GIORNALE 1)1 SCIENZE, LETTERE ED ARTI TOM. IX DELLA NUOVA SERIE ROMA TIPOGRAFIA DI TITO AJANI 1858 Via della Guglia num. 69. ^JtCjti^^ GIORNALE DI SCIENZE, LETTERE ED ARTI TOMO CLV DELLA NUOVA SERIE IX MAGGIO E GIUGNO 1858 ROMA TIPOGRAFIA DI TITO AJANI 1858 Intorno alla correlazione delle forze fisiche e alla sua influenza nel concetto delV universo. Ragionamento letto alla pont. accademia Tiberina il dì 26 aprile 1858 dal P. A. Secchi d. C. d. G. N. eir atto di presentarmi a voi , chiarissimi colleghi, per trattare del soggetto oggi prescelto al mio ragionamento , mi riconosco assai biso- gnoso della vostra cortesia e tolleranza, poi- ché io ardisco produrre un tema fuori delle vo- stre letterarie abitudini , la cui sublimità e va- stità non potranno esser da me esposte che molto imperfettamente , e con istile necessariamente rozzo e mal conveniente a sì colta udienza. Avrei perciò dovuto astenermene: ma chi volle gentilmente impegnarmi all' ufficio di trattener- vi quest'oggi, benché conscio di tutto questo , pure mi vi stimolò , e voi stessi coll'onore fat- tomi di annoverarmi al vostro ceto mi avete in- coraggito a comparire tra voi come meglio io posso : onde senza altri preamboli sicuro della vostra gentilezza vengo al mio tema (1). Il gran problema, alla cui soluzione ten- dono tutte le scienze naturali, è di arrivare a conoscere il meccanismo dell'universo. Esse pos- son dividersi in due rami : le descrittive e le teoriche. Le descrittive hanno per iscopo di rac- 4 cogliere i materiali a ciò necessari : e tali so- no , la fisica che esamina la relazione di varii agenti che colpiscono i nostri sensi , la chimi- ca che cerca la composizione de' corpi, la par- te osservatrice dell' astronomia che studia il corso de' moti celesti , la storia natura/e e la bota- nica che classificano gli animali e le piante se- condo le loro relazioni ed affinità , V anatomìa che ricerca il meccanismo interno dei loro or- gani , la geologìa e mineralogìa che descrive lo stato antico e attuale del globo terrestre. Cia- scuna di queste facoltà ha il suo lato parallelo teorico , il cui scopo è di riunire insieme i fatti isolati e aggrupparli sotto formole più generali che diconsi leggi , mostrare la relazione e la mutua dipendenza loro per comprenderne il nesso , e unire insieme le molte svariate anella che formano la catena della creazione. Così, a modo di esempio, la meccanica racchiude tutte le leggi dei movimenti in pochi simboli mate- matici , che servir possono a prevedere e a cal- colare ogni combinazione di moti. La fisica ri- conosce e stabilisce la relazione mutua strettis- sima di certi agenti che ci si presentano sotto aspetti ditferentissimi, come sono la luce, il ca- lore , r elettricità e il magnetismo. La chimica ci mostra come tutte le svariatissime compo- sizioni che formano i corpi organici ed inorga- nici risultano da pochi elementi in proporzioni definite combinati. L' astronomia tutto riduce al semplice principio di gravitazione universale. La storia naturale mostra la gradazione degli D esseri, la loro affinità e transizione da una classe ad un'altra: onde animali diversissimi sono com- posti delle stesse parti e sono sviluppi diversi di un tipo principale primitivo , come infinite curve racchiuse in una stessa formola geometri- ca si sviluppano sotto figure diverse al va- riare del parametro. Le classificazioni fondate sul!' organismo interno degli esseri ci mostrano ancora la separazione essenziale di certi grandi gruppi tanto disparati tra loro, che più non po- trebbero differire animali spettanti a due pia- neti diversi ; mentre in altri casi invece tale è la concatenazione degli esseri, che si è potuto perfino pervenire a riempire le lacune esistenti nella serie attualmente vivente mediante quelle che furono prima dello stato presente del globo. Progredendo così di egual passo con osser- vazione e teorìa , si classificano i fenomeni, si restringono i centri , si raggruppano i fili che guidar ci devono in questo dedalo a noi ignoto. Ma ad onta di tutti i nostri sforzi sembra che le cause immediate de' fenomeni i più importanti delle forze che animano la natura e la vivifi- cano, si sottraggono, nostro malgrado, alle più acute ricerche. Il pretendere di svelare questi legami nella natura animale e vegetale, ove an- cora non conosciamo il meccanismo materiale degli organi stessi, è prematuro e van r, la na- tura inorganica invece sembrando meno ribelle ai nostri tentativi ci dà speranza Ji poter ad- dentrare alquanto di più lo sguardo nelle sue misteriose operazioni ; questo ha dato luogo e 6 coraggio a investigare con più diretto studio la relazione mutua delle forze che formano lo scopo della fisica, delle quali io ho scelto a parlare. Ho già accennato come questa scienza riuscì a collegare in una sola classe gran nume- ro di agenti disparatissimi. Non è ancora mezzo secolo che per la luce, pel calorico, per l'elet- tricità e pel magnetismo si ammettevano altret- tanti agenti o fluidi separati e distinti : tutti però aventi questo di comune, che essi non po- tevano attribuirsi a sostanze soggette a gravità e perciò vennero detti imponderabili. Le ammi- rabili scoperte di Oersted e di Ampere fecero vedere che il magnetismo era una semplice di- pendenza o trasformazione dell'elettricità in quel- lo stato che dicesi dinamico (2). Le non meno sagaci e belle sperienze di Young e di Fresnel dimostraron la luce non esser una sostanza par- ticolare, ma solo un moto vibratorio di un fluido che tutti riempie gli spazi planetari e i corpi i più compatti (3). Le indagini del Melloni fi- nirono di dimostrare non esser le radiazioni lu- minose, calorifiche e chimiche essenzialmente di- verse fra loro ; ma le vibrazioni del medesimo etere riuscire più o meno atte ad illuminare, riscaldare o alterare chimicamente i corpi se- condo la loro lunghezza: e può anche aggiun- gersi, secondo la natura della sostanza in cui s' imbattono. Stabilita l' identità della luce e del calore radiante e la loro natura di moto , anche il calorico ordinario de' corpi deve esser moto. Si 7 sa inoltre che dal calore ne viene 1' elettricità, e quindi il magnetismo , e viceversa dal ma- gnete si ottiene la corrente che produce di nuovo calore : onde non poteva a meno di concludersi che tutti questi fenòmeni, attribuiti da prima a tanti agenti diversi, non erano altro che le mo- dificazioni di una sola sostanza per via di un moto in diverse guise trasformato (4-). Ma in fisica non basta avere una felice intuizione: è necessario, perchè le idee acquistino corpo di verità dimostrata, concretare col fatto le conclusioni , venire alle cifre, e dal testimo- nio di queste concludere rigorosamente l'origine meccanica de'fenomeni mediante la rigorosa tra- sformazione in equivalente esatto di uno in un altro di questi agenti secondo le leggi cono- sciute del moto. Dissi reciproca trasformazione con equivalente esatto: giacché è ben noto a tutti che gli effetti di cui parliamo prendono per lo più origine dal moto meccanico ordinario : ma non si vede così agevolmente come il moto stes- so che sparisce sotto le sue forme ordinarie di traslatizio venga a trasformarsi e comparire come calore o elettricità, seguendo in ciò le leggi rigo- rose che han luogo per la communicazione degli al- tri movimenti. Così, per esempio, era ben noto che la percussione e l'attrito producono calore onde si scalda un ferro battuto a freddo sull' incudi- ne ; e che una ruota non unta girando sul suo asse s'infuoca. Per dar ragione di ciò dicevano gli antichi, che da tali azioni il fluido calorifico era spremuto fuori dai corpi come l'acqua da una 8 spugna compressa ; nello sparire de' moti del martello o nell'estinguersi per 1' attrito la veloci- tà della ruota non altro vedevasi comunemente che uno de'tanto ordinari casi della distruzione e annichilamento del moto. Ora le recenti inda- gini persuadono che ciò non è punto vero , ma che quella quantità di moto che animava le due masse sussiste intera dopo l'urto; e se non riesce a lanciare di un sol tratto tutta la massa, come accade comunemente, essa però ne mette in moto le particelle agitandole rapidissimamente, la qua- le agitazione ai nostri sensi si manifesta sotto r aspetto di sensazione calorifica (5). A questa teorìa già ricevuta dai migliori fisici da qualche tempo, quelli dei giorni nostri vi hanno aggiunto r importante dimostrazione della equivalenza meccanica costante tra la forza impiegata e il calore sviluppato. Ecco in che consiste questa equivalenza. E' noto che le forze si sogliono va- lutare secondo il loro lavoro meccanico, il quale si misura dall' altezza a cui possono innalzare un dato peso in un determinato tempo : ora si è trovato che quella forza che può fare un dato lavoro meccanico così considerato mediante un opportuno congegno , può anche elevare una data quantità di materia, p. e. d'acqua o d'altro corpo ad una data temperatura. Le esperienze di loule, di Seguin, di Mayer e di altri hanno dimostrato che per innalzare di un grado cen- tigrado un chilogrammo d' acqua , si esige una forza capace di alzare 433 chilogrammi all'al- tezza di un metro nel medesimo tempo. L'espe- rimenlo più semplice è quello del sig. loule : esso arrivò a questo risultato facendo muovere mediante un peso una ruota in un recipiente di acqua di cui osservava la temperatura , e dall'altezza stessa, da cui cadeva il peso mo- tore, deduceva la forza meccanica impiegata. Altri vi giunsero in altro modo, e i risultati per diverse vie ottenuti poco discordano dal risul- tato avuto da questo fisico (6). In questi espe- rimenti abbiamo la forza meccanica trasformata in calore : vediamo ora il calore trasformato in forza meccanica. Nelle ordinarie macchine a vapore la forza si ha dal calore. Se questo agente non fa altro che dilatare 1' acqua e il vapore senza perdere la sua energia all' atto che esso spinge lo stantuffo del cilindro , ne verrà per conseguenza che quanto calore il va- pore porta dentro al cilindro dalla caldaia, tanto se ne dovrìa trovare fuori dopo fatta l'azione mec- canica nel condensatore (tenendo a calcolo, ben inteso, le perdite della radiazione ). Ora ciò pun- to non si verifica: ma quando la macchina è in azione e fa sforzo meccanico, una porzione del calore perciò solo svanisce ; e calcolandone la perdita secondo la forza che essa esercita, si ribatte sensibilmente al medesimo numero dato di sopra (7). Abbiamo adunque qui un palpa- bile argomento della verità della proposizione dianzi asserita. La scoperta fatta pel calore generato dalla combustione, si verifica altresì quando questo si produce per l'intermedio non del vapore ma 10 della elettricità. Si è trovato che un macchina magnetelettrica di grandi dimensioni a foggia di quelle di Clarke girasi con somma facilità quan- do essa cammina senza avere i circuiti di indu- zione chiusi, nel qual caso non si produce cor- rente ; ma che invece si esige sforzo immensa- mente maggiore se si chiudano i circuiti e si permetta alla corrente di generarsi. Questa cor- rente poi incanalata in un filo può alla sua volta generare calore, e l'equivalente di questo, detrat- ta la perturbazione dovuta agli attriti, conduce alla medesima valutazione accennata di sopra. Ma veniamo alla sorgente piìi potente e mi- steriosa dell'elettrico e del calore, la pila di Volta. Nella pila voltiana l'elettricità in corrente è mantenuta dall' azione chimica che soffrono i suoi elementi , con questa sola differenza che quando 1' acido p. e. si combina collo zinco in limatura al modo ordinario , si sviluppa calore nel seno del liquido , senza che questa azione possa deviarsi e misurarsi altro che nella massa totale : quando invece la combinazione si ha coU'apparato voltiano, l'agente che produce l'a- zion chimica trovasi in certo modo incanalato nel conduttore che unisce il rame allo zinco, e perciò si presta mirabilmente allo studio di que- sta forza (8). Ora le ricerche de'moderni fisici hanno pro- vato che anche in questo complicato processo di azione tutto riducesi a lavoro meccanico. E primieramente si trova, che siccome il calorico prodotto in ciascuna azione chimica or- 11 dinaria è definito , così pure è definito quello che generasi nella pila; con questa legge però che quello che trovasi nel filo è sempre com- plementario di quello che trovasi nel liquido in seno stesso alla pila : che se la corrente che passa pel filo s' impieghi a produrre mediante il magnetismo un qualche lavoro meccanico, al- lora sparisce in quest'atto immediatamente tanto calore quanto è richiesto al lavoro meccanico prodotto (9). Ma vi è ancora di più. La circolazione della corrente produce nei fili il calore con legge determinata, che è proporzionale al quadrato di quella che chiamasi intensità : or questa inten- sità è quella che si misura alla bussola magne- tica, né altro è che la quantità stessa dell'azio- ne circolante (10) ; il calore è adunque propor- zionale al quadrato della velocità: ora in tutti ì moti meccanici il vero lavoro, cioè le resisten- ze superate da una forza, sono sempre propor- zionali al quadrato delle velocità. Sicché il ca- lore svolto nei fili é il vero lavoro della cor- rente elettrica; onde ne risulta un'evidente con- ferma delle leggi meccaniche nella elettricità , cosa già ben veduta da Ampere nel caso dei mo- ti rotatorii dei conduttori elettrodinamici (11). Lascio altri fatti che potrebbero accennar- si , e concludo che in vista di quelli finora discussi non parrà troppo ardito quello che in altro mio scritto asserii, che presto le leggi della pila sarebbero un corollario delle leggi della 12 meccanica , come lo sono già oggidì i fenomeni della luce. Ma ecco che una domanda si affaccia imme- diatamente a chi esamina il presente soggetto. Se la corrente è moto, di qual materia è essa moto? Della pesante visibile e sensibile, ovvero di quella che impercettibile ed impalpabile sfugge a' nostri sensi e diciamo imponderabile? Di più, quale specie di moto è essa, traslatorio o oscillatorio? La que- stione è di difTicile risposta; ma fortunatamente essa può restare insoluta senza nulla distruggere del detto finora: essa è piuttosto, se ben si consi- dera, una ricerca ulteriore sulla natura di questo moto, che non una obbiezione alla sua esistenza. La corrente è moto di una materia certamente inerte, perchè essa per venir messa in moto di- strugge altro moto; ma di quale materia essa sia moto, se di ponderabile o imponderabile, o del- l'una 0 dell'altra insieme, non importa alla verità delle conclusioni; e né anche importa sapere di quale specie di moto essa sia, se traslatorio, vi- bratorio 0 rotatorio, perchè qualunque di questi moti essa sia, sempre si verificheranno le leggi meccaniche della sua comunicazione o del lavoro prodotto dal medesimo. La risposta a questi que- siti la daranno ulteriori ricerche forse non lontane. Infatti i canapi elettro-telegrafici ci hanno mo- strato già inaspettati fenomeni nel corso della corrente: donde si ricava che se per stabilire il circuito si forma da principio una specie di onda che può essere in certo modo arrestata a mezzo il suo corso; nel persistere l'azione del circuito chiù- 13 so,il filo benché lunghissimo conserva le medesime proprietà elettrodinamiche de' piti brevi condut- tori, e solo all'interrompere il circuito si manifesta l'onda opposta. Per la loro lunghezza questi canapi hanno dato luogo a studiare col tempo il fenomeno della induzione, che non era possi- bile lo studiare nei brevi conduttori degli esperi- menti ordinari (12). Bunsen e Roscot han dimostrato , che la luce neir atto che produce chimiche combina- zioni nei gas cloro ed idrogene, s' indebolisce : prova non dubbia che il moto delle molecole che chiamiamo eteree può trasformarsi in moto chimico della materia ponderabile, come lo ve- diamo accadere ogni dì nel moto calorifico. Qualunque sia la natura di questo, mercè delle recenti scoperte una nuova luce vien dif- fusa su tutte le forze fisiche ; le loro relazioni non sono più di semplice concetto ideale , ma reale: essendo esse tutte moto, non è più dif- ficile il concepire la trasformazione di una neir altra : ogni azione meccanica produce nel medesimo tempo calore ed elettricità, e questa è dinamica, se il corpo è conduttore : se sia isolante, si ha di quella che dicesi statica : le azioni chimiche producono 1' una e l' al- tra all' atto che le molecole venendo al con- tatto trovano squilibrati i movimenti da cui sono animate, e può asserirsi senza esitazione che uno stesso agente ci scalda, c'illumina , ci scuote, anima le nostre funzioni animali e pro- duce tutto ciò in guise diverse secondo la co- u pia e qualità de' moti da cui è animato. Ma benché sia vero che la certezza dei fenomeni fin qui stabiliti non dipende dalla soluzione del- le quistioni sulla esistenza della materia impon- derabile, tuttavia parmi che i fatti capitali non possono fin'ora spiegarsi senza di essa: ovvero, per stare a termini più generali, non si posso- no spiegare senza ammettere la materia in uno stato di tale costituzione, che essa sfugga alla gravità: onde meritamente può dirsi imponde- rabile , e potrà chiamarsi eterea onde distin- guerla dalla materia ordinaria (13). L' esistenza di questa materia in quanto essa riempie gli spazi celesti è tanto certa quan- to la propagazione della luce e del calore da quei corpi fino a noi ; e possiamo ora anche aggiungere che questa serve di veicolo alla forza magnetica bene accertata de' corpi celesti. I suoi movimenti posson essere altresì la cagione di tutte quelle altre forze che per noi sono ancora di natura incomprensibile, come appunto la gravi- tazione: che questa possa nascere da una com- binazione di moti non parrà strano a chi ram- menterà che un corpo qualunque, solo perchè animato da moti di rotazione, sembra esser sog- getto ad altre leggi di moto diverso dalle co- muni, e si vede ora attratto ora respinto da un altro centro di moto , solo per avere la rota- zione in un verso o in un altro (14). Checché ne sia per altro di cotali idee , mercè di questi lampi della scienza la nostra mente si dilata e si perfeziona il concetto del- 15 r universo. Noi non lo contempliamo più come formato di pochi corpi isolati nello spazio se- parati da immense distanze e animate da forza di natura misteriosa : ma essi ci appaiono riu- niti in un tutto compatto da corpi che co- nosciamo e trattiamo mediante una sostanza che quantunque sia impercettibile a' nostri sensi, essa però riempie tutto , cioè non meno gli spazi planetari che l' interno de' corpi, soggetta solo alle leggi d' inerzia e del moto. Di questa noi non sappiamo né la natura , né la struttura ; ma sappiamo che esiste, che è in continuo moto e che non possiamo produrre fenomeno fisico al- cuno senza metterla in agitazione, e che da essa dipendono le più terribili potenze della natura, il fuoco ed il fulmine. Le più elementari spe- rienze ci dimostrano, che il semplice moto di un membro di un animale , la minima azione chimica, il girare di un pezzo di metallo o di altra sostanza, ne mette in moto torrenti a no- stro modo d'intendere (15): e di essa può dirsi insomma con verità , quanto in altro proposito dissero tutti gli antichi, che di tutto 1' universo essa agitat molem et magno se corpore miscet Dire più di questo non ci è permesso dalla scien- za: ed è meglio, uditori, fermarsi ad una sin- cera ignoranza , che spingere innanzi ardite e stolte speculazioni. Tutto questo ci mostra che noi siamo ben lungi dal comprendere la strut- 16 tura e il meccanismo dell' imiverso; ma insieme ci fa vedere che ogni giorno vien fatto qualche squarcio a quel velo che lo ricuopre. Quando sarà formala una adequata idea de' moti di que- sta materia, non si avrà più difficoltà a spiegare i più astrusi misteri della natura, di quella che oggidì dopo scoperta la pressione atmosferica si stenti a spiegare il giro de' venti o l' alzarsi r acqua nelle trombe senza ricorrere a forze occulte di natura. Noi per ora abbiamo trovato il mare in cui nuotiamo, ma non sappiamo an- cora come siamo agitati. In tutto lo studio della natura noi ci troviamo sempre in mezzo a due infìniti: uiio infinitamente grande svelatoci nella profondità de' cieli, ove vediamo moltiplicarsi i mondi a misura che crescono i nostri mezzi da ravvisarli, ove sistemi si ammontano a sistemi, sino a comparirci gli ammassi di soli come fu- gace nebbia nel grande orizzonte dell'abisso dello spazio. D'altra parte la mente nostra si perde nella contemplazione di un infinitamente piccolo , nella cognizione di un semplice animaluzzo, di un insetto , e la costituzione fisica di un gra- nello d' arena racchiude per noi misteri ancora inaccessibili. Il nostro corpo, il nostro organis- mo con cui siamo in relazione col mondo ester- no, è penetrato da un agente misterioso, di cui ci serviamo continuamente senza conoscere la natura delle forze che ci animano, e che solo denominiamo per intenderci come meri titoli di convenzione. Ecco, o signori, quale è il concetto dell' u- 17 niverso, a cui conduce lo studio della relazione delle forze fisiche, concetto sublime della crea- zione , concetto che mentre sembra deprimere la nostra intelligenza, la solleva ad una ammi- razione cordiale dell'opera, ad un caldo senti- mento di affetto e di rispetto pel suo Aurore , concetto che rifulge quanto è ridotto a più stret- ta unità di cause immediate , come una è la causa prima che lo produsse. Né tali studi devon riguardarsi solo come una mera speculazione filosofica e teorica, ma sono di somma pratica importanza. Abbiamo già veduto quanto l'azione delle macchine a va- pore dipenda da tali principii, i quali bene in- tesi ed applicati potranno condurre ad un mi- glior impiego di questa gran forza, di cui. oggi non si utilizza che appena il 10 per 100: quanto calore non si consuma nelle volgari officine , che va perduto a danno comune per l'immenso consumo del combustibile di cui sentesi cotanto il bisogno nei più triviali usi della famiglia, e che potrebbe economizzarsi (come di fatti si è cominciato a fare in molti luoghi ) a sommo vantaggio sociale. L' elettrico stesso ora non è più un mero soggetto di studio o divertimento; esso entra nelle officine delle arti per fissare i metalli e per formarli in diverse guise; esso ci serve alla trasmissione de' messaggi colla velo- cità del lampo; esso si usa a produrre luce emu- la di quella del sole ; esso è già introdotto in molte cure mediche e chirurgiche ; e chi po- trà dire quello che si potrà fare di un agente G A.T.CLV. 2 18 sì sparso ed universale che tutta anima la na- tiia ? Se ora che andiamo servendoci di esso come a tentoni , pure tanto profitto ne ricavia- mo ; che sarà quando avremo il segreto delia sua natura ? Somma adunque è T importanza di tali studi , ed è da desiderare che tra noi non si stia spettatori di ciò che si fa de altre nazioni, ma vengano con ogni cura promossi ; e benché sembrino oziose speculazioni da gabi- netto, ricordiamoci che tutti que'grandi frutti che dagli studi tisici tiene la moderna società , fu- rono prima meditati a fondo dal filosofi) nel se- creto de'suoi pensieri, e communicati al pubblico col mistico linguaggio della scienza. Egli ò ap- punto allo scopo di promuovere tra noi questo studio che il regnante Sommo Pontefice si è de- gnato concedere all'osservatorio del Collegio Ro- mano una serie di strumenti magnetici destinata specialmente a investigare quella forza miste- riosa che collega la terra cogli astri, che tutte collega le forze della materia. Ma un solo cen- tro di tali studi non basta; quanti sono i rami su cu i s'estende, tanti dovrebbero essere almeno i coltivatori. Nella fìsica e in tutti i suoi rami non solo c'è da spigolare come in altre scienze, ma e' è da mietere e largamente da mietere : ed è da desiderare che come l'Italia nostra può annoverare splendidi nomi tra i fondatori di questi studi i Galvani , i Volta , i Nobili ed i Melloni; così possa la generazione avvenire glo- riarsi di aver dato chi compi 1' opera de' padri loro , chi finì di svelare in tutto la relazione d<'!le ferze della natura. 19 NOTE (1) La correlazione delle forze fìsiche è il soggetto che tiene Oggidì esercitati i più sublimi ingegni del nostro tempo ; esso è complicato assai di sua natura, ma forse reso anche più dal non venir separate molte questioni che 1' accompagnano. Il punto fon- damentale consiste nel provare che tutti i fenomeni fisici attribuiti a forze speciali sono dovuti realmente al moto; ma vi si unisce iiidiretlainente la gran questione dell' esistenza della materia im- ponderabile. Alcuni vogliono questa materia afFutto esclusa; ma poi non pensano di sostituirvi altro agente capace di produrre i fe- nomeni medesimi, né si danno pena di ìiccennare nemmeno di volo come essi senza questa spiegar vorrebbero tanti e tanti fenomeni fisici. Altri vogliono che la pretesa materia imponderabile non sia che la stessa materia ponderabile in altro stato: e per questi allora la questione diviene di semplice denominazione. Vedremo a suo luogo che cosa si debba sentire di queste a scoprire le allnizioni dei sole- noira risoluta , ed è impossibile risolverla , perchè noi non potremo mai fai e a meno di recipienti limitanti lo spazio, e le parti di questi possono sempre dar passaggio all' elellrko Si è dello da alcuni che 1' elellrico veniva col calore e la luce dHgli astri : le prove date però non sono stale soddisfacenti ; ma è certo che - cuito per cui scaricarsi. La i-agione di tal legge è un mistero af- fatto iucoucepibile se si pretende che uel filo uou vi sia che uu 23 molo vibratoi'ìo di molecole pondciHbili. L'antica teoria della corrente, che voircl)l)»»M oggi clitninala , rende una spiegazione plausibile di ciò Dei due inelalli immersi uno si combina coli'acido « fa un sale j quindi natuiabnci'le si turba l'equilibrio di compo- sizione molecolaii.' dellr sostanze ; e ciò incinde una variazione fli quantità del fluido imponderabile misto alle parti ponderabili die le costituisce: Un tale eccesso tende a scaricarsi dal corpo the non si combina a quello che si combina , e quindi sì ha la corrente. Ma ecco una difficoltà: donde piglia il corpo die non si combina tolta questa materia da supplire ? Si risponde che la piglia dagli clementi chimici che sono restati liberi nell'atto della combinazione che si è formata all'altro capo , e che perciò I' idrogene p. e. nel caso nostro va al rame per supplire il suo difetto. Volendo che tutto consista in semplice moto oscillatorio di materia ponderabile questi fenomeni sono inconcepibili, perchè allora l'arco non fareblu; altro uffizio che di trasinettei'e il molo dal rame allo zinco; ma anche il liquido può fare allrettanlo, ainieiio secondo la sua debole facoltà Conduttrice, e quindi anche nel liquido dovrebbe aversi moto dal rame allo zinco , mentre è notissimo che in seno a questo la di- rezione del muto è aflàtto opposta a quella che ha corso nel filo. (9) Stante la natura ancora dell'agente elettrico vi è tutta- via qualche indeterminazione nei termini , e nel linguaggio dei fisici. I più antichi supponendo l'elettrico un fluido circolante nei fili fecero uso dei termini di quantità e tensione in un modo alquanto indeterminato. I moderni hanno adottato dietro Ohm i termini di intensità ,J'orza e resistenza, e la intensità ^ uguale itWii Jbrza divisa per la resistenza. La /"orza dipende dalla ener- gia o tensione, eoa cui una combinazione tende a mettere in moto r elettrico , ed è divcisa secondo le diverse combinazioni f?e' corpi. La resisteuza dipende dalla sezione e lunghezza de' conduttori e dalla loro specifica facoltà di trasmetter l'elettrico. Queste deno- minazioni sono più opportune per spiegare e calcolare vari feno- meni che si mostrano nel filo conduttore : se però 1' elettrico è soggetto alla legge de' fluidi, ne segue che la medesima quantità deve circolare in tutte le sezioni did circuito stesso^ e quindi ne st'gue che la velocità di trasporto sarà in ragione inversa delle sezioni. Ora l'esperimento della bussola mostra appunto che in tutti i punti del filo la corrente produce una deviazione eguale dell'ago magnetico; ma se iu qualche sito si restringa In velocità per l'angustia del couduttore , ivi cresce il calore per l'iiumeoL.ita velocità dell' elettrico. Siamo da ciò condotti a una conseguenza rimarchevole: la bussola è un fenomeno per dir cosi statico, in cui cioè 1' ago piglia nuova posizimie di equilibrio secondo la nuova distribuzione dell' etere che dal filo si diffonde nello spazio cir- costante, e quindi è proporzionale alla quantità del fluido sperduto 0 aj^Ljiuiilu. Tale eiFcttu statico è conseguenza di ciò che ha giù f f V- V s v'-' T f y-^ r* f~ y2 — r- 24 (liinostruto Ampère ; ctie I' aziuiie di due circuiti chiusi , hcticliè aiiil)pdne fli corrente, si riduce a quella di due forze centrali che devono dare una risuilante fissa. Il calare invece è un i'enonieiio diiianiico , è il lavoro della corrente; e quindi se la massa non v;iria, sarà proporzionale al q della velocità. Peixiò il calore sarà in ragione inversa delle quarte potenze dei ragi;i dei fili cilindrici. Proposizione enunciata gran tempo fa e trovata vera dall' esperienza indipendentemente da qualunque teoria. Infatti per quella che si dice appresso Del testo dunque (10) Vedi i bei lavori di Favre nei Comptes Rendus ed altri giornali ( C. R. tom. XLV p. 56). Esso includeva la pila e un delicato apparato motore elettromagnetico in un calorimetro , ed esplorava così il calore svolto nelle due sezioni dell'apparalo: la pila e le eliche. Trovava così che se la macchina non lavorava a sollevare il peso, il calore prodotto era quello dovuto alla quantità di zinco combinato; ma che lavorando la macchinetta, si avea una diminuzione di calore nel calorimetro e quindi una partita di ca- lore che convertivasi in lavoro meccanico. In questi apparati vi è sempre gran logoro di forza per le scintille, imperfetti contatti ec. Si è provalo quindi coi moti rotatori diretti che la corrente può produrre come sono il mulinello di Borlow, la calamita girante nel mercurio galleggiante col contrapeso di platino, i conduttori elet- trodinamici. Ma la poca forza e lavoro meccanico esercitato in tali lavori ha assorbito sempre pochissimo calore; tuttavia io stesso ho veduto una piccola diminuzione in un termometro immerso nel mercurio della calamita rotante quando la cnlnmita si metteva in moto (11) Sarà sempre memorabile la operazione di questo illustre fisico e matematico, le cui scoperte, come già dicemmo, solo la cedono a quelle di Newton riguardo alle attrazioni. Vedendo esso che i moti rolatorii de' conduttori duravano malgrado gli attriti, ne con- cluse che mediante la corrente vi era produzione d'i forza viva , e che quindi le forze noa erano, come allora pretendevasi da al- cuni, effetto di semplice polarità trasversale. Il calcolo gli diede in mano la chiave del fenomeno , e riconobbe non potersi spiegare tali fatti senza ammettere forze di nuovo genere nei conduttori; e come le sole azioni espresse in funzione delle distanze non potevano produrre moti perpetui , perciò i fdi erano animati da una forza che non era semplice funzione delle distanze, il caso de'condui- 25 tiu-i die prodiicevano forze aceleratrici operanti non solo in fun- zione delle distanze, ma anche degli angoli, era nuovo ai tempi di Ampere: e fu prova di sublime ioteiletlo non lasciarsi sedurre libile meutitc apparenze delia forza e coglierne il vero valore. Ora però ne abbiamo degli esempi manifesti tifile composizioni dei moli rotatori! meccanici , nei quali pure si ha una forza accelera- trice tendente a condurre tutte lu rotazioni al parallelismo. Le forze acceleratrici, da cui sono animati i conduttori amperiani, sono precisamente di questo genere, se non che esse come tulle le forze nella natura decrescono inoltre in ragione del q. delle distanze. Ora per comunicarsi a distanza, tale azione suppone che il mezzo m cui sono i conduttori sia modificato ancor esso; e siccome tali azioni succedono nel pieno e nel vuoto, dobbiamo dire che la ma- teria ponderabile è bensì sede di tali moti, ma che da essa si pro- pagano nello spazio circo&tar.le pieno dell' imponderabile. I fisici, che escludono l'imponderabile, convengono che il molo uei fili trovasi incanalato ; ma incanalare un moto è lo stesso che dire che quella è la linea in cui havvi molo a preferenza delle altre; or questo molo è di materia ponderabile? Bisogna distinguere due moti, il vibratorio della materia ponderabile e il traslatorio: il primo vi è e costituisce il calore; il secondo non ha luogo che nei salti delle scintille ec. ed è generalmente minimo. Ma un moto traslatorio pare necessario per spiegare l'aumento di forza viva, e la circolazione in senso opposto nel conduttojc e nel liquido che già si è accennata di sopra; e pare che i piccoli moti traslatorii della materia pesante siano insufficienti a spiegare tutto. La male- ria pesame sarebbe adunque qui passiva, e agitala dal flusso che la pervade vibrerebbe e produrrebbe calore. Ecco la maniera più semplice, se non la più vera, da spiegare i fatti. (12) I canapi elettromagnetici hanno posto fuori di questione il punto fondameutale della pila, tìi ricava dalle sperienze di La- tuner Clark, che l'ago posto all'estremità di un lungo circuito noa SI muove finche tutto il filo non è arrivato alla tensione statica che ha la pila : e siccome i fili coperti di gutla perca e circonditi al- l'esterno da liquidi sono veri coibenti armati come le bottiglie di Leida, così essi impiegano a trasmetter i moti e il dispaccio più tempo che i fili isolati in aria. Ciò ha sorpreso alcuni moderni fisici ; ma il fatto in fondo non è nuovo. Volta avea già vedutu che una ampia batteria si caricava a debole tenzione cità. Ad alcuui pare che ripugni l'ammettere materia priva di gravità , quasi per ciò cessasse di esser materiale cioè inerte. Ma tale iipuguauza nou 27 pare r.'igioncvole^ uè la gravila è una forza cosi essenziale alla ma- triia che debba perire il suo cooccUo se se tic spogli. I.a gravila è cerio lina forza estrinseca, e molto probHbiltiieiile una forza risui- t.'iiile da un altro principio più generale che governa 1' ^Inver^u in genere. A noi è ascosa la natura dì tale forza ; ma che non sia impossìbile (produrre delle apparenti attrazioni e ripulsioni coi nioti l'utatorii, lo dimostrano i fatti recentemente trovali in questo ramo di dinamica. Cosi p. e. se un picco! loro girante si sospenda come un peniJolo alla circonferenza di una ruota, in modo che il piano di oscillazione di questo pendolo sia nella direzione del raj^gio , dando un moto rotatorio alla ruota, il giroscopio sarà respinto dal centro se la sua rotazione è opposta a quella della mota, e saia attratto al centro ( malgrado la forza centrifuga ) se ha rotazione identica. Questo fatto è si parli ute, che se 1' avessero saputo gli antichi cartesiani non avrebbero mancato di invocarla a favore de' loro vortici. Noi non preteidiamo risuscitare quella filosofia, ma è certo che il considerare la materia come fornita solo di forze statiche agenti a distanza è affatto antifìlosofico , e solo può tolle- rarsi come modo di parlare convenzionale per intenderci nell' atto di stabilire le formolo del calcolo, non per scoprire l'origine delle rose né il meccanismo dell' universo. (14) I fenomeni del diamagnetismo e quelli della deviazione del piano di polarizzazione ci dimostrano che tali moti rotatorii possono trovarsi in sostanze diverse dal ferro , sotto !' influenza delle calamite. I cristalli offrono diversa polarità magnetica secondo lu direzione de' loro assi , e il girare del piano di polarizzazione nel raggio trasmesso lungo il vetro pesante è al verso che vuole il giro delle correnti amperiane. (15) Quando Faraday ebbe scoperto la legge dell' induziooe elettrodinamica, e visto come alla presenza di una calamita, o an- che del solo globo terrestre che è esso stesso una calamita, può costruirsi una macchina elettrica da ogni pezzo di metallo messo iu moto, non potè a meno di non restar sopreso alla immensa potenza che si sviluppava nell' interiio de' pezzi metallici di cui sono com- posti i grandi ordegni meccanici di oggidì , e ne concluse merita- mente che se non vi fosse pronta la via all' equilibrio saranno soggetti ad esser fulminati ad ogni pezzo di ferro messo in moto da una macchina qualunque. 28 Sullo stalo fisico del suolo di Roma. Ragionamento letto aW accademia Tiberina il 10 maggio 1858, dal professore Giuseppe Ponsi. V^uel ridente suolo che noi calchiamo, illustri colleghi , nella lunga serie dei secoli trascorsi, per ben due volte , vide nascere dal suo pro- prio seno, crescere e fiorire due dominazioni, che sebbene d'aspetto diverso , pure tal gran- dezza e potenza spiegarono da render umiliate e soggette un numero pressoché infinito di genti. Roma colla maschera del paganesimo dominò regina conquistatrice, e dettò legge ai popoli : Roma colla vera fisonomia del cristianesimo fu regina e conquistatrice di anime, ed egualmente dettò leggi alle più distanti e barbare nazioni. I numerosi avanzi di delubri , di fori , di vie , di acquedotti, di mausolei, di terme, di circhi, di colossei, fanno ancor risonare la fama delle più bell'epoche di Roma pagana, e trasmettono ai secoli futuri i tempi degli Grazi, dei Catoni, dei Fabi, dei Scipioni, dei Tulli. I sontuosi tem- pli, le maestose basiliche, i sagri ospizi sparsi su tutta la superficie della terra, proclamano ad alta voce la fiorente felicità dei tempi , in cui tanti sommi pontefici, e con essi un luogo stuolo di seguaci di Cristo , si resero memorandi per 29 sanlil.'i di costume e per sublimità di dottrina. Ma tanta gloria, a cui Roma giunse per due volte, fu opera di caso fortuito, o virtù di mon- diali vicissitudini? No certamente: perchè a que- sta cagione solo appellò 1' uomo , quando per orgogliosa ignoranza volle raggiungere la cogni- zione delle cause misteriose. Tutto ciò che uscì dalle mani dell' Onnipotente , tutto ha un prin- cipio sapientissimo e imperscrutabile, tutto ten- de a un fine certo e immancabile. Quella prov- videnza che trasse dal nulla l'incalcolabile nu- mero di sistemi stellari, e stabilì i rapporti gra- duali fra il piìi piccolo sole della più distante nebulosa e la pesantissima massa di Sirio; quella provvidenza che seppe associare al più micro- scopio infusorio l'esterminata mole del cetaceo, e che organizzò il primo degli esseri ad avvi- cinare la Divinità; quella stessa provvidenza in- finita armonizzò la natura, le impose una legge invariabile, che tanto si manifesta nell' ordina- mento della creazione quanto nelle svariatissi- me azioni di cui l'uomo e capace. La provvi- denza divina non solo è la prima e potentissi- ma causa dello svolgimento delle nazioni , ma eziandìo è i'assidua operatrice nello scegliere e somministrarle i mezzi opportuni. E tal fu di Roma nei suoi gloriosi periodi. Volgete uno sguardo all' origine di questa città, e voi scor- gerete la mano di Dio che guida i\ ferro di Ro- molo a solcare e promuovere l' attività di un terreno già continente nel suo seno i germi di sua futura grandezza: avvegnaché dal suolo de- 30 vesi ripetere la causa mediata dell' incremenfo a cui giunse la romana potenza. Se questo suolo non avesse corrisposto ai sudori che vi sparsero i nostri padri, la razza umana non vi avrebbe potuto moltiplicare le sue generazioni, e Roma istessa o sarebbe restata quale larva traspa- rente attraverso il buio dei secoli, o la sua me- moria sarebbe stata cancellata del tutto dalla memoria anche di coloro che da molto tempo ci precedettero. La sua posizione su di una iso- lata collina, dominante un spaziosa valle attra- versata dalle acque che vi si dilatavano , cir- condata da un fiume, e inondata da una corona di prominenze rivestite di dense selve, sono tutte disposizioni della sapienza infinita perchè Roma ricavasse largamente dal suolo gli elementi della sua sussistenza e del suo sviluppo. Un albero non può vegetare fiorire e fruttificare se la sua radice non è immersa in un terreno capace di somministrargli nutrimento e vita. Questa verità fu ben intesa dal fondatore di Roma , perchè esso e i suoi demoralizzati seguaci si facessero operosi ad abbattere naturali boscaglie e rom- pere col ferro agricoltore un terreno forse non mai tocco ancora dalle mani dell' uomo. La gran missione del popolo romano fu quella di spargere sull' occidente le beneficenze agricole. Che se le coste settentrionali dell' Affrica e la Sicilia erano già cambiate in pianure fertili di copiose granaglie, al nord ed all'ovest erano an- cora grandi tratti di paese da conquistare , e benché al di là delle Alpi nelle Gallie e nella 31 Spagna già pullulassero i germi di una sociale coltura, gli stessi conquistatori delle razze ger- maniche e celtiche furono quelli che vi arre- carono i lumi di un viver civile , e con esso vi sparsero rapidamente la coltivazione dei pro- dotti del loro paese. Se adunque 1' agricoltura fu il mezzo effi- cace dalla provvidenza concesso per raggiungere tanto romano incremento, nel suolo istesso dove fu Roma fondata devono celarsi la cause, e nella sua natura e forma 1' elemento da cui derivò tanta celebrità, Qual'era adunque lo stato fisico e primitivo di questo suolo operatore di tanti prodigi ? II celebre Brocchi, di sempre gradita me- moria, per argomenti tratti dagli antichi scrittori nella sua opera il Suolo fisico di Roma volle esporre come in un quadro questo stato primi- tivo, e dipinse la contrada romana quale formata di vaste solitudini ricoperte di orride e intrica- tissime selve, fra le quali la valle tiberina inon- data dai velabri, dalla palude capreae, d'altri sta- gni e numerose sorgenti; i sette colli rivestiti di boschi, quindi consacrati a divinità tutelari, on- de venissero in parte serbati, in parte recisi per essere convertiti in campi di coltivazione. Peral- tro la bella pittura del Brocchi , per quanto accetta riuscì ai contemporanei per le profonde cognizioni che racchiude il suo aureo libro, al- trettanto si rende oggi insufficiente ad una in- tera e perfetta cognizione delle cause che ren- dono così fertili le pianure romane. Allora la 32 scienza geologica ancor bambina veniva nelle mani istesse di quell' illustre autore istituita e educata insieme al famoso Breislack od altri di quel tempo. Allora non peranche si era in grado di raggiungere le cause della forma del suolo che tanto contribuisce alla fertilità di una contrada. A tal deficienza hanno mirabilmente supplito i progressi della moderna geognosia, e le ripetute osservazioni fatte dopo quell'epoca permettono di coordinare cronologicamente tutte le vicende cosmiche, alle quali andò soggetta la campagna di Roma, per cui si dimostra che le colline e le convalli che la rendono ondulata, non solo af- fatto opera del caso , ma il risultato di mera- vigliose operazioni della sempre attiva natura. Restava perciò una lacuna , e il nostro paese domandava venisse occupata. Ecco ciò che mi sono proposto nel ritornare sopra un argomento già trattato, quale è quello del suolo fisico di Roma. Ma nell'accingermi ad un'impresa di questa fatta non é mia intenzione, né avrei forza suf- ficiente, di rimontare attraverso quelle prime epo- che geologiche che compongono l' età infantile o giovinezza della terra, quando cioè il nostro pianeta gradatamante cambiando di stato , ve- niva successivamente popolato da esseri sempre diversi: di maravigliose struttore, e di gigante- sche dimensioni ; nemmene vorrei affrontare la descrizione di quei portentosi cataclismi, che tante volte preceduti nelle diverse epoche della na- tura, valsero a balzar fuori del mare intere ca- 33 tene di monti, così influenti sui cninbiamenti di climi. Io solamente vorrei dire di ciò che av- venne nell'Italia centrale , e specialmente sul suolo romano da che il bacino del Mediterraneo era formalo, e l' Italia intera sollevata e com- parsa : vale a dire dalla catastrofe italiana per la quale emersero gli Apennini fino ai tempi nei quali Roma venne fabbricata da Romolo Questo lasso di tempo abbraccia due epo- che; la subapennina tutta marina , la diluviana tutta fluviale , ambedue intercalate da periodi vulcanici, per azione dei quali, o per lo svol- pmento dei fenomeni che l'accompagnarono, il nostro suolo cambiando successivamente di for- ma a poco a poco si ridusse a quell'aspetto in cui fu rinvenuto dai .padri nostri. In quei primissimi tempi non esistevano an- cora i monti vulcanici dei cimini, né le colline laziali erano state prodotte; ma un vasto mare si distendeva a ricoprire tutto quel tratto di paese che intercorre fra i monti toscani e i le- pini , e spingeva le sue onde a correre ed in- frangere sulle scogliose radici, e frastagliate co- ste degli apennini. Se da un luogo prominente si getti uno sguardo indagatore su tutta l'esten- zione delle pianure romane, chiaramente verrà dimostrato dalla loro forma largamente ondu- lata che queste furono un tempo un fondo ma- rino poi messo in secco, il cui lido si contornava su tutto il complicato andamento dei monti. Se la navigazione avesse esistito in quelle remotis- sime epoche , sarebbe risultata difìicilissima in G.A.T.LV. 3 34 questo littorale dell' Italia centrale, in mille ma- niere frazionato e spiegato in isole, golfi, stretti, e canali, e tante altre accidentalità proprie di paraggi aspri e scoscesi. Quivi il Soratte sor- geva isolato a modo di antemurale rimpetto ai monti della Sabina , e i monti cornicolani for- mavano tre isolette poste a guardia della massa colossale del monte Gennaro. Il livello che mantiene la linea di quelle an- tiche spiagge ben si presta a dimostrare la som- mersione originaria delle campagne di Roma; ma »m argomento tanto più evidente e sicuro viene somministrato dalle materie, di cui il suolo istesso risulta formato, e le conchiglie marine che ce- late in esse si rinvengono. È ben naturale che in tal primitivo slato le montagne di recente emerse incontrassero me- glio quel perenne disfacimento che deriva dalle ingiurie di un' alta atmosfera, determinate dalla stessa natura, instancabile a distruggere ciò che fece, per elaborare nuovi ed incessanti prodotti. Quelle frantumate scaglie, che oggi vediam di- velle dalle più alte rocche montane e trascinate dalle loro più eccelse cime fino al mare, veni- vano certamente convogliate anche nei primi t^mpi dell'esistenza italiana, di modo che con- dotte dalle piogge e dai fiumi in preda a bur- rascosi flutti dovettero dare origine ai depositi del mare subapennino, evidentemente composti di argille sabbie e ciottoli, che ovunque ci vol- giamo li vediamo strascinati gli uni sugli altri a comporne quelle lunghe zone spianate , di- 35 slese a formare tanto la costa adriatica quanto la tirrena. Ma questo lavoro dovette essere diuturno e lungo , e una estesa serie di secoli dovette trascorrere , perchè si formassero tali enormi masse di materie. Se non abbiamo mezzi a de- terminare la durata di quel tempo , possiamo però con sicurezza credere che i tempi suba- pennini passassero tranquilli, e questa calma ne- gli agenti della natura prestasse le più favore- voli condizioni allo sviluppo della vita entro quelle stesse acque atte a somministrargli l'op- portuno nutrimento. Pochi sono quei luoghi dove le argille e le sabbie subapennine non si rin- vengano gremite degli avanzi di conchiglie e zoo- fiti in parte perduti, in parte emigrati, in parte viventi nei mari attuali , che resero celebri le sabbie del monte Mario e le marne del Vaticano. Le osservazioni oggi pur ci dimostrano che ad onta del continuo logoramento, le terre emer- se dovettero presto rivestirsi di una gagliarda vegetazione. Densissime foreste di querci, pini, elei, abeti ed altre piante d' alto fusto, i cui avanzi eziandio si rinvengono in quei depositi, dovettero distendersi sulle aspre giogaie degli apennini , né la vita vegetativa era dall' anima- le disgiunta. Quelle selve servirono a dare stan- za a numerosi stuoh di animali terrestri, la più gran parte ora sconosciuti nelle nostre contrade. ^oi abbiamo notizia di un elefante primi- genio identico a quelli, i cui cadaveri ancor con- servati dai ghiacci della Siberia, all' epoca di 36 BImnenbach furono per la prima volta disoller- rati e restituiti alla luce del sole, forniti di una lanugine e ornati il capo e i lati del collo di una lunga criniera. Noi abbiamo anche notizia di un rinoceronte a narici aperte ora scompar- so, e del grande ippopotamo tuttora vivente nel- r alto Egitto, insieme ad altro piccolo ippopo- tamo ora perduto { Ippopolamus Penllandi). Noi abbiamo tracce di altri mammiferi og- gi viventi liberamente sotto la sferza della zona torrida, che scorrenti per boscose convalli o in riva alle acque , menavano sui nostri apenni- ni la loro vita senza tema di venatorie insidie. Dal quadro complessivo della vivente na- tura traggiamo argomento , che le climatologi- che condizioni di quei tempi erano presso di noi quali oggi si ritrovano più a mezzo giorno e sulle regioni dell'alto Egitto e dell' Abissinia, dove la natura fa lussureggiante pompa dei suoi più ricchi tesori. Ma il beli' aspetto di un cie- lo calmo e sereno venne a poco a poco a man- care, e di giorno in giorno quel tranquillo pe- riodo declinando finì per convertirsi in torbido e procelloso. Un nuovo lavoro si preparava nel- le viscere della terra, e di tal vastità, da com- promettere la sua superficie e la sovraincom- bente atmosfera. Imperversò la tempesta, bur- rascosi nembi si rovesciarono sulle terre emer- se, e spesse folgori venivano a saettare le som- mità delle più eccelse cime. Traballò il suolo, e strane convulsioni si annunciavano foriere di una estesa conflagrazione. Fu al declinare del- 37 r epoca siibapennina che dal seno stesso del mare il più violento vulcanismo con un corteg- gio di quella fatta si aprì a viva forza una via, che servir dovea a' versamenti da una pletora terrestre. Fu allora che 1' involucro solido del- la terra, mal reggendo ad un impeto sempre più incalzante, si squarciò coi tre grandi meati, og- gi rappresentati dagli enormi crateri contenen- ti i laghi Vulsinio, Cimino e Sabatino. Se le scosse della terra scemarono dopo r apertura di quelle immense bocche, non fu così dello stato burrascoso dell' aria e dell' ac- qua. Imperocché quei cunicoli ignivomi aperti nel fondo istesso del mare, questo dovette met- tersi in un perenne stato tempestoso, e le ema- nazioni gassose portare notabili squilibri nella soprastante atmosfera. Un' incessante ebollizio- ne dell' acqua sulle bocche eruttive dovea ri- solversi in un irragiamento di violentissime cor- renti, che in ogni direzione portavansi ad infran- gersi e riflettersi su tutte le coste: e per que- ste correnti un rimescolamento continuo delle materie eruttate, e la loro diffusione su tutta la superfìcie sommersa: ed ecco nuova serie cre- scente di letti aggiunti ai preceduti di sabbie e ghiaie , ecco la deposizione dei lapilli e delle scorie insieme impastati dalle acque , ecco in- fine la formazione dei tufi che rivestono tutto il soprassuolo della campagna romana. Il non aver rinvenute fin qui nei tufi vul- canici reliquie di esseri marini ci dà diritto a credere, che in quel cataclismo tutti venissero 38 estinti, e che le condizioni delle acque vulcani- che si opponessero in tutto quel periodo erut- tivo alla loro ricomparsa. Non fu però così di quelli che sulla terra tiravano i loro giorni : giacché entro quegli stessi tufi si rinvengono im- pressioni o frantumi di legni spesso carbonizzati appartenuti ad alberi terrestri, che divelti dalle bufere atmosferiche, e dalle acque piovane tra- scinati , dati in balìa delle onde burrascose, da queste vennero bersagliati , frantumati e get- tati lungo le coste. Mentre queste vicende accadevano sulla su- perficie del suolo , ben altri fenomeni si svol- gevano e di non minore importanza negli abis- si marini , dove concentrato si trovava il vulca- nismo nei tre punti di eruzione. Le lave sparse all' intorno col loro raffreddamento e consolida- zione , prodotto un primo rilievo , servirono di letto alle altre successive , che accavallandosi le une sulle altre a poco a poco formarono cu- muli di materie ribollite , e presto presero la forma di larghissimi coni schiacciati , nella cui sommità le bocche eruttive si aprivano a modo di coni rovesci o imbuti, come avviene in tutti i vulcani o in qualunque altra bocca di eruzione. La vita di questi nostri vulcani fu pur lunga e protratta , forse per periodi , nei quali la forza esplosiva accumulata e concentrata, come è loro costume, venne di tempo in tempo a risu- scitarsi colle più spaventevoli manifestazioni. La quantità delle materie vomitate, la loro dispo- sizione , la forma e il numero dei crateri, tutto 39 indica che tali periodi devono essersi ripetiUi per una lunga serie di secoli. Imperocché quei coni dalle più grandi profondità del mare su- ba pennino si rialzarono per gradi fino ad uscire dalle acque e portare le loro eruzioni nell'atmo- sl'ora , con gran sollievo delle acque istesse che tolta la causa dell' agitazione , venne frenato il movimento dei loro flutti. Ed ecco la superficie (il quel mare interrotta da novelle isole erut- tjsnti, quale è ora quella di B^irren in America, o quella di Santorino in Grecia , o la stessa Islanda formata dall' Ecla. Ma quella emersione non devesi solamente attribuire alla serie crescente delle materie vo- mitate ; altra ragione si aggiunge di non mino- re valore. Operazioni naturali di quella fatta devono essere state eziandio accompagnate da un lento e graduale innalzamento di tutto in- tero il suolo in virtù delle spinte , che l'enor- me tensione dei gas racchiusi nelle profonde latebre terrestri, e V ascenzione delle lave con- tro la legge di gravità , operavano sull' involu- cro terrestre. Se durante il periodo vulcanico il suolo si fosse sollevato con violenza subitanea e tumultuariamente , vi sarebbero pur restate le vestigio nel turbamento dell'ordine di sovra- posizione o di giacitura : al contrario i nume- rosi Ietti di materie vulcaniche ovunque si mo- strano ordinati e concordanti colle assise marine precedenti e nella successiva positura di depo- sizione. Da che i coni vulcanici furono emersi , e 40 l' eruzioni non più soltomarino, il movimento burrascoso delle onde venne sensibilmente a sce- mare. Tuttavia non fu così dell' atmosfera, nel seno della quale ancora si raccoglievano le ema- nazioni gassose , e lo squilibrio degl' imponde- rabili vi determinava piogge dirotte , le quali cadendo a rovesci specialmente sul dorso dei coni vulcanici , per la prima volta vi solcarono queir irraggiamento di torrenti che tuttora si scorgono sulle circolari loro pendenze. L'emer- sione del suolo non si arrestò collo scoprimento delle sommità eruttive ; un lento ed incessante sollevamento si mantenne fino a che il vulca- nismo disfogato il maggior impeto , e gradata- mente declinando , venne ad estinguersi collo scoprimento totale della maggior parte della superficie coperta dalle acque , e col ravvici- namento delle spiagge poco d' appresso agli at- tuali confini. Così la campagna romana venne prodotta nella sua distesa dalle radici apennine al mare tirreno, ed ecco dimostrate le sue lar- ghe ed orizzontali ondulazioni. In questo stato di cose le colline, sulle quali venne eretta Roma, non esistevano anco- ra ; ma seguendo l'ordine cronologico degli av- venimenti, noi vedremo Vulcano ritornare il suo impero a Nettuno, e questi dominare in guisa da stampare un' impronta a questo nuovo pe- riodo per cui venne distinto col nome di dilu- viale : durante il quale le acque compirono r opera, e il suolo romano fu ridotto a quella 41 fornia, la quale fu rinvenuta allorché l'uomo ne prese possesso. Noi non possiamo ancora sapere con cer- tezza qual fu la causa fisica di tanto versamento di acque dolci nell'epoca diluviale; però è certo che la loro massa fu tale e tanta da correre e spandersi su molta superficie. Egli è ben na- turale, che di mano in mano che le acque ma- rine cedevano terreno , i fiumi precipitati dai monti venissero insieme allungando il loro corso per raggiungere il comun recipiente : ed allora fu che per legge di gravità scendendo sempre verso le parti più basse si formarono i sistemi idraulici dei fiumi. Ma la copia delle acque era sì ingente , che precipitandosi dalle più rilevate cuspidi giù per le chine avvolgevano massi e sassi , e li rimescolavano a tutte le materie in- contrate per via. Così giunte sulle pianure non ancora guidate dall'umano intelletto, si spinge- vano con isfrenata e tumultuaria violenza al- l' escavazione dei rispettivi alvei. Ora ristrette in canali corsero con impeto, ora chiuse da gole si fecero largo colla più erosiva gagliardia, ora fatte più miti si dilatarono a riempire i più bassi fondi assumendo l'aspetto di vaste lagune. Tutte queste vicende si avverarono nella cam- pagna romana per la formazione di uno dei più grandi sistemi idraulici : quello del Tevere che comprende altresì quello dell'Aniene e degli al- tri suoi tributari. 11 frastagliamento della su- perficie per tante erosioni fluviali dovette non poco alterare la figura compartitale dalle acque i2 marine , e gli spazi frapposti a tutti quo' ca- nali si dovettero convertire in larghe gibbosità circondate da acque rodenti i loro fianchi. Quali riduzioni tanto piìi salienti ebbero a comparire, quanto più aumentava il calibro delle correnti, e specialmente sulle stesse sponde del fiume principale. Tale fu 1' origine delle colline che formano 1' ondulazione della campagna romana, e insieme quelle sulle quali Roma venne eret- ta. Difatti se si osservi la loro posizione, tosto compariranno chiaramente accordate colla distri- buzione dei fiumi , e correre tutte insieme a comporre le fiancate del grand' alveo diluviale, ovvero sorgere nel mezzo di quella valle a modo d' isola. Epoche noi rammentiamo, o signori, nelle quali non peranche era l'uomo comparso in que- ste contrade: perocché nei relitti di quelle impe- tuose correnti diluviali mai non ne fu rinvenuto vestigio. Laonde tutto era opera di natura dalla provvidenza disposta. Le terre emerse non tar- darono a rivestirsi di gagliarda vegetazione, e tanto più dilìusa e ricca in quanto che sopra terreni formati d' agglomeramenti di tanti ma- teriali diversi presto si ricoprirono di dense fo- reste , asilo e stanza di numerosa gregge. Ma gli animali che vi si moltiplicarono non furono più tutti quelli che indicammo padroni delle selve apennine; la natura avea cangiato di con- dizioni, e la provvidenza vi avea prodotti esseri più adatti e meglio ravvicinanti i tempi correnti. All' elefante primigenio si aggiunse il meridio- 43 «ale , altra specie ora estinta, o ai rinoceronti ed ippopotami si associarono cervi , cavalli , iene , orsi e linci , stipiti forse di quelli attuali, e che formando un passaggio meglio servono ad attestare la loro indole capace di seguire i suc- cessivi cambiamenti climatologici del cielo. Ma la natura sempre operosa non restava inerte. Questo periodo ebbe ancor fine , e al declinare dell' epoca delle acque, nuovi segni si manifestarono nunzi di vicino parossismo co- smico. È appunto in questo tempo che si asse- gnano que' vasti incendi che diedero origine al gruppo dei monti che interrompono le vaste pianure del Lazio. Il vulcanismo del N. 0. di Ro- ma risvegliato, e accumulate nuove forze, corse ad irrompere verso S. E. per isfogare nel seno dell' atmosfera una pletora celata nelle profon- dità delle viscere terrestri. Allora fu che si spa- lancarono quelle ampie bocche crateriformi che ordinate rinveniamo fra una congerie di sva- riate colline; allora furono vomitate tutte quelle scorie, lapilli e ceneri che formano tutta la mas- sa dei monti latini ; allora corsero quelle cor- renti di lava, che raggiando attorno le loro sca- turigini si sparsero avanzandosi a ricoprire le sottoposte romane distese. Peraltro questi vul- cani dopo aver lunga pezza agito, e dopo es- sersi per ben tre volte riaccesi, ancor essi de- clinarono , fino a che vennero ad estinguersi del tutto, per camminare più avanti a devastare le contrade dell'Italia inferiore, dove tuttora Etna e Vesuvio prolungano i periodi eruttivi. 44 Al cessare dei laziali incendi un'era no- vella prendeva origine : era distinta per altre naturali vicissitudini, e perchè veggiamo la crea- tura intelligente , 1' essere fatto dal Creatore a sua immagine , venire a queste contrade , e prenderne il dovuto possesso. Al cessare della dominazione nettuniana diminuì la massa delle acque, l'impeto dei torrenti fu frenato, e i mag- giori fiumi ristretti nel fondo dei loro propri alvei vi si spiegarono in numerose spire, men- tre prima direttamente vi erano condotti al ma- re. Coir abbassamento delle acque le colline si fecero tanto più apparenti, specialmente quelle costituenti le fiancate della valle teverina. Così a poco a poco tutto si ridusse allo stato mo- derno , così i colli di Roma si fecero più sa- lienti e distinti, così il monte Mario, il Vatica- no, il Gianicolo si trovarono allineati sul con- fine delle pianure romane arrestate sull' esca- vazione del grand'alveo diluviale del Tevere: così il Pincio, il Quirinale, il Viminale, 1' Esquilino, il Celio sono schierati a fronte per costituirvi l'opposta fiancata ; così in fine l'Aventino, il Pa- latino, il Capitolino, entro quella stessa vallata restati sono quali testimoni di altrettante fra- zioni del suolo separate dalle acque e superanti il livello diluviano come tre distinte isole. Molte prove geologiche potrebbero essere addotte in conferma di tale asserzione ; ma la brevità del tempo concessomi mi costringe a rimandare le ulteriori dimostrazioni all' analisi di una carta topografica. 45 Dopo tanti avvenimenti tellurici siam final- mente giunti a quel metamorfismo, per il quale la scienza geologica si fonde convertendosi in archeologia, e con questa alla grafica descrizione del suolo fisico di Roma fatta dal Brocchi : da essa si apprende che quelle denudate colline presto si rivestirono di piante arboree. Gli elei, i platani , i lauri dell' Aventino , le quercie del Celio per cui fu detto altresì Querquetulano, i faggi dell' Esquilino, i salici del Viminale ricor- dati da Ovidio, Festo ^e Varrone, ne siano una prova. I velabri distesi fra il Palatino, l'Aventi- no e il Capitolino , la palude Caprea , gli sta- gni di Perento, e la voragine stessa di M. Cur- zio, avanzi evidenti delle acque diluviane, ab- bastanza annunciano che quel territorio boscoso e selvaggio veniva eziandìo inondato da pesti- fere e inospitali paludi. Un suolo a quella fog- gia ridotto , un terreno composto a spese di tanti elementi diversi e incoerenti, così facili al- la riduzione in humus, specialmente entro la stes- sa valle tiberina , non poiea essere che non ri- sultasse di una fertilità portentosa. Il mito di Giano e di Saturno, l'uno abitatore del Giani- colo, l'altro dell'Aventino, ci presenta in queste contrade due personaggi , venerati quali istitu- tori di un viver civile per mezzo dell'agricoltura e delle leggi. I poeti chiamando quello il secolo d'oro abbelliscono tali benefattori dell' umanità per aver legate e strette con vincoli turbe sel- vagge e impetuose. 46 E qui è da notarsi la sapienza del fondatore di Roma nella scelta del luogo, e dei re suoi suc- cessori intenti sempre alla riduzione del suolo in campi fruttiferi. Nei primi tempi di Roma l'agri- coltura passava per la più nobile occupazione dell' uomo, e gli stessi magistrati non isdegna- vano esercitarla. Che se più tardi introdotto il lusso demoralizzante si modificarono le idee a questo riguardo , il fatto istesso di cui tanto si lagna Columella è una prova dell' incremento di Roma avvenuto per l' agricoltura. Tuttavia non si cessò mai d'attaccare una grande impor- tanza alla coltura del suolo : e Catone, e Va- rone, e Columella bastino a provare, che l'agri- coltura e la pastorizia moltissimo aveano avan- zato in Italia con la gloria romana. A misura che colie conquiste il viver ci- vile si diffuse sulla terra , i prodotti del suolo vennero cambiati coi popoli entrati in relazione. I romani furono che al di là delle Alpi inse- gnarono r arte di piantare la vite e coltivare gli alberi di frutti, che fino dai tempi dei re erano conosciuti in Roma. Il ceraso fu portato dal Ponto per mezzo di Lucullo, e con esso il limone. Sotto Augusto il mandorlo venne dal- l' Affrica , il prugno e il granato dall' Asia mi- nore , e sotto Tiberio 1' albicocco d'Armenia, e il pistacchio di Siria , che sotto l' influenza di un clima benigno e di un pingue nutrimento migliorando le razze indigene arricchirono le mense della fastosa Roma già giunta al suo apo- geo delle più squisite largizioni di Pomona. 47 Ma bentosto un uragano spaventoso scop- piava a disperdere il mondo romano , e nume- rose migrazioni scendevano dal settentrione ad inondare 1' Europa di orde nomadi e selvagge. Uno sciame die^truggitore si gettò sul nostro suolo tutto passando a ferro e fuoco , qual nuvolo di locuste sulla ricca e biondesfgiante messe nelle vrste pianure bagnate dal Nilo. In questo periodo d'eclissamento del romano splen- dore la coltura del suolo venne a preferenza a sopportare i più gravi danni, e quasi ignorata si mantenne fino al suo risorgimento che fu ap- punto allora quando quelle barbare genti fu- rono raggiunte dal cristianesimo. L'aurora di un nuovo periodo sorgeva, e il luminoso splendore della vera religione , della religione di Cristo , prendendo principio da Roma, ove dopo aver col- locata per s. Pietro la precipua sua sede, si dif- fondeva con un universale irraggiamento. L'era nuova spiegava i vanni, allorché i missionari inal- berato lo stendardo della croce , sprezzati co- raggiosamente tutti i pericoli, sparsero nel mondo, in un colla vera fede , la semenza di un vivere intellettuale e civile ritornando ai popoli l'agri- coltura perduta. Più tardi sotto Carlo Magno , grande proteggitore dell' argicoltura, i conventi dovettero prendere solenne impegno di favorire la coltura del suolo. Essi furono per lungo tempo non solo i focolari della vita spirituale , ma eziandio la sorgente di conoscenze agricole ed economiche. 48 Si spiccano da Roma le crociate : e riti , e costumi , e arti , e scienze tornano da que- sto centro a diffondersi per il mondo. Impor- tazioni ed esportazioni dei prodotti della terra per esse si stabiliscono: ed ecco un commerciale ele- mento di nuova civilizzazione, grandezza e glo- ria per Roma. Si discuopre T America, e tosto turbe ruvide e bruì ali son guadagnate dalla ca- rità cristiana, non senza il soccorso di quell'istes- si mezzi, per i quali il nostro paese tanto avanzò nel viver civile, che per ben due volte fu con- quistatore del mondo. A' tempi nostri il suolo romano non ha cessato di essere quello che sempre fu. Che se r agricoltura per le tante sofferte vicende ven- ne ad illanguidirsi; un'alba lusinghiera ci viene promessa, e il desiderio di un risorgimento delle nostre campagne comincia ad essere soddislatto mercè le paterne cure di un pastore benefìcen- tissimo, che sempre intento al benessere della sua gregge, non lascia d'adoperare tutte le cure onde restituire a Roma quello splendore che tanto la rese celebre. Ma io qui m' arresto dopo una rapida espo- sizione degli avvenimenti naturali e sociali che condussero questa parte dell' Italia ad uno stato somidiante all'odierno. Io mi taccio nell' asso- luta impotenza a marcare neppure approssima- tivamente sul quadrante delle nazioni l'ora dei popoli. No, io non saprei prendere su di me la responsabilità d'indicare una meta: porche la mano di Dio è quella che regola il tempo, e 4.9 0 assoggetta ai suoi imprescrutabili voleri. La vita e la morte di un popolo sono in sua ma- no , come dalla sua stessa mano procedono i mezzi a sollevare e deprimere le nazioni. Noi con convinzione profonda possiam credere che tutto ciò che avviene su questa misera terra, tutto h^i un fine sapientissimo., all' occhio mor- tale celato perchè 1' umana natura venne a più elevati destini serbata , piuttosto che a perire dopo breve dimora. Laonde da tanta onnipoten- za compreso, nel cessare da questo qualunque siasi ragionamento non posso che esclamare col regio salmista: Mirabilia tua facta sunt nimis: omnia in sa- pientia fecisli. G AT.CLV. 50 Suir ingresso delle sostanze polverulente nelle vie della respirazione , nota del prof. Carlo Mag- gior ani. fcZ^i ammette generalmente che le masse nere, le quali infiltrano spesso il parenchima polmo- nale e le glandole bronchiali dei carbonai e dei lavoranti nelle miniere di carbon fossile, siano formate di vere molecule di carbone ivi raccolte, e non da quel prodotto morboso conosciuto col nome di melanosi. Lo fa presumere la circostan- za del viver costoro in un' atmosfera carica di "particelle di carbone , lo conferma la notabile differenza nelle proprietà fìsiche di queste masse dalle altre della vera melanosi , e lo dimostra definitivamente 1" analisi chimica , determinando che trattasi di vero carbone e non d' altro. Ma non sono i soli carbonai e i lavoranti delle miniere di carbon fossile che ci offrano esempio di penetrazione di polveri nelle vie del respiro. « Le malattie, dice Dorwall , prodotte da irritazione meccanica di molecule o polveri sottili disgraziatamente son molte. Gli artefici molestati da questa causa sono i segatori, i mu- gnai , i fabbricanti d' amido, gli acardassieri del lino , i tessitori , i cardatori della lana, gli sco- tolatori di piume , i lavoratori di corna e di AManticeJlo destinalo ad agevolare la inspirazio, ne delle polveri medicinali cKe sollevansi nel comprimerlo rapidainenle B avendone depo.. sla una presa entro la sna apertura numi la di forellini come meglio apparisce in C . '51 madreperla, gli aguzzatori di aghi e di stromenti taglienti, gli archibusieri e molti altri ... Le malattie, alle quali questi operai vanno soggetti, sono quelle che attaccano le vie aeree etc. ». In mezzo a questi limpidi insegnamenti del- la esperienza il prof. Bernard, notissimo al mon- . do scientifico pe' suoi bei lavori e per le sue opere in fisiologia , ha procacciato ultimamente di spargere qualche dubbio sulla realtà di que- sta penetrazione delle sostanze polverulente nelle vie aeree, inculcando esservi nelle ciglia vibra tili una disposizione anatomica sufficiente a re- spingere dalla mucosa polmonale i morbosi agen- ti che sono sospesi nel!' aria. Credo espedien- te riferire le sue stesse parole. « On est porte à penser que les cils vi- bratiles, qui existent dans les voies respiratoires de l'homme et des animaux superieurs, repous sent au dehors les poussières et s'opposent à la penetration des agents toxiques qui sont en su- spension dens 1' air. « On a propose, il y a quelques années, la substilution de la fécule à la poudre de charbon dans une industrie, celle des fondeurs, regardée comme insalubre en raison des effets délétères attribués à l' introduction, dans les voies respi- ratoires , de cette dernière poudre dont l' air etait chargé. On croyait avoir remarqué, à l'auto- psie des sujets ayant exercé cette profession, une coloration noire du tissu pulmonaire, coloration signalée aussi chez les mineurs qui vivent dans le mines de charbon. D' un autre coté, il n'est 52 pas très rare de rencontrer la méme coloration noire chez des personnes àgées ayant exercè une toute autre profession que celle chez lesquelles il étail possible de faire intervenir cette cause; c'est encore une coloration assez frequente dans le poumon et dans les ganglions pulmonaires chez le chien et chez les chevaux blancs. » Mais ce qui semble contraire a l'explica- tion qu'on en a donnée , e' est qu'on ne peut pas produire cette alteration pulmonaire artifì- ciellement en faisant respirer à des animaux de l'air chargè de poussière de charbon. Nous avons engagé la téte d' un lapin dans une vessie ren- fermant une assez grande quantité de poudre de charbon. Pour cela, on assujeltit la vessie autour de la téte de 1* animai , de facon toutefois à le laisser respirer , comme vous le voyez ici sur ce lapin qui portant la vessie avec lui, rémue la ponssière à chaque mouvement qu'il fait, et en charge ainsi le volume d'air assex restreint qu'il a à respirer. On óte, si l'on veut, la vessie pour faire manger 1' animai , après quoi elle est re- placée. Au bout de quelques jours on peut sa- crifìer 1' animai , et à l'autopsie on ne trouvera pas de coloration noire des poumons. On ren- contre seulement des parcelles de la poussiere noire dans le fosses nasales , mais il n'y en a pas méme dans le larynx. L'air est en quelque sorte tamisé dans le nez et les premieres voies respiratoires , de sorte que cet air n'arrive dans les vésicules pulmonaires , qui sont dépourvus d'epithélium vibratile, qu'entièrement dèbarassé 53 des jjoussières insolubles. Celles-ci sorit arrétées par les cils vibratiles des fosses nasales, et n'ar- rivant pas dans le vésicules du poumon , elles ne peuvent pas manifester leur action nuisible. ( Lecons sur les effets des substances toxiques et medicamenteuses. Paris 1857) ». Il dubbio della penetrazion della polvere nelle vie del respiro così promosso dall'insigne fisiologo, come che appoggiato ad un semplice sperimento , che non può far fronte alla schiera de' fatti comprovanti l' ingresso di molecule so- lide fin dentro i più piccoli rami de' bronchi , ha però svegliata la mia attenzione, dacché io già da qualche tempo vado amministrando i me- dicamenti in forma polverulenta per la via del polmone. Messo talvolta alle angustie dalla in- tolleranza dello stomaco per tutti i rimedi nelle lente bronchiti e nelle affezioni tubercolari del polmone, pensai di applicarli direttamente alla sede del male, facendoli inspirare , giovandomi di tali sostanze che possano ridursi a sottilissima polvere , e che siano solubili negli umori ani- mali. A render più agevole questa inspirazione delle polveri medicinali mi servo di una macchi- netta costruita dall'abile farmacista e meccanico Francesco Frezzolini e che consiste in un piccolo mantice ( v. la tav. fig. A ) sormontato da una bocca che per la sua forma si adatta bene a praticarvi da vicino la inspirazione. Al fondo di quella bocca sono praticati alcuni pertugi : ivi -si depone una presa delle polveri da inspirar- si (C). Si preme il piccolo manlice, ed una nube 54 di polvere s' innalza verso la bocca del paziente che intanto esercita una profonda inspirazione (B). Quantunque i miei infermi mi abbiano più e più volte attestato di sentire distintamente r impression del rimedio nell'interno del petto, e precisamente alla parte offesa; tuttavia a dis- sipare ogni dubbio ho provato il bisogno di as- sicurarmi con osservazioni dirette e ineluttabili, che le polveri fatte inspirare penetrano vera- mente fin nelle ultime diramazioni de' bronchi. E mancando a me il comodo di un ospedale, sono ricorso alla gentilezza di un giovane me- dico , stato già uno de' miei più distinti uditori, e sulla cui diligenza e intelligenza potevo ben riposare. Adunque il dott. Capparoni, occupando la carica di medico assistente nell' arcispedale di s. Giovanni, vi ha condotte alcune osservazioni su donne affette da consunzion polmonale, ser- vendosi del mio manticetto, e facendo inspirare la polvere di zucchero di latte con alquanto carbone di tiglio parimenti ridotto a sottilissima polvere. Ecco i risultamenti delle tre esperienze da esso istituite, e che io qui riferisco colle sue stesse espressioni. Invenzione della polvere di carbone negli or- gani polmonali di tre inferme deWospedale di s. Gio- vanni in Luterano, fatta loro respirare col manti- cetto del prof. Maggiorani. Radassi Giovanna, di anni 23. affetta da tisi tubercolare, posta nella sala di s. Giacinto n. 1, 55 inspirò ripetutamente negli ultimi tre giorni di vita del carbone sottilmente polverizzato. Morta il giorno 8 giugno (1857) ed eseguitane la se- zione 28 ore dopo : notai quasi nullo il fetore dei guasti polmoni, ed oltre le solite alterazioni di simile malattia ; nella trachea , nei bronchi, e nelle vaste caverne non traccia alcuna della suddetta polvere ; ma le porzioni del viscere gremite da tubercoli dal color grigio al giallo presentavano specialmente nei lobi superiori, e in tutta la loro sostanza, finissime diramazioni di color nero, le quali incise e premute, o sot- toposte all'impulso dell'acqua, davano uscita ad una sostanza dello stesso colore , che stropic- ciata fra le dita e sulla carta tingevala in nero. Paoli Luisa, dell'età di 28 anni, al n. 12 della sala di s. Giacinto morì il dì 23 giugno anno corr. di tisi tubercolare. Per lo spazio di 15 giorni essa ben volentieri si sottopose al- l' esperimento d' introdursi mercè l' inspirazione la polvere di carbone nelle vie respiratorie, ed annunciato una sensazione particolare di questa introduzione nel petto. Apertosi il torace 36 ore dopo la morte, non emanava il consueto fetore: un versamento sieroso di color fuligine ne in- vadeva la cavità; i polmoni quasi tutti corrosi da caverne ampie e spesse tenacemente aderi- vano alle pleure; la marcia refluiva dalla tra- chea; un filo di riunite molecole carbonose rac- colsi in un punto della medesima, e residui di carbone fra i tubercoli dal color nero e dagli altri caratteri sopraesposti davano prova che la 56 polvere inspirata avea penetrato realmente nel più intimo del viscere. Barbiconi Gatcrina, d'anni 53, per una ti- si tubercolare che consumavaie i) polmone de- stro con vaste caverne, avendo il sinistro enfi- sematico, perde la vita nel giorno 25 giugno anno corr. ( s. Giacinto n. 5 ). Per 7 giorni in- spirò la polvere di carbone. Fu eseguita 1' au- topsia 32 ore dopo la morte; che manifestò coi già detti caratteri la presenza del carbone, il quale erasi anche introdotto nei vasellini delle glandole bronchiali, che essendo ipertrofiche, si vedevano screziate di nero all' esterno , e ta- gliate davano uscita colla pressione ad un li- quido nerastro. Questi esperimenti tentati per verificare se le sostanze polverulenti si possano introdurre ne- gli organi della respirazione comprovano che il polviglio di carbone li ha penetrati, e per aver- nelo estratto, e dalie sue qualità caratteristiche, fra le quali è rimarcabile il ritardo della pu- trefazione. Il versamento di color fuliginoso os- servato nel secondo cadavere, e la presenza del carbone nelle glandole bronchiali del terzo, mi fanno di sopprapiu credere che venga pure as- sorbito dai vasi sanguigni, e portisi in circo- lazione. Doti. Gaspare Capparoni Questi tre fatti circostanziati mi sembrano bastanti a confermare le predette osservazioni, e a provare definitivamente che le sostanze poi- 57 verulenti trovano adito nelle vie del respiro. Le ciglia vibratili adunque non valgono ad impe- dire cotesto ingresso, o che nelle morbose con- dizioni del polmone esse perdano la loro virtii, o che esse resistano da principio e poi finisca- no col cedere. Ed in fatti ne' primi esperimen- ti della jspirazion delle polveri sollevasi facilmen- te la tasse, che poi presto si acquieta, e a cui in seguito esse divengon rimedio. Invito i medici a sperimentare anche que- sto artificio nella cura topica della consunzion polmonale. In forma di gas o di vapore i rime- di non hanno finora corrisposto alla espettazio- ne, né il più comodo ordigno proposto ora dal Mayer zi assicura a bastanza del miglior esito, cjuel pronto rinviarsi colla espirazione del me- dicameito aeriforme appena inspirato dee ren- derne roppo fugace 1' azione. Le polveri in ve- ce aderiscono alle pareti dei canali aerei, e pri- ma di essere assorbite vi esercitano un' azion di contato che può essere addolcitiva, astringen- te, aitisettica, astersiva ec. secondo il bisogno e secondo il rimedio che si adopera. Soglio dar per veicolo alle polveri respiratorie lo zucche- ro di latte ridotto alla più gran sottigliezza, e ci unisco un decimo del medicamento che pre- scelgo giusta il periodo del male e le compli- cazioni sue: p. e. lo ioduro di amido, il catra- me, la mirra, il clorato di potassa ed altri farma- chi suggeriti dalla circostanza, e ridotti anch'es- si a tenuissima polvere. Ove la tosse sia aspra ì importuna, per ogni dramma di zucchero di latte aggiungo un grano di acetato di morfina; e il molesto sintoma si calma più presto che noi sarebbe per le solite vie. Ove 1' alito dell' in- fermo sia puzzolente ed intollerabile lo correg- go col mescolare alla polvere respiratoria alquan- to carbone finissimo. Senza concorrere aperta- mente nella opinione di Guillot, che i depositi di carbone nel viscere respiratorio costituiscano un ostacolo all' aumento di tubercoli di piocol vo- lume, ed un ritardo al loro ammollimento, cre- do però che questa sostanza, comunque insolu- bile negli umori animali, non riesca nociva al- l' organo del respiro, e lo deduco da dò, che i carbonai non vanno sottoposti più spesso de- gli altri alla tisichezza, come io stesso ho avu- to occasione di verificare. Ed infatti il carbone, considerato anche come corpo estraneo, 3uò eli- minarsi a poco a poco dall' organismo, se per molte osservazioni è ornai dimostrato il pas- saggio di sostanze solide da un luogo all'altro di nostra macchina. La polvere di carbore, me- scolata ai cibi onde nutrivansi animali civersi, fu ritrovata nel sangue delia vena porta, nel fe- gato, nei polmoni, nei reni, nella cava infexiore dei medesimi. 59 NOTA Questo articolo era già stampnto allorché mi giunse l'ultimo fascicolo degli annali di pubblica Igiene , in cui il sig. Vernois esaminando appunto 1' argonienlo dell'azione che le atmosfere pol- verulente esercitano sulla salute degli operai, che le respirano abitualmeate , imprende a correggere la erronea opinione degli ef- fetti nocivi derivanti all' organo del respiro dalla inspirazion del carbone , e coi fatti alla mano dimostra come questa polvere riesca piuttosto utile che dannosa a chi la respira. Nel sunto della me- moria, che può esser citata quale esempio non comune di esal- tezza statistica, fra le altre illazioni è degna di annotazione la seguente : cioè che sopra 255 carbonai , presi a caso nei diversi quartieri di Parigi, con vi erano che 23 infermi, dei quali tre soli tisici e quattro enflsematici. E così sopra 217 donne viventi nella slessa atmosfera, nove erano malate ed una sola affetta da enfisema; e finalmente non più che ciuque infermi fra 276 fanciulli- Dal che l'autore legittimamente deduce k Donc, le niétier de charbonnicr, ou l' action constante de la poussiére de charbon sur les voies respiratoires , ne donne pas lieu au dévoleppemeot habiluel de la plithisie pulmonaire , ou de l'emphysème ». De l'action des pous- siéres sur la sante des ouvriers ec. par M. le D, Vernois. Anurles d'Hygiene publique 7 avril 1858. -J'JlSlS^gK^iUi^ 60 Antiche iscrizioni ostiensi tornale in luce dalle esca- vazioni sino aie anno 1858, scelte e pubblicate nella faustissima occasione che la santità di JV. S. Papa Pio IX si reca ad osservarle il giorno 29 aprile 1858. Le offre alla Santità Sua il commendatore P. E. Visconti commissario del- le antichità. ISCRIZIONI RINVENUTE NELLA VIA DEI SEPOLCRI I. DIS MANIBVS MAMIAE FESTAE • L • MAMIV CARPVS CONIVGI B M F d"m EGRILLAE HELPIDI A • EGRILIVS AGaTìOPVS CONLIBERTAE • B • M • FECIT 61 III. D M EGRILIO EPIGONO IV. DM CHELIDONlI V. D M L • ANTONI • THEODORI ANTONIA • EVHODIAMA TERFILDVLCISSIMO QVI VIX • ANN VIII MEN • VI VI. D • M • S e • VETTIO • VICTORI 0 • V • A • xml • D • X Tettia • Felicitas MATER 62 VII. DM MAIORICAE FECIT • BONOSA MATER Q Y A XVlll MIIID XXI- vili. ASCLEPIADES SIMONIS • F • CNDIVS FECIT • SIBI • ET PREPVSAE • L • ET • SVIS IX. SVLPICIA AMPLIATA COLVM BARE ET LOCVM DOA/T PINNIAE NEBRIDI CONIVGI FILI SVI ET ITVAMBITV M VALERIVS • CASTVS M • VALERIO • ACTIO PATRONO VALERIAE • FELICVLAE VALERIAE • NICE liB • liberTab • posTer EORVM 63 XI. D M 0 • CONNIVS AGATHOPVS L • VALERIO VALERIANO FILIO DVLCISSIMO XII. DM A • NONIVS • VITALIS A • NONIO • A • FILIO RVFINO • FECIT XIII. D M AEMILIAE • M • F • SABINAE C • ANTONIVS MAXIMVS CONIVGI SANCTISSIMAE XIV. D M A • PETRONI AL- VICTORIS PATRONI • QVI • ViXlT • AN • XL' BRITIDIAE • APPHI • COIVGI A • PETRONIVS • CRESCENS SIRI • POSTERISOVE • SVIS 64 XV. D M LICINAE • M • F ' MARCIAE • LAELIVS PROBVS MARITVS CONIVCtI • RARISSIMA E FECIT • ET • LIBERI • LIBERTA BVS • Q • POSTERIS Q • EORVM XVI. DM LICINIAE • MARCI AE • OVE VIXSIT • AN NISXVIIMVDVIII FLPAPIVS CRESCE^ VXORI- CA RISSIMAE- XVII D M LIVIAE • RVFINAE QVAE • VIXIT • ANNIS • VII M • III • D • XXIIX • LIVI AEROMENVSET GALLINO FILIAE • DVLCISSIMAE 65 XVIII. L PEDANIO SPFPOLFELIC • • DOMO VARDACATE MILITICOHOR- ViPR • • mIlitavit • AN VlXIT XIX. AELIADORIS COMPARAVITSIBI ETT- AELIO.ONESIMO LIBERTO- SVOEXDONATIONEM SEXCOEL- FORTVNATI • VNIORIS MONO MENTVM VIBIANVM QVOD EXGRADV HEREDITARIOPOS SEDERAI HOC • NOMEN • SVPR A • S ET LIBERTIS LIBERTABVSQVE POSTERIS EORVM IN • FRONTE • P • XV • IN • AGRO • P • XV • G.A.T.CLV. 66 XX. introeun- tlBVS IN PARTE DE XTERIOR VBI CVBI CVLVS ES TAEDICV LA CVOL US ET CO NDITIVO ETCOLV^ BARIS- NIIET- IN FRONT ECVBIGV LINXI- TISOLARIV ET CVBIC VLIETVI GILIARI PARTEM mi- Notabilissima è questa epigrafe specialmen- te per la rara parola Condiiivo e pel Vigliano in cosa sepolcrale. 67 XXI. C GRANlU CFIl QUIR / M A T V H ti decvrdecr; DECVRIONIGRfatis ADLECKV CORPOR 0/stiens NAVMARIN ETiamnai. fec ER^lnt. Patrono Iscrizione onoraria rinvenuta nell' interno della città, presso le mine di un grande edifizio. Di questo ragguardevole colono era stato negli scavi fatti eseguire dal cardinale Pacca di eh. mem., grande fautore degli studi d' ar- cheologia, nell'anno 1831, ritrovato ancora, seb- bene frammentato, il titolo sepolcrale, esistente adesso nella vigna Pacca , fuori la porta Ca- valleggieri ; ove lo conserva, insieme con mol- tissimi altri marmi ostiensi , 1' egregio prelato proprietario della medesima monsignore Bar- tolomeo Pacca , maestro di camera di Sua Santità'. Ne rimane quanto segue : 68 M CFQVIR MATVRo VIRO OSTIENSIVM ORIS MENSORVM OST VM PATRONO CORP AVIVM MARINARVM MNALIVM OSTIENS OPHORVMOSTIENS LIVM OSTIENSIVM ATINENSIVM Seguono alcuni bolli di mattoni rinvenuti nelle ruine delle terme, presso a Tor Rovacciana, opportuni a stabilire il tempo dell' edifìzio. 69 I. ODARISTHAEXPRLCEIO COMCF NIGRO ET CAMERINO COS Segna l'anno dell'era volgare 138, che fu il primo dell'impero di Antonio Pio. Se ne rin- vennero molti altri con nota eguale. II. * EX PRDM LVCILLiE ODOLFECLND TAEL CAES il C BRTPR COS Segna l'anno seguente 139. Anche di questo bollo e di questa data se ne sono trovati in nu- mero. * Si notano con questo segno i bolH che sem- brano doversi avere per inediti. III. BRVT MRLVPI ORFITO ET PRISCINO COS Appartiene all'anno 100 dell'era volgare, decimoterzo di Traiano. Se ne rinvenne un solo. Sono presso a poco degli stessi tempi i se- guenti col nome di Domizia Lucilla, madre di Marco Aurelio, e si trovarono in buon numero. 70 IV. EX PRDOM LVCILLtE OPDOL TICL QVINQVAT V. DOMI LVCIL OPVS FIGFORTVNATI ( globo ) VI. * EX PR DOM LVCOPVS DOL OFFPEDVLVP VII. EX FIGLINIS LVCILLAES QVARTIONIS ( pigna ) vili. ACTEARINI LVCILLAE^ERI DOL I tre bolli che seguono non presentano al- cuna indicazione di tempo. IX. 0 • OPPI • IVSTI (pigna fra palme) II nome di questo figulo si trova in altro bol- lo, che ha la nota dell'anno 126 dell'era volgare (Mur. 323. 3). 71 X. OPVS FIGLINDOLIAREXPRCAENOF C CALPETANI PANNYCI ( colomba ) XI. DOLIAR PR CAES N EMARC ANICETIANI Iscrizione composta e fatta collocare dal commissario delle antichità fra i ruderi delle terme ostiensi, nuovamente scoperte, nella faustis- sima occasione della venula di SUA SANTITÀ' ad osservarle. AVSPICE TE PRODITQ VOD LONGA ABSCONDERATAETAS AVSPICE • TE • ANTIQVAS • OSTIA • PANDIT • OPES PRISCATIBI QVAWTVM.PIE MAXIMESAECVLADEBENT POSTERAPLAVDENDOSAECVLARETRIBVENT IINTEREAGRATESAEVIBONVSEXCIPE-NOSTRI SISQVEDIVPRAESENSVRBISETORBISAMOR 72 Orazione detta in Campidoglio il giorno 7 mag- gio 1858 dal commendatore P. E. Visconti collocandosi nella protomoteca capitolina V er- ma di Filippo Maria Renazzi. V^uando Antonio Canova, ingegnosamente be- nefico verso i cultori di quell' arte che da lui rimessa in altezza, lo circondava vivente an- cora d' una gloria immortale, diede loro scolpi- re nel marmo le immagini d' alquanti italiani più insignemente famosi, lodato venne come buono quel pensiero, che s' aveva poi ad am- mirare come sì grande. Non molto tempo era quindi trascorso , un anno s' illustrava d' uno splendido fasto: un luogo con insolito modo si frequentava: un' aula veniva dischiusa: una marmorea ef- figie si dedicava in essa solennemente. Quel- r anno era del 1823, quel luogo era il Cam- pidoglio; queir aula, della romana protomoteca; quel busto , d' Antonio Canova. Imperocché, come di ogni generoso divi- samento sempre in Roma succede, il germe po- sto dall' uomo egregio già fruttificato aveva oltre ad ogni sua speranza; anzi fuori d'ogni suo concetto. Il romano pontificato s' era messo a ca- po di un nuovo e grandissimo intendimento, ./■ --'^ F II jppo 'iviAìii A ^ aE.NA; z zi; N SUL T O PATRI Z IO E.Ò MAk O IJA'] O i\i-., ,v, UCCXXXX vl.f . ìvr.ORTO NTF.I. MDCCCV 73 il quale invero superava tutte le più alte e più generose immaginazioni della Roma anti- ca. I busti e r erme, che il Canova era ve- nuto collocando entro il Pantheon d'Agrippa, sta- vano già collocate sul Campidoglio. In questo monte, il cui nome sonò tanto superbamente nel mondo, si adornava, col nome di Protomoteca, un luogo tutto sacro alla gloria del rinnovato valore degl' italici. Dove, non più per privata elezione od affetto, ma colle norme di pubblica legge sapientemente severa, sì dedicassero le imma- gini di coloro, che rappresentarono in se stes- si r ultimo e più sublime sforzo dell' umano ingegno. Eccelso concetto! Monumento soprattutti perenne! Ben Roma lo eresse alla gloria d'I- talia, da che Italia non poteva vederlo sor- gere che in Roma, a paragone di qualunque altra città dell' altera penisola. E, valga il vero, faceva mestieri di tan- to retaggio d' antico irrìpero, e bisognava an- cora questa rinnovata altezza di sacro domi- nio, che a quello successe, onde una italiana città potesse trarre a se il giudizio sulla ec- cellenza de' sommi uomini di tutta Italia; on- de ogni patria s' acquetasse al giudizio di que- sta patria universale: Roma ha parlato] Qui dunque, in queste aule d' immortalità, noi pos- siamo sopra noi stessi esaltarci. Qui ogni cit- tadinanza, congiunta da una gloria comune, forma la vera la indissolubile nazionalità della nostra gente. Qui la manterranno sempre recar- •^ Fé /4 dole accrescimento e splendore quanti, d' età in età, s* ispireranno al nostro cielo, alle no- stre memorie, a quegli studi, a quelle arti, che furono nostro retaggio, e sono, e saranno. Possano molte cittadinanze essere assun- te a questa nazionalità del Campidoglio' Pos- sa questo altissimo premio per ogni maniera di gloria meritarsi e conseguirsi da molti anco- ra, i quali grandi di quella grandezza che non ha fine co'Ia vita, qui vengano a posare e ad accrescere la veneranda maestà dell' italiana famiglia; vorrei dire come dopo aver feconda- ti e congiunti insieme i regni e gl'imperi, met- tono foce nel mare i fiumi maggiori, se non vi fosse questa differenza. Che essi fiumi, ve- nuti a quel termine, qualunque mai sia stata la celebrità e la lunghezza del loro corso , cessano d' esere anche nel nome; e per Io con- trario le speciali celebrità di ogni cittadinan- za, ascritte a questa comune di tutta la nostra nazione , non pure si mantengono e stanno ; ma quasi avvivate di nuova luce, più intensa- mente alle loro patrie risplendono, mentre ac- crescono la gloria di quella a tutti comune. Ed infatti che cosa altro dimostra oggi que- sta frequenza onorevolissima ? questa insolita pompa che cosa manifesta? la letizia e 1' espres- sione medesima dei devoti che sogliono esser testi- mon del core^ di che ora danno certezza? Per fermo tutto in una cosa s'accorda: tutto d'una cosa rende fede. Che noi romani siamo ades- so gloriosi ed alteri per Filippo Maria Renaz- zi. Il quale nato sotto il nostro cielo, vissuto fra le nostre mura, qui fatto grande di fa- ma quanto lo era d' ingegno, consegue oggi intero il premio della sua virtù. Egli dunque si rimane nostro in questo punto medesimo , eh' è dato a tutta Italia: anzi s' unisce a noi ancora più intimamente, da che si paleserà in lui più celebre il nome di romano nell'età che verranno, propagandosi in ogni luogo dove per- venga il grido della sua fama. La quale non par mai che sia giunta in uomo veruno all'e- stremo suo colmo, fino a tanto che traboccando fuori d' ogni argine colla pienezza sua, venga a trapassare di gran lunga i confini del luo- go natio e quegli stessi di tutto il paese del- la propria nazione, per le contrade tutte dis- seminata e diffusa come approvata ed accolta con applauso di lontane e libere voci. Non è bisogno di mie parole perchè sia palese co- me il nostro Renazzi venisse a meritare un tanto preclarissimo guiderdone, che lo pareg- gia a coloro che più alto, e quasi senza compa- gni, al più alto pervennero del sentiero d'ogni virtù. Se avessi io dovuto ciò fare, bello mi sarebbe stato il tacere, conoscendo a quanto gran pezza mi sarei rimasto lontano dall'aspet- tazione vostra, seppure espettazione alcuna ave- vate di me. E ben vi affermo , che quanto sono stato ritroso ad accettare 1' incarico del presente discorso, tanto sarei stato costante nel ricusarlo; quantunque mi rendesse malagevole il mancare richiesto di quest' ufficio per quel 76 legame d' affinità, che la casa del sommo uo- mo congiunse alla mia e la mia casa alla sua (t). Ma, conforme dicevo, di mie parole non ha mestieri. Que' sapienti, presso ai quali è me- ritamente collocato il giudizio di queste cose, ne hanno pronunziato solennemente per voce del conte Tommaso Gnoli, decano del collegio loro e per suoi propri pregi chiarissimo. Mi giovi di qui ripeterne la sentenza , come prin- cipio, eh' essa è, di quel bene augurato fine, che ora celebriamo. Fu pertanto il Renazzi a comune delibe- razione di quei sommi giureconsulti riconosciu- to: - Fondatore tra i primi, non pure in Italia, ma in Europa, della nuova scuola di criminale giurisprudenza; scrittore tra i primi della mede- sima: onorato d' edizioni infinite delle maggiori sue opere in Italia e fuori, e di traduzioni di esse in più lingue ; consultato e cerco dai maggio- ri sovrani, ed invitato alle prime cattedre d'Eu- ropa: fregiato di raro onore dal romano senato. Se mai vi ha simulacro o busto , che meriti di stare nella protomoteca di Campidoglio, si è indubitatamente quello del Renazzi, che istorico unico dell' ateneo e della letteratura romana, tutti consacrò a Roma gli studi, le dotte e sva- riate sue opere e la vita. - Sin qui il lodato Gnoli. Il quale aggiunse pur anco: - Questo fu stabilito per acclamazione unanime più che per suffragio , ed è non pure il parere, ma il ca- (1) Teresa Doria, che fu moglie di Ennio Quirino Viscoiili, cr» sorella d' Eugenio Doria, che fu moglie al Renazzi. 77 ro ed ardente voto manifestato dall'intero col- legio degli avvocati concistoriali (1). - Affidato a scorta tanto autorevole vengo dunque a trascorrere nel ricordo dei meriti del Renazzi, e sarà un riferire glorie sicure, un por- re innanzi i titoli di conseguita vittoria: tanto più malagevole a riportarsi in quello stadio do- ve non ha luogo lusinga o favore di contempo- ranei; da che in esso non s' entra se non col- r uscire della vita, e l'imparziale posterità vi de- creta sola la corona e la palma. Fondatore fu egli tra i primi della nuova scuola di giurisprudenza criminale, non pure in Italia, ma in Europa. Quale e quanto encomio non si trova in que- ste parole! Diciamolo pure arditamente, non ad esagerare la lode, ma per impulso di verità; ra- ro è dato conseguirne altro migliore, o più ma- lagevole ad ottenersi. Perchè la forza dell' in- gegno non ha più chiaro argomento ne maggio- re. Quando il filosofo viene a guidare il pensie- ro del legislatore; quando segna ad esso la via a meglio reggere i popoli; quando ne divide le lodi, non ha esso toccato il più alto segno, al qua- le a privato uomo sia dato di poter giungere? L' arte s' elegge una materia, e colla mano, che ubbidisce all'intelletto, l' informa e fa in quella suo sforzo, e suo potere vi dimostra, e tocca il (1) Alla fine di questa orazione si legge intero il documento qui in parte prodotto ; come si legge V atto del collocamento • lell' erma, secondo la relazione del sig. Luigi Yannulelli segre- tario del senato e comuue di Roma, 78 grande, 1' arduo, il sublime! Ma azione è quel- la, anche nell'immensità sua, definita, e l'eser- cita in materia inerte ecedevole. Altra opera è data al sapiente. Non ha esso impero sulle uma- ne cose, se non solo persuadendo. A lui non è dato il guasto costume , o le usanze malvage, o gli abusi funesti, colla forza frenare, né mu- tare coir autorità. Solo nella potenza della pa- rola egli è forte. Ma questa forza non è in vero segno alcuno che circoscriva. Piegano innanzi ad essa i potenti, e s'onorano di quegli alti concetti, di quelle giuste riforme, di que' rimedi opportu- ni, che segnano 1' età dei popoli, le glorie dei regni. Così dall' intima filosofia sorge la civile felicità: con il sapiente consegue la più deside- rabile delle vittorie: quella del giusto e del vero sull'ingiusto e sul falso. E di questa si coronò vivente il Renazzi: fondatore tra i primi della nuo- va scuola della criminale giurisprudenza. Di quel- la bene augurata scuola, che tante lagrime terse, che tanto sangue cessò; che otte nne l'abolizione di quegli orrendi mezzi di prova, sotto i quali per tanti secoli ebbe a gemere l'umanità oppressa dalla più assurda barbane. La storia del processo criminale ci presen- ta tali esempi di raffinata crudeltà, tanto arbi- trio degli strazi più atroci, un predominio così intemperante sulla vita stessa di chi era accu- sato solo qual delinquente, che non si può senza sdegno e ribrezzo fermare la mente fra quegli orrori. 79 Oggi che quelle indegne istituzioni, le quali per tanto tempo si chiamarono giustizia, sono per sempre allontanate dall'ordine dei giudizi: og^i che la tortura è irremisibilmente abolita: che of^ni terribile autorità data all' uomo contro V uomo fu spenta per non più rinascere; noi non pos- siamo quasi apprezzare quanto si deve la gene- rosità di coloro che primi si levarono gridando r abolizione di tante iniquità. Io non vorrei con- tristare il pensiero con un doloroso spettacolo. Io non vorrei trarvi fuori da questa sede d' in- comparabile maestà : non da queste care e glo- riose immagini allontanarvi. Ma se a riconoscere il merito dell' esimio giurista, se a dimostrarlo quale fu, che fu cer- to grandissimo, giovi questo sguardo volto al passato, e noi oseremo vergognando fissarlo in esso. Che cosa vedete voi ? Io vi sono guida in una stanza crudele : io vi conduco in tale luogo, dove più non istimerete di trovarvi con uomini. Che orrendi arnesi sono mai questi ? Che ordigni di raffinato martoro ! Fuoco per abbru- ciare le membra : ferri per dilaniarle : strettoi da contorcerle : funi sulle quali penda il corpo sospeso : infame sedia per la veglia : ceppi da stringere i piedi: verghe per percuotere: mil- le altri inumanissimi ingegni di cruciato e di strazio ! Si cerca se uno sia reo, e si crucia con certissima pena, perché si è incerto il delitto. Può uccidersi torturato e innocente colui , che 80 appunto per non ucciderlo innocente si sotto- pone a tortura (1). Qui dunque il tormento in- terroga, il dolore risponde. Siede tranquillo un uomo osservando quel- la serie e varietà di martori. Ascolta impassi- bile le disperate voci, le grida convulse, le mi- serabili esclamazioni d' una innocenza volgare ; guarda il dolore tacente, le lagrime dissimulate, il furore, 1' entusiasmo di una ragione superiore che anche in quelle angosce prevale : nota quan- to la forza dello spasimo fa dire alle vittime vinte dalle pene (2). Guarda egli in un oriuolo a pol- vere, che segna l'ora: ora che tutta poteva es- sere trascorsa nel tormento. Terribile spazio di tempo, che ad un misero straziato pose sul lab- bro quell'esclamazione, piena dell'eloquenza del (1) Quesle parole sono di s. Agostino, De civit. Dei lib. XIX, cap. VI, il quale con quell'altezza maravigliosa del sauto suo in- gegno biasima in eloquentissimo ed affettuoso modo la prova dei tormenti. (2) Nou è fuori di luogo, a mostrare sempre più quali allora corressero i tempi, l'aggiungere qui un epigramma del crimiuale giureconsulto Francesco Bernardino Porro, uomo dotto d' altronde e d' indole sì poco all' ufficio di giudice conforme, che narra egli slesso, non durandogliene l'animo, d'essersene dimesso. A lui dunque su tutta r orribile catastrofe della turtura his versibus ludare placuit : Dura scribis, scribas, quae tortus singula proferì Et perferl ; tua sii scribi ''e dextra cita. Inter quos patitur cruciatus, verba, querelas Conscribi facias, insimul et lacrymas. Dum, fune excusso, querulas ad sydera voces Extollil, referas quae modo vola facit. Neve horae spatium taceas, quo pendei in alto, Deponique petit, sollicitusque rogai. Dio buono ! A quali pensieri fu data poetica forma 81 dolore: 0 funesta ora, deh quante mai tu ore contieni! In quell' ora fatale quanti destituiti di forza versarono 1' anima nel tormento, o si di- chiararono colpevoli per cessarlo; ed erano in- nocenti! Quanti con più vigore e più sforzo du- rarono a negare il delitto; ed erano rei! Quegli estinti con pena non meritata, questi immuni dalla pena meritata! Così s' iniziavano, così s' instruivano, cosi talora avean termine i criminali giudizi! S' ascondano nelle più dense tenebre que- sti crudeli ludibri dell'uomo, questi deplorandi dispregi della morale sua libertà; s' ascondano, e noi torniamo a vagheggiare questa luce del Cam- pidoglio: torniamo a contemplare la maestà di questi volti; fermiamoci soprattutto con animo ri- conoscente a considerare l' immagine di questo egregio concittadino nostro, di questo nostro Re- nazzi. Onoriamo in lui, in un colla riconoscente umanità, uno di quegli alti spiriti che prepa- rarono il concetto, additarono l'ordine e la pos- sibilità di una legislazione criminale degna del- l'incivilimento cristiano. Caldo il cuore di gene- rosi pensieri in sul fiorire de'suoi ventitré anni potè il Renazzi, chiamato a leggere diritto cri- minale sulla cattedra della nostra università, ve- nire svolgendo le salut/^ri riforme de'criminali giu- dizi e del codice penale. Venne poi alla luce, dall' anno 1773 al 1786, l' opera Del diritto cri- minale, nella quale con chiaro e beli' ordine si stabilirono veri saldi ed umani i principii della scienza criminale. Arduo era l'assunto, malage- G.A.T.CLV. 6 82 vole r impresa. Ma il Rcnazzi, vinta ogni diffi- coltà, in materie asprissime e nuove mostrò faci- lità e proprietà d' esposizione, non solo pura e latina ; ma, dove venisse opportuna, splendida ancora ed ornata. Fu quindi bene a ragione e con sommo pubblico vantaggio : - onorato d' e- dizioni infinite delle sue opere in Italia e fuori, e di traduzioni di esse in più lingue. - Dice poi il collegio, le parole del quale ci sono di scorta, che fu il Renazzi : - consultato e cerco dai maggiori sovrani, ed invitato alle prime cattedre d' Europa. - Lode degna di quel- la celebrità che in se stessa dimostra. Lode fat- ta maggiore dalla costanza, colla quale l'egre- gio uomo si tenne saldo neir amore di questa sua patria contro ogni lusinga della fortuna. Laonde con giusta cagione ne fece ampio ricor~ do G. L Montanari; quando del Renazzi tes- sendo r elogio , scrisse queste proprie parole : » Egli ad onorifiche condizioni invitato a Pietro- burgo dall' imperatrice Caterina li, la quale del sapere di lui voleva giovarsi nella formazione del codice criminale : egli dalla corte imperia- le d'Austria fu chiamato a leggere giurispru- denza neir università di Pavia : egli dal coro- nato conquistatore d' Europa si vide offerta la cattedra di diritto criminale nella ripristinata università di Bologna, patria de' suoi maggiori ; ma devoto com' era alla santità de' romani pon- tefici, non gli patì il cuore di partirsi di Roma, e amò piuttosto viversene senza fasto d' onori- 83 ficenze nella terra nativa, che fuori fra le lu- singhe di corti straniere. » Questo semplice ricordo di tanto onorevoli inviti, di tante ripulse, non meno e più forse ancora onorevoli, basta a rendere testimonianza di quale amore amasse il Renazzi la patria. Di sì nobile principio si derivò quell' altra lode dell' uomo esimio, per la quale è cele- brato - Isterico unico dell' ateneo e della let- teratura romana. - Opera di molte ricerche e di molta lena imprese il Renazzi tessendo la storia dello studio romano , nella quale tanta parte s' unisce di quella delle romane lettere. Certo s' accrebbe per tale lavoro la riverenza delle genti alla somma potestà delle sante chia- vi, apparendo in esso con che altezza di con- siglio, con quanta vera munificenza, con quale affettuosa sollecitudine, da Bonifacio Vili a Cle- mente XIV ( col pontificato del quale la storia si chiude ) attendessero i papi a favorire, a man- tenere, ad accrescere la romana università. E r onore di Roma pure se ne accrebbe e diffuse, ravvivata la memoria di tanti felici ingegni, che in tante guise ingrandirono le scienze e promos- sero gli studi migliori. Universale fu pertanto r applauso, col quale i dotti volumi veduti furo- no, non solo in Roma, ma in tutta Italia, e fuo- ri ancora di essa. La patria si fece allora a rimunerarlo di tante felici sue cure e tanto amerevoli. Impe- rocché venne egli : - fregiato di raro onore dal romano senato. - 8i Fu questo onore un pubblico decreto, col quale assunto venne il Renazzi fra i romani patrizi. V ebbe chi disse ; che la nobiltà non si comparte, ma solo si riconosce. Sentenza gra- vo e profonda quanto essa è vera. La nobiltà era dunque già nel Renazzi quanta poteva dar- ne la gloria di servigi resi all' umanità, pro- movendo le riforme de' criminali giudizi ; quan- ta poteva darne la fama delle lettere, colle qua- li illustrato aveva Roma e se stesso. E non per- tanto commendevole è 1' atto di chi in lui tan- to solennemente la riconobbe : di ciii lo pose nella ricompensa del paro con uomini celebra- tissimi, Petrarca, Mercuriale, Mureto: di chi lui sopra al numero e per cagione d' onore volle non senatoconsulto ascritto al maggiore ordine della patria. Allora quando queste cose si compievano qui sul Campidoglio , è già oltre a mezzo se- colo, si stimava, e per fermo si voleva ancora dare al Renazzi il sommo delle ricompense. E non pertanto qual proporzione si trova da quel giorno a questo, da questa a quella onoranza? Qui non è qualifica; che col tempo finisca ; non titolo, che colla vita abbia termine : il nome di lui, il solo nome, sta sopra ad ogni titolo, ad ogni qualifica. Esso ha innalzato se stesso fra que' pochissimi ai quali la posterità tenne fede : esso rifulge adesso fra que' luminari maggiori , che qui raccolti da tutte le età, qui per tutte r età splenderanno della propria loro luce. 85 Ci sia cagione di letizia , che uno se ne vegga aggiunto oggi del nostro cielo : ci sia ca- gione di letizia quanto viene a compirsi : abbia questo romano applauso un eco per tutta Ita- lia ; r abbia fra le generazioni che verranno ! Se ne ponga il ricordo fra le memorabili cose di questo tempo , e si rammenti come nuova gloria del Renazzi quest' adunanza medesima del Campidoglio. Felice il figlio, che vede cogli occhi propri questo esaltamento del padre (1) I Felice la patria che s' onora e s' esalta in uomo sì grande ! Del quale adombrando con sì rapido cenno le preclarissime virtù, ben veggo e conosco d' aver provato con una nuova di- mostrazione, che degli uomini di somma eccel- lenza quanto è facile 1' ammirazione, tanto la lode è difficile. Ho detto. Appendice di documenti citati neW oraziom. I. lUfìlo ed EccfHo Signore Quant'onorovole, altrettanto grato mi giun- se col foglio di V. S. Ili ina ed Eccma dei 12 feb- (1) Il cavaliere Paolo Maria Renazzi , che ne fece scolpire l'erma dal valente scultore Luigi Rovorsi, fu presente all' aduiian- za. Egli ebbe in monsignor Felice Maria e io monsignor Cleto Malia d'jc Jralelli, che nella prelatura servirono alla sede apostolica. 86 braio corrente, l' incarico a me dato da S. E. il sig. cav. ff. di senatore di Roma di richiedere il parere del mio collegio sulla istanza del sig. cav. Paolo. M. Renazzi, che da me si ritorna qui annessa, onde ottenere il permesso di poter collocare nella protomoteca capitolina fra quel- le degl' illustri italiani V erma del cel : di lui genitore prof. Filippo M. Renazzi fondatore tra i primi, non pure in Italia, ma in Europa, del- la nuova scuola di criminale giurisprudenza: scrit- tore tra i principalissimi della medesima: ono- rato di edizioni infinite delle maggiori sue ope- re in Italia e fuori, e di traduzioni di esse in più lingue; consultato e cerco dai maggiori so- vrani, ed invitato alle prime cattedre di Euro- pa: fregiato di raro onore dal romano senato. Se mai vi ha simulacro o busto che meriti di sta- re nella Protomoteca di Campidoglio, si è indu- bitatamente quello del Renazzi, che istorico uni- co dell'ateneo e della letteratura romana, tutti consacrò a Roma gli studi, le dotte e svariate sue opere, e la vita. Questo fu stabilito per acclamazione unani- me, più che per suffragio; ed è, non pure il parere ma il caro ed ardente voto manifestato dall'inte- ro collegio degli avvocati concistoriali radunato iersera presso il sottoscritto, che si reputa for- tunato di poterlo rassegnare al romano sena- to per l'onorando mezzo di V. S. lUfna ed Ecciìia. Mi giovo di questa ben propizia circostan- za per dichiararmi con la più profonda stima ed ossequio. 87 Di V. S. Ili ma ed Eccina li 16 febbra- io 1856 Devmo OblMo Servitore TOMMASO GNOLI Nob. sig. marchese Sacchetti Scriba S. P. Q. R. II Con veneratissimo sovrano rescritto del giorno sei del mese di marzo 1856. comunicato il 13 di detto mese dall'Eino e Rino signor car- dinal Brunelli prefetto della sagra congregazione degli studi all'Eccrha Magistratura romana, ven- ne decretato a richiesta del cav. Paolo Maria uni- co figlio superstite del chiarissimo guireconsul- to e letterato romano Filippo Maria Renazzi, che r erma di questi fosse collocata tra gli uomini illustri nella Protomoteca Capitolina Designatosi quindi fin dal giorno 19 apri- le del suddetto anno 1856 con l'intervento del- l' Eccino signor conservatore conte Luigi Anto- nelli, del commend. Luigi Canina di eh. me. e del cav. Renazzi il posto ove sarebbe colloca- ta r erma del valente giureconsulto, si attese che dall' egregio scultore signor Luigi Roversi fosse r erma suddetta portata al suo termine: lo che appena seguito supplicò il cav. Renazzi la Ec- cina Magistratura perchè volesse fissare il gior- no per la inaugurazione dell'erma suddetta, ed ammettere che seguisse con qualche solennità e onorandola di sua presenza. A tale domanda trat- 88 tandosi di un sì illustre e valente romano scrit- tore di giurisprudenza e di storia, benemerito del- la società per le sue opere criminali, e di que- sta sua patria per la storia dell' università de- gli studi di Roma e della romana letteratura, on- de fu con s. e. del tredici settembre del 1803 insignito del patriziato romano di merito, di buon grado annuì e stabilì che 1' atto ne seguirebbe sui primi del corrente mese. Oggi pertanto sette del mese di maggio mil- leottocento cinquantasette alle ore dieci antime- ridiane: Essendosi degnati d'intervenire in questa pro- tomoteca Capitolina, disposta ed ornata a gra- ziosa cura del municipio gli Etiii signori car- dinali Lodovico Altieri camerlengo di S. R. C. arcicancelliere della università romana, Vin- cenzo Santucci prefetto della sagra congrega- zione degli studi , Tosti , Gazzoli, Marini, Ro- berti e de Medici, alcuni prelati, avvocati con- cistoriali, vari professori dell' università, e mol- li altri distinti personaggi, alla presenza di sua eccellenza il sig. principe D. Domenico Orsini senatore di Roma, e degli Eccfni signori conser- vatori cav. Giuseppe Pulieri e Lorenzo cav. Ali- brandi, non che del sig. commend. Tenerani pro- Direttore della protomoteca, previa eruditissima prolusione pronunciata dal sig. commend. Pie- tro Ercole Visconti commissario delle antichità, colla quale rilevando la maestà ed universale ce- lebrità del luogo dimostrò i molti e generalmen- te conosciuti titoli di merito per esservi tra gl'il- 89 lustri uomini collocata l'erma del famigerato giu- reconsulto Renazzi, è stata questa in effetto al designato posto con soddisfazione ed applauso si- tuata. E di tal fatto volendo la Ecciìia Magistra- tura che resti perpetua la memoria , se n' è redatto il presente formale atto da inserirsi ne- gli archivi capitohni, munito delle sottoscrizioni, il giorno mese ed arno suddetti. Fatto in doppio originale l'uno per servire air archivio, 1' altro al sig. cav. Renazzi. Roma il dì ed anno suddetti. firmati - Il senatore principe orsini GIUSEIPE PULIERI CONSERVATORE L. ALIBRANDI CONSERVATORE L. Vannutelli Segretario. 90 Appendice al mio dialogo sulla Malelda della Di- vina Commedia. 1 1 chiarissimo Gaetano Trevisani ha preso an- ch' egli a difendere , o meglio a mostrar pro- babile , r opinione di eh; nella Matelda della Divina Commedia vuol ravvisare non la famosa contessa Matilde di Canossa , ma la santa Ma- tilde moglie d'Arrigo l'uccellatore re di Ger- mania e madre di Otton3 il grande. II suo scrit- to , al quale non manca verun fiore di cortesia verso di me , è specialnente volto a confutare ciò eh' io stampai, soprittutto per obbligo d'ita- liano, a mantenere l'omranda concittadina, con- tra r invasione d' una straniera a' nostri quasi ignota , nel fortunato uogo dove si dimorava tranquilla da oltre a fei secoli per voto e senno di tutti i comentatori. Rendo assai grazie al- l' egregio mio contradlittore del modo urbanis- simo, e tutto verameite proprio di un letterato suo pari, con cui ha inteso di revocare in dub- bio le cose da me dicorse , se non erro , se- condo la storia e secondo anche la massime costantemente cattolicle dell'Alighieri. Non usato a persistere in nessune mia opinione, sono pron- tissimo sempre a ricndermi quando mi vegga opposti validi argomeni in contrario. Ma nel caso •(jl presente noi posso : tanto mi sembrano , oserò dirlo , leggiere le cose disputate dal Trevisani { di grazia non se ne offenda ) e fondate prin- cipalmente in supposti , e non in altro , che Dante ghibellino potesse dimenticar Dante cat- tolico romano in un poema essenzialmente teo- logico. Invano inoltre, contra tutte le idee del secolo del poeta . anzi di tutta l'antichità reli- giosa e italiana , si cerca detrarre qui e qua la vita privata e pubblica delia gran contessa, della Matilde per eccellenza in Italia, dell'eroina del- l' età di mezzo , come la chiama lo stesso Si- smondi , e certo della maggior donna italiana che abbia giammai regnato : la quale non al- trimenti che Carlo Magno , quando la chiesa fu morsa dal dente alemanno ( per cose non tem- porali, ma in tutto spirituali) vincendo anch'essa la soccorse. Ma stima il Trevisani non poter esser logico^ che Dante volesse onorare in quel canto XXVIII del Purgatorio la soccorritrice di Gregorio VII, non avendo neppur mai nominato questo gran pontefice nel suo poema : quasi favoreggiasse r imperatore Arrigo IV. Non tutti ammetteranno certo il nuovo suo canone di critica. Non no- minò il poeta né quel pontefice, né tanti altri gloriosi, perchè o non glie ne cadde il destro, o noi reputò necessario. E che ? Dal non aver nominato , per esempio, s. Leone il grande, si crederebbe forse che Dante parteggiasse per gli eretici Eutiche ,. Acac'io e Dioscoro , o per At- tila e per Genserico ? Dal non aver nominato 92 Adriano I, si direbbe che tenesse buona la causa di Desiderio re longobardo, contra cui in difesa della chiesa si levò Carlo Magno ? Non nominò mai perfino s. Leone III, il famoso restauratore del grande impero così vagheggiato dai ghibel- lini. E poi , se dovesse valere il canone, come Dante avrebbe posto nel paradiso terrestre la regina Matilde di Germania, quando tenne sem- pre un sì sdegnoso silenzio e sul marito di lei Arrigo r uccellatore , e sul figliuolo Ottone il grande ? Non mi è passato mai per capo che l'omag- gio fatto da Roberto Guiscardo alla chiesa ro- mana fosse una specie di donazione, né ho mai per Dio grazia commesso 1' errore di credere quel forte un tedesco. Ecco le mie parole nel Dialogo sulla Matelda della Divina Commedia : « Chi fu inoltre maggior nemico dell'impero, fer- » mamente imitando Matilde nel farsi campione » di Gregorio VII contro di Arrigo IV, che fosse » Roberto Guiscardo? Il quale e cacciò di Roma » r imperatore, e delle province da lui conqui- » state sugi' imperi così d' occidente^ come d'o- » riente , fece perpetuo omaggio alla chiesa ro- » mana , riconoscendosi suo tributario e vassal- » lo. E nondimeno anche questo fiero ed in- » vitto normanno fu da Dante , certo non per » altra ragione che d' essere stato a difendere y> Gregorio e la chiesa, posto beato in cielo ». Ho pure che le cose fierissime da Matelda vedute e udite presso al carro di Beatrice non si riferiscano affatto al pontificato del secolo XI, 93 a quello cioè di Gregorio VII; ma sì al pon- tificato del secolo di Dante, essendo nel canto XXXII V. 145 seq. , e nel canto XXXIII v. 3i del Purgatorio chiarissima , secondo tutti gl'in- terpreti , r allegoria di Bonifazio Vili , di Cle- njenie V e di Filippo il Bello. Né le altre che si dicono in esso canto XXXIII v. 37 seq. ap- partengono già air impero de Vecchi Arrighi, ma sì accennano con non minore chiarezza le spe- ranze che r esule ghibellino aveva del risorgi- mento d' una forte potestà imperiale a' suoi tempi. La nostra Matilde adunque è ivi fuori d' ogni quistione : ancorché dovesse toccarle in parte (né già le tocca) ciò che dicesi delle piume dell'aquila dagl' imperatori offerte sì al carro , ma ( notisi l'equità del poeta ben- ché ghibellino ) Forse con intenzion casta e be- nigna; e perciò Dante, introducendola spettatrice di quella scena , non avrebbe mancato^ come ne dubita la cavalleria dell'ottimo Trevisani, a tulle le leggi della convenienza e del decoro. Dirò di più, che non so immaginare come a tal convenienza e decoro avrebbe egli potuto solo mancare verso la Matilde italiana , e non anche verso la te- desca madre di quell' Ottone I , di cui è sì ce- lebre la conferma amplissima della donazione di tanti stati dell' impero a papa Giovanni XII. Se i meriti di Costantino, di Carlo Magno e del Guiscardo verso la religione poterono, se- condo il Trevisani, far loro perdonare da Dante le donazioni o sommissioni di tanti dominii alla sede romana con intenzione ( come volentieri il :5i poeta lasciavasi credere ) casta e benigna , non so perchè non debba ciò valere anche per Ma- tilde di Canossa, la quale per fama splendidis- sima di religione non fu seconda a nessuno di que' potentati. Oh solo dunque contro di essa, non guelfa , non ghibellina ( che tali pesti non erano al tempo suo ), avrebbe Dante mostrato, dimenticando tutto, non che ogni rettitudine, la fierezza di una setta ! E qual certa prova si potrebbe recare di sì brutale ira contra un'al- tissima rinomanza e gloria d'oltre a due secoli? Nessuna : a ciò non bastando una vaga suppo- sizione , che alcuno potrebbe forse chiamar so- fistica. Forse l'Alighieri lodò mai, tristo italia- no , la persona o le imprese del malvagio im- peratore Arrigo IV ? Né già è vero che gli antichi comentato- ri della Divina Commedia , essendo per lo più guelfi^ secondo il giudizio del Trevisani, non al- tro che per gradire alla fazione papale raffigura- rono l'eroina cattolica nella Matelda. Certo non fu guelfo Pietro figliuolo di Dante, e trasse, com'è da credersi, dalle carte e dalla viva voce del padre, cui sempre seguì, al dir del Filelfo, gran parte delle cose dichiarate nel comento con tanta lode di eru- dizione: ed egli, senza esserne punto in forse, af- ferma che nella Matilde volle Dante suo rappre- sentare la pia e magnanima di Canossa. Fingendo se invenire umhram comilissae Malheldae^ magnifi- cenlissimae dominae^ quae viguit anno 1060, quae probissima fuit mulier , et infmitas construxit^ de suo dotando , basilicas. Ac eliam adeo suo lem- ^95 pore potens exlitit^ quod imperatori belhtm inges- sit , et quae dum ad mortem appropinqnaret^ to- tum suum patrimonium super altare sancii Pelvi in Roma ohtulit^ quod adhuc hodie dicitur patrimcnium ecclesiae. Et ideo^ ut notificet virtutem vita e activae^ quae debet esse secundum m,agnificentiam.^ et dieta Mathelda fuerit talis , ergo ec. Così scriveva ono- revolissimente, com'era degno, dell'italiana Ma- dide , comentando 1' opera del ghibellino padre r altresì ghibellino Pietro Alighieri. Gravissima autorità a chi non abbia l'animo preoccupato, né voglia per solo spirito forse di novità far quistione (mi si lasci finalmente dirlo ) di cose non quistionabili ! Alla quale autorità aggiungasi pur quella dell'altro ghibellino autore delle Chiose sopra Dante , testo del secolo XIV datoci non ha molti anni , non altrimenti che il cemento di Pietro , dalla munificenza dell' illustre lord Vernon. Oh la Matilde tedesca, anche scrive il Tre- visani, occupava gran parte del suo tempo nel canto de' salmi e specialmente nelle ore prime del giorno^ allo spuntar deW aurora ! E quindi av- verte : Certo è che quel salmeggiare e quel canto della Matelda^ se poco convengono alla contessa Matilde^ sono per contro mirabilmente appropriati alla regina Matilde. Non si è ricordato il valen- t' uomo ( che già non credo averlo taciuto per mal volere ) di un bel passo di Donizone da me recato nel Dialogo : nel qual passo dice il buon cappellano di Matilde a Canossa : 9g Ista sacerdotes de Chrìsti vincit amore : Tempore nocturno sludiosius atque diurno Est sacris psalmis ac ofjìciis venerandis , Religione pia^ satis haec intenia perita. Quanto alla bellezza della contessa ( per notare anche questo ) io 1' ho provata con gra- vi testimonianze antiche di scrittori e di artisti. Bella sarà stata pur la regina tedesca, come vuole r anonimo autore, certamente alemanno, della sua leggenda. Ma chi fu costui ! quando visse ? Può con qualche probabilità credersi che il suo piccolo scritto passasse in quel tempo di qua dalle alpi, e venisse alle mani dell' Alighie- ri, non parlandone alcuno de' nostri neppur compilatori di memorie di santi ? Quando non può dubitarsi che Dante non sapesse bene la vita, e perciò non conoscesse le maggiori doti che ornavano la persona della grande italia- na, di ciii^ scriveva Fazio degli liberti , tanto si favella. Par egli poi possibile all'ossequio reli- gioso dell' Alighieri 1' aver chiamato solo bella donna, senz'altro titolo mai, e anzi rassomigliata qui e qua a Venere ed a Proserpina, una san- ta qual fu la regina germanica , che si vene- rava e si venera sugli altari ? Ma basti della Matelda : e ognun creda a suo senno. Per me sarà sempre, senza un me- nomo dubbio al mondo, la pia, la forte, la co- munemente creduta vergine, l'operosissima eroina di Canossa, fatto anche ragione della vita attiva 97 eh' ella è posta a simboleggiare nella Divina Commedia : riferendomi perciò con piena fiducia alle prove d' ogni maniera che ne ho recate nel mio Dialogo (1), ed augurando in fine alla dottrina , al criterio e al bello scrivere del va- lentissimo Trevisani un miglior campo, che que- sto non parmi essere , a veramente ben meri' tare, com'è da lui, delle lettere, della storia, e con esse della dignità italiana. Ora m' è a cuore che sappiasi come io non ho mai cessato di stimare probabilissimo che Benedetto XI sia il Vellro Allegorico : parteci- pando in ciò le opinioni del De Cesare , del Ponta , del Giuliani , del Marchese e di altri maestri illustri in fatto di cose dantesche. Vuol credere il Trevisani che io vi abbia rinunciato, fondandosi sulla dichiarazione che fo nel Dia- logo di propendere nella sentenza di Carlo Troya , che la cantica dell' Inferno sia stata compiuta nel 1308. Sì certo, anche a me par credibile che in quell' anno, secondo le ragioni addotte dal grand' uomo che testé l' Italia ha perduto , 1' Alighieri compiesse la prima canti- ca. Ma se egli allora la compiè , sarebbe da stolto il credere che anche in quell' anno la componesse tutta dal primo all' ultimo canto. Ho anzi per fermo, che Dante la incominciasse assai prima , e proprio innanzi all' esilio , cioè quando era di parte guelfa. Ne questo solo ho per fermo : ma sì che né in quel tempo , né (1) V. Giornale arcadico t. VI della nuova serie. G.A.T.CLV. 7 98 mai , al poeta anzi tutto cattolicamente teologo cadde in mente di attendere la riforma del clero romano dall' opera d' una potestà laica, h ciò contrario , oltre all' idee stesse eh' erano allora in corso , a quanto e leggesi nel poema ed egli trattò nel libro De monarchia^ essendo ghibelli- nissimo a' tempi di Lodovico il Bavaro : nel qual libro chiaramente divise le due potestà , non senza però concedere alla pontificia una qualche supremazia suU' imperiale: Qiiae qiiidem veritas ( dice nel fine del lib. Ili ) ullimae quae- stionis non sic stride accipienda est , ut romaniis princeps in aliquo romano pontifici non siihiaceat. Aggiungansi que' solenni versi di Beatrice nel V del Paradiso : Avete il nuovo e il vecchio testamento^ E '/ pastor della chiesa che vi guida; Questo vi basti a vostro salvamento. Tanto era alieno e poeta e teologo e maestro di ragion pubblica di voler concedere ad altri, che al capo supremo della chiesa , d' intramet- tersi di leggi ecclesiastiche e di dar la volta alla chiave bianca e alla gialla ! Chi altro scrive , scrive ciò che l' autore del poema sacro non pensò mai , e foggia un Dante di piena sua fantasia. Posta questa verità , io ho sempre stima- to , e stimo , essere fra le più strane interpre- tazioni del Veltro quella che vuol farci ricono- scere in esso, non pur Cane della Scala o Uguc- 99 clone della Faggiuola , ma sì anche un impera- tore o re. Non potò dunque essere che un'alta potestà sacra quella che Dante allor profetava dover sorgere a rifiorire legittimamente YìeWumile Italia^ o sia nel Lazio dov' è Roma , le virtù del vangelo. Una potestà cioè , che tutta volta alle sole cose di Dio , Non ciberà terra né 'peltro^ Ma sapienza^ amore e virtute. Ora io non trovo a chi altro questa potestà meglio convengasi , che alla persona del cardi- nale Nicolò Boccasini da Trevigi. vescovo d'Ostia, il quale per santità , scienza , mansuetudine e odio alle malvage fazioni celebravasi sopra tutti nel sacro collegio come degnissimo del pontifi- cato quando 1' Alighieri scriveva il primo canto dell' Inferno; sicché dopo undici soli giorni dalla morte di Bonifazio Vili , entrato quasi appena in conclave, fu dall'unanime voto de'padri eletto papa col nome di Benedetto XI il di 22 di ot- tobre 1303. Egli , come frate dell'ordine de'pre- dicatori, aveva appunto nel suo stemma il veltro. Visse il sant' uomo nella sede apostolica otto mesi e sei giorni: dopo di che ella vacò undici mesi , non trovatosi più fra'cardinali chi avesse in suo favore, come già il Boccasini, la generale opinione de' suoi confratelli d' esser meritevole della tiara. Anzi fu essa posta finalmente, per isciagura di Roma e dell' Italia, sul capo d'uno che neppur era del sacro collegio, cioè di Ber- 100 trando de Gouth arcivescovo di Bordeaux, che prese il nome di Clemente V e portò la catte- dra in Francia. Che Benedetto XI dovesse per alcun tem- po essere stato il Veltro di Dante e de' bian- chi , lo dà per sicuro lo stesso Troya in quel- r enumerazione alquanto curiosa dei diversi Vel- tri che l'Alighieri , secondo il suo avviso, potè avere in mente negli anni consecutivi. Di che veggasi la sua Appendice di dissertazioni al codice diplomatico longobardo^ a carte 63, 66, HI e seq. Quanto al feltro e feltro io lo interpretava così , e ancora lo interpreto , nelle mie Lettere dantesche : « E bene la nazione di lui si dirà » essere tra feltro e feltro : presa la voce na- )) zione ( come usavasi elegantemente da' primi « padri del bel parlare ) in significato di nasci- » mento o di origine. Perchè vuol sapersi che )) Nicolò Boccasini , il quale fu poi esso papa » Benedetto , nacque , come dicono tutti quasi » gli storici del suo secolo , di sì umile ed » oscura famiglia, che il suo padre guadagnava » la vita guardando le pecore. Nicolaus tarvi- » sinus ( sono parole di fra Leandro Alberti )> dell'ordine medesimo) parentihus obscurissìmis^ » utpote patre opilione^ satus. Al che concordano » i padri Menocchio , Marchese ed altri: e già )) prima aveva detto anche Giovanni Villani (lib. » VIH cap. 66 ) : Questi fu di Trevigi , di po- » vera nazione , che quasi non si trovò parente. 1) Or ecco dunque che la sua nazione fu due » volte tra 1 feltro , o sia tra la lana: la prima, 101 )) quando di un povero pecoraio egli nacque al » secolo : la seconda, quando nacque poi alla » religione, vestendo le lane dell'ordine de'pre- » dicatori ». La quale mia interpretazione non sembrò dispregevole neppure al Troya d' animo così candido , benché gran partigiano principalmente d' Uguccione della Faggiuola : sicché nell'opera sopra citata ebbe a dirne (car. 66): « La spie- » gazione della doppia lana di Benedetto XI è , )5 giova ripeterlo, ciò che potea dirsi di meglio » a favore di quel pontefice , senza ricorrere » ad una sì malvagia specie di geografia » (cioè di Feltre e di Montefeltro). Veggasi di grazia ciò eh' io ne ho scritto di miglior proposito , anche rispondendo ad alcune sue benevoli con- siderazioni , a carte 385 seq. de' miei Scritti vari pubblicati a Firenze nel 1856. Salvatore Betti. •«»■ 102 Discorso agrario letto da A. Coppi neW accade- mia tiberina il dì 24- settembre 1857. 1. l^el discorso agrario di quest'anno ac- cennerò alcune variazioni , o sia aggiunte a di- versi oggetti trattati nei discorsi precedenti. 2. Nel discorso sull'agricoltura dell'agro romano letto nel 1837 narrai che nella sua va- sta estensione di rubbia 111, 106, nel quindi- cennio dal 1783 al 1797 se ne seminarono ad anno comune rubbia 13,726 (1). 3. In quello del 1842 indicai, che nel 1802 le seminazioni furono di rubbia 10,116. Nel de- cennio dal 1823 al 1832 di rubbia 8,218, e nel- l'ottennio dal 1833 al 1840 di rubbia 7582 (2). 4. Ora aggiungerò che nel settennio dal 1841 al 1846 furono di rubbia 8548. Nell'ultimo decennio poi furono come segue: 1847 rubbia 8258. 1848 » 8246. 1849 » 8085. 1850 » 7779. 1851 » 7033. (1) §. 115-118. (2) S. 21. 103 1852 » 7935. 1853 » 8122. 1854 » 9338. 1855 » 10,301. 1856 » 10,074. (1) Sembra pertanto che vi sia qualche pro- pensione nell' aumento. Auguriamo che progre- disca. 5. Intanto piace di osservare che un vero progresso havvi in un oggetto speciale. Neil' agro romano , come anche nei vasti e deserti tenimenti di Civitavecchia e di Cor- neto, la trebbiatura si eseguisce a grandi aiate, dette volgarmente trite , coli' opera di quattor- dici uomini e di ventiquattro cavalli ; e colla spesa di circa scudi sedici si estraggono circa venti rubbia di frumento. L' operazione si eseguisce nell'aperta e de- serta campagna, ed i lavoranti, esposti alle in- temperie dell' atmosfera , nella notte non hanno che misero ricovero in mal costrutte capanne. Quindi spesso assaliti da febbri intermittenti e talvolta perniciose. 6. Per agevolare questo lavoro il principe Borghese nel 1840 incominciò a far costrurre un trebbiatore da Rausbanner macchinista sviz- zero. Provato in Frascati, si calcolò che poteva produrre un rubbio all' ora. Altro poi ne fece venire nel 1844 dall' Inghilterra dalla fabbrica (1) Eslrallo dei registri del comune. di I. S. Q. R. Rautìoine di Ipswick ; e questo messo in opera nella villa Pinciana, in ore 28 produsse 100 rubbia di biada (1). Nel 1846, coir opera di quattro uomini e di sette cavalli, in 32 ore se n'ebbero 214- rubbia (2). 7. I fratelli Santini nel 1844 incomincia- rono ad adoprarne uno scozzese, ed ebbero da 12 a 15 rubbia al giorno colla spesa giornaliera di circa la metà dell' ordinaria (3). 8. In quest' anno varie macchine trebbia- trici furono introdotte. Leopoldo Fabri ne introdusse per specula- zione una della fabbrica inglese di Grosskill trasportabile e mossa a vapore. Questa è com- binata in modo che con una sola operazione trebbia , vaglia e pulisce il grano (4). Pietro Troiani, affittuario della tenuta Cavalieri nell'an- tico territorio Gabino , 1' acquistò (5), l'adoprò, ed ebbe rubbia quaranta al giorno col rispar- mio di un terzo delle spese sull'antico metodo. 9. Il marchese Bandini Giustiniani intro- dusse altra macchina trebbiatrice costrutta nella fabbrica di Pitt a Buffalo negli Stati Uniti di America , e premiata nella esposizione di Pari- gi nel 1855. Questa similmente trebbia, vaglia e pulisce il grano con una sola operazione. E trasportabile e messa in movimento da ca- li) Discorso agrario del 1844, §. 9. 1845. §. 14. (2) Discorso agrario 1846 §. 9. (3) Discorso agragio 1844. 9. 184. 514. (4) Giornale di Roma 1857. num. 15. (5) Ivi nuiu. 127. 1*05 valli. Egli la consegnò come modello ai Maz- zocchi ( fratelli di Pietro, che fu uno dei fon- datori della nostra accademia ) direttori del- l' armena pontifìcia. Essi credettero opportuno di modificarla, rendendola più solida in diverse parti , e ne costrussero altre quattro a richie- sta degli agricoltori De-Angelis, Calabresi, e Tra- versini. Furono queste messe in opera nelle te- nute di Cerveteri , di Ceri ed in varie altre, e generalmente produssero circa rubbia trenta al giorno , col risparmio di spesa del 30 per cento suir antico metodo. Il Bandini trasportò poscia la sua nei poderi che ha nelle Marche. 10. I fratelli Piacentini, affittuari dei teni- roenti di s. Maria in Celsano e Quarti di s. Sab- ba, chiamarono di Firenze 1' artefice Giovanni Oliger a costruire un trebbiatore che avesse il movimento dalle acque dell' Arone che attra- versa quei latifondi. L' idea ebbe un successo felicissimo, ed ottennero circa sessanta rubbia il giorno col risparmio di circa quattro paoli a rubbio , cioè di circa il cinquanta per cento. 11. Guioni ne inventò un'altra semplice ed economica, e tale che basta la forza di un uomo per farla agire. Avendone chiesto il diritto di proprietà nello stato pontificio , il ministro del commercio , agricoltura ec. ricercò il parere della pontificia accademia dei nuovi Lincei, la quale nella tornata dei 7 giugno 1857 opinò che gli si poteva concedere per un determinato 106 numero di anni (1). Questa potrà per avventura essere utilissima , dove si esercita la piccola , ma invidiabile , agricoltura. 12. Nei tenimenti di Civitavecchia e di Cor- Deto s'incominciò nel 1856 ad adoprare mac- chine trebbiatrici introdotte in parte dalla Fran- cia ed in parte dalla Toscana. In quest' anno varie altre furono acquistate dalle fabbriche to- scane, ed in tutte se ne contarono 24. La mag- gior parte sono della fabbrica granducale di Fullonica; e queste mosse da cavalli o da buoi produssero il desiderato vantaggio. Altre, uscite da quella di un privato costruttore, si ruppero per la cattiva qualità del ferro col quale erano formate. Danno deplorabile , ma rimediabile. 13. Accennai in vari discorsi i premi pro- messi del 1788 per incoraggiare la piantagione degli olivi e dei gelsi (2). In quello del 1855 in- dicai che nel solo anno 1854 erano stati ammessi al premio: Olivi 51,393 Gelsi 24,001 Ora aggiungerò che per l'anno 1856 si avan- zarono petizioni al premio per Olivi 61,.S74 Gelsi di alto fusto 45,371 Gelsaie 13,800 (3). (1) Atti della pontificia accademia dei nuovi Lincei. Anno X, ses. Vllj pag. 449. (2) Uiàcniso suH'agricoltura dell'agro loinatio §§. 114, e 129, Sopra alcuni stabilimenti e miglioramenti agrari §§. 9,20,40,41. Discorso agrario del 1835. (o) Estrallo dei registri del ministero del commercio. 107 Altri certamente sono stati piantati da possi- denti che non chiesero premio; ed i prodotti del- l'olio e della seta indicano che in ciò vi è un fe- lice miglioramento. 14. Nello stesso anno 1841 diedi alcuni cenni della estrazione della seta nel ventennio dal 1820 al 1840. Osservai che nel 1820 se ne erano estratte libre 191,253, del valore di scudi 716,057; e nel 1840 Hbre 308,030, del valore di scudi 754,673. Quindi nel corso del ventennio vi era stato aumento di un terzo nel- la quantità che aveva messo in equilibrio la dimi- nuzione del valore (1). Ora aggiungerò che dal 1850 al 1855 r estrazione fu come segue : quantità' VALORE ANNI LIBRE SCUDI 1850 281,067,6 843,300, 50 1851 311,631,11 934,895, 75 1852 427,211 1,281,639, 50 1853 347,255 1,041,765 1854 314,063 942,190 1855 469,699 1,258,995 (2) §. 46 (1) Discorso sopra alcuni slabilimenti e miglioramenti agrari, (2) Dai prosptlti delle merci inlrodotle ed estralle nello sialo pontifìcio 1S50-1855. 108 15. Il ministro del commercio ed agricol- tura annunziò che nel 1856 la produzione dei bozzoli fu di cinque milioni e mezzo di libre (1). Questi daranno circa cinquecento mila libre di seta. I prezzi elevatissimi di questa merce nel- r ultimo biennio ne faranno ascendere il valore ad una cifra che supererà quella di tutti gli anni precedenti. In questa cifra così elevata credo non inop- portuna una indicazione speciale di quella di Cor- neto. Quivi anticamente non si avevano che po- che centinaia di libre di seta. Soppresse le servi- tù dei pascoli pubblici, e promessi premi alle piantagioni dei gelsi, se ne piantarono moltissimi, ed in quest' anno si ebbero di già tre mila li- bre di seta. 16. Trattai in vari discorsi dei migliora- menti fatti dal principe Borghese in una parte ( rubbia 58 ) del suo vasto tenimento denomi- nato Torre Nuova della estensione di rubbia 1336 ( ettare 2508 ) affittato dianzi per 1' annua cor- risposta di scudi 8,200 (2). In quest' anno so- no lieto di accennarne un altro interessantissimo. Il principe stipolò con Pietro Tarsetti ( incari- cato della casa Blamer di Ancona ) un contrat- to, nel quale in sostanza si convenne: » Si dà )) in affitto il terreno piantato a moro gelsi, al- » tro terreno detto il Parco, il fabbricato del Ca- » sale, due riserve aderenti al Parco, in tutto (1) Giornale Hi Roma 1857. 180. (2) Discorsi agrari 184Ó-1 1-18. 1 847-4 1849, 2 1850.2-1855. 109 » circa rubbia settanluno. Altre rubbia cento in » un sol corpo della stessa tenuta al confine » verso Frascati. I locali della villa vecchia » in Frascati con un rubbio di terra circa an- » nesso per comodo di stabilimenti da eriger- » si (cioè il locatore farà costruire tre bigat- » tiere e 1' affittuario una filanda a vapore ). » Dovrà l'affittuario aumentare il numero dei gel- » si a campo, sino a dieci mila, intendendovisi » compresi quelli che già esistono. La durata » dell' affitto è di anni trenta da incominciare » dal primo di ottobre 1857. La corrisposta ri- » mane fissata nella somma di scudi 3,200 (1). » In tal guisa il proprietario da circa un' ot- tava parte del fondo ritrae due quinti dell' an- tica corrisposta, e si ha 1' esempio di un dana- roso ed industre banchiere che impiega rag- guardevoli capitali ad un miglioramento sostan- ziale nel deserto agro romano. Auguriamo che abbia molti imitatori. (1) Apoc» dei 20 dicembre 1858, HO Scritti inediti del P. D. Pietro Cossali chierico regolare teatino pubblicati da Baldassarre Bon- v.oMvkGm. Roma tipografia delle belle arfi 1857, in 4." Scritti di Leonardo Pisano matematico del secolo decimoterzo pubblicati da Baldassarre Bon- coMPAGNi. Volume I. Il Liber Abbaci, secondo la lezione del codice magliabecchiano C. L 2616 della Badìa Fiorentina n." 73. Roma , tipo- grafia delle scienze matematiche e fisiche 1857, tn 4. X ino dal 1854 il principe Baldassare Bon- compagni pubblicò le notizie storiche intorno ad alcune opere di Leonardo pisano. Roma 1854. Ed a Firenze nella tipografìa galileiana pubblicò nell'anno medesimo 1854 tre scritti inediti di questo nostro insigne maestro di matematica , il primo che nel risorgimento degli studi por- tasse dalle coste dell' Affrica la scienza arabica delle proporzioni algebraiche di 1." e 2." grado m Italia , e dall' Italia per questo suo merito singolare si diffuse in Europa. Questi moltiplici e immensi studi o non si conoscevano, o mal si conoscevano dai dotti in Europa, dopo che si giovarono ne' loro padri di questa scuola italiana di Leonardo pisano , Ili e de' suoi primi discepoli parimenti italiani fra- te Luca Pacioli, Nicolò Tartaglia, i! Cardano ed altri. Gli scritti di Leonardo pisano giacevano dimenticati nei codici mss. con evidente peri- colo che andassero smarriti. Per somma ventu- ra il P. Pietro Cossali teatino veronese nel fi- ne del secolo passato , e nel principio del no- stro, mal comportando che la celebrità mate- matica francese facesse disconoscere il patrio merito italiano, si mise all'opera di studiare nei mss. le opere antiche di matematica dei nostri più antichi maestri nel secolo Xlll , XIV e XV, e stampò la Storia critica deW origine , trasporto e primi progressi in Italia deW algebra. Parma, Bodoni 1797; due grandi volumi in 4-.° i quali assicurarono perpetuamente in faccia a tutto il mondo il primato italiano nelle matema- tiche per tutta 1' Europa nel risorgimento degli studi. A compilare quest' opera il P. Cossali non tenne il metodo pur troppo comune di oraco- leggiare a priori e di fantasìa con una mala in- tesa filosofia della storia, o inventare principii e sentenze, o da pochi dati esagerare fantastica- mente conseguenze utili al tema, e millantare una storia filosofica ragionata dell' algebra. Di questi lavori fantastici è pieno il mondo, e come abbiamo i romanzi storici , abbiamo altresì le storie romantiche della filosofia e le filosofie ro- mantiche. Non così fece il P. Pietro Cossali: anzi tut- to al contrario, studiò, e fece suoi propri gli 112 scritti dei matematici antichi, e se ne fece il sun- to in ogni opera, e se la estese a sua posta in volgare sul testo originale latino , o sul testo eh' io chiamerei del volgare rustico. E questa scienza matematica antica confrontò nelle sue singole parti colla moderna, e la storia delle sco- perte illustrò co' suoi documenti autentici. Que- sto non è un lavorare a priori e di fantasìa, né per dir così alla romantica ; ma questo è la- vorare utilmente. Era perciò da presumere che il P. Pietro Cossali ne' suoi scritti inediti avesse lasciato im- mensa ricchezza di notizie matematiche antiche bellamente illustrate dalla sua vasta e perspica- ce dottrina. Il benemerito principe Baldassare Boncompagni se ne prese tutta la cura, e dalla famiglia veronese Botagisio ottenne con magna- nima cortesìa di studiare a suo agio in casa sua propria a Roma gli scritti inediti del P. Pietro Cossali ; e ne fece 1' arduo lavoro, ed é la prima pubblicazione che abbiamo in tema annunziato al pubblico. Nella prefazione 1' editore dà conto di tutti gli scritti del P. Cossali, che non erano ancora stampati, e ne correda la relazione di documen- ti analoghi da far al tutto maravigliare di tan- ta esattezza. Credo che poco o nulla resti da aggiungere intorno al P. Pietro Cossali ed alle sue opere. A pag. 1 . Frammenlo di un elogio di Leonar- do pisano. 113 Questo Frammento ribocca delle più inte- ressanti verità o non sapute imprima, o certo mal sapute generalmente da tutti i più dotti. A pag. 3. Estratto del libro di Leonardo pi- sano. Questa è la illustrazione volgare del Liher Ahbaci di Leonardo da Pisa. Il P. Cossali ci fa conoscere nella orditura e nelle sue parti il li- bro che giaceva incognito nei mss. E ben fece il principe Baldassare Boncompagni di pubbli- care contemporaneamente ed il Liber Abbaci nel testo originale e la sua illustrazione, perchè così può lo studioso trovarsi ed il testo e il commento davanti agli occhi: e bisognava così agevolarne lo studio; essendo il Liber Abbaci di Leonardo pi- sano un volume in quarto grande di pag. 439 di linee 43, in uno stile latino qual si costumava nel secolo XIII, con voci tecniche usate allora, che ora non sono più usate Il merito dell' opera succintamente ci è detto nel suo Frammento. Ci basti un cenno. « L' analisi da Leonardo insegnata non si )) limitava già ai problemi determinati; ma ricca » pur era del ramo dei problemi indeterminati » che lussureggia nel suo libro de' numeri qua- » drati, dove oltre a sommare le serie dei numeri » quadrati e dei cubici per industri vie dalle Dio- » fantee diverse, scioglie i più bei problemi di » quel greco analista, e coraggioso affronta altri » sottili problemi, ai quali resistono gli artifici! » più fini dell' Eulero e del La Grange, e non » riescono a darne risoluzioni dirette , ma sì G.A.T.CLV. 8 Ili » indirette, brillanti di ingegno, e capaci di atìi- » pio estendimento , come io ho fatto vedere. ( Non fu studiato Leonardo pisano. ) » Quindi il non conoscere la sua invenzione, » alla quale con lunga meditazione egli si dice » giunto, delle parti onde componesi il cubo di » una quantità in due membri divisa, e del me- » todo che ne scaturisce per estrarre da qua- » lunque numero la radice cubica. » E quindi finalmente il lasciare nella obbli- » vione sepolta l'aurea regola per ottenere di una » quantità di parte razionale e di parte irraziona- » le composta la radice senza quell'involgimento » di immaginarie specie, nel quale oggi si cade. » Così viene annunziando i meriti dell' ope- ra ignorati dai dotti , dopo aver riferito che i dotti erravano di due secoli 1' opera di Leonardo pisano, che compose nel 1202 1' opera, ei dot- ti col Montucla la riferivano al 1400. Ignoranza, ignoranza grassa e supina! A pag. 63. Elogio di fra Luca Pacioli. Pieno di interessanti verità è questo elo- gio contro le falsità del Montucla e degli al! ri scrittori stranieri. Contro la imputazione di pla- gio falsamente affibbiata a fra Luca dal Tar- taglia. Contro la falsa asserzione del modt^rno Targioni Tozzetti, che abbia fra Luca non so- lo rubato le dottrine di Leonardo pisano, ma le abbia fatte sue proprie senza pur nomin;uK.. E contro le bugiarde asserzioni dei Vasari, che con inconsistente calunnia gli affibbia il plagio degli scritti di Pietro della Francesca, li nsul- 115 tato di questa difesa è una verità manifesta, che gli stranieri trattarono con leggerezza i meriti degli italiani, ed i nostri connazionali pur trop- po li trattarono con una detrazione invidiosa , che disonora la patria! Recato alla giusta misura il merito, e pos- to in chiara luce l' onesto carattere e la lealtà di fra Luca , il P. Cessali descrive la serie dei progressi dell' aritmetica e dell' algebra fatti dal Pacioli, e dà una scorsa all' opera sua Summa de arithmetica geometria proporlioni et proportio- nalità già stampata a Venezia nel Mcccclxliiij dal Paganino. Succede il sunto dell'opera, lavoro uti- lissimo non pure storico, ma ragionato assai be- ne, e rispetto all' ordine matematico, e rispet- to all'originaria scoperta del merito matematico. A pag. 289. Note sul trattato generale dei nu- meri e misure di Nicolò Tartaglia^ stampato in Ve- nezia neW anno 1556. A pag. 317. Lezioni suW aritmetica. Lezione L Della natura dell'aritmetica in gene- rale, e di quella oggidì praticata in par- ticolare. Lezione II. Dell'origine dell'odierna aritmetica. Lezione III. Del tempo in cui gli arabi ricevet- tero l'aritmetica indiana. Lezione IV. Dell'epoca della indiana aritmetica in Grecia. Lezione V. Dell' epoca della indiana aritmetica in Italia, in Ispagna, in Inghilterra. A pag. 341. Memorie storico - scienti f che sulla origine delV odierna aritmetica e dell'algebra^ loro 116 trasporlo dalV oriente in Italia^ e primi progressi nelle contrade di questa. A pag. 354. Memoria prima lavorala sid li- bro dell' Àbbaco di Leonardo pisano e contenente V elogio di lui. A pag. 399. Appendice. Questa appendice è un esame critico del- l' editore sui codici mss. che ebbe a studiare , o che furono consultati dal P. Pietro Cossaìi , e con una accuratezza ammirabile vi si viene indagando quali erano e dove sin' ora questi mss. dall' autore usati , o da'suoi amici consul- tati , le cui lettere sono tra le sue carte. Que- sto lavorietto è piccolo di male, ma basta a far conoscere la erudizione, la dottrina e la severa critica dell' illustre editore , al quale dee l'Ita- lia il suo onor matematico magistrale presso le altre nazioni, avendo cominciato dal Liber Ahbaci a pubblicare la biblioteca dei matema- tici nostri italiani antichi sopra i loro mss. sin- croni. - Oh riconosca l' Italia il suo vero onore delle lettere , delle scienze e delle arti, non che della sede pontificia romana; e queste sue vere glorie abbia care ed apprezzi; e chi le coltiva e le onora ! Francesco Longhena. iir PARTE SECONDA Istorico-fisico ragionamento sulle culture umide e sulle prelese honijicazioni da farsi^ per loro mez- zo^ delle terre palustri dello stato pontificio^ ri- sguardante le legazioni di Ferrara , Ravenna , ed altre provincie. I Ja straordinaria commissione sanitaria-idrau- lira consultiva del 1836, che con generale sod- disfazione aveva, dopo profondi studi e durate fatiche, dato termine al suo piano di rettifica per le culture umide del territorio di Bologna, per quello di. Ferrara il suo lavoro stendeva solo nei circondari della Romagnola. Avvertiva però la commissione che le culture umide , a differenza del bolognese, riescirebbero facili nel territorio ferrarese, giacché potevano restrin- gersi in luoghi deserti lontani dall' abitato , e d' infelicissima condizione idraulica. La superio- rità tuttavia aveva decretato che l'intiero pia- no di rettifica si passasse alla legazione di Fer- rara, onde farne matura disamina e comparativi confronti che potessero risguardarla. Era mes- so quindi il piano di rettifica, unitamente alla notificazione Frosini, sotto 1' occhio di ciascun membro della commissione provinciale sanitaria, la quale dopo maturo esame si riuniva in piena sanitaria adunanza nel dì 13 luglio 1839. Pre- 118 messi molti elo^ri dalla commissione alla nolifi- cazione Frosini, ed ora al piano di retlifica, pas- sava questo a severa discussione, facendoue al- cuni rilievi. Peraltro la commissione proponeva che avendo la commissione straordinaria per- corso le sole terre della Romagnola, si dovesse formare una giunta presa dal suo seno per esa- minare il resto del territorio ferrarese, onde de- stinare a tenor di legge perimetri permissivi per le umide culture. A ragione lodavasi il progetto della straor- dinaria commissione, che un terreno di poca e- stensione per accidentali cause divenuto palu- stre si dovesse sempre ridurre a secca cultura. Davansi maggiori lodi per la colmata semplice praticata colle dovute regole, soprattutto non disgiunte dalla rigida prescrizione di separate chiaviche irrigatorie, affinchè non si commettes- sero frodi per convertirsi il terreno alla no- cevole coltivazione umida. Savia del pari era l'at- tenzione da farsi nel vietare le arginature di ristagnanti acque pel prato irrigatorio : impe- rocché in tali casi avveniva, che col pretesto di prato irrigatorio si sarebbe proseguita 1' umida coltivazione. Peraltro non comportevole del tutto era r approvazione delle casse e serbatoi di acque propostasi dalla commissione straordinaria ; per cui nella prima parte di questo ragionamento si disse esservisi riparato dalla congregazione speciale sanitaria con utili modificazioni nel IH articolo del suo piano di riforma. Savio bensì 119 era 1' accorgimento della ferrarese commissione di non ammettere la massima generale, di ri- durre a risaie le terre di debolissima vegeta- zione, benché atte a siffatta cultura, se non do- po il più ponderato esame della località. La com- missione provinciale sanzionava l' inibizione di conservare racchiuse acque in luoghi di secca coltivazione, invigilando attentamente per impe- dirle affatto oltre il mese di aprile. D' onde po- trebbe dedursi il buon senso della ferrarese com- missione, poiché sembra che sarebbe stata aliena anche più della straordinaria commissione dalla valle in colmata, di cui non si fa parola. Lo- devole pure si è il rilievo della ferrarese com- missione sulle differenze stabilite dalla legge in- torno alle disianze: imperocché non dovrebbero ammettessi coteste differenze, mirando lo scopo sanitario, sotto qualunque rapporto, in prò disi- la pubblica e privata incolumità: mentre sicco- me fn più volte accennato, le distanze non so- no mai calcolabili fin dove possono riuscire pro- ficue alla salute pubblica; quindi più saranno lon- tane le abitazioni dalle umide culture , minor danno queste arrecheranno. La commissione con ragione fece eco alle discipline che tendono ad impedire le trapelazioni pregiudizievoli alle ter- re di secca cultura, contermini alle umide col- tivazioni: così del pari si loda l'impedimento di quelle trapelazioni, che provenir possono dagli scoli emissari delle acque di derivazione. Lo- dansi in fine tutte le cautele da premettersi pri- ma di concedere 1' uso di qualunque umida col- 120 tivazione. La congregazione sanitaria, ad ecce- zione delle accennate modificazioni dell'artico- lo lil del piano di riforma risguardante i ser- batoi di acqua, niuna osservazione d' importan- za fece intorno all' esame della commissione provinciale sul ferrarese territorio. Se non che la congregazione considerando che in Bologna era da più lustri una commissione per le cul- ture umide ; decretò che del pari vi fosse nelle legazioni di Ferrara e Ravenna , rimet- tendone r elezione agli Emi Legati. Che peral- tro dovessero di coteste commissioni far parte due fisici presi dalle rispettive commissioni pro- vinciali sanitarie. D' altronde per quanto savio sia cotesto di- visamelo, laddove in specie estese fossero le umide culture, non si raggiunge il sanitario sco- po* senza un ministero di colte persone estra- nee ; siccome or si rileva da una grave conces- sione, sebbene infine vi si riparasse dal supre- mo consiglio di sanità. Si umiliava difatti anche al pontefice un vivissimo reclamo per parte del comune di Guardia Ferrarese contro il sig. con- te Milan Massari di Vicenza. 11 quale, pel fa- vore della legazione, aveva ottenuto nel 184-1 il permesso di una vasta risaia di 840 staie { più al di là di 440 rubbia romane ) nel suo lati- fondo di Vallona in vicinanza del suddetto co- mune. Il permesso della legazione, per la niuna obiezione alle vigenti leggi sanitarie da essa rap- presentate alla congregazione speciale sanitaria, era stato l'anno vegnente da questa sanzionato 121 con dispaccio del dì 6 giugno 1843 n." 2775 non ostante il contrario parere di alcuni dei suoi componenti, per la sospensione due anni innan- zi di minor cultura umida nel suddetto fondo di cui or si dirà. Il parroco di quel comune con fervidissimo esposto narrava che la concessione era stata da- ta senza punto attendersi alle discipline dalla legge stabilite. Niun interpello era stato fatto agli abitanti, nessun avviso al pubblico, nessun esame sulla località per parte della commissio- ne apposita di sanità. Si mostrava inoltre che essendo stata nel 1841 concessa in un appez- zamento di quel latifondo una risaia di sole 100 staia in via di esperimento, erano insorti danni non lievi alla popolazione , perlochè era stata sospesa. Quindi manifestamente appariva che maggiori sarebbero stati i danni per una va- stissima risaia, siccome era quella or concedu- ta : tanto più che le acque del Canal bianco^ che dovevano irrigarla , rifluivano di acque scrina- tole e putride. Laonde alimentando esse una tanto estesa cultura di riso , sarebbonsi viem- maggiormente corrotte con disastro gravissimo della pubblica incolumità. S' invocava perciò r adempimento dell' artic. IV della notificazione Frosini. Durante questa pendenza nella congre- gazione sanitaria , e ben nota alla legazione , nulla, anzi il contrario, si praticava per parte della medesima (e ciò in armonia del dato per- messo ) , la quale ordinava che si eseguissero i lavori preparatorii , siccome furono eseguiti. 122 Ma con risoluzione del supremo sanitario con- siglio mi fu rimessa la posizione per 1' esame e parere. In virtù principalmente del suddetto artic. IV riferii in piena sanitaria adunanza per la soppressione della concessa risaia. Dimostra- vo ancora che oltre quanto veniva ragionevol- mente esposto nei reclami, lo stesso sig. conte ammetteva che in due lustri era in un solo me- se mancata l'acqua del Canalbianco per 15 dì. Ma ciò a suo avviso era di niun momento, met- tendosi in avanti un assioma legale: - Perenne est quod semper fluii, si tamen aliqua aestate exa- ruerit quod alioquin perenne fluehat, non ideo mi- nus perenne est -. Imperocché malissimo a pro- posito era nell' argomento attuale applicabile detta legge , come se di tempo in tempo fosse lecito suscitare un' epidemia , la quale sarebbe avvenuta infallibilmente , se una vastissima ri- saia non venisse improvvisamente nell' estiva stagione alimentata per non sì breve spazio di tempo. Difatti se anche nelle dovute regole sa- nitarie saranno nocevoli mai sempre alla salu- te le umide coltivazioni , in questa circostanza tanta ' corruzione e fermentazione di sostanze vegeto-animali sarebbero indubbiamente acca- dute da svolgersi isvariate deleterie gazose ema- nazioni , che non disgiunte dal fetidissimo odo- re , avrebbero cagionato incalcolabile e sicuro disastro alla pubblica incolumità. Con dispaccio quindi della congregazione del dì 25 aprile 1844 si ordinava la soppressione della detta risaia. 123 LEGAZIOEE DI RAVENNA Lo stesso avviso per le umide culture del ferrarese portavasi per quelle di Ravenna dalla commissione straordinaria del 1836 , poggian- dosi il di lei favore sulle deserte località e lon- tane dall'abitato. Colà difatti fin dal 1767 si parla di risaie, e con lode si ricordano in un opu- scolo di un medico ravignano pubblicato nel 1809 (1). Se non che in quest'epoca può fon- datamente sospettarsi, come si disse nella pri- ma parte di questo ragionamento, il favore alla coltivazione dell' umido cereale per compiacere a chi reggeva 1' amministrativo timone del così detto regno d'Italia. La diligenza peraltro messa dalla commissione straordinaria pel territorio di Bologna , non lo fu egualmente pel territorio ravegnano. Quindi la commissione provinciale sanitaria dopo aver esaminato a tenore degli ordini, superiori il piano di rettifica , si radu- nava in piena sessione nel dì 18 giugno 1838. Giusti erano i rilievi del Malagola , approvati dalla commissione , che non dovesse cioè con- sentire né concedere risaie approvate dalla com- missione straordinaria in luoghi di debole ve- getazione , quando in essi si vedessero coltivati cereali ed arbusti. Né si conveniva in alcune distanze designate dalla commissione straordina- ria , ma s' invocava la legge statuita dalla noti- (1) Gera.scUì , Dell' ai i;i ravennate 1809 124 ficazione Frosini. Molto meno si annuiva al, pro- getto delle piovane acque serbate in casse per uso delle risaie , e di altre acque adoprate per una risaia superiore per alimentarne un' infe- riore. Alle quali proposte , come si disse pel ferrarese territorio, riparava la congregazione speciale sanitaria nel III articolo del suo piano di riforma (luglio 1840). In onta di codesti rilievi la commissione provinciale lodava il lavoro della commissione straordinaria : progettava inoltre di aggiungere ai perimetri permissivi ad umida cultura un pe- rimetro dalla parte che rimane alla destra dei Savio vicino alla sua foce. Si riserbava ancora di esaminare altre località che si credessero op- portune alla detta coltivazione. In caso affer- mativo s' ingiungeva l'obbligo assoluto di spur- gare i fossi , togliere tutte le piante palustri , distruggere le ammucchiate erbe, e nulla omet- tere di quanto era prescritto dalle leggi sani- tarie idrauliche. L' anno vegnente al piano di riforma del 1840 , oltre l' elezione di una commissione ap- apposita , stabilita nel XII articolo di detto pia- no , la legazione adottava savi regolamenti. Ninna parola peraltro , da quanto mi cadde sott' occhio , si fece dalla commissione provin- ciale di altre terre della legazione ravennate coltivate a risaia. Imperocché in un assennatissi- mo ragionamento di Gamberini, che per cinque anni dimorò nelle Alfonsine pertinenti a questa le- gazione, si porge un quadro luttuoso delle risaie 125 ivi coltivate (1); ed anche più desolante è la de- scrizione del Massaroli che per tre lustri esercitò ivi l'arte salutare. Il Farini medesimo, che quasi sempre con lode stendesi a parlare delle pratica- te diligenze sulle culture umide del territorio ra- vignano, accenna coteste deplorabili circostanze encomiando il Gamberini. Il quale solennemente e con irrefragabili argomenti riprova le risaie fa- voreggiate dal Farini per conseguire con esse economici vantaggi, e la bonificazione delle terre palustri (2). Senonchè l'opera del Farini richiede tali e tante condizioni che per la storia dei fatti non furono appo noi, né altrove, per quanto io sappia, giammai osservate; e se mal non mi ap- pongo difficilissime, per non dire impossibili, a raggiungersi. Quindi a me pare che né la pubbli- ca economia, né la perfetta bonificazione si ot- terranno con le risaie. Che se questo pure avve- nisse, lentissimo sarebbe e generalmente con dan- no dell'incolumità pubblica, siccome fu dimostra- te nella prima parte di questo ragionamento. Laonde un savio governo non intenderà mai di bonificare le terre palustri con le risaie, ma sib- bene con le colmate semplici, praticate con le più rigide sanitarie prescrizioni. La commissione provinciale di Ravenna nep- pure fa parola di altre risaie, che sembrano esser coltivate in alcun luogo del territorio di Bagnaca- (1) Bollettino delle scienze mediche novembre e dicemb. 1846. (2) Sulle questioni sanitarie ed economiche agitate in Italia intorno alle risaie: studi e ricerche di Luigi Carlo Farini. Firen- ze lij)Ografia Saliberiana 1845 in 8. pag, 200. 126 vallo ed altrove, con danno della pubblica salute. Posteriormente un possessore di vasto terreno paludoso presso Cervia dimandava alla congrega- zione speciale la concessione di ridurlo a risaia. La qual cosa gli era in parte conceduta, con l'ob- bligo di attendere di proposito alla bonificazione del terreno. Insisteva egli di estendere detta cul- tura: ma gli veniva nel 1842 denegata non solo per contrarietà del ministero del pubblico tesoro, ma ancora per cribrato giudizio della congrega- zione; poiché una siffatta concessione avrebbe nociuto ai guardiani della saline, i cui casotti sono vicini alla richiesta risaia. Ciò nulla ostante dopo cinque anni si rinnovò l'istanza alla con- gregazione sanitaria. Ivi dopo replicati dibatti- menti fu nuovamente denegata: di poi per le po- litiche vicende, si andò arbitrariamenle fuor di via, e da ultimo dicesi conceduta con molte re- strizioni. Ma in cotesto argomento, in cui ebbi gran parte, erano accadute inattendibili circo- stanze (1). Io passo sotto silenzio il territorio della le- gazione di Forlì, perchè nulla mi è officialmente noto: che se per caso ivi ancora si esercitassero le umide culture, il superior governo tutti deve cer- car i mezzi per distruggerle. Quando ciò non po- tesse conseguirsi, non si dubita delle prescrizioni in adempimento delle leggi sanitarie idrauliche. Provvidenlissima istituzione sì fu quella del pon- tificio governo di stabilire la congregazione spe- li) Memorie citate psg. 387, e 579-80. 127 ciale sanitaria con editto del dì 20 luglio 1834, afiRne di raggiungere il più sollecito ed esatto adempimento delle discipline del sanitario isti- tuto e della medica polizia (1). Innanzi dunque l'esistenza della congrega- zione speciale si erano concedute risaie a vari proprietari nella legazione di Urbino e Pesaro; ma questi non solo avevano esteso di vantaggio la concessione, ma avevano praticato ancora risaie clandestine: deviavano inoltre le acque del fiume Cesano ; quindi incessanti erano i reclami per- chè difettavano di acqua i molini. La congre- gazione decretava che esaminassi la posizio- ne e ne dessi ragionato rapporto. Essa inol- tre dichiarava che pei danni recati ai mugnai si ricorresse ai tribunali ordinari. Riguardo poi alle abusive e clandestine risaie confermava il mio divisamento , che appena cioè fosse secata la messe, cadesse in commissum la medesima , e le risaie eziandio concedute venissero on- ninamente proscritte. Imperocché il terreno a- vanti la concessione era coltivato colla secca coltura, la quale, dopo accurate indagini di fi- sici idraulici inviati sul luogo , era facilissima a ristabihrsi. Ciò nulla ostante si avanzavano replicate istanze per proseguire l'umida cultura, e per ottenere il riso caduto in proprietà del fisco; ma la congregazione rigettò sempre le loro istanze. (2) Lodevole del pari fu 1' istituzione delle commissioni pro- vinciali (1836) che mancavano in qussi tutte le provincie per cor- iispondeie con la congregazione speciale di sanila. 1-28 Nel territorio piceno si erano qua e là sta- bilite molte risaie per concessione , talune in via di esperimento , e non poche totalmente abusive. Incessanti erano i reclami delle popo- lazioni al superior governo, in specie di quelle della provincia di Fermo^ ove si era piii estesa la cultura dei risi. Ma i possessori sostenevano insussistenti le querele insorte per gelosa invi- dia. Nò mancarono medici e idraulici che li fa- vorissero , sebbene diversi medici li contrarias- sero. In così fatto contrasto nel 1825 si nomi- nava una commissione straordinaria presieduta da monsig. segretario di Consulta, perchè andata sulla faccia del luogo esaminasse la faccenda senza sospendere la campestre industria della cultura dei risi, mentre per influentissima opera dei proprietari insistevasi a mostrarla innocua alla pubblica salute ed utilissima allo stato. Nel- V ofilìciale relazione dal compilatore della mede- sima, dappresso geognostico rapporto di un in- gegnere, assicurasi che tolti gli abusi e date savie prescrizioni niun nocumento recherebbero le progettate risaie alla pubblica e privata inco- lumità, mettendo in avanti altri argomenti, come si dirà in appresso ; per cui ne rimase soddi- sfatta la commissione. Sorprendente si è che incomincia la rela- zione coH'accennarsi, che nella città sono mag- giori le malattie e la mortalità per la putre- fazione ancora e fermentazione delle sostanze organiche , avvenendo il contrario nei paesi di campagna. Dimodoché trattandosi ora dell' a r- 129 gomento di risaie , sembrerebbe un manifesto beneficio la loro esistenza , come se per essa minori fossero la putrefazione e fermentazione di organiche sostanze nella campagna fermana, mentre per ogni titolo ragionevolmente avver- rebbe quel sinistro di gran lunga superiore a qualunque delle più incolte città. Ciò nulla ostan- te non si osa denegare l' insalubrità delle risa- ie, in specie per la umidità, non parlandosi dei miasmi palustri perchè denegati dall'autore. Ma quelle da concedersi di presente essendo di sole 52 rubbia romane e disseminate in cinque sepa- rati valloni, ne risulta esilissima umidità, d'al- tronde immediatamente assorbita da innumere- voli circostanti alberi. Si asserisce inoltre che per la pendenza superiore dei torrenti, nell'irrigarsi le risaie, si facilita l'immissione ed emissione delle acque ; quelle poi che rimanessero non ristagne- rebbero, siccome accade nei compatti terreni argillosi: imperocché verrebbero tantosto assor- bite per essere il fondo del suolo in discorso ghiaioso e mescolato con fina marna argillosa calcarea. Si dice ancora che le case rurali sono al di sopra e più di 50 metri di coteste risaie; per cui r umidità non vi perverrebbe; in con- ferma di che si citano le osservazioni di Saus^ sure fatte nelle valli del Lemano presso il lago di Ginevra {ove però non furono mai risaie). Arroge che in un terreno cotanto esleso le emanazioni nocive sarebbero ripartite come una a 1730 ; doversi quindi concedere le risaie sud- dette anche per la minor mortalità avvenuta G.A.T.CLV. 9 130 neir ultimo decennio ; sebbene si aggiunga non essersi ricercati i necrologici prospetti per non ridestare passioni. Né si omette la favorevole avvertenza del relatore, nel valutare che cote- ste risaie appartengono generalmente ai possi- denti sì laici come ecclesiastici. Inoltre se qual- che febbre di periodo colà si osserva, si suppone in individui che la presero nella campagna ro- mana. La qual cosa essendo facilissima a ve- rificarsi, e non praticata, ognun può trarne la conseguenza. Conchiudesi perciò che mediante le dovute prescrizioni sanitarie idrauliche pra- ticate e sorvegliate con diligenza, non solo del tutto innocue alla salute pubblica saranno le dette risaie, ma ancora di molto profitto ai pro- prietari onde sopperirsi alle imposte : giacché vilissimo era il prezzo dei cereali e di altri prodotti a \ecca cultura. Fu approvata interamente la relazione, e con superiore notificazione del di 21 febbraio 1826 fu messa in vigore a forma di legge, in- giungendosi quanto si era nella medesima pre- scritto per le discipline sanitarie idrauliche. Ma se per cotesta umida cultura non mancarono morbi nello stesso anno 1826, nei due succes- sivi si accrebbero ; dimanierachè nel 1828 le malattie febbrili dominando con epidemico ge- nio, fu d' uopo accogliere le giuste rimostranze della fermana popolazione. Quindi con notifica- zione del dì 29 ottobre 1828 il governo ordinò la sospensione della cultura dei risi. A guisa 131 d' incantesimo disparvero le malattie non poche ca- gionate da colesta insalubre coltivazione. Dopo qualche anno si provò di proposito riattivarla, giacché reclamavasi dai proprietari che r ordine superiore era stato sospensivo, e non soppressivo. Appena fu istituita la congrega- zione speciale sanitaria si tornò ad insistere per la riattivazione delle sospese risaie. Per diversi anni si rigettarono le istanze , quantunque fer- vidamente sostenute dall' autore della suddetta sanitario-idraulica relazione. Finalmente tali fu- rono le insistenze dei proprietari, per le quali la maggiorità del consiglio sanitario mostrò qual- che favore , mentre dall' accennato autore si studiò di mostrare che non solo inconcusse erano le massime in prò della pubblica salute rac- chiuse nella sua relazione del 1825, ma le ma- lattie ancora del 1828 erano state per cosmo - telluriche condizioni comuni anche nei luoghi coltivati a secca cultura. Fu per me il più pos- sibilmente e replicate volte contrariata cotesta asserzione. Perlochè fu in fine risoluto, che per dar termine alla dibattuta questione s' inviasse colà un'apposita commissione sanitario-idraulica, dal cui rapporto la congregazione speciale avreb- be preso le definitive determinazioni. La nomina dei commissari fu di pienissima comune soddi- sfazione (1). Convintissimo io della loro integrità (1) Fu composta dal conte Domenico Paoli di Pesaro, del- l' ingegnere Gregorio Vecchi , e del dottoi' Giovanni Berti medico di Ma'-crata. 132 e profonda dottrina, ninna opposizione fu per me fatta nelT incarico dato al medico consigliere autore della relazione del 1825, perchè formu- lasse i quesiti da rimettersi alla commissione. Tre furono i quesiti , e formulati in modo come se nella ferniana provincia tuttora esistessero le ri- saie ; giacché nella mente del compilatore stava che se di fatto erano state le medesime sospese nel 1828, avrebbero dovuto sussistere di diritto. Una qualche modificazione al terzo quesito fu fatta per opera di monsignor segretario di con- sulta vice-presidente della congregazione specia- le. Vivissimo fu r impegno (d'altrontle ragione- vole ) del compilatore , acciò si rimettesse offi- ciaìmente alla commissione un esemplare della sua relazione (1825). Con dispaccio del dì 20 maggio 18i2 fu incaricata la commissione di portarsi sulla fer- mana provincia , ove fu nel dì 8 giugno. 1 tre quesiti furono: l.° Se le seminagioni di risi si siano effet- tuate con quei metodi e cautele che possano tu- telare C incolumità pubblica. 2.° Se sia duopo procedere a delle rettifica- zioni per meglio provvedere ai riguardi sanitari^ senza trascurare quelli dell' industria campestre 3.° Se in ragione della qualità dei fondi^ ove attualmente si eseguiscono le risaie^ abbiano a con- tinuarsi 0 ad inibirsi. Premessa dal!a commissione la descrizione idro-geognostica delie terre da esaminarsi, e ri- levate la loro montuosità , le anguste valli , la 133 ninna presenza di palude ad eccezione di una ri- stretta località umida ma non palustre, e faci- lissima a togliersi : e praticate inoltre molte al- tre diligenze , passa la commissione a scioglie- re il primo quesito. Riferisce primieramente che in seguito di reclami della popolazione , essendo stata dal governo sospesa la coltura dei risi fin dal 1828, si sono dalla commissione rinvenuti tut- ti i terreni coltivati con la florida cultura sec- ca di cereali , viti , alberi ec. Opina poi che sebbene con la massima scrupolosità fossero stati adoprati i metodi, di cui si fa parola nel primo quesito per la coltivazione dei risi, non mai immuni sarebbero andate le popolazioni dai mali inseparabili di cotesta cultura pei miasmi, per la umidità ec. adducendone le più convin- centi fisico-chimiche ragioni comprovate fatal- mente dall' esperienza. La risposta al secondo quesito si è, che il territorio in discorso non si trova atto all'umida coltivazione ; laonde formandosi una qualche risaia, sarebbe sempre a danno della pubblica incolumità ; quindi la commissione non può pro- porre rettificazione di sorta alcuna. Nel rispondere al terzo quesito la commis- sione dice che le cose già discorse valgono a scioglierlo. Imperocché nella continuazione o inibizione delle risaie, che nel quesito si sup- pongono esistenti , le considerazioni accennate che in siffatto caso avrebbero indotto la com- 13i missione all' inibizione , così del pari valgono a non convenite nella loro ripristinazione. Io non terrò intero proposito, dopo gli sciol- ti quesiti , di quanto analiticamente si ragio- na con la scorta dei fatti , e del più accurato esame locale. Imperocché si dimostra chiara- mente l'opposto di ciò che fu nel 1825 prati- cato e riferito , emergendone il necessario di- vieto di quelle umide e già sospese coltivazio- ni. Vuoisi quindi non omettere , in conferma di cotesta necessità inibitiva, alcun'altro periodo delia commissione con le stesse sue parole : - Noi possiamo con tutta sicurezza e coscienziosa- mente asserire , verificarsi in esse località quegli estremi e condizioni , cha valgono senza dubbio a rendere le risaie dannose alla pubblica salute^ ed a quella pubblica incolumità , su di che si è vo- luto richiedere il nostro avviso -. Assevera la commissione di non esistere la pendenza dei terreni a seconda della relazione del 1825; in conseguenza non fu sempre libe- ra r immissione ed emissione delle acque , le quali sovente mancarono pel bisogno delia ma- cinazione ; esprimesi poscia così: - Quindi per la fiducia verso noi riposta dalla congregazione speciale sanitaria non possiamo ammettere altro voto che il seguente. Che verun luogo della pro- vincia di Fermo è tale da permettere la cultura a riso , senza correre un sicuro rischio di rendere un paese^ ora florido quanto alla salute^ in un pae- se infetto da maV aria e da malattie , facendo- si coscienza di esser noi cagione che i morbi ab- 135 bìnno a porlarsi a desolare di nuovo quelle 'povere famiglie ecc. La commissione dimostra poi per l' espe- rienza dei fatti e per fisico-chimiche ragioni quan- to sia assurda la proposizione, che per l'esten- sione enorme del territorio 'fermano , rispetto alla ristrettissima e suddivisa cultura dei risi , le deleterie emanazioni sarebbero come 1 a 1730. Narra ancora che se colà esiste qualche appez- zamento di terra sabbioso , desso non è palu- stre e molto meno insalubre: inoltre se vogliasi riportare alla secca cultura, può facilmente con- seguirsi mercè delle colmate semplici, delle qua- li si parlò a lungo nella prima parte di questo ragionamento, li rapporto sottoscritto dai mem- bri della commissione è in data di Fermo 15 giugno 1842. Il quale rimesso alla congrega- zione speciale , dopo maturo esame , fu dalla medesima pienamente approvato. Chi avrebbe potuto immaginare che pre- cisamente in questi giorni si fossero portate a cielo la relazione del 1825 sulle discorse ri- saie , e quella del 1847 di cui si è trattato nella prima parte di questo ragionamento (1) ? Come mai un giortiale medico , il cui scopo tender debbe al miglioramento della pubblica e privata salute , fassi invece encomiatore di opere ma- nifestamente alla medesima contrarie ? E siffat- ti encomi in un giornale, ove cotanto si distin- (1) Bollettino flelle scienze mediche di' Bologna, febbraio e marzo 1851, pajj. 167-74. 136 glie e si distinse ancora per l' argomento in parola il Gamberini , che aveva pur fatto cenno della floridezza renduta alle Marche dopo l'abo-» lita coltura dei risi (1) ? Né ciò basta: imperocché nella prima parte di questo istorico" fisico ragionamento rilevasi manifestamente la generale avversione di valenti medici bolognesi alle umide colture. Di qualche peso inoltre mi sembrano le lettere del chiar. cav. Predieri , la prima delle quali accennasi nel citato ragionamento (2); e credo a propo- sito riprodurle in questo giornale. » Signor Cappello veneratissimo. Ho letto diligentemente la pregiatissima sua lettera infor- mativa della vertenza risguardante gli antecedenti diversi della commissione sanitario-idraulica per le risaie, e non mi ha recato sorpresa l'incertezza delle opinioni scientifiche del suo collega, le quali però sempre si atteggiano a quanto può al me- desimo tornare utile ed opportuno. Credo però intorno alla presente questione di aver conosciuto anche per mezzo d' informazioni pervenutemi d' altra parte, che al conseguimento della carica di presidente della commissione abbiano coope- rato grandemente diversi possidenti delle risaie che fecero istanza per tale coltivazione, avendo il suo collega esternato il parere favorevole alle medesime per quelle località di naturali umide (1) Bolleilino Helle scienze meiliche cil., novembre e dicem- bre 1846 p. 412. (2) Igiene pubblica p.ig. 26, e Giornale arcadico della nuova serie toro. VH p»ó "^2 137 coltivazioni , e nuli' ostante provvedute nell' in- torno di molti abitatori. Quindi è che nello stato attuale della questione della utilità o danno delle risaie sulla salute umana prevalendo appo alcuni che sostengono essere le risaie utili dove non si possa fare coltivazione asciutta, sarebbe bene di- struggere gli argomenti di tale opinione, onde non rimanere sopravanzati dalle influenze e dal nu- mero dei possessori che favorirono l'attuale pre- sidente della commissione. Del resto ella sarà sempre da me e da tutti i buoni medici bolognesi sostenuta come uomo di onore e di profondo me- dico sapere, né potranno in appresso mancare al- tre prove governative che per tale lo addimostri- no. Li amici miei Vanni, Calori, Breventani, Cri- stofori, Paolini e Daveri m' incaricarono di salu- tarla e riverirla cordialmente; assicurandola di essere sempre a' suoi comandamenti, mentre con tutta la stima ed affetto me le dichiaro, » Bologna 13 settembre 1847. Suo drno amico eservitore Paolo Predieri. » Da quanto in questa lettera si esprime osservasi essersi trascorso al di là nell'idraulico- sanitario accesso del 1847, siccome chiaramente è dimostrato nel primo ragionamento (1). Seconda lettera. » Carissimo signor Cappel- lo. Bologna 16 gennaro 1848. Ricevei il suo opuscolo sulle dilucidazioni alla storia del che- ti) Ivi, Pubblica Igiene pag. 6, liaea 8. in vece delle parole un nulla, leggasi assai peggiori : la slessa correzione Dell'Aicadico tona. 7 della nuova serie pag. 72 linea 8. 138 Jera di Roma, e ne la ringrazio grandemente i avendo in esse conosciuto il suo grande sapere in fatto di pubblica salute , e manifestamente* appreso quanto vantaggio ella abbia procurato alla città di Roma, e quanto allo stato se esat- tamente si fossero eseguite le sue disposizioni- Per me non ho alcun dubbio sulla maniera di agire dell' altro suo chiarissimo collega in quella come in altre emergenze. Vidi quel suo collega in Bologna, e precisamente mi trovai in un col- loquio in casa del professor Medici: tesseva egli elogi di quelli che potevano sostenere le sue mire. Quanto mai durerà il regno dei tristi ma- scherato da santo zelo ? Sarebbe utile che gli uomini sapessero distinguere ed esser distinti : .cosi più presto si otterrebbe il bene pubblico. » Sono a pregarla di ricevere per mezzo del latore alcuni libri che io amerei fossero diretti al cav. De-Renzi di Napoli , il quale li attende ben presto, dovendo servire alla sua storia della medicina fra noi nel decorso secolo, essendo notizie inedite sulle opere e la vita di Bellini, Redi, e Malpighi desunte da autografi dei me- desimi. So che ella ha modo di spedirglieli , e mi sono presa la libertà di prevalermene onde favorire l' amico comune , al quale già scrissi da poco. Mi comandi ove valgo , e mi creda sempre il suo affiTio amico Paolo Predieri ». Molte lodi si prodigano allo stesso autore per r opera intitolata Exercitalio palhologica. E lodi diconsi date per la detta opera da un Frank senza dirne le critiche, oltre la di lui sorpresa 139 pel silenzio in quell' articolo verso di me ser- bato (1): e di gran lunga maggiore sarebbe sta- ta la sorpresa , se per l'immatura sua morte non fu al giorno non solo per quanto di sinistro era antecedentemente avvenuto, ma eziandio per la stima e cordiale amicizia professatami da que- sto celebratissimo medico, siccome scorgesi dal seguente autografo. » Al chiarissimo sig. professor Cappello membro del supremo consiglio medico di sa- nità a Roma. » Como 25 giugno 1840. Carissimo amico. Mi trovo da tre settimane stabilito nella mia villa, e dopo aver dato pascolo agli affari più pressanti , non tardo un momento a scrivervi per ringraziar- vi anche in nome delle mie compagne da viaggio delle tante e tante prove di bontà e di amicizia che ci avete date durante il nostro soggiorno a Roma (Le donne, di cui si parla erano la moglie e figliastra). Mi riservo di scrivere al sig. professor Rucci, quando potrò annunziargli l'arrivo della cassa dei libri, della spedizione della quale egli ha avuto la bontà d'incaricarsi. Essa non è anco- ra giunta. Al sig. professor Raroni pregovi di di- re che sono stato contentissimo di Rologna, ove i suoi colleghi mi colmarono di gentilezze. Se egli ha occasione di scrivere all'uno o l'altro di essi , vorrei che manifestasse loro la mia gratitudine : ciò che mi riservo per altro di fare direttamente. Ho voluto pagare prima i debiti più antichi, ed (1) Rinnovata biblioteca italiana toni. 1 pag. 105 Miliiiio. 140 uno dei più grandi verso di voi, caro amico. Desi- dero che mi diate presto nuove di voi e del vostro signor figlio sacerdote che saluto distintamente. Non vi posso dir nulla d'interessante della nostra Lombardia. Sembra che gli scienziati di questa parte dell'Italia non abbiano gran voglia di an- dare al congresso di Torino. Mi trovo nello stes- so caso, malgrado vari e gentili inviti. E neces- sario di riposarsi un poco dopo un viaggio di no- ve mesi ed alcuni giorni, e di riprendere i lavori troppo lungo tempo abbandonati. Mi affido a voi per aver le nuove di ciò che passa nella repub- blica letteraria-medica della vostre parti, giacché non ho grande opinione di qualche giornale, per- chè non sembra di piena soddisfazione medica. » Se mai o voi od un vostro amico vengono a Milano ricordatevi che avete nella vicina Como un uomo che brama avere delle occasioni onde pro- varvi la sua riconoscenza e la sincera amicizia colla quale si protesta. Vostro a timo servo ed amico Giuseppe Frank. ». Era già designato doversi da me esporre questo secondo ragionamento sulle culture umide nella settima sessione (27 giugno 1851) della pontificia accademia de'nuovi lincèi, quando per- venutomi pochi giorni prima il citato bollettino delle scienze mediche (febbraio e marzo 1854) mi vidi obbligato accennare di volo quanto leggesi negli atti della suddetta sessione pag. 505,7. Im- perocché da lunga pezza gli officiali documenti non solo erano stati avvertiti in diversi medici giornali, ma renduti ancora di pubblica ragione 141 con opportune opere (1). Soggiungevo inoltre avanti gl'illustri miei coileghi lincei, che gli otlì- ciali ed originali documenti congiunti ad altri di svariato scientifico argomento sarebbonsi in quei di depositati nella biblioteca Casanatense. Esti- mai poscia ritenerli presso di me, riunendoli in un grosso volume in 4." per mostrarli all'uopo a chiunque venisse il destro di osservarli (2): mentre rileverebbesi chiaramente la precisa esattezza colla quale furono pubblicati. Prima di dar fine a questa seconda parte del fisico-storico ragionamento sulle culture umi- de, vuoisi conoscere che da Viterbo si provò e ri- provò negli ultimi tempi di ripristinare risaie: e la congregazione speciale in diverse tornate ri- petè sempre la giusta e solenne negativa. DELEGAZIONE DI CIVITAVECCHIA Ma nel 1847 all'improvviso pervennero da più parti fortissimi reclami alla congregazione (1) Gioiuale arcadico lom. 74 1838 pag. 31. Bollellirio delle scienze mediche di Bologna e Filiatre Sebezio di Napoli 1837 e 1838. Annali universaii'di medicina di Milano voi. 87 pag. 597. Giorn. arcad. Ioni. 78 pHg. 180- Bollettino delle scienze mediche aprile 1849, pag. 280. Annidi universali cit. p 570 voi 91. Fi- liatre Sebezio maggio 1840. Discorso sopra un parziale avvailatnen- to ecc. preceduto da un breve cenno storico sul cholera di Ruma letto all'accademia dei Lincei nel di 30 settembre 1838, Aquila tipografia Grassi 1838. Dilucidazioni storiche di Agostino Cappello sul cholera di Roma del 1837. Roma 1847 pei tipi Perego Salvioni, e memorie istoriche citate. (2) Altrettanto ho imposto che si praticasse da' miei eredi , cui in luogo di dovizie, sarà di un qualche conforto cotesta raccolta di officiali ed originali documenti relativi al loro svenUiralo genitore. 142 speciale per una risaia arbitrariamente praticata nel territorio di Ceri. La minorità del consiglio opinò per l' immediata distruzione , ma si con- chiuse che si tollerasse fino al raccolto; uè fu atteso il parere di alcuni consiglieri che la mes- se dovesse cadere in proprietà del fisco. Potè solo conseguirsi che in appresso non si rinno- vasse r insaluberrima cultura. Difatti oltre un feditissimo odore che spandevasi più miglia lungi dalla risaia, e per lo quale taluni presso la me- desima caddero asfissiati^ le malattie si svolsero in più gran numero e con la massima intensità e pericolo, non mai più colà per lo innanzi osser- vato con sì luttuoso apparato. Si avverava quin- di la sentenza del Savi^ che se tollerar si doves- sero le risaie in luoghi settentrionali , dovreb- bero assolutamente vietarsi in località meridio- nali. Io stesso dovetti curare il sig. Luigi Bo- lasco, affittuario di campagna in quel territorio di febbre algida perniciosa , dopo la quale per un anno soggiacque a frequenti recidive di feb- bri intermittenti, non mai più in siffatta guisa da esso sofferte: Dal fin qui detto in -questa seconda parte del ragionamento emerge; 1.° Che a differenza del bolognese territo- rio sono più ammissibifi le risaie in quei di Fer- rara e di Ravenna , nei quali ponno le risaie ristringersi in luoghi deserti, d' infelicissima con- dizione idraulica , e lontani dall' abitato. 2.° Che le lodi tribuite alla commissione provinciale sanitaria di Bologna , debbuusi an- 143 Cora , per alcuni giudiziosi rilievi , a quelle di Ferrara e di Ravenna. 3." Ciò nulla ostante colà pure si commi- sero abusi mandati a vuoto dal supremo magi- strato sanitario. 4.° Abusi del pari si sono rilevati nella le- gazione di Urbino e Pesaro riparati dalla con- gregazione speciale. 5/ Praticate ogni sorta di brighe per ri- stabilire risaie riuscite oltremodo nocevoli nel- r agro fermano , dopo lunghi e rinnovati dibat- timenti la congregazione speciale sanitaria no- minò una commissione di valenti periti. I quali andati sulla faccia del luogo conchiusero nella loro dotta relazione, che quel ristabilimento sa- rebbe stato cagione che i morbi tornassero a desolare di nuovo le povere famiglie. Perlochè il supremo magistrato sanitario vietò ogni qua- lunque idea di ripristinamento di risaia in quel territorio. 6.° Quindi sempre più riprovevole si pa- lesa la relazione del 1825 intorno le risaie della provincia di Fermo, come si è provato nel pri- mo ragionamento per quella di Bologna del 1847, essendosi entrambe oggidì con istupore non lieve colmate di elogi. 7.° Vigile perciò, siccome lo è, e lo sarà mai sempre , la congregazione speciale rimo- verà qualunque cagione che tenda a nuocere la pubblica e privata incolumità , essendo co- testa la sua nobilissima ed utilissima istituzione. A. Cappello 144 DegV inni dd breviario romano e delle principali loro traduzioni italiane. Ragionamento di mon- signor Francesco de' conti Fabi Montani. Al chiarissimo signor Francesco Spada V AUTORE N, el mettere in luce il ragionamento recitato neir accademia tiberina il 20 di aprile del pas- sato anno 1857 ho creduto di offerirlo a voi , sì per darvi un tenue contrassegno della stima in che tengo voi e le vostre letterarie cose, sì perchè in esso onorevolmente ricordasi un inti- missimo nostro. 11 quale assai valente e notis- simo poeta seppe non ha guari ornare di sì bella veste italiana gli inni del breviario romano da disgradarne chiunque volesse venirgli d'appres- so. Allorché udiste recitare il discorso vi com- piaceste degnarlo di molta lode: ora che l'avrete sott' occhio, e diviene assoluta vostra proprietà, piacciavi di compatirlo, essendo, come diceva Tul- lio nel libro nono delle sue familiari a Dolabella, munusculum levidense crasso filo. L'arpinate senza dubbio scherzava: ma io, sebben con vergogna, debbo confessare che dico il vero. Ad ogni modo mi avrà giovalo per dare al Belli e a voi una pubblica significazione di amicizia e di stima. Roma 20 di giugno 1858. 145 Oe non errò , accademici ed uditori onoran- di , chi definì la poesia una facoltà di concepi- re r idea del bello e di renderlo ad altri sen- sibile , devesi senza dubbio dedurne , avere Ih lirica preceduto ogni altro genere di metrico com- ponimento. Essa è infatti quell'enfatico linguag- gio, con cui si appalesano le più vive impressioni, da cui tocca rimane la nostra fantasia. Che se cantati furono quegli eroi, che colla forza del- l' ingegno e del corpo si resero verace obbiet- to di maraviglia alle genti , non poterono esse al certo rimanersi silenziose ed indifferenti alla gloria di Colui che tutto muove. Quindi la più splendida forma della lirica dovette essere senza meno l' inno consecrato a magnificare la poten- za de' numi e ad eternare le gesto de' grandi. I cantici di Moisè , i quali di gran lunga pre- cedono quegli stessi di Omero, ci offrono esem- pi di quegi' inni , che troviamo ab antico usati fra gli assiri , egizi , fenici , etrusci , umbri , romani, e per dir tutto in poco in ogni nazione quanto piìi si voglia rimota e selvaggia. Come Lino , Museo , Pindaro ed Omero fra' greci , Moisè , Isaia , Ezechia , Abacuch e Davidde fu- rono celebra tissi mi fra gli ebrei , così ancor fra i cristiani furono innografi assai valenti, ed il ragionare de' principali sarebbe arduo e pro- lisso lavoro. Sì lunga è la serie di quei poeti, che dal siriaco santo Efrem all' insubre Man- zoni cantarono del Redentore , degli angeli e de' santi. Restringerò adunque il mio ragionare G.A.T.CLV. 10 146 a que soli inni latini , che sono più comuni nella chiesa , vale a dire a quelli del breviario romano, usato, come voi ben sapete, nel mag- gior numero delle chiese di occidente. Dirò in primo luogo da chi venissero composti tali in- ni , quando incominciassero ad introdursi nal breviario romano, quali correziani vi facessero i sommi pontefici , e finalmente toccherò delle principali loro versioni italiane. L' argomento è assai più vasto di quello che vi potrebbe a pri- mo aspetto sembrare, e per servire alla richie- sta brevità mi studierò di sfiorare a guisa di ape, anziché di trattare le cose, al quale uopo tutto richiedo, o signori, il cortese vostro compati- mento. Che fin dal principio dell'era cristiana nel- le congreghe de' fedeli si cantassero sacri inni, molti ecclesiastici monumenti ce lo affermano. L' apostolo nelle sue lettere esorla i colossesi e gli efesini (1) ad istruirsi, e a vicendevol- volmente edificarsi con salmi , con inni e con cantici spirituali. Filone, parlando de' terapeuti di Alessandria, appellati cristiani da tutti gl'i- storici, ci fa sapere, che non vacavano soltanto alla contemplazione delle cose divine, ma che componevano eziandio inni, e li cantavano per magnificare il Signore. Ensebio di Cesarea, vo- lendo confutare l' eresia degli ariani , appella alla testimonianza di quegl' inni , in cui Cristo è chiamato Verbo di Dio. Finalmente chi non 0) Coloss. Ili 16 Ephes V 19. U7 ha letto , come Plinio nella famosa lettera a Traiano, in cui tutti gli manifesta gli usi de' cri- stiani, gli dica eziandio essere soliti in giorni sta- tuiti di riunirsi insieme pria che spunti il giorno, e cantare un carme a Cristo, come a loro Dio (lì? Pretendesi da alcuni, non posso dissimular- lo, che le sopraddette testimonianze risguardino, strettamente parlando , non già inni propri e dai cristiani composti , ma quegli bensì dell'an- tico patto, co' quali addimostravasi la divinità del Redentore. A confutare siffatta sentenza re- puto più che bastevole 1' autorità non al certo sospetta dall' inglese Binghamo , il quale nelle sue antichità cristiane sostiene a tutta gola es- sere non già ebraici, ma cristiani, quegl' inni, di cui dagl'istorici ecclesiastici si fa menzione ne'pri- mi tre secoli della chiesa. Checche però sia di tale contraversia, con- vengono tutti gli eruditi, che l'uso e la frequenza degl' inni si propagasse nella chiesa latina tra il finire del terzo e il cominciare del secolo quarto. Il primo innografo latino , di cui siaci pervenuto il nome , è santo Ilario vescovo di Poitiers nelle Gallio. Quasi contemporaneamen- te lo imitava il grande Ambrogio, il quale cer- cava colla soavità del canto mitigare lo sdegno di Giustina Augusta, madre del giovanetto Va- lentiniano , favoreggiatrice sfacciata dell'arianis- mo , ed astuta persecutrice di quel santissimo (1) Stato die ante lucem convenire, carmenque ChrisLo, quasi Deo, dlceie secum invicem. •- Epist. lib. X. 97. 1/t8 vescovo (1). Cominciarono in quel torno anco nelle chiese di occidente a cantarsi ne'divini ofii- zi gl'inni, come praticavasi già in quelle di orien- te: e ne divenne a poco a poco generale l'usanza. Se non che avendo anche gli ariani abusalo di cotal mezzo per propagare i loro errori, attese le licenze alla poesia nel verseggiare concedute, i vescovi si misero in vedetta, e per sicurarsene ap- pieno nel primo concilio tenuto in Braga capitale della Galizia nel 563 si proibì nelle chiese il canto di qualsiasi inno , che tolto non fosse dalle sa- cre scritture (2). Varcati appena cento anni i concili di Tours , di Toledo, e di altre diocesi rivocarono il divieto , e permisero solo il canto di quegl'inni , che fossero composti da uomini insigni per santità e per dottrina. E siccome fra questi primeggiava santo Ambrogio (3), né mai nella chiesa milanese eransi tralasciati gl'inni da lui composti, così tornarono novellamente a cantarsi. Se non che tra il sesto e il settimo secolo nacque il tanto naturai desiderio nelle chiese di avere inni propri, ed il servile gregge degl'imi- tatori gli sciorinò ovunque eleganti o no, buoni o cattivi, secondo che concedeva l' ingegno e la pietà dello scrittore. Di un genere tutto parti" ((.) Snnl' Agostino nelle sue confessioni lib. IX cap. 7. (2) Eccone le genuine parole: » Ut extra psalraos vel cano- nicarum scripluraruuì veieris et novi testamenti uiliil poetice coni- positum in ecclesia psall^itur: siculi et sancii cancnes praecipiunt » Can. XXXII. (5) Gì' inni di santo Ambrogio ciiiamavansi per antonomasia ambrosianum^ 149 colait' sono quelli, che nacquero nel medio evo, quando cioè in tempi di tanto amor patrio, di tanta ferocia, di tanta vita politica, ponevasi in cima di ogni cosa la religione , né di rado fa- cevasi con malintesa pietà servire alla maldi- cenza e alla vendetta. I cardinali Bona e Tommasi, i gesuiti Aze- vedo, Zaccaria ed A revaio tra i molti parlarono più a lungo degl'inni ecclesiastici, riunendo ne'lo- ro dotti volumi quanto avevano scritto gli anti- chi. Infatti li raccolsero con infinite cure, né senza moltissimo tempo da lezionari , anti- fonari , ottava ri e da quanti libri corali mano- scritti o stampati poterono consultare e aver nelle mani. Mi mostrerei ignaro di troppo di quegli studi, i quali anche su questo argomento si fanno oggidì dalle colte nazioni, ed in ispe- cie nella Germanica e nella Francia, se non ac- ceimassi almeno alcune delle loro principali raccolte comparse alla luce. La prima può dirsi quella, che pubblicò in Copenhaghen il pro- fessore Bjorn sono ornai quarant' anni : non tutti li raccolse, ma ne voile fare una giudi- ziosissima scelta , che venne assai lodata. La seconda é del dottore Francesco Giuseppe Mo- ne , prefetto dell' archivio di Charlrue , stam- pata in quattro volumi in 8 a Friburgo. Sono gì' inni divisi in tre parti, in lode di Dio cioè, della Vergine beatissima e de'santi, ed arricchiti di copiose note. Alquanto piti estesa , perchè compresa in cinque volumi, è la terza, cioè il tesoro innologico, o collezione degl' inni, de'can- 150 tici 5 e delle seguenze latine usilate dal terzo secolo della chiesa al mille e cinquecento. Fu posta in luce in Lipsia dal dottore Erman- no Adalberto Daniel , membro dell' accademia teologico-istorico della medesima città. Anche questa collezione è ricca di varianti, di biogra- fiche ed istoriche notizie , di commenti, d' in- dici esattissimi , e sovra le due sopraddette pri- meggia per un glossario assai utile alla piena in- telligenza degl'inni ecclesiastici de'secoli di mez- zo. Basterà per la Francia ricordare quella del Migne sì benemerito per le importantissime col- lezioni de' padri, de' commentatori della sacra scrittura , della teologia e di altri libri eccle- siastici (i). Sono quattro volumi, portano il gene- (1) Hymni veleruna poetarum cliristianoium ecclesiae latìoae selecti : textum ad oplimarum editionuin fidem exhibuit , et prae- l'alione, nolis varioi'uni, adiectisque praecipuis variautibus lectioni- bus illustravit B. A. Bjorn. Hufniae 1818 in 8. Hytniii latiai medii aevi e codicibus mss. edidit et adno- lalionibus illusiravii Fr. Joseph Mone Carlruceiisis, Lipsiae Friburgi Brisgoviae 1853 in 8. Thesaurus hyninologicus, sive hymnorum , canticorum , se- queiitiaruiu circa auiiuni 1500 usitalaruin collectio amplissima. Car- mina collcgit, dpparatu critico ornavit, veteruni ititcrpretum notas selectas suasque adiecii Ermannus Albertus Driniel , philosophiac doclor, socielalis theologicae - liistoriae lipsieusis sodalis. Lipsiae 1856-56 iu 8 volum. V. Jìoijo esd i volumi XIX, LIX, LX, LXXIX. Per verità 1' illustre editore non si propose di riprodurre soltanto gì' inni, ma come dice lo stesso titolo, le poesie cristiane dal IV al IX secolo, Iraendole dalle migliori e più accreditale edizioni, uè tralasciando di unirvi i più pregiati commenti. Non sarà inutile accennare quanto vi si trova. Il primo abbraccia tutte le poesie del IV secolo, vale a dire di Giuvencio, Sedulio, Oplaziano, Severo, Faltonia, Proba ed Ausonio, Il secondo quelle di Gelasio papa, Avito, Faustino, Gio- vanni diacono. Giuliano Pomeno, due anonimi , ed una parte di Aurelio Prudenzio. Nel terzo tomo sono tutte le altre di Prudenzio 151 rico titolo di Poelae. christìani veteres^ e sono for- niti di copiosissime note. A serbarmi però quanto più si possa attacca- to all'assunto tema, e ragionar solo, come mi sono proposto, degl' inni del breviario romano, si di- vidono essi, secondo che insegna il Tommasi, in tre classi: Hymni de anni circulo, ossia inni per le varie festività che di nostro Signore occor- rono neir anno , vale a dire Natale , Circonci- sione, Pasqua di resurrezione ec: De nalalitiis sanctorum^ cioè inni per le feste de' santi; et De quotidianis , vale a dire i feriali. Riguardo poi ai loro autori mi sembra che potrebbero co- modamente quest' inni stessi ripartirsi in due classi. Appartengono alla prima classe, la quale giunge fino al 1300, gl'inni composti da sant'Ila- rio e da sant'Ambrogio già ricordati, da Pruden- zio , da san Paolino patriarca di Aquileia , da Celio Sedulio , da san Damaso, da Elpidia mo- glie di Severino Boezio , da san Gregorio ma- gno , dal monaco Alcuino , da Teodulo ve- scovo orleanense , da Paolo Diacono , da Ve- nanzio Fortunato, da Rabano Mauro , da san Bernardo e dall' aquinate (1). Sono della se- e di Draconzio toletano j fìnalmeut^ nel quarto leggonsi quelle di Venanzio Fortunato vescovo di Poitiers, Det'ensore monaco, ILvaii- zio abate, Arculfo, Adani^iio, Crescoaio vescovo affricauo, ed altri anofiinii di quel tempo. Questo sacro parnaso, quantunque .isshÌ al disotto del profano latino, per ciò die risguarda 1' elei>aaza e lo stile , nondimeno è assai pregevole per la qualità degli argo- menti e per quella veneranda semplicità, anzi sprezzatura, che il più delle volte assai tocca il cuore. (1) Vedi l'appendice, in cui si noininano gli autori de' ^>rin- cipali iao). 152 {•onda classe il Flaminio, rAiUoniaiio, il Bel- larmino , Urbano YIII , il Lorenzini , e quegli ai! ri scrittori , che alla loro volta gli dettarono ad imitazione degli antichi , per quanto con- sentire potevano la ragione poetica e il buon gusto. Chiudonsi tutti colla dossologia all'augu- stissima Triade (1) secondo che si usa ne'salmi, con questa differenza soltanto , che negl' inni conviene adattarla al metro, ed il concetto viene espresso secondo la maggiore o minore valentia del poeta. Le specie poi de' metri possono con faci- lità ridursi ai seguenti, cioè I giambici di me- tri, Il giambici trimetri detti pure senari. III saf- fici coll'adonio in fine, IV trocaici dimetri, V tro- caici da Servio Tullio chiamati etifallici, VI ascle- piadei coir adonio in fine. È uopo peraltro notare che alcuni innografi, specialmente de'tem- pi di mezzo , non si diedero grande cura della prosodia , e che ad uno specioso concetto , ad una divota parola sagrificarono bene spesso ogni altra cosa. Apertamente lo dice san Bernardo, il quale in una lettera al monaco Guidone gli confessa di avere ne' suoi inni seguito più la (1) 11 Dome di dossologia, àa do xa gloria, fu dai greci dato »11' inno angelico Gloria in excelsis Deo ■ Ne' loro libri lilnrgici distinguono la grande dalla piccola dossologia, la quale è il Gloriò, patri et filio eie. Quattro sono presso loro le formole della pic- cola dossologia Quella che noi adoperiamo fu sempre in uso nelle chiese di occidente, essendo state le altre tre composte dagli nriani verso l'anno 341. Non potrebbe con precisione assegnarsi il tem- po, in cui ebbe origine colai modo di lodare il Sigiiore. Il pontefice san Oamaso ordinò, che si aggiungesse a quei pochi inni, in cui mancava. 153 sua divozione , che le regole di Aristotile e di Fiacco, Eppure, ad onta di così spesse violazioni di regole e di buon gusto, alcuni inni sacri spirano tanta pietà e soavità di affetto da rime- ritar con usura questa loro negligenza. Agi' inni vanno aggiunte pure alcune se- quenze , sorte di prosa rimata , detta ancora iiibilatio^ perchè cantata a significazione di giu- bilo. Nella messa ne abbiamo varie : ma nel breviario romano evvi il solo Slabal mater^ sep- pure può chiamarsi sequenza o non pur inno rimato. I claustrali hanno nelle messe e negli uffìzi maggior numero di sequenze , così so- no quelle di san Romualdo , di sant' Agosti- no ec. (1). Ma quando, mi addimanderete voi, incomin- ciaronsi gì' inni a recitare nel breviario romano? Non convengono su ciò gì' istorici : ma V opi- nione seguita dai più dotti ed eruditi si è, che s' introducessero nella chiesa romana verso il secolo XII, quando cioè Innocenzo III incomin- ciò ad usare nel patriarchio lateranense il bie- fl) Le sequenze differiscono (l.igl' inni per essere nna si)''cie eli prosa rimata. INe incominciò la moda dopo la metà del secolo Vili, 3e ne composero alcune assai curiose e satiriche; si adotta- rono pure nell'offlzio e nella messa. Neil' antica abbadia di Ju:iiie- ges in Francia eravi un antifonario riboccante di tali ritmi, di cui a torto dicevasi antere Noterò .-ihate di san Gallo vissuto nel se- colo nono. La superiorità della poesia ilali^itia la fece dopo il se- colo XV andare a poco a poco in disuso. Chi volesse ogjjidi ri- chiamarle in vigore polrebbesi, come dice Tullio, paragonare a co- loro, i quali dopo la invenzione del grano volessero continuare a cibarsi di t;hiande. 154 \iario de' benedettini (1), ossia quell'offizio più compendiato e breve, che i monaci dicevano allorquando viaggiavano , o trovavansi lontani dai propri monasteri. Infatti questo stesso bre- viario il medesimo Innocenzo volle che dices- sero i frati minori , i quali allora cominciavano a sorgere , e tutto il clero secolare incardinato alle varie chiese di Roma. Se non che per or- dine di Gregorio IX frate Aimone, o Gaimone, ministro generale de' minori, avendo composto un novello offizio, lasciandovi però lutti gì' in- ni, fu questo sostituto all' altro ordinato, come dissi, da Innocenzo III. Né qui sarà fuor di luogo r avvertire, che a memoria dell' antichis-' simo rito romano affatto privo d' inni, questi non si leggono oggidì negli offizi detti delle te- nebre^ e in quelli della settimana in albis. An- che il cardinale Francesco de Quinones (2) 11 (1) Come ognun sa, antichissima fu nella cliiesa la consiielu- fline di pregare di giorno e di notte in va:ie ore stabilite. San Pietro e san Giovanni ascendevano nel tempio ad orare all' ora di nona ( Actor. V). Dicesi al cap. X che san Pietro ascendit in superiora per orare circa l'ora sesta. Al cap. X degli stessi atti apostolici si narra che Paulo e Sila pregando nella mezzanotte loda- vano il signore. Noto è il versetto del salmo 118 di Davidde: 5e- plies in die laudeni dixi libi, il quale ha dato norma all' offizio divi'JO. Questo è certamente anteriore al secolo IV, e lo dimostra il vedersene fatta menzione nelle costituzioni apostoliche. In ap- presso non fu se non modificato e ridotto in miglior forma ag- giuntavi assai più tardi la compieta. I monaci, come anche oggidì, hanno offizi assai più lunghi de' preti. (2) Francesco De Angelis de conti di Luna, conosciuto co- muneniente col nome di Quinones, per avere ereditalo i beni di quella nobile famiglia spagnuola , fu confessore e consigliere di Carlo V, da cui olleune la liberazione di Clemente VII. Il bre- 155 conservò nel breviario ordinatogli da Paolo III, e che come troppo breve, dopo circa treni' anni dacché era in uso, fu soppresso dal pontefice san Pio V (1), il quale volle che gli ecclesiastici ritornassero alla recita del breviario come aveva voluto Gregorio IX. Urbano Vili, che pri ma di ascendere al papato era in voce di poeta italiano e latino , e molto vi pretendeva, si mise di proposito al- le riforma degl' inni del breviario. Stabilì a tal fine una congregazione presieduta dal car- dinale Gaetano , e composta fra gli altri di monsignor Tigrimio vescovo di Assisi segre- tario de' riti, e di alcuni consultori della stes- sa congregazione, fra cui primeggiavano il Ga- vanto, r Alciato, il Waddingo ^ ed altri insigni viario era composto io modo, che nel corso dell'anno si venisse a leggere qunsi per iiilero la sacra scrittura, e nella sattimana tulio salterio. Tale ofllzio aveva uti solo notturno; la pi ima lezione era del veccliio testamento , la seconda del nuovo , la terza l'omelia, o la leggenda del santo da lui abbreviata. Tolse via molte aii- til'one , responsori , I' offizio della beatissima vergine, e variò l'or- dine della sacra scrittura. Lasciò solo dodici inni da dirsi iitli'oP- ficio della domenica e della feria. Mori il Qninones in Veroli nel 1540 nel palazzo che ivi erasi f.ibI)ricato, ed il cadavere portalo in Ro- ma fu so'terralo nella chiesa dfil suo titolo , santa Croce in Gcnija- lemme , ove erasi vivendo preparato il sepolcro. Veggasi la « Let- tera lilurgico-biografica del eh. ab Francesco Cancellieri intoiuo al breviario del cardinale Quinones diretta al canonico Antonio Argenti ec. Roma stamperia De Romanis 1 823, eslratla dall'EfFeme- ridi letterarie di Roma ». (1) Pio IV ueir ordinare la continuazione del concilio di Trento aveva a que'padri commessa la revisione del breviario. Alla sessione XXV de reformatione il concilio deputò alcuni .di essi; ma terminato il concilio senz'essersi compiuta l'opera, Pio IV li chiamò io Roma. Morto però dopo breve tempo il pontefice tal gloria fu riservata al successore. 15(ì teologi. L'incarico però di correggere o mo- dificare gì' inni fu dato a tre gesuiti assai va- lenti neir idioma latino, Famiano Strada, Tar- quinio Galluzzi e Girolamo Petrucci , i quali si misero con tutto 1' animo al lavoro. Non emen- darono meno di 900 errori di sillabe , e can- giarono il principio a più di trenta inni, [ascian- do intatti per venerazione de' loro autori 1' Ave maris stella (1) e gl'inni dell' officio del santis- simo sagramento. La congregazione dopo ma- turo esame approvò il lavoro , il pontefice lo sanzionò , e tutte le chiese che servivansi del breviario romano adottarono le fatte cor- rezioni, ad eccezione del clero vaticano e di qual- che altro che, come i salmi, così continuarono a cantare gli antichi inni. Anche Benedetto XIV divisava in una al breviario di riformarne gì' inni, e creò nel 1744 una congregazione deputata a rivedere materie di (1) Alcuni allribuiscoiio qiiest' inuo a san Bernardo , altri e Venanzio Fortunato. Passano circa olio secoli fra 1' nno è l'altro. Le ragioni pei secondo , cioè per Fortunato , sarebbero 1' essere ]' autore più vicino al tempo in cui si stahil.rono gl'inni e l'averne falli anche altri per la festa di Maria. In questa correzione si adot- tò 1' interpunzione della volgata, furono collazionate sugli antichi uianoscrilti le omelie de' padri , e si usò ogni maggior diligenza , come raccogliesi pur anco dalla bolla di Urbano Vili de' 25 gen- naio 1652 DU'inam psalmodiain. INon sarà fuor di luogo l'aggiungere, che in appresso ven- nero gì' inni del breviario romano ricorretti e niudificali nella pro- Sodia e nelle voci barbare dal p- Francesco Claire della cmnpa- gnia di Gesù, il quale di suo talento pubblicò l'opera con questo ti- tolo « Hymiii eccleiiasiici uovo cultu adornati a iVI. Claire societ. lesti. Parisiis 1672 ». Non furono però le sue mende adottate dalla chiesa. Anche il celebre Flaminio aveva fiuto altrettanto di 157 liturgie e riti ecclesiastici. Si componeva di car- dinali e prelati (ì) : durò vari anni si fecero molti studi : ma fu poi sciolta , e si vide l' in- conveniente che produrrebbe il dover obbligare tutto il clero a prendere i nuovi breviari. Pio VI, che assai piacevasi di seguire le orme del Lambertini, di cui era stato camerie- re segreto e particolar segretario , vagheggiò pur esso la riforma del breviario , ma per la malvagità de' tempi non la potè eseguire. An- che ai giorni nostri aveva 1' augusto Pio IX a tal fine nel 1856 creata una speciale congrega- zione , composta del cardinale Patrizi prefetto della sacra congregazione di riti, e di vari pre- lati, ecclesiastici e regolari (2); ma adempiutosi a quanto voleva sapere, venne dallo stesso pon- tefice neir anno appresso disciolta. Accennate brevemente queste cose intorno al breviario romano e a' suoi inni, facciam pas- saggio alle loro versioni italiane. Incominciata a sorgere quella nobilissima lingua, che in pria volgare e dipoi a tutta ragione si chiamò ita- liana, ed il popolo divezzatosi a poco a poco (1) Vi appartennero fra gli altii i cardinali Valenti, Monti, Tamburini, Besozzi, Galli, e i monsignori Niccolò Antnnellij Do- tnenicu Giorgi, Lodovico Vaienti ec. ec. (2) Erano fra i prelati i ^monsignori Gapalti segretario della congregazione de' riti, Tizzani arcivescovo di Nisibi, Frattini pro- motore della fede e Martinucci segretario della cerimoniale • fra i regolari i padri abati Gueranger benedettino cassinese, e Stroz- zi de' canonici regolari lateranensi , i padri maestri Tosa dell'or- dine de' predicatori rettore del pontificio collegio Pio e Ricca del- l'ordine romitano di santo Agostino. 158 dall' idioma latino, che ornai più non intende- va, anco in questa nuova lingua vennero scritti inni ad onore di Dio e de' suoi santi. Si chia- mavano laudi spirituali, se ne dilettavano i così detti santesi , si cantavano nel secolo XIII tra i disciplinati e quelle altre fraternità, che furono principalissimo mezzo ad attutire le ire e gli sdegni di parte, creandosi sotto quell' irto sac- co amistà assai più durevoli di quelle stesse del sangue. Ne fecero particolare uso i po- veri gesuati, i quali con tali canti scorrendo pae- si e città infiammavano le anime all' amore di Cristo e delle cose celestiali. Dal Colombini in- fatti, che ne fu il fondatore, al Belcari (1) eb- bero una lunga serie di buoni rimatori , fra i quali si distinse cotanto il famoso Bianco da Siena (2). La manìa delle rappresentanze (3) e delle laudi spirituali fu, se non m' inganno, il moti- vo per cui nel trecento, fra tanti volgarizzatori di opere ascetiche, manchiamo di una degl' in- ni del breviario romano. Dico una versione in- tera e compiuta, mentre qualche inno ne fu voltato in terza rima, e segnatamente quelli (1) « Le rappresentanze ili Feo Belcari ed altre dì lui poesie edile ed inedite citale come testo di lingua ec. Firenze presso Ignazio Moulier 1832 in 8, » (2) « Laudi spirituali del Bianco da Siena povero gesuato del secolo XIV, codice inedito. Lucca dalla tipografia di S. Giusti 1851 ». Notissimi poi sono i caotici eli san Francesco d'Assisi e del beato Iacn|)one da Todi. (5) Si consulti la bibliografia delle antiche rappresentazioni sacre e profane stampate uè' secoli XVI e XVII posta in luce dal eh. De Batines. 159 della beatissima vergine, i quali leggonsi in un antico volgarizzamento del salterio marano (1). Per quante ricerche m' abbia io fatte il primo che calcasse questo vergin terreno fu l'arciprete Lorenzo Maggi, il quale varcata già di tre lu?ftri la metà del secolo decimo sesto stampò in Ve- nezia (2) gì' inni della chiesa cattolica, dedican- doli al santo pontefice Pio V. Ne seguirono qua- si contemporaneamente le orme il Nozzolini (3) che fama avea di buon poeta, il mantovano sa- cerdote Giovanni Possevino , pubblicando in Pe- rugia la sua traduzione (4) di gran lunga inferio- re a quella del Nozzolini, e il padre don Gugliel- mo Bramicelli cherico regolare di Somasca (5). (1) Il primo traduttore volgare dell' ofllzio della beatissima vergine fa Mario Filelfo poeta laureato, che lo pubblicò in Venezia nel 1488 in terza rima, il eh. professore Francesco Massi co'tipi del Salviucci nel 1845 stampò in Roma 1' oiHzio delia vergine tradotto in terza rima nel secolo XIV e da lui recalo a miflior lezione. Non saprei dire se sia quello stesso del Filelfo, non psrlan- done egli affatto nella prefazione in cui rende ragione del codice appartenente all' illustre commendatore Gio. Francesco De-Rossi di eh. memoria, né avendo io potuto raffrontarlo. Non sarà inutile l'aggiungere il credersi dai dìù critici che il pontefice san Gregorio III circa il 720 compilasse l'officio della beatissima vergine. Il papa san Ziiccaria nel 741 ne comandò ai monaci benedettini la recita. San Pier Damiani ne fu grande pro- pagatore ; il perchè si e pure da alcuni opinato che ne fosse ezian- dio I' autore. (2) Venezia 1567 Rampazzetlo. Era arciprete di Ripa san Vitale: edizione rarissima a ritrovarsi, secondo che dice il Paltoni nella biblioteca de' volgarizzatori. (3) Rime dell'abate Giuseppe Nozzolini. Firenze 1592 tip. Giunta. La terza parte contiene gì' inni. (4) Traduzione in versi degl'inni della chiesa di Giovanni Possevino mantovano. Perugia 1594. (5) Inni che si cantano in tutto l'anno alle ore canoniche nella chiesa romana dichiarali e tradotti in rima da don Guglielmo Bramicelli C. R. di Somasca. Venezia presso Giorgio Angelini 1597. 160 Dichiara il pio religioso nella lettera dedicato- ria al principe don Francesco di Mantova di avere speso dieci anni in questa versione, che venne in appresso, come quella del Possevino, riprodotta con correzioni e con giunte. Il secolo XVII non fu più fortunato del precedente, e vide tre nuovi traduttori , il si- ciliano Alessandro Calamato (1) , il bolognese Ottaviano Scarlattini (2), e il reatino Loreto Mat- tei (3); applaudito di troppo per l' itala veste data al venosino noi fu meno per gì' inni più volte ristampati. E quantunque il reatino supe- rasse , nel che assai poco ci volea , il siciliano e il bolognese, nondimeno anche la versione del Mattei è incompiuta, prolissa , e ben lungi dalle doti di un egregio volgarizzamento. Se si avesse a giudicare dal numero, il par- co novero de' traduttori dell' antecedente venne abbastanza compensato da quello del seguente secolo, in cui non meno di nove arditi cavalieri si videro venire in campo, e contendersi una palma, che per verità non poteva dirsi ancora meritata da alcuno. Sono essi Antonio Rossi (4) protonota- (1) Inni tradotti e commentati per Alessandro Calaniato. Mes- sina 1642. (2) La celerà della chiesa per gì' inni del breviario romano, parafrasi latterrli e mistiche di OUaviano Scarlattini. Bologna per Giacomo Monti 1686. . (3) Iiiiiodia sacra, parafrasi armonica degl'inni del nuovo breviario ec. del signor Loreto Maltei nobile reatino eCi Bolo- gna 1689. (4) La mistica cetra , che comprende le traduzioni d' inni al metro toscano con altre poesie divole di Antonio llossi. Vene- zia 1704. 161 rio apostolico il dottore don Giacinto Gar- cea calabrese (1), il padre Agostino da Vicenza minore riformato (2), Ferdinando Bilancini (3) e il duca dell' Gratino (4), che offerirono i loro versi al sommo pontefice Benedetto XIII, un acca- demico dissonante, il quale si piacque nascon- dersi in questo generico nome (5), e il p. Laporta carmelitano (6). Vengono per ultimi il dotto- re Antonio Signoretti (7) e il canonico Bon- Cl) Esposizione degl'inni del breviario romano colle quattro segiienze del messale Iradolti iu liugua volgare e divisi in tre patti dai dottor Giacinto Garcea ec. Napoli per Michele Luigi Muzio 1707. (2) Cetra eucaristica accordata all' armonia del divino uffizio nella esposizione degl' inni del nuovo breviario romano e seraficos parafrasi metrica oc. del p. Agostino da Vicenza minore riforma- to ec. Venezia 1710. (5) Ferdinando Bilancini pubblicò la sua versione anonima col titolo seguente: » Inni sacri volgarizzati per potersi cantare sul mede» simo tuono, che soglionsi per le chiese in metro hitino nelle ferie e fe- ste deir.Tnno a vesperi, distribuiti in quattro parti colla giunta in fine dell' offlziolo innodico di san Filippo Neri. Roma nella stamperia Komareck 1 726 » (4) Inni sacri latini parafrasati in versi toscani da Gennaro Girolamo Giordano Vitaliano Moccia duca deirOratìno e Rocca: Aspramonte. Benevento 1726. (5) Inni sacri del breviario romano e carmelitano ordinati , tradotti e commentati ec, dal p. lettore Michelignazio Laporta del- l' ordine di nostro signora del Carmine della città di Monopoli. Napoli 1737. (6) » Inni della chiesa volgarizzati da un accademico disso- nante ec. e dedicali da Alceste pastore arcade ec. Mantova 1755 » L' editore fu Pellegrino Sslsiidri, il quale col pastorale suo nome di Alceste li dedicò alla marchesa donna P'rancesca Visconti. Nel- la lettera le dice essere questo lavoro dell'ab. Gio: Battista Vicini. (7) Nuova parafrasi poetica degl'inni del breviario romano ec. opera del dottore Antonio Signoretti fra gli Agiati di Roveredo Icilio. Venezia 1760. Novelli. G.A.T.CLV. 11 162 si (1). II primo ne publ)Iicò una nuova para- frasi non pur
  • [ ì ange lingua gloriosi Corporis misterium, Sanguinisque pretiosi Quem in mundi pretium Fructus ventris generosi Rex effundit gentium. Nobis natus , nobis datus Ex intacta virgine , Et in mundo conversatus Sparso verbi semine. Sui moras incolatus Miro clausit ordine. In supremae nocte coenae Recumbens cum fratribus, Observata lege piene Cibis in legalibus , Cibuni turbae duodenae Se dat suis manibus. 186 Verbum caro panem verum Verbo carnem efficit , Fitque sanguis Christi meram, Et si sensus deficit Ad firmandum cor sincerum Sola fides sufficit. Tantum ergo sacramentum Veneremur cernui , Et antiquum documentum Novo cedat ritui , Praestet fides supplementum Sensuutn defectui. Genitori Genitoque Laus et iubilatio , Salus, honor, virtus quoque Sit et benedictio : Procedenti ab utroque Compar sit laudatio. Versione del prof. Bernabò Silorala. VJanti ognun del glorioso Corpo il gran prodigio, E del sangue prezioso Che, d'un mondo a scambio,. Frutto d'alvo generoso. Die chi sommo ha imperio. Nato a nostro salvamento Da un' intatta vergine, 187 Di sublime insegnamento Fra noi pose il cardine, Chiuse un vivere di stetito In mirabil ordine. Coi fratelli assiso a mesta Cena che fu Tultima, Ei legale usanza onesta A seguir li inanima: Cibo ai dodici sé appresta Di sua man medesima. Pane in carne l'uomo Iddio Con un detto suscita, Sangue è il vino; e se restìo L'uman senso dubita. La fé sola in un cor pio A star salvo l'eccita. Or ciascuno il gran mistero Chino al suolo veneri, Ed un rito più sincero Che l'antico adoperi: La fé spanda i rai del vero Sopra i ciechi e miseri. Laude al sommo Genitore, Gloria all'Unigenito Con bei cantici d'amore Qual di figli è debito, E si renda eguale onor AI divin Paraclito. 188 Versione del Belli. VJanta. o lingua, il gran mistero Di quel corpo glorioso, Di quel sangue prezioso Che del mondo il re versò Nato a noi d'intatta vergine, Al compir de'fìssi tempi Con parole e con esempi Cristo il mondo addottrinò. Al dì estremo nel cenacolo Spezzò il pane a'suoi fratelli, E nel pan che porse a quelli Yolle pascerli di se. Pane e vin per lui diventano Vera carne e vero sangue: Se al prodigio il senso langue, Basta in noi la sola fé. Veneriamo adunque il massimo Sacramento a noi largito, E l'antico al nuovo rito Ceda in grazia e santità. Onoriam l'eterna Triade, Che a lavar la colpa nostra In quel corpo ci dimostra Tanto ardor di carità. 189 Nella festa della Vergine addolorata. s tabat mater dolorosa Juxta crucem lacrymosa Dum pendebat filius. Ciiius animam genientem Contristatam et dolentem Pertransivit gladius. O quam tristis et afflicta Fuit illa benedicta Mater unigeniti ! Quae rnoerebat et dolebat Pia mater dum videbat Nati poenas inclyti! Quis est homo qui non fleret Matrem Christi si videret In tanto supplicio ? Quis non posset contristare Christi matrem contemplari Dolentem cum fdio ? Pro peccatis suae gentis Vidit Jesum in tormentis Et flagellis subditum, Vidit suum dulcem natum Moriendo desolatum, Dum emisit spiritum. Eia mater fons amoris, Me sentire vim doloris Fac ut tecum lugeam 190 Fac ut arideat cor meum In amando Christum Deiim, Ut sibi complaceam. Sancta mater, istud agas Crucifixi fige plagas Cordi meo valide. Tui nati vulnerati , Tarn dignati prò me pati, Poenas mecum divide. Fac me tecum pie fiere, Crucifixo condolere Donec ego vixero. Juxta crucem tecum stare Et me tibi sociare In planctu desidero. Virgo virginum praeclara, Mihi iam non sis amara: Fac me tecum piangere. Fac ut portem Christi mortem, Passionis fac consortem Et plagas recolere. Fac me plagis vulnerari Fac me cruce inebriar!, Et cruore fìlii. Flammis ne urar succensus Per te, virgo, sim defensus In die iudicii. Christe, cum sit bine exire, Da per matrem me venire Ad palmam victoriae. \ 191 Quando corpus morietur Fac ut animae donetur. Paradisi gloria. Versione del conte Giovanni Marchetti. Otava immersa in doglia e in pianto La dia madre al legno accanto, Mentre il figlio agonizzò. Di Maria T anima afflitta , Gemebonda , derelitta Una spada trapassò. Come trista ed infelice Fu la santa genitrice De r unigeno figliuoli Oh ! quai gemiti traea , Quando aggiunta in lui vedea Pena a pena e duolo a duol ! Qual crude? mirar potria Tanta ambascia di Maria Senza lagrime e sospir ? Chi potria con fermo ciglio Contemplar la madre e il figlio A un medesimo martir ? Per gli error di noi rubelli , Star Gesù sotto i flagelli , Fra tormenti vide star ; Vide il figlio suo diletto Lacerato il molle petto , L' egro spirito esalar ! 192 0 Maria, fonte d'amore, Provar fammi il tuo dolore , Fammi piangere con te. Fa che accendasi il cor mio , Ch' arda tutto dell' uom Dio , Tal che pago ei sia di me. De la man, del sen, de' piedi Tu le piaghe a me concedi. Tu le stampa in questo cor. Del tuo figlio , che il mio bene Ricomprò per tante pene , Fammi parte nel dolor. Io sia teco, o madre, afflitto. Io con Crisio sia trafitto Sino all' ultimo mio dì. Starmi sempre io con te voglio, Tuo compagno nel cordoglio Presso al tronc' ove ei morì. Fra le vergini o preclara , Non mostrarti al prego avara. Fammi teco lacrimar. Di Gesù fa mia la sorte , Fa eh' io senta in me sua morte, Di sua morte al rimembrar. Dona a me lo stazio atroce, M' innamora della croce E del sangue di Gesù. Come a noi verrà 1' eterno Giudicante . de l' inferno Scampo al foco mi sii tu. E tu. Cristo, per mercede Di colei, che invan non chiede. Volgi pio lo sguardo a me. 193 Quando il corpo egro si muoia Ne la gloria , ne la gioia Venga 1' anima con te. M Versione del Belli. w aria madre in doglia atroce Stava a' piedi della croce Del suo figlio Redentor. Ne feria 1' alma gemente , Ne passava il cor languente Una spada di dolor. Ben fu mesta al colle in vetta Quella madre benedetta Del lìgliuol del Creator I Vedea là fra spine acute Pien di sangue e di ferute Il suo figlio e suo fattor. Chi n' avrebbe il ciglio asciutto, Se vedesse in tanto lutto La pia madre del Signor ? Chi saria di gemer sazio Contemplando il fiero strazio Di tai vittime d' amor ? Pel fallir delle sue genti Vide il giusto ne' tormenti Flagellato peccator ! Videi poi , povera madre, Derelitto da Dio padre Render 1' alma al genitor. G.A.T.CLV. 13 194 O d' amor fonte vivace , Del tuo duol fammi capace Del tuo pianto imitator. Fa che avvampi il cor mio tristo Neir amor di Gesù Cristo, Sì eh' io merti il suo favor. Le mie brame rendi paghe, Di Gesù le sante piaghe Tu m' imprimi, o madre, in cor. Del martir di un Dio svenato, Che si offrì pel mio peccalo, Danne parte all' uccisor. Fa eh' io teco, o madre, gema, E la croce al sen mi prema Sulla terra vìator. Di star teco esser vo' degno Sempre unito al sacro legno Compiangendo il Salvator. Delle vergini regina, A' miei preghi il guardo inchina, Pianger teco ah ! fammi ognor. Di Gesù port' io la morte , Nel patir gli sia consorte Meditando il suo languor. Apri in me le sue ferite , E m' inebria di quel mite Sangue suo ripara tor. Dalle fiamme io resti illeso , Per te, o Vergin, sia difeso Nel gran dì retributor. 195 E tu , o Cristo, per Maria Fammi all' ultima agonia Del nemico vincitor : Sciolto alfine il mortai velo Trammi 1' anima nel cielo A fruir del tuo splendor. A' vespri della dedicazione di un tempio. vJaelestis urbs Jerusalem, Beata pacis visio, Quae celsa de viventibus Saxis ad astra toUeris : Sponsaeque ritu cingeris Mille angelorum millibus. 0 sorte nupta prospera , Dotata patris gloria , Respersa sponsi gratia , Regina formosissima , Christo iugata principi , Caeli corusca civitas. Hic margaritis emicant , Patentque cunctis ostia : Virtù te namque praevia Mortalis illuc ducitur , Amore Christi percitus Tormenta quisquis sustinet. Scalpri salubris ictibus Et tunsione plurima , 196 Fabri polita ma Ileo Hanc saxa molem construnt, Aptisque iuncta nexibus Locantur in fastigio. Decus Parenti debitum Sit usquequaque altissimo, Natoque patris unico, Et inclyto Paraclito, Cui teus, potestas, gloria Aeterna sit per saecula. 0 Versione del Baraldi. Sionne , o città celeste eletta E della pace vision beata , Che di mistiche pietre in sulla vetta Sino all' ultimo ciel sorgi elevata, Alla terra, al tuo Dio città diletta Sei d' una sposa al par cinta ed ornata Di ligustri e zaffiri , e perle e armille, E d' angeliche squadre a mille a mille. Per felice destin tu fosti unita A dolce sposo, e di sua grazia onusta Tu sei dal padre di decor vestita , E regina vaghissima e venusta : Del Salvator , del prence della vita. Sei la consorte fortunata augusta, E fulgida per auro e per beltate Non v' ha che a te somigli altra cittate. Di margarite e preziose pietre Spalancate risplendono tue porte , 197 Mortai non v'ha che nel cammin s'arretre Se la virtù il preceda , e ve lo porte: Anzi il perdon se di sue colpe impetre E sia punto d' amor costante e forte , Non v' ha chi audace non veda e sostenti Ogni modo di pene e di tormenti. Ha la tue pietre animator scarpello Con colpi spessi ripuhte e scosse, Ed il fabbro col celere martello Le foggia e le flagella di percosse : Né maraviglia è più se altero e bello Il tuo albergo, o città, sugli altri alzosse, E se in nodo congiunti al par di smalto I muri tuoi risplendono dall' alto. Al Genitore altissimo si dièno Giuste laudi dovunque e d'ogni intorno, E all'unico Figliuol , caro al suo seno. Col Paracielo di faconde adorno Fiamme d' amore , che non vengon meno, E per ogni vicenda e in ogni giorno Si tributino glorie e onori alterni Pg' secoli che furo e sono eterni. Versione del Belli. Alma vision di pace , Che agli astri innalzi il vertice Da questo suol fallace : In rito nuziale , Cignendoti coli' ale , 198 Innumerevoli angeli Cantan la tua beltà. Dotata , 0 felicissima , Della paterna gloria , Al Cristo sposo in grazia Signor de la vittoria , La luce lor divina , Bellissima regina , Rifletti , e brilli e sfolgori , 0 empirea città. Di margarite splendono Dischiuse a ognun le porte : Là di virtù pei meriti Sfugge il mortai la morte : Preso d' amor di Cristo Vi fa di vita acquisto Chi della terra i triboli Si avvezza a tollerar. Tocche da colpi assidui Di provvido scarpelle, Fatte polite e lucido Sotto il fabbril martello , Pietra qui giunta a pietra Di questa mole all' etra Estollono il fastigio Qual astro culminar. Gloria al Dio-padre altissimo Sia data in ogni loco , E il suo Figlio unigenito , E il fonte vivo , il fuoco Di grazia spiirtale , 199 Al Padre e al Figlio eguale, Laudin per tutti i secoli Il ciel, la terra, il mar. Alle laudi della dedicazione di un tempio. A Ito ex Olympi vertice Summi parentis filius , Ceu monte desectus lapis Terras in imas decidens , Domus supernae et infimae Utrumque iunxit angulum. Sed ilia sedes caelitum Semper resultat laudibus , Deumque trinum et unicum lugi canore praedicat : Illi canentes iungimur Almae Sionis aemuli. Haec tempia , rex caelestium , Imple benigno lumine : Huc, o rogatus, adveni Plebisque vota suscipe , Et corda nostra iugiter Perfunde caeli gratia. Hic impetrent fìdelium . Voces , precesque supplicum Domus beatae munera Partisque donis gaudeant ; Donec soluti corpore Sedes beatas impleant. 200 Decus Parenti debitiim Sit usqiiequnque altissimo Natoque Patris unico, Et inclyto Paraclito , Cui laus , potestas , gloria Aeterna sit per saecula. D, Versione del Baraldi. alla vetta più eccelsa del polo Del gran padre V amato figliuolo, Come pietra disciolta dal colle Che precipiti in valle deserta, Della sede terrena e dell' erta Le pareti congiungere volle. Ma la sede celeste de' santi Sempr' echeggia di viva e di canti. Ed al Trino e Dio solo in essenza Fan tributo sincero di voti : E noi pure cantando divotì Di Sionne emuliam la potenza. Re del cielo, deh ! mira a' tuoi tempt E di luce benigna li riempi : Alle nostre preghiere ne vieni E i cor nostri li sieno graditi Colle preci di popoli uniti , E di grazia li colma e di beni. De' fedeli alla supplice schiera. Che ne' tempi ti prega e in te spera, Tua clemenza i bei doni ne impetri E costante li sparga e comparta : 201 Finché r alma dal corpo si parta E del cielo ne' seggi penetri. Giuste laudi al Dio Padre si dieno, E al Figliuolo sì caro al suo seno: E la gloria e l'onore si alterne Allo Spirto che d' ambo deriva , Dell' amore propaggine viva Per r etadi vegnenti ed eterne. Versione del Belli. n 'all'alta vetta olimpica Il redentor del mondo, Qual roccia che dal vertice Cade a la valle in fondo, La region somma e l'infima Insiem, calando, unì. Dell'inno ognor dei celiti Suona quell'alta reggia: Sempre al Dio trino ed unico Di lieti canti echeggia: E di Sion fatti emuli Qui cantiam noi così: Signor, su questo tempio Vibra di luce un raggio: Scendi invocato e accoglivi Del popol tuo l'omaggio: Vien' di tua santa grazia A confortarci il cor. 202 Qua i tuoi fedeli impetrino Con lagrime e preghiere Della magion beatifica I doni in te godere, Fin che al tuo regno ascendano Dal regno dell'error. Ovunque al Padre altissimo Eterno onor si dia: Ovunque all'Unigenito Eterna gloria sia: Ovunque all'almo Spirito , Pari sia laude ognor. Non vorremmo essere accusati dì avere rife- riti troppi inni del Belli; ma abbiamo sempre te- nuta l'opinione di coloro, i quali dicono non po- tersi giammai profferire un pieno e spassionato giudizio su di un'opera qualunque, e molto più su di una poetica versione, leggendosene poche righe, e fermandosi su quelle, che sembrano più poetiche e più belle. Da tutto il complesso e da più luoghi insieme raffrontati potrà solo ot- tenersi : ed appunto perciò non abbiam voluto riportar solo una qualità d' inni : ma gli ab- biam voluti prendere da ogni specie, cioè dai propri de' santi , dalle ferie , e dai comuni: e paragonare la nuova versione con quelle, che passano per le migliori , avvertendo solo essersi in quella del Mattei lasciati alcuni versi, che assai risentivano della sua età. Non deve desimularsi, 203 che anche il nostro Iradultore ha dovuto or to- «•liere or aggiungere per la grande diversità, co- me già si è detto, delle due lingue; ma lo ha fatto sempre con molto garbo, con grandeconomia di parole e di versi , i quali di poco superano l' originale. E però questa versione, assai più di quelle dedicate al santo pontefice Pio V e a Benedetto XIII, è stata degna di essere intitolata neir augusto nome della santità di nostro signore papa Pio IX. Il quale, allorquando gli venne dallo stesso autore offerta, e la degnò di molta lode, e munifìcentissimo principe ne lo volle rimeritare con aurea medaglia incoraggiandolo a somiglievoli lavori. Né alla fine del nostro discorso possiam tacere che , se mai ne'sopraddetti inni potesse trovarsi alcun neo degno di censura, noi ripe- teremo sempre col venosino; '( Che se di molti pregi un carme splenda, Me pochi nei non turberan cui sparse Negligenza non già, ma che l'umana Natura tutti ad evitar non giunse: e che in lung'opra al sonno Pur si permette il sorvenir furtivo » Noi ci auguriamo, che l'esempio del Belli non si rimanga senza seguaci, e che com'egli ha dato sì cara veste agi' inni del Breviario romano, co- sì potransi di uguali forme rivestire altri inni sacri latini, giudiziosamente scelti dalle raccolte di sopra indicate di sopra. Come accennavamo fin 204 dall' esordio, non pochi ne abbiamo sì patetici^ sì semplici , sì divoti, da essere un vero gioiello. Né vana è la nostra speranza nel tornare che fa il secolo a quella poesia religiosa, che illumina Tintelletto, appaga il cuore e lo infiamma di ce- lestiali affetti. Nata nelle catacombe, cresciuta nelle basiliche, serbatasi tra i secoli di mezzo, non appena vestì italiche forme trasse a se gli sguardi e il cuore di tutti. L'esempio di Francesco d'Assisi e de'suoi figliuoli le diede le prime forme: coltiva- ta da valenti ingegni gittò piti profonde radici: il popolo la gustò, l'ammirò, se ne innamorò. Vide il grande, il bello, il misterioso della religiosa poe- sia ; e mentre veniva cantata dall' umile frati- cello, informava pure la mente di Dante, di Pe- trarca e del Tasso, i quali divengono maggiori di se stessi, anzi insuperabili, quando abbandonate le fole del gentilesimo, gl'incanti delle selve e l'ideale degli alemanni, consacrano alla religione il loro canto. 205 I)i alcune piaghe della presente società. Ragiona- mento di Leopoldo Farnese dottore in filosofia ed in legge^ letto nella tornata ordinaria del giorno 9 novembre 1857 della pontificia ac- cademia tiberina. •.Siccome sempre avviene nel continuo avvicen- darsi delle umane cose, che le grandi catastrofi sociali e gli avvenimenti strepitosi vengono pre- ceduti da un certo confuso romore, che annun- ziandoli al loro avvenire dispone gli animi no- stri ; così riconosciotosi un gran bisogno, o un imminente periglio della civil società, soprappre- si gli uomini dal timore di perdere la vita, le sostanze e quel contento che seco porta la pa- ce, pensandovi sopra seriamente, prendono a trattarne, o nelle pubbliche discussioni, o negli scritti , ed a proporne secondo la maggiore o migliore levatura delle cognizioni e dell' inge- gno, i più o meno opportuni rimedi. Di que- sti però raro è che alcuno si ponga alla pro- va, o applicato pure che sia alle bisogna ed ai mali della società, si trovi rispondere in ef- fetto alle meraviglie che se ne prometteva l'au- tore. E ciò per doppia cagione : la prima da attribuirsi al mero caso o destino o corso delle umane vicende, di cui è proprio spessissime volte 206 porre gli uomini in circostanze del tutto oppo- ste a quelle che sarebbero necessarie pel bene loro e della società; come si osserva nel ma- neggio dei pubblici negozi affidati raramente a saggi ed onesti cittadini, più sovente ad inetti o cattivi; r altra da ascriversi a colpa degli stessi autori, i quali piuttosto che ricercare il male nella sua fonte ed origine, sogliono seguirlo nei rigagnoli e nei deviamenti, dove avviene il più delle volte che perdendosi ed intrigandosi , si trovano costretti, per uscir dell'impaccio, a di- menticare nella fabbrica dei loro sistemi o l'one- stà o il buon senso. Di costoro infatti parecchi, vagando fra le nuvole della metafisica, preten- dono da impazzati che nel breve enunciato di una formola filosofica , che forse eglino stessi non più degli altri intendono, si asconda il germe di ogni felicità per le nazioni, e follemente si accingono a dimostrare, niun impulso o cagion principale ritrovarsi alle miserie ad ai vizi del mondo sociale, che non dipenda dallo psicolo- gismo o dall'ontologismo della trionfante filoso- fia. E costoro si aggirano, a mio credere, del tutto fuor di materia, stimando doversi riporre l'origine dei mali, che affliggono l'umanità, in astratte speculazioni: mentre questi là più si veggono abbondare , dove è più vivo il senti- mento e l'amore della realtà. Altri fanno deri- vare la rovina di alcuni stati dalla non ben or- dinata economia politica ; dal non venir poste in pratica le teorie di questa scienza che for- ma la prima e prediletta occupazione degl' in- 207 gegni moderni; ovvero dal trascurarsi lo studio delle statistiche che all'avvantaggiarsi della pub- blica economia possono dar impulso e principio, mentre senza dubbio ne sono dimostrazioni evi- dentissime; ma non s'avvedono questi, che l'eco- nomia sociale, come le astruserie metafisiche , suole spesso confondere le menti de' suoi più caldi cultori, e quelli più inganna e delude, che più nei risultati dei propri studi confidano. Co- me anche ignorano, che una statistica quantun- que ben ordinata non può mai giungere a per- fezione tale , che non faccia spesso comparir sani e robusti quei corpi , che vengon rosi in- ternamente da mortale cancrena: giacché spesso le statistiche^ a dirlo con Pellegrino Rossi autore non sospetto in tali materie, non ci presentano che calcoli arbitrari , anziché fatti coscienziosa- mente osservati {!). Altri, a viver libero, od asso-^ luto od a misto ordinando le nazioni, pretendono dover risultare infallibilmente dalla diversa for- ma del politico reggimento la loro felicità e ricchezza: nò sanno quello che ormai a tutti è noto per esperienza, non esservi regola più fal- lace per misurare il bene dei popoli della for- ma politica del loro governo , essendo indubi- tato, che non il numero dei governanti, ma le buone leggi e l'esatta esperienza di queste sola-^ mente possono produrre salutevoli effetti. Altri, e sono i più male avveduti di tutti, vogliono tutto distruggere per aver la gloria di tutto rie- (1) P. Rossi, Cours d' economie polilique, Lecon XI. 208 dificare: e per propria ignoranza non sanno grado alla presente civiltà, alle ottime istituzioni degli avi, che ne alimentavano la semenza con maggior frutto e sapere di quello che la colti- vino sviluppata i loro sì boriosi nepoti ; né si curano di apprezzare quanto vale quell' aurea sentenza del Segretario fiorentino, che intorno al fare cambiamenti nelle cose dello s(alo in- segna, doversi considerare bene le forze del ma- lore , quando si è sufjicienli a sanarlo^ mettervisi senza mpe^fó, altrimenti consiglia lasciarlo stare^ né in alcun modo trattarlo (1). Ora chi di costoro ri- stretto nella propria coscienza si sentirà le forze e la capacità da ciò ? Ignorano forse che il di- struggere è dato a tutti, il riedificare ed il far meglio a pochi privilegiati, dei quali è raro che ne sorga più d' uno in un secolo ? Quale sfron- tata audacia in sì meschini arnesi stimarsi da tanto, e qual cuore efferato sobbarcarsi al peso di tanto rimorso ! Errano dunque costoro in gran parte, perchè confidano di poter sanare i mali della società coli' opporsi loro di fronte , correndo così facilmente all'estremo contrario : senz'avvedersi che giunti colà, avran trascoi so più del necessario, e talvolta più del dovere , e si troveranno perduti in avvolgimenti peggioii degli antichi ; in parte perchè si lusingano di ritrovare la cagion di quei mali sì manifesti ad ognuno , dove in fatto non è ; donde avviene che perdendo inutilmente il tempo e la fatica (1) Miicliiavelli, Discorsi sulle Deche di Tito Livio, lib I. cap. 53. 209 in applicare i rimedi alle parli non guaste, a nulla riescono se non a fore che il male di già grave divenga pienamente incurabile. Per buona fortuna però dell' uman genere questi progetti, se pure vengono a luce, o nei libri dei loro autori sepolti rimangono ed obbliati per sempre, o si spargono per opera di pochi fra gli amatori di novità, o se giungono per la lo- ro pessima e stravagante natura, o per ispi- rito intraprendente di chi li propose , a far parlare di se , non riescono che a porre in convulsione per breve tempo una parte di mondo; finché sentito da tutti il bisogno dalla pace , fattosi senno dai più che sono gì' illusi, i no- vatori rimasti deboli non valgono a sostenersi, e nel natio tenebrore la fatua luce di quel mo- vimento si ricompone. Come però di tali moti mai vanno sì disperse le reliquie , che non ne rimanga l' addentellato ed il fomite a nuovi sconvolgimenti, considerata specialmente la na- tura attaccaticcia di tali morbi sociali , così volesse pur Dio , che presa occasione dalle passate tempeste, ed approfittandosi dell'e- sperienza delle sofferte sventure si pensasse da senno a rimediarvi , col rimuovere efficace- mente quei semi presto o tardi forieri di nuove calamità , e coll'adoprare rimedi che non come i primi servano ad esacerbare le piaghe già aperte e sanguinanti , ma stando di mezzo ai due estremi apportino valida e sakitevole opera al benessere comune ! Sventuratamente però ciò non suol farsi quasi mai. Ne mi si dia dopo G.A.TCLV. li 210 tali premesse taccia di presuntuoso e di arro- gante , ({uasi che avendo notato di errore e di falsità gii enunciati sistemi , io mi lusinghi di scoprire la vera origine e cagione dei mali della presente società , e non dubiti di trovarne con breve studio V opportuno rimedio. Tolga Dio dal mio animo tal pensiero, e dal vostro, illu- stri colieghi , umanissimi uditori , tal sopetto , che sarebbe le mille miglia lontano dal vero! Imperocché non ebbi altro scopo nell' intrapren- dere questo ragionamento, se non di enumerare brevemente, per quanto me! perm.etta l'ingegno, le principali piaghe deli' attuai mondo sociale; né mi cadde per un solo istante nel pensiero d'in- segnare a chi per dottrina, per esperienza e per civil posizione deve necessariamente saperne mol- to piìi d'un giovine accademico, cui dalia sofferen- za e bontà dei colieghi è oggi dalo di poter far ri- sonar di sue voci questa sala. Che se dall'avere istituito breve, ma accurato esame, di queste pia- ghe sociali, e dail'essertni provato di rintracciarne le cau ;e, mi si presenta qualche debole striscia di luce che mi guidi nel sentiero della verità, candi- damente esporrò il mio giudizio, sicuro, che o avrò colto nel segno o avrò errato la via, non mi sarà negata la facil lode, a me però cara sopra ogni altra, d'aver contribuito per quanto valeva- no le mie deboli forze all'illustrazione di uno fra quei veri, dai quali massimamente dipende la fe- licità del genere umano. Quantunque non possa dubitarsi, che l'uomo appunto perchè animale ragionevole sia di sua 211 natura sociale, cioè creato non per vivere isolalo e da se come le piante ed i bruti, ma unito insie- me coi suoi simili, stretto coi vincoli di famiglia e di patria; e quantunque ciò che costituisce la na- tura di un essere non possa venir meno o dimi- nuire senza che ne soffra detrimento l'autonomia dell' essere stesso; pur nondimeno non potrà ne- garmisi, che l'uomo, non considerato nell'indivi- duo, ma nel suo genere complesivamente, può dirsi ora piìi ora meno sociale. Giacché è mani- festo, che se nell'epiteto sociale si comprenda la tendenza naturale dell' uomo a vivere in società coi suoi simili per le attenenze di nascita, di abitazione, di condizione, di famiglia, di patria, e spinto dalle necessità che accompagnano la sua lunga infanzia e la sua particolar costituzione e natura , tolta qualche rara eccezione da at- tribuirsi a grazia soprannaturale , o ad indole depravala e affatto inumana (1), mai non avvie- ne , che le parole del Creatore « Non est bomtm hominem esse solum » (2) sieno nel fatto smen- tite, e che non si desideri in questa vita d' af- fanni una qualsiasi compagnia , che alleggerir possa almeno la tristezza de' suoi giorni sì bre- vi. Considerata però 1' attitudine di ciascun uomo 1 a far parte di una società più grande, compo- sta di un numero maggiore o minore di fami- I (1) Qui autfin non polest res suhs comiiiuuicare aut sociela- I lem coiili'aherc cuiir aliis , aut qui non egei coniruuniculiotie, pro- \ plerca quod ipse suis pollet opibuSj siiisiiue b<;iii-. ciiicuius est , iiihil praeterea desiflfi ans , nulla pars civiiatis est. lliique ani foia I ani Deus est. - Jrisiot. Politic. lib. 1. cup. 2. ! (2) (J.iues. IL 18. 212 glie , che riunite sotto di un capo abbiano in- teressi e fini comuni ; ed esteso il vocabolo sociali là a significare la nnaggiore o minor so- lidarielà , che lega l' individuo col corpo in- tero ; facilmente si apprenderà, che sebbene r uomo tratto dalla sua natura, cui certo non può resistere , e donile particolari congiunture che accompagnano la sua nascita e la sua educazione, si trovi sempre in mezzo di cotesla grande società , non in tutti i tempi né in tutti i luoghi egualmente prende parte nell'operazio- ni sociali, e per dirlo più semplicemente, s'in- teressa per le pubbliche cose collo stesso ardore che per le proprie. Ed anche sotto questo ri- spetto non è difiTicile intendere , come 1' uomo possa dirsi talora più , talora meno sociale. Ma chi non vede , che dal concorde ed amico co- spirar di tutti nel promuovere il pubblico van- taggio , deve per necessità risultare una maggior prosperità comune , e che là dove havvi mag- gior solidarietà degl'individui coli' intero corpo sociale deve la più perfetta società rinvenirsi ? Non altrimenti difatti avveniva nelle antiche re- pubbliche greche e romana, in quell'aurea sem- plicità di costumi e nobiltà di pensieri; così av- veniva quando del pubblico bene s'interessavano gì' individui , perchè caldi amatori della patria e delle politiche istituzioni dei maggiori non sapevano pur concepire per pubblico bene quel- lo che al particola r vantaggio di ciascun mem- bro della repubblica non conveniva. Per la qual cosa non è meraviglia , se vedevasi allora pie- 213 riamente corrispondere ail' evidenza del razioci- nio la pratica degli avvenimenti, e dal cospirar di iutti nel coniane vantaggio risultava quella forza meravigliosa di stato , e quella tranquil- la prosperità della pubblica e privata econo- mia. Non così ora: sebbene anche l'epoca no- stra voglia distinguersi, più che di fatto non è , per massima socialità, e sebbene la verità e l'evi- denza dei raziocini mai non possa fallire. Donde questa discordanza della teoria dalla esperien- za ? Donde si opposte conseguenze dalla socia- lità degli uomini di quel tempo , e da quel- la dei posteriori di maggior lume e civiltà in- dubitatamente forniti ? La prima cagione di ciò io riporrei nell' avverarsi sommamente al- l' età nostra quel detto che afferma : Ivi mi- nore in effeUo essere la real cura delle cose , dove più se ne parla e si fa mostra di averle care e preziose. La seconda, che è la più prin- cipale , nello spirito diverso che informa quello che troppo indegnamente oggi suol chiamarsi amore ed interesse del pubblico bene. Che 1' e- goismo , vergogna a dirsi ! è 1' anima e il fon- flamento di ogni passione del secol nostro ; egoi- suio di natura sì pertinace e sì rea , che non rifugge dal far pregiudizio ad altrui nel tempo slesso che con volto menzognero ed ipocrita ostenta affetto e tenerezza pel vantaggio comu- ne. Anzi se nel pubblico bene 1' uomo della no- stra società talora non vedesse una maggior pro- babilità di accrescere il proprio stato e le pro- prie fortune, e non sperasse almeno allontanare 214 il pericolo di perderle o diminuirle; l'uomo del ceeol nostro, egoista eom' è , sarebbe pronto a dar fuoco al mondo , onde regnare assoluto e senza rivali sulle rovine dell' universo ; quando la solitudine e 1' onore non dovesse farlo morire di noia e di spavento. E questo spirito somma- meiile basso e perverso che distrugge i salute- voli effetti di quella generosa tendenza alla mas- sima socialità , che dove è più forte ed efficace, suol esser pegno sicuro della civiltà e grandez- za di un popolo , non può derivare d'altronde, che da difetto di sana educazione , e da indif- ferentismo pei principii religiosi e morali. Chi Volesse partiiamente trattare di queste contingen- ze dell' età nostra , sarebbe necessario esami- nare con accuratezza le condizioni della pre- sente società , paragonarle' colle precedenti, os- servarne minutamente le cause , e prevederne con un accurato studio dei tempi passati i più probabili effetti. Ma ciò non potendosi eseguire da me , che costretto a chiudere materia sì va- sta in un discorso accademico non mi trovo inol- tre lena da tanto, dirigerò ogni mio ingegno a dire in breve di quelle miserie , che alla pre- sente società, giunta, come suol ritenersi da tulti, a sì alto grado di civiltà e di lumi, fanno ol- traggio manifestissimo. La tendenza innata dell' uomo a vivere in società , che sviluppandosi per 1' occasione dei lìaturali bisogni , ha sempre formata di più do- Kiestiche quella che appellasi civil società , col crescere degli umani desideri , coli' aumentarsi 215 dei bisogni , e mercè delle mirabili scoperte fi- siche col facilitarsi dei mezzi di comunicazione e dei rami del commercio e dell' industria, poco starà che non faccia del mondo una sola fa- miglia , legando insieme le molte società civili coi vincoli di comuni interessi e di un solo scopo da conseguire sulla terra , il maggior bene es- sere possibile di tutti. L' uomo però, che colla sua natura corrotta, colle sue passioni smodera- te e co' suoi moltiplici vizi entrò nella civil società , quivi per le relazioni con altri uomini d' interessi diversi, di tendenze dissimili, e di opi- nioni quasi sempre opposte, trovò nuovo fomite alle sue passioni, nuovi ogetti ai desideri suoi, e questi sempre col dilatarsi delle società an- darono smisuratamenie crescendo. E con ciò si spiega, come in ogni nuova età, e specialmente nella presente, che ci dà l'esempio di una mas- sima socialità , e di una tendenza generalizzata a formare un solo grande corpo morale, nuove passioni si presentino da osservare al filosofo , nuovi bisogni da curare , e nuovi vizi da re- primere al legislatore. Laonde io stimo pochis- simo lume potersi ritrarre dalla storia delle pas- sate società per degnamente trattare della no- stra, e proporre rimedi che non falliscano sotto la scorta dell' esperienza. Giacché se per se è cosa difficilissima rinvenire un'epoca che perfet- tamente un'altra somigli, ciò può senza esita- zione alTerraarsi impossibile della nostra, cIk; di- stinguendosi per un meraviglioso sviluppo e pro- pagamento d' ogni maniera di civiltà o di social 216 jerfezione, ha tanto generalizzati e didusi i iurni e ie scienze , da non far temere mai più che Jo splendore e la civiltà de' nostri tempi vadano, come in gran parte quella dei passati, misera- mente perduti. Infatti ogni scoperta scienza o istituzione moderna porta seco per gli ammini- coli della stampa , delle comunicazioni facilita- te , e della diffusa istruzione, un certo essenzial principio di durabilità, che in altra età sarebbe stala appena creduta possibile. Chi potrebbe or- mai concepire il ritorno dei secoli barbari del medio evo, se non insieme colla distruzione del mondo intero ? Qual v' ha rozza orda di popoli barbari tanto numerosa e potente da sconvolgere ed inondare le nazioni civili ? 0 in qual parte di mondo rimasta ancora fra le tenebre non è per penetrare la luce? Il ritorno alla barbarie, quasi inconcepibile alla mente , è reso ormai molto più impossibile in fatto. Né io credo vera queir opinione di molti sapienti, che insegnano, le umane cose morali come le fìsiche seguire un corso circolare , donde avvenga che a periodi si rinnovellino gli stessi avvenimenti , e le epo- che si somiglino ad eguali distanze. Ciò è con- trario alla storia ed all' esperienza dei secoli. Io credo piuttosto che, almeno nel mondo so- «iale, la civiltà progredisca sempre verso la per- f( zione , e che anche dopo i momenti d'inerzia o d' indietreggiamento rimangavi molto del gua- dagnato anteriormente , e che la perfettibilità delle umane cose mai non s'arresti , finche là non sia giunta dove comandò che giugner pò- 217 tesse l'Eterno. Tutlavolta se è vero, che le epo- che più illustri delle nazioni spesso presentano caratteristiche eguali , insignite di uno special tipo ; e ciò per esser sempre eguale a se stessa la natura umana , per la concorrenza di avve- nimenti presso che simili , e perchè uno è il bello e l'onesto, da cui tutte le virtuose e gran- di azioni s' informano ; alla nastra invano se ne cercherebbe una* simile nella storia di tutti i popoli e di tutti i tempi, non essendosi mai, a mio credere, veduta una copia sì smisurata e sì intrecciala e confusa di generose azioni e d'in- degne , di vizi e di virtù. Che ben considera- ta , questa mi sembra la principal caratteristica del secol nostro; il riconoscersi cioè in ogni cosa visibilmente due lati, l'uno di bene, l'altro di ma- le, stretti fra loro ed implicati in maniera, da non lasciar tanto facile all' occhio più acuto ed intelligente il discernere quale sia la linea di separazione , onde rimossane la parte viziosa e corrotta , si possa seguire e coltivare la buona. Talché può dirsi esser questo il tempo , nel quale si rende più possibile il trionfo del male, ' forse non tanto per ferma volontà di commet- terlo , quanto per insufficienza ad eliminarlo; e se non impossibile, è almeno molto difficile sa- per distinguere fin dove l'impero dell'uno e del- l'altro s' estenda. Di qui la contraddizione del chiamarsi cotesto secolo de' lumi, che per leg- gerezza e malvagità di azione, per infedeltà e tradimento, o per crudeltà fredda e nuova, può star talora al confronto delle barbare età delle 218 più feroci nazioni ; di qui la civiltà prodicata e 1' egoismo trionfante , 1' ecceso delle ricchezze da un lato, delle miserie dall' altro, la libertà sfrenata e la schiavitù non del tutto abolita. Tabu - so del potere e l'insubordinazione alle legittime autorità ; di qui quel misto di beni e di mali, che rendono indefinibile qualche illustre capitale d' Europa ; di qui ancora quella souima diffi- coltà di governare le nazioni, e di provvedere che r interessi di tutti i sudditi sieno egualmente tutelati e difesi. Per la qual cosa sommo stu- dio dovrebbe porsi da coloro , che sono chia- mati a vegliare gì' interessi sociali, nello sce- verare dal mal seme nascosto le ottime istitu- zioni richieste dalla civiltà presente; e non ado- prare come molti sogliono , i quali pel timore di un male lontanissimo negano soddisfazione alle necessità dei tempi, distruggono insieme il buono ed il cattivo , e si espongono e fanno guerra barbara ed irragionevole a quel progres- so , a cui tende 1' umanità di sua natura pro- gressiva, perchè intelligente. Costoro, per dirlo con un illustre scrittore del passato secolo, presi da una falsa idea di utilità sacrificano mille vantag- gi reali per un inconveniente o immaginario o di poca conseguenza.^ e toglierebbero agli uomini il fuo- co perchè incendia^ e l'acqua perchè annega (1). Come fra i più grandi ministri e propaga- tori del progresso e della civiltà al nostro tem- po deve senz' esitazione annoverarsi 1' uso a me- (1) Beccaria, Dei delitti e delle oene cav, 58. 219 raviglia generalizzato della stampa, così tra le miserie dell' età nostra è da porre 1' abuso che se ne fa , e che nessuno osa negare. Ora sì per la sfampa, sì pel rapido comunicar degli uomini e delle nazioni fra loro, e pei frequenti sconvolgi- menti politici, avviene che la scienza quanto ac- quista in dilatamento ed estensione , tanto va perdendo di profondità; e la gente volgare, assa- porato un istante il bello ed il dolce delle lette- re e delle scienze , chiede per se e per la sua numerosa figliolanza di partecipare a sì nobile nutrimento , ed a sì bella cultura dell' animo. Ciò è pernicioso e fatale in sommo grado alle scienze ed agi' individui che per la loro condizio- ne non potendo darvisi tutti come coloro che vengono a quelle educati, riescono con tali im- perfette cognizioni di peso a se stessi ed alle fa- migh'a , perchè resi indolenti alla fatica ed inca- paci di procurarsi di che vivere col lavoro delie proprie mani; ciò è pernicioso e fatale in sommo grado alla società, e ne costituisce se non la pri- ma almeno una delle più principali piaghe che le fibre pili vitali ne rode e di rovina la minaccia. Imperocché dal sovverchio dilatarsi e diifonder- si delle nozioni scientifiche nuil' altro può ve- nirne alla scienza che superficialità e leggerez- za ; e quindi 1' aumento tristissimo di quel vero dal celebre Bacone sì propriamente enunciato ; che cioè come una leggiera tinta di filosofia è atta a persuader l'ateismo , così una più pro- fonda investigazione dà dell'esistenza di Dio tale .220 certezza da non lasciare il menomo dubbio (I). Dopo tali premesse non è difficile spiegare don- de tragga origine queir indubitato tendere dei secol nostro verso 1' indifferentismo religioso, e verso un non so quale scetticismo pratico dei principii morali , sui quali è fondato ogni be- nessere del civile consorzio. Si osserva infatti costantemente in conferma di ciò, che dove è più ignoranza nel popolo, ivi alligna maggior su- perstizione, come nelle donne tuttora si scor- ge con evidenza , le quali per nostra buona fortuna non partecipano tanto ancora in Eu- ropa, come altrove, della comun coltura. Che sic- copie già nell'età di mezzo, quando l' istruzione anche elementare era di pochi, il conoscere su- perficialmente la fisica, la chimica dava fama di uomo portentoso, e di relazioni con esseri so- prannaturali; così il contrario avviene ora, che provandosi gli uomini di scoprire le più intime forze dalla natura , colle meravigliose proprie- tà e virtù ascose di essa venute in luce, ciò che realmente la sua potenza eccedo, confondendo meschinamente, riescono se non ad aperta miscre- (1) Cerlissimum est alqiie experientia coiiiprohnliim , Icves £;ustus in philoso|>liia movere furiasse iicl nllieismuni, scd plcniores iiauslus ad religionem reducere. Nunique in limine pliilosspliiac cnm secundae causae tadquem sensibiis proxicnae ingcraiil se; luciiti liiiiiianae , rucnsijue ipsa iti illis haeieat alque coniinorelur, obiivio primae causae ohiepere possil. Sin quls ullciius pergat, causarunvr que dependentiani, seriem, et concatenationem , alque opera pro- videntiae inliiealur , lune secunduin poetarum mylhologiaiii facile credei, summuni naliiralis calenae annuluni pedi solii Jovis affigi. - Baco de Ferulainio, De dignitnte et auginenl. scientiarwn , lib. 1. cao. 1. 221 denzn, a tale indifferentismo, che da quella forse non è che di nome e di apparenza disgiunto. E di questa, che conic principio e fonte d'ogni male può giustamente chiamarsi la prima e principal piaga della nostra società, si possono assegna- re per cagioni, come dicemmo, queirimperfetta e troppo diffusa istruzione, ed iroltre la rapidità delle comunicazioni, il grand' uso della stampa, rivoluzioni frequenti politiche , che dal finire dell'altro secolo hanno incomincialo ad avere un co^^o quasi periodico nelle nazioni , o non ra- ramente r inavvedutezza di molti, che non sanno approfittare di quei beni , che largamente ap- porta la moderna civiltà, né rimuover quei mali che ne sono quasi sempre compagni. Imperoc- ché succede nelle grandi rivoluzioni sociali, che una classe di uomini mezzanamente istruita , o tratta da errore d' intelletto , o più spesso da ignobili passioni, volendosi prevalere della forza che si trova sempre nella massa del volgo roz- zo ed ignorante, trovasi astretta, per eccitarla al movimento, d' infondergli nell' anima e nel cuore principii sovversivi della società e dell'ordine stabilito, predicando la libertà e l' indipenden- za da ogni legittima autorità. Né per riuscire a cotesto v' ha più sicura via dell' ingenerare la disistima di quella, e gittare ogni sorta di con- tumelie e di ridicolo contro i principii morali e religiosi, che dell' autorità e dell'ordine so- ciale sono sostegno fermissimo ed unico. E ognun vede in tal caso qual periglio minacci quelle società, nelle quali la disistima dei governanti 222 non sia del tutto irragionevole. Tratte così quasi insensibilmente le masse a dubitare d' ogni più sacro principio, debilitata la forza morale d'o- gni autorità , ed aperto il libero esame d'ogni dottrina la piìi santa e riverita, non può man- care che la classe rozza ed incolta, preda delle passioni che in lei sono vivissime , quelle dot- trine avidamente abbracci, che si annunziano come foriere di una nuova era di libertà, di fe- licità, e di più equa distribuzione dei beni di fortuna e delle comodità della vita ; quelle dot- trine in somma, che accendendo e fomentando viemaggiorment-3 gli u mani desideri fanno spes- so sperare alla parte più infelice dell' uman ge- nere, che ne è pure la più numerosa, momenti di qualche conforto e di qualche bene nel mon- do. E mentre a tanto pericolo è esposto il ca- cro deposito delle verità e dei principii più es- senziali alla conservazione della società e al de- stino degli uomini, non so se più per cecità o ma- h'zia, s'hanno a scoprire non pochi combattere for- se per ispirilo di parte, e per isfogo e vendetta di privati raiict ri, quei generosi e grandi animi, che hanno sostituito al secolo ed alla patria nostra V onor di una filosofia tutta progressiva e cattolica? E s' ha a scorgere tal negligenza da non provve- dere alla sana educazione dei popoli, dalla quale il più gran bene risulterebbe; anzi di abbandonare in braccio all'errore ed ai ministri di esso gì' in- telletti del numero maggiore di umane creatu- re, e così minare indirettamente le fondamenta di quella società, cui ciascuno da Dio è chiama- 223 to a vegliare? Questo appunto mi muove a con- siderare, come da una cosa per se buona e fi- glia del progresso delle umane cognizioni, pos- sano risultare talvolta conseguenze sì gravemente perniciose da miuacciare 1' estrema ruina alla (ivi! società. Chi può negare, che la civilizza- zione e la coltura di un popolo tanto sia più peifclta, quanto resa più comune fra gli indi- vidui ciie la compongono, i quali appunto per- chè ragionevoli sono capaci di perteciparne e di ornarsene? E dond'è che dal propagarsi delle cognizioni, e dal partecipare che fa di essi un maggior numero d' individui, ne viene alla so- cietà più male che bene ? Si vorrà forse credere, esservi ragion di male intrinseca nella propa- gazione del sapere ? 0 non sarebbe questo piut- tosto contraddire alla verità, ed affermare che la luce è tenebre, e le tenebre luce ? La ragione dunque di quei mali deve piuttosto ricercarsi nella viziosa fonte, da cui deriva quell' istruzione per giugnere alia classe più misera. E siccome su d' ogni nazione avvi un' autorità, cui è affidalo il grave e delicato incarico di provvedere al ben essere sì materiale e sì morale de'suoi soggetti, sacra e suprema sarà per lei l'obbligazione di curare, aiflnchè di tanto lume ne venga al po- polo partecipata per vie aperte e legittime, non ascose e macchiate di perverse massime e ree , quella quantità che richiede imperiosamente la civiltà dell'età nostra. Falsa d'altronde è cer- tamente l'opinione di coloro , i quali combat- tono l'istruzione, e predicano l'ignoranza per 224 timore dei maliche veggono prodotti dalla pri- ma; mentre non s'avvedono che con tal sistema si pongono a cozzare coli' invincibil forza dei tempi, e col naturai corso delle umane vicende. La grand' arte è di secondare l' impulso delle circostanze, non lasciarlo a se stesso sbrigliato e senza ripari : di scortarlo e guidarlo, non di porre un velo sulla luce, che è pure il più del dono del cielo ; la grand' arte è di saperne in- dirizzare i raggi, e sceglierne i più vivificanti, onde impedire quei mali , che alle pupille de- gl' inesperti volgari potrebbe la subita troppo viva luce arrecare. Diversamente operando, col- Tosteggiare 1' istruzione, il progresso e la civiltà, non s'otterrà di distruggerle, ma si avranno cat- tive e perniciose, perchè cresciute ed ammini- strate di celato da perversi maestri; quando pro- mosse e regolate dai ministri legittimi e de- rivate dai puri fonti, sarebbero combattitrici po- derose ed invincibili di quegli stessi errori, dei quali ingiustamente oggi si ritengono primarie cagioni. La seconda delle principali piaghe della presente società , della quale è proprio parti- colarmente spegnere ogni sentimento generoso e grande negli uomini dell'età nostra, dee senz'al- cun dubbio riporsi nello smoderato amor delle ricchezze. Oh ! quanto più giustamente de'nostri giorni potrebbe dirsi quello che de'suoi cantava il sublime Venosino: 2^5 O cives cives^ quaerenda pecunia prìmum est^ Virlm post nummos. Haec Janus summiis ab imo Prodocet; haec recinunt iuvenes dictala senesqne (1). Non è mestieri dimostrare con lungo discorso quanto sia perniciosa alla società questa uni- versale tendenza al traffico ed al guadagno ; quanto indegno e fatale il pregio , in cui si tengono sopra le stesse virtuose azioni il dana- ro ed i possessori di questo ; giacché scrittori nobilissimi di storie e di materie sociali hanno ad esuberanza e quasi concordemente trattato dei danni e degli effetti tristissimi di questa ignobil passione. Per la quale non s'intende già, come potrebbe credere alcuno , quel naturale amor che tutti sentono di un onesto lucro, onde procurare alla famiglia propria un' esistenza più agiata , e col!' accrescimento del commercio e dell' industria aprire alla società, nella quale si vive , nuovi fonti di ricchezza e di comodità; che questo ragionevole desiderio soddisfatto sen- za danno od ingiuria dei diritti altrui, non che pernicioso ed immorale , dovrebbe riputarsi ge- neroso e degno, che ne menasse giusto ed altissi- mo vanto la civiltà del secol nostro; ma solo quel- la smania di transricchire, è da riprovare prin- cipalmente , e la somma facilità di far fortu- na mercè delle imprese bancarie e di azzardo, e la moltiplicità di queste fortune fatte di re- fi) Horal. lib. 1. Episiol. 1. G..A.T.CLV. 15 226 cente, e la loro natura particolare, e 1' apprez- zarsi in genere più il danaro che il merito e r onestà. Il principio che l'informa, immorale e pernicioso oltre ogni credere , è appunto l' in- differenza nella scelta dei mezzi per arricchire adoperati , sieno essi leciti o illeciti , ne vada r interesse di tutti , rovini il mondo. Orrido è certo questo ed inaudito trionfo dell'egoismo, che serve di contrapposto inconcepibile nelle nazioni più civilizzate del mondo ai precetti sublimi de! vangelo di Cristo. Tanto è vero , che quando la cura che prendono gl'individui pel bene del- la società non è del tutto disinteressata , né tende al vantaggio d' altri fuori che al pro- prio , e quando i sentimenti di religione e di moralità illanguidiscono, naturalmente si genera negli animi uno sfrenato amor di se stessi , ed un interesse esagerato pei materiali vantaggi , che particolarmente si attua e si concreta nel- r avidità di ammassare ricchezze, di qualun- que specie sieno i mezzi, che si presentino per acquistarle. Non dissimile da questa, anzi dalla stessa origine procedendo la terza principal piaga della società, di cui ci rimane a parlare, ne investe e sommuove 1' ordine, e le fondamenta, e le sfere dei diritti e dei doveri di quei, che ne fanno parte, miseramente confonde. Quanto danno da questa risulti al generale andamento delle pub- bliche cose, ben sei videro i più savi legislatori della remotissima antichità, i quali forse colla troppo viva separazione delle caste e coli' intro- 227 duzione di soverchi privilegi, corsero più che non bisognava all' estremo contrario. Ma sarà sempre vero che la manìa di cam- biar la propria social condizione in altra più nobile, ed ai mezzi ed alle abitudini della pro- pria stirpe non rispondente, deve ritenersi per uno dei più grandi morbi sociali del nostro tem- po. E se è indubitato che 1' educazione ordina- ria del popolo si attinge appunto dai principii, che informano la società in cui vive, il trionfo del comunismo e del socialismo nelle attuali condi- zioni non può mancare. Infatti non sono queste conseguenze indispensabili e necessarie di quelle influenze perniciose che or ora deploravamo? Cer- tamente se in altri tempi gli sconvolgimenti so-r ciali potevano essere ordinati a riformare la co- stituzione degli stati, e davan loro principio e ragione amor di patria, fervore di sentimenti ge- nerosi e liberi, ed oppressione di tiranni; oggi che la stagione passò de' tiranni, e de' generosi, la sola possibile rivoluzione è quella, che quan- tunque faccia mostra esteriormente di prender- sela cogli ordini dello stato, coli' uno o coli' al- tro individuo fra i reggitori delle repubbliche , sostanzialmente non tende che ad uguagliare la condizione dei proletari a quella dei ricchi ; il che vuol dire, ad immiserir tutti a vantaggiò di quei pochi che sapranno destramente appro- fittare delle circostanze. Ora questa rivoluzio- ne all' eccesso terribile e sconvolgente non que- sto o quello stato, ma tutta in massa e per principio la civil società, questa rivoluzione , 228 alla quale contribniscono con un sistema esclu- sivo di ogni miglioramento e progresso alcuni, che forse ne sarebbero i più danneggiati, è da schiacciarsi in culla, e se Iddio non provvede , andrà per lei perduta in un vortice di rovine irreparabili la società. Vedute ora quali sieno le principali pia- ghe di questa , e quali i fonti , dond' esse de- rivano , si potrà fuor d' ogni dubbio conchiu- dere, che rimosse le cause, ne verrà diminui- ta la gravità dei tristi effetti, che ne conse- guivano, ed impedito ogni progresso dei mali neir avvenire. E siccome fra le cagioni dell' in- differentismo religioso, e dello scetticismo mo- rale fu detto doversi porre in primo luogo 1* istru- zione superficiale, diffusa per non legittime vie, sicuro rimedio di questa piaga non sarà 1' i- gnoranza, come già sopra dimostrammo , sì una discreta universale istruzione che da purissime fonti derivando, non giunga al popolo avvele- nata e corrotta, ma di quei principii munita ed avvalorata, che sono il fondamento di ogni morale, e che apprese una volta non si dimen- ticano mai più dagli uomini, perchè pienamen- te coerenti coi dettami della ragione. Lo ripe- terò ancora una volta: finché una parte erro- neamente conservatrice osteggerà una migliore istruzione , questa a suo dispetto si propaghe- rà, perchè non può resistersi alle urgenze dei tempi ed ai bisogni di un corpo, che chiede il necessario alimento; e tali ne saranno i dispen- satori , che immenso danno del loro magistero 229 ne dovrà risentire l'universale consorzio uma- no. Sarebbe poi sommamante desiderabile, che per la smania che ferve d'incoraggiare l' inlro- duzione di oggetti superflui e di semplice lus- so , e le grandi imprese di miglioramenti ma- teriali , non si lasciassero talvolta in dimenti- canza le più sostanziali e vitali bisogne dei sog- getti e della società , quali sono 1' educazione religiosa morale e civile del popolo, ed il prov- vedimento di quelle materie, che sono indispen- sabili alla vita degl' individui. La prosperità di una nazione si deve misurare dalla prosperità particolare di ciascun membro di essa , se non vogliamo dare adito alle dottrine socialistiche. Che se per prosperità di uno stato noi riterremo la sua esterna grandezza, mentre il popolo muor di miseria e di fame , non passerà lungo tem- po che fra 1' ostentazione vanissima di un effi- mero splendore si vedrà quella repubblica cor- rere a grandi passi verso la sua estrema rovina. Tanto è vero che se dal bene dei particolari suol necessariamente risultare quello dell'intera nazione , non avviene quasi mai che dal bene dello stato o dalla sformata ricchezza di pochi possa argomentarsi la felicità di tutti i cittadini di quello. Quale però di queste due condizioni sia da preferire, non credo necessario dimostrare. Io non odio il progresso, anzi lo credo indispen- sabile: apprezzo quanto sei meritano le accresciu- te comodità, i vantaggi delle scoperte, e l'adotta- mento delle migliorie pubbliche e private, che mostrano a prima vista la vita, il lustro e la ci- 230 viltà di uno stato; non vorrei peraltro che per la soverchia cura di ciò che è utile o superfluo, si dimenticasse affatto la cura del buono e del ne- cessario. - Annonae curam sustinet princeps; haec omissa funditus rempuhlicam trahet - (1): avverti- mento del pili profondo degli storici latini. Ab- bia il popolo a discreta ragione pane e vestito, sì che possa riuscire a procurarselo colla fatica delle sue braccia , abbia il cibo dell' anima in una sana educazione religiosa, morale e civile, né cercherà d' avvantaggio, né s'interesserà di que- stioni politiche, nò investigherà la condotta dei principi e dei loro consiglieri, né ascolterà la voce del libertinismo, per la gran ragione che chi sta bene , e contento , e teme Dio , non brama cangiare suo stato, non è propenso a delinquere. Sarei infinito se volessi numerare le mino- ri piaghe dell' attuai viver civile; mi basti aver trattato delle piti principali che sono a vista di ognuno , e che possono dirsi principio e fonte di tutte le altre ; se pure non mi sono diffuso nella materia più di quello che conveniva alla mia debole capacità, e poteva dalla vostra be- nignità condotiarmisi. (!) Taci». Jnnal. lib. III. 54. 231 Relazione intorno ad un apparecchio destinalo ad insegnare od agevolare ai ciechi la scrittura , ideato dal sig. cav. Faa dì Bfuno, letta nella adunanza della reale accademia delle scienze di Torino del 6 giugno 1858 (1). I I signor cav. Faa di Bruno , inventore di un apparecchio destinato ad agevolare la scrittu- razione ai ciechi, manifestò al ministero dell'in- terno il desiderio che tale suo apparecchio ve- nisse sottoposto al giudicio della reale accade- mia delle scienze. Il ministero volendo aderire a tale brama, comunicò all'accademia stessa quell' apparecchio e la relativa descrizione spiegativa, con invito di esaminarlo ed esprimere sul me- rito del medesimo il suo avviso. I sottoscritti incaricati di un tale esame hanno l' onore di riferire quanto segue. Lo scopo che si propone il sig. cav. Faa di Bruno col suo apparecchio si è : 1. di som- ministrare il mezzo di scrivere nel modo ordi- nario a chi ha la disgrazia di perdere la vista sapendo già leggere e scrivere ; 2. di far im- parare dai ciechi, che non sanno ancora scrivere, la scritturazione usata dai veggenti. (■•) Il suddello apparecchio si vende a favore dell'ospizio pflnliiiico , Borgo S Donalo in Torino , e si trova presso il ine- desiniO) ovvero presso l'inventore. Via Belvedere^ n. 1. 232 11 celebre istitutore dei ciechi a Parigi Haiiy, fratello del rinomato mineralogo, diceva essere di ben poco vantaggio il far scrivere i ciechi , se essi non possono poi rileggere i loro propri scritti, e se per tenere una corrispondenza scrit- ta , essi non possono dispensarsi dalla coopera- zione importuna di un qualche veggente ; per questa ragione gli istitutori dei ciechi sogliono insegnar loro a scrivere con lettere o punti o segni comunque convenzionali , che essendo ri- levati sulla carta sono distinguibili col tatto. Giova però osservare che questo modo di scritturazione esige sempre un tempo ed uno spazio sulla carta assai maggiori che non il modo ordinario di scrivere ; e che i ciechi volendo indirizzare un loro scritto ad un qualche veg- gente, ben sovente questo non sarebbe nel caso di saper leggere quanto il cieco gli scrivesse con caratteri o segni convenzionali a lui solo de- stinati. Perciò mentre è innegabile che quest'ulti- mo mezzo è il solo, di cui possano servirsi i ciechi quando vogliono corrispondere tra di loro per iscritto , e che anche il veggente non può servirsi di altro mezzo , quando vuole scrivere cose confidenziali ad un cieco; egli è però non meno certo che colui, il quale ha la disgrazia di perdere la vista sapendo già scrivere nel modo ordinario, trova sovente un grandissimo sollievo nel poter continuare a servirsi di questo mezzo d' imprimere sulla carta con celerità ed in pic- colo spazio le sue idee e tramandare il frutto 233 dei suoi pensieri ai veggenti , anche quando questi non conoscono 1' alfabeto destinato uni- camente ai ciechi. » Egh è per queste ragioni che molti tenta- tivi furono fatti onde procurare ai ciechi il mez- zo di poter scrivere nel modo ordinario o colla penna o con lapis o con una punta che facciasi scorrere sopra una carta colorata, la quale tra- mandi ad un foglio bianco sottoposto l'impron- ta delle linee che da quella punta si fanno su di essa. Gli apparecchi però a tale uopo sino ad ora immaginati lasciano tutti qualche cosa a desiderare, o perchè il cieco che li adopera non può sempre essere sicuro che essi corrispondano col loro effetto alle sue intenzioni, o perchè non lasciano sufficiente libertà alla sua mano nello scrivere, od anche perchè riescono sovente d'un valore non adequato a tutte le fortune dei ciechi. L' apparecchio immaginato dal signor cav. Faa di Bruno , considerato per ciascuno di que- sti lati , è preferibile a quanti altri vennero prima d'ora proposti. Il signor Guadet , crpo dell' insegnamento all' istituto imperiale dei gio- vani ciechi a Parigi , parlando di questo appa- recchio nel suo giornale mensile intitolato: Vinsii- tuteur des aveugles : dice che con questo appa- recchio la mano del cieco est su^samment guidée. et n est jamais genée par le mécanisme , qui est le plus facile à mettre en jeu qu il soit possible d' imaginer ; e la società d' incoraggiamento di Parigi accordò per questi motivi al suo autore una onorifica medaglia. 234 Per ottenere sul pregio di quest' apparec- chio un giudizio superiore a qualunque dub- bio, uno di noi si diresse a quell'illustre e be- nemerito ministro Paleocapa, il quale come Ogie- ro , Milton , Delille , Jacques Arago , Auguste Thierry, Carlo de Berriot e tanti altri celebri nella storia delle lettere e delle scienze, ebbe a perdere la vista per averla di troppo usata; ed egli degnossi fargli vedere varie macchine ch'egli procurossi per poter scrivere nel modo ordina- rio e senza 1' uso degli occhi , e fra queste an- che quella del cav. Faa di Bruno: e soggiunse che fra tutte quest'ultima è la migliore, perchè lascia libero il movimento della mano dello scri- vente mentre la dirige onde non devii. Il perfezionamento che trovasi nell'appa- recchio del cav. Faa di Bruno, posto in con- fronto con altri apparecchi destinati allo stesso uso, consiste nel cursore aggiunto al regolo me- tallico, e nel modo in cui mediante filo elastico l'asta o punta che fa le veci di penna da scri- vere , tiensi legata al cursore medesimo , libera sempre di obbedire, entro certi limiti, co'suoi movimonti alla volontà del cieco scrivente. Il cieco, che non sa scrivere, impara que- st'arte facendo scorrere la punta dell'asta in cavi scolpiti in una lamina metallica o di altra so- stanza, e rappresentanti le singole lettere del- l' alfabeto. Quell' asta nei primi esemplari del- l'apparecchio del cav. Bruno era facile a sfug- gire dal nodo , con cui il filo elastico la tiene legata; ed era questo un inconveniente, perchè 235 il cieco non potrebbe da se rimetterla nel no- do. A questo inconveniente andò incontro il si- gnor cavaliere inventore , facendo che l' asta medesima non termini con una punta, ma bensì con piccolo gancio sufficiente a trattenere il filo elastico anche quando il nodo si rilassasse al- quanto. Il filo poi è difficile che si rompa; ma quando ciò succedesse, riesce facile a chiunque il rimpiazzarlo. Al pregio della semplicità nella costruzio- ne e della facilità eh' esso offre di usarlo, l'ap- parecchio Faa ne aggiunge un altro da non di- menticarsi, ed è quello del poco costo. Gli ap- parecchi del Barochini, del Faucault, del Coutaux e di altri che trovansi descritti , per far scri- vere i ciechi senza caratteri rialzati, sono tutti d' una costruzione complicata, esigono tutti un lungo esercizio e speciale istruzione per poter essere adoperati, e sono tutti d' un valore più o meno elevato. Quello del cav. Bruno non co- sta che 20 franchi, mentre quello del Barochini vale franchi 100, e poco minore si è il prezzo di quello di Faucault. Si è in seguito a queste considerazioni, che i sottoscritti non esitano nel proporre, che l'ac- cademia delle scienze dichiari commendevole la invenzione del sig. cav. Faa di Bruno sia per ciò che spetta alla facilità dei ciechi la scrittu- razione a modo dei veggenti , sia ciò che ri- guarda r insegnare questa stessa scritturazione ai ciechi che non sanno ancora scrivere; e pro- clami degno di lode lo stesso signor cav. Faa 236 di Bruno per l' impegno con cui adopera il suo ingegno a benefizio di chi perdette l' uso del più prezioso dei sensi , cioè della vista. Nel porre termine a questa relazione noi non possiamo a meno di lamentare che il no- stro paese sia tuttora mancante di un istituto, in cui i ciechi siano ricoverati per esservi edu- cati nelle lettere e nelle arti, mentre non hav- vi quasi paese in Europa ed in America ove non esistano tali istituti , dai quali non è raro veder sorgere distinti artisti e letterati non me- diocri. È un fatto commovente quello delle cie- che dell'istituto di Milano, le quali mandarono alle loro sorelle allieve dell'istituto di Parigi un tappeto per piedi da esse stesse ricamato, ac- compagnandolo con una lettera , in cui i sen- timenti i più squisiti dell' anima sono espressi col linguaggio il più appropriato. Quel tappeta eccitò la meraviglia di quanti lo videro all' e- sposizione universale dogli oggetti d' industria nella capitale della Francia nel 1856. La mu- sica conta a Parigi , in Inghilterra ed altrove insigni artisti e maestri che ebbero la loro edu- cazione in quegli istituti dei ciechi, e Guadet ci assicura che una gran parte di quelli che suonano 1' organo nelle chiese, sono ciechi figli di quello istituto, nel quale egli occupa il posto di capo dell'insegnamento. Possano un giorno i ciechi anche presso di noi trovare un asilo, in cui siano resi capaci di procacciarsi collo stu- dio e col lavoro i mezzi di vivere onoratamente 237 senza più dover ricorrere alla carità pubblica! (Seguono le firme dei commissari ). Per copia conforme al parere originale slato approvato dalla classe fisico-matematica della R. accademia delle scienze nella tornala del giorno 6 giugno 1858. E. Si SMONDA segr. agg. — ^^B«- 238 VARIETÀ' In morie delf avv. Luigi Fornaciari orazione di monsignor Telesforo Bini della nella metropo- litana di Lucca il dì 25 febbraio 1858. - 8." Lucca^ tipografa di G. Giusti 1858. ( Sono pag. 31.). I 1 Fornaciari, uomo dottissimo e scrittore dei più eleganti che ci fiorissero, ebbe vivente l'os- sequio , e morto le lagrime di quanti hanno in onore la religione, la morale, le lettere. Si de- siderava che alcun valente prendesse a cele- brare i meriti di tanto nostro: ed ecco il chia- rissimo monsignor Telesforo Bini sobbarcarsi al lavoro colla solita sua facondia e nobiltà di det- tato. Noi abbiamo letto con piacer sommo que- sta orazione, ed ammiratovi, oltre agli altri pregi , il fino giudizio con cui 1' amico e con- cittadino ragiona delle opere del Fornaciari , delle quali dà in fine anche il catalogo. 239 Se san Francesco d' Assisi abbia mai scritto poesie volgari , e se si debbono credere sue quelle che gli sono da taluni attribuite. Osservazioni di G. I. Montanari. ( Stampata nel giornale V Ec- citamento ). Con sommo criterio , cioè da suo pari, il prof. Montanari tratta l' ardua quistione se ve- ramente il serafico d' Assisi abbia mai scritto poesie volgari. A noi pare , che stante anche le cose notate già dall' Affò in questo propo- sito , appena possa più dubitarsi che non sono di s. Francesco le poesie che vanno intorno col suo nome. Di chi dunque saranno ? Noi con- corriamo volentieri nell'opinione del Montanari, eh' elle sieno opere del B. Jacopone da Todi. Si leggano queste Osservazioni^ e ben crediamo che non saremo soli 1' egregio professore e noi ad avere siffatta opinione. 240 INDICE Secchi , Intorno alla correlazione delle forze fisiche e alla sua influenza nel concetto delV universo . . ' pag. 3 Ponzi , Sidlo stato fisico del suolo di Roma » 28 Maggiorarli , SuW ingresso delle sostanze pol- verulente nelle vie della respirazione ( con rame ) . . . » » 50 Visconti , Alcune iscrizioni ostiensi trovate nel 1858 ....:....» 60 Visconti , Orazione delle lodi di Filippo Ma- ria Benazzi ( con ritratto ) ...» 72 JBetti^ Appendice al dialogo sulla Matelda del- la Divina Commedia » 90 Coppi , Discorso agrario » 1 02 Cossali , Scritti inediti pubblicati dal Bon- compagni » HO Leonardo Pisano, Scritti pubblicati dal Bon- compagni » Cappello , Ragionamento istorico-fisico sulle culture umide {parte seconda). . . » 117 Fabi-Montani , DegV inni del breviario ro- mano e delle principali loro traduzioni ita- liane » 144 Farnese^ Ragionamento intorno ad alcune pia- ghe della presente società . . . . » 205 Faa di Bruno^ Relazione intorno ad un appa- recchio destinato ad insegnare ai ciechi la scrittura . . . ^^^?^Jh^m?x . . » 23 1 Varietà .... /^è^XM^A • . » 238 m\ Iinp. - Fr. Th. M. Larào^flrS? ,]^S^. M. Socius. Imp.-Fr. A. Ligi A^cl^^^téa^^J^>^^ Viccs^crens. HO Nel giornale si dà il sunto, o viene inse- rito l'annunzio, delle opere presentate in dop- pio esemplare alla Direzione. Esse debbono essere inviate franche d'ogni spesa di porto e dazio. Le notizie di scienze, di lettere, e di belle arti, quelle di scoperte utili per l'agricoltura, industria ec. come anche i programmi de' con- corsi accademici, dovranno similmente esser mandati franchi di posta alla Direzione. Chi si associa per dieci copie, e ne garan- tisce la vendita, avrà l'undecima gratis. ^ Wi ^M %M B f) %M- @ © 0 ® QÉ ÈÈ ^ A X /O GIORNALE DI SCIENZE, LETTERE ED ARTI TOM. X DELLA NUOVA SERIE ROMA TIPOGRAFIA DI TITO AJANI 1858 Via della Guglia num. 69. GIORNALE IK DI SCIENZE, LETTERE ED ARTI TOMO CLVI DELLA NUOVA SERIE X LUGLIO E AGOSTO 1858 ROMA TIPOGRAFIA DJ TITO AJANI 1858 La tavola del san Luca^ insigne opera di Raffaello^ restituita al suo splendore nella galleria della pon- tificia accademia romana delle belle arti. Dichia- razione del prof. cav. Ferdinando Cavalieri consi- gliere di essa accademia nella classe della pittura. INTRODUZIONE -L Assuntomi il non lieve incarico di ragionare intorno alla tavola dell' immortai Raffaello, che ci rappresenta s. Luca evangelista nell' atto di ritrarre la Santissima Vergine (monumento pre- zioso della nostra galleria accademica ) e di render conto del risarcimento testé operato con tanto fortunato successo su di tale insigne re- liquia dell' arte pittorica , mi avveggo che di minor difficoltà sarebbe la esecuzione di sì ar- duo impegno ove ne dovessi i fatti e le circo- stanze esporre per solo fine di lasciarne memo- ria negli atti accademici. Pe' miei colleghi an- cora della classe della pittura, che tanto studia- rono e profittarono sulle opere del Sanzio, sa- rebbe invero soverchio affatto l' enumerare i pregi e le sublimi qualità di una tant' opera , conoscendone, siccome egregi maestri dell'arte, le perfezioni. Ma dovendo parlare all' universa- le, e di più essendo mio debito, siccome arti- sta e siccome storico, di provarmi a distruggere 4 la non favorevole prevenzione che in questi ultimi tempi si ebbe di tal dipinto, mi è forza discen- dere ai particolari di esso ; particolari che lo rendono , a mio credere , non secondo ad al- cuno dei più famigerati dipinti del Sanzio. Ma dato mi sia primieramente di esporre alcune mie considerazioni intorno a tal uomo straor- dinario ed alle opere di lui, affinchè possa ciò es- serci guida nella storia di questo quadro che chiamerò misterioso. CAPITOLO I. Da tre e più secoli le opere di Raffaello Sanzio da Urbino non solo eccitano 1' ammira- zione del mondo , ma crescono ogni dì più di valore: perciocché mano mano che l'arte della pittura si svolge in tutte le fasi possibili e sva- riate della imitazione o della natura esatta, o di quella più astratta nelle sue aspirazioni, che più possa i capricci della mente umana sedur- re , ci è forza il confessare , che o troppo ci restringemmo nel campo di un puro e freddo servilismo , o troppo e' inoltrammo negli spazi aerei della immaginazione. Laonde rilvolgendo di quando in quando i nostri sguardi agli esem- pi sublimi , che il maestro di coloro che san- no ci lasciò per retaggio , dobbiamo darci per vinti dall' artefice grandissimo che seppe con tanta altezza di genio ritrarre il vero nel suo migliore aspetto, e così toccare i cuori , soddi- sfare le menti , e meravigliare gli occhi. 5 Gli storici, che più addentro si fecero nella vita e nelle opere di un tanto artefice, vollero far larga parte alle circostanze particolari dei tempi pel gran successo ch'egli ebbe nei brevi anni della sua vita. Quanto a me ho sempre considerato, che alla naturale costituzione di lui debbasi la riunione di tante esimie qualità , il possesso di una delle quali soltanto sarebbe atto a formare la riputazione di un artefice eccellente. Ed a questo riguardo , senza osar pene- trare negli arcani della psicologia , mi si per- metta appellarmi alla sentenza di un celebre scrittore , il quale ci lasciò detto che le idee ci nascano dal cerebro, come il buono, il ge- neroso , il sublime , e il magnanimo ci pro- vengono dal cuore. Ora se il bello è nell'essenza del buono, che cosa è un uomo non impressio- nabile a sensi magnanimi e virtuosi ? Egli potrà forse colle facoltà della mente e coli' esercizio della mano giungere a superare le maggiori difficoltà pratiche dell' arte , e come un altro Andrea del Sarto meritarsi ancora il sopran- nome di pittor senza errori; ma ciò è un nul- la paragonato a quella scintilla animatrice che nelle opere dell'Urbinate ti parla con più per- suasiva , che la poesia più eloquente ; talché allo scoprimento del suo quadro di s. Cecilia in Bologna il bravo Raibolini ( detto il Francia) fu colto da tale stupore , che improvvisamente cadde malato e morì. Rfiffaello si ebbe adun- que in dono dal cielo di ricevere nel suo essere la riunione di due disparate qualifiche, le quali 6 muovono in noi le disposizioni più atte allo svi- luppo della immaginazione ed alle operazioni della mano; ebbe cioè in grado sublime la parte dell' inventiva proveniente da una fibra atta a ricevere le più delicate impressioni ; ebbe fer- tilità ed altezza di mente per coordinare e sce- scegliere , come fa 1' ape dal sugo che sugge sui fiori , il meglio di cotali impressioni ; ed ebbe poi la calma necessaria a tramandarci il risultamento di quelle ispirazioni con tal finez- za e gastigatezza di esecuzione , che formerà sempre la meraviglia del mondo. Ben mi duole che i limiti che a me sono assegnati non mi permettano di estendermi sulle principali opere di questo artefice così padrone del nostro cuore e della nostra mente. Mi restrin- gerò pertanto, come soggetto collegato col dipin- to che io presi a descrivere , a soffermarmi alquanto sulle immagini da esso effigiate della Beatissima Vergine , della quale sappiamo che fu devotissimo , rappresentata o sola col bam- bino Gesù , e talvolta con san Giovanni pari- menti fanciullo, 0 facendo gruppo con la santa famiglia , o nella maestà di celeste splendore se proteggitrice di santi e di popoli ; tali es- sendo le tre categorie , nelle quali il Quatre- mère, uno dei più esatti e coscienziosi esposi- tori delle sue opere , le divide ; e desse veni- vano già dal Vasari assimilate in questo elogio; » Mostrò tutto quello che di bellezza si può » fare nell' aria di una Vergine , dove sia ac- )) compagnata negli occhi modestia, nella fronte 7 » onore, nel naso grazia, e nello bocca virtù ». Oh perchè questo scrittore non aggiungeva, che in tanta copia di celestiali bellezze una non vi ha che perfettamente all' altra somigli ? CAPITOLO II. Candore di espressione , freschezza di co- lorito , purità di contorno , furono i pregi coi quali Raffaello esordì nelle opere della prima giovinezza. In un dissegno di sua mano, studio della Bella Giardiniera^ miransi ancora effigiate dietro la carta alcune figure , che apparten- gono alla composizione del Cristo portato al sepolcro ( tesoro della pinacoteca Borghesiana ). Ed anche i dipinti conservano tuttora in grado eminente le enunciate qualità. Furono essi in pari tempo eseguili , e ci presentano due delle più opposte espressioni tramandateci dall' elo- quenza inarrivabile del suo pennello ; quella cioè della casta Vergine di Betlemme che con soave tenerezza considera il suo divin figliuolo, e quella di essa madre medesima che, veduto- selo poi recare esanime al sepolcro, è in preda alla maggiore di tutte le sensazioni, quella di non averne più alcuna ! Allargando in seguito il suo stile, e viep- più disciogliendosi dai legami perugineschi, Raf- faello diede alla luce in vari tempi le imma- gini divine conosciute sotto il nome di Monte Luce , del cardellino , della seggiola, del duca ti' Alba , della tenda , del pannolino, della im- 8 pannata, dei candelabri, e ne' suoi ultimi anni quelle del baldacchino , del pesce, dello spasi- mo , della perla , della visitazione, di s. Sisto, ed altre. Classificando le quali Vergini nelle cate- gorie di cui parlai più sopra , non venne però in mente al Quatremére di aggiungere loro una quarta classificazione ; intendo dire della bea- tissima Vergine nell' atto di apparizione ; ed io farò opera di provarmi a riempire questa la- cuna , trattenendomi sulla Madonna di s. Sisto detta volgarmente di Dresda , e su quella che san Luca sta ritraendo nel quadro della galleria accademica di s. Luca in Roma. Per le quali due immagini è necessario , a mio credere, di fare una eccezione , collocandole in una cate- goria a parte ; perciocché esse non si mirano sedute , o in attitudine di riposo, come sareb- bero le Madonne del baldacchino , quella di Fuligno , o quella del pesce, ma muovono verso lo spettatore e sembrano realmente apparire ai suoi sguardi. Deriva ciò forse dalla incertezza dei termini , con cui sono rappresentate, sicco- me la nostra Madonna ritratta da san Luca , la quale nella sua parte inferiore si dilegua fra le nubi , e quella di san Sisto , che nella sua totalità si muove e spicca misteriosamente da fondo luminoso ? Ove ciò fosse , il grande ar- tefice avrebbe attuato ( forse senza conoscerla) la sentenza di Longino , il quale nel suo trat- tato del sublime vuole che non vi siano tratti distinti in un soggetto che presenti alcun che 9 di inaraviglioso o di soprannaturale. 0 le notate apparizioni ci vengono per avventura così ben simulate dalla riverenza che incutono nei per- sonaggi che compiono la scena del quadro, come nelle figure di san Sisto e di santa Bar- bara nella riferita tavola della galleria di Dre- sda , e dei s. Luca nel dipinto da me preso ad illustrare , personaggi tutti che stanno in atto di piegare od hanno di già piegate le gi- nocchia air apparire della gran madre di Dio? Io non saprei decidere un tal punto: forse per le notate cagioni , e forse per altre che non mi è dato poter spiegare. Comunque siasi , io tengo per fermo che niun artefice innanzi o dopo dell'Urbinate ne abbia con tanta abbon- danza di dimostrazione , e con tale sublimità di concetto, realizzata un'apparizione. E quando dissi un' apparizione , mi sembra di avere ac- cennato al tema più arduo che mai siasi un artefice obbligato di rappresentare ; in primo luogo , perchè è una astrazione che noi non possiamo concepire che d' appresso la nostra immaginativa; ed in secondo luogo, perchè ol- tre di saperla concepire bisogna persuaderne Io spettatore e partecipare al medesimo quel senso di raccoglimento religioso , che debbe provarsi in chi mira non solo alla effigie della divinità, ma alla stessa divinità che sembra presentarsi misteriosamente ai nostri omaggi. Avendo testé parlato di un'omissione degli storici che descrissero le opere dell'Urbinate, mi corre ora 1' obbligo di venirne alla più impor- 10 tante in cui essi caddero ; perciocché trattasi niente meno che della quasi dimenticanza del- l' insigne nostro dipinto del san Luca, tavola ben- sì ricordata per incidenza dal Baglioni nella vita di Federico Zuccari; dal Lanzi, che asserisce ivi essere il ritratto di Raffaello da se stesso effigia- tosi il più assomigliante; dal Quatremère, che colloca la data di esecuzione di questo dipinto al tempo che Raffaello preparava le composizioni per la così detta sala di Costantino ; e da al- tri , i cui poco importanti cenni è inutile qui riportare. Ma ninno prese mai ad illustrare de- gnamente un sì prezioso dipinto , il cui intrin- seco pregio è tale , e tanto è l' interesse che arreca pei documenti storici che lo accompa- gnano ( come verrà provato in appresso ) , che io non mi so persuadere come siffatto capola- voro , benché si trovasse deturpato e dirò sfi- gurato dal limo d' ignoranti pennelli, possa es- sere sfuggito alle osservazioni di tanti celebri scrittori che analizzarono le opere dell'Urbinate. Tentiamo almeno adesso di riparare ad un tal vuoto : e benché ciò non possa da me eseguirsi che con la povera mediocrità de'miei mezzi, siane di compenso la buona volontà , e la viva bra- ma di poter aggiungere un' altra pietra all'edi- ficio che la posterità riconoscente innalzò ad un tanto nostro immortale maestro. 11 CAPITOLO ITI. In figure di grandezza naturale ci mostrò Raffaello san Luca evangelista in atto di dipin- gere r effìgie della Beatissima Vergine, la quale gli apparisce sorreggendo sulle braccia il divin suo Figliuolo. Si scorge essa di profilo dallo spet- tatore sul lembo estremo del lato destro della ta- vola; e dislacca pel tuono locale del suo manto dal quadro posto sul cavalletto, ove il santo deve dipingere, come pure dal fondo istesso si distacca pe' lumi delle sue carnagioni. Secondo che già fu da me sopra notato, la figura di lei si nasconde dal mezzo in giù in una massa di oscure nuvole; il che impartendo un maraviglioso risalto all'ap- parizione, la dimostra cospicua, benché in bre- vissimo spazio ristretta. Il santo Bambino alla Vergine madre si aggruppa, quantunque nel vez- zo infantile si volga verso di s. Luca con una di quelle teste di fanciullo, cui fu solo privilegio del Sanzio e dell'Allegri di effigiare. Ingegnosissimo si è il collegamento delle due figure, vigoroso n'è il colorito, e classica la esecuzione, soprattutto nelle membra fanciullesche e nel panno azzurro che scende dal capo della Beata Vergine. Costan- te poi il sommo artefice nel rappresentare la mo- venza delle sue figure non terminata , sicché ti sembrano essere sempre in azione (precetto che venne poi abusalo dagli svolazzalori dei due sus- seguenti secoli) egli ci dipinse san Luca in alto di piegare il destro ginocchio mirando alla divina 12 apparizione, mentre imprende a ritrarla reggendo con la sinistra mano una scodellina, e con la de- stra il pennello che già segnò le prime sue tracce. Dissi che il santo personaggio sta in atto di pie- gare un ginocchio; perciocché mentre si vede di- stendere in avanti l'altro, un lembo, o ripresa ca- dente del suo manto sotto il braccio sollevato a dipingere, indica che il movimento non è com- piuto ; come ancora nel piegare delle ampie maniche ( di un tono verdastro ) tu vedi mani- festo il moto che il suo destro braccio fa nel- r alzarsi. Il detto manto poi , col quale esso protagonista del quadro è maestosamente rico- perto , di un color giallo sugosissimo, viene con tale artifìcio gittato sulla spalla , che mentre ne apparisce grandioso, non toglie nulla del mo- vimento 0 delle membra della figura, e nel tem- po stesso non impaccia affatto l'operazione del dipingere , a cui il santo si accinge. Un cotal modo di panneggiare , il quale non sembra ac- comodato , è singolarissimo e nuovo, e ci è pur testimonio de' molti mezzi eh' erano a dispo- sizione dell' insigne artefice per uscire con tal successo dalle combinazioni più intralciate. Ma r espressione del volto dell'evangelista non è de- scrivibile : tanto egli sembra invaso da santo fervore mirando al divin gruppo che gli si of- fre a modello; il colorito n' è acceso , forse a dimostrare lo spingersi che fa il sangue dal cuo- re in alto nel momento di tanto interesse; e la esecuzione, sia nel disegno , sia nell' impasto giorgionesco , è delle più brillanti a cui mai 13 sia perveniUo il Sanzio, che volle compendiare su quel volto quanto di più mirabile possa ve- dersi neir espressione e nel magistero dell'arte Immediatamente appresso vedesi la figura di un giovane, i cui lineamenti ci richiamano fedel- mente alla memoria le tante effi-ie di Raffaello che possediamo ; ed anzi , da quanto il Lanzi asserisce , sembra esserne il tipo più perfetto, e CI è chiarissimo argomento che in tal fìaura 1 artefice ritrasse se stesso , non come facente parte del soggetto rappresentato nella tavola , 0 come da alcuni si ritiene qual fattorino ixi assistente , ma sibbene nel modo che usarono 1 cinquecentisti ; qual donatario cioè che fa atto del suo dono votivo nel dipinto , e che però nulla ha che fare coll'argomento ivi espres- so. Cosicché 1 azione sua, o per meglio dire la sua inazione, dimostrata da una sua mano sul rivolto della zimarra al petto, e dall'altra sul- anca, viene ad essere ivi eloquentissima, men- tre e del pan un suggello di originalità all' o- pera che egli avrà avuto in pensiero di offrire qual segno della nota sua divozione alla Bea- tissima Vergine , e al santo protettore dedi artefici pittori. L abbigliamento di questa figura e di quell epoca, cioè tunica e zimarra, e questa di un color giallo chiaro con rivolti di un bel rosso d, lacca. Alla metà in circa della stessa effigie del donatario è sovrapposto il bue, che qual simbolo dell' evangelista , standogli d' ap- presso in mansueta attitudine , termina il di- pinto da questo lato manco : ed è mirabilmen- u te collocato, tanto per non nascondere di trop- po la disposizione del gruppo delle sovradescril- te figure , quanto per collegarsi col suo tono di un chiaro caldo al piano innanzi del dipin- to largamente illuminato in tono più freddo , che distacca dal fondo di uno scuro vigoroso ; e rende , a mio parere , il chiaroscuro di que- sta tavola dei più energici e singolari che si abbiano nelle opere dell'Urbinate. Né potevasi, credo , da esso trovar di meglio per ingrandire siffatta scena ; perciocché fu indi osservazione generale degli artisti , che mentre il dipinto si dimotrava alquanto confuso e di magro svilup- po, allorché vedevasi ancora ricoperto dall'oscu- rità de' restauri operativi sopra in più tempi , appena venne da mano esperta restituito al suo stato originale , ci apparve duplicato in perife- ria ; tanta è la magia di una vigorosa e ben ragionata graduazione di chiari e di ombre, nel cui artificio sta riposta la grand' arte di simu- lare le distanze dei vari piani, benché tutti so- pra di una medesima superficie. Ciò sia detto con pazienza di coloro che gridano , un cotale studio essere operazione inutile. Ma é omai tempo che io mi venga a dimostrare qual era il deplorabile stato, a cui questa tavola mara- vigliosa trovavasi ridotta allorché se ne ordinò dall' egregio consiglio dell' accademia il ripuli- mento. 15 CAPITOLO IV. Dalle indicazioni storiche a noi pervenute conosciamo , che sin dai tempi di Federico Zuc- cari questa tavola aveva assai sofferto, e nella operazione testé fattavi molti strati di colore sovrapposto 1' uno sull' altro mi furono indizio sicuro di quante volte fosse stata da mani pro- fane stropicciata , palleggiata , e mascherata. Così malamente ridotta tra per gì' indicati pretesi risarcimenti , e pel deperimento della tavola stessa stata assoggettata a procustiane operazioni , questo insigne monumento dell'arie non era quasi più riconoscibile,* a segno tale che da molti si credeva quasi una chimera la tradi- zionale opinione di sua originalità ; ma presso i più esperti nell'arte del disegno si travedevano sempre le sublimi indicazioni di un pennello senza rivale. Anzi era universale un grido di compianto, e un vivo desiderio nel tempo stesso di veder in fine ridonato questo tesoro della pit- tura alla luce delle arti. Sommamente arduo però sembrava a noi tutti dell' accademia di s. Luca il porre di nuovo le mani su di un dipinto che tanto aveva già sofferto , e che faceva temere di perdersi interamente con non lieve danno delle arti belle , e con disdoro nostro ancora , ove r operazione del risarcirlo non fosse con pieno successo riuscita. Senonchè, mosso da una ispirazione che ciò poteva avventurarsi in vista del progresso che 1' arte del restituire i dipinti 16 al loro essere ha fatto in questi ultimi tempi, io dirigeva nel novembre dell' anno 1857 al- l' insigne commendator Pietro Tenerani nostro presidente, nella mia qualifica d' uno de' sovrin- tendenti della galleria accademica , una circo- stanziata relazione sul deperimento della tavo- la del s. Luca di Raffaello, che la mano edace del tempo, e più quella degli uomini, avevano insieme ridotto ed una trista e deplorabile con- dizione ; e richiamava caldamente T attenzione speciale de' profersori della classe della pittu- ra, miei onorandi colleghi, sui guasti che ogni giorno facevansi più sensibili : perciocché le quattro tavole, di cui componesi il quadro, non solo venivano piegandosi in più sensi, ma la superficie stessa del dipinto vedevasi in più luo- ghi distaccata , e poteva quindi ad ogni più lieve scossa cadere. Oltre di ciò le cosi dette stuccature, postevi ne' tempi decorsi, eransi al- la fine convertite in tante macchie di color fo- sco, e lasciavano soltanto ( quasi oasi nel de- serto ) travedere ancora qualche reliquia del- l' originale pittura. Non meno poi di ventidue grosse viti di ferro, che trapassavavano dal di dietro e spietatamente eransi fatte emergere sul dipinto, avevano, come di ragione, tirato a se il legno ; cosicché 1' intera superfìcie del quadro poteva a un dipresso paragonarsi ad un materasso, le cui accennate viti figurasse- ro il trapunto. Non invocai invano intorno a ciò lo zelo che anima il prefato nostro presidente, il qua- 17 le interessandosi, come sommo artefice eh' egli è , alla conservazione di un tanto monumen- to , radunato a consiglio i tanti illustri pro- fessori dell' arte ond' è sì nominata l'accademia romana, chiese che ad ogni modo si corres- se prontamente al riparo ; mentre con pari ze- lo e solerzia facilitava il risultato delle nostre artistiche conferenze il chiarissimo professor cav. Salvatore Betti, qual segretario perpetuo dell' accademia medesima. Laonde si pose in discussione non solo se dovevasi o no intra- prendere il risarcimento del dipinto , ma anco- ra se questo doveva effettuarsi parzialmente col solo scopo di conservare ciò che appa- riva tuttora visibile di tale opera, ovvero ri- solversi ad una totale riparazione così delle ta- vole, come della pittura. Ciascuno di tali par- titi ebbe sul principio caldi sostenitori; ma in fine prevalse quello di tentarne un compiu- to ripulimento, confidandone la esecuzione, sot- to la vigilanza de' professori accademici, al co- nosciuto merito del sig. Giovanni Pileri. CAPITOLO V. Fortunatamente nel lodato sig. Pileri rin- venimmo uno di quei coscienziosi ed esperiraen- tati restauratori di dipinti, che ben conoscendo quanta sia la importanza di conservar gelosa- mente le tracce più lievi di un pennello origi- nale, si limitano a riparare ai guasti senza osa- re (salvo un'assoluta necessità) né togliere, né GATCLVi. 2 18 aggiungere di lungo e di largo, come spesso pur troppo vediamo operarsi sulle tavole d'insigni maestri ; essendo osservazione curiosa da farsi per la singolarità delle menti umane, che colo- ro i quali meno sanno più operano , mentre i veri artefici non arrischiano che diflìcilmenle un loro tocco: sicché ai poco intendenti dell' arte sembrano inesperti a paragone delia franchezza ed improntitudine dei primi. Cominciatasi l' opera del ripulimento con r assicurare tutta la superficie del quadro, af- finchè non venisse più a distaccarsi, ne fu tolta la pesante armatura che insieme con le accen- nate viti comprimeva e forzava il legno obbli- gandolo così a nuove piegature ; e le tavole poi furono con destra applicazione di umidità fatte pian piano ritornare allo stato loro naturale. D' appresso quindi 1<3 migliori teoriche dell' ar- te fu immaginata un' armatura intelarata al di dietro, che ritenendo le dette tavole e impedendo loro di più piegarsi , non ne forzasse la fibrii per altri sensi. Si ebbe così il risultamento di veder ritornato il piano del dipinto ad una re- golare superficie, la quale più non fece movi- mento alcuno in appresso. Dopo tali operazioni, si venne a quella di sgombrare il dipinto dagli accennati antichi re- slauri e stuccature: e quivi, nel dar termine al- le riparazioni suddette, nacque un incidente che è pregio di questa mia relazione di ricordare siccome nuovo storico documento, il quale vie- ne ad aumentar T interesse di un' opera tanto 19 preclara. Neil' atto adunque che si andava toglien- do il color fosco, che forse da qualche secolo si era sparso sull' innanzi del piano, e precisa- mente sotto il piede del cavalletto dipinto nel quadro, apparve un cartellino su cui vedevan- si le tracce indistinte di un nome col millesimo solo discernibile del mille e cinquenento. Affretta- tomi pertanto di consultar le notizie storiche che potevano condurmi a rischiarare questo punto, ecco quanto al proposito trovai nella vita di Fe- derico Zuccari scritta dal Baglioni ( edizione di Napoli 1733). « Egli ( Federico Zuccari ) ebbe animo mag- » giore delle forze, e fu amatore della virtìi , » ed amò in particolare 1' accademia romana, » come se ne vede il contrassegno nella sua » fabbrica , ove fatto aveva una sala a posta » per r accademia , e per i suoi studi ; e nel » suo testamento la fece sottoposta a fedecora- » messo, che morendo i suoi eredi senza suc- » cessori la sua erede universale fosse 1' acca- » demia e compagnia di s. Luca di Roma : tanto » era 1' amore che portava al luogo, fonte del » disegno. » Federico fu zelante della riputazione de' » suoi maggiori , ed in particolare di Raffael- » lo Sanzio da Urbino suo paesano ; poi- » che venne il caso che il quadro di s. Luca » di mano di Raffaello, e da esso donato a co- » testo luogo, per alcuni patimenti fu dato a » restaurarsi a Scipione da Gaeta, accademico, » valente uomo , egli l' accomodò, e come era 20 » solito di fare nelle sue opere , vi mise una » caria finta col suo nome di sotto appica- » ta.. Federico ciò vedendo, e notando la pre- » sunzione di Scipione Gaetano , gli guastò la » carta, il nome, e gli disse molte ingiurie, sic- » che vennero alle mani, e vi fu molta fatica » a rappacificarli, tanto egli era zelante dell' o- » nore de' grandi maestri e delle opere ec- » celienti. » Come già osservai, questo documento è sin- golarissimo, ed è prova irrefragabile della ori- ginalità del nostro quadro, in cui puossi ora da ognuno verificare il cartellino col nome di Sci- pione Gaetano raschiato e cancellato da qual- che istromento tagliente che ne lasciò le tracce tuttora visibilissime ; ed io sospetto fortemente che r essersi ricoperto un tale indizio del restau- ro fatto eseguire dal Zuccari, sia stata opera- zione di Antiveduto Grammatica, il quale, co- me si vedrà più sotto, ebbe intenzione di ven- dere il quadro ad un ricco amatore, approfit- tandosi della circostanza in cui egli era princi- pe dell' accademia, per sostituirvi una copia di sua mano da collocarsi suU' altare: ed ecco il passo, su cui fondo cotale opinione, tolto dallo slesso libro del Baglioni. » Occorse però eh' egli ( il Grammatica ) » ed il cav. Guidotti, essendo stati eletti ad ag- » giustare alcune differenze fra gli accademici, » Antiveduto, eh' era di mal talento contra il » Salini, fece cancellare i capitoli dell' accade- » mia, e stabilì una colletta di soli vcnticiuque » soggetti i più scelti del ioro corpo yiiluoso, » che per bussola cavar si dovessero : e fece » che il Salini restasse fuori del numero; sicché » questi gravemente se ne punse, e tanto mac- y> chinò contro Antiveduto, che alla fine con l'aiu- » to del cav. Padovano avendo scoperto che il » Grammatica voleva dare il quadro di s. Lu- » ca di mano del gran Raffaello, e lasciarvi di » suo in chiesa una copia , ricorse egli ai su- » periori, ed operò sicché fu privato Antiveduto » del principato , ed in suo luogo posto Simo- » ne Vouèt francese. E per questa occorren- » za, che turbò tutti, furono tenute molte con- » gregazioni, e con 1' aiuto del cardinal Fran- » Cesco Maria del Monte si disfece la colletta » e nello stato di prima ritornò l'accademia, » e sopra di ciò si ottenne un breve dalla san- » tità di N. S. Urbano Vili confermato. » Onde il Grammatica se ne prese gran- » dissimo disgusto, e fu in parte cagione che » se gli abbreviasse la vita ; poiché dopo que- » sto fatto non istette egli più bene, e final- » mente di 55 anni incirca terminò i suoi gior- » ni a' 13 di gennaro dell'anno 1626. w Questi fatti storici a me sembra che ci rivelino due dati sicuri ; cioè la indubitata ori- ginalità del dipinto, che pur da molti veniva contrastata, siccome ne fan fede alcune estere notizie che asseriscono sia solo per metà di ma- no del Sanzio ; e poscia la influenza maligna che sempre 1' accompagnò ; poiché sin dal bel principio lo vediamo cagione di far venire al- 22 le mani due chiari artefici quali furono il Zuc- cari e Scipion Gaetano: seguentemente fu co- me pomo di discordia gettato nell' accademia romana, ove eccitando le fiere baruffe dei no- stri buoni antenati seicentisti, lo Beandolo ebbe solo termine con la morte di uno di coloro ; indi fu trascurato a segno, che ninno de' più riputati scrittori delle opere del Sanzio volle parlarne, fuorché in termini generali, come se ne avessero temuto il contagio. Speriamo al- meno che all' autore di questi cenni, il quale tanto si adoperò co' suoi colleghi per restituir- lo al suo lustro e splendore, non ne provenga altro danno che quello di vedere lo scritto ser- vir fra breve d'involto ai rivenditori di merci ! Roma 6 di agosto 1858. F. Cavalleri 23 Riassunto delle antiche e recenti nozioni sul cancro. Non fiDgenduni aiit excogi'lau- dum, sed inveniendum quid natura facial, aut ferat; quae enim in natura fondata sunt, crescuut et augentur; quae in opinione vai'iantnr, non au- gentur. Ruggero Bacone. CAPITOLO I. Introduzione., e parte storica. 1-Ja nosologia del cancro fin dai tempi ippo- cratici fu da tutti i cultori dell* arte salutare intesa in maniera così oscura e confusa, che i relativi scrittori si tennero paghi d'un linguaggio ambiguo , e di tradizionali teorie. Tale dispia- cente verità mi mosse a compilare il presente lavoro, onde riassumere colla possibile brevità le primarie e fondamentali questioni ai nostri tempi controverse sul carcinoma , non che gli avanzamenti, da'quali per opera de'moderni pa- tologi viene illustrata questa parte della medica scienza. Ed in vero fra i mali tutti, ai quali va sog- getta l'umana prosapia, è stato il cancro sempre e giustamente ritenuto uno dei più formidabili. Poiché ad onta dei grandi progressi che l'arte raggiunse , massime in questo secolo per le istancabili fatiche di uomini celeberrimi, è forza 24 nondimeno che il paziente soccomba tuttora al- l'ira di questo implacabile nemico della anima- lità. Talché il Vecchio di Coo riputò meglio non cimentarsi con esso, di quello che fidarsi alla speranza di una mal sicura terapìa: « Cancros occultos habentes melius est non curare; curati enim citius intereunt , non curati longius tem- pus perdurant ». Ippocrate però ebbe sì oscu- ra conoscenza diagnostica del cancro , così no- mato per le esteriori somiglianze col crostaceo di tal nome, che non seppe che così definirlo: « Un tumore rotondo , duro , ed ineguale , di livido colore , doloroso , calido , circondato da vene turgide, e generato dall'atrabile ». De- finizione oscura ed erronea , non essendo co- testi attributi affatto esclusivi del cancro , cui d' altronde ninno oggidì potrebbe a giusta ra- gione assegnare come causa prossima la bile, il cui organo secretore dovrebbe supporsi allora originariamente affetto: ciò che non è in alcun modo dimostrato dalla esperienza degli studi anatomico-patologici. Imperocché numerose ne- croscopie d' individui cancerosi ne han cerzio- rati, che il fegato come la bile possono non prendere affatto parte nella produzione dell'af- fezione in discorso. Galeno propagò da un lato una teoria sul cancro giusta la sua dottrina degli umori, va- lendosi altronde delle idee ippocratiche sulla «ausa prossima che riputò dipendente dalla bi- le nera. 25 Celso, più accuratamente investigando, com- prese quanto fosse malagevole impiantare teorìe in una scienza che non potea vantare fino al- lora che tenui progressi. Laonde si ristrinse egli a dividere i tumori cancerosi in duri e molli innanzi 1' ulcerazione ; ma ne seppe così bene apprezzare il prognostico , che sentenziò di tal modo; « Carcinoma tolli nihil potest nisi cacho- etes ; reliqua curationibus irritantur , et quo maior vis adhibita est eo magis. Quidam usi sunt medicamentis adurentibus ; quidam ferro adusserunt; quidam scalpello exciderunt, ncque ulli unquam medicina profuit, sed adusta pro- tinus concitata sunt , et increverunt donec oc- ciderunt. Excisa etiam post inductam cicatricem reverterunt, et caussani mortis attulerunt ». Le quali sterili nozioni per altro , ritenutesi quasi dommaticamente per secoli, non furono abban- donate che in sullo scorcio del medio evo do- po i lavori di Guy de Chauliac , di Ambrogio Pareo, di Guglielmo dn Saliceto ed altri, i quali però non fecero gran fatto progredire la scienza. Nel secolo XVII e nel principio del XVIII si produssero con nuove opere uomini quanto insigni , altretlanto in questa parte illusi ; un Tulpio , un Fabrizio Ildano ed altri ; i quali propalarono sorprendenti guarigioni , basate in vero sopra errori di diagnostico. Furono più di loro avveduti due grandi ingegni della nostra penisola , il Flaiani e lo Scarpa , i quali me- glio chiarirono questo ramo della scienza sa* 26 hitare , sebbene anch' essi il facessero in ma- niera non del tutto soddisfacente e completa. Cosicché i trattatisti non facendo che co- piarsi r un r altro letteralmente , tranne qual- che differenza poco sostanziale; in cosiffatta de- ficienza di buone teorìe e di pratici risultati, la nosologia del cancro si mantenne quasi staziona- ria , e circoscritta in angusti confini sino all'in- cominciar del presente secolo, in cui apparvero tre scuole celebri francesi rappresentate dal Bayle, dal Boyer, dal Laénnec ; e quest'ultimo accennò prima d' ogni altro ch(; i cancri erano costituiti da un tessuto particolare ; e la sua scuola, che appellossi anatomica, accolse pai in j:frembo celebratissimi professori, un Andrai, un Bichat, un Cayol, un Cruveilhier, un Dupuytren, un Recamier , un Velpeau ec. ai quali fanno onorata corona un Abernethy, un Astlhey Coo- per, un Burns , un Wardrop in Inghilterra, un Walther in AUemagna, per tacere la schie- ra illustre d' altri dotti d' ogni nazione. Infatti il Bichat erasi già avveduto che il cancro del seno esordiva con una picciola durezza, e ter- minava col ridurre i tessuti glandoloso , cellu- lare , e cutaneo in una massa comune e can- cerosa. Il Cruveilhier fin dal 1844 espose dalla tribuna accademica la sua dottrina dei tumori fibrosi , ed insegnò il modo di riconoscere le affezioni cancerose ; poiché pria di quest'epoca non esisteva una sola scuola che sapesse rico- noscere con sicurezza il cancro , od almeno distinguerlo dagli altri tumori analoghi non so- 27 lamenle sul vivente , ma neppure sul pezzo pa- tologico rescisso dal cadavere. E più di tutti il Velpeau, dopo i suoi stu- di per vari anni protratti, annunziò che il can- cro dovea essere separato e distinto da altri tumori che fino allora eransi comunemente ri- tenuti per cancerosi, assumendo per base di dot- trina il loro modo di svihippo , di progresso , di durata e di termine ; e gli sembrò che tanto differissero dagli altri pe' loro caratteri esterni e pel loro clinico andamento, che volle per an- tonomasia designarli coll'appellazion di maligni, e ne formulò la clinica definizione ne' seguenti termini : » Dicesi cancro un tessuto suscettibile d'as- sumere differenti forme, come quella di tumore, di placca ec. offerente un lurido aspetto, e ter- minantesi per ulcerarsi; aderendo alla pelle ed ai tessuti sottostanti , con invincibile tendenza a vegetare, ripullulare e moltiplicarsi; invaden- do a poco a poco i tessuti vicini, i gangli, gli organi lontani; sostituendosi così agli elementi normali dell' organizzazione , e distruggendo fi- nalmente r individuo ove si abbandoni a se stes- so, attaccando, per così dire, il principio della vita. È tale il cancro , tale il tumore che io chiamo maligno ». Siffatta definizione, benché in vero fondata sopra cliniche veritcì , pure V accennata sinto- matologia dei tumori cancerosi potendosi di leg- geri confondere con quella dei tumori d'indole diversa, nò il carattere di malignità, secondo il 28 senso del Velpeau, essendo in essi talmente esclu- sivo , che non possa dimostrarsi in altre spe- cialità morbose; e tutti i tumori, per non dire tutte le malattie, potendo, dal lato della loro gravezza riguardati, divenire maligni; quel gran propugnatore della moderna scuola clinico-chi- rurgica non giunse perciò a classificare e distin- guere i tumori cancerosi nel modo che già re- clamava la nuova posizione progressiva della scienza. E comecché gli autori da Ippocrate fino a noi abbian voluto trattare o far conno del can- cro , e fin dal 1837 l'alemanno Gluge studian- do al microscopio il tessuto canceroso s'avvide già che volea essere da ogni altro distinto; era nondimeno riserbata al Miiller la gloria di per- fezionare il metodo di studiare i prodotti mor- bosi, operando nuovi tentativi d' applicazione del microscopio allo studio della struttura inti- ma delie lesioni patologiche ; e dato egli nel 1839 più valido impulso a questo progresso scientifico, fonte di maravigliose utilftà, e rical- cate le orme di Malpighi , di Leeuwenhoek, di Falloppio, di Bichat ec. venne ben tosto seguito da altri scienziati illustri del pari, mercè i quali, essendosi a tal modo studiate le affezioni can- cerose , si tese per così dire una linea di divi- sione fra i veri cancri ed i tumori non cance- rosi stati fino allora con quelli confusi , ed i micrografi credettero averne scoperto il carat- tere differenziale e specifico nella cellula, come innanzi vedremo. Pertanto fin da quell' epoca 29 vennero a correggersi e modificarsi le idee dei passati patologi, i quali ritenevano il cancro co- me una necessaria degenerazione dello scirro. Laonde s' ingegnavano con inutili mezzi d' im- pedire che il secondo nell' altro degenerasse , ponendo divisione fra cancro occulto^ ossia non ulcerato, e cancro manifesto; allorché eravi ul- cerazione ; confondendo così il vero col falso cancro dietro una apparente simiglianza, e di- distinguendovi ancora uno stadio di crudità ed uno di rammollimento : ma a dir vero non ap- portando che nosologica confusione. Se non che uno de' più grandi clinici moderni , ed in pari tempo micrografo, il Lebert, applicatosi da lunga epoca con indicibile perseveranza allo studio del- le affezioni cancerose, compose nel 1851 la più bella monografia, ampliata poscia ed inserita nella sua impareggiabile opera d' anatomia pa- tologica (1). Viene egli ivi ad istituire i confronti più rigorosi fra i risultati microscopici da essolui ot- tenuti , e quelli della osservazione clinica; ed a lui è più specialmente dovuto il merito d' aver riempiuta questa lacuna alla scienza coli' indi- care esaltamente la struttura intima del tessuto canceroso per l'analisi de' suoi elementi ana- tomici. Le nuove osservazioni del professor di Zu- rigo però non arrisero punto al Velpeau ed alla sua scuola. Quest'autore celebre nel pregiatissi- (1) E in corso d' as5ociazioije il becundo voliniie. 30 mo trattalo delle malattie del seno , che pub- blicò nel 1854, si studia di metterle in contro- versia ; ed ambiduc questi professori, riassumen- do ciascuno le proprie teorie, impegnarono al- l' accademia medica di Parigi una serie di così interessanti discussioni sulle malattie cancerose da chiamarvi sopra 1' universale attenzione. Av- vegnaché poche fra le malattie tennero da sì lungo tempo così seriamente occupata la men- te ai patologi, come le cancerose affezioni. Il loro termine quasi sempre infausto , il loro ri- calcitrare ostinato ad ogni più conveniente me- dela, gl'inesprimibih tormenti de'sofferenti, fece- ro che se ne prendesse ognora il più vivo in- teressamento. Laonde ognuno, che s'imbaitè ad osservare un caso di malattia cancerosa, s'affret- tò di renderlo di publlica ragione alla scienza. CAPITOLO IL Origine delle recenti questioni sul cancro. Per tal modo nel 1854 venne all'accade- mia di medicina a Parigi fatta lettura d'un rap- porto contenente una osservazione indirizzata fin dall'agosto 1846 dal dott. Pamard, corrispon- dente della stessa accademia in Avignone, sopra la degenerazione cancerosa d' un sarcocele od encefaloide del testicolo in un bambino di 17 mesi curato con felice successo dal medesimo , sebbene ogni cancerosa affezione sia eccezionale in una clà così tenera. L'accademia tutta si sol- 31 levò contro 1' esattezza di sì straordinario caso di guarigione , e diede la mossa ad una serie di vive discussioni sulla opportunità dell'esame microscopico nel diagnostico dei tumori cance- rosi e sulla loro curabilità. Si divise quindi il campo della questione in due parti, delle quali una col Velpeau rappresentava la scuola cliiìica; r altra sosteneva la scuola microscopica di Le- bert. Poiché il primo volle negare l'infallibilità dei microscopio, e diminuire quindi alla cellula cancerosa il valore accordatole dall' avversario con ragionamenti ingegnosi, come praticato avea nel trattato delle malattie del seno. Egli non accettò la dottrina del Lebert sulla specificità della cellula cancerosa, perchè gli sembrò troppo esclusiva ; perchè ritenne la cellula cancerosa transitoria , omeomorfa, ossia appartenente allo stato normale dei tessuti organici ; laddove il Lebert voleala eteromorfa, e propria d'uno stato anormale specifico dell' organismo. La dottrina dell' omeomorfismo ed etero- morfismo era stata innanzi al Lebert ammessa da molti patologi ; ma sotto l' influenza d' un tanto maestro acquistò una importanza gran- dissima ; ed in questa occasione tornò, per dir così^ a rivivere, e per essa l' elemento cance- roso servì a spiegare la riproduzione, la gene- ralizzazione e r incurabilità assoluta dei tumori che lo racchiudono. Eransi chiamati omeomorfi od omologhi i prodotti morbosi costituiti da ele- menti anatomici simili, ossia della stessa specie e natura di quelli che esistono normalmente 32 neir organismo , originati da una alterazione di questi elementi , di cui si può con vari mezzi arrestare lo sviluppo, ed eccitarne il riassorbi- mento ; come le ipertrofie d' ogni genere, mu- scolari , fibrose, glandolari ec, o da esagerata nutrizione degli elementi dei prodotti determi- nanti un altro ordine di fenomeni differenti dai primi, ed alteranti in altra guisa l'esercizio del- le funzioni ; o da affievolita od annullata vita- lità , come le produzioni epidermiche , pigmen- tarie , cornee ec. Laddove etcrologhi od eteromorfi diceansi certi prodotti morbosi ( tessuti , umori , ele- menti patologici ), i quali non sono la degene- razione di parti già esistenti nell' organismo, né vanno considerati come degenerazioni nate a spese della sostanza nicdesima degli elementi già esistenti nell'organismo stesso, o come ripro- duzioni di essi; ma al contrario quali produzioni nuove sviluppate da un blastema formatosi sotto condizioni anormali. Di modo che la loro pre- senza nel corpo vivente costituisce uno stato anormale e patologico, speciale e caratteristico. Di tal fatta sono il tessuto , il succo , la cel- lula del cancro , del tubercolo , ed i liquidi purulenti. Il Bennett , il Mandi, il Paget, il Remak, il Rokitansky, ii VirchoM' ed altri parteggiarono per r omeomorfismo , e dissero la cellula can- cerosa non essere specifica , mentre si trova eguale ed analoga nell' epitelio , nelle cartila- gini ec, ed i tumori omeomorfi , ossiano com- 33 posti di questi elementi normali dell' organismo si generalizzano, e determinano pure la caches- sìa speciale , e la morte degli individui , come fanno quelli detti eteromorfi. Quale differenza pertanto , dimandano il Velpeau , il Forget , il Marjolin , offrono essi» questi tumori detti omeo- morfi col cancro , se recidivano com' esso sulla località , nei gangli vicini , e si generalizzano ? D' altra parte scienziati non meno illustri, un Amussat , un Broca, un Bouillaud, un Clo- quet , un Leblanc , ui» Robert , un Verneuil , e tanti altri divisero 1' jpinione del Lebert in guisa , che la dottrina deiromeomorfismo, e del- l'eteromorfismo , delia specificità e della non- specificità della cellula cancerosa venne egual- mente difesa ed appoggiata da abilissimi micro- grafi , e chi volle seguire la scuola microscopica sulle orme segnate dal Lebert, chi rimanersene colla clinica del Velpeau, ed il microscopio tro- vò gagliardi avversari e difensori. Fra' quali il Robert venne innanzi il primo a dimandare se la parola di guarigione contenuta nel rapporto del Paraard si debba applicare di- rettamente al cancro , ovvero ai successi del- l' operazione ; mentre gli esempi di guarigione del cancro sono talmente rari ^ che questo fat- to merita d' esser notato come uno dei piti ec- cezionali della patologìa chirurgica. Sostiene quindi il Robert essere incompleta l'osservazione del Pamard , perchè il, tumore encefaloide non fu sottoposto all' esame del mi- croscopio , mezzo il più valevole a togliere il G.A.T.CLYI. 3 dubbio sulla natura di esso. Ed essendo stata oltre a ciò communicata 1' osservazione dopo la riparazione della piaga chirurgica , cioè ad un' epoca troppo vicina all' operazione , non si può logicamente concludere della guarigione del cancro. Poiché se il Pamard ha voluto dire che la piaga dell' operazione è cicatrizzata , nulla avvi di meraviglioso ; ma se il soggetto è gua- rito radicalmente del suo cancro , questo fatto merita d' esser preso nella più seria considera- zione per la sua rarità. D'altronde se quest'ul- tima interpretazione è quella del dott. Pamard , vi è luogo a dimandare se trattavasi realmente di un vero cancro , poiché il microscopio non venne consultato. Il Leblanc dopo avere studiato per lo spa- zio di vent' anni il cancro clinicamente , ossia senza il microscopio , e quindi per ott' anni col soccorso di esso, francamente confessa che an- tecedentemente alle sue ricerche microscopiche con estrema facilità s' ingannava confondendo r ipertrofia delle mammelle col cancro ; ma che giunse poscia perfino a conoscere che queste due morbose specialità potevano confondersi in uno stesso tumore. Ed il Lebert , appoggiato alle proprie osservazioni, é giunto a pronunciarsi in maniera precisa , affermando che , dato un prodotto morboso, il patologo clinico bastante- mente versato ne' studi microscopici può nella grande maggiorità dei casi determinare se trat- tasi o no d' un tumore canceroso. Ed aggiun- ge il Bouillaud , che se i micrografì non sono 35 infallibili , il microscopio non può ingannarsi né s' ingannerà giammai : poiché è desso un istro- mento che non vede , ma ingrandisce gli oggetti a Londra come a Parigi , a Vienna come a Berlino ; e noi guardiamoci bene dall'accusarlo degli errori^ de' micrografi , delle illusioni della vista , e de' falsi giudizi dello spirito. Il microscopio , dice a proposito il Ver- neuil (1), conosciuto da secoli, ma che non avea fino allora che dei risultati incerti , é stato da quindici anni, grazie ai perfezionamenti che ha subito , applicato ad un gran numero di bran- che della nostra scienza. E siccome la struttura dei nostri organi e tessuti ed i caratteri precisi degli elementi anatomici, che sono i corpi sem- plici dellorganismo, non possono essere studiati che cogl' istromenti d'ingrandimento, perchè la loro picciolezza s' invola alla vista, così la scuo- la moderna di medicina di Parigi si credette in dovere di ricercare con tali istromenti le le- sioni elementari. Studiando pertanto un certo numero di tipi di ciascuna malattia , e ritro- vando sempre la medesima struttura, o consta- tando almeno la presenza costante d'un elemen- to normale più o meno alterato nell' economia, ha ella tentato dietro V osservazione dei più distinti istologi e micrografi di caratterizzare anatomicamente ogni elemento nuovo, insolito , inutile o nocivo nell' economia , e che sogliono (1) Gazelte hebfiomafifiire rie Paris 1854-55. DJscuisiou sur le cancer. 36 appellare cellula , per es. del pus , cellula del tubercolo , cellula del cancro ecc. Per que- sta applicazione microscopica gli studi istolo- gici hanno acquistato una utilità incontesta- bile in patologìa ; per essa i micrografì han- no acquistato delle nozioni nuove , rettifica- to alcuni errori , e spiegato fatti pratici per lo innanzi privi di teorìa. E soggiunge il lo- dato Verneuil , fino al momento in cui , se- condo il. detto di molti istologi , il microsco- pio non sarà divenuto superfluo, egli è d'uopo far passare tutti i tumori sotto il suo control- lo , essendo questo il migliore mezzo di giun- gere a fare il più presto ed il meglio possibile r istoria naturale del cancro , sul quale peral- tro non si è ancora detto ogni cosa. Il Robin anch' egli dichiara che il micro- scopio è attualmente il solo mozzo suscettibile di stabilire delle distinzioni che divengono in- dispensabili. Ed un altro scrittore della Presse medicale così argutamente si esprime: - La microscopia non era che la figlia legittima della notomia ; ma oggi questa fanciulla terribile incomincia a far paura a sua madre -. Tuttavolta la gloria novella acquistata dal microscopio anziché oscurare quella della clini- ca , non fa che renderla vieppiù illustre e si- cura. Poiché se la microscopia incomincia dove finisce la clinica , è pur sempre innegabile, se- condo 1' espressione del Ranzi , che la ragione clinica debba essere la prima base sulla quale 37 si stabiliscono gli ordini de'tessuti anormali. 1 ri- sultati anatomici debbono essere subordinati a questo studio clinico, cioè a dire, allo sviluppo ed al corso naturale delle malattie. Cosicché la clinica e la microscopìa non possono omai considerarsi fra loro divise; esse sembrano destinate a prestar- si un mutuo soccorso, e procedere di pieno ac- cordo nello svelare i misteri della natura mor- bosa ; poiché le cose della natura raggiungono progresso ed aumento ; e quelle dell' opinione vacillano e cadono. Il Barth, a dimostrare che dall'unione dei mezzi razionali co' sensibili nasce nello studio del cancro quel necessario ed utile connubio fra la microscopia e la clinica, così si pronuncia; - In un grandissimo numero di casi l' occhio senza il soccorso d' alcun istromento basta a ri- conoscere un cancro , constatando così la pre- senza della materia polposa , caratteristica, sia che ella predomini come nell' encefaloide , sia che si associ a diversi elementi, ad una trama fibrosa per es., come nello scirro, ad una ricca rete vascolare , come nel fungo ematode, a del- la materia nera, come nel cancro metanico, ad una sostanza gelatinosa , come nel cancro col- loide. Questi stessi elementi che un occhio eser- citato può il pili spesso distinguere coli' aiuto dello scalpello anatomico, e d'unione ai sintomi razionali , come la degenerazione de' gangli vi- cini, e la recidiva della lesione , si trovano sotto altre forme al campo del microscopio. Cosicché 38 per r occhio 1' elemento essenziale è la polpa cancerosa , pel microscopio è la cellula. Sia pertanto tributo di lode e di ricono- scenza a que' personaggi che da lungo trascor- rere d' anni si sono occupati a ricercare nei tu- mori cancerosi un elemento caratteristico par- ticolare suscettibile di stabilire la loro natura. Eglino dietro le durate fatiche rinvennero un ele- mento solido che chiamarono cellula cance- rosa ; la quale se non costituisce il carat- tere essenziale e patognomonico del cancro , vuoisi almeno considerare come il più impor- tante d' ogni altro. Le ricerche fatte per mezzo del microscopio, dice il Robert, han realizzato un immenso progresso nello studio delle produ- zioni accidentali ; e se la luce deve un giorno divenir completa su questo punto così impor- tante , una grande parte di gloria ne ricadrà a coloro , i quali si posero a questi lavori dif- fìcili con lodevole ardore e perseveranza degna d' incoraggiamento. CAPITOLO IIL Definizione recenziore. Premessi così questi cenni storici del can- cro, i quali nello stato attuale della scienza era- no indispensabili , sembra che tutte le antiche definizioni debbano perdere in certo modo il primiero valore rapito loro e per dir così con- 89 quistato dalla microscopia, la quale poggia sulla base solida e men fallace della fìsica sperimentale. Il chiarissimo Bufalini lasciò scritto nella sua Patologia Analitica, che il sistema maravi- glioso della natura non può essere a noi disve- lato che coll'opera de' sensi, i quali lo rappre- sentino all'intelletto: ed aggiunge: « Se non aves- simo occhi, saremmo privi della cognizione della luce e de' colori ; se ci mancasse 1' udito , non avremmo idea de' suoni ; e senza sensi sarem- mo ancora senza idee: » e potrebbesi acconcia- mente aggiugnere, che senza il microscopio sa- remmo ora privi delle nuove cognizioni del cancro. È il cancro adunque , secondo il Lebert e la sua scuola , una malattia speciale , diiferen- te da tutte le altre , che si sviluppa in virtù di peculiare interna predisposizione o diatesi ; avente per carattere fondamentale la proprietà di sostituire ai tessuti normali, in mezzo ai quali si è generato, un tessuto di nuova formazione di cui non avvi analogo nell' animale economia; che differisce ad occhio nudo nell' aspetto e ne- gli elementi microscopici da qualunque altro tessuto normale o patologico; gode d'una insita tendenza alla propagazione locale, alla irradia- zione delle parti vicine , ed alla generale infe- zione, e, salva forse qualche rarissima eccezio- ne , recidiva costantemente dopo 1' estirpazione finche induce poi la morte per un generale de- perimento. Né disconobbe siffatta malaugurata tendenza il Monreau allorché ne' Saggi medici d' Edimburgo , scrisse la diatesi cancerosa non potersi escludere dalla diagnosi del cancro, es- sendo questa una malattia sempre universale. E soggiugne il Ferminelli (1) : » Se deesi prestar » fede ai più classici scrittori che han fatto stu- » dio particolare nella diagnosi del cancro, ap- » pena si può incontrare nella clinica chirur- » gica qualche caso in cui sia lecito escludere » la diatesi cancerosa. » Asserzione che ci verrà altresì comprovata successivamente dalle testi- monianze d'altri personaggi di gravissima auto- rità. Vedremo poi meglio quali sieno i caratteri esterni del cancro, gli attributi speciali, e gli ele- menti patologici che lo distinguono. CAPITOLO IV. Classificazione dei tumori cancerosi. Intanto senza intrattenerci sulle antiche di- visioni del cancro, che riescirebbe, anziché noioso, privo d'alcuna utilità, direm senza indugio che viene esso distinto da molti degli odierni pato- logi in due classi ; la prima delle quali include i cancri propriamente detti, o cancri veri-, l'altra i pseudo-cancri., o cancri falsi: e questa secon- da classe abbraccia essa stessa due ordini , che sono: 1 tumori cancroidi; II tumori fibro-plastici. II cancro propriamente detto imperlanto, co- mecché sempre essenzialmente identico e costi- li) Memoria sulla natura e rimedio dc'carcinonii - Temi 1820 41 tuente una unità patologica distinta , presenta nondimeno sei forme o aspetti differenti desi- gnate co' nomi di 1 encefaloide, o molle: 2 scir~ rosa, 0 dura: 3 gelalini forme, o colloide; 4 ema- tode, 0 sanguigna: 5 pigmentaria, o melanica: e 6 denlrilica. Il cancro encefaloide, o cancro a forma en- cefaloide, cancro molle, cancro cerebriforme , al- trimenti detto sarcoma ìnidollare, sarcoma polpo- so, tubercoloso di Abernethy , ha per carattere differenziale dalle altre forme cancerose la tra- ma del suo tessuto soffice sì, ma di fibrosa com- page, ripièna d' una materia molto analoga alla sostanza cerebrale, quasi omogenea, ed infiltrata per lo più d' un succo torbido e lattescente. Quando è incipiente, che gli antichi chia- merebbero allo stato di crudità, suolsi mostrare sotto l'apparenza di un corpo di figura varia- bile, ma ordinariamente tendente alla sferoidale, d'un colore bianco-vario, circondato di masse lar- dacee più o meno voluminose , Lianco-grige e semitrasparenti, le quali non sogliono oltrepas- sare nello stadio il più avanzato il volume di un pugno umano. Ove lo si tagli, lascia vedere la polpa bian- castra di sopra accennata, che si può spremere e portar via col mezzo dell'acqua. Di mano in mano che l'encefaloide progre- disce, si rammollisce vieppiù, si rendono più si- gnificanti e caratteristici la sua tessitura areo- lare, cellulo-fibrosa, e la polpa contenuta negli interstizi di essa , la quale per l' innumerevole 42 quantità di esilissimi vasellini sanguigni, che vi si uniscono e quasi vi s' immedesimano , come lo ravvicinano sempre più all'aspetto della sostanza cerebrale, così meglio il distinguono dal tessuto scirroso, di cui ci occorre fare or ora menzione. Non voglio io però essere così ardimentoso da negare contro le generali leggi patologiche, che abbiansi i tumori encefaloidi nel compiere il cor- so loro uno stadio di cominciamento , uno di progressione , ed uno di termine ; ma sostengo altresì col Vidal, il primo di questi stadi , os- sia di crudità-, potere essere talmente breve da deludere il nostro accorgimento, e quella spe- cie di fluttuazione, che sente la mano esplora- irice di questi tumori, non essere prova certa di seguito rammollimento. Dappoiché avvi bene una certa mollezza che non vuole essere confusa col rammollimento, cioè a dire, che va unita con una grande coesione; e questa specie di mollezza os- servasi qualche volta nell'encefaloide allo stato di crudità. Il cancro encefaloide non risparmia tessuti ed organi, ma tutti egualmente gì' invade; e que- sta forma encefaloidea del cancro è sì comune nell'organismo animale, che costituisce essa sola pressoché la metà delle affezioni cancerose. Lo scirro^ o cancro duro, cancro legnoso, è quella specie di cancro vero che offre l'aspetto più decisamente fibroso , che mantiene sempre una durezza lardacea o fibro-cartilaginea , che stride sotto al tagliente, ed ha una certa appa- renza di lucentezza. Il tessuto scirroso racchiu- 43 de ne' suoi interstizi una materia albuminosa , meno dura o quasi, molle , giallo-grigia , dalla quale essudano premendo delle tenui stille di succo canceroso, e la sua trama fibrosa è resa unita , densa, e fortemente compatta da questa intertesta materia albuminosa, commista pure a sostanze terrose e saline. Laonde quando ta- gliasi un tumore scirroso si scorge una sostanza biancastra o giallo-grigia, non dissimile da una cotenna di lardo ingiallita dal tempo. Malgrado le diligenti indagini di molti au- tori di vaglia, mai si furono constatati nei tumori scirrosi né vasi linfatici, né diramazioni nervose. Lo Scarpa, che volle tentare la prova dei primi mercè delle iniezioni, vide andar vano ogni suo tentativo. Il Mueller ed il Cruveilhier s'accordano nel credere potervisi rinvenire dei vasi sangui- gni; ed il Vidal presume averli finanche veduti ad occhio nìido in un tumore scirroso dello stomaco. Lo scirro stabilisce sua sede più special- mente allo stomaco, al retto intestino, negli or- gani glandolari, ed in quelli tutti che godono d' una fabbrica cellulo- fibrosa. II Velpeau per- altro riferisce aver veduto scirri sulle pleure, e negli organi respiratori; ed altri autori li han visti pure, come leggiamo nelle opere loro, nelle membrane del cervello e del cervelletto. Il cancro gelatiniforme ( che alcuni vollero distinto dal colloide per avere il primo la sua sostanza ordinariamente racchiusa in una areo- lare e finissima trama fibrosa, ed il secondo in un reticolo di delicatissimi lobulini ) ha l'appa- renza di una sostanza glutinosa, simile ad una gelatina formante un tessuto semitrasparente, ma raramente omogeneo. È a notarsi peraltro che questa materia ge- latinosa non è per se stessa cancerosa, ma piut- tosto ritrovasi fortuitamenie al cancro mescolata. II cancro ematode, cancro sanguigno^ fungo emalode di alcuni antichi viene così chiamato in riguardo alla vascolarità generale ed uniforme che vi si distribuisce, e gli fornisce un aspetto tutto particolare; ma gran fatto non dissimile nel co- lorito ad una massa musculare rammollita. Il cancro melanico^ o melanotico , o pigmen' iarìo^ 0 cancro nero^ è quello in cui predomina una sostanza colorante nera, deposta nella spes- sezza delle cellule , od anche fuori delle loro pareti , la cui natura non è stata incontesta- bilmente determinata , perchè da taluni venne creduta carbonio, da altri ematina. Onde il suo color nero non è che una qualità meramente accessoria. Esso predilige soprattutto V occhio , il tegumento cutaneo ecc. Il cancro dentritico finalmente stabilisce la sesta forma di questi tumori, la quale prende ori- gine da una trama fibrosa, spongiforme e caver- nosa , con decisa tendenza a delle escrescenze in foggia di masse e di tubi rotondati e chiusi alle loro estremità libere. Tali escrescenze pos- sono vascolarizzarsi più o meno , e lacerandosi dar luogo a delle abbondanti emorragie. 45 La forma dentnìica sccondu il Lebert, Ro- kitansky, ed altri si rinviene frequentemente alla superfìcie delie mucose dello stomaco e del collo dell' utero , sebbene in tutte le mucose possono incontrarsi dello vegetazioni del tulio somiglianti a quelle di siffatta forma cancerosa; ma allora non racchiudendo essa gli elementi anatomi'-i del cancro è dato poterle agr'volmente dilFerenziare. Ai quali precipui caratteri del tes- suto canceroso ove aggiugner si vogliano col Le- bert, due altre alterazioni assai ovvie a .riscon- trarsi , cioè r emorragia ed una certa appa- renza di materia tubercolare, conoscerannosi in una maniera completa tutte le apparenze che suole assumere il cancro. La presenza di quest' ultimo carattere co- stituisce, secondo lo stesso Lebert, una sottospe- cie o varietà di forma del tessuto canceroso , cui si è voluto attribuire il nome di cancro ftmatoide. Conservasi nel manicomio di Roma un cra- nio, dimostrante nella regione sopra orbitale si- nistra e sue adiacenze gli effetti d' un cancro encefaloide-melanotico, il cui ammirabile, sotti- le e lento lavorio delle lamine ossee appalesa la potenza di quella natura de' morbi che suole I a quando a quando prodigare agli uomini al- I cuna delle sue fatali maraviglie. Alcuni fra i moderni credono potersi ridur- Ire a tre principalmente le forme del tessuto can- i ceroso, togliendo dalle sei di sopra accennate II tanto la colloide, come la melanica e la den- 46 tritica; avvegnaché, come esprimesi Carlo Houel in un Manuale d' anatomia patologica che vide la luce in Francia sul cominciar dell' anno 1857 , quella specie di gelatina che vi si con- tiene 5 ed attribuì il nome al primo, non gli è così esclusiva, che non rinvengasi egualmente in un gran numero di tumori , punto non cance- rosi; né deve per tal modo considerarsi che come un deposito avventizio al tumore cance- roso; ed il secondo non contenendo quasi mai la cellula cancerosa, ed incorrendo nella recidiva molto meno generalmente degli altri, manca dei caratteri sufTicienti a stabilirne una specie di- stinta; né deve il terzo , per analoghe .ragioni, se non eccezionalmente prender parte nella classe dei tumori cancerosi. Oltre di che aggiunge lo stesso Lebert, che non è raro trovare nel cancro alcune porzioni semitrasparenti, somiglianti ad una tremula ge- latina ; come non é raro di osservare in uno stesso tumore canceroso una parte dura, un'al- tra molle, una terza gelatiniforme ec. Anzi non è diflìcile neppure , al dir di quel sommo , di rinvenire negli individui cancerosi il carattere colloide del tessuto morboso in un organo, l'en- cefaloide, lo scirroso in un altro ec. Ciò posto, non sarebbero tali caratteri che accessori e mo- dificanti semplicemente la forma, dipendente in grande parte dalla sede anatomica che occupa il tumore , e dal predominio d' un elemento sull'altro. Ma, accadendo pure di rinvenire di- stintamente in pratica le descritte forme del tes- 47 suto canceroso, a me sembra giusto averle tutte in eguale considerazione a maggiore argomento di chiarezza. La classificazione dei tumóri can- cerosi superiormente esposta è quella mede- sima del Lebert ; essa mi è sembrata più sem- plice delle altre , e di maggiore utilità pratica, sebbene non ne manchino pure delle ottime e degne di seguirsi , e più o meno concordanti colla precedente. Così il Leblanc dopo aver detto che egli intende per cancro una malattia gra- vissima , soggetta a recidiva , e sempre incura- bile , volendo dare una classificazione ai tumori cancerosi , li divide in cancri veri, in epiteliali, in fibro-plastici , ed in melanici ; aggiugnendo in fine i cancri misti. Il Cloquet li classifica coir ordine seguente : tumori cancerosi melano- tici , i quali egli asserisce non aver veduto gua- rire giammai ; encefaloidi , i quali spesso ripul- lulano ; fibro-cartilaginosi , fibrosi, colloidi, car- tilaginosi , epiteliali , fìbro-plastici. Classifica- zioni complicate, che a noi basta avere qui so- lamente accennate (1). (1) Crediamo far cosa graia riportare quivi la classazioue de! tumori che si possono più facilmente confondere col cancro , che abbiamo tolta da Carlo Robin, il quale li distribuisce nel modo che segue : 1.° Tumori epiteliali ed epidermici: 2° alcune varietà d'i- pertrofie glandolar!: 3." qualche varietà di tumori fibro-plastici: 4° quei tumori colloidi o geialiniformi , i quali han l'aspetto di struttura glandolare , o cellulare , od hanno per base gli elementi fibro-plastici : S.** tumoii osleoplasli , i quali hanno per elemento anatomico fondamentale la sostanza stessa ccniponenle il tessuto osseo , amorfa ed omogenea ec. 48 CAPITOLO V. Caratteri fisici esterni del cancro. Fra i caratteri esterni ed accidentali del cancro sono a notarsi primieramente il volume in principio molto circoscritto e mobile, che a poco a poco aumenta contraendo il tumore ade- renze colle parti contigue, e con esse immede- simandosi rimane poi immobile e fisso. 1/ Questo volume peraltro è tal lente va- riabile, che da una testa di spillo può raggiun- gere r enorme di quella di un uomo adulto. Il cancro encefaloide delle ovaie si è detto essere giunto a tanta grandezza da riempire comple- tamente la cavità addominale, e dice il Berard avere osservato un cancro encefaloide della co- scia uguagliare in grossezza il corpo di un uo- mo adulto; però si dee ciò ragionevolmente ri- petere più dalla formazione di cisti ambienti, che dallo sviluppo del tumore canceroso in se stesso. 2.° La forma di sua superficie, di cui può dirsi che in genere si adatta e modella a quel- la dell'organo, sul quale attinse l'origine e l'in- cremento. Infatti il cancro del testicolo è levi- gato ed unito alla superficie di esso; quello del- le glandole linfatiche ne conserva ordinariamente la forma , mentre quello d'altri organi può avere una superficie aspra , ineguale, e bernoccoluta: ma a quando a quando staccandosene dei lembi Ì9 più o meno grandi per effetto della mortifica- zione delle parti , va esso allora rinnovandosi sotto le figure più strane e bizzarre. 3.° La consistenza , la quale suole simil- mente variare da una quasi liquida diffluenza ad una cartilaginea , lignea e quasi lapidea du- rezza : su di che può altronde influire la qua- lità dell' organo sul quale prende sviluppo. È noto che il cancro della glandola mammaria e del piloro assumono più di leggeri la densità del- lo scirro ; quello del polmone e del fegato a pre- ferenza la mollezza encefaloidea. La diffluenza e la mollezza del cancro provengono in genere dal predominio del succo canceroso, e dei vasi sanguigni distribuentisi nel suo tessuto ; laddove la consistenza e la durezza risultano dalla sua fabbrica fibrosa. 4." L' odore, o piuttosto il graveolente fe- tore cui lo Scarpa chiamò con poca ragione lissiviale , è una esalazione ammorbante , sui generis , difficile a dirsi ; ma che lascia bene r idea della ingrata sensazione a chi solo una volta il provò. Ma il più importante fra i caratteri fisici del cancro ci viene offerto dal così detto succo canceroso. Se tagliasi , e quindi leggermente comprimesi , dice il Lebert , un tumore cance- roso , si vedrà gemere un succo torbido e lat- tescente. Postane alcuna goccia fra due lamine di vetro, fornisce un liquido torbido ed omoge- neo , ma che acquista un certo grado di tra- sparenza per la compressione. Talvolta offresi ros- G.A.T.CLVL i 50 sastro per la sua miscela col sangue. Nel cancro melanico ha un color bruno, e ne tinge l'acqua a cui si mesce. Nel cancro scirroso è più tenue che neir encefaloide , ed ha poca densità nel colloide. CAPITOLO VI. Caralleri microscopici del cancro. Ma r elemento caratteristico , specifico ed essenziale del cancro vuoisi riporre dai micro- grafi nella così detta cellula cancerosa contenuta nel succo canceroso , benché ciò non arrida ad alcuni micrografi alemanni. Che se però il Vogel negò dapprima la specificità delia cellula , le accordò poi tanta importanza, che affermò l'in- sieme del tessuto canceroso sotto al microsco- pio avere tali qualità da non lasciare dubbiezza sulla sua natura. Il Virchow, comechè negasse di riconoscere la cellula come elemento specifico del cancro riputandola confondibile colla nor- male di tutti i tessuti organici , nondimeno nei dibattimenti che consegnò all' accademia di me- dicina di Parigi quasi involontariamente si cor- resse dicendo, ch'egli nell' esaminare la cellula non adoperò che lenti di mediocre , e perciò d' insufficiente ingrandimento. Rifiutarono egualmente la cellula il Paget ed il Bennett nella Bretagna , il Mandi ed il Velpeau in Francia : il quale ultimo se ne mo- stra oppositore tenacissimo , appoggiandosi a ciò , che un gran numero di tumori da lui ri- 51 putati cancerosi non contenevano la cellula spe- cifica , o meglio , non ve la rinvenne ; e vice- versa dei tumori da essolui estirpati, non conte- nenti primitivamente la cellula , 1' appalesarono in vece dopo la recidiva. Ma come si convinse egli il Velpeau che la cellula non esistesse pri- mitivamente , quando vi hanno tumori ch€ rac- chiudon la cellula in una sola porzione della loro trama? Poiché in tal caso, se non togliesi ad esame la totalità del tumore, riesce impossibile di poterne precisar la natura. Fanno poi valida opposizione agli avversari della specificità delia cellula cancerosa altri fat- ti raccolti e divulgati da personaggi non meno illustri , come un Broca, un Follin, un Gaillet, un Lebert , un Robin, un Verneuil , ed altri; ma il Lebert in specie così si esprime nel trat- tato delle malattie cancerose: - Presa una cel- lula isolatamente non può sempre riconoscersi per r esame microscopico se ella appartenga o no ad un cancro; ma dato un tessuto morboso, si può certamente conoscere se egli è o non è canceroso , tenute bensì a calcolo le circostanze eccezionali nelle quali l'esame microscopico può rimanere insufficiente. - E più avanti prosegue: - Noi abbiamo preso per tipo dei casi, ne' quali il diagnostico era incontestabile , come il sar- cocele , il cancro del seno pervenuto al suo pe- riodo d' infezione generale. Trovando in seguito che un certo numero di tumori raccolti negli ospedali , quali noi stessi riputavamo cancerosi, mostravano degli elementi differenti da quelli 52 che abbiamo trovato in modo concordante nei cancri veri, ci siamo imposto il dovere di racco- gliere su tutti questi tumori a struttura micro- scopica differente delle numerose osservazioni cliniche , onde constatare se alla struttura dif- ferente corrispondessero dei caratteri clinici dif- ferenziali. Dopo di avere così accumulato du- rante alcuni anni delle osservazioni, siamo oggi al caso di formulare nitidamente il nostro pen- samento a tal soggetto , dicendo , che i tumori a caratteri microscopici differenti da quelli del cancro debbono essere separati tanto pe' loro caratteri clinici , che per quelli fornitici dalla notomia. - Se non che, da siffatte ragioni non per- suaso il Velpeau soggiugne: - Se la cellula co- stituisce l'elemento canceroso fondamentale, do- vrebbe ella rinvenirsi nel sangue degli individui in preda all' infezione generale cancerosa , ed in pria il suo volume dovrebbe renderne pos- sibile il passaggio a traverso i capillari , o le porosità dei vasi. Né mi si obbietti che gli or- gani ed i tessuti viventi, decomponendola ne'suoi elementi costitutivi , nuclei e nucleoli , o pel suo blastema, ne procurino l'assorbimento; poiché allora dovrebbe accadere, o che questi elementi ed il blastema andassero a costituirsi nel mezzo del liquido circolante , e vi si dovrebbero rin- venire , o che non potesse la cellula riformarsi in altri organi che dopo essere di nuovo uscita dal sistema circolatorio; e saremmo costretti ad 53 amnietlere che prima di essa vi fossero {^ik al- tri elementi cancerosi nel sangue. - Ed ove la cellula abbisogni d* un blastema primitivo , come vuole il Lebert , d'onde viene egli questo blastoma se non è dal sangue , e come generar può la cellula cancerosa se in- nanzi tutto non è egli stesso canceroso ? - Per siffatti motivi , conclude il Velpeau , sarebbe poco prudente T accettare oggi la cellula sulla quale insistono tanto i micrografi come carat- tere assoluto del cancro. Né queste osservazioni debbono ripormi fra i dispregiatori del micro- scopio ; avvegnaché accetto i nuovi fatti e le nuove applicazioni che questo istromento ha fornite ; non nego una notabile differenza fra la cellula detta cancerosa , e la cellula delle altre specie di tumori ; accordo eziandio che quella manchi nella maggior parte dei tumori benigni ; ma aggiungo pure che ridotta a que- sti termini la questione non deve essere risoluta che con riservatezza. - Le quali obbiezioni, a chi ben le conside- ra , appariscono in fondo più ingegnose che so- stenute con incrollabile argomento di ragioni. Imperocché con quest'ultima concessione il Vel- peau mentre rende da un lato vittorioso il suo avversario ; presumendo altronde , a risolvere la questione , che si debba rinvenire la óellula cancerosa nel sangue ; si mostra incorso in tale sottigliezza troppo didìcile a realizzarsi nello stato attuale della patologìa microscopica. Sebbene, a voler prender le mosse da que- 54 sto ragionamento del Velpeau , è a dire che se una infezione generale e specifica è condi- zione indispensabile allo sviluppo del cancro, e se, in altri termini, non può esistere vero can- cro senza la diatesi così detta cancerosa, sem- brami ragionevole il credere che possa anche il sangue contenerne la cellula , od i suoi ele- menti , ancorché i mezzi fisici conosciuti non r abbiano disvelata finora nel latice di quello. Dappoiché non può concepirsi nell' umano or- ganismo vivente una qualsivoglia infezione ge- nerale, che irrompa con analoghi effetti contem- poranei o successivi in visceri ed organi diversi, se non è in forza del sistema circolatorio ed assorbente, dal quale sia per ogni dove della macchina trasportalo il morboso seminio. E mi giova anche ricordare, che certe malattie soglio- no così alterare le crasi del sangue e degli al- tri umori , da mostrar pure al microscopio ora scolorati i globuli , ora più o meno deformati, ora aumentati o diminuiti di volume ec. L' Andrai, avendo analizzato al microscopio il sangue de' cancerosi , vide una diminuzione nella proporzione della fibrina , ed un estremo impoverimento dei globuli; e pervenuto il tumor canceroso ( /' encefaloide forse ? ) al suo periodo di rammollimento , la proporzione della fibrina si trova , secondo lui, aumentata nella materia polposa. Ebbe inoltre 1' Andrai verificato insieme al Gavarret, che il sangue de' cancerosi, ne'quali la cachessia erasi bene stabilita, conteneva al- cuni prodotti eterogenei , consistenti in corpic- ciuoli d' aspetto particolare configurati in la- minette ellitiche granellose alla superficie , e disseminati nel tumore accanto a numerosissimi globuli di pus , e cui non riscontrò che ne' soli casi di cancro. E veramente che il succo canceroso pene- tra nel sangue e nella linfa per circolare in tutte le parti del corpo ed infettarle del suo veleno, lo dimostrano colla stessa evidenza i tu- mori cancerosi che si ritrovano nelle vene cor- rose , e la stessa materia cancerosa che riem- pie talvolta i linfatici del mesenterio , del pol- mone , del fegato ec. Gli stessi Lebert e Follin ammettono pure il trasporto degli elementi dei tumori allo stato di blastema per mezzo de Vasi linfatici. L' istesso parere avea già emesso il Vo- gel e venia confermato dal Griselle colle seguen- ti parole. -Egli è evidente che il sangue de'can- nerosi è alterato ; e codesta alterazione può render ragione dello sviluppo de' cancri secon- dari. Questi possono bene nascere, egli è vero, in seguito della causa incognita che ha prodotto il cancro ; ma sembra altresì vero che il detri- tus di esso assorbito dai vasi possa andare a riprodurre più lontano tumori della medesima natura. - Sicché questo morbo canceroso è tale che mai non abbandona né lascia tregua all'organo che fece primamente sua preda; spiega sempre più la sua invincibile tendenza ad invadere 56 lutti i sistemi , fino a determinare talvolta dei nuovi processi patologici in parti ed organi più o meno lontani dalla sede sua primitiva. Onde io mi avviso che , salva forse una qualche eccezione, i prodotti patogenici lontani dalla sede dell' affezione cancerosa primitiva, e questa concomitanti , dovrebbero contenere an- ch' essi la cellula cancerosa od almeno i suoi elementi. In fatti o siensi sviluppati dapprima, o contemporaneamente, od anche in seguito al cancro primario , possono in ogni caso in forza della diatesi e della generale infezione deter- minarsi in depositi cancerosi , specialmente in organi di già malati e maggiormente predispo- sti. Né credo si possa revocare in dubbio og- gidì che una certa legge di permanenza pato- logica governi le affezioni cancerose per modo, che preso esse sviluppo in un punto qualunque dell'economìa, tendano sempre come a mante- nervisi costantemente , così vieppiù a generaliz- zarsi e ad invadere i visceri eziandio più im- portanti: e dice con altri il dott. Broca, che nei casi fino al presente pubblicati havvi sempre esistito una identità fra i prodotti secondari e r elemento primitivo. Dopo ciò si noti che il Velpeau mentre volea anche innanzi il 1844 , ossia prima del Cruveilhier, si facesse intervenire il microscopio non solamente nel diagnostico del cancro , ma pure anche in quello di tutti i tu- mori indistintamente , dipoi nel 1854 sostiene che il microscopio non avea fino allora appor- tato vantaggio alla scienza per cangiare tutto 57 ad un tratto linguaggio , e dichiarare che cote- sto istromento le avea in realtà resi segnalati servigi , non so se più convinto dai fatti osser- vati che persuaso dalle ragioni degli avversari. Ed il Paget, il Bennett ed altri avversatori della cellula specifica egualmente, s' unirono a battere una via di conciliazione, dicendo non essere nel- r esame d' una sola cellula cancerosa in parti- colare che si possan trovare delle differenze mar- cate fra essa e le altre ; ma nell' insieme delle medesime. Quando si vede un gruppo di que- ste cellule , dicono essi , si riconoscono facil- mente , e si distinguono senza difficoltà dalle cellule epiteliali , fibro-plastiche ec. Ma ad onta di ciò , ad onta del grande progresso e della nuova rivoluzione operata a prò della scienza , siamo pur costretti a con- fessare nostro malgrado , che non avvi fra gli attuali micrografi , come vuole il Lebert , una concorde unità di vedute sul valore esclusivo della cellula cancerosa, contro cui insorgono anche oggidì gagliardi oppositori dall' Inghilterra, dalla Germania e dalla Francia (1). Io però, profano come sono ai microscopici studi, non posso ri- manermi neutrale in un affare di tanta impor- tanza; ed ardisco di dire con sincerità, che dopo avere in taluni incontri veduta la cellula can- (1) Non ha guari il dott. Michel in una memoria che ha per titolo - Du microscope, de ses appli<;ations a l'anatomie patologique, au diagsoslic, et au traitement des maladies - inserita nel tomo 21 delle Memorie dell'acccademia imperiale di medicina, si fa a combatte- re eueruicamente la dottrina dell'eteromorfismo canceroso. 58 cerosa al microscopio sotto la direzione dell'esi- mio dottore Giovanni Gualandi, peritissimo nelle microscopiche ricerche, verso cui mi sento ispi- rato alla più viva amicizia e gratitudine, incli- no a credere che essa goda altresì di caratteri microscopici particolari e distinti. CAPITOLO VII. Della cellula cancerosa. Ora, per tornare onde eravamo partiti, dirò co^micrografi che essendo tutti i prodotti mor- bosi provveduti di cellule differenti nella forma e nella grandezza a seconda della loro patoge- nìa, così il tessuto canceroso presenta esso pure la cellula , la quale quando è tipica assume la forma d' un minuto corpicciuolo regolarmente sferico , avente nel centro un nucleo dittico , il quale racchiude un altro minore ancora, anzi relativamente minimo, detto nucleolo, che tro- vasi talvolta in unione di altri nuclei oscuri, o granuli piìi o meno opachi, e varianti nella dimen- sione media microscopica da venticinque a tren- tatre dieci millesimi di millimetro ( O"'"*, 0025, a 0™-", 0033 }. Il nucleo della cellula inoltre può assumere una forma molto differente avendola osservata i micrografi ora ovoide, elittica, e semisferica ; ora triangolare , ora allungata e fusiforme e piìi o meno acuminata , avente una media dimen- sione che oscilla da dieci a quindici millesimi di 59 millimetro (0'"'», 010 a 0'"'", 015). Trovansi talvolta i nuclei liberi e soli , ed in così im- ponente quantità da costituire quasi la tota- lità del tumore ; talvolta in quella vece sono rarissimi , e disseminati fra innumerevoli gruppi di cellule perfette. La cellula nella sua integrità è fornita d'un contorno pallido e sottile che offre singolare opposizione , o vogliam dire chiaroscuro, con quello rilevato de' nuclei. Conserva essa una di- mensione media di venti a venticinque mille- simi ; massima di trenta a quaranta ; minima di dodici a quindici millesimi di millimetro. ( 0"''", 020 a 0™'", 025 ) ( 0'""^ 030, a O™-", 040) (0'""^ 012 a 0™"^ 015). Oltre dì che que- sta cellula in un co' suoi nuclei è talvolta con- tenuta e racchiusa in altra maggiore molto vo- luminosa, designata col titolo di cellula madre, la quale attinge la considerevole dimensione di quaranta a sessanta millesimi di millimetro, se non ha una misura eziandio più vantaggiosa. ( O™'", 040 a O'"'", 060 ). Il Delafond, parlando della formazione della cellula, dice che i granuli s' ammassano insieme per formare il nucleo attorno al quale il bla- stema genera bentosto una specie di pellicola d' inviluppo. E soggiunge: - La teoria cellulare, ammessa in pria dai botanici, passò quindi dal- l' organografìa vegetale all' istologìa animale. Nei vegetali la cellula primitiva si trasforma in mille maniere per dar luogo alla formazione degli elementi secondari dell'organizzazione delle pian- 60 (e, ed a seconda dei generi e delle sp<3cie , a seconda delle parti d' un medesimo individuo ella si riempie di succhi differenti , di liquidi i più diversi per le loro proprietà. Presso gli anie mali la cellula, che io chiamerei fisiologica - normale, è soggetta eziandio a numerose trasfor- mazioni , e riceve per endosmosi i prodotti i più differenti della fibrina, dell* albumina, del- l' adipe , dell' olio , del pigmento , dei depositi calcari ec. Le cellule dei differenti tessuti non si distinguono dunque fra loro che sopra tutto per i liquidi od i depositi che racchiudono. Così ciò che vi ha di veramente eteromorfo nel can- cro è il succo ; un liquido particolare caratte- ristico, in mezzo al quale nuota la cellula e la penetra per endosmosi. - CAPITOLO VIIL Alterazioni della cellula caneerosa. Che se nell' osservare la cellula al micro- scopio sì nitida e precisa si scorgesse come la è stata di sopra teoricamente descritta, mi lu- singherei certamente che i micrografi, anziché ventilare questioni con tanta ostinatezza, si tro- verebber fra loro in più giusta convenienza d' idee. Ma noi fin qui altro non abbiam fatto che gettare un rapido sguardo alla cellula, dal solo lato regolare e tipico , non avendola consi- derata ancora dal lato delle sue variate altera- zioni o metamorfosi , che talvolta, sviluppando- 61 si , subisce; prescindendo peraltro dalle nume- rosissime cagioni esistenti in noi e fuori di noi, le quali insorgono pure ad alterare e confon- dere le osservazioni microscopiche , come ad «sempio una leggera irritazione della congiun- tiva, nna qualunque alterazione della retina, una maggiore o minore umidità della superficie ocu- lare, la maggiore o minore perfezione dell'istro- mento , il suo difettivo ingrandimento, il punto di refrazione della luce , i corpi estranei tra- svolanti neir aria , e tante e tante innumerevo- li , egregiamente descritte dal Dujardin , dal Donne , dal Robin , dal Mandi, il quale ci av- visa che coloro i quali vorranno far uso del microscopio dovranno essere sani di corpo e di spirito , e fare un esercizio continuato per mesi ed anni , onde acquistare una retta conoscenza d' un sì difficile istromento. Fra le alterazioni della cellula cancerosa ci si offre adunque in primo luogo la sua dif- fluenza, per cui viene essa a perdere i suoi con- torni o rilievi per diventare un informe am- masso di granuli molecolari : 2.° l'ispessimento, il quale viene rappresentato da un doppio con- torno, fra cui rilevasi una materia granulosa ov- vero anche fosca ed omogenea , o cartilagini- forme: 3.° r infiltrazione granulosa ed adiposa, sotto il cui vocabolo intendesi uno sviluppo di molecole granulose riempienti per modo la cel- lula da nasconderne completamente il nucleo , prendendo eziandio l' aspetto di granuli riuniti in una massa : i." il disseccamento , che con- 62 siste nella perdita de' bordi regolari assumenti una vera apparenza grumosa : 5." finalmen- te la diffusione , per la quale la parete della cellula s' ingrandisce , diventa limpida per un puro effetto d' imbibizione d' un liquido legger- mente condensato, nella cellula stessa. Avverte peraltro il Lebert, che le accennate alterazioni non investono quasi mai l' intiero tumore in tutta la sua massa , trovandosi sempre delle cellule tipiche a lato di quelle che hanno per- duto il loro aspetto normale. Accade però talora di non potersi scorgere la cellula al campo del microscopio , ma in quella vece una porzione sola di essa , i soli granuli per esempio , od i soli nuclei quantun- que si tratti realmente di tessuto canceroso. Avvegnaché essa sotto speciali condizioni facil- mente si spezza, si divide , si discioglie, senza altronde presentare altra alterazione ; e le cel- lule cancerose propriamente dette variano poi all' infinito dalla forma di semplici granuli a quella di cellule perfette, subendo così tutte le modificazioni delle quali sono suscettibili. Le cellule cancerose , scrive il Grisolle , offrono le maggiori variazioni sotto il rapporto del loro numero , della loro forma , delle dimensioni, e del loro contenuto ; ve ne ha delle sferiche , delle elissoidi , delle appianate, e ve ne ha che offrono la configurazione la più bizzarra. Riesce impossibile di determinare il numero delle cellule esistenti in una tenuissima porzione di succo canceroso: esse sono senza esagerazione 63 innumerevoli. Poiché fin dal primo svolgersi del cancro aumentano con indicibile rapidità per endogenesi, a misura che viene depositandosi un nuovo blastema; ed il neoplasma morboso si accresce a spese degli ambienti tessuti, i quali van scomparendo trasformandosi in prodotto canceroso. Ma essendo la cellula l'elemento ca- ratteristico , patognomonico del cancro, è giusto 1' argomentare che ove essa abbondi , ivi abbia il male attinto più spaventosi progressi, ed an- nunzi più vicino e più grave pericolo. Per que- sta ragione 1' encafaloide tiene più dello scirro un andamento precipitoso e terribile ; e di tale importanza sembrò la cellula cancerosa al Le- bert , che non dubitò di asseverare non esservi cancro senza la cellula , né cellula cancerosa senza vero cancro. Coloro che ritengono la cellula cancerosa non etercmorfa né specifica debbono accettarla almeno, a mio parere, come speciale e distinta dalla cellula di tutti gli altri prodotti morbosi; e ninno potrebbe negarne la presenza al mi- croscopio senza negar fede agli occhi suoi , ed evidenza ai fatti. Poiché il concetto della cel- lula cancerosa non riposa invero sopra ipotesi od illusioni de' sensi , ma risulta da fatti posi- tivi ed incrollabili , come le dottrine istologiche cellulari, dalle quali emana. Altri studi forse Verranno a stabilire in maniera più positiva l'importanza ed il giusto valore da accordarsi a questa cellula. Ma intanto dee pur convenirsi universalmente, che non trovando la cellula in un 64 prodotto morboso riputato d' altronde cancero- so , non si è in tutti i casi autorizzati a rite- nerlo tale ; ma che quando la vi si trova deb- basi francamente dichiararlo canceroso ; e poste in tal modo le cose , io son d' avviso che non debba ai micrografi di sana esperienza riescire del tutto difficile di riconoscere il prodotto can- ceroso al microscopio anche in mezzo alle ac- cennate alterazioni della cellula. CAPITOLO IX. Caratteri chimici del cancro. Molti fra i chimici occuparonsi della com- posizione del cancro ; ma non si trovano essi del tutto concordi ne' risultati ottenuti. Però si rileva dalle loro analisi composto in genere di ' alcune sostanze animali che entrano nella com- posizione normale dell' organismo , come albu- mina , gelatina, fibrina, glutine, grasso, acqua, osmazoma ec, di alcuni sali a base di calce , potassa , soda , ammoniaca ; di ossido di ferro, di terre fosfnte , di materia colorante gialla , ed analoga alla colesterina , di alcuni altri sa- li insolubih ec. ec. Presa però a speciale con- siderazione la cellula, venne chiaramente con- statato che r acido acetico ne rende le pa- reti più diafane , benché non ispieghi alcuna azione sul nucleo ; la potassa caustica e l' am- moniaca fanno impallidire la cellula ed il nu- cleo , rispettando però i granuli : l' acido ni- trico non la discioglie, ma condensa semplice- mente il succo canceroso ; la tintura di iodio la coarta e la tinge in giallo ec. CAPITOLO X. Della diatesi cancerosa e del modo di evoluzione del cancro. Deesi adunque intendere per cancro oggidì nel senso tecnico del vocabolo una affezione localizzata in uno o più punti dell' animale economia , sviluppata accidentalmente da un blasfema particolare per effetto necessario di una preesistente diatesi , o speciale disposizione or- ganica , 0 per una alterata vitalità dei tessuti segreganti questo blasfema , il quale poi addi- viene r origine ed il punto di partenza di tutte le variate modificazioni che va acquistando la nutrizione molecolare. In guisa che , secondo il Bouillaud , il tumore o l'affezione locale can- cerosa non sarebbe che la manifestazione della dialesi da cui dev' esser distinta. La diatesi cancerosa per quanto contrastata da una mano di patologi, sostenuta però dalla generalità di essi , viene oggi così dai fatti com- provata che sarebbe strana utopìa il solo du- bitarne. Il numero grandissimo di tumori can- cerosi che si sviIupj)ano simultaneamente nel- ,r organismo a marcate distanze gli uni dagli altri , e tante volte originati da una dispo- sizione ereditaria, ne forniscono già la più evi- G.A.T.CLVI. 5 66 dente dimostrazione. Se così non fosse , diceva il Vidal , saremmo costretti ad ammettere che uno stesso prodotto morboso si formasse in seno alla economia talvolta mediante un processo , talvolta mediante un altro. Poiché ogni corpo che ha evoluzione, organizzazione e vita, esige onde svilupparsi un certo numero di forze che debbono costantemente rimanere le stesse sotto pena di abbandonare i fenomeni organici ad una specie di casualità , sotto pena di convertire la organizzazione stessa in un caos. Non sarebbe infatti consentaneo alle leggi della patologia il credere , che sia ora la diatesi cancerosa che produca il tessuto canceroso , ora questo che generi quella. Imperocché se l' assorbimento dell' umor canceroso potesse effettuarsi sui prodotti pato- logici dalle parti stesse, in mezzo alle quali essi si formano , questo assorbimento si eser- citerebbe fin dal principio in una maniera co- stante , e la morte sopravverrebbe necessaria- mente prima che alcuno di questi prodotti fosse per la minima parte elaborato. Gli argomenti che si potrebbero opporre a questa verità fondamentale non sono affatto ca- paci di crollarla , e spesso ancora vengono ad appoggiarla , a convalidarla. La cachessia cancerosa adunque ( vedremo nel seguente capitolo in che essa consista), sog- giagne lo stesso Vidal, non è mai il risultato del prodotto locale; dessa altra cosa non è che l'esa- gerazione della diatesi che preesiste costantemen- 67 to a questo prodotto. Se cerli (uinori d'yp[)arenza rancerosa si formassero sotto i'intlueiiza d'un la- voro esclusivamente localo, il dar loro lo stesso nome che a quelli i quali si sviluppano sotto l'in- fluenza di una diatesi, importerebbe una deplo- rabile confusione nella patologia. TI meccanismo di svolgimento del cancro può dirsi in genere che eseguiscasi come in tutte le altre produzioni morbose dell'organismo; né io saprei certamente ridirne piti di quello disse il Lebert coUeseguenti parole. - Le sostanze nutriti- ve, non che i materiali morbosi, escono dal torren- te della circolazione mediante un lavoro esosmo- tico, in virtù del quale imbevonsi le parti nel mezzo delle quali si sono diffusi; e questo punto di partenza e meccanismo hanno eziandio tutte le essudazioni patologiche, colla differenza che nel prodotto normale il liquido nutritivo viene im- mediatamente ripreso dagli organi, dei quali esso conserva l'integriti'; laddove ne'prodotti patologi- ci la prima gocciolina essudata s'infiltra nella prossimità dei capillari che ha attraversati; e pel cancro questa prima gocciolina del blasfema can- ceroso, in origine amorfa, diviene l'incomincia- mento di una produzione che giornalmente s'ac- cresce per delle nuove produzioni simili alla prima. - Cosicché la materia cancerosa ci si manife- sta come un prodotto della nutrizione, o come una speciale secrezione, deponendosi nel primo caso in quella stessa guisa con che l'elemento nutritivo del sangue entra nella struttura mole- 68 colare, ed assumendo la forma e la distribuzione del tessuto e dell'organo in cui è in quella guisa introdotto; e mostrandosi nel secondo caso sopra una superfìcie libera alla foggia delle secrezioni naturali, come avviene, a mò d'esempio, sulla su- perficie delle membrane mucose (Carswel). Può il cancro subire, sviluppandosi, un gra- do di rammollimento più per effetto d'accidentale turbata nutrizione, che per una fase di necessario svolgimento; in modo tale che l'encefaloide non sarebbe mai, secondo alcuni, uno scirro rammol- lito, costituendo essi due specie reali e distinte di cancro. Può in vero lo scirro talvolta, se non del tutto rammollirsi, perdere almeno un grado della sua durezza, ed acquistare una cerla rassomi- glianza coH'encefaloide incipiente , ma non potrà con esso giammai equivocarsi e confondersi, attesa la costante prevalenza de'caratteri differenziali. È d'uopo osservare, si esprime il Vidal, che questo rammollimento del tessuto scirroso non è sì completo come generalmente si crede, e non rassomiglia affatto a quello del tessuto encefalo- ide. Infatti quando quest'ultimo si rammollisce , qualunque ne sia l'estensione, il rammollimento è dappertutto presso a poco dello stesso grado; laddove nelle masse scirrose la sola faccia super- ficiale è quella che diminuisce di consistenza e si distrugge per esfoliazione, e poche linee al di sotto il tessuto ha ordinariamente conservato una densità considerevole. Così l'ulcerazione, che so- pravviene al cancro, deve ripetersi tanto da alte- rata nutrizione che dal meccanico distendimento 69 delle parti contigue. Avvegnaché il processo ul- cerativo come si osserva nei mali di natura diver- sa, cosi manca talvolta nel vero cancro; ed è an- zi provato che in molti organi cancerosi l'ulcera- zione non si presenta giammai. Può al cancro complicarsi eziandio la cancrena per effetto di soppressa e disordinata circolazione, e questa complicanza ha fatto che taluni poco avveduti non ponessero la necessaria distinzione fra i tu- mori cancerosi ed i cangrenosi, ed erroneamen- te sostituissero l'uno all'altro questi due distinti vocaboli. Oltre di che nel cancro si osservano altre s-peciali complicanze, come cisti sierose e siero- sanguigne, ed in forza di processo flogistico degli ascessi, dei depositi purulenti, degli scoli icoro- si ec. Talora in vero per sopraggiunto processo in- fiammatorio, come nota il Riberi, geme dall'affet- ta località una certa quantità di pus, che con ter- mine quanto improprio, altrettanto dall'uso con- sacrato, sogliono chiamare di buona indole; ma non dovrà esso confondersi coll'essenza del mor- bo canceroso, ed invece ritenersi quale prodotto d'un tumore d'indole non cancerosa, e che presa- gisce forse la vicina guarigione. Il Lebert ha ve- duto associarsi i tubercoli al cancro otto volte in cento: e volle da tali fatti inferire non avervi morboso antagonismo fra cotesto due micidiali affezioni. Le quali complicanze, ed altre moltissime concomitanti il cancro, non si discuoprono sempre durante la vita, né avvi talvolta che la necrosco- pìa valevole a disvelarle. Riferisce difatti il dott. lo Miliare! nel Bulleftino della sccieta anatomica pa- rigina, fascicolo di marzo 1856, che un individuo morto per cancro allo stomaco, mostrò alla au- topsìa li cuore ricoperto in entrambe le facce esterne da una rimarchevole quantità di minute produzioni accidentali durissime al tatto, le quali peraltro non invadevano menomamt nte le sotto- stanti fibre muscolari, e la cavità del pericardio completamente sparita per l'intima aderenza delle sue lamine. CAPITOLO XI. Della cachessia cancerosa^ dei sintomi^ dei caratteri diagnostici del cancro^ e del suo corso. Venendo ora alla sintomatologia del cancro, dirò che non ^sempre agevole riconoscere il primo suo invadere, che è per lo più di maniera subdola e senza prodromi, ed i primi sintomi che manifesta non sogliono essere che disordini fun- zionali, salvo il caso in cui prenda sede, per es. nel fondo dell'occhio, del quale fin da principio rimane turbata la visione, o vicino ad una ar- ticolazione di cui si alterano i movimenti. Può il cancro rimanersi circoscritto ad una parte, come una malattia del tutto locale, per un tempo più o meno lungo; ma per la inces- sante sua tendenza alla propagazione estendesi poscia, come abbiamo altrove annunciato, alle parti contingue non pure , ma infetta eziandio l'intera economia. TI Cos'i il cancro dell' utero si propaga alla vagina ; quello del fegato al destro rene, quello della cisti urinaria all' intestino retto ec. Ma per 1' assorbimento del succo canceroso operalo dai vasi linfatici si diffonde all' intero sistema organico , ne deteriora la nutrizione, ne impedisce la riparazione ad onta che venga l'in- fermo convenientemente alimentato, costituendo allora la cachessia cancerosa ; la quale esordisce colla manifestazione d' una tinta subitterica più espressa alla faccia che altrove , sebbene tutta r epidermide dei cancerosi soglia essere sempre o giallognola più o meno fosca , o bronzina, o terrea, o tapezzata talvolta di vitiligini, o d'estre- mo pallore, e la cui fredda temperatura contra- sta sì con una tale secchezza , che l'assomiglia ad una ruvida pergamena. Quindi a tali segni d' incoata anemia, per la diminuzione dei globuli del sangue , sopraggiungono in seguito gli ede- mi delle inferiori estremità , i dolori articolari, e come affermano il Ranzi ed il Regnoli, la fria- bilità delle ossa, le quali alle volte, sotto i bruschi movimenti delle membra, quasi fragilissimo ve- tro si spezzano, le nevralgie le più proteiformi, le palpitazioni, i romori di soffio arterioso o car- diaco , le lipotimie , le sincopi , per finire poi coH'ultimo grado di emaciazione e di marasmo. Mostrano infatti le necroscopie atrofici, ram- molliti e facilmente lacerabili i muscoli , i vi- sceri d' ordinario esangui , molle e flaccido i! cuore. 72 Senza intrattenermi ne! dire che i! cancro esterrìo o poco profondo si manifesta coli' appa- rizione di un tumore , poiché fu già veduto altrove , dirò che tanto questo che il cancro interno spiegano fin da principio dei disordini funzionali locali dipendenti da alterata innerva- zione e da lesa sensibilità, fra' quali sono a con- siderarsi in primo luogo i dolori ora pungenti, ora gravativi, ora tensivi , ora caldo-prurienti, ora lancinanti, ora terebranti, ora estremamente penosi insopportabili ed inesprimibili. Che se do- lori così violenti si protraggono per lungo tempo, inducono tal disturbo nel sistema nervoso da suscitare essi soli convulsioni spaventose, il te- tano istantaneo , il delirio per lo più tranquillo, ma talvolta eziandio simile ad un accesso ma- niaco , sotto la cui violenza il paziente misera- mente soccombe. Per siffatte ragioni troviamo nelle autopsie de' cancerosi le congestioni e gli stravasi del midollo spinale e del cerebro. Però non sono i dolori costantemente fìssi in un pun- to , né continui sempre; ma talora intermittenli ed aventi sede ora più propriamente nell'orga- no canceroso, ora in organi più o meno lontani per simpatico consenso nervoso. Quindi viene in campo una febbretta, che può eziandio mancare, e che non induce ordinariamente che languida rea- zione, la spasmodia de' nervi, riflessa sul cuore e sulle arterie , ne esaurisce tutta la energia, ne rallenta le vibrazioni, illanguidisce il movimento de' fluidi , turba le digestioni , ed altera più o meno tutte le organiche funzioni. Talvolta il ma- 73 lato è oppresso da tristezza , da insonnie , di- viene irritabile , o si getta in un estremo ab- battimento morale, lucida però conservando fi- no agli uilimi respiri l' intelligenza fino a che la morte, preceduta da breve agonia, pone fine a così spaventoso soffrire. La febbre quando esiste , dice il Grisolle, specialmente negli ultimi momenti, è piìi spesso sintomatica di qualche complicazione flogistica; ma in alcuni casi sembra dipendere unicamente dall' azione deleteria che esercita suU' economia r assorbimento della materia cancerosa ; e dice il Recamier essere ella un precursore prossimo della morte, per quanto vigore , per quanto buono stato di nutrizione sembri conservare l'in- fermo fino a quel punto. Il cancro ha una durata talmente variabile che non gli si possono assegnare dei limiti fissi e precisi ; poiché quando ha un rapido anda- mento compisce le sue fasi fra tre o sei mesi ; laddove se tiene un lento progresso non termi- na che dopo lunghi anni. Peraltro può esso in qualche caso rarissimo, in forza di epifenomeni, tenere un corso sì rapido da ridurre a morte r infermo anche pria che raggiunga lo stato di completo marasmo. Il cancro non rispetta località o qualità di tessuto ; esso attacca il più duro , come il più molle , il più delicato, come il meno sensibile, cervello , membrane, ossa ec, e non è infre- quente di ritrovarlo in diverse di queste parti simultaneamente ; e sostiene qualche moderno 74 che in tutti ì casi di cancro multiplo si rinven- gono tracce di materia cancerosa nella colonna vertebrale. Ma la diagnosi del cancro non emerge sem- pre chiara e distinta dalla manifestazione de'suoi determinati sintomi , neppure a malattia innol- trata, e prossima già al suo fine fatale; poiché avviene talora che il malato sotto 1' apparenza di un tal quale benessere, o male avventiti inco- modi, asconda nelle viscere quel morbo che a po- co a poco quasi lento veleno lo distrugge. In guisa che ne rimarrebbe delusa l'attenzione eziandio del più sagace osservatore. Il dott. Guyot a Parigi trovò recentemente un cancro dello sto- maco che non avea manifestati sintomi di sorta durante la vita , mentre avea tutto invaso il minore arco e maggiormente dilatatosi nella fac- cia interna del medesimo. Aubanel e Sauze di Marsiglia riferiscono pure negli Annali medico- psicologici di Parigi (fascicolo di luglio 1858) un caso di cancro del cervelletto simulante sì bene V apparato sintomatico di una paralisi ge- nerale in un alienato , con tale aftievolimento delle mentali facoltà e lentezza nelle operazioni intellettuali , che venne da essi diagnosticato per una demenza paralitica al terzo grado ; e non fu che l'autopsia del cadavere che rivelò loro l' esistenza del tumore canceroso, di cui non aveano per lo innanzi neppur conceputo il sospetto. Ed infatti il dolor cefalalgico , osservano saviamente i lodati Aubanel e Sauze, la lesiono dei movimenti , l' alterazione dei sensi e delle facoltà mentali assegnate dagli autori , ed in specie da Calmeil, come sintomi di cancro cere- brale, sofferti dall'alienato in discorso, non sono patognomonici in guisa che non si riscontrino nel corso delle altre affezioni organiche di que- sto viscere e sue membrane. Oltre di che quasi tutte le manifestazioni patologiche di la! genere possono riferirsi bene tanto alle lesioni conco- mitanti che alla malattia locale ; e sì grande analogìa suole intercedere fra le due malattie , che la maggior parte dei sintomi che accompa- gnano il cancro dell'encefalo si trovano nel corso eziandio della paralisi generale ; e nel solo pri- mo esordire di esso riescirebbe agevole il diffe- renziarle, quando i disordini della intelligenza , od il delirio , o l' indebolimento delle facoltà intellettuali non si sono ancora appalesati; allora solamente la mancanza di questi sintomi potrebbe far diagnosticare a colpo sicuro non trattarsi di paralisi generale , comunque nel cancro del cerebro ad avanzato periodo la cefalalgia ven- ga esacerbata dal calore del Ietto , e sia in ge- nere più viva , e strappante acute grida al ma- lato ; laddove nella paralisi più agevolmente si supporti, ed il calore del letto sembri non esa- sperarla. Non pochi degli autori s' imbatterono in osservazioni, di tal fatta, di cui arric( hirono gli archivi della scienza. Il quale oscuro , confuso, e subdolo procedimento del cajicro facea giu- stamente esclamare all' Ildano; <( Heu quanta in cropcento malo, quanta in rumulaio malignitas! » 76 CAPITOLO XII. Etiologia del cancro. Le cagioni determinanti del cancro sono talmente occulte , e così ignota si è la loro na- tura, che i trattatisti si sono appagati d' asse- gnarne come causa ultima una speciale dispo- sizione dell' organismo. Né fino ad ora è pro- vato che sieno cause predisponenti di esso un dato temperamento od una data costituzione , essendovi tutti i mortali egualmente soggetti , eziandio i più robusti ed atletici , né il genere di vita , né la professione , né il clima , né i morbi pregressi , né i patemi dell' animo , sui quali peraltro il dott. Werden Cooke così scri- vea in un recente foglio sicentifico: - L'influen- za degli agenti morali deprimenti nel produrre il cancro venne notata da moltissimi autori; fu però negata da alcuni. Sir Asthley Cooper di- ce: » Tre quarti di tali casi derivano da patemi d' animo e da ansietà di mente. Sotto tali condizioni accadono in fatto alterazioni mate- riali nel sangue; si osserva l'atrofia dei corpu- scoli rossi, e l'aumento de' globuli bianchi; mo- tivo per cui il potere ricostituente del sangue viene deteriorato, talché i tessuti, che risultano da questo fluido male elaborato, assumono quella difettosa organizzazione che si osserva nel can- cro. Se poi tale difetto accada piuttosto per uà processo di essudazione , ovvero per una difet- 77 tosa nutrizione, è questa una ricerca specula- tiva di difficile soluzione. » Che possano i patemi dell'animo depritnenti, come il terrore, ad esempio, produrre nell'orga- ganismo vivente dell' uomo, non che dei bruti, delle morbose affezioni, ognuno per se il cono- sce, e numerosi avvenimenti lo confermano. Ma riguardo al cancro non possono aversi finora, a mio credere, che quali semplici cause concomi- tanti, e perciò senza il concórso delle altre in- sufficienti. Né sono proporzionate neppure a tanto male le violenze esterne , le quali però senza averle come incontestabili sono forse fra le accennate, sotto certe condizioni, le più razionalmente possi- bili: e tanto su di esse si fonda il Velpeau, che si esprime in tal modo: » Un fatto, che non dee perdersi di vista nello studio del cancro, si è che esso non si mostra guari di primo abbordo che negli organi suscettibili d' esser percossi, ir- ritati , violentati in qualsivoglia maniera dagli oggetti esteriori. In modo che la frequenza del cancro è precisamente in rapporto coH'altitudine degli organi a ricevere T influenza delle esterne violenze. Qual organo avvi più esposto alle con- tusioni che il testicolo, più che la mammella , agli eccitamenti d' ogni genere ohe V utero , le labbra, la lingua , all'azione irritante di certe bevande e di alcuni alimenti che l' itsmo delle fauci, l'esofago, lo stomaco, il piloro, alcune por- zioni dell' intestino gracile, alcune del crasso ? » 78 Fuvvi pure chi pose fra le cngioni leujofe del cancro la virtù fermeiilatìva e putrescente del calore estivo ; ma è noio pur troppo essere in tutti i tempi soggetti gli uomini all' influenza di cpiesta implacabile malattia! Il sesso può in qualche modo ritenersi causa probabile dello sviluppo del cancro, risultando da statistici do- cumenti meno soggettovi 1' uomo che la femmina, r apparecchio uterino e mammario della quale per la vascolare e spongiosa struttura, perla par- ticolare sensibilità, po' notevoli mutamenti a' qua- li va soggetta, in ispecie nel periodo climaterico della vita, risente la più grande suscettività alle cancerose affezioni, come a tutte le malattie di processo dissolutivo o piastolico, sebbene il can- cro si compiaccia d' invadere assai spesso i di- dimi del sesso più forte. Ma i visceri tutti e tutte le parti esterne, quale più quale meno, pos- sono in ambedue i sessi divenir preda d' una af- fezione cancerosa primitiva. Frequente infatti la si osserva nel fegato , nelle vie digestive , nella cute , sebbene più rara nella vescica urinaria , rarissima nella milza (1). Tutte le età sono attaccale dal cancro : è nondimeno permesso di stabilire che l'età media (1) Gli eccellentissimi dottori Guido Bciccelii e Giulio Ba- Stianclli illuslrai'otiu un caso di canciu primitivo della milza da essi rinvenuto in un individuo morto nell' archiospedalc di s. ispi- rilo iu Sassia, e lo pubblicarono nelU Corrispondenza scientifica di Roma , auDO 1857 num 9. .11 pezzo patolngifo originale, insieme ad una copia fotogra- ficu, muiiata da dotln mano, si conserva nel f^abinetlo anaiomico-pa- loloj^ico dell'ospcdulc suddetto per dono gentile dei lodati scopritori. 79 ed il primo periodo della vecchiezza vi siano di preferenza inclinate, e secondo io Scarpa 1' en- cefaloide si verifica spesso nel!' infanzia e nella gioventù, Io scirro è più comune nell' età adul- ta ed avanzata, né prima del quarto lustro con- parisce giammai (2). Ad ogni modo le cagioni efficienti e pros- sime dello sviluppo del cancro sono riposte in una speciale alterazione dell' assimilazione or- ganica ; in guisa che tutte le cagioni esterne , meccaniche, traumatiche, e tutte le interne mo- rali non fanno che porgere semplice occasione al male, onde si sviluppi in maniera più chiara e palese. Il Bufalini trent' anni or sono incirca così si esprimeva: » Io so bene che molte cagioni esterne, e singolarmente quelle che meccanica- mente agiscono, possono condurre allo scirro ed al cancro ; ma niuno ardirebbe negare che que- ste cagioni senza la cospirazione di una interna particolare predisposizione genererebbero bene dei tumori e degli indurimenti, non mai lo scirro e il cancro. » Non voglio peraltro negare che certe ca- (2) Il chiarissimo Riberi, professore di clinica chisurgica a Torino, in 80 casi di cancri (e pseudocancri) che raccolse, e pub- blicò Rcll'anao 1858 nel Giornale di medicina iiiiliUire.dice che (ulti i suoi malati aveano già oltrepassato il quarto lustra d'età. Poiché di essi 2 erano fra i 20 ed i 30 anni 3 » » 30 e 4u 11 » » 40 e 50 28 » » 50 e 60 20 ,. » 60 e 70 16 » » 70 e 80 «0 80 gioiii valgano così ad operare sui predisposti da accelerare in qualche guisa lo svolgimento dei nascosto germe del male , come altresì un di- sordinato genere di vita , un nutrimento poco recrementizio, 1' uso o 1' abuso di certi alimenti irritanti, attesa la concitazione che inducono nel sistema irrigatorio sanguigno. Conviene oggidì ammettere la trasmissione ereditaria e contagiosa del cancro ? Non credo vi sia chi si attenti di negare la prima ; ed il Lebert l'ha ben verificata 14- volte sopra 102: il Velpeau una volta in tre, il Leroy d' Etioiies una volta in dieci. Ma dopo le vane prove d' inoculazione tentate dall' Alibert, dal Vogel , dal Biett , dal Dupuytren, dal Valentin , niuno fra gli autori, se togli il Langenbeck, lo ritiene ornai come contagioso, od almeno non è chia- ramente dimostrato che tale non sia. Quest' ul- timo autore, avendo iniettato del succo cance- roso nelle vene d' alcuni animali domestici go- denti la pienezza della salute, credette che ri- manessero infettati dal cancro. Oltre di che ci attesta la non contagiosità delle affezioni can- cerose il continuo osservare uomini, i quali im- punemente coabitano con femmine attaccate da cancro uterino, CAPITOLO XIIL Prognostico del cancro Dalle cose fino ad ora esposte nitidamente Unisce quale prognostico debba istituirsi del can- 81 ero, e dirò cogli autori che fra tutte le maiat' tie croniche ella è la più costantemente ed as- solutamente incurabile , avvegnaché la morte ne è il termine più frequente; e come si esprime il Lebert , la guarigione di siffatta malattia tanto per gli sforzi della natura che per i soccorsi dell' arte rimane un problema non ancor risoluto. » L'assoluta insanabilità di queste affezioni, così il Bufalini, per mezzo di qualunque noto rimedio certifica chiaramente la totale lontananza della loro natura da qualsivoglia altra conosciuta ma- lattia ; e perciò giustamente Io scirro e il can- cro si hanno a tenere per affezioni specifiche e nella loro reale differenza evidentemente segre- gate da ogni altra affezione. » S' intende adunque quanto sarebbe impro- prio ed erroneo al dì d' oggi designare, come per lo innanzi praticavasi, co' termini di scirro- sita , scirri , tumori scirrosi etc. , gli organi i quali per congestione, ristagno, infiltramento di liquidi acquistarono straordinaria rigidezza e consistenza ; gli indurimenti ed infarcimenti de' visceri, le scleremie , i sclerosarcomi , per ciò solo che presentano questa insolita durezza e te- nacità. Quale diversità di prognostico fra coleste affezioni ed il cancro ! Peraltro il prognostico del cancro può va- riare giusta la sede interna, od esterna; le com- plicazioni, come una emorragia abbondante, una interna perforazione , e la stessa ulcerazione, la quale d'ordinario apparisce ad un periodo avan- zato del male, ed osservasi sovente che pel con- G.A.T.CLVI. 6 82 tatto dell'aria o por la intercettata nutrizione è sopraifatto il tumore canceroso da una specie di molecolare mortificazione, come non altrimenti accade della cangrena. Hanno osservato gli au- tori dei tumori cancerosi eliminati da una infiam- mazione cangrenosa, e 1' ulcere superstite det( r- sa e cicatrizzata ha piìi d' una volta indollo a sperare un esito avventuroso ; e secondo clic affermano il Meckel, V Oppolzer. il Virchow ed altri , può egli avvenire talvolta che il cancro naturalmente si atrofizzi in seguito della distru- zione delle cellule e della nuova formazione di adipe e di tessuto fibro-cellulare, e rimanga poi stazionario per un tempo indefinito. Ma una ta- le speranza non sembra che passeggera ed illu- soria, e, come vuole con altri il Lebert, la cau- sa produttrice del cancro non arresta giamm;u il suo progresso di distruzione sull'economia. Ogni guarigione di cancro pertanto sia naturale od artificiale dee aversi tuttora per islraordina- ria ed eccezionale. Ne può altrimenti accadere, essendo dimo- strato che il cancro sviluppasi in forza di pecu- liare disposizione insita neh' organismo. Di mo- do che posto eziandio che l' infiammazione ope- rasse la separazione del tumore in una parte, non tarderebbe poi a mostrarsi in un' altra, so non nella slessa, con maggiore energìa. Se il cancro non guarisce , cosi il Grisolle , può ri- manere bensì a lungo stazionario, ed anche in qualche maniera retrocedere : a tal che si vede qualche volta un organo indurirsi, impicciolir- 83 SI, corrugarsi, infine atrofizzarsi, e rimanere in tale stato per un tempo assai lungo. Ma biso- gna notare che allora la malattia non ha punto cessato, mentre essa non ha fatto che cambiare di forma. CAPITOLO XIV. Dei tumori cancroidi. Essendoci finora intrattenuti sul cancro co- me essenzialmente tale , 1' ordine razionale del presente lavoro richiama la nostra attenzione sui cancri falsi, o pseudo-cancri, divisi, come ve- demmo, in tumori cancroidi, e tumori fibro-pla- stici. Terremo brevemente discorso degli uni e degli altri. Vanno dunque sotto l'appellazion di can- croidi oggidì , chiamati per lo addietro cancri verrucosi, noli me tangere etc, tutte le affezio- ni morbose che hanno una stretta analogìa col cancro vero sotto il rapporto del loro andamento e "dei fenomeni clinici , differendo altronde per una diversa struttura o natura istologica, e non avendo per punto di partenza il tessuto cance- roso, mentre, secondo il moderno linguaggio pa- tologico, sono costituiti da elementi omeomorfi o normali dell' economia , e quindi da tessuto cellulare, fibroso, epidermoide, epiteliale éc, a differenza del vero cancro, che è sempre pro- dotto da elementi eteromorfi ed assolutamente estranei all'economia. Si fu in tal modo che con- fuse col cancro certe ipertrofìe , alcune prodn- 84 zioni tìbro-cartilaginee, e fibro-plastiche, i tumori epiteliali ec. fecero troppo di leggeri prestar fede alla curabilità di quello. Oltre di che i tumori cancroidi non soglio- no attaccare, come fa il cancro, la costituzione generale del corpo, rimanendo sempre un' affe- zione locale, né si presentano quali sostituzioni d' un tessuto di nuova formazione; ma in quella vece come degenerazioni di tessuto normale ed ordinariamente come un semplice processo d'ul- cerazione, ne riproduconsi dopo estirpati, od al- meno possono non riprodursi , ovvero il fanno sempre nella primiera località. Siffatti cancroidi se racchiudono cellule nel loro interno, desse sono epidermiche più o me- no sviluppate, ma semplici e sottili , e lasciano colla loro trasparenza veder con chiarezza le sottostanti, sono striate alla loro superfìcie , e l'acido acetico solamente le segrega dall' invol- vente tessuto. Da ciò si vede quanto bene diffe- riscano dalle cancerose , ed avvi chi sostie- ne, senza peraltro dimostrarlo, che dal lato clini- co eziandio considerati tengano i cancroidi un andamento differente da quello del vero cancro. CAPITOLO XV. Dei tumori fibro-plaslici. 1 tumori fi bro-pl astici , che corrispondono agli encondromi del Mueller, ai tumori napifor- mi del Cruveilhier, agli osteofìti d'altri patologi, 85 sono come i precedenti composti d' un tessuto omeomorfo che trovasi normalmente nell' orga- nismo somigliantissimo al tessuto fibroso o cel- lulare incompletamente sviluppato. Essi hanno bensì dei nuclei microscopici nel loro interno , ma più piccoli di quelli del cancro , ordinaria- monte ovoidi anziché sferici, piti o meno allun- gati e molto pallidi, con bordi rilevati ed emi- nenti, e contenenti pure nel loro interno delle abbondanti granulazioni molecolari, e nel loro centro uno o parecchi minutissimi quasi punti- formi globulini o nucleoli. Ognuno dei nuclei stassi racchiuso od in una piccola cellula sferica od anche ovoide , in unione ad alcuni granuli , o nella porzione media ed enfiata d' un'altra mag- giore del tutto fusiforme. L' acido acetico non esercita la minima azione sul nucleo , né sul corpo fusiforme , ma sibbene sulla cellula, in parte risolvendola e rendendola trasparente. E cosiifatti anatomici elementi, dei quali compongonsi i tumori fìbro-plastici, rinvengonsi normalmente nello stato embrionale dei tessuti organici , e si producono per ordinario in se- guito di lenti processi infiammatori: la quale e r- costanza così bene li separa dal vero cancro, c'he sembra quasi impossibile poterli fra loro equi- vocare e confondere. Nondimeno il Velpeau li volle come i cancri veri dotati delle stesse ten- denze a corrodere , a disorganizzare i tessuti adiacenti , a disseminarsi mercè il linfatico as- sorbimento , a ripullulare colla stessa costante tenacità, ed a terminar sempre colla morte senza 86 che metodo di cura fino ad ora conosciuto, né esperla mano di chirurgo ne possa trionfare; e tanto a quelli li assomiglia e confonde, che as- sicura d'altra parte che dei tumori cancerosi do- lati della cellula speciale la più decisa , com- pleta, e tipica, ove sieno bene estirpati, posso- no non più ripullulare. Ma il Velpeau per quel- la costante , fatale terminazione che si osserva nei tumori cancerosi, avea già stabilito come precipuo loro carattere la malignità. È la loro essenza , egli dice , che ne determina la mali- gnità, e non già un accidente possibile di loro evoluzione , come ha luogo in altri tumori. Però se la malignità dei tumori cancero- si , e quindi la loro assoluta incurabilità, viene essenzialmente determinata dalla loro natura, e nondimeno possono talvolta completamente gua- rire; e se i tumori fibro-plastici non differiscono dai veri cancri ne pe' caratteri anatomici , né per i clinici ; è pur forza 1' ammettere o che sicno maligni eziandio i fibro-plastici , o che ammessa in qualche caso la curabilità de'primi, depongano pur' anco i secondi il carattere del- la malignità. Sieno , a dir breve , od entrambi maligni , od entrambi incurabili. Non potrebbe verificarsi la prima delle det- te condizioni per le ragioni di differenza stabi- lite fra le due specie di tumori ; noi potrebbe la seconda per le stesse parole del Velpeau, il quale, posta la malignità dei tumori cancerosi fra i loro attributi essenziali, ammettendone in qualche caso la curabilità, verrebbe a consi- 87 deraiii nello stesso tempo ed assolutamente e non assolutamente incurabili. Né credo varreb- be qui r addurre in questione darsi lunga serie di malattie benigne quantunque incurabili; av- vegnaché l'incurabilità di tali malattie non è che accidentale ed eccezionabile. Hannovi in vero molti tumori che come il cancro tendono a ripullulare e generalizzarsi, come avviene della melanosi e di tutti i tumori che per questa tendenza vennero detti cancroidi e cancri falsi ; ma essi , ripetiamolo pure , di rado alterano la generale costituzione organica, di rado recidivano , si mantengono sempre lo- cali , non inducono la morte se non eccezional- mente ( tendenze fatalmente insite alla natura del cancro ) ; ed è permesso al chirurgo di ri- correre alla operazione con qualche speranza di buon successo. Siffatti tumori infine spengono più sovente il malato per la estensione e la gra- vezza del male locale, che non per la gene- rale infezione. Sono statipo i confusi col cancro, perchè presentano l' apparenza ed i vestigi di quello, senza però contenerne gli elementi costi- tutivi. Cosicché hanno mostrato il loro tessuto n:orboso d' un bianco latteo , brillante , omo- t^oneo, elastico, stridente sotto il coltello, e ge- mente talvolta una specie di succo cremoso e lattescente , e che può in vero di leggeri far cadere in inganno se non vengano completate le osservazioni istologiche e microscopiche. Ed riizi aggiugnerò darsi in pratica de' casi dubbi ed oscuri, ne' quali il cancro vero può venir 88 confuso non solamente coi falsi cancri e colle altre morbose produzioni analoghe altrove per noi accennate , ma sibbene con quelle che non vi hanno la minima analogia. Così l'encefaloide può venir simulato da un ammasso di cisti sie- rose , da un ascesso ec, lo scirro da un indu- rimento infiammatorio , specialmente se questo sia d' indole venerea , come occorre di osser- vare assai spesso sopra i testicoli , le tonsille , r intestino retto ec. Ma in simili casi potranno anche bene ri- schiarare la diagnosi 1' età , la predisposizione ereditaria, lo stato costituzionale dell'infermo, gli effetti desunti dalla pregressa terapia , l'an- tecedente esistenza di un altro cancro ec. Oltre di che 1' ascesso è più uniformemente e completamente molle dell' encefaloide , di un andamento in genere più rapido , ed eccitante minori sofferenze. L'indurimento infiammatorio è più circoscritto dello scirro ed ha un più ra- pido procedere, ed il venereo suole più o meno prontamente ammansire e cedere ad un tratta- mento specifico. Comunque però sia, una pun- tura esploratrice ne farà meglio determinare la natura anatomico-patologica dell'affezione, quan- do per altro non trattasi di certi cancri visce- rali , ne' quali viene meno pur anche questa dia- gnostica risorsa. Poiché il cancro per es. del cuore , del pericardio , della trachea , mancan- do affatto di sintomi particolari, ci rende quasi impossibile di stabilirne il diagnostico differen- ziale 5 e quindi non confonderlo con altre ma- 89 laltie di questi organi ; come quello dello sto- maco colla lenta gastrite; quello del fegato, spe- cialmente incipiente, colla ipertrofia e la cro- nica infiammazione del viscere. Il Bennett , ragionando del cancro e dei tumori che lo si- mulano, così si esprime. « I medici pratici sono continuamente nell' abitudine di confondere dif- ferenti prodotti morbosi sotto il nome di cancri, o di tumori maligni. La significazione primitiva di queste espressioni non ha più nello stato at- tuale della scienza importanza veruna. Nondi- meno , siccome il termine di cancro è ricevuto ed usitato , così gli si darà sempre un senso definito e positivo ed io pro- pongo di chiamar cancro il tessuto che è costi- tuito accidentalmente dagli elementi caratteristici del cancro ; e cancroide quello che rassomiglia più o meno al cancro; ed è continuamente confuso con esso, benché ne differisca per la struttura. » La quale a riconoscere in tanta analogìa d' elementi non v' ha certamente che il micro- scopio, senza cui sarebbe impossibile di rinvenir quella cellula, sulla quale riposa oggi del tutto il diagnostico istologico del cancro. Hannovi dei tumori a cellule cancerose , dice il Rollet; hannovi dei tumori epiteliali e dei fibro-plastici ; essi hanno una struttura ed una evoluzione distinta. Se si vogliono confon- dere sotto il nome generico di cancro, ciò che è una question di parole , egli è d'uopo sepa- rarli di fatto , poiché essi non sono né anato- micamente nò sintomatologicamente simili. Ora 90 il microscopio avendo separati dei tumori fino al presente più o meno confusi fra loro , dei quali gli uni sono benigni , come le ipertrofìe , gli altri più gravi , come i cancroidi , gli altri pressoché incurabili , come il cancro , sarà egli indifferente di riconoscerli sul malato ? Tratte- rannosi i tumori adenoidi, che possono guarire senza operazione, come i cancroidi dei quali non si trionfa che colla operazione largamente pra- ticata ? Ed il chirurgo non si deciderà con mag- giore confidenza ad operare un cancroide, che ad estirpare un cancro ? Ed a proposito della malignità resta ancora a riflettersi, che non essendo giammai il cancro il termine d' un' altra malattia, ma al contrario una affezione originale , sui generis , idiopatica, avente fin dall' origine del suo sviluppo caratteri che gli sono particolari, e conserva per tutta la sua durata , non può con taluni ammettersi la degenerazione cancerosa dei tumori, in maniera che un tumore primitivamente benigno possa cangiarsi in canceroso e maligno , e viceversa, senza incorrere in manifesta contraddizione di linguaggio , e senza tradire le prestabilite leg- gi della natura morbosa del cancro. Contuttociò non può negarsi ai tumori fì- bro-plastici una stretta affinità col cancro, non mancando sul vasto campo della chirurgia dei casi di tumori fibro-plastici disseminati in gran numero nelle diverse parti dell' organismo di uno stesso individuo. 91 li dott. Schloss vide svilupparsi una serie di tali tumori quasi simultanei nel fianco e brac- cio sinistri, nel Iato esteriore della cOvScia de- stra , nella parte esterna del moncone della ^amba d' un individuo che avea sofferta V am- putazione di tal membro. Il quale avvenimento pubblicato nel Bullet- tino della società anatomica di Parigi ( agosto 1856 ) stabilisce una questione della più al- ta importanza , secondo il Vidal , il quale dice che siffatta tendenza dei tumori fibro -plastici a moltiplicarsi e generalizzarsi presso taluni indi- vidui potrebbe forse autorizzarci a dimandare se possa riconoscersi una diatesi fibro-plaslica, come esiste quella essenzialmente cancerosa. Ma ad onta di ciò fa d'uopo attenersi tut- tora alle stabilite differenze fra il cancro , i tumori fìbro-plastici, ed i cancroidi, fino a tanto che non sarà incontestabilmente dimostrata que- sta nuova diatesi , e non avranno i patologi ri- soluto meglio il problema. CAPITOLO XVI. Trallamenio terapeutico del cancro. Dopo tuttociò, onde completare il presente lavoro, rimane a parlare del trattamento tera- peutico del cancro. Se non che dalle cose fino ad ora discorse agevolmente deesi dedurre quan- to cotesta impresa sia malagevole e scoraggiante. Clio non abbiamo fino al presente un solo caso 92 di guarigione ben constatata, per quanto taluni abbian voluto sostenere il contrario , ed i casi di guarigione finora vantati non poggiano che sopra errori di diagnostico. Difatti i pratici mi- gliori e più sperimentati, i più destri operatori, non hanno ottenuto un risultato che appagasse le loro speranze. Così il Monroe in 60 operati di cancro ebbe sventuratamente 60 recidive. Il Mayor in 100 operazioni di tal fatta vide 95 volte la recidiva. Il Boyer non ammetteva che quattro guarigioni nello stesso numero d' ope- rati. Il Macfarlane afferma che in 118 cancri, che egli operò, non ebbe ad ottenere neppure una sola guarigione radicale. E riferiva recente- mente il dott. Werden Cooke d'aver veduto reci- divare 128 individui, i quali avean subito una an- tecedente operazione ; ed il Monreau chiamava sempre infruttuosa la saggia mano dell'operatore. Né altrimenti confermano il Lebert, il Broca, /l Biandin, ed altri che lungo sarebbe annoverare. Ed anzi può dirsi con tutta asseveranza, che la conferma di un risultato così dispiacente si legge universalmente nelle opere di tutti gli autori competenti (1). (1) Il doli. Donnei di Lione (V. Gazelte medicale de Lyon 1857) formulò un metodo di tiallamenlo curativo a prevenire la recidiva del cancro del seno dopo l' estirpazione. Consisle esso nella medicazione idroterapeutica, che d'unione all'uso metodico «Ielle «eque minero-termali-saline e dei diaforetici egli indica come il solo capace d'indurre nell'organismo le generali modificazioni che reclama questo speciale slato morboso. Similmente il doli, Boinet in un lavoro letto alla socielà di medicina del dipnrtimenlo della Senna, dopo avere, per cosi dire, 93 Il Velpeaa ha pubblicato , è vero pur- troppo, dei casi di guarigione di cancri veri per tali ritenuti da tutti i professori dell' arte che li ebbero esaminati , e dai micrografì che vi aveano scoperta la cellula specifica; ma sif- fatte guarigioni riferiscono ad una epoca sì vi- cina all'operazione, che non garantiscono affatto contro la recidiva. Così ci opponiamo all' Ildano , il quale as- sicura avere estirpata una mammella cancerosa, e tre tumori cancerosi risedenti nel cavo ascel- lare corrispondente coli' esito il più fortunato^ Così al Ferminelli , il quale dopo aver detto che un chirurgo nella estirpazione di uno scir- ro primitivo , avendo inavvedutamente lasciata una particella di esso , vide presto ritornare pescato lungamente nel torbido, ci dà ad intendere aver trovala filialmente la perla smarrita , il lapis philosophornm della curabi- lità del cancro , della quale parla colla stessa intrepidezza e con- vinzione con che il Leberl e tanti altri sorami discorsero già della incurabilità. Riferiamo quivi alcuni punti dottrinali del suo metodo tolti da noi al num. 51 della Gazetle hcbdomadaiie de médecinc et Chirurgie de Paris, dell' anno scorso. J moltiplici fatti, cosi Boinet, che io ho l'accolti con grandis- sima diligenza, m' inducono a credere che si può, se non sempre, qualche volta almeno guarire radicalmente le affezioni cancerose. » Molte di queste, sulle quali m'appoggio per sostenere la mia opinione, hao subito la prova del microscopio ec. - Parten- do dalia idea desolante che il «'a nero sia fatalmente incurabile, l'im- mensa maggioranza de' chirurghi e de' medici non pensano a porre in opera un trattamento che preceda l' operazione; ed allorché l'o- perazione è possibile , cioè a dire allorché il tessuto canceroso è suscettibile per la sede che orcupa d'essere asportato dal ferro o dal caustico, essi non vedono che 1' operazione come il solo ed unico trattamento -Però dal non possedere la scienza un rime- dio infallibile e sempre efficace contro il cancro, si desumerà uà motivo per respingere a priori e senza esame tutti i tentativi cht 94 impetuosa la malattia, quantunque tutte le cir- costanze fossero d' accordo a consigliargli l'uso del ferro , conclude , che lo scirro è sostenuto da una semplice località senza la diatesi gene- rale che si pretende, aggiugne egli, specialmente nel cancro del petto quando sono ingorgate le glandole dell' ascella. Non giovarono adunque che qual mezzo palliativo le emissioni di sangue generali e lo- cali , le variatissime specie di fondenti vegetali e minerali , gli alcalini , i tonici , i marziali, i quali peraltro piti spesso occorre adoperarli ad opporsi alla crescente anemia. Non riuscirono di maggiore utilità i caustici ; non la compres- sione praticata dal Recamier, non le legature, non r elettricità , né il galvanismo. Intorno al- si polrtibbero fare ad oggetto di combattere questa disposizione no civa dell' economia, la quale h» per effetto di produrre il princi- pio canceroso ; e se questa diatesi cancerosa esiste, come non ve n' ha dubbio, perchè ristarsi dall'agirvi contro, perchè limitarsi a trattare solamente le sue manifestazioni ? .... - Laonde , . , . . in- nanzi di venire all'operazione fa d'uopo occuparsi di modificare tutta r econon)ia , cambiare tutta la costituzione , ricomporre tutta la massa del sangue e degli umori , infine tutto il modo d'essere dei malati e dei tessuti affetti. Ma per ottenere tutte queste ino- , ^*k dificazioni , tutti questi mutamenti , abbisognano mesi ed anni , e far subire ai malati dei lunj^hi trattamenti : ciò che fino ai pre- - sente non ha avuto luogo. - Le preparazioni iodiche e bromiche ( mercan- zia antica nella cura del cancro) a ragione soprattutto della loro proprietà risolutiva e modificatrice possono avere qualche propricl.i curativa contro le malattie cancerose. Quindi le purgagioni ripetutf, le acque minerali , i bagni frequenti , la traspirazione provocat;i , i diuretici ec. ec. sono preziosi mezzi ausiliari di siffatto trattamento » Per non ingolfarci nella noiosa confutazione di tali metodi , ne rimettiamo il giudizio al retto criterio di ciascuno , ed al cro- giuolodel lampo. 95 V uso de' caustici afTerma anzi il professor Ri- beri che , salvo ne' cancri epiteliali ne' quali possono tornare utili , in tutti gli altri è buona fortuna se riescono soltanto inutili, essendo per solito perniciosi. Avea già detto il Le Cat, che i rimedi sup- puranti ed i caustici guidano più rapidamente il tumore allo stato d' ulceramento. Conferma- vaio il Ferminelli dicendo che il caustico e le scarificazioni accelerano il passo lento colla morte. Cosicché tutti i specifici, tutti i segreti nei passati tempi diffusi e dalla cieca credulità del volgo celebrati pressoché per tutta Europa, come la polvere benedetta di Antonio Foschi , il sana- tor de' cancri , la Manus Dei della signora Po- chetti ec. caddero poi meritamente in un ob- blìo sempiterno. Riferisce Ettmuller con una certa aria di persuasione, che alcuni guarivano il cancro con^ un topico alcalino. 11 Vanhelmont spendeva parole di elogio ad un cerretano che spacciava una polvere altrettanto miracolosa. Ma che? Se la stessa sorte subirono pure i farmachi più ra- zionali di tanti uomini nell'arte eccellenti, co- me un Chenet, un Gendron , un Guy, un Hart- mann , un Plunket ed altri ! Chi adunque non diffida di tanta farragine di rimedi d'incognita od opposta azione, de'quali ognuno contese all' altro il primato , e non si muove a giusta indignazione contro i propaga- tori di essi, o dirò meglio contro tali prestigia- 96 tori ? Si riempirebbero molte pagine , dice il lodato Vidal , se si volessero semplicemente ac- cennare quei medicamenti che a volta a volta sono stati vantati contro il cancro. Essi hanno piuttosto servito a fare la fortuna di coloro che li hanno vantati, che non a guarire i disgraziati infermi ; ed oggi stesso non sono guari preco- nizzati che da una certa classe di praticanti. Laonde è giuoco forza limitarsi a porre in opera in una malattia, che tende continuamente ad affievolire e distruggere l' organismo, una conveniente regola igienica , mercè un alimento corroborante e nutriente, quale conviensi a tisi- ci, tubercolosi , ed a tutti i soggetti oppressi dalle varie specie di discrasie. Cosicché si farà uso di brodi sostanziosi , di latticini , di fecole amilacee, di gelatine animali e vegetali, di frutti maturi ec. L'ordinaria bevanda de' cancerosi può bene essere il vino , o dimezzato con acqua, o del tutto puro in moderata quantità, se non ge- neroso , almeno sincero ; ove peraltro non vi si opponga verun controindicante, come la diarrea ad esempio , la febbre gagliarda , i sintomi jn- fìammatori , la soverchia sensibilità dello stom a- co , o la sua assoluta intolleranza agli stimoli; giacché in tal caso converrebbe tornare ai soli alimenti fluidi , e questi ancora eccedenti , ai soli clisteri nutrienti. È però r uomo dell' arte obbligato ad isti- tuire una cura sintomatica sempre che lo re- clami il bisogno, apprestando a mò d' esempio calmanti e narcotici interni, precipuamente Top- 97 pio e suoi preparati ; gli esterni e topici , se specialmente vengano in campo spasmi nervosi, e muscolari contrazioni. Inoltre verran sedati i vomiti col ghiaccio, s' inietteranno clisteri emollienti , ed appreste- rannosi eccoprotici nella costipazione del ventre inferiore ; astringenti esterni ed interni, la com- pressione ed anche la cauterizzazione nelle emor- ragie ; in una parola tutti i mezzi emostatici posseduti dall' arte e dalle pratiche circostanze reclamati. Per ultimo non sono da trascurarsi, come precipui mezzi igienici, i bagni tiepidi così atti a calmare il commosso sistema de'nervi, i mezzi di distrazione co' viaggi, passeggiate, ricreazioni campestri ne' limiti d' una igienica moderazione, ed una abitazione salubre , aereata , e conve- nientemente esposta, e di tempo in tempo dalle fetide esalazioni del morbo con aspersioni di clo- ro , od acelo aromatico, purificata. Essendo adunque il cancro reluttante a sì validi mezzi di cura, potrà azzardarsene l'estir- pazione? Giuseppe Franck così risponde: « Prae- ter balnea tepida , fomentationes emollientes , muriatem hydrargirii , arsenicum , herbam confi maculati , aliorumque quorumdam vegetabilium ex classe narcoticorum, incertissima sane reme- dia , ars nil aliud suppeditat quam extirpatio- nem partis affectae. » Il Lebert però consiglia 1' operazione qua- lora possa aversi speranza di prolungare la vita al paziente, o di arrecargli sollievo , eziandio G.A.T.CLVi. 7 98 che preveggasi la recidiva. Sarebbe peraltro d' uopo accingersi all'impresa, ove si prevedesse di poter togliere tutta la parte cancerosa, ove il male facesse progressi rapidi ed incessanti , eccitasse delle vive sofferenze, e la morte fosse inevitabile senza 1' operazione , come ad esem- pio avviene quando il cancro situato nella re- gione gutturale impedisce l' ingresso dell' aria nelle vie respiratorie; o quando comprimendo i nervi pneumo-gastrici, minaccia la soffocazione. Deesi al contrario evitare 1' operazione quando esistono i segni della generale infezione e sono apparsi altri tumori lontani dalla sede primitiva del male , o quando avesse l' infermo una età già troppo avanzata. Se non che , essendo nel cancro ammorbato l' intero sistema organico , ragion vuole che si dirigano i rimedi princi- palmente all'universale, onde modificare, se sarà possibile, l'alterata assimilazione organica ; giac- ché la locale manifestazione della malattia non richiede talvolta che una secondaria considera- zione terapeutica. Così la pensano Scarpa , sir Astley Cooper, Monroe, Carmichael, Abernethy, Samuel Cooper , Cruveilhier , Boyer , Broca, e tanti altri , i quali si convinsero dell' indole co- stituzionale di questa disposizione morbosa. Laon- de l'estirpazione, lungi dal ritardare la morte, sombra accelerarla nella maggiorità dei casi; e se può il paziente aprire per un istante il cuo- re alla speranza , gli è poi forza cader vittima del suo crudele nemico. 99 Il dottor Werden Cooke scrisse in propo- sito: - La distribuzione della malattia nei vari tessuti del corpo , non che la impossibilità di trasmetterla per inoculazione, sembra conferma- re pel concorso di numerosi fatti che il cancro procede dal di dentro , avendo la sua origine nel centro ; motivo per cui ogni misura tera- peutica diretta alla periferìa soltanto deve di necessità aversi per infilosofica ed inefficace. - Infatti se un tumore canceroso primitivo è bene il risultato d'una diatesi , è il prodotto d' una generale infezione più che la cagione di essa , si comprende chiaramente che, anche tol- to il tumore, rimane la discrasìa, e deve il can- cro necessariamente recidivare. Nondimeno ha preteso qualche moderno che i tumori, i quali si mostrano sul loro esordire d' indole semplice, ed acquistano in seguito i caratteri del cancro, dovendosi considerare come lesioni locali nelle quali si compie un nuovo lavoro patologico, so- no suscettibili di guarigione colla estirpazione, con cui si toglie il focolare morboso del can- cro ; mentre è a sperare che possa per tal mez- zo operarsi una salutare rivoluzione nella eco- nomìa , una fausta modificazione dello stato co- stituzionale dell' infermo , che tolga la morbosa diatesi. Ma Dio volesse che si realizzasse una sì bella lusinga, e s'involasse alla morte una parte almeno delle sue vittime! Comunque sia però la bisogna , rimane affidalo alla sagacia del pratico l' adattare la 100 cura sintomatica ai casi speciali ; e V istituire diversi melodi di trattamento giusta le varie concomitanze morbose: come il mantenere l'or- gano affetto nel maggior riposo possibile , ed il proteggerlo da ogni urto e violenza esterna. Taceremo infine che il trattamento profilattico del cancro, come il curativo ed il sintomatico, non porge alcuna speme di risorsa. L'età, l'ere- dità, le affezioni morali tristi, cosi il Vidal, sono le tre sole cagioni del cancro che sieno ben co- nosciute. Per mala sorte contro di esse non pos- siamo conoscere quali mezzi preservativi deb- bano essere impiegati; e perciò la profilassi del cancro rimane sempre tutta intera a trovarsi. CAPITOLO XVIL Conclusione. Da tutte le discorse cose adunque si de- duce, che i progressi della scienza diffusero al- tresì una nuova luce sulla diagnosi e sulla pro- gnosi delle affezioni cancerose; che il microsco- pio è divenuto un potente soccorso a risolvere i più difTicili problemi diagnostici, ove lo si renda subordinato allo studio clinico : che i tumori , i quali non contengono la cellula cancerosa, possono dirsi non assolutamente pericolosi e le- tali relativamente a quelli che la contengono, fino a tanto che non sarà dimostrato appieno il contrario ; che il cancro si sviluppa in forza di una peculiare diatesi : ma che la questione 101 della sua curabilità è tuttora rimasta irresoluta, e noi manteniamo 1' antico diritto di dichiararlo ancora incurabile ; poiché giusta l' ippocratico aforismo: - Quod medicamenta non sanant , ignis sanat ; quod ignis non sanat , ferrum sa- nat ; quod ferrum non sanat, incurabile. - Finalmente concludo pregando tutti coloro, i quali si son compiaciuti di leggere il presen- te lavoro , per quanto abbia poco corrisposto al suo scopo , a voler meco riflettere , che se tanti sommi scienziati d' ogni nazione, se tanti profondi micrografi ed istologi si mostrarono oscillanti nell' emettere il loro giudizio sulla na- tura delle aff"ezioni cancerose , da non essersi poi trovati fra loro in perfetta consonanza d'idee; a più forte ragione dobbiam temere d' ingan- narci noi, e di smarrirci nel laberinto di tante difficoltà. Non rifiniamo perciò di scambievolmente "esortarci ad usare ogni scrupolosa cautela ne'casi dubbiosi e fallaci, che ad ogni pie sospinto ci si paran d'innanzi nel clinico esercizio. Né ci fidere- mo di noi stessi, ma c'inculcheremo di dimandar consiglio ai maggiori, e di consultare gli autori ed i precettori dell'arte. Poiché non è più per- messo ad un medico, dice il Langlebert, d'essere ignorante, che ad un soldato d'esser vigliacco. E di sì grande importanza è oggidì lo studio di certe specialità patologiche, che può di loro acconciamente ripetersi: « Nihil utilius, nec magis necessarium, quam baec cognovisse. » 102 Due capitoli: Vuno inedito di Francesco d'Arezzo^ a detestazione della invidia^ f altro di maestro Simone da Siena^ fatto per la morte di Dante; pubblicati per cura di Enrico Narducci. NOTIZIE PRELIMINARI N. eiri. e R. Biblioteca Riccardiana di Firen- ze conservasi un codice degli ultimi anni del se- colo XV, in l." piccolo, alto m. 0. 225 e largo m. 0. 160 , legato in tavola ricoperta di pelle impressa a vari fregi, composto di 149 carte cartacee ( salvo la prima e 1' ultima, che sono membranacee), numerate coi numeri 1-121, meno le prime cinque e le ultime ventitré, che non sono numerate, e queste ultime in bianco. Sul dorso del medesimo codice trovasi scritto « Rime di diversi », e più sotto il n.° 2815. Nelle prime cinque linee della prima carta mem- branacea si legge: « Vesto ( sic ) libro di chanzon » morale e Giouannj di tomaso lapj cittadino. » fiorentino. Il quale gli fu scritto da uno suo » amicho e non gli chosto nulla la scrittura per- » che me la dono : » e nelle due linee seguen- ti : « E oggi questo di 20 daprile di Giouannj » di thommaso nipote di detto Giouanni lapj ». Nel verso della medesima carta in due linee trovasi scritto: « probato a dj 16 marzo 1558 In S' )^ 103 » ( cioè Santa Croce ) de Firenze per Io Inquisi- » tore di detto ordine In fide ». Tre carte se- guenti hanno un indice delle poesie conte- nute nel codice ( capitoli , canzoni , sonetti ed una ballata ) , coi nomi degli autori di esse , i quali sono: maestro Niccolò Cieco d'Arezzo, mes- ser Francesco d' Arezzo , Benedetto d' Arezzo , maestro Simone da Siena , messer Antonio che stava colla signoria di Firenze, madonna Bar- tolomea contessa di Modigliana, messer Bonac- corso di Monte Magno, ser Niccolò Tinucci, messer Battista Alberti , messer Giovanni Ros- selli e Niccolò da Uzzano. È descritto nell' In- ventario e stima della libreria Riccardi , mano- scritti e edizioni del secolo XV. In Firenze 1810. 4-.° (pag. 55, col. 2, lin. 9. 11 ) così: « 2815 Nic- » colò Cieco d' Arezzo. Capitoli e sonetti. Al- » berti Leon Battista, Frottola. Cod. cart. in » quarto sec. XV. ». Il codice è di scorretta le- zione, e perciò da me emendata. Esaminato il suddetto codice, molte delle poesie in esso con- tenute mi parvero sommamente leggiadre , si per la eleganza dello stile, sì per 1' altezza dei concetti di quelle. Fra le quali alcuni capitoli morali d' amore di Benedetto d' Arezzo ( che fu degli Accolti e fratello di Francesco): dei qua- li , avendone io commesso copia ad un mio amico di Firenze , spero fra breve farne per questi tipi anche copia ai cultori delle cose ita- liane. Il primo capitolo stampato in quest'opuscolo trovasi nel codice riccardiano n. 2815, sotto il 104 nome di messer Francesco cC Arezzo {!), e par- mi tuttora inedito. Nacque Francesco Accolti , com' è ben no- to , verso l'anno 1418, di Michele Accolti e di Margherita Rosselli; ebbe a precettore il Filel- fo ; studiò legge in Siena e in Bologna ; ivi fu creato professore di leggi , ufficio da lui soste- nuta dappoi in Pisa, Padova e Ferrara; fu con- sigliere del marchese d' Este ; sotto il pontificato di Sisto IV si trasferì a Roma colla speranza di esser fatto cardinale, ma questa speranza gli andò fallita. Contro le discordi opinioni di Paolo Freero, di Giannalberto Fabricio e del Du Gan- ge , valgono a sostenere eh' egli morisse verso il 1483 le seguenti testimonianze: 1°, l'esser egli ancora vivo a tempo della congiura de'Paz» zi avvenuta l'anno 1478 (2); 2°, un passo di Fran- cesco Baldovinetti , il quale in un suo memo- riale manoscritto afferma che morì a Siena di mal di pietra Vanno 1483 in circa (3); 3°, l'aver lasciato scritto il Manni : « so bene , eh' egli » ( Francesco Accolti ) lasciò di vivere in Siena » medesima nel 1483 (4). ». Sebbene la mag- gior parte delle sue opere egli scrivesse in la- (1) Cod. riccardiano n. 2815, car. 32 recto, Un. 22 car. 36 verso, lin. 25. (2) Gli scrittori d' Italia , cioè notizie storiche e criti- che intorno alle vile e agli scritti dei letterati italiani. Dei conte Giammaria Mazzucchelli bresciano. Volume I. Parte I. In Brescia CIJOCCLHI. Presso a Giambatista Bosnni, pag.72. (3) Mazzucchelli, loc. cit. (4) Manni, Istoria del Decamerone , pag, 257. 105 tino (ben quindici ne annovera dettate in que-* sto idioma il diligentissimo Mazzucchelli), scrisse pure diverse poesie volgari : tra le quali due sonetti pubblicò il Crescimbeni nella sua Istoria della volg'ar poesia ( t. I pag.* 421 ; t. Ili pag, 286 ) , ed altre, dice il medesimo Mazzucchel- li, trovarsi a car. 139 del codice chigiano 581 , come pure in un codice strozziano , del quale però non indica il numero. A comprovare la perizia di Francesco Accolti nell' italiana poesia riporta il seguente epigramma indirizzatogli da Giano Pannonio (1): Francisce interpres legum Aretine sacrarum Nec minus aonia nobilis in cithara. Ritornando ora al primo capitolo (che riten- go inedito), a quello cioè che si argomenta A de- testazione della invidia; dirò che esso sembra po- tersi ragionevolmente attribuire a Francesco Ac- colti : 1°, dall' essere anche conosciuto France- sco Accolti sotto il nome di Francesco d'Arezzo; 2", dal trovarsi il medesimo capitolo nel codice già gaddiano 597 , ora passato nella biblioteca Mediceo-Laurenziana di Firenze, sotto il titolo seguente: Capitoli) di messer Francesco di Michele d' Arezzo contro V invidia. Trovasi anche nel detto codice riccardiano n.° 2815, sotto il nome di Francesco d'Arezzo, una canzone che incomincia « Tenebrosa, crii- (1) Mazzucchelli, voi. cit., pag. 72, noia (32). 106 delc^ avara e lorda », e finisco « Sazio non giàì ina per lunghezza stanco ». Intorno a questo componimento, il quale per più rispetti non ha potuto uscire alla luce, mi permetterò un' opi- nione. Benché esso* trovisi attribuito a France- sco d'Arezzo, pure non a Francesco Accolti, ma sibbene ad altro miglior poeta ritengo io che appartenga. A ciò m'induce primieramente lo stile che mi sembra assai più consentaneo all'epoca in cui visse Francesco Bruni che fu amico del Pe- trarca (1) , per essere così alto e forbito da non esser farina di Francesco Accolli ( qual che si fosse la sua perizia), e molto meno dell'ultima metà del secolo XV, Secondariamente, come è vero che ninno scritto può essere unicamente di due diversi autori, da loro distanti quasi di un secolo, è pur vero che la medesima canzone poc' anzi menzionata vien pure ricordata dal Crescimbeni (2), come appartenente a Benedetto (1) Quantunque il Bonamici ( De claris pontificiarum epistolarum scriptoribus , pag. 153-154 ) dica : « Hic est » Franciscus ille Brunus ad quera Petrarcha epislolas » conscribil qua(uor » , pure leggi le lettere del Pe- trarca , e troverai ascendere a quattordici le lettere dal medesimo indirizzate a Francesco Bruni , cioè : Seni' lium , lib. I , ep. 5 e 6 ; lib. Il , ep. 2 e 3 > lib. VI, ep. 3; lib. IX, ep. 2; lib. XI, ep. 2, 3 e 8; lib. XIII, ep. 12 e 13 ; Variarum, ep. 43, 46 e 47. Questo Fran- cesco Bruni fu segretario di Urbano V , Gregorio XI e Urbano VI. (2) Comentari del canonico Gio. Mario Crescimbeni custode d' Arcadia , intorno alla sua istoria della volgar poesia. Volume quarto. In Roma per Antonio de'Rossif 1711, pag. 23. 107 Accolti. Ora a chi de'due prestar fede? Se per vari riflessi potesse qui aver luogo la detta can- zone, di cui conservo copia coli' intenzione di pubblicarla , vedrebbero di leggieri i lettori a chi si dovesse a prima vista attribuire code- sta canzone di Francesco d'Arezzo^ anche senza cognome di autore. Per ogni buon fine questa è la mia opinione: nullamente essere di Francesco Accolti la detta canzone tuttora inedita ; for- se essere di Francesco Bruni, ambedue di Arez- zo. Ma nella repubblica delle lettere intrudesi sempre una turba di pedanti , fdosofi e dottori da collegio , i quali addottrinatisi delle altrui ricerche, infelici restauratori di tele da altri or- dite con indefessa fatica, non hanno altro divi- samento che di scoprirvi, e talora immaginarvi, un lato difettoso. Fomentatori di tali discordie, delle quali non porteranno nella tomba che il pentimento , e oltre di essa V obbrobrio , anzi- ché lasciare opinione ai nipoti che il presente secolo abbia cospirato alla rigenerazione della storia e delle lettere italiane, lasceranno invece triste monumento di passioni , ma più rispettosa memoria per quei pochi, che saldi a tanta mo- lestia sudarono al bene di sconoscenti coetanei e di posteri Dio sa quando migliori! Niun'aura di vanità sospinge queste mie franche parole ; le détta anzi il rammarico di vedere bene spesso intorno ad opere, bastevoli da per sé sole ad illustrare una nazione, tanto più insolenti il di- leggio 0 la critica, quanto da maggiore iguo- 108 ranza e presunzione procedono. Ma tornisi al- l' argomento. Porrò qui appresso, come saggio delie poe- sie del mentovato Benedetto d'Arezzo contenu- te nel suddetto codice riccardiano n.° 2815, le seguenti terzine, che fanno parte di un capitolo intitolato: Capitolo del decto messer benedecto doue si duole aiier lasciati ( sic ) la sua amorosa et fa molti pensieri in esso capitolo. Spira da esse un gusto assai petrarchesco, e perciò spero non mi si saprà mal grado se qui appresso le riporlo : Onde se '1 mondo, i cieli e lor pianeta Mi son contrari , ognor la morte chiamo, Che mi mandi abitar nell'aura cheta. Quivi, se '1 ver di qua tutti crediamo, Vedrò l'anime triste di coloro, Che scritti per amor morti troviamo. Ivi Pi ramo fia, che sotto '1 moro Finì la vita, e Tisbe sua compagna, Che sentì per amor tanto martore; E '1 pulito jVarcisso, che si lagna Del disperato error che a morte 'I mise, E trasmutollo in fior della campagna. Quivi è '1 folle Tristan, che amor conquise, Isotta insieme, e quel superbo amante. Turno, che '1 divo Enea vincendo ancise. I 109 Ivi Fedra, Didon con rio sembiante, Paris piangendo, e '1 furioso Achille, Che amor fece morir con pene tante; Pasife, Procri, a cu' l'aspre faville * Tolson la vita, Bibli ed Adriana, Che di misera vita ancor partille; Laiidomia, coll'altra turba vana Infinita d'amanti, che provaro Quanto da amor pietà fusse lontana. Il capitolo, secondo in ordine nella presen- te pubblicazione , fu già , a mia notizia , due volte pubblicato: e prima dal Corbinelli , a pag; 76 - 81 della sua edizione del trattato Da vulgari eloquentia di Dante Alighieri , col titolo seguente : CAP. IN LAUDE DI DANTE , senza nome dell' autore, ma autore de' tempi , o vicino a' tempi suoi (1). Venne posteriormente ristampato a pag. 168-171 del tomo quarto delle Opere minori del (1) Dantis Aligera, prcecellentiss. poetcB, de viiìgari elo- quentia libri duo. Nunc primum ad vetusti et unici scri- pti codicis exemplar editi. Ex libris Corbinelli: Eiusdemque adnotalionibus illustrati. Ad Henricum , Franciae , Polo- niaeque regem christianiss. Parisiis , Apud Jo. Corbon , Via carmelitarum ex adverso coli. Longobard. 1577. Cum privilegio, in - 12° ; pag. 76 , Un. 1-4. 110 medesimo Dante pubblicate per cura del Paggi in Livorno, ove trovasi parimente intitolato: CAPITOLO IN LAUDE DI DANTE, SENZA NOME DELL' AUTORE , MA AUTORE DE' TEMPI , O VICINO A' TEMPI SUOI (1). Quattro cose per altro m' indussero ad ac- compagnare questo capitolo colPaltro, del quale si è parlato di sopra nella presente pubblica- zione : 1° , r importanza del soggetto ; 2° , il non trovarsi esso capitolo inserito in opere da procurarsene facile contezza e possesso ; 3°, le varianti che ne offre il suddetto codice riccar- diano num. 2815, da cui 1' ho tratto ; 4°, fi- nalmente , per trovarsi questo capitolo nel me- mesimo codice non già senza nome di autore (2), ma chiaramente attribuito a maestro Simone da Siena (3). Il eh. sig. Gaetano Milanesi , che nel 1845 pubblicò un Capitolo a Maria Vergine del detto maestro Simone da Siena (4), ci fornisce prezio- (1) Delle prose e poesie liriche di Dante Allighieri pri- ma edizione illustrata con note di diversi. Volume quarto. La lingua volgare. In Livorno presso la libreria Niccolai- Gamba. In Firenze presso Luigi Molini 1850, in - 8"; pag. 168 , Un. 4 - 6. (2) Vedi sopra pag. 109, lin. 17. (3) Vedi più oltre , pag. (4) Capitolo a Maria Vergine composto per la peste del MCCCXC da M.° Simone di Simone Serdini Furestani antico rimatore senese ora per la prima volta pubblicato, Siena 1815. Tipografia dell' Ancora, in - 8". Ili se notizie intorno a questo scrittore : le quali io non saprei meglio comunicare ai lettori, che ripetendo le sue stesse parole, le quali fan parte della prefazione da luì premessa alla citata edi- zione del soprammentovato Capitolo a Maria Vergine (1); « Il nostro poeta, dic'egli, nacque » in Siena poco dopo la metà del secolo XIV » da Simone di ser Dino Forestani, e da Ca- » terina di Giovanni di Meo Barocci. Fu medi- » co, come il titolo di maestro e' insegna , ed » ebbe per la sua dottrina il nome di Savioz- » zo. Visse nella famigliarità di Uguccione Ca- » sali signore di Cortona, il quale morì nel 1400. » Servì poscia da cancelliere ai duchi d'Urbino, » e specialmente a Guido Antonio. Passò in ultimo » alla corte di Niccolò III marchese di Ferra- » ra , nelle carceri del quale finì miseramente » la vita , uccidendosi con un coltello ; dopo » avere con una canzone, piena di orribili im- » precazioni, sfogato la dolente e dispettosa ira » sua. Ma per quale cagione fosse condotto il » Serdini a quel disperato passo, e quale movesse » il marchese a rinchiuderlo in carcere, dagli » scrittori si tace: né dalle sue rime può age- » volmente raccogliersi (2) ». (1) Capitolo a Maria Vergine, ecc., pag. 3 non nu- merata , lin. 9 - 15. (2) Il sopraccitato codice riccardiano, n.'' 2813, con- tiene , oltre alla menzionata canzone , anche un capitolo 4eiIo stesso genere, dal quale si rileva l'infelice stato dello stesso Serdini. Verso la fine di questo capitolo ( cod. rie- 112 Vari altri componimenti dello stesso autore furono ancora stampati verso la fine del XV" secolo ( senza data di luogo né di anno) in Fi- renze nel 1584 separatamente ; e fra le rac- colte trovansene inseriti nel Crescimbeni, Istoria della volgar poesia, Venezia 1751; nelle Rime e prose del buon secolo della lingua, ecc. Lucca 1852; e nella Miscellanea di cose inedite o rare, Firen- ze 1853. È da notare inoltre che il Capitolo a Maria Vergine, che nell'edizione di Siena, 1845, dicesi per la prima volta pubblicato , lo era già stato fin dal 1842 dal celebre Mai, nel tomo Vili del suo Spicilegiiim Romanum , a pag. XXIV e seguenti (1). Tant' oltre fa d'uopo spingere le ricerche prima di asserire un fatto qualunque ! Ogni studioso per altro saprà buon grado al prefato sig. Milanesi , per aver egli reso più universalmente noto un buon testo di lingua , inserito in una raccolta di genere così diverso, né molto facile ad acquistarsi per la mole e pel prezzo , qual è quella suddetta del Mai ; e di più per aver dato in una breve sì, ma erudita prefazione tutte le notizie allora desiderabili in- torno alla vita ed agli scritti del Serdini. Il medesimo editore indica inoltre vari codici con- cardiano , n." 2815 car. 59 recto , b'n. 2 - ^u) egli dice: » Non ammirar , lettor , perch' i' sia fioco, j) Che se sol una delle u»ia provaste , » Forse staresti o no più saldo al gioco «. (1) Catalogo di opere volgari a stampa dei secoli XIII e XIV compilalo da Francesco Zambrini. Bologna 1827. Presso Carlo Ramazzotti libraio; pag. 328 e 400-401. 113 tenenti poesie del detto Serdini : i quali co- dici sono i seguenti : della biblioteca pubblica comunale di Siena , cod. I. VII. 15 ; Riccardia- no , num. 1133; Mediceo-Laurenziano , num. 37 , pluteo XC inferiore; Magliabechiani, classe VII, numeri. 107, 721, 956, 1009, 1056, 1170, e classe XXIV , num. 1. Ciò a vantaggio di chi avrà agio o talento di farne ulteriori studi. Il capitolo secondo essendo stato già pub- blicato del Corbinelli e dal P^Jggi, ho messo a pie di ciascuna delle pagine che lo contengono le varianti che s' incontrano nelle sue anteriori edizioni , salvo 1' ortografia. AVVERTIMENTO. Il primo dei due capitoli pubblicati più oltre trovasi nel codice riccardiano num. 2815 (car. 32 recto , lin. 22 - car. 36 verso , lin. 25). Ho rifiutato in esso alcuni passi errati, senza dub- bio per colpa di copista : e perchè sappia il lettore quali sieno questi passi , li ho notati a pie di pagina. Il secondo dei capitoli suddetti trovasi nel citato codice (car. 59 redo, lin. 12 - car. 62 recto , lin. 19 ). Essendo stato questo capitolo, come rilevasi dalle precedenti Notizie , pub- blicato la prima volta dal Corbinelli , mi sono valso anche di quella stampa, per ridurlo a più purgata lezione. A pie delle pagine contenenti questo capitolo la lettera C. indica la stampa del CorhiiK Ili, e le lettere C. R. indicano la le- G A.T.CLVI. 8 114 zione del detto codice riccardiano. Sicché in questo capitolo dove trovasi notato il testo stam- pato denota esservi stato sostituito il manoscrit- to, e viceversa. -infZ5{gv^JSìi ÌT- 0. 115 CAPITOLO m MESSER FRANCESCO D' AREZZO A DETESTAZIONE DELLA INVIDIA ¥ 'norato furor, famoso e chiaro Sopra ogni altro furor, che ^ fa sì degno II poetico stile, e tanto caro ! Senza il sacro tuo lume il nostro ingegno Nelle cose profonde oscura e manca, Né di gloria giammai apprende ^ il segno; Per te- nostra virtù debile e stanca Spera forza acquistar, che '1 suo concetto A buon porto conduca ornata 3 e franca. Apri dunque l' ingegno, e spira il petto C©I tesor benedetto. Apollo ^ santo. Per l'amor ^ che aseguirtiognor m'ha stretto; Sì oh' i' possa trattar nel ^ nuovo canto Della mala radice, onde si cria Velenosa discordia, doglia e pianto. Maladetta sie tu, profonda ^ e ria Crudel morte d' amore, invidia cieca. Per cui r alma del tutto al mal s' invia! La tua livida fiamma abbrucia e seca In qualunche t' abbraccia ogni bel frutto, Che da molte virtù nel cor si reca; Tu trovasti principio al nostro lutto Nel peccato d' Adam ; per te la morte Regnò fin al Messìa nel mondo tutto. ' allro , che) - ^ aprendo) - ' ornato) - '' Appello) * Pell'ainor ) - ^ del ) - ' profonda) - 116 Ed acciò che le ^ vie maligne e torte Del tuo folle pensier di ragion casso Pienamente da noi ora sien pòrte, Diffinir si convien nel primo passo La sustanzia tua, che si riduce In tre modi d' angoscia e stato basso; Perchè, quando dolor nel core induce ^ Eccellente virtude ^^ o chiara fama, Che con vera virtù più in altri luce, Né per tema d' ingiuria poco s' ama Lieto stato d'altrui, quest' è la pianta, Che la turba mortale invidia chiama. Quest' è '1 ^* vizio mortai, di cui si canta Pel profetico spirto, orribil morso Di bavalisco , a cui non vale incanto. Talor nostro voler, troppo trascorso a Nel desiderio suo, vinto si trova Da chi volge la speme a simil corso; Indi par che dolor s' accenda e mova Spesse volte nel core, a cui molesto ^^ È che bene sperato in altrui piova : Dispettoso furor , poco modesto, Che da simil disio suo nome prende. Di trista emulazion più e' altro mesto; E maligna ^^ nequizia, che riprende Il giudizio di Dio ^* benigno e giusto, Che dal vulgo mortai poco s' intende. * alle ) - ^ cor s'induce ) - " virtù ) - " è quel ) - *' mo- deslo) - '^ Camali-gna (sic)) - '* d'Iddio) - 117 M!l se '1 primo e secondo amaro gusto Dell' invidia trista sì perverso È nimico d' amor tanto robusto , Quant' è più odioso e più avverso A natura e a Dio , di ragion esce Chi dal terzo che segue ha 'l cor sommerso: II qual non eccellenza d' altri mesce, Né fortuna miglior , che meno a torto Fra la gente mortai duole e rincresce; Ma perchè sol vorria tenere il porto Della grazia e del ben che gli è concesso: Onde trovar non vuol pace o conforto. ^^ Questo prossimo mal di sopra espresso ^^ Zelotipia si chiama. Oh zelo iniquo, Sopra gli altri due morbi in cima messo! Da te nasce tal bestia ingrata e sorda ( sic ) , Come tu dai , superbia , eh' è radice D' ogni nostro voler che mal s' accorda ! La dolcezza e 1' amor, che '1 core elice A terrena eccellenza, perchè prima Fra le pompe del mondo esser si dice, Disia tanto levar suo pregio in cima. Che la gloria d' altrui par poco danno, E difetto d'onore esser si stima. Se tu guardi , lettor , que' che più hanno, Come diviso in sé minor diventa. Veder può' la cagion del cieco affanno: Onde ben diffìnisce ed *'' argomenta Chi tristizia la chiama, e 1' altrui bene Come proprio ^^ mal par che si senta. '" par De conforto) - "^ sperso) - ''' e)- *^ Che come proprio ) 1 18 £ siccome diletto ed ^^ amor viene * Fra virtù e fortuna, e qual se *1 core Con diritto voler ben si contiene , ^^ Così quando misura e ragion fore È del nostro disio , simile stato Si vede esser cagion del cieco errore. Dove eccesso maggior di gloria è dato Poco move sua forza , e rado monta Al velen che di sopra i' t' ho mostrato; Perchè vii condizion ma' non s' affronta Con potenza sublime o fama eletta, Se non è da ragion troppo disgionta ; Né virtù singular da gente abbietta Esser vinta ^^ di lode, e spregio teme, Come re di plebeo poco sospetta: Sì che fra chi non corre a una speme Non de' nascer tal vizio, che s' accoglie Da vicino splendor che '1 nostro preme ; Però luogo distante a lungo ^^ toglie La cagion del dolor che 'nvidia move, E dirizza in amor più nostre voglie. Or può' chiaro veder con vere prove , Come doglia e letizia da un sol rivo ^^ Per diversi rispetti e ragion piove : E per questo intervien che chi è privo Del ben già posseduto poco gode ^^ Nella miseria del tempo giulivo; '' e rivo ) - 2" convene ) - ^' vinto ) " 2- e luogo ) - ^^ da un ) - 2* posseduto gode)- 119 E talora pensando a ciò si rode Pel difetto presente , e più si lagna Ancor s' altri tal ben posseder ode. Ma ben può avvenir, senza magagna Ovver colpa d' invidia, che dolente L' altrui ben contemplando il cor rimagna: Onde per chi distingue acutamente. In tre specie tristizia fuor si pone, Del perverso furor detta al presente. Che se '1 prossimo nostro esser cagione Può , crescendo vèr noi, di grave offesa, O d' opprimere -^ il giusto e sua ragione, Non si spegne però la fiamma accesa Di carità, né rio seme s' acquista, Se '1 suo mal ci rallegra e 'I ben ci pesa; E così addivien di chi s' attrista Sol del proprio difetto, e sente il zelo, Che commove virtute in altri vista. Per cu' lume si fende e rompe il velo Delia nostra ignoranza , saldo scudo Contro ogni paura, caldo e gelo: Questo fé Scipìon, -^ che prima ignudo Era di gloria, trionfare, e mille, Ch' i' per tedio fuggir dal tèma schiudo. Le ricchezze , gli stati e le tranquille Prosperità, che '1 ciel per dota assegna A chi segue malizia, son faville: Donde pria che la terza spezie vegna Di dolor sanza vizio, che si noma Ne' mezzi ^^ dell' effetto il qual disegna ; -' od opprime ) - '-® Scipione ) - " Nemesi ) - 120 Ch' è troppo dispettosa e grieve soma Veder umile il giusto, ^^ e tal salire E di segno regale ornar la chioma, Alla cu' punizion degno martire Trovar non si potria, -^ benché racchiuso Colla scimmia ^^ dovesse in mar perire. Ed è 3^ questo dolor più spesso in uso ^^ Ne' magnanimi spirti , accesi e pronti A volar per virtude ^^ e fama in suso. Costor , benché non sian d' invidia ponti ( Che la lor passione a certo modo Per contraria di lei par che si conti), Pur non fuggon di colpa in tutto il nodo; Perchè troppo presume oltre sua meta Chi, vogliendo mostrarsi integro 3* e sodo. Col giudicio divin suo cor non cheta : Il quale, o per ridur di morte a vita, 0 per moltiplicar l' ira discreta , ^^ Nella vita presente i mali invita Alle fragii ricchezze , al ben terreno , Che pel cielo acquistare '^'' ogni buon vita. Però ponga ciascun misura e freno Allo 'ngegno mortai , che spesso abbaglia Neil' immenso saper del divin seno. Né de' credere alcuno a chi agguaglia Tutte le colpe, e i primi moti accusa. Come vizio mortale in noi s'attaglia: ^"^ •o' -^ Veder l' umile e '1 giusto ) - "^ porrla ) - '° sci- sma - È noto come gli antichi romani punissero i parrici- di , rinchiudendoli in un otre , unitamente ad un cane , una scimmia , un gallo ed una vipera , e cosi quindi li gittas- sevo in mare) - ' E di ) - suso) - "' virtù)- ' in ter- zo) - " dicreta ) - ^* Che pel aquistar ) - 2'' e taglia ) - I 121 Perchè la passion del corpo infusa Nella mente mortai sì '1 corpo abbraccia, Che fa lieve l' offesa e trova scusa. Ma se nostra ragion segue la traccia Del 3^ bestiale appetito , che si accosta 39 Al ^^ disio naturai che 1' uomo impaccia , Divien tanto perversa, e tanto opposta A diritto cammin, che 1' alma uccide, Fin che al bene operar non è disposta. E per tal differenza si divide L' ardor primo d' invidia , eh' è più lieve, Dal perfetto livor che '1 cor elide ; Altrimenti saria '1 peccato grieve Neil' età pueril , che i primi effetti Dalla nostra malizia in se riceve. Ed acciò che nessun giammai sospetti Che la colpa d' invidia si discerna Fra' peccati maggiori a morte eletti, Con quel sacro furor che mi governa Brievemente dirò donde si scorge Esser degno l'error'*^ di pena eterna. E , seguendo chi meglio in ciò s' accorge, Quando contra speranza, amore ^"^ e fede La nequizia del cor suo velen porge, O spegne altra virtù ( che si richiede Alla nostra salute molto frutto, Che r Agnel mansueto in croce diede). ^' Col) - '^ Che r uom si scosta ) - " Dal ) - *' degno er- ror ) - *2 amor con fede ) - 122 Perdesi '1 cielo e '1 ben passato tutto (Tanto 'I mal odioso in noi s'ammorta!), E succede 1' eterno orribil lutto. Oh se la mente tua fìa bene accorta , Per ragion vedrai che T viver rio Mortai pena con seco e dolor porta ! Considerando che '1 suo mal disio La carità distrugge e pietà fura, ^^ Per le qua' si trionfo e vive in Dio. Tu rabbioso, crudel, senza paura 0 rispetto di Dio , tu solo audace, A ogni orrido caso e cosa scura ! Per te Roma sentì la trista face Della civil battaglia, e Siila atroce, *'* Che per troppa vendetta ancor dispiace; Dallo stimol tuo rio trafitto in croce. Lacerato e deriso il sacro Agnello Morì, e' ora a' giudei cotanto cocé ! Chi uccide '1 parente e chi '1 fratello. Tanto vai la tua forza e le tue posse, Come Cain mostrò nel giusto Abello. Ecco la fera pessima, che mosse Il cor contra di Job e contra '1 figlio. Che da dieci fratelli un sol ne scosse! O materia profonda, ov' io m' appiglio Col mio debole stile , arò io grazia. Che ben possa mostrar lo malo ^^ artiglio, Il qual gloria, virtù te e fama strazia , V innocenti sommerge, e mai di sangue, Di ruina e d' esilio non si sazia ? *- rompe) - ''' si l'atroce) - '" maro ) - 123 Al passar della *nvidia more e langue Ogni valle fronzuta e verde colle, Come schiuma rabbiosa o velen d'angue. 'Per fuggire i suo' denti acuti volle Il gran duca romano, a cu' fu poco Vincer dall' occidente al Tauro **^ colle, Finir r alta sua vita in basso loco, E preferir Minturno *^ a Roma ingrata, Che usò centra '1 fedel sì laido gioco. Tal merito ebbe Esperia ^^ soggiogata E Cartagine vinta, o male acerbo, A cu' centra virtù tal forza è data ! Tenacissima pianta, o vivo nerbo. Con suprema malizia, che di rado. Trovò di penitenzia alcun riserbo ! Ed è giusta cagion, che a suo malgrado Spesse volte perisca in tal tempesta L'alma, senza tornare a miglior vado. Quanto stimol minor natura presta Nel peccato eh' i' dico, al cui mal seme Lievemente da prima ogni cor resta! *^ Né sol questa ragione invidia preme. Ma '1 peccar per malizia, che più erra Contro lo Spirto Santo e più si teme. Perchè '1 tristo dolor che '1 cor afferra Nella grazia d'altrui bestemmia, e grida Centra chi la difende in cielo e 'n terra; " turo ) - " Militarne ) - " la Speria ) - *' Notisi qui adoperato il verbo testate per resistere) - 124 Sì che ben si può dir, che 'n hii s'annida Animosa mah'zia, chiara e certa, Ghent' è folle il pensier che sì la guida: La cu' fiamma crudel non può coperta Lungamente durar, che non s'adocchi Per manifesti segni e pruova aperta. Pallido porta '1 viso e scuri gli occhi. Coir aspetto protervo acceso d' ira. Onde par che dispetto e velen fiocchi ; Amarissimo fiel la lingua spira, Pien d' acerbe parole e senza legge; Stride ne' denti e sempre in sé sospira. In ogni altro dolor modo si legge, Che rimuove l'offesa e '1 cor lusinga, Se la cagion dell'odio sticorregge: Qui trovar non si può che ^ leghi o stringa Quest' indomita fera umil virtute , E poco vale amor che ^* in Dio s'accinga; Sol difetto di bene e di salute , E mina d' onor tal doglia sana , E le punture sue fa meno acute. E qual mente sarìa sì leve e strana. Che volesse cader di bene al fondo, Per finire in altru' la voglia insana? Pensi adunque ciascun nel cieco mondo Fuggir l'empia ^^ malizia, che divora Ogni petto di grazia più fecondo; E ciò lieve li fia, ^^ se s' innamora Della gloria del cielo , eccelso dono , Che di bene immortai l'alma decora: ■"*" chi) - ^' Poco vale e amore) - ■'- impia) - ^^ sia) - 125 Dove regna l'amor di pace in trono; ^* Perchè '1 lume ^^ di Dio riluce intero In ciascun degli spirti che 'n lui sono. Segui , popol terren , V aiuto vero Contra '1 colpo d'invidia, che non vale. Verso di chi si drizza in tal sentiero ; E stima ogni fortuna e ben mortale Esser falso tesoro e cosa vile , E la tua condizion caduca e frale. Né per esser signor dal mar di Tile All' estremo dell' India, donde nasce Febo neir orizonte nostro umile, Fuggir puossi '1 dolor, che nelle fasce Di ciascun si comincia; e però varca Colla mente nel ciel, dove si pasce II glorioso Agnel sommo monarca. d'amor di pace il trono ) - ^^ Perchè lume). 126 CAPITOLO DEL DETTO M.' SlMONfi (1) FATTO PER LA MORTE DI DANTE POETA FIORENTINO, NEL QUALE BREVEMENTE DESCRIVE TUTTA LA VITA SUA C ome per dritta linea 1' occhio al sole Non può soffrir ^ l' intrinseca sua spera, E riman vinto assai da quel che sòie; Così r ingegno mio da ^ quel eh' egli era Rimaso è vinto dalla santa luce, Che, come il sole, ogn'altro corpo impera. Franca colonna, or poi che tu se' duce Di comandare , ^ ed io voglio ubbidire; Ma degna musa fia che mi conduce. Per lei ardisco, poi * per te servire, Parlar del sacro fiorentin poeta. Che nostra lingua in ciel fatto ha ^ salire. Qual divina influenza il bel ^ pianeta Mercurio' aggiunse ^ a Virgo in ascendente, E Venus vide graziosa e lieta ? Furon le muse ^ allor tutte presente, E vide Apollo in suo ricco Parnaso Dafne più che giammai lieta e piacente; ^ (1) Cosi il titolo nel codice riccardiano , n.° 2815 ( car. 59 recto, Un. 12-14). Precede nello stesso codice altra poesia del medesimo autore , in fronte della quale esso vien chiamato : « m.° Simone da Siena «. Vedi anche le Notizie preliminari. *■ C. R. durar non può ) - - C. R. di ) - 'C. coman- darmi ) - ' C. e poi ) - ■' C. R. ha [atta in ciel ) - ' C. R. ebbe '1 ) - "' C. giunse ) - ' C. R. ninfe ) - ' C. R. bella Ì2T Vide Minerva il benedcKo vaso Pien di rugiada parforire ^'^ un fiore, Che in grembo a Beatrice è poi rimaso. Felice ventre, in cui tutto '1 valore Dello idioma nostro infra i latini ^* Acquistò gloria, e tu porti 1' onore ! 0 lume .d' eloquenzia infra i divini ^^ Poeti, che per fama hai venerato La patria tua e tutti i tuoi vicini ! Ben ti puoi gloriar , ^^ popolo ingrato, Del ben, che in vita tu non conoscesti, E anco ^^ il cener suo hai disprezzato! '^ Non fur gli antiqui ^® tuoi tanto molesti , Che discacciasse ^^ la virtìi l' invidia ^^ Sol per ben fare , come tu facesti, 0 maladetta fame, ^^ o trista insidia Degli stati caduchi , anzi veneno. Che v' ha acciecati nella sua perfìdia ! Brievi e leggieri, assai più che baleno, ^^ Divisi 2' con affanni e con paure, D'onde vegnamo a poco a poco meno ! Non baston pur le tombe e sepolture All' ossa svelte dalle ^^ crude morti. Che ne son pieni -^ i poggi e le pianure ? Rapine, incendi, uccisioni ^'* e torti ; Puttaneggian le vergini e gli altari ; 0 iuslizia di Dio, perchè '1 comporti ? ^^ e lerveulc ) - '^' C. R. parlurire ) - ' C. R. infra ' Iali- ni) - '- C. R. fra ' divini) - C. millantar) - ^' C. R. in che ) - ^'^ C. R. sprezzato ) - "^ C. R. antichi ) - ' ' C. discacciassi) r ^^ C. R. la 'nvidia ) - '' C. R. infamia) - "" C. R. che baleno) - "' C. di vizi) -=' C. R. delle) - ^^ C. R. piene) - ^'' C. occisioni ) - "■' C. 0 iustizia di Dio, co- 128 Questi boccon desiderosi e cari Acerberan la strozza ancora a' figli, E forse a' nostri dì parranno amari. Trovossi Dante fra colali artigli , Che, per seguir gli stati e '1 ben civile, Corse in esilio ed a maggior perigli. Tutto fu lume al suo spirto -^ gentile, Che, sviluppato da sì van disio, Tolse dipoi 27 così leggiadro stile ; E posti gli error pubblici in oblio , Dopo gli studi italici, a Parici Volle abbracciar filosofia e Dio. Non molto stette poi riveder quici La Scala, e i Malespini 28 e '1 Casentino, Che fur di lui veder troppo felici. Da poco poi rivolse il suo cammino Al buon Guido Novel, quel da Polente. Sì gentil sangue è fatto oggi ^^ Caino ! Costui fu studioso e fu sciente. Col senno e colla 30 spada , e liberale , E sempre accolse ogni uoni probo e valente La festa, l'accoglienza quanta, e quale Fusse 31 l'onor che a lui si convenia, Ravenna, tu '1 sai ben, che dir non cale. TV • • VI Qui cominciò di legger Dante m pria «^^ Retorica vulgare, e molli esperti 33 Fece di sua poetica armonia. me •! comporti ? ; C. R. O giustizia d' Iddio perchè '1 com- porti) - "■ C. R. viver) - '' C. R. dappoi) - "^^ C. R. La Scala, Malespina ) - H C. R. sangue, fatto già ) - C. R. sonno , colla ) - »' C Fussi ) - ' C. R. pria ) - *' C. R. 129 E se tu ben, lettor, ^4 cerchi ed avverti , Le rime non far mai prima di lui Se non d'amore, e d'uomini inesperti. ^^ Così 'i vulgar nobilitò costui , Come il latin Virgilio o 'I greco ^^ Omero, E onorò più il suo, che '1 suo 1' altrui: Onde ^^ per esaltare il magistero Cotante alte materie dir vulgare ^^ Volse, per ^^ esser solo in suo mestiere. Or taccia '*^ ben chi mai volse parlare Di tutto il viver nostro e del costume : Lingua mortai giammai non ebbe pare. L'acque e le fronde del Peneio ^^ fiume Bagnaro e cinser --^ l'onorate tempie. Che a molti han fatto glorioso lume. Nel cui principio poetando adempie Le pene ai ^'^ peccator, quanto s'aspetta, ^* Come ^^ le colpe fur più e meno empie; Nuovi ^^ tormenti e orribile ^'^ vendetta Mostra, per affrenare ^^ i molti vizi, Dove la gente vede tanto infetta. Perchè da'nostri superiori inizi Nasciamo atti a ragione ^^ e liberiate, Giustizia ^^ ordisce a'rei degni supplizi. aperti ) - '' C. R. lettor, ben ) - ^^ C. R. o ver d'uomini sperti ) - 2« C. e i Greci )-■'''€. Donde ) - ^s C. R. Con taut' alta materia divulgare ) - '^ C. e per ) - ''" C. R. tac- ci ) - ^^ C. fi. deli' Eneide ) - "- C. R. cinson ) - *' C. R. al ) - "" C. R. si spetta )-'''€. R. Quanto ) - '^ C. R. aspri ^ - ' C. R. ed orribil ) - -^ C. refrenare) - '^ C. R. Nasciamo per ragione ) - ^" C. R. Justizia ) - G A.T.CLVL 9 130 Inferno pone all'anime dannate, Che furo ^' esecutor di passioni, E del celeste dono al tutto ingrate. Nel secondo entra in nuove regioni. Verso un prato di giunchi una montagna Murata in mezzo , e salesi '^^ a scaglioni; Ed è in quell'emisper tant'alta e magna, Che tocca il colmo suo l'etere ^^ puro. Dove gran gente con disio si lagna : Qui punisce il poema insino ^* al muro Color che furo ^^ negligenti in vita , Però son più di lungi al ciel futuro. Da indi in su , come che fu contrita. Così di grado in grado ivi ^^ si purga, Infin che giugne '^'^ all' ultima salita: Qui moralmente vuol che ciascuno urga Gli appetiti mondani in quanto ^^ ei puote, E che per contrizione ^^ a Dio resurga. Nel terzo ascende 60 all'amorose note 6* Di cielo in ciel , perfino a' santi cori , Là dove trova ^^ l'anime divote. Bealus vir che Dio temi ed adori , Beati quorum teda sunt peccata^ Beati immaculati e puri cuori! ^^ 0 donna facundissima ^4 e beata, Beati gli occhi, e benedetta l'ora Che l'ha in sì degno ostel fama acquistata! 51 C ii. fumo) -5* C. sagliesi) - " C.R. lo terren ) - ^^ C. /?. poeta fino) - '' C.R.iorno) - 5» C. vi) - " C. giunse) - ^« C. mondani quanto ) - ** C. R. Che per contrizione ) -^'^ C. scande) - «i C. R. rote) - «- C. R. truova ) - " C. R. ardori) - " C. R. fecondissima) - 131 Non così caldamente or s'innamora, Che l'uom s'ingegni ^^ alle virtù per forma, Che la sua donna e 'n terra e n cielo onora. ^® Dietro all'amante, ^^ alla santissima orma Di Beatrice segue il bel poema, Dove c'insegna la beata norma. Come il maestro poi che ha dato il tèma Al fanciullin, che innanzi a lui attento, Non sapendol ^^ comporre, il mira e trema; Molte fiate d'una volta in cento Gli mostra e '1 nome, e '1 verbo e 'I participio. Tanto che del latino il fa contento; E come a Roma tremefatta Scipio Soccorse con parole e con effetto. Che fu di Libia ^^ allor grato principio; Così nel nostro debole "^^ intelletto A parte a parte mostra e ci '^^ soccorre, E poi ci acquista "^'^ un regno alto e perfetto. Per questa terza via si sale "^^ e corre Al sommo ben felice ed a quel fine. Che né resia ne morte il può disporre. Lì '^^ non si dien le redine alle "^^ crine Della rota del mondo, e non si punge La man, per cor '^^ la rosa infra le spine. 0 felice colui che si compunge Ad ora, ^^ e col ben far sempre s'adopra, "^^ E non aspetta insin ^^ che '1 prete l'unge ! 63 C. R. s'ingegna) - "^^ C. /?. ciel s'onora) - ^'' C. Dietro I' amante; C. R. Drieto all' amante) - "** C. R. Noi sapen- do) - 6« C. R. libra) - ■"> C.R. debile) - " C. ed ei ) - « C. R. po' acquista ) - '' C. saglie ) - ''* C. R. Ei) - '^ C. R. o le) - 76 C. R. tor) - " C. R. A ora ) - ^« C. R. aopra ) - ' ('. n. lìn) - 132 Li ^^ mostra degno premio a ciascun'opra, Lì ^' finisce il Comedo, e lì ^^ t'accenna: Or cerca ^^ ingegno altrui che te lo scopra. ^"^ Poco poi scrisse la famosa penna, Finito il libro suo, che Beatrice L'anima chiese, e l'ossa ebbe Ravenna. O vita sua perpetua e felice. Vaso d'elezione, esemplo nostro, Che così morto vivo ancor si dice! Non furo i panni suoi porpora od ostro, ^^ Non furo i cibi delle varie ^^ prede. Ma fur scienza, calamo ^^ ed inchiostro. Nacque vacante la romana sede. Corrente il tempo a'prosperi annuali Mille e due C, L. X. e V. procede; ^^ Cinquantasei soli stette infra i mortali, ^9 E fece altre opre graziose e belle; Poi verso il ciel fuggendo aperse 1' ali, Con Beatrice ad abitar le stelle. »« C.É.Qm)- 8' C.R.Qui)- «^ C./?.il comedio,eqiii) - «^ C. R. cerchi ) - s« (j ^ jg) discopra ) - ^^ (7. porpora ed ostro; C. R. porpora d'ostro) - ^® C. R. vane)-" C. e calamo ) - **" C. che amendue CC , con LX , e V prece- de ; C. R. Mille e due C. L. X. V. procede) - '"' C. R. fra' mortali ). 133 DegV Inni del Breviario Romano e delle principali traduzioni in versi italiani. Appendice di mon- sign. Fabi Montani. iS on sarà dispiacevole, che, come abbiamo pro- messo alla pagina 151 del precedente tom. IX, aggiungiamo il catalogo degl'inni, che oggidì co- munemente si cantano nel breviario romano e de' rispettivi loro autori, secondo che insegnano il Gavanto , il Merati ed altri liturgici , dichia- rando che spesse volte non tutti convengono nel nome dell' autore. Noi ci siamo attenuti ai più degni di fede, e specialmente a quanto ne opina il dotto monsignor Pietro Alfieri (1) Non meno di quaranta sono presi da sant' Ambrogio, cioè: 1 Aeterna Christi munera^ al mattutino del (1) Questo ecclesiastico è assai commendevole non solo per le molte opere musicali 'la lui piiiii)licale, ma eziandio per le ri- prodotte. Ci crediamo in dovere di aggiungere, che con lungo studio Ila restituite le raelocHe degl' iuni alla loro primitiva formy, per- (lulHsi per la inesatta ortogiafia musicale usatii ne' tempi, in cui furono per la prima volta scritti. L'Alfieri ritrovò il ritmo , che, coni' esso dice, avevano sicuramente que' canti applicati agl'inni sacri della chiesa, ritmo deiivsiite al certo dai greci. Apertamr^nle Io dimostra nell'opuscolo » Précis historique et critiqiie poiir la rè- slauralion dès livres du chanl grégorieii . Reiines. Imprimerie de Hip fiatar: » e nel Prodromo sulla ris'laurazione de'libri di canto ecclesiastico detto gregoriano Roma. Tipografia Monaìdi 1857 ; il quale prodromo altro non è, se non la italiana tradii/.ione del precedente da lui corredalo di nuove giunte e diligentemente riveduto. 13 i comune degli apostoli ; 2 Aeterna coeli gloria^ alle laudi della feria sesta ; 3 Aeterne rerum con- ditore nelle laudi delle domeniche, in cui non si é recitato Nocte surgentes etc. 4- Alto ex Olympi vertice, alle laudi della dedicazione di un tempio; 5 Audi benigne conditor, al vespro de'sabati delle prime quattro domeniche di quaresima; 6 Aurora coehim purpural, alle laudi della domenica in Ai- bis ; 7 Aurora iam spargit polum, alle laudi del sabato; 8 Carisio profusum sanguinem, al mattutino del comune de'martiri ; 9 Coeleslis urbs Jeriisa- lem^ al vespro e al mattutino della dedicazione di un tempio; 10 Coeli Deus sanctissime, a\ ve- spro della feria quarta; 1 1 Consors paterni lumi- nisi al mattutino della feria terza; 12 Creator alme siderum , al vespro del sabato avanti la prima domenica dell'avvento; 13 Deus tuorum ìnilitum, al vespro e al mattutino del comune di un mar- tire ; \i En clava vox redarguita alle laudi della prima domenica dell'avvento -, \b Ex more docti mistico, al mattutino delle prime quattro domeni- che di quaresima; 16 Hominis superni conditor, al vespro della feria sesta ; 17 Jamlucis orto side- re, a prima della domenica ; 18 Jesu corona cel- sior, alle laudi nel comune de'confessori; 19 Jesu corona virginum, al vespro e alle laudi del co- mune delle vergini ; 20 Jesu redemplor omnium, alle laudi del comune de' pontefici; 21 Immense coeli conditor, al vespro della feria seconda ; 22 Magnae Deus polentiae, al vespro della feria quarr la : 23 Memento rerum conditor, alla compieta dell' officio della beatissima Vergine ; 24 Nox 135 atra rerum conlegit^ al mattutino della feria quin- ta ; 25 Nunc sancte. nobìs Spiritus, a terza ; 26 O sol salults inlimis^ alle laudi delle prime quattro domeniche di quaresima ; 27 Pascha- le mando gaiidiitm^ alle laudi degli apostoli nel tempo pasquale ; 28 Placare Christe servidis^ al vespro e al matutino della festa di tutti i santi ; 29 Rector polens^ verax Deiis^ a sesta ; 30 Rerum creator oplime^ al mattutino della feria quarta; 31 Rerum Deus (enaxvigor^ a nona; 32 Sa- lults humanae salor^ alle laudi dell'Ascensione di- nostro Signore; 33 Somno refectis arluhus^ al mat- tutino della feria seconda; 34- Splendor paternae gloriae^ alle laudi della feria seconda; 35 Te lucis ante terminum, alla compieta; 36 Telluris alme con- ditore al vespro della feria quarta; 37 Te splen- dor et virtus, al vespro della dedicazione di san Michele arcangelo ; 38 Trisles erant apostoli^ al vespro degli apostoli ed evangelisti nel tempo pasquale; 39 Tu Trinitalis unitas, al mattutino della feria sesta; 4-0 Veni creator spiritus^ al ve- spro della Pentecoste. Dieci vennero composti da san Gregorio Magno, cioè 1 Aeterne rex altissime^ al mattuti- no dell'Ascensione; 2 Ecce iam noctis tenuatur orn- erà, alle laudi delle domeniche, quando nel mat- tutino si è recitato ]\octe surgentes, di cui questa è la continuazione; 3 Jam sol recedit igneus^ al vespro del sabato; 4 Invicte martyr unicum^ alle laudi del comune di un martire, 5 Lucis crea- tor oplime, al vespro della domenica ; 6 Maria castis oscidis^ al mattutino di santa Maria Mad- 136 dalena; 7 Nocle surgenles vigilemiis omnes^ al mat- tutino delle domeniche dopo la Pentecoste fino alla prossima alle calende di ottobre ; 8 Pri- mo die quo Trinilas^ al mattutino delle domeniche dall' ottava di Epifania alla prima domenica di quaresima , e dalla domenica più vicina alle calende di ottobre fino all' avvento; 9 Rex glo- riose marlyrum^ alle laudi del comune di più mar- tiri ; 10 Verbum swpernum 'prodiens^ al mattutino delle domeniche dell' avvento. Sette sono di Marco Aurelio Prudenzio Cle- mente, poeta cristiano nato in Tarragona 1' an- no 348; scrisse sul finire del quarto e il princi- piare del quinto secolo. Nelle sue poesie tutto spira santità e virtù; la chiesa dai suoi inni ha scelto pel breviario i seguenti : 1 Àles diei nuntius^ alle laudi della feria terza; 2 Lux ecce surgit au- rea^ alle laudi della feria quinta; 3 0 sola magna- rum urbium^ alle laudi dell'Epifania; 4 Salvete fio- res martyrum^ ne vespri de'santi innocenti; 5 JVox et (enebrae et nubila^ alle laudi della feria quarta; 6 Audii lyrannus anxius^a] mattutino de'santi inno- centi ; 7 Crudelis Herodes Deum^ al vespro e al mattutino della Epifania. Di questi tre ulti- mi inni Prudenzio ne formò un solo. Veggasi la bella edizione delle sue poesie fatta in due vo- lumi in 4° dall' illustre Faustino Arevalo della compagnia di Gesù. Roma 1788. Fortunato Cecilio Sedulio , prete e poeta del V secolo, per errore da alcuni creduto ve- scovo di Greto nelle Spagne, compose l' inno A solis ortus cardine alle laudi della natività del 137 Signore : di Elpide moglie del famoso Severino Boezio sono gì' inni Aurea lux in onore de' san- ti apostoli Pietro e Paolo, che i riformatori del breviario sotto Urbano Vili ridussero a miglior metro e purezza di vocabili, levando via la stro- fa Bìnae olivae^ ed aggiungendovi 0 Roma felix: tolte poi le strofe lam bone pastor., ed Egregie doetor Paule, si fecero gì' inni Beate pastor Pelre ed Egregie doetor Paule^ il primo per le laudi della cattedra di san Pietro, ed il secondo pe' vespri e pel mattutino della conversione di san Paolo. Gli altri scrittori degl' inni sono : santo Ilario vescovo di Poitiers nelle Gallio , che vi- veva l'anno 360, e che secondo il Gavanto com- pose l'inno Beala nobis gaudia, alle laudi della do- menica di Pentecoste: Venanzio Fortunato vissuto circa r anno 568, autore degl' inni Vexilla re- gis prodeunt^ Pange lingua gloriosi lauream certa- mini, colla continuazione Lustra sex qui iam pere- gil, ì quali si cantano ad onore della santissima croce : Ave Maris stella , Quem terra pontus si- dera, e O gloriosa virginum^ per l'offizio della bea- tissima Vergine. Paolo diacono, fiorito nel 782, ne scrisse altri tre, cioè Ut queant laxis, Antra deserti^ 0 nimis felix^ per la natività di san Gio- vanni Battista; di san Paolino, vescovo di Aquileia, morto il dì 1 1 di gennaio 802, sono Miris modis ai vespri di san Pietro ad vincula^ e Quodcumque in orbe al mattutino della detta festa e per la cat- tedra di san Pietro. Rabano Mauro arcivescovo di Magonza, che viveva circa l'anno 8 i8, com- pose Chris te sanctorum decus angelorum per Tappa- 138 rizione di san Michele arcangelo, per la festa degli angeli e di san Raffaele. Di sant' Oddone abate di Cluny è l' inno Summi parentis unice per santa Maria Maddalena riformato da Urbano Vili ; di san Bernardo abate di Chiaravalle Jesu decus an~ gelicum^ Jesu rex admirabilis^ pei nome di Gesù, e Lux alma Jesu menlium alle laudi della Tras- figurazione. Fra i molti che diconsi autori del- lo Slabat maler , noi seguiamo 1' opinione del sopraddetto monsignor Alfieri , il quale 1' at- tribuisce al beato Jacopone da Todi, fiorilo nelP ordine de' minori nel secolo XIV. San Tom- maso per ordine di Urbano IV compose gì' in- ni Pange lingua gloriosi corporis , Sacris so- lemniis , Verhiim supernum prodiens , IVec patris linquens dexteram, per l'officio del santissimo sa- cramento. Ai cardinali Silvio Antoniano, l'ami- co intrinseco di san Carlo Borromeo, dobbiamo l' inno Fortem virili pectore pel comune delle non vergini; e a Roberto Bellarmino Pater superni lu- minis nella festa di santa Maria Maddalena. Per ordine di Paolo V fu composto l'inno Custodes hominum psallimus angelos per la festa de' santi an- geli custodi. Sono di Urbano Vili gì' inni Do- mare cordis impetus^ ed Opes decusque regium^ per la festa di santa Elisabetta vedova regina di Portogallo, Haec dìes qua candida colla continua- zione Kegis superni nuntia per la festa di santa Teresa , Martinae celebri colle continuazioni Non illam crucians^ Tu natale solum per santa Martina, e JVullis le genitor blanditiis trahit per santo Erme- negildo. Di Francesco Lorenzini, secondo custode 139 generale di Arcadia , è l' inno per santa Giu- liana Falconieri Coelestis agni nuptìas. Gl'inni dety della passione attribuisconsi al p. Tommaso Struzzieri (1) de' cherici regolari della croce e passione di Nostro Signor Gesù Cristo, il quale dal beato Paolo della croce ebbe l'in- carico di compilare tali offizi , e ne raccolse gì' inni 0 da antichi offizi ed autori, o li fece a bella posta comporre o correggere. Quelli della beatissima Vergine sotto il titolo di Auxilium christianorum Saepe dum Christi populus cruentis^ e TeRedemploris dominique nostri^sono del soprari- cordato padre Arevalo, primo innografo della sa- cra congregazione de'riti, cui successero in quel- l'officio (2) il p. maestro Antonio Brandimarte de' minori conventuali, e il eh. padre Gio. Battista Ro- sani delle scuole pie, in oggi vescovo di Eritrea e degnissimo vicario della patriarcale basilica va^ ticana. Degli altri inni o è incerto o s' ignora affatto il nome dell' autore. «6ee-^(g>0oi- 212 / Grue pittori in maiolica. Notizie hiografico^ar" tistiche di Gabriello Cherubini direttore degli scavi dì antichità nel 1 ." Abruzzo ultra ec. ec. I n Abruzzo molti conoscono a nome i Grue : ma sapete perchè ? Perchè le costoro opere si vendono oggi a carissimo prezzo agli stranieri, che ne cercano avidamente, ornandone lor vil- le e lor palazzi : domandate poi chi eglino si fossero, dove mascessero e quando, saranno certo ben pochi quelli che ve ne sapranno rispondere una parola. Laonde io che da dieci e più anni sono inteso a raccogliere e pubblicare al- cune cose intorno a questi nobilissimi artefici abruzzesi , volentieri, trattovi dall' amore delle patrie glorie , torno ora sulla stessa materia , aggiungendo al già detto quello che mi è ac- caduto trovarne dopo altre ricerche (1). Luca della Robbia, come ognun sa, in sul mezzo circa del secolo XV vedendosi innanzi due grandissimi, che con le opere artistiche ave- vano fatto maravigliare l' Italia , e sentendosi anch' egli l' animo di venire alla stessa eccel- lenza di que' due, ma sfidato a poterli aggua- gliare nella loro arte , pensò ad aprirsi novelle vie per raggiungerli. Dopo lunghi e ripetuti esperimenti gli venne fatto di dare con buon successo l'invetriatura alle terre cotto. Ma, come è proprio de'gagliardi ingegni, questo primo tro- 213 vaio non lo contentò così che egli non si voi - gesse tosto coli' accesa volontà a meditare , e poi farne un altro, che fu quello stupendissimo di colorire le terre cotte, e dipingere figure e storie con tant' arte da imitare pressoché i di- pinti ad olio. Di tale nuova pratica corse su- bito la fama dappertutto, e Luca veniva da moltissimi richiesto de' lavori condotti col nuovo magistero; e fra i primi ad allogargliene fu cer- tamente quel Cosimo de' Medici, che seppe a' fiorentini far comportare la sua signoria col fa- vorire gentilmente le arti belle. Questa fu in breve l'origine della pittura m maiolica. So di aver qui riferito cose a molti conosciute ; ma il far così non è stato fuor di proposito per me che debbo e voglio parlare a quei moltissimi, i quali al tutto ignorano i pnncipì di quest'arte. La quale trovata da Luca della Robbia , fu da' suoi discendenti e scolari lungamente usata in Firenze e fuori. Che se vogliamo aggiustar fede alle storie; Pesaro, Ur- bino, Castel Durante furono de' primi luoghi ove forse da Firenze quell'arte passò per opera' di qualche allievo di della Robbia. Nel regno di Napoli io ignoro se la si co- noscesse altrove prima che in Castelli. È questo un paesetto nell'Abruzzo Teramano, sorto ne' tempi di mezzo sugli avanzi e rovine di qual- altro appartenente già alla famosa Valle Sici- liana , ed ove per difetto di migliori industrie a vivere s mcomciò a coltivare quella dell'arte hgulina. La quale dapprincipio rozza non in 214 altro esercitavasi se non in fabbrica di gros- solani vasi da cucina , anfore , e somiglianti arnesi. Degli antichi lavori castellani appena re- stano frammenti , che si vanno dissotterrando di giorno in giorno. Né 1' arte figulina in Ca- stelli guari avanzò , né venne a bella riputa- zione se non nel secolo XVII e nel seguente, quando la storia ricorda il nome di Gariantonio Grue. Questi, nato di genitore figulino, poco potè imparare alla scuola del padre, che chiamato Francesco , era un mediocre coloritore di ma- ioliche. Ma Gariantonio seppe da se solo uscire di mediocrità, e volle incominciare la restaura- zione di queir arte già precipitata in basso an- che là ove la medesima era salita alla maggior cima di perfezione (2). La lode però principale di averla al tutto rialzata si deve a' costui fi- gliuoli, e segnatamente a quel Francescantonio, i cui lavori dovevano a' nostri giorni vendersi a così alto prezzo quanto altri forse non cre- derebbe. Il padre, veggendosi attorno numerosa pro- le, voleva di questo Francescantonio fare un pre- te, ed ammaestrare Aurelio nella ceramica. Lun- gamente il giovinetto stette saldo a non voler vestire V abito chericale; ma infine per sua pace gli convenne acconciarsi al desiderio dell' arci- gno genitore. Il quale poi per meglio riuscire ne' suoi disegni lo chiuse nel seminario di Penne tenuto fra i migliori di .que' dì. Perocché vi 215 s' insegnara il Ialino con grammatica latina; la filosofia anche Ialinamente , e così via discor- rendo. Francescantonio, siccome giovane che era di svegliatissimo ingegno, così facilmente fu in ogni studio de' primi fra i molti suoi compagni; imparò a fare versi latini di qualsiasi metro ; scrisse lunghe elegie colla scorrevole vena ovi- diana , come gli andavano dicendo i maestri ; fece anche poesie italiane , e di nascosto leg- geva il Furioso , non polendo in palese: che a que* tempi da certi educatori della gioventù si reputava men che un perditempo , a non dir peggio , r attendere di proposito alle belle let- tere italiane (3). Forniti gli studi filosofici, gli fu uopo oc- cuparsi in quelli di teologia ; ma bentosto si deliberò di lasciarli affatto, e per venirne a capo fuggì nottetempo del seminario. Per alcuni gior- ni si tenne nascosto a casa di un parente, ri- sokito quasi di non più tornare in patria; ma pur considerando la condizione sua , si dispose ad udire rassegnato le tempeste che gli avreb- be fatto il severo genitore. Dal quale dopo lungo e caldo pregare non altro potè ottenere se non che avesse a continuare gli studi teo- logici, non più in Penne, ma sibbene iu Ascoli dello stato pontificio. Quivi Frane. Antonio fu a discepolo di un tal P. Ercoli monaco olive- tano , uomo di buona scienza; il quale se non potè destargli un grande amore per le sacre discipline , a cui il Grue non si sentiva punto da natura chiamato, nondimeno glie le andava 216 (leltando in miglior metodo da rendergliene lo studio meno stucchevole di quel che non era nella scuola del maestro pennese. Dimorato egli un due anni in Ascoli, era già venuto a quell' età, in cui doveva per so- lenni voti sacrarsi a Dio , secondo il desiderio del padre. Qui nuovi contrasti, nuove pressure; ma dal saldo proposito, fatto e più di una volta ribadito , non valse a distorlo alcun riguardo umano ; sicché vinta con la fermezza la natu- rai pertinacia del genitore , potè infine atten- dere a quello che reputasse il meglio. Pensò dapprima occuparsi della medicina, e la studiò sotto Antonio Tattoni teramano , buon medico di que' tempi ; ma dopo un anno lasciando la medicina , si condusse in Napoli , dove attese alle leggi civili ; quindi passò in Roma per im- pararvi un poco di ragion canonica. Da questo sì spesso variar di occupazioni che faceva il Grue , ognuno può facilmente in- ferire come egli non fosse stato da natura for- mato a professare lettere o scienze ; ma sì a rimettere in seggio un'arte scaduta, e dare ori- gine ad una scuola di pittura figulina, che ono- rasse lui e f Abruzzo. Stando il Grue in Penne si strinse quivi di amicizia con un tal Giovanni Lavalle , da cui imparò i principi del disegno ; e quando nelle ferie autunnali gli era dato ritornare in patria, volentieri ivi prendeva esercizio a dipin- gere le maioliche insieme col padre e co' fratelli. Maturo già di anni partiva per Urbino, cit- 217 là che non aveva al tutto dismesse quelle gen- tilezze fattevi un giorno fiorire dalla elegante corte de' Feltreschi; ed andovvi non mosso tan- to dal desiderio di laurearsi in quella univer- sità , siccome pur fece, quanto sospintovi dal caldo amore di quell'arte, che in Castel Du- rante , in Faenza , in Urbino ebbe i più no- bili avanzamenti nel secolo XVI. Imperocché, a tacer degli altri, i fratelli Orazio e Camillo Fon- tana vi avevano operato un gran numero di pitture in maiolica tutte stupende per colorito e per disegno. Io credo che questi due non fu- rono forse appresso superati da niun altro , perchè soccorsi da' disegni di un Raffaello e di un Giulio Romano (4-). Ora il Grue che fin da fanciullo erasi nella casa paterna invaghito della pittura in maiolica, del cui esercizio , come sopra dicemmo, pur si compiaceva , quantunque distolto ne fosse dal genitore, trovandosi in una città che a dovizia gli presentava egregi esempi da imitare, lascia- to ogni altro pensiero , tutto si diede all' ac- curato studio di essi. Io non saprei dire se a que' dì in Urbino fosse qualche valente mae- tro , alla cui scuola il Grue avesse potuto im- parare la buona pratica dell' arte ; ma questo mi sembra di poter affermare con sicurezza, eh' egli in poco tempo venne a grande riputazione, sicché tutti lo onorassero , e molti gli allogas- sero assai lavori di stoviglie dipinte o per pro- prio uso , o per mandarsi in regalo a lontana 218 paesi. Che anzi V eruditissimo sig. Raffele de Minicis fermano scrive come questo nostro Grue fosse stato uno di que'che dipinsero i vasi della famosa spezieria della santa casa di Lo- reto (5). Della quale opinione io non saprei di- scordare, ove quel magnifico vasellamento non avesse a riputarsi quasi tutta opera del secolo XVI o di quel torno: sicché il nome di un Grue e qualsiasi non vi potrebbe stare, salvochè quel mio egregio amico non avesse intorno a ciò tali notizie , che a me son mancate. Lo studio accurato che il Grue, dimorando in Urbino , fece sulle opere de' più insigni pit- tori in maiolica non gli tolse il tempo di at- tendere a condurre un gran numero di lavori ceramici. I quali lietamente accolti lo avrebbero dovuto indurre a rimanere sempre nella patria del Sanzio ; ed invero ne restò lungamente in- fraddue ; ma infine il desiderio del luogo na- tivo , che è sempre affetto forte negli animi gentili , ve lo richiamò. Da una bella e nobile città Francescantonio passava ad un paesello ; né ciò faceva di mala voglia, poiché gli parve generoso uffizio renderlo chiaro col nome delle sue opere. Quivi egli trovava il genitore; non vi tro- vava però Aurelio , che per cagion di matri- monio erasi stanziato in Atri ; ma sì il primo, come il secondo avevano già insieme ad Ana- stasio e Liborio , pur figliuoli di Carlantonio, ricondotta V arte nella buona ragione in loro patria: sicché tornandovi il nostro Francescan- 219 Ionio potè farvi fruttificare la sua molta peri- zia artistica fra que' non pochi de' suoi com- paesani , che allevati già alle scuole del padre e de' fratelli gli corrisposero del miglior succes- so eh' egli potesse augurarsi. Che unitisi essi in quella santa amicizia, di cui spesso con grave danno fra gli artisti si perde la preziosa se- menta , attendevano a condurre quel sì gran numero di opere, che i meno pratichi sogliono attribuire tutte al Grue , ma che voglionsi ri- putare come uscite nella maggior parte dalla numerosa scuola di lui. I soggetti eh' egli ed i suoi discepoli pren- devano a dipingere più comunemente erano i biblici , i mitologici , e non raramente anche gli allegorici ; solevano eziandio alcuna volta colorare le bambocciate, le caricature, le co- stumanze patrie , ornandole con bellissime fan- tasie di grotteschi ed arabeschi. A poter dare tanta varietà di materia a'suoi pennelli , il Grue trasse grande aiuto dagli stu- di fatti e nelle lettere e nelle scienze sì sacre, come profane. Forse le arti salirebbero a mag- giore eccellenza se tutti coloro che le profes- sano sapessero trovare il tempo ad ornarsi la mente della necessaria sapienza ad immaginare^ e quindi trattare argomenti di morale e civile importanza : al che unicamente le arti belle sono deputate. b it ;. -:; Egli è vero che fra noi gli esempi di ra- gionevol coltura. ira gli, , artisti non., sono wjcosi * OKf'fJ : iiOq90« 220 rari , che non se ne possano citare molti ed onorati ; ma sarebbe pure a desiderare che il numero ne crescesse anche di più ; e ne cre- scerà ^ ove le sagge riforme in questi ultimi tempi arrecate in quasi tutte le nostre acca- demie di belle arti portino quel frutto che do- vrebbero e potrebbero, non disviate da malignità di uomini e di tempi. E tornando al Grue, non istarò qui a ram- mentare le tantissime prove da lui fatte perchè il porpora , il carminio^ il rosa^ il lilia^ il ver- de rame potessero adoperarsi con buona riuscita nella pittura in maiolica al granfuoco , o come pur dicevasi , a ventiqualtr ore ; non dirò come desse più acconcia costruzione alle fornaci, co- me insegnasse miglior metpdo per affinare l'ar- gilla , e come infine ad ogni material parte di questa pittura avesse recato egli un qualche vantaggio. Ma quello che non potrò tacere , e che torna a massima lode del nostro abruzze- se, si è che se non giunse a pareggiare que- gli antichi sommi in quest' arte , potè nondi- meno avervi tal nome che non si acquista altri- menti se non coli' essere bravissimo. Possedeva egli poi questo Francescantonio un ingegno così pronto e versatile da sapere con egual perizia dipingere storie sacre e pro- fane^ favole , cacce , paesi , frutte ; né potendo soddisfare al desiderio di que' tanti che lo ri- chiedevano di lavori, li soleva commettere, sic- come più innanzi dicemmo j ai suoi molti di- scepoli ; essendo poi usato di scrivere spesso il 221 suo nome o in cifera, o alla distesa, in quello pitture condotte di sua propria mano. Gli Acquaviva , gli Sterlick , i Filioli , i Civico (6) spessissimo gli davano occasione di lavorare fine stoviglie o per loro uso , o per farne gradito dono ad altri signori o delle pro- vince o della capitale. Ed è pur bello il ve- dere come il Grue sapesse con assai elegante magistero dipingere in que* vasellami le armi di quelle nobili e ricche famiglie : nel che pur si chiariva la perizia eh' egli aveva nell'a- raldica. Ed ove la negligenza degli uomini non aves- se nel passato tempo distrutto gran parte di siffatte opere , se ne troverebbe a' dì nostri tal quantità da poter soddisfare più largamente alla sozza ingordigia di tali , che avendo a nulla ie patrie glorie , ne han fatto e ne fanno vitupe- revol mercato , spezialmente cogli stranieri ; dispogliando così la patria del suo più sacro tesoro. Sia per desiderio di maggiori guadagni, o più veramente mosso dall'amore dell'arte, il nostro Francescantonio volle fondare una fab- brica di buona maiolica in Bussi piccolo paese dell' Aquilano , ove ordinate le cose , lasciò a dirigerla uno dei più esperti suoi discepoli. Ma, siane stata qualunque la cagione, non andò guari che quella fabbrica venne meno. Poche pitture pregevoli ne uscirono col nome del Grue,' e quéste tutte adorne delle solite bellezze di 222 disegno e di colorito (7). Bussi se non trasse gran fama dallo squisito magistero delle sue ma- ioliche dipinte , ha potuto però fin oggi averne non pochi vantaggi d'industria, dovendo un tal benefizio riconoscere principalmente dall'artista castellano. Intanto le costui opere si tenevano in sì gran pregio , che la fama ne discorreva già pei* molti luoghi d' Italia; ognuno reputando il Grue come degno di esser tratto fuori dell' oscuro paesello. Di dove non si sarebbe al certo riso- luto di uscire , se dolorosa e potente cagione non ve lo avesse costretto. La quale così viene raccontata dalle storie municipali, lei Ferrante Mendozza, prode capitano spa- griuolo, aveva reso segnalati servigi a Carlo V imperatore. Questi per rimeritamelo gli diede titolo e signoria di marchesato nella Valle Si- ciliana. Questo mutar di padroni poteva alcuna volta riuscire a benefizio da' sudditi , ma spessissimo era loro cagione di maggiori oppressioni, siccome sappiamo essere avvenuto a' castellani. I quali se godettero un poco di pace sotto i Palearea e gli Orsini , non la trovarono più venuti che furono in soggezione di questi Mendozza. Ma quegli che sopra di ogni altro li pose a piii dure strette fu D. Paolo Mendozza. Il quale nel 1716, non contento di riscuotere i consue- ti balzelli, volle metter le mani anche ad una tassa approvata da regia autorità, e che i ca- stellani spontaneamente pagavano per soccorrere 223 a' bisogni del comune. Era questa con poca proprietà di frase detta Jus plateae. Il che fece credere al marchese, o meglio direi a'suoi cu- riali, che quella tassa fosse corpo feudale compreso nella investitura , e che possedevasi indebitamenti dalla università di Castelli. Non la pacifica e le- gale riscossione per circa un secolo , né altre ragioni punto valsero a muovere dal suo pro- posito il Mendozza. Se ne fecero richiami come di questo, così d' ogni altro sopruso al conte Draun , allora viceré ; se ne recarono lamenti al costui successore; i quali, per non fare troppo manifesta onta alla giustizia, diedero ordini fa- vorevoli a' castellani. Ma fu un crescer esca al fiioco. Imperocché il burbanzoso spagnuolo ne venne a tanto bestiale furore , che ricorrendo a poco onorati pretesti punì di carceri e di esilii quanti erano stati autori principali di quei richiami al viceré; e come ciò fosse poco, mandò a Pietracamela , altro paese di suo dominio, a raccogliervi genti , la quale armata corresse a predare e disertare Castelli. E perchè poi que- sta marmaglia osasse di commettere le più grandi ribalderie, le pose a capi due fuorbanditi cala- bresi , Ottavio Coppella e Carmine Magliocco. I quali con gli altri avvicinatisi al paese , ne trovarono barrata la porta. Assaltare con vio- lenza la terra lor non sembrava impresa facile; quindi se ne stavano fuori attendendo un qual- che destro per venire alle mani ; il che non si fece molto attendere ; giacché uscito del paese un tal Paolo Barone tavernaio con un soma di 224. grano per portarla a macinare nel molino , gli scherani del marchese vedutolo , gli furono su- bito addosso, e rubatolo del grano e legatolo y'iedi e mani con funi , lo lasciarono così mal- concio in mezzo alla strada. La notizia tosto ne corse fino alla terra. Parve questa oppres- sione tale da non potersi comportare; epperciò fattosi dal Camerlengo Mattia Pompei sonare a stormo la torre della Parrocchia , quanti erano atti alle armi corsero a fornirsene , ed in men che si dica usciti fuori della porta coraggiosa- mente investirono quella radunaticcia milizia ba- ronale ; a cui non bastando l'animo di resistere al furioso impeto de' Castellani fu uopo cedere le armi e salvarsi fuggendo. Non così i due Ca- labresi , che soprastando a tutti gli altri per iscellerata audacia, vollero far fronte, ed il Ma- gliocco ferito gravemente di colpi di sciabola fra non molti giorni ne morì ; l'altro pur mal- concio appena potè campare la vita. Un tale Andrea Vagnoli soprannominato il Tizzone operò tale prodezze. Capo e condottiero de' Castellani in quel fatto fu Francescantonio Grue valente di mano o di testa. Non è a dire quanto il Marchese infurias- se per questa lezione tocca alle sue genti , e lasciandosi senza freno alcuno trasportare all' ira ordinò si facesse severamente inquisizione con- tro quanti avesser preso parte in quella lizza, e si trovò essere stati cinquantaquattro. Fra questi poi le maggiori imputazioni di ribelli si 225 diedero ad Andrea Vagnoli , a Pietro Rapac- cioli ed a Francescantonio Grue. Tutti e tre presi, e mandati prigioni nella vicaria in Na- poli. I due primi dopo non lungo tempo furono liberi ; non così il Grue, contro cui il marche^ se aveva il maggior odio del mondo, tenendolo per il principale autore di quella rissa. Non ot- to, ma circa dieci anni (8) Francescantonio fu sostenuto in prigione; il qual tempo egli passò ora disegnando , ora incidendo ad acqua forte, e talvolta sfogando Io sdegno in poesie satiriche. Uscito che fu di carcere, non istette molto a prendere in moglie Candida Ruggieri , don- zella napolitana, da cui ebbe parecchi figliuoli, fra' quali Vincenzo , e quel Saverio , che , sic- come più sotto vedremo , messosi sul cammino del genitore fu l'ultimo de' Grue a meritar fama di valente nell' arte avita. Né Francescantonio in quegli anni che visse a Napoli fuor di prigione occupossi di altro se non del dipingere maioliche: ed ebbe gran- d' agio a far conoscere viemeglio la molta sua perizia in quest'arte, quando gli venne allo- gata r opera di colorire moltissimi vasi per la spezieria dell'ospedale degl' incurabili di Napoli, ne' quali, al dire dell' egregio dottor Rosa, biz- zarramente rappresentò gì' infermi in veria at- titudine più 0 meno forzata secondo la viva o debole azione prodotta dal farmaco dentro contenutovi. Questo vasellame durò fino al 1799, e tuttora lo si vedrebbe intero, se lo furie po- polari di queir anno non lo avessero distrutto. G.A.T.CLYl. 15 iJ26 Ognuno vede già come la fama del Grue veniva crescendo V un dì più che 1' altro ; né questa sua eccellenza artistica rimase priva del meritato guiderdone^ Giacché Carlo III venuto nel 1734 a regnare in Napoli, e coH'animo in- teso a risanare quelle molte piaghe lasciatevi dal governo de' viceré, fra gli altri saggi prov- vedimenti fece pur quello riguardante una fab- brica di porcellana. Voglio credere che a ciò lo esortasse Maria Walburga di Sassonia di lui consorte , siccome quella eh' era nativa di tal paese, in cui i lavori delle porcellane avevano conseguito una degna celebrità. Ora Carlo, che già per nome e per opere conosceva il Grue, volle servirsi di lui per ordi- nare tutto ciò che fosse necessario a condur- re innanzi la divisata impresa (9). Né la fidu- cia di quel re fu mal locata. Imperocché il Grue seppe , insieme ad altri invitati allo stesso uopo da Carlo , dare tali principii alla nuova fab- brica , che essa in breve tempo venne in gran- de riputazione. Sicché le porcellane di Napoli furono lodatissime sì per pittura , come anche per ogni altra buona qualità. Quelle forestiere non si compravano che raramente, e da quelli solo che sfatando le cose patrie per un andazzo cercano avidamente le straniere, credendo e fa- cendo credere a taluni che in questo appunto stia il vero buon gusto. Poveretti ! ! ! Francescantonio poi, quasi non fosse pago del solo dipingere , molto eziandio si dilettò nella incisione in legno, ed in quella ad acqua 227 forte : ed assai paesaggi vi lavorò con lodevole pratica , ritraendoli o dal vero o copiandoli da disegni altrui. Dei due figli di questo Francescantonio il primogenito Vincenzo fu soldato ne' presidii to- scani di Orbetello , comandati dall' Haynaut ; e quivi morì. L' altro Filippo Saverio fu messo allo studio delle lettere e delle scienze ; ma vincendo in lui la naturale inclinazione alla pit- tura in maiolica, venne in questa diligentemente ammaestrato dal padre: ed aggiungendo appena a' quindici anni diede tali prove del valor suo, che furono indizi certi di quello ch'egli maturo di anni sarebbe riuscito. Morto il genitore , sendo lui ancor giova- netto , punto non intiepidì in quel caldo desi- derio di sempre più avanzare nell'arte; che anzi sentendone più vivamente lo sprone, venne a tal segno di eccellenza che re Ferdinando I per dare un buon sostegno alla fabbrica di por- cellana ve lo chiamò a dirigerla. Egli non vi giungeva nuovo affatto , poiché molti anni in- nanzi Francescantonio aveva anche posto l'o- pera sua nel fondarla. Quando Filippo Saverio entrava in quella fabbrica vi trovava buoni me- todi nel condurre lavori a muffola., o a riverbero, ma non tali ch'egli al tutto se ne contentasse. Quindi chiesta licenza da cui doveva, e stimo- lato sempre dell' amore dell'arte, prese a viag- giare per que' luoghi di Europa, ove il magi- stero delle porcellane era meglio conosciuto ; perciò visitava la Germania , la Francia l' In- 22!8 ghilterra; ed eccolo poi ritornarne ricco di quelle cognizioni , che non avrebbe potuto per altra via acquistare. Che se le porcellane di Napoli per lo in- nanzi furono stimate ; in maggior pregio creb- bero quando ne prese a reggere la fabbrica questo Filippo Saverio. Il quale giovandosi del- le cognizioni raccolte ne' suoi viaggi , potè re- carle a più grande perfezione. Né piccol van- taggio per la sua arte veniva egli traendo da quelle scoperte che in pitture ed in istatue si facevano nella dissepellita Pompei, materia ab- bondante di studi archeologici a' letterati , e d' imitazioni agli artisti. Ma forse più che in figure se ne giovò egli in opera di ornati, de* quali tanti e sì leggiadri uscivano da quella ric- ca ed infelice città campana. I costumi e gli antichi monumenti patri anche gli porsero subietti da pitture. Sicché con quelle sue eleganti e garbate figurette or ti metteva innanzi la foggia del vestire conta- dinesco di Terra di Lavoro, ora quella del con- tado Molise e degli Abruzzi; ora, lasciando le figure, prendeva a ritrarre o un qualche rude- ro di un tempio di Pesto o qualche casa di Pom- pei , talvolta ti consolava la vista col metterti innanzi le reliquie di un antico teatro od an- fiteatro ec. ec. ec. Singolare ingegno e giudizio mostrò ezian- dio Filippo Saverio nel condurre in porcellana statuette , busti , bassirilievi di subietti storici o favolosi. Nel che molto lo soccorse lo studio 229 delle antichità , spezialmente delle medaglie, di cui fu anche raccoglitore. Così per Ini Socrate, Platone , Seneca , Plinio , Cicerone , Pallade , Cerere , Giunone ec. sono ritratti con quelle sembianze, onde gli antichi li mandarono a noi. Ancor oggi si attende a siffatti lavori: ma essi per lo piti riescono di niuna o poca importan- za , e spesso eziandio ridicoli. Laonde in que- sto vuoisi pur lodare il nostro Grue, che seppe così gentilmente usare di questa sua perizia , rappresentando con isquisita eleganza di forme molti di quelli , che nel buon tempo antico per- vennero a gran fama sia coli' opera dell ì ma- no, sia con quella dell' ingegno. E perchè poi siffatte figurine mostrassero tutto quanto il fine magistero , ond' erano lavorate , si lasciavano così grezze senza vernice alcuna, di maniera- che spiccatamente vi apparisse il sicuro ed in- telligente maneggio della stecca. Filippo Saverio morì nel 1799. Mancato lui, cominciò a poco a poco a venir meno an- che lo splendore della fabbrica di porcellana in Napoli : e quantunque a reggerla fosse stato chiamato altro egregio artista, nondimeno essa non ebbe più quel vanto di un tempo ; sicché in breve fu al tutto dismessa. Lasciò costui un figliuolo a nome France- scantonio , cui fece educare alle lettere, e dot- torare in giurisprudenza. Ammaestrato da lui nella pittura, vi sarebbe riuscito valente, se non ne fosse stato distolto. Imperocché andatosene in Atri, e quivi sposatosi ad una cugina, erede 230 di ricco patrimonio , dovè tutto occuparsi delle molte cure di famiglia : e se talvolta tornava a' pennelli , il faceva per condurre qualche la- voro in acquerello : nel che mostrava non co- mune perizia. Ebbe eziandio ingegno pronto e disposto ad altri esercizi di arti, come in quello della tarsia , in cui fece pulitissime opere. Det- tò anche poesie, le quali egli improntò di quella severa malinconia , da cui fu signoreggiato, spe- zialmente negli ultimi anni di sua vita, quando rimasto vedovo si condusse a viver sì solitario da sequestrarsi pressoché tutto dal consorzio de- gli uomini. De' cinque figli di Carlantonio Grue , un solo non si occupò dell'arte paterna, Isidoro: il quale rendutosi prete , fu poi canonico del- la collegiata di Collecorvino nell' Abruzzo te- ramano. Che se Francescantonio superò i fratelli in questo, che seppe e potè riuscire bravo in vari generi di pittura , non vuoisi però credere che quelli di molto fossero a lui inferiori per quel gonere che ciascuno prese a trattare peculiar- mente. Imperocché Anastasio, dipingendo paesi, ne conseguì bellissima lode per buon colorito e correzione di disegno. Costui finché visse vestì abito chericale , ed ebbe scarsa coltura di let- tere. Aurelio si compiacque specialmente a ri- trarre animali ; né vi fu altri, il quale appres- so in questo lo superasse. Dipinse eziandio con bel garbo scene della vita campestre , né gli mancò fama di buon pittore di marine. Visse 231 molti anni in Castelli. Ma poi, lasciandosi per- suadere dalle confortevoli parole degli amici , abbandonò la patria per recarsi in Atri. Quivi tolta in moglie una tal Livia Ricci, in compa- gnia di altri attese alla prediletta sua arte. Quivi oltre gli Acquaviva, che lo presero a pro- teggere, trovò grandissimo il favore degli atriani, che con municipale decreto lo fecero lor con- cittadino. Bello e gentil costume si è questo di onorare così le virtù di un qualche egregio. Forse molti de' presenti di ciò rideranno, come di cosa vieta ed arcadica; ma non ne ridevano certamente coloro , cui eran fatte queste cor- tesie nel buon tempo antico; e son sicuro che non ne risero que' dotti uomini di Cesare Or- landi perugino , e di Melchiorre Delfico terar mano , quando ebbero la cittadinanza di Atri: della quale entrambi eransi resi meritevoli, l'uno scrivendone delle antichità in generale ; illu- strandone r altro le celebri monete. Moltissime furono le opere condotte da Aurelio, delle quali non poche erano copie delle incisioni del Roedinger. Soleva spessissimo di- pingere sopra tondini di superficie convessa, e sopra quadretti di svariatissima grandezza , e taluni sì piccoli da poterne usare ad ornamento anche di scatole da tabacco. Questo Aurelio non ebbe alcun figliuolo , che si fosse istruito nell' arte paterna ; di ma- nierachè la fabbrica delle maioliche in Atri mancò quasi con lui. Dico quasi, perchè un suo discepolo ve la continuò per brevissimo tempo^ 232 né credo che alcun atriano fosse stato vago d' imparare la pittura in maiolica ; giacché niuna memoria me n' è capitata nelle ricerche fattene. Nel dipingere storie sì sacre come profane occupossi principalmente Liborio. Il quale dopo di aver dimorato per alquanti anni in Atri col fratello Aurelio , per discordia avvenuta , par- tissene : e condotto in moglie una tal Caterina Massimi, andò a porre stanza in Teramo , ove non lasciò mai, finché visse, di far la sua arte. Le costui opere principalmente son lodate per franco stile ne' panneggi, e per calde espressioni di affetti ne' volti. Èra uso questo Liborio ab- bellire i suoi dipinti di leggerissimi spruzzi di oro, ma dati con si gentil magistero da cre- scere ad essi grazia e leggiadria. Il eh. sig. Bonghi lungamente descrive un dipinto di Liborio rappresentante una delle più stupende opere della creazione — La Parola. — Vi è segnato il nome dell' artefice. Oggi raro incontra il trovare opere di costui negli Abruz- zi: perchè essendo nella più parte in piatti ed in vasi, sono state più facilmente vendute agli stranieri. Questa famiglia de' Gru e fu per così i< dire un vero semenzaio di artisti ; che, oltre a' già rammentati , voglionsi ricordare eziandio i nomi di due Giovanni , di Nicolò Tommaso, di Pier Valentino , di Liborio seniore, e di Bernardino. De' due ultimi non parla il Rosa (10). Sembra però che tutti questi non fossero andati al di 2'33 là della mediocrità , non avendo lasciato di se alcuna riputazione di valenti. Non si dica lo stesso di Francesco Saverio, figlio di Giannicola e Geltrude Amicucci , e nipote a Francescan- tonio. Il quale meritò non ordinaria lode per i molti dipinti storici da lui operati nella mag- gior parte sopra tegoli bislunghi (11). Non si ha piena notizia di tutti coloro che prima e dopo i Grue furono più o meno valenti artisti ; ma non voglionsi dimenticare i nomi de' fratelli Gentili e del Fuina , i quali bella- mente mantennero in onore 1' arte. Che se questi non aggiunsero a quella per- fezione de' Grue , non ne furono così lontani che non si abbiano a tenere in molto pregio i loro dipinti. Ed eccomi giunto al naturai termine di queste notizie , nelle quali è stato mio inten- dimento di narrare la vita di tali artefici, delle cui opere oggi è in tutti grandissimo il deside- rio. Ed ove poi secondo questo si volesse giu- dicare del loro pregio, bisognerebbe riconoscer- velo inestimabile. Ma pur volendo su di ciò recare tal sen- tenza che mi sembra la migliore, dirò che l'uso, o come oggi si chiamerebbe moda^ ha contribuito a mettere in tanta voce di eccellenza le dipinte maioliche castellane. Le quali per quanto belle vogliansi tenere, non potranno mai essere sti- mate pari a quelle stupende , che in migliori tempi uscivano dalle fabbriche metaurensi, di- venute famose per le opere del Piccol Passo , 234 dei fratelli Fontana, de' Lavolini, de'Picchi ec. ec. 1 quali dipingendo spesso su disegni de' più gran- di pittori (e ne vivevano de' grandissimi), alzarono a tanto splendore l'arte ceramica, che non ci eb- be mai chi, non dico, li vincesse, ma neppure li agguagliasse. I Grue poi ed i loro allievi trovatisi a vi- vere in età guasta per le belle arti , quando cioè da' vizi de' michelangioleschi erasi precipi- tato in quella non meno rea peste del più sfac- ciato manierismo, non potevano al tutto forbirsi di quella universal corruzione, ond'era infermo il secolo, trattivi, come gli altri, dalla grande autorità , o meglio tirannia, che avevano gli autori di quelle pazze novità nel campo delle arti. Quindi essi dipingendo non seguirono quel- r aurea semplicità, che tanto piacque a'miglio- ri secoli : e sovente traboccarono ^ come por- tava il corrotto gusto, in quelle esagerazioni , in quel fare macchinoso e teatrale , per cui si resero celebri spezialmente i fratelli Zuccheri. Inoltre è da sapere qualmente costoro spes-^ gissimo si davano a copiare opere di tali, che erano più invescati ne' comuni vizi. E di questa generazione furono certamente il Perelle ed il bolognese Lodovico Mattioli pittori di paesi, il Tempesta che dipinse battaglie, Cristofaro Wei- gel che si esercitò nelle cacce , Stefano della Bella, G. Bailly che attesero alla pittura detta di genere^ ed altri , cui per brevità non ram- mento. 235 Ma qui mi giova far avvertire come di tai difetti del guasto secolo non furono tutti egual- mente macchiati gli artefici castellani. Impe- rocché Carlantonio ed il suo figliuolo France- scantonio , i migliori forse fra tutti , seppero più che una volta purgarsene quando prende- vano a trattare alcuna cosa di loro invenzione: il che non raramente facevano , mostrando in questo il felice ingegno lor sortito da natura nel conoscere e seguitare il dritto cammino , sul quale per opera magnanima de' fratelli Carracci le arti belle a que' dì erano state ravviate. E per meglio chiarire come questi Grue non fos' sero stati alieni alle riforme carraccesche , mi piace far sapere che fra le moltissirtie incisioni in rame , le quali si conservano dal vivente sig. Grue , erede di quegli antichi , ed n* ha parecchie di Agostino Carracci , di colui che non sapreste dire qual sapesse meglio maneg- giare 0 il pennello o il bulino, ma certo egre- giamente r uno e r altro , siccome lo mostra pel primo la Comunione di s. Girolamo , e pel secondo la Galatea della Farnesina- Un lavoro degno di esser qui ricordato è una pittura originale del Grue ( F. A. ) condot- ta soprd una maiolica lunga due palmi ed alta una. La possiede in Atri un mio amico (12). È la barca in tempesta , con entrovi gli apostoli e Cristo. Soggetto, come ognun sa , tolto dal Vangelo. Le acque che si arricciano ed incal- zano furiosamente, la trepidazione, lo sgomento 23o degli apostoli, la serena tranquillità del Re- dentore che dorme, son tutte cose bellamente immaginate ed espresse dall' artista ; ed ove il fuoco non avesse in qualche parte guasto un tal dipinto , io non dubiterei metterlo fra i più belli che fossero usciti dalla mano del Grue. Ei sembra che 1' oro non fosse adoperato molto nelle fabbriche castellane , se ne vorrai eccettuare quell' Anastasio Grue , che ne fece spesso uso ne' suoi lavori con bellissimo effetto di luce e d' imitazione vera di quei broccati ad opera d'oro, onde le gentildonne del passato se- colo solevano vestirsi. Le scuole faentine, le pesaresi, le duran- tine fin dalla metà del secolo XVI usavano le dorature per industria principalmente di Giacomo Lanfranco da Pesaro. Il quale, secondo un de- creto di Francesco Maria duca di Urbino, trovò come — « mettere foro vero nelli vasi di terra j» cotta et ornarli di lavori di oro , et quelli dopo y> cotti rimanere illesi » — (13). E tornando a Carlantonio ed a F. Anto- nio ; questi meritarono anche non comune lo- de sopra gli altri per aver saputo entrambi fuggire quel colorito di cruda ed aspra appa- renza, e dare a' loro dipinti una dilettevole in- tonazione. Il che devesi attribuire a non pic- cola lode di que' due. Conciossiachè in tal sorta di pittura, chiamata a ventiquattrore^ o a gran fuocó^ la durezza de' pennelli ch'era uopo usare, la scarsità de' colori, il celere assorbimento di essi nello smalto crudo, sicché non potevasi far 237 correzione alcuna sul già fallo, come avviene appunto ne' freschi, V azione del fuoco che va-r riamente si svolge su' vari colori da dare ad alcuni maggior risalto ed indebolire altri, erano grandi ostacoli perchè un artista potesse con-? durre opere che presentassero franchezza di tocco, significazione viva di affetti, felice accor- do di ogni parte. Quindi se lutti i surriferiti pregi non si veggono ne' costoro dipinti, è da accagionare più la natura dell' arte da lor pro- fessata, che non essi medesimi, i quali più che una volta fecer vedere come le grandi e molte difficoltà si sappiano e possano vincere in parte. L' Abruzzo, che fu culla a questi egregi , deve gloriarsene come di rarissimo vanto ; e sarebbe degno che i nomi di essi fossero or- revolmente registrati nel bel numero di coloro che attesero al sacro cullo delle arti belle. Il gentile e caro ufficio avrebbe potuto adempiere il Cantù nelle sue immortali storie, ove con animo altamente italiano va onorando e rinfrescando la memoria di quanti mai reca- rono luce di civiltà alla diletta patria con la ec- cellenza dell' ingegno e dell' arte. Oh ? come io vorrei che queste mie parole giungessero alle orecchie del grande e cortese uomo, se mi fosse lecito lo sperare eh' elle , povere e disadorne come sono , potessero valere a mettergli nel- r animo il desiderio di parlare quandochessia di questi artefici castellani , che furono anche di splendore all' antica mia patria. 238 Né de'medesimi avrebbe dovuto affatto ta- cere Ferdinando Ranalli scrittore di una illustre storia di belle arti, che nato nell' Abruzzo Te- ramano non poteva, né doveva, cred'io, ignorare il nome de' Grue. Possa egli invogliarsi a celebrarli degna- mente con quella elettissima e squisita manie- ra, onde suole trattare ogni argomento (U). 239 MOTE (1) V. Poliorama pittoresco anno IX fog. 49, dove fui il primo a parlare nel nostro regno di F. Saverio Grue. (2) Per mostrare in qua! conio fosse tenuto costui al- legherò qui le parole, che si leggono in un uianoscritto da me trovato nel!' archivio della famiglia Grue col seguente titolo — » Fatti e ragioni a prò del D. Francescantonio » Grue contro D. Domenico ed altri Grue. — Napoli 25 » agosto 1729, Commissario il R. consigliere sig. D. Tom- « maso Vargas. » Le parole sono queste desse — » Egli » ( Carlanttmio Grue ) fu un uomo così eccellente ed unico » nell'arie di dipingere vasi di creta , che forse e senza » forse non avrà avuto pari per lo passato, né l'averà per » l'avvenire. Il pregio delie sue opere si ricava dall' istru- » mento della divisione falla Ira' fratelli; i quali danno il » prezzo di D. 24 a quattro chicchere e piattini lavorati » dal pennello del loro padre , ut fol. 16. Le ricchezze )' acquistale con tal mestiere sono slate quasi immense , >• avendo avut > 1' onore di servire la santità del fu papa » Clemente XI , e la maestà cattolica dell' imperatore B. » M., oltre grandi principi di Europa. « Silvio Antoniani, nato sulla metà del secolo XVI., fu uno de' primi a promuovere i' avanzamento dell' arte ceramica in Castelli. Da umili principii, colla varia dottrina, seppe innalzarsi fin alia dignità della porpora ; fu buon poeta latino secondo i tempi. Giovanni Stringa, nel seguito alle vite de' pontefici del PJatina, lo dice romano; ma in verità era di patria castel- lano, e figliuolo d' un vasaio. (3) Ho letto una sua poesia satirica intitolata — Vi- ta e morte dei Gobbo Oddone dell' Isola. — Essa incomincia così : Giunse il Gobbo, o lettor, a quel confine Che al viver suo il Gran Motor prescrive: Morì colui, e tal morio qual visse : Suol mala vita aver pessimo fine ec. ee. 240 Fu scritta a sfogo di bile contro l'esattore del mar- chese della Valle, che doveva essere un'arpia. — N' ebbi gentilmente notizia e copia del signor Giaperoni canonico teologo della cattedrale di Atri. 11 Rosa V ha pubblicata interamente. (4) Il Ranalli ( Storia delle belle arti in Italia ) par- lando del Pippi dice che questi soleva anche occuparsi delle pitture in maiolica. (5) Cinque lettere sulla raccolta delle maioliche di- pìnte dalle fabbriche di Pesaro e della provincia metau- sense di Geremia Delsette esistenti in Bologna. (6) Donna Angela Maria Civico di Leognano scriven- do a Napoli ai fratello barone D. Girolamo gli diceva — )> aver parlato con F. Antonio Grue, e questi aver risposto » non potersi per allora mettere a dipingere le stoviglie » che desiderava, perchè occupato intorno ad altri lavori » pel preside, quindi o che bisognava attendere un anno, » oppure servirsi di uno de' Gentili. » — Tal notizia ò tratta da una lettera che si conserva nell' archivio della famiglia Civico in Leognano; e la ebbi dal suddetto signor canonico Giaperoni. (7) In S. Angelo, chiesetta di Lucoli (provincia di Aqui- la ), secondo che riferisce il eh. Angelo Leosini ( Monu- menti storici artistici della città di Aquila ) si veggono ia un altarino alcune maioliche dipinte da Francescantonio GruCj rappresentanti i fatti più illustri operati da S. Fran- cesco Saverio nell' Indie. In una di esse si legge la se- guente iscrizione: Frane. Ant. Xaverius Grue phil. et theol. doctor inventor et pinxit in oppid. Buxi anno D. 1713. (8) Tutto questo ho raccolto da una Rimostranza dell' università di Castelli al viceré di Napoli in rapporto alle ter- giversazioni cagionate dal marchese della Valle Mendozzà nel 1716. (9) So che un tal fatto si nieghi, o per Io meno se ne dubiti da taluno. Ma fra le carte occorsemi di vedere nell'archivio della famiglia ce n ha di tali, che tolgono sa 241 ciò ogni dubbio. E per citarne qualcuna , in una si legge così: )) Il reN. S. vuole aprire a suo conio una fabbrica » di porcellana allato ai suo palazzo. Io son quasi certo » di esservi chiamato, ed un alto personaggio, che mi co- » nosce assai da vicino, me Io ha confermato. II re ha » veduto qualche mio lavoro, e n'è rimasto contentissimo. » Argomento pur della stima, in cui tenevasi il Grue, era 1' amicizia co' più celebri pittori de' suoi tempi , fra' quali è da rammentarsi il Solimene. Di più il medesimo re Carlo III con patente segnata nel 1747 dichiara cittadini di Napoli Vincenzo e Saverio Grue con tutti i privilegi di esenzione da tasse e da ogni altro diritto, annessi alla qualità di cittadino, di Napoli in memoria del fu doitor Francescanlonio esimio pittore in maiolica e padre degli anzidetti Vincenzo e Saverio Grue. Questa patente è conservata nel suo originale. (10) Al catalogo che il eh. sig. Rosa fa de' pittori castellani bisogna che si aggiunga il nome di un tal £u- sanio di Eusanio che nel 1784 lavorava nella R. fabbrica di porcellana. Ne ho presa notizia da uno scritto che reca in titolo — » Alti di preambolo per D. Saverio Grue alla » successione di Vincenzo Grue suo fratello , morto senza » testamento. » (11) Ho veduto di costui una bella pittura rappresen- tante Lazaro richiamato a vita. La possiede il sig. Man- docchi. Vi si leggono nel di dietro le seguenti parole — » D. Franciscus Rosa donavit pus. opus q.m. F.sci Xave- » rii Grue die 22 M. maj 1759 — Tre Castell. v Sotto il dipinto è scritto cosi — » Jesus Lazarum resuscitat. » (12) 11 sig. Massimino Arlini ,- il quale volendo pur godersi delle delicate consolazioni che provengono dalle Cose di arti, da parecchi anni addietro ebbe il gentil peu- siere di raccogliere , e va tuttora raccogliendo, maioliche dipinte, provvedendo cosi per quanto è in lui che la patria per un disonesto desiderio di oro non resti al tutto spoglia di sì nobili monumenti. E qui non voglio perdermi 1' accasione di rimeritare della giusta lode il sig. Girolamo de Rosa, che possedendo due grossi e magnifici vasi, ed offertagliesene tal somma G.A.T.CLVI. 16 242 da far gola forse a qualsiasi altro, seppe rifiutarla, dando cosi un beli' esempio di generoso disinteresse , ben degno di essere imitato. Nella prima edizione di questo libriccino io lasciai di ricordare il nome di quel Pasquale de Virgilii, che a'molti meriti guadagnati nelle lettere, va ora aggiungendo 1' altro non men nobile di un caldo e verace amore alle belle arti. Egli possiede già una scelta collezione di maioliche dipinte, cui va di giorno in giorno sempre più accrescendo , non risparmiando in questo né a danaro né a diligenti cure. E voglio eziandio che si sappia come quel mio dilettissimo amico, oltre il buon numero di maioliche, tiene tal quan- tità di opere di famosi pittori moderni da mostrare il fino gusto di lui per siffatte cose. (13) V. Memorie istoriche delle maioliche lavorate in Castel Durante, o sia Urbania, compilate da Giuseppe Raf- faelli. Fermo 1846. E' questo un libro assai eruditamente scritto, ed è de- dicalo all' avv. Kaffale de Minicis, il quale fra breve darà in luce un suo lavoro sulla pittura in maiolica, illustrando eziandio quella castellana, di cui possiede molte opere. |14) Sarei giustamente tacciato di negligenza se qui io non facessi le dovute lodi ad un libro recentemente messo a stampa dal dottor Concezio Rosa — Memorie sto- riche delle maioliche de' Castelli. — In esse 1' egregio auto- tore con erudizione e buon giudizio discorre della pittura in terra cotta. Anche il sig. Diego Bonghi noia ha guari pubblicava una lettera intorno alle maioliche castellane, di cui egli possiede un gran numero. «•e&^ij£>e^339> 243 VARIETÀ' // Catilinario ed il Giugiirtino , libri due di C. Crispo Sallustio volgarizzati per frate Barto- lommeo da s. Concordia. Terza edizione napo- letana con annotazioni , aggiuntivi i fram- menti deW autore tradotti nello studio di Ba- silio Puoti. - 8.° Napoli dalla, stamperia del vaglio 1858 ( Sono pag. XLIII e 203 ). Di i quest' opera insigne , e testo nobilissimo di nostra lingua , fece un' edizione in Napoli il celebre Basilio Puoti nel 1844. Vi appose egli alcune assai dotte note, com' era del suo ma- gistero : ma non tutti corresse gli errori per opera degli antichi copisti trascorsi nel testo. Or ecco una nuova edizione dataci dal sì be- nemerito Bruto Fabricatore , degno alunno di esso Puoti : migliore assai però dell' altra del 1844 , sia per le annotazioni copiose e im- portanti intorno ai modi piti singolari della favella usati dal frate da san Concordio, sia per la correzione di alquanti luoghi del testo: cor- rezione eh' egli nel proemio afferma dovere in gran parte al cav. Salvatore Betti , il quale lino dal 1848 pubblicò nel giornale arcadico alcune osservazioni sopra il classico volgarizza- mento. Del resto sono in questa edizione, non altrimenti che in quella del 44 , le due magi- strali lettere del Puoti al Montrone, e del Mon- trone al Puoti , la vita di frate Bartolomeo scritta dal Puoti medesimo, e vari notabili fram- menti di Sallustio egregiamente volgarizzati dal Fabricatore e dall' ab. Cassini. Fiore dì virtù, testo di lingua ridotto a miglior lezione con V aiuto di un codice del secolo XVy aggiuntivi i segni della pronunzia con anno- tazioni da B. Fabricatore. - 12." Napoli dalla stamperia del vaglio 1857. (Sonopag. 128.) Fa parte degnamente della Biblioteca della gioventù pubblicata per cura dell' esimio Bruto Fabricatore. Noi raccomandiamo f aureo li- bretto a quanti giovani italiani vogliono insie- me colle sentenze più elette di religione e di morale apprendere le importantissime proprietà e gentilezze della propria favella. 245 Miscellanea storica narnese compilata per Giovanni marchese Broli socio delV istituto di corrispon^ denza archeologica di Roma e di altre acca- demie. Voi. 1.-8." Narni tipografìa del Gat- tamelata 1858. (Sono pag. 112.) Questa raccolta di operette dell' egregio marchese Eroli è importante non solo alla sto- ria narnese , ma sì generalmente all' italiana : facendo uso in esse 1' autore di molta critica ed erudizione , e pubblicando non pochi docu- menti inediti. Sicché desideriamo ch'escano pre- sto in luce gli altri volumi. - Le cose, che si contengono in questo primo, sono : I. II sacco de' Borboni alla città di Narni. II. Elegia di Giano Pannonio in lode della fontana di Fero- gna, tradotta in volgare e illustrata {con rame). III. Vita di Giovanni XIII papa {con rame). IV. Notizia de' vescovi Eroli. Storia universale delle missioni francescane del P. Marcellino da Civezza M. 0. della provin- cia di Genova. Voi. II. Roma tipografia ti- berina 1858. ( Sono pag. 609. ) Giovi ripetere intorno a quest' opera ciò che abbiamo già detto del suo primo volume: eh' ella è cioè sommamente importante per la storia non meno della chiesa e dell' ordine mi- noritico , che della civiltà. Laonde ce ne con- 246 gratuliamo di nuovo così coU'esimio autore, co- me coir ordine suo, anzi coli' Italia. In questo secondo volume è la continua- zione delle missioni della Siria , dell' Egitto e della Palestina ; trattasi di quelle in Grecia , a Fez , a Marocco , a Tunisi nel secolo XIII ; e così delle altre nella Tarlarla, nella Persia, neir Armenia , nell' Etiopia : e sempre con bel- lissime notizie d'ogni maniera esposte in modo non meno ordinalissimo , che caldo e facondo. hcriptìones prostantes Floreniiae in hypogeo matiso" lei medicei, à-." Pisis ex oleina nislriana 1858. ( Sono pag. 4-7. ) Basti a lodare queste iscrizioni il dirle ope- ra del professore Michele Ferrucci. Sono infatti neir austera lor brevità degne della penna de' maggiori maestri. Oh con che riverente curio- sità vi si leggono i titoli sepolcrali di alcuni di que' sommi e benemeriti principi di Firenze, i quali non solo con regalissima munificenza fo- vorirono e lettere e arti, e furono autori d'uno de' più grandi secoli onde si onori la storia del- la gentilezza e civiltà europea , ma per loro forza e sapienza operarono (checché se ne cian- ci ) che in fine le bestie fiesolane non facessero più strame di loro medesime ! Non sono veramente neir ipogeo mediceo le ossa di Cosimo padre della patria , e di Lorenzo il magnifico , e di 247 Leone X e del cardinale Ippolito; ma ben sono quelle de'granduchi Cosimo I, Ferdinando I, Ferdinando II, di Giovanni capitano delle bande nere , del cardinale Leopoldo e di altri famosi. Oratio Hieronymi Ferrii longianensìs habila Fer- rariae anno 1782 coram Pio VI Vindobona redeunte , nunc primum edita. 8.° Arimini ty -• pys Malvolli et Herculani an. 1858. ( Sono pag. 9. ) Girolamo Ferri fu de' maggiori retori del secolo XVIII , e soprattutto riputatissimo per latina proprietà ed eleganza. Benché questa orazione non sia delle migliori di tanto uomo, nondimeno leggesi con piacere , considerato anche il tempo famoso in cui fu recitata a sì grande pontefice. // bello poetico nelle rime di fra lacopone da Todi^ con dissertazione suW idea cristiana precipuo elemento della poesia, stampato per nobili nozze Brenzoni e Cartolari da Bartolomeo Sorio prete dell'oratorio. 8." Verona tip. Vicentini e Fran-' chini 1858. (Sono pag. 88.) Dottissimo scritto di dottissimo autore e delle cose italiane maestro. Il P. Sorio vi prò- 2i8 pugna soprattutto la fama di sommo poeta, che molti negano a fra lacopone , e vi dà ben corrette e illustrate alquante poesie dettate in vario stile dal buon francescano. Modi scelti della linguai italiana raccolti da clas- sici scrittori e 'proposti a giovani da Vin- cenzo di Giovanni. Seconda edizione con am- mende e giunte deW autore^ e due dialoghi in- torno alla lingua. 8.° Palermo^ officina tipo- grafica di Antonino Russitano 1857. ( Sono pag. XVIII e 1202. I dialoghi annessi sono pag, XLVII. ) Nel gran bisogno eh' è in Italia di scrivere non solo con proprietà, ma con alcuna genti- lezza la propria lingua , siffatti libri non pos- sono lodarsi abbastanza. Noi perciò lo racco- mandiamo insieme co'dialoghi allo studio de'no- stri giovani: anzi, aggiungeremo, allo studio an- che di molti nostri provetti , i quali non si vergognano di mostrarsi barbari nella favella , quantunque menino sì gran vampo di civiltà e dignità italiana. 2ii) il Costume. Poemetto inedito del padre Ilario Casa' rotti chierico regolare di Somasca. 8." Roma tipografia di Bernardo Morirti 1858. ( Soiìo pag. 14.) Per nobilissime nozze è stato pubblicato questo gioiello del Casarotti: di che si debbono grazie all' illustre padre D. Giuseppe Maria Cat- taneo, il quale trasse già dall' oblio altre cose leggiadrissime del celebre suo confratello. Quan- ta mai gentilezza e facilità ariostesca è in questo poemetto ! Come sempre alla musa del Casarotti piaceva sedersi fra i ligustri e le rose e mo- strarsi coronata d' oro la fronte ! Eccone un esempio nelle seguenti stanze. Tra uno stuol di fanciulle e di batilli Prima vegg' io sotto d' un antro assiso Canuto veglio , a cui par che sfavilli L' amore e il vin dal rubicondo viso, E la barba di balsamo distilli : L' occhio è seren, s' apre la bocca al riso, E folle in sul sentier degli ultimi anni Con rose infiora de le tempie i danni, Ei vorrebbe cantar del grande Alcide, Ma la cetra ostinata amor risponde ; Muta le corde , ma le corde infide Suonano pur d' amor note gioconde. Che cantar degli eroi 1' armi omicide ? Cantiam dunque d' amor che vita infonde; Cantiam , dice, di Bacco : a tutte 1' ore Il vino è dolce , e ad ogni età 1' amare. 250 Le donzellette garrule e lascive Scherzangli intorno, e qual gli liscia il mento, Quale i panni agitando a 1' aure estive Il serto gli scompon col fargli vento. Ecco a render sue fiamme ancor più vive Licor fumoso entro a bicchier d' argento, Già si scuote ogni freno, il grido s'alza: Risponde al grido lor 1' opposta balza. Z' armonia de colori^ canto didascalico ec. di Giu- seppe Giacolelti delle scuole pie. 8.° Pesaro tipografia di Annesio Nobili 1858. ( Sono pag. 16.) Il Giacoletti mostrasi anche qui il valentis- simo , che già in sì nobili versi cantò l'Ottica, e rese facili e poetiche le cose più forti e restie al linguaggio poetico. Ne gradisca l' illustre poeta , amico e collega, le nostre congratulazioni, non disgiunte dai voti che facciamo sinceri perchè possa l'Italia gioire ancora molti anni della beata vena del suo classico verseggiare. Ecco un brano di questo canto. Gl'italiani ce ne sapranno grado. Or se dall'ignea zona in su la riva Passi d' Italia temperata e dolce, Quai scene avvien che agli occhi suoi descriva 251 Luce benigna ! Oh ! come i sensi molce Questo d' Europa florido giardino , E il doppio mare, e quel, che il mar soffolce Con sereno orizzonte, cristallino Soave e puro cielo, da cui scende Largo un influsso di poter divino ! Quindi è cagion non lieve, onde s'accende La mente e il core dell'ausonia prole Alle forme del bello , e sì lo rende Ritratto con pien'arte in dotte scuole Su tele e marmi e cetre; e sì del bello Maestra Italia tutto il mondo cole. Dell'angelo d'Urbin mira il pennello, E quei di Leonardo e Tiziano, E d'altri, onor dell' italo drappello; E vedrai come in quella industre mano. In quell'occhio, in quell'alma, itala luce Se stessa imprime con vigor sovrano. Vedrai qual si concepe e si produce Armonìa sulle tele , e come il saggio Bella natura in beli' arte traduce. Giusto il mescer di fioco a vivo raggio, Giusto il brillar da presso, e in lontananza Giusto il languir : soave ogni passaggio : E tutti obbietti in giusta consonanza Di luce e d' ombra : ed animata e viva D' uomini e belve la vera sembianza. 252 Teogonia di Esiodo , tradotta dal greco da Ric- cardo Mitchell. 8.° Messina^ stamperia d'Ora- zio Pastore 1857. ( Un voi. di pag. 4-7. ) Salutiamo anche questo volgarizzamento di queir antichissimo poema ieratico della Grecia, il quale in se unisce la formola storica e co- smica , e raccoglie tutte le tradizioni pelasgiche ed egiziane sulla cosmogonia. Nobile e terso è il verseggiare del Mitchell , e le nuove sue in- terpretazioni d' alquanti passi del testo sono, à noi pare , assai giudiziose. <^JL 253 INDICE Cavalieri , La tavola di s. Luca^ opera dì Raffaello • j3ag. 3 Riassunto delle antiche e recenti nozioni sul cancro » 23 Narducci , Capitoli di Francesco d' Arezzo e di Simone da Siena » 102 Fabi Montani , DegV inni del breviario ro- mano e delle principali traduzioni . » 133 Cavalieri San-Bertolo , Sulle acque della mo- derna Roma ec » liO Fauvef , Uno sguardo sulla condizione scien- tifica della medicina in genere . . » 171 Santini , Traduzione poetica del lib. X de' Martiri di Chateaubriand . . . . » 186 Cherubini , / Grue pittori in maiolica . » 212 Varietà ........... 243 e l'acqua di S. Angelo contiene in paragone di quella di Ci- sterna: u 1. Molto gas acido carbonico. 2- Meno sostanze alcaline. 3. Meno sostanze terrose' 4-. Nessun solfato. 5. Molti cloruri. 6. Non sostanze organiche. 7. Una certa dose di calce. Il 4, 5, e 6 requisito ne arguiscono un ottimo criterio di potabilità. Art- X. - qualità' fisiche- La limpidezza e il non tenere in sospensione cor- pi estranei è testificata dall'uso che di quella fanno i pastori per abbeverare il bestiame. La freschezza fu stabilita da me il 19 luglio 1858. trovandone la temperatura di 10 centigradi, mentre quella dell'aria ivi presso era di 18,5 e piiì in bas- so 28, 5. Il 26 luglio osservai le medesime diffe- renze termometriche- Il peso specifico è di 1,002. Art- XI. - quantita'- La quantità dell' acqua fu misurata da me con diversi metodi, ed in due epoche; il 24 maggio ed il 26 luglio del 1858. 1. Esperienza. La misura fu fatta con stramazzo ed efflusso li- bero, essendo la larghezza dello scaricatore eguale a quella del canale d'arrivo. La sezione della luce d'efflusso avea per dimen- sioni nel Iato inferiore di larghezza 0'", 06, nel su- 15 ! periore 0'" , 07. Il carico misurato suU' incile era di 0,073. Quindi la sezione S=0"'-'/-,004745. Introdotti ì quali valori nella formola Q = m. L H \/'{2g H). Ove denotano Q la portata L la larghezza H l'altezza G la gravità La dispensa teorica è di metri cubi 0,0056883. Per ottenere la portata effettiva, adottando per il coefficiente di riduzione il valore di m = 0,430 che vale allorché lo scaricatore ha la larghezza del canale d'arrivo, secondo le esperienze del Castel al Castello delle acque di Tolosa (*) la portata effettiva è Q^O^.c. 002416862. La quantità trovata appartiene solamente a quella porzione che potè riunirsi: buona parte però ne an- dava perduta. 2- Esperienza. Un vase prismatico del volume di^m. e- 0,09081 fu riempito in 37". Il che ragguaglia a secondo una portata di 0,00245 :n"i^"*«'^<>^' ;■ quantità di un ^looo discordante dal valore superior- mente trovato. (*) Aimales des mines 3. Serie Tom. IX. 16 Esperienze del 26 luglio. Nelle quali si procurò allacciare la maggior quan- tità d'acqua che si potè. 3. Esperienza- Un vase prismatico del volume di 0'"- ^-,0284 fu riempito in 10",5 onde la portata si rinvenne di 0'"''-,0027047. 4. Esperienza. Con vase prismatico munito di diaframma, nel quale la luce di efflusso rettangolare era affogata , e la contrazione sopra un solo lato; la luce aperta nella parete del diafragma avea le seguenti dimen- sioni, denotando con A l'altezza con L la larghezza. A = 0,0415, L = 0,0825 Il carico posteriore sul fondo H = 0,1895. Il carico anteriore h = 0,\\95- Quindi la dispensa teoretica Q = AL \/'{2g) |/-(H — h) = 0,00401 1226. Per il coefficiente di riduzione è necessario av- vertire che la contrazione non essendo completa, la sua determinazione è data dalla m'=m(l-H 0,1523-) ove m = il coefficiente di riduzione per la contrazione completa, m'= l'analogo per la incompleta n == perimetro mancante di contrazione p = perimetro totale della luce, 17 ed essendo nel caso «=0,1655 ;j:= 0,2480 adottando per m il valore 0,625 che conviene alla luce delle date dimensioni , secondo le esperienze sopra citate di Poncelet e Lebros, risulta m':=: 0,69073. Onde la dispensa effettiva Q = 0"'- "',0027714. 5. Esperienza. Con efflusso libero all'aria e contrazione incom- pleta. Mantenendo le stesse denominazioni era L = 0,062; A=.0,043; H=0,1193 onde se He denota il carico sul centro Hc = H-^ V, A=:0,11715, quindi la dispensa teorica Q=tO"'-"-, 004161. Adot- tando per coefficiente di contrazione completa , m=:=0,633 che conviene ad un carico sul labbro superiore della luce, di 0,0763 con una altezza di 0,043, il coefficiente m' di contrazione incompleta è dato dalla m'=.m (1^-0,1523-) \ pi ove introdotti i valori di m = 0,633 « = 0,062 /.=:0,21, risulla m'= 0,6615 e la portata effettiva Q = 0"' " 0027525. G.A.TCLVII. 2 18 Dalle 3 ultime esperienze la media portala è di 0™- -0026463 Assumendo per unità del fontaniere l'oncia dell'Ac- qua Felice,secondo il eh. Sereni, di 0'"-^ 000252 (*), la portata della sorgente di S. Angelo nel giorno di 26 luglio 1858 per quella quantità allacciata che si potè misurare era di once 10, 873. Si noli che benché si fosse procurato in queste esperienze riunir più acqua che in quelle del 24 maggio, v'aveano pure delle perdite. Oltre poi quella che ivi fa comparsa credo che praticando dei tagli idonei se ne possa trarre mag- gior copia; perchè ricordando la ^costituzione geo- gnostica della roccia frantumata , discontinua , e schistosa, è fuor di dubbio che della nappa cor- rente la maggior parte sia derivata per le fendi- ture, prima della comparsa; sembrami perciò fuor d'ogni dubio che con regolari lavori possano dalla scaturigine trarsi della detta misura once 15. Delle quali avendosene a lasciare sul luogo 3 per gli abbeveratoi dei pascoli, si potrà far cal- colo di sole once 12 per condurle a Sezze- Ari. XII. - COSTANZO. Questa è testificata dalle esperienze quotidiane dei pastori , che a loro memoria ne ricordano la invariabilità. (*) Idrometria. Sez. VII e. 7. N. 576. 19 Art' XIU. - LIVELLO. La sua altezza sulla soglia della chiesa di S. Pietro in Sezze fu da me determinata con una li- vellazione barometrica , per la quale mi munii di tre barometri, dei quali l'uno a mercurio a pozzo e portatile del sistema Fortin , gli altri due ane- roidi del sistema Bourdon l'uno, Lerebour l'altro; ed acciocché venisser eliminate dal calcolo ipsome- trico le perturbazioni atmosferiche , due altri ba- rometri, a mercurio 1' uno, Aneroide l'altro, affidai al eh- sig. D. Nicola De Angelis professore di fìsica, affinchè con esse in Sezze di mezz'ora in mezz'ora istituisse osservazioni , onde averne probabilmente delle simultanee. Fatte le dovute correzioni di temperatura, eli- minati gli errori propri degli istrumenti di scala di capillarità, calcolando con le tavole di Ottmann, rinvenni che la scaturigine di S. Angelo è supe- riore alla soglia della chiesa di S. Pietro in Sezze di 532"'' '• Soddisfacendosi così, per quanto a me sembra, dalla scaturigine di S. Angelo alle condizioni che esige la scelta di una sorgente per adottarne la condotta dell'acqua, nò avendo luogo la discussio- ne dell'economia, mentre questa è un'attinenza di relazione che nel caso è adiafora per mancanza di termine di comparazione, non rimane alcun dub- bio sulla scelta di questa- Perciò diressi i miei sludi alla determinazione della linea di condotta. 20 PARTE PRIMA SEZIONE li. SCELTA DELLA LINEA DI CONDOTTA, Ari. I. - VARIE LINEE A PROPOIÌSL Richiamando a memoria quei pochi cenni che superiormente si dettero intorno la topografia di Sezze e del suo circondario , dall' ispezione della mappa comprendesi: 1- Che la sorgente di S. Angelo è separata quasi diametralmente da Sezze per il grande ba- cino di altipiano. 2. Che essa è situata sull'alto del monte nella gola di una valle di denudamento, come ne fan fedele concordanze di stratificazione nei due fianchi. Onde nella moltiplicità delle linee, che potrebbero immaginarsi per la condotta delle acque di S. An- gelo a Sezze, non vi sono che due che meritino speciale attenzione; la linea retta e la curva. Art. II. - LINEA RETTA. Non v' ha dubbio che la linea retta, spiccando sulle altre per la dote della brevità, lusinghi per- ciò che spetta all'attinenze economiche. Ora studinndo in qual modo per linea retta possa nel nostro caso condursi nella città di Sezze l'acqua della sorgente di S. Angelo, non si pre- 21 sentano che due soli modi ; de' quali l'uno è l'ac- quedotto, l'altro è la condottura. Riuscirebbe il primo di mole gigantesca, men- tre le sue dimensioni sarebbero tali , quali non si rinvengono in nessuna intrapresa dell'antica magni- ficenza romana. Ari. Ili, - impossibilita'' dell'acquedotto arcuato. Ed invero dovendo la platea della speco di un ac- quedotto progredire con un declivio più o meno co- stante fino al suo termine, mantenendosi di livello a questo superiore, ne segue ohe ne' paesi montuosi occorre quando di tenere Io speco in aria sopra arcate, quando d'occultarlo nelle viscere dei monti a seconda delle varie inflessioni del terreno. Dall'indicato carattere di esso ognun vede, come l'acquedotto di Sezze dovrebbe per un lungo tratto di più kilometri mantenersi ad una elevazione di più che cento metri superiore alla sottoposta campagna. Risulta infatti da una accurata e l'ipetuta li- vellazione, in primo luogo che la soglia della chiesa di S. Rocco è superiore alla sottoposta pianura, e precisamente sulla via denominata dell' Arnariglio di ben 103"", 62j in secondo luogo che l'incontio dell'orizzontale spiccata dal punto culminante della città incontra la campagna nella direzione della sorgente a circa 6 kilomeli'i di distanza. Non reggerebbe al suo confronto 1' acquedotto antico di romana costruzione sulla Fiora presso all' etrusca Volci, non quello che Traiano eresse .sopra 159 arcate nell'ispanica Segovia: ad esso in- 22 fci'iore sarebbe lo stupendo acquedotto di Niines cbe giunto alla valle ove scorre il Garden , as- sumendo la fisonomia d'immenso ponte canale so- pra tre ordini di archi s'innalza a metri 60, e 65 centimetri, e valica la valle di Gard per un tratto di 269 metri, costrutto da Agrippa secondo il Mil- lin, 0 da Adriano come vuole il Mezeray : supe- rerebbe di gran lunga le meraviglie di quei di Metz, di Lione, Los Banos de Carmona in Sivi- glia, di Montpellier. Ed eran pur queste le opere, delle quali Plinio esclamava (*): Quod si quis diligenlius aestimaveril aquarum abundantiam in publico balneis piscinis do- mibiis, eiiripiSi hortis suburbanis, villis spatioque ad- venienlis exlruclos arcus, montes perfossos, convalles aequatas, fatebitur nihil magis mirandum fuisse in loto orbe terrarum. Forse al paragone suo starebbe l'acquedotto eret- to dai califfi in Elvas che maestosamente sopra 4 ordini di arcate con un dislivello di 80 metri tra- versa la valle de Feira , o quello di Maddaloni imaginato dal Vanvitelli nel 1755, la cui altezza è di metri 70, e lunghezza 4-50- Solo rimarrebbe inferiore, non già per la lun- ghezza,ma solo per l'altezza, a quel di Spoleto, opera del barbaro Teodorico, che s' innalza fino a 150"' dal suolo. (*) Hist. Nat. lib. XXX VI e. XV. 23 Ari. IV. - CONDOTTO SIFONE PROPOSTO DAL CH. ING. BURRI. Dimostrata l'impossibilità dell' acquedotto, non resta che l'altro partito del condotto-sifone, (*) a cui apprendersi nel sistema di condurre l'acqua per la via brevissima. Per la riuscita di tal progetto dovrebbero aversi in vista i seguenti punti. 1. Sarebbe impossibile mantenere la continuità di condotto dall'origine della sorgente all'efflusso fi- nale in Sezze, senza incontrare resistenze tali, per superare le quali sarebbe necessario un diametro eccessivo al condotto, ed assai maggiore a mio crede- re, di O^jOG che il eh- ingegnere Romolo Burri asse- gnava (**)onde il lavoro riuscirebbe dispendiosissimo. 2- Il sifone propriamente detto avrebbe una lunghezza di circa sei kilometri. Dovrebbe infatti cominciare dal versante dei sub-lepini, ove ha luogo l'incontro di una orizzontale guidata superiormente al punto culminante di Sezze- 3- Di quanto poi la detta orizzontale debba es- sere di superior livello al punto culminante di Sez- ze , ciò vien determinato dalle relazioni idrodina- miche che esistono tra la forza richiesta a vincere le resistenze, e queste dipendenti dalla lunghezza, dal diametro, dalle risvolte, e da tutto quel cumulo di elementi che costituiscono le così dette resistenze passive nei condotti. (*) Prospetto dal eh. ingegnere sig. Romolo Burri. (**) V. Ispezione scientifica sull'acquedotto di Sezze, nel Giornale arcadico. Tomo CVIIII. 24. Per un lunghissimo tratto il condotto avrebbe a resistere alla pressione di una colonna d'acqua del- l'altezza di circa metri 150. Dall' eccessivo e non ordinario carico discende anche la difficoltà di resistere alle fughe dell'acqua nell'unione dei tubi, sia che quesJi si facciano del sistema con vitruviano termine, Lingulatus, sia con briglie e chiavarde- Che se poi si prende a considerare quel genero di forze dinamiche tecnicamente denominate Colpi di Ariete, ne si disgiunge questa considerazione dalle dimensioni della condottura e dalla pressione enorme, tanto più cresceranno le difficoltà per 1' attuazione di un tal progetto, seducente invero per la sempli- cità, ma d'esito incerto e mal sicuro in ordine spe- cialmente alla durata. Potrebbero invero citarsi esempi di recenti co- struzioni idrauliche, per le quali furon vinte diffi- coltà anche maggiori, desunte principalmente dal di- slivello e dal quantitativo della dispensa dell'acqua. Ed in vero Delius nella sua opera. Sur Vexpìoi- tation des mines, riferisce che a Schemnitz vi è una grande ruota idraulica che consuma al giorno 80,000 secchi di circa 100 libre l'uno e che alza un carico di 2600 libre d'acqua da una profondità di 150 tese; secondo Bernoulli nella salina di Derrheim nel gran ducato di Baden 1' acque salate sono spinte all' al- tezza di 600 piedi per mezzo di pompe mosse da mulino a vento. Similmente quelle di Oberdamm stabilite sopra l'Alsler in Hombourg descritte da Marcel de Serres 25 olcvano 28016 metri cubi d' acqua ad 85 piedi di altezza in 24 ore. Così lai'S e Duhamell ci descrivono i prodigiosi effetti della macchina eseguita alle miniere di ferro da Kongsberg (*). E per tacer di altri maravigliosì esempi di smi- surate altezze, alle quali nelle miniere di Ungheria^ di Hartz, di Freyberg, si è elevata l'acqua, basterà ricordare gli effetti ottenuti dalle macchine così dette a colonna d'acqua, invenzione del Belidor publicata nel 1739 nella sua Architettura Idraulica, comune- mente però denominate di Hoell per la prima ap- plicazione eh' ei ne fece a Schemnitz in Ungheria, Infatti per omettere le altre basterà licordare la celebre macchina in Baviera costrutta dal gran mec- canico Reichenback, compiuta nel 1817. Per essa l'acqua che tiene in dissoluzione il sal- gemma, dalla valle di Berchtesgaden e precisamente in lilsang, è spinta a Reichenhall alla distanza di 27 leghe di posta, equivalenti a 109,000 metri (**). D'un sol getto l'acqna è inalzata all'altezza di 356 metri. Per amor di verità mi appello all' opera citata di Arago, al D'Aubuisson de Voisin (***). L'esito felice dell'opera del Reichenbach provocò l'ingegnere Junker ad intraprendere un simile lavo- ro nella miniera di Huelgoat nel Finistère a Poul- laouen, e la sua macchina fin dal 1831 innalza 5000 (*) Yoyage metellurgique toni. II. (**) Arago Notices scicnlitiques toni. III. pag. liOF. (***) Traile d' hydraulique sez. III. e. 3. p. 111. Ediz. Paris. 26 cubi d' acqua al giorno all' enorme altezza di 230 metri (*) ! Ad onta però della felice riuscita di lavori di cotal genere, non v' è ragione a trarne un criterio favorevole all'attuazione di una condottura che per alcuni kilometri debba resistere ad uno sforzo di pressione di più che 100 metri. Infatti nelle citate opere lo sforzo non ha luogo che in tubi verticali, ed in tratti ben corti; così in quella di Jllsang che giganteggia sulle altre, soli tre- cento metri di condotto sono cimentati dalle trenta alle cinque atmosfere di pressione. Onde la pres- sione media, che risulta nel tratto di condottura fino all'altezza di 300 metri, si riduce solamente a 17 atmosfere; di sole due atmosfere superiore alla pres- sione che per piti Kilometri dovrebbe subire la pro- gettata condottura di Sozze. Di nessun peso è poi l'argomento che sì volesse trarre dalle 27 leghe di lunghezza che ha la con- dottura di Reichenhall. Ed invero in quell'immenso tratto non è l'acqua sospinta a pressione entro il con- dotto, ma per pendio naturale, dal punto al quale elevolla l'impulso del pistone, con sistema di canali discende naturalmente a Reichenhall. Dimostrata 1' insufficienza degli esempi addotti per trarne argomento sfavorevole al sifone proposto, resta per ultimo a citare la condottura di Genova posta pressoché nelle medesime circostanze di quella di Sozze. (*) V. Arago, Op. cit. pag. 503. V. D'Ànbuisson sez. III. e. III. §. 412 pag. 491. Annales des mines , toni. Vili, an- no 1835. ■21 Ora in essa il terreno nella valle per un tratto di 300 metri è di 90 inferiore all'orizzontale menata per l'origine della condottura, e l' intiero condotto ha una lunghezza di 715'". Si preferì costruire pel tratto inferiore di 208 un manufatto arcuato di 21 metri d'altezza, dimi- nuendo in tal guisa nel condotto la pressione idrosta- tica ridotta solamente ai TO'" in luogo dei 90."' Per lo che tal'opera non fu che ripetizione dell'antica ro- mana di Lione: dal quale monumento si scorge come r architetto romano per non innalzare 1' acquedotto ad altezza eccezionale, immaginò che questi ripiegan- dosi sulla sinuosità della valle servisse di sostegno ai tubi di piombo che si riunivano alle due bocche degli spechi nei due fianchi del M/^ Pyla; ed a mo- derare l'eccessiva pressione idrostatica li mantenne all'altezza di metri 20 sopra il suolo, che altrimenti avrebbero sofferto una pressione di metri 70, quanta è la profondità della valle. Onde il manufatto con- venientemente potrebbe denominarsi un sifoni-dotto. 11 qual monumento forma la più solenne testimo- nianza della scienza antica, e dell'ignoranza di alcuni moderni, i quali dagli acquedotti sistematicamente adottali dai romani vollero illogicamente arguire che quei sommi non avessero nozione delle fondamantali leggi della idraulica- Dimostrata così la difficoltà del progetto, la man- canza di sanzione empirica , 1' esclusione d'esso in parità di circostanze; s'arroge l'ammontare eccessivo dell'importo che mal risponde alle esigenze econo- miche, il difetto di manutenzione in luoghi ove non è ancora il germe di manifatturiera industria, in pae- 28 se, dove l'elemento civilizzatore sembra quasi restio ad insinuarsi nella masse ad onta di coloro ai quali è affidata la cura dei loro concittadini, e che cer- cano con ogni sollecitudine introdurre, proteggere, sviluppar la civiltà. Come con tanti elementi contrari lusingarsi del- l'esito felice di un tal progetto? Come non smettere pienamente ogni pensiero della sua realizzazione ? Come non riporlo tra le tante fallaci idee elaborate dall' umano ingegno più a sfoggio di teoria che a pratica utilità ? Esclusa per l'enunciate ragioni la linea retta, ri- volsi gli studi, alla ricercha di altro progetto, per cui si soddisfacesse meglio alle esigenzie tecniche ed alle economiche. Ah. V- - METODO DEGLI STUDI. Perciò tutto lo studio fu diretto a investigare nel terreno una linea tale, per cui l'acqua potesse di- scendere per il naturale pendio , in modo che ri- manendo di livello superiore potesse condursi al punto culminante della città, eliminando, se fosse possibile, quei sentimenti del terreno, per i quali e- sigesi da legge idrostatica che si adottino tubi re- sistenti a pressione eccessiva. Ad esaurire una tale ricerca sembrommi di som- ma utilità determinare le intersezioni con la cam- pagna di un piano orizzontale condotto pel punto cul- minante della citlà, col che si sarebbe limitata la zona da sludinrsi. 29 Condotti poi altri di tali piani a quello superiore, ossia intrapresa una livellazione a sezioni orizzontali l'indole della topografìa fu ben tosto rilevata, dalla quale si rende evidente: 1- Che nel terreno può tracciarsi piii d'una li- nea dotata dei caratteri che s' addicono a linea di condotta di acque. 2. Che in tutte queste linee hanno luogo dei tratti di soluzione di continuità a causa delle intersecazione delle valli. 3. Che per alcune potrebbe mantenersi la con- tinuità con uno sviluppo smisurato ed incompati- bile con le esigenze economiche. 4. Che in una di queste, la soluzione è assoluta non essendo possibile sviluppo di tal genere. 5. Che in questi tratti non fa duopo ricorrere a mezzi straordinari dell'arte. PARTE SECONDA LINEA DI PROGETTO. .4?'/. /. - FISONOMIA DELLA LINEA. Dai caratteri sopra enunciati dalla topografìa ne segue : 1. Che per il lungo tratto nel quale l'acqua può discendere mantenendosi superiore al livello della città di Sezze, sarà facile condurnela con i metodi consueti e sodisfacenti ad ogni economia di un or- dinario acquedotto. 30 2. Che dove comincia la valle è indispensabile adottare un tratto di sifone (*). 3. Che valicata questa, mirabilmente si presenta la natura del terreno per ristabilire l'acquedotto. 4-. Che nell'ultimo tratto, essendo il terreno ac- cidentato da altra valle, è necessario adottare un ultimo tronco di sifone. Art. IL - ORTOGRAFIA. Quindi la fisonomia della linea, che si adotta nella sua ortografìa generale come è esibito dal tipo, sarà: Nel tratto A D di una linea uniformemente in- clinata. Nel tratto D E. E F. F N. di linee curve di- scontinue Nel tratto N 0 di una linea uniformemente in- clinata. Nel tratto 0 Q d'una lìnea curva. Art> III. - ICNOGRAFIA. L'andamento icnografico della linea medesima è Nel tratto AD sinuoso e serpegiante perchè possa adattarsi con la inclinazioneuniforme alle accidenta- zioni delle spalle dei monti. Nei tratti D E- F F. F N. di linee rette. Nel tratto N 0 sinuoso- Nel tratto 0 Q retto. (*) L'avantage des tuyaux siphons est tellement conside- rable , qu' à une epoque où 1' art de confectioner les tuyaux était encore dans l'enfance, les arcòitectes romains n'ont pas hèsité à les employer dans certaines circostances. Dussuit - Traile de la distribution des eaux. e. X. §. 109. 31 La lunghezza del tratto A D è di metri . » 8913 00 D, E, F. N . . )) 3718 50 NO. ... » 1789 50 0 Q. ... » 498 00 La lunghezza totale è di metri 14919 00 Art. - IV. SI FORMOLA IL PROGETTO. Quindi nel tratto A D di 8913 si propone un acquedotto. Nel tratto D N un poli-sifone cioè sistema com- posto di 3 separati condotti metallici di forma sifo- nica la lunghezza dei quali sarà al Tronco D E di metri. » 1 89 00 Tronco E F. . . » 709 50 Tronco F N. . . » 2820 00 Totale lunghezza dei sifoni metri 3718 50 Nel tratto N 0 un acquedotto lungo metri » 1789 50 Nel tratto 0 Q un condotto me- tallico a sifone lungo metri . » 498 00 Art. V' - CONVENIENZA DEL SISTEMA PROPOSTO. Il sistema di acquedotto adottato nel primo tron- co veniva indicato dalla indole acclive del terreno: né credo facciano d' uopo dimostrazioni sulla con- venienza della linea e del partito proposto in essa. 32 Nei tratti seguenti il sistema adottato di sifoni viene giustificato: (a) I- Dall'indole del tei'reno in alcuni tratti sol- cato da valli, per valicare le quali non v'ha che tre mezzi. 1. Acquedotti arcuati. 2. Sviluppo della linea fi- no a ritrovare nei tratti inferiori il livello richiesto- 3- Sifone- Dispendiosissimi riuscendo il 1° e 2° non rimane che il 3° cioè il sifone. [b) 2. Dalla sicurezza di riuscita di esso; mentre non presenta alcuno di quei caratteri, per i quali possono essere compromesse l'esigenze statiche o le economiche. Infatti il tratto sifonico è costituito di tre sepa- rati sifoni, e discontinui. Dei quali il 1° ha una lunghezza di metri 189 con dislivcUo nel punto di massima depressione di metri 11, 60. Il 2" sviluppa una lunghezza di metri 709, 50 ed il carico che preme sul punto infimo è di me- tri U. Il 3° maggiore degli altri è lungo metri 2820, e ripiegandosi sulle accidentazioni del terreno presenta due tratti di grande pressione, dei quali la massima è di metri 107, 50. Art. VI- - perche'' tre sifoni e non un solo ? La ragione di tre sifoni discontinui preferiti alla continuità di uno, si trova nella natura del terreno accideutato da due valli minori ed una maggiore. 33 Nel sistema di un condotto continuo a causa della esposta indole topografica, dovendo l'acqua tre volte scendere e tre salirne , ne seguirebbero due gravi inconvenienti , de' quali il primo si trarrebbe dai due punti culminanti E. F ( v. il tipo ) intermedi nel condotto che determinano facilmente accumu- lamento d'aria , ed arrecano spezzamento alla co- lonna liquida: per impedire il quale effetto dovreb- bero costruirsi sfiatatoi, che riuscirebbero dispendiosi se di ordinaria costruzione, o imporrebbero una gra- vosa servitìi se si adottassero del sistema a valvola- L'altro inconveniente sorgerebbe da ragioni eco- nomiche per le dimensioni della condottura, che mag- giori riuscirebbero per le aumentate resistenze do- vute alla maggior lunghezza ed alle nuove risvolte che verrebbero in azione- Art. VII' - CONDIZIOA'E DI UN BEN IDEATO SISTEMA DI SIFONI. Si convalida il progetto dei sifoni, mentre essi soddisfano alle seguenti esigenze imposte dall' arte e dalla economia. 1- Che l'estremità inferiore sia di un tal livello quale si esige perchè rimanga un' altezza conve- niente al moto dell'acqua nell'acquedotto del penul- timo tronco e nel sifone finale , che effluisce nel punto culminante della città. 2. Che i tratti inferiori della curva si scelgano in modo da non presentare pressioni eccezzionali che compromettano la stabilità, per assicurare la quale debba ricorrersi agli straordinari sussidi dell'arte. G.A.T.CLMl. ^ 3 34 3. Che la pressione media in tutta la linea sia negli ordinari limiti. 4. Che la lunghezza di esso abbia la minima dimensione- Art' Vili. - VERIFICAZIONE DELLE LEGGI NEL SISTEMA PROPOSTO- Ora non essendo alcun dubbio per i tratti mi- nori dei sifoni , applicando gli enunciati criteri al tratto maggiore di sifone proposto , si scorge che 1. Dall' estremità inferiore del sifone effluisce r acqua nel bottino (segnato nel tipo da lett. N) ; d' onde 1' acqua lasciando la condottura è invitata dall'acquedotto, che si sviluppa in una linea di uni- forme pendenza lunga metri 1789 con un carico totale di 4, 50 che ragguagliano il 2^ per mille. Dall'acquedotto poi che fa capo vicino a Sezze presso il casino Rappini, l'acqua è raccolta nell'ul- timo tronco di sifone, nel quale è sospinta dall'ul- tima residuale pressione di metri 4, 00 per una lun- ghezza di metri 498. 2. 11 massimo carico che si risente nel tronco maggiore di sifone è di metri 107, 40 : il che ha luogo nel tratto notato con la lettera 1 nel tipo. Grande invero è la pressione, dalla quale nell'indi- calo tratto è cimentata la resistenza del condotto: non però eccezzionale: inferiore assai a quelle già citate in Berchtesgaden di 356 metri, o in Huelgoat di 230, e che può stare a confronto con alcuno degli attuali condotti di Roma. Né vale opporre che valicando la valle superior- mente si sarebbe diminuito il carico. Osservando che 35 (a) Il pendio della valle in quella parte è assai tenue, onde un passaggio superiore di poco dimi- nuirebbe la pressione idrostatica. [b) La diminuzione di pressione con la scelta di un passaggio superiore non sarebbe compensata da un allungamento ben grande della linea del tratto sifonico, che allora avrebbe dovuto svilupparsi in un poligono di gran perimetro in luogo di una linea quasi retta, quale è quella che si propone. (e) Siccome poi la detta valle allargandosi tanto maggiormente quanto è più elevata, ne segue che sebbene in un piccolo tratto si diminuisse la pres- sione, si aumenterebbe però la pressione totale me- dia della condottura per la minor inclinazione che avrebbero i due rami del sifone. [d) S'incontrerebbe un terreno molto piii acci- dentato e sassoso di quello scelto nel progetto. Queste riflessioni determinarono il passaggio pres- so la così detta Noce del Cellette, nel quale il carico di 101'", 15 si estende alla lunghezza appena di 30'", e per la valle della Fonte, nella quale anche la gran pressione di 107'", 50 si estende solo ad una lun- ghezza brevissima di 20; poiché nell'uno e nell'altro il terreno come rapidamente discende, così con l'i- stessa legge risale a livello superiore. §. 3. La pressione media risultante nell' intero tronco di 2820'" è di metri 64, 604; il qual valore si stabilisce, applicando ai singoli elementi della curva la pressione conveniente , deducendo la media col metodo di Simpson. Valore che molto si accosta ai limiti inferiori delle ordinarie pressioni in tal genere di condotture. 36 §. 4. Tal progetto è poi dotato della brevità su qualunque altra linea proposta , mentre nel tratto maggiore, ove il terreno si spiega in pianura, corre in linea retta. Dimostrata la necessità, l'utilità, del sistema pro- posto , è necessario esporre i dettagli di ciascun tratto - assegnare le dimensioni - indicare gli ac- cessorii - enumerare infine tutti gli elementi che esige la perfezione dell'opera. PARTE TERZA DESCRIZFONK DEI LAVORI. Art. L - PRESA dell'acqua. La roccia presso la scaturigine, naturalmente ta- gliala a scaglioni, si presta a maraviglia perchè possa aprirvisi una trincera cunicolare che internandosi alquanto raccolga maggior quantitativo d'acqua- La riuscita di tale operazione sembrami sufficientemente indicata da alcune piccole aperture da me fatte pres- so alla scaturigine, dalle quali vidi tantosto effluire nuova copia di acqua. Le dimensioni non potranno assegnarsi che ap- prossimativamente , dovendo subordinarsi ai criteri che risulteranno nell'atto pratico dalle varie circo- stanze locali. Ciò non ostante il cunicolo presso a poco avrà una profondità di 2,''' una lunghezza di 8"' ed uua lar- ghezza di 2."' Sarà esso ricoperto .da volta a botte, il cui estradosso sarà inclinato secondo la pendenza naturale del monte. 37 Spiragli aperti nel muro di sponda superiormen- te , attiveranno la libera circolazione dell'aria ; ed acciocché tali luci non diano occasione agli oziosi e maligni di gettare sostanze che turbino la purezza dell' acqna, sarà necessario erigere un contro muro che lasci un conveniente intercapedine munito anche esso di idonee aperture per lo sfogo dell'aria. L'area intercapedinale sarà ricoperta con volta di muro con l'estradosso in prosecuzione di quello della botte; ed in esso sarà aperto un foro munito di chiusino, per il quale possa aversi 1' ingresso e la discesa, onde visitare di quando in quando il ma- nufatto. L'apertura poi sulla volta della botte sarà munita di un torrino alto metri 2,50 per il mede- simo oggetto: la cui luce sia un quadrato di 0, 80; la grossezza poi delle mura di 0, 4-0. Le dimensioni del muro di sponda saranno di larghezza metri 1, 40, di altezza metri 2; con gros- sezza di metri 0, 50; quella poi delle volte alle chiavi sarà di 0,35- La rinfiancatura sarà di muro di pie- tra e portata fino al livello dell'etradosso. Ari. lì - TRATTO D ACQUEDOTTO TUBULAlìB. Per il tratto che immediatamente segue, l'acqua potrebbe condursi per una linea pressoché paralella al Thalveg della vaile, la quale linea con tutta fa- cilità può tracciarsi nel versante destro di quei monti che a tal uopo mirabilmente si prestano, presentando le loro spalle, superfìcie presso che piana. Ciò non ostante non può attuarsi tale idea per la seguente difficoltà desunta dall'altimetria del luogo. 38 Tra !a sorgente ed il punto segnato nei tipi da lett- D v'ha un disliveilo di metri 467, 25, ed una distanza di metri 8913; il che costituisce una in- clinazione del 5, 242 p. °/(,. Ora essendo esagerata tale inclinazione per una condottura, è necessario ricorrere ad artefizi che ne correggano l'eccessiva velocità, dannosa alla limpi- dezza dell' acqua , non meno che alla durata del- l'acquedotto. Dei vari che si possan proporre, il miglior par- tito più facile d'ogni altro è, a mio credere, divi- dere questo tratto di acquedotto in modo che ne ri- sultino vari tronchi interrotti con diverse cadute , per le quali si perda l'eccessiva inclinazione, e ne rimanga pei singoli tratti quella che è conveniente e che esigono le giuste norme dell'arte. Per lo che prefiggendoci per condizione che la pendenza di ogni tratto non debba eccedere l'uno per cento, ne segue che per la lunghezza di 8913", quanti sono dalla sorgente al puntn segnato nei tipi dalla lett. D, si consumeranno soli 89'", 13 di caduta, e ri- marranno 377"', 12 ancora d'altezza da distribuirsi nelle diverse cadute. Supponendole poi distanti l'una dall'altra 200" ne siegue che il loro numero deve essere di 44, e che ciascuna debba consumare l'altezza di 8"', 80. A tal fine si fabbricheranno ad ogni 200 metri di distanza dei chiusini di opera muraria che sod- disfino all'ufficio di serbatoi d'acqua: per lo che do- vranno esssere costrutti a stagno e rivestiti nell'in- terne pareti e nella platea di intonaco di cemento idraulico. 39 La caduta poi in essi si opererà con sistema di tubi imboccati lungo la falda del monte. Perciò la lunghezza di ogni singolo braccio dipenderà dalla pendenza trasversale del fianco del monte. Questa nel 1 tronco dalla sorgente alla Valle Rigosa sarà di metri 11 , nel tratto seguente fino presso alla vigna Cerrone di metri 12, donde al casino Silvestris di metri 15. Le dimensioni dello speco di questo lungo tratto d'acquedotto vengono determinate dalla condizione assunta dalla pendenza dell'I p. J*'., e dal volume di acqua che vi deve fluire, non solo nelle attuali condizioni della scaturigine, ma anche nella ipolesi che per natura o per arte se ne arricchisse la di- spensa. E siccome, secondo le norme della buona pratica, è regola che si debba trarre dal calcolo il criterio per assegnare le minime dimensioni, e lo stesso cal- colo si debba instituire non sopra il volume reale, ma aumentato circa di un terzo, e ciò in vista delle torbide, delle piene, degli incrostamenti, delle sca- brosità, dei difetti di costruzioni nell' allineamento, di quel cumulo infine di resistenze ribelli al calcolo e ad analitiche determinazioni ; perciò assumendo per il quantitativo dell'acqua da condursi effettiva- mente per lo meno once 12, e ricordando come su- periormente si è osservato, che con un piccolo la- voro può con ogni facilità erogarsi dalla vena un volume di once 14; dietro l'esposto criterio, redi- gerò il calcolo per l'ipotesi che il numero delle once da condursi sia di once 20, che corrisponde ad un volome circa di m- e- 0, 00468 a minuto secondo. 40 La lunghezza poi di ogni lionco è di metri 200 con la pendenza dell' 1 per °/q. La stabilita pendenza è in armonia con i limiti inferiori e superiori stabiliti dai maestri dell'arie. Infatti Vitruvio 1. Vili e. VII la esige non mi- nore del 5 per "/y. K nec minus in celenos pedes semipede » Ed il cavaliere Fontana - Delle acque correnti 1. L e. IX. - dovrà aver di pendenza almeno oncia mezza per canna 0, 347 p. ^j^. Secondo poi il Dupuit (*) la velocità in una con- doltura deve esser tale, che il tempo del viaggio dell'acqua dalla sorgente alla sua destinazione non ecceda giorni tre ; lo che si soddisfa dalla nostra, mentre sarà di ore 5, minuti 21, secondi 53, 4 come risulta dalla velocità, che appresso saranno calcolate per ogni tronco : e ciò intorno al limite inferiore. (**). (*) Traile de la condiiite des caux e. X. §. 100. (**) Nel tratto lubulare A D della sorgente al punto D la velocità V essendo di 0, 86 a 1," e la lunghezza essendo di 8913 il tempo t impiegato a percorrerlo è di 10364". 2. Nel sifone D E di 189m « = 0, 93, t = 203," 2. 3. Nel sifone E F di 709- SO ?) = 0, 60, / = 1199." 4. Nel sifone F N di 2830-" d = 0, 77, ^ = 3662" 2. 5. Nel tratto di acquedotto N 0 di 1789."' SO « =0,"' 32 t = 3229." 8. 6 Nell'ultimo tronco sifonicoO Q. lungo 498. t; = 0, 76 / = 6SS." 2. Quindi il tempo totale del corso dell'arque e di ^ = 29313" 4 = ore 5, minuti 21, secondi 53, 4. 41 In quanto poi al limile superiore, questo dipende dalla velocità risultante che sia conveniente alla ina- nuten/ione delTacquedotlo, mentre ad una tacile de- gradazione sarebbe esposto, se da quella si passasse un determinato valore: lo che poi lederebbe eziandio i canoni igienici, poiché si verrebbe a turbare la purità dell' acqua . 11 calcolo di questa stabilisce, come si vedrà in seguito, tali valori quali si richieg- gono- Avuto riguardo al lungo viaggio dell' ac(|ua, al tenue volume di questa , faceva di mestieri che si adottasse un tale sistema di acquedotto, pel quale o nulle 0 minime riuscissero le perdite dovute special- mente alle filtrazioni, alle fenditure che inevitabil- mente avvengono negli intonachi, alla capillarità della materia che suggendo continuamente assorbe e sot- trae porzione dell'acqua- ' Più d'ogni altro interessava proporre un tal si- stema che conciliasse l'economia con la durata del- l'opera, in ordine specialmente alle ostruzioni che avvenir possono, determinate dalle barbule vegetali che facilmente sMnsinuano,e col crescere, gravemente danneggiano gli ac({uedotli. Sembrò che tali prerogative s' associassero nei tubi figulini rivestiti internamente di smalto : si- stema vantaggiosamente adottato dai romani, come ne fa fede Plinio H. N. Lib- XXXI C. VI: « Cae- terum a fonte duci lìctilibus tubis utilissimuin est commissuris pyxidatis ». La dimensione poi dei tubi sarà talmente deter- minata, che l'acqua corrente non ne riempia che la metà, in modo che il perimetro bagnato riesca la 42 semìperiferia: e ciò oltre varie ragioni da venire e- sposte in seguito, anche per questa che non possano svihipparsi pressioni idrostatiche che cimentino la resistenza delle pareti : benché i tubi, che intendo adottare, sian capaci di resistere a più d'una atmo- sfera di pressione per la natura della loro fabbrica- zione- Nei tratti poi ove la roccia sia di tale natura che soddisfi per se alle esigenze che impone la condotta dell'acqua, basterà seguire le consuete nor- me che prescrive l'arte in tali circostanze. Nel tratto di acquedotto tubulare, i tubi verranno sepolti a profondità di un metro sotto il piano di terra: saranno posti sopra un letto di opera muraria gros- so 0'", 20, e rivestiti di un tegumento di una simile costruzione fatta con scaglia di pietra minuta, che ne garantisca le pressioni esterne. L'inserzione dei tubi sarà fatta con malta com- posta di 8 parti di calcina mescolata con una parte di tartarato di potassa stremprato con olio di noce. Tale sistema, oltre i vantaggi che sembra avere dal Iato tecnico sopra uno speco d' opera muraria, ha anche quello dell'economia; mentre risulta da un calcolo comparativo che maggiore spesa si avrebbe nella costruzione di questo, avuto specialmente ri- guardo alla natura lamellare e schistosa della cal- care, che anche nei tratti ove è continuo lo strato pure esigerebbe un regolare rivestimento dell' opus scrininum di Vitruvio , al prezzo di tali intonachi che grande riesce per la mancanza di buone arene, e per la necessità di dover adottare in simili ri- vestimenti la pozzolana di Roma, di cui fortunata- 43 mente linvengonsi i depositi nella prossima Terra- cina. Sento che una difficoltà giustamente mi si può opporre per essermi imposto la condizione, che la sezione bagnata debba essere la semicircolare, e non abbia scelto piuttosto fra gli infiniti segmenti quello cui risponde il massimo raggio medio. Ora essendo noto dall'idraulica (*) che il seg- mento di massimo raggio medio essendo quello il cui arco è di 257°, 27', 6", adottando un tal seg- mento rimarrebbe di vuoto nel tubo una sezione, il cui arco è di soli 32", 32', 54". Si toglierebbe quindi al condotto la suscettibilità di ricevere maggior co- pia d'acqua senza che ne venisse cimentata la pres- sione; si accrescerebbe la probabilità degli interri- menti, e si diminuerebbe la facilità di manovra nello spurgo che in epoche determinate deve farsi di esso; per le quali ragioni rinunciando alla scelta del se- gmento che dà il massimo raggio medio, attenendo- mi al semicircolare vengo al seguente, PROBLEMA Ari. III. - DETERMINAZIONE DEL DIÀMETIiO ONDE IL PERIMETRO BAGNATO SIA SEMICIRCOLARE. Si determina il diametro dei tubi assumendo l'equazione generale pei corsi d' acqua nei canali proposta da Prony (1) RI = «V -+- iSV2 ove i simboli R denotano il raggio medio, ossia il (*) Sereni, Idrometria sez. Y. e. Vili. 44 rapporto della sezione al perimetro bagnato, espri- mono I II rapporto dell'altezza alla lunghezza «, /3 Due cofflcienti empirici S La sezione P fi perimetro bagnato V La velocità; Q la portata dell'acqua 0 11 diametro da cercarsi r: Il l'apporto del diametro alla circonferenza. Fatte le debite sostituzioni l'equazione (l) si trasforma nella t:I nH La quale, introdottivi i particolari valori nume- rici di, « = 0,00002424, /3 = 0,0003655 Q = 0,00468, Tr:^ 3,1416, 1 = 0,01. e trattata con le opportune operazioni diventa (4) D^— 0,0001 15552 D^-^- 0,0000207644 = 0 La radice reale e positiva dell'equazione, ricavala per approssimazione con il metodo delle derivate, risulta 1 D = 0,1174596649 con un errore di -1 Ann Ann nn,]' Perlocchè il diametro del nostro tubo è di 0'",! 17 46- Come sopra si è osservato, lo stabilito valore dà il criterio che il diametro del condotto non deb- ba essere minore della detta quantità. 45 E poiché per economia è necessario adottare i tubi che già esistono in commercio, tra questi si accostano piìi da presso alla dimensione stabilita quelli che hanno di lunghezza napoletani palmi 3, e di diametro 55 centesimi ; ed essendo il palmo di Napoli =:0"',2620I5, il loro diametro è di 0"', 143,0825 dopo i quali vengono quei di 35 centesimi pari a 0"',091, e perciò da escludersi. 11 diametro dei primi adunque supera l'assegnato valore di 0,0256. Perlocchò sono da adottarsi. Non v' ha disgiunta poi da questa materia la ri- cerca della velocità eflFettiva che pi-enderà l'acqua nel detto condotto, in ordine ed alla degradazione che possa subire il manufatto per l'azione corrosiva dell'attrito, ed in ordine alla conservazione dell'acqua, dipendente dal tempo che impiega per correre l'in- tera condottura, il quale non deve eccedere giorni 3, secondo il Dupuit. In quanto al primo genere di ricerche risulta dalle esperienze di Jelford e Nimmo , che essendo varia la degradazione secondo le diverse materie , per i nostri tubi non debba eccedersi la velocità di l'",83 a secondo. Per tale determinazione essendo la velocità data dal rapporto -; la V=0,863787, per lo che viene escluso ogni timore di degradazione, tnentre la ve- locità è minore della metà di quella per la quale avrebbe danno la condottura- 46 Art. IV^ - TRATTO CUNICOLARE. In quei tratti poi ove non si adotterà il siste- ma dei tubi, l'acquedotto avrà le seguenti dimen- sioni che saranno maggiori di quelle che assegnereb- be il calcolo : e ciò perchè nella costruzione delle sponde e dei loro intonachi abbiasi spazio sufficiente nella mano d'opera che resterebbe troppo vincolata, se le dimensioni riuscissero minori delle seguenti- La luce dello speco avrà 0,20 di larghezza; la sua altezza risulterà dalla determinazione di quella che assumerà l'acqua corrente in esso. Per la quale determinazione nella equazione generale (1) RI = «V-4-/3V2 facendo risentire la retlangolanìà della sezione, de- nominando (L) la larghezza, ed {h) l'altezza richie- sta, ritenuti gli altri simboli adottati superiormente, sorge la ^^' " iU UL i\J ' tL2 Ove introdotti gli antecedenti valori numerici, e fattovi L =1^ 0,20, si ottiene, (6) /i3_ 0,00056722 K"— 0,0002568622 x/t — 0,000020014 = 0 la quale equazione di 3° grado trasformata in altra privala di 2° termine, chiamando 47 il coefficiente di h^= A, quello di /t = B, il termine costante =C, sorgerà (7)X'-(^^B)X_(|-^^^'C)=0 la (7) fattovi il coefficiente di X=p il termine costante = q si riduce alla forma, X'— jjX — ^ = 0, dotata di una radice reale e positiva; e valendo per i valori numerici di [p) e [q) la relazione ^ -^ z! 4 -^ 27 ■ applicandovi la risoluzione trigonometrica per mez- zo degli archi ausiliari M. N. come j/-(.ang|M)=.»ngN,2»L___=x risulta per il valore della radice reale e positiva X := 0,0303115; ed essendo h = X-]--jz sostituito o il valore numerico sorge h = 0'",0304006. 11 quale valore di h determina V altezza del- l'acqua corrente nello speco. Saia facile argomentale la velocità con la rela- zione i; r= ^ zr= 0,769, la quale soddisfa pienamen- te alle esigenze di corrosioni. Quindi per maggior sicurezza, avuto riguardo alle torbide, l'altezza conveniente interna sarà di0"',15- Art. V. - CHIUSINI. Per consumare l'eccessiva altezza dovendosi far cadere l'acqua in idonei ricettacoli, sarà necessario la costruzione di queste piscine o chiusini che avran- no le seguenti dimensioni. All'interno una sezione quadrata di 0,80 di lato con un altezza di tn. 1,00. La platea di muro, ove bisognerà, sarà grossa 0,20- Le mura di sponda saranno grosse 0,33. La loio bocca sarà coperta da lastroni di tra- vertino retraibile dalla calcare del circondario, e so- pra vi sarà una muratura a cappello piramidale. L'orifìzio del condotto sarà munito di ramata, e col suo centro collocato ad una certa altezza so- pra la platea, per dar luogo alle torbide, che avvenir potessero, di depositai-si. Perciò l'altezza del centro sulla platea sarà mag- giore nei chiusini del tratto superiore, cioè di 0'",50 mentre andrà diminuendo fino a 0"S20. I detti chiusini faranno anche 1' ufficio di sfo- gatoi dell'aria. E' d'avvertirsi che nel tratto della Valle Aona è necessario interrompere per la lunghezza di me- tri 100 il sistema dei tubi figulini, e valicare il fosso 49 della Valle con un condotto di piombo; ed essendo nel detto tratto un dislivello di 2 metri, per cui la inclinazione a metro è di 0,02, basterebbe un dia- metro di 0,08 per Io impegno di litri 5: però per sicurezza aumentandolo di un centimetro, soddisferà un diametro di 0,09. La grossezza poi nel punto più basso, essendovi un disli vello di tO"',00, si stabilisce con la formola, 6 = 0,00242. nD -1-0,005, e nel caso essendo n= I, D = 0,09 risulta per la grossezza delle pareti il valore di e = 0,00522. Art. VI. - TRONCHI SIFOIVICJ. Condotta in questo modo l'acqua fino al punto D nella vigna Silvestri, è inevitabile lasciare il si- stema di tubi di terra ed adottare i metalli. Il primo tronco sifonico per la tenuità della pres- sione sarà di piombo: tutti gli altri di ferro. I tubi nelle condotture di tal genere saranno posati sopra un letto cavato nel terreno o nella roccia alla profondità media di metro uno sotto il piano di terra. II letto dovrà presentare una superfìcie piana, evitando per quanto è possibile le troppo sentite sinuosità. Ogni tronco di sifone libero ed indipendente be- verà l'acqua al suo relativo chiusino con il centro della luce di influsso all' altezza di 0,40 sopra la platea. G.A.T.CLVIl. 4. 50 Art. VII. - DETERMINAZIONE DEI DIÀMETRI DEI CONDOTTI NEI TRE TRONCHI SIFONICI DISTINTI NEI TIPI CON LETTERE DE EF FN- 11 valore del diametro vien determinato in ge- nere da quello che soddisfacendo all'esigenze idro- dinamiche colla minima dimensione renda per con- seguenza minima la spesa. Richiamando però a me- moria come le resistenze consumatrici della forza viva dell'acqua corrente crescano con una ragione inversa delle quinte potenze del diametro, ne sorge tosto il criterio pratico di non doversi attenere esat- tamente ai risultati teoretici, mentre non si può far risentire al calcolo 1' azione complessiva di tutte le cause perturbatrici dovute specialmente alla inevi- tabile inesattezza esecutoria in principio, oltre quelle che in seguito turberanno tantosto 1' ordine stabi- lito specialmente per i depositi terrosi, vegetazioni, incrostazioni ec. Credo quindi non male appormi se le dimensioni si stabiliranno maggiori di quelle che assegna il calcolo. Le basi poi delle calcolazioni le instituisco in quanto ai primi due tronchi minori, cioè il tronco D — E di 189"", ed EF. di 709^50 dietro la for- mula di Prony ritenendo i medesimi simboli: I. D''— 0,000088268. QD^— 0,00225830. Q^=: 0. e prevalendomi per brevità della tavola numerica calcolata per i diversi valori delle quantità in essa contenuta dall'ingegnere Mary per l'attuale distribu- zione dell'acqua di Parigi. 51 In quanto poi al terzo tronco maggiore, trattan- dosi di una lunghezza sviluppata di 2820 metri, per maggior sicurezza mi attengo ad un metodo diver- so: fondato sulla determinazione del carico perduto, cioè consumato dalle resistenze di vario genere per un dato valore del diametro: assegnando quello per il quale risulti un sufficiente carico residuale, dal- l'intera altezza. Per siffatto genere di ricerche ho creduto non poterle meglio attingere che nella classi- ca e recente opera alemanna di Julius Weisback (*), che modificando i risultati di Eitelwein corresse i coefficienti empirici applicando il faticoso metodo dei minimi quadrati. Passo ora alle indicate determinazioni nei tre tronchi. 1. Tronco. - Il tronco D — E ha un dislivello di metri 10,75, ed una lunghezza totale di m. 189. Quindi risulta la pendenza a metro I = 0,056878. Ora, secondo le dette tavole, il diametro di 0,07 è sufficiente alla portata di litri 4,8105 a secondo, sotto una carica a metro di 0,032332 , perlochè conveniente nel nostro caso, ove e la portata è mi- nore, com edi 4'-, 68, e la carica a metro è maggiore. E per maggior sicurezza accrescendo un centimetro sarà il diametro 0'= 0,08. La velocità ne risulta di 0,93 a 1". (*) Lehrbuch des ingenieur uiid maschinen-mecbanik voii Julius Weisback Braunschweii;;. 52 2. Tronco. - Il tronco EF ha m. 14 di disli- vello ed una lunghezza di 709'",50; onde J=z 0,0197322. Nelle dette tavole il diametro di 0,09 soddisfa air impegno di un volume di litri 5,0894 con un carico a metro di 0^,01052227; quantità maggiore l'una, minore l'altra delle corrispondenti nel tronco in proposito. E qui ancora per tuziorismo aumentatone un centimetro, si stabilisce il diametro D = 0,10 La velocità dell'acqua sarà in tal caso di 0'",60 a 1". 3. Tronco. - La lunghezza di questo tronco F..N esigge la piij scrupolosa indagine per la determina- zione del diametro: e poiché il valore delle resistenze, dalle quali è determinato il diametro, varia secon- do le esperienze recenti di Couplet e Weisbach da quelle piiì antiche e tra lor differenti di Prony ed Eitelwein , credo non male appormi se calcolando secondo i diversi autori m'atterrò al risultato mas- simo di questi. Gli elementi particolari del tronco sono L = 2820, H = 25, onde 1=0,00886521. La determinazione risulterà dalla risoluzione delle! seguenti ricerche. 1. Ricerca. - Quale è il diametro che soddisfa alla portata secondo Claudel ? 53 Le tavole di Claudel (*) calcolate sulla forinola di Pi'ony con i suoi coefficienti presentano per un va- lore di 1 = 0,00543088, ed un diametro =0,10 una portata di 4'"- 7124. Ed essendo il carico maggiore del reale di 0,003434 se ne arguisce un eccesso di valore su quello assegnato al diametro. 2. Ricerca. - Col diametro di 0,10 quale velo- cità ne risulta secondo i coefficienti di Eitelwein « =: 0,0000222, /3 = 0,000280 introducendo questi valori nella risulta V2 -f- 0,0792857 V = 0,791535 onde V = 0,85092. 3. Bicerca. - Determinata la velocità di 0,850, quale ne sarà la portata ? Q^!!5! V = 0,00668314. 4 Quindi secondo Eitelwein, il condotto di diametro 0,10, è suscettìbile di una portata maggiore di quella che si richiede. 4. Ricerca. - Quale è la velocità, adottando i coefficienti di Prony ? «==0,0000173314 /3 = 0,000348259 ne sorge \2_^_ 0,048584 V= 0,636392, (*) Claudel Formules prera. partie p. 129. 54 onde V = 0-,773975. 4. Ricerca. - In fine la portata con tale velo- cità è di 0,0060786 , minore a quella trovata secondo Eitelwein, superiore con una ragione di 1,297 all'impegno reale. 6. Ricerca. - Poiché oltre le resistenze dovute all'attrito v' hanno altri generi di resistenze, dalle quali risulta una perdita di carico assai minore a quello consumato dalie prime, quale sarà la perdita calcolata secondo le esperienze del Morin ? Questi (*) assegna ad un diametro di 0,10 con una di- spensa di 4'"- 70 a 1" una perdita di 0,005627 a metro andante: onde risulta la perdita totale di metri 16'",05814. Perlochè rimangono utili 8'",942 dei quali il con- sumo dovuto alle resistenze di risvolte ec. essendo una parte aliquota, sorge il criterio favorevole alla dimensione assegnata. 7. Ricerca. - Determinare esattamente le per- dite di carico dovute agli attriti, e le risvolte. Per maggior sicurezza per la ricerca della per- dita di carico dovuta all'azione simultanea degli attriti che si sviluppano nell' intera lunghezza del condotto, non che a quelle che arrecano le risvolte, credo non poter prescindere dalle formole esattis- sime del Weisbach (**) da esso dedotte con una suppellettile di numerose ed alemanne esperienze , (*) Aide memoire de mecanique. n 0. C. § 366—375. 55 sulle quali ha redatto i valori empirici dei coeffi- cienti applicando il laborioso metodo dei minimi quadrati. Mantenendo con lui i simboli, {hp) per il carico perduto per le risvolte, ed (hi) di quello perduto per gli attriti, stabilisco con l'autore (1) ^^=[0,9457. (sin5)V 2,047 (sinS)'] ^ ove l'angolo d è la metà del supplemento dell'an- golo formato dagli assi dei tubi ed (2) h= ri -f- (0,01439-^0,0094711) ^] 1' denominando S» 5" 5'" d^^ 5^ i diversi valori di d corrispondenti agli angoli esibiti nei tipi con le let- tere G H K L M, essendo i valori delle risvolte in G di 150% in H di 160 in K di 170, in L di 165, in M di 160,e chiamate h}p /ì"p h^^^p h^^p Iv'p le perdite corri- spondenti alle 5 risvolte: facendo per brevità 0,9457 (sin5)'-+- 2,047 ■ (sin5)*= Z denominando Zi Z" Z^" Z'^ T" \ valori di (Z) cor- rispondenti a 51 5" d"i $iv gv sarà (3) /i,^-+_ /iii^^ /iin^^_ ^iv^H_ hv^^ /Zi-f- Z"-4- Z"'-<- Z'v-f- zA I- . Facendo poi la somma di queste perdite dovute alle sole risvolte = Hp, il calcolo somministra (4) Hp= 0,19631 18 1" 56 chiamando la perdita totale H/?, varrà (5) tìp=:Ep-^h,= [,,19C31..(0,0U39.?^)aj 4Q ed essendo V= -r-x sorge la (6) Hp= 16 O'J-jl [(0,01439 xL)^ -+- (1,196312 -H 0,0094711 1^") 1^ ^ K(t) "-* essendo L = 2820, il calcolo somministra H;? = 0,0000734474 i h- 0,000628412 J, . Introducendo in questa il valore di D = 0'",10, ri- sulta per la perdita complessiva di carico Hp=13'",6289 valore inferiore di quello assegnato dal Morin do- vuto al solo attrito, non considerate le risvolte. Quindi rimane escluso ogni dubbio sulla conve- nienza del valore di 0,10 assegnato al condotto in questo 3° tronco. 57 Art. Vili. - CONFRONTO CON LE NUOVE TEORIE DI DARCY. Secondo il Darcy (*) le formolo di Prony deb- bono essere modificate, onde conciliarle con le più recenti sue esperienze. Espresse egli la legge della resistenza con la RI = ^lU^, nella quale con una suppellettile di 198 esperienze stabilì il valore del coetficiente, 7 n n/mecn-T 0,00000647 b = 0,000507 -H — — 5 onde U = [/■ ( l ?-) TI Applicandola al caso ove I = - = 0,00886521 Li fatti i calcoli essendo b^= 0,000636 e 1/(5.) =8,863, sarà la U=|/-Ix8,63 = 0,8344 onde la portata Q= —— — =6'",555. 1 fi/io Di qui si arguisce che il diametro stabilito sod- disfa ad un impegno maggiore dal reale calcolando <*) Recerches experimentales relatives au mouveinent de l'eau dans les tiiyaux par M. Darcy. 58 con le formole del Darey. Però in questo luogo non può prescindersi da una interessantissima e nuova osservazione del eh. ingegnere intorno il coefficien- te (è,) cioè che si raddoppia il suo valore tosto che il condotto abbia sentito l'azione dellVcqua e sia ricoperto d'uno strato benché tenuissirno di de- posito. Col che non si verifica più il principio adotta- to fin ora generalniente.che stabiliva essere indifferente la natura e lo stato della superfìcie delle pareti interne dei tubi. In tale nuova ipotesi, istituendo il calcolo determina tore della perdita di carico suH' unità di lunghezza nel nostro tubo risultante dalla i==-W-^iQ^ si trova che per il tubo nuovo 1 = 205,9 0^=0,0045097 per il tubo in uso 1 = 4.11,8 0^=0,0090058. Onde la perdita totale del carico, nella lunghezza di 2820"', risulla per il tubo nuovo di 12'",707, per il tubo in uso di 25'",396. Di qui si scorge, come nei 2». le resistenze as- sorbano l'intera caduta di 25"', mentre secondo il calcolo instituito dalle formole del Weisback era di IS^jGS. Però avvertendo ^jome la caduta, dispo- nibile, è di presso che 30 metri, e come è esagerata la dispensa di O"-^-, 00468, si arguisce che le misure assegnate soddisfano con tutta sicurezza all'impegno reale. Art. IX. - DETERMINAZIONE DELLE GROSSEZZE. Rimane a determinarsi la grossezza conveniente per resistere allo sforzo della pressione idrostatica. 59 /. Tronco D E. di piombo. Secondo le esperienze del eh. Morin (*) la gros- sezza sanzionata dalla pratica è stabilita dalla re- lazione. e = 0,000242. n. D h- ci nella quale 71 == il nuni.° d'atmosfere ei = un coefficiente costante di sicurezza. Introdotti i valori numerici essendo I) = 0, 08 e« = 0,05217 risulta e = 0, 005217 Quindi nel 1 tronco il valore di e preso per la massima pressione è di millimetri 5. 22- //. Tronco EF di Ferro- Adottando la formola di Corot e = 0, 008 -t- 0, 016 D, ove fatto 0 = 0, 10 risulta e =0,0096 ed aumentando —di millimetro,si adotterà per quel tratto e = 0™, 01 (*) Lecons de raecanique pratique. Resistence des ma- teriaiix, prera. part. 20. 60 III. Tronco F N. di [erro. La massima pressione ha luogo nel fosso della valle della Fonte notato nei tipi da lett. I, ove il carico è di 107.'" 40 Adottando i risultati recentemente pubblicati dal Dupuil ('), espressi dalla seguente formolo: 63 = 0, 008 -4- 0, 00016 D H H- 0, 0128. D introdottovi il valore di D = 0- 10, H = 107, 40, si stabilisce la grossezza 1 e„ = 0*". Oli con un errore di -— di millimetro 10 Calcolando poi, secondo le esperienze del eh. Mo- rin, e la sua formola delle grossezze resistenti e=:«X 10330. D^-+-e' 2R 107.40 ,,, ,,^^ fattovi n ==--— -=10''""-397 D = t)% 10, R = 2 170000*, e' = 0.0085- risulta e = 0"", Oli La concordanza de'resultati della formola di Mo- rin e Dupuit esclude ogni timore- Quindi con sicurezza sono da adottarsi i valori con essi stabiliti; tanto più che il Dupuit si esprime in siffatta guisa : (*) Traile theorique et pratique de la conduite de la di- stribution des eaux. C. VIIL §. 85. l 61 i) L'ingenieur chargé de projeter des tuyaux de » conduite pour des pressions extraordinaires , et )) d'un diametre exceptionel, n'a pour ainsi dire plus 1) de guide pour de determiner 1' èpaisseur : et en » attendant que l'experience puisse l'éclairer, nous )> eroyons qui il devrait se servir de la formule sui- » vante (*) » e z= 0,008 -H 0,00016 DH -f- 0,0128. D Ma nel caso in proposito ne può dirsi eccezio- nale la pressione di 107'"50 né enorme un diame- tro di 0.10. Quindi sicurissimo il valore di 0"*, Oli che si è assegnalo. E poi d'avvertirsi che queste grandi pres- sioni hanno luogo in tratti piccolissimi. La pressione media dell' intero tronco, determi- nata col metodo di Simpson, risulta H„=^=64'",604. Li Così la grossezza media del condotto, secondo la forinola di Dupuit risulterà e„,={)'"0\0'ò\ La minima poi sarà di 0,'"006 : assegnata cioè dal minimo di grossezza che si può dare al ferro fuso con sicurezza di pratico successo (**). (*) Dupuit. 0. e. C. Vili. §. 88. {**) Non è il minimo che nelle fonderie del Belgio o d'In- ghilterra si possa dare al ferro; lo è per noi, perchè troppo da recente addati all'arte del fondere: nondimeno i sig. fratelli Mazzocchi già n'esibirono saggi di grande perfezione. 62 In questo tronco di condottura ove hanno luogo pressioni considerabili , benché siano state stabilite le dimensioni convenienti alle esiggenze statiche , non credo che possa prescindersi dalle dinamiche. La grossezze assegnata di 0."'011 soddisfa per- che sia garantita la resistenza del condotto cimentata dalla pressione idrostatica; è duopo che la sua sta- bilità sia assicurata ancora contro gli urti, e contro r azione del così detto colpo di ariete. Forza che può svilupparsi , per improvvise resistenze di chiu- sure, ecc. Art' X. - RISOLUZIONE DI UN NUOVO PROBLEMA IDRODINAMICO La grossezza delle pareti dei tubi di condotta fin' ora è stata determinata in teoria prendendo a calcolo la sola pressione idrostatica corrispondente ad una data sezione di essa. V'ha però un altro genere di forze che può svi- lupparsi nel moto dell' acqua allora che venga re- pentinamente alterato il regime del moto con una nuova resistenza locale introdotta. Determinare in tale condizione la quantità dello sforzo, assegnare le dimensioni convenienti a resi- stere sembrommi di molta pratica utiltà (*). (*) 11 Dupuit al e. Vili. §. 85 risolve il problema, ma con 'ipotesi della distribuzione uniforme dell'urto, del che dubito. Risultano poi i vatori troppo piccoli dalla sua formola 63 Ricerche analoghe furono in questi ultimi tempi istituite per i solidi , ed analizzando il concetto di tenacità, si rinvenne necessario introdurvi il modulo d'elasticità, ossia il peso capace di contrarre o sten- dere una barra prismatica d'una quantità uguale alla sua lunghezza primitiva avente l'unità di superficie per sezione trasversale. Rettificata, l'idea delle resistenze si applicò la ri- cerca agli urti, e s'introdusse dall' Young il nuovo concetto da lui anglicamente appellato Resilience, imitato in ciò poi dal Tredgold- Sviluppò assai bene l'argomento il Poncelet (*), consacrandovi il nuovo termine di resistenza viva di rottura e di elasticità, in analogia alla forza viva dei^corpi in moto, ed appoggiandosi sulle esperienze del Dufour del Savart mostrò la somma utilità che si trae da questa ricerca nei lavori industriali. Questa per il eh. autore è la somma di quantità di lavoro meccanico, che la resistenza elastica d'un prisma solido oppone airazione di un urto o d'uno sforzo variabile e brusco diretto nel senso dell'asse e che tende sia a romperlo sia ad alternarne più 0 meno l'elasticità. Quindi più specialmente resistenza viva d'elasti- cità è il lavoro dinamico che risponde all'intervallo, nel quale 1' elasticità essendo perfetta, gli allunga- menti rimangono sensibilmente proporzionali agli sforzi di trazione; e resistenza viva di rottura quella che è stata sviluppata da questi sforzi al momento che giungono al loro più grande valore: il che ar- reca la rottura. (*) Mecanique industrielle des resistances §. 247. Quindi chiamando Te la resistenza viva che si riporta al limite d'elasticità per una barra prismatica di lunghezza L, e di sezione A il cui allungamento proporzionale è i, sarà Ei2 re = ^A.L. Tentando io d'applicare queste nozioni alla ri- cerca della resistenza dei tubi idraulici, mi propongo il seguente PROBLEMA. Chiudendosi istantemente un condotto in cui cor- ra una certa quantità d'acqua con una data velo- cità, determinare per una data sezione quale debba essere la grossezza delle sue pareti affinchè il lavoro meccanico della massa urtante, contro le corrispon- denti armille elementari (nelle quali si può imagi- nare risoluto il tubo) sia uguale al lavoro meccanico dell'allungamento di questa dentro i limiti che esige il mantenimento dell'elasticità. La risoluzione richiede una ipotesi che sembra ragionevole; che l'azione della massa urtante segua nella sua distribuzione la ragione della massa so- vraincombente, onde sia proporzionale alla distanza dall'origine della condottura alla resistenza locale. Per far risentire al calcolo l'ipotesi che la forza dell'urto sia in ragione inversa della distanza dell'ar- milla dalla resistenza locale, ossia in ragione diretta delle % contate dalla sezione ove è la resistenza , se si chiama con p lo sforzo corrispondente contro l'areola che si assume per unità dipendente dalla sua distanza z dall' origine del condotto in modo che 65 sia p = ^z ove y. è una costante che dipende per oghi tubo dalle sue dimensioni particolari: sarà (1) dp =^ (x z. d z. d y V espressione dello sforzo contro l'aereola dz dy Quindi la li. I TT. D. z. dz Esprimerà l'azione contro la superfìcie cava ci- lindrica, quella poi contro un armilla qualunque sarà (2) [i. r. Dz. dz. e contro la superfìcie cava cilindrica z^ [X. n. D. - Onde lo sforzo contro il disco di fondo ove 2 ^= L,. e fx. —j— L Ed essendo la somma totale delle forze vive MV ~T Ove M. V. denotino la massa e la velocità del- l'acqua nel condotto sarà (3) mL"D-^^^lJ=^ dalla quale, introdottivi il valore della massa, si de- termina la costante ^~ 2^(L+D) G.A.T.CLVII. 5 Il quale valore di ^ sostituito nella (2) 1000.0.2^.2 2g. (2 L-f-D) 2. dz sarà l'espressione dell'urto contro una qualuque ar- milla alla distanza z dall'origine- Quindi quella presso il fondo ove Z=L soffrirà un urto espresso da 1000.D2i;.2L.dL 2^(2L-+-D) La resistenza viva della medesima potendo ve- nire espressa dalla n{fì+^e)e.-^dL analogamente a quella di una sbarra prismatica, la cui lunghezza sia quella del circolo medio rettificato del tubo con una sezione resistente che ha per di- mensioni {e, dL), sorge perciò la relazione //N /n 1 \ Ei2 ^^ 1000.D2ì;.2 ónde finalmente la grossézza (5) e = D[^(l+._^^j_j^,)-l] Se nella (3) si suppone che 1' azione dell' urto suir ultimo disco possa reagire sulle pareti con la distribuzione proporzionale alla distanza, ciò equi- , „ . Mt;2 . . . , vale a supporre che 1 azione-^ si eserciti solamen- 67 te sulla superficie cava cilindrica: e per conseguenza il termine ^t)2 ^ . , . [X. — — L.=0; in tale ipotesi Il valore della grossezza verrà dato dalia Considerando poi la sezione corrispondente ad una distanza L' dall'origine, essendo la intera lun- ghezza del condotto L, sarà facile dimostrare come in questo caso la forinola si trasforma nella Introducendo i valori numerici appartenenti alla condottura in proposito per la sezione corrispondente alla distanza 1/ == 1278, essendo L — 2820, pren- dendo pel valore del modulo d'elasticità E = 12000000000 e per l'allungamento dentro i limiti di essa i = 0'% 0005 Fatti i calcoli si ottiene e = 0, 000556 Del qual valore si deve aumentare quello corri- spondente alla sola pressione, che nel caso è espresso ( p = 107400^ dalla e, =z |i* ove D=0, 10 ^^^ ! R =2170060, onde 68 .■isulterebbe e,= (y% 002475 perlocchè in fine la grossezza sarebbe e-^-e, = 0, 002475 h- 0, 0005561 = 0,'" 00303 Valore di molto ancora inferiore a quello che si adotta praticamente. Per maggior sicurezza di garantirsi dalle imperfe- zioni della fusione è della buona pratica munire i diversi tronchi con artifizi di valvole, che aprendosi istantaneamente impediscano l'azione dell'urto, man- tenendo l'efflusso e conseguentemente la velocità. Queste dunque avranno ad introdursi idoneamente nella condottura. Art. X - TRONCO DI ACQEDOTTO TRA LA VIA De'cOLLI ED IL CASINO RAFFINI DIRIMPETTO A PORTA PASCIBELLA NOTATO tiEI TIPI DALLE LETTERE N. 0. La sua lunghezza è di 1789'", ed ha un carico di metri 4, 50. Onde la pendenza a metro 1 = 0,0025139 Atteso il poco carico, riuscendo dispendioso in questo tratto l'uso dei condotti, si costruirà un ca- nale di opera muraria. La sua altezza verrà determinala dal risolvere la (5") art. IV, la quale, assumendo per ipotesi la 69 larghezza 0, 20, ed introdottovi il peculiare valore di 1, si trasforma nella /i3 _ 0,0016754. h^ — 0,0005605. h — 0,000078409 = 0 la cui trasformata priva del 2° termine è x' — 0,00056143568. x — 0,00007872210709 = 0 chiamando p il coefficiente della x, e q \\ termine costante, siccome vale la relazione 4 p^ r- —^ sarà il valore della radice /i=: 0,044178 Quindi essendo 0"", 044 l'altezza dell'acqua nel- l'acquedotto, potrà adottarsi per l'altezza delle sponde un valore di 0'". 20, e ciò avuto riguardo agli in- terrimenti ed ai depositi che potranno avvenirvi. La velocità risultantene sarà di 0'"y52 a 1" 70 La platea di muro avrà 0, 60 di larghezza, 0. 20 di grossezza; le sponde avranno 0, 20 di grossezza e 0 , 20 di altezza; la copertura sarà di conci di pietra col muramento superiore. La platea e le sponde avranno prima l'intonaco di ai'ricciatura ricoperto poi da un strato grosso 0'".02 di malta idraulica fatta con pozzolana romana e coc- cio pisto, ben maneggiato e pigiato a più riprese. Il vuoto rimanente sarà riempito assestando se- condo l'arte le pietre^ e la terra di riempitura. Art. XI. - ULTIMO TRONCO SIFONICO DI FERRO- Delerminazione del diametro del condotto di ferro del- Vidlimo tronco tra il casino Rappini e la piazza di S. Rocco notato nei tipi dalle lett. 0. Q. La lunghezza sviluppata tra i punti 0 P Q. e di metri 498. Il dislivello di metri 4, 00, onde il carico a me- tro è 1 = 0,00803212. Secondo il Claudel, un tubo di 0% 09 di dia- metro con carico a metro di 0'", 00812351 soddisfa per la portata di 4', 45 a 1". Quindi il diametro secondo, il Claudel, avrebbe ad essere di poco superiore a 0, 09, e perciò sarà eccedente e sicuro quello di 0™, 10. Calcolando poi la velocità, questa risulta, secondo i valori di Prony, 71 V = J/^(0, 0062-4-2871, 44 ^) — 0, 025 Ove introducendo D = 0, 10, I — 0. 00854914 per cui =^' 0,000213728 Quindi V = 0, 762343, ed essendo Q = u. s, risulta Q = 0,"02395. Onde con tal diametro la por- tata è di ben 4 volte maggiore di quella di 0, 00468, a cui debbe soddisfare il condotto in proposito. Passando poi alla determinazione della grossezza di questo tronco si trovò il carico massimo di me- tri 24. Atteso il tenue carico si può assumere la formola e == 0, 007 -4-0, 016 d per la quale risulta e ==0,009. Ah. XII. - DISTRIBUZIONE DELLE GROSSEZZE DEI CONDOTTI- Nei condotti le grossezze non saranno uniformi; queste si aumenteranno proporzionatamente al ca- rico. La legge del loro aumento sarà da O"", 007» sino a 0,012, in modo cbe per ogni dislivello di 18'" di aggiunta nel carico abbiasi un corrispondente ac- crescimento di un millimetro nella resistenza. E poiché le pendenze non sono uniformi, cosi è necessario distribuirle come segue dipendentemente dalle relazioni ipso-ortometriche: 72 l.Tronco EF di condotto di ferro tra la vigna Boffì e Colle Grotte sarà diviso in due tronchi, dei quali il V Lungo 236'", 50 grosso millim. 9 2" ... 474 10 //. Tronco F N tra Colle Grotte ed i Colli. 11 tronco F G da Colle Grotte a Fosso Celletto sarà diviso in 6 sub-tronchi, dei quali il r lungc ► 140 2V , 122 3°. . 122 4°. , 125 5°. . 100 6v . 104 di grossezza millirn. 7 8 9 10 11 12 11 tronco da Celletto alla Valle della Fonte diviso in 3 sub-tronchi. 7° lungo 105 grosso millim. . . 12 8». . . 331 11 9". . . 130 12 Tronco da Valle della Fonte al Rudero Fasciotti diviso in 3 sub-tronchi. 10° lungo 130 grosso niillim. . . 12 11°. . . 196 11 12». . . 180 . . 10 Tronco dal Rudero Fasciotti alla 2" Valle Fasci diviso io 2 sub-tronchi. 13" 14° lunso 81 grosso millim. . • 10 100 Il 73 Tronco dalla 2" Valle Fasci alla 1" Valle Fasci diviso in 3 sub-tronchi. 15° lungo 53 grosso millim. . , 11 16". .. 96. ....... 10 17°. . . 45?" f".' 11 Tronco dalla 1" Valle Fasci alla Via dei Colli diviso in 4 sub-tl'onchi. 18" lungo 45 grosso millim. . . 11 19° ... 236 10 20°. .. 235. ...... . 9 21°. . . 144 8 ///. Tronco di ferro , fra la vigna Rapini e Sezze, 1° lungo 130 grosso millim. . . 8 2°. . . 104 9 3°. . . 264. . „ 8 Determinate le dimensioni è d' uopo assegnare il sistema che si adotterà nella loro unione. Art- XIII. • SISTEMA DEI CONDOTTI. Benché sembri che il sistema a briglie con chia- varde a vite debba esser prescelto trattandosi di grandi pressioni , pure dall' esperienza si dimostra che viene esso riprovato per le continue rotture che con quello avvengono. La ragione del fatto è riposta nella rigidità del sistema che mal si confà con le accidentazioni del terreno: d'onde necessarie avven- gono le rotture- Con il sistema poi dell' inserzione ad imbocco (che Vitruvio chiamerebbe Lingulatus), 74 potendo aver luogo con facilità dei piccoli movi- menti, pei quali più facilmente la condoltura si adatta ai sentimenti del terreno, si esclude ogni pericolo di rotture: ed a questo sistema, dà oggi preferenza l'anglica industria maestra a noi in cotal genere di costruzioni. In quanto poi al timore delle fughe dell'acqua vengono queste escluse con i due sistemi o dello stucco di minio ed olio di lino, ovvero degli anelli di piombo fuso che si cola negli interstizi!, e poi si pigia acciocché ermeticamente chiuda ogni vacuo. S*arroge che nelle risvolte, dispendioso, incom- modo, difficile, e di mal sicuro esito riesce il 1,° facile altresì economico, spedito, e sicurissimo è il 2;' quindi credo non male appormi all'attenermi a questo. 1 tubi saranno posti alla profondità di m.etro 1. sotto la superfìcie del suolo. Art. XIV. - ACCESSORll. §. 1. Chiavi di scarico. Queste si porranno nei punti più bassi delle con- dotture. Nel tronco della valle Aona num. » 1 Nel tronco DE. » 1 Nel tronco E F » 1 Nel tronco F N » 6 Nel tronco 0 Q ....... 1 Totale num. . » 10 75 §. 2. Valvole di sicurezza. Potendo per malizia , inavvertenza , o impre- viste ragioni aver luogo degli urti capaci di com- promettere seriamente la condottura, benché le di- mensioni ad essa assegnate, anche secondo la mia teoria sembrino assicurarla sufficientemente da queste pure sarà prudente garantire con valvole di sicurezza i diversi tronchi. Esse saranno 5, e verranno collocate presso al termine della condottura, e nei punti specialmente di sentimento del terreno, nelle risvolte notate nei tipi con le lettere G 1 K M N. Le loro dimensioni saranno calcolate in modo che al minimo cambiamento di velocità l'aumento della pressione e l'urto le sollevi; lo che viene in- dicato dal seguente Calcolo della dimensione delle valole e del peso di cui saranno caricate. Il carico effettivo sopra une sezione è dato dal carico intiero diminuito dell'altezza rappresentante la resistenza provata fino alla data sezione , e di quella che è 1' espressione della velocità effettiva. Le perdite di carico per ogni metro se»'-ondo il Morin è di 0,0053584. Perciò la perdita al punto G=: 709,50x0,0053584= 3,803 I = 1 280,00 X 0,0053584 = 6,86 1 K = 1786,00x0,0053584= 9,573 M = 2162,00 X 0,0053584 =. 1 1 ,588 N = 2820,00 X 0,0053484 = 1 5,1 05 76 ed essendo la velocità calcolata, secondo il Prony, di 0"*,77, onde l'altezza che la rappresenta è h = - =0'»,03 così le cariche effettive avuto ragione alla depres- sione o inalzamento de' manufatti sarà nei punti G = 94^317, 1 = 97,699, K = 49,097, M=: 65,32, N== 16,565. Quindi il peso a centimetro quadrato sarà nei punti G di 9^431; I di 9,760; K di 4,910, M di 6,553; IN di 1,656 e siccome la conveniente sezione della valvola cor- rispondente al diametro di un centimetro è di cen- timetri 3,14, così i pesi, dei quali verrà caricata ogni valvola, sarà nel punto G 29^573, 1 30,646, li 15,317, M 20,676, N 51, 998. § 3. Sfiatatoi- Per Io sprigionamento dell' aria atmosferica e degli altri gas, specialmente l'acido carbonico che o chimicamente combinati o meccanicamente traspor- tati, continuamente si sviluppano tendendo verso i punti di livello superiore, è necessario munire la condottura di idonei sfiatatoi. Esigendosi in alcuni tronchi dalle particolarità ipsometriche che l'innalzamento dei tubi espiratori 77 ascendesse sino a 197 metri, viene in questi neces- sariamente escluso il sistema ordinario, o a meglio dire antico, di obelischi di opera muraiia che riu- scirebbero colossali ed enormemente dispendiosi: Dovranno perciò adottarsi quei del Betancourt a valvola, sistema ordinario oggi, sanzionato da mille ripetute esperienze, adottato perciò generalmente. Si arguisce però la necessità di sfiatatoi di tal genere principalmente nel tronco F G N, e special- mente nei punti delle risvolte verticali, nelle quali la concavità è rivolta verso il terreno. Sarà poi utile di collocarne degli intermedi alla distanza di 300 metri l'uno dall'altro. Questi saranno al N. di 16, e posti nei rispet- tivi chiusini. Essi saranno costituiti di una cassa di lamiera * di ferro cilindrica coperta da callotta sferica del diametro di 20 centimetri. Questa cassa sarà con viti unita all' appendice cilindrica del condotto che ne costituerà un tronco d'invito. Una sfera leggera e vuota di metallo galleggerà nella cassa allorché è piena d'acqua, e sarà munita di un'appendice d'un'asta, per la quale potrà ascen- dere e discendere verticalmente, guidata da due tra- verse munite di un collare che abbracceranno l'a- sticciuola suddetta. Questa avrà un labbro presso l'estremità inferiore per formar battente sul collare basso. Alla testa sarà munita d'una valvola di ferro con- oidica, che chiuderà l'apertura circolare aperta nel coperchio della cassa ad aria. 78 La valvola deve scrupolosamente esser tornita, e la superfìcie deve esser curva, proscrivendosi as- solutamente la superficie conica, acciocché la sezio- ne di contatto della valvola con la parete del co- perchio riesca minima: dal che si ha il vantaggio della diminuzione delle resistenze al moto, prodotte dall'adesione- L'altezza della cassa d'aria sarà di 0,30- Il dia- metro dell'orificio della luce sarà di 0,02. 11 loro numero sarà di 16. Il tipo, che si annette in fine, ne esibisce la co- struzione» § 4. Sfiatatoi ordina ri. Costituiti di un appendice tubulare che anasto- mizza col condotto principale nei punti singolari di risvolta, e ascende verticalmente. Il loro diametro sarà di 0,015. L'altezza dipenderà dai livelli dei carichi corri- spondenti. Essi saranno murati nella traccia che si prati- cherà nei torrini di sostegno, ai quali verranno ap- plicati- La loro situazione sarà Nel tronco DE » 1 alto met- 5 » 2 )) 5 » 7 d'altezza media 4 » 2 » 12 id. EF id. JNO id. OQ t9 § 5. Apparali di compensazioni. Lo alternarsi delle contrazioni e delle dilatazioni nei condotti cagionato dalle variazioni di tempe- ratura sarà frustrato negli effetti di lesione che ne- cessariamente arreca, adottando di tratto in tratto dei membri, nei quali abbia luogo il libero eserci- zio della dilatazione e contrazione» Questi sono rappresentati nella tavola annessa costituiti di una porzione di condotto tornito che può scorrere dentro un corrispondente imbocco. Accioc- ché poi non abbian luogo le fughe dell'acqua è la cassetta a stoppa costituita di un cilindro, che con le sue labbra munite di chiavarde può piiì o meno forzare la stoppa nella cassa annulare di questa. Le dimensioni sono tali che si possa permettere una corsa di 0'",085. Conveniente quantità con 1' esigenza della lun- ghezza nel tratto maggiore sottoposta alle massime variazioni che non possono superar mai 30 gradi centigradi. Assumendo per il coefficiente di dilatazione del ferroi 0,000012 per grado del cegtigrado, per la lun- ghezza di 2820, sarà dentro i limiti di 30 la mas- sima dilatazione di 2820x30x0,000012, onde l'al- lungamento sarà di l'",255. Quindi la corsa essendo di mellimetri 85, si ri- chieggono 14- organi di compensazione nel solo tratto del maggior tronco sifonico , alla ragione di uno per ogni 200 metri circa. Indispensabile poi si riconosce la loro apposizio- ne nei punti di risvolta. 80 Due altri poi se ne stabiliranno, Tuno nel tron- co EF, l'altro nell'OQ. In guisa tale che il numero totale di essi sarà di 16. Art. XV. - MANUFATTI. Ponticelli acquedotti. Per impedire che nei tratti G I L M avesser luogo angoli troppi acuti di risvolte verticali, vie- tati dalle sane regole dell'arte, è indispensabile te- ner sollevato il condotto sopra il piano di terra. Il che esige la costruzione di ponticelli acque- dotti, o per meglio dire sifoni-dotti. Questi saranno costruiti nei seguenti luoghi. 1. Al fosso del Cellitto- 2. Alla valle Fonte. 3. Alla 2 valle Fasci. 4. Alla 1 valle Fasci. Un altro poi di tali manufatti viene richiesto dalla seguente ragione igienica. Nel tronco NO v'ha un tratto che corrisponde in quella gola del monte, per la quale possono pro- babilmente discendere le acque piovane sature di prin- cipi organici ed azotate, che si sviluppano nel su- periore campo santo. Poiché le norme sane di pubblica igiene oggi proibiscono la costruzione di un eimiterio in un luogo superiore e distante da una città, se le stra- tifìcazioni del suolo convergono a questa , per la giusta ragione che ne può venir turbata dopo un certo tempo la salubrità dell' acqua de' pozzi per 81 l'insiiiuarvisi specialmente del gas solfidrico , fatal- mente azoico, necessariamente avea da provvedersi perchè in quella gola del monte dovesse esser di- viso ed indipendente il corso delle acque di scolo da quelle potabili, sulle quali, come alla sposa di Ce- sare, non deve cadere mai il minimo sospetto in ordine alla salubrità ; la quale ragione determinò quel filantropico Franklin a lasciare un fondo de- stinato perchè ogni 50 anni venisser espurgati e rinnovati i pozzi della sua patria Filadelfia. S'arroge che in questi ultimi anni dal chimico Chevreul è stato purtroppo verificato, che le acque che corrono nei condotti di piombo disciolgono fa- cilmente i sali di questo, perniciosi, fatali, se con- tengano essi dei principii organici ed azotati; il quale nuovo fatto conferma la necessità del proscrivere, ove si possa, l'uso del piombo, come fin dai tempi assai remoti osservava Vitruvio: « Minime fistulis plumbois aqua duci videtur si volumus eam habere solubrem (*) » e del sorvegliar accuratamente la si- curezza delle acque allontanandole nei loro corsi o dimore da tutti quei luoghi prossimi ai corsi di acque di rifiuto , già adoperate per uso della vita e dell'industria. E' perciò che in questo tratto, ove l'acquedotto poteva secondare il movimento del suolo, viene sol- levato su quello, e valica il Thalweg sopra un ma- nufatto arcualo. Le dimensioni di tali manufatti saranno le se- guenti. n Lib. vili. e. 7. G.A.T.CLVIl. 82 /. Ponte del Cellino. Avrà una lunghezza di met. 30 con N. 3 luci, delle quali una con arco a tutto sesto di raggio 2'", e due minori di ì'" di raggio. La massima altezza dal fondo del fosso sarà di metri 4. La grossezza dei muri sarà di 0,60. I muri di fondamento dei piedritti avranno la grossezza di 0,80, e la profondità di met. 1. La grossezza dei muri de' piedritti sarà di me- tri 0,60, l'altezza 0,40, la lunghezza di met. 20. Saranno costruite due ale lateralmente, mante- nendo le medesime dimensioni con le altezze varia- bili dipendenti dalle inclinazioni del terreno. La volta a tutto sesto avrà la grossezza di 0,30, e sarà rinfìancata a livello dell'estradosso di opera muraria- A livello dell'estradosso si porranno i tubi del condotto, e vi si costruirà sopra un muro in modo che la sua altezza dall' intradosso sia di met- 1 e terminato a cappello. I piedritti avranno due rostri per parte alti com- preso il fondamento 2'", di sezione triangolare, la cui altezza sarà di 1 metro. //. Nella valle della Fonte. Avrà luogo un identico manufatto. ///. 2". Valle Fasci. Altro simile manufatto lungo met. 40- 83 IV. i". Valle Fasci. Simil costruzione si farà con la differenza che la sua totale lunghezza sarà dì met. 48, con N. 6 archi minori , ed uno maggiore con le medesime sopradescritte dimensioni- V. Sotto il campo santo- Altro simile a tre archi, come il primo, della lunghezza di met. 40 Differisce dagli altri, perchè invece del tubo di ferro, vi sarà costruito lo speco regolare in prose- cuzione dell' acquedotto , coperto come questo di conci di pietra sui quali si costruirà la muratura regolare: l'interno dello speco sarà, come nel tronco principale, rivestito d' intonaco d'arricciatura e di cocciopesto ben maneggiato con la cucchiaia in più volte ed a più riprese. Art. XVI. - CHIUSINI. § 1. Questi saranno di tre generi. I. Destinati ad officio di pozzi nel tratto supe- riore della condottura fìgulinea per consumare l'ec- cesso di caduta. II. Destinati per garantire le chiavi di scarico nei punti piiJ bassi della condottura di ferro, onde accedervi e manovrarvi. III. Destinati a custodire (a) le valvole di sicu- 84 rezza , {b) le valvole pneumatiche per emettere l'aria, (e) gli apparecchi di compensazione. § 2. Chiusini del I genere. I primi avranno di altezza interna m. 1,30 dal piano della platea, la quale sarà collocata ad 1,20 sotto il piano del terreno ; la platea avrà di luce interna un area quadrata di 0'",80 di lato, ed una altezza di 0,20; di grossezza 0,33. I muri di sponda saranno grossi 0,33. Saranno ricoperti con conci murati, e un cap- pello di opera muraria piramidale La platea e le sponde fino all'altezza di 0,60 saranno intonacate con malta idraulica di coccio piste, fatta con pozzolana di Roma. II condotto di influsso avrà il suo centro a 0,60 sopra il fondo, quello di efflusso 0,40, aftinché possa esservi la capacità per la deposizione delle materie di trasporto, quando ve ne siano. Per sicurezza ed economia saranno le loro boc- che murate, e l'accesso per il loro spurgo si prati- cherà demolendo il muro di cappello. Non si apporranno chiavi di scarico né braccia di chiavica per l'emissione dell'acqua, mentre per la manovra dello spurgo o di qualche restauro ba- sterà chiudere il condotto d'afflusso. L'acqua rimasta potrà essere tolta con ogni fa- cilità- La manovra dello spurgo dei condotti si farà in questo modo. Per mezzo di un gallegiante sfe- rico di sughero, legato ad una funicella, si farà [)as- 85 sare questa, tratta dall'acqua corrente alTaltra estre- mità del condotto. Sarà hcWe allora introdurre una corda piiì grossa munita di apposito ordegno a net- tare le pareli del condotto. I manovranti posti alle due estremità, tirandosela alternativamente, faranno passare l'organo nettatore in tutta la lunghezza del condotto. Nel -tronco superiore dall'origine della sorgente fino al punto D i delti chiusini saranno posti alla distanza di 200 metri, uno dall'altro, e saranno al N. di 44. Nei tronchi seguenti poi, saranno collocati nei punti D E F N 0 gli altri cinque chiusini per ali- mentare i tronchi rispettivi che da quelli sono ali- mentati. Onde il numero dei chiusini di questa pri- ma categoria sarà di 49. § 2. Chiusini del 2 (jenere. Mantenendo le dimensioni dei primi differiranno da questi: 1. Perchè mancanti d'intonaco nell'interno- 2. Perchè muniti di coperchi appositi di pietra con intelaratura di pietra sbattentata, e sbarra di ferro con nodo, cappiola e serratura di sicu- rezza, onde di quando in quando accedervi. 3. Avranno un braccio di cloaca che s'impic- caglierà ad una delle sponde per emettere l'acqua di scarico. Il detto braccio di cloaca sarà costituito di opera muraria. Questi saranno posti nei punti più bassi nel 86 Tronco AD. Alla valle Aona . . N. 1 id. DE. Fra Silvestri e Boffì . » 1 iti. EF. Tra Boffi e Colle Grotte » 1 id. FGN. Tra Colle Grolle e iCoIli » 4 cioè Al fosso del Cellelto . » 1 Valle della Fonte . . w 1 2. Valle Fasci . . 7 » 1 1. Valle Fasci . . . » • 1 Tronco NO. Colli e Rapini ...» 2 id. OQ. Rapini e Sezze . . » 1 Totale dei chiusini . . . N. 10 I medesinni saranno destinali a custodire levalvole di sicurezza- § 3. Chiusini del 3 genere. Questi sono destinati a chiudere gli apparati di compensazione e le valvole pneumatiche, per le quali si emettono gli spiriti incarcerati. Si riconosce la necessità di tali manufatti nel tronco EF, ove se ne porrà uno per l'apparecchio di compensazione. Nel tronco FN si collocheranno N. 1.5, dei quali N. 14 serviranno per i due apparati, l'altro per la sola valvola pneumatica. Le loro dimensioni saranno come degli altri senza intonaco, e muniti di coperchio e telaio con barra di ferro, serratura e chiave, per discendervi spesso e visitare gli apparati che in essi sono rinchiusi. Negli altri tronchi, ove le ragioni ipso metri- che permettano l'uso degli sfiatatoi ordinari, si co- strurranno questi. 87 Art. XVIL - TORRINI PER SOSTEGNO DEGLI SFIATATOI. Nel tronco DE se ne costrurrà N. 1 alto met. 5,00 id. EF ))2 » 5,00 id. NO .....)) 7 altez. med. 4,00 id. OQ » 2 alti met. 12,00 Saranno a foggia di tronchi di piramidi sor- montati da cappello piramidale sopra base qua- drata. Quello di m. 5 d'altezza avrà la base inferiore di lato 0,80, la superiore di lato 0,40. Quello di m. 4 avrà la base di sotto di lato 0,60, quella di sopra, di lato 0,30- Quelli di m. 12 avranno la base inferiore di lato inferiore di lato m- 1,00, la superiore di lato 0,40. 88 SliNEGDOCHE ESTIMATIVA PARTITE Cavi di terra di ogni ge- nere m. e. Riempitura dei cavi . . » Muri de'ponti chiusini etc. » Intonachi m. q. Lavori di pietra per coper- tura de' chiusini, acquedot- ti ec » Armature di legname m. e. ! Piombo kilog. Ferro . kilog. Terra di lun- ghezza . . m. Accessorii di valvole, com- pensazioni ec » quantità 13343,753 10346,030 2450,780 4625,803 664,692 15,728 4745,803 105675,600 9435, 00 prezzo medio 0,3780 0,0260 1,9110 0,3270 0,6330 4,7090 0,1860 0,0962 0,6302 importo Totale se. 4687,48,6 269,09,6 4685,20,3 859,59,0 420,72,9 74,06,8 864,14,2 10163,44,4 5945,93,7 522,32,0 28494,01,5 (*) I prezzi stabiliti risultano dal valore medio che som- ministrano gli elementi propri introdotti nelle analisi. Que- ste, perchè di troppo poco interessa al lettore, si è cre- duto conveniente di lasciare manoscritte con le altre parti che espongono le analisi, il computo metrico, il dettaglio estimativo, le norme esecutive, il capitolato. ^^^SuAM^ y d\^i:ì 4^ M ^.^,.^3 VI' W.iti.4ÌA\J>' jj.' f .^'^- r -'* M >^'to« A 89 Dal paradigma si scorge, che a condurre l'acqua potabile dalia sorgente nella valle di S. Angelo alla città di Sezze debba impiegarsi la somma di scu- di 28494,015- Possa tal cifra dileguarci timori che alcuni traevano sulla possibilità delTimpresa! Altri meglio di me a ciò sarebbe riuscito; né io il pre- tendo: che anzi con Plinio (*): haec ego sic accipi voloy non tamqiiam adsequlum me esse credam, sed tamqiiam adseqiii laboraverim. Possa l' illustre ma- gistratura setina vincere quelle difficoltà che solo dal lato morale potranno opporsi alla realizazione de' suoi voli! Prenda lena dalla sentenza del Veno- sino poeta (**) : Dimidhmi (adi qui caepil ìiabel , forliaque adversis opponile pectora rebus (***). (*) Plin. luti. I. 11 ep. V. n Horat. I. 1 ep. 11. (***) Horat. semi. I. II. 2. 90 // Laocoonte, carme di Jacopo Sacìoleto, volgarizzato da Giuseppe Bellucci cervese. LAOCOON tlicce alto terrae e cumulo, ingentisque ruinae Visceribus iterum reducem longinqua reduxit Laocoonta dies, aulis regalihus olim Qui stetit, atque tuos ornabat, Tite, penates. Divinae simulacrum artis: nec docta vetustas Nobilius spectabat opus; nunc alta revisit Exemptum tenebris redivivae moenia Romae. Quid primum, suinmurnve loquat? miserumne pa- rentem, Et prolem geminam? an sinuatos flexibus angues Terribili aspectu? caudasque, irasque draconum, Vulneraque, et vcros, saxo moriente, dolores? Horret ad haec animus, mutaque ab imagine pulsai Pectora non parvo pietas commixta tremori. Prolixum bini spiris glomerantur in orbenì Ardentes colubri, et sinuosis orbibus errant, Ternaque multiplici constringunt corpora nexu. Vix oculi sufferre valent crudele tuendo Exitium, casusque feros. Micat alter, et ipsum Laocoonta petit, totumque infraque supraque Implicat, et rabido tandem feret ilia morsa. 91 IL LAOCOONTE E. (d ecco da confuse alte macerie Dal sen profondo di rovina immensa Novellamante dopo tanta etade Redir Laocoonte ai rai del giorno; Laocoonte che, o Tito, si slette Delle regie tue sale adornamento. Prodigio d'arte, di cui mai la dotta Antica età non vide opra piiì illustre; E ch'or ritolto da cupe tenèbre La rediviva gloriosa Roma Quasi novello cittadin saluta. Ma che dirò da prima, e che di poi? 11 misero parente, od ambo i figli? 0 gli angui immani in spaventoso aspetto. Che avviticchiati e stretti, e d'ira gonfi Sbatlon le code, e le ferite avventano, Che par che il sasso ne trangosci e moia? Inorridisce l'alma a cotal vista; E quella muta immago in sen ridesta Pietà e ribrezzo sì che il cor ne trema. Con continue spire più si arricciano 92 Convexum refugit corpus torquenlia sese Membra, latusque retro sinuatum a vulnero cernas. Ule dolore acri, et laniatu impulsus acerbo Dat gemitum ingentem, crudosque avellere dentes Connixus, laevam impatiens ad terga chelidri Obiicit: intendunt nervi, collectaque ab onfini Corpore vis frustra summis conatibus instai- Ferre nequit rabiem, et de vulnere murmur anhe- lum est- At serpens lapsu crebro redeunte subintrat Lubricus, intortoque ligat genua infima nodo. Crus tumet, obscpto turgent vitalia pulsa, Liventesque atro distendunt sanguine venas. Nec minus in natos eadem vis effera saevit, Amplexuque angit rabido, miserandaque membra Dilacerai. lamque alterius depasta cruentum Pectus, suprema genitorem voce cienlis, Circumieclu orbis, validoque volumine fulcit. Alter adhuc nullo violatus corpora morsu Dum parai adducla caudam divellere pianta Horret ad aspeclum miseri palris, baerei in ilio; Et iam ingentes fletus, lacrimasque cadentes Anceps in dubio retinet timor. Ergo perenni, Qui tantum slatuistis opus, iam laude nitenles, Arlifices magni! Quamquam et melioribus aclis Quaeritur aeternum nomen, mulloque licebat Clarius ingenium venturae tradere famae; Attamen ad laudem quaecumque oblala facuttas, Egregium hanc rapere, et summa ad fastigia niti. Yos rigidum lapidem vivis animare fìguris Eximii, et vivos spiranti in marmore sensus 93 d'infocati colubri, ondeggiando errano E a mille groppi già tre corpi avvinchiano. A spettacol sì crudo, a così fiero Eccidio, ahi! che resiste il guardo a pena. L'uno s'impenna, e contro si sbalestra A Laocoonte, e dal capo alle piante Serrandol tutto, con rabbioso morso Gli fìer la coscia. Curvasi, rifugge Alla ferita il corpo: ve' scontorcersi Le membra, e indietro ripiegarsi il fianco. All'acuto dolor, allo strazio egli Dà un alto grido, e s'affanna, e affatica I crudi denti a sverre, contrastando Colla mancina allo scaglioso dosso- Tendonsi i nervi, la persona tutte Le forze accampa e con inutil sforzo Fa l'estrema sua possa: oimè che il misero Più al cruccio non resiste, e anela e geme! Ma col spesso strisciar lubrico il serpe Rientra in basso, e solt'esso il ginocchio Lo annoda, e stringe, come fune attorta. S'enfia la gamba, ed assiepati i polsi, Rigurgitan gli spirti, e d'atro sangue Tumide fanno e livide le vene. Né men la crudelissima e rea coppia Rabbiosamente contro i figli adopra, E gli ange, gli ravvolve, e a bran gli schianta: E l'un che il petto ha sanguinente e lacero, E manda al genitor l'uttimo grido, Con doppie e forti spire è in su levato- Non ancor tocco l'altro da alcun morso, Mentre si studia dalla sozza il piede 94 Iriserere aspicimus, motumque, iramque, doloremque, Et pene audimus gemitus. Vos protulit olim Clara Rhodos: vestrae iacuerunt artis honores Tempore ab immenso, quos rursum in luce secunda Romae videt, eelebratque frequens; operisque vetusti Gratia parta recens. Quanto praestantius ergo est Ingenio, aut quovis extendere fata labore, Quam fastus, et opes, et ìnanem extendere luxum! I 95 Coda strigare, all'aspetto del misero Suo padre raccapriccia, ed in lui fiso Lì lì il pianto e le lacrime eadenti Rattien sul ciglio pavido e confuso. Oh! viva dunque, oh! viva, o sempre chiari E d'ogni laude degni incliti mastri. Di sì grand'opra fabbri. E sebben ponno Pili altere gesto più ne fare eterni, E v'era dato di pii!i luce adorno Vostr'ingegno mandare ai dì futuri; Pur, ove a lode occasion qualunque Ne s'offra, è bello le ne dar di piglio, E via anelare a gloriosa meta- Voi ad un freddo sasso aveste il vanto D'infonder l'alma; che spiranti e vive Son quelle forme, e il moto, e l'ira, e il duolo Ne veggio, e quasi i gemili ne ascolto. A voi già un tempo la famosa Rodi Dette la cuna: innumerevoli anni Sì giacquero gli onor della vostr'arte, Ch'ora risurgon a vita novella, Della gran Roma a saziar gli sguardi: Che all'opra antica traggo il popol folto. L'ammira, e h/da, e ne fa plauso e festa. Quanto è più in pregio adunque, e più si estima Chi con lavor d'ingegno o d'arte bella Comprasi un nome che giammai non muore, Che chi poltrendo fra ricchezze e lusso Lascia di nobiltade un vano grido. 96 Saggio di studi craniologici suWantica stirpe romana e sulla etruscay del prof. C. Maggiorani. Di imostrata anche innanzi la scienza l'unità della specie umana; restituita la pienezza degli umani at- tributi ai negri , che una meschina filosofia aveva tentato di degradare sino alle scimmie; conosciutosi che ogni razza umana racchiude in sé stessa il ger- me dei tipi di tutte le altre; scoperte alcune cu- riose analogie antropologiche fra genti di abitazione distintissima ; tuttavia la classificazione scientifica delle varietà delle specie umana, e delle sezioni di- verse di esse, e la storia del modo onde le mede- sime siansi disseminate sulla faccia della terra, sono ancor lungi dall'aver conseguita la perfezione che si desidera. Giova adunque che si profitti di ogni oc- casione per aggiungere qualche notizia sopra tale argomento. Pertanto avendo raccolto un buon nu- mero di crani (1) di genuina provenienza rinvenuti in sepolcri romani e in etruschi, ho procacciato di istituirne il confronto, e di rilevarne le differenze, al fine dì stabilire il tipo antropologico di queste due stirpi. La celebrità storica delle medesime, e specialmente della romana, accresce pure la curio- sità del soggetto. (1) Debbo questi crani alla gentilezza dei signori Keller- man , Beugnot, prof. Gerard , Campanari, Ammendola , cav. Santacroce, march. Campana, Filippo Volpi, commend. P. E. Visconti, e indirizzo loro di nuovo solenni ringraziamenti. 97 Ma prima di esporre i risultamenti delle mie os- servazioni fa d'uopo che io respinga due obbiezioni facilissime a muoversi contro la legittimità loro. Potrebbe cioè riflettersi come Roma, qual capitale del mondo d'allora, fosse necessariamente il ritrovo d' uomini di tutte le nazioni , e come perciò alcu- ni 0 parecchi di quei crani potrebbero appartenere a individui di tutt'altra stirpe che non la romana. Ed anche nelle città etrusche frequenti di popolo, e floride per commercio, non poterono forse soc- combere uomini di altra razza che non la tosca, ed essere racchiusi in quelle tombe che noi o in- stigati da vaghezza di sapore, o sospinti da cu- pidigia di acquistare, andiamo un pò arditamente frugando ? L'altro dubbio può aggirarsi sul numero. Si dirà che trenta o quaranta crani non bastano a fissare il tipo antropologico di un popolo- E per verità fra individuo e individuo della medesime stir- pe intercede una notabile diff'erenza, come nella in- telligenza e nel carattere morale, così pure nella forma del capo e nei lineamenti del volto: e ciò si verifica anche in quelle genti che hanno un'im- pronta nazionale assai distinta, quale è per modo di esempio la giudaica- La capacità dei seni fron- tali è variabile da un uomo all'altro della stessa stirpe: e questa differenza è già bastante a farli dissomigliare- Spurzheim esaminò in Londra dodici cinesi , e li trovò differenti gli uni dagli altri, e somiglianti solo nella positura degli occhi. La stessa diversità occorre nei negri, benché rassomiglino sem- pre per la forma del naso e della bocca. Sarà adun- G.A.T.CLVII 7 98 qiie precipitato il giudizio sul tipo di una stirpe , se riposi sopra un picciol numero di fatti. A queste obbiezioni posso rispondere, che i miei crani , e gli altri che ho potuto esaminare e misurare derivano da sorgenti diverse. Così dei crani etruschi, altri sono di Tarquinia, altri di Clusio o di Cerveteri. E dei romani alcuni si rinvennero nei sepolcri della via Appia; altri delia Latina, altri in sepolcri romani scoperti a Tivoli o ad Ostia. At- tesa adunque questa differenza di luoghi è poco ve- risimile che le indagini siano cadute precisamente sopra crani de' forestieri, piuttosto che degli indige- ni : oltracchò per alcuni avevasi la sicurezza nella iscrizione sepolcrale. E quanto al numero, è ben vero che per co- noscere appieno il tipo di una nazione converrebbe, secondo la espressione di Gali, esaminare reggimenti intieri; e so pure che Morton stabilì i caratteri della americana sul documento di 400 crani; ma è vero altresì che si può iniziare uno studio, e offrirne un saggio con un minor numero di testimonianze, dap- poiché in mezzo alle differenze individuali signoreg- gia spesso l'impronta delle forme nazionali. Del re- sto io ho creduto di potermi anche giovare dei ri- tratti antichi scolpiti nei marmi , ed effigiati nelle medaglie, i quali se non ci riproducono esattamente tutti i particolari anatomici delle ossa del cranio e della faccia, ce ne mostrano pure i lineamenti prin- cipali. Visitando i nostri musei , e percorrendo la grande iconografia romana del celebre E. Q. Visconti, non si potrebbe stabilire scientificamente il carattere della stirpe romana, ma si ha una conferma di ciò che apprende l'esame dei crani. 99 Per istituir tale esame ho misuralo i diametri longitudinale, inlerparietale, frontale e verticale, le linee inter-mastoidea e la inter-zigomatica, gli ar- chi occipito-frontale, e inter-mastoideo e la perife- ria orizzontale- Per la misura dell'angolo faciale mi sono giovato del compasso goniometrico inventato dal dott. Diorio professore di zoologia in questa no- stra università, e che mi è sembrato il più perfetto istromenlo in questo genere di ricerche- Debbo anzi dire, che egli stesso ha avuto la cortesia di incari- carsi di tal misura. Mi sono quindi esercitato a pa- ragonare fra loro i crani delle due razze, schieran- doli gli uni presso gli altri, e procurando di racco- gliere le differenze piij sensibili che un ripetuto esa- me potesse far scorgere. Confrontando adunque i crani romani cogli etru- schi rilevasi come i primi siano spesso di una ca- pacità maggiore, più pesanti, più riquadrati, colla fronte più estesa nei lati- Il diametro frontale che in quattro teschi etruschi è di 3 poi. e 10 lin., nei romani supera sempre la misura dei 4; e l'arco oc- cipito-frontale, che nei romani eccede quasi sem- pre la lunghezza di 14 poi. , nella maggior parte degli etruschi non ne segna che 13 e qualche linea. L'inserzione delle ossa nasali sul frontale nel teschio romano non è angolosa come nell'etrusco, ma a dol- ce curva. Le ossa molari nei romani sono più gran- di, più sporgenti in fuori, più riquadrate e più di- stanti fra loro pel maggiore sviluppo della mascella superiore- Nei miei crani romani la linea inter-zi- gomatica è quasi sempre di 4 poi. e 9 o 10 lin. mentre negli etruschi o non giunse ai 4 o li supera 100 appena di una o due linee. Il forame occipitale tro- vasi nei romani più aiPinnanzi nella linea tracciante il diametro antero-posteriore della base del cranio, negli etruschi trovasi più all'indielro. Considerando inoltre il cranio come formalo di due metà, l'an- teriore e la posteriore, si rileva che nei romani vi è poca differenza di sviluppo fra le medesime , e che negli etruschi la metà posteriore è più svi* luppata dell'anteriore. L'angolo faciale segna rara- mente nei romani un grado inferiore agli 80, e ne posseggo due che giungono ai 90 e 91 : ciò che non avviene in alcuno dei crani etruschi. Alcuno intanto fra questi segna fino a 86, di maniera che sull'angolo faciale non potrebbe fondarsi un caratte- re differenziale preciso e costante. Ma quel che di- stingue maggiormente la testa romana dalla etrusca, ed anche dalla greca, è una certa riquadratura che ricorre e nelle ossa del cranio e in quelle della fac- cia. Ed in fatti i parietali sono piuttosto piani che arcuati; e il diametro verticale, che negli etruschi supera i 5 pollici, nei romani non ne misura che 4 con poche linee. La forma riquadrata è poi carat- teristica nella faccia, attesa la conformazione delle mascelle e specialmente della inferiore, la quale ha la sua parte media grande e non mai acuminata , come spesso avviene negli etruschi. Le orbite, che nei romani sono sempre grandi e quadrate , negli etruschi inclinano spesso alla forma ovale. Simiglianti differenze ha osservato il professor Diorio nei crani etrusco e lomano che si con- servano nel museo di zoologia. L'angolo fjiciale che nell'etrusco è di 74-, nel romano segna 80. 11 dia- 101 metro inter-zlgomaticp è di 5 poi., il frontale di 4 e 8 lin. nel secondo, e nel primo ambedue i diametri appena superano i 4 pollici. Ho toccato anche le condizioni delle ossa e delle mascelle, quantunque i frenologi non sogliano farne alcun conto, come quelle che ninna relazione man- tengono col volume e colla configurazione del cer- vello. Io però nell'esporre queste poche osserva- zioni ho avuto in animo di servire più all'antro- pologia che alla frenologia, e ho voluto seguire il Morton che nella sua descrizione del tipo ame- ricano ha calcolato anche le mascelle e la direzione delle ossa nasali. Ciò posto, io credo che i caratteri craniologici e fisionomici della stirpe romana potrebbero racco- gliersi nella seguente esposizione: « Cranio grande, regolare, quadrilungo, con eguale sviluppo della metà anteriore e della posteriore; fronte spaziosa, angolo faciale aperto; ossa malari grandi, quadre , pro- tuberanti all'infuori. Mascelle pesanti; la inferiore riquadrata. Orbite grandi, quadrangolari appena ob- blique; foi*ame occipitale mediano ». Questa forma riquadrata delle leste romane, vi- sibile negli antichi ritratti, si ritrova anche oggi ne- gli abitanti della città eterna , purché se ne cer- chino gli esemplari non tanto nel ceto medio, e molto meno nei patrizi, in cui per volger di tempi occor- sero più facilmente mischianze con genti straniere, quanto nel basso popolo, e specialmente in alcune regioni, come in quelle di Trastevere, dei Monti, del Popolo e della Regola. I carrettai, i conciatori, i fab- bri, i falegnami ed altri siffatti artefici che abitano i02 queste parti della citlà ci offrono spesso una fede! rimembranza dell'antico tipo romano. E saresti in- chinato a credere, che anche il carattere morale, i sentimenti e le doti dell'intelletto conservino qual- che traccia della prisca indole, ponendo mente, non fosse altro, a quella non comune alterezza onde i popolani romani di genuina prosapia si distinguono da ogni altra origine di abitanti, e alia grande avi- dità degli spettacoli , e in fine a quel criterio e a quel senso pratico delle cose che segnalano anche oggi i nepoti di Romolo come li segnalarono in an- tico. Quanto poi ai caratteri craniologici e fisionomici della stirpe etrusca io credo che si potrebbero adom- brare così: « Cranio tendente alla forma ovale, com- presso alle tempia e rigonfio al centro dei parietali; fronte poco spaziosa, che sfugge leggermente all'in- dietro; la metà posteriore del cranio più sviluppata dell' anteriore ; depressione notabile alla radice del naso; lieve sporgenza in avanti del margine alveo- lare della mascella superiore; ossa malari dirette in fuori ed in basso; orbite quasi ovali ; mento rile- vato ». Tali forme si accordano bene con quelle che il dott Garbiglietti espose in una elegante memoria letta al secondo congresso scientifico italiano , ove descrisse un antichissimo cranio estratto da una tom- ba di Veìi etrusca alla presenza di S. M. la regina vedova di Sardegna. Anche in quel teschio la fronte è bassa, la parte occipitale predomina sulla frontale, le ossa malari scendono leggermente dal margine esterno delle orbite, e non distano fra loro che di tre pollici e nove linee. 103 È degno di osservazione come le forme elrusche, e specialmente quelle che si riferiscono all'alta in- serzione del naso, all'addentrarsi della sua radice e alla prominenza delle ossa nasali , si ritrovino co- spicuamente nella stirpe israelitica; ciò che sarebbe consonante colla dottrina archeologica professata dal eh. P. Tarquìni intorno le orìgini della lingua etru- sca dalla ebraica. Non potrei avventurare un confronto dei crani etruschi e romani coi greci, non possedendo di que- sti egual numero (1). Intanto il meglio conservato fra questi differisce dai crani etruschi e romani per fa forma rotondeggiante , pel dolce incurvarsi del- l'osso frontale sopra gli archi sopracciliari , e per ciò che dalle fosse temporali va slargandosi più sfo- gatamente all'indietro. Le ossa malari in questo cra- nio sono poco sporgenti, e poco protuberante la re- gione occipitale. L'angolo faciale è a bastanza aperto, segnando 85 §. 11 diametro inter-zigomatico è di 4 pollici, superato di sole tre linee dal frontale, e di otto dal verticale. La periferia orizzontale eguaglia 18 poi., e l'arco occipito-frontale 15, e l'arco in ter- mastoideo 14 e lin. 6. Per l'esposto saggio di studi confermasi come in ogni popolo esistano individui, le cui forme si al- lontanano da qualunque estremo per avvicinarsi al tipo medio dell'umana famiglia; ma che nondimeno (1) I crani greci, che posseggo, appartenevano al celebre prof. F. Orioli, e mi sono stati ceduti dalla cortesia del suo figlio sig. dottor Gaspare, cui offro pubblica testimonianza di gradimento. 104 osservasi a dominare nelle diverse regioni una con- figurazione particolare , che partecipa il carattere h' suoi abitanti- E se ne può anche inferire, come la natura anche in questo ordine di fatti mantenga il suo costume della varietà e della ripetizione, accen- nando a lievissimi tratti qua e colà nelle specie quel che disegna e stampa distintamente nelle classi. Così le stirpi greca, romana ed etrusca,che formano varietà di sezioni nella razza caucasica di Blumenbach, o nel tipo meso-bregma di Prichard, quantunque rassomi- glino tanto fra loro nelle forme da comprenderle giustamente nella stessa famiglia, non mancano pure di offrirci alcune languide reminiscenze delle altre razze, e degli altri tipi. Ed in fatti la lieve sporgenza della mascella superiore, che spesso incontrasi nei crani etruschi, accenna ad un carattere del tipo steno- bregma, e il grande sviluppo e protuberanza delle ossa malari nei teschi romani richiamano un segno della razza mongolica, o del tipo plati-brogma- 105 Contusione del polmone', morie dopo 14 giorni: que- stione medico-legale sulla causa della medesima. ' I n una mattina di luglio sull'ora meridiana la vil- lica N. N- dell'età di anni 53, occupata in faccende campestri, fu sopraggiunta dal guardiano T. M, il quale la percosse con ripetuti colpi di bastone alle braccia, e quindi stramazzatola in terra ne calpestò il lato sinistro del dorso col piede calzato di grosso e pesante scarpone munito di chiodi. Due giorni dopo il chirurgo la rinveniva con febbre, affanno e forte dolore alle parte offesa. Praticavansi allora due salassi, amministravasi un purgante, e prescrivevasi una fri- zione con linimento risolvente. Alcuni giorni dopo applicavansi anche delle coppe scarificate alla parte dolente. Il ministro di giustizia vi si recava più tardi, dopo avutasi relazione del grave pericolo che sovra- stava alla vita della donna, la quale cessò di vivere 14 giorni dopo il riferito avvenimento. Segue il visum-repertum. « Procedutosi alla ispezione cadaverica si seno ve- dute delle contusioni alla faccia posteriore del braccio sinistro in corrispondenza della scapola sinistra , e parte posteriore sinistra del contatto. Si sono rinve- nute di più delle scalfitture, quasi lesioni, a metà delle sostanze tegumentali disposte presso che come^ un quadrato, prodotte da istromento incidente e per- forante, e moltiplicate a linee parallele e trasversali che simulano le scarificazioni, che sogliono chiamarsi 106 coppe a taglio eseguite a mano piuttosto che con l'istromento, chiamato scarificatore, e le medesime esistono in num. di due, Tuna cioè in corrispondenza della scapola sinistra, e l'altra del costato sinistro, e contano all'incirca un'epoca di quattro in cinque giorni indietro- Quale cadavere essi testimoni N. N. presso interpellazione di S. C, e dopo di avere giu- rato im mano di N. N. toccando le scritture, hanno unanimamente dichiarato appartenere, siccome è ap- partenuto, a N. N. e che per tale benissimo la ri- conoscono, a che con tale nome e cognome chia- mavasi e da lutti facevasi chiamare mentre era in vita. » Quindi null'altro essendovi da osservare este- riormente in tale cadavere, come sopra legalmente riconosciuto, si ordinò che venisse adagiato sopra due tavole all'uopo preparate, ed esportatolo fuori dell'a- bitato a campagna aperta per quindi stabilire la vera causa, lo strumento e l'epoca decisiva che produsse la morte della medesima. E difatti essendo come sopra depositato all'ombra di una quercia distante da N- N. passi circa cinquanta: la lodata S. G. in- giunge al signor chirurgo N. N., presenti i testi- moni, che previo il vincolo del giuramento che pre- stò a mia dilazione toccate le scritture devenga a scrupolosa anatomica ispezione e ne emetta detta- glianto giudizio, conforme dopo aver giurato ha ri- ferito e giudicato come appositameate devenutosi da me V. S. e testimoni hanno osservato: all'apertura della cavità del petto si sono rinvenuti i muscoli intercostali in qualche punto nerastri per il sangue ivi travasato a formare contusione. Esclusa la prima 107 còsta vera del lato sinistro (contando come di pra- tica dall'alto al basso) le sei rimanenti costale sono state ritrovate completamente fratturate presso che uniformemente, e due dita trasverse in distanza del lato sinistro della colonna vertebrale. Nessuna punta si è veduta traforare la pleura costale riscontrata pur anco illesa. Resta inoltre esclusa per parte della frattura delle dette ossa qualunque minima lesione della pleura polmonale; ma ciò nondimeno la sinistra cavità del petto si è osservata pienissima di acqua sanguigna, priva di grumi ; in modo che ne viene sportato il mediastino, il quale si ripiega verso la cavità destra una notevole compressione- Il polmone sinistro è schiacciato e ridotto alla sola ertezza di un mezzo pollice, mostrando come lacerate la stesse superfìcie ; nessuna bolla aerea si vede sortire al- l'opposto del destro che rimane quasi nella sua in- tegrità. Il cuore contiene pochissimo sangue spu- moso nel solo ventricolo ed orecchietta destra, sce- vro ne è il sinistro e la corrispondente orecchietta; il sangue è invece radunato in pochissima copia sulla aorta ventrale e sulla vena addominale cava. Si ri- conosce quindi siccome causa prossima della morte della detta N. N. la sospesa circolazione sanguigna del cuore e della funzione respiratoria in sequela della forte compressione su cotesti visceri eserci- tata dall'imponente quantità di fluido rinvenuto in tutta la cavità sinistra del petto, esclusane qualunque altra. Cotesta causa effettrice della morte per altro riconosce per causa di se una forte contrazione dei polmoni, specialmente del sinistro, e del cuore, sic- come visceri contenuti nella suddetta cavità torà- 108 elea, per la quale alteratisi in seguito i visceri in discorso, e sopra tutto il sinistro polmone, forse an- che intìammatosi ed assoggettato alla rottura di qual- che vaso sanguigno della sua superficie, senza essersi potuto peraltro riscontrare a causa della sua forte schiacciatura e macerazione, né è derivato l'abbon- dantissimo versamento suo sanguigno che gradata- mente ha riempiuto al massimo la cavità toracica, come sopra; la produzione delle contusioni in argo» mento e degli effetti che ne hanno derivato conta un'epoca di dodici o tredici giorni all'incirca, e così riferisco e giudico secondo la mia arte e scienza e sotto il vincolo del prestato giuramento. » 11 collegio medico-chirurgico di Roma, invitato a risolvere il quesito se la morte della villica N* N. dovesse riguardarsi come una conseguenza assoluta delle riportate offese, o se vi contribuisse la trascu- ranza delle debite cautele, e la insufficienza dei soc- corsi dell'arte; Considerando la enormità della potenza lesiva costituita dal piede di un robusto contadino calzato di pesante scarpone, munito di chiodi e sospinto con ira dell'alto al basso sulla regione scapolare sinistra: enormità che si deduce anche dalla resistenza do- vutasi superare, al fine di rompere nettamente sei coste a due sole dita trasverse dalla colonna verte- brale; Considerando lo schiacciamento toccato alla cassa del petto che trova vasi stretta fra il terreno e la po- tenza premente; Considerando la enormità delle offese costituite dallo stritolamento delle masse muscolari, dalla frat- 109 tura completa di sei coste, e dalla lacerazione del viscere respiratorio; Considerando la impotenza fisiologica della parte offesa occupata dai gangli toracici, e la vicinanza del midollo spinale che dovè risentire la scorsa del cal- pestamento; Considerando che la lacerazione del polmone a- veva sciolto in qualche punto la continuità di tessuto dei canali e delle vescichette aeree, sicché il viscere non \nn atto a contenere l'aria inspirata dovesse la- sciarla fuggire in cavità, e si facesse comprimere dal fluido sieroso-sanguinolento che andava gemendo dal- la parte contusa fino a restringersi alla spessezza di un mezzo pollice; Considerando che i soccorsi dell'arte non man- carono all'offesa donna, e che non trattandosi di mera infiammazione, l'uso più pronto e più energico del metodo antiflogistico non avrebbe prodotto migliori effetti; Considerando infine che niun rimedio poteva es- ser valevole a reintegrare il disorganizzato polmone; Per tutte queste ragioni il collegio fu di parere, che della morte della villica N. N. si dovessero ac- cagionare unicamente le riportate lesioni, e che do- vesse perciò escludersi ogni elemento di accidentalità desunto dalla trascuranza delle debite cautele, e dalla insufficiqpza dei rimedi usati. 110 Ragionamento intorno alle forze motrici. Letto dal P. Giambattista Pianciani della C. di G. aWacca' demia Tiberina. I moto locale , illustri accademici, ascoltanti or- natissimi , il moto locale è il fenomeno universale della materia; e gli effetti esercitati da'corpi, ezian- dio da'corpi animali sopra gli altri corpi, tutti ri- duconsi a movimenti o a tendenza al moto e sup- pongono una cagione, un'energia, che dia movimento all'inerte materia o, come diciamo, una forza mo- trice. Così le leggi date all' umana volontà , o sia quelle che può trasgredire, abusando la sua libertà, 0 quelle cui ubbidisce necessariamente, come gli ani- mali bruti, sono altresì leggi di moto, comechè di moto spirituale e figurato, poiché all'anima coman- dano di muoversi coli' affetto Non movetur anima pedibusy sed affeclibus (S. Agost-): or andando verso alcuni oggetti, ora da altri allontanandosi, o impongo- no di tendere ad uno scopo, ossia di sforzarsi di giun- gere ad esso. I grandi filosofi dell'antichità, benché assai poco conoscessero le leggi del molo, fuor so- lamente Archimede, pure sapientemente affermarono: Ignorato il moto, necessariamente ignorarsi legnatura. 11 moto persuadeva all'alto intelletto dello Stagirita l'esistere necessario di un motore primo, immobile e spirituale. Colai, che immoto lutto muove e volve: ar- gomento tanto nelle scuole ripetuto, e che più vi- gorosamente può adoprarsi oggidì, mentre, grazie a Ili Galileo ed a tanti suoi illustri successori , le leggi del moto sono in si gran parte disvelate. Forza motrice dicesi quanto è cagion prossima de' movimenti locali e valevole a produrli. Dunque trattare delle forze motrici è trattare de'poteri pro- duttori di tutti quanti sono i fenomeni materiali. Intorno a queste filosofiche indagini meno per avventura si travagliano la più parte delle odierne scuole di scienza naturali, tutte occupate in ciò che mostra piiì immediata e sensibile utilità, cioè nella ricerca e nella esposizione de'fatti, nel dedurne delle leggi più 0 men generali, e trarne qualche applica- zione utile al pubblico bene o ai comodi della vita. Perciò appunto mi sembra questo alto ed impor- tante argomento più degno di formare il soggetto dell'odierno ragionamento e dell'illuminata e cortese vostra attenzione. Così sentissi in me forza bastante a trattarlo in modo degno dell'argomento e di così degni ascoltanti! 1. Forza è parola assai usata nelle scienze n?.- turali e specialmente in meccanica. Questa voce {for- tia o (orda della barbara latinità) deriva da forlis, forte, ossia atto o potente a fare o a resistere. Ond'è che forza e potenza (parola anche questa molto co- mune in meccanica) sono uno stesso. Parlandosi del- l'Onnipotente, men frequente è il vocabolo forza^ ma talora lo adoperiamo senza inconveniente (1). Sentiamo in noi la forza di giudicare, di volere, di udire , di vedere ecc. Di tutto ciò ora non di- (1) » Dalla forza di Dio iii fuori , niente ci si teme per noi ». Boccaccio. m clamo, ma soltanto della potenza o forza motrice, la quale obbliga un coipo a muoversi, di quella che si attua a produrre il moto locale o la tendenza al moto, ovvero a modificar quello o a distruggerlo. Qual cosa ella è la forza motrice?Come ne acqui- stiamo rid(3a o la nozione? Esistono esse veramente queste forze motrici, ovvero non ci sono se non fe- nomeni, i quali vengono appresso ad altri fenomeni, come il sole vien dopo la notte, senza che le tenebre notturne sieno cagione del nascer del sole o forza produttrice di quel fenomeno? Queste ricerche, non punto necessarie a quei tìsici, i quali non si curano di alzar gli occhi dalla materia, sono per allro im- portanti per la filosofia naturale- Noi vogliamo muovere il nostro corpo o qual- che membro. Se il vogliamo davvero, cioè con vo- lontà efficace e non con velleità e con semplice de- siderio, il moto avviene; e se per debolezza degli organi non si fa quanto noi vogliamo, sentiamo per altro il nostro sforzo; e quella, che si è detta sen- sazione muscolare, pferchè prodotta da qualche moto de'muscoli, è al lutto distinta dall'atto della volontà, ma la sentiamo da esso atto prodotta- Dunque la nostra volontà ha forza di produrla. Questa (parlo della sensazione, originata senza dubbio da qualche interior movimento, non già del movimento esterno e sensibile che le vien dietro ) , questa non è una rappresentazione oggettiva o un fenomeno osservato per mezzo dei sensi esterni: è un fatto di coscienza, una percezione interna del nostro potere, su cui non possono cadere dubbi scettici, come sopra i feno- meni di esterna esperienza. E, dice Maine de Biran, 113 un originai senlimento, un fatto di esperienza interna immediata , il quale serve di tipo ad ogni idea di forza esteriore, senza aver esso alcun tipo primitivo al di fuori. 11 carattere di un fatto primitivo, o di verità immediata, è che Vessere ed il manifestarsiy l'oggetto e l'idea si identificano, ossia riduconsi ad una cosa medesima, e la ratio essendi e la ratio co- gìioscendi, come parla Bacone, sono lo stesso (1). Non ho duopo di molte esperienze a persuadermi che il mio volere produce qunlche cosa, e (siccome la cosa in questi casi sentita, non sappiam conce- pirla se non moto) che il mio volere è forza motrice, come ho duopo dell'esperienza per restare ragione- volmente persuaso delle proprietà de' corpi esterni, es. gr. della virtù della calamita. E una legge del nostro spirito il crederci cagioni efficienti de'nostri movimenti volontari, come sono leggi imposte alla natura l'attrazione mutua tra il ferro e la calamita, ed il contrarsi de'muscoli ad occasione di certe mo- dificazioni dei nervi. Se io non sentissi in me una forza alta a produrre qualche effetto, non so se mai avrei acquistata l'idea di forza motrice. Egli è vero, non conosco affatto come la mia volontà operi sopra i nervi {henchè ponendo tra l'anima spirituale ed il sistema nerveo unione sostanziale, analoga in certo modo alle chimiche comhinazioni , nulla vi abbia d'inverisimile), nò per avventura assai intendo come i nervi facciano contrarre i muscoli. Ma ciò poco importa. Dovrò negar fede alla mia coscienza, per- (1) V. gli scritti di M. de Biran pubblicati con le opere di V. Coiisin. Bruxelles l. 3. pus.. 499. e sen. 321. G.A.T.CLVIi ^ 8 lU che non intendo il come ? Ritenendo la volizione come cagione, ed il sentimento muscolare come ef- fetto, non è bisogno di cercare il fondamento della relazione intima, congiungitrice di quei due termini (i quali sentiamo insieme) nel nostro sentimento: è un fatto di coscienza, un fatto primitivo (1). « Se » ci fosse noto, dice ancora Do Biran, come il vo- » lere mette in moto il nostro corpo, noi sapi'emmo » tutto ; ma questa scienza divina non cangerebbe » punto il fatto della coscienza , né lo renderebbe « più evidente di quello che è; non saremmo più » sicuri di quanto attualmente lo siamo [certissima » scienlia et clamanle conscìentia) della influenza ef- » ficace de'nostri voleri sopra i nostri movimenti ». 2. Ecco come acquistiamo la nozione di forza motrice. Udiamo il Maupertuis : « Forza nel senso » proprio significa il sentimento , che proviamo , » quando vogliamo muovere un corpo in riposo o » cangiare o distruggere il molo di un corpo. La » percezione, da noi allora provata (o il sentimento » dello sforzo), è sempre congiunta al cangiamento » nella quiete o nel moto del corpo, né possiamo » fare a meno di credere che quella ne sia la cagio- » ne (2): o piuttosto che la volontà sia cagione di » quello sforzo sentito, della sensazione muscolare ». (1) Facilius obtemperabat corpus fermissimae vohmtati animae ut ad nutum membra moverentur, quam ipsa sibi ani- mae .... Imperai animus et moventur manus, et tanta est facilitas, ut vix a servitio discernatur imperium. August. Con- fess. Vili. e. 8. 9. (2) Cosmologie. Dice ivi ancora: « Hanno creduto avanzar » mollo, usando una voce, la quale serve soltanto a nascon- 115 Ecco dunque accertata l'esistenza di qualche forza motrice col migliore degli argomenti , coli' interno sentimento. Noi abbiamo coscienza di produrre quello sforzo da noi sentito. Se l'esperienza interna imme^ diata potesse ingannarci, diceva il Leibnitz, non vi sarebbe per noi alcuna verità di fatto- Lo sforzo vo- luto ed attuale e la sensazione muscolare percepita intimamente con essa forza produttrice, sono i due elementi di un fatto di coscienza, di un fatto d'espe- rienza interna immediata. Voglio fare uno sforzo, e sento di farlo : voglio esercitar la mia forza , e sento di esercitarla. 3. Ma io non sono solo al mondo. Veggo altri es- seri della mia specie: osservo le loro azioni, odo i loro discorsi, e con argomento di analogia fonda- tissimo, concludo : hanno essi non meno di me la forza dì produrre nel proprio corpo i movimenti muscolari, il potere di muover quello mercè un atto di volontà efficace. Estendo questa analogia agli altri animali e, mi pare, non senza assai buona ragione; perocché veggo in essi i movimenti muscolari pro- » dere la nostra ignoranza. Danno ai corpi una certa forza n di comunicare il loro moto agli altri. Non è nella moderna » filosofia parola più ripetuta, né parola meno accuratamente » definita. La sua oscurità la rende tanto conloda, che non se » n'è ristretto l'uso ai corpi a noi noti. Una iutiera scuola di » filosofi attribuisce oggidì ad esseri, che mai non vide, una » forza , la quale non si palesa mediante alcun fenomeno. » Non ci tratterremo qui intorno a ciò che può significare la » forza rappresentativa , la quale si suppone negli clementi » della materia: mi tratterrò nella sola nozione della forza nio- » tricc ...... 116 dotti non da esterna cagione, ma bensì dagli istinti, dai bisogni, dalle passioni, dagli appetiti di essi bruti. L'essere la tension muscolare effetto ed indizio della forza impiegata ha fatto chiamar forza nelle arti del disegno ciò che dicesi ancora maniera risentita^ cioè r espressione de'muscoli , i quali più dell'ordinario risentiti danno mostra di azion vigorosa. Estendendosi ai bruti la sovrapposta dottrina, ne consegue la forza motrice non esser propria esclusiva- mente dell'animo ragionevole e del nostro libero ar- bitrio, ma in generale appartenere alla virlù che vuole, 0 sia guidata dalla ragione o no, o sia razionale,© irrazionale. I bruti producono spontanei movimenti, o seguendo il naturale appetito, e ancora contro questo (lo vediamo tutto giorno negli animali servi all'uomo) in virtù della volontà impressa loro dagli uomini (Se- gneri). Dunque allorché diciamo la volontà produt- trice de'movimenti spontanei, prendiamo quella voce in ampio senso, come spesso si usa (1). Così i bam- bini, non ancor ragionevoli in atto, hanno qualche potere di muovere i loro membretti, ed il fanno per brama di cessare il disagio o il dolore, o in gene- fi) Alti volontarii possono dirsi ancora quelli de'bruti: ciò pare per se manifesto. Aristotile medesimo [Ethic. Ili) lo ri- conosce, malgrado la sua definizione della volontà (/>eamwa III). Secondo S. Tommaso [Sum. 1. 2. qu. 6. et 2.) ad rationem vohmtarii requiritur quod principium actus sit intra se, cum aliqua cognitione finis: e questa reperitur in brutis per sen- sum et aestimationem naturalem : benché tal cognizione sia imperfetta, perchè da essi non cognoscitur ratio finis; perciò conclude: Vohmtariiim secundum rationem imperfectam com- petit etiam brutis. 117 rale per soddisfare o per palesare i loro bisogni o i loro appetiti. Ma i fanciulletti, i quali sono esseri ragionevoli soltanto in potenza, ed i bruti che per natura noi sono, non si ripiegano sopra se stessi, non dicono: io ho il potere di muovere le mie membra ; e per- ciò , benché abbiano tal forza e continuamente ne facciano uso, non hanno l'idea astratta o riflessa di forza motrice. 4. Resta l'altro punto proposto a discutere, qual cosa sia mai questa forza. Finora non abbiamo tro- vato che altro sia se non la volontà efficace , do- nata dal Creatore alla creatura fatta a sua immagine, ed eziandio agli altri animali, i quali per altro, man- canti d'intelletto, ne traggono assai minore profitto. Ma tutti gli altri movimenti, non prodotti dal- l'uomo nò dai bruti, da qual forza procedono? Poiché da una conviene pure che procedano: altrimenti sa- ranno assurdi effetti senza cagione. Le attrazioni , le ripulsioni, gli urti de'corpi inanimati, sono essi veramente produttori di movimenti, ossia sono vere forze motrici ? Veggo de'fenomeni , i quali succe- donsi : conosco certe leggi e certi fatti universali ed uniformi, ma nulla veggo ne'corpi di punto somi- gliante alla sola forza motrice a me finora ben co- gnita , alla volontà: uscendo dal regno animale , e scendendo agli esseri privi di senso e di cognizione, nulla affatto so trovare che mi appaia a questa so- migliare e dover produrre gli effetti di essa. « Al- » lorchè non abbiamo il sentimento del nostro sforzo, » diceva il Maupertuis, e vediamo qualche corpo, cui » possiamo attribuire il fenomeno, poniamo in esso 118 )) la forza. Vedete quanto è oscura l'idea della forza )) de'coi'pi , se pure può dirsi idea. Forza non di- )) ceva se non un sentimento dell'anima, né può in » questo senso appartenere ai corpi .... Forza mo- )) trice 0 potenza, che ha un corpo in moto di muo- » verno altri , non è ( aggiunge esso ) se non una » parola, ritrovata per supplire alle nostre cogni- )) zioni , né significa se non un risultato de'feno- » meni ». Allorché un corpo in movimento ha maggior velocità ed è atto a superare maggiori ostacoli, suol dirsi, che ha forza maggiore; ma i savi non vogliono con tal frase rappresentare un preteso essere inconce- pibile residente ne'corpi, e soltanto adoperano tal mo- do compendioso di annunziare il fatto. Se così preten- diamo averlo veramente spiegato ed averne assegnata la cagione, siamo emuli de'medlci del Molière: Quare ophim facil dormire? Quia est in ipso virlus dormiliva. La naturale tendenza, che ha l'uomo a lasciarsi guidaire dalle analogie, unita alla mancanza di chiara idea d'una forza motrice ne'corpi, ha, se mal non mi appongo, contribuito al nascere ed al propagarsi di parecchi errori, oggidì generalmente abbandonati, parte perchè disapprovati dalla religione, altri perchè esclusi dal progresso delle scienze naturali. Alcuni fecero del mondo un immenso animale, la cui anima doveva avere il potere di muovere le pro- prie membra, come ogni animale muove le sue: » Principio coelum ac terram, camposque liquentes » Spiritus intus alit, totamque infusa per arlus )) Mens agitai molem, et magno se corpore miscet (1). (1) Yirg. Aeneid. VI. 119 Ad altri era la nostra terra un animale lutto da se , non un membricciuolo dell' animale universale. Opinioni sono queste meno ridicole di quelle di certi stoici, i quali insegnavano le virtù fondarne nlali es- sere animcili: si è riso di Seneca perchè confutò se- riamente questa stravaganza. 5. Ma i sovraesposli sono errori di filosofi, né germogliano spontanei nelle menti semplici ed ine- rudite. Queste ancora vogliono una cagione de'mo- vimenti dei corpi. I fanciulli ed i selvaggi , come osserva De Biran, concepiscono tutte le forze motrici sul modello della propria: il fanciullo si sdegna contro il corpo, il quale lo ha offeso, come se questo avesse voluto offenderlo (come il cane morde il sasso, o la bacchetta, con cui fu percosso): ed il selvaggio per- sonifica e divinizza le cagioni de'fenomeni naturali. Dai politeisti antichi e moderni si è dato nome e culto divino al sole, alla luna, al cielo, alle stelle, al fuoco, all'aria, al vento, al mare, ai fiumi, a tutti i grandi agenti dell'universo (1). E il politeismo si dee, se punto veggo, prima- mente ripetere dall'attribuirsi agli astri ed agli altri esseri materiali vera virtù o forza di produrre effetti a noi utili 0 nocivi (2). Qualche virtù capace di (1) Aut ignem, aut spiritum, aut citatum aerem, aut gy- rum stellarum, aut nimiam aquam, aut solem, aut hmam, re- ctores orhis terrarum deos putaoerunl. Sap. XIII. (2) » Nisi raea me fallii opinio, ex hoc praecipue fonte tura polytheiraus.tumidololatria emanarimt, quod gentes res corpo- reas ac saepe etiara inaniniatas conteraplatae sinl , tanquam sensu intellectuque praeditas, naturaeque et aliis enlibus, veris sive fictitiis , ea attribuerint , quae soli Deo conveniimi ». Boyle, De natura sect. IV. 120 giovare o di nuocere, benefica o malefica , atta ad udir le preghiere, s'immaginò in tutte le parti del- l'universo. Altri, senza venerarli come dei, credevano animati gli astri, e fra questi Origene ed i celebri rabbini, Mosò Maimonide e il più recente Menasseh Ben Israel; e certi eretici rammentati da S. Girolamo animavano tutti i corpi (I). Non è mancato tra i filosofi recenti chi abbia insegnato il medesimo- Di- cesi qualche antico filosofo aver dato l'anima all'elet- tro ed al magnete; sicuramente perchè appaiono do- tati di forza motrice. Leggo in qualche moderno scienziato il sospetto, non forse le molecule eser- citanti mutua affinità , es. gr. quelle degli acidi e degli alcali, sentano brama di congiungersi e spon- taneamente congiungansi; e trovo in un altro, così soltanto potersi spiegare le chimiche combinazioni! Chi non sa quanti dotti desser l'incarico di con- durre attorno gli astri alle intelligenze motrici? Ari- stotile, benché non punto amante di miti e di poesia nelle indagini filosofiche, calcola che debbano esserci per produrre i moti degli astri , 55 o almeno 4-7 sfere, e perciò altrettanti motori ossia essenze eterne, immobili e non estese (2). Tanto era difficile anche ai più perspicaci intelletti, nell'infanzia della scienza,e sotto l'impero del paganesimo, innalzarsi al concetto dell'unica suprema intelligenza, il cui volere produce tutti i movimenti celesti ! (1) Non errore haereticonim, qui omnia putant animan- tia. Hieronym. Comm. in e. 8. Matth, (2) Metaph. L. XII. 121 Molti scolastici adottando le intelligenze motrici de'greci filosofi, le identificarano cogli angeli, de'quali ci parla la rivelazione. Invano nel Vi secolo Gio. Filopono (1) riprovava, non senza sale, questa dot- trina, insegnata da Teodoro Mopsuesteno , doman- dando ai seguaci di essa, ove avesser trovato, che gli angeli muovano gli astri, o vuoi strascinandoseli appresso, come fanno gli animali domestici, o caccian- doseli innanzi, come chi rotola un cerchio© una botte, o portandoli sulle spalle, a modo di facchini; quasi le leggi di Dio non bastassero a muoverli, come fanno muovere i corpi, che vediamo discendere ed ascen- dere. Invano nel secolo XIII Alberto Magno chia- mava insania il riguardar gli angeli come necessari al moto de'cieli (2), ed insegnava: Veiiiis dicendum filiti quod non moventur nisi iussu divino et volun- tate; né mostravasi contento dicert i maestri, i quali voluerunt opiniones naturalium ad theologiam reducere, dicendo quod angeli deserviunt Deo in motibus coelo- rum, et quod illi ab eis animae dicuntur: e concludeva ripetendo : Nihil ita secure dicitur , sicut quod sola Dei voluntate moveantur, et natura propria non con- trariante motui (3)- Invano : le intelligenze motrici trionfarono ancora per lungo tempo nelle scuole più gravi, non che nei versi de'poeti, che le invocavano: Voi che intendendo il terzo del movete (4); ed un egre- (1) De mundi creatione L. I. e. 12. (2) In II. Seni. d. 3. (3) L. e. disi. 14. art. 6. L'opinione de'cieli animati è detta da lui error maledictus. (4) È il principio d'una celebre canzone di Dante. 122 gio scrittore, per più titoli rispettabile, non solamente ha scritto: Se v'è cosa evidente per lo spirilo umano non prevenuto, ciò è che i movimenti dell'universo non possono spiegarsi con le leggi meccaniche: vale a dire senza un volere intelligente, ciò che è verissimo; ma ancora ha avuto, a'nostri giorni, il coraggio di bramare e sperare il ritorno, più o men sollecito, degli angeli all'antico ufficio; e gli editori de' suoi scritti postumi hanno avuto quello di pubblicare tal cosa (1). Comumque siasi , la disputa si aggirava tra Tintelligenza prima e qualche intelligenza creata, ma si conveniva , ad una cagione immateriale, ad una intelligenza operante per mezzo della volontà, doversi i movimenti de'corpi celesti- Tanto è na- turale l'inclinazione a riferire que'motì alla sola forza motrice da noi percepita, all'unica operazione pro- duttrice di movimenti a noi nota, alla volontà! In- vero amerei piuttosto ristabilire le intelligenze mo- trici, che non ricorrere ad una cagione fatale e cieca, e supporre nella materia un essere, di cui non abbia- mo alcuna idea chiara (2). Sovente, favellandosi di cose spirituali, prendonsì in prestito i vocaboli dalle cose materiali. Qui pare che facciamo il contrario, applicando le voci forza e sforzo alle cose inanimate ; e questa promiscuità (1) Soireés de Saint-Petersbourg. T.II. 1821. p. 317, 357. (2) Res corporales habent determinatas acliones: sed has acliones non exercent , nisi secimdum quod moventur ; quia proprium corporis est quod non agat per niotum, et ideo oportet quod creatura corporalis a spirituali moveatur. S.Th. Sura. p.I. qu. ex. a. 1. ad 1. 123 di voci ha probabilmenle contribuito ad animare tutti i corpi. L'Engel, il quale ciò osserva, avverte (I) eziandio , che sostituendosi il vocabolo attrazione alle voci metaforiche tolte dalle idee morali , non si è per avventura punto guadagnato; dacché il vo- cabolo attrazione non dichiara meglio ciò che vuol dire, e di più, sembrando indicare qualche cosa cor- porale, può assai più facilmente occasionar falsa in- telligenza (e lo ha fatto), che non le voci prese in prestito dalle nozioni morali , come amore o ini- micizia, le quali applicate ai corpi non sono facil- mente tolte nel senso letterale. Invero non è facile che altri creda amarsi scam- bievolmente la luna, e le acque dell'oceano, ma più facilmente si dà fede ad una, non punto più intel- ligibile, forza attrattiva di quella sopra questa. 6. « Noi incliniamo fortemente, scrive d'Alem- 0 bert (2), a supporre ne'corpi in moto uno sforzo, » un'energia, che non è ne'corpi in quiete. La gran » difficoltà di abbandonare questo concetto nasce )) dall'esser noi sempre inclinati a trasferire ai corpi )) inanimati ciò che osserviamo nel nostro corpo. » Movendoci o percotendo un ostacolo (e principal- )) mente volendo muovere le nostre membra) il moto » e l'urto è accompagnato in noi da un sentimento, » il quale ci dà idea di una forza: trasportando agli » altri corpi questa parola, non possiamo annettere » ad essa se non uno di questi tre sensi; 1. del sen- » timento, che noi proviamo: 2. di un essere me- (1] Mem. de l'A. R. Berlin, 1801. v. p. 160, 161. (2) Encycloped. urt. Force. 124 » tafisico diverso dal sentimento, ma non concepii )) bile, e perciò non definibile: 3. e solo ragionevole, » l'eiFetto »• Per altro colla voce forza pare che si voglia indicare, oltre l'effetto, almeno la cagione di esso in generale, quale ella sia. Il moto, domanda Platone (1), può egli avere un principio , se non dalla forza , la quale muove se stessa? Le forze plastiche, o la natura plastica, se con tali voci s'intendano delle potenze senza cogni- zione, le quali sieno cagioni efficienti de'fenomeni, sono parole officiose, atte a velare la nostra igno- ranza, non già a diminuirla. » Mi è impossibile per- » cepire, dice Reid, una buona ragione di pensare » che la materia possieda un potere attivo: se fosse » provato che ne possiede uno, non v'ha ragione di » negarle gli altri . . . (2). Io non saprei concepire » distintamente un potere attivo di genere diverso » da quello che trovo in me; e questo non posso » attuarlo se non per mezzo della volontà, la quale » suppone il pensiero. Sembrami che, se non avessi » coscienza della mia attività personale , mai non » potrei formare il concetto di un potere attivo , » traendolo da ciò che mi circonda. Veggo una se- » rie di cangiamenti, ma non veggo il potere ossia » la cagione efficiente, che lo produce; bensì, avendo ») già la nozione del potere attivo per la coscienza » della mia propria attività, e sapendo che ciascuna » produzione suppone un potere attivo, onde emana, (1) De Legib. X. (2]Lett: alordKames, pubblicata in francese nelle Oj&wvrw de V. Cousin. T. II. p. 550. Bruxelles. 125 » posso concepirne uno della specie di quello da » me conosciuto, uno cioè che supponga il pensiero, » e sì attui per mezzo della volontà. Ma, se questo » potere esiste in un essere inanimato e non pen- » sante, io ignoro ciò che esso sia, né posso discor- » reme ». Poco prima avea scritto: « Noi siamo » spinti dalla natura a crederci cagioni efficienti delle » nostre azioni volontarie, e per analogia giudichia- » mo lo stesso degli altri esseri intelligenti. Ma nelle » opere di natura non conosco un sol caso, in cui » io possa dire con un grado sufficiente di certezza: )) la tal cosa è cagione efficiente del tal fenomeno. » Sembra veramente che l'impenetrabilità possa dirsi causa efficiente del resistere e mutuamente respin- gersi, che osserviamo nella collisione de'corpi: ma l'impenetrabilità, almeno relativa, appartiene all'es- senza della sostanza , chiamata materia ; talché , senz' alcuna impenetrabilità , il corpo non sarebbe corpo né materia. Ora le creature hanno per natura ciò che Iddio vuole che abbiano: onde la impene- trabilità ha per unica cagione la volontà del Crea- tore. 7. I fatti generali, ai quali s'innalza il fisico dai fenomeni particolari, sogliono chiamarsi leggi. Talora intendiamo con tal voce la regola, secondo la quale opera la cagione efficiente: es. gr. diciamo: la legge della gravitazione universale è, che i corpi gravitano ognuno verso l'altro in ragione diretta della massa del corpo che pare tirare a se l'altro, ed in ragione inversa del quadrato delle distanze. Ma il nome legge prendesi ancora nel suo proprio e più vero senso, e di- ciamo con proprietà e verità: la gravitazione è una 126 legge (meno propriamente e men veramente dicesl forza), legge alla materia imposta dall'uno che po- teva imporla, dal suo Creatore, Conservatore e Le- gislatore, il quale è da per tutto, e tutto può e pie- namente conosce e masse e distanze, e quanto s'ap- partiene alle sue creature, le quali sono in lui e per lui. Così intendendo la legge , dicesi con verità, le leggi esser cagione de'fenomeni, e questi necessarie conseguenze di quelli- Così intendeva queste leggi il Boscovich, ed inclinava fortemente a credere tutti i fenomeni naturali del moto (lipendenli unicamente dalla libera volontà del supremo Autore della natura; almeno allorché scriveva la dissertazione intorno al flusso del mare (1) e l'altra delle comete. E invero (1) Dissert. de Maris Aestu: auct. P. Rog. los. Boscovich S. I. Romae 1747 p. 48. Mi piace recare qui il luogo « Ma- teriam natura sua putamus prorsus inertem, niniirum prorsum indifferentem ad motum et quietem, ita ut determinatio per- severandi in eodem statu, et electio motus uniformis ac re- ctilinei prae aliis et reliquarum virium omnium impressio pen- deant unice a libera quadam voluntate supremi naturae Opificis; qui, ut materiam potuil prò Uberrimo arbitrio suo creare, ut ipsi libuil vel non creare, ita etiam potuerit eamdeni creare cum bis conditionibus et proprictatibus, quas habet, vel cum oppositis prorsus, utcumquc pbysice cxplicandae sint proprie- tates ipsae, quae ab unico etiam ipsius nutu et quadam pure extrinseca lege pendere possent: a quo proprietatum a D. 0. M. prò libito suo inditarum numero neimpenetrabilitatem quidem, atque extensionem excludimus , quas per vires quasdam in niinimis distantiis repulsivas exposuimus duobus abbine annis in dissert: De Viribiis vivis. Atque boc demum pacto materia erit substantia quaedam prorsus iners et de se ncque quid, ncque quale, ncque quantum, sed supremi naturae Conditoris nutibus prorsus obsequens, et aeque ad omnia indilTerens: na- 127 da quale altra cagione dipender possono i fenomeni apparentemente prodotti da corpi operanti in distan- za, come quelli della gravitazione? Invocheremo una tara erit aggregatum earum omnium legum, quos prò arbitrio suo idem , dura orbem conderet, sanxit: naturae investigatio in easdem leges, ex phenomenis eruendas, ex quibus cognitis illud utilitatis profluii , ut iiuius velati reipublicae cuiusdam leges, quibus nos etiam subiecti sumus, habeamus perspectas, ac noxia fugare , et salubria nobis sectari possimus ; sed in primis sapientiam illam infinitam, divinumque conditoris con- silium suspiciaraus assidue ac veneremur. Nec hoc erit phy- sicam paucis absolvere , prò singulorum effectaum causis re- ponendo: Quia Deus voluit; ut nec prò causis ipsis in aliorum sententia reponi debet : Quia rerum natura exigit. Ipsa illa conditoris voluntas inquirenda est, et illae ipsae, quamquam liberae, leges , quibus haec ordinalissima universi compages tara aple inter se cohaeret et , donec ipsi libuerit, cohaere- bit ». Nella dissert. De Cometis ( Romae 1746 p. 9.) leggo: « Si et inertiae vis ut impenetrabilitas et gravilas et aliae hu- iusmodi sunt leges prorsus liberae supremi naturae Opificis , in quara sententiam maxirae inclinamus eie. ». È vero che il Boscovich nella citata dissert. De viribus vivis (p. 12, 32, 33,34. Romae 1743), e nell'altre posteriori De lumine (P. II. p. 22. 1748) , e De continuitatis lege et eius consectariis { p. 79. 1754), come pure ne' supplementi al poema Philosoph. Recen- tioris .... di B. Slay (Romae 17S5. T. I. p. 367. 370.) e anche più nella Philosophiae naturalis theoria (p. 5. Viennae Auslriae 1758), lascia indecisa l'origine immediata delle leggi e de'moti naturali: ma in questi luoghi, tutto inlento alle leggi fisiche 0 a stabilire il suo sistema, volle prescindere da una indagine, che poteva parere piullosio metafisica. Forse il trat- teneva dal decidere il timore dell' idealismo. In vero chia- mando egli corpi le somme di punti semplici, se questi non hanno alcuna virtù o attività, nulla sono, ed i corpi non esi- stono 0 almeno non appare che esistano: difiìcollà , che più non ha luogo, chi ponga per priucipii de'corpi molecule estese, aventi per proprietà essenziale il respingere gli altri corpi ten- denti ad occupare il luogo da esse riempiuto. 128 vera forza attrattiva esercitata da'corpi sopra altri, comechè lontanissimi , o una tendenza mutua es- senziale air inerte materia ? Folli sogni d' infermo ! Un corpo inerte non può muovere se slesso: potrà muovere altri corpi lontani e ancora assai distanti? Aveva torto il Maupertuis , allorché chiamava ciò un assurdo? La luna tira a se le acque del mare , senza secchio e senza burbera! il sole tira i pianeti e ne è tirato senza funi e senza Iroclee! Ha forse in mano le redini dell' antico e poetico Apollo ? Veramente chi così pensa non ha diritto di burlarsi delle qualità occulte de' fisici peripatetici , e meno delle loro intelligenze motrici, colle quali rendevasi arbitraria sì ma facii ragione de'fatti. Ripugnare ad ammettere l'azione de'corpi ov'essi non sono, ossia l'azione in distanza de'corpi, mi sembra una legge dello spirito umano , come il credere all' esistenza de' corpi , o alla stabilità delle leggi della natura. Ometto le ragioni opposte a quella strana dottrina, per non ripetere ciò che altrove ho scritto ( Nuovi Saggi Filosofa pag. 148-162). Direte per avventura: la forza attiva risiede non già ne'corpi, i quali diciamo attraenti, ma bensì in quelli che gravitano verso questi: la forza che spin- ge la luna verso la terra , sta nella luna, non già nella terra, e in questa, e non nella luna, risiede la forza che dicesi trarre la terra e le sue parti verso la luna. Ma il corpo inerte gravitante dovrà pure aver sentito gl'influssi de'pretesi attraenti, per deci- dersi a questa o a quella direzione, per ubbidire di preferenza a quello fra essi, che ne ha maggior di- ritto, per non errare lispelto alle masse ed alle di- 129 stanze di quelli. Vedete come fuggendo Cariddi, ur- tiamo negli scogli di Scilla. A fuggire Scilla e Cariddi, ad evitare le qualità occulte, le forze inconcepibili, e le voci cui non ri- sponde alcun concetto abbastanza chiaro e deter- minato , ricorreremo all'urto de'corpi , all'impulso di corpicciuoli invisibili attribuendo tutti i fenomeni, come diconsi, di attrazione e di ripulsione? Negl'in- gegnosi sistemi del Boscovich e del sig. prof. Mos- sotti si riducono invece alle leggi dell'attrazione e della ripulsione i movimenti che diciamo dovuti al- l'urto, né questa supposizione vale, mi pare, meno di quella, meglio si aggiusta alla spiegazione de'fe- nomeni, e va soggetta a minori difficoltà. Spiegando l'attrazione coU'impulso, i suoi effetti non sono più moti primitivi , i quali invero non si spiegano se non per una volontà efficace , ma moti secondari , derivanti da altri movimenti. Così bassi il vantaggio di ridurre al solo impulso de'corpi a contatto le varie leggi del moto. Lasciamo stare che il vantaggio di simile unitlcazione si ha del pari, riducendole tutte ad una legge attrattiva e ripulsiva coi citati Bosco- vich e Mossotti. Rammentisi , che la dottrina del- l'impulso, utile da principio per liberare la scienza naturale da qualità inintelligibili e da voci senza sog- getto, assai presto mostrossi infeconda , meno atta alla spiegazione de'fenomeni (1), e bisognosa di ri- li) Donec in iiaturae phoenomena inquisitum est per iin- pulsum imiiicdiatum in contactu, nulli sane progressus sani ha- biti, quod infelix vorticum exitus, in causa gravitatis et pla- netarum niotu explicanda, abunde comprobat. (Boscovich, De lumine V. II. p. 23.) G.A.T.CLVII. 9 130 correre a mere ipotesi ed a creare degli esseri, i quali, benché non ripugnino, esistono per avventura soltanto nell'immaginazione di chi li concepì; e che alcuni fra i partigiani dell' impulso (né già i menò filosofi) non consideravano l'impulso e gli esseri, tal- volta ipotetici, i quali supponevansi urtare gli altri corpi, se non come cagioni occasionali, e trovavano la sola cagione efficiente del moto nella volontà e nella potenza del Creatore. E poi, scrive il Mauper- tuis (1), i filosofi non crederanno la forza impulsiva più concepibile deiraltrattiva. Che la è mai, domanda esso, cotesta forza impulsiva? Come essa risiede nei corpi? Chi avria indovinato, che vi risedesse, prima di aver veduto urtare dei corpi? Invero non è facile intendere, come una palla, perchè fu urtata da un'altra, muovasi ora per l'azione di questa, da cui è lontana nello spazio , come nel tempo è lontana dalla sua azione. Ammettendo ne'corpi una propria ed intrin- seca forza di operare nell'urto (come or ora dichia- reremo), non mi par necessario Iribuire all'urto la continuazione del moto , che si fa in altro tempo ed in altro luogo. 8. Si ricorre, lo so, all'inerzia. Ma l'inerzia piut- tosto esclude la forza, presentando i corpi come pas- sivi e negando loro la potenza di dar movimento a se stessi. E veramente pare che un essere inetto a muo- vere se medesimo ed atto a muovere gli altri anche allora che già sono distanti, non sia più verisimile di un paralitico, potente a dar moto ai corpi circo- stanti, senza poter fare alcun uso delle sue braccia, e delle altre sue membra. (1) Disc: sur les figures des astres. 131 Ma non hanno i corpi la forza d'inerzia? Questa frase, benché assai famigliare ai fisici degli ultimi secoli, è assai impropria, come l'Eulero ed altri hanno avvertito. Inerzia suona mancanza di azione e di spon- taneità 0 passività: ora per non operare non è duopo di forza alcuna. La materia è inerte, cioè non le è essenziale né il moto, né la quiete: é tale, appunto perché non ha forza di darsi il moto o di mutarne la direzione , o di accelerarlo o di non riceverlo. Forza d'inerzia, insegna d'Alembert , è la proprietà comune a tutti i corpi di restare nel loro stato o di quiete o di moto, salvo se una cagione estrinseca non li fa cangiare stato- Ed aggiunge: dico proprietà, non potenza, poiché questa voce sembra indicare un es- sere metafisico e vago, residente ne'corpi, del quale non abbiamo idea chiara. Se non é conveniente dirla potenza , né pure lo sarà appellarla forza , poiché queste due voci, almeno applicate alla materia, suo- nano il medesimo. L'azione, la quale sembrano eser- citare i corpi allorché vuoisi mutarne lo stato, non è inerzia. Le leggi poi della comunicazione del moto nell'urto de' corpi , elastici o non elastici , sono al tutto indipendenti dall'inerzia: anzi, se non erro, ci apparirebbe vieppiù l'inerzia de'corpi , se nell'urto di essi il moto si distruggesse tostoché cessano di premersi e di urtarsi, e non avesse luogo ciò che di- cesi pomunicazione di moto. Il principio di tal comunicazione può bensì ri- petersi dall'impenetrabilità, ma non con una incon- cepibile trasfusione del moto da uno in altro corpo- Passa ^er avventura qualche parte della sostanza del corpo urtante in quello , il quale riceve il moto ? J32 Assurdo non minoro ò il pensare, travasarsi il moto d' uno in altro corpo a modo di un liquore , che passa d' uno in altro recipiente. Nò dobbiamo pre- termettere, che mentre in certi casi, cioè nella com- posizione de'movimenti, i corpi urtanti sembrano dar meno di quello che perdono: per contrario nei casi opposti, cioè nella scomposizione de'movimenti, sem- brano dare piii che non hanno; nodo assai forte a sgroppare chi voglia il moto veramente trasfuso da un corpo all'altro. 9. Il continuarsi del moto preconcetto suole at- tribuirsi all'inerzia (1). La materia, si dice, da per (1) » È d'uopo confessare che le prove, le quali ordina- » riamente si danno della forza d'inerzia, in quanto è prin- cipio della conservazione del moto, non hanno il grado d'e- videnza necessario a convincere lo spirito. Sono quasi tutte fondate o sopra una forza immaginata nella materia, in cui virtù essa resiste ad ogni cangiamento di stato o sopra l'in- differenza della materia al moto come al riposo, li primo di questi due principii, oltreché suppone nella materia un essere di cui non abbiamo idea chiara, non basta a provare la legge, di cui parliamo ; dacché, allorquando muovesi un corpo, eziandio uniformemente, il moto che ha in un dato istante é distinto e come isolato dal moto che ebbe o avrà negl'istanti precedenti o susseguenti: dunque il corpo è in qualche modo in un nuovo stato in ciascuno istante , e a così dire,' continuamente comincia a muoversi, e potria cre- dersi che tendesse continuamente al riposo, se la causa, la quale nel trasse, non continuasse a trarnelo sempre. Rispetto all'indifferenza della materia al moto ed alla quiete, questo principio non presenta distinto allo spirito, per quanto a me pare , se non ciò: alla materia non é essenziale muoversi sempre, né sempre essere in riposo; non già che il riposo le sia più essenziale del moto, ma perchè può sembrare che null'aìtro bisogni al corpo a stare in riposo se non essere 133 se non può darsi il riposo: ma intanto quel conti- nuare e un effetto positivo, e dee avere la sua ca- gion produttrice. Udiamo l'illustre Francesco M. Za- netti, ove tratta della conservazione del moto e della quiete de'corpi(l): « Io credo che il conservare le » cose sia un agire non men che il produrle; ma » credo ancora , che il conservarle altro non sia , » che l'azion di Dio, il quale, siccome nel produr le » forme de' corpi vuol servirsi delle potenze create )) ed agire con loro, così nel conservarle vuole agire )) da se solo. E quindi è, che a quella tale inerzia, » che noi vogliamo pur concepire come una qualità » de'corpi, non resta da far nulla, e si riman senza » azione »• In vero nel fare una statua, lo scultore opera col concorso di Dio: ma in conservar quella forma data all'artista alla pietra, opera solo Iddio. Accordando al corpo una forza vera di porre in mo- vimento un'altro corpo, mentre lo urta, resta a cer- care, perchè l'urtato, allontanato dall'urtante, né pili respinto da esso , seguiti a muoversi indefìnitiva- mente. Qual forza creata produce tal effetto reale e positivo ? 11 moto del primo istante non si trae dietro per necessità di natura quello del tempo se- guente. Il moto di un corpo in un dato istante nulla ha che fare col suo moto, nel momento precedente o nel seguente. L'urto, che fu e non è, ora è niente, » un corpo , e pel moto sia duopo di qualche cosa di più , » e che dovrebbe essere, a così dire , continuamente in lui » riprodotta ». D'Alembert, Ènctjclop. a force d'inertie. (1) Della forza de' corpi che chiamano viva. L,I. V: Opere di F. M. Cavazzoni Zanotti. Bologna 1779. T. I. p. 40. 134 né il niente è forza motrice. Il moto di esso non è già una forza o un principio attivo; ed il suo con- tinuare non è se non la continuazione di uno stato passivo. 11 moto di un corpo è il trasporto di esso da uno ad altro luogo: così lo definisce Neuton, non allontanandosi in ciò dagli antichi filosofi; e trasporto dice. uno stato passivo, una modificazione passiva. Dunque, conclude il Gerdil, dire che il corpo, il quale era passivo in riposo, diviene attivo pel moto, è dire che diviene attivo per una modalità passiva: ciò di' è contraditlorio (1). 11 moto è un effetto, dunque ha la sua cagione: mancando questa, non sarà il moto, bensì il non-moto o la quiete: questa non è effetto o fenomeno posi- tivo, né ha duopo di positiva cagione: è cosa soltanto negativa, nò ha qualità nò quantità, come il moto. Onde sembra potersi dire, non che il corpo tenda veramente al non-moto, ma che questo gli è natu- rale, in questo senso, che mai non muovesi, o piut- tosto mai non è mosso , se non per una forza ad esso sopraggiunta e straniera- A noi sembra men necessaria una forza per la continuazione del moto, a motivo dell'abitudine di osservare questo effetto, senza vederne la cagione: così il volgo non cerca la cagione del cader di una pietra o di altro corpo non sostenuto, ed è disposto a ridere di chi si stilli il cervello per ritrovarla. (1) Immaterialitè de l'ame cantre M. Locke: nell'opere del Card. Gerdil T. IH p. 249 e seg. Roma 1806. Eziandio fra gli scolastici pare fosse accettato il principio: Corpus non movete sedmovetxw. V. S. Ih. I. q. 75. a. 2. 135 10. Non panni inopportuno recar qui tradotti in nostra lingua, alcuni periodi deirillustre pocanzi citato filosofo. « È manifesto errore immaginare » che un corpo tosto che egli è in moto, conser- » visi da per se in questo stato, e perciò al con- » tinuar del moto basti la forza , la quale glie lo » impresse con un azion passeggiera , né sia duo- )) pò d'una cagione, che gliel conservi con una a- » zion permanente. E un pregiudizio simile a quello, » il quale ne porta ad immaginare un corpo una » volta creato piiì non aver duopo d'un'azione im- » mediata di Dio per conservarlo, ma esso conser- » varsi, per così dire, per la propria stabilità. Tal » pregiudizio viene soltanto da ciò , che ingannati » dal senso siamo inclinati ad immaginare le opere )) di Dio dopo la creazione, come le opere dell'uo- )) mo dopo la formazione. Non si pensa, es. gr., che )) un oriolaio non dà l'esistere alle parti dell'oriuolo, )) ma soltanto dispone in certo modo ciò che già » esisteva senza lui, e senza lui continuava ad esi- )) stere; mentre Iddio dà l'esistere alle cose, le quali )) vuole che esistano: onde il loro esistere dipende » al tutto dal divin volere, causa immediata della » esistenza delle creature. Queste non perseverano » se non perchè Iddio vuole che continuino ad esi- » stere. L'esistenza ed il suo durare non sono due )) distinti effetti, ma uno con una sola cagione, il 1) decreto divino, il quale vuole questa esistenza e )) ne determina il tempo. La conservazione dipende )> dall'azione immediata di Dio, cui si dee il prin- » cipio dell' esistenza. Se un corpo è in quiete , è 136 H evidente che non e in esso se non una conlinua- » zione di esistenza nello stesso luogo- L' idea di » moto non aggiunge all'idea del corpo se non una » continuazione d'esistenza in diversi luoghi succes- » sivaniente. Moto e quiete, essendo essenzialmente » una continuazione d'esistenza, nò differendo se non » per una estrinseca relazione cogli altri corpi, evi- » dentemente l'uno e l'altro sono, come la con- » servazione immediata, effetto dell'azione di Dio. » Ciò posto, non dee sorprendere se ogni altra » cagione assegnata da certi fdosofi al continuare i>^ del moto riesca affatto insufficiente. Dire che qual- » che fluido in moto percuote i corpi, e dir nulla, » poiché rimane a spiegare la cagione della conti- » nuazione del moto del supposto fluido. Dire che una » qualità chiamata sforzo o impeto, passando dal cor- » pò urtante nell'urtato cagiona la continuazione del » moto, è spiegare una cosa oscura con una inconce- » pibile: omettendo le prove distruggitrici di simili » qualità , se una palla ne incontri un' altra , e si » fermi dopo averle comunicato il moto , questo )> sforzo, il quale supponsi passare da quella a que- » sta , non può essere se non lo sforzo , con cui » questa riceve il moto, cioè lo sforzo, con cui la » prima ad essa lo comunica , cioè non altro che » r impulso. Dunque dire : lo sforzo passa dalla » prima palla nella seconda: è dire: l'impulso passa » da quella a questa: ciò ch'è assurdo e ridicolo, » perchè l'impulso è senza più l'urto dc'diie corpi. » Dire che il corpo resta in moto, perchè, in- » differente al moto e alla quiete, resta nello stato » in cui fu posto, finché una cagione glicl cangi, ò 137 » dire: il corpo niuna forza ha in se, nò tendenza » alla quiete più che al moto, perciò del pari ob- )) bedisce alle forze o gli dien moto o quiete, ma » non è spiegare qual'è la forza che il tiene in moto. )) Se dite: il corpo in moto non ha bisogno di forza )) che gliel conservi: vi dimando, qual cosa è egli » il moto? E il trasporto passivo d'uno in altro luogo. » Il corpo non muovesi, se non mosso da qualche » forza operante sopra esso, ed è evidente che tale » stato debb' esser passivo ; da che la passione in )) un soggetto risponde necessariamente all' azione » della cagione operante sopra lui. Dunque, essendo » il moto trasporto passivo , non può farsi senza » una cagione la quale trasporti attualmente. Questa » cagione non è il corpo urtante; poiché non può )> dirsi che questa trasporti l'altra in tutto lo spa- )) zio, per cui il secondo è trasportato dopo l'urto, » nò troviamo nell'urtante l'idea della forza, che dee » rispondere ad un trasporto continuato e succes- )) sivo da un luogo ad un altro ». Fin qui l'egregio Gerdil. 11. Deesi pure avvertire, che il corpo, a restare in quiete, non ha duopo se non di seguitare ad esi- stere. Iddio crea un corpo nello spazio; quello senza più rimane ivi, ove fu creato: ma per la perseve- ranza nel moto fa bisogno di qualche altra cosa con- tinuante, permanente, o riprodotta, essendo nel moto un continuo cangiamento. Dirà taluno: non è altro il moto che un cangiamento di relazioni, o non ve- ramente un cangiamento di stato. In vero il passare dalla quiete o dallo sialo fermo al moto, o per con- verso , dicesi mutare stato- Ma non facciamo que- 138 stione di parole- Ditelo pure se v'aggrada, non più che cangiamento di relazione. Ma cotal cambiamento di relazione rispetto a tutti i corpi esterni, del quale questi non sono cagioni efficienti, e né pure occa- sione, debbo avere la sua cagione; né altra saprei immaginare fuor solamente la legge, ossìa il volere del Creatore. Si dice: il corpo in moto ritiene il suo movi- mento, la sua velocità , e la sua direzione , senza più perchè non vi è ragion sufficiente per cui debba quietarsi a cangiare velocità o direzione. Rispondo: ciò, se punto veggo, non esclude la forza o la ca- gione efficiente di quel moto. Ragion sufficiente del fermarsi, o del non muoversi più, sarebbe appunto, al parer mio, la mancanza di tal forza, di tal ca- gione efficiente del moto ; ad un effetto negativo, qual'é il non-molo o la quiete, basta, se ben si guar- da, una ragion negativa ossia una mancanza di ca- gione: a non mangiare basta o non aver che man- giare 0 non aver alcun motivo o voglia di mangiare. Voi passeggiate per un lungo viale, e non avete al- cuna ragione sufficiente di cessare dal moto, o di cangiar direzione o di accelerare o di ritardare il passo. Tuttavia vi conviene esercitare una forza per camminare; e se non volete esercitarla, non cam- minate. 12. Abbiamo accennato che riconosciamo nel cor- po urtante una vera azione sull'urtato e perciò una vera forza motrice. Eulero trovava nella impenetra- bilità de'corpi la vera origine di essa forza; nel caso dell' urto , l' impenetrabilità spiegando lidia la forza 139 necessaria ad impedire la penetrazione e divenendo alliva (!)• Egli è vero che rli questa impenetrabilità altiva^ allontanatrice e produttrice di cangiamenti di stato, ch'è una veia ripulsione positiva ed attiva, non fa duopo, acciocché il corpo sia corpo impenetrabile in qualche vero senso, ossia resistente alla penetrazione. Una impenetrabilità , dirò così , negativa , la quale senza più impedisca ai corpi il procedere , se noi possano altrimenti che con mutua penetrazione (a un dipresso come ci pare avvenire se il corpo in moto si abbatta in una gran massa immobile e non ela- stica) basta a ciò che la sostanza resistente allo spa- zio dicasi corpo impenetrabile. Mi sforzo di pene- trar colla mano nel muro: noi posso; e ciò mi basta a crederlo corpo, cioè sostanza estesa ed impenetra- bile, quantunque ignori se esso respinga o no. Ciò è vero , ma tal negativa impenetrabilità non la tro- viamo ne'corpi. Troviamo invece qui ancora avve- rato Yomnia duplicia: unum conlra imiim: troviamo azione e reazione. L'impenetrabilità che osserviamo non è negativa, ma attiva, allontanatrice, vera ri- pulsione. Iddio è quegli che l'ha data per natura ai corpi nel crearli. Iddio ha stabilito le leggi del moto e del riposo, secondo le quali tutti i cangiamenti ne- cessariamente avvengono , essendo i corpi nulla piìi che esseri passivi i quali o rimangonsi nel loro stato, ovvero ubbidiscono necessariamente alVeslerne impres- sioni (2). (1) Lettres a une 'princesse d" Alemagne. LXXVII. Vili. Sur l'origine des forces. Acad. Beri. an. 1750. voi. VI. (2) Id. Let. LXXXVIII a ime princesse . . . 140 Le creature sono ciò che il Creatore ha voluto che fossero. Egli , creando la materia ponderabile (a dire di questa soltanto), le die e le conserva per essenzial pi'opi'ielà il resistere attivamente, reagen- do, ripellendo altra simil materia, premente o ten- dente a penetraila. Perciò essa, ubbidendo necessa- riamente all'autor del suo essere, ha essenzial forza di resistere alla penetrazione, forza attiva e motri- ce, la quale però resta latente e quiescente, tosto- chè più non è urtata, o premuta. Se le avesse dato per essenzial proprietà una impenetrabilità negativa, soltanto distruggitrice dell'altrui moto, non avrebbe la materia forza motrice, ma soltanto distruggitrice del moto , e i fenomeni del mondo materiale di- versamente procederebbero, ma la materia sarebbe ancora resistente alla penetrazione- Poniamo che 1' Onnipotente tolga ad un corpo il resistere alla penetrazione in questo o in quel caso, il corpo si rimane corpo: ma se i corpi pun- to non fosser dotati di virtù resistente, o non esi- sterebbero 0 almeno non esisterebbero pe' nostri sensi , e la materia sarìa cosa al tutto diversa da quella che conosciamo. All'essenza di essa, quale la conosciamo , appartiene una forza di resistere alla penetrazione, invincibile dalle ordinarie forze fisiche, la quale stendesi per una certa porzione di spazio, rendendolo resistente: onde le prime proprietà della materia sono per noi , l'impenetrabilità (o la resi- stenza alla penetrazione) e l'estensione. Le altre a noi note o da queste discendono o sono negative, come l'inerzia, o passive, come la mobilità (!)• Non (1) « Vis motiva est duplex ; una quac imperai raotum 141 che di altre, sconosciute , tuttoché per avventura assai importanti , voglia io negar 1' esistenza ; ma siccome ai nostri sensi non si palesano, vano sa- rebbe trattenersi in parlarne. Se mi interrogate: perchè attribuite ai corpi la forza di respingere altri corpi, e non ricorrete ad alcuna seconda cagione per la continuazione di que- sto effetto , per la permanenza del moto ? Vi ri- spondo, perchè i corpi sono sostante impenetrabili da Dio create , sussistono per se, quantunque non a se, sono esseri perdurabili e modificabili, né v'ha difficoltà alcuna a concepire una sostanza che o essa è una l'orza o che le compete una forza: ma nella permanenza del moto e in quelle che sembrano azioni in distanza, non veggo sostanza, fuor sola- mente i corpi inerti messi in moto. Ma dunque, parmi udir da taluno, volete attri- buire alla sola volontà , increata o creata , tutti i generi di movimenti, escluso solamente il principio di quelli prodotti dall'urto, al quale invece assegnate una cagione meccanica ? Non già : tutti hanno la cagion prima nella volontà increata che creò la ma- teria e concreò le leggi del moto , produttrici di tanti fenomeni; ma ad alcuni si aggiunge una causa seconda. Questa è ne' corpi urtati ed insieme urtan- ti, premuti e in una prementi la essenzial resistenza alla penetrazione, e pe' moti spontanei degli animali la loro volontà, perlochò si vede in questi tanta va- rietà, quanto varie sono le volizioni , gl'istinti , le s. appetitiva. . . Alia est exequens moluin . . Cuius actus est non movere ,-sed nioveri ». S. Th. Swm. P. I. Qu. 75. art. 2. ad 3. U2 passioni e i capricci degli animali. Ove poi non ap- pare alcuna cagione seconda , ivi , se mal non ttiì appongo , ragionevole è ricorrere immediatamente alla cagion prima: questo è il caso della permanenza del moto, e (se non veggasi ragione per poter de- rivarli da urto meccanico) degli effetti della gravi- tazione universale, deirafflnità, delle attrazioni e ri- pulsioni elettriche , magnetiche , elettromagnetiche ecc. In questo ultimo caso non opererà se non una forza ed una volontà: la volontà del Creatore e la sua onnipotenza. Ne'moti spontanei o volontari, ope- reranno due forze, e saranno le due volontà, increa- ta e creata; ma però quella come cagion primaria e principale, questa come cagione seconda: il vo- lere dell'Onnipossente, che creò gli animali, con si- mile azion positiva conserva essi e le facoltà ad essi concesse; ond'è che dee dirsi principal cagione de- gli effetti di queste. Causa causae est causa causali, dicevano i nostri vecchi- Ne' moti prodotti per l'urto de' corpi troviamo pure due cagioni, ma una sola volontà, che decretò quelle leggi, e donò e conserva ai corpi le lor proprietà. 13. Prescindendo dall'urto , dacché da un lato l'universalità, la costanza, l'uniformità de' movimenti secondo natura ci trae la mente all'eterno ed immu- tabile autore e motor primo dell'universo, e dall'al- tro lato, dal sentimento della nostra forza l'analogia ci innalza alla potenza senza sforzo e senza limiti della prima cagione, ed alle forze da essa comuni- cate alle intelligenze create, e ci abbassa alle for- ze esercitate dall' appetito de' bruti , siamo con- tenti di tanto. Se prescindiamo, nelle indagini intorno 143 al moto, dall'Uno, celebrato da tanti secoli col no- me di primo Motore, non abbiamo se non effetti senza cagione. Se diciamo, le divine leggi non muovere i corpi, ma dare ad esseri inerti l'operare ove non sono e mostrare cognizioni, che non hanno intorno alle distanze, o alle masse degli altri corpi; affer- miamo cosa, non pure arbitraria, ma assurda, e da noi medesimi non compresa , e chi ci ascolta ode delle parole, le quali non, destano nella sua mente alcun chiaro concetto- I grandi fenomeni di moto, esempigrazia la gra- vitazione universale, non possiamo ripeterli, se non da un essere soprammodo intelligente, conoscitore pienissimo e delle leggi del moto e delle distanze e della collocazione di ciascuna particoletta rispetto alle altre particelle, in tutti i cangiamenti del mon- do corporeo. Scrisse il cel. Tom- Reid, che le materiali par- ticelle guidate da quell'essere, ubbidiscono nell'eser- cizio del loro potere attivo alla sua influenzOy a un dipresso come un cavallo guidato dal cavaliero. La comparazione non sembracni assai opportuna. Io di- rò coH'illustre capo della scuola scozzese: non con- viene attribuire alla materia il potere della gravi- tazione, ma quello soltanto di ubbidire; ma parlerò di ubbidienza meramente passiva, qual'è di un carro strascinato dal cavallo, non di quella del cavallo, nella quale è qualche cosa di attivo, inconcepibile nella materia inanimata, un ubbidire spontaneo, un volere impresso in esso dall'uomo, il qual volere ninno può imprimere nella materia inanimata. 144 14-. Causas rerum naluralium non phires admitti dehere , qiiam quae et verae sint et carum phoeno- menis explicandis sufficiant. E la prima fra le celebri regole del Neuton , ed è comunemente accettata. Ora è assai certo, volersi da Dio che osservinsi le leggi della permanenza dei moto, e così della gravi- tazione ecc: nò ò men certo tal volere bastare a dare ragione de'l'atti. A che dunque cercare altre forze, le quali né provansi né intendonsi? Se i fenomeni più universali e costanti attribuisconsi a quella vana fantasima che chiamiamo Natura (1), ovvero ad una inconcepibil forza residente negli atomi inerti, non so più perchè Iddio appellisi il primo Motore e Colui che tulio muove, mentre non gli facciamo dare il moto ad alcun mobile- In esso é ogni forza , per- chè esso è l'Onnipotenza; ma non già alcuno sforzo [nisus, conatus), perchè la sua possanza è indefinita, e rimpetto ad essa è una quantità infinitesima la maggior forza finita, da noi immaginabile. All'On- nipotenza, volere è fare: conósce il suo potere; ma non comincia a conoscerlo, come noi, sperimentando lo sforzo, ossia la propria debolezza: peròhè lo sforzo, lungi dall'essere essenziale alla forza o alla potenza, è imperfezione e debolezza ed indica difetto di forza. 15. Avvertasi eziandio che, immaginando delle ipotesi per indicare la causa, come dicono, dell'at- trazione e di altri simili fenomeni , si complica il sistema dell' universo , ma non si fugge all' azione immediata del Creatore nel movimento de'corpi ina- nimati. Per esempio abbracciamo per un momento (1) P. Bartoli. U5 l'ingegnoso sistema del Le Sage (1), il quale assegna per causa alla gravitazione una pioggia o grandine contìnua di atorni gravifici , arrivante incessante- mente all'universo da tutti i punti dello spazio- È il sistema di Epicuro e di Lucrezio , riformato ed ingrandito e liberato dall'errore intorno all' origine delle cose, errore dal Le Sage dichiarato non meno assurdo, che empio. Ricevendo non so quante ipotesi intorno a questi atomi, ed alla costituzione dell'or- dinaria materia, appoggiate soltanto al bisogno, che ha di esse il sistema, si dà ingegnosamente ragione e delle leggi di Galileo intorno alla caduta de'gravi, e della gran legge neutoniana dell'universal gravita- zione, e in conseguenza, delle famose leggi del Keplero. Ma se domando qual forza faccia muovere quegli atomi gravifici in tutte le direzioni e colla incredibile veloci- tà, che si suppone, rispondesi: il Creatore li lanciò dal principio del mondo, facendoli partire da molte e di- versissime distanze da esso mondo, affinchè dovesse ad ogni istante giungere a questo un nuovo esercito di essi atomi, finché è stabilito che duri quest'ordine di cose. Può dubitarsi se quest' ordine di cose a- vesse mai cominciamento ; ma supponiamolo. Se un curioso domanda ancora : qual' è la forza , in cui virtù gli atomi continuano a muoversi colla loro appena immaginabile velocità, tanti secoli dopo avw ricevuto quel primitivo impulso, e chi in essi con- serva il moto e la velocità necessaria , acciocché, (1) Fu esposto, io penso, la prima volta in una memoria inserita nelle Nouv. menioir. de l'Acad. R. Berlin: année 1782. p. 404, col titolo curioso Lxicréce Newtonien. V. p. 410. 424. G.A.T.CLVIL 10 146 così minimi, come suppongonsi , producano tanti e sì grandi effetti? Per qual forza il moto continua, senza nuovo impulso, in linea retta? QuaPò la ca- gione efficiente e prossima di questi effetti? A cotali interrogazioni non dà risposta il fluido gravifìco (se può dirsi fluido un ammasso di atomi senza alcun legame fra loro); ed il buon senso ci consiglia a far produrre all'autor delle cose, piuttosto che gli ef- fetti ipotetici, gli effetti presenti e certissimi. Di piij; cotali atometti dovrebbero essere dotati d'incredibile velocità, rimpetto a cui dovria essere come insensi- bile quella de' corpi celesti. Il celebre Laplace ha trovato che, se l'attrazione non si propaga in istanti, opera almeno con una velocità, che possiamo conside- rare come infinita: e dobbiamo concludere, Vatlrazione solare comunicarsi in «n istante pressoché indivisibile alle estremità del sistema. L'Arago deduce dai calcoli del Laplace, che la velocità dell'attrazione dovrebbe essere almeno 30 milioni di volte la velocità della luce (1). Si ponga mente cha questo numero è un limite in meno, che la velocità di propagaziane della luce è di 77,000 leghe per minuto secondo, e che nel caso nostro trattasi di traslazione di corpuscoli, non già di moto vibratorio ; e vedrà chi pretende spiegare 1' attrazione con l'impulso di un fluido , a quali prodigiose velocità esso debba soddisfare. 16. Scrisse l'Eulero: Se l'attrazione fosse opera immediata della onnipotenza divina, senza essere fon- data nella natura de'corpi, sarebbe quanto dire, che Dio spinge immediatamente i corpi uno verso Valtro (1) Annuaire pour la. 1844, p. 342. UT ciò che sarebbe far continui miracoli (1). Non credo dover sottoscrivere a questo detto del sommo geo- metra. Ciò che, quantunque superi le forze delle crea- ture, non è peraltro contrario all'usato andamento della natura, ma a questo è pienamente conforme, niuno lo appella. miracolo, e non v'ha ragione per cui si meriti questa appellazione. Così non reputiamo e non diciamo miracolo il conservarsi de'corpi, ben- ché ciò sia opera immediata di Dio, non meno della creazione, né il conservarsi delle leggi di quiete e di moto, da Dio stabilite, conforme alle quali avvengono necessariamente tutti i cangiamenti, come dice esso Eulei'o-Nè appellansi miracoli gli effetti uniformi e co- stanti, i quali perciò ripetonsi da leggi universali, ma soltanto certi effetti straordinari, che non possono ri- dursi ad alcuna legge generale imposta alle creature- I comandi che un monarca , a motivo di qualche particolar circostanza, dà a questo o a quel suddito, non sono da confondersi, neppure nelle più assolute monarchie, colle leggi generali, eh' esso promulga, nò da alcuno quei particolari comandi si appellano leggi dello stato. L' attrazione, secondo l'Eulero, è contraria all'inerzia. Sì, se con quel vocabolo indi- chisi una misteriosa ed inconcepibii tendenza verso i corpi lontani, la quale si esercita secondo la massa e la distanza di questi : non già , se non altro sia che una legge del Creatore. Ciò che finora abbiamo detto rispetto alla forza, vede ognuno facilmente potersi applicare alla ca- gione efficiente (non parliamo dell' occasionale, che, (1) Leti. LXVIII. UH al dir delle scuole (1), è cagione imperfetta e per accidente ). La forza e la cagione non in altro , a parer mio, differiscono se non nel significarsi dalla prima voce la sola potenza, e l'atto dalla seconda. Esiste la forza allora eziandio che nulla producendo non è cagione di alcun effetto. Io ho la forza di muo- vere il mio braccio, allora eziandio che non né uso, e perciò non sono cagione di alcun movimento di essa- Forza o potenza dicesi ciò che opera o può ope- rare: ora operare vale produrre un effetto, ossia esser cagione ; poiché non si concepisce che altri operi, senzachè alcuna mutazione avvenga o in esso o fuori di esso. II sig. Cousin meravigliasi del Locke, il quale tratta in un capitolo dell' idea della potènza ed in un altro della idea della causa: dacché, dice esso, qual cosa ella è la potenza, se noìi il potere di produrre alcuna cosa, vale a dire la causa (2)? Del resto questa parola causa è molto equivoca: in fisica ha oggidì piuttosto il senso improprio di un fatto generale , cui riducesi il caso particolare di cui si tratta, o al più indica confusamente e il fatto generale, e la ca- gione, 0 efficiente od occasionale, di esso fatto senza dichiarare qual ella sia. Ma dunque, sembrami udire chi dice,dovremo sem- pre, 0 pressoché sempre, ricorrere nello studio della natura ad un agente soprannaturale, e la natura non (1) Occasio est causa imperfecta , per accidens. S. Th. Sum. 2. qu. 43. (2) Cours de V hist. de la philos. XIX. Lecon. Il titolo del famoso Saggio di Hume intorno alla causa è: Della idea del potere. Locke ha dovuto confessare: La piii chiara idea della potenza motrice ci viene dallo spirito. 149 sarà più nulla? Volesse il cielo che potesse cessare r abuso , che si fa da tanti secoli di questa voce , dalle scuole pagane passato sventuratamente nelle nostre! Fu già avvertito da Lattanzio, come indica- vansi con questo nome cose fra loro diversissime, Iddio ed il mondo, l'opera e l'artefice (1). Il celebre Boyle scrisse un intiero trattato intorno a questo ar- gomento (2), né la voce natura ha mai avuto più severo censore di questo grande scrutatore della natura. 17. Sarebbe follìa il pretendere di cacciare dal linguaggio umano questo vocabolo : ma è da desi- derare e da cercare che non se ne abusi. Fu celebre per più secoli la definizione aristotelica della na- tura la quale così latinamente esponevasì : Natura est prmcipium et causa molus et quietis eius in quo est, primo per se et non secundum accidens (3); cioè, come traduce il Varchi: La natura è un certo prin- cipio e cagione di muovere e riposare quella cosa , nella quale ella è primamente per se e non per acci- dente (4). Non esamino questa definizione: ossevor soltanto che il preteso principio , appellato natura, il quale per virtù intrinseca porta altri corpi in giù ed altri in su , è contrariato dalle osservazioni ed (1) Isti uno naturae nomine res diversissimas comprehcn- derunt, Deuni et munduni, artificem et opus L. VII. C. I. (2) De ipsa Natura. La traduzione Ialina fu stampata in Ginevra l'a. 1688. (3) Arislot. !.. Phijs. e. I. Il Boyle esamina questa defi- nizione nella terza sezione della citata opera. (4) Varchi Lez. Q. 150 abbandonato da tutti i fisici; che i corpi, indifferenti al moto ed alla quiete, non hanno per natura il muo- versi in alcuna determinata direzione, né il riposare in questo o in quel luogo, e finalmente, che dalla volontà del Creatore unicamente debbono ripetersi le leggi imposte all' universo corporeo , dalle quali produconsi i fenomeni naturali. La natura , scrive l'illustre Whewell, non è altro che una collezione di fatti regolati da leggi. Dicesi tal volta che un mo- vimento è prodotto dalla natura, e si vuol dire sol- tanto ch'esso non è opera dell'arte, né di straordi- nario soprannaturale intervento , ma bensì è con- forme allo stabilito ordine delle cose, il quale an- cora è appellato natura, o alle leggi che diconsi di natura; e giustamente, se con tal frase non le di- chiariamo poste da questa immaginaria legislatrice, ma bensì dal sommo Legislatore imposte all' uni- verso, al quale ancora si dà talvolta il nome di na- tura. Il lodato Boyle bramava che tali fenomeni non si dicessero prodotti dalla natura, ma piuttosto se- condo natura: la natura, egli dice, in questo caso e la regola, o più veramente il sistema delle regole, secondo le quali i corpi sono da Dio determinati al molo o ad altro. Quella necessità, la quale è im- pressa nelle cose dalle leggi di Dio, vien detta na- tura. « Tutte le forze senza cognizione , operanti )) senza proporsi d'operare, non possono volere ope- )) rare: ricevono dunque la loro direzione dal di fuori: » esse sono condiziunali, perchè non sono libere . . . )) Quanto piti la natura è necessitata, tanto più è di- )) strato eh' è duopo porre avanti essa un atto di )) libertà, acciocché essa natura non sia inesplica- 151 )) bile. È dunque uopo uscire dalla natura per com- » prendere la natura : bisogna arrivare ad un atto » differente dalla natura e dalle azioni di questa , » per dare un punto d' appoggio stabile a tutti i )) fatti della natura, e sola la libertà può dare ra- » gione della necessità. Assai bene si fa a spiegare )) coir azione e reazione delle forze meccaniche e » delle affinità chimiche quanto può spiegarsi; ma » con ciò, relativamente alla soluzione del gran pro- » blema, nulla si avanza ». {Ancillon) .Non di rado odesi e leggesi natura, ove il con- testo e l'attribuirsele somma sapienza, bontà, pre- videnza o liberalità, chiaro dimostrano che si vuole, o almeno si dee, favellare di Dio. Questo uso non è, a parer mio, da lodare: dacché non dobbiamo ar. rossire di conoscere e confessare la vera cagione delle cose , e non siamo se non troppo inclinati a dimenticar/a ed a por mente soltanto agli oggetti sensibili. Qual difficoltà a nominare senz'altro Iddio, il Creatore, la Provvidenza, o in qnalche caso, se ad alcun piaccia, il Naturante, come disse Dante (1) (1) Praesumpsit homo arie sua non solum superare na- turam, sed et ipsum naturantem, qui Deus est { Dantis Al. De vulgari eloq. L. 1. e. VII): cioè, nella traduzione di G. G. Trissino: Presunse di superare con l'arte sua non solamente la natura , ma ancora esso naturante , il quale è Dio. Si è talora data l'appellazione di Natura naturante al Creatore, e di natura naturata alle creature. Ben si è fatto lasciando que- ste frasi, le quali contro l'intenzione dei savi, i quali le ado- perarono, potrebbero farci riguardare il sommo Artefice e la sua opera quasi due specie di un genere , mentre essi medesimi insegnano , Iddio non essere una specie , ne appartenere ad 152 colla vecchia scuola ? Non vogliamo, io penso, to- gliere alla Divinità le reclini dell'universo, e porle in mano alla natura. Non inleUigis te mutare ìiomen Deo? scrive Seneca: Quid est alimi natura quam Deus et divina ratio (1) ? Di più, ripetendosi con Aristotile (2): la natura ha i suoi fini determinati ed inviolabilmente ritiene le operazioni, da principio riconosciute e scelte come mezzi opportuni, e fa sempre ciò che è ottimo; dicen- dosi ogni tanto: la natura è sapientissima; nulla fa indarno, né soprabbonda in cose superflue né manca alle necessarie; queste e simili frasi possono assue- fare gli studiosi all'idea fallace e pagana di una pre- tesa natura operatrice di tanti effetti semprd" uni- formi e concatenati e regolatrice dell' universo , di una semidea, o almeno d'una immaginaria vicaria di Dio- La natura genitrice del Cudworth (3) fu ge- nerata soltanto dalla sua immaginazione. Così la na- tura, anche più strana, del Lamarck. Ogni personifi- cazione della natura è assurda e ridicola. L'imma- ginazione facilmente si avvezza a pensare, come opi- nava Anassagora, doversi alla mente (ossia alla Di- vinità) il primo moto dato agli elementi : posto il quale, le forze della natura fanno il rimanente. Ov- alciin genere, ma essere extra genus et principium omnis ge- neris.\. S. Th. Sum. P. I. Qu. 3. a. li. Qu. 4. a 5. Qu. 6. a. 2. etc. (1) De Benefic. IV. e. 9. (2) Aristotel. De gener. II. C. 10. De coelo II. C. 4. (3) Systh. Intellect. e. 3. Dissert. de nat. gen. Il Mose- mio, suo annotatore, lo ha confatato. 153 vero, senza troppo avvedercene, si distrugge o al- meno s'indebolisce nel nostro spirilo il concetto della monarchia del Re dell'universo , e per poco se gli sostituisce un governo di due consoli, come nell'an- tica Roma, chiamandosi in un con Dio la Natura al reggimento del mondo, come Ovidio li fa interve- nire amendue per isbrogliare il Caos, e dare ordine agli elementi. Hanc Deus et melior litem Natura di- remit (1). Ma già mi trovo quasi fuor del mio ar- gomento, intorno al quale sembrandomi aver detto abbastanza, non altro penso di aggiungere. APPENDICE Intorno alV inerzia. Il celebre Eulero fa osservare, l'inerzia essere incompatibile colla facoltà di pensare, poiché questa ultima facoltà suppone il potere di cangiare da per se il proprio stato, e perciò non può appartenere alla materia. D'Alembert, lodando il zelo del gran geo- metra, non mostrasi assai conlento del suo discorso. « La forza d'inerzia, egli scrive, non ha luogo se- » condo r esperienza se non dalla materia bruta » (volle dire non animale) , cioè nella materia non » unita ad un principio intelligente, il cui volere la » muove: così, ossia che la materia abbia da se la » facoltà di pensare (ciò che siamo lontani dal cre- » dere) o che un principio intelligente e di natura » differente le sia unito, essa, perderà la forza d'i- li) Mefamorphos. I. 21. 154 » nerzFa o, a più accuratamente parlare, non parrà » più ubbidire a questa w. Che i corpi animati in moltissimi casi non ubbidiscano alla legge, delta (im- propriamente) forza d'inerzia; è un fatto aniuno ignoto, del quale abbiamo toccato alcuna cosa nel preceduto ragionamento. Che la materia abbia da per se la facoltà dì muoversi, ciò non può dirsi sen- za assurdità e contraddizione manifesta, subitochè si riconosce la sua natura inerte. Inerte di fatto la troviamo negli altri corpi, eziandio organizzati, ma non senzienti , quali sono le piante (benché molte fra queste mostrino organizazione più artificiata che non certi inferiori animali ) : la troviamo inerte nelle sostanze componenti i corpi animali; inerte in questi, allorché più non vivono; inerte ne'corpi ani- mali , ove la vita animale non é pienamente svi- luppata, quali sono le uova; ed inerte possiamo os- servarla negli stessi animali viventi , ogniqualvolta non si oppongono all' inerzia colla loro spontanea attività. Nondimeno noi veggiamo tutto giorno questi corpi animali muoversi e talora velocissimi, correre, camminare, saltare, strisciare, guizzare e volare, e ciò non per estrinseca forza, ma secondo le circo- stanze e mossi soltanto da cagioni intrinseche, amore o avversione, speranza o timore, fame o sete, in- somma da'loro bisogni, passioni o appetiti. In noi poi sentiamo ed abbiamo coscienza che il nostro ani- mo muove , come se stesso con movimento spiri- tuale, così con moto locale il suo corpo o le parti di esso soggette alla volontà. « Sentit animus se mo- )) veri: quod cum sentita illud una sentit, se vi sua, 155 » non aliena moveri (1) »• Ora di questi fatti es- sendo assurda una delle due proposte spiegazioni ( cioè che la materia inerte da per sé si muova e senta di darsi il moto ), né potendo concepirsi un princìpio, ne materiale né immateriale, convien con- fessare coll'illustre Biot (2), che la spontaneità o la volontà degli esseri animati e gli effetti, i quali ne conseguono, debbonsi ad un principio incorporeo o immateriale, residente in essi. Udiamo ancora d'A- lembert: (( Certamente non è piij agevole il conce- )) pire come questo principio intelligente unito alla » materia, ma da essa differente, possa in essa ope- » rare e muoverla , o comprendeie come la for/.a » d'inerzia possa conciliarsi colla facoltà di pensare, « la quale i materialisti falsamente attribuiscono ai )) corpi. Ma noi siamo assicurati dalla religione, che » la materia non può pensare , e per esperienya )) siamo certi, che l'anima opera sopra il corpo- Tc- » niamoci a queste due incontrastabili verità, senza )) intraprendere di conciliarle ». Questa umile con- clusione è edijicanle; e noi tanto piti volentieri ci terremo ad essa, che non veggiamo fra quelle due verità apparenza di contraddizione. Non così possiamo con lui in tutto accordarci e dire del pari malage- vole ad intendersi, la materia inerte pensare a muo- versi da per se, vale a dire essere e non essere inerte, e l'operare un principio immateriale ed intelligente sulla materia e muoverla. Qui non è alcuna contrad- (1) Cicer. TuscuL 1. C. 23. (2) Précis Elément. .L. 1. Consider. gener. 156 dizione, ed il fatto di coscienza ne insegna, il prin- cipio senziente ed intelligente muovere da per sé le sue membra e, mediante il movimento di alcune parti, muovere il corpo animato, cioè il composto, di anima e di corpo, ossia tutto l'uomo, e perciò non essere inerte. Il Creatore, il Grande Spirito (come Io appellano gl'indigeni dell'America) è il conserva- tore ed il primo motore dall'universo materiale. È vero che non abbastanza comprendiamo l'unione del nostro spirito col corpo e gli effetti di essa unione; ma ciò prova soltanto la limitazione del nostro in- telletto. Una verità non assai da noi compresa, non è perciò assurda , e dee tenersi per vera , allorché sia ben provata. E poi, comprendiamo noi perfet- tamente le chimiche combinazioni, le quali accadono fra i corpi in noi e fuori di noi, e gli effetti di esse? No certamente. Non trovo più inverosimile che l'u- nirsi del nostro corpo ad una sostanza spirituale , lo faccia apparire sottratto alla legge dell'inerzia , che il vedere de' corpi solidi, quali sono, a cagion d'esempio, il solfo ed il carbone, combinandosi con un gas, es. gr. coll'ossigene o coll'idrogene, perdere la coesione, la quale univa le loro molecole e tra- sformarsi in gas. Se r anima nostra sentisse, pensasse e volesse, ma non producesse, volendo, alcun movimento nel corpo animalo, ossia nell'uomo, potrebbe dirsi per avventura dai materialisti, ciò non opporsi neces- sariamente all' inerzia , e perciò alla materialità di essa anima, non mostrandosi ripugnare che una so- stanza inerte fisicamente , cioè incapace a darsi il moto locale, possa sentire, pensare e volere- Ma ciò 157 punto non giova alla causa de'materialisti , poiché l'uomo non soltanto pensa e vuole, ma si muove, e sentit se vi sua, non aliena^ movevi. Di più, il materialista, ad esser coerente, dirà i pensieri, i giudizi, le volizioni ecc. essere modificazioni del corpo, e perciò movimenti, vibrazioni, contra- zioni delle fibre o che so io; ond'è che per lui qua- lunque azione prodotta dall' anima sarà un moto spontaneo della materia, il quale escluderà l'inerzia. Evidentemente è poi in contraddizinne colla iner- zia la libertà ^'indifferenza. Noi sentiamo d'esser liberi a fare assai spesso ciò che potremmo omettere, e ad omettere ciò che potremmo fare, a volere ciò che po- tremmo non volere, ed a non volere ciò che potremmo volere: sentiamo di avere il poter di scegliere- Ora tutto ciò è incompossibile coll'inerzia. Il corpo inerte nulla sceglie ! ogni sua modificazione è necessaria : sempre esso è necessitato o alla quiete o al moto, a questa o a quella direzione; a questa o a quella celerità; né solo alla necessità è soggetto, ma ezian- dio alla coazione. Da ciò conseguita, oltre al corpo per se inerte, esser duopo riconoscere in noi un'altra non inerte sostanza, non determinata costantemente da estrinseche cagioni, ma attiva e libera, e perciò immateriale e spirituale. 158 Dichiarazione di un sarcofago cristiano ostiense, che si conserva nel predio suburbano di S- E. Rma mon- signore Bartolomeo Pacca, maestro di camera di S' S., letta nella pontificia accademia romana di archeologia dal caV' Carlo Lodovico Visconti, socio ordinario della medesima. N egli anni 1834 e 35 il cardinale Bartolomeo Pacca, decano allora del sacro collegio e vescovo ostiense, secondando la sua nobile inclinazione per le cose an- tiche, poiché trovavasi sopra d'un suolo di siffatte cose ricco e ferace oltremodo , qual' è quello di Ostia , fece farvi delle grandi escavazioni, che saviamente regolate, o favorite dalla fortuna, vennero coronate di prosperi successi- Non ultima è questa delle molte obbligazioni che hanno gli archeologi con quel por- porato, per tanti altri rispetti sommamente illustre; al quale ancora, sotto gli auspicii dei pontefice di santa e gloriosa memoria Pio VII, si devono le savie e provvide leggi concernenti le ricerche e la conser- vazione degli antichi monumenti, che formano tanta e sì bella parte delle ricchezze di Roma. Alle quali escavazioni come fu posto fine, buona parte delle iscri- zioni tornate in luce vennero dal prelodato cardinale donate liberalmente all'episcopio ostiense, dove tut- t'ora si trovano infisse nelle pareti, e ne fanno il mi- gliore ornamento: l'altre rimanenti, e con esse tutti gli oggetti di scultura, che furon molli e bellissimi, fece il medesimo trasportare nel suo predio suburbano ^YKM1DVI:C1SANIMAS^NCT 159 fuori la porta Cavalleggeri , del quale grandemente si diiettava (1). Quivi furono da lui cosnervati ed avuti in pregio , e quivi li conserva tuttavia , non meno in ossequio della memoria dell'illustre suo zio, che per elevato sentire di famiglia, S. E. Rma mon- signor Bartolomeo Pacca, maestro di camera di SUA SANTITÀ', il quale siamo lieti di annoverare fra i soci di questa accademia e che qui nomino per ca- gione di onore. Monumenti degnissimi d' illustra- zione e di studio per la molta e spesso recondita erudizione di cui son pieni: degnissimi che i dotti e gli artisti ne acquistino notizie (che sono fino al presente rimasti inediti), potendo e gli uni e gli altri valersene all'uopo con molto profitto. Le quali mie parole se dicano soverchio, o non piuttosto se rie- scano inferiori al merito di cotesti oggetti, potranno farne giudizio coloro, che gli abbiano visti colle ne- cessarie cognizione e con occhio esercitato nella i- spezione delle cose antiche. Egli ò certo che tre grandi sarcofagi, situati nel vestibolo del casino, sono e per la mole, e per la bontà del disegno (migliore assai che d'ordinario non si vegga in simili sculture) e per la difficoltà del lavoro , e per la erudizione dell'argomento, e per la ricchezza della composizione, sono, dico, da numerare fra i piii notabili monumenti di cosiffatto genere che in Roma si ammirino. Nel primo dei quali si trova effigiata Diana in atto di scendere del celeste suo carro, a vagheggiare l'ad- niiglio. (1) È posto a sinistra dell' Aurelia , poco oltre il primo in. 160 dormentato Endimione : soggetto non insolito nel- l'urne sepolcrali, perchè il placido sonno del pastore di Latino sembra che agli antichi simboleggiasse l'alto riposo della morte e la beata tranquillità degli elisi. Nel secondo è scolpito il trionfo di Bacco e d'Arian- na, seduti sul cocchio cui sono aggiogate le tigri, e preceduti dalla pompa dionisiaca: rappresentanza facilmente prescelta dagl'iniziati nelle cerimonie di quel nume tesmoforo; essendo noto con quanta cura serbassero costoro negli ornamenti dei lor sepolcri la memoria dei bacchici misteri cui furono ascrit- ti (1). Ma nel terzo è la morte di Patroclo, che si (1) Questo sarcofago, di gran mole , ritiene il coperchio antico , in cui è scolpita la figura del defunto , adagiato al modo etrusco sul letto discubitorio, colla corona convivale nelle mani: un piccolo cane gli scherza addosso. La mancanza della barba e 1' acconciatura dei capelli di detta figura fanno as- segnare questo monumento ad un tempo anteriore all'imperio di Adriano; il che lo rende più raro e pregevole. Il sarcofago precedente, con Diana ed Endimione , con- serva pure il coperchio, ed in esso il titolo sostenuto da due Fame, colla iscrizione: D . M AVRELIO . LVCANO GRATVS CAES . ET SVLPICIA . LASCIBA PARENTES . FILIO DVLCISSIMO 161 vede arrovesciato dal carro nel più folto della mi- schia: raro argomento nei sarcofagi e svolto in que- sto con numerose figure, e variato d'episodi eruditi e curiosi, che tralascio di esporre, perchè ciò richie- derebbe una non breve dilucidazione. In cotesto fi- guramento si ravvisa peravventura lo stesso concetto, che può aver mosso gli artefici da principio ad espri- mere negli avelli marmorei la morte di Meleagro. Era cioè un' allusione alla fine prematura del de- funto, simile in questo agli eroi sopraddetti, cui nel fiore dell'età e nel sorriso della fortuna veniva re- ciso il filo della vita dalle parche inesorabili. V è un'urna di grandezza minore, che offre nel prospetto le nove muse, distinta, ognuna dal proprio emblema, e nei lati la disfida fra Marsia ed Apollo, col sup- plizio del primo. Ed un ossuario coH'insolito argo- mento della contesa fra Ulisse ed Aiace per l'armi d'Achille; dove si vede Agamennone assiso in trono, in atto di pronunziare il giudizio che fa ragione al pili astuto dei competitori e sfavorisce il più forte. Quanto poi al ristretto , ma pregevole museo che adorna il piano superiore dell'abitazione, citerò sol- tanto di volo un busto colossale di Plotina augusta, i cui ritratti fu già notato da Eunio Quirino Visconti essere molto rari (1): un busto al naturale, assai ben t condotto, del primo Africano, coH'epigrafe nella tes- Isera P. SCIPIO AFR., che offre alla romana icono- ' grafia un nuovo confronto delle sembianze di quel- l'uomo incomparabile: una vaga statuetta di Silvano, coi soliti emblemi degli alti calzari , della pelle di (1) Museo P. C. Tom. VI, pag. 194. G.A.T.CLVII. 11 162 cappio colma di frutta, del cane, o lupo e del ramo di pino , o di cipresso , che consuona alla denomi- nazione di dendroforo datagli da una lapide antica (1): altre gentili statuette di fauni, che dagli otri forati si conosce che furono fatte per adornamento di qual- che fontana: da ultimo, vari frammenti di colossali figure di straordinaria bellezza; che mentre dall'una parte invitano ad ammirare ognor piià il magistero dell'arte antica, dall' altra danno manifesto indizio, anzi nuova dimostrazione della primiera splendidezza della colonia ostiense, cui per le molte ricchezze non mancava il modo di farsi ornata e magnifica. Ond'è che al vedere tanti e sì nobili reliquie di cotesta colonia, raccolte nel solo suburbano dei Pacca ; aJ (1) Questo lapide fu copiata poco fedelmente dallo Smezio, da cui la tolse il Grulero(64.7), donde passò nell'Orelli (1602), sempre colle medesime inesattezze. Parrai quindi opportuno di darla nuovamente come si legge nel marmo, ch'esiste nel ca- vedio di casa Corsetti a Monserrato , insieme con altre non poche iscrizioni, dove io l'ho trascritta. SILVANO DENDROPHORO SACRVM W POBLICIVS H1L\RYS MARGAR QQ PP CVM LlBERfS MAGNO ET HARMONIANO DENDROPHORIS MDM DE SVO FECIT Manio e non Marco é il prenome di Poblicio: Armoniano, non Ermoniano, il nome del secondo suo figlio; lasciando stare altre inesattezze, come per esempio quella della interpunzione, che non esiste, se non per la rubricazione moderna. Questo iscrizione fu probabilmente sottoposta ad un basso rilievo rap- presentante Silvano , simile a quello citato dal Marini nelle I. A. p. 10. 163 ripensare le tante altre copiosamente sparse nei mu- sei, e quelli che possono ancora starsi occulte sot- terra, nasce spontaneo nell'animo un senso di gra- titudine verso l'augusto signor nostro e padre, papa PIO IX , che volle con alto e previdente consiglio di nuovo aperte le sempre felici escavazioni ostiensi, per aumentare, con ciò ch'elle produrrebbono, gli or- namenti di Roma. Com'è infatti succeduto da ch'elle furono riprese; e com'è da presupporsi che sia per succedere anche in futuro , massime proseguendosi cogli auspici di S- E- Rma monsignore Camillo Amici ministro del commercio e dei lavori pubblici , che tanto ama le romane antichità e con tanto zelo ne promuove il vantaggio- E passando dai monumenti figurati ai molti epigrafici della villa Pacca, dirò che anch'essi sono inediti la massima parte, da taluno in fuori, che venne pubblicato dal eh. nostro socio cor- rispondente sig. dott. Guglielmo Henzen, sia negli Annali dell'istituto archeologico, sìa nel terzo tomo deU'Orelli, dotto ed utilissimo supplemento a quel- l'opera da lui dato in luce nel 1856. Io gli ho tutti trascritti con diligenza , avendone avuto la facoltà dall'esimia cortesia dell' illustre proprietario : e mi propongo inserirli nella edizione che vengo prepa- rando dei marmi ostiensi peranco inediti, la quale spero metter fuori al terminare delle escavazioni che si fanno in Ostia. Frattanto, acciocché possiate far saggio della rarità delle antiche memorie, che si cu- stodiscono in detto luogo, ho pensato intrattenervi brevemente di un monumento epigrafico insieme e figurato , cioè di un raro frammento di sarcofago cristiano, di cui vi sottopongo il disegno lineare: il 164 qual frammento si trova inserito nel muro di cinta del predio, dirimpetto al casino (1). A chiunque sia versato alquanto nelle sacre an- tichità è facii cosa il ravvisare Orfeo in quel giovine coperto il capo dalla frigia tiara, che si reca in mano la cetra, in atto di trarne armoniosi concenti. Ai savi antichi Orfeo fu principe delle teologiche scienze. Non ha chi non sappia come di lui favoleggiassero, che col suono stupendo della lira traeva le belve ammansito ad ascoltarlo e tratteneva il corso dei rapidi fiumi: Orpheu te lenisse feras, et concita dicunt Fliimina thre'icia siistimiisse lyra. di lui contava Properzio { 2 ). Allegorie, colle quali veniva significato, ch'egli col sublime incanto della poesia, unito al soave allettamento della musica, aveva ingentilito i costumi degli uomini ferini e aperto le loro menti alla conoscenza e al rispetto dei numi, preparando pili elevati destini alla umana famiglia. Si tiene ch'egli, passato in Egitto, conoscesse ivi una parte dei sacri libri, da cui ammaestrato, pro- ferì talora sentenze che si accostarono alla vera sa- pienza; talché non isdegnarono alcuna fiata di farne menzione i padri della chiesa. I quali ancora, per talune analogie , ravvisarono in Orfeo una qualche lontana similitudine col Redentore, o piuttosto un (1) V. la tavola annessa. (2) Lib. IH. eleg. 2. 165 adombramento di lui , ch'avea pure insegnato a»Ii uomini la religione, ma la vera ed eterna; e avea ridotto alla ragione i perversi, che sono, a senso di Clemente Alessandrino, le belve pili difficili a render dimestiche. Intorno a che sono da vedere gli scrit- tori della Roma sotterranea, e principalmente il Bosio, in dichiarazione di due pitture del cimiterio di Ca- listo, le quali offrono appunto il cantore di Tracia in atto di toccare la lira, in mezzo alle belve che gli si accostano, tratte dall'incanto dell'armonia (1). Certo è che al pari delle sibille Orfeo trovò credito eziandio presso i cristiani; e quando questi furono dalla iniquità dei tempi costretti a circondare di mi- sterio le cose sante, si valsero della figura di Orfeo, siccome di un tipo arcano insieme e visibile della divina persona di Gesù Cristo. Il che apparisce, per tacere di ogni altra cosa, dalle prefate pitture, che sono delle migliori, e per conseguenza delle più an- tiche fra le cimiteriali , e che dall'illustre d'Agin- court, già socio di questa accademia , vennero as- segnate al secondo secolo dell'era nostra. Fra tutte le testimonianze dei padri, dal secondo al quarto secolo della Chiesa, in proposito di Orfeo, che vengono alla distesa recitate dal Bosio, niuna mi sembra illustrare i prefati dipinti meglio del passo di Clemeate Ales- sandrino ivi allegato; il quale vi si acconcia sì bene, da far credere , o eh' egli scrivendo avesse avuto sott'occhio una pittura consimile, o che l'artefice (1) Roma sotterr. lih. IV, cap. 30. 166 cristiano, che ne fu l'autore, avesse in lutto secondato il concetto di quel dottore (1). Adunque il pensiero del mistico tipo di Orfeo venne adottato dall'arte cristiana, quand'ella si stu- diava d'esprimere le cose del culto con siffatte rap- presentanze, che si prestassero a diversa interpreta- zione, qualora profani e nimici sguardi le discuo- prissero dentro ai sacri recessi. Senza di che non credo io che i fedeli avrebbono mai pensato ad adom- brare colla persona d'Orfeo Cristo signore, avvegna che dagl'inni suoi trapelasse alcuna favilla di quella luce, che l'Evangelio fece in tanta copia risplendere agl'intelletti degli uomini! E piacqne all'arte di rap- presentare il vate di Tracia in mezzo alle belve , secondo la favola , acciò dall' un canto si rendesse pili manifesto il soggetto, e dall'altro più sensibile l'allusione al signore, e l'effetto maraviglioso di sue (1) Móvog yavv twv ttcóttcts rù ocpyixhcikara. ^rjpitx rovg ùv^pconovg ÈTjSaaasusv nrvjvà ^iv rovi; xoufo'sg aùrwv ép- TTsrà $£ Toug «TraTcWvag' v.uì "ksovzag /xlv rovi; Bv^ty(ovg' Gvixg 9s rov; lòòovi-aovg' \wovg ds roùg à|37raxT«xoug, "ki^ot Bi ■nociqvXx, oi à^povcg- npòg Ss xocì lOcov cìvxtoBYjrórEpGvg, uv'^poKog òq)ioi'cx. ^s^unrta[xivag' x. r. X. Solus igitur ille (Christus) inter omnes, quos adirne novimus, feras saevissimas, homines mansuefecit: volucres quidem, qui leves ex illis sunt: reptiles, qui deceptores: leones, qui iracundi; sues, qui volu- ftatibus dediti ; lupos denique , qui rapaces. Lapidee autem et Ugna sunt insipientes; nisi quod qui ignorantia imbuitur, ipsis quoque lapidibus stupidior esse comperiatur. (Gleni. Alex. Cohort. ad gent. pag. 4. n. 2. edit. oxonien. ). Quasi tulli gli animali, che vengono qui mentovati, si trovano espressi nelle suindicate pitture del cimiterio di Calisto. 167 divine parole; giacché qualora servita si fosse della sola immagine di Orfeo, e sarebbe stato men facile il ravvisarlo, e più recondito il senso del misterioso figuramento. 11 quale ingegnoso partito dell'arte cri- stiana si vuol credere che andasse in disuso natu- ralmente, al cessare degl'imperiosi motivi, che l'a- veano fatto adottare in principio. Perocché nei sar- cofagi cristiani, che sono in genere posteriori al trion- fo della chiesa , la massima parte dei quali ebbe luogo nei cimiteri sopra terra edificati dopo Costan- tino, e che per conseguente furono lavorati allor- quando i seguaci di Cristo poteano svelatamente pro- fessare la fede loro, cotesta rappresentanza di Orfeo è sì rara, ch'ella non vi si è mai veduta, come fu già notato dal Canonico Settele nella erudita Memo- ria intorno alla importanza dei monumenti che si tro- vano nei cimiteri degli antichi cristiani del contorno di Roma, inserita nel tomo secondo degli atti di que- sta accademia di archeologia , della quale vivendo era stato ornamento. 11 dotto uomo, da un complesso di osservazioni della stessa natura, inferiva, che la pili gran parte delle sculture cimiteriali s'hanno a reputare posteriori ai tempi di Costantino (1). Sarà dunque il nostro sarcofago anteriore al se- colo quarto, ed eseguito in tempo, che i fedeli do- veano peranco ricorrere a misteriose allusioni , ad oggetto di professare le loro credenze, anziché glo- riarsene nel cospetto del mondo ? Ogni apparenza mi fa inclinare a pensarlo, e ninna considerazione vi (1) Pag. 87. 89. 168 ripugna, per mio avviso ; qualora massimamente si rifletta, che nei tempi eziandio della chiesa primi- tiva poteano ben essere, ed erano di fatto, infra i cristiani persone nobili e facoltose, le quali al po- sare delle persecuzioni , allorquando era dato alla chiesa travagliata di riaversi alcun poco , è verisi- mile che volessero avere dell' urne sepolcrali non meno adorne di questa, ed istoriate coi noti sim- boli, che agli altri fedeli rivelassero la religione di chi vi stava sepolto, e gl'invitassero a pregare a quel- l'anima gli eterni riposi. Arrogo , che la iscrizione semplicissima incisa nell'orlo superiore del sarcofago: FYRMIDVLCISANIMASANCT meglio consuona alle brevi e fervorose acclamazioni sepolcrali dei fedeli primitivi, che agli epitaffi posti nel quarto , quinto e sesto secolo della chiesa. Ed oltre a ciò, la figura scolpita nell'angolo superstite dell' urna , quella cioè di un giovane in abito suc- cinto , che regge colla destra mano una sporta , e colla sinistra un pesce, che ha fatto sua preda , è senza fallo altra figura simbolica, quella cioè del mi- stico pescatore, il pescatore di uomini dell'Evangelio, che ne offrono ancora talvolta le pitture cimiteriali. Ond' è che in cotesto monumento ogni cosa man- tiene il segreto ; e niuno avrebbe potuto intendere il significato allegorico di quelle immagini, ove non fosse stato iniziato nella cristiana simbolocjrafia. Ora una osservanza così rigorosa dell'arcano poteva ella darsi senza necessità ? 169 Sembra poco probabile. Nondimeno , se alcuna cosa sì potesse contrapporre alle prefate riflessioni, potrebb'essere la provenienza di cotesto frammento, che , per quanto m' è venuto fatto di rintracciare , fu scoperto in Ostia presso a s- Ercolano (dove fu sicuramente un qualche cimiterio di fedeli (1) ) in- sieme con altre lapidi pur cristiane, che spettano in- dubitamente al quarto, o quinto secolo della chiesa, di cui taluna si conserva nella villa Pacca. Alle quali ove si voglia contemporaneo il nostro marmo, si po- trebbe dire peravventura, che il tipo di Orfeo sim- boleggiante il divin Redentore, e il tipo del pescatore simboleggiante l'apostolo, comechè rarissimi nello sculture cristiane, siano in quel sarcofago stati adot- tati solo in ossequio della memoria dei primi fedeli, e per istudio d'imitarli e ritenere i loro simboli sa- cri , come risulta dai monumenti che si faceva in (1) Non mi è ancora succeduto di vedere come fossero in Ostia gli antichi cimiteri cristiani , che però non doveano punto somigliare a queli dei contorni di Roma, stante la di- versa natura del suolo ostiense , ch'è tutto arenoso e non si potrebbe sorreggere naturalmente, venendo forato, come av- viene nei terreni vulcanici. È da credere che fossero bensì sot- terranei, ma costrutti di materiale, nel modo più semplice che si potesse. Un cimitero di fedeli fu sicuramente presso a s. Ercolano, dandone indizio e la chiesa cristiana, che per la sua costruttura si dichiara spettante al sesto o settimo secolo dell'era volgare, e non poche lapidi cristiane ivi rinvenute di tempo in tempo. Io ne ho pubblicate due nella relazione del- l'escavazioni ostiensi dal 1855 al 1858; una delle quali, sicu- ramente posteriore al mille, dimostra quanto a lungo si con- tinuasse a seppellire in quel luogo. 170 effetto: studio d' imitazione che trasparendo ancora da taluni epitaffi posteriori al trionfo della fede, che sembrano affettare le formole dei titoli antichi, può credersi avere animato egualmente chi dettò l'epi- grafe dell'avello cristiano, di cui si ragiona. Cosi pa- rimente, in osservanza della memoria dei martiri , vollero i fedeli venir sepolti nei cimiteri sotterranei, anche lungo tempo dopo cessata la dolorosa neces- sità di nascondere le benedette lor salme nelle viscere della terra. Così la dottrina dell'arcano, non ostante che mutate fossero le condizioni dei tempi , durò ancora lungo tratto nella chiesa di Dio. Nientedimeno, siffatte considerazioni non mi sem- brano fare bastevole opposizione ai manifesti carat- teri di maggiore antichità cristiana che presenta il nostro marmo, e che lo rendono grandemente pre- gevole, stante la rarità delle sculture cristiane, che possano a ragione riputarsi anteriori ai tempi di Co- stantino. Caratteri, che il solo riguardo della pro- venienza di cotesto frammento non può autorizzarne a porre in non cale: perchè tale difficoltà si risolve di leggieri ed in modo assai verisimile, con assegnare il sarcofago ad un occulto cimiterio di fedeli ante- riore al secolo quarto; e le altre iscrizioni, che si mo- strano meno antiche, ad una chiesa o basilica edi- ficata dopo il trionfo della fede , presso 1' entrata del cimiterio medesimo; il che veramente usarono di fare i cristiani in venerazione di que'sotterranei, che serbavano tante reliquie di martiri, e che durante le persecuzioni erano stati santificati dalla celebrazione dei divini misteri. 171 Ora passando ad esaminare i particolari del nostro monumento, avvertiamo in primo luogo, che tanto il disegno, quanto l'artificio, sono assai difettosi nelle figure, per attribuire il lavoro dell'urna al declinare del secolo terzo. Nel concetto però si scorge alcuna imitazione dei buoni esemplari, massime nella persona di Orfeo, che posa il piede sinistro sopra d'un sasso, ristrumento sopra d'una colonnetta, o pilo, che sorge dallo stesso lato. Attitudine che spesso gli antichi hanno dato alle figure delle muse, o d'Apollo, qual- ora tocchino la cetera: come si vede in più monu- menti, fra i quali mi limiterò a citare due bassiri- lievi del museo Pio dementino (1) , ed uno della villa Borghese, illustrato dal Winkelmann, dove Apol- lo è figurato nello slesso movimento, salvo che ap- poggia la lira sulla cortina del suo tripode, e il pie sinistro suH'ippogrifo , animale a lui sacro (2). Fu questo probabilmente un partito adottato in principio da qualche artefice famoso, e dipoi seguito volentieri dagli altri nelle rappresentanze di soggetto consimile. Tiene Orfeo nella mano destra il plettro, di cui si serve per toccare le corde. Egli è vestito all'uso ro- •mano, cioè di tunica e pallio: il che non troppo si accorda col berretto frigio che tiene in capo. In una delle pitture del cimiterio di Calisto l'antichissimo poeta veste in tutto alla foggia dei barbari, che a lui competea come trace; vale a dire, oltre la tiara, una (1) Tom. VII. (2) Mon. ined. P. 1. Gap. XVII. n. 3. 172 breve tunica e le brache (òvalyp/^e?), abito che i greci avendo veduto alle nazioni barbare lor vicine, l'ap- propriarono indistintamente ad ogni specie di barbari, massimamente orientali; la quale usanza col tempo divenuta legge fu cagione, che persino gli scultori cristiani figurassero i magi che vanno ad adorare il Redentore, quasi altrettanti Paridi, come appare da molti sarcofagi, che non accade citare- Ma nell'altra pittura del prefato cimiterio mi sembra di scorgere Orfeo collo stesso vestimento che gli ha dato lo sculto- re dell'urna ostiense; giacché io non so se debba cre- derlo vestito dell'abito cilaredico, come h monsignor Bottari (!), che lo chiama anche impropriamente sago , eh' era invece la militar sopravvesta ; onde le note frasi saga sumere, ad saga ire etc, per di- notare il prepararsi alla guerra. E sono alquanto alieno dall'accordarmi col dotto uomo, perchè non parmi di vedere in quell'abito né l'ampiezza , né la finezza, né gli altri caratteri del sirma: di cui ab- biamo uno splendido esempio nell'Appollo citaredo del salone delle muse al vaticano. L'uso però di ve- stire Orfeo alla foggia dei barbari è meno antico del- l'uso di vestirlo alla greca. In abito greco si vedeva in- Delfo dipinto per mano di Polignoto (2): e così lo rap- presentano alcuni monumenti senza fallo pili antichi di quelli cristiani intorno a cui ragioniamo; per esem- pio, un basso rilievo già del palazzo Mattei, dov'ei si trova espresso medesimamente in atto di sonare (1) Scult, e più. sacre, tom. '6. p. 42. (2) Paus. lib. X, pag. 873. 173 la lira, circondato dalle fiere che gli prestano udien- za (1). Sembra pertanto che dal secondo secolo in appresso prevalesse il costume di vestire Orfeo al- l' usanza dei barbari; e ciò risulta anche dal nostro marmo, sebbene in esso l'abito barbarico, rappre- sentato dal berretto, sia congiunto coll'abito romano, cioè la tunica e il pallio, con poco savio partito e conforme ad un tempo che l'arti precipitavano verso la decadenza. Nel qual tempo è superfluo il ram- mentare che il greco pallio era stato generalmente sostituito alia toga romana, essendo trovato più co- modo : usanza incominciata fino dai giorni di Au- gusto, di cui ci narra Svetonio , che non vedea di buon'occhio 1' andare in disuso il grandioso vestire dei signori del mondo. Rispetto al nostro marmo , non credo che l'unione dell'abito romano colla tiara frigia possa nascondere verun'allusione; ma che di- penda onninamente dal capriccio e dalla poca con- siderazione dell'artefice, che seguì nelle vesti l'uso corrente al suo tempo; e solo aggiunse il berretto, per meglio caratterizzare il suo personaggio, e meno discostarsi dal modo cristiano di rappresentarlo. 'Sémprechè la tunica talare non debba qui rappre- sentare r abito citaredico , come vedemmo essere opinione di monsignor Bottari nell'Orfeo similmente vestito del cimiterio di Calisto. Resta ora il caprone, che trovasi ai piedi di Orfeo in atto mansueto di porgere ascolto; e il vo- latile posato sulla pianta d' alloro, che sorge allato (1) Mon. Mail. toni. II, tav. XXVII, tìg. -2. 174 al divino cantore. Rispetto al primo , non fa me- stieri rammentarvi, che siccome 1' agnello significa l'uomo giusto, così il caprone, o il becco, sono i figu- ramenti allegorici del peccatore, conforme al detto del Signore : Staluet quidem oves a dextrisy hoedos autem a sinixlris ; e con siffatta allusione si trova molte fiate cotesto animale nei dipinti cimiteriali. Ond'è che nel nostro monumento serve a mostrare l'effetto del soave canto di Orfeo, cioè della mira- colosa parola di Gesù Cristo, lu quale riduce i cattivi a penitenza, e li rende modesti e ragionevoli di ca- parbi e ribelli ch'egli erano prima. Nelle pitture del cimiterio di Calisto fanno corona al cantore varie specie di fiere, che vengono spiegate da Clemente Alessandrino colle diverse generazioni dei peccati : ma nell'urna ostiense il peccatore in genere, adom- brato dall'irco, fa le veci di tutti; solo vi si è ag- giunto il volatile , che secondo il prefato dottore simboleggia l'uomo vano e leggero. E tuttavia vien tenuto saldo in sul ramo dall'incanto del suono ma- raviglioso ! Riguardo alla figura del mistico pescatore, moz- zata per la frattura del marmo, e ch'era probabil- ' mente scolpita in ambidue gli angoli del sarcofago, poco mi resta ad aggiungere dopo quello che sopra ne ho toccato. Ricorderò solo che tanto la lira di Orfeo, quanto la immagine del pescatore, insieme cogli altri simboli della colomba, del pesce, dell'an- cora e della nave, dal più volte citato dottore si an- noverano fra i tipi, ch'egli persuade ai fedeli di fare 175 incidere nei loro sigilli (1). La tunica succinta, che veste detta figura, è solito arnese delle persone di mare; e dove l'urna si fosse conservata intera, credo che in capo al pescatore avremmo veduto la causiaf berretto o cappello proprio di quel mestiere. Meno anche v'è da dire intorno all'epigrafe, dopo r annotazione fatta piiì sopra sull'indole della me- desima. I caratteri sono regolari ed incisi con ba- stevole accuratezza. V'è da notare il barbarismo del- la Y invece della I nella prima sillaba del nome Firmi ; errore tuttavia, di cui non sarebbe difficile trovare altri esempi nell'epigrafìa, come avverte il eh. P. Garrucci , in proposito di lapide che legge domyno in cambio di domino (2). Senza uscire dalla villa Pacca ne recherò un altro esempio in un de- rivato dallo stesso nome Firmus: (1) At òè Gfpoc'^'t^eq >5fJt.Tv SffTMV TTsXej'aj, ^ «x^^?» ^' vuvg GÙp(Xi>o^pop.ou<7Cic- xj Ivpcx. fxcuffjxvj, ff Kz'x^pY}zcKi Uoku- ypccTyjg' yj cciy.vpcx. vot.miY.-o >jv li'kfuv.oq ÌMiy[jxpot.xi:ixo v^ "/kv^^- xav àhiuoìv ùg ^ , AnoaroXov [X£[ivyj atroce , kuì Twv l| vòuTog òfV(xan(ù[xtvc>)V nai^cav Smt antem nobis si- gnacula columha, vel piscis, vel navis, quae celeri curso a vento ferhir (si traduce nell'ediz. ossoniense; ma parrai vi si debba sostituire: quae celeri cursu in coelum tendit) vel lyra musica qua nsus est Polycrates, vel anchora nautica, quam insculpebat Seleucus: et si sit aliquis qui piscetur, meminerit apostuli, et puerorum qui ex aqua extrahuntur ( Clem. Alex. Paedag. lib. III. cap. XI.). (2) Marmi antichi di Fabrateria Vetere pag. 25. 176 D M E R N V L E I A E • G A Z A K VIX • ANN • XXXII MEN Vili DIES • XXII • LOCO • CONCES SO • ABATILIA • FYRMINA EXVOLVPTATE- EIVS A MICAE- CARISSIMA E Tal'è questo insigne frammento ostiense del subur- bano più volte nominato; il quale mentre ne pone sott' occhio una scultura cristiana sicurameute an- teriore ai tempi di Costantino, e quindi assai rara, offre ancora un nuovo riscontro alle dottrine dei pa- dri intorno ad Orfeo; e di conserto coi dipinti ci- miteriali ne fa conoscere, come il concetto dei me- desimi padri venisse recato in atto dall'arte cristiana, allorquando le condizioni dei tempi le ingiunsero di rendere misteriose ed ambigue le rappresentanze del culto. 177 Disposizione del prof, commend. Luigi Polelli a favore de* giovani italiani che studiano architettura nel- Vinsigne e pontificia accademia romana di S- Luca. Ij'amore che io porto all'arte e alla nostra acca- demia di S. Luca mi ha destato il pensiero di gio- vare la gioventiì, che alla stess'arte si dedica. La- scio che da altri si cianci contro le accademie con istolti giudizi, che mancano di logica. Costoro, ri- stretti in angusto cerchio di cognizioni , danno ai mezzi la virtù del fine : alle regole e ai principii , che le arti hanno, come tutti i rami dell'umano sa- pere, la sublime facoltà di formare i geni, an/jchè di risvegliarli. Nelle università così delle scienze come delle arti non s'impara che a studiare nel vero. È soltanto dopo quello studio, che si consegue la per- fezione; la quale si acquista non già nelle scuole, ma in seguito coll'csercizio e colla pratica della disci- plina a cui ognuno s'indirizza. Allora si sviluppa il proprio ingegno e la propria inclinazione. Non sono le accademie che danneggiano le arti: che anzi ne salvano la corruzione, ne allontanano i capricci e le bizzarrie , le quali sempre precipitano nella deca- denza. Ben altra causa ci condanna alla presente condizione! La malignità dei tempi, in cui regnano tante diverse opinioni , così pel vivere civile come per l'esercizio degli studi, sono il guasto dell'epoca nostra, nella quale inoltre si è svegliata una certa burbanza e temerità mista alle più basse passioni, G.A.T.CLVII 12 178 che deturpano la dignità delle arti. Eppure, a guardar retto, molti e molti viventi sarebbero giudicati geni in secolo men borioso! Ma io non voglio qui farla da censore. 1 posteri giudicheranno meglio della no- stra civiltà. Per giovar dunque alla gioventù, lasciando che altri di me più generosi estendano i loro benefìzi , ho stabilito di assegnare all'insigne nostra accade- mia, nella ristrettezza de'miei mezzi, un capitale di sei mila scudi, sperando ch'ella vorrà accettarlo, e con esso cooperare allo scopo, cui è diretto, colle seguenti condizioni : 1.* Che si faccia dall'accademia romana di S. Luca ogni quattro anni un concorso, il quale dovrà ap- pellarsi dal mio nome, fra gli studenti che frequentano le scuole accademiche di architettura teorica e pra- tica. Quello che da essa sarà giudicato vincitore go- drà per un quadriennio un annua pensione di se 240, ossia di se. 20 mensili , da ricavarsi sui frutti del suddetto capitale. Ma siccome la rendita annuale frut- tifera è di se. 300, così i residuali se- 60 saranno distribuiti in annuali gratificazioni come segue : Al sig. segretario dell'accademia . . .se. 30 Al sig. economo » 12 AI computista . » 06 All'esattore » 06 Totale ... se. 54 I residuali annui se 6 formeranno in quattro anni la somma di se. 24, che servirà per le stampe ed altre piccole spese del concorso. 179 2/ I concorrenti, italiani di nazione, dovranno aver frequentate le suddette scuole di architettura teorica e pratica dell' accademia almeno due anni , come saranno in obbligo di provare con apposito documento all'atto di presentare le loro opere. Nel primo concorso però si accorderà il privilegio agli attuali e passati studenti delle accennate scuole di essere ammessi quantunque non abbiano fatto il bien- nio; purché siano italiani e stati iscritti nell'elenco almeno di una delle due scuole. 3." Non saranno ammessi al concorso i giovani che superano 1' età di anni 24 , o che abbiano un età minore di anni 18. Nel primo concorso però sarà tollerata 1' età di 25 anni. La fede di nascita verrà parimente presentata dai concorrenti nell'atto di consegnare le loro opere- 4-.' Sono esclusi altresì quegli alunni , i quali godessero già d' altra pensione maggiore o eguale a se. 10, che fosse loro conceduta per qualsivoglia titolo da qualche principe o governo , da qualche pubblico istituto 0 collegio o accademia o cumune 0 provincia. 5." II concorso si aprirà ogni quattro anni nel mese di marzo, e nel giorno da stabilirsi con ap- posita notificazione- E qui chiedo in grazia di poter dare io stesso, durante la mia vita, il programma del concorso. Dopo di me sarà dato dal consiglio accademico , come si usa nei grandi concorsi de- mentino e Balestra. 6.° I giovani concorrenti dovranno assoggettarsi a tutte le prove estemporanee dei suddetti grandi concorsi. 180 7.* Il tempo da presentare le loro opere sarà circa alla metà di dicembre. Il giorno preciso verrà di- sposto nel programma. Il giudizio si farà dalla classe di architettura colla definitiva ed inappellabile ap- provazione dell'intera accademia, come nei suddetti grandi concorsi. Che se per caso il concorso an- dasse deserto , o niun concorrente fosse giudicato meritevole della pensione, esso si riaprirà secondo il solito nel marzo susseguente; e con gli se. 240 di annua rendita, non conferiti , si farà allora un premio di se. 130 da darsi nel venturo concorso all'alunno proxime accedens in merito a quello re- putato degno della pensione ; e verranno aggiunti in quell'anno se. 30 a ciascuno dei due primi pre- mi dei concorsi scolastici di architettura teorica e pratica dell'accademia, e se- 25 a ciascuno dei due secondi premi. 8." Quello che a forma dell'articolo precedente sarà stato giudicato meritevole della pensione co- mincerà a riscuoterla nel gennaio susseguente a rate per quattro anni consecutivi. 9.° L'alunno pensionato dovrà presentare all'ac- cademia un saggio de'suoi studi al primo di dicembre di ogni anno- Nel 1.° anno darà disegnati, colle misure scritte, gli avanzi di un classico monumento antico di architettura romana misurato sul luogo con alcuni particolari più in grande. Nel 2." anno il ristauro di altro classico monumento antico con altri particolari più in grande. Nel 3." anno una grandiosa fabbrica sacra o profana , tratta dalle opere dei più celebri maestri dell' epoca del risorgimento ( ossia dei se- coli XV e XVI), di Roma, di Firenze o di Venezia, 181 da esso espressamente misurata sul luogo e dise- gnata con alcuni particolari più in grande. Nel 4-.' an- no finalmente un vasto progetto di sua invenzione sviluppato in tutte le parli. 10." Chi non adempie agli obblighi dell'articolo precedente decaderà dal benefìcio della pensione: e sarà subito riaperto altro concorso. 11.° L'opera premiata nel concorso e i saggi annuali resteranno in proprietà dell'accademia, e ver- ranno esposti nella più prossima solennità delle altre premiazioni dell'accademia stessa. 12." Giovandomi poi della caducità imposta dal- l' accademico Pio Balestra nella istituzione del suo concorso, altra simile intendo d'imporne; dichiarando, che se questa mia disposizione venisse o interamente o in parte alterata, variata o violata, eziandio in forza di deroga o commutazione (che proibisco di chiedere od affettuare per qualsivoglia evento o cagione, quan- tunque di effetti ed usi utilissimi e necessarissimi), sostituisco il comune di Modena mia patria, acciò pensioni o in Roma o fuori qualche studente, o mo- denese 0 italiano, per quattro anni alternativamente in architettura, in pittura e in scultura col fruttato della suddetta somma, Roma li 18 febbraio 1859. Luigi Poletti Architetto Accademico. 182 Nuovo ed antico comento al canto IX del Purgato- rio di Dante. G, li antichi cristiani allorquando facean levare a Dio ottimo massimo, o alla sua vergine madre, o agli altri santi, qualche tempio, studiavano prima il modo e l'arte di ornarlo, in pittura o scultura, con simboli acconci alla fede e al corto intendimento del popolo. Ma la loro intrinseca ragione non impron- tavan del proprio, sì bene cavavanla intera e netta dalla sacra scrittura, dai dottori della chiesa e dai santi padri , che sono il fondamento e lume della scienza ecclesiastica, e il puro abbondantissimo fonte, in cui deggion tutti attingere e artisti e letterati e scienziati che voglion comporre qualche cosa di sa- cro , e darla all'altrui studio e meditazione Ne la chiesa, nostra amorosa savissima madre, soffre e con- sente a ciascun di fare in ciò il proprio talento: giac- ché allora non piiì sariavi upità di dottrina, e pronto intendimento della medesima; ma confusione, oscu- rità, errore, e'I domma alla fin fine andrebbe perduto in quest'orribil caos e ruinoso libertinaggio di pen- sare, inventare, interpretare, comporre. La simbolica cristiana, fondata in pria da Cristo, dagli apostoli ed evangelisti, s'introdusse stupenda- mente nelle catacombe; e dalle tenebre di queste , sempre con l' istessa forma e sostanza , passò alla luce dei templi, mantenendosi generalmente viva e parlante sino al secolo XV. Ma nei due ultimi secoli 183 non con quel vigore e giido che fu dal suo nascere fino al secolo Xlll, in cui si viveva e fioriva quel- l'immortale divin cantore, che vinse tutti gli antichi poeti, che non fu vinto da'contemporanei, ne sarà mai vinto da'futuri; voglio dire Dante Alighieri fio- rentino. Costui essendosi divinamente proposto levare un sodo e magnifico edifìcio alla scienza cristiana (1), non già fatto di pareti e colonne di pietra, o marmo, ma composto a parole volgari in versi rimati, piìi belli e graziosi e duraturi che non il marmo e l'oro istesso , studiò il comunemente vagheggiato e alto concetto di simboli, per tutto ornare, scolpendo e pingendo, il suo nuovo straordinario edificio, affin- chè a cotal foggia si paresse più splendente, pere- grino, sublime , e racchiudesse in se tutte le parti della scienza cristiana; quella in ispecie che, per am- maestrare le turbe , fu carissima a Cristo in vita ; essendo noto aver lui dato profondi e divini precetti per via di simboli e di semplici attraenti parabole. Ma l'Alighieri nello studio e composizione de'sim- boli non dovea mica adoperare un'arte e una scienza nuova di propria ed altrui fantasia ed invenzione ; sì bene l'arte e la scienza antica cristiana, amendue compiute perfettissime, già stabilite da tredici e più secoli addietro, continuate sino a'suoi tempi, e nelle quali saria stato prosunzione,stoUezza, irreligione aver (1) Frase tolta da un trattato sulla scienza di S.Bernardo, dal qua! trattato tolse Dante alcuni concetti per la|sua allegoria, come dimostrerò \i\ altro discorso. I8i intro(Jntto, senza permesso, alcun che di estraneo e di nuovo. E siccome lutti i buoni e sinceri cristiani studiaron sempre e trassero l'arte e la scienza loro dalla bibbia e dagli scrittori per la chiesa approvati, così Dante, buonissimo e sincerìssimo cristiano, do- veva in questi, come fece, profondamente meditare pel suo concetto; se no il suo gran poema, dannato e sbandito dalla comunione cattolica , non avria formato il diletto , l'amore e la maraviglia infinita e costante di tutte le eulte nazioni sì antiche e sì moderne. Se l'Alighieri adunque non formò, ne potea for- mare, a capriccio l'allegoria del poema, non puossi né manco a capriccio interpretarla; e se ci son note e manifeste le vere sorgenti della medesima, queste convien cercare, trovare, e con diligenza, intenzione, accortezza e pazienza, a modo de'chimici, analizzare; giacché l'analisi co'suoi confronti e speculazioni fa- ravvi chiaramente conoscere , se quella dal vostro giudizio rinvenuta sia o no la vera sorgente a cui desiosamente bevve l'Alighieri. II comentatore, che dispregia cotesta massima fondamentale, è come pi- loto senza bussola, o forestiero solo in luogo nuovo, o cieco senza guida. Camminerà per via non dritta, 0 a tentoni, spesso incespicando o cadendo, sempre incerto ne'suoi passi, confuso nella mente, inquieto nell'animo, affannato del corpo, compatito o deriso da chi vede, perdendo opera e tempo senza che possa mai giungere al punto stabilito; seppure non gli av- veaga ciò a caso , o per istraordinario e inatteso impulso del cielo. Ma infra la turba immensa di comentatori danteschi quanti , quanti mal , feronsi 185 alle note sorgenti? Oh! ben pochi ; e questi pochi s'ingannaron sovente per mancamento di analisi ac- curata e sottile. Io potrei farlo toccar con mano assai facile , e per mille esempi ; ma oggi mi basti col canto nono del PURGATORIO, là dove per simbolo è significato il sacro tribunale della penitenza. I co- mentatori facendosi quivi alla cieca senza scorta al- cuna, 0 con disacconcia, chi dice una cosa, chi un'al- tra sempre con discordia, e senza che ninno colga mai dritto nel segno: per cui il lettore incerto e smar- rito, non sapendo a qual parte tenersi, sente disgu- sto, e perde la voglia di saggiar più chiose intorno a questo punto. Ma, per entrare senz'altro al nostro proposito, leggiamo primamente il canto dichiarato, incomin- ciando dalla terzina « Lettor^ tu vedi ben ecc. », e quindi le note di alcuno fra' più reputati cemen- tatori. Lettor, tu vedi ben com'io incalzo La mia materia, e però con più arte Non ti maravigliar s'io la rincalzo. Noi ci appressammo, ed eravamo in parte, Che là dove pareami in prima un rotto Pur come un fesso che il muro diparte. Vidi una porta, e tre gradi di sotto, Per gire ad essa, di color diversi. Ed un portier che ancor non facea molto. E come l'occhio più e più v'apersi, Vidil seder sopra il grado soprano, Tal nella faccia, ch'io non lo soffersi: 186 Ed una spada nuda aveva in mano Che rifletteva i raggi sì vèr noi. Ch'io dirizzava spesso il viso invano. Ditel costinci, che volete voi ? Cominciò egli a dire: ov'è la scorta ? Guardate che il venir su non vi noi. Donna del ciel di queste cose accorta, Rispose il mio maestro a lui, pur dianzi Ne disse: Andate là, quivi è la porta. Ed ella i passi vostri in bene avanzi, Ricominciò '1 cortese portinaio: Venite dunque a' nostri gradi innanzi. Là ne venimmo; e lo scaglion primaio Bianco marmo era sì pulito e terso, Ch'io mi specchiava in esso quale io appaio. Era il secondo, tìnto piii che perso, D'una petrina ruvida ed arsiccia. Crepata per lo lungo e per travarso. Lo terzo, che di sopra s'ammassiccia, Porlìdo mi parca sì fiammeggiante. Come sangue che fuor di vena spiccia. Sopra questo teneva ambo le piante L'angel di Dio sedendo in su la soglia, Che mi sembrava pietra di diamante. Per li tre gradi su di buona voglia Mi trasse' il duca mio, dicendo: Chiedi Umilemente che il serrarne scioglia. Divoto mi gettai a'santi piedi: Misericordia chiesi, e che m'aprisse. Ma pria nel petto tre fiate mi diedi. 187 Sette P nella fronte mi descrisse Col punton della spada, e: Fa che lavi, Quando se'dentro, queste piaghe, disse. Cenere o terra che secca si cavi, D'un color fora col suo vestimento, E di sotto da quel trasse due chiavi. L'una era d'oro, e l'altra era d'argento: Pria colla bianca, e poscia colla gialla, Fece alla porta sì ch'io fui contento. Quandunque l'una di esse chiavi falla. Che non si volga dritta per la toppa, Diss'egli a noi, non s'apre questa calla. Pili cara è l'una, ma l'altra vuol troppa D'arte e d'ingegno avanti che disserri, Perch'eirè quella che il nodo disgroppa. Da Pier le tengo; e dissemi ch'io erri Anzi ad aprir, che a tenerla serrata. Pur che la gente a'piedi mi s'atterri. Poi pinse l'uscio alla porta sacrata, Dicendo: Entrate; ma facciovi accorti Che di fuor torna chi indietro si guata. Apriamo ora il comento di Benvenuto da Imola tradotto in volgare per l'avv. Tamburrini. « Noi ci appressiamo et eravam in parte colà dove partami prima ro/ 90 Maggiorani , Saggio di studi craniologici sul- V antica stirpe romana ed etrusca . . » 96 Questione medico-legale sulla contusione del pol- mone ecc » 105 Pianciani, Intorno alle forze motrici . . » 110 Visconti, Dichiarazione di im sarcofago cristiano (con rame) » 158 Poletti, Disposizione a favore de''giovani italiani che studiano architettura nelVaccademia ro- mana di S. Luca . . . . . . . » 177 Eroli , Nuovo ed antico comento al canto IX del Purgatorio di Dante ••,..» 182 Binaldi Bucci , Osservazioni pratiche di chi- rurgia ' . . ... . . . . » 209 IMPRIMATUR Fr. Th. M. Larco Ord. Praed. S. P. Ap. Mag. Socius IMPRIMATUR Fr. Ant. Ligi Archiep. Icon. Vicesgercns Nel giornale si dà il sunto, o \iene inse- rito l'annunzio, delle opere presentate in dop- pio esemplare alla Direzione. Esse debbono essere inviate franche d'ogni spesa di porto e dazio. Le notizie di scienze, di lettere, e di belle arti, quelle di scoperte utili per 1' agricol- tura, industria ec, come anche i programmi dei concorsi accademici, dovranno similmente es- ser mandati franchi di posta alla Direzione. Chi si associa per dieci copie, o ne garan- tisce la vendita, avrà l'undecima gratis. >^j> ^ GIORNALE DI SCIENZE, LETTERE ED ARTI TOMO XII DELLA NUOVA SERIE ROMA Tipografi» delle Belle Arti 1859 Piazza Poli num. 91 dentro il Palazzo. GIORNALE DI SCIENZE, LETTERE ED ARTI TOMO CLVIII DELLA NUOVA SERIE XII NOVEMBRE E DICEMBRE 1858 ■'-c^fe^^' ROMA TIPOGRAFIA DELLE BKLLE ARTI 1859 Discorso delV eminentissimo e reverendissimo signor cardinale Carlo di Reisach alle pontificie accademie romane di S- Luca e di Archeologia insieme adu- nate il di 17 di marzo 1859. N< lon v'ha luogo nell'universo, in cui le arti belle uni- tamente agli studi archeologici possano con miglior successo coltivarsi come nell' amata nostra Roma. Capitale dell'antico mondo in se raccolse quanto in fatto di scienze e di arti belle produr seppe l'an- tica cultura, e quanto d'ideale e di sublime poteron ispirare i culti religiosi di quasi tutt'i popoli civi- lizzati- Fatta capo e centro del cristianesimo salvò e tuttor salva i preziosi monumenti dell'antica civiltà e grandezza , che delle più perfette forme , colle quali le arti pervennero a rappresentare le idee del bello , sono esemplari , e che di giorno in giorno risorgendo dai sotterranei nascondigli del classico suolo, benché spesso rinvenuti nel deplorabile stato di deperimento e ruina, cui le ridussero la barbarie dei tempi passati , e gli sconvolgimenti e vicende dei secoli, a che soggiacque la Roma quadrata di Romolo finché divenne la residenza pacifica de'Vi- cari di Cristo; rendono nondimeno testii^fionianza di quella leggiadria ed eleganza, di quel c/icerto e si- metria, di quel gusto squisito, che tanto distinguono le opere dell'arte antica. Ma ciò che più importa, 4 nobilitata dalla sede di Pietro con esser la deposi- trice indefettibile e l'infallibile maestra delle verità rivelate da Dio, Roma fu fatta il centro e la diret- trice di quell'universo movimento degli spiriti, con cui sulle basi delle verità eterne e sovrannaturali si sviluppò un ordine tutto nuovo d'idee, il quale nel rettificare, perfezionare, ed elevare l'antico fin ai più più sublimi misteri della divina Sapienza, come alle scienze , così anche alle arti belle fu sorgente del più perfetto compimento, dando a queste non meno che a quelle l'unico, vero e solido fondamento della fede divina. Non è dunque a maravigliare , che mentre a Roma ricorrono, ed in Roma si riuniscono valorosi dotti d'ogni paese per quivi raccogliere, studiare, e spiegar coi lumi delle scienze i monumenti dell' an- tichità, i quali ad ogni passo inconlransi nella città eterna , e di cui van ricolmi gli ammirabili suoi musei, si stringano in istretta alleanza per conser- vare alla città dei papi la gloria di esser maestra del vero bello, come per volontà dell'Altissimo dessa è la maestra dell'unico ed infallibile vero. Or io oggi vedendo riuniti gl'illustri individui delle due accademie, delle quali l'una agli studi archeolo- gici, l'altra alla cultura delle arti belle rivolge le sue cure, afifin di celebrare con solenne adunanza l'intima loro unione, non posso a meno di sommamente ralle- grarmi; perocché siffatta unione, necessaria conse- guenza, per dir così, delle circostanze tutto particolari della nostra Roma, non può mancar di produrre i più felici risultati per lo sviluppo sempre maggiore di ambedue le accademie. 5 È perciò che, fattemi premure per indirizzarvi in questa occasione un mio discorso, credo non poter meglio soddisfare all'impresa, che col mostrarvi, si- gnori, quanto progresso e quanta perfezione possano acquistare le arti belle dagli studi archeologici. Troppo vasto sarebbe il mio tema, se io volessi estendermi a tutta quanta l'archeologia, ed e tutte le arti belle in particolare ; né sfuggirei il giusto rimprovero di essermi lanciato in un'impresa supe- riore alle deboli mie forze. Poiché se da un lato mancanmi quegli studi profondi ed estesi che da voi si coltivano con tanto zelo e profitto nell' archeo- logia dei tempi classici dell'antichità, sono dall'altro più che digiuno in tutto ciò che ha relazione alla particolare cultura dei singoli rami delle arti belle. Mi limiterò adunque a quella parte dell'arie e del- l'archeologia, la quale come ecclesiastica, più si ac- costa e si addice alla mia vocazione. Nell'accingermi poi a parlarvi dell'influenza, che l'archeologia sacra debbe aver sull'arte cristiana, pregovi ad {scusarmi se colla rusticità , e collo straniero suono del mio , dire, sarò per arrecarvi tedio e molestia, avvezzi sic- come siete all'eleganza e all'armonia del delicatissimo vostro idioma. Restringendo il mio tema alle arti cristiane, per- mettetemi, signoii , che pria di tutto io vi spieghi ciò che intenda essere il carattere dell'arte cristiana. Imperocché non vorrei che credeste venir da me di- spregiate tutte quante le opere dell'antichità classica 0 negato il carattere di vera arte a tutte quelle, che provengono da un genio informato dalla fede cri- stiana- No certamente : non son di coloro che le 6 aiti belle restringer vogliono ai soli oggetti sacri e religiosi del cristianesimo , o che pretendono che nel raffigurare tali oggetti debba prescìndersi da ogni regola del bello osservata dagli antichi^ e cre- dono perciò inutile, nocivo anzi per l'arte cristiana, Io studio delle opere classiche del paganesimo. Nep- pur son di coloro, che per cristiana considerano sol- tanto quell'arte , la quale si studia d' imitare con iscrupolosa, e direi meglio schiava esattezza, le opere del medio evo- Il carattere dell' arte cristiana non istà nello stile di un dato tempo , né nelle forme esterne fisse e determinate. Non fa neppur duopo per esser cristiano , che l'artefice nel rappresentar le sublimi idee ispirategli dalla divina religione che professa, si discosti affatto dalle forme usate dagli antichi, e subordini in modo l'esterna manifestazione all'idea, che vuole esprimere nell'opera artistica, che non osservi neppur le regole desunte dall'idea ge- nerale del bello, e dalle leggi insegnateci dalla natura. Egli è ben vero e fuor d'ogni dubbio, che dall'in- trinseca bellezza e sublimità dell' idea , che quasi parto del genio dell'artefice da esso viene espressa, rappresentata e per dir così incorporata nella ma- teria, principalmente dipenda il carattere ed il pregio dell' opera artistica. Né saprei giammai riconosce- re come vera e perfetta opera d' arte quella , cui manchi l'ideale bellezza e la sublimità dell'oggetto, che debbon compenetrare la forma esterna, come lo spirito anima il corpo; sia pur che l'artefice abbia saputo dare alla rappresentazione sensibile del suo concetto mentale la più vaga , regolare e perfetta forma. 7 Nella vera opera artistica l'idea non debbe pre- dominar in modo, che la forma venga del tutto ne- gletta; anzi essendo appunto il fine dell'arte di render sensibile nella maniera piiì conforme ed adequata l'oggetto ideale, quanto questo sia piiì bello e subli- me, tanto più bella e perfetta conviene sia la sua raffigurazione esteina e sensibile. Non dalla forma adunque, né dal modo di rappresentazione, la quale non è che l' esterior veste e l'espression dell'idea, si dee desumere il carattere di cristiana d'un'opera dell'arte. Dessa sarà cristiana se l'oggetto ideale che rappresenta sarà ispirato al genio dell'artefice dalla fede e dallo spirito cristiano, che informano la sua mente ed il suo cuore; sarà perfetta se alla verità ed alla sublime bellezza del concetto mentale si ag- giunge una forma, la quale lungi dal contraddire al- l'idea, si accomoda ad essa, si conforma ad essa, e da essa penetrata ed animata, la rappresenta in per- fetta armonia colle regole del bello attinte dal gran libro della natura , nella quale il Creatore stesso seppe incorporare le idee eterne della sua mente per farci conoscere le invisibili cose: « invisibilia per ea quae videntur ». Se dunque l'artefice cristiano non deve trascu- rare nelle sue opere la regolarità e bellezza , l'ar- monia e la proporzione della forma esterna: se non può negarsi che gli antichi maestri abbiano non so- lamente prodotto dei modelli nella perfezione di queste forme , ma abbian saputo anzi conformarle ed adattarle alle loro idee ed ai loro concetti mentali in modo che gli abbiano espressi e manifestati anche perfettamente, non vedo perchè l'artefice cristiano 8 non possa nella scuola di tali maestri studiar la ma- niera di congiungere alla perfezione dell'invenzione ideale quella dell'eterna sensibile manifestazione. Siami però permesso a maggior chiarezza di far qui una riflessione, che servirà per ovviare ad un er- rore, che facilmente potrebbe commettersi. Dissi, che l'artefice cristiano debba studiare le opere classiche degli antichi ; non dovrà egli applicare le forme esterne, sebbene da noi ammirate per la loro per- fezione, agli oggetti cristiani; limitandosi in ciò ad una pura imitazione e semplice riproduzione delle forme medesime. Sia pure che in quei capolavori scorgasi una somma proporzione ed armonia , un gusto e tatto particolare, una intelligentissima mae- stria e diligentissima perfezione del concetto artistico. Queste forme esterne in quanto servono a manife- stare e rappresentare idee piiì o meno difettose, per- chè né fondate sulla piena verità risplendente nella religione di Cristo, ne perciò conformi ai concetti e sentimenti veramente cristiani , non possono es- sere adatte ad esprimere rettamente e adequata- mente le ispirazioni d' un animo nutrito e diretto dalla fede e dalla divina grazia. Esse non possono trasportarsi senza modificazione all'arte cristiana, la quale per rappresentare oggetti tutto diversi ed in- sieme più sublimi e spirituali, che non furon quelli conosciuti dagli antichi, ha bisogno di altre forme, le quali benché modellate secondo le regole generali del bello, vengano però modificate dall'interno spi- rito, che ed esso debbe dar la vita, e che da esse debb'essere espresso e manifestato. 9 Del resto, o signori, parlando in questa capitale del cristianesimo ornata da innumerevoli opere del- l' arte sacra , non ho bisogno di lunghe deduzioni per provarvi, che allora solo possono le arti belle attingere alla perfezione , quando siano veramente cristiane ; e che quegli è l'artefice più grande , il quale seguendo le ispirazioni della fede s'innalza alle sublimi verità, in cui risplende insieme colla infinita sapienza la somma bellezza di Dio; è quegli, il quale le sue invenzioni desunte dalle verità stesse incor- pora in forme esterne, che partecipando alla subli- mità e bellezza delle idee le facciano apparire in tutta la loro perfezione ed eccellenza. L'arte di sua natura è connessa col sentimento religioso, in quanto che l'uomo dopo la sua caduta spinto dall' interno bisogno di ravvicinarsi al suo Dio, e di ristabilire i legami che ad esso natural- mente lo stringono , s' industria di esprimere e di fissare esternamente, prima di tutte le altre, le idee ed i sentimenti che a tale rapporto si riferiscono Egli è perciò, che nel decorso dei secoli e presso tutte le nazioni sotto l'ombra della religione e sotto la sua influenza le arti belle nacquero e crebbero; ed esse in quelle opere appunto attinsero il grado di eccellenza e di perfezione, nelle quali rappresen- tansi oggetti di religione- Chi potrà dunque dubitare, che l'arte umana sia giunta al suo compimento ed al vero scopo, quando per redimere il mondo de- caduto, il Verbo Divino, immagine perfettissima del sommo Iddio, scese sulla terra e visibilmente com- parendo nell'assunta umana natura, opera la più ec- cellente dell'arte divina, compì un nuovo ordine di 10 cose, nel quale tutti i rapporti dell'uomo furono se- condo le idee eterne di Dio ristaurate, e nella per- sona, nella dottrina, nelle opere e nella vita tutta quanta dell'Uomo-Dio si nianifestarono i tesori ine- sausti della verità, della bontà e della bellezza som- ma dell'Onnipotente. Ai falsi ed erronei concetti, alle idee vaghe, di- fettose ed immaginarie, che i pagani ebbero circa le cose divine ed insensibili, circa l'uomo, la natura ed i vicendevoli loro rapporti, succedette la pienezza e la certezza della verità rivelata; e mentre l'artefice pagano cercando nelle favolose teogonie e mitologie gli oggetti per le sue invenzioni artistiche videsi ristretto in un ordine del bello, che non potca in- nalzarsi sulle cose naturali e create, l'artefice cri- stiano viene elevato dalla sua fede nella regione delle cose sovrannaturali, in cui gli appare un nuovo or- dine di bello tanto più perfetto, quanto più spiri- tuale e sollevato sopra le cose sensibili; ordine che oltre le idee e le immagini più sublimi di bellezza gli somministra pure una regola ed una guida certa per riconoscere ed apprezzare quanto havvi di vero bello nell'ordine naturale delle cose. Dall'altra parte mentre dalla religione cristiana l'arte umana fu innalzata ad uno stato tutto spiri- tuale e sublime , e le fu aperto un campo vastis- simo onde desumere e nobilitare gli oggetti della sua invenzione , fu essa condotta e diretta al vero suo scopo; scopo nobile e grandioso, perchè effica- cissimo per cooperare al fine ultimo di tutte le cose, la maggior gloria di Dio. Imperocché 1' uomo non essendo una pura intelligenza, ma essendo composto 11 di uno spirito e eli un corpo, ha bisogno per ri- cevere le impressioni delle cose anco puramente spi- rituali, che per mezzo di forme esterne e sensibili venga illuminata la sua mente, eccitata l'immagina- tiva, toccato il cuore per sollecitarlo agli affetti ed alle opere della libera sua volontà, colle quali debbo tendere alla somma sua e unica vera felicità- Qual poderoso sussidio a ciò non gli saranno le belle arti, se colla l'egolarità e vaghezza delle loro opere non si fermino già a destare il solo diletto, ma s'inge- gnino a ravvivare la fede, a destare effetti conformi alle religiose credenze, e ad indurre gli uomini al viver santo e secondo la legge di Dio? Convien pur dire, che le arti belle con rivolgersi di preferenza alla mitologia e alla storia degli antichi, o ad oggetti terreni e scevri d'idee elevate e sublimi, con rappre- sentare anche cose sacre e cristiane in altitudini trop- po profane e simili alle pagane, con far apparire in lusinghevole e seducente vaghezza la sola bellezza esterna del corpo umano, con abbassarsi non rare volte alla rappresentanza di cose sensuali o puranco lascive ed oscene, abbiano non poco conferito a far languire la fede, ad indebolire i sentimenti cristiani, a fomen- tare quello smisurato attacco alle cose ed alle pas- sioni terrene, che induce gli uomini al mal costume ed alla dimenticanza di Dio- Che si rammenti dunque l'artista cristiano dell'alta sua missione; e chiamato a partecipare alla gloria dell'apostolato, serva coll'ef- ficacissima sua arte alla vera religione per esser da lei sollevato al sommo della perfezione che possa attingere- 12 Ma mi domanderete, o signori, qual sia la stra- da, e quali siano i mezzi per arrivare a questo sco- po , e per far sempre più vivere e crescere nelle arti belle lo spirito veramente cristiano. Non è dif- ficile la risposta. Imperocché se l'artista alla vivezza della fede ed alla purezza del cuore, che debbono distinguerlo come uomo , accoppicrà la frequente contemplazione dei misteri e delle salutari credenze della nostra santa religione, ed uno studio diligente e ragionato di quanto ne' secoli passati lo spirito di fede ha prodotto nell'arte; facil cosa sarà al suo genio di dare agli oggetti religiosi , che raffigura nelle sue opere, un'interna vita, che partendo da una mente e da un cuore religioso investe le for- me esterne e le ricolma con quella bellezza pura, semplice ed attraente, che desta negli animi di chi le riguarda pensieri e sentimenti salutari. Ed eccoci arrivati al punto opportuno del mio povero favellare sull'arte cristiana, ove rivolgendomi all'archeologia sacra tenterò in brevi cenni indicarvi di quanto giovamento possa esser la medesima al progresso ed alla perfezione di detta arte. Non* è menomamente da dubitarsi, che dai pri- mordi della chiesa quei ferventi pastori e fedeli sotto la scorta degli apostoli si sian prevalsi delle belle arti per render visibili e percettibili le sublimi ve- rità della fede, su cui fondavasi la loro speranza , tenendo sempre accesa la carità, la quale riempiva i loro cuori di ardente zelo per la dilatazione del regno dei cieli. Ancorché ci mancassero affatto mo- numenti superstiti dei primi tempi del cristianesimo, il carattere proprio e la natura della religione e della 13 chiesa ci persuaderebbe , che la fede destinata ad illuminare tutto il mondo, ed a ristaurare l'uomo secondo tutte le sue potenze, non potò fare a meno di usare di mezzi naturali così efficaci ed adattati alla natura umana, come sono le arti, per eccitare i seguaci di Cristo a quegli affetti e sentimenti, coi quali debbono adorare 1' Eterno Padre « in spiritu et ventate ». Ma non ci mancano monumenti siffatti: che quasi ogni giorno i mirabili ipogei della Roma sotterra- nea ne somministrano dei nuovi tanto più preziosi, quanto più luminosamente da essi l'archeologia ri- cava delle nuove prove per dimostrare qual fosse il carattere, Io spirito, e l'uso dell'arte cristiana nei primi secoli di quell'era. Se voi, signori, confrontate quei bassorilievi, che sui sarcofagi cristiani troviamo scolpiti, talvolta so- lamente abbozzati e lasciati imperfetti, quelle pittu- re fissate con qualche pennellata sull* umido tufo delle oscure ed anguste cripte, quei disegni graffiti sulla tenuissima lamina d'oro inchiusa tra due vetri sul fondo di fragili tazze, come sulle tavole mar- moree , che chiudevano i loculi cimiteriali , quelle figure 0 quei simboli intagliati su qualche gemma 0 qualche utensile domestico ; se queste primizie dell'arte cristiana, io dico, voi confrontate colla im- mensa varietà, e somma vaghezza e perfezione dei capolavori degli artefici pagani, vi troverete certa- mente una notabile inferiorità degli artefici cristiani nell'esecuzione artistica: anzi non rade volte la man- canza quasi totale di quelle regolari e perfette for- me , che ammiriamo nelle opere classiche dei pa- 14 gani. Qualunque non ostante sia la ragione di que- sto difetto ( e certamente potrebbero addursene molte e stringenti) non vi sfuggirà , che i pittori e scultori cristiani nelle opere loro piiì accurate, lungi dal volersi discostare dalle regole dell'arte, si con- formarono piuttosto in tutto ciò, che si riferisce al- Testerna rappresentanza delle idee e dei concetti men- tali, a quanto videro osservato e praticato cosi per- fettamente dall'arte greca o romana. Di più, in tutto ciò che risguarda gli ornamenti e la natura riten- nero finanche i simboli ed i tipi usati dai pagani, escludendo dalle loro opere soltanto quelle cose che propriamente alla mitologia religiosa ed al supersti- zioso culto del paganesimo appartennero. Ciò non ostante, benché in questa parte non v'abbia di^e- renza essenziale tra le opere artistiche dei pagani e dei primitivi cristiani, sembrami tuttavia potersi ravvisare negli atteggiamenti e movimenti delle per- sone, nell'espressione degl'interni sentimenti, nella disposizione e nell'ordinamento delle figure, qualche carattere proprio dell'artefice cristiano , che provi quanta influenza dovettero esercitare le idee cristiane suir estrinseche forme, con cui vennero rappresen- tate. Ciò però che vi è di singolare e di piij impor- tante per caratterizzare l'arte cristiana di quei tem- pi, e che anche ai giorni d'oggi può dare gran lu- me all'artefice, e servirgli di norma, si è il modo, con cui anche nelle opere loro rozze ed imperfette s' ingegnarono i primiti cristiani di esprimere e di rappresentare le idee tutto spirituali e sublimi con- tenute nei donimi e nei misteri della santa nostra religione- 15 Potrebbe credere taluno, che gli artefici volen- do ricordare colle loro immagini le verità della fede, le virili ed i sentimenti fondati sulle credenze, cose tutte insensibili ed astratte, avessero posto tutto lo studio nell'inventare rappresentanze allegoriche, con cui rendere visibili quegli oggetti ideali. Ma non è co- sì. Quegli artefici cristiani primitivi non si fidarono né dell'acume della lor mente, né della forza della loro immaginativa; e schivaron così quelle sofistiche- rie fantastiche, colle quali ne' secoli posteriori ta- luni s'invilupparono nel figurare la semplice e schiet- ta dottrina della chiesa. La via, a cui s' attennero gli antichi, era molto più semplice, piana e sicura, perchè adattata e conforme alla natura della reli- giope cristiana. Imperciocché siccome Iddio per ri- staurare il genere umano decaduto nella sua orìgine per fatto del primo uomo dalla sua destinazione non lo abbandonò, ma con una serie di fatti divini e so- vrannaturali diresse il provvidenziale corso e sviluppo della sua storia, e compiè la sua redenzione; così la nostra religione tutta quanta riposa su fatti reali ed esistenti, i quali registrati nelle ispirate pagine della sacra scrittura, svelando il piano di Dio, sono l'immobile fondamento, su cui si appoggiano le dot- trine , le quali appunto in quei fatti e per mezzo di quei fatti si sono rivelate. Questi atti di Dio ma- nifestati all'esterno appariscono, mi sia permesso di così esprimermi, come le opere piiì perfette del- l'arte divina, perchè in essi atti sono incorporate e manifestate perfettamente le eterne sue idee. Gli artefici cristiani furon dunque guidati da un giustissimo e verissimo riflesso quando per raffigu- 16 rare le verità tutto spirituali della religione si ri- volsero e si attennero ai fatti biblici, nei quali lo stesso Iddio le ebbe racchiuse, per manifestarle- Ine- rendo all'insegnamento comune della chiesa, ravvi- sarono nei fatti storici dell'antico testamento i tipi profetici di quanto nel nuovo doveva adempirsi ; e nei fatti di questo, oltre la verità storica e l'adem- pimento dei tipi antichi, riconobbero contenersi le più svariate simboliche significazioni delle misteriose dottrine che costituiscono la religione di Cristo. Nell'applicar poi un particolare fatto dell'antico testamento a quei del nuovo , e nello spiegare ed applicare i simboli di quest'ultimo alla dottrina, non agivano arbitrariamente, ma si conformarono alla viva tradizione ecclesiastica ; cosicché diretti nella scelta delle figure da quella chiesa medesima , la quale ai fedeli insegnò e spiegò il vero senso del figurato, erano sicuri non solamente di non allon- tanarsi dalla verità, ma di accomodarsi alla capa- cità ed alla intelligenza dei fedeli in modo, che le loro opere, rammemorando i dommi e i misteri della fede, servivano ad imprimerli profondamente nelle menti e nei cuori degli spettatori. Ecco in brevi cenni la regola fondamentale, cui si attennero quei primi artefici cristiani in quella parte, che è la principale dell'arte, cioè nell'inven- zione: regola che fondata sull'intrinseca natura della nostra religione ci spiega ancora donde venga, che in alcune delle loro rappresentanze vediamo delle cose, le quali perchè in dissonanza colla storia , a prima vista sorprendono, e ci fanno sospettare un troppo grande e men lodevole arbitrio nell' inven- 17 zìone artistica. In verità potrà sembrare strano, per esempiojseil divino Salvatore si trova figurato in atto d'intervenire nei fatti dell' antico testamento ; se a Mosè, ad Abramo, ad Elia vediamo sostituito il me- desimo Cristo, 0 S. Pietro] se in parecchie immagini le circostanze proprie del fatto storico sono omesse o cambiate, e circostanze di diversi fatti, o gli stessi fatti diversi di amendue , senza separare i testa- menti, troviamo riuniti nella medesima rappresen- tanza. Or tali cose parrebbero , come testé dissi , contrarie a quella savissima legge, che detta all'ar- tefice il conservare nelle sue composizioni 1' unità del soggetto, e 1' attenersi per quanto è possibile , e per quanto permettono le regole generali del bello, alla verità isterica dei fotti, che s'accinge a rappre- sentare. Se peraltro consideriamo la natura dei fatti, di cui si tratta, e nei quali o mediatamente o imme- diatamente Iddio stesso intervenne nell' ordinario e naturale corso e sviluppo delle cose terrene; se per questa ragione, affine d'intendere e spiegare tali fatti, eleviamo la nostra mente sulla base delle verità ri- velate insino alle idee direttrici del medesimo Dio, non ci sarà difficile di ravvisare nella serie di detti fatti una mirabile unità organica, nella quale pre- scindendo dal tempo, dal luogo e dalle circostanze, in cui l'Onnipotente prefìsse l'esecuzione esterna delle sue idee, i particolari fatti si rannodano gli uni agli altri, si compeaetrano, per dir cosi, nella mente di- vina, la quale mentre nella tipica e profetica figura vede ed esprime sempre il figurato, considera ed in- veste ciaschedun fatto coi moltissimi rapporti intrin- G.A.T.CLVIU. 2 18 geci, che ha cogli altri e coiridea totale del piano divino. Se dunque gli artefici cristiani condotti dalla dottrina della fede, ed appoggiandosi sempre sull'in- segnamento della Chiesa, s'industriarono cogli accen- nati ripieghi dell'invenzione a mostrare ed a rendere, per dir così, quasi palpabili 1' intrinseca unità ed i vicendevoli rapporti dei fatti biblici, davano essi al- l'arte cristiana il carattere d'una sublime specula- zione; e lungi dall' allontanarsi dalla verità , con- correvano piuttosto a render facile e piana 1' in- telligenza di quei veri , i quali svelando alla mente umana i profondissimi e sapientissimi pensieri di Dio, la riempono d' una luce tutto divina, che spande nell'anima il più puro e vero diletto. Troppo si dilungherebbe il mio discorso, ed io abuserei della condiscendente vostra pazienza , se per provare quanto fin qui da me fu detto sull'arte primitiva dei cristiani, volessi solo spiegarvi i prin- cipali monumenti, che di essa ci rimangono. 1 dotti archeologi, che si trovano riuniti nella nostra Homa, e colle erudite opere che pubblicarono, e colle ac- cademiche dissertazioni che di quando in quando re- citarono, hanno spiegato ed illustrato quei preziosi tesori con tale un corredo di sacra dottrina ed eru- dizione, che poco 0 niente potrà dirsi di nuovo e di pili profondo. Permettetemi ciò non ostante, che per modo d'esempio vi proponga un sol soggetto, nel quale, a mio avviso, spero potervi indicare bre- vissimamente il carattere simbolico e tutto spirituale di quelle artistiche rappresentanze. Voi vedrete, si- gnori, su pili d'un sarcofago cristiano scolpiti Adamo ed Eva presso l'albero, cui è attortigliato il serpente 19 tenendo in bocca il fei-al pomo, per indicar la colpa commessa già dall'infelice coppia; come rilevasi dalle altitudini delle due persone, e dall'intervento d'una terza, la quale stando nel mezzo delle altre due, Ada- mo cioè ed Eva, ha nella destra un mazzo di spi- ghe, e nella sinistra un agnello- Ora è ben chiaro, che l'artefice nel fatto dei protoparenti volesse rap- presentare il domma della colpa originale. Ma sic- come questo domma fondamentale del cristianesimo nella economia divina è intimamente connesso con quello della redenzione, e dalla generalità di questa rimane provata la generalità di quell'altra, l'artefice all'idea della colpa, che invade tutto il genere umano, associava quella della sua ristaurazione ; seguendo in ciò la storia biblica stessa, la quale c'insegna che subito dopo il fallo Iddio degnossi promettere il Re- dentore. Elevandosi adunque a contemplare il fatto con tutt'i suoi rapporti come esisteva già nelle idee della mente divina, nella quale al primo Adamo pre- varicatore e padre della stirpe perduta fu aggiunto e sostituito il secondo riparatore e padre della stirpe rigenerata, l'artefice fa comparire in mezzo ai no- stri progenitori il Verbo Di vino, già rivestito delle uma- ni carni, in sembiante di pacifico e misericordiosis- simo Redentore, il quale porgendo ad Adamo le spi- ghe rammemora , che condannato l'uomo in puni- ziono del suo fallo a mangiare il pane col sudore della sua fronte, i meriti di Gestì Cristo, vero pane disceso dal ciclo, gli cangeranno in salutare peni- tenza ed in meriti per l'eternità i lavori e gli stenti della vita presente. Dando poi l'agnello ad Eva l'ar- tista c'insinua, che mentre la donna sarà costretta 20 a fornire, col lavorare la lana, le vesti per coprire la nudità del corpo resa palese e vergognosa colla sua colpa, per mezzo di un'altra gran donna, di cui Eva è tipo e figura , ci sarà dato quell'Agnello di Dio, che togliendo i peccati del mondo ricuopre colla nuziale veste della grazia santificante la nudità del- l'anima, che poi riveste con quella della gloria im- mortale nella beata vita del cielo. Egli è S. Epifa- nio che ci porge questa bellissima spiegazione, quan- do comparando Eva con Maria ci dice: a Nam de tt duabus foeminis dictum illud est: Quis dedit mu- « lieri sapientiam et variegandi scientiam ? Etenim « Eva illa prior sapiens mulier Adamo, quem ipsa « nudaverat, aspectabilia quaedam vestimenta con- « texuit, quippe eiusmodi est labore damnata: quod « enim nuditas illius opera reperta fuerat, hoc ei- « dem datum negotium est, ut ad externam nudi- « tatem tegendam corpus istud, quod sensibus ex- « positum est, veste contegeret. At Mariae divinitus « illud obtigit, ut Agnum nobis atque ovem pare- « ret, cuius ex splendore et gloria tamquam e vel- « lere per eiusdem virtutem immortalitatis nobis « vestis sapienter est confecta ». Da questo solo esempio parmi rimaner provato quante sublimi verità sapevano gli artisti antichi esprimere e rammemorare colla semplice rappre- sentanza di fatti noti ad ogni fedele. Né credo do- ver aggiungere altra cosa a questo mio discorso per convincervi esser ben grande il profitto, che i cul- tori delle belle arti possono ritrarre da uno studio diligente dell'archeologia cristiana. 21 In un tempo come il nostro, in cui le idee an- ticristiane intromettendosi e propagandosi in tutte le scienze hanno tentato di sconvolgere tutta intera la società umana, ed in cui le false teorie del mate- rialismo, del razionalismo e dell'indifferentismo re- ligioso s' oppongono a tutto ciò che vi è di spiri- tuale, di sovrannaturale e di divino nella religione di Cristo, fa duopo che le belle arti, se non vogliono degradarsi nel servizio del moderno paganesimo, si congiungano colla religione e colla Chiesa per con- servare e ravvivare quell'unica vera fede, che è il fondamento solidissimo e la regola infallibile del vero, del bello, e del buono- 22 Due curiosi passi De^Mirabili e del Berni, relativi ad un Virgilio sospeso a mezza torre e magicamente evaso dalla prigione^ spiegali dal prof. Fabio Gon> r ra le opere del celebre poeta che al burlesco stile comunicò '1 suo nome, vi ha il sonetto XI che nel seguente modo incomincia: Non vadan piiì pellegrini o romei La quaresima a Roma agli stazzoni Giù per le scale sante inginocchioni Pigliando le indulgenze e i giubilei. Nò contemplando gli archi e culisei, E i ponti, e gli acquedotti, e settezzoni, E la torre ove stette in due cestoni Virgilio spenzolato da colei. Nel libro poi De mirabilibus Homae edito in Roma nel 1511, e ristampato con maggiore accuratezza, correzioni ed aggiunte dal Montfaucon Diarium ita- liciim pag. 284 edit- Paris 1702, così descrivesi il colle di Magnanapoli preteso Viminale : « Vimi- nalis ubi est ecclesia s. Agathes , ubi Virgilius ca- ptus a romanis invisibiliter exiit^ ivilque Neapolimy Wide dicitur « vado ad Neapolim: » il qual testo varia non poco dall'altro dell'edizione del 1511 che dice: Mons vinalis ubi est ecclesia sancte Agathe: ubi Vir- gilius caplus fuit a romanis, qui visibiliter exiens a carcere perrexil Neapolim ». 23 Ambidue questi passi solleticano la curiosità del- l'erudito il quale domanda: 1.° Il Virgilio ivi men- zionato è il poeta P, Virgilio Marone od un altro, e quali sono i particolari de'fatti di quel Virgilio? 2/ Sono istorici o favolosi gli enunciati fatti di quel Virgilio? 3.° In qual sito di Roma era la torre ed il carcere, si ove dice che fosse spenzolato o rinchiuso il medesimo? Vari mesi indietro alcune persone avendomi di- retti questi tre quesiti, io mi occupai a trovarne la spiegazione ne'volumi e racconti popolari, la quale mi affretto di esporre al pubblico in tre distinti capitoli: poiché una spiegazione del tutto erronea da molti professori della letteratura italiana viene comunicata agli allievi come veridica e ragionevole. CAPITOLO PRIMO Chi era il Virgilio di cui parlano i Mirabili ed il Berniy ed a qual fatto alludono. Nelle annotazioni alle opere del Berni, tanto nel- l'edizione di Londra pei tipi del Pickard 1721, quanto in quella più diffusa di Milano a cura della socie- tà de'classici italiani anno 1806, voi- 50, tom, 5, pag. 175., si dà la seguente spiegazione alle parole del sonetto, ivi: « Virgilio ecc. nome di persona a cui successe il fatto raccontalo ». La falsità di tale assertiva cominciò ad appale- sarmisi quando lessi nella famosa Historia de duobus amantibus scritta da Enea Silvio Piccolomini nel 14-44: u Aspice poetasi Virgiliusper funem Iractus ad me- 24 (Jiam Itirrim pcpcmlili dum se midicrculae spemi iisii- rum amplexibus )>• Conosciuto che si traltava del poeta Virgilio Marone, ini rimaneva tuttavia a sa- pere , da qual fonte il Piccolomini attinse siffatto racconto: il che non sapendosi decifrare nella celebre Edilion polygloUe des oevres de Virgile, Paris et Lyon Cormon et Diane libraires 1838, alla pag. XI in nota alla vita del poeta si confessa : « Non feperio lin- de Aeneas Sylviiis petierit ea qiiae in hisloria de Eùryalo et Liicrelia narrat {pay. 32 edil. Drudonis) Virgilius eie Siccome però in Italia circolano mille favolose narrazioni intorno ai personaggi storici, e i saltimbanchi le vanno cantando per le città a guisa de'greci rapsòdi (1), perciò ne passai a rassegna mol- tissime, ma con niuna riuscita. Nel giorno 2 del passato maggio essendomi recato fuor della porta Portuense sino alla nuova parrocchia di s. Maria del Carmelo (ove nel dì sacro a s. Eurosia protettrice delle campagne si accalcava un nume- roso stuolo di contadini, e le festanti vigne mi pa- lesavano l'inesattezza degli scrittori nostrali e stra- nieri che descrivendo l'agro romano l'assomigliano ad una solitudine); avvenne che nell'improvviso si oscurò '1 cielo, e fra tuoni e lampi cadde la pioggia. A ricovrarmi allora fui condotto nel casale di un singolare campagnuolo. Lo trovai seduto presso al focolare con Virgilio in una mano, ed una bottiglia nell'altra. Crebbe la mia meraviglia quando da lui appresi, e lo provò con varie declamazioni, ch'ei sa- (1) V. Ozanam, I poeti francescani in Italia nel secolo XIII. Trad. di Pietro Fanfani. Prato, tip. Alberghetti ISU, pag. 27. 25 peva a mente tutte 1' opere di quel!' epico , e che dopo aver fatto un corso di studi regolare avea cre- duto più felice e lucrosa d'ogni professione l'arte di coltivar la terra, e.di raccogliere, custodire, e spac- ciare i soavi doni di Bacco, esclamando con Orazio: Beatus ille qui procul negotiis. Ut prisca gens mortalium. Paterna rura bobus exercet suìs ! A questo rustico letterato dalla portentosa memo- ria io chiesi qualche spiegazione sulla torre di Vir- gilio, ed egli mi disse che nella prima gioventiì ebbe in mano alcune rime che perfettamente ricordava, e di cui non sapea l'autore perchè il libro era man- cante. Da me pregato me le recitò ', indi all'udire che mi occorrevano, frugò ne' suoi scaffali, e trasse quattro pagine a stampa del cinquecento contenenti il seguente capitoletto che copiai, e nel quale rac- contasi: (( Come Virgilio si innamorò in una giovine figlia d\in grande cavaliero romano, e come quella Io svergognò »; In questi tempi mostra che nascesse Che Virgilio sì se innamorava D'una giovine che assai gli piacesse. Quella donna poco di lui curava. Figlia era d'uno cavalier valente. Ma pur Virgilio molto la cacciava. Virgilio era di persona possente: E passati trent'anni sì se a via Quando a quella donna po.se mente. 26 Quella donna allo suo patre dicia Dell'assedio che Virgilio le dava- Quel cavalier dispetto ne prendia. In suo animo subito pensava Di vergognar Virgilio grandemente. Colla figliuola modo si trattava. Questo cavalier in Roma possente Un palazzo con una torre avia Che di bellezza era appariscente. Alla figliuola ordine dasia Ch'elsa a Virgilio dovesse mostrare Con tutti gli atti che ben gli velia. E col suo messo dovesse trattare, Lo quale a Virgilio dicesse, Ciò ch'e'volea era contenta fare. Ma una cosa volea cVe'sapesse- Che lo palazzo allora era chiavato. Non c'era modo ch'aprir si potesse. Ma una cosa si avia pensato Che per la torre lui possiasi andare Se lui serbasse l'ordin per lei dato. Con una fune si possia mandare Una corba in la quale lui entrasse, E quella suso si farla tirare. Lo messo andò a Virgilio che pigliasse Ordin del dì che ciò far si do via. Al cavalier grande allegrezza nasse. Venne lo. giorno che l'ordine avia. Virgilio andò con quell'ordine dato. Di notte nella corba si mettia. 27 A mezzo della torre fu tirato; E la fune di sopra si firmava. Si rimase Virgilio vergognato. La mattina i romani se ne andava A veder Virgilio com'e'stasia Nella corba. E ciascuno lo beffava. Ottaviano che questo sentia Mandò che giuso fosse assogato. Fu fatto. E molto lo riprendia. Un cotale racconto mi decifrò quasi tutto l'enim- ma proposto dal Berni ; sol mi lasciava all'oscuro sul nome ed epoca dell'autore, e sull'altro enimma contenuto ne'Mirabili. Avendo però notato che cia- scuna di quelle 4 pagine cominciava o colla parola « Cronica », o coli' altra u di Mantova », pescai qualche notizia ne'cronisti ed istorici mantovani. 11 primo di essi, il celebre Mario Equicola di Alveto ne' Commentari Mantovani ediz. di Mantova pei tipi dell'Osanna 1607, me la offerse al lib- 3 dicendo : « Fin qui arriva VAliprando. Né si meravigli alcuno che non siamo stati di luì imitatori come fu il Pla- tina , perciocché leggiamo in esso molte cose favo- lose e molle false. E chi è di sì poco giudicio che riferisse quello cKegli dal principio del suo libro sino ai Bonacolsi narra in circa due mila e cinquecento terzetti? Racconta egli tra Valtre cose che Virgilio fu gabbato da una donna, e posto in una corba, e tiralo fino a mezza torre, sicché porse ridicolo spettacolo al popolo romano ed a Cesare Augusto, e come in ven- detta fece che non si puotè aver fuoco se non dalle parti vergognose di essa donna ». Fatta quindi ri- 28 cerca di quell'Aliprando, trovai al toni. V- Anliquil. Italie. Meda Aevi del Muratori la Cronica di Man- tova di Bonamente Aliprandi, scrittore che visse sino al 1417 , il quale dà la più ampia spiegazione ai fatti accennati dal Berni e dai Mirabili. Tralasciato di trascrivere il cap. VII ove narra; u Come Virgilio si vendicò della vergogna ricevuta dalla donzella e svergognolla: » nel modo accennato dall'Equicola, e conchiude che Augusto per soddisfare alle lagnanze del cavaliere Virgilio in prigion fece cacciare: ■ ne a questo valse una semi-comica difesa che co- mincia Santa corona, dite che ho fallato? andiamo subito al cap- Vili, ove si riferisce « Come fu imprigionato e come egli usci di prigione per in- cantamento ». Le prigioni di Roma è da notare- Un muro d'intorno alto si già, E accasato dove li posia stare. Nel mezzo gran cortile sì se avia, Dove lo dì li prigionieri stava, E lì tra lor piaceri si desia. Virgilio d'andarsene pensava. Nel cortile una nave designoe- Li prigionieri tutti dimandava. D'andar seco tutti loro pregoe, Dicendo, se con lui volia andare. Alcun per beffa d'andar accettoe. 29 In quella nave sì li fece entrare. A ognuno per remo un baston dasia. In sua poppa si se mise assettare. E a ciascuno di loro sì dicia: Quando comanderò che navigaliy Ciascun di voi a navigar si dia- E niente a farlo non ve indnsìati- Da le prigioni lutti ci usciremo. Condiirrovvi. E sarete liberati- Quando gli parve disse « Date a remo ». Ciascuno mostrava forte navigare. La nave si levò. Disse « Anderemo ». Fuor del cortile si vedea andare; In verso Puglia la nave tirava. Per aria la detta si vedea tirare. I prigionieri che in prigione stava, Che nella nave non vollero entrare, Veduto il fatto, tutti lamentava. Virgilio la nave fece calare. Quando fu in luogo dov'egli velia, In terra piana la fece assettare. Que' ch'era dentro tutti fuori uscia, Virgilio con loro si parlava, E da quelli comiato si prendia. La nave subito se disfantava E quelli ch'eran dentro se n'andoe. Virgilio verso Napoli tirava. Così" col mezzo di un poema non troppo cono- sciuto (benché citato dal Crescimbeni, Istorie della volgar .poesia voi. IV lib- I pag. 53, e dal Cantiì 30 Storia universale) , a motivo dello stile barbaro e d' una lingua sdegnosa delle regole grammaticali e disperata amante del sì, ci è dato conseguire la spie- gazione degli allegati passi del Derni e dei Mirabili, CAPITOLO SECONDO. È istoria 0 mero racconto popolare ciò che si è narrato di Virgilio Marone? Non è necessaria la perspicacia dell'Equìcola per convincersi dell'inverosimiglianza ed impossibilità di varie circostanze degli amori e miracoli di P. Virgilio messe in versi dall'Aliprando: il che è stato cagione che appena solo qualche raro scrittore vedendo, uni- versalmente discreditata simile leggenda, ha ardito in appresso farne lievissima allusione- È piiì utile pertanto il ricercare la probabilità delle circostanze verosimili, ed a qual'epoca rimontino gli annedoti impossibili. Tib. Claudio Donato nella vita di Virgilio narra: Fama est, eum (Virgilium) lihidinis pronioris in piie- ros fuisse . . . Vulgatum est , consuevisse eum ciim Plotia Hieria ». 11 grammatico Mauro Servio Ono- rato pur nella vita del medesimo afferma: Uno tan- tum morbo laborabat , nam impatiens libidinis fuit : e nel cemento all'Ecb Ili- 20 riferisce che : Varus Iragaediarum scriptor habuit uxorem literaiissimam eum qua Virgilius adulterium solebat committere, cui etiam dedil scriptam tragaediam,quam ille marito dedit tamquam a se scriptam. Hanc recitavit prò sua Varus: quamrem Virgilius dicit per allegar iam v. 15 et seqq. 31 Non ego te vidi ». Questi fatti confermati dui versi lubrici del poeta, tra i quali primeggiano gli amori di Bidone con Enea, checché si voglia significare il nome di lui metamorfosato in greco con Uxp^évoqy inducono fondato sospetto che una vendetta di qual- che padre geloso desse origine al racconto dell'in- felice suo amore , propalato da molti detrattori , contro i quali Asconio Pediano scrisse un libro, ed abbellito dal genio poetico del popolo nel medio evo, quando non solo Firenze, ma ogni città d'Italia Favoleggiava con la sua famiglia De'troiani, di Fiesole, e di Roma (1). Così pure la portentosa liberazione dal carcere non altra origine si ebbe che V ammirazione ed il rispetto di que'popoli incolti, ai quali sin dall'infan- zia i monaci ispiravano una tal quale venerazione verso le opere di quel sommo, in cui trovavano l'arte di coltivar la terra, rimedi efficaci contro i mali delle piante e degli animali. 11 libro De mirabilibus Romae è opinione comune che uscisse in luce non dopo il secolo decimo (2). 11 nostro Bonamente Aliprandi, benché- vivesse sino al 1417, non condusse la sua cronica oltre il 1414 (3). Egli però narrando i fatti con gravità e sussiego isto- rico mostra che i racconti su Virgilio erano assai ante- (1) Dante Alighieri, Divina Commedia, Farad, canto XV. (2) Papencordt, Cola di Rienzo e il suo tempo. Gap. I. (3) Miualon, Antiquit. Italie, medii aevi, tom.Y.pag. 1060. 32 riorl, e che dalla bocca del popolo di Roma, ove andò ambasciatore di Francesco Gonzaga a papa Urbano Sesto (1), li trasse sulla carta- Ciò inoltre risulta non solo dal citato passo de' Mirabili , ma anche dalla cronica in dialetto napolitano che gira sotto il nome di Giovanni Villano (2), scritta verso il secolo XIV, ma raccolta da antiche scritture, come ivi chiara- mente si enuncia: « Le quali cose tutte se narrano « in diversi volumi et croniche, et in questa pre- « sente scrittura brevemente se componeno . . In- « comenza una nobilissima et vera antica chronica « composta per lo generosissimo messere Joanne « Villano raccolta da molti antichi. » in questa si narrano cose stravaganti da Virgilio operale in Na- poli, così p. es. « Come Virgilio per arte magica « levò lo male aere da Napoli : come per incanto « levò le sanguisughe dal acqua de Napoli: come « sì fé un cavallo sub certa costellatione che sanava « le infermità de li cavalli: come levò le cicale per « incantamento: come ancora provedette alle carne u che non puzzassero: come provedio a lo vento de « aprile che guastava li frutti do Napoli: come non « ce era pesce, et incantò una preta et feccia co- « piosa: come levò le serpe de Napoli: » e cento (1) Possevin, lib. IV. Ilistor. Gonzag. (2) Croniche de la inclita cita de Napoli emendatissinie con li bagni de Puzzolo et Ischia novamenle ristampala con la tavola... Fine de le Croniche et Bagnie de Napoli, Puzzolo, et Ischia stampate in la inclita cita de Neapole per magnifico Evangelista de Presenzani de Pavia a di XXYIl de aprile , XIV indiclionc, de la natività del nostro Siguore MDxXXVI. 33 altre simili sciocchezze. E vero die in quel libro non è il racconto degli amori del poeta , ma ad essi si allude al cap. 30; « Io potria del dicto Vir- (( gilio dicere multe altre cose, le quali ho sentito « dicerese da tale homo, ma perchè in maior parte « mi pareno favolose et false , non ho voluto al « tutto implire la mente de li homini de sogni »: come se non fossero sogni i narrati da lui !. In somma conchiudendo sulle discorse cose si può ritenére, esser probabile qualche intrigo amoroso di P. Virgilio Marone, e d'infelice riuscita, come il nar- rato nella cronica mantovana dell'Aliprando: essere però i portenti magici del medesimo pretta inven- zione di persone volgari, che ne'bassi tempi, e non dopo il secolo X, li diffusero nel popolo , il quale ancora li ricorda specialmente nelle tre città ove il poeta nacque, visse, e morì, Mantova, Roma e Napoli. CAPITOLO TERZO Overa la torre da cui Virgilio rimase sospeso, e dov'era il carcere dal quale uscì per incanto? Onde rispondere adequatamente al preposto que- sito , stimo conveniente distinguere l'opinione vol- gare vigente dal secolo X al XVI, e l'altra vigente dal secolo XVII ai nostri giorni. Avanti tutto è da riflettere , esercitare le no- velle e i racconti di cose meravigliose un'attrattiva sì potente e forte sul popolo, che difficilmente si sradicano dalle menti: perlocchò succede spesso che G.AT.CLVIII. 3 34 distrutto un edifìcio, nel quale si dicea avvenuto un fatto straordinario, se ne attacca la nnemoria ad un altro prossimo, senza ragione di sorta, o coll'unica pretensione di perennare una credenza , facendola inerente ad un oggetto materiale. Così credo che sia accaduto nel caso nostro. Infatti egli è certo, per averlo da me stesso u- dìto dalla bocca del basso popolo romano, che al gior- no d'oggi si repula essere Virgilio stato sospeso e deriso alla Torre delle milizie, ove ancora evadeva la prigionia. Sorge cotesta torre nel cortile delle mo- nache de' ss. Domenico e Sisto, costrutta di bella opera laterizia a destra della via di Magnanapoli sulla piazza di Colonna Traiana: ed è tanta l'altezza di lei, che da qualunque parte di Roma si vede innal- zare i sette od otto piani de' quali si compone, e la freccia del parafulmine. Tale altezza ed appari- scenza le ha procurata anche l'altra opinione popo- lare che fosse la torre Mecenaziana, dalla quale Ne- rone, secondo Svetonìo (1), in abito teatrale, incan- tato dalla bellezza, com'ei dicea, della fiamma, can- tò, allorché Roma andava a fuoco, l'incendio di Tro- ia. Ma dal secolo X sino al XVI sonava ben dif- ferente la fama volgare per l'esistenza di un' altra torre veramente antica e di nobilissimo aspetto, di cui lo Scamozzi ci conservò il disegno (2). Si ele- vava questa non molto lungi, anzi un poco più in alto, incontro alla Torre delle milizie nel giardino (1) Sveton. in vita Neronis e. 33. (2) Discorsi sopra l'antichilà di Roma. Venezia appresso Ziletli 1582 lav. 36. 35 de' Coloiinesi, e cliiamavasi Torre Ména (1) ed an- che Torre di Nerone, perchè credevasi situata negli orti di Mecenate (2). Nel 1666 quando il Nardini nella sua Roma aulica dimostiava che gli orti di Mecenate furono sul colle Esquilino, e precisamente verso porta s. Lorenzo, e che torre Mésa era atti- nente al tempio del Sole dall' imperatore Aureliano fondato sul Quirinale , cose che prima di lui avea dimostrato il Fulvio nel 1527 (3) , dichiarava nei lib. IV cap. 2 reg. V, che più non esisteva la detta torre: sicché da quella epoca in poi dovette la memoria della torre di Nerone passare all' altra incontro delle Milizie. Che però a Torre Mésa, e non a quella delle Mi- lizie, dal sec. X al XVI dovesse credersi avvenuto (1) Flavio Biondo, Romae illuslr. lib. 2 num. 99 e segg. « Extatque penes integra turris , ex qua Sveto Tranquil- lus Neronem scribit spedasse urbis incendium et in scenico habilu decantasse. Quam turrim vulgo nunc, verbo ut ferme in omnibus assolet syncopato, Maesara prò Maecenatiana appel- lai Ncc est in ea regione femella, quae quid fuerint iilae ingentes ruinae interrogata, non dicat, cam fuisse turrim ex qua Nero crudelis urbem incendio tlagranteni ridens gauden- sque spectavit: cernere nec estalius in Romalocuse quo tota upbs sub aspectu veniat ». (2) Ciò si rileva anche dal Monaldesco negli annali di Ro- ma dal 1320 al 1340, il quale descrivendo la celebre giostra del toro tenuta nel 1332 al Colosseo, dice: « Questa festa pri- mieramente fu fatta alli tre di settembre del detto anno, e tut- te le matrone di Roma stavano sopra li balconi foderati di roselo, e ci era la bella Savella Orsina con due altre sue pa- rente; e ci erano le donne Colonnesi , ma la giovene non ci potè venire perchè si era rotto un piede al giardino della Tor- re di Nerone ». (3) Antiquit. urbis lib. 2. Monlcs fol. 32. 36 il cullainenlo virgiliano, ed in via Magnanapoli la di luì prigionia apparisce dai seguenti rilievi. 1. L'inventore del racconto avrà certo avuto abbastanza di giudizio da non fingere carcerato il poeta nell'abitazione stessa dell'amante. Dunque dif- ferente dovea essere il luogo di reclusione dalla torre congiunta al palazzo di lei- Il che apparisce più chiaro dal poema dell'Aliprando, ove si dice al ca- pii. Vili, che fu rinchiuso in una prigione pubblica con vari malfattori. 2. La Torre delle Milizie fu incominciata a fabbricare da Gregorio IX e compiuta da Bonifa- cio Vili insieme alle altre due che nel pendio del colle ancor sussistono, cioè Torre del Grillo e Torre delle tre Cannelle (1). Dunque dal secolo decimo si- no almeno al XIV non potea credere il popolo che in essa succedesse il fatto di Virgilio, mentre o non esisteva o co' propri occhi aveala veduta costruire- 3. Descrivendosi nel citato passo de' Mirabili la via Magnanapoli, s'indicano ivi esìstenti due mo- numenti, cioè uno sacro quale si è la diaconia di s. Agata, l'altro profano dove fu imprigionato Vir- gilio. Ma per quanto cotesta via si perlustri non si troverà altro antico rudere che una forma di pri- gioni rappresenti, fuorché le antiche celle, le quali per la loro figura e per lo squallore dell' antichità si fanno credere prigioni dal volgo; anzi ritenendosi che carcere virgiliano si dicessero le suddette celle, conoscerebbesi un' altra ragione perchè 1' estensore (1) Donato, De urbe Roma lib. IV; e Biondo, Romae 11- lustratae lib. Ili n. 32. 37 de' Mirabili fissò la topografìa óp] preteso colle Vi- minale con quei due soli monumenti : perchè cioè il sacro sta sul termine orientale del colle, e sul- l'opposto il profano. 4. La denominazione volgare di via Magna- napoli (e non Bagnanapoli, come per comodo sognò qualche archeologo) si spiega con facilità col cit. passo de' Mirabili: ■« linde dicitiir: vado ad Neapo- lim )) ossia « vìa magna Neapolim » via grande (1) per andare a Napoli. La quale osservazione mentre da una parte esclude l'opinione degli archeologi che gratuitamente atììbbiano il titolo di Balnea Palili Aemilii ai ruderi di Magnanapoli, insegna pui-e che la sola pretesa evasione del poeta dal carcere avea dato il nome alla strada almeno fin dal sec. X. 5. Torre Mésa non significa già Torre Mece- naziana : ma in buon dialetto : Torre Mezza. Onde benissimo poteva alludere a Virgilio dondolato ne'ce- stì a mésa torre. 6. Dicendosi nella leggenda : Questo cavalier in Roma possente - Un palazzo con tuia torre avia - Che di bellezza era appariscente: il popolo non po- teva non ammirare la bellezza di Torre Mésa, la quale era marmorea (2), e tanto alla che il Biondo (3) la prese per la molem propinqiiam nuhibus arduis, dalla quale il Venosino consigliava Mecenate a lasciar di mirare fumo ricchezze e strepito di Roma (4)- Le at- (1) È anche al presente una delle più larghe strade di Roma. (2) Fulvius Antiquit. urbis lib. 2. Montes fol. 32. (3) Roma illustrata lib. 1 num. 100. (4) Horat. Carm. lib. 3 v. 29. 38 tigne mine poi di tanta magnificenza conservavano le vestigie, che il citato Biondo le disse superare qualunque nuovo edificio d' Italia (1): onde benissi- mo si adattavano a farsi celebrare come palazzo di un cavaliere in Roma possente al pari di Mece- nate. Quantunque però rimanga provato che il popolo dal secolo X al XVI dovesse ritenere Torre Mésa per palazzo del cavaliere, e l'antiche ruine a Magna- napoli per carcere del poeta; nondimeno varie cause fecero conftmdere nella Torre delle Milizie ambedue le località e i fatti. La prima si fu perchè il popolo non sapendo (come ordinariamente noi sa) che questa ultima torre fosse costruita da circa tre in quattro secoli indie- tro .da Gregorio IX e Bonifacio Vili, la stimò al- zata dagli antichi romani; il che non deve far me- raviglia a chi osservò che da più di un descrittore di Roma è stata col volgo riputata nei nostri tempi qual torre su cui Nerone canzonava chi per l'incen- dio rimaneva in mezzo alla strada. La seconda causa fu perchè non esisteva più Torre Mésa nel secolo XVII; onde, come osservammo, la sua prediletta leggenda non avrebbe avuto in ap- poggio un imponente oggetto materiale. La terza causa fu perchè poggiando la Torre delle Milizie sui cubiculi creduti carcere virgiliano, e tolti questi dalla vista del pubblico , sepolti e racchiusi sotto le case della salita del Grillo e nel recinto del monastero delle domenicane, colla massima facilità (4) Loc. cit. 39 si credette cubiculi e torre costituenti un medesimo carcere , e colla memoria di questo si congiunse l'altra del palazzo, ove la bella si burlò dell'amante: perchè nel racconto si dice che il palazzo una torre avia Che di bellezza era appariscente. Ed ora dopo la distruzione di Torre Mésa non v'ha in tutta Roma una torre piiì imponente di questa, la quale attira per una tal certa grandiosità ed ele- vatezza topografica gli sguardi della plebe, anche più della famosa colonna coclide nel foro Traiano. Ma dalle fole volgari trapassando all'istorica ve- rità, non potrà giammai il dotto rammentare le torri Mésa e delle Milizie come oggetti a cui sia inerente l'onta 0 magia del grand'epico latino; ma piuttosto riguarderà la prima come ornamento ed attinenza del superbo tempio solare di Aureliano sul Quiri- nale, e dove probabilmente , come riferisce Flavio Vopisco, furono accumulati dopo il trionfo preziosi ornamenti orientali e una gran copia d'oro e d'ar- gento (l);e riguarderà la seconda come fortezza o quartiere delle milizie di PP. Bonifacio Vili là rac- colte per fronteggiare le prossime torri del suo pili fiero nemico Giacomo Sciarra Colonna- Allora si rap- presenterà quel fermo pontefice dal severo sembiante, vestito in tutta la pompa e maestà degli antichi sa- cri indumenti, come dopo trecento due anni fu lin- (1) Vopisc. in Aureliano e. 25. V. Canina, Architettura ro- mana par- III, pianta di Roma antica reg. VII. pag. 27 e pag. 106 e segg. ediz. 1830-1840, il quale nelle tavole 59, 60 e 61 dà il restauro del tempio. 40 venuto intatto nel sepolcro (1), invitare coli' indice scintillante per 1' anello d' oro gli adunati guerrieri ad atterrare le case dei Golonnesi, tonando le pa- role di maledizione inserite nelle decretali (2)- Ma chi è quel fiero dalle forme erculee , dalla bionda capellatura, e dalla colorita carnagione, il quale su Torre Mésa in corazza di ferro colla destra regge il bastone, e colla manca stringe il pomo della spa- da (3) ? Egli è lo Sciarra che sembra sfidar V ire di Bonifacio. E di questi due atti tra loro si con- trari qual fu il risultato ? Poco tempo dopo co- stretto lo Sciarra a fuggire, trova protezione ed ap- poggio presso Filippo il bello re di Francia. Alcune squadre francesi guida in Italia , entra le mura di Anagni, e trova il pontefice nel suo palazzo, impas- sibile e in abito pontificale come se ancor fosse alla Torre delle Milizie. L'ira brutale la vinse nel guer- riero che scagliò il famoso schiaffo (4) all'imperter- rito, che al di lui ordine di rinunziare al papato , rispose: Ecco il colloy ecco il capo. Dice uno scrit- tore che questo sfregio fece fuggire dal triregno l'i- dea divina veneratavi sino allora dai popoli; ma non (t) V. in calce alla vita di Bonifacio Vili scritta dal P. Rubeo nel 16S1: « Narratio inventionis corporis Bonifacii Vili integri et incorrupti 302 anno postquam terrae mandatum fiiis- set ex actis authenticis desumpta » : ove trovasi la minuta descrizione del cadavere e delle veslimenta. (2) Gap. unicum de schismaticis in G. (3) Così fu nella galleria Colonna dipinto da Giorgione. (4) Istorie Pislolesi; Walsingham inHypodig. Histoire par- ticulière du differend entre le Pape Boniface Vili et Philippe le Bel roy de Franco: Paris chez Cramoisy 1633 pag. 23. 4.1 so con quanta isterica verità. Dai primi tempi ri- cevettero i pontefici guanciate, veleno, e cento ge- neri di strazi e di morte dagl'imperatori e da ogni sorta di potenti: ma più essi furono martoriati, e più trionfarono. Così avvenne in quella occasio- ne- II popolo avvezzo sempre a difendere l'oppresso, sempre acerrimo nemico degli atti prepotenti , e in dimostrazione appunto che seguitava a riconoscere nella persona del papa il rappresentante di Cristo, come se Io avessero animato i famosi versi sfug- giti naturalmente dalla penna di un ghibellino (1) Veggio in Alagna entrar Io fiordaliso, E nel vicario suo Cristo esser catto: Vaggiolo un'altra volta esser deriso, Veggio rinnovellar l'aceto e 'I fele, E tra vivi ladroni essere anciso; lanciossi fra gli stranieri ed il pontefice , raccolse riverente la tiara dal suolo , e lavatala nel sangue degl'invasori, più fulgida e gloriosa la ripose sulla imperterrita fronte dell'augusto veglio. (1) Dante Alighieri,Divina Conimedia,Purgatorio canto XX. 42 Sul belletto trovato nelle tombe etrusche delV antico Vidsinio. Nota del prof. Benedetto Viale. XAvendo dato una coisa nell' entrare del mese di dicembre infìno ad Orvieto, ebbi agio di osservare colà gli oggetti, che il sig. conte Ravizza avea per avventura rinvenuti testé negli scavamenti da esso aperti in quelle vicinanze. La poca distanza del luogo dall'attuale Bolsena inverso tramontana dà certezza, che gl'ipogei sco- verti appartengano alla necropoli della lucumonia Vulsinense. Che la fosse stala una volta civitas etruscorum potentissima, come la chiama il Cluverio, ben lo ad- dimostrano i molti vasi ivi rinvenuti con figure e con fregi, e di più gli ori, i tripodi, i vassoi di me- tallo dorato, gli orci pur di metallo a bocca stretta, a ventre rigonfio e a due prese, ed infine i molti orciolini fregiati all'intorno di figurine con bel modo svelto disegnale. Si hanno monumenti di tutte le altre undici lu- cumonie degli antichi etruschi; solo mancavan quelli di Vulsinio, che pur non men delle altre città era fiorente per arti, per potenza e per civiltà. Gli oggetti finora rinvenuti in quegl'ipogei pos- sono ridursi a tre differenti categorie. A vasi, vas- soi , e tripodi di metallo per uso di sacrifizi ; ad oggetti di oro che accompagnavano il cadavere de- gli uomini ivi allogati; infine ad oggetti .di oro che 43 adornavano il corpo delle femmine, con di più quel- lo che formava la suppellettile del loro specchio , ossia di quanto con vocabolo francese le nostre gen- tildonne chiamano toilelte, e che gli antichi romani dicevano mundiis miiliebris per indicare l'assiduo stu- dio, che mettean le donne loro ad infardarsi il viso, ad abbellirsi, ed a far la loro acconciatura. Io credo molto probabile l'opinione dell'illustre P. Tarquini della compagnia di Gesiì sulla lìngua., sulle arti, e sui popoli che abitavano l'antica Etru- ria marittima, i quali dalla Liguria o da Luni esten- devansi fino alla bocca del Tevere di contro ad 0- stia. E di vero in un di cotesti orci di bronzo era incisa la seguente iscrizione in carattere etrusco , che leggeasi da destra a sinistra Larisal Hairenies Suiina. La quale, secondo la chiave datane dal P. Tarquini prelodato, verrebbe a significare Erenio fi- glio di Larzia nel tempio di Serapide. Ciò quadre- rebbe con quanto affermano gli storici, cioè che quella regione venisse popolata da colonie di fenici , che si unirono agli aborigeni o come li chiama il Mi- cali autoclones (1), ed approdarono a quella spiaggia d'Italia molto innanzi che fosse visitata da naviga- tori greci. Noi non osiamo entrare in siffatta qui- stione perchè lontana troppo dagli studi nostri: e lasciamo, che l'illustre P. della compagnia di Gesù si applichi ad interpretare quanto rinverrassi in co- testa necropoli vulsinense, e di più quello che già da molto tempo fa bella mostra di sé ne' musei no- stri e della vicina Toscana. (1) oivzox^ovzg; àv^i'ymg Tifi gli oggetti, che mi venner mostrati, eran- vi due serti di oro , uno composto di due ramo- scelli d' alloro , 1' altro di due ramoscelli di olivo. La lamina di oro , che compone le fronde, è sot- tilissima , ed è stata formata sul tasso collocan- dola sopra piastra di piombo , ed incavandola , e tagliandola col pirello, ossia con istampo a colpi di martello. II fusto ed il picciuolo, cui eran saldate le foglie, sono di un cannello di rame rivestito di guaina sottilissima di oro. Vi avea due maniglie , ossia cerchietti di oro, in forma di due bisce, che cingean le braccia e i polsi di donna: e cotesti mo- nili erano stati lavorati parimenti alla medesima ma- niera con istampo, cioè col pirello. Di piti cerchielli, che portansi da donne appiccati al lobo delle orec- chie, dalle quali ciondolavano, a quel che ne sembrava, due Fortune alate, cesellate in rilievo, che tenean un pie posato sopra una ruota. Finalmente un grosso anello lavorato a sgusci e a fiorami con un onice incastonato, e inoltre molte striscioline di oro av- volte a tortiglione lungo il loro asse, delle quali servivansi le matrone etrusche per ornamento da collo. Tutto questo dimostra come que'popoli fossero valenti per tirar oro alla filiera ed al laminatoio, e come altresì conoscessero l'arte del saldare e rammarginare a lucerna e a calore, e quella del cesellare, dello stampare, dell'imbrunire, del forbire, del condurre la piastra a sottile, dell'arenare, os- sia cuocere con renella di vetro l'oro per levargli i fumi cattivi, del camosciare, e di quanto si ap- partiene all'arte dell'orafo e del cesellatore. 45 Richiamarono specialmente la mia attenzione diversi specchi di metallo, i quali avean la su- perfìcie concava: per la qual cosa dovean rappre- sentare l'immagine piiì piccola, e con tratti più gentili. Finalmente osservai che in alcuni orciolini trovavansi brandelli di belletto. Antichissimo è Tuso nelle donne di abbellirsi con liscio le gote. Nelle sacre carte al lib. IV de' re si legge, che lezabele, avendo saputo l'entrata di lehu in lezrael, si desse il belletto agli occhi: DepinxU oculos suos siihio. Gli antichi romani parlando delle donne, che si davano il belletto, solean dire habent genas purpu- rissatas. Plinio racconta come elle adoperavano per quest'oggetto lo stibio (solfuro di antimonio nativo o chermes naturale), ch'egli chiama platyophlhal- tnon , quoniam in calliblepharis muUerum dilatet oculos. Questo però è quanto al color rosso. Quanto al bianco sappiamo da Plauto, che si valean della ce- rusa: Poslulas cerussam, ut malas oblines: ed Ovidio De remediis faciei consigliava ancor egli la cerusa: « Nec cerussa tibi, nec vitri spuma rubentis (( Desit. E qui è d'avvertire come venisse unita la cerusa con solfuro di antimonio per fare con essa il color bianco incarnato. Questo belletto etrusco fu da me polverizzato, e sui carboni accesi diminuì di volume, e in parte si fé di color nero. Ciò dava indizio di una so- stanza organica, forse gomma di adraganle, o altra gomma per impastar le polveri- 46 Neiracìdo nitrico allungato con acqua si divise in due parti, l'una solubile, l'altra no: questa ul- tima era di color rosso. Feltrata la soluzione, alcune gocciole del liquido chiaro fur fatte cadere in un bicchier d'acqua, e non vi produssero intorbidamento: la qual cosa e- spunse la presenza dei sali metallici. Con ammo- niaca non si alterò punto la sua trasparenza. Con solfuro di ammoniaca il liquido prese un color che volgeva al verde, ed affondò un sedimento di color bianco cilestro, che dopo varie ore di esposizione alla luce si converse in una polvere nerastra; la qual cosa dimostrava l'esistenza di un solfuro, ch'erasi disciolto in parte nell'acido nitrico. Una parte della soluzione con ossalato di ammoniaca diede copioso precipitato, e lo die parimente con carbonato di soda. Di qui si arguiva patentemente la calce. Final- mente cimentato il liquore con nitrato di barite, ebbcsi una posatura, che accennava alla presenza dell'acido solforico, ed alla combinazione di que- st'acido con calce. Per la qual cosa venia disvelata la presenza del gesso- Una picciola porzione della polvere posta sulle carte di curcuma bagnate punto non le arrossò- La materia colorante, ch'era mescolata al solfato di calce, posta a bollire nell'acqua stillata non vi si disciolse, che in picciola quantità- li residuo, ch'erasi avuto dopo l'azione dell'acido nitrico, serbava ancora dopo il diseccamento un co- lor rosaceo. Scaldato su d'una lampada in un cuc- chiaio di platino, perde presto il colore, lasciando una polvere grigia (sostanza organica). Ripetuta l'opera- 47 zione,coiravvertenza di sovrapporvi una lamina di rame ben tersa, questa si coprì di un polvigio cinereo , che fregato con caria imbianchì il rame stesso. Fa d'uopo adunque conchiudere essere cotesta sostanza solfuro di mercurio cinabro, o vermiglione. Ne conseguita, che cotesto belletto trovato nella necropoli della lucumonia Vulsinense era composto di solfato di calce finissimo e cinabro, o vermiglione, impastati con acqua gommata. Gli antichi etruschi non potean conoscere la polvere bianca per belletto, che ritraesi dalla calci- nazione e polverizzazione del talco, il qual'è compo- sto di magnesia, allumina, silice e ferro, e che non si altera punto alle esalazioni dell'idrogeno solforato- Ma pure col solfato di calce conseguivano il mede- simo effetto ; noi difatti lo abbiamo trovato, dopo tanti anni, ancor alto a imbellettare le gote delle gentildonne. Alle matrone etrusche con questo lor fuco non sarebbe avvenuto quanto non ha guari in- tervenne alle parigine, le quali in una festa di ballo illuminata a gas, per essersi date il belletto con os- sido di bismuto, ebber le lor rosee gote sottinte di nero, e così fu scoverto Che il color delle belle era posticcio. Notizie sulle inspirazioni delle sostanze polverulenti dirette dal dott. Alessandri al prof. Maggiorani. 1." Jr asqualini Antonio, di anni 32, di condizione giardiniere, di temperamento sanguigno bilioso, di costituzione gracile, era stato ripetute volto emottoi- co. Venne all' ospedale il dì 13 maggio 1857. Fu posto provvisoriamente nella grande corsia, e quindi dopo pochi giorni trasferito nella sala di s- Giacinto, al letto num. 8. Sottoposto alle inspirazioni di mirra e carbone sottilmente polverizzato,con tutta pazienza e fiducia andavale egli eseguendo piiì volte al gior- no. Puntualmente esercitò questa pratica per quin- dici giorni: che non producevagli alcuna molestia, se sì faccia eccezione di un maggior stimolo alla tosse nei primi due giorni. Al sedicesimo moriva quasi improvvisamente: e fattane la sezione 24 ore dopo, ci si mostrò nella cavità del petto quasi per intero distrutto il polmone destro ed un liquido e- stravasato, che teneva galleggianti alcune particelle carboniose, riconoscibili pure ad occhio nudo, e che filtrato per carta emporetica palesava più chiaramente la presenza del carbone. 2." Zuccoli Niccola, di anni 40, di condizione fa- legname, di temperamento piuttosto linfatico, di de- bole costituzione, affetto da circa otto mesi da tisi tubercolare, venne all'ospedale il 17 giugno del 1857, e posto nella sala di s. Giacinto al letto num. 6 fu parimente da me sottomesso alle medesime inspira- zioni. Per dodici giorni inspirò le stesse succitate 49 polveri. Se n'ebbe tosse aumentata nel primo giorno; senso di piccole rosioni (sono parole dell' infermo) in vari punti del petto dietro ciascuna inspirazione. Gli sputi migliorarono nella qualità; daccbè mentre per lo innanzi avevano sempre tramandato un puzzo molto distinto , dopo la inspirazione delle polveri , non erano più tanto fetidi. Nella quantità però si mantennero sempre abbondantissimi. Morì un giorno dopo tralasciala l'inspirazione; ed all'apertura del to- race eseguita 32 ore dopo, si notò non tramandare il consueto cattivissimo odore e la cavità stessa es- ser piena di un liquido nerastro di polmoni corrosi che qua e colà faceano vedere ampie caverne, ed erano tenacemente attaccati alle pleure. Le diramazioni principali dei bronchi e la trachea erano ripieni di una notevole quantità di materia purulenta con mo- lecole carboniose. Anche in questo la carta bibula, colla quale si filtrò il detto liquido estravasato, ma- nifestò chiaramente la natura carboniosa delle te- nuissime molecole che in se teneva sospese- 3." Un terzo esperimento fu praticato nell'infer- mo Certoni Luigi, posto a S. M. letto num. 49 nel quartiere dell'eccmo dott. Marchi. Era stato l'indi- viduo ripetute volte eniottoico per causa di subita rctropulsione di abbondantissima scabie. Quando a noi venne presentava i caratteri di una bronchite cronica. Fatto uso antecedentemente di tutti gli al- tri rimedi vantati in questa malattia, avuto riguardo pure alla causa che aveala prodotta, senza alcuna notevole diminuzione de' sintomi morbosi; si volle anche in esso tentare l'uso delle inspirazioni di gom- ma ammoniaca e zucchero di latte a sottilissima G.A.T.CLVllL 4 50 polvere ridotto. Per due giorni si proseguì senza al- cuna innovazione; ma al terzo dì, a cagione di una continua e molestissima tosse che angustiava l'infer- mo , vi fu unito, con permesso del sullodato pri- mario, dell'oppio- Ne segni calma e miglioramento tale, che si potè per quattordici giorni continui ri- peterne la pratica. Più lungo tempo forse ci avrebbe fruttata la guarigione, o almeno molto maggior mi- glioramento dell'infermo, se esso non si fosse affret- tato a partire dall' ospedale. Il che da noi non si potè impedire. 4.° Questo quarto caso che sono per descrivere, e sul quale può farsi maggior conto , è avvenuto nella mia pratica privata in persona istruita, e per- ciò tale da poter senza dubio tenere, e rendere esat- to conto di quello che sentiva dietro ciascuna in- spirazione- Esso fu sottoposto all'uso delle polveri alluminose (allume e zucchero di latte) , per arre- stare una non leggiera emottisi, ad arrestare la quale senza alcun frutto in antecedenza erano stati messi in opera e il salasso, e le bevande fredde ed aci- dule, e la stessa ergotina. Mi avveniva questo caso in persona del sig. A- Belli, giovane di anni 30, che da molto tempo era affetto da catarro polmonare con ricorrente sputo di sangue, che teneva dietro ad un senso di erosione sotto il iugulo, in corrispon- denza del destro bronchio; senso che, a dire dell'in- fermo, taceva ora per piiì giorni lasciando sempre un leggiero vellicamento in quella stessa parte, se- guito da tosse, che specialmente sulle prime ore del giorno lo molestava grandemente- Postosi adunque ad inspirare le polveri alluminose composte di una parte di allunie e cinque di zucchero più volte al 51 giorno, ed eseguite con molta prudenza e circospe- zione, ebbi il conforto e come amico e come me- dico vederne favorevole effetto fin dal principio di tale pratica. Lo sputo sanguigno onninamente si ar- restò, e così potè l'infermo rassicurato e tranquillo narrarci le seguenti cose. Dietro ciascuna inspira- zione percepire esso un senso similissimo ad una leggiera scottatura in quel punto precisamente di sopra indicalo, ove per lo innanzi sentiva la erosione; ed un senso* come di aria piij piccante in quasi tutta la porzione superiore de' polmoni- Ciò egli ne par- tecipava fin dai primi momenti di questo pratica , e confermavalo in seguito, favorendo così la vostra opinione, egregio professore, che le sostanze polve- rulente possano introdursi nelle vie respiratorie , ed esercitare quindi un'azione terapeutica di contatto sui punti stessi del polmone malato- Avrei voluto in seguito sottoporre il nostro malato per qualche tempo alle inspirazioni delle polveri dei semi di fel- landrio acquatico unito alla gomma ed al zucchero di latte; ma ne dovei sospendere l'uso al secondo giorno, dacché il loro non troppo gradevole odore eccitavagli il vomito- Fu consigliato quindi, stante la stagione estiva, ad andare a respirare aria mi- gliore, ove tuttora rimane in lodevole stato di sa- nità. Ecco quanto io nella mia imparziale osserva- zione ho potuto raccogliere in proposito per pre- sentarlo a voi, pregevolissimo mio professore, onde col veltro alto sapere ed indefesso studio ne caviate quelle deduzioni che possono tornare utili all'arte e alla scienza medica, alle quali con tanto zelo vi siete dedicato. 52 Saggio di sonetti di vari poeti renduti in versi latini da Anionio Laghi parroco di Santa Croce di Faenza. A, Lntonio Laghi faentino, nato nel 1728, e morto nel 1811, è assai noto per le sue poetiche versioni latine dei salmi davidici, del libro deirEcclesiaste, e della Sapienza ec. ec. Per vero la sua 'parafrasi del Cantico de'cantici è molto elegante e tersa, e fu di fatti riprodotta a Milano dalla stamperia de'class. ita- liani l'anno 1834 nel tomo IH delle Poesie bibliche Ira- dotte da cel. italiani con note, e con parafrasi latine e dissertazioni. Tradusse pure fedelmente in elegie le- prime dodici canzonette di Lodovico Savioli, e set- tantun sonetti di vari autori in esametri. E perchè il libro che contiene questi ultimi è divenuto assai raro, così spero non riescirà sgradito il saggio che qui ne presento, sopprimendo il testo italiano, per- chè già notissimo. Che se gl'intelligenti trovassero qua e là alcuna cosa, che loro sembrasse un pò sca- dente, e non a pieno corrispondente a perfetta ele- ganza , non per questo potranno , parmi , discono- scere i pregi non comuni che nel totale di queste undici versioni risplendono- Quelle poi, per esempio, dei due sonetti « Die un alto grido », e « Fero- cemente la visiera bruna )) mi sembrano veramente belle e compiute. Ma a oìe appena sta bene profe- rire il mio debole parere: il giudizio spetta 'tU culti lettori. i '^{^ Giuseppe Bellucci. 53 1. CASSI ANI. Die un alto grido, gillò i fiori, e volta ecc. Clamat, et excussos effundit pollice flores, Et subita comprensa manu dum respicit, ipso Horret in obtutu trepidans, gelidoque pavore Se virgo totus trinacria contrahit artus. Acrius hirsuto deus insuper imminet ore, Fervidaque intentis festina t ad oscula labris, Et ferruginea spissae fuligine barbae Purpureasque genas et candida pectora foedat. Illa ubi se diro sensit raptore teneri, Nititur informi mox laeva obsistere mento. Et pavidam tremebunda oculis praetendere dex- tram- At rapidis iam ferlur equis; iam saeva per auras Acta flagella sonant, raucoque fragore rotarum, Femineisque strepit torvum plangoribus aether. II. CASSIANI. Guazza, e tempra nel fonte, a cui fan sponda ecc. Tingitur, et vitreis, densi quas undique rami Umbrant, fontis aquis ferventem temperai horam, Et nimphas Inter nemorum dèa ridet amicas, Et sibi nudata plaudunt coelum undaque forma. At tenui ut malelìda sono ramalia, castum Silva quibus rivum cingit, strepuere, repente Lumina convertit trepidans, frondesque per ipsas Cuncta virum explorantem oculis videt illa prò- fanis- 54 Haud mora tum fundo Tritonia diva sub imo Et latus et niveum festinat condere pectus , Inspergitque undis male cauli Actoeonis ora. llle pedes fissus, toUens et cornua fugit, Et canibus iacuit stratus, poenamque subivit: Yiderat imprudens, quae non ridisse licebat. III. FRUGONI. Ferocemente la visiera bruna ecc. Asper, acerba tuens alpinae e vertice rupis Nigrantem ex oculis geleam cum sustulit afer, Torvo cui vultu, quae sors regit aspera bella, Fulgebat victrix, clarosque afflabat honores. Itala prospexit laeta arva, odiumque paternum Exacuens, quod iam lybicas iuravit ad aras, Subrisit malus, ipso suas namque hostica regna Nulla ex parte manus evadere posse putabat. Altius bine imo secum sub pectore volvens Insignes, ageret strido quos ense, triumphos, Et tacitus, totaque in sese mente receptus, Ducentem sequitur Genium, ultrici actus et ira, Aspectuque minax amplos descendit in agros Ingens Ausoniae, Tarpeiae terror et arcis. IV. DELLA CASA. Curay che di timor ti nutrì e cresci ecc. Quae crescis gelido, cura, enutrita timore, Et mage quo ipsa times, mage viribus aucta vi- gescis, Sollicitumqno gelo dum flammae incauta remisces, Contristat, quod curat Amor, laetabile regnum; Postquamdulce mihi quidquid libi quidquid amarum Ausa brevi immiscere, meo de pectore cede, Cocjti ad stagna atra redi, lacrimosaque regna, illic usque tui temet pertaesa fatiges; Illic ingratam seriem irrequieta dierum, Insomnesque trahas noctes et moesta queraris Te dubiam pariter, certamque expendere poenam. I, fuge: quid revolas? Solito quid saevior in me, Virus triste tuum mihi venam irrepsit in omnem, Insuetis iteruni perslas consurgere larvis. V. MENZINI. Quel capilo maledetto ha preso in uso ecc. Improbus ille caper teneras persaepe vagari Consuevit vites inter, seque implicat iUis: lamque age, ut infestum discat deponere morem, Rictum impinge inter contortaque cornua saxuni. Erranlem si forte unquam prospectat lacchus, Ocyor e curru, cui gaudet iungere tigres, Disiliet: dum piena suo confusaque vino llli mens fervei, vehementior aestuat ira. Tu vigil eiicias, tu fac, ne dente maligno Nascentes, Elpine, uvas in vertice tentet Rodere, lenaeumque velit neu laedere numen. Illuni, ego sat novi, fuso quam sanguine tinget, . Ara manet; verum timeo, ne Bacchus in ipsum Pastorem caprumque simul gravis irruat ultor. 56 VI. FUSCONI. Giunta del precursor Valma severa eec. Sanguine tinctus adhuc, et loto pallidus ore Militis insanos qualis tum eluserat ictus, Zacciiaridis primum cum venit spiri tus altas Abrami sedes, ubi spes alit aurea patres, Rettulit immanem praerepta coniuge regem Fraterni incestasse tori sociaiia iura, Et votum et choreas mominit, quibus ipse nefa- stum, Qui prius arguerat, scelus est expendere iussus. Talibus attonitae nimium furialibus ausis Tristes deiecere oculos, patrumque stetere Secum indignantes contractis frontibus umbrac; Perque tenebrosae taciturna silentia sedis Damnabant blandas saltandi molliter artes, Quae tanti potuere caput sic perdere vatis. VII. MANAR^. Cessay^ bronzo lugubre, il tristo metro eco- Tristes, aera, modos et lugubre ponite murmur, Quo mihi perpetui subit atra soporis immago: En ego vivus adhuc, cinerum quod avara meorum Sedes, mente animoque feror pej* inane sepul- crum. lam me, funesto quae sanguine sordida avorum, Composuit pigro mors importuna forotro, 57 Cereaque inviso funalia lumine pallent, Et late resonat ferali cannine templum. Sola sedet gelidi spoliis seiuneta mariti, Pullataque in veste gemit moeslissima coniux, Et mea iam domus ipsa vices miseratur acerbas. Spiritus interea num felix aethere vivit, Anne inter coecas Èrebi miser ingemit umbras? Aera, silete: mihi gelidus venit horror in artus. Vili. MINZONI. Quando Gesù colVullimo lamento ecc. Cuni lesu extremum dedit imo pectore questum, Altosque excussit montes, tumulosque recliisit, Impexus somnoque gravis caput extulit urna, Et toto arrectum se corpore sustulit Adam. Constitit, et mira tremefactus imagine rerum Turbatas oculorum acies tulit omnia circuni. Et pavitans peliit, madidus quis membra cruore Tarn dulci functus vita trabe pendeat alta. Ut novit, frontem rugis tunc ille rigentem, Pallentesque genas et canos ungue capillos Foedavit lacerans, scelus execratus iniquum. Coniugis in vultum moerentia lumina vertit, Clamavitque gemens, sonuit quo percita rupes: Heu! Dom'inum ipse meum, mihi te suadente, pe- remi. 58 IX. MIlNZONI. Giù per le vie del tuono e del baleno ecc. Qua tonitra resona t, qua fulguris emicat ignis, Spiritus innocuus Mariae delabitur; illi Obvius immixlum fumo lethale venenum Inspergit slygiis sei'pens digressus ab antris. Illa graves oculos augusta luce nitentes Flectit in aligerani subeuntem pone catervam; Et subito Michael flagrantis percitus ira Candentem dextra vagina deripit ensem. Fulmineum ut ferrum rutilai, fugit ocyor anguis; Illum namque videt minitantem tristia, qualem Vidit, ab excelsa coeli cum depulit arce- Demisso insequilur Michael mucrone fugacem, Prendit, et ad Mariam prensum trahit: illa iacen- tem Despectat, pede proterit, inviolataque transit. X. MINZONI. Apriti, 0 nube, che lambendo vai ecc. Scindere, vecta levis flabris quae lenibus aurae Sacrati circum templi fastigia lambis, Tu nitido conclusa sinu quae grandia servas, Haud mora, iam tandem, clarissima scindere nu- bes. Sclnditur, et geminae blanda gravitate verendae Apparent ninphae: tegit ambas aurea vestis. 59 Ambas aetereis nuper rosa lecta viretis, Puraque lux decorai, divinosque afflai honores. Labitur extemplo, et praepes super aslat Honestas Ardenti succensam igni, flentemque sub ara, Aurataque rapii detonsos forcipe crines. Forma comes roseo raptos involvit amiclu, Oscula dehinc interserit ulraque, et utraque nu- bem Rursum intrat, rursùmque in nube ad sidera fer- tur. XI. MINZONI. Ecco venir la femmina perversa ecc. Ecce venit pellex, et iniquae femina mentis; Advenitecce procax potuit quae perdere amantem Femclla, oh! quantum iam nane mutata, nefandi Percipit infelix dum praemia debita facti. Discindit crines, ploratque, et pectora plangit, Sordida, laesa femur, perquam turpissima visu; Nec non ulceribus late conspersa cruentis Se totam obvelat, totos se contrahit artus. Attamen haec inter, fraudes quae docta nefastas, Collectos etiam manibus tenet illa capillos, Olim laeta. quibus, nimiumque superba recisis. Profer, vafra, illos, et notis vocibus usa Perstrepe, et incauti Samsonis despice nomen: Ipsa foves genibus, somno gravis ille quiescit. 60 Discorso agrario letto da A. Coppi nelV accademai Tiberina il dì 20 settembre 1858, con appendice. 1. nlel discorso dell'anno precedente, accennando che le seminazioni nell'agro romano nel 1856 erano state di rubbia 10, 074, soggiunsi gli augurii che aumentassero. Questi voti furono esauditi per l'an- no 1857, nel quale ascesero a rubbia 10, 766; ma poi svanirono in quelle per l'anno corrente, nel quale decaddero a rubbia 10, 022 (1). Non presumo cer- tamente di conoscere le vere cagioni di tale dimi- nuzione. Ma debbo con vergogna riferire che alcuni proprietari di latifondi impongono agli affittuari il divieto di seminare. 2. Ed in quanto agli affitti credo opportuno di registrare, per memoria degli anni futuri', che da qualche tempo s'introdusse l'uso di rinnovarli con anticipazione di vari anni, ed aumentarne enorme- mente le corrisposte sopra le attuali. Fra tanti esempi accennerò i seguenti- Boccea e Tragliata, del capitolo di San Pietro, af- fittata attualmente scudi dieci mila e trecento, rin- novato l'affitto per diciassette mila. Bottaccia, dell'ospedale di Santo Spirito, da scudi duemila e seicento a cinquemila. (1) Estratto dai registri del comune. 61 Castel di Guido, del medesimo ospedale, da na- vemila a tredici mila. Testa di Lepre, del principeDoria, da nove mila a tredici mila. Torre di Pietra, del cardinale Falconieri, da undici mila e seicento a venti mila. Non conosco sopra quali calcoli i nuovi agricol- tori promettano tali aumenti. Quindi mi limiterò a far voti che possano guadagnare e pagare, e miglio- rare la condizione propria, dei grandi possidenti e dello stato. 3. Intanto relativamente gli interessi dello stato osserverò che nell'ultimo novennio l'estra/ioni e l'im- portazioni del frumento furono come segue: 1850. Estratte rubbia 41, 035 per il valore di scudi 335, 150. 1851. Rubbia 143, 000 per il valore di scu- di 1,025,825. 1852. Rubbia 171 , 038 per il valore di scu- di 1,360,679. 1853. Invece di estrazione se ne dovettero in- trodurre rubbia 61, 111 colla spesa di scudi 791,243. 1854. Introdotte rubbia 122, 778, spendendo scudi 1,751,046. 1855. Vi fu nuovamente estrazione nella quan- tità di rubbia 112, 540 del valore di scudi 1,054,448. 1856. Estrazione di rubbia 147, 853 per il va- loro di scudi 1,701, 044 (1). (1) Estratto dal prospetto delie merci introdotte ed estratte dallo stato pontificio. 62 In quest'anno, ai 26 di febbraio, si annunziò che si concedeva la esportazione di rubbia 150, 000 a tutto maggio (1) ; ma non vi furono richieste per tanta quantità, e non se ne poterono esportare che rubbia ottantamihi circa- 4. Frattanto il governo giudicò opportuno di pub- blicare una nuova tariffa normale del dazio per la estrazione e la introduzione dei grani. Essa fu sta- bilita sulle basì seguenti : MEDITERRANEO PREZZO MEDIO Al di sotto di scudi 12... Dagli se. 12. finché non giunga a se. 13. . . . Dagli se 13, finché non giunga ai 14 Quando è giunto a sci 4. ESTRAZIONE se. se. — 01 -- 01 se. 2 — Divieto INTRODUZIONE Divieto se. 2 se. 1 se — 01 ADRIATICO PREZZO MEDIO Al di sotto di se. 10... Dagli se. 10, finché non giunga a se 11. . . . Dagli se- 11, finché non giunga a se. 12. . . . Quando é giunto a se. 12. ESTRAZIONE se. — 01 se. 1 — se 2 — Divieto INTRODUZIONE Divieto se. 2 — se. 1 — se. — 01 (1) Giornale di Roma iium. 110. 63 Seguono le tariffe degli altri cereali (1). Accennerò che nella corrente stagione i prezzi del grano sinora sono molto inferiori al minimo contemplato nella tariffa. Imperocché furono come segue: MEDITERRANEO ADRIATICO Giugno Luglio Agosto se. 8. 41. )) 9. 39. » 10. 31. se. 8. 01. » 8. 17. » 7. 81. 6. Nell'anno precedente indicai l'introduzione di vari trebbiatori. In questo farò voti che s'introdu- cano macchine mietitrici- Soglionsi queste adoperare da qualche tempo nella Gran Bretagna, ed ultima- mente tutte le gazzette annunziarono sollevazioni di contadini irlandesi per distruggerle. Nello scorso anno il commendatore Bettino Ricasoli ne introdusse una in Toscana, e credo opportuno di riferire su di essa il rapporto dell'associazione agraria della provincia di Grosseto in data dei 25 giugno 1857. « Noi sottoscrirti componenti la commissione « nominata dal presidente della società agraria della « provincia Grossetana per prendere in esame la (1) Edillo del cardinale segretario di slato 15 maggio 1858. Giornale di Roma num. 110. (2) Giornale di Roma 157, 179, 209. 64 « macchina mietitrice che il sig. cav. comm, barone (( Bettino Ricasoli ha acquistata dai signori Biirgess « e Key di Londra, andati quest'oggi alia di lui te- « nuta di Barbanella, e con ogni diligenza esaminata « la macchina posta in azione da un paio di bovi, « e con piacere e con ammirazione abbiamo veduto « superate le concepite speranze, ed ottenersi con « questo meccanismo tanta esattezza di lavoro , e « tanta economia di tempo e di spesa, quanta mag- « giore non poteva desidei-arsi. Pcrlocchè attestando « al sig. barone Piicasoli la nostra riconoscenza pel (( generoso esempio da esso dato ai possidenti ma- « remmani, vogliamo tributate le dovute lodi anche « all'inventore e direttore della macchina (1). 7. Indicherò similmente un'altra macchina che potrebbe essere utilissima nei miglioramenti delle nostre deserte campagne , ed in ciò mi limiterò a riferire un articolo del Molitore francese dei 15 marzo 1857. « L' imperatore e 1' imperatrice oggi (( si sono recati all'antico parco di Neuilly ed hanno « assistito all'esperimento di una zappatrice a vapore « dei fratelli Barot. La macchina messa in movi- « mento battè circa quaranta colpi per minuto, e di- ce staccò ad ogni colpo pezzi di terra di metri 2, 30 di « larghezza, di metro 0, 17 di grossezza, e di me- « tro 0, 4-5 di profondità. Cosi lavorò metri 26 di « superficie per minuto. Nel tratto percorso la mac- « china escavò molte radici- Per ordine dell'impe- (( ratore fu accostata ad un gran pioppo, od estrasse (1) Monitore toscano 1857, nuiu. 155. 65 « colla più grande facilità una radice di sette ad « otto centimetri di grossezza. La niìacchina si giu- (5 dico di una grande utilità nella dicioccatura dei « terreni di Affrica, nel Sologne e nelle Bretagne (1)». 3. Indicai nel 1841 che l'olio di olive raccolto nello stato pontificio non bastava alla consumazione interna , ed in ogni anno se ne introduceva dalle confinanti provincie napoletane per il valore di circa scudi quattrocento mila (2). Ora sono lieto di os- servare che questa cifra negli ultimi anni è molto diminuita, essendo stata come segue: 1850 scudi 55,451. 1851 )) 98,424. 1852 » 212,846. 1853 )) 231,042. 1854 )) 151,506. 1855 » 32,817. Nel 1855 poi vi fu un sopravvanzo e se ne potè estrarre il valore di se 67,786 (3). Nel 1857 la cifra d'introduzione ascese nuova- mente a scudi 314, 017 (4). Ma in questo slesso anno la raccolta fu di una ubertà così straordinaria, che si calcolò generalmente al triplo della media. (1) M oiiiteur IS mars 18S7, nura. 74. (2) Discorso sopra alcuni stabilimenti^ e miglioramenti agrari, §. 40, 41. (3) Prospetti delle merci introdotte nello stato pontificio dai 1850 al 1836. (4) Memorie particolari. G.A.T.CLVIII, 5 . 66 9- A questa soddisfacente indicazione dell' olio rincresce di farne un' altra desolante dei bozzoli. Nel 1856 la produzione fu annunziata in cinque nai- lioni e mezzo di libre (1), nel 1857 diminuì di libre ottocento ottantanove mila ducento sessantotto (2). Non si è ancora pubblicata quella dell'anno corrente. Ma pur troppo si conosce cbe nelle Legazioni, nelle Marche e nell'Umbria penetrò la malattia dei filugelli che da alcuni anni infesta il Piemonte e la Lom- bardia, e perciò scarsa fu la produzione de'bozzoli! Accennerò che la camera di agricoltura e di com- mercio di Torino pubblicò di già i risultamenti del prodotto in Piemonte. Annunziò che nell'anno 1857 fu di miriagrammi ducento e ventimila; ed il prezzo ascese a lire venti milioni ed ottocento mila; ed in quest'anno il prodotto fu solamente di miriagrammi cento e cinquantanove mila. Quindi una diminuzione di dodici milioni e novecento mila lire (3). 10' Mentre adoriamo i giudizi del cielo relativi al nuovo flagello della malattia dei bigatti, dobbiamo ringraziarlo che sia in declinazione quella dell'uva. Introdottasi questa in Italia nel 1851, la desolò fino al 1856, ed il vino divenne rarissimo. In Roma, dove il prezzo ordinario soleva essere di circa scudi 40 la botte, ascese talvolta sino a scudi 150. Finalmente nel 1857 la malattia incominciò a declinare, e si ebbe nuovamente vino sufficiente. Attualmente le vigne presentano un apparato consolante, e speriamo (1) Discorso agrario 1857, §. lo. (2) Giornale di Roma 18o8, num. 208. (3) Gaz. Pieni, num. 210. 67 che negli anni prossimi la produzione ritornerà allo stato normale. 11. Nel 1856 s'istituì in Roma una società di orticoltura diretta allo scopo di perfezionare ogni ramo di orticoltura , propagare tutte le cognizioni della scienza e le scoperte agricole , introdurre le piante più rare e più adatte ai giardini , e le più utili, esporne i prodotti, e premiare con medaglie di onore i più intelligenti e laboriosi orticultori. Ne furono promotori Principe Aldobrandini. Conte Filippo Antonelli. Principe Marcantonio Borghese. Marchese Campana. Duca Lorenzo Cesarini. Principe Doria. Martino Hoz console generale della Svizzera. Duca di Magliano. Conte Lavinio de'Medici Spada, Principe Odescalchi. Marchese Patrizi Montoro- Duca di Rignano. Principe Alessandro Torlonia. Duca Marino Torlonia (1). Il principe Doria ne fu eletto presidente. 12. L' esposizione si fece nell' atrio del palazzo dello stesso presidente dai 4 ai 12 di maggio- Im- (1) Giornale di Roma 1856, num. 96. 68 mcnso e continuo fu il concorso del popolo romano al nuovo e splendido spettacolo. Nel giorno 11 una commissione determinò i premi da conferirsi ai mi- gliori giardinieri ed orticultori, e sul rapporto della medesima furono distribuite diverse medaglie di oro, di argento e di bronzo (1). Nella primavera del 1857 si rinnovò la esposi- zione nel medesimo luogo, e fu estremamente vaga e ricca dì prodotti. Ai fiori si videro aggiunti nuovi modelli di cose rustiche, e fra questi un aratro di Benedetto Tucci di Palliano; due trebbiatoi acquistati da Bandini e da Troiani ed accennati nel discorso agrario dell'an- no precedente (2); una macchina per pigiare le uve, perfezionala dai fratelli Baldantoni di Ancona; e di- versi oggetti da usarsi nelle decorazioni dei giardini e casini rustici recati da Matteo Capozzoli direttore della ftibbrica di stoviglie nella villa Belvedere in Frascati (3). (1) Foglio annesso al giornale ai Roma IH. Memorie particolari. (%) §. 8. e 9. (3) 11 principe Aldobrandini avendo scoperto nella sua villa tusculana di Belvedere terre di qualità speciali ed ec- cellenti, vi stabilì nel 1848 una fabbrica di materiali laterizi, consistenti in mattoni, pianelle, zoccoli, tegole, canali, tubi per acquedotti ecc. ecc. Con nuove indagini si scoprirono altre qualità di terra, atte alle manifattura di stoviglie ancbe ver- niciate. Allora il principe s'indusse ad impiantarne altra fab- brica, tanto in oggetti comuni ad uso di Genova, vettine ecc. quanto di lusso , come stufe decorate a legna ed a carbone, camminetti ad uso di Toscana, non che vasi ornati da giar 69 Il marchese Bandirli espose vari^ prodotti agrari ottenuti dalle sue possessioni nelle Marche, e fu spe- cialmente premiato con medaglia di bronzo un saggio di lana merinos di finezza meravigliosa. La commissione terminò il rapporto facendo elo- gio alle belle varietà di pere e mele canservate ed esposte dal cavaliere Vescovali, qual piccolo saggio della vastissima collezione di frutti coltivati nel pian- tinaio comunale, ed una collezione di cereali esposti dal professore Luigi Licobini (1). 14. Nello stesso anno s'incominciò a farne un'al- tra autunnale (dai 15 ai 22 di ottobre) nella caval- lerizza del principe Doria. In queste si videro molti frutti ignoti generalmente al popolo. Si ammirarono specialmente quelli raccolti nel piantinaio comunale di Roma, dove trovansi 150 varietà dì viti, 214 di peri ed 86 di pomi (2)- Il cavaliere Luigi Vescovali, che allora era direttore, senza concorrere al premio ne inviò molte delle migliori qualità- Augusto Lan- ciani ne mandò una collezione di circa cento e venti dino, anche di grandi dimensioni, e molti altri articoli, come pnre oggetti dipinti. Tale industria, eseguita da abili lavoranti, riesce di una perfezione particolare per la bontà della materia prima ; in parte supplisce a vari oggetti che s'introducevano dall'estero, e somministra mezzi di sussistanza ad 80 individui impiegati per i due stabilimenti. (1) Rapporto della commissione degli 8 maggio 1857. Foglio annesso al giornale di Roma. (2) Nel 1810 il comune di Roma stabilì un piantinaio sul Palatino, collocandovi piantine di alberi fruttiferi e di delizia 70 della stagione estiva conservati, e clell'autunnale, col- tivati in suo podere suburbano a monte Mario. Vari altri esposero frutti di diverse specie- Cristoforo la- cobini, possidente in Genzano, espose ventisette qua- lità di uve in grappoli, ed insieme sei qualità di vini in bottiglie; due altre qualità ne recò il professore Luigi lacobini, e la commissione riferì: « Alcuni con- u lavano quindici anni, altri dodici, altri dieci, ed (( altri meno tempo. Ve n'erano spumanti e ve n'e- trasportali dal piantinaio parigino di Luxembourg e delle Pro- vincie meridionali della Francia (a). Nel 1813 fu trasferito presso il convento, allora abban- donato, di san Sisto sulla sponda destra dell'acquedotto della Marrana, nella valle esistente fra il Celio e l'Aventino. In quell'anno le piante erano circa 80,000 (b). Ma negli anni posteriori diminuirono a circa 15,000. Fra queste niuna fruttifera, niuna vite. NellSSOne fu nominato direttore il cav. Luigi Vescovali, consigliere comunale, e nel censimento del 1857 si trovò es- sere come segue: Alberi fruttiferi 30, 000, dei quali 15, 000 già innestati , e 15,000 pronti per l'innesto. Viti 10,000 in 150 varietà. Gelsi 15,000 in otto varietà, de'quali 5000 disponibili an- nualmente. Alberi diversi a foglie caduche 30,000 in più di cento va- rietà (aceri, frassini, pioppi ecc.). Alberi coniferi resinosi in cento più varietà (abeti, pini, cipressi ecc.). Alberi ed arbusti diversi sempre verdi 30,000 in ducente e più varietà. Quindi in tutto circa 130,000 piante. (a) De Tournon, Etud. stat. sur Rome, tom. I. liv. Il, eh. 111. pag. 340. (b) toc. cit. 71 « rano di quelli obn nell' essere naturale e senza « condimento di sorta alcuna, come provò 1' espe- « rimento, possono gareggiare e superare i vini di « bottiglia, che ci giungono d'oltre mare, per ga- « gliardia e per sapore- » Si esposero similmente cereali ed erbaggi di ogni sorta, ed ai migliori pro- dotti furono assegnate le onorifiche medaglie. Nu- meroso fu sempre il concorso dei cittadini alla vaga esposizione* 11 Santo Padre l'onorò improvvisamente di una visita nel giorno 20 di ottobre , e ne ma- nifestò la sua sovrana soddisfazione (1). 16- In quest'anno la società fu ampliata e si este- se all'agricoltura pastorizia. Nella primavera l'esposizione si fece nella villa Borghese. I fiori furono collocati nel casino prossimo al ponte egizio ; e nel circo denominato piazza dì Siena si esposero tori , cavalli e montoni. In as- senza del presidente principe Doria , fu diretta dai vice-presidenti principe Aldobrandini e duchi Ce- sarini, Massimo e Salviati- Fu aperta ai diciannove di aprile. Il Santo Padre fece mettere a disposizione della società quattro medaglie di oro per conferire a co- loro, che nei prodotti agricoli e pastorizi avesse giu- dicati meritevoli. Quindi nel giorno ventuno si recò ad osservare tutti quegli oggetti, diresse parole di molto enco- mio per l'utile opera promossa, a ne esternò la so- vrana sua soddisfazione. (1) Relazione nel Giornale di Roma 18S7, num. 253,255 e 258. 72 Le medaglie di oro furono conferite per l'orti- coltura a Mosè Mauri giardiniere in capo della villa Painphili, e ad Emilio Richter giardiniere in capo della villa del principe di Piombino- Per la pastorizia al principe Rospigliosi per un toro di sei anni, ed ai fratelli Silvestri per un pol- iedro di anni tre. Altri premi furono conferiti a vari altri espo- nenti (1). Piacciamo voti ardentissimi che la società, pas- sata dall'orticoltura alla pastorizia ed alla agricoltura, tanto cresca da promuovere efficacemente quest'ul- timo ramo così negletto nel deserto agro romano. APPfclNDICE 16- Dopo la lettura del discorso fatto ai 20 di settembre si pubblicarono tre documenti, de' quali deggio fare menzione. Il primo è un articolo agrario della provincia di Ferrara, nel quale tra le altre cose lessi con spe- ciale piacere: « I trebbiatoi locomobili hanno soddi- « sfatto i possidenti e i contadini a maraviglia, tanto « pel poco tempo impiegato a batterei loro grani, « quanto per non rimanere grani nelle spighe, come « è accaduto in quest' anno in tutti gli altri modi « di batterlo , e per le qualità del frumento dalle « macchine sortito (2). » (1) Giornale di Roma, num. 90, 95 e 103. (2) Gazzetta di Ferrara dei 22 settembre 1856 num. 72; e Giornale di Roma num. 220. 73 17. Ai dieci dì ottobre si aprì, nel solito locale della cavallerizza del principe Doria , l'esposizione autunnale della società romana di orticoltura ed agri- coltura (1). Nella parte orticola si videro diverse nuove varietà ottenute da semenzai praticati nel suolo romano, e introdotte dall'estero. Augusto Housaille, giardiniere del piantinaio co- munale, inviò un abbondante raccolta di piante sem- pre verdi, dì resinose, di molte ed elette qualità di uve, di frutti e di fiori, di dalie ecc. senza concor- rere ai premi. Ma la commissione Io contraddistinse con medaglia di oro fuori concorso, per aver fatto vedere per la prima volta fiorito VAgaosliis sinualus. Ebbero parte alla esposizione i prodotti com- mestibili somministrati . dalle colture dei pomari e degli orti. Fra questi si ammirò una numerosa e pregevole collezione di frutti autunnali esposti da Francesco Ory orticultore nella villa Taverna di Fra- scati del principe Borghese. Nei concorsi dell'agricoltura furono giudicati de- gni dì premi il grano tenero esposto dai fratelli Tittoni, dai fratelli Montefoschi, e dai fratelli Pia- centini; le mischiglie di Crispino Mariani, ed i grani duri di Pietro Balsani. La commissione credette inoltre di dover pre- miare una colleziono di grani esteri esposta da Mosè Mauri , quale nuova introduzione da sperimentarne la riuscita , qualunque sia per essere , nelle nostre campagne (2). (1) Giornale di Roma num. 230. (2) Relazione del doti. M. Lanzi vice-segretario, dei 21 ottobre 1858. 74 18. Ai 30 dello stesso mese di settembre il mi- nistero del commercio , lavori pubblici , agricoltu- ra ecc- pubblicò una notificazione, colla quale rese conto della somma di scudi cento e cinquantamila assegnata al governo nel 1849 per promuovere ed incoraggiare la piantagione di nuovi alberi , come accennai in vari discorsi (1). Risulta che dal 1850 al 1858 furono erogati scudi 144,859.02, e furono piantati alberi 1,848,247. PVa questi Gelsi ...... 293,606 Olivi 362,670 Nel tempo stesso annunziò che il S. Padre pro- rogava per un altro quinquennio il premio annuale di scudi diecimila con alcune nuove norme (2). (1) 1849 10. 1857 13. (2) Giornale di Roma num. 266. 75 Igiene pubblica- - Islorico-fisico ragionamento sulle culture umide e sulle pretese bonificazioni da farsi per loro mezzo delle terre palustri dello Stato pon- tificio del prof. Agostino Cappello. Parte terza ri- sgiiardante Vagro romano (1). k^e l'animo si rattrista nel contemplare l'agro ro- mano spoglio di alberi, di caseggiati e di abitanti, maggiore duolo ne prova pei sconcerti che arrecano ai circonvicini abitatori l'endemiche malattie , che di tempo in tempo assumono l'epidemico genio. Né certo l'uomo benefico può lincorarsi per la messe che si raccoglie nella coltivazione del medesimo , in pensando alla dura necessità di lavoratori forestie- ri cui toccano in ogni stagione svariate e spesso mortali morbosità. Perlocchè i sovrani pontefici at- tesero di proposito ora al dileguo, ora a temperare cotesto luttuoso apparato. Né valenti scrittori di pub- blica economia, né accorti medici cessarono di sug- gerire in ogni tempo i mezzi per una salubre ristau- razione del suolo romano. Ma chi potrebbe mai im- maginare che in tanta copia di scientifici lumi , in tanto caldeggiare di filantropia invadesse a'dì nostri e sotto i nostri occhi una ferma opinione, un medi- tato progetto, per accrescere oltremodo le suddivi- (1) La prima parte fu pubblicata nel giornale arcadico to- mo VII della nuova serie pag. 69-93; la seconda nel tomo IX pag. 117-43. 76 sale calamità colla umida cultura del riso ? Che se con gravissima difficoltà riuscì sospendere un tan- to sinistro, potrebbe in altri tempi risorgere il fu- nesto pensiero; onde mi è paruto che, coerentemente all'argomento che ho impreso a trattare, sia reso di pubblica ragione quanto fu operato perchè fosse ai venturi di utile e salutare ricordo. Prima di ragionarne, dirò di volo quanto l'anti- ca e la moderna sapienza usò di riparo per la re- staurazione e sanifica/ione della romana campagna. Chi sentenziò che per legge di natura era un im- possibile di raggiungere cotesto sublime intento , ignorava forse che come un tempo 1' agro romano ridondò d'illustri città, di numerosa popolazione, di ville sontuose, di ricca e variata coltivazione, po- teva al certo conseguire un salubre e florido risa- nimento. Vero si è, che, conseguito ancora il salu- berrimo scopo, incessante e vigilantissima sorveglian- za si richiede per conservarlo, siccome chiaramente risulta da quanto ne ha tramandato la storia. Difatli fin dai più remoti tempi notansi località palustri per non lievi rinnovate ristagnazioni. Appio Claudio, Celego, e lo stesso Giulio Cesare con apposite bo- nificazioni riportarono la florida cultura. Mancata poi la debita vigilanza, si riprodussero pili fiate le infeste paludi. L'imperatore Traiano, gli imperanti della gente Flavia (1), poscia lo stesso Teodorico, ricondussero florida ristorazione mercè di bene in- tese bonificazioni (2). Né poca era stata la rovina (1) Dione Cassio lib. 58. Plinio lib. 24. 2) Cardinal Corradino Vet. Lai. 77 pel cambiamento del seggio imperiale. Imperocché barbare nazioni, fin allora vinte e raffrenate, l' una dopo l'altra, e talora insieme, portarono esterminio ed incessanti disastri (1). Divenuti i pontefici pacifici possessori di Roma, volsero sovente tutto il pensiero a ristorare le in- salubri romane terre. 11 primo fu Bonifazio Vili che le ridusse coltivabili (2). Pel fatale trasferimento della sede pontifìcia in Avignone, durato per 70 anni, rinnovossi la sciagura. Molto fecero i pontefici Niccolò V, Calisto III, Pio II, e Sisto IV (3), ma non si raggiunse pienamente l'in- tento, soprattutto nelle paludi pontine (4). Leone X concesse le medesime ai suoi parenti, i quali boni- ficarono la località più prossima al mare (5). Dopo circa 17 lustri Sisto V ne ricuperò il dominio, e le visitò nel 1585. xMoIto fu lo spazio di terra ripor- tato alla florida coltivazione; ma per la di lui mor- te, rimanendo imperfetta l'operazione, si riprodusse il disastro. Urbano Vili, rifiutatosi dapprima al pro- getto di ristorarle ad alcuni intraprensori olandesi, ne dava poi il privilegio al batavo Witt , il quale morì senz'aver dato principio all'opera. Le stesse fa- coltà essendo state conferite da Innocenzo X a Paolo Marcelli e suoi, andò parimenti a vuoto l'impresa per (1) Corradino op. cit. (2) Id.ibid. cap. 14, 15, e 17. (3) Doni, De restituenda salubritate agri romani. (4) Bolognini Memorie dell' antico e presente stato delle paludi pontine cap. 3 par. 2. (o) Id. ibid. par. 3. 78 discordia nata fra di loro (1). Del pari senza effetto si trattò sotto Alessandro VII con uno speculatore olandese. Immortale sarà mai sempre la gloria di Pio VI per la bonificazione delle paludi pontine, ove di per- sona sì portò tre volte, onde si attendesse vieppiù al benefico intendimento, e piii alacremente sì rad- doppiasse il travaglio e Tindefesso studio per con- seguire prospero risultamento. Perchè poi durevoli ne fossero le norme e du- raturi i frutti, volle il pontefice che se ne scrivesse filosofica e ragionata storia in lingua latina. A ta- l'uopo ricercò i pili dotti personaggi; cadde in fine la scelta sopra il gran Spedalieri. Esso con sommo studio rimontò ai piiì oscuri e remoti tempi insino a Teodorico e posteriormente. Poscia con la guida della più sana critica e profonda filosofica ed archeo- logica sapienza addentrò lo stato fisico e politico di codesta contrada, dilucidandone le circostanze le più astruse e dubbiose. Era assai inoltrato il suo la- voro, quando per le lacrimevoli vicende trascinato il sommo Pio in durissimo esilio, lo Spedalieri, vi- cino a morte affidò e caldamente raccomandò la sua opera al suo amico il fu chìar. monsig. Niccola Maria Nicolai; il quale dalla lingua del Lazio volta- tala nell'italiana favella, l'arricchì maggiormente; quindi divisala in 4 libri, la rese di pubblico diritto nel 1800 (2). (1) Corradino op. cit. pag. 51. (2) Odescalchi, Elogio di monsig. Niccola Maria Nicolai. Roma stamperia camerale 1835. 79 Se non che ognuno dovrebbe contprendere, che a raggiungere uno scopo veramente sahibre e per- manente, è di necessità non solo di bonificare l'in- tero agro romano, ma di ripopolarlo ancora, dopo averlo arricchito di alberi e di caseggiati. A sì glo- riosa impresa mirò a' dì nostri il XII Leone mercè di una società d'intraprendenti stranieri. Non pago questo Papa di aver migliorate le condizioni degli studi , degli ospedali, delle prigioni, della pastorizia, della polizia delle strade ecc., intese di proposito a migliorare la morale del basso popolo di Roma, e a ricondurre questa capitale a maggiore splendore col perfetto ristoramento della romana campagna. Una mala intesa scrittura fiscale fece abortire il ma- gnanimo intendimento. Imperocché io non mi per- suaderò mai che colle savie istituzioni racchiuse nel progetto, campagnuoli cattolici irlandesi e svizzeri suddivisi in apposite colonie, con opportuni regola- menti diretti, anziché alle campestri occupazioni , volgessero il loro animo a politici sconvolgimenti, siccome prciendevasi dimostrare in quella scrittura. Si affacciavano altre difficoltà , ma esse svanivano a seconda delle convenzioni; né ledevansi, come si rappresentava, i dritti di proprietà, mentre tornavano le calcolate rendite delle terre ai rispettivi posses- sori. Inoltre pei tre lustri precedenti le immigra- zioni sarebbonsi conseguite dal dicembre al giugno le indispensabili bonificazioni , le piantagioni ed i caseggiati. Né credo perciò di essermi illuso se in un mio lavoro pronunciai , che le savissime mire del XII Leone erano state attraversate dagli altrui 80 sognati fantasmi (1). II che io ricordava quando an- dato a vuoto quel sublime disegno, il papa ordina- va che dal seno dell' accademia dei Lincei si for- masse una eletta commissione, la quale tenesse in ogni settimana straordiuarie ragunanza affine di stu- diare e proporre i mezzi non solo nelle cose agri- cole , ma eziandio per rialzare al debito grado di miglioramento l'ind'istria manifatturiera dello stato; e la commissione per parecchi anni corrispose al- l'onorevole incarico (2). Mirava ancora Leone XII d'innalzare l'accademia de'Lincei a quel lustro a cui avventurosamente fu portata dal sommo regnante pontefice Pio IX. II quale fino daf primi dì del pontificato fra le trava- gliantissime cure volse pure il suo pensiero alla ro- mana campagna- Imperocché nel torre giovincelli qua e là vaganti per la città, ordinava raccoglierli in campestre località. Con questo sapientissimo di- visamento intese il Santo Padre a ricondurli non solo alla buona morale ed alla fisica robustezza , ma a formare eziandio un nucleo che potesse gradata- di Opuscoli scelti scientifici pag. 324, tipografia Salvioni, Roma 1830; e Schiarimenti economici di Agostino Cappello , pag. 14, e giornale arcadico tom. 61 pag. 94. (2) I membri di questa commissione furono Barlocci prof, di fisica, Cappello dott. Agostino, Carpi prof, di mineralogia, marchese del Gallo, marchese Marini direttore del censo, Me- taxà Luigi prof, di zoologia e di anatomia comparata, Mori- chini prof, di chimica, monsig. Nicolai presidente dell'accade- mia dei Lincei e della commissione, Peretti prof, di farmacia, marchese Potenziani, prof. Scarpellini segretario dell'accade- mia dei Lincei e della commissione, e Venturoli presidente del consiglio d'arte. 81 mente dilatarsi per raggiungere un giorno l'impor- tantissimo scopo di ripopolare I' agro romano , ri- ducendolo ad una perfetta coltivazione, soprattutto alla desiderata salubrità, e siffattamente ne fu com- preso l'animo suo, che volendo procedere con ma- turità di giudizio pertossi sei miglia lontane da questa capitale in una tenuta (denominata la casetta dei Matiei) nel di 30 dicembre 1846 , percorrendone l'esteso terreno, ed assaporandone le acque salubri che vi scaturiscono in abbondanza. Nello stesso tempo onorava me ed un chiar. collega ( Carpi ) affine di esaminare la natura del suolo e del clima per indi umiliarne alla Santità Sua l'opportuna relazione, sic- come fu coscienziosamente adempiuto nel di 6 gen- naio 1847 .(1). Or dunque mentre procurossi fin dai remotis- simi tempi di ristorare la campagna romana, od al- meno si ebbe sempre il pensiero di renderla il più possibilmente meno insalubre, si fa chiaramente ma- nifesto, che a nessuno sorse mai il mal talento di raggiungere lo scopo con le umide coltivazioni. A'dì nostri soltanto si provò di proposito, e con grande probabilità, di mandare ad effetto cotesto pensiero con l'impianto di risaie nel vasto latifondo di Campo Salino appartanente ad una delle nobili famiglie Pal- lavicini di Genova. Essa sotto il pontificato di Gre- gorio XVI , dopo il più accurato esame idraulico, aveva ottenuto nel 1839 il privilegio di bonificare quella tenuta con regolari colmate da eseguirsi colle più rigide precauzioni. (1) Memorie storiche di Agostino Cappello p. 567-73. G.A.T.CLVIll. 6 82 Grave quindi fu la sorpresa del supremo sani- tario magistrato, allorché per organo del ministro dell'interno gli fu rimessa istanza della sig. marchesa vedova Pallavicini, in cui si esponeva che per vedute economiche di famiglia non sorreggendosi all'ingente spesa di bonificare con regolari colmate, le si con- cedesse di colmare il suo lenimento per mezzo delle risaie. Il ministro intanto inculcava con premura che la speciale congregazione sanitaria nel dar corso all'i- stanza glie ne desse l'opportuno discarico. Chi poi non ha guari aveva nel suo progetto per le culture umide del bolognese rovesciate le istituite sanitarie leggi, ed un lustro innanzi virilmente affaticatosi per ricondurre il salubre agro fermano in un'infestissima padule, perorava ora i sommi vantaggi che Roma trarrebbe dalle risaie in Campo Salino acconciamente praticate. Cotesto divisamento, quantunque non bene accolto, tuttavia per le insistenze del ministero del- l'interno la sanitaria magistratura opinò che io ed un altro medico consigliere, con un ingegnere della congregazione, ci portassimo ad esaminare diligen- temente la località, e darne coscienziosa relazione. Alla qual proposta manifestai immediatamente con- trario avviso; e perciocché il mio collega a tutta possa avrebbe sostenuto l'attivazione dell'umida cultura; e l'opposto sarebbe da me ragionevolmente operato; quindi proposi due distinti fisici sanitari professori Falcioni e Carpi, cui il sanitario consesso aggiunse il sig. Giansanti ingegnere della congregazione , e poscia il sig. ingegnere Scarabelli. Nella sessione del dì 12 aprile (1848) la sani- taria congregazione mi dava l'onorevole incarico di 83 formulare le istruzioni per la commissione sanitaria idraulica, ordinando che mi si passasse l'analoga po- sizione, in cui racchiudevasi ancora quanto era stato operato da espertissimi ingegneri all' epoca del ri- cordato privilegio di bonificare con regolari colmate. Ciascun membro della congregazione alcuni mesi in- nanzi aveva potuto osservare solamente di volo la detta posizione , la quale mi fu ritardata , e nella stessa mattina, in cui mi fu rimessa , il ministero dell'interno ne domandò l'immediato rinvio per mezzo del sig. segretario della congregazione speciale con. officio del di 18 aprile n.» 3704 che chiudeva con le seguenti parole: « La prega di volerle trasmet- « tere col mezzo del portatore del presente , o in « qualunque altro modo spedito e sollecito »: di che io ne menai querela nel rapporto e nelle istesse istruzioni, che mi credetti in dovere di eseguire per corrispondere all' incarico affidatomi. Le istruzioni quindi per me il meglio possibile furono compilate sotto il dì 25 aprile, e nella sanitaria sessione del dì 26 furono dalla congregazione discusse ed ap- provate. Il non tendere le medesime all'ammissione delle risaie, l'avversione manifestata dalla maggiorità del consiglio sanitario per le umide coltivazioni nel- l'agro romano , la possibilità che lo stesso divisa- mento porterebbe la nominata commissione sanitaria idraulica, cagionavano nel seno del ministero dell'in- terno dispiacevole impressione. Gli agenti della fa- miglia Pallavicini raddoppiavano ogni cura non meno pel disbrigo che per un favorevole successo, di cui poi menavano vanto. Imperocché tenevan per fermo che la contraria risoluzione del sanitario ministero 84 sarebbe tenuta in non cale dal ministero dell'interno. Di fatti si ebbe contezza che le suddette istruzioni sanzionate in piena sanitaria adunanza del dì 26 a- prile dalla congregazione non sarebbero state comu- nicate alla commissione; invece se ne sarebbero altre formulate nell'istesso officio dell'interno, siccome fu praticato, e per ministeriale comandamento si rimi- sero poscia alla commissione sanitaria idraulica. Per verità fui in questi dì pentitissimo di non essermi ritirato dal sanitario dicastero prima ancora della pubblicazione delle mie memorie, siccome mi ero l'anno innanzi protestato in piena sanitaria adu- nanza (1). Imperocché quest'atto arbitrario, se non eguale a quello del detto anno, tuttavia risvegliava in me quell'amor proprio , o per dir meglio quel- l'onore, che l'uomo onesto ha sommamente a cuore; onde ne era io alquanto angosciato, in pensando an- cora che pei tempi che correvano aggiungerebbesì una non lieve calamità per Roma con l' impianto di risaie. In siffatti tristi pensieri una sera trovandomi al teatro Valle, e vedendo il sig. conte Bossi ministro dell'interno nel palco del sig. duca di Rignano, mi volsi alla cortesia ed amicizia di questo, affinchè mi presentasse al sig. ministro per tenervi un colloquio risguardante un sanitario argomento di somma im- portanza (2). (1) Id. pag. 402-3. (2) La legge del 1834 dava la presidenza della congre- gazione sanitaria all'Emo segretario di stato dell'interno: ora 85 Immediatamente fui presentato al ministro, che gentilmente disse attendermi la domane nella sua residenza a Monte Cavallo. Andatovi difatto , egli subito co'i più urbani modi mi accolse, e ascoltan- do pacatamente il mio lungo discorso, che presso a poco era quello racchiuso nelle succitate istruzioni da me riferite alla congregazione , e da essa ap- provate: « Eccellenza, io dissi, la salute di questa capi- « tale è minacciata da una grave sciagura pel ma- « nifesto favore del ministero da V. E. presieduto; « imperocché tendesi a stabilire l'umida coltivazione « dei risi circa 8 miglia distanti dalla medesima « nel vasto latifondo di Campo Salino. I venti che « di colà spirano insalubri sempre per Roma diver- « ranno pestiferi , dacché saranno inquinati delle « inevitabili deleterie emanazioni di quell'umida cul- « tura, essendo libero iljoro soffio per non esservi « riparo di sorta; poiché ella ben sa la distruzione « delle foreste che la vetusta sapienza per la ge- « Iosa conservazione aveva censecrate alle pagane « divinità. « Che se il suolo dell'agro romano e Roma stes- « sa si vede generalmente sottostare a vaporosa nube, « che nell'annottare sciogliesi per la minorata tem- « peratura , mostrandosi l'umidità manifestamente « ai sensi; essa diverrà maggiormente nociva nelle « stagioni estiva ed autunnale per la saturazione dei non essendo stata detta legge abrogata, l'attuale ministro do- veva presiederla; ma il sig. conte Rossi non intervenne mai alle sanitarie adunanze. 86 « morbiferi effluvi delle risaie. Insorgeranno quindi « epidemiche costituzioni più frequenti e pili mici- « diali di quelle alle quali qualche rara volta Roma (( soggiace. Arroge che oltre l'incessante nociva eva- « porazione della progettata umida cultura, gli stessi u vescicolari vapori, che in dette stagioni si solle-' « vavano dal vicino Tevere, si caricheranno di quelle u gazose deletei'ie sostanze, che al soffiar di quei « venti insalubri accresceranno malsania alla romana « incolumità. Imperocché per testinjonianza di clas- « sici autori illuminati da reiterata esperienza os- « servata nei campi di cotesto umido cereale, ri- « levossi che le risaie soprabbondano di piante pa- u rasile, che fa d'uopo svellere per la buona frut- « tifìcazione del riso; ed essendo cariche di sostanze « azotate, si putrefanno emanando quei morbiferi « effluvi, cui nel chimico processo di quella putre- « fazione svolgonsi a miriadi gli insetti che mag- « giormente contaminano l'atmosfera. I lodatori me- « desimi delle risaie avvertono, che a misura che il « rìso si matura , fa d'uopo per la buona fruttifi- « cazione privarlo 7 — 8 dì dell' acquosa irrigazio- « ne (1); d'onde chiaramente emerge il progressi- u vo aumento per gli estivi calori delle mofetiche « emanazioni, e degli insetti che muoiono e rinasco- « no per accrescere la putrefazione, e rendere viep- M più insalubre l'aere atmosferico. (1) Sulle quistioni sanitarie ed economiche agliate in Italia intorno alle risaie , studi e ricerche di Luigi Carlo Farini pag. 6. (Firenze tipografia Galileiana 1843.) 87 « Né io sto a ridire a V, E. tutte le altre no- « cevoli cagioni alla salute umana, che hanno inces- (( santemente luogo fino al raccolto dì questo ce- « reale. Quindi è certamente erroneo l'avviso di co- « loro che sostengono l'emanazioni dell'umida cultura (( del riso meno nocive, o eguali a quelle dei ter- (( reni palustri- Senza citare esempi forestieri , si (( degni V. E. di fare esaminare la notificazione Fro- « sini del 1816 fatta dal governo colla stampa di (( pubblica ragione (1) , e la relazione della com- « missione straordinaria sanitai'io-idi'aulica del 1839 « esistente nell'archivio di S. Consulta, e vedrà de- « cisamente l'opposto: rileverei anzi insorte novelle (( morbosità in quelle regioni (2). E sono io ben « persuaso che gli uomini dottissimi e sperimentati (( che formarono quelle commissioni neppure per so- ft gno avrebbero trovata conciliabile la statuita legge « Erosini per l'agro romano. A ragione perorava in « detta radunanza il cel. Savi, che il miasma pa- « lustre nella parte meiidionale d'Italia acquista per « l'influenza dei venti sciroccali maggiore malignità « di quella che il miasma manifesta nella parte set- « tentrionale; conchiudendo, che in questa potrebbe « forse accordarsi qualche concessione alla cultura (1) Atti (Iella commissione speciale destinata dalla Santità di N. S. Papa Pio YII per le risaie della provincia bolognese l'anno 1815: Roma 1818 presso Vincenzo Poggioli stampatore camerale. I membri della commissione furono monsig. Frosini chierico di camera (indi cardinale) , ed i chiariss. professori Morichini, Oddi, e Scaccia ingegnere. (2) Leggasi la prima parte di questo ragionamento nel Giornale Arcadico tomo VII della nuova serie. 88 « del riso, senza mai scendere ad alcuna tolleranza « della cultnra medesima nella parte meridionale d'I- « talia (1). « Un triste esempio testé avvenuto per clande- « stina risaia nel territorio di Ceri (e solennemente « poi poscritto dalla sanitaria congregazione) con- ce ferma il dettato dell'illustre toscano- Quantunque « poi limitata fosse la semina di questa clandestina « coltivazione, tuttavia intense ed insolite micidiali « morbosità si svolsero per la medesima (2). S'in- « formi V. E. dai villeggianti di Palo, che sebbene « sei miglia distanti dal suddetto territorio, soffri- « vano ciò nulla ostante insopportabile fetore. « Considerando poi la Toscana, paese di sottili «speculazioni commerciali, perchè nel bonificare la « maremma della Val di Chiana^ e recentemente « quelle di Grosseto , non si volse quel governo a « bonificarle mercè delle culture umide cotanto van- « taggiose alla pubblica economia ? « Vuoisi ponderare inoltre che i fautori me- (( desimi di risaie dicono, che per fisica ragione ed « esperienza le medesime si rendono nocevoli in ter- u reni che cominciano ad asciugarsi in primavera, « e totalmente asciutti sono uell' estate (3). Cosif- « fatta condizione precisamente avviene in Campo « Salino. Sono essi medesimi che ragionevolmente « ripetono, che debbe vietarsi Tumida coltivazione (1) Filiatre Sebezio, novembre 1843 pag. 322. (2) Vedi la seconda parte di questo ragionamento nel Gior- nale Arcadico tomo IX pag. 117. (3) Farini, Opera citata pag. 165-6. 89 « dei risi a persone nate nei siti nnontani e salu- « bri (1). Ora chi mai potrebbe praticarla in Campo « Salino se non romagnuoli, marchiani, abbruzzesi , « che tratti dall'avidità di maggior lucro incontre- « rebbero indubbiamente o morte o lunghe e per- « tinaci morbosità , a danno ancora della loro fa- « miglia, e della stessa pubblica economia (2)? « Laonde V. E. conosce meglio di me, che per « bonificare l'agro romano e renderlo salubre non « solo è d'uopo dar scolo alle acque palustri, e rin- « verdire i luoghi presso al mare con alberi di alto « fusto , ma senza trascurare ancora qua e là la tt piantagione di alberi fruttiferi , e la fabbrica di « borgate per sanificarlo e ripopolarlo. « Mi perdoni, signor conte, la noia recatale pel « mio lungo dire, mentre mi era indispensabile co- « me consigliere della speciale sanitaria congrega- « zione, e come preside della commissione per le ma- « lattie popolari dello stato pontifìcio; onorevole in- « carico che mi fu affidato da dotto medico consesso, « avendone prima dell'accettazione riportato lusin- « ghiere assenso dalla S. di N. S. Papa Pio IX, e « da' suoi ministri )>. Sebbene io non fossi mai intervenuto agli scien- tifici italiani congressi, né diretto ai medesimi scrit- to od alcuna delle coserelle da me pubblicate, tut- tavia datomi l'onorato incarico, all'occasione di be- nigna sovrana udienza, supplicai la S. S- se dovessi (1) Id. ibid. (2) Giornale Arcadico tom. VII della nuova serie pag. 6&. 90 o no accettarlo. Ei degnossi rispondere che ne parlassi all'Emo Gizzi segretario di stato, il quale approvò che accettassi , e che mi ponessi di concerto con monsig. Matteucci segretario di s- Consulta e vice- presidente della congregazione speciale sanitaria, che avrebbe prevenuto. Difatti il prelodato prelato si com- piacque per la stampa di un mio manifesto rimet- termi circa un migliaio di copie del medesimo im- presse in litografìa, che stimo qui riprodurre, spe- cialmente oggidì in cui ebbe luogo un sanitario in- ternazionale congresso aperto a Parigi nel dì 23 lu- glio 1851 (1); mentre da questo manifesto chiara- fi) Nel mostrare in questo giornale toni. 148 il plagio francese sopra i miei lavori della rabbia , accennai pag. 42 che nella sera del dì 19 gennaio 1852 interrogai il sig. La- lour intorno il medesimo, e mi disse non essersi verificale le mie osservazioni. Ora un giornale nostrale si prese la cura di riportare i biografici cenni inseriti da questo illustre francese nel suo giornale (l'Union medicale) sui medici delegati dai go- verni europei al congresso sanitario internazionale di Parigi; ma dei cenni che risguardavano me serbossi silenzio. Il per- chè si è non ha guari creduto che cadesse in essi alcun ri- lievo sull'idrofobico argomento; ma nulla di ciò. È certo che brevissimi sono stati questi cenni pubblicati dal Latour , ma sono preceduti da somme lodi verso l'intero corpo dei medici delegati, fra' quali vuoisi solo accennare: « Rarement, jamais « peut-étre, notre capitale été honoré de la visite d' un « nombre aussi considèrable des medecins etrangersjouissant « d'une position aussi èlevée ». (Union medicale 9 aoùt 1831 pag. 376). Relativamente a me, mi corre debito per quel silenzio ri- portare le parole del signor Latour: « M. le docteur Agostino « Cappello a occupé successivement, et occupe encore aujour- « d'hui, des emplois importans dans l'adniinistration sanitaire « des etats du Papa. L'euumeration des ses titres academi- 91 niente rilevasi quanto in Italia si pensasse di pro- posito per lo studio dei nfiorbi popolari , inclusive contagiosi. Che se in Francia in questi ultimi tem- pi si progettò ed ebbe effetto l'accennato congresso fra le piiì illuminate potenze di Europa per slabi- lire un uniforme ed universale codice sanitario; nella sessione di questa dotta europea ragunanza del dì 25 novembre fu da me ricordato, e venne registrato e stampato (1), che fino dal 1831 aveva io diffusa- mente e caldamente ragionato per un cotanto sta- bilimento (2) , e noi 1843 fu altrettanto suggerito da distinti medici convenuti in Lucca (3). 11 mani- festo in discorso è il seguente. « Nella sezione medica del congresso scientifico tenuto in Genova nel decorso anno , fra le varie scientifiche commissioni ne furono stabilite alcune « ques seroit celle, des piincipales acaderaies et sociètes sa- « vantes de l'Italie, dout-il est mcmbre, ou titulaire, ou asso- « ciée,ou correspondant. Il est aussi correspondant de notre aca- « deniie iiationale de medicine. La liste des ouvrages publiés par « M. Cappello est forte etendue, et suppose les connaissances « les plus variès. Ce savant confrerea ecrit plusieurs memoires « de medecine proprement dite, et de veterinaire, de topogra- « phie medicale, d'epidemologie , de geologie , de hisloire, « d'economie politique, d'bydrologie, d'agronomie, d'hygiene « publique ecc. M. Cappello avait été deja envoyé a Paris pour « etudier le cholera indien pendant l'epidemie de 1832, doni il a a ecrit l'histoire (Union medicale 28 octobrel851 pag. S07-8) «. (1) Processo verbale n. 35 pag. -i-CjaCenni istorici di Ago- stino Cappello sul sanitario congresso internazionale aperto a Parigi pag. 90-1. (2] Giornale arcadico toni. 50 pag. 23-6 1831. (3) Filiatre Sebezio cit. dicembre 1843 pag. 351; e Bol- lettino delle scienze mediche di Bologna, agosto e settembre 1843 pag. 224. 92 permanenti nelle piincipali capitali d'Italia. Saluber- rimo divisamente, il quale mira allo studio profon- do della costituzione morbosa in corrispondenza colle costituzioni cosmo-telluriche, tenendo dietro all'ap- parizione e diffusione delle malattie popolari. Impe- rocché i confronti qua e là comparati con accurate mediche statistiche somministreranno proficui risul- tamenti, mercè dei quali rischiarasi non solo il pili ragionevole metodo nella terapia , ma i medesimi possono arrecare ancora utili modificazioni alla parte pili importante della pubblica incolumità, siccome è la cura preservativa, oltre la lusinghiera speranza di distruggere la sementa di alcuni dei piiì funesti contagiosi morbi. « Onorato il sottoscritto a presiedere la com- missione permanente in Roma , volge le sue pre- ghiere a tatti i filantropi ed esimi cultori dell'arte salutare dei pontificii dominii, perchè, nel corrispon- dere alle salutari vedute del genovese congresso , abbiano la degnazione dirigere al sottoscritto le dotte loro investigazioni non disgiunte da fondata espe- rienza. Imperocché egli ne renderà il piiì minuto e scrupoloso conto. (( Roma 12 aprile 1847. Agostino Cappello ». Tornando in sentiero, lo sfortunato conte Rossi nel rendermi distinte grazie mi espresse cortesissi- me parole, tenendo a calcolo il mio ragionamento. Difatti sembrò sospesa cotesta pendenza; ma si disse che la postulante ed i fautori raddoppiassero im- pegni di ogni maniera, mostrando che era un atto di giustizia di esaurire in qualunque modo l'istanza. Perlocchè verso la metà di ottobre (11-3) la com- 93 missione sanitaria idraulica si portò a Campo Salino dappresso dispaccio del dì 28 settenfibre (1848) del sanitario magistrato, unitamente ai 14 articoli formu- lati, come si è detto, nell'ufficio dell'interno. L'in- gegnere della congregazione speciale fu il primo a dare la sua relazione sotto il di 4 dicembre (1848). Esaurivasi da esso la dimanda dei primi quattro ar- ticoli- Eran questi relativi alla posizione topografica, ai luoghi circonvicini, alla lontananza da Roma, in- clusive ai venti che di colà spiravano verso la me- desima; finalmente alla mancanza di abitazioni al- l'infuori di qualche umile casolare, ed alla mancanza dei boschi , eziandio nei dintorni , ad eccezione di boscaglie cedue. Le risposte poi dell' ingegnere ai successivi articoli erano le seguenti Art. 5.° Riguardava 1' estensione del lenimento di rubbia romane 2090, delle quali riferivansi quelle suscettive di secca cultura, e a praterie rubbia 570; altre comprendevano 300 rubbia di terre acquastri- nose permanenti nell'inverno e nell'autunno, e rub- bia 800 affatto paludose dall'autunno a primavera, ritirandosi gradatamente le acque , onde restava il terreno nell'estate all'asciutto : opinando il perito , che coteste 800 rubbia potrebbonsi ridurre a secca cultura con regolari colmate , mercè dei deborda- menti del Tevere. Art. 6.° Ripetevansi le dette terre acquastrinose che occupavano uno spazio di sette miglia quadrate, asciutte rimanendo nell'estate. Art. 7.° Riferivasi che l'altezza delle acque sta- gnanti era di 3 palmi e mezzo nell'inverno, decre- scendo vie sempre fino a restare asciutte, e nella 94 decrescenza sviluppavansi inseti che in gran copia si osservavano nell'estate e nell'autunno. Art. 8.° Stante l'elevazione di Campo Salino opi- nava il perito, che non potevansi in quel latifondo introdurre le acque del mare, perlocchè ripeteva le acque stagnanti dalle acque piovane di scolo di ter- reni superiori, e dalle escrescenze del Tevere. Art. 9." Riputava l'argilloso terreno capace di scarse erbe palustri, anche per la salsedine che vi si scorgeva; mentre prima ancora che esistesse Ro- ma, si confezionava ivi il sale. 10.° Versa sulla distanza della tenuta dal Te- vere, onde avere acque colmanti mercè dei canali, chiaviche ec 11." Facendosi colmate colla deposizione della melma , le acque stagnanti ponno mtromettersi in appositi canali di scolo sporgenti nel mare, e nello stagno del limitrofo MaccaresC' Art. 12." Nell'inaffiamento della risaia in prima- vera ed in estate non avvengono deposizioni di mel- ma e colmate, mentre ponno queste effettuarsi so- lamente dalle acqne del Tevere nelle piene dell'au- tunno e dell'inverno. Finalm.ente la risposta del perito agli articoli 13-4 concerne il parer suo espresso a seconda dei suoi lumi e della sua coscienza; ragionando che doven- dosi per la semina del riso raccogliere acqua nel- l'estiva stagione, sempre pili insalubre si rendereb- be l'aere con danno immenso dei coltivatori- Né pro- fìcua crede in Campo Salino la coltura del riso per la difficoltà di condurla a perfetta maturazione, stan- te l'infruttuosa qualità del terreno- Il che potrebbe r 95 raggiungersi dopo avervi per più anni fatto delle colmate ottenibili colle inondazioni del Tevere; ma anche dopo essersi ciò conseguito, opina che nel- l'estate non potrebbero introdursi le sue acque per esser bassissimo il suo livello in questa stagione. Parla delle diverse inevitabili cagioni, per le quali andrebbero incontro a gravi morbi gl'infelici colti- vatori; conchiudendo infine che anziché lucrosa, pas- siva diverrebbe cotesta impresa, Dappi'esso pressantissimo dispaccio dell' attuale direttore della sanità del dì 8 gennaio 1849 l'inge- gnere Scarabelli rimette la sua relazione sotto il dì 23 di questo mese- Narra che il ritardo era de- rivato non meno dalla sua assenza, che da mancati concerti coi signori membri della commissione; di che mena querela. Prima quindi di passare alle risposte dei 14- articoli esprime la grande utilità che trarrebbe lo stato dalla semina dei risi profondamen- te conosciuta dall'illustre Farini direttore della sa- nità, cui è indiritta la sua relazione. Da essa rile- vasi che in luogo degli 11-13 ottobre, in cui si portò la commissione a Campo Salino , la mette il rela- tore nel dì 26-7 ottobre. Le risposte dello Scarabelli ai primi cinque ar- ticoli sono presso a poco simili a quelle del Gian- santi, Art. 6.0 Rispettivamente all'espansione e ristagno delle acque, risponde che per lenta evaporazione si prosciuga il terreno anche nei luoghi più bassi do- po la metà dell'estate- Art. 7.° Sull'altezza delle acque stagnanti, ripete che di mano in mano nell'estate si ritirano svi- luppandosi insetti ed aria cattiva ecc. 96- Art. 8," Alla domanda se intervengono in co- testa tenuta le acque del mare, opina che nei ter- reni bassi debbonsi le medesime introdurre, mentre la terra si rincontra imbevuta di sale ; sebbene soggiunge che le persone pratiche del luogo ne- ghino cotesta introduzione. Art. 9." Nel rispondersi a quest'articolo, dice essere tutto il suolo di alluvione per l'espansione del Tevere, e risultante di finissimo limo tenace e fangoso quando è bagnato; nell'asciugarsi diviene compatto per essere il terreno salino e contrario alla secca agraria coltura; onde è lodevole boni- ficarlo con colmate; in appoggio di che citasi il rapporto Livoni approvato dal consiglio d'arte(1839). (Ma il lettore debbe avvertire, siccome superior- mente si disse, che quel rapporto e l'approvazione sono per colmate regolari, e non per colmate pra- ticate coH'umida coltivazione dei risi). Art. 10." Verte quest'articolo sulla distanza del Tevere dal margine della tenuta, e se possano aprirsi influenti per avere dal fiume acque colmanti. Si ri- sponde affermativamente; mentre per buone 5 miglia appoggia il fiume cotesto tenimente, potendo otti- mamente costruirsi una chiavica già riconosciuta dal consiglio d'arte, e da espertissimi ingegneri nel citato rapporto Livoni. Art. 11.° Si domanda in quest'articolo, se fatta la deposizione delle torbide, si possa dare alle ac- que chiare un pronto e facile scolo o nel fiume stesso, o nel mare. Si risponde esser ciò già prov- veduto nel suddetto idraulico rapporto del di 4 febbraio 1839, approvato ancora dal commendator 97 Marielti ingegnere toscano dei pubblici lavori delle maremme. Art- 12." Si richiede se oltre la deposizione per l'inaffiamento dei risi, si potessero ottenere col- mate nelle piene d'inverno e di autunno, senza che impedissero la coltura del riso ; si risponde affer- mativamente sì per l'una come per le altre ! ! Art. 13.° Si domanda quale influenza ne risul- terebbe per la salubrità , fatto il confronto della risaia collo stato attuale di Campo Salino. Si ri- sponde che sebbene ciò sia di medica pertinenza, tuttavia per la sua esperienza e cognizione prefe- risce il gran vantaggio che ridonderebbe pel mir glioramento dell'atmosfera colla coltivazione del riso e simultanea colmata ! ! Art. 14 ed ultimo. Si fa il quesito di tutti gli elementi che concorrono sia pel suolo , sia per le acque inaffianti, sia pei prodotti dei vegetabili, sia per gli operai. Si risponde che la maggior parte del quesito pertiene ai medici. Lo Scarabelli peraltro trova ottimo il terreno e la sua giacitura per risaie, eccellenti le acque inaffianti del Tevere, perchè sem- pre correnti e fresche; che i vegetabili sono scarsi e poco produttivi, ma in generale salubri (1); che il riso vi vegeterebbe rigoglioso, senza che vi na- scessero altre piante ! ! !. Finalmente gli operai di- retti saviamente per le ore del lavoro, con sani e moderati cibi e buoni alloggi, godrebbero salute nor- male ! ! !. (1) Il lettore consideri qual salubrità acquisterebbero le palustri piante coH'umida coitivaziene del riso. G.A.T.CLVIII. 7 98 Se ad ogni uomo onesto e conoscitore profondo degli effetti delle umide coltivazioni debbono sor- prendere non poco diversi dei 14 formulati articoli, per un suolo nel quale anche senza urpida coltiva- zione ninno può nel!' estate ed autunno dimorare senza incontrar morte o gravissima morbosità, di- sdegno non poco dee nell'animo suo suscitarsi nel- V udire le risposte di cotesto perito differenti da quelle del Giansanti , pratico di gran lunga mag- giore del suo collega dell'agro romano, e soprattutto differenti dalla sagace relazione dei medici professori. 1 quali sotto il dì 20 gennaio 1849- riferiscono a prima giunta alla congregazione speciale sanitaria un notevole interrimento dei fossi, d'onde avviene il terreno piiì paludoso ed insalubre; sebbene si ad- duca dagli agenti dei Pallavicini difficile il ripurgo di questi fossi per la recente rottura di alcuni ar- gini, in specie del ponte Galera. I lodati fisici riconoscono la salsedine mescolata coH'allumina, e prodotta dalle acque del mare, che vi s' introducevano , e più probabilmente prodotta dall'antica confezione del sale , d'onde il nome di Campo Sa/mo, Attualmente peraltro il mare non solo dista 4 miglia, ma è di un livello inferiore a questa tenuta, come risulta dalla perizia del Livoni: per cui avvisano non accadervi al presente 1' inondazione delle acque marine. Quindi il paludoso tenimento è formato da una collezione di acque dolci alterate e terrose. Né saprebbero essi determinare la precisa elevazione, stante non solo la mancanza di scolo delle acque piovane, ma ancora per le frequenti inonda- zioni del Tevere, e pel non raro riflusso delle acque del limitrofo lago di Maccarese^ 99 Accennalo di volo ciò che è di idraulica attenen- za, dimostrano con inconcusse ragioni, desunte da accurato esame locale , V eminente insalubrità del luogo, ed il nocumento che talora la stessa Koma risente pel soflìo dei venti australi. Riguardo poi al loro giudi/io sul progetto di se- minarvi il riso, ne lidondeiehhe certamente una mal- sania più deleteria e dannosa, senza nulla valere Io scorrere delle acque che da taluni affermasi perenne, imperocché una vasta pianura che in estale è ()ro- sciugala, per convertirla in un permanente padule, oltre r incessante e notevole umida evaporazione , fa d'uopo ancora praticar valli arlifHMali, serbatoi, casse, e cose simili: argomenti lutti riprovati dalle leggi negli stessi luoghi delle pontificie provincie settentrionali. Nei quali se dopo 1' impianto delle risaie, non ostante le più regolari sanitarie prescri- zioni, si svolsero morbi più intensi e dannosi, ognujio può trarre la sinistra conseguenza, che avverrebbe rjell'umida coltivazione del lenimento in discorso. In conforma di ciò riferiscono, che il sig. principe lìo- spiqliosi (or sono circa otto lustri) per insinuazione di alcuni speculatori slranieii mise risaie in alcuni ap[)ezzamenti acrpjastrinosi della limitrofa tenuta di Maccurese ; ma essendone derivale morbosità assai più intense e mortali , soppresse tantosto sponta- neamente con molta sua lode la malefica coltiva- zione (1). (1) Funesto cscaipio non dissimile da <{uel!o di Ceri: ma questo avvenuto in epoca in cui la legge vietava simile col- livazione. 100 Conchiudono accortamente i sanitari periti, che data, e non concessa, la bonificazione di Campo Sa- lino mercè delle risaie, incontrastabili malori, peg- giori della stessa morte, incontrerebbero gli infelici coltivatori. « Perlocchè(sono loro parole) non è a farsi mera- « viglia che i sottoscritti, in vista degli esposti mo- « tivi, rigettando la proposta delle risaie, sono d'u- « nanime sentimento che si debba stare al piano di « bonificare per semplice colmata, di già merita- « mente approvata dal superior governo; e che quindi « per sole vedute economiche agrarie della nobile u possidente (siccome ingenuamente si confessa nel- « l'istanza) non si possa né si debba permettere nei « piani paludosi di Campo Salino la cultura umida (( dei risi, la quale si spera che per le addotte ra- « gioni si voglia riguardare e ritenere alla pubblica a ed individuale salute positivamente dannosa ». Dal complesso quindi di questa terza parte del nostro ragionamento sulle culture umide risguardante la romana campagna, risulta: 1 . La malsania della medesima , che la rende totalmente deserta. 2. Sebbene nella remota antichità sorgessero in essa floride e popolose città e castella, e coltivati campi , era tuttavia d' uopo praticare di tempo in tempo acconce bonificazioni, e serbare gelosamente le foreste, in ispecie presso i lidi del mare. 3. Le incessanti baibariche straniere irruzioni nel distruggere il romano incivilimento, le città ed i monumenti, contribuirono grandemente a rendere [)iù deserta e malefica la romana campagna- 101 4. Della quale divenuti legittimi possessori ì vo^ mani pontefici, volsero sovente il pensiero a bonifi- carla o renderla il più possibile meno insalubre, sic- come avvenne nella bonificazione delle paludi pontine sotto il VI Pio. 5. Ma a' dì nostri un sommo pontefice mirava con saluberrimo provvedimento alla perfetta risto- razione e salubrità dell'agro romano; ma per altrui sognato fantasma andò in dileguo il magnanimo progetto. 6. Se gli antichi dunque e moderni romani reg- gitori intesero di riparare 0 diminuire, per quanto fosse possibile, gli effetti della malsania della ro- mana campagna , in questi ultimi tempi per giu- dizi manifestamente erronei si tentò decisamente l'opposto coH'impianto delle risaie oltremodo noce- voli alla pubblica e privata salute. 7. Laonde se ingrata riuscì alla speciale congre- gazione sanitaria l'assurda proposta, che in ordinati tempi avrebbe immediatamente rigettata , dovette per ministeriale ordinamento dar corso all'istanza. 8. Nel cui esame essendo state compilate le op- portune istruziuni per una commissione sanitaria idraulica nominata dalla congregazione; le istruzio- ni non andarono a garbo nel ministero dell'interno; onde se ne formularono altre nell'officio dello stesso ministero tendenti apertamente all' ammissione di quell'umida e nociva coltivazione. 9. Fu d'uopo quindi volgersi col massimo im- pegno all'eccmo ministro dell'interno, mostrandogli con inconcusse ragioni i danni gravissimi che con 102 slffatla coltivazione ne risentiiebbe la pubblica e privata incolumità. 10. 11 qual sinistro, senza andare in cerca d'in- numerevoli esempi fuori dello stato pontificio, se in- finite volte si osservò otlicial mente nelle sue setten- trionali Provincie, di gran lunga maggiore si veri- ficherebbe nelle provincie meridionali , soprattutto neirinsalubre agro romano. Difatti si osservi che i pochi esperimenti, benché limitatissimamente ivi pra- ticati, produssero lagrimevoli risultati. 11. Uditasi la narrazione con pacatezza d'animo dal detto ministro, si espresse che l'avrebbe certa- mente tenuta a calcolo , e ne ringraziava 1' espo- sitore. 12. Per r esaurimento quindi della quislione , portossi la commissione sanitaria idraulica a Campa Salino. Avvenuta poscia variazione nel sanitario mi- nistero, il novello direttore della sanità sollecitava la commissione con pressanti dispacci a dare esatto discarico della sua missione. 13. L' ingegnere della congregazione sanitaria , soprattutto i suoi fisici, con irrefragrabili argomenti «confermavano i disastri che proverebbe la pubblica e privata incolumità colla semina dei risi in Cam- po Salino. 14. Ma l'ingegnere aggiunto alla commissione ri- feriva erroneamente l'opposto. 15. Se per isvariati avvenimenti sospeso rimase il finale giudrzio di cotesta pendenza, si è certi che l'attuale supremo sanitario magistrato non solo per Campo Salino, ma per qualsivoglia altra parte an- 103 Cora dell'agro romano, rigetterebbe qualunque ten- tativo si praticasse per istabilire umide coltivazioni. 16. Da quanto si è narrato ne consegue, che il nostro ragionamento sorretto, sempre da fatti positivi, conferma non meno l'utilità delle semplici colmate per bonificare la campagna romana, che il saluber- rimo scopo di ripopolarla, se venisse arricchita di piante e di borgate- Comunque in fine sia per es- sere accolto dal pubblico il nostro lavoro, sarà sem- pre pei venturi d'istorico monumento, perchè sien guardinghi da alcun novello fautore di risaie ma- nifestamente nocive alla pubblica e privata salute della popolazione romana. Roma 30 novembre 1858- !(H Storia naturale del Lazio. Discorso letto alla ponti- li fida accademia Tiberina dal professore Giuseppe Ponzi nella tornata ordinaria del giorno 21 feb- braio 1859. E gli è pur vero , illustri colleglli , che se ad un narratore di grandi avvenimenti manchi il tempo all'esposizione di tutti i diversi fatti di cui si com- pone la sua storia , questa non può risultare che un epitome o uno sfioramento delie principali vi- cende. Così avveniva a me nel decorso anno, allor- ché mi presentava a voi ad esporvi lo stato tisico del suolo di Roma, e dimostrarvi che la grandezza di questa eterna città, spiegato nelle due domina- zioni pagana e cristiana, si associava onninamente alla fertilità del suolo ove fu posta. In quella tornata accademica io accennava ap- pena l'origine di queste nostre maestose pianure, nel mezzo delle quali un gruppo di deliziose colline si rileva a costruire il sistema del Lazio, prima stanza dei suoi prischi abitatori, e culla di quella potenza che destò tanta meraviglia alle genti. Molte cose venivano appena toccate, molte per brevità preter- messe. Laonde per supplire ad un tal deficienza, e perchè meglio vengano conosciuti i fatti compiuti nel nostro paese, nel presentarmi di nuovo a voi , mi vedo costretto tornare sullo stesso argomento, onde farvi conoscere per quali cosmici avvenimenti furo- no prodotti i monti del Lazio, e per quali cagioni 105 presero la forma che tutto di conservano. Ardita e ditììcile impressi si è questa, avvegnaché convien ri- montare a tempi di gran lunga anterioii alla presen- za dell'uomo in queste contrade, e prive al tutto di storiche tradizioni; epoche perdute nel buio di un tempo presso che senza fine. Ma animato da tante e ripetute ricerche fatte in quelle contrade, io mi getto in un campo vergine per un sentiero da nes- suno fin qui mai calcato; e per quanto le mie forze il permettono, io tenterò raggiunger la meta col tes- servi una storia naturale del Lazio, che stampata si legge a caratteri indelebili sulle stesse sue rocce , e provarvi con quei monumenti come la divina prov- videnza fin da tempi infiniti preparava la grandezza della diletta città. Ma nel prender le mosse ad una tal narrativa mi convien riportarvi col pensiero alle operazioni cosmiche precedenti all'esistenza del Lazio , come quelle che col loro svolgimento prepararono il tea- tro a scene magnifiche, sorprendenti e terribili. SoUevamenlo degli apennini. Niente v' ha di superfluo in natura; anzi tutto è necessario, tutto è utile, tutto armonizzato e con- nesso con quell'ordine universale che tanto ammi- riamo e che proclama una intelligenza infinita. La storia del Lazio è una parte della storia vulcanica d'Italia, e la storia vulcanica italiana è una conse- guenza di quelle vastissime e sorprendenti opera- zioni, per le quali emersero gli Apennini, e l'Italia ebbe esistenza. L'innalzamento delle materie ofìoliti- 106 tiche per una emanazione planetaria fu quello che preparò il terreno ad un vulcanismo , che stabilir dovea sua sede nella metà inferiore della nostra peni- sola. Circa il declinare dell'epoca miocenica si solle- vavano le masse serpentinose che facendo impeto con- tro la crosta stratificata della terra, questa si apriva in larghe fissure, per cui sfacellata era ridotta in bra- ni. E siccome il moto impresso a tali lacerti fu in ragione della direzione delle forze impellenti , così nella loro emersione delle acque, non solo dovetter dare origine a gruppi montani, ma questi stessi di- sporsi su delle grandi linee, e formare quelle lunghe catene che troviamo costituir l'ossatura di tutta l'Ita- lia. In questa operazione cosmica la materia ofio- litica , dove incontrò minor resistenza e più facile un passaggio attraverso le fratture prodotte, vi sì fece giorno , e giunse a comparire all'esterno con vasti spandimenti. Ma al contrario dove per ineguaglianza della crosta violentata l'opposizione di questa si fa- ceva maggiore , le forze ascensìve concentrate do- vettero spiegar più gagliardia a superare gli opposti ostacoli. Così si ebbe per risultato , che dove ciò avvenne , non solamente l'elevazione dei monti fu maggiore, ma le fratture vieppiù vaste ed aperte, e l'esterna comparsa delle ofioliti nulla o quasi nulla. Questo è il caso che specialmente si osserva nel- l'Italia centrale e inferiore, continenti i più rilevati apennini , largamente soluti di continuità , e dislo- gati in ragione della legge dello spezzamento dei corpi. Quivi è che in modo particolare sul versante terreno questi fenomeni viemeglio appariscono, e qui- vi appunto per la maggior permeabilità delle frat- 107 ture il vulcanismo italiano trovò più facil passaggio a piantarvi sua sede. Da uno studio regolare adun- que delle fratture apennine noi ricaviamo la ca- gione, per la quale i centri vulcanici non solo scor- rono su d'una zona longitudinale parallela agli apen- nini indicante una spaccatura maggiore della crosta terrestre, ma eziandio perchè questi centri medesimi siano determinati dove un incrociamento di feudi- ture trasverse rendea più facile il transito alle ma- terie eruttive (1). Ma il Sollevamento degli apennini non fu così subitaneo e tumultuario come fin qui si è creduto; vi sono tutti gl'indizi che questo si facesse per gradi ed in tempi successivamente diversi. Le zone dei li- todomi che forarono le calcane su tutta la catena di Sabina, orizzontalmente disposte e ad una eleva- zione notabile, non potrebbero essere spiegate altri- menti che con una successiva serie di spinte e con un lunghissimo procedere d'innalzamenti; imperoc- ché questa moltiplicazione di tempo al compimento di siffatti fenomeni niente toglie alle cause intrin- seche della terra ne agli effetti che conseguirono. Periodo pliocenico. Erano già comparsi gli apennini sulle acque ma- rine , e le loro lunghe catene aveano già formato l'abbozzo della giovane penisola, quando correva l'epo- (1) Vedi la mia memoria inserita nel Buletin de la sociè- té géologique de France 2. serie t. VII 1830, intitolata ilfe- moire sur la zone votcanique d'Italie. 108 ca terziaria, e i periodi pliocenici si svolgevano per una lunga serie di secoli. Durante il lasso di questo tempo le acque di un mare tranquillo correvano a lambir dolcemente le radici delle sollevate monta- gne, trascinando e deponendo successivamente quei potenti banchi di marne, di sabbie e di conglome- rati, che oggi vediam costituire le colline subap- pennine. In tale stato le lunghe catene dei monti mostravansi al certo tanto più scabre e meno logo- rate che non lo sono al presente- Le loro rocce sotto l'intluenza di un cielo benigno, messe a contatto di un'atmosfera pura e serena, investite dall'influenza dei raggi termo-elettrici e luminosi di un sole più ardente, inaffiate da fecondanti piogge, doveano pre- sto esser ricoperte da una sempre più fiorente ve- getazione, e tutta la distesa rivestita di secolari e tenebrose foreste. Gli stessi sedimenti di quelle ac- que ci dicono che sui nostri monti la natura faceva pompa di se con una magnitlca serie di piante in- dicanti un clima se non del tutto tropicale, almeno molto più caldo dell' attuale , da eguagliare forse quello dell'Egitto e della Sicilia. La bella Flora fos- sile della Toscana, testé data in luce dallo Strozzi e dal Gaudin (1) ci dimostra che molte famiglie di piante lussureggiavano sugli apennini di quei tempi, e perciò dense boscaglie di querci, platani, aceri, lauri , pioppi , noci , aranci , e tante altre , sormontate dall'eccelse chioine dei pini uncinati, e (1) Memoire sur quelques gissements de feuilles de la To- scane, par Charles-Theophile Gaudin et M. le marquis Carlo Strozzi. Zurich 1858. 109 dal cameropi a foglie flabellate. Un naturalista bo- tanico avrebbe ammirato su quelle vaste e dirupate scogliere guarnite di muschi e licheni, gruppi di aga_ ve gigantesche miste ad opunzie e mesembriantemi, e nelle convalli tappeti erbosi ombreggiati e rinfre- scati da tante specie di eleganti felci e di arbusti, moltissimi dei quali per la delicatezza dei loro tes- suti non poterono giungere fino a noi , come han fatto le piante dure e legnose. La vita animale, inseparabile compagna della ve- getale, prosperava eziandio entro di quelle selve co- me agli aperti campi intermontani. Specie svariate di bestie si aggiravano vagabonde , le cui reliquie giunte fino a noi ci confermano l'idea di un clima più caldo che non è al presente. Il mastodonte del- l' Overgnia si mescolava a mandrie di una specie particolare d'elefanti ora del tutto estinta (1). Ire- sti fossili di questi animali insieme a quelli di ri- noceronti, tapiri , cervi ed altri sono stati rinvenuti su tutta la superficie europea, e specialmente in In- ghilterra dove vennero con molta diligenza fatti co- noscere dairOvven e dal Falconer, e in Francia dal Lartit. Tutti questi animali potevano benissimo es- sere stati anche qui compagni di quelli stessi ele- fanti e mastodonti : e tanto più incliniamo a cre- derlo , avendoli rinvenuti nei depositi spettanti a (1) Elephas antiquus Falc. Mastodon arvernensis Croix et Job. On the species of mastodon and elephant occurring in the fossil state in Great Britain. By H. Falconer - Quartely journal ofthe geologicalso ciètés of London for november 1857. no tempi successivi. Cosicché possiamo figurarci come a quei proboscidiani se ne associassero tanti altri vaganti attorno il littorale, mentre le coste dei- monti venivan trascorse da truppe di agili cervi o di pe- santi cinghiali, perseguitati dal famelico dente della iena, dell'orso, della lince, sempre pronto a sca- gliarsi sull'imbelle e timorosa gregge. Né le acque del placido mare pliocenico eran prive di vita; ancor esse racchiudevano miriadi in- tìnite di esseri. Le marne del Vaticano e del Monte delle Crete, le sabbie del Monte Mario, e di Acqua traversa formicolano di brani di fuchi, di zostere , e di altre piante marine , insieme a conchiglie , molluschi, radiari, zoofiti e crostani, misti a strobi di pini e a tronchi d'alberi terrestri trascinativi dalla forza delle acque per sottoporli a un lento processo di carbonizzazione- Vitlcani pliocenici. 11 quadro adunque della natura nell'epoca plio- cenica apertamente ci dice, che nell'Italia centrale corsero secoli di una calma tranquillità. Ma ben altra cosa era lo stato suo in altre regioni della penisola, specialmente nella sua estremità inferiore, dove scene sovversive già si succedevano su diversi punti di un littorale ancora sommerso. 1 tufi vul- canici dell' isola d' Ischia , sormontati dalle marne subappennine, danno prova certa che avanti la de- posizione di queste, il vulcanismo si era già impos- sessato dell' Italia. A queste eruzioni sembra aver tenuto dietro i sollevamenti delle masse trachitiche 111 che ordinatamente si rilevano sulle vaste pianure comprese fra Roma e Toscana, di cui fa centro quella cupola enorme che forma il nocciuolo e fece emergere i monti di Tolfa e Allumiere. Su que' rilievi rin- vieni eziandio le marne suhappennine fuori di posto, tormentate e penetrate d' inrtitramenti metallici e zolforosi, indicanti chiaramente che le marne plio- ceniche, già deposte dalle acque marine, furono in- vestite e sollevate da quelle eruzioni. I depositi dei Campi Flegrei stratificati sopra le marne danno a scorgere , che mentre presso di noi si deponevana tranquillamente le sabbie gialle e i conglomerati di Monte Mario, nelle vicinanze di Pozzuoli una ma- ravigliosa quantità di bocche eruttive vomitavano sotto le stesse onde tempestose del mare tutte quelle materie feldspatiche , che oggi distese formano il soprassuolo delle campagne napolitane. È legge peraltro di natura quella intermittenza che alterna l'azione col riposo per riattivare le forze e risorgere con novella energia ad ulteriori portenti. Di modo che, spenti quei fuochi, l'impeto vulcanico dopo breve tregua corse ad irrompere nel centro istesso dell'Italia, ponendo termine a quella serenità che fin qui avea potuto risplendere nella nostra contrada- L'era vulcanica incominciava anche per noi con imponenza e con preparativi spaventosi; ed ecco agitazioni atmosferiche, tempestosi mari, scossa la terra, ecco il soqquadro dell' intera natura- Abbat- timento di selve, sbaragliamento d'armenti e distru- zione della vita acquatica, accompagnavano uno di quei disordini che a ragione vengon distinti col tri- ste nome di rivoluzioni- Sotto dei nostri mari arsero 112 molti vulcani : quelli della valle degli eroici nei contorni di Prosinone, tra i quali oggi si conduce il Sacco, rilevati sui coni di Tichiena, Fofl, Gallarne, Giuliano, e Selva de'Muli (1); quelli del viterbese o i Gimini, le cui principali bocche crateriformi sono sostenute da quei tre schiacciati coni che in linea disposti oggi troviamo ripiene delle acque dei laghi Vulsinìo, Cimino, e Sabatino , cui un corteggio di succursali spiragli sparsi alPinlorno servirono a di- latare le loro terribili conflagrazioni- A questi me- desimi tempi sembra altresì ch'abbiansi a riferire il vulcano di Rocca Monfina parimenti feldspatico e sottomarino, e varie altre bocche eruttive nascoste fra le più ingenti mosse del centrale apennino, fin qui poco o nulla cognite ai geologi. Emersione del suolo. Le materie ribollite dal fuoco terrestre , uscite da tanti meati , date in balia di tempestosi flutti , trascinate da questi su tutta la superfìcie dalle acque occupata, deposte e stratificate sulle sabbie e con- glomerati pliocenici, non poco contribuirono all'in- nalzamento del fondo marino. Ghe se a questo ag- giungansi le ripetute spinte dal basso in alto, che le eruzioni facevano sperimentare a lutto il suolo ita- liano, voi troverete una plausibile ragione come per queste potentissime cause, prima la sommità dei coni (1) Vedi la mia comunicazione negli Atti dell'accademia pontificia de nuovi Lincei tom. XI 1837-58, Sul Rinveni- mento dei vulcani degli Ernici. 113 eruttivi, poi i loro fianchi, finalmeute tutto il fondo marino emergesse colla scoperta di tutta quella esten- sione che intercorre dal confine toscano alla valle del Sacco. Così venne preparato il suolo latino es- senzialmente composto delle marne, sabbie e conglo- merati pliocenici sormontati da banchi patti di tufi prodotti dai vulcani sottomarini , come in tutto iJ resto delle campagne romane. e viterbesi. Periodo pleistocenico. Al principiare adunque del periodo pleistocenico, o quaternario, il Lazio altro non era che vaste so- litudini ed estese pianure, circoscritte a settentrione e ponente dall'ultimo corso dei due fiumi Aniene e Tevere e dalle spiagge marine, che girando a mez- zogiorno tenevano ancora sommerse le paludi pon- tine, finalmente a levante dagli apennini prenestini e lepini. Di queste spianate presto dovetter prender possesso quegli animali meglio adatti ad una vita campestre su di un suolo basso e spianato- Di modo che possiamo pensare che i primi abitatori del Lazio siano stati quei medesimi elefanti , cervi, e cavalli che dicesi dai monti vi si sparsero erranti. II vul- canismo peraltro non era estinto, sebbene colla emer- sione del fondo marino i fuochi cimini fossero scom- parsi. Ma quella non fu che una temporaria tregua, avvegnaché una nuova pletora terrestre venne a con- centrarsi al S. E. di Roma in quella stessa contrada, alla quale alcun vivente avea per ancor imposto il nome di Lazio. G.A.T.CLVIIL 8 114 Comparsa del vulcanismo nel Lazio. Queste pianure adunque furono il teatro prescelto ad una nuova manifestazione delle forze cosmiche nascoste nelle viscere terrestri pei* corrervi un lungo periodo di scene maravigliose e imponenti. E Dio sa quali sconvolgimenti tornarono ad agitar la natura, quali strane convulsioni procedettero, quali squarci delle rocce solide, quali balzi dei loro brani furono prodotti da quelle mine, e quali sfrenate burrasche nei fluidi elementi furono i precursori , e accompa- gnarono la prima apparizione del vulcanismo laziale e le sue successive vicende! In alcune lettere del giovane Plinio a Tacito abbiamo una tremenda tra- dizione della catastrofe napolitana , avvenuta nel- l'anno 79 dell'era sristiana, nelle quali si fa una ben triste pittura di un parosismo cosmico di quel ge- nere- Eppure quella non fu che la riattivazione di un vulcano già pregresso, la riaccensione della Som- ma che Diodoro di Sicilia, Strabone e Vitruvio no- minano come una montagna che avendo già vomi- tato fuoco era formata di arse materie. Il catacli- sma partenopeo fu la produzione del moderno Ve- suvio o di un còno vulcanico dopo una lunga quiete. Ma ben altra cosa dovette accadere nel Lazio allor- ché per la prima volta il vulcanismo dovette aprirsi a viva forza uno spiraglio attraverso potentissimi ostacoli, e sopra rilevarvi un cumulo di tanta ma- teria eruttata, da superare per ben tre volte quella che Somma e Vesuvio presi insieme oggi presentano. 115 Epoche laziali. Ma quel processo di cosmiche azioni stabilito nella regione latina ebbe un ineguale sviluppo, e lun- go fu il periodo di sua residenza. Imperocché è più ordinario costume dei vulcani manifestare la loro in- termittente attività, tosto che vien domandata dalla crisi di una pletora terrestre. E siccome subitanee e violentissime son per natura le primitive eruzioni, così al correr dei secoli l'ostruzione dei cunicoli , disperdendo le materie eruttive e deviandole, è ca- gione che i periodici parfisismi per gradi fìacchi- scono, per terminar finalmente a non aver più forza ad esterne manifestazioni, e trasportarsi a disparata regione. Le lunghe peregrinazioni sui monti del Lazio allo scoprimento di siffatti fenomeni ebber tali risultati, da poter ormai tracciarne una storia, costituita da una sequela di vicende consecutive a cui andò soggetta questa nostra contrada. Con qual- che sicurezza oggi potrei annunciare, che quel pe- riodo di vulcanismo distinguesi in tre principali epo- che eruttive, alternate con altrettante di riposo, e quindi spenti i fuochi, i tempi che sucedeltero co- stituire una quarta epoca che assolutamente può ap- pellarsi lacustre. Forma dei monti. Se si faccia attenzione al generale aspetto che offre tutto il gruppo delle colline del Lazio , tosto si scorgerà dalla regolare disposizione, che una legge 116 stabilita presiedette alla sua formazione. Un largo cono depresso di circa 38 chilometri di basale cir- conferenza si solleva, e sostiene un cratere di circa 10 chilometri di diametro, aperto a occidente, ov- vero soluto di continuità per un terzo del perimetro. 11 suo ciglio vien rappresentato da una serie con- catenata di poggi disposti in una cresta, di cui i monti di Genzano formano la sua occidentale estre- mità. Da questo punto il rilievo 1' innalza fino al- l'Artemisio, alto sul livello del mare metri 940, punto culminante, che sovrasta la città di Velletri eretta alle radici del suo esterno piovente. Da quell'alti- tudine i monti tornano ad abbassarsi fino alle foci dell'Algido, per cui trascorre la via latina, quindi di nuovo ascendone verso Rocca Priora per terminare gradatamente a settentrione colle colline del Tuscolo. Le interne pendenze di questo cerchio sono rapide e scoscese: ma le esterne s'inchinano più dolcemente fino alla base del gran cono, dove han principio le pianure romane. Sugli esterni declivi a modo di ghirlanda girano attorno questo maggior cratere altre bocche craterifor- mi, che in specie verso mezzogiorno e ponente ten- dono a riunirsi. Ciascuna di esse non è che la ripeti- zione della forma del cratere principale, se non che in generale il loro cerchio è continuo, meno quella solita slabbratura o depressione operata dal passaggio delle lave. Variano peraltro nella conservazione , e spesso i loro rilievi son degradati: indizio di vetustà e contemporaneità coi resti del maggior cratere cen- trale- Questi sono i bacini dei laghi Albano , Ne- morense e di Valle-Riccia ravvicinati a formare un 117 triangolo, nel cui centro s'innalza il monte Gentile: il cratere del lago di Turno sotto Albano, la valle Marciana presso Grottaferrata, la cavità della villa Montalto a fianco del moderno Frascati, i crateri di Prataporci e Pantano Secco sotto monte Porzio, il bacino del lago di Castiglione o Gabino presso l'o- steria dell'Osa, il cratere della Cecchignola nelle vi- cinanze di Roma e vari altri collocati a maggiore distanza, ma così sfigurati da restarne appena il so- spetto. Tutte queste parti basterebbero a costituire un sistema vulcanico completo, di quelli a cui piacque al De Buch attribuire il nome di centrali. Peraltro queste non sono le sole che concorrono alla com- posizione dei monti del Lazio: avvegnaché entro lo stesso gran cratere del centro trovasi collocato il monte Cavo o Laziale, sotto la forma di un altro cono basato sui piani della Molara, i quali a modo di un vallone o galleria circolare gli girano attorno. Alla sommità di questo secondo cono trovasi una spianata circolare chiusa da un bordo rilevato a modo di anfiteatro, meno una slabbratura a mezzo- giorno 0 colatoio, per cui si condussero le lave che in correnti sovrapposte ancora si distinguono for- mare quel rilievo, sul quale dagli antichi fu eret- ta l'arce albana , che domina il moderno paese di Rocca di Papa e con esso tutto il territorio latino. Una tale spianata, erroneamente appellata i campi d' Annibale , mostra contenere ancora una leggiera prominenza, avanzo evidente dì un conetto avven- tizio lasciato dalle ultime eruzioni. II diametro di quella cresta circolare e più che due chilometri, e 118 il suo punto culminante, o il monte laziale propria- mente detto, formando la piij alta cima di tutto il Lazio, s' innalza sul livello del mare Tirreno me- tri 954: il più basso restante di quella circolar pro- minenza si contìnua girando verso settentrione, dove viene accidentata da un bel craterino di soccorso scavato nella sommità del monte Pila- L'interno de- clivio di questo cratere centrale risulta di' pareti anche più rapide di quelle del cratere maggiore: ma all'esterno le inclinazioni scendono più dolcemente fino ai piani della Molara. In tutta la mancanza di pareti del cratere principale, queste stesse pendenze si continuano per fondersi con quelle dell'istesso cono grande fino a spianare alla base nelle circostanti pianure. Attorno alle radici del secondo cono, o cono in- terno, si trovan disposti de'crateri ausiliari di miglior conservazione , ma di dimensioni minori , collocati in ispecie entro il vallone o pianure della Molara. Tali sono verso il nord il monte delle Tartarughe fatto a ferro di cavallo , e posto all' ingresso delle pianure suddette , le colline sulle quali nel medio evo fu costrutto il castello del Tuscolo , e ad est una congerie di piccoli conetti sparsi entro la mac- chia della Faggiola , da rammentare quelli che in molto più gran numero sostiene il siciliano Mongi- bello. Anche queste parti prese insieme costituiscono un secondo sistema vulcanico eguale al primo, seb- bene più piccolo, di modo che un occhio sperimen- tato scorge in questa duplicità un sistema vulcanico maggiore racchiudente nel suo seno un sistema vul- canico minoro. 119 Distinzione delle due prime epoche erullive. Un confronto portato fra il sistema laziale e quel- lo del Vesuvio di Napoli fticilrnente vi scuopre la più grande analogia: avvegnaché nel nostro maggior cra- tere vi ravvisiamo la Somma, nel monte Cavo il Ve- suvio moderno, e nei piani della Molara l'atrio del cavallo e il canal dell'arena. Ora se la legge di na- tura è semplice, unica ed invariabile, se in ambìdue quei vulcani i rilievi sono il risultato dell'azione in- trinseca della terra contro la sua esterna superficie, se la stessa natura si ripete nelle sue operazioni, ne verrà la conseguenza che all' analogia degli effetti dovrà corrispondere l'analogia della causa, vale a dire che il processo formativo dei monti del Lazio non sia che una ripetizione di quello della Somma e del Vesuvio- Se ciò sembra probabile, i due sistemi vul- canici del Lazio compresi L'un dentro l'altro non po- tranno essere mai riportati ad un medesimo processo formativo, ma prodotti in tempi separati e distinti. Laonde siccome siamo sicuri che la Somma prece- dette il Vesuvio, così ragion vuole che il grande cono latino, che lo rappresenta, derivi da eruzioni ante- riori, e distinte da quelle per cui si formò il monte Cavo, elevato in epoca posteriore per una riaccen- sione come quella del Vesuvio nell'anno 79 dell'era volgare. Questo logico argomento viene altresì avvalorato dagli studi fatti sulle materie eruttate, e da migliori cognizioni acquisite di esse. L'uno e l'altro di questi sistemi risultano formati di cumuli di scorie, lapilli 120 e ceneri incoerenti, agglomerati e distesi in assise sovrapposte; da lutti i crateri di ambedue scaturirono torrenti di lave che a modo di fiumi corsero sulle inclinazioni del terreno, e in tutti questi prodotti si racchiudono numerosi cristalli di pirossene e am fi- gene- Però questi minerali non si trovano nei due sistemi in egual proporzione: nel continente i piros- seni preponderano sulle amtìgeni, mentre nel con- tenuto queste preponderano su quelli: la qual cosa indica che una modificazione nelle chimiche opera- zioni dei fuochi terrestri era intercorsa fra un'epoca eruttiva e l'altra. Dietro tali viste sarà facile assegnare al primo sistema gli augitolh-i o porfidi pirossenici di Civita Lavinia scaturiti dal cratere nemorense , quelli di Montagnano e Fontana di Papa derivati dal cratere micino, le lave di S. Fomia spettanti al cratere del lago di Turno, quelli di Ciampino provenienti dalla valle Marciana , quelli di Vermicino vomitati dal cratere di Montalto- 1 porfidi amfigenici poi riferi- bili alla seconda epoca trovansi formare la lave che costituiscono la Roma Albana, quelle in prossimità dell' osteria della Molara scaturite dai crateri delle colline del castel tusculano , e quella grande cor- rente scaricata dal cratere del monte Pila, che dai campi d' Annibale discende alle radici del monte Cavo e si dirige alle Frattocchie , dove dividesi in due principali tronchi, il maggiore dei quali scorre fin verso Vallerano e Acquacetosa, il minore lungo la via Appia fino a Capo di Bove. Distinte così le due prime epoche eruttive, sarà facile argomentare qual sarà stato l'aspetto dei monti 121 del Lazio allorché non esisteva aneora il sistema mi- noro del monte Cavo. Se coH'immagìnazione ripristi- niamo il gran cratere e gli ristitiiiamo ciò che ora gli manca , noi vedremo che il muraglione ripro- dotto continuerebbe col prolungamento occidentale dell'Artemisio, e passando attraverso il cratere ne- morense, il monte Gentile, e il lago Albano verrebbe a congiungersi coi gioghi tusculani sul lato opposto. Così andrebbe a chiudersi nella stessa guisa che probabilmente fu la Somma prima della riaccensione del 79. Questo risultato ci fa argomentare che i crateri Nemorense ed Albano si aprissero sul ciglio medesimo del maggior cratere, di cui il monte Gentile non rappresenterebbe che un brano residuale, e che le eruzioni di tali bocche siano state in seguito una delle cause a facilitarne h demolizione e lo sfìgu- ramento. Che tutte le bocche ausiliarie del primo sistema eruttassero in uno stesso tempo , non è credibile , perchè in tutti i vulcani queste indicano sempre un'a- zione intermittente e lunga. Laonde nella loro quan- tità, ampiezza ed elevazione ravvisiamo quella prima epoca eruttiva di una considerevole durata e di una gagliardìa formidabile, durante la quale i parosismi si successero, alternandosi coi soliti periodi di quiete. Declinato peraltro il tempo di tutte queste ope- razioni vulcaniche, e la terra riacquistato l'equilibrio, abbiamo già detto di sopra che il fuoco scomparve, la caligine si dileguò, e Lazio prese lo stato di una serenità temporaria, o piuttosto fu fatta una tregua, per la quale tornò a risplendere limpida la luce del sole. La vita così facile a diffondersi e dilatarsi sulla 122 superficie terrestre, di cui è parte integrale, dovei le pian i)iano ricomparire su tutta la contrada messa a soqquadro. Ed ecco che piante ed animali risaliscono quelle novelle giogaie , tornano a prendere un se- condo possesso nel Lazio, vi pongono stanza, e a loro bell'agio vi si moltiplicano per lunghe e non inter- rotte generazioni, come era della Somma avanti la comparsa del Vesuvio. Dilìgala del tempo e stati di quiete. Quanto durasse questo stato di quiete apparente. Dio sa: noi non sappiamo argomentarlo. Non di me- no sembra che non sia stato breve : conciossiachè quando si riaccese per la formazione del monte Cavo, le lave cosi lente a raffreddarsi, specialmente quelle sotterra stanziate, doveano essere già da lungo tem- po solidificate entro i cunicoli e presentare ostacoli gravissimi al libero passaggio del fuoco interno. Ma per quanto vogliamo immaginarci questa seconda ir- ruzione preceduta ed accompagnata da un corteggio di terremoti, burrasche, ed altri sovversive azioni, egli è pur certo che confrontando gli effetti di tali secondi incendi con quelli della prima epoca pre- gressa , si avrà per risultante che la loro intensità era notabilmente scemata. Lo stesso monte Cavo coi suoi craterini che lo accerchiano compongono un sistema vulcanico tanto più ristretto , sebbene più elevato, perchè sostenuto dalla sommità del cono maggiore. Quanto alla durata della seconda epoca vulcanica del Lazio, non meno che la prima si di- mostra spiegata in lunghissimo tempo, e per ripe- 123 tulfì eruzioni come vediamo al Vesuvio, e nella stessa guisa scaricata la pletora interna, queste diminuendo d'intensità vennero finalmente a cessare di nuovo. La lunga serie di svariate eruzioni laziali, operata nella seconda epoca, sembra fosse arrestata colla sca- turigine di una delle più lunghe correnti di lava , qual è quella del cratere del monte Pila, che corse occupando più che 20 chilometri di corpo sul ter- reno per giungere fino a Capo di Bove e Aquacetosa. E siccome ultima a trascorrere, e non mai ricoperta da potenti deiezioni, così trovasi oggi tutta rilevata e prominente sulla superfìcie delle campagne attra- versate. Terza epoca eruUiva. Una seconda tregua dà riposo alla stanca natura, e la vita tanto fìssa che errante guadagna il nuovo terreno e si fa padrona del monte Cavo rivestendolo di piante e di animali. Ma il fuoco nascosto sempre nelle profonde latebre terrestri non restava inope- roso, anzi accumulando nuove forze si preparava per risorgere anche una terza volta e manifestarsi con novelle conflagrazioni. Però questa volta l'ostruzione delle lave raffredate entro il centrale cunicolo, non pili atte ad essere una terza volta attraversate, ed escludendo perciò qualunque transito perfìno alle so- stanze gazzose, determinò l'eruzioni ad aprirsi altra via, che fu quella del cratere d'Albano. Il terzo periodo di eruzioni latine fa scorgere un'intensità anche minore del secondo, riducendosi a semplici spandimenti di ceneri e lapilli, o getti di grosse bombe di lava , che oggi ancor si vedono 124 "1 attorno alla bocca d'origine. Una serie di letti vedesi su tutte le interne pendenze del bacino d'Albano , costituiti di ceneri, metà rese dure e compatte da un impasto acquoso , metà restate sciolte e incoe- renti, da cui deriva un'alternanza continuata di si- fatte assise. La loro estensione, da questa bocca che gli servì di centro , si trova protratta fin dove il raggio d'azione ebbe forza di spingerli, e in mol- tissimi luoghi scorgesi distintamente la loro gia- citura su tutte le precedenti formazioni a qualunque dei due sistemi appartengano- La parte indurita di questi letti forma i peperini di Albano e Marino , ovvero quella roccia a cui gli antichi attribuirono il nome di Lapis Albanusy e che i moderni distin- guono con quello di peperino, che non bisogna con- fondere coi tufi litoidi della campagna romana de- rivati dai vulcani sottomarini del viterbese. I loro letti sono inegualissimi e ondeggianti , e special- mente nelle superiori stratificazioni contengono nu- merosissime masse di rocce erratiche, talune delle quali riconosciute spettare all'Italia centrale, altre in fine alterate dal fuoco, le quali tutte potrebbero indurre il sospetto all'apertura di un nuuvo spiraglio vulcanico sul declinare di questa terza epoca eruttiva- t, . Origine dei peperini. E qui se si volesse domandare qual sia stata l'a- cqua che si prestò all'indurimento dei peperini, noi rispondiamo colle osservazioni del famoso Breislak, essere stata quella che sotto forma di piogge di- rottissime si deiermina in certe circostanze sulle 125 bocche vulcaniche in eruzione massima per gli squi- libri termo-elettrici che l'accompagnano- Tali piogge cadute a rovesci sulle ceneri le risolvono in fango, che non reggendo al proprio peso scorre in correnti sul declivio del terreno che lo sostiene per inondare il suolo sottostante. Quel sagace osservatore dei vul- cani era sul Vesuvio testimonio oculare di un tal fenomeno, e quindi scriveva: Che poche eruzioni sono stale seguite da pioggie dirotte nelle vicinanze del vidcano, che quelle le quali accompagnarono Vaccen- sione del Vesuvio del 1794. Più volte si disse che fiumi di acqua erano sortiti dal cratere : ma quelle rovine erano prodotte dalle abbondanti piogge che ca- dendo sul cono del Vesuvio , o sul ciglio del monte Somnitty trasportavano alla base torrenti voluminosi di fango (1). Così crediamo sia avvenuto nel Lazio durante la terza epoca eruttiva: avvegnaché tutti i peperini si rinvengono attorno la bocca del cratere d'Albano, da cui uscirono le loro ceneri, e giù per le chine esterne di quel cono scesero in basso ad inondare il paese, e risolversi in correnti che possono seguirsi come si farebbe delle lave su tutte le preesistenti formazioni : laonde quel loro ondeggiamento con- tinuo, quella diversa potenza , e quella irregolarità nei loro letti- 11 monte Gentile sopra l'Ariccia mo- derna formato d' incoerenti lapilli restò emerso da una inondazione vulcanica , che girandogli attorno corse a precipitarsi nel cratere aricino già spento (1) Breislak, Topografìa fisica della Campania, pag. 137. 126 da lungo tempo, e vi formò quel rilievo sul quale fu eretta la moderna Ariccìa. Sotto Marino un'altra corrente riempì una valle, e produsse quell'enorme spessore di peperini compatti e omogenei, sui quali furono aperte le cave per estrarli come pietra da fabbrica, e dove una stratificazione viene mentita dai lavori di scarpello che quivi in verità non esiste. La vera stratificazione peraltro che si osserva at- torno le interne pendenze di Albano, noi incliniamo a credere sia prodotta dalle intermittenze delle piog- ge determinate solo nel più violento stadio eruttivo. Fra uno strato di peperino duro, e uno di ceneri in- coerenti sottoposto , trovasi quasi sempre un letto di vegetabili terrestri , erbacei, o legnosi non car- bonizzati, ma orizzontalmente piegati, ovvero tutti inclinati nella direzione della corrente che vi passò sopra. Questi vegetabili accennano ad un certo tempo intercorso fra un'eruzione e l'altra , capace a pro- durre la vegetazione e ricoprire di un prato una superficie arida lungamente esposta alle intemperie. La mostra che i peperini fanno di loro strati- ficazione sulle interne e rapide pareti del cratere d'Albano, quale oggi si presenta, evidentemente de- riva da uno scoprimento prodotto da demolizione posteriore , che mise allo scoperto quelle enormi bombe di lava basaltina, incastrate negli stessi pe- perini per essere state lanciate all'intorno e cadute su di molle superficie. Allorché adunque questa bocca era in azione nella terza epoca vulcanica, non pre- sentava quell'ampiezza che oggi vi scorgiamo , ma ristretta dovea essere a foggia d'imbuto propria dei crateri prodotti da esplosioni gassose- L'attuale ca- 127 vita è onninamente devoluta allo sprofondamento di una parte del lato N. 0. cagionato forse da quei vio- lentissimi terremoti che accompagnarono e seguirono la scomparsa del fuoco. Una tale mancanza contri- buisce al bacino la figura di un ellissi, fatta tanto più irregolare da due avancorpi rilevati sulle pareti del minor diametro, corrispondenti da un lato a quel rilievo che si vede a destra di Palopola, e dall'altro alla prominenza sulla quale venne fabricato Castel Gandolfo. Per sifatti rilievi il bacino è diviso in due parli, ciascheduna delle quali presentando una figura che si approssima alla circolare , suggerì a talun geologo l'idea di due geminati crateri, ai quali venne demolito il muraglione divisorio. Ma questa teoria vien meno per le osservazioni, giacché le ricerche dirette a verificarla son riuscite sempre contrarie. Il graduale abbassamento del ciglio a nord-ovest , le più dolci inclinazioni delle pareti su questo lato, in opposizione alla forma d' imbuto o cono cavo , alla regolarità degli strati, all'elevazione dei monti e alla profondità delle acque che offre il lato sud-est, sono tali coincidenze da non porre in dubbio la diversa origine delle due metà del bacino del lago Albano. La circoscrizione in un area più angusta dei pe- perini attorno al cratere d' Albano mostra già un indebolimento della vita vulcanica nel Lazio, e una tendenza al suo declinare, che sempre più avanzando finì colla totale scomparsa degl'incendi esteriori , e colla restrizione a violenti commozioni restate ad annunciare che il fuoco non fu del tutto spento, e reslava a tormentare ancora la contrada con questa minima espressione di vulcanismo- Egualmente che 128 nelle altre non potrà mai calcolarsi il tempo di durata della terza epoca eruttiva laziale: peraltro i fossili accusano ancor questa diuturna e lunga. Tali sono i tronchi legnosi arborei , e i piati istessi in serie successive ricoperti dalla successione dei se- dimenti di peperino. / vulcani del Lazio furono almosferici. Dal complesso di tutte le cose si argomenta, che le operazioni di questi vulcani da principio alla fine della loro esistenza, tutte si operassero nel seno del- l' atmosfera , e non eruttassero sotto le acque del mare come i vulcani del viterbese. Conciossiachò le materie uscite dalle bocche laziali si trovano sempre circoscritte entro una vastissima area circolare di circa 60 chilometri di diametio indicante l'estensione del raggio d'azione, e non diffuse come quelle , a disegnare la lìnea delle sponde marine. Laonde la superfìcie delle colline, sebbene formate di sostanze ai-se dal fooco, col lungo andar dei tempi si dovet- tero pur ricoprire di humus e con esso di vege- tazione cibo e sostegno della vita animale , nella stessa guisa che osserviamo sulla Somma e sullo stesso Vesuvio. Le impressioni della folce aquilina, le foglie e i tronchi di varie piante arboree, i fran- tumi di ossa di mammiferi rinvenuti nelle ceneri presso Frascati , un dente di cervo abbrustolito sotto la lava di capo di bove', il probabile rinve- nimento accusato di una testa di cervo sotto una casa in Ariccia, le foglie e gli steli del loglio perenne già ricoidati in quantità da formare grossi tappeti fra gli strati di peperini, e con essi grossi tronchi 129 legnosi, danno prove manifeste che la natura vivente non rendeva deserte quelle contrade, e ad onta delle periodiche irruzioni del fuoco animali e piante vi passarono i loro giorni con lunghe serie di genera- zioni. La rassomiglianza poi di tali esseri a quelli che oggidì vi si rinvengono nello stalo vitale, farà sempre scorgere che il vulcanismo fece nel Lazio una residenza ben lunga e protratta fin quasi ai tardi tempi in cui l'uomo ne prese possesso, sebbene la storia dei latini si perda nel buio dei secoli. Vulcani contemporanei. Durante il periodo quaternario o pleistocenico, nel quale arsero i vulcani del Lazio, sembra che altre contrade della Italia inferiore non fossero li- bere dalle incursioni del fuoco- Il vulcano del Vul- ture, al presente estinto, che nella provincia di Basi- licata spiegò tutta la sua vita in riva all'Ofanto, in seno dell'atmosfera, non meno che quelli del Lazio, potrebbe essere stato contemporaneo. Così alla mia maniera di vedere penso che niuna ragione sarebbe per opporsi che 1' Etna col suo Mongibello solle- vato alla regione delle nevi sui piani di Catania , fin da quei tempi manifestiva le sue periodiche e ga- gliarde eruzioni , per continuare la costante sua operosità nei secoli futuri. Crateri di sollevamento- Dopo aver narrati tutti questi fatti compiuti nelle tre epoche eruttive del Lazio , desunti da pratiche G.A.T.CLVIII. 9 130 osservazioni, che dovrà dirsi della teoria dei crateri di sollevamento del celebre Leopoldo de Buch ? Moltissimi geologi hanno visitato il F^azio, e questi a seconda della propria maniera di vedere lo giudi- carono diversamente. Taluni credettero far l'appli- cazione di quella dottrina al maggior cratere, come avean fatto alla Somma a cui corrisponde. Altri la negarono del tutto, e fra questi il Lyell; finalmente non mancò chi facesse eccezione ad ambedue le opinioni, 6 questi fu il Murchison, il quale pronunciò doversi solo restringere al cratere d'Albano, e con- siderarlo come prodotto da un sollevamento delle pregresse deiezioni. Non è mia intenzione risuscitare quelle animate discussioni che tanto arrestano il li- bero progresso della scienza, né entrare in un agone che troppo mi farebbe deviare dallo scopo propo- stomi: io farò solamente notare essere un fatto che quasi tutti i geologi abitatori di contrade vulcani- che, fra i quali il prof. Scacchi di Napoli, si mo- strarono sempre contrari a quella teorica; come al- tresì è un fatto che uno scienziato di forte tempera, qual' è il Murchison, non avendola potuta applicare al grande cratere laziale corrispondente alla Somma, si è limitato a riconoscerla soltanto nel cratere d'Al- bano. A dire il vero, mentre si agitavano siffatte que- stioni, io tornava ripetutamente sul Lazio a vedere se quel principio di scienza vi si fosse potuto ap- plicare; e non avendone trovato il modo, fui costretto ad escluderla tanto per il maggior cratere, quanto per quello del lago Albano. Imperocché le diverse materie vulcaniche, di cui si compongono quei monti, 131 la stratificazione propria dei vulcani subaerei, e l'in- coerenza degl'ingredienti, la mancanza dei feldspati e dei suoi prodotti, le rocce erratiche specialmente, quelle dei peperini , la forma di correnti di questi raggianti attorno al lago Albano, e gli stessi fossili contenuti a dovizia, sono tali caratteri differenziali da escludere qualunque idea che i tufi sottomarini della campagna romana, ripieni di pomici, siano stati sollevati per formare un cratere alla maniera di de Buch. Che se qualche brano di questi tufi si rin- viene compreso fra le rocce del Lazio, questi sono sempre sotto la forma di masse erratiche, distaccate nelle violenti eruzioni dalle rocce attraversate , e lanciate insieme agli altri prodotti attorno allo spira- glio che gli diede uscita. La qual cosa certamente accenna più ad una posteriorità di periodo eruttivo, che ad una contemporaneità di operazioni. Quarta epoca lacustre. La quarta epoca del Lazio si presenta con una fisonomia tutta propria e diversa dalle precedenti : giacché estinto il fuoco, ben altre vicende erano ser- bate a questa contrada. Le cavità dei crateri chiuse all'intorno presto dovettero convertirsi in ricettacoli d'acqua dolce, dove venivan raccolte non solamente quelle delle circostanti soj-give, ma altresì quelle che burrascose piogge facevan cadere a dirotti attorno ai versanti. Dalle ricerche -fatte risulta, che sul terri- ritorio latino dopo spento il vulcanismo si trovarono undici laghi sparsi a rendere la contrada umida e palustre. Così sono: 1° Un piccolo lago versato nel 132 fondo del cratere dei campi d' Annibale o Laziale; 2-° Il Nemorense; 3-° l'Aricino; 4.° l'Albano; 5.» il Laghetto o lago di Turno;6.° il Marciano sotto Grotta- ferrata; 7." quello di Prataporci; 8.° Pantano secco; 9." il Gabino, o di Castiglione; 10.° il Regillo dimo- strato dal sig. Rosa corrispondere a Pantano sotto la Colonna; 11." il laghetto di Giulianello fra Vel- letri e Cori. Sembrami naturale il credere che tutte queste raccolte d'acqua non abbiano avuto principio in un istesso tempo : conciossiachè può benissimo essere stato, che ciascuna siasi formata di mano in mano che i crateri venivano estinguendosi, e così siano restati fino a che l'una dopo l'altra per la più gran parte sono scomparse. Durante la loro esistenza le acque di questi laghi limpide e tranquille, perenne- nemente rinnovate dagli scoli circostanti, e incre- spale da venti leggieri, dovettero accogliere nel loro seno quelle piante palustri, molluschi e pesci d'ac- qua dolce, le cui reliquie rinveniamo ancora nei se- dimenti che lasciarono. Le sponde, ricoperte di fio- rente vegetazione, doveano essere eziandio frequen- tate da vaganti e non ancor asserviti armenti, le cui schiere non pili spaventate dalle irruzioni del fuoco^ tranquille si avvicinavano a dissetarsi. Peraltro. l'intera calma di natura non poteva es- ser subito ristabilita in queste contrade , che non cessavano ancora di essere teatro d'azioni sovversive, residui delle pregresse eruzioni. Sebbene successiva- mente minori, doveano puranche sperimentare gli ef- fetti di terremoti violenti, e di burrasche impetuoso accompagnate da piogge dirottissimo; di modo che 133 il livello dei laghi dovea risultare variabilissimo in rdgione delle masse d' acqua immessavi. Allorché queste non erano compensate bastantemente dall'eva- porazione, doveano innalzarsi , riempire i bacini e debordare per la parte più depressa del ciglio, dando così origine ad un emissario temporario, o torrente di rapina capace di portare devastazioni e ruine sul paese inferiore. Tali vicende devono essersi ripetute per lungo tempo nel Lazio: imperocché noi vedremo che uno di questi debordamenti si effettuò eziandio anche, nei tempi storici. Mentre scorreva l'epoca lacustre, e l'eruttiva sem- pre più si allontanava, la natura, laboriosissimo ar- tefice, non cessava dalle sue assidue operazioni. Le rilevate cime dei colli all'azione dell' atmosferiche intemperie si scioglievano in detriti, per logoramento si abbassavano, si rotondavano nella forma, e i loro minuti frammenti giù per le chine trascinati fino al fondo dei bacini , cacciandone l'acqua, inducevano in essi lo stato di una perenne colmatura. Nella stessa guisa le acque, tendenti sempre a superare ostacoli, colla loro corrosiva azione non poco si associavano ad un cambiamento d' aspetto di quella contrada , procurandosi uno scolo per togliersi da un' inerzia che tanto abborre natura: così avveniva che al cor- rer dei secoli tutti quei ricettacoli d'acqua sarebbero naturalmente scomparsi, se l'uomo colla sua industria non fosse sopraggiunto a sollecitar la fine di molti, e ad arrestarne i malefìci effetti. Periodo antropico. Sebbene di pertinenza archeologica, pure ci sem* bra non doversi trascurare dar partitamente un cen- 134 no delle vicende di ciascuno, onde completare una storia naturale di quella contrada, e seguire a poco a poco le fasi per le quali il Lazio si ridusse all'at- tuale fisionomia. E in primo luogo faremo notare che non possedendo alcuna tradizione del piccolo lago Laziale contenuto nel cratere del monte Cavo, argomentiamo essere già naturalmente scomparso y allorché una mano di osci scesi dai centrali recon- diti dell'alto apennino vi giunsero a prender pos- sesso e piantarvi lo stìpite dei prischi latini. Né deve far meraviglia: perchè cosi scarsa fu 1' acqua raccolta in quel recipiente, che i detriti delle cir- costanti rocce presto dovettero colmarlo e farlo scomparire. Forse sarà stato lo stesso del Marciano, di cui altro non conosciamo di sua esistenza che i sedimenti raccolti nel fondo del cratere di questo nome- La prima operazione eseguita dalla mano del- l'uomo sembra al certo essere stato il diseccamento del lago di Vallericcia; ma questa operazione deve essere avvenuta quando o non si scrivevano storie, 0 se si scrissero furono interamente cancellate dal- l'oblivione- Essa è una congettura: ma pur sembra naturale che gli aricini stanziati sulla sponda di quelle acque, sia perchè fosse già avanzata la col- matura del bacino, sia per guadagnar terreno , sia anche per l'una e l'altra di queste ragioni, scavassero sotterra quel medesimo cunicolo che ancor oggi ser- ve a condur via gli scoli per il fosso degl'incastri verso Fontana di Papa. Per una tal operazione eglino si salvarono dalle incomode vicende delle acque, e vennero a guadagnar quei belli campi che ancor oggi 135 ricchi di ubertosa ?nesse si distendono su tutto il fondo del bacino aricino. A questi stessi tempi convien riferire altra gi- gantesca operazione, la qual ci dimostra quelli abo- rigeni non essere stati sforniti dalla natura d' in- gegno e di mezzi per compierla- Questo è l'emis- sario del lago Nemorense, destinato a fissargli un costante livello dopo essere stata scolata la Valle- riccia. Il lago Nemorense è chiuso nel fondo di un cratere , e i suoi nomi moderni di Genzano o di Nemi derivano da due paesi eretti sulle sue sponde, diametralmente opposti fra loro, la città di Gen- zano a S. 0., il villaggio di Nemi a N. E. I nomi poi Nemorense e di Nemi derivano dalla parola la- tina Nemus, o bosco sagro a Diana che un dì am- piamente ne rivestiva i contorni , e che in parte oggi ancor si mantiene conosciuto con quello di macchia della Faggiola, per cui divinità e lago fu- rono appellati dai romani nemorensi. 11 bacino si distingue in due parti, e nella stessa maniera del lago Albano l'una rappresenta il vero cra- tere a foggia d'imbulo, che è quella verso Genzano: l'altra è una protrazione di questo, costituente un bacino accessorio, prodotto da un diroccamento aper- to a fianco del paese di Nemi, e che compartisce al bacino la figura di un ellissi diretto dal N. al S. Il fondo di questo seno è spianato e risultante a colpo d'occhio di sedimenti lacustri che accennano, il lago Nemorense aver avuto un livello molto più alto dell'attuale. Forse alla maggior copia di acque, al loro incessante lavoro, o pili probabilmente al- l'azione di violentissimi terremoti a cui andò sog- 136 getta la contrada prima che l'uomo vi comparisse;, devesi quella demolizione. Sulla spianata del fon- do ancora acquistrinosa, non ha guari, furono sco- perti dal Rosa gli avanzi del tempio di Diana ne- morense col sagro recinto rivolto al lago. Questo fatto archeologico è di grave interesse eziandio per il geologo, prestandosi molto a dilucidare la sto- ria di quelle acque. Nello stato attuale V acqua occupa il fondo del cratere propriamente detto, e la sua circolar figura si distende alquanto verso il seno accessorio fin quasi ad incontrare i gradini del tempio di Diana. Ma nei prischi tempi non dovea essere così, allorché una maggior copia d'acque non solo sommergeva tutto il bacino , ma dovea renderlo altresì soggetto a debordamenti come nel lago Al- bano. Questa induzione vien suggerita dall'emissario scavato e destinato ad arrestar simili disastri: ope- razione vastissima che non si sarebbe fatta senza un assoluto bisogno. ,oi hxb L'apertura adunque dell'emissario del lago di Ne- mi deve essere stala di una sorprendente antichità archeologica, avvegnaché se Pausania, Slrabone, ed altri vetusti scrittori ci avvertono, che il simulacro di quella dea fu quivi trasferito dalla Tauride, in tempi per quegli stessi antichi scrittori remotissimi, anteriore certamente a questo fatto deve essere stata l'apertura dell'emissario: altrimenti né il tempio di Diana in quel luogo, né il suo barbaro culto man- tenuto fino al quarto secolo dell'era volgare, avreb- bero potuto esistere. Quando scendiamo all'epoche dei romani le no- tizie del Lazio si fanno alquanto più positive, giac- 137 che cosi magnifìcatori delle loro geste, non manca- rono di tramandarci spesso circostanziate notizie di ciò che operavano. E qui ci si presenta in primo luogo il lago Regillo , reso celebre per la vittoria riportata da Postumio sopra i latini, per cui prese solidità la romana rupubblica. 11 lago Regillo cor- rispondente oggi alla tenuta di Pantano a destra della via Casilina: non essendo chiuso entro un cratere, come tanti altri, si raccolse in una depressione del suolo formata dalle prominenze del monte Falcone e del cono Gabino. Questo lago rappresentava una dilatazione delle acque che dalle alture di monte Por- zio, monte Compatri, la Colonna e Rocca Priora quivi si riuniscono per iscaricarsi tutte insieme nell'Aniene. La figura irregolare di questo lago era ben ampia, e veniva modellato dalla forma del suolo, su cui le acque eran versate. Noi sappiamo aver esistito per il fatto di quella battaglia guadagnata sulle sponde del lago Regillo: ma in mezzo a tante notizie tra- mandateci, nessuno scrittore parla della sua fine. Però lo stesso bacino dimostra ancor oggi le vicende, a cui il lago andò soggetto. In esso si rinvengono due distinti livelli corrispondenti a due emissari, l'uno na- turale piij antico e piiì elevato, l'altro artificiale pili recente e più basso. L'altitudine massima e primi- tiva dei depositi lasciati dal lago Regillo sono com- presi entro un' area circoscritta da leggieri rilievi del suolo che ne disegnano i contorni, e l'emissario di questa maggior copia d' acque può oggi riscon- trarsi nell'andamento del fosso della macchia di Lun- ghezza,detto di Montegiardino, che dopo brieve tratto si scarica nell'Aniene. Al di sotto di questo primo 138 livello notasi una specie di gradino circoscrivente l'area di un secondo lago più ristretto, la cui cavità tutta si vede aperta nel fosso dell'Osa, che paralle- lamente al primo conduce ancor oggi le acque nel- l'Aniene. L'apertura artificiale di questo secondo emissario si argomenta dalla regolarità del suo andamento, e dai segni di un taglio artificiale diretto all' intero scolamento del lago e per guadagnar terreno. Oggi non restano che le sue vestigio in un luogo bassis- simo relativamente alle circostanti regioni , e così umido da avergli guadagnato il titolo di Pantano. II fenomeno dei debordamenti, argomentato nel lago di Nemi, si verifica con certezza in quello del Iago Albano, sapendo dagli antichi istessi che uno di tali avvenimenti determinò i romani a porvi un ostacolo sull'esempio dei loro predecessori. Leggia- mo di fatti in Tito Livio e Dionisio d'Alicarnasso, che nell'anno di Roma 354, quando da cinque anni si sosteneva il famoso assedio di Veio dal celebre Camillo, corse una stagione invernale così rigorosa d'arrestar perfino la navigazione del Tevere, e che nella estate seguente s'innalzò così il livello del Iago Albano, che non solamente inondò tutto il bacinoy ma aprendosi un varco fra le cime dei monti che ne formano il ciglio , l'acqua precipitò a modo di un fiume, recando danni gravissimi agli abitanti e alle loro coltivazioni. Qual sia slata la causa di quella straordinaria inondazione in una stagione contraria alle piogge, io non so; mi basta però sempre es- sere avvenuta per confermare le vicende di quei laghi, come accennammo di sopra. Che l'avvenimento 139 sia stato vero, ne fa ampia testimonianza il sotter- raneo emissario diretto dai romani a fissargli il li- vello l'anno appresso a quella disgraziata stagione, dopo aver trionfato dei veienti. Siamo destituiti di qualunque positiva notizia sul Iago di Prataporci; pure dal nome che porta ancora^ e da un emissario aperto a ponente che scarica le acque nei fossi del Tuscolo, siamo indotti a credere che al declinare della repubblica romana la famiglia Porzia, 0 Porcia, padrona di quel territorio, desse scolo alle acque, e mettesse in secco le pianure del fondo, le quali presero il nome di Prata Porzia, oggi Pra- ia porci. Da ciò che rinveniamo nel laghetto sotto Al- bano, o lago di Turno, pare che mai si prendesse cura di esso, e che abbandonato a se stesso sia an- dato soggetto a quel naturale e lento processo di riempimento, fino al secolo XVII, quando trovan- dosi molto avanzato, fu terminato di scolare dalla beneficenza del pontefice Paolo V , con un emis- sario sotterraneo , condotto a fianco della corrente di lava scaturita da quel cratere. Oggi è ridotto a semplici invernali pozzanghere, per le quali gli vien mantenuto il comune nome di Laghetto. La stessa denominazione di Pantano secco dimo- stra che nel secolo XVII ancor esso era ridotto ad un vero pantano, dannoso agli abitanti, sia perchè impediva la coltivazione del suolo, sia perchè man- teneva una sorgente di miasmi malefici. Lo stesso papa Paolo V lo distrusse coli' apertura di un pic- colo emissario coperto, che tuttora serve a mante- nerlo in secco. 140 A' giorni nostri il lago di Castiglione, o Gabino, mantenuto sempre dai romani, subì la stessa sorte e per le stesse cagioni. Ancor questo venne a man- care per un emissario di scolo scavato dai principi Borghese a fine di acquistare spazio e beneficare le nostre campagne. Il laghetto o piuttosto i laghetti presso Giulia- nello meriterebbero appena di essere menzionati, se nei passati tempi non fossero stati forniti di acque maggiori. Al presente sono in numero di tre, pic- colissimi, e residui di un avanzatissima colmatura, Poca 0 nessuna cura si è presa di essi nei passati tempi, di modo che abbandonati a loro stessi sono naturalmente in via di distruzione. II nome che por- tano deriva dall'esser prossimi ad un paese squallido per aria malsana, che dicesi Giulianello. Altri minori ricettacoli potrebbero essere accusati sui monti del Lazio, come quelli prossimi alla cava dell'Aglio ed altri, ma di cosi poca entità da non meritare posto in una storia naturale della regione latina. Piscine piuttosto che laghi, altri presto ebber fine e scomparvero, altri restano ancora e mante- nuti per uso dell'agricoltura. I soli laghi d'Albano e di Nemi restano e resteranno tuttavia per testi- ficare ai secoli futuri la loro costante esistenza fino dai tempi, i cui il vulcanismo cessò dal manifestarsi nel Lazio colle sue esterne conflagrazioni. Terremoti moderni. Abbiamo fin qui tenuto dietro ad una non inter- rotta sequela di naturali operazioni che si succes- 141 sei'o l'una dietro l'altra per giungere fino a noi. De- stituiti di tutti i mezzi, mancanti di qualunque tra- dizional monumento a calcolare siffatti tempi, noi non sapremmo porre un confine ai periodi passati, né stabilire un termine fra V epoca pleistocenica e l'antropica. Non di meno dalle osservazioni e da qual- che cenno di fenomeni naturali tramandatoci da certi scrittori ci è dato argomentare, che in quella sfu- matura avveniva nel Lazio ciò che suol essere di tutte le regioni vulcaniche dopo la scomparsa del fuoco; cioè grandi e spessi squilibri tellurici mani- festati da gagliarde convulsioni cagionate da un fuoco, che non avendo più forza di farsi strada, indomito restava ancor celato nelle viscere terrestri. E di fatti questa probabilità viene accreditata dal considerare l'operosità vulcanica costantemente man- tenuta in Italia dalla emersione apennina fino a noi e che tuttor si mantiene per rammentarci che la na- tura è instancabile. Senza parlare dell'Etna, avo dei vulcani ardenti d'Italia, che da epoche innumerabìli colle sue periodiche eruzioni non cessò mai di mo- lestar la Sicilia: del vetusto Strongilo o Stromboli ad azione incessante, che fin dalla più rìmota na- vigazione servì di fanale a indicare le isole Eolie; della Somma che si riaccese colla comparsa del Ve- suvio nell'anno 79 dell'era volgare, che tuttora con- serva la sua vita periodica e attiva; senza dire che nel 1198, secondo Marcello Bonito, ricomparve il fuoco nel cratere della Zolfatara di Pozzuoli : che nel 1302 si aprì nell'isola d'Ischia la bocca da cui scaturì la lava dell'Arso: che nel 1538 il 30 set- tembre con un'eruzione di sette giorni si sollevò il U2 Monte nuovo : che nel 1631 avvenne una grande e terribile eruzione del Vesuvio, dopo la tregua di più di un secolo : nel 1659 per una nuova irru- zione del fuoco si produsse in Sicilia il monte Rossi: che finalmente a'giorni nostri medesimi abbiam ve- duto comparire il 21 luglio 1831 sulle acque di Si- cilia, fra Sciacca e Pantellaria , l'isola Ferdinandea sparita quindi senza lasciar più traccia di sua esi- stenza. Se ad una continuità vulcanica di questa natura aggiungiamo il mantenimento nel Lazio delle eina» nazioni di gas acido carbonico e idrosolforoso co- stituenti la Mofeta di Morena , e le solfatare delle Frattocchie, quella della via ardeatina, di Porto d'An- zio ecc., se comprendiamo le acque termali che dis- seminate zampillano attorno alle nostre colline; noi avremo una plausibile spiegazione dei terremoti che di quando in quando sperimentiamo, e che sempre aventi un centro d'irragiamento nel Lazio dimostra- no essere i residuali sintomi di quella sovversiva vulcanicità che un dì tanto agitò questa contrada, e che ancora, quantunque scemata, si mantiene in ar- monia colle eruzioni moderne che si vanno effet- tuando nella parte inferiore della penisola italiana. Così fu condotta, o illustri accademici, la storia fisica di una regione della terra dalla divina Prov- videnza serbata ai suoi più alti destini, che ottenne il primato nel mondo civile; così per tante naturali operazioni fu il Lazio provvisto a larga mano di tutti i beni che formano l'umana felicità: così fu dotato di quella fertilità che die ricetto e stanza a numerosa gente, industriosa, gagliarda e fiera di sua propria U3 autonomìa ; così il Lazio fu fatto centro raggiante che diffuse sulla terra le norme di un viver civile e religioso; così si sollevano i gloriosi nomi di Roma pagana e cristiana. Gli antichi romani come prin- cipio di loro grandezza restarono sempre così affe- zionati e grati alla lor terra natia, che alle delizie di natura, di cui è tanto fornita, vollero aggiungere quanto un'arte raffinata seppe lor suggerire. Ed ecco le ridenti colline latine ricoperte di ricchi palazzi, di sontuose terme, tempii magnifici, e fastose nau- machie, perchè fosse tanto piiì abbellito un paese fatto da Dio per esser ammirato dai popoli. Oggi ancora, sebbene l'edace dente del vecchio inesorabile abbia roso tante magnificenze e ingombro il paese degli avanzi del suo lungo pasto; pure in mezzo a tante ruine non è stato mai destituito di quell'ame- nità dalla divina sapienza concessa a sollievo dello spirito nostro, e ad alleggerire il pesantissimo far- dello dei mali che ci affliggono. 144 Sopra alcuni costumi indicati nelle satire e nelle epi- stole di Orazio, e in particolare sulla filosofia epi- curea. Discorso primo del cavaliere Luigi Glifi, segretario generale del ministero del commercio, belle arti, industria e agricoltura. Letto nelV adu- nanza degli Arcadi. \ olendo noi discorrere di alcuni di quei costumi e di quelle usanze dei romani sì leggiadramente di- notati 0 ripresi da Orazio nelle satire o nelle lettere, non sarà fuor di proposito il rammentare che egli nascesse l'anno di Roma 689, ossia un anno innanzi il consolato di Cicerone; che si desse a scrivere versi dopo la battaglia di Filippi, la qnale avvenne l'an- no 1\2; e che morisse nel 746 , quando Augusto governava già l'impero del mondo, ed era stato con- sole per l'undecima volta. Di cotesti tempi adunque andremo ricercando le consuetudini, le quali non si derivarono da quella virtù, che fé si grande la città nostra, ma dal declinamento di lei. Vècchi inve- stigandone le cause non dubiti di affermare doversi imputare in buona parte alla setta di Epicuro Io smarrimento delle antiche laudevoli costumanze di Roma, quasi che fino dal 593 presentito il male , che sarebbe per arrecare , fosse fatto dai consoli C. Fannio Strabone e M. Valerio Messala il senato- consulto per iscacciare i filosofi dalla città con in- 145 tendimento di colpire sopra tutto i seguaci di Epi- curo. Ma perchè questa dottrina invece di combat- tere favoriva anzi le malvage passioni , non andò guari che tornò a comparirvi. Talché nel settimo secolo vi fu il poeta romano T. Lucrezio Caro, che scrisse versi per ispiegarne i dettati. E tra il de- clinare della repubblica e il sorgere dell'impero ne seguivano gli insegnamenti alquanti de'notabili tra i romani, siccome Pomponio Attico, C. Cassio, L. Tor- quato, C. Velleio , C Trebazio , L. Papiri© Peto , Verrio, L. Saufeio, T. Albuzio, L. Pisone, M. Pausa, M. Fabio Gallo, Mecenate, Varo, Orazio e per poco anche Virgilio. Egli è noto che sorgesse in Grecia, mentre vi si attendeva a menare vita molle e dilicata, e che r autore suo 1' avesse propagata col fine di pro- cacciarsi fama e aderenti, insegnando precetti con- formi a quel vivere contro gli accademici , i pe- ripatetici e gli stoici. Per guisa che trapassata poi in Roma, v'ebbe fautori allora quando tra per l'ere- dità di Attalo e per le vittorie in particolare di Lu- cullo e di Pompeo s'era fatto acquisto dell'Asia e delle ricchezze, della morbidezza e sontuosità di quel- le contrade. E ciò induce a credere che sia presta ad intromettersi ovunque apparisca dovizia di beni per confermare nell'impulso, che danno le ricchezze al fasto e alla lautezza. Né valse in Roma a raffre- narla la filosofia stoica , cui nell' abbandono della prisca parsimonia si attennero Scipione Affricano , C. Lelio, L. Furio, Q. Lucilio Balbo, Catone mi- nore , Pompeo , Q. Tuberone e Muoio Scevola e i giureconsulti; nò la filosofia accademica prima, se- G.A.T.CLVllL 10 146 guìta da Lucullo, da M. Bruto , da Vai-rone e da M. Pisone, né l'accademica media e nuova, di cui erano studiosi Cotta e Cicerone; né la peripatetica, che fu a grado di Crasso e del figlio dell'oratore. Ma si dirà che noi favelliamo a torto di una setta, che tanti hanno difeso, e vituperiamo un filosofo,, se pur merita questo nome, che si sforzava di ridurre gli uomini alla modestia, alla moderazione, alla con- tinenza e agli altri pregi dello spirito con guidarli sulla via della voluttà, interpretata dai partigiani suoi per quella dell'anima e non mai del corpo. Questa di- lucidazione del fine, cui tendesse la scienza di Epicu- ro, ci viene fornita da Brucker nella sua istoria della filosofia, il quale seguitando le orme di Gassendi, ha cercato ogni modo di salvarla dalle accuse fattele contro da Zenone e da' suoi stoici, da Cicerone, da Plutarco, da Galeno, da Lattanzio, da Clemente Ales- sandrino, da S. Ambrogio e da quasi otto secoli di universale consentimento in abborrirne i precetti. E poiché qui sopra narrato abbiamo come sorgesse in Grecia ed entrasse poi in Roma col suo vivere dili- cato e colle altre scuole filosofiche, procederemo av- vertendo che al ridestarsi delle lettere nel secolo XV rinacque lo spirito favorevole a Epicuro, e s'ebbe a difensori spezialmente nella sua morale fra i più ri- guardevoli in sapere di quei tempi Filelfo, Alessandro di Alessandro, Celio Rodigino, il Volterrano, Gio : Francesco Pico, e Lorenzo Valla, che furono seguiti da Marco Antonio Bonciario, da Palingenio, da Eri- cio Puteano, e quindi da' Francesco di Quevedo, dal barone di Coutures. E la Mothe le Vayer, Sorbière, il cavaliere Tempie, Giacomo Rondelle, Tommaso 147 Stanley ed altri annoverati o da Bayle nel suo di- zionario, o da Chr. Aug. Hermann Act- Philos.i o da Guglielmo Becker I» sched' de praeiud- qiiae Epi- curiim faedae volnpl- reum incruslarunt , furono me- desimamente sostenitori della morale sua. Dovendo però stare innanzi a questa schiera Gassendi De vita et moribus Epicuri e Brucker Hisl- crii- philosoph- non entreremo in disputare se il Casaubono s'abbia avuto ragione di dar carico al primo di aver tra- mutato qualche antico testo in favore di Epicuro , o se abbia avanzato il sapere coU'impugnare la fi- losofìa aristotelica, e col rivolgersi alla setta di lui, riordinarne i principii e formare un corso di fìsica ge- nerale conforme al sistema di questa e alla spiega- zione di Lucrezio. E qui non vò pretermettere di avvertire che l'Andres parlando di Epicuro cada pure in contraddizione, giacché ora cerca di scusarne l'e- tica , che egli giudica assai più onesta e decente , che non si creda da chi si ferma al solo nome di voluttà, indottovi forse dalla parzialità del Gassendi, ora cedendo per avventura al proprio convincimento, ne chiama la morale molle e voluttuosa. Noi poi discorreremo spezialmente del Brucker, il quale nel- l'eruditissimo ragionamento suo incolpando soventi volte Cicerone siccome avverso a cotestui, non so bene se ad arte o perchè ne fosse dimentico, tra- lascia di allegare la celebre sentenza sua scritta nel libro de Fine. Io la leggerò nel modo stesso che ci vieae recata da Diogene Laerzio, lib. X. 6. Ou yàp iyoye tyfjì ti voyì<3c^ r'àya3c>v,cifa.:pSìv [xsv rà? ^tà )(y\w ijSovàs ì ù'focipóiv §£ YM rag àt à^po^taiav , xoù rag àt' uv.foocy.ci.xm, KOiìràg ^tx uopfug.E questa cosiffatta sen- 148 lenza viene ripetuta eziandio da Ateneo lib. XH, 12. Ma sendo poi tradotta e rimproveratagli da Cicerone nel IH delle Tusculane, ci sì reca da lui in significato cotanto rimesso , che stimiamo anzi abbia voluto piuttosto discolparlo che aggravarlo. Eccone le pa- role: « Nec equidem habeo quod intelligam bonum, detrahens eas voluptates, quae sapore percipiuntur: detrahens eas , quae auditu et cantibus : detrahens eas etiam, quae ex formis percipiuntur oculis; suaves motiones, sive quae aliae voluptates in loto homine gignuntur quolibet e sensu ». E innanzi tratto no- teremo che Tullio nel volgere tcÒv X'J^^^ vj^cvàj, in u voluptates, quae sapore percipiuntur w non rac- coglie tutto il senso della espressione né rispetto al significato in se, né riguardo all'intendimento di Epi- curo. Imperocché y^iXo?ì anche secondo la lezione di Ateneo citata dal Menagio nelle osservazioni in Laer- zio lib. X. 6, vuol dinotare cibo, e ne adduco l'au- torità di Polluce Onom. 1,183. VII, 142. X, 166. Inoltre lo stesso Epicuro nella lettera a Meneceo toglie x'^Xcv nella significazione di vivande. Manca poi la traduzione delle parole a^ftjpwv ds rag §£ «fjJo- 5t(7£wv, che dai traduttori di Laerzio e di Ateneo sono mterpretate, « quae ex venereis Constant »• Da ultimo ci sembra che Cicerone rendendo fàg §{' òxpca^a'Twv nel latino « auditu et cantibus » abbia scemato il concetto espresso colla voce greca di acroamati , nella quale Plutarco in Galba, Macrobio nei Satur- nali II , 4, Lampridio in Alessandiv , e Snida in ooipoaii^ ravvisano il dinotarsi di musicali concenti festive recitazioni , canti e danze. Il fine adunque determinato da Epicuro nei suoi ammaestramenti , 149 siccome egli stesso afferma , e ne danno contezza eziandio Plutarco Comment. ne siiaviler quidem vivi posse secundum Epicuri decreta, e Lattanzio Divin. ìnstit' HI. 17 , era che non vi fosse altro bene al- l'infuori del piacere del mangiare, dell'appagamento della sregolata volontà in balìa dei sensi, del diletto che traesi da musicali concenti , da festive recita- zioni, da canti e da danze, e dalla leggiadria, soa- vità e bellezza delle forme, che allettano e invaghi- scono. K chi sparge simile morale sarà degno di difesa? 0 non piuttosto saranno da biasimarsi tutti coloro, che hanno procacciato di sostenere e pro- teggerne l'autore, giudicandoli almeno per tanti in- cauti, che non hanno saputo scorgere come sull'e- sempio della Grecia e di Roma, 1' empia e sciocca dottrina, che dà favore ai malnati appetiti, è pronta a risorgere ovunque la vita si faccia bene agiata, o s'apra l'adito alla filosofia e alle lettere. Né qui staremo a svolgerne gli errori per intero, bastandoci di indicare quelli soli, che siano acconci al discorso , che siamo per fare. E riflettendo che alcuni romani antichi si dessero alla foggia insegnata dalla scuola di Epicuro nella vita loro privata , ci si offre r esempio di Gatio in prova dell' abbassa- mento , cui fossero sospinti coloro , che per mala ventura vi capitassero. Era costui un filosofo epi- cureo , che Gicerone ricorda nelle lettere 16 e 19 nel libro XV delle famigliari, e da Quintiliano ìn- stit. Orat. lib. X, cap. I viene divisato quale autore assai leggiero, ma gradevole. E dicesi pure che nel meditare profondo sulla natura delle cose e sul bene sommo , secondo i dettati del suo maestro , avesse 150 scritto un libro del modo di fare pasticci. La costui scienza adunque, e noi stimiamo che non valgano il dubbio del Torrenzio o gli argomenti del Cruquio e del Le Fevre rifiutati dal Dacier e da Bayle nel Di- zionario al nome Caiius, a farcì discostare dal parere degli altri comentaturi che sia quel desso , di cui parla Orazio nella satira 4 del libro II, viene mot- teggiata leggiadramente dal poeta , perchè solo di buone vivande e di mangiare ottimamente apprestato si dilettava. Ma non abbiamo udito e non udiamo per avventura anche a'dì nostri qualcuno, che imi- tando Catio nell'andare affaccendato, par che dica: . . . . Non est mihi tempus aventi Fonare signa novis praeceptis; qualia vincunt Pythagoram, Anytique reum, doctumque Platona? E se brami sapere alcuna cosa della scienza nuova, e se preghi lo scolare a inteitenersi teco alcun poco e narrarti i precetti del valent'uomo suo maestro , co' quali supera Pittagora, Socrate e Platone, ti spie- gherà con parole gonfie e aspetto grave che le uova lunghe e acute sian maschie, e le ritonde sian fem- mine; ti dirà quali siano i funghi o i cavoli di mi- glior sapore, e come si debba pelare una gallina , , perchè cotta subito uccisa, non riesca dura o spia- cevole al palato, e cento altri arcani di ghiottornia e beveria più lunghi e tediosi assai di quelli, nei quali Catio s'avviluppava favellando con Orazio. E sarebbe pur buono che cotesti bacalari abbondevoli di sapienza nella barba e nel sopracciglio, ad ognuno de' quali s'adatta bene l'augurio di Orazio: n Di te 151 deaeque donent tonsore »: s'arrestassero in questa parte solamente delle istruzioni degli epicurei e non trascorressej'o alla fisiologia, alla fisica, alla teo- logia e all'ateismo di tal setta, spropositandovi più artagoticamente del capo suo. Che cosa avverrà dunque ai filosofastri pari a Catio, i quali potreb- bero avere alle mani le opere di Luciano e dì Diogene Laerzio, ammaestrato l'uno dell'empietà di Epicuro, siccome egli stesso si vanta in Alessandro, 0 come ne lo attestano lo scolaste antico, Vossio De sectis cap- Vili, e Brucker De seda epicurea, difenditore l'altro de' malvagi pensamenti suoi, se- condo il tragghiamo da Casaubono Praef. ad Laerl-, da Menagio Prooem in Laert., da Vossio De sectis, cap. Vili $2], da Fùhvìcìo Bibl. graec. voi. Ill.pag. 601, e da Samuel Parcker De Deo disp. I sect. 15. pag. 39. E che faranno se per loro disavventura maggiore s'abbattessero nei libri dei sofisti e di al- tri licenziosi ed inconsiderati scrittori , o fisiologi o ideojogisti de' nostri giorni, di che siamo per favellare, ne' quali più o meno si è trasfuso il tristo pensare di Epicuro? Mancherebbero della giusta co- noscenza di loro stessi, che più di qualunque altro studio conduce a perfezionare la umana ragione, la cui mercè pervenendo a scorgerne la debolezza e la sommessione nostra all'Essere Supremo, le viene apportando quella agevolezza da renderla sempre più inchinevole ad ascoltare la voce della religione e a lasciarsi condurre dalle sante massime sue. E perchè messe queste in oblio non v'è sapienza, e la mente è travolta nella smarrigione e uscita quasi di se si nVolge alle cose materiali, sensibili 152 e corporee , e la licenza dell'errar suo è seguila ben presto dalla corruzione del cuore, incorrereb- bero nella irreligione e nei vizi, che sono imputati giustamente agli epicurei per la pazza e rea pre- sunzione, colla quale toglievano via la provvidenza di Dio e l'immortalità dell'anima. Ascoltisi il car- dinale Gerdll nel suo libro, ove dimostra l'imma- terialità dell'anima contro Locke, e si ponderi se valga più qualche beffa di Kpicuro e di Lucrezio in paragone de' saldi argomenti di tanto porporato. Odasi il confutatore di Tracy, di questo recente ideologo, che nell'esaltare il Condillac e nel fìn- gersi sollecito spezialmente dei giovani, li tradisce con fomentarne le passioni, e abbagliarne l'intel- letto , l'iducendo gli uomini all' essere di bruti, e questi e quelli alla qualità di vegetabili, e si av- verta come la scuola epicurea umiliata e vinta da S. Paolo nell'Areopago Ad. ap. cap. 17, combattuta maravigliosamente da Lajffanzio Insl- div. III. 17, De ira Dei cap. X, da Plutarco Adversus coloiem^ da Seneca De benef. l. /F e. 19, da Clemente Ales- sandrino Strom., da S. Ambrogio, da Samuele Parcker De Deo disp. L secl. 12 seg. e da altri; smentita da Epitteto, Arrian. ad Epiclel. disserl; discacciata dai messeni, da Antioco e dai cretesi ; dispregiata e dileggiata da Suida Err'xcupcg, da Crisippo, e dai comici Damosseno, Platone ed Egesippo addotti da Ateneo lib. Ili e VII, abbia guasto il secolo pas- sato, che male a proposito appellarono fdosolìco , e se non vi si ponesse riparo da uomini sapienti, lacererebbe anche il nostro , dichiarato da alcuno scrittore siccome volubile, incauto, lezioso, vano , frivolo e leggiero. 153 Orazio poi, che bene intendeva i vari pensieri de' filosofi greci , imperocché era andato in Atene ad appararli, dimostra in certo non convenevol modo l'amorevolezza sua verso gli epicurei in questi versi dell'epistola 4. lib. ly Me pinguem et nitidum bene curata cute vises, Quum ridere voles Epicuri de grege porcum. Ma se gli aderenti a Epicuro s'ebbero nome di gregge e di animali sozzi da un loro compagno , dobbiamo encomiare la sapienza dei romani e degli altri popoli, che non vollero sofferirli, e temere gran- demente del sapere o della lealtà di quelli, da cui sono stali difesi. Imperocché quanto fu 1' accorgi- mento o l'antivedere di Fabricio nel desiderare che i nemici di Roma apprendessero a reggersi da Epi- curei, [Plularc. Vita di Pirro), di altrettanta impru- denza io credo si debba far carico a chi ne abbia scusato gli errori. Quasi che sia scusabile l'adescare la moltitudine col mezzo del piacere de' sensi, l'in- segnare agli accidiosi la ignoranza, agli avari il ri- sparmio, ai pigri e tardi l'infingardaggine, ai tristi la non curanza di Dio delle cose di questa terra, e instillare negli uomini che si viva pel solo corpo e non per la mente , che tutto in noi sia materia e proceda da atomi erranti. Degna dottrina di un vec- chio avvezzo agli spassi e ai trastulli de' suoi giar- dini, ove concorrevano certe sue vaghe filosofesse, che il rendevano assai piiì meritevole del cortese nome prodigato da Orazio a quei del suo gregge, che dell'accorto argomentare di Bayle Dict. in Epic- 154 contro quella squisita invenzione del moto de'suoi atomi dall'alto in basso. Nella ingannevole filosofia poi del secolo scorso e del nostro, chi non ravvisa le arti di Epicuro in uno de' suoi espedienti palesalo da Rousseau, Dial. doiiz-, di aver seguilo con prendere ciascuno per la sua indole particolare, e per la sua passione favo- rita ? Chi nel pensare agli inglesi deisti, materialisti ed atei , quali si furono Hobbes, Tolant, Blound , Saftesbury, Tyndal, Morgan, Chubb, Collins, Wool- sthon, Bolinbroke, non ricorda Epicuro e la scuola sua ? Chi noi rammenta nel delirare degli imitatori loro e di Spinoza, quali sono slati Voltaire, d'Alem- bert, Condorcet, Diderot, Elvezio, Turgot, Boulanger La Mettrie, Freret? Chi noi mira anzi fra le larve dell'enciclopedia, fra i romanzi , fra i lauti convili in casa di Elvezio e nel suo Spirito ? E chi noi vede tornare in vita nella Pulcella, travestirsi da econo- mista nel palazzo d'Holbach, apparire un Morfeo nella noiosa ideologia e filosofia del Gioia, entrare nella morale di Bentham, e assidersi nel mezzo delle folte tenebre dell'illuminismo ? Di quanta pravità sia stato mai il fallir grave di costoro ci vien dinotato da quei, che li ribut- tarono con egregie opere , i quali sebbene non siano ignorati in questo dotto e illustre consesso, pure non vi sarà discaro il lammentarne alcuno, quasi a sollievo dell'animo conturbato da nomi, che andrebbero cancellati in ogni mente assennala, e citerò Tassoni, Turchi, Rosmini, Torricelli, Ri- cordi, Hayer, Trublet, Bergier, Barruel, Carron , La Harpe, e l'opera, che ha per titolo II conte di Valmont. 155 Ma poco rileverebbe se i falsi tllosofì avessero disputato ciascuno a modo proprio e con parere vario dall'altro, e la disputa avesse avuto termi- ne alle contumelie e alle ingiurie, con cui si so- levano svillaneggiare. Ne avrebbero lasciato di che ridere dell'onore , in che si teneano, salutandosi co' soprannomi di ciurmadori, cantambanchi, cerre- tani, sognatori, maniaci, ghiottoni, bari, giuntatori, gabbatori, perchè imitavano anche Epicuro nel giu- dicare con buon garbo quei della professione, e tutto al più sarebbonsi attristati della morte loro i piagnoni di quella del cantore Tigellio, che Ora • zio sat. 1. 2 ci narra essere stati Ambubaiarum collegia, pharmacopolae, Mendici, mimae, balatrones. Il danno è derivato dalle ciance sparse nel volgo non già con opere, ma per mezzo di libricciuoli meschini, di lettere , di saggi , di trattatelli , di pensieri , esami , novelle, dizionari , trattenimenti; e trovando chi loro prestasse fede ne guastarono ì costumi siffattamente, che in leggendo ciò che ne intende il Pindemonte nell'orazione in lode di S. Tommaso di Aquino, e ciò che ne significano il conte di Valmont nelle lettere , e il Palissot nelle sue opere, non v'è chi non abbia da ram- maricarsi dell'inganno, pel quale moltissimi uomini delusi di saggi divennero ebbri, di onesti dissoluti, di sobri voluttuosi, e molte furono le male fem- mine , che vissero impudicamente e disonesta- mente. 156 Poiché dobbiamo essere grati alla provvidenza divina, che ne abbia serbato uomini pii e incom- parabili , capaci di ritorre la sapienza dalle mani dei maligni e di riporre il quasi distrutto ordine del vivere religioso e civile: E come quei, che con lena affannala Uscito fuor del pelago alla riva, Si volge all'acqua perigliosa e guata; così mirando le orme del passato travaglio, ci si appresenta una qualche Calia, la quale simiglian- do all'altra, di cui scrisse Orazio lib- L sat. 2: Caetera, ni Calìa est, demissa veste tegentis, e che esser dovea una parente del nostro filosofo epicureo, sia usa di disonestamente vestire, e la- sciatasi trasportare dall' erudizione filosofica e dai l'omanzi sappia al pari di Sempronia fautrice di Catilina « psallere et saltare elegantius, quam ne- cesse est probae: » e nel suo danzare con assai pili leggiadria di quello non si convenga a costu- mata e savia donna, gongoli, esposta al pubblico mercato dei guardi, dell'avere appreso le smancerie e i modi ionici, come la matura donzella pur di Orazio lib- III. od- 6, la quale « motus doceri gaudet ionicos ». Se poi non erro, dee andare al fianco di lei un cantore uguale a Tigellio musico sardo impru- dente, smodalo, vano e stolto, conforme nella pa- rola sardus interpreta il Cruquio, di cui narra Ora- zio sat. 3 lib. I, che 157 . . . . habebat saepe ducentos Saepe decem servos: modo reges atque te- trarchas Omnia magna loquens .... ossia spesso vantavasi di possedere ducente servi e spesso dieei , e soventi volte non avea in bocca che re , principi e grandissime cose. Ed ambedue lodano a cielo la sentenza del giullare Pantolabo: 0 cives, cives, quaerenda pecunia primum est, Virtus post nummos-.. Horat- epist. I. 1. Mi risponderà per avventura il sig. Spurzeim che, secondo le sue osservazioni sulla dottrina del cervello, le Catie antiche e moderne siano da te- nersi sciocche, attesa la picciolezza del loro capo, perchè se nate fossero con un grosso capone sareb- bero state donne d'intelletto. E affaticandosi in tale dimostrazione e continuando a discorrere della ca- poraggine, ha in fastidio i capi della Venere dei Me- dici e dell'Apollo di Belvedere , giacché li reputa piccioli e non d'ampiezza tale da capire in uno la magnanimità e la grandezza di una Venere, e nel- l'altro l'alta sapienza di un Apollo. La quale sotti- lissima ponderazione è al tutto nuova ed improv- visa, e sembra aveie pochissima apparenza di verità, in pensando principalmente al paragone, che fa il sig- d'Alembert, Eloge de Despreaux, della Venere dei Medici collo stile di Racine, e dell'Apollo di Belve- dere collo stile di Voltaire. Inoltre insegna con dolce affabilità agli artefici, che più bramano di effigiare 158 bella, spiritosa e vivace una donna, e sapiente un uomo , tanto maggiormente debbono ingegnarsi in farne grande la testa. II Gioia poi schiferebbe il ri- cordo del musico Tigellio, perchè gli recano nausea i nomi degli antichi a cagione dell'avere udito dire che bevessero in un corno. Noi però che dubitiamo forte non la dottrina del cervello il faccia andare fuor de' capelli, oc- correndoci anzi de' capolini pieni di cervellone, e de' caponi che chiameremmo più volentieri capoc- chi, ridiamo della fisiologia e delle comparazioni delle teste grandi, che in verità non conoscendo chi sia Apollo e credendo nella magnanimità di una Venere, ne vorrebbero fare due numi stroppiati e contraffatti. Né vogliamo indurre la sensibilità del sig. Gioia a comprendere meglio la storia romana : mentre nel significargli che favelliamo di un musico vissuto in tempi passati, sarà per calmarglisi la noia de' nomi antichi, o ragionandone a posta sua non gli si vieta di spacciare eziandio che Cornelia madre dei Grac- chi fosse figlia del gran Catone, Ma quantunque la filosofia, colpita da certi versi del Parini, mandasse fuori delle cantine delle case di Milano il letame, che vi solcano riporre in gran mucchi da gemere muffa e spandere odore non punto aggradevole, pure imbrattata come era di gusto epi- cureo , ha apprestato soccorso alle immondezze di altre Leonzie, Marmarie, Edie, Erozie e Nicedie, che sotto qualsivoglia nome e malgrado i piccioli lor capolini continuano ad attrarre e torcere i giovani dal retto sentiero. E perchè gli oziosi e gonfi can- tori del germe del sardo Tigellio servono maraviglio- 159 samente al fine di lusingare la gioventù con sospin- gerla alla voluttà, io credo che invece di encomiarli andrebbero abbandonati all'oscurità del mestiere loro. Dovendo chiunque abbia senno avere in mente l'av- vertimento dato da Filippo ad Alessandro di ver- gognarsi del soverchio tempo concesso al canto. Così oggidì si deono intendere certuni, che se sapessero favellare direbbono: Nos numerus sumus, et fruges consumere nati. Spensi Penelopes, nebulones, Aleinoique, In cute curanda plus aequo operata iuventus; Cui pulcrum fuit in medios dormire dies, et Ad strepitum citharae cessatum ducere curam- I quali versi di Orazio io spiego colla norma dei migliori cementi. « Noi non siamo che moltitudine nata solamente per divorar le vivande, siamo vagheggiatori e ama- tori, ghiotti e lussuriosi; siamo vuoti di sapere e di giudizio; gioventiì dedita alla intemperanza delle ve- glie di Alcinoo, ed occupata assiduamente della li- sciatura e dell'attillatura. Ci pare la piiì dolce cosa del mondo e la più vezzosa il dormire fin sul me- riggio, e il vincere le sollecitudini e gli affanni coi balli e col suono delle cetre ». Queste immagini della filosofia epicurea de'tempi di Orazio sono state rinnovate per le illecite prati- che date fuora dal gregge del secolo XVIll, che aven- do dietro buon codazzo di medici, che sanno tanto d'ippocrate quanto Spurzeim del capo di Apollo han- no perduto il fiato nelle difese dei vizi colle favole, colle fisiologie e colle zoonomie. 160 Talché mi maraviglio come mai il sig. Gioia e il suo intrinseco sig. Darwin abbiano ignorato questi versi di Orazio sat. 3 lib. 1: Cum prorepserunt primis animalia terris Mutum et turpe pecus, glandem atque cubilia propter Unguibus et pugnis, dein fustibus, atque ila porro Pugnabant armis . In quanta letizia, in quanta esultazione non sa- rebbero slati nell'apprendere che qualche filosofo , messo in canzone da Ora'^io, appellasse gli uomini animali, muto e sozzo armento , che per cacciare la fame colle ghiande e per procacciarsi ricovero si batterono pria colle unghie e colle pugna e poi a colpi di bastone! Io scorgo la superba compiacenza, che gli avrebbe rapiti dell' avere compagni antichi del vaneggiamento di abbassare il genere umano al grado delle bestie, e d'innalzar queste su quello: e avrebbero potuto replicare un poco meglio con ap- pigliarsi almeno alle goffaggini de' trascorsi modelli a chi gli ha derisi per quell'imbratto, per quell'in- trigo, per quella confusione di idee, con cui intro- ducono nel bestiame tracce di cambi , patti, con- tratti, qualche sorla di monetazione, qualche prin- cipio di analogia della scienza economica- Chi mai immaginerebbe che la filosofia pervenisse a mettere fra le bestie gli economisti, i notai e i cambia-va- lute ! 161 Ma la filosofia epicurea che cosa die al romani, che cosa ha compartito a noi? Fé dono ai romani della lussuria e del viver molle, e ce ne recano so- pratutto l'esempio l'epicureo Mecenate dinotato quale uomo dilicato da Orazio Sat. 2 , lib. I col nome di Maltino , tacciato di effeminatezza da Giovenale Sat. 1 e Sat. 12, da Macrobio Sattir. II, cap. 4, e da Seneca Epist. 94 non pure nell'abito, ma nel- l'affettata asiatica soavità del parlare e dell'andare. Però quei che sono inclinati a obbiettare, diranno le ricchezze avere apportato in Roma il lusso, il lusso la ruina dell'impero senza colpa dei filosofi. Ed io sog- giungo che fino a tanto che fu fatto buon uso del- l'oro e dell'argento accumulato in gran quantità nel- r erario , venne speso in opere pubbliche e nelle guerre contro i cartaginesi e i re dell'Asia, e che i capitani romani coH'avere empito la città delle opu- lentissime spoglie dell' oriente, non distrussero nei particolari l'amore verso la patria loro, giacché molti essendo divenuti bene stanti abbellirono Roma, o le colonie o i municipi con pubblici e privati edifici; e non giunsero a spegnere negli animi il rispetto e il timore della religione , delle leggi , dei costumi e degli esempi. Vi voleano cause maggiori delle sup- pellettili preziose e della rilassatezza de'popoli sog- giogati , per ismuòvere i saggi ordinamenti e la prisca virtù dei romani, e far sì che il lusso deri- vato dall' abbondevole copia di beni degenerasse dal decoro e dall'ornato pubblico e privato in vilipendio, biasimo, e mattezza. Era di mestieri di qualche so- stegno, che desse sicurtà all'animo e velasse il mal fare; e questo veniva apprestato da una setta, che G.A.TCLVIII. 11 162 cercava di rimuovere dalle menti il timore degli dei e delle pene della vita avvenire, la spiritualità del- l'anima, e qualsivoglia ammaestramento; e per non ripetere le cose già dette , poneva la sapienza nel darsi buon tempo fra gli spettacoli e i giuochi sce- nici nei teatri. Perchè il lusso , l'ostentazione e lo sfoggio comprendendosi più nei limili dei costumi che delle ricchezze, doveansi per innanzi macchiare* quelli perchè poi venissero queste dissipate e pro- fuse smoderatamente. Laonde non mi maraviglio che Montesquieu, il quale concorse colle opere sue a por- gere aiuto ai filosofi, e così dovea ben conoscere le mire degli epicurei, quantunque non adduca nessuna prova, ciò nulla meno nelle sue considerazioni sulla grandezza dei romani sia di opinione che la setta, di cui andiamo favellando, ne contaminasse il cuore. E vaglia il vero , non fu la raffinatezza dei diletti dell'esercito di Pompeo che die la vittoria a Cesare? Non la lasciva prodigalità di esso Cesare, che fattogli consumare il patrimonio paterno, la preda del Ponto e della Spagna , il costrinse a sopportare le spese delle guerre civili a forza di rapine e sacrilegi, fra cui s'annovera la violazione dell'erario, ove depredò il censo del popolo raccoltovi da quei, che supera- rono i cartaginesi, Perseo, Filippo, Pirro, e i prin- cipi dell'Oriente? Non i vizi di Catilina e dei com- pagni suoi, che li eccitarono alla ribellione? Dunque le voluttà, gli scialacquamenti apportano la perdita degli stati , il saccheggio della propria patria e la rivolta. E come si apre la via a tanto male? Col dispregio della religione e dei costumi. E chi pro- pagò l'una cosa e l'altra appo i romani, chi la ri- 163 dusse a mentita scienza? Io credo che fosse Epicuro. Non vò rammentare né il molto spendlo, cui si die- rono in progresso i ricchi uomini e le donne ro- mane, né la stoltezza dei giovani doviziosi, che nelle raunanze facendo ossequio al ventre erano soliti di ragionare per passatempo: . . . . de villis domibusve alienis . . . male nec ne lepos saltet: Orat. Sat. II, 5. delle ville e delle case altrui, o se l'archimimo Buona Grazia danzasse bene o male, essendo tali eccessi di orgoglio e di balordaggine l'effetto del disordine so- praddetto. Mi arresterò in dire che i romani soffri- rono da Epicuro le maggiori calamità del mondo. Ora venendo a quello, che é toccato in sorte a noi, chi è che ignori i modi, co'quali gli eredi dei suoi giardini si adoperarono onde spogliarci della nostra religione cattolica e santissima, essendo in ciò assai più ribaldi di Epicuro, che assaliva una falsa, laddove questi si levarono contro la vera, onde in- fettarci di materialismo e di deismo alla guisa di lui? I diritti costumi sconsigliati , le sane pratiche bandite, le cristiane istituzioni insidiate e minacciate? Ma l'aspetto dell'amaro dono è si fosco che è meglio tacerne, ed esclamare con Cicerone (Pro Sext. Ro- selo Amerin. cap. 24): Sua quemque fraus et suus terror maxime vexat; suum quemque scelus agitat amentiaque afficit, suae malae cogitationes conscien- tiaeque animi terrent. Hac sunt impiis assiduae do- mesticaeque furiae ». 164 Ma il volgo de'misei'i seguaci , quella specie di spettri filosofici, che cosa hanno ritratto dagli scaltri prestigiatori, cui hanno portato credenza? Ascoltan- do Orazio Epist. 18, lib. f, apprenderemo .... Eutrapelus, cuicumque nocere volebat, Vestimenta dabat pretiosa; beatus enim iann Cum pulcris tunicis sumet nova Consilia, et spes; Dormiet in lucem: scorto postponet honestuin Officium: nummos alienos pascet: ad ìmum Thrax erit, aut olitoris aget mercede caballum: ossia, e in Eutrapelo e nelle vesti sfarzose vengono adombrati i filosofanti e ia merce loro ; quei che filosofeggiano quando vogliono nuocere ad alcuno lo mettono in filosofia, e costui altero e baldanzoso dello stare in barba e berrettone, prenderà nuovi con- sigli, e vivrà sperando, e dormirà fino a dì chiaro; posporrà alle disoneste le oneste occupazioni, man- gerà il danaro altrui, ovvero, secondo la lezione del Rappolto, accatterà e farà debito sopra debito; in fine diverrà gladiatore, o menerà prezzolato il ronzino dell'ortolano. E disceso che sia in si vile e depressa condizione, che diverrà di lui? La risposta ne vien suggerita da Montesquieu medesimo, loc- cit. chap. X: sarà pronto a commettere ogni misfatto. Dopo questa narrazione tengo per fermo che non vi sia alcuno, che non confessi essere stati somma- mente prudenti i consoli dell'anno 593 C. Fannio e M. Valerio, e non deplori il cambiamento successo in Roma nel secolo susseguente, nel quale non si tenne più conto nò del senatoconsulto , nò del decreto 165 dei censori Gneo Domizio Enobarbo e Lucio Licinio Crasso. Lascio poi riflettere a voi, egregi colleghì, chi fosse fornito di miglior giudizio, o quelli che a contare dal secolo XV difesero Epicuro, o gli anti- chi greci , che mandarono in esilio i suoi fautori. E poiché anche i versi hanno porto la dolcezza e l'allettamento loro in prò delle contaminate dottrine, e ne hanno avuto mal contraccambio, per la ragione che quelle non soffrivano la facoltà o lo studio, che adoperato rettamente rimuove gli uomini dai vizi e gli accende alle virtù, qui da questo luogo sopra ogni altro dee spiccare un tale studio e una tale facoltà nella dirittura e nella lealtà del pensare, con rifiutare qualunque obbietto inteso a rappresentare le basse e disordinale passioni , e con accogliere quelli che sollevano e istruiscono lo spirito, siccome con som- ma gloria vostra avete fatto fin ora. Pur troppo le menti vanno vagando nelle esagerazioni e nei sogni dei fantasticatori e romanzieri! Noi però non dipar- tendoci dal naturale e dal vero, pel primo dobbiamo continuare nel nostro istituto, che non è di stancare, alterare o crucciare lo spirito, ma di confortarlo e ricrearlo; pel secondo, aggiungendo la leggiadria del verso alla dimostrazione del vero, ci renderemo me- ritevoli dell'essere a parte dei benefizi resi all'umano genere da Scipione Gapece , dal cardinale di Poli- gnac e Tommaso Geva, da Alessandro Marchetti, e Enrico Moro, Riccardo Blackmore, e da Garlo Clau- dio Genesto, i quali coi carmi latini, italiani, inglesi e francesi non potevano provvederne di più conforme antidoto al veleno di Lucrezio. E se pure credeste che questi avessero raggiunto la meta nel combat- 166 tere Pepicureo Ialino, ne restano ancora altri da sot- tomettere compiutamente : il che non è punto dif- ficile. E alla- lode che vi tornerà dalla vittoria, suc- cederà l'altra non minore di provare che nell'agia- tezza romana, lungi dall'entrare in insegnamenti er- ronei e pregiudizievoli, sappiamo dichiarare colle ope- re che riconosciamo e veneriamo un Dio creatore e direttore dell'universo, e siamo certi di avere un'a- nima, cui sono serbati destini più alti di quelli, che l'uomo possa ottenere in questa terra. Le quali ve- rità risplendono nei versi, che il Petrarca dannando Epicuro scrisse in questa sentenza: Contra '1 buon Sire, che l'umana speme Alzò, ponendo l'anima immortale. S'armò Epicuro; onde sua lama geme, Ardito a dir, ch'ella non fosse tale. 167 Lezioni XXIV sopra la divina commedia, e sopra il re Giovanni. Del prof. Filippo Mercuri. E acciocché tu di me novella porti , Sappi ch'io son Beltram dal Bornio, quegli Che diede al re Giovan i nria' conforti. Io feci '1 padre e '1 figlio in se rihegli, Achitòfel non fé piiì d'Ansalone E di David co'malvagi pungegli. Inf. XXVIII. A are che non sia più luogo a dubitare, chi conosca la storia del duodecimo secolo e dopo ciò che scris- sero sul re giovane il Ginguenè, il Viviani, il Parenti., il Francesconi in Italia e il Rainovard in Francia, contro ciò che ne aveano scritto il Biagioli ed il Caì^- paniy che un re giovane e non un re Giovanni deb- basi riconoscere nel Giovanni nominato dall'Alighieri. Ma non trovando altra via i prelodati autori da con- ciliare la storia colla lezione della crusca e della più parte dei codici che hanno Giovanni, rifiutarono la lezione di questi e di quella, e ne conchiusero che Giovanni in luo^o dì giovane, ch'essi opinavano do- versi sostituire, era o errore del poeta o alterazione del testo. Lo stesso credè il Cesari e il Costa, che adottando giovane per Giovanni, osteggiarono la cru- sca e la maggior parte dei codici, cancellando del 168 tutto il Giovanni. Né di ciò conlenti, perchè vede- vano che non bastava loro la semplice sostituzione di giovane al Giovanni^ che avrebbe dato lo sconcio verso Che diede al re giovane i ma' conforti: si fecero lecito con nuova alterazione di mutare il verso in altro verso arbitrario , che sentenziarono doversi leggere: , Che al re giovane diede i ma' conforti: Non allontanandomi io dalia sentenza dei mi- gliori, oserò proporre il mio avviso sulla lezione che trovasi corrotta in tutti i testi: e la mia opinione è questa, che lasciando il verso nella sua integrità , con lievissimo mutamento si debba leggere non Gio- vanniy non giovane , ma gioven. Vedremo dopo per quali ragioni e con quali autorità mi sembra la le- zione più certa. Seguitando ora a mettere in più ampia luce questo punto di storia, che non fu da taluno dei prelodati autori abbastanza dichiarato, dirò che, a provare che un re giovane, e non un re Giovanni, era significato dal poeta, non bastava l'addurre l'autorità del No- vellino, dove trovasi nominato un re giovane, ma bi- sognava attingere da fonti storici degli antichi cro- nachisti la verità che quelli non addussero. Le infinite autorità desunte dagli scrittori Rerum francicamm, dei quali il Thierry ha fatto uso nella sua storia della conquista dei normanni in Inghil- terra, mi dispensano di fare ciò ch'egli ha fatto così 169 bene : ed io crederò aver pienamente esaurita la parte storica di questo mio discorso, riportando in fino di questo fedelmente volgarizzata quella parte, dove trattasi del re giovane e di Bellram del Bornio j la quale basterà senza dubbio a dimostrare, che il re giovane^ ossia il re giovan di Dante, altri non era che Arrigo il giovane , celebre nella storia del do- dicesimo secolo' per le lunghe guerre che sostenne col padre i4mgfo //d'Inghilterra; che Arrigo il gio- vane fu il suo primogenito , ed ebbe altri fratelli Riccardo, Goffredo e Giovanni (il quale ultimo non ebbe a fare con Bellram del Bornio né ebbe mai guerra col padre, né cattivo consiglio da quello, ma fu anzi il suo prediletto e successore; la qual cosa dagli occhi non abbastanza lincei del Tomasseo e del Biagioli, non fu considerata; che abbagliati dal nome di Giovanni caddero nell'errore di scambiare il primogenito col quartogenito); che il nome di re gioven viene dal normanno li reijs losnes o lo reis loves o love; che Bellram del Bornio finalmente fu francese e non inglese, e non meno valente poeta che guerriero de'tempi suoi. Né credo sarà discaro veder riferito qui sotto questo lungo brano di storia, il quale non sarà meno dilettevole a chi fosse vago di conoscere quella parte di storia, che di piena confermazione a quello che forma la prima parte del mio assunto: cioè a dire che un re gioven^ e non Giovanni, sia quello nominato dal poeta, e che Bellram del Bornio sia stato fran- cere e non inglese; talchè^non si vedrà più, io spero, nelle future edizioni di Dante ciò che nelle antichis- 170 sime e nelle recenti ancora si legge parlando di Beltramo. Ma ciò non basta: che cammin facendo, correg- gerò un altro gravissimo errore, che finora occorre in tutte le edizioni di Dante , sperando che nelle edizioni che si faranno debba vedersi rettificato. Leggesi questo nei conienti al verso del canto seguente: Sopra colui che già tenne Altaforte: errore regalatoci dal Landino e dal Volpi , e per- petuato a noi fino al Venturi che nei conienti a quel verso dice questo sproposito. Aveva io sempre dubitato con ragione leggendo i comentatori dell'Alighieri e specialmente nell'edi- zione del De Romanis « Sopra quel Beltramo già detto, il quale ebbe in guardia Altaforte rocca d'In- ghilterra )) che il castello d'Altaforte fosse realmente in Inghilterra: e poco credendo agli spositori, sulla cui fede non sono solito di giurare, dopo breve di- samina, mi fu facile il persuadermi, che questo ca- stello per miracolo dei comentatori translocato in Inghilterra , non era mai stato in Inghilterra , ma SI nella Guienna, ossia nell'antica Aquitania vicino Perigueux in F rancia f di cui Beltram del Bornio era signore. E a chi fosse sì digiuno della storia da non per- suadersi doll'errore, poteva tuttavia bastare la sola scorta dei dizionari. L' autorità degli stessi crona- chisti qui sotto in ampia copia riportali potrà con- vincerne chi ancora ne dubitasse- 171 Che se vuoisi menar buona tal colpa al comune degli spositoi'i, non meritano certamente perdono co- loro che si proposero ex professo d'illustrare Dante e il secolo di Dante; tra i quali è VArrivaboie, che confermò del suo suggello questo errore. Prego i lettori di consultarlo. Passando ora all' altra parte del mio discorso , vediamo quale sia la vera o almeno la più probabile lezione del poeta. E qui poco 0 nulla dipartendomi, com'io dissi, dall'autorità della crusca , e dalla pluralità de' testi a penna che hanno Giovanni , oso proporre la mia opinione, dicendo, che in luogo di sostituire il gio- vane al Giovanni , il che non si suol fare se non traslocando la parola e guastando il verso , nella maniera che segue, Che al re giovane diede i ma' conforti, debba con lievissimo mutamento di cadenza in luogo di Giovanni leggersi o gioven , o gioves o giovan. Né a me sembra del tutto lontano dal verisimile , che questa voce sia stata forse così fatta italiana da Dante derivandola dal guascone li reys Gioves , o Giosnes, che suona il re giovane. E a chi desiderasse vedere la mia opinione ap- poggiata dall'autorità d'un qualche testo, potrò ad- durgli ril, dell'Angelica, dove si legge: Che diede al re gioven i mai conforti. 172 E forse il re gioves o giosncs chiamavasi in quel secolo Arrigo il giovane , che Dante italianizzò in gioven, derivandolo dall'originale dialetto guascone, come pare che amasse di fare degli altri dialetti d'I- talia e di Francia: e ne sia d'esempio « tulio guiggia » alluminare^ « arzanà de'' veneziani » etc. il qual gioven fu poi dagli ignoranti copisti cambiato in giovane 0 scorrettamente in Giovanni. Vero è che avvertiva 1' ab. Francesconi in una sua prosa letta nell'accademia di Padova nel giu- gno 1821, che Giovanni Villani chiamò Giovanili il primogenito di Arrigo II dal che noi lungi dall'in- ferire, com'egli fece , che se fu in inganno il Vil- lani, potè esserlo ancora l'Alighieri, chiamando quel primogenito d'Arrigo //, col creduto nome di Gio' vanni; avremo per noi una pruova maggiore per so- stenere, che Giovanni fu nome italianizzato dal gio- ven, o giovesj o giovan, con che in quel secolo chia- mavasi Arrigo il giovane. Ridotta a questi termini la nostra indagine, non dissentiremo da coloro, che volessero leggere gio- vane, purché lungo e non breve voglia pronunciarsi, dando sempre a quel vocabolo quell'origine guascona o normanna di ioves o giosnes , che sopra accen- nammo: nò da quelli che volessero leggere Giovanni, quando ritengansi per una voce italianizzata, o per corruzione di giosnes o ioves o gioven. Così data al vocabolo un'origine guascone, che Dante fece italiano, poco o nulla monterà più se debba leggersi o giovane, o gioven, o giovanni; verrà salvato da taccia d'errore il poeta; verrà conciliata la lezione di Giovanni con quella di giovane che pa- 173 reva a prima vista manifestamente contraddittoria, leggendo giovane alla maniera nostra, e non giovane derivato da gioven o gioves nei MSS. estense citati dal Parenti, nei Riccardiani 1033, 1045, nel Barto- liniano, nel Florio, nel Pucciano 3, nei quali tutti leggesi giovane , e resterà il verso nella sua inte- grità non discostandosi dalla pluralità de'MSS. che porta Giovanni. [Thierry, tom- III- libro X pa^. 254 nell'invasione dell'Irlanda falla da normanni slabiliti in Inghilterra fino alla morte di Enrico II). « Il lettore si ricordi, che durante la vita del « primate (il glorioso martire S- Tommaso di Can- « terbury) Arrigo II non potendo determinare il papa « a togliergli il suo titolo, avea risoluto di abolire « la primazia stessa, e che in questa vista avea fatto « coronare il suo figlio maggiore dalle mani dell'ar- « civescovo di Yorch. Questa condotta, che sembra- « va non avere importanza se non in ciò che at- ee taccava nella sua base la gerarchia religiosa stabi- tt lita dopo la conquista, ebbe conseguenze tali che « niuno quasi aveva prevedute- Siccome erano due « re d'Inghilterra, i cortigiani e gli adulatori tro- « vando in qualche modo una doppia via da ado- « prarsi si divisero tra il padre e il figlio. I più gio- « vani e i pili attivi in intrighi si misero dalla « parte dell'ultimo, il cui regno offriva una pili « lunga prospettiva di favore. Una circostanza par- « ticolarc gli attirò soprattutto l'affezione degli aqui- (1 tani e degli abitanti fìtì Poitou , persone destre 174 « insinuanti e persuasive, avide di cose nuove per « carattere, e pronte a cogliere tutti i niezzi d'in- « debolire la potenza anglo-normanna , a cui non (( ubbidivano che a malincuore- Era già lungo tem- « pò che la buona intelligenza ìra Eleonora di Gui- « enna ed il suo marito piiì non esisterà. Costui « venuto una volta in possesso degli onori e dei « titoli che la figlia del conte Guglielmo gli avea dato (( in dote, e per i quali solamente 1' avea amata e « sposata , a dire degli antichi storici si era dato « a seguitare altre donne d'ogni rango e d'ogni na- (( zione. La duchessa d'Aquitania innamorata e ven- « dicativa, come una donna del mezzogiorno, si sfor- « zò di ispirare ai savi figli l'allontanamento dal loro « padre , e li vinse di sollecitudine e di tenerezza « per farsene un sostegno contro di lui. Nel mo- ie mento che il primogenito fu entrato in parte del- « l'autorità reale, essa gli dette amici consiglieri , « confidenti intimi, che durante le frequenti assenze « di Enrico II, eccitarono, finché poterono, l'ambi- « zione e l'orgoglio del giovane. Questi non dura- « rono molta fatica a persuadergli, che il suo padre « facendolo coronare avea pienamente abdicato in « suo favore , ch'egli solo era re d'Inghilterra , e « niuno altro dovea prendere questo titolo e eser- « citare il potere sovrano. « 11 vecchio re , questo era il nome che usa- « vano per denotare Arrigo II, non tardò ad accor- « gersi delle cattive disposizioni , che i confidenti « del suo figlio si studiavano di coltivare, e molte « volte egli lo sforzò a cambiare amici , e con- « gedare quelli che piiì iftnava. Ma queste misure, 175 « alle quali le continue occupazioni di Arrigo II sul « continente, e quindi in Irlanda, non pertnetlevano « di dare importanza, inasprivano il giovane senza « correggerlo e gli davano una specie di diritto a (( chiamarsi perseguitato e a querelarsi del proprio « padre- Le cose erano a tal punto quando la pace « fu ristabilita, per la mediazione del papa, tra i « re di Francia e d'Inghilterra- Una cagione del loro « sdegno era che il re Arrigo, facendo incoronare « il suo figlio dall'arcivescovo di Yorch, non aveva « allora fatto consacrare nello stesso modo la sposa « Margherita, figlia del re di Francia. Questo torto « fu riparato colla pace, e Margherita, coronata re- « gina, desiderò di visitare il suo padre a Parigi, « Arrigo II, non avendo ragione per opporsi a questa « dimanda, lasciò il giovane re accompagnare la sua « moglie alla corte di Francia: ma al di lui ritorno, « trovò il suo figlio più malcontento di prima: ei « dolevasi d'essere re senza terra e senza tesoro, e « di non avere una casa in proprietà ove potesse « stare colla sua moglie, e arrivò fino al punto di a. dimandare al suo padre lasciargli la piena so- (( vranità o del regno d'Inghilterra o l'uno dei due « ducati di Normandia e di Anjou. Il vecchio re lo « consigliava di calmarsi e di aver pazienza fino al (( tempo in cui la successione di tutti questi stati « verrebbe a ricadere sopra di lui. Ma questa sem- « plice risposta portò all'ultimo punto il malcon- « tento del giovane: e da questo giorno, dicono gli « storici del tempo, egli non indirizzò piiì una pa- « rola di pace al suo padre. 176 « Arrigo 11 concepì dei timori sulla sua condotta: « e volendo osservarlo da vicino, lo fece viaggiare con « se nella provincia d'Aquitania, Tennero questa loro « gita a Linìoges, dove Raimondo conte di Tolosa, H lasciando l'alleanza del re di Francia, venne a fare « omaggio al re d'Inghilterra fluttuante pei meridio- « nali, incessantemente malmenati, e che passavano « alternativamente dai rea loro nemici. II conte Rai- « mondo dette fintamente al suo nuovo alleato il ter- u ritorio che governava; quindi egli lo riceve finta- « mente in feudo e prestò lo stesso giuramento che « dava alcun vassallo, a cui un signore concedeva « qualche terra. « Egli giurò di conservare al re Ari'igo fedeltà « e onore, di dargli aiuto e consiglio verso e contro (( tutti, di non mai tradire il suo segreto, e di ri- (( velargli nell'occasione il segreto de' suoi nemici. « Quando il conte di Tolosa venne a qucst' ul- tt tima parte del giuramento d' omaggio : Io de- « vo avvertirvi , disse al re, di mettere in sicu- « rezza i vostri castelli di Poitu e d' Aquitania u e di diffidare della vostra moglie e del vostro fi- « glio. Arrigo non fece nulla conoscere di questa con- « fìdenza, che sembrava annunziare una congiura a « cui* il conte di Tolosa era sollecitalo di unirsi ; « solamente prese pretesto di molte grandi partite dì u caccia, ch'egli fece con persone a se devote, per « visitare le fortezze del paese, metterle in istato « di difesa e assicurarsi degli uomini che vi coman- (( davano. Al ritorno del loro viaggio in Aquitania il « il re e il suo figlio si fermarono a Chimau per a riposare, e nella notte stessa il figlio senza avver- 177 « tire il suo padre lo lasciò e andò solo tino ad Alen- « con. Il padre si mise a seguirlo, ma senza po- « terlo arrivare; il giovane venne ad Argenton e di là « passò di notte sulle terre di Francia; ma poiché « il vecchio re l'ebbe saputo, montò a cavallo , e « percorse più tostamente che potè tutta la fron- « tìera di Normandia, di cui visitò le piazze forti « per metterle al sicuro di un colpo di mano. Man- « dò in seguito dei dispacci a tutti i castellani d'An- (( jou, di Bretagna, d'Aquitania e d'Inghilterra or- « dinando loro di riparare al più presto e di guar- « dare con cura i loro forti e le loro città. Furono (( inviati messaggi al re di Francia, affine di sapere « quali erano i suoi disegni, e di reclamare il fuggi- (t tivo a nome dell'autorità paterna. Il re Luigi ri- « cevè questi ambasciatori in piena corte avendo « alla dritta il giovine Arrigo, vestito degli orna- « menti reali. Quando gli inviati ebbero presentali (( i loro dispacci, secondo il ceremoniale del tempo; « Da parte di chi mi portate voi quest'ambasciata? (i dimandò loro il re di Francia. Dalla parte d'Arrigo « re d'Inghilterra, duca di Normandia, duca d'Aqui- u tania, conte degli Angioini e di Manceaux. Questo « non è vero, rispose il re, poiché ecco al mio lato « Arrigo re d'Inghilterra che non ha niente a farmi « dire da voi; ma se egli e il padre di questo, « colui che fu prima re d'Inghilterra, a cui voi « date questi titoli, sappiate ch'è morto dal giorno « che il suo figlio porta la corona; e s'egli si pre- « tende ancora re, dopo aver in faccia del mondo « rinunciato al regno nelle mani del suo nglio, a « questo si rimedierà ben tosto ». G.A.T.CLVill. 12 178 I figli naturali del re Arrigo erano rimasti fedeli al padre loro, e uno di loro, Goffredo vescovo di Lin- colUf spingeva vivamente la guerra assediando i ca- stelli e le fortezze dei baroni dell'altro partito. Du- rante questo tempo Riccardo fortificava per la sua causa le città e i castelli del Poiiou e deWAngomesey e il re andò subito contro lui coi suoi fedeli bra- bantini, lasciando la Normandia, dove aveva il mag- gior numero di amici, per battersi col re di Francia- Mise l'assedio dinanzi la città di Saintes difesa allora da due castelli, l'uno dei quali avea il nome di Campidoglio, avanzo delle memorie dell'antica Roma, conservate in molte città della Gallia meridionale. Dopo la presa dei forti di Saintes, Arrigo II attaccò colle sue macchine da guerra le due grosse torri della chiesa vescovile, dove i partigiani di Riccardo s'erano fortificati. Egli se ne impadronì, come an- cora del forte di Taillebourg e di molti altri ca- stelli, e nel suo ritorno verso VAnjou devastò tutta ia frontiera del paese degli abitanti del Poiiou, bru- ciando le case e sradicando le viti e gli alberi da frutto- Appena arrivato in Normandia seppe che il suo figlio maggiore e il conte di Fiandra , avendo riunita una grande armata navale, si preparavano a discendere in Inghilterra. Questa novella lo fece de- cidere ad imbarcarsi per questo paese e condusse prigioniere la sua moglie Eleonora e Margherita mo- glie del figlio, figlia del re di Francia. Da Southam- pton, luogo del suo sbarco, il re si diresse verso Can- terbury: e dal punto più lontano ove vide la chiesa metropolitana, cioè a dire a tre miglia di distanza, discese da cavallo, lasciò i suoi abiti di seta, si scalzò 179 e si mise a camminare a piedi nudi sul pavimento pietroso e coperto di fango. Arrivato nella chiesa, che racchiudeva la tomba di Tommaso Becket^ si pro- stese con la faccia a terra piangendo e singhiozzando m presenza di tutto il popolo della città attirato dal suono delie campane. Il vescovo di Londra, quello stesso Gilbert Fo- liotj ch'era stato il più gran nemico di Tommaso durante la vita di lui, e che dopo la sua morte avea voluto farlo gittare in un pozzo , montò in perga- mo e indirizzandosi agli astanti: « Voi tutti qui pre- senti, egli disse, sappiate, che Arrigo re d' Inghil- terra, invocando per la salute della sua anima Dio e il santo martire, protesta dinanzi a voi non avere né ordinato, né voluto, né dato causa scientemente, né desiderato nel suo cuore la morte del martire. Ma poiché sarebbe possibile, che gli omicidi si fos- sero prevaluti di alcune parole pronunziate da lui imprudentemente, dichiara che dimanda la sua pe- nitenza dai vescovi qui radunati, e che acconsente di sottomettere la sua carne nuda alla disciplina delle verghe »• Difatti il re accompagnato da un gran nu- mero di vescovi e di abbati normanni, e da tutti i chierici normanni e sassoni del capitolo di Canterbury, si portò alla chiesa sotterranea, dove due anni ad- dietro erano stati obbligati di chiudere quasi in un forte il cadavere delTarcivescovo per sottrarlo agli insulti degli ufficiali reali- Colà inginocchiandosi sulla pietra della tomba e spogliandosi di tutti i suoi ve- stimenti, si pose col dorso nudo nella positura, in cui i suoi giustizieri avevano fatto porre gl'inglesi pubblicamente flagellati, per avere accolto Tommaso 180 al suo ritorno dall'esilio, o per averlo onorato oome santo. Ciascuno dei vescovi , il cui ufficio era già destinato prinma, tolse in mano una di queste fruste a più corregge , che servivano nei monasteri ad in- fliggere le correzioni ecclesiastiche e che per questo si chiamavano discipline. Ognuno di loro ne scaricò tre 0 quattro colpi sulle spalle del re, dicendo: « Nello stesso modo che il Redentore è stato flagellato per i peccati degli uomini, sii tu per il tuo proprio pec- cato »• Dalla mano dei vescovi la disciplina passò in quella dei chierici , ch'erano in gran numero e la più parte di razza inglese. Questi figli dei servi della conquista impressero i segni della frusta sulla carne del nepole del conquistatore non senza provare una gioia segreta, che sembra manifestarsi in alcune beffe amare tramandateci dai racconti del tempo- Ma nò questa gioia nò questo trionfo momentaneo poteano essere d'alcun frutto per la popolazione inglese; che anzi questa popolazione si credeva quasi schernita nella scena d' ipocrisia che faceva dinanzi a lei il re dì razza angioina. Arrigo 11, vedendosi ribellare la più gran parte de' suoi sudditi del continente, avea conosciuto necessario di rendersi popolare presso 1 sassoni, affine di guadagnare il loro appoggio. Ei fece pensiero, che alcuni colpi di disciplina sarebbero pic- cola cosa, s'egli poteva ottenere a questo prezzo i leali servigi che il basso popolo d'Inghilterra avea una volta venduti al suo avo Arrigo /• Difatti, dopo l'uccisione di Tommaso Becket , l'amore di questo nuovo martire era divenuto la passione o per meglio dire la follia del popolo inglese. Il culto religioso, con cui si venerava la memoria dell' arcivescovo , 181 aveva affievolito latte le memorie patriottiche: ninna tradizione d'indipendenza nazionale poteva superare la viva impr/ìssione prodotta da questi nove anni , durante i quali un primate di razza sassone era sta- to l'oggetto delle speranze, dei voti, e dei discorsi d'ogni sassone. Una testimonianza sorprendente di simpatia con questo sentimento popolare era dun- que la migliore attrattiva, che il re potesse offrire allora agl'inglesi d'origine per attirarli a se e ren- derli, secondo le parole d'un vecchio storico, ma- neggevoli sotto il freno e l'arnese. Ecco ia vera ca- gione del pellegrinaggio (VArrigo II alla tomba di quello ch'egli aveva amato da principio, come suo compagno di piacere , e poi aveva odiato mortal- mente, come suo nemico politico. Dopo essere stato così fustigato di suo buon gra- do, dice la narrazione contemporanea, perseverò nelle sue orazioni vicino al santo martire tutto il giorno e la notte, senza prender cibo né uscire per alcun bisogno; ma tale rimase, com'era venuto , non fa- cendo mettere sotto ai suoi ginocchi né tappeto , nò cosa simile. 11 giorno dopo fece il giro della chie- sa superiore , pregò dinanzi tutti gli altari e tutte le reliquie , e poi ritornò alla tomba del santo. II sabato, quando il sole fu levato, dimandò e intese la messa ; quindi avendo bevuto l'acqua benedetta del martire, e avendone riempiuta un'ampolla, s'al- lontanò allegro da Canterbury. Questo apparato di contrizione ebbe un pienis- simo successo, e i borghesi della città e i servi delle campagne intesero con entusiasmo predicare nelle chiese che il re s'era riconciliato col beato martire 182 con la penitenza e con ^e lagrime. Avvenne per av- ventura nello stesso tempo che Guglielmo re di Sco- zia , che avea fatto un' incursione ostile sul terri- torio inglese, fu vinto e fatto prigioniero presso ad Alnwick nel Northumberland. La popolazione sassone, appassionata per l'onore di S. Tommaso, credè ve- dere in questa vittoria un segno evidente della be- nevolenza e della protezione del martire, e da que- sto tempo incominciò a propendere al partito del vecchio re, che il santo sembrava favoiire. In se- guito di questa impulsione superstiziosa gl'inglesi in- digeni corsero in folla sotto la bandiera reale , e combatterono con ardore contro i complici della ri- volta. Quantunque poveri e disprezzati formavano la gran massa degli abitanti: e nulla resiste ad una si- mile forza quando si trova organizzata. Gli opposi- tori furono disfatti in tutte le provincie, i loro ca- stelli presi d'assalto, e un gran numero di conti e di baroni fatti prigionieri. Se ne presero latiti, dice un contemporaneo, che si durò pena a trovare corde che bastassero a legarli , e prigioni per chiuderli. Questa rapida serie di vittorie arrestò il progetto della discesa in Inghilterra formata da Arrigo il gio- vane e dal conte di Fiandra. 1174 al 1175. Ma sul continente, dove le popo- lazioni sottomesse al re d'Inghilterra non avevano per l'inglese Becket alcuna affezione nazionale, gli affari di Arrigo II non prosperarono niente di più dopo la sua visita e la sua flagellazione alla tomba del martire. Al contrario gli abitanti del Poilou e di Bre- tagna si rialzarono allora dalla loro prima disfatta e rannodarono più strettamente le loro società pa- 183 Iriottiche- Eudes di Puìvhoei, di cui una volta il ro cringhilterra uvea disonorato la figlia , e che dopo avea bandito, ritornò dall'esilio, e riunì di nuovo in Bretagna quelli ch'erano stanchi del dominio nor- manno. I malcontenti fecero molti colpi di mano ar- diti che renderono celebre in quel tempo la teme- rità dei bretoni. In Aquitania ancora il partito di Riccardo ripigliava coraggio, e nuove truppe d'insor- genti si riunivano nella parte montuosa del Poitou e del Perigord sotto gli stessi capi che pochi anni prima s'erano sollevati ad istigazione del re di Fran- cia- L'odio del potere stranieio riuniva intorno ai si- gnori dei castelli gli abitanti delle città e dei bor- ghi: uomini liberi di corpo e di beni, giacché la ser- vitù non esisteva al mezzodì della Loira, come al nord di questo fiume. Baroni, castellani, figli di ca- stellani senza patrimonio seguirono ancora Io stesso partito, per un motivo meno puro, nella speranza cioè di far fortuna alla guerra. Cominciarono la cam- pagna dando l'attacco ai ricchi abati e ai vescovi del paese, di cui la più parte seguendo lo spirito del loro ordine sostenevano la causa del potere stabilito. Essi saccheggiavano i loro domini!, o arrestandoli sulle strade li chiudevano in alcuni castelli per isforzarli a pagare il riscatto. Tra questi prigionieri si trovò l'arcivescovo di Bordeaux, che secondo le istruzioni papali avea scomunicato i nemici à' Arrigo il padre in Aquitania, come l'arcivescovo di Boven li scom- municava in Normandia^ neìVAnjou, e nella Bretagna. Alla testa delle rivolte della Guienna figurava meno per la sua fortuna e pel suo rango, che pel suo ardore infaticabile, Bertand de Barn, signore rf'i4/- 184 taforte vicino a Perigiieux, uomo che riuniva al più alto grado tutte le qualità necessarie per rappresen- tare una gran parte nel medio evo- Era guerriero e poeta, avea un bisogno eccessivo di movimento, e tutto ciò che sentiva in se d'attività, di genio e di spirito, lo adoperava nella i)olitica. Ma questa agi- tazione, in apparenza vana e turbolenta, non era senza scopo nò senza legame col bene del paese, in cui Bertrand de Born era nato. Questo uomo straordi- nario sembra che fosse in un profondo convincimen- to, che la sua patria vicina agli stati dei re di Fran- cia e d'Inghilterra non poteva sfuggire ai pericoli, che la minacciavano sempre ora da una parte, ora dall'altra; se non mediante una guerra fra i suoi due nemici. Tale infatti pare che sia stato il pensiero, che dominò, durante la vita di Bertrand, le sue a- zioni e la condotta. « In ogni tempo, dice il suo bio- grafo provenzale, voleva che il re di Francia e il re d'' Inghilterra avessero guerra insieme, e se i re ave- vano pace 0 tregua, egli si penava e si travagliava per disfare questa pace ». Per lo stesso motivo Ber- trand mise in opera tutta la sua destrezza per far sorgere una querela fra il re d'Inghilterra e i di lui figli: egli fu uno di quelli che fattisi padroni dello spirito ó' Arrigo il giovane svegliarono la sua ambi- zione e lo spinsero alla rivolta. Piese dappoi un ugua- le ascendente sugli altri figli e anche sul padre sem- j)re a loro detrimento e a profitto dell' Aquitania. Questa è la testimonianza che fa di lui il suo an- tico biografo, coll'orgoglio d'un uomo del mezzogior- no mostrando la superiorità morale d'uno de' suoi compatrìolti sopra i re e i principi del nord. Egli 185 era padrone^ quando voleva, del re Arrigo d'Inghil- terra e de' suoi figli: e sempre voleva che avessero guerra insieme il padre, i figli, e i fratelli l'uno col- l'altro. 1 suoi sforzi coronati di successo gli acqui- starono una celebrità funesta presso quelli che non vedevano in lui, che un consigliere di discordie do- mestiche, che un uomo, che cercava maliziosamente, per parlare il linguaggio mistico del secolo, di sol- levare il sangue contro la carne , e di dividere il capo e le membra- È per questa ragione che il poeta Dante Alighieri gli fa subire nel suo inferno un ca- stigo analogo all'espressione figurata con cui si fi- gurava il suo delitto: Io vidi certo, ed ancor par che '1 veggia, Un busto senza capo andar sì come Andavan gli altri della trista greggia: E '1 capo tronco tenea per le chiome Pesol con mano a guisa di lanterna, E quel mirava noi e dicea: 0 me ! Di se faceva a se stesso lucerna, Ed eran due in uno ed uno in due; Com'esser può quei sa che sì governa. E perchè tu di me novella porti Sappi ch'io son Bertram dal Bornio, quelli Che diedi al re Gioves i ma' conforti. Ma Bertrand fece più ancora ; non si contentò di dare al giovane Ai-rigo contro il suo padre i suoi consigli, che il poeta chiama cattivi, ma ne gli die- de ancora di simili contro il fratello Riccardo: e quan- do il giovane re fu morto, a Riccardo contro il vec- 186 cliio re: poi finalmente quando fu morto quest'ul- timo, a Riccardo eonlro il re di Francia, e al redi Francia contro Riccardo. Egli non soffriva che vi fosse tra loro un momento di buon'accordo, elimi- nava l'uno contro l'altro con serventesi o canti sa- tirici secondo la moda del tempo- La poesia aveva allora una gran parte negli avvenimenti politici delle contrade situata al sud della Loira. Non vi era pa- ce, né guerra, né rivolta, né Iranslazione diploma- tica, che non fosse annunziata, proclamata, lodata, 0 biasimata in versi. Queste opere in versi, spesso composte da quelli stessi che aveano presa una parte attiva negli affari, erano d'un'energia, che appena si può concepire nello stato di mollezza, in cui è ca- duto l'antico idioma della Gallia meridionale, dopo- ché il dialetto francese é entrato in suo luogo, co- me lingua letteraria. 1 canti dei trovalori , o poeti provengali tolosani, delfinesi, aquitani, del Poitou e del Limosino, circolando rapidamente di castelli in castelli e di città in città , facevano presso a poco nel dodicesimo secolo l'ufficio delle carte pubbliche nei paesi compresi tra Vienna, Vlsero, le montagne dell' Alvergna e i due mari. Non vi era ancora in questo paese alcuna specie di censura: si giudicava li- beramente e apertamente ciò che nel resto della Gal- lia si osava appena esaminare. L'influenza dell'opi- nione pubblica e delle passioni popolari si faceva sentire da per tutto, così nei chiostri dei monaci, come nei castelli dei baroni: e per ritornare al sog- getto di questa storia, la disputa d'/lm. I successi della causa reale in Inghilterra per- misero ben tosto ad Arrigo II di ripassare lo stretto coi suoi fedeli brabantini e con un corpo di galli meno disciplinati dei brabantini, ma piiì impetuosi e ben disposti per odio che portavano al re, e fare una guerra furiosa ai suoi figli. Questi uomini abili all'arte dell'imboscate mili- tari e della guerra di partito nelle selve e nelle pa- ludi furono adoperati in Normandia a intercettare i convogli e i viveri dell' armata francese che al- lora assediava Rouen. E vi riuscirono sì bene a forza di attività e di destrezza, che questa grande armata temendo la fame, levò subitamente l'assedio e si ri- tirò. La sua ritirata diede al re Arrigo il vantaggio dell'offensiva: ei riprese a poco a poco tutto il ter- ritorio, che i suoi nemici aveano occupato durante la sua assenza: e i francesi, stanchi questa volta delle spese enormi che aveano fatte inutilmente, dichia- rarono di nuovo ad Arrigo il giovane e al suo fratello Goffredo che non potevano più aiutarli, e che se di- speravano di sostenere essi solo la guerra contro il padre, si i-iconciliassero con lui. Arrigo il giovane e Goffredo, la cui potenza era piccola cosa senza un soccorso straniero, furono, costretti ad ubbidire. Si lasciarono persuadere ad intervenire ad una confe- 190 renza tra i due re, dove fecero far loro diploma- ticamente proteste di pentimento e di tenerezza fi- liale. Convennero ad una tregua che dovea dare al re d'Inghilterra il tempo di andare al Poitou, per ob- bligare mediante la forza il suo fìlio Riccardo a sot- tomettersi, come gli altri due. Il re di Fi'ancia giurò di non più fornire a Riccardo alcuna specie di soc- corso, e impose lo stesso giuramento agli altri due fratelli Arrigo e Goffredo- Riccardo si sdegnò sentendo che i suoi fratelli e il suo allealo aveano fatto una tregua e l'avevano escluso. Ma incapace di resistere solo a tutte le forze del re d'Inghilterra, ritornò verso lui, implorò il suo perdono, restituì le città che avea fortificate, e lasciando il Poitou, seguitò il suo padre sulla frontiera dQlV Anjou e della Francia, dove si tenne un congresso generale o un parlamento per la pace. Colà fu compilato sotto forma di trattato politico Tat- to di riconciliazione tra il re d'Inghilterra e i suoi tre figli. Congiangendo le loro mani con quelle del loro padre, gli prestarono il giuramento d'omaggio, forma ordinaria d'ogni patto d'alleanza tra due uomini di potenza ineguale, e talmente solenne in quel secolo che stabiliva tra i contraenti legami riputati più in- violabili di quelli del sangue. Gli storici di quell'e- poca hanno cura di fare osservare , che se i figli d'Arrigo II si confessarono allora suoi sudditi egli promisero alleanza, ciò fu per togliere dal suo spirito ogni sospetto sfavorevole alla sincerità del loro ri- torno- Questa riconciliazione dei principi angioini fu un avvenimento funesto per lo diverse popolazioni 191 che avevano preso parte alle loro querele: i tre figli, a nome dei quali esse erano insorte, tennero il loro giuramento d'omaggio dando queste popolazioni alla vendetta del padre loro, e essi stessi s'incaricarono di adempirla. Riccardo soprattutto piìi imperioso e più duro dei suoi fratelli fece tutto il male che pgtè ai suoi antichi alleati del Poilou. Costoro, ridotti alla disperazione, mantennero contro lui la lega nazio- nale , alla testa della quale una volta lo avevano posto, e lo incalzarono talmente che il re fu obbli- gato d'inviargli delle grandi forze e di andare in per- sona a soccorrerlo. (1176) L'effervescenza degli abi- tanti delTAquitania s'accrebbe col pericolo. Da una parte all' altra di questo vasto paese scoppiò una guerra più patriottica della prima, perchè si faceva contro la famiglia intera di principi stranieri ; ma per questa ragione stessa il successo dovea essere più dubbioso e le difficoltà più grandi. (1 176 al 1 178) Durante quasi due anni i principi angioini e i baroni d'Aquitania sì diedero battaglie sopra battaglie dal Limoges fino a'piè de Pirenei a Taillebourg, a Angoli- merne, a Agen , a Dax, a Bayonne. Tutte le città, che aveano seguito il partito dei figli del re, furono occupate militarmente dalle truppe di Riccardo e ag- gravate d'imposizioni in punizione della loro rivolta. Sia per politica, sia per coscienza, Arrigo il giovane non prese alcuna parte in questa guerra odiosa e sleale, e conservò ancora alcuni legami d'amicizia con molte delle persone, che una volta avevano se- guito il suo partito e quello dei suoi fratelli. Egli non perde la sua popolarità nelle provincie del mez- zo giorno: e* questa circostanza fu per la famiglia di 192 Arrigo II un nuovo gei-me di discordia , che l'a- stuto e infaticabile Bertrand de Borri si travagliò con tutte le sue cure di far scoppiare. Egli s'attaccò più che prima al re giovane, sul quale riprese tutto l'ascendente d'un uomo di fermo proposito. Da que- sto legame risultò bentosto una seconda lega for- mata contro Riccardo dai visconti di Ventador^ di Limoges, di Turenne, del conte di Perigord, dei si- gnori di Monforl e di Gordon , e dai borghesi del paese sotto gli auspicii di Arrigo il giovane e del re di Francia. Secondo la sua politica ordinaria , questo re non prese che vaghi impegni verso i con- federati ; ma Arrigo il giovane fece loro promesse positive, e Bertran de Born, anima di questa confe- derazione , la proclamò con una composizione in versi, destinata, dice il suo biografo, a stringere i suoi amici nella loro risoluzione comune. Così la guerra ricominciò nel Poitou tra Arrigo II e il conte Riccardo. Ma dopo le prime ostilità Arrigo il giovane, mancsindo alla sua parola, aprì l'orecchio a proposizioni d' accordo col suo fratello, e per una somma di danaro e una pensione annua consenti ad allontanarsi dal suo paese e ad abbandonare i ri- voltati. (1179) Senza pili incaricarsi di loro nò della loro sorte, egli andò in corti straniere, in Francia, in Provenza, in Lombardia, a spendere il pi-ezzo del suo tradimento e a farsi dovunque soggìoi-nava una gran fama di magnificenza e di cavalleria, brillando nelle giostre guerriere, di cui la moda cominciava a spargersi, facendo tornei, sollazzandosi, e dormendo^ come dice un antico storico. 193 (1 179 al 1 182) Passarono così più di due anni, duranti i quali i baroni del PoiioUy ^éìVAngòmese^ e del Perigord, che aveano congiurato sotto i suoi auspici ebbero a sostenere una forte guerra dalla parte del conte di Poiiiers. I loro borghi e i loro ca- stelli furono assediati e le loro terre devastate dal- l'incendio. Tra le città attaccate Tailleboiirg si ar- rese l'ultima: e quando tutti i baroni si furono sotto- messi a Riccardo^ Beltrand de Born resistè solo nel suo castello d'AUaforte. In mezzo alla fatica e alla pena, che gli dava questa resistenza disperata, con- servava molta libertà di spirito per comporre versi sulla propria situazione, e satire sulla viltà del prin- cipe, che passava in divertimenti i giorni, che i suoi antichi amici passavano in guerre e in patimenti. « Poiché il signore Arrigo non ha piii terra, poi- ché non vuole piii averne, che sia ora il re dei vili. « Imperocché vile è quello che vive alle spese e sotto la livrea d' un altro. Re coronato , che prende soldo rf' altrui , mal rassomiglia ai prodi del tempo passato , poiché ha ingannato gli abitanti del Poitou ed ha mentitcr, che non conti più d'essere amato da loro. (1182) Arrigo il giovane fu sensibile a queste reprimende, quando sazio del piacere d'essere no- minato come prodigo e cavalleresco rivolse di nuovo i suoi sguardi verso vantaggi piii solidi di potere e di ricchezze territoriali. Ritornò allora vicino a suo padre e si mise ad aiutare la causa degli abitanti del Poitou , che Riccardo opprimeva , diceva esso , d'ingiuste vessazioni e di dominio tirannico. Arrivò fino a rimproverare il re di non proteggerli, come G.A.T.CLVlll. 13 194 doveva, essendo il loro difensore naturale. Accom- pagnò queste lagnanze di reclami personali, diman- dando di nuovo la Normandia e qualche altra terra, dove potesse soggiornare in maniera degna di lui con la sua moglie e in modo che potesse pagare i suoi cavalieri e i suoi sergenti. Arrigo II ricusò dapprima con fermezza questa dimanda, e costrinse anche il giovane a giurare che d' allora in poi non potesse altro pretendere , che cento lire angioine al giorno per la sua spesa, e dieci lire della stessa moneta per le spese della sua mo- glie. Ma le cose non rimasero così lungamente: che Arrigo il giovane rinnovò i suoi lamenti, e il re ce- dendovi anche questa volta ordinò agli altri due figli di prestare al maggiore il giuramento d'omaggio per le contee del Poiloii e della Bretagna. Goffredo vi acconsenti: ma Riccardo si ricusò, e per segno della sua ferma volontà di resistere a tale ordine, mise in istato di difesa tutte le sue città e i suoi ca- stelli. (1183) Arrigo i\ giovane e Goffredo suo vassallo marciarono allora contro di lui coll'approvazione del padre loro, e alla loro entrata in Aquilania il paese insorse di nuovo contro Riccardo. Le confederazioni delle città e dei baroni fecero nuova lega, e il redi Francia si dichiarò l' alleato dal re giovane e degli aquilani. Arrigo II, spaventato dalla cattiva piega che prendeva questa querela di famiglia , volle ri- chiamare i suoi due tigli, ma essi non l'ubbidirono e persistettero a guerreggiare contro il terzo. Ob- bligato allora di prendere un parXito decisivo, sotto pena di veder tiionfare l'indipendenza del Poilou e 195 le pretensioni ambiziose del re di Francia , unì le sue forze a quelle di Riccardo e andò in persona a mettere l'assedio avanti Limoges che aveva aperto le sue porte ad Arrigo il giovane ed a Goffredo. Così la guerra domestica ricominciò sotto un nuovo aspetto. Non erano più i tre figli legati insieme con- tro il padre , ma il primogenito e il più giovane che combattevano contro l'altro figlio unito al padre. Gli storici del mezzo giorno , testimoni oculari di questi avvenimenti, sembra che abbiano compresa la parte attiva che vi prendevano le popolazioni, il cui paese ne fu il teatro, e quali interessi nazionali aves- sero parte in queste rivalità quantunque personali jn apparenza. Gli storici del nord al contrario non vi vedono che la guerra contro natura del padre coi figli e dei fratelli tra loro sotto l'influenza d'un cat- tivo destino , che punisce la razza dei Plantageneli in espiazione di qualche grande delitto. Molte sini- stre favole sull'origine di questa fainiglia passavano di bocca in bocca. Dicevasi che Eleonora d'Aquilania aveva avuto alla corte di Francia relazioni amorose con Goffredo d'Anjoii, il padre del suo marito attuale, e che questo stesso Goffredo avea sposato la figlia d'Arì'igo I vivendo l'imperatore suo marito: la qual cosa nelle idee di quell'epoca era una specie di sa- crilegio. Finalmente dicevasi d' un' antica contessa d'Anjou, avola del padre d'Arrigo II, che il suo ma- rito avendo rimarcato con terrore che andava di rado alla chiesa e che se ne andava sempre alla secreta della messa, avvisò di farvela ritenere per forza da quattro scudieri: ma che al momento della consa- crazione la contessa gettando il mantello, con cui 196 la tenevano, s'era involata da una fenestra e non era più comparsa. Riccardo di Poitiers, secondo un con- temporaneo , aveva per costume di riferire questa avventura e di dire a questo proposito: » J^ egli da maravigliare che noi, usciti da una tal sorgente, vi- viamo male gli uni cogli altri? Ciò che proviene dal diavolo deve ritornare al diavolo- Un mese dopo il rinnovamento delle ostilità , Arrigo il giovane sia per timore delle conseguenze d'una lotta inuguale , in cui veniva ad impegnarsi contro il suo padre e il piiì potente dei suoi fra- telli, sia per un nuovo ritorno di tenerezza filiale, abbandonò un' altra volta gli abitanti del Poitou : ei si portò al campo di Arrigo II, gli rivelò tutti i secreti della confederazione ioramta conivo Riccardo, e lo pregò d'interporsi, come mediatore, tra il suo fratello e lui- Posta la mano sull' evangelio giurò solennemente, che durante tutta la sua vita non si separerebbe mai più da Arrigo re d' Inghilterra, e gli conserverebbe fedeltà , come a suo padre e a suo signore. Questo improvviso cambiamento di condotta e di partito non fu imitato da Goffredo, che più osti- nato e più leale verso gli aquilani ribellati restò con loro e continuò la guerra. Alcuni ambasciatori ven- nero a trovarlo da parte del vecchio re e lo sol- lecitarono di metter fine a una guerra, che non era vantaggiosa, che ai nemici comuni della sua fami- glia. Tra gli altri inviati venne un chierico normanno, che tenendo una croce nella mano, supplicò il conte Goffredo di risparmiare il sangue dei cristiani e di non imitare il delitto d'Assalonne . . . Che vorresti tu, gli rispose il giovane? che io mi spogliassi, del 197 mio diritto di nascita? Dio non voglia, mio signore, replicò il chierico, io non voglio niente a vostro danno. Tu non comprendi le mie parole^ disse allora il conte di Bretagna: egli é nel destino della nostra famiglia che noi non ci amiamo Vuno con Vallro. Questa è la nostra eredità e ninno di noi vi rinunzierà giammai. Malgrado de'suoi tradimenti reiterati verso i ba- roni ó' Agititania^ Arrigo il giovane^ uomo di spirito fluttuante e incapace d'una ferma decisione, conser- vava ancora legami personali con molti congiurati e soprattutto con Beltram del Bornio. Egli intraprese di far la parte di mediatore fra loro e il suo fra- tello Riccardo, lusingatosi della speranza chimerica di accomodare la querela nazionale nello stesso tempo e la querela di famiglia. In questa fiducia fece molte trattative presso i capi della lega del Poitou ; ma non ricevè da loro se non risposte fiere e niente pacifiche. Per ultimo tentativo propose loro una con- ferenza a Limoges, offerendo di portarsi là egli col padre suo, accompagnato da poche persone per al- lontanare ogni diffidenza. La città di Limoges era allora assediata dal re d'Inghilterra, e non si sa se i confederati acconsentirono formalmente a lasciare entrare il loro nemico, o se il giovane sollecito di farsi valere promise in loro nome più che non do- veva. Checché ne sia, quando Arrigo II arrivò di- nanzi alle porte della città le trovò chiuse, e rice- vè dall'alto dei baluardi un tiro di freccia , di cui l'una ferì il suo cavallo e l'altra ferì uno dei suoi scudieri, che gli erano a lato. Questa avventura passò per un equivoco, e in seguito d'una nuova spiegazione coi capi dei ribbelli, fu convenuto, che il re entrasse 198 liberamente in Limoges pei' pai'lìimenlare col suo figlio Goffredo- Si riunirono infalti sulla gran piazza del mei'cato ; ma durante il congresso gli aquilani^ che formavano la guarnigione del castello, non po- lendo vedere a sangue freddo negoziazioni che do- vevano rovinare tutti i loro progetti d'indipendenza, tirarono da lontano sul re vecchio che riconobbero agli abili e alla bandiera, che portavano a lui: uno dei quadrelli lanciati dall'alto della cittadella traversò l'orecchio del suo cavallo. Le lacrime gli vennero agli occhi, fece raccoglieie il dardo e presentandolo a Goffredo: « Parla, mio figlio , gli disse , che l'ha fatto il tuo infelice padre per meritare che tu lo fac- cia segno dei tuoi dardi'? Qualunque ei si fossero i torti di Goffredo verso il padre, ei non era colpevole in questa circostanza, giacche gli arcieri che aveano fatto segno dei loro dardi il re d'highilterra non erano al soldo, ma al- leati volontari del suo figlio. Gli scrittori del nord gli rimproverano di non averli ricercati e puniti; ma ei non avea su loro un simil dritto, e poiché avea legato la sua causa alle loro nimistà nazionali, era mestiere, che o in bene o in male ne subisse tutte le conseguenze. Arrigo il giovane, inquieto di veder ca- dere i suoi sforzi contro l'ostinazione degli aquilani dichiarò ch'erano tutti ostinati e ribelli, e che du- rante la sua vita non avrebbe pili né pace né tregua con loro, e sarebbe fedele al suo padre in ogni tem- po e in ogni luogo. Per un segno di questa sotto- missione rimise alla guardia del re il suo cavallo e le sue armi, e restò molti giorni con lui nell'appa- renza dell'amicizia più intima. 199 Ma per una sorta di fatalità nella vita del figlio primogenito d' Arrigo II sempre accadeva , che in quel momento, che faceva a un partito le più grandi proteste d'attaccamento, era allora piii vicino a se- pararsene e impegnarsi nel partito contrario. Dopo avere, secondo le parole d'uno storico del tempo , mangiato alla stessa tavola del padre e messa la mano allo stesso piatto, lo abbandonò tostamente e si legò di nuovo ai suoi avversari, e partì per Dorala città del Poiloii, dov'era il gran quartiere degli insorgenti. Egli mangiò con loro alla stessa tavola, come avea fatto col re, giurò loro ugualmente lealtà con tutti e contro lutti, e pochi giorni dopo li abbandonò per ritornare all'altra parte. E per rendere il dovuto onore a coloro che si adoperarono a rettificare questa lezione; e soprattutto al giudizioso critico signor Parenti, riferisco qui sot- to le loro lezioni. Così apparirà che io amo piij l'amore del vero, che la mia opinione, e sarà libero il lettore di poter prescegliere quella lezione , che più gli piace. Tihe diede al re giovane i ma' conforti. Lezione del Ginguenè Che diedi al re giovane i ma'conforti, 0 invece: Che diedi al re giovin mal conforti. Lezione del Parenti, secondo l'estense. 200 Che diedi al re Giovanni i ma' conforti, o invece: Che al re giovane diedi i ma' conforli. , Lezione del Carpani. Che diedi al re Gioven i ma' conforti Lezione mia secondo l'Angelica Facciamo però riflettere che il Giovanni del Car- pani non vuoisi altrimenti intendere per il quarto- genito di Arrigo li; e quando per quello si voglia intendere com'egli l'intende, sarà apertamente smen- tita quella lezione dall'autorità della storia. Nella qual cosa, siccom'egli fu vittoriosamente confutato dal sig. Parenti, giacché vediamo ancora esservi taluni, che scioccamente abbracciano tale opi- nione, quali sono il BiagioH e il Tommaseo, per di- struggere più pienamente questo errore , riportare un lunghissimo brano dello storico Thierry che am- piamente esaurisce tale argomento : dopo di che chiuderò con le osservazioni del Parenti , usando le sue parole. Ragionevolmente parlando il nostro poeta non po- tea prescegliere per dimostrazione e/' una gran colpa, e motivo dhina gran pena, se non quel fatto piii ro- moroso ch'era tuttavia impresso altamente nella me- moria degli uomini. Ora le storie, le novelle, le poe- sie parlavano delVintimilà di Bertrando col re gio- vane e della funesta influenza ch'ebbe sull' animo di quel principe. L'antonomasia suddetta era cosi divul- 201 getta, che non polca nascere confusione. Negli stessi passi della cronaca di Benedetto abate dì Peterbo- rough, addotti dal Carpani, riscontriamo, dove si par- la d'Enrico: - luvenis rex contradicebat • . , lu- venis rex ad regem Franciae porrexit-. Nei manoscritti de* trovatori citati dal Raynonard- - E 1 reis Henrics per so quel volia mal a N Bertrans, per so qiCel era amics e conseillaire del rei love (re giovane) son fili, lo quals aviat aviit guerra ab el ecrezia quen Ber- trans n'agiies tota la colpa. - E qualche volta alVag- giimto di giovane, s'' anteponeva il nome proprio del principe: il che induceva sempre nella storia una mag- gior certezza della persona e non lasciava attribuire per equivoca un nome diverso. Troviamo nella cro- naca di Guafredo priore Vosiense: • Ego Guafredus ista dictavi anno incarnalionis Dommi 1183, Pliilippi qui fuit fdius Ludovici , lertio anno: quo videlicet anno gueira gravissima fuit in Lemovicino inter Henricum anglorum regem et fìlium eius Henricum anglornm regem et filium eius Henricum iuniorem, qui tunc obiil in festo sancii Barnabae Apostoli. - E nella cronaca di Guglielmo Neubrigense citata dal Carpani.- Mox Dei iudicio, Henricus iimior febre (utriusque praevarica- tionis ultrice) corripitur. - Ma che piii? Non ci resta- no le poesie dello stesso Bertrando ? Quando il re gio- vane morì, dice il Raynouard, Bertrando del Bornio scrisse una specie d'elegia, il cui ritornello era: - love rei engles -. E in un' altra simile composizione volle espressamente dirci ch'era slato in questa guisa de- nominato: Cai" reis loves aviat nom asut. 202 Anche nelle serventesi conservate nelVeslense bi- hlioteca non pare che Bertrando sappia nominare con altra appellazione quel re: Un bel Castel e mes en pian chanibon, E no volli ges lo sapcha, ni lo vela Lo Joves reis gè noill sabria bon.... Par gè nai rason tan novelle tan granila Nel love rei ga fenit sa demanda. Ora è mai possibile che Dante peritissimo delle cose provenzali, Dante che sembrava unire in se tutto il sapere de' suoi tempi , fosse ignorante di ciò che apertamente noi conosciamo ? 'E si noti ancora che fino al nostro poeta non troviamo alcuno che abbia confuso giovane con Giovanni , di modo che da lui solo comincerebbe questo equivoco puerile. Infatti i comentatori, che ne' loro testi della commedia hanno letto Giovanni, sono poi quelli che persuasi dalVauto- rità di Dante , hanno senza cercar altro perpetuato fervore. E se inoltre lo storico G. Villani ha pur chiamato Giovanni il primogenito del vecchio Enricoy possiamo credere con molla probabilità eli egli attinse lo stesso errore nel testo della commedia da lui cer- tamente conosciula e piti volte citata. Se pur non volessimo sospettare mal trascritta la parola dalVau- lografo del Villani, per ignoranza degli amanuensi , i quali hanno in piti luoghi sfigurata V opera di quello storico non meno che il poema deW Alighieri. Peral- tro neppur dopo Vinvalsa credenza che Giovanni fosse il primogenito d'Enrico li si perdette la notizia del soprannome, poi che abbiamo nel comenlo attribuito a 203 Pietro ili Danle: - Dominus Beltrandus de Bornio... qui disscnsionem similem commisit inler regem Ricar- dnm anglicum et lohannern dicium regem iuvenem, eius (ilium. - E nel cemento di Benvenuto: - Io feci il padre ec. idest feci regem iuvenem et Hcnricum ve- terem hostes infensos inter se- - In quello di Landi- no: - Costui fu Beltramo dal Bornio d'Inghilterra, altri dicono di Guascogna, deputalo alla custodia di Gio- vanni, il cui soprannome fu Giovane, figliuolo d"* Ar- rigo d"* Inghilterra.- Ciò rende impossibile sempre l'igno- ranza di Danle intorno al soprannome d'Enrico, e ser- ve a distruggere la probabilità d'equivocare col nome. Tutto poi dimostra la convenienza di far parlare Ber- trando morto, com'era solito a parlar vivo , quando nominava il suo principe. Se Dante, non per equivoco, ma a bella po- sta, avesse voluto ti-arre in campo l'ultimo genito del vecchio Enrico, perchè dar lume alla sua notizia con un paragone sì precisamente adattalo a' noti casi d'Enrico il giovane e di Bertrando ? Io feci '1 padre e '1 figlio in se ribelli: Achitòfel non fé più d'Absalone E di David co' malvagi pungelli. L'espressione fortissima di padre e figlio in se ri- belli corrisponde ad un'aperta pugna, ad un contrasto vicendevole, qual si fu quello d'Enrico li e di Davide coi loro primogeniti, vittime della seduzione di Ber- tramo e d' Achitòfel e. Ma qual contrasto fra il re d'Inghilterra e il suo Giovanni, se quel padre infe- lice al primo scorgere il nome dell'ultimo figlio nel- "\ 204 la lista degli altri suoi avversali, cadde infermo e morì di dolore ? E quanto a Giovanni, qual pruova delle sue relazioni con Bertrando nel silenzio totale de' contemporanei ? In somma Danle non potea comandare alla sto- ria e all'opinione: e come ben osserva un altro fran- cese, gli stessi principii dell'arte obbligavano lo scrit- tore a delineare in questo luogo piuttosto la per- fidia del re giovane, che la debolezza del re Gio- vanni- 205 Intorno alcuni versi latini tolti dai salmi per Enrico Bilancioni da Rimini. Al chiarissimo professore Raffaello Marozzi retore nel collegio Pio di Pe- rugia. Amico carissimo A, .vraì tu eertamente letto nel primo fascicolo della Civiltà Cattolica di quest'anno l'onorevole annunzio fatto di alcuni versi latini cavali dai salmi di Da- vidde per Enrico Bilancioni da Rimini : e siccome so la voglia che ti soleva entrare addosso di avere, appena annunziale, simili pubblicazioni, ora che mi trovo per mala sorte da te lontano, vengo io a sod- disfartene inviandoti in anima e in corpo il piccolo libretto-Vado sicuro che questo ti riuscirà gratissimo, si perchè ti viene dalle mie mani , sì perchè cosa latina , anzi latinissima , degna di dare chiara no- minanza all'autore, del quale godo aver fatto la co- noscenza e l'amicizia sino dallo scorso autunno in Ravenna. Leggi, amico caro, e poi dimmi se le lodi portegli infino a qui da quanti gustarono quella bel- la e vigorosa poesia, non sieno, per quanto grandi, inferiori sempre alla verità. Evviva, sì, evviva il no- stro bravo Enrico ! Quanto gusto non provai nel- l'udire in Ravenna dalla sua bocca medesima quei maravigliosì versi! quanto diletto non mi ha recato 206 vederli ora per la prima volta messi alla pubblica luce! che ben ci stanno, sai, alla vista del sole: che anzi sono proprio di quelli che volimi sub luce vi- deri. E se dicessi che a mio giudizio non temono né anche il paragone di quelli che lo procedettero in somigliante fatica ed impresa, forse che non me la meneresti tu buona? Credo che sì, e laddove mi venisse consentito dall'angustia del tempo, e dalla qualità della scrittura, vorrei fartelo toccar con mano come Dio comanda. Tuttavia, sebbene mi trovi in cotali strette , non posso non farne qui un piccolo saggio, e non invitare le e, chiunque si piace di si- mili lautezze a gustarne e a giudicarne sincera- mente. Fra i molti che dettero opera alla versione dei salmi che in parte o per intero ci lasciarono in poe- sia latina, i più ricordati sono il Casa, il Flaminio, M. Ant. Mureto , Pietro Rossi e Antonio Laghi. Ecco qua come Pietro Rossi da Siena, eruditissimo di ebraico , greco , e latino , e che fu de'più forti coltivatori di questo idioma nel secolo passato, espo- ne in versi alcaici il salmo 2-° « Quare fremuerunt genies » etc. Quid incìtatae tam trepido fremunt Gentes tumulto? Quid populus ferox Nil profuturis inquietum Consiliis animum fatigat? Duces coortis seditionibus Reges steterunt, impia principes Coetu coacto, concitarunt Arma Deo, simul arma regi. 207 Nunc arcta tempus rumpere vincala, Clamant rebelles, serviti! iugo Nunc colla subduxisse, duros Ferre nec ullerius tyrannos. Sed qui supremos arduus incolli Cadi recessus, despiciet minas Frustra tumentes, atque amaro Excipiet fera caepta risu, Iràquc tandem vindice percitus Voce intonabit turbidus horridà, Vultuque deiectos minaci Sternet humi furibundus hostcs. At me benignus vertice in arduo Sancti Sionis caelicolum Pater Regnare iussit, nec verendum Consilium patiar sileri. Rex ille regum: Tu mihi fìlius: Tu certa proles, dixit; origine Tu prodis e nostra, per omne A me hodie generatus aevum. Ergo voluntas quod tua fert, pete: A me regendae iure tibi tuo Gentes dabuntur, quaque late Terra patet, tibi cedei orbis: Hinc tu severa iudicii premes Virgà protervos: dissilient tuo Fracti sub iclu, ceu subacto Ficta luto, fragilisque testa. Artem regendi vos modo discite, Sceptrum potenti qui regitis manu, lustàque pallentes libratis Lance reos, dubiasque liles: 208 Late imperantis lussa facessite Regis paventes; huric, tiepidos melus Non insolenti temperantes Laetitià, celebrate cantu. Neu diseiplinae paeniteat, bono Quae vestra cultu pectora roboret, Divina ne vos ira pravo Praecipites sinat ire calle, lam tempus instat, cum furor ardeat Poenas parati sumere iudicis: 0 ter beati tunc, in ilio Qui solidain sibi spem locarunt ! Così il Rossi: e il Bilancioni rende liberamente lo stesso salmo in versi esametri come segue: Quid coniurato turbarunt agmine gentes Undique? quid caecos volvunt sub corde tumultus? Undique terrarum concordi foedere reges In Dominum coéunt: proceres audacibus adstant. Nos, quibus imperium terris dedit inclyta virtus, Nos grave servitium patimur? quin protinus armis Cingimur, inslrusctasque acies et bella paranius? 0 pudeat, pudeat, socii, torpere veterno. Talibus hortantur dictis, animumque vicissim Incendunt. Quo, quo ruitis? quae insania belli est? Qui mare, qui caelos, totum qui temperat orbem Talia iactantes ridet, coeptisque protervis Obsistit: vae si vindex exardet in iram! Ceu notus obscurà perflans sub nocte per umbram Dispulit horrisono glomeratas flamine nubes, Sic vos Omnipotens, qua sontes territat urbes, 269 Nimboi'um dominai tcmpestatumque potenti Sternet humi dextra; nec sublevet ulla iacentes. Nam mihi recturam per saecula longa Sionem Ipse Deus dedit imperio, populosque per omnes, Subiectasque urbes divinam pandore legem. Tu mea progenies, infit, mea sola voluptas: Ipse Ego Te genui, magnum Patris incrementum. Indos et Thulen omni ditione tenebis: Tu index firma populos moderabere virgà; Cumque velis , tumidosque premas frangasque re- belles, Tamquam illisa solo figulinae pegmata quae sunt. 0 vos arbitrlum quibus est, hominumque potestas, Discite iustitam: monitis advertite mentem. Vosne iuvet elaià gemmis incedere fronte? Vos fragor armorum,inque greges data iura subactos? Cum Pater Omnipotens scelerati crimina saecli Pertaesus meritas aderii citus ultor in iras, Qui fidens animo totus se credidit olii, Et recto numquam dimovit tramite gressum, Unus mansuro potietur munere pacis. Senza metterci a considerare quale dei due poeti siasi più fedelmente attenuto alla ebraica poesia (nel che il Bilancioni volentieri cede la mano, non es- sendo l'intendimento suo, com'egli stesso mi pale- sava, e come dice chiaro il titolo del suo libretto, di dare una versione fedele , ma sì di cavare dai salmi occasione e materia da poetare alla libera) , vediamo in breve qual divario corra dall'uno all'al- tro quando si raffrontano nella versione, e chi valga G.A.T.CLVIII. 14 270 meglio nel fatto della intera poesia considerata an- che in genere per se medesima. La prima strofa del Rossi risponde a capello al primo versetto di Davidde, e con quel fatigant ani- mum consiliis nil profuturis ti dà molto bene a ve- dere lo sforzo accanilo degli empì che nulla appro- dano. Poni ora mente ai due primi versi del Bilan- cioni, e vedrai come il caecos volvunt sub corde tu- multus ti porge con locuzione tutta virgiliana la stessa idea e lo stesso significato in modo ancor pili reciso. Nunc arda tempus .... lyrannos del primo, è il dirumpamus v'incula eorum et proiiciamus a nohis iugum ipsorum del profeta, che dal Bilancioni fu pa- rafrasato al solito più a largo, ma con quanta fa- cilità e con quanto gusto d'elocuzione? Inclyta virtus quae nobis dal imperium terris. - Pati servitium grave - cingi protinus armis - instruclas acies et bella parare - non sono tutti modi che mostrano senza piiì il lungo studio e il grande amore messo dal Bilancioni nel mantovano poeta? Nota pili sotto quella similitudine con cui il bravo riminese ha voluto ritrarre il fiero concetto - Do- minus in furore suo conturhabit eos. Leggi là: Ceu notus . . . nubeS' Ha quivi parola che non sia tutta poetica, e non foggiata in sul conio dello stesso Lu- crezio, non che di Virgilio, autori da lui sopra modo letti e studiati? quanto l'armonia medesima non è rispondente all'altezza e nobiltà del concetto? Vob- scura sub nocte, e il dispulit horrisono flamine nubes glomeratas, è una ipotiposi che ti fa sentire e ve- dere la cosa quasi fosse in sugli occhi: e quel nini' borum domina tempestatumque polenti^ attribuito alla 271 destra dell'Onnipossento, ha suono così grave ed e- spressivo , che più certamente non dice il lurhidus voce horridà , et furibundus vultu minaci del lirico traduttore. A farla corta, i modi eleganti, magmim Patris incremenlnm - omni ditione tenebis - index firma popidos moderabere virgà - discite iustiliam , monitis advertile menlem - in greges dare iiira suba- ctos - omnipolens pertaesns crimina merilas aderii ciliis ultor in iras ; vanno senza meno del pari , e spesso anche sopra, ai modi Tu mihi filìus tu certa proles ; origine tu prodis e nostra , per omne a me hodie generatus aevum {nelle quali parole non è ehi non vegga una certa ridondanza e prolissità senza ragione) - dabuntur tibi gentes regendae ~ premes se- vera virgà iudicii protervos (dove quel virgà iudicii è assai meno poetico del index moderabere virgà, e chi noi vede?) - artem regendi vos modo discite, e via discorrendo delle altre forme che qui per brevità tralascio, potendone ognuno fare il paragone da se. Che se poi si voglia vedere come alla eleganza di Virgilio, e alla gagliardia di Lucrezio, sappia il nostro poeta congiungere anche le grazie di Catullo, si legga la versione del salmo 122 {Ad te levavi oculos mcos etC') tradotto per innanzi dallo stesso Flammio; e si scorgerà di leggieri come il Bilan- cioni se non arriva a pareggiare quel gran maestro d'ogni leggiadria e forbitezza che fu il Flaminio , non gli sta certo molto discosto, per non dire as- sai volte molto da presso. Vediamolo cosi alla sfug- gita. Qui habitus in coelis, dice il profeta: Flaminio, qui beatus incolis oras nilentis aetheris, e il Bilan- cioni qui caelo resides ; il qual verbo è qui molto 272 bene locato, portando con se anche l'idea del re- gnare manifestata dall'atto di sedere, e del seggio, secondo quello di Dante - Quivi è la mia cillade e Vallo seggio. - Ambedue i poeti nel levavi oculos meos di Davidde li^nno apposto agii occhi l'idea di piangenti, con questo solo divario che al Bilancioni è piaciuto di aggiungere al flelu madidos (che risponde appieno al manantia lacrijmis di Flaminio) l'epiteto amariore, quasi come per indicare con molta accon- cia figura di metonimia anche la cagione del pianto. Belli a meraviglia sono i paragoni che seguono nel Flaminio dei due domestici, che ingiuriosamente bat- tuti dal padrone, guardano le mani che li percos- sero, in atto da implorare pietà: Iniuriosà verberatiis ut marni - Manus heriles aspicit - Flens servus, im- plorans opem domini sui, - Ut serva servi dextera - Pulsata, dominae dexleram aspicit suae;-Sic te, Pater, intuemur etc. A questi peraltro non molto cedono per affetto e per eleganza i due trascelti dal nostro dot- tore: "... nam veliiti puer fidelis - Intentis oculis quotidianam - Escam poscit ìiero, ut solet puella - Intentis oculis heram rogare - Exacti sibi praemium laboris - Sic te mine tuemur etc- QyiQW intentis oculis aggiunto al rogare è un atto molto espressivo di chi vuol muovere altri a pietà di se, com'è qui il caso dell'uomo oppresso inteso da Davidde: come pure rogare sibi praemium exacti laboris, per dire il salario 0 la mercede, è modo assai proprio e netto. Qual cosa v'è da apporre o da levare in quei due versi di preghiera al Signore, degni veramente del Flami- nio: Aures benignas applicans adsis tuo - Nobis secundo mimine? Ebbene, anche il Bilancioni si è al possibile 273 ingegnato di avvicinarsi dicendo . . . Pater . . . bonus volensque - Tua nos ope sospiles misellos: dacché il bonus et volens, per quanto non faccia rilevare l'atto di chi quasi chinando il capo porge Torecchie be- nigne per secondare le altrui preghiere, come si vede nel Flaminio, pure è sempre maniera molto latina e precisa, e il sospites nos ope tua misellos non mi pare, a dir vero, tanto da meno dell'or/s/s nobis tuo numine secundo, specialmente per quella grazia e di- licatezza di diminutivo , che oltre all' essere tutto proprio di questa specie di versi, vale meglio a ri- trarre l'umile miserere nostri ripetuto per ben due volte dal profeta. Da ultimo, il concetto che chiude il salmo dell'oppresso che grida a Dio di essere ad- divenuto opprobrium abundantibus et despeclio super- bis, è recato in poesia dal Flaminio così esattamente, che ninno meglio: udiamolo: lam quaeso, iam luere supplices tuos - Vultu sereno , ista quoniam - Abo- minata gens sua superbia - Nos enecat miserrime, - Miserrime nos enecat gens impia - Irrisione et iur- giis. Chi non vede, a dirne una, come queWenecat miserrime così rincalzato, fa meravigliosa prova, e mostra assai chiaramente la pena dell'ingiusta op- pressione che sostiene dagli empi il misero suppli- cante ? Leggiamo ora il nostro poeta : Doloris ni- mià, 0 vide, ut iacet vi - Defessa haeo anima : en acerbiore - Eiectam opprimit usque et usque cura, - Bonis qui tumet imdecimque partis - Tua iam Deus e benignitate. Vedi anche qui l'idea del superbo che inorgoglisce tumet (metafora veramente superba), e del ricco altero ed ingrato a tanti doni di Dio (ag- giunto che aggrava non poco la indegnità dell' op- 274 pressore); ed hai finalmente qui pure la ripetizio- ne di un avverbio che dice ben chiaro la crudeltà del tiranno divenuta insopportabile per la continua- zione non mai interrotta iisque et usqne , come il Flaminio te la mostra tale dal modo con che punge a guaio e ferisce a morte enecat miserrime. Ma insomma a che mi fatico io inutilmente e spendo tante parole per dimostrarti cosa che me- glio può essere intesa che dimostrata ? Leggi, con- sidera , paragona a tuo bell'agio cotesto Specimen del nostro dottore, e poi sappimi dire se io trave- do 0 c'imbrocco per punto. Sai tu piuttosto quello che mi va per la fantasia, e che mi dà noia non poca solo a pensarlo? Che al povero Bilancioni, con tutta la gravissima fatica che gli dee aver costato a dare sì bella prova di suo valore, toccherà alla fine dei conti la sorte medesima che sogliono avere oggidì scrittoli a lui somiglianti. Taluni , già mi pare di udirli, il loderanno così un poco della buona latinità che salta troppo in sugli occhi, ma il tacce- ranno poi del non averci dato una versione stretta e fedele; quell'andare così libero e largo non esser cosa da meritar lode né gloria. Altri, e questi sa- ranno i pili, non solo noi loderanno punto, ma gli faranno addosso mille tragedie, né si terranno dal dargli bene del pazzo giiì per lo capo, pel solo in- tendimento di uscir fuori con poesie e cose latine a questi lumi di luna ! Non ti sembra che cotesti ru- mori e parlari si avventeranno da ogni parte ad- dosso al povero poeta ? E come se ne potrà egli schermire ? Come? Dai primi molto bellamente , credo io : con dire ad essi che egli ha voluto te- 275 nere quella maniera libera e larga, perchè non aveva in animo di dare una versione ovvero una interpetra- zione. Oh bella! ma doveva avercela, replicheranno costoro, se voleva darci una cosa più bella e com- piuta. Poffar il mondo ! a sì fatta istanza e pre- tensione mi cade assai bene in taglio ciò che spes- so ti diceva a bocca e in persona, quando me la pigliava contro quei barbassori che mettevano in beffe e in canzone alcuni moderni scrittori di sto- rie e di vite di santi, perchè sì l'une come le altre miravano piiì al narrare che al filosofare^ gusto e finezza tutta propria del secolo decimonono! ! Il pretendere che una storia od una vita contenga in se trattati di filosofìa così che il principale diventi accessorio, e l'accessorio principale (come appunto si vorrebbe da cotesti aristarchi e filosofanti alla moderna!), non solamente non è un migliorare, ma un guastare affatto il lavoro, cambiandogli , come ognun vede, per questa via la sua propria natura. Pare a me che ciò varrebbe un dire: - A fare che Vuomo fosse più perfetto e più compiuto, gli si doveano appiccare alle spalle un bel paio d'ali: - ovvero: il sole saria stata opera piii bella e vaga se avesse avuto anche il privilegio della ragione -. Se questo è argomento che tenga, non parlo piià; e in tal caso consentirò della buona voglia ancora con quelli che avriano preteso dal Bilancioni una versione alla let- tera, se voleva , secondo essi , fare un lavoro più compiuto e più bello da meritarne lode , quando egli nello stesso titolo del libro dà chiaro ed aperto a vedere che non ci ha né anco sognato di dare una versione. 276 Quanto poi a coloro che gli daranno senza dub- bio biasimo e mala voce , perchè sia uscito fuori di questi tempi con cose latine, merce oggidì vieta e fallita ; non è facile divisare cosi su due piedi quel che si debba ad essi rispondere Se trattasi di quegli sciaurati che maledicono indifferentemente e bestemmiano così il latino come gli amanti e col- tivatori del medesimo, perchè piii non è nostro, nò vivo; la risposta è agevole e pronta: Non ti curar di lor, ma guarda e passa; che meglio non si po- tria adoperare con chi non porta amore a quei pa- dri gloriosi, da cui avemmo quanto di bello e di buono ci troviamo in casa da allettare gli stranieri, e da fare invidia a chiunque ci capita. Se poi trat- tasi di rispondere a quei tali che reputano vana ogni opera e gittato ogni sforzo che i privati si facciano per ritornare in piedi la latinità , attesa la condi- zione presente delle cose nostre ; non solamente non credo sia da riprendere 1' avviso di que- sti cotali, ma veggo doversi convenire con loro in molli capi e per molte ragioni. Delle quali mi sa- presti tu dire qual sia la più forte e potente ? forse la scarsezza degli scrittori latini che oggi si ridu- cono a così piccolo numero, Che la cappa fornisce poco panno ? Amico, non ista qui il busillis; mentre ognun sa che non è impossibile, anzi non è rara, la vittoria e il trionfo dei pochi sopra dei molti; ed assai volte un solo può far mirabilia anche contro una intera moltitudine, siccome la storia in mille e mille casi d' ogni ragione ci fa pienissima sicurtà. Basterebbe che questo solo e questi pochi si tro- vassero in quelle condizioni favorevoli che si ri- 277 . chieggono all'uopo, e poi vedrestù rovescio e bato- sta che tocchei'iano i numerosi nemici. Ma, di gra- zia, parti egli che il Bilancioni e gli altri pochi così bene intenzionati, siccome lui , sieno nati e com- battano sotto favorevole cielo e non cattivo pianeta? Magari Dio, che non vi sarebbe altro né meglio da desiderare pel caso nostro! Ma è un hito che non è così, come la voce e il grido che si leva da tanti anni da tutta Italia a chiare note ce lo manifesta. E senza risalire tant'alto , abbine qui la- conferma da alcune parole del mio carissimo maestro prof. G. I. Montanari. Questi, avuto , or non ha guari , occasione di entrare in così fatta materia per un volumetto di lettere latine di principali scrittori d'Ita- lia, inviatogli graziosamente dall'autore medesimo, come a fine estimatore di simili cose ; gli aperse così l'intendimento suo in una lettera di risposta , che pel caso nostro è proprio dessa. Mi duole di non poterla qui recare in latino, siccome ei la dettò: che sarei certo di fare a te e agli amatori del dotto idioma il piiì bel regalo che mai sapessi; ma non essendo ciò in mio potere, ricevila messa così com'è in veste italiana da me, tutta d'un pezzo. « A Vincenzo Ferreri Ponzigliene, personaggio eh. conte e dottore dell' uno e dell' altro diritto, G. S. M. Salute- « 11 volume delle tue lettere che tu cortesemente, 0 chiarissimo, volesti inviarmi, ier l'altro mi fu re- cato a corso di posta. Maravigliatomi in prima del grande onore di che vengo degnato io omiociatolo 278 qual mi sono di nessun conto e pressoché scono- sciuto, posi avidamente gli occhi sopra il libretto, me lo lessi e rilessi, e cominciai a trarre non poco di diletto e di ammaestramento da quella lettura. Che veggendoti perorare la causa delle lettere la- tine, che mi fu sempre a cuore, con tanto amore e zelo, con tanta eleganza e leggiadria, e ornare di debite lodi quegli illustri personaggi, i cui nomi non verranno meno giammai, e che in tempi cotanto si- nistri ardiscono difenderla, coltivarla, ed esaltarla; ripieno di non so quale dolcezza mi parea di con- versare di nuovo con quegli antichi miei amici, molti dei quali importuna morte mi rapì. Sendochè quelle cose che tu scrivi sul conto da fare delle lettere latine, in cui sta grandissima parte delle nostre lodi, Cesare Montalti cesenate , mio intrinseco amico , uomo di dottrina, di erudizione, e d'ingegno da aver pochi pari, padre e maestro di tutte le eleganze e le grazie latine, secondo che le molte scritture che pubblicò e le molte che ancora si conservano nei suoi scrigni apertissimamente ci testimoniano; quelle cose stesse egli soleva ripetermi, quando usava con me, e in simili ragionamenti buona parte di notte alle volte meco passava. A quell'uomo sapientissi- mo caldeggia tore e maestro di latinità coceva che questi studi ogni dì più ruinassero in peggio , e sottilmente e acutamente investigava le cagioni di tanto scadimento, e affermava di non aver mai po- tuto trovar un rimedio che ci valesse. La lingua latina essere traboccala fino da quando le adunanze dei dotti e le piiì insigni accademie di Europa, le quali, mercè il favore dei grandi principi erano in 279 fiore, solleciti solo della nativa, la latina poco meno che fuor di casa cacciarono. Essere questa univer- sale, e da tutti gli scrittori del mondo incivilito do- versi adoperare; a lei sola essere da commettere la sapienza del genere umano perchè non divenga fa- vola della plebe. Per questa via egli diceva che si sarebbe potuto conservare in istato la dignità della lingua latina e tramandare alla posterità. Del resto temeva che gli sforzi privati, degni invero di molta lode, riuscirebbero a vuoto. Richiedeva all' intento la mano e l'opera dei principi e dei re , che sono eglino i soli da giovare agli uomini e alle lettere, i soli da incorare con premi e con onorificenze , i soli in somma da ristabilire la romana gente , e tornare in piedi l'antico Lazio dopo le innumerabili vicende di cose e di tempi. In sulle prime, chi noi sa ? la lingua romana fu aspra e rozza e quasi di ferro , e mostrava di avere un cotal suono orrido e strano, finché non ci fu di mezzo l'autorità delle leggi, e col suffragio del senato e del popolo pi- glio forma , leggiadria e quanto ha di bel garbo. Di qui avvenne che si misero su scuole pubbliche, e tutti i bennati le frequentavano : imparavano la lingua propria che sonava illustre per le bocche di tutti, e al governo della repubblica si sceglieva il più meritevole. In cotal modo l'eloquenza stessa di per se lastricava la via agli onori, e si teneano per da piij, ed occupavano i piìi ragguardevoli in- carichi della città i più operosi, e i più bei parla- tori e scrittori. I guiderdoni e le dignità, di che si onoravano i più sapienti, infiammavano la gioventù a studiare : a tal che in ogni maniera di scienze , 280 con bella emulazione quasi spronati, attendevano, e pili di gloria che di utilità gareggiavano. Arrogi le provvisioni assegnate larghissime ai precettori: ar- rogi gli applausi del popolo e i gridi di congratu- lazione. Cose tutte che palesano quanto dicesse vero Tullio quando scrisse: L'onore alimenta le arti ; le quali se di meschina mercede si contraccambiano, sono costrette a rader la terra, e a giacere presso i loro vituperatori per sempre. Ma finche le lettere latine vanno in casa propria pellegrinando, e in fra le tenebre si stanno quasi appiattate per non es- sere lo scherno degli oziosi e dei poltroni; e finché i loro prezzolati coltivatori sono costretti a vivere meschini e magri non senza le risa e le sghignaz- zalure di molti ; è mai da sperare che si possa per chicchessia ristorare la latinità, e ritornarla in vita ? Cosi quel mio Montalti. '( L'avviso di sì grand'uomo, o eh- mio Ponziglio- ne, mi sta ancora tutto fìtto nell'animo: e riandan- doci più volte sopra il pensiero, lo riconosco e ten- go per verissimo. Imperocché sebbene molte altre calamità dieno oggi addosso al sermone latino, quella fra tutte è la piiì mortifera, che caccia cotesta lin- gua dalla compagnia e dalle radunanze dei dotti , e coH'opera dichiara com'essa in certo modo sfrut- tata non è più in caso né in grado da informare le mentì- « E in fatto questa nostra bellissima età è tutta guadagno: e messa da canto gloria e fama , stima un zero cotale eredità de' nostri maggiori, anzi l'ha bene in dispetto. Di che qual v' ha sì pazzo che voglia darsi a lutt'uomo alle lettere latine o rile- 281 vaile scadute ? 0 chi piuttosto non le abbandonerà, e come da sangue di vipera non vorrà fuggirne ? Forse i genitori , che , maestra e duce la natura , debbono provvedere ai vantaggi dei figliuoli, porran- no ad essi innanzi la letteratura latina non favorita di onore né di premio, a fine di accrescere il pa- trimonio e acquistarsi i più onorevoli gradi nella repubblica ? Ti dirò , se mei consenti come con- fido, cosa che nell'anno andato non senza maravi- glia e rabbia accadde a me. « Erano fra i miei discepoli due gemelli, fiore di giovinetti, i quali come forti d'ingegno, così forte attendevano alla lingua latina , e mi davano di se ogni giorno più le più belle speranze. Compone- vano delle narrazioni, delle lettere, e delle orazion- celle in istile assai castigato e adorno : coniavano anche dei versi ad imitazione dei classici, non senza pulitezza e garbo. Innamorati d'imparare volgeano dì e notte fra le mani gli aurei scrittori; molti bra- ni mandavano a memoria; molti me ne porgevano da correggere; di che quanto io mi compiacessi , appena lo posso dire a parole. Fatti e trionfati gli esami di lettere, e riportatine i premi, i due gio- vanetti smaniavano di toccare più ardimentosi la meta bramata, e a me, per dirla con Virgilio , si inondava il petto di tacita gioia. Che più ? Eccoti d'improvviso il babbo: IO, dice, NON HO BISO- GNO DI COTESTE VANITA'; NON VOGLIO I MIEI FIGLIUOLI DOTTORI, MA MERCANTI; NON SA- PUTI DI PAROLE, MA, DI COSE: I LETTERATI ESSERE GENIA FECCIOSA E SPIANTATA: IL LA- TINO È FATTO PEI MORTI E NON PEI VIVI. 282 Dopo le quali parole mi tragge via i garzonetti non ritrosi al comando, sì bene piangenti, e me li strap- del fianco- Mi dolsi, e meco stesso ne piansi: ma che rispondere a cotestui ? Forse che non diceva la verità ? Non veggiamo noi uomini latinissimi poco meno che in dispregio , e bisognosi di tutto ? Fa che i latinisti e i personaggi di fine ingegno seg- gano nei primi posti ed abbiano onore e censimento più ricco presso i regnanti; e tutti, mutata scena, si studieranno di essere appassionati cultori del la- tino, e di tutta forza vi si applicheranno. Umana cosa la è questa senza dubbio: andar dietro a ciò che fruita; quel che non frutta trascurare e bestemmiare. « Ci ha chi accusa i metodi e la lunghezza del- l'insegnare , e di qui pigliano motivo della noia e del disprezzo. E questi per ventura danno in parte nel vero; che in certe scuole di grammatica, i fan- ciulli si lasciano marcire oltre il dovere, e gli in- gegni ben disposti , da regole, appendici, lacciuoli, stitichezze e giravolte vengono per modo oppressati, che da tanto e sì smisurato peso vinti e spauriti, la scuola e il maestro odiano e sfuggono- Malfatto, in fé mia, malissimo fatto ! Ma non tutti poi usano d'imparare (o disimparare) così. Di che, se appor- tano danno, e l'apportano senza meno, non è uni- versale: per altro è bene universale il disprezzo del latino: dunque si dee dire che non è questa la fonte da cui si deriva. Taluni altri sostengono doversi fare nelle scuole una eletta di ingegni : che non tutti siamo nati fatti per tutto ; la trascuraggine della quale scelta è radice ed origine di non piccolo danno. Ottimamente: ma qui non ci calza molto : 283 "^'^ che quegli ingegni che saranno nati alle lettere , staranno in fiore e in vigoria, gli altri languiranno; disgrazia dei piiì, ma non di tutta quanta la lati- nità. Lascio stare quello che molti vanno spesso spesso bociando, non potersi trovare buoni maestri di latinità: e non mi opporrò ; non già perchè gli ingegni nostrali siensi scemati e indeboliti per an- tichità 0 per difetto, cosicché niuno tra noi possa saper di latino; ma perchè gli scarsi» e, dirò anche pili che scarsi assegnamenti distolgono ogni one- st'uomo dal magistero. « Il perchè non da altre cagioni fuori di quella, che il mio Cesare mi accennava, si dee ripetere lo stato della minante e pressoché caduta latinità; e se non ci soccorra il favore dei principi, non pos- siamo prometterci meglio , e tutti i nostri sforzi cadranno vuoti e derisi. Ciò non pertanto sono da lodare tutti coloro che, con prova starei per dire da giganti, sostengono le moribonde lettere, si ado- perano con ogni argomento possibile a sollevarle giacenti, e non la perdonando a fatica, quanto hanno d'industria e di sollecitudine qui tutta la spendono. Tra i quali tu senza dubbio , a quel che tutti ad una consentono, sei da mettere fra i primi: e quel Vallauri, per la cui opera seguì che l'Italia non re- puti di aver perduto ancora il suo Boucheron, cima d'uomo, affé mia I So che ha fatto molte e molte edizioni, e più di una volta mi sono stupito di tanta copia d'ingegno: solo un librettino ho letto che ha per titolo « Latinae exercitationes » che Bernardino Quatrini, un dì mio discepolo, dal collegio di Pe- rugia, dov'era maestro, mi mandò in dono. Gli altri li desidero ancora- Ma perchè, mi dirai, se le de- 284 Sideri coleste sue edizioni, non te le procuri? Per- chè ? Ti risponderò in due parole alla catulliana : La mia borsa è piena di ragne. Oh quanti libri vor- rei possedere nel mio scrittoio , se la sorte mi di- cesse bene! Ma di queste, e di altre mille cose che qui mette meglio tacere, della buona voglia fo sen- za, e volonteroso mi adagio nei voleri di Dio- Ecco la domanda e la preghiera che io fo: I celesti avvan- zino cortesi in bene ed in meglio tutti i buoni, nei quali è riposta la vacillante speranza delle lettere e delle cose nostre. Se ciò avvenga, ogni bene ed ogni prosperità per lungo spazio di vita li verran- no in casa. Sta sano ». ■ Che te ne pare, amico ? non è questo un par- lare proprio come va fatto, chiaro, tondo e spic- ciolalo ? Manco male: non accade, no , andar bu- scando di qua e di là ragioni e pretesti che valgano. La vera e principalissima cagione della mina, in cui si giace la povera latinità , altro non è (ci giovi ripeterlo) che il poco o niun favore che le vien dato da chi potrebbe ciò fare: e la esperienza dei fatti presenti coi passati ci fa tenere per più che giusto e verissimo l'universale lamento- Ma dunque, e quale si è la conseguenza da tirarne ? Che si debba lasciare così vergognosamente la vittoria in mano dei nemici, e pigliar su in pace la sconfitta senza né anco fiatare ? consigliar quei pochi che si sentono di avere tuttavia in corpo spirito e lena, a por giù le armi , e ritirarsi dal campo ? Oibò ; saria peggio lo strazio, a mio parere, che il danno. La bravura si mostra anzi nelle più dure strettezze, e in certi casi, a meritare basta l'aver voluto! Che alla fin delle fini, quando ad altro non si riuscisse, 285 non sarà picciolo vanto poter mostrare coli' opera ai posteri che non tutti delirarono in questo par- ticolare col pazzo secolo; ma che bene vi ebbe anche in questa nostra età chi amò veramente la patria^ che vale un dire, chi non ebbe in odio e in dispre- gio quei padri , senza cui la gloria e la eccellenza di questa classica terra a nulla si ridurrebbe. Onde che fa cuore, o chiarissimo, e con la dotta schiera del Bilancioni in Rimini , Rossi e Livì- rani in Faenza, Dei-Frate in Ravenna, Masi in Roma, Trivellato in Padova, Filippo Poggi e Lorenzo Co- sta in Genova, Amedeo Ronchini in Parma, Cave- doni in Modena, Vitrioli in Reggio, dei Ferrucci e Silvestri in Toscana, e per tacere di molti altri di che si onora l'Italia, di un Ponziglione« di un Val- lauri a Torino, ti unisci coraggiosamente tu pure, e prosegui a sostenere cogli altri tuoi bravi colle- ghi r onore della lingua latina in cotesto collegio Pio, dove gli studi, mercè le cure specialissime di quei che ad essi presiedono, sono bene iil vigore. E senza più, incarna da bravo il disegno che mi palesasti quando io era con te retore costì, intorno all'agevolare l'insegnamento della latinità, e al pro- pagarne l'amore; che se non ti loderanno i presenti, sarai sempre, con quanti daranno teco all'opera la mano, nella memoria e nella benedizione dei posteri, non che dei veraci amatori dell' Italia nostra. Sta sano, ed ama Di Montefano a dì 10 aprile 1859. 11 Tuo Bernardino Canonico Quatrini. G.A.T.CLVIII. 15 286 Necrologia del doli. Agostino Cappello^ imo de'com- pilatori del Giornale Arcadico, Iella all'accademia ponlaniana di Napoli dal professore Salvatore De Renzi. I 0 debbo ragionarvi, o soci dilettissimi, di un av- venimento tristo e doloroso. Il nostro collega Ago- stino Cappello morì in Roma nelP ultimo giorno dell'anno 1858; e se grave perdita fecero le scien- ze , e gravissima la fece il nostro sodalizio , che l'ebbe a socio per molti anni , fu irreparabile per me che perdo un amico vero e virtuoso: e voi sa- pete pur troppo quanto siano divenuti rari gli amici! Né io ho in pensiero di ornare di oratorie blandizie queste poche parole , le quali compiranno l'ufficio di ricordare le virtù del defonto, come sfogo di do- loroso compianto, e come piccola retribuzione alle costanti e lunghe sue sollecitudini per conservare e crescere il decoro di questa terra, in cui ebbe i na- tali, ed a cui tenne sempre rivolti i pensieri e gli affetti. In Accumuli terra dell'Abbruzzo Aquilano ed ul- timo fra' paghi sabini, posto sul Tronto nell'estremo confino del nostro regno fra l'Um^bria ed il Piceno, poco lungi da Spoleto e da Ascoli, nacque da onesti genitori nel 15 di novembre 1784 il nostrn Ago- stino. Suo padre Niccola e la madre Anelila Marini presero le più intelligenti cure della sua fanciullezza, 287 non per secondare quell'islinto di cieco affetto pei figli che l'uomo ha comune coi bruti, ma per or- nare il suo spirito di cognizioni, ed educare il suo cuore alle passioni più generose E quando videro quel giovane di svelto ingegno bene avvanzato nelle lettere, lo fecero passare in Ascoli città del prossimo stato romano, dalla cui diocesi dipende Accumuli, ed ivi lo confidarono a probi ed istruiti maestri. Colà apprese Agostino filosofia, storia naturale e me- dicina, ed ottenne la laurea medica nel 1807; sic- ché tosto si recò a Roma per perfezionarsi nell'arte così nell'archiginnasio della sapienza, che nell'ospe- dale di S. Spirito, e fra gli altri ebbe a maestro il prof. Bomba, che molto lo amava, e volle che a lui aperta fosse la sua biblioteca , appena seconda a quella che Lancisi donò a pubblico uso. Venne nel 1808 anche in Napoli, ove assistendo agli studi medici di perfezionamento, n'ebbe la fa- coltà di esercizio: e per compiere il modesto scopo, che si prefige ogni giovane culto, di esercitare l'arte nella terra nativa, egli recossi in Accumuli, ov'ebbe stipendio pubblico qual medico condotto- Ma la prov- videnza lo chiamava ad un teatro più vasto. Egli in quell'anno medesimo aveva sposato in Roma una gentile donzella a nome Maria Staderini , la quale non tollerò la rigida atmosfera dei monti piceni ; nò lo sposo permise che ritraesse danno da più lunga dimora, ed in Roma la ricondusse. Sovvengavi, o signori, quali erano nel 1809 le condizioni d'Italia. L'esercito francese aveva occu- pato la capitale dell'Austria, e l'impero di Napoleone estendevasi nelle province romane, e conduceva pri- 288 gioniero in Savona il pontefice. Un procacciante avrebbe creduto opportuno il momento di schiudere la via della fortuna; ma il modesto giovane di Ac- cumuli mirava a più tranquilli conforti, a quelli del- l'esercizio dell'arte benefica, la quale aveva studiato con tanto amore. Egli prescelse l'onesta e faticosa carriera di condottato- In quella parte d'Italia non è certamente lieta la vita dei medici stipendiati dai comuni; ma tuttavia è molto men trista di quella di altri paesi, dove la gioventiì dopo enormi fatiche, studi indefessi e spese non lievi, va a seppellire dot- trina e nobili desideri in mezzo a meschini paeselli, dove si logorano fra il fumo dei letamai e il fumo della superbia, pronti per ignobile sovvenzione al cenno di ogni balordo, barsaglio di miserabili gelosie ed inu- mana sconoscenza. In Roma si fa coi comuni un con- tratto a tempo, e poi chi ò meglio conosciuto per fa- ma e per pubbliche prove passa a stipendi più larghi, o a primario di città popolose. II Cappello cominciò con la condotta di Castelnuovo di Porto, ove si trat- tenne un anno solo, e poi nel 1810 passò medico in Tivoli. In questa città il nostro medico abbruz- zese fece conoscere ed apprezzare la sua dottrina, il suo sollevato ingegno, e la sua nobile indole. A meglio eseguire il suo officio egli prese a studiare con diligenza la topografia medica ed i rimedi na- turali del territorio di quella città; insegnava ad un tempo la medicina e la esercitava; ed esordì quella vita di scrittore, nella quale di poi acquistò tanta gloria, Ma colà pure cominciò la serie delle sue sof- ferenze e delle sue sventure; imperocché sezionando alcuni cavalli dei carabinieri pontifici, morti di an- 289 trace nel 1818, si ferì col coltello anatomico, e ne contrasse tale infezione che fu vicino a morire per pustole nere apparse sul corpo; e comunque allora ne risanasse, pure quasi ogni anno ebbe a soffrire eruzioni pustolose, accompagnandolo quel fiero ve- leno forse fino alla tomba. Il Cappello preceduto da bella fama si recò in Roma nel 1821, ove fu accolto con benevolenza da quanti vi erano medici dotti in quel tempo ; ed il prof. Morichini il volle tosto a socio di un'adunanza da lui preseduta, e che col titolo di Società dei bab- bioni accoglieva i più dotti uomini di Roma, e ri- ceveva gli stranieri con onore e con amichevole con- fidenza. La fortuna pareva propizia al Cappello; im- perocché, morto di lì a poco Pio VII, fu elevato al sacro trono di S. Pietro Leone XII, che nel 1824 lo inviò nella città di Spoleto a curare una sorella che soffriva morbo insanabile. Tanta fortuna svegliò le male arti degl'invidi , che gli volsero contro i loro sordi intrighi. Il Cap- pello lottò con coraggio e con rassegnazione ; ma preso dal nobile sdegno che fa ritirare le anime gentili dalle sozzure sociali, si ritrasse nelle gioie della domestica pace. Ancora gravemente si ammalò nel 1826: e recatosi a respirare l'aria nativa di Accu- muli, ivi gli si manifestò un favo cangrenoso ai lombi che r obbligò a tornare in Roma , ove fu operato dai professori Sisco e Bucci- Campò la vita, ma per altri cinque anni riapparve sempre con fenomeni gravi e sospetti. Intanto l'Europa era stata funestata dall'apparire di un morbo inesorabile, incomprensibile, che lasciate 290 le sponde del Gange varcava per la seconda volta i confini della Russia. E dopo aver seminalo di stragi quel vasto impero, con gli eserciti moscoviti pe- netrava nella Polonia, e di là nel centro della Ger- mania , d' onde era passato nell'Inghilterra e nella Francia. L' Italia era commossa a tanta pauia , e tutti i governi spedivano commissioni mediche per istudiare quel male. Gregorio XVI prescelse a tanto delicato e pericoloso officio il nostro Cappello, e gli die a compagno il prof. Domenico Meli di Ravenna, e per aiuto il dott. Lupi iuniore. Recatosi a Parigi, ove si trattenne per circa cinque mesi, non lasciò un istante gli ospedali , e dovunque più inferiva il morbo indiano: sicché le effemeridi francesi elogia- rono il suo zelo , la sui curiosità scientifica , l'e- vangelica sua carità. E ne partì lasciando molte il- lustri amicizie, e da quel tempo Esquirol, Moreau de lonnès, Pariset , Chomel , Rccamier, Alibert e cento altri dotti francesi lo riguardarono con amore, e tennero con lui scientifica corrispondenza. Il cholera si avvicinava negli stati romani: onde provvedimenti di sanità pubblica nuovi , prudenti , efficaci erano necessari; ed il sommo pontefice volle che il Cappello sedesse consigliere del supremo ma- gistrato sanitario che avea a capo un cardinale; ed esistono documenti che mostrano quanti boneficii le indefesse sue cure resero alla pubblica incolu- mità. E ne basti uno solo per tutti. Il cholera, che si era sparso nelle coste nordiche dell'Adriatico, pe- netrò in Ancona nell' estate del 1836- Deliberò il sommo pontefice che l'altro medico di quella con- gregazione speciale di sanità vi si fosse recato da 291 Roma, non volendo privarla dei provvidi ed espe- l'imentati consigli del Cappello; ma il medico de- signato, per suoi particolari motivi, non si prestò a si nobile incarico. Il generoso animo del Cap- pello non si avvilì, e con quegli spiriti abbruzzesi franchi e risoluti si offrì spontaneo, e partì. Quanto fece il Cappello per gli anconetani il dicano essi stessi, come il dissero allora al sovrano ed a tutti con dichiarazioni e manifestazioni di ogni natura, E tali furono le cure , le privazioni e le fatiche del Cappello, che venne in fine percosso dal morbo inesorabile, talché a miracolo n'ebbe salva la vita; ma sì gravi conseguenze risentì dal feroce attacco, che per tre mesi giacque moribondo sul letto dei dolori; solo cofortato dal pubblico suffragio e dalla stima universale. Guarito e ritornato già molto infralito in Roma, la vide poco dopo polluta dal morbo temuto , che vi era penetrato non da Ancona, dov'era stato cir- coscritto, ma dai confini del Regno, che tutto ne era stato invaso venendovi dalle coste dell'Adriatico. Il Cappello venne a cognizione di tali fatti che mo- stravano la improvvida negligenza di taluno, e so- steneva nella congregazione di sanità gli espedienti più provvidi ed opportnni. Contrariato sempre, mal- grado pugnasse pel pubblico bene, ebbe a soffrire varie amarezze , alle quali trovò conforto in seno alla sua famiglia. Due suoi dilettissimi figli , uno educato alle scienze sagre già abate e poscia ca- nonico, e l'altro uffìziale, formarono il suo sollievo con le cure di figliuoli affettuosi. Continuò peraltro a prestare l'opera sua nella congregazione speciale 292 fino al 1847, nel quale anno per giuste l'agioni si ritirò, occupandosi nclPesercizio dell'arte salutare, nel che aveva molta fama , e nella cultura della scienza, per la quale lavorava indefessamente. Quando però il sommo pontefice Pio IX all'avvicinarsi del cholera del 1854 lo richiamò alle funzioni di con- sigliere presso la congregazione di sanità, egli ri- prese con calore l'antico officio , che ha occupato fino alla morte ed anche in mezzo alle angustie di una malattia lunga pertinace e dolorosa. Però altro grande servizio aveva reso a Koma, all'Italia, alla scienza. Riunitosi in Parigi un con- gresso sanitario di tutte le potenze marittime per formare un trattato internazionale per le misure co- muni da prendersi per le tre malattie, importabili e credule contagiose, peste, febbre gialla, cholera, il regnante pontefice elesse il Cappallo a delegato del suo governo. Per circa sei mesi si tratenne il nostro socio in Parigi a discutere, a lavorare; ora a presiedere commissioni, ora a stendere lunghi rapporti, ora a sostenere animate discussioni per far trionfare il prin- cipio della contagiosità di que'morbi, ed a difendere gì' interessi della umanità e della incolumità pub- blica , che venivano sacrificate da caldi artifìci di avidi commerci. Egli riportò in Roma una bella fa- ma, la croce della legion di onore della quale in- signivalo l'imperatore dei francesi , e la stima dei suoi compagni; ma con questi vi riportò pure una sanità infievolita, e le forze accasciate dalle durate fatiche e dalla rigidezza del clima parigino. In breve altro tumore si manifestò ai lombi; e malgrado cu- rato fosse dal chiar. prof. Baroni, che ad una in- 293 lelligenza sollevata e ad una mano perita riuniva la probità più salda ed un cuore angelico ; malgrado paresse quasi restituito alla sanità , pure al cadere di quell'anno fatale (1852) una improvvisa ematu- lia lo assalì, che vinta a stenti lo lasciò infralito e sofferente. Da quel momento la serie dei suoi malori non più gli die tregua: ed alternando fra l'ematuria e la iscuria vescicale, tormentato da sciringhe e da tentativi, pronto a riprendere l'esercizio dell'arte e dei suoi pubblici uffici nelle temporanee tregue, ri- sospinto nel letto dei dolori dalle nuove esacerba- zioni del morbo, finalmente mentre il vigore del suo bell'animo intrepido resisteva, non ha potuto resi- stere la fralezza del corpo, e nell'ultimo giorno del- l'anno 1858 fra sofferenze intollerabili e continue, ma con lo spirito sereno, confortato dall'amore dei suoi figli, che fu ingegnoso fino all'estremo momen- to, due ore dopo il mezzo dì forniva una vita così piena e tanto agitata e benemerita, e chiudeva gli occhi da cristiano e da virtuoso. Nel ricordare, o soci amatissimi , i fatti della vita del nostro onorando concittadino, io ho obbliato di parlarvi di quel ch'egli fece pel progresso della scienza e dell'arte- E come avrei potuto ricordare tutti i lavori del nostro amico? Aggregato alle ac- cademie scientifiche ed archeologiche di Roma, egli scriveva per tutte, e corrispondeva con le accade- mie straniere che lo aveano eletto per socio, e fra queste ricorderemo soltanto l'accademia di medicina di Parigi, e questa nostra Pontaniana. Dal 1824 è stato uno dei più operosi collaboratori del giornale Arcadico, sostenuto e diretto dal benemerito prin- 29i cipe Odescalchi, e dal 1838 ne ò slato uno dei com- pilatori in capo: sicché in quelle giudiziose pagine egli ha parlato di argomenti di ogni natura, ed ha reso conto massimamente delle opere medico-lìsiche del nostro regno; dal quale non ritrasse giammai lo sguardo di filiale affezione. Preferendo il nostro Cappello gli argomenti di maggior vantaggio per l'umanità e quelli più ono- rifici per la nostra [talia, ha per ovunque portato quella logica severa, che se non sorprende per cal- dezza di concepimenti e di modi, persuade per esat- tezza di giudizi , e fi» progredire lo spirito umano nella ricerca di nuove verità e di nuovi fatti. Egli cominciò con cuore ribollente di amore per la terra natale a ricercarne gli antichi fasti , e fin dal 1819 osservando alcune omissioni nel calendario fisico-storico di Giuseppe del Re, cominciò le sue giudiziose indagini che lo menarono ad una serie di nuove cognizioni- Poco dopo egli rivolse i primi suoi studi sulla rabbia canina, e fin dal 1823 pub- blicò il frutto di lunghi esami e di severe medita- sioni , e fu il primo a stabilire per cagione della rabbia l'impedito estro venereo , dando così occa- sione alle lodevoli indagini di un altro operoso ita- liano, il Toffoli di Bassano. Né questa è una ipotesi vana e senza frutto; ma é feconda di giudiziose ap- plicazioni pratiche; ed è tanto importante, che due medici francesi han cercalo con audace proponimento di rapirla alla nostra Italia: e voi stessi avete udito non ha guari la voce di un nostro compagno, istruito e caldo delle nostre glorie, che rivendicava al nostro abbruzzese V usurpata priorità. 295 (ili altri lavori del Cappello di molta importanza per noi, ed intorno ai quali ha lavorato per quat- tro lustri, sono le sue osservazioni geologiche e le sue memorie storiche sopra Accumoli; opei'a piegia- tissima e ricercata , della quale non sono più re- peribili le prime memorie pubblicate nel 1825. Così conosciamo tanto le condizioni fisiche , geologiche e botaniche, quanto i fatti civili di quella regione importante , e per lo innanzi così poco nota del nostro regno. Profittando di peregrine notizie conservate nei patri archivi , delle sue particolari osservazioni e dei lavori manoscritti di un altro egregio abbruzzese medico in Roma , Felice Antonio Donarelli , che scrisse da storico, da archeologo, e da medico in- torno ad Antrodoco ed alla valle Cutilia, il nostro Cappello ci ha lasciato un pregiato frammento della stoiia topografica di una parte così poco nota del nostro regno. Io non dii-ò di aver egli sostenuto , con induzioni geologiche , una origine remotissima di quei popoli: che egli stesso la narra come sem- plice conghietlura. Osservando che la ceppala cen- trale e pili alta degli apennini è posta nella Sa- bina con tale disposizione e stratificazioni geologi- che da mostrare chiaramente che i subapennini e l'intero suolo d' Italia sia derivato da quegli anti- chi gioghi, egli poggiandosi pure sopra qualche sto- rica prova, crede probabile che siccome quelle ci- me di monti dovettero innanzi di ogni altra terra restar fuori dell'acqua, così prime fra tutte dovet- tero rivestirsi di terreno, ed accogliere i primi abi- tatori della gran madre Italia, onde Dionisio d'Alicar- nasso e St'^mbrne: Circa scalurinines Velhii et Truev- 296 ti fuerunt aborigines. Ma lasciando le conghietture, il lettore apprende con piacere la istoria di quei luoghi e presso i romani e nei bassi tempi ; nei quali presentano in iscorcio la storia piena di av- ventura e di prodezza degli italiani munìcipii. In- nanzi lutto, importanti ed in parte nuove sono le sue ricerche intorno alla famiglia Flavia, che trasse la sua modesta origine da quell' alta Sabina. Essa apparteneva al Vico Falacrino presso Cittareale a quindici miglia dal Vico Badio ove sta Accumoli. Il Cappello con forti ragioni prova che Vespasiano passò la sua giovinezza presso Accumoli. Svetonio ci dice , che quell'imperatore fu educato dalla zia Tertulla in Cose: e tosto gli storici aggiungono es- sere stato educato nell'Etruria, ove esisteva la città di Cose presso Orbetello. Ma il Cappello dimostra che Cose era un villaggio posto a men di un miglio da Accumoli nel luogo ora detto S. Pan- crazio, nella via salaria presso il Tronto , e però poco discosto dal luogo di nascita di Vespasiano , dove i Flavi possedevano beni e dignità. E qui il Cappello con ingegnosi suggerimenti di patrio amore dalle virtù della gente Flavia dimostra quali siano state le gentili abitudini di un popolo, dal quale nacque, e presso il quale fu educato. Scrisse poco dopo il Cappello altre opere, dalle quali la storia naturale e la storia civile ritraggono grande utilità: e sono gli Opuscoli scelti scientifici, in un della topografìa fisica di Tivoli, delle condi- zioni geologiche ed idrauliche del fiume Anicne , delle acque albule di Tivoli, della geognosia della valle superiore del Tronto, di un nuovo fenomeno 297 geologico al gran sasso d' Italia ; tutti infiorati di belle osservazioni fìsiche, sloriche, ed archeologiche. L'igiene pubblica e la provvidenza medica co- stituirono gli argomenti di predilezione del nostro Cappello, e lungo sarebbe il raccontarne le opere. Oltre i suoi lavori sulla rabbia canina, ci basti ri- cordare i tanti scritti relativi alla pubblica sanità ed alle malattie importabili , le discussioni tenute con dotti uomini, le sue relazioni sopra diverse epi- demie, le sue memore sulle risaie , e quelle sulle culture umide, delle quali rimane inedito un terzo articolo che verrà quanto prima per cura de' suoi eredi pubblicato (1). E pure tanti lavori sembrano poca cosa a fronte della sua glande opera sul cho- lera asiatico e sulle osservazioni raccolte in Parigi, che venne pubblicata a spese del governo ponti- ficio nel 1833 in Roma; la quale, malgrado i nuovi studi e gli innumerevoli scienziati che han preso in esame quella spaventevole infermità , è tuttavia una delle migliori opere che merita di essere con- sultata. Da ultimo ricorderò un'opera del Cappello pub- blicata dieci anni fa , che sembra più una privata giustificazione che un lavoro scientifico, e tuttavia è ricca d'innumerevoli fatti istruttivi ed importanti. Egli la intitolava: Memorie isloriche di Agostino Cap' pello dal maggio 1810 a tutto il 1847; e vi narra con giudiziosa ingenuità quanto egli fece e quanto tentò fare per la scienza, per l'arte, e pel bene (1) È stato infalli pubblicalo nel presente tomo del gior- nale arcadico. 298 pubblico; e ci svela molti generosi disegni, i quali ove non avessero trovato il contrasto delle passioni e degli interessi umani, sarebbero stati fecondi di grandi benefizi. Quante lotte deve sostenere in mez- zo alle corruttele della società ogni spirito che nu- tre nobili sentimenti e generose intenzioni! Le me- morie del Cappello contengono solenni lezioni di morale e di probità, gravi ammaestramenti di sa- pienza, e luminosi esempi di virtuosi tentativi e di gentili speranze fallite. Lasciando ora la narrazione dello storico , io dovrei meglio descrivervi l' indole del nostro Cap- pello. Ma l'animo mio è troppo turbato da poterlo Aire convenientemente: e ricordando i benefizi per- sonali ricevuti, i pegni di affetto, e la generosa o- spitaliià datami due volte in Roma, io non mi sento l'animo disposto ad esporre il carattere morale del compianto amico Bastino a voi queste poche parole , che estraggo da una lettera che mi venne diretta da Roma appena T onesta sal- ma di lui era stata deposta nella tomba. « Fu « il CappelJo, ivi si dice, di robusta costituzione , (( di maniere affabili e cortesi, e di umore lieto e « festevole , religioso senza ostentazione e nemico « della ipocrisia , caldo di affetto per coloro che « credeva degni della sua stima. Fu franco e severo a nel riprovare il vizio , e non dissimulò mai la « verità per umani riguardi. Fu da ultimo aman- « tissimo dei figli suoi, verso i quali prodigò tutte « le sue cure, ed ai quali se lasciò patrimonio scar- « sissimo, trasmise però una fama illibata, per cui « andranno mai sempre superbi e gloriosi della ve- « nerata memoria del padre loro ». 299 Anneo Seneca e le sue opere. A. Lnneo Seneca , genio originale , genio profondo , scrittore sempre facile , sempre brillante , e tante volte sublime ; qual cumulo di elogi potrebbe mai tributargli l'ammirazione e il trasporto di quelle ani- me, le quali simpatizzano vivamente colla sua, che non debba cedere a quel titolo sì semplice, e pieno di senso, onde egli fu detto per antonomasia Seneca il morale? Se il genere umano potesse esser virtuoso col solo soccorso dei lumi e della ragione, chi piià de- gno di Anneo Seneca di avere aperta la scuola della virtij a lutto il mondo? Nessuno vide meglio di lui Tinfelicità, la miseria, la viltà, e la debolezza degli uonn'ni di un secolo corrotto al pari del suo, di cui Tacito scrisse: Corrumpere et corrumpi saeculum vo- catur. Ma nessuno conobbe come lui quanto rima- neva ancora di grande, di elevato, e di nobile nella stessa natura umana , allorché una voce eloquente ed energica fosse penetrata a risvegliarvi i germi indistruttibili della propria dignità e della propria grandezza. Questo è quello ch'egli volle tentare nei pili tristi tempi di Roma, allorché le circostanze, l'amicizia, e il dovere, gli posero in mano la penna, e gli aprirono involontariamente la carriera di una 300 nuovo filosofìa , e di una nuova eloquenza meglio appropriata ai bisogni del suo secolo. Lo stoicismo avea brillato in Roma nei tempi delle guerre civili; ma Bruto, Cassio, Catone ed al- tri faziosi mostrarono nei loro eccessi l' impeto di una ferocia repubblicana, più che la dolce pacatezza dei principii e della massime del Portico. II secolo di Seneca , che era lo scolo di tutta la corruttela epicurea, esigeva uno stoicismo più flessibile e più popolare. Conveniva in primo luogo incoraggiare l'u- manità contro il terrore del sangue, degli esilii, di mille alti di tirannia che avevano desolato l'impero sotto i lunghi regni di Tiberio, di Caligola, e di Clau- dio, e che erano divenuti la prerogativa del potere imperiale. Conveniva istruirla a sopportare il peso dei mali pubblici e privati, tanto più difficili a so- stenersi, quanto che erano sempre l'opera dei mal- vagi, che del corso ordinario delle cose. Conveniva riaccendere fra i cittadini, l'amore e la benevolenza in luogo dell' amor della patria bandito , o estinto in tutti i cuori dall' egoismo e dal vile interesse ; conveniva finalmente innamorarli della più bella delle virtù, la virtù della benifìcenza, che rende l'uomo partecipe della natura divina, virtù deliziosa all'uo- mo benefico quanto al beneficato, di cui il solo Se- neca ha fatto sentire le inesplicabili dolcezze, in maniera che la stessa più nera ingratitudine del be- neficato non giunge a togliere al benefattore il pia- cere del benefizio. Questo è queir ardente amore per l'umanità , quel sacro entusiasmo per la virtù, onde sono ispi- rati ad ogni pagina gli eloquenti scritti del nostro 301 tìlosotb, i quali dopo l'aureo secolo di Augusto toi- mano il secondo classico monumento della lettera- tura latina- L'eloquenza di Cicerone e la sana cri- tica antepone giustamente la robusta fecondia del- l' oratore dei rostri alla brillante eloquenza dello spirito , di cui Seneca ravvivava le sue pagine nel silenzio del suo gabinetto. Ma il teatro dell'eloquenza di Cicerone era il teatro della gloria e della gran- dezza romana: era d'uopo battere a colpi di martello sulle orecchie di un popolo assordato dai clamori del foro, dal tumulto dei comizi, dallo strepito delle fazioni; e quando Cicerone scriveva in filosoHa o in letteratura, i suoi trattati erarto diretti ai più gravi personaggi della repubblica, ad Attico, a Bruto, a Varrone, a Lucullo. All'incontro il teatro dei talenti di Seneca era quello della mollezza , della super- ficialità; della dissipazione; la sua filosofia era tal- volta costretta a dirigersi alle donne, alle dame di corte, all'Elvie, alle Marcie, o a giovani e a gran- di non meno frivoli, non meno leggeri delle stesse donne , fra i quali convien riporre al primo luo- go Nerone medesimo. Seneca vide la necessità di vibrare lo stile^ per meglio vibrare i pensieri: egli rigettò il periodo oratorio , spezzandolo in rapidi incisi, come tante punte piiì facili a penetrare nel- l'anima dei suoi lettori. La filosofia stoica comparve nei libri di Seneca inghirlandata dei fiori dell'imma- ginazione: e poiché nella Roma dei cesari tutto era belletto, e tutto manierato nelle bell'arti, nel teatro, negli spettacoli, nei costumi, e nel sentimento, Se- neca per servire alla virtù non dubitò d'imbellettare il gusto e 1* eloquenza. 11 suo scopo era quello di G.A.T.CLVin. 16 302 piacere per giungere allo scopo più importante d'i- struire , ed egli si applaudì di avere ottenuto che le fioriture del retore invitassero a gustare i frutti del moralista filosofo. Ciò deve bastare per liberare il grand'uomo della critica di Quintiliano, o molto più dalle insipide pedanterie del La-Harpe. Ma sotto queir apparenza di lusso d' ingegno quante vere e grandi bellezze dì pensieri, di senti- mento, e di stile non si nascondono? Multa prohanda in eo , multa etiam admiranda sunt, dice lo stesso Quintiliano. Detrattori del genio di Seneca, cimen- tatevi a tradurre in qualche lingua il passo seguente che io vi trascrivo dalla epistola 19 a Lucilio: Post Dariiim et indos paiiper est Alexander ; tormentate quanto volete il vostro cervello e il vostro idioma, voi non giungerete ad appressarvi di un passo all'e- nergia di questo tratto sublime! Ora di simili tratti di un genio ardente, sempre originale nelle sue idee e nelle espressioni, quanti non se ne incontrano ad ogni pagina dei suoi libri ? Qual è dunque la ragione di quel prodigioso ascendente che il nome di Seneca e la sua filoso- fia hanno sempre esercitato sullo spirito umano, e nel giro di tanti secoli, fino ad eccitare il rispetto e l'ammirazione negli stessi padri della chiesa, ad esser citato nei canoni dei concili, celebrato da mille penne, tradotto in tutte le lingue d'Europa, e dopo l'invenzione della stampa riprodotto e moltiplicato in più di seicento edizioni diverse ? Qual è quella forza segreta, con che dopo la lettura e la medita/ione dei suoi pensieri egli s'impadronisce di tutto l'uomo, lo cangia, lo trasforma, lo distacca da tutto ciò che 303 è sensibile, comunica alla sua anima una tempera di ferro, e rende l'uomo, se è possibile, alla natura umana? Ah! tali prodigi non sono soltanto l'opera di un ingegno sommo, e di uno stile e frase bril- lante! Essi derivano da una sorgente più luminosa, più sublime ! Chi può dubitarne? Non è la penna di Seneca, ma l'anima del filosofo tutta impressa nei suoi scritti, che opera con tanta energia sullo spirito del lettore: anima forte, anima grande, e serena, che compiange l'umanità, sdegna l'opinione, calpesta i piaceri, deride le ricchezze , sfida il destino , disprezza la vita , e guarda intrepido la morte. Chi non vorrebbe ras- somigliare ad un uomo che si difende dalle debo- lezze umane come da insidiose imboscate del vizio e del delitto, per cui gli onori, la grandezza, la fa- ma, la scienza istessa non sono che beni immagi- nari senza il tesoro più grande della buona coscienza? per cui la virtù è tutto, la vita, la morte , e l'u- niverso un nulla? Ecco perchè Giusto Lipsio divenne entusiasta del gran filosofo, perchè Montaigne è tanto appassionato per lui, e Nicole, Vejèr, Scarron , ed il P. Bartolì non fanno che ripetere le sue lezioni: ecco finalmente perchè il celebre ed eloquente Garat non trovò che nella lettura di Seneca l'unico usbergo contro il terrorismo sanguinario onde agghiacciavano tutta la Francia i palchi di morte, e la guillotlina di Robespierre. Garat diceva: « Ho ristampato le ope- re di Seneca nel momento in cui Robespierre ed i suoi complici cuoprono la Francia di cadaveri, nel momento in cui la scure fa cadere a migliaia le teste recise in mezzo le nostre città, nel momento 304 in cui io vedeva i miei amici nelle mani dei car- nefici, ed il mio nome registrato sulle tavole della proscrizione. Ci rimaneva una sola cosa ad impa- rare: a morire. Qui è racchiusa tutta la filosofìa di Seneca : egli la creò pei romani sotto la tirannia di Nerone, essa divenne più necessaria sotto il regno di Robespierre. Io stesso corressi la stampa della nuova edizione, e moltiplicai pei francesi gli esem- plari di un libro sì utile nella universale calami- tà. La morale di Seneca mi e sembrata sorpassar la natura per la sua sublimità ; in oggi mi sem- bra la pili conveniente alle circostanze e ai biso- gni. Io l'avevo accusata di contristar la vita: oggi non cesso di benedirla per avermi spogliata la morte di tutti i suoi terrori. Io l'avevo biasimata di aver riprodotte sotto tanti diversi aspetti le medesime esortazioni in disprezzo della tirannia, dei carnefici, e dei supplizi; ma io ho compreso, che mentre la natura ci attacca alla vita con tanti legami , per rompere questi nodi bisogna assaltar 1' anima con tutte le forze del pensiero armato delle più potenti e vibrate espressioni. Tiberio, Nerone, e Robespierre mi comparvero collocati alla stessa distanza, e senza alcuna differenza di luogo e di tempo. Passando con- tituamente dalla lettura di Seneca agli avvenimenti della giornata, e da questi alla lettura di Seneca, le prigioni di Parigi ed il carcere di Socrate , le la camera ove Catone si uccise e la piazza della ri- voluzione, tutto ciò si confondeva talmente nel mio spirito, che la mia stessa morte non mi compariva più come un avvenimento futuro, ma come un fatto passato che io avessi letto nella storia- Tal e sul- 305 1' anime nostre il potere di un genio straordinario capace di rompere il corso delle nostre pili vive af- fezioni per far dell'uomo un essere, in cui più non si riconoscono ì tratti universali e permanenti della specie umana. Ah! che era troppo necessaria una fi- losofìa che insegnasse a rinunciare a tutti i beni, prima che vi siano strappati dalle braccia: una filosofìa che vi conduca a passeggiare nelle tombe per familia- rizzarci col nuovo domicilio che dovrete abitare: che vi separi dal genere umano, che non può più nulla per voi : che vi crei finalmente una forza ed una grandezza tutta vostra , la quale i carnefici ed i tiranni potranno distruggere , ma spaventarla non mai ». Conoscerà il lettore che Garat e quell'uomo, il quale avendo fatto il corso sperimentale della filosofia di Seneca, la trovò così vera e felice nei suoi risul- tati di fatto, quanto mirabile e sublime nei suoi principii. Ma vi era bisogno di tutto ciò? La più gloriosa esperienza di questa filosofia non fu por- tata al suo più alto compimento dal filosofo stesso che ne fu l'autore ed il maestro ? Seneca cessan- do di vivere sigillò col proprio sangue la sincerità della sua dottrina, e coronò con una morte ammi- rabile l'onorata e luminosa carriera di tutta la vita. Tacito, principe degli storici, quell'attento scrutatore delle azioni umane, quell'uomo sì diffìcile a credere alle virtù del suo secolo, piega la fronte, e parla col più gran rispetto della virtù del nostroésapiente. Si leggano i suoi annali. Nerone, sotto il falso pre- testo di complicità di congiura, ha già sottoscritta la morte del suo maestro. Rimarranno a questo 306 tiranno altri delitti da commettere, ed egli era stanco che Seneca, vivendo, ne fosse sempre il testimonio. Viene dunque inlimato al filosofo l'ordine di morire; il ferro già gli ha aperte le vene ; la moglie , gli amici si affollano intorno, e si distruggono in pian- to; in questo quadro di desolazione Seneca solo ha l'aria serena e tranquilla. Egli riprende le loro la- grime. Ove sono, loro dice, i precetti della sapienza, di cui per tanti anni abbiamo scritto e ragionato come antemurali contro l'avversa sorte ? Così Se- neca che muore è consolatore di quelli che pian- gono la sua morte: egli spira colla calma del savio qual era vissuto, cioè senza debolezza e senza do- lore. Ma è un fòrte rammarico che io torni a gettare un ultimo sguardo sopra questo moralista filosofo. Gli estesi grandiosi titoli della sua gloria e celebrità raddoppiano la mia tristezza. Leggesi nei suoi libri, e a questa lettura il saggio stoico comparisce il fla- gello dei vizi, il maestro delle virtù morali, il fi- losofo della natura, l'oracolo della ragione. Nemico implacabile delle ricchezze, delle voluttà, del fasto e dell'ambizione, si mostrò precettore eloquente della temperanza, della frugalità, e perfino della povertà bisognosa di tutto, abborriva la colpa e il delitto, più che non amava la vita , sfidava la morte , ed insegnava a morire, piuttostochè piegare il ginocchio all'oppressione ed alla tirannia, o esser istromento delle loro viltà ed eccessi. Ebbene , Seneca , con tal fondo di virtù nell'anima, con tanta energia di sentimenti di cuore, come avrà potuto respirare per dieci anni intieri il miasma pestifero della corte di 307 Nei'one, cioè del più gran mostro che abbia diso- norato la porpora imperiale dei Cesari ! Come ! Ne- rone toglie la vita col veleno all'innocente Britan- nico suo fratello, tutta Roma ne freme, e Seneca resta tranquillamente al suo posto di maestro e di consigliere del fratricida. Nerone ripudia la virtuosa Ottavia per unirsi a Poppea; non basta, Nerone la fa morire sotto calunniosi pretesti; e lo stoico per- siste nella direzione degli affari del palazzo e del- l'impero. Nerone macchina la morte di Agrippina sua madre, la eseguisce col maggior sangue freddoj Roma inorridisce a tanta empietà, e Seneca stende di propria mano l'apologia del parricida, sanziona il delitto come un mezzo necessario alla salute del- l'impero , ed abusa delle cattive disposizioni della madre per iscemare l'orrore che ispirava l'attentato del figlio. Così vide consumare gradatamente sotto i suoi occhi i più orribili eccessi, che acquistarono una spaventosa immortalità ad un regno, il quale è stato una piaga delle più funeste che abbiano afflitto il genere umano. Oh quanto sarebbe stato più degno della sua fama, e dell'ammirazione dei posteri, se il tiranno avesse incominciato da lui a far cadere le vittime del suo odio, risparmiandogli la vergogna di esser posto nella lista di quelli ch'egli destinava immolare! Lo stoico esclamava nel momento fatale: Che altro reslava a fare a Nerone dopo aver messo a morte il fratello, la sposa, e la madre, se non che di far morire il maestro ? Si potrebbe dire in sua difesa, che l'allontanarsi da Nerone sarebbe stato un irritarlo senza correggerlo, né l'ultimo nascondiglio della terra avrebbe potuto salvarlo dalla sua collera. 308 Ebbene; sia ciò tutto vero: che poteva esso temerne? La morte ? Ma non 1' ha meritata aspettandola sì lungamente? E non era piiì degno per lui l'affron- tarla con l'abbandono del tiranno, dando cosi una illustre prova di quanto amava più della vita il vero coraggio e il vero onore ? Dieci anni meno della sua vita avrebbero assicurato al suo nome una eternità di lodi e d' incensi più universali e più meritati; ed uno sciame letterario di uomini assai meno grandi di lui non avrebbero avuto la maligna compiacenza di oltraggiare la sua gloria, calunniare la sua virtù, e denigrare la sua morale. Il maestro di Nerone poteva provargli col fatto quanto egli era degno di avergli dato delle grandi lezioni di regnare nel suo trattato De Clementia composto espressa- mente per il tiranno ; poteva fargli conoscere che il filosofo nella sua corte onorava il soggiorno im- periale più di quello che ne fosse onorato ; e che fuggendo da quelle sale e tetti dorati, egli avrebbe reso celebre anche un villaggio; rimanendo Seneca al suo posto scandalizzò Roma , la filosofia , e la virtù. L'insigne tragico Alfieri, nella tragedia di Ottavia, tenta di giustificare Seneca del gran fallo di aver assistito colla sua presenza ad ogni atrocità com- messa da quel cannibale porporato. Nella 1 scena dell'atto III Seneca stesso è quegli che si discolpa in questi versi: 309 Neron mi seiba in vita ancora; ignota M'è la cagìon; né so qual mio destino Me dall'orme ritrae di Burro, e d'altri Pochi seguaci di virtù ch'ei spense. Ma pur Neron, per l'indugiarmi alquanto» Tolto non m'ha dal suo libro di morte. Io di mia mano stessa avrei già tronco Lo stame debil mio; sol mi rattenne Spenrie (ahi ! fallace, e poco accorta speme): Di ricondurlo a dritta via. E nella 1 scena dell'atta 1 egli avea detto? . . . . .... Ahi stolto Ch'io alior credetti, che Neron potria Por fine al sangue col sangue materno ! Veggo ben or ch'indi ha principio appena. Qui Seneca difende la sua eattiva condotta coli© sue buone intenzioni : e ciò potrà riuscir bene in teatro. Ma chi potrà accogliere con buona fede le scuse di Seneca ? Nerone assassina la madre, si ba- gna nel sangue dei suoi più prossimi, estermina tutti i savi della citti e dell'impero; e Seneca ancora osa affidarsi alla virtù di Nerone ! Ciò eccede tutti i confini del verisimile per esser credulo come vero. Ma qual è dunque il disgraziato principio dei falli e degli errori dei più grandi uomini ? Ah noi lo troviamo in quello che forma purtroppo la debo- lezza comune dei conquistatori, dei poeti, dei filo- sofi! il fumo della gloria, la sete degli omaggi , il desiderio della celebrità- Ora tutto ciò non si ottiene,. 310 se non dove gli uomini sono più riuniti , dove la folla è più grande , dove le opinioni si diffondono più rapidamente, cioè nel centro degli stati , nelle grandi città, nelle metropoli- 11 conquistatore fonda le capitali e le abbellisce, il poeta vi accorre , il filosofo le disprez/a, ma vi soggiorna. Tutti i fon- datori della greca filosofia si fecero ammirare nella capitale della Grecia : Diogene stesso situò la sua nella piazza di Atene. Lo stoicismo di Senaca fu sensibile alle seduzioni della lode, ed egli aspirò a quella della capitale del mondo- Perciò mentre Ne- rone faceva scorrere in Roma il sangue più illustre, Seneca versava il suo dotto inchiostro per istruire i romani; si abborriva e si detestava il principe : si leggeva e si ammirava il filosofo; per l'uno Roma e l'Italia erano il teatro della sua infamia, per l'al- tro l'Italia e Roma erano il teatro della sua gloria. Svetonio storico eccellente, ma ancora maligno, ha accusato Seneca di viltà per aver accettato gl'im- mensi stipendi di Nerone; Proscriplorum bona deglu- tiebat. Ma la sua intrepida e placida morte ha con- vinto abbastanza ch'egli non avea un' anima vile ; sagrifìcò bensì l'onore della virtù all'onore più se- ducente della gloria; cambio tremendo, troppo dif- ficile ad esser pesato sulla bilancia del generale in- teresse. Rammentiamoci che le cento epistole di Seneca a Lucilio , quel capo lavoro di eloquenza e filosofia, sono il frutto immortale del preteso di- sonore delia sua vecchiezza. Chimenz. 811 VARIETÀ' La vergine di Nazaret , contemplata nei principali tratti di sua vita nel mese di maggio a lei con- sarato. Ragionamenti del P. Marcellino da Civezza M' 0. - Prato tip. Giusti 1858. IJellissimo pensiero fu quello che suggerì all'egregio P. Marcellino da Civezza M. 0. di raccogliere in al- trettanti ragionamenti i tratti principali della vita di Maria Vergine: e, dopo averli parecchie volte recitati con plauso dal pergamo in Roma ed in Genova nel mese a lei consacrato, farne presente alla pietà dei fedeli pubblicandoli per le stampe. In un tempo, qual è questo nostro, miseramente fecondo non che di vane e leggiere scritture, ma di libri perniciosis- simi alla buona morale, e sovvertitori d'ogni autorità umana e divina , troppo rileva che coloro a cui , mercè di Dio, è dato di possedere perspicacia d'in- gegno e zelo delle sane dottrine , pongano innanzi ai cristiani lettori opere siffatte, che, come questa di cui favelliamo, valgano a renderli accorti contro le pestifere usanze e la sfacciata bestemmia dei li- bertini d'oggidì, e innamorarli ad un'ora della santità dei costumi e delle auguste verità che sempre e uni- camente derivano dall'insegnamento cattolico. Preso a guida del suo lavoro l'eruditissimo libro dell'ab. Orsini che ha per titolo La Vergine, e col- 312 tone, com'egli stesso ingenuamente confessa, il più bel fiore, divisò l'infaticabile religioso che è il P. Marcellino ridurlo a tale , che offrisse agli animi dei divoti a Maria , brevemente sì ma quanto ba- stasse ad accenderli vieppiù di maraviglia e di amore verso di lei, tutta l'istoria delle gioie, dei patimenti, delle virtù, delle glorie di questa vergine incompa- rabile, unica dopo Dio speranza e delizia dell'uni- verso. Coloro i quali non ignorano con quanta sua lode abbia il eh. autore già dato all'Italia non pochi bei frutti de'suoi nobili studi, fra'quali non ò a ta- cere il Discorso sulla storia universale , - La storia delle missioni francescane, - e i volgarizzamenti dal francese, Dante e la Divina commedia - e La donna cattolica del P. Ventura, saranno facilmente persuasi che il volumetto, di cui diamo notizia ai nostri let- tori, non può non essere fornito di tutti quei pregi che invitano gli amatori delle buone scritture a farne ricerca. La brevità, che questo nostro giornale si è proposta nel far menzione degli altrui scritti, non ci permette di trattenerci più a lungo sul merito di questa nuova operetta- Il perchè, standoci contenti a questo piccolo cenno, daremo fine alle nostre pa- role raccomandandola vivamente a tutti cui stanno a cuore le sublimi verità della santissima nostra religione , e piaccionsi vederlesi rappresentare con eleganza di stile, con caldezza di affetto, con purità di linguagirio. Tommaso Borgogno C. R. S. 313 Operazioni e cure chirurgiche eseguite dal dottor Lo- renzo Bartoli chirurgo primario soprannumero degli ospedali di Boma^ primario esercente nella città di Tivoli, socio di accademie ec. Fano tipografia di Giovanni Lana 1858, edizione in 8.° di p. 64. La valentia del Bartoli, già nota, vieppiù sempre rifulge in quest'opuscolo per operazioni di alla chi- rurgia praticate col piiì sagace avvedimento, e con- seguite con prosperi risultati. Ben quindi il eh- aut. ha divisalo che il suo lavoro fosse indritto ad uso dei corifei della chi- rurgica professione, siccome è l'insigne professore Luigi cavalier Malagodi. A. C. INDICE Di Reisach, Discorso alle accademie romane di s. Luca e di Archeologia . . . pag. 3 Goriy Due curiosi passi de' Mirabili e del Berni relativi ad un Virgilio sospeso a mezza tor- re ec » 22 Viale, Belletto trovato nelle tombe etrusche » 42 Alessandri, Notizie sulle inspirazioni delle so- stanze pulverulente » 48 Laghi, Saggio di sonetti di vari poeti da lui tradotti in latino .......)) 52 Coppi, Discorso agrario » 60 Cappello, Ragionamento sidle culture umide (ter- za parte) » 75 Ponzi, Storia naturale del Lazio . . . » 104 Grifi, Alcuni costumi indicati nelle satire e nelle epistole di Orazio ec » 144 Mercuri, Lezione sopra la divina Commedia » 167 Quatrini, Intorno ad alcuni versi latini d'En- rico Bilancioni .,,....» 205 De-Renzi, Necrologia di Agostino Cappello » 286 Chimenz, Seneca e le sue opere ...» 299 Varietà . , » 311 IMPRIMATUR Fr. Th. M. Larco Ord. Praed. S. P. Ap. Mag. Socìus IMPRIMATUR Fr. Ant. Ligi Archiep. Icon. Vicesgerens Nel giornale si dà il sunto, o viene insc- rilo l'annunzio, delle opere presentate in dop- pio esemplare alla Direzione. Esse debbono essere inviate franche d'ogni spesa di porto e dazio. Le notizie di scienze, di lettere, e di belle arti, quelle di scoperte utili per 1' agricol- tura, industria ec, come anche i programmi dei concorsi accademici, dovranno similmente es- ser mandati franchi di posta alla Direzione. Chi si associa per dièci copie, o ne garan- tisce la vendita, avrà l'undecima gratis. «*«*!»