub- blicamente, una famosa canzone del Chiabrera pub- blicata in Roma da cotesto ab. Rezzi. Quella canzo- ne è tutta guelfa: Ora sento da lei che lo stesso abate pensa a ristampare più emendato V Ottimo co- mento al ghibellinissimo Dante. Egli fa ottimamente: perchè queìVOttimo di Pisa fa veramente pietà. Sul cartone del mio esemplare ho scritto corruptio opti- mi pessima: benché, per dir tutta intera la verità , quel cemento, con tulli gli aiuti che potrà ottenere in una nuova e più diligente edizione, non mi pare che potrà mai riuscire una gran cosa , soprattutto riguardo all'intelligenza del divino poema. Ivi si saltano a pie' pari tutti i luoghi dubbi ed oscuri , sicché rimaniamo ancora nelle dubbiezze e oscurità 169 di prima. Finora non v' imparai altro di nuovo , fuorché Putifarre essere stato castrato di Faraone. Quando mi si presenterà un'occasione sicura le manderò un testo di lingua qui ristampato, corretto da Bartolomeo Gamba sopra un codice della vene- ta libreria di san Marco. Esso è la Pistola di Gio- vanni Boccaccio al priore di s. Apostolo. Ilo inteso con vero dolore la perdila che le buone lettere hanno fatto nella persona del signor Salvagnoli. Me ne duole tanto più, che i romantici non avranno a temere un più tremendo flagello. Mi saluti gli amici tutti, Mai, Amati, Odescal- chi. Biondi, e mi creda sempre sempre l'affeziona- tissimo suo Trivulzio. — Milano 28 dicembre J829. XXV. Al medesimo. A Roma. Una lettera del gran Federigo duca d'Urbino è per me un vero gioiello, che serberò fra le mie cose più care, come un pegno di rara gentilezza, e di quella dolce amicizia ch'ella ha per me. Io le ne rendo sìncerissinje grazie. Ilo trascorso per pochi momenti que'cotali ser- moni stampati a Livorno: ma tosto me ne sono an- noialo, giacché non posso sopportare di vedere ex- professo far la scimia al Gozzi o ad Orazio con sì poco di poesia e meno di critica. Se colui ha pre- leso di prender di mira l'illustre Mai ne'suoi versi, mi fa pietà; mentre il Mai sarà celobre ed immor- tale accoppiandosi ai nomi di Cicerone, di Fronto- 170 ne, di Virgilio, di Plauto: e quei sermoni invece ri- marranno miserini e miserissimi per tutto quel pic- ciol tempo che avranno di vita. E egli vero che anche il giornale arcadico fu preso a bersaglio ? Non me ne farebbe maraviglia, poiché non si può essere cosi fecondo in maldicenza senza fare scaturire la malignità da ogni argomento. Già da molto tempo ho in pronto la copia dei due inediti canti della Mascheroniaaa , ma attendo qualche particolare occasione per inviarla. Le man- derò unitamente anche il secondo volume delle let- tere inedite del Caro, e la Pistola del Boccaccio al priore di S. Apostolo qui ristampata. Sono pochi giorni che s'incomincia a vedere di- sciogliersi le nevi, che ci tenevano d'ogn'intorno bloc- cati, massime dalla parte di Bologna, ove le comu- nicazioni furono per più ordinari interrotte. A Vi- cenza le strade furono per più giorni impedite al passaggio per la prodigiosa quantità di neve : per cui ahresì parecchie case nella campagna minaro- no. Nella nostra Valle Lombarda i guai furono mi- nori, ma pure l'inverno fu più rigido del solito. Io non veggo l'ora che la primavera si spieghi, per uscir fuori della mia tana , ove sto chiuso ornai da sei mesi, e per fare ima corsa a Firenze. E chi sa ch'io non mi lasci sedurre dal piacere di riveder Roma ? Ella mi creda sempre il suo affezionatissimo Trivulzio. — Milano 27 febbraio 1830. -o-i-»-J- Ì8-J^s>-l-o 1 171 Elogio del cardinole Anton Francesco Orioli^ recitato nella chiesa de' RR. PP. Conventuali di Osimo, dal prof. Giuseppe Ignazio Montanari. In medio oiagnatorum ministrabit, et in coiispectu praesìciisapparebit. EccUsiaslic. cwxw v. A. . i^e la tloltilna e la virtù, come bastano a rendere l'uomo immortale nella lunghezza dei secoli, valesse- ro egualmente a scampar dal sepolcro, non avrem- mo noi oggi a deplorare la perdita di un personag- gio , del quale il merito la chiesa di Cristo onorò colla porpora de'cardìnali. Voi venerate la sapienza e le rare bontà del cuore. Ma perchè a ciascun uo- mo è fisso il termine de'giorni, e questo è breve, ne dalla legge comune è potenza alcuna che sottragga, quando i grandi uoiuiui sono chiamali ad altra vita, si conviene chinare il capo ai voleri della provviden- za eterna che, compartendo a ciascuno secondo giu- stizia, non fa oltraggio a persona; e vivere rassegna- ti senza lamentare o dolerci. Ch' ella abbastanza be- nigna ci è stata quando ci ha fatto degni di avere fra noi anime generose, che dell'esempio e della pa- rola ci hanno dato conforto, e la bassezza nostra col- la propria virtù hanno potuto inalzare. E lamentan- do e contristandoci per la partenza loro dal mondo noi facciamo atto indegno , perchè mostriamo invi- diare a quelle il giusto guiderdone della vita, e so- lo della nostra utilità essere vaghi, e del nostro dan- no dolere. Che se l'umanità ci tira dagli occhi le 172 lacrime alla morie delle amate persone, considerando che di loro il meglio è rimasto fra noi, e che per morte esse salgono a vita più degna , la ragione e la fede ci denno non solo consolare, ma l'anima an- cora rallegrare. E certo il meglio a noi rimane quan- do ci resta l'esempio delle virtù loro, al quale come a specchio comporre e dirigere possiamo la vita no- stra, per meritare un giorno quella corona che essi sono andati a raccogliere. Perciò nella morte del car- dinale Anton Francesco Orioli, nel quale tanta glo- ria dell'ordine vostro, o RR PP., tanta della roma- na chiesa, tanta della mia terra natale venne meno, non è ragione che ci abbandoniamo a piangere. Egli compi il corso a lui concesso esercitando la vita in belle opere di mente e di cuore; e tempo era ora- mai debito che dall'esilio tornasse alla patria, dalla milizia alla corona, dalla fatica al i-iposo, lasciando nel mondo di sé bellissimo esempio, ed utilissimo a chi da lui sappia ritrarre. Infatti appuntando il pen- siero alla sua vita, e dai primi anni continuandoci sino alla fine, e considerando le diverse e molte bon- tà del suo cuore, di cui non so altro più generoso e benefico, e lo studio indefesso eh' ei fece a con- seguire dottrina e sapienza verace, abbiamo di che ammirarci di lui , e consolare noi stessi. Concios- siachè se niun alimento è più elficace e potente a nutricar la virtù de'presenti quanto lo specchio dei passati, noi nello spacchio del cardinale Orioli avre- mo di che avvantaggiare non poco. La qual cosa per- chè meglio a voi ed a tutti sia menifesta, io discor- rendo brevemente la sua vita metterò innanzi i pre- gi singolari di che ornato si porse , e questo farò 173 senza studio d'arte , perchè non si paia che voglia kuneggiarli e colorirH acciò meglio campeggino. L'a- iuto dell'arte è necessario ove sia difetto di mate- ria; ov'ella è larga e piena, non abbisogna, anzi può nuocere. La vita del cardinale Orioli è tutta dottri- na e bontà; onde io narrandola vi metterò sotto gli occhi quanto fu sapiente e buono, senza sforzo d'ar- gomenti, e senza alcun artifizio di favellare, E tanto più acquisterà forza il mio dire, quanto potrete da voi stessi dedurre dalla mia narrazione ciò che io semplicemente accenno. La qual cosa ho per miglio- re d'ogni altra consolazione che nell'aflizione vostra si possa recare ; e reputo essei'e il più confacente elogio di sì benemerito personaggio. La maestà ve- neranda di questo tempio mi farà avvisato a non parlare che il vero, la vostra presenza, I\R PP., mi aiuteià a ben delinearne l'immagine, cotalchè possa riuscire degna del trapassato , non indegna di voi e del glorioso vostro ordine, cui egli tanta lode ag- giunse, non meno che dei benevoli che si sono qui condotti cortesemente ad ascoltarmi. In Bagnacavallo, piccola ed onoranda città del- la bassa Romagna, mio dolce luogo nativo, ebbe in sorte nascere Anton-Francesco Orioli nel 1778 di onestissima famiglia. Fin da'primi anni cresciuto alla pietà dalla madre, donna che fu di santi costumi e mollo timorata in Dio, dava segni d'ingegno e sa- viezza che precorreva all'età. Posto agli studi, vi ap- plicò Tanimo per forma, che i suoi precettori se ne ammiravano, i compagni gli cedevano riverenti il primo luogo. Lidole da natura dolcissima , aria di volto piena di soavità, poi tamento gentile e modesti^- 174 simo, parlare schietto, rado, e di facile vena, acu- me di penetrante intelletto che negli occhi sì nno- strava, e tutto questo congiunto ad una maraviglio- sa integrità di costunrii, lo faceva singolare dagli al- tri suoi coetanei. Già toccava il terzo lustro; premi di studio e diligenza, lodi di maestri, plauso di cit- tadini l'accompagnavano. Destava di sé le più belle speranze: invidiavano a'suoi genitori tanta fortuna di figliuolo quanti erano padri: ed egli vedevasi in- nanzi aperto un larghissimo campo , in cui racco- gliere i più bei frutti. Ma a quale carriera dovrà egli mettersi ? Molte gli si parano innanzi tutte splen- dide e luminose, e tutte lo invitano colle più dolci lusinghe ; eppure egli si rimane in fra due , e par nessuna il contenti. Consigliatelo voi che delle cose del mondo siete intendenti; ditegli voi a qual via si debbe ora porre. Vi par egli che la sua fecondia gli possa trovar seggio fra i giureconsulti ? Ebbene additategli le dovizie che di tale palestra sogliono u- scire. Vi pare che ai severi studi delle scienze sia più disposto ? Ebbene accennategli quanti onori esse portano seco. Oh ! via fate che al fine risolva. Oh ! mal avveduto che io mi sono; non egli dal mondo e da'suoi seguaci vuole consiglio: egli lo chiede a Dio, e Dio gli mostra un chiostro. Là si rinserri e rinunzi agli onori del mondo; là si umilii, e nella po- vertà cerchi ricchezza, nell'oscurità splendore, nella nullità grandezza. Vegga Cristo in croce, e di quella croce si faccia scala; e se brama una guida per sa- lirvi ignudo, si metta sull'orme del poverello Fran- cesco. Così Iddio lo chiama; ed egli si scioglie dalle braccia della tenera madre, del ben amato genitore 175 e de'fralelli , per mettersi in quella della religione. Intende^ prospere procede et regna^ dirò io a lui col salmista: vanne pure, ti accompagni il Signore, e la tua umiliazione li dia regno, cotal che tu un giorno li assida tra i principi della chiesa. Ed egli entra alla religione nell'ordine de'frati minori conventuali, e nel tempo della prova più severa si fa specchio a tulli di umiltà, di obbedienza, e d'ogni bontà. Usci- tone, e giurata la regola con professione solenne, si dà tutto nelle mani de'suoi superiori; ne facciano ciò che lor piace, che egli non ha più volontà propria, e del volere loro fa il suo. L'alio ingegno, di che la provvidenza avevalo donato, domandava d'essere di forti sludi invigorito, e i provvidi superiori pri- ma nella cillà di Bologna, poi in quella di Parma lo mandarono : ivi studiasse filosofia; non quella vana che si gloria combatlere il vero, ma quella che al lume della fede ricerca il vero , e non fa uu idolo della natura, ma la conosce ministra del creatore. Ap- presso studiasse in divinità, ed ivi scoprisse la ra- dice prima della filosoBa; e dalla grandezza del crea- tore giudicasse i doveri della creatura. Ho detto che la filosofia ha le radici nella teologia; e non vorrei che alcuno ne sorridesse, ma si credesse che ove le speculazioni dei filosofi non si piantino sulla verità teologica, divengono vanità per poco, e fanno di leg- gieri traviare gli umani ingegni. E così non fosse, che il mondo folleggerebbe assai meno, e gli nomini avrebbero molto minori mali a sostener nella vita ! Ciò ben intese l'Orioli , e gli valse a formarsi la mente , e a divenire quel profondo filosofìo e quel sapiente teologo che tutti sanno. Quale meraviglia ITO che ammesso in Roma fra gli alunni del collegio di san Bonaventura , insliluito dalla santa memoria di quel gran lume dell'ordine vostro che fu l'immorta- le pontefice Sisto V, ottenesse laurea nella facoltà teo- logica, e desse in ciò segui della elevatezza del suo intelletto, e presagi di altissimo sapere ? Quale mera- viglia che entratovi discepolo, vi sedesse in breve giro di anni maestro, o nel 1806, cioè non avendo ancora trent'anni, fosse eletto lettore di sacri canoni dall' eminentissimo cardinal Brancadoro , che allora teneva in protezione quel luogo , e ben conosceva l'altezza dell'ingegno e la profondità del sapere di lui in fallo spezialmente di scienze sacre, anzi prevede» va la gloria grande che all'ordine per lui si ag- giungerebbe ? E tutto questo lume di sapienza onde poi venne nell'Orioli se non dalla sua pietà ? Egli aveva sottomessa la sua ragione al vangelo e alle dottrine della chiesa ; e dal vangelo e dalla chiesa venivagli forza ad approfondire negli studi. La reli- gione quel velo squarciavagli che copre le occulte cose agli occhi de'profani, e lo metteva dentro a'suoi sublimi segreti. Questa é la dritta via che conduce a vera sapienza: umiliarsi, abbassare l'orgoglio della ragione ai pie della croce-, ed ecco dischiuse le fonti della verità che cerchiamo. Chi pretende col langui- do lume della umana ragione penetrare negli arcani del vero, è pazzo: e chi a lui s'mchina come a sa- piente, è cieco e pazzo. La verità, che è lo scopo della filosofia, sta di molto sopra la ragione, la qua- le non può raggiungerla da sé , e ha d' uopo che la verità stessa divinamente gli porga la nìano e a sé la tiri e l'abbracci. Né questo avvenir può s'ella 177 non si umilia dinanzi a lei: e non confessa la pro- pria pochezza. Non è egli adunque cecità imperdo- nabile fidar piulloslo nell'uomo che in Dio, nel lume semispento del mondo che nel raggiante del cielo ? Non è egli error grande confessare che l'uomo è mortale, e pretendere che abbia da sé forza a farsi immortale? Ben vedeva queste cose il diligente di- scepolo del grande vostro dottore Bonaventura; e te- nendosi stretto alla fede, a riguardo moveva i passi, né stampava orma se non sull'orma del suo glorioso maestro. E a premio di questo vedeva ogni dì più stenebrarsi la caligine che avvolge l'umaaa mente; sicuro slanciavasi dentro i grandi misteri della fede, e con facondia di perfetto oratore cristiano , altrui gli sponeva, a sommo onore del suo ordine, a gran- de profitto della cattolica chiesa. Ma nel meglio de' suoi studi una tremenda procella levatasi d'oltremente scompigliava ogni cosa e disciogliendo le religiose famiglie le ributtava nel fango del secolo, a confondersi, poco è ch'io non di- ca, fra la plebe. Era tolta la dolce quiete del sacro ritiro, interrotte le spirituali fatiche, cessata la dol- cezza degli studi, intorbidata la tranquillità della vi- ta. Quelli che dal mondo eransi rifuggiti al porto della religione, venivano dal porto respinti in mezzo un mar fortunoso, costretti a maniera di naufraghi afferrale una tavola del rotto naviglio per giungere a salvamento. J\on ismmarrì per questo l'Orioli: con imperterrito viso mirò la tempesta, e chinando a ter- ra la fronte, e venerando i divini decreti, si umiliò sotto il flagello della sdegnata mano di Dio. E Id- dio, che vide l'umiliazione del suo cuore, gli diede G.A.T. CXXVII. 12 m forza a campare, anzi ad uscir glorioso del comune naufragio. Era allora a capo della francescana famiglia dei minori conventuali un uomo di grand'essere e di pari pietà, il padre maestro Giuseppe Maria de Eouis, del quale la religione avrà sempre onorata e santa la benedetta memoria. Questi cacciato d'Italia, e stra- scinato in Francia, fu fatto segno alle più dure per- secuzioni. Con lui adunque perseguitato l' Orioli si collègò, e profunghi amendue uscirono di Roma, e per lungo cammino vennero in Francia. Giunti a Tolone, e veggendovi i fedeli per difetto di eccle- siastici mancare delle debite cure, egli si diede lutto alla procurazione delle anime quasi in officio di par- roco , e con tutto instancabile zelo si continuò in quel santo esercizio, da conciliarsi in breve l'affetto e la riverenza di tutti. Conducevasi d'una ad altra chiesa: qui ascoltava le confessioni , là esponeva e dichiarava nel modo più piano e fruttuoso la parola di Dio, usandovi la lingua francese, la quale come altre straniere ed antiche ben conosceva. Poi fare il divin sacrifizio e le sacre funzioni, visitare infermi.con- forlare nell' ultim' ora moribondi, e somministrare loro i santi misteri della fede , aggirarsi in poveri abituri: e, benché egli poco avesse, a soccorso degli infelici anche quel poco versare. JNè lunghezza di cammino , né disagio di strade, né imperversar di stagione o diluviar di piogge, né stanchezza, né ve- glia potevano, ove necessità lo volesse, arrestarne i passi ed infrenarne lo zelo. Le poche ore, che gli avanzavano, spendeva nell'ademplere il prescritto delle regole del suo ordine, e nel l'adoperare, per quanto f 179 era in sua mano, a perfezionarsi nelle scienze fìlo- sofiche e sacro, e nello sludio delle lingue slranie- re. Tanti travagli e si gravose fatiche ben l'avreb- bero potuto fiaccare, ma non distogliere dall' im- presa: perchè , ove fosse stalo bisogno , volentieri ueir esercizio di sacerdote cristiano si sarebbe la- sciato finire la vita. Ma Iddio gli dava aiuto, co- talchè solo bastava a tante cose e tanto svariate : bel rimprovero a quelli che per viltà di cuore e po- chezza di spirito si perdono negli infortuni, o la- sciandosi tirare dalla corrente, né a se né agli altri sanno giovare ! Che anzi quando il reverendo j^e- nerale dell'ordine fu rilegato in Calvi nella Corsica con altri religiosi e prelati , ed ivi abbandonato a tutte le tribolazioni dell'esilio non aveva onde spe- rare soccorso , il padre Orioli ridottosi in Milano, e acconciatosi ai servigi della nobilissima famiglia Litta di Modignauo in qualità di aio e maestro, più d'altri che di sé pensoso, studiavasi raccogliere dalla carità de' buoni quanto potesse consolale gl'infelici suoi fratelli, e mandava loro anche il frutto delle sue fatiche. Poteva vivere tranquillo, senza molestie, senza pericoli; ma elesse ogni cosa meglio che la- sciare non sovvenuti i suoi religiosi. Fu di quel tem- po eh rgli pose mano a recar in volgare alcune bel- lissime e dottissime lettere scritte da quell'eruditis- simo che fu il cardinale Litta, a confutazione delle quattro proposizioni gallicane: opera di piccola mole, ma di grande polso , e fatta più forte da alquante annotazioni appostevi dal traduttore. Nel quale la- voro credo io due fini si propenesse; primo, difen- dere la causa della óanta chiesa rnmana; poi, trarre 180 eli qua nuovo mezzo per allargare i conforti ai ri- legati fratelli. Così egli per amore de' suoi tribola- tasi, e si abbassava quasi ad accattare,, con pericolo di sé (tale era la furia della persecuzione), e niuna cosa più soave tornava al suo cuore che poter loro con larghi soccorsi la miseria dell'esilio alcun poco alleviare. Umiliazione generosamente nobile , pietà veramente filiale, e degna d'essere con ogni maniera di lodi celebrata ! Ricomposte le co.se, e ritornata la calma, non .solo si restituì volonteroso, ma con gioia, alle care mura del chiostro; e fattosi aiutatore del suo vene- rando generale, non perdonando a sé fatica, studiò di rendere al suo ordine meno gravosi i danni della fortuna durata. Richiamava in seno della famiglia i dispersi fratelli, riapriva loro, per autorità ricevu- tane, le antiche case , nello sperperamento d' ogni loro avere li confortava, consolavali nella speranza di tempi più lieti. Ricordo con una dolce compia- cenza, quando, me giovanetto, si restituiva in pa- tria , ove con devota solennità festeggiò il trionfo del pontefice e della chiesa, e ringraziò Iddio e il serafico suo padre, che avessero ai poverelli loro fatta la grazia di ritornar vivi nel seno del santo istituto a cui si erano consecrati. Poi di nuovo ridottosi a Roma, fu eletto dal cardinal Brancadoro a leggente e rettore del collegio di san Bonaventura, ove per molti anni die prova della sua molta dottrina in- segnando, della sua raia prudenza reggendo , della sua bontà religiosa facendosi esempio agli altri di zelo e di benignità. Aveva svegliatissimo ingegno , forti sludi, sapere profondo, e con tutto questo una 181 eloquenza sì facile, s\ copiosa, sì piacente, che ove egli si faceva ad esporre le materie teologiche, che erano il subielto del suo insegnamento , prendeva gli animi di quanti l'udivano, non meno che l'in- telletto, e ne signoreggiava la volontà. Raro o non mai vi ebbe parlatore più facondo, e con più ricca vena di lui. Tutta Roma sonava delle sue lodi: vo- levalo a teologo il cardinal Litta, domandavalo quel cardinal Odescalchi, che poi nelle sue mani depose la porpora, per vestire l'umile sacco de' figliuoli del grande Ignanzio. Lui esaminatore dei vescovi e del clero romano, lui consultore dell'indice, lui segre- tario dell'accademia di religione cattolica. Tutti ave- vano ricorso a lui per consiglio, ed egli a niuno sa- peva negarsi, e tutti di sé rimandava contenti, men- tre il suo ordine si rallegrava vederlo a tantp de- gnato. Ma Gregorio XVI sommo pontefice più di ogni altro se ne compiaceva; e stato fin dal chiostro sempre tenero del padre maestro Orioli, ogni gior- no più gli 8Ì affezionava di cuore, perchè ogni gior- no più ne scopriva i pregi , la virtù , la profonda dottrina. Per la qual cosa volendo di degno pre- mio rimeritarlo, nel 1832 il 28 dell'agosto lo disse \icario generale apostolico dell'ordine de' minori con- ventuali con autorità, potestà , privilegi , ed indulti propri del generalato : nella quale suprema dignità non è da dimandare quale si porgesse V Orioli : e basterà dire che confermò l'opinione che aveva di savio e di moderato, provvedendo ad ogni cosa, or- dinando e disponendo di sì vasta famiglia , come buon padre fa della propria. Ma il bealissimo vi- cario di Cristo non si tenne averlo abbastanza gui- 182 derdonnto con questo, e nell'anno appresso lo elesse e mandò vescovo alla chiesa d'Orvieto, ove, quan- tunque gli dolesse staccarsi dall' ordine suo , pure obbediente com'era si condusse, e stette amato e ri- verito da tutti quasi un cinque anni. Non raccon- terò io qui com'egli colla sua virtù illustrasse I' alta dignità di nuovo a lui conferita, non dirò quanto si umiliasse innanzi a Dio e agli uomini nel punto slesso della sua esaltazione; solo affermerò che quanto più era levato in alto, tanto più si teneva in basso , e quanto più lodato di virtù, tanto nell'esercizio d'ogni virtù si accresceva. Sta vagli sempre fìtto nella mente e nel cuore l'insegnamento dato dall' apostolo delle genti a Tito, e studiavasi ritrarre in sé quante bontà Paolo da lui domandava. Non superbo, non iracon- do, non avaro: ospitale, benigno, temperante, giusto, continente e santo. Tenace di quella parola fedele, che è secondo la dottrina di Cristo e della chiesa , la dispensava al suo gregge; e la parola non disgiun- geva mai dall' esempio. Largo ai poveri , benefico, generoso. Aveva grande cura del popolo, grandis- sima del suo clero, e adoperavasi acciò questo fosse esempio ed aiuto a quello ; quello avesse riverenza ed amore all'altro. Che in ciò sta principalmente il ben essere della cattolica famiglia, di cui i sacerdoti sono i maestri, tutti i fedeli i discepoli, che l'amore e la riverenza gii Uni agli altri rannodi. Dove il mae- stro non si porge qual deve, perde stima; dove il discepolo non si porti secondo suo debito, perde il profitto; e la scuola diviene campo di battaglie, di errori e di scandali. Se i ministri della chiesa danno Iwce, il pòpolo alla scorta loro si aflìda, e tutto è dol- i83 cezza di pace; la pietà rinvi{jorisce , la relig^ione ci guadagna : allrimeuti il popolo va dietro a favole vane, abbandona il vero lume, si lascia accalappiare dai tristi, e così viene meno ogni dolcezza di pace, e la religione ci piange. Monsignor Orioli ben ve- deva queste cose, e poneva opera che il suo clero fosse specchiato, dotto, prudente, acciò il popolo sempre maggiormente a quello si restringesse. Ma la salute , che in lui per tante fatiche cominciava ad indebolirsi, gli vietò rimanere più a lungo al suo vescovado, e nel meglio dell'opera dove tornarsene a Roma. Era già stato decorato fin dal 1838 della porpora dei cardinali, ben dovuta a' suoi meriti e ai molti e fidati servigi da lui resi alla santa sede, anche sotto gli antecedenti pontefici, e specialmente durante il pontificato di Leone XII; e con questo la sua virtù aveva ottenuto compito il meritato trionfo. Tornava adunque di Orvieto in Roma vestito della porpora de'cardinali, e per l'amore sommo che avejva al suo ordine prendeva stanza ai Santi Apostoli nel convento de'suoi fratelli minori conventuali, da cui sebbene la nuova luminosa dignità di principe della chiesa l'avesse disciolto, pure egli era come per rinnanzi legato con vincolo di devozione e di affetto; e la sua vita, per quanto era da lui, secondo le sante norme della sua religione governava. Dell'altezza su a non egli per sé altro serbava fuor gli obblighi, del resto si valeva a beneficare. Il suo cuore, veramente nato a giovare, studiava ogni giorno di aiutare e ben fare a chi a lui avesse ricorso; ne per disagio si ne- negava, ne per igratitudine cessava il beneficio. Anzi se alcuno (e molti ve ne ha) gli si mosUrava scono- 184 scenfe, egli cercava modo con nuovi beiieficii di quella sua colpa ricambiarlo. Aveva in sé la carila del vangelo , nella fiamma della quale tutte l'altre virtù si alimentano e si sublimano. In ogni uomo vedeva un fratello, in ogni colpa l'umana fralezza. Perciò offeso non solo perdonava, ma metteva ogni opera per gratificare l'offensore, e fargli provare gli effetti della sua beneficenza. Occupato in gravi in- combenze, obbligato a molte congregazioni, riparti- va per modo il suo tempo, che l'opera sua non fos- se mancata ad alcuno. Quindi ora delle questioni altissime della fede, ora di quelle della propagazione della medesima, quando dei libri malsani e perni- ciosi da togliersi ai fedeli di mano, quando degli affari straordinari ecclesiastici, e dei particolari della Cina e dei regni adiacenti si occupava. La vasta sua mente abbracciava tutte sì diverse cose , e in ciascuna mostrava la sua profonda sapienza. E se bricciol di tempo restavagli, compiti i doveri im- postigli dalla sua dignità, e quelli che come religio- so egli stesso a sé metteva, ritornava a'suoi cari sludi, e leggendo e scrivendo procurava il bene della chie- sa cattolica. Recò nel volgar nostro l'opera del sa- cerdote spagnuolo don Giacomo Balmes, nella quale il proteslaoiismo è posto a paragone del catlolicismo a intendimento di far capaci gli uomini, che la sola religione che può prosperare l'umana società, inci- vilire i popoli, e renderli felici, è la cattolica: e che tutti i guasti venuti nel mondo, portativi da tanti e tanto sanguinosi e strani rivolgimenti, mettono tutti radice nelle riforme, che uomini o falsi o ambizio- si per fini reissimi hanno voluto dettare. Vero è che 185 cotesti bugiardi maestri, ammantandosi con mentita carità, gridano a gran voce che e'cercano il bene de- gli uomini, e vogliono di schiavitù tornarli a libertà: ma cotesta è menzogna impudente. Perocché essi che altro cercano se non togliere dal mondo ogni om- bra di autorità ? E perchè ogni umana autorità, co- me sopra sua base , riposa sulla divina , costoro si travagliano ad abbatterla, e ad allucinare i deboli. E non potendo l'autorità divina per forza d'uomo crol- lare, essi la maledicono, la diffamano, e la mostrano istruraento di tirannide e di schiavitù. Così se non giungono a dissolvere i legami tutti del genere uma- no , perturbano ogni ordine , agitano ogni mente , spargendo incertezze e dubbi più perniciosi d'ogni altra mina. Infatti qual è oggi la sciagura peggiore, quale il castigo più grave nel mondo, se non lo scet- ticismo disseminato da costoro nel seno stesso del cattolicismo ? Oh facciano senno gli uomini, veggano alfine l'inganno , e guardino su qual precipizio sì stanno I II vero è un solo, o vuoi nella religione, o nella società; e questo vero è Dio. Ora se la socie- tà, che ha le fondamenta nel vero eterno, da lui si diparte, non è ella conquassata, scombugliata, finita ? Ove sperare più pace , ove più vita riposata , ove più ordine alcuno ? Fuor del vero tutto è vanità, e solamente sul vero la società può con saldezza po- sare. Scioglietevi pure dalla potestà di Cristo e del- la sua chiesa, scioglietevi dal freno d'ogni reggimento, abbandonatevi alle furie delle contrarie passioni, da- tevi a reggere alla libidine, al capriccio, al vizio: e non avrete voi distrutti in breve ora voi stessi, la società, il mondo? Non lo credete? Apritele storie, 186 vedete condizione diversa ne'tempi lontani e ne'vi- cini, e quali catene di serva^jgio, quale avvilimeato dell'uonfio sia fuori della chiesa cattolica; e fate ra^ gione che cotesti maestri di novità sono non solo ne- mici dell'autorità, ma nemici dell'uomo stesso. Tor- ni una volta la convinzione del vero in ogni petto cattolico: e cessate le incertezze ed i dubbi, saranno ancora cessati i danni ed i mali che logorano la so- cietà. Lo stupendo libro del Balmes intende a que- sto; e il cardinale Orioli, che ben conosceva gli u- mori delle teste dell'oggidì anche in Italia , volle metterlo sotto gli occhi degli italiani, perchè con- siderassero e si emendassero , se caduti in errore : se vacillanti, si rassodassero. Poteva egli fare un'opera tutta sua (che ognun sa quanta dottrina avesse), ma volle meglio tradurre quella del dotto spagnuolo,forse per non mostrare di voler levarsi in cattedra, o avvo- catare, nella causa della chiesa romana, la propria; e così meglio giovare la religione, il sacro suo ordine e la nazione, ed acquistarsi novello titolo alla rico- noscenza dell'universale. Potrei ancora in questo luo- go altre sue scritture ricordare, fra le quali alquan- te dissertazioni ch'ei lesse nell'accademia di religione, di cui era segretario, le quali udite levarono gran- de grido per tutta Roma; ma volentieri me ne passo, per non uscire della brevità che al mio ragionamen- to è prescritta. Salito al trono di s. Pietro il glorioso Pio IX, il quale aveva ben conte le virtù e il sapere dell'emi- nentissimo Orioli, lo nominò tosto prefetto della sa- cra congregazione dei vescovi e regolari, ove tutti gl'interessi del clero cattolico mettono capo. Poi so- 187 pravveniUe le calamità, che ancora ne sgomentano della memoria, e costretto il vicario di Cristo sot- trarsi dalla furia de'tempi, e siparare al regno vicino di Napoli, l'Orioli poco appresso il seguì, ancorché fosse a mal termine di salute e in punto di perico- lare; né mai sostenne dipartirsi dal fianco di lui; ma ne consolava l'esilio , e richiesto non cessava pre- stargli buona opera, e sani consigli di prudenza e moderazione. Quetata la fortunosa tempesta, veniva appresso al pontefice restituitosi al Vaticano, e ritor- nava alla sua prefettura, e alle altre congrezioni alle quali apparteneva, lieto di portersi di nuovo mette- re dentro il suo dilettissimo chiostro, ove si viveva in tanta modestia che non si potrebbe dire a parole. Ben si può dire che a questa teneva dietro una continuata esaltazione, perchè i grandi nou isdegna- vano visitarlo, gli stranieri ambivano parlargli, e ogni suo detto, ogni suo consiglio avevano in conto gran- dissimo. Lui ricercavano a socio le accademie, lui domandavano a protettore gli ordini religiosi, e fra questi l'ordine vostro, RR. PP. capuccini , che qui della vostra presenza avete voluto onorarmi perchè non mancasse a quella grande anima segno alcuno della vostra riconoscenza: gli suoi stessi minori con- ventuali sotto la sua protezione si mettevano. I qua- li al certo egli amò sempre come fratelli, né altro meglio al mondo volle o cercò, che lo splendore e la gloria di quell'istituto , al quale egli giovinetto con tanto fervore era entrato. Fu vescovo, fu car- dinale; ma vescovo e cardinale fu sempre figliuolo del patriarca Francesco; né la porpora, che lo met- teva fra i principi della chiesa e del mondo , potè 188 tanto da distaccarne il cuore dalla regola del sera- fino d'Assisi. Potrei qui recare a prova della verità molti fatti; ma questo solo mi basti, che essendo l'ul- timo, sarà come suggello degli altri. Doveva l'ordine de'mlnori conventuali eleggere il nuovo ministro ge- nerale, che a cento altri succedesse. Posto a presie- dere la veneranda adunanza in nome del pontefice era il cardinale OrioU, il quale zelando la gloria della sua religione tutti accoglieva, a tutti era largo di carezze e di consigli. Anzi in quel consesso ben si parve tutta la sua sapienza, parlando ora a con- forto, ora ad esortazione, ora in una, ora in un'al- tra favella , con quella vena d'eloquenza che può bene ammirarsi, non essere agevolmente in carta ri- tratta. E quando all'alto officio fu eletto a pieni suf- fragi il reverendissimo padre maestro Giacinto Gua- lerni, definitore generale, lume bellissimo dell'ordine, rettore e reggente del collegio di san Bonaventura, procuratore generale delle missioni, esaminatore dei ■vescovi e del clero romano, di quella scelta il car- dinale, che n'era tenerissimo, in prima si rallegrò, poi tutti gli altri, i quali bene scorgevano la mano del Signore in quella elezione , in cui non solo il merito dell'eletto, ma l'ordine intero veniva innalza- to. Chi vide mai più lieto il cardinale Orioli , che quando lui presente il novello ministro generale si prostrò ai piedi del successore di Pietro, e con umi- li e cordiali detti raccomandò sé e i suoi religiosi fratelli ? Certo a lui si leggeva sul volto tutta l'alle- grezza dell'anima, allorché l'augusto Pio IX con at- to di pontefice e padre rispose al medesimo quelle gravi e solenni parole, che mi giova qui ripetere : 189 OGNI DI'PIU' SI CONOSCE LA NECESSITA' DE- GLI ORDINI MONASTICI NELLA CHIESA CAT- TOLICA: parole che forse il secolo, non curante del Tcro bene, sprezzerà, ma tutti i credenti scriveran- no nel fondo del cuore. « Ricorderò (1) con gioia dell'animo in tutta la mia vita (scrive nno de'padri che in quel venerando consesso sedettero) le lagrime che bagnarono ieri le mie gote alle ultime parole tenerissime, che a tutti i padri congregati con tan- to affetto indirizzò sua eminenza reverendissima il sig. car-dinale Orioli protettore, onore e gloria del- l'ordine, e quelle che nell'accommiatare tutti i suoi antichi fratelli e protetti pur esso versò l'eminentis- simo porporato, che alla mente e alla scienza del se- rafico dottore accoppia il cuore amantissimo dello stimmatizzato patriarca. « Sono queste cose vera- mente da ricordare, perchè e la bontà dell'animo del cardinale Orioli, e il suo caldissimo e perpetuo affetto all'ordine chiaiamente dimostrano. Così gli fosse ancora durata la vita, che altre potenti prove d'amore avrebbegli dato ! Ma la sua salute, che da gran tempo non era buona, andava ogni di più de- clinando, e le non intromesse fatiche gli consuma- vano sordamente la vita. Infermava il 12 del febbra- io: la malattia non si mostrava minacciosa , pareva anzi desse speranza di bene; ma d'improvviso toglie- valo a Roma, a'suoi fratelli , e al mondo cattolico. Fu veramente giorno di lutto il 20 febbraio quan- (1) Leggasi la lederà che precede il libro - Regola del terz'or- diiic di s. Francesco illustrala e spiegala per Fr. F. M. - Roma ti- pograli;» Salviucci 1851. 190 do si die voce della sua morte, e tulli l'ebbero per pubblica sventura , e uè piansero e cordogliarouo: ultimo tributo al suo merito e a tante sue rare virtù ! Ma non fu giorno di pianto per lui; la sua dot- trina e il suo cuore benefico, che gli avevano dato sedere fra i principi della chiesa militante, gli da- ran luogo fra quelli della chiesa trionfante. Già alle soglie del cielo l'aspettano col suo serafico dottore il suo stimmatizzato patriarca, e quanti beati ha que- sto glorioso ordine de'minori. Sette pontefici, trenta- tré cardinali, vescovi e grandi prelati, si affrettano ad incontrarlo: e più d'ogni altro pieno di celestiale affetto lo attende quel suo padre Giuseppe de Bonis, che egli accompagnò nell'esilio, e costretto a divi- dersi da lui, soccorse generosamente insino all'ulti- mo , con lunga schiera di quegli esuli venerandi. Già a me par di vedeie le iterate accoglienze, e quasi udirne le parole. Sì: egli raccomanda al suo fondatore i suoi figliuoli , di loro si loda , e prega perchè all'antico splendore li ritorni. Rallegratevi , incliti figliuoli del gran patriarca Francesco, oggi di voi si parla in cielo, e il santo abito vostro fe- steggiasi. Uallegralevi e riprendete animo per reg- gere alla battaglia del mondo. Si leveranno le po- testà d'inferno, ma non prevarranno. Voi porterete, voi insegnerete la fede fino agli ultimi confini del- la terra; e come la croce, che fu vista in ispirilo u- scir della bocca del padre vostro, dall'un polo all'al- tro vi stenderete, Armatevi di fortezza per combat- tere, di dotlrina per illuminare, di carità per trion- fare; e se venuti alla prova pur di voi diffidate, pren- dete coraggio componendovi allo specchio delle vir- 191 lù del vostro porporato fratello, del quale fin qui ho cercalo mostrarvi la bontà della mente e del cuore. Commento di un sonetto del conte Giovanni Marchetti. u. n bel sonetto vale un lungo poema; questa sen- tenza di Boileau si avrà da tutti per vera, quante volte si consideri che molte e assai diffìcili condi- zioni concorrono alla compiuta bellezza d'un sonetto. Egli deve mirare ad un fine nobilissimo e al tutto conveniente alla dignità dell'umana natura; egli deve aggiungere al suo fine con eletti e ben accomodati pensieri l'uno all'altro legati in uuiià di concetto, e tutti adorni di grazia e decoro; egli deve accogliere in sé quella candidezza di lingua , quella eleganza di modi, quella leggiadiia di figure, proprietà della lirica poesia. Di siffatti pregi a me è paruto che tra gli altri vada fornito a dovizia il sonetto del conte Marchetti indirizzato a giovane sposa che incomin- « Quando verrà che d'innocente figlio » la cui let- tura mi ha porta occasione di farvi sopra alquante considerazioni, le quali mi piace d'esporre, non già perchè creda che le medesime non si presentino spontanee alla mente di chiunque legga quel sonet- to; ma perchè il mio cuore sente qualche sollievo onorando, per quanto è in me, la memoi ia di quel celebre poeta ahi ! troppo presto rapito alla povera Italia, ed all'amore degli amici ed ammiratori di lui, fra i quali io mi vanto non essere slato degli ultimi. Ecco il sonetto; 192 Alla sposa Quando verrà che d'innocente figlio Dal caro labbro ti discenda al core Nome soave, il tuo materno amore Tenga, o gentil, con tua virlii consiglio. L'una dia tosto a saldo fren di piglio, E parta col fanciullo i passi e l'ore; L'altro intanto di lei tempri il rigore, E caramente rassereni il ciglio. Qnella nel ben disposto e molle petto Nobili sensi ed alte leggi imprima; Questi di dolce asperga ogni suo detto. Così non schivo in pria, lieto di poi Uom sorge ad ardua ed onorata cima; Così donna si fa madre d'eroi. Come ognuno ben vede, questo componimento non è di quelli, che soglionsi fare per nozze a fine di sdebitarsi di qualche obbligo, o di soddisfare al- l'altiui desiderio, i quali per lo più non risplendono di vera bellezza: ma è tale che compiutamente adem- pie l'ufficio, a cui è ordinata la poesia, di ammae- strare cioè per via del diletto , checché ne dicano coloro, i quali la vorrebbero a questo solo ristretta. Di certo non poteva cadere in animo a poeta avente a favellare di sponsalizie materia più acconcia ed istruttiva dell'educazione dei figli , importantissimo argomento, da cui dipende la domestica pace e pro- sperità, la salute delle città e dei regni; né si po- teva in sì breve giro di parole comprendere meglio, di quel che ha fatto il Marchetti, il vastissimo tema, 493 oggetto di molte e calorose disputazioni tra gli uo- mini. In opera d'educazione , come pur troppo in moltissime altre materie, avviene che dai disputanti si trasmodi oltre il giusto segno: perciocché osser- vando taluni i mali efifetti di un dato sistema si con- sigliano di porvi riparo appigliandosi all'opposto, di- mentichi o non curanti che puie può esservi un co- tale temperamento, pel quale togliendosi con discre- zione il buono dove dimora, si venga a formare nn terzo sistema degli altri in tanto migliore, in quanto che si compone del meglio qua e là raccolto, e molto può conferire alla conciliazione delle parti discor- danti. Credevasi un tempo che ad educare i fanciulli non si potesse fare a meno della sferza e del severo cipiglio: perchè considerandosi quanto le passioni e male tendenze fossero malagevoli ad infrenarsi e vin- cere, reputavasi il solo timore essere da tanto; e cre- devasi eziandio fosse mestieri che i genitori, a voler conservare sopra i figliuoli tutta l'autorità a loro ne- cessaria , si tenessero in un certo contegno e direi quasi involti in una nube misteriosa che li togliesse alla vista loro, perciocché famigliarità toglie reve- renza. Ma siffatti eccessi non potevano produrre buoni effetti; si avvisarono dai filosofi gl'inconvenienti di questa maniera di educazione, e divennero tema a molte esagerazioni, gridandosi da ogni parte che l'uo- mo non è una bestia da governarsi col bastone , ch'egli è dotato di mente e di cuore, che il timore genera l'avvilimento o la finzione, e se infrena gl'im- peti degli affetti disordinati, non li corregge e riduce al bene : onde scosso una volta il giogo da quello imposto, correre i giovani sbrigaliti nei liberi campi G.A.T.CXXV1I. 13 ìa4 delle voluttà , o rompere malvagi aJ ogni vizio e tergogna. Si bandia quindi la croce addosso al vec- chio metodo , e si bandiva allorquando il mondo, preso come da febbre ardentisisima, volgeva la mano a distruggere senza discernimento lutto quanto era d'antico, e con isforzi impotenti, quasi novello Nem- brotte, divisava d'innalzare un nuoto grandioso edi- fizio ripromettendosene quella perfezione , che in- daino si cerca quaggiù dall' uomo. Allora sorsero i lodatori di quell'dltrai maniera d'educazione, che po- sta in bando ogni idea d'autorità, di timore e reve- retì^a, insegnava doversi col solo argomento dell'amo- rfe condurre i fanciulli, e poterli così a proprio ta- lento governare; la quale nuova dottrina abbacinan- do le menti col fascino di una idea sì gioconda , quale è quella dell' amore, fu accolta dai genitori con lietissimo viso e tostamente messa in effetto. In- tanto infievolivasi 1' autorità . le dolci ed amorevoli parole ed ammonizioni nulla valevano contro gli as' salti delle gagliarde passioni: e la giovinezza cresce* va disfrenala, indocile e caparbia; ridotto il pilota, cui nullo più ubbidisce, a mirare la mal governata iiave prossima a rompere ad uno scoglio, od a som- iuergersi nei flutti di un pelago agitato e furente. Si scosse la civil compagnia e perturbossi a tanto danno, e volle taluno indagarne la cagione e il ri- medio; rinvenutili, si additarono per norma de' pa- renti dà parecchi scrittori, i quali però non trova- rono intera fede, o perchè essi pure trasmodarono in eccesso, o perchè gli uomini non erano al tutto fatti espelli della verità, o disposti a riceverla. Il Marchetti piglia ad instruire la giovane sposa 195 intorno agli obblighi, che la stringono quando sarà madre, e saviamente non elegge l'uno o l'altro de- gli accennati metodi, ma d'ambidue facendone vmo solo, per guisa che ne nasce quel desiderato tempe- ramento, di che ho sopra detto, quello le mostra ed esortala ad abbracciare. Non ridorderò coli' antico filosofo, che madre interamente non è colei, la quale volenterosa nega ai figli i primi uffìci che la natura palesemente volle a lei assegnati : ma seguendo il nostro poeta dirò, che alla madre si rivolge il fanciullo colla pri- ma parola che il labbro sa formare, a lei si rivolge per chiederle non solo le carezze ed i baci , ma quelle amorose materne cure, che debbono formare il suo cuore. Non sia ella sorda a queste tenere voci, non tradisca le speranze dell' innocente, non renda vani gli ordinamenti della provvidenza. Ma perchè l'amore materno non le faccia velo all'intelletto ella si consigli colla sua virtù, studiando di porre l'una coir altro in un perfetto accordo, acciocché cospi- rino uniti al conseguimento del fine desiderato, che esser deve l'ottima istituzione della prole. Ed è per questa ragione che non conviene mandare a marito le donzelle ignare dell'ufficio e degli obblighi che esse corrono , e sprovvedute dei necessari ammae- stramenti, .se vuoisi che la generazione avvenire rie- sca virtuosa e tale, che ristorare possa l'umana fa- miglia delle tante patite calamità. Alla madre più che al padre è affidata la pri- ma educazione; a lei spetta d'informare il cuore te- nerello dei tìgli, e deve per conseguente adoperando un saldo freno reggerne i passi ed essere loro fedele 196 compagna a tulle le ore; badando che anco per po- chi istanti non gustino quella insidiosa libertà, che facendoli accorti del freno glielo rende poi aspro e tormentoso, sì che divengono ritrosi, collerici ed inob- bedienti. Ma non li sgomentino, giovine sposa, que- ste mie parole; io non sono maestro di austeri pre- cetti , che contrastino agli affetti del tuo cuore ; il freno che ti si pone in mano deve essere soave, e tu lo allenterai o stringerai amorosamente, sicché, senza quasi se ne avveggano, lu possa a tuo piacere con- durre i figliuoli. So che in questo tempo non è mestieri (e me ne gode l'animo) di i accomandare caldamente alle madri che temprino il rigore colle tenerezze del ma- terno affetto; perchè se v'ha peccato, sta appunto in questo che le madri si lascino trasportare dall'amore ad una colpevole condescendenza, ingannate talvolta dalla fallace speranza di potere, quando i fanciulli sono cresciuti in età, metter mano a quel freno, a cui non vollero adusiMli tenerelli, o vinte al timore che contrastando alle loio voglie si rechi nocumento alla salute Oh speranza e timore perniciosissimi, che tante infelici hanno sedotte, e tanto guasto menato I Malagevole è raddrizzare il ramo cresciuto torto , malagevole assuefare al morso il destriero, clie corse per anni libero nei campi ! E ufficio del padre, si dirà, l'attendere all'educazione dei figli venuti innanzi negli anni. Questo è vero; ma spetta alla donna di dare la prima mano al lavoro: a lei meglio s'addice, poiché le è dato leggere per entro al cuore de' fan- ciulli, più che ad ogni altro coniprenderne l'indole, e colla vicendevolezza dell'amore signorerigiarae l'ani- 197 mo, e rendere perfino gradita la stessa autorità. Che se la naadre non prepara e dispone il cuore de' fi- gli all'educazione che riceveranno dal padre, come potrà questi riuscire a lodevole fine ? Non si disgiun- ga pertanto 1' una cosa dall'altra ; voglio dire non si riserbi la madre le sole parti amorose, lasciando al marito o ad altri la cura dell'educare : percioc- ché allora le materne tenerezze divengono un mici- diale veleno, impediscono l'opera altrui e ne rendo- no inutili gli sforzi, odiosi i precetti. La divina prov- videnza, che il tutto ha sì sapientemente ordinalo, ha messo nei figli un grandissimo amore verso chi li nutre nell'infanzia, e tante cure spende nell'alle- varli. Diffatti a cui primo sorride il fanciullo ancora in fasce ? a qual seno rifugge se qualche molestia o dolore lo affligga ? Eccoli adunque, o madre, un campo vergine che il cielo li ha dato a coltivare j non ti sgomentino le fatiche, che ne avrai un lar- ghissimo compenso. Gittavi sollecita con mano pru- dente buoni e fecondi semi, prima che altri ve ne sparga di malvagi, o crescano le male erbe che im- pediranno ai tuoi semi di fruttificare; assidua cultri- ce lavora il tuo vago campicello , se vuoi buona messe alla stagione del ricolto. Ma forse si doman- derà. E ella la madre una schiava, che tutta intenta all'allevamento della prole non possa nemmen per un istante discostarsene dal fianco, e debba privarsi d'ogni anche onesto diletto e ristoro ? Oh donna, se hai sentimento della tua dignità, se bene intendi qua- le sia la parte che ti è assegnata in questa terra , quanto bene tu possa recare alla tua casa ed alla tua città , quante consolazioni non fuggevoli come 198 i sollazzi mondani , ma durature e \eraci ti sieno serbate, io son certo che non sentirai pena di siffal- te privazioni, e leggero e quasi direi dolce ti sem- brerà il peso che ti vieiie posto sulle spalle! La mi- sura dell'amore, dice un sapiente, sono le fatiche che si pigliano e sostengono in benefìcio dell'amore. Ol- tracciò non è da intendersi la cosa sì strettamente^ che se mala voce si hanno quelle madri, le quali abbandonano la loro prole a mercenarie feminelle, il più delle volte «orrott^ e corrorapitrici, sempre poi ignoranti di ogni buona disciplina , non meritano però rimprovero quelle, che fatta un'accurata e giu- diziosa scelta s'alleviano alcun poco deJropera altrui, purché la somma delle cose e 1^ direziona non esca giammai dalle loro mani. 'Sarà forse anoorn qualcua«» che dirà: A che giova- no tante brighe, se i fanciulli abbiano da natura sor- tito indole malvagia, o catitiv^e disposizioni, ed inatr tituzi,afl!(Jo|e cJ^e avrà consolazione di prole, ed v^irà quani^pche^^^ chiamarsi col soave nome di madre; e quindi cq- mincia ad ammaestrarla di quanto è mestieri cUe faccia, se vuole riuscire a lieto fine nell'edueameuto della prole. Coll'aggiunto innocente attribuito a figlio 200 ha significato come la madre dove inlraprenderne to- sto l'educazione, prima che altri vi ponga la mano o le passioni, per piccole che sieno o di poca ira- portanza, raeltanvi radice. Quanto poetico è il dire che il materno amore deve tenere consiglie colla virtù! E qui si noti che il poeta dicendo TUA virtù, pre- suppone che nella giovine sposa sia quella virtù che ad una madre si conviene. Ma a mio giudizio vin- ce ogni altra bellezza di questo sonetto quel parta col fanciullo i passi e Vore; dove magistralmente è dimostrato siccome la madre deve immedesimarsi , direi quasi, col figlio e muoversi e respirare e vi- vere insomma con lui e in lui. Affettuoso sì è il verso 4.° del secondo quadernario , che esprime il modo, onde la madre deve mitigare il rigore del- l'autorità rasserenando caramente il ciglio, cioè ac- compagnando i suoi atti e le sue parole con un vol- to sereno ed amorevole, che renda graziosi ed ac- cetti gli uni e le altre. Bellissimo è pure il verso — Così non schivo in pria, lieto di poi — perchè rin- chiude in sé molti documenti, che malagevole si era esprimere in poche parole. Ma ciò che sovra ogni altra cosa è degno di considerazione e di lode è il concatenamento dei pensieri, e l'ordine logico, nel quale sono disposti. Tostochè la sposa diventa ma- dre deve studiare di contempcrare l'affetto colla vir- tù di madre savia e prudente. Questa le porrà in mano un freno,, quello ne lo renderà grato e pia- cevole. Preparato così l'animo del figlio, la madre virtuosa vi metterà dentro nobili sentimenti e fe- condi prìncipii , la madre amorevole aspergerà di dolce ogni sua parola. Per tale guisa l'uomo non lilroso in prima, poscia lieto, cammina nel senSiero della virtù non arrestandosi incontro ajjli ostacoli , che per avcntura si attraversino al suo corso, e giun- jje alla desiderata meta; per tale guisa la donna si fa madre d'uomini valorosi e degni di gloria. Non v'ha vocabolo o frase che disdica a questo genere di componimenti; tutto spira grazia e venustà, tutto vi procede spontaneo, semplice ed uno. Oh perchè più spesso non si rellegra Italia di somiglianti poesie! ENRICO SASSOLI. Discorso filosofico nella occasione che pubbli cav ansi a Roma gli opuscoli inediti del cardinale Sigi- smondo Gerdil harnabila D. 'opo venti volumi di opere svariatissime e nobi- lissime rimanevano inediti alquanti opuscoli del car- dinal Sigismondo Gerdil: che in parte hanno veduto la luce sul declinare dell'anno passato, e fu per la diligenza e sollecitudine del eh. p. Vercellone; a cui dobbiamo altresì le preziose lezioni del p. Ungarelli De novo testamento^ pev non dire de'Iavori suoi propri, e del troppo più che ponno aspettare da lui gli studi biblici e la fama d'Italia per questo lato. Se si trat- tasse d'uno scrittore meno eccellente e maraviglioso del Gerdil, ovvero se il costui merito rarissimo e in questi ultimi cento anni singolare fosse in tutt'altro che nella filosofia e teologia, forse mi sarei consi- gliato di darmi vinto, come s'usa dire, alla fortuna; né oserei venir in pubblico a raccomandare i saggi, per avventura più corti e men grandiosi d'un au- 202 tore, le cui opere principali, ed i libri più magni- fici e specchiati sono dopo quasi un secolo ignoti ancora al nostro paese. Ma poiché la sua penna fu soprattutto esercitata in quelle due scienze, alle quali l'antichità non pure è un pregio ma solidissimo fon- dfimento, e dove non occorre guardare alla data più o meno recente per definire la bontà delle dottrine e la perfezione e slabilità de' sistemi, io non ho che temere della mia riputazione o convenienza, se di- chiaro che, a giudizio mio, infinito guadagno avreb- bero fatto in queste parti le due scienze sorelle, qua- lunque \olta il GerdiI fosse incominciato di buona ora a correre per la bocca e per le mani de' mae- stri. Qi,iando io torno col pensiero a quel diluvio di soldati e di libri francesi , che a memoria de' con- temporanei si prestavano gli esempi a opprimere e gli aiuti a tiranneggiare la patria nostra , mi pare al tutto innegabile che gli scritti del cardinale, non solamente nuovi di zecca a quel tempo, ma inoltre nati fatti per quello , e tutti nella grande copia e varietà che sono, a quel tempo e alle dominanti fol- lie scienti ficlie contrapposti e assestati,avrebbero fatto, se non vogliamo dire un grand'argine, certo un tal riparo o intoppo e ritardo all'impeto delle teoriche oltramontane. E tuttavia non sarà poco, se a un teo- logo e filosofo così grande valga pur finalmente il suo diritto a' dì nostri, quando per ispecial provvi- denza e favore divino non veggiamo più arrivare a noi i libri stranieri sulla punta delle baionette. Ma dopo alquanti anni di predominio e di possesso gl'in- vasori, obbligati a ritirarsi dalle pretese e dal con- quisto, lasciano dietro a sé non pure i vestigi della 203 tenibile impresa, ma ben anche una tal propagine di se medesimi, e di quel tanto, fosse bene o male, che irrompendo portarono. E ciò mi conturba al- quanto le speranze e l'ardire; perchè sembrami di vedere la congettura incarnata ne' fatti, e quello, che ayfei potuto temere genericamente di parecchi ita- liani , avverato dalla comune degli autori nostrali. Cosi riguardo alla filosofia (salvo sempre le dovute onorifiche eccezioni) io credo e tengo per certo, che da quella epoca in poi lo spirito tradizionale si pro- prio della scienza, e la stima de' rarissimi e solenni maestri che irraggiano, quasi stelle primarie , tutta Tantichità, sia mancata ognidì più e caduta in fondo. Sciagura non meno miserabile che indegna; né punto particolare a questo suolo, ma pressoché universale e dislesa sopra intera l'Europa: però siccome altro- ve da per tutto, così tra noi ancora, lo scetticismo trascendentale aon pose il piede, innanzichè dal sen- sismo gli fosse apparecchiata la strada. L'un sistema nell'altro era involto e inviluppato, come la pianta nella semenza : e il maggior divario, che possa am- mettersi fra Locke e Condillac da una parte, e Kant dall'altra, corrisponde a quello del villano dal pro- fessore , che abbiano uno l' arte e uno la scienza dell'agricoltura. Adunque dacché il sensismo padro- neggiò coll'arme e colla potenza altrui quasi asso- lutamente l'Italia, non dee far maraviglia questo te- tro e minaccioso barcollare tra il principio de' sen- sisti e quello de' trascendentali; e questa incertezza e volubilità di teoriche tanto evidente e palpabile ne' nostri libri di filosofia. Imperocché per vero dire io non sono niente soddisfatto delle proteste e delle va- 204 ghe dicerie degli autori contro quo' due falsi sistemi, ;i!lorchè veggo le loro confutazioni essere più in pa- role che in buoni argomenti, e piuttosto contro la logica che a danno degli avversari. La comune de' nostrali filosofi non pare sia convinta ancora, che a spiantare il pregiudizio favorevole al senso niente vi é a far meglio che sostenere e chiarire la realtà dell'idea; né che a impedire la imitazione di Kant , e le ulteriori trasformazioni del suo scetticismo, niu- na cosa può tanto conferire, quanto il mantenimento e la giustificazione scientifica della filosofia tradizio- nale, e di quell'autorità che legittimamente e natu- ralmente s'appartiene a' filosofi principali dell' anti- chità. La gran voga e la fortuna, prosperosa del pari che ingiusta, dell'eccletismo deve aver concorso non poco a moltiplicare e rinforzare la rovina di cui par- liamo: giacché la massima e quasi direi la formola degli eccletici, considerata per riguardo alla tradi- zione e alla storia della scienza, è proprio un vetro colorato imposto agli occhi della gente; il quale to- gliendo le differenze de'colori, viene a defraudare di una bella metà il frutto delle speculazioni di que- sto genere. Gl'intelletti superficiali non trovano nel precetto cusiniano che la esclusione di un sistema proprio, cioè la professione esplicita di non profes- sare verun sistema nella elaborazione riflessiva della scienza: ma chi va un poco più là coU'ingegno, ap- prende subito e per indubitato,- che gli eccletici ne- gando il sistema loro proprio negano al tempo slesso tutt'i sistemi de' vari filosofi, che più o meno avven- turosamente non furono eccletici. Di fatti le vedute o considerazioni sistematiche sono impossibili a co- 205 sloro che rifiutano ogni sistema; e d'altronde se voi studiale in Platone e in s. Agostino senza tener conto del pi'ocesso scientifico da questi due osservato nel basare e condurre la pianta della loro filosofia, ve- nite con ciò naedesimo a guastare l'opera di que' grandi uomini; e spogliandola, se così debbo dire, della forma, la convertite dinanzi a voi stessi, e a quelli che bonariamente vi seguono , in un mucchio di pietre incomposle , o meglio in un caos di materie disorganate e morte. Cosi io mi tengo certo che la grandissima confusione, in cui attualmente si ravvolge la filosofia e quelli ( co- munemente) che la insegnano e la professano, pro- venne soprattutto dalla scuoia francese, che ha tro- valo il gran mezzo di fare scomparire in un momen- to tutt' i sistemi ordinatori, e soli rischiaratori della dottrina scieniifica; in quella maniera che un grosso esercito, spoglialo delle insegne e delle divise che di- stinguon le parti, gitterebbe nella disperazione al mo- mento della battaglia quel generale , foss' anche il più esperto, che dovesse schierarlo in campo. Que- sto influsso nocevolissimo dell'ecclelismo vedesi aper- tamente nella conservazione de' due sistemi, a cui pur tutti maledicono a gola piena; del medico inglese e del professore di Konisberga. Chi si guardi un poco attorno per intendere che si pensi oggidì dalla mag- gior parte sulla natura ed origine delle umane co- gnizioni, quanti trova che non siano concordi in so- stanza co'principii di Locke ? Non già che molli am- meliano la possibilità della materia pensante, ovvero asseiiscauo che l'idea dell'infinito si risolve in quella del numero indefinito: o meno ancora, che neghino 206 l' idea di sostanza poter essere semplice: ma quanti ci hanno filosofi a' dì nostri , che pongano decisa- mente, dichiaratamente , definitamente, soUdamente la distinzione reale, sostanziale, essenziale, fisica, me- tafisica, assoluta, fra il senso e la intelligenza, tra la sensazione e l'idea? Or che semplicità è mai questa d'impugnare il sensismo mantenendolo e proteggen- dolo ? Non v' accorgete che voi negate al Locke il meno, e gli concedete il più ? non vedete che gli rifiutate qualche conseguenza , associandovi al suo principio ? Ma dove sta egli il sensismo in questo o in quelle ? Ecco perchè io penso che sono eccletici assai più di quelli che vogliono esserlo , o che si conoscono e si tengon per tali : noi riguardiamo, a cagion d'esempio , lo teorie sensistiche ciascheduna a sé e alla spicciolata, supponiamo che si trovino insieme per un puro caso, come gli ossami e le con- chiglie fossili: in somma tant'è che noi troviamo tutti gli assunti di questo genere, raccolti da una mede- sima penna, quanto se ne avessimo incontrato uno solo per volta in diversissimi autori, di date fra lo- ro distanti, e di metodo e di massime opposti. Po- niamo ora che l'eccletismo fosse più accreditato che non è, e meno ripugnante nella logica e nella scien- za di quello che è; non basterebbe a coprirlo di vi- tuperio e cacciarlo dal mondo la sola considerazione, che esso distrugge i sistemi con un oltraggio paten- te della natura; la quale coH'indoIe che ha dato agli ingegni , ha istituito una tendenza indeslruttibile a connettere nelle speculazioni i pronunziati riflessivi subbiettivi, come sono essenzialmente congiunti e con- nessi nel termine delPintuito i materiali obbiettivi I 207 «Ielle speculazioni medesime ? Né ci può esser dub- bio che questa tendenza non sia naturale, quand'essa si manifesta non solamente nelle opere degli scien- ziati sia buone e sia cattive; ma ben anche in tutte le arti per quello che si chiama stile, cioè modo co- stante di figurare, di condurre e di fornire i lavori; e in quelli più meschini degli uomini, che sono di ogni scienza e di ogni arte digiuni, si mostra pure sovrabbondantemente la ciò che non manca a nessu- no, voglio dire nel costume e nella vita; dove stì non intervenisse la detta tendenza, sarebbe capovol- ta tutla la società : essendo impossibile , chi neghi questa, di fidarsi di chicchessia o di presupporre al- cun fondamento al consorzio civile, non che a tran- quilla e salda amicizia. Donde si vede che ninna co- sa è tanto connaturale al pensiero umano quanto il sistema, e che niuna cosa é men convenevole alla natura che la professione di eccletico. Posto ciò, io voglio spelare che una sì orrenda mostruosità di da- ti e di metodo scientifico, qual é questa da cui fu puntellato il sensismo , debba quanto prima essere intesa e conosciuta molto più generalmente che in- smo a qui non è stata, e così ritorneremo a posse- dere il dettato, da cui dipende almeno almeno tutta là realtà dello scibile: che il senso non è la intelli- genza, e la sensazione non è l'idea. Né sarà picco- lo guadagno per li nostri trattati d'ideologia, se avre- mo da incominciare con una definizione negativa dell'idea, ponendo che idea è quello che non è sen- sazione; e che quello che non è senso, è intelligen- za. E quanta chiarezza non verrà da questo sempli- ce rudimento alla intera trattazione ? Imperocché 208 la maggiore oscurità e più nociva che possa occor- rere sopra qualsivoglia teorica è sempre quella che s'incontra a determinare l'oggetto della speculazione: perciò è che non solamente i buoni filosofi, ma tut- ti gli uomini che ebbero ed hanno una mezzana do- se di senso comune , credettero primaria fonte di luce e di chiarezza in qual si fosse tema venire dalla definizione. Al contrario i maestri moderni d'i- deologia se ne passano della definizione dell'obbietto proprio del loro trattato, come se la cosa fosse più incomoda che necessaria; e confondendo la perce- zione, che è qualunque atto dello spirito, coU'idea che è l'obbietto dell'intelligenza, asseriscono che l'i- dea molto meglio s'intende da chiunque di quello che possa essere definita da chicchessia. Il qual pro- cedere si dimostra assurdo pur facilmente in un'al- tra maniera. Chi può negare che Platone e Aristote- le, s. Agostino e s. Tommaso pensassero diversamen- te intorno all'idea e alle cognizioni degli uomini ? Or come potrebbe un maestro, tracciando la ideologia, credere il suo trattato applicabile indift'eienteraente a'difFerenti pensieri de'sopraddetti autori ? E se non è applicabile a'costoro pensieri, come potrà essere a quelli, chi sa quanto informi e strani, de'discepoli che circondano la sua cattedra ? E con tal sorta di discipline, chi potrà più dire di avere in iscuola stu- diato ideologia ? E chi sia obbligato a credere di non saper ideologia, che se ne farà della rimanente filosofia, la qnale a'tempi nostri non ha, potrei di- re, altro nemico, o almeno nessuno ne ha più per- tinace e orgoglioso, che lo scetticismo? E lo scettici- smo, a pari del sensismo, è assai più disteso, di quel- 209 lo che a prima vista non sembra. Tenete un altro regalo che avemmo daireccletismo. Io però innanzi di finire circa la sopravvivenza che ho voluto ac- cennare del basso genio sensistico, debbo dare alcun saggio , sia pure brevissimo, del merito stragrande di Sigismondo Gerdil in questo proposito , e della verità che ho affermato qui sopra, che le sue opere filosofiche, se a tempo fossero state divulgate e dif- fuse nel nostro paese, avrebbero contrastato con in- finito vantaggio a tanto progresso de'sensisti fra noi. Due grandi opere e laboratissime, e tirate con quel- . la imparzialità e severità logica che sempre distin- gue il mio cardinale, sonovi contro Locke nel ter- zo e quarto volume dell'edizione romana: dalle qua- li apparisce non dubbiamente, se io ben veggo, che i sensisti non hanno avuto mai un avversario (dopo s. Agostino per quelli antichi) così sagace e provve- duto e forte e pertinace e terribile siccome lui. Per il che mi fo ardito ancora di pregare i nostrali che hanno amore per la filosofìa, e la desiderano risto- rata e corretta, a promuovere con tutt'i mezzi e l'au- torità ch'ei ponno avere la ristampa, foss'anche una traduzione, di queste due opere, dettale in elegan- tissimo francese. Reciterò da prima una sua sentenza ehe si legge sul bel principio (*) delV Immateriaiitè de Vàme^ ed è questa: » L'esperienza ha dimostrato anche troppo, che il hbertinaggio e la irreligione sono le più volte effetto funesto della dissipazione degli spiriti, i quali come usciti di se medesimi, si spandono tutti sopra (*) Disc. Prcliin. ab iiiil. GA.T.CXXVU. 14 210 gli obbietti materiali e sensibili. Non si vuol negare che altri con siffatta disposizione riesca talvolta a procurarsi cognizioni sublimi , e a rendersi ancora gran geometra o solenne fisico; aia questi (ali non potranno mai addentrarsi ne' veri puramente intel- lettivi. Assuefatti a stimare la realtà delle cose dalla impressione semibile^ che esse fanno sulla immagi- nazione, contano per nulla tutto ciò che non ha del corporeo. » Con questo ricordo lasciatoci dal Gerdil possiamo risolvere molto sicuramente il problema oggidì capitale nella civil società; donde massimamen- te sieno slate causate le rivoluzioni crudeli e gli scandali politici de'tempi nostri. I più attribuiscono Si grandi e sì lunghi mali alle cagioni men propor- zionate e più discoste: non mancano quelli che ac- cusano il troppo sapere e i progressi della coltura; ma costoro non son certo, a parer mio, troppo eser- citati nella metafìsica; i progressi della quale appena si ponno spiegere altrimenti, che colla similitudine de'granchi quando si piglian paura. Il qual errore, comportabile per avventura agli altri, dee di neces- sità pesar grandemente a que' che professano o al- meno intendono la scienza; giacché a' più facoltosi e ricchi il perdere qualche cosa può avvenire senza notevole danno; ma un tapino, s' egli è spogliato e lasciato nudo, di che potrà egli sopperire ? Vorreste diminuiti i vantaggi della filosofia ? or se diminuite ancora lo stato suo , che le rimarrà più olire ? Vi par forse ricca di troppo la scienza, perchè s'inse- gna ancora comunemente la spiritualità dell'anima, eia unità e provvidenza di Dio ? ciò sarebbe porre tra gli uomini doviziosi il più afflitto n'eudico, per- 211 che gli resta la vita e la facoltà ragionevole. Se non che dovete avvertire di più, che assai probabilmente questo residuo di bene saria malconcio e attenuato ancor esso, qualunque volta non ci fosse stato per guarentirlo il catechismo della chiesa e la grazia e la virtù della fede cattolica: la quale essendo dal suo divino autore instituita al ristorameuto e perfeziona- mento dell'umanità, contiene pure il rudimento com- piuto della ragione in parte delle formole soprana- lurali e dommatiche. Adunque la filosofia che ci ri- mane , intendendo di quella che tiene il campo ed è come di pubblico diritto, non è niente più che ii ceppo e la radice della filosofia : né si può tener conto delle innumerevoli fantasime, che nella testa e ne' libri degli oltramantani filosofi dominanti, in- viluppano e confondono quell'avanzo, che abbiamo detto, di metafisica. Dalle quali cose ricavasi legger- mente, che se la condizione attuale della scienza vie- ne incolpata degli ultimi errori e sfrenatezze sociali, non si dee già capire che la condizione migliorata di quella abbia menato seco la pazzia fra i popoli; ma bensì al contrario, che i danni della filosofia pro- dussero i pericoli delle sovvertite popolazioni: altri- menti convien dire che ci manca il supposto, e ol- tre a ciò si stabilisce la massima, che la cagione più verisimile delle tenebre sta nella luce. Quanto alla disposizione degli spiriti, alla quale il nostro autore fa carico di sì malvagi effetti , è chiaro ch'ella consiste nella esorbitanza analitica. E veramente allorché l'analisi diviene padrona assoluta degli intelletti, e governatrice dispotica degli studi, ne deriva ineluttabilmente quel doppio disordine eh' 2i2 e^li accenna coirespressioni più brevi , ma insieme più dichiarate e appropriate che si possa desiderare. Primieramente uno spirito di questa tempera cade iu tanta dissipazione, che egli sembri né più, né meno uscito di sé medesimo ; dacché, s' ei si raccoghe e concentra meditando, questo fa unicamente sopra i fatti esteriori e sensibili. Anche quelH (fra costoro ) che attendono agh studi filosofici e alla psicologia ^ non pure sono abituati, ma sono propriamente nella necessità di occuparsi de'sensibili, e in ispezialità de' sensibili esterni. Imperocché le facoltà dell'anima es- sendo sol manifeste nelle apprensioni loro, e queste essendo tanto più semplici, quanto meno tengono del- l'esteriore, e meno dipendono dall'organismo, conse- guita apertamente che il trasporto di questi tali ad analizzare e a risolvere é di sua natura indirizzalo alle operazioni psicologiche meno semplici, quali so- no le terminate al di fuori. Le meditazioni in vece puramente intellettuali, dove non interviene di sen- sibile che l'applicazione semplicissima della mente , deono riuscire per ogni titolo importune e gravose al genio dell'analisi, come campo per lui poco pratica- bile , e meno fruttuoso; e si nutriscono sopra tutto e crescono per la sintesi; la quale, siccome ha il pre- gio essenziale di non alterare gli oggetti , nella cui contemplazione si travaglia, così torna accomodatis- sima ed elficacissima nella ricerca de'veri più liberi dall'influsso del senso, cioè metafisici. E la ragione si è questa. Semprechè uomo conosce, ossia appren- de il vero non evidenzialmente, egli ha bisogno di un mezzotermine, coiiie dicono i loici; or quando V apprensione intellettiva si adempie sotto l'influsso di Ì13! qualche altra potenza, per esempio di un sentimento esteriore, o della parola e testimonio altrui , questa potenza, quasi direi, ausiliatrice presta essa medesi- ma l'uflìcio di mezzotermine, e conduce l'intelletto a quel tal vero di ordine fisico o morale : né già è me- stieri che l'influsso di quest'altra potenza sia sempre immediato, ma basta che intervenga somministrando le apprensioni fondamentali, da cui le altre tutte pro- cedono ; secondochè avviene delle matematiche , le quali non istanno né ponno slare nell'ordine meta- fisico del sapere, a cagione de'dati sui quali si ap- poggiano, cioè dire la limitazione dello spazio e la divisione del tempo; le quali due cose essendo co- nosciute elementarmente sotto l' influsso del senso , non escono (rigorosamente parlando) dall'ordine delle cognizioni fisiche, allorché entrando nel dominio della scienza prendono forma generale ed astratta. Al con- trario le investigazioni metafisiche non ammettono ausiliari stranieri nelle fatiche intellettuali ; e però chi vuole aiuto di mezzi termini , dee cercarlo dal lato obbiettivo, e nell'aggrandire il campo della sua visuale; affinché l'obbietto della speculazione presen- tandosi fiancheggiato e contornato da'suoi vicini , e non già isolato e nudo come si offrirebbe all'analisi, ci metta per sé medesimo innanzi agli occhi una mol- tiplicità di relazioni, esistenti fra esso e i suoi com- pagni, dalle quali possiamo cavare i rapporti specia- li, che deono intavolare e mettere in piedi i nuovi sviluppi scientifici. Per questo il Cardinale dice in secondo luogo, che tal fatta di spiriti si assuefanno a stimare la realtà delle cose dalle impressioni sensi- bili; cioè dire, che dove il sensibile non campeggia, 214 gli analisi! si clisgfustano e si scoraggiano, come quelli che non hanno prova a faro; e ingannati agevolmen- te dal pregiudizio dell'abitudine, si sbrigano di quello che è puramente intelligibile, parte fingendoselo sen- sibile, e parte dichiarandolo menzogna o vanità. Fra gli scrittori e maestri di filosofia dell' età corrente appena vi ha qualcuno che non sia eccellente mo- dello a questo riguardo. Trascriverò della medesima opera quest'altro (*) passaggio : « Generalmente par- lando, egli è evidente che la bellezza de'corpi, con- siderata ne'corpi medesimi, non può consistere che in un tal collocamento di parti, disposte secondo certe proporzioni. Or io affermo che questo collocamento non può dare alle parti, componenti il tutto così or- dinalo, alcuna perfezione reale ed intrinseca, la qua- le elle non avessero prima ; e pei" conseguenza nep- pure al tutto, che da quelle parti risulta, né si distin- gue dalle parti componenti, E di vero le parti della materia per il loro diverso ordinamento non acqui- stano, parlando a rigore, che diverse combinazioni o relazioni locali : né una semplice relazione locale aggiunge alcun grado di entità o di perfezione in- trinseca a qualchesiasi parte della materia, rimanen- do questa invariatamente la stessa, o che una parte all'altra si avvicini, o si allontani, o che sia messa a destra o a sinistra. Non vi ha dunque ne'corpi altra bellezza se non in quanto ei portano in sé la im- pronta dell'arte, e della sapienza, e della intelligenza, che li ha formati: e pero la bellezza non è propria- mente che nell'idea, secondo la quale il corpo è stato (*) Ivi, Par. C, scct. I, § 8. 215 composto. In questa idea si trova l'incanto e la per- fezione della bellezza : e la bellezza del corpo non è che il rapporto, che esso ha. a cagione della dispo- sizione delle sue parti, con quest'idea sulla quale esse dovettero esser disposte, affinchè il corpo si dicesse bello. Il che diviene ancor più manifesto se si con- sidera come i colori, la cui varietà e conveniente di- stribuzione fa spiccar tanto la bellezza degli oggetti, e ce la rende cos\ piacevele, questi colori, io dico , non sono che nell'anima, né havvi nei corpi che una certa configurazione di parti capace di riflettere i raggi della luce ; i quali secondo il loro differente grado di rifrangibilità deouo eccitare in noi il sen- timento di questi colori. Così, a parlar propriamente, non evvi ne'corpi che la potenza di eccitare in noi r idea ed il sentimento del bello , per mezzo delle impressioni che essi fanno sul nostro organismo : ma la forma della bellezza non è punto in essi; secondo s. Agostino, la forma della bellezza è Punita (*). Ne' corpi non ha luogo vera unità, perchè le parti, che si uniscono a fare un tutto, niente perdono da quelle di prima, salvochè cessano di essere divise l'una dal- l'altre", né però dalla nuova loro collocazione e ac- cozzamento ponno avere alcuna realtà o perfezione che non avessero per l'innanzi Affinchè un tutto fosse più perfetto delle sue paili, farebbe d'uo- po che le sue parti si identificassero, e che tutta la realtà e perfezione, che in quelle tutte è dispersa, si riunissero in un tutto solo, semplice ed indivisibile. Ma ciò non può accadere ne'coipi : il che inferisce (*) Episl. 18. 216 come la detta forma della bellezza, la quale non è in alcuna delle singole parti del corpo appartate fra lo- ro, e che non di meno è una perfezione reale quan- to altra mai, non può essere effettuata realmente e intrinsecamenle in un cor[)o, anche quando tutte le sue parli sono disposte secondo le regole del bello. Se non che questa unità perfetta che costituisce la forma della bellezza, e che non potrebbe trovarsi in un tutto materiale , sta nella idea spirituale che lo rappresenta. In fatti non conosciamo i corpi imme- diatamente, e per sé stessi, come confessa il Locke medesimo: ma per la mediazione delle idee loro. Le idee dunque sono cose reali, distinte da'corpi, e che tuttavia li rappresentano. Per il che quando io ri- guardo una statua fatta secondo tutte le regole del- l'arte, non è già la statua materiale l'oggetto imme- diato del mio spirilo, che intellettivamente la con- templa; bensì è l'idea che me la rappresenta, e che io immediatamente percepisco. Or questa idea spiri- tuale che la rappresenta , e che è in sé stessa una e indivisibile, non la può rappresentare, se non in quanto che essa riunisce nella sua semplicità tutta la realtà delle differenti parti della statua con tutti i loro rapporti e proporzioni, e che queste cose rap- presenta allo spirito in un sol tutto. Questa idea per- tanto, la quale contiene in un modo semplice e in- divisibile tutta la realtà delle differenti parli (di un tutto) che ella rappresenta; giacché se non ne con- tenesse la realtà (*) non potrebbe rappresentarla; que- (*) Questo assunto è chiarito e comprovato di proposito in cento liioglii delle opere filosofiche dell'autore : io mi contento di citare la dissertazione sulla esistenza di Dio, e i PrincJpes mctanh. de b morale chrdt. ab init. 217 sta idea, dico, ha in sé stessa tutta la perfezione che avrebbe un tutto materiale, se le sue parti potessero mettere in comune la perfezione propria di ciasche- duna, e identificarsi in un sol tutto semplice e in- divisibile . . . Maravigliosa prerogativa delle idee , di rappresentare la materia senza contenerne formal- mente le proprietà; le quali per conseguenza esse deo- no contenere eminentemante , cioè dire averne la realtà senza averne i difetti. » Quei medesimi, che non aveano sino ad ora letto alcuna linea de'volumi gerdiliani , ponno da questo breve discorso su i due elementi del bello, che so- no l'intelligibile e il sensibile , slimare la copia e la solidità delle dottrine lasciateci dal carrofession che tenevano ? imperocché la naturai de- stinazione e l'indole primigenia delle cose può bensì essere violata in quello che s'appaitiene agli uomi- ni coH'abuso, cioè per difetto, della volontà libera e dell'arbitrio; ma non già essere violata senza perde- re lo stesso colpevole; e così quello che abbiam di- mostrato, quanto sia spontaneo tener dietro in filo- sofia alla buona e legiiima tradizione , conchiude nel medesimo tempo per la necessità di ciò fare e la pena certa di chi si governa altrimenti. Ma oimè ! qual bisogno e quanto miserabile è questo, che abbiamo noi di giustificare la naturai neces- sità che hanno i filosofi della tradizione scientifica 1 Allorchè Pitagora e Platone andavano per viaggi lun- ghi e disagiati in cerca di savi e di dottrina; allor- ché il figliuol beatissimo di s. Monica rumigava sì tiavagliosamente i libri de' maestri passati ; allorché quegli altri tre luminari, di cui la chiesa e l'Italia si vanta, della cattolica filosofìa, raccoglievano fra le mine della età di mezzo e adoiiiavano per il lo- ro sterminato ingegno la sapienza eletta degli anti- 2.^6 chi; a nessuno cred'io cadeva in mente di porre una tesi, o disputare comechefosse, raccomandando o di- fendendo la tradizione scientifica: lutti che aspiravano a imparar metafisica, assoggettavaosi di buona vo- glia a ricercarla, e altignerla di fuori , senza pre- sumere di crearla da sé, cioè farsela secondo il pia- cere e il pensiero suo proprio: non si rifiutavano alla potestà di natura, da cui sentiausi portati a giudi- carla opera pubblica e non privala, della razza uma- na, non di ciascun individuo, di tutti i secoli, non della vita di un uomo. Pure le stagioni meno di- scoste da noi cangiaronsi da quelle di prima così fattamente , che la naturai traccia o è svanita o è smarrita almeno : tanto siamo esercitali a ributtare i pregiudizi, da far guerra in buona coscienza alla nativa propensione, e all'apprensione più spontanea e luculenta del vero: indegno trionfo di Emanuele Kant. Or che debbo io dire di quest'uomo, ingegno- sissimo per verità, ma di evidenza scarsissimo, e di logica poco meno ? Se mi viene permesso di par- lare come sento, io giudico che il primario errore di lui è quello che meno fu avvertito da moltissimi che l'hanno impugnato; e che Io scandalo infinito da lui lasciato al mondo fu imitato ed è ancora non da'suoi ammiratori soltanto, ma per colmo ed estre- mità di male da una gran parte degl' impugnatori medesimi. E la cosa non è senza esempi nella stes- sa età nostra. Quanti sono, i quali combattono Lo- cke, e sono sensisti! quanti che vituperano il Coii- sin, e sono eccletici! Chi oserà negare dopo ciò che loici e filosofi, seguitando le cose con questo piede, 247 sieno per diventare due {generazioni disparatissime, e i nomi loro due termini in contradizione ? Ma ra- jjioniamo un poco dello scetticismo altresì in par- ticolare, e sia per disobbligarmi della promessa che ho fatto più sopra. Generalmente fu creduto, che per isvergognare la metafisica, inventata dal professore di Konisber- ga, fosse necessario di smidollaie e poi ribattere le principali teoriche da lui ascritte alla ragion pura (titolo anch' esso tanto disadatto all' opera , quanto questa al suo scopoj: ma l'impresa, pare a me, che si può rendere ben più semplice ed agevole, e forse con assai maggior frutto. L' autore nel preambolo spiega senza né riguaido all'umanità, né rossore di sé medesimo, come era stato condotto a indovinare e cercai'e se metafisica fosse possibile, dal trovare neTilosofi del tempo andato null'aUro che contraddi- zione ; e come le differenze perpetue de' sistemi e delle scuole aveangli persuaso, che niun sistema po- tesse essere incontrovertibile, e niuna scuola prefe- ribile alle altre, né perfettibile in verun modo. Qual testimonio più certo di smarrimento ? o qual si po- trebbe immaginare smarrimento più frenetico e di- sperato di questo ? I sistemi de'fìlosofi. stanno in op- posizione ha loro! e che peiciò ? Dunque ogni vol- ta che due litiganti vennero davanti al magistrato, opponendosi e contrastandosi risolutamente , direte voi che lutti e due hanno il torto, per questo solo che lutti e due vantano per sé la ragione ? I filosofi sono in conlraddizione a vicenda ! Ma voi, di grazia, siete troppo facile a scandalezzarvi: e dove vorreste voi trovare una metafisica cosi fortunata , da nor^ 248 lasciar che opporre né aVIoUi né a^jlignoi-anti , né a'savi' né a'njali^ni ? Siete cristiano, e sapete che il vangelo è cosa divina : foi'sechè bastò questo per salvarlo dalle inj|iiirie scellerate de' contraddittori ? Buon per li santi apostoli, ch'erano slati pieniuniti dairantivegjjenza del Maestro, e aspettavano la con- traddizione piinia ancora d'averla incontrata! Voi pe- rò tenete l'occhio alle maleojatiche ; e vi pare che la filosofia senza ragione stia di sotto da quelle, per ciò che spetta alla concordia degli autori e dell'in- segnauiento: il qual pai-agone, scusatemi se ve lo di- co, non è da pari vostro^ e solo conferma, quel che deploriamo tutti , l'eirore in cui siete avvolto. 0 bisogna esser gian fatto per intendere che la mela- fisica , siccome scienza che definisce i principii, ed assorbe tutto il primo stadio dello sviluppo raziona- le, ottiene per ciò medesimo non pure la gloria di far valere essa sola tutte l'altre scienze, ma lo svan- taggio insieme di essere meno agevole e più tem- pestosa di tutte? E vaglia il vero: come si ponno terminare le dispute, tranne col mezzo de'principii e delle dottrine più alte? Se dunque avviene di re- care la quislione sui piincipii medesimi, chi non ve- de che i mezzi di tcrnjinarla divengono più o me- no ristretti e laboriosi ? Cade in acconcio lo stesso vostro libro di cui favelliamo; dove studiate, a mo' d'esempio, le idee del tempo e dello spazio. Pone- te per poco che i filosofi avvenire dovessero fare con la vostra teorica quel medesimo che voi fate con le dottrine di tutti i metafisici dell'antichità; po- nete ancora che sino alla fine del mondo (noi con- senta la munificenza di Dio) dovesse tra i filosofi du- I 249 rare la lite sopra questi due capitoli della ideolo- gia: mettereste voi perciò in dubbio la libertà e si- curezza de'malematici nel possedimento della scien- za loio ? Non vedete che i matematici hanno a cuo- re tutt'aUro che le quistioui ideologiche sullo spa- zio e sul tempo ? E se ei non le curano, donde ciò avviene menochè da' limiti della lor professione , la quale non attende a chiarire i principii, ma solo a usare e svolgere quelli che le appartengono ? E se i filosofi se ne travagliano, qual motivo hanno es- si, fuorché la vocazion loro, che è di chiarire e as- segnare le origini in ogni genere? Né voi avete nessun diritto a fare un aggravio alla metafisica di ciò che le conferisce splendoie e grado fra tutte le scienze; né molto meno avete diiitlo a biasimare la dialettica, perché non (rova sì facile di far servire le conclusioni a' principii, come le avviene sponta- neamente di tirare da'principii le conseguenze. Le scien- ze sono molte e di tempera svarìatissima; se a voi garbano più le matematiche, potete occuparvene di preferenza: ma voler trovare a piacer vostro questa o quella dote in una scienza o nell'altra, è un desi- derio cosi balzano e stiavagante, come tutti ponno vedere. Io confesso ben volentieri che il proposito di Kant nel dettare le sue opere fosse lodevolissimo , non che sincero e leale : tengo nulladimeno per in- negabile che egli abbia fatto cosa petulantissima e presuntuosissima, arrogando a sé medesimo il luogo ed il merito della tradizione scientifica da lui cal- pestata. Egli si tenne buono a giudicare se meta- fisica fosse possibile o no: perchè non credere buoni 250 nllresì. se non clobbiam diie tanto migliori, Pitajjo- le, Socrate, Platone, Aristotele ? 0 ponianio che si stimasse dappiù di costoro, i quali erano {jentili, per che cagione o per qual titolo digradò egli la filo- soiia della chiesa e dei suoi magnificentissimi dot- tori ? E qui non è luogo a citare le contraddizioni: .supponete ancora che tulli cotesti sommi o della gen- tilità o del cristianesimo si contraddicessero tulli e in lutto, cosa impossibile non che falsissima ; ei con- vennero, almeno in questo unanimemente, di asserite la metafisica, di sostenerla, di promuoverla, e cos'i posero per indubitabile la sua esistenza. Voi dunque che questa mettete in forse, e cercale se sia pur pos- sibile, preferite voi slesso non solamente a ciasche- duu di coloro, ma pioprio a tulli insieme, e li te- nete per nulla. E però questa contraddizione non vi era ancora, e voi l'avete falla; e dopo esservi tanto accorato del Ile contraddizioni avvenute ira i filosofi delle varie scuole, vi è parso piccolo sconcio a met- tervi in contraddizione voi solo con tutti i filosofi di tulle le scuole. Questa è, se io veggo bene, la par- ticolarità dello scetticismo critico; il quale rappre- senta la esli*emilà o ultimo limile del dubbio meto- dico di Cartesio; uè si vuole in nessun conto, chec- ché possa giudicarsene dalle apparenze, riputare in niente inferioie allo scettieismo assoluto di Davide Ilume e degli altri più antichi. Imperocché la ra- gionevolezza umana é condizion di natura, e non pri- vilegio di taluno individuo; e la certezza delle co- gnizioni, provenienti dagli atti riflessivi più elaborali e meno spontanei, suppone di necessità quella delle cognizioni evidenti e di senso comune. Oia veg- 251 giamo quanto rispetto osservi alla certezza iadivi- duale e al comune sentimento della natura, chi reca in dubbio la tìlosofia dell'umanità, e contrasta senza limiti né distinzione ojjni merito a'filosofì. E dap- prima la certezza delle cognizioni individuali non può valere in filosofia meno che altrove, né i non filosofi hanno dà natura n)iglior capacità di accer- tare le cose di quello che i filosofi ponno avere. La \eracità dunque appartiene a' filosofi come agli altri uomini: e però non si può negarla con diversa pro- porzione a questi o a quelli ; ma indefettibilmente convien tenere, se la logica sussiste ancora, che tolto ogni valore alle dottrine de'filosofi, è distrutta ad un tempo qualunque sicurezza e stabilità delle cogni- zioni. In secondo luogo travagliandosi la filosofia so- pra i generi principali delle cose, che è la ontolo- gia, e sopra l'origine delle creature, che fa la cos- mologia, e sulle prerogative che naturalmente in- tendiamo del Creatore, cioè la teologia razionale, e per suo centro quasi sopra le cognizioni e le doti essenziali dell'uomo, e dell'anima particolarmente , dove consiste la psicologia; chi oserà dubitare che ridotta questa scienza al nulla, non sia dillo stesso colpo annichilata ogni credenza della ragionevolezza umana ? Imperocché se in più migliaia di anni tanti milioni di uomini inciviliti ancora quanto fu mai al- cun popolo, e sopra tutto addirizzati e protetti dalla divina fecondissima parola dell' evangelio e della chiesa, non bastarono a definir pure un bricciolo di verità scientifiche in materie sì capitali e si gravi, e si raccomandate dalla necessità , dalla coscienza, dalla natura massimamente, deh che ragione o che 252 intellelto dovrà «limarsi quello degli uomini ? Se la filosofia sola smentisce e digrada il gulta cavai la- pUlem^ si dee consentire in una di queste due cose; o che tutti gli uomini insieme non hanno stilla di ragione, o che la ragione umana è destinata iiaiu- ralmenle a vagheggiar l'impossibile; ciascuna delle (luali sarebbe contraddizione della natura, né si pà- tria spiegare senza far valere il nullismo. Cosi rende testimonianza lo stesso senso comune del sacrilego attentalo di chi rinnegò la filosofìa del genere uma- no; e svela tutto l'orrore e la vergogna di questa scetticismo, la cui principal differenza dagli altri con- siste nella sfrontatezza di tutti mettere in fondo, e sé medesimo in cielo. Ilo detto che fi'a gli opponitori di Kanft assai sono i quali lo imitano e lo seguitano; e volea dire con lo spregio, o almeno dimenticanza della nobile Iradiziorie scientifica: il che parmi non solo veris- simo, ma ben anche evidentissimo. Interrogate il maj'fpior numero de'maestri e autori fiancesi, a chi deferiscano il più e il principale delle loro dottri- ne; rispondono, a Cartesio : chiedetene i tedeschi; a Kant, ad Hegel o altiettali moderni: dimandale agi' italiani, e, se volete andar più sicuri, cercatene la risposta negli scritti loro; saltate sopra alle poche ma- terie che sono per li cattolici dottrina di fede o con- oiuntissimi per evidenza con questa; considerate le quistioni che i filosofi ancoia cattolici sono in liber- tà di risolvere col si o col no , sopra la necessità della parola, l'immutabilità dell'intelligibile, la mu- tabilità del sensibile, la natura dell'idee, il termine e il processo delle cognizioni, la base dell'evidenza, la cagione della certezza, il concetto dell' infinito , 253 Torigine e gli elementi della coscienza, e simig^Iian- ti : in questa sorta di trattazioni cercate a chi naas- simamente si faccia onore, quali sieno gii autori lo- dati e seguiti di preferenza; e poi ditemi se io de- finisco il vero, che tutta la stima de'più si concen- tra e signoreggia in un matematico e in un medi- co. A me però conviene passar leggermente su que- sto tema, che né di particolari ha bisogno per essere accertato, ne gioverebbe meglio, quando comparisse diffusamente, che abbreviato e conciso come qui lo propongo. Il soggetto è per se facilissimo e aper- lissinio : distenderlo e tratteggiarlo partitamente in- nanzi a' savi, sentirebbe non meno della superfluità ohe della sconcezza. Vero è che il raccomandai-e la tradizione scientifica ritorna a pregio grandissimo di que'che il fanno, e per me, che intrapresi di con- sigliare lo studio del Gerdil, si offerse quasi unica ■via di promuovere la mia causa: giacché i maestri solenni di tutti i tempi vengono in società come di pensieri e di sapienza, cosi di lode e di fortuna; né riviverà mai la gloria della tradizione senza quella del cardinale, e né ancora lo studio delle opere gei- diliane senza quello di tutta la tradizione più avan- ti. Ma il poco di questa materia, che variamenle ho toccato, mi par bastevole al mio intento, e allo sti- molo che vorrei dare per il ristoramento della filo- sofia: il quale non si vuol procurare con censure troppo minute, dove sogliono originarsi risentimenti e nuo- ve scissure; bensì con esporre in chiaro lume la no- cevolezza di quelle opinioni, che per abitudine sou fatte volgari tra i dotti, e per Toggetto loro eserci- tano influsso grandissimo nella scienza. D. Gaetano Milone Barinabita- 254 Le prime raccolte d'antiche iscrizioni compilate in Roma tra il finir del secolo XIV^ ed il comin- ciare del XV. N ella storia Ietterai ia degli studii epigrafici il primo e più antico, del quale si abbia notizia aver impreso a trascrivere i monumenti della latina epigrafia, è quell'anonimo che dalla biblioteca, la quale ne ser- ba il codice unico al mondo, ebbe il nome di Ein- sildense. Visitò egli l'Italia e Roma circa il secolo ottavo dell'era nostra, e ne'suoi pugillari o membra- ne, oltre ad una ìndicazion topografica dell' eterna città, ne venne trascrivendo ben anco molte delle più insigni e memorande iscrizioni ; del qual pre- ziosissimo lavoro un lacero ed assai incompiuto esem- plare giacque lunga età obbliato nella biblioteca di Einsiedeln , finché il Mabillon ed assai meglio testé il eh. Haenel non lo divulgarono per le stampe (1). L'esempio dell' anonimo altri anonimi viaggiatori imitarono nei secoli nono, decimo e undecime; ma questi alle epigrafi metriche cristiane quasi unica- mente volsero l'occhio e la mente; perchè allo sco- po al quale ora io tendo non giova l'intrattenermi nella indicazione distinta delle lor sillogi. Corsero poscia circa tre altri secoli di tanto abbandono ed obblìo d'ogni memoria e studio dell'antica età ro- ti) Mabillon, Vet. aiialecl. Paris. 1723, p. 338; Ilaenel nell'Ar- chiv. liir philologie uncl padagogik di Seebodc e lahn, tomo V , pag. Ilo— J 38. 255 mana e de'suoi monumenti, che non un solo liasci it- tore di vecchie epigrafi, sia profane, sia crisfiane, in quel così lungo volger di anni m'è avvenuto incon- trare; ed appena v'ebbe allora forse chi ne sapesse leggere i caratteri, e le sigle e compeudii di scrit- tura pretendesse intendere e dicifrare. Perciò uno scrittore del secolo XIII, forse maestro Buoncom- pagno (1), nel suo inedito trattato. Formula liltera- rum scholasticarum (2), scrisse che olim fìebant scul- ptiirae mirabiles in marmoribus electissimis cimi lit- teris punctatis^ quas hodie plenarie legere vel inlel- liijere non valemus; ed ognuno ricorda le maraviglie che destò in Roma a mezzo il secolo XIV la perizia del celebre tribuno Cola di Rienzo, che sapeva leiere i pataffi degli antichi. All'avvicinarsi però del secolo decimoquinto, quando le lettere greche e latine erano presso di noi in sul risorgere e rifiorire, ai monu- menti scritti, massime dell'eterna città , avran pure talvolta posto mente quei novelli eruditi; ed infatti nelle brevissime memorie e ricordi scritti dal cele- breDondi, volgarmente appellato Giacomo dall'Oro- logio, nel percorrere la città di Roma circa l'anno 1375 (3) , io ho rinvenuto d' alcune benché poche iscrizioni talora qualche cenno, e tal altra anche le (1) Vedi Mazziicchelli, Scrii, ital. tom. Il, pag. 2368. (2) In un codice raemljranaceo del secolo XIII, clie lio veduto pell'archivio capitolare di s. Pietro in Valicano. Di questo codice Ja menzione il eh. monsignor Marino Marini negli aneddotli di Gae- tano Marini pag. 65. E il Garampi die di sna mano vi scrisse nel- la prima pagina, esserne forse autore il lodato Buoncompagno. (3) Esistono, per la massima parte Inediti, in un solo codice della biblioteca Marciana in Venezia. Qualche estratto ne die in lu- ce il Morelli, Operette. Venezia 1820. Tom. II, pag 289 e segg. •25G copie. Entrato poi il secolo XV, e ridestatosi negli italiani l'amore d'ogni maniera di classici studii, pri- mo fra i raccoglitori d'antiche lapidi noti fino adi oggi apparisce il famoso Ciriaco d'Ancona ; e tal- Tolla innanzi a lui s'ode far menzione anche di Pog- gio Bracciolini fiorentino che divulgò un libretto delle iscrizioni di Roma e d'Italia, del quale oggi é smarrita ogni traccia. Io però, facendo miei studii e ricerche in quanti codici di siffatto argomento ho potuto avere in mano ed esaminare , non solo mi sono imbattuto in una raccolta la quale per gli ar- gomenti che verrò esponendo, giudico essere alme- no gran parte della smarrita ed assai desiderata del Poggio; ma un' altra ne ho rinvenuto senza fallo an- teriore ed al Ciriaco ed al Poggio medesimo, com- pilata da un cotal Nicola Signorili cittadino romano, della quale in vano si cercherebbe un benché me- nomo cenno presso gli scrittori delle cose epigrafi- che. Le quali due raccolte se non ad altro potessero giovare che a fornirci un documento di storia let- teraria, pur non sarebbe opera male spesa il divul- garle; ed avrebbero i cultori di questi nobili studii il diletto di riconoscere i primi passi e direi quasi l'infanzia delia scienza ch'essi professano. Ma la cri- tica epigrafica attende oggi maggiori vantaggi, che non la storia medesima, da queste vecchie sillogi co- munque depravate e per ogni lato imperfette; che risalendo di codice in codice e di raccolta in rac- colta fino alle prime, veniamo a scoprire quando la più intera o più genuina lezione di monumenti in posteriore età mutilati o suppliti a talento de'trascrit- lori, quando la lontana origine di molle false lezio- 257 ni ed errori, o la vera fonie di monumenti di dub- bia o men esplorata sincerità, e mille altre notizie uiinutissime e di niun conto in apparenza, ma sovente assai utili in fatto a stabilire sopra solida base i cri- tici nostri giudizi. Ed infatti io sono persuasissimo che nell'annunciare io qui il rinvenimento di due raccolte di tanto antica data ho destato somma cu- riosità e non minore espettazione ne' scrii cultori di questi studii; i quali perciò slimo dover fino da ora avvertire, che se non debbo pentirmi del fastidioso esame da me compiuto d'ogni variante e d'ogni er- rore di queste raccolte, poiché alcun frutto e tal- volta non mediocre certamente se ne ritrae, non mi sembra però poter loro promettere assai luminose ed insigni scoperte. I. DELLA RACCOLTA COMPILATA DA NICOLA SIGNORILI. Nell'ultima pagina d'un manoscritto valicano del secolo XV (1) si leggono le seguenti parole: Epila- pilla in aliquibus arcubus triumphalibiis ac ponti- bus aquarumqiie duclibus alque sepulcris el aliis non- nullis loeis tam in alma urbe quam in aliis partibus ad commendationem famamqiie senalus populique ro- mani ae ponlificum et imperatorum aliorumque viro- rum illustrium commendatione dìgnorum facta in praesenti libello prout potili ego N. Signorilis de urbe ad deleclationem legentiiim recollegi. (I) CoJ. 3851 membranaceo in 8. G.A.T.CXXVII. fi 258 Epil. scriptum in porta malori ad commenda' iionem divi Titi Claudii aquas de dictae urbis lon" ginquis partibus conducentis. IMP . DIVVS . CLAV DIVS . DRVSI . F. e qui ha fine la scrittura del codice interrotta e non mai ripresa dall'amanuense. Queste poche parole ba- starono a pormi in sull'avviso per tener dietro a qualsivofjlia traccia in che fossi potuto avvenirmi della ignotissima raccolta epigrafica del Signorili, e poiché a rinvenirla e riconoscerla assai mi giovò la notizia di qualche altro scritto di lui, questa fa d'uopo premetteie al mio lagionamento. Nicola Signorili se- gretario del senato romano, ed anco della nobilissima società o confraternita del Sancta Sanctorum (1), non è un nome al tutto nuovo ed oscuro agli studiosi delle cose romane. Spesso gli scrittori delle sacre me- morie di Roma citano il catalogo delle chiese urba- ne, o quello delle reliquie delle medesime da lui compilato (2); e questi documenti sono parte duna assai più vasta cotnpilazione, e d'importanza solenne,, se più che al merito intrinseco s'abbia riguardo alla cagione e allo scopo del libro. Perocché, riconiposte le cose dell'occidente, turbate dal lungo scisma di (1) M.vangoniv 8t;"'idet'Stotìòltl 9anc(oruin, p, 287. (2) Paovin., Oe VII, U. £., p. 261- MartMi«lli, lV«n,a trofeo, dsl- l.i croce, pag. 63, P. Casirniro da Houia , Mem. sIof. della chiesa (I Aracoeli , p. 306, Zaccagni , Cal.ilogiis magnus Eccl. U. ap. Mai Spicil. roin , (. IX, p 4(54 ce. Vedi yiichc Mai, Script, vet., t. V, p. Mi, nota 3. 259 cinqnanl'aiuii , e stabilmeiile rifermata in Roma la sede apostolica, Martino V pontefice conjmise al Si- gnorili sejTi'etario del senato romano di adunare ed oidinare in un sol volume quanto, o ne'documenli superstiti al (jiande naufragio di tanto sconvolgimen- to civile, o nelle memorie de'maggiori poleasi ancoi* rinvenire che risguardasse i diritti e i privilegi della città di Roma. Il Signorili rispose al pontificio man- dato col libro De iurihus et excellentiis iirbis Romae', e l'esemplare autentico che fu presentato al pontefi- ce esiste tuttora nell'archivio dei Colonna; parecchie copie d'età più recente se ne hanno nelle bibliote- che romane e straniere (4). Nel qual libro, oltre i lunghi ragionamenti storici e politici intorno ai di- ritti dell'alma città e del suo popolo sopra tutto il romano impero , e quelli che i diritti risguardano sacri e civili de'pontefici, ed infinite altre cose che qui non impoi la l'annoverare , inserì una indica- zione delle antiche magnificenze di Roma, compo- nendola dell'intero testo del Curiosum urbis Romae^ del quale egli fa autore Paolo Diacono (2), e di altre brevissime notizie a guisa di catalogi od in- dici tratte in gran parte, com'egli dice, dalla Mar- tiniana , cioè dalla cronaca di Martin Polono. Nel paiagrafo però intitolato Arcus triunifhales urbis (1) V. anche il Papencordl , Cola di Rienzo. Torino 1844 , p. 29. (2) S'aggiunga anche questa notizia a quelle molle asiai rile^ vanti che intorno ai cosi detti rcgioiiarii , ed ai falsi nomi loro assegnati di Puhlio Vittore e Sesto Rufo, dopo i primi indizi dati dal nostro Sarti di eh. memoria , lia raccolto o divulgato il eh. Preller, Die rcgioncn, p. 38. e segg. *260 Romae non si lien pajjo al semplicemente annove- rarli , ma di ciascuno trascrive pur anco l'intera iscrizione. Tranne queste degli archi niun' altra ne ripete od accenna. Se non che concessomi per som- ma cortesia ed amicizia del eh. sig. Antonio Fea bibliotecario della chijjiana d'esaminare a tutto mio agio i codici epigrafici della medesima, incontrai in un manoscritto cartaceo de' primi anni del secolo XVI, o degli ultimi del XV (1) , sotto l'anonimo titolo Descriptio urbis Romae ehisque excellentiarum^ quella stessissima descrizione di Roma, che si leg- ge nel grande trattato del Signorili dedicato a Mar- tino V, ma aggiuntovi inoltre un nuovo paragrafo intitolato de epitaphits, nel quale sono trascritte buon numero d* antiche iscrizioni di Roma , pochissime d'altre parti d'Italia. Ed alle iscrizioni vanno innan- zi le parole seguenti: Epitaphia reperta in pontihus aquarnm ductibus sepulchris et aliis nonnulli s locis tam in urbe Roma quam in aliis parlibus ad com- mendationem famamque senatus populique romani ac potiti ficum et imperatorum aliorumque virorum illu- strium commendatione dignorum: e comincia, Epita. in porta maiori urbis ad commendationem divi Tilt Claudii qui aquas de longinquis partibus ad urbem conduxit eie. Ognuno già di per sé intende che que^ sta senz'altro è la raccolta che separatamente vo- leasi trascrivere nel codice vaticano, e se ivi il Si- gnorili medesimo se ne dichiara autore, qui l'inti- lima connessione che la stringe ad un'altra indubita- (I) È segnato I. V. 168.; lo cita talvolta nelle sue opere il ce- lebri- ab. Fea, ma non ne conobbe l'autore e l'imporlanEa. 261 ta opera di lui conferma, se pur fa d'uopo, con un nuovo ar8:omento la verità di quell'asserzione. Infatti la sola difterenza che passa tra il titolo della raccol- ta nel codice vaticano e nel chigiano, è il mancare in quest'ultimo le parole arcubus triumphalibus e la menzione dell'autore. E così dovea appunto essere, se il paragrafo de epitaphiis forma parte integrante della descrizione di Roma del Signorili, alla quale tien dietro. Imperocché le epigrafi degli archi trion- fali erano già state separamente descritte nel loro pro- prio paragrafo; ed il nome dell'autore non dovea, co- me ognun vede, esser premesso all'ultimo capo del libro. Infine tutta l'indole della raccolta è tale, che non solo manifestamente apparisce esser opera del- l'età in che viveva il Signorili, ma anco dell'autore medesimo che dettò il novero degli archi trionfali e tutta la citata descrizione di Roma. Perchè man- chi cotesto paragrafo de epitaphiis nel trattato offer- to al pontefice Martino V ognuno sei vede; che non era dello scopo di quel libro l'intrattenere il ponte- fice con una lunga serie di vecchie iscrizioni. Adun- que la descrizione di Roma inserita in quel libro, o già prima era stata composta e divulgata dal Signo- rili medesimo (che nou può cader dubbio sull'esser- ne egli stesso l'autore), o ne fu dipoi estratta, aggiun- tavi come un ultimo capo la raccolta delle iscrizio- ni. Anzi, se l'indicazione che tosto accennerò è sicura ed esatta, quest'opera avea già il Signorili dettato nel- l'anno 1389. Imperocché il Sarazani nelle note al car- me X."^I di s. Daraaso papa (1) cita le iscrizioni me- li) S. Damasi opera Roraae 1G38. p. 180. 262 triclie che stavano in porla subarbii s. Pauli, ed in inlroitu urbis Roniae per porlam aeliae arcis^ irascri- verKlole e veteri codice mnnuscriplo cui tilulus^ De- scriptio urbis Romae^ qui liber sub Urbano VI scri- ptus fuit^ quem nos habcmns. Chiunque le^yj^erà sotto i nuoieri 72 e T4 delle iscrizioni inserite dal Signo- rili nel suo lihro intitolato appunto: Dacriptio urbis liomae^ queste iscrizioni medesime col titolo in por. fa bu'rgi s. Pauli., ed in inlroilu urbis almae per por- tam castelli (il Sarazani ebbe ribrezzo delle barbare voci buryi e castelli., e sostituì loro suburbii ed ae- liae arcis)., e porrà mente alla circostanza che no' soli codici derivati da (|U('llo del Si(ynorili ho io in- contrato le copie di questo due e|>i{}i'afi metriche, facilmente si persuaderà, che la (aitata igliori codici e classificato se- coildo l'ordine de' tempi in che furono dettate od interpolate, s'accordano nel collocare presso al tem- pio della Concordia l'erario, appellandolo coll'antico suo nome di aerariwn pìiblicum quod erat templum Saturni, senza indicarne però le vestigia o l'edificio tuttora esistente; e nella sommità dell'arce (in smn- mitale arcis supra porticum Crinorum) il tempio di Giove e di Moneta (1). Verso il fine però del quat- tordicesimo secolo, cioè negli anni appunto del Si- gnorili, confuse e turbate, assai più stranamente che non furono nell'eia precedente, le denominazioni de- gli antichi edifici di Roma, quella d'erario (non mai moneta) fu data alla chiesa de'ss. Cosma e Damiano. Così il celebre Dondi, ossia Giacomo dall'orologio, in que' cenni sopra il suo viaggio a Roma circa l'an- no 13T5, de'quali ho già fatto menzione, addita un edificio appellato Verario presso il tempio di Anto- nino e Faustina; di quello dalle otto colonne fa men- zione senza dargli nome veruno (2). E più chiara- fi) V. i testi diviilf;ali dei Mirabilia nelle Eff. leti, di Roma t. I, p. 378, e presso il Montfaucon, Diar. ital., p. 293, e per il tempio di Giove e di Moneta V. anclie la Grapliia aurcae urbis /io- mac, data leste in luce dalTOzanam, Documens inéJits, Paris 1850, p. 1C3. (2) Jn fronte unius palacii marmorei cttm magnis columnis marmoreis, quod slat ad prdem moìitis capitola sunl lìtterai; liuins- modi SENATfS POPVLFSQf'E HOiUJNfS INCENDIO CONSfM- Tf^M RESTITI IT. In fronte allerim palacii prope herarium eundo 295 mente un anonimo descrittore di Roma, che scrisr,<* circa l'anno 1410 , del quale cita talvolta qualche passo il Preller (1) trascrivendolo da un codice ma- gliabecchiano; iiixta templum Faustinae et divi An- tonii qui sanctus Laurentius in novamento vocatus es^, adhuc ecclesia s. Cosmae et Damiani quae fuit aerarii imperatoris. ISeanche il nome e l'uso di cec- ca o zecca (come leggono altri esemplari manoscrit- ti), che nell'età del Signorili avea il tempio dalle ot- to colonne, sembra fosse assai antico ed invalso ne' secoli precedenti. Poiché un'altra cecca, o zecca de- nominata la cecca vecchia è due volte additata dall' anonimo magliabecchiano dall'altro lato del foro pres- so la chiesa di s. Adriano. Tutto adunque cospira a dimostrare , che ninna antica tradizione assegnò giammai il nome e l'uso di moneta al tempia di che ragioniamo, e piuttosto quest'appellazione gli venne dal criterio archeologico d'alcun letterato del seco- lo XIV spirante, come per la sentenza del Poggio (2) prese poco dopo e ritenne quasi fino ai giorni no- stri quella di tempio della Concordia. 12. Alimi scrittimi ante ecclesiam s. Angeli in fo- ro piscium., ubi fuit templum, (3) ad commendationem ad sanctum lohmmcmlaieranum siint Utterae huiusmodi DIVO AN- TONIO (sic) ET DIPAE FAJSTINAE EX. S. C (1) Die regioiiHii ec, ;p. 44, 108 ec. Le parole die io ne cito sono trascriUe da una mia copia colllazionala sopra due anliolii esemplari. {2j De varietale fort. V. R. ap. Sallengre, 1. 508. (3) Nel codice ottoboniano tcmjjlum.... ad commendalionm eie, nel chigiano il litoletlo lìnisce nella parola templum. 296 Ludi Septimii et Marci Aurelii Anlonini Pii^ qui di- ctum iemplum incendio consumptum restauraverunt. (Grut., 172, 5, ex Smetto; Canina, 1. e. p, 358.) 13. In clivio (1) cabnlli suh figuris Constantinus Aug. Conslantinus Aug. Constantinus Caes. (2). Sono queste le Ire assai conosciute statue de' Costantini collocate ora , una nnaggiore delle altre avente l'iscrizione CONSTANTINVS AVG. nel por- tico della basilica lateranense, le altre due con le scritte consTanTinus . avg . , e consTanTinus caes nella piazza del Campidoglio. Queste tre semplicissime leggende sono state , se non erro , fino ad ora al tutto trascurate ed ommesse dai grandi raccoglito- ri epigrafici; ma delle tre statue tutti quasi gli an- tichi e moderni topografi fanno menzione, fra i qua- li) II codice ottob. ionio, il chigiano iovio, quello deirange- lica Iovio. Il confronto colle similissime scorrezzioni del lilolo pre- fisso all'iscrizione n. 52. m'insegna a leggere qni clivio, come tal- volta scrissero i letterati del secolo XV ed anche de' primi anni del XVI , in luogo di clivo. Il Ferrarini f. 98. t. , in lo(Q Cd- balli sub figuris. Cf. n. 18. (2) 11 cod. ottob. anche qui scrive Aug. 297 li alcuni meno esattamente asseriscono essere state ririvenute fra le mine delle terme costantiniane. Que- ste tre statue son tra quelle pochissime, che giam- mai non disparvero né furono sepolte, come eviden- temente il dimostra l'additarle che fa il Signorili tut- tora in piedi e nella lor propria sede, cioè nelle ter- me costantiniane, negli ultimi anni del secolo XIV, o ne'primi del XV. Forse il nome venerato di Co- stantino, come la statua equestre di M. Aurelio, co- si anche queste mantenne salde sulle loro basi. Le due che portano il nome di Conslanlino Augusto spet- tano certamente l'una e l'altra a Costantino il grande, la maggiore cioè destinata a primeggiar sola, la mi- nore ad essere accoppiata a quella di Costantino il giovane. 14, 15. EpH. scriptum in frontispitio templi pantheon , tjuod hodie dicitur s. Maria Rotunda. In eodem loco ad commendationem Ludi Septimii et Marci Aurelii Antonini Felicis^ qui dicium templum velustate corruptum restauraverunt. (Grut.I, lex Smetio; Eckhel, D. N. Vili, 423; Ore Ili 34). In quanto alla prima delle due notissime iscri- zioni del Panteon, quella cioè di M. Agrippa, nulla v'è da avvertire; la seconda però ricordante i ristau- ri di Settimio Severo e Caracalla (1) ha dato cam- (1) Il Signorili V. 1. POT . XI . COS. m, 2. QVANTVM in luogo di PAMIIEVM , RESTAVRAVERVN T. 208 pò di tante quislioni ai cronologi per la falsa lezio- ne divulgatane da piincipio e tenuta per vera fino allo scoiso secolo, che non debbo lasciare inavvei tita quella del Signorili. La pietra d'inciampo erano le paix>le TRIB . POT . XI . COS . IH risguardanti Seti timio Severo; così avea stampato il Mazocchi (p. VII), così il Grutero (I. e.) sulla fede del dlligentissimo Snrezio, e così credevano tutti si leggesse nel monu- mento, finché il Vignoli (Diss. II, Apol. de anno I, imp. Sev. p. 86 seg.), e più tardi il Fea (nel Wia- ckelman Si. III. p. 294), ed il Zoegja (Num. Aeg, p. 262,) non rivelarono al piiblieo la vera lezione TRIB . POT . X . IMP XI . COS . III . Il Slg'no- rili lesse anch'egli come que'primi. La cagione d'un Così grave e tanto propagato errore , che confermò fortemente neil'Eckhel (D. N. Vili 400 , 423) la sfiducia verso le testimonianze epigrafiche stampate nel calcolo delle tribunici« potestà degl'imperatori, è certamente l'essere colle schegge del marmo quasi tutte schizzate via le lettere X . IMP. , le quali non solo i trascrittori anche più antichi come il Signo- ria Don videro, ma -con inescusablle colpa trascura- rono d'indicarne la lacuna. Non così però fece l'ac- curatissime Lelio Podagro, il quale la segiiente no- ta marginale appose alle lettere POT . XI . nel suo esemplare del Mazocchi: QiKie hie dissiluere diffici- lem cdilierltmiììi faciunt ; ommno nutem flures esse videnlur Uùieranim fìgume semiplmme^ rider quas eliam MP . ferttiB integrae ec. Né ommetterò final- mente di avvertire che fin dal secolo XV la ve- ra lezione avea rinvenuto ed inserito nel suo libro de urbe Roma Bernardo Rucellai (V. Becucci, Iler. 299 ita!, script, ab anno mill. etc Fior. 1770, t. II, p. 1006;, del quale ho già di sopra lodato la dottrina e la pe- rizia. 16. Epit. scriptum in facie cuiiisclam templi siti ubi est ecclesia s. Laurenlii in Miranda ad honorem An« tonini et Faustinae. ( Grut. 257 , 5 ; Orelli 868. Canina, I. e. p, 126.) 17. Epit. scriptum in oratorio Nervae in loco qui di- citur corrupto vocabulo Arca Noe^ ad honorem Nervae.- Imp. Nerva. Caes. Ang. poni. max. trib. pot. Illl. imp. mi. COS. Ufi. procos. Nervae fecit. Così si legge nel codice chigiano, così anche, ma inesattamente, nel riccardiano (Osann. 1. e. p. 506), e nel libro stampato dell'Apiano (p. 198), ne'quali dalla nostra raccolta è certamente derivata questa iscri- zione. Nell'ottoboniano però sono ommesse le lettere COS. Iflf, ommissione assai antica negli esemplari del Signorili, poiché s'incontra già nel codice del Ferra- riui (f. 94, t. ) , nel libro de urbe Roma di Bernar- do Rucellai (I. e. p. 859 , ma legge POTEST. II. IMP. II.) e nel Mazocchi (p. XIII, t.) , i quali tut- ti, ed è facile ad ognuno ravvedersene, dal primo tra- scrittore romano o mediatamente od immediatamen- te trassero la lor copia di quest'epigrafe. Quando il libro del Mazocchi vide la luce l'architrave del tem- pio nel foro di Nerva era in gran parte caduto, 300 come è notato anche nc(r\\ addenda a quel libro ^ ove le lettere ancora visibili sono indicate nel mo-- do seguente: IMP . NERVA . CAESAR TRIB.POTEST.II.IMP.il. Ma il Podagro, del quale ho già altrove lodato la diligenza, emenda nella linea seconda POTEST.IH, e III lesse lo Smezio (1) TGiut. 185, 4), e così si vede anche nel disegno del du Pérac, Né la copia del Marliano (III, cap. 9, p. 48, donde il Gamucci, p. 52) tratta più dai libri che dal monumento ori- ginale, o quella del Panvinio (Grut. 189. 13), o qual- sivoglia altja di simil tempra possono per verun modo reggere a fronte di quelle d'esperimentata fe- de, del Podagro cioè e dello Smezio; laonde non v'ha dubbio, che dal Iato dell'autorità de'trascrittori la lezione POTEST. III. è degna d'essere preferita. Una difficoltà però gravissima le .sorge contro dal- l'Eckhel, il quale nega (D. N. Vili, 411), che nei monumenti di Nerva possa essere stata giammai no- verata la terza tribunicia potestà , e tiene per mal trascritti o sbagliati i marmi che la ricordano. Ep- pure anche un'iscrizione tornata in luce dalle palu- di pontine dà a Nerva i titoli TRIB . POT . III. COS. Ili (2) , e concorda così con la non dissimile Muratoriana 448, 4; di guisa che mi pare alquanto difficile il credere che sia questo un fortuito errore (1) Egli vidi" anche infine della prima linea la leUera A. (2 J M orcelli, De stilo p. 353, Creili 780. Cliaupy, Villa d'Orazio, ni. 39, il quale concorda in questi numeri col Morcelli, mentre in al- tre lezioni discorda. di lami trascrittori diversi, o degli slessi monumen- ti. Lo che mi basta avere notalo ; e del rimanente confesso che non saprei come conciUare questi con al- tri marmi e con le monete, e col sistema tanlo eviden- temente seguito da'predecessori e dai prossimi suc- cessori di Nerva nel novero delle tribunicie potestà. Emendando adunque i numeri nella copia del Signorili in TRIB. POT. III. (o, quando questo numero sembri al lutto intollerabile, II.), ed IMP. II, potrà rima- neie intatto il COS. IIII, ch'egli solo vide con le se- guenti lettere, perito assai prima che allri di nuo- vo volgesse l'occhio a quel monumento per trasmet- tercene un esemplare. Il PROCOS, che immediata- mente segue, se è stato tenuto fino ad ora per dub- bio (Orelli, I9j , non sapendosi donde avesselo ap- preso il Mazocchi o quelli che da lui lo trascris- sero, oggi dovrebbe destar minori sospetti; che poco credibile sembra averlo il Signorili sognato, e posto così bene al suo luogo. E così avrebbesi qui il pri- ./»/; mo esempio epigrafico di questo titolo assunto dagli imperatori (1). Pur nondimeno il sospetto, che pos- sa il Signorili aver letto male PR in luogo di P. P, e di suo arbitrio interpretato PROCOS, m' induce a lasciar in sospeso la verità di questa lezione. Le ultime lettere NERVAE FECIT, ripetute anche dal Mazocchi , furono senza darne ragione trascurate , forse come una falsa ed inutile giunta, da quasi lut- ti que' che riprodussero intera e supplita questa iscri- zione. Il fare oggi altrettanto sarebbe contro la buo- na critica che non le terrà mai per un sogno d^"' (I) V. Jlariiii, Arv. p. 71», EckivA, 1. e VII!, " 302 Signorili, ma crederà piullosto che caduta una par- te dell' arcbilrave debbasi qui aprire una lacuna. Ed il supplirne il sen^o è cosa assai più facile che non è sembrato fino ad oggi, poiché chiunque ri- cordi che questa iscrizione era posta sulla fronte del tempio di Minerva nel foro transitorio leggerà tosto oedem Minervae fecit. Resterà solo a cercare se alla lacuna della seconda linea ne corrisponde com'è necessaiio un'altra nella piima. E così è veramente; che l'appellazione di Germanico assunta da Nerva ■verso la fine dell'anno 97 dell'era nostra, e datagli dalle iscrizioni allegate del 98, nella copia del Signo- rili non apparisce. Donde confeimata anche la le- zione COS. IIII, poiché verso la fine del 97 sareb- be stato al COS. Ili aggiunto, come in altri monu- menti DES. mi , ecco tutta per la prima volta sta- bilita ed integrata questa leggenda epigrafica; ed as- sai diversamente di quel che fece il Niebuhr (Ij; IMP . NERVA . CAESAR . XVGustus . Gcrmanicus (2) PONT . MAX TRIB . POTEST . 11(1 ?). IWP . ll.(PUOCOS?) P.P. aedem . iliiiNERVAE. FECIT (1) Beschreib. tier Staili Rom ec T. l!l, P I, p. 278. IMP . NEBVA . r.AESAB . AVGVSTVS . PONT . MAX . TniBVN POTEST . II . IMP . Il .COS . Ili . 1>ES . IV . PATEB . rATRIAK La concorde testimonianza del IMazocclii negli addenda, del dii Pt'rac, dello Smezio, e del Gamiicci ci assicurano che la seconda linea co- minciò dalla parola TRIB , lo che ni^ga il iViebnhr sulla f'etle del Marliano e del Panvinio, ai (juali non t^ sovente da credere neanche in cose maggiori, molto meno in questi minuti particolari delle leggende epigrafiche. (2) Se volessi attenermi all'iscrizione data in luce dal Morcelli, e ripetuta dall'Orelli, dovrei qui scrivere CEN [cennor] ; ma egli è chiaro, e non so come que' dotti non se ne sieno avveduti, che 303 Epilaphium scriptum sub figura Marci Àntonii Exoclii reperta in muro clivii (1j domorum de Ar~ chionihus facta ad commandationem dicli Marci; et primo iìi capite figurae^ M. Aìdonius Exochus eie. •; Il Blazocchi (p. Ili, t.) ed il Grulcio (335, 5) pongono quest' iscrizione in Quirinali iuxla turrim snilitiarum^ cioè nel luogo oiedesimo dove la vide il Signorili; che il clivius qui nominato mi sembra dover essere quello stesso che nel numero 13 è det- lo clivius caballi. nn 9n 19. Epitaphium scriptum in quodam lapide mar- moreo sito ante ecelesiam s. Mariae novae^ in qua Simon Magus dieiùur cccidisse dum portaretur a spi- rilibus , factum in honorem CaMallii Innocentii qui sacra barbarica incursione sublata resliluit. (Mazocchi, p. XXV. t., Grut. 193, 9 ex Mazo- ehio). GERM. e non CEN deve essere scolpita nel marmo (e cosi in CaUi lesse lo Chaupy 1, e.) ; né questo titolo di ccnsor sarebbe stalo pre^ messo a quello di pontìfcx maximus, nò compendiato nella sillaba CEN. (1) Cod. ottol). zon«', chigiano iovii, dell'angelica loUi^ Ferra rini (C. 93, t) in muro domus Lovii de archionibus. Cf. n. 13. 80A li Sljjnorili no» intese punto il senso di que- sta iscrizione, la quale dice che, Castallus Innocen- tius Audax V. C. praef. urbis ^ fu vice sacra iudi- ca«s, non che sacra ec. resiiluil\ del rimanente non la trascrisse male. Anzi poiché nel Mazocchi lutto il testo concorda con quello della nostra silloge (tran- ne Cflò?a///as in luogo di Castalius (1)) ed anche l'indicazione del luogo è la stessissinia [ante s. Ma- riani novam uhi dicitur Simon Magus) , né il mar- mo fu dipoi veduto mai da veruno, io credo che tutto del Signorili sia il merito d'averci serbata co- pia di questo monumento. L'epigrafe spetta forse ad una o più basi di statue, ed è di quelle delle quali io ragionai aliia volta (Ann. dell'ist. 1849, p. 344], dimostrandone, se non erro, il vero senso, e per- ché sieno tanto frequenti ne'secoli quarto e quinto. Ed in fatti con ogni ragione il Corsini (de Pr. U., p. 360) l'assegna all'anno 474 in circa dell'era vol- gare. Il nome e la memoria di Simon Mago fin da età molto antica troviamo congiunta al tempio chia- mato di Romolo nel medio evo , ossia alla chiesa di s. Maria nova; nel secolo duodecimo Benedelto canonico di s. Pietro scriveva nel suo Oidine ro- mano: aseendit (pontifex) ante asiliim per siliccm , ubi cecidit Simon Magus iuxta templum Romuli (Ma- billon, Mus, ital. II p. 144); e già molti secoli pri- ma aveva di questo selce fatto menzione s. Gregor rio di Tours (de gloria Mart. cap. 27). (1) Ccislalìus anuhe nel Ferrariiii, t'. 93, t. che ne trascrivo letleraltneiue qua^i liiUo il premesso lilolelto. 305 20. Epiiaphium scriptum in arcu triumphali silum retro Capitolium^ factum in honorem L. Septimii et Marci Aurelii Antonini per S. P. Q. R. (Grut. 265, 1, Orelli 912, Canina, 1. e. 271). 21. Aliud prò eisdcm in arcu eis facto per arlifices urbis in foro bovario prope s. Georgium ad velum aureum^ iti honorem dictorum imperatorum et luliae Auguslae. (Grut. 265, 2, Or. 913, Canina, I. e, p. 337). 22. Aliud in arcu triumphali sito apud $. Mariam novam, quem S. P. Q. R. fabricari fecit in honorem Titi Vespasiani. (Grut. 244,3, Or. 758, Canina, 1. e. 122). 23. Aliud in arcu triumphali sito prope Coliscum fa- bricato per S. P. Q. R. in honorem Flavii Constan- tini. (Grut. 282,2, Or. 1075, Canina, 1. e. p. ''»85.) GA.T.CXXYII. 20 306 Epit. scriptibm in arcu sito prope ecdesiam s. Marine in Cosmedin, qiiae dicilur schola graeci. P . LENTVLVS . CN . F . SCIPIO T . QVIN TIVS . CRISPINVS . VALERIANVS . COS EX . S . C . FACIENDVM . CVRAVERVNT IIDEMQVE . PROBAVERE Quest'iscrizione, pochi anni dopo che il Sijjno- riU ed il Poggio (1) aveanla trascritta, peri insie- me all'intero arco dennolito per farne calce, e la me- moria di qviel che v'era stalo scritto rimase; tanto va- ga ed incerta, che si credette essere stata un epigra- fe dettata in onore di Orazio Coclite. (V. Biond, R. instaur. I, 18). La quale immaginazione ebbe senz' altro ori.ofine dal nome di ponte d'Orazio Coclite, che ne'primi anni del secolo XV davasi commune- mente a quello del quale veggonsi tuttora le vesti - già sotto l'Aventino. (V. Preller, 1. e. p. 224). Pri- mo dette in luce quest'iscrizione, il Mazocchi (p. V) ma piena d'errori, e certamente l'f^be da qualche pessima copia di quelle, non assai inesatte, del Si- gnorili, o del Poggio, poiché ai suoi di già da lun- ga età era scomparsa; ed infatti la pone in arcu QVl (1) Giova inserir toslo qui le varianti . POT . XXH. IMP . II . COS . III . P . P . ET . DI VAE . SABINAE IMP . CAESar . T . AELIVS . HADRlANVS AN TONINVS . A VG . PIVS . VO^Tifex . MAX TRIBun . POTt's . II . Cos . Il . DESIGN . III . P . /). (1) PARENTIBVS . SVIS (2). (i) Nel codice chigiano e nel l'errarini DKSIGN. IIII, Rucel- lai H; errori evideiili. (2) Il Gr. V. 1. CAES., 3 AVG , 6 POM., 7 TRIB. POT. II. 318 Il Mommsen (I. e. p. 305) ha divulgato la co- pia che leggesi nel codice rigazziaiio di Rimini , ch'egli giudica la più esatta di quante sono fino a noi pervenute; la quale essere quest'istessa del Si- gnorili chiaramente dimostra l'ommissione di quel- le parole e lettere appunto, che in questa sono ora- messe, ed il differirne appena leggerissimamente se- gnando nella linea 5 CAE., nella 7 DESIN. III. P. P. Anche l'Apiano (p. CXCVIII) ripetè il testo del Signorili quale io l'ho trascritto dal codice chigia- no, salvo qualche leggera varietà; così anche il Fer- rarini f. 99. 34. Aliud in eodem castro versus flumeìi in honorem T. Aelii imperatoris. IMP. CAES. TITO. AELIO. IlADmANO ANTONINO. AVG. PIO. PONT. MAX. TRIB. POT. XXmi. IMP. II. COS. IIII. P. P. Anche questa iscrizione dalla raccolta del Signo- rili fé 'passaggio nel codice rigazziano, donde la die in luce il Mommsen (I. e). Varia soltanto nelle let- tere COS. III. L'anonimo einsildense, che la trascris- se tanti secoli prima (n. 59 ed. Haenel p. 127), trjln- ne gli allungamenti ed accorciamenti di compendii nelle parole, conviene in tutto col Signorili. Né altri- COS. DES. IH. P. P. IMP. ir. La copia della raccolt.i che io attri- buisco al Poggio V. 2. ADRIANO, 3. POiNTlFICI MAXIMO, 4. IMP. X. COS". P. P., S. EF.IVS. ADRIANV8,6. AMTO.MiSI, POiN 1'., 7. TRIB, POT. II. DESIO. II., 8. PATRIE. SVIS. 319 menti varia la coj)ia del Panviuio ripetuta poi dal Grillerò (257, 4), la quale però viene anch'essa cer- lamenle da'aianoscrilli-, che l'originale fin dagli ultimi anni del secolo XV era perito (V. Mommsen 1. e). Dal Signorili anche il Ferrarini f. 99. 35, Aliud in eodem castro versus portam Ir ansi (I), fuctum ad memoriam L. Adii Aurelii Commodi impe- raloris. (Mazocchi, p. XII; Grul. 253, 3, ex Smetto^ 262,' 6. ex Panvinii Faslis^ Cod. Einsild. u. 3G ed. Macnel p. 127, Orelli n. 887). j Non trascrivo il lesto del Signorili, perchè nulla v' ha che sia degno d'esser notato, e le ommissioni di molte parole sono forse colpa più degli amanuensi che sua. D'altra parte l'iscrizione esisteva tuttora nel secolo XVI, e n'abbiamo la copia diligentissima del- lo Smezio, con la qnale concordano, tranne qualche leggerissima difl'erenza ne'compendii delle parole, le emendazioni del Podap.ro al libro del Mazocchi. 3G. AUiul iuxla pracdictas superiores in honorem L. Aurelii Veri. (I) Nel coilict' Clii^jiaiiu versus porlam acneam, nel Ft-rrariui , I. e. Ibi lenì purlain versus. ^;i^u ^iu*; 320 (Cod. Einsild. n. 5 e 57 ed. Haenel, p. 119 e 127; Rucellai, De urbe Ronia^ 1. e. p. 1130; Mazocchi p. XII, t. Cf. addenda (e così anche emenda il Poda- gro); Gl'Ut. 253, 2, ex Smetio^ 258, 3, ex Boissardo et Ursini schedis-, Orelli 875). Il Signorili (donde il Ferrarini l. e. ) concorda con tutte le citate edizioni (1), eccetto il solo esem- plare del Boissardo e dell'Ursino , che discorda da tutti nello scrivere PONTIF. MAX. Fu una distra- zione neirOrelli l'asserire, che anche lo Smezio lesse qui PONTIFIC. MAX, mentre egli vide e trascrisse, come tutti dal secolo ottavo al sestodecimo tranne le discreditate copie del Boissardo e dell'Orsino, sol- tanto PONTIFIC. Né del Muratori (241, 6), che stam- pò anch' egli PONTIF. MAX , si dee tener verun conto, posto che confessa ripeter la copia del codice einsildense, la quale nel secondo più esatto esempla- re n. 57 omette , come le altre , il MAX. Laonde malfece l'Hagenbuch (Ep. Ep. p. 1G) a tenere L. Ve- ro per pontefice massimo, e 1' Orelli a dubitare che tale forse sia egli stato, per l'autorità veramente som- ma di questa iscrizione, la quale attesta precisamente il contrario. 37. Aliud iuxla praedictum in eodem loco prò L. Aelio. L. AELIO. CAES. DIVI. HADRIANI AVG. F. COS. Ti (I) Ne'compeiitlii delle parole si diparte dalla copia dello Sme- 2Ìo soltanto nelle due seguenti ARMENIC. PONT. 321 Il Mazocchi (p. XII, t.) stampò L. HAELIO, ed in fine COS. II. F ; ma negli addenda avvertì che l'iscrizione più non si vedeva, ed infatti il Podagro non la vide. Il Grutero (253, 1; Orelli 830) stampò questa innanzi alle due precedenti, ed a' piedi di tut- te tre scrisse Smetius vidit', ma, poiché vi sono ripe- tuti gli evidenti errori del Mazocchi (senonchè v. 1. IIELIO, in luogo di HAELIO), io tengo per indubi- bitato che lo Smezio vide sì le due altre , ma non questa, della quale riprodusse il testo volgato. L' ot- tima lezione del Signorili (donde il Ferrarini f. 99, t.) concorda con quelle dell'Einsildese (n. 5 in fine Haenel p. 119), e del Rucellai (l. e. p. 1130), il quale però scrive per disteso CAESARI, FILIO. 38. Epitaphium scriptum Arimini in honorem Q. Fabii Maxi mi. (Mazocchi, p. XVIII. t. , Apian. p. CLVII, Grut. 406,7, Gori, Inscr. Etr. II, 241, Orelli 541, Tonini, Rimini avanti il principio dell'era volgare, p. 358). Tanto è noto quest' elogio, e così valorosamen- te l'han difeso contro chi gli negava fede il Gori (1. e), il Morcelli (De stilo, lib. I, P. I, cap. V) , il Borghesi (Gior. are. I. p. 60 seg.) ed altri ancora, che sarebbe mera vanità il ragionarne. Avvertirò soltanto che forse il solo Signorili lo pose col se- guente in Rimini; poiché il codice rigazziano citalo dal Tonini, che di questo fatto era fino ad ora il più antico ed autorevole testimonio, come le iscri- G.A.T.CXXVI. 21 322 zioni recitate ai numeri 33, 34, così anche questa sembra certamente aver tolto non da'mouumenti ori- ginali , ma dalla nostra raccolta. Infatti la lezione in ambedue gli esemplari è conforme, tolte alcune diflferenze che sono piuttosto consueti errori de'co- pisti che vere varianti (1). Ambedue scrivono Un. 1, MAX. in luogo di Maximus^ lin. 2 ommettono il II dopo TR . MIL., lin. 7 CVIVS in luogo di QVO- IVS, lin. 8 ADEQVAVERAT EXERCITV, lin. ult. FACTVS EST ; dalle quali false lezioni si diparte il testo del Poggio, e sono perciò proprie al Signo- rili. La quale derivazione del testo rigazziano da quello della nostra raccolta è poi anche più evi- dente neir elogio che segue di G. Mario. Laonde divenuto il Signorili l'unico testimonio dell' essere stati anche in Rimini questi due elogi , io non mi farò certo garante della esattezza di siffatta indica- zione, troppo facile sembrandomi l'equivoco dello scrivere Arimini in luogo di Arrelii^ dove tutti i te- stimoni oculari ed il Poggio medesimo contempo- raneo del Signorili unicamente pongono quelle due basi (2). Mollo meno posso credere alla verità del- la copia di colesl'elogio che da molti si afferma es- (1) Onimesse quelle varietà che non sono costanti ne'due co- dici ottoboniano e chigiano, il p.imo de'quali scorrettissimo ha molti errori lutti suoi propri che indubitatamente non vengono dall'originale del Signorili, rimangono soltanto le seguenti: lin. 2 manca la parola consulatu^ lin. 10 triumphans in luogo di trium- phavil, ivi cepìt non coepit. (2) Il Rucellai (1 e. p. 809) citando il seguente elogio di C.Ma- rio, dice «he durat adhuc Arimini, ma egli anche di altre iscri- zioni che traeva dalle sole raccolte manoscritte e pii\ non esisteva- no ne'marini afferma talvolta che all'età sua ancora duravano. 323 sere stala anche in Roma. Il Mazocchi (p. XVIII, t.J, cui essi citano, punto non accenna dove stesse il marmo ; ed il titolo che gli prefigge in honorem Q. Fabii Maximi basterebbe anche solo a dimostra- re che la tolse da un manoscritto derivato dal Si- gnorili. Un solo adunque n'è il vero e certo antico esemplare, quello della Basilica d'Arezzo, od al più due, se diverso da questo è quello che taluni atte- stano essere stato anche anticamente veduto in Fi- renze (V. Morcelli I. e). Infatti il Metello nel suo esemplare del Mazocchi (cod. vat. 8495) al mar- gine di questa iscrizione scrisse così: Petrus VictO' rius repperit in agro fiorentino liane inseriptionem in quodam marmore plus minus pedem longo^ lato di- midìum^ hahetque domi, cuìus exemplum, ut Ine emen- davimus, lacohi F. marni mihi dedit\ ut non uno tan- tum loco inserìptio sit. (Avea notato che altri pon- gono l'iscrizione in Arezzo). Prior versus magnis Ut- teris, reliqui quo ah hoc longiores eo minoribus lit- teris 1545. Pietro Vittorio legge anch' egli nell'ul- tima linea come il Signorili FACTVS EST. 39. Epitaphimn in eodem loco in honorem C. Marti. (Mazocchi , p. V , t. , Apian. p. CLVII , Grut. 436, 2, 3, Gori, Inscr. Etr. II, 248, Creili 543, To- nini l. e, p, 359). Di quest'elogio abbiamo l'intero testo da' co- dici che o col Signorili lo pongono in Rimini, o col Poggio ed altri autorevoli testimoni in Arezzo, ed 324 un frammento rinvenuto in Roma e comperato da Pomponio Leto, nella casa del quale lo vide lo Sme- zio (Grut. 436, 2. Cf. Fulv. Antiq., lib. IV, p. LX, Marlian., Topogr. VI, 19). Che la pretesa copia ari- minese provenjja soltanto dal Signorili, lo dimostra qui, anche pili limpidamente che nel numero pre- cedente, il testo del codice rigazziano (Tonini, 1. e.) avente que' medesimi errori che leggonsi ne'mano- scrilti della nostra raccolta, e quelli sopratutto del peggiore esemplare che è Tottoboniano, mentre l'al- tro della biblioteca Chigi è meno scorretto (1). Nel libro del Mazocchi ne è stampata una copia chia- ramente composta del frammento romano, e del ri- manente testo aretino. Donde avvenne che alcuni nostri topografi la giudicarono un arbitrario suppli- mento immaginato da Pomponio Leto (2), altri, cioè rOrelli, prestando piena fede all'intero elogio, du- bitò della sincerità del frammento pomponiano. Quan- to sieno vani e fallaci questi sospetti chiunque ab- bia leggermente esaminati i due monumenti tosto l'intende; ed in quanto al frammento romano egli esiste tuttora nel museo borbonico di Napoli dove Io vide e trascrisse il eh. Morarasen (Inscr. neap. 6802). (1) V. I. Rigaz. ed ollob. ommetlono C. V ; v. 3. ollob. QVOS GESTIS EVM CEPIT TRIVMPIIAISS, rigaz. lo stesso ma TRIVMPIIA- VIT., chig. r. COS. gcssit {al. gestis) eum cepit triumphans, v. 6. ot- tob. Q. COS., chig. F COS., rigaz. V. COS.; v. 9 rigaz. ed ollob. OCCVPAVERVNT, chig. occupaverant; ivi rig. VENDICAVI!. , ot- tob. chig. VINDICAVIT; v. uil. rig. ollob. MVLATIVS ME, chig. MuUatius me. Rig. ed ollob. sempre TEOTONI, chig. Teutoni, Nel reslo concordano sempre le lezioni de'lre codici. (2) V. Canina, 1. e, p. 42G seg. 325 Il luogo preciso dove fu rinvenuto questo fram- mento, uieglio che il Fulvio merlesinao, l'accenna l'Al- bertino (ed. Ronfi. 1523, p. XLII) con le parole se- jjuenti: inter Augiislam et ecclesìam s. Thomae in vi- nea fratrum s. Marine de populo positam effossa fue- re multa marmora^ cum Uatuis et columnis dirutis^ Qum lapide marmoreo et semidiruta inseriptione vi- delìcet^ e siegue il framaiento allegato. Anzi, se gli Yogliaoi credere (I. e), egli ne rinvenne anche gli altri frammenti co'quali ricompose l'intera iscrizione. Ma chiunque gli esaminerà attentamente e ne con- fronterà alcuni errori con quelli de'codici del seco- lo XV s'avvedrà, credo io, della frode di lui, che vorrebbe darsi il vanto di ritrovatore degli antichi supplementi marmorei, quando gli trascrisse soltanto dalle copie manoscritte. I quali supplementi stam- pati ivi disgiunti l'uno dall'altro promise egli ricom- porre e connettere ut epytaphiorum opuscuh , on- d'ecco la vera fonte della copia stampata dal Mazoc- chi, che appunto consta del frammento Pomponiano supplito col testo del Signorili. Vi sono però inter- polate nella seconda linea le parole VEL PROCOS, nella terza lOVIS AVTEM; le prime derivate se non erro, dal VCOS, o QVOS delle copie Signoriliane , le seconde non saprei donde e come inseritevi. Il Mommsen (I. e.) le riputò vestigi d' un'altro elogio, e le pose fuor di linea; ma egli è certo che nella se- conda convien ritenere le lettere COS, e leggere BEL- LVM CVM IVGVRTHA REGE NVMID. COS . GES- SIT: né il Mazocchl sembra, come ho detto, ripro- durre tutto intero il testo dal marmo originale, la- onde neanche potè vedere que' vestigi di lettere dal lato sinistro, che era, a mio avviso, perduto. 326 40. Epilaphium repertum in civitate Nepesina factum ad honorem L. Seplimii. (Gl'Ut. 203, 3. Metellus descripsit) La lezione del Signorili, tranne le consuete li- cenze ne' compendi delle parole, concorda in tutto con quella del Metello. 41. Aliud in eodcm loco prò L. Aurelio Commodo. (Grut. 262, 2. ex Antonii Augustini et Verderii schedis., Orelli 879). Quest'iscrizione manca nel codice chigiano , si legge però non solo nell'otloboniano, ma anche in quello dell'Angelica (f. 17. t.) dopo la precedente e prima della seguente; ed è certamente ivi trascrit- ta da un esemplare del Signorili. Ommessi nel v. 3. IVVENES, nell'ultimo L . D . D . I) . 42. Aliud in eodem loco prò M. Ulpio. (Grut. 595, 10. ex Ursinianis., Mur. 919, 8. e schedis F. lucundi). La copia del Signorili è quella appunto che dalle schede di fra Giocondo ebbe il Muratori ; se non che, in luogo di FLAVIA IVVENTA, vi si leg- \ 327 gè FLAVIA INVENTA, e nell' ultima linea AV> GVSTA LIB. 43. Dicitur fuisse scriptum in sepulcro Iiilii Cae- saris , quod hodie non invenitur^ hoc breve epita- phium graecis litteris PATERTERRA , quod latine interpretatur Pater palriae. Est tamen in quodam lapide marmoreo sito in loco qui dicitur lo perso, in quo est sculpta figura unius hominis equestris, sic lit- teris graecis scriptum (siegue uno spazio vuoto per l'iscrizione che non v'è stata scritta). Nel codice chigiano , in quello dell' angelica (f. 22, t.) , e nel Ferrarini (f. 92, t.) manca tutto quel- lo che è scritto dopo jmter palriae fino al fine. Que- st'imbroglio, apparentemente senza senso, non è dif- ficile a districare, quando sia posto a confronto con altre memorie segnate ne'codici epigrafici del seco- lo XV. Le prime parole (Cf. il n. seg. ) alludono senz' altro a quel che scrisse Svetonio. che la plebe dopo compiuti i funerali di Cesare: solidam colu- mnam prope viginti pedum lapidis Numidici in foro statuii, scripsitque: Parenti patriae (in Caes. e. 85); ed infatti nel Mazocchi , meno goffamente che nel Signorili, si legge (p. IX t.) l'indicazione medesima e l'iscrizione PATER PATRIAE. Le parole seguenti poi, nelle quali è ricordato il luogo detto lo Perso, risguardano certamente l'antro di Mitra ch'era sotto al Campidoglio , nel quale sino alla metà incirca del secolo XVI vedevasi tuttora il celebre bassori- lievo mitriaco, detto poscia borghesiano ora in Pa- 328 rijji, sopra il quale abbiamo una bella monografia storica del eh. sig. Lajard (1). Che cotesto luogo dello lo Perso sia l'accennalo speleo di Mitra, e perciò la figura unius hominis equesiris il Mitra inamolante il loro del bassorilievo borghe»iano, lo dimostra la seguente indicazione del codice dell'Angelica (f.29,t.); donde anche si conoscerà qual relazione mai corra tra Giulio Cesare e questa spelonca : In loco sub- terraneo sub capitolio , qiiem aiuul fuissc locum se- creti consilii et in quo C. Caesar interemptus fuit , super imagine quadam marmorea ubi nunc dìcilur^ lo Perso: C . IVLIVS . CAESAR . DEO . SOLI . IN- VICTO . ALTERE. E nel codice della biblioteca na- zionale di Parigi 4833 (Osann, Syll. , p. 402) : In loco sub capilolio qui mine dici/nr Coperso (correggi lo Perso). C . IVLIVS - CAESAR DEO . SOLI . IIN- YICTO. La parola ALTERE del primo esemplare di cotest'iscrizione è senza dubbio una mala trascri- zione del MITHRAE, che si legge con le precedenti Deo Soli inviclo sul ventre del toro nel bassorilievo suddetto (V. Grut. 34, G, Lajard 1. e). Ma i nomi C. IVLIVS CAESAR come entrino qui, e per qual equivoco vi sieno stati intrusi, né io certamente, né altri forse, saprà indovinarlo. Il Mazocchi cangian- do ALTERE in ALTARE, die in luce quest'epi- grafe (p. XXIII, t. , donde il Grulero 35, 9) infra parecchie altre, eh' egli dice trovate sotto il Cam- pidoglio presso l'arco di Settimio Severo. Ed in- fatti da quel lato appunto era l'ingresso allo spe- leo mitriaco capitolino. Ma il Mazocchi non rin- venne già il marmo originale, avendo soltanto tra- (1) Nouvclles Obscrvations sur le grand bas-rclief mithriaquc de la coUecllon Bi,rghcse etc. Paris 1828. 329 scritto ed emendato, o fatto arbitrariamente emen- dare, quella copia che si legge ne'codici allegati e, come ben rammento, in altri ancora del secolo XV, Da questa arbitraria emendazione mazochiana na- cque certamente l'altra anche più arbitraria lezione del codice del cardinal Carpi (Grut. 3G, 10): DEO. SOLI . INVICTO . AFxAM . C . IVLIVS . CAESAR . D . D Curioso è il nome lo Perso dato dal volgo romano in età tanto rimota ali antro, od alla scuita immagine del dio peisiano. Sarebbesi egli mai que- sto nome conservato per antica tradizione sino al secolo XV, nel quale ninno sapeva chi si fosse quel Mitra, o perchè mai avesse a chiamarsi Persiano? 44, 45. Ej)ilaphium scriptum in pede mntjni lapidis Nu- midici^ quod dicilur la Guglia, stantis eredi in va- licano^ uhi est ecclesia s. Petri, in cuius summilate est vas aereum ubi sunl cineres corporis Oetaviani imperatoria. Divo Cacsari ec. In alia parte dieli lapidis Divo Caesari ec. (Grut. 228, 6, Zoega, de orig. et usu obel. p. 51, Orelli 37). Perchè il Signorili chiami lapidem Numidicum l'obelisco vaticano facilmente s'intende, confrontando il passo di Svetonio allegato nel numero antece- dente colle favole dei Mirabilia Romae^ le quali 330 additavano nel globo di bronzo collocato in cinria a quest' obelisco le ceneri di Giulio Cesare. Il Si- gnorili però avuto forse riguardo all'iscrizione, tra- sformò le ceneri di Giulio Cesare in quelle di Au- gusto. Tutto è trascritto e ripetuto nel Ferrarini , f. 85, t. 46. In quodam pilo marmoreo posilo in cisterna mo- nasterii s. Andreae de Liberatica retro basilieam XII. ^postolorum^ quod fuit sepulcriim Tiherii imperatoris. Ossa Tyherii Caesaris divi Aug. F. Augusti pon- lificis maximi trih. pot. XXXII- irnp. Vili. cos. V. (Mazocchi, LX. t., Grut. 236, 1. ex fr. lucun- do^ qui vidit., OrellL 691.) L'ottima copia di fra Giocondo varia ne'com- pendi delle parole. Inoltre, lin. 1. TI, 3. XXXIIX. Così anche il Mazocchi, ed il codice stoschiano del- ie schede di Ciriaco d' Ancona (Ottob. 2967, f. 55). Il Ferrarini (f. 99. t.) come il Signorili. 47. In alio lapide marmoreo sito in pede capitola portato (1) de sepulcro Augustorum^ sea de monte qui dicitur Lausta (l'Austa), et ordinato prò mensu- ris., in quo fuit sepulcrum Neronis imperatoris^ et no- minatur per litteras infrascriptas. (1) U coti, ottob. portante, quello dell'Angelica rettamente portato. 331 Ossa Neronis Caesaris Germanici Cesaris f. divi Aug. pronep. flamin. augustalis. quaestoris. (Apian. p. CXCIX, Grut. 237, 3. ex Smetio , Orelll G65.) Il Ferrarini f. 89. in magno lapide prope Ca- pitolium. L'Apiano l'ebbe direttamente dal Signorili, poiché ne trascrive quasi tutta la premessa indica- zione topografica. Lo Smetio scrive CAESARIS , e PPiON. Il chigiano Prvnepos. 48. In eodem loco in alio lapide in quo fuil sepul- crum Agrippinae mairis Neronis (1). (Apian. 1. e, Grut. 237, 4. ex Smetio, Orelli 659, Nibby, Roma nel 1838, P. II. antica, p. 530. seg.) Anche qui TA piano trascrive il Signorili. Il Grutero ha stampato OSSA . AGRIPPINAE . F . M . AGRIPPAE; ne'codici del Signorili è ommessa la F, come nel marmo originale tuttora conservato nel Campidoglio. I nostri topografi quando ragionano del mau- soleo di Augusto sogliono recitare questa sola iscri- zione come ivi rinvenuta (V. Nibby I. e. Canina I. e. p. 423). Ma egli è certo che anche le preceden- ti di Tiberio e di Nerone Cesare figliuolo di Ger- manico e quella di Caio Cesare (n. 61) da quel (1) Nel codice dell'angelica (f. 18.) Inibì in alio lapide ad men- suram deputato. S32 mausoleo, credo tulle ad un tempo medesimo, tor- narono in luce; e per le due ultime il Signorili espli- citamente l'attesta. 49. Est in alio loco , vìdelieet in turri de campo , tinus lapis in quo scriptum est: lunia Sillani (1) et ossa Neronìs Caesaris. Questa iscrizione non fu giammai ripetuta in verun libro a stampa, forse perchè tenuta per spu- ria ed immaginaria. Chiunque però esaminerà l'in- tera raccolta del Signorili, non saprà persuadeisi che questa sia una pretta impostura. Certamente l'iscri- zione dev'essere assai male trascritta, ovvero, come sembra assai più probabile, sono due male accop- piate ed imperfette. Il titolo OSSA NERONIS CAE- SARIS è incompiuto, e già di sopra (n. Al) lo ha il Signorili medesimo recitato tutt'intero. Laonde io giudico che il Signorili non trascriva qui verun marmo, ma piuttosto una qualunque notizia mano- scritta, nella quale erano soltanto accennate le pri- me parole delle due iscrizioni che leggevansi pres- so la torre del campo ( Marzo ?). Adunque, poiché della seconda abbiamo l'intero testo sotto il numero ■47, resterà soltanto a cercare come debbasi integra- re la prima. La quale per la comiiagnia di quella (1) 11 cod. ottob. SILIANI, il Ferrarini, f. 98, t. SILANF. 333 di Nerone Cesare mi sembra dover provenire ao- ch'essa dal mausoleo d'Augusto, e perciò spettare ad una Giunla del parentado de' Cesari, che abbia potuto avere diritto alia sepoltura in quel mausoleo. Ne io saprei rinvenirne altra fuor di quella Giunia Claudia, o ClaudlIIa, che fu prima moglie a Cali- gola, e perciò tenterei di supplire così: I VNIA . M . SILANI . F. CLAVDILLA (?) VXOR . C . CAESARIS GERMANICI HIC . SITA . EST Se la mia divinazione coglie nel seguo noi avremo in questo titolo sepolcrale un monumento irrepu- gnabile della veracità di Svetonio (in Calig. e. 13), di Tacito (An. VI, 45) , e di Filone (Leg. ad Caiumj che accennano l'immatura morte di Giunia Claudia, o Claudilla, come avvenuta stante ancora il matri- monio di lei con Caligola, mentre al contrario Dio- ne la vuole ripudiata nel 790 (LIX, 8). Stimo inu- tile lo spendere il tempo in ragionamenti per di- mostrare assai probabile la mia opinione o conget- tura: il sommo Borghesi, che ha tutto ricomposto lo stemma dei Silani (Ann. dell'ist. a.1849,p. ì segg.), egli dovrà giudicarne, e saprà forse dirci senza esi- tare a quale Giunia appartiene l'iscrizione accenna- la dal Signorili 334 50. In meta qnae est in moenìis urbis prope portam sancii Palili sunt infrascriptae litterae: Opus ahsolutum ec. et sequitur ab alia parte infra muros ec. Arbitratu Ponti ec. G. Cestius ec. (1) (Grut. 185,1., Ordii, 47., Canina 1. e. 549). La copia del Signorili è esatta tranne il nume- ro de'giorni CCGXXV. , ma confuso l'ordine delle linee e male punteggiate le sillabe e le parole. Dal Signorili il Ferrarini, f. 90. 51. In ascesa in quibusdam lapidibus tiburiinis sitis in fundamentis domus quondam Lueae Cecchi Lu- cìs (2). C. Poelitio L. F. Bibulo ec. (Grut. 455, 1, Orelli 4698, Canina l. e, p. 218). Lin. 1, Poelitio^ lin. 4, posterique. 52. In alio lapide sito in clivio (3) de Sabellis iuxla ecclesiapi s. Nicolai in carcere Tulliano. (1) 11 codice ollobonìano e qiieilo dell'angelica ed il Ferrari- ni f. 90 lerminano la prima parte dciriscrizione colia parola ar- bitratu, e cominciano la seconda Ponti ec. (2) Nel cod. chigiano Cehci vel Cecilucis. (3) Cod. oltob. livio, chig. iovio, dell'Angelica lovio, io ho cor- reUo clivio. V. sopra i nn. 12, 18. i 335 M. Ovius. M. F. ce. (Mazocchi, p. CIL in s. Nicolao in carcere Tul' liano^ Grut. 567, 3 ex Mazochio). La copia del Mazocehi viene da'manoscritti del Signorili, ne'quali però v. 2, OVIAE M. F. Nel chi- giano è ommessa un' intera linea per errore dell'a- manuense. L'iscrizione termina nelle lettere TR.MIL; le parole che sieguono nel Mazocchi non gli appar- tengono. 53. Est scriptum in quodam lapide marmoreo mu- rato in quodam pariete sito prope domum Cecchi Ra- pilatii. Consìliis puhlicis eonsules ec. (Apian. p. CCXXXI, 1, Grut. 493,2 ex Smetio, Orelli 538 ex Apiano). Lo Smezio vide cotesto frammento d'elogio al- quanto più mutilato che non era all'età del Signo- rili, la copia del quale stampata dall'Apiano è per- ciò la migliore; senonchè ne'manoscritti signoriliani da me veduti è sempre ommessa la parola IVSTI- TIO. Così anche il Ferrarini, f. 92 in marmore. 54. In lurri castri Capobovis prope sanctum Seba- stianum. (Grut. 377,7, Orelli 577). Alla lettera F è sostituita la M. Così anche nel Ferrarini, f. 92, t. 336 In monle Cabaili subliis Cahallos mannoreos (1). Opus Praxitelis . Opus Fidiae. (V. Mirabilia urbis Romae^ nell'EfF. lett. di Ro- ma I. 79 seg., e Montfaucon Diar. ital. p. 292. 56. lìi exitu portae lalinae ad maniim sinistram est unus lapis marmoreus cum litùeris infrascriptis. CORNELIVS . Q . F . STE . SIBI . ET . Q . CORNELIO . Q . F . PATRI ET . MVNATIAE . AVIAE . ET . CORNELIAE . ET . FVLYINIAE SORORIBDS. C. VIBIVS. C. F. MACER. ET . G . TREBATIVS . RVFIO FACIVNDVM . CVRAVERVNT . EX . TESTAMENTO. Mazocchi p. LXXVIII. In s. Laureniio in Luci- na; V. 1. ET. in luogo di STE, v. 3. MATER , TREBACIVS. Dal Mazocchi il Grutero 727, 1, emen- datala ex ingenio. Muratori 1253, 3. ad portam la- tinani e schedis N. V. Antonii Scotti Canonici Tarvisi- ni; V. 1. STE.... SIBI, 2. FVLINIAE, 3. TEREN- TIVS. RVFIO, /i. TESTAMENTO EIVS. Avverte però che nelle schede di fra Giocondo si legge FVLMINIAE. Ne'codici del Signorili varia quel no- me, l'ottob. ha FVLVINIAE, il chigiano Fuliniae ^ quello dell'angelica (f. 19.) FVLMINIAE. L'esem- plare di fra Giocondo , e quello della schede cita- ti) Ferrarini 1. e. in monte ec. subtus caballo quodam magno marmoreo- 337 te dal Muratori vengono dal Signorili , quello del Mazocchi d'altra fonte; il primo è il migliore. r; ■ l In porticuln carceris sanctorum Pelri et Pnutìy :■:'. Il iiii> C. Vibitis etc. 'innfTobni (Grut. 187, 5, ex Smetio et CHiadino, Canina I. e, p. 287). Il Ferrarini, f. 90 in porlicu s. Vetri et Pavli. 58. ir.fTjida »3Ì[)03 Isa i«o3 Erat in s lohanne in fontibus apud Laterannm sepulcnim in quo erat scriptum Martia Marci Calonis Il Ferrarini (f. 92, t.) trascrivendo questa iscri- zione dal Signorili la pone in s. lohanne in fontibus in ornatissimo sepnlcro^ ed è ripetuta in molti altri codici epigrafici, sempre però derivante dalla fonie signoriliana. Niuno forse degli editori di antiche la- pidi si curò mai di divulgarla; segno manifesto che la rispinsero come finzione di data recente. Ma il Signorili non avea né il vizio di falsar monumenti, né interesse veruno a fingere questa semplicissima memoria sepolcrale; e neanche saprei immaginare chi mai in quell' età potesse averne la voglia. Laonde ponendo mente alla circostanza che il Signorili né vide, né afferma esistere tuttora questo monumento^' G.A.T.CXXVI. 22 « 338 io giudico ch'egli, o lo scrittore donde trasse (^u'esta notizia, abbian voluto qui alludere a quel passo di lucano (11,342) : liceat tumulo scripsisse CATONIS MARCIA (Cf. n. 43). Per qual congettura, o volgare tradizione, od equivoco il sepolcro di Marcia ci ad- diti il Signorili nel battistero laleranense, non saprei indovinarlo. 59. Ad domiim de Ganellutis prope fliimen Trehellia T. Gymnasio ex testamento. Così nel codice chigiano, nell'ottoboniano GEM- NASrVS. Il Ferrarini f. 92. t. ad domum de Gua- nelluciis prope flumen, e scrive Gimnasio. 60. In quodam lapide marmoreo reperto in vinea Man- cini prope s. Susannam. Sóli invicto saerunx Cornelius Max. Cos. X. Tr. ex volo. Il codice ottob. ER. in luogo di TR. Così il Mazocchi p. XLI t. in vinea quadam prope s. Su- sannam^ donde il Grutero 35,7; copie evidenleuiente trascritte dalla nostra raccolta. Il Ferrarini f. 92. t. V. ult. ex Iter. La vera lezione del monumento, per la quale questo console trasmutasi in un veterano, l'ho rinvenuta io un'altra anonima raccolta trascritta in fine 339 del mille volte citato codice chigiano, la quale per indubitali arg'omenti so essere quella di Pietro Sa- bino. Ivi f. 62, t. si legge: in domo Pauli de Alexiis. SOLI INVICTO SAGRVM CORxNELIVS MAXIMVS. ET cori X.PR.EX VOTO. Ognuno vede ch'é mutila in principio forse d'o- gni linea, certamente della terza: facile é il suppli- re, V. 1. DEO^ V. 2 (un prenome), v. 3. vET. 61, Est ante eedesìam XIL Apostolorum unita lapis marmoreus porlatiis^ ut opinoì% de mont^ ubi sepe- liebaidur imperatores^ qui dicebatur sepalcmm Augn- storum et hodie dicitur corruplo mcabnlo Lausla, in quo sunt scriptae haec Utterae. Ossa C. Caesaris Augusti F. Princijìis luven/Mi^. (Apian. p. CXGVIII, Mazocchi p. LIX, Grut. 235,4. ex Mazochio, Orelli 636.) Io credo che tutti l'abbiano dal solo Signorili, dal quale certamente la trascrisse, ma assai male, l'A- piano ed esaltamente il Mazocpixi. 62. Fpitaphium Caffurniorum reperlum ad altan castri Farae. 340 C . Calphurnio .Sp.F.Col. ^polinarìa . p . parituri Aug . Preconi . peculìnr . iuliae . M . Fulitiae Mairi. Calphurnine C . F. Teluri . Calphurniae C. Lib . Daphne . fecit . C . Calphurnhis C . F. Quiri . Àpolinaris . M. (deficit) ini.poslerisfj. familiae nominis nostri Buie monumento iuris agri in fronte p. LXX in agro p. LXX . cu . debebitar ab omnibus possessoribus cius. Così il codice cliigiano. L' olloboniaiio v. I. CALFVKNIO, 2. FVLLITTAE, 3. TELLVRI CAL- FVIliMA, 5. P0LLINARIS,6. IIII, 8. CVl; col quale quasi sempre concorda quello delTAngelica (f. 18,1 ). E' stampata nel Reinesio IX, 9. Ferrar Ine in ara templi e Langerm.^ con quasi tutti gli errori del co- dice ottoboniauo; Gudio iud., p. GII Romae ad al- tare Castri fare più emendata, ma, come mi sembra, ex ingenio:, Fabretli 70^, 249 ex schedis Aegii^ dici- tur extare apud Argos in campis, emendata in circa come nel Gudio; Muratoli 891,5 ex schedis Ave- roldi in arce Ferentinati , incirca come nel codice chigiano, tranne la falsa interpunzione; e di nuovo 2042, 5. linvennae e schedis bibl. Cacsareae quasi co- me il Gudio ed il Fabretti , però meno emendata; lutti senza lacuna. A me sembrano tutte queste co- pie derivate da quella sola del Signorili, e varia- mente corrette dai trascrittori od editori, de' quali niuno seppe intendere che cosa fosse il castrum Fa- rae^ la Fara in Sabina. Il eh. Mommsen nell'egre- gia sua monografia de apparitoribus magislratmun romanorum (Rheinisches, Museum N. F. VI, p. 20), 34 f Annovera tulli gli editori tli quesl' iscrizione , e la crede veramente di Argo; tenta quindi, assai feli- ceaiente, di restituirla alla vera lezione nel modo se- guente: C. CALPVRNIO. SP. F. COL. A POLLllNAIlI. APPAIUTORI . AVO . PRAECONI . DEC . IVL . PA- TRI . IVLIAE . M . FIL . LITAE ?) MATRI etc. v. penult. P . LXX . Q . V . DEBEBITVR etc. t.JlhoHfi'i) 6 aaois; 63. Apiid s. Slephnmim de pinea : graeee et corruptis elemenlis corruptum (Sono lettele impossibili a ripro- per tolum durre colle stampe). latiìie : Phidias elia iman hoc niri Phidi lo vi. Il codice ottoboniano ha ommesso quest'imbro- glio di lettere senza forma, e d'interpretazione sen- za senso. La vera lezione del monumento si vegga nel Reinesio 11,62, Mur. 124, 1, e sopratutto nel Boeckh C. I. Gr. 6174, che ha fatto uso della copia manoscritta del Pighio. Ivi si legge anche l'iscrizio- ne latina averne la data, assai più copiosa di quel lacero brano , che ne die in luce il Marini (Iscr. alb., p. 17G). Nella quale l'assegnazione del luogo dicesi fatta da un colai , forse Celio PrisciUiano Massimo , curatore AED . SACR . loC . PV6. (loco- rumque publicorum) , non aedis sacrae pecunia pii- blica^ come vorrebbe supplire ed interpretare il eh. Zumpt. (Cf. Borghesi Burbuleio, p. 51 seg., e quel- lo che ho scritto nel Bull, dellist. arch. 1852. p. 28). 342 64. Litlerae in tabula marmorea sita in via saìicti Pauli extra portam^ quae dicitur gallina pulcinata, graece et corruptis elementis Apyiz'jci ali^uvocpitu; (sic) x. t. X. Jnterpretatio talis qualis (manca quest'inlerprelazione). Anche questa greca iscrizione è trascritta con tanto veramente corrotti elementi , eh' egli sarebbe impossibile e credo anche inutile il ripeterli colla stampa. Le meno sfigurate parole sono quelle due dalle quali comincia l'iscrizione, e che qui sopra si leggono. Ma una copia assai migliore ne avea tratta sette secoli innanzi al Signorili l'anonimo d'Einsie- deln (n. 73 ap. Haenel 1. e. p. 129, dall'anonimo il Boeckh C. I. Gr. 5900 e tutti i citali da lui), il quale ivide anch'egli il monumento in vìa ostiensi. Non perciò può aver luogo il dubbio che il Signo- rili dalla silloge einslldese abbia trascritta la sua co- pia, che dltre all' essere diversissime presso i due raccoglitori le parole dell'indicazione topografica, io intravvedo, parmi con sicurezza, dentro quel caos delle informi lettere segnate ne'codici del Signorili una decisa variante. Secondo l'einsildese leggesi in fine: vioù ini Tsjg TrsttSat'scg 'Ai^p'.uvov, iniGzclsi tou^àmo-j ccOrc- yparcpog , nelle copie del Signorili veggo evidenle- Juente le tracce di quest'altra lezione: 'A^prhov tcJ uvrc}ip.y.ropo; , y.xI ini':-S>ìi x. t. X. S43 05. In civ itale Neapolis ad s. Paulum alia Monta- {jna sunt scriptae in yroeco haec lilterae , ad coni- mendalionem Tiberii lulii aedifieatoris civilalis et templi. [Corrupta eltmenta^ cod. chig.) TIBEPI02 I0TAI02 TAPiOI x. t. X. Interpretatio sic sonot latine^ (nel codice chi- giano: corrupta interpretatio). Tiberius lulius Tarsus Dioscresi domini Vellia- tii filius et dìstributor liane civitatem et templum et ea qiiae sunt in tempio sumptibus suis propriis aedi- ficavit. (Grut. 98, 7, Martorelli Theca Calamaria II , 470, Boeckh C. I. Gr. 5791). Questa iscrizione e le due seguenti nel codice chigiano si leggono dopo il numero 80. 66. In castro avi de Neapoli Ovo mira novo sic ovo non tubcr ovo Dorica castra cluens tutor temerare timeto. (Cod. chig., otlob,, ed angel. (f. 20). 344 67. ■^^^\'^ In introitu civitatis Capuae Caesaris imperio regni cnsfodia fio Quam miseros facto quos variare scio. (Rein. II, 76 e sch. Langcrmtìmdanii]. 68. In ecclesia s. Sebastiani ad catacumbas Temporibus sancii Innocentii episcopi eie. ( Panvin. de VII, V, E. p. 93 , Bosio R. S. p. 177, Aringhi R. S. 1,458, Rein. XX, 155 e sc/t. Piccart. et Aringhio ^ Mur. 1929, 4 e sch. Cyriaci, Marini ap. Mai Sor. vet. V, 150, 1). Il Signorili scrisse; Presbyteri huius sancti san- do Sebastiano etc, quando la pietra originale, che ora sia nel museo valicano, ha: PRAESBB TITVII (sic) BYZANTI . SANCTO MARTYRI SEBASTIA- NO eie. La falsa lezione han ritenuto i codici deri- vanti dagli esemplari di lui, come p. e. quello del- l'angelica f. 20; e poiché tal quale lelteralaiente è trascritta nelle schede di Ciriaco del codice stoschla- no citato dal Muratori, sarà questo un certissimo in- dizio dell'avere il Ciriaco medesimo, forse pel pri- mo, fatto uso della nostra raccolta. Neppure un so- lo degli accennati editori ha stampato esattamente l'epigrafe come si legge nel marmo; ne pubblicherò il fac~simile, quando giungerà il desiderato momen- to della edizione delle mie iscrizioni cristiane. 69. /;* ecclesìa lateranensi in introUu^ videlicet in portìcii clictae ecclesiae sunt hi versus. Dogmate papali ec. (Rasponi De eccl. et patr. lat. p. 16, Nihby, Ro- ma mod., P. I, p. 243). 70. Aliud in tabula aenea fixa in dieta ecclesia prò- pc aquam benedictam (1). Foedusve eum quibus ete. (Grut. p. 242 ex Smetio .^ Orelli I, p. 567, Haubold. Mon. Legalia, p. 222 ex Guasco^ Mus. cap. T. Ili, n. 1391). Celeberrima fin dal secolo XIV era in Roma, come lutti sanno, cotciita tavola in bronzo della leg- ge regia in favore di Vespasiano, la quale Cola di Rienzo dichiarava ai romani, e la voce pomoerium to- gliendo nel senso di pomarium faceva loro intendere, che l'Italia quivi è chiamata il giardino di Roma. Ma il eh. Dock testé (2) ha dimostralo che non fu quella un'invenzione del tribuno, poiché assai prima di lui cioè fm dal secolo XII altri aveano adope- rato l'appellazione di pomoerium per pomarium ap- plicandola all'Italia, con allusione evidente a que- sto insigne monumento. Dove io aggiungerò che (1) 11 Ferrarini f. 99, l. in tabula aenea fixa in ecclesia late- ranensi. (2 Lettre II. à Monsicur L. Bcthmann sur un manuscrit de la lihliotheque de Bourgogne, neW Annuaire de la bibl. royale de Belr gique a. 1851. ;; i,ììo(\i'. ormisi to^i'iJ\otn;)mnn \ 346 anche il nostro Dante a quesla falsa interpretazione della legge regia sembrami alludere chiaramente là dove appella l'Italia il giardin dell' imperio (Purg. VI, 105). Fin qui, come ho di sopra avvertito, giunge il codice otloboniano, il rimanente di questa silloge l'ho dal solo chigiano. 71. Ad s. Pelrum suhtus navim mosaicam. Versus Quem liquidos pelagi gradientcm sternere fluctus Imperitas fidumque regis trepidumque labantem Erigis et celebrem reddis virtutibus almum Hoc iiibeas rogitante Deus contingere portum. Nel codice dell'angelica (f. 21) v. 3 celeremque redis virtutibus amplum^ A. rogante^ congr edere. Nel chigiano per errore evidente v. 4. Flunc. Il Muratori 1968, 9 l'ha data in luce mittente Passioneio, cioè dal citato codice dell'angelica, ma nel v. ultimo ha scritto regnante-, emendazione arbitraria. Il testo ori- ginale è evidentemente quello del codice chigiano, eoi quale concorda una manoscritta raccolta d'iscri- zioni delle chiese di Roma compilata da Carlo di Secua , Antonio Bos'io , e Giovanni Severano (cod. valile. G. 28, p, 9). Emendisi però nel v. 3. cele- brem., m celerem. Il testo del Muratori ha ripetuto il Marini (ap. Mai script, vet. V. 105, 1); e non avreb- be dovuto accettarlo, non solo perchè discordante dalla vera lezione, ma soprattutto per l'età del rao- numento. L'iscrizione spetta al celebre musaico vati- 347 cano di Gioito (e l'altesta esplicitamente il lodato codice vallicelliano), perciò è dettato del secolo XIV. 72. In Introitii urbis almae per portam Castelli. Versus. Romanus Francus Bardusque viator et omnis Hoc qui intendit opus eantica digna cantei Qiiod boìtus antistes quartus Leo rite novavit Pro patriae ae pilebis ecce salute suae Principe cum summo gaudens haec [cuncta) imin Perfecit cuius emicat (allus) honor. Quos veneranda fides nimio devinxit amore Hos Deus omnipotens perferat arce poli Civitas Leonina vaca. (Sarazan. Carni. S. Dani. p. 180 ex codice in- scripto, Descriptio urbis Romae, Mur. AA. med.aev. 11,461 ex codice Passioneio, Torrigio Grotte etc. , p. 404 ed Aringhi R.S. 1,259 ex quodam cod. ms.. Marini ap. Mai I. e. p. 323, 4 ex Sarazanio). Così il cod chi{jiano; quello dell'Angelica (ossia Passionei) v. 2. cantat (dove tutte le edizioni cctnut) 5. haec cuncta, 6. altus honor {cuncla, altus mancano nel chigiano) v. ult. Civitas haec a conditoris sui no- mine leonina vocatur. Nelle edizioni v'è una duplice famiglia d'esemplari di questa iscrizione, l'una cioè derivata dal Torrigio, l'altra dai testi tra loro quasi al tutto concordi del Sarazani e del Muratori. Il te- sto del Torrigio a chi lo confronti con quello del Sarazani e de' due manoscritti da me allegati, appa- 348 riià Janto evidentemente da lui rimpastato a suo ai> bttrio, che non fa duopo ragionamenti per dimo- strarlo, Clii noi credesse vegga quale licenza s'è j)resa ilTorrigio ancor nel seguente epigramma. Quel- lo del Sarazani e del Muratori ha nel v. 5 una assai importante lezione la quale non è però forse altutto indubitata. Essi leggono francamente : gau-r deus linee cuneta Ioannes perfecU eie. Adottata una volta per vera ques'a lezione, converrebbe cre- dere che Giovanni Vili abbia compiuta la città Leo- nina molti e molti anni dopo ch'era stata fondala da Leone IV, e così infatti dubitando opinava il Mu- ratori (I. e.) E pure Anastasio (in Leone IV, § G9 seg.) ampiamente ci narra la fondazione non solo ma anco il coaipi mento e la dedica della nuova città, impresa tutta compiuta da Leone IV, aiutan- te Lotario imperatore; e la narrazione di lui auto- revolissima per sé medesima è ne' più minuti parti- colari confermata da'monumenti, dalle iscrizioni cioè delle porte , mura e torri di detta città (1). Anco questa iscrizione a chi ne legga con attenzione il testo, e la ponga a lato della seguente similissima, sembra dover parlate piuttosto del solo Leone iV e di Lotario che di qualsivoglia altro. Non perciò io adotterò la lezione del Torrigio pi'ina'pe cum sutmno gaudens Lolliarius heros^ della quale non v'è trac- cia ne'codici, e che fra altre inverosimiglianze, dà il titolo di princeps suminus al pontefice, titolo che ognuno intende dover qui alludere piuttosto all'im- (1) V. il niiiTi' scg. e le due iscrizioni presso Marini, ap. Mai 1. e. V. 344, 1, 2, ed un lungo framnienlo presso il Torrigio i. e. p. 405. 349 peralore. Ma osservando che forse la pietia era po- co leggibile, appunto in quel passo, ed il Signorili facilmente, seguendo il suo costume, scrisse senza esi- lare quello che gli pai've comunque vedere nel mar- mo, io vorrei correggere: PRINCIPE CVM SVMMO GAVDENS HAEC CVNCTA HLOTAPiO (e non mi sembra intollerabile in un poeta di quell'età Hlotha- ro per Hlothario)^ e cosi la concordia tra questo ed il seguente gemello epigramma, e di ambedue con Anastasio, non pottà esser maggiore. 73. Ad porlam viridariam versus. Qui vcnis ac vadìs deeus hoc attende vialor Quod quartus slruxit mine Leo papa libens Marmore praeciso radiant haec culmina pulcra Quae manibus hominum aucta decore placent Caesaris invicti quod cernis iste Hlothari Tantum fraesuL oinnis tempore gessit opus Credo malignorum tihi nunquam bella nocebunt Neve triumphus erit hostibus ultra luis Roma caput orbis splendor spes aurea Roma Praesulis ut monstrat en labor alma tui. Civitas haec a condiloris sui nomine leonina vocatur. (Torrigio 1. e. Aringhi 1. e , Mur. I. e e.v Pas- sionei codice^ Marini ex Mur. ap. Mai 1. e. 324, 3). Il testo del codice chigiano è scorrettissmo for- se perchè il marmo e le lettere erano guaste v. 2. quare extruxit (il cod. Passionei quarc slruxit) v. 3 marmo, (cod. Pass, marmore) precioso radiant cala pnleria (cod. Pass, pulcra) v. 5 HIOTUR (cod. Pass. IILOTHR) , Y- G gestis ( cosi anche il cod. Pass.) , 350 V. 7. tua non (cod. Pass, così) , (v. 9 cod. Pass. capiid). Le lezioni che io ho adottato , sono scelte ira quelle che leggonsi nelle stampe corrette per conjjettura degli editori. Il Toirigio riformò, senza av- verlirne i lettori, e stampò il terzo distico come sie- gue: Caesaris invidi, quod islic cernis^ honestum Prae- sul tantum^ quod lempore gessit, opus. 74. In porta burgi sancii Pauli: versus. Hie murus salvator etc. (Sarazan, Carm. S. Dam. I. e. ex cod. inscripto Descriptio urbis Romae, Torrigio Grotte ec, p. 360, Mur. A A. med. aev. II, 463, ex cod. Passioneio^ Ma- rini ap. Mai, I. e. 329, 2 ex Mur. et codice bono- niensi^ Nicolai basii, ostiense p. 51, dal Muratori). Nel codice chlgiano come nella edizione del Muratori. 75. In ingressu secumlae portae capitola et in li^ mite scriptum , et fertur de more ostendi solitiim cuilibet senatori cum officium intrabat: Iratus recole quod nobilis ira leoni s In sibi proslratos se negai esse feram: et crai leo dcpictus feroci aspcc.tu ex allo catulum (ìnspicicns) humiliter ante eum iacentem. Così anche, mutate poche parole, nel Ferrarini (f. 93), nel codice dell'Angelica (f. 22), e nel libro stampato dell'Apiano (p. CCLXXXIX). 351 76. Versus in dauslro cancellariae Capiiolii super volumnas. Caesaris Augusti Frederici Roma seeundi eie. (Nibby, Roma nel 1838 P. IL Moderna, p. G10> Così anche nel codice dell'Angelica 1. e. 77. in fandamentis Capitola uhi mine Salare maius. Q. Lutalius Q. F. Q. Catulus Cos Substrueiionem et tabularium [de) S. 5. (i) faciundum curavit de aq. prò. ( Mazocchi p. XXI , Gì ut. 170 , 6 ex Panvin. et lioissardo, Mur. 291,2 e schedis Antonii Schotli Tarvisini, Orelli 31, 32G7, Canina I. e. p. 290). Il Mazocchi I. e. conne il Si^jnorili, ma termi- na in curavit^ ivi termina anche il Muratori I. e. [in Copitolio ubi sai reponilur) v. 1. Q. N. , 2. DE. S. P. (forse emendazione arbitraria del Muratori), 3. COERAVIT. Il Grutero v. 1. Q. N., 2. EX. S. C, 3. CVRAV. ed ivi termina. Il eh. Canina ha fatto ricomporre l'architrave d'una porta del tabularlo nel quale si le(j(je una parte soltanto d'un'esemplare diverso di quest' iscrizione ; col quale confrontando la copia del Signorili si avrà intera nel modo seguente: (1) II de manca nel coilioe chigiano, ma fu certamente scritto nella copia del Signorili, perchè Iha il Ferrarini (f. 94) , che da lui la trasse ponendola in fmdamenlis Capitoni. 352 Q.LVTATIVS.Q.F.Q.N.CATVLVS.COS SVBSTUVCTIONEM . ET . TABVLARIVIVI DE . S . S . FACIVNDVM . COERAVIT EIDEMQVE . PROBA VIT. Nell'esemplare superstite si legge EN.SENT., ed è stato supplito ex sEN . SENT. -, il Signorili lesse esaltamente nella pietra ch'egli vide DE.S.S., come nella celebre iscrizione di C. Fannio rinvenu ta testé nel tabularlo medesimo DE . SENA . SEN. (Bull, dell'ist. 1851 p. 150). 78. Versus ad s. Munain Maiorem in frontisincio coluiiiìuinim. Tercius Evgerdìis èc. (De Angelis, Basii, s. M. Maioris descr.etc, p.60, Nibby, Roma P. I. Mod., p. 382). 79. In sepnlcro M. Anto. Aneti via ostiensi prope ponleni de larcha ( Vana ) «>' D. M. M. Antonii Antii Augiiris ec. (Grut. 356, 1 ex Snietiu, OrelU 890). Cod. chig. V. 1. Antii Auguris ; % Sodalitii; 3. plae . 5^- . lud . praef . lue. ; 7. Regiliae; 9. alftnes ; 10. Brandua, ponlie ; 11. amici manca. 353 80. Versus ante ingressum poHae maioris s. Pauli in pavimento. linda lavat carnis maeulas ec. (Siimond. ad Eniiod. lib. II. ep. 149, opp. T. I. p. 1909, Mur. 1969. 1. misit Card. Passioneius., Ma- rini ap. Mai l. e. 169, 2, Nicolai l. e. p. 236, n. 737 dal Muratori) li solo Signorili ci serbò tuli' intero il testo di questa pre^jevole iscrizione dettala non da En- nodio il Ticinese, come per mero errore alcuni at- lerrnarono (V. p. e. Paciaudi de Balneis p 135), ma da un ignoto versificatore vivente s. Leone il gran- de, al quale spetta. Dal Signorili la trascrisse il Mar- canova, donde certamente il Sir mondo che parecchie iscrizioni trasse dalla raccolta di lui (1), ed il com- pilatore del codice dell'Angelica (f. 22), ond'cbbe- la il Muratori I. e. Fra Giocondo ne vide appena un frammento apud s. Paulum in marmare proiecto inter urticas et spineta (cosi nel citato codice di Propaganda) contenente il solo terzo distico; donde questi due versi dislaccati dall'intero epigramma, con quella indicazione medesima premessa dal Giocondo, furono stampali ne'libri del Mazocchi (p. CLXX), del Plteo (Vet. Epigr. lib. IV. p. 160 ed. Paris), e del- lo Smezio (146,5). Dallo Sraezio tolse quel distico il Grulero (182. 2), dal Pitco il Burmanno (Anth. II. p. 406); il Margarini (luscr. Basii, s. Pauli n. 480) ed il (1) V. Grut. 1114, 6j 1080, 10. G.A.T.CXXVII. 23 354 Nicolai (I. e. p. 13) asseriscono trascriverlo dal Mar- liano, nel quale non ho potuto giammai rinvenirlo, 81—82. In arca trìumphi in portu Anconae Imp. Caes. Divi Ncrvae f. ec. A latere Plotinae Aug. ec. (Grut. 247, 6, ex Smetio) 83. Fussu Car. in lueem rcvocatac Inbulae. Rcppcri in viridario palalii s. Peiri ad Vincula in tahulis marmo, in pariete muratis prope quamdam Ajwlinis statuam haec quae sequuntur^ scd inler iilrumque cpi- la. est crates ferrea fenestrae. Ex auctoritnte Turci Aproniani V. C. Praefecti urbis Ratio docuit ec. (Mazocchi p. XV. t., Apiano p. CCLVI, Grut. 047, 6. ex Smetio, Orelli 31C6). Il Signorili la trascrìsse esaltamento, come nella edizione del Mazocchi, tranne la parola conludcnti- hus., male dal Mazocchi scritta concludcntibus. Cosi anche il codice stoschiano delle schede di Ciriaco (oit. 2967, f. 54): in domo cardinalis s. Pelri ad Vincida ed il Ferraiini F. 102. Lo Smezio vide que- 355 sta e la seguente nel palazzo (dei Colonnesi, cf. Grut. p. 126) presso la chiesa de' SS. XII. Apostoli j ma il Si(}noriIi, e con lui Ciriaco ed il Mazocchi, c'in- segnano, che fu dapprima collocata in quello di s. Pietro in Vincoli suU'esquilino. Non può aduuque in verun modo servire questa iscrizione, come vorreb- be il eh. Preller (die regionen p. 140), a determi- nare il sito del foro suario presso la chiesa de'SS. XII. Apostoli. 84. Alia tabula Jmp. Cesare ec. (Mazocchi p. LVII, t. e seg., Grut. p. 126). Slimo inutile l'annoverare tutte le varianti del- la copia che trasse il Signorili di questa lunghissi- ma epigrafe, della quale abbiamo un'ottimo esem- plare nel Grutero 1. e. 85. Apiid Ruhiconem amnem inventum iuxta Arimi- num Coloniam. lussu mandatoqiie P. R. Cos. Imp< miles tiro comilUo ec. (fino a proferre lìceat neinini) (Grut. inter spiirias V. 3., Tonini Rimini ec. p. 381). Cav. Giovanni Battista de Rossi. {Conlinua) 350 Analisi della clinica dd parigino spedale di s. Lui- ^gi'^l, ossia trattato completo delle malattie della '^'•'.'pelìe del barone G. L. Alibert. liberi delitìGa l'albero delle dermatosi ad imitar zione di Forti, cbe delineava quello delle febbri inter- rriiltenti.ll medico italiano era condotto a questa nuova partizione delle periodiche non da servile imitazione né da grossolana idea, ma da sottile e filosofico ra- gionamento. Servilità, che è appariscente ed ammi- randa nell'albero delle dermatosi, e che chiaramente ci mostra essere il francese nelle sue produzioni sot- toposto al genio italiano; che stendendo le ali sor- passa le alpi e adombra il sottoposto occidentale piano. Alibei't nel tessere l'istoria di numerosa famiglia di malattie, resesi frequenti nel secolo in cui viviamo, se-? gue il metodo dei naturalisti, e descrive con corri- spondenti parole e analoghi colori i morbi dello spe- dale di s. Luigi, come i botanici descrivono le piante d'im paese o d'un giardino. Il nostro Baglìvi, in- nalzatosi di tanto nella sfera di nostra scienza, cono]>- be fino dai suoi tempi la necessità che vi era in me- dicina d'un sistema, per dividere la serie innumere- vole delle affezioni morbose. — Et sane (così ci la- nciò scritto il genio romano) inter j)raecipua ariis no. strae desiderata^ illud merito rcponimiis^ nt seilicel simjuli quique morbi tot speeies subdistiyuaidur, quot sunt morbi primarii in quibus favenlur , aut cau- sae vehemenles coslantesque in quibus jjrodticantur; et sinQìdarnm spccierum sigila cliaractcristica^ cum hi. 357 storia prima edrundem , nec non medendi methodus cuilihet ojìporliina et stahilis-, cadem potissimum ra- tione^ qua id factum videmus a botanicis (1). Il Si- denham era del medesimo sentimento; e voleva che le malattie fossero divise in ordini generi e specie colla medesima esattezza e precisione usata dai naturalisti nella classificazione dei vegetabili e degli animali: Primo expedi t ut morbi omnes ad defenitas ac cer- tas species rcvocentur^ cadem prorsus diiigentia qua id factum videmus a botanicis scriptoribus in suis phìjtologiis; quippe reperìunlur morbi ([ui sub eodem genere ac nomenclatura reductio quoad nonnullas sym- ptomata sibi invieem consimiles^ tamen et natura in- ter se discreti diversam elìam medicandi moduni po' stulant (2). Niun argomento di mediche discipline era tanto trascurato -, quanto il trattato delle dermatosi. Una quantità di cutanee malattie si confondevano T une colle altre sotto una stessa generica nomenclatura. Se per un istante ci fermiamo ad esaminare le scab- biose, conosceremo esistere nei tempi antichi questa confusione d' idee. Gli autori def secolo passato sot- to il nome generico di rogna confondevano varie al- terazioni del derma, che non hanno altra somiglian- za, che lo sviluppo d'infinito numero di bottoncini populosi accompagnati da forti e persistenti prudori. Alibert medico in capo del parigino spedale di s. Lui- gi, che è il primo stabilmento gallico, che maggiori mezzi presenti per lo studio dei morbi cutanei, ebbe (1) Prax. Med. lib. 2. cap. 9. (2) Sylciiliam. 358 agio a preferenza di altri scriUori francesi per Io- oliere la confusione introdottasi nel trattato delle der- matosi, come ancora di mirarne il corso, i periodi, l'esacerbazioni, e di osservarle nelle diverse epoche di loro esistenza. L'albero delle dermatosi comprende lo stato morboso dell'apparato inlegumentale ; e da ciò ciascuno può rilevarne l'ampiezza e l'utilità dell' opera. Per intraprendere un lavoro tanto vasto e dif- tìcile fa duopo d'un ingegno sublime, e duna instan- cabile softerenza per ordinare fatti tanto numerosi in un campo cosi vasto di mediche osservazioni. Indicate le malattie che si propone di svolgere, passa a discorrere dell'influenza, che hanno nella ge- nerazione delle dermatosi, l'età, il sesso, la stagione ed il clima. La sensibilità, l'initabilità e le altre fun- zioni dell'involucro, che copre il coipo animale, cam- biansi nelle diverse fasi che percorre la vita; e le dermatosi differiscono l'une dall'altre nei diversi stadi di essa. L'infanzia è molestata dalla tigna, dal vaiolo e d'altri esantemi d'analoga natura. Nel tempo della dentizione si svolge nelle tenere guance dei fanciulli un'eruzione denominala dai nosologi oloflìiyctis pro- labialis. Scorso il periodo dell'infanzia, entra quello della pubertà, ed allora lutto si cambia nell'umana economia; e le affezioni che la predominano sono maggiormente infiammatoiie, che vogliono essere trat- tate co' diluenti , e coi cos\ detti controstimolanli. Crescono gli anni, e l'apparato integumentale indu- riscesi, diviene meno sesibile, e si diminuisce l'azione dei vasi esalanti e degli assorbenti; e dalle glandolo sebacee non più preparasi una sufìiciente quantità tli materia grassa. Da ciò si scorge chiaia l' utilità 359 dei pubblici bagni, con cui i romani ed i greci si preservarono dalle dermatosi. Omero, Erodoto, Dio- doro Siculo, Tucidide parlano di queste infermità come di straordinari fenomeni, e da essi conosciute solo per tradizione e per fama. Dal diverso grado d'intensità della sensibilità del- l'organo cutaneo, e dalla maggiore e dalla minore quantità dei succhi, che abitualmente esistono nel cel- lulare sottocutaneo, deduce l'influenza del sesso sullo sviluppo delle dermatosi; molle delle quali sono in diretta corrispondenza colla mestruazione e coli' al- lattamento. L'influenza che le stagioni hanno sul si- stema dermalico, che pel primo fu da Ippocrate os- servata, è così sensibile ed appariscente, che fu dipoi osservata dai naturalisti nei quadrupedi e negli uc- celli, che in tutti gli anni sono sottoposti ad una spe- cie di muta cutanea; durante la quale |>erdono la vivacità, ed ammalano, ciò che dimostra la rivoluzio- ne organica, che in essi qompiesi. Le dermatosi svi- luppansi negl'individui di un temperamento a pre- ferenza di quelli di altro temperamento ; così esse serbano una certa predilezione ad una speciale mo- dalità individuale, che essenzialmente le corrisponde. Esamina le dermatosi negli aspetti maggiormente diversi ; e dagli stessi svariati fenoraoni, che esse presentano, rileva le cause determinanti e prossime. In ciò è servile a G. P. Francie, che ritiene le ef- florescenze cutanee nascere dal consenso delle prime \ie, e dallo stato morboso degli umori, o d'un acre deposto dagli umori sulla cute, ovvero da un vizio inerente al tessuto integumentale, o finalmente d'un miasma agente in questo tessuto, e quindi su tuilu 360 il sistema nervoso. Quello poi, che determina la pre» dilezione degli esantemi a questa o a quella parte del corpo, lo ignoriamo; come del pari risulta pro- blematica la natura delle cioniche ofilorescenze ten- denti a costituzioni determinate. Discende quindi a discorrere dei fenomeni con- sensuali o simpatici delle dermatosi. Nella nostra femmina irritabile, nell'incubazione, come osservava G. P. Franck (1), si svolge il cloasma che deturpa principalmente la faccia, e che il parto fa all'istante dissipare. Nello spedale di s. Luigi furono osservali da Alibert degli erpeti, prodotti dall'esuberanza del latte, nelle donne, o che non allattarono, o che spop- parono di repente i loro parti. Le dermatosi, come riferisce Pallas, ritardarono la pubertà., e dinervarono radicalmente l'apparato della riproduzione; ciò che dimostra la parte attiva che hanno le forze vitali nel- lo sviluppo delle dermatosi; e che esse non sono ma- lattie essenzialmente locali. Dallo svolgimento regolare delle affezioni cutanee deduce la cura igienica e la terapeutica, che ad es- se crede convenirsi. Lo scopo, che si propone con- siste nel rendere all'apparato integumentale la natu- rale energia, e di porlo quindi in armonia colle al- tre funzioni del corpo. Esclude la dottrina dei pretesi specifici, tanto magnificata dagli antichi , e nuova- mente riprodottasi; e che fu nei tempi passati, come loè tuttora,di gravissimo danno alla medicina « Quan- )) ti ostacoli non opponeva ( così egli si esprime) ». a'suoi progressi l'assurda dottrina dei medicamanti lUj'b e>! (11 Del mcto'lo ili curare le mali'Uid JcH'uoitio, tom. 4 361 >) specifici, che pur ebbesi di soverchio a consoli- » dare per motivo di antichissimi pregiudizi ? Ma , )> per valermi della frase ardita del profondo Stahl, » diventa un abuso dell'autorità il lasciarsi guidare » da essa sola. » La cura, che egli si propone, con- siste nello stornare le cause da cui esse derivano, e nel valutare il particolare lavoro della natura in questo stato di malattia. « Io credo ( così egli si w esprime) in conseguenza, che per stabilire in una » maniera decisiva la terapeutica delle malattie cu- » tanee bisogna non solo allontanare le numerose w cause, da cui esse derivano, ma apprezzare più pro- » fondamente, ciò che non si è fatto prima di noi, il » lavoro peculiare della natura in questa sorta di » malattie. Ecco ancora una materia , che reclama ») le combinazioni le più vaste, e le meditazioni le » più sostenute ». Le eczematose formano il primo ramo, ossia or- dine, dell'albero delle dermatosi. E si comprende in un ordine una riunione di considerevoli fenomeni riuniti per conoscerne i caratteri e gli attributi. Da questo ordine derivano i generi, esprimendo Alibert col vocabalo genere un fatto, un principio^ una ve- rità primaria e feconda, da cui provengono necessa- riamente le specie, ratio formalis specìerum. L'ecze- matose sono adunque il complesso, o la riunione delle affezioni morbose del tessuto integumentale, che co- stituiscono il risultato primitivo della flogosi del der- ma. L'eritema è il primo genere di questo ordine, che per la leggerezza della infiammazione, mentre in esso appena si osserva un principio di flogosi, co- 362 slituisce il primo grado delle alterazioni del derma. Alibert lo considera come il prototipo delle affezioni flogistiche. L'eritema per adiischione merita speciale considerazione. Ed egli conleniporaneamenle osser- vava, in un incendio avvenuto il 1 luglio del 1810 in una festa da ballo tenuta dall' ambasciatore au- striaco nella ricorrenza della magnifica festa data a Parigi air imperatore Napoleone , gli svariati effetti del fuoco in tutti i diversi gradi ritenuti dalla mo- derna scuola e dal professore Dupuytren. Fra le vit- time di quella funesta notte uno dei maggiormente tormentati dalle fiamme fu il principe Kourakin, che mediante la sagacità dello spirito inventore, e l'av- vedute intenzioni dei trattamenti curativi dei profes- sori Piet e Dubois, fu ad esso ristituìta la primiera sanità. Dalla storia scritta da Alibert chiaro apparisce, che questo principe era in uno stato peggiore , ed il fuoco adesso maggiori danni aveva fatti, di quel- lo che da noi si osservasse in quei disgraziati, che furono tormentati dal fuoco nell' incendio avvenuto in Roma nella polveriera di borgo Pio nell' anno 1839. Ma che essendo curati da uomini mediocri e sistematici rimasero vittima più per difetto di meto- do curativo, che per l'azione del fuoco; ed ecco il copioso ricollo di quelli, che sempre cooperano all' avanzamento dei men dotti. Nel genere olofliltide parla di un speciale ecze- ma quasi ignorato dagli altri; o per lo meno che essi non ce lo descrivono separatamente. Questa va- rietà di olofliltide, denominata progenilale da Alibeil, Ila la sua sede negli organi ilella geneiazione; e co- me analoga alle affezioni sifilitiche importa che sia ! 363 studiata con diligenza, onde poterla discernere nell' esercizio pratico. Le dermatosi eczematose, come il prodotto dei disordini e degli incomodi, che annessi vanno alla civilizzazione ed alia mollezza degli uomini, con fa- cilità possono allontanarsi. Ma l'eruzioni esantemati- che, che formano il secondo ordine delle dermatosi d'Alibert, e che dipendono da causa peculiare che agisce con leggi straordinarie ed occulte, l'arte me- dica possiede pochi mezzi , onde arrestarne i fatali progressi. Le dermatosi esantematiche non solo attac- cano il genere umano, ma anche gli animali domestici e selvaggi. Cosi il Ckavassièa osservò la rosalia nella pecora; ed il Plaulet in una scimia. Non avvi argo- mento più impenetrabile delle cause morbose, atte- nenti a certe disposizioni nelle diverse specie degli animali, non che nei diversi individui della mede- sima specie: onde a ragione disse Baglivi: In morbis cmm sive acutis^ sive chronicis produeenlis viget oC' cultum quid per hmnanas speculationes fere incom- prenhensihile (1). I morbi esantematici sono funesti a preferenza di altre malattie ; e si è intimamente commossi dalle vittime del vainolo, della scarlattina, e di altre eruzioni pestilenziali, che dischiudono ovun- que migliaia di tombe. I fenomeni morbosi delle esantematiche sono descritti con esattezza e precisio- ne; e dopo di avere egli parlato della cura antiflogi- stica usata dagli arabi, e quindi sviluppata dal Sy- denham, fa alcune riflessioni sullo smodato uso dell' oppio . « Ulteriori esperienze (cosi ogli si esprime) (1) Prati, mccl. 3G4 » ci insegnano essere più liserbati intorno a questo » modo di medicare ... 1' oppio tal volta pioduce » una calma pericolosa, paralizza le forze, deterrai- » na il collapsus cerebrale , reprime la salivazione » ed altre eserezioni vantaggiose. » Considera le dermatosi a norma del legame ana- logico, che naturalmente le collega; e discende quin- di ad analizzare altra serie di fenomeni morbosi, che il complesso di essi forma l'ordine delle dermatosi tignose. Gli arabi furono i primi, che in special mo- do si occuparono di queste malattie. Il metodo dei rapporti, che Alibert si propone seguire, ha il par- ticolare vantaggio di estendersi a qualsiasi punto di vista, di separare quanto va separato, e d'unire quan- to deve essere unito. Così egli, seguendo questo me- todo, arricchì l'ordine delle tignose d'un particolare genere, cioè del tricoma, ossia tigna endemica della Polonia e della Lituania. Le affezioni del quarto ordine hanno qualche ana- logia e somiglianza con quelle del terzo. Ma il pa- tologo facilmente distingue le tignose dagli erpeti per la diversità delle cause , e perchè quelle scelgono per propria sede il derma capellalo, queste al con- trario si estendono su tutta la superfìcie del corpo. Ed egli seguì nello spedale di s. Luigi gli erpeti nel- le diverse sedi di predilezione, e ne trasse le descri- zioni e le figure dagli originali. Dagli erpeti passa a discorrere la problematica teoria delle cancerose; che sono le malattie, che me- no delle altre si sottopongono all' analisi. In questo ordine parla d'una alFczione morbosa denominata che- loide,' non distinta dagli antichi, e né da essi descrit- 365 la. Non già che sia una nuova malattia, e che siasi svikippata nel nostro secolo; ma questo è uno di quei fenomeni morbosi, che si confuse con altri dagli an- tichi, perchè essi non gli osservarono in tutti i di- versi punti di vista. Vogliono i dotti, che si occuparono dell'origine e dello svolgimento successivo delle umane egritudi- ni, la lebbra essersi ingenerata in Egitto , e quindi dai commercianti fosse in Grecia introdotta , ed in Italia, allorché i romani portarono le armi in Orien- te. Nel secolo nostro si è resa rarissima; e mancano i fatti per fissare i generi e le specie, che riferisconsi all'ordine delle più funeste dermatosi. Alibert collo studio degli arabi e dei greci, e con l'osservazione di qualche caso presentatosi a Parigi città aperta a lutti i mali del pari che a tutti i piaceri, compose l'ordine delle lebbrose; e Tadornò di molte prege- voli figure. Alcuni credono, che le malattie sifilitiche fossero trasportate dal vecchio al nuovo continente; altri che gli europei, gli asiatici e gli afFricani non le cono- scevano prima della scoparta dell'America; e che Cri- stoforo Colombo con la sua immortale scoperta ar- ricchiva la carta geografica di una porte del mondo, e la patologia di un nuovo ordine di malattie. Ali- bert parlando delle sifilitiche, che formano il setti- mo ordine delle dermatosi, attenendosi ad un passo del satirico Giovenale : Sed podice levi Caeduulur lumidae^ medico ridente^ mariscae : ed agli scherzi di Marziale : 366 Ficosa est uxor^ fieosus est ipso maritus^ Filia ficosa est^ et gener ipso nepos: ed infine alla descrizione che dà Orazio dei mali di Campania : . . . . At UH faeda cicalrix Setosam laevi frontem turpaverat oris^ Campanum in morbum^ in faci em per multa iocatus\ sostiene l'opinione di quelli che credono esser pro- prie del vecchio continente; e che gli spagnuoli per discolpare il sistema d'oppressione e di tirannia te- nuto contro gli americani, popolo libero che avea diritto di sostenere la propria indipendenza, fossero i primi ad incolparli di questa malattia, che si dif- fuse in Europa in seguito della scoperta del nuovo mondo. Al patologo ed al pratico poco importa di conoscere il luogo, ove siasi sviluppata per la pri- ma volta; ad essi solo interessa di conoscere le leg- gi con che si propaga, e le alterazioni che produce nella macchina animale. Delle malattie sifilitiche Ali- bert ne forma un ordine, che comprende molti fe- nomeni morbosi, con le quali hanno rapporti ed ana- logie; come la tau di Affrica, il sibbes della Scozia, e la framboesia dei climi caldi. Nel decorso delle guerre del secolo decimoquin- to, e nei tempi più prossimi alla conquista del nuo- vo-mondo, le strumose si resero più generali e fre- quenti. Queste dermatosi hanno rapporti ed analogie colle sifilitiche; e non vi è cosa che maggiormente favorisca il loro sviluppo quanto la diatesi venerea. 367 Slabilita che egli ha la sede, e dimoslrato che le stru- mose sono l'espressione o l'esterna e la sensibile ma- nifestazione d'un eccitamento irregolare del sistema ganglionario; inculca ai pratici lo studio e la circo- spetta analisi dei caratteri differenziali , che distin- guono la scrofola endemica dalla volgare o spora- dica. Il complesso dei fenomeni morbosi, che destano il prurito alia superficie del corpo al massimo gra- do, e che non promuovono reazione febbile, forma l'ordine delle dermatosi scabbiose. Malattie che non risolvono spontaneamente, e che tendono sempre più ad ingrandirsi, se l'arte medica non vi mette riparo. Le distinzioni, che egli stabilisce, hanno contribuito al perfezionamento del metodo curativo di queste tanto ributtevoli infermità. Allorché la scienza medica prestava aiuto all'au- torità civile per migliorare la vita sociale, le ema- tose si resero meno comuni , e del tutto disparvero dalle grandi città. Alcuni credono, che la causa pros- sima dell'ematose consista nell'atonia dei vasi capil- lari; altri in un'alterazione specifica del sangue. Egli dà molto peso agli aforismi d'Ippocrale ; e l'ordine delle ematose è pregevole per le considerazioni sul sistema sanguignio. La causa che determina il colore morboso delle discromatose d' Alibert è tuttora misteriosa. Il fisio- logo ed il patalogo, il primo onde dare ragione de- gli svariati colori dei vegetabili e degli animali , e l'altro per determinare la causa che agisce nell' ap- parato integumentale , allorché si copre di macchie disposte con tanta simmetrìa e regolarità, ricorsero 368 a delle ipolesi, ohe non danno adeguata spiegazione del fenomeno. Egli, dopo di avere discorso lunga- mente delle diseromatose, termina con dire che solo in genere si può stabilire, che vi contribuiscono l' idiosincrasia individuale, e l'azione dell'aria e della luce. Carlo Linneo, deducendo dagli organi sessuali i caratteri differenziali e fondamentali del suo sistema di classificazione dei vegetabili, dovette necessaria- mente stabilire una classe (cryptogaraia) per collocare i felci, i funghi , i muschi ed altri vegetabili man- canti di questi organi; o, come pensa la moderna scuo- la, esistenti , ma in modo impercettibile ad umano sguardo. I cultori della medicina, che forma un ra- mo interessante del sistema generale delle scienze na- turali, si incontrarono nelle medesime difficoltà, e ad essi si presentarono i medesimi ostacoli. Ed Alibert nel suo sistema di classificazione dei morbi cutanei dovette, ad imitazione di Linneo, stabilire un dodi- cesimo ordine di dermatosi denominato eteromorfe, per collocare le dermatosi mancanti di punti di af- finità, e dei caratteri genealogici necessari alla riu- nione di più specie, onde formare un ordine. Noi abbiamo discorso dell'albero delle dermatosi d'Alibert per farne conoscere l'ampiezza e l'utilità. Se in seguito a quello che abbiamo partitamente esposto volessimo darne un giudizio complessivo, si potrebbe dire, senza tema di eirare, che il trattato delle dermatosi d'Alibert addita un ingegno riflessi- vo, ed una copiosa erudizione; e che egli ha corri- sposto ai desideri di Caglivi e di Sydenham. VINCENZO DOTI. CATALANI, 86^ Lavoisier. U. no dei più insigni chimici della Francia è stato Antonio Lorenzo Lavoisier. Grande nelle scienze fisi- co-chimiche, sventuratissimo per il suo fine di vita, le scoperte in chimica lo han reso immortale. Nacque a Parigi il dì 16 di agosto 1753. Suo padre, che nel commercio si era fatto uno stato con- siderabile, vegliò con molta diligenza per l'educazio- ne del Aglio, collocandolo nel collegio Mazzarino , ove riportò nelle classi dei premi con plauso. Giunto alla filosofia, uscì dal collegio, applicandosi profon- damente alle matematiche ed astronomia nell'osser- vatorio dell'abate La-Caille, ad assistere alla pratica chimica di Rouvelle , e a frequentare le dimostra- zioni di botanica del celebre lussieu. La passione fu tale per questa scienza, che volle alimentarsi di solo latte, ritirandosi dalla società in compagnia de' suoi maestri. Non ancor giunto al 20 anni, l'accademia delle scienze gli porse occasione di fare delle ri- cerche sopra un argomento di fisica ; era questo di fare una illuminazione in Parigi eflicace ed econo- mica. Lavoisier per mezzo di reiterati esperimenti fece parare una camera di nero e vi stette chiuso per sei settimane senza veder la luce, e così render i suoi occhi sensibili ai diversi gradi dell' intensità del lume delle lampade. Per sì nobile sagritìcio e sco- perta brillante per la scienza V accademia gli asse- gnò il premio di sei mila franchi. Fece qualche G.A.T.CXXVIL 24 370 \iaggio per (jli studi mineralogici, pubblicando una Memoria sugli strati delle montagne: quindi presentò all'accademia un Piano sulla pretesa conversione del- l'acqua in terra^ e sulVanalisi della pietra da gesso nelle vicinanze di Parigi. Queste do» te fatiche riu- scirono con universale ammirazione della Francia, ed allora i primi lutuinari delie scienze lo segnarono nel catalogo dei suoi membri. Intanto questo genio sor- prendente non tardò a conoscere quanto i mezzi di ft)rtuna erano necessari alle ricerche a cui mirava. Decise dunque di sagrificare parte del suo tempo ad occupazioni più lucrose, avendo ottenuto un posto di appaltatore generale delle polveri sulfuree ed acidi. I suoi colleghi stupivano di tale determinazione: ma convinti che ad un intelletto cotanto sublime basta- vano pochi istanti ogni giorno per gli affari, e nulla gli impedirebbe l'esercizio delle sue ricerche scientifiche. La mattina nel suo laboratorio adunava alcuni amici colti, di cui chiedeva la cooperazione: vi ammetteva anche dei giovani conoscendone la sagacità, egli ope- rai più valenti nel fabbricare esatti istromenti. Così sul finir del secolo XVIIl nacque la chimica fran- cese, che ha formato un'epoca brillante nella storia delle scienze. Becher e Sthal, facendo attenzione sol- tanto alla facilità di ridurre le calcine metalliche allo stato di metallo, immaginarono il flogisto. Fin dal secolo XVII Rey, Boyle e Mayow conoscevano che l'aumento di peso dei metalli dipende dall' aria ma le loro idee erano eclissate da quelle di Sthal. Le scoperte dell'aria fatte in Inghilterra sulla metà del secolo XVIII, ed alle quali Black, Cavendish, e Priestley diedero la f)iù sorprendente estensione , 37 « nulla iufluirono nella chimica. Selle anni dopo le esperienze di Priestley, Lavoisier fu colpito del pre- sentimento della dottrina ch'egli dovea mettere in lu- ce. Il primo germe del suo intelletto lo depositò al segretario nel 1772. Cavando molta aria fissa dalW jivivificazione dei metalli col caibone, gli venne que- sta idea che la calcinazione dei metalli non fosse che la loro combinazione con tale aria fissa, e cercò altresì di determinare tate opinione in un volume presen- tato all' accademia nel 1773: Opuscoli fisico-cìiimici. Per altro la slessa opera contiene sulla combustione del fosfero esperienze che provano che tale teorìa non poteva esser generale. Boyen avendo ridotto nel 1774 calcine di mercurio senza carbone in vasi chiu- si, Lavoisier esaminò l'aria che si otteneva da tale materia, e la trovò respiiabile. Priestley quindi sco- perse che quest'aria era precisamente la sola parte dell'atmosfera: allora conchiuse Lavoisier che la cal- cinazione e tutte le combustioni sono il prodotto del' l'azione di tale aria essenzialmente respirabile coi cor- pi, e che l'aria fissa in particolare è il prodotto della sua unione col carbone: e combinando tale idea con le scoperte di r>lacke e di Wilke sul calore latente, considerò il calore che si manifesta nelle combustio- ni come sprigionato soltanto da tale aria respirabile cui era prima impiegato a manlenere nello stato ela- slico. Queste due proposizioni costituiscono quanto appartiene assolutamente di scoperta al gran Lavoi- sier, nelle nuove teorie chimiche facendo la base ed il caralleie fondan)entale di tale teoria. Questa dot- trina fu annunziala in una memoria nel 1775 letta 372 air accademia delle scienze in una solenne apertura. L'autore sviluppò per gradi la seconda dopo un an- no, e le applicò ambedue alla teoria della forma- zione degl'acidi, e della respirazione degli animali; nondimeno esisteva un corpo combustibile più sin- golare che alcun altro, l'aria infiammabile: era natu- rale il ricercare ciò che darebbe la sua combustione. Cavendish riconobbe nel 1783 per esperienza d'una singolare precisione che tale prodotto è acqua. Mon- ge, che avea voluto auch'egli la stessa idea verso lo sfesso tempo, l'avea comunicata a Lavoisier ed a La- place, e questi ne aveano inferito che l'acqua si può scomporre in aria infiammabile ed in aria respirabile. Lavoisier dimostrò tal fatto con un' esperienza fatta con Meusmier nel 1784. Egli ne fece un'applicazione universale, non solo agli acidi minerali, alle calcine metalliche, alle arie che si producono nel momento delle dissoluzioni, ma alla natura stessa delle sostan- ze dei tre regni. Gli oli e le altre materie combu- stibili vegetali, dando, quando ardono, aria fissa ed acqua, si conchiuse che si componevano di carbone ed aria infiammabile: e le fermentazioni vegetali esa- lando molta aria fissa , dovettero esser attribuite a mutazioni nella proporzione del carbone, lia scoperta fat«a da Berthollel nel 1785, quella che l'alcali vola- tile si compone d'aria infiammabile, e dell'aria che resta dopo che la parte respirabile dell' atmosfera è consumata dalla combustione, sopravvenne a rischia- rare ì fenomeni più complicati. Si riconobbe che quest'ultima aria, chiamata allora aria flogisticata , era una paile essenziale delle materie animali; in tal modo si spiegarono i prodotti della combustione, e 373 quelli della fermentazione putrida. Lavoisier deter- minò le proporzioni di tali elementi nelle diverse so- stanze, le quantità d'aria respirabile assorbita, e quel- le di calore sviluppate nella loro combustione, facen- do conoscere che esiste un accordo tale, che equivale ad una dimostrazione. Guyton-De-Morveau, il quale avea proposto una nomenclatura fondata sulla antica teoria, si collegò con Lavoisier ed altri rinomati chi- mici di Parigi per diffondere la nuova lingua , il cui dizionario comparve nel 1787 col titolo: Metodo di nomenclatura chimica^ sostituita ai teimini bizzar- ri e misteriosi, cui la chimica antica avea tolti dal- l'alchimia. Una terminologia semplice e chiara con- tribuì potentemente alla propagazione della nuova dottrina: più ancora vi contribuì il Trattato elemen- tare di chimica, che Lavoisier pubblicò nel 1780. II talento ammirabile dell'autore per esporre e per isviluppare con ordine e chiarezza le verità scoperte mostrasi con tutta la sua forza nel primo volume, in in cui il lettore è condotto come per mano; tutte le diflìcoltà sembrano svanite, ed in poche pagine si co- nosce quanto la scienza ha di più complicato e di astratto. Il secondo volume descrive mmutamente la maniera di eseguire tante esperienze, è corredalo di 13 tavole disegnate, ed incise dalla moglie di Lavoi- sier, ed in cui i chimici videro la prima volta l'e- sposizione degli stromenti immaginati per verificare tante viste e nuove congetture. I principali stromen- ti che hanno recato vantaggi alla scienza sono il J/- no-pneiimatico ^chimico, mediante il quale si conser- vano e si trasportano le arie. Il gazometro, che ser- ve a misurare la quantità dell'aria, e di cui si fa uso 3T4 ojjgi per l'illuminazione a {jas. fi cai ovi metro, che dà la misura del calore prodotto in ojjni operazione, me- diante la quantità di g^hiaccio che tal liquore fa li- quefale. La Place ha contribuito assai alla costru- zione di quest'ultimo, ed alle {jrandi applicazioni che ne hanno fatto. Lavoisier avea formato nel 1792 il proffelto di riunire tutte le memorie, in cui erano esposte le sue scoperte sparse nei volumi dell'acca- deraia dal ITTI fino al 1789, facendo altre memorie nuove sui quesiti non ancora da esso trattati in guisa da compone un corpo completo di dottrina chimi- ca. A tal effetto associò Armando Seguin, col quale avea travagliato lung'amente per le teorie della re- spirazione e traspirazione. Una memoria di questa tesi presentala all'accademia nel 1791 fu 1' ultima opera che s'ebbe da questo scienziato; ma la grande raccolta progrediva, ed erano stampati i primi quat- tro Yolumi. Questi preziosi monumenti furono inter- rotti da uno dei delitti atroci che hanno disonorato Parigi. Nel fondo della sua prigione, allorché non ignorava che si meditava il suo assassinio, Lavoisier attendeva con calma e serenità ai suoi travagli scien- tifici. Nel carcere furono ritrovati molti fogli e fram- menti preziosi, raccolti poi in due tomi da madama Lavoisier col titolo: Memorie di fìsica e di chimica: senza data e luogo di stampa , e le biblioteche non posseggono monumento di più commovente ricordan- za. Queste linee tirate da un sommo ingegno, che scrive alla vista del patibolo, questi volumi tronchi, interrotti a mezza frase, e di cui la continuazione è perduta per sempre, rammentano tutto ciò che i tempi orribili; di cui parliamo, produssero d'orrore e 375 spavento. La catastrofe, che pose fine ai giorni di Lavoisier, fu conseguenza dell'arringo amministra- tivo cui avea esercitato con onore , non meno di quello scientifico. Fu appaltatore generale nel 1769: e sebbene occupato dalle sue dotte fatiche, vi ottenne un credito singolare, e divenne uno dei men)bri i più attivi, e quello a cui si commettevano gli affari i più difiicili. Le sue viste erano grandi , e sapeva quanto una stretta fiscalità noccia talvolta alle esa- zioni; egli fece abolire diritti, i quali erano assai di aggravio al popolo, ma non lucrosi per lo slato. La comunità degli ebrei di Metz gli decretò una testi- monianza onorevole di gratitudine per la liberazione che avea loro ottenuta da un pedaggio vessatorio ed ignominioso. Turgot^ volendo migliorare la rac- colta del salnitro e la fabbrica da polvere dì can- none, formò un amministrazione, di cui Lavoisier, co- me insigne chimico, divenne il direttore generale. Un istruzione sulle nitriere artificiali fu cojnpilata a sue spese, gli scavi forzosi nelle case furono soppressi: ciò non ostante il pjodotto in sul nitro indigeno fu del quintuplo maggiore. La polvere di Francia, che prima era meno forte di quella degli inglesi, divenne supe- riore ad essa, e fu riconosciuta in tal modo durante la gueira d'America. Lavoisier fece anche ricerche singo- lari di agricoltura e di economia politica. Coltivava nel Blesois un gran podere, dove dava ai propi'ietari esempi delle buone pratiche dell'aite agraiia. In nove anni gli riuscì di raddoppiare i prodotti in grano, e di far si che rendessero il quintiq)lo quelli delle greg- gie, senza esser giunto a ritrarre cinque per cento delle sue anticipazioni. Come grande proprietario nei 476 Inlifondì d'Orleans fu creato membro dell'assemblea provinciale. In occasione delle intemperie del 1790 anticipò alla città di Blois la somma di 60 mila fr. per comprar grani, scampando quella città dalla fa- me, la quale generò sedizione e tumulto in tanti altri luoghi. Nello stesso anno la sua riputazione negli affari pubblici fece che dalla cassa di sconto fosse ammesso nel numero dei suoi amministratori. In tale epoca in cui la Francia provocata dal suo re si oc- cupava delle migliorazloni, e di una grande ammi- nistrazione per la finanza, Lavoisier presentò un Trat- tato della ricchezza territoriale della Francia. L'as- .semblea costituente ne ordinò la stampa nel 1791. Ma quest'opera è perduta con tanti altri frutti dell' ingegno sublime di Lavoisier. Fu creato quindi dall' assemblea uno dei commissari della tesoreria. In que- •sto incarico il suo talento si mostrò superiore di gran lunga a tutti gli altri membri. L'accademia lo prescelse per essere uno dei membri della giunta in- caricata di determinare le nuove misure, spiccando così il suo genio per le esperienze, ed il suo spirito pratico. Tanti meriti, un' immensa riputazione, lumi- nose scoperte che lo resero gigante nella chimica ed in altre diver.se materie, non gli ottennero grazia pres so i decemviri del 1793, anzi agli occhi loro fu un motivo grande per proscriverlo. Coloro che batteva- no moneta sulla piazza della rivoluzione dovettero nel momento pensare agli appaltatori generali, a cui V opinione popolare attribuiva ricchezze immense. Fu- rono arrestali. Un deputalo che era stato impiegato nei loro uffizi, ed al quale Paulse suocero di Lavoi- sier avea accord.ito una protezione particolare, fece 477 un rapporto, in cui fra le accuse puerili fu quella di aver troppo inumidito il tabacco, di che aveano il monopolio. Tratti dinanzi al tribunale sanjjuinario, trentotto di essi furono condannati a morte, e di tal numero fu Lavoisier. Si sperò per un momento che la sua fama nelle scienze avrebbe interessato tulli gli scienziati; persona^jgi distinti, professori dell'istitu- to, donne supplicavano per la grazia dell'innocente Lavoisier: ma il terrore aggiacciava i cuori dei de- cemviri. Halle si presenta con tutta l'accademia delle scienze, coi medici, col liceo delle arti, e colla mo- glie irangoscianle dal dolore, e lesse al tribunale un rapporto sopra il vantaggio dalle scoperte scientifiche di qneslo luminare recate alla Francia. Lo slesso La- voisier supplicò quelle tigri di un indugio di alcuni giorni, onde terminare alcuni esperimenti a benefi- cio delTumanità: erano questi Sulle ricerche della tra- spirazione. Tutto fu inutile. Marat respinse con fu- rore supplica e persone , e Rosbespierre con voce più feroce gridava : Che non si aveva bisogno dei dotti. Il colpo fatale fu scagliato all'illustre vittima la inatlina dell'S maggio 1794. Lavoisier non avea cin- quanta anni, era in tutta la forza della sua salute e del suo (alento: quanto avea pubblicato, pareva il solo preludio di scoperte più luminose , sebbene sonosi smarrite nel suo germe. Non si può, senza gemere, riflettere che un indugio di qualche settimana gli fosse negato. Qual perdila per la chimica ! L'orrore si raddoppia quando si pensa che lo spirilo di par- tito non lo perseguitava, e che non esisteva denun- zia speciale contro di lui A tulli i vantaggi della fama grande che godeva, della gloria che lo circon- 478 dava, accoppiava vezxi esterni ; bello di persona, a- inabile e dolce nei suoi modi , amico appassionato dei suoi collegUi, amorosissimo colla sua moglie ma- dama Paulse, donna degna d'intenderlo e di secon- darlo nei suoi lavori, le cui qualità virtuose fecero la delizia della sua vita. [Nota). Lavoisier e Chaptal nella sola fabbrica di Grenelle giornalmente facevano eseguire 54 mila lib- bre di polvere da cannone e da moschetto. L'illuminazione a gaz, per l'illuminazione di tutte le strade di Parigi e di tutti i dipartimenti, fu inven- zione di Lavoisier nel 1793. Chimenz. 470 WfìììWfìWfììììììììììì^ìììììììWìWfìì w & m 1 m "w A Le lodi dei più illustri siciliani trapassati ne'primi 45 anni del se- colo XIX, scritte da Giuseppe Bozzo professore d'eloquenza ita- liana nella regia università degli studi di Palermo- Folume pri- mo. 4°. Palermo tipografia e legatoria Clamis e Roberti 1851. (Sono pag. XXVH e 412, con otlo ritraiti in iiiografia). Il signor professor Bozzo non ci ha qui dato noiose ed ari- de Ijiogratìe, come tutto dì n'escono in Italia e fuori, ma si veri elogi de' suoi celebri siciliani, trattando cioè con ampiezza storica quello che hanno fatto^ e con rigore critico quello che hanno scrit- to. Egli si è mostrato in ogni materia dottissimo, e vogliamo qui dargliene il gran merito che gli si deve. Gli elogi che si trovano in questo primo volume sono d"gnazio Marabitta scultore, d'Anto- nino Barcellona teologo, di Rosario Scuderi medico, di Federico Gravina ammiraglio, di Rosario Gregorio poliglotte , di Saverio Landolina crcheologo, di G. Venanzi Marvuglia architetto, di Gio- vanni Meli medico e poeta. Istituzioni di arte poetica del P. Niccnla Borrelli ex assistente gene- rale delle scuole pie, presidente delV accademia dell' immacolata Concezione di M. Vergine, uno de' censori di arcadia, e socio di altre accademit. 8." Roma 1852 (Sono pag. 168) Fra il gran numero di poetiche, le quali abbiamo d'ogni età e nazione, si leggerà con ammaestramento e piacere, soprattutto da' giovanetti, anche questa che ora ci ha dato il valente P. Borrelli, avendo in animo di giovare principalmente i suoi alunni del colle- gio nazareno. Le quattro stagioni di Giovanni Meli fatte italiane da Miniare La- risseo. 8.0 Prato, tipografia Guasti 1832 (Sono pag 26). Sotto il nome arcadico di Aminloré Larisseo celasi quello del signor cavaliere canonico Casimiro Basi accademico della crusca. 480 I/optra »■ ilejrna doH'cli'gante e ^eiililo sua penna, gii ben nota all' Italia. Ecco inlalti com'egli traduce dal siciliano dell' incomparabile Meli VAuttmno- Già cadon le prime acque, I venti fanno guerra, Un grato odor la terra Tramanda fuor del sen. L'ulivo ornai rinverde, K l'uva si matura; Fille, mia bella cura, Ecco l'autunno vien. Senti gli strepiti Onde i vicini Coloni cerchiano Bigonci e tini : Nessun rista : Chi i vasi accomoda. Chi botti fa. Rotola il turbo irato Fra gli alteri e i dirupi; I tuoni cupi cupi S'ascoltano muggir. Fra i lampi e le saette Ecco cba il ciel risplende, I nostri campi scende La pioggia ad assalir. E invano spuntano Germogli nuovi; Là trovi i lassani, Qua i razzi trovi; E lì vicin Sparagi ed ovoli Vedi e porcin. Di lordi e petti rossi Brulica il bosco assai, Ogn'anuo, già lo sai. Vengono a svernar qui, Co'vischi e la civetta A caccia andrò pertutlo. Appena sarà asciutto £ più tranquillo il dì. Vien meco, celali Fra i Iblti spini; Vedrai le pispole E i monachini. Che nel trescon Aifin rimangono Presi al panion. E' un fico in una balza Che verde erge le fronte. Vi fan del vicin monte L'api i lor favi al pie. E t]uesti ai primi albori, Mentre, mio ben, riposi, Turgidi e rugiadosi Kecar vo' in dono a te. Di più, vo'spargere Il canestrino Coi fior d'anemolo, t)i gelsomino in quantità : Lo so che a genio Molto ti va. Di dee gran viti attorte, Che han succo prelibato. Io seppi un pergolato Con mano industre ordir. 0r se a queìralci sotto Posi le membra lasse. L'uve son tanto basse Che le potrai lambir. D'erbette tenere Con un fascetlo Quivi pili morbido Vo'farti il letto. Si che bramar Qui debba, o Fillide, Di riposar. Melampo che le capre Guida, alle muse amico. Sotto quell'olmo antico Il flauto accorderà. tSI 382 E dall'aprica roccia Con note di dolore Lo sl'orliiualo amore Di Tisbe canterà. Che preda p,iacquesi D'incauto amore, E il gelso in pallido Jlutò il colore, E{;li dirà Nel carme l'unebre Della pietà. Se un satiro importuno Si asconde in qualche vigna, La testa sua caprigna Me lo (ara scoprir. E appena in lui m'imballo. Le corna ben gli fiacco : Chiamerà tosto Bacco, Ma non vorrà venir. Scherzano, ballano In stuol confuso, Di mosto tingonsi Il seno, il muso : Niun ritto sta ; Ognun si rotola Di qua e di là. Pur noi, la fronte cinta Di grappoli, pel volto ÌSoi sentirem disciolto L'umor pingue colar. Così soleva Pane, Nesuoi beati giorni, ("ili acuti orecchi e i corni Di tal ghirlanda ombrar. Né più mostravasi Dall'ire invaso. Ne gli schizzavano Fuori del naso E bile e liei, Tatto terribile Nume cruilel. 383 Con nacchere e con pive. Ballando per la via, Il Dio deirallegria Ognnn saluterà: Noi pure a tanto nume Darem debito onore : IMa poi del Dio d'amore 11 nostro cuor sarà. 0 Amore, o Broraio. La tela ordita Vi piaccia tessere Di nostra vita : Dateci sì Serie lunghissima Di lieti dì. La grafìa del casato di Dante ^llighieri rivendicata alla legittima originaria lezione centra l'uso erroneamente invalso, lettera al cav. Davide Bertolotti socio della R. accademia delle scienze di Turino. Edizione II, con appendice dell'autore dott. Alessandrb Torri di P^erona. S.° Pisa tipografia Prosperi 18S2. (Sono p. 31.) Vuoisi provare in quest'opuscolo che dee scriversi Dante Al- lighieri e non Dante Alighieri. CONTENUTE i^EL TOMO CXXVII VOLUMI 379, 380, 381. Betti^ Di alcuni fatti dell'imperatore Tiberio ec. p. 3 Mosca, Saggio poetico .... » 66 Cappello^ Biografia del cav. Francesco Bucci. » 74 Caetani^ Della dottrina che si asconde neWotta- vo e nono canto deWinferno della divina com- media di Dante Allighieri ...» 82 Checcueci, Della educazione domestica . » 99 Trivulzio., Lettere al cav. Salvatore Betti. » 124 Montanari., Elogio del cardinale Anton France - SCO Orioli . . . . . . » 1 7 1 Sassoli.) Commento di un sonetto del conte Gio- vanni Marchetti . . . . » 191 Milone., Discorso filosofico nella occasione che pub- blica.vansi a Roma gli opuscoli inedili del car- dinale Sigismondo Gerdil barnabita. . » 201 De Rossi., Le prime raccolte d'antiche iscrizioni compilate in Roma tra il finir del secolo XVI ed il cominciare del XV. ...» 254 Catalani., Analisi della clinica del pariginio spe- dale di s. Luigi. .... » 356 Chimenz., Lavoisier .... » 369 Varietà. IMPRIMATUR Dom. Buttaoni 0. P, S. P. A. Mag. IMPRIMATUR F. A. Ligi Arcliiep. loon. Vicesg. GIORNALE TOMO GXXVIIl luglio, Agosto e Settembre 1852 z.:^ \ ^M-^^^^"- Ni" ROMA Tipografia delle Bilie Arti MDCCCLII Piazza Politi. 01. f > lì lÀ ià fi ÉÈ\)^ K-fd Schiarimenti del professor Cappello relativi al suo la» varo sul congresso sanitario tenuto a Parigi^ pub- blicato in Roma nel corrente anno 1852. U. na genlilissima lettera del dì 15 ottobre di Ales- sandria di Egitto direttami dall'illustre cavalier Grassi, direttore del lazzaretto di quella città, manifesta la sua compiacenza nell'aver letto il mio lavoro sul sa- nitario internazionale congresso di Parigi, trovando in esso quanto può essere di più interessante per la scienza e per la umanità. Mi avverte peraltro essere io in abbaglio, quan- do per di lui testimonianza asserisco il periodo d'in- cubazione della bubonica peste protrarsi alle due ed anche alle tre settimane: meutre fu pel Grassi spe- rimentato, e personalmente riferito al scientifico con- gresso di Lucca, non estendersi l'incubazione al di là di sette giorni. Perlochè soggiunge, che si è ve- duto in obbligo di rettificare il mio abbaglio in una memoria risguardante il parigino congresso richie- stagli con sollecitudine dalla novella accademia me- dico-chirurgica di Genova (presieduta dal professor Bo), avendo egli pregato il chiar. professor Torre di quella città che appena fosse la memoria stampata, me ne trasmettesse una copia. Innanzi però di riceverla debbo al pubblico di- chiarare, essere io ingenuamente caduto in quell' ab- baglio. Il quale rimonta al 1846-7 , in cui incal- zando le pericolose risoluzioni dell' accademia me- dica parigina sulla bubonica peste , a misura che quelle in Roma giungevano, tantosto compilavo e pubblicavo, per impulso eziandio dell'eminentissimo 4 segretario di stato ìu allora presidente del supremo sanitario magistrato,, tre separali articoli col titolo di Considerazivni in prò della pubblica incolumità [*). Quando io attendeva a cotesta compilazione, mi per- venne il Filiatre Sebezio di luglio (1846), nel quale per cura dell' infaticabile de Renzi riportavansi 13 formulati quesiti sulla bubonica peste rischiarati da assennate risposte del Grassi. Ora inavvedutamente notai, che le parole del Grassi pel pericolo di pren- der la peste lino alle due ed anche alle tre setti- mane, riportate nella chiusa del IV quesito, si rife- rissero all'incubazione: mentre scorgesi avvenire co- testo pericolo per mezzo dei passivi conduttori, nei quali racchiudasi il contagioso germe. Che anzi rian- dato ad esaminare attentamente il quesito, saviamente e con luminoso esempio dimostra il Grassi, che an- cora per anni annidasi nei suddetti il contagioso se- me, quando non sieno per lo meno sciorinati dal- l'azione dell'aria e della luce. Le accennate mie considerazioni fuori, e dentro Italia soprattutto, furono soverchiamente lodate, ed in Milano dall'illustre Giuseppe Ferrano interamente si ristamparono nel diario dell'accademia fìsico-me- dico-statistica n. 14, 15 e 16. Nessuno avvertì l'equi- voco per me incorso: l'istesso Prws, relatore del rap-. porlo della medica accademica commissione pari- gina diretto all'eccellentissimo ministro del commer- cio di Francia, nella sua breve dimora in Roma fa- vorì giornalmente in mia casa con un suo tìgliuolo addetto allora (1847) alla legazione francese: si tenne hinc inde minuto ragionamento di quanto io avevo (') Sotto remi nentissi DIO cardinal Gizzi si riformarono le qua-, rantene sulla peste nei pontificii dominii: il che fu per me ricor- dato a Parigi e stampato nel processo verbale della sessione del •lì 31 ottobre. Pu il lodato porporato che sotto il dì 23 giugno 1847 sottoscrisse un ragionato dispaccio indiritlo all'intcnden/.a sanita- ria di Marsiglia relativo alle pericolose sanitarie novità proposte eJ adottate dal governo francese. i^jq .07f,c)ii 5 pubblicato nelle dette considerazioni intorno al di lui rapporto: fra le animadversioni del Prus, ninna parola disse sulla durata incubazione di 3 settinoane da me erroneamente attribuita al Grassi, i cui lavori erano ben conosciuti dal Prus (*). D'altronde in quanti sono slati i miei scritti editi da più lustri fino ad oggi intorno i contagiosi morbi manifestamente rilevasi la precisa distinzione del se- minio contagioso che può racchiudersi e rimaner la- tente nei conduttori passivi, e quello che appiccasi agli esseri organizzati e viventi , nei quali soltanto lo spazio che corre fra l'appiccamento e lo sviluppo del morbo, dicesi da patologi pel morboso organico lavorìo incubazione o delitescenza: che conseguente- mente non può avvenire nelle sostanze brute, inor- ganiche; per cui si distìnsero queste col nome di con- duttori passivi. Andato nel decorso anno al sanitario congresso in Parigi , ritenni per fermo quanto si era da me pubblicato nelle citate considerazioni. Arrogeche colà si parlò più volte dell' opinione del Grassi , o per dir meglio de' suoi esperimenti intorno l'incubazio- ne dei sette giorni: ma niun'avvertenza si fece del mio abbaglio. Il lettore però non creda che se il chiarissimo Grassi osservò nel levante, non estendersi l'incuba- zione al di là di quel periodo, generalmente, soprat- tutto in Italia, non si tenga per certo protrarsi il me- desimo alle tre settimane. Più volte nel parigino con- gresso fu da me ripetuto , che per un qualunque contagio il periodo di delitescenza difficilmente , se non mai, può verificarsi esattamente nei luoghi, ove (*) Quest'illustre francese si portò in Roma nell'andare a stu- diare in Egitto quanto concernesse la peste bubonica. Se non di questo morbo (che ei non vide), rimase però vittima nella sua età avanzala per le travagliose ricerche sul medesimo. Da Alessandria ebl)e la bonti di rimettermi un suo opuscolo colà pubblicalo, del quale io diedi succinto ragguaglio nelle mie memorie sloriche pag. 573-74. G quel contagio sia eodeinico, o per importazione an- niclatovisi e non distrutto, di tempo in tempo epi- demicamente risorga. Quindi il sicuro periodo d'in- cubazione potrà chiarirsi in quei luoghi, dove non vi fu mai, o da moltissimi anni dileguossi. In con- seguenza per la bubonica peste (come per ogni altro esotico contagioso morbo) nell'incivilita Europa i soli lazzaretti potran somministrare decisivi risuitamenti. Intorno i quali, non mancando convincentissimi fatti da me e da molti altri oflicialmente avverati e pub- blicati, risulta che talora cotesto periodo si è pro- lungato alle 3 settimane adi rado a qualche giorno di più. Ne discende quindi apertamente il pericolo cui si va incontro per lo scorcio quarantenario non solo proposto per la peste, ma anche per gli altri esotici contagi (febbre gialla e cholera). Da qnanto superiormente si è accennato , non sorprende, se nel levante la massima delitescenza non oltrepassa il settimo giorno. Il sullodato Ferrario nel pubblicare 1' asserto del Grassi sulla peste riferito nel lucchese congresso avvertì, che lo stesso Grassi intendeva le sue osservazioni pel solo levante. Il per- chè più medici nel detto congresso manifestavano diffidarsi nell'ammettere l'opinione del Grassi: giac- che sarebbe con ogni piobabilità riapparso fra noi dopo secoli il bubonieo contagio con disastrose con- seguenze. Relativamente poi a taluna dilucidazione risguar- dante la non endemicità della peste in Egitto vali- damente sostenuta dal Grassi, e da molti denegala, mi scrive che saran per esso su tal argomento rischia- rate nella suddetta memoria alcune circostanze per me riportate in occasione del bubonieo dominio in Egitto del 1835. In attendere io quindi ansiosamente di Genova l'accennata memoria, mi farò un dovere di tenerne ragionamento: mentre l'illustie autore, nel chiudere il suo gentilissimo foglio, desidera avere il mio parere intorno ja medesima. Le prime raccolte d' antiche iscrizioni compilate in Roma tra il finir del secolo J/F, ed il cominciare del XV {continuazione e fine). IL DELL.4 RACCOLTA COMPOSTA DAL POGGIO. Jl^a fin qui descritta raccolta del Signorili in que- sto soprattutto si distingue da quante le tennero die- tro nel secolo XV, che, salvo due o Ire eccezioni di niun conto, que'soli monumenti contiene i quali erano tuttora superstiti quando fu compilata : dove al contrario le seguenti parecchi ne trascrivono, ch'era- no certamente da più secoli altutto periti o scom- parsi. Al qual fatto niuno forse avea posto mente prima del eh. Mommsen che testé riconobbe e di- mostrò (j) , come ne' manoscritti del secolo XV e nelle slampe del decimosesto s' incontrano le copie di non poche tra quelle iscrizi uni che ci sono state trasmesse dal solo Anonimo d'EinsiedeIn, ed eviden- temente furono tolte da un esemplare dell'opera di lui. Ed investigando come mai e per qual via giun- sero a notizia di que' primi collettori le isciizioni tanti .secoli innanzi trascritte dall'Anonimo, della cui sil- loge niuno fino al Mabillon fece motto o mostrò (1) Epigraphische Analekten n. 13 16, nelle Berichte der A'd'n Siichs. Gcsellschafl der Hlssenschaften 1850. pag. 287 e segg. G.A.T.GXXVIII. 2 <0 aver conoscenza, s'avvide che al Poggio, scopritore insigne di tanti altri manoscritti ne' nnonasteri di Svizzera e di Germania, deve attribuirsi anco il me- rito d'averla rinvenuta ed in gran parte divulgala nel secolo XV. Questa per più capi importante sco- perta e direi quasi divinazione del eh. Mommsen vedremo ora pienamente confermata e stabilita da quel che verrò ragionando sopra un rarissimo codice epigrafico, nel quale per gli argomenti che m'accingo ad esporre dobbiamo riconoscere trascritta, benché con alquante lacune, la silloge d' antiche iscrizioni composta dal Poggio. Egli è questo un codice cartaceo in ottavo , scrittura de' primi anni del secolo seslodecimo o de- gli ultimi del decimoquinto, il quale mi fu dato ad esaminar« dal defunto Mons. Andrea Molza di eh. memoria custode della Vaticana, dove è serbato tra i manoscritti non numerati. Contiene dopo il libcr iiolarum una raccolta d'antiche iscrizioni, senza no- me d'autore o titolo veruno, evidentemente compo- sta di due parti; imperocché dapprima in carattere minuscolo v'c lelleralnjente trascritta gran parte della silloge d'Einsiedeln, seguono poscia le copie in let- tere capitali d'altre antiche iscrizioni, le quali non certamente dal codice elvetico ma da' mai'mi ori- ginali furono tratte. La copia della silloge einsildese muove dal numero sesto della medesima, e giunge soltanto fino alle parole esse suhdendum. lllud del numero //7: e poiché le iscrizioni qua e là tra- scritte e divulgate nel secolo XV, che il Mommsen ha riconosciuto dover provenire da una copia del- l'Einsildese, sono tutte comprese appunto tra i ter- ii mini di qiie' due nu meri , tra la sesta cioè e la quaranlesimasettima ; né veruna delle precedenti o delle seguenti , se i marmi originali ne erano perduti, fu nota a chicchesia prima che il Mabil- lon pubblicasse l'intero codice ; e quella del nu- mero 47 precisamente nelle parole allegate rimane sospesa in tutte le copie del secolo quintodecirao ; ecco che noi abbiamo senza verun dubbio in cotesto fìno ad ora unico manoscritto vaticano una trascri- zione di quell'esemplare istesso dell'antichissima sil- loge elvetica, donde prima della edizione mabillo- niana vennero in luce quasi di soppiatto parecchi monumenti epigrafici, da niun raccoglitore dopo il secolo ottavo più veduti e trascritti. Vero è che non tutte le iscrizioni annoverate dall'Anonimo tra que' due numeri sono ripetute nel manoscritto valicano; ma non è difficile il rinvenire la cagione di siffatti salti e lacune. La maggior parte delle iscrizioni om- messe sono quelle appunto che ne' primi anni del secolo XV erano tuttora superstiti ne' monumenti ori- ginali, da' quali furono trascritte in lettere epigrafi- che nella seconda parte del codice; alcune altre non molte, nelle quali non si saprebbe render giusta ra- gione del perchè manchino, certamente non manca- rono ne' migliori e più interi e perfetti esemplari di questa raccolta. Imperocché il manoscritto vaticano senza fallo deriva da un codice assai imperfetto e forse lacero e guasto ed avente alcuni fogli scom- posti e disordinati , come dimostrano fino all' evi- denza i minuti particolari che verrò notando con scrupolosa e forse soverchia cura nel corso della mia 12 edizione (1). EJ infatti queste iscrizioni ommesse senza ragione nel nostro manoscritto appaiono poi quale in una quale in altra delle raccolte del secolo quintodecimo (*2^ ; lantochè non può dubitarsi che furono veramente trascritte nell' archetipo e primo esemplare della silloge einsildese divulgato in quel secolo. La seconda par'te delle iscrizioni inserite in cotesto volume vaticano, quella cioè delle trascritte in lettere capitali da' monumenti superstiti , è cosi strettamente congiunta alla prima, che non dee du- bitarsi esser opera di quel medesimo che i invenne e divulgò la silloge d'Einsiedeln. I monumenti de'quali si compone questa seconda parte non sono giammai ripetuti nella prima, dove furono, come già ho no- tato, a bello studio ommessi e soppressi quelli che trascritti dall'Anonimo nel secolo Vili duravano però tuttavìa nel XV: e ciò che più monta V iscrizione della colonna Traiana che è riferita tra le superstiti non è qui nella sua lacuna integrata, come in tivtti quasi i codici del secolo XV, colle parole taiUis vi- rìbus^ lezione del Signorili , ma con le vere tarttls operibus certamente tolte dal codice d' Einsiedeln. Inoltre le copie de' monumenti appaiono qui tutte originali, non derivate da altre copie anteriori; né sopratutto v'è traccia o vestigio di lezioni signori- hane , dalle quali niuno forse de' codici epigratìci compilati dopo Ciriaco d'Ancona va al tutto esente ed immune: laonde tutti gl'indizii cospirano a per- suadeici che questa è una silloge non, come tante (1) V. sopralliiUo le noie ai mi. 16, 34. (2) V. i mi. 4, 5, S, 10, 18. i3 altre di quell'età, accozzata a capriccio dello scrittore del codice da altri codici epigrafici più antichi, ma opera d'un solo autore che intese a ricopiare, mas- sime in Roma, i monumenti superstiti , e per gli smarriti o distrutti ricorse al lihro dell' anonimo Svizzero. Il quale autore essere il celehre Poggio Brac- ciolini fiorentino gli argomenti mi abbondano a di- mostrarlo. Aver lui prima di Ciriaco d'Ancona di- vulgato un libro d' antiche iscrizioni cel fa sapere egli medesimo (1^; ed in quel libro erano tum pu- blicomm tum privnùorum operum epigrammata intra Ui'bein et foris quoque multis in locis conquisila at- que in parvum volameìt. coacta , appunto come nel nostro piccolo volume ove alle iscrizioni di Roma fan seguito parecchie d'altre ciità dell'Italia. Ora le due parti ond'è composto cotesto volume epigrafico per se medesime si manifestano opera del Poggio. La prima consta degli esemplari trasmessi dall'ano- nimo Svizzero, e precisamente il Poggio, come ora- mai è chiaro per i ragionamenti del eh. Mommsen (I. e.) , è il solo che innanzi al Mabillon ne abbia veduta e trascritta in parte la silloge. Infatti egli (1) Nel suo dialogo De forltinar xiarìel ite ove scrive: In hoc laudo, inquit Antonius, curam et dil genliam tuam l'oggi, qui ista tum publicorum tum privaiomm oiterum epigrammata intra Urbcm et foris quoque mullis in locis conquidila dt.iue in parvum volumcn macia litterarum siudiosis legenda tradidist!. V'cumque id caeteri accipiant, inquam, ad utilitatem certe communem diligenter omnia, nonnulla vero Inter virguUa et rubos lalentia, ex tenebris eruens ut aliis paterent ad vcrbum expressi; ut si, quod persaepe vidimns, ea Romani evertcrinl saltem lilulorum exlel memoria, (ap. Sallciijre Thes, I. p. 503.) 14 attesta (I. e.) aver letta l'iscrizione dell'arco dedicalo a Tito nel circo massimo per la presa di Gerusa- lemme, né quest'arco più esisteva certamente ai suoi dì. Sembrami è vero che fosse tuttora in piedi nel secolo XII; perocché nel testo dei Mirabilia ridotto alla sua vera lezione e rettamente interpunto io trovo ricordato, oltre Varcus septem lucernarum Titi et Ve- spasiani^ anco Varcus Tili et Vespasiani in circo\ ma nel liuir del secolo XIV e nell'entrar del XV né il Signori- li, né l'anonimo Magliabecchiano, che diligentemente annoverano gli archi superstiti, di questo fanno men- zione veruna. Il Poggio medesimo lo ricorda dopo tut- ti gli altri in modo da lasciar intendere che più non esisteva, e poco dopo più chiaramente, ragionando del circo massimo, scrisse: in quo [circo] et obeiiseum ingentem et arcum triumphalem Vespasiani fuisse le- yimus^ parum quid visu reliquit vetustas. L'iscrizione adunque egli ne lesse nella silloge d' Einsiedein, e da lui poscia ebberla i collettori da me annoverati nella nota al numero 18, i quali infatti la riferi- scono con quegli stessissisni errori che ritroviamo oggi nel testo dell'Einsildense. Ma non solo è chiaro che il Poggio ebbe almeno qualche iscrizione dalla silloge predetta, io posso anche indicare perché egli non ne trascrisse le prime né l'ultime , ma quelle soltanto che sono tra i numeri sesto e quarantesi- mosettimo, e perchè allutto trascurò e lasciò nel- l'obblio la topografia soggiunta alle iscrizioni. Egli non vide l'intero codice divulgato dal Mabillon, ma ne tiovò in non so qual monastero d' un similissi- mo esemplare un solo quaderno;' come rilevasi dai seguenti brani di due sue lettere inedite da un co- 15 dice di Parigi dati in luce dal Moinmsen nel Rhei- nisches Museum N. F. t. IV. p. 467. Epitajìhia, quae petis^ stint in patria cuin reliquis meis libris, sed ea parum quid sunt. Unicus parviis est quinternio^ quem inter pulveres repertum in manicam conicci^ cum li- hros quaererem apud Alemannos: ed in un altra let- tera: Res parvula est: unum enim tantum quaternio- nem haud magnnm abiectum neglectumque reperi apud Germanos, quem detuli mecum^ cum ibi quaedam es- sent quibus careremus. Or ecco perchè non solo mancano le prime e l'ultime iscrizioni, ma la qua- rautesimasettima neanche è compiuta e rimane so- spesa al bel principio d'un nuovo periodo, di che il Mommsen cercò in vano di render ragione (1. e. p. 292); oggi non vi sarà, credo io, chi non intenda che terminava in quelle parole l'ultima pagina del quaderno rinvenuto dal Poggio. Il quale prolesta d'averlo tolto seco perchè ivi erano quaedam quibus f^areremus; e con questo scopo di lui ottimamente concorda l'aver nella raccolta che die in luce, dal suo quaderno trascritte quelle sole iscrizioni , delle quali non aveva le copie tolte dai marmi originali. Tutti adunque anco i più minuti particolari , che Siam venuti notando nella prima parte della silloge vaticana, ci conducono al Poggio come al vero au- tor suo. Né meno evidenti sono gì' indizii e gli argo- menti per la seconda, che contiene le copie tratte dai monumenti superstiti. Ed in prima l'intima con- nessione che stringe ambedue le parti di questa sil- loge dee far sì che riconosciutane una come lavoro del Poggio, anche dell'altra s'abbia a dire altrettanto. 16 Né mancano argomenti inlerni che in questa per- suasione ci confermino. Le copie sono, come tlissi, altutto originali ed indipendenti da quelle del Si- gnorili e, per quanto lascia giudicare l'incuria degli amanuensi , non indegne del Poggio. Le iscrizioni sono quelle slesse ch'egli ricorda nel suo dialogo (1), aggiuntevi, com'è naturale, parecchie allre ivi non allegate perchè non v'era ragione di allegarle; ma di quelle le quali per l'accennato libro apparisce non aver lui conosciuto o curalo non ve n' è pur una sola. Così ragionando della mole adriana ricorda la sola iscrizione di Adriano e Sabina, ed è facile l'avvedersi che alle altre , vedute pure e Iracrille dal Signorili, non pose mente; ed infalli quella sola d' Adriano e Sabina si legge nel codice valicano. Ricorda il mausoleo d'Augusto, ma non fa motto delle molle iscrizioni de' Cesari ivi rinvenute, note anch'esse al Signorili; e niuna di queste s' incontra nel nostro codice. Non conobbe egli o non fé caso delle lettere scolpite sulla fronte del portico d'Otta- via e del tempio nel foro di Nerva; ed infatti que- ste epigrafi leggonsi nella silloge del Signorili, man- cano in quella della quale io ragiono. Né se alcune pochissime delle iscrizioni accennate dal Poggio nel suo dialogo mancano nel nostro codice perciò cade e perde ogni forza l'addotto aigornento. Coleste iscri- zioni qui mancanti sono primieramente alcune let- tere e parole di senso incompiuto ch'egli vide ne' cosi (1) Intendo parlare dell' intero libro primo delle sue Jlisloriae de varietale furttinae quale fu stampalo la prima volta in Parigi l'an- no 1723 dall'Oliva ; che le edizioni anteriori adoperale poi e 47, che sono gii ultimi della prima parte del libro del Pog- gio, e quindi trascrive in lettere capitali le prime quattro iscrizioni della seconda parte, dopo le quali torna all'interrotta silloge d'Einsiedeln riprendendola dal seguente n. 28, senza trascriverne l'indicazione l'indicazione topografica. Adunque le pagine ov'era il fine della prima ed il principio della seconda par- te sono stale qui inserite fuori di luogo. Io seguo nella mia stampa il vero ordine de'immeri e resli- (1) Haenel, Panchratii tnartyris ; neglecli ■■, extructam ; a [un- damcntis. Il Mabillon die stampò anch' egU negìectì credè dover emendare la voce antiquitatis in antiquitus ; io preferisco leggere neglectu antiquitatis. 35 tuisco le iscrizioni a quella serie in che certamen- te furono dal Poggio collocate.) IT. [In via Appia.) Senatus populusq. romanus duvani Martis pe~ cuniam in planitiem redigendam curavit. Yaxìs. 128. (1) ; Maz. p. LXVII- t, scorrettissima ; Grut. ) 52, 4. Il marmo esiste tuttora nel Vaticano. (18.) ( In arcu in circo niaximo.) S. P. Q. R. imp. Tito Caesari divi Vespasiani fd. Vespasiano aug. pont. maxima trih. potes. X. imp. XVII. XIII. p. p. principi suo quod praeceptis patriae consiliisq. et auspiciis gentem iudaeorum domuit et urbem Hierosolimam omnibus ante se ducibus regibus gentihus aut frustra petitani aut omnino intempta- tam delevit. Eins. 29. (2) ; nel cod. vat. manca, ma leggesi nel Ferrarini (cod. vat. 5243. f 86.), donde qui l'ho trascritta, nel Rice. n. 33 (Osann p. 518) , Ma- zocchi p. XXVI, Marliano p. 47, e Grulero 244, 6 ( e.v Panvinio)\ r quali tutti ebberla certamente dal Poggio, come già ho dimostrato nel ragionamento sopra la raccolta da lui compilata. La fonte anti- chissima onde derivano queste copie dimostra ad evi- fi) Maenel, clivum Martis pecunia publica ; redìgendum. (2) Haenel, Senatus populusq. romanus ; f. Fespasiani augusto pontif. max.; post X imp. Xrll. pos. fili. ; hierusolymam omnib. ; regib. 3G denza quanto vani e fallaci sieno i sospetti che taf- luni ( Orelli 759 ) han concepito contro la sincerità del monumento. 19. In septizonio. Imp. Caes- divi M. Antonini Pii. Germa. Sarma, sii. divi comodi frater divi Antonini nep. divi Adria- ni Trajani Partii, abnep. divi Nerve. Eins. 30 (I). Non fu ripetuta, per quanto è a mia notizia, nelle seguenti raccolte del secolo XV e XVI. V. Mommsen I. e. p. 299. 20. In monumento. In fron. P. XXII. in ag. P. XX. VI. M. Camucrius P. f. rom. soranus hoc motiumentum heredem non sequitur si tertio monumento illius candidati nomine inscripsero ne valeani. Eins. 31 (2) . La copia che di quest'iscrizione leggesi nel Mazocchi ( p. CLXV ), donde nel Grutero 905, 9, non viene dall'esemplare einsildese, ossia del Pojjfgio, ma dal marmo originale come ha già av- vertito il Mommsen l. e. p. 312. 21. Ad s. Sebastianum. 0 iiuam cito parvulis scremtat nutrimealorum ad cruciatum vitam perduccre cogitasti. (1) Haenel, germ. sarm. fil. ; comodi ; Jntonini Pii ; Hadriani pronep. divi Trajani; Nervae. (2) Haenel, infr. Camitritis ; svquilar sed hoc monumento iillius candidati nomen. I 37 Eins. 32. (1) . Anche questa non fu altrove ri- petuta prima dell'edizione del Mabillon. È certa- mente un frammento di elogio d'uno o più marliri. I codici einsildese e vaticano leggono perducere, il senso richiede una leggera emendazione, producere. II frammento dee essere diviso in due righe , la pri- ma termina nella parola serenitas .... 22. In Basilica Constanti ni. DN Constanlino maxima prò felici ne triumpha- tori sewper augusto oh amplificatam loto orbe rem- publicam factis consultisq. S. P. Q. R. dedicante Ani- lio Paulina iuniore C. V. cons. ord. praef. urbi. Eins. 33. m basi Constantini {2); Rucellai (1 e pag. 797 (3)) ; Rice. ( Osann pag. 519, dove C. V. come nei codice valicano ) ; Mazocchi ( p. XXXHI come nei Rice. ; in Basilica Lateranensi, congiunta per errore all'iscrizione del tempio del- la Concordia ; donde nel Marliano p. 28, e nel Grut. 100, 6, e 1086, 5. ex schedis Sirmondi, cioè dal co- dice di Marcanova ( V. sopra le note al n. 80 del Signorili;. L'errore adunque dell'essere stato scritto qui Basilica in luogo di Basi, il quale ha dato luo- go ad equivoci ed inesattezze ne' nostri topograti ( v.Mommsen I. e. p. 299 ), viene dalla raccolta' dal Poggio. (1) Haenel, seretìttan. (2) Haeiiel, pio ; auicio ; f . C- (3) ETta et alterum Constmtini e'.ognim ad Constantiniamm Basihcam ; e d. nuovo a pag, 8H7. Elooinm vero quod ad Lalerana fmt adhuc SHpersunt dui videre hoc maxime exemplo inscriptum. 38 ( Manca il n. 34 del codice d' Einsiedeln, tra- sciitlo qui dal monumento originale sotto il n- A9.) 23. - 25. In Capitolìo. Senatus populusque romanus incendio consumptiim cons'ituit divo Vespesiano augusto. S. P. 0- R- '^"'P- cfles. Severus et Antonini piis felic. augg. reslituerunt. S. P. Q. R- edem concordiae vetustate coUapsnm in meliorem faciem opere et cuUu splendidiore resli- tuerunt. Eins. 35 (1); Rice. 34-36; (Osann p. 518. 519); Rucellai, le due ultime unite in una ( 1. e- p. 972, extat adirne ) . Di queste iscrizioni ho accennato quanto basta nel ragionamento premesso alla pre- sente raccolta- (Il n. 36. dell'einsildese, è dal monumento su- perstite sodo il numero A^). 26- Ad VII- lucernas. S- P- Q. R- imp. caes. divi Antonini fi. divi Veri Parth. max. fi. divi Adriani nep. divi Nerve abnep. M. Aurelio Antonino aiig. germ. sarm. poni. max. tri- hun. pot. XXX. imp. VHI. cos. 1(1. p. p. quod omnes omnium ante se maximorum imperatoruni glorias supergressus bellicosissimis gentibus deletis atq. sub- actis. (1) Haenel, restiluit ; Vespasiano , impp. caess- ; Antoninus pii ; aug. ; aedem. 31) Eins. 38 (1), dove quest'iscrizione rellamente è collocala in Capilolio^e la precedente ( n. 37 ), che è quella dell'arco di Tito, Ad VII. lucernas ( così chiarnavasi nel medio evo quell arco]. Il Poggio ha ommessa quesl' ultima perchè trascrilta dal monu- mento islesso sotto il n. 43, ritenutone però per er- rore il titoletto ed applicatolo alia immediatamente seguente, cioè questa di M. Aurelio- Quindi è che nel Mazocchi è stampata ( p. XXV. t ) colla falsa indi- cazione ad VII. lucernas^ ed anche nel Grutero 2G0, A. e MazoccJiio et Metelli schedis^ cioè dal codice del Cardinal Carpi adoperato dal Metello. Nel Riccardiano (lì- 370sann p. 519) si legge senza indizio di luogo; le ultime parole stanno ivi così : deletis ae siibactis. 27. Ibidem. Liberlati ab imp. Nerva ealari aug. anno ah ur- be condita DCCCXXXXXXII. XXIII ea restitu. Eins. 39. (2). Al tutto come nel codice vati- cano è stampata nel Mazocchi p. XXV. t; dove an- che le lettere S- P- 0- Pi-, che nel codice d' Einsie- deln si leggono in fine di questa, appunto come nel valicano, sono trasferite al principio della seguente iscrizione. Il Grulero 246, 1 lipetendola dal Mazoc- chi, riformata a suo modo, la pose, ad VII lucernas ( il codice d'Einsiedeln coW ibidem accenna al pre- fi) Haenel, fratri divi Iladriani, Ncrvae; pontif. maxim. tribù- nic. ; aut subacHs. 12) Haenel, DCCCXXXXII. XXIHL ucì rcsUtu S. P. Q. R. 40 cedente in capilolio ) del quale errore è chiara l'ori- gine per quello che ho notato al numero antece- dente. Il testo dell' iscrizione è stato efjregiamente restituito dal Mommsen 1- e p. 300 nel modo che segue: LIBERTATI • AB. IMP • NERVA • CACSARe . AVG . ANNO . AB VRBE . CONDITA • DCCCXXXXUX • XHII • k OC^ RESTITY^aC S. P. Q. R. 28. Ibi. S. P. Q. R. Ceìonhim Ruffnm Albinum v. e. cos. philosophus. Rufi Volusiamius ordinari cons fìnium ^1) senalus ex consullo suo quod ejus liberìs post eae- sariana tempora i est post annos CCCLXXX et. I. au- ctorilatem deereverit FI. Magnus lenuariiis ve. Ali statuarum. Eins. 40. (2); Mdrcanova ( cod. estense ) ; Ma- zocchi p. XXV. t, tolta qualche leggera varietà co- me nel codice vaticano; Grut. 387, 3. e.v Mazocliio'., a Turre Mon- vet. Anrii p. Ili- ex Marranova- La giudicarono falsa il Maffei A. C. L. p. 328, il Zac- caria Islituz- Ant. Lap. p. 108, ed il Cardinali Mem. Roni- d' ant T- II- p 93, senza por mente all'au- torità del codice antichissimo che ce l'ha tranjanda- ta Ma intorno ad essa sonosi adoperali tutti i som- )1) Leggi filium. (2) Haenel , mancano le lettere .9. P. Q. fl. ; Cemonium /?«- ftum ; cons. fllosophum; volusiani bis ordiiiarii ; id est ; ieiunarius V. c- cur. mi cronologi , cercandovi V era cesariana, e taluni anche l'antiochena ; ed a stabihrne il principio mos- sero sempre, come da punto fisso ed unanimemente consentito, dall' anno di Cristo 335 , nel quale fu console ordinario un Albino, che stimarono esser quel medesimo cui è dedicala la nostra epigrafe (1). La- onde rimontando indietro per 381 anni riuscivano quali al 706, quali al 707, quali al 708 di Roma, secondo che inchiudevano o no nel computo l'anno 335, e per altre differenze nelle lor ragioni cronologiche, che a me non spetta ora qui l'accennare. Niuno però avea posto mente o saputo dichiarare a che mai volesse alludere l'iscrizione con quella frase, senatus consulto suo quod liberis eius post caesariana tempora auctori- tatem decreverit- S' è accinto a spiegarla testé il eh. Mommsen (1- e. p. 310 seg ) ed a decidere per questa via la quistione cronologica ; e la sua dichiarazione sembrami nella sostanza forse la sola che possa dare un ragionevole senso all'iscrizione', ma per quel che ris- guarda il calcolo cronologico si stima anch'egli co- stretto a partire precisamente dall'anno volgare 335, come quello che risponde al consolato d'Albino ri- cordato nel monumento. Ora queslo, a dirlo schiet- tamente, è un puro e pretto errore, come posso di- mostrare con poche parole. Il Ceionio Rufio Albino qui nominato ha il titolo di Consul semplicemente senza l'aggiunta di ordinarius . egli è adunque un sufFetto non 1' ordinario dell' anno 335. Infatti è stato già avvertito dal sommo giudice in queste materie (1) Panvin. Fast, ad a. U. 1087; Scalig. ad Eiiseb. n. 1969; Pagi Crit. ad Baron. ad a. 314; a Turro 1. e; Ideler II. 173. ec. G.A.T.CXXVm. 4 42 il Borghesi (1), che giammai in questi tempi non fu ommessa ne'monumenti l'appellazione di ordinarius nei consoli eponimi; ed in questa iscrizione medesi- ma Rufio Volusiano padre di Ceionio Albino è chia- mato bis ordinarius consuL Né se appariscono assai rari cessarono al tutto i su (Tetti dopo Costantino; che, per tacere qualche altro esempio intorno al quale converrebbe fare lungo discoi-so, appunto Cousules semplicemente sono chiamali ne'Ioro titoli onoraiii Memmio Vitrasio Orfito (Murat. 720, 2. Orelli 3184; Grutero 438, 1. Orelli 3185) , e Simmaco il padre dell'Oratore T Grutero 370, 3. Orelli 1186), ambe- due senza dubbio sufFetti. E nel calendario di Pole- raeo Silvio scritto l'anno dell' era nostra 449 (2) è notato: V. Id. lanuar. Senatus legitimus: suffecli con- sules desicjnnntur^ sive praetores^ e quindi : XI. kal. Mail Natalis Urbis Roinae :Consules ordinarii fasces deponimi:, lo che non è reminiscenza di età molto più antica, poiché trovo memoria sotto Graziano d' un adunanza del senato per la designazione de' pretori tenuta appunto il 9 gennaro (3), e negli ultimi anni del secolo quarto, del processo consolare d'un sufFelto nel giorno istesso del natale di Roma (4). Svanito così qualsivoglia dato fìsso dal lato del console Al- bino per stabilire Tanno dell'iscrizione e l'ultimo ter- mine del calcolo, rimane soltanto rivolgeisi al senso (1) Bullet. deirisl. 1830. p. M2. (2) Ap. Bollane!. AA. SS. Jun. T. VII. p. 178. (3) V. Symm. ep. I. 44, e coiiCronla Torazìone prò Trygetio ap. Mai, Sorip(. Vct.T.I. P. II. p. 33. SoUo Coslaii/.o qii.sta iia- zione avea Itioyo nel giorno del natale ili lui. V. Cod. TI). VI, i,\(). (4) Syium. up. VI, 40. 43 dell'iscrizione iriedesima. La quale coiivenjyo col eh. Mommsen che sembri doversi intendere d' un diritto ricuperato dal senato romano e per la prima volta 381 anni dopo i tempi cesariani posto in alto, non pei'ò nella persona do' fijliuoli di Knfio Volusiano, ma di Ceionio Albino. Imperocché è chiaro che le parole eius liheris non al Rufio Volusiano nominato indirettamente ed in caso ^jenitivo , ma a Ceionio Rufio Albino cui è dedicata l'epigrafe si riferiscono: e cosi rimane anche per questo lato escluso il con- solato di Albino dal fissare l'età del monumento. Il diritto riacquistato dal senato .sembra al Mommsen essere quello del nominare i consoli, del quale cai dimostrano in pieno esercizio due preziose orazioni di Simmaco rinvenute dall'eminenlissimo cardinale An- gelo Mai (1). E sia pure che la frase auctorilatem da- creverit debbasi intendere dell'onore de'fasci dal se- nato concesso ai figliuoli di Ceionio Albino, ma sor- gerà qui un nuovo insuperabile ostacolo al poter ri- conoscere in cotesti consoli non pur uno degli epo- nimi dell'anno 335, ma qualsivoglia eponimo di qual- sivoglia anno. Imperocché a me sembra certissimo che gì' imperatori non mai si svestirono del diritto di conferire essi stessi a lor piacimento il più alto grado d'onore che fos.se in tutto il romano impero, quello cioè de'consoli ordinari!, e che soltanto al se- nato concessero la scelta de'sufFetti. E veramente nel calendario citato è indicata l'adunanza del senato per la designazione de'questori,(2) dc'pretori e dtó'consoli (1) Script. Vet. I. e. p. 28. 30. spjjjt;. (2) X. Kal. Fcbr. Senadis (cgilimus : Quaestores Romac desi- gnanlur. 44- sufifetti, non mai per quella degli ordinarii; e Simmaco fa menzione de'fasci assegnati ai padre suo dal se- nato romano, che furono di console surrogato; e quan- do scrisse a Teodosio ( lib. X. ep. 66): Magistratuuin nomina quibus varias functiones designalionum tempo- re amplissimus orda mandavit ad aeternilatis vestrae perfero notionem, ut muneribus exhibendis aut suheun- dis fascibus destinatos cognitio imperialis accipiat^ parla certamente non d'altri che de' questori, preto- ri e consoli suffetti. Imperocché in quanto agli or- dinari! dalle altre lettere di lui medesimo chiaro ap- parisce eh' erano di nomina libera dell' imperato- re (1), e perciò all'imperatore ne rendevano pubbli- camente grazie, come Mamertino a Giuliano , Au- sonio a Graziano ; quando al contrario Simmaco il padre che fu suflFetto le rese al senato (2). E senza allegare molte testimonianze, basta la seguente chia- rissima di Ausonio per escludere il senato da qual- sivoglia parte in cotesta designazione de'consoli epo- nimi ne' tempi appunto di che ragioniamo : Consul ego imperalor auguste munere tuo, non passus septa^ neque campum, non suffragia etc. Ronianus populus^ marlius campus^ equester ordo^ vostra^ ovilia^ SE- NATVS^ curia^ nnus milii omnia G>'alianus [3) . Il senato adunque nel secolo IV avea racquistato il diritto di designare i consoli, ma soltanto suffetti , come anche quello di nominare esso solo i questori ed i pretori. Traendo l'iscrizione nostra al senso so- (1) Sytnm. epist. 1. 21, II. 62. 64, V. 15. 38, ec (2) V. Sytnm orat. prò patre, ap. Mai I. e. p. 30. (3) Gratiariiui Aclio ad Gralian. Lejjgasi tutta rorazione, e so- pratutto la lettera inseritavi di Graziano ad Au.sonio. 45 pra accennato, questa novità sarebbe avvenuta 381 anni dopo l'età cesaiiana, cioè o dopo il 706 in che, disfatto Pompeo, Cesare rimase signore ed arbitro delle sorti romane, o dopo il 708, come preferirebbe il eh. Mommsen, perchè in quell'anno furono stabiliti i nuovi ordinamenti politici che ridussero al nulla l'autorità del senato. In ambedue i casi ci troviamo condotti all'età di Costantino; e sta bene ch'egli ap- punto, il quale tante altre novità indusse nell'impero, abbia sancita anche questa in favore del senato, per conciliaisene gli animi e lasciargli un ombra ed una apparenza di autorità. E questo tenendo per certis- simo il numero dato di 381 anni. Ma chi ce ne as- sicura? Quasiché i numeri ne' manoscritti non fos- sero quanto v'ha di più variabile ed incerto ne'no- slri sludi, so|)ratutto se trascritti dai marmi. Né pos- siamo qui ricorrere al confronto di molti esempla- ri; che fino ad ora ve n'é stato uno solo; oggi son due, ma della stessa famiglia ; ed il nuovo modo di scrivere CCCLXXX ET. I. in luogo di CCCLXXXI dee porci in qualche sospetto di errore. Or ecco quan- to vacillante ed istabile è il terreno sul quale i crono- logi vollero stabilire tanti calcoli e ragionamenti ; e del limanente senza frutto veruno, che qui non v'è parola dell'era cesariana ch'essi cercavano. Restereb- be a vedere qual novità induce ne'fasti all'anno 335, e sopratutto nello stemma de'Volusiani, soggetto anch' esso di molte ricerche e controversie (1), la dichiara- zione lìn qui esposta di quest'epigrafe; ma debbo aste- nermi da questa disanima, che il presente monumea- (1) V. Oderici Diss. p. 238 e segg. 46 to, senza fallo assai meritevole di studio.^ m'ha però già troppo svialo dal djìo proposilo. 29. Ibi. Pietati augtistae ex S. C. qiiod factum est D. Aterio Agrippa C. Sulpieio Galba Cos. Ti. Claudius Caes. aug. gemi. pont. max. tribiin. poi. III. cos. III. imp. III. p.p. dedicavit. Eins. 41.(1); Mazocchi p. XXVI, Iranne qual- che pìccola differenza come nel codice vaticano; Gru- ter. 101, 1 dalle schede di fra Giocondo, il quale forse vide il marmo originale. V. Mommsen 1. e. p. 301. 30. Ibi. Locus absignatus oh ni grò et Cas foniano cnr. operum publicor. Eins. 42. (2); Mazocchi p. XXVI, incirca co- me nel codice vaticano; Gruter. 387, 3, per erroie congiunta con quella di Ceionio Albino (n. 38). 31. Ibi. Ti. Cladius fi Caes. aug. germ. pont. max. tri' bìin. pot. V. COS. III. desig. IIII. imp. X. p. p. ex S. C. mi. e. Calpelanum Rantium Sedatum Matronium (1) Haenel , X. S. C. ; katerio; caesar ; germanicus pontif. ; trib. (2) Haenel, adsignalus ; Cos- coniano. 47 M. Pelronium Litrconum T. Sartiuin Deciatum cura- tores tabulariorum publicorum fac. cur. Eins. 43 (1) ; Mazocchi p. XXVI, emendata a capriccio rna sul testo quale si legge nel nostro co- dice vaticano. Grulero 237, 8. ex Mazoccìdo et Me- lelli schedis^ cioè del codice del cardinal Carpi. V. il Moinmsen 1. e. p. 302. 32. Ad Tiber. Impp. Diocletianus et Maximianus augg. perpur- yatis fotiiuin rivis et itinerihus eorum ad perennem usum refeciis Tiberino patri aquarum omnium et re- pertonbus admrabilium fabricnruni priscis viris ho- nori dcderant curante aquas L. Aelio Dionisio tu. Eins. 44. ('2), Mazocchi p. XII ( in ripa Tiberis qiiod nuuc non extat ); Grut. 178, 6, e Mazochio et Metellanis. 33. In monumento in via Salaria^ Cu. Domitiiis Primigenius et Afrania Burri lib. coius conjuges vivi feeerunl sibi et libertis liberta- busq. suis posterisque eorum in fronte p. XXXV. H. M. iV. N. S. Ein. 45. (3) . Fu trascurata dai collettori epi- grafici, e perciò non mai data in luce prinaa della edizione del Mabillon. (1) Haencl, claudius Brusi f. Caesar ; germrinirus pontif.; trib. votesi ; Lurconem ; Salrium Decianum curatoris. (2) Haenel, fon lium , perenne, dyonisio cv. (3) Haenel, Hb. cenis conjuges ec. •48 33. in momimenlo in via Salaria. Imp. caesar M. Aureliiis Antoninus Awj. Germa- nictis Sarmatieus hos lapides constituisse propter con- troversias quac Inter mercatores et mnncipes arlae erant uti finem demonslr areni vectigali foricularii et ansarli promercaiiiim secundum veterem legem se- mei dumtaxat exigendo- "^ Eins. 46; premessa l'indicazione: Item P.... (se- condo la mia copia item in ....) (1). Nel codice va- ticano questa e la seguente son trasferite fuori del proprio lor luogo, come ho già avvertito nelle note al n. 16, quindi l'indizio del sito vi si legge non con un semplice item riferentesi al numero antecedente, come nel codice d'Einsiedeln, ma dislesamente come qui l'ho ti ascritto. Nel codice riccardiano nura. 19 (Osann p. 512) leggesi il testo di questa iscrizione quasi al tutto conforme a quello d' Einsiedein ; nel Mazocchi p. CLXXVI. t. come nel valicano; in am- bedue premesso il cenno in via salaria. Io credo che nel codice d'Einsiedeln sia scritlo item in P. cioè in porla [Salaria).^ come sotto al numero 52 si legge premesso ad un'altra iscrizione d'argomento al tutto identico il cenno ante portam Flaminea in via', intorno a che, come anche sopra le copie di questa e simili iscrizioni divulgale non dai codici ma dai marmi originali, vedasi il Mommsen I. e. p. 309. seg. (J) Haenel, conslitui iussil ; or tue erant ; foriculari ■jexigundo. 49 34. ' ; ' t In laniculo ante Eeclesiam lohannis et Pauli. Claudhis lulius Edesuis Dynanuus XC. et cul.^ urb. praefec. amore palriae compulsi'^ ne quid dili-' gentiae deesse videalur studio nostri addici nominis ' ut omnium molendinariorum fraudes computentur 4 quas subinde venerabili populo atq. nniversitati fieri sitggerentibus nobis agnovimus et ideo staterà s fieri praecipimus ^ quas in ianiculo eonstitui nostra prae- cepit auetoritas. linde hoc pragmate nniversitatem ìiosce 6 decernimus f rumenta cum lutee ad ^ loca con- terenda de culmine ^ consueta fraudibus licenlia pos- sit amoveri^ primo pensare non differant deinde postquam fregerint '° fidem integrae ohscrvalionis adhibitis isdem ponderibus agnoscant sibi " abstU' lisse licentiam fraudatorum. Accipere autem secun- dum constitutum brevem molendarios tam in ianiculo quam per diversa praecipimus per modum ^^ unum minas tres ^^ ita quod si quis eorum inlicita prae- sumptione farinam crediderit postulandam deprehen- sus et niultae subjaceat et frustratorio iudicio "• se noverit esse subdendum. illud et circ."^ Eins. 47 (1) ; Ferrarini ( f . 104 ) ; Marcanova (1) Haenel, 1. Eclesius Dynamius FC. et ini, 2. conpulsi, 3. no- stro adici novimus, 4. amputentur, 5. praecepimus, 6. programmate universitate nosse, 7. ad haec, 8. delulerint, 9. amoveri, 10. propter, il. nihil sibi, 12. modium, 13. nummos III, 14. fusdario suppUcio , 15. iUud autem humanitatis una (la mia copia rettamente humani- tas nra ) propter corporatorum Icvamen adicit ut si qui voluntate propria non conpulsus sed donandi animo farinam offcrre volucrit habcat qui accipit liberam facultatem. 50 (cod. estense ); Rice, n- 14 ( Osanti p. 508); Griit. 1114,6 ex Marcanova Sìrinoìidus; nelle quali copie s'incontrano alcune tracce delle varianti,© me{>iio, false lezioni del nostro codice vaticano, ma non tan- to numerose e difformale dal vero testo. ( Sin qui le isciizioni scritte in corsivo deri- vaoti dalla silloge d'EinsiedeIn ; le seguenti tulle in majuscolo , e da' rBoaumenli originali. Le prime quattro nel codice vaticano sono, come già altrove ho avvertito, trascritte fuoii di luogo, ma serbano la propria sede nel codice dell'Angelica, nel quale è tutl'intera ed assai più correttainenle trascritta que- sta seconda parte della raccolta del Poggio). 35-37. In porta tihurtina. Sono le tre iscrizioni , della porta s. Lorenzo assai meglio trascritte, che non furono dal Signorili ( n. 5. G- 8. ). A pie di pagina segno le varianti, tranne quelle de'compendii delle parole, rispondenti al testo dell' Creili 51-53. (1) Nel codice valicano è ommessa 1' indicazione del luogo, che perciò ho trascritta da quello dell'Angelica. 38. In porla Sei Laurentii in porta Tiburiina (sic) (1) Nella |>riaia iscriz. non v'è errore veruno: nella seconda, ommesse le parole PONTIFEX MAXIMVS ( così anche il Signorili, erano forse invisibili ) ; ANTONlMAiN : nella terza, ommesso IMP; POTESTÀ!. X; ommesso GENS; COS. XII (cod. anjr. XVII.) DESIO. 11.; MARTIAE. In ambedue i codici la divisione delle linee ò qui, e quasi sempre auclie nelle seguenti iscrizioni, al tuUo arbitraria. 51 L. FVRIVS . M. F. CAMILLVS. VIX AN. LXXV. Nel codice valicano, v- 3. LXXX. Il Fenari- ni f. 102 t, senza indicazione di luogo, v. 3. XV; il codice regio di Parigi 4833 , m 'porla tiburfAna (ap. Osann p. 402), t. 2. F. omnnesso, 3. LXXV. 5 Grillerò 912, 8 in vinca Francisci Cicchi ^vidit Sme- tius; V. 1. T., 3, XV; Mur. 1680, 3 in porta Sci Lmirentii e schedis farnesiis et suis v. 3. LXXV. Il Borghesi negli Ann. dell'Islit. 1850 p. 336 la divul- gò dal codice vaticano 5241 p. 48 [in domo Caesia) dove gli sembrò più corretla , e la sola varielà è nel V. 3, ANN. XII. Ma il lerzo de' Manuzii, del quale sono le schede riunile in quel volume, non vide il monumenlo, poiché egli medesimo cancellò l'indicazione in domo Caesia^ e vi sosliluì l'asterisco, segno notissimo di luogo ignoto, ed ebbela, se non erro, da un manoscritto di Fulvio Orsino. Forse la lezione migliore è ANN. XV, la quale non altera punto i ragionamenti del eh. Borghesi sopra questo breve epilafio. 39-41. In porta praenestina. Sono le tre iscrizioni del monumento dell'acqua Claudia, anche queste assai più esatte qui che nel 52 Signorili (1-3.) Vedi le varianti a pie di pagina (1) confrontate colI'Orelli 54-56. 42. In arca juxla Tiberini ultra scholam graeeam. V. Signorili n. 24, ove ho dat o in noia le va- rianti del testo del Poggio secondo il codice valica- no; e mal feci a trascurare quello dell' Angelica , nel quale la parola cos si legge al suo luogo, ed il nome del secondo console è scritto QViNCTiVS. 43. fn arcu Tili Vespasiani. ( Signorili n. 22) . Esattamente trascritta nel co- dice dell'Angelica ; nel valicano manca la lettera F, e l'indicazione del luogo. 44. NVMINI . DEORVM . AVG. SACRVM lOVI . OPTIMO . MAXIMO . SALVTARI EDEM . VOTO . SVSCEPTO . Quest' iscrizione riferita così senza indicazione di luogo in ambedue i codici che mi servono »H guida (2) , e nel Doni 1 , 4 e schedis Nicolai Ale- (1) Nella prima, CASSAR, CLAVDIAM ET CAERVLEAM, CAERVLVS, LXril. (al. LXFI.). Nella seconda non v'ò errore; [nel- la terza IMP. Xll. (2) Nel coil. valic. manca l'ultima riga. 53 inaimi^ è stata dal Mazocchi p. II mescolata alle tre già sopra trascritte al n. 8, e ad altre ancora; om- messa la parola SALVTARI e prefìsso il titoletto: in ponte S. Marine qui pì'ius dicehatur senatorius sive palatinus. Non è bastato questo primo imbro- glio già da me altrove avvertito, il quale non sa- prei come nato, ha tratto in inganno anche il eh. Preller ( die Regionen p. 223 ) , che il Ferrarini ( f. 85 t.) ne ha fatto uno peggiore, perchè accet- tato senza controversia dagli epigrafisti. Egli ha riu- nita l'epigrafe dell'arco di Tito (ommessa, come nel codice vaticano, la lettera F.) a quella di che ora io ragiono, saltate le parole NYJVIINl. DEORVM, donde la Muratoriana 131, 2, ripetuta senza sospetto dall' Orelli num. 760. Facile è l'avvedersi che l'errore viene dalla negligenza di chi facendo uso della raccolta del Poggio queste due iscrizioni l'una all'altra immedia- tamente seguenti, e la seconda mancante del suo ti- toletto, insieme congiunse. Non così forse è agevole il restituire quest'ultima alla sua integrità e vera le- zione. A me sembra che sieno anche queste, due iscri- zioni diverse ed incomplete. La prima dee forse emendarsi in NVMINI . DOMVS . AVG. SACRVM; ed è facdmente il principio d' una delle due iscri- zioni dedicate negli Orrei di Galha ( Grut. 75, 1, 2. Or. 45 ) le quali appunto furono rinvenute, tra il Tevere e l'Aventino, cioè presso al ponte senatorio come attesta il Marliano, Top. IV, 2. p. 63. La se- conda comincerà con le parole lOVI OPTIMO ec. e le mancheranno soltanto in fine i nomi del dedi- cante. Starà ora ai no.stri topografi l' investigare il silo di cotesto ignoto tempietto di Giove Salutare. 5/i In arai Constanlini. ^Vvn\( Signorili n. 23.) 45. 46. C. CAMERIVS CRESGENS ec. Il Ferrarini f. 89. Romae in s. j^ in s. sepulcro ma- gno:, Mazocchi p. XXXVIII, in s. Martino in nion- tibus ; nello stesso luogo il Gnitero 308 , 7 exscr. Smetius ; ed in s Martino ai monti infatti è rimasta fino ai primi anni di questo secolo. V. Millin Mag. Encycl. I. p. 407, donde 1' Orelli 2320. Ora è nel museo vaticano (1). 47. In aqueduclu^ qui hodie dicitur Iraxo. iy. Signorili num, 7 ). Il codice dell'Angelica in ductu aqiiae virginis senz'altro, e rettamente; che il nome volgare di frasi o traxo non a quest'acque- dotto, ma spetta all'arco di Costantino (2). Adunque (1) Cod. vai. V. 4. DVM MAGNE ETATIS ; Ferrarini deum ma- gnae actatis: Ang. DEVM MAGNAR ET ATTIS, dove a render perfet- ta la lezione manca soltanto la parola IDEAE. Nelle linee seguenti il codice vaticano ha qualche scorrezzione che non s'inconlra in quel- li dell'Angelica e del Ferrarini. (2) Senza citare per sì lieve cosa altri dociiuienli, vegjjasi il Mazocchi p. idi. 55 questa giunta , probabilmente non del Poggio ma d'alcun trascrittore , è stata dal n. 45 per incuria di chi scrisse il codice vaticano qua trasferita. Il lesto dell' iscrizione , tranne qualche compendio di parole , è esaltamente come nell' originale: lo che giova qui avvertire , poiché il codice d' Einsiedehi ( n. 9 ) ommette il numero delle potestà Iribunicie, laddove questo numero qui è notalo; e così sempre meglio confermasi che veramente in questa seconda parie della silloge le epigrafi, a bello studio ommes- se nella prima, furono trascritte dai monumenti su- perstiti. 48. In castro s. Angeli ( Vat. ) : In mole Adriani (Ang.) V. Signorili n. 33, ove in nota ho già dato le varianti, ossia errori, del testo vaticano (1) , le quali avendo poscia confrontato col codice dell'Angelica ho riconosciuto essere frutto di negligenza non del Poggio, ma dell'amanuense. Il testo di quest'ultimo codice concorda con la lezione che ivi ho propo- sta come vera ed esatta, tranne le sole seguenti va- rietà; V. 6. ANTONINI, 7. POT. II. DKSIG. III. COS. II. p.p., e gli allungamenti e compendi delle parole come nel codice vaticano. (1) Por errore di stampa ivi è scriUo tra le varianti della iiii. ■'• COS. P. P., <|tiaiido dovevasi scrivere COS. III. P. P. ,56 49. ,,, In arcu prope Capitplium (Vajt.) : In arcu trlum- phali sub CapitoUo [ Ang. ) (V. Signorili n. 20.) 50. In lapide magno quadrato juxla CapiloUuni. IMP. CAESARI . yE3PASIA^0 ec. (Mazocchi p. XX, Grut. 243, 2 vidit Smetius et Philandcr, Ordii 743 (1) ) • 51. In ponte supra tiberim. L. FABRICIVS. C. F. CVR. VIAR. FACIVKDVM. CVRAVIT (V. Signorili n. 27, 28. ) Manca qui la secon- da iscrizione del ponte ricordante i consoli Q. Lepido e M. Lollio che l'approvarono. Stando alla edizio- ne parigina de' libri del Poggio de varietate fortu- nae parrebbe eh' egli non fosse riuscito a leggere i nomi di que' due consoli , poiché ivi è scritto ; item pous supra Tiberim^ quo itur in insulam, ve- li) Non v'è altra varietà nella lezione del Poggio, oltre i com- penclii delle parole, che IMPENSA in luogo di INFENSA. 57 vetustissimi operis^ qiiem L. Fahrithun C. F. cura' torem viarum facìuìidum coeravisse epigramma te- stalur , et M. F. cos approhasse (I. e. p. 8; , e così veramente ho lelto nel codice oiioboniano 2134. Ma nell'altro esemplare, pure ottoboniano ( n. 1863), e coevo se non superiore tli età al primo , è scritto seguitamente, et M. Lepidiim ili. F. cos approhasse ; perchè parmi sicuro avere il Poggio Ietto il nome d'uno de'due consoli. L'ommissione adinique fattane nella raccolta epigrafica, o vien da questo, che quan- do il Poggio la divulgò non era giunto neanche a leggere quell' unico nome , che certamente vide e lesse più tardi, o è diletto, come parecchie altre la- cune, dell'esemplare onde derivano i codici vatica- no ed angelico. In porticu prope vapitolium (Ang. sub eapitolio,) (V. Signorili n. 11, e sopra n. 23.) 53. Tu obelisco qui est in vaticano ( Vat. ) In obe- lisco Vaticani. (Ang.) ( \. Signorili n. 44.) Ambedue i codici hanno DIVI . F. ommessa la parola IVLII : nel solo va- licano si notano altri errori. G.A.T.CXXVIII. 58 54. In arcu prope sanctmn Georcjium (Vat.): in ar- cu apud ecclesiam s. Georgii. (Ang.) (V. Signorili n.21.) 55. In aedificio prope copitolium (1). C. POBLICIO . L. F. ec. (V. Signorili n. 51.) 56. In antiquo capitolio ubi sai reponitur. Q. LVTATIVS . Q. F. Q. CATVLVS COS. SVBSTRVCTIONEM et tabularium DE S. S. FACIVNDVM COERAVERE (2). ( V. Signorili n.T7) . Nella prima linea di que- st'iscrizione era certamente invisibile la lettera N che precedeva il nome CATVLVS , poiché è ora- messa non solo qui ma anche nella copia del Si- gnorili. Quindi doveva sembrare a que' trascrittori che due fossero i consoli ivi nominati Q. Lutazio (1) Nel codice dell'Angelica manca Tindicazione del luogo. (2) Ambedue i codici che vengo trascrivendo ommettono le parole et tabularium, ma dal testo del Poggio che allego nella mia annotazione apparisce che non furono ommesse nel primo esempla- re della raccolta di lui. Nell'ultima linea il cod. vat. CVRAVERE. 59 figlio di Quinto e 0. Catulo , e che il singolare COEUAVIT dell' ultiaia linea mal rispondesse ai no- mi scritti nella prima. Il Signorili che trascriveva i monumenti alla buona, senza molto brigarsi d'in- tenderli assai per minuto, lasciò le parole quali leg- gevansi nella pietra ; ma non così fece il Poggio, il quale, per voler emendare, corruppe il t^sto di quest'epigrafe. Ed infatti cji questa falsa lezÌQn,e egli medesimo ci si dimostra autore scrivendo u,e| cj)t^t,Q dialogo : Extant in eapitolio fornices duplici orfline novis inserti aedificiis, puhlici nunc salis receptacuT liini, in quibus sculpium est litteris velustissii^is^ ai- que admodum humore salis exesis^ Q. Lutatium Q. F. et Q. Catulum coss. substructioneni et tabularium de suo faciendum coeravìsse (1) . L'esemplare del Poggio quale si legge ne' codici vaticano ed ange- lico , aggiuntavi anche qualche nuova scorrezione, trascrisse nel suo libro fra'Giocondo, donde lo stam- pò il Muratori nella nota al n. 2 della pag. 291. Le parole allegate del Poggio , senza citarlo , ripete il Marliani Top. p. 19. 57. In meta juxta portam S- Pauli. (Signorili n. 50 ). Nel codice vaticano CJ^A- MELAE, Ang. CLAMELIAE ; in fine Vat. PONTI L., Ang. PONTHI L. (1) EJit. Paris p. 8. 60 58. In aqnaednctu prope basiiicam Lalerani ex ap- posito hospitalis (Vat.) : In aquaeduetìi opposito hospi- tali s. Salva toris (Ang'.) ( V. Si{jnorili n. 4 ). In questa lunga isciizione ho notato pai'ecchi errori e sopralullo ouiniissioni (li parole ; ma poiché non sono queste neanche cor stanti ne' due codici, ed evidentemente procedono da inavvertenza degli amanuensi, laonde non posso- no servire di caralteiistica a riconoscere il lesto del Poggio, parmi inutile l'annoverarle. 59. In S. Maria Rotimela (Vat.) : In Panteon (Ang.) (V. Signorili n 15). Manca in ambedue i co- dici r iscrizione di Agrippa, e soltqnto quella vi si legge di Settimio Severo e Caracalla, intorno al te- sto della quale dovrei ripetere quello che ho scritto al numero precedente. Noterò soltanto che nella pri- ma linea anche il Poggio saltò di netto le lettere IMP. XI. (v. le note al Signorili 1- e), ed anzi errò anche scrivendo TRIB. POT. V. : ma le ultime pa- role corrotte dal Signorili lesse esattamente. CO. Prope pontein qui est interruptus (Vat.) : Apud pontem interruptum (Ang;.) (V. Sifjnorili n. 10) . La copia del Poggio ( so- pratiiUo nel codice dell'Angelica ) è assai esalta, e concorda perciò con quella del Griitei'o 197, 5, Iran*-; ne qualche compendio di parola alquanto varialo, e nel V 8. A. M ESSIVS, v. 10. W. P. 61. In lapide prope Capitoliiim (Vat): In lapide ma- gno a sunimitate fraclo juxla Capiloiiuin (Ang.) VESPASIANO AVG . PONT . MAX . TRIP., POT . IMP. XVIL PP. COS. Vili. DESIO. VUII. CENSOllI CONSEPiVATORl . AEDIVM . P V B L 1 C A U V AI ET . UESTITVTORI . AEDIVM . S A C Pi A K V M SODALES . mi . (1) OR'ilSjii Il Rucellai ( I. e. p. 793 ) come il Poggio, dal quale certamente la trascrisse. Molti esemplari di di questa e di simili^isime isciizioni leggonsi ne'le- sori epigrafici ; cioè nel Grut •243,5 e Mclelii sche- dis (OveWi 746), 243, 7 ex Panvinio^2^SJ ex Ro' ma Onuphi'ii, 270, 2 e.r Smelio , Doni 127, 56 ex adversariis Achillis Sta/,ii.Murnlor\ 185, 5 e scliedis Anlonii Schotti ( Orelli 2364 ). Confrontando il te- sto, che ora io divulgo, del Poggio, con (juello di tutte le citate edizioni chiaro apparisce l'iscrizione essere una sola, e le varietà, arbitrarie correzzioni ed errori di chi male adoperò la raccolta del Pog- gio. Imperocché la copia dello Smezio e d' Achille (1) li codice vaticano^ IX. in luogo di Villi. (§3 Stàzio^ chfe vldtìrd il t^ar-mo originale rollo dà capo e irtancatiie del tìiuniero delle (ribunicie potestà^ pet- diile per la fratUlia della pietra, senza fallo risguar- da quella base medesima che vide il Poggio anche essa rolla da càpo^ ma cOn una riga di più, e fian- cante di quel numero istesso. Egli è perciò un in- dubitato errore di lui l'aver scritto conservatori ae- dium puhlicarum in luogo di caeremoniarum publi- carum^ che son le parole del inarmo. Per togliere l'inutile ripetizione della voce AEDIVM il Panvinio ommise tre parole dell'iscrizione; e l'autore delle schède .adoperale dal Metello, cioè del codice car- pén«e^ gi?» hotò per l'arbitrio che si aÌMOgava di ri- fOV-mare a suo lalerito le lezioni de'tesli epigrafici (1), sc^isite SAGRARVM AEDIVM HESTITVTOUI ET RITVVM ANTlQVORVM CONSERVATORI, don de l'inscrizione Gruteriana 243, 5 ripetuta dall' 0- Velll l. e. Il terzo esemplare poi slatti palo dal Gru- tero non è altro che una difForirialissima copia di questo del Poggio, aggiuntavi inoltre come ultima lirica la prima dell'iscrizione seguente P. MARTIVSi VERVS. In somma la vera lezione di quest'unit>a,, non doppia epigrafe, consiste nella copia dello SrtiB- ziOi supplita dia capo con quella del Pogg;o, la qua* le [ierò è anch'essa mutila da principio. l'i. .nlo« Rnr "«l"' pi' dòpTde frMtò ih 'éà'àleii'à pf^ifffe 'capito'ltùià. ■■A'i'.t'i ..' . : ■ . . (1) V. Moniinsen I. e. p- 294 se{>. e le mie noie ,il n. li;) ilei Si- (jnut'ìli, ce. 63 P. MAR TIVS . VERVS ec. fino ad ... ATRIVS . CLONIVS . COOPTATVS Il Rucellai (1. e p. 1 1 25 ) trascrisse dal Pog- gio le sole prime due linee di questo lungo e pre- zioso framreiento di fasti sacerdotali; tutt'intero il Fer- rarini (f. 84t.) e credo anche il codice del Rigazzi ed il Maroanova citati dal eh. Borghesi a pie della co- pia «he ne ha ti-asmessa al mio amico il eh. sig- dott. Henzen. Se non che il Ferrarini naale congiunse le prime parole SALVIS DOMIlNIS NOSTRIS della se- guente iscrizione all'ultima linea di questa; e l'erro- re fu ripetuto dal Mazocchi, ( p. XXIIII ) che primo la die in luce per le stampe. Deforraatissiraa dalle schede di fra Giocondo l'ebbe il Grutero (300, 2) ; e nulla monta l'annoverarne le molte altre edizioni e confrontarne gli errori col testo del Poggio, do- poché il lodato sommo P>orghesi dietro la scorta ap- punto de'migliori manoscritti l'ha restituita alla vera lezione ( Mem. deli'lst. I. p. 259 ) . Anzi anche una miglior fortuna è toccata a questo nobilissimo fram- mento; che il eh. dott. Braun ne ha rinvenuto u» esatto fac- simile in un codice peruzziano di Firen- ze, il quale, oltre al confermare la lezione adottata dal principe de'fastografi, la arricchisce di due altre linee l'una in principio l'altra nel fine. Io ho que- sta copia sott'occhio ( e sarà data in luce dall' Hen- zen ) ; e senza entrare ne' minuti paiticolari delle varianti de' due codici della silloge poggiana , mi sembra che basti l' accennare , la copia del Poggio purgata da qualdi'erroie degli amanuensi poco o G4 nulla differire dalla esattissima del manoscritto |)e- ruzzianu. 63. Jn ecclesia s. Martini (1) jiixta s. Adriaiinm. SALVIS DOMIINIS NOSTRIS ec. (Mazocchi p. VIH ; Grut. 170, 5, vidil Smelins; Marini Inscr. eh. ap. Mai Script. Vet. V. 321,. 2^ .ex Mazochio et Gr utero.) fiysoali Ne' due codici si legge ABSVMPSERAT in luogo di ABSVMPSIT, e PKAE in luogo di PI\AE;F; la rimanente lezione non discorda dalla stampata. E può recar maraviglia che qui non sia scritto SA- CRARIVM SENATVS in vece di SECRET ARI VM, poiché il Poggio COSI sembra aver letto nella pre- sente iscrizione, citandola nel suo libro de varietale fortunae ( edit. Paris, p. 22.) come memoria del Sa- crarium Senalus. Ma i due codici ritengono ambe due la vera lezione, laonde io giudico che il Pòg- gio, benché non avesse errato nel trascrivere l'epi- grafe , non sapendo però che cosa fosse il secreta- fium , quando volle accennare questo monumento , lo abbia per congettura trasformato in sacrarium. 64. (;ÌiÌ9Uo'*JOB BiqOO fiJ8 yiiu:. In lapide quadrato juxta thermas Comlantini. "^ "(l) CoJ. aiig. s. Marine, errore evitlente ; donde nel Ferrarini ( f. 92.) in ecclesia Dei Parenlis juxta s. Hadriamm." filnyujtj PETRONIVS PER PENNA etc. ( Rucellai 1. e. p 897 ; Mazocchi p. XIIII ; Grill. 177, 7, vidit Smetius ; Marini 1. e. 346, 2, ex Grillerò ) . Questa preziosa iscrizione delle terme costanti- niane ricordata da tutti i nostri topografi è da ol- tre due secoli smarrita o distrutta ; ma possiamo contentarci dell'esemplare esattissimo che ce ne ha conservato lo Smezio, dal quale discorda soltanto in qualche evidente errore, forse non del Po/jgio ma degli amanuensi, la scrittura de'due codici ai quali tengo dietro. Perciò stimo inutile tener conto di queste varietà, le quali neanche hanno relazione ve- runa con lo scorretto testo dato in luce dal Mazoc- chi. Circa la metà del secolo XVII il Suarez Ve- scovo di Vaison vide nel pavimento della chiesa di s. Lorenzo in Panisperna e trascrisse nelle sue sche- de, ora serbate nella biblioteca barberina, il seguen- te frammento epigrafico : .... VCEl . INL . PR VRB .... Ientiae CIVILIS VEL .... DELICTASIT.4 VT AGNI Chiunque lo confronterà colla iscrizione di che ragiono non tarderà ad avvedersi, che benché dif- formato e letto inesattamente é però un lacero avan- zo della medesima. Oggi neanche di questo meschi- no frammento v' è più traccia o vesligio;^ oJtujnjcii Mriijaoii;. ".isdd?!" m ; 65. In sepulcro prope s. Paulum in via hosliensì (Vat.): In sep. apud basilicam Pauli (Ang.) D . M . M„ ANTOiNU ANTli .. LVPl ec, •>«"] f;m : r>1JiiM8(f> o '..'vwp.ìt^'-. ilon«)i. '^nf> '*i! 1. (V. Signorili B. T9 ) . Le scorrezzioni che qua e là s' iaeonti ano nel lesto di quest' iscrizione come è scritto ne' due codici sembrano, secondo il solito, Colpa non del Poggio ma degli amanuensi; e stimo altutto inutile 1' annoverarle : ma giova 1' avvertire che nulla han che fare con le false lezioni del Si- gnorili . tranne soltauto nella linea 10 branivva in luogo <\i BRADVA. 66. AMPLIFICATORI . VKBIS . ROiMAE . D'AMINO . NOSTRO . CONSTANTINO MAXIMO . PIO . FELICI . VICTORI AC . TRIVMPHATORI . SKMPER AVG. ANICIVS . PAVLINVS . IVN . V. C. CONS . ORDmARIVS . PRAEF. VRB. ET . IVDEX . SACR. COGNITIONVM PIETATf . EIVS . SEMPER . DICATISSIMVS -ff" '^«esui^ i<ìimziotìd * «dtnpala nel Mazocc'hi pag, Liftl, e «eli'Apiano p. CCLXI, da' \\^el[\ n^ì Get- terò -282,3 «nel Marini I. e. 252, 3-, in tutti Mht- namanle diffortwata. Iw){)erocChè que' due prin^i edi- tori, l'ebbero da un manoscritto della nostra siilo- 67 gè, o derivalo dalla medesitìoa, nel quale, mancando come qui manca 1' indicazione del luogo che divi- desse la precedente da questa iscrizione, le due ul- time linee di quella unironsi a questa e ne furono credute il principio. Del qual errore non avvedutisi coloro che la ripeterono, le posero sempre a capo i nomi Q. FABIVS . HONORATVS . T. ANNAEVS. PLACIDVS, che sono quelli degli amici che com- pirono il monumento di M. Antonio Anzio Lupo , e nulla hanno che fare con questo titolo onorario dedicato a Costantino. Peccano inoltre gli accennati editori nello scrivere IVDEX SACRAR VM CON- STITVTIONVM formola inaudita, e falsa, come di- mostra l'ottima lezione de' nostri codici. Stimo an- che che arbitraria sia l'indicazione topografica che essi premettono a quest'epigrafe ponendola in ther- mis ConHantiiM \ perchè nelle schede sloschiane di Ciriaco d'Ancona ( f. 61 t. ), oV' è ottimamente tra- scritta, è collocata in frontìspieio cuiusdam domm fj^dpe s. Silveslrìim. Avvertirò infine che secando la vfeià lezione, ma senza itidicarne il luogo, la trascris- se nfel suo molle vblie lodato coaimentar-io il RuceN la».(:l. e* ip. 797); e credo che l'abbia tolta, come molte ^ìlvfi^ o dalla nostra silloge o da qualcuna der rivante dalla medesima. 67. i In arcu s. Viti (I) in macello. (V. Signorili «w !26(). : ■.iii)ixi.jil,iii '1 (;!)iii;ui i:>iLo'. ,il (1) Cod. Ang. juxta ecclesiam s. riti etc. 68 68. i'iib iup Dmoo ' BETITIO . PERPETVO . ARC VGIO .V.C. ' CONSVLARI THVSCIaE. ET . VMB. OB . SINGVLARIA . ElVS . ERGA PROVINCIALES . BENEFICIA ET . OB . MODERATIONEM . PRO DOCVMEiNTO . ETIAM . POSTERIS BELIINQVENUAM • AETERnVM STATVAE . MONVMENTVM i TilVSCI . ET . VMBRl . PATRONO PRaESTANTISSIMO . COLLOCAVERVNT ( 1). (Mazocchi p. XLVIil t. apud s. Basllium^ paj][. CLXXIX. t. uhi sii ignoratur (questa seconda copia è scorrettissima/, A|)iano p. CCLXXXVII, nel luogo medesimo; Grut. 474, 3, ex Apiaiio^ Fnbricio, Pan- vinio et Ursininnis; Oielli 3648 ex Grillerò et codice Redii). Lin. 1. Gl'Ut. P. TICIO; Maz. Apian. Grut. AR- ZICIO; Cod. Red. ARZIRIO; lin. uh. Maz. COl-LO- CARVNT; Gnu. CONL . AERE . P. Ejjli è facile l'av- vedersi che quest'ultima variante è un'arbitraria emen- dazione da non farne caso; ma non del pari facile è il restituire a cotesto Consolare la vera sua nomen- clatura tanto dift'ormata e discordante nelle varie co- pie che ci rimanfjono di questo monumento. Ed in prima non dee dubitarsi che la lezione BETITIO . (1) Così nel codice dell'Angelica; nel Vaticano quesl' epigrafe è scorreUissima e lacunosa; segnerò soltanto la varia lezionedella lin. 1. ARRVGIO. In ambedue i codici manca l' indicazione del luogo. 69 PERPETVO sia da adottare, esclusa al tutto quella del Gl'Utero P. TICIO. I Belizii notissimi ne'monu- menti di Eclano (1) correvano certamente nel secolo quarto il campo degli onori e delle grandi magistrature dell'impero (Mur. 259, 2; Mommsen 1. e. 11 09); ed appunto un Betizio Perpetuo incontriamo fra i cor- rettori della Sicilia nell'età di Costantino (Mur. 1- e). Il Muratori lo credette tult'uno con quello che è rir cordato nella nostra iscrizione; lo che non mi sem- bra probabile per la mancanza del terzo nome, e per qualch'allra ragione che tosto accennerò. Il qual ter- zo nome non credo possa essere veruno di quelli che leggonsi nelle copie manoscritte o stampate, ma cercando da quelle storpiature tiarne uno che sia greco o romano non saprei scegliere meglio che AR- GYRIO. Ora appunto ad un Argirio Preside di non so qual provincia è diretta una legge dell'anno 349 (Cod. Th. IV, 13, 2.); e nulla di più verisimile che il riconoscere in cotesto preside il nostro Betizio Per- petuo Argirio. Imperocché essendo egli Consolare della Tuscia e dell'Umbria non dee esserlo stato pri- ma dell'anno 370 in circa; che no'precedenti furono quelle provincie, come la più parie delle allre d'Ita- lia, governale non da consolari ma da corieltori (2). E s'egli fu semplice preside nel 349 non v'è diffi- coltà a credere che sia asceso al grado di consolare circa il 370. Altrettanto non potrebbe dirsi del Be- tizio Perpetuo correttore della Sicilia; che troppa e poco verisimile sarebbe la distanza che converrebbe (1) V. Mommsen I. N, U09, 1116, 1135, 1130, 1190, 6310 (42.) ec. (2) V. Cod. Theoil. cJ RiHer Manliiae 175;). T. VI, P, II. p. 25. Concorilano le iscrizioni, ilcllo quali non poclic fanno menzione de'correUori della Tu-scia e dell Umbria innanzi alla. 370. 70 porre tra queste due m^gistraturo da lui spstenute. Laonde anche da questo lato apparisce h divergila delle persone ricordate nella presente e nella miira'el codice vaticano per errore C- Mariti, e così in Calli (C. MAI\TIVS) ivi è scritto anche nel lesto dell'iscrizione. 73 7G. Nepele IMP. CAES. SEPTIMIO. SEVERO ec. (Signorili n. 40). Varia dalla copia del Metello soliamo ne'coaipendii PONT. MAX. 77. Ravennae ÀNNIA . CRESTINA ee. ( Grut 754, 16 ex Simeonio\ Spreti De ampli- tudine etc. Urb. Rav. I, 386, 48 ex Gnilero , et ms. Fantag.) Quest' iscrizione si legge nel solo codice dell' Angelica ; e v'è trascritta altulto come in quello del Redi citato nella seconda edizione del Grillerò, tran- ne la parola ALITER, che nel Rediano è scorretta- mente ALITOR. 78. Perusiae DIVINO . ANTONINO . PIO . ec. (Apian. p. CLXXVI; Grut. 2b6, 10;Mur. 27, 2; Orelli 442; Vermigl ioli Iscr. Perug. p. 378). Non v'è quasi altro errore od inesattezza che DIVINO in luogo di DIVO, e la sigla II-S. om- messa ambedue le volte ncU' ultima linea. GA.T.CXXVIII. 6 74 79; Inleramnae. A. PONPEIO . A. F. ec. (Mazocchi p. LII, (e per errore le premelte l'in- dicazione che si legge nella nostra silloge in fronte al n. 62 ) ; Apian. p. CXLV j Grutero 455, 4 vidit Smetius.) Manca nel codice vaticano. Varia dall'ottima co- pia dello Smezio nella lin. 1. PONPEIO, 3. INTE- RAMNA, 4. NHAllTIS, 7. PEIUCVLIS, 10. LI- CINI. 80. Beneventi in arcu. IMP. CAESARI . DIVI . NERVE . FILIO eie. ( Apian. p. CUI.; Grut. 947, 5 ex Apiano , Smetio^ Verdero ; Mur- 23 1 , 2 e sch. Amhr. \ de Vita Ant. Benev. ci, IV. n. 1; Donat. 213, 8 ex de F/f« ; Orelli 788 ; Mommsen I. N. 1408, vidit. ) Nel codice dell'Angelica v' è l'indicazione dell' epigrafe, ma questa poi manca. Nel codice vaticano è trascritta, al solito, con alcuni errori ne'nuraeri. 81. Prope Tibur in sepukro juxla ponlem lucanum. TI . PLAVTIO ec. 75 ( Mazocchi p. CLXXV. t; Apian. p. CXCj Grut. 453, vidit Suietius y Nibby viag^gio I- p. 116 j Ord- ii 750. ) 82. Iiitus turriin arcis Ferentlnatis. A. HIRTIVS . A. F. eo. ( Apian. p. CLIX \ Grut. 166, 1 ex Fulvii Ur- sìni schedis-, Biinsen, Ann. dell' Ist. 1834 p- 145; e nella edizione litografica delle iscrizioni di Ferentino dedicala al sommo pontefice Gre(]^orio XVI, tav. V). Varia dalla copia del Bunsen Ho. 2. ET om~ messo, COERAVEHE. 83. Tn turri arcis Ferentinatis. A. IlIPPIVS . A. F. M. LOLUVS . C. F. CES. ee. { Apian. p. CLIX; Grut. 165, 3 ; Bunsen 1. e. p. 144; nell'edizione litografica I. e) I nomi del primo censore erano invisibili all' età del Grutero, che li trasse da un manoscritto, e lo furono anche al Bunsen- Forse è merito del Pog- gio l'averli letti e propagati nelle copie manoscrit- te, benché ne' due codici che io adopero male sia scritto HIPPIVS , in luogo di HIRTIVS. Nelle al- ile linee varia scrivendo, 2. AB, COERAVER . I- DEMQ. ; 3. ALTVM . PEDES ; 4. SILICE ( il cod, vat.SCILICE V 76 84. In monte lapideo prope Ferentinum hodie vo- culiir la Fala. A. QVIINCTILLO . A. F. PAL. PRISCO ec. (Apiari, p. CLIX 5 Grut. AGI, 1 vidil Smetius). Lo Smezio vide e trascrisse con grande fatica questo monumento epigrafico ; laonde non è piccola lode pel Poggio l'averlo saputo anch'egll nella pri^ ma infanzia degli studi epigrafici trascrivere con tanta intelligenza, che appena ne' due codici qua e là apparisce qualcuno de' soliti errori de'copisti. Non è senza interesse la notizia che ci fornisce il Poggio che ai suoi dì il luogo di questo monumento ap- pellavasi la Fata^ come anch'oggi s'appella ; impe- rocché assicurata così l'antichità di coiesla denomi- nazione, prendono nuova forza e vigore gli argo- menti addotti dal eh. sig. Giorgi per dichiararne la lontana origine, che ascende fino all'età in che ivi era il foro di Ferentino (V.Bull. delPIst. 1850 p. 146). M AVRELIVS . ROMANVS ec. -Ir; sJfApian. p. CCCVIII. Romae in aede S. Anasla-. «me; Gruter. 762, 5 ex Apiano et Fabricio.) La sola varietà che merita d' essere notata è ALIENABITVR nella linea penultima, in luogo di ABALIENABITVR, che è la lezione del Grulero. T7 80. tn columna Trojani. V. Sijjnorili n. 32, ed il ragionamento prennes- so a questa silloge ; dove ho accennato quale è la caratteristica della lezione del Poggio nel testo di quest'epigrafe. Conformemente al Poggio il Rucellai 1. e. p. 933. E qui termina cotesta raccolta epigrafica in ambedue i codici ; perocché nel vaticano siegue un ultima pagina altutto vuota di scrittura , ed ivi ha fine il volume ; in quello dell'Angelica dopo questa sono trascritte senz' ordine alcune poche iscrizioni spettanti alla prima parte, e poscia altre molte di lutt'altre sillogi derivate. GAY. GIOVANNI BATTISTA DE ROSSI. -o-*^*-^-«-si-s-< T8 Prolusione al corso di storia antica ed archeolo- gia letta il 26 novembre 1850 nelCarcliiijinasio romano. I o temo, l'ispettabiii signori, aver dimenticato l'in- segnare: sì ornai luogo è il tempo da che qoeste mura non rimandarono voce d'insegnatore, e non ri- sonarono della mia. Spero a compensazione, ed ho anzi per fermo, che nessuno de' valorosi giovani, i quali mi fanno oggi bella e lusinghevole corona, sia per mostrare alle prove d'aver dimenticato l'ap- prendere. Buon segno! sì ritorna agli abbandonati studi , o vi si viene. Cessano le passate illusioni. L'olivo di Pallade si ripianta là donde, in un im- peto di gioventù , erasi schiantato per piantarvi i frassini di Marte, aspettando di vederli cangiati in allori. Si ritorna agli studi 1 E giova riportare gli animi alla storia antica ed alla archeologia, stanchi (spero) e sgannati della storia moderna, che pintrop- po non è bella ne confortevole ! E la storia antica e l'archeologia insegneremo, se non colla dottrina che a tant'uopo bisognerebbe (Partivi dat qui parum habet)^ almen collo zelo, che, se il ciel secondi , e' ingegneremo di non lasciarci venir meno. In che forma soglia io trattare questi non facili studi, è già noto. L'archeologia, per sé sola, come si ha consuetudine d'insegnarla, è campo immenso aperto alla curiosità umana, che prende il nomo di 79 erudizione, ma che (a guardarvi ben dentro) è cu- riosità né guari più; lodevole, non lo nego, e lodata da molti , perchè la curiosità, madre del sapere, è parte di nostra natura; tuttavia curiosità, cioè cosa che sa pur sempre alcun poco dell' ozioso e direi quasi del femminile. Essa (dico l'archeologia: e sia ciò pronunzialo-^senza intenzione d'ingiuria) è scienza da ciceroni; non dico de' volgari e che corron le strade : ciceroni, certo, dotti ; ma ciceroni ; specie d'uomini, mi sia lecito l'affermarlo , che servono a diletto più che ad utilità. Piace, e perciò diletta, il poter dare un nome, un autore, un'epoca, un uso, un sentimento ad ogni antico avanzo. Piace, e per- ciò diletta , il saper leggere ed interpretare una iscrizione , anche lacera come il corpo del troiano Deifobo, e o vogli latina , o greca, o d'altra più ignorata favella quale che siasi. Piace e diletta il sapere spiegare un dipinto o su parete, o su vaso... un bassorilievo; il saper dire, o per indovlnamenlo e conghieltura , o por intima e verace cognizione, tutto eh' è a dire , o che può dirsi, d' una statua, d'una medaglia, d'un mito de' popoli che più non sono. E nondimeno tutto tjueslo a me non piace quanto mi paia bastare. 1/ archeologia per me è mezzo, non fine. Intendo ad essa, come ad un po- tente sussidio della storia. Mi serve a conoscer gli usi e le idee degli uomini , e per mezzo degli usi e delle idee loro, a conoscer gli uomini quali già furono quando furono, e l'intimo de'Ior fatti e per- ciò della loro essenza o come individui , o come nazioni. Del resto, questo uUimo (dico io studio della storia così condotto com'io leste riferiva^ è lo studio 80 veramente opportuno ad un ingegno maturo, stu- dio ancor più d'utilità, che di diletto; e di esso ab- biam noi bisogno più che di altro nel nostro se- colo , in che affettano maturità anche i fanciulli , quantunque per una mala compensazione veggiam troppo sovente farla da fanciulli anche gli uomini maturi. Ma la storia stessa io la intendo a un mio modo, che non e il modo comune; e le precedenti parole debbono intorno a ciò aver chiarito il mio concetto. Per alcuni essa non è che una cronologia, ciocché è dire una successione di date , congiunte a fatti secondo l'ordine de'tempi. Per altri è una col- lana di cronacli* , cioè d'avvenimenti descritti con più o men piolissilà e minutezza, ma di nudi av- venimenti. Per molti è quale una catena di reltorici proginnasmi a solletico dell'orecchio, ed a ricrea- zione dell'animo .... Troppe voUe non è che un leggendario d'antiche frottole. Studi tu , per mo' d'esempio, istoria romana '!' Eccoti innanzi le deche dell'eloquente Tito Livio, de- stro compilatore quant'altri mai di rapsodie de'vecchi annali, .secondochè la politica o la superbia di Pvoma avevali raffazzonati a sua convenienza; od eccoli in- nanzi ad aiuto e corapleniento quel che può ag- jjiungervi la laboriosa e prolissa industria di Dioni- gi l'Alicarnasseo, dottor solerte, secondo che a me sembra, in arte di musaicista per formare bei co- strutti co' discordi racconti de' più antichi di lui, scelti .secondo l' estetiche dottrine del maritaggio delle tinte e delle mezze tinte , perchè colore ac- canto a coJore dia bc'lla vista, e ficcia p ù aggra- zialo l'infero qtiaclro. Crilica non la cercare, né ve- rità. Son Tito Livio e Dionigi que' che hanno in- ventato il romanzo storico . . . Ma io preferisco la storia come facevala Polibio o Tacito , e, salvo il mal uso, come sapevala far Machiavello : storia fi- losofica .... storia politica .... storia la qual di- .sputa del fatto prima di raccontarlo a fin di poterlo raccontare qual veramente fu; e, poi che lo ha rac- contato qual riuscì a porlo in chiaro , lo richiama alle sue ragioni ultime o antecedenti, agli effetti im- mediati o mediati; e considera a confronto tra loro i fatti simili colle premesse, e co'loro conseguenti, por trarne le generali leggi governatrici di tutta la teorica delle umane convivenze. Rispetto a che, per meglio mostrale l'uliiilà, e aggiungo l'opportunità, della scuola ordinata al fine ch'io dissi, mi sia per- messo ripigliare da più allo il sermone , e di dire parole franche, le quali a taluno per avventura par- ran troppo franche. Ma io mi fo gagliardo dello spirilo retto con che le dico ; e penso di favellare ad uomini di senno (che, se l'occhio rivolto in giro non m'inganna, vedo qui non mancare), e a gioventù amica del bene, alla quale certe fresche esperienze avranno apeilo gli occhi, sì alcune piaghe son oggi sanguinenti e sì il dolore dev'esser pungente, e tale da costringere , anche i più spensierati , a pensieri di salute. Noi viviamo in un secolo, nel quale a niente altro più diam tutti o quasi tutti le menti ed i cuori, che a' divisamenti perchè gli stali s'ordinano, o si slima doverli riordinare ; e a quest'ultimo fine mol- ti sono che proceder vorrebbero di lancio come a im- 8-2 presa di comune appartenenza, cominciando col di- sordinarli. E vi si va da ogni parie a capo basso fidatamente, e non preparati, quel che è pe(j{jio, da alcuna delle preconoscenze necessarie , più presto seguitando alle pedate la folla, la qual vedesi correre a gran furia , che cercando se l'indirizzo è buono, e la strada uscente a buon termine. E vi si va a quel modo che ciascuno più può , facendo , e aiutando quel che gli altri fanno ed aiutano; e quando que- sto è impedito, almen battendo le mani, e secondan- do gli altri colla lode e coli' eccitamento. Dove la maggior parte, per vero, non è che turba d'imitatori, i quali a operar così, pensano di ben operare, come quelli che fanno cosa da troppi altri fatta. Laonde l'atto in essi piamente può credersi d'umiltà. Im- perciocché, con ciò, a seguitare come le pecorelle di Dante ov'è il folto della greggia, orecchiando a qual lato inviti col rintocco la campanella delle gui- daiole, par loro e debilo ad un tempo e prudenza, poiché é mettere Taltrui senno , che a tanti ispira fiducia, in luogo dei proprio in che si sente di non poter fidale. Ma que' che pecore non vogliono essere perchè si conoscon uomini, sì di leggieri non si abbran- cano cogli altri a pecorina usanza : ed in cosa di tanto gran momento , soprastanno, ed anziché av- venturarsi colie cieche turbe, alTimpazzata, a muover passo e dar mano ad opere sovversive , o a far coro almanco battendo palma con palma appresso a que' che vi dan mano, debbono stimarsi obbligali J da coscienza, e da senso di dignità , ad esaminare II e a procedere dopo esame, secoutlo che ragione con- 83 venevolmente interrogata consiglia e persuade. Qui però appunto sta la difficoltà. L'esaminare e il giu- dicare non è da tutti. L'apparenza inganna. Il senso comune non basta. I fatti, e le questioni che dai fatti muovono, bau sempre molte parli , delle quali non tutte sono in vista : e quel che se ne vede o tra- spare, non sempre si vede così bene come bisogne- rebbe. L'arte in ciò di veder giusto, e di spinger l'occhio sino al fondo delle cose, anche ove questo fondo è più celato, e dove gli approcci son meglio difesi, è una sottile scienza, la quale richiede pre- parazion conveniente; e la preparazion prima è lo studio degli uomini nella lor vita pubblica, non di questi o di quelli, ma di tutti; non di tale o di tal tempo, ma d'ogni tempo; non in tali o tali altre cir- costanze, ma in ogni varietà di fortune o d'incon- tri. E sì fatto studio è la storia: ne la storia parti- colare d'un popolo, ma la universale di tutti i po- poli , o di quelli almeno de' quali una storia ci è restata. Questo genera l'esperienza, quella maniera d'e- sperienza che si chiama scienza dello stato. Senza questa in sì fatte materie s' è volgo, e s'ha Tocchìo e il giudizio del volgo. Ma, tra le storie che si hanno, quale a ciò dir possiamo meglio confacente, che la storia del mondo antico , la quale (e non altra) può chiamarsi storia falla ? Perocché tutti gli eventi offre e tutti i par- ticolari delle nazioni già stale in fiore, e da lunga età poi scomparse , o sottoposte a tale e tanta tra- sformazione di sé , e quasi muda , che possono o morte dirsi , o come morte, coll'aver compito cia- scuna quel periodo, il quale da Provvidenzo è as- 84 segnato alla vita de' popoli , per far di sé nricslfa sulla terra , e corrervi tutta la lizza di venture o sventure, a esempio e scuola de'vivituri nell'età che saranno ? Laddove ogni stoiia moderna per sé sola è immatura , come quella che si sta facendo, più che sia già fatta-, e che é pagina di storia, più che storia; o storia scompagnata dal principio, e senza ancor fine; storia di genti che sono ancora in sullo sfilzare od infilzare la serie sterminala degli umani spropositi , senza esser giunta alla conclusione del conto, per poter fare bilancio e saldo, e per lasciar vedere a libro ornai chiuso , se l'azienda condusse a banca rotta ed a rovina, o se al premio ed al ri- poso d'una quasi spensierata prosperità, ornai sicura di sé, e sicuramente durevole. Inoltre la storia mo- derna non può mai bene aversi, né fedele, né in- tera: perché le cose vedute troppo da vicino, e con esservi in mezzo, non si veggo n chiare né tutte. E per vero, o s'è del popolo del quale si sottopongono a speculazione e disamina gli avvenimenti che si son visti, ed in che s'ebbe parte o sì fu parte, e ninno può difendersi dall'averli veduti male, e dall'avere un po' falsificato l'occhio dalla passione che lo an- nebbia: con questo di più, che chi non v'ebbe fac- cenda, e principale faccenda, non può saperne ab- bastanza: e chi ve l'ebbe, è impedito dall'aver sa- pulo la verità, od almeno tutta la verità, appunto perché ve l'ebbe; e più poi, per ciò stesso, è impe- dito dal propalarne quel eh' è il vero a pubblico profitto. 0 s'è, in questa vece , d'ajtro paese; e non ben si conoscono allora né gli uomini, né i fatti, né le lor cagioni, né i conscguenti loro prossimi o 85 lontani , ne le connessioni \icine o le remole , né tulto che della storia è frequente principale. Il tempo solo, e il lungo tempo, ha virtù di rasserenare le viste, purificandole da<}li affetti coevi; di snodare le lingue fatte mute da interessate reticenze, da riguardi egoisti, da timori, da speranze; di mettere in chiaro segreti lungamente e gelosamente celaf' ; di render possibile il parto sempre lento della verità , e la cognizione delle conseguenze ultime; d' non con- servare negli eventi che quel che importa ricordar- ne, rimondandoli da tutte le superHuità e le minu- zie, che non importano , e che servono a confon- dere gl'intelletti piuttosto che a favorirne il lavoro. Così, o io fortemente m'inganno, o le storie che han particolare diritto a esser chiamate maestre delle nazioni, non sono di gran lunga quelle de' fatti con- temporanei, né de' soverchiamente recenti, ma sì quelle che ci fan tornare all'indieho quanto più possiamo e sappiamo, sino all'infanzia della specie umana, e al primo spartimento di essa in popoli, e a tutte indi le suddivisioni loro e le fasi de'Ior civili ordinamenti, e delle mutazioni e perturbazioni interne ed esterne, come dir pace e guerra, progressi e regressi, prospe- rila e miserie, finché pur furono. Dove nel meditare su i casi simili, e su quel che vi pone d'eguaglianze o disuguaglianze la diversità de' tempi, de' luoghi , delle stirpi, de' costumi, delle religiose o superstiziose opinioni, de' governi, e degli altri concomitanti, mi- rabilmente giovano, come io diceva, gl'istituiti para- goni ad estrar quinci le regole generali, di che poi si forma la vera sapienza storica in ogni sua parte, e quella delle fortune e delle disgrazie riferite ai 86 loro veri piincipii, a' loro effetti mediati ed imme- diati, e ridotte a profittevoli teoriche. E quando sì fatta scienza si è debitamente pre- messa, allora solo è utile anche lo studio, comechè imperfetto, della storia moderna, secondo che se ne abbia la possibilità, perchè quella dà lume a questa e l'aiuta. Allora le cose rivelate ed accadute a metà, se non si sanno, o se non finirono di rivelarsi, pur s'indovinano in intero. Allora si vede e s' antivede. Allora s'è di quegli uomini, a'quali è lecito favellare di politica , dicendo agli altri profani : « Tacete » voi , e lasciate il parlare di pubblici affari a chi )) gl'intende. Ma non vi avvisate né manco di poter » sapere pur soltanto conoscere e scegliere, tra que' » che ne parlano, que' che sanno con più assenna- » tezza parlarne. A tanto vi manca la competenza. >» Or noi qui raccolti a studiare storia, e storia an- tica; né storia unicamente ristretta alla catena degli avvenimenti di tale o tale altra delle genti che fu- rono, ma sì deliberata di passarle in rivista, se non tutte, almen quelle che più grido di sé han lasciato, e più ampiamente si stesero e dominarono, e a più alto segno portarono a un tempo la loro gloria e la loro potenza; e più grande e più lungo spettacolo die- dero di sé al mondo, con passare pe' diversi gradi, e con dare tutti gli esempi che un popolo può la- sciare agli altri: noi qui raccolti per considerare l'an- tica storia raen grettamente di quel che si suole, e per cercar d'illuminarla, e di metterne, per così dire, a nudo tutto i segreti eolla contemporanea investiga- zione di lutto che alle genti, le quali siam per istu- diare, appartenne, e che perciò costituisce quella che 87 si chiama la loro archeologia: noi speriamo appunto, che, ciò facendo, una utilità, massima di tutte, Irar potremo dal nostro divisamento, e sarà, coli' ^2spe~ rienza de' fatti antichi, e degli antichi usi ed abusi, giovare a' moderni ne' loro fatti e ne' loro abusi ed usi. Alla quale impresa invitandovi, o signori, io vi vengo colla fiducia ferma, che sarà ciò per guarire l'animo di molti, se per avventura ne abhian biso- gno, dalla grave malattia di funestissimi errori, in che il secolo (non io posso dire, in coscienza, illu- minalo e progressivo, ma sì dirollo, a voce alta ed ardita, ottenebrato e grandemente retrogrado) li ha nutriti, screditando il senno de' sapienti d'ogni altro tempo, per togliere il desiderio del consultarlo, e la probabilità del profittarne. Dirassi ch'io calunnio il nostro secolo, il quale anzi tra noi le antiche persone e cose, massime del paese nostro gloriosissimo tra tutti, anziché scredita- re, le magnifica, e le pone con predilezione nelle boc- che di tutti, e se ne piace, e n'esulta cavandone or- goglio , né lasciò mai di leggieri deserte le scuole ove se ne paria : ma le amichila di che io favel- lo, non quelle sono per fermo. Il secolo le misco- nosce. Lagrimevole condizione di studi ! Certo, d'anti- chità, e di storie del passato, non mai venne meno tra i nostrali il suono e il nome; e dijò puie la ri- verenza, e quasi il cullo, Piacquene sempre di chia- marci italiani, e più che altii ronìani; e fin dalla in- fanzia crescemmo tutti avidamente ascoltando le ma- gnifiche gesle de' nostri arcavoli , che ci lasciarono 88 in eredità le loro glorie, quale un adorno mantello da ricoprirne la miseria e la vergogna della nostra presente esilità. Mostrammo sempre , e mostriamo eon mano a' forestieri, memorie d' una grandezza , che di se lasciò quegli avanzi e que' segnali mara- viglie del mondo, il colosseo ed il panteon; i ru- deri immensi delle terme; le iscrizioni e le statue ; le medaglie e le tombe; gli acquedotti, i circhi, i tea- tri. E ci gode l'animo in veggendo lo straniero ve- nire a visitarci con quella stessa ammiratrice e ve- nerabonda curiosità, con che innanzi di giungere a noi, visitava il campo santo di Pisa, e la Certosa di Bologna, sontuosi sepolcri tutti , ma purtroppo se- polcri! Contenti di questa preminenza della storia no- stra, e dell'archeologia che le è coraento, toccammo e tocchiamo volentieri quel che ci basta a poter dire fastosamente altrui, che discendiamo da maggiori illustrissimi, de' quali imparammo l'epopea, come un onor di famiglia- E quanto a'monumenti nostri, siamo appunto del coloro numero, a' quali, siccome testé notavamo, basta saper esserne i ciceroni a chi ne domanda, e sapere rispondere all'attonito viag- giatore (tutti lieti quando ci sembra leggergli sul- l'occhio l'invidia e lo stupore). Qui si raunava il se- nato, là il popolo; qui s'alzava il palagio d'oro de' Cesari.... Ecco il luogo de'famosi rostri ... il foro . . . il circo . . . . r anfiteatro .... Ma non è questa (già lo dissi) la storia antica, né queste sono di gran lunga le antichità, delle quali abbiamo bisogno per correggere oggi gli errori nostri, ed erudire la no- stra ignoranza. Noi siamo allucinati , e sragioniamo... troppi , 89 se non tulli: e so che, grazia a Dio, non tulli. iVoi (que' noi de' quali parlo) siamo. Io ripeto, allucinati, e e' è più che mai mestieri studi altemperati alle odierne necessità nostre, cioè quelli che ci restitui- scano il retto vedere. Noi ci siam fatti una politica falsa, principalmente perchè ci siam fatti una storin insufficiente, infedele, falsificata. Le nostre antichità dicono ben altro, e ben più di quel che a esse fac- facciamo o lasciamo dire. Non volendo essere che ci- ceroni del passato, siamo pessimi ciceroni. Alle vere figure de' maggiori nostri abbiam sostiuito masche- re... figure di fantasia. Tutto o quasi tutto è guasto da favole. Dove un barlume di verità pur balena a' nostri occhi, non ce la mostra esso nel suo intimo, e non ce ne mostra la parte più istruttiva e più feconda d'utilità. Impariamo Roma antica, o poco più; e questa stessa Roma l'abbiamo sempre veduta a traverso del prisma de' nostri pregiudizi di scuola e di piazza, fatta deforme per le frange colorate che la contornano e come dire le distorcono il viso. Re- gno, repubblica, impero; plebe e patrizi ; clienloli, schiavi, liberti, libertini; senato e tribunato; censori, consoli, dittatori... l'altre magistrature; tribù, curie, comizi.... le grandi ruote, sulle quali Garrendo com- pieva sì nobile e sì mirabile salita, e colle quali pre- cipitò per sì erta discesa, nessun si cura d'esaminare colle norme della difficile meccanica degli stali, a do- cumento non a trastullo. Le vere immagini, non io dirò de' mezzo favolosi personaggi, Romolo, Tazio, Numa, Tulio Ostilio, Anco Marzio, ma sì de' due Tar- quini, e di Servio Tullio... ma sì del primo e del- l'altro Rruto; di Valerio Poplicola, di Coriolano, di G.A.T.CXXVIII. 7 90 Camillo , de' Fabi ; di Mario e di Siila; di Pompeo e di Cesare; d'Antonio e d'Augusto; di Mecenate e d'Agrippa; di Traiano ... e degli altri che son pur tanti, e tanto degni di studio, chi di noi veramente si briga di ben conoscerle ? Chi le ha sculle nell'in- telletto co'genuinl loro lineamenti , dico quelli che all'animo si mostrano, non all'occhio ? Chi ben pose a scoperto le molle intime del paganesimo nella sua fede sbagliata, ma pur sì ferma un tempo, e si ef- fettiva, nelle sue strane abberrazioni, nelle sue singo- lai'i allegorie, ne' misteri, nelle iniziazioni, nel culto, ne'rapporli colio slato ? Chi tutta la ragione di quelle che noi popoli moderni chiamiamo finanze, e di tali finanze ? Chi per ultipìo le massime governative e diplomatiche, le leggi politiche, le sedizioni , i li- medi leni o violenti, le rivoluzioni o i loro semi, gli amici e i nemici, le alleanze e le neutralità, i vizi e le virtù? Chi tutte le teoriche del viver pubblico e privato ? Chi il tema della nascila, del progresso , del decadimento considerò, ponderò, a quel modo che solo è utile? Chi esaminò la civiltà uegl'incrementi, ne' decrementi » ne' tralignamenti suoi ? la barbarie nelle cagioni e negli effetti ? Chi il medio evo nei suo male e nel Suo bene, gli eruli, gli unni, i goti, i greci di Bizanzio, i longobardi, i saraceni, gli un* gari, i franchi, i normanni, e la costoro azione su noi , e la nostra su loro ? Nò dico l'azione visibile ed exolerica, ma la recondita ed esoterica... ma quella che solamente si manifesta a pupille di filosofi ? Chi de' nostri ben guardò addentro ne' fatti procellosi ed anarchici degrinelli successori di Carlomagno ? Chi nel drsitììóìà sì lungo, e sì sanguinoso, dell'intervento 91 in Italia de' forestieri^ dico dej^flimperadori sassoni, poi di que' di Franconia, poi di que' di Svevia ? Citi senza le disaffezioni cieche, ed i pregiudizi del se- colo aschioso , che follejjgia ed ha le traveggole , sottopose alle lenti acromatiche d'una critica impar- ziale ed accurata la parte non io dirò celeste e divina (che a senno umano sarebbe temerità osarlo), ma f)ur solo r umana , del gran fatto della predicazio- ne e della pi'opagazione del crisi ianesimo, e di que' \alidi strumenti, che al mutamento d'Italia usò la Provvidenza , dico il papato , il clero , i monaci ? Chi bastantemente disse del risorgere tra noi de' comuni, e del finire della storia antica, per far pas- saggio a quella storia che a ragione chiamiamo moderna: la qual prendendo sua mossa dallo spez- zarsi di quanta terra si stende dall' alpi ai mare ionio in città autonome, o in toparchie, passa indi per tutte le guerre degnamente guerreggiate da' papi cogl' imperatori, e attraversando l'istruttiva fase de' duelli a morte tra guelfi e ghibellini, e quella delle tante tirannidi e tempeste municipali, giunge a que- sta odierna Italia cosi fatta come la potenza o l'im- potenza de' tempi la fece, o lasciò farla; a questa Ita- lia bruciata ancor più spesso dal fuoco delle sue pas- sioni, che da quello de' suoi vulcani; a questa terra del sole e della fecondità, isterilita sì sovente dalle sterilità che tengon dietro all'esterroinio de' coltiva- tori; a questo bel paese benedetto da Dio, invidiato dallo spirito del male, amore e gelosia d' Europa , affacciato su tre mari, come da tre balconi, erto so- pra i suoi monti verso le volte del cielo, quasi per più accostarsi all'Eterno? a questa terra d'ingegni pre- 92 coci, polenti a tulio fuorché a lallenere le fantasie troppo fervide, e troppo spesso indocili, inipazienti, improvvide, sbrigliate....? E nondimeno si fatto, io ripeterò, avrebbe ad essere lo studio condotto al modo che può giovar- ci, oggi meglio che in ogni passata età : perocché così istituendolo n'avremmo effetto d'imparare, che il borioso nostro secolo non ha inventato nulla , né quanto ad ordine, né quanto a disordine. E, per vero, purtroppo gli uomini son sempre stati gli stessi. Quid est quod erit ? Est id quod fuit. — Un volgare proverbio dice — Giiuneido non ricade ove già cadde\ — Ma il figliuolo di Adamo, il re della terra, Vhomo sapiens Linnaei, è meno avveduto del giumento. Esso inciampa contro allo stesso sasso, e va in terra con tutta la lunghezza del corpo a quell'In- ciampo dove prima piegò solo il ginocchio. Espe- rienza non ci fa nulla, documento nulla; e tutte le storie umane un pò lunghe s'assomigliano ut oviini ovo. Roma antica, eccetto le differenze di dimensione, fece già quel che F«oma del medio evo, e Roma del medio evo quel che poi Roma modeiiia. Piima di lei fece altrettanto Etruria... Grecia nelle innumerabili sue repubbliche, ed in quel polipaio di piccoli stati, che amarono in essa chiamarsi legni. Fece altrettanto Fe- nicia, Cartagine, Egitto, Caldea. Media, Persia.... I pa- dri più facilmente trasmettono ai figli l'eredità (si di- rebbe il fedecommesso] de'Ioro errori, che quella delle verità, le quali appresero a gran loro costo... Fatto ter- ribile e sconfortante ! da cui tuttavia nessun s'avvisi dedurre il conseguente non bello, che se l'insegnare questo fatto, e il vederlo in pratica, è stato sempre ^3 inutile, sarà dunque vano l'impararlo di nuovo. Sel'am- monimento che avrebbe a trarsene non {jiovò alle matte turbe, giovò, ed è jier giovare, agli uomini savi, che almeu essi profittarono e profitteranno per sé del- l'avviso, quando gli altri non profittarono , o non siano per profittarne. Ai savi dunque parliamo, ed ascoltino. In ogni luogo, in ogni gente, in ogni tem- po, in ogni ceto, malvagi sorsero, sorgono, e sorge- ranno al fianco de'buoni, e tentarono, tentano, e ten- teranno di pervertirli se amici, di combatterli e d'op- primerli se nemici. Nessun sistema di civil convi- venza e di reggimento dura dove tali abbondano- Invidia, avarizia, gelosia, le mille forme dell'egoismo dividono le tribù primitive, e spezzano il nodo che congiunge famiglia a famiglia. È male che comincia dalla creazione. Quando finirà ? — Quando finirà que- sto corruttibile e corrotto mondo. A noi cristiani (e per grazia di Dio lo siamo qui tu(ti) COSI insegnano i libri santi. Il serpente se- duce la donna. La donna seduce l'uomo. Tutti e due disubbidiscono a Dio, e gli si ribellano. Ed ecco, la storia umana ha il suo principio da una rivoltura contro all'autorità. Nascono Caino e Abele, e Caino uccide Abele , e lascia il seme della iniquità alla sua discendenza. Il vincolo fraterno è occasione a» delitto, anziché remora. I discesi da Caino corrom- pono i discesi da Seth. Le razze umane si moltipli* cano, si mescolano; e della ignorata loro storia nel primo periodo il poco cbe ci resta è la notizia d'ogni briglia rotta dalle libertà smoderale, e della legge sotl'ogni sua forma che fini col l'essere conculcata sì universalmente da indurre Iddio ad eslerminare 94 in intero l'antica umana razza ^ fatta grazia ad una sola famiglia! In questa stessa famiglia si trovò un Cam , e si trovarono rivoltuosi, che colla memoria ancor fre- sca del più terribile flagello, che sia mai caduto sul- la razza d'Adamo, macchinarono malcontenti contro all'autorità diretta d'un Dio. Era Dio, e perciò per- fettissimo, sapientissimo, giustissimo, e ne diffidarono! In una riunione politica deliberarono d' armarsi a futura difesa, costruendo una torre, la torre celebre di Babel. Iddio, irritato la seconda volta, alzò la sferza, e gastlgò. Castigò contrapponendo l'abbassa- mento alla superbia. Abbassò producendo debolez- za. Indebolì dividendo. Frantumò la troppo balda unità in minuzie, staccando famiglia da famiglia, lin- gua da lingua, popolo da popolo. Così vennero a poco a poco ordinamenti d'ogni stampa. Qui caste, là eguaglianza. Qui libertà a vario grado, od intera, o dimezzala, lì schiavitù. Teocrazie, governi presbi- terali, governi patriarcali, gerontocrazie, governi per amore, governi per interesse, governi per forza, go- verni per frode, governi elettivi, governi ereditari , monarchie d'ogni forma e d'ogni temperamento od intemperanza, aristocrazìe, democrazie, oligarchie, timocrazie, oclocrazie, anarchie , repubbliche con- federale ... E secondo insegnamento che da questa lunga storica rivista impariamo , è che ornai reg- gimento non fu trovato, il quale appagasse lunga- mente l'incontentabile nostra specie. Gli uomini ia ogni tempo, in ogni luogo, con ogni governo tìni- ron più o men presto collo stancarsi di quel che avevano, e col trovarvi difetti, e col cercare a lutto potere quel clie nnrj avevano. Quesla stanchezza fu tanto più pionta a nascere, quanta più libertà si la- sciò loro di farla sentire. Non vi fu mala forma di reggimento che non durasse per solito più delle de- mocrazie. Tra le denjocrazle nessuna fu men du- revole delle oclocrazie. Nella pratica del viver ci- vile i peggiori e più penosi tempi non furon quelli, in che veramente si slette male, ma quando si cer- cò se si stesse male, e quando le nazioni, trovatolo, o persua.se d'averlo trovato, si diedero troppo mo- vimento per cercare di star meglio. Perchè allora è come in quella malattia fisica, la quale i medici chiamano ipocondriasi; malattia clic assai radamente è de'veri infermi, e viventi in istret- tezza; ma di preferenza s'attacca a coloro cui gua- sta o prosperità od ozio. Gli altri uomini a' piccoli mali che mai non mancano, perchè sono della na- tura umana, non badano; ai mediocri, che abbondano s'accomodano senza guari lamento; pe'gravi chiama- no il medico, ed usano tranquillamente i rimedi ch'ei prescrive (il medico da senno però: non qualunque assume questo titolo, e se lo arroga, proponendo spe- cifici di suo capo) , ed intanto s'adattano spontanea- mente al soffrire , ed aspcilaiio la guarigione, o la morte, secondo che Provvidenza dispose, e si rasse- gnano all'incurabilità senza stiepiti. L'ipocondriaco sta male quando non istà male, per timore di pre- sto Sitarvi. Sta peggio quando sta male, per timore che peggio venga e s'uccide per solito coi rimedi, per impedire che il male non lo uccida. Ora ogni secolo, ed ogni popolo, a volta a volta, «offerse e sofìre l'epidemia d'ipneondriasi politica e 96 durante questa ei erede accorgersi ad un tratto di quello di che prima, e per lungo tempo, non s'era accorto. Ed allora quel ch'era tollerato senza dar- sene per inlesi, divien subitamente intollerabile; ed ecco ogni cosa in subuglio, e in tentativo di som- mossa- E dopo ciò, per necessità , quel male, che non era male, lo diventa da che come tale è sentito. Quello che veramente fu ed è tale, s'aggrava , per- chè, col meditarvi sopra, è sempre più sentilo; e stuzzicandovi troppo, per un mo' di dire, colle dita e con tutta la mano, è come in certi pruriti, dove^ a forza di grattar coli' unghia , e di scalfire , la puntura d'una pulce diviene un bruscolo , il biu- scolo una graOìalura, la graffiatura una piaga- Ne' quali il principale rimedio non è tanto fare, quanto non fare; levarsi di testa quella mahnconia; lasciar che il male si dichiari e si studi da quc' che sanno, e il rimedio s'appresti da que' che possono; saper soffrire quel che non può esser medicato; e so- prattutto saper migliorare il lempeiamento e la ma- la crasi, come la chiamano i medici, se mala crasi \'è, con mezzi blandi, prudenti, applicali a tempo e luogo con man sospesa, e non cogli eroici e per • turbativi, i quali sommando il mal del male col mal del rimedio , convertono il più spesso il male in peggio, ed il peggio in pessimo, ed in alterazione letale- E noi ci siam trovati appunto in questa mi- scria di stato, e al ciel piacesse che in esso non ci trovassimo ancora ! Facemmo, e temo che facciamo, come gl'ipocondriaci, che è dire l'opposto di quel che un medico savio consiglierebbe. Il corpo infer- mo è, a nostro senno da ipoconihiaci, i! corpo so- or ciale. Vi seiillamo tienilo i doloii die vi sono , e quelli che ia nostra mente v'immagina, e che la injiiiaginazione fa più dolenti. E ci diamo agli urli, e dimeniamo quel povero corpo, e lo agitiamo, o cerehiam d' agitarlo per lutti i versi , come se questa fosse la miglior via per guarirlo , e not> piuttosto un modo per finir di rovinarlo e d'uc- ciderlo. Ora la terza verità che c'insegna la storia, è, che quando a curare uno stato infermo, da vero o da burla, si procede a questa norma, e a giudi- carne i mali si va con questa precipitazione, e ad apprestar loro un rimedio si prende parere da tali dottoii, o si vuol esser tutti dottori, è quasi infal- libile un totale sfacimento. Più oltre non procedo in questa enumerazione di verità, pej- non darvi noia, o signori, e perchè giudico queste poche dover bastare ad esempio. Or -supponendovi persuasi della importanza dello studio, che stiamo per intr;iprendeie insieme, io dirovvi ora in breve quale per questo anno è il mio divisamenlo. Jo aveva cominciato per ben due volte, in due diversi anni, a parlare dell'antica e celebre nazione de'tusci; né slimai che ragioni in buon dato man- cassero a provare che quel cominciamcnlo non era fuor di proposito. Ma io non ho bisogno di richia- marvi alla memoria, che il corso due volle inco- minciato , ebbe sempre alla sua metà involontario troncamento. Gli animi inoltre, voi lo sapete, a ben altro che a ricerche di fatti antichi ciano allora vol- ti. La scuola era in piazza: scuola che, come poco dianzi io considerava, non doveva giovare ad alcu- no , e doveva nuocere a molti. Così della nobile 08 Etruria, una delle madri di questa Roma, e penso la più illustre, più è quello che dovetti tacere di quel clie furami possibile dire. Poi cedettero le toghe; all'armi, e fu lunga intermissione, e si lunga che oggimai mal so io stesso ridire a me medesimo quel che dissi , e quel che non mi fu lecito dire. Ben quindi ponderala ogni cosa, né io trovo motivo ra- gionevole per cangiare ai-gomenlo, qual se temessi il mal augurio d'un subbietto, al quale una specie di sortilegio impedisca d'esser condotto a buon ter- mine; né ripigliandolo a quell'estremo in che lo la- sciai, posto che da esso estremo rimanessetni chiara la reminiscenza, potrei sperare che coloro, i quali in questo anno saran per onorarmi della loro cor- lese e benevola frequenza, o sian per essere gli stes- si che già m' udirono , o rileilulo abbiano nella mente quel che prima hanno udito. Perciò io mi rifarò da capo a questo tema della istoria de'toschi e delle antichità loro, cercando di pur poterne favellare a bell'agio tutto che credo a proposito di favellarne; e n'avrete frutto, se mal non m'appongo, di me- glio conoscere, di quel che comunemente non si suole, una delle più celebri nazioni che tennoio in Italia principal signoria, prima che Roma, tutte quan- te soggiogandole , oscurasse collo splendore delle sue geste quello di quante altre genti si divisero il bel paese nostro. Io mi rifaiò da capo, perchè or- dinataDienle ogni cosa intendiate dal suo principio: e tuttoché alcuni, malamente di ciò istrutti per quel ch'io avviso, pens ino pochissimo essere quel che do- po il naufragio di pressoché ogni sua notizia puos- sene oggi dire, pur mi confido d'averne a dir tanto, 00 che servirà a persuadervi, pochi altri popoh poter sostenere il confronto col popolo etrusco quanto alla fecondità de'documenti che la loro storia è in ogni jj;enere per somministrarci. Perchè, dove Topporlunilà verrà ad offrirsene, io non trascurerò in questo anno di cercare che la lezione del mondo antico profitti al nuovo, od al- meno ad alcuni del nuovo i meglio disposti. Così potrete, o signori, in questo proposito, sin dal cominciamento attinger quinci più sane idee, sic- come spero, intorno a quella che noi chiamiamo na- zionalità, parola che per tanta parte entrò nelle no- stre passate disgrazie, restituendola , o cercando di restituirla al suo giusto e genuino valore- Ma po- trete anche apprendere il valor vero di quelle che si chiamano forme governative, e di ciò che guasta le migliori, e alle peggiori toglie una parte del loro nocumento. E un precetto fra gli altri, se non vo errato, usciià limpido dal nostro studio: il precetto che, a correggere gli stati i quali volgono al peggio, importa immensamente meno il correggere quei che li reggono, che il correggere i popoli. I quali po- poli si correggono coH'educazione .... con quella educazione, la quale mette base d'ogni avviamento al bene la probità severa, non in qualche cosa, ma in tutto: probità che non può avere altro fondamento se non il sentimento religioso fortemente radicato nell'intimo dell'animo; sentimento che la ragione scuopre, ma non è potente e spiegare ne'suoi partico- lari ; che dalla rivelazione cristiana ebbe formola , dalla fede cattolica interpretazione e fermezza, e che per la ribellione protestante ricadde nella prima in- sufficienza ed incertezza; sentimento sopra il quale 100 poscia edifica la sapienza civile, quella sapienza civile che appunto la storia è destinata a svolgere negl'in - telletli. Indi, a SI fatte o simiglianti politiche utilità con- giungei' potrete altre d'ald'o genere, sì per ciò che risguarda lo glorie vere del paese nostro, e le infjpresc di che giova conservare mennoria, e far tema d'imi- tazione, sì per ciò che le industrie, sì per altro che rispetto o ad erudizione, o a belle arti, o ad agri- coltura, o a tutto che piace e giova, è da riferire. In che è possibile che mi venga meno la scien- za, e la cognizione conveniente, ma non la diligen- za, e l'animo disposto a mettere in quella miglior luce, che mi sarà dato, ogni particolare di qualche importanza, cosicché veder si possa, applicandolo a Toscana , che anche quanto ad essa vale l' antica detto — Vixere forles ante Agamemnona. Ora io de'miei proponimenti altro non dirò innan- zi di por (ine a questo tuio preliminare discorso, se non che consapevole a me medesimo del moltissimo che mi manca per poter essere quell'insegnatore di storia e d'antichità, il qual vorrei pur essere a van- taggio vostro, prego vi fin d'ora di considerarvi ri- spello a me non come discepoli, né come solo udi- tori, ma come quasi collaboratori nell'impresa del- l'investigare i fatti e le cose degli antichi popoli. Ac- cadrà per avventura che il uiolto vostro ingegno e l'erudizion vostra pervenga a vedere quel eh' io non veggo. Accadrà che perle considerazioni, le quali verrete facendo, io mi trovi costretto a cangiar pa- rere. Sappiatelo una volta per sempre. Non sì sono superbo, né tanto altamente di me .sento, che per una vana e riprovevole vergogna sia per ricusare la con- 101 fessiooe dell'essermi ingannato, quando mi si dimo- stri; o sia per non incoragfjiare col mio volonteroso a.-senso que'che mi sembreranno aver qualche nuovo passo fatto fare alla .cojjnizione di tutto che agli ar- gomenti, i quali tratteremo, appartiene. Riferisce Sparziano di Settimio Severo impera- dore , che vicino a morte die per parola d' ordine a'soldati laboremus. Laboremus, io pur vi dirò. Ri* cuperiamo il tempo perduto. E ad una riflessione vo- glio invitarvi- Ricordando l'antica grandezza de' pa- dri nostri è in noi scusabile l'ambizione dell'emularli. Ora io voglio dirvi il solo modo, pel quale potremo di nuovo alzarci più alto che tutti i popoli che oggi sono. Questo è il prevalere nella scienza e nella sa- viezza. Persuadete velo,^ o signori. Il mondo non è del più forte. Se fosse del più forte, sarebbe del leo- ne: e l'uomo, ch'è il più debole degli animali, lo vin- ce. Ma non è né meno del più ricco. Il più ricco era Creso e fu sconfitto da Ciro; era Ciro, e fu scon- fitto dagli sciti. E non è del possessore dell'impero più vasto. Possessore del più vasto impero fu Serse, e fu sconfitto da un pugno di greci... Di chi adun- que ? Di chi prevale nel senno , il quale è il più forte di tutti , e quando lo vuole sa esseie il più ricco e il più potente. Il senno insegna a equili- brare e superare la foltezza e la potenza colla de- strezza, la ricchezza coli' industria. E il senno con- duce alla scienza, che n'èad un tempo il prodotto e l'indizio. Perchè il senno, che non conduce a scienza, è seme che non dà il suo frutto. La scienza è la vera signoia del mondo- S'essa non è destinata a regnare, è alnìcn destinata a sedere sul primo gradino del trono. Essa è la consigliera naturale de' principi. 102 Essa aiuta a temperare i mali pubblici ed i privati, ad impedirli, a medicarli, a sostenerli con dignità con rassegnazione. E la prima delle scienze d' uso pubblico è, come io da principio diceva, la storia. Studiamola. Laboremus. Pbof. Francesco Orioli La fisiologia del poeta. Discoso letto tra i signori accademici tiberini il 15 dicembre del 1850. c \Jhiaino fisiologia del poeta la scienza delle qualità, che quando, almeno in gran parte , natura in noi le inserisce e le imprime, fanno esser vero l'antico detto - poeta naseitur: - perchè ciascuno che le pos- siede tal diviene se lo vuole; e lo vuole, e lo divie- ne, alle volte, ancora non volendo, non lo sapendo, e non vi avendo il pensiero , mentre chi non le possiede tormenta indarno l'arte e se stesso per di- venirlo. Né poeta vale versificatore, né ogni poesia è di versi e né manco di parole. Imperciocché poesia può non essere dove solo è verso, e per contrario essere in ogni fattura dell'uomo, anche senza verso, anche muta all'orecchio se non al cuore. Poeta, se si cercano esempli , Roscio era comechè commediante , poeta Pilade coraeché pantomimo , poeta Giotto fanciullo delineante con segni la pecorella sull'arena innanzi a Cimabue buon interprete di que' segni, per che si ri- vela ad occhio conoscitore quegli al quale De meliore lato finxit praecordia Titan', 103 poela è, a dir breve , qualunque vale a far opera con certe condizioni d'eccellenza, difiìcili (questo è il vero) a essere dichiarate con poco discorso, tali però ch'io mi sforzerò spiegarle il meglio che per me polrassi, prendendo da lungi le mosse del dire, se la vostra pazienza, umanissimi signori, non se ne stanchi, e la vostra cortesia me ne perdoni il fastidio. L'uomo (bene ognun sallo) è formalo d'animo e di corpo insieme congiunti in unità con sì stretto legame, che non è quasi allo umano dove ciascuno de' due non intervenga con alcuna sua parie per legge di segreta colleganza che l'uno all'altro, du- rante il vivere e l'operare terreno, inseparabilmente congiunge e marita. Lo spirilo è destinalo a signo- reggiare, il corpo a servire; non che sovente l'op- posto di ciò non si vegga nel fallo : ma il fatto è allora contro a diritto. Né sempre ciascun de' due melle a comune la slessa importanza e proporzion di lavoro. Ciò ancora è nolo. Maggiore qualche volta è la parte corporea dell'opera, qualche volta la spi- rituale. Nel poeta quella (dico la corporea) più è in evidenza, questa (dico la spirituale) un pò mono: ma ciò non prova che questa seconda, la qual meno sporge, importi manco ed abbia manco dignità, quella più. Il lavoro dominante nel vero poela è sempre dell'anima, che ha due funzioni da esercitare. Fog- giar in prima ciò che chiamiamo il concetto [hoc opus\)... il concetto, alito di divina natura, senza di che l'opera è morta , 1' opera è scorza vuota: il concetto, creatura nobile della mente figlia dell'Eter- no, ma d'una mente favorita da quello, ed attuata a certa singolare squisitezza, privilegio di pochi i quali 104 la terra giustamente riverisce ed onora. L'altra fun- zione è presiedere al corporeo lavoro , per che la fattura deirintelletto, tutta immateriale finché è den- tro, s'informi d'una \'este percettibile al senso este- riore: ma veste ella pure insigne per certe sue spe- ciali virtù e bellezze, atte a farla spiccare e parti- colarmente risplendere. Tuttavia resta vero pur sem- pre , che questo ultimo lavorìo (dove se la presi- denza è dell'anima, tutto il rimanente è de'materiali organi, dati all'anima per istrumenti), ottiene una spe- zie di naturale primato, siccome quello per lo cui concorso il concetto, a un mò di dire, s'incarna e si colora e a tal forma s'abbella, che fa l'opera es- sere di poeta e non d'altro comunale uomo; e con ciò fa esser la cosa grandemente a tutti pregiata , allettevole alle genti anche quando schiva del vulgo, anche quando severa ed anzichenò aspra , perche non priva mai d'una sua peculiare dolcezza ed ef- ficacia... della quale eflicacia non avrò bisogno di favellare troppo a dilungo, avendone a voi, non ha guari , dottissimamente discorso tale che tutti qui veneriamo buon maestro di color che sanno (*). Ben di tutta la veste dianzi mentovata, molto, comechè brevemente, sarà a dire: e a tanto prego che si volga l'attenzione vostra, o signori, come a principal punto nell'argomento nostro , punto al quale omai vengo senz'altro indugio. Invero, tutto che è lavoro dell'animo, per ma- nifestarsi al di fuori ad altri, necessariamente a un (*) Il Rmo padre Correlli delle scuole pie, clie con dotla ora- zione di questo dallo slesso luogo l'avellava, plaudente una <"'>Ua co- rona d'uditor- 105 qualche modo s'incorpora, cioè una forma sensibile assume che lo sijjnifichi: ma non con ogni forma d'incorporazione si fa poesia, ne ogni natura d'idea- li concetti è d'incorporamento poetico guari suscet- tiva. Con sole catene di ragionamenti, conceputi den- tro , espressi fuori tanto che basti a significazione, tagliatone via tutto che adorni e che a diletto im- pieghi un tempo, il qual vuoisi dato unicamente a intelletto, sian pure intrecci quanto è più a grado artificiosi ed ammirandi , sarai filosofo .... sarai Platone od Aristotile: poeta no. Con sole architetture di calcoli, con sole costrutture di linee, labirinti pei quali non ogni Arianna ti dà filo, da' quali non ogni Teseo trova uscita, sarai geometra od analista . . . Euclide, Archimede, Pappo alessandrino : poeta no. Con una tessitura tutta logica o di nude ragioni, o tutta di fatti rigorosamente tra loro congiunti , che tu connetti, che disponi, che infrondi, e che spar- gi di certe tue malizie, di certe arti atte a insegna- re, a persuadere, o vogli a dilettare ed a muovere, ma dove quel che più spicca è la fatica del loico, è quella «lell'uom perito nell'arti guerresche o poli- tiche, sarai bene oratore e storico ; Tacito, Tito Li- vio o Polibio, Demostene o Cicerone: poeta ancor no. Ad essere poeta ti bisognano idee, che princi- palmente in immagini s'incorporino, e che per im- magini più che sotto altra forma favellino altrui. Ti b.,.ognano nnmagini ed idoli che ti vivano e ti si muovano innanzi quasi palpabili, parlandoti all'in- lendimento qualche cosa degna d'esser detta, al cuore qualche cosa degna d' esser sentita ; mostrandoti al senso interno, se non all'esterno, qualche cosa de- G.A TCXXVIII. S 106 (jna d'esser vcJula, che alletti la tua curiosila e la trattenga, che diletti il tuo senso e lo incanti, che si cattivi l'altenzion tua e la soggioghi, e che d'una nd un'altra vista chiamandoli con opportuna varietà, stanchezza non ti permetta né tedio, e parendo non voler che dilettarli, pur ti lasci ammaestralo, ammo- nito, avvisato, persuaso, commosso, contento. Una po- tenza è perciò, fra tutte, quella che più d'ogni altra fa il poeta qual ch'egli siasi, e questa è l'immagi- nativa: l'immaginativa che non è la fantasia, ma che la suppone; che ha per fondamento la memoria; e che all'altezza ad arti poetiche è condizione somma e prima per universale consentimento. Ma le immagini son di più nature, come le arti alle quali servir possono. Elle son dentro dell'ence- falo, ed il cerebro n'è fabbricatore per sna virtù : non ogni senso però è alto a somministrargliene la materia. Tre sensi vi sono più grossolani e men de- gni, i quali alla vita vegetativa, quasi in ogni loro ufficio, più servono, che alla inlelleltiva; dati agl'istinti ed ai bisogni animaleschi, più presto che animali, e non alle operazioni superiori per che l'uomo dai bruti si differenzia e di tutto un cielo si allontana: e sono il gusto, il tatto, rolfatto, da'quali indarno aspetteresti ricchezza od accrescimento al tesoro in che cerchi poesia. Donde può bene alcun che esser trailo assai raramente , ma sempre come appendice e concomitanza di poca valuta, non come parte prin- cipale di forma. In questa vece due sensi hannovi, a'quali è data in ciò speciale elTicacia; e sono vista ed udito. Imperciocché, se tu sei di quegli eletti a' quali natuia concesse disposizione a' poetici lavoii, 10T certo essa t'ha dato tale occhio e tale orecchio a che s'accompa{}na uuo spirilo sagacemente e intentamente osservatore, per la cui virtiì le specie reali sonore e visibili con ogni lor distinzione e diversità di grado e modo non possono iiuianzi alla retina passarti, né risonarti nel timpano , senza che tu le avverta con tutti i particolari loro, e senza che alte nelle cervella te se ne stampino le vestigie, le quali poi ti daranno emporio di reminiscenze ad ogni uopo. Ma qui non si resterà la dispostezza tua , né a solo il già detto uso questo sarà stato. Sì fatte orme in tanto gran numero di ciò che prima realmente e presenzialmen- te all' orecchio sonò ed all' occhio parve , e delle quali la memoria è accurata e fedele custode e ri- produttrice, una meccanica sarà in te soprammodo perita in adoperarle (che tale può chiamarsi a buon diritto per quello almeno ch'é lavoro d'organi ma- teriali) ; meccanica sì fattamente alteratricc di esse orme per sua possanza , che in mille modi varrà a disgiungerle, connetterle, travisarle, trasporle, crean- do con ciò di vecchio nuovo, o di parti quinci e quindi slaccate, e ad una certa guisa ricongiunte e raccolte, rappresentazioni altre ed altre, a libito od a trastullo, che saran poi tue, non più della natura esteriore. Dove se l'anima restando passiva e sponta- neo il giuoco, e tutto il lavorare sia del cerebro che si muova ed operi come automa, sarà fantasia; ma se l'anima divenga attiva, ed essa intenda per sua virtù alle operazioni spartendo combinando componendo ac- crescendo scemando a sua volontà, come libera ch'ella sa di essere ed imperatrice , allora appunto sarà ini' mcuj inazione^ creatrice quanto più tu vogli di specie acustiche ed olliche secondo che li bisogna, e perciò 108 degl'idoli che ogni poesia fanno in lutte le sue ma- nifestazioni, cioè, sì pel cultore delle arti belle, poni il maestro di suoni o canti, poni il dipintore, poni lo scultore, l'architetto, il decoratore; sì par Tuom dato all'amenità delle lettere, poni il romanziere, il novellatore, il versificatore poeta. Ma acciocché il discorso, ritrattosi dal soverchio della sua prima ampiezza, a quest'ultimo soltanto si ristringa (intendo al poeta versificatore), io comin- cerò col ricordare della poesia versificatrice, ch'essa è, nella sua più estrinseca veste, principalmente di specie acustiche^ cioè di suoni articolati, o, a dir più semplice , di parole , le quali pur sono per un lor particolare privilegio, tra le svariate vestimenta che servir possono a dar un corpo sensibile a concetti ed idoli d'ogni natura, efficacissime di tutte ; avve- gnaché rappresentan elle, per le idee d'ogni condi- zione, quel che pe' valori le monete. Così voi con la sola virtù di parole dipingete le immagini percettibili alle pupille della mente, can ogni lor giuoco e sbat- timento di luci e d'ombre , di tinte o mezzetinte ; voi date loro tempo e luogo , date vita e atto ed anima e discorso; voi le disponete, le moltiplicate, le variate; voi formate mondi a similitudine di questo mondo reale e materiale, o ad un'altra similitudine, e li popolate di creature pari alle vere, o finte se- condo che vi talenta e v'è in capriccio; voi fate ca- taclismi od ogni cosa che far piaccia alla libera vo- lontà vostra; né ciò per voi solo, ma per tutti che i vostri suoni o intenderanno col materiale loro orec- chio , o trasformati in alfabetici segni li leggerano ooirpcchiu corporeo; perchè il suono in sé, o ne' se- 109 gni che lo fan visibile, perderà per tutti la natura sonora, e diverrà per una magìa, della quale l'uomo solo fra quante hannovi specie animali è potente , ogni cosa che avrete desiderato; magìa che farà vero quel che cantava nel VII delle Metamorfosi la maliar- da d'Ovvidio : Cum voluiy rìpis ipsis mirantibus^ amnes In fontes rediere suos: coneussaque sisto^ Stantia concutio cantu [reta: nuhila pello^ Nulfilaque induco: ventos ahigoque vocoque . . . Vivaque saxa, sua convulsaque robora terra^ Et silvas movco^ iubeoque tremiscere montes^ Et mugire solum^ manesque exire sepulcris. Te quoque^ luna^ traho: con quel che indi seguita Sebbene malamente ho detto quando dissi, che pel poeta i suoni articolati perderanno la natura di suoni e diverranno sole immagini. Doveva io dire, che restando suoni diverranno ad un tempo imma- gini, ed intanto non saranno men potenti sugli ani- mi come suoni che come immagini. Imperciocché a quel modo ch'è un'eccellenza in queste ultime tut- ta propria della poesia, così è una eccellenza nelle parole del poeta per quel pur solo che rimbombano all'udito; eccellenza che ha due fonti: nobiltà e ar- monia. E prima nobiltà, perchè hanno un' aristocra- zia per l'orecchio i suoni articolati, ciascuno sepa- ratamente, e gli uni in congiunzione cogli altri, on- de avviene che certuni e certi loro ordinamenti ten- gon dell'abbietto, quasi contratta una infezione nel- le labbra del volgo, il quale tramenandoli per chiassi 110 e per taverne li fa odiosi e male olenti. Altri s'han per soverchiamente comunali e , col reiterato ri- tornarci all' orfjano acustico, inetti a recare diletto alcuno ; altri in quella vece sono piacenti , perchè tali a cui concilia dignità ed onore il non solerli udire che nelle bocche d'uomini cresciuti allo stu- dio, e della schiera più eletta tra le persone edu- cate a fiore di civiltà, e più ancora il non incontrarli che in certe scritture di lodati ingegni. Ma v'è an- che ciò che è detto Varmonia: quella, intendo, che in parte è delle parole per se stesse, e l'altra che è di que' loro innesti e congiungimenti, i quali ri- spetto a poesia si chiaman numero e verso. Perchè è armonia, delle parole anche staccate, un non so che j/ratamente canoro, che nasce dal dicevole accozza- mento delle sillabe si fattamente distribuite che il vocabolo da esse composto par carezzi il timpano, niente .serbando del duro, dell' aspro, del penoso a udirsi , e mollo invece avendo del ricco, del ben sonoro, del variato. Ed è armonia , delle seguenze di voci congiunte a voci, quel procedere nelle suc- cessioni loro secondo leggi di misura, formando in- cisi che appunto diconsi versi^ con certe lor giunte d'altri artifizi che a' versi crescono la facoltà di di- lettare. Dove è prezzo dell'opera il dire com'egli addi- venga, che quasi spontanea s'accompagni al mani- festare poetico degl'interiori concetti la parola no- bile e metrica quale la definimmo. Noi composti co- me siamo, .secondo che dianzi fu favellalo, di cor- po e di spirito, abbiamo nervi, i quali nel servigio che rendono all'anima per aiutarla rispetto all'ufficio 111 del sentire, afifaticano, egli è il vero, ma non sì che dentro certi confini ed in certi casi la fatica ed il servigio non acquistino riconapensa d'un interno godimento, da che il soddisfare a questo ufficio è seguitato. Ciò addiviene nelle cose dell'intelletto co- me in quelle del puro senso. E nelle prime non tanto mai, quanto allorché l'intelletto si sublima fat- tosi maggiore di sé, e sperimenta le sue forze col cercare concetti, sotto la sola condizione che a bel- lo studio in questi dal materiale non faccia divor- zio, e da esso invece principalmente traggali , for- mando gl'idoli di che dicevamo, e non contentan- dosi di formarli, ma animandoli della propria ani- ma, e nel loro corpo incorporandosi, e per un por- tento d'identificazione (cosi chiamiamola) facendo persona di sé e di essi. Perocché il nostro stesso cor- po allora diviene in qualche guisa il loro corpo, e con quello, nello sforzo che a ciò fare ci bisogna, la nervea nostra compage , tutta ella medesima se n'eccita, e se ne commove, e coopera. E tanto più ciò accade , quanto più alle nuove Creazioni dello spirito, od alle evocazioni, da'penetiali della memoria, de'passati e de'morti, degli assenti e de'Iontaui, de- gli uomini e delle cose, s'aggiunge spontaneo il bi- sogno di farle palesi e quasi atte ad esseie palpate, non per noi soli, ma per tutti; e ciò non con altro, che con potestà di parole. Dov'egli avviene, che in si fatto magistero della parte nostra materiale e del- la immateriale, la condizione in che siam costretti a metterci é detta estro ed entusiasmo: ed è di tal modo, che più facile e più esuberante in quel ge- nerale concitamento ne si rende ogni lavorio nostro, 112 a tanto che in folla alla memoria si presentano i "vocaboli quasi non chiamati, e quelli soprallulto che l'elevarsi di nostra natura più ad alto della comune abitudine ci fa di preferenza appetire- E prima dei vocaboli si presentano jjl'idoli alla nostra scelta; dopo la quale scelta l'ideatiHcazione, di che poco fa par- lava, o l'evidenza della visione, succede; e appresso a queste la pilluia per parole. E i nervi intanto, e più che altri que'che presiedono al sentire d'ogni forma, e l'intero encel^lo. anzi ogni parte ch'è in noi viva e materiale, concepiscono un tremito, il quale ha ritmo, cioè misura e periodo, ed una convulsione interiore che tutto tende ad attemperare a sé con certa dolce violenza che ci domina. Le membra ballano. La voce canta. La lingua versilica, cioè dispone quasi spon- taneamente i vocaboli a numero e metro. Così tutti ad un ten)po si risvegliano, e si fanno aitivi, gl'istinti tra loro legati di reciproca e amica fraternità; quel delta musica, quel della danza, quel della canzone, che presso alle nazioni le più barbare l'una all'altra sempre amano andar congiunte. Di qui la lirica, e l'antica epopea, cantata, e «leciamata, e danzata nel- le sale de'grandi. Di qui la mimica, spezie più espres- siva di ballo, e la cetra o l'arpa compagna perpe- tua del j)oela. Di qui la nenia e i treni delle pre- fiche a gran movimento di braccia e di persona ; il tripudio de'salii sacerdoti, il tra.scorrimenlo de'lu- percl, le pirriche de'guerrierl, l'agitazione epilettica delle sibille. E tutto è a fisiologica legge d'isocroni- smi, che i tremiti nervosi, e le palpitazioni del do- lore, dell'ira, della gioia governano. L'orecchio tem- prato a risonanza d'una prima dimensione (prima in 113 ordine di tempo ) vuole a dati intervalli distribuite e ripetute le pause e le vibrazioni sonore o canore; vuol certi ritorni di suoni simili, di distanza in di- stanza; e s'innamora di certi quasi echi, donde la rima, perchè le stesse eorde, appresso a uno stesso tempo di riposo, appetiscono le stesse forme d'agi- tazione. Laonde quegli è poeta che a sì fatto sacro furore di bardi, o di coribanti, volontario od invo- lontario, è preparato da natura, educato dell'arte. Tali ne si mostrano coloro, i quali possono dir di sé a buon diritto: Est deus in nobis^ agitante calescimus ilio . . . Tali ne si descrivono quanti la storia narra primi fab- bi'i di versi presso i popoli ne'loro eominciamenti. Quinci le istintive cantilene de' recitanti, e le artifi- ciose gesticolazioni, che non sono ancor canto , né ballo , ma sono interno impulso non ben represso all' uno e all' altro. E sta bene: perchè il corpo este- rno, a quella forma agitato, comunica al corpo inte- rno il commovimento, e questo all'anima , od é ro- vescio di ciò. E ogni nostra paite così a misura s' attua , e quasi colle mosse che le son proprie ne batte il ritmo , e lo conserva .... Se non che la vivacità di tante operazioni concomitanti non permetterà allo spirito un ordine rigorosamente lo gico, un' espressione severa e ricisa. Sì fatto slato, troppo simile a quello del sognante , riterrà qual- checosa delle anomalie del sognare. Non saranno sempre le audacie di Pindaro; non sarà il disordine dc'deliranli : sì bene un non so che d' all'oliato , di concitalo , d' impetuoso . d' imprevisto, talvolta 414 di saltellante , o per ultimo dello straordinario che è proprio di quella condizione in che la persona fisica e con essa la niorale , si trova. Dove se l'esu- berare delle immafjini , e la magnificenza del lin- guaggio , e il nuovo artificio del discorso niente abbia che la ragione disapprovi, e se, per con- trario , nasca da tutto ciò cosa atta a generare nel- l'universale insolito contentamento, ecco l'opera poe- tica degna d'alloro. E dunque ornai noto di che la natura del poe- ta a mia sentenza si formi. Nervi facili ad essere com- mossi, non a grado di malattia, né di farnetico, ma sì a grado di tale orgasmo per che tutte le facoltà siano avvivate: e men dico i nervi della vita per la quale vegetiamo, che quelli della vita per la quale sentiamo e siamo uomini. Cerebro facile ad esser tratto a consenso della concitazione nervosa. Memoria pronta e ricca. Immaginazione feconda ed obbe- diente. Facilità quindi a fabbricare idoli e quadri di fantasia, governato ogni cosa da ragione e da mi- sura; e un corpo oltre a ciò sì bene e sì aggiusta- tamente composto, che connaturalo siaci il senso del- Tarmotiia e del ritmo, l'uno e l'altro tali che d'eu- ritmia e di simmetria si compongono, cioè d'un sag- gio appi'czzamento e giudizio di dicevoli accordi, e di eguali dimensioni, onde parte corrisponde a parte, e le diverse parli convengono ad un bel tutto. Cose sou queste, per vero, che si senton dentro più che si sappiano e si possan dire : di guisa che meglio s'intendono a solo annunziarle, che sforzandosi a dar- ne spiegazione acconcia. Basti notare che non si ot- tengono se non si e privilegiali d'una felice gene- rale slrultuia, e non quella che si palesa all'eslrin- 115 seco per corporee bellezze del viso e delle membra, ma quell'altra die è bellezza interiore consistente in un orecchio delicato, apprezzatore giusto de' suoni, e buon tempista; in un gusto morale retto e squi- sito; in un occhio, attento osseivatore della natura ne' suoi particolari; non di tutti, che è da naturali- sta, ma de' più speciosi, che è da poeta: in certe al- tre doti che sono dell' animo , comechè del corpo elle pure, né le stesse per tutti, ma ognuna tale che dà squisitezza al concetto. Negli uni è brio ; negli altri è certa mordente acrimonia. Quegli possiede, do- no di cielo, una vena di grazia che lo fa piacente in ogni cosa grande o piccola; quel secondo il buon umore, e la giovialità, e Io scherzo. V'ha chi l'alletta colla forza descrittiva, e coU'evidenza delle immagini, o diati ritratti, o figure di fantasia. V'ha chi ti guada- gna il cuore con una schietta, e rara , ed ingenua semplicità. D'uno ti sorprende la magnificenza e la ricchezza, d'uno la novità, d'uno la potenza patetica. In diversi generi ami l'acerbo Giovenale, l'ironico e fino dileggiatore Orazio, il severo Persio. E ti piace d'Ariosto la vena limpida, facile , ampia, ubertosa, che va sicura per cateratte, sonante per dirupi, di- lettosa per valloni: Anìene, o Velino. E ti piace di Tasso r acqua a cascatelle da dilettose fonti, che l'arlifìcioso architetto dispose tra l'ombre de' faggi, e studiosamente disperse in rivoli d'argento in mezzo ad edere, che li fanno un bello d'arte, il quale ti muove più che la natura rozza: ruscelli d'Armida, fiumi di Caserta o di Versa glia. E qui rcsterebbemi a favellare un pò più per disteso delle condizioni di bellezza propriamente detta a elio il lavoro poetico dee soddisfare: ma chi può, 116 di questa più specialnaeale, con parole esprimere le intime qualità? Di essa più che d'altro è vero ciocche testé io diceva. Il bello si sente, non s'analizza. Esso ha un tipo eterno fuori di noi, non dentro, che all'in- tuito della mente si offre in lontananza, infinito, né con parti le quali si veggano chiare e svelate- Se svelate tu le vedessi, potresti rilrarle per minuto in tela con figure, in creta con rilievi, in marmo co- gli scarpelli, in carta colla penna: ma risconosci la bellezza se la incontri in quella misura che ti è dato incontrarla, imperfetta pur sempre e immensamente discosta dall'originale eterno, quando pur la incontri; e puoi dire dove non ista, non puoi ben dire dove sta , né ben sapere se sei destinato a trovarla. Essa è il proteo della favola, perché ha mille forme tutte squisite, e sai che son belle, più presto al diletto che ti recano, di quello che a' segni ben distinti che tu ne abbi chiari nella memoria o nella fantasia. Se l'afferri, l'afferri d'ispirazione, non di deliberato pro- posito , e come dire a caso pensato. Sai che non l' inganni riconoscendola, al vedere che tutti più o meno la riconoscono al par di te; intendo tutti i più savi, e i più riputali. Quando ne dimandi, nessuno sa dirtene più di così: mi piace. Studiando e stu- diando, non riesci a vedere che questo poco : — Il bello è ragionevole.- Il bello é quel che ha simiglianza in ogni sua parto colle parti universalmente chia- male belle d'ogni obbìetto della natura, dal quale, o dalle quali, tu traesti il modello de'tuoi concelti. Bello é ciò in che la somma delle parti, e ciascuna di esse, niente ha di difettoso né d'eccessivo, nò sola, né in relazione coli' altre ; niente ha di reciproca- UT niente incompatibile, di discorde, di dissonante, d'as- surdo, d errato, quanto a disposizione, quanto a con- nessione, quanto a usoj quanto ad effetto E dopo ciò Intendami chi può che m'' tntend'io. E so che m'intendono i più. So che non sarà uno tra \oi, che chiamerà bello il brutto, e brutto quel che ha vera bellezza. Potrà essere a volta a volta oscurazione di senso, ecclissi di ragione, allucinazione di vista, ma sarà breve malattia, tempo infelice. Nel generale gli uomini riconosceranno sempre, o tutti, o il più gran numero, la vera bellezza come prima si mosti-a, e l'inchineranno, e diranno: Eccola; e se al- cun v'avrà il qual non dica eccola, e volga l'occhio a cercarla altrove , e pensi averla trovata ove non è, tanto peggio per Ini, Egli non sarà mai poeta. E dopo ciò stringiamo le vele del dir nostro. Vuoi tu conoscere, chiunque tu sii che ascolti, se ha; sulla persona scolpito il segno delle muse ? Esami- nati, Palpati il cuore e la front<=. Cerca nell'uno le fibre dell'afletto, e non importa quale, purché nobile; nell'altra quelle della memoria, quelle della imma- ginazione; le corde della misura e del ritmo, le bi- lancie del buon gusto e del retto giudizio; la po- tenza inventiva; la vista perspicace; la persona pronla ed elastica. Se sì , fatti coraggio. Tu sarai del bel numero uno. I;e balze di Parnaso non li saranno aspre ed inacc<;ssibili. Se no, no. Getta allora da te lon- tano la ceira, come lo Sforza da Cotignola la marra. Iddio non t'ha sofliato in viso (juell'aura, derivazione di cielo, che è l'alito della poesia. 118 La patologia del poeta. Discorso letto tra i signori accademici tiberini il 20 luglio 1851. JtXanno infermità le lettere non meno spesso degli uomini. Oggi voglio io dire le infermità della poesia. La cagione è sempre nel poeta, malato egli stesso a un qualche suo modo e grado: che l' opera non è mai malata, se l'artefice è ben sano nella potenza e nell'alto: sano, intendo, come poeta, non in altro che non è di questo luogo. E perchè quegli, il quale ma- lattie novera e descrive è detto dai tecnici patologo, il patologo del poeta io sarò , a quella forma che altri lo è de'comuni infermi; a quella forma che nello scorso anno io volli esserne il fisiologo. Ben confesso che proporsi argomento la patologia del poet^ è assu- mere tema da libro, non da discorso di men che un' ora; non da discorso d'accademia. Ma toccherò pochi principali punti; lascerò gli altri: e il mio lavoro sarà piccolo saggio del maggior volume che bisognerebbe, e che scriverà , o non scriverà chi è più padrone del suo tempo, ed ha gioventù la qual permette le imprese vaste, e sapienza la quale le aiuta, e la quale fa l'uomo bastante ed intrepido allo eseguirle. Im- perciocché innumerabili sono le malattie, di che opera poetica può andare afflitta: o a meglio dire, la sa- nità piena dell'opera poetica è raro incontro, più as- sai che non la sanila piena de' corpi nostri: con que- sto di peggio, ch'ei non è d'una mezza sanità dell' opera di poeta quel medesimo che della sanità mezzana de' nostri corpi; colla qual mezzanità di salute nai ci chiamiamo Volgarmente hen-portanti, e all'univcr- 119 sale lo paiamo ; e snelli e vispi andiamo in volta per lo mondo recando attorno le incomodila legjjicre che pure abbiamo, ma cbe né a noi, né agli altri fanno molestia e disagio a cui soglia badarsi: mentre la poesia mezzanamente sana non può nascondere il viso d'infermiccia, e subito ha stampa di colore non buono, che la fa sgradila alla gente ed avuta in dispregio. E la ragione di ciò ben si vede. La poesia è conj«ì dire una femminella baldanzosa e ci- vettuola, il cui precipuo fine è piacere. Per questo si gitta fuori in istrada, e si pavoneggia dandosi in mostra. Per questo a tutto suo potere s' azzima e s'adorna con ogni maniera lisci, e si metle in cuti- legno. Per questo Iia il passo misurato, la veste .s|)leu- dida, la parola scelta , la voce sonora , il gesto di commediante, il vezzo o l'affettazioue del vezzo. Or si tollera nella comun convivenza fanciulla o donna, la quale accetta e porla con franca disinvoltura e con buono assettamento il volto e la fazione di corpo che Dio le ha dato, sia pur comunque, e fa sue faccende alla schietta, e va per esse, senza aver l'aria di dir sempre a chi passa: guardatemi che son bella ed ho grazia ; non si tollera 1' orgogliosa che co- manda intorno a sé omaggio ed ammirazione, come debilo da pngarlesi, o la scema che pur solo dinuan- da una lode ed un sorriso di benevolenza come li- mosina. Alk>ra le si guarda addosso quasi con oc- chiale in quel ch'è sua nalura, e in quello ch'è arte; e se limosina s' accorda , essa é mortificazione più che dono, e vergogna più che fregio; ma dell'omag- gio e dell'ammirazione s'è avari, ed é di esse come delle leltere di cambio tra mercatanti , che non si 120 pagano se non dopo esame. Dov'è possibile che s'in- contrino i generosi ed i prodighi, i quali fanno onore ad ogni tratta, ma nell'universalo s'è più economi, e più guardinghi e diffidenti. Nel caso nostro , prima risguardasi alia sanità estrinseca^ poiché l' estrinseco , nella poesia , non è mai la parte minore, assai spesso è quasi tutto. Dico la lingua; dico lo stile nelle sue materiali qualità ; dico la versificazione in quel che suona all'orecchio; dico la erudizione in quel che è ricchezza del com- ponimento.- E qui osservo innanzi tratto: Brutta ma- lattia del poeta, e spesso immedicabile, è quella ch'io chiamerei volentieri l' impubertà. Cagione, gli studi crudi ed immaturi. Uno degli effetti, ignoranza o po- vertà di linguaggio, o disacconcio uso , o comun- que imperito ed aberrante. Ma vi sono anche gli studi malcondotti che fanno una pubertà disordinata e fuori di norma, in ciò come in altro- Sul quale proposito non al vero si apporrebbe chi questa ra- gione di malattie, ne' già usciti di ginnasio da lungo tempo, giudicasse o leggiera , od anzichenò infre- quente. Leggiera no per fermo: che la lingua è nel componimento come dire nel metallo il grano e la lega. Essa è la prima che t'avviene all' udito , e ti definisce il poeta nella cura ch'egli s'è data, o non s'è data, per condursi a maturità, e per guadagnare buon garbo; come nel comun conversare essa è che ti fa subito discernere l'uomo senza scuola dall'uo- mo di qualche scuola, e l'uomo di mala scuola da quel d'una scuola migliore: argomento immenso nelle sue particolarità, che indico, ma non tratto ; ed ar- gomento ad un tempo di principale importanza. Per- 121 che, se sei del bel nuim^ro ii'io, cioè di coloro qui nasum rhiaoeerotis habent , non è ripugnanza che tu vinca più difììcilmente di quella che ti senti in patire nel poema, vale a dire in componimento il qua- le ti si para innanzi con intenzione, almen sottintesa, di dilettarti, una lin^j^ua negletta, spropositata, scor- retta, rustica, disordinata, inelegante, o per altra enormità errata a qualunque sua ragione, e disa- datta e falsificata, o contorta, o piena di nauseoso lezio, e di mala civitteria. Né, per diversa parte, questo sconcio ha infrequenza. Purtroppo esso è più generale di quello che la turba non crede, la quale in ciò ha orecchio falso, e spesso riceve per mira- colo di linguaggio quel che certi suoi non buoni corifei stimano e predicano tale! Per opposito, nulla sì è raro quanto l'abbattersi in chi in ciò più o manco non isbalestri, e sì nel genere, e sì nella spezie, cioè sì nella lingua giudicata a legge comune, e sì in quella che è propriamente lingua poetica, la quale purtroppo è perizia e vanto di pochissimi: lingua che in Ita- lia ha sue parole, e suoi modi, e sue licenze, e suo codice... Né sì fatta rarità è rispetto a que' soli che so ivono versi, ma rispetto altresì a coloro che giu- dicano gli scrittori , e si dan gloria di riconoscere quasi con naso dov'è perizia e dove manca. Su che incontri spesso chi ama levar tribunale... il tribu- nale di Mida. Ma i giudici, a'quali sta bene il se- dersi su questa curule, son rari sempr;e uomini emwn- clae nari:A , nutriti non alle bricciole del diziona- rio e della grammatica, ma al pan sostanzioso de' classici, e non d'uno solo; e non allucinati a certe romanticherie moderne , non teneri di certe singo- G.A.T.GXXYIII. 9 12-2 lari fraseologie che sentono di tale o tale altro mal vezzo, comechè tenuto per ottimo vezzo. Dove ognu- no tragga il qui detto a tutte ancora le arti dello stile, quant'elle pur sono, e di quante diversità sono. E poiché appunto allo stile siam venuti, di esso an- cora diciamo. Ben sapete, o signoii e colleghi, che senza èsser favella , intorno alla favella s' aggira esso, ed è a questa quel che in arte di sarto il taglio del- l' abito è al panno. Il panno può essere panno di Francia , Luviere , Sedano , Elbuffo sopraffino : e r abito , ciò non ostante , esser tale da suscitare le malte risa in ohi lo vede sulle spalle a ga- lantuomo. Può patire di mal di stretto , di mal di largo. Può non andare giusto alla persona, peccar nelle costure, nelle pistagne, ne' paramani, nel bave- ro, nelle maniche, ne' gheroni, negli scarselloni. Es- sere ridicolo nella smanceria soverchia a modo ul- timo di Parigi o di Londra, o per fazione che ac- cusi la villa o sì veramente le anticaglie del secolo passato. E cosi è dello stile nelle sue diverse biso- gne, o in generale vizioso, od in particolare non ac- comodato all'uopo. A mò d'esempio, se asiatico dove .s'aspetterebbe laconico, se l'uno o l'altro dove le si richiederebbe attico, se in mal punto giocoso nelle cose serie, serio nelle giocose, umile nell'elevate, gretto e povero nelle magnifiche, magniloquo nelle dimesse. Lo stile, s'è detto, è l'uomo; mal dunque per r uomo che si fa giudicare di piccol senno dal suo stile! I più valenti sanno mutar la maniera secondo i temi. Chi non si sente altra potestà che di un solo, scelga argomenti acconci a quell'uno, o la sanità che in ciò'gli manca guasterà il resto, ancor- ché lodevole. 123 Che se tanio vale per coloro che, e nella lin- gua del poela, per interrogarne la salute, vogliono imparare a distinguere la buona patina dalla non buona, e in tutti i segreti della locuzione vogliono penetrare bene a dentro per possederne la sana pra- tica e il diritto giudizio; d'un altro esame non man- co è necessario acquistar la perizia , ed è l'esame della versificazione, in quello, come già dissi, che è suono ed .armonia percettibile dal senso fisico. Taccio i versificatori sì alle muse in dispetto, che l'orecchio del verso hanno solo nelle dita , e contano le sillabe come pinzochera i grani della co- rona (chiedo a Dio perdono del profano viso della similitudine) e ne fanno serque come villano de'lo- ro agli (chiedo a voi perdono della umiltà del con- fronto). Taccio quegli altri che nelle dita stesse non hanno orecchio il quale lor basti, inetti a compren- dere l'aritmetica dell'elisione, della dieresi, della si- neresi, e la tonica dell'accento. Ben gitterò una pa- rola su' poeti si fattamente lesi in tutta l'acustica giudicatrice de'caimi, che alla musica intera della poesia si fan conoscere sordi per guisa da non av- visare le durezze, gl'iati, le cacofonie, le monotonie, le ingratitudini e le volgarità di rime, d'assonanze, di risonanze, come ncnumeri innumeri che sì in Plau- to spiacevano al venosino ; malattia, per solito, di quelle che, in linguaggio di medicina, si direbbono strumentali, o vogliasi alla greca nominarle organi- che: la qual malattia condanna chi la patisce , seb- bene aver possa le altre condizioni che a poesia bi- sognano, al contentarsi del poetare in prosa, inter- detta a sé ogni prova di discorso legato a misura. 124 Ma l'erudizione, essa ancora, è altro subbietto che può a vizi di più spezie dar luogo. E comin- cio notando, che qui chiamo erudizione, non sola- mente quella ottima preparazione di svariati studi senza di che la povertà delle cognizioni, che pur denno esser comuni a tutti i bennati, si manifesta nella povertà delle idee secondarie, di che necessa- riamente si ricama la tela del discorso a grazia ed ornato in ogni scrittura, e più in quelle che si fanno a diletto, o ancora a solo insegnamento; ma chiamo l'altra preparazione, non manco, degli studi speciali che guadagnano al poeta l'onorato titolo di dotto. Dove so che abbondano ragazzi d'ogni età, ed an- che d'età già senile , a'quali l'aver seduto alquanti anni della sbarbata adolescenza nelle misere panche d'alcuni rugginosi ludimagistri. e lo avervi appreso lo scandere poesie latine o italiane, e fatto povero te soro d'alcuni brani de'classici che van per la mag- giore nelle due lingue, o forse nelle tre, se la greca v'aggiungiamo, dà fiducia e sentimento d'esser di- venuti buoni emuli di que'massimi maestri di coloro che sanno; in che possono addurre a scusa le molte lodi che li hanno avvelenali, quando prima salu- toni la piazza col nome d'autori: ma io questa fidu- cia e questo sentimento non approvo, e que' loda- toli punirei volentieri di grave pena, come seduttori che sono della malavvisata gioventù, e pericolosa ge- nìa di lenoni che lavorano spietatamente a corrom- perla. Certo non così la pensavano que'sommi che han vinto i secoli con una fama duratura quanto il mondo ! perchè leggo Virgilio avere scritto ad Augusto, il quale domandavagli contezza dell'Eneide 125 portata in seno undici anni e non partorita ancora; Tic Aeuea meo , si mehcrcìile iam digìmm auribus haberem tuis^ libenter miltercm^ sed lanium inehoata res est cum pracserliin^ ut scis^ alia quoque studia ad id opus^ midtoque potiora, imperiiar (Macrob. Saturn. I. 24). E bastami correr coll'occbio alcune carte di Dante per sapere quanta profusione di dot- trine versasse nel poema, al quale aveva posto mano cielo e inferno. E questo medesimo imparo, o che in Omero mi fermi, o che in Orazio studi, o che mi faccia a considerare in Ovidio quanta ubertà mal nascosta di recondito sapere giaccia sotto le appa- renze di versi spensieratamente sdrucciolatigli di pen- na con fretta di provvisanle. Ma oggi è chi sì fatto illuminare poesia o prosa con lampi d'una luce ri- verberata di liceo, chiamerebbe e chiama pedan- teria fastidiosa, e quasi ridicola: tanto il secolo è tra noi schivo d'ogni elaborata sapienza ! E con ciò le ottime tradizioni vanno smarrite e dimenticale ogni dì più; donde avvien poi che se alcuno pur sorge, il quale ne' vecchi studi, o negli studi di vecchia usanza, si piaccia, e li assaggi, e se ne pasca, per mancamento di buoni esempli contemporanei e di amiche guide sbaglia di leggieri la misura , ed in opposto eccesso trabocca , fatta una infermità di erudizione o cruda, od usata male, perchè o sover- chia, o fuor d'opportunità, o di lega non ischietta, o lialta da troppo lungi, ed oscura non a que'soli leggenti d'oggidì ch'io chiamo ciechi come figli mal leccali dall'orsa, ma non manco agli uomini nutriti di buono scolastico latte. Ciò detto delle principali estrinseche infermità, 126 vegnamo adesso ad allro capo. Nelle malattie gene- rali, o, a dir meglio, nelle generali fonti di malat- tia, male il computo istituirei, se non contassi prin- cipale la mancanza di retto senso-, privilegialo sen- so, di cui l'organo tìsico è in un felice impasto di cerebro, comechè sia quivi potenza |)riva d'alto, fin- ché una conveniente istruzione non s'aggiunga, o, per un mo' di dire, non gli si sovrapponga, che le naturali disposlezze agevoli, educhi, e perfezioni. Ma quando l'uno e l'altra v'ò (intendo il senso e l'istru- zione) , l'efìello è allora ne'componimenli quella che vorrei chiamare una perpetua castigatezza, e acco* modo il vocabolo a meglio significare il pensiero: ciò sono le assolute assenze, in tutte le parti, d'ogni cosa che ofi'enda l'inlerioie giudizio, e l'offenda o col ridondare , o col difettare , o col fare sconcor- dia, e quasi strillo con quel che precede, accompa- gna o succede, o col deviare comunque dal fine pro- posto Laddove quando luna o l'altro, ovvero l'una e l'altro, non c'è, di leggieri senti il vuoto che la- sciano, e la imperfezione che ne procede, e che fa- cilmente avvisi allo scontrarti a volta a volla col contrario di quel che teste ho detto. Ed allora è ciò infermila pessima che abborrisci e. schifi, come la vi- sta di tale sul cui volto fiorisca alcuna rugiada qua e là d'untuosa e lercia impetigine. E qui la catena del discorso mi chiama ad uno de'conseguenti del diritto senso, non veramente per- chè da esso rampolli, ma perche sopr'esso s'alza e s'edifica, come sopra fondamento fermo che gli bi- sogna; e voglio dire il buon gusto, dono di Dio d'una più elevala nalura che il precedente, e perciò più 127 raro di quello: il buon gusto, il quale, se l'hai, è una specie di sangue di paUiziato che ti scorre li- quido per le vene, e sol coH'averlo li fa non essere ■volgo di poetanti, e non uomo di piccola gente nel popolo di Parnaso, ma sì ti leva quinci di peso e di balzo agli ardui seggi della beata aristocrazia. Di che trovo nuovamente analogia d'esempio nella don- na d'alio stato a rincontro con alcuna ingentilita e in mal suo punto svenevole foroselta. Imperciocché non l'è bisogno veder quella, dico la donna di gran sangue, uscita di casa cogli abili solenni della gala, per sapere, al primo porle addosso l'occhio, dovun- que e quandunque, che l'è innanzi stirpe genuina di semidei. Sorprendila, se tanto li lice, nel segreto dell'alcova, nel disordine del cessare il sonno, nelle prime negligenze dell'accappatoio; contemplala nella semplicità dell'andare di buon mattino incognita e disadorna per suoi fatti; od osservala in tutto lo splen- dore di sue più sfoggiate vestimenla ed orerie, sem- pre è una monda e misurata eleganza che tien ra- gione del tempo e del luogo, e maravigliosamente vi si accomoda. L'eioiua traspare sotto qualunque mistero e umiltà di veste, sol che vada, segga, s'at- teggi, si componga. Ma se una o Driade od Oreade tolta al monte od al bosco l'è davanti, può a suo talento d'ormesini avvolgersi e di velluti, variegarsi di bel sopraggitti e di nastri, sfolgorar d'ori, scin- tillar di gemme, e trasfigurare se slessa con ogni in- gombro di faldigie, o scella d'attillamenti: uscirà un fiato di selva , un trasudamento s'esalerà di goffag- gine, dalle pompe di che si maschera, e tradirà con- tra ogni suo volere il segreto dello scoglio e del 128 ceno natio: cailoccio la vita, fastello il corpo, smorfia il vezzo . . . tutto una cosa mal venuta e mancante, che vuole allettare e li ripugna , vuol conquistare eli mette in fuga, semina seduzioni e raccoglie scher- ni. E uguale differenza ei ti fa il poetante d'eletto gusto messo in comparazione col verseggiatore di grossolano e imperfetto senso. Pessimo genere d'ir- regoliirità ha in se questo secondo: della quale irre- golarità due spezie sono: una di chi così è perchè nacque per così essere e per così rimanersi tutta la vita; un'altra di chi nacque per esser diverso da ciò , ma al quale mancò l'addestramento e l' abito dell'arte aggiunta, senza di che la naturale potenza resta un conato senz'atto, e si volta a sterilità e tor- na inane. Dove l'uno, siccome dicemmo, è condan- nato dalla natività, senza speranza che valga a con- fortarlo e redimerlo: ma il secondo ha possibilità di venire a salute, se volontà e fatica non gli fallisca, e se con buona scuola e paziente e lunga al suo bisogno ei provvegga, sì con lettura pertinace d'ot- timi libri , e sì coli' opportuno interrogare di savi che siangli cortesi di buono indirizzo. Or voltiamo pagina, e vegnamo a certe aridità, o si vogliano dire atrofìe, pessimo male ancor esse nel nostro proposito , degl'ingegni o già maturi, o non ancora sbocciali ; e per prima vegnamo all'ari- dità della inventiva: intorno alla cui definizione non ho bisogno di spandermi in parole, poiché sa ognuno questa essere, dico l'inventiva, quella fecondità del- l' intendimento , donde germinar dcbbe il concetto principale accompagnato da' suoi subalterni; il qual concedo ed i- qnali accompagnamenti sono l'essenza 129 del poema, e come dire il suo spirito, mentre ogni altra cosa non n'è che il corpo, cioè involucro; corpo ed involucro e fantasma senza vita, se quello e quelli mancano. Ed allora i soli che non han palate per ciò che è polpa , e che non hanno uso e appetito di polpa e non la cercano, possono chiamarsi con- tenti a un pascolo di scorze, come que' fanciulli di volgo che non potendo avere la pesca si trangugia- no avidi e beati la buccia. A lato alla quale sec- chezza e povertà, o piuttosto a cui rlmpetto, è una Cachessia della potenza che inventa, od una mala intrinseca disposizione per cui , non veramente la vena del concetto e de' concelli è arida, ma pecca nel non metterli fuori limpidi schietti e dichiaranti la buona sorgente donde zampillano, o nel non darli a pieno gorgo, ma si sbruffarli per cosi dire a irre- golari sprazzi sparpagliati e dispersi... infermità l'una e l'altra che uccide la poesia, come il vento del deser- to uccide l'erba del campo, o come l'ineguale spar- gervi del concio fecondatore lascia alcune morire di mal di tisi, molte d'eccesso di rigoglio. Altia aridità è dell'immaginativa, cioè della po- tenza per la cui virtù le idee del poeta si rendono sensibili con immagini che prestan loro bellezza ed evidenza, e una facoltà con ciò di diletto che l'idea incorporea mal possiede. Senza dubbio l' aridità, di che or parlo, da più cagioni può provenire, e prin- cipalmente da povertà di tesoro nella memoria non convenientemente arricchita delle impronte che la nioltiplice osservazione dell'universo e delle sue bel- lezze in ogni ragione d' obbietti e ordinata a stam- pare; delle quali impronte è ulHcio poi delia fan- 130 tasia far sue scelte e mescolanze, creatrici d' esseri nuovi e fittizi che tutto un nuovo mondo, o nuovi e più mondi fanno apparire a libilo, e quasi a cenno di bacchetta, in mezzo a questo mondo reale con quell'effetto che non è necessario eh' io dica a voi tutti, i quali troppo bene vel sapete. E ciò sifjnifica, per quel che spetta al vuoto della memoria, una pi- grizia nostra, e una non curanza, e un mancamento d'attenzione allo spettacolo delle cose mondiali , ed una inettitudine a notare in quel che ci cade sot- t'ocehio le parti notabili, a raccorne il disegno, a ritenerlo dentro con impression salda messo a suo posto cogli altri analoghi o contrari per classi e per categorie. Ma , se qui è una delle fonti del male , un'altra suol essere nella imperfezione ed insufficien- za della facoltà fantastica, invalida alle maravigliose sue sintesi nel piccolo e nel grande, quanto all'aiu- (arci in ogni prova del comporre ; e non invalida solo, sì bene altre volte infelicemente feconda ed ope- rativa, o per esuberanza fuor di proposito, o per non buona sceka o combinazione, o per altro quale che siasi difetto neirartlfìcio creatore. Terza aridità è finalmente quella dell'affetto, che si cerca e non si trova dove più se ne vedrebbe il bi- sogno e l'opportunità: donde poi procede che l'opera del poeta è fredda e lascia gelido chi leggerlo ascol- la ; opera perciò che sparge intorno noia e sonno. Perchè, debbo io forse ridire noiissìme cose ? Bel- lezza sia bene. Ma che piacere uscir può, quando aspetti cosa viva, da una bellezza marmorea , figura morta, la quale nel senso esterno del corpo si ferma e diritto non va al cuore con qualche sua dolce [>a- 131 rola, con qualche sua lusinga ? Tu la guardi e non li dice nulla. Tu la guardi, ma essa non guarda te, o li guarda con occhi stupidi. Tu aspetti che, men- tre alla pupilla esterna se stessa offre, dichiari una intenzione dell'offrirsi a quel modo , e non ti si pari innanzi formamuta di statua, ma forma parlante di per- sona che accaparri con un perchè l'attenzione tua; né l'aspettazione hai soddisfatta: e dopo che alla pri- ma occhiata dicesti, bella 1 e ti ponesti in orecchio ed in assetto di chi soggiunge: Oh che vuole da me o da chicchessia questa bellezza? finisci coli' accor- gerti che non vuol nulla... ch'è una morta imbel- lettata, la quale sta ritta in piedi senza moto..! E allora, affé, restatoti un pocolino a vedere, e per- duto un tratto del tuo tempo, le volti da ultimo le spalle, e le dici : statti con le ! E così e più è de' versi, i quali infine si fanno principalmente , come già spesso dicemmo, per divertirli colla parola, e an- cora, e meglio, per avventarli contro il più adunco di tulli gli ami, che è l'amo appunto dell'affetto. Non eh' esso abbia ad avventarsi ad ogni proposito , e fuor di proposito, ma certo a condizione di gitlarsi fuori in tempo e luogo acconcio con ogni maniera d'esca: il quale affetto nelle diverse sue forme, è brio, è vita, è movimento, è fuoco che scalda, è puntura che cuoce, l^addove la poesia, che por questo lato è inferma, che cosa è, e che ci vale ? Niente essa ha mai del diammatico, niente del patetico; non collere, non amori caldi e francamente giovanili: senza fiele come ciò dicono della colomba, senza sangue come la lumaca , senza calore come la salamandra. Una musica di belle note , cioè di be' romori e non 132 altro che una musica di noie e roraori; e sia pure a perfetta lejjge grammaticale di contrappunto, ma non per fermo la musica del Bellini, del Donizzelti, del Verdi, e non quella di gran lunga del massimo Rossini.... La musica dello spassapensieri o della ci- cala; dalla quale musica Iddio preservi orecchio di chi va in teatro ! Viene ora in taglio di favellare di quella in- fermità, la quale consiste nel difetto spettante a di- spositiva: e questo ancora è caso degno di speciale considerazione. Perchè può alcuno essere o mostrarsi valente quanto altri mai nel trovare buono argo- mento^ e nel vestirlo d'ottimi concetti, e nell'ador- nare questi di convenienti immagini, e nell' impie- gare in ogni parte ottimo stile, lingua ottima , ot- timi versi, con molto buon gusto, e con retto senso nelle scelte d'ogni cosa, e finalmente nell'eccitare a suo luogo gli aflelli che bisognano o giovano : e tuttavia grandissima pecca essere nel generale o par- ticolare ordinamento e nell'economia dell'opera non »ì artatamente architettata che il buon disegno si scorga nella saggia distribuzione di tutto messo al suo legittimo luogo, acciocché il lavoro abbia otti- ma connessione, non dico secondo legge di logica filosofica , ma sì secondo quella di logica poetica , per tal forma che niente offenda la ragione perchè mal collocato o perchè non serbante la gradazione la qual fa d'uopo: cosa a cui molti non credono do- ver badare, persuasi che sono d'esser bene il com- porre con un certo lor metodo a essi comodo, e di- cevole alla lor pigrizia, ponendosi a scrivere, o se me- glio non sia detto schiccherare, senza preconcetta 133 iconografia, comincialo rial primo verso che l'estro manda, etl aspellalo dalla liberalilà dell' ingegno il secondo, e indi il lerzo, e così fino all'ultimo. Don- de poi nasce una cosa tutta scompigliala il più spesso e mal coerente, che i poco esperti , fermatisi alle ideuzze gentili raccolte sotto mano per via , chia- mano mazzolin di fiori, meandro greco, frigio rica- mo, giardinetto inglese, ma che gli assennati deno- minano più volentieri batuffolo, matassa senza ban- dolo, labirinto di creta. E v'ha di così poetanti per abito che si difendono della mala consuetudine ci- tando que' versi del maestio: Onlinis liaec virtus erit^ et venus, aut ego fallor , VI iam mine dicati iam mine dehcnlia dici , Pleraque differnl, et praeseìis in tempus omillat ! Ma essi dimenticano per fermo quegli altri donde il maestro comincia: Hutnano capili cervicem piclor equinani co' tre che seguitano sino allo Speelatum admissi visura tenentis amici \ e ben si ricordano il picturibus atqtie poetis Quidlibel amlcndi seinper fuil aenua potestas: nui non ricordano il Sed mine non orni liis /t/cuò', 134 ed il Primo ne medium, medio ne discrepet imam : e lo Infelix operis summa, quia ponere totum Nesciet. Usano come scudo la grande immagine di Pindaro, e mettono innanzi, pericoloso esempio, le argute ar- ditezze sue, che toccano a volta a volta, e forse tra- passano, il confine delle temerità; e non pensano al tremendo precetto: Pindarum quisquis studet imitavi , lule, ceratis ape daedelea Nili tur pennis vitreo daturus Nomina ponto. Le frottole, così da essi dette, le usavano già i nostri padri toltane dai provenzali l'usanza. Erano un sal- tare di palo in frasca, un dire e disdire, e un dire sbalestrato per poter dire a quel modo quel che più francamente non si poteva senza pericolo. S'ad- dicevano a'tempi, ne'quali accanto al ministrello era nelle corti il buffone che poteva dir tutto purché lo dicesse in forma di pazzo. Questo è tempo passato. Il nostro secolo ha forse meno ragione di quello, ma vuol parere averne più. Buftoni e pazzi si vuol essere più di prima, ma parerlo men di prima -. Penultima infermità, di che m'è mestieri dire, 135 è una ignominiosa lue ; l'immoralilà; e questa, più ancora die malattia, è colpa, spesso è mislatlo; colpa o misfatto per cui non è sempre suflicienle pena il biasimo degli onesti, ma sarebbe nd aggiungere la punizione deìribunali. Percbè v'è gente che le ca- ste muse odia come tutte le cose caste, e si piace trasformarle a suo potere in femminacce di cliiasso, e mandarle in volta spettorate, discinte, aperte ad ogni vento, scandalose, o se non al tutto tali, mez- zane almeno artificiose d'impurità e di malizia; o sì veramente le armano d'armi corte da traditori per uccidere o ferir gravemente l'onore di chi s'iia in ira con satire e con iscede ; o le fanno maestre di perniciosi errori, fanatiche seminatrici di essi,loda- trici di ciò che è male, avversatrici a ciò che è bene, colla lira sempre in mano per cantare il vizio e ce- lebrare le male passioni del popolo o de'privati, pe- ste dell'umana specie più che delizia , diletto d'un momento, rovina durevole, corruttela, distruzione... Ultima malattia, la qualità di poeta frivolo 1 OU questa veramente non è di quelle malattie che ì medici direbbono sporadiche! Purtroppo essa è ad un tempo endemica ed epidemica, epidemica e con- tagiosa! Endemica, perchè propria non del nostro suolo soltanto, ma per fermo ancora del nostro se- colo, a un dipresso come la febbre terzana in au- tunno .... più che la febbre terzana. Epidemica , perchè l'abbiamo un po' tutti , e più che altri ed altrove, noi che abitiamo la regione delle accademie! Contagiosa, perchè ce la prestiamo gli uni agli altri, non so se |)er contatto come la petecchiale; non so se per convivenza e forse coU'alito come il colera 136 morbus', non so se per una speciale maniera d'ino- eulazione , V inoculazione per le orecchie e per gli occhi. Malattia imitativa come tra' fanciulli l'epiles- sia .. . come l'epilessia dei fanciulli dell' ospedale d'Harlem ! In che consiste ? Lo dirò. Si scrivono versi per verseggiare . . . per sentirceli risonare all'orecchio, quale una musica grata, e per essere i primi ad am- mirarne la lindura . . . per avere il piacere di leg- gerli ... di recitarli con una nostra enfasi agli ami- ci ... ai conoscenti ... a que'che non conoscia- mo , e che non ci conoscono, sperando che ad essi ancora piacciano quanto a noi piacciono. Perchè abbiamo il sentimento che non son de'peggiori che sogliano recitarsi . . . Perchè li giudichiamo sonori, aggraziati, eleganti . . . Perchè tali forse sono . . . E intanto ? . . . Intanto Non est in tanto eorpore mica salis. E non vi mancherà nulla delle condizioni che siamo andati numerando. Fior di lingua. Immagi- nucce poetiche. Stile ragionevole. Allusioni erudite. Concetti meritevoli di lode. Niente che non suoni. Niente che offenda. Morale d'uomo onesto e di buon cristiano. Mancherà l'argomento degno; e sarà poe- sia sciupata; una dissipazione d'ingegno senza utili- tà, una fanciullaggine, un misconoscere il vero uf- ficio del poeta, e il trasformarne l'arie in un'arte di giullare da fare alzare le spalle per compassione agli uomini gravi , e da far desiderare che l'uso VAI tle'versi si speida, se non ha da essere impiegato che in inezie. Purtroppo il male è antico, e iu ogni tempo y'eb- ber poeti che in pari modo abusarono dell'arte loro! Si cantarono in ogni secolo Fille e Cloe; s'adulò il potente ed il ricco. Illustri esempli non mancano di sonjmi che perdettero il loro tempo a cantare i topi e le rane, la zanzara, e che cosa no ? Ma questo è bene ? o non è tempo che gli uomini mettano giudi- zio in ciò come in altro ? S' è detto che la poesia è il linguaggio de'numi ... il linguaggio col quale si parla co'numi . . . Facciamole dunque dire cose non indegne dei numi. Adoperiamola a cantare tutte le virtù, tutte le cose grandi, tutte le cose che me- ritano la nostra attenzione ... la nostra venerazio- ne. Se questo faremo, le accademie torneranno in onore. Le raccolte poetiche si cercheranno e si pre- geranno dall' universale. I poeti saranno considerati com'uomini utilissimi nella convivenza civile ...come uomini sto per dir necessari. Se no, tosto o tardi verrà tempo in che, messo giudizio, ci guarderemo gli uni e gli altri in faccia come un collegio d'au- guri facendo le matte risa della nostra e dell' altrui mellonaggine . . . . o verremo a recitare i nostri versi alle vote panche- G.A.T.GXXVIII. 10 138 SulV icona di sanV Antonio di Padova nella chiesa dei MM. ce. di Monte Milone. Lettera del cav. Luigi Grifi segretario generale del ministero del commer- cio arti agricoltura e socio di varie accademie^ a Gaetano lìerlolelli di Monte Milone caposezione del ministero di grazia e giustizia e segretario della commissione per la grazia: o sia risposta contro alla descrizione del conte Severino Servami Colilo pub- blicata neW Album n. 48, dei 24 gennaio 4852. Onorando Signore H o lelto con vero piacere Io scritto, che la S. V. illustrissima mi ha mostrato impresso nell' Aibuiq n. 48 in data dei 24 gennaio 1852 circa il dipin- to di Lorenzo da Sanseverino serbalo nella chiesa (di 8. Francesco di Monte Milone, e mi è stata gra- ditissima la notizia , che ne ho ricevuto , non solo per la leggiadra descrizione del eh. sig. conte Se- verino Servanzi Colilo, ma per le considerazioni, che in questa si contengono dell'egregio monsig. Stefano Rossi delegato apostolico di Ravenna, Quello però che mi ha recato un poco di sorpresa si è, che in capo allo scritto par che si dubiti della effigie del santo rappresentato nella pittura. Imperocché, laddo- ve per la costante tradizione, che evvi in Monte Mi- lone che vi sia ritratto il taumaturgo di Padova, avrei creduto che di questo s'intendesse di favellare, scor- go invece che vi si enuncia con parole generali un santo dell'ordine francescano. Il che appare più ma- nifesto sulla fine, ove il eh. sig. conte Servanzi di- Lo^i-u^c di Sanséverino dip Fivuicesco Bionchedi S M S, AMINOMI© BI FAB.OVA Si venera nella Chiesa dei MM CC, di Mente Miloue. 139 ce aportamontp di avor ooniinciato a dnbilare che il santo dipinto dal suo concilladino Lorenzo fosse fin dalle prime s. Bernaidino da Siena, e che poi si venerasse pel taiimatnrgo di Padova a fine di soddisfare alla pietà dei devoti. Quando m'avvenni a tale supposto imma,cjinai come le fosse stalo {jrave l'udirlo; quasi che ella e i suoi concittadini veneras- sero un santo nelle sembianze di un altro, e desse- ro così arffomento di scarso [giudizio, e di sapere an- che minore sul conto del loro patrono. E mi diedi a ponderare se lo sci'itto avesse alcuna di quelle prove , senza le quali non torna bene lo spargere di certe dubbiezze in particolare in così fatte cose.' INon vorrei ingannarmi, ma le l'agioni, che tengo- no per lo meno nella incertezza il eh. scrittore, so- no due principali con alcune altre .secondarie, che verrò svolgendo in progresso di questa mia lette- ra. Né le une, né le altre vanno esenti da risposta. Laonde non perchè mi senta vigoi-e da sostenere la disputa , ma per significarle come io abbia parte- cipato della maraviglia sorta in lei nella inaspettata dubitazione , le soggiungerò die una delle cause maggiori viene fornita dalla interpretazione della volontà del pittore, notando sembrare strano che avendo voluto effigiare il santo taumaturgo, non Io abbia rappresentato di giovane età, con volto lieto ed avvenente, conforme da tutti si è costumato e si costuma. Giacche siamo in sul favellare alla maniera dei dubbiosi, o dei sofistici, che in tutto vogliono an- dare al sottile, comincio a temeie assai della verità di questo canone. E rispetto all'essere usato di ri- 140 trarre il santo giovane , lieto ed avvenente , posso afi'ermare anzi che sia intervenuto il contrario nei tempi più prossimi alla morte sua. E visibile a tutti la immaj^ine eli s, Antonio di Padova collocata nel musaico di Iacopo da Turrita nella volta della tribuna dinanzi l'aitai e maggiore di s. Giovanni in Laterano. Ebbene, l'originale che so- no tornato a contemplare diligentemente , che è di certa giusta altezza, col suo nome postogli da canto, ha il viso di uomo maturo, non lieto, non di avve- nenza ideale, ma colla barba e calvo alla sommità del capo, e sì la barba e sì i capelli d'attorno alle tem- pia sono di color grigio. La iscrizione del musaico ne indica l'epoca del pontefice Nicolò IV. Farmi so- verchio l'allegare qui i nomi di quei, che discorrono di quest'opera, e del tempo in che è stata condotta, fra i quali l'autore della illustrazione della basilica Lateranense la pone nelTanno 1291. Ne basti solo avvertire che il pontefice morì nell'agosto dell'anno 1292. Talché essendo 1' anima beata del santo vo- lata al cielo il venerdì 13 giugno 1231, ne conse- gue che Iacopo il ritraesse appena sessant'anni dopo la morte sua, e per avventura anche meno se si com- puti il tempo trascorso nell'apparecchiare dei dise- gni e dei cartoni. Inoltre non solo Iacopo e il suo compagno di lavoro Giacomo da Camerino erano francescani, ma era di quest'ordine lo stesso ponte- fice. Per la qual cosa non sembra che s'abbiano scello una immagine non somigliante del loro santo già sì celebrato per dottrina e per miracoli, considerato eziandio che da alcuni di quei tempi dovea essere stalo conosciuto di persona, siccome il dovea essere 141 da Iacopo, che vuoisi nato pochi anni dopo il 1200. A questi ar(joraenti bramerei che s'aggiungesse quan- to le cronache dei frali minori e gli annali del Va- dingo narrano del portentoso salvamento della im- magine, allorché vi si approssimarono gli operai onde guastarla per comando di Bonifacio Vili, e vedreb- besi che deve essere delle più simili , o delle più pregiale. Raffigurasi medesimamente santo Antonio nella pittura a musaico , che adorna l' alto della tribuna della basilica di S. Maria Maggiore coll'apparirvi di volto né giovanile, né assai bello, dilicato o piacevole, ma virile , calvo e colla barba alla guisa dell'altro di s. Giovanni in Lalerano, vestito da frate minore, e col nome a lato. Visibilmente questa dipintura è pure di Jacopo da Turrita, e o sia che venisse com- messa dal pontefice Nicolò IV , o fosse recata in termine sotto Bonifacio Vili , siccome alcuni pre- tendono, ella è di quella età, in cui teneasi fresca memoria del santo. Credesi da alca. io che la figura, la quale si serba in una parete dell'altare maggiore nella sua basilica di Padova, sia uscita della mano di Giotto, Non mi pare che nella eruditissima guida del Selvatico se ne faccia menzione. E sebbene il eh, P, Angelo Bigoni la reputi anlichissiiua e di quelle che rassomiglino di più al taumalurjjo, pure non mosJra quell'aspetto che a bene distinguerlo si richiede dai eh. nionsig. Bossi e conte Seivanzi Collio. Molto meno poi il concetto della bellezza lieta e ideale si scorge divi- sato dalla mente di chi ha scolpito nel secolo XIV la statua eretta nella facciata di esso tempio. Anzi J42 nriirasi efTigiato colla barba e in eia matura da Danese Cattaneo nel miracolo che e(}li fa tii risusci- tare il nipote , siccome è sculto di fattezze virili nel lavoro di plastica collocato sull'altare della cap- pella degli eremitani di Padova, e tanto l'una che laltia di queste opere sono incise nella storia della scultura del Cicognara. Non so che cosa direbbono i Cagnacci, le Sirani, i Veronesi, i Luti , i Sacchi, i Calandrucci, i Liberi, i Dolci, che hanno anteposto le loro idee di un essere beato e angelico alle forme, che ci hanno tramandato i contemporanei del santo, se avessero a giudicare in fatto di rassomiglianza, non dico fra le immagini loro e quelle , di cui le ho tenuto ragionamento, ma colle giottesche, e colle altre di Giusto padovano, di Stefano veronese, di Bartolommeo Manlegna, o dell'Alunno. Giovane invero è disegnato da Donatello, da Tullio e Antonio Lom- bardi, da Girolamo Campagna nelle storie ove sono rappresentati alcuni dei suoi miracoli , ma non di quel primo fiore di gioventù, cui vada unita la va- ghezza di bellissimi sembianti. E qui mi sia lecito di argomentare che Donatello specialmente imita- tore degli antichi greci e romani, e inclinato a porre grazia e bellezza nelle opere sue, abbia fatto spic- care la gioventù del santo, perchè si confaceva più air ideale e alla età che avea quando predicò in Fi- renze: ma per certo il volto suo non è punto lieto nel palesare la condanna eterna del morto avaro, e il prodigio dello stare il cuore di lui fra le monete. Donatello che vien riputalo quale eccellente artefice, che abbia recato splendore al secolo XV , e che sia riuscito maravigliosamente nell'artifizio dei bassori- Ì43 lievi, avendo seguaci e scolari, che il riguardavano come nornna e regola nelle arti, chi sa che coll'au- torità sua non abbia fatto mutare le fogge seguite pel passato onde elHgiare il santo ? E se è pur vero ciò che va discorrendo il Cicognara circa la pre- minenza della scultura sulle altre arti, i nuovi modi debbono essere trapassati anche alla pittura. Non- dimeno anche di questo secolo XV si serbano fi- gure di s. Antonio non liete, non avvenenti, non giovanissime, e se ne possono allegare in testimonio il lavoro di terra cotta di Giovanni da Pisa nella piefata cappella degli eremitani , le dipinture del Mantegna in particolare quella sulla lunetta della porta maggiore della basilica di s. Antonio di Pa- dova, o l'altra di Pietro della Francesca nel quadro con entro una Nostra Donna col figliuolo in grenvbo, 8. Francesco, S.Elisabetta, s. Gio. Battista, es. Antonio. Basterebbe pel nostro assunto l'aver provato che dalla morte del santo fino al coujpiersi del secolo XV sia stato formato coi coloii o collo scarpello di ma- niere diverse dalle moderne: imperocché la quislione SI è mossa intorno una dipintura di questa età. Ciononosianie non mi è discaro di procedere a di- chiarare con qualche esenjpio , che neppure per quella che successe s'avvera al tutto il dettato. Posso darnele in prova i bassorilievi di Danese Cattaneo, in cui non solo, come ho già detto, si vede la barba sul viso del santo, ma trasparisce nell'opera il fare e la fierezza della esecuzione del Sansovino, che fu maestro di Cattaneo, Il quale avendo insegnalo a Girolamo Campagna, condusse anche questi nella [Preziosa cappella di Padova il ritratto del santo nel 444 punto di risuscitare un (jiov.ane, affinchè attestasse r innocenza del padre suo. Ma sebbene l'aria del volto appaia piuttosto di giovane uomo, l'atlitudiDe lungi dall'essere di uno che si mostra lielo, è anzi di uomo, che comanda al morto con sembiante au- torevole peichè si operi il prodigio. E ciò oltre il disegno incluso nella storia serafica di Fr. Pietro RodulHo. Dal fin qui detto le sarà manifesto quanto il volgere dei tempi e dello stato delle arti , quanto r indole degli artefici e il subbietio che vogliono trattare, debbano concorrere nelle forme di ima fi- gura, che si viene riproducendo ormai da sei secoli. Cosicché l'argomentare con un solo, ove siano sug- geriti più esempi, spesse fiale induce in errore. Il che forse potea essere evitato coll'assomigliaie la dipintura di Lorenzo a quelle dei pittori , che lo hanno preceduto, o gli sono stati coetanei, e non a quelli solamente, che gli sono succeduti. Quantunque la scultura di Donatello abbia per avventura inva- ghito gli artefici , che operarono dopo di lui nella cappella del santo, a discostarsi dai ritratti del Tur- rita, o del codice scritto in quella età, ovvero del- l'altro tenuto del Giotto , o di qualche autore dei più antichi, non si obbligarono perciò a mantenere precetti di sorta. Che anzi nei tempi medesimi Cat- taneo il rappresenta colla barba , e Tiziano senza. E mi credo non affatto lieto, o dell'avvenenza che tende più al morbido e al dilicato, che alla giaviià e alla mansuetudine : della qual cosa potremmo avere indizio anche nel suo dipinto , che ora sta nella pinacoteca vaticana, se il santo fosse meno volto 145 di schiena, o nascondesse un poco meno il profilo del SUD viso. Lungo sarebbe l'annoverare qui allri ritraili, trovandosene pure nel secolo XVIi di pa- recchi incisi di maniera differente dalla dinotata nell'articolo dell'Album, e ne adduco il (estinionio della vita e miracoli di s. Antonio siarnpali in Roma nel 1637 da Sebastiano Fulcaro. Pei- la qual cosa levato via il paragone coi moderni, che è fuori di tempo, resta quello cogli antichi, dei quali l'ho inlertenula, che o variano dai precetti dell'articolo, ovvero offrono lineamenti piuttcsto conformi che no a quelli del lilratto di Lorenzo Dopo aver parlato delle antiche immagini, e mo- stralo col solo riduile alla memoria come scemi della forza sua il primo motivo , che induceva a dubitare il eh, scrittore, passo a discorrere del se- condo. Il quale, se pur non erro, è trailo dall'avere veduto dietro la tavola, su cui è condotta la dipin- tura, l'emblema del SSmo Nome di Gesù racchiuso entro la solita raggiera, quasi che da ciò pure ne derivasse alcuna lagione di dubitare non la figura fosse quella di s Bernardino da Siena venerata poi pel taumaturgo di Padova. Primieianienle io rispondo che questo seguo, adat- tato piuUoslo fra gli oinati del rovescio che ad|o-^ peralo qual distintivo del santo, potrebbe alludere a tull'allro che a significarlo, linvenendosi spesso ri- camato negli arredi sacri anche per palesare a chi si spellino. Ma dato che sia come si dice, quantunque s. Bernardino abbia avuto desiderio ardente di esal- tarlo e celebrarlo, non è njen vero che il santo nome .sia effigialo fin dall'anno 1452 sulla porla maggiore ♦46 della basilica di Padova con ai lati s. Bernardino e S.Antonio. Potrassi inai imputare ad errore del Man- tejjna, o di chi j|li diede ordine di fare la pittura, nnentre Ira i piodijji di s. Antonio sono notabili ie vittorie ripoitate sopra Bonvillo e sopra Guialdo , mercè delTostia consacrata, e quello dei miu'i della chiesa apertisi da loro slessi, allorché egli standone fuori si era prostrato per adorarla; mentre fu il so- stenitore dei dojj^mi cattolici , in ispeziallà sul sa- cramento della Eucaristia contro l'eresia degli albi- gesi e dei patareni, e amava Gesù di amore sì forte che n'acquistò la (grazia ^no a vederlo e averlo fra le braccia in forma di putto ? Consideri dunque la S. V. se il santissimo emblema possa stare appo una immagine di s. Antonio in contrassegno della sua predicazione contro gli efetici, dei suoi miracoli, e deH'affflto grandissimo verso Gesù. E poi se risplend« i! glorioso nome nella fronte della basilica fra due santi de' più eletti dell'ordine francescano, appunio quale segnalata tllmoslrazione della sconfìtta della eretica piavità o del propagato lume delle verità cattoliche , cui Tuno e l'altro tra coli' operare mi- racoli , tra col sostenere travagli durissimi dierono pronta e polente mano, non dee recar maraviglia nel mirare questo stesso segno dietro la effigie sola di S. Antonio colorita quarantaquattro anni dopo quella del Manfegna. Mentre narra pure il Vadingo nel tomo secondo degli annali dei minori, che anti- camente soleano dipingerlo tenendo nella destra l'o- stia sacra, o il calice coll'oslia. Quando queste ra- gioni non valgano, sono preste quelle fornite dal luo- go, ove s'avea a porre la tavola. Perchè essendo la- 147 vorata per una chiesa e per l'altare di un santo del- l'oi'dine serafico, in mezzo alle fregiature che ne adornano il di dietro, evvi il piefato emblema, per significare eziandio cui fosse per essere confidata, en- trando negli slemmi dell'ordine il nome santo di Ge- sù, o che ciò derivi pure, oltre il detto qui sopra, dalle laudi che gli compartiva S. Giovanni da Ca- pistrano, o da qualche suo fatto, o dall'onore in che è stato sempre tenuto dall'ordine, nel quale per cura del padre Bonaventura du Biez gli fu dedicala per la prima volta una cappella. Come però confondere o scambiare un ritratto coll'allro ? Innanzi di descrivei'e quello dipinto da Lorenzo, e clie si venera in Monte Milone, le vo ram- mentare le parole dell'articolo, che il dichiarano di sette lustri all'incirca: e ciò si conviene benissimo coi capelli e colle ciglia nere, e di una fìsooomia di uo- mo emaciato dalla penitenza. Or vegga la S. V. se vi si possano pareggiare le pitture di S. Bernardino dei tempi non tanto distanti da Lorenzo. L'Orlali in S. Francesco di Bologna lo ha rappresentato vecchio, severo, aggrinzato, colle gote sospinte in dentro e il mento affilalo e scarno , talché mostra aperlaniente l'età sua che fu di sessantun'anno. Così è stalo rap- presentato dal Pinturicchio nella celebie cappella in Aracoeli, così da Farri Spinelli, così da! Francia, cosi dal Colignola, e nella prefata storia del Rodulfìo. Si- mile aspetto di rigida e consumala vecchiezza non s'accorda coi sette lustri di età, che compariscono nella tavola di Lorenzo da S. Severino. E quando gli anni espressi colà entro non giungono a significare un uomo attempato, come si possono spacciare dub- 148 biezze suU' intendimento primo, con cui la figura venne creata ? Non si clirebbono mcfrljo dubbi astratti, speculazioni sottilissime, che vanno in cerca di ciò che non è ? Ma lasciamo stare la contraddizione, che i linea* menti di un viso di selle lustri all'incirca possano essere siali adoperati per le fattezze di un allro di dodici, ed esaminiamo la stampa, che ella ha fallo fare della dipintura. Quivi il santo, oltre alla età già ravvisata, si mostra ollimamente disposto della per- sona, benigno e affabile in viso, con aria attraente e atteggiamento pieno di grazie. Tuttoché consumato dalle fatiche apostoliche, dalle penitenze e dalla in- fermità, Iraluce dagli occhi suoi tale im fervore della carità e dell'amore di Dio, e di fede perfetta, che sembra rapito in ispirilo e fiso nella contemplazione di qualche oggetto di Paradiso. Adunque non ha la testa alquanto piegala verso terra, secondo che viene scritto nell'articolo, ma sollevata verso il cielo e ri- volta ove si mira l'apparizione della Vergine Beata con in grembo il divino Figliuolo; per il che è certo che gli sguardi suoi siano intenti nella visione. Ma se lo slare della figura cosi a mani giunte e la mo- venza del capo denotano un uomo assorto nell'ora- zione, perchè seguire la via del dubbio nel parlare del proposito primo che s'ebbe chi lo dipinse, e de- clinare dalla sicura delle qualità e degli attributi che gli sono propri ? Propria è del santo la benignità, raffabiUtà e la gradevole disposizione del corpo: il che si può discernere nei liatti del pennello di Lo- renzo. Era afflitto dal male, che sid finire della vita gli avea logore le forze, e debole e rifinito vien ri- 149 (l'alto. Raccolse potò poco prima di morire gli spi- riti suoi, e sembrò riaversi alla vista della Vergine pu- rissima e del Figliuolo, che in quel punto gli appar- vero per dargli conforto. Investigando diligentemente gli affetti, che ravvivano lo smorto suo viso, si risol- vono tutti i dubbi, e tutti gli argomenti in contra- rio: perchè dimostrandosi la visione per questi stessi affetti, non si può dire che il gruppo, il quale ne forma il subbietto, sia aggiunto dopo. Provato specialmente da ciò che la composizione del quadro non possa avere variato dal pensiero, che ne formò l'artefice, non può reggere in conto ve- runo l'opinione, e svanisce il dubbio che fosse fin dalle prime S. Bernardino da Siena: imperocché la malattia, l'indebolimento, l'età, e sopratutto la visione non furono di questo, ma del taumaturgo di Padova. Ne hanno medesimamente lasciato scritto gli storici, che aggravando sempre, e sendo ridotto all'estremo, non potea coricarsi per l'angoscia. Io non so quello che si desideri di più, onde rimanere convinto che la pittura dimostri S- Antonio nella ultima sua età di 36 anni, allorché avvicinatosi l'istante di passare di questa vita a ritrovare quella rimunerazione e quella gloria, che Dio gli avea apprestato nell'altra, vede appresentargllsi con parzialissima predilezione Iddio stesso e la sua santissima madre. Ha certo non so che pur di critico e di censorio la considerazione, che non abbiano a posare sopra nuvole, né si veg- gano angeli, che li sostengano, e che non si distin- gua se l'infante Gesù voglia muoversi verso il santo, o fare altro movimento in se stesso. Ma poiché o nei racconti o in quanto fu scritto dell'apparizione 450 non mi pare che siano nominali né angeli, ne nu- voli, è meglio rimettersene al giudizio del pittore, sì perchè può essere clie non siasi discostato dalla narrazione, sì perchè operandosi allora con maggiore semplicità, docsi essere accomodato all'uso dei tempi suoi, ignorando che poi sarebbe invalso lo stile con- venzionale colmo di macchinose composizioni e di nuvole. Il bambino, che sta inclinalo verso il santo e che innalza la mano destra in aito di benedire, guarda all'ingiù, e parmi pure alla sotto posta terra di Monte Milone, o a coloro che ginocchioni si rac- comandano. I quali sono i terrazzani , che smarriti e temendo delia mortifera pestilenza hanno ricorso al santo, afìinchc li soccorra nel pericolo. Non istimo di rischiare di soverchio col dirle essere stata que- sta forse la ragione, che abbia mosso Lorenzo a sce- gliere per la pittura, che gli era allogala, il punto, in cui S. Antonio venendo oppresso dal malore, che il condusse alla morte, fu consolato dalla presenza di Nostra Signora con Gesù nelle braccia, onde al- ludere ai mali di quei, che lo invocavano, ed al sol- lievo che attendevano dalla intercessione sua, nella guisa medesima che egli lo avea impetrato dalla ma- dre di Dio, cui era divotissimo. E quasi che il po- polo di Monte Milone nell' offrire il voto di vene- rarlo e loglieilo in prolettore e iiitei-eessore aj)po la divina clemenza, e nel dedicargli l'altare, avesse in- nanzi la fede del santo onde si accendesse la pro- pria, e pensasse che simili alle suppliche porte da lui quando ebbe la visione, sarebbero le preghiere che indirizzerebbe in suo piò, perchè cessasse il fla- gello , e confidasse che la grazia non sarebbe per Ibi mancargli, il pittore, oltre all'esprimere la visione , ha dato, per quanto io penso, l'attitudine al bambino di benedire il castello, cosicché nell' unire queste idee, tenesse pure per fermo che il Signore fosse pla- calo. Mi conferma in questa interpretazione il riflet- tere, che il santo sia quaggiù basso in questa terra, non ancora salito infra i beali, e che la Vergine gli presenti il divino infante senza che \i rìsplenda oj-ma veruna di celeste corteggio, al modo medesimo che viene narrato dell'apparizione. Sono attribuii atti a distinguere il taumaturgo il libro in attestato del suo sapere, a cagione del quale Gregoiio JX lo appellava arca del tesiamento e della fede, e il giglio attribuitogli in simbolo della castità sua. Trovansi ambidue sostenuti dalla figura si fattamente, che per essi eziandio è d'uopo rico- noscerla per quella del santo. Ma fra le cause, che sospingono il eh. avversario a dubitare, havvi l'altra che il giglio rilevato di argento sia opera aggiunta dopo al pari delle corone. Varrommi di ceito mio ordine nel dire, pel quale il dubbio cadrebbe fra i minori, non potendo tenere il grado tiei maggiori per rispetto alla prova evidente, che il giglio riman- ga tuttora in sulla tavola colorito sotto quello di ar- gento. Or non avviene egli di sovente che sappen- dano doni alle sacre immagini, o s'afTiggano loro sul capo corone in dimostranza o in ringraziamento delle grazie, che ne abbiamo ricevuto ? E il giglio, che di dipinto è stalo cambiato in argento, non può essere un dono uguale alle corone , doni lutti che per benefizi ottenuti in processo di tempo sono stali pure colTandare del tempo appiccali ? A noi basta 152 che la fi(jiira ritenesse la insegna della purità per innanzi a quella sovrappostavi di argento, e rinaet- liamo volentieri all'arbitrio di qualsivoglia critico lo sforzarsi di provare che il fiordaliso dipinto non sia di mano di Lorenzo. Troppo grande invero è la mia presunzione di contraddire scrittore sì dotto : pure spero che sia per perdonarmi, se, come giudicano di costà quei, che hanno agio di ben ricercare le particolarità del dipinto, che la scrittura sia tracciata non già sul cam- po, ma sul legno, io non sono d'accordo con l'altra opinione, che il nome di S. Antonio di Padova scritto per entro l'aureola sia lavoro successivo alla dipin- tura. Perchè dove i caratteri fossero stati impressi più tardi, non istarebbero sulla nuda tavola, ma sì bene sopra il campo. Resterebbe a indagare la fat- tura loro, la quale è romana con certe piccole sbarre orizzontali nel mezzo di quasi ogni lettera. Le la- pidi o le scritture del finire del secolo XV rasso- migliano assai nel carattere a questo di cui si tratta. E nello stesso secolo usarono queste sbarre, come si vede nel libro dei sigilli di Eineccio, anzi mi è occorso di vederle pure alcuna volta in caratteri me- desimamente romani del secolo IX, e ne cito l'epi- pigrafe sotto il musaico della chiesa di Capua. Mi avviso inoltre che quando il nome di S. Antonio fosse stato scritto dopo, si scorgerebbe nelle lettere un modo migliore , e forse avrebbero più gra- zia. Talché quando si voglia intendere dei carat- teri, e' s'approssimano alla forma, che correva a'iem- pi di Lorenzo: quando dei piccoli rilievi, che spic- cano fuori sul mezzo loro , posciachè si ritrovano 153 fino dall' epoca della menzionala isciizione di Ca- pila, e nello stesso secolo XV, a me sembra che queste non siano qualità da poterne inferire ciò che, senza addurre neppure una prova, è stalo asserito nell'articolo suira(j{TÌunta fatta poi del nome. Tut- tavolta avendo altre rajjioni da esporre, non vò la- sciare di qui riferirle, persuaso siccome sono che siano per apportare majjjjiore dilucidazione ai dubbi in sorti sulla immafjine. Nel 149G pervenne il morbo pestilente nella terra di Monte Milone: di che atterriti gli abitanti implorarono l'aiuto di S. Antonio di Padova, e ra- dunato il consiglio il 17 ottobre decretarono di sce- glierlo in loro difensore, contìdandosi in lui che gli scampasse. Rimane ancora il decreto, e insieme con questo rordiiic di rappresentare il santo in un qua- dro, che fu dato a fare a Lorenzo da S. Severino. Il quale v'introdusse apposta coloro , che pregano, e più indietro vi dipinse il castello colla torre e la polla S. Croce come era alloia, perchè restasse unita al dipinto la licordanza della causa, per cui era or- dinalo. Nel libro di entrata e di esilo, che si con- serva nell'archivio del comune dall'anno 1492 al 1497, alla pagina 284, ov' è annotata la spesa del mese di ottobre 149G, si legge la partita di fiorini 9 sborsati al pittore Lorenzo da Sanseverino per parte di pagamento della pittura della tavola di S. Antonio di Padova. A pie di essa tavola resta tuttora l'epi- grafe con ivi i nomi dei piiori, che, secondo mostra- no gli atti dei consigli, corrispondono a quelli che erano in carica nei mesi di novembre e dicembre 1496, il nome dell'artefice, e il giorno in cui venne compila, G.A.T.CXXVIII. 11 ^54 chfe ftì H *28 dicembre di quell'anno medesimo. Co- sicché nella sessione che si tenne del consiglio iM5 marzo 149T deliberarono, che nella chiesa di S. Fran- cesco una cappella si erigesse in onore di S. Anto- nio, € quella sua effigie vi si ponesse sull'altare, e la l^sla con apparato solenne se ne celebrasse. Que- sti ordinamenti tutti vennero confermati nel consi- glio convocalo il 18 giugno 4497 , e sono giunti fino a noi fra le scritture del comune di Monte i\Ii- Ione. Guàrdatìdoli bene, e riscontrando il dipinto coUe risoluzioni, gli autori dell'uno e delle oltre, e le date loro, rimarrà cancellato qualunque avanzo di dubbio, che procede 8a un sindacato, che non può avere altra giustifioazioite che la vaghezza delle ap- parenze. E quanto posso «ai raccomando e mi oflfro con dipintissima stima. Alla S. V. Illma Di Roma ìt 25 agosto 1852. Umo, Divmo, Obbmo Serv. €kV. LUIGI GRIFI. 155 Delle tre prime tribù romane. Discorso Iella nelVac- cademia romana d'archeologia il 24 luglio 1851. X^uegli che fu chiamato il più dotto de' lomatii (e non è bisogno diro Vanone) lasciò scritto nel V li- bro de L. L. (Ed. Miìller e. 55; Ed. Spengel e. 9) : Ager romanus primum divisus in parles Iris (o vo- gliasi leggere Ires)^ a quo tribus appellala Talien- sium, Rainnium., Lueerum: noininatae^ ut ait Ennius^ Tatienses a Talio , Ramnenses a Romnlo , Luceres^ ut Junius (parla evidentemente di Giunio Graccano) « Lucumone. Sed omnia liaec vocabula tusca, ut Vol- niiis, qui tragedias tuseas scripsit., dicebnt. E notabilissimo m'è sempre paruto questo passQ. L'etimologo latino, correndo dietro ex professo^ quivi come nel rimanente della mentovata sua opera, alle origini dei vocaboli con quanto sussidio di scrittori e di tradizioni ei s'aveva, imprese a darci, a sua consue- tudine, la genealogia delle quattro celebri parole tri- bus, Tatienses., Ranmes., Luceres, contemporanee della fondazione di questa Roma, e solennemente incluse nelle leggi costitutive dello stato: e dopo avere in- dicate le opinioni rispetto a ciò dell' appulo Ennio e di Giunio, senza guaii piegare verso quelle senten- ze, fini col proporne un'altra^ secondo la quale esse parole sarebbero state tutte e quattro toscane. L'ultimo posto, in s\ fatto caso, è il posto d'ono- re, come ognuno sente. Varrone dunque, senza trop- po voler pronunziare il suo giudizio intorno i pareri discordi fedelmente addotti, sembra però aver parteg- 156 gialo men per Ennio e per Graccano, che per Volnio..,. Quale in ciò può essere Ofjgi il nostro diritto di de- cidere una quistione trattala con tanto laconismo , ogjji, dico, quando i libri che ci potrebbono aiutare a risolverla, sono in massima parte periti, e quan- do ogni altra testimonianza, che per avventura i mo- numenti somministrar potrebbero , ci è stata invi- diata da! tempo.... ? E nondimeno giova tentare. Molte cose giudicate impossibili prima del pensarvi sopra, si scorgono poi men difficili di quel che si credeva. Tentiamo. Chi era Volnio ? — Nessun altro autore lo ri- corda. La forma stessa del nome è incerta. Ne' migliori testi è questa che qui diedi. In altri è Volvius^ Volli- mus^ Volumius^ Volunius , Volumnius. Certo era un etrusco , e perciò il nome suo dovette essere nel paese e nell'idioma natio, Vitine^ o Vulumna , due forme però (è giusto dirlo) che, stando a quel che conosciamo di lingua etrusca , dift'eriscono tra loro men di quel che parrebbe. Dal modo con che Varrone favella, sembra raccorsi che questi lo avesse cono- sciuto di persona , e ne avesse udito a voce quel che ne riferisce. Per fermo dovette essere uom dotto, poiché scrisse tragedia losche^ impresa in ogni luo- go e tempo da non prendere a gabbo. E di qui an- che traggo, ch'egli toscano dovette essere molto bene istrutto, per particolare studio, d'ogni cosa spettante a Toscana. Forse fu perugino, giacché in Perugia s'è, come tutti sanno, trovato un principale sepol- cro de' Volunni: ed allora , secondo l'idiotismo pa - trio, la forma toscana del nome sarà .stata Velinma^ come iscrizioni bilingui ci hanno insegnato. Ma , 157 che che sia di ciò, questa sua persuasione che Ro- ma avesse tolto d'Etruria quelle solenni voci, trihus^ Ramnes^ Tatienscs^ Luceres^ è così risicata da ren- der necessario un più accurato esame; e senz'altro proemio ecco io vengo ad istituirlo. Le quattro testé mentovate parole, qualunque siane l'origine, si sa quale uso ebbero, e quando l'ebbero. L'ebbero, dice la storia, all'atto del costi- tuire lo slato, e per conseguente del fondare la città; e l'ebbero come parole di costituzione.... almeno co- me parole della costituzion primitiva, o di quella che come tale ci è stata trasmessa. Ora giova osservare, innanzi tratto, che, a testimonianza unanime de' clas- sici, Roma fu da prima costituita e fondata ritu etnisco. Sopra SI fatto particolare non è controversia. Chi non ha letto , piesso lo stesso Varrone , e in questa medesima opera che stiam comentando (Ed. Miill. V. 14): Oppida eondebaut in Latto (in tutto il Lazio, non dunque in Roma sola) etnisco ritu ., ut multai (E si noli quest'ultimo vocabolo ut multa^ donde s'impara che a rito di Toscana non facevasi la sola fondazione materiale, di cui si seguita quivi a favellare entrando in particolari ; si bene molte altre cose ivi non nominale s' operavano ed ordi- navano.) Ma più chiaramente ancora ciò spiega, ri- spetto a essa Roma, Plutarco (in Romulo 10), il qua- le del fondatore dice, trattane senza dubbio la no- tizia da più antichi di lui — r^xt^s Tr}v nokvj, sx Tufi* p-/)'jioi.; p.zzunuvliócixi'Jog ccvopocg Upoìg n'ji Bzojxoìg 'kuì '/pcii[j.[j.oc'jVj vf/jyouiii-joug Iwj.qxv. xaj StSaaxsVTaj, '^J^nmp iv rshvi] : Condidit urbein : ad quod accivit atru- scos , qui velut in mysterìis^ ut qiiidque faciendum 156 erat , cevemoniis quibusdam et seriptis praescripsc- runt , docuerunlquo. E perchè non si creda che ciò risguardasse il solo rito della fabbricazione o delineazione ed inaugurazione, descrivendo il sacro solco, e con certe speciali cerimonie operando il fon- dare e distribuire le mura , la fossa , l'argine , il pomerio , le porle , i cippi o termini consacrati a quella guisa che lutti a una voce narrano, con molla opportunità sovviene Floro (I. s. 6) scrivente : Inde (cioè dall' Etruria pur sempre) fasces^ trabeae^ cu- riiles, anuli^ phalcra^^ paludamenta^ praetexlae; inde quod aureo curru qualuor equis Iriumphatur , togae pietas , lunicaeque palmatae , omnia denique decora et insignia quibus imperii dignitas eminet. Gli altri autori , che in buon dato pur sono , stimo superfluo il citarli, siccome Vitruvio (V. 7), dove, entrando in più minuzie, fa saperci in che modo all'etrusca s'avevano a distribuire e si distribui- vano |>er città i templi de'numi, ed in ispecie i prin- cipali; e non cito i così detti Scriptores rei agrariae^ dove alle toscane dottrine riferiscono tutto che spetta alla spartizione romana del territorio tra' cittadini per darlo a coltura, e l'intera scienza relativa alla collo' cazione delle pietre di confine ; né altro aggiungo per far conoscere cose notissime ad ognuno, sicco- nae, che dallo slesso paese i romani trassero i sacri indovinamenti secondo i vetusti dommi dell'aruspi- cio e dell'estispicio, i principali strumenti musicali, i giuochi , i circhi e gli anfiteatri , i gladiatori , i canti e sacrifìcii nuziali , gli ordinamenti delle ca- stramelazioni e delle battaglie, i calcei senatorìi, le m bulle, ed innumerabili altre cose che non importa numerare. Or, ciò posto, ecco già guadagnata una gran pre- sunzione, o a meglio dire una gran probabilità alla sentenza di Volnio, sì fattamente fiancheggiata da tante analogie: perchè qui non tratto un argomento pria- cipalìssimo serbato ad altra dissertazione; l'argomento somministrato da un fatto, al quale io credo, seìjbene ingenerale non se ne parli: ed è che, almeno fin da' principii, Roma fu città etrusca, o aggregata all'Etru- ria. Qui favello secondo le opinioni con^uni, e stan- domi ad esse, pur coll'esame di quel ch'esse recano a tanto ìfengo. Insistendo sul quale esai^e, così sé- guito ragionando. Da pripua ho innanzi Pompeo Festo (ed. Lindemann pag. 258, 253) conipendiatore, come tutti pur sanno, di Verrip Fjacco , di quel Fiacco voglio dire (Schol. Veron. in Virg.) che le cose elrn- sche aveva particolarmente stMdialo, avvegnaché di lui si citano i libri etnisccf,rum rcrum-^ e nell'uno e nel- l'altro autore (Verrio e Festo) che cos^ leggo ? Leg- go, nel porne che fauno sott' occhio per una poco sperabile fortuna l'intero o quasi intero sommario, cioè l'indice delle materie d'uqp dp' principiali libri saeri de'toscani, tradotti, come narra Fulgenzio Pian- ciade, in ben XV volumi da Labeone, leggo, ripeto, acconciamente a nostr' uopo : Rituales noìniì\(inlm' etruseorum libri^ in quibus praesQfiplum est: (I) quo ritu condantur urbes^ (II) urne, (III) aedcs siicrrte; 1G0 (IV) qua saiiclUale muri., (Vj quo iure porlae:, (VI) quomodo Iribus-^ (notisi ciò bene) (VII) ctiriae (Vili) ceiUuriae distrihuanlur\ (IX) exerdlus consliliiantur; (X) ordinentiir : (SI) cclcraque huiusinodi ad be(iiini\ (XII) ac ad pacem speclanlia. Dunque, senza dubbio, que' valenluomini d'Etiuria, i quali, a dello di Plutarco dianzi citato , amnjae- strarono (secondo la vecchia tradizione) Romolo, nel fabbricare Roma, d'ogni modo a tenersi in ciò {giu- sta il prescritto delle loro reli(fioni; dunque, ridico, ebbero ejjlino seco quesfi riluali libri^ che altri de' classici pur ci vantano, e con essi ogni cosa lego- larono , mettendovi quanto più scrupolo i ministri delle religioni in sì falle faccende son usi porre. J\Ia in sì falli libri, mentre da una parie insegnavasi quo rilu eoìidanlur urhes , arae , aedes sacrae ; qua sanclitate mui'i; quo iure porlae ■ e mentre ciò, per universale atteslaz ione, riducevasi ad atto seguitando a puntino l'insegnamento, insegnavasi pure, da un'al- tra parte nella continuazione del testo, quomodo tri- bus., curiae^ centuriae dislribanlur., cose tutte che ap- punto nella nuova Roma, e cogli stessi nomi, tro- viamo subilo, e fin dal principio, accettate e stabi- lite nel fatto, non men che quelle prime. Dunque dagli stessi libri, donde le prammatiche della fonda- zione materiale della città, e dello stabilimenlo del- l'are e de' templi, e del diritto de' muri e delle porte, per universal concessione si trasseio, trassersi pure, 161 non le voci sole ed il costume delle tribù delle cu- riae,e delle centurie uguahnenle indi tolte, ma il più altresì delle altre particolaritài ad esse relative; e con piena ragione aft'ermava peiciò Volnio questo medesimo a VaiTone curioso esploratore di sì fatte origini. E non è a dire che intorno a ciò, dentro i li- miti del nostro argomento, potesse nascere inganno, e che la testimonianza di questo Volnio s'abbia qui a prendere come una semplice conghiettura da valere quanto conghielture per solito valgono, e per conse- guente da valere non guari più delle altre opinioni piofcssate dai romani nel nostro proposito in con- traddizione colla qui difesa sentenza. Chiaro è che quando un giudice tanto idoneo, quanto rispetto a cognizione di lingua toscana non potè non essere Vol- nio, affermava a dirittura, toscane essere le parole tribù , Ramni, Tatii^ o Tatiensi^ Luceri^ intendeva dire cosa di puro fatto , e , quel che e più, d'un fatto intorno il quale a lui toscano poteva e doveva prestarsi fede; d'un fatto, in che grandemente facile ad ogni altro doveva essere il poterlo smentire, posto che allora la lingua elrusea era ancor viva ne' li- bri non pure, ma non manco nel cotidiano commer- cio degli uomini, alle porle per così dije di Roma. Dove dee notarsi il modo stesso che Varrone usa scrivendo. Perchè dic'egl i con forma assoluta: Sed omnia haec vocabula liisca (sunt). Dunque in realtà ri- conosce ei medesimo il fallo, e per un mò di dire se lo appropria e vi si ferma. E se aggiunge, ut Yol- nius (liccbat, lo aggiunge per darne merito a chi glielo indicò, e per creare un'autorità al suo detto, 162 la quale, parlando egli di ling^ua non sua, gli biso- gnava, od almeno non gli era inutile. Per altro Iato, come poteva essere diversamente da ciò che dico, ammesso che l'uso dello spartimento del popolo in tribù^ curie, centurie^ accettato in Ro- ma, era già un'istituzione antichissima, e conservata dalla religione, in Etruria, quando Roma fondavasi, e ritenuto che coloro, i quali la fondazione dires- sero furono etruschi, e che ne' libri sacri, con cui sì fatte faccende governarono, trovarono eglino tutto quell'ordinamento? Per fermo se primi essi diedero la cosa, primi egualmente fu naturale che fornis- sero il nome della cosa, come appunto Volnio atte- sta: contentandosi, siccome da per tutto è l'usanza, d'aggiustarne la pronunzia e l'ortografia, e per così dire la struttura, alle consuetudini grammaticali della lingua e del paese che facevali suoi. Donde si cava; che è possibile, anzi probabile, o a meglio dire è presso a poco certo, che, nella legittima forma etru- sco, questi vocaboli, tì'ibù, curie, centurie., Hamms^ Taties., Luceresti dovessero differire più o meno dalla forma latina per obbedire alle leggi d'un altro les- sico e d'un' altra grammatica, cioè del lessico e del- la grammatica de'toschi; ma si cava non meno che il fondamento però de'vocaboli dovette di leggieri essere lo stesso dalle due parti, e solo mostrare di- versità analoghe a quelle, le quali incontriamo oggi sulle lapidi ne' nomi delle persone e delle famiglie etrusche in un medesimo ipogeo racchiuse secondo- che sono scritti altri in etrusco ed altri in latino, e secondochè ce li offrono alcune iscrizioni bilingui, come lo si è potuto vedere in Cvelne divenuto Cilnius^ in Cainzna IrasFormato in Caesius^ e in quel mede- simo nostro Velimna fatto Volumnius o Volnius. Dun- que (salvo quest'ultima limitazione) è in pieno accor- do con quel che poteva e doveva aspettarsi l'as- seizion di Varrone e di questo Volnio o Volunnio. Affermando l'uno e l'altro che le parole sottoposte qui ad esame eran tosche tutte, affermaron cosa che, quasi per la sua stessa natura, doveva cosi essere. E qui, lasciando slare ciò che riguarda le curie e le centurie , le quali nel primitivo nostro argo- mento non entrano, e ristringendo prima il discorso alla sola voce Iribù^ in cui per ora si coarta la no- stra questione, farò osservare sul proposito di essa, che la consuetudine di dividere a modo etrusco, cioè conforme i sacri toscani rituali , i popoli in tre o parti , o stirpi, e di chiamare perciò tribù sì fatte divisioni, e quanto al costume, e quanto alla deno- minazione attaccatavi, non sì degli etruschi e dei romani fu propria , che fin da tempo antichissimo i confini non trapassasse d'Etruria e della vicina città di Romolo. Imperciocché, quanto al costume (per qui citare unicamente due autorità) , Plinio (H. N. Ili, 1 6) ricorda Appiilorum genera tria^ e Probo (in Virg. Bucol. VI, 31) le tre parti de' salentini da tre diversi luoghi raccolte in una nazione suddivisa in 12 popoli al tutto come in Toscana. E per quello che alla parola sj>etta, una preliminar considerazio- ne non è da omettere, e voglio dire la considera- zione da altri già preoccupata, che le voci numerali, e quindi le lor derivate, per una singolarità a esse speciale , s'incontrano poco tra loro diverse di suo- no in tutte o quasi tutte le hngue del tronco san- 164 scritano e zendico, e per consegnente in quasi tutte lef linjjue antiche e moderne d'Europa, e quindi nelle vetuste italiche, così bene come in alquante delle asiatiche occidentali. Dopo la qual considerazione, ajjgiungo a prova nel nostro caso (ciocché varrà e per la parola e pel costume), che incontrasi per es. tra gli umbri, nelle tavole di Gubbio (Tav. VI Dempsteriana verso 53) : Tarsinater tcifor , Tarsinaler Tuscnr , Naharcer , labuscar nomner; e verso 58 — Totani Tarsinatem trifo^ Tarsinatem Tuscom^ Naharcom, labuscom no- mne', Totar Tarsinater Trifor^ Tarsinate Tuscer^ Na- harcer, labuscer nomner\ poi di nuovo nella Tav. VII V. 1 1 : Tote Tarsinate Trifo^ Tarsinate Tursce^ Na- haree y labusce Nomne] Totar Tarsinaler Trifor^ Tar- sinater Tuscer^ Naharcer^ labuscer Nomner, e non diversamente da così nel verso 48, e nella tav. IV. Dove senza volere entrare nel pelago delle diflicoltà, in che si cade quando a parola a parola s' im- prende a tradurre l'intero testo di questa preziosa tavola d'una lingua ora morta, e ritenuto solo come un generale ed universalmente consentito vero, che l'idioma quivi usato ha colla latinità relazioni stret- tissime, per le quali si è grandemente aiutati a ren- der possibile una tal quale versione così all'ingrosso, è facile accorgersi che si Favella negli addotti passi d'un popolo Tarsinate (né si sa se quivi detto a questa forma in luogo e senso di Sarsinate^ ovvero di Tarsumenate da Tharsumenus , antica forma di Trasimcnns conservataci da Quintiliano I. 0. I. 5) ; del quale popolo vuoisi mentovare totani tribum , (lotam trifo) cioè omnem tribum, tutte le tribù, che 165 son Ire appunto di numero, distinte cogli epiteli loro di Iribù tusca, tribù naharce , e tribù iabusca^ -per lor nome^ come il testo esprime (Tarsinate Tuscom Naharcom labuscom nomae), probabilmente perchè l'una era di stirpe losca, Paltra d'una stirpe venuta di vai di Nera, e la teiza di Japigia, o, quel che più sembra verisimile, Sahelliea ^ chiamata labusca da labus^ così detto per idiotismo in vece di Sabiis. In che, sia quel che vuoisi di tulio il resto, evidente però a me sembra la natura del nome trifo^ scritto Irifu nella tav. IV di caratteri umbri, e ammettente nella declinazione un obbliquo trifor , o rispcltiva- mente trifm\ d'un senso non altro che quello della Ialina tribiis^ per deduzione manifesta dalla parola egualmente umbra trif ^ che le stesse tavole pure hanno , colla chiarissima significazione del iris var- roniano, e colla forma Irif o treif al mascolino, tref al femminile, siccome n'è prova il leggersi ivi, nella enumerazione delle vittime, trif apruf^ tref villaf\ buf trif^ o buf treif: ciocché non altra spiegazione ammette, se non l'aver voluto significare tre verri, tre vitelle, tre buoi^ checché poi sia del caso indi» calo da quelle desinenze (V. Lassen Beitrage zur deutung der Eugubinischen Tafeln-Bona 1833 p. 18), Ecco dunque le tribù all'elrusca, non solo in Roma e in Salento, e in generale nella Puglia, ma ezian- dio neir Umbria, con identità o quasi identità di vocabolo quanto alla voce tribù. A' quali esempli finirò coll'aggiungerne un ultimo, tratto dal paese degli oschi; e me lo somministrerà Pompeia, in una delle osche iscrizioni trovale fia le sue rovine (Momm- sen , die Unterilalischen Dialekt. tav. X 24 p. -183 166 la quale ha iMVa^f-aT nel senso poco diverso di par- tem^ o quasi di distribrUionem interpretata recentemen- te dal Mommsen ; ed Avella nell' altra iscrizione, la quale ha tribarakavum, nel senso eguahnente di di- stribuerc^ pariirì^ dallo stesso Mommsen così tradotto per necessità di conlesto. Donde è poi nato che i più di coloro,! quali incontrarono nell'epi^vrafi se- polcrali d'Etruria tra i gentilizi il gentilizio Trepu o Trepime^ non dubitarono di riconoscere in questo trepu o frepwMe e ne'lor diversi derivati appunto una voce etrusca cognata del nome etrusco della tribù, siccome tra gli altri può dal Lanzi impararsi (Sag- gio T. 2, p. 224, e altrove). E tanto basti rispetto alla prima delle quattro parole che qui sono argomento di dissertazione, in- torno alla quale minore è la difficoltà che poteva sor- gere. Venendo ora alle altre tre , Ramnes , Talies o Tatienses ^ Luceres ^ comincerò innanzi tratto col dire , che un non so che d'esotico e di non latino lo mostrano esse persino all'estrinseco lor modo e suono. La pritna è assurdo di dedurla da JiomiUua. Da Jiomuius si sarebbe dovuto trarre Romulenses^ non Ramnes. La seconda voce si mostra forestiera alla stessa incostanza del modo come la si trova scritta, poiché Varrone, nel luogo da noi citato, ha con varietà di scrittura Tatienses ^ Taticns ^ Taties', Paolo abbreviatore di Festo (ed. Lindemann p. 156), e Livio (I, 13) hanno Tittenses o Titiens ; Persio (Sat.I 20) ha Tilos; Properzio (Eleg. lib. IV, 1. 29) l'iiics. E altrettanto è a dire della terza voce, che comunemente è Lueeres^ ma che in Paolo (ed. cit. p. 89j è anche Luccreses., Lucerenses-, Luce*'tes, Ln- i6r comedi^ Possiamo però andare più direttamente al nostro scopo. Farà la via Virgilio mantovano, e per conse- guenza d'origine tosca egli stesso, posto che Plinio ha detto (H. JN. 3, 23): Manina tuscoriim trans Pa- dtim sola, reliqua: Virgilio, che Servio Scoliaste chia- mò [in Aen. I, 44) totius Italiae curiosi aslmum^ Vir- gilio vantato da Macrobio (In Somn. I, 6) nullius diseiplinae expers^ e (I, 15) disciplinarmn omnium perilissimus\ egli che di se slesso, presso a Macrobio medesimo (Saturn. I. 24) scriveva ad Augusto, in proposito della sua Eneide, quel che pur teste in altro mio discorso io citava : De Aenea meo^ si me- htrcule iam digniim auribus haberem luis^ Ubenter viitterem^ sed tantum inchoata res est . . . eum prae- sertim^ tit scis, alia quoque studia ad id ùpus^ vml' toque potiofa^ impertiar; egli finalmente che, a testi- monianza del testé mentovato Servio (Aen. V, 45), Freqvenler ad opus suum ^ JS^ e ìhy. di guisa che si dee 182 conchiiidere che v'era su tutto ciò, nel tempo della letteratura classica, incertezza e confusione di po- poli e di date nella conapilazione delle vecchie tra- dizioni e leggende; e tuttavia, checché s'abbia a dire degli altri particolari, la occupazione che i popoli della Liguria avevan falla del suolo tusco aveva annpiamente lasciato vestigie di sé, come fatto an- tico e certo; col quale consuona non manco l'altra narrazione del testé citato Dionigi , secondo cui (Ij 40) venato Ercole a' sette nostri colli, e vintovi Cacco , assegnò ai popoli arcadi ed aborigeni ivi allora stanziati molte delle terre de' vicini liguri. E vi consuona quel che altrove dallo stesso autore è detto (I, 10) degli aborigeni e sacrani considerati da. alcuni come coloni di essi liguri. -ii*^^ La principal confusione sta nella intromissione degli umbri , che altri fanno contemporanea colla venuta de' pelasgi , altri successiva: i quali um bri, a ver dire, essersi un tempo distesi anch' essi sul suolo etrusco , ed avervi fondata la Vilumbria di Tolomeo, recentemente illustrata nella sua sto- ria de'galli da Amadeo Thierry , si prova per mol- te orme lasciatevi non men vive di quelle de'ligu- ri, siccome, per cagion d'esempio , dal nome Um- brone d'uno de'fìumi. Ma checchessia di ciò, certo è che, né questi umbri intromessi da tutti s' am- mettono, né per fermo è possibile ritrovarli, fra le tre genti costitutive dell' Etruria e danti nome alle sue tribù: laddove tutto quello che abbiamo sin qui discorso mostra che i liguri è facile trovarveli. Ora maniere non mancano di spiegare per una parte questa assenza, per l'altra quella presenza. E quanto 183 all'assenza, perchè non si potrebbe essere introdotto errore nella collocazione de'popoll invasori d'Etru- ria quanto all'ordine di loro successione, e perchè nel fatto non potrebbe essere stalo che gli unabri siano stati prima, i liguri poi, e che intanto l'as- sociazione etrusca comprese solamente questi ultimi, i pelasgi , e i raseni , in quanto nel tempo in cui quell'associazione fu formata, gli umbri erano già scomparsi da quel suolo , e restati solo i tre che patteggiarono insieme ? 0 perchè invece l'esclusione della parte umbra non potè essere una pena irro- gala pel modo come si diportarono nelle ultime guerre, dalle quali lo stringer della lega fu prece- duto ? I popoli che avrebber potuto aver diritto a essa lega e a' suoi vantaggi politici, eran quattro. Dei quattro uno si trova escluso, stando alla nostra analisi: un altro è incluso, ma con grado d'inferio- rità: due sono a condizioni quasi eguali, e tuttavol- ta uno de'due prevale sull'altro. Non son questi ac- cidenti comuni nelle leghe succedenti a guerre? Quan- to poi alla presenza della tribù ligure, individual- mente considerata, concesso che nel suolo toscano liguri un qualche tempo furono, non vale l'opporre per esempio, quel che i più dicono , eh' essi però furono in seguito cacciati. I discacciameuti e le di- Silruziom de'popoli, di che spesso è parlato nelle storie, le più volte han bisogno di mettersi nel no- vero dell'esagerazioni storiche. Molti rimangon sem- pre , o quasi sempre , comechè ridotti a una con- dizione inferiore: e poi con nuovi servigi, e per la legge del tempo, risalgono più o raen presto a di- J84 ritti d'eguaglianza politica pii\ o meno piena. Nel caso nostro sappianao, che queste esterminate liguri Stirpi restarono però pur sempre alle coste de'toscani in tutto il confine settentrionale, e vi restaron così po- co umiliate, che a testimonianza de'classici, esse in tempi anche posteriori si stesero fino alla riva de- stra dell'Arno, e fino al paese oggi chiamato il Ca- sentino (Polib. 11, 16) nel cuore stesso di Toscana. ;. f , Al postutto chi rispetto alla tribù tosca dei luceri non si sentisse bastantemente persuaso dalle dottrine fin qui esposte, potrebbe cercare la radice lue breve di Luceres in una parola analoga a locus loci^ voce latina egli è vero, ma d'antichissima ra- dice sanscrilana, come fin dal suo tempo dimostra- va il padre Paolino. E allora Luceres verrebbe a dire quasi Locarli^ cioè ^Vindigeni^ o i preesistenti, che formavano una terza tribù, oltre a quella dei due popoli forestieri ed invasori, pelasgi o teuti pri- ma , e raseni o tusci di poi. E con ciò avrò po- sto fine alla mia disquisizione intorno a tutte e tre le tribù quali furono in Etruria. Che se alcuno, in- nanzi di chiudere il discorso, mi domandasse come dunque sia poscia avvenuto che , accettati i nomi da' romani, essi s'applicassero a genti ben diverse da quelle a cui s'applicarono in Toscana, mi con- tenterò d'indicare ch'io credo questa differenza d'ap- plicazione essere stata un fatto posteriore e tardo. E tale in realtà si mostra nella storia, che lo attri- buisce al tempo succeduto alla guerra sabina. Nel tempo stesso della fondazione, siccome io tengo per fermo (secondochè cominciando pur dissi) che la città non solo fu fabbricata con rito etrusco, ma fu o su- I 185 bito, o presto veramente soQ^cUa a{jU etruschi, così penso che il significato primitivo delle tri bù romane fu in niente diverso dal significato etrusco. Avvegna- ché però ciò m'obbligherebbe ad intraprendere per ben chiarirlo come pur dissi, un' altra dissertazione non meno lunga di questa che ho avuto l'onore di leggere, io la riservo ad un altro anno. ProsTictto dello stato delle chiese arcivescovili e ve- scovili tiel regno delle Due Sicilie dopo la morte di Corradino a relazione di un anonimo contem- poraneo. Nota del prof. Francesco Orioli. J^ ra' molti altri pregi, di che va ricca la città di Vi- terbo, donde la mia famiglia è uscita, uno è la do,* vizia d'antiche pergamene e carte, che vantano gli archivi suoi (*): miniera, per vero dire, poco o nulla esplorata dagli avi nostri. Oggi questa negligenza degli antenati comincia ad essere riparata: conciossiachè, per non nominare n.e medesimo, il quale, tirato dall'amor della patria, feci m questo genere, e vo facendo dal mio lato, quanto più posso, tutte le volte che colà torno; la- vorano a questo l'egiegio e dotto sig. canonico Cec- (;) Notabilissimi tra gli altri, oltre all'archivio comunale, sono qued. s. Angelo in Sp^ta, del duomo, di- s. Sisto, di s. Maria ad 8'aclus ecc.. Ira quali spiccano i primi tre con documenti che ri- salgono s.„o all'anno 1000 della nostra era. Qui basti averne dato questo cenno. 11 pubblico intanto aspetti dallo Zelli lacobuzi la pub- W.caz.one, quando che sia, dell'importantissimo Statuto municipale oel anno 1231, con ricco corredo d'illustrazioni e di giunte, trat- te dai mentovati archivi e d'altronde. G.A.T.GXXVIII. 13 186 cotti, e di pien proposilo si sono bravamente messi all'opera, deliberati di vederne la fine, i nobili sigg. Liberato Liberati e Girolamo Zelli lacobuzi; ma più che altri quest' ultimo , cui mi gloiio aver io spe- cialmente eccitalo a coltivare sì fatta provincia , e averlo avuto, in un col teslè commendato sig. Libe- rati, diligente collaboratore e compagno a lant'uopo. Frutto delle comuni Fatiche è la trascrizione già eseguita di pii'i centinaia di documenti, la più parie importantissimi , che illustrano i tempi più oscuri della nostra istoria, e non radamente di tutta la sto- ria italiana, segnatamente nel medio ed infimo evo. Qui, per saggio del molto che s'è per pubbli- care, darò io la copia tratta dall'archivio di s. An- gelo in Spala, d'un autografo (?) in 16 carte, senza data, ne nome d'autore, della seguente sinopsi. INFRASCRIPTI ARCHIEPISCOPATDS ET EPISCOPATUS DICUNTDR VACARE IN REGNO, SED MODO INFRASCRIPTO. In archiepiscapatu Capuano. Aquinat. Colven. Caiacen. fn archiepiscopalu Neapolilano. Aurunt. Hic libere vacai, et est reservatus collatio* ni .... domni pape. Nolanus. Hic habet episcopura suspensum propter coronationem Corradi. Citatus ad curiam per le- gatum .... Guius status invenietur, in inquisi- tione legati, vilis et illitterata persona S. m In archiepiscnpatii Salernitano. Nuscan. Hic depositus fuil per Clemenfem , in quo ellectus (sic) dicitur quidam frater minor. Archiepisc.opatus Consan. Vncnt hoc modo. Mortuo ar- cfìiepiscopo tempore legali., electus fait quidam qui propter defectum scientie et vile renunliavit in ma- nu legati., et legalus reservavit collationi apost oli- ve. Nune dicitur quidam ellectus (sic) fuisse in cu- ria de ipso contendens. Episcopatus s. Angeli de Lombardia, Laquendo- nen. Amoti fuerunt per di- ctum Clementem occa- sione Manfredi. Risacien. Hic fuit intrusus tempore interdicti, et si- ne confirmatione amministravit, ut dicitur sciri .... Monlismorani. Hic ellectus fuit tempore interdicti, et confirmatus a metropolitano, qui non potuit , et ideo repulsusfuit per domnum Clementem(can- ceilati). Sutrianen. In quo quidam raonachus de Cassamerio per quasdam litteras missas a curia .... (dicitur in) trusus et con*.ecratus fuisse in Ferentino vel Ala. Irò. Valel viginti uncias. In arehiepiscopatu Acerentiìio. Gravinen. In quo fuit quidam capellanus Federici quondam imperatoris inlrusus, qui primo depo- situs nomine dicti Federici, ipsi Federico, Cur- rado, et Manfredo celebravit, canlavit, coronazioni interfuil- Venusin. Mortuo ipsius episcopo frater Phìlippus de ordine praedicatorum, licentia non obteala, coa° 188 sensit ellectioni de se facere (Ms. /V/cef , f. faciendae o factae) ab illis qui iuraverunt Conradino, qui confirmatus et consecratus dicitur per aceronti- num metropolilanum ipsius ecclesie. In archiepiscopatu Barensi. Ganen. Ruben- Mortuo ipsius episcopo ad curiam prò coro- natione ipsius Manfredi citato, archiepiscopus ba- ren. suspensus confiimasse dicitur et consecrari fecisse quendam ellectum ab illis qiji iuraverunt, Valet vigintiquinque uncias, Melfitan. In archiepiscopatu Brunduxino. Hostunen. In archiepiscopatu Tarantino. Licien. In quo ntjortuo ipsius episcopo per impres- sionep et pptentiarn secularem ellectus fuit qui: danj gallicus inlitteratus et ignotus, qui per ar- chiepiscopuoa ydrontinuno suspensum confirmatus interiit. Nunc ellectiis est alius deficiens scienlia et etate. Valet C uncias. Archiepiscopatus Sypoìitinus vacat hoc modo. Mortuo eiusdem ecclesie archiepiscopo in curia, ad quani ratione favoris impensi Manfredi per le- gatum citatus fuerat, nulla obtenta licentia elli- gendi, canonici sypontini dicuntur symoniace el- ligisse lobannem Ferezqnem, hominem male vite et fame. Canonici vero sancti Angeli elligerunt 189 fratrem lacobum de Benevento de ordine prae- dlcatorum. Ellectores autem dieli lohannis prò el- leclione, et quidam alii prò confiririitione obli- nenda, diciindir recepisse ultra LXXX uncias euri a nepote dicti lohannis, sine aliis iocalibus. Ahi» pronuissa est pecunia ut iuvarent eum. El- lectores ipsius fere suut onooes excommunlcali prò .... et favore Corradini; de quibus pote- rit piena verilas inveniri ut dicilur. Iri àrchiepiseopatu praedicto. Ecclesia Troyan. In qua dicitur elleclus archidiaco- nus eiusdem ecclesie. Archiepiscopatus Panòrmitnnus hoc modo. Mortuo L. archiepiscopo, ellectus fuit lohantres ar- chidiaconus eiusdem ecclesie, qui propter defe- ctum seientie dicitur non admissus, vel repulsus. Valet uncias CCCC. In praedicto àrchiepiseopatu vacai Agrigeot. In quo de facto dicitur inlrusus Guido pa- normitanus Canonicus, de quo non invenitur fa- cta ellectione (sic) ut dicitur. Et sicut facta est ab excommunlcatis et interdictis, quare adhese- runt Coradino tenentes Conradum Capiciura coo- tra ecelesiam et regem, contra quem etiam multa gravia dicuntur, quae videbitis in ceduiis contra ipsum exhibitis contineri. Mazaren. Malten. Hen. mortuo ipsius ecclesie episcopo per le- gatum proviso, idem legatus de quodam norman- 190 do, lohanne nomine, provùlil eidem ecclesie, qui post éxitum legati de regno renuntiavit in manu domni Clementis, in quo quidam frater minor nomine lacobo de Malta, et quidem alius hospi- taiarius de facto dicunlur ellecli. Valere dicitur ultra C uncias. Archiepiscopatus Monlis Regalis hoc modo. Mortuo ipsius archiepiscopo, abbas sancii lohannis de eremiti» de Panormo ellectus fuit. Nunc tamea repulsus; cuius ellectione pendente, ellectus fuit quidam Bernardus provlncialis clericus vicarius Siciliae per minas et potentiaru secularem. Et va- let quingentas uncias. Archiepiscopatus sancte Severine hoc modo. Mortuo archiepiscopo quidam laycus manifestum pac- ciens (sic) in elate et litteratura defectum, cum esset potens in terra, ecclesia ipsa vacante, se feeit in subdiaconum promoveri, qui postmodutn el- lectus fuil, et dicitur fuisse fautor Conradini, et personaliter cum armis fuisse in exercitu rebel- lium. Et valct CL uncias. hi praedicto archiepiscopalu. Strongulen. Cuius episcopus,ralione conronationis (■sic) Manfredi, et atiorum excessuum, ad curiam vo- catus ibidem mortuus est. Cutronen. Qui propter herresim (sic) grecorum pri- vatus dicitur per Clementem, et carceri deputa- tus, de quo fugit, et est cum grecis, ut dicitur. Umbraticen. Mortuo ipsius episcopo in curia roma- 191 na,ad quam occasione (sic) conronationis (sic)Man- frecli citatusfuerat,decanus eiusdem ecclesie, nul- la obtenta licenlia elligendi, de facto se fecit el- ligi, et per archiepiscopunrj confiimaii. In archiepiseopalu Reifinó. Cuthacen. Hec libera est et vacans per morfem quori- dana ipsius ecclesie episcopi, ad curiam prò co- ronatione Manfredi et aliis excessibus citaliis. Oppidan. Hoc modo : quare in consecratione ellecti ipsius ecclesie, oppositum fuit ellecto, quod per siraoniam ellectus fuit, qui in iudicio confessé's est. Geracen. Cerontin- Squilacen. In archiepiscopatu Beneventano. Avellensis. Montismorani. Frequentin. Ariacen. Ellegerunt abbatem ospicii. Tamen metro» politanus non confirmavi t. Bibinen. Ellegerunt Robertum canonicum ipsius ec- clesie. Montis Corvini. Dragonas. Turtibulen. Dicitur ibi nullu^ esse. Florentin. 192 Qui ha fine il documento^ la cui copin m'è fra- trasmessa di mano del già lodato sig. Girolamo Zelii lacobuzi. Chiaro è, rispetto alla intitolazione , che quello in regno significa nel regno appunto delle due Sicilie. Leggendosi fin dal principio, dicuntur vacare^ e indi qua e là «w/it*, e simili altre espressio- ni, se ne deduce che lo scrittore è contemporaneo, e scrive seguitando relazioni sincrone , ma che tutto annunzia essere stale attinte da fonte autorevole. Si raccoglie eziandio , che questa specie di quadro fu fatto per essere inviato a persona collocata in altezza d'autorità, e probabilmente ecclesiastica, e avente in ciò particolare incarico, secondo che interpreto dalle parole - quae videbitis in cednUs conlra ipsum exhi- bitis contineri - che si trovano ove si parla del ve- scovato agrigentino. Molti vocaboli sono abbreviati , ma non lascian dubbio intorno alla lezione che vi sta sotto: e dove lo lasciano, verrò notandolo. Un lavoro di pien proposito intorno alle indica- zioni del qui pubblicato scritto non è per le mie troppe occupazioni d'assai diverso genere, né per gli abituali miei studi, né pe'libri che ho intorno a me. Questo faranno, se lo giudicano utile, dotti napolita- ni. Contento di confrontare il mio catalogo alla pres- ta coli Ughelli, col suo continuatore, e col Pirro, ec- co le note tumultuarie che mi basta soggiungere. Il vescovo nolano, di che qui si parla, par che debba essere stato Giovanni vescovo d'Anglona, del quale il citato Ughelli ci dà notizia nel tomo VI del- l'Italia Sacra, ed. Ven. col. 25^^, dove però è cenno della consacrazione di Tancredi di Taranto, non di Corrado, 193 Nella diocesi nuscana, il frate minore indicato dalla nostra carta debbe essere il lacobus dell'Ughelli tom. VII col. 536, il predecessore del qual Giaco- mo a esso Ughelli è ignoto. Nell'arcivescovato consano, l'arcivescovo morto, che la carta indica , è forse Nicolò de Bonifaciis , o Bonifacii (op. cit. T. VI col. 815). Dell'eletto che rinunzia nell'A. dell'Italia Sacra non si favella. L'altro che, quando l'anonimo nostro scriveva, era ancora in sul contendere, par sia s^ato M. Andrea de Alberto (ivi). Rispetto a' due vescovi di s. Angelo di Lom- bardia, e di Lac«donia, nell' Ughelli è lacuna. Nel Coletti (Giunte ecc.) , quanto a Lacedonia, può so- spettarsi che la persona indicata nel Prospetto abbia a riconoscersi o nell'Antonio, il quale da esso Coletti è mentovato, o nel Rogero che ivi s'incontra ve- scovo 10 anni dopo. L'intruso della chiesa bisaciense fu di leggieri predecessore immediato, e non conosciuto dall'Ughel- li, dello Zaccaria che questi nomina T. VI col. 837. Il satrianense non par che fo.sse il Leone ricor- dato dal citato autore T. VI col. 853. Sarà dunque stato qui ancora quegli che immeditamente lo pre- cedette, e che sfuggì alla diligenza de' compilatori dell'Italia Sacra. Il gravinese al contratrio sembra che abbia a dirsi il Giacomo di Taranto T. VII col. 118. Frate Filippo de' predicatori non è ne' catalo- ghi ughelliani, come niente ivi dà lume rispetto al vescovo rubense indicato nel nostro catalogo. Le stesse incertezze mi restano quanto a' due Ì9A leccesi pastori del mio anonimo , uno almeno de' quali potrebbe essère il Roberto Sanbiagio T. IV col. 79, e l'allro il suo successore Goffredo (ivi): be- ne inteso che l'arcivescovo d Otranto sospeso , che dicesi aver consacrato il primo dei due, fu secondo che pare M. Matteo di Palma. (Op.cit. T IXcol.57.) Per r arcivescovato sipontino credo che i due personaggi dall'anonimo registrati siano i due Gio- vanni, de' quali è cenno nella citata opera T. VII col. 840, tanto più che il MS. della chiesa di s. An- gelo nella parola Ferezonem mi è rifeiito esser am- biguo, potendovisi leggere, non si sa bene se Ferozani o poco diversamente; ciocché mi conferma nella opi- nione che veramente vi si parli del Giovanni Frec- cia ughetliano. Del Giacomo beneventano è ivi alto silenzio. L'arcidiacono, che leggiamo indicalo quanto alla chiesa di Troia, o è maestro Ugone, o Berte rio. L'altro arcidiacono eletto arcivescovo della chie- sa palermitana dev'essere il mentovalo presso il Pirro nella Sicilia Sacra T. I col. 153, 154. Del Guido o Guidone agrigentino (e non Gu- glielmo) è pur memoria confusa pre»so il lodato Pirro (ivi p. 705). E chiaro, quanto alla chiesa di Monte Reale, che l'arcivescovo menzionato nella nostra carta è l'Av- Yeduto abate di s. Giovanni degli eremiti di Paler- mo (Pirro, Op. cil. T. I pag. 463j, mentre dell'intru- so Bernardo non è ivi alcun ricordo. Non sembra che alcuno de' nominati dall'Ughel- li (T. IX col. 483) sia il laico usurpatore dell' ar- civescovato di s. Severina, del quale noi pubblichia- 195 mo la notizia: se pur egli non è l'Anjjelo, di cui solo s'è ivi salvato il nome. Il vescovo strongilense della carta viterbese avrebbe a essere il Pietro registrato nel T. l\ citato dianzi alla col. 520. Il crotonese difficilmente concederei che sia stato il Nicolò di Durazzo (ivi, col. 385), e penso piut- tosto fosse un successore immediato di costui. L'umbraticense manca (ivi, col. 527). Il catacense può stimarsi lo stesso che il Gia- como abate di Pietrafitta (ivi, col. 372). L'oppidano sarà probabilmente un ignoto im- mediato predecessore di quello Stefano , di che è memoria nelle giunte (ivi, col. 417). L'ariacense non par mentovato, Op. cit. T. Vili col. 215 e 216; e altrettanto è da dire del Roberto bibinense (ivi, col. 264). ... Checché sia del valore di queste annotazioni, ognuno riconoscerà che molte, s'io mal non sono in- slrutto, posson dirsi le giunte che il breve nostro MS. sembra fare alia storia delle chiese di regno. Quel va- lete seguitato dal numero delle once, fo supposizione che alluda alle rendite in quel tempo delle sedi episco- pali. Non indovino cosi di leggieri il valore di quel s con linea sopra, onde si termina il testo relativo al vescovato nolano. In proposito della chiesa rubense , ho letto suspensus la voce che nel MS. è suspens con linea sopra: ma potrebbe anche essere suspensum. Quare par che presso lo scrittor nostro valga quia. Stelli è il siccome dell'uso familiare italiano. 496 Il Clemente più volte ricordato è Clemente IV- Noterò per ultimo che la distribuzione e i no- mi delle diocesi s'allontanan non poco dal prospetto deirUghelli: intorno a che disputeranno più a lungo que' che lo possono. Le origini di Roma e par licolar mente Vantieo domi- nio degli etruschi in generale, e de'veienti in par- ticolare esercitata sul Setlimonzio. Dissertazione del prof. F. Orioli recitata nell'accademia ar- cheologica romana Vanno 1852. T 9 . JLj istoria romana de' tempi primitivi il più degli scrittori moderni l'han per menzognera dopo le giu- diziose osservazioni, non pur dirò del Perizonio, del Bayle, del Beaufort, a'quali pochi badarono, ma sì dopo quelle del Niebuhr e d'altri che lo han se- guitato ; del Niebuhr, dico, sì esperto distruttore delle favole antiche , sebbene non ugualmente ap- provato dall'universale io quel che cercò di sostitui- re per conghiettura alle vecchie favole. E avrebber anzi, da lunghissimo tempo, dovuto mettere intorno a ciò in sull'avviso i padri nostri le ingenue con- fessioni de' principali tra gli scrittori dell' età clas- sica, nel cui numero Livio non dubita affermare ^ come tutti sanno , cominciando il sesto suo libro : Qnae , oh condita urbe ad captam eandem urbem , romani., sub regibus primum , coìisuUhus deinde ac dictatoribus decemvirisque ac tribunis considaribus , gessere, foris bella , domi seditiones , quinque libris exposui j res quum vetustale nimia obseuras , velut 197 quae magno ex intervallo loci vix cernuntur , tum quod parvae et rarae per eadem tempora lilterae fuere , una custodia fidelis memoriae rerum gesta» rum; et quod etiam^ si quae in commentariis ponti- ficum^ aliisque publicis privatisque erant monimen- tis , incensa urbe pleraqne interiere : ciocché viene a dir dunque, che non si teneva egli slesso gran fatto certo , non pur delle narrazioni relative alle prime origini, ma né manco di tutte l'altre che le cose dei re e della repubblica risguardavano innan- zi alla riscossa dall' incendio gallico. Imperciocché quanto al racconto de' primordi francamente aveva manifestato, fin dalla prefazione dell' opera : Quae ante conditam condendamve urbeni^ poeticis magis de- cora fabuiis^ quam incorruplis rerum gestarum mo- nimentis traduntur^ ea nec affirmare^ nec refellere^ in animo est. Datur haee venia antiquitati^ ut mi- scendo fiumana divinis^ primordia urbium angustio- ra faciat . . . Sed haec et his similia , utcumque animadversa aut existimata erunt , haud in magno quidem ponam discrimine (avviso dato, per cagion d'esempio, a que' che il racconto della venuta d'Enea nel Lazio, e de'discesi da lui, tengono ancora per innegabile). Ma non quivi solo le sue dubitazioni intorno a' fatti de'primi secoli fa palesi; avvegnaché anche nel lib. 2 cap. 21 , dove del cominciar della re- pubblica ornai si favella , dice : Hoc demum anno ad Regillum lacum pugnatam. opud quosdam inve- rno'^ A. Postumium^ quia collega dubiae fidel [aeriti, se consulatu abdicasse; dictatorem inde factum. Tanti errores implicant temporum., aliter apud alias ordì- t98 natis magistratihus , rU nec qui consulcs secundum quosdam, nec quid quoque anuo aduni sH^ in tanta vetustate^ ìion rerum modo^ sed etiam auetorum di- gerere possis ', e nel lib. 5 cap. 21, parlando della presa di Veio, che è pur cosa, quanto altra mai, sto- rica, esclama: fri rebus tam antiquis, si quae similia veri sint , prò veris accipiantur satis habcom .... e finalmente nel libro 8 cap. 40, disputando intor- no a'casi d'una delle guerre contro a'sanniti, fran- camente conclude: Non facile est., aut rem rei., aut auctorem auclori praeferre. Vitiatam memorinm fu- nehribus laudihus reor , falsisque imaginum tituìis , dum familia ad se quaeqac famam rerum gestarum honormnque , fallente mendacio ^ truhunt. Inde certe et singulorum gesta et publica monimenla rerum con- fusa. Nec quisquam aequalis temporibus illis scripior exlat., quo salis certo auctore slelur. Di qui è che a buon diritto osservava Quin- tiliano nel lib. II delle Istituzioni oratorie cap. 4: Saepe quaeri solet , de tempore., de loco , quo gesta res dicitur ; nonnunquam de persona quoque : si- cut Livius frequentissime dubitai , et alti ab aliis historici dissentiunt. E Flavio Vopisco {in AureliU' no 2 ) : Asserente Tibei-inno^ quod PoUio multa incu- riose , multa hreviter prodidisset ; me coutra dicen- te., neminem. scriptorum., quantum ad historiam per- tinel.) non aliquid esse menlituni; prodente quin etiam in quo Livius , in quo Sallustius., in quo Corneiius Tacitus, in quo denique Trogus ., manifestis leslibus convincerentur., pedibus in sententiam transitum fa^ ciens., oc manum porrigens iucundam., praeterea, scri- be. inquit , ut libet : securus quod velis dicas , /««- 499 bìturus mendaciorum comites^ quos histaricac eloquen- tiae miramur auetores. E , per finire , Plutarco , il quale, come gli altri greci, io citerò per più como- dità nelle loro versioni latine (De fort. ronian ed. Reiske voi. VII pag. 291), là dove parla dell' in- vasione gallica : Quid in his refert immorari^ qnae eerti nihil habent^ nihil degnili ? cum et res romano- rum perierint^ et confusi sint cotmnenlarii ? «^ Livius narrai: ciocche bastantemente mostra quanto poco esso Plutarco medesimo tenesse per infallibili le leg- gende risguardanti i primi secoli della città eterna. E per vero egli è, che, nelle vite parallele, apre il racconto della vita di Romolo, dicendo ingenua- àaente : Ingens Roinae nomen^ quod gloria est apud omnes gentes pervngatitm^ haud convenit inter stri' ptores , a quo urhs , et qua de causa invenerit : in prova di che seguila esponendo la molta varietà d'opinioni che su questo primo particolare, ed intorno alla faccenda intera ed al tempo della fondazione correvano, sinché giunto da ultimo al racconto della opinione divenula comune, scrive: Ceterum receplis- simac hisloriae^et a plurimis approhatae^Peparelhius Diocles praecipua quneque prinius apud graecos edi- dit^ quae in plerisque Fabins Pictor sequitur .. . quam- quam hic quoque varient eie. e, per confermarlo, ad ogni passo ricorda le gravi discrepanze clie nel con- flitto delle tradizioni incontra presso a poco su lutti i particolari. Parimente, passando alla vita di Numa,da questo esordio prende le mosse : Est eliam de rege Numa , (luo tempore vixerit^ strenua concerta tio'.^ tametsi eius 200 familiae stemmata ad hunc usqne diem satis nccnrate deduci videantur. Yernm Clodius quidam, in libro cui tilulum fedi Indicem temporura, vetusta illa acla^ quum excinderent galli urhem , abolita conteudit fuisse\ quae vero nune in manibus terunlm\ esse a nonnullis in gratiam eertorum hominum in nobilis- simas famidas et gentes , a quibus atienissimi simt^ penelrantium^ falso conscripta : ciocché è conforme a quanto da Tito Livio leggemmo detto pocanzi (Vili, 40). E per ultimo la persuasione della per- petua incertezza sua rispetto agli antichi fatti me: glio ancora che altrove la manifesta nelle sue que- stioni romane, dove proposta a se medesimo la que- stione d'una quale che siasi origine , soggiunge il più delle risposte che andavano in volta, e pon fine per suo sistema col non pronunziare alcun giudi- zio di preferenza. Resta ch'io favelli di Dionigi d'Alicarnasso, al quale ho forse torto d'assegnare l'ultimo luogo in questa breve rivista, posto eh' ei tra gli storici ro- mani che ci restano, oltre a un certo primato d'età, possiede l'altro che gli proviene dall'esser quegli che con più amore di tutti e più a lungo s'intertiene a discorrere de'primordi di Roma, e in generale della storia romana, senza dimenticare di addurci le au- torità che servir debbono di prova al suo detto. Or egli ancora non men si mostra peritoso quanto al- l'atfermare la verità de' fatti che sì prolissamente ri- ferisce. E prima ecco come esordisce ( I, 8 ) : Hi- storiam ordior ah antiquissimis fabulis {uttò nv na-. Xoctoru'cojv juJtov) , quas super iores scriptores prue-. 201 termiscrunt^ quoti non sìne di/ficuUate et magno ne- goiio reperiri possent. In cflfetto ei si rifa da capo narrando tutto che molti spacciavano , contraddi- cendosi a ogni tratto, intorno all'infanzia d'Italia, per- chè messer Dionigi non è di coloro che si permet- tono di non cominciare ab ovo una storia, quando ei si mette in contegno per ciò fare. Con questo si perviene finalmente al capo XLV, e così, non per vero ancora alla fondazione di Roma, sì bene a certi più prossimi antecedenti relativi alla storia del Lazio , colle seguenti parole di prologo: Volo . . . et de Aeneae in Italiam adventu [quando scriptores eum^partim ignorarunt^partim eliam prò- pter invidìam silentio texerunt) non neglìgenter^ nec obiter disserere^ sed pluribus et accurate^ tam grae- corum, quam romanorum historìas fide maxime di- gnas sequutus (promessa che vale quel che può va- lere una buona volontà, superiore però alle forze). E basta leggere le pagine che vengon poi, per per- suadersi ch'ei s'avvolge in un labirinto senza uscita o a traverso d'una selva di testimonianze discordanti, che, a ben guardarvi dentro, niente valgono le une più dell'altre; e che dieder quindi buono argomen- to, ma non unico, ai moderni d'essere a un dipresso unanimi nel negare ogni arrivo del mitico Enea sulle spiagge d'Italia. Né, uscito come sa meglio da queeto pecorec- cio, il nostro storico men si trova colle pastoie al piede per procedere innanzi: avvegnaché, nell'acco- starsi poscia al subietto principale, cioè al discorso della edificazione della città , ecco nel capo 72 si vede costretto a scrivere : Quoniam inter seri' G.A.T.CXXVIII. 14 202 ptnres magna est duhitatlo lam de ipso tempore quo urbs condita fuit^ quam de ipsis urbis conditoribus, ne ego quidem rem istdm^ ut omnium confessione con- fìrmatam^ ohiter et paucis deelarandam censui. Laon- t!e,'f)€ir non avere inùtilménle ciò detto (schierato, in- nanzi tratto, Un drappèllo di greci, de' quali chi la cosa a un ntiodo racconta, e chi ad un altro), passa nel chpo ^iis^egiÒènte a ndtàrè : Qitainvis autem et mulios alios graècos scriplores offerire passim., qui va- Hos ìi^bis holidùvns fuigÉe tràdunt^ tdmen^ ne videar esse berbosibr^ dd'romkinos Seriptóres redibo. Verum- tamcn opild rbmaàbs nullus exstat aritiquus histtìri- cùs, tmt fttbuiàrum èert'ptor: séd eoruìn uniisquisque suum opus'cQnìpohHt ex hntifiuis nàrrationihus^ quae in sacris tdbiilis <ìdseri)dnlur : dove già fu visto da ben altri, che le antiche harraiiotii sulle sacre tavole debbòhò essere state'ihhi a' riumi conservati nei tem- pli e cantati da' sacerdoti nelle solennità loro. Così la conseguenza ultima, sulla quale ci fermeremo, è iihe la compilazione arrivata sino !a nói della storia, la quale oggi si chiamerebbe officiale^ della città eter- na a quegli stessi che ce la trasmisero è paruta fin da principio tutl'altrò che' certa ed autentica. LaoHde con piena Cogritzione dèlia cosa scriveva Servio (Aen. VII 628): 'Apùd oiìims .... si diligenter advertas., de auctoribus conditnrum urbium dissensio invenitur , (ideo ut ne iitltis quidem 'Romae orìgo possiiit diligen- ter à(jnòsci : col resto che non riferisco. E tuttavia le qui addotte confessioni , per chi ben considera, non sóho né hàanco tìecessarie a per- suaderci che il più delle cose raccontateci su que- sto argomento non possono non esser favole. A tanto postringono ragionamenti a' priori istituiti sull'esame f 203 intrinseco delle leggende che si vogliono farci cre- dere, dove da ogni parte pullulano contraddizioni, invensiraiglianze, assurdità, menzogne manifeste; di che per ora bastami aver dato cenno, qui non po- tendo scendere alle dimostrazioni che per avventu- ra sian dimandate. Nondimeno sarebbe spingere un po' U'oppo in là Io scetticismo, se, negata fede per le cagioni ad- dotte a gran parte delle vecchie nurrazioni, si vo- lesse affermare che un fondamento di verità bizzar- ramente travestita, sotto il maggior ninnerò delle medesime , come per solilo addiviene , non si na- sconda. La dilllcoltà è solo di sceverare questa par- ie vera dalla falsa, e fare in ciò meglio degli an- tichi , di cui se abbiam fiducia di mosliarci on po' più atti a sì falla dillicile operazione , non è poi gran superbia, consideralo che i moderni aiuti ag- giunti alla critica slorica ed alla filologia ne' tempi a noi più vicini han singolarmente agevolalo il la- Vero. Della quale proposizione chi non fosse per- suaso, affé si mostrerebbe poco esperto di ciò che nel qui discorso genere s'è conseguito, creando, per così dire, la filosofia delle lingue e delle loro gram- matiche , lo studio delle reciproche loro affuiità e relazioni, l'elnografia, l'archeologia tutta intera , e cento altre scienze ausiliari che ci rendono parti- colarmente alti a certe felici acutezze, fino a cui, se vogliamo esser giusti , dobbiam confessare che greci e romani non poterono mai giugnere nem- men da lontano, cosi poveri quanto sempre furono de'menfovati sussidi. Ma di ciò troppo sarebbe a dire se si volesse farne tema di speciale traltato. Qui m'è d'uopo con- 204 tentarmi di supporlo ammesso, e passar oltre direi* tamente al mio subbiello, senza gran fatto inquietar- mi se altri, non persuasi ancora, meglio amino trat- tenersi nel credere antico , di quellochè piegarsi a dottrine nuove, e troppo nuove. Debbo anzi permettermi lo stesso inconveniente rispetto a certe preliminari proposizioni, che a ma- niera di prodromo stimo non inutile premettere, ac- ciocché per lo meno si conosca a qual nuova coor- dinazione delle romane origini io sia stato condot- to da'particolari miei studi, e per conseguente a qual posto, secondo me, appartengano i fatti che mi sono qui special tema. Certo esse proposizioni, enunciate alla guisa che qui farò,^non sarà sì facile che si procaccino la fede la quale da me già ottengono. Abbonderanno a buon diritto da ogni parte i dubitanti, o ancora que' che risolutamente negheranno. Ben ponderata ogni cosa, io stimai più opportuno il porle che il non porle. Quanto al farle accettare per vere, tanto ancora non presumo. Avrò abbastanza conseguito se que' che si sentono meno inclinati ad ammetterne la verità, concedano di sospendere l'assenso loro fino a quel tempo, nel quale mi sarà permesso far pubbliche le prove in che a mio parere sta la lor forza. 1". Roma è assai più antica di Romolo , ossia del re da cui la storia romana comincia. E' città aborigena e pelasgica, secondo che fra poco più am- piamente sarà detto. 2". La contraria opinione, benché generalmente preferita, quando nel presunto VI lor secolo i ro- mani vollero pur darsi una storia, ed attesero a com- porsela, non fa ostacolo: posto che quanti v'ebbero 205 nell'antichità scrittori, come dianzi ne diedi cenno, ancorché per disperazione di ben conoscer la verità, o per tedio di cercarla, o per altri rispetti, s'appi- gliarono tutti o quasi lutti senza cura di più ma- turo esame a quel che al loro tempo era intorno a ciò divenuta l'opinion dominante, e fortificata dalla sanzione de' maggiori dello stato , pur confessarono presso a poco unaniini di non ben sapere quale delle forse 30 discordi tradizioni da essi ampiamente riferite, intorno al tempo in che la città eterna fu fondata, e al nome e alla persona del fondatore, e al modo della fondazione, fosse la tradizione da es- sere fra tutte l'altre a miglior diritto prescelta. 3". Romolo^ non il nome del fondator vero, ma fu nella primitiva latinità un antico appellativo, si- gnificante il romano'^ appellativo adoperato in que- sto sentimento da Virgilio e da Properzio , e attri- buito assai più tardi a quel regolo, il quale reggeva Roma quando accadde la gran guerra sabina, da cui volle il popolo quirite cominciata la sua storia, tra- sandate, per ignoranza, o per diflicoltà di raccorle, e porle in buono e continuato ordine, o per l'una e per l'altra cagione, le cose accadute uell'età an- tecedenti, siccome quelle di cui non s'avendo chiara e distinta memoria, né una non interrotta serie, non potè, ne seppe tenersene conto. A". Scambiata una prima volta la persona del mentovato regolo o toparca, con quella molto più antica, e presto obbliata, del fondator vero quale che .si fosse , fu forza annettere a esso o toparca o re- golo, secondo il quasi costante sistema dell'antichità pagana, una delle favole , onde gl'incunaboli delle città s'aveva usanza di nobilitare, immaginando se- 206 roiflei, cioè prole uscita dal connubio rr.Tlcuno de' numi con qualche mortale illustre donzella [Cf. Liv. Praefat. cit.). 5°. Perciò il vero re romano cornbatlutlo da Tazio nulla può aver di comune con que' primitivi e mitici due jjemelli, figliuoli che si dissero d'Ilia o Rea Silvia e di Marte, allievi della lupa e d'Acca Larenzia, cresciuti da Faustolo, e condotti al fatto del fondare sul settimonzio la città nuova chiama- ta Roma. 6°. Tutto anzi conduce a credere , berr guar- dandovi addentro, e lasciata anche da parte la que- stione del tempo, male a proposito sì fatto mito, in concorso e a preferenza di molti altri ugualmente spacciati, e tratti d'altre fonti di non inferiore autorità e incertezza , essersi seguitato nella storia classica, e per così dire legale, prendendolo, secondo le ci- tate notabili parole dell' alicarnasseo, da certuni de' sacri inni, e de' templi, dove com'egli dice, i primi storiografi , o piuttosto i primi uomini di stato in- caricati della compilazione delle più antiche memo- rie, li trovarono scritti su tavolette; inni nella pri- mitiva lor forma e rozzezza composti , siccome io credo, in un'età remota, in cui Roma celebrar volle un fatto della genuina antica sua storia, comechè non della fondazion prima, coll'allegorico, ieratico, e oscu- ro stile de'componimenti di questa specie: cioè la allor fresca rivendicazione in indipendenza da un lungo preceduto assoggettamento ad Alba, sin da quando questa ultima città, antichissima essa ancora, gua- dagnato contro a Laureoto e a Lavinio, e in gene- rale contro a' casci latini, il dominio su tutto o quasi tulio il La;sio, comprendeva perciò sotto la sua do. 207 minazione anche il setlimonzlo, e la città ivi pree- sistente. 7°. Niente però indica Roma essere stala ia realtà fondazione albana o d' albani. Tutto invece tnostra aver essa avuto esistenza con questo stesso nome gran tempo prima dell' albana supremazia so- pra il Lazio. Tutto mostra essere slata innanzi tratto connessa in modo speciale con Lavinio, e per con- seguenza con Laurento, direttamente, e non per l'in- termedio d'Alba. Tutto mostra da Lavinio essersi anzi gloriata d'avere per immediato modo derivata la propiia origine. Tutto finalmente mostra la so- pravvenuta dipendenza dagli albani esser già inte- ramente cessata da un tempo , niun potrebbe dire quanto lungo, allorché il regola, il quale con Ta- zio pugnò, governava le cose romane. 8". Nondimeno (giova ridirlo) notabilmente oj scu- ratosi ogni fatto delle età anlerioii all' albana usu|v pazione, tranne poche e poco apprezzate orme , e i primi scritti sopra le sacre tavolette non altri es- sendo, se non quelli i quali la fine di essa usur^ pazione celebravano: di qui provenne l'avere assunto essi scritti, tenuti omai per la più antica, o almeno per la più santa, e per la meglio conservata menio- ria superstite de' tempi primitivi, come fondamento il più autentico, e il più venerando , e veramente indigeno, dell'origine della città : dove, se nel lin- guaggio poetico ed enfatico la rivendicazione, di che dicemmo, era antonomasticamente chiamata fonda- zione, ed equiparata a questa, è subito inteso come e perchè gl'interpreti poterono da sì fatto uso d'una parola men propria essere stati indotti a raccorre 208 e stabilire aver quejjl' inni realmenle parlato della edificazion prima. 9'. Del rimanente, per quanto è lecito in rac- conti estratti dalle mentovate liriche e ieratiche com- posizioni d'ellittico ed allefjorico stile, riconoscere il poco di verità slorica contenutovi, si può di leggieri credere questo poco principalmente essersi ridotto al fatto reale di gravi sconvolgimenti politici acca- duti un tempo in Alba per la lotta fra duo fratelli relativa alla eredità del trono, o si chiamassero essi veramente Numitore ed Amulio, o que' nomi siano al par di tanti altri finti ed appellativi; de' quali fra- telli il minore usurpò la successione al maggiore ; e questi la ricuperò coU'aiuto specialmente de' setli- monzialì, a cui toccò quindi come ricompensa il ri- covramenlo dell'autonomia da lungo tempo perduta. 10". Non par però essere ciò stato senza il tristo accompagnamento d'altre susseguenti lolle degli stessi settimonziali tra loro, cioè di due principali e vici- nissime castella, che si disputarono, subito dopo, la preminenza: Roma, dico, e quella che ci è giunta sotto il nome incerto di Rema ^ o d'un derivato di questo vocabolo; l'uua sul Palatino, l'altra sul pros- simo Aventino: lotta terminala poscia colla distru- zione della seconda borgata, detta anche Remoria^ o Remona^ e colla uccisione del suo regolo, a cui la posterità die nome Remo o Remolo^ cioè l'uomo di Rema: a quello stesso modo che chiamò Romolo^ cioè l'uomo di Roma, quegli che n'era regolo, il cui Dome proprio non superò l'obblio. i.iij j.-j^o, ^Qji fu ostacolo il bisogno, in questa ipo- lesi, di supporre sì fatta Rema di Rcmo^ slata non 209 già un proijetlo ed una proposta non condona ad alluazione, ma un castello coeguale a Roma, e per lunjja età sortole e statole a lato: perchè, se colla tradizione classica la qui della supposizione non è in accordo , altre tradizioni non mancano con cui ciò concorda; siccome quella, per cagion d'esempio, secondo la quale un più antico Piemo della casa de' Silvii, quintavolo de' figliuoli d'Ilia e di Marte, avreb- be per primo collocato un presidio stabile d' albani fra i sette colli. Dovea far comprendere, che questo la fama dicevalo operato sull'Aventino, detto allora Mons Murcus^ e non altrove; un'altra tradizione, la quale aggiungeva, che fu appunto il figlio di lui, chiamato Aventino Silvio^ quegli, secondo il dire d' Ovidio nel XIV delle trasformazioni fv. 620) : Qui ., quo regnavate codem Monte iaeel positus , tribuitque vocabula monti. Anzi doveva farlo comprendere una terza tradizione riferitaci da Virgilio, la quale faceva cotesto Aventino più antico ancora di tutti i re Silvii, giacché dicevalo un re aborigeno, nato, come il Remo supposto f ratei di Romolo, da un'altra dea sacerdo- tessa , ed egualmente da un nume , eccetto che il nume in questo mito era Ercole e non Marte. 12." L' assonanza un po' troppo artificiosa dt Hema con Roma^ come di Remolo con Romolo., ren- de tuttavia probabile, il primo de'due nomi essere in realtà fittizio ed inventato più tardi: non perchè l'antico paesotto sul Murco, e il toparca, il qual vi regnò, non siano mai stati: ma, o perchè i veii lor nomi non abbiano superato l'invidia del tempo , o perchè fin da prima si sian essi guad agnati que' so- prannomi, l'uso de'quali in Roma di buon' ora pre- 210 valse, massime nella poesia, chiamando Roma^ o non guari diveisaiuente, il castello, e Reinus o simile, il duce, ad indicare la rcsislen/a che quinci Roma in- contrò, resistenza della quale l'idea s'include nelle parole della stessa famiglia, remora, remorari, reme- Ugo^ remores ( augurum aves ) ec. , voci lutle che significano appunto ostacolo , impedimeìdo\ come ni Roma^ Roinus^ Romultis è l'idea della forza (gr. jsoj- jxvj, dorice pco/u.»). !,'{." Ciò tanto più facilmente può essere acca- duto, sé gl'inni, quali si trovarono stille tavole da que'che li scelsero a testo da essere parafrasato, non poi furono rigorosamente contemporanei a' fatti che Clan destinali a celebrare, ma o furono composizioni di qualche sacerdote poeta d'im' età più recente, o dopo essere stati composti, e lungamente cantati solo a memoria, e trasmessi poscia dall'uno all'altro fino al tempo, nel quale sulle sacre assicelle si registrarono, soffersero alterazioni ed interpolazioni successive di più d' un genere, in forza delle quali la compila- zione ultima già più volte raffazzonata , mentre sia divenuta più intelligibile quanto a lingua, cacciatine a poco a poco molti arcaismi, abbia però inoltre sof- ferto mutilazioni, giunte e supplemento d'ogni guisa. 14.° Per ultimo, dopo tutto questo, intelligibi- lissima si rende l'intera genesi delle altre, eviden- temente favolose, particolarità, le quali in tutta la genealogia di Romolo e di Remo s' incontran oggi, nate, siccome è chiaro, dall'avere inteso in senso sto- rico quel ch'era solamente scritto in senso tropolo- gico. Facile in fatti è vedere, per mo' d'esempio, che 211 non per altro que' cantici chiama van {jemelli i due eroi, se non per allusione all'antica consanguineità, e alla lunj;a mescolanza d'interessi dei due popoli tra loro vicinissimi, cui capitanavano. Facile è vedere, che dalla stirpe dei re albani si dicevano essi de- rivati per un vanto, forse bujjiardo, forse unicamente vero a cagione d'antiche affinità , forse allusivo all' autorità delegata e ricevuta da essi re .... ed in ogni ipotesi, analogo a quello, per cui, dopoché in Italia s'era largamente diffusa la fama delle guerre troiane, tutta intera la dinastia de' Silvii s'amò van- tare come un'antica propaggine d' eneadi. Facile è vedere, che semplicemente metaforica, a crescer del pari onore a' due supposti fratelli , fu la paternità del dio Marte^ come ugualmente la maternità d'Ilia, o Rea Silvia, in quanto Rea Silvia era una Cibele terrena, progenitrice di tutta la silvia stirpe in Alba; e in quanto Ilia riputavasi in Roma una dea indi- ge!e piuttosto che una donna mortale, sposa del dio Tiberino, o dell'Aniene secondo Servio (in Aen. 1, 273j, ed una più antica forma omonima di Silvia (posto che tutte e due dal greco JA/j derivano) celebrata an- che sotto il nome di Roma- Ilia (Plutarco in Rom. 4). Facile è vedere, che col primo latte della lupa non altro in realtà si volle significato, se non la prima origine tratta appunto da Lavinio, il cui simbolo era il lupo, onorato perciò d'un simulacro di bronzo in mezzo al foro di quella celebre città de'casci, sic- come l'alicarnasseo narra : che col secondo latte di Acca Larenzia o Laurenzia, si ricordò la seconda maternità d'un' altra più oscura diva di Laureato, e poi di Roma, quale quest'Acca par fosse ricono- 112 sciuta ... diva anal«ga a Flora, ed impalmata, se- condo un railo, ad Ercole, come poscia a Faustolo.... diva a questo ufficio non men opportunamente de- stinata qual rappresentante della città che, prima d'Al- ba, su tutto il prisco Lazio, e perciò su i lavinii del pari e su i romani, esercitato aveva antichissima do- minazione. Facile per ultimo è vedere, che col fico ruminale^ cioè col fico allattalore [ruminalis essendo un derivato di rumis o di ruma^ la qual parola val- se mammella) si volle esprimere il concetto che i due gemelli eran cresciuti delle pingui frutta del settimonziale suolo. Tali sono, onorandi colleghi, uditori ornatissimi, le principali proposizioni che necessario giudicai di premettere alla trattazione dello speciale odierno mio subbietto. E so, per vero, ch'io l'ho più tocche di volo che trattate. E prevedo (dirò ancora una volta) che alcuni le accuseranno di temerità; e temo forse che tale o tale altro non sia per sentenziare dentro se stesso: Quodcumque ostendis mihi sic, incredulus odi. A questo io non posso per ora porre riparo (m'è di nuovo forza soggiungere). È una dissertazione ch'io qui leggo, e non un libro; dissertazione abbozzata, più che condotta con quella pienezza di ragionamenti e di buone prove, la qual sento bisognare. Perciò (ridico) parrammi aver ottenuto , rispetto a questa prima parte, il più di quel che può accordarmisi, ove io conseguisca che si sospenda di condannarle, finché le mie ragioni non avrò potuto più distesa- mente schierare sopra ciascuno de'parlicolari da me 213 affermati. La seconda parte che qui comincia, e ch'io cercherò d'accompagnare con un pò più di ra- gioni atte a generar persuasione, come quella che è per me oggi la principale, sia pur giudicata colla se- verità, la qual sembrerà meritare , poiché tale è il comun diritto di chi porge ascolto; e senz'altro pro- logo entro in materia. Se tutte , o il maggior nuuiero delle fin qui dette cose, accettinsi per \ere, nel tempo in cui la guerra sabina ebbe cominciamenlo (della quale guer- ra qui non disputo le origini mescolate elle stesse evidentemente di favola) , è impossibile che Roma in mezzo a stali tanto più polenti di lei, massime la- cerata, siccome dicemmo, dalle interne discordie tra le borgate turbolenti onde le cime de' poggi del piccolissimo suo territorio, a'soli selle colli ristretto, si coronavano , abbia lungamente potuto sussistere in quella indipendenza, la quale supponemmo gua- dagnala dopo l'emancipazione dall' assoggettamento ad Alba. ' Ho detto supponemmo: ma l'indipendenza, almeu per breve tempo riconquistata , non è una suppo- sizione mera. Il comun consenso degli storici la con- cede in modo più o meno espresso; e più che que- sto consenso la dichiarano i fatti; giacché dalla re- stituzione di JNumitore sul trono in poi, tutto che si narra , mostra Roma si staccata dal paese albano , come se nessuna strettezza di connessione più con quello la legasse; o piuttosto niente si narra che non costringa a dedurne una separazione d'interessi tra le due genti (la settimonziale e l'albana) molto mag- giore ancora di quella che è concessa. 214 E per fermo, fondata {jià Roma a quella {juisa che è raccontato , non è forse detto che i romani se vollor donne per mojjli furono obbligati a rapir- le, ciocché certo non avrebbe dovuto essere , ove seguitato avessei o a esser parte del regno d'Alba ? Non è forse detto, che se vollero cittadini bisognò che aprissero un asilo a' fuggitivi e proscritti d'ogni contrada , come se da' soli albani , e da' volontari! di colà, non potessero sperare d'averne ? Arroge che , mentre Romolo e Remo si dan per nipoti unici, o a dir meglio per soli eredi, di Numitore , e quindi del tiono su cui di soprappiù l'avevano essi ricollocato, morto lui, e morto non manco Remo, non per questo il superstite fratello, rampollo unico de' Silvii, succede all'eredità regia. Trovasi anzi, a detta degli storici, subito dopo quella morte, soppresso in Alba il reggimento a monarchia, senza che il veio e necessario erede dia cenno di rivendicazione del suo diritto, o d'altra quale che siasi transazione, che non lo lasci spogliato e diredato con niun suo compenso. E trovasi viceversa, che l'avo Numitore, delle gare, e dell'ire fraterne pei- la premi- nenza dell' uno o dell' altio terminate col fratrici- dio, fresco ancora essendo il beneficio da' due ger- mani avuto, SI poco cura, che men non potrebbe se trattato si fosse d'estranei e lontani. Trovasi in breve, che tra Roma e Alba ogni nodo è si omai rallen- talo da non incontrar più comunanza alcuna d'in- teressi dell'una colPaltra, né in pace, né in guerra, e da non incontrarle più guari l'una a rimpetto del- l'altra, che nell'ultime guerre, dove la seconda delle due citlà è trattata dalla prima come nemica e ri- 215 Tale, non come madre e sig^nora , finché distrutta soccombe e dal Lazio sparisce .... Ma, se tanto è, l'indipendenza romana da' vicini non potè essere durevol cosa. La città del supposto Romolo si trovava in mezzo a tre ìeghe potenti , la latina, la sabina, l'etrusca, tutte e tre avide d'esten- dere la dominazione loro su i vicini più deboli. E spodestali, nel nostro caso, qiie' del Lazio, cui pro- babilmente affievolito avevano le rivalità de' fi(jli di Proca, chiaro è che tutto aveva essa a temere dal lato de' popoli sabellici, e da^jli etruschi. Ora la storia classica i popoli sabellici fa distanti ancora dal setti- monzio prima delle guerre di Tazio , e fa invece al tutto vicini i toscani, e tra i toscani i veienti. A quésti dunque dovea di leggici i essere serbato l'acqui- stare per se quel che le doniestiche dissensioni de' latini o altre cagioni, quaii si voglia dirle, avevano loro lasciato perdere A ciò s' aggiunge , che 1' impresa non offriva intrinseche difficoltà molto gravi. La piccola topar- chia di Romolo aveva per immediata frontiera il Tevere, a cui Roma s'appoggiava, e sulla cui riva dritta tutto era Eiruria e territorio di Veio. Il poco agro suo cistiberino, su'colli era in gran parte bosco, e, tra colle e colle, palude. La riccliezza era pascoli, e non guari altro. In ciò tutti consentono. Poteva questo esser bastaiUe ad opporre valida resitenza a' confinanti d'oltratevere, sì allora già floridi e sì forti? Ma che già Veio venuta fosse all'effetto dell'inva- dere contra il Lazio, quanto più poteva lungo la riva sinistra del Tebro, le tradizioni non lo han ta. ciuto. Noi lo troviamo espressamente dello di Fideite, 2i6 sì a Roma vicina; intorno a che oscuro può sem- brare quel che scrive Tito Livio (I. 15): Belli fi" denalis contagione irritati veientìum animi. . .. con sanguinei tal e, nani fidenates quoque eirusci fuerunt \ e quel che Pkitarco (in Romulo 25), nel parlare, tra le romulee guerre, della guerra veieute: Primi etruscorum veii^ latum agrum et amplam urbem co- lenteSj bellum faeere oecupaveruut., repetitis Fidenis^ qtias adserehant prò suis: ma chiarissimo , e certo preso da qualche autorevole, benché ignorata, sor- gente, è quel che nel Glossario di Papia si legge : Fidenae^ urbs Ilaliae , quam veientani condiderunt ; dieta Fidenae^ quod ab liis instructa est^ qui ftdentes viribus Tiberini transmearunt; passo ch'io trascrissi già da uno ancor più antico Glossario, attribuito ad Ancileubo goto, nella biblioteca imperiale di Parigi; iul cui proposito mi fo lecito annotare che, accor- dato tutto il rimanente, l'etimologia (ritenuto il resto) m'ha sapore d'essere una di quelle etimologie come sapevan farle Varrone , per esempio, ed Isidoro in vm tempo in cui di linguistica si conosceva poco o nulla. Imperciocché, a meglio guardarvi, manifesto mi sembra esso nome aver la stessa radice che le voci d'etrusca origine, itis^ idus^ iduare^ vidua^ e simili [Macrob. Saturn. /, 15), dove sempre è sen- timento di divisione^ per dire che Fidena (colla de- sinenza tosca in ena) era divisa dall'antico e pri^ mitivo territorio, per la interposizione del fiume, ag- giuntavi solo in principio la f col valor conosciuta di digamma, o quasi d'aspirazione, nella pronunzia sabina e poi latina , nella quale sì fatta giunta si 217 sa non essere stala infrequente [Lanzi^ Saggio ec. Ediz. 2. t. I pag. 08). Se [Dcrò quinci siaoi fatti certi d'un primo passo sleso tra Lazio e Sabina, al di qua del Tevere, in faccia a Veio, dai polenti abitatori di quella illu- stre e primaria città (a sole 5 miglia di distanza da Roma. Dionys. Ili, 27.), per guadagnarvi teneno : ecco subito la certezza d'un secondo passo, un pò più lontano all' insù , dal lato de' sabelli , contro a Crustumio o Crustmnerio, che non men presto esser dee caduto sotto le ragioni di quell'etrusco popolo, leggendosi in Paolo abbreviatore di Pesto [ed. Liti- demann. p. 92): Criistumina tribus a tuscorum iirbe Crustumena dieta est. Perchè la qui chiamata Cru- stumena non altra può essere, se non, colla termi- nazione propria de' toscani, il dianzi mentovato CrU' sttimerio., o Crustumio., di cui Vager crustuminus da Plinio (H. N. Ili, 9.) si novera tra i confinanti col Tebro, in faccia a Veio sulla riva appunto sinistra, immediatamente sopra l'agro fidenate citra tredecim niillia passuum urbis: contro al quale (m crustumi' «OS, dice Livio 1, 9) mosse Romolo, secondo la "vecchia tradizione, dopo vinti i ceninosi e gli an- lemnali. Dove pur noterò, esser forse qui ancora nel nome la radice clauslrum o clostrum^ messavi, per fatto de' fondatori etruschi, a significar che la città nuova era posta, quasi come chiusura , da quella parte, o come trincea., verso i frouteggianti. E darò per ultima prova del mio assunto, che a vie meglio dimostrare l'origine toscana di esso nome, un'altra Crustumena o Crustumia , e quindi un altro ager crustuminus, ancor più antico, Plinio testé citato (^ivi) G.A.T.CXXVIII 15 218 ricorda: il quale ager^ e la qual città, più addentro nel cuore slesso dell'Etruria già trovavasi. Or dacché il desiderio d'aggrandimento , così airinsù verso le montagne, aveva nella guisa fin qui dichiarata condotti i veienti a conquistare un bel pezzo della cistiberina terra (e dico i veienti, an- che per que' di Crustumerio, perchè son essi soli o essi principali che stavano a confine) vorreui noi credere, che più volentieri ancora non cercasser di stendersi dal lato della pianura e del mare? Certo non io lo dirò, visto che un primario interesse invitavali a padroneggiare, in tutto il corso del maggior suo tronco, le due sponde del fiume arcifine, il quale, come oggi direbbesi, era la prin- cipale arteria del paese loro, per non qui dire d'una buona porzion di Toscana '• conciossiachè a molte delle città mediterranee di quella, ma più che ad altri a' popoli di Veio serviva esso fiume di prin- cipal comunicazione col mare, importantissima cosa a nazione tanto navigatrice e tanto commerciante quanto universalmente la nazione de' toschi. E per vero, guadagnare la sinistra ripa era lo stesso che divenir presso a poco sicuri di non aver mai le barche loro inquietate da subite incursioni a mo', se non d'altro, di pirateria, tanto familiare a quella età: ciocche se a tutti parer doveva di gran momento, più lo doveva a' veienti , che la intera lunghezza della riva destra , da Veio in giù sino alla foce , sappiamo aver posseduto. Cosi, quand' anche ogni altra testimonianza mancasse per farcelo noto, io, per un'argomentazione a priori^ mi crederei lecito d'af- fermare, che questo più volte fu tentalo, e massime 219 dopoché inte rieri convulsioni afifievolirono il Lazio e lasciarono abbandonala a se slessa la parie sua set- tentrionale. Ma il fatto è che le testimonianze espli- cite, onde ciò s'impara, non mancano per dirci, non solo essersi tentato, sì bene essersi di più conseguito. Delle quali testimonianze comincerò col riferire al- cune più generiche, siccome quella degli storici ano- nimi, indicatici dall'alicarnasseo (I, 59) dove scrive: Multi historici Roniam ipsam tìjrrhe nicam urbem esse piitaverunt; e l'altra più ancor facente al nostro ca- so dell'antico scoliaste di Virgilio: (in Georg. 11^ 530): Eli'usci .. . bellicosissimi^ opud quos primuin Romuli fuit imperium. E darei qualche peso ancora al no- me di Tuseuium^ in cui la manifesta radice tuscus par che suggerisca non meno per essa città una losca origine. Meglio è però venire a più particolari e più convìncenti attestazioni. Recherò dunque innanzi, senz'altro indugio, un argumentum crucis , e mi sarà somministrato dalla guerra romulea contro appunto a Veio; della quale ben so che alcuni rigettano il tempo agli ultimi anni della vita del re romano. Ma è noto che le auto- rità in ciò non sono concordi; e v'è per cagion di esempio Floro^ che i veienti , tra i combattuti da Romolo, colloca per primi [l. /, 10). D'altra parte in una storia tanto alterata da favole in opyni suo j)articolare , vogliam noi tenere pei- sicuro lordine di esse guerre ? Iodico invece che sì fatto ordine, così com'è dato, è impossibile : giacché ammessolo come ci è dato, presto si vede cui gittar solo un' occhiata sopra una carta corografica, che i più lon- tani da Roma si fanno assalir da Romolo prima d'a- 220 ver combattuto e vinto i più vicini, a traverso dei quali bisognava pur passare, per andar ollie, tanto più che trattandosi di nimici, non potevano a quel modo esser lasciati indietro per mettersi a risico di trovarsi poi chiusi e combattuti da ogni lato. Or che si narra di questa guerra veiente , e degli effetti suoi, checché sia poscia dell'ordine di collocazione ? Si narra, come tutti sanno, che i ve- ienti la perdettero, e che la pena fu la perdita, tra molti altri danni, d'un pezzo di territorio, del quale la più specifica menzione si legge in Dionigi e in Plutarco. Imperciocché il primo , favellando di essa guerra (11,54,55), osservabii cosa é che scrive: Veientibus . . . belli praetextits fuit Fidenarum ex- pugnatio (ciocché, come poscia s'intenderà meglio, vale per me una querela mossa piuttosto contro ai sabini che contro ai romani, per la invasione e la occupazione già fatta di questa parte di territorio toscano). Quare , missis legatis , iubehant romanos (leggi sabmos^ o sabinos romanosque) ex urbe prae- sidium educere^ et agrum^ quem fidenatibus ereptum tenebant^ suis prislinis dominis reslituere. Ora scon- fìtti da ultimo i querelanti, a che si riesce, stando alla narrazione dello storico ? Romulus liane illis irrogava mulclam : ut romanis agrum l'iberi con- tiguum dareiit^ qui Seplem Pagi voeantur (xjcXoup.-'- vcu? innà nùyov;): e aggiunge la leggenda (per qui non parlare del resto) et a sulinis absiinerent^ quac sunt ad fluminis ostia (di che altrove diremo quel eh' è da dirne) : senza intanto tacere che l'alicar- nasseo torna poscia più volte a dire di ciò e a ri- cordarlo ne' seguenti libri (IH. 0, III. 41, IV. 22, 221 V. 31, 32, 36). Plutarco poi dal suo lato (in Ro- mulo 25) riferisce egli ancora : Mulctati sunt (ve- ientes) magna agri portione^ quod septimagium, id est septimam portionem, vocant (vjv I^enlc^ocytov xoc- lovacv , onsp hzìv inrcx^.ópiov^ ^ et^ quae iuxta fluvium erant, salinis: dove però il Izurs^jAycov d'alcuni mss. oggi si suol meglio leggere a^m:S[j.ndyiov- Dunque , stando a Dionigi e a Plutarco, quel che nella testé mentovata guerra perdettero dell'agro loro quei di Veio era il pezzo denominato Septem Pagi. Rispetto a che giova , ad aiutare la cognizione di ciò che con sì fatto nome s'intendessero, quel passo di Paolo (ed. cit. p. 13, e di Festo p. 225): Romulia tribus dieta 5 quod ex eo agro eensebatur , quem Romuhis ceperat ex veientibus: e l'altro di Varrone [de L. L. V. 56) : Quatuor quoque parteis urbis tribus dictae ab locis: Suburana^ Palatina.^ Exquilina., Collina: quin- ta., quod sub Roma., Romilia : testi d'onde s'impara, che di sì fatta regione dei Sette Pagi una tribù in- di si fece (la prima delle rustiche) quae sub Roma^ cioè quella che immediatamente era suburbana. Ma io affermo che s'impara altresì da essi testi, e da' precedenti, i sette pagi., o Veptapagio., grecamen- te così espressi da Dionigi e da Plutarco (i quali forse in ciò copiavano il greco testo di Fabio pittore, e per conseguente, se a Plutarco crediamo [in Romulo 3) , quello di Diocle Peparezio), cotesti sette pagi., torno a dire, e quindi la tribù Romilia o Romulia che se ne formò, non altro essere siali ed aver si- gnificato, se non il settimonzio dc'latini, cioè il ter- ritorio medesimo del piccolo primitivo regno di Ro- molo, allora per la prima volta emancipato dal ve- 222 leute {jiofjo, a profìtlo, com'io penso, e come cer- cherò di provare iu altro lavoro, non veiamente taTc(7X£ua(7Sv, 'EXXvjv'koT? òvótxococv ocÙtcx. YoXó))) naycrjg). E deduciamo di passaggio da questo, che, a detto di Dionigi, l'aver chiamato nayovg con Toce greca rovg òpzivoQg èyPovg , fu, nel caso ivi in- dicato, un fatto di Servio Tullio niedesiuaa, al quale 223 perciò lo storico attribuisce, nel già dello sentimento, l'introduzione ab antico nella latinità della parola pagi (o ciò sia veio, o falso, di che non mi calej. Non vi può dunque esser dubbio che Vsnrixn(xyi<^J de'due greci è, com'io affermava, il septimoniium di Feslo e di Varrone (1). Ma il seplimontium è l'agro ubi nunc Roma^ l'agro della tribù Romilia^ la prima delle rustiche sub Roma, l'agro cosi nominato ah tot montibus^ quot postea urbs muris comprehendit. Dun- que il septempagio non essendo altro che questo me- desimo, e tuttavia dicendosi che a'tempi di Romolo era stato tolto a'veienti, de'veienti è forza dire che fu tutto il territorio della toparchia romana, e per conseguenza di Romolo. Quod erat demonslrandum. Per poterlo negare, bisognerebbe poter provare che vi fosser due settimonzi , o due eptapagi , per- fettamente omonimi, e collocati l'uno al di qua del Tevere , l'altro al di là; l'uno appartenente a Veio, l'altro romano , anzi comprendente Roma stessa, e formato dal suolo, sul qual essa sedeva. Ma, posto che del settimonzio veiente è detto che di esso fu fatta la prima tribù rustica e suburbana , la quale dal nome di Roma fu chiamata Romilia, resterebbe (1) Questo k così vero, che a tulli è noto i sette romani colli, (onde fu detto esser derivato il vocabolo latino septimontium, nel senso appunto della greca voce nà.yoi , così coaie spiegolla Dio- nigi) essersi anche promiscuamente detti septem arces (Virgil. Georg. Il, 535, Aeti. VI, 784; Sii. Ital. Punicor. V, 608; Claudian. Fescennin. V. 14, 15), ossia (come anche latinamente si sarebber chiamati), septem pagi [septem montani tumuli, per servirmi della sposizione slessa dell' alicarnasseo, qui loci natura muniti agricolis facile refugium pararem) , i quali, secondo che lo storico aggiunge, avevano p«r- ticolar cerchia, magistrali, abitatori ecc. 224 poi da spiegare e da intendere, come e perchè, nel formare la prima uibù ruslica delle terre suburba- ne, non si fosse piuttosto pensato a farla colle ci- sliberinc e romane fin dalTorigine, e siasi invece data la preferenza a quelle di secondo acquisto; e come e perchè, se veramente erano di secondo acqui- sto , diessi alla tribù con esse formata il nome di Romilia, piuttostochè di Vcientana (a imitazione della Crustumina^ la quale da Crustumio si denominò, an- ziché da Roma ). Né si opponga che il nome di Romilia è per avventura tratto non da Roma , ma da una gens^ cioè da una famiglia detta Romilia^ o Romulea^ come lo suppone Niebuhr ( Voi. I. nota 191). Le tribù di (jenti venner più tardi. Rispetto a questa è dichiarato chiaramente ch'era tribù lo- cale\ ed è degno da notarsi che Varrone (loc. cit.) non solo tra le tribù locali la numera, ma, quel che più fa a nostr'uopo, da luogo appunto, cioè, come noi facemmo , da Roma la dice denominata, scri- vendo: Quod sub Roma Romilia. E sia bene così, per- chè quest'ultima voce ha formazione analoga a quella di Romulìis., del quale già vedemmo altiove la na- tura d'addiettivo e d'appellativo, di cui Roma è ra- dice. Per ultimo, ammessa la ipotesi sin qui impu- gnata, e ammesso perciò che, quanto alle terre ugual- mente poste sub Roma e cistiberine, si facesse di loro un'altra tribù locale d'altro ignorato nome che sino a noi non sia giunto, resterebbe a spiegarsi, non solo perchè non piuttosto questa sia stata computata per jjn- JMrt, ma di più perchè a questa di preferenza non siasi riservato il nome di Romilia., e perché Varro- ne (mentre, secondo il supposto, le tribù rustiche lo- 225 cali sub Roma dovettero esser due) una sola ne con- ti, e in termini Così assoluti la conti, come se non avesse saputo che una seconda ne taceva, alla quale le slesse qualifiche appartenevano. Di qui pertanto io ricavo, che veramente, stan- do alla tradizione , allorché in tempo più tardo le tre primitive tribù di genti dell'era romulea (i Rain- nes^ i Tities^ e i Luceres) caddero in dimenticanza, e si pensò la prima volta a una divisione nuova dedotta dai luoghi (ciocché sembra essere avvenuto presso a poco sotto la dinastia de' Tarquini , cioè in un età in cui non più contro a Veio s'era con- quistato il solo settimonzio, al di qua sino al mare, ma, per opera massimamente d'Aneo Marcio^ anche quella lunga trastiberina striscia di Tevere vi s'era- aggiunta , che da Plinio (H. N. IH^ 9) é chiamata ager vaticanus)\ tutto, e da ogni parte, l'agro di pri- ma e di seconda conquista intorno a Roma, e per con- seguenza sì questo ultimo agio al di là del fiume, sì quello al di qua, fosse riunito in un corpo e in una tribù, giustamente amai detta Romilia sen» z'altro divario : ciocché poi die luogo allo sbaglio de' venuti dopo, i quali, trovando memoria che sì fatta prima tribù era ex agro ex veientibue capto^ed una parte almeno, non piccola, di essa tribù sapen- dola transtluviale, ed essendo venuti a un tempo, in cui r orgoglio romano aveva abolito ogni ricordo dell'antichissima soggezione a' forestieri (o veienti, o altri), fermarono la sentenza che Vager veientihus ademptus^ e quindi Veplapagio^ fin dai tempi di Ro- molo, non il seltimonziale mai , ma sì era stato la porzione al di là del Tevere. 226 Nella quale sentenza, che particolarmente sem- bra aver piaciuto all'alicariiasseo, bruttamente menti- vano. Imperciocché tutto dice la conquista transfluviale non aver cominciato che sotto Anco. E per vero, tra latini ed etrusci, sin dall'evo mitico (è Livio 1, 3., che, oltre a molti altri, lo dice] : Pax ila convenerat^ ut etruscis latùiisque flnvius Albula^ qiiem nunc Tiherim vocant^ finis esset. Ciò, per Pesto, durava ancora, al- raen sino al tempo della guerra veiente sotto Ro- molo, giacché riferisce (p. 198; Ed. Mueller p. 2 '3;-. Pectuscum palalii dieta est ea regio urbis., quani Ro- mulus obversam posuit ea parte , in qua plurimum crai agri romani ad mare versus., et qua mollissime adihalur urhs: cum etruscoruni agrum a romanis Ti- heris discluderet., ceterae vicinae civitates colles ali" quos haberent oppositos. Dopo la guerra veiente si parla, è vero, di terre contra i veienti guadagnate: ma, a provarle transtiberine, bisognerebbe aver pro- vato che non ve ne avessero anche al di qua del fiume. E si parla d'accesso alle saline vietato; ma bisogne- rebbe ugualmente dire che verso il Lazio non ve ne avesse. Intanto per un momento concedasi quel che fin da principio impugnammo. Il rimanente dei racconti è forse in accordo con essa concessione ? cer- tamente no. Ecco: morto Romolo, sino ad Anco, disi fatti transfluviali possedimenti nella storia romana non è più parola. Solo quando alla storia del quarto re ar- riviamo, si comincia veramente a favellarne. Innanzi a quell'epoca nessun ponte (lo si noti bene) stabiliva la comunicazione tra le due rive del fiume: e pure se anche l'altra riva, già da un secolo , era ro- mana , mezzi d'abituale e cotidiana comunicazione 227 non avrebber dovuto mancare. Invece fu questo ultimo re, il quale, come Floro riferisce (/, 4), inter- fluentem urbi fluvinm ponte commisit ^ dove Livio aggiunge (I, 33) tunc primum. Allora tutti rammen- tano la giunta fatta del Gianicolo alla città , e la guarnigione postavi. Allora è detto (Livio ivi): Silva maesia veientibus adempia. Usque ad mare imperium prolatum^ et in ore Tiberis Ostia iirbs condita. Salinae circa factae [circa., e perciò di leggieri alle due ripe, e verso il Lazio, e verso Toscana, cosicché se anche in suolo latino dapprima ve n'ebbe, a queste s'ap- plicherebbe l'interdizione d'usarne, riferita all'evo romuleo). E tutto ciò a suo costume amplitìca e distende Dionigi ( III, 43 seq. ). Prima di questo tempo: Etrusci . . . latrociniis negotiatores infesta- bant ., occupantes (il passo ha gran significazione) totum illum orae tractum., qui est trans ftuvium [Dionys. ibi). Dunque, come pocanzi affermai, pose Anco il primo un pie stabile sulla riva sinistra. E il guada- gno fu , che solamente da indi in poi divenne esso Tevere veramente ed interamente fiume romano , chiusone il corso da Roma in (riù tra sponde tutte e due romane, e tra Ostia città romana sulla foce, ed il ponte; il quale ponte (dico il sublicio)., se in più tarda €tà fu sine ferreo davo, ita disposita contignatione, ut eximantur trabes sine fulturis , ac reponantur. (Plin. H. N. XXXVI, 15), e per conseguenza se fu allora ridotto a temporaneo, appar però dall'autore, donde queste parole dianzi addotte prendemmo, ciò diiisersi fatto solo dopo la guerra contro a Porsenna, posteaquam Coclite Horatio defendenle aegre revul-t sus est : senza dubbio perchè le vittorie del re di 228 Chiusi ebber per frutto, comechè poco durevole, di restituire la libertà della navigazione a' superiori, i quali per lo addietro l'avevan perduta. Potrei pertanto tenere ornai per abbondan- temente compila la dimostrazione che richiedeasi; ma non voglio posar la penna senza offrire altre prove, che l'intera storia della invasione di Tazio e della guerra allor guerreggiata, stando pur solo a' racconti che ce ne furon tramandati, da un altro Iato, somministra. Dove a prima giunta non è da dissimulare molta essere la discordia delle leggende, ed evidente in più parti la favolosa loro natura , come altrove avvertimmo. Nondimeno, in mezzo an- che a queste mescolanze mitiche , manifestamente qua e là apparisce più d'un brano della verità che mal ne si cela. E dapprima, lasciamo di ripetere stolidamente la cagione assegnata a quella invasione e a quella guerra, pel rapimento d' alcune femmine (o fosser esse XXX, o DXXVII, o DCLXXXIII , secondo la varietà d'opinioni che Plutarco riferisce, in Ro- mulo 14) a procacciar mogli a' romani comincianti allora la città- Questo è punto che non sottoporre- mo a discussione, sebbene Io meriterebbe , perchè la discussione ci trascinerebbe troppo lungi- Basti dir di nuovo che, per me, è cosa certa, che Roma, nell'epoca qui discorsa , non era città la qual co- minciasse. I sabini invasero, perchè, cresciuti in po- polazione e potenza^ avevan bisogno d'invadere. Si dilatarono verso il mare infero, per motivi analoghi a quelli per cui si dilatarono del pari verso il mar supero formando il Piceno , verso il mezzodì for- 229 mando il Sannio. Fecero prima di Roma, quel che Roma doveva fare più tardi rispetto a' suoi vicioi. Divennero conquistatori, come sempre accade a' po- poli che si sentono in sugo, e che moltiplicano più di quel che i mezzi di sussistenza trovati a casa permetterebbero. Erano montanari , bisognava che da ogni parte scendessero al piano, il qual colla sua fertilità l'invitava. Ma, checché intorno a ciò voglia dirsi , quali armi oppose il seltimonzio alla rovina, la qual ve- nivagli addosso? Seguitando Dionigi (11,32), e ri- tenuta la sostanza de' fatti senza troppo attenderò agli altri particolari di minor momento ed eviden- temente di minor verità, troviamo in aiuto e com- pagnia di Romolo esercitare in tutta quella impresa una parte principalissima vir strenuus^et rebus belli- cis insignis^ nomine Lucumo. Ei lo fa venire da una città etrusca, oggi ignota, cui chiama Solonio : ma la patria è cosa secondaria. Il fatto importante è che questo Lucumone è di Toscana; e senza qui osser- vare che Solonio potè ben essere una delle dipen- denze di Veio, gioverà ricordarsi, che se, nella no- stra supposizione, i veienti, vista la insuflìcienza loro in faccia alla irruzione sabellica, ricorsero all'aiuto di tutti ì popoli dello stesso lor sangue, ciocche per lo manco è probabile (*), può benissimo il generale supremo inviato allora a soccorso di Roma perico- lante essere stato scelto nel concilio della nazione (*) Ciò, secondo Varrone presso Servio (in ^en. V, 360), non è solo probabile, ma conforme eifiandio alla U'adizione , la quale riferiva : Romulum dimicantem cantra Titum Tafium, a liicumo- nibus, hoc est luscis, auxilia postulasse. 230 intera al Fano di Veltumna, in quel paese che più fosse piaciuto. Tanto era principale l'importanza di questo to- sco personaggio, che l'alicarnasseo (ivi) dice aper- tamente, come Romolo, fatte due parti di tutte le sue forze, all'una die se stesso per duce, posto campo suU'Esquilio; all'altra, che posò sul Quirinale, die per capitano esso Lucumone. E merita d'esser conside- rato, che contro a questa parte, piuttosto che contro a quella, diresse il re sabino le sue schiere, oltre- passando l'accampamento del toscano, e messosi tra quello e il colle oggi detto Capitolino o del Gam- pidoglio. Di combattimenti ancora non si parla; ma ben si parla d'im primo guadagno che Tazio fé, impadroni- tosi a tradimento, appunto del colle nominato in ulti- mo, e per conseguente dell'acropoli romana : intorno a che, innanzi di passar oltre, sarà opportuno fermarsi per soggiugnere qualche riflessione che il racconto suggerisce. La parola Lucumo^ onis^ in etrusco, in più d'un altro mio lavoro edito credo aver provato che mai non si trova come prenome, ne come nome di per- sona. In Tarquinio Prisco fu soprannome. Il vero significato di essa voce tra' toscani fu quello di r-ex (Serv, in Aen. II. 278 , e alUove) Dunque averci detto , che Romolo ebbe ausiliare nella guerra di che favelliamo cotesto Lucumone^ è averci detto che a essa guerra prese parte un re etrusco ; e 1' aver detto Varrone e Servio da noi citati in nota, che aiuti s'ebbero a lucumonibus luscis^ è come averci detto a regibus tuscis. 23 1 Non son però Dionigi, Varrò ne e Servio i soli onde ciò apprendiamo. Cicerone (de Rep. II, 8) fa egli ancora menzione espressa Lucumonis , qui Ro- muli soeius in sabino praelio oceiderat^ poiché, come tra poco dovreni dire, così fini egli. Properzio cantò già (IV, 1, 29) sul proposito stesso : Prima galeritus posuit praeloria Lucmo: p(IV, 2): Tempore quo sodi s venit Lucomedius armis^ Afque sabina feri contudit arma Tati. Varrone, di nuovo (de L. L. V, 40), e Paolo (p. 34), (Con poco diverse parole ridissero altrettanto. Sola- mente a cotesto Lucumone s'argomentarono di dare un nome proprio , e lo chiamarono Cele (o Celio) Vihenna: rispetto a che non si trovan d'accordo con altri autori, e con se medesimi, posto che il Celio Vibenna da essi nominato, comechè personaggio sto- rico, ancor egli intervenuto nelle cose romane, non ben si sa (e son costretti a confessarlo eglino me- desimi) se appartenuto abbia all'età romulea, ovvero ad un'altra più tarda. Resta però fermo, ad ogni modo, che un lucumone, quando ì sabini irruppero contro a Roma, iinraantineule venne a soccorso, e che per questo lato alla narrazione di Dionigi non mancano autorità di rinfianco. Or quale può essere stata la ragione a cotesto toscano re dell'aver preso posto appunto nel Quiri- nale, innanzi all'arce romana, quasi a tutela di que- sto prìncipal nervo di tutta la guerra ? Io spero di poter far conoscere con breve ragionamento, ciò es- 232 sere stato appunto perché l'arce stessa era presidiata da etruschi. Ma per provarlo è bisogno d'un' argo- mentazione un pò più sottile, alla quale m'è d'uopo procedere prendendo da più lontano la mossa, com'or m'accingo a fare, L' arce , o la rocca , o vogliasi darle il nome d'acropoli , era , dicemmo , sul colle capitolino , il quale però dapprima non portò questo nome. Si sa, ch'esso chiamossi in antico mons saturnius , e che Saturnia (un oppido degli aborigeni) vi fu fon- data sopra. E chiaro che si denominò dal principal dio del Lazio e de' casco-latini, o pelasgo-latini, Sa- turno. Questa Saturnia, se prestiam fede a Virgilio, fu però presto smantellata , poiché fa esso dire ad Enea da Evandro [Aeneid. Vili , 354), mostrando- gliene le rovine : Uaec duo praeterea disiectis oppida muris Relliquias^ veterumque vides monumenta virorum. ^' laniculum hiiic, ilU fuerat Saturnia nomen; sebbene l'alicarnasseo (//, 2) riferisca esser ella stata dagli albani cinta di muro e di fossa (probabilmente riparandola) 16 età dopo la presa di Troia; e seb- bene Varrone poco fa citato {de L. L. F, 42) ricor- di monumenti od avanzi, i quali anche al suo tem- po se ne serbavano. Ad ogni modo , allorché le guerre di Tazio cominciano, il mons saturnius e Saturnia già più non si nomano, e in loro luogo troviamo alle pri- mitive denominazioni sostituiti gli altri nomi di mons tarpeius , tarpeium saxum , e per conseguente , di 233 Tarpeìa [arx) , come tutti ad una voce narrano. E so che la favola (poiché favola Tito Livio non du- bita chiamarla) sì fatti nomi suppone appunto nati allora, o da quello del comandante della rocca Spu- rio Tarpeio (Propert. IV, 4, v. 04) , o dalla figlia di lui Tarpeia [passim) , della quale in più guise è detto il tradimento e il gastigo , sendovi persino alcuni che costei fan figliuola di Tazio stesso , ed altri che la fan custode ella medesima dell' arce ! [Fiutare, in Romulo 17, 18). Ma a coleste e baie ed etimologie chi più oggi può prestar fede ? Ben guar- data era la porta in presenza del nemico accam- pato al di sotto, se ad una donzella (e sia pur essa stata la figliuola del generale) fu facile aprirla per- chè i sabini v'entrassero . . ! se, innanzi al tradi- mento fu non men facile ad essa l'uscirne a libito per attinger acqua, e per vagare al di fuori, e inos- servata recarsi a Tazio con cui prender concerto a pien suo talento ! Bel motivo dopo l'abominazione che dovette attaccarsi al costei nome, abominazione non minore (secondo che si racconta) ne'sabini, che ne'roraani, per denominare da essa, o dal genitore di lei, da indi in poi la rocca ed il colle, tolta a questo e a quella indecorosamente l'antica denomi- nazione tratta dal nume! Bella ragione, dopo avere uccisa la rea donna in condegno premio della in- famia, di che s'era renduta colpevole , a innalzarle nel luogo del supplizio, o poco lungi, una decorosa tomba, quale ad eroina, e ad onorarla di sacrifizi annui quasi a dea (Dionys. II. 40) ! E bella assur- dità infine quella della supposta ricchezza dell' ar- millc d'oro sì universali nell' armata tra barbari G.A.T.GXXVIII. 16 234 scesi dalle povere loro montagne! Noq vede dunque ciascuno che altra più verisimile origine a' nuovi nomi è assolutamente d'uopo cercare ? Or accettiamo quel che dalle passate ricerche nostre s'è ricavato: finita cioè la dominazione d'Alba sul setlimonzio, l'abbiano , poco stante, conquistato i veienti, ed abbiano lasciato in Roma un toparca con autorità subordinata , in istato di dipendenza maggiore o minore. Certo, avran voluto almeno por guarnigione «labile, e tutta losca, neiracropoli: tanto più che separata era, non per solamente muri e fosse, ma per una profonda valle altresì, dalla Roma del Palatino; cosicché almcn quella (dico l'acropoli) sarà divenuta sede esclusiva d'etruschi. Ma , se ciò fu , ])oleron, per vero, dopo 1' occupazione, lasciare al luogo l'antico suo nome; poteron però ugualmente seguitar quivi la frequente co.stumanza di cangiarlo, che in altie mie operette indicai , citando Agilla, dalla quale fecer essi Cere^ Teula che trasformarono in Pisa^ Camars che mutarono in Clusium ec. Po- niamo pertanto, che, allenendosi a questo secondo sistema, siansi però proposto di salvare in qualche modo l'analogia, sostituendo alla denominazione de- dotta dal nome del primo re mitico del Lazio (5a- turno) un' altra denominazione ricavala dal nome del mitico, o sierico, lor primo re, il qual sappia- mo essersi creduto Tarconte (tìtr. Tarcliu o Tarcliis). In questa ipotesi, la Saturnia de' casco-latini l'avran dovuta chiamare, nella forma di derivazione la più semplice, Tarcheia (etp. Tarchei ?), e quindi il monte Tarcheius. Ma nelle lingue di sabellica stirpe, Ira le quali è l'osca (Jarr. de L. L. VII, 28), e in molle 'i35 altre della stessa famiglia alla eh ^ alla e, alla q, è nolo essere stalo non raro uso di sostituire come lettera alfine la p ({Niebiihr T. /, cap. degli Oschi e degli Ausoni. Mueller^ Die Elrusker, Voi. 1 p. 30, I^ot. GO. Lindemann., in Festum p. 301, 567. itfom- insen. Die Unteritalische Dialekte, p. 359 eie): anzi Tzetze (in Licophronem v. 1446) in vece del vocabolo Tarquinius^ dedotto ancor esso dalla stessa radice 7'ar- cho , notò noolti aver pronunziato e scritto Tarpi- nius. Dunque può ben dirsi, che, se le fornje toscane Tarcheia., e mons Tarcheius., non ci sono state tra- mandate colla losca ortografia , questo di leggieri avvenne, perchè al passare della rocca souo la do- minazione sabina , i nuovi occupanti alterarono il pome alla loro usanza colla sostituzione dianzi indi- cata, e lasciarono alla poslerità Tarpeius e la Tai'' pela che oggi la storia mentova soli. Perlanto sempre più si conferma, coordinando l'esposto ragionamento cogli altri, i quali lo prece- dono, così aver dovuto essere in realtà. Dopo di ch« ineglio sapremo intendere perchè il re di Curi con- tro a questa porzione del suolo romano , e contro al lucumoue che le si era posto innanzi quasi a scudo, direttamente e di primo lancio mosse; e per- chè ne' combattimenti successivi, che tenner dietro alla perdita dell'arce, questo lucumone ha parte prin- cijialissima, la qual non cessa che quando finalmente ei perisce coll'armi in mano, siccome testé accenna- vamo. Evidentemente la guerra e la queiela era in più special modo conlra i toscani. Dove non nego che altri storici tutto quasi ciocché si narra del re tosco lo attribuiscono in poco diversa guisa ad un 236 Osto od Ostilio di Medullia , e per conseguente a un latino : ma ciò parrai operato come naturale e necessario efifetto del sistema, che la memoria degli etruschi volle tolta di mezzo in ogni sua parte, co- me una vergogna la qual fosse bello obbliare ! D'un Osto od Ostilio (voci che significavano solo il fore- stiero^ od il figlio del forestiero) si sarà ben serbato qualche subalterno ricordo , come di persona che allora dal lato di Roma si segnalò ancor ella per prodezze, e può benissimo essere stato uomo di La- zio ; ma non veggo come ciò debba scemar fede alla catena delle precedenti induzioni tratte da tante e sì ben collegate testimonianze. Ciò sarà una al più delle molle oscurità di quella storia; come quando al fianco di Tazio troviamo Metto Curzio^ il quale, a mio giudicare , non è altri che lo stesso Tazio , indicato con un altro nome dalla tradizione , ossia col nome di re di Curi: poiché Mettus è una forma latina del nome di sommo magistrato nelle lingue sabelliche [Medix^ e Curtius è a Curibus ; esempio rinnovato a proposito delle guerre di Tulio Ostilio contro ad Alba, ove il famoso Mettus, o Melius Fu- fetius^ Fuffetius^ o Suffetius^ è il Medix suffeelus^ cioè sostituito a Gaio Cluilio nel reggimento degli albani. E qui resierò, senza farmi a soggiungere le altre cose che pure avanzerebbono a dirsi. Per cagion d'esempio, conie veramente Tazio, od il re cui sotto questa denominazione conosciamo, quegli fu che co' suoi sabini vinse, non già patteggiò eguaglianza di diritti co' seltimonziali. Come succedette agii etru- schi nella supremazia su Roma , non già fu a Ro- molo coeguale. Come a esso Romolo, cioè al romano 237 toparca , sopravvisse , e non Romolo a lui. Como fu egli a cui toccò l'onore dell'apoteosi sotto il no- me di Quirino. Come a Numa suo genero lasciò il Irono, quale ad erede legittimo, e non per consul- tazioni e deliberazioni di senato e di popolo .... Come la conquista stessa di Cenina e delle altre cillà , e quanto altro a quelle appartiene, di Tazio è vanto, e non del regolo del Palazio.... Questi sono argomenti per altre future e più prolisse trattazioni. Ora basti ridire in epilogo la som- ma delle cose, le quali oso dire fin qui provate. Penso dunque, dovere ornai sembrare a tutti pressoché certo, almeno quanto alla sostanza delle asserzioni , che (messo fine alle querele, per le quali il favoloso Re- mo, o il personaggio vero che da esso è rappresen - tato, fu dal toparca di Roma superato in guerra e tolto di mezzo), venne presto, appresso alla breve ri- vendicazione in libertà delle genti del settimonzio, l'assoggettamento a Veio , come altrettanto pur fu delle vicine Crustumio e Fidena , divenuti con ciò i veienti, dalla città loro smo al mare, padroni delle due rive del Tevere, e di tutta la navigazione che potea farvisi. Fruito e conseguenza di ciò fu l'aver presidiata e rafforzala l'antichissima Saturnia cangian- done il nome in Tarcheia, e di là dominando tutta la contrada. Nel sopravvenire dell'orde sabelliche , vedutosi non bastare le ordinarie forze, o che vi si tenevano, o che potevano dalla sola Veio mandarsi, altre di tutta Toscana capitanate da un lucumone si fecero accorrere, le quali però non furon potenti a fare argine alla piena venuta addosso. Il capitano tarcheio, scopertosi traditore, aiutò egli slesso la per- 238 dita de' suoi , consejjnata a' nemici la rocca datagli in guardia; con che l'intera riva sinistra del fiume fu dovuta sgombrare, come ultima conseguenza della uccisione del re etrusco generalissimo dell' armata. Fatti da ultimo così signori di tutto il tratto cistiberino, i sabini chiamaron Tarpeia nella pro- nunzia loro quella che pe' toschi era per lo innanzi stata Tarcheia; e con ciò ebbe fme il primo periodo della storia romana, al quale non è questo il luogo d'ag- giungere la narrazione de' fatti del secondo , dac- ché il presente discorso già soverchiamente abusò dell'altrui pazienza e cortesia : Et iam tempus equum fumantia solvere colla. ' — '^■^'ì^Myì^M^^ — ■ 230 Di olcìtne memorie dé'primi secoli dopo il mìlle^ re- lative a Viterbo e a paesi contigui. Nota del prof. Francesco Orioli. H. -O altrove favellato della poco esplorala miniera danlichi documenti a illustrazione di molti de'fatti e de'costumfi di que secoli^ i quali chiamiamo bar- bali, che si cela nejjli archivi di Viterbo. Qui alcu- ni penso di pubblicarne Con sobrie annotazioni, più cdrtie sojjwefto agli altrui studi, che come tema dei ttìiei, pe' quali non ho né oi' voglia, nò tempo, uè preparazione neòessai'ia. I. Ritmo del 12-45 in versi poiitiri del notaio cornelano Rollando Qunlisqualis ^ di cui debbo copia alla g&ntilezia del dotto Mg. eufonico don Luca Ceccatbi. Si legge nella cronaca viterbese nw. di JVicold della Tuccia all'anno suddetto: « INtìl niesé di ,^iu* >• grio Io dì di sancto lohannì baptista el decto pdpa » InrtGcentio quarto nel concilio del Leone sopra » Rodano fece il processo contra Timperalore, e ii» » quel tempo Vitale dà versa (d'Aver-sa) fé una ca- » valcata ad Corneto, e pigliò nOolta preda, e XLIIII w prigioni , et raenolli ad Montefìascone » (Esem- plare di frate Francesco d'Andrea nella biblioteca angelica. Codice cartaceo in 8°^ B»*?. 23, col quale gli altri esemplari consuonano).!'"'' " 240 Il Bussi [Storia di Viterbo) p. 134 narra il fatto medesimo, e a(jgiun[je, che 32 de'prigioniei i furono d'ordine di Federico fatti appiccare. A questa dolorosa storia si riferisce il seguente testo ch'io già promisi slampare fm dall'anno 1850 (Giornale Arcadico T. 120, pag 153). Ex Margarita Cornetana. Pag. CLXV. In nomine Domini amen. Hoc est exemplum epistole misse dorano cardinali, cuius tenor talisesl: In Xpto patri relimologia troppo dotta, Malo-feram. {1) Parole tedesche o affettanti pronunzia tedesca, cioè: Alt, alt, alt, capte coinet. Alto, alto, alto, prendete i cornetani. (8) Costruzione un pò contorta, che viene a dire: dicìtnt tatts sancto Domino precem veram, atque meram, o ii satis è da cou- giungere con meraw. (9) L A. coniuga censo, censis e intende, areva ordinalo. (10) Che nessuno avesse riguardo al coloro danno- 243 Nana quae agunt Impii fient repentina (1) Et nos oonsolabitur gratia divina. Et lune vox nec strepitus fuit per Cornetum. Orum (2) patres, filii, fratres ad quietum (3) Sunt: (e^) nomo ausus vultu dare fletum, Fidey constantia deponenles nrielum. Tunc Vitalis rabie ac furore plenus Precipit fìdelium fuicis mori genus (4) Dei, qui sunt numero binus et ter denus. Obeunt in domino. Cetus sit serenus. Quorum nota nomina (5). Est Octavianus, Geptius, et Angelus, et Gerardus planus (6), Petrus surdus alacer, ac dura manus (7) , Quisque milex(sic)extitit probu(s«c)sensu canus(8) Angelus Raynerii, magister Mactheus, Magalottus, x^ngelus, et Bartholomeus, Bernardinus, lacobus, Petrus, et Mactheus, Farulfus notarius, quem erexit Deus (9), Et Roliandus lacobi, Rollandus Certensis, lannes olim Stephani, Gilius ut ensis, (1) Fient repentina. Saranno transitorie cose. (2) Sic in vece di Horum. (3) Quietum qui e più sotto sta per quietem. Ad quietum sunt, cioè si tengon quieti. (4) Mori genus per morti$ genus; e Dei par che s'accordi con fìdelium. E forse, senza il punto, cetus sic ec. (5) Nota, imperativo. (6) Planus è agnome o epiteto messo così per la rima ? De- cida chi lo sa. (7) Manca una sillaba. Forse è da leggere ac durata manus per indurita, o meglio atque dura manus. (8) Sensu canus, canuto per senno. (9) Quem elexit, cioè elegit ? 244 Benvetiulus validus olim inoiitallensis. Et Petrus Lelitie fìdus tuscaniensis Pellegrinus^ Scagnus (1) , et Bonaventuia, Ranutius, Gregorius ciiius Dei cura, Petrus Polli iuvenis cuius vita pura, Quidam alter obiit vilatn cum seeura (2), Et Talentus providus, Petrus, Faldubonus (3) lohannes (4) Stanchalcerius fortis, rette bonus lohannes Gualdaldrule (5) cuius parvus sonus. Horutn quisque pertulit inauditum bonus (sic). Igitur, o populi quis iani non stupescit, Quod Cornetum facinus tulit et mutescit, Quara (6) ecclesiasticam fìdem neque nescit, Et spe regis glorie ipsurn non tabescit ? Post Vitalis reditum pariter suoruni Quidam locum properant cito mortuorum, Et caterva remanent sola suspensorum, Et deponunt corpora subito sanclorum, Festinanter deferunt corpora Cornetum Summa cum tristitia. Populus ad fletum Motus equalem (7) , neque dat quietum (8) Sepulturam subeunt, et deponunt metum- Terreant, o populi, ista quae auditis, (1) Scatnbius, per la legge della voce sdrucciola o del daltilo che il verso vuole. (2) fila cum seeura. E sopra f. Petrus Poli, cioè Pauli. (3) Forse l'agnome era Faldabuona o f aldebonus. (4) L. per ragion del verso lannes, come altrove. (b) L. Gualdradulae, nome della madre. (6) Credo sia da scrivere Quum. (7) Anche qui la forza del metro suggerisce di leggere: Mo- tus est aequalitcr. (8) Quietum per quielem come sopra. 245 Duni tiranni rabiem per orbem senlitis. Eidem resistite (l) , qui est anclor (2) litis. Liberi poteritis esse si velitis. Acta sunt haee onrinia tempore beali Pape Innocentii quarti Chrislo dati, Per quem geutes subdite dantur libertaii Et Coinetum subditur Dei majjeslatl (sip). Explicit opusculum. II. Duello giudiziarie. La mouomachia giudiziaria , usata tra nazioni barbare in tempi anche antichissimi, è noto che tra- versò i secoli per venire sino a' tempi anche a noi vicini. Lessi già che in Inghilterra fu solo abolita nel 18]9 , dopoché due anni innanzi un tribunale stimò non potervisi opporre per rispetto (siccome stimò opportuno di dichiarare) all'antica e non an- cora abrogata legislazione, in un affare di certo Thor- ton. La legge era stala in pienissimo vigore fino al 1630. Oggi stesso, quantunque dalle solennità de' giudizi ornai si trovi esclusa, resta purtroppo sotto forma di privata maniera di chiedere soddisfazione d' ogni supposta ingiuria ! Lo statuto di Viterbo del 1251, il qual si conserva MS. nell'archivio mu- nicipale, insieme con un altro del 1469,cos\ ha su questo proposito. (1) Il codice ha reslils. 12] Nel codice è actor. 246 Cnrt. Il : De falsis teslihus reprobnndis Si qua partium in curia Viterbii , aut extra , ve! sallem in causa appellalionis coram iudice liti- gantium, testes adversarii conlra se produclos falsos cognoverit et dixcrit advejsarium scieoter falsis te- slihus usutxi , et instrra (sic f. inslruclum), potesla- tem habeat reprobandi per pugnam centra princi- palem personain, vel adversus eum qui testes indu- xerit, vel conlra tesles. Si aulem testes pauperes in- veniantur ila quod propter paupertatern defendere non possint, ille qui eos produxit illos defendere te- neatur suis expensis super falsitale obiecta. Pugna vero, uti conslitutunr) nostrum admittit (1), ita fiat. Curia Viterbii eligat duos homines equales vel pares de Viterbio, prout sibi videbitur, in viri- bus et personis, et habeat duo paria armorum: unum albi coloris, et aliud coloris rubei, et per sortes, idest per breves scriptos, dieta arma dividat inter illos. Par vero unum ipsorum armorum ponatur ab una parte loci ubi debet pugna fieri, et aliud ab alia parte lo- cetur. Curia vero alia arma aequalia ulrique assignet, «t postea faciat fieri duos breviculos. In uno con- tinealur camphio (2) albi coloris, et in alio camphio coloris rubei; et claudanlur sub cera, et signenlur sigillo comunis, et sic poslea n)andet poleslas. Fa- ciat accipere quamlibet parlem unum illorum , et (1) Constitutum ha nell'inlero volume valore spesso di Stalutum. (2) Comphio, il campione. 247 precipiat sub hanno C librarum cuilibet parlium , aut procuratoribus eius, vel eonim, ut illud in nnanu teneat donec pugnai (sic f. pugnatio pei' pvrjna) iìat, et nullimode aperiantur, ut sciti non possit quis sit camphio unius partis et quis alterius, usque ad tìnem pugne. Verumtamen curia interim bona fide piocu- let, ut fiat conuposilio inlei' parte». Si autetn com- posilio fieri non poterit, finita pugna, precipiat po- testas unicuique parti, ut deferant breves siguatos ad ipsum, et consideret, ne dalum sigillum sit fractum: et, accepto bievi de nrtanu ipsius partis, aperiat pa- lam dictum brevem coram partibus et aliis, ut scialur quis est camphio illius partis , et eodem modo fiat de alio brevi, ut manifeste sciant gentes omnes quis obtinuerit vel amiserit pugnam praedictam. Si aulem poleslati videbitur, teneatur alius mo- dus in pugna, quis [sic f. qui sciliecl) talis est. Praecipiat partibus quod dent duos breves oper- tos qui sigillentur, et denlur duabus personis fide- hbus, de qui bus nulla suspilio mala esse possit. Ipsi vero, quibus danlur sigillati, usque ad finem pugne teneant ipsos breves: vitlelicet quilibet unum brevem, et cui dantur scribatur per notariuni curiae quis illos brevem illius partis a quo recepit (1), ut scia- tur, et duhilatio oriri non possit; et sic in alio aliud cognoscibile signum fiat. Pugna vero finita, polestas breves a singulis fa- ciat apportari, et singulariter illos apeiiat , ut sciat quae pars pugnam oblinuit (2), et quac am;sil. (1) Sin f. quU illos bret^rs illius pitrlis, it n quo recepii, (2) Cioè vieti, come ogiiinio cornpreiulo. 248 Imponatur praeterea bannum ante pugnam C libraium per potestatem ne in datione vel lelentio' ne brevium fraus, aut dolus, aut aliqua naachinatio commiltalur. Pars autem quae pugnam amisit refi- ciat, vel solvat curie omnes expensas factas in dictis armi» et camphionibus siipradictis. Quilibet camphio habeat X libras, sì prò tanto pretio vel salario po- teri! a curia invenlri, et si pugna ad recredentiain venerit (1). Si vero intervenerit compositio^ postquana in caput (sic f. in campum) prosiliunt camphiones , unusquisque eorum habeat XI solidos et non plus. Qui pugnam amisit, sive sit actor, sive reus, eadem pena puniatur; ita quod, si actor, vel accusator suc- cumbat, ea puniatur pena, qua puniri debuisset reus si succubuisset pugna. Qui pugnam amisit cadat causa super qua fuit pugna commissa, et solvat cu- riae prò factione et salario pugne C solidos. Si vero compositio intervenerit, curia C solidos inter ambas partes accipiat. Di nuovo, cart. 7 : Quod omnes cause tractentur per iura romana, et definiantur, excepto homicidio etc. Omnibus huius statuti capitulis observatis, ce- tere cause per iura romana tractentur, et defìnian- tur, excepto homicidio, furto , rapina, commodato, mutuo, et deposito, et maleficio noclurno, in qui- bus pugna fiat, ut in hoc conslituto continetur, ad- mittalur (sic f. et ut in hoc etc), et excepto testa- li) Ad recredentiunif sino alla disdeUa. 249 tweulo , in quo duo vel Ires testes lejjllime ro^jali stifficiant, et si de eo testameulo noa appareal pu-; blicutn instrumentum etc. » E a cart. 10. obt^n/i » De reprobando inslr uniamo per pngnas. )> Itera statuimus, quod si aliquis instrumenlum donationis, testamenti, vel alteiius cuiusque contra- clus, vel obli ^ationea [obli gali onisl j de bonis aperuerit post mortem eius, quod verum aut verisimile non putetur, et heresdefuncti voluerit dicere instrumentum huiusmodi f'ore falsum et probabilur per lestes, aut pugnam, audiatur a potestale vel iudice, vel consu- libus , et probalio (*) , non obslante aliquo capitolo constituti, et hoc locum habeat inter cives. » , E prima: » De pugna » Si contigerit pugnam facere in civilate Vitern bii non tiat per catrphiones foretanos , sed per ci-» ves qui eo (óic.) sinl, et in nostram coliabilent civi- (atem et liat pujjna sicut infra dicetur. » E finalmente: » De maleficiis nocturnis et diuniis » Si waleficium die vel nocle commissum aliter probari non possit, liceat cuique maleficium probare per pugnam, proul inferiori capitulo continelur. » (*) Sic V. haec probatio. G.A.T.CXXVIII. ir t50 Se non che giova a' .sopraddetti documenti ag-\ giugnere questo ultimo più solenne dell'anno 1262, cioè di appena undici anni dopo , tuttora esistente nell'archivio di s. Angelo sotto il n. 196 (sec XIII). » Urbanus epìscopus servus servorumDei dilecto potestati [et) iudici coramunis Viterbii salutem et apostolicam benedictionem. Sua nobis dilecti filii pi'ìor et capitulum secularis ecclesie sancii Angeli de Spata viterbiensis conquestione monstravit, quod QtìXn olim ipsi , nomine ipsius ecclesie, Gratianum Pisani civetti vilerbiensem stiper quibusdam pos- s^ssionibus et rebus aliis coram vobis , non ex de- légaiione apostolica , mixissent (sic) in causam , et ad fundaódam intetìtionem corum , quoddam in- strtìmenlum publicumiin iudiciiim produxerint, idem civis instrumentum ipswm maiitiose de falso redar- guens, id per duellum se obtulit probaturum, sicque vos ipsum ad hoc pretextu cuitìsdam statuti communis Vileibii iuramento firmati centra sanctlones canonicas hi ipsorum pi'aeiudrcium admisistis. Cum itaque mono- ntfachia sit sacri» canonibws interdicta,discretioni ve- stre per iapo»tolica scripta mandamus quatenus si est ila, statuto hìiiusmodi non obstanle, aliis legittirais (sic) probationibus dumtaxat admissis, duelli |jrob- batione (sic) penìlus reprobata , causam ipsam fine debito terminare curetis. Alioquin dilecto filio priori sancti Mathei viterbiensis litteris uoslris iniungimus, til ipse super hoc legitimo servato pjiocessu in ea- dtftn cau^a, «ppellatione remola, previa ratioiie pro- cedai ««t feciat quod deoreverit per (ceasuram eccle- sìasticam firmiter observari. Datum apud urbem ve- 254 lerem X kal. seplenbris poiilificalus uojjtii auou secundo Urbanus pp. mi. » Così pertanto s'abrogarono i citati articoli dello statuto,! quali evidentemente altro non erano, se noa una longobardica costumanza passata nel diritto mu- nicipale viterbese. Imperciocché, cessato anche il lon- gobardico dominio per fatto de' re franchi , e ve- nuta la città di Viterbo sotto la dominazione pon- tifìcia, non è dubbio che nella città nostra conser- vossi a lungo al fianco del diritto romano, od altro quale che siasi, il diritto de'Iongobardi: a prova di che giovami qui addurre la seguente pergamena del- l'archivio di s. Sisto, n. 6. » In nomine Domini nostri lesu Xpli. Anno ab incarnatione eius millesimo centesimo sexagesimo tertio. Temporibus domni Alexandri III papae . . . anno eius quarto, mense martii. Indictione XI. Ego Arleisus qui professus sum ex nalione mea lege vi' vere longobarda Uhi Peponi areliipresbitero sancii Sixti presens dixi: Quisquis in sanclis ac venerabi- libus locis ex suis rebus aliquid contulerit iusta aclo- ris (?) \ocem in seculo centupium accipiet et insu- per quod melius est vilam eternam possidebit. Idea ego qui iam diclus Arleisus iani diete ecclesie san- cii Sixti dono cedo confero et per presentem cai*- » 256 fn una delle copie s aggi aufjc in fine : )) Iteni ponilur in libollo quoti ipse loliannes Mar- chisanus impedivit deslnixit et murari fecit viam ino- leridini sancii Angeli cjuani liabnit ecclesia sancii An- geli in pace et quiete euntes et Iranseunles laui mo- lendinarii quam viri et nouliercs cum (^rano et fa- rina per ipsam tempore XXV annoruna paruna plus ■vel parum minus, salva eie. » E dopo Ciò quest'altra giunta., per la cui collo- cazione è da guardare più sotto : » Ullra fossatum liabilanles, et hec via superius dieta ibat a fossatum (sic) usque ad viam que venit i\ ponte iremu'o et uadit usque ad ecclesiara sancii Luce (luoghi in Vileibo notissimi). » A tutto ciò appartiene da ultimo non manco in pergamena separata il seguente frammento : ì> Coram vobis domno priore sanale Marie Tuder- tinorum partibus auditore et delegato concesso. Pro- ponit presbiter Donadeus canonicus sancii Angeli de Spala de Viterbio tam prò se quam ve yconomoma- tus nomine (la scrittura ha q v ycononom mandato, e sopra., a, maniera di emendazione., noie) pi-o priore et capilulo iam diete ecclesie sancii Angeli. Nomine iam prelibate ecclesie contia lobannem Marcliisciane aduocatum de Viterbo [le parole corsive sono cancel- late nel testo) q. (con un taglio sotto: f. qualiter ov- vero quod) cum ipse Johannes Marchisciane quam- dam viam molendini sancii Angeli iam denominate ecclesie (cancellato come sopra)., que via superius dicla ibat ad fossatum usque ad viam que venit de ponte tremulo et vadit usque ad ecclesiam sancii Luce, quam habuit et tenuit ecclesia iam dieta sancii An- 257 jjeli ili pace et quiete (f. et habuernnt) inde euntes et transeiuites lam molendinarii quana viri et mulieres cum grano et farina ad iam dictum molendinum, et ab eo, spatio XX. V. annorumet ultra impediverit destru- xcrit et murari fecerit, petit nomine iam diete ecclesie lolli et eleuari quicquid positum est uel modifica- tum in iam dieta uia et reapiari destructionem quam- cumque factara in eadem quatenus euntes cum grano ad dicium molendinum et redeuntes cum farina, ut olira XX. V. annorura spalio itum est, eani sine im- pedimento uel obstaculo libere et absolule. Itera petit omne dapnum et interesse quod dieta ecclesia sancii Angeli sustinuit propter destructionem impedimenta et mulationes facta in iam dieta uia ut dictum est quod dapnum et interesse eslimabitur in processu cause. Ilem quod (f. quoad) eumdem dictus presbiler Donadeusyconomus proponit quod cum ipse Johannes Marchisciane nouum opus muri faceret fieri in fossato ubi fuit olim anliquum molendinum et ortum diete ecclesie ab oliueto Farulfi Fraine infeiius in quo muro ex parte inferiori unum filum muratum eratinpie- iudicium iam diete ecclesie nimium et grauamen, et prelibatus domnus [nior iam dicle ecclesie nomine secundum priorem formam per lapillorum iactum iam diclo lohanni Markisciane edificanti ut dictum est denunliaueril nouum opus, et ipse tali spreta deiiun- tiatione pretoria processeril in mutando et in nouo opere conslruendo, petit quodquod edificatum est uel construclum in prislinum slalum reduci, eliam dicium lohannem i)i. alieno conlra formam preloris edifiean- iem secundum formam edicti pimiri. Item petit circa hec (lo scritto ha un h con un taglio neWasta) omne 258 diipnum et interesse quoti estimabilui' in cause proces- su. Item in bis omnibus petit expensas factas et pro- testatur de facieudis usque in Hneni cause. » Sabio iiun. p. etc. ciocché non so se valga salvo int<;rim ctc. o similf Un altro esempio riguarda la prima costruzio- na del palazzo comunale sulla così detta piazza del comune, e l'occupazione in quel tempo di parte del- l'ai'ea e de' fabbricati della stessa chiesa di s. Angelo, la quale diede luogo a non men calda controversia, di cui questi tre documenti credo opportuno qui dare. » In nomine domini amen. Anno domini MCCLXIIl (I. 1*264) ecclesia romana pastore vacante mense octo- bris die VI infrante. Indictione VII (dopo la morte rf' Urbano IV). » Vobis domno Monaldo potestati et capitane© communis Viterbii et vestris iudicibus domnis Egi- dio Leonardo et lacobo et omnibus officialibus ve- stris protestantur proponunt et dicunt prior et ca- pitulum ecclesie sancti Angeli de Spata vilerbiensis quod ordinarium consilium vel statutum quod prio- res vel baliui vel capita artium fecisse dicuntur, et quod parlamentum vel consilium ciuitatis Viterbii dicuntur confirmasse et de nouo fecisse, vel quod uos auctoritate vel potestate uobis tradita forte fé- cistis vel facere intenditis de diruendo edificio vel porticu diete ecclesie prò platea communis predicti, et de terreno ipsius ecclesie occupando prò amplian- 259 da et dllataiida ipsa platea vel sequi vel exequi yel exequutioni mandare non debeatis cura id factum vel faciendum redundet in grave dispendium et ia- cturam ecclesie memorate, et laici» de rebus et per- sonis ecclesiasticis nulla sit ordinandi vel disponendi nulla (sic iterum) facultas. Et si prorsus id facere intenditis petunt quod ante omnia ecclesiam ipsam conficetis {sic) indempnem {sic) , et fiat fili {sic f. illi) compensatio vel satisfactio competens quam ipst prior et capitulum una cum episcopo ciuitatis du- xerint acceptandara, alias a dicto ordinario Consilio vel statuto et ab omni grauamine super promissis illato vel inferendo diete ecclesie uel et comminato ad ecclesiam nominatam uel ad quemlibet alium iu- dicem competentem in scriptis appellant et seipsos et dictam ecclesiam et bona sua protectioni roma- nae ecclesie et cuiuslibet iudicis competeatis sup- ponunt. Cui domnus Monaldus respondit et dicii quod secundum consilium baliuorum datum volebat domno priori. . . . nomine supradicte ecclesie sa- tisfacere competenler. » Actum Viterbii in palatio heredum domni Cyn- tii domni Tiuiosi franlello [sic) iudice Actaraaro canonico. . . . Gemino et Mattheii lohanne domni Bonifatii Monaldo Clerico et Gregorio Sanctensis (.?ic) » Et ego Benevenutus Rubeus lateranensis nota- rius predictis omnibus interfui rogatus scripsi et pu- blicaui. )> In nomine Domini amen. Anno Domini MCCLXV, Temporibus domai Clementis pape quarti mense februarii die V exeunte. Indictione Vili. » In presentia mei notarii ac testium subscri- 26C ptoiLim domnus Vengnente piior ecclesie sancii Arr- oeli de Spala de Viterbio un.i cum capitulo ipsius ecclesie seuliens se et dictam ecclesiam a domno Monaldo Pelli Forlisgiierre potestate et capitaneo communis Vilerbii fere gravalum dissipando poi- ticum diete ecclesie et accipiendo plateam ipsius ecclesie, ab islis et omnibus aliis grauaminibus in se ipsuai nomine suo et memorale ecclesie ad sedem apostolicara appellauit hoc modo. Cum vos Monal- do Pelli Forlisguerre polestas et capitanee commu- nis Vilerbii iniuria et grauamine de graui dampno illalis ecclesie sancii Angeli de Spala \iterbieasi in ablalione platee et lerrilorii, in uiolalione et deslru- clione et occupalione cymiterii, in destruclione rau- rorum et porlicus ipsius ecclesie non contempli (s/c) intendatis per vos et iudices uestros eandem eccle- siam dampnificare amplius, et guastare volendo et disponendo faciem et scalas in territorio diete ec- clesie, et desliuendo arcum diete ecclesie ut etiam balconem et porlicum apolhecarium prò palatio quod facilis prò communi, el silicem et pauimentum la- pideum facere super sepulturas et monumenta ec- clesie supradicte, nec non el moleudinum olivarum ipsius de platea eiusdem ecclesie facere eleuari nos Vengnente prior et capitulum diete ecclesie, tam no- stro quam ipsius ecclesie nomine dampnorum ap- pellalionem, non recedendo, prò dictis dampnis gra- uaminibus et iniuriis que nobis et diete ecclesie in- tulistis et inferre disponilis aut intendilis, ac ne de celerò inferalis, ad romanam ecclesiam appellauimus in scriptis^ et ad quemlibet iudicem competenlem, et nos et predictam ecclesiam et locum prediclum, I 261 et omnia bona sua proleclioni ecclesie romane sup- ponimiis et cuiusdam [sic] iiidicis compelentis, quam appellalionem ipso domnus Monaldus audire con- lempsit. )> Aclum est hoc in palalio coinmunis Viterbii presentibus hiis Petro Massaronii lacobo Kosane Ple- nerio Slephani Rubei hii vocali et rog^ali sunt te- stes. )) Et ego Simon lacobi auclorilate apostolìcc .-^e-r dis nofarius supradiclis omnibus interfui et rojjalus scripsi et publicaui. » Segue nella stessa pergamena « In nominedomini amen. AnnodominiMCCLXVIII. Temporibus doaini Clemenlis quarti pp. mense fé» bruai'ii die VI exeunte. Indictione Vili (V indizione è però sbagliata^ poiché dovrebbe esser la X Forse bisogna leggere MCCLXVf . . . Indiclione Villi. E veramente è più naturale l'attribuire il seguente atto all' anno dopo l'atto precedente , e non tanto tardi quanlo la data della pergamena farebbe supporre). « Inpreseniia mei notarii et lestium subscripto- rum domnus Vengnente prior ecclesie sancti Angeli de Spala ac ipsius capituli nomine ipsius ecclesie et suo nobili viro donino Monaldo Petri Forlisguer- re poleslali et capilaneo communis Viterbii et ipsi communi nec non et laboratoribus suls nouum opus sub bac forma denuntiauit in scriptis: Cum domnus Monaldus FeJri Fortisguerre potestas et capitaneus communis Viterbii hedificet siue hedificari faciat in platea et Icrrritorio ecclesie sancti Angeli prò scalis 162 ad palatium seu domum communis Viterbii in graue dampnum et preiudlcium ecclesie supradicte, nos Venpnente prior ecclesie sancii Angeli et capilulum ipsius, nomine diete ecclesie et pio ipsa ecclesia, inhibemus eidem et tibi Bartholerauctio muratori ipsius dorani Monaldi ac die ti communis, ne am- plius procedatis fodiatis uel hedificetis ibidem, et per iactum lapilli seu lapillorum nouum opus sibi et uo- bis laboratoribus prò dieta ecclesia nuntiamus. » Actum est hoc in platea ipsius ecclesie presen- tibus hiis Angelo de Cillese amatore Calderario Pe- tro Massaronii (lo scritto ha Massaranoi) et hii uo- cali et rogali sunt testes. » Et ego Simon lacobi auotoritate apostolice se- dis nolarius supradictis omnibus interfui rogatus scripsi et publicaui. 263 Cronaca inedita dé'falli d'Italia nel secolo XV scritta da Nicolò della Tuocia. ( Continuazione. ) T liamo a papa Eugenio , ch'il patriarca d'Ale- xandria messer Giovanni Vitelleschi, che poco inan- ti era vescovo di Recanati, naandollo a Todi al conte Francesco Sforza con 1' abate di Subiaco fallo ret- tore del Palrinaonio, e Nicolò Cavalcanti di Fiorenza fatto tesauriero del Patrimonio. Gionti al dello conte ii posero in mano la bandiera della chiesa, et il ba- stone come capitano della chiesa da parte del papa. Il conte ricevuto il confatone assegnò al detto pa- triarca tutte le terre che leve va della chiesa , salvo la Maica, Todi, e Toscanella , le quali con i leni- menti haveva hauto per confirmalione di papa Eu- genio: e questo fu nell'entrata del mese d'aprile. Infra detto tempo il conte Antonio dal ponte Adera accostatosi con Gòlonnesi , et havulo per lui il Borghetto presso Marino continuo guerreggiava contro Roma. Fra l'altre fiate con forse 500 cavalli fé un dì a Roma una correria, e mandò li corritori sino alla porta di s. Giovanni di Roma. Onde li ro- mani «on le spalle di Maso da Fiesoli, e di lacovo da Roma e d'Orsino e di Rinaldo Orsino trassero alla correria del conte Antonio. Simile ci andò Pietro- paulo da Temi, et Antonello d'Asinalunga, contesta- bile di 300 fanti soldati del conte Francesco, e tirando dietro alli corridori fino che fiiriìo giunti al paese largo, il conte Antonio ch'era in aguato con forse 60 cavalli si scoprì a dosso del popolo romano per mo- do che tutti li mise in rotta, e pigliò prigioni de' fo- restieri circa 160, e romani da riscotere circa 60, e con tal vittoria tornò al Borghetto. Era in quel tempo in Roma il cardinal di s. Mar- co chiamato messer Angelolto romano , quale non s'era partito mai di Roma per nulla mutatione fatta, né a lui fu fatta mai novità alcuna , perchè mollo era amato da" romani. Onde nel detto tempo esso cardinale fu citato dal papa dovesse andare a lui a Fiorenza; e così si mosse presto ad ubedire il co- mandamenlo del papa partendo di Roma con inten- tione adoprarsi di menare il papa a Roma. Haveva di più commissione da tutti li signori del paese ro- mano nemici del pajja ch'ogni patto et accordo fa- cea col papa de' fatti loro , essi signori rimanevano contenti. Giunse in Viterbo li 24 d'aprile, e venner per sua scorta li detti contestabili Pietropaolo da Ter- ni, et Antonello d'Asinalunga, et alloggiaro in Viterbo. In quelli propri dì venne in quel di Viterbo Pierbrunoro contestabil del conte Francesco, con 400 fanti: e tuttavia s'adunava gente per andare a cam- po a Montefìascone. Ai 24 d'aprile venne in Viterbo per parte di papa Eugenio l'abate di Subiaco come rettore del Patrimonio. Nel passato tempo era morto il re Aloigi nel reame di Napoli, e la regina morì nel febraro passato. Onde chi più poteva pigliava sue terre. Non inten- diate la della regina fosse moglie del re Aloigi, anzi 2G5 era siala sorella del re Lansilao , e signoreggiava lutto il reame di Napoli. Neli'uUimo di aprile il patriarca suddetto accom- pagnato da Lione e messer Alessandro Sforza, Paolo Todesco, Fiasco, Ciarpellone, Ranuccio di Farnese, Pierbrunoro , Pielropaolo da Terni , et Antonello d'Asinalunga con gente a piedi e a cavallo, circa 2000 persone, misero campo a MonteHascone; e lì gionti, detto Pierbrunoro con suoi fanti et altri delle sud- dette compagnie si disposero voler toccar la porta di Monlefiascone. Onde Giovan da Crema, che era dentro con gente assai, uscì fuori vigorosamente , e fero una gran battaglia a cavallo et a piede, dove fumo feriti assai dell'una e l'altra parte: fumo pi- gliati circa dieci montefìasconesi, e forse altrellanti soldati di dentro. Durando detto campo, il patriarca mandò a Viterbo li fossero mandati 100 guastatori, e ce n'andorno ilO, et entrorno nel stretto di Val- periata, et in 4 dì tagliorno tutte le vigne, olivi , et alberi da fruito di delta valle, et ogni cosa gua- slaro. Ciò fallo, rilornaro a Viterbo, et il campo si mutò alloggiando presso alla fontana , dove poi li toscanesi e bagnoresi guaslorno le vigne e grani, e così durò l'hosle a Monlefiascone sino alli 10 di mag- gio. Poi il detto dì il conte Francesco Sforza mandò cercando Lione et Alessandro suoi fratelli , e Fia- sco , Ciarpellone , Bullrinello , Pierbrunoro , Pie- tro Paolo, Antonello , e tutti i condottieri che era- no in campo e volseli seco, dicendo voleva metter l'ho- sle ad Assisi per assediarvi Nicolò della Stella, e così detta gente partì da Monlefiascone. II patriarca venne nel piano di Viterbo con Paolo Todesco e sua gente, G.A.T.CXXVIIL 18 266 e lì aspettando il cardinal di s. Marco fecq cola- tione, e poi caualcoruo lutti, e fero scorta a detto cardinale sino al lenimento di Siena. Questa partenza del cardinale da Viterbo fu li 10 di maggio , di come sopra. Alli 13 del dello mese, il conte inverso ruppe guerra col prefetto facendo correria a Vetralla, Ca- p^'arola , Ca$ainal<9 i e Carugnaoo , e raccolse gran quantità di Ijoui e prigioni. Il prefetto si mandò raccommandaie al conte Francesco avvisandolo della guerra rottali dal conte A versa. Ma il conte Fran- cesco risposeli, che di quello non si voleva impacr ciare perchè lui non gli era stato leale : e che ha- veva trovato lettere, le quali il prefetto haveva man- dale a Nicolò della Stella contro esso conte Fran- cesco. Nondimeno li fé far tregua per sei dì. Nel detto tempo Micheletto si partì con sua gente dal conte Francesco et andò al soldo del re Ranieri di Napoli fratello del re Aloigi, al qua- le haveva la regina di Napoli lasciato per lesta- mentp tutto il reame, e più 100 mila fiorini d'oro. Onde Ài re di Ragona si mosse a far guerra contro dello re Ranieri, e giungendo a Gaeta con 7 galere aijmato e 4 navi pigliò il borgo et il monte di Gaeta. Nel ideilo tempo e mese, quei di Montofiascone lar- gati dal campo andavano ogni dì facendo guasto alle terre intorno a Toscanella, a Marta , Bagnarea , e Gel le no, e la sera tornavano a Monlefìascone. Alli 26 del detto mese certi da Fabriano uccisero li loro si- gnori che fumo 10 tra grandi e piccoli della casa de Ghiavelli, e deronsi alla chiesa. Il patriarca ri- toraò a Roma, e menò seco Polo Todesco con 100 cavalli sino a Sutri. Polo tornò poi a dietro , e fé 267 una correria a Montefiascone, poi venne a slare io Viterbo, Onde li montefiaseonesi si restrinsero nella sua città, e non andavano più campeg^jiando. Il detto patriarca si fé accompagnare sino a Roma dal conte Aversa: e simile detto conte tornò a Viterbo. Nelli detti dì e mesi , il conte Francesco con tutta sua gente andò a por l'assedio ad Assisi dove stava Ni- colò Fortebraccio,e posesi proprio alla chiesa di s. Ma>- ria dell'Angioli^ et ogni mattina mandava a far fatti d' arme contro Nicolò. Per lo che Nicolò né sua gente per nullo modo non volevano uscire a far bat- taglia , perchè non si fidava de' cittadini d' Assisi havendoli maltrattati, e fattine moiire circa 40. Ha- veva dello campo vettovaglia da Perugia, da Fo- ligni, et altre terre più per paura che per amore. Avvenne li 4 di giugno ch'un cittadino di I\Ion- tefiascone, chiamato Leonardo Lauarello, hebbe un seguito di 100 montefiaseonesi, e con armata mano levorno romore dentro, e gridaro : Viva la chiesa. Per spazio di mezz' hora vinsero Montefiascone e deronlo alla chiesa; et un eerto messer Gualtieri, che era dentro per Nicolò luogotenente con alquanti fanti, hebbe licenza andarsi con Dio con tutte lor robbe: e così prestamente andaro a Viterbo a far- ne avvisati li viterbesi e procurare il salvo condotto a delti fanti, che fulli conceduto, e così si diedero alla chiesa , di che fu fatta festa. Similmente Piti- gliano e Sorano che si tenevano per il conte Al- dobrandino: qual conle teneva prigione Gentile della Cervara in Bolseno, e per mezzo del conte France- sco Sforza fu liberato, et accordossi alla chiesa, ove prima si teneva con Nicolò Piccinino. Questo Nicolò, volendo far levale il can)po da dosso a Nicolo del- 268 la Stella in Assisi, con 6000 tra fanti e cavalli sol- dati del duca di Milano si mosse di Lombardia, et andonne in Romagna. Laonde il conte Francesco sentita la sua venula mosse sua lioste, e mandò Lio- ne a Todi con alcuna gente, e lui n'andò in Ro- magna contro detto Nicolò Piccinino. Fratanto Ni- colò della Stella con quella gente ch'aveva si mos- se d'Assisi, e mise campo a Montefalco nell'entrata del mese di giugno. Giunte a Roma le novelle de' fatti di Monte- fìascone, il patriarca ne fé gran festa e subito fé far pace tra Orsini e Colonnesi, e fé tregua con Castel- novo per 8 mesi, e pacificossi con Battista Savello, e tutto il paese romano mise in pace. Poi il conte Dolce di Ronclglione e sua gente si partì di Roma, e giunse a Viterbo li 6 del detto mese. La seguen- te mattina n' andò a Monlefiascone e fé patti con Orbieto, e Beltramo della Cerbara fé tregua per tre mesi. Poi pigliò 3 preti e 4 cittadini di Montefia- scone partegiani di Nicolò, e gli mandò prigioni a Viterbo, et adunò seco Polo Tedesco, il conte A ver- sa, il conte Dolce suo fratello, Maso da Fiesoli, Gior- gio da Nargni et altri condottieri, et andò a metter campo a Vetralla, ove era il prefetto di Vico li 13 di giugno, e guaslolli tutte le biade di quell'anno. Alli 23 di detto mese si parli detto campo et andò a Casamala, Caprarola , Carugnano , e Giugnanello, e simile tutte le biade li guastò. Avvenne in quel tempo che stando il conte Francesco Sforza presso a Bologna, come già dissi, contro Nicolò Piccinino li 27 del suddetto mese, s'aftronlaro insieme a far battaglia durando fino a 22 bore. Lifine il conte vin- 269 se la pugna, e ruppe le brigate di Nicolò, e pigliò 4 suoi condottieri capi di squadre, e gran quanti- tà di prigioni: guadagnò *iOO cavalli, e 36 huomi- ni d'arme. Fra quelli dì il patriarca fé fare una correria a Vetralla, e fé pigliare quante femine po- terò trovare, onde in un dì ne furo menate prigioni a Viterbo 50 femine. Lione Sforza con altri con- dottieri, circa 600 cavalli, si partì di Todi li 21 di luglio, e fece una correria a Foligni, e tolseli gran quantità di bestiame, e 200 prigioni da riscotere, e mandolli a Montefalco, e lui si pose in assedio a Foligni. Perlochè Corrado Trinci signore di Foli- gni subito mandò a Nicolò della Stella a città di Castello, et avvisollo del caso avvenutoli chiedendoli soccorso. Onde Nicolò si mosse con 700 cavalli tra suoi e di Francesco Piccinino figlio di Nicolò , e questa gente di tratto n'andò a Foligni , e gionta una domenica su l'hora di vespro alli 24 di detto mese trovò il campo di Lione stare sprovedulo , e lui giocare a scacchi. Onde dettero a dosso al cam- po e subito lo ruppero, perchè tutti l'huomini d'ar- me erano disarmati, de'quali pigliaro gran quantità togliendo tutte l'armi, e cavalli che pottero bavere, e ferirno Lione in lesta sconciamente, e così ferito lo menomo prigione in Foligni : per la qual cosa il patriarca mandò a Todi per difesa del paese Polo Todesco e Giorgio da Nargni con sue compagnie. Non passar molli dì che il patriarca mandò Orsino et il conte Dolce con lor genti a campo alla Tolfa, che era del prefetto, et hebbela alli XI d'agosto e fella scarcare. Poi mandò a campo a Vetralla il con- te A versa, e Paolo della Molara con lor genti. Fé 270 questo per cagione che vefrallesi havevan fallo una correria pochi dì innanzi a Corneto, e cornetani es- sendone avvisali li colsero in mezzo, e pigliar© quasi tuUi li vetrallesi, et un contestabil de' fanti chiama- to Gallo Spagnolo , e meneron li tutti nella terra prigioni. Hora torno alla guerra di Napoli. Sendo morta la regina, e rimaso il reame per successione al re Ranieri di Francia, questo non poteva prender pos- sesso per la guerra che li faceva il re di Ragona, il re di Navarra, e l'infante di Castiglia, suoi fratelli carnali- Simile si teneva con loro il duca di Sessa, il prencipe di Taranto, il duca d'Atri, e messer Cri- stofano Cattano , e molt' altri baroni del detto rea- me. Ma la corte di Napoli si teneva per lo re Ra- nieri, et haveva a suo soldo messer lacovuccio Gal- doro, Micheletto da Cotognola, Ardizone figlio del conte di Carrara, et altri capitanii, e continuo fa- cevano guerra contro il re di Ragona; e perchè detto re Ranieri per povertà non poteva fare sua difesa,. si raccomandò al duca di Milano, che gli desse aiu- torio: esso duca manteneva la guerra suddetta et il re Ranieri andò a stare a Genova città del detto duca di Milano. \i Avvenne che il re di Ragona con 20 navi, et ntia grossa armata per mare e per terra andò ad assediare Gaeta, e pigliò certi borghi. Erano in Gaeta per difesa circa 3000 persone a cavallo et a piedi. Li genovesi sentendo detto assedio di Gaeta si mos- sero con grande armata, et andorno a Gaeta per mare, et affrontandosi coll'armata del re di Ragona dopo lunga battaglia ruppero le genti del detto re con 271 torli 14 navi, et abbrugrarne 3. Pigliorno Vi re di Ramona e di Navarra , il comenclator di s. lacamo, il duca di Sessa che era signore di 400 terre , il prencipe di Taranto, signore di 500, e 35 baronini, e ben 200 cavallieri a speron d'oro, e furo morti dell'una parte e l'altra circa 5000 persone, e fu per li detti genovesi guadagnata gran quantità di robba, e fornimenti di navi. Fu detta rotta ai 5 d'agosto in venerdì 1435. Ci furo anco pigliati 500 prigioni di stima, che erano signori. Fui'o de' genovesi 12 navi, 4 galere, et altri legni numero IT da far guer* ra per mare, et erano armati oltra misura. In quelli di Nicolò della Stella, dopo la vittoria contro Lione, andò a campo a Monlefalco, e fu con lui il signore di Fuligni; e non potendosi tenere quei di Montefalco per mancanza d'acqua, fero patti, et accordaronsi con detto Nicolò con patti eh' urt condotiiere del conte Francesco chiamato Francucdio da s. Severino, che vi era dentro per la chiesa con 130 cavalli e 200 fanti, se ne potesse andare a salva- mento con tutta la robba. Cosi il detto Nicolò li fé salvocondotto. Dall'altro lato mise persone in aguato', e fé pigliare li passi, et ammazzare detto Fran^tìé* ciò, e tutta sua gente robbare. Hora rinforza il campo di Vetralla, et andocci il conte Dolce, Orsino, Poncello Orsino, et il patriar- ca li 17 del detto mese. In quel tempo fu fermata la pace tra il papa, venetiani , e fiorentini col duca di Milano , e tutti suoi seguaci. Fu bandita in Viterbo li 24 d'agosto.. A questa pace Nicolò della Stella non volse slare : anzi subito fé una correria a Camerino eh' era del 272 coule Francesco SForz.i. e pigliò gran quantità di pri- gioni e bestiami, Poi se n'andò in un luogo presso Ser- ravalle con 1000 cavalli, e 500 fanti per condurre a salvamento detta preda. Nelli quali dà il conte Fran- cesco sentito che Nicolò non voleva stare alla pace, subito lo mandò contro 1000 buomini a cavallo e 500 fanti sotto la condotta del Taliano suo capitano, la qual gente cavalcando di tratto 74 miglia giunsero presso a Nicolò, che havendola sentita subito si mise in pun- to con sua gente, e ferono insieme un bel fatto d'arme. In spatio d'un'hora fu ammazzato Nicolò della Stella dalla gente del Taliano, e rotta tutta e presa la sua compagnia, salvo il tiglio di Braccio che fuggì con una squadra di 200 cavalli a Vissi. Furono trovati a bottino, guadagnati per Taliano, 800 cavalli, e ri- scossa tutta la preda. Poi n'anaio ad assediare detto tìglio di Braccio .scampato. Tal lolta fu li 24 d'ago- sto in mercoldì. Il primo che si trovò ad uccidere detto Nicolò fu Foschioo da Cotognola, e sopragiun.sero l'u-scili dji Perugia , che lo tagliaro tutto in pezzi, cosi fu messo dentro un sacco. Messer Ales.sandio Sforza molti bracccschi ammazzò di sua mano a man .salva per vendetta di quanto Nicolò haveva fatto della gente di Leone , e per la morte data a Fiancuccio sotto il salvocondotto fattoli, lua stato detto Nicolò grand'ho- micidiale , et haveva fatti gua.stare molt' huomini , e quante terre gli venivano alle mani tutte le las- sava disfatte. E così come havete udito per le mani di Foschino fu finita sua crudeltà. Questa battaglia fu fatta nella valle di s. Angelo. Essendo il conte Carlo figliolo di Braccio a.s.sediato in Vissi^ ove per la rotta era fuggito, per spatio di pochi dì fu acqui- 273 stato Vissi dalla gente del conte Francesco. Hautn qncsta vittoria il Taliano andò a nnellei' campo a Montone che era stato di Nicolò. Per la detta rotta Montefalco si ribellò, e tornò in mano delia chiesa: così altre terre in quel punto tornaro alla chiesa, Nell'ultìojo d'afyosto, stando già il campo a Yetralla, con consentimento d'alcuni della terra, la gente del patriarca entrò dentro, e gridorno, Viva la chiesa: e subito senz'altra contesa fu acquistata la terra. Onde il prefetto con altri soldati forestieii fuggirno nella rocca, e subito fumo assediati. Poi il medesimo dì detto prefetto scese dalla rocca con dui suoi figli rendendosi al patriarca, e fu mandato prigione nella rocca di Soriano. Nelli detti dì Casamala,Caprarola,Carugnano, Giu- gnanello, Vallerano et Orchie tutte si derno alla chiesa. Castiglione eFichinos'arrenderno alla chiesa a quelli gentilhuomini d'Orbieto di chi erano prima, che gli havesse Nicolò della Stella. Alli 28 di settembre fir tagliata la testa al prefetto lacovo da Vico nella piazza di Soriano, e lui disse prima fosse portalo il suo corpo a Viterbo , e sepellito nella chiesa di s. Maria in Gradi. E così fu fatto alli 29 del detto giorno di s. Angelo, e furonli fatti grandi esequie. Rimasero prigioni nella rocca di Soriano tre suoi figliuoli bastardi; et un figlio bastardo stava nella compagnia di Micheletto da Cotognola , et haveva per moglie una figlia di detto Micheletto. Altre per- sone non rimasero di sua stirpe. In quelli tempi Imola e Forlì si derno al papa e simile Bologna cercava accordarsi. Perlochè il conte Francesco Sforza si tirò indietro, et andossene nella Marca; perchè in Roma- gna era cessata la guerra, e lui teneva la Marca in 27/i vicariato del papa, e poi tornò infra Bolojjna et il castello di s. Giovanni. Il patriarca liaule le vittorie del prefetto mandò Orsino e Paolo della Molara con sne (jenti, e mise campo a Vilorchiano, e fjuastolli tutte l'uve delle vigne. Questo fé perchè li vitor- chianesi non erano stati leali nella guerre passate. Essi s'accordorno pagando 1200 fiorini d'oro al pa- triarca, e portar© a Roma 500 some di grano. Dopo il campo si partì, et il patriarca tornò a Fiorenza. Hora per consentimento del papa si mosse un certo messer Antonio Malto da Cotognola , e par- tendo d'Acquapendente andò in quello d'Oibieto, e tolse un castello del vescovo d'Orbieto chiamato Mon- torio: poi ruppe guerra contro orbieto , e continuo Io predava, dicendo che faceva guerra per lui. Que- sta contesa hebbe perchè orbietani nella guerra pas- sata s'erano dati a' nemici, cioè a Nicolò Piccinino. Come dian;;i dissi il figliolo di Braccio, perduto Vissi, si ricoverò in Assisi: e poi per mezzo de'fio- rentini con salvocondotto andò al papa, e l'assegnò ttitlie le sue terre che teneva liberamente. Et il papa li donò Montone che era di suo paternale: e fé capitoli col papa che non potesse tenere più di 25 cavalli e felli liberare Lione Sforza che teneva prigione, e così parli da Fiorenza, et andò a Montone. Tra il qual tempo il conte Francesco Sforza con 200 cavalli andò a visitare il papa a Fiorenza, dove li fiorentini li fero grand' honore di giostre e d'armeggiare, e presenfaronli cavalli, edrappi di seta d'oro et argento per valuta di 20 mila fiorini d'oro. In questo tempo il papa hebbe Bologna, e fé pace: et il papa donò al conte Francesco Barbiano presso a Cotognola , et il conte partì da Fiorenza. Man dò poi il papa 275 alli 15 di novembre al comune di Viterbo che do- vessero scaricare la rocca d'Orchie, e subito fu sca- ricata. Nel detto mese et anno il conte Aversa da Ronciglione comprò detraila con suo lenimento da papa Eugenio per prezzo di settemilia fiorini d'oro. Hora torno al re di Ragona , e 1' altri signori che furo pigliati nel mare di Gaeta , e menati pri- gione al duca di Miiano, quale gli mandò incontro carri nobilissimi e bene adornati, e felli metter suso, e felli, entrare in Milano con grandissimi onori , e subito li fé liberi; e spese in sì fatta festa circa 40 mila fiorini d'oro. Di che il re di Ragona e l'altri signori n'hebbero grand'allegrezza, e fero promessa al duca di fare con lui una lega di bene e di male. E così a loro volontà si partirno. Il re Ranieri, che haveva sentila sì fatta rotta, volse seguir sua guerra, et an« dare nel reame di Napoli; e perchè non poteva far r impresa senza licenza del re di Spagna , perchè era suo prigione , mandò al re di Spagna per li- cenza, quale era parente dal re di Ragona, dove non Ij volle concedere altrimenti l'imposa, anzi lo ritenne con lui. Venetiani e fiorentini per dispetto del duca di Milano cercaro di mandar la moglie et il figlio del re Ranieri a Napoli, e così fero. Onde essendo delta donna in Gaeta, li gaetani uccisero un loro governatore genovese, e deronsi alla regina predelta. Hora r infante di Castiglia si mosse di Sicilia cor» un'armata, e venne a Gaeta, e la moglie del re Ra- nieri .subito n'andò a Napoli, ove fu ben ricevuta. Tra il qual tempo il re di Ragona si misse in punto con una grossa armala per andar contro Io reame di Napoli. Le predelle cose furono nell'anno 1435 di 276 dicembre. E più l' infante di Castiglia fra'lelfo dei detto re prese per moglie la figliola del duca di Milano. 1 In quel tempo fu fatta città Corneto, che prima era terra sotto al vescovato di Viterbo. Venuto il gcnnaro del 1436 il patriarca si partì di Fiorenza, et andonne con 1000 cavalli e fanti a campo al borgo di san Sepolcro , che lo teneva il conte di Poppi socero stato di Nicolò della Stella, e non lo voleva rendere, pretendendo dal papa X mila fiorini ch'haveva speso nel detto borgo per guar- datura nel tempo che visse detto Nicolò. Però v'andò detto campo: et in termine d'un mese s'accordò detto conte di Poppi a fare quello che volse il papa. Havendo il duca di Milano, come dissi, rilas- sati il re di Ragona e l'altri signori pigliati dall'ar- mata de genovesi, questi 1' ebbero per grandissimo dispetto : e pertanto si ribellorno dal detto duca , sotto la cui compagnia prima stavano. Onde il duca li mandò adosso circa i8 mila persone in hoste, e dopo lunga battaglia insieme li genovesi furon rotti, e pigliatine circa 5 mila tra cittadini e forestieri , et in questa rotta ci fu per il duca Nicolò Picci- nino, uno de' più savi et avvisati capitani d'Italia in quel tempo. Ben pareggiava di senno il conte Fran- cesco Sforza, ma non di possanza, perchè era strop- piato. E cos'i il campo si forni adosso a genovesi. Hora si sono li genovesi raccomandati alla lega de've- netiani e fiorentini. E così li fiorentini li mandorno in aiutorio Cristoforo di Nicolò da Tolentino con certa quantità di cavalli e fanti , e Balduccio con- 2TT leslabil di fanli, dando nome ch'erano genti casse (sic), et in più modi hebbero li genovesi aiutorio. Era in quel tempo il re di Ramona venuto a Gaeta contro la della regina, la quale era obedita dalla maggior parte, o forse da tulio il reame , che confinando con Ascoli della Marca tira per l'Abruzzo, Puglia, e Calabria sino a confini veiso Sicilia. Hora vi conto come romani maodorno un'am- basceria al papa con circa 40 cavalli pregandolo volesse tornare a Roma, perchè romani eran disfalli, et im- poveriti per la guerra che li faceva tutto il dì il conte Antonio dal Ponte Adera, quale teneva Marini, e gran parte di campagna. Il papa li suggerì che prima voleva andare a Bologna, havendolo promesso a bolognesi quando hebbe delta città , e consenti fare una cittadella: poi promise partir di Bologna, e tornare a Roma. Questo fu di genoaro e tornarono poi di settembre. Venuto Mario Orsino e Paolo della Molara si partirno dal patriarca con loro gente , et andorno nel reame di Napoli al soldo del re di Ragona contro il re Ranieri, cioè sue genti. Di poi li romani perderno porla Maggiore tol- tali per Iradimento da certi romani, e si teneva per il prefato conte Antonio. Havendo il patriarca ciò sentito, subilo si mosse con sue gente, et andò a Ro- ma , e racquistò detta porla , e poi mise a quelle terre di là da Roma: e fece scaricare Albano , Sa- uello, il Borghetto, e Castel Pandolfo(sic), e poi mandò cercando più gente, et andoronli 3 condottieri con 500 cavalli, li quali s'erano partiti da Cristoforo di Ni- colò di Tolentino, et andorno del mese d'aprile, e ciò 278 sì fece per assediare detto conte Antonio. Il patriarca lassò dette brigate per alcuni (di), e luì se ne venne a Corneto per entrare in possessione della rocca di Civitavecchia, che la teneva in pegno Braccio Maz- zatosti da Viterbo per 15 mila fiorini d'oro. Onde il patriarca venne a sodisfare detti denari, e pigliar la rocca per il papa. 11 papa si partì da Fiorenza, et andò a Bologna li 18 d'aprile, e giunse alli 22, e li fece fare una cittadella di novo. Il patriarca non potette bavere la rocca di Civitavecchia, perchè Brac- cio non la volse dare sino che non haveva li suoi denari. E cosi il patriarca tornò a Roma. Poi detto Braccio assegnò la rocca al papa. In quel tempo il patriarca ordinò far scaricare Casamala, castello presso Ronciglione, qual faceva circa cento fochi. Cosi fu data licenza a tutti li mas- sari che si portassero tutte le loro robba, et andas- sero a stare in terre della chiesa: e cosi fu fatto, e fu scarcata, e messa in mano del conte A versa da Ronciglione in calende di maggio. Questo fu fatto perchè loro volevano recettare le genti d' Antonello da Siena fratello consobrino del prefetto, quale An- tonello slava al soldo del duca di Milano. Partissi poi il patriarca con sua gente, e lassò nel patrimo- nio il conte Aversa, e lui andò presso a Piperno e Sermoneta , dove stava il conte Antonio da Ponte Adera nemico delia chiesa: et haveva con lui 500 cavalli, e 2000 fanti. Il detto conte Antonio, sen- tendo il patriarca appresso, subito mandò ad Orsino, et al conte Dolce dell'Anguillara, e Paolo della Mo- lara, quali stavano al soldo del re di Ragona, una lettera, acciò loro dovessuro venir presto per roni- 279 pere il patriarca; e per la gran voloDlà che n'haveva non li \olse aspettare: anzi arditamente con sua gente si mise in punto; et assaltò il patriarca, quale si mise in ordine , e fesseli incontro con sua gente com- mettendo la prima schiera a Polo Todesco , è così gli altri poi srguitorno. Ilora aflìontata 1' una parte e l'altra, Polo non poteva resistere. Mandò al patriarca che li inviasse aiuto, che riceveva grand'af- fonno, et il pratriarca subito providde, e mandolli gente fresca, da quale il conte ricevè gran stretta, e nondimeno con una scimitarra in mano faceva così gian ferire, che per forza sosteneva i suoi nemici, come se proprio Ettore fosse stato. Onde il patriarca non potendolo rompere mandò una squadra di gente ar- mata, circa 100 cavalli guidali da Gabriello, et en- trò nella battaglia per costa: ondo fu cagione di met- tere in rotta la gente del conte Antonio; et in (ine esso conte fu pigliato per forza con questi princi- pali signori, cioè Ventura d'Olivetto, Honorato Gae- tano, Francesco S avelli, il ncpote di detto conte, et il figlio di Cazanto, il genero del Riccio da Monte- chiaro, il figliolo di Paolo da Celano, e tutta Tallra gente d'arme , e la maggior parte di quelli fanti. Seguì tal battaglia li 15 maggio lASG, e così vit- toriosi fumo consegnati li prigioni in mano del pa- triarca, il quale dopo alcuni dì fé impiccare detto conte Antonio ad un olivo, e racquislò tutte le terre che teneva in campagna. In quel proprio dì Rienzo Colonna, che s'intendeva col suddetto conte, non sa- pendo niente della rotta per Ì^ir ritirare il patriarca si mosse da Palestrina, e corse a Roma , e mosse guerra alla chiesa: e poi n'andò a Civita Lavinia. 280 Onde 11 patriarca dopo la vittoria andò ad assediare (letto Rienzo, quale fuggì in Palestrina, et il patriarca andò assediare Palestrina, e lì si rinforza va tuttavia, e cresceva gente al cannpo. Tra l'altri v'andò Lo- dovico Colonna al soldo del patriarca, e durò l'as- sedio perfino passata s. Maria d'agosto. Perlochè li palestrinesi non potendo più tenersi per la fame fero patti col patriarca, che Rienzo Colonna potesse an- darsi con Dio con tutta la sua fameglia e robba a salvamento a Gaeta, dove stava il re di Ragona. In questo modo il patriarca hebbe Palestrina , e tutte l'altre terre che teneva Rienzo sotto sua signoria. In fra questo tempo Francesco Piccinino, che stava in quel di Siena con 1000 cavalli, si mosse a pei- titione del re di Ragona, e passò per quello di Pe- rugia e Foligni, et andò alla Matrice , che subito l'hebbe volontaiiamente, e così Montereale: et in suo aiuto venne Menicuccio dall'Aquila e Riccio da Mon- techiaro: raccolsersi fra tutti 2500 cavalli, e 1000 fanti. E così n'andaro a metter campo all'Aquila a petitione del re di Spagna. Però l'aquilani mauda- ronsi a raccomandare al patriarca, e subito li man- dò in soccorso 500 cavalli e 500 fanti. Onde il po- polo aquilano insieme con questa gente si fé levare il campo da dosso. Ma la gente del re di Ragona si mise nelle terre vicine all'Aquila, e di continuo li facevano guerra. Onde di novo l'aquilani si man- dar© a raccomandare al patriarca, et egli con sua gente n'andò all' Aquila. Sentendo la sua venuta Francesco Piccinino subito si ridusse con i suoi a Monlereale, e lì si fé forte, et il patriarca se gli pose in assedio. Menicuccio e Riccio con sue genti ancor 281 loro si ridussero a civila eli Penna, et il patriarca li mandò aciosso Antoniuccio dall'Aquila de Canopo- resi, e Ramondo Galdoro con lor gente, e li fece assediare. In questo modo fumo le genti del re di Ragona rinserrate per forza: spesse fiate facevano bei fatti d'arme insieme. Ma tuttavia il campo del patriarca cresceva di gente , et il popolo aquilano ancora andò all'assedio di Civita della Penna. Sendo detta guerra continuamente nelle montagne aquilane, nel detto tempo fu ordinato un trattalo contro il conte Francesco Sforza che slava nel paese di Bolo- gna a petition del papa con tutta la sua compagnia. Presso di lui stava Nicolò Piccinino a petitione del duca di Milano, e nemico del conte. Dall'altra parte il papa faceva radunar gente d'arme sotto il governo e commissione di Baldassarre da Offida, e ci erano questi capitani, cioè Pier Giovan Paulo, quale con buona licenza s'era partito dal duca et acconcio col papa, et il signore di Faenza: in tutto 2000 cavalli e 2000 fanti. Hora il conte Francesco havendo da ricever denari per lo soldo suo dal papa, li fé do- mandare: e più domandava li facesse prestanza per lo tempo a venire. Il papa li mandò a dire che lui venisse a Bologna che lo faria pagare. Il conte ha- vendo sospetto della vita sua non volse andare, e cercando modo con suoi amici trovò che lui do- veva essere ammazzato, e doveva mettere in esecu- tione detto trattato Baldassarre da Offida commissa- rio del papa per la guerra suddetta. Onde il conte Francesco con grand'ira si mosse un sabato sera con sua gente, et in una notte cavalcò AO miglia presso dove era il campo del detto Baldassarre. Domenica G.A.T.CXXVIII. 19 282 mattina gionto fu sentito da detto Baldassarre, quale subito si mise in punto con sua gente , e per un poco fero un bel fatto d'arme. Infine il conte fu vin- citore della pugna, e ruppe li detti capitani, e pi- gliò tutta la gente, salvo il detto Baldassarre, Pietro Paulo et il signore di Faenza , quali si ricovrorno in un castello detto Butrone. Il conte seguendo loro pedate n'andò al detto castello et assedipllo intorno, e mandò un suo trombetta dentro al castello a dire che l'assegnassero li pi igieni alti imente lui li piglierà per forza et abrugiarà il castello. Onde li detti ca- stellani per paura piglioino li delti capitani, e roan- daronli prigioni al conte, qual fé martoriare Baldas- sarre , e trovò onde veniva il trattato , e mantollo prigione a Cotognola. Poi montò a cavallo, et andò verso Romagna , et alloggiò nel luogo dove fu la rotta. Questa battaglia segui a 16 di settembre. Guadagnò il eonte tutti li cavalli et arme di detta compagnia, fumo 4000 persone. Di questa mutatione andò subito la novella al patriarca; onde si levò su- .subito di campo, e restrinsesi con sue brigate verso l'Aquila- Francesco Piccinino uscì di Montereale, et andò verso Civita di Penne, ove poi con li suoi com- pagni faceva aperta guerra con quelli del patriarca e dell'Aquila. Hora il conte Francesco voleva in tutto esser nemico del papa. Per la qual cosa venetiani , fiorentini, e genovesi tutti mandorno loro ambascia- tori a pregarlo non si volesse deviar dalla lega, et essere nemico della chiesa. Di che il conte rimase contento. Nicolò Piccinino, vedendo che il trattato con- tro il conte Francesco non era riuscito, con sua genie 283 ancìos.sene a Lucca, et li conte andò alloggiare a Pisa: e tuttavia stavano sospetti uno dell'altro. ./ Torniamo al patriarca, che vedendo non poter bavere nelle mani li detti capitani nemici dell'Aquila andò con sue gente nella valle di Oliveto, dove il Riccio predetto teneva molte terre, et in poco tempo tutte le acquistò a se, e continuo la guerra segui- tava nel paese dell'Aquila. Hora il conte di Maniera move guerra all' Aquila drizzando le bandiere del re di Ragona. Onde il patriarca si partì dalle ter- re del Riccio et andò a s. Germano , et ivi ra- dunò sue genti, e riposossi, perchè li cavalli della sua compagnia stavano male in punto. Et il conte Aversa si parti con buona licenza dal patriarca e tornò a Ronciglione. Terminato novembre il conte Francesco Sforza finio sua ferma col papa, et accoo- ciossi al soldo della lega de fiorentini e venetiani per cinque anni, et un anno a beneplacito, con 3 mila cavalli e 2 mila fanti con patti, che non deb- bia far mostra, e suoi cavalli non siano boUettati, et ogni mese habbia a ricevere 15 mila fiorini d'oro, et a primavera la prestanza di 50 mila fiorini, et esser capitan generale delle genti della lega, e se per caso fosse rotta gvierra alle terre sue, la lega lo debbia aiutare: e se la lega facesse pace col duca di Mi- lano, al conte sia lecito pigliare quale impresa più li piace, salvo che contro la detta lega, o a se rac- comandati. Stando dunque il conte al soldo della lega, si mosse Nicolò Piccinino capitano del duca, di Milano con circa 6 mila persone, e facendo guerra con le terre de' fiorentini , il conte se li mise alle frontiere, perchè Nicolò non potesse passare il fiume 284 Arno. Onde Nicolò si mosse et andò in assedio ad un castello de' fiorentini chiamato Varchi tra Lucca e Pielrasanta, e lì faceva al castello grand' oppres- sione con bombarde e cerli bastioni. Il conte Fran- cesco, facendo vista voler soccorrere il castello, mandò circa 1300 persone a piedi et a cavallo sotto con- dotta di Nicolò da Pisa suo compagnone , e Ciar- pellone suo famiglio. Andando li dui condottieri con- tro Nicolò a Varchi, e vedendo il favore d' alcuni contadini del paese, si dettono a dosso al campo di Nicolò et in poche bore lo ruppero e levar di campo togliendoli tutti loro carriaggi e bombarde : gua- storno li detti bastioni e pigliorno il figlio del mar- chese di Mantova et altri condottieri, e guadagnorno assai cavalli, e con questa vittoria tornorno al conte Francesco. E questo fu di vencidì lì 15 di febra- ro 1437, e Nicolò si tirò indietro coH'altra gente ri- mastagli. Il conte Francesco mandò a metter campo a monte Carlo in quel di Lucca, e fé una correria in una valle pur di Lucca, e raccolse una gran quan- tità di bestiame. Il Patiiarca, che era stato un buon pezzo in Cor- nei©, a quel tempo n'andò a Roma, e trovando di novo fatto certo trattato a Palestrina deliberò farla abbrugiare e scaricare^ e così fece. E li massari della terra con tutte le loro robbe andaro ad habitare a Roma e per l'altro paese intorno , e questo fu nel- l'ultima settimana di marzo. Il re di Ragona, facendo gran guerra nel rea- me di Napoli per acquistarlo a forza, mandò per pi- gliare un castello di quelli di Napoli, ove fu fatto 285 un iraltato doppio , e furo presi quelli del detto re circa mille fanti con alquanti cavalli , e tutti furo menali le^jati a Napoli. Slava al soldo del re Ranieri il figlio di messer lacovuccio Galdoro, et era dentro Napoli con 800 cavalli. Il detto messer la- covuccio favoreggiava il detto re Ranieri , e così lutto il reame stava in guerra, salvo le terre che as- sai CI teneva il conte Francesco Sforza, che ninna delle parti l'offendeva. Durante dunque tal guerra del reame, il pa- triarca si mosse con tutta sua gente per andare in soccorso del re Ranieri contro il re diRagona; e non potendo passare perchè il Riccio da Montechiaro '•mpediva il passo, ruppe guerra con lui , e pose I assedio a Ciprano, et infine non potendolo bavere s'accordò col Riccio facendo tregua per tutto settem- b'-e. Così passò et andò a Cepua guerreggiando con la gente del re di Ragona che stava in Gaeta Fu di maggio. In quel tempo, come dissi, il conte Francesco Sforza sendo a campo e monte Carlo, a petitione de' fiorentini si partì, e pigliò tutti l'altri castelli in quel di Lucca, e poi assediò Lucca e misela in gran- de stretta. Ma sentendo la venuta di Nicolò Picci- nino con assai gente, si partì di Lucca, et acquistò monte Carlo: poi n'andò a pararsi a' passi a Pontre- moli, acciò Nicolò non potesse passare. Nel mese di luglio, il patriarca havendo pi- gliato a forza monte Corvo Io mise a saccomanno, e facea continua guerra col re di Ragona; disponen- dosi voler rompere il campo del patriarca, andò ad aspettarlo. Onde il patriarca facendo resistenza vigo- 286 rosaaaente, e durando la battaglia 7 bore, infine fu vincitore, e prese il prencipe di Taranto con X si- gnori, e più 500 prigioni incirca, e per tal peidita il prencipe s'acconciò al soldo della chiesa col pa- triarca vincitore, lui, e sue terre, che ne teneva più di 300, e cos\ si fermò ad assediare il re di Ra- gona che stava in Capoua. Questa vittoria del pa- triarca la fé bavere Foschlno di Cotognola, che era capitano e generale governatore delle terre del conte Francesco nel reame di Napoli. Il patriarca fé pa- cificare insieme il prencipe di Taranto con messer lacovucclo Galdoro stati longo tempo nemici. Passò il patriarca sotto Napoli 200 miglia sem- pre conquistando, e poi tornò alle frontiere col re di Ragona, quale nel reame non teneva altro che Capua e Gaeta, et bave va in suo favore il duca di Sessa, ì\ conte di Nola, il Riccio di Monlechiaro et il duca d'Atri , et a suo soldo baveva Menicuccio dell'Aquila, Orsino, il conte Dolce, il conte di Lo- reto con altri condottieri. Il patriarca baveva il con- seglio di Napoli, e li detti messer lacovaccio e pren- cipe di Taranto. Per cagione che occorsero certe novità in quel tempo nella città d'Orvieto, m'è venuta voglia farne ricordanza in questa forma. Nelle guerre passate di Nicolò della Sfella contro il papa era il maggiore in Orvieto il vescovo capo di parte, chiamata li Muf- fati, e gli altri si chiamavano li Mercorini, et erano altri gentilbuomini e signori, do' quali uno si chia- mava Pauol Pietro, l' altro Gentile, l' altro Franco della Cerbara: vero è che li detti non se l'intende- vano col vescovo. Hora havendo vittoria il palriaca nel Patrimonio, e acquistate le terre della chiesa, or- dinò che detto vescovo andasse a stare in Fioren- za nella corte del papa, e così li MuflfiUi perder- ne lo stato in Orvieto, e venne nelle mani de' Mer- corini, e cosi regnaro tutti fino all' uscita di niag^- gio 1437. Nella festa del corpo di Cristo levossi poi Antonio nepote del detto vescovo, et armata mano, stando il paese pacifico, con certi vassalli suoi entrò in Orvieto, e corselo per la chiesa e per parte Muf- fata , e regnava contro volontà del patriarca e del rettor del Patrimonio, quale governava il paese della chiesa. Vero è che in Orvieto governava a nome della chiesa uno chiamato Nello da Perugia: e cosi duror- no sino all'XI di settembre: nella cui notte seguente armata mano entrò in Orvieto Gentile della Sala, il conte Colino , il conte Ranuccio della Corbara , e Ranuccio da Castel Peccio, tutti capitani de' Merco- rini con sentimento del rettor del Patrimonio , ohe era bolognese chiamato messer Pietro de' Ramponi, dove mandò certa quantità de' fanti viterbesi , et entrando di notte in Orvieto per forza lo pigliaro, et aramazzaro Buccio fratello del detto vescovo, e pigliorno Nello da Perugia, che fu poi lassato a vo- lontà del rettor del Patrimonio. Fero poi detti Mer- corini grande ammazzar d'hiiomini, e fanciulli de' Muffali, e rubbaro et abbrugiaro gran «juantità di case. Nella prima entrata, fra sei di fumo morti in Orvieto, secondo si disse, circa 60 persone; grandis- sima crudeltà e rubbamento. Regnorno anni 13 e mesi 3. Non passò tempo eh' all' entrata di novembre quelli di Camerino si ribellaro al conte Francesco Sfor- za, e soldarono per se il sig. d'Isia (d'Ischia ?) fratello 288 del duca d'Atri, e Francesco Piccinino con ben mille cavalli : e non passò troppo tempo che tolsero al detto conte Serravalle e posero campo a Monteme- lone nella Marca, e dicevasi che Francesco Piccinino havesse havuta la bandiera della chiesa mandataceli da papa Eugenio , e loro erano nemici del conte Francesco. Quale sentito come detto Francesco Pic- cinino l'andava danneggiando, subito mandò ilTa- liano , quale con sua gente vigorosamente levò di campo Francesco Piccinino e seguitollo sino a Ca^ merino, e lì presso si pose per assediarlo. In quel tempo si partì dal patriarca Pianaldo Orsino, et andò con sua gente nelle terre del conte de Manieri: in poco tempo tutte gli le tolse , salvo tre , over quattro castella. E questo fece perchè il padre di detto conte bave va nel passato drizzato \e bandiere del re di Ragona, e mosso guerra al conte di Tagliacozzi, et anco contro al suo proprio fra- tello carnale. Era il patriarca da papa Eugenio fatto cardi- nale, e chlamavasi il cardinale di s. Lorenzo in Lu- cina, et in altro modo il cardinal di Fiorenza. Fa- ceva fare grandi casamenti in Corneto, che l'haveva fatto far città, ove prima era terra sotto la diocesi di Viterbo. Venuto il 1438 , il cardinal predetto insieme con messer lacovaccio Galdoro assallorno il campo del re di Ragona, e tolserli circa 800 cavalli, e tutti li cariaggi, et assai robbe, e per poco non pigliar© il re stesso. ■■.'. Nel détto tempo Taliano, essendo nella guerra della Marea, si parli senza licenza del conte Fran- cesco e menò .seco 800 cavalli suoi, e di quelli del 289 conte non toccò niente, e non offendeva sue terre. Fa questo, che si diceva che il conte lo voleva far ammazzare. Nel detto mese papa Eugenio si partì da Bologna, et andò a Ferrara, e \ìi voleva fare il concilio , e trattare de' fatti dell'imperatore, perché Gismondo era morto bon tempo nanzi , e tutte le grandi nationi s'erano adunate nella Magna per fare V imperatore novello. Il cardinal predetto vedendo non poter ottenere detto reame, che spesso era Ira- dito da quelli del paese, e già da lui s'erano partite molte brigate , e vedendo stare in pericolo di sua persona, di notte si partì con dui suoi più discreti, e messosi in mare andò a Ferrara , dove stava il papa, e lassò la gubernatione sopra le spalle di Polo todesco, e Lorenzo da Cotognola, quale era signor di Biselli. E questo fu alli 14 di febraro. E non polendo poi dette brigate restare, perchè gli man- cavano denari, s' accostorno con messer lacovuccio Galdoro , e lui li prestava denari fino a tanto che detto cardinale le dovesse sovvenire. Erano rimasti tanto poveri, che tutte Tarmi e robbe loro haveva- no impegnato. njj'^i ip Venuto aprile, il duca di Milano mandò Nicolò Piccinino con ben 12 mila persone a piedi et a ca- vallo, e passaro tra Bologna e Fiorenza con licenza del papa, dando nome che volevano andare nel rea- me di Napoli; et in questo mezzo trattò la pace tra lui et^ il conte Francesco Sforza con questi patti , che il detto duca dovesse far pace con fiorentini, e mandar sua figliola a marito , la quale era sposata dal detto conte Francesco, e più dava al conte as- sai città e castella in Lombardia, tra quali era Asti 290 e Rejjgio, e detto conte dovesse tornare nella Marca, e levar l'assedio da Lucca; e così fu ferma la della pace, e rimase il duca nennico de' venetiani, e mandò INicolò Piccinino a metter campo a Ravenna terra de' venetiani. Nel mese di maggio Nicolò Piccinino entrò in Bologna con le sue brigale del duca di Milano con volontà de' cittadini, e tolsela al papa, salvo la cit- tadella, che ci haveva fatta fare detto papa et eraci dentro Battista d'Avergna con assai fanti a guardarla. Haveva Nicolò Piccinino tolte alla chiesa molte città e terre in Romagna, come fu Imola, Forlì, Raven- na , et altre. Il cardinal di Fiorenza partì da Fer- rara, e venne in quello di Siena al bagno di Sti- gliano, e poi n' andò a Corneto , et in fra questo tempo adunava quanta gente poteva, e tutta la man- dava verso Roma , e mandò certi denari a messer lacovuccio Galdoio che li dovesse mandare li ca- valli e la robba .sua , che gli haveva lassata nelle mani quando fuggì dal reame. In questo tempo il re Ranieri con 13 galere e 2 navi, et altri legni armati, n'andò a Napoli, che si teneva per lui contro il re di Ragona. Il cardinale Orsino si partì di Ferrara, et andò in quello di Siena al bagno di s. Filippo, e vi morì li 29 di maggio la sera a due bore di notte, et il suo corpo fu portato a Roma, e seppellito nella chie- sa di s. Pietro apostolo. i Il cardinal di Fiorenza fece pigliar Polo Te- desco, e tolseli tutta la robba «hhaveva in Corneto, e lo fece morire, dicendo che detto Polo lu volse tradire nel reame di Napoli a petilioue del re di 291 Ramona, e con lui acconciarsi. Il cardinale poi parti di Corneto li 3 di giugno , et andò a Roma, et in quel tempo Battista da Narni diede la cittadella di Bologna al duca di Milano, e ricevè 8000 ducati, et andossene a s. Gemini presso a Narni. Hora tornamo al popolo di Norscia, che havendo insieme cogl'altri havuta la vittoria sopra Spoleti, si partirno, et andorno a metter l'assedio a Cerreto; e vo- lendo in tutto suffogarlo; li cerretani non potevano a tutta lor forza resliterli: onde si mandorno a rac- comandare al conte Francesco Sforza, quale gli man- dò in aiuto 1000 fanti sotto il governo di Pier Bru- noro suo contestabile. Questo andando a Corneto con i detti fanti e pochi cavalli assaltò il campo de' norcini e per forza lo ruppe, e cacciò di campo e pigliò assai prigioni, tra' quali più di 30 da risco- tere , e cosi fu liberato Cerreto. Il conte poi, che stava con sue brigate alloggiato a Castiglione Are- tino, si mosse il giovedì a 2i^ di giugno , e menò seco circa 15 mila persone, e passò fra Perugia, et Assisi , e mandò il signor Giovanni et Alessandro suoi fratelli insieme con Pier Brunoro ad assediar Norscia. Dicevasi che per la rotta datagli da Pier Biunoro si trovaro manco più di mille persone di Norscia, trovate annegate nel fiume Nera. A 5 di luglio il cardinale di Fiorenza andò a Soriano con tutta la sua famiglia, e per la concor- dia che haveva fatta il conte Francesco cassò molti huomini d'arme. Hora avvenne che il conte Francesco si mosse dal piano d' Assisi con tutta sua gente, et andò a Norscia, dove prima haveva mandali li fratelli. Li 292 noiscini h.ivendo hdvuta la rolla predella, e non ve- dendosi a poter resistere alla forza del conte, fero palli, e deronli il dominio della terra sottometten- dosi a lui. Oltre questo li ento. Partito il cardinale da Spoleti, andò a Roma, et ivi stette per alcuni dì. Poi il sabato dell' oliva alli 18 di marzo, la mattina per tempo cavalcò per tornare a Corneto, e passando per il ponte di s. Pie- tro, canto al caslcl di s. Angelo, il castellano che 304 stava nel castello per papa Eu<|enio, uscì fiiora, e facendo vista volerli toccar la mano, li pigliò la re- dine del cavallo, et in quel punto fé cader la porta eaditora che stava sopra la poita di bronzo, e die- tro al cardinale fece subito serrar la catena , et il cardinale mise mano ad un forchino per difendersi, onde il castellano li ficcò un quadrellello in la co- scia: et un famiglio del castellano,^ che era di Pa- lestrina dislatta, l'attaccò nel viso con ufi roncone, e per forza lo tirorno da cavallo con una ferita neHa gola, et ammazzorno un famiglio del cardinale che l'adeslrava il cavallo: et in questo modo fu pigliato per commandamento del papa. Il conte Aversa, che era in sua compagnia, et era passato avanti con tutta la compagnia e cariaggi del cardinale, tulli li rac- colse, e menolli alTAnguillara, e poi si dette a guar- dar la strada fra Roma e Viterbo, acciò non fosse fatta robbaria: et ogni persona passava secura, salvo li famigli del cardinale che erano tutti robbati. Al- tra novità non ci fu per all'hora. Già in quel tempo discese le brigate di Lom- bardia, Nicolò Piccinino era venuto a Bologna , e Francesco suo figlio al borgo di s. Sepolcro, e fé una correria a Montecaslello in quel di Todi , e tutto il bestiame mandò a Collelungo del vescovo d'Orbielo, e soccorse la rocca di Sbernia- Dall'altra parte messer Alessandro di Sforza venne nella Marca per mare con dui mila fanti: e Lione con mille ca- valli, e iVIicheletto venne nel reame dopo la morte di messer lacovuccio Galdoro: e cosi le cose comin- ciaro intorbidarsi da ogni banda. Saputa la presa del suddetto cardinale l'islessa sera del sabato in Vi- 305 lerbo, t lilla la domenica s'andorno le cose intorbi- dando. Il lunedi sanlo n}allina alcuni viterbesi si cominciorno ad armare contro messer Principale de' Galleschi, e lui s'armò con tulli suoi parli<3[iani, et andò per tutto Viterbo con lo slennaido dell.i chiesa e di papa Eugenio , e non iu chi li contra- dicesse niente, anzi lutti li suoi nemici s'agguataro; e così scorse tutta la città per la chiesa. Ila vendo il papa saputo la presa del cardinale^ acciò le terre della chiesa non facessero novità, subilo mandò per legato e governatore del paese il patriarca d'Aquileia, camerlengo di esso papa , et era stato arcivescovo di Fiorenza: e quello che era stato ca- merlengo, che era cardinal di s. Chimenlo, fu fatto vicecancelllero del papa. Cos\ gionse in Viterbo detto pati'iarca il sabato santo 2G di marzo , e riposossi in s. Francesco , dove subito lo vennero a visitare il conte Aversa , Pianucclo da Farnese , Paolpielro della Coibara, Agnolo di Roccone, Battista da Narni, il conte Pandolfo da Capranica, e molt' altri con- dottieri e contestabili tutti al soldo del cardinale di Fiorenza per la chiesa. 11 patriarca li ricevette gra- liosamente, e felli grand' bouore , e rifermò ne'lo- ro ofiitii per le terre della chiesa tutti 1' oflitiali mossi da dello cardinale, facendo la commissione hau- ta da lui. Hora sentite il trattato ch'ordinò dello cardinale contro il castellano. Essendo egli prigione nel Ca- stel s. Angelo, il castellano gli usava habilità assai facendolo slare di sopra nel maschio, e servile da Ire famigli di esso cardinale, e tre altri suoi ci te- neva per guardia. Continuando le dette coso tanto 306 seppe fare ch'ordinò trattato con quelli .suoi famigfli e del castellano, di dovere ammazzare detto castel- lano, e pijjljare il castello per esso cardinale, e pro- metteva dare alli 3 famijjli 10 mila ducati: questo trattato veniva fatto, se non che la sera propria che si doveva eseguire uno delli 3 famigli del castellano gli manifestò tutto il fatto. Onde il castellano fé pi- gliare l'altri cmque famigli, e mandolli prigioni in Campidoglio , e felli morire. Fece poi mettere il cardinale nella prigione dì sotto chiamata s. Marzoc" eo. Era il cardinale di persona granale e ben fatto: pallido nel viso et infermiccio : savio et animoso, et assai credente: a chi gli havesse messa prima in capo una cosa, tutto il mondo non gli havria fatto credere il contrario: era pomposo, et avaro , et in moltissime cose giusto e ragionevole. La cagione perche fu pigliato si diceva che s'era accordato con papa Felice e col duca di Milano, e voleva con Nicolò Piccinino far guerra alle terre del conte Fran- cesco Sforza, che teneva nel Patrimonio Toscanella, Rispampani , Acquapendente , Polimarzo , e s. Lo- renzo. Di là dal fiume teneva Todi con tutto il con- tado, s. Gemini, Assisi, e tutta la Marca, salvo An- cona che stava per la chiesa. E dopo questo, si di- ceva che voleva mettere in Roma papa Felice contro la volontà di papa Eugenio. Hora messo nella pri- gione detta, e mandati via tutti li suoi famigli, che lo servivano, peggiorò di sua infermità, e li venne gran flusso di sangue: per lo che fé testamento, e lassò fosse dato a papa Eugenio fiorini 214 mila d'oro, li quali lui haveva avanzati, e lassò che it corpo suo fosse sepellito nella chiesa di s. Marco 307 di Corneto , per la cui fabrica lassò 2000 fìorÌDÌ ti' oro , et a s. Maria della Minerva in Roma las- sò 200 fiorini d' oro, e lì fu riposato il suo corpo prima si mandasse a Corneto. E così morì il sabato manina li 2 d'aprile. In quella stessa mattina si partì da Viterbo il patriarca d'Aquilela, et andò a Roma seguitato da tutti li principali del paese. Havendo Nicolò Piccinino sentito la presa del cardinale, e non venendo fatti i suoi pensieri, e lui essersi partito da Lombardia con 5 mila cavalli e 5 mila fanti, ad ogni modo si dispose Toler seguitar l'impresa. Così si mosse da Bologna , et entrò nel paese de' fiorentini da un lato dove sta il castello Scarperia, et assai ville robbò e mise a sacco, e mandò circa mille cavalli a correre a Fiorenza sotto la con- dona di raesser Ranaldo Spinoli, uno degl'usciti di Fiorenza, e corse fino a Fiesoli, che sta da longo da Fiorenza tre miglia, e fé gran danno de' bestiami e prigioni da riscotere , e tornossi in dietro: onde li fiorentini subito mandorno per Michelelto da Co- lognola, messer Alessandro Sforza, Giovanpaolo Or- sino, Pier Turello, e fanti quanti ne potevano adu- nare, et anco per Ciarpellonc condottiero del conte Francesco, e fumo de' Sforzeschi circa 2 mila cavalli, e fanti assai; e così andati a Fiorenza, come Nicolò lo seppe, subito partì con sue genti, et andò a met- ter campo a Rezzo città del comun di Fiorenza, e Francesco suo figlio mandò certe sue brigate a far guerra in quel di Todi, fra Todi e Perugia a Colle di Pepe castello. Il vescovo di Montefiascone e Corneto , quale era nepole del cardinale di Fiorenza, sentita la detta 308 morte, fuggì da Fiorenza, et andò a Siena, e di qui partendo con ceili fanti, alla rocca di Civitavecchia pervenne; qual teneva un suo fratello et altri cor- netani. E tutto questo fu d'aprile. Dopo la partita di Nicolò Piccinino da Lombardia, rimase all' asse- dio di Brescia il Taliano con sue brigate: et era la città condotta a stretto partito, se non che il conte Francesco andò a tempo : ruppe il Taliano , e cac- ciollo via, e rimase in Brescia assai viltovaglia. Alli 2 di maggio il patriarca d'Aquileia partì da Boma con 2000 cavalli e fanti assai , e andò verso Civitavecchia, perchè Pietro da Coineto castel- lano e nipote del caidinal di Fiorenza non voleva dar la rocca. Ove il detto patriarca si pose in alloggio in un luogo detto Malagrolta. Per il che il vescovo di Montefìascone , e Gillo fattore del fu cardinale, con loro fameglie, denari, e robba assai, si partirno dalla rocca, e per mare andorno a Talamone, e poi a Siena. Hora il patriarca alli G del mese gionto all'asse- dio di Civitavecchia , e trattando con quelli della terra, hebbela in sua balia, et essendo pregato dai terrazzani non vi mettesse dentro se non tanti quanti bastassero a guardarla, lo fece , e mise dentro 400 fanti , e serrorno le porte : per lo che l'altri vole- vano entrare chiedendo vittovaglia, e quelli di den- tro non volevano. Onde per questo cominciorno tra loro questione, e dando la battaglia alle mura, quelli di dentro facendo difesa ne ammazzarono uno di quelli di fuori, e ne ferirno assai. Il castellano ve- dendo questa questione, chiamò quelli di fuori, e disse: Se volete metter la terra a sacco io vi darò l'en- 309 irata da questa porta della rocca. E questo fece per dispetto de' terrazzani perchè s'erano così presto ac- cordati. Quelli risposero di sì, e così entrorno den- tro , e tutta la misero a sacco , et abbrugiorno di molte case. E questo fu contro la volontà del pa- triarca alli 8 di magrgio. Partissi poi il patriarca con tutta sua (Tenie, et alla guardia lassò 400 fanti per- chè nullo potesse entrare nella rocca : e loro ven- nero in quel di Viterbo per andare alle frontiere contro le genti di Nicolò Piccinino che stava in quel di Todi. Luduico Michelotti da Perugia, et Antonel- lo dalle Seue con loro compagnia , et il castellano di Castel S. Angelo rimasero a Civitavecchia con brec- cole, manganelle, bombarde assai e balestre facendo continua guerra alla rocca: poi ^enz'haverla si par- tirne, et andaro alloggiare al Mignone presso S. Ma- ria, et il castellano di caste! S. Angelo andò a Roma: e ricevuti denari dal patriarca, li mise in punto col soldo per 100 cavalli e 200 fanti. Simonetto si partì son sue genti, et andò al soccorso de' fiorentini nel fin di maggio. vSimilmente si partì il patriarca con tutta la compagnia sua, .salvo detti Ludovico et An- tonello, et altri che rimasero per guardia del Patri- monio, con 1000 cavalli e 600 fanti. E l'altra gente andò in soccorso de'fiorentini ad Arezzo contro Ni- colò Piccinino. In quel tempo, un sabato sera 28 di maggio, andorno li fuorisciti ghibellini di Riete , et entror- no dentro con far gran battaglia , et ammazzorno 30 di parte guelfa, e forirno a.ssai, e di ghibellini fumo occisi tre, e co.sì la parte ghibellina rimase vincente. Fero questo perche in tempo del cardinal 310 di Fiorenza fumo cacciati di Riete, robbati e strac- ciati. Però nota, lettore, che trista la città dove son divisi li cittadini. Entrato giugno, Balduccio, coulestabil de' fanti per il duca di Milano, si partì da quel di Perugia, et andò a Fichino che era di Paol Pietro della Cei"- bara , e per forza lo pigliò , e cominciò ofi'endere Acquapendente et Orvieto. Hora quelli di Nicolò Pic- cinino si partiron dal campo suo a S.Nicolò castel- lo fra Poppi, Arezzo, tlrbino e Città di Castello , e con poca gente andò a Perugia, et entrò un sabato mattina all' 11 di giugno, ove fu ben ricevuto dai perugini, e fattoli grand'honore, perchè quelli che reggevano Perugia erano bracceschi, e Nicolò pure era braccesco. Nel detto mese si rinforzò il campo del duca di Milano, volendo pur consumar Brescia per fame, e furonci l'infrascritti capitani, cioè Aloigi da S. Se- verino, Aloigi dal Verme, il marchese di Mantova, il Bel Mammolo Taliano, e molt' altri, et erano cir- ca 25 niila persone, e stavano alla guardia acciò in Bre- scia non potesse più entrare vettovaglia sperando averla per forza. Hora il conte Francesco in tutto si dispose di ricovrarla , e posesi con sua gente sotto il lago di Garda con 10 mila huomini a cavallo, e 11 mila a piedi, e facendo per dui dì continui ca- ricare carri di vittovaglia assai , et adunarla in cam- po per poterla introdurre a forza d'arme in Brescia, si mosse con essa a schiere ordinate per tale effetto. Le genti del duca accortesene pararonsi alli passi per contiadir l'andata del conte, e torgli la vettovaglia. In questo vennero alle mani, e fu cominciata un'a- 3H spra battaglia fra loro^ et alfine il conte fu vincitore: ruppe le genti del duca, e guadagnò tutta la rob- ba, cariaggi, e prigioni assai, e trovar onsi a bottino duimila cavalli , e mise in Brescia detto Caforo ; e per questa vittoria li venetiani donorno al conte 80 mila ducati d'oro. Li capitani del duca di Milano si levorno di campo con poco honore. Acquistò il conte in quella lotta Linago, e Borgo novo, e la ri- viera di Magalo con 37 castella , e pigliò il figlio del marchese di Ferrara. Fu questa rotta in una stra- da rilevata. Acquistò quasi tutte le terre e frontiere del bresciano. Il conte stava prima da lunga, et andò 9 trovarli per via di Roccafranca, e cercava volerli fagliar la via dereto, e le brigale del duca si ridus- sero di là dal fiume Anglo. In quel punto il conte hebbe in sua balìa Roccafranca, e fumo cacciate le genti del duca sino a Crema: e se non fosse sta- to per quel continuo cavalcare, che li cavalli erano stanchi, il conte li seguiva sino a Lodi, e pochissimi uè sariano campali, secondo dissero quelli che ci si trovaro. Hebbe Soncino, e la rocca per accordo: e più Martinengo sul bergamasco, e moltissime castella del cremonese , e furon più che io non scrivo : e più gente e cavalli guadagnati che io non scrivo. Fu questa rotta di martedì 14 di giugno 1440. In quel tempo, essendo Nicolò Piccinino sul paese di Città di Castello per assediarlo, teneva il borgo di S. Sepolcro, Cisterna, e Pietramala, e più torre d'una donna chiamata Ambrosina. £ le genti della lega stavano ad una terra chiamala Anghiari presso detto JNicolò. Perlochè volendo detta gente della lega soccorrere la Città di Castello, mandoroo Troilo 312 l^amifjlio e condottieio del conte Francesco Sforza , e Paolo (Iella Molava che dove.sseri) entrar dentro quel- la città con 700 cavalli di buon apparecchio. An- dando li dui condottieri si dettero ad un lato del campo di Nicolò, e cominciando battaglia fumo pre- si sette huomini d'arme del Molara. Poi si riferno delti Troilo e Paolo, e ruppero parte de' loro ne- mici, e guadagnorno circa 70 cavalli , et entroruó dentro la Città di Castello. Per lo che Nicolò si ri- tirò in un piano presso al borgo S. Sepolcro e le genti della lega si ritirorno sopra un poggio pres- so loro, dove ci era un ponte in mezzo tra l'uno e l'altro, e così sterno alcuni dì sempre sopra di se. Nicolò Piccinino deliberò in tutto andare a trovare i suoi nemici, e passò detto ponte. Ciò vedendo il patriarca chiamò subito a sé Micheletto da Coto- gnola, il conte Aversa, Gianpaolo Orsino, Simonetto da Castel di Piero, et altri capitani e condottieri che haveva per pigliar risolutamente dell'afìare, e dice- vano andare a contradire al ponte suddetto. Si levò Micheletto in piedi, e disse al patriarca: Se voi non volete lassar ordinar a me quella battaglia, da bora innanzi io me n' andrò con Dio. Onde il patriarca ascollando le sue ragioni deliberò cogli altri capi- tani lassare l'ordine a Micheletto , quale comandò tutta la gente fosse .schierata: e lassoino pa.ssar tulle le brigate di Nicolò pres,so di loro, le quali veni- vano bene in punto con fanti . bombardelle , scop- pelti e balestre infinite. Vedendo Micheletto sì fatta cosa, subilo pensò haverne disavanlaggio, e lassò il patriarca sul Poggio con 18 schiere, dicendo: Mon- signor, non lassate partire costoro di qui finché io non 313 li mandò cercando, e così fu fatto. Continuata la bat- taglia ad bora di vespro fu si grande l'assalto di Ni- colò con quelle bombardelle, che quasi tutti li suoi nemici impaurì : e durando per un' bora la pugna, sempre quelli di Nicolò facevano la migliore. Poi cominciò a mancar loro le saette e le bombardelle. All'hora Mìcheletto mandò per 4 schiere di gente fresca, e cominciaro assaltare i loro nemici, e Nicolò sosteneva gagliardamente. Mìcheletto mandò per 1 1 schiere: e così pugnando Nicolò non poteva più so- .sienere, poiché sue genti e cavalli erano stracchi, et il sole tuttavia gli dava su gli occhi, e per la pol- verina grande non vedendo lume convenneli per for- za voltare, e misesi in rotta, e Nicolò fuggì dentro il borgo di s. Sepolcro con assai cavalli : gli altri suoi chi fu morto, chi pigliato, e chi fuggì ove potè. II patriarca poi vinciiore di tal pugna si pose ad as- sediare il borgo di S. Sepolcro intorno intorno. Durò la battaglia 3 bore, e furonci morti da una parie e l'altra ben cento persone , tra' quali femmine assai che portavano rinfrescamento a quelli di Nicolò tn- late tutte da' cavalli. Fu questo in mereordì 29 di giugno festa de'ss. Pietro e Paolo. Contasi si trovasse- ro a bottino guadagnati circa 3 mila cavalli, e pri- gioni assai, tra' quali il figlio del signore di Faenza, Tartaglia dalla Guancia, il Danese da Mugaano, Al- berto da Carrara, et altri condottieri di Nicolò, ia lutto 10 , et huomini d'arme infiniti. La seguente notte, prima che il campo della lega andasse al bois go, Nicolò si partì ben con mille cavalli, e fuggì nella terre del conte d'Urbino, et in quel modo campò. Gionto poi la mattina il campo al borgo,, e: menati G.A.T.CXXVIII. 21 314 legati ben 200 prigioni della terra, subito quelli di dentro ferno patti che li fussero renduti li prigiopi, e loro li davano la terra , e tutta la genie di Ni- colò che era dentro , che fumo pigliali e rubbali : et il Borgo si dette alla chiesa. Sapula questa rotta dal vescovo d'Orvieto, favoreggiato già dal detto Ni- colò, mollo gli spiacque: onde per iscampo suo e de' suoi fé patti col patriarca di tornare alla corte di papa Eugenio come cortegiano, e rendere alla chiesa Collelungo e rocca di Sbernia. Così fé pace seco. Li perugini, che ancor loro s'erano accordati con Ni- colò suddetto, udendo sì fatta rotta, subito cercorno accordarsi col papa e tornare alla chiesa, e così fur- no accettati dal papa: pagando per soldare le genti della duiesa 90 mila fiorini ó^óm, Questo H fé fare il papa per Raccordo fatto da foro col detto Nicolò. In quel tempo Lione di Sforza fu morto nel cremonese d' un colpo di bombarda, che gli levò la gfamba. Madonna Anfrosina che teneva certe terre nella Romagna, et haveva accettato Nicolò Piccinino, hebbe l'assedio dalle genti della lega , et in breve la perde tutta t, et andò in Lombardia con una canna m mano, il cónte Francesco seguitando con vittoria, e prg[liando tutte le terre del cremonese, salvo Ve- F0i*a, Crema « Castiglione, con tutte le sue genti si dispose assediarle. Onde il duca di Milano, veden- dosi a sì Stretto iparlito, si mosse in persona con quan- ta gente potette adunare, soldati e terrazzani, «t'uscì i^aori di Milano a campo, dove prima non si dilet- liiiva di cavalcare: e così rinforzò per tulli li passi del paese, acciò il conte non possa andar più avanti, perchè lai non «i teneva forte dotìtro la forza del 315 conte, perchè tutle le sue fjenli haveva spatrialo in più parti. Avvenne che Ciarpellojie, fameglio del conte, si mosse con 400 cavalli di buon apparecchio per fare una correria sino al campo del duca, e non possendo passare un fiutne, cercò farli un ponte per forza. Sentendo ciò il duca mandò il Taliano con •1000 cavalli contro Ciarpellone , e passati per un lor ponte l'assaltorno, e fero un pezzo bel fatto d'ar- me. Alla fine Ciarpellone fu rotto, e perde 300 ca- valli e molti arlifitii fatti portare pei detto ponte. Fu questo di luglio. Essendo nel detto mese il campo della lega a Poppi: in pochi dì tolsero al conte di Poppi tutte le sue terre, salvo Poppi: onde vedendosi a mal par- lilo, né poter resistere, pigliò accordo in questo modo: che lui si potesse portare quanta robba havevafi: el andossene a Siena franco e securo. La terra restò in mano de' fiorentini. Le genti della lega andorno a campo a Forlì, che si teneva per il duca di Milano. In quel tempo accadde in Roma una cosa me- ravigliosa. Un giovedì 21 di luglio venne gran piog-, già, e colse il trono in s. Maria d' Araceli su la corona di Nostra Donna, e tutto il viso abrugiò, e gettò in terra mezza figura di s. Antonio da Padova. In s. Maria della Minerva dette in un'altra figura di Nostra Donna : in s. Maria di Trastevere, in s. Ma- ria del Popolo, et in s. Paolo, et in tutti questi cia-> que luoghi dette il trono in un'hora. Nicolò Piccinino con poco honore e poca gente tornò a Milano, e presentossi al duca, dal quale fu ben ricevuto; e così cercaro farsi forti contro il conte. 316 Francesco che giàgl'havev.i tolto tutto il cremonese, et erasi voltato a disfare il signore di Mantova. Balduccio, quale haveva, come già dissi, Fichi- no, sentendo tutte le brigate di Toscana essere adu- nate al borgo s. Sepolcro et ad Anghiari per far fat- to d'arme , lui si partì da Fichino con 150 fanti, et andò a Suareto, che era del signor di Piombino , e cogliendoli sproveduti sul mezzodì entrò dentro , e tutto lo mise a saccomanno, e poi corse per il paese pigliando quanti prigioni potè, e felli robbare e pa- gare tutto quello poteva bavere. Nel primo di luglio in venerdì ruppe guerra col signore di Piombino, Essendo le cose cosi inviluppate, il sig. Isia fra- tello del duca d' Atri con sua gente ruppe guerra nella Marca, e mise campo in quel d'Ascoli , et in pochi dì pigliò una brancata di castella. Onde messer Alessandro Sforza si mosse al soccorso, et andò con sue genti contro detto Isia; e Micheletto ci mandò una squadra delle sue. Onde in tutto agosto racqui- stò tutte le terre perdute, da tre in fuori, et assediò detto signore Isia dentro il castello Gelano sforzan- dosi per ogni modo voler nelle mani detto signore. In quel tempo il re di Ragona haveva fatto lega col figlio di lacovuccio Galdoro, e con la più parte de'signori del regno, sperando che il re Ranieri era ridotto a punto estremo, et altro che Napoli e po- che terre non gli èra rimasto. Il conte Francesco havendolo sentito , e conoscendo che il re di Ra- gona sottosopra era mal voluto per la cattiva si- gnoria che facevano li catalani , pensò andarci con sue genti, e pigliare il reame per se, et incoronarsi re di Napoli. Per dar principio a questo ordinò la 317 ffegua tra' veneliarii et il duca per sei mesi. Et es- sendo da questa tregua escluso il signore di Mantova, il come Francesco gl'andò a dosso togliendoli tutte le terre che haveva. In quel tempo il patriarca e camberlengo del papa fu fatto cardinale, e seguitava la guerra in Ro- magna contro le terre del duca, e pigliò in poco tempo Ravenna e Cesena , et altre terre del detto duca. Detto cardinale camberlengo era venetiano co- me il papa. Essendo Nicolò Piccinino in Milano, come dissi,, e domandando il duca si rifacesse la co^npagnia, e lo rimettesse in ponto, il duca gli rispose che era hoggi mai sfornito di denari e terre, e non poteva più fare quello haveva fatto: e quando potesse lo ri- metteria in punto, e fratanto si pigliasse altro avvia- mento- E disse così il duca per sdegno della rotta passata , e perchè detto Nicolò era hormai vecchio et infermo. Si parte Nicolò dal duca, e venae al si- gnore di Mantova assediato dal conte Francesco che gli haveva tolto Seravalie e tutto il mantovano , da Mantova e tre castelli in poi. Ciò fu li 10 di set- tembre. In detto mese fumo segate le vene della gola a Ludovico Michelotti da Perugia da un suo rnu- lattiero mentre dormiva in campagna di Roma ap* presso la selva dell'Aglio, dove stava detto Ludovico con sue genti. E questo ferno fare li peroscini, per- chè detto Ludovico si trovò a far uccidere Braccio da Montone capo della parte loro, e donaro al mu. lattiero traditore 1200 ducati, secondo fu detto. Come dissi, il re di Ragona faceva gran guer-. 318 la al le Ranieri nel reame, et haveva condotto Na- poli a tal partito, che non havevano più niente da magnare. Per Io che il re Ranieri mandò la don- na sua in Francia al suo paese per denari e vitto- vaglie, e con lei andaro gran quantità di donne na- politane. Inoltre mandossi a raccomandare a papa Eugenio che li mandasse del grano per mantenersi. Onde il papa li mandò 14 mila some di grano, di cui fumo cariche tre grandissime navi genovesi, e par- tiron cariche dal poito di Corneto il sabato sera 3 di decembre, e giunsero a Napoli, dove ne fu fatta gran festa et allegrezza. Commise il papa la metà di detto grano fosse dispeiisato a'frati, monache e mi- sere persone: et il resto fosse venduto a'cittadini in conlìinti, et a chi non poteva pagare fé credenza. Così Najjoli fu fornito per un anno, nel circa: e di questo il re di Rdgona n'hebbe gran dolore. In quel tempo si trattava l'accordo tra il papa et il castellano di Civitavecchia, nepote già del quon- dam cardinal di Fiorenza cornelano Vitelieschi , e per mezzo di ro esser Angelo Ponzani suo parente s'ac- cordò col papa, con patti che il papa li dovesse con- firmare tutte le possessioni che detto cardinale ha- veva in Corneto di suo paternale; e per la guarda- tura di detta rocca 3 mila ducati d'oro: e così n'uscì, e vi restò dentro il castellano mandato dal papa, e messer Angelo restò dentro la rocca per detto Pie- tro da Corneto finché si pagavano li detti ducati. Poi in termine di tre dì il papa fé pigliare detto mes- ser Angelo dentro la rocca, et imprigionare, e detto Pietro fé prendere in Corneto , e mandar prigione nella detta rocca. E questo lo fé fare, perché non voi- 310 se consi{jaare la rocca come era giusto. Iti pochi di fé liberare detto messer Angelo, e Pietro fé man- dare a Roma prigione in caslel s. Angelo , e nella rocca di Civitavecchia rimase castellano m'i fame-r glio del papa Cola Porto. <.(iriliinaei;> Il cardinal d' Aquileia camerlengo del papa e legato delle terre della chiesa partì da Fiorenza , e venne a Viterbo, e di qui a Roma. Il re di Ragona ad instanza del duca di Milano luppe guerra con- tro le terre del conte Francesco Sforza , che tene» \a il reame, et havendoli colti sproveduti, prima con cello trattato coi castellano di Benevento hebbe, la terra. Nel mese di febraro 1441 il conte Francesco Sforza stava in Venetia a diporto, e le sue brigale sparse per le terre de' venetiani. Onde Nicolò Pic- cinino si mosse con sue genti verso Chiavari terra de'venetiani, et havendo a far con le genti del conte le ruppe, e guadagnò circa 500 cavalli, et assai pri- gioni: tolse Chiavari, e misela a saccomanno, et acqui- stò per il duca di Milano altri castelli. Havendo il conte sentito questo, subito andò alle frontiere. Nota, lettore, che il conte hebbe più danno che non si dice, e ribellaronsi assai castella: perchè Ciarpelloae fuggì dal conte Francesco: e senza licenza andò nelr le terre del duca, e sotto colore d'esser soldato de! conte disse a quelli delli detti castelli, che il conte era morto, e loro tornassero ad essere del duca. E così si dettero a Nicolò Piccinino che era col duca. Ciarpellone poi si mise bene in punto., havendo as- sai gente del duca , e venne a Bologna con 800 cavalli: poi presto tornò in Lombardia. 320 mi Già dissi la roda de' turchi nell' anno -1439. Perchè furo sì maltrattati s' accordorno insieme , cioè il soldano di Babilonia, il gran turco che si era riscosso per denari , il gran can de' tartari , et il cianaerlano , et adunorno tanta gente , che furo circa 200 mila , e cosi messisi in punto volevano andare contro il gran maestro di Rodi. Il che ha- vendo lui sentilo, mandò a papa Eugenio per soc- corso , et a tutti li signori di cristianità. Onde il duca di Milano li mandò 6 navi armate. Li vene- tiani li mandorno un soccorso simile. Li re di Fran- cia, d'Inghilterra, di Ragona, e lutti li signori di cristianità chi poco e chi assai come potevano. Essendo Corrado Trinci con suoi figlioli Ni- colò e Golino prigioni nella rocca di Soriano, venne da Fiorenza il soldano del papa, et andato alTislessa rocca li \A di giugno li fece la notte seguente mo- rire lutti tre. Era stato dello Corrado crudelissimo. Fece ammazzare due suoi fratelli, e poi per mostrare non l'havesse fallo lui, fé morire più di GO persone tra piccoli: e grandi. Essendo Nicolò Piccinino in Lombardia ad un luoco chiamato Pontevico con 8 mila cavalli e 8 mila fanti, et il conte Francesco standoli presso cir- ca X miglia, sentilo l'esser di Nicolò, e come stava il suo campo, si mosse con ben altritanti cavalli e molti altri fanti di cerne , cioè contadini coman- dati, et andò a trovare detto Nicolò su gli alloggia- menti. Onde un famiglio del conte si parli secrela- mente dalla compagnia, e fé manifesto a Nicolò la detta mossa, et egli si mise in punto con tutta sua genie, della quale fece sei schiere: la prima guidò 32 r il sig. di Faenza, la seconda Ciarpellone poco avanti fuggito dal conte: la terza il Taliano: la quarta un parente del duca di Milano e'I Chiosi lance spezzale del duca: la quinta esso Nicolò : la sesta il conte Aloigi del Verme; e così il conte Francesco li trovò bene in punto. Per questo non volle guardare, ma vigorosamente se li mise a dosso, e di primo assalto ruppe la schiera piima , e ci fu morto il fratello del signore Astore di Faenza. Dopo ruppe la seconda, e fu ferito Ciarpellone su! braccio con una lancia arrestata. Il che notando Nicolò, delle altre quattro schiere ne fé una sola, e così si dettero a dosso alle genti del conte, e fu così gran battaglia che durò nove bore, e non si potevano rompere l'un l'altro. Onde per stanchezza si tiroruo indietro una parte e l'altra. Ci morsero tra di qua e là più di 600 per- sone in 36 cani poitale via. Dicesi che di quelli del conte morsero la più parte contadini di poca stima, tra' quali ci fu morto Cavalcabò uno de' principali del conte d'una bombardella, e fucci ferito Pierbru- noro, et altri. E di quei di Nicolò fucci morto quel parente del duca, quel di Faenza, e moltissimi huo- mini d'arme, e gente da utile. E còsi rotti e pesti una parte e l'altra si trassero a rieto cinque miglia. Non ci fu pigliato huomo nessuno, perchè tutti s'am- mazzavano come cani. Dicesi che Nicolò ne rice- vesse la peggio. Questo fu del mese di giugno. Nel detto mese, la vigilia de' ss. Pietro e Paulo, Simonetto da Castel Piero si partì di quel di Vi- terbo, et andò a trovare Antonello dalle Seve che stava a campo presso a s. Cassiano, e con forse 20 cavalli si salvò essendo stato colto sproveduto. Detto 322 Antonello era al soldo del duca di Milano, e doveva andare a rompere guerra appresso a Montone, quale si teneva per loro. Così dello Antonello rimase dis- fatto , e non potè andare come baveva promesso a Francesco Piccinino per soldato del duca. Nel detto me.se in termine di pochi dì dopo la prima battaglia il conte Francesco di novo assaltò Nicolò Piccinino, quale trovò ben provedufo, e feio crudelissima bat- taglia per 7 bore. Infine Nicolò, vedendo non poter resistere, si tirò indietro: et il conte incalzandolo giunse su le tende di Nicolò, e tutte le rubbò, persegui- tandoli sino a Martinengo del bergamasco, che s'era ribellato al conte Francesco. Ivi si ricuperò Ciarpel- lone , il Taliano , et una squadra del conte Aloigi del Verme, et un' altra del conte di s. Severino in tutto 1500 cavalli. Onde il conte Francesco si pose ad assediar costoi-o serrando li passi attorno, acciò ninno potesse uscire, né darli soccorso : e li detti as.sediati si volsero rendere a patti al conte salve le persone, et il conte non lo volse fare, et essi cac- ciorno tutte le donne, fanciulli, e genti disutili per potersi meglio tenere- Dall'altra parte Niccolò si ri- dusse in una montagna lì appresso ragunando quanta gente poteva per ricovrare li detti assediati. Di luglio messer Alessandro Sforza partì dalla Marca con sue genti, e fé una correria nella valle di Loreto in Abruzzo nelle terre del figliolo di mes- ser lacovuccio Galdoro, e pigliò molti prigioni, tra quali Raimondo Galdoro fratello di lacovuccio ; e voLso pagare 100 mila fiorini d'oro, e messer Ales- sandro non lo volse lassare, anzi mandò nella detta valle pigliando quelle castella, et incontro li venne 323 la gente del re di Ragona. Et il conte Aveisa et Agnolo di Roccone soldati della chiesa facevano guer- ra contro detto re in campagna di Roma. Nell'ultimo di detto mese fu fatta la tregua fra le genti del duca e venetiani , e furon velate le of- fese, e levossi il campo da Martìnengo. 'i> Per lo passato dissi la morie del cardinal cfi Fiorenza, e come di lui rimase un nepote, che ha- veva già fatto fare vescovo di Monlefiascone e Cor- nato. Questo vescovo, sentito ch'era preso il zio, fuggì a Siena con molti denari del detto cardinale con certi suoi seguaci. Onde il papa mandò più volte a dire a' senesi che li mandassero detto vescovo e seguaci, overo li denari che havevano. Ma li senesi non ne volsero far niente, anzi dicevano esser liberi- e non haver a far niente con persona. Per il che il papa li fé fare una correria in Valdorcia, e raccolse gran quantità di bestiame e prigioni nell'entrata d'agosto. Onde per questo li senesi disposero stare alle difese, e feron celare detto vescovo dando nome ch'era fug- gito. Accadde che li senesi havevano a lor soldo Ardizone figlio del conte di Carrara con 500 cavalli, e tenendolo alle frontiere facevano guerra al conte Aldobrandino di Pitigliano, e con la gente del papa ferno tregua. Simonetto andò a trovare il detto Ar- dizone a Monte Marano, e la mattina di s. Maria di settembre l'assaltò, e colselo sproveduto e lutto di- sarmato. Onde Ardizone, non potendosi ben armare per la prescia grande, montò a cavallo lui solo, et andò alle sbarre che havevano fatte per sostenere l'ini- mici , e tratanto la sua gente s' armasse. Fece un pezzo resistenza: alfine giunse un fante cou una lau- 324 eia, e ferillo nel costato dri to, e trovandolo disaii- mato arrivò il ferro al core , et ucciselo. Morto Ardizone, tutta la sua yenle fu rotta e robbata. Gua- da{]fnò Simonelto a bottino 200 cavalli e molla robba. Havendo li senesi sentita sì fatta novella, subito man- dorno per un contestabile de' fanti chiamato Pazza- glia, quale haveva raccolto COO fanti di quelli erano stali con Baldaccio fatto moi'ire in Fiorenza dalli signori della città nel modo che udirete. Fatta l'unio- ne de' fiorentini col conte Francesco Sforza, prima che esso si partisse per Lombardia fé far lega tra fiorentini e lucchesi, dicendo a' fiorentini che a dosso a loro non poteva venir gente del duca se non per Lucca : Acciocché lucchesi non habbino occasione ricettare tali genti, a me pare che tal lega si debba fare. E così fu fatto. Accadde fra questo tempo che li fiorentini misero a lor soldo Baldaccio con 400 fanti e 300 cavalli; et essendo presso a Lucca, secre- tamente mandò a dire a' lucchesi che voleva rom- pere guerra se loro non li mandavano X mila fio- rini di previsione. Onde li lucchesi per paura li det- tero 4 mila fiorini d'oro, e poi mandorno a dire al conte Francesco sì fatte cose : del che egli prese gran sdegno, e fé saper a' fiorentini tutto il fatto : e se non ne punivaqo Baldaccio, che lui non man- lerria loro cosa promessa. Li fiorentini mandorno cercando detto Baldaccio: ci andò , et essendo nel palazzo de' signori con lui hebbero molte parole : alla fine gli tagUaro la [testa , e gettaronlo dal- la fenestra. Era detto Baldaccio grande e gras- so , e gran ladro , et haveva poca leanza. Seguito questo, le sue genti chi pigliò in qua, chi in là, et '325 il suddetto Pazzaglia ne raccolse assai secrelaraente a Fìchino che era slato del detto Baldaccio, et appresso Fichino stava Simonetlo con sue gente, e sprovedu- tamente la sera al lardi fu assalito dal detto Pazza- {jlia: dove si fero de' fatti d'arme, e Simonelto per- de 40 cavalli, et assai robba , padiglioni e tende , benché di quelli fanti ne fumo morti gran quantità. Durò la battaglia circa 4 bore di notte, e poi ogn'una delle parti si tirò in dietro, e questo fu di settem- bre. Entrando ottobre, fu d'accordo il papa con se- nesi, e fecero pace, et n'andò il bando in Viterbo airS di detto. Onde Simonetto n'andò in campagna a soccorrere Agnolo di Roccone che faceva guerra col re di Ragona a Ponte Corvo. Era sopra alle genti d'arme della chiesa un vescovo chiamato Alfonso, e con essi andò a Ponte Corvo. Nota, lettore, ch'essendo papa Eugenio IV in Fio- renza anno domini t439 ci venne l'imperatore de' gre. ci, che si dice di Costantinopoli, et altri valentissimi huomini di Grecia: e disputando sopra li fatti della fede cristiana, perchè erano in certi errori , essi si convertirno alla santa fede cattolica, e così tutto il 'lor paese. Et essendo in quel tempo un frate mi- nore chiamato frate Alberto da Sertiano a predicare nell'India maggiore, dove si battezzano col fuoco in fronte e nella guancia ( tale è il lor battesimo ) il detto frate Alberto per virtù di Dio ridusse tutta riodia alla vera fede cristiana. Nel qual paese era i\n gran signore chiamato il prete Giovanni dell'In- dia , e signoreggiava 125 re di corona, e tutto il detto paese si convertì; et il detto frate Alberto menò •eco un gran patriarca di quel paese, e menollo al 326 papa in Fiorenza. Il papa li tenne certi di, e poi li mandò a Roma a sue spese , e per tutte le terre della cristianità, e dove andorno attorno a Roma, li fu fatto grand'honore, e passorno per Viterbo li 8 di ottobre 1441. A Ili 22 del detto mese essendo fatto 1' accordo tra venetlani et il duca di Milano, il conte France- sco Sforza si menò la figlia del duca, quale era sua moglie chiamala donna Bianca, e fece le nozze den- tro Cremona, che il conte ebbe per dote con tritio il cremonese et altre città, e li fé grandissime et ho- norate nozze tanto quanto si potria stimare. Quest'ac- cordo tra il duca, le signorie di Venezia e di Fio- renza, fu fatto per mezzo del conte Francesco e lodo dato dal detto conte ; e fu fatta pace ferma tra le dette signorie. Da questa pace fu escluso papa Eu- genio, il re di Ragona , e la comunità di Genova. Et il conte Francesco diventò bon amico e fratello di Nicolò Piccinino per modo, che detto Nicolò donò al conte Pontreiiioli e Gnara, e molte terre di Lom- bardia. Nel mese di novembre Pazzaglia suddetto con 400 fanti, a petiiione del vescovo d'Orvieto, tolse Monte lovi in quel d'Orvieto; et alli 2 di decembre scorse in quello di Bagnarea, e tolse ben 5000 pecore de' viterbesi e Bagnarea, dicendo che lui rompeva guer- ra con la chiesa a petiiione di Nicolò Piccinmo: e Doo passorno X dì, che di notte tempo entrò con 100 fanti in laibriano , et hebbelo a patti. Così fu co- minciata la guerra nel Patrimonio contro santa chiesa. Ó!; Pure di decembre Ciarpellone venne di Lom- bardia con 600 cavalli e 400 fanti, essendo tornato I 327 in gratia del conte Francesco, e capitò a Siena , e da là n'andò a Piligliano, dove dal conte Aldobran- dino fu ben ricevuto ; e cavò di Pitigliano tutti li fanti et cavalli che ci stavano , e con tutte queste genti andò a dar battaglia a Torri , castello che sta nel piano presso Acquapendente, et in poco spatio l'hebbe per forza, e pigliò Aloigi della Cerbara si- gnore di detto castello . et ferito lo mandò prigione in Acquapendente, terra del conte Francesco Sforza; et in questo modo ruppe guerra con Pietro, Paolo, e Gentile della Cerbaia fratelli logiiinii del detto Aloigi, li quali tenevano Bolseno , Onano, Sugano, Kipabella, Civitella d'Agliano, Castiglione, e molt'al- tre terre di Orvieto, come è Casteiribello, Ponzano, Castel Riccio , la Cerbara et altri luoghi. Questa presa di Torri fu una domenica li 12 del detto mese, e fu messa a sacco. State per alcuni dì le genti del conte Aldobrandino, ritornaro a Piligliano perchè haveva guerra con senesi, eCiarpellone andò ad Or- vieto, dove Gentile dalla Sala, che reggeva dentro per parte Mercorina, li fé grand'honore: et in questo iDodo cercare oflfendere il vescovo d' Orvieto, e li detti Paolo, Pietro , e l'altri capi di parte Muffata usciti d'Orvieto. Ragionavasi che Ciarpellone havesse a dire che fosse huomo del duca di Milano, benché Mercoriui erano Sforz«schii, e Muffati Bracceschi. "'^'" ■ ' ' ' [Sarà continualo) i^q éa{}09td nih u :^28 Sul colle tihurtino. Lettevi; di Stanislao Viola ' al cav. Salvatore Betti. LETTERA VII. Della gente Rubellia tihurtino - romana. na delle posizioni più sublimi eli questo colle li- burtino ci reca a greco- levante alcuni ruderi di co- struzione assai remota , che ricordano la delizia di appartenenza di una delle vetuste sue famiglie , la Rubellia \ la quale , durante la repubblica romana, tramutava dimora da esso colle a Roma, là dove fer- mava suo stato. Roma era ancora repubblicana, quan- do uno di essa gente dettava precetti di retlorica, e n' era sì valente , che e non solo veniva ascritto all'ordine equestre, ma quello che assai monta, da lin lato apriva a' suoi discendenti la via onoranda per salire a' carichi più cospicui dello stato, e dal- l'altro porgeva alla storia una pagina di specialissi- mo commento, poiché l'essere stalo uno di essi di molta riputazione fugli ragione di grande sventura. Le quali cose ci adopreremo sapere nello svolgere in questa lettera le notizie, che ci somministrano e la storia e i marmi particolarmente tiburtini , intor- no a' quali c'interterremo alcun poco per ritrarre con qualche precisione quello farà alla bisogna per la storia meno incerta della mentovata gente. Niun marmo scritto né altro monumento fu dato ritrovare, per quanto io so, fra i detti ruderi : 329 «ndechè polrebbesi non senza motivo muover guerra alla opinione comune, ch'essi non alla Rubellia, ma ad altra gente potessero pertenere. Non per tanto il nome della contrada , Ripoli^ che quel dosso di monte mantenne stabilmente , come originato dai JìuheUiì^ non ce ne fa dubitare, e molto più che v'ha consentimento di quanti intorno a questo scrissero lino ad oggi e antichi e moderni. Dai marmi liburtini appariamo, che un C. Ru- belilo Blando nelle svariate opportunità del cammino di sua vita, e nelle molte cariche sostenute in Roma, era mosso quando da spirito religioso, ed allora ri- staurava monumenti sacri, faceva o scioglieva voti: quando da spirito adulatorio, ed allora innalzava sta- tue a personaggio deificato. Nel primo incontro l'a- nimo suo era volto a Giove^ ad Ercole^ e a Giuno- ne : neir altro a Drusilla. Egli esercitò la questura^ il tribunato della jìlebe^ la pretura: in questa carica era piamente mosso ai numi Giove ed Ercole. Fu console e proconsole : ed in questa si raccomandava a Giunone. Da ultimo fu jmnlefice^ ed allora, tratto per avventura dalla importanza de' tempi, adulava un malvagio imperatore con Io innalzare una sta- tua, o costruire un' ara alla deificata Drusilla. Da' marmi non tiburtini si ritrarranno altri individui di sua discendenza, e dalla storia un personaggio, il cui nome con assai compiacenza era udito presso i romani , ma divenne con la famiglia oggetto dì pietà e di commiserazione. Premessa questa idea intorno ai più illustri per- sonaggi della Rubellia, è innanzi tratto da sapere , ch'essi portavano il cognome di Blando^ che ha ve- G.A.T.CXXVII!. 22 330 ramente il pregio di rarità, non si vedendo usato da altra famiglia (1). La nostra Rubellia (2), per at- testato di Tacito, originava da Tibur: dice egli, che « Giulia di Druso (uso il volgarizzaoiento del Da- )) vanzati), stata moglie di Nerone, si rimaritò a Ru- ») bellio Blando, il cui avolo fu da Tivoli^ cavaliere » romano, e se ne ricordano molti (3) » ; altrove ci reca altresì la stessa notizia (4); cui consente pari- mente la sentenza di Seneca il filosofo, che di più ci ammaestra che un Rubelìio Blando tenne scuola di eloquenza in Roma, e che non uscì di grado di cavaliere romano; Habuit [FoManus philosophus) etiam Blandum rethorem praeceptorem^ qui eques romanus Romae doeuit (5). E questi quel famoso precettore sopra mentovato, la cui eccellenza si ritrae ampia- mente nelle disputazioni che ci tramandò lo stesso Seneca, nelle quali, come interlocutore sapiente, si riportano le molte sue sentenze (6). Né sono lontano dal credere, che di questo Rubelìio Cicerone favelli (sebbene della sua scuola non dia sentore), quando nell'anno 709 scriveva a Cornificio, che « Q. Turio, » uomo dabbene ed onesto , che traficato aveva in » Affrica, aveva scritto suoi eredi altri uomini dab- (1) Cfr. Borghesi, Bull, del 1845, p. 150. (2) La voce lìubcllia trovasi nel pesce chiamalo da Plinio (Sj.. jib. 32, 10) liubeUio, forse a Jìubelius dimiiiulivo di ruber. V. il Vossio Etymol. L. L. v. Jiubeliio. (3) Tacito, Annali L. VI e. 27. (4) Idem L. XiV e 22. (o) Seneca, Prael. ad lib. 2 Contr. (6) Idem, Conlroy. lib. I, p. 271 e 303, lib. IF, p. 333, 3'i3 e 3G6, lib. VII, p. 434, 463, 469,476 e 484; lib. IX, p. 303, 304, S24, 533, 8'41, 544j lib. X, p. 379. E<\ Lugduni. 331 » bene com'esso, Cn. Saturnino, Sesto Aufidio, Caio K Anneo, Q. Considio Gallo, L. Servilio Postumo, e » C. Ruhellio (\) ». YA è cosa assennata, che Ru- bellio sia nominalo per ultimo , non tanto perchè sarà forse stato il più (giovine, quanto perchè era un semplice cavaliere. E da esso m' avviso sia nato quel C. Rubellio Blando, che fu triumviro monetale , di cui si hanno varie medagliuzze, in alcune delle quali sì legge : C. RVBELLIVS. BLANDVS. IIL VIB. A. A. A. F. F. (2) Le quali danno certamente l'epoca anteriore al 750 , sapendosi che dopo la metà del secolo ottavo cessò il costume di notare sulle mo- nete il nome de' prefetti della zecca (3). Ho poi per fermo, che questo triumviro monetale era il padre di quel Blando (4) che rileveiemo nei tre marmi tiburtini, de' quali si parlerà fra poco , nell' ultimo de' quali ritrarransi lo stesso prenome del padre, e tutte le cariche sostenute da lui, cominciando dalla questura, passando al tribunato della plebe, da que- sto alla pretura, al consolato, al proconsolato , fino al pontificato. Il seguente, che io i-eco prima degli altri, fu inciso, a mio parere, nell'anno 7G4, in cui sosteneva la pretura : !OVI. PRAESTITI HERCVEES. VICTOR. DICAVIT BLANDVS. PR. RfiSTITVIT (1) Cicerone, |ib. 12. ep. 26. (2) Orsino nelle noie a Tacilo sul lib. Ili, 21. (3) Cfr. Borgiiesi I. e p. 133. (4) Cl'r. lo slesso Borghesi I. e. 332 La iscrizione è impressa in una {];rand' ara di marmo statuario bianco, di forma quadra, alta pal- mi 3. 9, larga 3. 18 : ed è riferito dagli scrittori che fu ritrovata insieme con tante altre fra le ro- vine del tempio d'Ercole, quando nel 1640 sopra di esse il cardinal Roma rifabbricava la chiesa del martire s. Lorenzo. La pubblic»Tva primieramente il Grutero (1); dappoi il Muratori (2), dopo di averne pubblicata altra consimile , meno l'ultima linea ri- tratta , siccome dice , da un urceolo di terra cotta del collegio romano, manifeslando , senza ragione, dubbi sulla loro antichità (3j; quindi il Volpi (4), i Cabrai e Del Re (5); il mio dotto genitore (6); il eh. Sebastiani (T) ; l'Orelli che senza ragione lo annoverò parimente tra le spurie (8) ; io stesso in altro incontro (9); da ultimo il chiarissimo fvlomrascn nel bullettino di corrispondenza archeologica (10) , là dove con molto senno si oppone alla sentenza dell'Orelli, e conchiude sulT autorità degli scrittori liburtini per la sua autenticità. (1) Gnu. 1065, 2. Tiburc in marviore quadralo Utcris abso- lulissimis. (2) Miir. p. 1977, 12. Tiburc ex /'. Didaco lìcvHUis. (3) Pag. 10, 6. lUrma in collegio S. l. in urceolo fiijiilino. Misit /'. ylntonius ConlMcci museo kircheriano lìracfectus: lOVI l'UAKSTl- TI II IIEUCVLES . VICTOR \\ DIC.WIT. Altcrum fere similcm dcdit Gruterus, p. 1065, 2. Ferum de antiquilate utriusque dubitare licei . (4) L. V. «le Tiburt. lib. 18, cap. 4, p. 120. (5) Monumenti e ville della ciUà (Ji Tivoli, p. 11. (6) Viola, St. di Tivoli, l. I, p. 280. (7) Viajjgio a Tivoli, |>. 141. (8) Orelli, Inscripl. lai. n. 123:). (y) Gioni. Arcaci., l. CV del 1843. (10) Bullelt. del 1846, p. 91. 333 Questa grancl'ara esiste al presente nella piazza del Gesù, dieontro la chiesa, sotto una immagine di N. Donna. L'epigrafe sta nella parte posterà verso il muro, e nella parte ante si legge una iscrizione di pessimi caratteri appena intelligibili (1). La epigrafe ci rappresenta, se non m'inganno, l'immagine di quel raccontamento favoloso intorno alla pugna di Ercole coi giganti, il quale per la pioggia di sassi impe- (1) M' avviso , che faccia menzione della serie delle reliquie sacre ch'esistevano nella chiesa di s. Saba presso la mentovata di s. Lorenzo, sapendosi che fuvvi trasportata per opera di Grego- l-io XIII, quando fece portare nella chiesa del Gesù e di s. Sinfo- rosa tutte le supellettili e reliquie di quella di s. Saba^ e con esse concedeale i redditi del fondo Vitriano (Volpi l. e. p. 121) , ora del sig. duca Braschi Onesti. Per gli amatori delle iscrizioni cristiane 1j( trascrivo qui appresso alla meglio che potrò: REI . S . PETRI APLF + AISN . DNI . Mo. CXXXVIllVlNO li . BIS . DEC . D . XIII . AD . HONORE D . N . 1 . X . ET . BAT . M . S . V . ET . B . ANDRE {sic} ET SABE {sic) ET . AD HONORE . SCORV QVORV RELIQVE HIC ... NT DE LIGNO CRVCIS . ET DE VESTIRI . . ._DE VES EM . D . E . I . RBA . TE E . M . D . SE SABI . CESAR . VPOL . TI . licO D . I . S . D . ZOTICI FIL DEDICATV EST HOC TEPLV P MAN DOMNI GVIDONI TIBVR TINI EPC KOCNTFODM NICOL JlSEmomS HVIECCLE RECTORIS nel plinto ANASTASIAE MARTHA B MERENT^ UE SOPHIE . ETATE {sic) QVORYl NOMINA . R da un Iato VBI SANTI {sic) ETD 334 Irata dal padre Giove, ne usciva vincitore , di che si ha la notizia presso Pomponio Mela : In Gallia narbonansi littus ignobile est lapideum^ uti voeant , in quo Hereidem eontra Antrodum et Borgiam Ne- ptuni filios dimieantem, cum tela defecissent^ ab in- vocato love adiutmn inibrc lapidum ferunt (]). Il che m'avviso ha originato ad Ercole, come il titolo di Saxano che si ritrae parimente dai marmi tibur- tini (2) e d'altrove (3), alla stessa maniera quello di lapidario (4), e più assai l'altro di Victor^ che si ha per fermo essere stato il vero titolo attribuito all'Er- cole tiburlino come da marmi moltissimi , che ha recati e reca tutto giorno il nostro terreno. Né parmi di qndare errato , se al mentovato fatto mitico io applico il lavoro statuario riferito dai citati Cabrai e Del Re sull'autorità del Zappi, che fu ritrovato fra le rovine del nominato tempio , rappresentante Ercole con un ginocchio piegato in alto di prega- re; e se ciò fu, è d'avvisare, che Giove in esso gruppo (\) V. il Klrcker, tat. , t. 3, p. 2, cap. I. in fine, ed il Volpi I. e. ciip. 4, p. HO. (2) Recherò il seguente per la sua importanza, poiché ci sta- bilisce, che nell'anno 225, terzo anno dell'impero di Alessandro Se- vero, il tempio d'Ercole tu ristaurato, fra le cui rovine fu ritro- vato : HERCVLI . SAXAiNO . SACRVM SER . SVLPICIVS . TROPHIMVS PECVNIA . SVA . A . SOLO . RESTITVIT . IDEMQVE DEDICAVIT . K . DECEMBR. L , TVRPILIO . DEXTRO . M . MAECIO . RVFO . COS EVTYCIIVS . SER . PERAGENDVM . CVRAVIT (3) Orelli, n. 2007, 2008, 2009, 201o, 2011. (4} Idem n 2012. 335 aveva la parte principale. E come è da immafjinare, l'ara in discorso doveva stare innanzi al gruppo, che dai nominali scrittori fu tortamente giudicato un pie- distallo. A Giove poi parmi sanamente attribuito il titolo di PRAESTITl , come quello, che ci addita il conforto, la custodia, e protezione, che nel riferito periglioso frangente facevano alla bisogna di Ercole: per il che osserviamo esso titolo esser divenuto co* gnome dei Lari pubblici, ai quali era dato di con- servare la città regina, e da poi lo si estese pari- mente ai luoghi ad essa soggetti (1). Né Ovidio, fa- vellando di questi iddii, omise di spiegare l'origine di quella voce a praestando omnia tuta (2) : voce che si rinviene parimente in altri marmi (3). La pretura di Blando, già è detto, che fu pre- ceduta dalle cariche di questore e di tribuno della plebe. Le quali egli sostenne in tempi non molto tranquilli , almeno non propizi per eventualità di non buona fortuna; poiché la questura avvenne ap- punto nell'anno della disfatta di Quintilio Varo nella Germania, il tribunato della plebe nell'anno appres- so, in cui Tiberio mosse alla volta di quella pro- vincia per vendicare la strage che si era fatta delle romane legioni, per le quali Augusto ne prese tanta maninconia e dispiacere, che si lasciò crescere per parecchi mesi continovi la barba e i capelli; ed al- (i) Dii Praestites cognomen est Larium puhlicorum, hoc est eo rum, qui urbis sunt cuslodes, ideoque in cowpitis, scmiiis , in viis publicis statuebanlur. Dicti sunt a praestando , quod omnia, tuta praeslarent, idest tuerentur et conservarent. Fercelliiii,Leii. v. Praestes. (i) Ovidio, Fasti lib. V, v. 133. (2) Grulpio22, 1. 336 cuna volta si batteva il capo negli stipili delle por- te, gridando ad alta v oce : Quintili Vare , legiones redde (1). Assunse poi la pretura, quando i rooaa- ni e Io stesso Augusto erano per la mentovata sventura assai in isgomento, temendo ancora che gli alemanni potessero piombare sull'Italia: sebbene due anni dappoi, cioè nell'anno 766 di Roma, 12 di Cristo, avvenisse altramente, poiché Tiberio, vendi- cate le legioni , tornava in Roma cogli allori del trionfo (2). Non è quindi fuori di ragione, se Blando in siffatti turbinosi frangenti moveva coll'animo a Giove e ad Ercole per esser protetto , e ad un tempo si adoperava del ristauro summentovato e della dedica, correndo l'anno della sua pretura, cioè il 764-10; sapendo egli, che i romani nella guerra contro a' cim- bri, ed in quella contro a' marsi, s'erano comportati a questa maniera , e che lo stesso Augusto nella sventura sumraentovata di Varo, imitandoli , aveva parimente fatto voto a Giove di celebrare in suo onore i giuochi circensi, se la repubblica si ridu- ceva in miglior essere: Vovit et maynos ludos lOVf OPTIMO MAXIMO^ si rcspubiica in meliorem slnium vertisset : quod factum cimhrico marsicoque bello erat (3): e di simil guisa operando, avrà avuta fer- ma fiducia di riuscire a doveie nella dilìieil carica di pretore. Dal che origina sanamente, che Blando sosteneva questo carico in Roma, e non mai nel no- (1) SveL. in Auf[. cap. 23 e in Tib. e. il. (2) Tiilemon», llist. des Emp., t. I, art. XV e XVI, p. 42 e segg. (3) Svetonio, loc. ci(. 337 Siro municipio , come lian creduto per errore più scriUori, ed io stesso in altra opportunità (I^: e per- ciò prevalendomi di questo incontro, ne fo ammenda: poiché, come ci avverte sapientemente il Maff'ei, in Italia avanti Costantino presidi non si mandavano, e non avevano luogo (2). Con che peraltro non in- tendo dire , che non potevano esservi pretori mu- nicipali , ritraendosi dai marmi un C. Giulio Rufo prncture ferenlinate (3), un praetor Capenas (4), un praelor nntiatinus (5), un prnelor puteolamis f6;. Ad xVugusto, morto nelT anno 707, succedeva Tiberio, nel cui terzo anno d'impero, e precisamente al secondo semestre del 770, Blando come suffetto ascese alla maggior curule con C. Asinio Pollione. E fu tutta sapienza del Borghesi di riliarli surro- gati agli ordinari C. Cecilio Rufo e L. Pomponio Fiacco nella trattazione esimia intorno alla seguente lapida (7), veduta in Roma dal Sirmondo , riferita dal Reinesio (8], dal Malvasia (9), dal Lupi (10) , e dal Muratori (11) : (1) Diss. stilla patria e sulla gente di h. Munazio Fianco, p. Iti. (2) Maflfi , Lett. al P. Bernardo de Riibeis sulle antichità di flrcolnno, p. 31. (3) Grut. 424, 7. (4) Gud. 91,8, Murai. 239,6, 1033,6. (5) Mur. 1024,3. (6) Spon. 182, 3 Cfr. Otto a.'dil. p. 73. Ignarra Pai. Ncap p. 162, e sopra tutti l'Orelli, n. 3785. (7) Borghesi I. e. p. 150 e segg. (8) Class. XVIII, n. 32. (9) Pag. 3. (10) Diss. e Iclt. p. 172. (11) Mur. 301, 3. 338 CALPVRNIAE . DONATAE DECESSIT . mi . NON . SEPT BLANDO . ET . POLLIONE . COS Tacito è il solo che favella del nostro Blando, quando era già consolare, e precisamente nell' anno 773-10, in cui nel senato di Roma ebbe luogo la causa di una Emilia Lepida di tentato avvelenamento di suo marito Sulpicio Quirino, nella quale la sentenza di lui prevalse a quella degli altri. « Le fu tolto, dice » l'annalista, acqua e fuoco, come pronunziò Ru- » bellio Blando seguitato da Druso, se bene altri » volevano njeno rigore (■!).» Allo scorcio dell'anno appresso 774-21 fu parimente impegnato, come giu- dice, in altra causa. « G. Lutorio Prisco cavaliere ro- » mano, dice lo stesso annalista, dopo avergli Cesare » donato per aver pianto con una lodata canzone la V morte di Germanico, fu accusato d'averla compo- » sta prima, quando Druso ammalò, e detto batlen- » dosi l'anca; Domine fallo triste quel Druso, che » non crepò: che n'avrei buscato altra mancia. » Lutorio era difeso da Manio Lepido, e Blando fu il solo che consentisse la sua sentenza. « Rubellio Blan- » do solo, prosegue a dir Tacito, uomo consolare, » seguitò Lepido; tutti gli altri Agrippa. Prisco fu in- » carcerato, e caldo caldo ucciso (2).» Il che mostra manifestamente , eh' egli era un uomo assennato e dotto in ogni divina e umana ragione. Di vero dopo una mano di tempo lo vediamo onorato del pro- (1) Tacito, Ann. Ili, 23. (2) Idem I. e. cap. 31. 339 consolato di una provincia, come da altro njartwo parimente tiburtino concepito cosi: IVNONI . ARGEIAE C. BLAi^DVS . PKOCOS Dove esista al presente questo marmo non sa- prei dirlo. Del suo ritrovamento in questo colle non è a dubitare, convenendovi gli scrittori delle cose di Tivoli, non esclusi i grandi collettori. Si legge difatti nel Grutero (1), nel Volpi (2), nel Muratori (3), nei Cabrai e del Re (4), nelle opere di mio padre (5), nel Sebastiani (6), nell'Orelli (7), ed in una mia operet- ta (8). Farmi che la iscrizione doveva decorare la base del simulacro, che il proconsole Blando innalzava alla dea Giunone, non saprei precisare, se nel tempio di altra divinità, sapendo dal Grutero, che fu ritrovata nella chiesa di s. Caterina poco lungi dal tempio di Ercole, ovvero nel tempio che in realtà si venerava in Tivoli là dove oggi esiste la chiesa di s. Biagio presso la piazza della Regina (9): il che conveniva (1) Pag. 24, H. Tibure in tempio s. Calharinae circa basirti exitniam: ex Apiano. (2) Lat. vet. lib. 18 e. 6, p. 212. Ve lunone quoque alius Ti- bure prostans aede s. Catharinae , quam lunonis tcmplum fuisse Gruterus cxislimavit. Si avverta che il Grutero favella Ji una base e non eli un tempio. (3) Pag. 14, 7 — Tibure e schedis ambrosianae bibliothecae. (4) iMoniim. e ville, p. 27. (o) Stor. di Tivoli, [. 1, 32 e 280. (0) Viaggio a Tivoli, p. 359. (7) Oreili n, 1289. (8) Tivoli nel deoeunio ecc., p. 202. (y) Il seguente m.nrmo pubblicato dal Grillerò 16, i: Tibure e 340 sanamente ad una divinità maggiore, quale è Giu- none: ed in questo caso, eome cosa più verosimile, è da ritenere, che quella base ne' tempi anelati ve- nisse tramutata di luogo per comodo di fabbricare. Il culto di Giunone passò, come io accennava nella citata mia opera, coi pelasgi dell'Argolide nelle terre poscia occupate dagli etruschi e nel Lazio, e forse la nostra IViNONI ARGEIAE^, o argivae, o ar- geae , era la stessa che altrove fu venerata sotto il nome di Giunone Populona , come divinità sospita . liberatrice ed arabba nokioìg ■npoiJ.aynq , PRAESES , col qual titolo è detta in una delle tre stele peanesi edite nel Bull. Archeol. Nap. del 1846 (1). Parrai nuUaostante che IVNO , come in altre iscrizioni, alla stessa maniera nella nostra, s'abbia (ormando la sa- pienza del Marini (2) ) da interpretare per genio.) come IVNONI IIISTORIAE dell' erma acefala, da esso citata , del museo vaticano come i geni : del libro e della fama , che leggiamo in Marziale (3) : parimente Junonibus sacrum di un marmo di Aqui- leia (4) ; cioè Jimonihus clearum omnium ; quindi lunones Augustae^ limo Claudia^ lulia^ lunia di altri marmi romani (5). E sebbene queWargeiae^ o ar- schedis meis, e dal Sebastiani (I. e. p. 473) ritrovato fra i ruderi an- tichi sotto la chiesa di s. Biagio , ci addila che da esso la nomi- nata piazza della regina ne trasse e ne conserva il nome: LVVIA . M . F . POSTVMA II SIGNVM . ET . BASIM . D |1 IVNONI . REG . SACRVM. (1) V. il eh. P. Garrucci sui piombi antichi delfemo Altieri (2) F. A. p. 369. (3) L. VI. Ep. 60 e L. VII. ep. 2. (4) Grut. 24, 2. (3) Idem 24, 14, 23, 9 e 10. ?A I (jivae^ potesse indicare la terra tli orijjine della di- vinità, com'è detto, dall'Argolidc, tuttavia non è fuori di senno, che C. Rubellio Blando con quel simu- lacro abbia voluto indicare il genio della patria dei suoi avi, cioè Tivoli \ e come quando era pretore rivolse l'animo ad Ercole dio suo tutelare, allo stes- so modo , divenuto proconsole di una provincia , avrà pensato all'origine sua argiva per quel d'Oia- zio : Tihur arijaeo positwn colono (1) ; e per l'altro di Ovidio: Tibur argaeum (2): per il che avrà dato a Giunone il titolo di argiva. Però dai libri non è dato ritrarre l'anno pre- ciso, in cui ebbe la carica di proconsole, e molto meno di quale provincia si adoperasse. Stando pe- raltro al sistema che si aveva presso i romani, che le province consolari si conferivano dieci anni dopo il consolato , è da inferire che Blando non polè aver la provincia prima dell'anno 780: e parmi con molta probabilità , per quanto rilevo dagli annali (tutto che non siano errati) possa determinarsi il 783, sotto i consoli M, Vinicio Quartino (o Surdino) e Caio Cassio Longino, in cui non si sa quali provin- ce fossero conferite, ed a chi toccasse un tant'onore. Si conosce d'altra parte, che nel precedente anno 782 toccò la Betica col titolo di propretore a Gneo Do- mizio Aenobarbo padre di Nerone imperatore , il quale Corduhatn poterdissimam urbem^ quae dcscive* ral^ recepii-^ e nell'anno 784, come legato propre- tore dì Tiberio, fu allidata a Sul[)icio Galba l'Aqui- H) Orazio L. 2. od. 0. f2) Ovidio, Amor. 6^ 40, 342 taoia (1). Dunque non sarà dissennala la naia con- phiellura, se fisso il pensiero all' anno 783 , senza poter dire con certezza quale si fu la provincia , nulla su di essa favellando la iscrizione che Dlando incideva alla dea Giunone appunto nell'anno di que- sta carica. Né se ne fa ulile ricerca nelle storie di questi tempi, dicendoci lo stesso annalista romano , che huius anni (783j acta in Taciti Uh. V deside- ranlnv (2). In tanta oscurità e scarsezza di elemen- ti, non potrebbe farsi luogo ad una bizzarria, e cre- dersi che la provincia toccata a Blando fosse di Gre- cia? A me nasce il sospetto dall'attributo ARGEIAE dato a Giunone. Potrebbe darsi, che Rubellio prima di paitire alla volta della provincia , che m' avviso ellenica, fosse mosso da una doppia idea: da quella della terra natale degli avi suoi di origine greca , e dall'altra della provincia, dove si portava. Per con- dur quivi una vita manca di ogni pericolo , avrà per avventura incarnato entrambe le idee: per il che innalzava un simulacro alla mentovata divinità, os- sia al genio argivo IVNONI ARGIVAE, sapendosi d' altra parte che luno è domandata a iuvando (3). Per la qual ragione Eleno figliuol di Priamo appo le rive del nuovo Simoenta consigliava Enea nel conquisto d'Italia : » Sovra tutto io t'assenno e ti predico, .) Ti ripeto più volte, e ti rammento: (1) Pìghio, Annali rom. I 3, p. 33() e scgj]. (2) Idem 1. e. p. 557. (3) Forcellini v. luno. 343 » La gran Giunone invoca: a Giunon voli » E prejjhi e doni e sacrifici offrisci » Devotamente; che, lei vinta, al fine » Terrai d'Italia il desiato lito (1). Enea non fu sordo al consiglio di Eleno, di guisa che giunto alle spiagge italiane gli obbediva : » In su la riva » Altari ergemmo: e noi d'intorno, come » Eleno ci ammonì, le teste avvolte )► Di frigio ammanto, a la gran Giuno Argiva » Preghiere e doni e sacrifizi offrimmo (2). Nel tempo che Blando sotto Tiberio progre- diva negli onori , viveva in Iloma altro Rubellio cognominato Geuiino^ di cui la storia non reca altro che il consolalo sostenuto con C. Furio (altri il do- manda Fufio) Gemino, nell' anno 782 , e che sotto questi due Gemini avvenne la morte di Cristo Re- dentore (3). M'avviso ch'egli non era un figliuolo, come ha inteso il Volpi (4), del console del 770, ma piuttosto un fratello suo minore; in conseguenza figliuolo del triumviro monetale, di cui s'è di so- pra favellato : nulla ponendo in essere la diversità del cognome , sapendosi che i cognomi , quando (1) Virgilio, Eneid. lili. 3. v. ìSo e segg. Tratl. del Caro. (2) Idem 1. e. v. 543 segg. (e) Quibus consulibus (dice il Forccllini v. Geminus) an. IV. C- 7S2 crurifirus est Christus redemptur no.sler, Itine passim legere est apud anliquos scriptvres, illmn mortmim fuisse, Geminis consulibus. (4) Volpi 1. o. p. 532. 344 erano più fratelli, si adatta vano all'opportunità (I), ed il Gemiìius avrà certamente avuta origine dall'es- sere Rubellio venuto alla luce con altro in uno stesso parto (2) ; ondechè è divenuto cognome romano , che si vede portato dalle genti Aburia^ Altidia^ Va- ria^ e da altre (3). Ma i marmi non tacciono , e molto meno la storia, del proconsolare Rubellio. Avvi il seguente marmo tiburtino, che al riunire tutte le cariche già noverate, ne aggiunge altra, cioè il ponlificato^ pen- dente il quale inci devaio egli stesso in una epigrafe, tutto che la storia nulla ci dica di essa carica : DIVAE . DRVSILLAE SACRVM C . RVBELLIVS . C . F . BLANDVS Q . DIVI . AVG . TR . PL . PR . COS PROCOS . PONTIF Questa epigrafe sta scolpita in una base di sta- tua. Altri vuole , che fu dissepolta presso i tempii di Vesta e della sibilla; altri fra i ruderi presso la chiesa di s. Silvestro , che appartennero al tempio di Ercole. Esiste al presente nel museo capitolino. La pubblicava il Marzi (4), il Volpi (5) , il Mura- li) Forcellini. v. Cognomen. (2) Idem v. gcminus , gemello , binato SiSu/xoj , qtii cum alio eodem partu editus est. (3) Idem I. e. Geminus, fuit etiam cognomen romanum, neinpo L. Ruben ii et C- Fufii . . ■ fuit praeterea cognomen in gente yfou- ria, Attidia, Varia, aliisque. (4) Ilist. Tib. lib. 6, p. 186. (8) L. e. lib. IG. e. 6, p. 213. 345 lori che al suo tempo la vide nel museo Albani (1), il Crocchiaate (2), i Cabrai e Del Uè (3), il Fea (4), mìo padre (5) , il Sebastiani (G) , 1' Orelli (7) e da ultimo il sommo Borghesi più correttamente de- gli altri (8). I precedenti alla quarta linea recano LEG- DIVI. AVG, tranne il Muratori, che vi scrisse SAC. DIVI. AVG, anzi xA^e Quaestor , che il solo Borghesi vi ritrasse, a mio avviso, con sapiente con- siglioj poiché il marmo è scritto non mai per ra- gione inversa, ma secondo l'ordine cronologico. Essa carica fu la pr ima ch'esercitò, e gli fece strada alle maggiori: per il che come viene rigettata la lega- zione prima del tribunato della plebe , alla stessa maniera il sacerdozio, cui d'altra parte non s'inten- de come Rubellio potè essere ascritto prima delle cariche minori. Il Fea tiene altro ordine di parole; lascia, il prenome C. in Ruhellius-^ lascia il Q. in- nanzi il divi Aiigiisli] omette in ime PROCOS, carica penultima di Rubellio. Nell'anno appresso 785-30, reduce Blando dal- l'amministrazione della provincia proconsolare, m'av- viso eh' avesse il pontificalo : e sta sanamente che nel marmo sia per ultimo incìso , sapendosi da Se- neca, che citammo già in un canto della lettera V, (1) Pag. 301,2 — Tiburc olim, nunc liumac in museo albana. E sclicdìs nieis. (2) St. delle di. lib. p. 13fl. (3) Montini, p. 23. (•'«) .Miscellanea p. 10. (5) Si. ai Tivoli, t. 1. p. 273. (6) Via^;;;io a Tivoli, p. tì4. (7) Oi-elli 11. C7'(. (8) IJullell. ili C. A. del 1845 p. 151. G.A.T.CXXVIII. 23 346 che in Roma non si conferiva generalmente il sa- cerdozio sotto r impero , che dopo il sommo dejjli onori (1). Ora che pel testé riferito marmo sappiamo tutte le cariche di Blando, parmi si possano, per quanto è in noi, ritrarre in quali anni di sua \ila ne fu onorato. Ponendo per base l'anno 770 del suo con- solato sufFetto con Pollione ; l' anno 764 della sua pretura ; aggiugneremo (procedendo con passo re- trogrado), che al 763 ebbe il tribunato della plebe, e neir anno innanzi 762 la questura ; e ritenendo ferma la costituzione di Augusto del 727 , che per esser console non si richiedevano più di 32 anni compiuti, ne inferiremo , che Blando all' età di 25 anni esercitò la questura , di 26 il tribunato della plebe, di 27 la pretura , di 33 o 34 il consolato , di 44 o 45 il proconsolalo di una provincia, e da ultimo di 46 o 47 il pontificato, che per esser per- petuo ritenne fino a che visse. Fu onorato del pontificalo senza meno per vo- lontà di Tiberio: per lo che non sono lontano dal credere, che vi si sottintenda o il Caesaris^ o il I>o- mus Angustae^ traendone argomento dai marmi (2). In siffatta guisa salita a tanta altezza la sua ono- ranza, il mentovalo imperatore volle poco dappoi, o sullo scorcio dell'anno 786-32, o sui primi dell'anno vegnente , che si sposasse con Giulia nata dal suo figliuolo Druso, già moglie di Nerone. Roma in quei momenti era alquanto turbata per la morte di Agrip- (1) Seneca, De ira I. 3. t. 3t. (2) Creili 11. 116, 2158, 2167 e 2308. 347 pina vedova del virtuoso Germanico, per quella di Cocceio Nerva , uomo assai dotto e confidente di Tiberio, per quella di Plancina , moglie di Pisene, sebbene rea di molte peccata : non poteva quindi arridere il mentovato matrimonio, di modo che Ta- cito si fa a dire, che : « A tanti duoli e pianti della » città s'aggiunse, che Giulia di Druso, stata mo- » glie di Nerone, si maritò a Rubellio Blando , il » cui avolo fu da Tivoli cavaliere romano (1) ». E come è da inferire pel calcolo di sopra conto , questo matrimonio non potè succedere, che quando Rubellio aveva l' età di 49 o 50 anni , o in quel torno. Tre anni di poi (789-3G), mentre presso Seleu- cia Abdagese e Tiridate si contendevano con le armi le sorti del regno , un fiero incendio danneggiava Roma, arso il circo alla parte dell'Aventino, ed esso Aventino, Tiberio a riparare i danni impiega cento milioni di sesterzi, ossia milioni due e mezzo d'oro; ad estimarli furono prescelti, l'anno appresso, quat- tro suoi progeneri, fra' quali Rubellio Blando: « Fece » stimare il danno di ciascuno, dice Tacito, da quat- » tro mariti di sue bisnipoti, Gn. Comizio, Cassio » Longino, M. Vinicio, Rubellio Blando , e i con- » soli nominaron P. Petronio per quinto 12) ». Dopo la qual ventura, né la storia, né i marmi favellano di vantaggio di Caio Rubellio Blando: il perchè è d'avvisare essere avvenuta in questi anni la sua morte. Salito egli a si alto grado di onori, (J) Tacilo lib. VI, 27 annali. (2) Tacito 1. e. cap. 45. 348 e nobilitalo pel maritaggio contratto con donna di sangue imperiale, avrebbe dovuto fare certamente una qualche comparsa, se fosse stato ancor \ivo. Nep- pur si sa, se premoria a Giulia sua consorte, che ci conta la storia esser morta per la malevolenza di Messalina nell'anno 796-42 (1). Se di lui non si ha più sentore , non è alla stessa maniera de' suoi figliuoli nati del mentovato matrimonio. Si ha per fermo, anche sull'autorità del Reinesio, del Fabrelti, e deU'Orelli, che il seguente marmo ritrovato in Roma in hortis Matlheiorum ci rechi un figliuolo di lui , ch'ebbe comune il latte, di cui si nudrì Comunione servo di Antonia Augusta: COMMVNIO . VERNA ANTONIAE . AVGVSTAE V . A . II . MES . X COLLACTEVS . DRVSI BLANDI . F (2) Questo marmo segna precisamente l'anno 791-37, primo del regno di Caligola: e lo deduco dal sapere che Caligola, dopo di aver reso gli omaggi alle ce- neri di sua madre e de' suoi figliuoli, dava in detto anno ad Antonia sua avola, oltre la qualità di sa- cerdotessa di Augusto, e molli onori che Livia non mai aveva avuti, anche quello di AUGUSTA, con- (1) Dione L. LX. e. Ijj- (2) Fiibrelti p. 484, 3^; Ordii n. 678. — Jd qucm (dice il Fa- liruUi ) Heincsius class. IX n. 16 stemma huius liubcllii Brusi a TiHriu proavo dcducit: fuit quippc fllius lìubellii Blandi, Tiberi i progeneri, viri sciUcet luliae Brusi ftUac. 349 forme ci narrano Dione e Tillonfiont (I). Né ad al- tro anno può (rarsi la mentovata circostanza: per- chè sul finire dello stesso anno , secondo lo stesso Dione, l'ava Antonia per lui fu morta (2). In con- seguenza il fanciullo Druso figliuolo di Blando -ve- niva alla luce nell'anno 789, quando appunto suc- cedeva l'incendio del circo e dell'Aventino (3). Non si trova di lui fatta menzione presso gli storici , e forse sarà morto ben presto. Seppure non si voglia credere , che fosse lo stesso Rubellio cognominato Plauto^ da altri Piando, e da altri Blando, che fu personaggio riputalo per saggezza di animo e per costumi, e ad un tempo infelicissimo con la intera sua famiglia; sebbene io abbia per fermo ch'era un suo fratello. E come fratello del mentovato fanciullo, e come figliuolo del console del 770, porge materia al proce- dimento di questa lettv'^ra. La nobiltà de' natali di lui, e le belle virtù di che era adorno, lo resero sì caro e amato al popolo romano, che l'imperator Nerone ingelosinne. Gotal gelosia fu mossa innanzi tutto dalle manovre indegne di Giulia Silana, la quale per pri- vata nimicizia con Agrippina, figliuola di Germa- nico, si fece scudo (correndo l'anno 808-55) della nequizia d'Titurio e Calvisio, per accusare Rubellio Plauto , come associato con Agrippina ad una co- spirazione contra il sovrano. « Ella (Giulia Silana) » colto il tempo da vendicarsi (dice Tacito), ordina » che Titurio e Calvisio sue creature l'accusino non di (1) Dione lìb. 39. Tillomont l. I, p. 133. (2) I.lem I. e. (3) Tacilo lib. VF, 45. 350 » piagnere la morte di Brilaanico, e contar gli stra- » pazzauienti d'Ottavia, cose vecchie e stracche, ma » d'ordire novità con Rubellio Plauto disceso per « madre da Augusto in pari grado che Nerone, e » torlo per marito , e di nuovo la repubblica oc- ft cupare(l) ». Ma sebbene cotesta accusa non avesse compimento, tuttavia non fecero tregua le suspicio- ni nel malvagio imperatore, le quali dappoi gli si aumentarono in modo da non credere, quando nel- l'anno 813-60, come si trae da Tacito, apparve una stella cometa , donde il volgo di quel tempo pro- nosticava mutamento di princìpi. « Onde, come Ne- » rone fusse cacciato, si ragionava dello scambio. Ce- » lebrava ognuno Rubellio Plauto, eh' era di casa » Giulia per madre: osservava i costumi antichi: ve- » stiva modesto: viveva onesto g. ritirato: e quanto » più per paura nascondeva sue qualità, più se ne » diceva. Accrebbe il romore un segno vano altresì » d'una folgore, la quale, mangiando Nerone a Ti- » voli alle acque simbruine, luogo detto a Sollago » (oggi Subiaco), mandò la mensa e le vivande sos- )t sopra. E perchè Plauto traeva sua origine quin- » di, si credeva che gl'iddii il volessero ». Di guisa che Nerone da tali cose commosso, e soprappreso da follia, scrisse a Plauto : « Che per fuggire scandoli » del popolaccio, che a torto lo caricava, si causasse » in Asia a godervi ne' suoi beni antichi ['I) in pace (i) Tacito lib. Xill, 19. (2) Se Nerone all'ironia non congiungeva anche la menzogna (come parmi) , convien dire che la storia ci è assai avara. Parlan- do in questo passo de' beni antichi di Rubellio Plauto, ci fa cre- dere che i Ilubellii erano in antico molto ricchi- il che dimostra 351 » e sicuro la sua gioventù, E cosi fece con la mo- » glie e poca famiglia (1) ». A questo modo Ru- bellio nel fiore degli anni (giacché non poteva averne più di 27) con la consorte Antistia e la tenera fa- migliuola nello stesso anno, settimo dell'impero di Nerone, per violenza sovrana si straniava di Roma movendo in regioni lontane. Plauto però neppur colà si ebbe pace. Ti gel- lino, cortigiano malvagio di Nerone, si adoperò presso di lui a danno tanto di Plauto, che di Siila esiliato nella Gallia Narbonese. Couciossiachè decorso non era un biennio dal mentovato esilio, che il tiranno faceva primieramente uccidere il povero Siila ri- covrato in Marsiglia, mcntr'era a mensa , e dappoi Rubellio Plauto. Questi, se voleva, poteva tentare sua salvezza: ma noi volle. Sprezzò i consigli del suo- cero Lucio Antistio Vetere , che per un liberto di lui gli scriveva : »« Non volesse vilmente morire : u starsi a man giunte: raccomandarsi: far'iacrescere » del suo gran nome; ttoverebbe de' buoni: ragu- » nerebbe de' bravi: non di^sprezzasse niuno aiuto: » resistesse a sessanta soldati , che tanti Nerone ne » mandava Plauto non se uè mosse , o per » non isperare , così disarmato e in esilio, alcuno che salissero a' grandi onori; seppure non si vo^jlia sospeUare, che di qne'hcni fosse autore il proconsole, di cui sé parlato , e gli acquistasse durante l' amministrazione della provincia. In questo «aso rinunceremmo alla bizzarria , che la provincia era di Grecia, essendo in vece di Asia. Però Vavitos agros di Tacito mi fa so- spettare, anzi ritenere, che parli di un tempo che precedette quello del padre di Plauto. (1) Tacito lib. XIV. 22. 352 » aiolo , o per non tentare cosa sì dubbia , o per » amor della moglie e figliuoli, \erso i quali spe- » rava il principe più dolce, niente irritandolo. Al- » cuni vogliono, che il suocero gli mandasse altri » avvisi, che non vi era pericolo: e che due lìlo- » soft Cerano greco e Musonio toscano il persuasero » ad aspettar anzi la morte con forte animo , che » "vivere con pericoli e spaventi. Certo è che ei fu » trovato ignudo di mezzo dì a fare esercizio. In » tale slato il centurione Tuccise, presente Pelagone » eunuco da Nerone dato quasi sopracapo regio al » cenlurione e a' soldati (1) ». In questo modo, nell'anno 815-G1, nono del- l' impero di Nerone , terminava sua vita Rubellio Plauto per la sospicione di un regnante, la cui per- fidia giunse a tal punto, che « scrisse al f:enato„ pro- » segue Tacito, senza confessare l'uccisione di Siila » e Plauto, che ambi erano scandalosi, e la salute » della repubblica gli stava in sul cuore. Per qne- » sto conto furono ordinate pricissioni ; e Siila e » Plauto rasi dal senato, con più scherno che dan- » no (2) ». Di questo infelice favellava Giovenale nella sa- tira Vili diretta a Pontico, quando, satirizzando la nobiltà romana, manometteva senza ragione anche il nome di lui: His ego quem monui F luiim est mihi senno^ Rubelli Piante: lumcs alto Drusorum sanguine, tamqunm (1) Tacilo lib. XIV 58 e segg. (2) Tacilo 1. e. 353 Feceris ipse aliquid^ propter quod nobilis esses] Ut te conciperet quae sanguine fulget Inli^ Non quae ventoso conducta sub aere texit. E dopo di averlo punzecchiato sotto varia ragione, compieva il parlare : Haee satis ad iuvencm^ quem nobis fama superbtmi Tradit et inflatum^ plenum que Nerone propinquo. Ma non era sazio di sangue il ciudelc Nerone. Lucio Vetere , la sua suocera Seslia , e la figliuola Poluzia vedova di Plauto, erano odiosi al principe, perchè vivendo gli rinfacciavano l'uccisione di Ru- bellio Plauto, genero di Vetere [i). Ne gli mancò maniera di torseli dinanzi. Si manovrava un' ac- cusa, e si apprestava già sentenza atroce in senato, servendosi di Claudio Deniiano incarcerato da Ve- tere viceconsolo in Asia come ribaldo, e Nerone li- berato ne lo aveva in premio dell' accusa. « Il che » come Vetere intese, d'aver a stare a tu per tu » con suo liberto, se n'andò a villa a Mola, ove gli » fu posta guardia di soldati occulta Entrati » (esso, la suocera e figliuola) in una camera, col » medesimo ferro si segano le vene, e tosto con una » sol veste addosso, per fuggir vergogne, enlran nei » bagni, e gualansi: il padre la figliuola, l'avola la » nipote, ella loro: e fanno a chi più prega, che il » suo fiato esca tosto, per lasciare gli altri sopravvi- )' venti quel poco. La fortuna al morire osservò Tor- (i) Ulcm lib. XVI.IO. 354 » servò l'ordine dell' etadi. Dopo la sepoltura (ch'il I) crederebbe?) furono accusati e dannati a naorir di » capestro. Nerone disse: No, muoian pur a lor mo- » do. Così scheinivano per giunta gli uccisi (1) ». Con le innocenti vìttime leste mentovate sarebbe presso al compimento il parlar nostro della gente Ru- bellìa, se un marmo non ci desse cagione di aggiu- gner poche cose. Questo marmo reca una Rubellia, che fu parimente figliuola del nostro C Rubellio Blando, non infelice davvero, come 1' ucciso di A- sia suo fratello. Essa fu moglie di Ottavio Lenate. Per sentenza del Borghesi pervenne ad una incre- dibile decrepitezza , ed ebbe 1' onore di una statua dall'affetto del pronipote suo Sergio Ottavio Lenate Ponziano, che con M. Antonio Rufino fu console or- dinario nell'anno 884-131, decimo quarto dell'im- pero di Adriano: com'è a ritrarre dalla iscrizione , che ne decorava la gran base ritrovala a piedi della collina , su cui sorge la villa Aldobrandini a Fra- scati, supplita felicemente dal mentovato Borghesi (2): /ÌMÒELLIAE BlnNBl , F . BASSAE .... OCTAVI . LENATIS SERGIVS . OCTAVIVS LAENAS . PONTIANVS AVIAE.OPTIMAE Dopo il il qual monumento trovalo non avendo (1) Tacito I. e. Cap. 11. (2) Borgliesi 1. e. p. 1{$6. 355 altro di vantaggio, non sarà, parmi , cosa sgrade- vole, che io subordini lo stemma genealogico di que- sta gente tiburtino-romana con quelle particolarità, che ci fu dato ritrarre dalle storie e dai monumenti scritti. 356 w ■- > u m Eh a u o 553 . > S B ^ O « J W 5-1 12 ^ te tis S =1- U- 0) ._ >■ ^" (t ^ e u .» ■ "n 'Sì % > a — o — J a . bJ - ca ■- ■^ s (/3 U u H w ^ 2 ^s: o 2^ • t; i. cu ;-= s U u 0- ^ u: -J = _ w< 2 >s" csc5.= r/3 co C5 O ss — O > ■" ^ C-I c»: a ^ U O u u 5 ;^ . o- d. (£, à, j£_ j£. Z " CI M w!t o ^ «* u = = e e E = ce «5 1- t- ■<. n . ce ^ OH C u c &. .5S o •^ o 01 ■^ « « o a> Q >- C ^ >^ • — ^ hJ ■s CJ u C9 = X ^ ce < b ' te 3(5 U (1) oc CO S5 .2 rt r' «^ u z - . « o j t- £ « » ;- •- ^ ce i5 0 -< .2 -i: '^ '£ -^ s ù ■*. " O J3 pq ,,- D. O - ój C ^ o ^ -- oo ir. J J <» < ._ ._ J a. > e M B « < -i '«^ "^ .£ ioo-= w S '- S pa s< ,1) O " a Vj U 357 Ma se bene nuU'altro si possa dire della men- tovata gente , rimarrebbe niiUadimeno , secondo il mio corto sentire , un poco difettosa la trattazione dell'ultimo marmo tiburtino, se non m'adoprassi del- l'anno della incisione della epigrafe, ed assai più della donna illustre, cui Blando, allorché era del collegio de' pontefici, o per devozione, o piuttosto per adu- lazione, fu mosso ad innalzare un'ara, o un sinmla- cro, consacrandolo DIVAE . DRVSILLAE. Intorno alla qual donna divinizzata quo nascer dubitazione chi ella si fosse, essendo due le Drusille, che, vi- vente Rubellio Blando , si ritraggono dalla storia: cioè Livia Drusilla moglie di Cesare Ottaviano , e Drusilla sorella di Caligola: non convenendo intorno a questo l'opinione degl'interpreti dello stesso marmo. Sulle prime io ra' avvisava essere andati fuori di strada coloro, che seguendo lo storico Marzi (pri- mo che ne favellò) crederono, che Blando avesse in- nalzato il monumento a Drusilla sorella di Caligola, anzi che a Livia Drusilla moglie di Ottaviano, cui pareva concorressero assai particolarità, in conferma delle quali mi venivr* fra mani un passo del Volpi, che recando la riferita iscrizione diceva: Liviam Dru- sillam^clarissìmam Augusti Cacsaris coniugetn, liane fuisse crediderim (1): tutto che egli errasse in parte nella dedicazione, avvisando che Blando si fosse ado- perato per essa Livia di un tempio o di un'ara, co- me opinava parimente il Nibby (2), e più tortamente il Fea (3) col voler surrogare il tempio di Drusilla (1) Volpi 1. e. p. 213. (3) Dimorili di Roma, t. 3, p. 209. (3) Miscellanea antic}. idraul. p. IO e 11. 358 a quello della sibilla , che sta presso l'altro di Ve- sta, nelle cui vicinanze avvisava fosse slato ritrovato il marmo. Fatto però un poco studio intorno dì ciò, deggio confessare ch'io m'era ingannato , e quindi che il Marzi aveva sanamente favellato co' suoi se- guaci. A giudicare pertanto con la cognizione di causa, sottopongo a V. S. gli argomenti di rilevanza sto- rica, che concernono e l'una e l'altra delle mento- vale Drusille. La quarta moglie di Cesare Ottaviano nomossi Livia Drusilla. Sposolla egli nell'anno 716, in cui fu prepoientemente per la prima volta console suf- fetto (<). Sembrami improprio il favellare del For- cellini e di altri, che, guardando forse i matrimoni di Augusto dal canto solamente della consumazione, ritennero che due furono le mogli di esso Augu- sto, e per seconda la nostra Drusilla (2): quando in faccia alla legge civile se ne trovano quattro per at- testato del biografo cesareo, il quale con ogni par- ticolarità si fa a dire : «< Sendo giovanetto , gli fu H sposata la figliuola di Publio Servili© Isaurico ; » ma di poi riconciliato con Marco Antonio, dopo » la prima divScordia nata tra loro, a richiesta e pre- » ghiera de' soldati dall'una e dall' altra parte che « desideravano, per istabilirla, si congiugnesse la loro t> amicizia insieme per parentado, tolse per moglie i> Claudia figliastra di detto Marco Antonio, nata di » Fulvia e di Publio Clodio, appena da marito. Ed (1) Consulatutn XX aetatis anno invasit. Svel. in Aug. (2: Forcelliiii v. Drusilla. Livia Drusilla L. Livii Drusi fllia, secunda Augusti u.ror, quae prius nupscrat T. Claudio Neroni, ex quo filios duus Tiberium et Drusum peperit. 359 » essendo nato tra lui e la detta Fulvia sua suocera » certo sdegno ed odio intrinseco, la licenziò sen- » z'aver consunnato il raatrinnonio. Dopo questa prese » per moglie Scribonia, che aveva avuti innanzi due » mariti amendue stati consoli, e dell'uno aveva avuti » figliuoli. Licenziò ancora questa fra poco tempo » non polendo pili (siccome egli scrive) sopportare » la perversità de' suoi costumi ; e subito si fece » concedere a Tiberio Nerone la sua moglie Livia » Drusilla, ch'era pregna, la quale sommamente gli )) piacque (1) ». Da Dione si sa altresì che la sua pregnanza era al sesto mese: Sextum iam mensem ex eo uterum ferebat (2). Perseverò poi in amarla sem- pre insino all' ultimo della sua vita : di guisa che giacendo in Nola agli estremi, le diresse queste pa- role indelebili: Livia^ nostri coniugii niemor vive et vale (3). Il che avvenne nel dì 19 di agosto del- l'anno 767 di Roma, 14 di nostra redenzione (4). Consta che il senato il di appresso non si ado- però che delle esequie, e del suo testamento , te- nuto in serbo dalle vestali, con il quale lasciò eredi Tiberio e la sua moglie ex parte tertia. Nello stesso giorno costei fu fatta sacerdotessa di esso Augusto (5), e si adottava nella famiglia Giulia, per cui dappoi fu domandata ora Livia, ora Giulia; ad un tempo (1) Svel. in Aug. 62. (2) Dione iib. 48. (3) Svet. 1. e, e. 99. (4) Idem I. e, e. 100. Obiit duobris Sc.rlis Pompcio et Apuleio consulihus, decimo quarto kal. scpt., hora dici nona, LXKFI actitis ci;nno, diebus XXXV miims. (3) Dione Iib. LVi. 360 prendeva il lilolo di Awjmla (1). Nò so intendere come possa attribuirsi a Plinio (2) la notizia che Li- via assumesse il cojjnome di Augusta appena con- trasse le nozze con Cesare Ottaviano, matrinioiiu no- men accepit: poiché il matrimonio accadde , com'è detto, nell'anno 7Uj , quando non era ancora stato conferito ad Ottaviano il titolo di Augusto, che si sa d'altra parte aver avuto dopo la battaglia d'Az- zio, cioè nell'anno 724, Munatii Planci sententia (3). Sopravvisse al marito quindici anni, essendo morta nell'anno 782 di Roma, 29 di Cristo (4), in età assai avanzala (5)- Tacito, nel narrarci la sua morte, loda assai la sua persona. Oltre alla nobiltà di sangue per la fa- miglia Claudia e per l'adozione de' Livi e de' Giuli, e molto più per essersi innestata col sangue d'Augu- sto , aggiugne che governò la casa con la santità de' costumi antichi, che fu madre tenera, moglie age- vole, bene adattala alle qualità del marito con la si- li) Svet. I. e, e. 101 e Tacilo Ann. 1, 8: Nihil primo senatus agi, passus, nisi de suprcmis augusti, cuius lestamcntum illalum per vircjiruis Fcslac, Tìberium et Liviam hacredcs habuit. Livia in fa- miliam luliam, nomenque Augustac adsnmebatur. (2) Ilist. Nat. lib. 13, 0. 30. Da questo luogo il Morcelli ri- trae la mentovala notizia: ma secondo il mio vcilere è un abbaglio. Vedi esso Morcelli, De .stylo lib I, p. 1, e. 2. (,1) Svet. 1. e, r. 7. (4) Tacito Ann. V. I. Jiubellio et Fufto consulibus, quorutnulrim- que Geminus cognomentum erat, lìdia (i. e. Livia) Avgusta mortein obiit aetate extrema. (oj Secondo Plinio (lib XIV , G) in età di anni 82 , corretto però dayli scrittori sniraulorità di Dione (lil). LVlll) che lo esten- de ajli anni 8(), s|' xai ovSo'/jxovra £t»j ^£(T«<7«. 301 miiìazione del figliuolo Tiberio (I): il quale secon- do Dione le dedicò un tempio nell' anno 747 (2) , e da un marmo del Gruteio (3), che al 775 sotto i consoli Aterio e Sulplcio , essendo caduta grave- mente malata , le innalzò una statua , e le dedicò un'ara con ispeciale senatoconsulto, intitolandolo PIE- TATI AVGVSTAE , cioè Pielali Liviae Augustae. Anche Velleio Patercolo favella utilmente di questa matrona romana, sebbene sia spesso detrattore della fama altrui: Maler^ dice, emiiicnlissima^ et j)er omnia (Uis^ quam hominibus^ simililer faemina : cuius po- tentiam nemo sensit^ nisi aut Icvatione periculi, aut accessione dignitatis (4). Vivente il marito, a riguardo di questo, malgrado del figliuolo suo Tiberio (5), era domandata nelle medaglie ora AVGVSTA MATER PATRIAE (6), ed ora GENITRIX ORBIS (7). Ebbe statue ed are non solo in Roma, ma anche fuori (8), non esclusa la nostra Tivoli, nel cui tempio d'Er- cole fu ritrovata questa bellissima iscrizione: IVLIAE (i) Tacilo V, [. Sanctitate domtis priscum ad morem , comis ultra quam antiquis fcminis prolmtum, matcr impotens, uxor fa- cilis, et cum arlibus mariti, siimilatione filii, bene compositum. (2) Dione lib. LV. Tibcrius kakndis ianuarii , qtiibus consu- lalum inivit cum Cn. Pisane, in oclavii curiam ( haec cnim erat extra pomerium] convocalo senalu , fanum Concordiac sibi parati iussit , ut id et Brusi nomine inscribercl, ac deinde Iriumphavit : Iriumpho perfecto, lemplum Liviae dedicavit cum matre. (3) Pag. 101 I; Moscelli de stylo luscr. p. 33 prima ediz. (4) Velleio llist. 1. 2 e. ult. (5) Svet. in Tib. e. 50. (6) Yaillant t. I pag. 44. (7) Spanh. Diss. 12 p. 431. (8) Grill, p. 234, 2. G.A.T.CXXVIII. 24 362 CAESARIS . AVGVSTI J P VBLICE (1), ed era senza meno incisa nella base di una slalua, che il pubblico a proprie spese innalzava alla moglie di Augusto (2). Dopo r apoteosi fu anche detta Dea , come da un marnio siculo: LIVIAE . AVGVSTI \ DEAE==MV- NICIPIVM (3), e da altro che le dà il titolo di Diva (4-). Delle quali onoranze si trae parimente ragione dal citato annalista. Narra egli, che dopo tre giorni dalla sua rnorte, cioè nell'anno 785-32 , nacquero dei sospetti intorno alla sua \ita, quindi furono tratti dei giudizi un poco atroci contra le statue e la sua memoria (5). Ho non pertanto in pensiero, che gli ultimi due marmi testé riferiti , il siculo e l'altro del Grutero (che la chiamano Dea e Diva) possano appellare al tempo di Claudio nipote di essa Livia, nairandoci Dione, che se Tiberio al morir della ma- dre le si mostrò figliuolo dislaele , poiché neqne de- ■:h\X! (1) Marzi, Si. di Tivoli \\h. 6 p. 164. Fabretti p. 60 n. 347 Volpi L. V. lib. XVIll e. VII p. 215. Morcelli |de Mens. Iiiscript lib. 2 p. 3 Gap. 2. Sebastiani, Viaggio a Tivoli p. 65. • (2) Si sa che Augusto frequentava i portici del tempio d Ercole di Tivoli (Svet. in Aug. e. 72). Si sa pariuieute, che ne' pe riodi ultimi del viver suo, inl'ermiccio com'era, non intrametteva visitarlo, e vi si faceva condurre pian piano per mezzo di una lei tica, adoperandovi due giorni: Itinera (dice il biografo e. 82) et noctibus fere , caque lenta ac minuta faciebat , ut Pracneste , vcl Tibur biduo procederei. Pviuna maraviglia adunque, che il pubblico nudrisse anche venerazione inverso la consorte di lui. (3) Castel, CI. 4 n. 4 presso il Morcelli de Insc. sacris.. (4) Grutero 617, S. (5) Tacito VI 2. Jt Romae principio anni , quasi recens co- gnitis Liviae flagitiis, acnon pridem etiam punitts, atroces sentcn- tiae dicebantur in cffigies quoque ac mcmoriam eius. 3G3 fnnctae exeqnias celebravi!^ neqne practer fuims pu- blicum^ imaginesque el alia levia^ iillum ei honorem trihuit (1)*, non si contenne alla stessa maniera Clau- dio suo nipote, il quale appena salito sul trono, cw- rendo l'anno 794: Drusa patri et Antcniae mairi Ih' dos eqncstres eorum natalibvs instituit: iranslatis iis hidis^ qui in eos dies incidissent , in aliud tempus , ne simul fierent. Àviam Liviam praeter Ininc hono- rem ctiani imortal itati adseruil^ dedicavi tque eins EF- FIGlEM in tempio Augusti^ ac REM SACRAM ei peri a vestalibus mandavit^ mulieresqne per nomen eius iu- rare iiissii (2): quindi non è fuori di ragione, che poscia le fossero attribuiti i njentovati titoli, almeno nel tempo in cui visse Claudio. E questo parrai sia bastevole intorno a Livia Drusilla moglie di Augusto. Diusilla, figliuola di Germanico e sorella di Ca- ligola , sappiamo da Tacito (3) che nell' anno 785 nell'età di anni 16, si maritò con Lucio Cassio di famiglia plebea romana, ma antica ed onorata: e da Dione (4), che dappoi si sposasse con M. Emilio Le- pido Né altro si saprebbe, se al silenzio degli scrit- tori non avesse supplito lo stesso Dione, che nell'assi- eurarci d«lla sua morte avvenuta nell'anno 791 nella fresca età di anni 2i , ci contò i suoi amori ince- stuosi col fratello Caligola , il dolore che questi provò alla sua morte , e gli onori grandissimi che resele pubblicamente: Decreta ei omnia^ dice Dione, quae Liviae^ ac r/wuper, nt immortalis haberelur, u( (1) Dione tib. IX. (2) Id.'ra 1. e. (3) Tacilo Ann. il e. 45, e Vi e. IS. (4) Dione lib. LIX. 364 aurea affiyies eius in curia ponerctur, xit in foro imago Veneris statuae eius aequalis callocaretur ; peculiare fanum ei aedì(icaretm\ eamque statuis non modo vi- ri^ sed mulieres etiam venerarcnhir: ut mulieres eam iurarent, quolies aliquid sacramento confirmarent: ut natali eius die ludi mcgalensium similes fierent^ epu- Itimque senatui et equitibus daretur. Itaque tunc PANTHEA VOGATA EST, ET DIVINIS HONORIBUS PÉn OMNES URBES CULT A (1). Si potrebbe ammettere, che per adulare Cali- gola erano resi a Driisilla anche vivente gli onori summentovati. Però ragion vuole, e il buon senso parrai lo consenta, che come in Roma , alla stessa maniera altrove ciò avvenne dopo la di lei morte: perchè se l'imperatore a renderla immortale pose nella curia le sue immagini, nel tempio di Venere la sta- tua sua da eguagliare quella di essa divinila, edi- ficolle un tempio , ove ordinava che si venerassero le sacre sue statue, sembra non sia fuori di senno conghielturare, che coloro che si trovavano nelle ca- riche, specialmente sacre, si adoperassero per ragione di prudenza politica di secondarlo a tutt'uomo , in una parola di adularlo, seppure questo curioso con- tegno non originasse daWauri sacra fames , sapen- dosi , che : Livius Gcminus senaior vidisse se eam [Drusillam] in coelum ascendentcm, ac cum diis con- versantem^ iuravit) perniciem sibi liberisquc^ si vammi id asscruisset^ imprccatus: vocaiisque ad hoc testibus cum aliis diis, tum ipsa Drusilla: oh id donalus est (I) Dione lib. L!X. dencssesterUum (1). Niuna maravi^jlia pertanto, se in s,ffaita grave oppartanità divenne legge univer- sale ci. andare a' versi del dissennato Caligola, ren- dendo alla estinta sorella onori divini, venerazione, are, tempi., e simulaci in Roma ed altiove ne' tem- pi, delle proprie divinità tutela.i : Uaque tunc Pan^ thea vacata est, et divims honorihus per omnes ur- bes culla. Farmi che il favellare di Dione sia ben forte a pe.suadere, che Rubellio Blando movesse il suo ani- mo alla Drusilla di Caligola, anzi che a Livia Dru- «Wla vedova di Ottaviano. Abbiamo toccato con mano, che quest ultima ebbe onori assai mino.'i della prima tranne quelli del tempo di Claudio. Quello pe,ò che' secondo il mio corto vedere, toglie ogni dubitazio- ne, s. è 1' argon>ento che si trae dal marmo tibur- tino .nciso da Rubellio, il quale non se ne adoperò che quando era annoverato nel collegio de' pontefici co è d.re non prima del 784, anno da noi conghiet- turato. Quando adunque nell'anno 782 Livia Dru Siila moiiva, Rubellio non era ancora pontefice • .1 perchè prima ch'essa morisse, e fino a che Tiberio s.mulavale buona grazia, non potè innalzarle il si- mulacro o l'ara. Il pensa.-e al tempo posteriore fino al 790, anno in cui mo.ù Tiberio, noi consentivano I temp, , e la sarebbe veramente stata imprudenza d. avversale i sentimenti più che saputi di Tiberio narrandoci Tacito, che fu cope.to e malizioso nel finger la virtù finché vissero Germanico e Druso parimente mescolalo di buono e di cattivo insino a' (1) Dione 1. e. 366 che visse la madie : dappoi si ebbe por l'eniporio di ogni iniquità (1). Dunque è giuoco forza discen- dere al tempo posteriore, all'anno 790, in cui morì Tiberio. Consta altresì , che gli onori resi alla ve- dova di Augusto sono anteriori alla sua morte, cioè prima del 782, meno quelli, com'è detto, del tempo di Claudio, che non eran da meno di un fatto par- ticolare e transeunte di esso regnante; ed i mento- vati originarono dall' amore che tuttavia serbavasi alla memoria di suo marito, e più assai dal timore, che avevano di Tiberio, il cui contegno presso il mondo ambiguo e misterioso, tutto che non mancasse di buone qualità , che V. S. faceva con assai forti argomenti ritrarre in un dottissimo suo lavoro cor- rendo l'anno 1847 (2). È parimente da notare che non si conosce verun titolo, niuna dedicazione ad essa iiidirilta , che rechino il cognome di DrusiUa^ ma senipie il nome di Livia col cognome o di Giu- lia, o di Augusta, ovvero uno de' due cognomi iso- latamente con qualche attributo sopra riferito Per le quali ragioni sembea possa aversi per fermo, che nel marmo si favelli di Drtisilla sorella di Caligola, e che llubellio Blando, durante il suo pontificato, e mentre era già padre di più figliuoli avuti da Giulia figliuola di Druso , si adoperò del simulacro, o dell'ara, che nel tempio di Ercole, di- vinità tutelare di Tibur, innalzava a 118 Gl'i fi, Sull'icona di sanV Antonio di Padova nella chiesa de' minori osservanti di Monte Melone (con rame) » 138 Orioli, Delle tre prime tribù romane. . . » 155 Orioli, Nota sul prospetto dello stato delle chiese arcivescovili e vescovili del regno delle Due- Sicilie dopo la morte di Corradino. . . » 185 Orioli, Ze origini di Roma , e particolarmente Vantico dominio degli etruschi in genera- le ec » 196 Orioli, Di alcune memorie de' primi secoli dopo 374 il mille 5 relative a Viterbo e "paesi conti- gui » 239 Della Tuccia^ Cronaca inedita de'' fatti d' Italia nel secolo XV [Continuazione). ...» 263 Viola^ Lettera VII sul colle tihurtino. . . » 328 Sassoli, Necrologia di Vincenzo Valorani. . « 3tì7 .IHt X?>c ,2^0 IlfiUJOT 't 31.1 oli EMENDAZIONI AL TOMO CXXVII. ERRATA p. 28y Un. 5 Martiam p. 300 lin. 25 COS.Iil. p. 302 lin. 20 IMP.II. p. 334 nota 2 Celici CORRIGE Marciam cosmi. IMP.II.COS.IIII. Cechi EMENDAZIONI AL TOMO CXXVIIL ERRATA p. 134 lin. 1 i imilari p. » Un. 12 Dnetlelea CORRIGE aenmlari Daedaka IMPRIMATUR Fr. Dom. BuUaoni 0. P. S. P. A. M;tg. IMPRIMATUR F. A. Liji Arcliiep. Icoii. Vicesg. z.