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N/ 1 Gennaio 1878

GIORNALE

DI

FILOLOGIA ROMANZA

DIRETTO

ERNESTO MONACI

^-^'"'^^

TOSINO ROMA FIRENZE

ERMANNO LOESCHER E C

VI» del Coreo, 807.

PARIGI LONDRA

Libreria A. Franck. Trùbner e 0.

HALI4E

Libreria Lippe rt

(M. Nieraeyer).

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CONTENUTO DI QUESTO FASCICOLO.

E Monaci, Avvertema P^g* 1

A. Cahbllo, Lingua e dialetto » 2

P. Bajna, Estratti di una raccolta di facde , . . . » 13

N. Caix, Sul pronome . . ... . . . . » 43

Tarietà

N. Cau, Etimologie romanee . > 48

E. MoLTENi, Sul Libro Beale . . . . . . . » 50

A. D'Ahooka, Fra (xuittone e ti sig, Perrens . . . . » 53

Rassegna bibUograflca

N. Giix, Hasdeu: Fragmenie pentru Istoria linU)ét romàne . » 55 A. D' Ancona , Novdiine popolari rovignesi race, da A. -Iye . » 5.6 U. A. Canbllo, Sopra una caneone di Gino da Pistoja. Let- tura di P. Canal . . . . . . . -^ » 57

E. Monaci, El magico prodigioso, comedìa de D. P. Caij>»ion

DB LA Basca pubL p. A. Mobbl-Fatio. .... » 58

G. Navone, Studj di erudizione e W arte per A. Bobooononi » 59

BnUettiao blUiograflco

»

Periodici

. . 65

Notisie

» 68

Questo Giornale si pubblica per fascicoli, possibilmente tri- mestrali, in media non minori di pagg. 64 in 8* ^r.

Il prezzo per ogni 4 fascicoli è di lire 10 anticipate in Italia, lire 12 (effettive) all'Estero; per la Germania 10 Mark,

Le associazioni si ricevono dalla casa editrice ErmanxoLokscher B C* (in Roma, in Torino e in Firenze) e presso tutti i princi- pali libraj. .

Per quanto s'attiene alla compilazione, e per l'invio di mss., cambj ed altre stampe l'indirizzo è al prof. E. Monact, Boma^ Via CHulio Bomano^ 115; per quanto poi si riferisce alla ammi- nistrazione r indirizzo è al Sig. Ermanko Loeschkr e C* Bomay Via dd Corso, 307.

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^>ù. COM

^tPr£M86R 1928 17636

GIORNALE DI FILOLOGIA ROMANZA

. . . patriam diversin gcntibus anam.

KUTI'^IO NCMABIAKO.

N.° 1 GENNAIO , 18 7 8

AVVERTENZA

Questo Giornale succede alla Rivista di filologia romanza fondala nel d872 da me e dai carissimi amici miei, il conte Luigi Manzoni di Ltcgo e il prof. Edmondo Slengel della Università di Marburg, Il tempo portò lontani da Roma i due miei compagni di lavoro, e la Rivista per cagioni da me indipendenti nelV Ot- tobre del i 87 6 interruppe le sue pubblicazioni. Non tutti cre- dettero momentanea cotale interruzione, e quando, appianate le difficoltà che già furono d* inciampo al buon andamento di quel periodico, io stavo per rimettermi alV opera, un altro ostacolo mi sorse contro affatto inopinato. La Rivista aveva perduto la continuazione di piti d' uno degli articoli riìnasti incompiuti nei due primi suoi volumi. Non essendo in islato di mantenere i suoi obblighi y io non potevo piti pensare a farla rivivere, E poiché, d' altra parte ^ autorevoli consigli di colleghi e di amici pur mi esortavano a non desistere da una intrapresa alla quale la giovane scuola che or si va formando in Italia, offriva spon- tanea la sua cooperazione, a me non restava se non di comin- ciare un altro periodico, non dissimile dal primo, tuttoché da quello non dipendente. Tanto valga a spiegare il titolo che si legge in fronte a questi fogli e a giustificare la mancanza di ciò che dicesi un programma,

Ernesto Moxaci

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U. A. CANELLO [giornalk di filologia

LINGUA E DIALETTO

Ormai più non v' è chi neghi, od ignori, che gli elementi d'una lingua nelle loro trasformazioni obbediscono a certe generali tendenze, che, ben precisate, si possono anche dir leggi. Molti fatti tuttavia po- trebbero sulle prime far dubitare di questa verità. E egli proprio vero, ad esempio, che le parole latine, nella loro trasformazione italiana, ob- bediscano a norme fisse? Aprendo un dizionario italiano qualunque, noi troviamo a poca distanza le seguenti coppie contraddittorie:

ftaio e flato da flatus;

fiorai e e flebile da flehilis;

fiotto e flutto da fluctus;

fiore e florido da flos e floridus;

fiume e fluviale da flumen e flavialis.

Noi qui vediamo che o la stessa parola latina o due parole che hanno degli elementi in comune, riappariscono in italiano sotto duplice forma : da un lato il nesso fl- diventa /?-, e dall'altro mantiene fl-. Che anzi, tirando avanti a sfogliare il dizionario, potremmo imbatterci in fragello accanto a flagello da flagellum: dove lo stesso fl- latino si è trasformato in />•-. Di più: mentre in fievole e neir arcaico fievile il b tra vocali di flebilis si è ridotto a t?, come si vede accadere anche in bevere da bibere e in scrivere da scribere^ ecco che in flebile esso resta inalterato; e inal- terato esso resta in bibita daccanto a bevere, e in scriba e scribacchiare daccanto a scrivere. Non bastano questi fatti per ragionevolmente conchiudere che in queste evoluzioni fonetiche non v'è norma alcu- na? o che anzi il regno della fonetica sembra il regno della contrad- dizione?

Eppure, meglio considerando gli esemplari che abbiamo ravvicinato, le apparenti contraddizioni si veggono risolversi in accordo finale e so- stanziale. In fatti, le voci in cui il nesso fl- si trasforma in /J, sono di natura interamente diversa da quelle in cui T/Z- si mantiene; e solo la caotica compilazione d'un dizionario le può tanto quanto ravvicinare. Fiato ^ fiore ^ fievole^ fiotto^ fiume sono voci che appartengono o appar- tennero alla lingua parlata, alla lingua del popolo, al dialetto; flato j florido f flebile^ flutto^ fluviale appartengono o appartennero originaria- mente alla lingua scritta, alla lingua dei letterati: sono di quegli ele- menti che, aggiunti a un dialetto popolare, lo fanno assurgere a dignità

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ROMANZA N.o 1] LINGUA E DIALETTO 8

e nome di lingua. E pretendere che la stessa voce latina si comportasse nello stesso modo in bocca del popolo fiorentino e negli scritti dei let- terati italiani sarebbe non meno assurdo del pretendere che i Francesi parlassero come gl'Italiani. Infatti, le voci popolari e le voci dei let- terati sono state formate in modo del tutto diverso. Le voci popolari fiorentine, quelle, cioè, che fin dal principio appartennero al dialetto di Firenze, sono giunte dall'età latina alla nostra per tradizione continua- mente orale: i figli le appresero dalla bocca dei padri e le insegnarono ai loro figlioli; e poiché non sempre i figlioli riuscivano a correttamente percepire la voce che veniva loro insegnata, oppure non correttamente sapevano riprodurla, ecco che a mano a mano essa si trasformava, ac- conciandosi agli organi delle successive generazioni; e flatus , flos, fle- hilis, fluduSy flumen si mutarono in fiato, fiore, fievole^ fiotto^ fiume. Al- l'opposto, quando i dotti fiorentini od italiani andarono cercando nel latino voci nuove per significare quelle nuove idee, che essi, superiori al popolo, venivano escogitando o disseppellendo nei libri antichi , non v'era alcuna ragione che essi, adottando flato ^ florido, flebite, flutto fluv^iale, mutassero quel fl- in /?-, ovvero il b di flebile in t; : i loro oc- chi rilevavano nettamente la parola latina, e le loro penne corretta- mente potevano riprodurla; e però la conservarono presso che intatta, limitandosi a toglierle certe desinenze, che troppo avrebbero stonato nel corpo delle voci fiorentine a cui la nuova veniva aggregata.

L'apparente contraddizione, pertanto, che scorgevamo tra fiato e flaio^ e tra fiore e florido, ci si mostra insussistente: fiato e fiore sono perfettamente regolari secondo le norme del dialetto, secondo la par- lata popolare; flato e florido sono regolari anch'essi, ma secondo le norme della lingua scritta, della lingua dei dotti: fiato e fiore sono stati fatti cogli orecchi e colla glottide ; flato e florido sono stati fatti cogli occhi e colla penna.

Partendo dal fatto costante, che tutte le lingue letterarie risultano di due strati di parole, uno dialettale popolare e l'altro scritto, lette- rario, i filologi, nel rintracciare le leggi evWutive d'una lingua, già da un pezzo hanno cominciato a tener ben distinti questi due strati, e a cercare per ciascuno leggi speciali. Essi hanno per uso di raflfrontare dapprima i termini pivi ovvii, i termini, la cui popolarità non può punto esser dubbia: e da questi desumono le leggi generali della lingua, che sono più veramente le leggi del dialetto; e quando così hanno gua- dagnato un sicuro criterio per meglio distinguere le voci popolari, rie- scono a separarne con facilità le voci di origine letteraria, che fanno come eccezione alla regola fondamentale. il distinguere nettamente fra lo strato popolare e lo strato letterario è cosa vana o di poco mo- mento. Con questa distinzione si è già riusciti all'ingrosso a vedere quanto nella formazione e nell' arricchimento d' una lingua sia dovuto

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4 U, A, CANELLO [giornale di filologia

a quella provincia o a quella città che ne ha dato il fondo primitivo , e quanto sia dovuto air opera concorde di tutti i migliori d* una nazione i quali si sono serviti di quella lingua e vi hanno apportato, colle nuove idee, le nuove espressioni.

Ma l'esatta distinzione di questi due strati, quanto è feconda di mirabili rivelazioni, altrettanto è anche irta di difficoltà, che finora sono state mal a pena sentite. E le difficoltà hanno origine doppia. Poiché può darsi per primo che molte voci, le quali in origine appartenevano al fondo dialettale d'una lingua, sieno poi state obbliate dai parlanti e surrogate da altre, mentre pur continuano a far parte della lingua letteraria o almeno del suo tesoro lessicale. Tal è, ad esempio, il caso di stèlo ^ che oggi dicesi comunemente « gambo,» e viene secondo le norme popolari dal latino sftlus; tale il caso di vèglio per e vecchio,» voce ormai uscita dall'uso corrente e rimasta alla lingua poetica, ma che in origine fu popolare, poiché solo il popolo poteva trasformare il latino vétulus veUns veclus in vèglio; tale è il caso di speme, di spirto^ di rio (da retis)^ di léce (da Ucet); tale è il caso di spèglio, da spectdum, popolare alle origini, poi rimasto solo ai poeti, e ormai condannato a trascinare vecchiaia inoperosa nei lessici. Ma le difficoltà di questo ge- nere, benché a volte molto gravi, non sono però le più penose: lo studio della fonetica e un buon dizionario dell'uso vivente vi rimediano. La distinzione dei due strati diventa qualche volta presso che disperata a motivo di quelle voci, che in origine furono dovute bensì ai dotti, ma a mano a mano sono poi state adottate dal popolo ed ormai fanno parte della parlata comune. Tali sono, ad esempio, poèta, profèta^ arèna; voci che, senza il criterio delle leggi fonetiche, saremmo disposti a chiama- re, senz'altro, popolari. Ma, secondo la fonetica dello strato popolare, tutti gli e latini, lunghi ed accentati, diventano in italiano e stretti o anche i; mentre restano e larghi nelle voci letterarie, per la ragione che i letterati pronunciano ora con suono largo tutti gli e accentati del latino. Ora poeta ^ profeta e arena aveano in latino un e lungo ed ac- centato , ed hanno in italiatio , invece d' un e stretto o d' un i , un e largo; essi dunque saranno di formazione letteraria, e solo più tardi dai letterati li avrà imparati anche il popolo. Consideriamo inoltre afflig' gére e legittimo. Afflìggere con quel suo // conservato dal latino affligere, ci si rivela subito come voce di formazione non popolare: le voci po- polari mutano, come vedemmo, 1'^ in /?; ma viceversa poi quel gg della voce italiana, di fronte al g della latina, ci dice ch'essa voce non può essere nemmeno una creazione dei dotti, i quali non avrebbero avuto nessun motivo di raddoppiare qui quel g che hanno lasciato scempio in dirigere prediligere e simili. Dunque, che cosa sarà? Sarà che la voce latina, adottata dai nostri letterati sotto la forma originale ài affligere, passando poi in bocca al popolo diventò affliggere sulla norma di leggere

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BOMANZA ».<» 1] LINGUA E BI ALETTO 5

da legere e di reggere da regere. E così legittimo da Ie0iinu8^ di fronte al popolare légge da lègem^ ci si mostra voce di formazione letteraria; e di formazione letteraria la rivela anche quell'i accentato, che, venendo da ì latino, avrebbe dovuto mutarsi nella tradizione orale in e stretto: si confronti il popolare lécito e il letterario licito, tutti e due da lìcitiis. Ma il doppio tt di legittimo di fronte al t scempio di legitimus, non può essere opera dei letterati : può essere dovuto soltanto alle pronuncie po- polari. E così anche legittimo ci si dimostra voce d* origine letteraria, trasformata poi tanto quanto dal popolo.

E la conclusione? La conclusione sarà che la distinzione assoluta fra lo strato popolare e lo strato letterario non regge ; che tutte le voci potranno bensì distinguersi, per ragione della loro origine prima, in popolari e letterarie; ma, in ragione dell'uso, converrà stabilire molte altre categorie, entro le quali raccogliere da un lato le voci che popo- lari d'origine vivono ora soltanto negli scritti; e quelle altre molto più numerose che formate dai dotti sono poi diventate piiì o meno popolari.

Sarebbe certo importante, con questi nuovi criteri, raccogliere a parte tutte quelle voci di cui si riconosce la schietta formazione popo- lare, per scernere poi di tra loro quelle non poche, le quali hanno ces- sato ormai d' essere in corso e che i lessici notano come arcaismi o voci poetiche. Oltre che ottenere così quasi un inventario della cultura, in una data età, di quel popolo che ha dato all'italiano o al francese il fondo primitivo della lingua, noi vedremmo in quelle altre pur popolari ed ora obbliate dal popolo formatore, quanto questo popolo stesso ab- bia mutato della sua cultura e del suo modo di concepire e chiamare le cose per influenza o dei letterati o dei dialetti e popoli vicini, che seppero far prevalere le loro idee e le loro voci.

Ma ben più importante è un altro compito che spetta alla scienza , e che la scienza finora ha troppo trascurato e quasi ignorato: si tratta di raccogliere tutte le voci di origine letteraria e classarle in modo che restino distinte quelle che, fatte cogli occhi e colla penna, non sono mai uscite dai libri che le hanno viste nascere, o solo da pochi dotti sono state pronunciate; e quelle altre, che per qualche leggera modifi- cazione mostrano d' essere passate qualche tempo anche per gli orecchi e per la bocca, se non del popolo intero, della sua parte più colta; e infine quelle, che, senza aver raggiunto il grado di alterazione proprio delle voci popolari primitive, pur di tanto si mostrano cangiate dalla forma sotto cui i dotti le hanno messe in giro, che rivelano un prolun- gato passaggio per gli organi fonici del popolo intero. Distinguere esat- tamente queste diverse classi di parole : quelle fatte unicamente cogli occhi e colla penna, e quelle alla cui elaborazione oltre gli occhi e la penna dei dotti hanno contribuito in misura più o meno grande, du- rante un tempo più o meno lungo, anche gli orecchi e la glottide di

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6 U, A. CANELLO [giornale di filologia

buona parte o di tutta la nazione ; e' vorrebbe dire tracciare con tutta evidenza la storia intellettuale di questa nazione istessa; sarebbe un sor- prendere le idee dei migliori, degli studiosi, nel loro lento e tranquillo insinuarsi nella massa popolare, e il reagire di questa massa popolare che le intende come può, e un po' per volta le adotta, costantemente mirando a innalzarsi verso i migliori, verso quelli che le danno e le parole e le idee.

Se adunque si può ragionevolmente parlare d' uno strato dialettale che costituisce il fondo primitivo d' una lingua letteraria, purché con questa frase s' abbraccino solo quelle voci che proprio fino dalle origini appar- tennero alla parlata, quelle voci che sempre, senza discontinuità, furono tramandate cogli orecchi e colla glottide; non ugualmente ragionevole è parlare d' uno strato letterario, d' un fondo di parole dotte. Le parole d'origine letteraria vanno divise e suddivise in molteplici strati e stra- terelli sovrapposti V uno all' altro e diversi fra loro per età e qualità. Una lingua letteraria si può immaginare costituita come il nostro pia- neta, da un nucleo centrale omogeneo, in cui non s'ha traccia storica di vita, e da tante fascie presso a poco concentriche, che si succedono fino alla superficie, narrando ora al geologo le fasi diverse per cui la terra è passata. Partendo dalla superficie e movendo verso il centro, la vita animale e la vita vegetale si fanno sempre più scarse, finché spa- riscon del tutto, per far luogo a quella attività latente, lenta ma inces- sante, per cui anche le morte rocce si posson dire viventi. E così mo- vendo dagli strati superficiali delle voci di formazione letteraria noi vi troviamo il fiore della vita intellettuale moderna , vita che va scemando via via che si scende verso gli strati già popolarizzati , già assimilati quasi da quel nucleo centrale omogeneo, in cui la vita intellettuale, in quanto è movimento continuo, di tutti i giorni, verso nuovi orizzonti del pensiero e del sentimento, sembra cessare del tutto nel ristagno delle opinioni e superstizioni popolari.

Io tenterò di mostrare con alcuni esempj, tolti dall'italiano e dal francese, non tanto l'utilità di ben distinguere in una lingua le voci schiettamente popolari dalle voci di origine letteraria, quanto e piìi di ben classare in diverse categorie quelle voci , che rivelano un' attività mista di letterati e di popolo.

Pigliamo l'italiano libro, che i latini dissero liber^ acc. lihrum. Il latino libra ha dato all'italiano libbra peso, e lira moneta; e al fran- cese ha dato livre^ moneta e peso. Analogamente il lat. labrum, per labium^ ha dato al nostro popolo fiorentino labbro^ e a quello di Parigi Uvre; e faber, acc. fabrum, ha dato a noi fabbro e ai Francesi quel févre eh' è in orfèvre «orefice,» quasi aurifabrum. Nell'italiano del popolo adunque un -&r- latino o diventa -6&r-, ovvero si riduce ad -r-; e nel francese diventa sempre -rr-. Il francese Uvre, così, da librum è in piena

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ROMANZA ».• 1] LINGUA E DIALETTO 7

regola; e per questo conto noi dovremmo metterlo tra le voci popolari; lihro^ in italiano, esce dalla forma popolare, che vorrebbe ìihhro o Uro, e però sarebbe da mettere fra le voci di formazione letteraria. Conclu- deremo noi che il lìber dei Latini è rimasto popolare in Francia ed è stato scordato dal popolo fiorentino? Non è ancor tempo di conchiuder nulla. Infatti, Vi di librum è breve; e come tale avrebbe dovuto mu- tarsi in e stretto nelle voci popolari italiane, come si vede in lécito^ féde^ véde^ iiéro ecc. da Itcitus, fides ecc.; e avrebbe dovuto mutarsi in oi ov- vero in e nelle voci popolari francesi analoghe, come si vede in fot, voit, uoir, doigt ecc., o in vert da mridis^ in verre da vìtrum, e in net da fìitidus. Se adunque il latino liher Itbrum, suonando per noi libro, e non già Uro o lébbro, mostra di non aver avuto vita continuamente popo- lare; alla sua volta diventando nel francese livre, e non già ìoivre o ìevre rivela le sue origini non popolari anche tra i Francesi. E noi con- chiuderemo ora che Y idea e il nome del liber latino sono stati obbliati nel medio evo sia in Francia che in Italia. Obbliati però per un tempo non lunghissimo: che ben presto vennero a farlo ricordare i letterati, per opera dei quali livre rinacque in francese e libro in italiano. L' uso, che il popolo francese fece poi lunghissimamente di livre^ si rivela an- che nella forma di questa parola, nel mutamento del b originario in v; mentre nessuna traccia materiale dell'uso popolare porta indosso il no- stro libro: ciò che si spiegherà, non col supporre che i Francesi ab- biano fatto uso pili di noi di questa cosa e di questa parola, ma col ricordare che in genere molto più profonde sono le modificazioni che gli organi fonici francesi fanno sostenere alle voci latine. Analogamente si potrebbe dimostrare che il nostro bibbia e il frane, bible^ tutti e due derivati dal latino ecclesiastico blblia (plur. di biblion^ diminut. greco di PcjSao;) sono voci di origine dotta, ma pur lungamente adoperate dal popolo. Era questo il libro che gli ecclesiastici insegnarono a conoscere al popolo, mentre i letterati gU ravvivarono la memoria del libro o dei libri in generale: il popolo incolto avea forse a un certo momento ridotte le sue conoscenze librarie al quaderno, in frane. Cahier^ dal la- tino quafernunìj che possiamo supporre come singolare di quaterni e a quattro a quattro, » o da quateìiiio^ « libretto di quattro carte, » forse quello in cui i migliori tra i capoccia medievali avranno notato le spese di casa.

Altri esempi di voci dotte, diventate popolari nell'italiano, sareb- bero il consolo degli antichi nostri comuni, pataffio per epitafio^ pistola per epistola, micrania per emicrania; e più notevole di tutti quelV Itaglia, che molti deputati pronunciano in parlamento e che un ministro ebbe la sbadataggine anche di scrivere. Italia, il nome del nostro paese, in quanto è patria d'una nazione, non s'è conservato dai tempi latini fino

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8 U. A. CANE L LO [giornale di filologia

ai nostri nella tradizione popolare, la quale pnr sempre ricordò Roma, Fireiue, Napoli, Milano, cioè le singole e piccole patrie: il nome d'Italia s'è conservato solo nei libri, dove fu ripescato dai tanti animosi che negli antichi libri ricercavano il santo ideale della nostra unità e il nome che lo rappresentava. Italia^ infatti, se si fosse conservato presso il po- polo, avrebbe dovuto diventare in fiorentino Itaglia^ così come folium è diventato foglio^ e palea paglia, mirabilia meraviglia, fUia figlia. Le voci dotte invece conservano il suono e l'ortografia latina, come si vede in Virgilio^ Cornelio, Giulio, parelio e simili; in soglio o sólio da sólium^ e in esilio o esiglio da exUium si oscilla tra la forma popolare e la dotta. La nostra Italia , risorta nella mente degli studiosi, di trammezzo al frazionamento dei comuni medievali, si conservò Italia; e solo ora, dacché se ne fa un cerio parlare anche fra il popolo, il nome comincia ad assumere le forme popolari; e se un ministro scrisse Jifa^r^wi, nel Ve- neto i contadini parlano dolV Italgia^ e dei Talgiani capitativi dal ses- sautasei.

Ma per la ragione già accennata, che l'italiano non altera molto la forma delle parole latine, e quindi tra la parola di origine letteraria e quella di origine popolare c'è spesso nn solo passo; rade volte si riesce col sussidio delle leggi fonetiche a determinare la, direi quasi, quan- tità dell'elaborazione popolare di parole dotte. Ciò riesce assai meglio nel francese, dove le voci puramente letterarie sono tanto distanti da quelle puramente popolari, che resta in mezzo molto spazio, restano molti gradi di alterazioni intermedie, per le quali si rivelano le elabo- razioni miste di^ popolo e di letterati. Cercheremo di mostrarlo collo studio di due esemplari , la cui storia importa non poco alla storia della cultura francese: i due esemplari saranno Diett e esprit.

L'idea di Dio, d'un Dio supremo, del Dio per eccellenza, s'è ella sempre conservata presso i Francesi, durante l'età gallo-romana, du- rante le invasioni germaniche, nell'età barbarica che accompagnò la caduta degli ultimi carolingi e il venir su dei primi capetingi, allo spuntare della lingua e della nazione novella? Io ne dubito; ed eccone il perché. Nelle parole popolari francesi la sillaba us od um, finale la- tina, svanisce, o si riduce ad e muta se precede una doppia liquida o consonante muta e liquida: abbiamo an (anmis), chetai (cahallus), fruii (fructus)^ tout (totus); e poi verre (vitrum), pomme {pomum)j peuple (populus), doublé (duplus) ecc. Ma a questa norma non obbedisce Dieu o Deu, come anche si disse in antico: dove si vede Vus o um finale mantenersi. Nel provenzale, dove anche nicus mieus, noi troviamo perfettamente in regola, e però popolare, il nome di Dio: Dieu-s; ma nel francese, cioè nei dialetti della Francia settentrionale, dove certo la barbarie fu più lunga e più grave che non in Provenza, non ci ha modo

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BOMAIOEA N.** 1]

LINGUA E DIALETTO

di trovare nn analogo popolare al Dieu (1). infatti meus ha dato mis e mes, non mieus come nel provenzale, e Dieu o Deu deve esservi giudicato voce di formazione non popolare, voce non rimasta vìva nella memoria del popolo. E chi V avrà insegnata al popolo saranno stati na- turalmente gli ecclesiastici, i quali conoscevano bene il loro Deus latino e lo predicavano tale e quale nelle omelie latine fino al principio del secolo IX , nelle volgari dappoi. E il popolo imparò a conoscerlo con queir «5 ed um finale, e così se lo appropriò, e ne parlò poi tanto da mutarne Ve breve accentato in ic, come veniva facendo nei casi ana- loghi. E così il nome di Dio venne ad avere in Francia una forma mezzo dotta e mezzo popolare, come mezzo ecclesiastica e mezzo popolare era stata la tradizione di questa idea filosofica e religiosa. Un riscontro no- tevole a questo semipopolare Dtew, antic. Deu^ ci è offerto dal moderno h^reu, in antico anche ebré ébrey dal latino hébrcieus^ di fronte al mo- derno Jutf, in antico anche judeu, dal \a,t.judaeus. Juif^ quasi ds.judaevuSj è il termine popolare o maggiormente popolare, col quale s* indicano ora le persone e le cose d' Israele ; Mbreu è la voce dotta o semidotta colla quale si chiama la lingua dei Juifs (2).

Il secondo notevolissimo esempio è quello di esprit. L'esprit, che ora tanto abbonda ai Francesi, in altri tempi dev'essere loro mancato del tutto, se pure non l'hanno chiamato con nome diverso. La voce esprit non appartiene al fondo schiettamente popolare della lingua fran- cese; essa ne offende per più modi le leggi fonetiche, e meglio invece obbedisce a quelle delle voci dotte. Infatti, nelle voci popolari del fran- cese, l'accento si mantiene, per norma, al posto che occupava nel latino. Si badi a prétre ant. prestre à^ préshyter , évéque da episcopus^ rangon da redemptiónem , raison da ratiónem^ tutte voci popolari; e si confron-

(1) L'antico fr. ha bensì, daccanto a de-us, le forme dex^ diex , dix; ma, se- condo il DiEZ , Grammaire II , 45, diex sa- rebbe per dieu-s, poiché « à Tanalyse ap- profondie et claire de Burguy » sarebbe riuscito di dimostrare l'equazione -a? =m5. Veramente il Burouy, Gram. 1, 91-94, parla d'una contrazione di -Is in -a?, benché poi Tenga ad ammettere la scrittura -x per -us, eh' è ammessa anche dal Bartsch, Chr. anc. ft^an^. 504. Ma comunque sia di ciò, sia il fatto che si hanno auche esempj di de de-s per deus: il Bartsch ha des nel glossario, il Burguy cita un ^t de noni. plur., I 271, lin. 26 dall'alto; e la cortesia del nostro Monaci m'indica un altro esem- pio negli Altfranz. Lieder del Matzner,

(Gassb, II, 37) dove De è in rima, e quindi sicuro. E resta quindi provato che una sot- tile tradizione popolare di Devs ci sia stata anche in Francia; ma tanto sottile da venire interamente distrutta dalla forma ecclesia- stica.

(2) E neppure il diavolo diable ha forma popolare nel francese, ad onta che in diable si conservi l'accento dell'originario diafto/»* ^lajSoXoc. Come da diurnum s'ebbe jour, cosi da diaholus il popolo avrebbe fatto jable o qualcosa di simile. Non popolare è da dire ancora nel francese diacre {didco- mts), diamant e altri simili; e in gene- rale non basta il criterio dell'accento latino, che si mantenga nel francese, per dichiarar popolare l'origine d'un vocabolo. 1*

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10 V, A. CANELLO [giornale di filologia

tino colle seguenti di origine dotta: Italie da Italia^ fragile da frdgilis, facile da fàcilis, patrie da pàtria, examen da exàmen, colonie da colònia e simili; e si vedrà che dal latino spiritus non si potè avere per tradi- zione popolare un esprit, coir accento spostato, quasi che si trattasse d'un latino 5p/n7i/5 (1). Spiritus, infatti, cominciarono a leggere erro- neamente i clercs medievali di Francia, fino da quando essendosi svolti dal latino i nuovi dialetti popolari francesi, nei quali l'accento cadeva sempre sulF ultima o sulla penultima, con queste nuove norme si co- minciò a profferire anche il latino; e si disse spiritus come si diceva peupleopeùples, fcinme o fémmes. C'è di più: i popoli di Francia, che appresero il latino, pare avessero somma difficoltà a proferire un 5 im- puro; e però per tempissimo, pure scrivendo schola, scribere, spatha, pronunciavano es-cóla, es-crihere, es-patha, cercando quasi con queir e prefisso di staccare lo s dalla consonante che segue: anche adesso, in- fatti, i Francesi mostrano la stessa difficoltà, poiché sillabano es-prit, es-tomac, es-tradc. Più tardi, verso la fine del secolo XII, quel s dinanzi a consonante, parve ancora difficile a pronunciare, e venne fognato. S' intende però : nelle voci di uso popolare ; che i dotti potevano age- volmente scrivere questo s incomodo alla glottide dei parlanti. E così le antiche forme escole, espée, escrire, prestre, évesque ecc. divennero école, épèe, écrire, prètre, évèqiie. Ma quello spiritus, che, insegnato dai clercs al popolo era diventato espirit, come infatti dissero i Provenzali, od esprit, sopprimendo la vocale atona, non giunse fino al terzo grado deir evoluzione, non si fece éprit: di fronte ad école, épce, écrire e si- mili, esso è rimasto indietro di un punto, per la buona ragione ch'esso era entrato nell'uso popolare, quando schola, spatha e scrihere aveano già percorso un tratto della loro strada verso ccole ecc. Questo esprit adunque, ora tanto popolare in Francia, ci si rivela per voce indubbia- mente di origine dotta, per voce fatta alle prime cogli occhi e colla penna, desunta non dalla bocca dei latini, ma dai loro libri. Ma esso è entrato da tanto tempo nella parlata francese, che vi ha dovuto so- stenere parécchie forti modificazioni, le quali, di fronte alle forme let-

(1) « Espir, (lice G. Parts, Étìtde svr vo difficile la caduta del -t in un nesso come

le vale de Vacccnt latin f p. 40, nVst pas rare questo: si sarebbe aspettato un espiri, In-

(voy. entr« autres Jobj p. 450, 502; Iluon de fatti -rt non si riduce mai , eh' io sappia , a -r

Bordeai'Xy y. 154G; Trvbert, v. 1781). nel frane, ant.: l'esempio di coirr da cokor-

Spiritus, soufflé ou pensée, a sans doute te- non regge, gli antichi dicendo sempre

(ìonné espir; spiritu.t, l'esprit saint, a donno court {v.L\ttré); court perdette il suo -t

espirit ; pms on a confondu Temploi des deux per la tendenza letteraria a ravvicinarlo a

jnots >». Ma r antico fr. espir non sarebbe curia. Sicché resta oltremodo incerto se per

piuttosto, come sospetta anche il Bracuet spiritus ci sia stata nemmeno quella sottilis-

{Dict. Doubl. sì'ppL p £), il parallelo del no- sima tradizione popolare, che pure abbiamo

fiXvo spiro, nome estratto da. «fptraj-e/' Io tro- dovuto ammettere per Deus,

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R03IANZA X.» 1] LINGUA E DIALETTO 11

terarie recenti, come specfacle, specimen ^ spéciàlité^ o meglio, di fronte ai snoi consanguinei spirifuel^ spiritualiste^ lo fanno credere schietta voce popolare. Queste apparenze tuttavia non ingannano il filologo che, studiando la forma di Dieu e di esprit^ può dimostrare con molta pro- babilità come qualmente questo popolo, ora tanto divoto e tanto spiri- toso, in qualche remota sua età abbia nella sua grande maggioranza ignorato e lo spirito e Dio.

La storia di esprit e di Dieu sono notevoli anche per un altro verso : essi ci mostrano quanto antica sia T immissione di voci dotte nei dia- letti popolari. Queste due voci infatti ci appajono antiche nel francese quanto il francese stesso, vale a dire quanto sono antichi i documenti di questa lingua. Ma certo sono esistiti dialetti francesi prima che ve- nissero scritti con tanta abbondanza che ne restasse a noi qualche prova. E fino da quando, di fronte alla rozza massa popolare venne costituen- dosi in Francia un certo strato di persone colte, di preti, di frati, di notaj, i quali leggevano e scrivevano il latino, e sapevano più cose e di più cose discorrevano che non la gente volgare; fino da allora al- cune voci letterarie, alcune di quelle voci, che cotesti clerici usavano nei loro libri , in quel barbaro linguaggio che pretendeva essere sempre latino, hanno potuto farsi strada fra il popolo e nicchiarsi accanto a quelle altre già notevolmente trasformate, già mezzo francesi, che il popolo conservava per continuata tradizione dai tempi della dominazione romana. Quel barbaro latino, che allora si continuava a scrivere, era per il volgo ciò che ora è per il volgo italiano l'italiano grammaticale. E come molte voci di questo buon italiano vengono adottate quotidia- namente da chi parla i diversi dialetti, così anche allora, ma certo in misara più ristretta, da quel barbaro latino, che si diceva grammatica^ hanno potuto alcune voci passare nelle parlate popolari.

E ognun vede oramai per questi cenni quanto sia difficile segnare le leggi dei diversi strati, che costituiscono la dote letteraria d'una lingua. Essa è divisa per strati, che formano una scala continua, la quale conduce dalle voci schiettamente popolari a quelle di forma cru- damente latina. E i fatti che costituiscono ogni singolo strato, in ispecie gli strati più profondi, sono troppo pochi, perché se ne possa ricavare nna legge. Ma la difficoltà della ricerca non deve farla abbandonare. Nella storia del latino che diventa italiano, francese, spagnolo ecc. , noi siamo in queste condizioni: che il periodo discendente, il periodo del rirabarbarimento c'è quasi del tutto nascosto; noi non abbiamo docu- menti che ci rivelino il lento e continuo obliterarsi delle singole voci, che si riferivano all'antica cultura, e che diventavano inutili e però si dimenticavano nella nuova crescente barbarie; ma, detraendo dal te- soro lessicale di ciascuna lingua tutto quello eh' è aggiunta posteriore, eh' è creazione' letteraria antica o recente, noi resteremo con un certo

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12 LINGUA E DIALETTO [giornale di pilolocha

numero qua maggiore e minore di voci , le quali ci rappresenteranno il punto estremo di barbarie a cui sono giunti i singoli popoli del mondo latino, ci diranno a qual misero numero d'idee si fosse ristretta la loro mente; ci scopriranno, insomma, il risultato finale della decadenza e insieme il primo punto di partenza per il nuovo periodo ascendente, che, in massima, possiamo fissare verso il mille. E i tanti strati successivi delle parole dotte ci permetteranno da questo momento in poi di chia- rire ciò che ci era negato nel periodo discendente: in questi strati di parole noi avremo la prova storica della successiva immissione di nuove idee, che, partendo dalla superficie tendono al fondo; che, nate nella parte più eulta delle rinnovate società, tendono ad accumunarsi anche agli strati meno colti. Lo studio attento della lingua letteraria, che di- venta dialetto popolare, sarà lo studio delle idee dei dotti, dei colti, che diventano idee nazionali, idee popolari: sarà studio di ideali che diventano realtà.

U. A. Càitello.

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KOMAKZA, 11.*» 1] P. BAJNA 18

ESTRATTI

DI UNA RACCOLTA DI FAVOLE

n nnmero 168 della lettera N, pJ* sitp/* appartiene nella biblioteca Ambrosiana ad un codice di modeste dimensioni e di poca appariscenza. Son 48 foglietti di pergamena, alti 22 centimetri, larghi 15. I primi 40 e il recto del 41° contengono un trattato medico-morale ma molto più morale che medico che s' intitola Liber de medicina anime (1). La scrit- tura è del secolo XIII. Seguono cinque facciate (f.** 41M3'') di una mano dÌTcrsa e alquanto posteriore» che può assegnarsi con sicurezza al tre- cento y con verosimiglianza alla prima, piuttosto che alla seconda metà. E questa parte del manoscritto, che io intendo di studiare e di pubbli- care. Di quanto abbiam qui, andiam debitori, per ciò che sembra, ad un caso frequente, e benemerito assai degli studi medievali. Nel codice era rimasta oziosa qualche pagina. Delle cinque facciate solo quattro sono leggibili ancora; la quinta, dovuta essere per un tempo non breve l'ul- tima del manoscritto senza che un foglio di guardia la proteggesse, ci caratteri quasi svaniti, e non più decifrabili, se non forse con fatiche, che poi non avrebber compenso adeguato. Per essere esatto fino allo scrupolo, avvertirò che la carta di cui questa pagina è il verso^ si riconosce, per indizi non dubbi, essere una giunta. Bisogna supporre che lo spazio si fosse esaurito prima della materia. Quanto ai fogli 44-48, non saprei dire quando sien stati aggregati al volume. Quattro di essi apparten- gono alla categoria dei fogli bianchi, ossia di quelli, dove ciascuno si diverte a scrivere ciò che gli piace. 11 quinto invece, frammento sviato di un altro codice, è coperto quasi per intero di scrittura antica (2). Si trova nondimeno fino dalla prima metà del quattrocento associato agli

(1) Non so se ne sia noto l'autore. L*es- quarta indici. Vien poi la notissima pa- ser riuscite vane le poche ricerche da me rabola dell' uomo, dell' unicorno e del ser- fatte, non basta a permettermi di affermar pente, cosi ampiamente diffusa nelle nostre nulla in proposito. regioni occidentali, per opera soprattutto del

(2) Vi si legge il termine di una pre- Barlaam e Giosa fatte, V. intorno ad essa ghiera latina. Segue in rosso: Anno domini Benpey, Pantsch., I, 80.

iniUesimo ducentessimo nona gesimo primo

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14 P. HAJNA [uiORNALE Tì\ Pn.OLOGlA

altri quattro, giacché dev'esser di quel tempo una mano che vi cercò un posto per le due ultime strofe di un noto ritmo alla Vergine (1) che aveva cominciato a scrivere nel f.° 41.

Ritorno alle mie cinque facciate, ossia, poiché ognuna è bipartita, alle dieci colonne. Esse contengono due testi distinti. Il primo termina alla metà circa della colonna settima. Dopo un breve intervallo, comincia il secondo scritto, che prosegue sino in fondo alla colonna nona, dove forse non finiva neppure. Di quest' ultimo ho poco a dire, e però me ne sbrigo immediatamente. E una raccolta di sentenze in provenzale: parte ritmiche, parte no. Pubblico le dieci prime, che sole mi è dato di leggere senza troppo stento.

Del primo testo devo invece discorrere molto, ma molto a lungo. Esso consta di 215 versi volgari, interrotti da titoli latini in rosso. Che cosa son gli uni, che cosa son gli altri? I titoli sono gli argomenti di una serie di favole, di cui i versi ci danno le moralità. La parte nar- rativa manca, ossia, fu tralasciata nella nostra copia, la quale essa o un suo modello, poco importa da una mescolanza d'utile e dolce, volle cernere l'utile puro. Che questa sia veramente l'origine della rac- colta, e che non s'abbia qui nient' aflfatto l'opera completa di un ver- seggiatore, che volgarizzasse e rimasse le sole sentenze, è cosa più che certa. Il carattere essenzialmente frammentario del testo e la soppres- sione materiale dei veri apologhi risultano, per dir solo delle prove piìi pal- pabili, dalle voci e frasi, colle quali a volte s'incomincia (2) ; dalle allusioni al racconto, inintelligibili senza la conoscenza di quello (3); dall' esser messe talora le sentenze sulla bocca dei personaggi della favola (4) ; da qualche residuo di narrazione, conservato accidentalmente (5); infine, dalla presenza e dalla natura delle intitolazioni latine.

Resta da considerare, se in cotesti frammenti s' abbia a vedere un mucchio di ossa, oppure uno scheletro, spolpato sì, ma non iscomposto; se essi, in altri termini, siano una mera accozzaglia, ovvero ci rappre- sentino un testo uno e continuato. Qui bisogna ricorrere a paragoni, e in primo luogo istituire confronti colle collane di favole volgari, che ci sono pervenute intere. Se i nostri frammen ti appartenessero a taluna di queste, a che fine perderci il tempo dattorno?

Or bene, fatta la prova, troviam subito che i frammenti non coni-

ci) È la lande che comincia Gratta te dove la designazione di chi esprime la sen-

reddit , Virffo, gratiosam. tenza è conservata. Ma ce n'A altri parec-

(2) Si considerino i numeri I, XV, XXIII, chi in condizione analoga, sebbene in istato XXV!, XXIX, XXXIX, e anche il IV. meno completo.

(3) Si veda V, VII, XXXII, XXXVIII. (5) V. i due primi versi del n. XI.

(4) Dasti citare i u) XXVI e XXXVIII,

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BOMANZA,

1]

ESTB, DI UXA EACC. DI FA VOLE

15

binano, coir Ysopet di Lione (1), coli' altro Ysopct o coli' Ysopet- Avionnet (2) pubblicati dal Robert (3), colla raccolta di Marie de France. Confrontando anzi le favole di egual soggetto, vediamo non esserci altra comunanza che di materia.

Con ciò s' è anche detto che i frammenti non ci rappresentano nem- meno una traduzione del cosiddetto Anonymus Neveleti(4); poiché in tal caso, gli argomenti dovrebbero tutti identificarsi con quelli dell' Ysopet lionese, o della prima parte delV Ysopet- Avionnet E cosi è messa fuori di questione anche la versione provenzale, di cui un foglietto maglia- bechiano ci ha conservato un misero avanzo (5).

Fin qui le conclusioni sono meramente negative; sforziamoci di ar- rivare a qualcosa di positivo. Proseguendo i confronti, troveremo che le prime ventuna moralità della nostra serie combinano esattissimamente colle prime venti ed una favola di Aviano. Nemmeno un disaccordo nella disposizione! Seguono altri sette frammenti (XXII-XXVIII), che rispondono alle favole 25, 27, 30, 32, 34, 37, 42 del medesimo autore. Come si vede, salti continui, ma senza mai ritornare indietro uua volta. A questo punto Aviano ci lascia; ma immediatamente eccoci a fianco l'Anonimo, per tanto tempo il più popolare, il piti diffuso di tutti i favolisti.

Egli ci accompagna per una dozzina di passi, ossia per i nostri nu- meri XXIX-XL, a cui è facile constatare come faccian riscontro i suoi 2, 5, 8, 17, 19, 23, 32, 43, 47, 56, 27, 42. Anche qui dunque si procede per un pezzo balzelloni , ma sempre in una direzione costante. Soltanto alla fine s' hanno due anomalie. E due altre ci sono pur date dalle ultime moralità della raccolta, la XLI' e la XLII% le quali ap- partengono alle favole, che presso Aviano occupano il 24** ed il 22** posto.

(1) Devo all'amicizia del prof. W. For- ster la comunicazione di quel tanto del te- sto— non pubblicato ancora, ma forse già sotto il torchio che era necessario al mio scopo.

(2) Indico COSI quella raccolta, che, molto impropriamente, il Robert designa con due titoli, chiamandone cioè una parte Ysopet /, e riserbando per T altra la denominazione che conviene invpce al tutto.

(3) Fables inédites des XII*', X/77« et XIV*-' siècleSf et fables de La Fontaine. Paris, 1825.

(4) Veramente, s' avrp)d)e a dire piut- tosto il Polionimof V. Du Mkril, Poès. inèd, du moyen-òjej 162, n.; Oestkrley, lio-

midieSf p. xxiv. La conseguenza è peraltro la stessa. Stante la troppa abbondanza di nomi e di forme, è costretti, fino a che la critica non sia venuta a una conclusione a lasciare costui innominato. È ciò che fa, a mezzo il secolo XV, anche Giovanni de Giapànis non de Grapanis, come, dal Mu- ratori in qua, s'è scritto sempre nel Flos virtittìitn et allegationiim aiictomin (Cod. Ambros. P. 29. svp.). Egli designa l'autore come Versifiator fabularitm Esopi. De! resto, il medio evo cita il libro col semplice nome di Esopus , altro suole intendere con questa espressione. (5) V. Romania, III, 291.

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1(^ P. RAJXA [gioksale di filologia

Uua costituzione cosi regolare deve indurci a ritenere che le mo- ralità del codice ambrosiano siano veramente da riguardare come residui di un tutto unico, che ci possa esser da loro rappresentato. Ma non sa- ranno avvenute omissioni? Intenzionali, vorrei dire che no. Non saprei, per verità, vederne un motivo. Perché tralasciare? Forse perché certe sentenze paressero troppo intimamente legate colla parte narra- tiva?— Parecchi esempi mostrano chiaro come di una siffatta diflScoltà il nostro spolpatore non s' inquietasse punto poco. E una conferma per r integrità della serie mi sembra di vedere anche nelle anomalie della fine. Conferma tutt' altro che assoluta, intendiamoci; ma pure di un certo quale valore. Delle tre favole di Aviano saltate tra la 21* e la 25', due le incontriamo poi sotto i numeri XLI e XLII. E prima di quelle abbiamo due supplementi all'Anonimo. Ora, se anche s'intendesse l'omissione, mal s'intenderebbe lo spostamento. Soltanto, si vorrebbe penetrare il perché di quelle quattro anomalie. Si vorrebbe, ma sarà bene astenerci da congetture non necessarie. Altra ne sarà la causa, se esse risalgono all'autore; altra, se vengono invece dallo Schéletritore ^ oppure anche da un amanuense. Ipotesi possibili, se ne presentano di certo subito a chiunque.

Ma ci sono omissioni soltanto apparenti. Sotto un'unica rubrica si trova talora un accozzo di ammaestramenti, che non si vede come possa esser riferito per intero alla favola di cui s'è avuto il titolo. Que- sto accade ai numeri XXXI e XXXIV. Gli ultimi quattro versi doman- dano, e in un caso e nell'altro, di esser staccati dagli antecedentK E poiché nell'Anonimo, per l'appunto in un posto intermedio tra i titoli che presso di noi precedono e seguono (8-17: 15; 23-32: 29), incon- triamo la favola della volpe e del corvo, e quella della capra, del ca- pretto e del lupo , alle quali cotesti versi convengono a capello, non ci sarà lecito dubitare che in ambedue i casi non siasi omessa una rubrica , sicché due morali distinte sian venute erroneamente a saldarsi insieme.

Qui la cosa è sicura. In un altro luogo (n.° XLI), ho sospettato, senza che poi mi riuscisse, di accertai*e, di eliminare il dubbio. Se ne parlerà nelle note. Ma si badi di non immaginare qualcosa di analogo ogniqualvolta i pensieri non pajano collegarsi troppo bene. Di solito si tratta bensì di saldaraenti: ma d'ordine interno. Le due parti ravvicinate appartenevano alla stessa favola. E questo un procedimento che non ha bisogno di essere spiegato.

Orbene: in totale veniam dunque ad avere quarantaquattro, o forse quarantacinque favole; due o tre più che in Aviano: una disparità, la quale, appunto perché piccola, da riflettere. Tuttavia nemmeno qui perderò tempo ad esporre mere supposizioni. In genere, l'intenzione pri- mitiva dovette essere di uguagliare nel numero degli apologhi il favo- lista latino.

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BOHAszA, x.° 1] ESTB. DI UNA BACC. DI FAVOLE 17

E adesso possiam dire di conoscere, almeno alla superficie, la costi- tuzione della nostra raccolta. È, o piuttosto, era un Ysopet-Avionnet ^ come quello dato in luce dal Robert; con questa differenza: che pre- pondera r Anonimo, ammesso anzi per intero; qui invece prevale Aviano; l'Anonimo precede, qui alF incontro segue. In cambio pertanto di una CompUacio Ysopi alata cum Avionn^to è questa T intitolazione del testo robertiano nel codice avremo una CompUacio Aviani alata cum Ysopeto»

Saremmo di facile contentatura, se non desiderassimo di saperne di piii. Per poco che si ripensi, subito s'affacciano altre domande. Questa in primo luogo. Siffatta composizione della materia, per via di salda- mento e di scelta, l'attribuiremo noi al rimatore volgare, oppure la pre- supporremo invece in un modello latino? A priori, stimo più verisi- mile la seconda ipotesi. Giacché, è ben raro il caso di volgarizzatori medievali, che vadan molto più in del tradurre, frantendere, para- frasare. Sfortunatamente non ho potuto estender tanto le ricerche, quanto mi sarebbe stato necessario per parlare col fondamento dei fatti. Altri, che abbia meglio studiato nei manoscritti il dominio della favola latina , potrebbe riparare al difetto, e convertire la verosimiglianza in certezza, oppure, all'incontro, infirmarla, constatando come adesso non si trovi indizio di questo supposto esemplare.

Il quale, se mai esistesse, varrebbe a chiarire anche qualche altro punto, che a me rimane discretamente bujo. Fino a qui ho parlato sempre di Aviano. Ma al nostro volgarizzatore stavano proprio davanti le compo- sizioni originarie, tramandateci dall'antichità? Ne siam noi ben sicuri? È noto difatti, soprattutto dopo gli studi e le indicazioni del Du Mé- ril (1), come Aviano avesse nel medio evo una sorte singolare. Gli toccò di vedersi trasformato e rimesso a nuovo da non so quanti manipolatori di versi latini, i quali si lusingavano e certo non senza fondamento di acquistar gloria (2), sia coir imitarlo, sia coli' infiorarne gli apologhi di una forma, a loro senso, più eletta, e, ad ogni modo, più grata non fos- s' altro per la novità (3). Il fatto è notevole, e non merita solo l'atten-

(1) Poés, inéd.y 165-66; 260-76. ciana cosi, un pochino esagerata! Ma tale

(2) Chi proprio non si sazia mai di espri- non doveva sembrare all'autore, che in pro- mere questa lusinga, è l'Anonimo Astigiano, cinto di terminar T opera inneggia:

di cui parlo sotto. E a costui pare di aver Deposito velo, farat hos Urania caelo

raggiunto davvero lo scopo, e d'essersi, per versua ante deo», dicat ©t < conseguenza, suscitata dattorno un'invidia

da non dire: Urania, forse, li avrà portati, per la gioja

di vedersi liberata una volta dalle invoca-

Inridla aordent, ai qui mea dieta remordent;

aut non inrid^ant, aut peuitu. .iieant. lìoni, coIlc quah 1 Anouimo nou aveva ces-

loTidiam pasaia, Urania rcr.lbaa aaaia, satO UU momeutO di aSSOrdar lei, le SOrelle,

L. in, f. 9.

quoa hae leg« legaa , ut anper aatra vehaa. L. Ili, f. 8.

Apollo.

(3) Si ascolti in proposito il già citato L'ultimo verso esprime una speranza, di- Anonimo:

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P. BAJNA

[giornale di filologia

zione di chi s* occupa delle vicende della favola; anche perché il con- fronto degli originali con questi rifacimenti serve a farci afiferrare, quasi direi, penna per penna gl'ideali poetici di certe età, o, quando meno, di certe scuole. Inclino a credere che a taluno, se non a tutti, l'impulso a rinnovare T opera di Aviano venisse dall'incredibile successo ottenuto dolVAesopus dell' Anonimo ; come, d' altra parte, ho per fermo, che alla produzione àelVAesoptis contribuisse non poco l' esempio che in Aviano s'aveva dinanzi.

Di questi Novi Aviani ne possiamo enumerare, fino ad ora, almeno cinque. Uno, d'Alessandro Nequam, o Neckam, forse rimastoci solo in piccola parte (1) ; un secondo, d' un Anonimo Astigiano (2) ; un terzo ed un quarto, manoscritti, l'uno in un codice di Vienna (3), l'altro in uno di Venezia; un quinto, noto soltanto dagli excerpta, che ce ne ofiFre un florilegio poetico della Nazionale di Parigi (4). E forse non è se non il principio di un sesto rifacimento la favola De anu et lupo^ messa in luce dal Wright (5).

Ho messo nella serie un testo di Venezia. È ancora sconosciuto , sicché bisogna che mi fermi a darne ragguaglio. Non era sfuggito alla diligenza del Du Méril, o d'un suo autore (6), come nel GioriicHe de' Let- terati^ t. IV, p. 181 (Venezia, 1710), fosse parlato di un certo codice,

Flore novo tellni nitet et renoratnr avella*;

valgi voce aonnt qnod ni» dieta novat. Dewrit omne forum dlotftt* referre priomm:

ergo oanend» novii ode, Camcna, «onis.

L. n, f. 10.

Ingenlo vatU il, nnmina, carmen amatlt, cor non pmest&tis fingere poMO uttliT

To« nova dieta aatls votia inpendlte vatls; ut novitate carent, cannina rara placent.

L. n, f, IJ.

(1) Le sei favole che conoscono, fu- rono stampate primamente dal Du Méril, Op. cit., p. 262-^7, e ripubblicate poi dal Frohner, Aviani fabulae, Lipsia. Teubner, 1802, p. 55-63. Rispetto alKesser desse mero frammento d'un rifacimento completo» ve- dasi la nota dello stesso Du Méril, 1. e. p. 267.

(2) Primo a darne una notizia ed un saggio fu il DocEN, nei Beitràge sur Gè- ttrjiichte nnd Literatur del VoN Arrtin, IX, 1235 (Monaco, 1807). Quattro favole e il prologo si hanno nell'opera citata del Du Mbril, p. 271-70. Finalmente, l'intero testo fu pubblicato nel 1808 dal D.»" E. Grosse, nel Programma del Fri^dricbs-Collegium di Konigsberg. Gli è grazie alla pronta cortesia

del D.»" Guglielmo Meyer della R. Biblioteca di Monaco che posso valermi di quest'ul- tima pubblicazione. Astense, il poeta ci si dice da medesimo al principio della prima favola. E che ciò significhi d'Asti, in Pie- monte, è manifesto, come già fu osservato più o meno esattamente, dai luoghi dove si colloca la scena di certe favole. Il BtirburAn cui son travolte le due olle ( Anon.,'III. 2, 9; cfr. Av. Il), è il Borbo, o Borbore, che passa alle porte di Asti e che si scarica nel Tanàro a piccola distanza dalla città. Si- milmente, la Versa, introdotta nella favola dell'asino vestito della pelle del leone (1,5, 25), anziché un fiume del Milanese, come credette il Grosse, è un altro torrente, che si gitia nel medesimo Tanaro, tre chilometri circa al disotto del Borbore.

(3) Du MÉRIL, Op. cit., 268

(4) Ib., 276 n.; Fr<)HNER, Op. cit., p. x.

(5) Nelle Reìiquiae anttquae , I, 204. Di la riprodussero, per renderla più ac- cessibile, il Du Méril, Op. cit., p. 262 n., efl il Froiinrr, p. 63.

(6) Op. rit , 165 n.

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ROMANZA, N.* 1]

^iSfrJB. BI UNA EACC. DI FAVOLE

19

appartenente ad Apostolo Zeno, dove, fra V altre cose, si conteneva un Ncyims Avianus. Naturalmente ebbi desiderio di rintracciare il mano- scritto, se ancora esisteva. E la cosa non fu punto difficile. La biblio- teca dello Zeno, dopo vicende abbastanza fortunose, è andata ad arricchire la Marciana (1). Pur troppo, non senza aver prima sofferto avarie; ma, fortunatamente, il codice che mi stava a cuore, è tra quelli che sani e salvi giunsero in porto. Mi è mancata T opportunità di esaminarlo da me; nondimeno le comunicazioni di cui mi fu largo, colla gentilezza che gli è abituale, V eruditissimo Prefetto della Biblioteca cav. G. Ve- ludo, vennero a supplire al difetto. Siano rese le maggiori grazie al- l' uomo egregio (2).

H Novus Aviantés di Venezia, come quello dell'Anonimo Astigiano, comincia con un breve prologo , nel quale s' implora V assistenza di Febo e delle Muse:

(f.* 19*) Phebe, viam presta ceptìs, ac me manifesta Doctis asscribi vatibos atque tibì. Quas huc invito (3), musis, rogo, pervius ito, Voce canens dare dulcisone chitare.

Son nove distici, che terminano:

Disce lupi monitis principio positÌ8(4).

Le favole conservano l'ordine stesso che avevano in Aviano, salvo lievi differenze, che reputo accidentali. Ecco di parecchie il principio e la collocazione.

(1) Valbntinblli, Bibl. manuscr. ad 8. Marci Venet., I, 145 seg.

(2) Ecco com'egli descrive il manoscrit- to. « Il Codice. .. appartiene alla Classe XII d<»irAppendice ai Codd. Lat. di questa Bi- blioteca, ed è segnato col N « CX Vili. . . . È membranaceo, del sec. XIV, in 8.^ (alt. 0,15,5; larg. 0,13), di carte numerate 33. La sua co- perta è di legno, foderato di pergamena con piccole borchie (legatura germanica). Ogni faccia contiene da 25 linee; scritte nitida- mente, però con molte abbreviature, e glosse interlineari e marginali. Nel Catalogo della Marciana il Codice è intitolato: Tebaldi Ma- gistri Opuscula metrica quatuor inacripta: Libtr morali* ( car. 1 ) Liber tttilis (e 6 i?.<») Physiologus (e. 13) Novus Avianu» (e. 19 v.^). I titoli e le iniziali

sono a caratteri rossi ». In fine del Phi- siologus si leggono questi due versi, del ca- rattere delle glosse: Carmine finito sitlaus et gloria Christo | Citi (si non aliij pia-- ceant haec metra Tebaldi. Tien dietro il Novus ArianuSf preceduto da un Incipit novus Avianus. Le singole favole non porta- no titoli. Il testo termina appiè della carta 33 recto. « Nella faccia verso havvi disegnata a penna la figura di Sanctus Christophorus.^ Segue nella parte interiore della Coperta una indicazione, quasi tutta raschiata, di cui non avanzano che queste parole:.... adscripsit ac. . . donavit què quisque \ le- gens proficiat primutn deinde sii gra^ ttts I MCCCLXXVIIL »

(3) Il cod. immitto.

(4) Cod. positi.

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20 P. BAJNA [giornale di filologia

1. Villana e fanciullo (Av. 1):

Bufltica iuravìt, puer eius dum lacrìmavit, Ni requiem caperet, esca lupo fieret.

3. Gambero (Av. 3):

(20*) Cancro natura dedit ut eemper sua crura

Obliquum querant, hunc quoque retro ferant.

6. Rana medica (Av. 6):

(21*) Verba feris vana dedit olim turgida rana ; Gurgitibus luteÌB edita dixit ei8(l).

16. Toro e becco (Av. 13):

(23*) Taurus speluncam fugitans adivit aduncam, Quem frendendo leo dima adivit eo.

26. Statuario (Av. 23):

(27*0 Formosum multum Bachum de marmore sculptum Vendere (2) vir voluit; ante forum posuit.

29. Leone e capra (Av. 26):

(28*) Capram ieiunus qnerens prede leo munus, Yiderat in nemore rupis (3) in arce fore.

37. Formica e cicala (Av. 34):

(30*) Tempus ad estivum frigna formica nocivum Cogitat effugere, grana solens legere.

Riporto tutta intera T ultima favola:

40. Leopardo e volpe (Av. 40):

(33*) Pardus discretus maculis contempnere cetus

Ceu sexu viles cepit ovans similes. Natura donum genus accepisse leonum

Credebat miserum corpore degenerum. Sordentes vultu reliquas (4) etiam sine cultu

Natura miseras credidit esse feras. Instar erat cunctis variato corpore punctis

Sexus precipui nobilitate frui. Yulpes, vanarum gaudens laudante minarum,

Callida corripuit sicque locuta fuit: « Yanis intente (5), picte confide iuvente. »

(1) Cod. et. (4) Cod. reliquias.

(2) Cod. ventere. (5) Cod. intende.

(3) Cod. rupit.

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EOMAKUA, N.^» 1] ESTB. DI UNA BACa DI FAVOLE 21

Come si Tede, manca per lo meno un verso. E anche ciò cresce ragione al sospetto, che gli apologhi sian qui solo quaranta, in cambio di qua- rantadue, non per il fatto dell' autore, bensì per difetto della tradizione. Forse V esemplare da cui trascriveva il nostro amanuense aveva perduta una carta in fine.

Non ispiacerà di trovar qui riferita anche la favola seconda:

(20*) Testudo vovit(l), quam tarda vice mora movit,

Regine volucrum tradere grande lucrum, Unguibus ut raptam faceret volitantibus aptam,

Que loca per quevis devehit aura levis; Indignum referens quod paulatim loca querens,

Vi nulla pociens, lassa foret tociens. Promissis flexit aquilani, fraudem quare texit,

Que dare proposoiti quod dare non habuit. Ergo, mercata penna super astra levata (2),

Perfida, perfidlam comperit eximiam. Nam, dare quam posset cum nunquam fore nosset (3),

Fraudem (4) frande luit, et moribunda ruit. Tunc demum suetam (5) vitam gemit esse quietam,

Nam felix potuit vivere dum voluit.

Nessuno mi chiederà , chi sia V autore. Non saprei rispondere. L' at- tribuzione a un Tebaldo, che s'ha nel Catalogo della Marciana (6), manca d^ogni fondamento. Viene unicamente da ciò, che a Tebaldo è assegnato in questo codice, come in altri assai (7), il Physiologt^s, che precede. Ma, tra tutti i rinnovamenti di Àviano, questo si distingue nettamente per caratteri suoi proprii. Molto più degli altri si tien stretto all'Aviano antico. Ciascuna favola mantiene, esattamente, o quasi, la lunghezza ori- ginaria , ed i distici si corrispondono oramai uno per uno. La trasfor- mazione colpisce unicamente la forma, e quella ancora, entro i limiti segnati dal bisogno. Motivo e scopo del rinnovare è il ritmo e non al- tro: si vuole che Aviano parli in versi leonini. Succede qui dunque qualcosa di analogo a ciò che accadde neir epopea francese; dove, ad un certo momento, si presero a rifare i poemi per mettere rime al po- sto delle assonanze. In ciò si contiene di sicuro un indizio cronologico; non tale tuttavia da potersene cavar partito per una determinazione non troppo lata, senza un esame compiuto e larghi confronti.

Del ritmo, una parola ancora. In distici leonini sono pure due altri

(1) Cod. voluit (6) V. qui dietro, in nota, nella descri-

(2) Cod. levai. zione del codice.

(3) Cod. noscet, (7) Nominerò, per es., il Magliabechia-

(4) Cod. freudem. no CI. VII, 931.

(5) Cod. sumptam.

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22 P. BAJNA [giornale di filologia

fra i rinnovamenti di Aviano: il testo Viennese e TAnouimo d'Asti. Da entrambi tuttavia si differenzia il nostro per nna preoccupazione incom- parabilmente minore di ottenere una rima pili o meno pura anche nel pentametro, dove essa non era troppo facile a conciliare colla brevità imposta alla penultima sillaba. Orbene, spesso T Aviano di Venezia si con- tenta di una omeotéleìdia bisillaba, indipendentemente dagli accenti ; tanto spesso anzi, che nelP ultima favola nemmeno un verso viene a fare ecce- zione. Le rime trisillabe, che la struttura del pentametro promoveva con tanta efficacia, appajono bensì usate, ma non già ricercate collo studio che è così manifesto negli altri due poeti. Siffatta diversità conduce a sup- porre una differenza di patria. Ma anche su questo particolare aspetto di conoscere il testo intero, prima di avventurare un giudizio.

Mi rimetto finalmente in carreggiata. Si veda, se possa esser lecito di parlare della derivazione di un testo volgare dall' Aviano antico, senza tener conto di questi possibili intermediarii. I quali tutti, badiamo bene, dovettero precedere, qual più, qual meno, la composizione del nostro volgarizzamento. Sia pure che tanta moltiplicità provi da un lato la grande diffusione dell' Aviano originario, e dia indizio dall' altro che nes- suno tra i rinnovamenti riuscisse ad ottenere una notorietà ampia e du- revole: due fatti confermatici in modo diretto, l'uno dalla copia, l'altro dall' estrema scarsezza dei manoscritti (1). Questo vuol dire soltanto che dovremo accostarci all'indagine senza preconcetti di sorta circa le sue probabili risultanze.

Orbene, il confronto simultaneo dei frammenti volgari coU'Aviano antico e gli Aviani rinnovati conduce a mettere in disparte, l'opera del Neckam nonostante qualche incontro speciale, ma raro assai che i testi di Vienna e di Venezia (2). E, nonostante il poco che se ne conosce, posso fiduciosamente colpire dello stesso ostracismo anche la redazione, donde provengono i frammenti del fiorilegio parigino (3).

Vengo all'Anonimo Astigiano. Qui le cose s' imbrogliano. Certo, v'è un numero ragguardevole di casi, dove Aviano ci offre un riscontro in-

(1) II solo Anonimo Astigiano può cara- (3) Il Du Méril (ì.c) riporta 13 versi, minare a testa alta, giacché vanta tre codici, che gli pajono spettare a due favole: Rana

(2) Quanto alla parafrasi prosaica in- e volpe (Av. 6); Aquila e testuggine (Av. 2). dicata dal Du Méril, Op. cit., 165 n., e Non credo errare, ripartendoli invece fra stampata dal Fròhnbe, Av. fab. , 67-84 , non quattro : v. 1-4, Gambero ( Av. 3 ) ; 5-8, Rana c'è nemmeno bisogno di discorrerne. Le e volpe (Av. 6); 9-11, Cammello (Av. 8); moralità vi son riferite testualmente nella 12-Ì3 , Compagni di viaggio (Av. 9). Come loro forma poetica; e non sempre quelle sol- si vede, il rifacitore manteneva alle favole tanto. Quindi V explicit dice semplicemente, il loro ordine primitivo. Oli excerpta ap- Expliciunt apologi Aviani, Tuttavia in qual- partengono tutti alle moralità. Come i no- che caso mi gioverà recare a confronto an- stri , e per la stessa ragione.

che questa redazione.

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«OMAMZA, N.o 1] ESTR. DI UNA BACO. DI FAVOLE 2S

contestabilmente migliore. E dicendo Àviano, intendo, naturalmente, non meno il testo primitivo che le sue superfetazioni. Gli epimythia interpo* lata (1)> poiché han corso nei manoscritti medievali, non meritano, per la questione che qui ci occupa, minor riguardo che le parti genuine. Citerò, per dare qualche esempio, i nostri numeri III, X, XVIII, XXIV, XXVI , e pregherò il lettore di ricorrere alle note, dove riporto, favola per favola, ciò che di corrispondente mi offrono i testi latini, fin dove mi sono accessibili. Il fatto è troppo chiaro, perché ci sia bisogno di sottometterlo alle lungherie di una dimostrazione. Ma ci sono altri casi, in cui TAnonimo risposte più soddisfacenti. Passo in rassegna quelli che sembrano più degni di considerazione, e che richieggono un poco di commento.

Comincio a far sosta al n."" II: De limoma et aquila. E qui, notata di passaggio quella linubzia sostituita alla testuggine^ mi fermo al se- condo ammaestramento:

lei se poons senz metre

De zo c*om doner prometre.

Certo Aviano può, a rigore, spiegarmelo; e un po' più agevolmente me lo spiegherebbe la parafrasi del codice di Venezia, che esprime le cose con maggior chiarezza (2). Ma è certo altresì che il precetto riesce molto meglio motivato, e s'impone con ben altra efi&cacia, se lo si ravvicina alla redazione dell' Anonimo. Quivi, come s'è giunti in alto, l'aquila chiede la mercede promessa. La testuggine,

I. 2| 13. Cum dare non possiti dolet iata qnod altera poscit; nil habet ista rei; creditor instat eL

Nasce quindi una contesa; l'aquila stringe tra le ugne la mancatrice di fede, e, già sanguinosa, la lascia precipitare. Ecco dunque la promessa vera causa della morte ; mentre in Aviano e insieme anche negli altri rifacimenti si tratta solo della perfidia, punita dalla perfidia altrui. Volendo ingannare, si rimane ingannati.

Salto al n.° IX: De duobus sociis qui iuraverunt simul. Qui il ti- tolo merita davvero seria attenzione. O lo si consideri da sé, o lo si ragguagli alla favola di Aviano, non si riesce a ben intenderlo. C'è, al più, l'embrione di un giuramento in certe frasi (v. 3-4), che si presta- vano ad essere male interpretate da gente non troppo profonda nel la- tino ; ma un giuramento vero non e' è proprio in nessun modo. Quindi si sarebbe tratti a supporre che il iuraverunt sia errato, e che s'abbia

(l) Si vedano raccolti ne IK edizione del (2) V. p. 21.

Fróqnrr, 50-54.

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24 P. BAJNA [giornale di filologia

a sostituirgli una Toce qualsiasi, la quale esprima un concetto, che par qui necessario : si posero in viaggio (1). Ma basta prender in mano l'Ano- nimo per abbandonar subito la congettura, e indursi a ritenere piena- mente giustificata T intitolazione quaVè, e solo forse non intera:

ni. 3, 9. Hac ratione pares duo con venere sodales^

quae valeant, laedant, ut simul ambo ferant. Numina divorum testatur iuatior horum,

turane malie mori, quam quid habere doli. Alter, inope mentis, iurat prius ossa parenti s,

post mare, sceptra poli. Tartara, regna solL < Plus > ait < hanc vellem vivens amittere pellem,

quam, frangens foedus, deputer inde reus. »

V. 23. Dum coniurabant et iter sermone levabant, ursa repente ruit. (2).

Procediam oltre. Il primo ammaestramento che nel volgare si ricava dalla favola, si è questo:

Bien croit qel descend da cura (3) Trovar engeing qi a rancura.

Per verità, è un'idea, che presso Aviano rimane allo stato latente. Ma si ascolti il poeta da Asti. Uno dei due compagni è salito sull'albero:

V. 27. Alter, praeda ferae, cepit sua dapna timere; vita velut desit, sic sine mente stetit. Ingenium menti mala dot fortuna timenti; ut qui mente vacet, taliter ille iacet

E non basta. Anche per l'altro precetto.

Si in gran perigol des intrer Cognois en cui se doit fider,

ci conviene, se abbiam sete di riscontri, attingere alla stessa fonte:

V, 45. Quem socium noacas, ad cuncta pericula poscas.

Veniamo alla moralità della favola De venatore et tigra^ n.** XVII :

Cil qi no defendre sei. No crez chel possa tenser mei.

Per dedurre questo precetto dalla redazione originaria, bisogna proprio

(1) Cfr. il tìtolo nei testi di Aviano: Be « Duo viatores foedus pariter inierunt,» etc. duobus viatoribus; Viatores et ursa, etc. (3) Si vedano per 1* interpretazione le note

(2) Un accenno anche nella parafrasi prò- al testo, saica menzionata in una nota precedente:

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BOMAxzA, N.« IJ ESTE. DI UNA BACO. DI FAVOLE 25

ricorrere agli argani. Tant' è vero, che nessun interpolatore pensò a ca- vamelo, e piuttosto s'immaginarono insulsaggini e sofisticherie (i). E in verità, non era facile trovare un significato alla narrazione, qual' era esposta da Aviano. Ma ecco che presso l'Anonimo essa ci si offre tutta trasformata; certe idee spariscono, altre invece acquistan risalto, e di- ventano principali:

IIL 9, 9. Spicula non vane torquebat dextra Dianae,

et terrendo feras exagitabat eas. Non pedibus pigris fuit illÌ8 obvia tigria,

atque feras ridet, quas fugitare vìdet. Causam scrutatur, facienti multa mìnatur,

et stetit in media, facta patrona, via. « Hio mecum sitis, ne plus trepidare velitis,

vulnera nemo dabit, ne timeatis, » ait. Protinus emissam pes sensit adesse sagittam,

vulnero tarda pedis fit tigris ante levis. Yertens ad risum vulnus vulpeoula visum,

inquit: « Ob id pretium nolo patrocinium. >

Così poste le cose, l'insegnamento offertoci dal testo volgare emana spon- taneo. Ed è quello infatti che l' autore ha messo in fronte alla favola :

V. 5. lactet nemo bonum se cuilibet esse patronum, qui sese proprio non iuvat auxilio, Talibus in culpis ne sit derisio vulpis, tigris ut ante fuit, vulnera quando tulit.

Un quarto ed ultimo esempio: il n.** XXI, ossia la moralità della favola De rustico et alauda. Ci leggo, fra l'altre cose:

Per fin qe fu rie e posent Avole compagnons ben cent. Sachez bien, si cum hom dis, Qi pert Tavoir, si pert li amia.

O che c'è mai in Aviano, che abbia potuto suggerire quest'idea? Nulla. Apro l'Anonimo:

II. 16, 5. Busticus exivit, segetem flavescere vidit,

vult ut falce metat, pauperiesque vetat. . . .

V. 13. Hic, qvLÌQ, pauper erat, vicinos forte petebat; plebis ut est vitium, plebs negat auxilium.

(1) « CuDCta licei soleant animalia bruta necantis, | nec praecìre palain, laecleris unde, (ime ri, | omnibus est illis plus metuendus potes ». (Fròuner, Op. cit., 52.) homo. I More volani iaculi clandestina verba

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26 P. RAJNA [giornale di filologia

Come vede, le parole del volgare ci dauuo il riflesso di un elemento che Aviano ignora, e che troviamo introdotto presso il rinnovatore.

Ed ora si tratta di conchiudere. Sarà una conclusione diversa da quella che forse si aspetta. Che il nostro volgarizzamento derivasse dal testo del verseggiatore Astigiano, non è cosa da pensare. I rapporti spe- ciali di parole e di concetti coli' Aviano originario non istanno soli a provarcelo. Ce lo dimostra altresì l'ordine delle favole, conservato dentro qual era, ed alterato invece in ogni sua parte dall' Anonimo. Questi volle distribuire le favole in tre libri, a seconda del contenuto:

Prooem. v. 11. Ne praeeumatur, prima ratione vetatur... V. 13. Te vitiis munda, perlecta parte secuuda... V. 15. Ne quia fallatur, pars tertia tota legatur. . .

Ne è uscita una disposizione così nuova (1), che impedisce perfin di sup- porre che il testo potesse servire al traduttore insieme con quello di Aviano. Già, i rimatori volgari non sono soliti darsi la briga di un doppio mo- dello; figuriamoci qui, dove, per trovare le corrispondenze, sarebbe bisognato balzare ad ogni momento da un capo all' altro della raccolta ! Pertanto è necessario immaginare qualcosa di diverso. E l' ipotesi mia sarebbe questa. Il volgarizzamento proviene da un Novus Avianus di- verso dai cinque che conosciamo, e che, per vie e ragioni che non sapremmo adesso determinare, aveva certi rapporti coli' opera del poeta da Asti. Taluno potrebbe forse credere un istante di ravvisare il principio di questo sesto rifacimento nella favola solitaria pubblicata dal Wright(2). Ma, meglio considerando e istituendo confronti più larghi, si vede, non esser questa un' idea accettabile. Proprio, si deve trattare di un anello di congiunzione, che ancora ci rimane celato.

Aviano ha richiesta una trattazione ben lunga. Per buona sorte possiamo invece sbrigarci in breve della parte della nostra raccolta che risponde al cosiddetto Esopo, La diffusione portentosa di quest'opera rese impossibile una vegetazione analoga a quella che abbiamo studiata. Di fronte ai cinque o sei Aviani rinnovati, possiam mettere un solo Novtis Aesopus: quello del Neckam (3). E questo non concorda col vec-

(1) Credo utile dar tutta la tavola delle 30: II, 14; 31: I, 16;— 32: II, 2; —33:

corrispondenze: Av. 1: Anon. Ast. Ili, 1 ; I, 9; 34:11, 12; 35: 11,3; 36: I, 13;

2: 1, 2; 3: II, 5; 4: I, 7; 5: I, 5;— —37: I, 14;-38: I, 11; - 39: 1, 10; 40:

6: I,6;~7:II,6; 8:11, 7; 9:111,3;- I, 17; 41: I, 1; 42: III, 8.

IO: II, 9; 11: III, 2; 12: II, 13;— 13: (2) V. pag. 18.

I, 7;-- 14: II, 8; 15: I, 12; 16: I, 15; (3) Du Méril, Op. cit., 169 segg. Quanto

17: III, 9;— 18: III. 5; 19: 1,8; 20: bWAlter Aesopus di Baldo, ib., 213 ftegg.,

Ili, 7; 21: II, 16; 22: II, 4; 23: II, sebbene abbia comune qualche favola, è,

1; 24: I, 4; 25: III, 4; 2&: III, 6; come tutti sanno, cosa ben diversa. Il titolo

27: II, 10; 28: II, 15; 29: II, 11; stesso io accenna.

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«OMAKA, N.O 1] ESTR, DI UNA RACC. DI FAVOLE 27

chio, nel numero delle favole, nella disposizione, e nemmeno sempre nei soggetti. A noi occorre poco studio per metterlo in disparte. E pos- siamo, almeno nelle condizioni attuali, starci contenti coir Anonimo, che quasi in ogni caso risponde a tono. certe lieyi dissonanze danno mo- tivo sufficiente di sospetti ed ipotesi. Solo del n.° XXX si può chiedere una spiegazione. Il titolo latino dice : De cane qui ccmisit formagivm. Ora, nel testo dell'Anonimo, non meno che nelle sue fonti (1), si parla di un pezzo di carne, e non di formaggio. Ma il formaggio si ritrova in pa- recchie altre redazioni medievali. Citerò Marie de France:

Par une foie, ce vus recunt, Passeit un chiens desus un punt; Un formage en se geule tint. . .(2).

L'autore dell' Tsopet-Avionnet ^ più dotto, o più scrupoloso, registra am- bedue le versioni:

Un chien passoit un yave a nou, En sa gueule un formage mou: Antres dient que ce yere chars. . . (3).

Poiché costui traduceva pur dall'Anonimo, non saremo più in diritto di meravigliarci del caso nostro. Il formaggio correva, si vede nella tra- dizione. Chi ve l'avesse introdotto, non saprei proprio dire. Mi par per altro probabile che avesse avuto origine da un ravvicinamento colla favola del corvo e della volpe (4), la quale ha con questa una certa analogìa.

Per tutto ciò che riguarda la lingua , mi son tenuto fino a qui nel più stretto riserbo. L'ho fatto per non accrescere le difficoltà, tirando in campo più d'una questione alla volta. Ora prendo dunque in esame questa parte. E ci vorrà del tempo prima che me ne sbrighi.

Il linguaggio parlatoci dal manoscritto è un vero bastardume: un numero ragguardevole di forme francesi vi si trova frammisto ad un ammasso ancor più considerevole di vocaboli d'aspetto eterogeneo. Pren- diamo qualche verso, a caso; i primi, perché non ci sia scelta d'alcuna sorta. CestQj parrà provenzale ; raison^ o è provenzale, o francese ; ne (ci), appartiene all'Italia; master^ è decisamente francese; iw, provenzale o italiano; no-s (non si), idem; de (deve), italiano; nus, francese; hom^ comune alle tre lingue; fider, francese, quanto alla desinenza, proven- zale o italiano, per ciò che riguarda la conservazione del d tra vocali. Una bella mescolanza davvero ! Forme d' ogni genere, buttate alla rinfusa, e

(1) Aggiungerò anche il Nrckam, n. 13, de Roquefort, li, 78. e Balbo, n. 1. (3) Robert , Fables inédites , II , 50.

(?) Poes. (le Marie de Fr. , pitbl. par B. (4) Quindicesima, neirAnonimo stesso.

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28 P. BAJNA [OIOBNALE DI FILOLOGIA.

caratteri contraddittorii ìu un medesimo vocabolo. Si continui l'esame, e si vedranno le cose procedere fino all'ultimo alla stessa maniera.

Orbene, penseremo noi che cotesto gergo babelico venga dall'au- tore?— S'ha fatica a crederlo. Come mai, per esempio, la stessa persona avrebbe detto di nel verso 66, e subito ed nel 67? avia nel 140, e poi immediatamente devoie nel 141 ? E che avoie, cioè, non solo la forma analoga, ma l'identica parola, abbiamo di fatto al verso 103. Similmente, troviamo fu (v. 157) e fo (v. 16); en (v, 15, 19, 38) e in (2, 12, 13); poit{y. 51), poi (v, 29) e jpo (v. 8, 17); doU (v. 55, 106, 179, 185, 186), deit (v. 12, 115, 159, 162, 200) e de (v. 2, 9);por-ce (v, 80, US),por-zo (v. 16) e per-jso (v. 162); ecc. ecc. ecc.

Formiamoci una convinzione ancor piiì netta e fondata, interrogando le rime. Ecco i versi 30 e 31 : devria o deuria, e sei, non c'è pericolo che si corrispondano per nessun orecchio al mondo. Manifestamente c'è un modo solo di ristabilire l'accordo: scrivere devreit, che abbiamo real- mente nei versi 43, 54, 170, ossia sostituire una forma francese ad una italiana o provenzale. —^ D' altre lingue non c'è sicuramente ragione di discorrere. Resterebbe da accomodare un piccolo conto : quello del t, che sovrabbonda da una parte. Di questo, poi. Passo oltre ai versi 74-75, che ancor essi dovranno essere piii tardi chiamati dinanzi al tribunale. Ma, ai V. 86-87, oltrage^ scuse , richiedono una modificazione, per piccola che sia. 0 scrivere olirete nel primo luogo, oppure e la scelta non par duhhìsL sage nel secondo. Taccio, per iscrupolo, altri mutamenti, non meno necessarii, ma di significato meno sicuro.

È dunque chiaro che noi abbiamo qui dinanzi un testo, più o meno alterato dagli amanuensi, quanto alla lingua. E allora ci chiederemo subito, quale ne fosse il linguaggio originario, vale a dire, in qual senso le alterazioni sieno avvenute. S'è visto che nei due casi citati le rime si ristabilivano introducendo, cioè rimettendo al posto, le forme della lingua d'o'/Z. E le forme francesi sono le sole possibili anche in altri casi, dove il manoscritto, 9Ìa pure con qualche scorrezione, di cui sarà poi a parlare, ce le offre di già: ad aver, desirer (v. 42-43), a sacez, heltez (80-81), a sofrir^ cair (v. 84-85), ad amer^ mester (v. 148-149), BL printer y repenser (v. 206-207) non si potrebbero di certo sostituire, i corrispondenti provenzali, gl'italiani. S'aggiunga grand, che rima con cent, v. 174-175. E il provenzale, se non l'italiano, è del pari inarauiissibile nelle coppie v. 82-83, 86-87. Ne aggiungerei altre, se non volessi attenermi soltanto a casi evidenti.

Qui abbiamo una prova, un fondamento solido. Però ci è adesso ben lecito di allargare lo sguardo. Ora, la mano che trascrisse i fram- menti è italiana di certo. Anzi, tutto il codice appar scritto di qua dalle Alpi, porta alcuna traccia straniera. Quindi la patria stessa della co- pia rende perfetta ragione degli elementi meridionali, mentre rimangono

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ROMANZA, N.<> 1] ESTB. DI UNA BACa DI FAVOLE 29

da spiegare i settentrionali. E anche la qualità di questi elementi dice assai. Alla lingua à*óU appartiene adesso non bado più alle rime sol- tanto— una moltitudine di forme particolari, che riposano assai spesso sul trattamento delle vocali toniche ; il mezzogiorno si invece valere pili specialmente nelle atone di uscita, che conservano quasi dappertutto Va originaria, e in altre peculiarità, su per giù, dello stesso peso specifico. E parlo del mezzogiorno in genere, perché si tratta di caratteri comuni per lo più alla regione italiana ed alla provenzale. Insomma, il fran- cese è al fondo, il resto galleggia; Tuno costituisce il corpo del lin- guaggio, r altro non è più che una veste, un mantello, tutto strappi e brandelli, che a fatica giunge alle anche, e che lascia in cento luoghi tra- sparire la pelle nuda.

Sicché, in genere, conosciamo adesso il punto di partenza e la di- rezione del moto. Piantata questa biffa, è necessario determinare meglio la natura degli elementi che non appartengono alla lingua à'oih In Italia sappiamo positivamente di esserci. È da vedere in qual parte. Mani- festamente, in quelle stesse contrade, di cui sembra originario anche il manoscritto : nelle provincie settentrionali , nella vallata del Po. Tutto quanto s*lncontra di specificamente italico, o ci trattiene decisamente in questa ragione, o non ci il minimo motivo di allontanarcene. Fac- ciamo una brevissima corsa :^o, v. 8* ecc.; no-g poliy 10; scrito^ geni, sasa^ 16 ; vénser^ mevìaza, 17 ;ensi^, 27; azé, 35; perigei, 48; e\ 59, ecc.; ogna, 65; /S, 87 ecc.; quicUò, 112; fadiga, 123; alezer, 133; ecc. ecc. ecc.

Neppure su questo non cade dubbio di sorta. Bensì conviene pro- cedere più oltre nell'analisi, e vedere, se nel miscuglio entrino davvero, o no, anche elementi specificamente ocitanici. Dico davvero: poiché, al punto in cui siamo, non possiam certo riguardar come tali le molte voci che si spiegano di già come modificazioni di parole francesi , sot- toposte a un reagente italiano. Fatila, per esempio, v. 6, fina, v. 18, e tutta intera la caterva delle voci, in cui provenzale e francese diffe- riscono solo per r atona finale, spettano a siffatta categoria. Ma in ve- rità, qualcosa di provenzale, non ispiegabile a questo modo, accade real- mente di trovare. Sian pur pochi i casi, non richiedono perciò meno imperiosamente una dichiarazione adeguata. Noto agues, nel verso 31 ; et<, V. 58; caiHt4S, v. 186. E anche in cause, cose, che ritoma ben tre volte (v. 53, 96, 142), il reagente italiano è usato sopra una materia spettante piuttosto alla regione dell'oc, che a quella dell' o??.

Posti questi fatti, l'ipotesi ovvia di un testo originario francese, alterato da trascrittori italiani, non è più sufficiente. Sembra doversi aggiungere un termine medio : una sosta ed una prima alterazione nel territorio provenzale. Si può dar cosa più naturale e verosimile? No di sicuro. Peccato che nel problema ci siano ancora certi dati , che s' osti- nano a non volersi sottomettere!

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30 P. RAJNA [aionxALE di filologia

Ritorno alle rime, nelle quali, se il testo è veramente nativo di Fi-ancia, sotto alle alterazioni, dobbiamo trovare soltanto forme legittime francesi. Ossia: qualche limitazione andrà messa innanzi. Un intruso provenzale o italiano sarà possibile nel caso di un guasto accidentale, riparato alla meglio. E questa, come si vede, una di quelle supposizioni, di cui conviene usare con parsimonia; vale per una volta, ma perde ogni credibilità, se occorre invocarla spesso.

E qui accadrebbe proprio così. Cominciamo dal considerare i ver- si 74-75. Vi abbiamo porta , volta. Lasciam stare la non perfetta con- sonanza, a cui solo si riparerà trasportandosi in un paese dove l soglia mutarsi in r; ma volta, nel senso che ha in questo luogo, è italiano, non, ch'io sappia, francese. Similmente, la voce rancura, se occorre anche nella lingua d'(w?, forse come importazione dal mezzogiorno, certo vi è tutt' altro che abituale. Ebbene : nei nostri pochi frammenti ec- eocela imposta tre volte dalle rime: v. 47, 95, 144. E altrettanto av- viene di traimentj al v. 40; saj^e e faze, v. 82-83; aoventuz, v. 124; servis, V. 70; fadiga si rigiri poi il vocabolo come si vuole v. 123. sappiam bene che farci di areseger, v. 141. Risquer, quand'anche si volesse trascurare la sua insufficienza sillabica, par voce poco antica: il Littré non mi esempi anteriori al secolp XVI. E senza mutazioni inteme nel verso, non è conservabile il isent del v. 79, che in francese non si direbbe in modo così assoluto: vorrebbe, mi sembra, dinanzi a un tonte, o qualcosa di simile. Terminerò la rassegna con malez, v. 165, che se, come participio, non è propriamente impossibile di dalle Alpi, ha tuttavia novantanove probabilità su cento di essere un prodotto della forma che vige e regna in tutta Italia; malato.

Con ciò ho anche espressa quella che a me e, spero bene, anche al lettore pare Y unica soluzione possibile. La nostra raccolta di fa- vole era opera di un italiano. Mercé questa ipotesi tutti i nodi , nessuno eccettuato, si sciolgono da sé. Non e' è bisogno di ricorrere a mutazioni arbitrarie, ad espedienti sospetti, che sempre poi finiscono per lasciar sussistere magagne, una delle quali basta da sola a scompigliare da capo l'edificio. Certo, non tutte le prove addotte hanno le stesso va- lore; alcune, forse, potranno essere infirmate e scartate; ma il complesso dell' argomentazione appare ben saldo. Troviamo in un codice italiano un t^sto francese, che, supposto un autore cisalpino, non oflFre difficoltà di alcuna specie; all'incontro, ne suscita molte, appena tenti di at- tribuirlo ad un nativo d'oltralpe; sappiamo inoltre assai bene che il francese fu una lingua molto in uso nell'Italia del settentrione, tanto da scendervi fino al popolo ; potremmo restar titubanti ? A me pare che no, e considero il fatto come assodato.

Tanto più avendo ancora nel sacco un resto abbastanza considere- vole d'indizi. Li aggiungo, posto che servono in pari tempo a renderci

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ROMANZA, N.« 1] ESTR DI UNA EACa DI FAVOLE 31

famigliari con certi caratteri del testo primitivo, e in genere delle scrit- ture francesi composte da Italiani. Accade di dover ammettere rime non ben esatte, in quanto non si tien conto d'una consonante finale, che l'autore probabilmente scriveva, ma non pronunziava. Oltre a devreit, sei, già menzionati (v. 30-31), abbiamo, o meglio, dobbiamo avere, sei^ conseil, v. 100-101. E converrà riguardare per lo meno come licenze del medesimo genere i casi dove la rima è perfetta bensì nel codice, ma a scapito della grammatica. Invece di colSj v. 36, diner^ 68, dis^ 91, 104, 152, si richiederebbe col, denierSj dit. Si consideri anche l'infinito aver^ V. 42, che sarebbe da ammettere facilmente solo in un testo scritto in Inghilterra (1). Ma in tutti questi esempi dovremo con ben altra vero- simiglianza supporre che i diritti lesi sian veramente quelli della gram- matica, non della rima. Che, lo stato reale del testo va pur tenuto in qualche conto. La critica moderna, che fa tanto assegnamento sull' esat- tezza delle rime per iscoprire la vera patria di una composizione, non deve poi essere inconseguente, e, senza forti ragioni, mettere disaccordo dove non c'era.

Proseguiam pure. Incontriamo un futuro espresso per via dei due elementi non ancora composti insieme; precede il verbo avere, segue l'infinito; sen a venger^ v. 177, non sembra esser altro che se ne ven^ dicherà. E il medesimo fatto, o presso a poco, inclino ad ammettere nei versi 187 e 189; ave.,.avenir^ a blasmer. Ora, questa condizione di cose preistorica per la Francia, è invece tuttavia comune durante il secolo XIII, e anche più tardi, nell'Italia del Settentrione (2). Poi, è da menzionare il verbo /ir, come ausiliare per il passivo : v. 55, 87, 198. Si potrà espel- lerlo : ma sarà una violenza bella e buona. E con questa vi sono altre voci e &asi non poche, oltre a quelle che hanno il suggello della rima, appartenenti al lessico italiano. Non ne faccio la rassegna, perché al- cune possono appartenere ai trascrittori; ma non saprei mettere iu questa categoria il sin, fin^ o fins qe, v. 25, 75, 102, 124, 158, 184, troppo frequente e costante, e nemmeno il^wr, dei v. 121, 165, 213, usato allo stesso modo in una scrittura analoga, \di.PrisedePampluìie(Z).

Determiniam meglio le condizioni originarie del testo. Come si è visto, esso ci è pervenuto attraverso ad alterazioni innegabili. L'autore, pari in ciò a quanti in Italia scrissero francese, e a quanti, in ogni luogo e in ogni tempo, si sforzano di adoperare una lingua senza conoscerla a fondo, creava a volte vocaboli e forme immaginarie , dando termina-

ci) G, Paris, S. Alevis, p. 74. Mund., 32; Zur Katharinenleg,, 15.

(2) MussAFiA, Beitr, z. Gesch. d. rom. (3) Mussafia, AUfr. Ged., I, p. xv. Il

Spr.f iti Sitzwngsb. d. W. Ak., XXXIX, senso di questo |>?^r A, secondo me, «o/fawfo,

542; Mon, ant, di dial, it., 17; Altmail. non tamen.

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32 P.2ÌAJNA [giornale DI FILOLOGIA

zione straniera a parole italiane; talora così mi spiego Vcigues e il caitius confondeva il francese col provenzale, tanto in uso ancor esso nei paesi circampadani, come lingaa della lirica; ma, con tutto ciò, egli si teneva certo ancor molto, ma molto lontano dalle mostruosità del ma- noscritto. Il suo era un francese scorretto, e non poco; un francese, in cui dovevano coesistere forme di diversi dialetti; per es., deU edoU (v. 12, 55 ecc.), sereit e seroU (v. 163, 164, 194); un francese, dove, la fonetica, la grammatica erano su£Scientemente rispettate; ciò nonostante, pur sempre un francese. Certe forme verbali, non delle più ovvie, le norme della declinazione, che ancora adesso, attraverso a tante vicende y appajono rispettate assai più spesso che violate, ci obbligano a riconoscerlo. Insomma, dovevamo essere allMncirca alle condizioni della Prise de FampélunCy o àéW Entree d' Espagne.

Nondimeno è ben chiaro che tra i peccati dell' autore e quelli degli amanuensi è possibile solo di rado la distinzione. Quindi per dire una parola delle norme seguite nella ptampa T obbligo all'editore di riprodurre il testo qual è. Ciò non m' impedisce di relegare in nota le lezioni manifestamente errate, quando mi par sicura la correzione. Del resto, mi permetto di ricorrere spesso ad una lineetta, per distinguere, senza far sparire l'unione, le voci agglomerate nel codice.

Non volendo metter nel testo nulla di arbitrario, rinunzio anche a correggere il ritmo, sebbene il vederlo per più rispettato mi renda persuaso che gli ottosillabi dell' autore fossero tutti di misura giusta. E il più delle volte non è difficile ricondurveli di nuovo. Talora basta sostituire una forma francese ad una italiana. Per esempio, nel verso 16 non si avrà che a surrogare escrit a scrito^ nel v. 34 escripture a scrip- ture. Altrove peraltro saranno a supporre licenze speciali, che un na- tivo di Francia non si sarebbe permesse. Naturalmente la scelta tra più correzioni possibili e la sua precisa determinazione fonetica ri- chiederebbe dati, che a noi mancano. Restino dunque i versi quali sono nel manoscritto.

Il tempo della composizione non si può precisare. Dall'età e dalla condizione della nostra copia, combinata con quel tanto che sappiamo della letteratura d'oU dell' Italia settentrionale, è lecito argomentare con verosimiglianza che l'anonimo autore scrivesse nel secolo XIII, o, al più tardi, sul principio del XIV. E come non posso meglio determinare la data, così nemmeno il luogo nativo. La lingua d'oU fu in uso per tutta quanta la vallata del Po, dai confini francesi all'Adriatico. Da una 3' di singolare, dove ci aspetteremmo una 3* di plurale, v. 137, da qualche altra minuzia consimile (1), non oserei dedurre nulla in fa- vore della regione veneta, per più di un motivo.

(1) Vedi a, come g»» p » s. pres. di avcrr , nella composizione del fuL: v. 70 e 189.

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«OMAMZA, K.o 1] ESTR DI UNA BACO, DI FAVOLE 33

Ho largheggiato nell'esposizione molto più di quanto sembrasse me- ritare il soggetto. Per ciò che si riferisce al contenuto, mi ci ha indotto il vedere tuttavia assai imperfettamente esplorato il dominio della favola medievale. Àncora non ci rendiam conto abbastanza delle complicazioni, che i problemi presentano. Ci crediamo a volte in campagna rasa, e siamo in un bosco fitto. Anche senza arrivare a conclusioni sicure, il persuaderci che non bisogna trinciar sentenze alla leggiera, mi pare un guadagno. Quanto alla forma, ebbi un motivo d'altro genere per farmi lecito di sciorinare dinanzi al pubblico tutta l'indagine, invece di pre- sentarne i risultati. Rammentavo che in tempi vicini si assegnarono alla Francia testi analoghi per linguaggio a quello di cui stavo occupandomi. Mi giovava quindi di prendere in esame tutte le possibilità , affinché ciò che a me sembrava e sembra essere il vero, restasse stabilito in modo ben chiaro. Non già che j5er importi molto l' accrescere di un altro ano- nimo la lista degli autori italiani : bensì importa alla storia della nostra civiltà e delle nostre origini letterarie il penetrare quanto più si possa nella conoscenza d'un periodo, tuttavia misterioso. Ogni opera composta anticamente in francese da Italiani del settentrione, viene a spargere un po' di luce tutto all'intorno. Se ne rischiara, tra l'altre cose, il fatto singolare dei gerghi franco-italiani. Il quale, checché si dica, proprio non s'intenderebbe, se la letteratura francese delle classi colte non fosse stata di gran lunga più copiosa che ancora non paja. Tanto più che certi nomi soliti menzionarsi di preferenza quando si discorre di queste materie, Brunetto Latini, Rusticiano da Pisa, Aldobrando da Firenze, vogliono essere considerati a parte. Ben altro è il fatto di Italiani, i quali taluni anche fuori d'Italia e dietro istanze forestiere scrivano un idioma straniero , altro quello di tutta una regione guadagnata ad una lingua non sua, la quale s'infiltra giù giù fin negli strati più in- fimi della società. Qui dunque resta senza dubbio ancor molto a sco- prire, e però dobbiamo esser lieti ogniqualvolta ci riesce di metter la mano sopra un fatto non ancor conosciuto. Insignificante, se si consi- dera isolato, porta sempre qualche contributo per una miglior compren- sione dell' insieme. Del resto, nel caso nostro, non è solo un' opera che viene ad aggiungersi alla nostra antica letteratura à'oil: è un genere nuovo. E questo genere si trova rappresentato in modo caratteristico, e che si ricollega con altri fatti. In cambio di una nuova versione del aolito Anonimo, troviamo una raccolta mista , nella quale, più assai di cotesto Anonimo, ha parte Aviano. Una parte forse mediata; ma ap- punto una tal mediazione desta uno speciale interesse. Il presunto me- diatore, aggiunto all'Anonimo poeta Astigiano, appartenente ancor esso alle medesime provincie dove si compose il nostro volgarizzamento, viene a farci penetrare un momento collo sguardo nelle condizioni della col- tura lungo il corso del Po, in tempi, per questo rispetto, tuttora bui.

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P. BAJNA

[aiORNALB DI FILOLOGIA

E non sarà forse questa la sola parte che l'Italia settentrionale abbia da rivendicare a medesima nella copiosa fioritura degli Aviani rinno- vati. Quanto all'elaborazione dell'apologo sotto forma latina, essa con- tinua a prendervi una parte ragguardevole anche nel secolo XIV; e dentro il breve periodo di forse vent'anni, può mostrare due raccolte tra le più copiose, ed una, almeno, anche tra le più notevoli. Ma di ciò in altro luogo.

TESTO

(I) De muliere^ que volébat iacere cum filio

suo. (Av. 1.)

1 Cesta raison ne voi moster

K'in-femena noa de nus hom fidar: S'ella cent ore se sperzura, De-20 qella promet no cura.

(II) De limazxa et aquila. (Av. 2.)

5 Bien vei qi voi so ver mesura Quo sanz fai ila petit dura, lei se poons senz metre De zo c'om doner promotre. Plus, qe Tom ne de monter

10 Qe longament nog poli ster.

(ni) De gambero et gambata. (Av. 3.)

Cil hom qe voi altrui blasmer, Inprumer deit de si penser, E de cel vicio q'est in-lui, No devria hom reprendre altrui.

(IV) De foco et vento. (Av. 4.)

15 Ben ven sovenz en apert.

Por-zo fo scrito, qe la zent saza C'om no vénzer per meuaza; E qi de menacer no fina, De raison cait en grant mina.

(V) De asino, qui induit i)ellem leoni s.

(Av. 5.)

20 Quant hom es montez plus en sus,

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De tant al peis qant oait en zus. No crez (fb\ seit en segle nez Qi-en aza sa voluntez. Senpre fus aine, ben lo sai, Aine seras sin qe vivrai. Crez qela ert mala ventura Qe ensis fors de ta mesura. Cascuns se deit amesurer E sa voi r be zo qel poi-fer. Lauser nul hom se devria De cel qel no agues da-seL

(VI) De ranaj que dicebat se medicam.

(Av. 6.)

Qi a-3Ì no-sa dar medicina, Za no vedrà la mia urina.

(VII) De cane mordente ocuJte. (Av. 7.)

Salamons dist per scriptura: 35 Sei malvas mor, non azé cura.

Lo sonail, qe tu-a« al cols,

Mostra qe es traitor e-fols.

Dolza mei as en ton visage:

Amara fel en ton corage. 40 Cascun qi voi fer traiment

Voria ch'aves tei sonail cent.

(Vili) De eamuTlo, qui voìebat cornua. (Av. 8.)

Nuls hom zo qo no-pod-aver No devreit mais trop desirer. E s'il-lo fait, il noi avria 45 Mais del so toist li-perdrìa.

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BOMAKZA., :

1]

ESTK. DI UNA BACC. DI FAVOLE

35

(IX) De duobus soeUs, qui iuraverunt si-

mili. (Av. 9.)

Bien croit qel descend da cura Trovar engeing qi a-rancura. Si in-grand perìgol dea intrer, Cognois en cui se doit fider. 50 Gii qi ert mal aconpaignez Toist poit estre detblez.

(X) De miUte hàberUe alienos capiUoa.

( Av. 10. )

Si cnm se lez en la scriptura, Tote cause stan sot ventura. Ensi devreit chascus hom fer: 55 Se il fi gabez, ne se doit irer. Riant se poria mielz cobrir, E se farai saze tenir.

(XI) De duahiis oUis euntibìis per aquam

curentem, (Av. 11.)

« S'eu feris tei, eu-perderia, E se tu-mei, e' -me fenderia. » 60 Li-povre 'stoit mult dubiter C al rich se voi acompagner. S'entre lor dui venist tenzon, D-avreit mala patizon.

(Xn) De rustico, qui invenU argentum. (Av. 12.)

65

70

Seignor, sachez qe la-ventura Sotz sei tint ogna creatura; Cil qela voi si porta sus, E cel qela voi adus en-zus. Qant lo stult a-quinz dinar , Voi tenir vii le suen mester. Qand vorà guiardon e-servis, Ben des saver qi te lo-fis.

(Xm) De tauro et leone. (Av. 13.)

Quand li grand hom a-grant afer, Ben cativo hom Io-poi torber; E cil q* è saize, sii porta 75 Tan fin qe vint la soa volta.

(XIV) De simia et rege. (Av. 14.)

Cil qi voi trop sa ren loser, Et il no pot de raison fer, Sazez, no guadaina nient. Mais de si fait gaber la-zeut.

(XV) De pavone et grua, (Av. 15.)

80 Por-ce fo dit, ben lo sacez, Mielz es bontez non es beltez. Un deforme9 q'es pros e saze, Valt cent malvais con bele faze.

(XVI) De quercore et vento, (Av. 16.)

Cascuns doit son meilor sofrir. 85 Qi zo no fait, test poit cair. E cil qi cait per tei oitrage No fi tenuz ni prò ni saze.

(XVII) De venatore et tigra, (Av. 17.)

Cil qi no defendre sei, No crez chel possa tenser mei.

(XVIII) De quatuor [iuvencis] deceptis a

leone, (Av. 18.)

90 Cil non a del sen de Paris Qi crei tut zo c'om li-dis. Bon compagnon non doit fauser. Ne lor ama qil voi severer.

(XIX) De arbore contempnente spinedum.

(Av. 19.)

Miei voil star bas ala-segura, 95 Qa monter alt ala-rancura.

(XX) De piscatore et pisce parvo, (Av. 20.)

Le cause c^ai sens dubitanza No voil ie metro in esperanza. Sa ren li saze sol tenir, Qel no-la voi pesca qerir.

(XXI) De rustico et alauda. (Av. 21.)

100 Dolent cel qi no per sei: Toat li-ven tard l'altrui conseil. Per fin qe fu rie e-posent

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3G

P. BAJNA

[giornale di filologia

Avole conpagno ben cent. Sachez bien, si cum hom dis, 105 Qi pert Tavoir, si pert li-amie. Nua hom sa maison doit levar La un-g'estoit sempre dubiter.

(XXII) De puero deci piente latronem,

(Av. 25.)

Sovenz avent, qi voi Taltrui, Qel pert lo so, com feist cestui, 110 Che a-perdn son vestiment, £ del vasel non a-nient.

(XXIII) De cornagia sitiente, que inventi ol-

lam cum panca aqua. (Av. 27.)

Qnialò pot ben estre coneuz, Miei est engieing qa vertuz.

(XXIV) De rustico et porca. (Av. 30.)

Qi de mal far nos voi sofrir, 115 Chil de raison se deit pentir. Si fera il, senz dubitanza Non pot aver longa duranza.

(XXV) De rustico infangato, qui non tu-

vabat se, sed deprecàbatur deum, (Av. 32.)

De-ze aver qe e'-porai,

Quant e*-porai me penerai.

120 Cascuns se deit per sei pener,

Qel no basta pur le prier.

(XXVI) De formica et cicada. (Av. 34.)

Mais en la fin dist la-formiga: Gel aza Io-gran q'a la fadiga. Fin qel hom è en-zoventuz 125 Deit ben penser qand ert canuz, Qel no porà dono lavorer; Sei no avrà, li-astovreit durer.

130 Gii qe serf, qe vos dia, A l'altrui sen senpre se guia.

(XXVni) De lupo et cavredo. (Av. 42.)

Deli dus mal, sachez seignor, Devoms alezer lo-menor; Gel qe possum miei sostenir ; 135 E li maior devom fozir.

(XXIX) [De] lupo turbante aqiMtn agno.

(Anon. 2.)

Ensi trova li-malvas capson Qant volunt ofendre ali-bon. Mais cel q'a lo-mond en-posan^a, De tei sol molt ben fer svengan^a.

(XXX) [De ca]ne qui amisit formagium.

(Anon. 5.)

140 Gii q'avia senz dubiter

Ne devoie areseger.

Le cause q'ai, no-lasarìa,

Por-ce qe falir porla.

Sovenz cait hom en grand rancura 145 Por desirer sover mesura.

(XXXI) De lupo et grua. (Anon. 8.)

Gelui qi serf ali-felon No avir nul guiardon; E li malvas no sai amer, Se no qant hom li fai mester.

[XXXP'» De vulpe et corvo. Anon. 15.]

150 Quant alcun te voi loser, Tu no te di trop exalter. Se tu le creis ce qel te dis, Ben tost serais da lui trais.

(XXXII) De catuìo et asino et domino.

(Anon. 17.)

(XX VII) De cane et leone, (Av. 37.)

Meil voìl estre magro e-franc Qe servo et ave gras li flanc.

Qi voi ander contra natura, 155 No-li sera bona- ventura, Si cum cist aisne voleit fer, Qe fu batuz per son zuer.

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SOMJLIIZA, N.° IJ

ESTB. DI UNA EACC. DI FAVOLE

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(XXXIII) De mUuo petente veniam in mor-

te. (Akom. 19.)

Fin c'om-po-fer e-ben e-mals, Deit estre hom bon e lials.

160 Qand lo hom a-paor de-morìr, Cascun se voi donca pentìr; E 9*el per-zo deit aver ben, Li-paradìs sereit trop plen. Ben tost sereit incignez

165 Qi se pent par qant est malez.

(XXXIV) De latrane et cane, (Anon. 23.)

S'alcuns te voi del so doner, Per qe lo fas, sce des guarder; E se doner voi ad altrui, Des ben saver qe et a-cui.

[XXXI V**- De capra et hoedulo. Anon. 29.]

170 Ensi devreit cascun hom fer: Crer a-sa mer et a-son per. £ qi noi fa» hom lo sol dir, Qel gen sol mult mal avenir.

(XXXV) De calvo et musca. (Anon. 32.)

Sei pitet hom ofend al grand 175 Bien qatre veis, on vint, on cent, Se-li grand hom li voldrà fer In-nna veis sen-a venger.

(XXXVI) De equo et asino. (Anon. 43.)

Qi voi menor de si manger,

De raison doit si ariver. 180 Donc devoies tu penser

Qe le richezes pont paser;

Paser pot Tor et Tarzent;

Pois toma Torgoil in nient.

Fìns qel hom a bona-ventura , 185 Doit il aver sen et mesura,

Ne-li caitius doit escernir;

Ben tost gen-ave mal avenir.

(XXXVII) De cervo despiciente tibias lau-

dando cornua. (Anon. 47.)

Se cel qe nois voi amer E qe te zova a-blasmer, 190 Sache qe tu fai grant folia; Ben saz qe mal ten-averia.

(XXXVIII) De Vìdpe et simia. (Anon. 56.)

La simia ie dist, q'oit grant ira: « Gii qe plus a, e-plus desidra. > Le povres hom seroit manent 195 De zo qel rie a-por-nient.

(XXXEX) De venatore et leporario. (A-

NON. 27.)

Or voie ben qe l'amor no dura Pois qe se canze la ventura, Mais cascnns hom fi tant amé, Cum hom ne trait utilité.

(XL) De leone et equo. (Anon. 42.)

200 Si deit avenir a celui Qi voi senpre inginer altrui, Cum fist a-cil, senz dubiter; Un sol les altres a svenger.

(XLI) De milite et leone. (Av. 24.)

Se tu voi definir ten[so]n, 205 D'ambas les part vei la-raìson.

Sovenz nois li penser primer

A cil qe no voi repenser.

Dunt zie ke-repensa dritamen

Devria-aver hon seguiment 210 Et hom sol dir: Dolent celui

Qe castia si et altruL

(XLII) De duóbus hominibus invidiosis. (Av. 22.)

L'avar reprend qe non a-onra, Pur qel guaidan en qalqe mesura; E cel q'è trop invidios. 215 Mal seit de lor entrambes dos.

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38 P. BAJNA [giornale di filologia

1. Qi de 8on-poder es ben, per ben deul hom tenir sena plaifc.

2. Qi ben voi comenzar bons fait, si-li deu acabar car lo pretz li remaigna.

3. Qil seu no pod cobrar, mal cobrera Spaigna.

4. Foldaz es ab fol contendre.

5. Senz per nul dotrìnador senz bon cor non pod meillerar.

6. A la cuìnda pod hom probar | amis de boca senz amar.

7. Amar senz prò non es fruit qi-engras.

8. A frane amis de hom ben perdonar, | e-gensofrir maltraig por gadaing far.

9. Honestaz es e-cortesia | pensar tal ren qe bona sia.

10. Pensar deu hom qe pensar pens | don posca a venir qalqe bens.

11. Trop es hom

NOTE

I. lacere significa qui semplicemente riposare, dormire in senso proprio.

Av., V. 15 : « Haec sibi dieta putet, seque hac sciat arte notari, | femineam quisquis credidit esse fidem. » An. Ast., UI. 1, 25: « lamdudum legi, non debet f emina cre- di, I cum soleat laedi, qui male credit ei. » liei, ani, : « Cui lupus : Illusit fallax me femina, inrans | viscera visceribus pa- scere nostra suis. | Qui falli meruit, exem- plo discat in isto, | femineae fidei non adhi- bere fidem. »

II. 5-6. Neck. {copiose), v. 3 : « Ambitus est pestis sibi perniciosa; ruinam | ista vexatus peste timere potest. ^ 7-8. Ast., I. 2, 10: « Et cum iam caeli poterant vi- cina videri, | voce petit miti debita dona sibi. I Cum dare non possit , dolet ista , quod altera poscit; | nil habet ista rei: creditor instat ei. | Haec vacat, haec quae- rit, cupit haec, hanc sponsio laedit; | si qua forent, claret, quod peritura daret. | Iam lacrimans orat, quod eam tellure re-

ponat, I promittendo fidem, quod daret il- lud idem. | Unguibus insistit volucris ver- bisque resistit, 1 et, sermone ream, stringit et artat eam. » V. pag. 23. 9-10 : Nkck. (compend.) v. 9 : « Hunc metuat quisquis suspirat ad ardua finem. »

5. sóver, sopra. Cfr. v. 145.

7. se, credo stia qui per il pron. rifl. di 1* pers. plur. Bonvesin: se vòssetn, se possamo asconder. Tuttavia potrebbe an- che equivalere ti ce, e doversi collegare con senz,

9. Ms. qel om. de, deve.

10, nog = no gè, non ci. Ms. li. Ma ò certamente il congiuntivo ài potere, ri- spondente airind. poi, pale.

III. Av., V. 11 : « Nam stultum nimis est, quom tu pravissima temptes, | alterius censor ut vitiosa notes. »

IV. AsT., I. 3, 45: « Praemittendo mi- nas aptat sibi quisque ruinas, | cumque mi- nando velit vincere, victus erit. » Av., v. 15 : « Tunc Victor docuit praesentia uumina

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SOMANZA, K."* 1]

ESTR. DI UNA BACO. DI FAVOLE

39

Titan, I nnllum praemìssis vincere posse minia. >

15. Il periodo è acefalo, e, caso unico, abbiamo un sol verso di una coppia.

16. Saza, sappia.

20-21. Questi due versi parrebbero da trasporre in coda al n.*» II. Si cfr. infatti Nkck., De aquila et testudine (copiose), v. 1 : « Ausus illicitos punit gravis exitus ; alti | ascensus ingens esse mina solet. » Tutta- via si veda ciò che si riporta qui sotto dal- l'AsT., ai V. 26-31. 22-23. Ast., I. 5, 15: « Metra ferunt vatum, nihil est ad cuncta beatum. | Dum salit atque furit, fraus ada- perta fnii > (?) 24-25. Av. , v. 18 : « Ast mihi, qui condara, semper asellus eris. » AsT., V. 33: « ... mihi sis quod, ascile, fuisti ; | parcere disce feris ; noster asellus eris. > | 26-31. AsT., V. 35: « Vivere sub meta lex praecipit atque propheta , | transiliensque modum destruit omne bonum. | Per pro- prias laades iungi caelestibus audes ; | qui capit alterius, decidit inferius. > Av., v. 1: « Metiri se quemque decet propriisque iu- varì I Laudibus, alterius nec bona ferre sibi. >

20. Da collegare quant . . . plus,

21. ài peiSt ha il peggio.

22. cree, credo. Cfr. v. 89. Oi'ezo è no- toriamente forma frequentissima negli an- tichi dialetti dell'Alta Italia. Inutile quindi ricorrere a riscontri provenzali. Invece di segU pare si fosse scritto prima sengle.

23. In qien si potrebbe sospettare una forma di relativo personale, da mettere coir omofono spagnuolo. Cfr. il prov. quinh, r umbro quegne (Biv, di fil. rom,, II, 54), questi in uso di aggettivi. Ma il verso ver- rebbe a mancare di una sillaba, che biso- gnerebbe ridargli.

24. Nel V. 156, aisne.

26. Cre2, qui , < credi ». Ms. qd aeri, 0 ciert, cioè, si ert?

27. Qe ensiSj che tu esca.

31. Volendo ripristinare la rima, una mano posteriore, al di sopra delle parole no agues de sei, scrisse, fare élnu porla.

VL Ast., I, 6, 4: «Qui sibi non pro- dest, nil sapit atque potest. » Ib., v. 17: « Creditis hanc aegram vobis conferre me-

dellam | .... | « Turgida cum pallet, se sanam reddere mallet. » Av., v. 11 : < Haec dabit aegrotis, inquit, medicamina mem- bris, I pallida caeruleus cui notat ora co- lor? »

VII. 36-37. Ast., II. 6, 31 : < Aera, qui- bu3 plaudis, sunt designatio fraudis; | si- gnant mota dolos ; est noia nullus honos. » Av., V. 17: « Non hoc virtutis decus osten- tatur in aere ; i nequitiae testem sed geris inde sonum. »

35. mor, morde. E sark probabilmente da scrivere mord.

38-39. mei, fel: il genere femminile pre- vale per questi sostantivi nei dialetti del- l' Italia settentrionale.

41. Ms. cha ues.

Vili. camullOf cammello. Av., v. 1 : « Contentum propriis sapientem vivere re- bus, I nec cupere alterius, nostra fabella monet, | indignata cito ne flet Fortuna re- cursu, I atque eadem minuat quae dedit ante rota ». Ast., IL 7, 19: « Contentum rebus propriis foro quemque docemus, | nam cito fors demit quod prius ipsa dedit. »

IX. V. pag.23. Cfr. Av., v. 23: « Ne fa- cile alterius repetas consortia dixit, | rur- 8U8 ab insana ne capiare fera. »

46. descend, se non erro, deve-se-ne, o ddlba-se-ne. Ma Tamanuense, non intenden- do, a^rk forse scritto inesattamente. E in- vece ài àttf l'esemplare, secondo me, ave- va dar.

49. se doit, da correggere forse in te doÌ8 ? 0 avremmo mai qui il se come ri- flessivo di 1* p. sing. ? (V. al v. 7, e cfr. MussAFiA, Altmail. Mund., 20.) 0 forse al des del verso antecedente va sostituito deit? Oppure se doit = om doit?

X. Per il titolo, v. Av. , v. 1 : « Calvus eques capiti 80 litusreligarecapillos | atque alias nudo vertice ferre comas , » etc. 54-55. Ast., II. 9, 3: « Perdita naturae si possent reddere curae , | arida quae florent, mortua viva forent. | Sed, nec sicca virent, nec rursus mortua vivent; | calve, quid ergo petis, quod reparare nequis? | Nemo valet cura naturae solvere iura, | nec, quos privavit, rursus habere dabit. | Nec tristis laetus fuerit, nec risio fletus, | nec caecata

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40

P. RAJNA

[giornale di filologia

vident, nec male sana vigent. | Fronte nc- qui t calva pilus, ant procedere palma, | nec, quae semper obest, causa iuvare po- test. » 55-58: Av., v. 16: « Se risu quicnm- que novo sciat esse retentum , | arte magis studeat quam prohibere minis. »

54. Ms. En si; e la parola h pur scritta divisamente nei v. 136 e 170.

55. fi, ò. V. pag. 31.

XI, 58-59. AsT., m. 2, 35: « Subdar enim damnis, si me tibi conferat amnis; | vis tua me laedet, te mihi si ve feret. > Av., V. 13: « Nam me si ve tibi, seu te mihi conferat nuda, | semper ero ambobus sub- ruta sola modis. > —60-63. Av., v. 15 : « Pau- perior caveat sese sociare potenti, | nara- que fides illist cum parili melior. »

60. 'stoit, 0 piuttosto estoit, giacché Teli- sione dovrebbe eleminare di preferenza la vocale d'uscita di povre, ò il fr. estuet, esioely eatoty precisamente come nel Maca- rio, V. 741 (MussAFiA, AUfr, Ged., II). La stessa voce anche presso Fra Bonvesin, nella forma estove,

63. patizon, può essere una creazione deir autore. Ma molto più probabilmente si sarà omesso un segno sopra Va, e do- vrà leggersi partizon, vale a dire la voce che nei testi corretti suona pardon o parzon.

XII. 64-67. V. AsT., II. 13, 27: « At mihi nil praebes, cui te, miser, et tua de- bes, I quae favi votis, ditibus acta rotis. | Si, volvente rota, fuero quandoque remo- ta, I pauper, ut esse soles, multa dedisse voles. » -- 68-69. V. Av., v. 3 : « Mox indi- gna, animo properante, reliquit aratra, | semina conpellens ad meliora boves. » 70-71. Av., V. 15 : « Nam nimis accepto pec- cat grave quisque talento, | si, quod ab hoc sumpsit, inputat hoc alii. »

70. Ms. uor (o noi? Ma cfr. v. 145) aguiardon. Tra le correzioni, neir incer- tezza, ho preferita la più lieve. Divisioni erronee abbiamo anche altrove ( v. 140 ). Vorà sarebbe qui la 2* pers. Cfr. v. 189.

XIV. Il rege si giustifica con Aviano (v. 3, certatim ad rcgem). 76-80. V. Av., 10: « Ipsura etiam in risum conpulit ire lovem. » V. 15 : « Nolo velis rerum quìc- quam laudare tuarum, | Ni siet alterius

ore probata prius. ] Sic mos est fatui , quod quicquid fecerit ipse, | vile licet fuerit, conprobat ipse tamen. > Cfr. la parafrasi in prosa (Fròhn., Op. cit., 72): «....Si- mia natos suos coram cunctis afferens, lau- dem et victoriam suis exhibendam feti bus praedicabat, ita ut ipsum lovem, et totam deorum curiam provocaret ad risum. »

XV. AsT., I. 12, 5: « Ingenii normae subsistit gloria formae; | forma cadit geni i, vis manet ingenii. >

XVI. 84-85. AsT., L 15, 33: « Nolens ergo mori magnis obsistere noli, | qui, nisi tu cedis, sunt tibi causa necis. » Av., v. 19 : < Haec nos dieta monent magnis obsistere frustra. »

XVII. V. pag. 24.

XVin. Av., V. 17: «...Neve cito admo- tas verbis fallacibus aures | inpleat, ut ve- terem deserat inde fidem. >

XIX. AsT., I. 8, 27: « Te, quia laude nites, faciunt subcidere dites, | plantula sed dumi tuta manebit humi. »

95. Qa, costante nei monumenti del- l'Alta Italia per il che (quam) compara- rativo. V. anche v. 113.

XX. Av., V. 19 : « Incerta prò spe non ran- nera certa relinque, | ne rursus quaera?? forte, nec invenias. » Ast., IH. 7, 25: « Mixtus erit stultis , si metris credere vul- tis, I qui pedibus quaeret quod sua dextra tenet. »

XXI. Ms. et aquila. L'uccello è un'a- lauda anche nella parafrasi in prosa. Certo è pervenuta dentro da un titolo antico, dacché la troviamo di già nelV originale greco: xoovtóo; (Babkio, f. 88). Quanto al resto v. pag. 25.

100. Ms. peri sen.

107. Colà dove gli conviene. V. al v. 60.

XXII. Av., V. 15: « Perdita, quisquis erit, post haec bona pallia credat, | qui putat in liquidi» quod natet urna vadis. | Nemo nimis cupide male res desideret uUas, | ne, dum plus cupiat, perdat et hoc quod habet. »

XXm. Ast., IL 10, 15: < Hac poterit dare quivis ratione notare, | quod tollit pretium viribus ingeniura. > Av., v. 9 : « Vi- ribus haec docuit quam sit prudeutia maior. »

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ROMANZA, N.^ 1]

ESTR DI UNA BACC. DI FAVOLE

41

112. Quiaìò, qui; forse quelita d&xmad (eccu' hie età locum) ?

XXIV. Av., V. 17: « Haec illos descripta moneot , qui , saepius ausi , | nnnquam a peocatÌ8 abstinuere manus. »

XXV. AsT., IL 2, 19: « Numina sic oret, quod homo rogitando laboret. »

125. Ma. Md.

XXVI. 122-23. AsT., H. 12, 25: « Quae me grana petis, respondit, amica quietis, | pectoris ignavi, parta labore gravi. » 124-27. Av., V. 1 : « Quisquis torpentem pas- sust transisse iuventam, | nec timuit vitae providus ante mala, | oonfectus senio, post- quam gravis adfuit aetas, | heu frustra al- terius saepe rogabit opem. »

126. Donc, allora.

127. U astovreit durer, gli converrebbe (o converrà ?) stentare. In astovreit Ve pro- tonico si è mutato in a, cerne in àlexer, V. 133.

XXVin. AsT., IIL 8, 21 : « Si cui dam- pnorum supereat fortuna duorum, | vitet deterius, sustineat levius. >

XXIX. 136-137. Anon.: « Sic nocet inno- cuo nocuus, causamque nocendi | invenit...»

136. Ms. En si. Capson par condurci a eapHoj'Onis. Non credo per altro che l'autore intendesse proprio di usare questo vocabolo, bensì che, pensando a cagione, attribuisse alla parola una falsa etimologia. n testo latino ha causam,

139. svenganga : abbiamo qui un s pros- tetico, ben comune nei dialetti dell'Alta Italia. V. Archivio Glottologico, I, 415, 419, 430-431. E svengianza è anche di Fra Bonvesin.

XXX Aw.: « Non igitur debent prò vanis certa relinquL | Non sua si quis amat, mox caret ipse suis. » Coi v. 142-43, cfr. Marie dr Fr., f. 5: « Qi plus coveite que sun dreit, I par li meismes se d69eit. »

140. Ms. qa tUa.

145. Ms. Poi, sóver mesura : V. v. 5.

XXXI Am. : « Nil prodest prodesse ma- lia: mena prava malorum | immemor ac- cepti non timet esse boni. »

XXXI.*" V. pag. 16. An.: « Fellitum patitur rìsum, quem mellit inanis | gloria ;

vera parit taedia falaus honor. »

151. di, devi.

XXXII. An. : « Quod natura negat, nemo feliciter audet ; | displicet imprudens unde piacere putat. »

XXXm. 158-61. V. An.: «... Dum sacra turbares, poena timenda fuit. | Te cogit timor esse pium , te poena fidelem : | hic timor, haec pietas cum nece sera venit. »

161. donca : anche qui il valore tempo- rale si scorge assai bene.

163 e 164. Ms. se reit,

XXXIV. An.: « Si tibi quid datur, cur detur respice ; si des, | cui des ipse nota. »

167. sce = ce, XXXIV. ^" V. pag. 16. An: « Insita na- torum cordi doctrina parentum | cum pa- riat fructum , spreta nocere solet. »

170. Ms. En si.

172. Ms. nói noi

XXXV. V. An.: « Sospes ero deciea ictus; semel iota peribis. »

175. on, o; anche presso Bonvesin.

XXXVI. An. : « Vindicat elatos insta ruina gradua. | Stare din, noe honor, nec forma , nec aetas | sufficit in mundo. . . . | Vive diu, sed vive miser.sociosque minores | disco pati. ... I Pinnatis non crede bonis ; te nulla potestas | in miseros armet; nam miser esse potes. >

XXXVU. An. : « Spemere quod prosit, et amare quod obsit, ineptum est. | Quod fugimus prodest, et quod amamus obest. »

188. Ms. qe no uoi. Cfr. il latino.

189. a ò qui da prendere come 2* pers. Cfr. V. 70.

XXX Vm. 194-95. An. : « Id nimium ni- mioque magis ditaret egenum, | quod ni- mium minimo credis^ avare, minus. »

192. ie , gli , le. Ms. goit.

XXXIX. An. : « Nullus amor durat, nisi fructus servet amorem. | Quilibet est tanti, munera quanta facìt. »

203. Cod. Svengez. Per la prostesi, v. al V. 139.

XLI. 204-5. Av. V. 19: « Nec pictae ta- bulae , nec testi credito per se ; | nam pel- lectus eris , si male credideris. » Nasce un certo qual dubbio che i v. 206-11 possano

3*

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42

ESTR DI UNA BACC, DI FA VOLE [qiohnalb di pilolooia

appartenere ad un' altra favola. Si adat- terebbero a quella del cavallo e dell* uomo, che abbiamo in Fedro, IV, 4; Bomólo, IV, 9. Tuttavia, considerata la costituzione del

che un cantuccio a siffatto sospetto. Si noti, altresì che i v. 208-9 sono scritti d'altra mano.

207. Il no, sebbene svanito nella lettera

nostro testo e la provenienza dell* ultimo del ms., si restituisce facilmente per con- numero, sarà conveniente non lasciar più gettura.

1. Ms. dd,

2. Ms. lasprera,

3. Manca nel ms. la maiuscola iniziale. 6. cuinda, par significhi prova, od anche

fatto. Ma circa T etimologia resto incerto.

Forse il vocabolo va ravvicinato all'ant Bp,cuntir, acuntir, accadere?— In vece di próbar, il cod. par dica prohar,

8. Ms. fra.

10. Ms. de.

P. Rajka

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BOMAHZA, H.M] N, CAIX 43

SUL PRONOME ITALIANO

CI, VI, NE.

Il Diez scrive: « (7i e vi sono propriamente avverbi di luogo col senso di « qui » e « » ; i rapporti tra il pronome e questa parte del discorso sono abbastanza noti in altre lingue. Il ne usato accanto al ci non pare tuttavia aver niente di comune colla particella ne (lat. inde): le frasi da inde, ama inde (it. danne « dacci >, amane « amaci ») non esprìmono necessariamente una tendenza verso chi parla. Sembra piut- tosto abbreviato da nohis o nos; in luogo del primo dicevasi nel latino arcaico, secondo Festo, nis. »

Che ci sìa l'avverbio di luogo indicante vicinanza alla persona che parla {eco* Me) ^ non vi ha dubbio; ma si potrà dire altrettanto del vi, e considerar questo come il correlativo del ci? Anzitutto notiamo che l'aw. vi {=ibi) non esprime relazione di luogo colla persona acni si parla, ma colla cosa di cui si parla; onde il dire così in genere: egli vi (ibi) pose un segno, non avrebbe potuto esprimere « egli pose un segno a voi » ma « a quella cosa o in quel luogo di cui si parla. » Oltre a ciò la storia di questi pronomi mostra che il vero correlativo del vi (=:vohis, vos) non era in origine il d, ma il ne {=nohi^, nos). Ac- canto a vi disse, vi amò, chiamavi si usava ne disse, ne amòj chiamane^ forme ora antiquate e scomparse presto dall'uso vivo per la ragione che diremo. E quello che più importa di notare e che toglie ogni dubbio sulla correlazione così stabilita tra il ne e il vi anziché tra il ci e il tn, è l'esame delle forme più antiche di questi pronomi. Le più antiche scritture danno, in luogo del ci e del vi (o accanto a questi), no' noi e vo' voi. Nelle Lettere volgari del secolo XIII (Bologna 1871) queste forme sono ancora in pieno uso: inperò vo' mando pregando^ 3; se voi piace j ib.; se voi piacerà j 4; e sapiate che vo' mandamo cinque chava- lieri, 12 ecc., ma anche vi recha, 3; vi deono servire, 5; el detto Boni- cho VI rispose^ 18 ecc. Per il pronome di prima pers. abbiamo invece ordinariamente ne. Ma in Guittone no' noi per ne è continuo : noi piace ; HOi fue dato; è noi caro ; tdel noi, accanto a vo vede; vo faccia; piaccia vo ecc. In molte altre scritture antiche, come mostreremo altrove, occorrono come correlativi no' e vo' in luogo dei moderni ci e vi. Ciò posto, il il passaggio di no' e vo' in ne e ve («?i), poi la separazione del ne dal

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44 N. CAIX [aioBNALK di filologia

ve (vi) e la sostituzione del ci non è difficile a spiegare. Nei dialetti che, come l'aretino e gli umbro-romani, mantenevano Ve latino atono, si aveva pel singolare la serie pronominale enclitica e proclitica me, te, se, che dove facilmente trarre seco il ne e il ve per no' e vo' nel plurale. Come si diceva me diede e diedeme, te disse e dissete, si cominciò a dire ne diede e diedene, ve disse e disseve^ in luogo di no diede e diede noi, vo disse e dissevo come ancora scriveva Guittone. L'analogia ha gran parte nella determinazione di intere categorie di voci, e sopratutto nelle serie pronominali, come si vedrà più sotto per altri esempi. Anche il Diez notò come V ant. sio e tiOj che sono propriamente forme meridio-^ nali, siano foggiate suU' analogia di mio. Ma nel toscano centrale che colla sua preferenza per i atono, aveva creato le serie enclitica e pro- clitica mi, ti, si^ si sarebbe dovuto avere al plurale ni e vi. E que- st'ultima forma abbiamo già veduto nelle Lettere volgari adoperata in- sieme colla più antica {vo'). Ma il ne non pare abbia mai subito, o solo sporadicamente, quest'ultima evoluzione. E la ragione sta nell' es- sersi fin da principio confuso coli' altro ne (==incfe) che finì poi per prevalere al ne pronome. La confusione fonetica delle due particelle, favorita in alcuni casi da una certa somiglianza negli usi, staccò il ne dalla serie pronominale, e lo ridusse a vivere a sempre più stentata- mente, finché per il suono che discordava dalla rimanente serie pro- nominale, sì pel significato che pareva, per la confusione col ne da twde, sempre più incerto e indeterminato, esso fu sostituito nelF uso popolare dal ci il cui significato era più preciso, e questo divenne nell'uso co- mune il correlativo del vi. Nel sec. XIII il ne per no' è ancora popola- rissimo; in seguito divenne sempre più raro e si lidusse al solo uso let- terario, principalmente poetico.

LE.

La sorte contraria è invece toccata al pron. le (=lei). Anche l'ori- gine storica di questa forma va chiarita. Il Diez : < Il dat. iUi ha dato it. gli, li, prov. ant. fr. li, vai. i; il femm. illae, per iUi, it. sp. port. le. » Ma poi parlando del pron. spagn. scrive : « I dativi le e les erano, sotto l'antica loro forma li e lis, più vicini al lat. {Ili, iUis: dandoli, pe- dirli ecc. » Questa seconda osservazione viene a mettere in serio dubbio, se non c'inganniamo, almeno per lo spagnuolo la supposta base lat. Ulae per il dat. femm. le. Ora è bene avvertire, se non per la questione eti- mologica, almeno per la questione storica, che anche l'it. le non si ri- connette direttamente con un lat. ìIUlc, ma che non è altro che una forma indebolita di lei. Lo stesso Diez osserva che « lui e leij nella loro qualità di dativi antichi, fanno qualche volta senza della preposi-

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BOMANZA, N.« 1] 8UL TEONOME ITALIANO 45

zione a; per es.: risposi lui; Dante, Jw/l, I, 81 ecc. > H Diez non esempi di lei, ma Y uso stesso per questo secondo pronome non era che una naturale conseguenza di quello del primo. Come si diceva lui, noi^ voi piace per a lui, a noi ecc. così si disse lei piace o piace lei per a lei. Gli esempi sicuri nei più antichi mss. sono molti ; ma qui voglio limi- tarmi a qualcuno tratto da una fonte accessibile a tutti, dal Canzoniere Vaticano, ediz. Comparetti e D'Ancona. Qui leggiamo :

Com'io comfforti l'amore ch'i' lri porto. XXXVIII, 38. Però LSI piaccia di me rallegare. XuVill, 23. Fiace LEI che di stare. XXXI , 37.

Ma come nei più antichi mss. troviamo nò' e vó* per noi e voi enclit. e proclit. {vó* manda, piacciavo), così nei mss. toscani occorre ben presto le (che perciò sarebbe le') per lei. Nello stésso Canz. Vatic. questa forma occorre accanto alla prima :

Poi Lv piacie c'avanzi suo valore. XXIX , 1;

ed anzi in due versi consecutivi:

Le piacerà mandare

Piacie LEI che di stare XXXI, 36-37.

Pare inoltre che questo costrutto non fosse popolare, ma piuttosto dell'uso poetico e da questo solo più tardi passato nel linguaggio ari- stocratico e della galanteria. Il popolo non conobbe e non conosce an- che oggi altro dativo che gli (K)c=»tTO per ambedue i generi, e gli per le troviamo spesso negli scrittori fiorentini e nello stesso Dante (Blanc, Ital, Oramm, 263). Tantoché il le non abbastanza confermato dalle scritture e ignoto all'uso popolare, non fu accolto senza contrasto dai grammatici, e oggi ancora non è che dell'uso scelto e suona pei Toscani come qualche cosa di ricercato o di non naturale. Quanto siamo dunque lontani dal poter vedere nel le il rappresentante diretto e popolare di un lat. Ulae! Se questo poi si racchiuda veramente nel più completo lei non ardisco qui neppure di discutere. Ma è certo che l'argomento che in appoggio del supposto Ulae si volesse trarre dall' esistenza di un le^ creduto antico e popolare e con valore essenzialmente di dativo, si risol- verebbe in una mera illusione. Ho detto che la storia del Ze è il rovescio di quella del ne. Questo infatti di popolare che era, cadde poco a poco d'uso e non fu più adoperato che per imitazione letteraria nelle scritture di stile elevato o poetico; mentre il le adoperato prima nello stile ele- vato e nel linguaggio della galanteria divenne, come opportuno mezzo di distinzione dei due generi, d'uso sempre più generale, se non del tutto popolare.

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46 N. CAIX [giornale di filologia

CAVELLE, COVELLE.

Il Diez non parla di covèUe airarticolo della Formazione pronominale, ma nell'^. TT. II a, lo ravvicina al m. a. t. Kaf = pula, mondiglia. Ma già da parecchi in Italia era stata proposta la derivazione do quid o quod + velles^ ricordata anche dal Mnssafia a proposito del romagn. gud (Romagn. Mund, § 200), e confortata dallo Storm col raffronto del clas- sico quidviSf del catal. quisvuUa ecc. (Romania II, 328). Noi aggiun- gemmo poi altre voci similmente composte {Studj etim. I) e partico- larmente Vovelle che Dante attribuisce agli Aretini, che proponemmo derivare da tibi velles. Questa derivazione trovammo poi pienamente con- fermata colla pubblicazione del Ritmo Cassinese (Riv. di fH, rom. II, 91 s.) ove occorre l'intera forma óbebeUi, La formazione pertanto di pronomi con velles o velis^ corrispondente a quelle con si voglia^ alle valacche con va da mdt^ alle catalane con vtMa ecc. è pienamente confermata. Resta ora a dare intera la serie pronominale così formata:

quem ■\- véUes : chiuvegli voce aretina registrata anche dal Redi; con cui chian. chiuve^. Sta per *chiveUi, donde chi^v, chiuv,

chivel negli Uffizj dramm. délV Umbr.j ed. Monaci, VI, 95.

ehivètli nelVHisL rom. 533.

chivelle neWHist aquil. 538.

chiegli nel dial. di Rieti (v. nella Gioventù,^ apr. 1866).

Queste voci significano propriamente < chi si voglia, chiunque > poi anche « nessuno » (cfr. fr. personne). In Jacopone con nuova com- posizione

omnechivegli e chiunque » Land. LIV.

guod + véUes: coveUe caveUe = « qualche cosa » poi < nulla ». cóbeUe uAVHist rom. 477. cubiéUo nel dial. sannit. (Giov, ib.). cvel^ quel in tutta l'Emilia.

ubi + velles :

ovéUe voce aretina, secondo Dante. Significa < ove tu voglia » poi e in niun luogo » (fr. qudque part). VuoUu venire oveUe = yuoì venire in qualche luogo pur che sia? Modificazioni della stessa voce sono

duvétte 'nduveUe = « in nessun luogo » nel chian.

inveì nell'Emilia (Biondelli, Saggio 267).

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BOMAKZA, N.o 1] SUL PBONOME ITALIANO 47

Connesso con queste forme pare anche il marchig. quaveru = e qual- cuno», quasi quem vdles untmi (ossia quem unum vélis). V. Canti march. ^ ediz. Gianandrea, p. 94.

CIASCHEDUNO.

Nella Crramm. il Diez trae questo pronome da quisque et unu^\ nel- V E. W. I, 125 propone anche la derivazione da quisque ad unum. Io supposi ciascheduno nato da ciasche-uno con d frapposto a togliere l'iato, come in Iodico da laico ^ in redina da réina ecc. Resta che anche per questo raccogliamo a complemento, e per conferma di questa deriva- zione, le principali forme sotto cui si presenta nelle antiche scritture dialettali :

dascheuno nel Volgariez. d'Albert,, ediz. Ciampi, 12; Lett. volg. 59; Ordin. della Camp, di S. Maria del Carm. 15 ecc. cescheuno nei Bandi lucch, (v. Gloss.). dascahuno nell'fiis^. aquU. 81.

caschaun chuscatm nelle Rime genov. II 42, lY 4, ecc. eascaun nella Visione di Tantolo (in veron.) 16.

Va qui pure ricordata l'analogia del lucch. certiduni, lomb. sertediin da certi-uni, che con elisione diede anche certuni^ come ciasche uno potè pur dare ciascuno.

QUEGNO.

n Monaci mostrò già (Biv. di filai, rem. II, 54) l'esistenza nei dialetti centrali d'un pron. quegno, corrispondente al prov. quinhj quinha, completando così la congettura del Canello che al pron. provenz. aveva ravvicinato il chignamente ricordato da Dante nel De Vidg. Eloquio. Importa far notare che lo stesso pronome, col significato di « quale > occorre più volte in Jacopone :

Or vedete '1 vii piacere

quegno prezo ci à lassato . . . L. V. Vuol saper li luocora

et quegn" ài compagnia . . . L. Vili ;

ma anche quigna L. II. Quanto all'etimologia il Diez inclina nella Crramm. a identificare il prov. quinh collo sp. quien da quem; ma nel- VE. W. II, 406 accenna dubbiosamente al lat. quiìiam. La voce ita- liana sembra accordarsi meglio con quest'ultima derivazione.

N. Caix.

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48 [giobivale di filologia

VARIETÀ

ETIMOLOGIE ROMANZE

fr. ÉBOURRIFÉ, it. RABBUFFATO

qui a les chevenx en désordi'e ». Il Diez non tocca di questa voce ; Io Scheler la trova « di fattura strana > e rinunzia a spiegarla. Il Bugge tentò derivarla da ^re-buffare^ che mal corrisponde al senso. Ma que- sta voce non è delle difficili ; ébourrifé corrisponde esattamente al tose. sbaruffato, lomb. shariifàa, dall' a. a. t. hiroufan, donde il Diez trae il com. baruf « ciuffo >, il lad. barufar « arruffare » ecc. E. W. I^ 360. D fr. ébourrifé per ^ébirouffé suppone una formazione con eX' quale il Diez ammette in éblouìr^ prov. esbalauzir. Quanto all'it. rabbuffato a cui il Bugge ricorre in appoggio del suo rebbuffare, non è esso stesso altro che metatesi di abbaruffato.

fr. FLAGORNER

adulare, piaggiare >. Alcuno da flaiter e corner {aux oreiUes) « sof- fiare air orecchio >. Littré vi scorgerebbe una variante di ftageoler, per l'intermedio di un flagot o flagol « flauto ». Diez Scheler aggiun- gono alcuna nuova congettura. Mi par difficile separar questa voce dal- l'equivalente sp. halagar fahgar che il Diez molto felicemente considera come ampliazione di ^flag-ar da una forma flaihan che sarebbe variante dialettale del got. thlaìhan^ o dallo stesso a. a. t. fléhón, E. W. II, 140. Anche flag-orner^ identico radicalmente a ^ftag-atj si riconduce bene alla stessa fonte ; g da h mediano non avrebbe per stesso nulla d' irregolare (cfr. agacer = haj^jan)^ ma occorrono pure nell'a. a. ted. forme con g: fléha e fléga « assentatio » e al plur. « blanditiae », e vb. flegilón fligUón adulari ». Infine anche la terminazione ^orner potrebbe rappresentare qualche variante dialettale. Cfr. il cit. flegilón, dial. (svz.) flakeìn, e l'a. a. ted. pleUiari= flehari « blanditor » in cui p potrebbe stare per ph secondo Diefenbach (Gotk Wort II, 711).

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ROMANZA, N.«» 1 ] ETIMOLOGIE BOMANZE 49

it. GUIDALESCO

piaga, ulcera nella spalla del cavallo », ma più anticamente « vertebra, spalla del cavallo >. Altre forme sono bidalesco, vitàlesco nei dialetti toscani. Il Redi guidaresco per forma aretina. Il dotto Barbieri cita pure le forme videresco videlesco che sarebbero importanti ma che non ho potuto riscontrare. Egli propone di derivare la voce da vitae arista (Tratt. di Mascalcia^ Bologna, 1865, p. 225, n. 5). Non conosco altra congettura su questa voce tanto antica e popolare. Ma il gu iniziale accenna ad origine germanica; e vi corrisponde infatti pienamente il ted. Widerrist. Quanto a se da st cfr. abbruscare per abbrustare^ ecc.

it. TAFFERIA

largo piatto, catino di legno »; lomb. stefènia (Biondelli); e il Redi nel Vocab. aretino: Stefania.... i Fiorentini dicono tafferia >. Certa- mente la stessa voce che lo sp. tafurea « nave piatta », il cui significato dove in origine aver valore più vicino a quello di tafferia^ poiché deriva dair arb. taifurtya e piatto, scodella ». Del resto anche nello spagnuolo at>biamo altra voce afiBne collo stesso valore dell'italiana, ed è ataifor piatto fondo per servire a tavola ; tavola rotonda in uso presso i Mori », dairarb. at-taifór (Dozy, Mots espagn. ecc. 209, 345).

sp. URCA

embarcacion ó barco grande, muy ancho de buque por en medio de el ». 11 Diez, E. W. Il, 189: « Secondo Aldrete dal gr. oXxà?; ma poiché urea indica anche il pesce, lat. orca, e questo ha pure significato di « vaso » r origine latina è più verosimile ». La Sig.'* Michaelis regi- strando, tra i duplicati spagnuoli, orca^urca, mostra attenersi alla stessa derivazione. Ma è difficile separare la voce spagnuola dalle corrispon- denti italiana e francese. L'it. orca significa « grossa nave da tra- sporto usata specialmente dagli Olandesi > secondo il Fanfani, il quale pure aggiunge: e forse presa la similitudine dalla Orca^ mammifero ma- rino più grosso del delfino ». Ma quella designazione di « nave olan- dese » accenna troppo chiaramente all'ol. ingl. hulk. Si aggiunga il fr. hourque « antica nave olandese » che come mostra il h non può avere che origine germanica. La voce spagnuola* non credo possa separarsi da queste, tanto più che anche urea è definito dalF Accademia per « vaso de carga, navis oneraria maxima » ; designazione che trova per-

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50 VAUIETA [giornale di fiix)logia

fetta corrispondenza nella glossa : « naves actuarie holchun kolechen ». (Diefenbach; Nov. Gì. s. aduaria). A mio avviso dunque sp. urca^ it. orm, fr. hourqiie=^ìvLQ\. ol. hidh^ dall' a. a. t. hólcho^ m. a. t. hclche^ e navìs actuaria ». Che la voce germanica derivi poi dal b. lat. holcus = gr. oXxcÈ; è cosa che riguarda più la filologia tedesca che la romanza.

N. Caix.

SUL LIBRO REALE

Qual fosse, per lo studio della lirica nostra, l'importanza del can- zoniere conosciuto sotto il nome di Libro Reale, ci fu mostrato dal Prof. Monaci nella Zeitschrift fur BomaniscJie Pkilologie I, 375 e ss., coir appoggio della tavola che di esso ci fu conservata nelle scritture del Colocci. Ma, a misurar piii compiutamente tal perdita, restava ancora a vedere qual relazione esistesse fra il Libro Reale e gli altri canzonieri a noi conservati, e se mai tra questi alcuno ve ne fosse che mostrasse d'avere con esso rapporti più o meno lontani.

Già per riguardo ai canzonieri romani il Monaci stesso era giunto a un risultato compiutamente negativo, e in verità i rapporti, che in alcuna parte sembrano intercedere col Vaticano 3793, sono troppo lievi e indecisi, perché se ne possa trarre alcuna conclusione. A miglior esito ci conduce all'incontro l'esame dei canzonieri fiorentini, tra i quali se non ne troviamo alcuno che ci rappresenti compiutamente il Libro Reale, uno ve n'ha però cho mostrasi con esso in strettissime relazioni. È questo uno dei canzonieri più importanti che a noi siano rimasti, il Laurenziano Rediano 9, finora men conosciuto degli altri perché ninno ne diede precise notizie. Ma non è qui il laogo di trattenermi a lungo su di esso, ciò che forse farò fra non molto tempo se mi verrà fatto di pubblicare qualche materiale per lo studio della nostra antica poesia. 11 canzoniere Rediano, membranaceo dei primi del secolo XIV, quan- tunque uno nel suo complesso, pure ci si presenta formato da varie parti fra loro distinte, e scritte forse separatamente l'una dall'altra. La prima di queste parti va dal foglio 1 al 40 e contiene le lettere di fra Guittone in numero di 35 e alcuni sonetti; la seconda da foglio 41 a (30 contiene le canzoni morali di Guittone in numero di 24. Queste parti a noi punto interessano; quella che a noi importa per ora è la terza parte. Questa va dal foglio 61 al 104, ha al principio le canzoni amorose di Guittone; comincia anch'essa come il Reale colla canzone Scdde noi donna genie, e le poesie si seguono dappoi nel Rediauo e nel

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10MAK2A, N.o 1] SUL LIBRO REALE 51

Reale in un ordine quasi sempre costante, salvo quelle differenze che ora brevemente ricorderò. Mancano nel Reale le canzoni di Guittone Crioia e allegraììea dopo la 4.*, Amor (anf altamente dopo la 17.*, e dopo la 23.* qaelle del Guiuicelli Madonna il fine amor, Donna Vamor mi sforza, Al cor gentile ripara, Lo fin pregio avaìisato; di Galletto Pisano Credeam essere lasso; di Lunardo del Guallacha Sicome Ipescio al lasso; di Notar Jacomo Madonna dir ui uoglo, Bemm e iienuto prima al cor. Madonna mia a noi mando, Meravigliosamente un amor mi distringe; di Galletto Inn alta donna o mizo mia ntendanza; di Messer Rugieri D'Amici Già lungiam^nte amore; di Notar Jacomo Vostr orgoglosa cera; dopo la 26.* la canzone del Re Enzo S'eo trovasse pietansa; dopo la 35.* quella di Dotto Reali Di ciò eh l meo cor sente; dopo la 59.* quella di Bacciarone farle m'a costretto; dopo la 75.* quella di Rinaldo d'Aqaiuo Poi li piace c'avanzi suo valore. Tre sole canzoni hanno nel Rediano una collocazione diversa che nel Reale, e sono la 20* che sta invece dopo la 22.*, e le 97.* e 98.* che seguono alla 56.*. Sono nel Reale e mancano nel Rediano la canzone 70.* e quelle dal n."" 82 al 96.

Queste differenze sono certo notevoli, ed avrebbero assai impor- tanza, qualora Tesarne di quel poco che del Libro Reale ci è dato sapere, non ci consentisse, se non di tutte, almeno delle più notevoli una spiegazione. Il punto più importante della divergenza fra i due codici è quello che segue al n.** 23, dove terminano le canzoni di Guit- tone; qui il Rediano ha tredici canzoni in più; ma qui appunto notiamo che il Reale mostra nella numerazione una notevole lacuna di 7 fogli, quanti appunto basterebbero a contenere le poesie mancanti. E questa lacuna possiamo spiegarla col supporre o una mutilazione o che questi fogli fossero rimasti bianchi; e questa supposizione crederei più proba- bile, a meno si volesse ri tènere, che, per un caso fortunatissimo e ri- petuto, col foglio terminasse pur la poesia ; che altrimenti chi scrisse la tavola del Reale, avendo certamente innanzi il riscontro del Vatica- no 3793, non avrebbe fatto a meno d'indicare, come fece in altro caso, se la poesia fosse mutila.

Due altre lacune ci si presentano nella numerazione dei fogli del Reale; l'una di otto fogli, l'altra di quattro; dove il supporre una mu- tilazione nel codice non ci spiegherebbe nulla. Tali lacune precedono e susseguono immediatamente quella parte delle poesie del Reale, che non ha riscontro nel Rediano; ciò non può essere a caso, ma ci con- duce a credere che queste poesie formassero una parte staccata dal resto, aggiunta forse posteriormente, giacché esse appartengono tutte ad un periodo assai più recente. All' infuori di queste una sola delle canzoni che sono nel Reale non è nel Rediano, la .70.* {S'io doglo non è mira- uiglia ), e di tale mancanza non so dare alcuna ragione ; noto però che il Reale nella disposizione delle sue poesie dal n.° 66 all' 81 mostra una

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52 VARIETÀ [oioBNALE di filologia

certa relazione col Vaticano 3793, e qaesto dopo la canzone di Notar Giacomo Troppo sono dimorato, che nel Reale è la 69/, per una mntila- zione manca di 7 canzoni, che però sappiamo quali fossero (v. Grion, Die Vaticanische Liederhandschrift n." 3793, nei Romanische Studieìi del Boehmer, I, 62) e tra queste v'è appunto quella che nel Reale è la 70.*

Quello che per ora parmi si possa ritenere per riguardo alle rela- zioni tra il Reale ed il Rediano si è che ambedue mostrano di essere derivati da un comune prototipo, che per noi andò compiutamente per- duto, e che ci è però rappresentato più compiutamente nel Rediano.

L'ultima delle poesie ricordate nella tavola del Reale era solo fram- mentaria, indizio questo che il codice, già ai tempi del Colocci, era mutilo al fine, e forse seguivano pure nel Reale i sonetti, che sono una parte essenziale di tutti gli antichi canzonieri, e che anche nel Rediano formano la quarta sezione dal foglio 105 al 144. dalla mancanza dei sonetti nel Reale potrebbe trarsi indizio alcuno circa alla sua mag- giore antichità, e perché tal mancanza può ritenersi dovuta solo al caso, e perché, quando anche ciò non fosse, non si potrebbe certo ammet- tere per i sonetti un periodo di produzione posteriore a quello delle can- zoni; e gli uni e le altre trovansi del pari in quel periodo della poesia aulica al quale appartiene la maggior parte delle composizioni conte- nute nel Reale. E che a ciò appunto egli dovesse il suo nome, io non saprei indurmi a crederlo, che a maggior ragione questo nome se lo sa- rebbe meritato qualcuno degli altri canzonieri, che ancor restano a noi; e se ciò pur fosse stato, più propriamente egli avrebbe dovuto chia- marsi Libro Imperiale; ma poiché pure qualche spiegazione bisogna metterla innanzi, arrischio io pure la mia, qualunque sia il valore ch'ella si possa meritare. S'è visto che il Rediano contiene nella sua terza parte in soli 44 fogli più composizioni che non tutto il Reale in 72 fogli, e tra i canzonieri a me conosciuti il Rediano è dei più piccoli, scritto a grossi caratteri, a due colonne con margini abbastanza estesi; e così il Palatino CCCCXVIII, di formato alquanto maggiore, di scrit- tura più minuta ma ornato e figurato con grande eleganza, contiene assai più composizioni in un numero di fogli di poco maggiore; da ciò si potrebbe con qualche foudaraeuto supporre che pur il Libro Real3 fosse stato doviziosamente ornato dall'arte per esser egli destinato ad alcuno che fra le cure del regno non sdegnava l'amore alla nostra poesia. Ma su ciò io non voglio arrischiarmi più innanzi, e noto solo che nulla s'oppone a credere che il Libro Reale potesse appartenere al secolo XIV, nella qual epoca più spontaneo s'offre qualche nome al pensiero.

E. MOLTENI.

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BOMANZA, X." 1] 5Q

FRA GUITTONE E IL SIG. PERRENS

Il sig. Perreas, recente storico della Repubblica fiorentiua, dopo parlato della sconfitta di Montaperti (voi. I, pag. 548), soggiunge: Un Toscan gémissait sur la chute d'une cité fiUe'ainée de Rome. > E in nota riferisce, traendoli da un mio scritto della Nuova Antologia (Gennajo 1867), i seguenti versi:

Lealtà fior sempre granata

E r onorato antico uso romano:

che io citai come di Fra Guittone, nella sua Canzone: Ahi lasso! or è stagion di doler tanto (Rime, Firenze, 1829, I, 172), evidentemente ispi- rata al misero stato in che Firenze trovossi dopo la rotta dell' Arbia. Se non che, il Sig. Perrens così subito prosegue: e Le bel esprit du siede de Leon X qui a écrit les poésies qu'on attribue à Fra Guittone d'Arezzo, s'inspire des passions guelfes pour montrer à Montaperti, le droit méconnu et l'injustice gloritiée, le lion de Florence ongles et dents arrachée etc. ». E qui segue una breve analisi della Canzone. Ognuno vede come i due periodi facciano a cozzo fra loro; poiché lo stesso do- cumento prima vien dato per legittimo, poi per apocrifo. Ma il peggio sta nelle annotazioni. Dopo la parola e Fra Guittone », il Perrens così annota: e C'est Ugo Foscolo (Prose^ IV, 169) qui a signalé la main da faussaire. M.' Giudici (I, 107) dit que, postérienrs à ceux de Pétrarque, ces Sonnets ont pu étre attribués à Trissino. M/ Cantù {St. degli Ital.^ I, 525) dit au surplus qu'on ne sait pas en quel temps vivuit Fra Guit- tone. On peut lire cette Canzone dans Gargaui, Bella lingua volgare ecc. p. 80 ». Qui non v'è altro di chiaro che una gran confusione fra i So- netti e questa Canzone della rotta di Montaperti. E sebbene un recente illustratore del frate aretino, il sig. Prof. Romanelli {Di Gnitt. d^ Arezzo^ Campobasso, 1875), se la pigli con quanti negano, e sottilizzando alla smodata maniera germanica », che i Sonetti dell'edizione giuntina siano davvero di Guittone, noi pure fermamente crediamo che il Foscolo, il Giudici e quanti altri li seguirono, si apponessero al vero. Ma altri- menti procedono le cose rispetto alle Canzoni, e in particolare per questa di Montaperti : e il sig. Perrens è stato mal avvisato scrivendo in altra nota : e Voyez une partie de ces vers dans le travail de M.' D'Ancona. Cet auteur a le tort de les prendre pour authentiques, quoique la langue n'eu puisse apparteuir à cette periodo des premiers bégaiements de l'idiome italien ». Io risponderò a mia volta, che lo storico francese ha

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54 VARIETÀ [giornale di filologia

torto -di sentenziare con tanta sicumera: e a mia difesa dirò solamente, che il Cod. Vaticano 3793, alla cui pubblicazione attendo, e che non dev'esser scrìtto molto dopo la fine del sec. XIII, se non pure negli ul- timi anni di questo, porta la poesia col nome espresso del nostro autore a carte 47, n." 50. Tanto poco è dessa una falsificazione dei tempi di Leon X!

Quanto poi all'argomento della lingua, che il sig. Perrens porta in cam- po, diremo solamente, che il solenne scappuccio qui dato in materia diffi- cilissima, com'è questa della favella, e dove egli (ci scusi) non può esser giudice competente, infirma assai l'altra sentenza, altrettanto autore- volmente da lui pronunziata, e pur col solito criterio della lingua, contro Dino Compagni. Del quale egli non discute punto l'autenticità o la falsità: ma senz'altro lo condanna pei suoi « néologismes (I, pag. XII) ». Vero è, che Dino ha avuto la disgrazia di esser creduto autentico da un « auteur prussieu (ibid. e anche I, 406) », che vi ha scritto sopra tutto un libro. Or sarebbe egli Dino, per avventura, altrettanto apocrifo, quanto in forza degli identici argomenti filologici, afferma il sig. Per- rens essere la poesia di Fra Guittone?

E neanche in altra parte del suo libro, è il sig. Perrens fortunato nel parlare del frate gaudente. A pag. 107 del voi. II, citando (e non bene, perché riferita come XII mentre è XIV) la Lettera di Guittone ai Fiorentini, dove si trovano forme identiche assolutamente a quelle ado- perate nella Canzone, egli ce lo fa passare per un ghibellino. « Le bel esprit du siede de Leon X » avrebbe finto passioni guelfe: il veridico autore della Lettera parlerebbe e au point de vue gibellin >, rappresen- tando fra le altre, Firenze come un « repaire d'ours guelfes >. E poi- ché queste parole sono virgolate, si dovrebber credere testuali. Ma il testo dice « Oh che non più sembrasse vostra terra deserto, che città sembra, e voi dragoni e orsi, che cittadini ». L'epiteto di guelfo, po- trebbe dire Fra Guittone, come Dante alFasinajo, non vi misi io. Indi il sig. Perrens prosegue a dar del ghibellino a tutto pasto al frate, e a ve- dere nella descrizione eh' ei fa di Firenze, un ritratto delle conseguenze ch'ebbe la vittoria dei Guelfi. Ma, come dicemmo. Canzone e Lettera si riferiscono evidentemente agli stessi fatti: nell'una e nell'altra l'Are- tino piange il fato di Firenze, venuta a mano degli liberti e dei cavalieri tedeschi. Neil' un documento e nell'altro, Guittone è sempre un guelfo, anche se si sforzi a parlar come uom giusto ed imparziale, afflitto da triste spettacolo, anziché come partigiano. Donde ha mai appreso il sig. Perrens che il frate gaudente d'Arezzo fosse un ghibellino? Sa- remmo davvero curiosi di saperlo.

A. D'Ancoxa.

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XOMANZA, N.** 1]

EASSEGNA BIBLIOGRAFICA

1. B. P. Hasdeu. Fragmente pentni Istoria limhei romàne; elemente da- cice. I, Gliiiij (Cu Post-scriptum despre D. Cihac si Apendice despre D. ÉuiLB Picot). Bucuresci, 1876.

Quello che ora si fa dai Rumeni alio scopo di regolare, pulire ed illustrare la loro lingua, come primo fondamento di naziona- lità, non deve passare inosservato. Accanto alle questioni che più toccano alla pratica, come quella tanto trattata dell' ortografìa , si dibattono vivamente anche le questioni delle origini e in specie le etimologiche. Anche qui ai più severi romanisti che vo- gliono per ora limitate le indagini alle ori- gini più prossime nel campo storico, si con- trappongono quelli che credono si possano lin d'ora cercare nel popolo, principalmente delle campagne, traccie del primitivo fondo tracico. 11 Sìg. Ilasdeu si è proposto questo scopo, e in tre articoli inseriti nel Columna lui Traianu del 1874 una lista di voci attinenti airagricoltura e alla pastorizia che egli con innegabile facilità e ricchezza di combinazioni si sforza dimostrare apparte- nenti alla lingua delle popolazioni preromane del Danubio. Il Sig. A. de Cihac, noto au- tore del pregevole Dictionnaire d*étym.da- co-roniane, senza negare in principio la pos- sibilità che il confronto del valacco colT al- banese potesse « jeter une lumière sur les pages plus qu'obscures de Thistoire de ces peuples antiques », si è poi tenuto nelle sue ricerche nel campo più sicuro delle origina- zioni dal latino o dalle lingue che principal- mente influirono in tempi posteriori sulla formazione del valacco, cioè i dialetti slavi , il magiaro ecc. Ond'egli in un articolo in- serito nel ConvorbirX literare del 1«> die. 1875 combatteva siffatta tendenza a voler deri- vare voci moderne dalia < limba necuno- scuta traco-dacica », proponendo per le parole stesse derivazione ora slava, ora tur- ca ecc. La risposta a questa critica forma

appunto l'argomento della seconda parte del- l'opuscolo di cui abbiamo dato il titolo, men- tre la prima parte è consacrala a dimostrare l'origine tracia di altre due voci oscure,^// T17 e mold. hojma. Naturalmente la difesa del Sig. H. si converte alla sua volta in una fiera critica delle derivazioni proposte dal suo avversario, e dobbiam diie che questa parte negativa ci ha in parecchi casi per- suaso. Così non intendiamo perché il Sig. C. voglia trarre cXoct piuttosto dal mag. ctvsta che non dal lat. sacci com'era già indicato nel Lex. Bud.\2\ (cfr. tose, cioce ^^ socci , onde ciociaro); e anche parecchie delle sue etimologie latine ci sono sempre parse ol- tremodo problematiche, quali lunec da /w- brico , unéltS da utensilia ecc. Ma come queste non tolgono che il Dici, étytn. sia un lavoro ben fatto e di vera utilità agli studii romanzi, cosi Tessere o no il Sig. C. riu- scito a dimostrare l'origine slava o turca d' alcune voci non deve compromettere la questione di metodo, se sia cioè da limitare per ora l'indagine a lingue ben note che fu- rono in continui contatti col rumeno, o se si possa d' un salto e senz' alcun aiuto di anelli storici, conginnpere una voce rumena ad un tema o ad una radice del sanscrito o dello zendo per poter poi concluderne l'ori- gine tracia. Certo, quando ci sono anelli storici e quando il Sig. H. può mostrarci « migratiunile cuvintului », ogni romanista leggerà con grande interesse le sue dimo- strazioni, com'è per questa di ghXvj che, anche prescindendo dall'origine tracia, può dirsi una dotta ed acuta illustrazione basata sopra dati e testimonianze di cui il lessico- logo dovrà in ogni modo tener conto. Ma altre parranno sempre troppo ingegnose o

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RASSEGNA

[giornale di filologia

artificiose per poter convincere. Per rin- tracciare dulefi nel lidio xav^avAvi; egli è costretto a vedere, contro il parere del Cur- tius, l'idea di «cane » nel secondo elemento del vocabolo anziché nel primo, li quale do- vrebbe essere una forma verbale corrisp. al pers. handan ecc. ( Columna, 1874, p. 173). Per dimostrare che tele è voce tracia, e che il gr. ysX).6Ì <leve avere la stessa origine egli adduce che yiWd non s'incontra mai nplie scritture classiche. Ma quante voci latine e greche rifiutate dagli scrittori non si man- tennero nell'uso dei volghi e rivivono ne- gli idiomi moderni t E qual è la lingua let- teraria che rappresenta in tutto l'uso par- lato? Quando poi il Sig. H. si fa a ravvici- nare direttamente moderne voci rumene,' siano pure attinenti all'agricoltura e alla pastorizia, con temi o radici del sanscritto o dello zendo, ci pare ch'egli ricada, con tutto il corredo di argomenti linguistici di cui fa uso, negli inganni delle somiglianze casuali, che nelle sue Lezioni rimprovera eloquentemente alia vecchia Scuola. Egli certo non deriverebbe apa dal scr. ap , che anzi inclina coll'Ascoli a considerare la stessa forma sanscrita come na ta da akc per un pro- cesso analogo a quello per cui apa nacque da aqua {Princ. de filol. eomp., Lect. II, p. 55). Ma poi egli si propone di provare l'origine tracia di alcune voci col solo di- mostrare che esse si possono ravvicinare alle corrispondenti del sanscrito o dello

zendo. II romanista alla sua vo'ta gli con- testerà la validità e l'u.iiità di siffatti rav- vicinamenti finché egli non abbia posto in sodo la provenienza tracia di quelle voci. Così siamo in un circolo. Perché la so- miglianza d'uua voce moderna con altra d'una lingua qualsiasi può essere affatto ac- cidentale ; e affinché essa acquisti valore agli occhi del glottologo, occorrono argomenti storici che mi persuadano di un probabile nesso reale tra i due vocaboli. Certo a noi non verrebbe mai in capo di derivare il tose. cioncarino «maiale» (suculus?) dall'equiv. scr. sùkai'a, il ìomh. emìì. pieina «ricot- ta », dsipajin « fatto di latte », dal scr. paja-s « latte », benché si tratti qui di voci attinenti alla vita agricola o pastorale. Così quando il Sig. H. vuol persuaderci a congìungere »no- socu o tnozocu « mastino » alla rad. scr. tnac, d'onde ìnanaha « mosca » e maciina «cane», il primo corrispondente pel suffis- so, il secondo pel senso, alla voce rumena, e che in questa il secondo o presuppone un primitivo macuka, mentre il primo o sarebbe dovuto ad assimilazione, e quand'egli collo stesso metodo riunisce turca « montone » col scr. sthura « toro » e va discorrendo, il ro- manista, fino a maggiori prove, ha dì- ritto rispondere con un credat judaeus Apella.

Firenze, Dicembre 1877.

N. Caix.

2. Novelline popolari rovigncsi^ raccolte ed aunotate da Antonio Ive. Vienna, Holzhausen, 1877. In 8.' di pp. 32.

Ai canti popolari dell'Istria nativa, l'I ve fa seguire le novelline anch'esse raccolte in Rovigno, e ne in pubblico per occasione di nozze, un saggio che invoglia del rima- nente. Quattro ne contiene l'elegante volu- metto: V Andria7iela , Bierde, Biela Fron- te, la Cnrona del grangiegno. L'editore ha curato con ogni diligenza la stampa nel nativo vernacolo, e a pie pagina ha ag- giunto note dichiarative delle voci e frasi più difficili: in fondo poi a ciascuna Novella, trovansi raffronti assai ricchi e compiuti con racconti consimili di altri popoli. Ci piace

soffermarci alla novella quarta, che è una varia versione di quella che vien conosciuta col nome del morto riconoscente (Simrock, die dankharen Todten). L'Ive non ha co- nosciuto una versione italiana già fin dal 1868 stampata da chi scrive quest^ annunzio: la Novella, cioè, di Messer Dianese e di Mes' ser GigliottOy Pisa, Nistri. Il libercolo, al quale non mancava una prefazioncina che mostrava le parentele della novella, andò disperso, come accade di tutte le pubblica- zioni nuziali: ma la Novella fu riprodotta con altre del codice palatino ond'era tratta, dal-

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ROMANZA, X.° 1]

nilìLlOGBAFICA

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rop*»roso Papanti in Appendice al voi. I, pag. XXXVIII del suo Catalogo dei Noccl- /tert/fa/«ant (Livorno, Vigo, 1871). Inqnelia prefazioncina rammentavasi anche il poe- metlo italiano, forse non molto antico, inti- lolato:- Istoria bellissima di Stellante Co- stantina figliuola del gran Turco, la quale fn rubata da certi cristiani che teneva in corte suo padre, e fu venduta a ìtn mer- cante di Vicenza presso Salerno ^ con molti intervalli e successi, composta da Giovanni Orazio Brunetto. Quantunque nella novel- lina rovignese nulla si ritrovi della singoiar gi*ografla del rapsodo popolare, quantunque il nome di Stellante Co.stantina non vi sia ri- cordato, pure il poemetto italiano è la fonte della tradizione istriana. solo ciò si de- sume dal conservarvisi il nome di Bella- fronte, ma anche dal trovarsi per entro alla narrazione un'intera ottava, rimasta im- mune dalla traslazione prosaica. Ecco Tot- lava nel vernacolo rovignese:

Birarleipial o me!o filgiolo blelo, Chi mareaiuMÌa de duona fìtto i avUe? Pkdre mcìo, Te paorto oAo biel su^elo, La poorto per lo priemio chi avarite : Nu* me ciute 9tta caatlelo, Ma mai piofin bici» duona vetsto I avite: La fcia del luitan che xi In Torcbeia, La pMorio par ma preinta uiareanseìa.

K il 108(0 italiano, st^condo la slam])a del Cordella, Venezia, 1801, che è la più an- tica da noi conosciuta:

Ben Tenghl, dice il padre, fiKlIunl bollo, Che nicrcanxia ai preato fatta avete. Kispoae e dice: Padre, un gran gioiello Vi porto di gran pregio, ora M|K-to, Che vai più che cittA o gran castello, Chi mai più bello viato non avrete : La figlia del aoldano di Turchia Vi porto per la prima mercanzia.

K più sotto troviamo questi altri due versi:

Tei cu* la rana, e mei cn' la braK-sicra Fuorai chi ctapareu qualche aardicla.

E il poemetto:

Con ramo, con la canna e la barccla, Figiiuol, ai peaearem qualche aardella.

E in una edizione toscana:

Con l'amo, con la canna e la barchella Figiiuol, noi piglicrem qualche aardella.

Questa insolita persistenza di forme ritmi- che in una saga, scoprendo la diretta deri- vazione della Novella, può anche giovare a determinare le origini di altre narrazioni popolari, in che appajano consimili interca- lazioni poetiche.

A. D'Ancona.

3. Sopra una canzone di Cino da Pistoia altre volte attribuita a Guido Guinicelli. Lettura accademica del M. E. prof. Pietko Canal. (Estr. dal voi. Ili, ser. V degli Atti del R. Istituto vendo di scienze, lettere ed arti,)

Sono poche pagine; ma piene di sugo. La canzone di Gino, che il prof. Canal ha preso ad illustrare, è quella:

Arvegna eh* io non aggi» più per tempo,

ricordata già da Dante nel F. E., lib. II, cap. VI. Accennate ed apprezzate conve- nientemente le diverse stampe che se ne hanno, il C. viene a determinare il soggetto della canzone della quale un chiaro sunto. E da questa analisi logica e poetica egli prende le mosse per la costituzione del testo e r interpretazione dei luoghi più oscuri : poi- ché, pur riconoscendo il molto soccorso che può dare lo studio dei manoscritti e la loro classazione, ei non dubita di affermare, che,

qualora un vero miracolo non ci facesse sco- prire gli autografi, ci si spenderanno molte fatiche con magri reali guadagni: tanto i mss. volgari sono stati rimaneggiati o per saccenteria o per ignoranza o per la gene- rale tendenza dei copisti ad avvicinar IVspni- plare al dialetto proprio. Lo studio dei mss. non è dunque da trascurare; ma « non po- tendosi sperar più che tanto dall'argomento estrinseco della testimonianza dei codici, convien ricorrere principalmente all' argo- mento intrinseco del contesto, che in ogni caso è il tribunale supremo, la voce stessa dell'autore, il solo argomento che riesca a dare conchiiisioni certe, assolute, per quel necessario vincolo che hga le conseguenze 4*

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liASSEGNA

[gIORXALK di FILOI^r.IA

ai principi!. Fu un tempo, in cui l'arte cri- tica, rivolta quasi unicamente al contesto, poco o nulla curava l'esatto studio o ap- prezzamento dei -codici; e nessuno ignora quante arbitrarie lezioni sieno cosi entrate nei testi* ma aggiorni nostri, il dirò schiet- tamente, da un estrf^mo siamo corsi all'al- tro; e, mentre molti s'adoprano nelTordi- namento e nella collazione dei codici, pochi guardano al contesto, o, se pur vi guardano, che il prescinderne in tutto è impossibile, fermano l'occhio sulle relazioni più prossi- me, e non lo spingon più là. Può bensì av- venire talvolta che il guasto siasi diffuso a segno da non aver lasciata sana nessuna parte vitale del componimento; e in questo caso i morti son morti, c'è arte che valga a farli rivivere. Ma è difficile che non sia rimasto tanto di sano che esaminato e raf- frontato a dovere da un occhio attento ed acuto non lasci vedere un concetto fonda- mentale che domina, un intendimento acni mirava l'autore, un ordine ch'ei tenne nel suo lavoro. Quando una volta siasi cono-

sciuto cosi il proposito dell'autore e Tordi- tura dell'opera, molte emendazioni segui- ranno per sé, le quali sarebbero state im- possibili al grammatico e al basso critico non ajutRto da un giusto metodo e da un fino senso del vero e del bello. » Queste a me sembrano parole d'oro, e però le ho ri- ferite per disteso. «Resta, soggiunge il Ca- nal, che l'esito lodi l'opera e la via tenu- ta ». E leggendo le note da lui soggiunte al nuovo testo, tutti forse concorderanno nel dire che l'esito ha veramente lodata l'ope- ra. Cosi volesse il dottissimo ed acrtissimo professore risolversi a dar fuori i tanti emen- damenti che nelle sue lezioni nell' Tniversità padovana egli è venuto proponendo per il testo de' nostri antichi lirici. Le recenti pu- blicazioni di mss. hanno dato molto minor frutto di quanto potessimo aspettarci. Che la critica congetturale si provi dunque anche essa ; che nlla tanta materia s' assodi un tan- tino di si»irito!

V. A. Ca NELLO.

4. El Magico prodigioso^ comedia famosa de Don Pepro Calderon de la Barca publiée d'après le mauuscrit originai de la bibliothèqiie du due d'Ostina avec deux fac-siniile, ime iutroductiou, des variantes et des notes par Alfred Morel-Fatio. Heilbronu, Henninger, 1877. In-8.° di pp. LXXVI-255.

Fra i diversi teatri moderni si distingue lo spagnuolo per una più decisa e genuina impronta di nazionalità. Come nota anche il valente editore di cui siam per parlare, non si guarda punto se il dramma appartenga alla categoria delle comedias de suntosy de teatro f de capa y espada o a qualsivoglia altra; in nessun caso i poeti spagnuoli cer- carono, non diciamo di riporre gli attori entro quel fondo storico che loro fu proprio cosa che neppur verificossi nelle altre lette- rature moderne ma nemmanco di elevarsi a quel punto di vista umano eh' è dello .Shak- speare e dei grandi poeti drammatici fran- cesi e alemanni; il poeta spagnuolo in ogni circostanza non bada che a spagyioliztare e tutto dipingere s-^condo i costumi, i caratteri e le passioni del suo paese. Me-^si j)erciò da parte i nomi delle [)ersone e delle cose, può

dirsi che in quel teatro si ritragga nel mudo il più fedele e svariato la vita reale ed in- tima della società spagnuola, e il posse- dere un siffatto quadro non è certamente di poco conto per chiunque voglia studiar quella nazione si interessante ed insieme sr difficile ad essere adequamente compresa. la importanza del teatro spagnuolo fu sinora disconosciuta; che anzi pirecchi eru- diti SI nazionali che esteri, come Moratin, Duran,Hartzenbusch,Keill e varjaltri,hannt» laboriosamente concorso a farne rivivere la memoria e a rialzarne il pregio Ma nel- l'opera complessiva di costoro due difetti massimamente dominano: l'uno è che nella critica siasi attribuito maggior valore alla forma (verseggiatura, intreccio, azione dram- matica), che non al fondo; il quale in que- sto caso consiste non tanto nella materia

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BOMANZA, N.** 1]

BIBLIOGRAFICA

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ossia nel soggetto del dramma, quanto nel modo tutto e sempre spagnuolo di rappre- sentarlo. L'altro difetto è che i testi non furon mai ri|)rodollì fedelmente , e che le correzioni, i ramraodernamenti, gli arbitrj insomma d'ogni specie ne hanno sempre più guastata e sfigurata la forma originale. La quaì cosa, se deplorevole sempre, molto più

10 diviene in questo caso, trovandosi la mag- gior parte dei mss. da cui dovrebher trarsi ì sussidj, in mani private e quindi in condi- zione di andare assai facilmente spersi e distrutti. II Morel-Fatio omai abbastanza noto siccome uno degli stranieri più compe- tenti in fatto di letteratura spagnuola, è slato se non s'inganno, il primo ad osservare tutto ciò e nella nuova sua edizione del Magico pro- digioso non poteva offrire un migliore esem- pio del modo come dovrebbe esser rifatta Tedizione, se non di tutto il vecchio teatro spa- gnuolo, almeno dei suoi principali monumenti.

11 Magico prodigioso^ ì\kìo pur che non sia la migliore produzione del Calderon, va tut- tavia noverata tra quelle che maggiormente piacquero ed ottennero uni celebrità vera- mente europa. Il Morel-Fatio, che ne ri- corda non meno di 19 edizioni e di 6 tradu- zioni in lingue straniere, ebbe la fortuna ritrovarne il codice autografo, e ciò baste- rebbe perché la edizione sua dovesse annul-

lare tutte le precedenti, le quali invero altro non avevan fatto se non sempre più allon- tanarci dall'originale. Non daremo lode al distinto romanista per avere rigorosamente eseguito il suo compito nella restituzione del testo. Ciò era il suo dovere potevamo aspettarci meno da lui. Bensì ci piace di ricordare la bella introduzione che vi premise e nella quale, dopo avere con giusti e spesso nuovi criteri determinato il posto che occupa nella storia la commedia spagnuola, e passato a rassegna le opere degli antiquarj che meglio ne trattarono, si volge a parlare specialmente del Magico y ne studia parte a parte le ori- gini, le fonti leggendarie, la lingua e la ver- seggiatura, ne descrive il modo come fu por- tato sulla scena, esatto conto del ms. originale e della bibliografia, e nulla infine omette di quanto potrebbe interessare un lettore colto nell'esame di quella commedia. Possa cos\ egli darci presto altri monumenti della bella letteratura della Spagna e f^v che questo volume, alla cui esterna compi- tezza sì egregiamente contribuì la libreria e»litrice dei sìgg. Henninger di Heilbronn, non sia che il primo di una serie abbastanza numerosa. Il bisogno è grande sappiamo chi meglio di lui vi sia preparato.

E. Monaci.

5. Studi di erudizione e d'arte (Binda Bonichi e V Intelligenza) per Adolfo Borgognoni. Voi. 1.^ Bolo^Da, Roraaguoli, 1877. In 16.° pp. XXII-310.

In questo volume l'Autore es;imiiia le rime di fìindo Bonichi e si fa strada a parlare di alcuni altri antichi rimatori senesi, pro- mettendo di fare in aUro volume uno studio sopra Guittone d'Arezzo e Guido Guinicelli, e di dare uh saggio di storia del sonetto italiano. Vuole dimostrare come la sana cri- tica più che l'impressione o la metafisica debba avere a fondamento l'erudizione e la storia, e veramente con ampio corredo di ambedue rivendica al suo poeta il posto che gli è dovuto nella storia della letteratura italiana. Premette alcuni cenni sui prede- cessori di Bindo Bonichi e parla più special- mente di Nicolò Salimbene e di Fol^xore da S. Gemignano. Propone d'identificare Fol- gore con V Abbagliato di cui parla Dante (hi/', e. XXIX) quale poeta di quella brigata

godereccia di cui era capo Nicolò Salimbene, e a ciò lo spinge il fatto di non ritrovar.^! al- cuna poesia che vada sotto il nom*» dell'Ab- bagliato, e lo stile dei sonetti di Folgore. In tal modo fa vivere qtiesto poeta circa la metà del secolo XIII; ma poiché alcuni so- netti che vanno col nome di Itii appartengono senza dubbio al secolo XIV inoltrato, nega Paufenticità di essi confortatovi anche dalla diversità dello stile. A dire il vero non sa- premmo seguirlo in questa serie d'ipotesi: non v'è argomento sicuro per ritenere che il Nicolò a cui Folgore dedica i suoi sonetti, sia quello stesso di Dante, la mancanza di poesie dell' Abbagliato eia metafora ìstessa di questo nome sembrano fatti concludenti per identificarlo con Folgore. Sopratutto poi è cosa assai grave di negare l'autenti-

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BASS. BIBLIOGR

[giornale di filologia

ciu\ di tre sonetti attribuiti dai codici a que- sto, per anacronismo fondato sopra un'ipotesi o per sole considerazioni di stile. Del resto è importante Tesarne critico che l'Autore fa dei sonetti e delle canzoni di Bindo Bo- llichi, per Tuso dei documenti e per la sa- gacia di alcune congetture storiche.

Segue un esame del [ioem^V Intelligenza, e delle varie opinioni manifestate sin qu\ su r epoca e su l'autore di esso. Assai abil- mente vengono confutate le ipotesi o false o gratuite, secondo le quali il poema sarebbe opera di un siciliano o un arabo del se- colo XII o XIII. dimostra pure come sia impossibile stabilire che autore ne sia stato Dino Compagni, l'avo di lui o qualsi- voglia altro di quella famiglia. L'analisi del contenuto del poema dimostra chiaro che v'è un fondo di derivazione araba, non certo immediata e speciale, ma comune agli scrit- tori del tempo e attinta fille fonti francesi. Questo fondo arabo è la filosofia d'Avicenna e più forse Averroè, la quale trasparisce anche nelle dottrine su l'amore di Guido Onìnicelli e Francesco da Barberino. Dice che la iscrizione del codice Magliabecchìano é di poco valore se si consideri quanto spesso si trovino nei Mss. attribuiti scritti anonimi all'autore di quelli che precedono,e sopratutto che quella iscrizione è posteriore di due se- coli al Ms.. Non è più concludente T argo- mento tratto dalla somiglianza dello stile; perché questa, fallace sempre, è assai pro- blematica fra la Cronica e il Poema, quando non si voglia ravvisarla, come fece il Car- bone, in un passo quasi tradotto dal ro- manzo francese su Cesare, il quale è a sua volta quasi una riproduzione di Lucano. Di- strutti cosi i sogni del Grion e le asserzioni del Settembrini, De Santis e Boehmer l'au- tore fa per suo conto alcune congetture per le quali il poema sarebbe posteriore all'an- no 1326 e verrebbe attribuito a Dino del Garbo. Ma il ritrovarsi in quello assai dot-

trine fisiche e anatomiche non sembra che dia facoltà conchiudere che autore d*»bba esserne un m*»dico; l'allusione alla seta cinese è spiegabile soltanto col Milione «li Marco Polo; la menzione della Romania è possibile soltanto dopo la conquista turca del secolo XIV: poiché quel nome, seppure lo si voglia intendere in altro senso, ricorre anche nella Chanson de Roland, ove si legge:

81 l'en cimqali Prorcnce e Aqaltalpie E Lumbardie e trestute RoxAmc.

Anche questa seconda parte del libro é molto pregevole e ricca di materiale critico assai ben disposto ed usato, e solo sorprende un po' di vedere come l'autore, che professa tanto retti principi critica, e li segue per abitudine con tanta rigidità, si lasci talvolta trasportare tropp' oltre ad ipotesi non fon- date abbastanza, ed incorra in qualche con- tradizione. Cosi per esempio l'esame dello stile è dapprima assai concludente per con- trapporlo all'autorità di un ms. contempo- raneo, e per qualificare per apocrifi alcuni son'^iti di Folgore, ma perde poi ogni auto- torità quand'anche lo si voglia invocare a conferma di un ms. che attribuisce a Dino Compagni la Cronica ed il Poema. Si nega ogni valore a questa iscrizione quando vuole riferirla a Dino Compagni , ma se ne poi grandissimo ad una sola metà di essa per fabbricarvi sopra un infero edificio in favore di Dino del Garbo. Noi desideriamo che queste osservazioni valgano a dimostrare all'egregio A. la cura che ponemmo in esa- minare il suo libro. Intanto siamo lieti riconoscere che questo, non ostante i parti- colari rilievi che qui od altrove possano es- sergli fatti, resta sempre nel suo complesso uno dei migliori saggi di critica letteratura che sia usi pubblicati in questi ultimi anni in Italia.

G. Navone.

(l) [Un recentissimo lavoro di cui presto parleremo, del signor C. Mazzi tm FolcaccUlero Folcar- cbicri,lia ora messo fuor di dubbio che V IhbaijHalo non fu 8c non uno della famiglia Folcacchieri. E. M.]

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ROMANZA, N." 1] ^"Gl

BULLETTINO BIBLIOGRAFICO

[Il tempo e lo spazio ci mancnno per dare conto di tutte le pubblicazioni che si vanno facendo nel dominio della filologia romanza. Per supplire almeno in parte, ag- giungiamo questo BuUetiino, dando delle opere in esso citate un cenno sommario, o rin- viando, quando ne sia il caso, alle recensioni che ^ià ne fecero altri periodici.]

1. Gesta Apollonii regis Tyrii metrica ex codice Gandensi edidit Ernestus DiìMMLEB. Berolini, apud Weidmannos, MDCCCLXXVII.

In 4.** gr. di pp. 20. Questo testo, gi^ erroneamente attribuito da Maurizio Haupt i^Opuscula III, 1, 22) a Valafrido Strabone, appartiene al sec X, è fram- mentario e conservasi in un ms. Gaudense dell' XI sec. molto scorretto. Il D. l'ha felicemente restituito.

2. Angilberts Bythmus auf die Schlacht von Fontanetitm nach den Pa- pieren von G. H. Pertz herausgegeben von Ernst Dììmmler. Beson- derer Abdruck aus den zu Ehren Theodor Mommsens herausgegebenen philologischen Abhandlungen.

In 4.** di pp. 5. Di questo celebre ritmo fatto conoscere dal Lebeuf {Rtcuetl de divers écrits I, 165-68) e poi più volte ristampato secondo la lezione di un codice del cominciare del sec. X della Bibl. Kazion. di Parigi, n.* 1154; il Beth- mann trovò un secondo ms., del sec. IX, ed altro dello stesso secolo, ma di lezione assai più corretta e completa, trovò il Pertz nella biblioteca del Conte Dzialynski in Posen. In base di questi tre codici ò costituito il testo dato dal Dummler, la cui edizione omai va sostituita a tutte le precedenti.

3. Jiimc (li Francesco Petrarca sopra argomenti morali e diversi. Saggio di un testo e commento nuovo a cura di Giosuè Carducci. Livorno, Vigo, 1876.

In 16.* di pp. Lv-t75. Prima edizione veramente critica di una parte del canzoniere petrarchesco. A proposito di questo ottimo lavoro non possiamo astenerci dal ripetere ciò che ne scriveva la Revue crìtique nel suo n.° 186 del 1876: « Pourquoi M. C. se borne-t-il aux Foésies morales et dherses? Il se refuse avec une amertume visible à nous dire pourquoi il ne publie pas le com- roentaire complèt qu'il a preparé. Espérons que les obstacles , s'il y en a, se- ront levés, et que nous aurons le plaiair de lire un jour un Petrarque complèt, publié et commentò par M. Carducci. »

4. Delle origini del dramma moderno per Autuko Graf. Firenze, Tip. editr. deir Associazione, 1876.

In 8." di pp. 65, estr. dalla Bivista Europea, Ne parleremo in breve.

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6^ BULLETTINO [giokxale di filologia

5. Un Sonetto in una Canzone. Aneddoto [per Adolfo Borgognoni]. Ra- venna, Maldini, 1877.

In 8.» di pp. 15. Alla Canzone XXIX del Cod. Vat. 3793 (ediz. Comparetti e d'Ancona) gli editori notarono una irregolarità nella misura di due strofe. Il Borgognoni che già nel Propugnatore (IX, 1°, 74) aveva congetturato essere T ul- tima di quelle strofe nulla più che un altro componimento unitovi dai copisti, qui viene a dare la conferma della felice sua congettura pubblicando un sonetto anonimo ove ritrovansi tutti i versi di quella strofa senza le altei-azioni che vi erano state introdotte per aggiustarla in quella Canzone.

6. Come gli studj orientali possano ajutare V opera del Vocabolario. Le- zione del prof. Fausto Lasinio accademico corrispondente [della Crusca]. Firenze, Cellini, 1877.

In 8.<* di pp. lo, estratto dagli Atti della Crusca j 1877. La scienza deve rallegrarsi nel vedere uomini del valore del prof. Lasinio esser chiamati a col- laborare alla grande opera del nostro Vocabolario nazionale. Basterebbe il suo nome a darci guarentia sulla bontà del contributo ch'egli vi recherà illustran- done la parte di provenienza orientale, ed ora ne h dato anche un bel saggio coir opuscolo qui annunziato ove VA. si fa a dichiarare parecchi vocaboli italiani d* origine ebraica, araba, turca e persiana.

7. SermiìUese storico di Antonio Pucci per la guerra di Firenze con Pisa.

Livorno, Vigo, 1876.

In 16." di pp. 14. Ediz. di 110 esempi, fuori di commercio, curata dal prof. D'Ancona per nozze Paoli- Martelli. Il Sermintese comincia « De, gloriosa vergine Maria. »

8. Rispetti del secolo XV. Livorno, Vigo, 1876.

In 16.° di pp. 9. Ediz. di 110 esempi, fuori di commercio a cura del prof. D'Ancona per nozze Gargiolli-Nazzari. I Rispetti provengono dal codice C. 43. della Bibl. Comunale di Perugia.

9. Novella mo^-ale del secolo XIV. Livorno, Vigo, 1876.

In 8.° di pp. 16. —Ediz. di 130 esempi, fuori di commercio, curata dal cav. G. Papanti per nozze Gargiolli-Nazzari. La novella h tratta dalla Storia di Bar- laam e Giosafatte.

10. Strambotti e Bispetti dei secoli X/F, XF, XVI. Livorno, Vigo, 1876.

In 8.* di pp. 27. Servirono di testo i seguenti codici : Laurenziano pi. 00, n.«»89; Miigliabechiano ci. Il, n.° 75; id.cl. VII, n.° 271; id. ci. VII, n.** 7J5; id. ci. VII, n.^ 1008; inoltre una stampa s. a. n. 1. esistente nella Palatina di Fi- renze, misceli. E. 6. 5. voi. 2.°

11. V antico carnevale nella contea di Modica. Schizzi di costumi popo- lari per Seeafiko Amabile Guastella. Modica, Secaguo, 1877.

In 8.^ di pp. 88. Lavoro asdai ben fatto e che mostra nell'A. una parti-

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ROMANZA, N." 1] BIBLIOGBAFICO 6:3

colare attitudine a questo js^enere di studj. Una diffusa recensione del Liebrecht può leggersene nella Zeitschrift del GrOber, I, 434.

12. Novelline popolari livornesi raccolte ed anuotate da Giovauni Papanti. Livoruo, Vigo, 1877.

In 8.° di pp. 29. Ediz. di 150 esempi, fuori di commercio, per nozze Pitiè- Vitrano. Le novelline sono cinque e hanno per titolo: La Mencherina, Il Majaìino, La Friitatina^ Vezzino e Madonna Salciccia, Buchettino*

13. Le Mystère provcngal de Sainte Agnès. Examen du mauuscrit de la Bibliothèque Chigi et de Téditiou de M. Bartsch par M. L. Clédat. Toulouse, Chauvin & fils, [1877.J

In 8.° di pp. 13, estratto dal voi. I della Bibliothèque des Ecoles francai scs d'Athènes et de Bome.

14. Le Martìjre de Sainte Agnès, mystère en vieille langue proveD9ale, texte revn sur Tunique manuscrit originai, accompagué d'une tra- duction littérale en regard et de nombreuses notes par M. A.-L. Sardou. Nouvelle éditiou enrichie de seize morceaux de chant du XIP et XIIP siècle notes suivant Tusage des vieux temps et reproduits en notation moderne par M. Tabbé Raillard. Paris, Champion, [1877.]

In 8.^ di pp. xvi-112, ediz. di 200 esempi, in carta d'Olanda. Mentre la revisione del prof. Clédat metteva in luce i molti errori occorsi nella ediz. del Bartsch, una nuova ediz. assai meno esatta della prima è stata pubblicata dal 8ig. Sardou. Un esame particolareggiato ne diede il Meyer nella Bomania n.«* 22 ; qui aggiungiamo una notizia non inutile per la storia del codice, ed è che nel sec. XYII questo trovavasi nelle mani dell' Ubaldini, il quale, parlando delle Rappresentazioni, così ne scrisse. « I Provenzali l'usarono, e presso dime sene conserva una di S. Agnese in rima ; e perché queste si cantavano, vi si veggono le note del canto diverse da quelle che oggi si costumano. » Ubaldini, Spogli, II, 72 (nel Cod. Barberin. XLV-94).

15. Der Troubadour Guillem Anelier von Toulose. Vier provenzalische Gedichte heransgg. und erlàut. von Martin Gisi. Solothurn, Gass- raann, 1877.

In 4.*» di pp. 38. Contiene una introduzione, uno studio fonetico, morfo- logico e ritmico su G, A. e il testo delle sue poesie accompagnato da una tradu- zione in tedesco e da abbondanti note. Una recensione del Suchier è nella Jenaer Literaturzeitung, 1877, n.*> 38.

16. La prise de Damiette en 1219, Relation inedite en proven9al publiée et commentée par Paul Meyer. Paris, Vieweg, 1877.

In 8.<» di pp. 74, estr. dal t. XXXVIII della Bibliothèque de VÉcole des chartes, tirat. di 100 esemplari. È un frammento di 874 righe, trovato alla Bibl. del- l'Arsenale in Parigi. Il M. ne ha data una edizione diplomatica, restituendone molta parte perduta per corrosioni del ms. e accompagnando il testo con un buon

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64 BULLETT. BIBLIOGR. [giornale di filol^k.ia.

glossario. Nella ricca introduzione che lo precede, il M., con quella dottrina ed acume critico che tutti ornai sanno in lui, ha determinato il valore storico, atisai considerevole, del documento, comparandolo colle altre fonti che si conoscono.

17. Enigmes populaires en langne d'oc^ publiés par Alphonse Roque- Feeeieb. Montpellier, Imprim. Central du Midi, 1876.

In 8.*» di pp. xxiii-25. < Regardons-nous surtout ce recueil comme une pierre d'attente: il aura le grand meri te d'indiquer k bien de gens qui ne s'en doutent pas Tintérét que peuvent presenter des coUections de cegenro... L'edi- teur k soulevé la curieuse question des rapports des énigmes des différents peu- ples latin. » Bomania, n.'* 18.

18. Die Handschriften der Geste des Lohérains. Mit Texten und Va- riali teu. Von Dr. Wilhelm Vietoe. Halle, Lippert, 1876.

In 8.° di pp. 134. Una recensione, del Suchier, è nel Literar, Central- blcUt, 1876, n.*» 25. Questo lavoro va anche colla data di Marburg, 1875, sic- come « loauguraldissertation zur ErlanguDg der Doctorwùrde », ma quella ediz. non contiene i testi, le varianti.

19. Ueber die Matthaeus Paris sugeschriébene Vie de Seint Auhaìu Vou Ueehànn Suchiee. Halle, Max Niemeyer, 1876.

In 8.° di pp. 60. Ricerca a proposito di questo testo le vicende che potè subire la versificazione francese passando nel dominio anglo-normanno. Danno conto di questo lavoro G. P. nella Bomania, n.° 21, e il Settegast nel Literar. Centralblat, 1877, n.'» 20.

20. Der MUncliener Brut: Gottfried vou Monmoiith in franzosischen Ver- sen des XII Jahrhunderts. Aus der eiuzigen Miinchener Handsohrift zuin ersten Male herausgg. von Konbad Hofman und Kael Vollmollee. Halle, Niemeyer, 1877.

In 8,» di pp. Ln-124. Vd. una recensione, del Forster, nel Literar. Cen- tralblatt, 1877, n.« 32, e uno studio, del Mussafia, nella Zeilschrift del Gro- ber, I, 402.

21. Li chevaliers as deus espees. Altfranzosicher Abenteuerroman zum ersten Male herausgegeben von Wendelin Foeestee. Halle, Nieme- yer, 1877.

In 8.0 di pp. Lxiv-429. Recens. del Muasafia nella Zdtschrifl fùr die òster- reichisehen Gymnasen XXVIII, 197; vd. anche Foerster nella Zeitschrifl del GrSber, I, 91.

22. Antologia portugueza. Trecos selectos coordenados sob a classififào dos generos litterarios e precedidos de urna Poetica historica portu- gueza por Theophilo Braga. Porto, Magalhaes & Moniz, 1876.

In 16.0 di pp. xxvii-338. Recensione del Dr. W. Storck nella Zeitschrifl del GrOber I, 453.

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BOMANZA, M.** 1]

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PERIODICI

[Riprendiamo questo ipogllo al punto ove lo lasciò la Rivista di JIM, romangtu Essendo perciò molti i numeri arretrati, dobbiamo per ora limitarci al semplici titoli delle memorie ed omettiamo di indicare i resoconti bibliografici, dando notizia di questi nel Bullettinc]

1. Archivio glottologico italiano, v. IV, pani. 2.» Morosi f II vocalismo leccese. D* Ovidio, Fonetica del dialetto di Campo- basso.— Joppi, Testi inediti friulani dei se- coli XIV al XIX.

. Rbvub des langues romanes, Deuxìè- me Serie, an. 1876, n.» 1-4. A. Boucherie, Une Doavelle vision des Poèmes de Clermont. C. Ckabaneau, Notes critiqnes sur quelques textes provengaux. Léotard , Lettres et poésies inédites de Pabbé Nérie. Laga- renne, Notice sur le patois saintongeais. Noulety Histoire litléraire des patois du midi de la Frane© au XVIII* siècle. A. Roque- Ferrier, De la doublé forme de Tarticle et dea pronoms en langue d'oc. A. Montel et L. Lambert, Chants populaires du Lan- gnedoc.— Biblìographie. Périodiques. Ne- crologie: Leon Vinas.— Chronique. Recti- fications.

N.o 5. A, Boucherie, Une colonie limousine en Saintonge (Saint-Eutrope). Gazier, Lettres à Orégoire sur les patois de France. A. Mir, Cansoun batismalo. A. Fourès, La cansou des poutous. T. Au- banel, A Madamisello. G. Azàis, Lo bou- toa de roso. Bibliographie. Périodi- ques.— Necrologie: Octavien Briuguier. Chronique.

N.» 6. A. Montel et L. Lambert, Chants populaires du Languedoc. G. Azais, Uno bouno lessou. A. Chastanet, Lous dous caberts. Bi bliographie. Chronique

N." 7. E. Mazel, Poésies inédites de Pabbé Favre. L. Constant, L'epitro de Lengodoc. Af Mila y Fontanals, Enig- mes populaires catalanes. Gazier, Lettres à Grégoire sur les patois de France. Bi- bliographie. — Périodiques. Chronique.

N.® 8. Alart, Documents sur U laogue catalane des ancieus comtés de Rous-

sillon et de Cerdagne. A, Espagne, Des formes proven^ales dans Molière. M. Fan- re, A. Madoumaiselo J. W. Bonaparte- Wyse, La cabeladuro d'or. A. Chastanet, Un tour de moussu Roumieu. Bibliogra- phie. — Périodiques. Chronique.

N.o 9. D, Noulet, Histoire litteraire des patois du midi de la France au XVIII*' siècle. Af. Mila y Fontanals, Phonétique catalane oe. Ch, Chabaneau , Mélanges : Changement de z (s) en r et de R en z , en- tre deux voyelles dans la langue d'oc ; Orgies; Fimen ; Bobs. L, Roumieux, A Jan Re- boul. A. Mir, Ratapoun, ou lou rat pre- dicaire. Bibliographie. Périodiques. La Philologie romane et les grands centres universitaires. Chronique.

N.*» 10. A. Montel et L. Lambert, Chants populaires du Languedoc. Th, Au- banel, Li Fabre. A. Fourès, Le cant des Poutiès. A, Chastanet, Davant moussu lou juge. Bibliographie. Périodiques. Chronique.

N.o 11. Af. AfiZa y Fontanals, 'So- tes sur trois manuscrits : I. Un chansonnier proven^al ; II. Un roman catalan ; IH. Une traduction de la Discipline clericale. A. Ro- qiie-Ferrier, De la doublé forme de l'arti- cle et des pronoms et langue d'oc. Casa- riego, Las dos Noche-buenas. Bibliogra- phie. — Périodiques. Chronique.

N.» 12. A. Montel et L. Latnbert, Canta populaires du Languedoc. A. B., Une question de prononciatìon. Spera , Due edillii sacri di Fortunato Pin. Gf.^^oi*, Li Judas. J. Roux, L'Empèut. Biblio- graphie. — Périodiques. Chronique.

3. Romania, n.'^M. P. Meyer, Un récit en ver» francais de la première croisade fon- de sur B-mdri de Bourgueii. V, Thomsen, E -|- 1 ea francais. R. Kiehler, La nou-

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PEEIODICI

[OIOBNALK DI FILOLOGIA

Telle italienne dxi Prétre Jean et de TEmpe- reur Frédéric et un récit islandais. E. Cosquin, Contea populaires lorrains. Mé- langes: G. P., La Sicile dans la littérature fran^aise du moyen-àge. P,M.^ Dia daas Oirart de Roussillon. Comptes-Rendus. Périodìques. Chroniqne.

N.o 18. A, Neubauer, Les tradu- ctions hébratques de Ilmage du monde. A. Darmesteter, Phonétique francai se. La protoniqueinitìale non en position. 7. Storm^ Mélanges étymologiques. E. Rollando Vo- cabulaìre du patois du pays messin. Mé- langes: G,P,, Joca Clericorum. CA. Cha- baneau, Supplément aux observations sur les pronoms proven^aux. Comptes-Ren- dus. — Périodiques. Chronique.

N.0 19. P. Meyer, De Tinfluence des Troubadours sur la poesìe des peuples ro- mans. F. Bonnardot, Dialogus anime con- querentis et rationis consolantiSf traduction lorraine du Xll« siede. E, Cosquin, Con- tes populaires lorrains. Mélanges: G.P.^ Maufé. P. M., Ch. Béniont, Texte vul- gaire du pays de Soule. Ch. Chaòaneau, Li=LOR en proven^al. Ch, Joret, Chan- son normande. Note sur les chansons de la Oruyère. Comptes-Rendus. Périodi- ques. — Chronique.

N.o 20. C. Nigra, La poesia popo- lare italiana. A. Morel-Fatio, Fragment d'un conte catalan traduit du frangais. P. Meyer, Les manuscrits des Sermons Fran- cis de Maurice de Sully. Mélanges: P. M. , R pour s, z à Beaucaire. Ch, Joret, De quelques modiflcations phonétiques particu- lières au dialecte bas-normand. J. Bau- quier, Une particularité du patois de Queige, Savoie. Comptes-rendus. Périodiques Chronique.

N.o 2L P. Meyer, Notice sur un ms. bourguignon (Musée Britannique, Ad- dit. 15606) sui vie de pièces inédites. Mila y Fontanals, De la poesia popular gallega. J, Chenaux, J. Cortili, Una panerà de revi fribordzey. Proverbes patois du cantttn de Fribourg et spécialement de la Gruyère. Mélanges: P. Rajna, Spigolature proven- zali: \. Cercalmon. P, Meyer, Marca- hrun. G. P,, Fran^- lis R = D. C. Joret, Un signe d'interrogation dans un patois fran- ^ais. C. Joret, Emploi du pronora posses-

sif a la place de Tadjectif demonstratif et norroand. Corrections : C. Chabaneau , Sur les Qlossaires proven^aux de Hugues Faidit. F. Bonnardot, Dialogus animae conquerentis ecc. Supplément (v. Romania n.o 19). A, Mussa fia, Fragment d'un conte catalan. Supplément (v. Romania n.® 20). Comptes-rendus. Périodìques. Chro- nique.

N.o 22. A, Wesselofshi, Le Dit de IVmpereur Coustant. = Fr. D* Ovidio, Di alcuni casi di raddoppiamento della conso- nante. — E. Cosquin, Contes populaires lor- rains.— Mélanges :J. Cornu, Les nomes pro- pres latins en -itt- et les diminuiifs romana en -ETT- -1TT-. J. Cornu, Tanit dans lesSer- ments. P. Rajna, Spigolature provenzali:

II. La Badia di Niort. J. Cornu, La dé- clinaison de l'arti eie conservóe dans le Va- lais. L. Havet, Franijais r pour d. P, Rajna, Un nuovo codice di chansons de geste del ciclo di Guglielmo. -— A, Thomas , Du passage d*s z à R et d' R à s z dans le nord de la langue d'oc. J, Battquier, Termes de péche: jarret, bouguière. G, P., Une ballade hippique. Comptes-rendus. Pé- riodiques. — Chronique.

N.* 23. L. Havet, La prononcia- tion de ie en fran^ais. A, Weber, La vìe de Saint Jean Bouche d'or. P. Meyer, Trai- tés catalans de graromaire et de poétique. P. Rajna, La novella boccaccesca del Sa- ladino e di roesser Torello. J, Cornu, Pho- nologie de Bagnard.— V.Smith, La chanaon de Barbe-bleu, dite Romance de Clotilde. Mélanges: L, Havet, Colubra en roraan. G P., Soucy, solside, somsir.— G. P., La ville de Pui dans Mainet. 6f. P,, Ti signe d'interrogation. C. Chabaneau, Ti inter- rogatif en proven^al moderne. A. Lam-' brior, Du traitement des labiales p, b, f, v, dans le roumain populaire. /. Cornu, Me- tal hèse de TS et de dz en zn. P, M,, Un extrait du Roman de la Rose. Corrections: J. Bauquier, Sur le Donat proensal. Com- ptes-rendus. — Périodiques. Chronique.

8. N.o 24. P, Meyer, Mélanges de poe- sie fran^aise: I. Fragments d'une redaction en alexandrins de Garin le Lorrain; IL Le poème de la Croisade imité de Baudri de Bourgueil, fragment nouvellementdécouvert;

III. Prolocrue en vers franrais d'une histoire

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ItOMAXZA, N.*» 11

PERIODICI

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perdue de Philippe Auguste; IV. Plaidoyer en faveur des femmes. A, Morel-Fatio, Le roman de Blaquerna; notice d'un ms. du XIV siècle. E. Cosquin, Contes populaires lor- rains. Mélanges: G, P., Pruekes. G. Raynaudt Deux jeux-partis inédits de Adam de la Halle. H. Schuchardt, Le redouble- ment des consonnes en italien dans les syl- labes protoniques. Ch. Joret, Charrée. V, Smith, Un debat chanté. V, Smith, Frag- ment d*une complainte du Juif errant. Cor- rections: P. 3f., Le ms. bourguignon add. 15606 ( V. Romania, n.® 21 ). Comptes-ren- dus. Périodiques. Chronique.

4. Jahrbuch pur romanischb und enql.

SprACHB und LlTBRATUR , N. F. vol. Ili, n.o 1. /. e. MattheSf Die Oxforder Renaus- handschrift, Ms. Hatton 42^ Bodl. 59, und ihre Bedeutung fur die Renaussage ; nebst einem Worte ùber die iibrìgen in England befln- d lichen Renausmss. G. Meyer, Romani- Rche Wòrter in kyprischen Mittelgriech. C. Michaélis , Nachtràge und Berich- tigungen zu den etymologischen Versuchen in 2. und 3. Hefte des I. Bandes. P. Scholle, Die A-, Al-, AN-, EN-, Assonanzen in der Chanson de Roland. G. Gròber, Die Eide ▼on Strassburg. H.Suchier, Berìchtigung zu Bartsch's Verzeichniss der Troubadour- Gedichte. K. Bóddeker, Englische Lieder und Balladen aus dem 16. Jahrhundert, nach einer Hnds. der Cotlonian. Bibliothek des Bri- tischen Museums. Kritische Auzeigen. Zeìtschriften.

N.*» 2. P. Ilaefelin, Recherches sur les patois romans du canton de Fribourg. E. Kólbing, Zu der Ancren Riwle. H. Rònsch, Nachlese auf dem Gebiete roma- nischer Etymologien. Dr. Gessner, Esse als Hlifsverb der reflexiven Zeìtworles in Franzòsischen. P. Lindner , Zur Fop- menlehre des pron. rei. ira Englischen. Kritische Anzeigen. Zeitschriften.

N.*» 3. P. Haefelin, Recherches sur les patois romans du canton de Fribourg. D. P. Witte, Pluralbildung des Substantivs im Neuangelsachsìschen. P. H. Alhers, On Christopher Marlowe's Tragical History of Doctor Faustus. G.Lucking, Zuni Eula- lìaliede. Kritische Anzeigen.

N.« 4. P. Haefelin, Rechercl^es sur

les patois romans du canton de Fribourg. B. Schàdel, Bruchstùck der Chanson de Her- vis. P. Liébrecht, Zum Decamerone. -4. Ebert, A. Tobler, Bibliographie von 1874.— Register.

5. Romanischb Studien, N.<» VI. E. Koschwits , Ueber die Chanson du voyage de Charlemagne à Jérusalem.

N.<>VII. if. Lahm, Le patois de la Baroche (Val d'Orbey). C. Decurtivi, Paraulas surselvanas. E. BÓhmer, Chur- wftlsche Sprich wòrter. E. Bòhmer, Pre- dicatcasus im Ràtoromanischen. W. For- ster, E. Bohmer, Beiblatt

N.» VIIL K Fost, Die Verschiebung lateinischer Tempora in den romanischen Sprachen.

N.o IX. G. Grober, Die Liedersamm- lungen der Troubadours.

6. Zeitschrift pur Romanischb Philoi.o- oiB herausgegeben von D. Gustav Gròber Prof, an der Universitat Breslau, voi. I n.<»l. Prospect. A. Tobler, Vermìschte Bei- tràge zur Grammatik des Franzòsischen. P. Scholle, Die Balìgantepisode, ein Ein- schub in das Oxforder Rolandslied. T. Braga, 0 cancioneiro portuguez da Vati- cana e suas relagóes com outros cancionei- ros dos seculos XIII e XIV. JC Bartsch, Zwei provenzalische Lais. W. Foerater, Catalanisches Streitgedichte zwischen en Bue und seinem Pferd. Miscellen: P. Liébrecht, Portugiesischer Aberglaube. Mu- charinga. P. Liébrecht, Ztì Marie de France. //. Suchier, Die Quelle des Sermo de Sapientia. W. Foerster, Zu Cheva- lier as deus espées. W. Foerster, Zu Ri- chart le bial.— P. Stengel, Cod Vatic. 3207.— K. Volmóller, Laberinto ameroso. W, Foerster, Altfranzòsische Gesundheitsre- geln. W, Foerster, Altfranzòsisches Lie- beslied. A. Mussa fia, Zu Brun de la Mon- tagne. — W. Foerster, Zu Quatre livres des Rois. E. Stengel, Zur Zeitbestim- mung des Schwundes von b und i nach der Tonsilbe in Nordwestromanischén. G. Grò- ber, Lo, LI- IL, I im Allitalienischen. Re- censionen und Anzeigen. Aufruf des Co- mités der Diez-Stiftung.

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NOTIZIE

Cattbdrb. Il prof. A. Oraf fu incaricato dell* insegnamento di Storia comparata delle letterature neolatine nella R. Università di Torino.

Concorsi. La Sociètè pour Vétude des langues romanes di Montpellier ha bandito il seguente concorso:

« Le mardi de Pàques 1878, année qui coincide avec le sécond millénaire de la fondation d'Aix en Provence, la Société des langues romanes décernera à Mompellier, dans la séance solennelle du deuxième de ses concours triennaux, des prix aux meilleurs travaux philologiques sur les idiomes néo-latins, ainsi qu'aux meilleures pièces de poesie fpoème, drame, comédie, ode, sonnet, traductions, recueil de pièces diverses, etc. ) et ae prose (histoìre, roman, nouvelle, recuel de contea et de narrations, etc.) en langue d*oc ancienne ou moderne.

« Tous les dialectes du midi de la France, le catalan, le valencien et le mayorquin, sont adrais à concourir. »

Fra i premj di filologia più specialmente indicati ai concorrenti:

« Le premier, consistant en une somme de cinq centfrancs, sera dècerne à Tauteur du meilleur travail sur les dialectes anciens de la langue d'oc (le catalan compris), com- parés aux dialectes populaires qui leur ont succede dans le midi de la France ou en Catalogne;

«,Le second, un rameau de chene en argent, offert par la Societé archéologique , scientifique et littéraire de Béziers, sera decerne en son nom à Tauteur du meilleur raé- moire qui, en prenant pour base Vorlhographe des Troubadours, relevera les princi- pales altérations introduites, depuis le XIV» siècle, dans les idiomes des pays de langue d'oc et proposera un système d'orthographe et d'accentuation applicable à ces divers idiomes, en laissant à chacun d'eux les formes qui le caractérisent.

« Cinq médailles en vermeil seroht, en ou tre, attribuées par la Société des langues romanes, aux meilleures monographies des tous dialectes actuels du midi de la France; ou bien aux meilleurs glossaires en langue d'oc moderne, le catalan compris, des ac- ceptions spéciales (substaniifs, adjectifs, verbes, locutions particulieres, etc.) à une ou à plusieurs branches, soit de ragriculture, soit de l'industrie, soit des sciences; tei que serait, par exemple, un vecabulaire des termes propres au labourage, au jardina^e et à la culture de la vigne, ou méme encore une liste complète des superstitions médicales, ou celle des noms vulgaires des étoiles dans les diverses régions du Midi. »

« Enfln, à Toccasion de ce Concours, un grand prix, qui est encore à M. de Quin- tana y Combis et qui consiste en une coupé symbolique en argent, sera dècerne à 1 au- teur de la meilleure pièce de poesie sur le thème suivant: le Chant du latin. » Revue des lang. rom. 1877, n.*» 9.

Su questo secondo concorso, il Canto del Latino, rimandiamo i nostri lettori al bel- Tartìcolo che recentemente dedicavagli una illustre penna italiana nella Perseveranza di Milano, n.o 13 Dee. del 1877.

In preparazione. Sappiamo che il prof. Rajna darà presto alla stampa un volume Sulla poesia provengale in Italia.

Prossime pubblicazioni. Sono annunziate: Novelle in dialetto bolognese con ì ri- scontri di altri paesi d'Italia e fuori raccolte da Carolina Coronedi-Berti aggregata alla R. Commiss, pei testi di lìngua; Novelle popolari montalesi pubb. da G. Nerucci; U Epopea e la filosofia della storia per Giacinto Fontana; I complementi della chanson d'Huon de Bordeaux per A. Grap; Cancioneiro do Collegio dos Nobres heraw^ge^ehen von Caroline Michablis de Vasconcellos. Tutti sanno che questo canzoniere, desi- gnato altresì col nome di Cancioneiro d'Ajuda, è, dopo il cod. Vaticano, il più impor- tante monumento della antica lirica poiteghese, e che l'edizione diplomatica datane nel 1825 da Lord Stuart fu limitata a soli 25 esemplari. Un'altra riproduzione del ras. non sarà pertanto di troppo, massime dacché ne assunse la cura la sig.""» C. Michaélis.

Il sig. Alvaro Verdaguer uno dei più intelligenti editori di Barcellona (Rambla del Centro, 5) ha aperto una soscrizione per la stampa del volgarizzamento catalano della Divina Commedia di Dante, fatto nel sec. XV da Andrea Febrer: La Comedia de Dani Allighier (de Fiorenza) traslatada de rimas vulgars toscans en rimas vulgars catalans. Il testo sarà riveduto da D. Cayetano Vidal y Valenciano e formerà un voi. in 12.» di circa 700 pp. stampato in caratteri elzeviriani su carta filogranata.

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GIORNALE DI FILOLOGIA ROMANZA

. . . patriam divcrsìR gentibua unam.

JtUTtLlO NOKACIAMO.

N.'2 / APRILE 187 8

DI UNO STUDIO DEL PROF. U. A. CANELLO

INTORNO AL VOCALISMO TONICO ITALIANO

Il prof. Canello ha in pronto da un pezzo un suo studio intorno al vocalismo tonico italiano. Ne pubblicò un primo saggio, il capi- tolo sull'i, nella Rivista di filologia romanza; e un secondo, il capi- tolo suU'e, n'ha pubblicato recentemente nella Zeitschrift fUr roma* nische Philologie del Grober, con la promessa di darci il resto, se « i compagni di studio ne mostrino desiderio ». Io credo di riuscire inter- prete fedele del desiderio degli studiosi, esortando il Canello a darci presto il compimento del suo bel lavoro.

Dall'immortale capolavoro grammaticale del Diez il Canello estrae quel che riguarda le sole vicende italiane della vocale latina, correg- gendo mercé una più esatta informazione della pronunzia toscana le poche sviste del Diez (inevitabili da uno straniero, specialmente in opera così vasta e comprensiva), ed allargando di molto l'inventario delle voci italiane iu cui trovisi riflessa la vocale latina. Scevera con molta cura le voci di schietto conio popolare da quelle dotte o semidotte; e mette anche in rilievo la condizione, finora poco osservata, di certe voci, che, popolari forse dapprima e pronunciate perciò in modo affatto cònsono alle norme della grammatica storica^ usciron poi d'uso, e ripristinato infine, come arcaismi, nella letteratura, v'assunsero una novella pro- nunzia, pari a quella delle voci dotte o semidotte. E poi sempre in- tento a metter in vista quei casi, in cui la varia determinazione della vocale tonica sia condizionata dal contatto d' una data consonante o gruppo consonantico. Persuaso inoltre il Canello, che tra le vocali di . posizione, latina o romanza, bisogni sempre ben distinguer quelle brevi

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70 F, D'OVIDIO [giornale di FiLOLoniA

per natura da quelle per natura lunghe, che cioè la possibilità dell' ab- breviazione della vocal di posizione per effetto della posizione stessa (come nel supposto frtgdus da frJg[i^dus) sia un mero sogno dei roma- nisti, e che insomma i continuatori romanzi delle vocali lunghe o brevi in posizione formino due serie tanto ben distinte tra loro, quanto quelle dei continuatori delle lunghe o brevi fuor di posizione (1); persuaso di tutto questo, egli istituisce per ogni voce dubbia una indagine, risa- lendo, con Tajuto specialmente del Corssen, alla stessa grammatica sto- rica del latino, ed alle analogie greche (2). E finalmente, d'ogni mi- nima eccezione apparente o reale egli si vuol render pieno ed esatto conto, non sapendosi mai rassegnare a vedervi alcun che di meramente casuale o capriccioso.

Un lavoro così condotto deve riuscir necessariamente utile, anche se qua e lasci qualche cosa a desiderare, o se trascorra in qualche eccesso. Tuttavia non sarà mai male che il Canello renda in avvenire vie più sicura l'utilità del suo lavoro, evitando certe sviste, e guardan- dosi da un certo abuso, che gli accade talvolta di fare, delle stesse buone qualità della sua mente. E di tali sviste e di tali abusi, ne' due capitoli già pubblicati del suo lavoro, passo ora subito a fare T enume- razione; con l'animo tanto più tranquillo, in quanto la fida e schietta amicizia, che da gran tempo mi lega al Canello, rende impossibile tra noi perfino il sospetto del malvolere. Già il Flechia, nella Rivista di Torino (anno IV, p. 342-45), fece, tra molte lodi, alcuni appunti al ca- pitolo sull'i; e le amichevoli osservazioni, che io farò ora seguire, sono in certo senso un'appendice alle osservazioni autorevolissime dell'illustre professore torinese.

In prima, troviamo qua e qualche ragguaglio inesatto sulla pro- nunzia stretta o aperta dell' e; e propriamente troviamo data per aperta 1'^, che invece è chiusa, di creta (p. 512), credito (513), cicerchia (520), cedro (518), decreto (11, 512), hnpito (15) (3): e per chiusa Ve di Pro- venza (15), separa e cèreo (513), dove invece si ha Ve aperta: cosa

(1) Insomma, quella norma che noi pò- Zeitschrift del Gròber (voi. I, p. 510-522), tremmo formulare in questa proporzione,ren- e di quello sulPt cito le pagine della tira- de (vendit; efr. v?numdo, vèmUis) : r^)ìde tura a parte (p. 1-19).

(rèdditi cfr. rMeo) :: vélo {velum) -.bène (3) Cessa dunque il bisojrno di ri|Utar

(bene), dev'essere, secondo lui, la norma creta una voce dotta; il che al Canello stesso

costante e immutabile. Avvertiamo che é non poteva piacere, stante il significato di

vale e stretta, è vale e aperta, alla fran- questa voce. E cessa pure la necessità di

CGse: cosi sempre in questo scritto. spodestare P etimo citrvs citrum , posto

(2) Su questo punto il Canello ha qualche giustamente dal Diez (v. Etym, Wórtb,^ s. bella pagina. Vedi a p. 517-8 dello studio cedro) ^ e di assumere col Canello il cedrus Buir«. Avverto una volta per tutte, che (yJ^^o;),

dello studio suir<? io cito le pngine della

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BOMANZA, s.o 2] DI UNO STUDIO DEL PROF, CAMELLO 71

tanto più naturale, iu quanto cereo e separa son voci non popolari (pop. è separa). Del resto il Canello s'è sempre mostrato de' più esperti della pronunzia toscana; di poche sviste si può far carico a chi non è to- scano, né ha dimorato iu Toscana, e mentre i filologi toscani ci danno generalmente così poco ajuto.

A pag. 520, il Canello attribuisce francamente al latino pejus Ve breve {^n péjiis che sta per pes-ius; cfr. pes-tis »), e così si spiega Ve aperta di peggio, Msipejus, donde che provenga (1), ha indiscutibil- mente Ve lunga, e pare impossibile che il C. non se ne sia rammen- tato. D'altro lato. Ve aperta del nostro peggio trova sufficiente ragione nell'analogia di nhèglio = mèlius.

A pag. 9, fonda il suo ragionamento sopra un lìnea. Ma vera- mente è linea; ed egli stesso l'avea riconosciuto a pag. 7.

In generale poi il C. inclina troppo ad attenersi, senz'altro cura, a quelle autorità che lo levano d'imbarazzo. A pag. 8 s'attacca su- bito al claviadum dato da Luciano Miiller, senza prendersi alcun pen- siero del clavicula, che ogni lessico latino dà, e per buone ragioni. E così, non so neanche se ajutato dal Miiller, pone un crattcula, un ericiuSj come se i lessici non dessero, e pur sempre per buone ragioni, cradcula e ertciiis. Anche il ventrìculus, che egli mette avanti, non senza però grande esitazione, a pag. 13, è contrario a tutte le attesta- zioni che si hanno per la quantità dell'i di questa voce.

A pag. 13, mette assieme, come spettanti alla stessa famiglia, di vocaboli, avvince convince vinùulum. Ma convincere italiano è tal quale il convinccì-e del lessico latino (da vinco), e avvincere risale a tutt' altro verbo: a vincire, con cui va anche vincuhim (2).

A pag. 514, trae scelto da selectum, scegliere da seligere. E questo un semplice additamento alla buona, e consapevolmente inesatto, del- l'etimo latino, 0 è un espresso rinnegamento dell'etimo comunemente accettato ^exeligere? Se è quest'ultima cosa, confesso di non saperne immaginar le ragioni.

A pag. 11, pone chrìsma=^ XP^'^I^^* Ma veramente è xp^'^i^^» Ora il Canello si sarà accorto egli stesso dell'errore (3).

A pag. 8, ammette come una delle due ipotesi possibili, che in prènce con e aperta s' abbia pronuncia dotta di un arcaico popolare

(1) Cfr. CoRSSEN, Aussprache ecc. F, .'^05. ovrai* cof^i lo stXria stilla (p. 8) per sttria

(2) Cfr. CoRSSEN, Ausspr. ecc. I*, 499, stVia, V uhimo empito p. 15 dove il senso. 540, 542. vuole empito, il bene di p. 515 per bène,

(3) Semplici errori tipografici saranno Y accorciarsi di p. 521 (Un. 8) per allun- (Txnv^j (a pag. 5 e a pa^. 520) per ffx>jviQ, garsi, VE lunga accentuata di p. 510 per àpyì^oJ (p- 8) per «pyDo;, èoérfio; (p. 512) E accentuata.

per èptryiò;, Troieovra (p. 518) per ttois-

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72 F, D'OVIDIO [oionxALE di filologia

prènce con e stretta da princeps. Ma il C. ha dimenticato che con le sue dottrine egli non ha il diritto di far venire un prènce da princeps^ che è certamente ^nwc^j)5 à^, prlnius. Egli, si sibi constare vult^ non può ammetter per legittimo che V arca.ìco prince (l'avrebbe Dante, Pg. X, 74; ma fuor della rima, e la lezione non è sicura, come si può vedere nel Dante del Witte, in quel dello Scartazzini, ecc.; ma Tha di certo, e due volte in rima, il Dittamondo^ I, 9 e 26; V, 17).

E poiché ci troviamo così venuti ad errori piuttosto d'argomenta- zione che di fatto, aggiungeremo qui qualche altra nota di simil ge- nere. A pag. 6, per ispiegarsi Ve italiana da ^ latino in fégato ed artètico^ osserva come una tal mutazione siasi potuta consumare in tali voci prima che Vi vi diventasse tonico, vale a dire quando esse voci erano ancora fìcàtum, apS-pìrcco;. Quanto b, fégato^ benché pur mi resti qualche dubbio, non voglio nulla objettare. Ma per artetico, trattan- dosi d'un vocabolo greco ossitono, e quindi ripugnante alle norme ac- pentuali del latino, non è poi cosa tanto semplice il dire che in latino stesso l'accento di questa voce si sia potuto mantenere un bel po' al suo posto originario, tanto da dar tempo all'i protonico di diventare e, A che età s'immagina il Cauello che la nostra voce sia stata immessa dalla Grecia in Italia? Se dobbiam tener conto di arthriticus che abbiamo in Cicerone {Ad fam, 9 , 23), esso ci riconduce a un'epoca in cui troppo ci ripugna il mettere un arthretlcó = àpBpnrAÓ^, Io non dimentico qual- che esempio meridionale: i leccesi fu4dó= cpe).>ó;, e asinicói (campo- bassano vaseiìecóla)=^u7th/,óz (Arch, glott. IV, 138).* Ma essi appar- tengono a un ambiente diverso, e a un'epoca diversa: e poi in essi la conservazione dell' ossitonismo greco è un fatto evidente, non un sup- posto. E infine, allo stesso giuoco d'accenti ricorrerà forse il Canello per ispiegarsi Vo aperto di pitòcco = ti*. (si^/i q"] E a che potrebbe ser- virgli l'accento, per spiegare Vo pure aperto di tròta =•■ TfoxTyjs tructa? Il vero è che in parole esotiche come queste è una pretensione eccessiva il voler trovare rigorosamente preservata la quantità origi- naria della vocale; e il Canello stesso, a pag. 11, a proposito della to- nica aperta di zenzevero (e fin zenmvero^ zenzòvero; anziché zenzévero = zingiheri^= i^ty-yt^epi)^ dice di non doversene preoccupare, trattandosi di voce straniera. Or, per quanto il caso sia certamente non poco di- verso, a me non costa grande sforzo il supporre che il latino popolare abbia considerato come i Vi del greco àpBpJzr/,ig (come considerò per t V L di p^o^T^a), e che se ne sia quindi avuto così un regolarissimo ar- tctico. 11 quale, mentre resta (e con Ve stretta) popolarissimo nel Mez- zogiorno, in Toscana è uscito dall'uso comune (1); epperciò v'ha as-

(1) La miovn Crusca non lo registra di- comunemente nel senso di « mania di loc- faUi tra le voci d'uso. Nel Mezzodì s'usa car tutto »

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«oMAjfzA, N.« 2] DI UNO STUDIO DEL PEOf. C ANELLO 73

sunta la pronuncia dotta con è aperta, favorita qui anche dalFanalogia (Ielle tante voci in 'ètico (poètico , patètico ^ prof ètico ^ aritmètico, diurè- tico, farnètico, parlèiico ecc.) (1).

A pag. 12, il Canello, che ammette che strcglia e stregghia rappre- sentino i due soliti esiti italiani di -G'L-, trae invece l'altra forma stri- glia da *strigìlat ^strijilat ^striflat *stri1jat. A me pare che striglia non sia che una semplice variante del primo dei due esiti, cioè che non dif- ferisca da streglia se non per la vocale mantenuta inalterata (cfr. tri- glia = Tptyln^ e meridionale tréglia). poi mi sembra giusto il muo- vere da una base verbale, meramente ipotetica, come ^strigilat^ mentre abbiamo in pronto la base nominale. Striglia, pel comune strigilis, è negli scolii di Giovenale, e ad ogni modo sarebbe troppo facile a sup- porsi, come la base che ha dato poi ^strigilare (2).

A pag. 519, il C. tocca della grave difficoltà che presentano il nome ménte, la finale avverbiale -ménte e il suffisso -mento, per la pronunzia stretta che ha in toscano il loro é tonico. La grammatica storica del latino non può argomentare che méntem ménte e -méntum. La gram- matica neolatina, specialmente se bada ai riflessi spagnoli e meridionali italiani, argomenta pur essa un é, anziché un è, originario. Solo la Toscana rompe l'accordo. E il male è che il suo e chiuso non si può considerare come l'effetto di una speciale e costante tendenza della pro- nunzia toscana a chiuder Ve avanti al gruppo -ut-; di una tendenza cioè del genere di quella che spiega il pièno piego per pièno piego, e con- siste in ciò, che ogni e dopo i una glottide toscana non riesca a pro-

(1) Ma il Canello ha troppa fede nelle abbiano l't breve; e una tal questione è ben

rispondenze esatte tra il greco e il latino, lungi dall'esser risoluta, se pur non è anzi

ed anche in cose di natura assai diversa da risoluta in senso contrario (cfr. Curtius,

quelle toccate qui sopra. Accenna egli, a Griech. FerèMwi, I, 281-2): e mi par sover-

pag. 13, ai dispareri dei lessicografi greci «Jhio ardimento volerla risolvere, come fa il

intorno alPaccentuazione (che è come dire, Canello, in modo doppiamente indiretto.

Rtan i le leggi dell'accento greco nella pe- (2) Così, nella pagina stessa, resta ini:-

nultima sillaba, intorno alla quantità) della tile porre accanto al nome trebbia tribbia

voce atft; o p?'?; « dice che que* dispareri la base verbale tribulat; poiché il lessico

devono cessare, avanti agl'italiani mésce e latino ci sùbito, oltre il tribulum di Vir-

méscola che accertando Vi nei latini mi- oilio (Georg. 1,164: Tribulaque traheae-

*c^f ecc., vengono ad accertare così la forma que et iniquo pondero rastri) e di altri, il

pt?i;. Ma circa la brevità della rad. yny^ tribida di Columella ( e il Klotz nota -ìf-,

(cfr. sa nscr. mt^ras) in più voci greche, non so perché, non citando egli nessun luogo

come pttynvott, ^r/aéo-a, èutyrjv , non e' è dal libro X, il quale per essere in versi ci

dubbio alcuno, sol che si vogliano scandire darebbe la quantità dell'i; il Porcellini no-

i versi de' poeti greci in cui occorrono. La tava trìbula, ma aveva anche un trSbla,

questione è se tutti i derivati d'essa radice che sarebbe stato prezioso).

* Mi par di ricordarmi che il Flechla m* abbia una volta suggerito un veneto liogó = y,),t3txov tiogo aprico «. Al quale ben si applica quel che io dico degli csempj leccesi.

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7-1 F, jy OVIDIO [gIOUNALE 1)1 FILOLOGIA

nuDziarlo se non aperto. No; perché il toscano tollera benissimo Ve aperta in tntte le lunghe serie dei participj e aggettivi in -ènte, nei nomi in "ènto come vènto, stènto, tulhìto, lènto (1), nelle voci verbali come sento ^ tento ^ jjènto (2) (e cfr. i gernndj in -endo^ gli astratti in -ènza). 11 Canello « fino a migliore spiegazione del fatto » propone di vedervi « un puro istinto diflferenziativo tra il nome ménte e il verbo mento zz mentior ecc.; differenziamento che si allargò poi anche agli avverbi in 'mente e ai nomi in -mento >. Pur troppo io non ho saputo escogitare mai quella migliore spiegazione del fatto, che il C. invoca; ma questo non mi terrà dal dire che la spiegazione sua, anche così in via prov- visoria, non mi par punto plausibile. Mentire non è di quei verbi che continuamente ricorrano nel discorso, benché la cosa ch'esso significa sia pur troppo d'uso assai comune nel moudo; e inoltre non ha che quattro voci dell'indicativo e quattro del congiuntivo con Ve accen- tata. E come dunque, per poche sue voci, che anzi son pure vacillanti per la concorrenza fortunata che lor fanno le corrispondenti voci deboli {mentisco -isci -isce -iscono ecc.), avrebbe avuta tanta forza da obbligare ménte, e tutta la falange degli avverbj in -mente e dei nomi in -ménto^ a mutar pronunzia? Se da una parte bisognava mutare, era molto più naturale mutasser pronunzia le povere voci di mentire.

A pag. 513 , il C. mette centesimo, e simili voci numerali ordinative, tra le voci dotte e semidotte. Non ci ho nulla a ridire: l'è aperto del suffisso 'esimo = -èsimus non può esser eflfetto che d' una pronunzia non popolare (popolare è quarésima = quadragesima); e così è pure dell' ò aperto di nòno = nonus. Siccome però resta un po' strana questa impo- polarità delle voci numerali, così era bene che il C. ci facesse intorno qualcuna delle sue solite considerazioni. Non pare a lui che l'influsso di dècimo = décimus abbia ajutato Ve per e di -esimo? E ad ogni modo non era bene osservare come nelle nuove lingue il numerale ordinativo, tranne per i numeri piìi bassi, cedesse quasi del tutto le sue funzioni al numerale cardinale? Noi diciamo i venti del mese, diciamo l'anno mil- leottocentosettantotto , chiamiamo il numero cinque chi occupa il quinto posto in un convitto, in un albergo, in un carcere, i Francesi dicono Louis quatorise: tutti casi in cui i nostri padri Latini avrebbero usato l'ordinativo. E ciò spiega come la serie numerale ordinativa, pur ri- manendo sempre presente alla mente nazionale, le sia rimasta più in forma letteraria che popolare.

Ma veniamo al nostro principal proposito. 11 Canello, come s'è detto, si vuol render ragione della minima deviazione d'ogni singola

(1) Però mènto^mcntirm ha Ve stretta. (2) Però addormento ; oltre, beninteso, i

UsLnpwreVe s,ireU3i ménta (wentha itiy^x)^ derivati di ménte {rammento^ e com'esso Tréììto {Tridrntit.m). \\ gi.\ latino verbo commèrcio).

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ROMANZA, N.« 2] DI UNO STUDIO DEL PliOF. CAMELLO 75

parola dalla norma comune, e per ciò ricorre or a questa or a quella supposizione. L'espediente però, per il quale ha la maggior predile- zione, è di tentar di risospingere ad epoca preromanza ogni anomalia romanza; di rappresentarcela cioè come un'anomalia soltanto apparente, che in fondo si risolva in una normale continuazione d'un' anomalia an- tichissima, surta già in grembo al romano volgare. Or con questo espediente si posson veramente sciogliere in dati casi difficoltà non lievi, come p. es. col porre a base di tutti i riflessi neolatini di ovtim {òvum) e di simìd piuttosto un ovum e un scmul, s'è sciolta la difficoltà che c'era nell' ammettere che casualmente tutti gl'idiomi romanzi s'ac- cordassero a trattare l' ó di ovum come d, l' e di simul come è. Ma col fame un uso intemperante, noi non verremmo poi che a commettere spen- sieratamente molti temerarj anacronismi. 11 toscano ha tèmo con è aperta, anziché con Ve chiusa che timeo dovrebbe aver dato, ed eccoci subito a supporre un latino popolare temeo (p. 9); la spagnolo haplicgo, ed ecco subito pronto un plèco ^er plico; il toscano ha cède^ anziché céde^ da cèditi ed è beli' e spiegato con « un'antica base volgare cacdit o cédit > (p. 512). Or, se ognuna di queste supposizioni non ha in nulla d'assurdo o d'inverosimile, v'è però nella loro frequenza, nella facilità con cui vi si ricorre, una tendenza viziosa che va combat- tuta. Poiché in ultimo essa ci condurrebbe a questo bel risultato (troppo bello!), che nel campo romanzo tutto vada per la piana, tutto proceda liscio, con una regolarità e una precisione incantevoli, e tutte le ano- malie sieno sorte nel latino vero e proprio. Risultato a priori poco plau- sibile ; giacché in tutto quanto è romanzo e non latino classico noi dob- biamo avere i sedimenti storici di epoche disparatissime, oscillandosi piiì o meno fra due punti estrerai: il fenomeno quasi due volte millenare prodottosi già nel latino delle plebi e dei coloni romani, e il fenomeno dialettale di jeri. Il presente indicativo napoletano alzo = alzo è cer- tamente una forma tardiva, perché coniata, con indebita accentuazione, sull'infinito napoletano aizare = alzare = alzare. Perché dunque il pur napoletano tu miétte « metti >, che invece d'andare regolarmente con tu sicché « secchi >, tu vive « bevi » e simili, va con tu liégge « leggi >, tu criepe « crepi > e simili, non potrà ritenersi un passaggio meramente dialettale e recente dall' analogia più corretta ad un'analogia indebita, e ci dovrà far subito fabbricare un latino popolare mèttis per mittis?

Veniamo a qualcuno dei casi in cui ci riuscirà meglio di dimo- strare la inutilità o il danno di tutto ritrarre ad epoca romana. A p. 514, il Canello pone un règnum per {spiegarsi l'è stretta del toscano régno: un règnum che è smentito dal regno con e aperta che tutta l'Italia non toscana contrappone al régno di Toscana, ed è smentito da règere (1).

(l) Ed è smentilo pur dal Corsrbn {Aics- messa, nessuno sembra meglio del Canello »pt\ li', 2C5), la cui autorità, da tutti am- disposto a riverire.

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F. D'OVIDIO [giornale di filologia

Il fatto è che régno deve il suo é a una peculiare tendenza fonetica del fiorentino e dei dialetti che vanno con esso. Già il FlecLia (art. cit. p. 343-4), due anni prima che il Canello pubblicasse il suo bel saggio suire, avea messo benissimo in rilievo come in fiorentino il suono n soglia influire sulla vocale tonica precedente, t od e, nel senso di farle mantenere od assumere il suono più stretto, cosicché avanti n Vi resti i, come in comignolo ^= cuìmhieum^ gramigna -= gramtnea ecc., ed e sia stretta, come in ingégno = ingénium (e in régno = regnum). Veramente la norma messa in rilievo dal Flechia si applica allo n che risulti dalla formula latina N + J (li E) + vocale, non propriamente allo n risul- tante da GN latino, il quale n dev'esser cronologicamente diverso, e punto non impedisce, p. es., T evoluzione à' t in é stretta, com'è pro- vato da dégno = dignus, pégno =pignus, ségno = sigmim, légno = lignum. Ma da un lato può ammettersi che lo n=:GN, pur non impedendo l'evo- luzione da t ad é, la qual é alla fine è sempre un suono chiuso, impedisse però la pronuncia dell' é come e aperta ; e dall' altro bisogna considerare che regno si trovava in condizioni affatto particolari e individuali, stante la mancanza di altri vocaboli riflettenti un -EGN- latino ; ed era quindi ben naturale ch'esso fosse attratto dall'analogia degli altri vocaboli ita- liani in 'égno: dégno e sdégno^ pégno, ségno, légno y oltre ingégno (1). Stante la mancanza d'altri vocaboli simili, cioè derivanti da -ÈGN- latino > ho detto; ed ho sbagliato: c'è x^régno. Ma è appunto questo che finisce di darmi ragione: risalendo a "^praegnus (praegnans), il che è come dire che risalga a ^prégno- (cfr. nap. priéno come ciélo^ e fem. pròna come cèca = caecat)y è la prova più evidente che si possa avere toscanamente é = é av. n(GN).

Ma gli ardimenti del Canello vanno al di d'ogni credere, a pro- posito di certe voci verbali italiane, per ispiegar le quali egli si crea delle nuove e mostruose voci, da doversi, a parer suo, ascrivere al la- tino popolare. Per rendersi ragione di temerono egli si foggia un latino popolare time{ve)runt sul tipo di comple{ve)runt (p. 510); per vedemmo, avemmo, egli si fabbrica un vide{vi)mus, haòe{vi)mus, come comple(vi)mus (p. 514); per intendere temesti ^ avesti, temesse, avesse, facesse, inventa time{vi)sti, habe(vi)sti, time{vi)sset , habe(vi)sset ^ face{vi)sset (p. 514-5), sempre sul tipo di comple{vi)sti, comple{vi)sset ! Tanto dunque è il ri- spetto che gì' incute l'w di timuisti, habuisti^ timuerunt, da non fargli parer possibile che mercé la soppressione di esso si passasse da queste forme direttamente alle italiane temesti, avesti, temerono? Non è inau- dita la soppressione di un u atono in iato : basti ricordare gennajo =

(1) Le voci verbali végno, legno y non poco salde, avendo in rèrtgo, tengo, delle poleano avere nessuna efficacia sopra una rivali ben formidabili. Quanto poi Krite- voce nominale: tanto più che erano andie gno e simili , v. Flechia, art. cit. p. 344.

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ROMANZA, N.*» 2J Bl UNO STUDIO DEL PROF. C ANELLO 77

januariìiSj battere =^ hattuere ^ fottere=:futuere , vollero = vóluérunt , Ad- da =Addua; beuclié in alcuni di questi casi si tratti anche di r (u) as- similato. E poi nel caso di timuisti = tetnésii e simili c'era Tajuto del- r analogia di amasti, udisti =^ audisti, vedesti =^vidisti^ amarono == anta- runt ecc.; ed anche di quella di compiesti =^ comple{vi)sti , compierono =^ comple{ve)runt, poiché al mio egregio amico sta tanto a cuore questo tipo, rappresentato del resto in latino da un ben scarso numero di verbi, e, per di più, quasi a farlo apposta, spariti pressoché tutti nella trasmu^ tazione del latino nelle nuove lingue (si ricordi fiere, adolere, delere...)\ E c'era pure che Vu di timuisti^ timuerunt ecc., nel nuovo assetto che veniva prendendo la coujugazione andava sempre più smarrendo, avanti all'intuitiva popolare, il suo valore morfologico; onde, anche a prescin- dere dalle ragioni fonetiche, esso appariva facilmente un inutile ingom- bro, che, sull'esempio degli altri verbi che n'erano immuni, andasse tolto di mezzo. E così, facemmo nessuno oserà dirlo una semplice evo- luzione fonetica di fecimus; ma pure, a spiegarlo non son più che suf- ficienti le analogie di amammo := amar imus, udimmo = audivimtis, f um- nw=fuimus^ e l'attrazione esercitata da facesti = f ecisti , e, quanto al- l'-a-, l'influsso delle altre voci dello stesso verbo (facciamo, faceva ecc.) ? C'è proprio bisogno di crearsi uientemento che un facevimus? !

Lo scrupolo di legittimare ogni minima parte della parola romanza è lodevolissimo; naa che per troppo scrupolo da un lato, si faccia dal- l'altro un cosi buon mercato della parola latina, mi pare una contra- dizione singolare. Se pure non si voglia ammettere, dimenticando l'unità della scienza, che tutto il da fare del romanista deva consistere nello scaricar tutti i garbugli e i fastidj addosso al latinista.

Solo questo curioso proposito può far parere soddisfacenti certe so- luzioni, che in fondo, non riuscendo che tutt'al più a spostare di qual- che secolo le questioni, sono affatto illusorie. « Abbiamo » scrive il Ca- nello a p. 511 < la serie di -èrio che -ièro -èro^ invece di rério -ero; come si vede in mistèro (mysterium), battistèro^ cristèro (clystèrium)^ mo-

insterò, fièra (fèriam)^ cièra (cèream scil. imaginem) Diremo che

da fèria s'ebbe prima /?r;a con l'è abbreviato dalla posizione romanza? Ma già dovetti negare assolutamente questa attitudine della posizione

ad abbreviare le vocali latine Tutte queste ed altre ipotesi toruauo

Tane quando si tenga conto d' un' osservazione prosodica del Muller, De re metr. 359. Egli ci avverte che i poeti seriori calcolano breve la vocal tonica, a cui sussegua consonante semplice e nn'i che faccia iato: co- pidsior, suffràgium, denàrius ecc. Adunque avranno calcolato anche mysté-

rium fériam Ogni cosa così resta dichiarata, e feria fèria fera

il nostro fiera, come férum fiero ecc. >.

Ora io incomincio dal dire che le stesse licenze de' poeti del miglior tempo, quando il linguaggio della letteratura e della poesia era in

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78 F. D'OVIDIO foionxALK di filolot.ia

più vivace scambio col linguaggio comune, sarebbe un'imprudenza il considerarle senz'altro come fenomeni organici della lingua. È bensì vero, p. es., che il ttUèrunt di Virgilio {EcL IV, 61) e le altre forme simili che occorrono in esso e in altri poeti a lui vicini, accennano a un'oscillazione organica del linguaggio comune tra la finale -èrunt e la finale -erunt^ oscillazione che si ripercuote anche nelle lingue ro- manze {temerono =:timuér uni y fecero = fécèruiit). Ma pur nessuno, e tanto meno il romanista, si sentirebbe di considerar come organiche le forme àhjete trisillabo pel quadrisillabo àbidte , arjète per ariète, flfivjo^ rum per fluvìorum, che occorrono, non che in altri, in Virgilio stesso (En. II, 16, 461; Georg. I, 482 ecc. ecc.), p il dystère per cìystère (x).u7T:5pos, -wpt ecc.) di Emilio Macro. Tanto più è necessario esser guardinghi con le licenze de' poeti ai quali si riferisce l'osservazione del MuUer (Ausonio, Boezio, ecc.), di poeti cioè che scriveano una lingua già troppo letteraria e artificiata, già troppo aliena dal favellare co- mune. Certo, non di rado la parlata comune s'è dovuta come insinuare inavvertita nella loro lingua scritta, ma bene spesso pure le peculiarità del loro linguaggio poetico devono essere state creazioni artificiali, de- duzioni erronee o eccessive delle norme tradizionali , ed anche addirit- tura trasgressioni di queste. Soprattutto per la quantità delle sillabe, della quale s'era venuto sempre più perdendo il sentimento vivo, che gran valore può avere per noi qualche singolarità o anche qualche abi- tudine prosodica, d'un Ausonio o d'un Boezio? Chi pretenderebbe che la lingua d'Apollonio Rodio o d'altro poeta alessandrino facesse te- stimonianza per la storia naturale della lingua greca, come la lingua d'Omero o di Sofocle?

Ma, lasciando da parte la questiou pregiudiziale, e volendo pure studiar senza diffidenza i ragguagli prosodici raccolti dal Mùller, che cosa essi provano in realtà? Intanto, sui tredici casi da lui riferiti, sette sono di nomi proprj (Florianus, Juliamis^ Justinmnns^ Majorianus ^ Nepotianus^ Vespasianus^ Seplasia)\ ed ognun sa che i nomi proprj firn subito parte per stessi, e la loro connessione etimologica con le pa- ròle comuni onde derivano, per quanto evidente sia per poco che vi si rifletta, resta facilmente obliterata perché non vi si riflette, epperciò di essi le alterazioni si fanno più spensieratamente. Ancora, sui tredici casi, sette son di parole dove la vocale abbreviata è fuor d'accento (sei dei surriferiti sette nomi proprj, più un meridiamis); ed ognuno intende quanto l'abbreviazione dovesse essere più agevole per le vocali atone, in un'epoca in cui già s'andava maturando quello stato di cose, per cui si finì a concentrare sulla sillaba accentata quasi tutta la forza della parola. Di voci dunque, in cui l'abbreviazione sia un fatto veramente notevole, non ce ne son date che cinque: copiòsior^ denàrius^ duodenà- rius, inscltia, suffràgium. Or, se alla abbreviazione della vocale tonica

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KoMAjizA, N.*» 2J DI UNO STUDIO DEL PBOF. CANELLO 79

in qaeste parole noi vogliamo cercare nn motivo naturale, cioè che non consista in un mero capriccio od inganno di que' poeti, dovremo pure, poiché la vediam condizionata dal succedere alla vocale tonica la for- innla: consonante + i atono + vocale, riconoscerla cagionata da ciò, che eonsonantizzatosi Vi atono o propagginatosi da esso un ;, si venisse così a formare un gruppo consonantico (5;, r;, tj^ gj ) che avesse forza d'abbreviare la precedente vocale. E così riveniamo appunto a quella concessione, alla quale tanto ripugna il Canellò, che cioè la posizione possa abbreviare in certi casi la vocale. Ed alla stessa nostra spiega- zione mi par che accenni, benché molto confusamente in verità, lo stesso MuUer, scrivendo : « in quibus praeter alias causas credo adiutam correptionem proprietate i litterae ante vocalem sitae illa, qua tempo- ribus isdem parili sub couditione ^ et e sonum mutaverunt ». che que' poeti calcolassero tuttavia Vi come vocale c'impedirebbe di credere che la sua attitudine ad abbreviare la vocale mediatamente antecedente ad esso provenisse dalla sua consonantizzazione (se si ammette poi la propagginazione del j —Hopiòsjior io. diflScoltà non ha neanche luogo). In una voce come su-ffrà-gi-um per su-ffrà-gi-um noi potremmo ben avere una specie di compromesso fra 1* alterazione fonetica popolare e la tradizione della lingua scritta. E la conclusione di tutto è che il Oanello, che per dispensarsi dall' ammettere la possibilità della digrada- zione -è/ io -èrjO" èrjo s'appellava all' osservazione prosodica del Miiller, non è riuscito con ciò a nulla, se non, tutt'al più, a meglio determi- nare la cronologia dell' abborrito fenomeno dell'abbreviazione della vocale tonica in posizione romanza.

Del resto, se esaminiamo davviciuo gli esemplari italiani recati dal Canello, levando di mezzo fièra ^=^ fèria e etèra =z cèrea, in cui Vie è ab- bondevolmente spiegato dalj dell'ultima sillaba ( v. Arch. gloit, IV, 124 u. 149n. ), ci restano mistèro^ batt'sth'O^ cristcro, monistèro; della popo- larità dei quali è molto lecito il dubitare. Già, una forma poi vera- mente popolare, come l'abbiamo in mestièro = mimstérmm^ essi non ce la danno. Hanno semplicemente quella forma -èro^ che accenna piìi propriamente a un'origine dotta o semidotta, come nessuno meglio del Canello può sapere. Ed io credo in verità che sien proprio voci semi- dotte. Cristèro =^ clystèrium (/J.wjzr^piov^ da x^ù^o) lavare) non ha il gruppo iniziale ridotto popolarmente a kj-, ma solo la superficiale altera- zione di l in r; ed è voce della terminologia medicale. Gli altri tre nomi, cui può unirsi anche saltèro j son voci del latino ecclesiastico (1). E a ribadire il loro -èro può aver contribuito V analogia di impèro =^ impèrium^ ministèro ^=- ministèrium (voci anch'esse semidotte, del resto,

(l) Il veneto monastici' può essere un'alterazione terziariii

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80 F. D'OVIDIO [«lORXALB DI FILOLOOIJL

ma dove Ve originaria renderebbe organicamente legittima Ye aperta^ anche se fossero voci popolari), e delle molte voci in -iero da -èro- ( fièro = fcrm . . . . ) e da 'Oerìo- (primièro ....).

A pag. 5, cita carèna^ in cui Ve mal risponde all'I del latino ca- rina; e per spiegarselo sospetta « un latino volgare o tecnico carèna caraena » che avrebbe riprodotto il greco xdpr,va (con la successione ideologica: testa, guscio, fondo di nave) come scena scaena riproduceva <j<rtviì. Ma mi par troppo duro staccare carena da carina; mi par prudente far tanto assegnamento sopra la oscillazione della scrittura in scena scaena^ che può esser dovuta a tante diverse cause. Il più che noi possiamo supporre, considerato Ve di carèna e gli altri riflessi ro- manzi che tutti mal s'acconciano a un I latino, si è, che s'avesse un carena iu latino oltre carina (molte supposizioni simili fa il Canello a pag. 6-7), e che un carena italiano, nato da quello, abbia poi assunto la forma semidotta (carèna).

Nei §§ Vili e XI il Canello tenta di spiegare fisiologicamente per- ché l'I lungo latino séguiti a suonare i iu italiano, e l'f breve siasi fiatto é; e perché Ve latino suoni in italiano e, eV è suoni è o iè; e perché abbiano insieme confluito la corrente dell' ^ e quella dell'I II tentativo è ingegnoso, altrimenti poteva essere poiché è del Canello, ma in fin delle fini mi riesce, se l'ho a dire, una fantasticheria solenne. Forse il tempo non è maturo per potere rerum cognoscere, causas; forse i ten- tativi per iscoprir queste non possono essere oggi che infelici (1); forse riusciranno meglio quando sieno più compiutamente raccolti e meglio appurati i fatti. Comunque siasi, il tentativo del Canello non mi pare iu nessun modo soddisfacente. egli può pretendere le ragioni di questa mia poca soddisfazione, egli che ha costruito un sistema, tutto ipotesi e afférmazioni gratuite. Sopra un sol punto però insisterò vo- lentieri.

L'è lungo latino è ora normalmente é stretto nel toscano, negli altri dialetti del centro d'Italia che van con esso, e nei dialetti cam- pani e abbruzzesi, ed è i nel leccese e nel calabro-siculo. Se qualcosa dovessimo argomentare da tutto ciò, ei sarebbe, mi pare, che in latino

(1) 11 mio egregio amico, prof. Morosi, nostri dialetti meridionali, ha però il dirtongo (perdendo il quale la dialeitologia ha tanto malgrado V-a finale (pìferta, tiet^a ecc.), la sC'ipitato, quanto ha guadagnato la storia at- quale lo impedisce invece nei noptri dialetti, tirandolo a sé) ne ha fatto uno per spiegare i II meglio dunque mi par che sia rertringersi dittongamenli meridionali {Arch. glott., IV, per ora a raccogliere i fatti, a verificare da 124 n.), che egli riterrebbe cagionati dalT-t e quali condizioni sia in ciascun idioma ro- dair-« finali. Io non so obiettargli nulla; ma manzo determinato il dittongamento. La solo mi pare che non si po-^sa ripoy^ar sicuri sintesi potrà venir poi; e forse dovrà gio- sulla sua ^spiegazione, quando si pensi che Io varsi anche dei dati che si possan racco- spagnolo, che p''re iu più punti coincide coi gliere dagl'idiomi non romanzi.

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nomxzA, Ti- 2] DI UNO STUDIO DEL PROF. CANELLO 81

Ve lungo avesse un suono piuttosto chiuso. Ma no: al Canello, per ben architettare il suo sistema, importa di credere Ve latino suonasse e aperto, e chiuso invece Ve breve. E per' dar di ciò qualche prova storica, egli s'appoggia alle doppie grafie scoia scarna j caespes cespes ecc. (p. 520). Poiché il dittongo ae era certo un e largo, dunque (pensa il Canello), se scaena caespes si scrivevano indifferentemente anche scena cespes (dove Ve dev'esser per forza è), ciò vuol dire che anche Ve aveva nn suono come V ae, cioè un suono largo. Ora, io non ho tempo modo di entrare in un accurato esame critico di queste doppie grafie, le quali però n'avrebbero un gran bisogno; e voglio lasciare anche dap- parte T obiezione pregiudiziale che si potrebbe fare all' argomentazione del Canello, rammentandogli che, se l'oscillazione dell'ortografia può spesso sussistere anche nella perfetta identità del suono, ciò non vuol poi dire che essa non rappresenti mai l'oscillazione della pronunzia stessa. Mi restringerò a una sola osservazione. E egli vero o no, che le lingue neolatine riflettono V ae latino come se fosse é {cielo = caelum come piede =p^de')^ e che questo accenna a un'antica coincidenza organica tra ae ed è? Se dunque il Canello, che certo non vuol negare questo fatto elementare della grammatica neolatina, si ostina poi dall'altro lato a stabilire, sulla scorta di quelle tali doppie grafie, l'altra equa- zione tra o€ ed ^, egli non potrà sfuggire se pure è vero che due cose eguali a una terza sono eguali tra loro alla conclusione curiosa, e affatto contraria all'intento suo, che ^ ed ^ avessero lo stesso suono!

A credere aperto il suono latino dell' e lunga, dice il Canello che ci deve confortare anche il fatto, che gli esempj citati da Quintiliano, I, 4, 8, di è proferita e stretta sono tutti fuor d'accento (p. 520).. Questo

tutti però si riduce ad uno! Il Canello deve aver preso un appunto

generico nei suoi fogli , ed essersene poi giovato molto dopo, quando avea già dimenticato il preciso contenuto del passo di Quintiliano, e così ha finito per dare a questo, senza volerlo, una estensione eccessiva. Son cose che accadono a tutti, anche ai migliori, anche ai Canello; e bi- sogna non aver esperienza di quel che sia il lavorare per poterne pren- dere scandalo. Però, il fatto è che Quintiliano non cita che un unico magro esempio: « in here » (jeri) « ncque E piane ncque I auditur ». E ne riparla dopo al § 22 del capitolo 7.": « Here nunc E littera ter- minamus: at veterum Comicorum adhuc libris invenio, Hcri ad me vetiit: qnod idem in epistolis Augusti, quas sua manu scripsit, aut emendavit, deprehenditnr ». E fossero anche pia d'uno, che proverebbero mai co- siffatti esempj? Cosa potremmo dedurre noi, per la pronunzia dell'^ italiano, dalle doppie forme dicce dieci ^ forse forsi, stamane stamane ecc. ?

Una conferma eteroglossa della naturai tendenza dell' ^ lunga al suono stretto ce la il greco. La pronunzia i greco-moderna dell' suppone una fase anteriore di n pronunziata e stretta. Qui forse il Ca-

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82 y. D^ OVIDIO [GionNALE di filologia

nello mi direbbe che T», essendo spesso an succedaneo deir», debba avere avuto perciò il saono di e aperta, cioè il più vicino a quello del- l'«. Ma io gli risponderei che ognun altro, fuorché un romanista, po- trebbe fare un'argomentazione simile. L'è che in francese e in altri idiomi romanzi sottentra all' A tonico latino, non è essa di suono stretto? Nell'antico francese le voci come parler^ cìtet ecc. non poteano assonare con bel^ fer, ecc. aventi Ve aperta (cfr. Paris, S. Alexis^ p. 49-53). E siccome anzi nell' antico francese anche Ve di pcdre pere, medre mere ecc. era tuttora stretta, così noi possiamo stabilire questa bella propor- zione: mere ant. fr. : madre ital. : : fx/jryjp jonico : ii^zrjo dorico.

Del resto la teoria, che Ve lunga latina suonasse aperta, è del Corssen {Ausspr. ecc. P, 325-9) (1); al quale allude, censurandolo, l'Ascoli {Siudj critici^ li; 18). Non mi fa troppo specie che la propu- gnasse il Corssen, che si aggirava nell'ambiente latino; ma ben mi pare strano che se ne sia tanto invaghito il Canello, romanista, e solito quindi a vivere tutti i giorni tra fatti che solennemente la smentiscono.

A me pare che nello stato presente delle nostre cognizioni noi non possiamo asserire altro che questo: la differenza quantitativa che correva in latino tra è ed è si risente ancora, dopo tanti secoli, in italiano, sotto forma di differenza qualitativa. Se poi la differenza qualitativa sia una trasforma^ioìie della differenza quantitativa, o se, com'è più probabile, coesistesse già in latino quella con questa, dimodoché sparita questa sia rimasta almeno quella, è una questione, mi pare, non troppo facile, la quale ad ogni modo non è stata punto risoluta dalla metafisica del mio acuto ed arguto amico.

Al quale mi permetterò di muovere un' ultima censura. Se accanto al nome italiano deve notare il nome latino onde deriva, egli lo nota sempre nella forma dell'accusativo: céra cèram, pulcino puììicèmim, mése

mcnsem e fin possibile possibilem! (2) Avrà egli fatto così per far

ben capire agli amici suoi, nemici della teoria dell' accusativo, che egli non s'è punto lasciato smuovere dalle loro ciarle, ed è rimasto impa- vido campione dell'accusativo, non men di prima, anzi più di prima! Ma un intento simile, mi perdoni il Canello, non è degno dell'uomo di studio. Il quale, se sa che sopra un dato soggetto c'è una seria e ra- gionata discordia tra i suoi colleghi, o entra a parlarne di proposito ovvero si astiene dal toccarne così di sbieco, senza necessità, nel trat- tare un soggetto interamente diverso, e quasi ad ostentazione o a di-

(1) Quivi il Corssen rimanda esso pure neutrali?! Ci sarà stato un tempo che il

a Quintiliano; ma con una citazione inesat- nostro volgo Intino, per riferire le celebri

ta: I, 4, 18; che è pure nella prima etli- parole di Gesù Cristo, avrà detto: jjafr^m,

zione {Aussp9\ ecc. I', 141). si possibilem est, transeat a me,..V. Oh

(9) Snrà stato possibilem anche negli usi transeat davvero un latino simile!

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ROMAxzA, X.» 2] DI UNO STUDIO DEL PROF. CANELLO 83

spetto. Qaando si tratta solo dell' é tonico di mése^ uou importa pro- prio nulla che questa voce sia semplicemente mensem, o che sia il risultato del livellamento fonetico delle voci mensis mensem mense. Ac- canto a mése si scriva dunque questa volta mensis^ la forma del no- minativo, che è quella sotto cui ogni nome si cerca nel dizionario e nella grammatica, ossia è, come a dire, il nome del nome, e lascia im- pregiudicata ogni opinione personale intorno all'origine dell' unica forma flessionale della voce italiana. Notando la forma dell'accusativo, non c'è che un sol guadagno, quello di dare ai maschili della seconda de- clinazione un aspetto di neutri; il che, se per molti nomi {oculum ecc.) è semplicemente fastidioso, per alcuni men noti (fibrum il bévero, p. es.) può anche dar luogo ad equivoci, giacché anche un lettore esperto del latino può non ricordare con precisione un nome come fiber. Ben altrimenti Jal Canello fece il Diez! La grammatica neolatina era tanto cosa sua, che quasi egli avrebbe avuto diritto a scapricciarsi dove gli piacesse; e non aveva poi vista ancor contrastare da nessuno vivamente e di proposito la sua teoria dell' accusativo ; eppure egli si guardò bene dal- l'andar seminando d'accusativi la grammatica e il lessico! Notò sem- pre i nomi nella forma del nominativo; non facendo eccezione neanche per gl'imparisillabi, dove son tentati a notar l'accusativo gli stessi av- versar] della sua teoria. E il Canello, che tante cose ha appreso dal mae- stro, lo poteva imitare anche in questa bella temperanza.

Del resto, ci dia pur quanti accusativi vuole, purché pubblichi presto la rimanente parte del suo utilissimo lavoro.

F. D'Ovidio.

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SI [OIORXALE DI FII.OI.OOIA

UN SERVENTESE CONTRO ROMA

ED UN CANTO ALLA VERGINE

Chi non conosce il terribile Serveutese di Guglielmo Figueira, D^un sirvenies far? Ben di rado, altro che fra le battaglie della Riforma, toccò alla Corte di Roma di sentirsi scagliar contro un cumulo di così fiere invettive. La voce del trovatore destò ira e scandalo negli ul- tramontani del reame di Francia. Una donna, Gormonda da Mont- pellier, si levò vindice della vituperata sede Papale; con parole ac- cese, se non eloquenti e persuasive, esaltò Roma, caps e guitz \ de totz selhs qu'en terra \ un bos esperita; e dopo di aver preteso di ribat- tere ad una ad una le calunnie, invocò dal Dio del perdono la morte degli eretici sul bestemmiatore!

Roma, -1 glorioa Que a la Magdalena Perdonet, don nos Esperan bona estreua; Lo fola rabios, Que tana ditz fals semena, Fassa d'aitai for Elh e 8on thezor E 80U malvat cor 'Morir, e d'aitai pena, Cum heretiers mor.

(Kayn., Choix, IV, 327).

La risposta di Gormonda ha lo stesso ritmo e le stesse rime del- l'invettiva di Guglielmo. Così volevano le norme dell'Arte. Però non ci meraviglieremo della concordanza; bensì del trovare che le ultime tre strofe del serventese rimangano non rimbeccate. Bisogna supporre, o che la poesia del trovatore sia giunta mutila alla pia donna; oppure che una parte della composizione di costei si sia perduta, o resti tut- tavia inedita. La prima ipotesi troverebbe appoggio in un fatto. Una fra le quattro copie che abbiamo del serventese quella contenuta nella miscellanea ambrosiana D. 465 inf, s' arresta precisamente ancor essa al termine della ventesima stanza (1).

(1) Nondimeno le stanze sono qui 19 in- P undicesima ha comuni con essa le rime vece di 20. Manca la decima. E poiché che servono di rappicco, può mancare senza

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ROMANZA, N. 2) L'.V SER VENTESE CONTRO ROMA 85

Ma quanto è naturale la convenienza colla risposta, altrettanto riesce singolare, a prima giunta, quella, inavvertita fino a qui, con una pre- ghiera alla Vergine Maria. Si tratta del lungo canto Fior de paradis, messo alla luce ventanni fa dal Bartsch^ nei Denkmàhr (p. 03-71). Non c'è che dire. La struttura della stanza è identica. Questo schema, nel quale le lettere tonde rappresentano versi pentasillabi, e con rime femminili, le corsive, esasillabi (1) e con rime mascoline, vale del pari per ambedue le composizioni :

a&a&a&ccc2»c. ccZcJedeeerfe. e/'e/*

La meraviglia s'accresce d'assai, quando si rileva che serventese e preghiera hanno precisamente la medesima lunghezza. Entrambi si com- pongono di ventitré stanze: un numero troppo elevato ed insolito, per- ché si possa, nemmeno per ombra, pensare ad un incontro accidentale.

E non basta. S'aggiunge a tutto il resto una mirabile concor- danza rettorica. Il serventese consta d' una serie d'apostrofi a Roiaa, come il canto religioso d-una corona d'invocazioni alla Vergifae; e co- testi nomi, Roma, la Vergine, si ripetono sempre in capo alle singole strofe. In due soli casi, per ciascuna delle due composizioni, ciò non avviene. Nel serventese hanno altro cominciamento le prime due stanze j nella preghiera, la prima e l'ultima. Non conto come una vera ecce- zione la stanza sesta della preghiera, dove le convenienze ritmiche hanno indotto il Verge a contentarsi di passare nel secondo verso.

Questo esatto combaciare delle forme esteriori riceve uno speciale risalto dall'evidente contrasto dei contenuti. L'ilna delle poesie, tutta mitezza ed umiltà, benedice, loda ed invoca; l^altra^ fiera e superba, maledice e vitupera. E lodi e vituperii scoccano in una medesima dire- zione, sebbene contro bersagli posti a distanze ben diverse. Si prega la Madre del Cristo; si maledice colei, che del figliuolo di Dio pretende di essere in terra sola e legittima rappresentante. Abbiam dunque a fare con due composizioni, questa, pia in sommo grado, quella, agli occhi della setta dominante e de' suoi fidi , irreligiosa ed empia.

Il fatto della perfetta concordanza estrinseca, compagna ad tin' in- tima opposizione, moverà da ragioni contrarie, a seconda che sia ante- riore il serventese, oppure la preghiera. Ecco un piccolo problema chef ci è necessario risolvere. Se la cronologia non c'illnmiua, invano ten-

che ne nasca soluzione di continuità. Que- putando alla maniera francese. Ma. sarà

sta comunanza ci spiega dunque il fatto, ben necessario di adottare al più presto un

Ma poi rimane essa medesima un piccolo sistema unico per tutto il dominio romanzo,

problema da risolvere. Tratterò di proposito la questione in altro

(1) Dico pentasillabi ed esasillabi com- luogo.

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P. RAJNA [giorxalk di filologia

[imo distinguere se alle nostre evocazioni accorrano ombre fallaci, ro i proprii spiriti del passato.

La preghiera ci è pervenuta anomiraa. Quasi sospetterei che l'au- si chiamasse Martino. Almeno, egli a conoscere una particolare Ione per questo santo. Che, la raccomandazione suprema da lui ri- alia Vergine al termine del suo dire, si è:

per mi

Pre^atz de cor fi Dieu c*ab san Marti M'arma s'en an estorta AI jorn de la fi.

inteso, queste parole possono anche esser dovute semplicemente a culto speciale, che si prestasse al santo, dove l'autore viveva. iges, per esempio, e la nota sua badia, basterebbero a fornirci una azione. Ed anche si potrebbero concepire altre ipotesi: meno ve- lili, ma forse, ciò nonostante, più vere.

Jn altro luogo mi dispone a credere che, se mai il poeta era uomo liesa, non avesse peraltro ricevuti gli ordini maggiori. Egli parla acrificio della messa in tuono di semplice spettatore :

Verges, cant lo pas Es pausatz sus en Tara, E lo capei las Ab Toracio cara -1 ten entre sas mas El mostra el prepara, ^ Say qu'ea veraya deus

e vivesse, o avesse vissuto nel secolo mi è confermato da certe liscenze della poesia erotica dei trovatori. La sua 16.' stanza ne ia una di Bernardo da Ventadorn :

Verges, ajudar Tan n'aten bon'esperansa

ILq vulhatz, qu'en la onda Vea que pane m'aonda,

2uem fa balansar Qu'atressi sui en balansa

ns en la mar preonda, Cum la naus en Tonda. !o, que amparar . Del maltrag quem dezenansa

Tom puesc, si no m'aonda No sai on m'esconda:

ja vostra merces; Tota noit me vir'em lansa

)oncs, mayre verges, De sobre Tesponda.... kquest caitiu pres

)elivratz, qu'en Tesponda (Tmit al: Bartsch, Clir., 50.) )e la greu mort es.

!i sarebbe quasi tentati di andare un pochino più in là, o di sup-

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ROMANZA, N.« 2} UN SER VENTESE CONTRO ROMA 87

porre l'autore uomo di studio: giurisperito, e forse, propriamente cano- nista. Ne un certo sospetto la penultima strofa:

Verges, vos valer Podetz, lay on legista v

Xon pot prò tener, Ni negun decretista; Noy pot celar ver Bachalier ni sofista; Ni ter ni caste! Noy vai, ni libel, Ni noy cap apel, Cant la mort dur^e trista Fonh de son clavel.

S'avverta specialmente quel ìiheXlo e qxi^W appello. Come si vede, l'au- tore conosce la tecnica delle leggi e del foro. Ora, che ad un profano avessero a venire pensieri siffatti, nel fervore di un'orazione a Maria, non par troppo naturale. Tanto più che s'affacciano in un momento solenne: quando appunto si sta per prender congedo. E anche una cir- costanza d'altro genere esercita una certa quale attrazione nel mede- simo senso. La nostra preghiera, nota al Bartsch in due manoscritti parigini, esiste altresì in un terzo, della Comunale di Siena (1). Essa fu aggiunta, circa la metà del trecento, o poco dopo, sull'ultimo foglio di un bel codice membranaceo, che non contiene del resto se non cose di diritto, canonico in particolar modo. E la mano che la tracciava, potrebV esser la medesima, a cui si devono, o in tutto o in parte, anche certe inserzioni di scritture giuridiche, su fogli interni rimasti primiti- vamente in bianco (2).

Ma queste congetture, se pur si posson dir tali, han troppo poca saldezza, perché io voglia, nemmeno per sogno, metterle a fondamento di un' indagine positiva. Mi guarderò dunque bene dal mettermi a sce- gliere tra i molti Martini, che la storia del diritto mi offrirebbe, dal se- colo XII al XIV, e di tentare a questo modo di procacciarmi una data! Il solo elemento di fatto, che s' abbia per assegnare un' età alla preghiera, consiste, fino a che si consideri il documento isolato, nell'età delle copie

(1) Segnato //. III. 3. Nessuna delle Costituzioni di Papa Clemente V (f.^l). tre lezioni procede dalle altre, sebbene vi 2. Le Krfrara^aMitf* di Giovanni XXII (f.<> 15). 8Ìeno particolari affinità tra la senese e 3. La Somma de Sponsalibus et Matri- quella del codice parigino 1745. Le due moniis di Giovanni d'Andrea (f.® 17). hanno in comune anche qualche error ma- 4. L'apparato sulle Clementine del mede- nifesto. Del resto avvertirò che nella se- simo (f.o 21). Ed anche le scritture ìnse- nese »i rilevano tracce catalane. rite posteriormente appartengono al celebre

(2) In origine, il codice conteneva: 1. Lo canonista bolognese.

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ss 1\ IxAJXA [oiOirXALK DI F1I.OUKSIA

che ne possediamo. E queste appartengouo tntte e tre al secolo XIV iDoUrato (l).

Invece il serventese ha una data ben certa el assai pia antica. Esso fu composto durante le ultime guerre degli Albiijesi; dopo la morte del re Luigi Vili (st. 6), ma prima che Raimondo VII accettasse la pace e Tolosa aprisse le porte. Dunque, dopo il 10 Novembre 1226, ma avanti l'Aprile, anzi, il Febbrajo del 1229. E possiamo anche ritrarre addietro di alcuni mesi questa seconda data. I Tolosani non avevano ancor veduto il peggio nemmeno quando Gormonda componeva la sua risposta; altrimenti costei, in luogo di contentarsi di semplici augnrii^ avrebbe di certo descritta trionfalmente la loro umiliazione :

Roma, lo reys jjfrans Ques seuhers de dreytura, Ala falses TolzaiiH Don gran malaventura ; Quar tot a sos maus Fan tan gran desnierura , Qu'usqnecx lo rescon, E torbon est mon: Klh comte Raymon, S'ab elhs plus s^isegiira, Noi tenray per bon.

Soggiungiamo che pertanto Guglielmo era tuttavia in patria, allorché scagliava i suoi fulmini; che, secondo attesta il biografo provenzale, fu « quant li franses aguen Tolosa », ch'egli « si s'en vene en Lom- bardia. »

Fin qui si propenderebbe dunque a ritenere anteriore il serventese, e a riguardare la preghiera quasi come una specie di espiazione, offerta da un'anima pia. 0 si vorrebbe fors' anche immaginare che Guglielmo medesimo, invecchiato e ravveduto, componesse questa palinodia, per impetrare il perdono mercé T intercessione della Vergine? Certo Taur tore si accusa più d'uua volta come gran peccatore (2), e mostra di es- ser giunto in quella parte Di sua età , dove ciascun dovrebbe Calar ìe reU e raccoglier le sarte (3). S. 4-5. Ed il ciclo abituale della vita dei trovatori, soliti a peccare in gioventù ed a ravvedersi nella vecchiaja, fornirebbe una conferma ben più che suflBciente a bilanciare gl'indizi di coltura giuridica notati poco fa.

Ma forse can^bieremo opinioue, dopo di aver introdotto nella que-

(l) La poesia occorre ben^ì nel cod. La la Pt^ovcììce , p. 18?, nota 1. VuUière 14 , scritio Intorno al 1300; ma essa (2) V. specialmente st. 21 ; del resto, 2,

vi fu aggiunta un mezzo secolo più tarHi. 5, ecc. V. Mkyer, Les dernicvs Tronbadonrs de (3} St. 19.

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ROMANZA, N." 2]

UN SER VKNTESE CONTRO ROMA

89

stioue qualche nuovo elemento. Ce lo fornisce la Doctriua de compondre dictats: trattatello pubblicato di fresco dal Meyer (1), e che potrebbe bene, almeno quanto alla sostanza, esser opera di Ramon Yidal (2). Vi si leggono certe avvertenze intorno al serventese, meritevoli di molta

atteiizione. « Si volz far sirventz potz lo far en qualque so te vul-

les, e specialment se fa en so novell , e maiorment en 90 de can^o. E deus lo far d^ajtantes cobles com sera lo cantar de que pendras lo so; e potz seguir laz riraaz con tra semblantz del cantar de qne pendras lo so; atresi io potz far en altres rimes. » E piiì oltre: « Serventetz es dit per 90 serventetz, per 90 com se serveix e es sotsmes a aquell cantar de qui pren lo so e les rimes ». Or bene, questa etimologia può ben esser la vera. Certo gli sforzi fatti dai moderni per ispiegare il vo- cabolo avendo riguardo al solo contenuto, sou tutti infelici (3). La prova si è, che conducono a classificare come serventesi molte compo- sizioni, che gli autori stessi od i loro contemporanei chiamano altri- menti; e viceversa (4). Per verità, è una pretesa abbastanza curiosa la nostra, di voler dar lezione dell'arte loro ai poeti del secolo XII e XIII! Specialmente il vers ha mille ragioni di dolersi di noi. Se anche dopo arricchitasi la terminologia, si mantenne e si usò cotesto nome, bisogna l)en dire che, almeno da principio, gli si fosse assegnato un valore spe- ciale. E noi invece crediamo di fargli grazia, conservandolo come una specie di comparsa, senza poi mai lasciargli aprir bocca. Il nostro torto, rispetto a queste materie, vien soprattutto dall' esserci scordati, nella pratica, che la lirica provenzale era poesia cantata e musicata. E spesso una strofa fu prima una melodia, che un testo poetico. Affrettiamoci a riparare alla colpevole dimenticanza, e riusciremo ad intendere molti misteri, impenetrabili fino a qui (5). La stessa colpa s'era pur com-

(1) nomati ia, VI, ?53.

(2) V. le osservazioni premesse al testo daireilitore.

(3) E non meno infelici sono di sicuro le spiegazioni addotte da Antonio da Tkmpo e e da altri. V. il Trattato delle rime vol- gari, Bologna, 1869, p. 147.

(4) Così, per esempio, si vengono ad at- tribuire parecchie canzoni a Bertran de Born, del quale il biografo provenzale ci dice ben chiaro che, anc no fes mas doas cansoa. Aduna di queste saranno appartenute, m'im- magino, le due cable conservateci dal bio- grafo, Alt Letnozis, franca terra corteza. V identica composizione della stanza, e, salvo una differenza minima, le stesse rime, tro-

viamo nel serventese, Poa als baros enoja e lor pesa. Sappiamo oramai che pensare di siffatta corrispondenza. Del resto, ho detto serventese. Il nome é nella tornado. Ma si vorrebbe conoscere, perché nella pri- ma stanza Bertran dica, con apparente con- traddizione,/"arai c/iarwo. Forse gliene dava il diritto Tesser stato egli stesso l'inventore del san t Qui propongo il dubbio. Altrove cercherò di risolverlo, trattando ex professo la materia, che qui mi accade di sfiorare incidentalmente.

(5) Oltre al resto, i rapporti tra i ser- ventesi e le canzoni o i vers, ci forniranno preziosi dati cronologici.

0*

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90 1*. HAJXA [giornalk di filologia

messa, fino agli ultimi tempi, per la lirica antica; e se n'era anche avuta la medesima punizione.

Dunque, insieme col contenuto, è pur da considerare T elemento musicale. E il nostro trattato e' insegna che i serventesi solevano com- porsi sopra una melodia già esistente. Ci vorrebbe del coraggio per dubitare dell* attestazione. Ma vogliamo qualche esempio? Ascoltiamo un momento ciò che Ugo di Saint Ciro dice ad un suo giullare:

MessoDget, un sirventes M'as qu*8t, e donar l'o t'ay Al pus tost que ieu poyrai El son d'En Amaut Plagues (1).

(Rayn., Citoix, IV, 288).

Adesso possiamo intendere anche certe espressioni meno esplicite. Sap- piamo, per esempio, che voglia significare Guglielmo Auelier da To- losa, dicendo:

Ara farai, nom puesc tener, Un sirventes en est son gay Ab bos motz leus per retener.

(Rayn., Choix, IV, 272).

Ma non abbiani forse qualcosa di perfettanieute analogo al principio del aerventese nostro?

D'un sirventes far Kn est son que m\igetì8a , Nom volli plus tarzar.

Le parole del Figueira sono anzi più chiare, e non ammettono ragione- volmente altre interpretazioni. Il poeta ha udito una melodia che gli garba, e s'affretta ad adattarle un serventese. Riflettiamo adesso su questa sua dichiarazione, rammentiamoci la perfetta corrispondenza colla preghiera, conforme esattamente dev'esser ai principii insegnatici dalla Doctrina de compondre dictats, e quindi diciamo se non ne risulti dimo- strato questo fatto: il serventese di Guglielmo è modellato sulla pre- ghiera alla Vergine a meno che questa pure non sia ancella di una dama a noi ignota.

Pur lasciando aperte le porte ad una possibilità siffatta, attenia- moci per adesso al probabile, come se fosse propriamente il caso. E qui avvertirò ancora una circostanza. Le nostre due poesie non hanno iorvada. Ora, una tale mancanza, normale in una laude religiosa, riesce

(\) Snppoiifro si alluda alla canzone lìe volgra mi don s saubcfì , pubblicata a p. 357 i\iA Parlasse Ocriiavicìt, che io non ho scilo gli occhi.

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ROMANZA, N.' 2] UN SEM VENTESE CONTRO ROMA n

air incontro alquanto insolita in una composizione del genere di quella di Guglielmo.

in ciò abbiam solo un nuovo criterio per discernere, posto che i due si lascino soli di fronte uno all'altro, la copia dal modello. Io ci vedrei anche una conferma, che il valore intrinseco deir esemplare non fa il solo movente della scelta. Guglielmo si appiglia a qualcosa, che, nelle circostanze ordinarie, non avrebbe fatto per lui. Gli è che c'era il più amaro dei sarcasmi in cotesto imprecar a Roma nel ritmo e colla melodia d' una preghiera alla Vergine. L' invettiva del trovatore tolo- sano ci sembrava già prima fiera oltremodo: ora ci appare ancor più tremenda. Si fa, in certa maniera, che scenda a tuonare contro il Pa- pato la stessa Maria, la Regina del cielo.

P. Rajna.

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A. OJiAF ]<;h»ijnai,k i»i l'iLoLfuiiA

DI UN POEMA INEDITO

DI CARLO MARTELLO E DI UGO CONTE D' AL VERNI A

La Biblioteca Nazionale di Torino possiede, manoscritto, nn cu- rioso monumento di epica cavalleresca, e per la storia, in più particolar modo, della diffusione di quella poesia in Italia, importantissimo. È questo un poema di circa quattordicimila versi, scritto in un dialetto veneto molto meschiato, e in così barbaro stile da tornare alcuna volta assai malagevole levarne il costrutto. L'argomento trattato in esso è una storia di Carlo Martello e di Ugo conte d'Alvernia, assai poco dif- fusa nel mondo dalle finzioni romanzesche.

Il manoscritto (1) contenente il poema è un in-quarto non molto gran- de, cartaceo, di fogli 181, sebbene la numerazione non ne segni che 179. Questa diversità è causata da due errori: una reduplicazione del f. 43, e una inversione e reduplicazione dopo il f. 61, dove i numeri proce- dono così: 63, 62, 63. L'inversione è dei numeri e non delle carte. In fondo sono tre fogli bianchi non numerati. Le guardie son di per- gamena tracciata di note latine scritte in sul finire del secolo XIV. Il poema comincia al verso del primo foglio, il quale è la più parte oc- cupato da una rozza miniatura, rappresentante, nel mezzo, Carlo Martello, vestito di tutte l'armi e coronato. Nella parte inferiore della prima faccia del foglio 2 è dipinto uno scudo di forma ovata, bipartito oriz- zontalmente bianco e rosso, e con suvvi un leopardo rampante. Nel corpo del volume son altre miniature, tutte più rozze delle prime, e in più luoghi mancano, dove il luogo loro è segnato da una inquadratura vuota. Le iniziali dovevan essere colorite, ma fan difetto presso che sempre, e solo qua e ne appajono alcune segnate con la grafite. Il sesto del volume fu ridotto alquanto, probabilmente allorché venne ri- legato nella forma che serba tuttora: per questa riduzione rimasero stagliate fuori le cifre della numerazione primitiva, di cui qua e ap- pariscono i tratti inferiori. La numerazione presente è posteriore alla scrittura del libro, come son posteriori alcune correzioni sparse nel testo,

(1) Contrassegnato ora N, III, 11).

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B01IAN2A, N.« 2] Bl UN POEMA INEDITO irò

segnatamente in principio. La scrittura è trascurata e frettolosa. Sino al f. 119 y. le pagine contengono, in media, quaranta versi; da indi in poi non più di trentadue o trentatré, con ispaziature maggiori, e di migliore scrittura. In fine è la data:

Ternus amen de . 1441 . die .6 .de febrar

H poema è composto di strofe libere eguali alle laisses francesi. I versi non hanno alcuna misura ne ritmo, e ora si prolungano sino ad avere venti sillabe, ed ora si raccorciano ad otto. Rime e assonanze non si trovano se non per caso, e come nessuna cura fu posta dal poeta al verso, così nessuna cura fu da lui posta alle omofonie, negligenza che deve parere singolarmente strana in un poema di forma al tutto plebea. Gli andamenti sono quei medesimi delle chansons de geste: vi si trovano le solite esortazioni agli uditori perché si facciano attenti al racconto, le solite stranezze circa la nobiltà della storia che si recita loro, le solite citazioni della storia, del libro ^ dello scritto^ deìVaiUorey che attestano e provano la verità della narrazione. Insomma il poema è, sotto ogni rispetto una chanson de geste ^ salvo che al francese s'è sostituito un dialetto veneto.

Se nulla di nuovo presenta la forma del poema, una gran novità presenta, per contrario, il contenuto. Qui non sono più i temi soliti delle vecchie epopee cavalleresche, guerre tra saraceni e cristiani, pugne di cavalieri, innamoramenti; o se pur sono, vi tengono poco luogo, e hanno secondaria importanza. L*azion principale eccede gli ordinari! confini del mondo cavalleresco, anzi eccede a dirittura i confini del mondo umano e presente. Essa s' inquadra tuttavia in uno schema i cui elementi appartengono alla suppellettile solita delle finzioni eroico- romanzesche, e tutto il poema mostra, quanto a struttura, una note* vole somiglianza con VHuon de Bordeaicx, ove, del pari, un'azione au- tonoma e propria si distende fra termini fissi che hanno poca attinenza con essa, ma che le servono di cornice.

L'argomento è, per darne ora solo una indicazione, il seguente. Carlo Martello, volendo sbrigarsi di Ugo conte d'Alvernia, della cui moglie Inida è innamorato, gli ordina di recare un suo messaggio aU l'inferno, e di ordinare in suo nome a Lucifero, di riconoscersi vassallo dell'impero e di pagar tributo. Ugo compie, dopo infiniti stenti, la difficile inpresa, e ritorna in Francia sano e salvo. Carlo Martello, su cui s'aggrava finalmente la giustizia di Dio, è portato via dai diavoli. Questo Carlo Martello non è quel della storia, ma bene quello della leggenda, che spesso lo scambiò con Carlo il Calvo (1), come, nel Girart

(l) Il simile occorre nella leggenda te- il Salico, e insieme si confusero fatti del IX, d^sca del duca Ernesto, dove si scambiò X, e XI secolo. Ton per l'altro Ottone il Grande e Corra«lo

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1»4 A. (rllAF [giohxalk di FILOI-OC.IA

de Rossillon, e nelV Heruis de Meh. È noto che nella genealogia dei Beali di Francia (1. V, e. 9) Carlo Martello è fatto nipote di Carloma- gno. Non è qui il luogo di ricercar le ragioni di questo scambio (1), e del carattere odioso che dai troveri viene attribuito a quel principe (2); ciò che si vuol notare si è che nel poema la perversità di Carlo è fatta maggiore che mai, e che da ultimo, incontra il meritato castigo. Senza alcun dubbio il poema, quale il manoscritto ce lo presenta, segna l'ul- timo stadio di una evoluzion leggendaria, la quale cominciò forse col Girati de Itossillon. Che poi il Carlo in esso introdotto sia veramente Carlo il Calvo è più che dimostrato dal poema medesimo, dove si ricorda Carlo Magno, dove si fa apparire T ombra di Guglielmo d' Grange, e si discorre di sant' Orlando, dove, infine, si fa salire al trono di Francia, rimasto vuoto, un Guielmo Zapeta, il quale altri non è che Ugo Capeto. Di questa storia vi sono parecchi testi in Italia: uno è quello di pui discorro, un altro è in un codice padovano, e tutt'a due sono ine- diti; un terzo di Michelangelo da Volterra, autore di una Incoronazione di He Aloysif inedito ancor esso; un quarto di Andrea da Barberino (3). Un testo da tutti questi diverso, e scritto in lingua che trae al vene- ziano, fu stampato a Venezia nel 1506, e a Milano nel 1507 (4). Il Ter- rario non ne ha, pare, conosciuto nessuno, perché di nessuno fa ri- cordo. Il Graesse (5), fa cenno della leggenda, ma non conosce altro testo che quello da me citato per ultimo, e ne parla come di leggenda italiana. Che la leggenda facesse parte di un ciclo maggiore, e che avesse forse connessione con Y Ajolfo^ il quale altro in fondo non è che V Aiol e 3Iirabel (6) francese, si può in qualche modo arguire dal fatto che gli autori delle due versioni d^ Ajolfo che si hanno a stampa, scris- sero tutt' a due una storia di Carlo Martello e d' Ugo conte d'Alvemia (7). Non pare che di quest'ultimo esista piii nessuna redazione francese, sebbene siaci stata in origine. Guiraut de Cabreira, nel suo famoso Ensenhamen rimprovera a Cabra di non conoscere quella istoria. Tut-

(1) V. Gaston Paris, Ilistoirc poétiqne (7) Carlo Martello ricomparisce nelK-f^jW- de Charlemaffììc , p. 438. fo. V. la prefazione al testo in prosa Ax-

(2) V. Faurirl , Ilistoirc de la poesie drea da Barberino, pubblicato nella Colle- provengale , v. II, p. 259. sione di opere inedite o rare del Roma-

(3) V. Ha JNA , Le Fonti deWOrlando Fu- gnoli , Bologna , 1863. Taglio corto ad alcune rioso^ p. 462. considerazioni che qui cadrebbero in accon-

(4) Mklzi, Bibliografia dei romanzi e ciò. Il Professor Rajna Milano è da più poetili caraìfereschi italiani, seconda edi- tempo, come da lui medesimo ebbi a sapere, zione, p: VX attorno a un lavoro sui testi e sulle versioni

(5) Die yrossen Sayenkreise des Mitt- della storia di l^go d'Alvernia, e poiché egli elftfters , p. 2S}<. è intendente di queste materie più di chic-

(6) Piihììlii^ato dal F(»ksthr. Ileilbronn, chessia ragion vuole ch'io m'astenga dal 1876. mettervi le mani.

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ROMANZA, N." ^1 DI UN POEMA INEDITO 95

tavia io non credo che nel XII secolo essa fosse di già pervenuta al grado di elaborazione fantastica in cui ce la presenta il manoscritto di Toriuo. Forse non sarebbe cattiva congettura quella che attribuisse alla storia di Carlo Martello e di Ugo una sorte. eguale a quella cui soggiacque la storia d'Huon di Bordeaux, la quale esistette in forma molto pili semplice, e molto più rispondente allo spirito severo dell'epica primi- tiva, che quella non sia delle versioni sino a noi pervenute (1). La versione della storia di Carlo Martello e di Ugo, quale, con leggiere di- versità, noi abbiamo nei varii testi esistenti, dev'esser frutto di un lungo processo di elaborazione, e non parmi si possa fare più antica del secolo XIV. In principio tale istoria dev' essere stata alcun che di simile alla storia di Girart di Rossillon, e il suo intendimento quello di ritrarre le lotte del feudalesimo e della monarchia, lotte che non si prolungarono, in generale, oltre il regno di Carlo il Semplice. La ces- sazione di quelle lotte togliendo alle cJuinsous de geste che le narravano significazione e attrattiva, fece nascere il bisogno delle variazioni e delle amplificazioni fantastiche. Che quella versione non si possa far più antica del secolo XIV, è, del resto, provato da alcuni luoghi del poema nostro, ove di sfuggita sì, ma in chiaro modo, si appalesa la imita- zione della Divina Commedia, Ma di questo farò parola più oltre.

Come appena si sia data una scorsa alle prime pagine del testo, e notata la partizione strofica, alla quale contraddice il difetto della rima, nasce un naturale sospetto che il testo medesimo altro non sìa che una traduzione, e con poco esame si scopre esser questa appunto la verità. 11 manoscritto ci porge una grossolana versione di un testo francese. Il Pasini, il quale descrisse brevemente il codice, e recò una quaran- tina di versi con parecchi spropositi (2), ebbe ad osservare la rozzezza ed il disordine della verseggiatura, ma non s'addiede punto di ciò che si celava sotto. Ponendo alla fine dei versi, i quali, ho detto, non ri- mano se non per caso, in luogo delle voci italiane, le voci francesi cor- rispondenti, riapparisce di tratto l'ordine delle rime. Valga l'esempio.

Apresso Ruzero aue parla Terise: Teiris

« dona fate, lo re de Parisse Paris

per grande amore n'a quy yntramise, iramis

si noie puro onorare vuy e li marchese: mar quia

ben lo douite fare, caro el è suo amicho. » amis « vero, » dize Ynida, « me Tun l'altro porta ynvidia. » envis

quelo d'Aubespine, el coverto malizioso, maleis?

dize lo coverto: « Dona non esere falìto. falis

honorate el vostro signore e U mio ansie : aitisi

(1) V. Romania, III, 110.

(2) Mamiscript, codd. bibliothccae rcgii T aiir in en s is Athenaci pars altera, \iA\\.

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OQ A, GB.AF [ojoBXALE di filoloolì

a questo se contare che vay Pauite yntrameso. » tramis

« malvase, » dize la dona, « per la gola mente; menti (1)

che più amo el mio signore che ly ochy del mio vixo. vis

che auite dito ? seria mai amatito ? (2) amatis

trateue yndrè, malvase omo chatiuo, chaitis

che m' anite dito ? che nula bontà non auite. »

e luy tosto ne fo (ne fo) repentito: repentis

« nuy conosemo ben che vostro deleto. » ddis

coluy se trase yndreto de vergogna se represe, reprist

e prese parole Berlenzero lo marchese, marqìtis

a bona fede dize, senza malvasa yntenzione. non envU

dove non ho supplito il vocabolo francese, si potrebbe pur fare, alterando alquanto la disposizion del verso, e ponendo in fine che m'avUe dito? dit. Un lavoro fatto di restituzione delle rime si potrebbe, con poca fatica, allargare a tutto il poema.

Alcuna volta toma anche agevole una restituzione intera del testo, in modo che paja abbastanza fedele. Ciò facendo, si scopre, come del resto era da credere, il verso dell' originale francese essere stato il de* casillabo epico. Esempio:

Testo Italiano:

« Signore, » dize la dona, < entendite per amore,

mal fa zascun chi a piata de loro,

anzi le douerise apichare senza demore;

ma en reverenzia del verase criatore

la morte li demeteremo per suo amore.

me ano vergogna, li faremo vergogna e desenore. >

domandare feze la dona .4. soy seruìdore,

e chely s' apresente amantinente senza demore:

« che comanda, madona? » et ley dize a lor:

« fate despoiare tuty quy anbasadore

nudy; non ly lasate senza nulla yntorno, »

coloro responde: « madona, al vostro volere. »

a la sala vene amantinente senza nul demora,

cridando : « a la morte, a la morte tuty y traditore !

non porà scampare el vostro grande ynperadore. >

Restituzione :

« Signour, » dist la dame, » entendes par amour; Mal fait cascuns qui a pitie de lour; Ains les devries faire pendre sans demour; Mais en Thounour del verai criatour

(1) Passato composto. (2) 11 niss.: amatita.

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ROMANZA, N.- 2] DI UN POEMA INEDITO 97

La mort lor demetrons par son amour. Honie m'ont, si aront honte et deahonour. » La dame fist mander .4. siens servitours, Sempres 8ont cil venu sans nul demour : « Dame, que mandes? » et eie a dit à lour: « Faites despoillier tuta cìls ambassadoar, Nuts les laisies, sans nule chose entour. » « A vo voloir, » fu respondu de lour. Vienent en la sale, sans faire nul demour, £n criant : « A la mort tuta les traitours ! Ale n'ares del grant empereour. »

Ammesso che la versione della leggenda contenuta nel poema non sia la versione primitiva, e riconosciuto che il testo nostro è una tra- duzione di un testo francese, dove si dovrà credere che questo sia stato composto, in Francia, o in Italia? e T autor di esso, il quale ci è in- teramente sconosciuto (1), fu egli francese o italiano? A queste do- mande non si può dare certa risposta, e solo, da alcuni indizii, si può trarre argomento di giudizio probabile. La res tituzion delle rime, che io feci in molti luoghi del poema, non mi diede se non forme corrette, e non m'avvenni mai, salvo che in tre o quattro casi soltanto, de' quali non sono tuttavia abbastanza accertato, in alcuna di quelle forme spurie che sono caratteristiche dei poemi franco-italiani, non esclusi i piii cor- retti, quanto a lingua. Debbo per altro confessare che questa parte ri- chiederebbe un esame più diligente e più ampio che io non feci. Ad ogni modo la correttezza delle forme è tale da far credere come più pro- babile che l'autore fosse francese. Ciò si potrebbe anche argomentare dall'amore grande ch'esso mostra d'avere ai francesi, i quali in più e più luoghi del poema* sono dichiarati i più valenti ed onorati uomini del mondo. In fine del poema è narrato come il titolo d'imperatore passasse dal re di Francia a quello di Germania, e tale narrazione è fatta con linguaggio troppo avverso ai tedeschi, e troppo favorevole ai francesi perché non paja che l'autore dovesse esser francese egli stesso. Io inclino dunque a crederlo tale, ma stimo d'altra banda ch'egli di- morasse in Italia e componesse in Italia il suo poema. Di ciò sono al- cuni indizii, su' quali non vorrei tuttavia insistere troppo. L'autore mo- stra d'avere dell'Italia una cognizione che, a petto di quella che ne so- gliono avere i troveri, può ben chiamarsi esatta: egli sa, per esempio, che il Tevere divide in due parti la città di Roma. In due luoghi, i quali, secondo è provato dalla restituzion delle rime, appartengono co- stitutivamente al testo francese, si fa menzione della teriaca, medica-

ci) Una sola volta si trova ricordato un Ondinelo, il quale è detto autore del romanzo; comor devissa Ondinelo yn questo roman,

7

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98 A. GlxAF [giouxale di filologia

mento il quale si usò bensì un tempo in tutta Europa, ma che in nessun altro paese fu divulgato tanto come in Italia, e che in Venezia si ma- nipola ancor di presente. In un altro luogo si parla di tera comtma, cioè di terra che si reggeva a comune, e questa è cosa in più parti- colar modo pertinente all'Italia, sebbene nel mezzodì della Francia vi sieno stati comuni. Poi si trova fatta menzione dei paterini, i quali pri- mamente formarono la lor setta com' è noto in Milano, e sparsisi dipoi in varie contrade d'Europa, presero altri nomi, e quello conservarono più particolarmente in Italia. L' odio grande che V autore professa ai tedeschi, i quali sono rappresentati avidi, rapitori, e senza fede, non mi pare che potesse nascere se non in chi fosse stato spettatore di qual- cuna di quelle famose discese, o scorrerie, degl'imperatori, che così vivo e così tristo ricordo lasciarono in alcuni canti popolari dell'Italia set- tentrionale. E probabilmente chi mostra d'aver tanta avversione ai te- deschi doveva vivere fuori del dominio di Venezia. In fine del poema è narrato un caso che naturalmente si lega alle dissensioni tra la Chiesa e l'Impero che per lungo tempo afflissero l' Italia, e la narrazione è fatta di maniera che l'autore si chiaramente a conoscere per guelfo. Le tracce d'imitazione della Divina Commedia accrescono probabilità alla congettura che il poema sia stato composto in Italia, sebbene la maravigliosa rapidità con cui l'opera di Dante si diflFuse per l'Europa, non permetta di dare ad esse il valore di prova. Checchesia della pa- tria dell'autore e del poema, certo si è che il testo nostro è una in- forme traduzione di un testo francese, il quale fu di gran lunga più colto nella verseggiatura.

La lingua del testo nostro è il più strapagante mescnglio che si possa immaginare. Il più grosso è veneto senza debbio, ma veneto di più sorta. Non è un dialetto specificato e distinto, ma un'accozzaglia di dieci dia- letti. Quello che meno vi domina, specialmente nelle forme del verbo, è il veneziano propriamente detto; gli altri, dal padovano al bergamasco, vi si trovan tutti. Questo punto meriterebbe d'essere studiato di pro- posito da persona in particolar modo versata nella dialettologia italiana. Oltre a ciò vi si trova dentro una farragine di voci prese di pianta dal francese e stranamente fatte italiane, e non s'intenda di sole voci in- solite, ma anche di usualissime, e di quelle stesse dei verbi. Di tali voci ho fatto una copiosa raccolta, e la darò dopo l'analisi del poema.

Qual congettura si può egli fare intorno alla patria del barbaro traduttore? era egli veneto? era egli italiano? Anco questo è un punto su cui non si può venire a conclusione certa, ma solo a probabile. E' mi pare anzi tutto che se il traduttore fosse veneto egli dovrebbe parlare una lingua meno ingarbugliata, meno incerta, dovrebbe, cioè, parlare il dialetto suo proprio. Da altra banda, s'egli fosse italiano di qualche altra provincia non dovrebbe mancare nel suo mescolato linguaggio al-

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ROMANZA, N. ' 2] DI UN POEMA INEDITO 99

can eleraeuto trattovi dal dialetto proprio di quella provincia. Inoltre, quand'egli fosse italiano, (nulla importa se veneto o che) non ci sa- rebbe, parrai, verso d'intendere, qual ragione l'abbia potuto spingere a fare così largo uso di voci francesi, anche quando più naturalmente egli doveva trovarsi in bocca il vocabolo della lingua propria. Non po- trebbe il traduttore esser francese? Ciò ammettendo si spiegherebbe l'uso di quelle voci, si spiegherebbe la incomparabile barbarie dello stile, si spiegherebbe la natura eterogenea della lingua da lui adoperata in quella parte che si può chiamare italiana. Ma qui ci troviamo di- nanzi un fatto che non può accordarsi con quella congettura. Il tradut- tore pare che intenda, alcuna volta, assai male il francese. Lascio stare che qua e certe frasi inintelligibili sembran derivare da una falsa in- terpretazione del testo, e reco un pajo d' esempii dove a dirittura si vede che non fu inteso il vocabolo. In una serie in il verso e il senso vogliono herbe drue^ e il traduttore pone erba dura. Altrove foudres è tradotto per frotide: avrebbe il traduttore letto fondres nel testo, e cre- duto fosse quello il significato? Altrove prière è ir Sidoito parechia^ e via di questo andare. Tali casi non sono tuttavia molto numerosi, e si può credere che sieno piuttosto eflFetto di trascuratezza che d' ignoranza.

Questa poteva del resto, alcune volte, cadere, non sul vocabolo fran- cese, ma sull'italiano, di cui il traduttore non conosceva forse il signi- ficato preciso ; e spesso anche un inganno della memoria poteva fare che costui attribuisse al vocabolo italiano un significato che non gli si ap- parteneva. Quanto al mescuglio di elementi eterogenei onde resulta la lingua del traduttore, si può spiegar di leggeri. Costui, girando di citta^ in città, veniva raccattando voci proprie dei particolari dialetti che in quelle si usavano, e accozzandole insieme ne formava un centone, il quale, dove più, dove meno, potev' essere inteso da tutti. Egli è del resto da dover credere che un simil caso si ripetesse più volte, e che non procedessero altrimenti i giullari francesi che venivano a esercitare il loro mestiere in Italia, sulle piazze e pei trivii.

Nel nostro poema due elementi ideali primeggiano: la devozione, che mai non vien meno, del vassallo al suo signore; un sentimento re- ligioso che rasenta l'ascetismo. Uno spirito di ventura indipendente non vi si trova, sebbene il Conte Ugo sia chiamato in un luogo chava- lero erante, e sebbene le avventure da lui incontrate sieno delle più strane che immaginar si possano. La devozione del Conte al re è tale, che, non solo egli si accinge, per obbedirlo alla inaudita impresa, ma poi, viaggio facendo, per disagi che s'abbia, e pericoli in che s'abbatta, non vuol ritrarsene, e dissuaso dal papa e dal prete Gianni, e prosciolto dal suo giuramento, vi persevera tuttavia. Egli respinge con orrore le offerte dell'imperatore Enrico e di altri principi che volentieri gli da- rebber soccorso contro Carlo Martello, e istruito della frode di costui,

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1<X) GRAF [giornale di filologia

nega in sulle prime di darvi fede. Compiuta T opera, e tornato in Fran- cia, dove trova la città sua assediata, egli, senza smuoversi un punto dalla fedeltà sua, va a dar conto al re del messaggio, a recargli il tri- buto di Lucifero, e a offrirgli in ginocchio la pace. Questo esagerato sentimento di fedeltà contrasta in istrano modo col sentimento baldan- zoso del proprio diritto, che troviamo in Girart de Rossillon, e supera di gran lunga quello che si può riscontrare in Rinaldo di Montalbano, o in Girart de Viane, i quali, pur guerreggiando col re loro, serban per esso amore e rispetto. 11 sentimento religioso da cui Ugo è domi- nato è piuttosto sentimento da frate che da guerriero, e gli una strana e ridicola somiglianza col pio Enea e col pio Goffredo. Egli rifiuta du- rante tutto il viaggio ogni cibo che non sia di radici, si chiama pec- catore ad ogni momento, sebbene il papa e il prete Gianni l'abbiano dichiarato il più candido e santo uomo che viva, si segna ad ogni pie sospinto, si flagella, si percote co' sassi senza una ragione al mondo, recita salmi ad ogni ora, de' quali sono riportati in un lercio latino i principii, piange finalmente e si rammarica molto più che alla qualità sua non convenga, e al portentoso valore di cui tante prove. Ho detto poc' anzi che nel poema non si trova un vero spirito di avventura : i casi maravigliosi che vi tengono tanta parte, non sono incontrati dal Conte per amore del mestiere, per bizzaria cavalleresca, ma perché, a voler compiere l'impresa commessagli dal re egli è forza incontrarli. Il conte Ugo è un non so che di mezzo tra il vassallo, il cavaliere, il terrazzano ed il frate.

Mi volgo ora a recare alcuni passi e a dare una succinta analisi del poema. Esso comincia cosi :

El tempo de mayo, quando el fiorise le prade, tute reuerdise li erbe «elle arbosele, et yn amore vene molte mainare d'osele, perzò cantano, e fano li sony molto bele, tute ynsemele fano done et donzele, che per lor deleto entrano yn zardine, tute le polzele ensemele com zovenzele, de fiore e de rosse zascun se fa capele, se sy sbaldise per che amore li astrenze. en pentacosta, quando caualere nouele (1) desirano zostra e fare merauiose zambele, el steua en Franza un re molto crudele, selon che mostra cronicha ordenata, che hognomo T apela lo re Carlo Martelo. gran corte tenea che homo non la uite za tale, che una cessa adopra el ben com felo,

(1) Corretto a sproposito: ci cavalerc nordo.

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«oMANZA. X." 2] DI UN POEMA INEDITO lol

qoando vn suo senio el oaza de eoa casa, e se Tenvia a querire trabato a Luzifero, et a cerchare la casa ynfernale solo per avere laida dal corpo belo.

Oldite, signore, che dio ve benedicha, bona canzon dire ve uolo de soy antesore del fio del re Lois che Franza avea yn balia, ohe Carlo Mariolo fo anomà a tuta soa vita, quel Carlone fo de molte gran nomenanza: de tute le tere che elio auea yn soa balia doncha non perde zamay un sol pede. per son argollio e per soua lezeria molte stranie tere el n^aue aqnerire, tanto che luy li aue soto soua segnoria tuto el mondo, et (non è) yn la pagania Tobediseno; non è sy ardy che a luy desdiga quando luy vele fare soy comandamento, e s^el volese mandare per soa gran baronia, senza longo termene meno yn balia .V. cento milia homene de bona zente ben guarnita, senza li pedone e tute li bone arzere, che la rota non porla aver miga. per zo che lo re se sente tanto auanzare più che adoncha non fo sy antiche miga pili orgoioso ne fo et più che zudeio; a torto el tele altruy Tauere et altruy el deserta, et molte dono a vergogna et hodiate; et perzò non ò miga dala zente agab^, anzo li era la zente dola contri. (1)

Za fate paze et atendite, signore, de Carlo Mariolo che fo yraperadore, che yn suo tempo conquistò tanto onore: come più el conquistò più fo crudele tute ore, a re, a prinzipo, a duca, a ualuasore, a conte, a marchese, baron dentorno che noi serua per dotanza o per amore, al re vene talenie et yn coro vn zomo del tuto vedere de soy homene lo miore, lo quale auea più forza et più valore, conseio presse al conte da Luzenborgo, et a Ruzero lo sere de Nanie ancora, yn qual mainerà le pork elio vedere, queste respondeno : « fate bandire per tuto ynioma the el non romagna li grande ly menore, che tene da ty feu, tere, honore; che a pentacosia vegna tuty a toa corte,

(1) Qnì manca qualche cosa.

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1^*- A. GEAF [<;ioR\ALE di filolooia

e zascuD mene sego eoa filia, ho soa vsor,

ouer cosina, ouer mene soa sorela;

e chi a polzelo tu trouaray signore,

et anch' a le maridà tu faray grande honore,

et anchora faray dy chavalery più e più,

et lor adobaranse de bon drapo de colore,

e quily che non virano si perderano tuo amore. >

alora feze domandare presto li bandidore,

e luy li comandò, li feze chaualcare dentomo,

e bandise la corte da parte de lo 'mperadore.

Bandita la corte accorrono d'ogni parte i signori, e fra questi Ugone con la moglie Inida, e molto parentado. Si fa una giostra, si festeggia, e Carlo, veduta Inida, perdutamente se ne innamora. Le repulse di costei accendono maggiormente i suoi' desiderii. Tre giorni passa egli rinchiuso nella sua camera a disperarsi, non osando fare ol- traggio al conte, e non riuscendo a vincere la propria passione. Final- mente il menestrello Sandin gli suggerisce uno strano partito : si mandi a chiamare il conte, gli si faccia giurare obbedienza e fedeltà, e poi gli si ordini d'andar difilato all'inferno a chiedere, in nome dell'im- peratore, tributo a Lucifero. Se questi non vi si piega l'imperatore gli moverà guerra. Così si fa. Saputo a quale impresa il re lo destini, Ugo si turba e contrasta alquanto, ma forzato dal giuramento cede al crudele comando, e si prepara a portare in inferno, a quél felloii Lu- isifero^ il messaggio e il suggello imperiale. Raccomanda al re la donna sua e il suo avere, e quegli lo segna ^ lo benedice, come Carlo Magno benedice Ganellone nella Chanson de Roland. Si fanno le dipartenze: Ugo, co' suoi, torna in Alvernia, e, dopo. una festa, annunzia loro il volere di Carlo. Inida si dispera, e svela al marito i procedimenti del re di cui aveva insino allora taciuto. Ugo accoglie assai malamente queste rivelazioni e le crede calunnie :

Una yra li sorprende, lasa lo pie andare che luy la fa auale contra tera trabucare, che per [p]ocho che non li feze al ventre alora crepare; may, quando el la uite a tera spasemk e chazù estare, gran pietà li prese, si la susa a leuare.

Ugone fa testamento, conforta la moglie, prega i suoi d'aspettarlo sett'anni, poi, nel cupo della notte, mentre tutti dormono, si leva, si arma, monta a cavallo, e ponsi in viaggio verso l'Ungheria.

Al caminare el conte Ugon s'è metuto, de zorno en zorno al nome Yhesù, (1)

(1) Corretto malamente : al nome de Yhesù.

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iu)MAN2A, x.«> 2] DI UN POEMA INEDITO 10.}

.de tera in tera, sopra lo caual corente, tanto che yn Ongarìa si è arriuà e venuto, al grande palazo, a la schala si è desenduto, e posa domandò onda el re d' Onj^aria el fo ; alcun dezea sopra el suo palazo el stasea. presto montò ch'el n'aue più aspetta, lo re troaa cVauea vn conscio aduna, davante s'aprosima quando el Tane conosuto, luy lo saluta et aue (1) suo sermon dito, lo re lo conose che ben Ta recente , dizendo: « ben vegna mio amico e m[i]o druto. quale la chasone per che site venuto? zo che domandate, se puro auerò posanza, tuto a bandon a vuy averazo metuto. »

Ugone rifiuta le armi che il re d'Ungheria gli offre per andar contro Carlo, e si parte, e in capo di tre mesi giunge a Roma. Quivi, come Huon de Bordeaux, si confessa all'apostolo, cioè al papa, che dichiara di non aver mai trovato in saa vita men pecadore homo, e tenta dis- suaderlo dall'impresa, promettendogli di scomunicare, quando occorra, l'imperatore, e di prosciogliere i sudditi di lui dall' obbligo di fedeltà:

e tute sue tere contradire li faremo.

Ma Ugone sta saldo. Allora il papa lo manda al santo sepolcro, per ben preparsi, con quel pellegrinaggio, all'ardua impresa, e gli un pezzo del legno della croce,' il quale, finch'egli l'abbia indosso, non lo lascerà morire senza penitenza, e lo avvolge in un bel drappo di seta, e gli empie la tasca di ostie consacrate. Il conte s'invia verso Calabria, e, cammin facendo,

de grande astenenze suo corpo sazia,

passa il mare, e va a Tunisi. Egli chiede a quanti incontra notizie de' paesi infernali, ma non trova chi gliene sappia dire. A Tunisi si confessa a un priore, e poscia riprende, con una nave di pirati, il viaggio verso Gerusalemme.

Qui comincia una serie di strane avventure che poca attinenza hanno col soggetto. Gerusalemme è assediata dall'imperatore di Costantino- poli, che ha seco tutto il suo parfor^Oy piiì di centomila cavalieri, senza ìa pedonaia e li nobili ardere. Una grande battaglia è impegnata fra cri- stiani e saracini: Ugone, co' suoi pirati, vi si caccia dentro, in quella appunto che i cristiani cominciano a piegare, e mutata la sorte del- l'armi, sconfigge gl'infedeli, e li costringe, indi a poco, a cedere la

(1) acca.

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104 A, GRAF [giornale di filologia

santa città. Oflfertagli dall' imperatore la corona di Gerusalemme, egli ricusa, e ricusa similmente il suo ajuto per menar guerra a Carlo; ma si fa condurre al tempio de Salamon, e prega, dopo avere accesa una candela al santo sepolcro :

signore dio padre, per tuo santisimo nome,

chi feze celo e tera e U mare per deuisione,

bestie et osely, aue dolze e pessy,

fazisty Adam, Ena, e li monty,

a guardare li donassy lo terresto casamento,

a Iny et a soa dona, che li trazise dal fidatone,

tuty li abandonasty fora vn fruto, quel noe,

e se li comandasy che tocare noi douese,

che Tera el fruto de mortai casone,

et apreao questo che de luy insesemo,

dizendo a loro : « non tocare che tu faray danazione. » (1)

apresso li donassy tute el seno del mondo,

el male e U bonne li mostrasy a bandone :

« perché sey fato a mia imagina la bontà io te dono,

de le cose terene e de tute le cose ohe 11 sono

si longo comò viuiray (2) lo merito te dono:

fin a quy aoeray mia benedizione,

aneray zo che te piase senza con tradì re. >

E così per altri venticinque versi. Terminata la preghiera, vien giù un colombo con una scritta nel becco, dove a imperator di Geru- salemme è designato Danfroy, figlio dell' imperator Grifone, e dove si esorta Ugone a seguitare risolutamente l'impresa.

Pianto da tutti, da tutti abbracciato, Ugone si rimette in camino^ e il poeta riprende con più ardore il racconto:

Quando olderite canzon avenable, quy non trouarano menzogne fable, me denoie, et ancora questa istoria venable. (3) questa si ò vna ouera asay deletable: de gran pene el è sta ben visitable, de prodeze et onore et asempie comunable, de gi-andl afany sofry quando Pera besognable, n* atende onore, nb alcun ben mirable. chi n'abia guerdedon dal signore spertuable: pregate per Ugon lo franche sififnore aluernable, chi feze tal via lo caualero mirable.

Poi stranezze d'ogni fatta: tempeste, fiere, un drago che fìama de

(1) Questo verso deve forse anteporsi al (2) vhitroy.

precedente. (3) auenahle?

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«OMAJWA, N.« 2] DI UN POEMA INEDITO 105

fogo él btUa per nare e per de dre^ selve piene di serpenti orribili, fan- ciulle saracine naufragate e battezzate da Ugone, diavoli prigionieri, regine liberate dalle mani di vassalli infedeli, popoli Convertiti al cri^ stianesimo, città conquistate, imperi fondati. Un leone da Ugo difeso contro un drago, gli si fa seguace; ventura tolta forse dal Chevàlier au Lyon. Una delle fanciulle saracine battezzate da Ugone riceve da costui il nome, celeberrimo nei fasti della poesia cavalleresca, di Dru- siana. Durante tutto questo tempo il buon conte plura^ signa sito visso, se chiama pecadore^ e alterna il canto dei salmi con l'opere della spada.

Dopo alquanto altro tempo giunge al paese del Prete Gianni, il quale non ba ancora sua sede in 'Abissinia come nelle più tarde leggende, ma nel cuore dell'Asia (1). Egli lo trova in una chiesa fra quattro re, cento conti, sessanta marchesi, quarantadue duchi, più di dugento tra vescovi, arcivescovi e cavalieri, e altra eente yn gran frota. Gli con- fessa i suoi peccati, gli racconta la sua storia. Prete Gianni, al solito, cerca dissuaderlo, gli oflfre onori, ricchezze, impero, ma tutto rifiuta il conte, e dopo alquanti giorni si rimette al suo viaggio.

Qui il poema, di cui si è svolta infrattanto la terza parte, lascia Ugone, e torna a Carlo Martello. Per non allungarla di troppo basterà dire che Carlo manda suoi messi a luida per sollecitarla a venire a coite, che Inida risolutamente rifiuta, e fa punire con grande sfregio gli ambasciatori, e che ne nasce una guerra la cui narrazione manca al poema. Una nota ne fa avvertito il lettore: mancha quy corno Carlo Martelo andò a champo.

Ugone intanto naviga sul Tigreso (Tigri), e non gli mancan ven- ture. Stermina belve crudeli, capita in una città popolata di diavoli in forme di donzelle, e la castità sua è messa a duro cimento; dalla città che avvampa tutta al nome di Gesù da luì pronunziato, lo traggon gli angeli; pugna con uccelli grandi, che han molta somiglianza coi roc delle leggende orientali, poi con uccelli piccoli le cui bezzicature sono mortali; incontra mostri metà uomini e metà pesci, e uomini con due teste. Finalmente viene a un monte infiammato da cui si levano la- menti: eccolo giunto all'inferno, cioè ad un reame dell'inferno, secondo gli dice un messo celeste che si trattiene alquanto con lui. Ajuta due grifoni contro un drago, i quali si fan suoi compagni, e gli fan vali- care l'acque e i passi più malagevoli levandolo in aria. Qui il poeta ebbe a ricordarsi del viaggio aereo di Alessandro Magno. Incontra una turba di dannati, fra cui sono Caino, Cam, Faraone, Giuda, Erode, Gano. Procedendo più oltre giunge al monte Ararat su cui è V arca di Noè, e dove Noè e Adamo, coni alfry homeny santy, vengono a far

(1) V. la notizia premessa dal D'Avezac alla Relation des Moì^gols ou Tartares di Jean du Plan de Carpin.

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106 A. GEAF [OIOBNALR DI KILOLOOIÀ

festa il giorno di Tenerdì sauto. In un cenobio appiè del monte trova tre frati, l'un de' quali è suo cugino, e della famiglia di Bueve de Co- marchis, di cui si narrano i fatti nel poema di Adenes che porta questo nome, e nel Siège de Barbastre.

Costoro sono forse i tre frati di cui si narra in alcune leggende del paradiso terrestre, e qui forviati per colpa del poeta (1).

Più Ugone trova diavoli d'intermedia natura, i quali han pace la domenica; poscia giunge al paradiso terrestre, in mezzo a cui è un fonte che spande i quattro fiumi.

UgOQ 86 lena yn astante, e posa se signa, e guardò sopi-a la fonte e vite vno arboro longo che sopra la fonte era piantato ed era tuto secho e. 3. radize auea piantato sopra la fonte, e tuty y ramy parea sechy, el celo pare ch'i toche; ausa me parea vna dona com(o) vn puto yn braze, pura la versene santa me parea quela.

Trova, al solito, Enoc ed Elia, i quali si comunicano con l'ostie da lui recate.

Enea si mostra, vestito di tutte Tarmi, e s'offerisce ad Ugone per accompagnarlo nel suo viaggio infernale. Qui abbiamo alcuni riscontri con la prima cantica della Commedia sui quali mi pare dover richiamar l'attenzione. Interrogato da Ugone circa Tesser suo, Enea risponde d'esser nato avante lo hatesimo^ e soggiunge: ly mey ancesory donda tu a fato domanda sono troiany ; e poi : cossy morite al tempo de y anzoli falsy. Ugone gli parla:

« meravilia azo olduto, » lo conte responde: « Santa Maria! » dizelo, « andoncha è tu coluy de chy yo azo tante nouele yntesso ?

bay, Eneas, se tu avisse creduto

ynnanzo el fiolo de dio che de verzene è nasuto,

yo me rendese a ty per amore de coluy

che tu auesse mer9ede de mia saluazione. »

Enea risponde :

« per secorere ty sento quy venuto. »

Qui v'è riscontro, non solo di fatti, ma di parole. Più oltre si no- mina la perduta sente.

(1) V. la leggenda di Tre santi monaci , trick's Purgatori/, p. 95 e segg. intomo a pubblicata nella Scelta di curiosità lette- uno strano viaggio di tre monaci in Asia, rarie, disp. 106; raa anche Wrigiit, S/ Pa- pieno di maraviglie.

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HOMAXZA, N.' 2] 1)1 UN POEMA INEDITO 107

San Guglielmo d' Grange, pregato da Orlando e da altri, scende dal cielo per guidare i passi di Ugone che gli è congiunto. Una barca tra- sporta essi ed Enea air inferno. Guglielmo dice ad Ugone esser quella la dimora dei dannati: lo coide s* aresta a la paróla scura. Le parole oscure lette da Dante al -sommo della porta d* inferno ricorrono alla me- moria. Un pò* più innanzi ecco una similitudine dantesca :

corno al sole fa desleguare la nene, Così la neve al sol dissigilla. (1)

Si addentrano negli orrìbili luoghi.

ades 80 yntrate al paiesse crimÌDale,

piiìi che friza che d'arche ponzenta,

e coreno tuty tre per una scura strada,

non podea retenire la ganba ponto ferma.

lo conte d'Alvemia che auea pezor corazo

tene santo Guielmo de dre per le spale.

quando el fo de dentro la dolorossa vale

yn quel locho sono cride e dolore e gran batalia:

se insemble fosse .X.M. mareschalche

che tute aponto foseno tratuty ynguale,

et altretante balestre et arche ponzente,

et .X.M. fabrechy che martelaseno tuty a un tratr»,

a older questo serebe altro tale ;

e corno questo si è un pizolo canale

ynverso lo maro quando T enfia senza falò.

sono le cride e ly dolore mortale,

aguzy sospiri e lamentar de male,

agury de morte e biasteme crudele

quando li nasere lo re celestiale.

Enea dice ad Ugone: zo si è la zente chi non feno ny ben ni nmle. (2) Trovano lussuriosi tormentati da vespe e da serpi, vanagloriosi con le persone avvolte di fiamme.- Enea dice di questi : aveseno tufo lo tresoro de Carlo yn la mano \ luto lo donaraveno (3) per avere un po' di tregua. Trovan poi giocatori e ruffiani immersi nel fango e diavoli che loro strac- cian la schiena con le graffe (4). Fra costoro è il menestrello Sandin. Essi

biastemano lor padre e quily che lor batezono, biastemano la morte che a lor (5) sorpresse: « ziossy seresemo se zamay non fosemo nate. »

(1) Parad., XXXIIl, 64. (4) Ib. XXI, 50 e segg.

(?) Cf. /«/:, III, 34 e segg. (5) aio.

(3) Ib., VII, 64 e segg.

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Ics A. GRAF [giornale di filolooia

È cosa notevole che queste parole, le quali tanto somigliano a quelle che Dante, nel III canto deìV Inferno, pone in bocca sìV anime lasse e ignude, precedano, come ivi, il passaggio del primo fiume infernale. Qui, come lì, il barcaiuolo Caronte vien gridando contro gli spiriti; condurò vuy alla yììfernal musone ; e il conte domanda a Enea, come Dante e Virgilio: i)er cJie ano ily cosy per tropo gran volere \ del trapasare? La sottile ragion dantesca della tema che si cangia in desio non entra al poeta, il quale toglie il Centauro armato a un altro luogo della Divina Commedia, e lo pone a cacciar l'anime al passo del fiume. Quando queste sono entrate nella barca Charon demonio le batte col remo, e scórto Ugone, grida, come per Dante,

« me quelo stranio chi è senza morte arivato porta noi voUio, tropo seria agreuato. »

Enea risponde quasi con le parole di Virgilio: tote tosto de quy^ mal- nasse. Passano il fiume, e proseguono il viaggio.

Che tutti questi riscontri sieno fortuiti nessuno vorrà sostenere; il poeta nostro aveva per certo fra mani, o nella memoria, il poema di Dante. Tanto pili strano dee sembrare però che la imitazione sua si fermasse a cose di minor momento, e che la topografia del doloroso regno j e l'ordine delle pene, sieno in tutto disformi da ciò che mostra il poema dantesco. Su tale argomento sarebbe facile lavorare di con- getture, e difficile venire a qualche buona conclusione, e però non mi vi trattengo altrimenti, e m' affaretto a condurre a termine quest'analisi di già troppo lunga.

Il conte, andando oltre, passa per varie regioni d'Inferno. Egli trova i grandi di Grecia e di Roma, e molti personaggi del mondo ca- valleresco, fra cui Eglantine, Guy deNantoil, Agolante, Tebaldo, Girart de Frate, Alessandro Magno, Gan elione. Giunto dinnanzi a Lucifero, égli espone il suo messaggio, e ottiene dal principe dell' inferno obbe- dienza e tributo. Riportato, dopo di ciò, miracolosamente in Francia, nella sua città, si presenta a Carlo, il quale lo accoglie assai male. Carlo vien tratto dai diavoli all' inferno: i baroni vorrebbero a re Ugone, ma egli rifiuta, e Guielmo Zapeta succede sul trono di Francia. Indi a poco i saracini assediano Roma. Il papa chiede ajuto ai francesi e non l'ottiene; lo chiede ai tedeschi, promettendo loro l'impero. Questi scen- dono in Italia, ma poi vi scendono anco i francesi, mossi da Ugone. In Roma succedon gare e si viene alle mani tra francesi e tedeschi: i francesi sconfiggon da soli i saracini e liberano la città santa. Il papa non sa come fare a mantener la promessa circa l'impero. Per con- siglio d' Ugone si commette alle armi la decisione del piato, con questa coudizion tuttavia che la Francia abbia in ogni caso a serbarsi indipen- dente. Combattono, da una parte, centocinquanta baroni tedeschi, fra

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KOM vNZA, %-.<• 2] DI UN POEMA INEDITO m>

coi Tommaso di Luzemborgo, dalF altra, centocinquanta baroni fran- cesi, fra cui Ugoue. Essi si sterminano a vicenda: al finir della pugna Tommaso e Ugone rimangono soli vivi, ma spiranti tatt*a due. Ugoue muore prima di Tommaso, e l'impero tocca ai tedeschi. Il poema conchiude:

De qniste che son morte dìo li faza perdonc. de lo 'mperio a Limagne De fo fato lo dona, et loro lo receuoDO a dio benedizione, zascnn posa se meraviò de tal lizione. la corte era bandita senza demorasione, zascun retoma verso de soy paiesse; altre ne fono alegre, altre ne fo dolente, doncha non vite tal perzeta zamay homo vivente, de tuta crìstianet^ le miore homene li merino; fin a .1III.C. any recoverate non aerano, de quily che pianzeno et che alegry ne fo sopra tute li altre fmnzose se lamentarano. da Roma se partine, e portone el corpo d'Ugon, e sy lo feno seterare com molte grande procesioa, pur de dentro Alvergna, a la soa maistra mason, et Ynida ne morite per lo dolore del baron. per de dentro vn molimento apreso del so compaguon Tanno elly metuto la zente del baron, dizendo che Pera santo cosy cera dito v'abiarao, e molte grande miracoly elo a fato demostranza. cosy feny lo romk sanator liale conte Ugone: vuy che Tauite olduto dio ve faza perdone, et my che Tazo quy scrito non me faza danazione.

Qui do l'elenco delle voci e dei modi francesi piii spiccati raccolti nel testo, mettendo loro a canto i corrispondenti francesi.

abelise (li odore li); abelisL bero (Ugo lo); ber,

afaitamento; afaitement beure; boire,

aferante; auferant, braio; brait,

aficba (s'); grafiche. braire; braire,

agabà; gabé, brocha, brocono; broclit, brochent,

aide (li); li aide, cendre; cenare,

aire; air. chiama dio, in significato di prega ;

alezemo; dlosons, inf. aloser, recìaimet dieu,

altana; aUaigne. colegare; eouìchier.

asenita; asenie, coraplita, part. pass.; cowplie,

astante (el se leva in); en estant, conuenante (de tal); par lei covineìtt.

avinante; avinanU coro, eorno; cor.

ausy; amy, coro, corpo; cors,

batù (de sopra li scudi che a ora sono); coverto ; cuvert.

a or hatu, dalmazo; daJmage,

bazalero; bacheler, dcscrocha; descroche.

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no

DI UN POEMA INEDITO Ichornale di filologia

desevranza ; desevrance.

di nemisse; dieu enemL

dobitanza; doutance.

era, 3.* p. fut.; ert.

fazone ( la bella Ynida dala chiara ) ; fagon.

fenisOD; fenison,

feramente (Tauo prega); fierement,

feu; feu,

fiorita, in significato di vecchia; flourie.

folia, in significato à\ tristizia (et elio Tave asolto, pocho troua in luy folia); foleté,

forse; fors,

frapa; frape, inf. fraper,

guarny (gente); gamie,

gra (oltra a mio); gie,

grevanza; grevance.

homo m' apelo; on m' apele.

imbronchk; embroncha, inf. embroncher.

1 aremo, !• pers. pi. fut.; laironsj inf. laisser,

larmoiant« ; larmoiant.

liona; Itone.

Too , !• pers. sing. ind. pres. ; ho , inf. ìocr.

ma (no); ne mais,

masena; nxaisnée,

me; mais,

mesazo; mesaise,

rairaclo; mirade.

molliere; moUier,

ne, in luogo di non^ (speranza che ne monta un cerfoio, e molt' altri esempii); ne,

niente (non te credemo de); de noient,

onbrio, onbrigo; noììbril,

orazo; orage,

paina; paiene,

painory; paienour gent,

parforzo; parfort.

parisanta; parisante.

paso, punto, (me non entra paso ); pas,

pe (pian pe de tera); plein pied.

pieno ( palazo ) ; palais plenier.

plura, 3^ pers. sing. ind. pres.; plurase, ecc.; plure, ecc., inf. plurer.

plusore; pluisor,

porpensa; pourpeme,

prodomeny; prodonie,

questa; queste,

rata; raide,

receuto; rcQu,

recevre; recevoir,

recollire; recoiUir,

redotk; redoté,

requero, 1' pers. sing. ind. pres.; re- quieff inf. requetre.

restasone; arestison.

restora , pers. sing. ind. pres. ( prega coluy ch*el mondo restora); estore, inf. estorer.

retentinar; retentir.

rivazo; rivage,

roy; roy,

smerante; esmerant,

souene, soueve?; souef.

spasima , 3* pers. sing. ind. pres. , nel significato di sviene; se pasme, inf. pa- smer,

spiritable; esperitàble.

stoltia; estuUie,

trabucare; trebuchier.

tramise , 3' pers. sing. perf. ind. ; tra- mistf inf. trametre,

trastuty; trastut.

tuto posente; totpoissant,

tuty zorny; toujours.

vescusso, 3' pers. sing. imp. sogg.; ve- scuistf inf. vivre,

yraperero; emperere,

yndrito, in siguificato di sttbito; en- droit,

ynpiremo, 3' pei*s. pi. pres.; empirons, inf. empirier.

ynsemble; ensemble,

zornà, viaggio; jornée,

zugolaro; jugìeor,

zute ; jouòies.

Vi sarebbe da aggiungere nn buon dato di costruzioni alla fran- cese, come: a dio benedizione, tal vasai non fo may per suo signore servire^ prendile vuy a ben volere, ed altre molte di questa fatta.

A. Gkaf.

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XOMANZA. N.^ *JJ

111

LA VISIONE DI VENUS

AMICO POEMETTO POPOLARE

Il poemetto che segue è tratto da un codice già appartenuto al Rev. Stefano Moniui Priore dei Bagni di S. Giuliano presso Pisa, ed ora in possesso del sig. Cav. Giuseppe Palagi segretario dell' Amministrazione provinciale di Firenze. All'uno e all'altro faccio qui i maggiori rin- graziamenti per la liberalità meco adoperata, ponendo il codice a mia disposizione e permettendomi la pubblicazione del poemetto (1). Seguo quasi costantemente la lezione offertami da questo manoscritto, che con- traddistinguo colla lettera a: le varie lezioni son tratte dal codice della Comunale di Perugia di n."" 43 che designo con &, da un Laurenziano- Gaddiano n.** 198 descritto anche dal Bandini (Supplem. II, 189), che si citerà come e, e dal Laurenziano XLIII Plut. 40 (Bandini, Catalog,^ V, pag. 46, § IX), che noteremo con d.

Il poemetto in tutti e quattro i codd. non porta nessun nome di au- tore; e perciò non sappiamo su qual fondamento, il Baldelli, che mostra aver conosciuto il solo manoscritto laurenziano-gaddiano, abbia potuto ascriverlo al Boccaccio. Nella Fref azione alle Rime di Messer Giovanni, egli adunque così scrive: « Non abbiamo pubblicate ancora alcune ottave,

(1) Il cod. contiene: Carte l-ll : La can- eia di Belfiore: poemetto descrivente usi e personaggi fiorentini : fu stampato nel 1485, e ne parla il De Blasi, Opusc, sicil., voi. XX; Carle 12-15: La Visione di Ve- nus;'-C 16-19: // Padiglione di Mambri- no: poemetto probabilmente dello stesso au- tore della Visione di Venus, e che pubbli- cheremo altra volta ; C. 20-21 : La Dama del Verzu: è quello stesso poemetto che S. Bongi pubblicò col titolo di Dama del Ver- Miere: e corregge varie errate lezioni, oltre dare genuine quelle ottave che dali* editore furono rifatte, perché mancanti nel suo ma- noscritto;— C. 32-81 : V Apollonio di Tiro: noto poemetto del Pucci in 6 canti : lezione utile a consultarsi du chi volesse ristampare

questa leggiadra storia in rima ; C. 82-89: // giuoco del Mazza scudo: poemetto che importa alla storia pisana e a quella in ge- nerale dei ludi popolari dei nostri Comuni; C. 91-123: La Reina d'Oriente: poemetto del Pucci : da questa lezione si trarrebbero al- cune buone varianti quando del poemetto, mal- trattato nella pessima edizione del Bonucci , si volesse procurare una ristampa; C. 124- 135: La Lusignacca: offrirebbe buone va- rianti alla lezione di questo poemetto, datoci dallo Zambrini in pochi esemplari di su un cod. riccardiano erratissimo; C. 135-137: Madonna Elena imperatrice: curioso poe- metto popolare, che si riannette colla no- vèlla boccaccesca di Madonna Zinevra, e con altri racconti consimili.

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112 A, D' AXCOXA [oiohxale di filologia

che credo i suoi primi tentativi poetici in quel metro, anteriori anco alla Teseide, ma che, per essere trascritte da mano napoletana e ine- sperta, appariscono contraffatte cotanto da non poterne far uso » (1). Come sia nata questa appropriazione del poemetto al Boccaccio può forse argomentarsi ripensando all'opinione generalmente accettata sino a non molti anni addietro, che il Boccaccio sia stato il primo poeta che ado- perasse l'ottava, anzi addirittura T inventore di questa forma metrica. Poco conosciuti e meno curati erano i poemetti in ottava rima del XIV e XV secolo; sicché, scoprendosene uno, veniva fatto naturalmente di ap- propriarlo al Boccaccio: ma poi, perché pareva indegno dell'autore, si assegnava senz'altro agli anni giovanili del Certaldese.

Il poemetto che nel cod. Monini-Palagi è intitolato Visione di Fe- ntis, e meglio si direbbe, d'Amore, e nel laurenziano-gaddiano porta in fronte Dur (leggi Dire) d' amore in rima^ non lo direi punto, del Boc- caccio, ma di qualche rimatore popolaresco della seconda metà del tre- cento o dei primordj del secolo successivo. Il Bandini assegna al secolo decimoquarto la scrittura del codice gaddiano : e al decimoquinto quella del laurenziano. Il manoscritto perugino parmi certo del quattrocento : co- me è tale senza dubbio il codice Monini-Palagi, dove troviamo questa data al poemetto sul Mazzascudo: < Incomincia il giocho del massa schudo lo quale si solca fare in Pisa restossi di giochare in del MCCCCVII ». L'autore è certamente toscano; e quanto ai copisti, quello del cod. a diremmo pisano, quello del b veneziano: ne sappiamo comprendere come il Bandini abbia visto una tnanu forte neapoletana nel trascrittore del cod. r, che poi è diventata addirittura e seuza dubbio napoletana pel Baldelli e pel Della Lega.

Pubblicando il poemetto, non come opera del Boccaccio, ma come documento dell'epica popolaresca antica, vogliamo accennare brevemente le ragioni che ci consigliarono a toglierlo dalla sua secolare oscurità. I versi non sono davvero gran cosa: l'ottava non è ben contesta: l'iu- venzione è poca, meschino lo svolgimento; ma noi non vogliamo giu- dicare il poemetto con criterj letterarj, bensì con criterj storici: e alloi-a vedremo ch'esso ha la sua importanza, come nuovo testimonio di certe forme poetiche, proprie ai tempi a' quali appartiene.

La forma del poemetto è quella della visione, come in tanti altri componimenti dell'età media, fino a Dante e anche appresso: salvo che, se la visione nella Divina commedia è estatico rapimento, qui è puro

(l) Rtliz. Montier, 1834, pag. 21. Altret- berto Bacchi Della Lega, Bologna, Ro-

tanto è detto anche nella Serie delle edi- magnoli, 1875, pag. 144, dove riportano

zioni delle opere di G. Boccacci, latine, le prime 3 ottave del nostro poemetto di su '1

volgari f tradotte e trasformate , per Al- cod. gaddiano.

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ROMANZA, N.« 2] LA VISIONE DI VEXl'S 11;J

mezzo retorico: e se per quella è descritto fondo a tutto T universo, qui deir universo si accenna appena quanto può vederne un poeta popolano di non ampia cultura. Il primo quadro di questa visione ci fa vedere donne e giovinetti: giostre e armeggiamenti: duchi, conti, marchesi e cavalieri: fiori e prati: bracchi e sparvieri, veltri ed astori. È una ra- pida pittura e appena sbozzata , della gaja vita cavalleresca : di quella vita alla quale appartengono le immagini contenute nel poemetto e le dottrine che vi si pongono in mostra. Poi si passa ad una descrizione del cielo: le stelle, i pianeti, i segni dello zodiaco: cioè, la scienza vol- gare cosmografica ed astronomica de' tempi. A proposito di una sedia meravigliosa, vengono enumerate le pietre preziose: anche qui, per sem- plice menzione, vi è dunque un saggio della sapienza litologica con- temporanea, e ci manca soltanto di conoscere le virtù recondite di quelle pietre, che al lettore un po' saputo tornavano subito a mente, e il can- terino poteva aggiungere di suo e spiegar all'uditorio, fra un'ottava e l'altra. Su quella sedia sta un giovinetto non ancora ventenne, circon- dato da due altre gentili forme, che lo incoronano, e a' suoi piedi sette donne bellissime, e sett' altre in ginocchioni a lui dinnanzi. Chi sia questo giovinetto, l'autore non dice, e potrebbe esser tale a cui ei vo- lesse far onore con strabocchevoli lodi; ma le due donne che gli stanno dattorno sono Gentilezza e Cortesia: le sette ai piedi, le somme Virtù, quelle dinnanzi, le sette Arti. Ecco brevemente accennati i supremi principi della vita cavalleresca, della vita morale, della intellettiva. Qui cambia scena, e si avanza un Trionfo. Sopra un carro v'è una donna ed uno spiritello, probabilmente Amore: che con quel nome di spiritello spesso lo designavano i poeti fiore ti ni del dugento. Dietro il carro ven- gono uomini e donne famosi: nomi mitologici, biblici, greci e romani: della favola e della storia: della cavalleria antica e della nuova, d'ogni ciclo della poesia romanzesca ; e tutti s' inchinano al fiorente giova- netto, come a comune signore. A lui si raccomanda anche l'autore del poema, e ne riceve benigne parole.

Trattasi qui soltanto di una poetica acclamazione ad un giovinetto di belle forme e di nobile intelligenza; ovvero di un amore greco; ov- vero anche, il giovinetto è una personificazione simbolica? Lasciamo giudice in ciò il lettore erudito : ma propendiamo per l' ultima suppo- sizione, sebbene non sembri facile il riconoscere qual'ente astratto vo- gliasi adombrare in quel personaggio. Ricordiamo tuttavia che nel Te- soretto del Latini, anch'esso poema didascalico con forme simboliche, il Piacere ha intorno a Paura, Disianza, Amore e Speranza, che stanno al suo comando. Si potrebbe perciò argomentare che anche qui il no- bil giovinetto sia Piacere, o altra simil denominazione, e lo spiritello sul carro, Amore; che è ben noto come per gli antichi poeti della scuola cortigiana e cavalleresca, Amore nasca da Piacere, cioè da Beltà piacente.

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IH A. D\iXCOXA [(JIORXALK PI FILOLOGIA

Ad ogni modo, quel che è notevole nel poemetto si è il vedere cou- tinuate sul finire del secolo decimoquarto o in su' primordj del decimo- quinto, che più più qua non potrebbe mettersene la composizione, vedere, diciamo, continuate dall'arte popolare alcune forme, che ave- vano servito alla poesia eulta del dugento e del trecento, e che più tardi dovevano finire per cedere il luogo ad altre immagini, da altri esempj dedotte. In questo poemetto popolare abbiamo un tardo e volgare esem- pio di quella foggia di poesia che gli italiani presero d' oltremonte, ma che gli ultimi autori della latinità avevano a tutti i nepoti insegnata, e per cui Brunetto Latini e Dino Compagni si ricollegano con Boezio e con Marciano Capella per mezzo di Guillaume di Lorris e di Matfre Ermengau : e questa foggia di poesia è quella che ha per forma la vi- sione; per personaggi, esseri simbolici; per fine, T insegnamento. An- che nel nostro poemetto V esaltazione della perfezion fisica e morale di nn giovinetto, probabilmente, come dicemmo, allegorico, conduce ad enumerare rapidamente le scienze, le virtù, i cicli cavallereschi, ad ac- cennare nozioni di scienze astronomiche e naturali. Se non che qui alla forma antica, che ricorda insieme il Tesoretto e Y Intelligenza y si aggiunge una seconda forma, più particolarmente studiata nel Petrarca, che forse ne fu r inventore con quella sua fantasia piena di classiche remini- scenze: ed è quella del Trionfo, Più antica probabilmente e popolare dovunque, era l'immagine di un trionfo, ma per la sola Morte: se non che nella fantasia del cantore di Scipione, anche il trionfo della Morte non ha l'indole che mostra nelle pitture, nelle sculture, ne' poemi del- l'età media, ma è dipinto con classici colori.

Il nostro poemetto adunque, con evidente rimembranza petrarche- sca, a un certo punto cangia bruscamente indole e diventa un Trionfo d'Amore; e invece degli Dei di Varrò vengono dietro al carro gli eroi prediletti dell'epopea popolare. A' quali un copista, rimatore inesperto, o meglio forse un rapsodo di piazza aggiunse altri nomi a render più compiuta l'enumerazione, conchiudendo col verso smisurato come la turba degli illustri amanti:

El v'era la Tavola vecchia e poi la nova.

Queste considerazioni che ci vennero fatte leggendo il Poemetto nelle carte del vecchio codice, ci hanno persuaso che esso non riuscirebbe inutile affatto sgradito ai cultori dell'antica nostra storia letteraria, a' quali l'offriamo.

Alessandro D'Ancona.

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nOMANZA, N.° 2|

LA VISIONE DI VENUS

in

Già le suo chiome d*oro s'atreccìava Apollo nella Spagna in mezo Tonde, E le colonne d'Ercole lasciava: Spento era el che alumina le fronde, E '1 cielo d'ogni parte stellava: La luna si dimostra e '1 sol s'asconde: Ogni animale dorme e si riposa, Perché la notte è scura e tenebrosa.

3 inelU Spamgn» » mese: a 3 lassava : a i Spen- to è quel di: a; Già spento il dì: e; epento ci di : A 6 tutto quanto: e, d; fa ritomo: d 7 si dorme e: 0, d

2

Quando nel letto mi stava soletto. Ed eccoti Venus a me venire Nella mia sambra a guisa d'angieletto: E ta* parole pronte m'ebbe a dire: Fa che mi segui, o nobil giovinetto, r mi levai per volerla ubidire, E Ini menò in un prato molto adorno, Con fiori e fronde e arbori d'intorno.

1 io mi stava nel mio letto: a,d 3 Or: r; Et vecboti: d 3 In la: 6; zambra: d; gaiza: a, b; angioletto : d 6 eiegue : b ; gentil : e 6 volerlo : a, d 7 Poi: b; Menomi: e 8 fronde e f.: 6; e albnsdeli: a; alberi: d

3 Ben mille giovinetti in su' destrieri Con mille donne sopra a' freschi fiori , Caccian lo e ucciellando pe' sentieri Con bracchi, veltri, segugi ed astori: Poi più vidi mille cavalieri Con duchi, conti, marchesi e signori: Giostrare e armeggiare e tornìamenti Facieano in su quei prato quelle genti.

1 Bem: a; giovanotti: d; in sei: e a Com: (t; dame: e; sopra tr.: d 3 Giostrando ed armigan- do: e 4 aparavieri e ast. : e; seguci: d ft E più in là: e; milli: a 6 Principi duchi : e; marcbczi o stmgnori: a; singnori: d 7 Mai non vJditti bei: b; Giostrando ed armigando: a, e 8 facie- no; d; im: a; iu noi bel: 6; sul bel: e; In sai bel: d

4

Era una nuguletta a mezzo il prato, Con una ricca porta adorna e bella D'un smiraldo ricchissimo intagliato; Entravi dentro per cotal novella; Dove el ciel vidi tutto edificato,

Ogni pianeto con ciascuna stella: Saturno v'era e Giove in quello stallo. Mercurio e Vener, con Marte a cavallo.

1 Una gran nuvola : d 3 D'um ricchissimo smi- raldo: a 4 Entramo: d 6 tutto el cielo: ò; el cielo tutto quanto : d 6 Omgni . . . com : a ; pia- neta: d 7 vidi: b, d; im: a 8 Venere e Marte com M. : a; M. V. et Marte : d In e manca tuila V ottava.

Mostrava il Sole il suo bel lustro chiaro, La Luna v'era col Toro e 'I Montone: Giemini, Cancer, Lione e Aquaro, Virgo colla Bilancia e lo Scorpione, Piscies, Capricorno e Sagiltaro: La Tramontana ferma a sua magione. Che si vedea girare intorno intorno, Con mente fiera e col bel carro a torno.

1 Mostrami: a; Mostrome: b; Mostrorai: d 3 chiara Tauro e '1: 6; il bel Toro: e 3 camcier: a; granco: ò;can8er: e; cancro: d 4 Virgo, Bi- lancia e poi : b ; Scarplono : d ; Pesce : d 6 a sua ragione: a; a suo m.: d; e fresca iu sua: e 7 Che la si vedea: b; La qual si movea attorno at- torno: e; Con ella si vede girar d'intorno: d H Vipera v'era il bel carro e il corno: a; e col caro alicorno: 6; e cnm bel caro: e; Con mille atcìld el bel carro el corno: d

Era nel mezzo del cielestìal coro Una gran sedia ricca e rilovain. Sospesa in aria e tutta fin om Di pietre preziose intersiata: Mai non si vidde cosi bel lavoro: Or vi vo' dir com'era situata: Nella sedia era commissi diamanti, Pietre e carbonchi i'non saprei dir quanti.

1 Nel mezzo era del: b; Nel mezzo del: d 2 gram: a 3 e miasa: a 4 E di: r; preslose: a: intarsiata: b, d; intaliata: e 5 um ricco: a; si alto : e ; richo \ d 6 Or udirete : a ; corno era in fatta: 6; corno e He: r; com eli e: d 7 conmissi a; conissi era: b; conmessi: d; Questa se* dia e commissa e: e 8 Pitrc: a; Perle: e; rubini non ve: b; e no: e

7 Smiraldi, calcedonii e be' rubini, Di be' balasci, granati e turchie^se: Topazj, margherite con zaflini,

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116

A. D' ANCONA

[giodkale di filologia

Entrovi perle e sardole commesse; E belli niccoli e cristalli fìni, Perlotte e roatisse erari con esse: Coralli e ambra col diaspido pronto, Cornoli, e altri assai ch'io no' ne conto.

1 casidoni: e; con rubini :h 3 E bie': b; E be':

d; baiassi tarcbese: e; tnrchlese: a 3 To-

passi: a; Lapidi: b; saffili: e 4 Sardoni cornane e diamante con esse: b; Gemini, canser drento ve com esse: e; Sardoni e giemme dentro ve comes- se : d 6 Berilli : d ; corali : 6. Il v. mnnea in e 6 Ambattiste com tornisse: b: amastisse: e 7 La- pidi giaspri con diasrri: b; Lapidi sarai e lo dias- se: e; con diaspro: d 8 Corniole: 6; non v'ho conto: a; che non som conti: ò; chi non vi: d

8

In questa sedia, car signori, udite, Era a sedere un nobil giovinetto; Che le suo guancie avea molto polite. Di quindici anni mostra in nello aspetto; Le suo bellezze che sono infinite, Della sua faccia, del busto e del petto, Tacier le vo', perché Tuman parlare Kon le potrebbe in terra raccontare.

1 Im: a; simgnori: a 2 Stava: e 3 eran tan- to: d 4 Ohe sedece anni mostrava in 1': b; Di ditiotanl mostrava nel suo: e; di sedici anni: d 6 bellesse: a; si furon: b; erano: e 6 In del bel viso: e 7 Lasiar: b; intere: e 8 intiero: b; perché mai: d. Jl cod. e legge gttesU due versi a qtutto modo: Lasciamo qui, perché la lingua mia Intero raccontar non lo poria.

9

Duo spiriti gentil sopra a sua testa Teneano una corona di fin' oro. Volsimi alla mia scorta eh' è li presta E dissi: Fammi chiar chi son coloro. Rispose: Tuno è gentile^a onesta. L'altro é cortesia, quel car tesoro, Che rincoronan di cotal vertue, Perché al mondo suo pari mai non Aie.

1 spiritelli: a; sopra suo: d 2 Tenìano: d; «colonna de fioro: e 3 Yolsemi: a; schiera: a; a quella scorta : d ; che gli presta : a ; corno presta : b ; manifesta .* e 4 fatemi : a ; costoro : 6 ; quiloro : e 6 Risposemi: a; rispuose l'una: d: El disse l'ona si è: 6 6 l'altra: d; cortezia: a; el chia- ro: b; il car: e 7 Quella corona: a; di tanta: a; pip cotar: r; o fino: d 8 Più che nuli' altro suo

paro al mondo: b; Per nel mondo mai so par: e; Perché un suo pari al mondo mai non fa visto : d

10 Poi mi mostrò dove tenea le piante, Sette donne gientil, pien di leanza, E nominommi quelle donne sante: Giustizia con Fortezza e Temperanza, Prudenzia è Fede eh' è sempre costante, Insiem con Caritade e Isperanza: Sempre laudanti il giovane gentile. Benigno nell'aspetto e signorile.

1 nostromi la dove tien : d 2 leansa : a 8 Dis- semi i nomi delle: a 4 Oiustisia... fortessa.... temperansa: a 6 mi parean costante: a; corno son: e; che sta bene acostante : d 6 Insieme carità .... isperausa : a ; con isperansa : d 7 lau- dante: a; laudando: d; quel: 6 8 innell': b. Jn e i due tersi dicono : Como discipoli innansi aUi si stano Ingenochone e grand honor li £sno.

11

Poi altre sette dopo queste belle Vagheggiano il bel viso e la figura: Gramatica, Rettorica, e duo stelle, Musica e Strologia di grande altura; Giometria e Arìsmetica con elle, Loica che nel parlar rassicura; Come disciepule innanzi gli stanno In ginocchione, e grand' onor gli fanno.

1 de poi quelle: e; Mostromi l'altre sette dopo quelle : d 2 vizo : a ; Vegiendo nel bel volto la : b; il 00 bel viso: e; Yaghegiando: d 3 le duo: e 5 Arìsmetica e giemetria: a; Oiometria e giome- tria: b 6 s' asicura: a; che nel parlar sicura: d 7 discepoli : d : dinansi: a; innanti: e; a lui si: 6, e 8 E ingitiocchiavasi : b; Con riverensa: d

12

Mentre che in tanta gloria noi stavano. Venne un gran carro trionfante e bello ; Siivi una donna che alla destra mano Tenea una spada, e uno spiritello. Amor, da la sinistra, per ciertano, Di porpora vestito molto bello. Tiraya il carro duo bianchi destrieri, E drieto a lui ben mille cavalieri.

1 glioris: a; gìoglia: 6; grazia noi si starno: e; stavamo: d 2 V'era: b; um gran: a; en nn: d triunfaro bello : e 8 Suve : e ; dalla : a ; che da: d 4 Con: a; Tiene: e; avea uno: a; aspiriteUo: e 5 Amuro della: b; Da la sinistra meno per serta-

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KOMAXZA, N. 2]

LA VISIONE DI VENUS

117

no: r; E sinistra Amor: d 6 vistimento isne- lo: b; VeatlU di porpora un vestimento bello: e 7 quattro: b; U caro tira doi nobil destreri: e 8 E po' dopo Ini y*era ben: 6; Di rieto a lei bem: a

13

Fra' quai conobi Ercole e Sansone, PoJifemo con Giuda maccabeo, Nembrotte, Achille, Ettorre e Scipione, Ciezari, Paris, Camillo ed Anteo; Turno, Tristano, Ottaviano e Catone, E Lancillotto e '1 paladìn Pompeo, El re Artù, e Trofolo ed Enea, Camilla, Dido e la Pantasilea.

1 quali: a ; Ercole, Sansone : h 2 Pulifebo: a,d; Re P.: 6; Il P.: e 3 Nabrotto: a; Nebort: f; Nebrot: d; Aqnillo: e; Sipione: e 4 Clesaro: 6; Cesari: d; Camilla: a 6 Jallo: b; Tristano, Ot- taviano, il gran Catone: e; Attaviano e Catone: d 6 Lancillotto, Saladino e P.: 6; Lancillotto Sala- dino il gran P.: e 7 Artuxe: 6; Troyllo: e; Ca- milla vidi: d 8 Vera Camilla e la P.: 6; Ca- millo eia Pantisllea: e; Camilla e vidi: d. Nil testo b qui stguono quette due ottava:

Stftrm imU* air* magno o riUTtto Re Alitandro lopra ogni r«o: El ▼{ era Simisno incoronato, Gnllas, Davitt el ilHat«o; Baiamone, Anaalone angelleain, E n bon Priamo e l'aito re Te«*o : E Jaiom che combatte oom el tolo« Per arere Medea dal ve'o dell'oro.

De la tavola Rotondaci v'era el bom GalasAO, E Prenctvalle e mlalere Galvano, Bmnoro del Bruno che mantenea el gran panao, El Lucanoro flolo del goldano: Da l'altra parte atava el re Gradando, Tutti i erano con le lor apade In mano, 8i corno claacnno in le arme prova: El v'era la Tavola vechla e poi la nova.

14

Or chi potrebe raccontar le schiere Degli omini famosi e de le donne, Che dietro a lui andavan tanto altiere Che a vederle ben parean colonne? Mille be' visi, mille vaghe lumiere, Mille signor gentili e mille donne, A pena ch'io il potessi immaginare: Pensi ciascun com'io il potre' contare.

1 Chi poterla: b 8 Che van dirieto a qnesto giovano: a ; Che dietro questo giovane: 6 ; Cte dopo qneate givan : d i D'ardire e gentileese som: n ; D'ardimento e gentilezza eran : d 5 vizi : a ; bian-

chi visi con mille : d C Millepreghi d' amor gientil madonna: a; Mille signori mille cose adorne: 6; Come r antere a noi scrive e pone: d 7 lo pos- sa: d ; nominare : b 8 Or p.: 6 ; ch'io noi porla: b, 1 due rr. in e : Lasciamo qui, perché l'uman parla- re Intero non si potrebe raccontate.

15

Venian soave con gentile aspetto. Con lieta riverenzia e puro amore; Ciascun guardava con sommo diletto Il viso giovinile e lo splendore; E dimostravan dentro in lor conspetto Con riverenzia far costui Signore; Ormai pensi ciascuno in quanta gloria Il giovinetto stava con vittoria.

1 Veneri v'era com: a; Venia: b; Veniam lu- dono ai gentile aspecto: e; Venns v'era: d; 2 Com riverensia lieto e: a; Cam pura riverenaa e lieto: e 3 Sempre mirando quello somo eletto: b; Tuctl miravano quel sommo: e; mirava d 4 vl- zo : a; giovenire e lo sprendore : e ; giovanile ; d 6 dimostravan. ... im . . . comspetto : a ; Ognnn di loro se mostra sogecto: e; Sempre sperando in lo loro concetto: b 6 Com riverensia: a; Fare mei faray custui nostro: 6; Per reverirlo e far que- stui : e 7 E giamai : b ; tanta : a ; ciascun pensi : d; 8 giovanetto: d

16 Benché di maraviglia ero pieno, Vedendol trionfar altamente, Presto mi volsi a quel viso sereno. Ove a mirarlo ciascuno è fervente: E per dolcezza d'amor venni meno Vedendo la sua forma luciente; Inginochiàmi senza più tardare, TrenKindo tutto, incominciai a parlare.

1 che : fl ; Or chi : e ; Perché : d ; meravega : e ; era : 6, e 2 Yeggendo : 6 ; triomfar : a ; triunfar : e 3 vizo: a 4 Dove '.b,d; Che ad amirarlo ; e ; ognun era frevente: e; servente: a 6 doglensa: a; E d'amor di doloeza: 6; Per dolcessa: e 6 quel bel viso risplendente : b ; faccia : d 7 parlare : e ; ognuno sanza : d 8 forte incominciò : d ; Intero non se i>otrebbe raccontare: e

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Gentil Signor, dove natura pone Ogni suo sforzo d'arte di bellezza, Vogli per servo tuo ch'io mi ti done, Merzé io chieggio a la tua gientilezza:

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LA VISIONE DI VENUS

[giornale di filologia

Io soQ pur tuo, benché prosunzìone Sìa la mia ad amar cotanf altezza:- Ma io lo fo, che son più da lodare Quanto più gentil cosa prendo amare.

1 simgnor: a 2 tao: 6; sue feto: e; belles- sa: a; di glentil belleza: d; 3 Yuoml tu: 6; il tao •erro me: a; Vegli tao serro me che mi ti: d 4 dimando: 6; gientilessa: a 5 som: a; buono cbe per aogiomo : 6 ; prosunzione : a 6 mia ama- re : a; mia d' amare i d; mio amare aia di tan- ta: 6; Sua: e; alteaaa: a 7 il fo per che som: a; Ma fallo perch'io aon : d 8 gientilessa pongo : a; gentil cosa mi pongo: h; cosa pongo: d

18 Con amoroso ed angielico viso Volse i suoi occhi che parean duo stelle, Benigno e lieto si mi mirò fiso, Proferse e le suo cose belle; Pensa, uditor, s'io ero in paradiso. Che m'acciese nel cor mille fiammelle; E al fine del suo parlar fervente, Mi disse: Io sono al tuo voler piacente.

lTÌzo:a Udneochi: 8 Benimgno: a; se me mirò: b\ me miravau fisso: e; rimirarlo: d 4 a me le sue: 6; Proferseme delle sne: e 5 Pem- sa . . . im paradizo: e ; s' allora V: d 6 Che el mi mise in: 6; Aocesono al: et 7 Alfine disuoe pa- role servente: a; Alfln del suo parlar f.: b ; A la fin... firevente: e 8 Bispose: a; Disse: b; pat- cer: a

19

praai pensi ciascun gientil pensiero Quant'era gloriosa la mia vita;

Mentre ch'io vagheggiava il viso altero, r vidi muover la gloria infinita; Spari ognuno, e non so dir di vero Dove si gisse, ch'io Farei seguita; Per doglia e per dolor pensai finire; Ma pure spero in lui perché è gentile.

1 Oramai : h ; Or pense omai : e ; Pensi omai : i 2 gravosa: e; la sua: a 3 vizo: a i E vitte: (; Muovere vidi : d 5 Spariva ma io non so il : a ; ogni omo: 6 6 s'andasse: ò; se gesse: e; la via: e 7 Ma per pena e dolor: 6 ; Per gran dogla: d ; pen- so: a; morire: e 8 spero pure: d; più: e; xen- tiri: e

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Dogliosi versi miei di tanta gloria, Girete a ciaschedun ch'ha gentil core: Prendete scusa che si ricca storia Non ho contato secondo il valore; [moria Che spesso quel ch'à Tuomo in sua me- Ridir non sa, quanto si sia l'ardore; Ma dir potrete questo in ogni loco: Ch'Amor mi stringe, agravae tiene in foco.

1 Volgianse in verso a me di: & 2 Torniamo a culai che a mortai: b; ad olascono gentil: d 3 £ conterete così: a; E diritti a loro che così: h 4 Non cotanta sigondo: a; Non lo cantata te- cundol: e; Non segua tanto: d 5 £ spesso: a; Però che: e; Ma pensa quello ch'i' ò in: d; pei> so : 6 ; a sua : e 6 Non sa quanto se sia : 6 ; quanto sia: e 7 E si direte: a; Ma dire poterebbe: h; perete e 8 Amor mi strimge : a ; me jaca: 6; ma- chassa: e; e tienmi im: a; e arde più che: e; m' aghiaccia strugie: d.

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nouAxzA, N.« 2] B. MALFATTI 111)

DEGLI IDIOMI PARLATI ANTICAMENTE NEL TRENTINO

E DEI DIALETTI ODIERNI

Il signor Cristiano Schneller che, a quanto sappiamo, è nativo del Tirolo tedesco, e da più anni tiene ivi officio nel pubblico insegnamento, dava fuori testé nelle Mittheilungen del Petermann una Memoria col titolo: Tedeschi e Rofnani nel Tirolo meridionale e nella Venesia (1), corredando questo suo scritto di una carta etnografica, dove in modo perspicuo sono indicati i territorj che oggidì, nelle regioni veneta e trentina, si hanno da assegnare ai quattro idiomi: tedesco, italiano, reto-romano o ladino, e slavo (quest'ultimo su breve spazio della provincia italiana del Friuli). Chi getti 1* occhio sulla carta, e la compari con quella che, frutto di singolare acume e di pazienti indagini, fu unita dall'Ascoli al primo volume del suo Archivio glottologico^ vedrà tosto, che il professore tirolese, per quanto concerne i distretti ladini, ha ricalcato le tracce del nostro illustre linguista. Anche nell* indicare i territorj tedeschi, nulla aggiunse d'importante il compilatore della nuova carta a quello che si sapeva di già. Quanto poi alla Memoria, se il lettore potrà trovarvi una copiosa messe di notizie, non vi troverà ugualmente saldezza di critica. ciò dee far sorpresa. A dettare questo suo scritto il signor Schneller non fu mosso tanto da intendimento scientifico, quanto da malumore po- litico. Addetto a quel partito, assottigliato è vero ma pur sempre vivo, che guarda con occhio losco al nuovo regno italiano, e lo accusa di am- bizioni e cupidigie sfrenate, e rimpiange la Lombardia e la Venezia come membra divulse dall'antico corpo del Sacro Impero della nazione tedesca, il signor Schneller facendosi a mostrare che l'elemento tedesco era un giorno, a mezzodì delle Alpi, molto più diffuso che noi sia adesso, altro non volle che pigliarne pretesto per dolersi delle conquiste dell'ele- mento latino, e per raccomandare che la si faccia finita colle usurpazioni di quest'ultimo. Che se l'Itaca tale è la conclusione pretendesse di estendersi ancora verso settentrione, varcando un confine segnato da quasi mille anni, toccherà ai Tedeschi, per tutta risposta, di rivendicarsi come limite la linea dell'Adige, con Verona e Legnago.

(1) Deutsche xind Romanen in Sud-Tirol uvd Voìctìcn i Mittheihnigen ; 2^3 Band, X Heft, Gotha, Perthes, 1877.

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120 B. MALFATTI [uiounale di kilolooia

Quale imparzialità di indagini e che calma di giudizj possano acco- gliersi neir animo di chi esce in cosiflFatti propositi, lasciamo arguirlo al lettore. Quanto a noi, alieni come siamo dalle zufiFe e dalle parti- gianerie di ogni specie, avremmo fatto a meno di occuparci, o di voler intrattenere altri di quel tale scritto, se la riputazione che il signor Schneller s' è saputa procurare, ne gode il dirlo, con altri lavori più gravi e proficui agli studj (1), e se la fama in cui è salito meritamente il giornale geografico di Gotha, non potessero, per avventura, essere argo- mento a taluni di aggiugner fede alle asserzioni contenute nella Memo- ria; asserzioni inesatte di spesso, altre volte arrischiate, tali insomma da condurre, chi vi si fidasse, ad avvisi erronei. altro ci proponiamo qui, se non d'indicare dove il signor Schneller ha urtato, secondo noi, contro i documenti ed i criterj più sicuri della storia o della etnografia; dispensandoci volentieri di raccogliere e di respingere quello che V umore politico gli ha fatto stillare di sconveniente e di acre in queste ed in altre pagine. Anzi non intendiamo neppure di esaminare in ogni parte le sue opinioni. Lasciando ad altri di ricercare quanto v' abbia di sussistente ia ciò che assevera sulla diflfusione dell' elemento germanico nella Venezia ; rimettendo ai cultori delle storie municipali e ai glottologi di quella re- gione di vedere se a Vicenza, sei o sette secoli addietro, si parlasse tedesco piuttosto che italiano: se Padova e Verona fossero allora tedesche la metà, e se i territorj lunghesso le pendici alpine, dall'Adige al Tagliamento, fossero tenuti da popolazioni prettamente germaniche (come vuole il si- gnor Schneller) (2), noi piglieremo unicamente a vagliare ciò che egli ha asserito intorno agli abitatori del Trentino, ed alle loro vicende, e ai loro idiomi. Sui quali subbietti l'esame potrà camminare con abbastanza sicurezza, per essere, chi scrive, nato in quella provincia; dov'ebbe a vivere gli anni migliori, e ad occuparsi anche, tanto per inclinazione proprix quanto per varie circostanze, della storia del paese e delle sue condizioni.

I

Di che stipite fossero gli abitatori antichissimi del Tirolo meridio- nale (T odierno Trentino non ne forma che la minor parte, sebbene la

(1) Schneller Chr., Die Romanischen lica delle opinioni delTAutore, ch'egli d'al- Volksmundarten in Sùd-Tirol , T. I, Gè- tronde non divide intieramente. Nel suo ar- ra» 1870. Maerchen und Sagen aus ticolo il sig. Cipolla fa cenno di tre altri, Wmlschtirolf Innsbruck, 1867. pubblicati sullo stesso argomento dal prof.

(2) NeìV Archivio Veneto (Tomo XIV; B. Cetani nella (rasztftm d* K^w^xia degli 11, parte 2.*) il sig. Carlo Cipolla ha parlato 20 e 24 Dicembre 1877 j ma non abbiam po- teste dello scritto del signor Schneller; seb- tuto procurarceli.

bene per dar conto, piuttosto che per far la cri-

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HOMANZA, N." 2] GLI IDIOMI PARLATI NEL TRENTINO 121

più popolata) il signor Schneller non si ferma a discuterlo. Esclude solo che fossero Germani : ed accennando di passaggio che quei Reti o Kaseni potessero forse essere stati di origine celtica, ammette che già per tempo Tenissero latinizzati. Difatti negli ultimi tempi dell'Impero il paese che si estende dalla Chiusa di Verona sino al Brenner faceva parte della pre- fettura d'Italia: tre strade militari l'attraversavano, segnate da parec- chie stazioni militari, da castella, e città; e principale tra queste ultime Trento; che, ricordata da Eliano come popolosa, opulenta e chiara (1), godeva diritti di Municipio, ed era sede di un vescovo. Sopraggiunsero i t«mpi delle invasioni. Già quattro secoli prima i Cimbri avevano per- corso il paese; ma senza lasciar traccia di sé; per quanto si supponga da taluni che qualche avanzo delle schiere sconfitte sui Campi Bandii andasse a rifuggirsi nelle valli tridentine. Ora gli stranieri, che scen- devano per la valle dell'Adige, se non più terribili, erano più frequenti e fortunati di que' primi. Eruli, Gepidi, Ostrogoti; e in seguito Longo- bardi, Franchi, Bavari e Slavi venivano a mescolarsi coli' antica popo- lazione reto-romana e a dominarla. E tuttavia il numero de' Germani che posero stanza nel paese, non fu tale da disperdere o distruggere in- tieramente l'elemento latino. Riuscirono bensì, ed i Bavari in ispecie, a germanizzare il tratto di territorio dal Brennero sino a poche miglia sotto Bolzano; ma da qui in giù, sino alla Chiusa, restò frequente la popolazione romana. Il signor Schneller medesimo non nega che questa si mantenesse scevra quasi affatto da mescolanze nelle valli occidentali del Noce, del Sarca e del Chiese (formano una buona metà del Trentino) ; ma asserendo insieme che nella Valle maggiore dell'Adige, e in Trento stessa e nelle valli ad oriente, l'elemento germanico venisse a diffondersi largamente, anzi in modo da tenere il di sopra. Or questa asserzione, secondo noi, non regge che in parte. Ci troviamo d'accordo col signor Schneller, sinché dice che in alcune terre, dove oggidì si parla l'italiano, fosse usata in passato altra lingua: gli concediamo cioè (e a tale avviso eravamo venuti molto prima eh' egli non lo esprimesse ) che nel tratto , superiore della Valsugana si potessero allora incontrare frequenti signori e coloni settentrionali; di modo che un rozzo idioma germanico si sa- rebbe disteso, per una zona angusta ma continua, dai così detti Mò- cheni sino a Lavarono ed ai Sette Comuni. Gli concediamo che il te- desco fosse parlato un giorno in qualche borgata e paesello al nord di Trento, quale Mezzotedesco e San Michele, dove ora si usa l'italiano; e lo stesso si dica di Vallarsa e di Terragnolo all'ovest di Rovereto. Alcune piccole immigrazioni ebbero luogo durante tutto il medio evo; come quella dei minatori {argentarvi^ silbrarii) fatti venire espressa-

ci) Af.ham's, Var. lllstor. \Àh. IX.

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122 lì. MALFATTI («hornale ih filolocua

mente nel 1216 per rendere fruttifere le miniere d* argento: e l'altra de' contadini che andarono a fondare venti nuove masserie nella piccola e romita valle di Polgaria. A tanto si limitò a nostro avviso, ossia per quanto n'è dato raccogliere dai documenti o da una sobria induzione, il diffondersi dell'elemento tedesco nel Trentino propriamente detto; fatta astrazione s' intende dai casi sporadici di famiglie di dinasti o di mini- steriali e coloni tedeschi, che, per eflfetto delle condizioni politiche, venivano di mano in mano a stanziare qua o là. I territorj germanizzati non dovettero essere neppur la decima parte di tutto il paese. Quanto alla città di Trento, potrà il lettore persuadersi in seguito, per più d'una prova e con buoni argomenti, che l'idioma forestiero non vi ebbe a sopraf- fare il paesano; e che ivi, come per massima nel contado e nelle valli, l'elemento latino seppe civilmente tener sempre il di sopra.

Creda pure il signor Schneller, che a sostener questo non siamo mossi da alcun secondo fine. Se qualcuno riuscisse ad addurre buone prove del contrario, non esiteremmo punto a disdirci. E il faremmo senza corruccio ; perché la verità sta per noi di sopra a tutto ; e per- ché nella lingua ravvisiamo bensì il primo, ma non il solo fattore delle aggregazioni politiche. Le attrazioni e repulsioni etnografiche si dispon- gono secondo leggi di elezione naturale e di accomodamento ai medj, non già a rigore di genealogia. Certo sarebbe fatto meritevole d'atten- zione quello di una popolazione prevalentemente tedesca (tale il signor Schneller vorrebbe, mei medio evo, la trentina della Val d'Adige) che a capo di non molte generazioni è riuscita pel tipo fisico non meno che per costumi e per lingua, ad essere italiana. La cosa sarebbe notabile; ma siccome non le mancherebbe il riscontro di qualche altro esempio, cosi tutto si ridurrebbe ad indagarne le cause. Nel caso nostro però non v'ha bisogno di tale indagine. I fatti ci mostrano, che l'elemento germanico non giunse propriamente a soverchiare il latino; e della te- nace vitalità di questo non è difficile a discoprir le ragioni. E prima , di ogni altra quella che il Trentino, nell'epoca delle prime invasioni, fu corso ed occupato bensì da varie genti settentrionali, ma non colo- nizzato propriamente. Era la pianura del Po a cui tendevano più avi- damente i conquistatori ; e le valli laterali a quella dell'Adige erano in massima troppo povere o troppo difficilmente accessibili per essere ricer- cate da altri, che da minuti venturieri o da fuggiaschi. Che l'elemento latino tenesse ancor sempre importanza ai tempi di Teodorico, lo pro- vano due lettere conservateci nelle Varie di Cassiodoro (1). L'una di

(1) Cassiodor. Var. Lib. Ili, 48 « Uni- Trentino. Si noti che il Vescovado di Fel-

vcrsis Gothis et Romanis circa Vervcam tre (e quindi possiamo arguire anche ilcom-

castelhtm consisteìxtihus ». Nella lette- partimento politico) si estendeva allora sulla

ra 15 del Lib. Vili, viene imposto ai Fel- Valsugana, sino a poca distanza di Trento, trilli di ajutare la costruzione d*una città nel

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ROMANZA, N.« 2] GLI IDIOMI PAUL ATI NEL TRENTINO 123

esse è diretta « Ai Goti e Romani abitanti intorno al Castello Verruca > (1* odierno Dosso di Trento), e tutte e due ci mostrano che quel re aveva a cuore di munire e ristorare il paese, desolato probabilmente in addietro dalle soldatesche di Attila e di Odoacre. Il Trentino, durante la signoria gotica, non dovette trovarsi a condizioni diverse delle altre provincie ita- liane. E la stessa cosa si dica pei tempi longobardi. Da Trento pren- deva nome uno dei più cospicui ducati : e del persistere della popolazione latina abbiamo più d'un argomento; e prima i nomi dei vescovi, che hanno impronta romana (1). Da Paolo Diacono ci è ricordato inoltre ripetuta- mente un Secondo, monaco o abbate trentino (forse è una sola persona col Secondino, a cui ebbe a scrivere amorevolmente Gregorio Magno) che levò al sacro fonte il figlio di Teodolinda, Adaloaldo, e dettò una suc- cinta storia dei Longobardi (2). A Trento adunque duravano i vestigi dell'antica cultura.

Che i tempi della signoria de' Franchi, succeduti ai Longobardi, non fossero tali da favorire la diffusione dell'elemento germanico, ognuno può arguirlo di leggieri. Anzi era interesse di quei dominatori di ricac- ciare i Tedeschi, ossia i Bavari; che, ai tempi di Tassilone, fattisi pa- droni del tenére di Bolzano, minacciavano di spignersi anche più in giù. Gli Annalisti dei tempi carolingi, e Luitprando, nel secolo appresso, par- lano della città e del ducato di Trento come della prima città e Marca d'Italia verso il Settentrione (3). E dell'Italia seguitò a far parte sotto gli imperatori Sassoni; finché Corrado il Salico, nel 1027, non ebbe ad investire il vescovo della Contea o del Ducato di Trento (si estendeva quanto la diocesi, comprendendo anche il paese germanizzato sin quasi a Bressanone ) riducendo cosi i vescovi trentini a vassalli immediati del- l'Impero. E tuttavia, per tale mutamento, il paese trentino non venne ad esser legato al corpo politico tedesco più strettamente che noi fos- sero allora le Marche vicine di Verona e di Aquileja; la signoria dei vescovi fu a scapito della libertà civile. L'elemento popolano, o romano, riscossosi a Trento come nelle altre parti della Lombardia, sapeva gua-

(1) Il catalogo Udalriciano, compilato 8ii- servavano gli antichi nomi ; nomi che si sono gli antichi dittici, per T epoca longobarda in parte mantenuti sino ai di nostri. Si ve- la seguente serie di vescovi: Agnello, Ve- dano in Paolo Diacono (Lib. Ili, e. 31) i Fecondo, Manasse I, Vitale I, Stablìsiano, paesi distrutti dai Franchi nella invasione DominicooDumprocco, Rustico, Romano, Vi- del 590. Sono: Tesana, Maleto (Male), Se- tale lì, Correnziano, Sisedizio o Silezio, Gio- roiana. Appiano (Eppan), Fagitana (Faédo), Tanni I, Massimo, Mammono o Maumono, Cimbra (Cembra), Viziano (Vezzano), Bren- Mariano, Dominatore. tonico, Vulene (Volano), Ennemase (forse

(2) Paul. DiACON.//i*(or.I,a«^oò.Lib.lII. Enni-mansus = Manso di Enno, Denno).

e. 29; Lib. IV, e. 28,42. Il ducato trentino, (3) Luidprandls, Antapodosis, Lib. UT,

attempi de* Longobardi, doveva essere abba- e. 49. stanza pop)lato, con terre e castella che con-

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124 B, MALFATTI [giornale di filologia

dagnare sempre più d'importanza. Certo è che, un secolo dopo, la città di Trento godeva di suoi ordinamenti particolari e di larghe fran- chigie: reggendosi a comune sul fare delle vicine città italiane. Fede- rigo Barbarossa decretò, è vero, nel 1182, che a Trento s'avessero da abolire i consoli, che la città non dovesse esercitar diritto di zecca e di dazj, ma avesse da tornare all'antica obbedienza sotto i vescovi (1). Que- sto decreto però non ebbe che mediocre eflSicacia. Cessarono i consoli; ma per far luogo a sindaci, come in altre città di parte imperiale; i quali sindaci poi esercitavano officio poco dissimile dal consolare. L'au- torità de' vescovi nella città era contrastata e precaria: mentre più d'una delle vicine valli s'amministrava con ordinamenti suoi particolari, pat- tuitisi in pubblica assemblea dal vescovo. In tutti questi fatti chi non vede r influenza delle vicine città italiane? E come creder possibile co- testa influenza, se l'elemento latino non fosse stato abbondante e vigo- roso nel popolo?

Veda dunque il signor Schneller se, per quei tempi, si possa asse- rire la prevalenza dell'elemento tedesco. Che i vincoli politici del du- cato Trentino coli' Impero si mantenessero più stretti che non in altre terre italiane, di ciò non v'ha dubbio; com'è incontestabile che dei si- ^']:norotti e minori vassalli, che tenevano terre e castella nel ducato (la feudalità vi aveva messo larga radice) molti fossero tedeschi di stirpe. Ma la popolazione nella sua maggioranza, ed a Trento non meno che nel contado, era italiana di origine, d'intendimenti e di lingua. Sì, di lingua; ed insistiamo particolarmente su questo punto: perché il signor Schneller, ed altri insieme con esso (lo vedremo fra poco) vorrebbero per- suadere, a medesimi se non altro, che l'idioma che prevaleva nel Tren- tino, nel più remoto medio evo, fosse il tedesco. Come male si com- bini questa opinione coi fatti della storia, l'abbiamo accennato; ma a mostrarne l'insussistenza possiamo ricorrere a prove ancora più positive, e tali, a parer nostro, da togliere di mezzo ogni dubbiezza. Trattan- dosi di argomento che ha attinenza cogli studj professati da questo gior- nale, non chiederemo scusa al lettore, se, in sostenere il nostro asserto, saremo per riuscire alquanto diffusi, abbondando in ispecie di citazioni ed esempj.

Chi ha preso pratica di scritture e di carte medievali, sa bene che quanto a lessico o locuzione esse variano tra loro secondo i paesi; talché la latinità delle carte italiane differisce in modo abbastanza notevole da quella delle francesi o delle tedesche. La quale differenza si presenta tanto più spiccata, quanto più si discende nei tempi: quanto più, cioè, il volgare latino s'andava trasformando, e si venivano svolgendo le lingue

(!) li decreto fu dato in estratto dal sig. Kink nel Onlec Waiìgianvs , \*. 42.

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K0MAX2A, N.° 2] GLI IDIOMI PARLATI NEL TliENTINO 125

moderne; e quanto più i Notaj, salvo le formule consacrate dalla consue- tudine, s' aiutavano nello stendere gli atti con voci e locuzioni del parlare cotidiano. Le carte italiane dal sesto al tredicesimo secolo sono miniera preziosa per chi ricerca il metallo più antico del nostro volgare. Ora il Trentino conta una ricca suppellettile di antichi documenti, massime dall' undecime secolo in giù. L'Archivio de' suoi principi-vescovi, riordi- nato per tempo, non aveva da invidiare a quelli di città anche più co- spicue. Pur troppo al cominciare di questo secolo andò distratto; che venuta Trento, nel 1802, a far parte della provincia tirolese, sotto la si- gnoria austriaca, molti dei documenti più importanti per la sua storia politica e civile furono tolti dall'archivio vescovile, per andare ad arric- chir quelli di Innsbruck e di Vienna; sicché è mestieri recarsi in queste due ultime città, chi voglia attingere la storia trentina ai fonti. Tuttavia una qualche parte di quei preziosi cimelj fu data in luce, con non pic- colo benefizio degli studiosi; e prima per merito del padre Benedetto Bonelli trentino, che in sullo scorcio del secolo passato pubblicò quattro volumi di Storie e Documenti concernenti la Chiesa e il Principato di Trento; volumi pregevolissimi ancor sempre per molta diligenza, e non comune acume scientifico (1). Nel 1852 poi, per cura dell'Accademia viennese delle Scienze, il signor Rodolfo Kink metteva in luce il Codice Vanghiano^ vale a dire il più antico cartolario trentino; ricco di circa un trecento documenti che dal 1082 giungono al 1281, abbracciando cosi intieri due secoli (2). Poche raccolte di documenti abbiam letto, che valgano, meglio di questa, a rappresentare la vita politica e civile di un paese in tutti i suoi momenti, anche i più minuti; nessuna di maggiore importanza per la storia della feudalità ; la quale ne viene incontro dalle carte vanghiane con tutte quelle forme molteplici e spesso bizzarre, a cui s'era condotta nell' alta Italia prima che altrove. Ma non è qui il luogo di fermarsi sul valore grandissimo che può avere quel Codice per chi prenda a studiare gli istituti pubblici e lo stato del possesso in quei due secoli. Rifacendone al nostro soggetto, diremo piuttosto che l'esame di quelle carte sarà per tornare d' interesse e di frutto anche al linguista. Che prette forme volgari non vi si incontrano! Come non si scorge, di sotto alla veste latina, il muoversi e il palpitare, per dir così, di un nuovo lin-

ci) Bonelli Ben. , Notizie Istorico-crit. zione. Una nuova edizione critica del Codice

della Chiesa di Trento, 17G0-62 (3 voi.).— non sarebbe fuori del caso; sennonché mag-

Monum. Eccl. Tridentinae^ 1765 (Ivol.). gior vantaggio ancora recherebbe alla Sto-

(2) Cadeau Wangianus {Fonte s Rerum ria trentina chi prendesse ad esaminare,

Aiistriacarum) ^ ed. Rur. Kink; Vienna, e possibilmente a mettere in luce, il Co-

1852. Comunque pregevole, questa pubbli- dice diplomatico Clesiano, che si conserva

cazioue non è a dirsi tuttavia perfetta. Pa- nelP Archivio del Vescovado di Trento,

recchi documenti non vi sono dati che in in un-lici nitidissimi volumi in pergamena, entrato; e qua e incorsero errori di le-

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126 B. MALFATTI

miORXALK DI FILOLOGIA

guaggio! Certo che, a cogliere questa vita, bisogna leggere i documenti nel loro complesso : che una spigolatura di brani o di modi di dire non può darne pieno concetto. E tuttavia non sappiamo dispensarci dall' of- frire al lettore un manipolo di quegli appunti o di quelle note, attinenti alla lingua, che siam venuti di mano in mano raccogliendo nello studiare quel Codice. Stimiamo di fare con ciò cosa non inopportuna ; anche per- ché il volume delle carte vanghiane è pochissimo conosciuto, facile a procurarsi qui da noi. Daremo le locuzioni in ordine cronologico, a co- minciare dal secolo XII sino al XIII; notando per ciascuna la pagina dove può leggersi nella edizione viennese.

. . si pensio ad prefatum terminum soluta non fuerit ; p. 22.

. . dabunt episcopo casamentum unum congrunm ; p. 22.

.. Rustici qui incastellabunt in ilio castro; p. 31.

.. per bergamenam, quam sua manu tenebat, custodiam un'us donius feudo tradi-

dit; p. 33. . . dedit licentiam ut castrum supra dossum aedificet ; p. 40. . . Maria cura Adalpreto, lega viventes romana (1) ; p. 45. . . et facere exinde . . . cum omni asio (2) et utilitate ; p. 46. .. dum quidam bonae opinionis et famae viri assisterent; p. 49. . . non liceat . . . vexationem sive superimpositam aliquam facere ; p. 50. .. Ibique incontinenti assurgens; p. 54. . . quod a casadei Sancti Yigilii retinebat ; p. 55.

.. in vesti vi t de eadem domo et cane va (3)...cujii8 coherencie decernuntor; p. 59. . . sub pena dupli ficti ; p, 59. .. si comperare (sic) noluerint; p. 59. . . missus dare tenutam casae ; (K). . . si vero cambi um rescinderetur ; p. 62.

.. Episcopus ea castra comites racionabiliter debet juvare manutenere; p. 63. . . bona quae prò sua dote et ejus restauro sibi pignori obligata fuerant ; p. 67. . . investivifc de dominio et majoria et districto ipsius castri de Busco (4) ; p. 68. . . Habitatores sua casalia detineant; p. p. 68. . . dabat unam peciam panni Vili ulnarum spatzaiufemo (5) de Tridento ; p. 72.

(1) È tla notarsi che questa Maria e Canipa , Caneva anticamente aveva signì- Adalpreto suo marito, che nel 1183 dichia- ficato più ampio; cioè di magazzeno conte- ravano di vivere a legge romana, apparte- nente derrate od oggetti necessari all^azienda ne vano a due dei più cospicui casati del pae- domestica.

se. Si vedrà da altre formule, e da quanto (4) Si vedano nel Ducange i diversi signi-

saremo per dire in segui».©, quale tenace Acati di ma/orto. In questo papso indica si-

e larga vitalità tenesse nel Trentino T antico cupamente fcudum majoris, o feudumcon-

diritto. ditionale.

(2) Asium, nel significato di agio, com- (5) Dal contesto della carta risulta che modo, non è riportato dal Glossario del Du- Spatsainferno è nome di professione. Il CANOE (ed. Henschel. Parigi, Didot). Nel signor Kink opinò che potesse significare dialetto trentino si usa dire tuttavia: far el spazzacamino. Spazzare ^ nelle varie forme so a«i = il proprio commodo. verbali, si legge in carte italiane del basso

(3) Cdncva per cantina si usa nel dialetto, tempo.

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uoMAszA, X.- 2] GLI IDIOMI PAHLATI NEL TBENTINO

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. cura menaita et cum omni jure quod predictis terris pertinebat (1); p. 74.

. . erat feudum . . . wardiani et castaldionis Formiani ; p. 75. ^. . Portenariis de Tridente . . . coquo . . . canevariis . . . scutellarìis ; p. 75.

. . Et si volebat eas sibi comedere, comedcbat ; et sin autem faciebat eas portare in svam canevam; 75.

. . Senatusconsulto (Vellejano) omnique juri et racioni, quod per datum vel per con- tracambium habebat..., renunciavit; p. 79.

. . Omnia quecumque ... in suam tenutain (2) habebat ; p. 80.

. et quod pi^nus suprascriptum . . . non imbrigabunt nec iropedient ; p. 87.

. . Comes dedit Trintinellura , per manum apprehensum, in manum dni Conrculi; p. 88.

. . per beretam... quam in suis manibus tenebant, obligaverunt quidquid feodi (3); p. 91 .

. . secnndum usum et consuotudinem tridentini mercati ; p. 94.

. . Cum jurassent discernere et consignare sine fraudo totum comune intromissnm vel impeditnm a XX annis usquemodo; scilicit pascua, nemora, stratas, semita- ria (4), aquaria rizalia, aquarumque ductus; p. 101.

. . ut ipsi columnellos (5) sibi distinguerent et consignarent ; p. 103.

. . quod dehinc nemo eorum aliquid ad dicendum super eorum bonis... ha beat ; p. 104.

. . Philippum provisorem jam dicti hospitaiis ; p. 106.

. . a vertice montis in zusum (6); p. 108.

. . de viginti duobus modiis siliginis supra terram roncorum novellorum (7) . . . . in quibus contenti stare debeant; p. 115.

. . Totum lucrum j>er medium dividatur; p. 117.

.. de navibus vero naulum (8)... reddatur; p. 117.

(1) Menaida j secondo il Glossario , è « Vectura quam quis domino praestare debet ». Deriva probabilmente da menare, che nel dialetto si usa costantemente ed esclusivamente per condurre o trasportare da un luogo all'altro : el m*ha mena 'n car- rosza el m*ha menà*n campagna.

(2) Tenuta y nel senso di possesso, non si trova nel Ducanoe; che ha invece Tenura, per feudalis dependentia.

(3) In questa locuzione, e nella antece- dente, abbiamo due forme d'investitura: colla mano, e colla berretta.

(4) Da semitarium si formò sentiero, Aquaria rizaliay sono acque correnti, rivi; che in varie parti dell'alta Italia si dicono roggie, nel dialetto trentino róza, róze,

(5) Columnelli, in questo passo significa- no le suddivisioni del paese, stabilite a scopo di levare ed adunare le milizie; ma il voca- bolo serviva anche ad indicare le milizie stesse, distinte in colonne. Vicino a Trento, ed in altre parli del Trentino, si usa tuttavia la parola Cohtmèl, per indicare certe su-

perAci, oppur certi scompartimenti di ter- reni, o certi consor/j rurali.

(6) Zusum tss zóso ; forma dialettale di giusoy usato anticamente anche nella lingua letteraria. Oggidì si conserva nei dialetti veneti. 11 trentino l'ha troncata nella for- ma: zòy en za.

(7) Roncus , ronchvs « rubetum, senti- cetum » dice il Ducange. Ronch in tren- tino significa un campicello che s'ottiene dis- sodando un tratto di prunajo, sui pendii dei monti in ispecie. I ronchi novelli si dicono e si dicevano (come ne avremo l'esempio) con una sola parola Novdi. La parola Ronco è usata, con lo stesso significato press' a poco, in parecchie parti dell' alta Italia. Gli esempj più antichi citati dal Ducange sono tolti al Bollarlo Cassinese, e agli Statuti di Vercelli.

(8) iVatt/um=» nolo; resta nel dialetto colla forma nói, e col significato più largo di pa- gamento che si fa p<»r l'uso conceduto di una data cosa; onde Nolesin , ossia vetturale che a certa mercede trasporta persone e cose da un paese all'altro.

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B. MALFATTI

[CHORNALK ni FILOLOGIA

.. juravit qnod nnmquam faciet aliquem rassam (1) cam comite Henrico... contra

opiscopatum ; p. 123. . . DuUam vim in praedictam ecclesiam neque in ejusdem serviciales debet infer-

re; p. 129. . . ad refeccionem infirmorum ; p. 129. .. juramentum per omnes tenores adtendere; p. 131.

. . dixit quod volebant cedere ab infestacione et causacione de eremitorio S. Mar- tini; p. 134. . . constituerunt se fidejussores in eleccione venditoris (2); p. 136. . . et hoc fecit sub ypotheca et obligacione tanti sui feudi vel allodi i ; p. 137. . . et exceptioni non nuraeratae pecuniae renunciando ; p. 139. . . f rater . . . viva voce respondebat ; p. 143. . . promisit qnod faciet facere jam dictam refutacionem ; p. 145. . . Episcopus promisit quod si eia apparuerit aliqua briga (3) de eo castro, qnod

eos manutenebit ; p. 145. .. de causa thelonei, quod teutonice dicitur zol (4); p. 148. .. homines cujuscumque manerici (5) sint; p. 150.

. . A simili vero (6) ... bauzanensis homo... nuUum theloneum exhibere teneatur; p. 151. . , juraverunt dicendi pure veritatem ; p. 157. . . Abbatissa debet ei (episcopo) unum bonum et honorabilem soumarium, cnm dno-

bus bonis coffinis, cum uno mantile, et toalla, et duobus bacinis intus, et pelle

orfina desuper (7); p. 158. . . Episcopus debet facere eam desistere a malis operi bus ; p. 159. . . Episcopus debet concedere ... de tabulis palatii sui ad subficientiam gentis ( Ab-

batissae); p. 159. .. Cocus vero et pistor... nullam habent appellaccionem (8); p. 159. . . dns episcopus debet dare abbatisse omni anno... XXIV galetas (9) olei, si miserit

prò eo ; et ipsa debet niittere cellelario episcopi panum decentem ... et unum

coltellum vel rasorium; p. 159. . . debet dare faxum (10) unum feni ; p. 160.

(1) /iaMa « conjnratio, conspiratio». Oli eserapj che ne il Ditangr, sono tolti da- gli Statuti di Marsiglia, e da carte della Lia- guadoca.

(2) in eleccione venditoris =-b. scelta del venditore.

(3) Gli esempj di briga e imbriga, nel DuGANGE. sono meno antichi di quelli del nostro Codice.

(4) Nel documento si dette la traduzione di theloneum = zoll, perché la convenzione era stipulata col vescovo tedesco di Bres- sanone.

(5) Il signor Kink ha letto manerici; ma deve dire maneriei. Maneries, per mi- niera, è usato nel Chronicon Pipini (Mu-

ratori, Rer. Jt. Scr. IX. 706).

(6) A simili rero = similmente poi.

(7) Co/fitì US = corh3.y canestro; Manti- le ^ tovagliolo ; toalla = tovaglia. Ignoria- mo il significato delPaddiettivo orfina,

(8) In alcune parti del Trentino il fornajo vien detto pistór; ma nella città di Trento lo si chiama piuttosto formar.

(9) Il yoctiho]o galét a j ga leda, (da Cala- thus) usa tuttavia nel Trentino per indi- care una data misura d*olio. Una carta di Laon, citata dal Ducanob, mostra che in Francia la galeta era misura di grani.

(10) Oggidì ancora nel Trentino il fieno si vende a fascio ^= fass y fassi.

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ROMANZA, N," 2] GLI IDIOMI PARLATI NEL TRENTINO

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.. racionem tantum sub albero juxta parochiam (1) facere preaumat; p. 161.

.. quod possidet... sive per coìonos, si ve per asciticios (2); p. 1G6.

. . et cum omni actione reali et personali ; p. 167.

. . promisit ... ab omni contradicenti persona guarentare . . . tempore evictionis cxti- mandi; p. 168.

.. ibidem lealiter... per manura suara promisit (3); p. 168.

.. in terria arati vis et prati vis; p. 170.

. . vendere debent dno Alberto, vel ejus haeredibus ad minus antea quam aliis; p. 171.

. . dna Leticia renuntiavit ausilio senatusconaulti vellejani et juri hypothecanim ; p. 171.

.. in casamento cum domo . . . jacente in porta auriola (4), in qua Gisla rabiosa ha- bitat; a latere casamenti et domus Manfredinus caliarius, ab alio via, retro Adam becarius, ante strata et alii coherent; p. 173.

. . omnia sua bona et suum podberem (5) que habet a patre suo ; et visa fuit haljere in Trento (sic); p. 174.

.. si aliquis ministerialis . . . possit alienare aliquid, vel in aliam personam transforre 8Ìne manu et dni sui licentia; p. 176.

.. Comune Tridenti in concione piena eandem fidelitatem faciet (6); p. 180.

. . de uno suo vignale (7) cum vineis ; p. 182.

. . domus . . . que sit ad defensionem ; que et de batalla (8) dicitur ; p. 188.

. . et per omnes suos de sua parte... fecit omnem finem in manibus dni epìscopi; p. 101.

. . adjnvabunt inter se ... ab omnibus hominibus qui vellent eos ofendere ; p. 103.

.. fatigando... dnm episcopum damnificaverunt ; p. 196.

. . jussit Vozolo viatori ut per civitatem cridet illos extra bannum ; p. 198.

. . quidquid feodi habet ... a rio (9) sito in ; p. 202.

.. affidaverunt per fidem et manus eorum, et lealiter promiserunt; p. 206.

. . et omnes aliae blavae, praeter surgum , debent extimari ; p. 207.

. . et braidam (10) habere debet ; p. 200.

(1) Il costume di trattare gli affari della commonilà, e di render ragione sotto un grande albero vicino alta Chiesa, continuò per secoli. Di quegli alberi se ne vede an- cora qualcuno nei villaggi.

(2) Forse per asciticii debbonsi intendere contadini non vincolati alla gleba, e fatti venir di fuori; come pare fossero quelli che an- darono a fondare in Folgaria 20 nuove mas- serie.

(3) L'avverbio lealiter non è riportato dal Dt'CANOE dal Supplemento del Dikf- PENBAcn. Il Glossario ha il solo aggettivo: lealis; e Pesempio, che ne dà, è dell' an- no 1331.

(4) Dura ancora a Trento il nome di Con- trada o Via Oriola; e fu detta cosi dagli orefici che vi erano frequenti. Ma questa eia Oriola è in sito diverso dalla Porta Au- riola del documento. Caligarius nel dia- letto odierno suona caliàr.

(5) Di Podere y nel senso di possessione,

il DiTCANOK riferisce parecchi eserapj.

(6) Questo documento (dell'anno 1209) è importante, perché ci mostra come la città avesse Sindaci ed un Consiglio generale e come si reggesse tuttavia colle forme dei vicini Communi italiani.

(7) Il vigneto si chiama tuttora nel dia- letto trentino: vignài.

(8) Batalla, qui non è più nell'antico significato di duello, ma bensì in quello di grossa pugna.

(9) I più antichi esempj di rio per rivo, citati dal Glossario, appartengono a scritture e carte spagnuole.

(10) ^raf da = « campus vel ager subur- bauus in Gallia cisalpina ». Così il Glossa- rio, Qualcuno volle derivare il vocabolo dal germanico -Brtftfc, Gebreite; altri da Prce- diwni; ma forse, come gli analoghi raudus^ raitus , appartiene all'idioma antichissimo dell'alia Italia.

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li, MALFATTI

[gIOBXALIÙ di KILOLdOIA

. . debent in eo castro esse securi in avere (1) et personis eorum ; p. 235.

. . Actum in curia interiori ante stupam (2) ; p. 242.

. . quod illud edificium non noceat, nec Campanie Avolani nocere debeat; si vero alicui

damnum fieret vel incommodum; p. 244. . . precipiet omnibus ut debeant macinare et macinent molendino eive molendinis dni

episcopi; p. 244. . . II II congia (3) boni vini ; p. 253. .. Item gastaldio debeat ... racionem eis (hominibus Rendenae) et inter eoa Tacere ,

duos dica prò unaquaque degania (4) ad eorum expensas et non plus; p. 256. . . de injuriis et maleficiis a XX solidis infra conputatis ; p. 256. . . de asto (5) vulnerato . . . bannum accipiat ; p. 257. .. a rivo qui vadit zosum ultra castrum et castagnedum (6); p. 261. . . et de tota domu eorum murata; p. 266.

. . sciunt per sumonimeutum (7) suorum patrum et suorum antecessorum ; p. 272. . . in Roca de Bocabruna, et in villa de Nogaredo jacente a pede ipsius Roce ; p. 273. . . isti omnes . . . per se et suos vicinos absentes ; p. 275. . . Episcopus teneatur . . . alium gastaldionem cumpetentem ibi ponere ; p. 276. . . faciendo ipse talem securitatem et promissionem ad illud' oastrum salvandum et

manutenendum ; p. 276. . . Versa vice dicti Regenardus et Rambaldus . . . investiverunt eum ; p. 277.

(1) Avér^ ahérf per facoltà, possessi, si trova frequentemente nelle antiche carte la- tine della Linguadoca e della Guascogna, come nota il sig. Luchaire ( Origines Un" guistiques de VAquitaine, p. 45).

(2) Stupa = stufa; forma latinizzata del tedesco Stube; nel dialetto trentino stua.

(3) « Congia, inter voces latiao-barbaras quibus Olossarìum atigeri potest recenset Bern. Maria de Rubeis in Monum. Eccles, Aquilej. cap. 74; col. 747; sed nec locum proferì, nec vocem explicat ». (Ducanob- Hrnschel). Non è improbabile, che il de Rubeis incontrasse il vocabolo in qualche carta trentina o del Veneto. Congia , era ed è una misura di vino corrispondente a quella che altrove si dice brenta; ossia cir- ca 50 litri. Nel dialetto trentino si dice an- cora conzàl tale misura di vino, non meno che il recipiente di legno che serve a conte- nerlo, e vien portato sul dorso. Deriva evi- dentemente dal congialis e congiarium, che leggiamo in Plauto, indicante vaso e misura di sei sestieri. A Firenze anticamente si chiamava Cogno una misura di vino, che variò secondo i tempi. Il recipiente, che serve a misurare la congiale trentina e la brenta milanese, ha forma conica. Ma no- tando questo, non intendiamo di dare la eti-

mologia del vocabolo.

(4) Da questo e da altri passi del Codice risulta, che nella Rendena ed in altre valli durava ancora, di nome, l'antico comparti- mento longobardo e franco per decanie. Di- ciamo dì nome; perché dal contesto appa- risce, che la decania nel secolo XII doveva abbracciare un territorio e comprendere una popolazione abbastanza ragguardevole; tale da corrispondere piuttosto alla Centina d'un tempo.

(5) A8to animo y oppur anche Asto sol- tanto ( per indicare intenzione maligna o do- losa) si legge di frequente nelle leggi e carte longobarde. Secondo il Glossario, il voca- bolo è di derivazione latina, da Astus; il Diez propende al gotico haifst-s,

(6) Castagnedum, bosco di castagni; come (più sotto) Nogaredum, bosco di noci. Ca- stagne e Nogaredo, oggidì, sono nomi di paesi. Notiamo i vocaboli come indizi del dialetto d'allora. L'attenuarsi della dentale t in d è fenomeno frequentissimo nel ver- nacolo trentino, come per massima in tutti ì veneti. Si osservi pure che la parola ver- nacola per indicare il noce è Nogàra,

(7) Nel Glossario non si trova #w*noni- mentum, bensì submotiere; onde l'antico francese semoner.

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ROMANZA, jf.*^ 2] GLI IDIOMI PARLATI NEL rUENTINO

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.. de cetero sit liber et absolutus ab omni condicione , imposicione, coUecta; p. 279.

. . jacet in capite rode (1) ad fontaneas juxta rius ; p. 281.

. . ipse vult frankitare (2) predictum hospitinm ; p. 281 .

.. prÌTilegiura, Consilio... al iorum discretorum virorum indulsimus; p. 286.

. . Jura quoque decimarum novalium (3) ibidem colentium ; p. 286.

.. libram unam incensi... masarius hospitalis (4) representare nobis tenetur; p. 286.

.. ut sententiam sinistre (5) partis evitetis; p. 287.

. . in dosso, quod appellatur Castellacium , in pertinentia Tremeni jacente ... debeant levare tres belfredos, et dictum dossura spaldare de Ugnami ne (6); p. 289.

. . debeat dai-e prò velie suo ... de brcddis (7) ad belfredos ; p. ^89.

. . dnus episcopus debet illum portenarium confirmare, et de ejus terratorio (sic) ei dare et concedere ut bonum servicium valeat lacere; p. 290.

. . debeat dictam ecclesiam in se habere et tenere cum officio et beneficio ... in gau- dimento; p. 291.

. . dieta ecclesia aperta esse debet... sine inquietacione et molestacione alicujus per- sone; p. 292.

. . reddendo omni anno libram unam cere prò subjeccione ; p. 296.

. . Et ita dns Lanfrancus . . . adtendere proraisit, et dedit ei verbum intmndi in tenu- tam; p. 296.

. . in domo Gandulfini hosterii ; p. 297.

. . quod ipse debeat in eadem ecclesia facere cantari missam unam ; p. 297.

. . prò widhardono (8) servicii hujus; p. 306.

. . de terra Ala exire volebat , et in alio loco ire ad demorandum ; quod multum displicebat sibi; p. 307.

.. per suam habitanciam tota terra est melior et erit; p. 307.

.. regula quae fuerunt data; p. 310.

. . cum viis et senteriis, muris et serraturis de castro Paddo; p. 315.

. debeant semper... fictum et amiseras (9) et alia omnia servicia facere; p. 319.

(1) Sembra che róde si debba prender qui nel senso di ruota; e non in altro dei varj «ij^nificati addotti dal Glossario alla pa- rola Roda.

(?) FranAf7arff = affrancare, è ignoto al DucANOE, che riferisce in vece Francare, franquare.

(3) Cioè le decime che dovevano dare i Noùàli. L* origine di questa parola fu in- dicata dianzi.

(4) Massàr, nel senso di amministratore o custode, è parola usata tuttavia nel dialetto.

Il vocabolo hospitale, in luogo del più an- tico Xenodochion, si trova nelle carte ita- liane prima che in altre.

(5) La forma itsententia sinistrae par- tis », per sentenza contraria, è prettamente italiana, come ognnn vede.

(6) I belfredi ( batti fredi) erano torri ad uso di guerra. Spaldare non è riferito dal

DucANOE, che ha bensì Spaldum, SpalUtiriy Spaldatus; quest* ultimo tolto dal Chroni- con del Godi, presso il Muratori.

(7) fìredda non si legge nel Ducanoe; il quale ha tuttavia Prederia, Bredda po- trebbe significare qui anche pietra (nel dia- letto trentino préda)\ ma è più probabile che stia in luogo di Predtfria = macchina per lanciar pietre. In Rolandino si legge « cum belfredisj prederiis et trabucchis ». (Muratori, Antiq. It. Diss. XXVI).

(8) Widhardon um = guiderdone, dal ger- manico widhar, wider, e dal latino donunif è voce ibrida; ma d'uso antico in Italia, co- me il mostrano le carte casaurlensi.

(9) Che specie di prestazione o di servigio sia indicato dal vocabolo « amiseras », non abbiam potuto rilevarlo dal contesto, dal (riossario, dal dialetto.

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132

B. JI ALFA ITI

[giornalr di filologia

. . cum eorum peculio quod habent vel a modo in antea acquiatabnnt (1) ; p. 323. . . De qua confessione . . . contenti steterunt et in accordo (2) fuerunt ; p. 326. .. turris judicata erat, per laudem vassallorum, ad rejicendam in terrara; p. 329. . . dieta turria semper debet esse aperta dno Episcopo... prò omnibus suis afare (3)

et werris; p. 330. . . Cum vidisset destruccionem burgi Egnae . . . dixit se velie longare dictum bnrguai

de superiori capite, videlicet a domo Janex (4) in susum ; p. 334. . . investivit Arduinura ... de quatuor passis de terra per testam (5) ; p. 335. .. investivit cum... vaitis, et portenariis, publegis et castellantia pertinentibna sd

dictum castrum (6); p. 350. ,. ratem, que per Ateaim ducebatur, sua nequicia prepedivit, dictam ratem ro-

bando; p. 357. . . Henricus vilìannarius (7) de Bolzano . . . fecit finem et refutationem ... de duobas

mansia; p. 362. .. renunciando legi... et epistole divi Adriani et nove oonstitutioni... promise-

runt; p. 364. .. revocavi t et cassavi t investituram . . . de decimis no valium a rio sicco inferius,

usque ad petram Valaram; p. 374. . . vocavit se bene solutum esse et pacatum (8) de IV millibus librarum denariorum

veronensium; p. 379. . . ad utilitatem Castel lancie et hominum terrae Yiguli ; p. 382. .. quod dictum castrum... in salvamento custodire, manutenere et salvare debeant

modis omnibus; p. 382.

(1) Il DucANOE ha acqvistum, ma non acquistare.

<2) Accordatnentum ed Accordium fu- rono usati prima di Accordiim. LVspm|)ìo di quest' ultimo, citato dal Glossario^ è del 1345.

(3) Affare t legge in carte latine det- tate in Francia nel secolo XIV.

(4) Parte del borgo di Egna (che i tedeschi chiamano Neumarkt) andò rovinata , nel 1222, per nna inondazione dell'Adige. 11 nome lavejc, che si trova anche in altre carte di quei tempi, è di tipo ladino. 11 co- gnome Idnes s'incontra tuttavia nel contado di Trento; e Idtiiè nella vai di Gardena.

(r») Qui il ^i per testam »=»a testa (trat- tandosi di assegnar Tarea su cui costruire le nuove case di Kgna) debbe intendersi: quattro passi quadrati per ciascuna persona componente la famiglia.

(6) Vàita è forma ladina, diremo così, del germanico wacte (guardia, scolla). Far la sgvdita , si dice tuttavia n»^l Trentino p*»r: tener d'occhio, spiare. Il cognome G ita t> freqiiente in Lombardia. Pi'blegìtm , se-

condo il Glossario, significa veciigal. Ca- stellantia non è nel Ducangr; ma deve equi- valere press'a poco a Castellania , e signi- ficar quindi i diritti congiunti all' ufficio di castellano, ed anche il territorio di pendentf» dal castello. La parola Castellanza non s'usa più nel Trentino, ma dura in Lombardia. Così, ad esempio, la forma officiale per in- dicare tutto il territorio del comune di Va- rese è ancor sempre quella di : Città Varese, e sue Castellari z e.

(") ViUanarius non si trova presso il DucANOK, presso il Dieffenba-ch. Il pri- mo ha Ville naffium per glebae addictio. Ma il contesto non permette di applicare que- sto significato al caso nostro; anzi ne in- duce a credere, che il ViUanarius fosse forma latinizzante j)er Freibauer, come si disse di poi in Germania. Difalti la carta con- cerne un possessore della parte tedesca del Ducato.

(8) Pacare = pagare; dal latino pacare. Documenti veneti del secolo XIll ne recano qualche esempio.

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ROMANZA, N.'* 2] GLI IDIOMI PARLATI NEL TRENTINO

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.. si expensas necessarias fecerint... in copericndo (1) donium episcopatiis ; p. 383. . . vice loco et nomine Dominorum ... et omnium eorum sequacium et coadjuto-

rum; p. 390. .. cum uno capicio (2), quem in suis tenebat manibus, investivit; p. 401. .. Alienacio ... cassa sit et vana, et nullius valoria et momenti; p. 415. .. Masculi et femine de cetero non debeant se maritare, seu nubere in personisde

macinata (3); p. 415. . . In reffitorio monasterii Sancti Laurencii ; p. 445.

.. tantum unum manualem (4) concedimus ad procurandura ejus negocia; p. 447. .. Inhibemus eciam omnibus deferre cui teli um cum puncta; 448. . . per voudum (5) et per plenum... debent ire; p. 451. . . contra exactorea colte, dacie, sive aliorum impositionum ; p. 456. .. ad locationea faciendas, adhibitis duodecim juratis; p. 457. . . minella (6) prò laboreriis ; p. 458.

.. quod faciebant sclavae (7), veniendo zosum per Athesim; p. 458. . . dfius episcopus est in possessione ponendi duas collectas annuatim XX aolidorura

prò quolibet foco (8); p. 463. . . collecta super fundis, et non super focis ; p. 463.

.. duos manaos in pertinenciia Termeni, cum daciis, coltis et biscoltis (9); p. 463. . . de XX urnia boni vini albi puri da vasa (iO) et bene bulliti; p. 468.

(1) « In coperiendo domìim » ; è la forma che dura nel dialetto: quérzer la casa; far el qiiert,

(2) CtfptcìMm = cavezzo, cavezza, non si trova nel Glossario. La relazione simbolica col vassallatico apparisce chiara.

(3) Intorno agli Ifomirtes de Macinata 8i veda il Muratori {Ant. It. IHss, XIV); il quale giustamente fa distinzione tra gli homines di condizione propriamente servile, e quelli in condizione di semplici pertinenti. Nel pa<}so da noi riferito si allude a servi. Ma quando altrove si legge homines de Ma- cinata S. Vigila, s* ha da intendere perti- nenti della Casadeiy chiamati, ove occorresse, a prestar anche servigio militare.

(4) Manualis fu usato con diversi signi- ficati: di confidente, di pertinente, di gior- naliere, e di garzone operajo. Qui è nel- r ultimo senso, che rimase proprio alla pa- rola manoàl del dialetto.

(5) FbudM* = vuoto, non è riferito dal DucANGB. Nel dialetto si dice vado,

(6) Minellus «e mensura frunientaria » sta nel Glossario; ma non ha che fare colla minella prò laboreriis , ch'era un'imposi- zione da pagarsi dai minatori. A Trento oggidì si dice minéla la corba in cui dai

coloni si portano le frutte in regàlia (re- galia) al padrone. Nel vocabolo v'hanno unite dunque più idee, svoltesi successiva- mente: misura, imposizione, recipiente.

(7) Sclavae, specie di zattere.

(8) Pro quolibet foco = per ciascuna fa- miglia. Oggidì ancora, nel contado, si usa Vòg (fuoco) per significare famiglia, ove si parli di popolazione, o si tratti d'indicarne la quantità.

(9) Bacio, datio, data, datiunt, vocaboli sinonimi in origine, mutarono col tempo signi- ficato; che mentre prima esprimevano dono o prestazione volontaria, finirono coU'indicare tributi o gabelle di varia specie. Colta, se- condo il DucANQE, equivale a Collecta, CoUa- tio, ossia imposizione generale sui possessori non privilegiati. Biscolta non si trova nel Glossario; la composizione del vocabolo fa- rebbe arguire ad una seconda Colletta, oppu- re di doppio importare.

(10) In una carta di Berengario I deir897 (Muratori, Antiq. It. T. II, 97) si legge « Vrnas et tnutas tei ullas collectas ». Urna era misura di vino; e, sino a pochi anni fa, le bevande, nel commercio all'in- grosso, non si misuravano nel Trentino che a Orne (circa 02 litri). Muta era una ga-

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134

B. MALFATTI

[cilORXALE DI FILOLOGIA

. . non suffioeret dare omni anno dictas XX urnas vini ante spinam (1); p. 468»

. . solvere promisit libras V casei ad stateram vìcinalem ; p. 471.

. . excepta terra vidata (2) ; p. 473.

. . excepta pecia una de terra prativa, que jacet a de Pralongo, possessa per jam dietimi Petrura; p. 474.

. . pecia una de terra prativa divisa in octo eortes (3) ; p, 480.

. . starios XII de biava ad mensuram rasam (4); id est IV siliginis, IV milii, et toti- dem panitìi; p. 484.

. . investivit de uno broilo (5) de terra ad oliva plantanda ; p. 491.

. . a jure suo decadant et terram amniittant ; p. 498.

. . de una pecia de terra hortativa que jacet in lo broilo de Livo ; p. 504.

. . de pecia terre . . . jacente ad inferiorem isclam (6) , quam quondam laborabat Al- bertus; p. 505.

bplla da pagarsi per certe «lernxte, o in certi siti. II vocabolo s" incontra frequente nel- le antiche carte trentine. In tedesco suonò tnauth; e secondo taluni sarebbe stata la parola germanica che diede origine alla la- tina. Ma, a nostro avviso, il vocabolo non è d'origine latina germanica, ma piut- tosto retica. E prima il carattere fonetico lo raccosta al ladino odierno. Vuole osser- varsi inoltre che muta = niautht non altro signitlcava dapprincipio che una specie di ga- bella sulle imbarcazioni del sale. Ora è noto che gli antichissimi abitatori della Rezia e del Nerico sapevano trar partito delle mi- niere di sale, e facevano traffico di tale der- rata; anzi tramandarono ai tedeschi, venuti pili tardi , i nomi de' paesi e fiumi dove erano saline. Vasa , per vaso o recipiente, il Du- TANGE lo riporta da un documento arrago- nese. Ma a Trento anticamente doveva usarsi, come 8* usa tuttodì, per significare il mosto contenuto nella botte. Vìnum purum de vasa, era quanto dire vino di solo mosto d'uva. Il dialetto ha proprie anche le forme verbali svasar, stravasar, attinenti ad ope- razioni di cantina.

(1) Ante spinam, cioè prima di spillar dalla botte il vino nuovo. Nel dialetto tren- tino s'usa dire tuttavia '.prima della spina; avanti spinar. Spina, per spillo succhiello, lo si legge nella Destntctio Monast. Mori- mundensis , e negli Statuti d'Asti. Lo usò anche Aribone di Frisino a nella Vita di S. Corhiniano; e probabilmente lo apprese nel Trentino, dove la Chiesa frisingese posse- deva dei vigneti.

(2) Terra ridata = terreno messo a viti.

(3) Si chiamano tuttavia Sórt, Sórti, le porzioni di pascolo o di bosco comunale, che vengono assegnate d'anno in anno, o per un tempo determinalo, a ciascuna famiglia.

(4) Rasa, Rasus^ Rasum sono nomi di misure usate nel medio evo. Ma nel caso nostro rasa è aggettivo, usato per indicare . misura giusta, colma. Difatti misura rasa si usa nel dialetto, nel senso da noi indicato; e di un recipiente empito intieramente si dice, che è pien ras.

(5) Il vocabolo Brolium ( che diventò Breuil presso i francesi, e presso i tedeschi Brùhl) sembra veramente derivato dal greco peribólon. Ai tempi di San Girolamo doveva usarsi in Roma questa voce greca (Hieron. tn Ezechiel.); ma, nel secolo X, brolum era diventata parola dell'uso nell'Alta Italia. (LuiTPRANDUS, Antapodosis, III, 14; Leffa- tio, 37). Forse il vocabolo greco si lati- nizzò e diventò comune ai tempi della do- minazione bizantina. Oggidì, nel Trentino, broilo significa frutteto. Il broilo, di cui parla il testo, doveva essere messo ad ulivi. L'ulivo si coltiva tuttora nel tenere di Arco, a Riva, e al sud di Ala. Ma la sua cultura nel Trentino doveva essere un tempo più diffusa che non adesso. Ancora pochi anni fa, po- tevano vedersi avanzi di antichi uliveti a Gocciadoro presso Trento, e sulle chine apri- che vicino a Mezzolombardo. Se andarono scomparendo in questi ultimi luoghi, non fu colpa del clima, ma effetto di considerazioni economiche; di rendere cioè più proficuo il terreno colle colture della vite e del gelso.

(6) Dice il Glossario che la parola Jsdu fu comune nell'Occitania e nella Provcnia

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ROMANZA, 5.- 2\ GLI IDIOMI PARLATI NEL TliEXTIXO

l:r>

. . vini colati (1) de vasa de ipaìs vineis, ad urnam et mensuram canipe; p. r>(»

. . agnom ?el porketnm unum ; p. 509.

. . Unnsqaisque gastaldionum annuatim debet ei (episcopo) centum brachia (2) linei panni; p. 510.

. quisquis gastaldio debet ei saumarium unum cum omnibus necessariis preter fre- num, et II bulcias, et II modios farine frumenti bu^etate et sacoura unum, et manaulam unam, pemam unam, et ferra centum equis (3) ; p. 510.

Di rendere ancor più copiosa questa messe di voci e di locuzioni, ci sarebbe stato facile; ma ce ne astenemmo, pensando che la quantità esibita avrebbe potuto pur bastare alla dimostrazione che ci eravamo proposta. Tuttavia per assodar meglio la cosa, ne si conceda una breve aggiunta intorno ai nomi di paesi e di persona. La toponomastica che ci porge il Codice, non diflferisce punto (salvo la desinenza latina) dalla odierna; come può mostrarlo il seguente elenco, formato di nomi presi nelle varie valli di cui si compone il Trentino:

Ala, Àlbianum, Arous, Bacolinum, Banale, Basilica (^a5f7^a), castrum Belve- dere, Besinum, Bolegnanum, Bi*ancaforum , Busintinum, Cagno, Calianum, Cavaleee, castra m Corno, Civizanum, Cleis, Duronis mons, Egnia, Fiemmis (Fiefnme)y Fulgaride, Fundum, Ivanum, Levicum, Livum, Litiana, Lodronum, Madernum, Madrutium, Maletum, Maluscum, Materellum, M«zana, Moclassicum, Murium, Nacum, Numium {Nomi), Padernum, Pagum (Povo)y Petrasanum (Pederzano) ^ Perzines (Pergtne), Pinedum, Pomarolum, Penale portus, Randena, Ripa , Romenura, Sarca flunien, Sar- dauea, Sejanum, Stenecura, Summoclivus, Telve, Tertiolasum, Trilagus, Tonalo mons, Turbulis, Vigni us, Villazianum, V arena, Vallis Leudri, Ysera (4).

per significare alluvione; adducendone un esempio dell' anno 1063, tratto dal Cartula- rio di S. Vittore di Marsiglia. Nel Tren- tino si dicono tuttavia Iscia i terreni di formazione fluviale, coperti di salici o di ve- getazione palustre; e il significato, o Tuso, del vocabolo e più giusto qui ; perché Iscia deriva indubbiamente da Lisca « scirpus, papìrus ». DiBZ , Etim . Woerterb.

(1) Colare, verbo, non s'incontra nel la- tino letterario; il quale però conosce il so- stantivo colatura. Il verbo s'usa tuttodì nel Trentino.

(2) Brackium, come misura, venne nel latino rustico a prendere il luogo di cubi- tilt. Lo si legge in una carta dell' Impe- ratore Enrico IV del 1080, e in parecchie carte italiane del sec. XII.

(3) Bu^ta = bisaccia. Farina bugetata (hugetatut. non è nel Glossario) forse signi- fica abburattata. Anche manaula non si

trova nel Glossario. Che fosse per avven- tura la fune, con cui guidare a mano il so- miere? Perna è una specie di lenzuolo, o pannolino da metter forse sul dorso alla ca- valcatura.

(4) La toponomastica della Rezia servì d^argomento ad alcuni per sostenere che gli abitatori antichissimi fossero etruschi ; ad altri invece per dirli celli. Senza entrar nella questione, noteremo soltanto che a qual- che nome di paese del Trentino (Pergine, Vessano) si può trovare riscontro nella To* scana; mentre altri nomi , quali Cleis (Cles), Clauz (Clóz), Faid, Graum portano im- pronta ladina ; ed altri un tipo retioo ancora più antico, come ad esempio : Randena, Leu' drum (Ledro), Ausugum (Val Sugana), Telve, Una terra di nome Telves, esisteva, nel secolo IX, nella parte del ducato ormai germanizzata dai Bavari.

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1.%

B, MALFATTI

[UIOKN'ALE DI FILOLOGIA

Non meno dei nomi di paese hanno impronta italica i nomi di per- sona o casato (1): che sin d'allora era frequente nel Trentino Fuso di cognomi. Giudichi il lettore dalle serie seguenti: la prima delle quali nomi di persone di vario stato e professione: la seconda cognomi di famiglie popolane, la terza di casati che erano allora tra i più potenti ed autorevoli del paese:

1. Adam, beccarìus; \

Adrianusy magister;

Barisellus, notarius;

Bellina, uxor Venturae;

Bonavida, preabjter;

Bonazucca, judex;

Bonfadus, doctor Icguni j

Bonodomanus, apothica- rìus;

Bonomua, magister;

Bonza niaus, medicus;

Brazebellus, notarius;

Brunellus, famulus;

Calapinus, judex;

Francobalbua, portenarius ; ^ Lanfrancus, notarius;

Mallagoradius (2) , muli- narius ;

Manfredinus, caliarius;

Omne bonus, clericus;

Ottolinus, scholaris;

Petarinus, syndicus Trid.;

Tinaccius, praeco curiae ;

Zanebello canonicus;

Ziliolus, camerarius;

Zuliana, uxor Coucii;

Petrus Battaja; Ubertinus Belleboni; Rabaldus Bertoldini; Jacobinus Biancemane ; Johannes Bocconelli; Bonaventura Calcagninus ; Martinus Cane; Johannes Catelli; Beraldus de Caudalonga; Ambrosius de Codeferro ; HenricuB Crassi; Albertus de Fabris; Vivianus Fotisoceram; Albertus Mitifogo; Bontempus de Panago; Ottobonus Paparellus; Albericus Pastora; Rico Pauletus; Odolricus Ram baldi; Milo Robatasche; Laetitia Saviola; Trintinus Sporelli; Euricus Uberti; Ripraudinus Zanoliui ;

Rambaldinus de Arco; Ottobonus de Eellastila; Pelegrinus de Besèuo; Manelinus de B urgono vo; Cagnoutus de Campo; Brian US de Castrobarco; Bursa de Castronoyo; Benvenuta de Fabriano ; Marsilius de Fornace; Galapinus de Lodrone; Odalricus de la Lupa; Bonainsigna de Madruz-

zo; Adelaita de Menzano,- Outo de Montalbano; Matelda de Mori; Yvanus de Porta; Gandulfinus de Portella; Ricabona de Pozo; Maria de Pratalia; Pegorarius de Roccabru-

na; Albertinus Salvalanza; Graziolus de Storo; Turisendus de Toblino; Brunatus de Tonno.

Che nella cernita di questi nomi, come prima in quella delle locu- zioni, si sia adoperato qualche artifizio, speriamo che il lettore non vorrà neppur sospettarlo. Si faccia pure a scorrere tutto quanto il Codice Van- ghiano, anzi lo esamini minutamente; e verrà a conchiudere con noi, ne siam certi, che nel paese dove si dettarono quelle carte, doveva essere prevalente la popolazione italiana, anzi prevalente in tutti i mo- di. Questo stato di cose ebbe a durare anche nella seconda metà del secolo XIII. Le storie ci mostrano come Trento ed il ducato fossero allora

(1) Vogliam dire, cioè, che di forma e de- sinenza somigliano a quelli usati nelle altre parti d'Italia, anche quando fossero per

stessi d'origine forestiera.

(2) Possiara credere che nel volgare suo- nasse: Malati iràdo.

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ROMANZA, N/> 2] GLI IDIOMI PAliLATI NEL THENTIKO 1;)7

in frequenti e strette relazioni con le vicine città italiane. Prima Ez- zelino da Romano, poi i Padovani ebbero, pib o meno direttamente, ad esercitare signoria nel Trentino ; e Verona e Vicenza strinsero leghe con esso. Solo dopoché vennero a dominare sul Tirolo i Conti della casa di Gorizia, le condizioni mutarono alquanto. Prevalendosi dei diritti, o delle prerogative, che dava loro TAvvocazia della Chiesa di Trento, quei signori cercarono d'indebolire per ogni verso T autorità politica dei vescovi, riducendola difatti ad essere poco più di un'ombra. Ma se il paese veniva così a dipendere dai vicini conti molto più che in passato; e se naturale conseguenza di tale soggezione era un nuovo infiltrarsi di elementi tedeschi nella città e nel territorio, non si creda però che andassero rotte le relazioni del Trentino colle città vicine della Lom- bardia 0 della Venezia, o che esso fosse ridotto a condizione di provincia tirolese. Nel secolo XIV e nel XV ancora la. sua storia s'intreccia di spesso con quella dei signori della Scala e dei Carraresi, dei Visconti e di Venezia: e, quanto a franchigie, Trento non aveva fatto gran per- dita; anche perché ai Conti tirolesi importava di blandire i cittadini, e trovar seguito tra di essi nei loro disegni contro i Vescovi. Cosi il po- polo trentino veniva in certo modo a bilanciare colla larghezza dei suoi ordinamenti civili la dipendenza dai signori tedeschi. E quegli ordinamenti erano veramente mezzo efficace per mantenere e svolgere la lingua e lo tradizioni nazionali. S'aggiunga che la diocesi trentina faceva parte della provincia ecclesiastica di Aquileja; si guardi infine alla storia o allo sviluppo degli idiomi italiani sul finire del secolo XIII, ed al pre- stigio e alla prevalenza che si procacciò la cultura italiana nei tempi successivi; e avremo altrettante e buone ragioni con cui spiegarci come la favella tedesca non sapesse nel Trentino prendere il di sopra, neppur allora che le circostanze sarebbero state le più opportune ad ajutame la diffusione.

Ma il signor Schneller non la pensa così. Secondo lui , nella valle trentina dell'Adige, e nelle valli e sui monti ad oriente di questa, l'elemento tedesco (correndo il medio evo) fu dapprima il dominante; poscia venne a parità coli' italiano; infine fu sopraffatto da quest'ultimo ed oppresso (1). Si potrebbe domandare al signor Schneller quali sieno i momenti o le epoche che segnano il termine od il cominciare que- sti tre periodi; non avendole egli punto indicate, potendosi ricavare

(l) Mittheilungen (23 Band, X Heft); Deutschen Nationalkòrper in ununterbro- p. 372 «...die Thatsacheu berechtigen zum chenem Zusammenhange stehende Deutsche jrewiss nicht gewagten Ausspruche, dass ira Element ira Mittf'laUer Anfaugs das herr- Elach-Thal und in den ostlich davon gele- schende, spater das gleichberechtigte» en- genen Oebirgen und Thalern das rait deoa diich das unterdrttckte gewescn ist. »

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loJ^ Ji. MALFATTI [giuicxalk di filologia

altrimenti dalla sua Memoria. Ma gli rimetteremo volentieri la risposta; sembrando a noi , che da solo amor di sistema potesse essergli suggerito quella partiziore, non, come dice, da attenta considerazione dei fatti. I quali, nonché venire in appoggio, contradicono sifi'attamente a quel suo schema, da rovesciarlo, o capovolgerlo sino a un certo punto.

Delle relazioni che corsero tra l'elemento germanico ed il latino sino al secolo XIII, abbiam discorso prima. Vediamo ora con quali argomenti il signor Schneller prenda a confortare la pretesa superiorità, od anche solo la parità dell' elemento tedesco nei due secoli susseguenti. E prima ci fermeremo su d'un fatto, che il signor Schneller tocca ap- pena alla sfuggita, ma a torto secondo noi; perché se il fatto sussistesse propriamente, ne verrebbe la più valida conferma a' suoi asserti. Vo- gliamo dire dello Statuto di Trento, che sarebbe stato a bella prima dettato in lingua tedesca. Il signor Schneller assevera che fii cosi; onde conclude che il maggior numero dei Trentini, nel secolo XIII e nel XIV ancora, dovevano parlare tedesco. S'avverta tuttavia che il professore tirolese, in dir questo, lunge dal darne una opinione od una scoperta sua propria, altro non fa che ripetere le affermazioni del signor professore Tomaschek di Vienna; il quale, diciassette anni or sono, ebbe a pubblicare per la prima volta quello Statuto néìV Archivio per la Storia Austriaca^ accompagnandolo di un Commentario (1). Talché prendendo noi a provare quanto poco regga la pretesa priorità del testo tedesco sui testi in altra lingua, piuttosto che al signor Schneller ci volgeremo al si- gnor Tomaschek; il quale mostra, nel suo Commentario, di non essere sce- vro neppur lui di quelle preoccupazioni e prevenzioni politiche, di cui abbiamo fatto cenno sul cominciare di queste pagine.

Ed ora veniamo al fatto. Fra i manoscritti che dall'Archivio vesco- vile di Trento passarono all'Archivio imperiale di Stato, v'ha un codice cartaceo, in ottavo piccolo, che porta scritto sulla coperta: < Statutum Trìdentinum ab epa Nicolao publicatum ab omnibus et ubique observan- dum ». Il testo stesso però è in cattiva lingua tedesca; e distinto in due parti: dei vecchi e dei nuovi statuti. Fu terminato di scrivere il 27 Marzo 1303 da un < Heinrich Laìigenbach famulus des Heinrich Stang capitaneus Castri novi (2) ». Non mancò di farne menzione il padre Bo-

(\) Die aeltesten Statuten der Stadt und germanizzato in quella forma. Sappiamo

des Bisthums Trient, {Archivi f. Kunde invece che, nella seconda metà del 8eco-

oesterreich. Geschichtsquelleìi , herausge- lo XIV, fioriva ancora T antica famiglia di

gebeu von der k. Akad. der Wissenschaften; Castro novo; e che tra il 1360 o il 1370 un

T. XXVI, p. 67-228, Vienna, 1861). Corrado di Castelnuovo s'era reso reo di ri-

(2) Il signor Tomaschek dice, che il Hein- bellione. {Xlberti^ Annali del principa" rich Stang era della famiglia dei Signori di to, p. 254.) Forse che il Castello in Val Stenico; ma noi ne dubitiamo; non avendo Lagarina fosse stato occcupato, in queir oc- mai visto che il nome di Stenico venisse casionp, per ordine del Conte del Tirolo? «

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ROMANZA, N." 2] GLI IDIOMI TARLATI NEL TBENTIXO 1C9

nelli nelle sue Memorie (1): e lo conobbe anche T erudito barone Qian- giacomo Gresseri, il quale nelle Ricerche storiche sul Magistrato coti solare di Trento <f scrisse < ch'era un'assai rozza traduzione in lingua tedesca di due statuti (2) ». Quel dotto ed amoroso ricercatore di memorie pa- trie che fu Tommaso Gar, ebbe egli pure ad asserire, ventanni or sono, che lo statuto trascritto dal Langenbach era un volgarizzamento (3). Però il Gar, il Cresseri esposero le ragioni del loro avviso ; forse perché l'evidenza della cosa pareva loro tale, da non bisognarle soste- gno di argomenti o ragionamenti. Certo non immaginavano, che qual- cuno sarebbe venuto in seguito ad asserire, essere stato lo statuto tren- tino dettato alla bella prima in lingua tedesca.

Per sostener questo il signor Tomaschek si fonda su d'un documento, ove è detto che il vescovo Enrico II, nel 1275 e sonata campana ìmlatii ad arengam puhlicam », ricevette dai magistrati e dal popolo giuramento di fedeltà: facendo leggere a tal uopo il capitolo o la consueta formula « lUteraliter et vtilgariter » : minacciato l' estremo sXipplizio a chi si fosse reso colpevole di fellonia « ex mmc Leg, Mimicijp, et Statuto Civitatis (4) ». Dunque, argomenta il signor Tomaschek, prima del 1275 esisteva uno Sta- tuto, ed esistevano prescrizioni circa al giuramento da darsi al vescovo. Ma tra i vecchi Statuti del Codice tedesco v'ha un capitolo concernente questa materia: dunque essi Statuti dovevano esistere prima del vescovo Enrico. Nel documento è detto inoltre che la formula fu letta « litteraliter et vul- gaì-Uer » ; ora per vulgariter non si ha ad intendere altro che lingua te- desca, essendo tale l'idioma in cui è giunto a noi il più antico testo dello Statuto (5).

Non ci fermeremo a rilevare i vizj logici di questo ragionamento, in cui si per dimostrato quello ch'era da provarsi: vale a dire l'asso- luta identità degli Antichi Statuti del codice tedesco colle Legihus Mu- nicipii et Statuto Civitatis: ed al vocabolo vulgariter si attribuisce un senso forzato per lo manco. Che il Comune ed il Ducato possedessero per tempo ordinamenti e leggi particolari, non lo neghiamo: anzi non lo po- niamo neppure in dubbio. Sappiamo che nel 1182 era stata discipli-

che queir Heinrich Slang non fosse altri che (l) Bonelli, Monum. Ecrl, Trid. p. 101. r Enrico capitano generale del Conte, che è (2) II dotto lavoro del Barone Cressrri, nominato più volte in quegli anni dai docu- legge nella Bibìinteca Trentina^ pubbli- menti trentini? (Alberti, Op. cit. p. 248). cala da Tommaso Gar; Disp. 2, Trento, 1858, Esponiamo qui una semplice conghiettura, pag. 45.

non avendo alla mano i materiali con cui (3) Statuti di Trento {Biblioteca Tren-

chiarire la cosa. Aggiungeremo ancora, che tina)^ p. XXI.

il /a»iu7M* Langenbach non fu che trascrit- (4) Bonelli, Monitm. Krrl. Trid. p.<M].

tore degli Statuii, come apparisce da un'av- (5) Tomaschkk, Die ad'csten Statìtten

vertenza che aggiunse al cap. 55 della prima etc, p. 1^)4. parie.

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140 B. MALFATTI [giurxalk m filol<;gu

nata la tnateria intorno ai bandi (1); che circa quello stesso tempo erano state date prescrizioni intomo all' imposta sui fabbricati (2) : che, risedendo podestà a Trento Sodegerio di Tito, nel 1240, erano stati stabiliti dei dazj per la esportazione del ferro (3) ; e che prima del secolo XIV furono pro- mulgate leggi contro Tuso del portar armi nel contado (4). Altre pre- scrizioni si saranno pubblicate di mano in mano su materie di polizia e di amministrazione; e con un particolare Statuto si sarà provveduto, pro- babilmente, al modo di eleggere i maestrati municipali, ed ai rapporti della cittadinanza col Principe; forse ci apporremo al falso arguendo, che il giuramento al principe venisse prescritto ai tempi di Federigo Vanga, (1207-1218) zelante rivendicatore dei diritti vescovili. Ma che già in quegli anni, o poco appresso, si fosse compilato un Corpo sta- tutario, ci sa cosa molto improbabile, e per due ragioni; la prima quella che anche nelle altre città dell'Alta Italia si tardò fin quasi alla metà del secolo a riunire ordinatamente le antiche leggi e prescrizioni (a Ve- nezia per esempio non vi si attese che nel 1242); la seconda, che lo Statuto di Trento ( nell'ultima sua compilazionedel 1528) ricordando quei principi passati che dettero mano a raccogliere ed emanare statuti (5), nomina come il più antico il vescovo Bartolomeo Quirini ; il quale venne Alla cattedra di San Vigilio nel 1304. Possibile, chiedi am noi, che i Con- soli di Trento, compilatori dello Statuto, e che Bernardo Clesio, uomo di acuto ingegno, e raccoglitore solerte e studioso di antichi documenti, non avessero contezza del Corpo Statutario del secolo XIII, se fosse esistito realmente?

A nostro avviso dunque la collezione più antica degli Statuti trentini non risale oltre all'anno 1307, come indica appunto il decreto di pro- mulgazione del vescovo Bartolomeo (6) ; il quale, dopo aver unite insieme le antiche prescrizioni, le faceva seguire da alcune altre, col titolo di Nuoti Statuti, Ma non insisteremo davvantaggio su questa parte del soggetto. Quello che importa a noi di porre in sodo, è l'idioma nel quale poterono essere dettate tanto le antiche leggi municipali, a cui si richiamava il ve- scovo Enrico II, quanto la Collezione Quiriniana del 1307.

11 documento del 1275 dice che la formula del giuramento fti letta « litteraliter et vulgariter ». Ora che cosa significa il lUteràliter contrap- posto al mdgariter? La spiegazione più ovvia è quella, che la formula

(1) Codex Wangianus , N.» 15, 77. tutte le redazioni latine. Non potrebbe

{2) Codex Wangianus , N.» 4, 35, 149. indurne, che lo Statuto tedesco fosse com-

(3) UoRìiWR , Geschichte TiroVs, 1,2.— pilato per uso particolare di castella o paesi Alberti Francesco Felice (Princ. Vesc. del contado?

di Trento), Annali del Principato, pubblic. (5) Statuto di Trento (Lib. I, de Cinli-

da T. Oar, Trento, 1860, pag. 115. bus), p. 7.

(4) Queste prescrizioni, conservateci dai (6) Keiccn Statiti, cap. I. Vecchi Statuti (cap. 142), mancano in

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■OMAXZA, X." 2] GLI IDIOMI PARLATI ^EL TliENTiyO 141

venisse letta dapprima secondo il testo originale, ossia nella lingua in cui era stata dettata; e poi tradotta nel!' idioma comune. Cosi difatti si costumava in casi simili. In due lingue adunque fu letta. Or quale poteva essere la lingua dell'originale? Non altra che la latina, rispondiamo noi; e cosi crediamo che sarà per rispondere il più dei lettori. Gli scrit- tori di quei tempi, allorché fanno distinzione fra literaliter e vulgariter^ non altro intendono dire col primo avverbio, che lingua latina (1). Ed in qual altra, se non in questa, si sarebbero dettate, nel secolo XIII ancora, le scritture pubbliche o d'oflScio? (2). Quanto al vulgariter sap- piam bene, che tale vocabolo fu usato per indicare in genere T idioma vivo del popolo; ma che nel nostro caso volesse dire tedesco, il signor To- maschek ci permetterà di non crederlo, dopo quanto ebbimo a dire sulla glottologia delle carte trentine nel XII e nel XIII secolo. S'aggiunga che Trento, negli anni preceduti a quelli del vescovo Enrico, era stata in relazioni strettissime colle città italiane vicine; si noti infine che delle persone ricordate dal documento una sola ha nome straniero, « Erardus de Tinginstain, capitaneus », ossia comandante delle milizie. I due sin- daci della città sono « dns Riprandus de diio. Gonselmo, et Gerardus Cappelletti »; i giudici della corte « Federicus et Vielmus de Castro- barco, Nicolaus Spagnoli, et Maximianus »; i testimoni rogati « Apro- vinus, Gerardus et Nicolaus de Castro novo, Pelegrinus de S. Benedicto, Vielmus Belenzano, Gabriel de Porta »: tutti nomi che non hanno nulla di tedesco.

certo in altra lingua, fuorché nella latina, fu dettato il Corpo Statutario sotto il vescovo Bartolomeo. Il quale nativo di Venezia, e stato vescovo di Novara prima di venire assunto alla sede di Trento, ignorava intieramente il tedesco; talché (lo racconta anche il signor Schneller) (3) essendo venuti da lui degli « homines teutonici » a trattare di loro ne- gozj, fu mestieri di ricorrere ad un interprete. Chi vorrà supporre che il principe fosse per pubblicar leggi in una lingua a lui sconosciuta? E chi teneva allora grado di Vicecomite, ossia di supremo officiale nel ducato? Un Andrea Quirino, consanguineo del vescovo (4). Quali i vi-

(1) Ducange; Glossar inm f ad voc. Li- iìi Strasburgo, e quelli di Luhecca circa il 1240; Uràliter, Vulgariter. « Nullìcs clericus ad (Stobbb, Gesch. der deutschen Rechtsqvel- sacros ordines promoveatur nisi saltem li- len , I, 503, 507). Gli uni e gli altri però ter aiiter sciai loquiTt, (Corte. To/^t. a. 1339). fu rouo redatti sopra un testo latino più an- « /Vtor autenif ut eofpedvre viderit, expch- tico. Del resto è notissimo che Germania, nat vel literaliter vel vulgariter quae /tic- Francia ed Occitania usarono i loro volgari, rint dicenda circa materiam ». ( Chronic, nelle scritture publiche e nei libri , molto pri- MeUieense), ma dell'Italia.

(2) Nella Germania, è vero, si hanno (3) Mittheilungen , p. 372, col. 1. esenipj di Statuti dettati in lingua tedesca (4) Bonelli, Momim. p. 86.

sin dal secolo XIII; cosi ad esempio quelli

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112

B. MALFATTI

[iJUiKNALE DI riLULOGIA

carj incaricati di amministrare la giustizia? Un Giacopino da Cremona, un Guidone da Pavia, un Guido da Parma, un Gherardo da Bologna (l). E costoro avrebbero dovuto servirsi di uno statuto tedesco, e render ra- gione in quella lingua? Stentiamo a crederlo. Del resto la notizia degli ìwmines teutonici e dell' interprete è la miglior prova, a parer nostro, che il linguaggio tedesco s'usava in via d'eccezione, e che il parlare vuìgari- ter^ a Trento, era parlare italiano.

Nuove promulgazioni di Statuti furono fatte nel secolo XIV dai ve- scovi Enrico di Metz, lorenese, e Niccolò di Briinn, che tennero la sede trentina dal 1310 al 1347 (2). Quanta parte avesse ciascuno di costoro alla legislazione del paese, non è possibile di determinare: perché i testi ori- ginali dei più antichi Statuti trentini andarono smarriti o distrutti, do- poché venne in vigore quello del 1528 (3). Noi sappiamo soltanto che

(1) Xewen Statut, cap. I. Serie crono- logica dei Podestà o Pretori di Trento, Rovereto e Riva^ con Annotasioiìi stori- che {Calendario Trentino, 1854), pag. 89. Questa Serie fu compilata, da chi scrive le presenti pagine, su degli elenchi che esiste- vano nella Biblioteca civica di Trento, e su notizie favoritegli da alcuni culli concittadini suoi. Ma il lavoro, sia per insufficienza di fonti, sia per angustia di tem()0, non potè riuscire perfetto. È da desiderare che qual- cuno dia opera a rienapirne le lacune, e cor- reggerne le mende.

(2) II vescovo Niccolò da Br(inn,dopo aver d:Uo opera ad aumentare gli Statuti, ordi- nava nel 1339 il censimento o la determina- zione dei beni comunali della città di Trento. Il documento col titolo: Designationes Com- rnunium ciritatis Tridenti, fu pubblicato da Tommaso Gar, in appendice allo Statuto del 1528. È documento importantissimo per chi studia le condizioni economiche del paese a quei tempi, e la sua corografia. Vicario, o Pretore di Trento, era un Gino da Casti- glione d'Arezzo. A designare le proprietà ed i diritti del Comune vennero scelti 126ont viri; 3 per ciascuno dei 4 quartieri in cui era divisa la città, e furono « De quarterio Merchati: i>."' March us de Belenzanis, Philippu.i Stasonerius , Girardìts Mnsa^ ta; de quarterio S. Benedicti: />."* Bo- naventura qni dai Baldini, Nascimbeniis de Calepiiiis, Buratinns de lìuratinis ;

de quarterio S. Martini: D»' Xicolaus d ic- tus Tarn buri in US , Xicolaus mastaxus , Hehele hosterius; de quarterio Burgi- nori : D."* Franciscus Palanchus , Odori- cus de Marchadentis , Nicolaus de Baru- fuldis ». Dei dodici boni viri, un solo ha nome furestieru,il Hehele hosterius del quar- tiere di S. Martino, nel quale quartiere era la via più frequente di abitatori alemanni; onde il nome che prese più lardi di Contrada tedesca.

l3) Secondo il Gar {Stat. di Trento, p. XXV) il più antico manoscritto di Sta- tuti che si conservi, sarebbe del secolo XIV, e conterrebbe le norme pei Sindaci, in ottanta capitoli. Ignoriamo quanto concordi collo Statuto tedesco, o quanto ne difìferisca. Il raffronto, come ognun vede, sarebbe impor- tante. Gii altri pochi manoscritti, che giun- sero sino a noi, sono della seconda metà del secolo XV. A spiegare del resto la scarsezza, per non dir la mancanza dei testi autentici, oltre alle ragioni delle distrazioni e degli sperperi, si deve forse tener conto anche di un fatto, di cui n'è conservato ricordo ne- gli Annali (\e\ Principe Alberti (p.376); vo- gliam dire del costume di inserire negli esem- plari officiali, ai singoli capitoli, le aggiunte che si facevano di mano in mano; e cancel- lare le parti che venivano abrogate o mo- dificate. Ai tempi del vescovo Giovanni IV le cancellature, le abrasioni, le alterazioni erano tante, e davano materia a così fre-

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ROMANZA, X." 2| GLI IDIOMI PARLATI NEL TRUNUXO Ulì

i due vescovi accrebbero gli Statuti, e che una parte di quello loro ajjj- giunte passò nel Codice in lingua tedesca. Ma da ciò, dair essere stati quei due principi forestieri, nessuno voglia argomentare che le leggi cominciassero allora a dettarsi in altra lingua, o che il tedesco fosse riuscito a prendere più diffusione o più forza. Le ragioni che per T ad- dietro avevano assicurato la prevalenza al latino, valevano anche adesso. Principale Notare del vescovo Enrico fu per parecchi anni un Bongio- vanni di Bonaudrea da Bologna (1). Il giurisperito Armanno di Parma godeva di credito particolare presso il vescovo Niccolò (2). Nella Sinodo diocesana, che dal primo di quei vescovi fu tenuta a Trento, nel 1336, troviamo che dei 27 canonici del Capitolo sei soli erano tedeschi. Degli altri ventuno, parecchi nativi dello città di Roma, Velletri, Bologna, Parma, Milano, Brescia, Conegliano, e del Friuli (3). Gli atti stessi sono dettati con uno stile, che rivela il Notajo italiano. Giudichi il lettore dai seguenti esempj;

Gap. V... Man8Ìonariu8 debeat suam in Choro facete septimanam ; ... continue sit ad Chorum quam ad aliam incumbenciam ; Gap. VII... ad removendum omnem defectum; Gap. IX... eo casu duo canonici se preparent indilate; Gap. X... Unus alium non interrumpat verbia; Gap. XrV... grandem contumeliam , et verius dampnum . . . cuni grandi araaritudinc

degustati . . . Gap. XIX . . . sigilla . . . sub tribns diversis clavibus in sacristia conserventur ... et cum

incuinbit ad aliquid sigillandum . . . Gap. XXI... Nullus audeat in armar iis si ve banchis claudere calices, libros eie. ni si

hoc faceret de scitu et licentia Sacristae, vel saltem Monachi (4). Gap. XXni. . . Cum ecclesia nostra.. . in pararaentis, et capis et aliis utensilibus ma-

gnum defectum paciatur; Gap. XXVI... sub ilio Colonello, seu consorcio censeantur (5).

Indicate così le ragioni principali, da cui siamo indotti a ritenere, che i più antichi Statuti di Trento non potessero essere dettati in altra

qnenii contestazioni, che nel 14S4 fu me- e se?.

Rtieri di venire ad un accor<Jo circa il valore, (4) Ogs:idi ancora* nel Trentino, ed al con-

od air applicazione da darsi ai testi alterati, tado in ispecie, si chiama 3/ò«<»^/i lo scaccino.

Non ci potrà quindi sorprendere, che rior- deputato alla custodia ed alla pulitezza della

dinata la materia statutaria, e promulprati chiesa.

nuovi Codici dai vescovi Uldalrico e Ber- (5) Abbiamo visto dianzi, che cosa pro- nardo , quei più antichi testi andassero ne- priamente sipnificasse il vocabolo ColumneU gletti, e fors^anco per gran parte distrutti, lu.t. Or qui lo troviamo applicato anche al

(1) BoNELLi , Xotisie istorico-critiche, li, Capìtolo della Cattedrale, per esprimere quel- pag. 653-655. lo che altrove si diceva Ordo; sebb*»ne con

(2) Alberti, Annali, p. 229. applicazione economica piuttosto che gerar-

(3) Synodxis Tridentina y a. 1330; Bo- chica. NELLI, "Sntisif i$toricO'Critirhe, T. 11, p. 075

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1 U B. MALFATTI |oiorxale di filoumua

lingua che nella latina, prenderemo ad esaminare quel tal Codice tede- sco, e a ricercare se la sostanza sua e la forma sieno tali per avventura da fornire sostegno ai un avviso contrario. Il signor Schneller, invo- cando a sua autorità il signor Tomaschek, dice, per rincalzare le pro- prie asserzioni, che i così detti antichi Statuti trentini ebbero a fonda- mento il diritto particolare longobardo (Langohardisches Volksrccht). Dove egli intendesse di approdare in dir questo, noi sappiamo comprendere. Volle forse concludere che il paese, dove si conservavano traccio delle cadarfrede longobarde, doveva essere di necessità paese tedesco? Ma cosa dire allora di Benevento, di Salerno, di Bari, dove la osservanza dell'Editto durò più largamente e tenacemente che nel Trentino? Imperocché s'egli è vero che in alcuni Capitoli degli Antichi Statuti si rivelano delle at- tinenze colle leggi longobarde (negli argomenti in ispecie delle debili- tazioni, degli adulteri, delle falsificazioni, del turbato possesso, dei pigno- ramenti, della custodia del fuoco, delle vendite dolose, del componimento e della pace per gli omicidj, della tutela delle donne e della prescrizione); vero è altresì, ed il signor Tomaschek lo ammette esplicitamente, che le tradizioni del diritto romano ebbero a vigere nel Trentino altrettanto e più di quelle del diritto longobardo (1). La introduzione allo Sta- tuto del 1528 dice chiaro che le leggi romane avevano avuto in passato vigore di diritto commune, servendo gli statuti di mero sussidio o di com- plemento ad esse (2). A mezzo il secolo XII vi erano in Trento dottori in legge, educati probabilmente in Bologna (3). Nel Codice Vanghiamo troviamo professioni di legge romana, mentre di longobarda o franca non ne incontriamo nessuna. E in quello stesso Codice, come pure in altre carte trentine di poco più tarde, abbondano formolo dell'antica giu- risprudenza, ed altri indizj, dai quali concludere ad una diflusa osservanza delle massimo romane circa ai contratti, alle ipoteche, alle donazioni ai testamenti. La costituzione dei tribunali poi, e le forme del processo (momenti di ben maggiore rilievo che non alcune singole disposizioni o sanzioni di legge) erano nella Pretura trentina secondo le norme romane, non secondo il sistema germanico. le consonanze dello Statuto tren- tino coir Editto longobardo sono tali che manchi loro riscontro in altre leggi particolari di popoli germanici ( Volksrechte) e negli ordinamenti delle altre città italiane. Lo stesso signor Tomaschek é pronto a rico- noscere che gli statuti dei Communi lombardi rampollarono insieme col trentino da uno stipite medesimo.

Che se pure questo stipite lo avessero dato le cadarfrede longobarde (il lettore vede che il concediamo solo per ipotesi) e che perciò? Sarà

(1) ToMAsniF.K, Die aeltesten Statuten , p. 107 e sej?.

(2) Statuti di Trento (Uh. I de Civilibus), n^l Proemino, (H) Codcr M'avr/iafììfò', N." 7, 7-^

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ROMANZA, x.-* 2] GLI IDIOMI PAUL ATI NEL TUENTINO

145

forse a cavarne la conseguenza che gli Statuti venissero dettati in lin- gua tedesca? Ma Rotari ed i suoi successori, ed i primi legislatori degli altri stati germanici, che idioma usarono essi? In che idioma furono scritti i più antichi Statuti di Verona? anzi quelli stessi della città trentina di Riva? E perché a Trento si sarebbe fatto altrimenti? No: i primi Statuti trentini furono, al paro di quelli delle altre città italiane, dettati in latino: ed il Codice pubblicato dal signor Tomaschek non fa altro che darne una grama traduzione. La cosa sarà posta fuor d'ogni dubbio da una breve rassegna de' vocaboli e delle locuzioni usate in quel Codice. Cominciamo dai primi; ossia dal riferire quei passi dello Statuto, che, per la qualità o la forma dei termini, fanno argomentare con sicurezza ad un testo originario latino. Eccone il saggio:

Cap. 1. (Ant. Stat.)...getreuen rat geben dem piachoff oder ^ìn^m caintany (ca-

pitaneo) (1); » 2...ZW raeren oder zw raìnderen die pen (poenam); » 3. ..di keczer p^enant sein alhanesen (2);

» 9... dem piachoffe oder seinem hauptinan, oder seinem vicario; » 22. ..Item ob ein noder {notar ius) macht ein falsch jnafcrument (3); » 35.. . Item ob ein thauerner oder thauernerin (si quis tabernarius vel tahernarin)

der in seiner tauern gehabt hat ein falsche mas; » 3G. . .ob ein thauerner oder beinachenk hat einen napff, Icopff (aliquem nappum,

coppam ) ; » 49. . . Die mit frawel ein pach auff eins andern possession keren. ( De h's qui

fraudolenter ruinam aquarum super alienam possessionetn mover inU Stat.

Eoboretana; e. 237);

(1) Poniamo in corsivo le parole di ori- gine latina, o tolte senz'altro dal vernacolo; aprgi ugnando fra parentesi le rispondenze de- gli Statuti del 1528.

(2) « Secta Catharorxnn divisa est in tres partes, sive sectas principales , qua- rwn prima vocatur Albanenses , secunda Concorre senses f tertia Bajolenses : et hi omnes snnt in Lotnbardia. Caeteri vero Catharif sive sint in Tuscia sire in Mar- chia vel in Provincia f non discrepant in opinionibit^ a praedictis Catharis ». Rai- neri! Sv.mma, ap. Martene, Thesaur., V, p. 1761. Si veda anche poco dopo, a p. 17G7, l'elenco delle sedici chiese de*Cattari, nes- suna dellp quali apparteneva a paesi tede- schi. L'esistenza degli Albanesi nel Tren- tino, e l'avervi più tardi predicato Fra Dol- cino, e trovato séguito (Frapporti, Storia di Trento f p. 485) è un'altra prova, che il

paese partecipava a tutto il movimento mo- rale delle vicine provincie di Lombardia. Intorno agli Albanesi vedasi il Girsbler { Kirchengeschichte , Parte IV, p. G21); e una Costituzione di Federigo II, del 1243 (Mansi, Concil. XXIII, 590).

(3) Nodér, e, nel capitolo seguente, ta- vernar^ sono forme del dialetto antico. La desinenza in ér (per aro o ajo) cedette il luogo, di mano in mano, a quella in àr; non però da per tutto. A Trento, per esempio, prevale T ultima; a Rovereto la prima. Quei vocaboli ad ogni modo, ed altri che riporte- remo in seguito, mostrano non solo l'opera del traduttore, ma sono anche indizio del co- me i tedeschi, venuti a dimorare nel paese, anziché dar essi la lìngua agli italiani, pren- dessero da questi molti termini per l'idioma loro cotidiano.

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116 B. MALFATTI [«iorxalk di filologia

. ein noder oder ofner schreiber (notarlum avi publicum scribam) ... sol man

jn pussen an aeinem leib nach der Uerrschaft oder seines officiali willen (1) ;

. Das chainerlay com^romis noch tading (quod nuUum compromissum seu ar-

bitrium); .80 sol man dem richter ein solar j {solarium) seczen; .und pflichtig ist za schreiben %éinQ jnstrumetvt ,.,jn hreviatur piicher und

nit in die czedeln {in libro et breviaturis et non in schedidis); .Aber von den czedeln oder exempelen {de scheduUs et exemplaribus) ; .sol man geben dem purgen ein frisi oder ein termen {assignato tamen prius termino fideiussori) (2); 04. ..die flaischacker . . . sindt pflichtig ... zegeben *da8 flaisch nach dem grosaen pfant, daz da swar sey XVIIJ uncz {uncius), und sol geben kastraune flaisch (3) ; 83. . . so sol man sy (die fisch) aus den korben oder czisten {ex corbis seu cistis) . . . und wer sy in der czistel halt oder andern wassern {in cistis ipsis seu vasis); 85... das ein yegliche person sol haben recht urn^ prenten^ star, mOtt {reclos cyathoSy wrnas, brentas, starioSy modios) . . . und sol auch messen ein kauf- tuch pey der stacion {ciim fuerit ad stationem) . , , und der Vicary des comuns ze Trint {et Vicaritis Communis Tri denti).,. -, 94. .. von einer yedeu coniraten der jnnen zucken oder rauben beschicht {d^ qua-

libet centrata in qua robum factum fuerit); 99. ..von einem yeglichen hauss, und von einer yeglichen massarey {de quaUbd

massaria) ; 101. ..die weil die rumor des feurs wert in der stat {quando rumor incenda fuerit

in civitate); 108. . . ob ein saltner {si quis saltuariu^ vinearum) ... die weil er auff der SaUerey

stet {stando in saltar ia) (4); 134... an dem anefanck eins yeglichen monats und halendas ; lG2..,Ifcem dez die paysser nicht sollen payssen in prayen oder in den pan {aucupes sive paysatores non debeant aucupari sive paysare in mileis, panicis et aliis bladis) (5); 163... daz chainer nicht fueren weder holcz, noch tawfen {dovoe);

(1) Herrschaft sta per Signoria, nel si- (4) Nel Trentino si chiama tuttavia So/(ar gnitìcato che si assegnava al vocabolo nei il custode de' vigneti, durante il tempo della Comuni liberi; beninteso che la Signoria, a vendemmia. Il Saltarius, presso i Longo- Treuto, era costituita in primo luogo dal bardi, era uno de' subalterni del Castaldo; Vescovo. "^2L il nome non è d'origine germanica; de-

(2) rer7nen = termine; si usa tuttavia nel rivando dal latino Saltus. Saltiis commu- dialetto, riferito a tempo non meno che a nes y leggiamo nelle leggi franche e longo- luogo. barde per indicare i pascoli pubblici; onde

(3) ^a.9fra?mc flaisch -carne di (agnello) è a credersi che il Saltarius, in origin*», castrato.- Che i tedeschi abbiano adottato fosse ìncumbenzato dal Castaldo di aver cura questo vocabolo (lo si legge anche nogli Sta- di quelli, e di mantenere V ordine tra i com- luti di Merano) ò cosa tanto più notevole, marcani. che ne fruivano.

che le carni da macello (ed anche il più (5) Pdi.^s^a ^ propriamente Tesca che si

de'beccaj) venivano allora dal Tirolo, come pone dai cacciatori per attirare uccelli, od

ne venirono tuttavia. altri animali. Paixsador, chi pone Pesca;

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uoMANZA, N.'^2J GLI IDIOMI PARLATI NEL TRENTINO 117

Senonché, più ancora dei singoli vocaboli, sono le locuzioni che ci rivelano T opera del traduttore; e di un traduttore così pecorescamente letterale, che se non ci soccorresse il testo latino del 1528, peneremmo talvolta a sapere che cosa egli volesse dire. Già nella prima parte, ossia nei Vecchi Statuti^ incontriamo qua e dei non sensi e controssensi notabili, da attribuirsi unicamente al volgarizzatore. Così la locuzione : « qìwd ibi sU emólumentum^ vbi est onus » vien resa in tedesco: « da^ sy aiAch da ìiabent ein pesserung und daz sy habent ein mitleidung ». Il passo: « omnis actio realis etpersonalis vél aìterius cujuscumqiie generis » è tradotto: « haìt das da mer ist dan man schuldig ist und hlager ist ». Per « quaestionibus et differentiis viarum, terminorum etc. » si legge: alle KHeg nnd Idagung ali tveg und ende » ; per « partes duae ad minus, debeant pacem facere », leggiamo: « daz die zben tail verhengen und geben frid ». Ma sono i Nuovi Statuti dove si manifesta ancor più la imperizia del traduttore; cosa naturale del resto. Semplici e brevi,- i Veccia Statuti gli davano materia a poche difficoltà; mentre nei nuovi si trovava alle prese con periodi lunghi ed intralciati, con termini e con for- mule di cui non aveva dimestichezza, seppur non ne ignorava il valore. Come riuscisse a cavarsi d'impaccio, lo mostreranno i seguenti esompj; nei quali al testo originale tedesco premettiamo il corrispondente latino dello Statuto del 1528, affinché il lettore possa giudicare con maggior sicurezza:

Cap. Il quod quiltbet habitator civitatis Tridenti , burgorum et subburgo-

rum = e daz ein yeglicher jn woner der stat Trint in burgen und unter den burgen ».

Cap. IV alia juris solemnitate praetermissa = « ander hochczeit des rechten

unterbegen zu lassen ».

Cap. VII De ascendentibus vél coUateralibus personis legitimandisin officio = « Die

ym rechten auff und ab gesetzt werden ».

Cap. IX valeat dictus Potestas . . . totum illud cum juris remediis executioni

mandare « = sol der ber vicary . . . allea das mit der arczney des rech- ten bieten ».

Cap. X perseveraverit ad banchum sui officii = « pelaibt an die banck seins

offici j ampts ».

Cap. XV manu militari Potestas seu Index debeat mittere Gastdldiones = « mit

ritterlicber hant sol der vicary senden sein chnecht ».

Cap. XX reddatur jus summarie et de plano ^ et sine strepita et figura ju-

paissàr, far caccia nel modo indicato; ma sovraccennati; e, nel senso di caccia e cac-

anche adescar qualcuno. Noi slam d'avviso datore, si logj]^ono nuche nei più antichi

che questi vocaboli sieno forme ladine anti- Statuti di Padova (del Sec XIII) pubblicati

chissime, derivate da pasci, o pascua. Si dai prof. Gloria. usano tuttavia nel Trentino in tutti i sensi

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148 B, MALFATTI [giornale di filologia

dicn = « sol man das recht auramen und scblechtlicb, iind an ge-

schray und an figur de« rechten ». Cap. XXXIV... (dìquod pignus sive sU praetorium , sivejudiciale, sive conventionale ;

= « ein pfandt es sey von dem schergen, oder ?on dem richter,

oder gedingt guet ». Cap. XXXIX ,,. et ipsi mulieri satisfacere in pecunia numerata = « und sol yr gnug

thun an der czal des gcits ». Cap. XLV quod summarie et de plano sine strepitu et figura judicii procedi possit

= « die eachen sollen gesumt und schlechtlich an geachray oder

zbilauff und ala ein ebenpild gebandelt wirt ». Cap. XLVIII, . . ordinamus quod appeUntione masculi contineanturetfoeminae=* wir

seczen und orden das das geding des weibs und mans sol gebalten

werden ». Cap. XLIX si quis luibuerit necesse próbare se fili um in àliqua causa, vdpatrem

suum esse mortuum, vel àlium in cujus locum se asserit successisse ;

= « ob etwàr wìir der notturft bet zw bewaren jn einer sach, das

er sey ein snn oder ein vater, daz sein vater todt sey, oder ein

ander, der an sein stat komen ist ». Cap. L quod imbrevi aturae alicujus pubUci notarii mortificate non rèleventur

das die urbar pucher eins offen schreibers die getodt sindt

sollen nicht ze kraft komment ». Cap. LXVII.... actiones . , , sive reales, sive personalesy sive uttlesj sive dir ectae sive

quocumque nomine censentur = * ein klag... belcberlay die sey,

si sein umb gut oder bider seinen leib, si sein nucz oder wie die

genant sein ».

Non aggiugniamo commenti. Chi per poco ha famigliarità coli' idioma tedesco, sarà passato di sorpresa in sorpresa leggendo questi pochi saggi del Codice; avrà potuto trattenere talora un movimento d'ilarità, im- hattendosi negli svarioni del povero traduttore o veggendo il suo imba- razzo. Or come credere che si dettassero per Trento leggi di forma così strampalata, anzi a tratti inintelligibili, (conceduto per un supposto, che vi fossero date leggi in tedesco) quando per la vicina Merano, dipendente dai conti del Tirolo, si promulgavano nel 1317 degli Statuti tedeschi, ai quali non mancavano la proprietà del dire e la chiarezza? si dimen- tichi che, secondo il signor Tomaschek, i cosi detti Vecchi Statuti ireniim sarebbero stati compilati assai tempo prima, nel secolo XIII. Ma la lingua e la ortografia del codice, sono esse tali da poterle assegnare a quella età?

Deve sicuramente far specie che il signor Tomaschek, il quale come insegnante dell'Università di Vienna, e come autore di parecchi lavori sulla storia del diritto, ha dato saggi di molta dimestichezza colla legislazione medievale, non abbia scorto le gravi obbiezioni che si sa- rebbero potute muovere contro l'avviso ch'egli tolse a propugnare pub- blicando il Codice. Eppure la cosa è quale l'abbiamo rappresentata: la sapremmo spiegare altrimenti se non argmentando, che il signor

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ROMANZA, N.*' 2] GLI IDIOMI PARLATI NEL TMENTINO 140

Tomaschek si sia lasciato abbarbagliare da un'idea preconcetta in modo da non aver più occhi per la realtà dei fatti. Del resto con lui non ne oc- corre di discutere più oltre: avvegnacchó egli ammetta (senza però darne le ragioni) che l'elemento italico a Trento venisse nel secolo XIV a pre- valere sul tedesco; e che però le leggi, da quel tempo in poi, potessero ivi essere state dettate anche in latino.

Sennonché il lettore sarà qui forse per domandare, come si spieghi resistenza di quello Statuto tedesco. Quand'ebbe origine? A che fine fu scritto? Veramente si potrebbe suppon*e (e la forma difettosissima da- rebbe sostegno al supposto) (1), che la traduzione venisse fatta da qualche officiale tedesco del Principato, per suo uso particolare o per comodo di qualche signore ignaro della lingua latina. E nonpertanto si potrà am- mettere, che la versione tedesca (senza ottenere sanzione di vero testo autentico) servisse ad uso pubblico; essendovi una buona ragione per far creder questo. Venuto a Trento, nel 1347, P imperatore Carlo IV, con- cedeva ai Vescovi, o, per dir meglio, restituiva loro e confermava la giurisdizione civile e criminale su parecchie terre e castella dell' odierno tenere di Bolzano, ove si parlava il tedesco; vale a dire su Bolzano stessa, su Kelle, sul monte Ritten, sul monte di Villanders, su Eppan col ca- stello di Altenburg, su Cortaccia, Corona, Zeli, Caldaro, ed Ulten (2). Ma dal vescovo Niccolò era stato prescritto, che lo Statuto di Trento dovesse osservarsi in tutti i tribunali, e in tutte le corti secolari del Principato (salvo i paesi a cui era stato conceduto per privilegio di aver leggi proprie o locali) (3). Per quel decreto dell'imperatore adunque si sarà fatto sentire, ancor più di prima, il bisogno di una traduzione per i paesi ove si rendeva ragione in tedesco: tanto più che ivi vigeva l'istituto dei giurati oppure dei boni homines; che e trovavano la sentenza > dopo- ché la causa era stata ventilata e discussa sotto la direzione del vicario o giudice eletto e confermato dal Vescovo. Di giurati si fa menzione nel Codice Vanghiano (4). Negli Statuti tedeschi poi vi è un capitolo, di ma-

(1) Avendo accennato a' difetti di forma, signor Tomaschrk, che ne diede un sunto dobbiamo pur anco avvertire, che molti de'ca- (paj?. 96 e ses^.). Vedansi anche gli Annali pitoli, nel testo pubbiicato dal signor To- del Principe- Vescovo Alberti, pag. 243. MASCiiEK, recano in fine un etc, il quale, Dobbiam qui prevenire un'obbiezione che in qualche caso, sembra accennare veramente ci potrebbe esser mossa; che il decreto de 1- ad altre disposizioni che dovevano seguire, e V Imperatore Carlo IV, vale a dire, non potè che furono om messe. può egli ammettere avere piena esecuzione per le riluttanze dei questo per un testo autentico? E se il si- Conti del Tirolo. Ma più o meno, e per più gnor Tomaschek ha stimato bene lui di met- lungo o più breve tempo, ebbe pure efficacia; tere gli etcetera^ troncando i capitoli per e ad ogni modo T autorità del Vescovo si amore di brevità, perché non darne le ra- estendeva su castella e terre di lìngua te- gìoni ? desca.

(2) Il documento si conserva nelP Archi- (3) Newen Statut, cap. LXXVI. vie imperiale di Slato, e fu esaminato dal (4) Codejo Wangianus , N.» 49.

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150 -B. MALFATTI [(uuhnalk di filologia

teria ereditaria, il quale non ha riscontro nei testi latini, attinto com*è al diritto colonico (coloni jure ~ Bauernrecht) che vigeva nel Tirolo pro- priamente detto (1). Ed anche questo sembra buono argomento a noi per argomentare che il codice, di cui abbiamo discorso sin qui, fosse compi- lato in considerazione di paesi dove si parlava il tedesco.

Dopo aver visto qual peso possa avere il fatto dello Statuto tede- sco per l'assunto che tolse a propugnare il signor Schneller, passiamo agli argomenti ch'egli chiama in suo appoggio per i tempi che corrono dal vescovo Gerardo II, successore di Niccolò di Briinn, sino a Bernardo Clesio (1347-1510). Rispetto ai quali noi conveniamo col signor Schneller più che in addietro: sebbene non tanto quanto egli vorrebbe. Siamo pronti cioè a riconoscere, che, sotto gli ultimi Conti goriziani, e più an- cora sotto i Conti amburghesi, eredi di quelli, il Trentino venne di mano in mano in tale dipendenza politica, da poterlo dire di fatto, se non di diritto, una provincia della Contea tirolese. I vescovi eletti secondo la volontà dei Conti, e costretti a tollerare umiliazioni e soverchierie di ogni fatta (2); le famiglie signorili del paese subornate contro il loro principe naturale, ed allettate con favori e promesse; cercato ogni mezzo di conferire a persone forestiere gli officj più importanti e le prebende più laute; profuse le agevolezze, e dato ordinamento di maestranze ed arti distinte ai trafficanti ed agli artieri tedeschi che venivano a mettere stanza a Trento. Se v' ebbe tempo in cui Y elemento straniero stesse per soverchiare il paesano, fu in quei centoscssant'anni, non prima. Ma pre- valenza vera non seppe ottenerla nemmeno allora: tanto per la tenace vi- talità propria all'elemento latino, quanto per altre circostanze; tra cui nleveremo la incoerenza propria a tutte le signorie fondate su istituti feuda- li: la necessità in cui erano i principi absburghesi, non meno dei goriziani, di lasciare una certa autonomia alle città ed alle valli che ne fruivano ab antico; poi la prossimità dello Stato Veneto, che nel secolo XV s'era esteso sino a poche miglia da Trento, aggregandosi la Valsugana, la Valle Lagarina, e Riva; e finalmente il continuo influsso della cultura italiana, giunta ormai a tale altezza, da essere oggetto di ammirazione per tutti. Che a Trento s'agitasse ancor sempre l'antico spirito dei Communi ita- liani, ne lo attesta la cura gelosa di quel Municipio in conservare gli an- tichi ordinamenti; ne lo provano i frequenti moti popolari, e quello in

(1) Aelteste Statuten, cap. 90. cognizione de' fonti genuini, e Jjacoscenziosìtà.

(2) Chi voglia formarsi giusto concetto Tra le storie più recenti ricorderemo quella delle relazioni che corsero tra il Principato del signor Giuseppe Egoer {Geschichte di Trento e la Contea Tirolese, vegga gli Tiror*, Tom. I,Innsbruck, 1872) libro pre- Annali del Principe- Vescovo Alberti; al gevole per il buon uso che vie fatto de' fonti, qnal-% se mancarono alcune delle qualità più ed anche, nel complesso, per iraparziaUtà di elevate dello storico, non fecero difetto la giudizj.

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ROMANZA, N." 2] GLI IDIOMI PARLATI NEL TBENTINO 151

ispecie del 1407, allorché i cittadini insorsero, affatto indarno, contro gli officiali del Vescovo e del Conte tirolese al grido di: Viva ^l popolo e 7 Signor j e mora i traditor! Che il paese poi, nel complesso, incli- nasse istintivamente verso i vicini di mezzodì piuttosto che verso quelli di settentrione, ce lo mostra anche il governo che ebbero a tenere i Ve- neziani nelle terre venute sotto il loro dominio: governo mite e da potersi dire tranquillo, chi per poco consideri le alternative di violenze e di ar- rendevolezze a cui dovevano appigliarsi i principi tirolesi per mantenere le proprie superiorità sulle altre parti del Trentino.

Se il signor Schneller avesse voluto tener conto di questi fatti, che pur gli devono esser noti, avrebbe aggiunto minor valore, anzi trala- sciato di richiamarsi a certe relazioni, che secondo lui servono a pro- vare la superiorità dell'elemento tedesco sull'italiano nella città di Trento. Cosi ad esempio egli prende dal cronista Mariani la notizia che, tra il secolo XVI e XVII, oltre la metà dei giovani che frequentavano le scuole a Trento erano tedeschi ; per concluderne che la popolazione ita- liana doveva essere il minor numero. Ma nel venire a questa conclu- sione dimenticava parecchie cose; e prima, che le scuole a quei tempi erano ancora scarse; e che Trento, quanto a coltura, superava il vicino Tirolo. Dimentica inoltre che le scuole di Trento erano destinate in ispecie a formare il clero per la diocesi, la quale estendendosi nella Con- tea tirolese comprendeva molte pievi di favella tedesca (oggidì ancora formano circa il quarto della popolazione diocesana).

Senonché il signor Schneller viene ad urtare ancor peggio colla critica, quando, per provare che la popolazione a Trento, circa il 1500, era tedesca la buona metà, e che T elemento tedesco vi teneva il di sopra, prende per sua autorità un frate Felice Faber da Ulma, domenicano; il quale andato pellegrino in Terra Santa, passò nel 1483 da Trento, di cui la- sciò scritto essere « città che si divide in due parti: Tuna alta, abitata da italiani; l'altra bassa, abitata da tedeschi. Ivi le due genti vivono in discordia e liti continue; ma i tedeschi sono essi i cittadini e rettori » (44). Che il signor Schneller si sia voluto far forte di tale relazione, ne ha maravigliato non poco; e perché egli stesso non sa nascondersi essere stato quel frate un credenzone, ed un solenne spacciatore di bubbole; poi perché egli sa benissimo che a Trento non si conosce, si conobbe mai distinzione di città alta e città bassa. In quanto ai e cittadini e rettori » possibile che il signor Schneller, studioso com'è de' fatti atti- nenti all'etnografia trentina, non abbia avuto sottocchio qualche regi-

(1) La diffusa relazione dettata dal dome- gynnationem. Edi<lit C. D. Hassler, Stoc-

nicauo d'Ulma intorno al suo viaggio ha per carda, 1843. l\ passo da noi riferito è tolto

titolo: Fratria Felir.is Fahri evapatoriiitn dalla Memoria del siji^nor Schneller, nelle

in Terrac sa7ìctae, Arahiae et Aegypti pere- Mittheih(vgen , p. 371.

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152 B. 31 AL FATTI [giounalk di filologia

stro 0 documento autentico della cittadinanza di Trento? possibile che sia ignaro degli ordinamenti statutarj di quella città, e degli officiali che un tempo erano destinati ad amministrarvi il commune ed a rendere giustizia?

Nella Biblioteca civica di Trento abbiamo visto ed esaminato, anni sono, una Matricola della Cittadinanza, che comincia dal secolo XV e arriva sino a mezzo il XVIII. Non sapremmo adesso indicare precisa- mente in che proporzione vi stieno i casati tedeschi rispetto agli italiani ; ma possiamo assicurare il signor Schneller, che il numero dei primi vi è scarso ; tanto scarso da averne fatto indurre sin da allora che a Trento (come per massima in tutte le città fornite di certa autonomia) si fosse molto gelosi un tempo nell' accordare diritto di cittadinanza ai forestieri. L'opinione che s'è formata in noi circa al numero dei tedeschi a Trento, nel tempo della maggior frequenza, ossia sul finire del secolo XV, è che essi fos- sero una quinta parte (se non anche meno) della popolazione. Difatti il quartiere ove abitavano in maggior numero (la cosi detta Covtrada te-- desca^ con parte del vicino sobborgo di San Martino) era piccola parte della città. I tedeschi erano bensì costituiti in Nazione, come si diceva allora; e come tali avevano un proprio ospedale; ma si noti che di ospedali pei cittadini italiani se ne contavano allora tre. Si osservi an- che che i tedeschi non avevano parrocchia propria, ma usavano, in co- mune cogli italiani, della chiesa di San Pietro; una delle quattro par- rocchiali della città.

Circa alla parte che spettava agli abitanti tedeschi nelF amministra- zione del Comune, lo Stato Udalriciano, anteriore a quello del Clesio (fu compilato nel 1491 e promulgato alla stampa nel 1504) ci notizie precise; e tali da venire in conferma della opinione da noi esposta. Il capitolo LXXX stabiliva che a far parte del Magistrato Consolare (co- me si vede era risorto T antico nome) potesse eleggersi qualunque cit- tadino, senza distinzione di nazione; nulla però era ingiunto di partico- lare su tale proposito. Bensì al capitolo LXXXII veniva prescritto, che delle otto persone (due per ciascun quartiere) chiamate a coadiuvare i Consoli nel sindacato de' magistrati usciti d'ufficio, ed in altre incum- benze, due almeno dovessero essere tedeschi. Ma l'autorità di costoro, ognuno il vede, non era grande; oltrecché è a credersi che la pre- scrizione del codice Udalriciano andasse presto in disuso, perché lo Statuto del 1528 la ommise del tutto. Sarebbe stato ciò possibile, se soli quaran- t'anni prima i tedeschi avessero tenuto il di sopra per numero ed autorità? Del resto, per negare la prevalenza de' tedeschi nel Magistrato Consolare, non abbiam bisogno di ricorrere soltanto all' induzione, restandoci nel- l'Archivio e nella Biblioteca di Trento documenti abbastanza, da cui ricavar la serie di Consoli, che ressero la città nei tempi di cui parliamo. Ne incresce di non aver avuto agio ed opportunità a quelle più minute

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ROMANZA, X.' 2] GLI IDIOMI PARLATI NEL TRENTINO 153

ricerche che sarebbero bisognate per rintracciare i nomi di coloro cbe siedettero nel Magistrato consolare l'anno 1483; Tanno vale a dire pel quale il frate svevo dettò quelle sue peregrine notizie (1). Tuttavia possiamo dare la serie dei Consoli dal 1470 al 1478, desunta da antichi Cataloghi della Biblioteca; ed è la seguente:

A. 1470. M/ Armanu8 de Feltro Artium et Medicinae Doetor ; Callepinus de Calle-

pinis, J. 2>. de Tridento; Joachinus Noi,' de Lasino; Tremenus de Pesociis

de rric/en^o; Sigismundus Saraainus ; Odoricus o, Saie Notar ius ; Martinus a

Pesce de Allemania. A. 1471. Cristophorus de Mnlinis; Antonius Gervasiua de Nigris; Jesamundus Nota^

riu8 de Arco ; Nicolaus de Mercadentis ; Joannes Franciscus de Sicchis ; M/

Aldrigettus aurifex; Michael a Rosa. A. 1472. M.*" Joannes de Aretio Artium et Medicinae D.*"; Federicus de Paho; Tho-

masinus de Callepinis; Cristophorus Cibichinus; Donatus a Birettis; Giraldus

Strafonerius ; M/ Joannes Ungerle niiparitis, A. 1473. Joannes Antonius de Vaschettis de Tridento j Legum D/ ; M.*" Arcangelus de

Capris de Tridento, A, L. et Medicinae D/, Balzanus de Balzanis de TH-

dento, Jurisperitus ; Vigilius Schrattenperger; M.'. Giroldus a Pasolis; Gi-

rardus Mirana; M.»" Martinus Sartor. A. 1474. Antonius de Fattis de Trilaco L. D/; Odoricus de Bretio Juriap,; Luchi-

nus de Gargnano; Vigilius de Paho; Pellegrinus de Mantuanis de Cwneio;

M.*" Cristophorus Venetianus; Mj Leonardus Cramer. A. 1475. Melchior de Facinis de Padua^ Legum D/; Joannes de Callepinis; Augu-

stinus de Grigno ; Tremenus de Pesociis ; Julianus Gardellini ; Joannes Pau-

renfaint; Cristophorus Notarius de Cadeno. A. 1476. Franciscus Gelpus; Antonius Gervasius de Nigris, Joannes Maria de Lipis;

Antonius Bonmartini; Tremenus de Pesociis, Julianus de Gardellinis (2). A. 1477. Joannes Antonius de Vaschettis, Legum D/; Odoricus Notarius a Sale;

JoB^nnea' Notarius de Lasino; Petrus Ranzus, Notarius; Sigismundus Sara-

cenus; Cristophorus de Mulinis; Michael a Rosa. A. 1478. Paulus de Fattis de TrUacu, Leg, D/ ; Federicus a Paho; Geli asius de Campo;

Lucas Fustini; Gratiadeus Gallasus Notarius; ÌS.J Odoricus Trober.

Sopra cinquautadue persone adunque, sei o sette sole che, al nome del casato, si possano dire di origine tedesca. E dobbiam credere che la pro- porzione non si alterasse negli anni appresso. Molti ed importanti di- ritti aveva conservato la cittadinanza di Trento, malgrado le vicende dei tempi; tra cui quello di discutere e proporre le mutazioni agli Sta-

li) Il chiarissimo signor Francesco Am- t)ero bisognate molte e pazienli indagini, a

^f08i, bibliotecario municipale di Trento, cui non bastava il tempo, di cui potevamo

*lla cui cortesia andiamo debitori dell'elenco disporre nel dar fuori questo scritto. <!«' Consoli che diamo qui appresso, ci scrive (2) Per quest'anno, come anche pel 1478,

che nei registri o cataloghi che egli potè i registri della Biblioteca di Trento danno

conauliare, s'incontra una lacuna che va dal- soli sei nomi; mentre il numero de' Consoli

1 anno I479 al 1486. Per riempirla sareb- doveva essere per massima di sette.

10*

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154 B. MALFATTI [csiornale di filologia

tuti ; non ritenendosi obblig ata dalle leggi o dalle prescrizioni che altri avesse emanato senza il suo consenso (1). Spettava altresì al Magistrato Consolare di presentare al Vescovo, di anno in anno, il nome del Vi- cario 0 Pretore a cui sarebbe commesso di presiedere all' amministrazione della giustizia; il quale Pretore ebbe a riprendere, circa Tanno 1450, r antico titolo di Podestà. Le norme stabilita per il podestà ed i suoi oflSciali, erano quelle stesse che vigevano un tempo nei liberi Communi italiani. Fra le altre prescrizioni era anche quella che il podestà fosse nato fuori della diocesi; prescrizione che fu intesa sempre nel senso che avesse ad essere di provincia italiana. Nel 1481, cioè due anni prima che venisse a Trento il frate Felice Faber, era podestà un Gian- vittore de Burgasio da Feltre, e nel 1484 un Paolo de Oriano di Brescia. Negli elenchi che (per essere stati compilati in tempi più tardi ) hanno qua e delle lacune, ci sono ricordati pel secolo XV i nomi di qua- ranta Pretori o Podestà ; dei quali sappiamo con certezza che 9 furono nativi di Padova, 6 di Bologna, 4 di Brescia, 2 di Mantova, 2 di Bergamo, 2 di Feltre, 2 di Verona, ed 1 di ciascuna delle seguenti città : Pavia, Ferrara, Carpi, Marostica, Bassano e Pordenone. E come a Trento, (la cui Pretura si estendeva su di un territorio che conta oggidì oltre ai 50000 abitanti) così nelle valli, di oflBciali propriamente tedeschi non v'erano che i comandanti delle milizie, o i castellani messi dai Conti tirolesi. Nel 1483, siedendo vescovo Giovanni Hinderbach, era burgravio del Castello del Buon Consiglio (la residenza vescovile) un Giovanni Rezner (2). Sei vescovi tennero la sede trentina durante il secolo XV; venuti tutti e sei di Germania ; così essendo desiderio od interesse dei signori del Tirolo; i quali procuravano anche di popolare il capitolo di loro partigiani, tedeschi di nascita. Se il domenicano d'Ulma, allorché diceva che i Rettori della città erano tedeschi, si fosse inteso di parlare del Vescovo, di alcuni canonici, e del capitano delle milizie, non avrebbe detto propriamente cosa falsa. Ma noi sappiamo quanto circoscritta e debole fosse ormai l'autorità di governo del Vescovo e del Capitolo; e ad ogni modo il frate spropositava asserendo che i cittadini tedeschi formavano mezzala popolazione, ed erano gli arbitri, per dir cosi, della cosa pubblica. La colonia tedesca a Trento, per quanto ci è dato rilevare dai documenti ed arguire dalle sue vicende, non potè essere che una ag- gregazione avveniticcia e mutabile di offiziali, di mercadanti, di artieri ; non mai un corpo compatto di possessori. Gli artigiani in ispecie, quantunque ordinati in corporazioni, dovettero per la forza delle cose italianizzarsi di mano in mano, come ne addurremmo più sotto le prove.

(l) Statuti di Trento (Introduzione di G. Cresseri, intese appunto ad esporre e so- T. Gar), p. XXIII; e inoltre le Ricerche stenere le antiche franchigie del Municipio. storiche, da noi citate prima, del barone G. (2) Alberti, Annali, p. 374.

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toMANZA. «.*> 2] GLI IDIOMI PABLATI NEL FBENFINO

155

Del non aver saputo V elemento tedesco prendere consistenza nel Trentino, anzi dell'aver dovuto cedere all'italiano, sin quasi a scompa- rire, il signor Schneller accagiona particolarmente il clero. E non di- remo ch'egli s'apponga al falso. Certo che l'elemento latino ebbe dalla Chiesa un sostegno efficace. I vescovi furono bensì tedeschi per quasi due secoli, e di canonici tedeschi il capitolo ne ebbe a contare molti (1); ma i curatori d'anime erano quasi tutti italiani; e le relazioni con Roma si mantenevano tanto piìi strette ed ossequiose, quanto più era sentito il bi- sogno di averne difesa contro gli arbitrii e le soperchierie dei Conti tiro- lesi. Del resto l'elemento italiano, più che nella Chiesa, trovò forza in se medesimo: nell'indole sua tenace ed espansiva, nelle sue tradizioni, nel prevalere legittimo della sua cultura. Trento, nel secolo XV, poteva ad un osservatore superficiale, che guardasse solo alle relazioni politi- che, sembrare città della Germania; ma etnograficamente e civilmente era città italiana (2). Degli istituti municipali abbiam fatto cenno. Àggiugneremo adesso, che l'instaurazione intellettuale per cui l'Italia ve- niva a precedere ogni altro paese, aveva trovato pronta accoglienza a Trento. Quell'insigne umanista che fu il vecchio Guarino, fu chia- mato nel 1425 ad insegnarvi lettere greche e latine. Un trentino, Sicco de' Ricci Polentone, nomo di molti studj, godette, sul cominciare del secolo, di bella reputazione a Padova; e tra i canonici di Trento tro- viamo, circa il 1450, un Jacopo Sceba di Cipro, già Pro-rettore delU>

(1) Giusta accordi presi coi Conti del Ti- rolo, il Capitolo doveva comporsi per due terzi canonici di nazione germanica; ma, formando il Principato parte delPlmpero, i suoi abitanti, e quindi anche i Trentini, erano considerati di quella nazione. La maggio- ranza del Capitolo non si compose forse mai di veri tedeschi. Tra il 1470 ed il 1480 ai tempi dell* Hinderbach, si contavano sei cano- nici di casato tedesco, otto di italiano (Bo- NBLLi, Monum. p. 288). I Conti tirolesi im- posero quella convenzione per assicurarsi meglio del Capitolo, evitando che v'avessero ad entrare, come accadeva in passato, molti cherìci nativi delle vicine città italiane.

(2) Nella Legazione all'Imperatore, che è tra quelle del Machiavelli, si legge una lettera (N.o VII) di Francesco Vettori in data di Bolgìano, 14 febbrajo 1507, che viene a confermare il nostro asserto. Si trattava di aoa somma di 50,003 Horini d'oro, da pa- garsi dai Fiorentini a Massimiliano, che

s'era avviato verso l'Italia per farsi inco^ ronare imperatore. Ora il Vettori scrive alla Signoria: « Io avendo bene esaminata la let- tera vostra, non volli fare altra offerta; per- ché promettere cinquantamila e la prima paga in Italia in terra non sua, vedevo of- frir cosa da non essere accettata; e promet- tere la prima paga a Trento, non mi parve, per veder le cose dell'impresa piuttosto al- largare che ristringere. E perché vostre si- gnorie intendino, io scrissi per la de' 17 avere inteso Trento essere in Italia, e che promettendo la prima paga in una terra tutta in Italia f poteva l'Imperatore cavil- lare, e addomandargli a Trento, e però volli che vostre signorie lo considerassi no » ecc. Sarebbe stato veramente un cavillo di Mas- similiano a dire Trento città tutta in Italia, dappoiché faceva parte dell'Impero; ma che cosa avrebbe potuto dar colore di verità al cavillo, se non la lingua, i costumi, e le tra- dizioni degli abitanti?

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156 B. MALFATTI [oiokkalk di filologia

studio padovano (1). Nel 1476 veniva introdotta a Trento Tarte tipo- grafica; e nel 1472 usciva da' torchi La Catima (traduzione del Lusus Ebriorum del Sicco ricordato dianzi) che si crede la prima comedia in lingua italiana che fosse pubblicata per le stampe (2). Il vescovo Hin- derbach stesso, sebbene di famiglia assiano, aveva fatto gli studj a Pa- dova, ed era stato ordinato prete a Milano. Era grande raccoglitore di libri ; e nella sua corte si verseggiava in italiano (3). Gli edifizj del secolo XV, e Trento ne conserva parecchi e notevolissimi, s'impron- tavano allo stile veneziano dei tempi di Guglielmo Bergamasco e dei primi Lombardi. Lungo sarebbe a discorrere del favore che trovarono a Trento le arti e le lettere italiane per la munificenza del principe- vescovo Bernardo Clesio (1514-1539) e dei Madruzzi suoi successori. Molti artefici di bel nome ed uomini studiosi, il Dossi, il Romanino, Marcel Figolino, il Volterrano, il Brusasorci , il botanico Mattioli, il man- tovano Gian Pirro Pincio, primo narratore della storia di Trento (4), furono chiamati alla corte di quei Principi, e lasciarono nel paese ampli documenti del loro gusto squisito, o del loro sapere (5). E Trento, per suo conto, dava in quel secolo all'Italia uno scultore di non piccolo grido, Alessandro Vittoria.

Potremmo seguitare un buon tratto, se fosse intendimento nostro di mostrare come il Trentino, dal quattrocento in poi, non fosse ulti- mo tra i paesi italiani nel prendere parte alla cultura nazionale, ed anche nel promoverla. Ma ciò uscirebbe del nostro assunto; che era unica- mente di indicare in che parti la Memoria delle Mittheilungen venisse ad urtare contro la realtà dei fatti, per ciò che spetta al Trentino. Venuto agli ultimi tre secoli, il signor Schneller è molto più nel ve- ro; ammette cioè che, a datare dal secolo XVI, l'elemento italiano avesse tanto vigore da soverchiare l'altro, o da riguadagnare (questo modo di dire ne sa più giusto) quello che aveva perduto in addietro nel- l'alta Valsugana ed intorno a Pergine, e presso alle foci del Noce e ad oriente da Rovereto. Per spiegare questo fatto, il signor Schneller ricorre agli argomenti del clero intento a romanizzare il popolo in tutti i modi , e delle comunicazioni più frequenti e facili col mezzodì che non col settentrione. Ma delle qualità, o dell'energia propria all'elemento ita- liano, non tiene tutto il g^nto che avrebbe dovuto ; fa parola simil-

(1) BoNELLi, Monumenta Eocl. Trid., stenti nelPArchivio Vescovile, e nel Capi- p. 289. tolare, p. 363-403.

(2) FrapportIjG. Storia del Trentino, (4) Iani Pyrrhi Pi^cii ^ De gestis ductim p. 549. Tridentinomm etc. Libri duo, Mantuse, 1546,

(3) Si vegga il Sonetto riportato dal Bo- (5) // magno palazzo del Cardinal di NELLI {Monum. pag. 3^5), e nello stesso Trento, descritto in ottava rima da Pier tempo il Catalogo dei 280 Codici mss, esi- Andrea Mattioli, senese; Trento, 1858.

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laiiANZA, N.o 2] GLI IDIOMI PARLATI NEL TRENTINO 157

mente di altre cause, di natura morale, economica e politica, le quali furono pure efiScacissime. Avvertiremo quindi, per conto nostro, che sebbene la superiorità dei signori absburghesi sul Principato fosse quella stessa di prima, la loro ingerenza nelle cose interne del paese s'era fatta se non altro meno insistente e molesta. I vescovi succeduti a Ber- nardo Clesio furono, come lui, quasi tutti trentini; certo potrà sor- prendere che l'elemento nazionale trovasse in essi dei naturali e talora incoscii sostenitori, quando nelle corti stesse di Vienna e di Innsbruck la poesia e le arti italiane erano considerate come i più eletti strumenti di cultura. Ed altre ragioni si potrebbero addurre della prevalenza te- nuta dall'elemento italiano nel Trentino. Ma qui non è luogo a ciò; è pure il caso di esaminare come la lingua italiana, venga avanzando tuttavia con passo lento ma continuo per la valle dell'Adige verso Bolzano; e come gli attuali reggitori s'adoperino da un lato ad arre- stare questo movimento, e d'altro canto a mantenere una vita fittizia nella scarsissima popolazione tedesca, che si trova dispersa nel Trentino. Questo ne* condurrebbe a parlar di politica; e noi, in queste pagine, non ci siamo proposto altro che di salvare le ragioni della storia. La quale, a chi la interroghi con animo spassionato, non potrà a meno di dire, che l'elemento latino fu sempre il più numeroso e civile nella città di Trento e nelle valli intorno; e che il Trentino, nel medio evo, tu italiano per lingua, per costumi e per tradizioni, non meno che lo sia oggidì.

IL

Sogliono i glottologi, classificando i dialetti, annoverare il trentino fra quelli del gruppo veneto. è da mettersi in dubbio, che oggidì il parlare di Trento tenga più strette attinenze con questa, che non con altra delle vicine famiglie di vernacoli. Due cose tuttavia sono da avvertirsi; e prima, che dal presente non si deve inferire al passato più lontano; che dalle odierne somiglianze, cioè, non s'ha da arguire a communanza d'origini, o ad identità di stipite etnografico; in secondo luogo poi che il dialetto, da dirsi propriamente trentino, non è par- lato che in una parte del paese. Per dar consistenza a queste asser- zioni, e procurare insieme maggior chiarezza ai fatti glottologici che saremo per addurre in seguito, stimiamo opportuno di porgere qui al- cune notizie intorno agli elementi di cui s' è venuta componendo la po- polazione trentina; elementi dei quali porta tuttavia, più o meno, le differenti impronte (1).

(1) Non ci sembrando il caso di dovere alle genti più antiche che popolarono il Tren- ^PP<>ggJa.re di volta in volta, coir altrui au- tino, indicheremo i libri che ne possono pro- torilà, le notizie che siamo per dare intorno curare altrui giusta cognizione, e che ab-

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158 B. MALFATTI [<;iorxale di filologia

Il Trentino, ossia quella parte del dominio tirolese che , dalla stretta di Cadino, al sud di Salomo, si distende sino air antico confine veneto tra Borghetto ed Osenigo (non indichiamo altri confini, perché da ogni mediocre carta si possono rilevare facilmente) è un territorio di 6330 chilometri quadrati, con 345000 abitanti. Non più che 7000 di qnesti parlano dei rozzi vernacoli tedeschi; e si trovano, per dir così, dispersi in piccole isole sporadiche nelle valli dell' Avisio, del Fersina e del Brenta, e in quella del Noce. Scarsi di numero, disgregati, ed in con- dizioni economiche non certo le più prospere, vivono pressoché igno- rati nel paese; possono sperare, tale almanco è il nostro avviso, di mantenere a lungo il proprio idioma contro quello che li strigne tut- t' air intorno. Degli abitanti del Trentino 338000 adunque sono da as- segnarsi glottologicamente alla famiglia italiana, o, per parlare più proprio, al gruppo latino; avvegnaché 60000 d'essi, all' incirca, ado- perino nell'uso cotidiano delle parlate, che pur rivelando i lunghi e po- tenti influssi della lingua italiana, mostrano tuttavia l'antica e stretta attinenza colla famiglia degli idiomi reto-romani, o ladini come li chiama l'Ascoli. Abitano costoro le valli di Non e di Sole sulla destra della Val d'Adige; e sulla sinistra tengono quasi tutta la valle del- l'Avisio; da Cembra, per Fiemme, sino a Fassa. Sottraendo questi, re- stano 278000 abitanti, che occupano per intiero la Val d'Adige da San Michele al Borghetto, e quasi tutto il tenére di Pergine; poi la Val- sugana e le valli di Tesino e Primiero; poi i distretti di Vezzano, Arco, e Riva, la Val di Ledro e le tre valli delle Gindicarie. Da tutti co- storo si può dire che venga parlato il dialetto trentino, chi lo consideri nei momenti più generali. Che se l'esame proceda più minuto, e pigli ad analizzare i fenomeni speciali (quelli particolarmente d'ordine fonetico) sarà mestieri venire a nuove distinzioni ; perché la Valsugana bassa e Primiero ci presenteranno voci e suoni da confondersi con quelli usati nelle vicine terre di Bassano e di Feltre; mentre chi da Trento o da Riva s' inoltri nelle Giudicarie, troverà vernacoli intermedj fra i lom- bardi e i ladini; sinché nell'ultima Rendena verrà ad incontrare forme schiettamente ladineggianti.

biamo particolarmente consultato circa a tale Tirols (Innsbruck , 1872 ); Bidermann, H. J.,

materia.— GiovANELLi Benedetto, Tren- Die Romanen und ihre Verbreitung in

to città de* Rezj e colonia romana fTren- Oesterreich (Graz, 1877). Omettiamo gli

to, 1824 e 1825); Pensieri sull'origine dei scritti minori e le memorie di materie etno-

popoli d'Italia (Trento, 1844); Steub L., grafica o archeologica, che l'elenco ne sareb-

Zur Rhàtischen Etimologie (Stoccarda, be troppo lungo. Lo studioso potrà con fa-

1854); TniERRy Am., Histoire des Gaulois cilità averne contezza, anche solo scorrendo

(Parigi, 1874); Mommsen, Storia Romana le opere generali accennate dianzi. (Milano, Guigoni); Egter, J , Ocschichte

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ROMANZA, N.* 2) GLI IDIOMI PARLATI NEL TREKIINO 159

Chi voglia distiuguere a tutto rigore adunque, nou sarà per asse- gnare al dialetto trentino propriamente detto che la valle dell'Adige, quale ebbiuio a segnarla prima, coi territorj o distretti contermini di Pergine, Levico, Vezzano, Arco e Riva; beninteso che anche su que- st'area più augusta, dove si contano oggidì 180000 abitanti all' incirca, s'incontreranno varietà; sebbene non tali da costituire sotto-dialetti, quali si potrebbero considerare i parlari della bassa Valsugana e di Primiero, e quelli delle Giudicarie esteriori e centrali.

Lasciato il tedesco fuor del conto (e veramente non ci entra per la sua esiguità), due famiglie d'idiomi si stanno accanto nel Trentino: l'italiana e la ladina. D'intrattenerci su quest'ultima non ne accade, dopoché l'Ascoli ebbe a darne quell'ampia illustrazione, che segna epoca nella storia degli studj glottologici. Toccandone quindi solo quel tanto che occorre a rischiarare il soggetto, noi ci fermeremo piuttosto sui par- lari italiani, ossia sul dialetto trentino; guardandolo principalmente con l'occhio di chi coltiva la storia; quantunque non sarà ommesso da noi di dare il debito rilievo, negli esempj in ispecie, a quei momenti ed a quei fatti che possono interessare piii da presso chi s'applica alla com- parazione dei linguaggi.

Un fatto di cui s'ha a tener conto anzitutto, un fatto che ne si presenta costante nei dialetti trentini (anche dove furono continui gli influssi della lingua letteraria, e piii frequenti le relazioni colle vi- cine Provincie della Venezia e della Lombardia; nelle città adunque, nelle grosse borgate, nelle Valli dell'Adige e del Brenta, e sulle rive del Garda) è il perdurare d'indizj ladini. Abbiam detto indizj, ma sa- remmo più esatti a chiamarli reliquie; avvegnaché quelle voci o quei snoni ci richiamino ad un substrato commune antichissimo ; a quel la- tino rustico, cioè, che dovette parlarsi nella Rezia, dopoché fu ridotta a provincia romana. Da quale stirpe provenissero i Reti, e in quale parentela stessero coi Celti e cogli Italici, è quesito pieno d'interesse certamente, ma arduo, intricato, e al quale non potremmo metter mano senza uscire dei limiti che ne siam qui prefissi. Diremo nompertanto di stare con chi s' avvisa che le regioni alpine dalla Valle del Rodano a quella della Drava (non intendiamo già di precisare i confini) fossero abitate, ai tempi in cui i Galli tenevano pressoché tutta la pianura del Po, da popolazioni affini ad essi o per origini, o per mescolanze ve- tuste, o per diuturni contatti. Le notizie degli storici e geografi anti- chi, accordandosi colle recenti indagini intorno agli idiomi gallo-italici, ci fenno arguire che l'elemento celtico, un tempo, fosse diffuso e forte anche nella Rezia, sebbene non tanto da impedire che vi penetrasse o vi durasse qualche vena di altri elementi etnografici; di quelli, cioè, che, malgrado tutte le vicende, avevano saputo conservare una certa vita- lità di fronte od accanto ai conquistatori.

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160 B. MALFATTI 1«iornale di filologia

RistrÌDgendo Tesarne al solo territorio trentino (e la storia istessa lo consente) diremo essere cosa non tanto verosimile quanto certa, che già per tempo vi fossero penetrate infiltrazioni di Liguri, di Veneti, di Etrusci: e di questi ultimi in ispecie. Se gli Etrusci poi vi venis- sero come fuggiaschi, ai tempi della invasione gallica, o non piuttosto per effetto della forza espansiva che è propria ai popoli civili rispetto ai men culti, non istaremo qui a discutere. Diremo invece che di mo- numenti e di bronzi portanti iscrizioni con caratteri etrusci od italioti se ne rinvennero parecchi nel Trentino, e nel Tirolo propriamente detto. Precisare l'epoca di questi monumenti non è possibile; ma l'induzione più accettabile ci sa quella, che li fa più antichi della dominazione ro- mana. Notevoli ad ogni modo dovettero essere gli influssi etrusci od italici; e saremo per attribuire ad essi principalmente che la lingua la- tina sapesse mettere così tosto radici nel Trentino, divenuto provincia romana. (Gli eserciti romani vi penetrarono sino dal 117 a. C.) Che i Tridentini si latinizzassero non meno rapidamente dei popoli finitimi della valle padana, il possiamo rilevare da ciò, che Augusto li destinava a far parte della decima regione italica, insieme cogli abitatori della Gamia, dell' Istria e della Venezia; ed alla Venezia pare che fossero si- milmente aggregati nella partizione decretata da Adriano. Di una dif- fusa e vigorosa latinità nell* antico Trentino fanuo testimonianza le molte iscrizioni che vi furono scoperte; alcune delle quali concernenti sacri od ordinamenti pubblici.

Più lento sembra fosse l'avanzare della lingua e della cultura ro- mana nei paesi al settentrione di Trento; e difatti la parte maggiore della Rezia non fu unita alla Prefettura d' Italia se non ai tempi di Diocleziano e di Costantino. Comunque fosse, allorché andò a spezzarsi la unità romana, l'idioma fattosi proprio alle Rezie, non meno che al Trentino, doveva per il lessico e per la struttura assomigliarsi al latino rustico; mentre in certi suoni ed in certe forme particolari avrà pure conservato traccia della favella primitiva. Alcuni caratteri di quel vol- gare latino-retico possiamo arguirli dai più antichi nomi di paesi che, salvo lievi alterazioni, si sono conservati sino ai di nostri; possiamo ri- cavarli inoltre dall'esame storico degli idiomi ladini, e dalla compara- zione dei medesimi con le favelle romanze che tengono seco relazioni più strette. Se i nomi di luoghi sul fare di Ausugum^ Cardauns, Gu- fidaun^ PcUnaun, Clumneit^ Glaurait^ Fait^ Cleis, Clom, Florauz^ Ca- gnoìdt, Staur, Taurane^ Teines^ Tesians, Telves; e se quelli di popoli: Anaimes, Genaunes, Alaunes^ Leutres, Breones, mostrano la inclinazione a quei dittonghi ed a quelle s finali , che si perpetuarono negli idiomi ladini; l'esame di questi idiomi stessi, quali oggidì si presentano, dovrà condurci ad arguire, che il volgare latino-retico tenesse, nelle varie sue fasi, procedimenti analoghi a quelli onde vennero a costituirsi altri

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ROMANZA, N.« 2] GLI IDIOMI PARLATI NEL TRENTINO IGl

idiomi romanzi; che la formazione de' vocaboli, vale a dire, fosse fon- data sulla persistenza deir accento tonico, ma coli' unirvisL in molti casi la soppressione delle vocali brevi non accentate, che precedevano la sil- laba recante l'accento tonico; ed inoltre il dileguo di alcune consonanti mediane, o il loro affievolimento, oppur anche la trasformazione in vo- cale. Questi fenomeni ne si presentano frequenti negli idiomi proven- zali. La rassomiglianza dei parlari ladini del Trentino con quelli della Provenza fu cosa avvertita già nei secoli passati da piìi di uno studioso, e con maraviglia ben naturale allora (1); la somiglianza andò cancel* lata peranco.

Non accade quasi soggiugnere, che le proporzioni con cui l'ele- mento più antico, o retico, si venne a combinare col latino, furono di- verse, secondo le varie regioni e il variare delle circostanze; sicché nella Eezia centrale ebbe il primo a resistere piiì tenacemente che non nel Trentino. Ma nel Trentino stesso gii influssi idiomatici e civili della signoria romana non potevano aver ottenuto da per tutto la me- desima efficacia. Piiì abbondanti e vigorosi nei luoghi non affatto di- giuni de' rudimenti d'urbanità, oppure in prossimità delle stazioni ro- mane (nella valle dell'Adige adunque e nella Valsugaua, che erano attraversate Tuna e l'altra da strade militari, con qualche città e con castella frequenti) dovevano farsi strada piìi lentamente nelle valli del Sarca, del Noce e dell' Avisio; valli di difficile accesso, oppure abitate da genti che avevano combattuto animosamente contro le prime legioni di Quinto Marcio Rege, e contro quelle di Tiberio e di Druso. Le con- dizioni etnografiche della Rezia e del Trentino, nel medio evo, servono a confermare quanto abbiam detto. Scarsi di numero, (il paese era co- perto per gran parte di selve) e latinizzati da meno temgo, gli abita- tori della Rezia centrale andarono travolti, per così dire, dalle fiumane degli Alamanni, dei Bavari, degli Slavi; non essendo rimaste di essi che scarse colonie di fuggiaschi nelle romite e povere valli della Ga- dèra e della Boite (Badia, Marco, Livinalongo, Ampezzo), in Gardena ed in Fassa; dove l'antico linguaggio potè vivere è vero, ma impigrendo, come il mostrano le odierne sue forme. Nel Trentino invece l'elemento idiomatico latino seppe non solo tener testa al germanico; ma, trasfor- matosi in vero volgare italiano, seppe render partecipi dei propri svi- luppi le parlate di quelle valli stesse, dove l'elemento retico, come in- dicammo testé, aveva saputo resistere più lungamente.

Notevole davvero, saremmo quasi per dirlo sorprendente, è il fondo di schietta latinità che ha saputo conservare il dialetto trentino. Non possiamo dispensarci di presentarne qualche saggio al lettore, comin-

ci) Mariani M. A., Trento, Descrittiotìe historica (Trento, 1673), p. 5G9.

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162 7?. MALFATTI (ciornalk di kii.«!LO(;ia

ciando dai vocaboli che ci richiaraano al latino letterario od arcaico, e che, in part^alraanco, possono dirsi esclusivamente propri al parlare di Trento.

Agràr, smuovere ed ammucchiare pietre {Aggerare); Ambio ^ àmbi, andatura 0 maniera acconcia (Ambire)-, Ameda, zia (Amita); Antàna, altana, o solaio con davanti un ballatoio (da altus, ma forse anche da anta); Ara, aja (Area, hara); Asola, fibbiettina, occhiello (Ansula) ; Badil , badile (BatiUum); Brìga, otre (Bacar, Feste); Bigoìa, dimin. di Bacca, tanto nel senso di coccola, come di sterco ovino, (v. Pallad.); Batóccio, batacchio (Batuere); Bazilón, legno ricurvo per portare vasi o ceste alle sue estremità (Bajulare); Bena, grande cesta da condursi con bovi (Benna, Fe.st.); Bina, si dice di due pani uniti; Binar, mettere insieme, raccogliere (Binus); Boghe, ceppi; embogdr, mettere in ceppi (^oja?, genus vincolorum, Fest.; Bogia, torques damnatorum, Papias); Bòra, tronco d' albero {Bwra = manico del- l'aratro, VaiT.); Brocón, fruttice che serve di letto al bestiame (Brochon, Plin.); Brozz; veicolo alpestre a due ruote (Pirotus); Butt, bottone, gemma (Buttare = inflare); Caliverna, nebbia, caligine (Caligo hiberna); CaJzidrél, secchia di rame per r acqua (da kàlkeos e hi/dria); Caról, tarlo (Caries); Qenis, cenere calda (Cmia); (Jesa, siepe baa<3a di spini o pruni recisi (Caesus)', Cióppa, coppia di pani; Cobbia, coppia di cavalli (Copula); Cogn, cuneo; Cógner, esser forzato a fare una cosa (Cu- neus, cogere); Cognóscer, conoscere (Cognoscere)-, Colóbie, lavature e rifiuti per ali- mento dei maj ali (CoWwu/'e*); Conzàl, bigoncia, ( Congiarium) ; Cornicio, acquedotto murato a volta (Cornii, corwecM/Mw); Criénte, crivént, grano intristito che si scevera dal buono per pixstume ai polli (Cribrare, crivellum); Cuna, culla (Cunula); Delézer, scegliere (delegere); Diana, il far del giorno; sonar la Diana, sveglia mattutina (Dies 0 Diana) ; De^'ipdr, sciupare qualcosa, renderla inetta al T uso (da Dissipare, o Decidere?) ; En drittura, in linea retta (Directura per directio, Vitruv.); Famét, fa- miglio rustico (Famulus, Famel, Famulaticum, Fest.); Fizza, piegatura; Fizzól, filo ripiegato in matassina, (Fissio); Feria, gruccia, sostegno (Ferula); Fól, gual- chiera (FuUonius); Frasette, minuzzoli di cosa spezzata (Fragium); Fratta, terra dissodata di nuovo ( Terra fracta?); Frudr, consumare una cosa nel goderne od usarne (da fruì, piuttosto che da fricare o frugare); Gatizzola, solletico (CatuUire); Gióf, giogo (Jugum); Gióm, gomitolo, (Glomus); Gémer, vomere ( Vomer); Gorgo e gorga (Gurges); Intrég, intiero (Integer); Isca , alluvione con vegetazione palustre (Lisca); Ledrdr, sarchiare per togliere le erbacce (Liturare, « lituratum agrum », Grut.); Lara lorél, imbuto (Lura); Lugdnega, lucanica (Longano, longabo); Lùser, splendere (Jjucere); Malta, cemento di calce (Maltlui); Mèda, mucchio (meta foeni, Plin.); Mengio, tentennone, minchione, (Mencta, mentula); Migola, bricciola (Mica); Móher, niugnere (Mulgere) ; Nevó , nipote (Nepos); Nizza, nipote (Neptia); Orna, misura di vino (Urna); Pàbol, foraggio (Pabulum); Pdnder, manifestare (Pandere); Pa- noccia, panocchia; Panizzól, panicchio (Panucula) ; Papa, Papoldr, mangiar di gusto (Pappare) ; Pavèl, farfalla (PapUio); Pétola, seccatore, importuno (Petulans, petulcus); Pollastro, pollo (Pullastra ; Varr.) ; Pólsàr, riposarsi (Pausare) ; Popò, bam- bino (Pupus); Provdna, propagine; Emprovandr (Propaginare); PtUèll, ragazzo (PutiUus); Prodél, cavalli o bovi aggiunti ad un veicolo (ducere protelo aratrum, Cat.); Rasin, piccolo grappolo d'uva (Bacemus): Ràut, terreno sassoso; Rautàr, dissodare (72ode*s, raudus, Fest.); Reddtol, nome d' ucceWo (Regulus) ; Besentdr, ri- sciacquare, ripulire (Becentiare) ; Roncar, zappare sarchiare (Runcare); Jiurfr, ter- minare (da ruere: Ruit codum imbribus; sol ruit; ruit ver, Virgil.); Rosdda, ru-

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BuMAxzA, N.- 2J GLI IDIOMI FAliLATI NEL TliENTINO

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giada {Bos); Bamegàr, ruminare {Itumigare) ; Ruspar, frugare {Buspari); Buvid, ruvido (BuiduSj Plin.); 5ar ir, sarchiare {Sarrire); Salantórat itfója,- salamoj a, met- tere in molle (Muria); Surmentél, fascinello di sarmento di vite (Sarmentum); Sbolfràr, spruzzare, schizzare {Exproflare) ; Scagnèlj sgabellino, gradino (5camne/- lum); Scdndole, assicelle per copertura del tetto (Scandulce); Scatondr, razzolare, raspare (Scalpturire, scalpturigo) ; Scheggia {Schidia, Vitruv.); Scotón, dicesi oggidì de' frati alla cerca {Cocio, cotiones); Scozzonar, scuotere, far risentire (ExctUiare); Sesia, piccola falce per mietere, (Secala) (1); Sfalsar, falsificare, alterare (Falsare); Sgarz e sgarzàr, garzo, estirpare (Carduus)', Sgrognàr, fare il ceffo, imitando per dilegio il parlare altrui (Grundlre) ; Soturnia, umor negro, Soturno, triste (Saturnia, neir applicazione astrologica); Seneghi, smunto, acciaccoso (senex « facies senicis»); Sfessèi, minutame di legne tagliate (FisseUum)', Sfragél, flagello, subisso (FlageTlum) ; Sguddr, sgurdr, vuotare (Excurare) ; Snizzdr, stappare la bottiglia pei primo assag- gio (Initiarè) (2) ; Sordr, raffreddare (ex-aurare) ; Spigol, spigolo (Spiculum); Stdbol, ^^t , tettoia sotto cui riparare il bestiame, e custodire i foraggi (Stahulum); Stéla, scheggia di legno (Astula) ; Straldr, uscir del giusto (da trans e liquet); Slrdm, strame (Stramen); Strania, G* aver de strani, esser nuovo in qualcosa, fuori delle proprie abitudini (Ex-straniare) ; Sirópa, vimine (Strupus); Sùhia, lesina (Subula); Teza, solaio rustico, specie di fenile (Attegia); Torcolót, svinatore che torchia (Torculum); Térmen, termine (Ternten, Varr.); Tinazz, tino grande (Tina, Varr.); Uccia, ago (Acucula)', Vinqél, rami verdi legati a fascina (Vincire)-, Zerlo, gerla (Gero; geru- ?ttó = facchino) ; Zegdr, provocare (da' e).

Il piti di questi vocaboli, come avrà avvertito il lettore, apparten- gono ad oggetti o ad operazioni rurali. Sono di uso comune tra i cani- pagnuoli nei dintorni di Trento; e per la loro forma escludono ogni sospetto di recente importazione o di influssi letterarj. Che se qual- cuno volesse conoscere più da presso le attinenze del vernacolo di Trento con quello che suol dirsi latino rustico, non ha che a scorrere la parte

(1) 11 signor ScHNELLER ( Roman. Volks- mundarten, p. 181) congiugne Sesia col te- desco Seisse, cercandone T etimologia nel- Tantìco Sa^^ = oggetto tagliente. Ma v'ha una parentela più naturale, quella con Se- cula che troviamo in Varrone. Di fatti ne- gli Statuti di Riva di Trento, dell'anno 1274 (§52), leggiamo: « *i quia segaverit cum falce vel cum sexuZa »; e gli idiomi ladini odierni ci mostrano le forme: sesula (friul.), sesola (livin.), seisla (gard.). Vogliamo con- cedere che il tedesco Seisse, come Sichel, e Sciise, possa avere il suo fondamento in sahs; quantunque non sarebbe fuori del ve- rosimile che nella voce tirolese Seisse, e Tìe\]B.Seisser-Alp (Alpe dei Falciatori) presso Bolzano, s'avesse una reliquia, od un in- flusso dell'amico idioma reto-romano.

(2) Ne gode che F opinione che ci erava- mo formata intorno alla derivazione del vo- cabolo snizzdr, nizzàr (itiizàr dell'antico veneto) abbia l'appoggio autc)revolÌ6simo del MussAFiA {Beitrag z. Kunde der nord- ital. Mundarten, p. 169) contrariamene allo ScHNELLER, che nelle sue /2o>7?an. Volks' mundarten (p.l91) lo fa provenire da «c^wtf- zen. Aggiugneremo che a Trento oggid\ quel vocabolo si usa, più di sovente, per bevande : « snizzdr *na botiglia » a cui non potrebbe convenire l'idea congiunta a schnit- zen. Noteremo puranco che la forma sniz- zar per inizàr non può far specie nel dia- letto trentino; il quale ha frequentissima, ee non propriamente caratteristica, l'aggiunta di un s ri n forzati vo", o prostetico che dir si voglia,pei verbi indicanti deci.samente azione.

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104 B, MALFATTI [giorkjile di filologia

lessicale deW Itala e Vulgata del Roiisch (l), cercando di mano in mano i riscontri nel Vocabolario vernacolo-italiano pei distretti rover etano e tren- tino dell' Azzoliui (2). Pochi altri dialetti sapranno mostrargli più copiose e patenti rispondenze. Dagli spogli abbondanti a cui ci fornì materia quel primo libro (sono parecchie centinaia di voci) ne si permetta di trasceglierne e riportarne alcune, che si riferiscono massimamente al vivere domestico. Le diamo nella successione con cui ce le oflFre il vo- lume; ommettendo per molte, siccome superfluo, il riscontro della lin- gua letteraria.

Aramentum == el rara (i rami); Lustramentum = lustraraént; Fricamentum = sfregamént ; Jaculamentum = sgiavelamént ; Capitium = cavezz ; Lacticinium = làt- te9in; Mucinium = mòc, mòccàt; Coopertorium = coverdór; Incastratura = encastra- dura; Fricatura = sfregadura; DtUcor = dol9Ór; Titio = stizz (tizzone); Claror =■■ ciarór; Manua = manàda ; Polenta {non deficit hydria polenta; S. Ambr.) ; Pruna = brugna; Sporta = spòrtola; Torta = torta; Ada = azza (matassa; Ada significai fdum ad consuendum ductuin , Ducange ) ; Buccea = boccàda ; Filiaster = fiàstro ; Forbex = fórbes ; Catentda = cadenélla; Tortida = torteli ; Formella = formèlla (di- casi propriamente del cacio) ; Genicvdum = ginoccio; Linteolum = linzòl; Vinadum, vinaccia uvaram = vinazze; Ficatum = figa (fegato); Fossatum = fossa; Acediosus = 9ÌdiÓ3 (uomo svogliato, di malumore); Temporivus =^ t^mi^ovìf (primaticcio); CoBi- garius = caliàr; Casearius -^ casàr (che prepara il cacio nel Casél = taberna casearia); Manuarius = manudl; Portatorius = portadór; Aeruginare = ennizenfr; Buncì- nare = renzignar; Matrescere = smadrezàr (far offici od atti di madre); Adaqxuire adacquar ; Indulcare = endol^ir ; Beversare = roverskr ; Intrinsecus = entrónseg (3) ; A modo = amò (ancora) ; De foras = de fora ; De sursum = de suso ; E contra = 'n contra ; Minare = menar ; Facid = fa^il ; Carius = coràm ( excoriare = scorzar) ; Va- dus = \6 (nome di luogo); Tncare = 'ntrigar (ne te ^r/ce^ = no 'ntrigàrte) ; Sóta" rium = feolàr; Mamma = mamma ; Deliberare = deliberar (nel senso di liberare. Ee. ; deliberar le anime del purgatori; « ad deliberandas animas eorum de morte » ; Ter- tullian.): ^x«2)o/?arc = despojar (nel senso di svestire); Corregia corréza; Calda- ria =GSÀdékr, e caldèra.

Ed ora, in ultimo, alcuni vocaboli che, usati nelle scritture medie- vali, si possono incontrare, quasi senza mutazione, in bocca ai popolani di Trento:

^rmormm = armar ; ArmiUa =' axméìa, (anello o cintura intorno al collo del cane) ; Bigatus nummus = Bagatfn (per dire moneta od oggetto di poco valore) (4);

(1) RòNSCH H., Itala und Vulgata (£.* (4) Bagattino {à\cpi il Vocabolario): mo- ediz.), Marburg, 1875. neta che valeva il quarto del quattrino, sic-

(2) AzzoLiNi, G. B., Vocabolario Verna- come il picciolo, la quale s' usava a Venezia. colo-Italiano f pei distretti roveretano e A Trento correva con quel nome nel seco- trentino, Venezia, 1856. lo XIV; come può vedersi nella Cronaca di

(3) Questa parola, non riportata dall' Az- Giovanni da Parma, canonico di Trento zoLiNi, r abbiamo raccolta dalla bocca di un (Pezzana, Storia di Parma continuata, rozzo campagnnolo, del tenére di Civezzano, Voi. I, Append., pag. 49 e seg.; e Calenda^ che la usava come addiettivo, nel senso di rio Trentino, 1854, p. 133).

proprio, appartenente.

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HOMANZA, s.« 21 GLI IDIOMI CABLATI ^EL TRENTINO 165

Barbanus = barba (zio) ; Bova =ho2k (valanga) ; Buticuìum = bottesél; Botellus budél; CabàUarius = ca vallar; Camisia = camiaa; Camìnata = caminàda (caminet- to); Cattare = ga,ié,r (trovare); Cara = cava (buca, fossa, e dicesi in ispecie delle petriere) ; Canova = cane va (cantina) ; Capritus = caorét (capretto) ; Cucus = cuco (cucnlo); DtscaZc/ttó = descàlz ; Do^ra = dova (doga); i^sca = lesca (fungus fomes ignis) ; Extra = estra (oltre a) ; Fictm = fitto ; Focacius = fugàzza ; Fustis fre- sca (frasta); Lavina = slavina (valanga); Mansus = maso (tenuta colonica, e quindi Masadór = colono) ; Massarius = massàr ; Naidum = nolo ; Pertica = pértega (misura agraria); Ptper = péver ; Flebs = pM (territorio di parrocchia rurale, coi suoi abitatori); P/e6awt*s = pióvan ; i^oòwr = róver (quercia; e, per traslato, uomo robusto); Saltarius = sMéx (guardia campestre); Sca/rare = scalvar (far capitozze e diramare) ; /Sfoca =: soga (fune di canapa) ; Sparcus , spacus = spàg (spago) ; Stri- ga = stria (strega); Teloneum = telonio (uffizio, impiego).

Altri di cosiffatti vocaboli n'ebbimo ad indicare già prima, discor- rendo delle carte vanghiane. v'ha punto dubbio, che questa e le precedenti serie si potrebbero accrescere ancora di molto, chi avesse agio a minute ricerche nei diversi contadi. Perché in questi esempi, e negli altri che saremo per addurre in seguito, abbiam voluto attenerci al solo parlare del territorio che ci è il più conosciuto, ossia della città di Trento, e della campagna intorno; ed anche per esso siam proce- duti con un certo riserbo; che vent'anni e più di lontananza dal paese, e di soggiorno in città di altri parlari, ci consigliavano di non far troppo a fidanza colla memoria.

Ad ogni modo, il materiale prodotto ci sembra sufSciente per so- stenere ravviso, che il dialetto trentino, allorché venne prima a for- marsi, fosse il naturale svolgimento del latino che "si era parlato dianzi nel paese. Ammetteremo sì, che a tale sviluppo contribuissero i contatti colle vicine provincie; non però tanto da potersi dire che il vernacolo di Trento si fosse formato unicamente in grazia d'essi. Oggidì sta di mezzo, in certo modo, tra la famiglia dialettale lombarda, e la famiglia veneta; quantunque pieghi più espressamente a quest'ultima: avvegna- ché se tiene del lombardo pel dileguo delle vocali finali nei nomi ma- schili, al singolare, e negli infiniti dei verbi (oltre a qualche particolare fonetico, nelle vocali in ispecie); d'altra parte si raccosta al veneto nei momenti grammaticali delle declinazioni e coniugazioni, e nei princi- pali accidenti di assimilazioni, dissimilazioni, attrazioni, metatesi, e via discorrendo. Sennonché chi analizzi attentamente il dialetto di Trento dovrà dirsi, che, quali pure si fossero gli impulsi e gli elementi venuti dal di fuori (e coi veneti e lombardi si hanno da mettere in conto anche i ladini e i germanici) esso li seppe elaborare e fondere insieme di propria forza, e con piena conseguenza. Il dialetto trentino è dia- letto organico, tanto nei momenti lessicali quanto nei sintattici. Ana- lizzando i vocaboli, secondo i momenti fonetici, può arguirne, nel più dei casi, la provenienza e l'età. Ora riconoscere un dialetto per

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166 B. MALFATTI [giornale di kii ologii

organico, e dovergli attribuire priucipj di evoluzione suoi propri e re- moti, è una cosa sola. Il trentino, certamente, prese a svolgersi non più tardi degli altri volgari d'Italia; bensì il processo di sua elaborazione dovette essere più lento e piiì laborioso, in ragione della maggior quan- tità di elementi che doveva assimilare e ridurre ad unità, e dei minori ajuti che il sovvenivano in Toper^. Si guardi al lungo tempo che corse prima che si fossero stabiliti i caratteri distintivi dei dialetti veneti e lombardi; dialetti parlati da genti numerose, abbastanza omogenee, civilmente prospere.

A chi si tenga presente il lavorìo che s'operava nei volgari italiani tra il XIII e il XIV secolo, ed insieme rifletta sulle relazioni politiche del Trentino a que' tempi, e sulle sue condizioni topografiche, non po- tranno far specie le parole con cui Dante, nel Libro de Vulgari Elo- quio^ ebbe a toccare dell'idioma trentino; parole addotte dal signor Schneller per sostenere che la favella usata a Trento, in sullo scorcio del dugento, non poteva essere propriamente italiana (1). Ecco il passo dr Dante, al capo 15 del I Libro, secondo la lezione volgare che ne il Fraticelli: «..dico che Trento e Turino ed Alessandria sono città tanto propinque ai termini d' Italia, che non ponno avere pura loquela; talché se così come hanno bruttissimo volgare, così l'avessero bellissimo, ancora negherei esso essere veramente Italiano per la mescolanza che ha degli altri. E però se cerchiamo il parlare Italiano Illustre, quello che cerchiamo non si può in esse città ritrovare ».

Noi non intendiamo di attenuare in nessun modo la portata delle parole di Dante. Non istarerao quindi a ricordare come il volgare dei Romani fosse da lui giudicato il piìi brutto di tutti i volgari d'Italia; e come, movendo in traccia della loquela illustre, avesse eliminato, prima di venire al trentino, i parlari della Marca d'Ancona e gli Spoletani, e dopo questi i Milanesi e Bergamaschi, e dopo ancora gli Aquilejaui ed Istriani, e tutti in massima i dialetti dell'Alta Italia, e tutte le mon- tanine e villanesche loquele, e avesse negato ogni parlare italiano ai Sardi. Dei concetti da cui mosse Dante nel dettare il libro del Volgare Eloquio^ e nell' apprezzare quindi più o meno i vari dialetti, fu già di- scorso da altri, e in modo sagacissimo (2). Per conto nostro diremo di volere tanto poco mettere in dubbio l'infiltrarsi di elementi stranieri nel volgare trentino, che peneremmo anzi ad immaginare, come avesse potuto essere altrimenti. Dell'aver poi Dante trovato bruttissimo il parlare di Trento, possiamo renderci conto pensando a quella tal can- tilena, non bella di certo, eh' è propria tuttora al volgo (i Trentini la

(1) Mittheilungen, fi.- 312. Die roma- quio di Dante (Archivio Gloltol, ItaL^ ìiischeji Vnlksmmìdartcn , p. 11. Voi. II, p. 58-110).

i?) D Ovidio Fu., Sul De Vvlgari Eh-

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uoMAxzA, x.° 2] GLI IDIOMI PARLATI NEL TBEXTIXO 107

chiamali pUo); la quale un tempo doveva suonare ancora più spiccata e più fastidiosa; e che, unita a' suoni particolari ladini, con miscuglio di vocaboli germanici, non poteva a meno di offendere l'orecchio del- l'Alighieri, allorché ebbe a dimorare nel Trentino (circa il 1304 a quanto sembra) ospite di un Guglielmo di Castelbarco. Eppure dalle parole del grande esule chi potrebbe raccogliere ch'egli contendesse carattere italiano alla città di Trento, ed al suo idioma? Poneva Trento in com- pagnia di Torino e di Alessandria (nobile compagnia dicerto) ; e, quanto all'idioma, negava soltanto che lo si potesse aver fonte dal quale atti- gnere l'italiano illustre. Ora da questo al concludere, come fa il si- gnor Schneller, che il parlare di Trento, a' tempi di Dante, non fosse volgare italiano, ma un dialetto prettamente ladino, sul far degli odierni, il salto ne sa ardito; quantunque si debba tener conto della concessione a cui è venuto il signor Schneller, in grazia di quel tal passo di Dante. Concessione abbiam detto; ma potremmo chiamarla anche, e meglio, contraddizione; perché un dialetto retico, simile a quelli di Gardena o di Badia, sarebbe stato pur sempre un volgare di fondo latino, mentre il signor Schneller aveva pure sostenuto poco prima, che il linguaggio parlato comunemente a Trento, nel secolo XIII, era il tedesco.

Ma la seconda sua opinione, non regge meglio della prima; e ci faremo a dimostrarlo tra breve. Intanto, quasi ad ultimo commentario delle parole di Dante, facciamone qui a ricercare quali elementi ger- manici si sieno infi Itrati e conservati nel dialetto trentino. Che questo fosse stato per accoglierne in numero assai maggiore degli altri verna- coli italiani, sarebbe cosa da non far maraviglia, chi guardi alle condizioni topografiche e politiche del paese. Eppure quegli influssi furono più scarsi che forse taluno non s'avvisa; o transitórj per lo manco. Mal- grado le relazioni^continue, e necessariamente strettissime, colla parte tedesca del dominio tirolese, il Trentino, di voci germaniche nel suo dialetto, ne conta poco più, che non ne possieda qualunque altro dei vernacoli della Venezia e della Lombardia. E di que' vocaboli il numero maggiore sono nomi; pochi i verbi; per gli altri elementi del discorso non se ne trovano quasi punto. Ma non vogliamo prevenire l'opinione del lettore; il quale saprà decidei'e da per sé, dopo avere scorso le due serie di vocaboli che gli esibiamo; nella prima delle quali attenendoci particolarmente al Diez, abbiamo raccolto quelle voci di sti- pite germanico, che, proprie alla lingua letteraria italiana, lo sono pure al dialetto di cui ci occupiamo (1). Le diamo nella forma vernacola,

(1) Oltre al Dizionario Etimologico , e dialetti in Italia dpi Caix (Parma, 1872); alla Grammatica del Diez, si veda anche in ispecie a p. XLIX e eeg. deirintrodu- il Saggio sulla Storia della ìing-ìta e dei zione.

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168 B. MALFATTI [oionxALE di filologia

agginngendo la letteraria soltanto in quei casi, dove la corrispondenza non si afiTaccia spontanea:

Addobbar; aizzar; asi {agio); aspi (aspo); arpa; ardfr; bai con; banca; bandir; baristi (bargello); bazza; bianc; binda (òenda) ; biónd; biótt (nue2o,j)overo; polenta hì6t& = 8ema companatico); birra; bissa (òi^cia) ; bord; bordél; bóac; braghe; bra- mar; brasa ; (bragia); bria (briglia); brodo; brun; bùio (bravo, ardito) ; busia; cazza (mestola di ferro, ramajuolo); cazzóla; ciappàr (acchiappare ^ pigliare); confalon (gonfalone); fòdera; forbir; fornir; frane; frese; frezza; gabella; garb (acerfto); ga- loppar; garantir; gazza; ghigna; ghignsir; giacca (giacco, giubbone); gola; gram; grampa; grappa; grattar; grepp (grappola) ; grinta (ceffo, cipiglio) ; grópp (gruppo) ; guadagnar; guaina; guant; guarfr, guernir; guidar; guerra; ingann ; isa (izza); lap- par ; leccar; lista; manigóld; marca; marescdlc; mozz (da mozzicare = smozzar) ; muffa; mudio (muschio); nastro; raffar (carpire); razza; ricc; riga; roba; robkr; ròcca; ròsta; rózza (cavallo vecchio = fOS«) ; rostir; sala; sàles (salice); sbalengh (sbilenco); sbara (bara); scaffàl; sóett (schietto); scherzar; schivar; scioccar (chioC' care); sghizzàr (schizzare e schiacciare); sghemb; sguer^ (guercio); smarrir ; smilza ( milza); sciìtHa ; sperón ; spiar ; spiéd ; spola ; spranga ; staffa ; stampar ; stanza ; steoc ; schìnc (stinco) ; straccar; strozza; stùa (stufa); stuzzegàr; tàccola (qtUstione, difetto); tanf; tass (nome d'animale); tirar; toccar; torba; tovàja (^or a (/ita); tràmpol; trin- car; tuffar; auffa(au/fo); vardàr (guardare); vogar; zata (zampa); zópa (zoUa); ^uS (ciuffo) (ì).

Facciamo ora seguire i vocaboli che, d'origine germanica pur essi, non s'incontrano che nei dialetti dell'Alta Italia, e parecchi dei quali possono dirsi esclusivamente propri ai vernacoli del Trentino (2) :

Bàgherle = c&rTO'zzciiB, a un sol cavallo (Wagen, vcegerl) (3); J5ro<i r = scot- tare, bislessare (BrUhen); *JBórrer = levare la selvaggina (Purjan); Coltro = csis- Betto = (G^halter); *Cdndola, cànderla = cogoms, (Kanne); *Canédeli = gnocchi ad uso tedesco (Knòdd); *Canópp = minatore (Knappe) ; *fère» = tino grande per H vendemmia (Zuber) ; *Qi solar = abbrucciacchiarc (Zischeln) ; *Chiznér = bambinaia (Kindsdirne) ; *Clómper = pane di rimasugli di pasta (Klump); Cràchesa = arnese e persona in malessere (Krachse); Crauti = cavoli acidi (Sauerkraut); *Crosnóból = uccello becco in croce (Krummschnabel); *Crózz = roccia dirupata (hreosan ~ preci- pitare); *Càcier = cocchiere signorile (Kutscher); *Drazdr = setacciare (Brasche);

(1) Qualche altra parola, di quelle che Di fatti al contado, in luofro di questi voca-

spettano al vocabolario comune, si potrà boli, si adoprano ancor sempre gli antichi:

udire nel Trentino; ma con suoni e forme Osteria (oppur locanda), èst , locandér,

tali, da non potersi ascriverle al patrimonio art , ortoldn.

dialettale. Tali, ad esempio: Albergo, al- (2) Segniamo con asterisco quelle voci, che,

bergatór, giardin, giardini^r; che necondo per quanto ci è noto, non si usano in altri

le leggi fonetiche del dialetto dovrebbero dialetti.

suonare: albérg, albcrgadór, zardln, zar- (3) Bàjher, per carrozzella a un caval-

dinér. 11 non essersi operata la trasforma- lo, è voce propria al dialetto milanese, zione mostra, che sono introdotte da poco.

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ROMANZA, x.-^ 2J GLI IDIOMI PARLATI NEL TRENTINO 109

*FinfcrU = specie di fanghi (Pfilferlinge) ; Fine = fringuello (Finlc); Fraila = si- gnorina ( Fràulein); Fufignàr = ingannare (forse da Pfiffig) ; Gdbùro (gabùro ^bauer) ; Ganga = buona voglia, destrezza (Gang) (I); Gdnzega = banchetto per festeggiare il compimento di un lavoro (da gagan e zeiga); *(jrar6dr = conciapelli (Goerher); Gaz = bosco chiuso (Gàhagium nelle leggi longobarde; Geh<ege)\ 0 htm pel =: nome d'uccello {Gimpel=^ Pyrrhtda vulgaris); Ghirlo = vento vorticoso {Wirbélwind) ; *G»icc = avaro, che lesina (Knicker); Gr/e^r ^ semolella {Griesmehl); Gringola = allegrìa (forse da Rlngilà-ringidà = ballo a cerchio) ; *Grobidn = villanaccio (Grob) ? (rti/fM2o/ = arcolaio {Winde)\ G^w^az-er = padrino, santolo (gotti); *Lèdec = esente [ledig ?) ; Loca = pozzanghera {Lache) ; Locher = viglinolo {Lugg, liicke) ; Magón ventriglio delV uccello ; e anche affanno ( Magen) ; *MarlÓ88 = lucchetto ( MarlcscMoss) ; *3fcwf<7^<r = colorirsi delle vivande al fuoco {màsà = chiazza, macchia); MatéU^^ ragazzo {Maga^, mcedel) ; 3fo wotór = biasciare, gustare qualche cosa senza masti- carla {Mumméln)\ 3f osa = intriso, specialmente per nutrizione dei bambini {Mós, miAs); Pa*iaifj = uomo pigro, melenso (p«i<on = indugiare); Pacéch = melma (Pai- sche); Patuffiàr = scnoteret percuotere (Tupfen); *Peclini = aringhe salate (Biiclc' ling ) ; *Pinier = bottajo ( Fassbinder ) ; Pióf = aratro ( Pfìug ) ; *Pùsol = mazzo di fiori (BUschel); Jtó/fei = graffietto da falegname (Raffi); J^/a = fare a ruffola- raffola (Reigen); i2e/i^a = campana del palazzo pubblico (hringan); Rengàr = \ì' tigare, abbaruffarsi (Rinkanj ringen); *56cWe^a = carne intristita, frolla (Schwat- tig); Sfti^e^f dr = lavoracchiare, frugare (Byseg , bezig); fifòrc^rdr = lacerare, strap- pare ( Brechen ) ; Sgéva = scheggia ( Skivere, scheve ) ; Sghingolàr, szinzoldr = fare air altalena (Stoingan); Sghddr = V emettere escrementi degli uccelli (Skizan); S/e;)- pa = manrovescio (Schiappe); Slizzégdr = sdrncoióì^re (Slizan) (2); SZ/w^ra = scin- tilla (Sleizen) (3) ; SUppegdr = scivolare (ScMùpfen, scklùpferig) ; *SUppia = delicato o anche parco in mangiare (Lippe?); *Slóter=^ sudicio, mascalzone (Slote, e Lotter- bube); ♦5iózjfer = chiavajo (Schlosser) ; Smalzdr = condire con burro gettato (Sckmal- zen); *Smuzzegón = sudicio, sciatto (Schmutzig); *Snoll = saliscendo (Schnalle); *Slèora = imposizione, gabella (Steuer); *Stofis8 = baccalà (Stockfisch) ; Strdboi pasta dolce fritta (Straìd>en); * Stresserà = donna volgare, venturiera ( forse da Tross^ Trossdirne); Tanandi= bailamme, confusione, cosa farraginosa (forse da Tana sediiiOy delle leggi longobarde); Taw^andr = litigare, tenzonare (tanganum, tan- ganare nelle Leggi Salica e Ribuaria); *r/«Zcr = stipettaio, falegname (Tischler); Tnneo brodetto, intingolo ( Tunke) ; lizzar = aizzare (Hutzen); Zabai, Zabaddi ~ chiasso, tumulto, garbuglio (forse da Zaba = adunatio illicita, delle leggi longo- barde); *<^ccc^tfndr = mangiare in brigata all'osteria (Zeche, Zechen),

(1) Gana, nel senso di voglia grande; questa voce serve poi ad indicare anche e fare alcuna cosa di gana per farla con falda di neve, così pel fenomeno luminoso imsto grande, trova nel Vocabolario tra s'adopera più di spasso Slinza. Noi ali- le voci antiquate. Tra il Ganga e il Oana biamo ammesso che Slinsa provpjiÌ8.«e da non vi sarebbe per avventura qualche re- Steisen; mn non s^nza qnalclip diihl.io ( hp lazione? Ganga si usa pure nel veneziano potesse anche essere derivato da iUinzàr, col medesimo significato. Sclinzdr; che forse risalirebbe alla sua volta

(2) Sulla dubbiosa etimologia di questa a scintillare. Oppure s'ha da cercare un parola si veda il Mussafia alla voce S/iJff- etimo comune e più lontano in Sc/ot/ (Mus- gdr ( Beitr. x. Kunde d. Nordital. Mundar- safia, Beitr. zur Kunde d. Nordital. Miind- ten^ p. 206). arten, p. 155, 169, alle voci Fianxisdr, ini-

(3) Nei vernacoli trentini si usa pure fa- zar). Lasciamo giudicare a chi in questi lioa (favilla) per scintilla. Ma siccome argomenti è più competente di noi.

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170 J?. MALFATTI [«jiounale di filologia

Per quanto sia stato iutendimento nostro di dare perfetta quest' ul- tima serie di vocaboli, non pretendiamo di esservi riusciti in modo, che altri non possa appuntarci d' omraissioni. Ommissioni del resto da nu- merarsi scarse; a meno che non si voglia far violenza all'etimologia, oppur dare per vocaboli propri al dialetto quelli, che non s'usano che in qualche parte del paese, od in via d'accidente (1). Avvertito ciò, ne si conceda qualche osservazione. E prima di tutto, che l'uso di pa- recchi vocaboli da noi ammessi siccome comuni, si viene diradando in maniera da potersi pronosticare che in breve sarà per cessare quasi intie- ramente. Voci come ciicier, gainàr, isa, slóter, rengàr^ non si odono quasi più. Allo scomparire de' quali vocaboli, e d'altri simili, non contribuisce solo il più largo diffondersi della lingua letteraria, ma un altro fatto puranco , di cui è a tener conto : vale a dire, che per alcune delle idee o delle cose, ad esprimere le quali si usano vocaboli d'origine o provenienza tedesca, il dialetto trentino possiede voci di stipite ro- mano e d' uso antico. Tant' è vero che queste ultime si odono più di spesso nelle valli lontane, che non nelle città o nelle grosse borgate; dove le più strette relazioni cogli officiali, colle milizie e coi trafficanti tedeschi danno occasione all' introdursi di voci d'origine straniera. Così ad esempio, nei contadi, e in quello stesso intorno a Trento, invece di Bdgherle, Qizza^ Fraila^ Gainàr, Grobidn, Slóter, Smuzzegón^ si udrà dire di sposso: Carrettéla, Cavedlriy Sioràta, Begdr, Villàn^ Slmidrón, Sporco; e per Garbar = Coìizadór^ per P Inter = Bottdr , per Slózjser=^ Ciavàr, Ferrar^ per Tìssler^= Marangòn.

È a questi ultimi nomi tedeschi d'arti o professioni che si riferisce la seconda nostra osservazione. Vogliamo dire cioè, che da essi non si deve inferire a tale frequenza dell'elemento tedesco nelle città, da avervi costituito, nei secoli addietro, la classe degli artieri. Per ridurre la cosa

(1) È questo il caso del sif^nopSciiNRLLKR, da una sola persona, come ciottemàr; od che nella prima parte dell' Zdtottcon (Mun- usarsi appena in qualche terra, come /Sefe- darten^ p. 105-217) adduce una sessantina teràr. E similmente non distingue tra le circa di voci, oltre a quelle da noi indicate, voci che si sono connaturate al linguaggio siccome voci che passarono dal tedesco al del popolo, e quelle che in forza di parti- dialetto trentino. Ma una buona metà di colari circostanze politiche o sociali, non si esse è tanto poco d'origine germanica, che adoperano che «la certe classi di persone, nei Vocabolarj latino ed italiano se ne pos- ed a tempo; quali ad esempio: profèsen, sono trovare le forme più antiche o le ana- shànzega, stùzzen, tràer, zelten eoe. E loghe. Lo abbiamo mostrato prima per *e.sZa anche su ciò ne riserviamo di ritornare, e snizzàr; per le altre, qìiali ad esempio; quando ne avremo più agio. Intanto diremo bardèlle, bdzeri, berlich ^ bèga, ciómpi, che come voci del dialetto riteniamo sol quel- gréppo, fita, sbiségar ecc. ne daremo la le, che sono d'uso comune e costante, e che prova in altra occisione. Qualche volta mostrano anche di esserlo con una forma non poi il sig. ScHNRLLER ascrive al dialetto dei contraria alle leggi dell'organismo dialettale. vocahoU, ch'egli stesso confessa di aver udito

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GLI IDIOMI PARLATI NEL THENTIXO 171

a' suoi giusti termini, bisogna tener conto di parecchi fatti. E prima è da avvertire che per le altre professioni o mestieri non v' ha traccia che si usassero nomi tedeschi. L'esserne stati accolti per alcune arti, fu eflFetto della costituzione di esse in corporazioni o maestranze, con appellazioni e fors' anco con Statuti tedeschi ; avvegnaché coloro che le esercitavano fossero nativi, la maggiar parte, di certe determinate re- gioni del Tirolo o dell'Alta Germania. Le maestranze e le arti, nel medio evo, avevano carattere esclusivo non solo, ma anche in certo modo territoriale. Esempio antico e celebre i Maestri Comacini; ai quali è dovuta pure la costruzione della bella e maestosa cattedrale di Trento. Il costume che i nativi di certi paesi si dessero a determinate arti o professioni, durò a lungo, anzi non è estinto neppure oggidì; conser- vandosi in ispecie nelle valli alpine più povere, o dove sovrabbonda la popolazione. Dal Trentino escono ogni anno stuoli di artigiani ed operaj: arrotini e ramaj ambulanti dalle valli delle Giudicarie e del Noce; dalla valle di Tesino quei venditori di stampe che si incontrano in mezza Europa. Sino a pochi anni addietro, la valle ladina di Badia forniva a Trento buon numero di cucitrici e di cameriere (le così dette Badioite) ; e dal paese ugualmente ladino di Fassa si prendevano servidori e don- zelli, perché in fama di sommessi e fedelissimi. Di cuoche e bambinaie le famiglie agiate si provvedevano nella vicina provincia tedesca; e dalle valli ladine dei Grigioni venivano, anticamente, nel Tirolo i ciabat- tini (1). Che certe arti manuali fossero un tempo esercitate nel Tren- tino da tedeschi piuttosto che da italiani, era effetto d'indole, d'abitu- dini, di circostanze economiche diverse; L'abbondanza di boschi e di pascoli, destinava in certo modo il tirolese ad esercitare la propria so- lerzia nelle industrie dei legnami e delle pelli; e nel Tirolo similmente s' erano svolte per tempo la preparazione de' metalli , e le arti in atti- nenza con* quella. Ma il suolo, per massima, vi era poco adatto all'agri- coltura; la quale prosperava invece ab antico nelle valli del Trentino; in quelle dell'Adige e del basso Sarca principalmente. Il trentino pre- feriva attendere ai campi ed alle industrie agricole ; mentre il tirolese, costretto dalla poca ubertà del paese ad emigrare, cercava di procurarsi la sussistenza coli' esercizio di arti manuali. Ma recandosi altrove a lavo- rare e guadagnare, non vi si stabiliva propriamente. Gli artieri tedeschi a Trento formavano una colonia avventiccia e mutabile. Ne lo attesta lo Statuto del 1528, ordinando che s' avessero ad inscrivere in un libro particolare {Liber Forensium) quei forestieri che venivano a Trento per esercitare arti o commerci, ma senza potere o volere adempiere tutte

(1) BiDKRMANN U. 3., Die Homaìicu uud ihre Verbreitiing, ecc. p. 128 (nota 2).

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172 B. MALFATTI [uiounale di filologia

)e couJizioui richieste alla piena cittadinanza (l). Questa precarietà ne spiega anch'essa, come air elemento tedesco non venisse fatto di pren- dere il di sopra. Quella che oggidì si dice la borghesia, ossia la classe mezzana de' possessori nelle città, si conservò sempre italiana. A per- suaderci del resto, che da quei nomi tedeschi di arti non s' ha da con- cludere a grande diffusione od importanza degli artigiani forestieri, s'aggii^gne un altro fatto, e davvero significativo; Tessersi usati, cioè, jB mantenuti nei vernacoli i termini italiani per gli utensìli o gli attrezzi appartenenti a quelle professioni stesse, che si nominavano con voce te- desca (2). Ora cotesto non significa forse che agli artieri, venuti dal settentrione per dimorare a Trento, era d'uopo, in grazia del maggior numero e delle classi più facoltose, di lasciare la propria lingua, e farsi famigliare, di mano in mano, quella del paese?

A poco più di dugento si può far salire il numero de' vocaboli d'ori- gine germanica, che rimasero propri al dialetto trentino; il quale, come abbiam visto prima, ne ha comune una buona metà colla lingua lette- raria. Degli altri un cinquanta circa si possono trovare in l' uno o r altro dei vicini dialetti veneti o lombardi. Di appartenenti a lui solo non ne restano dunque che un sessanta, a dir molto. Se questa ultima cifra è poco rilevante, chi consideri la lunga dipendenza politica del paese ed il continuo infiltrarvisi di elementi tedeschi; si avrà puranco a dire esiguo il numero complessivo delle parole d'origine germanica, in un vocabolario come il trentino, dove le voci vernacole, da dirsi elementi primitivi, ascendono dalle cinque alle seimila. si creda che la parte morfologica del dialetto abbia* avuto a risentirsi' d' influssi forestieri. Grammatica e sintassi vi sono prettamente italiane; anzi lo sono in modo da vincere per tal riguardo quelle di alcuni dialetti di provincie con- termini. Nella declinazione dei nomi, al plurale, è mantenuta la distin- zione dei generi; ciocché non accade in certi vernacoli lombardi. Dal trentino si ignora similmente la trasposizione della particella negativa: mi so no; ti va no; fa fw questa ecc.; fenomeno che s'incontra in quei medesimi dialetti.

Più abbondanti dicerto, che non gli elementi tedeschi, ci vengono incontro dai vernacoli del trentino i riflessi reto-romani; tanto nella parte morfologica, quanto nella fonetica. Vocaboli come; dói = d\xe; irei = tre ; sie = sei ; af= ape ; béol = betula ; cuora = capra ; ^éndro = cenere ; descóh = scalzo ; faitdr = acconciare ; faméa = famiglia ; indes =

(1) Statuto di Trento (De civilibns, cap. nare seuza il consentimento dei Consoli. Di

129). Per essere partecipi di tutti i diritti più doveva darsi giuramento di fedeltà al

della cilladinanza, bisognava stabilirsi a Principe.

Trento colla famiglia, e comperare una casa, (2) Una sola parola fa eccezione: Gron-

() beni stabili, del valore almeno di 100 du- tóbel {grund e hobel) =■ pialla da scavare;

rati d'oro; i quali beni non si potevano alie- ma il vocabolo va sempreppiù in disuso.

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ROMANZA, N.** 2) GLI IDIOMI PARLATI NEL TRENTINO \T^

guardanidio; Zarc5 = larice ; mezzadro ■=(io\oxìo a mezzerìa; 7?//*= nido; òjo = olio ; pàja = paglia ; pléo =: gorga ; sàbba = sabbato ; sacrar = sa- porare; tónirer = tingere; t€Ssàdro-= tessitore; véndro = yeneYdì; zinoéél= ginocchio curvo; j^óòio = giovedì ; ^oftian = gioviale ; e forme quali: gónte = ho io ? ; sónte = sono io ? ; pódom = possiamo ; fénte = facciamo (imp.); déntegJte =àì2imoci (imp.); avést = 2ivuto ; corrést = corso ; pò- desi = potuto ; lusént = lucente ; broént = che scotta ; digànd = dicendo ; téi = t\ì (vocat.); wó^sa = nostra ; V(555a= vostra; rfewo = soltanto; ci ri- chiamano a quel substrato idiomatico che informò, più o meno, quasi tutti i dialetti dell' alta Italia. Gli esempj da noi addotti son pochi in ragione della suppellettile di forme ladineggianti, che possiedono tutta- via i dialetti trentini; sennonché il libro dell' Ascoli ci dispensa, come abbiam detto prima, d'insistere ora su quest'ordine particolare di feno- meni; il quale, ad essere esposto convenientemente, ci obbligherebbe di risalire alle leggi che governarono la fonologia speciale di quei ver- nacoli. Cosa, sulla quale, per verità, non mancò di feriaarsi la nostra attenzione, e di cui in altro momento prenderemo forse a discorrere; quando l'esame dei particolari, cioè, non sia per farci dilungare sover- chiamente dall'assunto principale (1).

Bensì dobbiamo riprendere un quesito, lasciato prima in sospeso; l'opinione vale a dire del signor Schneller, che l'idioma che si par- lava nel Trentino ai tempi di Dante fosse un vernacolo ladino, non altro. I riflessi ladini che s'incontrano nelle odierne parlate di Trento, di Roveredo, di Riva, dell'alta Valsugana, bastano essi a provare l'av- viso del professore tirolese? Noi non sapremmo ammetterlo. Concede- remo sì che, cinque o seicent'anni fa, la fonetica dei vernacoli usati in quelle terre si risentisse molto piti che non oggidì delle origini o delle influenze retiche; ma crediamo nello stesso tempo che fra i parlari pro- priamente trentini edi ladini sussistessero fin d'allora diff^erenze notevoli tanto nei momenti morfologici come nel lea^^ico. Ne addurremo qualche esempio; e, prima di tutto, indicheremo nella seguente serie di vocaboli, come il comune stipite latino avesse dovuto già remotamente svolgersi in modo diverso nelle due zone idiomatiche (2).

Lat. Idiomi lad. Dial. trent. Lat. Id. lad. Dial. trkkt.

Acucuia, Odia, Uccia, Auricula, Urédla, Riccia,

Adula, Astia, Stèla, BiOlìre, Bulli, Bójer,

(1) Della fonologia del dialetto trentino ni più nuovi e sodi criterj scientifici,

oocnpò diligentemente il signor Schnrt.ler (2) Oli esempj di voci ladine che siamo

nella prima p&rle deWe Mundarten. Se an- per addur qui, e che addurremo in segui-

che non ci troviamo d'accordo seco intuito, lo, sono tolti ali* Ascoli, allo Scunellbr

riconosciamo tuttavia di buon grado, che a (Mundarten)^ ed al Vian : Zum Stttdium

lui spetterà sempre il merito di avere, per der rhctoladinischen Dialehtc in Tirai;

il primo, studiato quel vernacolo secondo i Bozen, 1804.

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174

B, MALFATTI

[OIORXALJ

: DI FILULOJ

Crusta,

Ci'osa,

Grusa,Gro8ta.,

Lentigo,

Antigla,

Lenticia,

Clavictda,

Tgiavedla,

Caviccia,

Morum,

MaraudOi,

Mòra,

Dulcis,

Douz,

DÓI9,

Genius^

Ógle,

Òccio,

Falciare,

Faciar,

Fal9àr,

Paupery

Puér,

ver.

FaviUa,

Bolifa,

Fall va,

Pausare y

Pause,

Polsàr,

Ficatum,

Fujà,

Figa,

Pediculus,

Podi,

Pióccio,

FlageUum,

F161,

Sfragél,

Plorare,

Pluré,

Puràr,

Glacies,

Dla9a,

Già9,

PutiUus,

Piti,

Putél,

Glutire,

Dlutì,

Engiotfr,

Somnus,

Suòn,

Sógn,

Labrum,

Avrei,

ver,

Ungula,

Ondla,

Òngia.

Avremmo potuto allungare facilmente, e di molto, questa serie di voci, trascelte coir intendimento di far conoscere alcuni de' principali procedimenti eh' ebbero luogo nella evoluzione del dialetto trentino. Ma sebben poche, il lettore ne avrà raccolto tuttavia, come il vocabolo ori- ginario assumesse nel parlare trentino tale forma, che senza potersi at- tribuire ad influssi della lingua letteraria si avvicinava tuttavia a questa, in grazia di un ulteriore svolgimento dell'organismo dialettale, o per aderenza più stretta allo stipite primitivo. Potremo proseguire e mo- strare che ciò si verifica anche negli elementi secondarj della proposi- zione; che elementi quali: Co = quando (qmim): Cossita = così (acque- 5^?c-i/a); ^m/>ò = nonostante (1); Z)ew2Ò = soltanto (de modo); Chive = qui (eccu-hi€-ibi) ; iù'e = ivi, colà, costà (illic-ibi) ; /Sw50 = in su (stirsum); Zoso = ìn giù (deorstim); Eni =^ dentro, in (intns), sono di formazione antichissima, e nello stesso tempo differiscono quasi intieramente dalle voci analoghe di alcuni idiomi ladini; del gardenese tra gli altri. Po- tremmo anche addurre più d'un argomento, dal quale arguire che decli- nazioni e conjugazioni dovessero prendere per tempo andatura diversa nelle due famiglie di idiomi. Ma piuttosto che di spiegare nuove vele, è tempo di raccogliere le distese. Non possiamo fare a meno però di avvertire come nel materiale lessigrafico ci si presentino diflferenze no- tevoli tra il dialetto trentino e le parlate ladine; differenze antiche, da non potersi ricondurre ad una stessa origine colle leggi glottologiche comunemente accettate, spiegare con le varie infiltrazioni etnogra-

(1) Qupsto avverbio, di uso frcqueniissi- mo nel parlare trentino, non è conosciuto dal veneziano dal milanese. Il Vocabo- lario del Fanfani ha ampoi; ma come con- giunzione limitativa d' uso antico, equivalente il più delle volte a benché. In istretta atti- nenza coW ampò trentino sta invece V ain- pódo che s'incontra in alcune parlate pede- montane. Kp. : Ai di^f^U, ma*l farò ampòdn. Si può ritener dunque che uno de-

gli elementi di ainpó sìa polis. Circa al va- lore dell'am, incliniamo a crederlo trasfor- mazione o riduzione di homo {uom , om, vm, am ) come opina il prof. Flecchia per Vam di alcuni costrutti lombardi. {Intorno ad wa pecìtliarità di flessione verbale; negli Atti dei Lincei. Serie II, T. 3 ). Talché awpó verrebbe a dire: uomo che può ; on\)y\ve\ per quanto è nel potere d'uno.

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ROMANZA, X." 2\ GLI IDIOMI PARLATI NEL TRENTISO 175

fiche saccedutesi nei tempi. E queste differenze lessicali concernono propriamente idee o cose delle più comuni, come si potrà rilevare dal seguente saggio:

Lad. Aghél (da a<][Ma) = treni, fosskt, canalùzz (canale o rivo nei prati). -4i- 8uda = primavera. Arnaghé = adaquar. Audè (da aveo) non ha riscontro se non in = desiderar, brama. Biòsa = pégora. Blot == bèli. Caute = engrasskr (leta- mare). — Cìddr = risciàr. ^edl sguerQ, (guercie ). Ciddr = risciar. D* longia (corrisponderebbe a lunghesso) = de fianc, de costa. De dite =^ de dentro. Da- trai=t'na volta o T altra; per a9Ìdent. I''/>àÌ = famejót (garzonetto del pastore comunale). Flùja (da fluere) = tela de latt (panna). Fróses (da fraceo) = fra- scàm, 9aspàra (seccume, o fradiciume di piante). Fruzè (da, frangere) = scavezzar (rompere). Gonza = bozzón (bottiglia grande). Giamié = cambiar. Grani- blin = mascèla. Lèsùra ==» snodadura (giuntura). Luèsa, non ha riscontro nel dial. trent. (slitta a mano). Malciaffià = mal vestì. Mènesòll = gióm (gomitolo). Mossahia (lat. muscipula) = sorzaróla. Nodrumo (da nutrimen?) =* vedéli o cao- thit de latt. -- No zis = del tutt (non intieramente). Pélmes = anipkzena (favo). Pance via (forse da expandere) = buttar via la roba, spànder. Pianta = méat (muc- chio di fieno). Rate (da ratum) = créder, stimar, far voti. Raidéj di incerta deri- vazione, avrebbe per equivalente = cavillar, aofistickr. Schedra = riga. Scussói (da excutere) = 9alin (acciarino). Snòdi = ginoccio. Sauridanza = asi, còmod. S umblin =^ zeméW (gemello). Stlit serr&r (forse da exdudere), Se daudé^^Yer- goguarse. Tacclèné = bàtter air uss (bussare). 'l Tgé -= la testa. Tlupé = far erba. Udléda = occvddti (sguardo). Var (in attinenza coirital. Farco) = pass (passo). Vogara (la mandra communale) non ha il corrispondente nel dial. trent. Vósolar =1 pasturar. ZentUgn = grosta (orliccio). Ziplé = entajar (intagliare, scolpire).

I vocabolari degli idiomi ladini, parlati nel Trentino e nel Tirolo, potranno offrire molte altre voci sul far di queste; voci cioè, di cui al- cune sfuggono, per dir così, alle ricerche etimologiche ed appartengono forse al più antico substrato retico; mentre altre, derivate dal latino , accennano ad un processo di trasformazione inorganico, o almanco di- verso da quello che può stabilirsi pel dialetto trentino. Nello scegliere i vocaboli, ci siamo attenuti a quelli che esprimono operazioni rurali, oppure oggetti coraunissmi; ed è facile ad arguirsi il perché di tale scelta. Volevamo cioè riuscire alla domanda: come mai di quelle voci non avesse a rimanere più traccia tra gli abitatori del contado di Trento, e delle terre vicine, se il loro antico linguaggio fosse stato veramente un parlare ladino, come quelli della Gardena o di Badia? Ma a mo- strare r insussistenza di quest'ultima opinione, abbiamo un altro argo- mento, non meno valido di quelli già addotti; ed è la diversità di par- late che s'incontra nel Trentino stesso; e più specialmente tra la valle dell'Adige e quella del Noce. I vernacoli usati in quest'ultima sono tali, che un osservatore, quale l'Ascoli, giudicò doverli assegnare alla fa- miglia ladina. Onde le differenze? Onde il carattere schiettamente italiano del dialetto parlato a Trento? Si vorrà forse assentire a coloro

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170 B. MALFATTI [uiorxale di filologia

che dicono essersi i terrieri della Val d' Adige fatta propria tale favella in grazia unicamente delle più frequenti relazioni colla Venezia e colla Lombardia, e degli elementi civili che si diffondevano intorno dalla città; mentre le valli, a cui non giugnevano quei contatti ed influssi, ebbero a conservare gli antichi idiomi? Ma se quest'ultima ragione può valere, in qualche parte, per gli abitatori della valle dell'Avisio, ossia dei territorj di Fiemme e di Fassa, non saprebbe reggere punto per quelli della valle del Noce. Le relazioni di questi ultimi con Trento e colla Lombardia furono continue e strettissime; v'ha gente trentina che superi quei valligiani per naturale acume d'ingegno, per alacrità e de- strezza neir operare. Eppure i loro vernacoli hanno qualcosa di più imperfetto, diremo quasi di più pigro, non pur del parlare di Trento, ma anche di quello dell'alta Valsugana, o dei paesi a mezzo il corso del Sarca. Chi non vorrà inferirne a differenze di caratteri etnogra- fici antichi e notevole, e a disposizioni diverse di affinità elettive? si dimentichi che l'efficacia, o gli influssi del vivere urbano e della lingua letteraria furono nei secoli passati molto più lenti e più circo- scritti che taluno npn ami figurarseli oggidì. L'essere Trento stata un giorno a capo della vita politica e della cultura del paese, non può ad- dursi coma sola, e neanche come prima ragione del carattere partico- lare che tiene il dialetto della Val d'Adige rispetto a quelli delle valli del Noce e dell'Avisio.

Di precisare le note specifiche di esso dialetto, pei tempi più antichi, ne lo vieta l'assoluta mancanza di testi dettati in quel volgare. Ma che pel lessico e nella sintassi fosse italiano sei e sette secoli addietro, come lo é oggidì, non ne potrà rimaner dubbio a chi legga i documenti det- tati da notaj trentini fra il secolo XII e il XIV (1). Dei caratteri idio- matici del Codice Vanghiano abbiamo già discorso. Contemporaneo alle ultime carte di quel Codice ne si presenta un documento importantis- simo perciò che spetta alla lingua; vale a dire il più antico Statuto (li Ulva (2). Fu confermato nel 1274 da quel vescovo Enrico II, che, al dire del signor Thomaschek, si sarebbe fatto giurare fedeltà dal popolo

(1) È cosa da notarsi che il popolo, nel d'Italia. Raumer , Geschichte der Hohen-

Trentino, per significare il parlare letterario staufen (2.* edìz.), Ili, 195; Frapporti,

o ricercato, usa dirlo tuttavia ^ parlar e ici- Stor. di Trento, p. 395; Equer, Gesch. Ti-

liana y>. Chi troverà incredibile, che gli in- rols, I, 227.

flussi, o almeno la conoscenza della poesia (2) Fu pubblicato per la prima volta da

e della cultura siciliana, potessero giugnere Tommaso Gar nella Biblioteca Trentina

sino a Trento? I vescovi trentini, della pri- (Trento, 1801). Come accennammo prima

ma metà del secolo XIII, furono nei migliori di passaggio, questo Statuto serve anch'esso

termini con Federigo II; anzi Federigo a provare Pinsussistenza di quanto asserì

Vanga, che taluni dicono congiunto dell'Im- il signor Tomaschek intorno alla lingua in

peratore, fu suo Legato e Vicario pe' regno cui fu dettato il più antico Statuto di Trento.

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ROMANZA, x." 2J GLI IDIOMI PAELATI NEL TBENTINO 177

in lingua tedesca; però il dettato de' singoli capitoli, o d'una parte d'essi almanco, s'ha da far risalire più in su, forse alla prima metà del secolo. Lo argomentiamo da certe prescrizioni concordanti col Co- dice Vanghiano; poi dalla disposizione disordinata e confusa di quei 158 capitoli, e dalle ripetizioni che vi s'incontrano. La lingua dovrebbe essere la latina; ma in eflfetto è poco più che un vernacolo latinizzato* Ecco un saggio delle locuzioni e delle parole, che si potranno incon- trare di mano in mano in quello statuto; statuto succinto, brevissimo, che nell'originale occupa non più di otto fogli di scritto:

.... cum lanzono, faucono, spata ; . . . cum bastono, zacono ; ... si aliquem appellaverit ficagozium(l) ;. .. cum falso pesarollo vel falsa staera;... non debeat aperire nec desmnrare ; . . . cugnatura ; . . . furans uvas sine brento;... damnum magius (sjc);... fiucium pallorum vel encinarum seu rangonorum ; . . . ligna de cesis ; . . . stiop- pas;... montonus, castronus ; . . . ligna a carbonaria, sive ad calcheram, seu ad fractam faccendam ; . . . solvat postam prò eo ; . . . blavam illius fractae ; . . . si quis segaverit cum falce vel cum sexula;... qui secum habitaret ad ignem;... si quis fecerit mostum ante vindemiam ; ... si quis cum civeta iverit in clausura vineata ; . . . si quis luserit ad begam ; . . . nemo vendat letamen ; . . . exceptis bobus cum zovis ; . . * si quis venderit ad minutum;... vendat ad pesam;... nemo debeat cavare glevani nec terram;... si aliqua bestia malata (sic) a morìa;... nemo debeat implere ali- qnem argnonum , nec infra pellem et camem suphlare ; . . . ponere in ^moya ali- quem corium ; . . . non debeat scarnare neque follare pellem ; . . . ponere in moya et seccare ; . . . unus molinarius et unus famigolus ; . . . non debeat pascolare ; . . . damp- num seu vastum datum ; . . . vendere ad minutum drapum et pignolacium ; . . . ven- dens blavam in storis;... extra paladam;... vendere anvilas {anguiUe) \ , , , si quis conduxerit vias {^sic) alienam pupem vel sandalum, seu remum ; . . . si quis acceperit de remis gauzonioe ; . . . nemo debeat de chaleariis stare ad vendendum ultra chan- tonum domus communis ; , . . nemo de chaleariis debeat ponere dischos ad traversum;. .. terrerius et foreaterius ; . . . sub domo comunis a cupis inferius ; . . . nemo debeat ponere carros nec carrollos ; . . . accipere argnones, grassum, corazias ; . . . pannos de dosso ; . . . aliquis merzàder {sic) non vendat pignolatum et pannum de colore;... nemo non debeat facere velas a vernoUo, neque in portu Lazisii... nec ponere nassas nec ba- taellos ; . . . nemo debeat facere ledamen ; . . . ponere pajam, canas, panigales j . . . tenere manum super temonem ; . . . ponere lignamen ; . . . de danariis operarum ; . . . dare com- panadegum.

Ed ora facendo uno spoglio da questo e dagli altri documenti che abbiamo indicati prima (anteriori tutti al secolo XV) potremo avere

(1) « ScagÓQ »; questa parola, rainac- telo dello Statuto di Riva ci ricorda quella

ciata di pena dallo Statuto di Riva, siccome delT Editto longobardo, che stabiliva una

grave contumelia, è ancora d*uso frequen- punizione per chi avesse chiamato qualcuno

tissimo nel Trentino, ma con senso attenuato; Arga = codardo ( Rothar., 381. Cf. Paul.

perché oggidì dicesi di ragazzo petulante, Diac, VI, 24). Il Glossario di Papias

o di presuntuoso impotente; laddove antica- ai'ga equivalente a cucurbita; significata

mente equivaleva a: vile, dappoco. II capi- che s'avvicina a quello odierno di scogót;.

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178 B, MALFATTI [ohuixale di filologia

una suppellettile di voci dell'antico volgare trentino; poco copiosa è vero, ma pure non dispregevole; eerto poi più che bastante per dare sostegno ài nostri asserti. Porgeremo questa specie di Glossario se- condo i termini del dialetto trentino odierno; e facciamo così per due ragioni : per rendere più agevoli e sicuri i riscontri a chiunque mai pren- desse interesse ali* argomento ; e per mostrare inoltre come l'idioma odierno corrisponda a quello che i documenti ci indicano parlato cinque o sei secoli addietro (1).

Nomi: AccQrdo, afFir, angruilla, armar (ariiiadio), arbitri, aei, Ba^fn, bastón, bah'a (haiha Inter pretandi), bànc, beccar ( becca jo),. bèga, bérètta, bestia, biada, bólza (bisaccia), bórgo, borsa, bosc, bra9, bréuta, briga, bróilo, Bus [Busum de Fe7a)(2), Càneva, cambi, contraccàmbi, cantón, casa, casal, casamdnt, capitani, calcherà (for- nace da calce), càrr, castrón, canna, cagn, caliàr, calcagnin, campagna, castagnàr, castellàzz, cavé9, cavé9a, castra, ^era, 9édola, 9e8télla, 9eaa, ciusiira (ortaglia chiusa), 91 vétta, comùn, colouéll, cógo, cortéll, cópa, cóp (tégolo), coradélla, conzàl, com- proméss, consòrzi, contrada, corba, corte'll colla ponta, coràra (cuojo), companadegh, Dagi, dé9ima, degania, difétt, distrétt, dÌ8tru9Ìón, dóghe, doas, drapp, Encombénza, esattór, esemplar, Fal9, falcón (arma), famigol (piccolo famiglio), fasa de fon, f at- tor (Isidorus factor in ipso castro), farina de forméut, finestrella, fitt, fógo, fondo (possessione), fontana, forestér, fornas, fornér, fosina (?(7>t erat fosina), fratta, Ga- léda d'ojo, gastald, geva 0 sge va (schegge, sassi, ghiaja), gióf (giogo), godimént, guardiàn, guast, In9ens, insegna, iscia, istrumént (scrittura pubblica), Làn9a, lan- ^on, laorér (lavoro a giornata), ledam, legna da 90»^, legnam, locazión, Maniera, manuàl, mas (podere), massar, massaria, mei (miglio), meroa (mercato), mer94der (merciajuolo), minella, misura, raòja (mettere in molle), molin, molinàr, mónegh (scaccino), montón, moria, Nassa, negÓ9Ì, nodér 0 noddr (notajo), nogàra (noce),^ nól,novàl, Officiai, oliva, òpere (giornate di lavoro, mercede giornfiliera, e gli ope- raj stessi), ón9a, orgnón (arnione), orna, ospedal , Pai, palàda (palizzata, steccato), panÌ9 e panigai (panico), paja (paglia), piiramenta, paissador, pegn, pegoràr, pezza de panno, pezza de terra, pesa, pesaroll, pignola (pigoolato), podór, poppa (specie di barca), porchétt, portélìa, portenàr, posaession, posta, pozz, Quartier, Rangón (palo, troncone), rasór, razza, refettòri, rem, ricc, rio e róza (rivo, roggia), Róza gvanda (Ragia magna)f(S) roda, romitòri (èremo), ronc, rumor, Salàri, saltar (guardia campestre),

(1) Tanto qui, come in altri luoghi del pre- nantì raddoppiate non v' ha quasi sentore,

sente lavoro, trascrivendo parole del dialetto, (2) Bìts de Vela = Buco di Vela; è il no-

non abbiamo osservato sempre quei rigoroso me della stretta, o del valico, ad occidente

sistema di ortografia e di accenti, di cui ne ha Trento, per cui dalla Valle dell'Adige si

dato bel modello TAscoLi. Parecchie cause passa al bacino di Terlago, e quindi alla

e considerazioni ne indussero a discostarcene valle del basso Sarca. Le parole latine in

talvolta. Delle ultime ne accenneremo una questa serie sono ricavate dai documenti del

sola; e fu quella, che i lettori non filologi (an- secolo XIV e XV, che fanno parte dello Sta-

che adessi volevamo destinate queste i)ai^ine) tato di Trento del 1528.

avessero a cogliere più facilmente le rispon- (3) Cosi si chiama il maggior canale d' ac-

denze del dialetto colla lingua letteraria. Hp- qua, che, derivato dal torrente Fersina,

pei ò, in molli casi, abbiam segnato raddoppia- attraversa la città di Trento, e si dirama,

menti in mezzo ed in fine delle parole, men- per minori canali sotterranei, in quasi tutte

tre pure nel parlare trentino, come in mas- le vie. sima nelle parlate dell'alta Italia, di conso-

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KOMAszA, ».• 2] GLI IDIOMI PABLATI NEL TRENTINO 179

saccy 8ent<^r, serradùra, serviyi, sesia, settimana, sobborgo, soldo, sÓ9era, sòma, mezza sòma, somàr, sòrg (sorgo), sorimpósta, sdrt, spada, spina, stadèra, star, stàza, stazión, st<5ra (stuoja), strada, stropa (vimine, salciolo), stila (stuffa), Taverna, ta- vernér o tavernàr, tenór, térmen, terra pradiva, terrier, territòri, timóu, tovàja, Utensfl, Vas, vdsa, vendéraa, vicàri, vigna, vignài, vÌ9ini, Zucca.

Vkrbi: Acquistar, cassar, cavar, colar, comperar, computar, condur via, consegnar, desmuràr, dispia9ér, distfnguer, embrigàr, enibir, envestir, fadigàr, follar, garantir, litegàr (catisam hahuU litigandi)^ mantegnfr, masnar, maridàrse, offender, pagar, paissàr, pascolar, preparàrse, que'rzer (coprire), revocar, robàr, salvar, scarnar, seccar, segar, sigillar, slongàr, soUiàr, spaldàr, spazzar.

Aggettivi e participi: Arati'f, beli, bellina, bon, belPe bon, boi (bollito), colk (colato), competént, discrét, grass, mala, malàda, malauguri, mézz, miuùt, pien, prati'f, rabbiósa, ras, rasa (colmo a), scagÓ9, seco, vodo.

£lementi ikdeclin. : Alméu, en là, de dòss, en suso, a travers, via, zóso.

Modi di dire: A (a piedi); al della rocca; abitar en quel fóg (in quella . casa); andar a dimorar; andar colla vetta; aver da dir; bestie da carne (hestias a carnìbus); bestie malade a morfa; bra9 de panno; buttar per terra; cavar gieva e terra; condur le so robe (rebus suis ibidem conductis); star contenti ; dar el com- panadegh; dar lÌ9enza; dir la pura verità; divider per mézz; esser d'accordo; de bona fama; sotto pena del doppio fitt; far bon servi9Ì; far el móat; far cantar messa; far ledàm ; far tutti i servi9Ì ; legna da calcherà ; legna da carbonara ; legna da fóg (tigna ab igne); metter en mója; misura rasa; denari delle opere; empieui'r Torgnón; quattro passi de terra a testa; panno de color; sicuri deir aver , delia persona; sof- fiar tra carne e peli ; a so' spese ; star a vedór ; tegnir la man sul timón ; terra da piantar a olivi; vender a pésa; vénder al miuùt; vender al ma9ell (vendere ad ma- ceUum in Tridento); vender ledàm; vender la biada en stóre; de nessun valor; ve- gnir per l'Àdes (Adige); vinti ome do bon vin bianc pur, de vasa, ben boi; vinti orne de vin, prima della spina; zugàr (giocare) alla bèga.

Questa serie di vocaboli e di modi di dire non rappresenta che pic- cola parte della messe, che si potrebbe raccogliere da quelle antiche carte trentine, che furono messe in luce sin qui. E quanto materiale, prezioso alla storia del dialetto trentino, non giace inesplorato per avventura nell'Archivio di Stato a Vienna, e in quello d'Innsbruck, e nell'archivio capitolare di Trento! Intanto anche il poco che abbiamo offerto, sarà bastato, speriamo, a non lasciar dubbio che il volgare trentino, tra il XIII e il XIV secolo, doveva essere un dialetto simile a quelli vicini della Venezia e della Lombardia. Voci come: asio, bccriséll,, buso, caliàr, cal- cherà y compamidegh, embrigàr, famìgól, fosina, iner^àdcr, tnoja^ vodèr, tavernér, icrmen; nomi come: JBattaja, Bomizucca, Brazzebèllo, Malago- rado, Miti fogo, Fe§arario, Zancbdlo, ZanoVuio^ Zidiana (gli uni e gli altri ne sono tramandati cosi dai documenti) ci richiamano ai processi glottologici, che informarono sin da tempi remoti le parlate dell'alta Italia. Con quali di queste fosse in attenenza più stretta la trentina, non si può determinar bene, che il materiale da comparare non è suf- ficiente a tanto. Ma lasciando parlare l'induzione, ragguagliando cioè il dialetto odierno di Trento coi monumenti più antichi dei volgari ve-

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180 B, MALFATTI [giornale di filologia

ueti e lombardi, saremo condotti all'avviso (che può trovare appoggio anche dalla storia) essere stato il parlare di Trento, già per tempo, in più prossima parentela col gruppo veneto, che non col lombardo. Si veda con un esempio quanto il linguaggio trentino d'oggidì s'assomgli a quello usato da fra Giacomino di Verona. Prendiamo il noto brano del peccatore arrostito da Belzebù (1) ; facendo seguire la forma prosa- stica in cui lo potrebbe rendere oggidì un popolano di Trento:

Testo

Stagando en quel tormento, sovra ven un cogo, (,'0 è Ba9abu, de li pe9or del logo, Ke lo meto a rostir, come un bel porco, al fogo, En un gran ape de fer per farlo tosto cosro.

E prendo aqua e sai, e calu9en e vin, E fel e fort aseo, tosego e venin, E si me faso un solfo ke tant è bon e fin Ca ognunca Cristian si guardo el re dìvin.

A lo re de T Inferno per gran don lo trameto, Et elo el meto dentro e molto cria al messo: E' no ne darìa, 90 diso, un figo secco, K' b la carne crua e U sango è bel e fresco.

Mo tómagel endreo via9amente tosto E dige a quel fel cogo k'el no me par ben ceto, E k'el lo débia metro cun lo cavo 90 stravolto J)ntro quel fogo c'ardo sempre mai 9orno e noito.

E stretamente ancor dige da la mia parto K'el no mei mando plui, mo sempre lo lasso.

Dialetto trentiHO

Stand (el pecoator) en quel toi*mint, ghe vegn sora'n cogo; | vói dir Belzebù, un dei pézo de quel logo, | eh' el lo mette a rostir al fóg come 'n bel porco | ent en gran spied de fer per farlo còser subit. | E '1 ciappa acqua e sai, e cariizen e vin, I e fel e asédo fort, e tòssegh e velén, | e cossi 1 fa zo 'n solfro, che tant bon e fin, I che *1 Soreddio ne varda ogni Cristian. | Per farghe 'n gran don, el lo manda al Ee de l'Inferno, | e quest el lo mette en bocca; ma pó'l ghe 9iga molto al commess, | e '1 dis cossita: Mi no ghe n' dago en fig secc, | che la carne l'è cruda, e '1 sangue l'è beli' e frese. | Pórteghel mo 'ndrio, destrfghete sùbit; | e dighe a quel cagn d' en cogo che no '1 me par ben còtt; | e che '1 lo deva metter colla testa 'n zó, I dentro de quel fog che l'arde sempre e nott. | E dighe anca strettameut de part mia | Che no '1 n^el nianda pù, ma che 'l lo lassa sempr* lì. |

(1) Nel canto Be Babilonia civitate in- che ne il Bartoli nei Primi due secoli

fernali. Non avendo alla mano T edizione della Letter. ital., piuttosto che secondo

i\elMiJSSAFix{Monum.ant. di dialetti ita- quella dell'OzANAM, ritenuta dal Fanfani

liani, Vienna, 1864), riproduciamo il brano (I poeti Francescani, Prato, 1853). (meno i due ultimi versi) secondo la lezione

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BOMANZA, N.o 2] GLI IDIOMI PARLATI NEL TRENTINO 181

Di poco minore è la concordanza del dialetto trentino colla lingua usata in Lombardia dai contemporanei di Fra Giacomino, o dai loro pros- simi successori. Ecco il cominciamento di un canto inedito di Fra Bon- vesin (l):

Nuy lezemo de uno pirrato de uno robadore de mare Lo quale roba va le nave e feva ogni male, Avegna deo k'el fallasse in lo peccato mortale, Grande ben el voleva a la matre del Re celestiale.

Avegna k'el fosse peccatore e de grande fellonia Spesse volte se raccomandava a la vergene Maria, Pregando ke ley lo tirasse de quella rea via, Azò ke r anima soa non andasse in tenebria.

Pregava la regina con grande devotione K'ella non Io lassasse morire senza confessione, E molti ieiunii faxeva a quella intentione. Molto grande amore aveva beuk*el fosse fellone.

£1 zezunava (2) sempre uno di de la septimana A honore de la vergene matre de quello Siore soprano. Pregando ke ley lo conduga a penitentia sana, Ee ella non lo lassa morire a rea morte subitana.

Possiamo rendere questi versi nel dialetto di Trento , conservandone quasi inalterate la misura e le rime:

Noi lezém d'en pirata, d'en gran ladron de mar, Ch'el roba va le naf, e'I fava ogni mal; Ma 'nsibbén eh' el fallass ent el pecca mortài , £1 ghe voleva 'n gran ben alla mare del He 9elestió,1.

Ensibbén ch'el foss peccatór, ch'el foss na gran gallia, El se raccomandava de spéss a la vergine Maria, Pregandola che la '1 tirass zo dalla mala strada, Perché la so anima no Tavess anàr dannàda.

El pregava la regina con gran divozióu. Che no la '1 lassass morir senza confessión , £ molti dezuni el fa9eva a quella intenziòn, En grand' amor el g' aveva a ella, sbanca Tera 'n briccón.

(l) Ha per titolo: « De uno pirrato de singolare alacrità gli studj romanzi possono

mare tino btUo miracolo »; ed è il secondo ripromettersi notevole aumento,

esempio riferito dal BoNVBSiN nella sua ope- (2) Di mutamento della dentale d nella

ra: De la dignitade de la gloriola vergene spirante s , in principio di parola, v*haqual-

Maria. Lo trascrisse, insieme con altri che esempio nel dialetto trentino. A noi pare

brani inediti, da un Codice dell'Ambrosiana che insieme con dezùn si usi dal popolo,

(Cod. T, 10, sup.) il signor Enrico Mol- sebbene raramente, anche zezùn; ma non

leni, valentissimo allievo dell'Accademia vorremmo assicurarlo. Siamo certi invece

Scientifico-letteraria di Milano e dell'Uni- d'aver udito zonxélla per donzella (came-

versìtà di Roma, dalla cui soda cultura e riera).

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182 B. MALFATTI [(hoknalk di filolocua

El dezunava sempre en di de la settimana A onor della Yergiofì Mare della Maestà sovrana; Pregandola che 1^ 1 condiisa a penitenza sana, E cbe^TTO la lassa morir de cattiva mort subitana.

Da questi riscontri non intendiamo di ricavare illazioni assolate. I dubbj stéssi ed i dispareri a cui materia l'antica letteratura dialet- tale deiralta Italia, non le consentirebbero. Eppure chi vorrà dire cosa fortuita lo stretto rannodarsi del dialetto trentino colle reliquie lingui- stiche-piii vetuste della Venezia e della Lombardia? Per poco che uno si sia reso conto della natura dei linguaggi , e delle evoluzioni che questi hanno necessariamente a percorrere, come potrà attribuire quelle affi- nità ad influssi letterarj od a contatti più tardi? Sennonché qui ci troviamo di bel nuovo in disaccordo col signor Schneller; il quale avendo sostenuto che a Trento ai tempi di Dante, si parlava un vernacolo la- dino, e pur dovendo dar ragione del come questo poi facesse luogo ad un dialetto italiano, ricorre all'argomento della signorìa tenuta dai Ve- neti a Rovereto, a Riva e nella Valsugana- (1). mancò chi facesse eco a tale opinione, cercando di sostenerla con ragionamenti ed argo- menti di varia specie. Eppure T opinione è tanto viziosa dalle radici, da non reggere al cimento di una sobria critica. Che dalle relazioni fre- quenti coi paesi veneti venisse al Trentino una piìi ricca suppellettile di elementi civili, nessuno certamente lo nega; anzi i primi a riconoscerlo sono i Trentini stessi; i Trentini, lieti di dovere gran parte della propria cultura ad una gente, in cui la vivacità dello spirito ha saputo contem- perarsi così mirabilmente colV assennatezza. Ma le relazioni con Vene- zia non datano solo dai tempi, in cui il vessillo di San Marco fu visto sven- tolare dai castelli di Val Lagarina, e dalla Rocca di Riva; quelle rela- zioni sono più antiche di secoli. Quanto poi al volgare di Trento, tali e tanti sono gli elementi lombardi che in esso si contengono, da poter lasciar dubbio in qualcuno circa al suo antico stipite, ossia alla fami- glia dialettale (famiglia italiana pur sempre) con cui si trovò dapprima in più stretta attinenza. Ma quale sia il nostro avviso intorno a ciò, il lettore potrà averlo raccolto dalle cose dette prima.

Come credere poi, che il trentino andasse debitore del suo presente linguaggio alla dominazione veneta, quando questa non s'ebbe ad esten- dere che su d'un quarto appena del paese? Chi vorrà ammettere che una dominazione, durata non intieri cento anni, fosse capace di far scomparire un linguaggio secolare, e di imporre un nuovo parlare an- che ai territorj che non le erano soggetti? Si adducono, è vero, nume- rose famiglie che nel secolo XV vennero a mettere stanza nelle parti meri-

(1) Schneller, Mxmdarten, p 11.

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ROMANZA, N.° 2| GLI IDIOMI PARLATI NEL TRENTINO 183

(lioDali del principato di Trento (1); ed il fatto sussiste; come è fuori di dubbio che Rovereto, piccola terra una volta con castello, dovette alla dominazione veneta di aver guadagnato sempre piiì d'importanza, sino a diventare la seconda città del paese. Ma qualche centinajo di famiglie venute dal Veronese e dal Vicentino, di mano in mano, alla spicciolata, potevano esse mutare sostanzialmente il linguaggio di ter- ritorj dove si contano oggidì poco meno di centomila abitanti? terri- torj ben popolati ab antico, con grosse terre e castella, come Riva, sul Garda; Ala, Mori, Avio, e Brentonico nella Val Lagarina; Borgo e Telve nella Valsugana? Avranno quegli immigrati potuto recare nel- l'idioma paesano alterazioni o modificazioni secondarie, d'ordine fonetico in ispecie, ma non altro. Così fu difatti; e noi possiamo fino a un certo segno determinare, quali fossero gli influssi veneti, e sin dove ar- rivassero, dementino Vannetti, ingegno acuto ed elegantissimo, dettando una lezione sopra il dialetto roveretano ormai piìi di un secolo) ne discorreva in questi termini: « la nostra patria (la Valle Lagarina) in distanza intorno a ore due dal confine di Trento (2) ha un accento più aperto e piìi naturale e meno canta, che colassiì facciasi; dove l'accento prevalse nella vocale u alla francese, e una cortal melensa e ingrata cantilena dicono notarvi i forestieri. All'opposto di piìi duro e ottuso snono è il nostro di quello di Verona (3) ». Conseguenza della domina- zione e delle infiltrazioni venete furono adunque: l'accento più aperto e naturale (il Vannetti s'intendeva di dire, con questo, più conforme al toscano), e qualche modificazione nel suono delle vocali; a cui dobbiam aggiungnere qualche differenza nelle desinenze. Il parlare roveretano ha commune col veneto la frequente alterazione in e dell' a tonica dei suffissi nominali; dice quindi, calliéry nodér, pomér; mentre il trentino dice: caliàr, nodàr^ (notajo), jpowàr (melo). Ha commune il dileguo della dentale ci fra due vocali, nelle sillabe mediane non meno che nelle finali; come in: hattiie, préa^ poatira^ sbueìlàr, mentre il trentino dirà: battuda, prèda (pietra), podadiìra, sbudellar. Chi su d'una carta topografica venisse a segnare i paesi dove gli s'affacciano tali differenze, verrebbe in certo modo a distinguere i territorj che nel secolo XV ap- partennero a Venezia, e quelli che restarono sotto i Principi- Vescovi. Trento, ed il suo territorio più prossimo, mantennero un idioma meno sonoro del roveretano, più abbondante di consonanti finali, di suoni e

(l> BiDERMANN, Die Romanen n. ikre della Casa austriaca; ma a titolo di sub-feu-

Verhreitung in Oesterreich, p. 122 e se^. do, e coH'oblìligo di riceverne la investitura

(2) Questo confine era in prossiniità di dai Principi Vescovi di Trento. Galliano. Sino dal 1532 fu stipulata una con- (3) Vannktti Clrmentino, Lezione xn- venzione, per cui la città e il distretto di pra il dialetto roveretano ( Rovereto, Mar- Rovereto venivano a far parte dei dominj chesani, IT^l). p. 10.

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184 B. MALFATTI [uiornale di filolccia

di accentazioui simili a quelli dei dialetti lombardi ; un idioma più darò, ma anche più energico in certe parti, e che, per queste qualità appunto, sa più di antico.

Del resto, e il lettore se lo sarà detto ormai, le note distintive tra i due vernacoli sono poche, e di poca entità. Il lessico si può dire il medesimo; che se qualcuno ponga attenzione al parlare roveretano, e

10 raflFronti con quelli dei territorj finitimi, dovrà convincersi tosto che è varietà del trentino, non già del veronese. Solo un osservatore su- perficiale, o cui manchi il senso per le particolarità dialettali, potrà asserire che i vernacoli trentini si sieno formati per mera influenza dei veneti. Molti momenti caratteristici del parlare veneziano, come ad esem- pio : xé, fio, faméggia,.sotnéggia, méggio^ 'foggio, fémo, piàsso^poriào, vcgnui^ astìi? avéuP oggio? saggio? scriverai? ancUmio? vóstu? porla? (notiamo i primi che ci occorrono alla memoria) non sono conosciuti punto al parlare trentino, il quale adopera invece: è (oppur sono)^ fiól^ fumèa, soméa^ méjo, vói, fénte (facciamo; imp.), piasést o piasti, portà^ vegnvsti o vegnùdi.g'àt? (hai tu?), g* ave? (avete voi?), g' ónte? (ho io?), sanie? (sono io?), scrivere? andcm? vói? (vuoi in?), pódela? (può lei?), avvi- cinandosi così notabilmente alle forme lombarde; mentre in qualche altro caso nulla avrà di commune con queste, colle veneziane; nel condizionale, ad esempio, ove dice: mancheria, poderia, sentiria, forma ritenuta é vero anche in altre parti dell' alta Italia, ma non saldamente.

11 veneziano almanco usa dire, e forse più di spes?8o: tnancaràvCf pode- rdve, sentiràve; e il milanese, pur servendosi di forma similissima a questa, usa anche T altra: mancariss, podariss, sentiriss.

Anche qui Vediamo conservarsi nel parlare trentino una forma, che ci si fa incontro dai monumenti dialettali, non meno che dalla lingua letteraria più antica. Poteva egli accader questo, se il dialetto si fosse formato per opera degli influssi veneti nel secolo XV? Se così fosse stato, non dovrebbe il parlare odierno assomigliarsi al linguaggio delle scritture veneziane di quei tempi? poniamo gli Statuti che ci stanno in- nanzi in una stampa del 1477. Eppure un trentino che prenda a scorrere una legge od un bando di Francesco Foscari o di Niccolò Tron ; e poi la prosa di Fra Paolino nel Regimen Rectoris (più antica di oltre un se- colo), vedrà specchiarsi in questa il proprio dialetto, molto meglio che non in quelle scritture. Di provare la cosa ci sarebbe facile, che di esempj raccolti a tal uopo n'abbiamo in mano buona messe. Ma lo spazio noi consente. Noteremo nondimanco, che da un confronto dei Vocabolarj, di quelli del Boerio e dell' Azzoliui ad esempio, si parrà to- sto utta differenza -notevole nella suppelletile dei due dialetti. Meno ab- bondante del veneziano il trentino; ma tanto povero, tanto di- pendente da quello, che non possieda voci sue proprie anche per le idee

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ROiiANZA, N. 2J GLI IDIOMI PARLATI NEL TEENTINO 185

o le cose le più communi. Daremo qualche esempio di tali voci tren- tine, limitandoci alla lettera À:

Aàda (zia); abbUoccidr (adocchiare); acquaról (vinello); acquasarUèl (piletta); (iderida (adeaione); ad invisit (air improvviso); affU (appena); agfuiro (nido d'uc- cello); àgola (aquila); agràda (a^jgiramento); agràm, e agramustèl (gramigna); ai- gudna (gridatore, sussurrone); aldegàrse (osare); alquantòt (un ìtLniino) ; aìteradina (alterazioncella); cUgón (arcióne, e arcuccio da culla) ; ambén (sebbene); àmbio (an- datura, destrezza); ampàzena (favo); ampò (tuttavia); ampòmoìa (lampone); ancói (oggi) ; dncole [tirar le àncole = essere sfinito); andadóra (assito inclinato per salire); arrgariàr (gravare, molestare); antàna (solajo, sotto tetto); appostato (comme^sj) ; a prim intro (in sulle prime); aràda (Patto dell'arare); arbinàr (raccogliere); ar- bitrar (arbitrare); arcadura deUe g^e (arco delle ciglia); argipress (cipresso); are- della (canniccio); àrfi (respiro); arióma (convulsione); armélla (collare); arménta (giovenca); arzàra (arnese) ; arzina (ultimo fieno ); ascia (ascia de' falegnami) ; asciàda (colpo d'ascia); assà (abbastanza); assesèlla (assicella); assU (sala delle carrozze); a strasóra (fuori di tempo, a pazz'ora); a tutt* mane (per ogni caso) ; a tutt mal, a tutt pèzo (alla più disperata); averter (sparo della camicia, o di altro indumento); Aveg (abete).

Aggiungeremo un ultimo argomento per provare che il dialetto trentino, accogliendo influssi delle parlate vicine, ebbe nondimanco vita iudipendente e sviluppi suoi propri sin da tempi lontani ; e V argomento ce lo forniscono le voci che, usate tuttodì dai popolani di Trento, si tro- vano riferite pur anco nel Vocabolario Italiano, Dia come antiquate e usate poco. Tali sarebbero ad esempio: Albio (albone); ónda; battolar; benna; boghe; ciómp; conzal (congio); cavezmja (cavezzale); códega (cotica); gòtto; gualif (gualivo); gualivàr; mézz (mezzo); moja (moUaja); mutria; patta; pisolar; riotta; sbasta (basina); pusignàr^ strangossàr; tàccola; tarabdra; tàUera; técca. Notisi che qualcuna di queste non si trova nel Vocabolario veneziano. Quanti modi poi dell'uso toscano non s'incon- trano tra gli abitanti del contado di Trento! Molti anni sono, quando prendemmo la prima volta a leggere la Tancia e il Malmantile^ non fu piccola la nostra sorpresa, e colla sorpresa la soddisfazione, udeudo, per dir così, venirci incontro dai campagnoli toscani molte di quelle espressioni vivaci, di quelle maniere di dire pittoresche o incisive, che avevamo famigliari sin dalla fanciullezza: Avere una buona sopra- scritta; aver il capo come un cestone; andare in fregola; a spada tratta; cascar le braccia; cascar le brache; cavarsi la stizza; chi non ha testa abbia gambe; comandare a bacchetta; pigliar una batosta; cuocersi nel suo brodo; cosa da dozzina; dal capo in sino ai pici; dal vedere al non vedere; dar di spalla; dottor dermici stivali; essere in scorrotto; far badalucco; giuocar alla buona; guarda la gamba; intendere il giuoco; lambiccarsi il cervello; lesto come un gatto; menar le mani; mettere la mano nel fuoco; mostrar nero per bianco; non veder Vora; non esser carne pesce; non

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185 B. MALFAI TI [cuorxale di filologia

istar nella pelle; occhi di civetta; parer manna; pigliarsela calda; piover in bocca le lasagne; roder un osso duro; saper di lettera; saper a mena- dito; scorticar il pidocchio; starsene colle mani in mano; suonar di man- ganelle; tenere il pie in due staffe; toccare il del col dito; voler la berta; queste ed altre assai raauiere di dire, che a riferirle sarebbe troppo lungo, si potranno raccoglier tuttavia dal parlare del popolo trentino. Certo che, più o meno, le hanno communi tutti i vernacoli nostrali; ma che il dialetto di Trento si trovi, rispetto alla lingua comune, nelle stesse relazioni degli altri, non è forse prova che ebbe a percorre le stesse fasi di sviluppo? Il signor Schneller medesimo non può a meno di rico- noscere la spiccata italianità dell'idioma che si parla oggidì a Trento; sennonché per dar ragione di tale fatto immagina poi una causa, che merita, per la singolarità, di essere riferita testualmente. « Di avere reso italiano il parlare del paese (così egli scrive), fu opera principalmente dei tedeschi immigrati; i quali allora (nel secolo XV) come sempre, di- spregiando il rude vernacolo ladino, procurarono con tutto T impegno di farsi proprio il puro eloquio italiano, ossia la lingua letteraria (1) ». Per cui il popolo trentino (quello delle campagne, non meno che quello della città) avrebbe appreso i modi toscani dai signorotti e dagli arti- giani venuti da Bruneck o da Innsbruck.

Il lettore sarà rimasto sorpreso della spiegazione data dal signor Schneller ; sorpreso ed insieme dolente che la passione politica e le idee preconcette potessero far velo fitto al giudizio di un uomo tutt* altro che leggiero ; di un uomo che s' applicò con tanta solerzia a studj di lin- gua e di etnografia. Fermarci a ribattere quelle sue proposizioni, ne parrebbe tempo gettato. Però non sappiamo dispensarci dal riportare ancora le parole che servono di conclusione al passo citato ; e sono le seguenti: e Così soltanto (ossia coli* opera dei tedeschi immigrati) si spiega come il Tirolo italiano non abbia oggidì un dialetto proprio, in- dipendente; mentre i parlari di Alessandria e di Torino, ricordati da Dante insiem con quello di Trento, parlari molto discosti dalla lingua letteraria, hanno saputo conservare il loro antico e particolare colorito. » Il signor Schneller, com'è naturale, muove anche qui dall'avviso che il dialetto trentino si sia forn^ito per sovrapposizione artificiale di ele- menti, non per evoluzione naturale dell'antico idioma; e della insussi- stenza di tale avviso non abbiamo ad occuparci davvantaggio. Ma con quanta ragione asserisce egli poi, che al dialetto trentino manchi un carattere proprio-, indipendente? Noi che ebbimo ad usare quel dia- letto per trent'anni, e a tener poscia dimora in terre italiane di di- versi vernacoli, ci permettiamo di professare un'opinione contraria. E,

(1) Sc'HNELLKR, Muìidarteti ^ p. 11.

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ROMANZA, X.- '2J GLI IDIOMI PABLATI NEL TRENTINO 187

senza star qui a ricercare quanto le parlate piemontesi si venissero più o meno modificando nel tempo, e che relazioni avviassero colla lin- gua letteraria, diremo solo, che il dialetto trentino è dialetto organico quant' altri mai, e che il suo carattere peculiare, saremmo per dire il merito suo, consiste appunto nell'aver saputo fondere insieme armoni- camente gli elementi dialettali dell'alta Italia. Il lettore avrà potuto scorgerlo dagli esempj di prima. E tuttavia permetta che gliene pre- sentiamo un altro saggio; la traduzione cioè di un sonetto milanese di Carlo Porta; la quale, potendo dar materia a comparazioni, sarà per fare al caso, meglio che un brano di scrittura originale:

La It^ngua e le paróle, sior Manéll,

Le é come 'na taolózza de colóri ,

Che i fa parer (1) *l quadro brutt o bèli,

Secondo '1 pii o mén d' àmbi dei pittóri. Senza idée, senza giSst, senza 'u 9ervéll,

Che daga U sugo, e tégna '1 direttóri.

Tutti i parlari i va de para a quóll,

Che bàttola 'sto por so tibilóri (2). Ma le idée, ma U bon giì^to, el saverk .

Che no i è privativa de paesi.

Ma de chi gbe n'ha 'n zucca, e ha ben studia. Tanto véra, che 'n bocca a Soasiorfa,

El bellitìsim parlar dei S'ienési

L' é '1 parlar minción che mai ghe sia.

Si metta ora a riscontro il dettato milanese col trentino, e si dica, se questo vi faccia troppo meschina figura; se si mostri, come lo giu- dica il signor Schneller, dilombato, disorganico, senza carattere. Noi ci guarderemo dal mettere il trentino a pari col milanese, dialetto stu- pendamente ricco ed energico; bensì invidieremo a questo gl'ingegni che lo presero a coltivare con tanto amore, e ne difi'usero così larga la fama; bensì diremo che in mano al Porta (a quel Porta che Alessan- dro Manzoni diceva unico), anche il dialetto di Trento avrebbe saputo ottenere grande efficacia, e dilettare e commuovere mirabilmente. Sen- nonché limitato su angusto spazio, e mancandogli un grande centro di vivere civile, giacque sconsiderato a lungo. I più antichi saggi di poesie

(1) Parer, verbo, tiene tuttavia nel tren- Tibidói de discorso, per Tiritera, o par- lino il significato del latino jjarerc = appa- lare sgangherato e stravagante (Boerio.) rire, mostrarsi; Factum paret, Cic; Cui Battolar, significa nel trentino, come nel pecudum fibrae, coeli cui sidera parent, venezi&nOj cicalare, anfanare. Pdr, con- ViRG. trazione di póer, póver = povero, si usa di

(2) Tibilóri, voce particolare del dialetto spesso come addiettivo; tutte le volte, cioè, trentino, per significare uomo di cervello dis- che venga acconcio di far distinzione dal ordinato, confuso. 11 dialetto veneziano ha: sostantivo.

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B. MALFATTI

Tgjobxalk di filologia

o prose veruacole a stampa, non risalgono più in del secolo passa- to (1). Ed a rendere scarso il numero de' suoi cultori, contribuì for- s'anco un'altra ragione: la facilità che ha il popolo d'intendere, e di usare, scrivendo, la lingua letteraria. Ancora trenta o quaranta anni fa, quando le scuole si contavano in minor numero d'adesso, erano tuttavia scarsi gli artigiani ed i carapagnuoli ignari dello scrivere, o almanco del leggere; più scarsi certamente che in altre regioni. Adesso poi che l'insegnamento è più diffuso, e le occasioni e le neces- sità del leggere e dello scrivere più frequenti, si può dire che il Tren- tino sia uno de' paesi che hanno minor numero d' analfabeti. Conse- guenza di ciò il rapido assimilarsi del vernacolo colla lingua scritta (2). Voci e forme quali: g'ho bù^ nàr, capinàr, cógner^ drómer, gendro^ sóbia, pódom, corréstj digànd, g' òrde? ^ sónte?, cossa te fai ti?^ Fénie, cossiia^ chlve^ Uve, co, dónca, dai, irei, sic, ed altre non poche, vanno scompa- rendo di mano in mano dall'uso; per far luogo a voci, dialettali pur sem- pre, ma più vicine alla lingua scritta, come sarebbero: g'ko ami, andar, camminar, dover, dormir^ Qéner^ giovedì, podém, córs, disénd, g^ho mi?, son mi?, cossa fai ti?, fém, cossi, chi, li, quando, donque, dò, tré, sèi. Anche le differenze fonetiche vengono dileguando. L'w, col suono fran- cese o lombardo che dir si voglia, si fa udire sempre più raro; e così

(l) 11 primo, che con successo prendesse a dettare versi in vernacolo, fu Giuskppe GiVANNi, vissjito nella seconda metà del pas- ffato secolo. Dopo di lui fecero buona prova don Iacopo Turratti, e Giuseppe Zanolli; della Valle Lagarina amendue, come lo era anche il Givanni. Chi volesse procurarsi contezza delle loro poesie, veda il Florilegio scienti fico- storico^letterario del Tirolo ita- liano, pubblicato a Padova nel 1856. Di Rcriiture in prosa, la più antica ed impor- tante che ci sia venuta sott' occhi, fu un libriccino col titolo: La Cruschetta trenti- na; uscito in luce nella seconda metà del secolo passato. L'ebbimo a scorrere rapida- mente ventisette anni or sono; ma per quante ricerche ne abbiamo fatte, non ci lu possi- bile adesso di procurarcelo; anzi neppur di sapere do\e sia andato a finire l'esemplare da noi visto. Il libriccino, di non grande va- lore per il contenuto o pei pensieri, è pur sempre importante; siccome quello che ha raccolto, in forma dialogica, i modi che, circa centovent'anni addietro, erano i più usitati nel parlare trentino. Se qualcuno sapesse met- tercene sulle traccie, gliene avremmo obbli-

gazione grandissima.

(2) Si vedano su tal proposito le osserva- zioni, di cui l'illustre Ab. Giovanni barone Prato, nel libro I parlari italiani in Cer- taldo (p. 647), accompagnò la versione in vernacolo trentino della Novella IX, Giorn. I, del Decamerone. Sennonché a far menzione di quelle sue pagine siamo indotti da un'al- tra ragione ancora; quella di rammentar© al nostro onorando concittadino ed amico la promessa che ha fatto ivi di voler attendere ad un ordinato lavoro sulle parlate e sulle co- stumanze popolari del Trentino. Quanto è più rapido il di legnarsi delle particolarità idiomatiche ed etnografiche, e tanto più urge di raccogliere e conservare cosi gran parte della storia, anzi della vita paesana. Il si- gnor ScHNELLER col libro: Màrchcn und Sagen aus Wdlschtirol , fece cosa commen- devolissima nel complesso, ed aperse se non altro la via; ma, per giugnerne al fine, biso- gnerebbe che il lavoro fosse concepito con più larghe vedute da chi è nativo del paese e vi abita. Ora dir questo, e pensare al ba- rone Giovanni Prato, benemerito per tanti titoli del paese, è una cosa sola.

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ROMANZA, N.« 2] GLI IDIOMI PARLATI NEL TBENTINO 189

la n finale, da confondersi con m (pam, vim, piém, lofìtàm); parti- colarità che a Rovereto e Riva s' incontrava ancor più spiccata che non a Trento. L'ò (ce) è scomparso quasi intieramente dal dialetto trentino propriamente detto; tanto che, se mai vi venga incontro, po- trete arguire quasi con sicurezza che, chi lo adopera, è nativo della zona ladina, o ne ebbe ad accogliere gli influssi. Il divario che notava il Vannetti, cent'anni fa, tra la parlata roveretana e la trentina, viene attenuandosi di giorno in giorno ; che tendendo V una e V altra ad una meta medesima, non possono a meno di avvicinarsi. a questo pro- cesso di obliterazione delle antiche particolarità e di unificazione ri- mangono estranei i vernacoli di quelle valli istesse, dove l'elemento ladino seppe conservarsi per 1' addietro più abbondante e tenace. A capo di non molte generazioni, le varie parti del Trentino si saranno fatto proprio, salvo leggere diflferenze, uno stesso parlare.

Certo egli è fatto meritevole d' attenzione, e diciamolo pur anche- di rispetto, quello che ne si aflfaccia nel Trentino; l'esempio, di una gente che, scarsa di numero e rimessa in certo modo a sola, seppe, attraverso a molte fortunose vicende, custodire con forte amore il retaggio delle tradizioìii, e mantenere vivida la sua italianità. Da otto secoli non fa più parte della famiglia italiana; e tuttavia il suo idioma è dei meno dissonanti dal parlar letterario. Negletta, obliata, non cessò dal tender l'occhio là, d'onde aveva ricevuti i primi impulsi civili. E come il Trentino concorresse strenuamente all'opera del pen- siero italiano in questi ultimi tempi, non abbiamo bisogno di dirlo. Me- glio di noi lo dicono i nobili ingegni che crebbero lustro alla nazione non meno che al nido nativo. Fu quel piccolo paese che diede Antonio Rosmini alla filosofia, Giambattista Garzetti e Tommaso Gar alla sto- ria, Giovanni Prati, Andrea Maffei, Antonio Gazzoletti, Francesca Lutti- Alberti alle lettere italiane. Questi nomi possono confortare i Trentini delle asserzioni meno giuste e dei paradossi, che si spacciano sul conto loro; quasiché sieno usciti da miscuglio eteroclito di varie stirpi, ed abbiano avuto di grazia che altri insegnasse loro a parlare. No; guar- dando indietro a sé, non troveranno motivo di umiliazione o di ver- gogna. Quanto all'avvenire, esso è in mano della sorte. Non però tutto; ed i Trentini lo proveranno, ne siamo certi. Comunque corrano o sieno per disporsi i casi, essi non cesseranno dall' emulare i fratelli neir arringo della cultura, dal mostrare che il « latin sangue gentile » che s'ebbe un giorno a trasfondere in essi, sa mantenere ancora l'an- tica virtù.

Roma, nell'Aprile 1878.

Bartolomeo Malfatti.

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100 [oion.NALK IH FILOLOGIA

VARIETÀ

IL SECONDO CANZONIERE PORTOGHESE

DI ANGELO COLOCCI.

Una notizia che tornerà assai gradita agli studiosi si è il ritrova- mento di quel Canzoniere Portoghese, di cui ci era rimasta la tavola compilatane dal Colocci e pubblicata dal Prof. Monaci nel voi. I delle sue Communicazioni dalle biblioteche^ pag. xix-xxiv.

Questo importantissimo manoscritto è oggidì posseduto dall'egregio , sig. Conte Paolo Antonio Brancuti della città di Cagli nelle Marche, in easa del quale pervenne per acquisto fattone dal padre suo; ed io debbo Taverne conosciuta l'esistenza alla preziosa amicizia del dotto Presidente della Società romana di storia patria, sig. Costantino Cor- visieri.

Le premure di un amico carissimo, il D.' Luigi Celli di Cagli, e la somma cortesia del Conte Brancuti mi diedero modo di poter con ogni agio studiare questo codice, sicché spero di pubblicare fra non molto quella parte delle poesie che resta tuttora inedita e che forma un'altra p^reziosa pagina della antica letteratura portoghese. Non mi dilungherò quindi ora a parlare della natura e delle particolarità del ms., a sgroppare le molte questioni a cui esso può invitare la critica; ma sol- tanto mi limiterò a compiere e correggere le indicazioni di già forniteci dalla tavola colocciana.

Chi abbia innanzi quella tavola già conosce come il nuovo canzo- niere presenti uua raccolta più copiosa che non il Vaticano, col quale esso mostra d'avere una stretta relazione; ma le diflferenze che corrono fra le due raccolte non sono per altro sempre quali la tavola ce le fa- ceva presumere. Questa ci farebbe spesso credere diverso nelle due raccolte il nunaero delle composizioni attribuite ad alcuni poeti, mentre invece non lo è; e la differenza apparente è dovuta solo ai frequenti errori ne' quali incorse i Colocci aggiungendo al nostro codice la nu- merazione delle poesie. Grande diversità pure sarebbevi ne' nomi dei poeti, dei quali molti mancano nella Tavola, ma pur sono nel Vaticano

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uoMAxzA, N/' 2| VABIETÀ 191

e nel codice Braucuti. Di queste ommissioni di nomi la Tavola ce ne presenta anche dove manca il riscontro del Vaticano, e cosi dobbiamo aggiungere in essa i nomi di Ayras Moniz Da^ma al n. 6, di Nuno Ro- driguez de Canderey al n.** 180, di Fero Garda Burgales al n.° 186, e di Affonsso Meendiz de Beesteyros al n.** 1558; mentre dobbiamo togliere all'incontro il nome di Fero Amigo che fu posto per errore al n.** 1450 (Vat. 1060). Tuttavia, tolte pur di mezzo queste differenze, altre ne re- stano ancora e notevoli. E innanzi tutto giova osservare che come il cod. B. ha delle parti che mancano nel Vatic, così questo ancora ha delle composizioni, sebbene in piccolo numero, che non sono nel B., quali ad esempio i n.^ 364, 387, 410, 668. Altre lacune ha il Canzo- niere B. per le mutilazioni che ebbe a soffrire in diversi luoghi; man- cano per questa ragione le composizioni dal n.** 8*'*-36, 273-316, 1002- 1011 = Vat. 591-601, 1391-1430= Vat. 1000-1046, 1562-1572, e dal 1665 sino alla fine. Quest'ultima lacuna può lasciar dubbio se realmente il Vaticano sia compiuto al fine, poiché nella Tavola troviamo il nome di Juyano Bolsseyro col n.° 1675, il quale non avrebbe corrispondente nel Vaticano.

Le mutilazioni subite non ci permettono di stabilire quale real- mente fosse il numero delle composizioni contenute nel cod. B. Quelle che ora ci restano sono 1567 e fra queste, 420 le inedite, e diciamo inedite, riguardo alla collezione vaticana, ma non così riguardo alla coUez. d'Ajuda, colla quale anche questa parte contiene riscontri e non pochi. Oltre alle poesie, noi troviamo ancora nel Canz. B. un frammento ace- falo d'un importante trattato sulla antica poetica portoghese, le cui prime righe furono aggiunte dalla mano dello stesso Colocci: qui però non abbiamo alcuna traccia di mutilazione a cui dar colpa dello stato frammentario nel quale il trattato ci è pervenuto.

Queste poche notizie, tuttoché insufficienti a dare del nuovo Can- zoniere una compiuta idea, basteranno tuttavia a mostrare come, mal- grado le relazioni sempre piìi strette che si rivelano fra le due raccolte, esse restino pur sempre indipendenti fra loro, ma insieme accennando di derivare da una unica fonte alla quale ambedue convergono. E quella fonte non dovette essere sconosciuta pel Colocci, il quale non potè se non da essa avere attinto le aggiunte che di suo proprio pugno tro- viamo così nel codice Vatic. come nel Brancuti. Essa oggi sembra perduta. Lo sarà per sempre ? Auguriamoci che no ; ma in ogni caso la nuova scoperta, posta a riscontro del testo Vatic, ci offrirà d'ora innanzi un prezioso sussidio per riavvicinarci abbastanza a quella e fino ad un certo punto compensarci di tale jattura.

Enrico Moltent.

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11)2

[({lOnXALK DI FILOLOGIA

RASSEGNA BIBLIOGRAFICA

1. Storia della poesia popolare italiana di Eemolao Rubieri. Firenze,

Barbera, 1877. In %" di pp. viii-686.

2. La poesia popolare italiana. Studi di Alessandro D'Ancona. Livorno,

Vigo, 1878. In 8*» di pp. xii-476!

Due imf optanti lavori su la poesia popo- lare italiana si sono succeduti entro breve tempo: prima la Storia di Ermolao Rubieri, poi gli Studi del prof. Alessandro D'Ancona. Dopo tante pubblicazioni di canti popolari, dopo tanti studi di storia, di comparazione e di critica che vi si fecero sopra, tra* quali quelli notevolissimi del Nigra, del Pi tré, dello Schuchardt, del Vigo, è bene intrat- tenersi sopra i due primi lavori sintetici che videro la luce, e di mettere questi due libri r uno in confronto dell' altro. Il primo ha orditura assai vasta e si divide in tre pani che parlano della poesia popolare d'Italia considerata estrinsecamente per tipi, forme, origini e fasi: nei suoi caratteri psicologici, e nei morali ; ogni parte poi è divisa in molti capitoli , ciascuno dei quali contiene la dimo- strazione di una specie di teorema storico o critico.

Volentieri mi sarei astenuto di parlare dei primi capitoli del libro se in essi non si contenesse come in germe il risultalo sin- tetico di tutta r opera. L'A. vuol dimostrare che nella poesia popolare è la prima mani- festazione del genio letterario di un popolo, che perciò in essa non si importazione o influenza da nazione a nazione e da pro- vincia a provincia. Che il canto ritmico, anteriore senza dubbio al metrico, risale al primo tempo dell'idioma, precede la for- mazione della lingua letteraria e della na- zione, rimane inalterato nella soistanza e si modifica solo nella forma e nella misura col variare e con V alterarsi della favella. Pren- de le mosse dai più antichi canti popolari

etruschi e latini , e non può negarsi che ab- bia posto molta diligenza in raccogliere le notizie che ce ne hanno dato gli antichi scrit- tori; ma decisamente mancano air A. le ne- cessarie nozioni di filologia storica e com- parata ed è perciò tratto inavvedutamente a grandi e frequenti errori. Crede ad «un passaggio della volgare favella dall' opico accento al latino e da questo all' italiano » (p. 5), indi narra che « il popolo ita- liano camminò per continui e insensibili gradi di volgare in volgare dalla lingua etrusca giù per la latina verso l'italia- na » (p. 29). Dice che « chi avrà comin- ciato a cantare in dialetto o celtico, o etru- sco, o osco, avrà seguitato in dialetto o cel- tico-latino, o osco-latino e avrà finito in dialetto o piemontese o lombardo, o toscano e romano, o napoletano e siciliano, a seconda che il nazionale idioma passava dalle forme opiche alle romaiche, alle italiane » (p. 40). Altrove parla « della modificazione dei varii dialetti sotto gì' influssi della etrusca, della latina e della greca lingua (p. 42), ammette più idiomi latini assolutamente diversi e di- stinti, il contadinesco, il militare e il plebeo (p. 34), ed applica ciò che i grammatici dicono della soppressione delle consonanti finali nel latino arcaico al canto del trionfo gallico del tempo di Cesare (p. 31). Pre- senta una spiegazione letterale di alcuni versi delle tavole eugubine « scritte in lingua etrusca » (p. 45), e t^nta la interpretazione di un'antica strofa riportata da Varrone, nella quale parla « della frequente aggiunta di T o D alle vocali finali onde lu detto

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HOMAXZA, N.*

liASSFG^'A BIBLIOGRAFICA

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diet per dies, proedad per proeda; iden- tifica huat con coeat e con chiudi , kanat con cannetta, sista con «i^fe e quindi con assesta (p. 32), tdtr-eia con ^trt, iamu, jierUyjutu. Non è più corretto quando parla del metro e vuol mostrare che non vi fu in Ita- lia importazione dei metri greci perché ogni metro ha radici nel ritmo, e non s' avvede che il ritmo potè diventar metro in Grecia, e poi il metro greco essere sostituito al ritmo ro- mano. Insomma TA. ha avuto il torto di entrare in materia non sua, e bisogna pure perdonargli questo sbaglio in vista dei molti pregi che risplendono nelle altre parti del suo lavoro.

Ed infatti sono pieni di bellissime con- siderazioni i capitoli nei qnali egli si fa ad esaminare T indole della poesia popolare, i rapporti fra le varie forme di essa e i contatti fra la poesia pubblica e la dome- stica. Solo sembra dare troppa influenza allo stato politico sopra la produzione let- teraria, poiché è certissimo che la provincia più produttiva è stata la Sicilia, dove meno ha fiorito la libertà politica, e che per la stessa Toscana il secolo xv segna il deca- dimento di quella e V apogeo della poesia popolare. I lamenti per la libertà perduta non prevalgono certo in quel secolo ai canti carnascialeschi, alle ballate, ai rispetti. Il popolo, come TA. altrove riconosce, « di due rose ha prepotente bisogno: di pregare e di divertirsi » (p. 123), e « per divertirsi ha bisogno della poesia (p. 145), tantoché la poesia sollazzevole è una delle più an- tiche e delie più diffuse (cap. xi), e « la stessa poesìa storica e politica ha spesso il semplice scopo di passatempo e sollazzo » (p. 113). Così il popolo del secolo xv cele- brava con ogni forma di poesia quella vita spensierata ed allegra, per quanto servile, nella quale i nuovi signori lo lasciavano tra- stallare.— Una delle parti più belle e più importanti del libro è certamente quella compresa nei cap. xui-xvn, nella quale TA. si fa ad investigare T antichità della poesia erotica popolare mostrando « come lo smar- rimento deir antica poesia popolare è assai meno assoluto e meno irreparabile di quanto avesse potuto a prima vista apparire, e che gran parte dell'antica si ritrova quasi intatta nella moderna» (p. 225). È questo

il primo risultato sintetico del libro, e alla sua grande importanza ii;^rinseca si deve aggiungere il metodo, la lucidità, la pie- nezza della dimostrazione.

È anche questo il primo teorema che il prof. D'Ancona ha preso a dimostrare nei suoi Studi, ed è mirabile il vedere come due persone che lavoravano isolate e lontane, siano giunte esattamente allo stesso punto e per lo stesso cammino, riscontrandosi persino nelle prove e negli esempi, come nella canzone deWAvveienato (R. p. 121; D*A. p. 106) e nella Serenata del Bronzino ( R. p. 211 ; D' A. p. 145). La poca distanza di tempo corsa fra i due libri e sopratutto il nome degli autori rendeva superfluo P avvertimento pre- messo alla seconda pubblicazione, e la du- plicità della scoperta non fa altro che ac- crescerle d'ambo le parti il merito ed il va- lore. È a lamentare che il R. non ci abbia dato anche i raffronti della canzone del Pe- trarca di cui fa menzione a p. 208; reliquie cosi preziose vanno mei>se alla luce più che è possibile.

Nella seconda parte il R. si fa a conside- rare la poesia popolare nei suoi caratteri psicologici. Distingue la vera poesia po- polare cioè quella fatta dal popolo e per il popolo da quella fatta dai dotti in forma popolare o dai semidotti con pretensione letteraria. La divide secondo le sue qua- lità intrinseche in poesia passionata, sati- rica, galante, tradizionale, sollazzevole e memorativa, e fa l'analisi di ciascuna di queste specie cercando di mostrare la pre- valenza o la forma speciale che ciascuna di esse prende nelle varie provincie. L'ana- lisi è accurata , ma troppo minuta e le con- clusioni sono tratte su dati troppo scarsi e spesso non certi. Cosi a torto l'A. nega ai latini la poesia satirica (p. 256), mentre Quintiliano potè scrivere « satyra quidem tota nostra est », e la passionata « perché il latino sussiego poco si addice al linguag- gio della passione ». E avrebbe ragione se fosse un vero esempio di poesia popolare la- tina il rispetto che cita e che comincia:

Giuro all'eterno ed immntabil Dume

D'esser sempre fedele al tuo bel core (p. 247).

ai popoli subalpini il primato della poe- sia tradizionale storica (p. 291, 297), ma 13

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RASSEGNA BIBLIOGRAFICA [oiorsale di filologia

non tiene conto della distinzione svolta nel- l'aureo studio dal Nipra {Romania ^ n*> 20) fra la poesia lirica ed epica; della sollaz- zevole ai napoletani (p. 314), e ai siciliani quello della poesia passionata (p. 251) e galante o madrigalesca (p. 288). Nega a questi ultimi ricchezza di poesia storica tra- dizionale (p. 301); ma dice cdl Vigo « che il fiume della poesia narrativa in Sicilia è perenne ed inesauribile; corre, precipita dalle sue scaturigini alla foce, e si perde nel mare dell* oblio mentre nuove acque ne ricolmano V alveo > (p. 303). Ammette che la poesia memorativa fiorisca in Sicilia (p. 300) e che essa sia eminentemente tra- dizionale (p. 323).

Ma sia pure che T indole di un popolo si rifletta nei suoi canti; T amore, la satira, il sollazzo, la tradizione sono comuni a cia- scun popolo, è possibile dalla forma più o meno esplicita di qualche esempio attri- buire senz'altro una speciale tendenza a questa o quella specie di poesia. E perciò su questo punto non sembrano accettabili tutte le conclusioni delTA. Segue un esame delle intrinseche qualità generali della poe- sia popolare, e dapprima di quella stabilità, che, esaminata già in ordine ai tempi, re- stava a dimostrarsi in ordine ai luoghi. La poesia più stabile è per TA. la prover- biale e tradirionale; meno la passionata, ma con qualche eccezione nel caso di forma assai splendida o di tema assai generale. Dimostra l'assunto con Pesame di un pro- verbio e di due canti che si ritrovano eguali almeno nel'a sostanza, in quasi tutte le Provincie dMtalia (e. viii). Aggiunge che questa stabilità è T effetto di una grande cedevolezza, per la quale un canto può pas- sare da una provincia all'altra restando integro nel tema, ma cambiando la forma nella frase, nel dialetto o nel metro ;o con- servando la forma con mutazione di tema e di sentimento; e che questa cedevolezza si mostra specialmente nelle circostanze di tempi, di luoghi e di persone a cui è in- spirata la poesia popolare (e. ix). L'equi- librio fra questa stabilità e cedevolezza è prodotto e spiegato da una omogeneità di essenza, la quale ha radice nella comr- nanza delle idee, dei sentimenti, dei casi. Così tutti gli uomini sono tratti all' amo-

re, e quando amano fermano il pensiero sulle più ordinarie circostanze della vita propria o della persona amata, come ì di della nascita, del battesimo, del primo in- contro, della morte, della sepoltura; la ca- sa, la fenestra, il giardino. La natura of- fre al poeta quanto ha di più bello e me- raviglioso: il sole, la luna, le stelle, il mare, i fiori e specialmente il giglio e la rosa, l'oro, le gemme, il diamante, il rubino, le perle, il cristallo, la neve. La religione vi porta il paradiso, gli angeli, i santi, l'in- ferno, i diavoli : e sino la mitologia vi fram- mette Venere, Cupido, Giove, Narciso, le fate, le streghe e tutto il patrimonio comune delle leggende (e. x). S'aggiunga a ciò quel fare fantastico che rende spesso difficile a comprendere la poesia popolare (e. xi), la grande quantità di poesia artificiale, con- traffatta o falsificata che si mischia alla vera (e. xiv), e, per quanto si voglia am- mettere con l'A. (ciò di cui è lecito dubi- tare) la esistenza cioè di alcune intrinseche qualità speciali rispondenti alle speciali qua- lità fisiologiche delle varie regioni (e. xii), si dovrà confessare con lui che è difficile, almeno con questi mezzi, di riconoscere la provenienza dei suoi prodotti, E l'A. con- chiude: « che la stabilità con cui un canto viene trasmesso dipende dall'indole del ge- nere di poesia a cui appartiene, non dalla potenza propagatrice della regione da cui proviene, e che perciò può servire a testi- ficare la paternità di questa regione, non il grado della sua potenza; che tale stabi- lità indica piuttosto il modo che la propor- zione con cui il propagamento si efiottuò; che perciò essa non diminuisce accresce la parte di contributo che ciascuna provincia arreca al tesoro poetico della intiera na- zione; e che in questo contributo ninna pro- vincia gode un universale primato, ma cia- scuna può averne uno speciale in quel ge- nere di poesia che meglio si confà alla sua indole, alle sue abitudini, alle sue tradizio- ni » (p. 475).

L'A. cammina entro un vero labirinto e vi si smarrisce: cerca la via d'uscirne, la trova, sembra che voglia attenervisi; ma si caccia nuovamente pe' viottoli e finisce col perdersi. Erano troppo incerte, troppo sog- gettive e perciò sottoposte a troppo varie

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ROMANZA, N." 2]

BASSEGNA BIBLIOGRAFICA

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influenze le qualità psicologiche perché po- tessero servire di guida nella ricerca delle origini: era necessario a ciò alcun che di fisso, di naturale e perciò sottratto all' ar- bitrio dell'uomo, come la strofa, il metro, la rima. L'A. riconosce che « tanta è la innata fedeltà di ciascun popolo al proprio dialetto, che la violazione di esso è uno dei più sicuri segni della non nativa provenienza di un canto popolare » (p. 430), « che poco meno che al proprio dialetto è fedele il po- polo al proprio metro » (p. 431) e giunge a dire « che pel campagnuolo la poesia non viene che in grazia e in compagnia della musica; che egli conosce le note prima delle parole e si serve di quelle come di una fal- sariga per queste, o piuttosto come d'uno stampo invariabile per la variabile materia che dentro deve esservi improntata » (p. 463). Ed infatti quando prova ì canti alla stregua del dialetto e del metro è condotto a rico- noscere l'origine siciliana (p. 435, 466); ma poi si lascia vìncere dalle difficoltà che presenta contro il dialetto l' idioma , contro la strofa e la musica la prevalenza dell'en- decasillabo, fallisce in altre ricerche (p. 344, 346, 438, 447), e giunge alle conclusioni che sopra si sono riportate. Altra è la via che tiene il prof. D'Ancona e ben altro il. risulto che ottiene. Si fa dapprima a raffrontare i canti delle diverse regioni , e da questa co- piosa e diligente comparazione della materia e della forma di essi conchiude che non v'ha sola omogeneità f sia pure estesa all'avvia- mento dallo sviluppo del tema (R. p. 370) ; «non trattarsi di rassomiglianze generiche pro- dotte da conformità di sensazioni e di vicende, o da esaltamento intellettuale e bollor pas- sioni, o da spontanea tendenza alla idea- lità; ma invece di sostanziale identità del componimento stesso, modificato qua e variamente in alcuni particolari, ma deri- vato da un'unica e medesima fonte » (p. 247). Dopo ciò era naturale che si facesse a ri- cercare la patria di questi canti, e, ammet- tendo pure la eccezione di molti canti to- scani di cui non v'ha riscontro siciliano, ma solo di altre provincie del mezzogiorno (p. 250), settentrionali (p. 253) Jatine (p. 257), venete (p. 260), o istriane (p. 250) e molti altri dei quali manca pure la versione toscana (p. 272-276); riconosciuto che l'al-

terazione totale o parziale del dialetto, e talora Jino o più versi toscani mischiati al canto valgono a togliergli la qualità regio- nale (pp. 277-283); conchiude < che il canto popolare italiano è nativo di Sicilia ». Con ciò « non intende negare alle plebi delle altre provincie la poetica facoltà e che non vi sieno poesie popolari sorte in altre re- gioni italiane, ed ivi cresciute e diramate attorno. Ma crede che nella maggior parte dei casi, il canto abbia per patria d'origine r ìsola, e per patria di adozione la Toscana: che nato con veste di dialetto in Sicilia, in Toscana abbia assunto forma illustre e co- mune, e con siffatta veste novella sìa mi- grato nelle altre provincie » (p. 285). È inutile d'aggiungere che l'A. per provare il suo assunto mette in opera tutto il ma- teriale analitico da lui accumulato con studio lungo ed assiduo, e che nell' uso che ne fa rivela anche una volta quella crìtica rigo- rosa e «aljace che appare in tutti i suoi la- vori. Crede che la trasmigrazione dei canti popolari siculi debba essere stata quasi con- temporanea a quella delle poesìe illustri per le quali Dante alla poesia volgare l'epi- teto di « siciliana »; e che ad ogni modo non deve essere posteriore al secolo xv, quairdo certamente erano noti e diffusi in Toscana (p. 295), mostrando come il pas- saggio fosse reso facile dal continuo rime- scolamento di idee, prodotti e di persone portato dalla operosità civile commerciale e intellettuale di quel secolo (p. 297).

Ma in qual forma passarono i canti dal- l' isola al continente ? Era questa la maggio- re difficoltà a risolvere. L'A riconosce tre principali tipi di canti: uno siciliano e delle Provincie meridionali composto di otto versi endecasillabi a due rime alternate con uso quasi costante della consonanza atona ; un secondo toscano, al quale si ravvicinano i canti umbri e marchigiani, composto di un tetrastico a due rime alternate seguito da una ripresa caratteristica, diversa di desi- nenze e di andamento ritmico, ma non di concetto; un terzo che prevale in tutta l'Italia settentrionale composto di un tetrastico sem- plice a due rime pure alternate (p. 300). Anche il Rubierì aveva riconosciuto la uni- versalità dell'endecasillabo, e la prevalenza della quartina nei canti piemontesi , veneti ,

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BASSEGNA BIBLIOGRAFICA [aiousAj.K ui filologia

lombardi f e un po' meno nei veronesi, vi- centini, roraagnuolì, marchigiani, sabini e liguri; deir ottava nei siciliani, napoletani, istriani, umbri e latini, ma in qne&ti due ultimi allungata e sciupata; e in Toscana il predominio di una quartina con ritornelli (e. v). Dopo ciò il prof. D'Ancona discute le due ipotesi: se cioè Pollava siciliana sia giunta perfetta in Toscana, perdesse quivi gli ultimi versi, ai quali si sostituì la ripresa^ ed abbia poi perduto anche questa nelle Provincie settentrionali rimanendo semplice tetrastico: oppure se un solo tetrastico del- l'ottava siciliana abbia passato lo stretto, ed abbia ricevuto un allungamento con la ripresa toscana. Esclude la prima ipotesi rome troppo complicata e contraria ai fatti (pp. 306-308), e ritiene col Nigra che la ])rimitiva forma dei canti fosse tetrastica, e che poi abbia ricevuto un allungamento col secondo tetrastico nella stessa Sicilia, e con la ripresa in Toscana (p. 309). Non manca TA. di confortare la sua tpsi con molti argomenti, tra i quali ci sembra il più valido quello del compimento del periodo ritmico e musicale in quattro versi. Ma questa proposizione verissima in astratto ci sembra che debba essere provata con il fatto e che la prova più concludente debba esser tratta da un esame comparativo della mu- sica popolare. Il popolo fa al contrario dei dotti: non adatta la musica alla poesia, ma la poesia alla musica, e di ninna cosa con- s*»rva tanto tenacemente la tradizione quanto del motivo musicale, il quale non cambia, come la poesia, neppure col totale cambia- mento della lingua. Sembra esagerazione: ma é verissimo che la stessa canzone s'ode dopo tanti secoli , con variazioni appena sen- sibili ad un orecchio esercitato, in Siria, in Egitto, in Spagna, nelle isole Filippine, cioè dire nelle quattro parti del mondo; e di ciò daremo quando che sia le prove insieme ad alcune notizie su la musica popolare. L'A. esamina pure lo Stornello e opina che eia nativo di Toscana e prediletto nel ter- ritorio romano (pag. 320); che la sua for- ma primitiva sia distica, e che l'invoca- zione del tìore si sia aggiunta per ripi- gliare il canto e si sia talora allungata a somiglianza della terzina, escludendo cosi che la terzina possa aver avuto origine dallo

stornello come alcuno ha creduto (p. 319). É questo il caso in cui, come sopra si è detto, la prova è data dalla musica: il ritmo musicale dello stornello si compie al secondo verso, e per ripigliare il canto si ripete non tanto Tin vocazione del fiore, come dice TA., quanto le cinque ultime sillabe del secondo verso, le quali così smozzicate non hanno senso veruno. Passa finalmente ad esa- minare quanta parte di poesia letteraria si sia mischiata a quella del popolo, e se que- sto r abbia attinta dai dotti , o questi da quello. Esclusi con critica industre e sagace molti canti che trovansi nelle raccolte, di conosciuto autore, e che nulla mai ebbero di popolare, molti ne riconosce che il popolo ha fatto suoi modificandoli, come è solito di fare, quando gli danno nel genio canti com- posti da poeti culti con intonazione simile a quelle delle plebi (p. 325-352). Cita le prin- cipaK raccolte manoscritte e stampate alle quali il popolo ha attinto, e da copiosissimi raffronti in cui non si sa se ammirare più la pazienza o la memoria delPA. ( pp. 354- 422), stabilisce che tre successive modifica- zioni hanno avuto nella maggior parte dei casi i canti popolari, e che nella genealogia delle forme sta prima una lezione siciliana eulta, poi una traduzione italiana eulta, indi varie versioni secondo i varii dialetti , com- preso il siculo volgare, nelle quali il canto via via che si fa popolare, perde non solo la veste idiomatica letteraria, ma anche smonta un po' di colore, divenendo proprio delle plebi » ( p. 426). É questa la parte più originale del libro, e senza dubbio la più interessante. Se la maggior parte dei canti del popolo avesse origine letteraria, il nome stesso di poesia popolare- diver- rebbe improprio o convenzionale. In mate- ria cosi grave è ad attendere che l'esame sia rigorosamente compiuto; frattanto è d'uopo riconoscere che i fatti citati dall' A. sono copiosi ed indiscutibili. Conchiude dicendo « che in ogni modo questi canti sono degni di studio, dappoiché questa è poesia vivente fra il popolo; ma per più di un verso, sia che ella abbia porto esempi imitabili ai let- terati, sia che dai letterati scendesse alle plebi, altro non è insomma, se non una forma particolare della nazionale poesia ». E ciò importanza alla ultima parte

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ROMANZA, N.** 2]

RASSEGNA BIBLIOGRAFICA

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dHla Storia del sig. Rubieri, nella quale e«?li 8i fa ad esaminare i caratteri morali df^lla poesia popolare italiana. La patria non ^ il soggetto principale dei canti del popolo: la poesia non destata dal sentimento nazio- naie, oppressa o adulata da chi voleva al- lontanare dal popolo i seri pensieri (p. 493), splende nel seoclo xv solo nelle ultime lotte fra la repubblica e il principato, fra l'asce- tismo e la miscredenza ( p. 498), dopo di che perde il dominio per risorgere solo a lampi in ogni nuova occasione di popolare lotta e riscossa (p. 403). Si conserva più nelle re- gioni subalpine (p. 322); ma anche qui TA. ha lasciato d'avvertire, come fa benissimo il Nigra, che non tutta quella poesia è in- digena e nativa in quelle provincie e che una lunga serie di canzoni , fra le quali mol- tissime romanzesche, sono comuni a tutti i popoli celto-romanzi e trasmesse dalla Fran- cia per mezzo della Provenza e della Borgo- gna. Nel resto d'Italia v'è assoluta predile- zione dei temi d'amore, e questa tendenza prevale su l'amore della libertà e della pa- tria (p. 338), ed è assolutamente contraria alle armi (p. 349). Non già che manchi- no i canti di guerra; ma chi ama lascia mal volentieri l'amante, è teme di perder la vita.

Dice l'A. che presso i popoli subalpini fiorisce più la poesia politica e militare per l'indole e per gli ordinamenti che vi pre- valgono ( p. .522-606); ma ciò può esser vero solo per un breve periodo degli ultimi tempi e forse ^^^^ poesia si fermò e visse meglio

in quelle regioni non tanto per maggiore trasporto a quella, quanto per minore ten- denza alla poesia lirica e passionata. La poesia popolare si trova a disagio nella vita coniugale (p. 359), non perché col matri- monio muoia l'amore; ma perché il canto cessa con l'occasione (p. 572), e questa manca quando manca quella continua vi- cenda dì speranze, di voti, di timori, di ge- losie, di corrucci che ispirano il popolano che ama: le satire e le maledizioni al ma- trimonio, per quanto moltiplicate, non ri- spondono alla vita reale del popolo e sono fatte da burla o costituiscono rare eccezioni (p. 573). Dopo l'amore il sentimento più potente è il religioso; ma oscillante fra i due eccessi della miscredenza e della supersti- zione (pp. 574-606). Tutti questi generali caratteri, e specialmente la prevalenza del- l'elemento amoroso (p. 624) vengono mo- dificati dai caratteri speciali di ciascuna re- gione (p. 606) rispondenti alla diversità delle loro coudizioni sociali (p. 657), e più che altrove in Corsica (p. 130, 150, 549, 617). Anche facendo qualche riserva per alcuna di queste conclusioni più minuziose, bisogna rendere all' A. un sincero tributo di lode e di gratitudine per la luce che ha portato sopra un punto sul quale da tanti anni era rivolta l'aspettazione degli studiosi. Oli Studi del prof. d'Ancona vanno più innanzi, e, con quelli del Nigra , tracciano la via a chi vorrà dire l'ultima parola su la poesia po- polare iiatiana.

Giulio Navone

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1U3 [UIORNALK DI FILOLOGIA

BULLETTINO BIBLIOGRAFICO

1. Carmina medii aevi maxima parte inedita. Ex bibliothecis Helveticis collecta edidit Hermannus Haoeitus. Bernae, apud Georgium Frobe- ninm et soc, MDCCCLXXVIl.

In 8.° picc. di pp. xix-236. —Contiene circa 15(J composizioni latine, alcune delle quali assai importanti. Una recensione (di A. R.) può vedersene nel Li- terar, CentraìblaH dello Zarncke, 1877, n.<» 10, altra di L. Havet nella Botua- nia, n.'» 22.

2. Intorno ad una peculiarità di flessione verbale in alcuni dialetti 7om- bardi. Nota del socio Giovanni FLEcmA letta alla Reale Accademia dei Lincei il 18 giugno 1876. Roma, Salviacci, 1876.

In 4.^ di pp. 7, estratto dal T. 3,*» Ser. II degli Atti della B, Accad. dei Lincei, Acuta e retta dichiarazione di quella particolarità che notasi nella fles- sione verbale dell' ant. milanese e di altre varietà lombarde, consìstente nel ren- dere la 1.» pers. plur. col costrutto offerto dall' esempio am porta o um porta = « noi portiamo » , e simili. Il Biondelli giunse a vedere in queir am una forma pronominale pleonastica avente analoghi neir armorico e nel cambrico. Pel Diez e per altri dopo di lui, queir a w non era che l'esponente personale del verbo (-am us) in questi dialetti stranamente prefisso al verbo, anziché essergli suf- fisso conformemente ai principj morfologici di tutto il gruppo indoeuropeo. Ma, ciò ammesso, come spiegare V um dell' ant. milanese, che in Bonvesin da Riva è anche on? Il nostro A. vi ha giustamente riconosciuto il latino homo, qui adoperato in modo analogo del frane, on {noìts on porte ecc.) e la sua dimo- strazione non poteva esser recata a miglior evidenza. Così resta provato che questo costrutto, di cui già a' hanno tracce antichissime nel latino volgare, v. Diez, Gramm,, III, 83, 292, non si conservò soltanto nei dominj franco-proven- zali ma coutinuossi ancora fra i vernacoli italiani e giunse a trovar luogo, come l'A. notava, nella Commedia di Dante.

3. Sei tavolette cerate scoperte in una antica torre di casa Majorfi in via Porta Rossa in Firenze, per Luigi Adriano Milani. Firenze, Succ. Le Mounier, 1877.

In 8.*» gr. di pp. 18, estratto dal voi. II delle Pubblicazioni del R. Istituto di Studi Superiori in Firenze, Sezione di filos. e filologia. Di cotesto tavolette cerate aveva già data una prima notizia il Tabarrini (neìV Archivio stor. ita' liana t ristampata nei suoi Studi di critica storica, Firenze, Sansoni, 1876), e testé il sig. Milani ha voluto pubblicarne l'intero testo, ossia quanto gli riuscì di decifrarne. Fu una buona idea. L'edizione sembra curata con molta dili- genza, sobriamente erudito il commento, abbastanza prudente la critica. Ma si può dire che questo documento, posto « tra gli estremi del sec. XIII ed i prin- cipii del XIV », sia « forse il più antico documento ch'abbia Firenze in iscrit- tura volgare? >

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ROMAX2A, N/' 'ij

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PERIODICI

1. ReVUB DBS LANGURS ROMANES, DeUX.

Serie, an. 1877, n.» 1. Mila y FontanalSf anciennes enigmes catalans. Alart, Trois formules de conjuration en catalan (1397y. Ch. Chabaneau, Orammaire limousine. Ad- di! ions et corrections à la l.« .partie. L. Goiravd, Nemausa (versi in dialetto pro- venzale d'Avignone). A. Fourès, L*albeto (versi in dial. di Linguadoca). A. Mir, Lou Reinard e la Cigogno (versi in dial. narbonese). W. C. Bonaparte-Wyse , Li vièi (versi in dial. provenzale d*Avignone). Bibliographie. Chronique.

N.* 2-4. Nou/tft, Histoire littéraire des patois du Midi de la France. A. Mori- tei, L. Lambert, Chants populaires du Lan- guedoc. P. Fesquetf La Cabreiro (versi in dial. di Linguadoca). -<4. Langlade, Lou Garda-mas (versi in dial. di Linguadoca). Bibliographie. Périodiques. A. Espa- gne, Le SiAge de Toulouse et la mort de Simon de Montfort ( relazione di una confe- renza del sig. Delpech). A. Roque-Fer- rter, Les réunions du félibrige à Aix età Montpellier. Chronique.

N.<» 5. Alart, Documents sur la langiie catalane (1310, 1311, 1284). yl. Gazier, Lettres à Grégoire sur les patois de la Fran- ce. — W. C, Bonaparte-Wyse , Un dimen- che dou mes de mai ( versi in provenz. d'Avi- gnone).— A. Fourès, Lou Garrabiè (versi in dial. di Linguadoca). Bibliographie. Périodiques. Chronique.

N.<> 6. Mila y Fontanals , Mélan- ges de langue catalane. A. Gazier, Let- tres à Grégoire sur les patois de la Fran- ce.— L. Goirafid, Bello proumiero (pro- venz. d'Avignone). -^ A. Verdot, Lou ma- riane astra (provenz. d'Avignone). C, Laforgiie, Mater dolorosa (dial. di Lingua- doca). — Discours et Brindes prononcés à

Avignon par MM. Mistral, Bonapartè-Wy- se, M. Girard, Laforgue , Tavan. Bi- bliographie. — Chronique.

N o 7. Alart, Documents divers ap- partenant aux dialecles du Midi de la France (dial. di Monpellier, an. 1361; Carcasso- na(?), 1370; Narbonese, 1380; Narbonese (?), 1397; Bearnese, 1411 ; Narbonese, 1421; Avi- gnone (?), circa 1423). i4. Montel, L. Lam- bert, Chants populaires du Languedoc. Th. Aubanel , Vièio cansoun ( provenz. d'Avignone). A. Tavan, Sounet (pro- venz. d'Avifirnone). C. Sasato, Louise (niz- zardo). — M, Barthés, La maire, l'enfant e la filho (Linguadoca). /. Hfirti y Fot- guera, Las duas mares (catalano). A. Langlade, Lou Garda-mas (Linguadoca). Périodiques. Chronique.

N.o 8. H. VaschaldCt Une inscription en langue d'oc du XV® siede à Lavgentière ( Ardèche). Noulet, Hist. littér. des patois du Midi de la France. C. Gleizes , Las Gardios d'Azilhanet (Linguadoca).— X. Rou- m,ieux, Lou banc (provenz. d'Avignone). A. Fourès, Las Gracios de Viscounti (Lin- guadoca).— Th. Aubanel, L'erbo dou mas- sacre (provenz. d'Avignone). A. de Ga- gnaud, L'aubo (provenz. d'Avignone).- J. Laurès, L'irme ( Linguadoca). Biblio- graphie. — Chronique. Rècti flcation.

N.o 9. Alart, Études historiques sur quelques particularités de la langue catala- ne.— Th. Aubanel, A Tauro ( provenz. d'Avi- gnone).— L. de Ricard, La Figueira (cir- condario di Montpellier). A 22ow;r, Can- soun au Baroun C. de Tourtoulon (circon- dario Lunel-Viel). J. Verdaguer, A una rosa mùstiga (catalano). G. Azais, Lou Tais e lou Reinard (Béziers). Bibliogra- phie. — Périodiques Chronique.

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2^K)

NOTIZIE

Con piacere annnnziamo la fondazione una catedra di linguistica nel Curso su- prior de lettras in Lisbona. Il candidato eletto a tale insegnamento fu il D.»" Adolfo Coelbo, nome già abbastanza conosciuto da tutti i romanisti.

Nel richiamare P attenzione dei nostri lettori sulla notizia data addietro (p. 190) del ritrovamento del secondo canzoniere portoghese già appartenuto al Colocci, qui aggiun- giamo che la parte inedita di esso vedrà quanto prima la luce nel voi. 11 delle Comuni- cazioni del Monaci. La pubblicazione sarà fatta dal sig. Molteni coi spetta il merito della preziosa scoperta, e a quest'ora possiamo annunziare che i primi fogli sono già in corso di slampa.

Stanno per venire in luce il \.^ fase, delle Chiose irlandesi del codice ambrosiano edite ed illustrate dalP Ascoli, e un volume del Caix di Supplementi b.\ Dizionario Etimo- logico del Diez. F. Mistral ha aperto la soscrizione al suo grande i)icetow«atr^pro- vengal-franQais emhrassant les diverses dialectes de la langue d*oc: due volumi in 4.» del complesso di circa 225 fogli di stampa.

Il D.' G. Navone prepara una nuova edizione delle rime di Folgore da S. Gennignano e di Cene della Chitarra rivedute sui manoscritti, e altrettanto fa delle rime di Guido Cavalcanti il D.' N. Arnone, al quale già dobbiamo un buon saggio sullo stesso poeta, pubblicato nella Rivista Europea,

CORREZIONI ED AGGIUNTE (al n." 1.)

M*era sfuggito che la 1.» tra le sentenze provenzaU da me stampate a pa^. 38 del fase I è tratta da una poesia di Richart de Tarascon, Ab tan de sen ecc., Mahn. Ge^ dichte^ no 134 st. 2; e cosi pure che la 6.* appartiene al vers di Peire d'Alvergne, Abans queill blanc poi ecc., st. 4: C'a la coita (o cocha) pot hom proar amie de boca ses

amor. Ecco dnaqu*» tolra ogni raj^ioae alla mia nota. E in luogo di nrobar si legga prohar. E poiché mi si offre rop|)ortunità, avvertirò altresì che nel no 0 ho riconosciuto tropp< tardi i due primi versi del poema di Daude de Pradas sulle virtù cardinali. Origini ana

lo&rhe avranno pure T altre sentenze. Poco male pertanto se tutta una pagina è divenuta illeggibile. A pag. 18, n." 2 si corregga in Tànaro quel brutto Tnnàro, appartenente alla geografia dei tipografi.

(al n.» 2.)

Mi si permetta una sola nota anche alPartìcoletto contenuto in questo medesimo fa- scicolo. Un Serventese contro Roma ecc. Più mesi dopo che esso è stampato, mentre sta aspettando di venire alla luc^, rilevo da una recensione del Bartsch nella Zeitschrift f. Rom,, Phil. II, 132, che anche il Tobler spiega Sirventès come « Dienstgedicht, in- soferu es von einem anderen Gedichte abhìingig, in seinem Dienste stehend betrachtet wird, » e che questa spiegazione ^ riferita dal sig. Martin Gisi, in un opuscolo che ho il torto di non aver visto ancora: Der Troubadour Guillem Anelier von Toiilouse, Mi compiaccio di vedermi d'accordo col dotto professore di Berlino.

P. Rajna.

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.ANNUNZI

delle opere perrenuie alla DircEÌone e delle quali , appena cbe lo spazio lo permeta , 8i dar^ conto nella Rassegna o nel BuUettino.

P. Raina , Le latterefture neolatine nelle nostre Università, Estratto dalla Nuova An- tologia, OenDajo, 1878.

Oc. Fumi, La storia comparata delle lingue classiche e neolatine. Prelezione detta nella R. Unirersità di Palermo. Palermo, Montaina, 1878.

Q, Carducci, Intorno ad alcune rime dei sec, XIII e XIV ritrovate nei memoriali del- l'Archivio notarile di Bologna. Imola, Gaieati, 1878.

0. BtAQi, H testo borghiniano del Novellino, Lettera al prof. A. Bartoli. Pireaze, Bar- bèra, 1878.

N. Arnone, Guido Cavalcanti. Firenze, tipogr. della Gazz. d'Italia, 1878.

L. Fincati, Documenti d'Amore di Francesco da Barberino: Documento IX, sotto Pru- denza: De* pericoli del mare. Estratto dalla Rivista Marittima, Febbrajo, 1878.

A. D'Ancona, Canzone di Guido GuiniceUi secondo, la lez. del Cod. Vatic 3793 con raffronti di Mss. e stampe e saggio di commento. Bologna, R. Tipogr., 1877.

A. Borgognoni, Se Mons, Pietro Bembo abbia mai avuto un codice autografo del Can- zoniere del Petrarca. Ravenna, Lavagna, 1877.5

E. Frizzi, J>i Vespasiano da Bisticci e delle stie biografie. Tesi di abilitazione. Pisa, Nlstri, 1878.

U. A. Canbllo, Saggi di critica letteraria (letteratura generale, lelterat. neolatine, Iet- terai tedesca). Bologna, Zanichelli, 1877.

P. Vigo, Le Danse Macabre in Italia. Livorno, P. Vigo, 1878.

A. Hortis, Accenni etile scienze naturali nelle opere di Giov. Boccacci e più partico- larmente del libro He montibus, silvis ecc. Trieste, Lloyd Austro-Ungar., 1877.

Cenni di Giovanni Boccacci intorno a Tito Livio cementati da A. Hortis. Trieste,

Lloyd Austro-Ungar., 1877.

Le donne famose descritte da Giov. Boccerei, Studj di A. Hortis. Trieste, Caprin, 1877. O. Bottoni, Saggio di ri»ne inedite di M. Antonio Beccar! da Ferrara con notizie bio- grafiche. Ferrara, Taddei, 1878.

V. Imbbiani, Appunti critici. Napoli, Morano, 1878.

Basette mane-m^zxe. In dialetto d' Avellino . (Principato Ulteriore). Pomigliauo

d'Arco, 1877. A. Grap, Considerazioni intomo alla Storia letteraria, a* suoi metodi e alle sue ap- partenenze. Torino, Bona, 1877.

Stuéfj drammatici: La vita è un sogno; Amleto; tre commedie italiane del cinque-

cento (la Caladria, la Mandragola, il Candelaio); il Fausto di C. Marlcwe; il Mi- stero e le prime forme dell' ^wto sacro in Ispa^na. Torino; Loescher, 1878.

A. Baragiola, Giacomo Leopardi filosofo, poeta e prosatore. Dissertazione dottorale. Strassburgo, Trùbner, 1876.

A. D'Ancona, t^*t nuziali dei contadini deUa Romagna, Pisa, Nistri, 1878.

A. TiRABoscHi, Usi pasquali del Bergamasco, Bergamo, Ga^uri e Gatti, 1878.

G. Salomonb-Marino, Tradizione e Storia. Estr, dalle Effemer, siciliane.

Q. PiTRÉ . Cinque novelline popolari siciliane ora per la prima volta pubblicate. Pa- lermo, Montaioa, 1878.

A. Iyb, Fiabe popolari rovignesi raccolte ed annotate* Vienna, A. Uolzhausen, 1878.

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, 4

F. Sabatini, La lanterna. Novella popolare siciliana pubblicata ed illustrata. Imola,

Galeatì, 1878. À. BiROH-HiBscHFELD^ UeòsT die den prùvenzoiischen Trouòadours des XII und XJÙ

Jahrhunderts bekannten epischen Stoffe, Eìn Beitrag tur Literaturgeschichte des

Mittelalters.' Halle, Niemeyer, 1878. A. Graf, I complementi della Chanson d' Buon de Bordeaux; testi francesi inediti traiti

da un codice della Bibl. Nazion. di Torino. I: Auberon, Halle, Nienaejer, 1873. H. FrEunt>, Ueber die Verbalfleanon der dltesten franzósischen Sprachdenkmàler bis

zumjtolandslied einschliesslich, Inaugural-Dissertation, Marburg, HeilbronOy Hen-

ninger, 1878. F. Neumann, Zur Laut- und Fleofionslehre des Altfì'anzósischen kauptéàchlieh ans

pihardischen Urkunden von Vermandois. Heilbronn, Henninger, 1878. A. Rambeau, Ueber die als echt nachweisbaren Assonanzen der Chanson de Roland.

Inaugural-Dissertation. Halle, Niemeyer, 1878. C. Lebinskj, Die Deelinaticm der Substantiva der oit-Sprache. Inatfg.-Dissert. Posen,

Krasfew&ki, 1878. F. Settegast, Calendre und 'seine Kaiserchronih. Estratto dai Rómanische Stu-

dien, t. III. M. Menbndbz Pelato, Horacio en Esperà (Traductores y Comentatores; la poesia

horaciana). Solaces hibliogràficos. Madrid, Casa ed. de Medina, [1878]. T. Braoa, Cancioneiro portugttejs da Vaticana. Eidic critica restituida eobre o texto

diplomatico de Halle, acompanhada de um glossario e de urna introduc^ao sobre os

trovadores e cancioneiros portugutfzes. Lisboa, Imp. Nacìonal, 1878.

Rivista di letteratura popolare diretta da Q. Pi tré, F. Sabatini. Fascicolo 3.«: Pitré: Una variante toscana del Petit-Poucet. Sabatini : Saggi di canti popoi. r onta- ni, -^ Parìsotti, Melodie popol. romane. Lumini, Canti popol. calabresi di car* c^rtf. Kòhler, Das Rathsehnàrchen t)on dem ermordetett Geliebten. Gianairdréa, Gitwchi e canti fanciulleschi delle Marche.

Antonio Costantini gererUe responsabile.

LIVORNO, dalla Tipografia Vigo:

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CONTENUTO DI QUESTO FASCICOLO

G. Navone, Folgore da San Gemi^nano . . . . . . > 201

E. Stengbl, La Leggenda di San Portano . ' . . . . . > 226

N. Cah, SvA perfetto debole romanzo ....... » 229

Varietà

'283 2Si ^1

E. Teza, Jletmi versi inediti del Pateechia . G. Lbvi, Una carta volgare picena dd sec. XIl . P. RàjhAi Nota pd Donai Proénsal. . . . . E. MONACI) Una redazione italiana inedita dd Eoinan de la Rose . » 23B

La leggenda dei tre morti e dei tre vivi .... > 243

Rassegna Bibliografica

E. Monaci, Foesiè popolari religiose dd secolo XI V pubblicate per la prima volta dal prof. G. Febbabo. BaceoUa di sacre poesie po^ polari fatte da Giovanni Pellegrini nel 1446 pubbl. dal medesimo. » 247

G. Navone, Teorica dei verbi irregolari ddta linguattaMana di L. Amedeo. > 249

Bnllettiiio bibliografico

Periodici

Nolisle

251

203

256

I prossimi fascicoli conterranna fra altri i seguenti scritti : Caix N., Del nome italiano. Cobnu J., Anciennes priòres de la Suiaae romande. Mbyncke G., I bagni di Pozzuoli: antioo volgariizftmento inedito in dialetto napo- letano tratto dalla Bibl. Nazionale di NapolL Monaci E., Postille al Glossario della Crusca; Antiche leggende italiane. Rajna P», Sul Lapidario attribuito a Marbodo ; VAUUa di Nicolò da Casola bolognese. Vigo P., Le rime di Fra Guittone d'Arezzo.

GIORNALE DI FILOLOGIA ROMANZA.— Condizioni della pubblicazione. -

Ogni volarne di 16 fogli di stampa (256 pagine in 8" gr.) distribuiti per fasci- coli, possibilmente trimestrali, da 4 a 8 fogli cadauno, costa 10 lire in Italia, 10 mar- chi in Germania, 1!^ franchi negli altri paesi del? estero. ~ Gli abbonamenti si fanno per volumi e si ricevono dagli editori (E. Loescher e C.° Roma, Torino, Firenze ) e da tutti i principali libraj.

Per quanto s' attiene alla compilazione, e per l'invio dei mss,, cambj ed alke stampe T indirizzo è al prof. E. Monaci, Roma, Via Giidìo Komano, 115 ; per quanto poi si riferisce alla amministrazione P indirizzo è al signor Ebmanno Loescheb e C." Boma, Via dd Qorso, 307,

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GIORNALE DI FILOLOGIA ROMANZA

... pfttriam diversiB gentibnt nnam. BuTiLio MimAstAN<y.

N." 3 trUGLIO 18 7 8

FOLGOEE DA SAN GEMIGNANO

Folgore da San Qemìgnano non è al certo un poeta che si confonda fra la turba di quelli antichi rimatori, che ci annoiano con le solite can- zoni d* amore intonate sopra un liuto scordato e sonato a strimpello, o che c'infastidiscono con astruserie incomprensibili, le quali il più delle volte non hanno di scienza altro che la pretensione. Egli più che in- segnare a vivere, mostra come si vìva, ci fa abbandonare ta corte e la scuola, e ci mena per le vie di diana e di Firenze, tra donzelle e tra fiori, a far conoscenza col popolo, che dimentica in mezzo alle feste le gravi cure cittadine, e £rpesso si lascia cogliere nelle cantine daf rin- tocchi della campana che lo chiamano alle armi in difesa della minac- ciata libertà della patria. Certo non è il solo fra gli antichi lirici a cantare la vita nelle sue reali manifestazioni ; tna tanta vivacità di pen- siero, tanta scioltezza di frase e di verso non sono comuni alle rime di quel tempo, e in poche si trova la verità del contenuto unita a tanto grande semplicità della forma.

Il Monti fa dire a Folgore che « quantunquef poeta come Dio volle, gli torna a gran gloria che nel fango de* suoi versi il padre Alighieri siasi degnato di razzolare qualche granello d'oro >, e" pone in nota un verso di Folgore e uno di Dante, il raffronto dei quali noù ha alcuna importanza, ed è per giunta assai problematico (1). Ma V*é ben altro dentro! v'è tutta una rivelazione di vita, di sentimenti, aspira- zioni. Ogni sonetto è un quadro compiuto: v'è il fondo, il rilievo, il

(1) Vincenzo Monti, I poeti dei pri- F. « Chll» ragion sommotte a Tolontade. » mi secoli della lingua italiana, nelle sue ^- Che ragion Bomm«ttono »1 talento. . Opere, Firenze, Le Mounier, 1&47, V^ p. 311 :

13^

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202 G. NAVONE [oiornale di filologia

movimeuto; T effetto del tutto non fa trascurare le parti auche più mi- nute; il senso del piacere non assorbe l'ideale dell'arte. L^ importatiza di questi sonetti, sfuggita agli altri storici, fu bene rilevata dall'illu- stre prof. Adolfo Bartoli, il quale per primo ei ha dato una storia ve- ramente ciitica dei due primi secoli della nostra letteratura. Egli ponendo Folgore fra i poeti del secolo XIII ne fa addirittura il rappre- sentante della scuola poetica popolare toscana, la quale, contrariamente alla maniera convenzionale, fredda e pedantesca dell'altra, s'agita, si commuove, e rappresenta la vita nelle sue varie passioni (1). Ancte il Borgognoni chiama le due corone di Folgore due belle e fresche cose, e crede che « depurando quei versi, e cercando di stabilirne sui codici una più giusta e probabile lezione in molti luoghi, il lavoro si offri- rebbe bello due tanti più » (2). Anch'io aveva creduto cosi, e mi sentii tentato a rivedere quelle rime sui manoscritti e a cercare qualche no- tizia del poeta, la quale ce ne facesse sapere alcuna cosa con sicurezza, non fosse altro, perché non si scrivessero più di lui cose tanto contra- dittorie. Queste ricerche m' hanno condotto a dare una nuova edizione delle rime, e a convincermi ch'era d'uopo variare d'assai i giudizi espressi intorno ad esse e intorno alla persona dell'autore. Proponen- domi d'esporre tutto ciò che riguarda la critica del testo quando, e sarà prestissimo, ne farò la nuova pubblicazione, mi limito ora a co- municare i risultati dell'indagine storica.

Gli antichi parlano di Folgore assai poco e senza alcun fondamento. Leone Allacci ne pubblicò per primo i sonetti nella sua raccolta (8); ma fra le notizie storiche e biografiche di vari autori, che nella prefazione alle rime, non dice ^Icuna cosa del tempo della per- sona di questo poeta. Neppure il nome di Folgore è registrato nella storia del Tiraboschi, e solo il Crescimbeni che ne riporta un sonetto lo fa vivere circa la metà del secolo XIII. Egli scrive ne' suoi Commeìi- tari: « Nei tempi che più fecero romore i guelfi e i ghibellini, cioè intorno agli anni 1260, visse Folgore da San Gemignano rimatore rozzissimo; ma pure da onorarsi perciocché egli, se non il primo, fu certamente tra i primi che imprendessero a far trattati in versi volgari » (4), Giovanni Vincenzo Coppi negli annali di San Gemignano, trattando dei poeti, scrive; < Nei medesimi miei antichi testi a penna trovo altri poeti an- tichi di S. Gimignano, tra' quali uno è Folgore che fiorì nei tempi di Ruberto re di Napoli ». Ma poco appresso aggiunge « Folgore

(1) Bartoli, I primi due secoli delta (3) Poeti antichi raccolti ecc. da Mons.*' letteratura italiana^ p. 159. Leone Allacci, Napoli, d'Alecci, 1661, pa-

(2) Borgognoni, Studi d'erudizione e gine 314-341.

d' arte. Scelta di Cur. Lett. Disj>ensrt CLVI, (4) Crrscimreni, Commentari j Roma, De

pag. 20. Rossi, 1710, t, li, p. 36.

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EOMAszA, N.° 3] FOLGORE DA SAN GEMIGNANO 203

ehe fiorì nel 1309 eoi Petrarca e Boccaccio favoriti dal ditto Re Ru- berto » (1). Il Crescimbeni avverte la inesattezza e si fa a rettificarla po- nendo in appendice: < Nel rimanente G. V. Coppi negli uomini illustri di S. Gemignano inseriti dopo gli annali della stessa terra dice che Fol- gore fiorì a' tempi del re Ruberto ; ma poi concludendo che fiorì insieme col Boccaccio e col Petrarca nel 1309 fa vedere che egli non sapeva il vero tempo di tal fiorimento perché in quegli anni il Boccaccio e il Pe- trarca erano fanciulli » (2). E infatti Petrarca avrebbe avuto cinque anni ; ma per Boccaccio dovevano ancora correrne cinque prima che ve- desse la luce. E però in fatto di esattezza il Crescimbeni non si mostra da più dell'altro, e poteva almeno nel fare l'emendamento indicare la fonte donde egli aveva tratto la data del 1260. Da lui la riprodussero il Valeriani (3), e il Nannucci, il quale nella sua sistematica divisione decennale, pone Folgore insieme a Lemmo Orlandi, Pucciarello, Alber- tuccio della Viola, Ottaviano degli Ubaldini, e Monaldo da Soffena, cioè fra quei poeti che hanno preceduto immediatamente la nascita dell' Ali- ghieri (4). Il Monti fa risalire Folgore all'anno 1225 dicendolo < ante- riore a Dante di quarantanni » (5); ma non è dato sapere donde abbia attinto tale notizia.

Confusione molto maggiore è nata dalla relazione che si è supposta fra il Nicolò capo della Brigata senese a cui Folgore dedica la prima corona de' sonetti, ed il Nicolò

che la costuma ricca Del garofano prima discoperse,

nominato da Dante nel canto XXIX à^W Iiìferno, Un codice Maglia- bechiano posteriore all'autore di circa un secolo prepone alle rime una scritta che dice : « questi sono i dodici sonetti della brigata che si chiamò la brigata ispendereccia da Siena » (6). Il Monti e il Nannucci sospet- tano che vi sia rapporto fra la Brigata di Dante e quella di Folgore; ma non osano dare la cosa come sicura. Il prof. Aquarone non ne du- bita punto, e sostiene che in ambedue i luoghi si tratti di un medesimo Nicolò (7).

Al sig. Borgognoni sembra « che due Salimbeni portanti il nome di

(1) Giov. Vincenzo Coppi, Annali, me- (5) V. Monti, Postille al contento del ynorieedhuomini illustri di Sangemiyna^ Biagioli sul Purgatorio di Dante, C. XI, no, Firenze, Biiidi, 1695, P. II, p. 200. Firenze, Le Mounier, 1847, IV, 395.

(2) L. e, p. 433. (6) Cod. Magi. VII, 1066. Ne debbo Tin-

(3) Poeti del primo secolo, Firenze, lS\8f dicazione al chiar. prof. A. D* Ancona, la voi. II, p. 168. collazione al D.*" N. Arnone.

(4) Na^'svccì, Manuale della letteratura (7) Aqitarone, Dante in Siena, Siena, del lìvimo secolo, Firenze, Paggi, 1843. (iati, 1865, p. 47.

voi. II, p. 250.

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204 (r. NAVONE [giornale di filologia

Nicolò siano stati fra i rimatori di Siena; l'uno quel Nicolò capo della brigata godereccia, fior della città senese^ come l'appella Folgore, e a lui forse si può ascrivere il sonetto:

Degente scudellin di diamanti.

Questo Nicolò che è ricordato da Dante non è a confondere con Nicolò de'Salimbeni detto il Muscia o Musa di Siena, rimatore fiorito dopo il 1300, o fors'ancb^ nella prima metà del 1400. Il Nicolò della brigata nohile e cortese fisse, per lo meno, sul principio del «ecolo XIII e non può aver nulla a fare col Musa vissuto, a far poco, un buon secolo dap- poi » (1). f Che se poi d'altra parte si pon mente alla qualità dello stile di Folgore, io credo che più sa del secolo XIII non possa portarsi il fiorire dell'autore. Laonde volendo star dentro confini non troppo stretti, penso che l'affermare la Brigata esistita nella prima metà di questo secolo, debba bastare sinchiS intorno ad essa non si rinvenga un qualche documento, che, come si diee, tagli la testa al toro » (2). Ma altrove quelle date gli sembrano troppo antiche e le sposta tutte di cinquant' anni. Folgore < non può andar più su del secondo cinqnaH'- tennio del secolo XIII » e U Brigata esiste < a cavallo della seconda metà » di quel secolo (3). Anche il Carducci nella illustrazione alle an- tiche rime volgari ritrovate nei memoriali dell'archivio notarile di Bo^ logna, ritorna su T argomento a proposito del sonetto di Nicolò detto il Musa; e aggiungendo all'autorità del Cod. Vat. 3793, nel quale il Musa è nominato in un sonetto di Rustico di Filippo, che è dello scorcio del secolo XIII, quella del memoriale bolognese del 1293, corregge il Crescimbeni e quelli che seguendolo avevano fatto vivere quel poeta nel secolo KIV o XV, e « restituisce al secolo decimoterzo un altro rima- tore » (4). Aggiunge che « autore del sonetto non è altri che quel Ni- colò di cui Folgore da San Gemignano nel sonetto proemiale dei mesi indirizzato all^. nobile brigata dice:

In questo regno Nicolò corono PercJ^'egli h fior della citt^ sanese;

altri non è che quel Nicolò

che la costuma ricca Del garofano prima discoperse,

come Dante ci volle far sapere: Nicolò de'Salimbeni insomma uno dei capi più ameni della brigata, e uno dei più nobili gentiluomini di Sie- na » (5).. Comincia qijel sonetto:

(1) Propugnatore, I, 303. rime del secolo XIII e XIV, Imola, Ga-

(2) Ivi, p. 306. leali, 1870, p. 43. ({» Stvdi ecc., p. 22. (5) Ivi, p. 46. (4) Carducci, Studi intorno ad alcune

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«OMAOTA, N.o 3] FOLGORE DA SAN GEMIGNANO 205

Dugento scudellin de diamanti

Di bella quadra lano voria che avesse.

"Si domanda il Carducci « chi è questo lano^ Non V ano^ come scrive il Crescimbeni, non Vanno; ma Lano^ quell'amico a cui Nicolò fa i larghi auguri: e queir amico perché non dev'essere il povero Lano che nel Becondo girone del settimo cerchio dell* Inferno, e proprio nella selva ove quelli che gittarono il loro avere sono puniti d'altra pena, ma a4 »n laogo e ad un tempo con quelli che gittarono la vita: quel povero Lano a cui Giacomo d'Andrea più debole corridore tien dietro rampo- gnandolo eon l'amara rimembranza,

Lano non furo accorte

Ije gambe tue alle giostre del Toppo? » (1)

E aggiunge: « che il Lano dell'Inferno fosse da Siena lo dicono icom^ meutatori antichi tutti : che e* fosse della brigata spendereccia lo dicono

r autore delle Chiose^ l'Ottimo e il Boccaccio Così mentre Nicolò

scampò alla rovina per rimetter giudizio tanto da essere negli anni più maturi vicario in Lombardia dell'imperatore Arrigo VII, i più degli altri si condussero a chiedere per Dio e a morire negli ospitali, e più nobile morte incontrò volenteroso il nobile Lano e gloriosamente perì combattendo i nemici del suo Comune ». E conchiude: « Il sonetto, col quale ne' bei giorni della gioia spensierata il magnifico genio di Nicolò Salimbeni faceva a Lano que' desiderosi auguri, che andarono a finire nella morte della Pieve al Toppo, quel sonetto dunque è, a parer mio, anche un monumento poetico della brigata godereccia, di cui a Siena non rimane altra memoria che la palazzina detta della Consuma a porta Caraullia, e rimane memoria al mondo negli accenni di Dan- te » (2). Così il Nicolò a cui Folgore dedica i suoi sonetti dopo essere stato prima dei Salimbeni, vissuto almeno sul principio del secolo XIII, diverso dall'altro detto il Muscia fiorito nel secolo XIV o XV, dopo es- sere sceso alla seconda metà di quel secolo, viene in ultimo a identifi- carsi con il Musa, il quale è anch'esso del secolo XIII.

Ma se il Nicolò a cui Folgore dedica i sonetti è quello stesso di Dante, Folgore doveva diventare il poeta della brigata, ed essere non altri che l'Abbagliato, il quale a quella il suo senno proferse. Vera- mente il prof. Aquarone attribuisce i due nomi a due diverse persone, e ciò perché appunto di due persone ha bisogno per completare coi nomi ricordati da Dante e da Folgore^ i dodici che dapprima doverono com- porre la brigata, secondo il commento dell' Imolese (3). Ma ciò non quadra al Borgognoni, il quale continua a dire « che l'Abbagliato può

(1) Dante, Inf., C. XIII, 120. (2) Carducci, op. cit., p. 47-49. (3) L. e, p. 49.

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206 G. NAVONE [oiobnalr di filolooia

ragionevolmente credersi che non sia altri che Folgore, checché in con- trario sembri all'Aquarone, imperocché antiche memorie senesi ripor- tano com'esso fosse rimatore e molte cose di lui andassero intorno. Ora attendendo a questo e considerando che non si conosce nulla che vada sotto questo nome, può altri ragionevolmente suspicare che l'Abbagliato non fosse che un soprannome del Sangemignauese, al quale per verità s'attaglia a capello e 1* espressione di Dante, e quanto al proposito con- tano i più antichi commentatori » (1). V'è però una difficoltà: di Fol- gore non si hanno solo i sonetti in corona, l'Allacci ne ha cinque altri nei quali si trova menzione di fatti storici di certissima data e del se- colo XIV inoltrato. Il Borgognoni ne cita tre soli, dei quali uno è ancora inedito; ma essi sono vari, e faranno parte, insieme agli altri, della nuova edizione. Il poeta vi parla della pace fatta con Pisa da re Roberto, del saccheggio dato al tesoro di Lucca da Uguccione della Faggiuola (1314), della rotta di Montecatini (1315), e se Folgore poe- tava già per il Nicolò della brigata « il quale visse almeno sul prin- cipio del dugento » non poteva davvero vivere dopo l'anno 1315. E però il Bor gognoni conchiude « che non a Folgore sibbene ad ignoto rima- tore di tempi più bassi debbano tribuirsi questi tre sonetti » (2). E

non basta. Il Benvoglienti annunziò ad Apostolo Zeno: « Folcac-

chiero Folcacchieri, che ne' nostri libri di Biceherna è chiamato l'Ab- bagliato di Ranieri, e del quale parla Dante nel XXIX àeW Lìferno^ si trova che fu gonfaloniere del popolo nel 1279 > ; e perciò « se è vero, continua quegli, come a me pare d'avere a sufficienza dimostrato al* trove, che l'Abbagliato di cui parla Dante non sia altri che Folgore da San Gemignano, ne viene di piana e legittima conseguenza che il sen- timentale trovatore che diceva a Madonna d'essere in sul morire per lei, in altre occasioni e tempi, mangiando i buoni fagiani e bevendo il vino d'Auxerre, cantasse che la vita era una gran bella cosa, massime quando la si poteva passar così bene come facevano i sozi della costuma ricca » (3). Povero Folgore! se fosse stato di cera non sarebbe stato tanto cedevole. Aveva dovuto rassegnarsi a prendere la figura dell'Ab- bagliato e passare per « saputa persona » ; ora deve rinunziare persino alla patria e diventare Folcacchiero de' Folcacchieri cavaliere senese!

Bisogna convenire che la confusione nell' argomento non è pic- cola: partendo da un falso supposto, e ragionando a suo modo, ciascuno ve ne ha messo la parte sua. Vediamo ora di fare un po' di luce.

E prima di tutto: si sa bene di certo chi sia il Nicolò di cui parla Dante : anzi , è proprio sicuro che egli abbia a fare con la brigata spen- dereccia? E d'uopo ricordare le parole del poeta:

(1) Studi ecc., p. 23 (2) ivi, p. 26. (3) Pvopvgnatove, X, p. 36.

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ROMANZA, N.'> 3) FOLGORE DA SAN GEMIGNANO 207

Ed io dissi al poeta: Or fu giammai

Gente vana come la sanese?

Certo non la francesca d* assai. Onde 1* altro lebbroso che m'intese,

Rispose al detto mio: Tranne Io Stricca,

Che seppe far le temperate spese; E Niccolò, che la costuma ricca

Del garofano prima discoperse

Neirorto, dove tal seme s' appicca; E tranne la brigata in che disperse

Caccia d'Ascian la vigna e la gran fronda,

E r Abbagliato il suo senno prof erse.

S'io non m' inganno, dalle parole di Dante non è dato conchindere che Nicolò avesse alcuna relazione con la brigata; ed anzi si dovrebbe ri- tenere il contrario. Alla domanda che fa Dante a Virgilio risponde ironicamente e non interrogato Capocchio, V altro lebbroso^ nominando i senesi più celebri disperditori dei propri beni in vanità e gozzoviglie, e specialmente lo Stricca, Nicolò, e la brigata in cui si trassero a ro- vina Caccia d'Asciano e l'Abbagliato. Di questi due ultimi il poeta dice espressamente che appartennero a quella compagnia: perché non avrebbe detto ciò degli altri due, e volle invece indicarli, uno soltanto come scialacquatore, l'altro come ghiottone? Ma quello che non dice Dante è detto dai commentatori. Tutti dicono che lo Stricca fu della brigata; ma quanto a Nicolò sono essi concordi? Iacopo della Lana (1), l'Ottimo (2), il Landino (3), Vellutello (4) e Bernardo Daniello (5) nar- rano che fu dei Salimbene e che fece parte della brigata. Francesco da Buti (6) lo pone fra i soci di quella compagnia ma non dice chi fosse, finalmente Pietro di Dante (7), l'autore delle Chiose (8), il po- stillatore Cassinese (9) e Benvenuto da Imola (10) dicono che fu dei Bonsignori di Siena. Anche dell'Abbagliato i commentatori non ci dicono nulla: che anzi alcuno crede che quella parola si riferisca a

(1) Iacopo della Lana, Comm . CoIIez. (6) Francesco da Buti, Comm, aopra di op. ined. o rare, Bologna, 1866, p. 641. la D. C. di D, Alighieri, Pisa, Nlstri, 1858,

(2) L'ottimo Comm. della D. C. , Pisa, I, 753.

Capurro, 1827, p. 506. (7) Petbi Allegherii sup. Dantùi ips

(3) Cr. Landino, Comento soprala C, ^cn. como^dtam, Firenze, Piatti, 1845, p. 2r)rJ. di Dan^^, Vinegia per Octaviano Scoto, 1484, (8) Chiose sopra Dante , Firenze, Pia t- al e. XXIV iXeWInf. ti, 1846, p. 242.

(4) Im Com. di D. Aligieri con la nova (9) Il cod. Cassinese della Div. Comm. , espositione di A. Vellutello, Vinegia, Monte Cassino, 1865, p. 164. Marcolini, 1544; Inf. e. XXIX. (10) Benvenuti Imolenris, Com. m Da»?-

(5) Dante con r esposizione di B. Da- tis Com, in Muratori, Ant. It. med. aev. NIELLO da Lucctty Inf. e. XXIX, Venezia, l, 1132.

da Fino, 1568, p. 193.

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208 Gf. navoni! [tìion^ALE di filolooiX

Caccia d^ Asciano e denoti come il vizio l'avesse abbagliato; altri crede che l'Abbagliato prof erse ^ cioè manifestò, il suo poco senno in pro- digamente consumare come gli altri le sue sostanze; altri infine lo dice saputa persona. E ciò valga a mostrare come anche quegli anti- chi ne sapessero poco di tale faccenda, e come non manchino su que- sto punto incertezze e contradizioni. Oggi il sig/ Curzio Mazzi ha di- mostrato con documenti che V Abbagliato non è altri che un Bartolomeo o Meo fratello di Folcacchiero, figlio di Ranieri di Folcacchiero che nell'anno 1277 è registrato fra i Consiglieri per il Terzo di CamoUia, e che da quel tempo sino all'anno 1300 si trova nominato ben quaran- totto volte nei pubblici registri (1), non mai diversamente da quel sopran- nome passato poi in nome di battesimo e conservato nella sua casa fino agli ultimi suoi discendenti (2)* Se adunque altri ha provato pre- ventivamente che l'Abbagliato non è la stessa persona che Folcacchiero, o che Folgore, resta solo a provare che il Nicolò della brigata nobile e cortese non ha nulla a vedere con il Nicolò della costuma ricca, foss'egli o no della brigata spendereccia di Siena. Per questo effetto non ho che a rimandare il lettore all'ultimo sonetto o « Conclusione » della corona dei mesi- L'Allacci, e dopo lui il Valeriani leggono ai primi versi:

« Sonetto mio anda oMo divisi Colui cb'e pien di tutta gentilezza »

e spiegano, cioè non spiegano: « Va dove pensi che sia colui ». Si leg- ga invece come legge indubbiamente il codice Barberino, unico per quel sonetto, e se non più unico, sempre fondamentale, come mostrerò altrove, per tutte le rime del poeta; si legga, dico,

« Sonetto mi0 a Nicolò di Nisi »

e l'equivoco sarà sciolto.

Ma non potrebb* essere che questo Nicolò di Nisi, fosse sempre un Nicolò di Nigi o Dionigi dei Salimbene, cioè a dire il solito Nicolò della Divina Commedia? Vediamo.

Potrei dire innanzi tutto che ne' molti alberi genealogici che si hanno della famiglia Salimbene, non è mai nominato alcun Nicolò di Dionigi. Che il programma di vita che svolge Folgore nei sonetti, per quanto allegro e spensierato, non contiene alcuna di quelle pazzie basse e tri- viali, che si leggono della brigata spendereccia; che anzi v'è spesso al-

ci) Folcacchiero Folcacchieri rimatore pag. 21-26. senese del secolo XIII. Notizie e documenti (2) Bullettino della Società senese di Sto-

raccolti da Curzio Mazzi— Per nozze Bian- ria patria municipale , I, 44. chi-Brini, Firenze, Succ. Le Monnier, 1878,

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ROMANZA, N.» 3] FOLGOEE DA SAN GEMIGNANO 209

Iasione a cortesia e a prodezza nell'armi, come qnando invita la com- pagnia nobile e cortese

< a rompere e fiaccar bigordi e lance > ,

e si compiace di chiamare il capo di essa « il fiore della città sanese » e « colui eh* è pien di tutta gentilezza ». Cose tutte le quali converreb- bero assai poco all'inventore dei fagiani arrosto coi garofani, dei bra- niangeri, e delle frittelle ubaldine, se non si volesse supporre nel poeta un' adulazione spinta al ridicolo. Potrei dire ancora che tutto quello che si legge nei sonetti « dei mesi >, si trova ripetuto in quelli « della settimana », i quali sono diretti a Carlo di Miser Guerra Cavicciiwli, nobile cavaliere e valoroso soldato; e che perciò, invece di tirare pe' ca- pelli la relazione di quelle rime alla brigata di Dante, sarebbe assai più verosimile pensare che il cervello gaio e folleggiante di Folgore si stil- lasse per fare gli auguri più sfolgoranti a persone che egli stimava dav- vero e amava di sincera amicizia, ed alle quali dice, accomiatandosi neir inviar loro i sonetti,

« Folgore vostro da San Geminiano vi manda, dice, e fa quest'ambasciata: che voi n'andaste col suo core in mano ».

Potrei aggiungere che a Nicolò inventore della costuma ricca ^ dissi- patore d'immensa fortuna, e molto più a Nicolò Salimbene, Folgore non avrebbe potuto augurare imperiai ricchezza ^ quasi rimpiangendosi che non l'avesse, perché la ricchezza dei Salimbene era poco meno che im- periale se nell'anno 1274 compravano dal Comune di Siena tutte in una volta le terre di Tentennano, Montorsaio, Castiglion Senese, Castel della Selva, e il Castellare di Montecuccheri ; se al tempo di Montaperti prestavano le centinaia di migliaia di fiorini al Comune, nell'anno 1337 dividevano fra sedici capo-famiglia circa a fiorini centomila, e nell'anno seguente spendevano altri centotrentamila fiorini in acquisto di stoflFe di seta e tessuti in oro « dal gran mercatante di Soria approdato in porto Ercole » (1). Ma v'è qualche cosa assai più convincente.

La lezione del codice Barberino, per quanto sicura e autorevole, do- veva essere confermata da qualche argomento estrinseco : e a questo in- tento mi diedi a svolgere quante più carte potei d'antiche memorie senesi, manoscritte e stampate, e specialmente elenchi di nomi, per ritrovare la traccia di questo < Nicolò di Nigi » venuto fuori, proprio come un fungo, non so se a rischiarare o ad offuscare le idee. Dopo lunghe ricerche ri- maste infruttuose mi posi a svolgere le storie senesi di Sigismondo Ti ti,

(1) Arch, Stor. Ital., S. Ili, T. IV, 64; Andrea Dei, Cron. S^<?«. in Muratori, Rer. It. Scr, XV, 95, 101.

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210 G. NAVONE [oiobnale t>i filologia

che si conservano in autografo nella biblioteca Chigiana (1). Ivi, al to- mo III, pagina 297, trovo riportato il testo di una pace fatta nell'anno 1337 tra le famiglie dei Salimbeni e dei Tolomei, le quali dopo molte inimi- cizie, arsioni e ruberie con che avevano funestato la città, ad deside- rataepacis exordium devcncrtwt (2), E subito appresso un altro testo, nel quale si legge: « Anno eodem et die in domo domini Nicolai Omnes

isti compromissioni consenserunt Bindtnus Nion Nfcolaus Fran-

ciscus et Stephanus filii Bindini Nioii Omnes isti de domo Tolo-

maeorum » (3).

Ecco dunque un primo passo. Ma questi era un « Nicolaus Bindini Nigii » e non il « Nicolaus Nigii » che io aveva bisogno di ritrovare; e sebbene la designazione della paternità più antica ricorra spessissimo invece di quella immediata, quasi preludendo al cognome, tuttavia non v'era argomento di sicurezza completa. Ma quando ritrovai un < Ni- colaus Band ini » di Siena intervenuto nelFanno 1309 come commissa- rio alla conclusione della pace fra le città di Volterra e San Gemignano, e poscia potestà e capitano del Comune e del popolo di San Gemignano nelFanno 1325 (4), allora mi apparve certa la identità di quelle designa- zioni nella persona di « Nicolaus Bandini Nigii > firmato nella pace dell'anno 1337, e ben conosciuto da Folgore per avere avuto così alte missioni ed uffici nella patria di lui. Degli altri nomi ricordati nei so- netti era affatto impossibile di riscontrare alcuna menzione, poiché di ninno è indicata la paternità. Ma quell'unico del quale è espressa con precisione la paternità ed il casato, cioè < Carlo di Messer Guerra de' Ca- vicciuoli », si trova più volte ricordato nelle storie e nei documenti. An- ch' egli fu uomo assai benemerito del comune di San Gemignano poiché si segnalò come condottiero nella celebre guerra contro a quei di Vol- terra. Narra il Lupi che fra gli altri capitani

Cavicciuliades equitabat in agmine Carlus (5).

Fu questa guerra atrocissima; scoppio d'un odio covato a lungo, e ina- cerbito da liti continue di confini. I Volterrani ricorsero per aiuto a

(1) MS. Chig. a, L, 32. Geminiano, Firenze, Tip. Galileiana, 1823,

(2) V. Andrea Dei, Cronaca senese^ p. 745, 753.

an. 1337, in Rer. Ital. Scr, XV, 90. (5) Lvpi^ Ann aUsGeminianenses^VihNTl.

(3) Nella stessa Cronaca, an. 1340, si Mattia Lupi nacque in San Gemignano l'an- legge: « E nel detto tempo e del mese di no 1380, fu piovano d'Aiolo presso Prato, Luglio si cominciò a fare il muro nuovo e canonico nella sua patria, mori Tanno 1468. del Comune a pi<»i il Prato fuori della porta Scrisse in esametri latini , in dieci libri, gli a castello a Montone el quale va per la vi- Annali di S. Gemignano, dei quali d^ copiosi gna di Bindino di Niffi verso la porta a estratti il Bandini nel Supplemento HI, Santo Vieno ». 503-518.

(4) Pecori, Storia della (erra di San

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ROMANZA, Ti- -ì] FOLGORE DA SAN GEMIGNAXO 211

Siena, a Lucca, a Firenze, armarono duemila uomini del loro contado, comprarono cavalli, assoldarono le masnade di Nello e Dino de' Pan- noechiesehi, elessero a capitano supremo Gherardo della Gfaerardesca, fermarono il proposito di abbattere la terra di San Gemignano. Quei di San Gemignano si apparecchiarono con pari ardore alla guerra con- tro i perfidi e nemici Volterrani. Elessero per sei mesi dodici uflSziali della guerra, contrassero un prestito di ventimila fiorini d'oro, stipen- diarono capitani e conestabili con le loro masnade, giurando di combat- tere sino air ultimo in onore dello stato e a distruzione e morte fiìiale di tutti i Volterrani. Aveva durato tre mesi questa guerra per ambo i Co- muni rovinosissima, quando le repubbliche di Siena, Lucca e Firenze s' interposero per la pace. Fu accettata la loro mediazione ; ma più d'un tentativo fallì, e finalmente ci vollero le minaccie perché i com- missari di quelle tre città potessero pronunziare un lodo solenne che stabiliva pace e concordia fra i due Comuni. Questo lodo fu dei 14 aprile 1309, quello a cui intervenne come commissario di Siena Nicolò di Bandino. Ricordi ora il lettore che Carlo di Miser Guerra Cavicciuoli è precisamente quel donzello saggio^ cortese^ bene ammaestrato,.,^ valente^ ardito e gagliardo a cui Folgore dedica i sonetti della settimana, e du- biti, se gli è possibile, che il rapporto che è nelle due dediche non sia pure fra le due persone che ne sono l'oggetto, e che i punti di contatto non siano la guerra del 1308, e la pace del 1309.

Siffatte brigate furono assai numerose, solo gli scapestrati v'ap- partenevano: erano invece considerate come una manifestazione della prosperità del Comune e della splendidezza dei ricchi e dei nobili. < Ne- gli anni di Cristo 1283 scrive Giovanni Villani del mese di Giu- gno per la festa di S. Giovanni essendo la città di Firenze in buono e pacifico stato, et in grande tranquillo e utile per li mercatanti et ar- tefici et massimamente per li Guelfi che signoreggiavano la terra, si fece nella contrada di S. Felicita oltr'Arno, onde furono a capo i Rossi con loro vicinanza, una nobile et ricca compagnia vestiti tutti di robe bianche con uno Signore detto dello Amore. Per la qual brigata non s'intendea se non in giuochi et in sollazzi et balli di donne et di ca- valieri, popolani, et altra gente assai honorevole, andando per la Città con trombe et molti stromenti, stando in gioia et aìlegrezza a gran conviti di cene et desinari. La quale corte durò presso a tre mesi et fu la più nobile et nominata che mai si facesse in Firenze et in Toscana. Alla quale corte vennero di diverse parti et paesi molti e gentili huo- mini di corte et giuocolari, et tutti furono ricevuti et proveduti hono- revolmente. Et nota che ne' detti tempi la città di Firenze co' suoi cittadini fu nel più bello stato che mai fosse, et durò infino li anni di Cristo 1289 allora che si cominciò la divisione tra il popolo et grandi, et appresso tra Bianchi et Neri. Et havea nei detti tempi in Firenze

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212 G, NAVONE [(jiornale di pu^olocia

da CCC Cavalieri di corredo, et molte brigate di Cavalieri et di don- zelli, che sera et mattina riccamente metteano tavola con molti huo- mini di corte, donando per le Pasqne molte robe vaie: onde di Lom- bardia et di tutta Italia vi traevano baffoni et bigerai et huomini di corte a Firenze, et tutti erano veduti allegramente, et non passava per Firenze nullo forestiere nomo di rinomio et da ricevere honore, che a gara non fosse invitato et ritenuto dalle dette brigate, et accompagnato a piede et a cavallo per la città et per lo contado come si conviene » (1). Vero è che in appresso le cose cambiarono, entrarono in città le parti e i disordini, diminuirono i guadagni, le imposte crebbero; ma le pub- bliche gravezze non ridussero il fasto e la grandezza della vita < e cia- scheduno peccava in disordinate spese, onde erano tenuti matti > (2). Le brigate spenderecce non si disciolsero, anzi chi meno aveva cercava di coprire la miseria ostentando ricchezza, e Antonio Pucci non sa fre- nare lo scherno quando ci descrive questi vani e spensierati i quali

si ragunano insieme

e chiamano un Signor di tutti quanti

ned allor paion con le borse sceme

£ poi il di calen di gennaio

vanno in camicia con allegra fronte

curando poco scirocco o rovaio

E dove avean gli tordi e la pernice

la vitella e i capponi lessi e arrosto

hanno per cambio il porro e la radice. E quel eh* era Signor si vede sposto

e lasciato il reame e la bacchetta,

e 'l suo vestire e poi d' un piccol cost^ (3).

Ninno potrebbe dire che la brigata di Folgore fosse proprio di questa fatta; ma i sonetti, senza pure indurre a questa conchiusione, restano assai bene spiegati dal raffronto con il capitolo del Pucci, e insieme a questo ci dipingono mirabilmente la vita e i costumi del tempo. Un'al- tra indicazione preziosa per la storia di questi sonetti ci offre una sen- tenza dell'Imperatore Arrigo VII, data in Poggi bonsi l'anno 1313 con- tro a' ribelli di Toscana. Si legge in fine « Nomina vero illorum qui de praedictis pubblice inculpantur, et centra quos processum est et re- perti sunt culpabiles de praedictis sunt infrascripti. In primis de civi- tate Florentiae. De sextu Ultrarni ... De sextu Burgi ... De sextu portae S. Petri... « Cantinus et Carolus quondam Guerrae de Cavicciulis de Flo- rentia » (4). Se dunque i sonetti di Folgore sono posteriori all'anno 1309,

(1) G. Villani, Cron. VII, 88. {4) Lamì^ Hist. Sicid. Laur. Boììif^contr ti

(2) L. e, XI, m. in Del. Krvd, Firenze, Viviani, 1740, Vili, (I^) A. Pucci, Le proprietà di Mercato 229. Sanct. Eccl. Fior. Monumenta, Fi-

Vecchio, renze, Tip. d. Annunziala, 1758, 1, 127.

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EOMANZA, N.»» 3] FOLGORE DA SAN GEMIGXANO " 213

vi si parla di « Guerra Cavicciuoli » come di persona vivente, e questi era morto nell'anno 1313, la data di quelli è fissata entro queste due date, e con ciò sparisce ogni anacronismo ed il bisogno di negare a Folgore la paternità di alcuno dei sonetti che i codici hanno con il suo nome.

Cinque di questi, frammento di un'altra corona che ne conte- neva diciassette, ci furono conservati in uu foglio di un ms. Riccar- diano, e descrivono l'armamento di un cavaliere: non si sa a chi siano diretti, ma T occasione era ovvia a quei tempi. Anch'essi hanno im- portanza specialissima perché offrono esempio di un fatto che è distin- tivo della nostra letteratura. Non è a credere che l'armamento di un cavaliere avesse sempre, e meno che altrove in Italia, la nota di un av- venimento epico, che anzi nei romanzi di cavalleria non se ne trova, ch'io sappia, altra narrazione che nel e Lancilot du Lac » e in e Per- ceforest ». Ma sia pure che anche contro regola debba ritenersi più soggettivo che oggettivo il fondo epico che è nell'Orfana de chevalerie di Ugo di Tabarye, resta sempre vero che lo stesso tema die' luogo in Francia ad una esagerazione epica, e finì in Toscana in una lirica alle- goria. Decisamente l' epopea non attecchì nel suolo italiano : vi fu im- portata quand'era già vecchia e sfiorita, vegetò poveramente come una pianta esotica, e fu vero miracolo del genio se qualche ultimo frutto, nato già e ingrandito fuori, maturò al nostro sole. In un paese libero retto a comune, ove s'erano dimenticati persino i nomi di barone e di feudo, ove un avanzo glorioso di sapientissimi ordinamenti sottraeva alla ragione del più forte la famiglia e la proprietà, ove non erano privilegi di casta e gli stessi nobili e i cavalieri si ascrivevano per onore ad un'arte, e le bandiere della città e del contado sventolavano alle prime aure di battaglia raccolte intorno al carroccio, non restava alcun com- pito alla cavalleria, e il popolo poteva considerare l'armamento di un nuovo cavaliere solo come un'occasione di festa. Il sentimento fu quasi sempre lirico, e giuuse sino a trasformare in lirica l'epopea. I sonetti di Folgore vanno posti accanto alla parafrasi lirica, pure in sonetti, nella quale andò a finire in Italia il Roman de la Uose (1).

Ma se è dato finalmente di avere qualche notizia esatta intorno alle rime, mi duole di non poterne dare alcuna intorno al poeta. Non ho trovato di lui alcuna menzione, e solo una volta m'è occorso di leggere il nome di e Folgore » in un documento senese (2); tuttavia ciò pruova che il nome era in uso a quei tempi. Anche il Pecori, diligentissimo rac- coglitore delle memorie del comune di San Gemignano, ha dovuto scri-

(1) È conservata in un ms. di Montpel- (2) « Da Prisciano p^p lo mulino di Fol-

liep: ne daranno T edizione i proff. D'An- gore >. Ricordi di una famiglia Sanese cooa e Monaci. weW Arch. iStor. It. App. 2,72.

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G, NAVONE {OIOBNALG DI FILOLOaiA

e: < Nulla ci è noto di sua famiglia, nulla della sua vita letteraria ittadina. In un registro statistico (Fumante del 1332 di lett. £ n. 10 sh. di Caneell.) trovansi descritti gli eredi di messer Folgore; lo che ntre nel titolo di messere ce lo rivela di nobile condizione, ci for- ce altresì una prova ond' assegnare circa a quel tempo T epoca della i morte > (1). Ma se fu nobile dove certo esser povero : ce ne fa e egli stesso coi lamenti che muove contro ai ricchi avari, ai quali fortuna fa dimenticare che hanno avuta col povero comune l'origine.

Cortesia cortesia cortesia chiamo

e da nessuna parte mi risponde,

e chi la dee mostrar la nasconde,

e perciò a cai bisogna vive gramo. Avarizia le genti ha prese alPamo

ed ogni grazia distrugge e confonde.

però se io mi doglio io so ben onde,

di voi possenti a Dio me ne richiamo.

Tutti siam nati di Adam e di Eva: potendo non donate e non spendete, mala ha natura chi tai figli alleva.

Ha nobile animo, aperto all'amicizia, e ad alti sentimenti: insegna commettere la volontà alla ragione e a

Seguire pregio e fugger vanitade.

E guelfo come il suo comune: ma si duole della divisione fra'cit- lini, e ripete da quella e dai tradimenti il trionfo dei nemici.

Così faceste voi o guerra o pace,

Guelfi, come siete in divisione;

fra voi regna il pugliese e il gauellone

e ciascun soffia nel foco penace. Non vi ricorda di Montecatini

come le mogli e le madri dolenti

fan vedovaggio per li ghibellini! E babbi, frati, figliuoli e parenti

e chi amasse bene i suoi vicini

combatterebbe ancora a stretti denti.

Ma i guelfi non s'uniscono, e i ghibellini trionfano. Folgore non sa a contenersi, se la prende addirittura con Dio, e lo bestemmia. È lello un tremendo sonetto:

lo non ti lodo Dio e non ti adoro, e non ti prego e non ti ringrazio

(1) Pecoei, Storia di San Gemignano , Firenze, Ti]). Galileiana, p. 484.

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RoifAjJZA, N.o 3] FOLGORE DA SAN GEMIGNANO 215

perchè tu bai messo i guelfi a tal martoro che i ghibellini ne fan befie e strazio.

È dunque vago poeta, e caldo cittadino; gaio sino alla follìa, e animoso sino alla fierezza ; canta all' amicizia e alla patria. È una figura che spicca e che merita studio; ma per ora basti di aver mo- strato che egli non è l'Abbagliato, Folcaccbiero de' Folcacchieri di Siena, ma nient' altro che Folgore da San Gemignano, nato non si sa quando, morto fra il 1315 e il 1331. Che la brigata a cui dedica i sonetti dei mesi non è quella che nomina Dante; che il Nicolò capo della brigata di Folgore, è un Nicolò di Nigi, il quale non ha nulla a vedere con l'inventore della costuma ricca, sia chi si voglia; che tutte le rime di Folgore si riportano al principio del secolo XIV, e che perciò seb- bene egli possa essere nato prima, ha fiorito come poeta nella prima metà di quel secolo. Tutto ciò mi sembra definitivamente accertato per la storia della nostra antica letteratura.

Giulio Navone.

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216 E. STENGEL [oiobnalk di filologia

LA LEGGENDA DI SAN PORCAEIO

SECONDO IL CODICE 1102 DELLA BIBLIOTECA MUNICIPALE DI LYON:

rifacimento del Libro quinto della Vida de Sani Honorat di Rajmon Feraut.

L'edizione della Vida de Sani Honorat di Raymon Feraut coniparsa non sono tre anni a cura del sig. A. L. Sardou e per incarico della Société des lettres, sciences et arts des Aìpes Maritimes, se restò bene addietro alle legittime pretese della odierna critica filologica ( cfr. Tobler , Jenaer Lit. Zeit. 1876, art. 123 e P. Meyer, Bomania^ V, 237 ss.), pure soddis- fece ad un desiderio degli studiosi, quello di poter conoscere e giudi- care nel suo complesso questo monumento letterario.

Ed in fatto il rapporto del poema di R. Feraut colla sua fonte prin- cipale e specialmente colla Vita latina comparsa in Venezia nel 1501 fu di già materia di parecchie discussioni. P. Meyer nel succitato articolo della Romania e il sig. S. Hosch in una dissertazione per laurea, pub- blicata in Berlino ( Untersuchungcn iiber die Quellen und das Vcrliàltniss der provengaliscJien und dcr lateinisclien Lehensheschreihung des ìd, Hono- ratus, Berlin, 1877) hanno esposto su ciò delle vedute abbastanza op- poste fra loro. In occasione di una rassegna del lavoro del Hosch (ved. nella Zeitschrift fur Eom, Philologie, fase. I del voi. II) io concordemente al Meyer mi espressi in questo senso, che Feraut cioè e la Vita latina avessero attinto ambedue ad una comune fonte principale, e che questa sia poi passata letteralmente nella Vita latina, non senza però alcune abbreviazioni e raccorcimenti che si permise Fautore della stessa, ed alcune interpolazioni tolte da scrittori latini. Voglio qui anche far os- servare che R. Feraut prese pure il più del suo Libro V da una rela- zione che incorporata nella sua fonte principale avea per oggetto il mar- tirio e la morte di S. Porcario, e faceva avvenir questa a tempo di Carlo Martello, ponendola pure a carico di Genserico re de' Vandali.

R. Feraut ci questo nome, come pure la vita latina (cfr. appresso nelle varie lezioni I, 59 ss.). Hosch quindi a pag. 55 riguarda a torto il nome Genserico come aggiunta del testo latino. La Vita del 1501 anche qui ha avuto davanti a sé, al parer mio, la fonte principale di R. Feraut, oltre al discorso di S. Cesario, senza però copiarla in esteso. Questa del resto ci è conservata abbastanza fedelmente nel Martyrium

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i^oxfAxzA, N.° 3] La leggenda di SA^ rORCABIO

Sancii Forcarli stampato negli Ada SS. Aug. Il, 737. Ma veTosimirniente in seguito a considerazioni critiche, qui fu soppresso il nome di Gense- rico. Hosch non ricorda punto il Martyriufn^ il quale concorda esat- tamente con R. Feraut appunto così come in altri luoghi la Vita del 1501. Egli è chiaro adunque che nella fonte di R. Feraut trovavasi una rela- zione la quale, in parte, concordava alla lettera col Martyrium. Si com- parino i seguenti passi del Martyrium, ristampati qui sotto per comodo- dei lettore (I), col cap. V e VI del testo che diamo appresso.

(1) Ada SS. Aug. Ili p, "^SS B: « qùi- bus dicit S. Porcarius: Occultemus veuera- biles reliquias, ne a sacrilegiscontigantur: quod cum factum esset, ilerum dìxit eis: Sunt inter nos, ut noQ ignoratis, sexdecim pueri et trigmta sex adalescentes qui si ducti fuerint a profanis, dubito ne blanditiis sire terroribus seducantui^, quos consulo mittamus ad Italiam, ut cessante hac furenti calamitate ^edeant, et reaedifìcent hoc sa- cnim m'onastérium Lerinense, et reveren- ter colant occultatas reliquias. Quod cum ab omnibus approbaretur, iterum exhortans dixit eis: Examinate vos seduk», et quem- quam ex vobis cognoveritis formidare mar- tyrium, cedat cum puei^is, he defìciat in extremis, grandis nimiruzn est càrnis ani->- maeque distinctio.

4. Cumque se scrutassent biduo dilìgen- ter, reperti sunt quingenti et quinque, qui solido animo ad suscipiendum martyrium prò Christi nomine sunt accincti. Qui se crebrìs orationibus praeparantes, ferventi animo ad martyrium an^elabaàt. Difmautem Sacramentis ecclesiasticìs se munirent, co- gnoverunt duos ex ipsis juvenes plurimum formidare; quorum unus Columbus et alter Eleutherius vocabatur; qui dìscedentes a caeterìs, in quodam antro prope Httus in- fiulae latuerunt. Carpens itaque gens pro- fana littora insulae Lerinensis , frendet et murmurat contra Sanctos

5. Columbus vero et Eleutherius, qui, uC supra diximus, in scopulòsa caverna se absconderant, videnles per foramen obli- quum sociorum animas in aere sicutstellas fulgeutes, cum angelis gloriantes, et sese invicene praestolantes, dixit Eleutherio Co- lumbus: Nonne vides cum quanta gloria fra- «res nostri, qui modo passi sunt, nos expe-

ctàntes asccndunt in c'aeluin? Eamus ergo' et nos, ut cum eisdem laureati conscenda^ mus ad Dominum. Eleutherio exire relu- ctante prosiliit ah antro Columbus, qui il- lieo martyrum catervae associandus detrun-

catuff est

6 Deìnde sacram ittsulam, custo-

dem venerabiiium taleii-torum , solitariam non sine lacrymis, ut credi potest, rclin- quentes, Italiam ad socios requirendos pe- tierunt: ubi Romae Summo Pontitìci signi- ficarùnt sanctorum Monac&oruni necem , et coenobii Lerinensis ruióam. Passi sunt au(2>. 739)1em sancti isti Martyres circaan- nos Domini triginta supra septingentos, pri- die Non. Aug. (Suspicerne {sic) prò Idus huc irrepsisse Nonas). Evolutis autem post hoc exitium aliquibus annoi^um curriculis , et per potentiàm Francorum expulsis a provincia barbaris, viri Domini Eleutherius eversum Lerinense monasferium cum caeteris mona- chis ab Italia venienCibusprocuraruntresfau- rari et in ][)ristinum statùm redigi. Véne- remur ergo et nos hodie, diléctissimi, hos Martyres patres nostros, qui ad hanc glo- rìam ìejuùiis, vigiliìs et orationibus, sacri- ficioque salutari sacram insulam extule- runt et sanctiflcarunt ut de ea dici possit: 0 quam gloriosa dieta sunt de te, civitas Dei! Et sanctis operibus fiequendo Domi- num celebrem per totum mundum , ubi Chri- stiana religio colitur, reddiderunt; celebre- mùs hunc diem pufo corde, in hymnis et voci- bus jucunditatis,deprecando Dominum ut suf- fragantibus nobis meriiis ipsorum, praemia aeterna in eorum societate feliciter conse- quamur. Per Dominum nostrum Jesum Christum qui vivit et regnat in secula secu- lorura. Amen ».

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218 E. STENGEL («ion?iALE »i filologia

Che anche per riguardo alla metrica la Vida de S, Ilonarat sia im- portante, fu del pari più volte dimostrato. II poeta stesso si gloria dei suoi Vers consonante e simples Rimps de manta maniera. Cosa avesse voluto dire con ciò, a me per lo meno è oscuro: ed è troppo guasto il testo a stampa (36®^®), perché si meritasse di riscontrare quelle parole ed i vers plans (i^) colle rims consonans e sonans delle Legs d'amors. La Vida consiste per la maggior parte di dodecasillabi con rime ac- coppiate, cosa per stessa abbastanza singolare, perché il verso usato di solito nella sacra leggenda è V ottonario , mentre general- mente i dodecasillabi con rime accoppiate non occorrono nel provenzale. Il poema di R. Feraut accenna per questo riguardo alla Vida de san TrophemOj la quale gli si rassomiglia pure nel contenuto (1) ed è formata di decasillabi con rime accoppiate. R. Peraut ha pure usato, oltre ai dode- casillabi con rime accoppiate, vari altri metri, come strofe di 3 dodeca- sillabi (Capitolo 2), di 3 (risp. 2) dodecasillabi con uno sciolto (risp. con rime accoppiate) senario (Cap. 1, 5), di un ottonario mascolino e di un senario femminile con rime incatenate (Cap. 17), di senari con rime in- catenate (Cap. 1), o con rime accoppiate (Capo 7, 11, 12, 39, 40, 41, 82). Rispetto al numero, preponderano gli ottonari con rime accop- piate (Capo 3, 4, 6, 21, 22, 32, 49-51). Nel Libro III e nel IV si alternano regolarmente gli ottonari coi dodecasillabi, e fra i Capi 62, 63, 103, 104, 118, 119 i dodecasillabi mancano. 11 Libro quinto consiste di 4 Capitoli di dodecasillabi (1, 2, 4, 5) e di tre di ottonari. Merita ancora osservazione il Tostetnps che sta fuori del verso e che incomin- ciando dal Capo 61, chiude regolarmente i Capitoli. Prima lo si incon- tra soltanto alla chiusa dei Capi 16, 22^ 51 e anche qui coincide con un mutamento del metro. Il poeta si esalta perciò discretamente riguardo alla forma poetica dell'opera sua; ma, se la voleva vedere difesa dalle mutazioni e dai rimaneggiamenti (cfr. pag. 36, 208 a), il suo desiderio fu vano, almeno per ciò che riguarda il Libro V. Di questo esiste un rimpasto che finora restò inosservato, e nel quale i dodecasillabi sono quasi tutti sciolti in senari con rime incatenate, metro questo, che R. Feraut usò in pochi versi soltanto ed anche irr^olarmente.

(1) Il Bartsch ne pubblicò' il principio Entro a-cal ad Arie decendiam Car plus nella sua Crestomazia provenzale secondo cascus decendre non podian. I fogli 1-37 il solo manoscritto a lui noto. Un altro testo del raanoscritio contengono un poema pro- assai guasto trovasi nel codice I. G. 30 delia venzale sulla fanciullezza di Cristo, su cui Biblioteca Nazionale di Napoli, del seco- io chiamai T attenzione nelle mie Mitthei- lo XVII, fogli 39-49 (♦). Consta di 272 hmgen aus Turiner fr. Hss. nota 21, 12. versi. La lacuna del codice Parigino se- Nei fogli 38 e 39 si contengono i 12 Venerdì condo la Cresi. 389, 16, si può colmare con di digiuno come pure i 32 Jor perilhos l'ajuto del codice Napoletano, foglio 41: dell'anno.

(*) [Sarà pubblicato iu uno dei prosBimi fascicoli. E. M,]

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ROMANZA, N « 5} LA LEGGENDA DI SAN POKCARIO 219

Essendomi fermato nel 1871 due giorni a Lione scopersi questo stesso rimaneggiamento nel codice 1102 (antic. 1222) di quella biblioteca civica, lo copiai per la maggior parte e ne detti un cenno nelle Mit^ theUungen aiis fr. Hss. der Turin. TJnivers, Bibl, p. 45 , giacché ciò che ne avea detto nel suo Catalogo il Delaudine, Manuscrits de la bibl, de Lyon., Paris, 1812, II, 143, faceta conchiudere piuttosto per un poema sopra S. Onorato affatto isolato e indipendente dagli altri testi. Il ma- noscritto è in bel carattere e data dalla seconda metà del secolo XVI. Nel 1682 se ne servì Daniele Papebrochio, il compilatore della vita di S. Onorato presso i Bollandisti, come appare da una postilla dello stesso pubblicata da P. Meyer, Recherches sur V epopèe fr. pag. 34. I primi 152 fogli del manoscritto contengono una traduzione provenzale abbreviata dei due primi libri della vita latina. Secondo il Papebrochio, « loco tertii interpres brevem addit conclusionem ». Il principio della traduzione sta nella Bomania, V, 238, nota 2. La chiusa suona così, al f. 1516 b: los quals miracles que fes sanct Honorat apres sa firn sum quasi infinis et innumerables ; per tant a causo de (152 a) breuietat ieu los laissi, car dieus ajudant a lantre libre et a l(a)utro lìgendo de munsur sanct Porcari et de los cine cens martirs de Lerins (manca il verbo). Per lo presens non dicem autre, si num que nous exortam de amar et seruir ben dieu et la sieu maire et de esser denots de sanct Honorat et de ga- sanhat (L -har) las bellos indulgentios enstamment de gratio, la qiiallo gratio nos uuelho dieus donar em aquest munde et em lautre la glorio eternai de paradis per los merits et orations del glorios confessor et amie de dieu et euesque monsur sanct Honorat nostre bom auoecat. Amen ».

I fogli 154-192* contengono il nostro poema, il cui testo è ben pa- lese che qui fu arbitrariamente e barbaramente mutilato e la lingua foggiata alla moderna dal principio alla fine; il capitolo di chiusa di R. Feraut fu soppresso del tutto. Dei 1300 versi e più di cui si compone il poema, io ne pongo alla luce 471 soltanto. Essi baste- ranno a mostrare chiaro il rapporto di questo rimaneggiamento col suo originale. Le parole, nella mia edizione, scritte in corsivo son quelle che discordano dal testo Sardou; appresso al testo sono aggiunte le varianti che se ne allontanano. Aggiungo ancora che dinanzi agli enormi guasti della versione Lionese rinunziai ad ogni proposta di mi- glioramento, perfino dove la mia copia fatta in fretta sembrava er- rata, e soltanto coir aggiunta delle interpunzioni, cercai, per quanto mi fu possibile, di rendere il testo intelligibile.

E- Stenuel.

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^. STENGt:!,

[GIORNAI.E DI FILOLOGIA

FI. 154*

Aissit conto V istorio corno prenguerun mort et passium hs stnc cens munges et martiris de la sancto insula de Lerins.

A la honor de la sancto trinitat Padre et filh et sanct sperit 3 Escotas totés per caritat La passium et lo martir Dals stnc cens munges de Lerins,

e Or acommensaral, gesto

De grant compasston

Dunt Taigo de ma testo 0 Caira sns lo mentoa.

Adunc mi coQuendra Plorar per pietat, 12 Dauant que finii aioi L'obro que ai acomensat.

Intrat sue al laberinto 15 Del sage Dedalus, (154*) Cant penssi sortir dindr$, Et ieu sjuic laìus enclus.

18 Pensaui esser quitti D'aqueUi boro en aieant, Puei que compausat agui

21 La vido del corps sanct;

Mes eUo es uno nido Tant longo et plasent, 24 Que a la ueire cornando ^?) EUo hi qualumg grant temp. (?)]

Per tant mi sue pensai 87 E mon entendement, Que comuenieìU serio De scrieure lo triiment

to De la sancto badio, Per donar deuoctiom 4- queUos que hi uendriom. (155^)

88 Or auses la passiom

De los munges sinc cenjs Como de bon corage ;3« Morirum ious emsens. Mais non fum tal carnage

Plus diuers ni contrari ^

89 Que fum de los paures fraires, Au temps de sanct Porcari...

Lains Pilo de Lerins *i SufFrirum passiom, Per mans de Sarrasins Messes a destructiom,.

45 Aussi am (Jissipat Aquel glorios stage, Tout am asarsinatj

46 De que fum gran dalmage.

Los temples et los élastros De la sancto maisum (155*) 54 Tuttos los am brtdados Mes a fuec et carbum ....

Ainsins ho amo profetisat 64 Al temps que et uiuio Munsur sanct Honorat Als munges de la abadio.

n

4-ros nos ressiio Vistorio em que temps sanct Porcari ni lo^ cine cens forum martirisas.

Al temps que Charlemait\c Lo munde a conquistai 3 Et gasanhat Vemperi

Et foguet coronai, Hors forom plusors reis

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BOMANZA, N.o 3J LA LEGGENDA DI SAN POECABIO

22i

e Em la mortai batàlho Que Charlmaine fes Als Turx et autro canalho..,,,

9 La umte mori Oliuier Et aiMì lo grant Bolany (15^*) Lo rei superbi et fier is ApeUat Aigolant,

Los dozer pars de Fransso Jents d'armos et chiuals 15 Morum a cops de lansos Al plam de Rossos-Vals,

La umte Charlemaine 18 Aguet umg cop mortai Dunt pnei tant que uisquet Portano umg grant mal ....

21 Tro que es uengut lo tern^e

De la sieu sancto vìdo,

Que al seruici de dieu ^4 Auron Ione temps compTido,

Per lo qual a sufFert Nftffros et cops mortala, (15©**) S7 Em dieus s'es adormit Ala gaus spirituaU.

Mes apres la sieu mort 30 Chiualiers et baruns Noiris em la sieu cort^ Em sas reals maisons^

83 Vam diuisir Temperi,

Boialmes et principas,

Aussi castels et uilos 86 Et autros grants cieutas.

Dals hens de Charlemaine Cascum si fa senhor, 89 Aussi de sum reialme ^apropion las honors.

Aussi deues notar 42 Que aquestos haruns De dieu non am affar, Mais sum tous de lairuns. (157^)

48 Aussi am consentit

A tout peccat et uici

Et de la lei de Crist 48 Non fam degum seruici

Et non stimun dieu Ni n'am deguno curo. 51 Perque lur trames die» Toutto desauenturo,

Mandet dieu los Sarrasins 84 Desubr^lurs terros, JEt si cascum dedins Ambe mortalo gerro,

.57 Crestìams tivaT conquistai Et mogut de honor, A plam pet am pausat

Ao VHos, castels t maisuns. (IS?**)

Lo grant Ture et Saudam La cristiamdat conquesto f fi3 Tout ho a mes a sa man, 0 dieus, la grant tempesto!

Lo rei de Barbarlo .66 ^ gasanhat la Fransso, Ambe grant chiuàlrio Vo (?) a mes &os sa poissansso,

.69 A destruch la Prouensso, Et si Vam sarsinado, Passai am la Durensso

7.2 Ambe lur grant curmado^

Non es pas marauHho, Si am pres crestianitat ; 7.6 Car ansins dieus uolio Punir nostre pecc<n^. (158»)

Plus erom de sent milio 78 Los Turx de mal corage Que am prea la marino E trestout lo ribage.

81 Nnn lur podum deffendre Fort Castel ni palaia, Tout ho aneron pendre

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222

E. STEXGEL

[UIOKNAI.R Di FILOLOGIA

9i Per forsso et per plais.

A lo eampf dich Lisqtians, Si dono la batalho 87 Das paures crestians Et de aquello cancdho,

Lisquans em Arie e$ «0 Utng camp spatios^ Umte lo rei francea Ambe tous 808 senhors (158*)

•3 Sum aprestas em armos

Ambe la fior di lis

Et fu8 tout fes fach d^armos 96 Lo nóble rei Lois.

Loi8 nóble rei frances Ambe fUs et nebots Lo prince Nerboneg Em armos sauton tous.

Plus de quatre yiagt millio lui De mort fum lo passage, Em sortent de la Mt7o, Sum messes em carnage.

105 Tout drech em AlisquADS

Metton lur standart.

Aquites los dous campa i«s Cridom a la qtMrt a la quart

Aquit ueirias grants cops (159») De lanssos et de estor, 111 Or 8i asemblon lo quamps Turx Moros et erestians.

Veirias la hatario lu De la geni d* Armario Or grant Affre em ero, 0 dieu, la mortai gerro !

117 De dìuerssos bandieroa Veirias plus de cent miliOy Em diuerssos manieros

120 Tout lo munt bramo et erido:

0 dieiis, que desconfort ! Helas bon dieus Jesus,

118 Los tieus crestians sum mors, Barrasins los am uenssusl

TaXhom los caps et testos, (159^) ife 0 dieus, eaUos tempestosa,,!

Corpsses, spàRos, quaribos et bras, A hi primo batalho 199 Crestians restom tous tuas.

Eia quant ai lo grant dol D' esto mortai pittati 189 Aquit mori la fior De toutto cristiandat.

Del camp de Rossos-Vals is» Emtro al roialme de Valensso Sum mors los plus tmlens De toutto la Prouensso.

188 Dals paures Crestians

AqueUos que eron restas

Ambe plos et plans ui Laisserum las citas

Et fuium per las Mauros (160»)

Como desesperas, 144 Como pauro companho.

Los Turx prenon las fremos

Et tesaur et eadenos 147 E tuom crestians

Et fremos et emfans

Et cremon las uiUos 160 Et non laissum eros ni piUo,

Non laisserum cieutat, Si non que Marcelho et Toloso, 158 Or non aiom cremai La gent malaitoso,

Gasanhat am batalho i6« Das paures crestians La missanto canalho Afamos comò quans, (160**)

lio De tornar em lur terrò,

Car finido es la gerro,

Lo conseUi es conclus icj Dal grant Saudam das Turjc,

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ROMANZA, s.- :n LA LEGGENDA DI SAN POBCABIO

22:^

Soes lo rei dàls Sarrasins Di8: fassam lur passage 165 Per rilo de Lerins, Aquit faram carnage;

Car nH a que i sum fugis 168 Tout piem de crestians.

Manges et heremitans

De pahor das Turx 171 Hi estom scondus.

Aquit sum scappas

Que 8tam spauentaa.

174 Or I08 Turx si despausom (101")

Em ìur pai» r^ornar, Em lur comselh perpauswn 177 Per Vinssido passar,

AduDC ueirias uint milio Sarrasins et Saudans 180 Que aparelhon lurs ueUos Et galeros et naus,

Em rilo de Lerind 18S Volum far lur passage Per tuar los sanes dedina Que sum em Termitage.

Ili

Como sanct Porcari prophetiset lo iort que deuion uenir los Turx e del songe que fes. (133 linee; f. 161*-165*.)

IV

Como los Turx tuerom los fraires de Lerins corno forom martirisas. Vessi las paratdos de sanct Porquari. ( 167 linee j f. 165*-170*'. )

Leno si sanct Porcari E dire a sas gens: s Scondum lo reliquiari Ben e deu^tamena

sum em la sanct ilio 6 Per pahor das pagans, Que non siom dispumdos Ni las toccum lurs mans.

9 Cant ìas sanctos reliquios Agueron stimai, Sanct Porcari predico,

is Beire mais a parlai:

Senhorsy emtre nous ha (171») Vini et sieis emfants 15 Que non am pas amcaro Compia uini et sinc ans.

Jeu duti et ai grant pahor, 18 Que la geni de Turquio Per duna ho per pahor

Vo per lauanhario

ai Non los nos fasson moure De lur deuot talent Et renegar la lei de dieu omnipoteot ,

25 De que serio grant dam.

Per tant conselharioi , 27 Que los tramettessan

Lains em Lumbardio,

Et quant serio fintdo 80 La furor et Vesglai

D'aquesto gent marrido (171*) Que s^aprocho hueimai,

88 Alcuns temps tornario,

Que aquestos bels emfanta

Beffarion lo tempie 80 De aquest monestier sanct,

E porrion reuelar

Das corps sancts las Tirtu»

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224

E. STENGEL

[aiOHNALE DI FILOLOGIA

SO Que auen em la sanìct ilfe Muras et sconduB.

Los fraires respondemn: 42 Ben no8 par lo comselh. Fraires responderurti, E dia lur sanct Porcari,

46 Que parlessum emtre ellos,

Et si hi a degum que martiri non uufelho, 48 Ambe los iouenes

Em nauUi s^acuelhon ;

Car dalmage serio, (172») 51 Cant uendran los pagans, Si degum si remdio.

Bem sàbi, que es gprant pabor M Em alcunos personos De ueire tal furor, Si non es pas uergohho.

67 Porcari prem Tum Tautrc

De la religiom,

Et cascum si aparelho HO De far comfession,

Si que sino cens si sunt trohas, Que a morir sum apareìhas,

«3 Pueis am aparelhat

Et barquos et uaisaéls,

Metom hi \o tesaur 6H Ambe los iouensels,

Calisis et argent, (lt2^) Libres et par ameni

69 Que Ione temps hi auio Despueis sanct Honorat D^aquel temps qUe uiuio.

72 Touito aquello rìquesso Et aussi la nóblesso

Em las barquos am mes; 75 Mais tant non hi meterum, Que non la em restes Tapisses et cubertoa

79 E aussi emsenssiers Et cappos de colors, Palis de colors et floques.

81 De la sancto badio Fam ueUo mantenent, Em terrò tenum lur uio (173')

•4 Tant, que sunr arribas. Aquellos que sum restaa

Siam em oratiom, 87 Et cascum si aparelho De pendre passion Et desirom soUeu.

eo Elas, si amquas uendrio

Aqudlo que em paradis

Tramettre los deuio! 93 Bel senhor Jesus Crist,

Mandas nos aquélla gent ; Car aparelhas em !>6 De pendre lo trument! Abreuio nos lo temps;

Car trop s'auem stat, 99 Et daras no» lo gauch (173^) Que auem tant desirat! Or regardon souen

tot Dedins em la marino,

Si cum quaro uendrio la gent sarrasino.

105 Cant uenc sept iors apres,

Los fraire de Lerins

Regardon uers la mar, 108 Virum los Sarrasins

Venir a plens uellos Dauers solhelh coquant, ni 0 dieus bonos nouellos! Or si cumenion touts Los glorioses corps sancts

Et pregon em grana plora

Lo uerai creator,

Que non les desampare ii7 Em aquesto furor. (174^)

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ROMANZA, N.*» 3] LA LEGGENDA 1)1 SAN POBCABIO

225

Perso conuengut am Los munges de Tabadio, 180 Que emtre los cine cens am Dos munges hi auion

Que sam epanantas 133 De grani mal em conio; Cum d'éUos auia num Et si apeUauo Colump; 1S6 L'autre dcH monesteri Si nomano Eleuteri, Que ero tout trtbtdat ii9 E non at^io uoluntat

De pendre lo martiri. Or sortum de las clastros 132 Colump et EletUeriy

Bauberum si das autres, (174*) Passum au sementeri

195 Et uam pres de la mar

Et trobum uno balmo,

Unt si uan stremar 188 Et lur tremolo Tarmo,

Portaram aiudo et comfort De pam et atUros uictoalhos, 141 Car pahor am de la mort Et fuion la batalho.

Ar prenon Sarrasins 144 De Lerina la ribage Et cridon comò chins, Cani sum a lo carnag.

VI

Aisic recontom la ligendo, corno prenguerum martiri lous cine cens munges de Lerins (175*) et de lamentation de la sanct ilio.

360 Mes los dous que auen dich dauant,

So es Eleuteri et Colump,

Que scondus per pahor si sum 163 Et s'ieron anas arribat

De soto Vescueih de la mar,

Vesiom per uno fendeduro. 366 Grant daritat que al col duro,

Vam uescr las armos et speris

Que muntauon em paradis 869 Ambe los angles em companhio

Cantant em bdlo chantario, (185*)

Tous resplandens desus em Taire 372 S'em uan uolant a dieu lo paire,

Em Taire stam tous assemblas

Las armos das sancts benauras 375 Per atendre lur fraires, si lur plasio

De uenir em lur cumpanhio.

Or quant los dous uirum la uisiom, 378 Dis Colump a sum companhon:

Certos non ueses tu que a sus em l'aire

Nos agardom nostres bels fraires? S81 Ajsìm dumquos ! que deuem far ?

Eleuteri uos ti leuar ?

leu ti pregni, anem tu et ieu,

884 Anem morir per amor de die.

0 paures scondus em la balmo,

Del martiri perdrem la palmo ! 387 Non farai pas ieu, si dieus plas.

Si mi uos segre, mi segras (186»)

Tochant a mi, ieu ai bon talent. 390 Mais Tautre iamais non conssent

Dal matin (?) auer la corono,

Trop li tremolo la persono, 393 Mes lo munge saui deuot Colump

Ambe uno bono deuotion

Deuotoment s'es presentat 396 As Turx et emcontinent fum ttuit.

Et muntet s*em Tarmo en umg moment

Ambe los autres noblament, 899 0 sennor dieu, quant grant bonor

Faguiest a Tilo aquel iort, ' Cant coroniest tantos corps sancts 408 Que eron stas norris emfans

Em aquesto sanct abadio!

So fum a doset iors et dio 405 De auost, a la honor de Jesus Crist (186**)

Sum coronas sinc cens martris.

585 Or recomandon Tilo a dieu lo paire 15

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22<) E, STENGEL [giornale di filologia

Et uam seni serquar los fraires (191*') Autre non uous sabi dire^

Qae lo tesaur saauat auìon. [rioni, 6o« Contat uoua ai la ueritat

688 Vam sera em terrò ueire, los troba- De to quant que n'ai trobat^

Metom las uellos em bon uent. Besto dumcos per comclusiony

A lios 8um uengua breuoment 609 Que a Vilo portem detiotion;

bin Et am contat toutto la sumino Car es toutto sanctificado

Au 3aact paire papo de Homo : Et de glorìoses sancts hondrado.

Lo martiri das corpa sancts eis Membre uous doncos de Lerins

594 Et las mortala dolora et dans Et das sancts que sum dedins!

De la pauro ialo de Lerins Or dieua em aio benefit et lausat

Que am destruch los Sarrasins. «is Et lo glorioa saoct flonorat!

597 Lo papo, quant ausit la tenor, Preguem dieu et sanato Mario

Penssas que n*aguet grant dolor! Et tous los sanct de la abadio

Et donar grani indulgentios «is Or nos meton em paradis

eoo Als pauros munges scapas Ambe los martìrs de Lerins;

Et aussi los a comfortas, Car autre non desiram plu^.

Reues uous aquit la firn osi Aissot sio a la honor de Jesus!

603 De los sinc cens martìrs de Lerins ( 1 92») Amen, finis,

Ausic finisse lo martire.

VARIANTI DELLA EDIZIONE

I Rubrica, p. 19 i: Ayzi coraensa li pacions de san Porcari e dels cine centz monegues de Lerins. Linee 1-5 mancano; sono versi di otto sillabe. 6 comensaray 7 de complida razon. 8 raon vis. 10 E don. 11 de. 12 Ans que puesca complir 13 coraensat. 14 palays. 16 cug esser defors. 17 yen suy dedlntz. 18 Ben pen- BÌey. 19 deus aquesf hora enant. 20 avìa complit. 22 ss. Comandaraent m'a facr Ton- ratz payres en Crìst L'Abas mossen Ganselmps, que tant mVn a requisì, E denfra al monestiers trastotz nostres coventz, Qu'escrivia lo martiri dels monegnes cine cens 40 Qu'el. 41 dintz. 44 ìnanca. 45 E con fora. 46 le glorios estajes. 47 E tornalz en nient. 49 els hostals. 51 Arces (arsses) e mal menatz. 52 a twoc. ei k. seguono: Et.aquist saneta Vida fom de lains mogiida Qu'entro en aquest temps avia estat per- duda ; E sazitz le trezaurs de la saneta abadia: Adonx perdei (pert de) ciutas e riqua mnneniia. 53 Si con profetizet le glorios cor santz. 54 En lo temps de san fin. 55- 56 con vos (que) ay dig el romans.

II Rubrica, p. 192 : Ayasi dis P estoria que apres la mort de Karlle mayne e dels aulrea que son scrichs en l'estoria, fom la bataiha en Aliscamps dells Crestians am los Sarrazins els autres Enfizels. 2 ae conquistai Espapna. 3-4 Mantz palays e eieutatz e manta terra estragna. 5 Don morien mant due, mani persant e mant rey. 6 las mor- tals balayllas. 7 fey. 8 Gandabupys, rey de Friza, am lo rey Naamant, E Raynautz de Bellanda, c'aucis rey Aygolant Els plans de Pampalona, en los mortals esfors Hon Karlles de sas mans trenquet tan millsoudors. 9 E fom mortz. 10 e Rollantz le Tas- sala. 11-12 mancano. 13 E fos los doze bar. 14-15 mancano. 16 el camp. 17 E Karlles i recetip. 18 eli cors mant. 19 con. 20 lo greugeron siey; seguono: E fom pueysas totz jortz doloyros et enclins So reiray li corronica que nos laysset Turpins. 24 avia. 25 cuy a tant. 28 celesfials. 31 Cill que s'eran noyrit. 32 sareal mayzon 33 Departiron. 34 regnes. 35 Mantz eastels e mantz borcz. 36 mantas ricas. 37-39 E caseuns de son fieu. 40 volo sazir sas. 41-44 mxincano. 45 Mas pueys. 46 raubarìas e follors. 47 Car. fé. 48-49 mancano. 50 non an. 53 E vengron Sarazin e Ture e Vandales. 54 Sobre ìa saneta terra que Karlles lup conques. 55-56 mancano. 57

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ROMANZA, N.° 3] LA LEGGENDA DI SAN PORCAEIO 227

gitatz. 58 de regncs e d\ 59-64 Foudutz niurs e palays e autars e sanclor. Cavalca Gecerins, le dux de falsa jesta, EU reys Miramolins de Marroc, que conquesta (p. i93) Domaynes e cientatz. 65 eli. (JQ Alcuba, passet. 67 am sa cavallaria; 68 Ferali Archimaleoh, quVra reys de Granada, De Maresma, d'Espagna, n'a Tholoza passada; E le dux dels Geynetz (Jaynes), lo guerriera Ferabraza. 69 Es intratz en. 70 a cuy que pes o plasa. l\-lò mancano. 78 li pent de fer. 79 E. 81 pot contrastar. 83- 84 Ad Arile la cieutat son intrat de rellays. 85-95 mancano. 96-97 Mays Loys, reys de Pransa, e Lotiers d'Alamigna Am raantz nobles vassaltz c'avien en lur conopa- gna: Los comptes Raynoart e Ouiscart e Bertran E Vezian lo due, am cavallaria gran, E Arnaut lo baron e n'Aymon lo marques E lo prinpce d'Aurenga. 98-100 eli primpce Narbones, Ara filllz et am nebotz de lur noble lignaje. 102 totz homes de paraje. 103- 104 Aqui viras albertz e luzentz e brunitz, Elraes de fin assier e cambayzons farcitz, Astas drechas e fortz am ferres de morllans (?), Brantz e estox agutz, e per pueys e per plans, De diversas ensegnas e reais confanons; Viras plus de des mìlia lansas ambe pe- nons Ventejar e brandir lay hon fey si Tacamps. Ar s'ajostan las hortz. 106-108 Quant crestians assautan li jentz de mala jesta, 109 viras mantz. 110-120 e trencar manta testa, Aubarestas et arcz deyssarrar e destendre, e mill fora de cella que non si podon defendre. 121 Ay d. cals. 122 can mortai destìnada! 123 Crestians son vencut. 124 per la jent desaslrada. 125-129 En Aliscamps sun mort ali vas de Vezian Tan fera- TTientz los an envazìtz li payan! 130 gran dolor. 131 e can m. peccai. 133 la. 135 tre al regne. 136 (ut li meyllor. 137 e dg tota P. 138 Per que li cret^tian. 139 cìll que foron. 140-141 Layceron borx e villas, manta rica cieutat; 142 (p. 194) los pueys. 143 e per las grantz montagnas. 144 Et an desamparat los plans e las campagnas. 145-146 E laysan los trezaurs e rica maneutia. Prenon castels e villas li Ture de Bar- barla. 147 Aucizon. 149-150 Non fom tal mortaldatz passai a tres centz nns. Con- qu'eron Gapenses e Monfort e Verdun Tors e murs e palays tro intz en -Embrezun. 151 Ni non layssan. 152 sai. 153-154 De que agron trahul li gent malauroza Que non aian cremai e sazit tot Tarney. 155-158 E mort los cieutadans e menatz a barrey Perpausan en lur cor (v. 176). 160 Mas non pensan aver afinada. 161-163 Conceyll agroD li rey de Turx, de S. 164 Fezessan. 165 en. 166 manca. 167 Hob s'en era fugit. 168 ganren. 170 per. dels payans. 171-173 Car sobeyranamentz eran espa- veotatz Trastut li crestian que n'eran escapatz. 174-177 tnancano. 179 esclaus. 180 azauras. 184 aucire los santz. 185 qu'estan.

Ili Rubrica: Ayzi dis Festoria con Tangel aparec a sant Porcari l'abbat.

IV Rubrica: Ayssi dis Testoria con sani Porcari prophetizet lo jorn que devian venir los Sarrazìns per aussire los santz, diseni ho als frayres.

V Rubrica {p. i98): Ayssi dis Testoria que esconderon las reliquias de la sancta iella. Questa rubrìca è del codice C come le tre precedenti. « Le m.s. B , dice il Sg.*' Sardou, e il nostro, aggiungo io, ne fait point un chapitre particulier de ce qui va suivre et par consèqitent ne donne point ce titre ». 1 Ar si leva. 3 Escundam las reliquias. 7 bautugadas. 9 agron la sanctor. 10 Qscunduda e clavada. 11 coij- forta. 12 (rastota sa raaynada. 14 so mi par, setze. 15. 16 E trenta e sieys cor santz que non an pas treni'. 17 Et ay mot. 18 li esclau. 21 fassan ostar. 22 boi» prepauzament. 23-24 dell Payre. 2Q qu*ieu. 27 tramezecem. 29 passada. 30 le glays. 32 venran ad eslays. 33 tornarien. 34 aquist bon bachallier. 5 E refa- rien. 36 sant monestier. 37 {p. i99). 39 C'avem. 43 manca. 46-47 n'i. quell. 48 Am los bons jovencels. 49 Els navilis s'acueylla, segue: Ses denguna vergogna. 51 venrien. 53 Car mot, segue: de perdre aquesta vida. 54 Ad. 55-56 en aytal estremida. 57 Ar espian. 60 e pren. 61 e cine si troban mantenent. 62 volon de bon cor per Dieu penre turment. 64 huciers. 65 E met y (E meton). C& tra- stot 4e cellariers. 68 e libres e arney. 69-76 E cesta sancta vida que sant Honorat fey, Qu'estet dous aquel temps perduda et ablatata Tro Dieus per sa merce la nos a re-

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228 E. STENGEL [giornale di filologia

velada. E meton eia naveys. 77 tapitz. 78 Rix draps. 80 e siclatons. 82 E collan 83 et an tengut. 84-85 Cill que son remazut. 86 estan. 87 aparellan si. 90 ia vemrien. 91 Cill quel) regne de Dieu. 92 nos devien. 94 traraet aquesta. 96 de far ton mandament. 101 E trameton espias. 102 soven a. 103-104 veyrien los navilis de. IH manca. 114 (p. 200). 118 Pero conegut an. 119 tut cill. 120 ccntz. 121 frayres. 123 et an mot gran concire; seguono 129-130. 124-125 L^uns avia nora Colorap. 126-127 e Tautres Eleutheri. 128 manca. 129 Car non an (cf. 123). 131 Et yesson. 132 manca. 133-134 sono trasposti, 134 Embleron si dels frayres. 134 lo. 137 aplatar. 138 manca. 139 E porteron am luy. 140 e lur vitaylla. 141 Paor. 145 e forsenan. 146 con leons a.

VI Rubrica: Ayssi retray li jesta lo martiri dels martirs de Lerins B; Ayssi re- tray la gesta lo martiri e la passion dels V cens martirs de Lerins e con lo monestier fom destruch C. 360 (p. 204^) c'avia dig enantz. 361-362 mancano. 363 Que s'eran annat aplatar. 364 Desotz TescucyH pres. 365 tralucura. 366 clerdat qu'entro. 367- 374 Els esperitz dels santz barons Que pueian sus en los trons, Plus resplandentz que le soleyls, E compagna d*angels amb els; E vezien sus la gran clerdat Que a Tuns Tautre agardat, E s''estancan cant lur plazia. 375-376 Per atendre lur compagnia. 377 Quant han vista. 379 ve ti que. 380 car. 381-382 mancano. 383 Que son martìriat tan grieu? 384 Vay sus, anem morir per Dieu. 385-387 mancano. 388-389 Hieu m'en vauc, sec mi mantenent. 390 Eleuteris. 391-394 m^ancano. 395 E Colomps s'es ley. 396 Que mantenent fom detrencatz. 397 {p. 205^ ) puiet sVn. 398 Am los autres el fer- mament. 399 Bell. 400 Volguìst far a Tislla cel jom. 401 tanto cor sant. 402 Qu'eran noyrit per aenant. 404 Qu*e8camperon lo dezen. 405 D'aost lur sane per. 406 manca, 585-586 (p. 206^). L'isUa de Lerins an laysat Ses capdell e ses governayre; E van s'en en autruy repayre. 587-588 Per vezer la trobarien Cels quel trezaur salvai avien, seguono (p. 207^): Los moynes que n'avien trames Enantz quell martires si fezes. 589 Coallan am velas et am. 590 Roma s. v. breument. 592 apostoli. 593 E lo. 594 els 595 sancta. 596 Que Sarrazin avien conquis. 597-605 Per que tostemps mays er hon- rada Aquisli illa benaurada. Dig vos ay la destruxion De la sancta religioni Car las jentz entervan soven Con perderon lur pertenemen, Castells et autra manentia Quel cor sant conquis lur avia, Ni aquesta glorioza Vida Qu'en aquest lemps s'es espandida. 607 tras- tot so. 608-613 Plus non en puesc dire ni say (cf. 605) Car plus escrich trobat non ay. 614 Dieus en sia grazitz e lauzatz. 615 El. 616-617 Car li sieua sancta badia Tant martirs a en sa bayllia. 618 Que pregan Dieus de. 619 Per totz los frayres. 620- 621 E quill viaje fay set ans A Tonor de Dieu e del sans. U ultimo capitolo di Raymon Feraut, nel quale il poeta parla di stesso, è soppresso dall'autore del nostro ri- facitnento.

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BOHAKZA, K." 3] 229

SUL PERFETTO DEBOLE ROMANZO

Il Diez scrive : < Au parfait on pouvait s'attendre à avoir à la 3* pers. sing. canta: au lieu de cela la langue a préferé cantò, qui ponrrait venir de cantauit pour cantavit (comp. oca de auica pour avica). Mais il est difficile d*admettre que la langae popnlaire conservai le v de la couju- gaison faible^ qui déjà en latin tombait souvent aux autres personnes de ce temps. Elle n'a fait qu'ajouter à la forme sourde canta un o comme voyelle d'appui, de mème qu'elle a ajouté cette voyelle dans cantan-o: cantò est douc syncopé de cantao^ comme vo de tao = vado. C'est Texplication de Delius, l, e. La 3' pers. plur. répète la méme voyelle dans l'archaique cantarono, contr. cantorno et méme cantonno pour cantarono >. {Gramm, des langue rom,^ trad. frane, II, 137). Que- sta spiegazione del Delius non mi pare la più felice e non vedo neanche il perché, potendosi benissimo spiegare -au -ao da -aw[^] -avt per ^av^U, debbasi ricorrere all'ipotesi della vocale d'appoggio che, per il to- scano specialmente, non regge giacché qui la vocale aggiunta è quasi sempre un e, raramente e solo in alcuui casi speciali un i. Si consideri ancora la difficoltà di far risalire l'aggiunta di siffatta vocale d'appoggio ad un periodo molto antico e certo anteriore al definitivo assetto fone- tico della lingua, senza di che non si spiegherebbe come avesse potuto aver luogo la contrazione in -o che già troviamo nei più antichi monu- menti, giacché le forme in -ao sono affatto estranee al toscano. D'altra parte non è solo nell'italiano, ma ancora nello spagnuolo, che abbiamo la 3.* perf. in -<5, e si potrebbe chiedere a ragione come s'intenda spie- gare questa coincidenza. Il Diez scrive soltanto : « Le parfait cantc s'explique, comme en italien, par cantavi, cantai, la 3* pers. cantò cor- respond aussi complètement à celle de cette demière langue >. (Ibid. 162). Come ognun vede questa non è una spiegazione. E il bisogno di uno schiarimento si fa ancor maggiore quando si consideri che anche la 2.* e la 3.* conj. spagnuola offrono al perfetto 3.* pers. la stessa terminazione -6: vindió, partió, per le quali il Diez tace affatto, mentre almeno per le corrispondenti italiane vendeo^ parilo aveva cercato una spiegazione di- cendo: € Dans la langue archaique et dans la langue poétique, un e ou un 0 paragogiqne s'adapte aux voyelles accentnées finales: ainsi dans hoe^ stoe, cnntoe^ poteo, coprio ecc. > (p. 130). Ora io credo che la spie- gazione che vale per lo spagnuolo debba valere anche per T italiano.

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230 X. CAIX [giornale di filologia

Infatti vinàio^ partiò sono nati da limViOj parfto come yo da fo, diós da dioSj e To di quelle forme non si può scompagnare da quello delle cor- rispondenti italiane vendeo^ partio. E poiché la teoria della vocale pa- ragogica non è applicabile allo spagnuolo, in cui anzi lo spostamento dell'accento ad eliminazione dell'iato prova che la lingua non avversa punto gli ossitoni, conviene andar in cerca di una spiegazione che si adatti ad ambedue gli idiomi. Questa consiste per me nel ravvisare nel- Yo la trasformazione del v vocalizzato e rimasto in fin di parola. In- fatti le corrispondenti forme portoghesi sono vendéo^ partio e piìi anti- camente veììdeu^ partiu^ che mostrano trattarsi qui di un v vocalizzato come p. e. nel prov. bau, hreti, estiu ecc. Il Diez crede diflBcile ammet- tere la conservazione del v in una sola persona, mentre era caduto già in latino in altre persone, e nota infatti che < la flexion du parfait avi evi ivi a subi partout et absolument la syncope du v » (1. e. 120). Ma in nota soggiunge che < en vieil italien ou écrit cependant quelquefois v entre deux è, comme dans j>a;Y/n, chez Dante aussi audivi, Ivf, 26, 78, givif Purg, 12, 69 >, benché egli paia considerare col Nannucci queste forme come puri latinismi. Ma non sono punto latinismi, ma forme poetiche comuni nella Scuola sicula, imitate più tardi dai poeti delle altre parti d'Italia e dallo stesso Dante quando la misura del verso lo richiedeva. Così in Ciacco dell' Anguillara:

. Per Arno mi cavalcava Audivi una donzella ....

Che fossero popolari e non latinismi è provato dall'essere quelle forme ancora in pieno uso nei dialetti meridionali. Ecco alcuni esempi tratti dai Canti delle Provincie meridionali, pubbl. da V. Imbriani, Torino 1871-2 :

'Nu juorno mmi partivi e jivi fora. I, 51. r sera mmi partivi e givi fora. I, 324. Jivi alla cnrti pe' m'esaminavi. II, -1131. Arrivo 'mmienzo mare e mmi piniivi. Il, 10. r cummi nei saglivi Tata sera. II, 89.

Posto che il V siasi mantenuto finora nei dialetti del Mezzogiorno, cresce la probabilità che anche in altri dialetti italiani e nello. spagnuolo e portoghese abbia potuto lasciare traccia, vocalizzandosi, nella terza persona. In questa infatti Vi che precede il t dev'essere caduto ben presto già nel latino volgare, poich'esso non ha lasciato traccia alcuna nelle nuove lingue, forse perché Vi era divenuto la vera caratteristica della 1.' pers. come si può vedere dal confronto dei paradigmi:

I.'

it.

cantai

prov.

chantei, a.

fr.

chantai

sp

canti

port.

cantei.

»

vendei

reìulei -i

vendi

rendi

vendi.

^

partii

parti

parti

parti

2>arti,

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ROMANZA, N.« 3] SUL PEBFETTO DEBOLE BOMANZO 231

dove, considerando lo sp. canté come nato da cantai^ si vede che l'i della 1.* pers. è generalmente rimasto, quantunque nella 2.* e nella 3.* conj. l'i desinenza si sia fuso, eccetto che in italiano, coll'i del tema. Al contrario nella 3.' pers. abbiamo:

it. cantaO'ó prov. chantet^ a. fr. chantat sp. cavtò port. cantou. vendeO'é vendei vendit vindió vendeo-eu.

partio 4 partii -f pariti parilo pariio -iu.

Nella terza persona non abbiamo lo stesso accordo che nella prima. Nel dominio franco-provenzale è perduta ogni traccia del v ma si tol- lera il i finale; nell'italiano, spagnuolo e portoghese è scomparso il t, secondo le tendenze fonetiche di queste lingue, ed abbiamo un o od un u che accenna al v latino. Ora è da osservare che nel lat. volg. si nota ben presto la tendenza ad eliminare il v tra due vocali e insieme quella ad indebolire e sopprimere la vocale nella desinenza -ii della terza per- sona. Da una parte aetas per aevitas^ ditior da diviiiorj iunior da iu- veniorj e le forme cantasti^ cantasiis, cantaruni, cantaram, caniarim, can- tasseni, cantasse per cantavisii ecc., e poi peiii per peiivi e più tardi prohai per prohavi (Schuchardt, Vok. II, 441, 479); dall'altra forme come fecei^ posuei^ riseti militavei^ poi pedicard, faci, vixi in iscrizioni del Mezzogiorno. A questo proposito nota giustamente lo Storm: < Si ces dernières formes ne se trouvaient pas, on pourrait supposer une e écri- ture inverse > produite par la pronunciation de Ve classique comme ì. Mais les syncopes décident la question. Il faut y voir avec M. Cors- sen cine irrationelle Kiirze », i. e. une voyelle d'un son sourd et faible qui échappe à la mesure raétrique, en somme un é muet > (Voyelles atO" nes ecc. nei Mémoires de la Soc, de ling, II, 93). Si noti inoltre che anche le iscrizioni osche danno profattd accanto sl profaited = probavU. Nei perfetti forti questo leggiero suono indeterminato non scomparve totalmente che al Nord, specialmente nel dominio franco-provenzale, in cui il i finale rimase a contraddistinguere la 3.* pers. In italiano il t cadde ma la voce non potendo rimanere sospesa sulla consonante del tema, la vocale d'appoggio fu conservata con suono più o meno deter- minato secondo i dialetti ; essa si ridusse ad un semplice schevà in molti dialetti del centro, divenne e chiuso in toscano, i in siciliano. Nello spagnuolo la desinenza pare aver subito l'influenza del perfetto debole, divenendo o, probabilmente anche per stabilire una distinzione dalla 1.* pers. che in origine terminava come in italiano in i {vidi, savi, irasqui) ma che prese più tardi per alleggerimento di pronunzia un e (Diez, 1. e. 168). Nei perfetti deboli l' aflievolimento della vocale si compli- cava con quello del v. Ma mentre questo nella 1.' pers., mantenutosi dappertutto Vi finale, si trovava tra due vocali e quindi facilmente espo-

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232 SUL FEBF, DEB. BOMANZO [giomnalk di filologia

sto a dileguarsi, nella terza si trovò a quasi immediato contatto col t^ e la sua stessa facoltà a vocalizzarsi a contatto di una consonante dove favorire il completo disegno di quel leggerissimo e scevà > che già troviamo trascurato itf forme come pedicavd, in cui lo stesso t indebolito in d si trova sullo scomparire, e che accenna a forme come atnau, cantau del siciliano, donde -ao -o. Ad una conservazione del v ci paiono infine accennare anche le terze pers. del plur. con o come amorno, antornOy e per lo spagnuolo, le forme leonesi in -ioron: cuntioron, ixioron^ pudio- ron^ dixioron, pusioron. Le une e le altre vengono dal Diez spiegate coir influenza della 3.* singolare: e Elle (la term. -ioron) a été appelée par Vo de flexion de la S*" pers. sing. et répond à la forme italienne en 'Omo^ qui s'explique d'autant plus sùrement par la 3* pers. sing. (cantò) qu'elle est tout-à-fait restreinte à la première conjugaison > (1. e. 156-7 n.). Veramente quest'argomento non prova, poiché Vo risul- tando da au av non poteva in italiano trovarsi che nella 1.* conjugaz. perché in questa sola si aveva per vocale formativa Va; quindi da ama- veruni si potè fare *amaumn onde amarono^ amorno^ come da amavH si fece "^amault^^-amby mentre da implevèrunt Hmpleurun si dove fare Hmpiéoron impieron^ come da implevH si fece inip'lcn[t'\ = empieo poi empiè, 0 anche come da déono si fece denno; e così alla 3.' da nutrivè- runt si potè fare nutriv'runt ^nìdriuì-un ^nutrioron e in fine ntttriron^ nutrirono^ come da nutriu[t] •= nutria si fece nutru Invece nello spa- gnuolo essendo facile la trasposizione d'accento, che abbiamo veduto ve- rificarsi anche nel singolare si ebbe ixioron da ixloron=*exiurun exiv^runt exivèrunt. Anzi questa trasposizione d' accento conviene ammetterlo an- che per la desinenza -iéron che è da '4lv]èruni come il fr. -irent e Tit. 'trono, essendo difficile ammettere che solo nella Spagna si mantenesse il classico 'ivèrunt.

N. Caix.

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BOMANZA, H.* 3] 233

VARIETÀ

ALCUNI VERSI INEDITI DEL PATECCHIO

(da una lettera ad e. monaci)

Mio caro collega; Le cose piccole vogliono poche parole. Di Girardo cremonese ho alcuni versi da aggiungere a quelli ricopiati dallo Zeno e già stampati {Jahrb. far rom, u. engl. Liter, Vili, 210). Sono tolti ad un codice di Oxford; cioè al XLVIII degli italiani cano- niciani: e li do, quali me li trascrisse nel sessantacinque un amico gentile che non è più, il Wellesley: solo unisco o divido le sillabe, e metto virgole, punti ed ac- centi. Mi voglia bene e mi creda

Pisa, 25 marzo 1878 suo aff.mo

E. Teza.

A

nome del padre altisimo, e del fiol benedeto, Del Spirto santo, in cui eo for9a me meto, Comeu9are, finire e reirare voio per raxon Di driti insignaminti che fermò Salamon, 5 con se trova scrita in proverbii per litere 6ira[r]do Pateclo lo splana, in volgaro lo voi metere, Per quili che tropo parlar (1) corno ili se dibia mandare, Como iruxi e superbii se defa umiliare; Como i mati se guardi et inprenda savere,

10 Como ale done se dexe tuti i boni costomi avere

Como Tuno amigo con T altro stove andare dritamente, E comò i poviri e i richi den star intro la 9ente. ^a li savii no me reprenda se no disesse ben Como se volesse dir: o s'eo digo più o men;

15 Eo noi digo per lor chili sa ben 90 eh' i de' Ma per gli cumunal horiiini che no sa bone le'. E quai voia si sia, se tuto el bene adrona (2) Che '1 voia dir el mei lassi i no far miglor ovra: Chi no podese tuto retenir ad un fla

(1) parlan (2) adovra

15*

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234 VABIETA [qioemalm di wiuh^ull

so 9^ ffl pocho non tira che *1 no sia miorà. '[D]e la lengna ve yoio dire premeramente Per 90 eh* eia noze plae a gran parte de la 9ente; Dal tropo dire se guardi chi se voi far loldare E dia logo ai altri s*i voi anch*i parlare.

25 Forsi (1) de lor che voi dir qualche cosa No dexe aconmeu9are fin che Tatro no posa; Vilan e parlente se po' tignir quelui Quando a dito quel che voi che desplax ad altrui: Vilan homo fi tignu chi parla sovra man

30 A PÌ90I0 e a grande, a par e sopran;

Se U no se yen9a lo PÌ90I0, el par forsi se lamenta, Al maior per vintura n'a dito per una trenta: Nesuno homo no de* gabar algun desconossente Che *1 ten lo mal per P090, e *1 ben 9eta in [n]iente:

35 Chi responde humelmente ira no se ten

E chi favella orgaio, se la no (2), si (3) vene:

Lengua depart Tamor di comps^noni

Non è mae trexoro el mondo no ma' ch'il toma bon.

[n codice chiude con le parole seguenti, sulle quali c^è un frego di penna:]

Lengua fae part chi sae.

(1) gli'è (2)gh'è (3)ghe

UNA CARTA VOLGARE PICENA

DEL SECOLO XII

Della ricca collezione diplomatica recentemente scoperta in un ri- postiglio del Collegio Romano (1) e ora conservata in questo archivio di Stato, una parte cospicua spetta alla Badia Cistercense di Fiastra.

(1) La relazione di questo tpovamento di naie di Roma, può leggersi nel Bullettino cui si va debitori alla solerzia del Barone officiale del Ministero delia Pubblica Istru- Podestà egregio bibliotecario della Naiio- zione, febbraio 1878.

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BOMAKZA, N.o 3] UNA CABTA VOLGARE PICENA 235

Ad essa esclusi vamente appartengono le pergamene deirXI e XII se- colo, importanti così per il rispetto paleografico come per la storia spe- cialmente ecclesiastica e topografica di tutto quel territorio della Marca che si stende dal Tenua fin oltre al Potenza, comprendendo buona parte degli antichi comitati di Camerino, Osimo e Fermo (1). Di tale regione non si è ancora trovata, che io mi sappia, alcuna scrittura volgare anteriore al trecento; laonde queste pergamene, che per ragione di officio ora sto studiando e ordinando, anche dal lato filologico acquistano valore: poi- ché mentre tutte sono scritte in un latino molto rozzo e spesso infar- cito di costrutti e di forme vernacole, una poi me ne è di già occorsa, colla data del 1193, nella quale il buon notajo trovandosi a un certo punto imbrogliato in esprimere clausule che non erano nel suo formu- lario, abbandona addirittura il latino e va innanzi valendosi della sua lingua materna.

In quest' atto che si troverà pubblicato qui appresso, secondo lo stile di que' paesi e di que' tempi, non è menzione del luogo dove fu rogato. dal nome del fondo si può arguirlo ; ma che debba ritenersi delle Marche ne fanno fede e i nomi proprj che vi occorrono, nomi dei più usitati in quella contrada; e le formole latine identiche che ci offrono le altre carte fiastrensi, ed infine i riscontri che similmente essa ha con quelle per i modi volgari. Del resto, un altro argomento per attribuire la nostra carta non solo alle Marche, ma più specialmente al' territorio Fermano, l'abbiamo nel fatto che il nome di e Blandideo filio Arduini « Oldrici > che si trova in essa, ricompare in altra della collezione (del 1197), per la quale viene allo stesso Blandideo venduta una terra che fu già di « Phylippus Alberti Sancti Donati » posta « in fundo qui dicitur Collis Sancte Marie >. Ora, questo istromento è rogato da un Magister Matheus notarius domini Marchionis > del quale si hanno altre due carte (1196, 1197) che si riferiscono a terreni posti in « ca- stro Montis Granarii >. E se la data, l'insolito nome di Blandideo e la stessa paternità inducono a credere che si tratti nelle due carte di una sola persona; è poi chiaro che anche il notaio Matteo debba sem- pre essere il medesimo, arguendosi ciò non solo dalla sua qualifica di « notarius domini Marchionis », che di rado occorre; ma anche dalla identità della scrittura e perfino della qualità e dimensione della per- gamena.

Gumo Levi

(1) V. Amatori D. Alberico, Abazie e Monasteri Piceni; Camerino, tip. Borga- relli, 1870, p. 12.

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236 VARIETÀ fo

TESTO DELLA CARTA

[Le abbreyiatnre Bono Bciolte in corsivo. ]

lORNALE 1)1 KII-OLOOIA

[1] f In nomiwe domini, nostri, ihesu, x. Anni mnt. M. C, XC. IIL iwdictione. XI. die [2] martir. (l) qui fuit. settimo die. infra me;ise. setembri^. Paginam. iiendicti [3] onis. tradictionis. atqiie obligationis. quam facio ego blandideo. coWvSem [4] tientem. mihi patri meo arduuino oldrici Ubi iohanyie filius qodam. alberto ofridi et ad tuas ehré' [5] des. Rem iuriis mee proprietatis. idesf. la terra ke iacet in integrum. [6] ' in f undo la fonte fracliti. adunata^ cum omw^ia q^/e super se. nel infra se ha [7] bet. et abet. fines. a capo la terra de caruone de gualtueri. a pede uia. ab u [8] no lato terra de alberti ca^niuni. a quarto lato terra de iohanni ofridi. Vnc^e a te [9] recepi in pretio. libras. XX. de ìucenses. (2) et isti denari. XX. libras. deole iohannes. [10] ad plandeo. adoienantio. (3) da q?^/stu saraieli (4) prossima, ad III. anno.s. com [11] pliti. unu mese poi. se plandeo non potes non uolese. redere. li denari [12] XX. libras. et, la mitade de lo prode, ke questa terra si aba iohanni ad proprietate issu [13] et sua redeta. (5) se questo auere se perdesse, sentia frodo et sentia impedimew [14] tu ke fose palese per la terra, ke la mitade se ne fose. ad resicu de iohanni [15] de tuctu. et la mitade de plandideo. et se plandideo rede. ad iohanni uo (6) [16] assua redeta isti denari, ke iohanni uo sua redeta. redese

(1) Sic. ha per intero alla riga 13, perché il se-

(2) Cnf. in altra carta, del 1175, lochisi gno della abbreviatura (un taglio orizzon-

(3) Da oggi innanzi. Cnf. in altre car- tale a mezzo l'asta del q) non consente esi- te: 1151, de niodo nanti; 1157, da odier- tazioni.

num die in antea. (5) Cnf. in altra carta del 1137, nostros

(4) S. Michele. Cnf. in altra carta del 1105, redcs; ed in altra pure dello stesso secolo, Alberto Mieli (Alberto di Michele). La vestris rcdibus.

fornìa poi abbreviata di quistOf che precede, (6) ito, così anche nelle righe 16 e 18, per

non potrebbe essere risolta in questo, come o (aut) o per vo' (vtfoi)ì

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ROMANaA, N.'» 3] NOTA PEL DONAT PROENSAL 237

senti onnem [17] sconditione. (l) ista terra,, ad plandideo. et se plandideo non redese li denari [18] ad iohannì et uo assua redeta ke la terra sia loro a proprietate. abeatis teneatis [19] et possi- deatis. a nullo homine aliq«^audo contra dicentem. non audea. [20] ad si quis nero contra ire uoluerit promitto me et meas ehredes tibi iohannì tuis [21] que eredibe^. iure, defendere, col- tra omnes ominines (2). qmd si noluerimws aut [22] non po- tuerim^^. aut aliqua causationem nohiscnm inposuerimws. duplam et me [23] liorata?». nobis restituamws. ac carta firma

permaneat quam [24] deniqwe carta a predicto plandideo. [25] Ego Qrmus notarius rogatus scribere scrisi, et senebaldo. gra- nariu [26] de actouuni (3). et uliueri. tadeu de morico adtun- dadmmi. (4) Kainaldo [27] de girardo scariti, in carta fuerunt testes.

(1) Altro esempio di questo s preste- ciò, ecc. La frase sinit omni sconditione

tico abbiamo appresso, 27, in Scariti per Ca- corrisponde all'altra pure frequente in que-

rttt; così in altra carta della collezione, 1198 ste carte, sine omni calumnia. Villamagna, in scurte per in ciirte, come (2) Sic.

a\ivoye de scurte. Anche oggi nelle Marche (3) In altre carte della collez. Attegone,

si ode scardo fano f scartoccio, scarta fac- (4) Attone di Adamo.

NOTA FEL DONAT PROENSAL

Il Sig. J. Banquier ci nella Zeiischrift fiir romanische Philolo' gie, II, 83, qualche nuova proposta di correzione al Donai proensal da aggiungere a quelle, assai giudiziose, da lui messe innanzi nella jBo- mania^ n.** 23. Stavolta l'egregio autore non è stato ugualmente felice. 30.* Enarhrar=^ erigere duos pedes et in diiohus sustentari, ce qui ne yeut rien dire. Suppléez manihns ». Segue una spiegazione, ingegnosa, se si vuole, ma che non fa al caso. Il testo, chiaro a tutti in Italia, sta benissimo: solo bisogna pensare a un quadrupede, e propriamente al cavallo e famiglia, non all'uomo, come fa il Sig. Bauquier! Veda inalberare nei dizionarii italiani, e si darà subito gran premura di ri- tirare la proposta. Pio Rajna.

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238 VA "RTKTA [c.iobnalk di fibologia

UNA REDAZIONE ITALIANA INEDITA

DEL

ROMAN DE LA ROSA

Qualche anno addietro seppi dal prof. D'Ancona come in un codice esistente nella Biblioteca della Facoltà di medicina di Montpellier si trovasse un'antica redazione italiana in versi del Roman de la Rose. Questa notizia egli V aveva attinta in parte dal Catalogue general des Départements , voi I, p. 458 (1), ed in parte da alcuni schiarimenti ed estratti fornitigli dal sig. cav. De Andreis R. Console italiano a Mont- pellier; e poiché dalla Facoltà posseditrìce del ms. aveva inutilmente sollecitato un prestito del ms. medesimo, egli mi comnnicò gli appunti raccolti, augurandosi che a me riuscisse ciò che non era riuscito a lui, d'ottenere cioè una copia di quello e renderla di pubblica ragione. Ed invero^ avendo nell' anno passato fatte per ciò alcune pratiche presso il mio amico sig. A. Roque-Ferrier, segretario della Société pour Vétude des langues romanes^ residente in Montpellier, n'ebbi in risposta che l'egregio socio, sig. H. Delpech erasi gentilmente offerto di procurarmi la copia desiderata e anche di unirsi meco per curarne la stampa nelle pubblicazioni speciali della stessa società. Qui dunque ringrazio pub- blicamente i due miei colleghi per il loro generoso concorso in questa opera che certo sarà di non poco interesse per gli studiosi della nostra letteratura medievale, e mentre aspetto di poter compiere assieme al mio amico D'Ancona la nostra parte di lavoro, credo di far cosa non discara ai nostri lettori, pubblicando intanto gli appunti che avevo rice- vuti da lui ed in parte anche dal sig. Boucherie, appunti che conten- gono tutte le rubriche del codice ed anche alcuni saggi del testo. Si ha così un elemento bastevole per accertare quanto il D'A. aveva feli-

ci) Il codice porta il numero 438 e nel ci- lo schifo. Latitante e ragione. Lamante

tato Catalogo viene COSI descritto: «N.<> 438. elamico. Venus e hellaccoglienza. Lc^

Petit in 4.0 sur velìn (Recueil). l.o Le Re- mante. Gelosia. Castità.. Vergogna. A-

MAN DB LA Rose; 2.<» SONETTI ITALIANI. mico. Falsembiante. Larmata di baroni.

XIV* siècle. Fonds de Bonhier , E, 54. La vecchia e falsembiante. BeUaccoglien-

Lessonnetsitaliensoccupentyìngt-neuffeuil- za ecc. Le premier sonnet commenee lets, à huit sonnets par feuiilet. Ces son-

nets sont presque tous en dialogue. Ils sont Lo dio d*smor nn snono mi trasse. »

intitulés: Lamante et amore. La morte e

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ROMAMMA, n,** 3]

BEL BOMJlBT de LA BOBE

cernente congetturato di sulle indicasìoni del Catciogue generai^ essere cioè i Sonetti italiani » ivi descritti come esistenti nel cod. 438, una specie di rifacimento del celebre poema francese^ e servirà per ora a dare una qualche idea di questo nuovo e veramente curioso documento. Qui vediamo il Romcm de la Base disciogliersi in una serie di 232 sonetti che sembrano riassumere tutto il contenuto di quello e perciò condensano in 3276 endecasillabi i 22,810 ottosillabi del testo francese. Il passaggio dalla forma epica nella lirica è qui una particolarità veramente carat- teristica e degna di considerazione^ e non è men bello T osservare come il gusto e l'arte italiana abbian saputo, appropriandosela, trasformare la materia poetica di Francia e rifoggiarla in un modo assai più sem- plice e, per quanto pare, più elegante dell' originale. Ma ora giudichi da stesso il lettore di queste nostre impressioni confrontando il primo sonetto della serie coi corrispondenti 147 versi del testo francese, che pongo in nota trascrivendoli da un codice della Biblioteca Casana- teuse (1).

(1) Cod. Casanat. B. III. 18, f. 12. ' e. 2.» Questo cod. fu già descritto dal Toblbr nel voi. LIV della Bibliotheh d. Litterar. Vereins di Stoccarda {Gedichte von Jehan de Condet)j e dallo Schblbb nei Dita et Contea de Baudouin de Condé, et de Jean de Condé son fils, t. Ili, 2^ par** pg* IX e segg. La lezione non è sempre corretta abba- stanza, ma non pertanto la do tale e quale, potendo questo saggio riuscire non del tutto inutile per chi attenda alla critica di quel testo.

JLd Dieus d'amors qui, l'aro tendu, Anoit toute ionr entendu De moi poursieure et espiler. Si s'arriesta soua X flguier; Et quant il ot apiercen Que i' avoie ainsi eslen Le bouton qui iniex me plaisoit. Quo nos dea autres ne fialsoit, n a tanioet pria une floke; Et quant la corde fu en coche, n enteaa iusqu'a l'oreìlle i

L'aro qui estoit fora a merreiUe, Et traisi a moi par tei devise, Que par mi l'oeil m'a el cuor mise Le aaiette par grani roidour. Et lom me prisi une firoidour. Doni i'ai dessous ohaut pelioon Seniue pois mainte fricon.

i^^ani i'euo ainsi esie bierses,

A tierre fui taotost Tierses;

Li cuers me faui, li onera me meni,

Paames ino iUueo longhement.

Et quant reviog de pamison.

Et i'oi mon sena et ma raison,

le tuX monlt sains et a'ai onidie

Orant faia de aano avoir yuidie. Mais li salette qui me point. Ne traisi onquea sane de mei polnt, Alns fb la piale ionie aeke. le pria lora a .IL maina la fleke. Et la oommencai a iirer. Et en iirant a souspirer. Et iani tirai, que i'ai mene A moi le fusi tout empene. Mais la saiette barbelee, , e 1.] Qui Biautes estoit appiellee. Fu ai dedens mon ouer floie, Q11 n'en poei iestre hors sacle, Anscois remest on cuor dedana Et si n'en issi onquea sans. Anguisseus fai et mouli tourbles Por le perii qui fu doubles; Ne seno que fere ne que dire, Ne de me piale n trouver mirre, Que par bierbe ne par raohinne N'en aniendoie medechinne, Mes Tlers le bouton se traioit Mea cuers, qui aiUeurs ne beoii. Se ie l'eusse en ma baillie, n m'exist rendue la vie; Li Teoixs sans pbis et rondonr

La premimi /ie-

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240

VARIETÀ

[OIORVALB DI FILOLOGIA

1) AUora ) nome

) nomo

Lo Dìo d* amor con su' arco mi trasse

Perché guardava un fior che m'abbellia,

Lo quale avea piantato Cortesia

Nel giardin di Piacier; e quei si trasse

tosto, eh' a me parve che volasse;

E disse : i' ti tengo in mia balia.

Allo' (1) gli piacque, non per voglia mia.

Che di cinque saette mi piaghasse.

La prima, à non (2) Bieltà, per li ochi il core

Mi passò; la seconda, Angielicanza ,

Quella mi mise sopra gran fredore;

La terza Cortesia fu san dottanza;

La quarta Compagnia, che dolore;

La quinta apellaPuon (3) Buona-speranza.

Li atUtte e»t a- plHlee 8(mplece.

M'sicia moult de ma dolour. le me comraencai lora a traire yiers le bonton qui souef flaire.

JlLmon avoli la recouvree Une autre fleke a or ouvree. Simplìce ot non, c'est la seconde Qui maini homme par mi le monde Et mainte fame fait amor. Qant Amors me vit en primer, n traiat a moi, sana manecier. La saiete on n'ot fler ne ader, 8i que par mi le cuer m'entra Li fialette qui n'en latra lamaia, le culo, par homme ne; Car au tirer ai amene Le fuat o moi aana nnl contens, Mea la saiette remeat ena.

kJt sacies bien de verite» Se i'avoie devant eate eoi. SJ Don bouton bien entalentes, Or fu ffraindre ma volentea. Et quant li roana plus m'anguissoit, Et la volentea me croisaoit Tona ionrs d'alcr viers le roaete Qui flairoit miens que violete; 8i me venlat miena reculer, Mais ne pooie refuaer Cou qne mea cuer me conmandoit. Tout adiea la u II tendoit Me couvenoit aler i)ar force, Maia li arciera qui moult a'eaforce De moi grever et moult se painne. No m'i laist point aler aans palune; Aina m'a fait, pour mlex afoler. Le tierce fleke ou core voler, o>%rtoiMie. Qui Courtolaie iert appiellee.

La piale fu parfonde et lee, SI me coavint cheir pasme DeaouB .1, Olivier rame, Orant piece y iuc sana remner. Quant le me poi eaviertner, le pria le fleke et ai boato Le ftiat tantost de mon coaie; Maia le aaiete n'en pene traire Pour riena qne ie pensee faire.

Jbjn mon seant lores m'aais Moult anguisseus et moult pensis; Moult me deatraint yceate piale Et me semont qne ie me traie Ylera le bouton qui m'atalente. Maia li arciera me reapocnte [Une autre flolche de grant guise; La quarte fu, s'ot non Franchiae] * Et me doi bien eapoenter, Qn'eacaudea doit iawe dontcr; Mea grant coae a en estavoir. Se ie veiaae llluec plouvoir Quarriaus et pleros pelle molle Ausai capes comme la grello, 13J So m'estoet il que g'i alaisse, K'Amors qui toutes cosea passe. Me donnoit cuer et liardcmont De faire aon commandcment. le me sui lors em piea dreciea, Foivlea et vaios com hom blecles. Et m'epforcai moult de marcier: Nel laisBai onquea pour l'arcier. Vera le rosler ou mea cuera tant. Mala d*espinnes y avoit tant, Oardons et roinsca, c'onques n'oi Pooir de passer l'espinnoi, Si c'au bouton penisso ataindre. Lea le baie m'estoet femalndrej

* Questi dne veiai che mancano nel codice , soao rappllti colla odia. F. UicbeL

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BOMANZA, N.*' 3J

BEL ROMAN DE LA ROSE

241

I due sonetti che seguono sono questi, corrispondenti ai versi 1891-2052 del testo francese, secondo la edizione che ho sottocchio di Parigi, 1864, a cura di Francisque-Michel :

L^ Amante et Amore.

Sentendom* ismagato malamente

Del molto sangue ch'io avea perduto,

E* non sapea dove trovar aiuto ;

Lo Dio d'amor venne a me presente,

E disaemi: tu-saai veramente

Che-ttu mi se' intra-sse (1) man caduto (i) questo

Per le saette di eh' i' t' ò feruto ,

Siche convien che-ttu mi sie ubidente.

Ed i' risposi : i' son tutto presto

Di farvi pura e fina fedeltate

Più eh' Assesino a Vellio o a Dio il Presto (2).

E quelli allor mi puose in ventate

La sua bocha a la mìa senz'altro aresto,

E disse: pensa di farmi lealtate.

L'Amante e Amore.

Del mese di gennaio (3) e non di magio Fu qnand' i* presi Amor a signoria E eh' i' mi misi al tutto in sua ballia E saramento gli feci e omaggio; E per più sicurtà gli diedi in gaggio Il cor, che non avesse gielosia, Ched i' fedele e puro i' no gli sia E sempre lui tenere a segnio maggio (4). Allor que' prese il cor e disse: amico, 1' son segnior assa' forte a servire : Ma chi mi serve, per certo ti dico, Ch' a la mia grazia non può già fallire, Ed a buona speranza il mi notrico Infin eh' i' gli fomischa su desire.

(2) AUuslo. ne alle note leggende del Vecchio della montagna e del Prete Jan- ni.

ttaia

(4) O m' ag- gio r

Qai estoit as roRiers ioingnant Faite d'esplnnes monlt polngnant; Monlt biel me fa que ion eetole Si prìes quo don bouton sentoie La donce oudour qui en issolt, Et dorement m' abiellissoit Chon que le veoie a bandon; S'en avole tei guerredon Que mc8 inaus en entr'onblioie, Pour le dellt et pour la fole. Tous fui garis et moult fui aise, lamais n'icrt riens qui tant me plaisc Gomme ie»tre illuecqucs a scloui ; ^'en qucsisse partir nul *iour.

J\j.e8 quant g*l este grant p'ece. Li Dieufl d'amor» qui tout depiece Mon cner, dont il a fait biorsaut. Me redoime J. uouviel asnant Et trait, por moi niettre a mescief. Une autro fleque derecief, Si que ou cncr, sona la mamicllo. Me fait une plaie nouvielle. Compaingnio ot non 11 saiete: Comp«fntt. Il n'ent nullo qui plun tost mete col. 2] A mierchi dame ou damolsielle

10

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242 VARIETÀ [giornakr di filologia

Ecca le rubriche degli altri , avvertendo che quando sotto una stessa rubrica vi sono più sonetti, indico appresso fra parentesi il numero di essi.

L* Amante e Amare (4) L'Amante e lo Sisifo L'Amante (2) L'Amante e Ragione Limante L'Amante e Amicò L'Amante Franchezza Pie- tà — Lo Schifo L'Amante e lo Schifo Venus Venus e Bellacoglienza L'Amante L'Amante e BeUacoglienza L'Amante Castità Gelosia Ver- gogna — Vergogna e Paura Lo Schifo Gielosia L'Amante (7) L'Amante e Ragione L'Amante Ragione La (sic) Ragione L'Amante Ragio- ne — L'Amante Ragione (3) L'Amante L'Amante e Amico L'Amante L'Amante e Amico Amico (24) L'Amante e Amico Amico L'Amante e Ami- co — Amico (2) L'Amante (2) L'Amante e Richeza (2) L'Amante e Dio d' amore La Strettii Astinenza Dio d' amore e Falsenbiante Dio d' amore Il consiglio de la baronia L' ordinanze delle battaglie de la baronia Lo Dio d' amore La risposta della baronia Amore Falsenbiante Falsenbiante Falsenìnante (3) Falso settbiante Dio d'amore e Falsenbiante Falsenbian- te (9) Amore e Falsenbiante Falsenbiante Amore e Falsenbiante Falsen- biante (8) Dio d' amore e Falsenbiante Falsenbiante (9j Lo Dio d' amore e Falsenbiante L' armata d^ Baroni Comm' Astinenza andò a Malabocca Come Falsenbiante andò a Malabocca Malaboca Falsenbiante acostè (?) Astinenza Astinenza Malaboca —Falsenbiante La ripentenza Malabocca Cortesia e Lar- gheza è vecchia Fcdsenbiaiite La vecchia e Falsenbiante La vecchia e Bella- coglienza — La vechia Bellacoglienza e la vecchia (2) La vecchia (50) Bella- coglienza (2) La vechia e BeUacogtienza L'Amante e la vechia L' Amante e Bellacoglienza (2) L'Amante e lo Schifo Vergogna e Paura L'Amante (2) La bcUtaglia Lo Schifo e Francheza (Seguono 24 ss. senza titolo).

Chi ora apra il Roman de la Rose e si faccia a scorrerne le rubri- che fino' a quella inclusivaraente che nella edizione Frane-Michel tien dietro al verso 16,240, potrà verificare come esse continuino sempre a corrispondersi colle rubriche del testo italiano sopra riportate, ed è quindi verosimile che anche T ultima parte del Rom. de la Rose non manchi di corrispondenza coi Sonetti, e che ciò sia appunto in quei ventiquattro finali che nel codice non hanno rubrica. Infatti il 24." contiene ap- punto la chiusa del poema ed è questo:

Malgrado di Bicheza la spietata, Ch' unquanche di pietà non seppe usare, (1) ma. camino. Che del camin (1) ch^ ò, nome Troppo-dare^

Le piaque di vetarmene l'entrata; Ancor di Gielosia ch'è-ssi spietata Ohed agli amanti vuole il Fior guardare, Ma pur el mie non sepella murare Ched i' non vi trovasse alcuna entrata ; [0]nd'io le tolsi il fior ch'ella guardava, E ne stava in gran sospezone Che-Ila sua giente tuttor inveghiavav

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BOMAxzA, N.o 3] DEL EOMAN DE LA BOSS 243

BellacoglieDza ne teane in pre^^^one Perch'ella punto in lei non si fidava, £ n'er'ella dona di ragione.

Ma raffronti più sicuri ed esatti potranno farsi i;i seguito quando sarà conosciuto l'intero testo e allora non mancheremo di tornarvi sopr^ e di trattarne più ampiamente.

E. MONACL

LA LEGGENDA BEI TEE MORTI E DEI TRE VIVI

IN ITALIANO

Alle infinite allegorie dell'Amore successero in sul dichinare dell'età media le allegorie della Morte. La Danza Macabra allora colle.sue spa- ventose rappresentazioni e coi suoi lugubri canti percorse l'occidente, ammaestramento insieme e satira della sbigottita umanità, e le tre arti sorelle, poesia, pittura e scultura gareggiarono nel ritrarla e nel ren- derla popolare. Fra le diverse nazioni l'Italia soltanto non mostrò molto fervore nell' accoglierla e, benché monumenti non ne manchino nemmen qui, come quello bellissimo che ne lasciò l'Orgagna nei suoi affreschi del Camposanto di Pisa, o quello dipinto nel Monastero di S. Bene- detto a Subiaco, o l'altro sulle mura esterne della chiesa dei Discipli- nati a elusone (1), tuttavia nella nostra letteratura se ne veggono ben pochi vestigi. Il sig. P. Vigo, che pur ora molto lodevolmente illustrò le vicende della Danza Macabra fra noi (2), appena riuscì a trovarne una sola redazione italiana, mentre poi della leggenda Dei tre Morti e dei tre Vivi, che forma un episodio di quella e che ben presto si diffuse anche separatamente in numerose versioni, egli non ne rinvenne che una sola, la quale del resto essendo latina, ne lascia abbastanza incerti sulla sua nazionalità. Io non voglio qui ricercare le cagioni di cotale povertà, tanto più che già il aig. Vigo seppe ass^i bene intuirle e metr

(1) Un^altra Danza Macabra molto antica strarla prima che il tempo e T ignoranza

conservasi, per quanto mi vien riferito,* di- di quei buoni paesani la facciano scomparire

pinta a fresco nel chiostro di un monastero del tutto.

abbandonato a Montebuono in Sabina. Giove- (2) Le Danze Macabre in Italia, Studi

rebbe che qualche studioso il quale sMotenda di Pibtro Vioo. Livorno, coi tipi di Fraine,

di cose d*arte, si prendesse la cura d'illu- Vigo, 187S,

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244

VARIETÀ

[giornale di FILOLOOU

terle in rilievo. Bensì, essendomi venuta alla mano una versione ap- punto italiana della leggenda Dei tre Morti e dei tre Vivi, stimo non inop- portuno di pubblicarla qui appresso. Per chi non Io sapesse, la leggenda in sostanza è questa, che tre giovani principi, o tre re, mentre un giorno cavalcando col falcone in pugno si recavano baldi ed allegri ad una par- tita di caccia seguiti da uno splendido corteggio, furono fermati da un eremita. Costui, che era S. Macario, mostrò loro tre tombe scoperchiate entro cui giacevano tre scheletri reali, e facendo loro considerare il mi- sero stato a cui quelli, una volta loro eguali, erano ridotti, li persuase a mutar vita e, abbandonato il mondo, a farsi penitenti. La pittura adornò del suo meglio questo soggetto, e una variante ci è porta dal- l'esemplare di Subiaco dove dei tre principi mentre uno si rimane a far Tanacorata, gli altri due fuggono e sono sorpresi dalla morte che li rovescia da cavallo (1). Anche in quello di Clusone appariscono delle varianti (2), e in genere si vede che nel trattare questo soggetto la pittura fu più felice della poesia e che questa, perduta man mano la parte descrittiva, rimase una semplice moralità dialogata.

La presente versione mi fu communicata dal sig. Molteni, il quale la trasse da un codice Vaticano Ottoboniano segnato 1220 (3). La roz- zezza della sua forma è resa anche maggiore dalla rozzezza del copista che ce la conservò; il verso, ordinato a strofe di otto dipodie che rimano quattro per quattro, spesso eccede o difetta della giusta misura; le ri- me, e sien pure talvolta assonanze, sono anch'esse guaste di sovente, e dal tutto insieme ben pare che il dialetto dell'autore e quello del co- pista, sebbene ambedue meridionali, non fossero peraltro della stessa provincia e non riuscissero per ciò a trovarsi abbastanza d'accordo nel- r uso delle stesse forme. Ma il documento ha più importanza letteraria

(1) V(J. la descrizione datane dal signor Vigo nelPop. cit. p. 34.

(2) La descrizione con una riproduzione litografica si ha in Vallardi, Trionfo e Danza della Morte o Dama Macabra a elusone, Milano, 1859.

(3) Il codice, secondo la descrizione pure datamene dal sig. Molteni, è miscellaneo, diviso in due parti, lap^-ima, f. 1-68, mem- branacea del sec. XIV, la seconda, f. 69-130, cartacea del sec. XV. Esso contiene: f. 1- 56.^^ ) Liber moralium de regimine domi' norum, qui alio nomine dicitur Secre- tum secretorum, conditus ab Aristotile et tnissus ad Alexandrum regem ; f. 56.'' ) la poesia qui riportata, la quale è di scrit^ tura più recente che non il Libar moralium

e riempie una pagina già lasciata biauca nel codice; f. 50-65.^ ) Excerpta et nota- bilia varia; f. 65.* - 69) Orationes in in- troitu priorum ; f, 69-75.' ) Oratio in in- troitu potestatiSy Responsio ae officii receptio ; 75^" - 76 ) Oratio Guerrini vero- nensis ad matrimonium; f. 76^-88) Orat.' variae inter quas plures Leon. Are- tini;— f. 88) Per Franciscum Petrarckatn in reditu a partibus ultramontanis in Ytalia?n: 18 esametri, cornine. [S]a/M«, cara deo tellus sanctissima , salve. Fioisc. Salve, sanata parens , terrarum gloria , salve; f. 89) Epist. Docto de Doctis; f. 92-107) Seneca, De tranquiUitatc ; f. 108-120) Prudentii carmina; t 130) lettera di Lenitilo ai Romani,

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ROMANZA, K.« 3] I TRE MORTI E I TRE VIVI 2Ah

che lìngnìstica, laonde senza dilungarmi ad analizzarne la grammatica e tentarne, senza troppa speranza di buon esito, la restituzione, mi limito a darlo quale si legge nel ms. , solo apponendovi per comodo del lettore alcune noterelle. E. Monaci.

Cod. Vatic. OUóbon. 1220 y fi. 56,*

Lo primo re che nance (1) giua, dice li (2) compagnune:

non place (8) nante, que ei grande veseone (4),

che dio mostra che serrìmo per cheste soy rajsune.

4 tornamene da mal fare, che dìo non n abandony, lassamo li dilecte el (5) cose mundane, ca tacte so false, gabatrice e nane (6), ca tacte so cadute (7), malate e male sane,

8 se-U ay lo iorno e la sera, no lu (8) troueray domane.

Lo secundo re s ynoltra et mostra con de (9) grande paura, diche (10): tremo et afrigome più eh està uita dura; tant ò grande tremore, che la mente me fura.

is vego la nostra gloria moltu uile (11) fegura: adunca Vi preco (12) fugìmo lo peccato, cha poy che lomo more, da tucte è despreczatu; ne parente, ne filgu, ne amico nond è mente (13) amato

16 trouase di ciò e à facto da poy eh è trapassatu.

Lo terzzo, co lo suo farcene, dice ali altre duy: questu che nuy uidirao, ne sengna mene et vuy, che ciasceuno sy repenita di li peccate (H),

jo (15) in pouertate, non siamo ricchi pinne: ca li caute et li rise e li nane parlamente, li sollanze (16), iochi, li caualle currentc, auru, argentu, corone co le altre adornamenti,

14 lu uoltu bellu che tuctu torna a mente (17) . . .

Lo primo mortu prese a dire : vno (18) fuimo come vuy syte, re prudentissirai , dilectosi e arditi; ora Simo vile, cussi vui tornarite. s6 da li nostre (19) peccate gitine e penititi,

(1) Forse nante, cnf. 2. (2) a li (3) ? sic. (4) visione. (5) corr. « le (6) Si- milmente Buccio di Ranallo, aquilano, nella leggenda di S. Caterina (cod. XIII, D, 59 della Bìbl. Nazion. di Napoli), vv. 5-8: Cha le cose mundane Sapitc cha so vane, Cha

multi r au uno anno Chello altro senne vanno (7) Probabilmente caduce ,

per -che. (8) corr. le (9) soppr. de (10) corr. dice? (11) cod. nile. (12) prego. (13) legg. niente t (14) agg. sui, (15) Manca forse viviamo o altra simile parola. (16) sollazzi. (17) il senso resta interrotto. (18) corr. nui (19) corr. uostre.

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246 VABIEl^A [oiobnalb di filologia

ca non uale recceze (1), ne sapere dicere (2), ne forza di parente, ne reale amore, 81 consigi u, ne arme, ne-ssegnore (3).

Lo secundo morta parlaua et dixi a li caualere:

eo tenia sparucre, bracchi et liareri,

caualeri con uallecte iostrante e gintile distrere; ss non me ualse la uit ai quando me fa mistei>e!

so tornata luvdura, li uermi me so segnore,

li parenti mj caczano, 1 amichi me so dure.

e (4) li mei fossero state mundi e puri, 39 no staria in queste pene d esti lochi scura (5).

Lo terzo mortu dixi, lo quale è-ppiù disfacto,

che questu mundu -et superbo paremi folle e macto :

ca^bellecza, ne forza parerne uno tractu: 4s eo che fui superbo, caro meli acacto.

ma quando potite leuare li peccate,

precoue caramente gitive e confessate;

ca poy eh è ca uenutu, da tucte è dispreczatu, 47 auru, argentu amicu cai vai non trouate.

(1) ricchezze. tre verso, che doveva chiudere la strofa.

(2) il verso doveva finire in -ore, (4) corr. se.

(3) appresso manca verosìmilmente un al- (5^ corr. scuri.

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BOMAXZA, ìi,^ 3]

247

EASSEGNA BIBLIOGRAFICA

1. Poesie popolari religiose del secolo X/F pubblicate per la prima; tolta a cura del prof. Giuseppe Febbaro. Bologna, Romagnoli, 1877. In-8% di pp. 85.

2. Baccólta di sacre poesie popolari fatta da Giovanni Pellegrini nel 1446 pubblicata dal prof. G. Febbabo. Bologna, Fava e Garagnani, 1877. In-8% di pp. 83.

Il Big. prof. Ferrare è pieno zelo per la pubblicazione di antichi testi; in pochi anni ha dato alla stampa diversi volumi di una importanza bastevole a giustificare le sue fatiche, e nessuno studioso vorrà certo negargli una lode pei servigi che in tal guisa ira rendendo alla scienza. Ma il suo zelo ha pure un lato debole, poiché lo spinge ad accelerar di troppo i suoi lavori, onde so- vente accade che questi portino il segno dellst fretta che si diede nello allestirli e faccian sentire il bisogno di nuove cure e di studj più maturi. Le due pubblicazioni qui an- nunciate, che formano il volume CLII della Scelta di curiosità letterarie edita dal sig. Komagnoli, sono una conferma di quanto dicevamo, e non ispiaccia a quelT egregio uomo che, con tutto il rispetto che c'ispira il suo buon volere, qui gli presentiamo al- cune nostre osservazioni, da nu ir altro mossi se -non dal desiderio di non vederlo confuso fra la turba infeconda di quei tanti, che si danno a pubblicare monumenti della nostra vecchia letteratura quasi per trastullo e senza punto sapere del difficile magistero delT edi- tore.

La prima di queste due pubblicazioni ebbe occasione da un codicetto che il sig. F. trovò nella Biblioteca Comunale di Ferrara. Quel codice contiene una raccolta di antichi ritmi religiosi, parte latini parte italiani, e seb- bene i latini abbiano forse maggiore impor- tanza degli italiani, il sig. F. nondimeno volle date la preferenza ai secondi e ne avrà avuto le sue buone ragioni. Questi ritrai n?! ms.

«on-0 tutti anomini, ma confrontandoli con altre raccolte se ne ritrova l'autore e rile- vasi che parecchi di essi appartengono o a Jacopone da Todi o al Bianco da Siena o ad altri antichi laudisti. Ciò vide anche il sig. F., come n' è prova la tavola di tutti i capoversi della raócolta, che egli inserì nella sua prefazione (pagg. 6-9) e doVe aggiunse i nomi di cotali autori, avendoli senza dubbio dedotti dalle raccolte a stampa. Dico rac- colte a stampa, dacché altri codici mss. egli non cita, e perciò confesso che non so com- prendere come poi fra i 17 « inediti > ed « anonimi > che scelse per questo volumetto, ne abbia inseriti quattro che nella sua ta- vola aveva già restituiti ai loro autori e che trovansi appunto stampati nelle diverse edi- zioni di Fra Jacopone o fra le Laudi spi' rituali (ediz. del Galletti data da Firenze nel 1863 riproducendo le stampe anteriori più rare), tutte edizioni che, lo ripetiamo, il sig. F. deve aver consultate per compilare ki sua tavola. La svista è un po' grossa. Questi ritmi sono quelli da lui contrasse- gnati per B, C, G, L e cominciano

B Ora alditi mata pacia (edita in Jacop.

da Todi, ediz. Tresatti, 1. I, n.o 7 e

nelle Laudi spirit. p. 303); C Faciamo fati faciamo (iu Jacop. ediz.

cit. 1, 4 e nelle Laudi spir, p. 315); G Levate su orarnay (nelle Laudi spir.

p. 207); L Benedetto ne sia el zorno (nelle Laudi

spir, p. 2S2).

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248

BASSEGNA BIBLIOGRAFICA [giornale di filolocu

E meno male se la nuova lezione porta dal codice ferrarese fosse migliore delle prece- denti! Ma tutt* altro: che oltre al presen- tarci essa uno strano amalgama di forme dialettali di più provincie (prodotto senza dubbio dai diversi copisti intermedj che si successero), abbonda poi di spropositi i più grossolani, fino al punto da rendere bene spesso quasi irreconoscibile il metro e la struttura primitiva delle strofe. L'enormità di tali sconci fu probabilmente la cagione per cui il sig. F. si astenne dal cimentarsi alla critica del testo. Tuttavia avrebbe po- tuto, almeno in nota, correggere alcuni de- gli errori più evidenti, come in A str. 5 v. 4 apigerato per apigerata, desinenza femmi- nina voluta dalla grammatica e dalla rima anche in 13, 1-4; 15, 4 ed altrove; e cosi poteva correggere ivi, 15,3 aguaiti per ara- guayti; 22, 1 iocutido per locando; 51, 4 addolorato forse per dolento. Ma egli la- sciò tutto stare, anche quando bastava a re- stituir la rima una semplice trasposizione di parole, come in H, 2,3, ove fu scritto assay aveva in luogo di aveva assay; e quest'ec- cesso di rispetto, non per l'integrità del testo ma per le sue magagne, trattenne l'editore fin dal riordinare le parole che nel ms. , come di solito, stanno mal divise o male aggrup- pate. Egli dunque, a mo' d'esempio , in que- sto volume ci chiè per chi è, chio per eh* V ò, Ito per li ò, mea per me à, iochi per t {=sgli) ochi, in sul fogo per in sul fogo, apiato per à piato {==* pigliato) e di rincontro a covato per acorato ( = accor.); intra me doe per intramedoe (=^entram' bedue), ecc. ecc. Pare al sig. F. che ciò sìa buono ? Ammetto che possa disputarsi sulla convenienza di aggiustar sempre ad antiche scritture i moderni segni ortografici, e di sopperire con apostrofi alle elisioni ed alle aferesi; ma chi potrà mai consentirgli che, tranne il caso di alcune edizioni diplo- matiche, sia tollerabile un sistema come questo adottato da lui, sistema il cui unico risultato qui è di rendere vieppiù difficile la lettura di un vecchio testo e di procurare ad un buon editore la taccia di cattivo copista? Del resto il sig. F. spesso si dimenticò di cotesto rigore e qua e troviamo e apo- strofi e accenti e altri segni dell'ortografia

moderna, il che accresce non poco la con- fusione.

La seconda delle raccolte qui annunciate proviene essa pure da un ms. della Bibl. Comun. di Ferrara, e sebbene dal titolo che reca nel codice, sembri che le poesie ivi contenute appartengano tutte a Giovanni Pellegrini, nondimeno il sig. F. giustamente le distinse in due gruppi, e ad uno riconobbe l'autorità del Pellegrini il quale visse nella prima metà del sec. XV e l'altro assegnò ad epoca più remota e lo considerò di ori- gine affatto popolare. Facendo qualche ri- cerca bibliografica, il sig. F. avrebbe po- tuto accertarsi meglio di ciò e avrebbe ve- duto come, per es., la poesia da lui con- trassegnata per V, già da più di un secolo avanti al Pellegrini doveva esser ben diffusa per tutta Italia, trovandosene codici assai più antichi e trascrizioni in molti dialetti italiani. Avrebbe anche conosciuto che la stessa poesia, lungi dell' essere inedita, era stata già stampata più volte in passato e pur di recente, come negli Opuscoli mo- rali, relig. ecc. di Modena, t. VI, e fra le Laudi di una compagnia fiorentina del sec. X/F pubblicate nel 1870 in Firenze per nozze da monsig.' Cecconi. Così fra queste stesse laudi edite da mons. C. il sig. F. avreb- be ancora ritrovato part« delle altre poesie da lui indicate per A, B, H, R, e non avreb- be dato per inedite cose che in parte o in tutto erano già per le stampe. Circa al modo con cui i testi furono pubblicati anche qui hanno luogo le stesse osservazioni fatte per la raccolta precedente e non le ripeteremo; soltanto è da notarsi che qui il sig. F. non di rado aggiunse alcune note o glosse per dichiarare parole viete ed oscure. E fece bene, ma non sempre colse nel segno, come quando spiegò (A, 12) zio per c'Ao, mentre invece trattavasi di zio, forma dialettale di giglio, e tutto quel verso che egli legge Niente zio fresco dorto, andava letto llente (o 01.) zio fresco d'orto. La glossa ve- dette, apposta alla parola vete (p. 56) del testo, non è che un solecismo. Noteremo pu- re che i raff'ronti di forme ferraresi con simili spagnuole (p. 60) o rumene (p. 79), sono af- fatto oziosi. Vi\ errore evidente di lettura è in D, 4, 6, Vi voi per In voi; ivi, st. 6, si tolgano

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ftOMANSA, N.^ 3]

RASSEGNA BIBLIOGRAFICA

249

tutte le virgolette, non essendo più Tangelo che parla, ma il poeta che ha ripresa la sua narrazione. Nulla poi diremo della punteg- giatura che ò scorrettissima e nemmeno degli errori di stampa che formicolano per tutto il volume ; ma non possiamo tacere di un* al- tra menda ben più grave e che consìste nel non avere spesso saputo riconoscere la giusta divisione delle strofe. Cosk ad es. in E i versi sono ripartiti in questo modo: 1, 2, 3 || 4, 5, 6 II 7, 8, 9, 10, II, 12 (| 13, 14, 15 jj 16,

17, 18, 19 II . Invece, i due primi versi, for- mando la volta, dovevano star da ; poi dovevano seguire quattro strofe di quattro versi ciascuna, avvertendo ohe nella seconda strofa manca il secondo emistichio del ver. 3 e il primo del v. 4 , e che gli ultimi quattro versetti non sono in realtà che quattro eroi- stichj i quali formano la seconda metà del- l'ultima strofa. Anche di simili sviste ne occorrono parecchie in questo volume. E. Monaci.

3. Teorica dei verbi irregolari della lingv^italiana. Saggio di morfologia comparata di Luigi Amedeo. Torino, Loescher, 1877. Iii-8**di pp. 40.

La mancanza di una grammatica scien- tifica della lingua italiana ha mosso V A. alla r^cerca di una teorica dei verbi detti « irregolari » diretta a stabilire anche per r italiano quelle regole che con tanto van- taggio furono stabilite per i verbi greci e latini. Air A. non sembra sufficiente la trat- tazione delPargomento che è nella gram- matica del Diez, anzi ne crede errato il si- stema (p. 5, 6); crede che anche i verbi ita- liani debbano classificarsi organicamente a seconda della loro radice, e che lasciando pure inaherata la unità della coniugazione, debbano distinguersi i tempi o le forme forti e le deboli come si fa nelle altre gramma- tiche storiche e comparate. Dice^che la na- tura e lo sviluppo di quelle forme non fu peranco da alcuno esattamente definito, non che spiegato, e che da ciò derivò Terrore d'ammettere una intera coniugazione forte, anche nel tempo presente, mentre le forme forti per la lingua italiana e latina sono, egli dice, possibili solo nel perfetto e par- ticipio passato (9). - Non è qui il luogo di trattare la quistione di grammatica generale intorno alle forme forti e alle deboli, argo- mento svolto già con grande ampiezza e pro- fondità, a parer nostro, in alcune « gram- matiche storiche dove la morfologia è spie- gata scientificamente » e in molte monogra- fie. Ma neghiamo recisamente che quel si- stema e quelle denominazioni possano tra- sportarsi alla grammatica romanza air istesso modo che si fa per le altre lingue indo-eu- ropee. Il processo analitico il quale decom-

pone la parola ariana in radice, tema e fles- sione, sebbene si applichi a forme che pre- sentano già tracce di decadenzfT storica, si riferisce sempre ad un periodo genetico di formazione. Ma per le lingue neolatine i momenti di formazione rispondono esatta- mente ai momenti di decadenza delia lingua madre, e perciò in esse la ricostituzione ariana è contraria non solo alla verità storica, ma anche alla verità logica. Chi dice che sum sta in latino per esum, dice una verità che sarebbe certissima per il solo confronto delle altre forrpe latine cjp, est, estis, ecc. e delle lingue affini, quand'anche di fritto non si trovasse la forma esutn nelP antico latino; ma quando TA. per provare la irregolarità di alcune forme presenti del verbo « essere » dice che le forme regolari sarebbero state: eso, escrnoj eseno (p. 12) produce forme le quali sono non solo storicamente false, ma anche teoricamente assurde. Non so che cosa abbia voluto significare TA. quando parla della lingua latina ^i penetrata in gran parte dei dialetti » e di certe forme gram- maticali « conservate nella lingua italiana, che hanno nulla di comune con altre del latino » (12), e perché creda « anco insoluta la quistione sull'origine del volgare italia- no » (11), questione che, almeno nella sua parte più generale, si ha il diritto di tenere per già risoluta da lunga pezza. Sbagliato il sistema è chiaro che gli errori di appli- cazione debbano esser continui; ne noteremo alcuni. Divide i verbi a seconda della loro radice in labiali, gutturali, dentali e 11- 16*

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250

BA8SEGNA BIBLIOGBAFICA [qiohhalb di viLoumi

qaidi (20), e riconosce le forme forti dalla semplificazione delia radice, dalla comparsa di un elemento estraneo nella flessione, e dalla perdita quasi costante della vocale te- matica (10). Ma le forme labiali sap-s-i, rop-S'i, viv-s-i (21, 22) sono impossibili vi- cino a sapui, rupi, vivi; piao-s-i (pieiC- qu-i) (25) vicino a placui; ì verbi guttu- rali rinforzati quasi tutti avevano perduto già nel perfetto latino la gutturale tematica o l'avevano implicita nella ap, la quale in italiano, si è semplificata in s (23-27), e cosi le dentali , rinforzate o no, erano già cadute in latino {chiesto dato per eccezione (28) non assimila la dentale al suffisso, ma con- serva quella di quaestus ), o si erano assimi- late alla s della flessione (28-31). Non era lecito d'investigare se la radice primitiva di « crescere » e « cognoscere > fosse pura o finita in labiale per spiegare « crebbi » e « conobbi 0 che non posson metter capo al-

tro che a crevt, cognovi; e il verbo faa-ere (fare) non solo non è il più anomale (26), ma anzi è regola rissimo perché « feci > ita- liano non aliera nulla del latino feci. Del resto non staremo a ripetere quanto intomo alle forme forti e deboli dei verbi romanzi è stato scritto dal Burguy nella Grammaire de la langue d'oìl, da Gaston Paris nel suo aureo studio Sur le róle de Vaccent latin dans la langue franqaise; da Camillo Cha- baneau nella Hi^toire et theorie de la con- jugaison franQaise , e da Federico Diei nella Grammatica, il quale anche su questo punto non ha sbagliato, ma fondato il si- stema, e tracciata una via per la quale si può bene andare più lontano di lui, ma fuori di cui

A retro va chi più di gir si «ibnua.

Giulio Navone.

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BOMÀirzA, N.* 3] 251

BULLETTINO BIBLIOGRAFICO

1. Sùudi di etimologia italiana e romanjsa: osservazioni ed agginnte al

« Vocabolario etimologico delle lingue romanze » di F. Diez, del D. N. Caix. Firenze, Sansoni, 1878.

Voi. in 16.0 di pp. XXXV-213. L' utilità di questo libro si rivela dallo stesso suo titolo e a raccomandarlo basta il nome dell' autore, che gli amici della BÀvista e del Giornale di filologia romanza conoscono da un pezzo. Il libro è diviso in quattro parti , delle quali « la prima contiene osservazioni alle etimologie del Diez; la seconda aggiunte agli articoli àeW Etimciogisches WóT' terbuch; la terza è una specie di glossario di voci toscane cosi viventi come antiche; la quarta è uno studio di quelle forme di alterazioni che maggior- mente voglionsi considerare neir etimologia ». Com'è naturale non tutte le questioni etimologiche qui studiate furono definitivamente risolte; e così per es. al n. 128 si può tuttavia dubitare che la forma pistoiese abbiaccare « soppe- stare, infrangere », sia una derivazione di *flaccaret anziché metatesi di abbac- chiare, che ò da bactdum. Altri simili dubbj furono testé promossi nella Nuova Antologia ( 15 sett. 78) e di altri ancora forse toccherà in seguito il nostro Gior- nale, Ma ciò nulla detrae al pregio di un'opera come questa, il quale sta non tanto nelPaver felicemente ritrovato gli etimi di certe parole, quanto nello aver saputo ricercarli con quella sagacia e con quella dirittura di metodo che fanno del Caix un filologo distinto.

2. Dd vocabolario savia nota filologica di Giulio Giani. Perugia, Bar-

telli, 1878.

In 8.<» di pp. 22. L'A. ha trovato questa parola nella Cronaca del Ora- ziani e in altri antichi testi perugini, e qui si fa ad illustrarne l'etimo, che sa- rebbe da ipsa e da via. Meglio da ipsa e da vice, come notò anche la Bassegna Set- timanale (22 Sett. 78); e per la riduzione da ipsa, issa a sa era ovvio il confronto della forma sarda (sa) conveniva ricorrere^ come TA. fece, per lo stesso scopo allo spagnuolo, al francese ed al valaco. A pag. 17 parla TA. con un certo mistero di un testo « il più prezioso e quasi il solo veramente efficace e fecondo quanto raro documento dell' ant. dialetto di Perugia ». Egli non lo no- mina ma promette di farlo conoscere in altro suo lavoro e qui si limita a dame alcuni passi ove ritrovasi la parola « savia ». Non si tratta per avventura del libretto: JMe^itacc» | dimesser \ Mario Podiani, \ peroscino, | Del medesimo una | canzone \ a' Peroscia; \ stampato: In Peroscia Per GiróUamo Cartolai | aUi,VII, di Maggio M. 2>. XXX. V

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tb2 BULLETTINO BIBLIOGRAFICO [oiornalk di filologia

3. Tre sonetti antichi. Livorno, Vigo, 1878.

In 16.° di pp. 12, per nozze Borghi-Pigni. Editore dell'opuscolo h il sig. E. Molteni. I tre sonetti, a quanto pare, sono inediti e nei mss. d' onde li trasse l'editore, vanno attribuiti, il primo air «Imperatore Federigo », il secondo a « Giovanni Villani > ; il terzo é anonimo. Del Villani non conoscevasì finora nessuna poesia : questa, come la terza, é soggetto politico. Il primo poi, d' ar- gomento morale e didattico, sarà veramente di Federigo secondo? La forma del sonetto non si ritrova tra le sue poesie finora note, la maniera a*ò alquanto diversa, e dei due codici che contengono la composizione, uno solo rattrìboìsce a lui (essendo anonimo T altro) e quest'unico è del sec. XV. '

4. Storia della letteratura italiana di Adolfo Babtoli. T. I: IntrodU"

eione ^ Caratteri fondamentali della letteratura medievale. Firenze, Sansoni, 1878.

In 16.<^ di pp. 341. Ritorneremo su questo interessante volume che ci giunge mentre chiudiamo questa pagina. Intanto ne piace far conoscere la mente del- l'A. neir intraprendere quest'opera,' trascrivendo le seguenti parole dall'Avver- tenza che vi premette : « A chi mi domandasse quale h il mio intendimento nello scrivere questa Storia, risponderei che cerco in essa rendere di non troppo difficile lettura un argomento, intorno al quale molti hanno scritto, ma che forse aspettava sempre chi sìntetizasse e classificasse i materiali che le più recenti scoperte hanno forniti, senza per ciò rendersi troppo astruso e pe- sante. Io «tesso scrivendo un grosso volume che... intitolai I due primi secoli déUe letteratura italiana , dovei abbondare in note e citazioni, parendomi che fosse necessario giustificare tutto quello che ih dicevo, trattandosi materia quasi affatto nuova in Italia. Ora invece scrivo un libro che ha un intendi- mento diverso: quello cioè di rivolgersi a più numerosi lettori rendendo loro conto delio stato attuale della scienza nel campo della storia letteraria italiana. I due libri così vengono a completarsi e si recano vantaggio scambievole. Questo per ciò che riguarda la storia dei secoli XIII e XIV. Per il seguito poi sarli mìa cura di conciliare la facilità della narrazione colle esigenze della critica. >

5. Parnaso portuguejs moderno^ precedido da um estudo da poesda mo-

derna portugueza por Theopmilo Braga. Lisboa, F. A. Da Silva, 1877.

In 16.** di pp. Lxrv-318. La raccolta si divide in tre sezioni: I. Lirici por- toghesi; II. lirici brasiliani; IIL lirici gali iziani. Quest'ultima parte contiene molti saggi di poesia popolare.

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ROMANZA, K.** 3J

253

PERIODICI

1. Archivio oLorroLoaico italiano, Vo- larne III, punt. 2.* G. Flechta, Postille etimologiche. A. Ceruti, La Cronica deli Imperadori Romani. G. I, Ascoli, An- notazioni dialettologiche alla Cronica deli Imperadori.

Voi. IV, punt. 3.* V. Joppi, Testi inediti friulani dei secoli XIV al XIX. G, I. Ascoli, Annotazioni ai Testi friulani e Cimelj tergestini. G. Flechia, Del libro di B. Bianchi sulla preposizione A. G. Storm , Manipoletto d' etimologie : amòscino, baccano, bettola, bietta, borchia, cerboneca, facchino, fanfano, mucchio, peritarsi, retta, screzio. G. I. Ascoli, Il participio ve- neto in -ésto; Ablativi d'imparisillabi neutri. F, D'Ovidio, Giunte e correzio- ni. — Indici del volume.

Voi. V, punt. 1.» G. L Ascoli, Il Codice Irlandese delPAmbrosìana edito ed illustrato. Con due tavole fotolitografiche.

2. RbVUB DBS LANOUBS R0MANB8, DeUX.

ser. a. 1877, n.*» 10. A Balaguer y Afe- rino. Un document inédU relati f à la Chro- nique catalane de Jacme l.^^ A. Glaize, Notice sur August Giraud. J. Roux , Énigmes populaires du Limousin. Th. Au- banel, A Carle de Tourtoulon. A. Fon- rès. Un parelh per vendemios. P. Vi- dal, Lou paisau e las dos oulos. W, C. Bonaparte-Wyse , Li tres flour. Biblio- graphie. Périodiques. Chronique.

N.* 11-12. -4. Gazier, Lettres a Gré- goire sur les patoìs de France. A. Mon- tei, L, Lambert, Chants popul. da Langue- doc. A. de Quintana y Combis, Cango latina (prefaz. di A. Roque'Ferrier), W, C. Bonaparte- Wyse, La vilo d'Aigo-morto. MHa y Fontanals , Esperansa. W. C. Bo-

naparte-Wise , La soulitudo. L. Rou- meuw, Lucho d' ostello. W. C. Bonapar- te-Wise, Un Deo-gratias. L. Roumieujff, Lou ventour. Bibiiographie. Le chant du latin en Italie. Chronique.

A. 1878, n.» 1. Alart, Etudes sur Thistoire de quelques mots romans. A. Gazier, Lettres à Grégoire sur les patois de France. C, Glayzes, Lou Pech-Tri- nal. T. Aubanel, Béumouno. A. Lan- giade, Lou Garda-Mas. Bibiiographie. Perìodi qnes.

N.o 2. M. Mila y Fontanals, Po«tos lyriques catalana. L. de Ricard, Lou Borda dau Lez. A. Fourès, Le Vincedoa.

F, Ubach y Vinyeta, A trench d'auba. A, Chastanet, Lous Pouleits. Bibiiogra- phie. — Périodiqties. Chronique.

N.o 3. W. Foerster, L*Evangile se- lon saiu Jean, en proven^ du Xill» siò- cle. M. Di Martino, Enigmes populaires siciliennes. A. Espagne, A Jùli Gaussi- nel, après la legido de soun Abdona. V. Lieutaud, A Espagne^Donec gratus eram. Bibiiographie. Périodiques. Chronique.

N.o 4. IK. Foerster, L'Évangile se- lon sain Jean, en proven^al du XIU^^ sie- de. — A. Roque-Ferrier, Vv des infinitifs en langue d'oc. A. Arnavielle, A-n-Anfos Tavan, après uno legido d'Amour e Plour.—

G, Azais, Lous dous Canards sanvages. A, Le Gagnaud, I Latin d'Americo. Bi- biiographie. — Périodiques. Chronique.

3. Romania, n.® 25. G, Paris, Le Lai de Tépervìer. P. Raina, Una versione in ottava rima del libro dei Sette savi. ~ V. Smith, Vìeilles chansons recueìllies en Ve- lay et en Forez. A, Lambrior, LV latin en roumain. Mélanges : G. P,, Turris ali-

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254

PERIODICI

[aiOBNALB DI FILOLOGIA

thie. G. i*., chauson anonyme. P. M., Motets.— (?. P., Surge.— P. Af., Lea dix-sept cent mille clochers de Prance. G.P,, Ad- dition d'un t non étjmologique dans les pa- tois. J. Cornu, Gian et Aglan. ^ L. Ha- vet, On et noiis. Comptes-Rendua. Pé- riodìques. Chronique.

N.o 26. P. Meyer, La legende la- tine de Girart de Roussillon. E, Picot, La Sottie en France. Mélanges:^. Wes- seloffky, Un nouveau texte del Novas del Papagay. C. Chàbeneau , Sur Io pronora neutre en proven^al. Corrections: Th. Sundby, Sur le Dit de Constant. Comptet- rendus. Périodiques. Chronique.

N.o 27. J, Cornu, Glanures pho- nologiques. Voyelles toniques : a , a tonique maintenu, i=é, i atone protonique et i en po«ìtion. Diphthongues: ao. Voyelles ato- nes: suffixe -atorem, de Tìnfluence regres- sive de Ti sur les dentales. Consonnes: d=n, -tume=-tudinem, sce sci et sca dans la conjugaison, rr=-tr dr. P. Rajna, Una versione in ottava rima del libro dei Sette Savi. (?. Paris, Un lai d'amors. Mé- langes: L. Havet , Vvt dans le Saint Lé- ger. G^. P, Trouver. /. Comu, Conju- gaison dea verbes aidier, araisnier et man- gier. P. Af., manjar. P. 3f., Buten- trot, Les Achoparts, Les Canelius. Comptes-rendus. Périodiques. Chro- nique.

4. Zeitschrift pur romanische philolo- GiB, I, n.o 2-3. - W. Vietar, Der Ursprung der Virgilsage. Th. Braga, 0 cancio- neiro portuguez da Vaticana. A. Stim- ming, Die Syntax des Commines.— ^4. Pax y Melia, Libro de Cetreria, y una Profecìa de Evangelista, —^. Scheler, Li prìere Theo- philus. Th. Aurarher, Der sogennante poitpvinische Pseudotnrpin. Miscellen : E. Mail, Noch einmal: Marie deCompiègne und das E vangile aux ferames. A. Weber, Zìi den Legenden der Vie de pères. R. Kóhler, Ueber die Dodici conti morali d'Anonimo senese. E. Monaci, Il Libro reale. P. Rajna, Intorno a due canzoni gemelle. E. Stengel, Studien ùber die provenzal. Liederhandschriften: I. Die ko- penaguerSamralung provenzal ischer Lieder. W. Foerster, Zur altfranzòsischen Ue-

bersetzung der Isidorischen Synonìma. A, Mussa fia, Zum altfranzòs. Gottfried von Monmouth edd. Hofmann u. Volmòller. H. Rònsch, Romanische Etymologien. N, Caiof, Voci nate dalla fusione di due le- nii. — H. Suchier, Franzòsische Etymo- logien. — Recensionen und Anzeigen. Diez-Stiftung.

N.o 4. A. Stimming, Die Syntax des Commines. U. A, CaneUo, Il Vocalismo tonico italiano, § IX-XI (continuazione dalla Rivista di fllol. rom.) A. Weber, Zwei ungedruckte Versionen der Theophìlussa- ge. Miscellen: H. Vamhagen, Die hand- schriftl. Erwerbungen des Mus. Brit. auf dem Gebiete des Altromanischen in dem Jahrem von 1865 bis Mitte 1877. H. Var- nhagen, Zu Deux redactions du roman des Sept Sages de Rome ed. G. Paris. //. Suchier, Zum Dialogus anime conquerentis et rationis consolantis. A. Tobler , Zum Dialogus anime et rationis. W. Foerster, Spanisch enclenque; Altfr. re « Scheiter- haufen ». Vaincre und mangier. Franz, selon; Franz, beau aus belium. V, A, CaneUo, Perder Terre. Recensionen und Anzeigen. Diez-Stiftung. Register.

Supplementheft 1. Bibliographie 1875-76.

II, n.o 1. F. Perle, Die Negation in Altfranzòsischen. A, Tobler, Vita del beato fra Jacopone da Todi. O.de Toledo, Vision de Filibert. K Baruch, Zu den provenzalischen Lais. Miscellen: S. Bau- quier, Ramon Feraud et son Comput. W. Foerster, Der Turiner Gliglois; Zu dem Alexanderfragment der Laurenziana. H. Vamhagen , Zu Barsch's altfranz. Chre- stomathie. H. Suchier, Zu Adgaps Theo- philus. J. Bauquier, Corrections au Do- nai proensal. W. Foerster, Etymologien : hanste, stordire, spoine, croccia, roche, ruer, maintre. J, Bauquier , A propos d'une lacune de nos dictionnaires de geo- graphie.— W. Foerster, Das altfranz. Pron. possess. abs. fem. A. Gaspary , Altita- lienisch und Altfranzósisch si fiir ital. fin- ché, franz. jusqu'à ce que. F. Rausch, Sprachliche Bemerkungen zum Mùsserkrieg des Gian von Travers. Recensionen und Anzeigen. Diez-Stiftung.

N.o 2. K. Bartsch, Ein keltisches

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ROMANZA, N.^ 3]

PERIODICI

255

Versmass ini ProvenzalischeD und Fpanzd- sischen. P. Rajna^ Il Cantare dei Can- tari e il Serventese del Maestro di tutte TArti. H. Suchier, Die Mundart dee

saillir la limace. K, Bartsch, Roman. Btymologien: eissa labetar, estavoir stover, estalvar, percer, pievi r, ré. F, Settegast, Franz. Etymologien: Feillon, Ondee. Re-

Leodegarliedes. Miscellen: G, Baist, Às- censionen und Anzeigen. Diez-Stiftung.

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256

NOTIZIE

Nel passato maggio ebbe luogo in Montpellier la prima festa latina istituita dai Fe- libri allo scopo di rafforzare e cementare fra i popoli romanzi il sentimento della loro unità Come potevasi aspettare, le feste riuscirono splendide e fu considerevole il numero dei forestieri e segnatamente dei dotti che affluirono. La Société pottr l'étude des lati- gues rotnanes promette di pubblicarne in breve una relazione ove ancora si darà conto dei due concorsi, filologico e letterario, banditi per tale occasione e che già precedente- mente annunziammo ( v. p. 68). Per il primo di quei concorsi la Società chiamò a far parte del giurì di esame il redattore di questi fogli. Il medesimo, trattenuto allora in Roma dagli obblighi del suo officio, non avendo potuto corrispondere, com'era suo de- siderio, a quell'invito, sente il debito di ringraziar qui la Società per l'onorevole e deli- cato incarico a cui volle in quella occorrenza designarlo. Il premio dell'altro concorso per il canto del latino, fu conferito al celebre poeta rumano sig. fì. Àlecsandri. Bukarest fu proclamata a sede deUa seconda festa latina.

In questi ultimi mesi la filologia neolatina ha perduto diversi suoi cultori. In In- ghilterra moriva Tommaso Wright, in Ispagna Amador de los Rios, a Vienna il barone A. de Varnhagen, in Francia Carlo Grandgagnage. Quest'ultimo forse meno conosciuto dei precedenti occupa tuttavia un posto distinto fra i romanisti, essendo stato uno dei primi io Francia « à comprende, come osserva la Romania, la portée des ouvrages de Diez et à travailler avec la méme méthode et sur les mémes bases ». Si ha di lui fra altri la- vori un eccellente Dictionnaire de la lavgue wallomìe, che non fu compiuto.

La cattedra di storia comparata delle lingue classiche e neolatine nella Università di Palermo fu ottenuta per concorso dal doti. F. G. Fumi.

Il Re d'Italia ha fondato all'Accademia dei Lincei « due premj annui di lire 10,000 ca- ^launo, destinati alle due migliori memorie originali, l'una per le scienze fisiche matema- tiche e naturali, l'altra per le morali storiche e filologiche, e scoperte scientifiche che fossero presentate all'Accademia »,

La Société des études historiques ha aperto il concorso per un'opera sulla Histoire des origines et de la formation de la langue franqaise jusq'à la fin du seizihne siede. Il premio è di 1000 franchi. (V. Romania, n.o 2&).

La Romania, n.o 25, annunzia che G. Paris ha raccolto tutte le copie dei diversi manoscritti del Roman de Roncevaux e che si propone di darne una edizione critica, co- me ancora intende di dare una nuova edizione del Fterabras secondo tutti i mss. conosciuti. Il prof. Caix prepara un Dizionario etitnologico dellalinguu italiana. E. Stbnqel sta per pub- blicare una edizione diplomatica ed una riproduzione fotografica del testo di Oxford a^llà Chanson de Roland. Si attendono prossimamente anche queste altre pubblicazioni: A. Mattioli, Vocabolario romagnuolo italiano pei tipi del Galeati d'Imola; G. Carducci, un volume di Ballate italiane pei tipi del Zanichelli in Bologna. Il Zanichelli sta pure per pubbicare la quarta edizione, notevolmente accresciuta, di quell'utilissimo lavoro bi- bliografico del Commend. Zambrini che ha per titolo Le opere volgari a stampa dei se- coli XIII e XIV indicate e descritte.

^ Il prof. A. GiANANDREA ha cominciata la pubblicazione di una Biblioteca delle tra- dir ioni popolari marchigiane. La puntata 1 » testé uscita contiene Novelline e Fiabe.

Chiamiamo poi l'attenzione dei culturi dell'antica letteratura italiana sopra un recen- tissimo lavoro giuntoci pur ora da Berlino, del sig. A. Gaspary, Die sicilianische Di- chterschule des dreizehnten Jahrhunderts (Berlin, Weidmann). Il Giornale non man- cherà di darne conto a suo tempo. Intanto perché si abbia una idea sul contenuto del volume, ne trascriviamo qui l'indice delle materie: I, Entstehung und Charakter der àltesten italienischen Lyrik; II. Der Einfluss der provenzalischen Poesie; III, Befreiung von provenzalischen Einfluss; IV, Die Sprache.

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ANNUNZI

;tofa8c. &p.^l}.

51).

tip. democraUi^

velli.

?orÌDO, Baglìòne.

iloma,SalviaccL

Herrmansierfer,

eia, GaU.

, Zabichenì. t Qara^nanL

^Da^Rcanagoon. ^ , tipw Tiberina

I, Soliani. iìographkiQe de

'extegder Ckan- ialle, Niemeyer. oea and Glossar.

tétto ronanesco.

ade di Jesd^nil

ria.

(ìpiJg, Dtinsky.

ks bistoiiques et lin, Weidmaim./

respohsabik.

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^JÈsm

N.o 4 i T. IL Faao. 1 e 2 ). GENNAJO 1879

GIORNALE

DI

FILOLOGIA ROMANZA

DIBETTO

ERNESTO MONACI

^^•^'*^^v^

TORINO ROMA FIBENZE

ERMANNO LOESCHER E 0/

Via del Ck>no, 807.

PARIGI tOHDRA

Lfbrerift A. Frmck. Trùbner e O.

HALLE

Ulurerift Lipperft

(M.Niemeyer).

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CONTENUTO DI QUESTO FASCICOLO

N. Caix, SuUa declinazione romanza pag. l

N. Caiz, SuW influenza délP accento nella Conjttgazione ... » 10

P. Viao, DèOe Bime di Fra Guittone cT Arezzo ..... » 19

W. FoRESTEB, Un testo diàletttale italiano » 44

P. BuLJisA, Tosto.' » 57

Varietà

F. d' Otuuo, Ancora dd perfetto debole ....'... » 68 N. Oaiz, SuTf etimologia spagnuóla »

N. Caix, Utaitato . » 71

A. D'Ancona, Osservazioni ad un articolo del Prof. A. Borgognoni

Std Sonetto . . . . . » 72

P. Eajna, Postilla alP art. un Serventese cóntro Boma ... > 73

Rassegna blbUograflca

II. A. Caztbllo, Die Biographie des Tróbadors OmQem de Capestaing

und ihr historischer Werth von EkiL Brsohmidt .... » 75

A D*Anoova, e. MoLTsm, Le Opere volgari à stampa dei seeóU XIII

e XlVf indicate e descritte dal comm. Francesco Zambmìsi. . » 79

G. Navone, Die SicQianische Dichterschule des dreizehnten Jàhrhun-

derts von Abolv Gaspabt » 100

A. Zenatti, I novellieri italiani in prosa indicati e descritti da G. B.

Passano ............ » 104

Bollettino bibliograiloo

» 106

Periodici

> 115

Notisie > 118

GIORNALE DI FILOLOGIA ROMANZA

Ogni volume di 16 fogli di stampa (256 pagine in S"* gr.) distribuiti per fasci* coli, possibilmente trimestrali, da 4 a 8 fogli cadauno, costa 10 lire in Italia, lOmàr^ ehi in Germania, 12 fra fichi negli altri paesi delP estero^ -<- Gli abbonamenti si fannQ per volumi e si ricevono dagli editori (E. Loesober e •C.^' Roma, Torino, Firemse) e da tutti i principali libraj.

Per quanto s' attiene alla <iompilazione, e per rinvio dei ms8., cambj ed altre stampe T indirizzo è al prof. E. Monaci, Boma, Piazza della Chiesa Nuova, 33; per quanto poi si riferisce alla amministrazione V indirizzo h al signor EaMAinia LoBsoBEH e C.<» Boma, Via del Corso, 307.

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GIORNALE

DI

FILOLOGIA ROMANZA

DIRETTO

ERNlTiSTO MONACI

TOMO II.

ROMA ERMANNO LOESCHER E C^

Via del Corso, 307.

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INDICE

N. Caix, Sulla declinazìoDe romanza pag. 1

N. Caix, Suir influenza dell' accento nella Conjugazione ... 10

P. Vigo, Delle Rime di Fra Guittone d'Arezzo » 19

W. FoBSTBB, Un testo dicUettale italiano » 44

P. Rajma, Tosto * 57

F. NovATi, Il Pater Noster dei Lombardi > \ti

R. Poterli, Un nuovo testo veneto del Renard » 153

G. BsBNAHDi, Noterella al verso 46 del III delPInferno ... > 164

F. Sbttbgast, Jacos De Forest e la sua fonte » 172

A. D'Ancona, Strambotti di Leonardo Gii*stiniani . . . . » 179

G. Salvadori, Storie Popolari Toscane » 194

A. Thomas, De la Confusion entre r et 5 xr en proyen9al et en fran9ais. > 205

Varietà,

F. D'Ovidio, Ancora del perfetto debole » 63

N. Caix, Sull'etimologia spagnuola * 66

N. Caix, Malato » 71

A. D'Ancona, Osservazioni ad un articolo del Prof. A. Borgognoni

sul Sonetto > 72

P. Rajna, Postilla all'art. « un Serventese contro Roma »... » 73

I. Giorgi, Aneddoto di un Codice DatUesco . . . . . . » 213

G. Lbvi, Poesie civili del secolo XV » 220

G. Salvadori, Due Rispetti Popolari » 230

A. GiANANOREA, Della novella del Petit Poucet » 231

Rassegna bibliografica

Beschnidt e., Die Biographie des Tróbadors GtUUem de Capestaing

und ihr historischer Verth (U. A. Canello) > 75

Zambrini F., Le Opere volgari a stampa dei secoli XIII e XIV indi- cate e descritte (A. D'Ancona, E. Molteni) » 79

Gasp ART A., Die Sicilianische Dichterschule des dreizéhnten Jahrhun-

derts (G. Navone) > 100

Passano G. B., I novellieri italiani in prosa indicati e descritti (A.

Zenatti) » 104

Zumbini B., Il Filocopo del Boccaccio (E. Monaci) » 234

FoRNAciARi R., Grammatica italiana deWuso moderno (G. Navone) . > 237

BASAaioLA A., Italienische Grammatikmit BerUcksichtigung des lateini-

achen und der romanischen Schwestersprachen (G. Navone) . . » 239

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iv INDICE

Ballettino bibliografico

Num. 4.° pag. 106

Num. 5.0 > 241

Periodici

Archivio glottologico italiano. . , pagg. 115, 251

Reyne des laDgues romanes. > 115, 251

Romania » 115, 251

Romanische Studien > 252

Zeitschrift fOr romaniache Philologie * 116, 253

Notizie

Gennaio 1879 pag. 1 18

LugUo 1879 » 254

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GIORNALE DI FILOLOGIA ROMANZA

. . patriam divorois gentibns tmam.

RUTIMO Namasiako.

N.o 4 GENNAJO 18 7 9

SULLA DECLINAZIONE ROMANZA

I. L'articolo italiano

Fra le varie questioni sollevate sull'origine e sulla storia della de- clinazione romanza, intorno alle quali mi propongo esporre alcune mie osservazioni, la prima che si presenta è quella che riguarda l'Articolo italiano, e Egli è spesso difficile e ingrato studiare sotto l'aspetto etimologico delle parole di così piccola dimensione », nota giustamente a tal proposito il Diez, e ciò spiega come le difficoltà che su questo punto si presentano non sono state tutte ben chiarite, e come i gram- matici volentieri le sorvolino, benché a parecchi non sia sfuggita l'in- sufficienza delle ricerche fatte per rendere ragione della varietà di forme dell'articolo italiano e per spiegarne le relazioni. Il primo tentativo metodico è quello del Grober: « io, W, U, im AUitalienischen >, Zeitsehr. fur rom. Fhilol. I, 108. Trovando poco spiegabile l'uso promiscuo di il e lo nell'italiano, e notata l'insussistenza delle differenze che nell'uso delle due forme alcuno aveva voluto vedere, il Grober cercò mostrare che le due forme si riducono in orìgine ad una sola; vale a dire che U non è una forma a sé, primitiva al pari di Zo e nata dalla prima sil- laba di itle^ ma una forma nata posteriormente da l enclitico, che alla sua volta non sarebbe che un lo apocopato. E questa sua teoria egli non ha mancato di corroborare con diligenti e larghe indagini negli antichi testi italiani. A me si presentò sempre come più persuadente, ad eliminare alcune almeno delle difficoltà su cui insiste il Grober, un' altra spiega- zione basata sul criterio che mi pare fondamentale nello studio della varietà e promiscuità .delle forme letterarie italiane e sopratutto delle differenze tra l'uso della poesia e quello della prosa molto notevoli anche in questa parte, voglio dire il criterio di una primitiva base

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2 N, CAIX [giornale di filologia

meridionale della lingua letteraria, che, come in più occasioni ho cer- cato mostrare, rende ragione di non poche altre anomalie ed incertezze. Posteriori osservazioni ed uno studio comparativo degli antichi mss. mi hanno per una parte confermato per Y altra completata codesta spiega- zione, che verrò di mano in mano svolgendo nello stesso tempo che prenderò ad esame gli argomenti del Grober e cercherò mostrare per- che mi paia errata la sua teorìa.

Uno degli argomenti del Grober è « T irregolarità fonetica consistente nel mantenimento dell' i in posizione di illum^ mentre egli^ dla^ eglino^ elle, quello, ecc. non meno che l'articolo dialettale eZ, e\ mostrano con- cordemente un e regolarmente sviluppatosi dalla stessa base, non che il completo isolamento di una forma con i da iUe, che non può ravvisarsi neppure nelle forme del^ alj del, nel^ ecc. che sono piuttosto regolari accorciamenti prodotti dalla consueta apocope di o che segue a l negli antichi de ìo^ a lo, ne lo ecc. >....« Perocché nella teoria del Diez, Gramm. IP 27, secondo la quale U non sarebbe meno antico di el e si spiegherebbe colla tendenza deiritaliano a mantenere l'i iniziale, come p. e. in in, indi, intra, infante vengono inesattamente trascurati i re- golari egli, ella ecc. e le forme come en, ende, entro, entrare^ endice, empiere ed altre che contrastano all'esistenza della tendenza accennata, e si viene a considerare il fenomeno fonetico dello spostamento dell'i tiWe in modo del tutto astratto e non come egualmente basato sopra un mutamento nel meccanismo dell'articolazione dell'originario t ì nel- l'organo italiano ». Questo ingegnoso ragionamento prescìnde da nna considerazione che qui è fondamentale, cioè che l'articolo è una proclitica, che subordinandosi all'accento della parola seguente, viene a costituire con questa una sillaba atona, la cui vocale sottrae perciò alle leggi comuni del vocalismo tonico romanzo, per conformarsi alle speciali ten- denze che in ciascuna lingua determinano le modificazioni del vocalismo atono. Quello dunque che vale per iUe pronome che sta spesso da ed ha proprio accento, non vale per ille articolo che non lo ha mai. (iuindi se abbiamo una lingua che all' atona segua diverse norme che alla tonica, dovrà modificare diversamente la parola secondo il posto che essa occupa nel discorso, e il doppio riflesso di Ule secondo che esso è articolo o pronome, cioè secondo che è atono o tonico, non che co- stituire un'anomalia, dovrà considerarsi come perfettamente regolare. Ora, che il toscano centrale e in ispecie il fiorentino preferisca all'attua, sopratutto all'iniziale, l't all'è, non mi occorre qui di dimostrarlo, dopo i tanti fatti che ho altrove addotti, i quali provano che non solo in questo dialetto l'i latino si mantiene dove altri dialetti cominciando dal senese e dall'aretino lo convertono in e, ma che in esso tende a passare in i anche Ve latino, quando speciali influenze consonantiche non lo impediscono (Osserva:^. Sìd Vocaì. Hai, §. XI). La nota del Diez

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ROMANZA, N,« 4] SULLA DECLINAZIONE liOMANZA 8

andrebbe però modificata in questo senso, che invece di < iniziale » si dovrebbe porre e atono, specialmente iniziale >, e così negli esempi che egli dà, andrebbero eliminati quelli di i tonico, come vidi, intra, ingmm^ perché in questi la conservazione dell' t spetta ad altra tendenza, cioè a quella che in toscano mantiene talvolta Vi tonico davanti a n complicato (pingere ecc.). Dalla stessa confusione proviene la falsa affer- mazione del Diez che egli stia per igli, perché questo avrebbe avuto suono disaggradevole, mentre, come vedremo, anche la forma i(fii oc* corre, ma solo all' atona. Del resto gli altri esempi in, infante^ infermo ^ Ispagna sono perfettamente a proposito, poiché in quando è particella essendo atono non meno che quando è in composizione, mantiene il suo i, nella stessa maniera che Ule mantiene Vi e come particella atona (il) e come componente di Iddio. E si potrebbero citare anche esempi di e iniziale latino passato in i davanti a l: cUestro^ spUonca^ e in sillaba mediana: LancUoUo^ dall' ant. LancdoUo = fr. LancdoL Tra gli esempi che cita il Grober in contrario en non è del puro toscano, e gli altri poggiano suir accennata confusione tra atona e tonica, perché entro, éndice^ empiere offrono e da « tonico in posizione. Anche in entrare Ve h dovuto airinfiuenza delle forme toniche etìtro -i -a, come in temere a quella di temo ecc. (cfr. per contrario timone per temone)^ in piegare a quella di piego = plico ecc. La diversa forma perciò presa da Ule, secondoché è adoperato come pronome o come articolo, è perfettamente regolare e rispondente alle diverse tendenze che segue il fiorentino per le vocali atone e per le toniche. Una riprova di ciò è il vedere che iUe anche quando è pronome congiuntivo e perciò atono mantiene il suo i: U vidi, il dissi ecc; mentre se al pronome atono con i precede un'altro con accento proprio, questo ha un e: egli (o elli), il vide =^ illc iUum vidit. E, come abbiamo detto, anche al plurale U pron. coug. mantiene in alcune antiche scritture il suo i: igli vide = li vide ecc. onde elli igli videro = illi illos viderunt. Invece molto diflBcile è ad am- mettere la spiegazione del Grober che vede in il « una nuova forma- zione nata da l enclitico per prostesi di un i sull'analogia di altre forme con i mobile (f-t7Ì ecc.) > poiché nessun esempio analogo viene in ap- poggio di siffatta congettura. D'altronde se il Grober ammette che l'aret. el venga da Ule e poiché in esso Ve non può essere egualmente prostetioo », come si può separare el da, U? Per noi aret. el sta al fior, ti, come l'aret. en al fior, tw, come l'aret. encom^nsare al fior, incomin- ciare ecc.

Altro argomento è e il difetto di prove per l' esistenza di il in do- cumenti anteriori al 300 ». Il Grober argomenta codesto difetto dalla natura asillabica di il nei primi poeti, e dall'uso sempre più raro che ne vediamo fatto dai prosatori quanto più risaliamo addietro. Egli nota che mentre « Matteo Spinello (1268) non conosce che lo li », nel Tru-

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A N. CAIX [qiobnalk di filologia

duitore di Àlbertauo (1279) troviamo già t7, i, ma solo dopo le parti- celle terminate iu vocale ; che in Ristoro d* Arezzo (1282) lo è più fre- quente di èl e al piar, li è solo in uso, mentre in una versione di Egidio Colonna (1288) lo, li è piiì raro che U, i, il quale va sempre acquistando piede nelle scritture posteriori, finché riesce a prevalere, e Perciò, con- siderato il tardo apparire di t7, il suo uso solo poco a poco fatto fre- quente e la sua natura enclitica negli antichi poeti e prosatori, non pare si possa accordargli lo stesso valore che a eJ e derivarlo da questo ». Ma anche iu queste diligenti osservazioni del Grober non è stato tenuto conto delle speciali tendenze dialettali, che qui erano tanto più neces- sarie in quanto che si riflettono appunto nello speciale carattere della lingua della prosa di fronte a quella della poesia. Non si può mettere la Cronaca di Matteo Spinello che è in napoletano accanto alle prose toscane. Lasciando stare che quella Cronaca è ora considerata una falsificazione, e non può aver valore come documento della lingua del sec. XIII, è certo che nel napoletano e in generale nei dialetti meri- dionali lo li è^ per quanto mi consta, il solo articolo adoperato, ed è naturale che sia anche il solo che s'incontra in quella Cronaca. Ma si può dire il medesimo degli altri dialetti? Se nel Traduttore di Al- bertano iZ, i occorre solo dopo le particelle terminate in vocale, vi sono scritture toscane più antiche e più popolari di quella in cui i2, i è quasi la sola forma adoperata. In registri fiorentini inediti trovo all'an- no 1255: il podere; tutto il loro podere; il primaio pego; U se- condo posto ivi apresso; e al 1259: questi sono i cium/ini ecc. Nelle Lettere volgari del sec. XIII trovo, tenendomi solo alle prime cinque che por- tano la data del 1253: molto servizio il quale; in Perosda U deto giovidi; servire il comune; intendeste i patti; sono i due ecc. Non si può dunque mettere in dubbio che il sia nel toscano centrale altrettanto^ antico che el neir aretino e nei dialetti del Nord. Che del resto lo sia nel sec. XIII anche in Toscana altrettanto usato non è a negare, e rimarrà a studiare in quali relazioni stessero in origine le due forme, se cioè Tuso ne fosse assolutamente indifferente o regolato da certe condizioni, e se la prevalenza dell'una o dell'altra si collegasse con certe suddivisioni dialettali (1), ma è certo che le due forme, per quanto giungono i documenti, sono egualmente antiche e che nulla ci autorizza a supporre in U una più recente formazione nata da l enclitico. L' argomento tratto dalla natura asillabica di il nei poeti non prova più di quello che proverebbe la natura similmente asillabica di in tanto separato che in composizione. Il Grober nota che in Dante non

(1) È iiotevoìp p. e. che l'uso prevalente di h noi traduttore d'Albertaoo che era di Pisloja, concorda coH'ujjo che prevale in antiche carte pistojesi.

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BOMANZA, N.^ 4] SULLA DECLINAZIONE BOMANZA 5

contano che 9 casi di il sillabico che abbiano la sanzione dei prin- cipali codici, mentre nelle 100 canzoni finora pubblicate del codice Va-» ticano non vi sono che 3 casi di il ed uno di i sillabico. Ma se il Grober vorrà rinnovare la stessa ricerca per la prep. in troverà non meno scarsi i casi di in sillabico nei poeti. E la cosa non potrebbe essere altrimenti. Le parole italiane terminando tutte in vocale, accade che nel discorso Vi di il e di iw o formi dittongo colla vocale prece- dente o venga da questa assorbito; ma e in un caso e nell'altro esso non può far sillaba a sé. Sia dunque che scriva tra 'Z e'I no o tra il e il no l'articolo U fa sempre sillaba colla vocale che precede, e quindi nel mezzo del verso non può che essere asillabico ; ma il mede- simo si può dire di in potendosi, senza alterazione del verso, scrivere e 'n cor o e in cor ecc. Quindi anche nel cod. Vaticano, senza altera- zione del verso:

XL , 44 Di tutto^U mondo . .

XCIX, 25 Istringie il core . . . ivi, 31 Tal è il disio , . .

XXIX , 12 Perdona savere . . .

XLIX, 33 Sieomell ferro . . .

che potrebbero anche scriversi: tutto 'l mondo ecc. L'unico caso in cui il poteva far sillaba a era in principio di verso, e infatti i pochi casi di il sillabico che il Grober ha riscontrato nel cod. Yat. sono in prin- cipio :

XXXn, 23 TI doìze mi amore, LVIII , 14 I 6e' sembianti (f altra mi facia. XCVII , 42 II vostro piagimento.

e così i casi riscontrati in Dante: Farad. XIII, 126; XV, 147; XXIII, 92; XII, 140; XVI, 98; XXIII, 88; XXVII, 107; XXVII, 78; eccet- tuato un solo: Par. XXVI, 115.

vale il dire che in poesia si ammetteva spesso il troncamento delle parole il cui tema finiva in liquida o nasale; poiché siffatto tron- camento non era usato che quando la misura del verso lo richiedeva, e però essendo per questa iudifi^ereute lo scrivere vene in cor, vene 'n cor o ven in cor, ven il re o vene 7 re ecc. i poeti preferivano evitare il troncamento e scrivere vene 'n cor, vene 7 re ecc. come i più antichi e genuini codici dimostrano. Insomma codesto asillabismo dell'articolo non è che una delle varie forme d'eliminazione dell'iato. Se non che mentre nei casi ordinari l'iato si elimina col sopprimere la vocale fi- nale della prima parola: quesfaltro. Vomico ecc. quando si trattava di una parola cominciante con i, che è la vocale più sottile e leggiera, facilmente nella pronuncia prevaleva la prima; onde le grafie : lo 'nfermo, lo 'nccnso, la 'nvidia, sta 'n cor, e similmente tutto 7 mondo ecc. Solo

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0 N, CAIX [OIOBNALE DI FILOLOGIA

più tardi per opera dei grammatici prevalse, per analogia, di scrivere pure: V infermo, V incenso ecc. Ma per il T antica grafia, almeno nei poeti, non è del tutto abbandonata. In ogni caso tanto il che in man- tengono il loro valore sillabico in principio del discorso nella prosa, e in principio del verso in poesia. E come in questa non è frequente il caso di cominciare un verso coli' articolo, e così sono pure rari i casi di il sillabico. Ma non vorremmo che si considerassero insieme Dante e i poeti meridionali, perocché se questi trovavano nel loro dialetto il solo lo, K, Dante trovava nel suo fiorentino anche U e non è punto difficile che se ne servisse nel verso. Infatti mentre negli altri poeti non si trova esempio di U sillabico che in principio del verso, in Dante ab- biamo un esempio anche nel mezzo. Farad. XXVI, 115:

Or, figliuol mio, non ti gustar dd legno.

Da questo scaturisce poi un'altra conseguenza, che cioè nulla osta che in Dante si possa ammettere anche un numero maggiore di casi di il sillabico, dove i migliori codici in ciò s'accordino, mentre per i poeti meridionali anche i pochi casi notati divengono sospetti. Se il Grober non ha notato in Dante che 9 casi sicuri, ha osservato però che se- condo una parte dei codici il numero sarebbe maggiore. Invece nei poeti meridionali il numero dei casi sicuri si restringerà ancor più quando ci facciamo ad esaminarli da vicino. E così

XCIX, 5, U avoreo clima

va messo da parte poiché non senso, e il cod. Palat. tlavoreo.

XXXII , 23, il dolze mi amore

va corretto perché il raccomandata dal verso seguente, richiesto dalla rima, mostra che qui amore era stato usato al femminile, secondo l'uso provenzale, ciò che doveva suonare strano al copista il quale tornò a fare amore mascolino. Nello stesso modo troveremo in un ms. la fiore ^ Volta fiore corretto in il fiore, Volto fiore in altri mss. Cosicché il passo succitato andrebbe letto:

Oi alta potestate

Temuta e dottata

La dolze mi^ atnore

l'i sia racomandata.

L'esempio a XCVII, 42 è di un Neri Poponi che non sappiamo di qual parte d^ Italia sia; onde l'unico esempio sicuro di poeta meridionale sarebbe quello di Giacomino Pugliese

LVIII ,14 I be' sembianti (f altra mi facta

che co«ì isolato non è dubbio doversi attribuire al copista.

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nOMANZA, N.« i] SULLA DECLINAZIONE ROMANZA 7

Maggiore è il numero di esempi di U, i in mezzo al verso. Ma qui sebbene, come ho cercato mostrare, la ragione dell* asillabismo non possa togliere importanza al fatto, è certo che l'alterazione del copista era molto più facile, e che data in questo l'abitudine a scrivere e a usare nel discorso iZ, {, inclinasse a scrivere tutto il mondo anziché tuttol fìWìido ecc. E infatti il confronto dei codici riduce a un minor numero i casi di il, iy che troviamo nel Vaticano. Riscontrati alcuni passi di questo codice contenenti quella forma d'articolo coi corrispondenti del Palatino avremo:

VAT. PAL.

XCIX , 25 istringie il core stringe lo core

iiv , 31 tal è il disio tal è*l , . .

ivi , 36 laonde il disio la u*l , , .

XCVIIT, 29 jponire % mali punir li mali

XXIX, 12 perdo il savere perdo savere

E se nel Palatino pure si hanno esempi di il benché molto rari, anche questi, quando ci è dato riscontrarli in altro codice più autore- vole, nel famoso Laurenziano, si riducono a un numero minore. Onde è lecito argomentare che nei poeti meridionali il solo articolo in uso fosse Zo, Zi, cosa assai naturale chi pensi che quella è la sola forma nota ai dialetti del Mezzogiorno. Ma d'altra parte la sostituzione di il a. lo e a, l nato da lo per parte dei copisti toscani, prova in questi l'abitudine a scrivere e a pronunciare iZ, ciò che bene s'accorda con quanto abbiamo detto più sopra sull'uso dell'articolo nelle più antiche scritture. Quando dunque troviamo Z enclitico in poesia, la sua prove- nienza può essere diversa secondo la patria del poeta, poiché può pro- venire da il per contrazione dell'i colla vocale della parola precedente, o da lo per apocope dell' o; cosicché

tutto l mondo = tutto (i)l mondo = tutto l(o) mondo.

Non mi pare che si possano ammettere in poeti meridionali nep- pure gli esempi di el che figurano qua e nella stampa del codice

vaticano :

1 , 36 eh* el wf lavoro,

XXXVI , 4 però cV el meo servire.

XL , 60 più, eh' el cor,

LV , 26 eh* el mio amore.

in cui si deve dividere che'l. La medesima differenza tra i dialetti me- ridionali e quelli dell'Italia Superiore, proveniente dalle diverse tendenze ritmiche, si nota ancor più chiara nell'articolo indeterminato wwo, da cui si fece da una parte ««, dall'altra no nu; onde

il: il'llo] = un: «w-[o] lo: [iiyio = no(mf) '- [uj-no.

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8 X. CAIX [OIOKNALE DI FILOLOGIA

Per la stessa ragione anche iUe pronome ha per lungo tempo mantenuto le due forme in Toscana, cioè U accanto a lo: il vidi, il vi dirò^ il vi manda s'incontrano anticamente non meno spesso che lo vidi ecc. E quello che è più notevole, s* incontra pure in mss. fiorentini igli per gli=zAB,L UH: igli disse ^ igli avea ecc. tanta era la tendenza a mante- nere la prima sillaba di Ule. Per questo l'origine delle forme oblique del^ al^ dal, si presenta come molto incerta. Il Diez le considera come formate con iZ, il Grober come derivate da Zo, e anche le opinioni dei grammatici italiani sono divise. Dopo quanto abbiamo detto, foneti- camente tanto è possibile dél^ cioè de 7 per de il (cfr. e 7 = a t7), come del da de lo^ sicché i due processi potevano pure andare di pari passo e concorrere insieme allo stesso risultato. Anche l'esame delle così dette preposizioni articolate parrebbe mostrare come in origine, essendo tanto in uso il che Zo, si preferì ora l'una ora l'altra forma secondo la pronuncia richiedeva. Mentre col si trae bene da coUo = cm lo (cfr. noi da nóllo = non lo)j nél^ innd accenna ad in Ullo] e per s'ac- compagna ancora coli' uno e coli' altro (per lo più non per il più). Ma le ragioni ritmiche che facevano prevalere la prima sillaba di un iUo isolato, non sussistevano più quando questo era preceduto da una par- ticella, e d'altra parte se i casi obliqui si fossero formati con tZ, dif- ficilmente si sarebbe perduta ogni coscienza della composizione di del, aly dal, e compiuta in modo così perfetto la fusione dei due elementi; poiché anzi il fiorentino, a misura che t7 .venne acquistando sempre più spiccata individualità, sentì il bisogno di farne sentire la presenza an- che nei casi obliqui, pronunziando di il, a il, da il come oggi si usa dal popolo. basta a provare che il vi abbia contribuito, il plurale dei, di, daij potendosi questi trarre da doglia agli, da gli =^ delti ^ àlli^ alli = d^ li, a li ^ da li in perfetta corrispondenza con dello ^ a?io, dallo = de lo ecc. E vero che abbiamo nel che pare supporre in, ti, ma qui potè la forma venir determinata sull'analogia di del che apparisce spes- sissimo in composizione con in, onde indél per inncl, nel, indéla^ indetta, accanto a inneità, nella, in dei per dei come è certo che si deve all'a- nalogia di de lo la forma pure frequente nei codici ne lo che dovrebbe essere sempre nello se derivasse da in ilio.

Dalle cose dette mi sembra dunque risultare:

I. In italiano le due forme di articolo il e lo sono egualmente an- tiche e primitive.

IL II, nato dalla prima sillaba di ille come un dalla prima di unus, ha mantenuto l'i malgrado la posizione per la preferenza che all' atona suol dare all'i sopra Ve il toscano centrale e sopratutto il fiorentino, di cui è principalmente propria codesta forma d' articolo : mentre i dialetti che, cominciando dalVaretino, preferiscono e all' atona, hanno, come lo spagnuolo, el.

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H0MAH2A, N.o 4] SULLA DECLINAZIONE ROMANZA 9

III. Lo si incontra già in molte antiche scritture toscane accanto a Uj ma pare essere state il solo in uso nei dialetti meridionali e il solo adoperato dai poeti siculi.

IV. L enclit. dove corrispondere nei poeti siculi a lo, ma nei poeti toscani anche a t7 e con questo fu poi scambiato dai copisti nei codici.

V. Alla formazione delle forme oblique dély al, dal difficilmente pos- sono aver contribuito altre combinazioni che quelle con lo.

N. Caix.

PS. Nel finire la correzione di queste pagine ricevo dalla genti- lezza del Prof. Grober un'altro Studio: « Gli^ eglij ogni; > Zeitschr. f. rom. Phil. II, 594 ss., in cui, conformemente alla teoria sopra esaminata, si cerca di trarre anche il plur. i da IL Secondo quanto ho detto sopra, i viene per me da igli = iUi, e ne dirò in altro articolo le ragioni.

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1<> y. CAIX [omnxAf.K m filologia

SCLL' liNTLUENZA DELL'ACCENTO NELLA CONJUGAZIONE

MANDUCARE, ADJUTABE

Le irrfìf^olarità prodotte nella conjugazione dallo spostamento del- l'accento nelle varie persone furono spesso notate pei verbi che hanno per vocale radicale e ed o, che si dittongano sotto l'accento e riman- gono generalmente invariate quando V accento passa sulla desinenza. In analoghe condizioni si verifica il fenomeno spagnuolo, pel quale la vocale radicale modifica all' atona secondo certa tendenza dissimilati va, evitando i-i ma serbando i-w', i-iò, e preferendo in qualche caso o-i ad U'i che può pure dirsi una parziale dissimilazione (siento sentìmos sin-- tió, duermo dormimos durmió). E collo spostamento dell'accento vanno spiegate le irregolarità dei tre verbi italiani: udire ^ uscire^ dovere , sui quali non sarà qui inutile qualche maggiore schiarimento che farà me- glio intendere il fenomeno analogo che avremo a studiare in manducare e adjutare.

AvDiRE. Questo verbo ha un o al presente nelle persone coli' accento sulla radice, e u nelle altre persone dello stesso tempo e nel resto della conjugazione. Indie: odo -i -e -ono, ma udìwno, udite; Congiunt.: oda, -anOy ma udiamo, -iate; e così udiva^ udii^ udissi ecc.

Ma questa conjugazione non è costante nei testi antichi e può dirsi anzi affatto fiorentina. Già nel Traduttore di Albertano, che è di Pi- stoja, le forme con o atono si alternano con quelle con u: udire 48, ma odirà 46, odisse 9 ecc. Così odire nelle Lett Senesi 22 ecc., odimo nel cod. di Ristoro d'Arezzo 8 ecc. e così comunemente nelle scritture del centro d'Italia {Osserv. sul Voc. it<il, § X). Il fenomeno va dunque spiegato colle tendenze che segue il vocalismo atono fiorentino, in cui au tonico o, ma au atono può passare all'w non meno che Vo pri- mitivo. Come si ha pulire^ uccidere, ufficio adi. polire ecc. così ucceUo per occello = aucellus (ven. osélo\ lusinga ^:: ^wL losinga = "prov, lau* zenga^ e ani urecchia per orecchia = aurictda, mentre o=^aù in oca = avica^ lode = laus ecc. Così udire = odire == audire ma odo ^= audio ecc.

ExiRE. Presenta e alla tonica, u e anticamente anche i accanto a e air atona: Indie: esco -i -e -ono, ma usciamo -ite accanto ad escianto 'ite; Cong.: esca -ano, ma usciamo -iate accanto ad esciamo -ate; e così usciva cscivay tiscii escii ecc. Anticamente anche i, sopratutto se la

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nosiANZA, N.° 4 ] SULV IXFL VENZA BELV ACCENTO 11

tonica era pure i: iscUe, isciva. Questo ultimo mutaipento era fionforme alle tendenze del fiorentino che preferisce all'iniziale i all'è, mentre il mutamento in u era dovuto ad influenza di uscio, come nel corrispon- dente ant. fr. ussir.

Deb ERE, Pure e sotto l'accento, ma comunemente o all' atona. Indie. : devo -i -e ^ono^ ma dobbiamo, dovete; Gong. : deva -ano ma dobbiamo, dob- biate; e così doveva, -ei ecc. La vocale atona si è modificata in forza della nota aflSnità tra o (u) e le labbiali, come in piovano -= pievano ^ dovizia = divizia, rovescio = reversus , rovistare = revisitare ecc. Ma questa norma non è generale nelle scritture antiche, e spesso s'incontra desiamo, devete, deveva ecc.

In tutti e tre questi verbi si nota dunque che accanto alla conju- gazione etimologica che manteneva sempre intatta la vocale radicale, se ne venne formando un'altra colla vocale iniziale modificata nelle per- sone accentate sulla desinenza secondo speciali tendenze fonetiche, e se- condo le note affinità che all' atona si mostrano tra certe vocali e certe consonanti. Questa seconda conjugazione che potrebbe dirsi fonetica, essendo fondata sulle proprietà del vocalismo atono, fu di sua natura difettiva, perché sebbene riuscisse a prevalere totalmente nelle persone accentate sulla desinenza, non potè, neppure per forza di analogia, in- fluire a far mutare la vocale accentata delle altre persone. Così questi tre verbi hanno oggi una conjugazione mista, cioè fonetica nelle forme accentate sulla desinenza, etioiologica nelle altre.

Il medesimo fenomeno si osserva nei riflessi di manducare e di adju- tare. Il Forster, Zeitschr, f. rom. FliiL, 1 562, poi il Cornu e il Me- yer, Bomania 1878 p. 420 ss., studiarono già colla solita dottrina i vari riflessi di manducare, soprattutto nel francese e nel provenzale, e dimostrarono come le irregolarità nella conjugazione di quel verbo dipen- dano da una parte dalla diversa posizione dell'accento nelle diverse per- sone e forme, dall'altra dall'analogia per la quale si estesero alla to- nica le alterazioni che in origine avevano luogo all' atona. Il Cornu poi sagacemente riuniva sotto uno stesso capitolo, come dipendenti dalla stessa legge, i riflessi di adjutare e di *rationare, avvertendo che mentre in manducare e adjutare furono le forme a desinenza tonica che deter- minarono le altre, per *raiionare si ebbe il processo inverso. Ora qual- che cosa di analogo si riscontra anche in italiano, ma con due notevoli differenze dal francese. La prima è che l'italiano, meno propenso al- l'elisione, preferisce modificare o alleggerire la vocale atoua anziché sopprimerla, e la modificazione si fa, come abbiamo veduto in dovere, secondo le affinità consonantiche. La seconda è che in italiano la conju- gazione fonetica si mantiene, come già abbiamo veduto nei tre verbi citati sopra, sempre difettiva e non riesce mai a soppiantare la couju- guzionc etimologica nelle forme in cui il radicale porta l'accento, ben-

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12 N. CAIX [aioBNALE di filologia

che diveùga decisamente preralente nelle altre. Differenza qnesta se- conda che dipende in parte dalla prima. Perocché nel francese cadendo air atona la vocale, la sostituzione per analoga delle forme della conja- gazione fonetica a quelle dell'etimologica si riduce ad una trasposizione d'accento (cfr. mànge e mangu)^ mentre in italiano non cadendo ma mutando la vocale, la sostituzione di un suono ad un altro sotto l'ac- cento riesce molto diffiksile. Non c'è esempio di un dovo per devo^ di un usco per esco ecc. L'eccezione che qui fa ajtUare va spiegata, come vedremo, coli' influenza francese.

MANDUCARE

I riflessi di questo verbo in italiano, lasciando da parte il sincopato nujìigiare^ presentano nella sillaba radicale ora nd^ ora m, e davanti al e ora u ora i: manduc- manne- mafidic- manie-. Ma queste forme non erano punto usate indifferentemente. Già il Cornu notò che nel Ritmo Cassincse abbiamo u sotto l'accento e i fuori d'accento: manàttca, ma inandicare, mandicate. Da molto tempo avevo notato il medesimo fatto nel toscano. Nel cod. magliab. del Volgarizzamento di Albertano leggo :

Meno dorme e manuca cui pensiero d'amore molesta > (p. 22).

« E Salomone disse : Guai a tte terra lo cui re è fanciullo e li cui prencipi la mattina manùcano > (p. 39).

Ma per contrario:

Con questo cotale non vi mescolate co lini non manicate » (p. 35).

« Onde disse Seneca nelle Pistole: Innanzi è da porre mente al convito cun kenti uomini tu mamiche o bei. Manicare senza amico è vita di leone e di lupo. Et lo profeta disse : Cun quello k' è superbio d'occhi e insatiabile di cuore con lui non manicava » (p. 19).

Quest'ultimo passo è il più notevole, vedendovisi a piccolo inter- vallo adoperate le due forme secondo l'accennata regola dell'accento. Altri esempi del sec. XIII trovo in un mss. contenente gli Statuti di S. Maria del Carmine, Cod. mgl. Vili, 1493, n." 9, in cui si legge ma- niellare o manicare (f. 5/).

Anche in Dante la stessa alternativa:

E oome '1 pan per fame si manuca.

Jnf. XXXn, 126. Ma per contrario:

E quei pensando eh' io '1 fessi per voglia

Pi manicar

Inf, XXXIII, 59-60.

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ROMANZA, N.<» 4] ' SULV INFL UENZA BELL' ACCENTO

13

Nel primo caso le edizioni hanno manàvu^, ma l'antico cod. magi. E, 5, 2, 54, il più autorevole sotto l'aspetto ortografico, ha manucha e credo sia questa la vera lezione, perché qui troviamo la stessa alter- nativa notata più sopra, e non s'intenderebbe, se Dante avesse qui adoperato un latinismo, scrivendo manduca^ perché non avrebbe poco più sotto usato pure manducare in luogo di manicare. È inoltre a no- tare che anche nel sec. XIV e posteriormente sono frequenti gli esempi di siffatte forme. Così nel Vocah. della lingua itoL del Tommaseo: e Dove si manùca Iddio mi vi conduca. > < Manùcano pesci di mare. > « Manu- cano un morsello di pan grosso. > e Credete voi che egli vi manuchi? > E invece quando si tratti di forme accentate sulle terminazioni, sempre i; e negli esempi dello stesso Vocah. si trova: manicare ^ manicai, manicò manicaronne. Nel sardo occorre la forma mandigare che ben corrisponde al mandicare nel Ritmo Cassinese. Il solo esempio sicuro con u all' atona è la forma che Da.nte^De Vtdg. Eloq. I, 13, rimprovera ai Fiorentini: manuchiamo introcque^ che dalle parole di Dante si capisce essere stata affatto plebea, e che può considerarsi come dovuta all'influenza delle forme con u tonico, ma che non prova un uso esteso di altre forme simili. Quanto a manducare non occorre che in traduzioni dal latino e in scritture in cui abbondano i latinismi e non può ritenersi che come forma letteraria.

Il paradigma di manicare segue perciò passo a passo quello dei ri- flessi francesi e provenzali, quali si trovano raccolti nei citati studi del Forster, del Comu e del Meyer.

PRESENTE

INDICATIVO

IT.

A. FR.

PROV.

Sing.

manùco

manguy mengue, menjus

manduc

manmM

manjues, mangues, mainjus

mamlca

manjuety merijuc^ mavjtib

manduja, menuga, manjuja

Plur.

manichiamo

menjon

manjam

manicate

mangiez, mengiez

mamichano

menjuent, menguent

CONGIUNTIVO

Sing.

mamìche -i

mengue (1.*)

manjuc (3.»)

(l.»2.»e3.*)

majuce (3.")

Plur.

manichiamo

matìjum

manjem

manichiate

mengiez

manjetz.

manucìùno

manjuccnt

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4

N. CAIX [aiouxAi

IMPERATIVO

IT.

A. FR.

Sing. manùca

manjoue,

'ju, -jue

Plur. manichiamo mangom

, metiòons

manicale

mengiez

Negli altri

tempi sempre forme con *:

IT.

A. FR.

Impf.

manicava'

manjowe

Perf.

manicai

manjai, -gai

Piucpf. Sogg.

manicassi

manjasse

Infin.

manicare (e

Dosì manger, -gier (mengerai,-ereie)

manicherò,

-erei)

Part pres.

manicante

manjant

Part. pass.

manicato

manjed

manjar

maììjat.

Dal quale confronto si vede che dove racQ»ntò cade sul radicale tanto r italiano che il francese e provenzale mantengono l'w, mentre quando l'accento cade sulla desinenza l'italiano muta Vu in i e le altre due lingue lo sopprimono. La causa è la medesima, cioè il mutamento di accento che porta seco l'indebolimento della vocale; ma questo in- debolimento da una parte si limitava ad un assottigliamento del suono, dall'altra giunge alla sua totale estinzione. Ma si può ritenere che la conjugazione di manducare qual è nei più antichi testi italiani dove già essere, almeno in parte, nel latino volgare. Il Meyer parla, per il pro- venzale, di una base mandtigare^ ma il Gomu ammette anche per il do- minio fr.-prov. un <c intermedio mandicare >, e cita, come esempi di mutamento di u atono in i, l'it. ginepro =jùmperum, e il prov. cominal da commùnis. Piìi concludente sarà qui il considerare che a produrre nel latino volgare una forma mandicare concorrevano e le aflBnità fo- netiche, e le analogie morfologiche. L'affinità tra i (dial. e) e le gut- turali era antichissima e generale nel latino (Corssen, Ausspr. II, 807 ss.), e siffatta affinità è uno dei caratteri più spiccati che l'italiano ha ere- ditato dal latino, come ho mostrato altrove (Osserv. sul Voc. ital, §. IV). Nel caso presente concorreva di più l'analogia coi numerosi derivati in 'icare. Le due cause unite mutarono collocare in colicarc^ coricare, che nei dialetti che sostituiscono cai divenne colecare^ allegar ecc., mentre altrove e particolarmente nel dominio fr.-prov. si arrivò alla sincope: colgar, eoìAcher, Sitfiilraente da manducare ben presto mendicare che già troviamo nel Ritmo Cassinese; onde da una parte il sd. mamligarcy il tose, manicare^ il dial. manecare^ dall'altra il fr. mavger^ prov. manjar che stanno a mandli]care come venger, venjar a vindli]care. Infine a mandicare accennano anche le forme dialettali francesi citate dal Coruu che suppongono un e o i iniziale nato per assimilazione alla vocale s<»gueute: mandic- mandec- onde mindic- matdcc'. Mentre poi uè)

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ROMANZA, N.- 4J SULL' INFL UENZA DELL' A CCENTO 15

francese l'influenza delle forme sincopate si è fatta sentire anche nelle persone che in origine avevano l'accento suU'w, così si trova in italiano uno sporadico manuchiamo per mamchiamo che è una continuazione se non un ritorno alla vocale latina per influenza di manùco ecc. Ben presto poi trpviamo nei testi del sec. XIII la forma sincopata mangiare che ritengo forma francese o del Nord d'Italia, ma che non è meno estranea al toscano di quello che lo siano vengiare e giuggiare. Ancora nel se- colo XIV le due forme italiana e francese si disputavano il terreno, come si può vedere dai seguenti esempi tolti al Vocah. del Tommaseo :

« Mangiare conviene all'uomo acciocch'e' viva e non vivere ac- ciocch' e' mamìchi ».

« Credete Toi che egli vi mamichi? 1 morti non mangiano gli uo- mini ». (Boccaccio).

In seguito la forma italiana divenne sempre più rara, ed oggi non vive che nel diminut. manicaretto.

Anche manicare dunque aveva una conjugazione mista, parte fo- netica parte etimologica; e se v'è qualche indizio di estensione della conjugazione etimologica nelle persone accentate sulla desinenza (ma" nuchiamo)^ niun indizio vi ha di forme della conjugazione fonetica che per analogia abbiano preso il posto delle altre, cioè d'un manico per manùco ecc., e la conjugazione sarebbesi mantenuta mista, se non vi fosse stata sostituita la forma francese mangiare^ in cui il processo ana- logico riuscì ar cancellare ogni traccia della conjugazione etimologica.

ADJUTARE

Il Darmesteter, Bomania 1876, p. 454-5, mostrò come le irregolarità del vb. frane, aidier dipendessero da ciò che le persone accentate sulla terminazione perdevano l' ù^ mentre quelle accentate sul radicale lo man- tenevano. Egli notava poi come quel verbo presentasse alcune forme difficili a spiegare (aie^ aient corrispondenti ad aiue^ aiuent ecc.). Il Cornu, nel citato studio, dando l'elenco delle forme di quel verbo nei più antichi testi francesi, non solo notò che le forme con i accentato stanno accanto a quelle con u accentato, ma eziandio che forme con u nelle persone coli' accento sulla desidenza stanno accanto alle corrispon- denti con i, e che anzi nel Salterio di Oxford la conjugazione di aiuàr è completa; onde conveniva fare larga parte all'analogia in questa con- fusione di forme che scompigliava la regolare distribuzione voluta dal- l'accento. Di più egli supponeva che forme sorte per analogia, cioè ate per aiue^ ait per aiut abbiano dato luogo ad altre forme in cui ai è pure dovuto all' analogia ( aidait ecc. ) ; e così aidier avrebbe prodotto aie poi aìde^ donde il mod. aide.

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16 JV. CAIX [qiornalk di filologia

In italiano la coujugazione di ajutare presenta ancora dei lati oscuri. In Dante abbiamo:

Ajiìta: Ajùtami da lei, famoso saggio. Inf. I, 81.

Vajùta ch'io ne sia consolata. » II, 66.

Gridando: Buon Vulcano ajùta ajùta. » XIV, 57.

DalPalto scende virtù che m't^ùta. Purg. I, 68.

Con buona pietate aiuta il mio. » V, 87.

Perchè la mano ad accertar n'c^ùta, » XII, 130.

Che più la perde quanto più o* ajùta? » XXXIII, 84.

Ma or m^ ajùta ciò che tu mi dici. Par. Ili, 69.

Ajuti: Dicendo: padre mio, che non m^ajùti? Inf. XXXIII, 69.

Ed Urania m^ajùti col suo coro. Purg. XXIX, 41. Ajutan: Ed ajùtàn l'arsura vergognando. » XXVI, 81.

AjiJTiNo: Ma quelle donne ajùtino il mio verso. Inf. XXXII, 10.

cioè 12 forme coli* accento snl radicale in cui u si mantiene. Inoltre:

Se orazione in prima non m'aito. Purg. IV, 133.

Se buona orazion lui non aita. » XI, 130.

cioè due casi di forme accentate sulla radice con «, ma tutVe due in rima. Invece coli* accento sulla terminazione:

Ben si dee lor aitar lavar le note. Purg. XI, 34.

Per ajutarmi al milleamo del vero. Par. XXIII, 58.

0 Muse, 0 alto ingegno, or m'c^utate, Inf. II, 7.

Ajutó che piace in Paradiso. Par. X, 105.

Nel primo di questi 4 versi vari codici danno cUar^ e nel terzo l' an- tico cod. magliab. ha aiate. Si vede che Dante nelle persone coli' ac- cento sulla radice , come nei primi 12 esempi , usava forme con u fuorché dove la rima richiedesse Ti, come nei due versi citati del Fur- gatorio. Per contrario nelle forme coir accento sulla terminazione egli pare aver usato aitare quando gli occorreva una sillaba di meno, ed aju- tare quando il verso voleva una sillaba di più. Quanto ad aiate nel terzo verso non può che essere alterazione del copista, poiché si richie- derebbe per lo meno aitate^ e del resto il copista stesso negli altri due versi scrive ajutarmi j ajutò. Anche in Francesco da Barberino abbiamo da una parte aitare 43, 139, 269 ecc. dall'altra ajutranno 274. Ciò che si nota in Dante trova conferma nelle prose toscane, come nell'uso po- polare moderno. Mentre è generale il mantenimento dell' nelle forme in cui questo porta l'accento, trova invece che le altre hanno il dit- tongo ai che spesso luogo per contrazione ad a: aitare, atare. Nel Volgarizzamento d'Albertauo non solo il verbo, ma anche il nome aiu- torio ^ benché d'origine letteraria, suona aitorio ed atorio. Questo spiega la misura aitare e l' alterazione in atare cosi frequente nei mss. toscani

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ROMANZA, N.*> 4] SVLV INFL UENZA DELL'ACCENTO 17

che la Crusca crede bene accettarla anche per Dante. Ma nello stesso tempo ajiitare mantenne intera la sua conjugazione, e così riuscì più tardi a prevalere, anche nelle forme a terminazione tonica, sopra aitare cUare. Invece l'opposta influenza delle forme di aitare sopra quelle con u tonico è non meno difficile ad ammettere per questo verbo che per gli altri. Il trovarsi aita così di raro usato in Dante e solo in rima fa molto dubitare della popolarità di codesta forma, che anche oggi suona come affatto letteraria. In Giulio, secondo il cod. Vatic, si avrebbe anche fuor di rima:

A meve non aitano amici nb parenti. XXIII, 1.

e invece nel verso antecedente aiutare contro ogni verisimiglianza. Ma comunque sia di ciò, forme come aUa^ aitano si possono facilmente am- mettere e spiegare nei primi poeti coir imitazione letteraria: T influenza dell'analogia delle^ forme a terminazione tonica sulle altre potè facil- mente farsi sentire nelle sfere letterarie per lo studio delle forme franco- provenzali. I poeti trovando un fr. aide da aidier poterono foggiare un it. atta da ditare quando la misura o la rima lo richiedeva. Siffatta influenza straniera è evidente nelle forme indebolite dida, ardi usate in rima da Guittone, ed è notevole che la prosa che più abbonda di tali fórme è la versione del De Reg^imine Princ. condotta sopra un'anteriore versione francese. In questa troviamo non solo aito -i, ma anche un sost. masch. aito = fr. aide. Questa derivazione suppone in ogni modo un infinito ditare che così misurato troviamo ancora nel Petrarca. Ora qui torna in acconcio osservare col Diez cb.e se aidar aider ben si spie- gano da aftare, non così Tit. ditare. Si deve tener conto della poca propensione dell'italiano a siffatte elisioni a cui preferisce in generale l'alleggerimento della vocale modificata secondo le affinità latine. An- che qui inclino ad ammettere lo stesso processo che per manducare. Come questo ha dato mandicare, così ajutare dove dare *a}itare in con- formità colle leggi fonetiche latine e italiane e colle analogie morfolo- giche. L'affinità tra i e le dentali come divenne ben presto generale nel latino (Corssen, Auss. II, 292 ss.) è non meno caratteristica del to- scano centrale (Osserv. sul Voc. ital, §. V.) e qui era pure favorita dall'analogia coi numerosi derivati in -itare. Le due cause unite come mutarono computare in compitare, così molto presto anche ajutare in *ajitare donde, caduto il j (cfr. maestà ^ Gaeta) j aitare, da cui poi aitare atare^ usato in origine solo nelle forme a terminazione tonica, poi per imitazione letteraria anche nelle altre quando la rima lo richie- deva. Ma ajutare che aveva la conjugazione completa e che ei^a il solo usato nelle forme a radicale accentato, finì per prevalere totalmente anche nelle altre. Il contrario è avvenuto nel francese. Benché le forme con u siano frequenti e nel Salterio d' Oxford la conjugazione di

2

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18 SULL' INFL. DELL' ACCENTO [giornale di filologia

aiuer appaia completa, vede che ben presto, come in manducare^ le forme sincopate hanno avuto un'influenza prevalente sulle altre, cosic- ché aidier non solo ha preso il campo di aiuer ma, come abbiamo ve- duto, ha dato qualche rinforzo alFit. aitare. Rimarrebbe in ultimo a decidere, ciò che par molto difficile, se la base del fr. aider sia vera- mente ajtare o non piuttosto *ajUare, Secondo il Cornu aie verrebbe da aiue per influenza di aidier e viceversa ater aidier da influenza delle forme con i tonico. Come però il Cornu suppone un mandicare per manducare, così par lecito supporre qui due basi originarie ajutare e *ajitare, ciascuna con una conjugazione abbastanza completa, le cui forme si sarebbero intrecciate, finché prevalse aidier quando Fiato della sillaba iniziale aveva dato luogo al dittongo. Così anche T origine di codesto iato avrebbe, come neir italiano, una più naturale spiegazione.

N. Caix.

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BOKAKSCA, N.*'4] 19

DELLE RIME

DI FRA GUITTONE D' AREZZO

Chi volesse leggere le poesie di Fra Guittone d'Arezzo, sarà dopo breve tempo stanco ed oppresso per sovrabbondanza di parole quasi inintelligibili, per frasi complicate, contorte, e talora stranissime. Ma scegli non si spaventi di questo male, e stia saldo nel fatto proponi- mento, 8^ avvedrà subito che di mezzo a tutto quel fango brilla qualche perla; o, per esprimermi in senso proprio, fra il cattivo ed il comune abbiamo ancora del buono e deir originale. Ed invero, se in Guittone troviamo sovente ripetizione di idee e di pensieri, numero eccessivo e continuo di antitesi e bisticci, e periodare spesso troppo intralciato; egli è notevole da un altro canto perché non poco si stacca dalla scuola provenzaleggiante, intrecciando T erotico col religioso ed il morale e dando alla forma poetica un avviamento novello. Egli dopo aver pro- posto di darsi la morte se le pene d'amore non varranno ad ucciderlo, viene a più saggi consigli, delibera di abbandonare il mondo, riconosce solo dal cielo ogni conforto; quindi inneggia a Dio, a' suoi santi, alla Vergine Madre, consigliando a tutti la fuga dai vizi, il disprezzo del secolo e di ciò che a lui piace, e l'esercizio delle cristiane virtù. Ecco dichiarato, se non m' inganno, come nascono le tre categorie delle rime di Guittone, erotiche, morali e religiose, che colla maggior brevità pos- sibile verremo partitamente considerando.

E prima di tutto à da dir qualche cosa sulla vita di Guittone: in- certo è r anno della sua nascita, che fu però in Santa Firmina a due miglia da Arezzo fra il 1220 e il 1230. Quanto sul Poeta nostro sappiamo, da lui stesso il sappiamo; perché, per buona fortuna, se altre fonti ci mancano, è concesso a noi di ricavare qualche notizia dalle sue lettere e dalle sue poesie. Suo padre. Viva di Michele, fu Camarlingo del comune di Arezzo, e si unì in tal uflBcio il figlio che, quantunque immerso in cure penose, pur seppe trovar tempo ed agio allo studio della poesia e della letteratura latina. Dai versi di Guittone si conosce che questi non di-

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20

1\ VIGO

[giornale di filologia

moro sempre in Arezzo; iu nessuno scritto del Poeta si trova manifesta ragione di ciò; ma la congettura del prof. Romanelli (l) mi sembra ra- gionevole e giusta. Nella storia del medio evo è famoso per le guerre di parte nelle città italiane il secolo in cui nacque Guittone: anche in Arezzo, neiretà giovanile del poeta, la pace dei cittadini veniva turbata non pure da guerre e scorrerie di .masnade nemiche, ma altresì dagli interni dissidi delle fazioni che ponevano nelle famiglie T inquietudine e la discordia. 11 poeta quindi può essersi allontanato dalla patria sua per fuggire la vista di tanti mali. Mi pare infatti eh' e' lo dica aperto nei versi che seguono:

Gente noiosa e villana, E malvagia e vii signorìa, E giudici pien di falsìa, E guerra perigliosa e strana Fannomii lasso, la mia terra odiare, E 1* altrui forte amare. ^ Però m'ei dipartuto

Di essa, e qua venuto (2).

Benonché egli deplora di essersi dovuto allontanare dalla nativa città ed aggiunge :

E se pace e ragione tornasse a durare. Sempre vorria stare (3).

E della patria fa ognora ricordo con sconfortante mestizia. Dove pas- sasse i giorni dell'esilio spontaneo, non saprei dire: certo fu Guittone talora fuor di Toscana, perché mandando alla donna amata i suoi versi così egli canta:

Va, mia Canzone, ad Arezzo in Toscana (4).

Tornato iu patria si die a vita claustrale e morì nel 1294 avendo fon- dato Tanno innanzi il monastero di Santa Maria degli Angeli in Fi- renze in via degli Alfani (5).

Gli studi a cui con tanto amore si applicò nell'età giovanile, non furono sterili pel nostro autore, il quale secondo il vezzo del tempo si die alla poesia. Di vario genere, come abbiamo dianzi accennato, sono le sue rime: le amorose in maggior numero ma non di maggiore im-

(1) Di Guittone d' Arezzo, Campo- (5) Il Diploma contenente i patii per la

basso, ltS75, cap. IV, pag. 32.

(2) Canz. 37, St. I.

(3) Ibid. St. VII.

(4) Ibid. St. X.

fondazione <Ji questo monastero esiste nel R. Archivio di Stato in Pisa (Diplomatico, San Michele in Borgo, 1293, lud. VI) e noi lo daremo nel!' Appendice.

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ROMANZA, K.« 4] DELLE RIME DI FRA G UITTOKE Zi

portanza per noi. Esse non per l'ordine, ma pei sentimenti che le in- formano, si possono suddividere in poesie dove Guittone ammaestra e consiglia i fedeli d* amore; e poesie dove parla di come amante, e in che si riferisce propriamente alla donna sua (1). Col sonetto i cui primi versi sono

Mi piace dir com'io sento d'amore A prò di que*, che men sanno di mene (2),

hanno principio gli ammaestramenti di Guittone. Dice il poeta esser r amore una passione che tutti provano, ma non certo nel modo mede- simo: chi però non è profano all'amore conosce a maraviglia quanto sia grande la sua possanza che toglie ogni altro affetto ed ogni altra preoccupazione dell' anima. Poiché ognuno è costretto porre l'affetto in donna, è da vedere il modo di far ciò. Prima che l'amante manifesti alla fanciulla amata il suo cuore, miri se a lei piace o no: ove alia donna piaccia, e voglia costei ricambiarlo dell'amore ch'egli le ha chiesto, non tema di manifestarsi: rivelato che si è, la richiegga di un secondo ab- boccamento altrove; e se il luogo è celato, dice il nostro frate poco nobilmente :

Basci ed abbracci, e se consentimento

Le vede alcuno, prenda ciò che più monta (3).

La donna amata, continua il poeta, si può trattare in modi assai di- versi; e per far ciò conforme alle regole conviene por mente al grado, all'indole, alia natura di lei; e quindi è d'uopo conformarsi ai vari casi che possono occorrere:

Che tal vuole minaccia, e tal pregherà, E tal cortese dire, e tal villano; E tal parola umile, e tale fera (4).

Deve l'uomo servire umilmente la donna diletta, ma non mostrarsi mai innamorato di lei oltre misura: perocché potrebbe darsi che inorgo- glita di questo affetto mirabile e più che ordinario, divenisse imperiosa e superba coli' amatore: ed in questo caso è mestieri

ver lei farsi orgoglioso, E dimostrar cho dell'amor si toglia, E di meglior di lei farsi amoroso (5).

Del resto, è ben piccola cosa quello che può essere insegnato; e nel-

(1) Romanelli, Op. cil., Capo VI, (3) Sonetto 180. pag. 41. (4) Sonetto 181.

(2) Sonetto 173. (5) Sonetto 106.

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22 P. VIGO [aiOBNÀLE di filologia

r oprar conforme alle regole delF arte amatoria deve ciascuno esser gui- dato dal senno suo proprio.

Ma notevolissimo e degno di tutta T attenzione è il contrasto che produce l'amore nell'animo del poeta aretino. Egli infatti ora si ral- legra per la gioja che gli porta (1), ora si attrista perché ridotto da esso a pessima condizione (2), e sdegnato inveisce contro di lui per- ché sola cagione delle umane infelicità (3). Di più la donna del sno cuore non gli appare sempre la stessa : ora è trista, spietata, vil- lana (4) ; ora buona , pietosa , gentile (5). In questo caso il poeta si rallegra di aver posto i suoi affetti in loco degno, e scrive sonetti per invitare i fedeli d'amore a farle onoranza: nel secondo passa al bia- simo, si duole di averla amata, e maledice quanto ha avuto parte nelle sue relazioni amorose:

Deh! che mal aggia e mia fede, e mio amore» E la mia gioventute, e il mio piacere; E mal aggia mia forza, e mio valore, E mi* arte, e mio*ngegno, e mio savere.

E mal aggia mia cortesìa, e mio onore, E mio detto, e mio fatto, e mio podere; E mia canzon mal aggia, e mio clamore, E mio servire, e mio mercé cherere (6).

Talora si trova nelle poesie erotiche di Guittone qualche pensiero gen- tilissimo. L'immagine della sua diletta gli è sempre dinanzi agli occhi:

Tantosto, Donna mia,

Com' eo vo' vidi, fui d' amor sorpriso ;

giammai lo mio avviso

Altra cosa, che voi, non divisoe (7).

La partenza d'Arezzo gli è doluta solo per aver dovuto lasciare la donna sua nello sconforto e nelle pene:

Solo però la partenza

Fommi crudele e noiosa,

Che la mia gioia gioiosa

Vidi in grande spiacenza.

Che dissemi piangendo, amore meo (8).

Da lungi è essa il suo unico pensiero; e molte canzoni sono inviate ad Arezzo per confortarla, per ricordarle che le è sempre fedele: non cre-

(1) Canz. XXIX. (5) Canz. XXVllL

(2) Canz. XXXI. ((3) Sonetto 77.

(^) Canz. XXXVI. (7) Canz. XXV, St. III.

(4) Canz. XX VII. (S) Canz. XXXVII, St. VIII.

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B0MAK2A, N.o 4] BELLE EIME 1)1 FU A GUITTON E 28

diate, le dice, o mìa Donna, chela lontananza mi faccia dimenticarvi; nn cnore ben fatto affina V affetto sno quando la sorte lo tien disgiunto dal caro suo bene (1); ed a consolarla impromettele nn vicino ritorno (2). Nella seconda categoria delle poesie erotiche di Guittone poniamo eziandio quei sonetti che contengono un dialogo fra lui e la sua donna : lo che riporta subito la mente nostra alle ten^ofii assai famose nella primitiva poesia volgare. Esporrò la sostanza della più importante fra le tenzoni del poeta aretino. Comincia Guittone richiedendo d'amore la donna, dicendole d'esser preso di lei si forte da scordare ogni altra cosa. Risponde la donna di essere dispostissima ad accondiscendere a lui; perocché le fa fede che i suoi desideri partono veramente dal cuore e le promette d' esserle sempre fedele. Il poeta ringrazia la donna della risposta gentile, che egli pensa

che mai donna altra fiata

Parlasse tanto dibonaremente ... (3)

e la consiglia a non temere ; che le sarà costante e pronto ad obbedire ai suoi cenni. Essa che si dice accorta per modo che lei non sednr* rebbero punto i consigli di colui che è lupo sotto veste d'agnello, es- sendo troppo chiare e manifeste le parole dell'amatore, protesta di ao* coglierle con benevolenza. Sicuro dell'amor della donna, Guittone non cape in dalla gioia (4), e conforme alle sue massime (5) chiede alla giovane di parlarle altra volta in altro luogo. Ciò è preso in senso cattivo: la tua domanda^ dice la donna al poeta, non può aver niente d'onesto e di buono (6). Infatti non abbiam convenuto di amarci? Non sei stato tu forse già da me assicurato? È inutile quindi quel luogo nascosto, quel novello ritrovo che tu desideri: ond'è che la tua domanda dev'essere fatta per qualche ragione non bella, ed io ti rispondo che ciò mi offende e m'indigna. Vanne, che non sai essere un vero ama- dore, sibbene falso e finto: fuggi da me e cercati altra amante (7). U poeta piange e si dispera per ciò: prima di partire da lei o fare a lei cosa dispiacente dice di voler mille volte morire; ma la donna è ine- sorabile e così parla al poeta:

Dunque ti parti, e se che non puoi Mutar la volontà del tuo coraggio, Come dunque mutar credi Taltroi?

Or pensa di tener altro viaggio. (8)

(1) Canz. XXXn, St. II. (5) Si veda sopra alla pag. 21.

(2) Canz. XXXVIII. (6) Sonetto 65.

(3) Sonetto 22. (7) Sonetto 67.

(4) Sonetto 64. (8) Sonetto 71.

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24 P. VIGO laioRNALE di filologia

Così termìua questa specie di tenzone che ha un fine del tutto diverso da quella forse di poco anteriore attribuita a Giulio d'Alcamo.

E qui cessiamo Tesarne delle poesie erotiche del frate aretino: ma da quante ne potessimo riferire si dedurrebbe che egli sebbene sempre in parte fedele air artificio scolastico ed alla tradizione provenzale, pure nello stesso figurarsi benevolenze, sdegni e rancori, nel pro- porre di non mostrarsi troppo innamorato di una donna, viene, se non m'inganno, ad esprimere nuovi affetti e nuovi sentimenti e schiude il sentiero ad un novello genere di poesia. La scuola siciliana aveva pro- gredito pochissimo nella materia e nella forma: T amore pe' poeti di questa scuola si rivolge entro termini puramente convenzionali: hanno essi poi per la donna loro, se mi è permesso esprimermi così, un vero culto idolatra. Invece per Guittone, come osserva ben a proposito Claudio Fauriel (1): e La dame n^est pas tout à fait une divitiité^ à la quelle il n'y ait quo des hymnes à adresser. Cest une femme à la quelle il peiU plaire^ quHl peut offenser^ du moins, sans en avoir Vintention^ à la quelle il peut avoir à demander pardon , qu'U peut perdre, avec la quelle en un mot il peut éprouver tous Ics contrastes de Vamour >. La scuola poi dei poeti che in molte altre parti d'Italia era sorta, non fa per lo più che attenersi a quella nata e svoltasi nella cort^ di Fede- rigo II : Guittone d'Arezzo invece, come abbiamo accennato, se ne stacca alquanto; fa che la poesia amorosa spazi in un campo più largo e si allontana in qualche parte dai modi propri della scuola provenzaleg- giante.

II

Nel mezzo del cammiu della vita Guittone d'Arezzo, abbandonata la heUa e piacentiera consorte ed i figli (2) (lasciando loro però di che vivere agiatamente) si ascrisse fra \ cavalieri di Santa Maria Gloriosa. Questo ordine istituito nel 1209 in Tolosa ebbe per iscopo di difendere la fede cattolica travagliata allora dalle eresie degli Albigesi, di soc- correre le vedove ed i pupilli, di insorgere contro le usure pubbliche e le private (3). La nuova congregazione ci si mostra fin da principio con aspetto tutto suo proprio. Ebbe essa infatti non solo carattere militare e religioso, ma altresì forma di confraternita laica: ed iu-

(ì) Dante et les origines de la lafigue (3) Federici, Istoria dei Cavalieri

et de la littérature italiennes. Paris, Aug. gaudenti. In Vinegia 1787, Stamperia Co-

Durand, MDCCCLIV, voi. I, pag. 347-48. leti, voi. I, pag. 3.

(2) Canz. Vili, Sf. IV.

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ROMANZA, N.« 4] DELLE BIME DI FRA G UITTONE 25

vero il rnatriraonio nou faceva impedimento a ehi volesse entrarvi; e i cavalieri conjagati quantunque portassero abito ed insegne monastiche, osservassero pratiche devote e fossero soggetti al generale dell' ordine ; pur nondimeno erano retti da un priore speciale, stavano sotto la giurisdi- zione dei vescovi diocesani e non facevano voti di castità e di povertà. Si avevano poi i frati conventuali che menavano vita claustrale (1).

L'ordine de' Cavalieri di Santa Maria Gloriosa dalla Liuguadoca passò in Italia e nel 1233 fu istituito iu Parma per opera del Beato Bartolommeo da Vicenza (2). Nella nostra penisola la congregazione di cui parliamo ebbe forma pili stabile, e più conveniente a società re- ligiosa, insignita, come fu, dai privilegi de' sorami pontefici. Gregorio IX l'approvava nel 1234 e solennemente la confermava Urbano IV nel 1261 : dopo di che si propagò in tutte le città d'Italia. Quivi ai fini che si era antecedeutemente prefissi, un altro ne aggiunse l' ordine novello. La nostra nazione, nel secolo XIII, più che in altro tempo del medio evo, era funestata dagli odi di parte: la milizia de' cavalieri di Maria si propose quindi, prescrivendole ciò Urbano IV in una sua bolla, di calmare i tumulti, di togliere le discordie, di estinguere le ire domesti- che (3). Senonché dai santi propositi per tempissimo deviando e pensosa dei comodi propri più che dell'altrui bene, la congregazione della Ma- donna fu detta de' cavalieri Gaudenti o con ischemo maggiore de' Cap- poni di Cristo (4).

Guittone d'Arezzo pochi anni dopo la solenne confermazione di papa Urbano, prima cioè del 1269, entrò fra i Cavalieri Gaudenti, e ci attesta il Federici che egli fu propagatore zelantissimo di quest' ordine in tutta la Toscana e ben presto provinciale (5). Ascritto alla di vota milizia cominciò ad osservarne con tutta esattezza le regole: e non poteva essere altrimenti; perché egli, come apparisce dalle sue stesse poesie, è pentito * de' falli trascorsi, e vuol farne onorevole ammenda ponendosi al servigio di colei che fu detta avvocata dei peccatori.

Guittone d'Arezzo deplora in più luoghi delle sue rime di aver male usato degli anni giovanili passandoli in godimenti sensuali e mondani ;

Vergogna ho, lasso! ed ho me stesso ad ira, E doverla via più, riconoscendo

(1) Federici, Istoria dei Cavalieri ec. in Gaittone Ji Arezzo, Canz. Vili, St. 5, pag. 119. troriamo:

(2) Ibidem, pag. 178-179. ^ , vx , , u. /^ ;, *•

' ^ " Ben mgRia chi noi pri» cbismo Oandcnti,

(3) Ibidem, pag. 58. Ch'ogni uomo, a Dio rendnto.

(4) La denominazione di Gaudenti ai lq pju diritto nome è Ini gandente. cavalieri di S. Maria, deve essere stata di ben

poco posteriore alla istituzione dell'ordine: (5) Ibidem, pagg. 329 e 373.

2*

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26 P. VIGO [OIOBNALE DI PILOLOGU

Che male usai la fior del tempo mio. Perché non lo mio cor sempre sospira? E jijli occhi perché mai finan piangendo? E la bocca di dir mercede, o Dio? (1)

Egli ha sottomesso ogni cosa non al servigio di Dio, ma a qnello dei vizi; e di tutte le potenze dell'anima sna, anziché osarne al servigio del Signore, si servì ad oltraggio di lui, a danno degli altri ed a morte deir anima propria (2). Vergognandosi cotanto del passato, è naturale che pel frate aretino il giorno in cui egli si ritrasse dalla vita pec- caminosa, sia quello che ridonò la pace alla sua mente ed al suo cuore. Entrato in una yia migliore Guittone si rallegra seco stesso, e si com- piace della vergogna e del dolore che sente pei falli trascorsi, anzi tanto è più lieto del pentimento quanto maggiori sono stati gli errori ; quindi volgendosi alla Vergine la ringrazia dicendole: Per favor vostro, io son fuori della strada di perdizione, perché voi

A vostro cavalieri

Mi convitaste, e mi degnaste amare,

E del secol ritrare (3).

Del cangiamento operatosi in lui rende il poeta dovute grazie a Dio «d a Maria, e così nascono le sue poesie religiose che hanno non piccola importanza per noi.

La canzone XI è dedicata a Gesii Cristo ed è piena di amore verace e di fede sincera. In essa il nostro poeta cominciando dalla incarna- zione, si ferma strofa per strofa a considerare la vita, la passione, la morte e la risurrezione del Verbo umanato. Sebbene assai rozze, pure per forza d' espressione e nobiltà di concetto, meritano di essere riportate le strofe seguenti:

0 bon Gesù, tu troppo amando La carne nostra, vii tanto, prendesti; Scendesti a terra, noi a ciel montando, E facendo noi Dii, uom te facesti; Kiccor, onore, gioia a noi donando, Povertà nostra e ointa e noi' prendesti, ecc. (4)

0 bon Gesù, noi vedemo te. Come mendico, a piede afflitto andare; Affamato, assetato, e nudo se"; magion hai, cosa alcuna pare:

(1) Canzone II, St. I. <3) Canz. Ili, St. 3.

(2) Canz. Ili passim. (4) Canz. XI, St. 3.

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ROMAKiA, N.° 41 DELLE BIME DI FEA G UITTONE 27

Or non se' tu di cielo e terra Re, Ricco, cui è quant'é senza alcun pare? Oh perché tanto abbassare, £ farte di maggio minore (l).

0 bon Gesù, tu contristato, Tu di cielo e di terra ogni allegrezza: È preso il solvitor d'ogni legato; Laidita e lividata ogni bellezza; Onore tutto e piacer diaorrato; £ dannata giustizia a falsezza; £ disolata ò grandezza; £ vita ò morta a dolore (2).

E la Vergine Maria, al cui culto si era consacrato , invocava cossi :

Graziosa e pia Virgo dolce Maria Per mercé ne invia a salvamento.

Inviane a bon porto, Vero nostro conforto, Per le cui man Q*è porto tutto bene. In la cui pietanza Tutt'è nostra speranza, Che ne doni allegranza e tolla \^ne (3).

Viva e surgente vena. La qual ben tutto mena, Preziosa Reina celestiale, Per tua santa mercede, Sovra di noi provede. Che forte ciascun sede, forte male« Ma tu, che poderosa, Cortese e pietosa Se' tanto, metti in noi consolamento (4).

Anco lo ispirano le quasi contemporanee istituzioni di San Domenico di Guzraan e di San Francesco d'Assisi: allo strenuo difensore della Chiesa, al propagatole zelantissimo della fede cattolica, al persecutore inesorabile dell'eresia, fra Guittoue d'Arezzo canta:

0 nome ben seguitato, £ onorato dal fatto, Domenico degno nomato A domino dato for patto (5).

(1) Canzone XI, St, 5. (4). Ibid. Si. ult.

(2) Ibidem, St. 7. (5) Canzone XIII, St. 2.

(3) Cani. XU, St. I.

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28 P. VIGO [giodkalg di filologu

Agricola a nostro signore, Non terra, ma cori coltando; Fede, speranza, e amore Con vivo valore sementando; ecc. (1)

Concetti che poterono forse ispirare al divino Alighieri quei bei versi del duodecimo del Paradiso:

Quinci si mosse spirito a nomarlo Dal possessivo di cui era tutto.

Domenico fu detto; ed io ne parlo Siccome delP agricola, che Cristo Elesse all'orto suo per aiutarlo.

Tu, o Domenico, continua il poeta aretino, hai insegnato agli igno- ranti, hai sanato gli infermi, come salda colonna hai sorretto ciò che mi- nacciava cadere ; tu sei vero e forte campione della Chiesa. Prima di te

Orrore e stoltezza abbondava, E catuno stavano muto; Fede e vertù amorta va; Ond' era il secol perduto ecc. (2).

ma Dio provvide ai mali della società cristiana, e mandò te a ripararvi. minore ammirazione mostra fra Guittone d' Arezzo pel Poverello di Assisi: anzi starei per dire che riguardo ad esso, il nostro poeta è fedele interprete del sentimento dell' età sua che lo fece di poco inferiore a Gesù Cristo. Guittone trepida a dover parlare lui; si dice indegno di far ciò, e a tale impresa disadatto; e si paragona ad un fanciullo che viene in campo a tenzone con un valoroso e sperto cavaliere. Quando ha vinto questa trepidazione e questo timore, il poeta ci dipinge la missione del Patriarca d'Assisi, con versi che sono certo de' migliori che s'abbiano del frate aretino. Sentite infatti come fa cantar la sua musa per San Francesco :

Sformata e quasi morta era salute,

Errore e vizio centra essa pugnando,

Quando tu con magna ogni vertute

Levasti forte, e prò lor contrastando.

Lingue parlanti inique hai fatte mute,

E mute parlatrici a bon trattando.

Cieco era il mondo: tu fallo visare:

Lebroso; bailo mondato:

Morto; Thai suscitato;

Sceso ad inferno; failo a ciel montare (3).

(1) Canz. XIII, St. 3, vv. l-l. (2) Ibid. St. (J, vv. 1-4. (3) Canz. XIV, St. 10.

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ROMANZA, N.» 4] DELLE RIME DI FRA GUITTONE 29

Nobilissime adtinque e degne di tntta F attenzione dello studioso delle lettere nostre sono le poesie religiose di fra Guittouc; tanto più poi se si consideri che iu Toscana prima di lui, la religione non era stata ispiratrice feconda, ai poeti della lingua volgare, i quali di pre- ferenza si erano dati a comporre rime amorose.

m

Nello scrivere le poesie morali, Guittone d'Arezzo adempieva ad un obbligo dell'Ordine suo il quale, come sappiamo, oltre di esaltare Dio e la Madonna, doveva inculcare l'odio al vizio, il desiderio della virtù, la pace e la tranquillità fra i popoli e le famiglie. Il sentimento mo- rale si manifesta nel frate aretino non poco nobile ed elevato. Egli dice che dall'uomo deve temersi piii l'onta che la morte e che Dìo ci ha creati non a mangiare o a dormire, ma ad oprare il bene, ad operare conforme a virtii (2). Questa, unica e indispensabile condizione per viver felici; che ogni diletto che vien dal peccato o col peccato si accompagna, è misto a pentimento e a dolore (2). Ed ogni peccato è leggero appetto a quello di non credere in Dio, lo che è proprio da stolto: non solo fanno testimonianza di lui le sacre carte in cui egli ha parlato , e tutte le popolazioni che lo confessano, e tutti i saggi filosofi, e tutti i martiri ; ma e' è altresì il buon senso naturale che ci forza a crederlo : perché

È impossibile già che figlio sia

Se non padre fu pria;

E se pria nullo, chi secondo addusse?

E se da uomo uom mosse,

Fera da fera; terra e ciel da cui?

In cui ordin, bellore

Tal ò e tanto valore (4).

Dell'esistenza di un altra vita, dice Guittone, ci è prova il fatto che non si trova nel mondo piena felicità: il perché, non avendo quivi l'uomo dabbene vera e perfetta ricompensa delle opere buone, ne deve esser retribuito dopo la morte. Afferma il poeta di compiacersi più che in ogni altra cosa nel vedere un ricco limosiniero, un cavaliere che difenda giustizia, un mercante onesto e veritiero, una donna saggia, fida all'amante, paziente, non loquace, casta e casalinga; un pontefice che adduca concordia ov' è guerra di parte (4) : dappoiché l' anima

(1) Canz. i. (3) Caiiz. VII, St. 3.

(2) Caiiz. VI, Si. 5, St. 3. (4) Cauz. X, St. 4.

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30 P. VIGO [giobnale di filologia

umana non solo si appaga dell' esercìzio della virtù ma si sublima ezian- dio agli esempi di essa. Felici coloro che non pongono nelle cose mortali la speranza e V affetto , e che intendono servire al Signore. Essi liberi dalle angoscie e dai turbamenti della vita del secolo, godono pace sicura (1). Fu anche ufficio de' cavalieri Gaudenti (e ciò risponde a quell'ideale cavalleresco tutto proprio del medio evo) il difendere sempre le donne. Questa cosa fa Guittone d'Arezzo in varie sue poesie ma più special- mente, o, come sogliamo dire, di proposito, nella Canzone quarantesima seconda. Gli uomini tutti, egli dice, hanno preso il malo abito di porre in dispregio le donne, ma io vo' ribellarmi a quest'uso generale, pren- dendo la difesa di quelle: l'uomo, continua Guittone, ha signoria sulla donna non per diritto e ragione, ma per usanza malvagia: ma la donna è tanto migliore dell'uomo, che ben ella si meriterebbe la preminenza; infatti non da lei ma dall'uomo si compiono i delitti che funestano ognora la terra. Il sesso femminile inoltre è negli affetti più eccellente e pregevole dell'altro: quando la donna s'induce ad amare è più co- stante e più tenera dell'uomo, e più forti provando gli stimoli sensuali, sa resistere ad essi molto maggiormente di noi. E poi da dirsi la fem- mina più nobile dell'uomo per la ragione che Dio

De limo terra e ruoin fece e fonnone, E la donna delPuom, siccome appare. Adunque è troppo più naturalmente Gentil cosa, che Tuomo, e meglio è nata, £ più sembra chiamata Ella fosse da Dio nostro Signore (2).

Il quale, invero, per redimere il genere umano non volle trovare altro mezzo che una donna. Dalla donna noi riceviamo tutto quanto pos- siamo avere di meglio, perocché mercé sua si svolgono quei buoni germi che in noi sono nascosti,

. . ngegno, forza, ardimento, podere ecc. (3)

e conclude che tutto

... il senno e lo valor, ch'ha Tuomo,

Dalla donna tener lo dea, corno

Ten lo scolar dal suo maestro Tarte (4).

Viene quindi a dire che le donne debbono esser gelose custodi di ogni virtù: le ammonisce a guardarsi dalle insidie altrui; le consiglia a ser-

ri) Canz. XX. (3) ìh'ul St.

(2) Canz. XLII, St. 6. (4) Ibùl. Si.

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ROMANZA, N.« 4) DELLE RIME DI FRA G UITTONE 31

bare la castità che tanto le innalza agli occhi nostri, ed è unico mezzo di perfezione verace:

Vivere in carne fuor voler carnale È vita angelicale (1);

anzi :

Angeli castità hanno for carne;

Ma chi rhave con carne

In tant'è vìa maggior d'Angel dicendo (2).

In una serie di 11 sonetti (3) Guittone d'Arezzo scruta l'indole dei principali vizi umani mostrandone i tristi effetti: nei versi seguenti (4) parla delle virtù contrapposte, facendo di tutto come un piccolo trat- tato di morale.

Prima di dare un cenno sulle poesie politiche di fra Guittone d'Arezzo ci pare acconcio l'avvertire che noi le rannodiamo colle mo- rali per questa cagione. Un altro degli obblighi e dei piìi rigorosi de' Ca- valieri di Santa Maria fu la diffusione della pace non pure fra le fa- miglie, ma fra i popoli ancora: cosicché Guittone d'Arezzo scrivendo siffatti versi non dava che un insegnamento morale secondo i precetti deir Ordine : ecco perché abbiamo serbato questo posto siile poesie poli- tiche, e non ne facemmo una categoria a parte.

Leggendo le rime politiche del frate Aretino, si conosce a prima giunta ch'egli appartiene alla fazione guelfa; e ai seguaci di questa parte viene appunto diretta quella canzone, che è senza dubbio la più importante in quest'ultimo gruppo di poesie del Gaudente d'Arezzo. Ognuno intende eh' io voglio riferirmi ai versi scritti da Guittone dopo la memorabile battaglia di Montaperti (1260) che fu, come tutti sanno, una vera rovina della guelfa Firenze. Nella canzone XLI, una delle più note fra le poesie di Guittone, si duole questi e piange a veder Fi- renze a si cattivo stato condotta; quella Firenze che tante speranze dava di sé; che

. . . riteneva modo imperiale,

Acquistando per suo alto valore

Provincie e terre, e presso e lunge, mante.

E sembrava che far volesse impero

come Roma già fece; e leggiero

Gli era: che alcun no i potea star avante (5).

(1) Canz. XLIII, St. 5. (4) Son. CXXX.

(2) Ibid. (5) Canzone XLI, St. 2.

(3) Dal son. CXXII al CXXXII.

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32 , P. VIGO [giornale di filologia

Se non che al lamento succede l'ironia, quasi rimproverì ai Fio- rentini d'esser caduti sotto gli Uberti e gli Alemanni per colpa pro- pria; quell'ironia che è stata frantesa per modo dal signor Perrens che ei non ha dubitato di asserire appartenere Guittone d'Arezzo alla fa- zione ghibellina (1). 0 voi, dice il poeta, che siete in Firenze, ponete mente alle mie parole. Poiché avete in casa gli Alemanni, serviteli bene e fatevi da loro mostrare le spade con cui vi hanno ferito i volti, ed ucciso i parenti. Ad oprar queste cose dovettero essi faticare non poco : quindi mi piace che voi in compenso diate a costoro molta della vostra moneta, ed ugualmente

Monete mante e gran gioi* presentate Ai Conti, ed agli Uberti, e agli altri tutti, Ch^ a tanto grand' onor ▼* hanno condutti , Che miao v'hanno Siena in podestate. Pistoja, e Colle, e Volterra fann'ora Guardar vostre castella a vostre spese; E '1 Conte Rosso ha Maremma e U paese : Montalcin sta sicur senza le mura ; Di Ripafratta teme ora il Pisano; E '1 Pemgin, eh '1 lago noi tolliate; E Roma vuol con voi far oompiignia, .j^ Onore e signoria.

Adunque pare che ben tutto abbiate

Ciò che disiavate,

Potete far cioè Re del Toscano (2).

Questa ironia continua fino al termine della canzone che si chiude così:

Baron Lombardi, e Romani, e Pugliesi, E Toschi, e Romagnuoli, e Marchigiani, Fiorenza, fior che sempre rinovella, A sua corte v'appella; Che fare vuol di se Re dei Toscani Da poi che gli Alamani Ha ve conquisi per forza e i Senesi.

Ma un'altra cosa si manifesta nelle poesie politiche di fra Guittone: l'amore, cioè, che il poeta nutre grandissimo per la propria città: al vedere che questa da prospera e floridissima condizione è venuta a ben deplorevole stato, lo prende compassione e dolore. Nella canzone XL fa Guittone un contrapposto fra l'antecedente felicità del comune di Arezzo e la posteriore miseria: e dopo avere inveito contro la iniqua ecrudelgente che ne è stata cagione, grida in questo modo ai cittadini:

(1) Histoire de la repìtbliquc de Florence, li, 107 e vedasi pure questo Giom, I, 53.

(2) Canzone XLI, St. 6.

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ROMANZA, N." 4 1 DEL LE RIME DI FRA G UITTONE 33

Crudeli, aggiate mercede De' figliuoli vostri e di vui : Che mal laverebbe altrui Chi stesso decede. K se vicina, divina amanza Non mette in voi pietanza, El fatto vostro istesso almen la i metta (1).

Colle Canzoni si volge il poeta ad alcuni celebri personaggi del- l'età sua. Al Conte Ugolino, al giudice di Gallura (2) e ad altri, per- ché della loro potenza, o degli ofiBci loro si valgano come comanda Iddio a tutta pace e prosperità delle genti; a Corso Donati, capo di parte Nera in Firenze, per consigliarlo a crescere valore e virtii all' animo suo nelle occorrenze (3); a Marzucco degli Scornigiani da Pisa, per lodarlo di un atto nobile e generoso (4); a Ranuccio da Casanova, per fargli parola delle virtìi prescritte dall'Ordine ai Cavalieri Gaudenti (5); e queste Canzoni in forma di lettere, e come tali pubblicate dal Bottari tra quelle del Frate, rendono conforme al vero il giudizio del Carducci, che Guittone d' Arezzo, cioè, aspiri a quella poesia politica concionatrice levata poi alto dal Petrarca (6).

Esaminati più brevemente che abbiamo potuto i diversi generi delle poesie di fra Guittone, vediamo di stabilire qualche cosa riguardo al luogo eh' egli occupa nella storia delle lettere nostre. La scuola si- cula si attiene strettamente al fare dei Provenzali, ed è fedele seguace dell'arte loro convenzionale. Volendo parlare colla maggiore esat- tezza possibile, ricavando le consegenze dagli studi che abbiamo fatti, non potremmo dire che Guittone d'Arezzo faccia parte di quella. Inclineremmo a dividere la scuola toscana in due gruppi distinti : l' uno popolare, il quale, dopoché il reggimento a comune ebbe in Firenze il massimo suo svolgimento, quivi crebbe come sotto cielo propizio; l'altro, rappresentato specialmente dai poeti pisani Bacciarone, Pan- nuccio. Lotto di Ser Dato, Pucciandone Martelli, latineggiante ; il quale nondimeno è indipendente dai bolognesi: poiché mentre questi per l'intrinseco delle loro poesie si ricongiungono, o meglio cer- cano di ricongiungersi ai poeti latini e seguono le tradizioni dell'arte e della scienza antica cosi svisate come le avea il medio evo; quelli soli nella sintassi si attengono ai classici, sforzandosi di modellare la loro costruzione poetica suU' esempio dell' antichità (7). A questa scuola meglio che ad ogni altra accosterei Guittone d'Arezzo: senon-

CD Canz. IX, St. 5. (5) Canz. TJX.

(2) Canz. XXIII. (6) O. Carducci, Studi Letterari. Livorno,

(3) Canz. LIV. Frane. Vigo Edit. 1874, pag. 35.

(4^ Canz. LVllI. (7) D'Ancona, Corso Universatario di Lett. It.

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34 P. VIGO [OJOBKALE DI FILOLOGIA

che egli ha tratti proprio particolari e caratteristici che ci impediscono di farnelo seguace scrupoloso e fedelissimo. Il nostro frate infatti è anello di congiunzione tra il fare latineggiaute e la maniera dei Pro- yenzali a cui si attiene pei bisticci e le antitesi continuate, che furono un assai brutto vezzo dell' ultima poesia ocitanica. E i bisticci e le an- titesi continuate sono in verità piìi che abbondanti nelle rime di Guit- tone; basti citare: alter altezza (Canz. Ili, St. 3 v. 7) e

0 vita vital , per cui e* vivo For cui vivendo moro, e vivo a morte; E gaudio, per cui gaudo, e son gioivo, For cui gaudendo ogni dolor mi sorte; ecc. (1)

E gradite grazire Le grazie e i piacer suoi (C. XVII, st. 2 vv. 11 e 12), Sfiorata fiore (Canz. XLI st. 2 v. 1), gioia giojosa (Canz. XLV, st. 1 y. 1 ). Ma v^ è ancora di più. Spesso il poeta unisce insieme pa- role identiche di suono, ma differenti di significato. Per esempio:

Già Inngiamente sono stato punto; Si punto m' have la noiosa gente, Dicendo di savere ove mi punto; tal punto mi fa quasi piangente (2).

Ed anche

Eppure amare vo' quella cui amo; Che ad amo m^ave si preso T amare: Pid eh' altro amant^ di bon amor lei amo.

Ed eo, che v^amo, voi di bon amare D'amor consiglio, che imbocchiate Tamo, In eh* amo, dico a voi quel che ven pare (B).

Quello poi che lega Guittone d'Arezzo alla scuola pisana, è il fa- ticoso ritorno alle forme latine, che si trovano spessissimo nelle sue poesie. Guittone per altro si attiene spontaneamente alla maniera la- tineggiaute: egli va proprio apposta a cercare modi contorti e ripu- gnanti air indole della lingua novella, precisamente come artificiose sono quelle antitesi, quei bisticci di cui abbiamo discorso. Ed infatto non naturali ad alcuna maniera di scrivere mi sembrano i seguenti modi di dire: Perché non lo mio cor sempre sospira? (Canz. II v. 4). 0 loco è altro ove pagar uom dea? (Canz. VII, st. 4 v. 16). E morte Laida prendendo traforte^ Vita a noi dando tutf ore. (Canz. XI st. 2 v. 9 e segg.). Che forte ciascun sede, forte male (Canz. XII. st. nlt. v. 6). A domino dato for patto (Canz. XIII, st. 3 v. 4). Ma preìido onde savere Degnila tanta in suo degno ritrarc? (Canz. XIV, st. 1 vv. 3 e 4). E cielo ogni in alto

(1) Canz. XV, St. 4. (2) Sonetto CI. (3) Sonetto CLXXXIII.

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ROMANZA, N.<» 4] DELLE BIME DI FRA G UITTOXE 35

(Ibid. st. 4 V. 8). Parvo par ^ magno fare a magno amante (Ibid. st. 6 V. 5) Salvò secolo esto (Ibid. st. 10 v. 8). E ne' tuoi figli oh quanta oljsi grandezza! (Ibid. st. 13 v. 2). Non laude amiate alcuna (Canz. XVIII, st, l,v. 19). Arbore quel^ che non frutta in estate Fruttar qua/ndo sperate? (Canz. XXIII, st. 3 vv. 7 e 8). Ma se non vuol di piano vincer^ corno Vorrà se affligend' uomo? (Canz. XXIV st. 2. vv. 12-3). Amore già per la gioia Che 'nde vegna^ non Vaudo (Canz. XXXV, st. 4 V. 1). E' l gran lignaggio suo morto a dolore Ed in crudel pri- gion mis' a gran reo (Canz. XLI, st. 3. vv. 3-4). E ciò gli Jm fatto chi? (Ibidem v. 5). Ma lo suo piacentero. Sembiante^ me nesciente^ in gioia è mosso (Canz. XLVI, st. 2. vv. 5-6) (1).

Questi, che non sono davvero tutti gli esempi che si potrebbero citare, dimostrano a su£5cienza che il frate aretino è ampliatore mas- simo di quella nuova foggia di poetare che, se da un lato si attiene al fare provenzaleggiante, da un altro canto se ne stacca in quantoché si avvicina alla sintassi latina: ma questa unione di elementi nuovi cogli antichi, è troppo superiore alle forze ed ai tempi di Fra Guit- tone: si direbbe quindi che questi non è riuscito che ad abbozzare una scultura che egli aveva intenzione di compiere con tutto il magi- stero possibile, e di esporre agli occhi ed al giudizio del pubblico; co- sicché non dubitiamo di asserire che Guittone, innamorato com'era della classica antichità, se fosse vissuto due secoli appresso, alla fine del medio evo, avrebbe avuto ben altra fortuna.

Per la conoscenza e la perizia degli scrittori latini, e per l'amore a questi il frate aretino deve essere stato a' suoi tempi in grandissima stima. Fra le poesie di Guido Guinicelli si trova un sonetto mandato a Guittone d'Arezzo nel quale si hanno questi versi

Prendete la canzon la quale io porgo Al parer vostro che T agiunchi e cimi; Che a voi in ciò solo come mastro accorgo.

Ma della riputazione del poeta nostro a suoi tempi ci fanno testimo- nianza notevole Dante Alighieri e Francesco Petrarca. Il primo nel De Vulgari Eloquio (2) se la prende contro chi innalza Guittone e dice così: Desistant ergo ignorantiae secfatores Guidonem aretinum extollcntes ; e nel XXVI del Purgatorio avendo incontrato Guido Guinicelli amico e maestro suo lo encomia per le sue dolci rime d'amore dicendogli che sarebbero durate in eterno. Ma il poeta bolognese protesta quasi di non meritarsi questo elogio si grande; che un perfetto artefice e

(1) Per debito di giustizia debbo dire che, prima di me, raccolse queste forme lati- neggianti T egregio professore Alessandro D'Ancona.

(2) Libro li, Gap. VI.

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36 P. VIGO [OIORHALK DI PILOLOGU

maestro del proprio parlare non dee cercarsi in Italia ma in Provenza, nella persona di Arnaldo Daniello, che soverchiò tutti gli altri in rime d'amore e prose di romanzi. Coloro che credono a lui superiore Ge- rardo di Limoges,

A voce più che a ver drizzan li volti, E così fermano sua opinione Prima ch'arte o ragion per lor s* ascolti.

K similmente

Così fer molti antichi di Guittone, Di grido in grido pur lui dando pregio, Finché r ha vinto il ver con più persone.

Cioè: egli fu approvato un tempo per testimonianza di molta geute; ma in appresso la verità è stata conosciuta e dichiarata dai più e la stima universale gli è venuta meno.

11 Petrarca nel capitolo IV del Trionfo d'Amore fingendo di aver visto in una piaggia fiorita alcuni poeti amorosi toscani vissuti prìua di lui, pone fra essi Guittone e dice

Ecco Dante e Beatrice, ecco Selvaggia, Ecco Gin da Pistoja, Guitton d'Arezzo, Che non esser primo par che ira aggia:

lo che debbe intendersi in questo modo: che il nostro poeta sentiva invidia di non essere fra i suoi posteri tenuto in quel gran conto nel quale era stato presso i contemporanei, dai quali, come anche apparisce da un passo di Benedetto da Cesena, ei fu grandemente stimato (1). E tutte queste a noi sembra che siano prove della riputazione che il poeta d'Arezzo come dotto e singolare nella maniera di scrivere deve aver goduto ai suoi tempi*

IV

Parrà forse cosa strana a taluno che noi, parlando delle poesie asce- tiche di fra Guittone, non abbiamo neppur fatto cenno del famoso so- netto Donna del Cielo^ gloriosa madre Del buon Gesù ecc. Da questo fino all'ultimo (una serie di 27 sonetti) comincia una foggia di poesia phe è proprio incompatibile coU' antecedente del frate, perché le darebbe un carattere diversissimo da quello che abbiamo detto appartenerli. Chi attentamente si faccia a leggere quei sonetti e li ponga a rafi^ronto cou

(J) Tract. de honore midieriim, Lib. IV, Capo 2.

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ROMANZA, s.«» 4] DELLE RIME DI FRA G UITTONE 37

gli altri di Guittone s* avvedrà a prima giunta di una differenza non piccola. La maniera di dire è assai più disinvolta, la frase procede più spedita ed ordinata, la lingna è incomparabilmente più pura e libera da tutti quei bisticci, che se furono una ben trista abitudine di molti negli albóri della nostra poesia, sono in Guittone quasi insopportabili. Attalché sorge spontaneo il dubbio se una forma nobile e peregrina possa essere sorella legittima di una rozza e diciamo quasi scomposta. Il dubbio può esser ben giustificato dal fatto che questi sonetti non si trovano in nessun codice delle poesie di Guittone. Non gli hanno i due codici che esistono a Lucca, non gli hanno i codici romani e non gli hanno neppure il Palatino, il Riccardiano, il Rediano.

Ma come dunque vennero fuori? Essi, scompagnati dagli altri che vediamo nelle edizioni posteriori, comparvero perla prima volta nell'ot- tavo libro dell'opera intitolata Rime antiche^ divise in undici lihri^ Fi- renze, eredi Giunti, 1527, in 8* e nelle successive ristampe dell'opera medesima fatte a Venezia dai Fratelli Sabbio nel 1532, da Cristoforo Zane nel 1731, e nel 1740 da Simone Occhi, il quale non fece se non rimetter fuori l'edizione dello Zane mutandovi il frontespizio, ma non il foglio seguente ov' era indicato il nome del tipografo : del che pare che egli non si sia accorto. Nell'edizione Giuntina si trovano del no- stro poeta trentacinque sonetti, due ballate e due canzoni, cosicché a questa edizione sembra essersi riferito l'illustre Fauriel quando par- lando di Guittone scrisse: On a de lui trent-cinq sonnets^ quatre can- zoni ecc. (1)

Il Valeriani da nove codici, due dei quali Vaticani, gli altri Luc- chesi appartenuti al Lucchesini e trascritti per mano del Salvini e del Biscioni, tolse tutte le rime che si hanno oltre quelle pubblicate nel 1527, vi aggiunse le altre dell'edizione Giuntina mettendole in ultimo senza por mente alla gran differenza che manifestavano nella forma, e curò un'edizione generale delle rime di Fra Guittone, che fu stampata in Firenze presso Gaetano Morandi nel 1828 in due volumi in ottavo: dei quali alla pagina 212 del secondo cominciano i sonetti controversi. Copia più che altro dell'edizione del Valeriani è la ristampa che delle poesie del nostro frate, fu fatta a Firenze nel 1867: fa parte della collezione Mazzini e Gaston, ed è il primo volume della prima serie. Cosicché l'errore è stato successivamente tramandato dall'una all'altra ristampa; può difendersi in verun modo, in quanto i criteri diplomatici, che sono del massimo valore in questioni di siuiil fatta, stanno a giustifi- care il dubbio emesso.

(1) Davte et les nvigines de la langve et de la lUterature itallennes, Paris, Au- gust Durand, MDCCCLIV. Voi. I, pag. 346.

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38 P. VIGO [giornale di filologia

Il qual dubbio però non siamo davvero stati noi i primi a formare. Già Ugo Foscolo nelle sue Epoche della letteratura italiana non temette di dire che gli ultimi ventisette sonetti potessero appartenere a Guittone. « Di Guido poeta, son sue parole, i versi che restano sarebbero maravi- gliosi per queir età ; non tanto per le idee, quanto per lo stile che spesso pareggia quello del Petrarca; ma confesso che io credo le poesie di Guido d'Arezzo, spiritose invenzioni di qualche bell'ingegno dell' epoca di Leone X (1). > Il Giudici poi, prima di conoscere quanto aveva detto Ugo Foscolo sul frate aretino, non dubitava di affermare che se l'autore dei ventisette sonetti controversi e delle altre poesie fossero una stessa per- sona, e verremmo costretti a supporre un miracolo e chiamare in aiuto l'onnipotenza divina per decidere un piato di minuzie letterarie» (2).

Oltre dieci anni dopo, narra l'egregio critico essergli accaduto un fatto che potè avvalorar grandemente l' ipotesi del Foscolo, e i dubbi suoi propri. Ci serviremo delle sue stesse parole. < Tirando innanzi il mio lavoro nel fare i miei studi sul Trissino, mi giovai della bella edizione di tutte le opere di lui fatta nel 1727 con estrema cura da Scipione MafiFei, la cui autorità nelle cose di erudizione è tenuta meritamente come quella di giudice inappellabile. Immagini chi può la mia maraviglia allorché nella edizione detta di sopra vidi il sonetto:

Quanto più mi distrugge il mio pensiero

stampato fra le rime del Trissino, si che potei pensare di non essermi male apposto (3). »

Questo fatto indurrebbe ad asserire colla debita circospezione es- sere i ventisette ultimi sonetti attribuiti al frate Gaudente, o per lo meno una gran parte di essi , probabil fattura di quattrocentisti o cin- quecentisti imitatori del Petrarca.

Ad avvalorare i dubbi sull'autenticità degli ultimi 27 sonetti può servire, più che altro, un raffronto delle parole e modi degli antece- denti, colle parole, e coi modi loro. Dal I fino al CCVIII inclusive il lettore non potrà trovarne una brevissima serie , che non gli ponga sot- t' occhio frasi assai poco naturali all'indole della lingua italiana, e ta- lora strane e contorte. E tali sono, a parer nostro, quelle che seguono, tolte qua e dai sonetti non controversi: esser manente (Son. XXIX, V. 3). Regnare a hmiignanza ed a piacere (Ibid. v. 4). Amistate a buon talento (Son. XXX, v. 2). Farte la vita a gran dolore (So- net. XXXn, V. 3). Chcr mercè (Son. XXXIII, v. 3). Se ^n voi de- gìiasse fior valer mercede; Ma ciò decede orgoi die vi sta bene (Ibid.

(1) Citato in Giudici, Sr. della Leu. It. (2) Op. cit. ibid. pag. 107-108.

Firenze, F. Le Mounier, 18G3. Voi 1, Lez. Ili, (3) Ibid. in nota,

pag. 108 in nota.

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ROMANZA, N." 4] DELLE BUIE DI FRA G UITTONE 89

vv. 9 e 10). A tutta mia divisa (Son. XL, v. 11). Ciò che m" agenza (Son. XLII, V. 3). Ma come in ferro più che in cera tene E voile in- taglia ecc. (Son. XLV, vv. 12 e 13). Ferde diritto Prima chi falla^ e prender me difendo (Son. XLVI, vv. 9 e 10). Adunque guarrìa me V altrui noccnte (Son. LXVIII, v. 14). Com' tu prenderlo di, avaccio accordato Fora per la mia parte^ e volentieri (Son. LXXI, vv. 3 e 4). ma non m' è piacentera (Son. LXXV, v. 7). CK io tei convento dar ben dóbhramente (Son. LXXXII, v. 12). dólcemente m'have trapagato Lo vostro orrato dir^ che son galdente (Son. LXXXIII, vv. 10 e 11). Som- mariamente quanto può ciausire Di tutto ben uom bon conoscidore. (Son. LXXXIV, vv. 7-8).

Frasi consimili a queste si ripetono del continuo nelle rime del frate aretino, e avremmo stancato certamente la pazienza del lettore, se tutte quante le avessimo qui riferite.

Ma oltre a ciò sono frequentissimi i bisticci nei 208 sonetti; fra i quali anzi ve ne ha alcuno in cui una medesima parola, o parole de- rivate da un identica radice compariscono in tutti i quattordici versi; come ad esempio nei sonetti XXXIV, LIV, LXX e CLXXXIII: goffo, quest'ultimo, più di tutti gli altri, oscuro e ridicolo. Si trovano inoltre molto spesso bisticci di due o più parole, talora anche di un intera strofa, che qua non riferiamo per non tediare chi leggerà il presente scritto.

Ma dal sonetto CCIX fino all'ultimo non abbiamo più tutto que- sto, e se apparisce qua e qualche forma antiquata, non vi si trovano frasi contorte e latineggianti in modo non acconcio all'indole della nostra favella: ma, invece di rozze ed oscure maniere di dire, si hanno le strofe seguenti che il gran Cantore di Madonna Laura non sdegne- rebbe fra le sue:

Allor vedrete alla mìa fronte avvolto Un brieve, che dirà, che '1 crudo amore Per voi mi prese, e mai non m'ha disciolto (1) ;

oppure :

ed anche:

Poi son ricorso in cielo al sommo bene Per fuggir le dorate aspre quadrella: Nulla mi giova, ond*eo son fuor di speme (2);

Ma quando io son per giro all'altra vita Vostra immensa piet^ mi tiene e dice Non affrettar P immatura partita.

(1) Son. CCX. (2) Son. CXIl.

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40 P. VIGO [giounale di filologia

La ?erde etk, tua fedeltà il disdice: Ed a ristar di qua mi priega e invita: Sicch'eo spero col tempo esser felice (1).

Qui ognuuo, ci serviremo delle parole del Giudici, può ravvisare tant'arte, da' tenere questi sonetti a buon dritto più belli di quei di Gino da Pistoia e inferiori solo alle rime del Petrarca: i versi infatti sono armonici e maestosi, la lingua nobilissima, le frasi elette; e so- prattutto, lo che ancor meno si accorda col carattere della poesia di Guittone, abbiamo un lucidissimo e naturalissimo stile. Così, presso a poco, è negli altri, come vedrà di leggieri chiunque si ponga a fare un raffronto.

Potrebbe forse qualcuno contrapporre un verso del sonetto a Maria per rivendicare almeno quest'ultimo al frate aretino: e sarebbe nella quartina che dice:

Bisguarda amor con saette aspre e quadre A che strazio ne adduce, ed a qual sorte. Madre pietosa, a noi cara consorte, Ritrane dal seguir sue turbe e squadre (2),

TI Nannucci a questo punto soggiunge : e Chiama consorte la Ver- gine perchè l'ordine al quale era ascritto Guittone era intitolato di Santa Maria; > ma per me quel consorte non ha certo siffatto signifi- cato. Secondo il concetto cattolico, se Maria Vergine non è stata sog- getta alle nostre debolezze, ha per altro certamente provato tutti gli affanni propri del vivere, tutti i timori, tutte le speranze; quindi ebbe la stessa sorte di noi, è nostra sorella, ed a lei l'anima pia si volge sempre con più fervore, perché le pare che essa che le ha provate, debba avere un balsamo più efficace a lenir le sue pene: ed è questo l'incanto del culto di Maria e la ragione per la quale questo culto medesimo si diffuse rapidamente fra i cristiani fin dai primissimi tempi della Chiesa, e molto innanzi che il concilio di Efeso lo stabilisse: cosicché il chia- marla consorte è darle uno degli epiteti più naturali, più appropriati, e più belli; so spiegare come il Nannucci non v'abbia pensato.

Riepilogando, diremo che noi lungi dall' abbassare fra Guittone di Arezzo come fauno il Monti nella Proposta^ e il Perticari negli ScrU- tori del trecento, lungi ancora dal dargli un importanza ed un me- rito che non gli spettano, crediamo dover concludere: che egli con tutta la sua rozzezza, colle sue ripetizioni, coi suoi bisticci, col suo stile duro e contorto è ampliatore anzi istitutore di un genere di poesia che sta di per : genere che se fu stimato a' tempi in cui sorse, visse

ri) Son. CCXIII. (2) Son. CCIX.

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ROMANZA, N.° 4] BELLE RIME DI FRA G UITTONE 41

per altro vita assai breve, perché per l'indole sua mal si affaceva ad nna età, in cui veniva sempre più a svolgersi l'idioma volgare. Ab- biamo veduto ch'egli ha talora vigorosi concetti, originali, nuovi, de- gni di lira maggiore. Quindi lo studio di Guittone d'Arezzo sarà ripu- tiito utilissimo da quanti si professan seguaci di quella critica saggia che anche delle più piccole cose tien conto, e da quanti amano di cono- scere intimamente qual fosse il sentiero preparato ai successivi cultori della volgare poesia.

Livorno, Gennajo 1879.

Pietro Vigo.

APPENDICE

(Ved. pag. 20. n.6).

Paiti e convenzioni fermati tra Fra Frediano pi^iore di CanialdoU da una parte, e Fra Guittone d'Arezzo dell'ordine di Santa Maria, Gloriosa dalV altra per edificare il monastero degli Angeli di Firenze.

(Estratto dal B. Ardi, di Stoto in Pisa, Dipi. 1293. Ind. VI. S. Michele in Borgo).

In Dei nomine , Amen. Anno domini a nativitate ejusdem millesimo, diicen- tesimo, nonagesimo tertio, Ind. vj» Romana Ecclesia pastore vacante. Cum reverendus pater dominus Fridianus prior Camaldolensis ex una parte, et vir religiosus frater Guittone ci vis Aretinus de ordine militie gloriose Virginis Marie ex altera, din ha- buìssent simul tractatom et concordiam super faciendo novum locum heremiticum prout et sicut per eos extitit ordinatum, tandem conventiones et pacta infrascripta de ipso loco heremitico faciendo inter se fecerunt et concorditer celebra verunt. Nam in primis ordinaverunt quod fiat et sit locus heremitìcns, et quod ab isto anno in antea vitam heremiticam faciant fratres moraturi in eo, et ad minus sint ibi sex fratres , quattuor monaci et duo conversi : qui clerici continue habitent infra demos dicti loci neo de loco valeant exire aliquo modo nisi magna ymineret neccessitas, et tunc de voluntate et consensu prelati et maioris partis capituli dicti loci.

Item teneatur et debeat dictus frater Guittone, dare et solvere prò dicto loco heremitico habendo et emendo, ducentas libras denariorum pisanorum nsque ad ka- lendas Januarii proxime venturas ; omnia vero alia necessaria et quocumqne modo opportuna prò dicto loco heremetico habendo, exeqnendo, et compiendo, fiant et fieri debeant sumptibus et expensis prout intra sequitur, ita quod dicto modo et forma dictus locus heremiticus fiat, compleatur, et perficiatur.

Item quod nullus frater dicti loci prelationem ncque officium unquam reoipere possit aliquo modo, nec vicariam vel custodiam alicujns loci, nec dominus prior possit aliquem ad hoc conpellere ymmo eum deneget omnino dare.

Item quod locus sit subiectus hcremo Camaldulensi in confirmatione prelati et visitatione et annuo censn, dando sacriate diete heremi unam libram cere infra annum vel eius inde quando dare voluerit. Et si non daret infra annum teneatur dare dictus locus duas libras cere nomine pene.

3*

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42 P. VIGO [giornale di filologia

Item dominus prior nec aliqais prò eo, neqne heremite Camaldtilenses possint aliquem monacum vel conversum ponere in dicto loco, ncque extrahere sine volun- tate prioria dicti loci et maioris partia capituli. Et ad petitionem prioria et capi- tuli dicti loci debeat domimi» prior removere quemcumque fratrem voluerint de dicto loco infra mensem.

Itera si dicti prior et capitulura vellent recipero de ordine vel aliande, dnm- modo 8Ìt infra ordinem, ai est de ordine, dominua prior hniusmodi fratrem concedat eia libere: ai antem non eaaet de ordine, libere poasint recipere sicut alia monasteria ordinia.

Item quod dicti fratrea cum vacaverit prior atua dicti loci posaint eligere quem- cumque voluerint duramodo ait de ordine Camaldulenai , aive de dicto capitulo, sive non. Et prior debeat hniusmodi electum a capitulo vel maiori parte concedere, si aliquid canonicum non obsistat, omni dificultate ac dilatione omiaaa, si tamen electus consensum suum voluerit preatare.

Item quod prior dicti loci non poaait recipere monacum conversum vel alium familiarem aliquem, aine requisitione ac dicti capituli conaenau et voluntate.

Item quod dominus prior quando viaitabit, percipiat nomine yisitationis xl Solidea piaanoa , quando alii visitatores ordinia viaitabunt x solidos pisanos percipiant nomine visitationia: et hoc semel in anno tantum.

Item quod ncque dominus prior ncque aliquis prò co vel heremite Camaldu- Icnaea poasint a peraonia dicti loci aliqnam collectam, provisionem, prestanziam s^u donum petere vel recipere in genere vel apetie aliquo modo ; etiam si osset oblatum ultra quantitatem v aolidorum et omnia dona in toto anno non ascendant ultra quantitatom xx aolidorum pisanorum.

Item quod dominua prior omnes libertates, exemptiones, et immunitates servabit et servari faciet per priores et capitula dicti loci : prò conservatione dicti loci, et pacis et concordie fratrum, teneantur priores jurare ad sancta dei evangelia omnia suprascripta in confirmatione sua servaturos, et tunc se supponant in hoc capitulo sententie excomunicationia extunc, ita quod ipso facto ait excomunicatus et sit amotus et privatus ab omni administratione dicti loci. A qua sententia excomunicationis, amotionis aive privationia ttiliter sic amotua non possi t petere dispensationem de iu- ramento neque de administratione dicti loci.

Item promictat dominus prior facere hedificari demos et oratorium et ecclesiam super terreno a dicto fratre Guittone tunc dato de proventibus et elemosinis quo pervenerint ad manus dictorum fratrum secuudum possibili tatem dictorum fratnmi. Et si aliquo tempore dimiserint locum predictum vel non servarent heremiticam vitam secuDdum consuetudinem dicti loci, locus cum suis hedifìciis deveniat ad manna fra- trum continentium sine contradictione alicuiua ; et valeant suo arbitrio possessionem dicti loci de iure et de facto vendere et pecuniam expendere minutatim in pauperea yiduas, et orphanos, et alios pauperes verecundos: salvo quod Camaldulensibus non vendatur, nec ad eorum ullo unquam tempore manus valeat pervenire ; et beo obser- vent et faciant sub iudicio animarum suarum. Qui fratres si dictum locum non re- ciperent, vel non servarent predicta, dictus locus cum suis hedifìciis perveniat ad hospitale de Ponte Civitatis Aretii et sint obligati non vendere dictum locum Ca- maldulensibus sicut dictum est nec personis per quas ad eos valeat pervenire sub judicio animarum suarum.

Item quod Prior dicti loci et fratres eiusdem quolibet anno dabunt fratri Guit- toni otto libras pisanas prò subsidio vite sue in vita ipsius tantum fratris Guittonis et hoc promictat prelatus dicti loci cum suo capitulo. Et ad hec teneatur dominus

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HOMAszA, N.<» 4] DELLE EIME DI FRA G UITTONE 43

prior facere promictere observari per priorem et capitulum dicti loci tamquam,or* dinarius predictorum.

Que omnia supradicta predictis dominns Prior Camaldulensis et frater Guittone simul et ad invioem, inter se promiserunt facere obseryare, adimplere, et ad cft'ectiim perducere in omnibus et per omnia sìcut scriptum est superius, sub pena C libra- rum pisanarum solvenda prò quolibet capitulo non servato. Et sub obligatione et ypotecha omnium bonorum Camaldulensium et dicti fratris Guittonis : renumptian- tea exceptioni super hiis dictorum pactorum non factorum non promissorum et rei et negotii non sic se habentis doli et in factum et ad alii legum auxilio et pena soluta vel non, rato manente contractu.

Actum Aretii in claustro Monasteri Sancti Mìchaelis ordinis Camaldulensis, die martis vij mensis Settembris coram domno Temaselo et domno Romualdo monacis Camaldulensibns , lanne tintore, Pucio condam domini Kigacii et Cortesino condam Restauri, ad predicta testibus vocatis et rogatis.

Ego Bouavia notarius condam Stephani predictis omnibus interfui, et ut supra legitur, rogatus, scripsi et publicavi ideoque me subscripsi, signumque meum ap- posui consuetum.

Sunt enim xij**" capitula in totum predicti instrumenti pactorum factorum in principio hedificationis huius monasterii Sauctc Marie de Angelis de Florentia, set . non omnia ratificata fuerunt ab heremitis heremi camaldulensis, nam non ratifica- verunt primum capitulum, silicet: ut nullus frater moraturus in loco ipso possit pre- lationem recipere et cetera. Set hoc solum non ratifìcatum a dictis heremitis pò- stulamus nos in nostra supplicatione ut de gratia speciali nobis ratificetur propter utilitatem et stabilitatem perpetuam fratrum presentium et futurorum huius monasterii. Cetera vero non ratificata, silicet illa particula ottavi capituli que dicit quod prior capi- tulum et heremite heremi capituli non possint donum recipere a priore dicti loci ultra quantitatem xx solidorum etiam si esset oblatum, alia vero omnia contenta in dicto capitulo ubi est hec particula in sua firmitate permaneant, videlicet quod ncque dictus prior ncque aliquis prò eo vel heremite capituli possint a personis dicti loci aliquam conllectam, provisionem, seu prestantiam petere vel recipere in genere vel spetie aliquo modo.

Item non ratificato et excepto capitulo pene C librarum quod est ultimum ta- liter incipiens. Que omnia supradicta predicti dominus prior capitulum et Frater Guittone et cetera.

Item exceptis capìtulis non ratificatis que continent inpossibilitatem iuramen- tum et excomunicatìonem que etiam non ratificaverunt ne possit ex eis animabus periculum generari silicet in viiij Ò.

Ratificatio predictorum facta fuit in millesimo ducentesimo nonagesimo quinto anno dominL

Copia instrumenti principalis de pactis et constitutionibus Monasterii Sancte Marie de Angelis de Florentia et de capitulis ratificatis et non ratificatis ab here- mitis heremi camaldolensis ordinis McC'lxxxx^^v''.

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44 W. FOEBSTEB [qiorkalb di filologia

UN TESTO DIALETTALE ITALIANO

DEL SECOLO XIII.

Il componimento che qui si pubblica per la prima volta, fa da me copiato Tanno 1872 nella Biblioteca Municipale di Lione e ricopiato nel 1877 (1). Il codice che lo conservò, è un membranaceo ora segnato del num. 584 ; appartiene al sec. XIII e dalla forma rotonda dei carat- teri si mostra di menante italiano. Fu già descritto dal Laudine nel suo catalogo sotto il num. 645 e contiene le seguenti materie:

1) fol. l' a b 8** : un poemetto in antico francese di circa 1408 versi, sulla passione di Cristo, che comincia:

Hoies moi trestuit doucement Sana noisse fere et sana parlament A passion dieu entendez Gomant il fu por nos penez finisce :

Qui tote creature peat Si li a dit conaumatum est Et dist peres omnipotent Pardone ceste male gent.

(Cnf. ms. Parig. Arsenale, B. L. fr. 325 fl. 182-202.)

Appresso, dopo undici righe vuote : < Secundum Lucam. in ilio tem- pore, dixerunt pharixei. ad itm. quanta audiuimus etc. . . Oracio denota ad sacrum corpus dm uri ihu x' etc. » Poi due fogli bianchi.

2) fol. Il"": poesia ant. fr. in onore della Vergine colla narrazione del sao transito. Comincia:

L'an aegont la passion Estoit la dame en oreison En un leu mout aecreement Ou eie ploroit tendrement.

(1) I più vivi ringraziamenti sono dovuti smarrita. Questa seconda ho potuto coìla-

ai conservatori di quella ricchissima biblio- zionarla con altra copia fattane nel 1875

teca, che allora erano i sigg. G. B. Mon- dal mio valentissimo amico prof. Corna,

falcon e prof. Mulsant, ambedue ben noti il quale, saputo che stavo pubblicando que-

pei loro lavori scientifici. La morte ha già sto testo, mi usò la cortesia diluviarmela, rapito il primo. La prima mia copia andò

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aoMANZA, N.o 4] UN TESTO DIALETT ITALIANO 45

Finisce, 14' a:

Et si prìons la gloriouse

La sainte uirge preciouse

Si uoirement com(e) diex Tot chiere

Que elle entende uostre priore

Et no8 face la ioie auoir

Que iellz del quief ne peut ueoir

Ne boche d'ome contier (1) (i) »ic.

Ne oreille oir ne cuer panser

Que diex nostre sire a promis

En son regno a ssez amia

Que il par nos en face (2) (s> UMc^no dae «nube.

Par sa pitie et por sa grace

Et por sa mere sainte marie

Amen amen chascuns en die.

3) fol. 14' a: altro poemetto ant. fr. in onore della Vergine, com- posto di 29 strofe, ciascuna di quattro versi alessandrini o dodecasillabi, rimati fra loro (aaaa bbbb ecc.). Comincia:

Dame resplandissant. raine gloriouse. Porte de paradis. pucelle preciouse. Dame sor tote dame, plaisans et delitouse. Daigne oir ma proiere. de t 'oreille pit(e)ou8e.

Finisce:

Dame sainte marie, raine coronee. Sor totes autres dames. seruie et henoree. le uous pri mere dieu. de m'arme Tongombree. Qu'ele por uostre aie. en soit el ciel por tee. Amen.

4) fol. 14' b: altro poema ant. fr. di 192 ottonarj sui quindici segni del giudizio finale. Comincia:

Qui ore uiaut or (1) la meruoille Enuers cui riens ne s'aparoille Qiie face pes si me regart Se li dirai bien de quel part Verrà la grant mesauenture . . .

Finisce :

Et sachies bien certainement Que il uendra ireement Si nos i doint il paruenir Que nos soions a son plaisir Dites en tuit comunalment Amen a dieu onnipotent.

(1) Si può facilmente correggere « Qui or uiaut oir 1. m. » , ma conosco un altro aulico testo ove riappare la forma or = ' andare invece di audlre.

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46 TF. FOEESTEE [oiornalk di filoloolì

5)fol. 16' a: altro poema ant. fr. in onore della Vergine, di 184 versi decasillabi rimati aa bb ecc. Comincia:

Belle dame (1) tres pie eopereiris Qui de dieu(8) fustes mere e genetria Enpereiria de rois et de roines Virgc(s) de virges ore de meschinea Finisce :

Sainte Marie par ta aeinte merite En icele ore secor mon esperite Et li demostre ta gloriouse face (2) Qu[e] a ma mort par sa pìtie me face [r|tel perdon que je soie en la gioire De paradis qu*es[t] sou(e)raine uitoire. Amen.

6) fol. 17' b: il testo italiano che segue. Noi lo pubblichiamo come lo il ms., solo restituendo il nesso delle parole, sciogliendo le abbreviature e adoperando i soliti segui d^ interpunzione. Alcune cor- rezioni vengono proposte in nota.

I. Oanto spirto dolce glorioso, O Ch anoncio 1 agnel Gabriele SeD9a fele a la colonba fina, Ch e raina del preci os tesauro, 6 Eu nui desenda lume precioso,

Tutti nostri amari deuegna mele. San Michele 1 archangnel per deuina (*3) Tut afina e monda comò 1 auro L aneme sainte en la sua bailia. 10 Le nostre aiba e tegna tuta uia

Ch al seignor apresentade sia. Lo comen9ar del nostro dire, La fin el me90 si al so plasere.

IL TVJegun a en sto mondo auere, 1'' i\ Segnoria, grande9a ne posan9a,

Ch en balan9a no sia decadere,

De morire eu le tenebre scure.

Zuuentude, bele9a ne sauere

No i 9oare a la dubitnn9a, so Se remenbran9a no a de ben uedere

E d audire le sante scriture.

(1) La sillaba atona nella cesura molte volte ha lo stesso valore che si sa avere nelle poesie provenzali.

(2) Questi due versi nel ms. sono trasposti e rimessi in ordine per b a.

(3) Corr, San Michele (rarchanirnel) i)cr [gracia] devìua.

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ROMANZA, N.° 4] UN TESTO DIALETT. ITALIANO ' 47

Le qnal disen li profeti santi E li altri padri, quili qne fonno enanti, Que del signor ne fauelo alquanti: 55 Tutti disen de Tauini mento

Cristo (1) per nostro saluamento.

IH. /^omo stemo (2) al dubitamento VJ Ch e tanto greue e doloroso, Paoroso mai sen9a segurare De durare li greui tormenti Engannan quelo che si corno uento, Lo mondo falso dubitoso. Contrarioso de tuto bene curare, Enganare lomo con tradimenti, Al quale mostra gran deletan9e, Orgoil, superbia, e smesuran9e Che tute enno grande feride lan9e (3), Che 1 un di lo mete en segnoria. De 1 altro 1 fa fango de la uia.

40 IV. r^ nardi quilli ch anno la bailia

vj De condur 1 aneme a saluamento, Che spauento fanno ai piligrini! Plen de spine trouano lor iomade De 1 error che tronan en la uia;

45 Li naucler per lor ardimento

A conplimento uolno (4) li bel 9ardini, Albur fini en lor podestade (5), Vnde molto n e turbato 1 mare. Guai a loro che se creden fare,

Ao Za no se recordan del pasare

Come greue e de gran paura. Quando uene a la morte scura.

V. /^hascun hom prenda in si rancura V-^ Che 1 cure re d altrui no 1 engani. Li gran danni retornarano a loro, Se en loro no anno ben pintimento. Guardi donqua 9a8cun la scritura, Quell che disse Marche e lohani ,

(1) Corr. [che] Cristo fé. (2) Af*. storno. (3) Verso oscuro, St /ep'^a [de] lan^e; ma si può anche dubitare se il cod. abbia fetide o feride, attesa la gran somiglianza del t tf r nel ms. Il Cornu combina: gran defeti de 1. (4) Ms. uoluo o uolno; V "ultimo sarebbe la 5* pi. del perfetto, (5) Ms. podestate.

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48 W, FOERSTER [.uohxale di filoumìia

Che grand anni e retratto per loro. HO £ eoa lor ben e aeonpiimento

Matheo, Lucha, li auangelisti,

Li apostoli enseme con quisti,

Li sainti aucturi qua fenno li aquisti

De 1 aneme sante en paradiso, 65 Nui conduga la con ^ogo (1) e riso.

VL i^a (2) no i naie, taupiui, uar ne griso, \^ Scarlata ne drapi de colore. Cun dolore nase 1 omo en terra, Cun gran guerra nino fin la morte (3) E no 1 chanpare bianco ne biso Ch elio no deuegna 1 gran tremore. Cun clamore lo mete tosto en terra £ desera en lego scuro e forte. No a amigo ne parente carnale, Per lui uolesse prender quel male; Tosto passa, che paucho li n chale, En breue tenpo e smentegado, A peua solo nome meu9onado.

VIL T^onqua pare che aiban soniado ®° -L^ Parenti, uiaini e amisi

Li seruisi che li solean fare

Ed andare cun lui en conpaguia.

0 e quel chera tanto amado,

Aibudo 90go», sola90 e risi (4) 85 E palasi fati de grande afare

£ usare orguglo e folia?

Andade, se ben no a fato:

Alora se terra per roato.

Mo guardemo (5) donqua da quel trato, 90 Recordemon che deuen morire;

Si ne guardaren più da falire.

Vin. /^ue farà 1 auar con so auere,

\^ Ch en sto mondo a preso a guardare E a saluare per altri bene certo E oferto 1 a en mala parte? A ben de lui no n auere.

(1) Ms. cogo. (2) Ms. Ca. (3) ^fs. niort. (4) Ms. riso. (5) Corr. puar- demon'. Mo può essere il mo, raoo, modo che l' Ascoli tratta nel num. 68; mapiut' tosto sarà ma (magie) ed è pure noto da altri testi veronesi.

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ROMANZA, N.» A\ UN TESTO DIALETT. ITALIANO 19

Se no a 1 anarida pensare E mal fare, per 90 che n e aperto, E auerto tute en la nml arte. 100 No far negnna chausa a drito,

Tanto 1 a auaricia consireto, E 1 nemigo che 1 ten si aflito L anema en porta en fogo ardente, Za no i 9oa amigo ne parente.

10& VIII. T^onqna tute ore aibamo en niente

JL^ La passion del dolce lesu Cristo

Che 1 acquisto de nui saluare,

Amare pene conuenen aofrire.

Licifer ne remase dolente, no Prencepo d enferno fort e insto,

Che ministro e de mal oorare,

Ordenare le gran male nentare,

Inuidia, falsi raportamenii,

Sperzurii (1) con grandi tradimenti 116 Li fradeli fa esser maluolenti

L uno a 1 altro, pur eh el sia miglore,

Tuto 1 mondo uiue en questo errore.

X. IVTai possamo prender lo miglore,

•L^ Desprisare le uane riche9e, 130 Le grande9e de terra qu e niente (2).

Breuemente hom lo conuen lasare.

Papa no e, re ne nperadore,

Che en niente no turni lor altera,

Ne bele9a, tanto sia plasente, ii5 Che uilmente non conuegna andare,

S el no fa cure que pla9a al signore.

Quìlli enno recordadi tute ore,

amisi sol receuen grande honore;

Mati e folli se pone clamare 130 Quilli che se parten dal so amare.

XI. T^c^astk 1 omo, no ssa do andare, jL No sego menar conpagnia, Ch en bailia conuene esser d altrui, Cun (3) grande hui lo mena en gran paura. 1S5 S eli e reo, no i ual lo so scusare,

Tosto el mete en mala segnoria, Tuta uia e senpre giitii a lui (4)

(1) Ms. Sfperzurii. (2) Ms. nient. (3) È dubio se il ms. porti Cun o E un. (4) Verso oscuro. Si può leggere girai o gita!; t7 g è correttone di unn o n primitivo,

4

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50 W. FOERSTEB [oiornalb di fumuogìa

Ki con lui la sorte grene dora* S eli e bono, uane alegramente, 140 Nanti a Criito n e fato presente.

La corte 1 reeene grandemente, En paradiso na con 1 altri santi : La trooa alegrefa, laude e cantL

Xn. (^ uardemo da esser tropo fanti, 145 VJComencen laudar lo di lucente

E splendente chen mostra bella via.

Tuta uia quella e la miglore;

E sse lume stinto n e de nanti ,

En le tenebre no nedren niente. 1.S» Malamente andar per uia

E folia e de perdere lo roiglore.

Guardemo che 1 tenpo e tenebroso.

No uedrem, se o lume sera rasooso,

De passare al ponte pauroso. 155 Andemo driti per la uia darà

Chcn mostra i santi, sciuaren 1 amara»

Xin. T)arten da nui la ricbe9a auara

-ET E la falsa e rea uanagloria!

En storia se troua e en scritora, lao Pauco dura la sua segnoria.

No sta d un colore, anche uara.

Falsa e rea en sua uitoria,

Memoria de fumo, quando ascura

L aire pura ehe 1 uento cha^ uia. 165 La uia e bona, li lume aprestadi,

Andemo toeto, nui seme aspetadi

Dal seignor ehe n a recomendadi.

Trouar lo podemo a conplimento,

Se da nui no uen lo falimento.

f7f> XIY. r7ascun aiba en si pensamento ^ Ch ogna di fina una iomada Per la strada que enuer la morte, Molt e forte a qui non ben seguro , Et e ben certo que tipresamento

17 5 Fané de quella greue andada.

Ascurada no i ual agur ne sorte, Rocha forte ne ferme9a de muro; Quando e più sano, più se auisina, La sera no sa de la matina.

ibu Pancho ual grande9a que declina,

Ohe per hom no esser defesa. Mati enno quilli che perdeu la spesa.

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BOMANZA, N." 4] UN TESTO DIALETT, ITALIANO hi

XV. "C^n »ui doDqua sia la defesa

-1^ De guardarne da g^eàe pechado Ch e amado tanto da la carne, Eu mal farne (1) per sua deletanya £ pentirne de la greue ofesa Che fata auemo en lo tenpo pasado; Adourado (*^) en tuto no guardarne, Andarne con grande desmesuranza , La qual fruta dolorosa morte. Guardemon de 9un9ere a le porte La 0 sera le strete greu e forte: No i uara grandeza ne parenti, Ch a pascano spauira li denti.

XVL r^ uardin lo segnore da quilli serpenti,

Vjr La 0 e le greue pene temale.

Lo gran male che dura senza fine,

£ la fine nostra pla9a a lui. soo £ spetamo (3) quilli auinimenti

Che Dui posamo salir su per le scale

Cun grande ale a le conpagne fine.

La 0 decline 1 aneme nostre e nui

A la dolce nostra auogada. 305 Cun nui sia quella fiada,

Quando 1 anema farà 1 andada,

La presenti al so dolce figlolo,

Ch ella ne (4) senta mal ne dolo. Amen.

La forma di questa poesia è delle più artificiose e T artifizio il più delle volte non è riuscito se non con danno della chiarezza. Essa si com- pone di sedici strofe, ognuna delle quali ha tredici versi quando di nove sillabe e quando, ma meno spesso, di dieci, non tenuto conto dell' ultima atona. La cesura è dopo la terza o la quarta accentata, ed ora è ma- scolina ora femminina. Le uscite dei versi sono sempre piane: solamente nei 133: 137 {altrui: lui)^ 199: 203 (lui: nui) sono tronche, e semisdruc- ciole in 158: 162 (glòria: vitòria). Le rime sono: 1) interne, di modo che la uscita del 2.*" verso della strofa rima con la cesura del 3."* e ugual- mente 4: 5, 6: 7, 8: 9; 2) alla fine del verso, secondo lo schema abcd

(1) AfJr. fame. (2) Ms. Adourarne; la correttone era suggerita per la rima; ma pare che si debba anche correggere adourado tuto en no guardarne. (3) L* unica volta che appare una ì* pers. pi. in -amo. (4) Forse non invece del ne dinanzi al senivii ma ci sono altri antichi testi f piemontesi, milanesi, veronesi J, che accanto del so- lito no ci mostrano anche ne = uuu.

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52

ir. FOERSTER

[OIOBNALE DI FILOLOGIA

abcd eee ff^ ed è da notare che f allora la rima a della strofa se- guente. Abbiamo dunque questo tipo:

b|

b e d a b e d e e e f f f

g ecc

I

II

Dalla comparazione delle rime si possono indurre alcune correzioni : 1) nelle rime interne: 60 loro (ms. ìor)\ 189 adourado (ms. adourar- iìe)\ 2) nelle rime finali: 47 podestade (ms. podeslate); 69 morte (ms. mori); 84, risi (ms. riso^ reggasi anche la rima interna 85); 101 con- strito (ms. constreto, cnf. strete 193); 120 niente (ms. nient); 184 pc- chado (ms. pechato). Le rime finali sono sempre pure; le inteme mo- strano qualche libertà ben note altronde, come a) nella sillaba accentata 16: 17, cadére: morìre; 20: 21 uedére: audire ^ il che si potrebbe spie- gare per la grande affinità dell' e stretta coH'i; P) nella sillaba finale atona : 43 piligrini : spine. Potendo queste atone dileguarsi , si comprende che i loro suoni non molto differiscano fra sé; 7) nel consonantismo: 110: 111 tristo: ministro.

Dal complesso dei suoi caratteri ci sembra che questo testo non sia troppo estraneo al territorio veneto, ed eccone qui a conferma un breve spoglio grammaticale.

Per facilitare la comparazione, abbiamo adottato l'ordine tenuto dall'Ascoli nel suo Arch, glott. Ili, 2, 248 sgg. Così raccoglieremo non solo le particolarità comuni ai due testi, ma anche le discordanze che pure vi esistono e che mi trattengono di fissar in modo troppo apodittico la provenienza locale del testo nostro che direi volontieri veronese.

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ROMAKZA M.- 4] VN TESTO DIALETT, ITALIANO SS

A. Note fonologiche

I. Vocali toniche,

!• Effetto che Vi atono finale eserciti sulla determinazione della to* nica: a) QÌni: quilli 23, 40, 127, 130, 182, 196, quisti 62; allato a quelo 31, 58. questo 117, etc. b.) o in u: albur{i) 47, auciuri 63, turni 123, allato a signore 126 etc. Ma non si trovano esempj di questo fenomeno dinanzi n; v. tradimenti 34, parenti 80, 194, ra- portamenti 113, presenti 207, e le rime 113, 4, e 195, 6.

e) Mancano anche esempj pel tipo fante: fenti (infantes); sem- pre catiti 143y fanti 144, enanti 23, 148. Ma è ben possibile che il copista abbia fatto sparire queste particolarità, ciò che si deve ripetere anche per altri casi.

Qui tocco anche dell' attrazione dell' i postonico : aiba = ha- beat 10, 170, aiban 79; anche fuori dell'accento: aibamo e v. il num. 50. aire (aerem) 164.

2. Invece del 5ew=sanctum, troviamo la forma intermedia: sainte 9, sainti 63; ma insieme santo 1, 21, santi 22, 142, san 7.

3 e 4. Non si trova il dittongo veneziano dall' ^ (ce) e ò {au)\ sempre: greve 28, vene 52^ ten 102, enseme 62, breve 77; come pure trova 143, logo 73, gogò 65, fogo 103, paucho 76: così il veronese.

5. Lat. in^^en un solo esempio : preìicepo 110. donqua 105, mondo 17,

monda 8, ma pungere 192. con 37, 60, etc. e cun 68, 69 etc. orgoil 36, orguglo 86. turni 123.

6. coìistreto 101 in rima con drito^ aftito; stretc 193.

6'. d = u: nui (nòs) 5 eie. ^ paura (in protonica 2>ctwroso 154, e pao- roso 29).

7. au sempre intatto: tesauro 4, auro 8, paucho 76, 160, chausa 100,

2aiic2e 143; e fuori d'accento: audire 21 , nauder 45; un (m se- condario: taupini 66, ma ogrwr 176. Non c'è esempio per alt = aut etc.

II. Focali a^ow^.

8. Dileguo di e i 0 all'uscita: e: comengar 12, condur 41, prender 75,

/ar 100, «ipior 11, 24, re (= ree) 54, mcd 208, (ma: i>ias6re 13, avere 14, fare 98, s^ignore 126, maZe 175, etc.) i: bel 46, gwoZ 22, (ma: ama- ri 6, f ?///i 25, etc. ) o: agnél 2, precios 4, ^/rf 75, quell 58, etc. (ma: glorioso 1, gweZo 31, gascuno 195, etc.)

9. Dileguo dell' e di penultima: ovre 54, 126.

10. L'i di penultima passa in e: aneìne 9. Protonica interna: segnar

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54 W. FOEESTEB [oiorsalk di filowwia

re 196, (ma seignor 11, 167, signor 24, 126, eflFetto del seg. ti), vedere 20, devina 7, «m^n^e^oda 97; ma visini 80, v. il num. 13^; complimento 46 ecc.

11. a per e primario di protonica: raina 4.

12. deven 90.

18. seruia 3, donqua 105, o^rwa di 171.

13.* avangelisti 61, ascura 163, 176.

13.* ^ptWo 1.

13.' corno (di cui tratta l'Ascoli alla fine del num. 38), sempre cosi.

18.* Gli esempi: avinimenùo 25, pintimento 56, piligrini 42 {i per e lat.), e Lidfer 109 (i=:w), vmwi 80, ariswa 178 (i = e lat. invece dell' 6 ) mostrano forse l'effetto di un i sulla vocale atona deUa sillaba precedente analogo a quello del num. 1.

18.' La prepos. in, fuori del v. 53, sempre en,

III. Consonanti.

14. LJ intatto: miglore 118, 147, 151, figlolo 207, gl(i)4- voc. (pron. e artic.) 178, 128.

16. CL PL efcc. intatti: clamare 129, darà 155, nauder 45, —più 91, 178,

plasere 13, 199, 128, I2i,— flore Q, bianco 70.

17. Digradazione della sorda gutturale interna: negtm 14, segurare 29,

conduga 65, amigo 104, nemigo 102, 5^^o (secura) 132, avogada 204, ^5^^ 73, /b^o 103, gogò 651, smentegado 97. Dileguo della sonora: ratwa 4, si noti Gabriele 2.

18. coNs. + CE, CI o cj + voc: anonciò 2, precios 4, 5, mengonado 78, co-

twewfar 12, grandega 15 (comp. -^^a 18, 119); -anga 15, 16, 19, 20, plaga 126, 199, 5oZafO 84. dj + voc: mego 13 ; allato al : plasere 13, desenda 5, no^e 68, disen 22, 25, vmwi 80. Plur. : amisi 80. tj : palasi 85. Notiamo infine eascun 170, gascun 57, 195, cJiascun 53 (1).

19. Il suono corrispondente al g italiano viene notato per z: zuventu"

de 18, za 50, sperjsurii 114; per f ; goare 19, 104, fo^o 84 (cogo 65), gardini 46, gungere 192, e i in: Joìiani 58.

20. Dentale sorda: -atum sempre -ado (msc: turbato 48, pechato 184, j>o-

destate 47), fradeli 115, emperador 122.

(1) Credo che sarebbe ormai giunto il ve ricerche debbono partire del tipo antì-

inomento di lasciar da parte la solita spie- chissimo : cascauvo ( v. anche in questo

gazione con T impossibile qitisque unus o Giorn. I, 47, le forme raccolte dal Caix)

quique ad unum (tipi respinti da tutte le che si trova in un testo del sec. XII, nei

forme diverse di ciascuno, che sempre ri- sermoni piemontesi della Biblioteca di To-

chiamano un a nella protonica) e cercarne rino (Cod. lat. D IX 10) che saranno pul>bli-

una nuova e più giusta. Si pensi solamente cati nel 13.® fase, dei liomanische Studien

«dia forma cadawio già assicurala. Le uuo- del Bóhmer.

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ROHAszA N.° 41 r.V TESTO DIALETT. ITALIANO 55

21. tr: padri 23.

23. Labiale sorda: savere 18, receve 141, ovrara 33, avert<^ 99.

24. Dileguo di v: (oare 19, 104. u? sempre gu. 24.* lk: vara 194. l finale = o, v. il num. 39.

24.^ agnel, an^n^ = angelam 2, 7; ma: avangélisti 61.

24.* M, N dinanzi una labiale = sempre n: colonba 3, fenpo 79, sen-

pre 137, conpagnia 82, enperadore 122. m finale: vetZrem 153,

ma: d^en 90, vedren 149, 91, 145, 156, 157. 24* s impuro: spirto 1, scriture 21, scariola 67, ^cate 201, etc. comp.

un s impuro prodotto dell' aferesi: (%)sto 14, {p)sciMro 17, etc. sme-

stirance 36, etc, y. anche il num. 34.

IV. Accidenti generali.

24/ Attrazione, vedasi il num. 1.

24.' Aferesi: (ifi)fanti 144, (e)ternale 197, (ó)scuro 17, (i)^to 17, 93, e ve- dasi anche lat. ex.- sotto. il num. 34.

24.' Si noti ancora il raddoppiamento di una consonante: no ssa = no sa 131, e sse = e se 148.

B. Note mobfologichb I. Suffissi e prefissi.

28. DIS-: desprisare 119.

29. de: desenda 5, devegna 6, desera 73, etc.

30. ad: afina 8, apresentade 11, etc. adovrado 189.

32. RE-: recordan 50, retratto 59, recevcn 128, recomendadi 167, etc.

34. ex: smesurance 36, smentegado 97, spavento 42, aperto 98, scusa-

re 135, 5<i«to 148, etc.

II. Flessione del nome.

35. Sempre di (diem).

36. Plur. fem. di terza deci.: forte 193, grande 202, greve^ temale 197.

Ma anche i maschili: lume 165, accanto ai plurali comuni in -t senza desinenza: guai 22, albur 47, etc. —profeti 22, avangélisti 61.

38. prencepo 110. conf. corno, v. sopra il num. 13.''

39. Articolo. Sing. lo dinanzi conson. 12, 32; la 9. V dinanzi

vocale 7, 8, etc.; ben noto è se o = sei 153. Plur. li + cons. 22, 45, etc., i + cons. 156; del 4, al 11, en lo 188, ai 42, K + voc. 23, 61, gV + voc. 128; V + voc. 142. le + cons. 10; T + voc. 9. Forme enclitiche: -l 18 etc.

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56 UN TESTO DIALETT. ITAL. Ioiornale di pilolooia

41. Pronome personale: a) ntii congiunto 65, e assolato 5, 107; vedasi e.

b) {tu nessun esempio).

e) se congiunto 50, 159, etc. si assoluto (53, 170). sego = secum 132.

d) elU6,ello7hea'139,lSb,ellxx20S,—loS8,12lM207,—li76.— prepos. + ?wi 75, 82; prep. + fc?ro 55, 56, 59. altrui 54, 133.

e) Forme congiunte enclitiche: ne (nobis) 24, 91; 175, 184, 187; n' 108, 90, 146, 156; n' + voc. 148, 167. no ir=no li 19, 66. 4' 39. 70, ^ d 136.

43. ne 109, en 103 = inde.

44. Pronome possessivo: 50, plur. sci 128. sua 6, 9, 160. ìwstro

12, nostri 6, 13, 130, 207, 92. 44.* Pronome dimostrativo: sto 14, 93 fo 98.

III. Flessione del verbo.

47. La terza sing. per la terza plur.: devegna 6, sia (rima) 11, condu-

ga 65, guardi 40, engani 54, fa 126, mostra 156, plaga 126. Iso- lato: favelò (perf. ) 24; ma più spesso: engannan 31, trm^ano 43, trovan 44, recordan 50, anno 40, 56, fanno 42, pono 129, perden 182, enno 37, 127, 183.

48. Nessun esempio del -s caratteristico di sec. pers.

49. 50. Il participio perfetto si riporta alla forma tematica: ai-

budo 84. Altri partt. preso 93, oferto 95, auerto 99.

61. La terza del perf. ind. in o: anonciò 2, favelò 24.

62. Perf. ind. delle altre conjugazioni: /e 26, 107, disse b8j rema^

se 109, pi. fonno (fuerunt) 23, fenno (da fare 81) 63.

63. Futuro: guarderen 91, seivaren 156, retornarano 55, vedrem 149;

farà 92, terra 88, vara 194.

65. Presente: l'pers. plur.: avemo 188,semo 166^podemo 168, deve» 90.— spetamo? 200. congiuntivo: guardemo 89, 144, 152, recordetno 90, andemo 155 , 166 , comencen 145 , parten 157 ; accanto a aiòa- mo 105, posamo 201. Altre persone: sia 13, atfta 10, devegna 6, desenda 5, ^e^rwa 10, prenda 53, gtmrdi 40, 57, ma decline 203.

56. Imperfetto indie: soZean 81. congiunt. volesse 75.

IV. Foria.

68. Sempre -mente nelP avverbio 121, 125, 60. ga 66. 66. quella fiadu 205. 73. o 193, 203. oe 83, 197. do 131. 75. no»i/i 140, enawii 23, denanti 148. 77. fin (usque ad) 69.

Koma, ottobre, 1878

W. FOEBSTEE

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«0JiAxxA,N.«4] 1'. MAJNA 57

TOSTO

Com'è ben noto, son due specialmente gli etimi, a cui si snol rì- condarre questo avverbio, comune nel periodo antico a tatto il dominio neolatino : il participio tostus, ed una supposta agglomerazione tot-dio. Altre spiegazioni, che metton gratuitamente in campo linguaggi remoti^ non meritano d'esser ricordate.

Tra le due etimologie, la prima è giudicata sostenibile dal Diez (Et. TF., I, 420), ed è accolta come sicura dal Littré (Dict. de la l. fr.): Tòt.... du latin tositi, brulé, par assimilation de la rapidité de la fiamme > etc. ; eppure, guai, se si accostan le mani ai puntelli, sui quali essa è appoggiata! al primo tocco, cadono a terra. La rapidité de la fiamme non ha che fare con torrere, voce, che, con tutta la sua numerosa parentela indoeuropea, ha sempre avuto il significato fonda- mentale di inaridire^ disseccare^ privare delV elemento acqueo; e ciò che pili solitamente torret^ è il sole, che esercita un'azione nient' affatto rapida. Ma e' è di peggio : nel caso nostro si tratta del passivo. E qui, non solo è esclusa la rapidità, ma quasi perfino la fiamma; che, di regola, se qtwd torretur viene a prender fuoco, in luogo di un tostum, si avrà un combustum. Insomma il torreri è in ogni caso un'arsione lenta e parziale; una specie di carbonizzazione; la quale si ottiene il più delle volte sottraendo la cosa che dev' esser tostata air azione di- retta e troppo viva della fiamma, e mettendone a profitto semplicemente il calore. Quindi si tosta il caffè rinchiudendolo nel tostino, e conti- nuamente agitandolo; e tutti, anche gli etimologi, posson sapere, che sorta di operazione rapida sia cotesta.

Quanto ai riscontri addotti, sia dal Diez, sia dal Littré, caldo caldo italiano, chaltpas o chaut pas del francese antico, fusswarms del dialetto svizzel'o, non fan punto al cado; una cosa rimane tosta anche un se- colo dopo essersi raffreddata. La condizione che si produce è durativa, anzi indistruttibile, non passeggiera. Però anche il torris latino significa tanto il tizzone spento, quanto l'acceso; ed è ancora un torris quello che r accecata Altea gitta sul fuoco, donde l' aveva tratto molti e mol- t'anni innanzi: < Dixit, dextraque aversa trementi Funereum torrem medios coniecit in ignes > {Met., Vili, 511).

Pertanto, conchiudiam pure che tra l'idea di tostare e la subita- neità, non solo manca ogni rapporto, ma c'è vera opposizione. Al tosttis

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58 P. MAJNA [gioknalk di filologia

latino risponde bensì presso di noi un altro tosto, del quale non ab- biam qui ad occuparci. Guardiamoci bene dal confondere i due menecmi, identici nelle sembianze, dissimilissimi internamente.

Riguardo alla seconda etimologia, proposta dubitativamente, ma pur preferita dal Diez, non troppo soddisfatto neppur egli dell'altra, s'intende cbe le obbiezioni non saranno così prontamente esclusive. Per verità, il Diez non ispiega, che cosa sia per lui il primo elemento di quel tot-citOj donde prende le mosse; siccóme peraltro soggiunge a con- ferma € dass man àhnliche begriffe > com^ è qui cito e mit totus ver- stàrkte, zeigt » ecc., non pare s'abbia a vederci l'avverbio tot; contro il quale sarebber subito da mettere in campo ragioni di esclusione as- soluta. Tot è voce di uso correlativo, ha valore di plurale, e non può stare con avverbi.

Supponiam dunque che il tot sia da riguardare come un ioto av- verbiale, apocopato, o, più esattamente, sincopato. Questo toto non è una creazione arbitraria. Un vecchio glossario greco-latino, citato dal Ducange, ed allegato anche dal De Yit, nella sua edizione del lessico forcelliniauo, reca: «'O.oac; toto, omnino ». Partiam dunque da toto- cito. Orbene, posto che si volesse tener in piedi la spiegazione, biso- gnerebbe ad ogni patto modificarla. Quella sincope è inammissibile, giac- ché colpirebbe appunto la vocale, su cui, data l'agglomerazione dei due vocaboli, si sarebbe trasportato l'accento: totó-cito. Poi, Vo decisamente aperto di tòsto non si acconcia a rispodere all'ò di tottis^ od in genere alla vocale di quella qualunque forma, che ne teneva il posto nel linguaggio volgare. Ben altri sogliono essere i riflessi : it. tutto, coli' intera serie delle varietà dialettali; fr. tuU; tout. Conf. Bomania, III, 282; Zeitschrift f. rom. Phil,, I, 115^ Per T Italia dovremmo aspettarci tiisto o tòsto, coll'o chiuso. Inoltre tótcito a noi avrebbe dato, mi sembra, tóccito o tóggUo, anziché tosto. Che una volta giunti a questa forma 1'* si fognasse, e che poi l'esplosiva palatina si trasformasse in sibilante continua, mi par duro ad ammettere, nonostante che il Diez dia a vedere di pensarlo, coir addurre i confronti di amistà e destare, che ci guidano a leggere nella Grammatica (I, 253): « Fallt zwischen é und t ein vocal aus, so ist der Palatallaut nicht anwendbar und gestaltet sich zns; amistà (*ami- citas)y destare {de-excitare) ». Lascio destare, che non capisco come faccia al proposito; ma in amicitas l' assibilamento totale si deve, se non erro, alla presenza dell' ^ che segue, ajutato fors' anche da quello che precede, ossia è anteriore alla sincope.

Ma c'è un'altra via, che ci potrebbe condurre da toto-cito a tosto, evitando tutti questi inciampi. La successione sarebbe: totò-cito; to- tosito, totosto, tosto. Avremmo la nota ^semplificazione di un' apparente raddoppiamento iniziale. Così all' italiano da 0Ìnziltdare è venuto zirlare; al provenzale, da papaver, paver. E già il latino volgare usava cinnus

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ROMANZA, N.o 4] TOSTO 59

per cincinnus; e fin dal tempo di Pianto i Prenestini dicevano conia in laogo di ciconia. V. Diez, Et. W.^ pref. XXIII; Gr., I, 295; Schn- chardt, Vokal., II, 383; Caix, Studi di Etim. it e rom.y 189.

Tnttavi*, pur così acconciata o sconciata, T etimologia proposta in- contra ostacoli. E il Diez medesimo, canto ed acuto come sempre, vi ac- cenna implicitamente, dicendo: « Besser noch von seiten des begriffes wiìrde es sich. ... erklaren > ecc. E nella Grammatica, II, 472 egli fa seguir r etimo immaginato da un punto interrogativo. Il fatto si è che quel totocito o totcito è una mera ipotesi, non sorretta da analogie abbastanza valide; e che queir equazione, d = ^, per un vocabolo comune a tutta la famiglia neolatina, e di tal natura, da non potersi ragione- volmente supporre fornito da una nazione alle altre, è molto sospetta. Evidentemente si tratta qui d'una parola, che risale al volgare romano dei bassi tempi. L'analogia di amistà^ fr. a. amistié^ ecc., è d'assai troppo poca cosa; tanto più che il caso non è perfettamente conforme. Vediam dunque se proprio non sia possibile trovar di meglio.

Teniamo ben fermo che la forma da cui si dipartono tutte le va- rianti romanze, tosto it., sp. a., pg. a., tost pr., fr. a., sp. a., tòt fr., dev' essere un tosto, identico alla voce italiana. Poiché un etimo sem- plice non ci si offre, pensiamo anche noi ad una composizione. Uno sto non e' è fatica a trovarlo ; ce lo subito il latino isto. Con questa voce penetriamo in un dominio, dove ci troviamo a tutto nostro agio: quello dei pronomi. Rammentiamoci issa, adesso; poi, certi composti dove entra precisamente il nostro iste: astute (Diez, 6rr., II, 471), testé; come si vede, tutti avverbi di tempo, di significato strettamente affine, e in parte quasi identico a tosto.

E subito si osservi una particolare agevolezza. Isto nel linguaggio popolare romano suonava precisamente sto anche in tempi assai remoti. E tutte quante le forme di iste avevano la medesima sorte. Gli esempi sono innumerevoli; si veda lo Schuchardt, Fofcd., II, 368 seg.. Ili, 278; il Corssen, Ansspr.^ II, 627 seg. Quindi si sente il bisogno d'insegnare: « istud per i et 5 scribitur >.

Quest' aferesi iste la doveva specialmente alla proclisia , che ridn- ceva Vi iniziale alla condizione di vocale atona; è il caso identico di lo, la. Ma anche in posizione di enclitica incontriamo il nostro pronome col medesimo risultato: locosto, lucesta (Schuch., II, 368). Qui abbiamo analogie perfettissime per l'uso nostro. Anche i sostantivi non po- trebbero esser più opportuni ; l' uno indica precisamente tempo ; quanto all'altro, si cfr. illieo, extemplo^ statini.

Sarebbe così spiegata la seconda parte della parola; resta la prima, assai più difficile a dichiararsi. Scarto in silenzio una qualche ipotesi, e ancora me ne rimangon tre.

In primo luogo mi si affaccia il toto^ di cui s' è detto dianzi. È

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co P. RAJNA [aioBMALE m filologia

ovvio il supporre toto^stOy tosto, sottiuteudendo, anziché tempore, come si fa generalmente in casi analoghi, momeìvto. Tuttavia non mi sento pienamente appagato. Le frasi tutto in un tempo, toute-à-Vheure ( propr., credo, quando il soggetto non sia femminile, touiràrVheure) e simili (tut( a u/n tratto, ecc.), non bastano a persuadermi dell'uso rinforzativo del totus per il volgare romano in casi analoghi al nostro, tanto più che non abbiam mai, per quanto io veda, il collegamento con un av- verbio, e che in cotesti modi di dire il tutto è in parte da concepire in modo alquanto diverso che non si faccia dal Diez.

M' è dovuto venir alla bocca momento; ecco pronta una seconda ipo- tesi. Momento-sto andrebbe a capello per il concetto; di confronti non c'è bisogno; citerò tuttavia il lombardo sul momento. Per quel che spetta alla forma, la perdita di due sillabe iniziali, è un ostacolo grave, ma non insuperabile, come ne avrebbe Taria. Qualche cosa dicono le analogie di gogna (vereeundia), Mandeure {Epamanduoduro), questa seconda, sotto la forma Mandroda, dataci già dal Geografo Raven- nate (Schuch., Vokal.<i II, 384). Ma attribuirei maggior valore ad altre considerazioni. L'aferesi della sillaba iniziale è fenomeno comune a tutte le lingue romanze, e non punto ignoto al latino volgare; per il caso presente la tendenza ingenita doveva ricevere un e£Scacissimo im- pulso dal significato del vocabolo; si trattava di esprimere subito, e ri- pugnava quindi il fermarsi ad un' espressione così lenta, com' era mo- mentosto, B' aggiunga che le due prime sillabe offrivano ancor esse uno di quei soliti apparenti raddoppiamenti iniziali, che il linguaggio vol- gare tendeva a toglier di mezzo. Però non mi appare poi tanto assurda l'ipotesi di un precoce passaggio da momentosto a mentosto, donde più tardi, discendendo di un altro grado, siasi arrivati a tosto.

Non negherò tuttavia che la doppia aferesi non trattenga tra le ipotesi molto dubbie la spiegazione proposta. Gliene metterò dunque al fianco un'altra, a far da competitrice. Il Diez vedeva nella prima parte del vocabolo un elemento rinforzativo; anche noi potremmo cercarcelo. Uno dei processi più comuni per rinforzare il significato consiste nel rad- doppiamento del vocabolo; però, colla solita ellissi, un romano poteva dire assai bene isto-sto e sto^sto. Di analogie non ci sarà difetto: sU' bito subito, presto presto, ratto ratto, ecc. Noterò altresì che il raddop- piamento applicato ad avverbi di tempo esercita a volte come un' azione ri tardati va: it. or ora, mil. desedess. Propriamente quest'effetto non era nelle intenzioni originarie, le quali miravano a far apparire brevissimo un intervallo non sempre breve; in ogni modo è certo che il senso di dianzi^ o tra poco s'è svolto e fissato. E qualcosa di analogo sembra di rilevare anche in tosto, che in molti esempi significa tra brevissimo tempo, piuttostoché in questo momento stesso. Beuiiiteso, l'osservazione ò ir ordine affatto sooonrlario.

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■OMAKZA, N.» 41 TOSTO 61

Coutro qnesta etimologia so bene che il Diez solleverebbe la me-^ desima obbiezione, che oppose a quella immaginata dal Menagio per testé {Et. TT., II, 74): « . . . . Nach Ménage von isto iato ipso, se. /em- pore^ welches aber stestesso ergeben bàtte, da anlantendes s nicht schwin- det ». Non temerei peraltro d' impugnare la validità dell' argomento. Già il latino in genere ci un numero considerevole di esempi per la caduta di un s iniziale dinanzi a consonanti; e vari tra di essi sono appunto di s dinanzi a t. Si veda il Corssen, Aasspr., I, 278, 810. Ma la stessa tendenza continuò e fece sentire ancor più viva la sua efficacia nel latino volgare; gli esempi copiosi raccolti dallo Schuchardt, U, 354, facciasi pure con lui e col Corssen la debita parte agli errori di scrit- tura, ne danno prova non dubbia. E si badi: sta bene che si distin- guano gli esempi di s iniziale da quelli di s mediano; entrambi tuttavia risalgono ad una medesima causa, e nel caso di st^ meglio forse che negli altri, sono ancora più affini che non pajano, giacché la sibilante si avvinghia strettamente alla sorda dentale, e vien cosi a trovarsi al principio di una sillaba, anziché all'uscita.

Oltre a questa considerazione generale , ce n* è una speciale. Biso- gna ben tener conto delle ragioni eufoniche, le quali si contrappongono spesso vittoriosamente alle leggi della successione normale dei suoni. La dissimilazione, e la caduta di certe consonanti, che può non esser altro che una dissimilazione ancor essa, sono effetti universali e troppo noti di cotesta lotta. Cosi in italiano abbiamo, tra gli altri esempi, proda j rado^ contradìo; deretano^ Federico^ propio; sebbene, la mu- tazione di r in dj la riduzione di tr, dr^ pr, a t, d, jp, si possan già riguardare come fatti normali. E V offesa fatta' all' orecchio era in questi casi minore di quella che gli doveva esser recata da uno stosto. Una voce siffatta poteva bensì prodursi, ma non preservarsi inalterata per una lunga sequela di secoli ; certo se ne saprebbe trovare l' analoga. Si paragoni aajSejTov, nome di una pietra spesso ricordata dagli scrit- tori, divenuto universalmente abeston; e ancora, le mute aggruppate colla sibilante eran qui tra loro diverse.

Dico tutto ciò nell'ipotesi, che a tosto s'abbia ad esser pervenuti attraverso a stosto. L' ipotesi della caduta della sillaba iniziale vi ci potrebbe condurre immediatamente da istosto. Ma tra le due supposi- zioni preferisco la prima, ancorché meno piana in apparenza.

Non credo che alle tre ipotesi proposte per sciogliere il nodo in- tricato si voglia opporre l' o aperto del nostro vocabolo. A ogni modo l'obbiezione non sarebbe grave. Quest'o noi lo si ricondurrebbe, é vero, ad un 0 originariamente lungo; se non che si tratta di un' atona, su cui l'accento venne a cadere solo per legge d'enclisia. Ora', l'accorciamento di un 0 atono finale durante l'evoluzione del latino è un fatto più che accertato dallo studio dei documenti poetici; e non è del resto che un

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62 TOSTO [oionNALE di filolocii

caso speciale di una legge ampiamente comprensiva. Si yeda il Corssen, II, 436-511; e, per ciò che spetta propriamente all'o, 479 segg. È evi- dente poi che la lingaa parlata dell'età imperiale 8*era condotta su que- sta via ancor più in di quanto si possa constatare coir esame dei pro- dotti artistici. Fra i tre o finali, di toto^ momento y isto, il più pronto ad accorciarsi dovette essere il terzo, per effetto deir abituale proclisia. In ciò non cercherei peraltro un motivo di preferenza per la terza proposta; chi a questa si appigli, lo farà per ragioni più solide. Ed io stesso inclinerei a questa parte; tuttavia non oso decidermi, e solo non mi perito ad asse- gnare alla prima ipotesi un grado di probabilità minore d* assai che alle altre due. La scelta definitiva avrebbe ad esser determinata dallo studio degli scritti latini più prossimi al parlar volgare, dove, verosimilmente, si dovrebbe incontrare, ricostituita artificialmente nella sua integrità fone- tica, la forma logora dell* uso comune: sia momento isto, sia isto isto. Il mio articoletto ha dunque bisogno di un complemento, dal quale aspetta, sia una conferma ed una determinazione più precisa, sia una confutazione autorevole.

P. Rajnà.

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X031A!«ZA, N.° 4] 63

VARIETÀ

ANCORA DEL PERFETTO DEBOLE

All'utile e giudizioso articoletto del prof. Caix intorno al <c perfetto debole romanzo » che si legge in questo Giornale (I, 229-232) mi con- sentano i lettori di fare qui alcune postille.

I. Non è esatta Paflfermazione del Caix che l'i della terminazione -avit non abbia e lasciato traccia alcuna nelle nuove lingue > (p. 230). Il vero è che il dialetto di Napoli, con altri suoi affini, dice cantai, purtai, ecc. (in pronuncia più plebea: cantaje, purtaj^ ecc.) nella terza persona tal quale come nella prima. Anche a non aver particolare fa- miliarità col dialetto di Napoli, la nota dissertazione del Wentrup {Beitr* 8. Kenntniss d. Neap, Mundart^ pag. 21) basta ad avvertircene.

II. Circa le forme vendei, temei, ecc. il C. non alcuna spiega- zione. Eppure non si può dir eh' esse sieno del tutto chiare da sé. Il Diez dice vagamente che « la forma caratteristica della seconda con- jugazione era evi, > e che questa sia riflessa dall'italiano ei (Conjuga- tionsformen: Schivache Flexionsart). Ma codesto evi in realtà non ha un sodo fondamento storico. Ognun sa che l'ordinaria uscita dei perfetti latini della seconda fu -ui, e che l'-m non era se non di pochissimi verbi: dolere, adolescere, consuescere, ecc. I quali, per di più, com'io già ebbi a notare in questo Giornale (I, 77), sono, quasi a farlo apposta, spariti pressoché tutti nel nuovo latino (1). Il vero stato delle cose è, dunque, che siamo sbalzati dal latino timui all'italiano temei. Il qual temei fu probabilmente una riconiazioue analogica, fatta tenendo pre- senti le altre conjugazioni, in cui la vocale caratteristica persiste an- che nel perfetto. Parve naturale che come a portava portare ecc. rispon- deva portai, a dormiva dormire ecc. dormii, così a temeva temere ecc. rispondesse un temei. Tanto più che già la seconda persona del perfetto istesso aveva Té, per regolare continuazione fonetica dell'i di posizione latina (temesti timuisti come vedesti vidisti ecc.; cfr. Arch. Glott. IV, 152 n.). E il Diez stesso par che l'intenda in sostanza al modo che di- ciamo; giacché, nonostante il suo poco chiaro accenno a quella tal « Cha- racterform » -evi, pure in tutt'altro luogo ( Woiachische Conj.: II Conj.) si esprime più chiaramente e giustamente così : e Im Ital. und Prov. ward

(1) E abolere, che è rimasto, è passato in -ire (compièvi x= compiei e compii; ecc.) alla conjugazione ia -ire; e i composti di Eppure questo -^leviò il solo da cui si possa 'pieOf oscillano tra quella in -ere e quella legittimamente ripetere una certa influenza.

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04 VARIETÀ [ilIORNALK DI PILOIX)GU

es (il perfetto debole di seconda) auf das derivative e gebaat {vendere vendei) und so eine wahre E-Conjugation durchgeflìhrt, welclier sich nur das Particip (venduto) nicht uuterwarf ».

III. Ha ben ragione il C. a dire che il -v- è mantenuto in molti dialetti merìdionali anche nella prima persona del perfetto. E se non si fosse voluto limitare all'unica fonte, che non è per vero la più sicura, dei canti popolari, avrebbe potuto addurne a prova non solo quei per- fetti in 'ivi che adduce, ma ancora quelli in -avi (campob. puriav^^ portai e simili, oltre durmivfj dormii, facive feci ecc.: Arch. Glott, IV, 166, 184; e purtavi -avu di dial. siciliani: Pitrè, Fiabe, ecc. I, ccxvn). Notevoli son pure i dialetti pugliesi, dove il -v- si trova rinforzato in -66- (cfr. tose, crebbi, conobbi). A Bitonto, p. es., faciébbe feci (faciesi^, faci) e simili; e per estensione analogica alla I conjugazione come in provenzale, cantiebbe (cantiéste, cantò) e simili.

IV. Nelle giuste considerazioni che il C. (p. 231) fa intomo alle vicende del -y- della terza persona singolare, non avrebbe egli dovuto ignorare o dimenticare chi lo ha preceduto nella stessa via. NelF^- chivio Glottologico (IV, 174-5) io ho richiamata l'attenzione degli stu- diosi sopra un notevole riflesso deìV-avit latino, proprio del mio dialetto nativo (campob. purtatte portavit, vulatte ecc.) (1), il qual riflesso pare che intanto debba limitare l'asserzione che il C. ancora ripete, che il -t deìV-avit sia affatto scomparso tranneché nel dominio franco-pro- venzale. E l'Ascoli, pigliando occasione dal riflesso da me arrecato, proponeva quivi stesso in nota quella stessa spiegazione del cantò ita- liano e spagnolo che il Caix ora ripropone, e ricordando egli pure, come fa il Caix, la forma sicula e calabra in au. Che se il Caix ha più compiutamente sviluppata la spiegazione, segnalando come proce- dente dalla vocalizzazione del -t'- anche Vo (=w) dell' ital. ^^ar^w spagn. partió ecc., l'Ascoli era già andato più in per ciò che riguarda i riflessi del solo -avit. Egli notava che nel francese chanta (ant. chaniat) Va sarebbe strano, se non fosse giustificato dalla posizione, e stabiliva doversi quindi supporre mantenuto intatto Va per efiFetto dell' ar'^. Ora il Caix, dicendo che nel dominio franco-provenzale sia perduta ogni traccia del -y-, viene a far regredire d'un buon passo la que- stione (2).

V. Le importanti considerazioni che il C. fa intomo alla terza per- sona plurale lasciano il desiderio di un maggiore sviluppo. Perché

(1) Ed è anche in dialetti della stessa fa- ^roteolare) ; maquidubito dellasua esattezza, miglia, non solo nella stessa provincia di Mo- (2) Poiché per il Caix P-at francese non

lise, ma persino, p. es., a Cassino. Anche il sarebbe che -a[t?i«]f, avrebbe egli potuto

W'entrup (loc. cit.) vi fa un lieve accenno per ricordare a suo prò il lucreziano inritàt \ìer

Napoli (a ogni modo, il vrocciolatte che inritavit (1,'JO: Inrìtat animi virtutem,

adduce, sarebbe vrociolattc da rociolarc effrinrjcvc ttt arta).

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lOMANEA, K.o 4] ANCORA DEL PERFETTO DEBOLE 65.

empierono^ p. es., dev'essere stato in fase anteriore impiéoron = imple- v'rUnt? Ognuno penserà invece che empierono sia qaelV implè[ve]runt ^ che tutti han letto in Virgilio (Ed. 6, 48; Georg. 4, 461), come ama- rono è il classico amarunt Della desinenza -irono il C. assegna due derivazioni. Prima la fa venire da -ioron =: -ivWunt : derivazione, pare a me, improbabile, e certamente arbitraria; poco dopo la fa venire da 't[v}érunt: salvoché non siasi espresso poco esattamente per amor di brevità. Che se veramente egli trae -irono da -ièruntj si può chie- dere perché da quest'ultimo non si sia avuto, col solito spostamento deiraccento {muliere-, muliére-y mogliéra), un iérunty e quindi un -ièmo 0 -èrno. 0 forse V accento si sostenne sull' i di -iérunt per simmetria con le altre persone del perfetto che han tutte Vi? 0 forse invece -irono risale a un latino popolare -llve^runt? 0 è infine una coniugazione analogica prettamente romanza? Son tutti dubbj e ipotesi che meritavano d'esser accennati. Sul finire il C. dice che il classico -ivèrunt non abbia nessuna eco nel mondo romanzo. E forse egli si restrìnge, indottovi dall' anda- mento del discorso, a toccar àéìVAvèrunty ma pensa altrettanto A^ÌY-erunt in genere. Io stesso, benché abbia tenuta l'opinion contraria (vedi I, 78) , inclino ora a credere che àoiVèrunt non si abbian sicure tracce romanze. Però le tentazioni a scorgere qua e di tali tracce non mancano di certo : in dialetti meridionali ( Arch. Glott. lY, 150, 184) noi abbiamo forme come scèrne., durmèrne^ vtdèrn^^ facèrn^ ecc. che pajono belle continuazioni delle latine exièrunt, dormièrunt, voluèrunt, fecèrunt ecc. Se non che, considerato che Ve aperta di quelle forme accenna ad é breve latina anziché ad é lunga, e considerato che le coniugazioni latine II, III, e IV sono divenute nel Mezzodì un'unica conjugazione , nella quale il perfetto mantiene, almeno nel dialetto di quelle forme, il tipo della IV latina (durmiv^.^ scivg^ cadiv§, facive ecc.), mi sembra ora più proba- bile che quella desinenza -èrne non sia che 1' -iérunt della IV estesosi a tutti i verbi diversi da quelli in -are (1). Ma anche in italiano vi sono forme che ricordano in modo singolare la forma in -èrunt La- sciando temerono che può parer timuèrunt, e sim., chi non penserebbe alla prima che spanderono sia expandèrunt^ sederono sedèrunt? Certo, se si guarda bene, poiché questa terminazione -erono non ha luogo se non in perfetti deboli, si potrà ben dire che essa sia una formazione prettamente romanza, non men di quella in -ettero, e che quindi tra sedèrunt e sederono non vi sia alcuna continuità storica. Ma la coincidenza mate- riale della forma latina con la italiana è tale, che ne va fatto assolu- tamente un cenno, se non altro per avvertire ne nos inducat in ten- tationem. P. d' Ovmio.

Napoli, febbraio 1878.

(1) Cfr. il sicil. finivi, pi. fineru (e con esso ripitivi^ ripiteru) in Pitré, loc. cit.

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GG VARIETÀ [oioekale di filologia

SULL' ETIMOLOGIA SPAGNUOLA

Nello studiare il tanto giustamente lodato lavoro della Sig.** Caro- lina Michaelis, Studim sur rmianisclien WorfscMpfung, Leipzig, 1876, mi è avvenuto come di ammirare la dottrina, V acume e la profonda conoscenza che ha l'egregia Autrice della lessicologia spagnuola, così anche di notare qua e congetture e derivazioni che mi hanno lasciato dei dubbi. Non sarà perciò inutile, considerata V importanza del libro, raccogliere qui, tra gli appunti che mi è avvenuto di farvi, quelli che dopo matura riflessione mi sembrano i più giustificati. Cercherò, per quanto è possibile in note di questa fatta, di mantenere un certo ordine riunendo insieme sotto ad alcuni capi le osservazioni fatte sparsamente.

L* A. pensa che sebbene nelle lingue romanze il lessico sia di pa* role accettate beli' e fatte, pure sia un errore il partir sempre da questo criterio per l'etimologia di molte voci oscure. I Germani, secondo TA., recarono a così dire materia greggia che fu poi elaborata nei paesi la- tini. « Gli elementi germanici figurano spesso come temi, e come temi furono considerati e differenziati. > Ora, senza negare quello che ci possa esser di vero in questo principio, non è, a mio avviso, senza pe- ricolo, il raggruppare insieme tante voci di significati tanto svariati per la semplice identità di alcune consonanti nel tema, come trovo aver fatto T A., sotto alle radici grbj skarh. Tra quelle che a me sem- brano dover avere diversa origine, scelgo qui alcune che mi sembrano avere una speciale importanza per la loro diffusione in parecchi degli idiomi romanzi.

garapiSa liquore congelato », gaeapinar < congelare ». L* A. unisce queste voci coi numerosi derivati da una primitiva radice prò, da cui proverrebbero anche voci significanti « Etwas vor Kalte oder Alter Gek- riimrates, jede krause Speise » ecc. (p. 51 ss.) Ma una delle voci che a mio avviso si possono con più sicurezza staccare da quel cespite è la presente. Per me garapiha ha a base il tema che troviamo nel pori garaim « limonade sucrée », dove io non potrei vedere altro che T arabo Sarah e quindi in fondo una voce connessa con xarope axarope^ coirit sorbetto ecc. Infatti Tit. carapignare^ derivato certo dallo spagnuolo, significa « congelare » cosicché, considerata Tafiinità etimologica delle due voci, carapignarc il sorbetto viene a dire precisamente quanto sorbct- tare il sorbetto (se si potesse usare). Del resto la voce toscana, sici-

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EOMANZA, N.« 4] SU LV ETIMOLOGIA SPAGNUOLA 67

liaua e sarda non può che provenire dalla spagnuola, perché in questa lingua solo è foneticamente spiegabile. Da xarab- xarap- col passaggio del X in j si ebbe jarap- (cfr. jaropc^ jaràbe), e, rafforzato J in g^ ga- rap' base di garapa. Il primo mutamento lo abbiamo appunto in ja^ loqne = xaloque^ e il secondo la. guaìatina = jaletina ^ ed anzi tutti e tre i passaggi in garifo in cui il g si riconduce similmente alla scìn araba. Quindi garap' = jarap' = xarap" (arab. éarah) come garifo=jarifo= xarifa (arab. éarlf). Rimarrà a meglio chiarire le ragioni di quel suff. -iiìa. GARBULLO, it. GARBUGLIO ccc. che T A. deriva dalla stessa radice, non può che essere un composto di luglio^ comunque vogliasi spiegare la prima parte. Cfr. guazzabuglio « miscuglio d'acqua e di neve >, poi « confusione ecc. » Se V A. ammette in quest' ultimt^ voce composi- zione con buglio , mi pare ben difficile il non vedere lo stesso elemento in conibuglio^ stibbuglio e quindi anche in garbuglio.

ESGARAFUNHAR, ESGARA VUNHAR, ESCARAFUNCHAR ( port. ) chc T A. COUnette

col tema skarb^ potrebbe pur essere il corrispondente dello sp. garra^ finar^ it. sgraffignare, sic. sgraffugnari ecc. in fondo ai quali è certo il ted. greifen (cfr. sparagnare ^= sparen) ^ che si venne modificando nel senso e nella forma per immistione ora di graffio -are, ora di ugna=:- ungula^ ora di garra « artiglio » nello spagnuolo ecc.

Nel considerare i mutamenti vocalici sarebbe stato bene distinguere le vocali atone dalle toniche, poiché certe alterazioni che si possono ammettere pelle prime, non si potrebbero, fino a maggiori prove, ac- cettare per le seconde. Trovo perciò molto dubbi i duplicati basati sopra mutamenti nella tonica non ancor dimostrati per lo spagnuolo, come i seguenti:

BALA FELLA, con cui BALOTA PELOTA 238. Mentre baia, "Ota come il fr. balle^ ballotte, e meglio ancora la doppia forma ital. balla, palla accen- nano air a. a. t. balla, palla, E. W, I, 48, lo sp. pélla apparisce rego- larmente derivato da pila non meno che il fr. x^^ote ecc.

BERZA bbXsica 266. Come gli equivalenti italiani verza e brasca, de- rivano da due voci ben distinte; la prima da viridia, E. W. 1 442, la seconda da brassìca.

calandra CILINDRO 254. La prima voce non si spiega che nel do- minio francese, e, come il suo speciale significato dimostra, non è che il fr. calandre. Gli altri esempi di a da i che TA. sono di vocali atone, comuni ad altre lingue (balance, salvaje), ad eccezione di cana- .s/ra che è esempio affatto speciale, e che se non è da spiegare con una antica variante canastnim, si deve ad influenza di bana^ta, e rientra in ogni modo nella numerosa categoria delle voci a sufiisso con vocale va- riabile: -astro -estro ecc.

argano organo 254. L'originazione di argano da of/^jvsy proposta

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68 VABIETA [giornale di filologia

dal Ménage non ha trovato seguito appunto per la difficoltà fonetica. ^. IT. I 30, e Storm nella Bomania, II, 328.

TARTA TORTA 229. La forma con a può essere dal fr. torte, ed è a notare che questa Toce ha avuto diffusione anche in Italia (cfr. i miei Studi di etim. Hai. e rom. n. 623).

CAVA COVA 254. In cova inclinerei a vedere una vpce derivata da cubare^ come appunto nell'equiv. it. covo. Cfr. cobil < escondite, rincon > = it. covile^ e sp. coba « gallina ».

CHANCLO zocLo 244. La prima voce era già stata connessa dal Diez con mnca^ prov. sanca ecc., E. W. I, 448, con molta verisimiglianza se si considera che la voce provenzale vale anche t coturno >: non porta soc ni sanca (P. Vidal). Per la stessa ragione

ZANCO zoco 229, mi pare da eliminare.

ARBOLLOM ALBANAL 229. Quì il Cambiamento della vocale tonica appartiene non allo spagnuolo ma all'arabo; perché la prima forma viene da al-halloYCa la seconda da a2-&aZZd'a; Dozy 65.

ORCA URCA 253 e così ourque orque horque houcre 204. V. Siudi di etim. it. e ront. 429.

A torto l'A. vede duplicati fondati sopra una trasposizione d'accento in

NiETO NEPOTE 252. Più semplice pare derivar la prima forma da fieptiSj che usato al femminile, dovè dare nieta^ da cui un masc. nieto* Foneticamente nieta da neptis come siete da septem.

piEZGo PEzuELO 251 ; e così pejsmélo = pedalo =pedicidum 226. Ma vi sono esempi di 'iolo -uelo da -iculum? Il complesso di alterazioni che suppone codest' equazione pare poco conforme alla fonetica spagnuola. Pezuelo si riconnette meglio a pediolus petiolus^ che sappiamo essere stata voce usata in Ispagua, poiché la troviamo in Golumella; di qui it. picciuolo^ vai. picior. La terminazione diminutiva ha modificato il senso nello spagnuolo, il quale perciò per dire picciuolo ha dovuto mu- tare il suffisso, {^iceuào pezon. E. W. II, 53.

PATERA PATÈNA 252. Preferirei trarre col Diez la seconda voce da patina patèna^ in cui lo scambio frequente di -ìnus e di --Inus renderebbe la trasposizione d'accento meno strana, e in cui non ci sarebbe la diffi- coltà del mutamento di r in n.

A tutto rigore poi non vorrei considerati come fenomeni dovuti a trasposizione d'accento i participi tronchi: pago per pagado 226, fino finito 252 ecc., che sono piuttosto dovuti, secondo la bella spiegazione del Diez, ad analogia con aggettivi che stavano coi verbi affini nella stessa relazione.

Tra i duplicati connessi coi vari mutamenti consonantici noterò come più discutibili:

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BOMÀNZA, N.° 4] SULL'ETIMOLOGIA SPAGNUOLA 69

jAZAEiNA JACEBiNA 227 o COSÌ joscran oigérien 203. Questa eti- mologia proposta già dal Cobarruvias, e accettata dall' EDgelmann, non dispiacque neppure al Diez, E. TT. I, 208. Tuttavia i dubbi sollevati dal Dozy, p. 289, non mi paiono dissipati, soprattuto se si considerano le varianti pure di.ìì.i\c\xQ jaceran^ jaseran^ jasaran, quantunque anche la derivazione da jaco earad^ dall' ultimo proposta, non mi persuada gran fatto. La derivazione da acerino sarebbe meno dura se si avessero mag- giori esempi di j prostetico ; ma jiride non prova che per la prostesi di ; a i di cui si hanno esempi anche altrove (it. gire=zj-ire)^ mentre Jan- ciato è forma speciale delF andaluso , nel quale siffatta prostesi è abba- stanza comune.

LISTA EisTEA 230. L' A questo supposto duplicato come esempio di scambio tra l e r. Per me quelle due voci non sono meno distinte di quello che lo siano in italiano. Ristra è=:it. resta=^la.t. restis^ come lo prova il suo primo significato di « trenza hecha de los tallos de los ajos ó cebollas », donde poi si passò al senso figurato di t colocacion de las cosas que van puestas unas tras otras. »

ZAQUE sAYo o SAGO 233. Per ìsaque « otre » si presenta come più ovvia la identificazione con gaco^ essendo propriamente un sacco di cuojo ; jsf per s come in jmcco = soco, isorra per sorta ecc.

ANTOECHA ENTUEETO, ENTOECHAE ENTOETAE, TORCHA TOETA, TASTA 240.

L'A. queste forme come provenienti da una diversa risoluzione del et da un falso participio torctus^ già supposto dal Diez, E, W. 1^ 418. Da notare è però che qui si tratta non del puro et ma di rct pel quale la risoluzione in eh è più difficile ad ammettere. Gli esempi che il Diez e TA. danno per lo spagnuolo che per il francese e provenzale, sono di c^ 0 di nct^ pel quale ultimo nesso quella risoluzione era age- volata dalla facilità dell' « a combinarsi con % (j). Cfr. prov. Saint cioè sanJU accanto a sanch ecc.; Diez, Gramm. I, 259. Il Diez medesimo trova più semplice spiegare il prov. torcha^ fr. torche da torca connesso con torcar^ e il eh della voce spagnuola da z^ e così entorchar da entorzar, che perciò deriverebbe dallo stesso tema di atrozar^ troza^ torzal ecc. Cfr. acunzar e aconcJiar, ronzar e ronchar, ed anche bolchaca (hurehaca) accanto a hursaea ecc. Del resto quanto al semplice torcha rimane sem- pre a vedere se non possa essere voce francese.

FABAUTE HERALDo 240. Sccoudo il Dicz farautc viene dal fr. héraut^ come dal francese vengono altre voci con f Abl h germanico, Gramm. I, 320; questo duplicato parrebbe quindi doversi porre tra quelli di origine straniera.

FARSETO FALsoPKTO, BAL90PET0 242. Conic Spiegare le alterazioni che supporrebbe codesta sincope? Quanto a farseto, sopratutto se conside- riamo il suo antico valore di « imbottitura sotto la corazza >, la de- rivazione da farsm rimane sempre la più semplice; E. W. I, 173. Fcdsopcto pare perciò voce indipendente, di cui balsopeto e gran borsa che

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70 VABIETA [giornale di fflologia

si portava sul petto » sarà una corruzione dovuta probabilmente a in- fluenza di bolsa « borsa. >

viEJo >TEDRo 251. Il secondo vocabolo, in uso solo nei nomi proprii di luogo, è da vetus -eris^ mentre il primo è da veclt(S=ve((u)lus. Nella stessa maniera abbiamo in italiano da una parte Orbivieto Chvieto e Cef- vetri, dall'altra Civitavecchia.

ESTKUENDO TRUENO 251. Sc uou v' ha dubbio sulla derivazione di esfruendo da tonifrum^ quanto a trueno si presenta tònus con r onoma- topeica, come neirit. irono -are, nel prov. e anche sp. tron -ar ecc.

BEPROCHE BEPROPio 264. Cfr. i miei Studi di etim. it. e rofiu n. 115.

coDENA CUTANEA 205. La prima è essa voce originariamente spa- gnuola? Si noti che in questa lingua ha perduto il suo primo signi- ficato, che ha invece mantenuto nell'it. cotenna^ fr. couenne. Quanto al derivare cotenna da cutanea ^ ci sono per l'italiano gravi difficoltà fonetiche, ed anche in fr. ^enne = -anca sarebbe poco regolare. Del resto la connessione con cwtó pare certa, se si considera T equiv. cotica e il deriv. cuticagna,

TORCHE TROCLA TRUJA TORCULA 170, c trocla torchc 226. Trocla « polca > va certo distinta da queste voci, perché non può che essere Tequiv. trochlea. Non trovo torche^ ma solo torce < la vuelta o eslabon de alguna cadena > e se questa è la voce, mi par ovvia la derivazione da torques.

CABAL CAUDAL 281. Il prov. c sp. càbol è una posteriore derivazione da cabo, e non avendo a base un lat. capitalis, non forma a rigore un duplicato con caudal.

Aggiungo qui alcuni duplicati francesi dati dall' A. in aggiunta a quelli del Bracbet, che io non saprei ammettere.

CALIBRE GARBE GALBE 202. Auchc M. Dcvic, Bict, H. p. 79, aveva fatto lo stesso ravvicinamento; ma più probabilmente la seconda forma è termine d'arte proveniente, come altri notarono, dall' it, garbo^ mentre la prima è d' origine araba.

FEU FOUGUE 203. Il Brachct ebbe ragione a mio avviso a non am- mettere questo duplicato, poiché nel suo Dict, ciym. egli considera fougue come identico all'it. foga. Ora che questo derivi àsi fuga e non da focus è provato, oltreché dalle ragioni date dal Diez, E, W, lì, 30, dalla pronuncia tose, fòga in pieno contrasto con quella di fòco fuòco,

MAiGRELET MiNGRELET 204. Il Dicz cousidcrò bcuc tningrcUn come affine a malingre, connesso coli' a. fr. heingre da acgcr -ra -rum; e min" grclet non può èssere che variante di tningrelin. Anche V it. mingher- lino potrebbe parere variante di niagherolino magrolino^ se non vi ostasse il lomb. e pieni, malingher, E. 11'. II 343.

KoNGER RUMiNER 205. Il primo è da rumigare, E. W. II 418, l'altro da r fi minare, N. Caix.

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ROMANZA, N." I] VARIETÀ 71

MALATO

Già il Cornu, Ilomania III, 397, mostrò come in latino male hahitus « malandato, in mal essere » si contrapponesse al semplice haòiius « ben portante ». Sopratutto significativo il passo di Massurio Sabino riportato da Aulo Gellio in cui si legge: « Censores... cum equum nimis strigosum et male hahitum sed equitem ejus uberrimum et hahitissimum viderunt... » Il Corna proponeva con piena ragione di derivare da male habitus^ a cui specialmente accenna il malabd^ nella Passion e il prov. malapte malaiUj le voci che il Diez riportai sotto malato, E, W, I 259. Egual- mente il Ronsch, Zeitschrift fiir rom, Fhil, I, 419, il quale notava inoltre la corrispondenza tra male habitus e male sanus. Solo Tit. malato pareva opporsi a questa congettura; ma già il Diez notava, proponendo la derivazione da male aptus, che il semplice t in malato potè provenire da influenza di ammalato, participio di ammalare^ poiché il derivato wwt- ìattia che non poteva soggiacere alla stessa influenza, presenta il doppio ^, e fa congetturare un anteriore malatto. Veramente la congettura presentava dei dubbi, poiché non era impossibile il contrario, cioè che makittia provenisse da un anteriore malatia con raddoppiamento poste- riore del t. Ma a togliere ogni dubbio sta il fatto che la forma ma- latto s'incontra in più mss. antichi, e così p, e. in quello della Tavola Botonda pubblic. dal Polidori : < Dissono che aveano messa la reina tra gli ^nalatti e miselli; > « come la reina fue messa tra gli malaiti,,. > (p. 165). Il Polidori spiega nello « Spoglio lessicografico > questa voce per « lebbroso » ; e ivi pure nota come tal voce negli antichi Statuti senesi suoni maladdo, malagdus, forma invero poco chiara da confron- tare col fr. malade, ant. malabde, Fass. de J. dir. 116,

N. Caix.

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72 VARIETÀ [oiornalr di piLOLoaiA

OSSERVAZIONI AD UN ARTICOLO DEL PROF. A. BORGOGNONI SUL SONETTO

Il Prof. Borgognoni ha inserito nella Nuova Antologia (&9C. 2* del 1879) nn articolo sul Sonetto^ nel quale ei ne indaga le origini e la formazione. Non vogliamo qui riassumere le opinioni del valente critico, perché ognuno potrà leggerle nel periodico indicato, dichiarare il nostro assenso o il nostro dissenso: ma soltanto fare alcune avver- tenze su due punti particolari di quello scritto.

In primo luogo a pag. 237 ei professa di far sua l'induzione del Bilancioni che sieno cioè una stessa persona due antichi poeti. Il Bor- gognoni mostrasi troppo vago di questo ridurre a una sola persona più antichi poeti , chiaramente distinti con nomi diversi negli antichi docu- menti : e già fu visto come errasse nelP immedesimare Folcacchieri, l'Ab- bagliato e Folgore da S. Gemignano. Ora riduce ad uno Iacopo da Lentino, già da lui immedesimato, e non sappiamo se rettamente, con Giacomino Pugliesi, e Iacopo da Leona, cavandone conseguenze che restano gravemente infirmate se V identificazione dei due poeti venga a mancare. Per noi non è dubbio che si tratti di due poeti distinti tra loro. Il Borgognoni dice che Lentino dicesi « latinamente Leoniium^ di che Leona sarebbe traduzione anche più schietta ». Veramente Len- tini in Sicilia é latinamente Leontini^ la patria di Gorgia, detto perciò leontino: e Leona non é altri che l'antica Levane in Valdarno, e nel ter- ritorio di Arezzo. Tratterebbesi qui dunque, di un amico e quasi concit- tadino di Fra Guittone senza andar giù fino in Sicilia.

A pag. 243 il Borgognoni rifiata l'ipotesi del Wackernagel che il sonetto italiano provenga dallo spruch tedesco: e lo rifiuta specialmente perchè t scarsissime le relazioni letterarie tra la Germania e l'Italia nel medio evo: e alla corte di Palermo non v'è notizia che si poetasse in tedesco ». Ora, quest'ultima asserzione merita di esser rettificata, senza che perciò ne cresca probabilità alla dottrina del Wackernagel E poiché il documento che prova il contrario non sappiamo che sia stato da altri notato in Italia, ci piace qui registrarlo. Sono alcuni versi dell'antico poeta tedesco Ottocaro di Stiria, al cap. IV della sua Cro- naca rimata, inserita dal Pez nel voi. 3°. dei Rerum ausfriacarum. Vi si parla della Corte di Manfredi e della sua dignità e cortesia di prin-

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BOMAN«à, N.o 4] OSSERVAZIONI SUL SONETTO 1V>

cipe, e poi si prosegue annoverando per nome ben 18 Miunesingér che furono a quella corte. Traduciamo letteralmente quei versi:

Ogni giorno ed ogni notte | (Stava) coi suoi musioi: | Io vi dico chi essi erano. | Uno non era troppo giovane, | E si chiamava Maestro Yildunco. | E v^ era qui un uomo vecchio | Che si chiamava maestro Werner di Rustpaco. i Y' era anche uno ricco, I Maestro Federico di Flascenbergo. | V'era uno molto grEizioso, | Che si chia- mava Maestro Beinoldo. | E anche un altro accresceva il suo avere | Che era chiamato maestro Pah. | Era qui pure con grand* ornamento | Maestro Walter della Sittava. | Anche v' era il molto gentile | Maestro Federigo di Wirzburgo. | Qui faceva varj giuochi I Maestro Corrado di Botenberga, | Che dopo la morte del principe | Dopo lungo tempo fu mio maestro. | Era qui per suo comando | Maestro Seibot di Ert- burgo ; | Qui era anche Maestro Ottone | Del quale si faceva grande scherno | Per la gobba eh' egli aveva. | Venne anche per preghiera del Re | Maestro Enrico di Land- cron. l V era qui anche un tale molto ricco { Che si chiamava Maestro Gebardo | Il quale anche vi fu ucciso. | Era anche un grande soccorso | Maestro Ulrico di Qlesein, | qui si stava ozioso | Maestro Ulrico di Sweiniz, | E gli era anche molto caro | Maestro Alberico di Merseburgo. | Teneva qui anche molto volentieri domicilio | Mae- stro Corrado del Tirolo, | E riceveva volentieri il suo soldo | Maestro Perichtold di Somereck. | A questi eh* io ho ora enumerati | Era concesso V onore | Di esser chia- mati maestri.

À. D'Akconi.

POSTILLA ALL'ARTICOLO UN SERVENTESE CONTRO ROMA ECC. (I, 84)

Ebbi già ad avvertire, non appena me ne fai avvisto (I, 200), che anche il Tobler suol spiegare il vocabolo Sirventes come t Dienstge- dicht >, poesia che sta, in certo modo, al servigio di un'altra. Ora mi è ben grato di poter comunicar al lettore alcune cose scrittemi in proposito dal dotto Professore dell' Università Berlinese (5 nov. 78).

. , . . Was mich zu dieser Ansicht brachte, waren theils die von Ihnen angefòhrten und ahnliche Dichterstellen, theils die ausdriickliche Aus- sage der Leys d*Atnors , 1 , 340 : t sirventes es dictatjs ques servish al may de vers o de chanso; en doas cauzas: la una, cani al compas de las co- hlaSj Vautra^ cani al so. E deu hom- entendre cant al compas, so ^s a ssàber, que tenga lo compas solamen ses las acordansas oz am las acor- dansaSj d^aquelas meteyshas dictios o d'autras seniblans ad aquelas per aeordansa. » Also, die Uebereinstimmung der Singweise ist zunàchst vorhanden, ebenso (was daraus von selbst sich ergibt) die des Stro- phenbaues; dagegen ist Uebereinstimmung im Reime nicht erforderlich;

5*

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74 VARIETÀ [giormalb di filolobu

ist sie yorhanden, so kann sie sich uber die ganzen Beimworter erstree- ken oder anch nar uber die Beimenden Wortaasgange. Nichi ganz sicher bin ich, wie das al may zu verstehen ist; gewiss heisst es nicht tout au plus^ wie es die Herausgeber ubersetzt haben; ich denke eher « meistens > , < per lo più >. Dass nicht jeder Sirventes an ein yor- handenes Gedicht aulehnt, lehren ja auch solcbe Stelle wie: Ab non cor et ab novel son Volh un nou sirventes hastir, und die Aussage der alten Biographie des Guillem Bainol: e si fetz a toU sos sirventes sons nous. Àber gerade dieso Aeusserangen wiirden nicht gethan worden seiD, wenn das entgegengesetzte Yer&hren nicht das gewòhnliche {d mais) gewesen wàre. »

Contro la spiegazione del vocabolo risuscitata dal Tobler e da me, si dichiara il Meyer, Romania , VII, 626. Le sue parole meritano di certo la massima considerazione. Potrei, per verità, desiderar dimo- strata l'affermazione, che Sirventese sia la forma primitiva. Dato che sia, non ho difficoltà a riconoscere che Tidea del Tobler e mia avrebbe fatica a reggersi; Sirventese condurrebbe realmente a sirvent^ cerne sh^ dentesco a studente. I Serventesi sarebbero dunque propriamente canti di Sirvents (1); di sicuro, per altro, non sarebber tali nel senso come 8* intende dal Diez , e da pressoché tutti dietro di lui. Piuttosto incli- nerei a prendere come punto di partenza il significato che sirvent aveva nel linguaggio militare.

Ma queste, in fondo, son questioni secondarie. L'essenziale si è che i Serventesi sìeno canti, che per la melodia, il ritmo, il numero delle strofe, e a volte perfino le rime, sogliano aggrapparsi ad un mo- dello preesistente. Ammesso ciò e in verità non vedo come si possa contestare, contro le autorità antiche e le prove ancor più conclusiTe dei fatti ne viene che lo studio di questo genere di poesia ha bi- sogno di esser ripreso da capo e con altri criterii.

P. Bajka.

(1) Accanto a Sirventes^ Sirventese abbiamo Sirventesia. Nel primo caso il so- fitantÌYO originariamente sottinteso sarà vers; nel secondo chanso.

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BOirANKA, N.^ 4]

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RASSEGNA BIBLIOGRAFICA

1. Die Biographie des Trobadors OuiUem de Capestaing und ihr hisio- rischer Werlh, von Emil Beschnidt. Marburg, 1879. 31 pp. in 16^

Questa breve tesi dottorale, dedicata dal riconoscente discepolo al prof. E. Stengel , prova da un Iato la bontà dell' insegnamento che sMmpartisce nel seminario filologico di Marburg, e insieme la speciale attitudine dell'autore alla paziente e rigorosa ricerca letteraria.

Il lavoro è diviso in due parti: nella pri- ma si discorre del testo delle biografie pro- venzali del Cabestaing; e nella seconda del loro valore storico.

La prima parte è senza dubbio la meglio riuscita; ed è quella dove più si veggono gli effetti d' una buona disciplina. L'A. confronta minutamente le sette redazioni diverse che della biografìa provenzale del Cabestaing si contengono nei mss. (1); ne trae fuori la parte che è a tutte comune, e a buon dritto scorge in questa il nucleo primitivo della narrazione, il primo scheletro, che venne poi con diversi intenti e attitudini rimpol- pato dai successivi rimaneggiatori. Noi con- cordiamo quasi in tutto, per questa parte, col signor Besch. ; e solo vogliamo riserbare il nostro giudizio sulT esistenza d'una re- dazione ancora più antica e più scarna di quella che all'A. è riuscito di cavare dalle superstiti biografie provenzali.

La seconda parte del lavoro pare a noi meno felice nei risultati, sebbene anche essa dia belle prova dell'acume dell' A. Il signor B. ci schiera innanzi tutti gli argomenti pos- sibili contro l'attendibilità storica delle bio* grafie prov. del Cabestaing. E validissimo fra tutti, ben a ragione, egli considera que-

sto: che nessuno dei trovatori allude mai alla tragica fine di Guglielmo, mentre pur avrebbero avuto mille occasioni per farlo; che nessuno dei tanti lodatori di Alfonso II d'Aragona, il protettore e intelligente cul- tore della poesia occitanica, lo loda quale vendicatore della misera fine di due amanti. S' aggiunge che nel medio evo ebbero corso parecchie altre storielle analoghe a quella del Cabestaing, principale fra le quali quella del Castellano di Coucy e della dama du Fayel ; e, nessuna di esse offrendo il carattere della verità o della verisimiglianza storica, nasce naturalmente il sospetto che esse altro non sieno se non rifacimenti fantastici d'un unico mito primitivo, rifacimenti messi sul conto di persone le quali per qualche verso ab- biano preoccupato le fantasie popolari. E qui il nostro A. vuole spingersi ancora più innanzi, e trovare in questa storia del cuore mangiato o fatto mangiare un riflesso d'una antica favola animale indiana; senza tuttavia riuscir a trasferire in noi, a questo propo- sito, quella persuasione, che in lui pare tanto robusta. Comunque sia di ciò, egli poi mostra come sicuramente questa storiella d'un cuore di drudo fatto mangiare dal marito geloso alla donna infedele fosse nota anche ai trovatori, e passa quindi a cer- care il motivo o l'occasione per cui questa storiella potesse esser messa sul conto del Cabestaing. E qui molto opportunamente egli avverte che se i Francesi del nord l'at- tribuivano al Castellano di Coucy, ciò fu dovuto all' intepretazione troppo letterale di

(1) Un'ottava, couosciut», ma non veduta dal signor B., sarà da noi riprodotta in calce a questo artioolo.

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BAS8EGNA

[eiOKNAUC DI riLULOQU

alcuni suoi versi in cui si parla di « cuore rapito » e di « corpo diviso, » e che per si- mile motivo la stessa storiella fu contata, più tardi, in Germania sul oonto del min- nesingero Reinmann con Brennenberg. Si- mili frasi possono benissimo, egli dice, es- sersi trovate nei versi (perduti) del Cabe- staing; ma qui il processo di attribuzione sarebbe stato, secondo il B. , alquanto di- verso. Egli, il B., ammette, cioè, che il primitivo biografo del Cabestaing abbia com- messa una vera e propria frode storica, in vantaggio di qualche giullare che così vo- leva accrescere il pregio delle poesie del trovatore : che, insomma, il biografo attin- gesse la storia del Cabestaing a un'antica « histoire » forse latina, dalla quale sarebbe derivato e il romanzo del Castellano di Coucy (1220 circa), e quella cronica prosaica fran- cese del 1380, di cui ha dato un estratto il Fauchet nel Recueil de Vorig. d. l. langue etpoés. frangaise. Alcuni luoghi delle bio- grafie, messi a riscontro coi luoghi corri- spondenti della cronaca e del romanzo pro- verebbero, secondo TA.y l'esistenza di que- sto loro fonte comune. Se non che di questi riscontri uno solo a noi par molto notevole, il quinto; e tutti, del resto, ai possono ben meglio spiegare ammettendo che il compi- latore della cronica avesse sottocchio di^ verse redazioni della biografia del Cabe- staing ( le quali possono essersi trovate riunite in un sol codice, com'è avvenuto per quelle di Bertrando del Bornio), e che i raffazzonatori delle biografie abbiano avuto alla lor volta notizia del romanzo. Il luogo del cronista: « Moult orent de poine et tra- vati pour leurs amours... si comme Vhistoire raconte qui parie de leur vie , dont il y a romans propre » (p. 25), ben lungi dal di- mostrare resistenza d'una histoire latina o altro del Castellano, potrebbe invece ac-

cennare senza più alle biografie prosaiche del Cabestaing. —Ammette poi il nostro A. che il biografo primitivo del Cabestaing po- leese scrivere sotto l'influenza e la remini- scenza del fatto ricordato in un sirventese del Mira vai, d'un cavaliere provenzale sor- preso dal marito in casa propria ed ucciso sul fatto (1).

Concludendo, il nostro A. si mostra in- chinevole col Groeber a riconoscere il tro- vatore Guglielmo Cabestaing in quel Gu- glielmo C. ricordato trai combattenti d'una battaglia del 1212; e la Sermonda e Rai- mondo di Rossiglione nei due personaggi omonimi che ricorrono in un documento del 1210.

Noi ci siamo in altri tempi occupati della biografia del Cabestaing; ma non essendoci riuscito d'ottenere risultati sicuri o per Io meno altamente probabili, ci siamo astenuti dal comunicare al pubblico le nostre ricerche. Non dispiacerà forse tuttavia ai lettori, che indichiamo brevemente la strada per la quale ci eravamo messi: questi pochi cenni serviranno quasi d'appendice e complemento al buon lavoro del signor B.

A noi era parso, dietro il cenno del Diei (L. u. W. 90), che la parola dell'enigma potesse celarsi nei versi:

E ti voletz qn'en vot diga sob nam Jft no trobwets aUs de eolom Oa noi troves eeorig tenes lalenza ;

e mentre il Mila y Fontanals pensava che il poeta avesse voluto indicare nelle ali aperte d'una colomba un M, lettera iniziale di Mar- gherita, noi abbiamo sospettato che il se- greto, abbastanza palese, stesse tutto in queir«alas, » costituente la prima parte di Alasais, nome assai comune tra le dame di Provenza. E lo scorcio francese Alis per- metterebbe inoltre di credere che anche tra

(1) Ecco i versi del Miraval:

Q'ii Qr«tgnolok ausi contar AiHO qa*ea gron « relnlre, C*ua cavallien rene dompnelar Ab la moUier deN Caatolnou; Uaa lui non abelUo palrc; Car lai iatret asnea oonrit Si al cap ianiat e partiU

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ROMAMJU, N.^ 4]

BIBLIOGBAFIGA

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i Provenzali Aìàs fosse uno scorcio familiare di Alfisais; nel qual caso bisognerebbe dire che il poeta si sarebbe mostrato d*una in- gennità quasi eccessiva. Natoci il sospetto che Alas fosse il nome della bella amata dal Cabestaing, ci siamo dati a cercare nel- VHist.gen,du Xan^edoc quel la tra le donne di questo nome che potesse convenire al qua- dro della biografìa del Cabestaing. Le no- stre ricerche furono principalmente dirette alla famiglia dei Trìncavelli, cui spettava la viscontea di Bóziers; e ciò per la buona ragione che il nome di Qaucerando, di Mi- rone e di Guglielmo Cabestaing appariscano parecchie volte in documenti riguardanti questa cospicua famiglia. E in essa, infatti, noi trovammo un visconte Raimondo, ma- rito prima di una Adelaide (prov. Alasais), vissuta sin verso il 1150 circa, e poi di una contessa Saura; il qual Raimondo ha ter- minato la vita per furore di popolo nel 1167. S'aggiunge che Alfonso li (1162-1196) d'Ara- gona ajutava il figlio di lui, Rogero, a vendi- carne la morte (1). Qui dunque noi avremmo una moglie Saura y la cui storica remini- scenza si potrebbe vedere nella Sorismonda del gruppo più antico delle biografie; e a- vremmo insieme il nome vero della donna amata da Guglielmo, Adelaide. Combina egregiamente anche il nome di Raimondo, attestato, oltrecché dalle biografìe, anche dalle canxoni del C; e combina insieme la morte violenta di Raimondo, e T intervento, sia pure con altre ed opposte circostanze, del re di Aragona, vendicatore del dritto. Discorda il fatto, che Raimondo non era conte di Rossiglione, padrone del ca- stello di questo nome, circostanza eh' è nelle biografie più antiche; ma questa difficoltà svanisce, quando si consideri che il figlio di

Raimondo, Rogero, portò il titolo di conte di Rossiglione, quale erede più stretto di Gerardo o Guinardo, ultimo titolare indipen- dente di quella contea (2). E potè anche darsi che il titolo di Conte di Rossiglione fosse dato dai biografi del Cabestaing a Rai- mondo, solo per ciò che sapessero essere il paesello di Cabestaing nel Rossiglione, e cercassero cosi di ravvicinare anche geogra- ficamente, ciò che era storicamente vicino.

Ammessa questa ipotesi, che nulla ci sem- bra avere in se di contraddittorio d'im- probabile, bisognerebbe naturalmente iden- tificare il nostro Guglielmo C, non più col soldato del 1212, ma bensì con quell'altro che apparisce in un documento del 1162 e forse in un altro nel 1153 (3).

Ma se questi era il poeta, al quale non consta afiatto sia accaduto il tragico fatto delle biografìe ; come è che a lui quel fatto venisse attribuito? Dopo lo studio del si- gnor B., la questione è di molto chiarita. Noi ammettiamo ben volentieri che i motivi impellenti sieno stati per buona parte quelli da lui addotti e che noi abbiamo riferiti; non siamo tuttavia con lui nello spiegare il modo in cui l'attribuzione avrebbe avuto luogo.

Noi crediamo ora, come credevamo prima conoscere lo studio del B., che il nucleo storico primitivo della storia di Guglielmo C. sia da ricercare nel fatto del cavalier pro- venzale, ricordatoci dal Miraval. Disgra- ziatamente il Miraval non ci dice il nome del cavaliere quello della donna : solo scrive che il pronto vindice del proprio onore fu il signor di Castelnou. Ora si noti che c'è nel Rossiglione un Castelnou, come ce n' é uno in Provenza, dove questo fatto è av- venuto; e che c'è in Provenza un Cabestaing,

(1) Ci duole di non poter indicare i singoli luoghi dell' Eiat gen, du Long, ove stanno queste notizie. C'è andato smarrito un libretto di appunti su questa materia; in Padova è possibile tro- vare un esemplare dell'opera preziosa.

(2) Queato Gerardo, trascurando 11 suo congiunto, nominò erede Alfonso II d'Aragona, che nel luglio del 11T9 s'afErettò ad occupare laconica, mentre fino dal 1172 aveva asennto il titolo di conte di B. Ofr. Hisi, gen, d. Long, m, 30-1, e G. Zubxta , àhoìm d$ la corona d'Aragon, { Sarago^ 1610 ) tom. I, pag. M.»»

(3) 6. de Capite-Stagno, in una carta del 1153; v. Siat. gm, du Long, n, 648, prenves. Ha quel G. potrebbe indicare anche Gancerandus, che figura io parecchi documenti di quel secolo, e sembra es- sere stato il capo della famigli» dei Cabestaing.

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EASSEGNA

[OIORNALK DI PILOLOOTA

come c'è nel Rossiglione il Cabestaing, pa- tria di Onglielmo o della sua famiglia; e che c*è finalmente un Castel-Rossiglione tanto nella Provenza quanto nella contea di Ros- siglione (1): cosicché si rendeva abbastan- za facile lo scambio; e le fantasie popolari doveano tendere ad attribuire il celebre fatto piuttosto al trovatore ben noto per l'ar- dore amoroso che ne ispirava le canzoni, che non all'ignoto ed anonimo cavaliere di Provenza.

Ma c'è forse qualche prova più positiva per stabilire che il fatto del cavaliere pro- venzale fu attribuito al trovatore rossi- glionese.

Quella specie di proto-biografia del Cab., che il signor B. ha saputo ricavare dal raf- fronto di tutte, dice già: Q. d. C. si fo us eavcUiers de Vencontrada de Rossilhon, que confinava con Cataloigna e con Nar^

bones; e più innanzi: G. d. C. cantava

de lieis e n fazia sas cansons. Vale a dire, che il C. delle biografie superstiti è già ros- glionese e trovatore. Ma v*è qualche mo- tivo per credere che sia esistita una più an- tica redazione, in cui l'attore principale o era anonimo o si chiamava soltanto Gu- glielmo, non era poeta, e incontrava lami- sera fine non già nel Rossiglione, ma in Provenza. Una biografia di tal fatta deve essere stata letta dal Boccaccio, che ne ri- cavò la 39* novella dei Decamerone. Si po- trebbe opporre, infatti, che il Boccaccio di suo capo avesse trasferito la scena dell'azio- ne in paese più noto, per riuscire a meglio interessare; ma non si saprebbe vedere un motivo al mondo per il quale egli, poeta, avrebbe dovuto tacere la circostanza che Guglielmo era poeta. Certamente poi non dovè contenere l'esemplare del Boccaccio la storiella di re Alfonso vindice dei due infe- lici amanti : storiella che troppo sarebbe piaciuta a Messer Giovanni, e che ben cor- rispondeva allo spirito delle brigate per le quali egli scrìveva.

È poi noto che il Papon, Hist. de Prov. II, 261, cita il ms. 2348 della biblioteca chi-

giana, secondo il quale il caso di Guglielmo C. sarebbe avvenuto in Provenza. La pub- blicazione del ms. 2348, integrato colla co- pia riccardiana C2) , ha mostrato che l'alle- gazione del Papon non ha fondamento: quel ms. non contiene alcuna biografia di G. d. C. Ma il Papon, d'altra parte, non può es- sere sospettato d' un'allegazione falsa; e re- sta sempre il ragionevole sospetto ch'egli avesse in mente una biografia di codice di- verso, ora perduto, forse quella stessa che il Boccaccio allegava col s^io « Raccontano i Provenzali. »

Ammessa l'esistenza di questa antica bio- grafia, in cui si trattava ancora di Gugliel- mo provenzale, non poeta, è facile vedere come se ne svolgessero poi le altre. La no- torietà del poeta fece abbandonare ben pre- sto le indicazioni topografiche, che ormai apparivano erronee; mentre la redazione, che facea svolgere il fatto nel Rossiglione pren- deva sempre maggiore sviluppo, mediante la più o meno forzata interpretazione dei versi di Guglielmo.

La nostra conclusione, pertanto, sarebbe questa: Guglielmo de Cabestaing è fiorito verso la metà del secolo XII, ed è vissuto in rapporti di devozione e d"* amicizia con Raimondo Trincavello, visconte di Beziers, e in rapporti d* affetto colla moglie di lui Adelaide (o Saura). A questo G. de Cab. è stata attribuita, forse verso il 1250, una storiella in parte vera e in parte favolosa, che si contava di un cavalier provenzale. Vera era la storia della morte violenta per opera d'ofieso marito; favolosa la giunta del cuore del drudo, fatto mangiare alla moglie infedele. Questa seconda parte della narrazione proveniva dal romanzo del Ca- stellano di Coucy, come fonte diretta; e da una serie di storie popolari che per tutta Europa si erano svolte sullo stesso motivo, quali fonti indirette.

Così gli storici dovrebbero ormai cessare di addurre come documento dei costumi me- dievali lo storia di Guglielmo Cabestaing; potendo addurla pur sempre a controprova

(1) Vedi: Papoh, HM. de Prov. n, 261; e Dna, l. u, W. 85.

[3) Die prov. BlwiunÌ49e der CfUgiana, ed. E. Stemgel, Marburg, 1878.

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ROMANZA, m.^ 4]

BIBLIOQBAFICA

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del pubblico sentimento di quella età che la elaborava e volentieri la sentiva narrare.

Facciamo seguire il testo della biografia di G. d. C, contenuto nel ms. ambrosiano D. 465 inf., f. 8 V. 11 signor B., che non ha potato vederlo, ne ha però sagacemente in- dovinato i rapporti cogli altri. Questo testo s*accorda quasi integralmente con quello del ms. K.; solo in un punto se ne stacca per accordarsi con A B, ma probabilmente per caso. La pubblicazione del testo ambro- siano, di cui avemmo copia or sono parec- chi anni per cortesia del prefetto di quella biblioteca, non parrà forse del tutto inutile, essendo ancora inedito K, e edito in libro abbastanza raro il testo di I, assai vicino a K.

Guillems de capestaing si fo uns cauail- lers de lencontrada de rossiglon. que con- flnaua cum cataloingna. e con Narbones. Molt fo auinenz e presatz darmas e de seruir e de cortesia, et aula en la soa encontrada una domna que aula nom madomna sere-

monda. moiUer den ramon de caste! de ros- sillon. Quera molt rics e gentile e mais e braus e fers et orgoillos. E Guillems de capestaing si lamaua la domna per amor e cantaua delleis. e fazia sas chansos della, ella domna quera ioues e gentile bella e plaisenz sii uolia be maior que are del mon. e fon dit a raimon del castel de rossiglion. et el com om iratz e gelos. enqueri lo fait. E sap que uers era. e fez gardar la muiller fort. e quan uenc un dia R. de chastel rossillon. troba paissan guillem senes gran compai- gnia. et ausis lo e trais li lo cor del cors. e fez Io portar aunescuider a son albero, e fez lo raustir. e far peurada. e fes Io dar a maniar a la muiller. E quant la dona lac maniat lo cor den Guillem de capestaing. en R. li dis aque el fo et ella quant o ausi perdet Io uezer el auzir. Et quant ella reuenc si dis seingner ben mauez dat si bon maniar que iamais non maniarai dautre. e quant el anzi so qella dis. el coret a sa espaza e uolc li dar sus la testa et ella sen anet al balcon e laisse cazer ios. e fon morta.

U. A. Gakello

2. Le Opere volgari a stampa dei secoli XIII e XIV, indicate e de- scritte dal comm. Francesco Zambbini. Quarta edizione. Bologna, Za- nichelli, 1878. Voi. in 4.^ di coli. LVM172.

Dire i pregi di questo libro che in pochi anni ebbe già quattro edizioni, ci pare ornai opera vana. Chi infatti, tra quanti si oc- cupano de' nostri studj, non dovette già più volte ricorrere air ultilissimo volume, non saggiò la copia delle sue indicazioni e non si sentì compreso da gratitudine verso quel benemerito che tanti anni della sua nobile esistenza spese in questa bella quanto mo- desta fatica? Il Giornale si associa di gran cuore alle Iodi che il fiore della stampa ita- liana sinora tributò air illustre romagnuolo, ma crede di potere anche in altra guisa e meno sterilmente testimoniare a lui il vivo interessamento che ha per tale sua opera, e ciò meglio si parrà dalle pagine che se- guono. — Chiunque s'intenda di bibliografia, e segnatamente dell'italiana, non ha biso-

gno di troppe parole per esser persuaso che in sifi'atti lavori è impossibile ad un solo di toccare la perfezione, anche quando si pos- sieda la vastissima erudizione dello Zam- brini, e siano state spese dattorno all'opera tutte quelle diligenti e diuturne cure che vi furono spese da lui. Basti solo il pensare ai tanti incunaboli che in esemplari rarissimi e talvolta unici restano nascosti in una od in altra biblioteca che non fu accessibile al- l' autore. Non dee dunque recar meraviglia se anche alla quarta edizione della biblio- grafia zambriniana restino tuttavia da farsi diverse rettificazioni ed aggiunte, e quanti concorreranno a tale incremento per la parte dove ne avranno l'occasione, faranno opera non solo utile alla scienza, ma ancora ne siamo certi gradila ed accetta a quel va-

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RASSEGNA

[giornale di filologia

lentuomo. Con tale fiducia promovemmo ed ora accogliamo in questi fogli la contribu- 2Ìone che qui appresso gli viene offerta, e di essa il Giornale si professa debitore, per una parte, al prof. A. D'Ancona che vi si accìnse pregato da noi; e per l'altra parte ringrazia il sig. E. Molteni. I rispettivi ar- ticoli sono contraddistinti dalle sigle D'A. o M.; si richiamano, colla cifra posta in prin- cipio, alle colonne della edizione, ed offrono ora semplici aggiunte di opere non mento- vate nel volume, ora schiarimenti e rettifi- cazioni d'indole bibliografica o di storia let- teraria. E. M.

Col. 10. Agostino, Lorationi. Il titolo di questa stampa potrebbe forse indurre qualcu- no in errore; essa non contiene alcuna opera di S. Agostino ma bensì una preghiera a lui indirizzata, che non so se possa tenersi fattura del secolo XIV; consta di 24 ottave ed incomincia: « Allaude honore gloria et re- uerentia. » Airinfuori di questo, il resto del contenuto è tutto latino. Di queste scritture, toltane la preghiera di S. Gregorio, trovasi pure un'altra stampa, priva d'ogni indica- zione tipografica, in 4.^ di carte 4, a due colonne di linee 24 ciascuna. 11 titolo è circondato da fregi, fra i quali al basso ve- donsi le lettere /. M. intrecciate, che proba- bilmente sono le iniziali del nome del ti- pografo. M.

C. 16. Alberto e Leopoldo doxi de Oste- richa, Ordine in data 24 Novembre i370 ad Enrico Fuchmann di sospender le osti- lità dietro la pace conchiusa co* Veneziani.

Fu edito neWArcheografo Triestino, nuo- va serie, voi. I, pag. 309, per cura di T. But- TAZZONi,non 6uffazzoni,com6 per errore tro- vasi a col. 962. M.

C.31. Annibale (Messere). IICrescimbbni è il solo che faccia menzione di questo poeta, e dice ch'egli a per quanto può conoscere appartiene al secolo XIV », Certo, a que- st' epoca spetta il sonetto pubblicato col di lui nome, che nel codice Laurenziano-Re- diano 151 trovasi attribuito a Niccolò Sol- danìeri, e che fu pubblicato pure dal Truc- chi, voi. II, pag. 253, col nome di Federigo di M. Gerì d'Arezzo; ma Messer Annibale come poeta apppartiene alla storia letteraria di dne secoli appresso, e T'occupa un posto

notevole. Il Crescimbeni stesso ci mostra come sorgesse questo curioso abbaglio. Egli trasse la poesia dal codice Cbigiano ora se- gnato L. IV, 131; non avendo essa alcuna indicazione d'autore, egli ne diede la pater- nità all'autore che nel codice era ricordato precedentemente, ma non avvertì che la poe- sia che ne portava il nome, e per la forma e per il pensiero non poteva certo apparte- nere al secolo XIV, e già trovavasi a stampa fra le rime del Caro, Venezia, Aldo, 1569, pag. 11. M.

C.33. Antonio Buffone. Questo poeta cre- do che possa più giustamente annoverarsi fra i quattrocentisti , poiché in alcuni manoscritti trovansi alcuni suoi sonetti indirizzati al Bur- chiello. Il Mignanti e il Trucchi lo credet- tero una stessa persona che Antonio di Mat- teo da Meglio, del quale ci restano poesie fatte ai tempi di Eugenio IV e Lorenzo de' Me- dici , e a cui si trovano dati i titoli refe- rendario, cavaliere e araldo della Signoria di Firenze: nomi diversi ma che esprimono un ofiScio non molto dissimile da quello del buffone che la Signoria teneva a suoi sti- pendi. M.

C. 35. Antonio Medico. Le poesie pub- blicate dall'ALiJica sotto questo nome tro- vansi in diversi mss. sotto il nome di Maestro Antonio da Ferrara, il quale infatti fu medico, come lo dice e il titolo Maestro e l'in- scrizione posta sul suo sepolcro, riferita dal Ba RUFFALDI nella Biblioteca degli scrittori ferraresi. M.

C. 46. Atto di accusa presentato nel 1353 alla Signoria di Venezia dai citta- dini di Pola contro Niccolò Zeno. Fu pub- blicato per cura T. Luciani nel tomo XI déìVArchivio veneto. M.

C. 52. Bandino d'Arezzo. Lo Zambrini nell'accennare come le poesie pubblicate col nome di questo poeta in altre edizioni si tro- vino pure attribuite a Bandino Padovano, pare inclini a credere che essi sieno, come già fu supposto da altri, una stessa persona. Per toglier di mezzo questa concisione pro- dottasi nelle stampe non v'ha altro modo che il rintracciare le fonti a cui furono attinte le diverse poesie pubblicate sotto questi nomi.

L'Allacci Ai il primo a dar f^ri i doe sonetti che incominciano. « Dipo 1 cantàgSo ti dimando aiuto», « Di mia dimanda però

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ROMANZA N.** 4]

BIBLIOGRAFICA

SI

noD mi mudo; » traendo]! dal codice Bar- berino XLV, 130. Trovandoli attribuiti ad un Bandìno, egli credè, non conoscendo altro poeta questo nome , che fosse il Bandino Padovano menzionato da Dante ; ma la sup- posizione non ha alcun fondamento, poiché r Allacci stesso pubblicò, senza però avver- tirlo , le risposte fatte a quei sonetti da Gillio Lelli poeta perugino del secolo XIV, e quindi r autore di essi non può essere anteriore a Dante. Resta ora solo in questione il so- netto che incomincia « Leal Guìttone nome non verteri » pubblicato per la prima volta nei Poeti del primo secolo col nome di Ban- dino Padovano, mentre poi nella Raccolta di rime antiche toscane fu attribuito, del pari che gli altri due sonetti, a Bandino d* Arezzo. Il codice da cui certamente fu tratto questo sonetto é il Laurenziano-Re- diano 9, ma in esso 1* autore è detto sola- mente Maestro Bandino; la determinazione della sua patria poggia solo su delle suppo- sizioni. Il Redi fu il primo, nelle sue An- notai ioni al Bacco in Toscana, a dirlo aretino, ma per nessun altra cagione che per vederlo in corrispondenza con Guittone. Nulla s'oppone a credere ch'egli potesse esser padovano, ma anche questa non è che una supposizione, e tra le due non so quale possa tenersi più probabile. M.

G. 54. Barberino (da) Francesco. Do- ctanenti d'Amare di Francesco da Barbe- rino: Documento IV sotto Prudenza: De' pericoli di mare et insegnasi come si ponno in parte schivare. Art. del Contram- miraglio L. Fincati estr. dalla Rivista Marittima, fase, di Febbraio, 1878, Roma, Barbèra. D' A.

Altre poesie del Barberino furono pub- blicate per la prima volta dairilBALDiNi in appendice alla sua edizione dei Documenti d'Amore. M.

C. 55. Bartolomeo da Castel della Pie- ve. Vedi anche in Poesie Minori del see. XIV una sua canzone che incomincia < D'amoroso conforto il mio cor vive » che trovasi pure attribuita a Fazio degli Uberti. M.

C. 56. Battaglia {La) di Monteaperto. Sul modo come fu stampato questo testo è da vedere ciò che scrivemmo nella Rivista di filologia romanza^ I, 203, indicando anche la maniera come sanare le pretese lacune

trovatevi dall'editore, e la relazione in che sta questo testo colle Cronache di Niccolò Ventura edite dal Porri nel 1844. D'A.

C. 57. Bbncivenni; invece di iiòne leggi Livre. Cosi anche alla col. 275, lin. 16, invece di Gardini leggi Pardini. Medesimamente a col. 442 leggi GargioUi invece di 6f arpioni. Avverti che qua e invece di adespoti è stampato adesposti: e che spesso l'opera: I primi due secoli della Letteratura Itor liana del Bartoli è segnata come Storia letteraria d* Italia di P. Villari. D' A.

C. 59. Benvenuto da Imola, Il Romuleo, Per inavvertenza, dopo aver datola descrizio- ne della stampa procuratane dal Guatteri nel 1867, in fondo all'artic. è stato conservato un brano di quello ^he trovavasi, ed era appropriato, nell'edizione della presente bi- bliografia fatta nel 1866; cioè: «L'intera edi- zione del Romuleo si sta ora allestendo da un socio della Commissione, anzi a quest'ora si sono già impresse le prime 64 pag, » Av- vertiamo la cosa, perché altri non cada in errore, e non si producano equivoci. D'A.

C. 74. Bernardo (S.) Lo Zambrini ritenne il Volgarizzamento de* Sermoni sopra le solennità di tutto Vanno lavoro del secolo XV ; ma il P. Antonio Angelini in una Let- tera a Salvatore Betti riportata negli Opu- scoli Religiosi Letterari e Morali, t. IV, fase. 11 <1858), dice che d'esso volgarizza- mento se ne conservava un codice nella Bi- blioteca del Collegio Romano alla fine del quale leggevasi questa nota: « Hoc opus scriptum est per me Honofrium filium lo- hannis de Luca mensis februarii die tertio MCCCC » e quindi autore di esso non può essere il B. 0io. da Tossignano. Fino a che non si potrà determinare con maggior fon- damento a chi o a quale epoca debba attri- buirsi, credo necessario il riportare le di- verse stampe conosciute oltre a quella già ricordata dal P. Ansehno di S. Luigi : Ser- moni volgari del divoto doctore sancto Ber- nardo sopra le solennità di tutto V anno. Alla fine: « Stampato in Venetia ad istan- tia de li frati Besuati di S. Hieronimo MDXXIIL » In £

Sermoni ecc. Alla fine « Stampato in

Venetia del UDXXVIIL^ Il Fontanini cita

pure una edizione di « Venetia ài tegno deìla

Speranza iSS8 » ma il Paltoni crede trattisi

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EASSEGNA

[gIOBNALE m FILOLOGIA

d*un equivoco coi Sermoni a una sua so- rella, che veramente furono pubblicati nello stesso luogo ed anno. ÌL

C. 189. Bonaventura (San). NellMndica- zione della edizione deììeMeditationi fatta in Venezia nel 1487 devesi correggere il nome del tipografo de Goncti in di Sancti, Alle edizioni conosciute s* aggiunga questa di cui non posso riferire il titolo, perché T esem- plare esaminatone (Casan. 0. VII, 29) é mancante d* alcune carte. In 4<*, di carte 34, di linee 39, con registro da a ad e, qua- derni i primi due, trierni gli altri; alla fine porta la nota « Venetia per Matheo di co de cha da Par | ma del MCCCCLXXXIX adi XXVII de Februario, » e sotto ad essa r insegna del tipografo. M.

G. 195. BoNicHi BiNDo. Una canzone e un sonetto fnron pure pubblicati dal Sabtescri, vedi in Poesie Minori, M.

C. 200. Bracci Braccio. Due canzoni, sette sonetti e due composizioni in quadernari fu- rono pubblicate dal Sabtbschi; vedi in Poe- eie Minori del secolo XIV. M.

C. 204. Breve di Villa di Chiesa, È detto che fa parte deìÌA Collezione di Storia Patria della Provincia di Torino, Per esattezza e per non far confusione cogli Atti della Società di Archeologia e Belle Arti della Provincia di Torino, dicasi Historiae Pa- triae Monumenta, Adesso è già uscito a luce, e forma parte del voi. XVII dei Mo- numenta, V. in proposito Archivio Stor, Ital. serie IV, t. 2, disp. IV del 1878 (106 della Collezione) pag. 138. D*A.

C. 204. Brigida (Santa). D'una delle ri- velazioni di questa santa trovasi un* antica stampa (Casan. 0. II, 87) in 8<*, di carte 8, di linee 24 in carattere semigotico, che porta sul frontespizio questo titolo « Prophe^ tia di sancta Brigida », e sotto ad esso un intaglio che rappresenta la santa in ora- zione al Crocifisso ; in una fascia leggesi il nome di Roma, che indica il luogo dove fu fatta la stampa. La composizione è in versi e incomincia « Destati o fier Itone al meo gran grido*; e appartiene certamente al secolo XIV, poiché ci è conservata in diversi manoscritti antichi. M.

C. 205. Brunellbsco Ghigo di Ottaviano. Il Crbscimbbni riferisce come saggio delle poesie di questo autore le tre prime ottave d*un

poemetto intitolato il Geta e il Birria^ che non è altro che una versione d*un antico poemetto latino d*egual titolo. Ma il poemet- to non che appartenere al secolo XIII, come opina il Crescimbeni, credo non si debba neppure annoverare fra le produzioni del trecento ; poiché, come avvertirono il Guasti nella Bibliografia Pratese, Prato, 1844, pag. 94, e il Tbucchi, voi. II , pag. 238, alia compilazione di esso v'ebbe mano M. Do- menico da Prato che visse in sul principio del quattrocento. M.

C. 206. Buzzuola Tommaso da Faenza. Che il faentino Tommaso debba chiamarsi Buzzuola o Bucciola molti affermarono : ma lo nega il Giuluni appoggiandosi al Zan- NONi, Literat, faventinor, V. Opere latine di D. voi. I, p. 137. Firenze, 1878. D'A,

C. 212. Cantare (II) dei Cantari e il Serventese del Maestro di tutte Varti, pub- blicato con una bella illustrazione del Rajna nella Zeitschrift del Gbóbbb, II, 220-254, 419-327. M.

C. 216. Canzone {Una) d'Amore. Il co- dice da cui fu tratta questa composizione è quello stesso di cui a col. 219; essa era già stata anteriormente pubblicata dal Ciampi sotto il nome di Cino da Pistoia e fu ripro- dotta nella Raccolta Palermitana e nella recentissima edizione delle Rime di Cino, Pistoia 1878, a pag. 395. Bl

C. 216. Cantone Cavalleresca. Fu pubbli- cata dal Prof. Rajna nella Zeitschrift fikr romanische Philologie, I, 381 e s. (Intorno a due canzoni gemelle di materia caval- leresca), mostrandone i rapporti con una Canzone del Pucci già pubblicata dal Car- ducci e dal Wesselofsky. Incomincia « Al tenpo de la Tavola Ritonda. » M.

C. 216. Canzone volgare del secolo XI. Sa- rebbe stato meglio riferirla sotto il nome Ritmo Cassinese, ch'è la denominazione con che è più conosciuta. Dopo che dal Federici, fu ristampata dal Grossi, Scuola e Biblioteca di Montecassino (Nap. 1821) p. 202, e dal Caravita, / codici e le arti a AT. C, Tipi della Badia, 1870, voi. II, p. 59. Su que- st* argomento deir autenticità ed antichità del Ritmo, vedi Lettera del Prof. A. D'An- cona a F. Zambrini nel Propugnatore, VII, p. II, pag. 394. Mancano poi in questa Bi- bliografia le due seguenti pubblicazioni di

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kOHAHZA , K.*' 4]

BIBLIOGBABICA

m

Capitale importanza pel Ritmo Cassinese: R Ritmo Italiano di Montecassino del èecolo decimo, Studi di Antonio Rocchi, m^maco hasiliano della Badia di Grotta Ferrata, Tipogr. M. C, 1875, (con fac- dmile cromoiitografico) ; Il Ritmo Cassi" nese di nuovo pubblicato da I. Giorgi e t>. Navone, Roma, Loescher, 1875 (con facs. tfom.) Estr. dalla Riv. di fil. romanza, n, fase. 2. Ottimo è quest* ultimo lavoro, quanto cervellotico Taltro. Aggiungi : Bobh- MBR Eduard, Ritmo Cassinese, in Roma^ fiische8tudien,m, p.l4S (HeflX) Strass- burg, 1878. D'A.

C. 217. Canzone d'anonimo in figura di ^nna che lamenta la partenza del marito nlla crociata. É una stessa cosa col Lamento per la lontananza di un marito passato tuia Crociata in Oriente, notato alla col. 532. Avvertasi che fu riprodotta anche nel Car- bncci. Cantilene ecc. p. 22. D'A.

€.218. Dallo stesso Codice laurenz. che Contiene la Canzone popolare di Lisabetta, LioNARDO Vigo trasse fuori ed inseri nelle Kuove Effemeridi Siciliane , .11 , pag. 330, tin* altra Canzone popolare che comincia: « Bella, ch'ai lo viso chiaro ». Il Prati, da lui interrogato, « e che sta come sole su tutti i linguai, la giudicò del 1100»; ma il Vigo più discreto contenta di tenerla coeva o tìi poco posteriore a quella di Giulio d' Ai- tiamo. Quanto a noi, per più ragioni la di- l^mmo della seconda metà del 300. D'A.

C. 223. Capitoli della confraternita di S. ^aria Recommandata de la Pescara de Ma^ fo/une.Trovansi riportati da pag. 340-344 fra 1 Documenti in appendice alla Storia di Ga^ lazia Campana e di Maddaloni di GiA- biNTo Db Sivo. Napoli, 185^1865. Sulla t)ergamena originale era stata aggiunta la data del 1150; la scrittura però sembra es- sere del secolo Xni. M.

C. 227. Carte (due) inedite in lingua sar- 3a dei see. XI e XIII, Il compilatore dice non aver veduta la tiratura a parte di que- 8t' opuscolo dall' .4rc^. Stor. Gioverà al- taleno sapere che queste carte furono stam- pate dai Sig.* Leopoldo Tanfani, archivista a Pisa, neWArch, Stor, Ital. Ser. 3, t. XIII, p. 357 (a. 1871).

Un Documento in dialetto sardo dell* an- no 1173 fu pubblicato di sulP originale dal

prof. Edm. Stengbl nella Riv, di fiM, rom, I, 52, (1872), e già anche prima, ma assai scorrettamente, era stato stampato dal Tronci nelle sue Memorie istoriche della città di Pisa, a pag. 173 della ediz. ( Li- vorno, 1682, onde fu riprodotto nel Codecs Diplom, Sard. I, 243) « a pag. 348, voi. I, della 2* ediz. (Pisa, 1868). D'A.

C. 228. Carta di tregua d un anno fra vari potenti signori occupatori di varie città, terre e castelli della Marca ed alcune Comunità. Porta la data del 9 Novem. 1393. Trovasi a pag. CXLVIII della Appendice diplomatica alle memorie storiche di Ri- patransone, che fu inserita dal Colucci nelle sue Antichità Picene, tomo XVIII, Fer- mo, 1792. M.

C. 230. Cassiamo Giovanni, Serventese. Perugia, Vagnini, 1852, in 8*^ di pagg. i4. Fu tratto da un codice della Biblioteca Do- minicini di Perugia e pubblicato in occasione di vestizione, ma non appare da chi. É la stessa composizione di cui a col. 935: Serventese del secolo XIV, M.

C. 232. Castra. Aggiungasi che adesso la canzone che Dante dice esser stata composta dal Castra fiorentino, e che il Cod. Vatic. attribuisce a Messer Osmanno, trovasi nel l** voi. delle Antiche Rime volgari sec, la lezione del Cod, Vat. 3793, pag. 484. Ivi si tocca della congettura del prof. Grion, menzionata in proposito dallo Zambrini. Vedi altra congettura su questo Osmanno in Borgognoni, Studi d* erudizione e d'arte, voi. II, 190. D'A.

C.250. Cavalca Domenico (Fra). Del Pungilingua sono indicate due diverse edi- zioni fatte in Firenze nel 1490, V una da Ser Lorenzo di Matto e Gio. di Piero Todesco, r altra da Ser Lorenzo Cherico; ma chi ne diede notizia incorse in errore, poiché non si tratta che d*una stessa stampa nella se- gnatura tipografica della quale trovasi in- sieme al nome di Gio. di Piero quello di Ser Lorenzo di Mattio Cherico, che nelle edizioni posteriori si chiamò più brevemente Lorenzo Morgiani. Non sarebbe corso un altro errore consimile nella indicazione delle due edizioni fiorentine del 1493? Noto, seb- bene poco importi al nostro argomento, che il G. C. Bottone al quale dobbiamo le no- tizie più accurate sulle diverse stampe delle

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Si

BASSEGNA

[OIORKALE DI FILOLOGA

opere del Cavalca, non è altrì che TAudif- fredi che, non so per qual ragione, volle celarsi sotto questo pseudonimo. M.

C. 261. Cavalcanti Ouroo. Il Mamiani ò senza dubbio autore del Liuto, ch*egli volle dare come cosa del poeta fiorentino, leggia- dramente imitandone la forma specialmente poetica. D'A.

C. 262. Cecco d'Ascoli. Aggiungi alla in- dicazione del lavoro postumo del mio povero Frizzi, anche quest'altra: Spalazzi Prof. GtiovaNnt: Cecco d'Ascoli, quadro storico délsig. Giulio Cantalamessa , Ascoli Pice- no, Carli, 1876. D'A.

C. 263. Cedola secondo vuole essere facta la rocca de Castello de la Pieve,

Questa scrittura fu pubblicata nel Gior- nale d' Erudi 3 ione Artistica 1873 pag. 68-9 dal Prof. Adamo Robsi, e contiene le istru- zioni date dai magistrati di Perugia in data del 28 Ottobre 1326 agli artefici che atten- devano a quella costruzione. M-

C.267. Il Giulio Antimaco, editore no- vello della Cronaca di Chioggia , che lo Zambrini non sa « proprio indovinar chi sia > è il povero Eugenio Camerini, ch'ebbe e adoperò tanti pseudonimi da farne far lun- ga lista ai futuri p. Aprosi. V. anche col. 309 a Cronaca d* Orvieto, D' A.

C. 278. Cmo da Pistoia. La Lettera agli operai di S. Iacopo erasi già pubblicata col nome di Gino Sinibaldi nella Baccolta d*opU' scoli del CaloobrA., ma il Ciampi stesso in una nota posta alla fine della parte VI avverti d'aver trovato che l'autore di essa era un Gino di Mario Tebaldi ben diverso dal Gino poeta, col quale fu confuso anche in qualche altro capitolo. Qui poi merita di essere an- che ricordato il seguente scritto: Sopra una canzone di Cino da Pistoja altre volte at- tribuita a Guido Guinicelli; lettera del prof. Pietro Canal. (Estr. dagli Atti del R, Istituto veneto di sciente, lettere ed arti, t. Ili, ser. V.) M.

C. 282. CiULLo d'Alcamo. Per la bibliogra- fia di Giulio, alle pubblicazioni notate dallo Zambrini aggiungasi (intralasciando le altre qui non menzionate, ma di che feci parola nel mio scritto in proposito, contenuto nel I* voi. delle Antiche Rime volgari): Gaix, CiuUo d* Alcamo e gli imitatori ddle Romanze e Pastorelle francesi in Nuova Antologia ^

Nov. 1875. Gaix , Ancora del Contrasto di CiuUo d'Alcamo, Firenze, 1876, Estr, dalla Rivista Europea. Bartoli, Di una nuova opinione intomo al Contrasto di CiuUo d'Alcamo, in Riv, Europea, Apri* le, 1855.— Fr. Maria Mirabella, Xa Can» sona di CiuUo d'Alcamo chiosata e comen» tata, Alcamo, Pi pitone, 1872. Aggiungati ancora: Oscarrb de Hassek, Vetà, la Hnm gua, e la paternità del Contrasto d'Amore attribuito a CiuUo d'Alcamo, Trieste, Ca- prin, 1877. (Estr. dalla Rivista Triestina), Notisi che questo signore de Hassek altro non ha fatto che saccheggiare il mio lavoro: salvoché, io parlai prima delle Costituzioni ov' è contenuta la Defeusa e poi degli Ago* stari, ed egli prima degli Agostari e poi della Defensa. Ma malamente copiando e pani* frasando, a pag. 11 dice: « Nel 1231, coma PIÙ SOPRA ABBIAMO ACCENNATO, l'Impera* tore pubblica solennemente in Melfi le nuova Costituzioni»; e ciò avevo già detto io, non egli, che ne parla invece a pag. 17! Aggiun- gasi ancora questi altri due scritti, poste- riori alla pubblicazione dello Zambrini f cioè: Gaix, Chi fosse U preteso CiuUo d* Alcamo^ Firenze, 1879 ( Estr. dalla Riv. Europ.); ViQO, Appendice alla disamina e al oo^ mento della tenzone di Ciullo d' Alcamo, Alcamo, Pipitone, 1879. D'A.

C. 288. Colonna Guido, Storia deUa guer* ra di Troja. Non assentiremmo a dirla « pub* blicazione eseguita con molta cura o diligen- za». Vedi quel che ne accennammo nel Propu» gnatore, 1,626. Basti notare che l'editore Dbl- Lo Russo dice nella Dedica che dell'opera ci hanno « inediti varii volgarizzamenti » ; e su- bito appresso: « Le dette purissime scrit- ture sono diventate rarissime, come che or l'una or l'altra di loro siano state pott« quattro volte a stampai »

Sugli antichi volgarizzamenti della Querra Trojana, vedi Bbnci, nell'Antonia, vo« lume XVIII, p. 44; e Tommaseo pur nel* VAntoL voL XLV, p. 19. D'A.

G.303. Conti (dodici) morali d'anonimo senese. Essendosi accennato all'origine di uno di questi Conti data dal Mussafia , gio* vera soggiungere che quelle di quasi tutti i rimanenti furono date da R. Kóhlbr, nella ZeiUchrift del Qbòbbb, I, 365.

D'A.

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■OICAK2A, H.*" 4J

BIBLIOGBAFICA

85

C. 307. Costituzionibenedettinedell2^. L* editore è Castorina , non Castorino» Sulla strana pretesa delP editore che questo testo risalga, non che al 1254, ma anzi al 1096, e snlla maggior probabilità che essen- dovi rammentata la festa del Corpus Domini isti tolta nel 1264, siano le Costitusioni, come anche altri giadicò,del 1360 circa, vedi un art. bibliografico nella Nuova ^nto^ta,ann. XI, 2* 8., voi. Ili , p. 219 ( SeU. 1876). D' A.

C. 909. Cronica degli imperatori. Que- sto medesimo testo fu pubblicato dallo stesso editore sig. A. Cbruti neWArchivio Olot- tologico, Tol. Ili, pag. 177-243, con annota- zioni deir Ascoli. M.

C. 315. Dante Alighieri. Comedia. Del- la Comedia ▼* hanno due edizioni rimaste sconosciute anche al Db Batines; Tuna di Brescia, Bonino di Ragusi, 1847, in f. (Gor- •in. 51. G. 10); T altra di Venezia, Paga» nino, 1513, in 18.» M.

Vita Nuova. Mi sia lecito rettificare aiciine inetattesze nelle quali è caduto Tegre- gio bibliograib, descrivendo la mia edizio- ne dell* opera dantesca. Ciò che è a piedi pag. sotto il testo, non sono veramente note ma rarie lezioni, e ehi vi lavorò attorno fu il Prof. Pio Rajna, non il Prof. Carducci. Il quale invece ebbe parte nelle Annotazioni che sono raccolte dopo la Vita Nuova, e quelle a lui appartenenti vanno distinte con asterisco. D'A.

Credo, Alle diverse ediz. descritte dallo Z. se ne può aggiungere una, ch*io credo scono- sciuta, la quale presenta una grande somi- glianza con quella ch'egli registra come terza e ne differisce solo nel titolo lievemente di- verso, e nelle pagine che sono di sole 28 linee (Corsin. 51. B. 42). Il titolo è questo: Cre- do che dante fece | quando fu accusato per heretico essendo | a Rauenna allo inqui- sitore.

Anche in questa stampa, come in tutte l'altre che ho potuto vederne,- il Credo è preceduto da alcune terzine che narrano Toccasione di esso; solo il Gamba ricorda una stampa nella quale era accompagnato da un sonetto j ma probabilmente egli prese abbaglio e T edizione da lui veduta è forse quella stessa descritta dallo Zambrini come Msta, la quale contiene anch'essa le solite terzine. Sotto il nome di Dante avrebbe

meglio potuto registrarsi la pubblicazione del WiTTB, di cui a col. 876, recentemente ristampata insieme con altri studi danteschi nelle sue Dante* s Forsckungen, M.

C. 361. Dei Alberto. Il De Angelis, nel pubblicare il sonetto ch'egli riferisce col nome di questo autore, avverte d'averlo tratto da un manoscritto della Comunale di Siena, nel quale notavasi ch'era stato copiato da un codice Chigiano. Nei diversi canzonieri della Chigiana non m'avvenne mai d'incon- trare il nome di questo poeta, vi si trova però la poesia a lui attribuita ma sotto il nome di Messer Alberto degli Albizzi; e si può quindi credere, senza tema d'errare, che l'Alberto Dei non è che un parto delia tra- scuratezza del copista del ms. sanese. M.

C. 365. Devozioni (Due) antiche, Sooouna sola e stessa cosa colle Due Bappresenta" zioni Sacre pubbl. dal Palermo e notate alla col. 856. Che il Palermo non opinasse « ragionevolmente » supponendo che fossero state scritte dapprima in dialetto romano, e posteriormente voltate in padovano, vedi nelle mie Origini del teatro in Italia, voi. I, pag. 167. D'A.

C. 365. Diario d* anonimo fiorentino. Prima dell'intera pubblicazione di questo Diario fatta dal Ohbrardi, ne era stata data fuori qualche parte solo dal Mehus nella Vita di Lapo da Castiglionchio cui a col. 231. Sull'autore di esso T egregio edi- tore non arrischiò alcuna congettura , troppo scarse essendo le notizie che di stesso egli nel proprio lavoro. Si sa ch'egli fu popolano, del quartiere d'Oltrarno, e si può crederlo addetto alla Signoria dalle mi- nutissime notizie eh' egli su tutto ciò che da essa operavasi. Quest' ultima avvertenza farebbe pensare ad uno scrittore popolare di quei tempi, la cui poesia s'ispirò bene spesso agli avvenimenti della patria sua, ed il cui nome ci è pur richiamato dinanzi da altri argomenti. 11 buon diarista inserì nella sua narrazione un cantare storico ed un sonetto nel quale s'invoca vivamente la pace; può essere ch'egli raccogliesse da altri que- ste composizioni , delle quali credeva me- ritevole il serbare memoria, ma la corrispon- denza di sentimento che corre fra esse ed il resto del lavoro, potrebbe indurre a credere ch'egli stesso ne fosse l'autore. In questo

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86

BAS8EGNA

[aiOHNALB DI FII.OLOeU

caso suo nome non ci sarebbe più ignoto, poiché il sonetto appartiene di certo ad An- tonio Pucci, sotto iJ cui nome fu pubblicato dairALLAcri, ed anche il cantare parmi che abbia assai della maniera di questo poeta. Se ciò potesse essere, si spiegherebbe facil- mente un altro fatto, la corrispondenza cioè che corre fra il poemetto del Pucci sulla guerra tra i Pisani e i Fiorentini ed il rac- conto che di questi avvenimenti trovasi nel Diario, la quale fu avvertita solo in parte dal Gherardi e che non so come potrebbe in altro modo spiegarsi.

Ma su ciò a me bastiselo l'accennare, e mettendo innanzi questa mia congettura vor- rei sperare che altri potesse con maggiori argomenti stabilire, quanta probabilità essa possa meritarsi. M.

C. ^08. Diftcorso d'autore incerto. Trova- vasi già a stampa nelle Delizie degli eru- diti ^ t. IX, p. 274. M.

C. 369. Documenti Veneziani (Anti- chi) raccolti da L. Pasini e pubblicati da B. Cecchetti. Trovansi nel tomo XV degli Atti dell* Istituto Veneto. M.

C. 3SÌ. Drusi Agatone. Il sonetto « Se'l grande avolo mio che fu *I primiero », che fu tirato tante volte in campo per sostenere la priorità della poesia toscana, fu messo fuori per la prima volta dal Giambullari nel GellOf ma già gli negarono fede il Crescim- beni ed il Salvini ed oramai credo sia la- sciato affatto in disparte. Non so qual fede possa meritarsi il Trucchi che di questo poeta pubblicò un nuovo sonetto indirizzato a Gino da Pistoia dicendolo tratto da un co- dice Laurenziano Palatino 118, di cui non conosco proprio l'esistenza. M.

C. 381. Drusi Lucio. Di questo autore anche il Crescimbeni non ne conosce più che il nome. M.

C. 385. Elia (Frate). Di costui non si ha a stam[)a elio un solo sonetto che il Crescimbe- ni trasse da un manoscritto moderno di Ippo- lito Magnani contenente il suo trattato in- titolato Lapis philosophorum. Il sonetto non presenta punto tracce di remota anti- chità, ma per giudicare se questo sia argo- mento bastante da ritenerlo apocrifo, o se non si debba solo ad un rammodernamento del copista, bisognerebbe rintracciare noti-

zia di questo trattato di cui non mi Teane mai a mano alcun codice. M.

C. 386. Ensblìcimo da Tkbviso. NcMa BìbL Corsiniana trovasi colla aegnatara 51. E. 24, una edizione del Pianto della Madonna affatto seonosoiuta, la qaaU s* accorda eoa quella del 1481 oeirattribairla a questo poata anziché a Leonardo Giustiniani, coma tk Tediiione più recente del 1505. É ia 4.«, di fogli 30, s. I. n. a. ma indabbiamente ^ sec. XV. Manca ogni intestaiione, comincia 8enz*altro : « Ve regina virgo gloriosa »; alia fine del f. 27 v. « Explicit uòrgeni» baaU lametatio A intacte \ uulgariter compilata cum ritimis prolata ore \ frairis Etnei' mini de triuisio ordinis fratrum \ here- mitarum sancti Augustintj^ AI principio del f. 28: « Incipit oratio siue grmiiarum odio supra I dicti compillatoris » , la quala co* Ynincia: « Nelle braccia toi Tergine Maria »« Al f. 30 : « Finisse il deuotissimo pia \ to et la gloriosa uergine | Maria cum summa dilige I tia impresso ». Segoe il Rboistum. Avrei desiderato di poter dar qai qaalcke maggior notizia sni poema deiriBAinxia del Salvatore attribuito pure ad Enselmino nella stampa romana del 1541, ma bod mi riuscì di trovarla neppure nella Vaticana dove ora conservasi la biblioteca Capponi , dal Cata- logo della quale Io Zambrini n^ebbenotint. Vorrei sperare che altri più di me fortunato potesse rintracciarla e dire se questo poema sia quello stesso che ne* manoscritti trovasi spesso riunito agli altri poemi della Pasaioae e della Rieurresione. M.

C. 405 Fbdbrioo di M. Gbbi d'Aiibzzo. Pubblicò alcune sue poesie anche il Trucchi volume II, pag.252, annoverandolo fra i poeti del quattrocento, senza però addurre argo- mento in appoggio della sua opinione. Il Crescimbeni ed il Carducci lo pongono tra i trecentisti contemporanei del Petrarca, sotto il nome del quale furono pubblicati diversi sonetti, che nei codici stanno sotto il nome di lui. A un Federigo d'Arezio sono indi- rizzate due lettere del Petrarca ( Sen. IV, 5; VIII, 7) dalle quali s* avrebbe indizio a cre- derlo poeta; nulla s* oppone a tenerlo usa stessa persona che il Federigo di Messev 0eri. H.

C.410. Fiore<^ Fiorita. DiìmnfmùmbaÉa

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N.*» 4J

BIBLIOQEAFICA

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in ottava rima della Fiorita diede notizia e qvalohe saggio il Rajna {Il Cantare dei Cantari eoo.) nella Zeitechrift del Grobbr, n, «42 e segg. D'A.

C. 412. Fiore di virtù. Alle diverse stampe di quest'opera fatte nel sec. XV e registrate dallo Zambrini se ne deve aggiungere un* al- tra rimasta sconosciuta al più diligenti bi^ bHografi, noterole per aver preceduto le altre due edisioni già conosciute, uscite da- gli stessi torchi. Riferisco il titolo del* Peperà quale si trova al principio del se- condo foglio, perché l'esemplare ch'io ho potuto esaminare, conservato nella biblioteca Coreiniana colla segnatura 51. F. 52, è man- cante di quattro fogli, fra i quali il primo, ohe doveva però contenere solo il titolo del- l'opera, poiché il testo non presenta alcuna mancanza:

Cementia vna opera chiamata fiore de Hrtu : la qttale tracia de \ tutti gli viiii humani: gli quali debono fugire gli ho- mini che deside \ rano vivere secondo dio etc. Al penultimo foglio : < Finisse el libro Riamato fior di virtù lo quale ha impresso Matthio \ di codeca da panna é Bernardino di pini da chomo in uenesia adi \ XI de luio MCCCa LXVXV^, Alla sottoscrizione seguono le rubriche del libro che occupano tutto il recto dell'ultimo foglio. Consta di f. 32, in 4.» di linee 38 nelle facce pienc^ con registro da a a (i, tutti quaderni, mancano però le segnature a iiij d iiij. M.

C. 427. FOLCAOCBlBRO db' FOLCAGCHIBRI.

L'età vera di questo poeta (metà del sec. XllI) è chiarita nella importante pubblicazione: Fo/- eaoohiero Folcmxshieri, rimatore senese del sec. XIII, Notizie e documenti raccolti da CxmzK> Maxzi^ Filrenze, Successori Le Mon*- nier, 1868 (Nozze Banchi-Bri ni). A j)ag. 13 trovasi anche la Cansone, unica che si co- conofca di lui, secondo la lezione del cod. vado. 8793. D'A.

C.428. FoEBfiTAMi SsaDiNi, M. Simone. Il De Angelis pel primo e dopo lui ì^ Milanesi e il Sarteschi avvertirono che due furono i poeti di questo nome, l'uno de' quali visse quasi interamente nel secolo XV; però nei ■taaosortlti le poesie di ambedue si trovano fraainiischiat« fra loro in modo che torna difficile .il distingoere quali possono appar- tenere all'uno o air altro.

Alcune poesie pubblicate sotto questo aome sono indicate dallo Zambrini sotto Poesie Minorile Rhneàx PieraccioTebaldi. Delle poesie contenute nella stampa descriita dal Libri v'ha un'altra edizione del secolo XV, nella quale manca T indicazione dell'autore della Disperata. Io non potei esaminare che un frammento di sole 4 carte, la prima delle quali, segnata a ii, è in carattere semigo- tico, in 4.*>, a due colonne di linee 37 (Ca- san. 0. II. 99). Sconosciuta pure è una edi- zione del secolo XVI fatta Iti Firenze. Ap- presso alle scalee di Badia, il contenuto della quale è quello stesso della stampa del 1584. È in 4.°, di carte 4, a 2 colonne, di linee 48, con registro A 2 (Alessandri- na, XIIL A. 37). M.

C. 439. Francesco da Orvieto. La canzo- ne che il Lami pubblicò "-otto il di lui nome, è quella che incomincia « Io non descrivo in altra guisa amore » che appartiene indubbia- mente a Al.r Francesco da Barberino e tro- vasi al line de' suoi Documenti d'amore: quindi credo che resistenza di questo poeta non abbia altro fondamento che l'errore d'un copista malaccorto. M.

C. 445. Frottola di tre suore. La credia- mo più probabilmente scrittura del XV se- colo. D'A.

C. 447. Galliziani, correggi ; Messer Ti- BBRTO. D'A.

C. 448. Garbo (Dino del). Anche qui per inavvertenza fu conservato un brano che in questa edizione non avea più ra^^ione di es- sere, giacché il Trattato sopra la pistolen- zia di Tomaso di Dino del Garbo fu pub- blicato già dal 1866, come è notato al ca- poverso che segue immediatamente. M.

C. 449. Garisendi Messer Giikharduc- cio. 11 sonetto pubblicato dal Galvani era pia edito, come lo erano del pari gli altri due sonetti contenuti nel suo codice ora posseduto dal Conte Manzoni. M.

C. 450. GAZ2AIA (della) Tommaso. Que- sto poeta, secondo che vorrebbe il Borgo- gnoni ne' suoi Studi d'erifdizione e d'arte, voi. I, pag. 35, apparterrebbe piuttosto al secolo XV, essendo, com'egli afferma, morto nel 1432. A questa asserzione non manche- ranno valide prove, ma non conoscendole non posso negar fede al De Anoeus, cke nel suo Catalogo dei testi a penna pag. 175

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RASSEGNA

[OIOBRALK DI FILOLOflU

e 218 dice di posseder egli stesso un codice autografo delle rime di questo poeta, conte- nente purediverse poesie del Bonichi , scritte nel 1367. Fra le due date v'ha troppa di- stanza per poterle conciliare fra loro; que- sta seconda però potrebbe forse sembrar più probabile^ togliendo innanzi la necessità di quell'ipotesi del Bilancioni riportata dal Borgognoni; poiché, se Messer Tommaso vì- veva nel 1367, poteva bene aver conosciuto il Bonichi prima del 1330 od in quell'anno medesimo. M.

C. 456. Ghbrardo da Firenze. Qui e alle coli. 20 e 765 sono registrate alcune pubblicazioni relative alle Carte d'Arbo- rea. Ne aggiungiamo altre dimenticate od omesse, avvertendo che una abbastanza compiuta bibliografia in proposito, Ano al 1870, trovasi nell'opuscolo, tirato a parte dal Propicgnatore , voi. Ili: Delle Carte di Arborea e delle Poesie volgari in esse con" tenute, esame critico di Girolamo Vitelli, preceduto da una Lettera di Alessandro D'Ancona a Paul Meyer, pag. 17. Dopo d'allora vennero a luce, per quel che sap- piamo, le seguenti pubblicazioni:

Le Carte d* Arborea e V Accademia deUe Scienze di Berlino, Osservazioni critiche per F. Carta ed E. Mulas (nel Propugna- tore, V, 77-103, 177-214).

Francesco Carta, Appunti critici ad un articolo di Monsignor Liverani sulle Carte d'Arborea, Cagliari, Tipografia del Corriere di Sardegna, s. a. ( L'articolo del Liverani è nella Rivista Europea del Dicembre 1870). Le poesie italiane del- le Carte d* Arborea e il sig. Girolamo Vitelli. (Estr. dal Corriere di Sardegna, s.a.)

Carlo Baudi di Vesmb, Osservazioni intorno alla Relazione sui m^. d'Arborea pubbl, negli Atti della R, Accademia delle scienze di Berlino.^ Intorno all'Esame critico delle Carte d'Arborea di GiroL Vi- telli, Torino, 1870. Seconda Poscritta alle Osservazioni intorno alla Relazione pubblic. ecc. Estr. ààìVArch, Stor. ItaL( ove furono riprodotte anche le prime Osserva- rioni, ser. t. XIV).

Prosa e poesie italiane della Raccolta Arborense con un pensiero di Vincenzo

Fiorentino, Napoli, Nobile, 1870. fiicfle Carte d'Arborea, Prefazione di Yivceìoo Fiorentino, Firenze, Le Monnier, 1874.

La quistione delle pergamene e dei codici di Arborea, Lettera del Prof, Francesco Randagio, Palermo, Tipog. del Giornale di Sicilia, 1871. (Estr. dalle Nuove Effemeridi sicil.) Intorno alle Carte d'Arborea, altre considerazioni del Prof. Francesco Ran- dagio, Cagliari, Tipogr. del Corriere di Sar^ degna, 187i.

Lo scritto del Prof. Borooomoni, intit I poeti italiani dei codici d'Arborea, stamp. primamente nel 1870, è riprodotto nei suoi Studi di erudizione e d'arte, Bologna, Ro- magnoli , 1878, voi. II, con una Poscritta, pag. 67. Qui è detto , e ne godiamo, che lo Zambrini, « so e posso dirlo senza tema d' io- discrezione, anziché nel campo de' propu- gnatori delle Carte, veglia nel campo av- verso » : ma ciò non avremmo sospettato dal vedere come l'egregio uomo annunzia le scrit* ture in proposito del Martini e del Vesme. Meglio eosìi poiché il suffragio di nomo intendente dell'antica letteratura non è certo di piccol peso.

All'elenco sopracitato del Vitelli ag- giungasi : Sulle Carte d'Arborea , lettere dd Prof Luciano Scarabblu o/ Cav. Pietro Fanfani, Cagliari, Tìmon, 1865.

Sentiamo che recentemente il sig. Ghiviz- ZANI abbia ripreso a difendere, e nientemeno a fronte del Mommsen , la goffa falsificazione arborense: ma ormai ci par causa persa, e tempo più che perso l' ulteriormente occu- parsene. Meglio sarà vedere ciò ohe dice su questo proposito il prof. Adolfo Bartou in appendice al voi. II deWsi tua Storia delle Letteratura italiana, voi. Il, pag. 389, Fi- renze, Sansoni, 1879. D'A.

C. 461. Giacomo Notaro. Le indica- zioni date sotto questo titolo si devono riu- nire a quelle date a col. 507 sotto Iacopo DA Lentino, che è la stessa persona, e si veda pure a col. 749 sotto Parlantino. M.

C. 461. Giacomino Puolibsi. Vedi a col. 850: Pugliesi Iacopo. Che costui fosse da Prato lo asserirono i primi editori, ma senza altro fondamento che il ritrovarsi colà una famiglia di tal nome, e tale opinione parmì oramai abbandonata da tutti. M.

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BOMANSA, N.*» 4]

BIBLIOGRAFICA

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C.475. Giovanni (Messer) di Gherardo DA Prato. Dopo di ciò che il "Wbssrlofsky disse di questo scrittore nei Preliminari al Paradiso degli Alberti^ si può ritenere es- sere egli una stessa persona col Giovanni da Prato, di cui a col. 475, e colFAcquet- tini, di cui si trovano diversi sonetti in al- cune delle antiche edizioni del Burchiello e In quella del 1757; ma per esser egli fra i contemporanei del barbiere fiorentino do- vrebbe piuttosto esser posto fra i quattro- centisti. M.

C. 475. Giovanni Fiorentino. Si riferisce che il Poggiali trovò il nome di M. Giovanni Fiorentino in un antico poema intitolato: Istoria del mondo fallace, e dubitò potesse esser l'autore stesso del Pecorone, Avver- tasi che la sottoscrizione Joanw^* dictusFlo- rentinus trovasi in parecchi poemetti sacri, cavallereschi e storici stampati in Firenze tra il fine del sec. XV e il principio del XVI. ed è indicazione meramente tipografica. D* A.

C.484. Giuliano Messere. Questo poeta cre- do debba tenersi come contemporaneo al Bur- chiello, poiché nel codice da cui rALLAcn tolse il sonetto ch'egli pubblicò, v'hanno solo poesie di quell'epoca. Forse è lo stesso che Messer Giuliano de Bardi cui si tro- vano alcune poesie in altre raccolte burchiel- lesche. M.

C.485. Gotto Mantovano. Di questo poeta non conosciamo che il nome per la menzione fattane da Dante nel De Vulg. Eloq. e que- sto è tutto quello che di lui ci sa dire an- che il Crbscimbeni, voi. in, pag. 44. M.

C.499. GuiDOTTO DA Bologna. Del volga- rizzamento della Rettorica di Cicerone v'han- no tre edizioni sconosciute tutte prive del pari d'ogni indicazione tipografica, e tanto si- miglianti fra loro che facilmente si potreb- bero confondere ove non si facesse avver- tenza ad alcune lievissime diversità che corrono dall'una all'altra sia nella lezione che nella disposizione delle parolft. Constano tutte di fogli 56, di 24 linee per pagina. Per distinguerle riferisco con ogni esattezza il titolo ciascuna:

COMINCIA LA ELB0ANTI8SIMA | doctrina

de lo excellentissimo Marco Tullio Ci | ce- rone chiamata rethorica nona traslocata di la I tino t uulgare: per lo eofimio Mae^ stro Oaleoto \ da hologna opera utilissima

et necessaria a gli | huomeni uulgari e indocti. ( Corsi n. 51. C. 43).

COMINCrA LA ELEGANTISSIMA DOC | trina

de lo excelentissimo Marco tuli io r ter rane | chiamata rethorica noua traslatata di la- tino in I uulgare: p lo eanmio Maestro Galeoto da bolo \ gna opera utilissima A necessaria agli omeni uulgari e indocti, (Corsin. 51 C. 45).

COMfNCIA LA BLEOANTISSIMA | dOCtrifia de

lo eofcelentissinio Marco tullio cice \ rone chiamata rethorica noua traslatata di la- ti I no in uulgare per lo esimio Maestro Galeoto^ da bologna opera utilissima d ne- cessaria agli I omeni uulgari e indocti, (Casanatense K. I. 21).

Quest' ultima stampa ha registro da a ad /" tutti quinterni. É notevole che mentre in tutte queste edizioni il volgariuatore nel ti- tolo ò chiamato Galeoto, nel proemio diretto all'alto Manfredi re di Cicilia ò detto sem* pre Guidotto. M.

C. 505. GuiTTONB d'Arezzo. Non il solo sonetto « Quanto più mi distrugge il mio pensiero » non è certamente dell'Aretino: ma SI anche tutti quelli dell' edizione giuntina, in numero di ventinove.

Vedi in proposito di Fra Guittone: Prof. Leopoldo Romanelli, Di Guittone d'Arez- zo e delle sue opere, Campobasso, 1875, e il giudizio non favorevole su questa Disserta- zione nella Nuova Antologia, 2.» s. voi, II, pag. 677 (Luglio 1876). D'A,

C. 506. HuLDOVicus de Ioculo Sancti Georgi, Memoria in volgare del 1842, É una breve notizia di alcune pitture ese- guite in quell'anno in Ferrara, che trova- vasi aggiunta alla fine d'un codice mem- branaceo di Virgilio scritto nel 1198, già conservato nella biblioteca de' Carmelitani di S. Paolo di Ferrara. Fu pubblicata per la prima volta dal Borsetti, Historia almi Ferrariae Gymnasii, Ferrara, 1735, pa- gina 447, e riportata poi dal Narducoi nel Buonarroti, serie II, voi. XII, Settem- bre 1878, pag. 378. M.

C. 506. Iacomo da Montepulciano. É una stessa persona eoi B. Iacopo del Pecora di cui a col. 764, e quindi devono fondersi in una sola le due distinte rubriche. M.

C. 518. Incerti Rimatori. Tutta questa rubrìca andrebbe rifatta, a voler che fosse

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BASSEGNA

[oiOBNALt DI riLOLOOIA

reramente utile, indicaodo i princtpj delle ^ime date come dMnoerto autore, perché si possa ritrovare chi yeramente le ha com- poste. D*A.

C. 524. Intromtà Franobsco. Aoche que- sto poeta deve certamente porsi fra i oob- temporanei al Burchiello. M.

C. 531. Lamento di nostra donna, dm questo titolo trovasi uella biblioteca Casana- tease alla segnatura 0. II. 83 una stampa del secolo XV, di sole sei carte, a due colonne. Sotto il titolo V* ha un intaglio, nel quale è raffigurata la Vergine che tiene in grembo Qesù deposto dalla croce, e di fianco ad essa dalPnno e dalP altro lato vedonsi tre santi inginocchiati; nel fregio leggesi il nome Zanolo. Comincia al secondo foglio una composi rione in ottava rima a forma di dia- logo fra Cristo e la Madonna che principia: e 0 Madre della nostra saluatione ». Al verso del quarto foglio v* ha questa indica- zione: Lamento di nostra donna in altro modo, e sotto di essa un intaglio, in mezzo al quale è rappresentato Oesù crocifisso, agli angoli i simboli dei quattro Vangelisti, e al basso la segnatura tipografica di Martino de Amsterdam, quale fu riprodotta dall*Au- DiFBBDi nel Catalogus romanarum editto- nttm sec. XV, Roma 1783, a pag. 476. Se- gue il Lamento pubblicato dallo Zambrini» che qui però manca di due ottave. M.

C. 542. Lapo Oianmi. Aggiungasi : Rime di Lapo Gianni poeta italiano del sec. XIII, Saggio di una nuova edizione di Oiacomo Tropea, Roma, 1872. D'A.

C. 549. Lauda del buon secolo della lin^ gua in onore di S, Ranieri, Pisa, Nis^i, 1873, in 8.0 di pagg. 39.

Fu pubblicata per cura dell* egregio Prof. Paganini: la lauda incomincia « Reverentia facciamo | Festa Laude et honore | Oggi del confeseore | Santo Ranier che fu nostro Pi* «ano ». M.

Lauda Spirituale del secolo XIV, ca- vata dal cod. Riccardiano 2224.

Fu pubblicata per nozze, in foglio volante, dal Sac. Cav. Pibtro Volpimi, sotto la data deiril Febbraio 1872. La lauda in- oomincia:/K Sorprendiente amor di paradiso» e fa più volte stampata. M.

Lauda del Beato Oherardo di fra

Bartolommeo da Pisa non mai fin qui stampata.

Incomincia « Ciascun devoto cuor si dee svegliare », fu inserita nelle Nuove Effeme* ridi Siciliane, fase settembre-ottobre 1871, pag. 173, da Salvatore Cocchiara che la trasse da un codice della seconda metà del secolo XIV, del Sac G. L. Re, contenente la vita e miracoli del Beato Gherardo in 7 capitoli.

Lauda del secolo XIV in dialetto cre- monese. Fu inserita dal D. F. Robolotti nella Grande Illustrazione del Lombardo Veneto di C. Cantù. Milano 1858, t. Ili, pag. 431. Un frammento d*una Lauda tro- vasi riportato in una lettera di Giuseppe An- tonio Vogel, dal Leopardi avuto in oonto di maestro, pubblicata da G. Cugnoni nelle Opere inedite di G. Leopardi, Halle, Nieme- yer, 1878, voi. I, pag. LXXXVII. Fu tro- vata a Matetica al rovescio d*una pergamena del 1256. L* importanza di questo frammen- to e come documento dialettale e per la sto- ria della drammatica mMnducono a ripor- tarlo:

Cristo. KU per la primn peoosta Men padre fo ordenatu Kio foste morte e giudicata Per la prima peccatore.

Maria. Questa peccata ben me costa

Noeta di a legere questa emposta Kio vedesse la tua costa ferire De lanza et de baatore eoe.

M.

C. 550. Laudi de Bianchi, Sei laude riferite dal Sercambi nella sua Cronica e cantate nelle processioni dei Bianchi furono pubblicate dal Bini nella sua Storia della Sacra Effigie, Chiesa e Compagnia dei SS, Crocifisso de* Bianchi, Lucca, Giusti, 1855, pag. 77-83. Incominciano la prima « Nuova luce è apparita », la seconda « Signor nostro onnipotente », la terza « Vergine Maria bea- ta », la quarta « Mieericordia etemo Dio », la quinta « Questo legno della Croce », la sesta « Peccator tutti piangete. » M.

C. 572. Leggenda di S, Margherita, La re- dazione in ottava rima pubblicata dallo Zam- brini trovasi con qualche diversità in una antica stampa conservata nella Caaanatense alla segnatura 0. II. 106. Essa non porla

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BOMAITKA, N.** 4]

BIBLIOGBAFICA

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alcuna tndìoazioBe tipografica ma TAuDiPRiiDt la credè fatta in Roma in sul finire del se- colo XV. Manca di titolo, e comincia sen- z'altro la narrazione con nna invocazione « Patre eterno che lo mondo creasti» che non trovasi nel testo datone dallo Zambrini; consta in tutto di 63 ottave. É in caratteri semigotici , in 4o, di carte 4, la seconda delle qnali segnata a 3, 9, 2 colonne di 4 ottave ciascuna. M.

C. 603. Lbvi Pbbotti Giustina da Sasso- PBRRATO. Di questa poetessa non si conosce che un sonetto indirizzato al Petrarca che in- comincia « Io vorrei pur drizzar queste mie piume», al quale il Petrarca avrebbe risposto col suo « La gola e M sonno e Tociose piu- me ». Fu pubblicato per la prima volta dal Tom ASINI, Petrarcha redivivu$, Pa* dova, 1635, al quale fu mandato da Mons. Torquato Perotti vescovo d'Amelia insieme a diffuse notizie sulla di lei vita. Ma come mal allora può credersi ciò che il Tomasini stesso riferisce, che nulla potesse risapere di lei neppur nella patria sua il Card. Silvio Antoniano che di ciò avea avuto incarico da Papa Clemente Vili, cosa davvero af- fatto sconosciuta ad ognuno? Intanto nes- suna notizia di lei s' ha nei tanti canzonieri petrarcheschi che si conoscono, e ciò è, a mio credere, argomento bastante per negare resistenza anche di questa poetessa, almeno sino a che non se n'abbiano prove migliori e meno sospette. M.

C. 6S81. Libro di Novelle, Lo Z. seguendo il Papanti, registra una edizione milanese del Novellino fatta nel 1872; ma in questa data corse certamente un errore tipografico, poiché essa mal s'accorda col nome del- r editore. Il Passano riporta questa stampa al 18S2, e avverte che la stessa composi- zione servì ad un' altra edizione in 16*, pub- blicala colla data del 1831, per far parte della Libreria Economica edita dal Bottoni.

Sulla edizione giuntina poi del Nooellino è da vedersi G. Buoi, Il testo Borghiniano del Novellino, Lettera al Prof. A. Bartoli, nella Rassegna Settimanale, voi. I, N. 12 e a parte, dove si prova come il testo di quella edizione non meriti alcuna fede. M.

C. 627. Libro dei sette savi. È da vedersi pure iJ lavoro del Prof. Ra jna, Di una <

siòne inedita dei sÉtt0 saH nella Romania, N. 26 e 27. M.

C. 633. Livia Cbtavblli. Meglio avrebbe potuto registrarsi sotto Cria vbi^li. Il sonetto « Rivolgo gli occhi spesse voHe in alto » fa pubblicato dal Cinblli nella sua Bikiio^ teca volante, acansia XIV, Venezia, Al- brizzi, a pag. 61, e dice di averlo avuto dal Padre Appiani, che l'avea trovato fra alcuni antichiseimi manoscritti esistenti nel Duomo di Ascoli: la lezione però è quella stessa già datane dal Gilio. M.

C.637. Madonna Lionessa, Cantare inedi- to del sec. XIV. Dice lo Zambrini: « Forse è lavoro di Antonio Pucci ». Nella pubblica- zione intitolata: In lode di Dante, Capitolo e Sonetto di Antonio Pucci, Pisa, Nls- tri, 1868, a pag. XIII avvertii che nel cod. Kirkup r ultimo verso del Cantare dice espressamente: « Antonio Pucd il fieci al voetro onore. » D'A.

C. 643. Mala volti Pwtro. L'esistenza di questo poeta è dovuta ad un errore del copista o deir editore, poiché il sonetto pub- blicato sotto il di lai nome trovasi neH'AL- LAcci e in diversi codici fra quelli pure in- dirizzati al Sacchetti da Andrea di Piero Malavolti. M.

C. 655. Matteo Corbbcmio. Due canzoni di lui stanno fra le Poesie minori del secolo XIV: incominciano « Udirò tuttavia sanza dir nulla», «Gentil madonna mia speranza cara ». M.

C. 656. Mazzino hi Antonio da Pbrbtola. 11 nome di questo scrittore sfuggì alla diligen- za dello Z. ma pur non si poteva trascurare di menzionarlo dopo che il Buoncompaqni nel suo lavoro Intorno ad alcune opere di Leonardo Pisano, Roma, 1854, pag. 348 e seg., pubblicandone alcune poesie, rivendi- oava a lui anche quelle già pubblicate dal GiGU col nome d'un Maestro Antonio aris- metra e astrologo, che questi credeue non esser altro che M. Antonio da Ferrara, sotto al cui nome anche lo Zambrini registra que- ste indicazioni. M.

C. 664. Miraeolide la gloriosa vergenemet^ ria. L'ediz. principe di quest'opera è certa- mente quella fatta ih Vicensa nel 1475, poi- ché l'edizione del Lavagna indicata dallo Z. «oUa dtfta del 1469 appartiene, come

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EASSEGNA

[aiOBNALK DI PILOLOOU

egli stesso avea snppotto, al U79: la qoal data leggesi assai chiaramente in no esem- plare eh* io potei esaminare. è merari- gha che lo stesso editore pubblicasse nel se- guente anno un'altra ediùone di quest* opera tanto diffusa nel medio ero. A Vicenza pure spetta Tedizione del 1476 registrata dai bi- bliografi come fatta in Firenze, su di ciò pnò essenri alcun dubbio, poiché sulF ultimo foglio di essa leggonsi questi rozaissimi versi :

Vrbe Tincentle dove stato impronta

L opra beat» de mlraouli tanti. Di quella ohe nel del monta e dismonta

▲oompagnata con gli ansali e santi. Zoane de reno qniui si oonta

E stato el maestro de ai dolce canti. Setanta sezto qnatroclento e mille

Kalende septembri facendo el sole fanille.

Non saprei quali relazioni abbia questa stampa colla antecedente; noto che in essa ▼' è il capitolo VI : « D'una donna giouèna la quale salutaua ogni sorno tre fiate: La madre de ieru ofpo », che manca in gran parte delle edizioni posteriori; mancano in- vece due capitoli al fine; i capitoli XXVII e XXX Vili sono dovuti ad una confusione tipografica. Nella Casanatense alla segna- tura K. VII. 13 v' é una edizione che porta alla fine questa nota: « finiscono li miraculi de la vergene maria li quali sono im^ pres I si in cita de tarvisio per | lo dili" gente homo ma | estro michele manzolo da parma \ anno MCCCCLXXX a vin\ ti- nove de avrile ». É in 4o, di f. 52 di linee 34 con registro da a a ^ quaderni meno e g duerni. È una riproduzione dell* altra edi- zione pubblicata dallo stesso tipografo nel- Tanno 1479.

Altre edizioni sconosciute sono le se- guenti. L'una in 4®, di carte 55, di linee 33, porta al fine questa nota « Finiscono li mi- raculi della vergene Maria li quali \ sono impressi Anno MCCCCLXXXIII a di XIIIJdeIulio9;Begxie la tavola dei richiami di registro. Sebbene manchi ogni indicazione di luogo pure si può credere che questa edi- zione sia stata fatta in Venezia, poiché la lezione eh* essa .presenta concorda perfet- tamente con quella dell* altre stampe venete. (Corsin. 51, E. 33).

L* altra edizione è pare in 4«, di carta 29, a due colonne, di linee 21 ciascuna, in ca-

rattere gotico. Porta sul frontespizio questo titolo : Miracoli de la Madona Istoriadù Alla fine^ v*ha la sottoscrizione tipografica « Impresso ne la inclita cita | de Venetia 9 Rinaldo da Tri | no de mòte fera/to e fradelli \ nelMCCCCXXXXIIII adi \ 2 de mazo ». Per entro il testo sonvi inci- sioni r argomento delle quali però non ha relazione con esso. (Corsin. 51. B. 33). M. C. 684. NiNA (Monna) Siciliana. I dubbj sulla esistenza di questa poetessa siciliana, già manifestati dal Lucchesi ni, dal Biamonti e dal Galvani e poi da me {Le Antiche Rime volgari I , p. 2S6 ) vengono assai accre- sciuti dal Borgognoni, {Studj di erudì- s ione e d' arte , Bologna, Romagnoli, 1878, lì, p. 89-105) e dopo ciò è molto dubbio se possa più sostenersi la causa di questa prete- sa e romanzesca amante di Dsnte da Ha- jano. D*A.

C. 685. Nino da Siena. Un poeta di tal nome è ricordato dal Bembo, dall* Allacci e dal Crescimbeni, ed il Db Angbus, nel suo Catalogo dei testi a penna ^ Siena, Tor- ri, 1818, pag. 182, crede che ad esso accenni una iscrizione volgare del secolo XIV ritro- vata da lui sotto uno dei dipinti del palazzo del Comune, e che a lui possano attribuirsi quelle iscrizioni ritmiche pubblicate dal P. DELLA Valle nelle sue Lettere Sanesi, 1 1, Venezia, 1782, pag. 284. Sebbene di quesU opinione non si debba tener gran conto sino a che non sia confortata da altre prove, pure non parmi fuor di luogo il ricordarla, potrebbe forse esser questi lo stesso che Mino da Siena. M.

C. 703. Novelle (Due), Siena, ecc. Di quesu pubblicazione fatta solo a 6 esem- plari non maggiori notizie neppure il Passano nella seconda edizione del sao acca- ratissimo CateUogo de* Novellieri; ma il sapere che Tuna di esse, la sola che potrebbe credersi del secolo XIV, fu tratta da un co- dice Barberino, mi fa dubitare ch'essa possa essere non altro che la Novella di Lisabetta Levaldini, sulla quale possono consultarsi il Papanti e il Passano sotto questo titolo e sotto Brevio, che è indubbiamente scrittora del secolo XV. M.

C. 703. Novelle (Due) antichissime ine* dite, ho Zambrini avverte che di queste Novelle, da me passate per le stsuoape al

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B0MAKZA,N.°4]

BIBLIOQEAFICA

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prof. Ferrato nel 1868, un « illustre filologo e letterato > gli scriveva: « Non so se il D'An- cona abbia voluto far la celia al Ferrato, o se anch' egli sia d'accordo: so solamente che amiche non mi pajono: anzi la contraf- fazione mi par tale, che non ci può rimaner colto se non chi legge sbadatamente, o chi non s'intende di queste cose. Sbaglierò, ma non mi ricredo se non vedo il codice antico. » « L'illustre filologo e letterato, » del quale ha ben fatto lo Zambrini a tacere il nome, sbagliava certo: perché l'intero Novelliere onde le due furono tratte, venne stampato dal Rapanti in Appendice al l.o volume del suo Catalogo, come poi avverte io Zambrini stesso, avendogli io ceduto la copia fatta da me e dal prof. Wesselofsky; e quanto al co- dice ognuno può vederlo e toccarlo nella Palatina di Firenze, laddove il Pepanti av- verte eh' ei si trova. Intanto una cosa pia- cemi dichiarare, che cioè di falsità io non ne faccio neanche per burla o passatempo : e un altra vorrei osservare, cioè l'incertezza e la facile erroneità di simili giudizj sullo stile e la lìngua di antiche scritture. « L'illustre tìlologo e letterato > sentenziando cosi rici- samente su quelle autenticissime Novelle mostra quanto si debba andar a rilento in siffatte faccende. ^ D'A.

C. 123. Orcaona Andrea. Molti sonetti di questo poeta, e fra questi la maggior parte di quelli dati dal Trucchi come inediti, si tro- vano nelle edizioni delle poesie del Bur- chiello del 1475, 1477, 1492, 1521, e certa- mente anche in altre eh* io non ebbi agio di esaminare, colia indicazione dell'autore, la quale manca affatto nelle stampe del 1552, 1568, 1757, ove solo poste fra i sonetti del Burchiello. M.

C. 733. Ovidio. Alle due antiche stampe della versione in prosa delle Pistole se ne po- trebbe aggiungere un' altra, uscita dai torchi del Silber, ricordata nel Catalogo Pinelli t. IV, pag. 377. lo m'accontento d'accen- narvi, non avendo potuto esaminarne alcun esemplare. M.

C. 739. Pacifico (Frate). 11 Crescim- BBNi anziché riferire poesie di questo autore, dice di non conoscerne alcuna e s'accontenta di riferire di lui le poche notizie datene dagli annalisti francescani. Notizie più difi\i8e ed Anche im frammento d' una sua poesia tro-

viamo riportato per la prima volta dal Pa- nelli nelle Memorie degli uomini illustri e chiari in medicina del Piceno, Asco- li, 1758, voi. Il, pag. 13 : e perché quest'opera non è cosi agevole il ritrovarla, credo non inu- tile il riportare ciò ch'egli dice: « 11 P. Ap- piani fa entrare il B. Pacifico nel ruolo degli Accademici verseggiatori Ascolani in lode di Errico VI. L' Abb. F. A. Marcucci è in pos- sesso della seguente notizia inserita nel Trat- tato mss. di Araldica intitolato Osservazioni sopra le famiglie nobili d'Italia e le loro Arme ed imprese di Niccolo Marcucci; trovo adun- que alla pcu-te X carte 9 e 10: « Nella ve- nuta nel 1187 in Ascoli di Luglio di Henri- co VI Re de Romani figlio di Federigo 1 Barba- rossa Imperatore gli furon fatti archi trionfali ornati con varie imprese et insegne et iscri- zioni dalli Ascolani: come si cava da un an- tichissimo manoscritto di un mio amico ; e gli fu recitata un Orazione Panegirica in lingua nostra Italiana allora nascente e rozza (quale i:on si è mai ritrovata) e si suppone recitata dal nostro Archidiacono Berardo poi Arcive- scovo di Messina et un Carme italiano, o sia Cantico encomiastico recitato dal nostro Vuil- liehno poi Pacifico Poeta quale nella sua età avanzata fu frate e discepolo di S. Francesco. Kt ecco un frammento che si ritrova nel Car- me overo Cantico di Pacifico il primo fatto e sentito in Italia ». Il frammento della Can- zone fu pure riportato dal Lancette, Memo» rie intorno ai poeti laurati , Milano, Man- zoni , 1839, pag. 85. Le notizie su fra Pacifico trovansi ripetute da Giovanni Angelo da Mendrisio, Vita del B. Pacifico Divini da Sanseverivo, Lugano, Agnelli, 1786; dal Cantauelessa Carboni, Memorie intorno i Letterati e gli Artisti della città di Ascoli nel Piceno, Ascoli, 1830. e dal Gentili, Sopra f ordine serafico e sopra la Vita di San Pacifico D/rtnt, Macerata, Mancini, 1839, Ninno di questi autori aggiunge nuove prove e documenti che possano rendere un po' meno sospetta la narrazione del Marcucci o forse solo del P. Appiani, della veridicità del quale si dubita assai anche a proposito di altri ar- gomenti. M.

C. 768. Petrarca. Tolgo dall' ottimo Catalogo delle opere di F, P. esistenti nella Rossettiana compilato dall'HoRTis l'indica- zione dì alcune edizioni ommesse dallo Z.

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BA8SEQNA

[giobmalb di filologia

e mi limito ad accennarle rimandando a quel lavoro chi desideri avere mnggiori notizie. Noto per la prima la preziosa edizione s. 1. n. a. descritta a pag. 174 che dovea porsi in luogo di quella pure s. 1. n. a. registrata dallo Zambrini sulla fede delTHaim, la cui esistenza fu negata dalPHortis pag. 12. Fra le edizioni s. a. furono tralasciate quella del Paganino, fatta probabilmente in Tosco- lano presso al Benaco, in 8°; e quella di Venezia, Francesco de Leno, in 8*», conte- nente i soli Trionfi, che appartenj^ono am- bedue al secolo XVI. Fra le edizioni con data mancano le seguenti: Venezia, Paga- nino, Aprile 1515, in 32.° Ed ivi, Zoppino, 1531, in 8o. Ed ivi, Bartolomeo Zanetti Ca- 8terzagense,1538, in 8.o Ed ivi, Griphio, 1568, in 12.0 Parigi, Charpentier, 1709, in 12°, colla versione francese a fronte. Feltre, Foglietta, 1754, in 4.° Venezia, Remondini, 1755, In 12.0 Modena, Solìani, 1762, in 4.» Berlino e Stralsunda, Lange, 1875, in 8.o Venezia e Parigi, 1787, in 8^, che è solo una scelta colla versione francese a fronte. Pa- rigi, Delalain, in 12.o Pongo da ultimo, fuori deir online che cronologicamente le sarebbe convenuto, una edizione del Zop- pino sull'epoca della quale io sarei d'un parere diverso da quello dell' Ilortis. Que- sta edizione porta la data del MD. XXI de Marzo, e V Ilortis la registra sotto la data del 1500, ritenendo che le ultime tre lettere della cifra si dovessero riferire al mese an- ziché all'anno; ma, se ciò fosse, dovrebbero riportarsi al 1500 non solo diverse altre edi- zioni uscite dagli stessi torchi, ma al- tresì quelle di Venezia 1511, Firenze 1515, Milano 1516, Venezia 1519, e parecchie altre. A confermare che quella edizione appartenga al 1521 s'aggiunge un altro ar- gomento, ed è, che fra le numerosissime pubblicazioni dello Zoppino, non se ne trova alcuna che porti la data del 1500 o dei primi anni che seguirono ad esso. In que- sto stesso anno lo Zoppino pubblicò un' altra edizione colla data del 4 Dicembre; lo Zam- brini indica una sola di queste stampe.

Sulle edizioni registrate non ho a fare che poche osservazioni.

L'esistenza dell'edizione di Parma, Por- tilia, 1473, è fondata solo sulla testimonianza deirilairo, il Marsaud l'Hortis ne

fanno parola; probabilmente THaim volle indicare la stampa dei commenti del Fi lelfo ai Trionfi. Sulla fede dell' Haim è pure ra- gistrata T edizione di Basilea, Bernardo Glicinio, 1474, ma qui \'ha un palese errore nel nome del tipografo; il Glicinio è uno fra i commentatori del Petrarca, e i suoi com- menti trovansi stampati nell'edizione di Bo- logna 14'J5 (che consta di carte 244 anzi- ché di 474) e in altre posteriori.

Circa all'edizione Aldina del 1501 è da ricordarsi un lavoro del BoRGonNONi, Se 3/. Bembo abbia mai avuto xnx codice auto- grafo del Petrarca. Ravenna, Lavagna, 1877, nel quale è dimostrato com' essa non sia punto, come vantavasi, derivata da^H autografi. Dell' autorità e del pregio in cui fu tenuta ci è prova la contraffazione fat- tane probabilmente, secondo l'Hortis, in Ve- nezia nel 1522.

Nell'indicazione dell'edizione di Venezia 1542 correggasi il nome del tipografo. Ago- stino Bandone; così nell'edizione Venezia, Bartoli, l'ì39, correggrsi l'anno in 1736.

A proposito della edizione di Milano 1805

10 Zambrini avverte ch'essa è una ristampa della precedente fatta nel 1800 appostavi la data del 1805; dovea dirsi invece che di quella edizione ne fu fatta una ristampa colla medesima data nel 1820.

Le indicazioni: Firenze, Società Editrice, 1847; e Firenze, 1847, con prefazione di Emiliani Giudici, si riferiscono ad una stessa edizione; cosi è pure delle indicazioni: Fi- renze, Le Monnier, 1851, in 12o. e Firenze, Le Monnier, 1851, in IG*».

Dei Sovetti iriediti pubi, dal Saoredo, il secondo e il terzo trovavansi già stampati nel Crescimbeni, l'uno al voi. Ili, pag. 177, sotto il nome di Federigo d'Arezzo, e l'altro, voi. Il, pag. 56, sotto quello di Marc bienne Torri- giani. M.

C. 79L Petrarca, Carmina incognita. Che i Sonetti pubbl. dal Thomas di Monaco come del Petrarca, non sieno jwssano es- sere suoi , dimostrò chiaramente il Pro fi Ve- RATTI negli OpMscoli Religiosi ecc. di Mo- dena. D'A.

C. 808. PiccoLOMiNi detto il Ciscranna.

11 solo sonetto che di lui conosce fu pub- blicato i>pr la prima volta dall'ALLACxT, p. 2SG ; e trovasi pure nelle Rime If.*" Franco ^

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ROMANZA, N.*» 4]

BIBLIOGRAFICA

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Giannozzo e Ms Iacopo Sacchetti ^ Roma, 1856, (love però auzi che a Franco è indi- rizzalo a Giannozzo Sacchetti. M.

C. 815. Poesia genovese del secolo XIV. Si potrebbe fondere in un solo articolo colle Rime istoriche a col. 873, accordandovi an- che r altro pur a col. 873 della edizione com- piuta di queste poesie fatta neW Archivio Glot- tologico, M.

C. 820. Poesie dei Re Svevi in Italia, È la ristampa fatta d d Pfeiffbr nei volu- mi della società letteraria di Stuttgart, della pubblicazione del Di Gregorio, 1821. Quindi va corretto il singolare errore che sian tratte da un « libro tedesco; Rosario di Grego- rio ecc. », come anche « Federico Uohan hau- fen » va rettificato in Hohenstaufen. D'A.

C. 824. Poesie {IV) politiche. La prima di queste poesie già era stata pubblicata dal Trucchi, voi. II, pag. 117, con lezione lieve- mente diversa, la quale conferma pienamente una correzione al v. 12 sagacemente proposta dall'egregio editore. M.

C. 830. Polo Marco, H Milione, L'edi- zione del Lazari non contiene un testo antico, ma mia traduzione fatta dal Lazari stesso. Quest'edizione ignorata dallo Zambrini, che la conosce soltanto per averla veduta citata nel Giornale delV Istituto Lombardo , è fatta a cura del geologo illustre Lodovico Pasini, Venezia, Naratovich, 1847. D'A.

C. 831. Polo (Messer) di Lombardia. NegU Atti e Memorie della Società di Sto- ria Patria per le Provincie dell'Emilia, voi. Vili, pag. XXXV, trovasi una comuni- cazione del socio Prof. Bernardino Catelani per mostrare, contro l'argomento adoperato dal Settembrini, che le Lumie erano note e cosi chiamate anche a Reggio, e questo solo argomento non bastare perciò a far di Messer Polo anziché un reggiano, un siciliano, come il Settembrini vorrebbe. 11 Borgo- gnoni, Studi di erudizione e d* arte, Bo- logna, Romagnuoli, 1878, voi. Il, pag. 134, lo farebbe bolognese, citando un sonetto di un contemporaneo, che dice:

Me«8er Paolo da Bologna nato E da Oaatel chiamato dalle genti.

Resta da dimostrare che essendo uno stesso individuo Paolo da Bologna e Paolo da Ca- stello, costui sia anche una stessa persona

con Messer Polo da Reggio oppure da Lom- bardia. D-'A.

C. 835. Prophetia (Quaedam) ; Una poe- sia siciliana del XIV secolo inedita, stu- dio i>aleografico, letterario e storico di Ste- fano Vittorio Bozzo, Palermo, Virzi, 1876.

Fu inserita nell' Archivio storico sici- liano. D'A.

<J.848. Pucci Antonio. Del poemetto sulla storia d'Apollonio di Tiro meritano d' esser ricordate anche le due edizioni seguenti. La prima (Cors. 51. B. 41) non porta alcuna nota tipografica, ma appartiene alla fine del secolo XV. È in carattere tondo, in 4o, di carte 39 di linee 31, con registro da a ad e tutti quaderni. La seconda (Ales. XIII. A. 58) porta questo titolo: Apolo | nio de Tiro I h istoriato | <C* nouamente ristampa- to; al fine v*ha la segnatura: In Vene- tia I Appresso Fabio é Agostino Zoppino fratelli MDLXXX. È in carattere corsivo, di carte 4 di linee 2S. Dopo il congedo se- guono in questa stampa due ottave aggiun- tevi dall'editore, nelle quali s' accenna ad una edizione anteriore, probabilmente ve- neta anch'essa, del 1565.

Un sonetto del Pucci trovasi nella stampa del Burchiello del 1475 e consorti, coli* in- dicazione d'autore, che manca nelle edizioni del 1562, 1568, 1757. M.

C. 851. Raccolta di antiche rime. Le Le poesie di Maestro Pagolo, Nastagìo da Monte Alcino e del Romanello trovansi solo nella edizione del 1753. M.

C. 857. Rappresentazioni sacre dei se^ coli XIV, XV e XVI. A conferma di quan- to nota lo Zambrini, sul non esservi qui scritture del secolo XIV, come troppo cor- rivamente asserimmo nel titolo della Raccol- ta, vedi ciò che dicemmo nelle nostre Ori^ gini del Teatro , voi. I , pag. 192. D'A.

C. 860. Regola di S. Benedetto. Di questo scritto trovansi diverse edizioni, in gran parte delle quali però il testo è talmente tra- sformato che non presenta più alcuna trac- cia di antichità, cosi eh' io tralascio di regi- strarle, all'infuori della seguente nella quale, sebbene il titolo possa far credere diversa- mente, il testo, tranne alcune varianti di lieve importanza, è quello della ed. del 1493: Regola di Sancto Benedecto nuoua ( men- te uulgarizata. Sotto il titolo v'ha un ia-

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96

RASSEGNA

[oiOiaiÀLB DI FILOLOaii

taglio che rappresenta Cristo colla croce fra le braccia. É in 8^, di carte 48, delle quali le tre prime sono occupate dalla tavola d^i capitoli, di linee 29 nelle faccie piene, con registro da a a d tutti quaderni. SulPul- tinao foglio v' ha solo questa indicazione: fine della regola del nostro Sane \ tissimo Padre Benedecto, e segue ad essa una ta- vola di correzioni. Mt

C. 863. Regola di S, Francesco, Questa stessa Regola, pubblicata insieme cui testa- mento di S. Francesco come inedita nel 1874, trovavasi già a stampa nella edizione dei Fioretti fatta dallo Zaroto nel 1477, e proba- bilmente non in quella sola, ma anche in altre delle edizioni ch*io non ho potuto esa- minare. Rannosi pure diverse stampe della Regola del terzo ordine di S. Francesco, che anch'essa parmi possa trovar posto fra le antiche scritture. Non ne indico per ora che una sola stampa, Tunica che mi fu dato di ritrovare qui in Roma. Nel fronti- spizio sotto il titolo v*èun intaglio che rap- presenta S. Francesco coi segni delle stim- mate, con un libro in una mano e la croce neir altra, e di fianco a lui due frati ginoc- chioni. Sull'ultimo foglia v'ha la nota: Finita la regola del terzo ordine di sancto Fran \ ciscOj Apititione di Ser Piero da Pescia. È in 8^, di carte 28, con registro da a a ^ tutti duerni. Oltre la Regola con- tiene delle preghiere latine per diverse oc- casioni. M.

C. 869. Ricci (Giovanni de*). Se della sua valentìa poetica non s'ha altro saggio che quello recatone dal Wesselofsky, si può du- bitare molto d'ammetterlo fra i poeti, poiché la stessa poesia era stata già più volte pub- blicata col nome di Sinibaldo da Perugia (vedi col. 938) al quale è attribuita da tre codici diversi. questi è il solo a contenrlergliela ; poiché il Vaticano 3212 l'attribuisce ad un Agnolo da Perugia, ed il Vaticano 3213 in- sieme col Chigiano M. VII. 142 la danno al Conte Ricciardo. M.

C. 876. Rime inedite dei quattro poeti. Delle poesie pubblicate sotto il nome di Dante la prima trovasi col nome di Sennuccio del Bene nella Raccolta di Rime Antiche ag- giunte alla Bella Mano ; la seconda col nome di Dino Frescobaldi nel Crrscimbbni, voi. Ili, pag. 121 ; la terza come di Betrico d' Arezzo

pure nel Crescimbeni, III, 123. Cosi il a^

condo de' sonetti del Petrarca era già ant*»- riormente stato pubblicato per ben quattro volte. M.

C. 883. Ritmo anonimo. Fu pubblicato dal Bandini, Cat. Codd. Lai, Bib. }Ied, Laur.^ tom. IV, p. 468 nella descrizione del cod. VI pL XV. Il Giornale ne darà quanto prima una nuova edizione riveduta sul ma- scritto. M.

C. 885. RoMANELLO G. Ant., Ritmi vol- gari. Crediamo che questo poeta andrebbe espulso dalla serie dei trecentisti. Anche il Vedova, Biorr^fia degli scritt. podor., 1836, voi. II, pag. 171, lo dice « del secolo decimoquinto ». D'A.

C. 886. Rosso Matteo da Messina. Il nome di questo poeta fu messo fuori per la prima volta dal Trissino nel suo Castellano lib. 3, ma egli stesso nella sua Poetica lo chia- ma solamente Matteo da Messina e lo crede una stessa persona che Mazzeo da Messina. Di questo avviso fu pure il Crescimbeni : i ma- noscritti, e in parte anche le stampe, favo- riscono questa ìdentidcazione ; poiché tutte le poesie pubblicate col nome di Matteo Rosso trovansi in altre raccolte sotto il nome di Mazzeo del Ricco. Notisi che V unico codice che abbia il nome di Matteo Rosso si è il Palatino CCCCXVIII. M.

C. 012. Salamone. In una stampa del secolo XV (Cas. 0. II. 104), insieme con una canzone dei cortigiani e con alcuni sonetti e strambotti del Serafino, v'ha una scrittura che porta questo titolo: Amaestramento e sententie de Salomone de fare imparare al figliuolo, ed incomincia

Flgllnol mio flglinol mio temi idio impara tapientia e vertute.

Non parmi inutile darne notizia, sebbene possa dubitarsi ch'ella sia scrittura del se- colo XIV. La stampa non porta alcuna in- dicazione tipografica, è in caratteri semigo- tici in 4.^, di due carte, a due colonne di 40 linee ciascuna. M.

C. 916. Salutati Coluccio. Nella edizio- ne delle poesie del Burchiello del 1475 e consorti v'ha un suo sonetto che incomincia « Qualunque é posto per seguir ragione », che trovasi pure nelle altre stampe ma senxa indicazione d* autore. M.

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BOMANZA, N.** 4]

BIBLIOGRAFICA

97

C. 920. Schiavo db Baro. Di costui non abbiamo altre notizie all' infuori di quelle dateci dal N^ovellino (nov. X), e però do- vette egli vivere innanzi al a compilazione di esso, la quale secondo il D'Ancona {Le fonti del Novellino nella Romania 1873) risale alla fine del secolo XIII. Gli am- maestramenti o Proverbi che vanno sotto il suo nome, non possono certo pretendere ad un origine così antica, e può quindi cre- dersi ch'essi gli fossero attribuiti solo per la grande fama che correva della sua sag- gezza, in un' epoca nella quale se ne con- servava ancora memoria. Le diverse stampe auliche ind cate dallo Zambrini contengono, insieme ad essi, altre scritture d'epoca più recente. La sola in cui queste aggiunte man- chino affatto è una edizione sconosciuta (Ca- san. K. L 41) del secolo XV, priva d'ogni indicazione tipografica, in 4.", di carte 6, la terza delle quali segnata aitV, di linea 29, 2S, in carattere tondo; essa non porta al prin- cipio che questa sola indicazione Schiavo di Bari e sotto ad essa un intaglio. M.

C. 932. Seneca da Camerino. Lo Z. tra- lascia di registrare questo poeta, ritenendo forse ch'egli dovesse annoverarsi fra i quat- trocentisti; ma tuttavia credo opportuno il ricordarlo, poiché il Crss'^imbssi, pubbli- cando un suo sonetto (voi. UT, pag. 214), lo dice vissuto in sul finire del secolo XIV, e fra poeti di questo periodo trovasi nel codice Riccardiano 1126. M.

C. 932. Sentenza dei Giudici della Curia del Procuratore a favore di Pietro Bra- gadln rhpetto a un laooro fatto indebita- mente da Agnesina e Caterinuzza Polo, 15 Maggio 1383, Di questa scrittura fu pubblicato da V. Zanetti s jltanto un fra n- menio nelV Archivio Veneto, tomo XVI, pa- gina 102. M.

C. 942. Sonetti cinque ecc. Ad illustra- zione maggiore di questa importante pubbli- cazione del Prof. MussAFiA, aggiungasi : Na- poleone Caix, Di un antico monumento di poesia italiana (estratto dalla Rivista Europea), Firenze, Tipografia dell' Associa- zione, 1874. D'A.

C. 943. Sonetti ( Tre) in laudem Dantis. I primi due erano già stati pubblicati di sullo stesso codice dal Bandini, voi. IV, pag. 34, ed il terzo trovasi nel Crescimbeni, III, 141

sotto il no ne di Mucchio di Lucca, e quindi almeno per quest'ultimo non si può dubitare che sia scrittura del trecento. D'A.

C. 945. Sonetti di alcune gentildonne da Fabriano che furono al tempo del Pe- trarca. Sono Leonora della Genoa, Or- tensia DI Guglielmo, Livia da Chiavello. Noi veramente crediamo che queste rime sieno apocrife: e che l'editore Andrea Gillo da Fabriano o fosse ingannato, o volesse in- gannar altrui , a maggior gloria della sua pa- tria. Veggano i dotti: noi dubitiamo senza nulla affermare. E eoa noi dubita, del re- sto, il Carducci, Rime di Gino, Disc, pre- limmare, p. LXXXI. D'A.

I Sonetti di Leonora della Geuga tro- vansi ripjrtati nella Storia di Fabriano dello Scevolini DA Bertinoro, scrittore del secolo XVI, pubblicata dal Colucci, pag. 149 e seg. delle sue Antichità Picene, t. XVIII, Fermo, 1792. Lo Scevolini dice d' averli tratti da antiche scritture che per troppa vecchiezza non si potevano leggere a pieno, sicché egli stesso avea dovuto supplire le due terzine del- l'ultimo so:ietto, le quali, a dir vero, pre- sentano cosi stretta somiglianza coli' altre poe- sie da far crescere anzi ch^ dileguare i dubbi che si potessero avere sulla loro autenticità. Lo Scevolini ricorda anche le poesie di Or- tensia e dice di riferirle nel seguito del suo lavoro che però non fu pubblicato, e non so neppure se trovisi manoscritto. Le due ter- zine che lo Scevolini come fattura sua, sono dagli altri date senz'altro come di Leonora. M.

C. 952. Spinello, yotamcn ri. Aggiungi alla natila pubblicaz. del Minieri-Riccio que- ste altre due dello stesso autore : I Notamenti di M. Spinelli nuovamente difesi, Napoli , Rinaldi e Sellitto, 1874. Ultima confuta- zione agli oppositori di M. Spinelli, id. ibid., 1875. Per la singolarità degli argo- menti adoperati e T ingenuità della critica, si registri anche: Sulla veracità dei Notaìnenti di Spinello, osservazioni dell* Avv. Mat- teo Barrella, Napoli, Fibreno, 1872. 11 sig. Bart. Capasso oltre che nella pubbli- cazione registrata dal bibliografo, ha soste- nuto l'apocrifità dello Spinelli anche nell'im- portante opera sua: Uistoria diplomatica Regni Siciliae inde ab anno 1250 ad an- num 1266 (Napoli, Tipografia Universita- ria, 1874). D'A. 7

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JRASSEGNA

[OIOBMALE DI FILOLOGI!

C. 961. Passione di S. Job in tulgare. Delle rime di Fra Boavesin pubblicate dal Bbkkbr uei Bericht della Accademia berli- nese, citasi questo solo compouimeiito, oltre la Vita b, Alejoii, Crediamo utile indicar tutta la serie delle Rime, di Bonvesin pub- blicate dal Berker, e indicate soltanto somma- riamente dallo Zambrini alla col. ÌJ20:

Dal Monatsbericht der h. preuss. Aka- demie der Wissenschaften zu Berlin: 1850, pag. 322 Contrasto di Satanas e Maria p. 379 De quindecim miraculis quae de' bent apparere ante diem jtcdicii p. 438 Vulgare de Eleemosynis (vi si comprende p. 451 De S. Bonifacio; p. 453 De milite qui amisit bona sua quem diabolus voluit uccidere; p. 456 De passione S, Donati; p. 460 De tribus amicis; p. 461 De civitate quae mittebat judices suos in desertum; p. 462 De rege qui amplectabatur paupe^ rtfj) p. 478 Laudes de Virgine Maria (vi si comprende, p. 481 De castellano; p. 483 De pirata; p. 485 De Maria Aegyptiaca; p. 4S9 De monaco liberato per Virginem Mariam; p. 490 De quodam monacho qui vocabatur Frater Ave Maria) Dai Mo- natsbericht del 1851, p. 3 Disputano Rosae cum Viola p. 9 Disputatio Muscae cum Formica p. 85 De quinquaginta curia- litatibus ad mensam p. 90 De peccatore cum Virgine -^^. 94 Rationes quare Virgo tenetur diligere peccatores (contiene: p. 95 De agricola desperato) ^. 132 De Ani^ mo cum Corpore p. 209 Vulgare de Pas- sione S. Job. p, 217 Vita Beati Alexii-^ A pag. 450 vi sono anche Frammenti, ma in versi latini, del Liber Vita scolastica dictus,

A proposito specialmente della pubblica- zione del LiDFORSS, // Trattato dei mesi di Bonvesin de Riva (col. 197) il Prof. Wesse- LOFSKY dettò il suo articolo Intorno ad al- cuni testi dei dialetti dell' Alta Italia re- centemente pubblicati, inserito nel voL V del Propugnatore (1872). D'A.

C. 961. Statuto dello Studio di Perugia, Questo Statuto, o matricola che dir si vo- glia, porta la data del 1342, ma la sua com- pilazione probabilmente è più antica. Ne pubblicò alcuni capitoli il Prof. G. Padel- LETTi neìVArchivio Giuridico, voi. VI, 1870, pag. 108 e seg,, e furono ristampati più correttamente nel Giornale d' Erudizione

Artistica, 1876, pag. 180 e seg., dal Prof. A. Rossi. M.

C. 963. Statuto dei mercanti drappieri della città di Vicenza, Vicenza, Durato, 1879. Questo statuto fu scritto nel 1348 e fu messo a stampa, in occasione di nozze, dall'Abate Capparozzo. M.

C. 968. Storia di S. Alessio. Nella Ca- sanentese, alla segnatura 0. II. 168, conser- vasi una antica edizione di questa leggenda Ijen diversa da quella descritta dal MolinL Il titolo di essa è : La storia et vita di santo Alexio Romano; nelP intaglio che sta sotto al titolo è raffigurato im pellegrino inginoc- chialo inanzi al Pontefice, dietro il quale ve- doasi diverse figure, una delle quali incoro- nata; ma questa rappresentazione parmi non si riferisca alla vita del santo, quale almeno è data da questa stampa. É in carattere se- migotico, in 4.0, di carte sei, a due colonne di 4 ottave ciascuna, con segnatura aii, atti.— Alla fine si legge: Finita la historia \ di sancto Alexio Romano. La composizione consta di ottave 73. Sebbene manchi ogni in- dicazione tipografica, pure dal carattere, quale trovasi in altre stampe che portano l'indica- zione del luogo, pare che questa edizione sia stata fatta in Roma. M.

C. 970. Storia de' SS, Barlaam e Giosa- fat. Di questa leggenda v'ha una antica stampa mancante di frontispizio , e senza al- cun titolo. Comincia senz'altro la narrazione; « Lezese anticamente che in india ecc. » e segue per 79 capitoli ; la lezione di essa non è punto inferiore a quella dell'edizione del 1734. È in 4.0, di carte 24 di linee 36, con registro a, b quaderni, e, d duerni. M.

C. 972. Storta di S. Cle^nente. Di questa leggenda v'ha Hn' antica stampa (Cors. 51. A. 36) che è da credersi rarissima, se sfuggì alle diligenti ricerche dello Zambrini che la pubblicò come inedita. Essa porta il titolo Legeda de sancto clemente: a san \ cto pie- tro successore ponti \ fice Romano: histo \ ria deuotissima | e uera. Non ha alcuna indicazione di tipografo luogo ; è in bel carattere gotico, in formato di 4.", di carte 44, a due colonne di linee 30 , 29 ; avente registro da a ad / tutti quaderni, meno l il quale è duerno. M.

C. 980. Storia di Tobia narrata dalla Sa- cra Scrittura e fatta italiana per un treeen-

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BOMÀKZl, N." 4]

BIBLIOORAFICA

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Usta, Roma, Tip. Monaldi, 1875, in 8.o di pagg. 34.

È una ristampa del Volgarizzamento pub- blicato dal Cesari, di cui a col. 579, fatta dal sig. Ruggero Valenti», in occasione di nozze d'una sua figliuola. M.

C. 981. Storia di Florio e Biancifiore. Di questo poemetto meritano d'esser indicate due antiche edizioni sconosciute anche al Pas- sano. L'una (CJors. 51. 13. 41) ha al prin- cipio il titolo: Florio et bianciflorio, e alla fine la nota: Finito il cantare di | /Iorio et bianci \ flore adi XI di | Maggio MCCCC. LXXXX; è in 4.o, di carte 20, di linee li», con registro a b quaderni , e duerno ; manca in questa edizione V invocazione , e il poemetto consta di 137 ottave. L'altra (Alessandri- na XIII. A. 57) ha questo titolo: Un bellessi- mo innamoramento \ de duo nobilissimi \ amanti^ Nominati Florio db Biance fiore | Nouamente ristampato; al fine: Venetia. Appresso Fabio tfc Agostino Zoppini fra- telli 1587 ; è in 16.o, di carte 8. M.

C. 1003. ToMMASUCCio. Su questo autore è a vedersi il seguente lavoro dove pure son riferite le sue profezie già a stampa: // Pro- feta del secolo XIV o il B. Tot naso Un zio, studio di L. C. Amoni. Assisi, Tipografia Sen- si, 1878. Il De Angelis riporta soltano il prin- cipio della profezia già udita: « Tu pur vuoi eh' io dica 3». M.

C. 1025. Trebian'i Lisa betta Ascolana. Il sonetto « Trunto mio che le falde avvieii che bacie», fu pubblicato pure dal Cinelli, Biblioteca Volante, scansìa XIV, a pag. 24, da un manoscritto ascolano, del quale diede- gli notizia il P. Appiani. M.

C. 1029. Uberti (Fazio degli). Cade qui opportuna anche l' indicazione dell'opuscolo: Giusto Grion, Intorno alla famiglia e alla vita di Fazio degli Uberti autore del Bit- tamondo disquisizione, Udine, Vendra- me, 1861. D*A.

Di lui trovansi fra le Poesie Minori del se^ colo XlV^ive canzoni « 0 sommo bene o glo- rioso iddio», «Quel che distinse '1 mondo in tre parte », « Io vorrei stare prima in mezzo al fango »; e due sonetti « Se legittimo nulla nulla è », « Non so chi ma non fa ben colui ». M.

C. 1034. rouRGiERi Cecco di Meo Mel- lone. 11 nome di questo jioeta trovasi solo

ricordato dal De Angelis nel suo Catalogo già citato, pag. 206, che menziona un mano- scritto proprio delle di lui poesie, ed a lui credo egli di poter attribuire i versi che stanno sotto alcune pitture del 1343 nel pa- lazzo del Comune, pubblicati dal P. Della Valle nelle Lettere Senesi, t. II. M.

C. 1047. Vigne (Piero delle). Nel bel lavoro dell' Huillard-Breholles, Vie et cor- respon dance de Pierre de la Vigne, Paris, Plon, 1865, trovansi riportate due canzoni, la prima a pag. 421 è solo una parte di quella che incomincia « Amor in cui disio ed ho speranza », la seconda, a pag. 422, è data co- me inedita secondo la lezione d' un codice della Nazionale di Parigi ; incomincia : « Assai cretti celare »:. Anche questa però era già a stampa, e col nome di Stefano di Pronto Notaio tro- vasi nelle Antiche Rime Volgari. M.

C. 1063. Vita de philosophi. Per cono- scere se quest' opera possa appartenere al se- colo XIV si potrebbero esaminare i rapporti ch'essa ha col Fiore de Filosofi attribuito a Brunetto Latini; per ora, poiché, lo Zambrini, sebbene con qualche riserva^ l'ammette, noto le due seguenti edizioni non indicate da lui. L'una in 4.**, di carte 40, di linee 38, con registro da a a £2 tutti quaderni, porta alla fine que- sta nota: impressum fuit hoc opvs venetiìs per ioannem rubeutn MCCCC. LXXXVIIIJ die XX Mail (Corsin. 51. E. 52). Potrebbe sorgere il dubbio che questa edizione sia quella stessa registrata dai bibliografi colla data del 1488.

L'altra non presenta alcuna nota tipogra- fica , ma la crederei fatta al principio del se- colo XVI; sul frontispizio porta questo titolo in rosso nero e caratteri gotici: Vite de PhUo- sophi moralis | sime. Et de le loro elegan- tissime sententie. \ Extratte da Lahertio «fi altri antiqv issimi auctori Istoriate A di nono I corrette in lingua Toscana.; sotto di esso v' ha un intaglio che rappresenta 5 sapienti. È in 4.<^, di carte 64, a due colomie di 30 linee ciascuna, con registro da A a<l II tutti quaderni (Casan. II. VII. 47). M.

C. 1063. Vita di Cola di Rienzo. Lo Zambrini tiene che sia opera di autore incerto, checché si dicano alcuni assegnandola ad un Tommaso Fortifiocca. Salvatore Betti, (Scritti vari, Firenze, Torelli, 1856, p. 173) dice aver fra mano im esenìplare della Vita

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RASSEGNA

[giornali di FILOLOeU

posseduto già da Mons. Gaetano Marini pre- fetto della Vaticana e degli Archivj pontifici, che vi scrisse: « L'autore di questa vita è Liello Petrone cittadino romano. Sta nel t. 69 Politic. dell' Arch. Vatic. e nel cod. Ot- tobon. 2655 ». D'A.

C. 1067. Vita di S. Girolamo. Nella bi- blioteca Corsiniana alla segnatura 51. E. 53 si conserva un bell'esemplare della edizione di quest'opera fatta in Messina nel 14'* 3, di cui negavasi l'esistenza; sulla data non può correre dubbio poiché è scritta distesamente in cifre romane ; con ciò cadono a vuoto tutti gli argomenti addotti dal Salvocozzo per dare a Palermo il vanto della priorità sopra Mes- sina nella introduzione della stampa.

Questa vita fu pubblicata, insieme colle Epistole di S. Girolamo e colla Regola vol- garizzala da Fra Matteo di Ferrara povero gesuato, nella edizione fatta a Ferrara nel 1497 per Mae8ti*o Lorenzo di Rossi da Valenza.

Nel registrare le stampe più antiche si no- tarono due diverse ediz'oni di Venezia 1473, ma in realtà r.on ve u*ha che una sola ùAxs. da Batista Cremonese regnante Nicolao Trono, così v' è una sola edizione &tta dal Peth ed è in data del 14*4 5; furono pure indicate due edizioni fatte in TreviFo nel 1480, Tuna dal Manzolo, l'altra dal Mauzollno, ma quest^ol- timo nome è certamente nulla più che un errore di stampa. M.

3. Adolf Gaspakt. Die Sictlianische JDicMcrschuìe des dreieélmlen Jahr- hunderts^ Berlin, Weidiuannsche Buchhandlung, 1878. In 8.' di pp. 231.

Quasi tutte le storie della nostra lettera- tura s'aprono con la poesia siciliana, quasi tutte s'accoi-dano a clùamare svevo il suo primo periodo: sino dal secolo XIV Dante aveva scritto: quicquid poetantvr Itali Si- cilianvm vocaivr, e Petrarca fra i più in- signi poeti d' amore aveva posto i Siciliani

che fur già primi e quivi eran da sezzo.

Cosi antiche e autorevoli testimonianze ave- vano indotto spesso ad esagerare l' importanza storica della poesia siciliana sia in ordine al tempo, sia ali* influenza sull'ulteriore svolgi- mento letterario della penisola; ma nuovi e diligenii studi hanno determinato assai me- glio il valore di quella poesia, i suoi rapporti con la lirica provenzale e italiana, il senso che deve darsi a quelle testimonianze. I risultati a cui era giunta la critica erano da questo lato sicuri: tuttavia è d'uopo riconoscere che fra molte pagine di sintesi lucida e talora an- che splendida, ninna storia, ninna monografia aveva fatto larga parte all'analisi; la scoperta aveva tenuto il luogo della dimostrazione, il consentimento quasi universale sembrava di- spensare da una piova più rigorosa. Questa mancanza può dirsi riempiuta dal hbro del Sig. Gaspary nel quale si tratta assai larga-

mente dell'origine e della natura dell'antica lirica italiana, mentre si svolse sotto l'in- fluenza provenzale, e quando potè dirsene libera.

L'A. riferisce le parole di Dante non alla hngua dei siciliani, ma a quella maniera di poetare anteriore al dolce sdì ììitoro che fiori nella corte di Federico, fossero o no si- ciliani i poeti che la seguirono; l'influenza provenzale ristringe ali* incitamento a poetare e mostra come se l'Italia superiore per re- lazioni più intime e per una certa confor- mità di tendenze glottiche fu soggetta ad in- fluenza occitanica anche nella lingua, la Sicilia, ove era assai più difficile l'adozione della stessa lingua dei trovatori, si fé' centro di una poesia che, qualunque ne fosse il conte- nuto, si efl'use in lingua italiana. Le notizie dei poeti di questa scuola e le attribuzioni delle poesie sono date quasi unicamente dai codici, sempre in grande scarsezza, e spesso con evi- dente contraddizione. E vero che quasi tutte le notizie date sin qui non hanno alcun che di sicuro, che molti tentativi furono fatti senza riuscita, molte supposizioni senza fondamento; ma l'A. sembra spingere tropp' oltre le esi- genze critiche su questo pimto; e se la coin- cidenza di nome, patria, tempo e qualità per-

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ROXUUA,

«.•41

BIBLIOGBAFICA

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sonali non bastassero per ammettere identità di persona, sarebbe impossibile di por ten* tare la investigazione biografica e storica de- gli antichi autori. Trovandosi in due docu* menti, riferentìsi incirca ali* epoca stessa, men- zione di Guido delle Cobnne giudice di Mes- sina, si può ben ritenere che si parli della stessa persona, senza supporre un figlio che avesse comune col padre, oltre al cognome e alla patria, anche il nome proprb e la di- gnità. — « Se tuttavia tali incertezze rendono difficile il giudizio intorno a ciascun autore in particolare, può dirsi che il valore poe- tico dell* antica lirica italiana è ben piccob per mancanza d'originalità, d* ornamento, d'af- fetto e di verità; comincia ad elevarsi in To- scana ove il sentimento politico che agita r animo si riflette nella letteratura e dove la poesìa morale si rannoda alle reali aspirazioni, ai veri mteressi della vita ».

Segue un esame accuratissimo dei rapporti fra la poesia provenzale e T antica italiana, con copiosi e nuovi raf[h>nti, con citazione di esempi raccolti da ogni parte, completati, ri- dotti a migliore lezione per giuste correzioni o per acuti suggerimenti. 11 sentimento lirico vi è considerato nella sua indole intima, nelle sue fasi, nelle varie manifestazioni rispondenti alle contingenze storiche, nelle espressioni, nelle parole, in quel circolo d*inmiagini, di similitudini, di pensieri entro il quale uni- formemente s'aggira. Può bene esprimersi il desiderio che V analisi dell* A. si fòsse estesa anche alla metrica, ma è d'uopo riconoscere che per aver egli fatto tanto non ha confe- rito il diritto di domandargli di più.

L'amore cavalleresco che aveva brillatoi sia pure pallidamente e d' un ultimo raggio, alla corte degli Svevi, non potè ardere lun- gamente neir animo dei liberi e spigliati po- polani della Toscana , cui la vita del comune, opposta precisamente a quella feudale, ren- deva freddi ad ogni ispirazione della caval- leria: con Guittone d' Arezzo può dirsi spenta la lirica provenzale in Toscana. L'amore vi prende altra forma, la lirica s'ispira al sen- timento reale, alla natura, alla verità: ac- canto ai poeti che rappresentano la tran- sUione^ stanno quelli che cantano la vita nelle sue reali manifestazioni: Chiaro Davan- zati. Folgore da S. Gemignano, Cene dalla Chitarra, Rustico di Filippo, Cecco Angiolieri :

la stessa natura «cieiitiflca che hiforma ki lirica bolognese, sebbene non sia un vero ele- mento poetico, pure un nuovo svolgimento alla poesia, l'emancipa sempre più dal pro« venzalismo. Tutto ciò è detto con profonda conoscenza della materia, con esposizione lu- cida e chiara, e se le conchiusioni non sono del tutto nuove, discendono da un esame am- pio, rigoroso, ordinato.

Assai più ardua è la questione della an^* tica lingua letteraria italiana, la quale attira presentemente l'attenzione di mohi fra i cul- tori della filologia neo-latina. Andie questa è questione antichissima, e può féni risalire sino al libro De vulgari eloquio di Dante; ma in questi ultimi tempi è entrata in una nuova fase, dalla quale ò dato sperare che uscirà dilucidata assai , se non risoluta. Non sembra dunque che si sia giunti peranco a risolutone, sebbene eminenti cultori della scienza abbiano poste come assodate alcune conchiusioni, che, potendo pure esser vere, non possono ancora ritenersi sicure. Chi prese ad esame la lingua delle poesie siciliane nel periodo %v%io credè di trovarvi sicure tracce dialettali specialmente neir alterazione di al- cune rime, e conchiuse senz' altro che la for- ma originale di quelle poesie dovesse essere stato il dialetto siculo, scolorato e sbiadito posteriormente nelle acque dell'Arno, le quaH si sarebbero perciò stesso intorbidate un pooo e tinte del colore isolano. « Le poesie sici- liane — fu detto per essere state in To- scana raccolte trascritte e divulgate certo non poterono serbare la natia forma idiomatica . . il toscaneggiare il mculo doveva parere un* op- portuna ripulitura la quale non poteva sempre riuscire perfetta . . . , era facile ridurre amu^ rusu e nuiusu in amoroso e noioso ma dove un poeta siculo avesse fatto rimare amU" rusu e usu, nutrisci e (tecrisci non restava che o sacrificare la rima ovvero lasciare due macchie di siculismo ... e queste macchie ba- stano a farci indovinare lo stato primitivo delle poesie sicule ... La poesia popolare era più difficile a ridurre, eppure la poesia di CiuUo è qua e attaccata dall'ambiente toscano, esempio il verso citato da Dante, il quale seb- bene un po' travestito alla toscana ha pure tali connotati da non poter serbare l'incognito; e d'altronde l'origine sicula del Contrasto è confermata dal fatto che non poche delle sue

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MASSEGNA

[OIOBHALB DI FILOLOOIA

rime andrebbero sciupate se alle parole ri- manti non si attribuisse la forma siouia » (l). É dunque da ritenere che « la veste di tutte quelle poesie fu il dialetto siciliano modificato per elevarlo a maggior dignità, col proven- zale e col latino. In seguito le poesie dialet- tali della Sicilia presero forma toscana quando nell* ultimo ventennio del secob XIII la cul- tura italiana fu quasi esclusivamente cultura toscana; e in questa nuova forma le conobbe Dante, in questa nuova forma sono pervenute fino a noi » (2).

Ma « la stessa cantilena di CiuUo d'Al- camo sì scosta, secondo altri, dal vocalismo siculo, e, se non fu scritta originariamente cosi, fa ben presto ridotta, per le abitudini preva- lenti, a quella forma che correva al tempo di Dante. 11 vocalismo siciliano cadde in parte giacché per un' altra parte rimase e rimane ancora nella lingua ... e dove era più con- forme al latino e pareva perciò meglio acco- modato all'altezza lirica, fu conservato. Ri- mase il dittongo au atono tanto primitivo che secondario, fu mantenuta la vocale breve la- tina anche accentata senza dittongamento, e a più forte ragione poi si mantennero quelle proprietà fonetiche che erano non meno dif- fuse nei dialetti peninsulari che in quelli del- l'isola. Tali sarebbero: la conservazione della vocale sottoposta air accento grave, il perver- timento palatale dei suoni labiali in certi verbi, la prevalenza data ad r nel gruppo rj, il condizionale in ia, alcuni participj in uto da verbi in i rtf , etc. E il colorito parte proven- zale parte latino di queir idioma spiega T in- fluenza che esso esercitò anche sui poeti del- l'alta Italia » (3). Altri oppugna le conchiu- sioni e gli esempi e si fa a mostrare che quei fenomeni considerati come propri del siciliano sono invece comuni ad altri dialetti peninsu- lari, o sono semplici latmismi, o spiegabili per sola influenza d' analogia (4).

In tanta disparità d'opinioni l'egregio A. riprende la questione sin da principio, e senza

porre alcuna teoria espone soltanto i risultali del suo esame dei testL Riconosce la poca autorità che deve darsi alle lezioni dei testi siciliani che ci sono pòrte dai mss. toscani, ma in mancanza d' altro, egli dice, è d' uopo tenern a ciò che si ha. Il ms. del Barbieri con le due poesie scritte in dialetto è per lui di un*au-> torità assai problematica , e difficilmente sa- prebbe ammettere che un medesimo scrittore usasse poetando ora il dialetto, ora la lingua illustre. L'argomento più grave in favore del dialetto siculo è tutto nelle rime, sebbene anche su tale argomento non manchino dubbi ed opposizioni. V ha chi crede la canzone di Giulio scritta in Pugliese (5). e chi ammet^ tendo r esistenza di rime imperfette o sem- plicemente consonanti scuote le basi di tutta la teoria su la rima (6).

L' A. fa osservare che l' argomento tratto dalle rime è concludente soltanto per quelle esclusivamente siciliane. Crede pertanto < che non debba darsi alcun valore alle rime avere: morire, fidi: mercede, che trovansi in Ia- copo da Lentini, se anche Quittone d'Areno ha rimato ancide: mercide, dire: tenire; Ruggerone ha perisse : morisse, m&piacesse : avesse: sentisse ha pure Paganino da Sar- zana, e volesse: venisse si trova in Iacopo Mostacci; a nivi per neve rispondono le voci vice, nigri di Dante; se i siculi rimano di- mura: paura, scura: dimura fa rimare Pannuccio del Bagno; se Guido delle Colonne scrive prisay anche Dante ha scritto sorpriso e ripriso; ammessa la possibilità di un to- scano t da un lat. i, è sempre dubbio ae trattandosi di atone finali si debba ridurre avire ad aviri o non piuttosto sospiri a sospire ».

L'A. dimostra che per parlare con preci- sione si deve tenere in conto l'origine della vocale toscana. « La rima toscana « ( lat. Y) : t, ovvero o (lat. H): u può essere semplice latinismo; e (lat. t in pos.): t pos., ovvero o (lat. a in pos.) : u pos. possono essere effetto di tendenze contrarie ed analoghe del siculo e del

(1) D'Ovidio, Saggi Critici» Napoli, Morsilo, 1879; p. 383, 88.

(2) Baetoli, Storia della ktteratura italiana, Firenze, 1879; II, pag. 186.

(3) Caix, La forma ai0H9 degV idiomi Utterani otc. nella Xuota Antologia» voi. XXVII.pag. 295-97.

(4) D'Ovidio , 1. e. p. 618-30.

(5) Caix, Àncora i*l cwtrasto di (HuOo dP Alcamo nella Eitti^ta Europea, anno VD, voL II, p. 547 558. |6) Monaci, nella Rifiata di JOologia romuuta, U, p. 240.

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mamàUBA, a*^ 4]

BIBL109BAFICA

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toscano, dei quali il primo conserva t ed u in pgaisione, l'altro le cambia in e^ o. Re- stano adunque come fenomeni siciliani le rime é (lat. è): i; o (lat. 5): u, poiché le vocali lat. è, 5 divengono nel siculo i, u, e nel toscano restano inalterate. Ma anche queste rime « se si trovano in term'mazioni verbali fiumo pensare ad un passaggio di coniugazione o ad estensione analogica, se appaiono in poeti bolognesi o lombardi possono trarre ori- gine dal dialetto deli* autore, se infine si tro- vano in poeti toscani è dubbio nella maggior parte dei casi (specialmente nel caso o: u) se il cambiamento debba farsi sulla base si- cula cioè d*o in u o non piuttosto al con- trario, in continuazione, come spiega il prof. Caix, di forme latine volgari, riuscendo dif- ficile di estendere a tutti i casi V influenza romagnola o bolognese ».

Accenna anche TÀ. a quella teoria per la quale non solo d ed e, ma anche ò ed « ven- gono ammessi a rimare con t, u; non la crede impossibile tenuto conto di certa par- ticolare libertà di cui ha sempre goduto la rima italiana specialmente nella poesia po- polare; ma le confrappone il fatto della fre- quenza delle correzioni introdotte proprio in quelle rime, da gran numero di copisti.

Ridotto entro strettissimi termini il va- lore deir argomento tratto dalle rime in fa- vore della originaria forma dialettale delle poesie siciliane, VA. mostra, come contro- prova, che se con la restituzione dialettale alcune rime andrebbero ad accordarsi, alcune altre ne andrebbero inevitabilmente perdute, e che ciò ha condotto ad inesattezze e a con- traddizioni quelli che si accinsero a tradurre in dialetto le poesie de* siciliani. E a far que- sto mancava inoltre il punto di partenza, poiché dei documenti in dialetto siculo ri- tenuti del secolo XIII non é accertata T au-

tenticità o la data, e quelli sicuri sono po- steriori dì tale tempo che basterebbe a fare ammettere, se non altro, la possibilità di grave alterazione e cambiamento del dialetto. Nelle antiche poesie una certa parte deve farsi al particolare idioma dell* autore, e ad alcune forme dialettali anche della stessa Toscana, Je quali è indubitato che"penetra- rono nella lingua comune della poesia. L*À. fa seguire una sommaria rassegna di tali forme e vocaboli, che anticamente apparvero in varie province, e che oggi sono ristrette dentro una zona minore, o sono intieramente sparite; fa pure un rapido esame dei rap- porti che potè avervi 1* influenza occitanica, e conchiude « che quand* anche non sia ne- cessario di ricorrere cosi spesso come fanno taluni al provenzale o al francese per spie- gare forme o parole italiane, pure quel raf- fronto é assai utile per determinare il senso di locuzioni che non sono più in uso, o che han- no subito un cambiamento nel significato ».

Non tutte le conchiusioni dell* A. sono cosi perentorie e sicure da non ammettere discus- sione; ma è impossibile di negarne alcuna senza distruggere i fatti sopra i quali è fon- data, o senza addurne nuovi e contrari. Sa- rebbe da esaminare ogni pagina del libro, da vagliarne ogni esempio; ma ciò uscirebbe dai termini di una rassegna bibliografica, tanto più che dopo quel libro chiunque vorrà trattare la questione dell* antica lingua poetica d* Italia dovrà cominciare a porla sopra nuo- ve basi, e nuovamente edificare su quelle.

È poi sommamente augurabile che su di un tema cosi difficile ed importante nuovi studi si succedano Tuno ali* altro e che tutti, par- tendo da un esame ampio e diligente dei testi, siano informati a metodo strettamente scien- tifico e a critica rigorosa come 1* esempio ora datone dal sig. Qaspary.

Giulio Navone.

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RAS8B&NA

[OIOBHAUI DI FILOLOCU

4. 1 novellieri italiani in prosa indicati e descritti da G. B. Pàssaho. 2.* edizione, Torino, Paravia, 1878. Due volumi in 8*, I di pp. X-644, n di pp. 811

La prima edizione di questo Catalogo ap- parve nel 1864. Era un lavoro per più ra- gioni migliore di quello del Gamba, ma non per tanto i suoi difetti non erano pochi, e fu tosto sentito il desiderio di vederlo seguito da una nuova edizione. A preparar questa, oltre le indefesse ricerche dell' A., deve aver contribuito non poco il bel Catalogo che il Papanti pubblicava qualche anno dopo della collezione di novelle da lui posseduta e nella quale egli rivelavasi non solamente un ap- passionato raccoglitore, ma ben anche un in- telligente ed erudito bibliografo. Comunque sia, la nuova edizione del Catalogo del Pas- sano è riuscita davvero assai « migliorata e notevolmente accresciuta » e così com* è fa onore a chi vi spese intorno tante f .tiche e tanto tempo . Il Passano non si limita a darci le semplici indicazioni bibliografiche, ma ag- giunge l'argomento delle novelle men note, qualche raffronto, e preziosi sunti delle vite degli autori , con osservazioni sui pregi e sui difetti del loro stile e delle loro opere; onde scorrendolo, tu puoi quasi rifare colla mente tutto lo sviluppo della nostra novella, passando dalle storie meravigliose « dei Trojani,di Fie- sole e di Roma » , che narravano le vecchie- relle del dugento, alle novelle boccaccesche dalla forma squisitamente artistica, da que- ste alle oscene facetie del Domenichi o del- r Aretino, che principi e prelati e dame del cinquecento e del seicento leggevano e rileg- gevano tanto avidamente, per arrivare da ul- timo al tempo nostro, nel quale alcuno ritenta le forme antiche, altri va cercando vie nuove, altri infine ritoma alle vecchierelle dei contadi, eg^uali ora come nel dugento, per raccogliere dalle loro labbra quelle fiabe e quelle storie medesime che 3000 anni or sono si raccon- tavano sulle rive del Gange.

Vero è che questo sviluppo storico ed arti- stico della novella italiana si potrebbe meglio seguire, ed anche la semplice ricerca sarebbe facilitata, se il lavoro del Passano (e lo fa notare anche il Papanti) tosse diviso per se-

coli, anziché in due sole parti corrispondenti ai due volumi, nella prima delle quali sono le edizioni dal principio della stampa fino a tutto il secolo XVII, nella seconda quelle dei secoli XVIII e XIK. Il secondo volume, oltre a questo difetto capitale di trovarvisi indicate, assieme adle moderne, preziose novelle dei primi secoli della nostra letteratura, che eru- diti pubblicatori con ogni cura van traendo dai codici e dair oblio, ne ha secondo noi anche un altro, ed è di presentarci ad ogni tratto delle novelle inedite di scrittori recentissimi. Non che non siano tutte belle ed interessanti e degne di veder la luce, ma non era qui il luogo; e a scusa non giova l'esempio del Pa- panti, tanto più che quelle publicate da lai nel suo Catalogo sono deUe più preziose che vantino i primordi della nostra letteratura, ed egli del resto le aggiunse in Appendice. Un catalogo, perché possa venir consultato senza troppa difficoltà e con profitto, deve, quanto più è possibile, essere anche di pic- cola mole e la omissione di queste novelle moderne, unita ad altri miglioramenti sugge- riti dal Papanti, come il limitarsi molto più che il P. non £9iccia nella descrizione di libri di pochissima importanza, il raggruppare in una lista concisa le Strenne gli Almanacchi e i Giornali del nostro secolo in cui furono pubblicate novelle; e infine l'omissione di di- verse osservazioni dell' A. quasi inutili od estra- nee alla materia avrebbero potuto per avven- tura permettere la riduzione dei due volumi ad un solo.

I miglioramenti introdotti dal P. in que- sta 2.* edizione, e più i- difetti del suo lavoro furono maestrevolmente fatti risaltare dal Pa- panti, le cui savie osservazioni abbiamo gii due volte citate, in una Nota di ben 108 pp. (G, B. Passano e % suoi Novellieri etc agg. una Novella inedita del Magalotti etc, Li- vorno, Vigo, 1878), Nota necessaria a chi possiede il Catalogo del Passano, perché lo corregge e lo completa. Il Papanti accusa principalmente il P. della mancanza di un

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BOiuiuA, n,^ 4]

BIBLIOGRAFICA

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concetto fisso, trovando nel sno catalogo in- dicate novelle che non sono novelle, e vice- versa esclusi libri che pur dovrebbero entrarci, come p. e. molti dal P. eselusi solamente perché d* argomento osceno!? Lo biasima pure per non averci sempre dato T indicazione delle tirature a parte di qualche novella. In- teressante è la disputa fra i due bibliografi sul vero autore della novella Belfagor, ma ci sembra che gli argomenti addotti dal Papanti in favore del Brevio sieno validissimi.

L* erudito livornese loda ed a ragione il P. per gli interessanti raffironti di novelle che qua e ci diede nel suo Catalogo; mostra però con vari esempi che quei raffronti po- tevano venire estesi molto di più, e noi ac- cogliamo con vivo piacere la promessa ch*egli fa di un vasto lavoro in proposito. La sua interessante Nota ci in fine una lunga lista di errori in cui incorse il P., poi una di no- tizie da lui omesse, e da ultimo quella dei libri e delie edizioni di Novelle a lui ignote. A questa uliima anche noi ci permettiamo di dare le seguenti aggiunte.

Sabino Nappelli e le sue imposture, No- vella di GiovAMPiETRO Bbltrami;

La Menicuccia di S, Clemente, Novella dello stesso. In fine ad entrambe « Anno 1841 ». Si leggono a pp. 76-80 e 109-121 del Flori- legio Scientifico, Storico, Letterario, del Tirolo Italiano; Padova, co' tipi di Angelo Sicca, 1856, voi. in &*, di pag. 768, edito dal Roveretano I. Galvani.

Il Capris, eccellente beffardo, è beffato da Nastagio Botticelli; paga una cena, e occasione al proverbio che è a Trento : Qui sta 7 punto, orbo maledetto ! Novella del cav. Luigi Bernardo de Pompeati. In fine «'Anno 1827 ». Sta a pp. 161-169 della stessa opera, e anche nel volume Novelle di que- sto autore edite nel 1827 non ignote al Passano ; e secondo quanto me ne scrisse gentilmente il signor Fr. Ambrosi eh .»<> direttore dei Mu- sei e della Biblioteca civica di Trento, sta pure a p. 240 e seg. del voi. II delle Poesie scelte del Pompeati, edite dair ab. Stoffella della Croce.

H dente e le frittelle. Novella di Vale- RiANo Vannetti; nelPop. cit. a pp. 213-218.

Di questa novella il P. conosce una edizione di Milano, Vallardi, 1835.

La compera d' uova. Novella dello stesso; nell*op. oit. a pp. 219-223.

Ferdinando conte del Tirolo, Novella di Giustiniano degli Avancini. In fine « An- no 1825 » (e ne è nota appunto Tediz. di que- st'anno, B'Overeto, Marchesani); nell'op. cit. a pp. 419-448.

Bbltbani Giovaicpibtro, Fra Frontone, Novella, Trento, Marietti, 1872 ; in S*», di pa- gine 15; pubblicata per nozze Montel-Covi.

Perini Agostino, Racconti e Novelle; Rovereto, Stabilimento Tipografico V. Sotto- chiesa, 1875. In8^dipp.672. Veramente sulla copertina esterna è detto « Estratti dal Rac' coglitore. Anno 1874-75-76 i Rovereto 1876» ma anche lasciando, come fa il Papanti , dal notare le novelle omesse dal P. uscite in luce dopo il 1875, perché il Catalogo era in corso di stampa, lo posso fare per questo grosso volume deir autore della Statistica del Tren- tino, perché queste sue novelle e racconti, che illustrano la storia, i costumi e le bellezze na- turali del Trentino, cominciarono, come si vede, ad apparire nel 1874, e d'altronde in pochi mesi il P. non può esser arrivato colla stampa della sua opera alla lettera P del li volume. / miracoli deW alfabeto, racconto popo- lare di Giulia S., istitutrice. Milano, Giac. Agnelli, 1873. Fa parte della Biblioteca per il popolo; di pp. 24 in 12.<*

La vesta fa il monaco. Ant i-proverbio. Novellina di G. C. P. Occupa le pagg. 94 e 95 delle Prose e Versi di autori vivi e morti, Padova , tip. Antonelli , ded. alla con- tessa Arpalice Cittadella-Pappafava dal com- pilatore Leonardo Anselmi (Padova 1 Gen- najo 1855).

Novelle Piacevoli dal Fortunato raccolte, per diletto di quelli, che cercano di fi^g^ gir Votio d allegramente viuere. Di nuovo con diligentia stampate & poste in luce. S. 1. n. a.; 4 carte in 8^, con segnatura A 2 e con richiami , un esemplare se ne conserva nella Biblioteca Alessandrina di Roma. Le novelle sono quelle stesse dell' edizione di Verona per Bastian dalle donne et Giovanni fratelli, s. a., in 8*^, descritta dal Passano.

A. Zenatti.

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106 BULLETTINO [aioBJiALB di rihotoatA

BULLETTINO BIBLIOGRAFICO

1. Natice sur un manuscrit de Lyon renfermant une ancienne version la- Une inedite de trois livres du Pentatetique par Léopold Délisle. Pa- ris, Champion, 1879.

In fol. di pp. 4, con dne facsimili. - In questa breve ma succosa memoria il sig. D. dh conto alla Académìe des Inscriptions di una scoperta che riuscirà graditissima a tutti coloro che si occupano di latino volgare e particolarmente del latino delle versioni bibliche. Trattasi di un codice o piuttosto frammento di codice, che si conserva nella biblioteca municipale di Lione e che, già asse- gnato al IX secolo, il D. dimostra appartenere invece al YL Questo cimelio con- tenente una versione latina di tre libri del Pentateuco, diversa dalla Volgata e dair Itala, e certamente una delle più antiche, fa parte di quel medesimo ms. da cui Lord Ashburnham aveva pubblicato nel 1868 T antica traduzione del Le- vitico e dei Numeri; e la ricomposizione di questo preziosissimo codice fe tutta dovuta alla critica penetrante e sagace dell' insigne paleografo. Noi ci auguriamo che il sig. Robert, annunziato nella presente memoria come il futuro editore del nuovo testo, possa presto portare a compimento la sua bella impresa, che deve tenere in viva aspettazione non pochi studiosi.

2. Index zu Dicz' Etymólogischem Worterbuch der romanischen Sprachen^ von D.' J. U. Jabnik. Berlin, Langeuscheidt, 1878.

In S.^ di pp. VI-237. Il sig. J. volle supplire a un difetto, che quanti ado- perano il Dizionario Etimologico del Dìez avranno spesso sentito, quello di un repertorio alfabetico di tutti i vocaboli che si trovano per entro quella opera illustrati. Il paziente lavoro del sig. J. è riuscito accuratissimo, e di questa utile quanto modesta fatica che completa T ordinamento materiale del lessico Dieziano, dovranno essergli grati tutti gli studiosi. Peccato che quest'Indice si riferisca alla terza edizione delP^. W. e non alla quarta recentemente usciixi colle giunte dello Scheler; tuttavìa anche per la nuova potrà essere adoperato, purché si tenga conto dei rinvii per parole senza badare agli altri per pagine.

3. Chi fosse il preteso CiuUo d'Alcamo, di N. Caix. Firenze, Tipogr. della

Gazz. d'Italia, 1879.

In 8.<> di pp. 24, estr. dalla Bivista Europea, 16 marzo 1879.

4. Cielo dal canto a proposito d' una recente pubblicazione, osservazioni d'un dilettante (Adolfo Borgognoni). Firenze, Barbèra, 1879.

In 16.® di pp. 38. Si tratta sempre di Giulio d'Alcamo. Il Caix non tro- vando il nome dell' autore nelF unico testo antico del Contrasto e nemmeno nel

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B0MAH2A, N.» 4] BIBLIOGBAFICO 107

relativo passo del De vulg, éloq. di Dante, entra a dubitare della nota Colocoiana onde quel nome fu cavato e cerca per altra via di determinare V autore del ce- lebre poemetto. Si volge per ciò a studiare il sistema di composizione del cod. Yatic. 3793 comparato con quello del Lauremc-Rediano 9, e notando che il con- trasto si trova nel Vai in mezzo a un gruppo di poesie che appartengono a Giacomino Pugliese, conclude per attribuire a costui il contrasto eziandio. Non tutti forse ammetterano la necessità di tale conclusione, ma conviene pur rico- noscere che anche questa volta il C. diede alla sua ricerca queir indirizzo me- todico che distingue tutti i buoni lavori scientifici. 11 Borgognoni poi non ac- cettando altra autorità air infuori della nota Ooloociana, vuole ristabilire su quella il nome dell* ignoto poeta, e la critica paleografica lo porta a delo dal camo. Ma se la paleografia lo impone, la storia T accetterà senz* altro? Ne dubitiamo, almeno finché al B. non riesca di trovare, sia pure una volta sola, un altro Cielo, il che forse non sarà troppo facile. Comunque poi vogliasi pen- sare di ciò e ammesso che la questione debba essere studiata per ogni verso, non possiamo peraltro nascondere la dolorosa impressione che in noi od in altri produsse il leggere la parte polemica di questo scritto. Sia il dissenso libero, franco, senza complimenti, e va bene; ma che lo si condisca anche di quei modi pungenti che s'incontrano quasi ad ogni pagina di quesV opuscolo, non ci pare bello buono, e forse V egregio autore tornandovi sopr a con calma non tarderà a convenirne egli stesso.

5. Dante Forschungen, AUes und Neues vou K. Witte. Halle, Barthel, 1869; Heiibronn, Henninger, 1879.

Due voli, in 16. di pp. XVI-509, X-604. L' illustre dantofilo ha riunito in questi due volumi la maggior parte dei suoi scritti su Dante (1824-1878), alcuni dei quali inediti, ed altri ohe andavano finora sparsi in varie Riviste o in opuscoli divenuti ben rari. Questi scritti sono 55, e alcuni trattano della famiglia, della vita, delle relazioni e degli studj di Dante; altri delle opere di lui e prin- cipalmente del testo della Commedia j della classificazione dei mss., del particolare valore di alcuni codici e delle edizioni più famose di essa; altri dei comentarj, delle traduzioni e della bibliografia, e tutt* insieme formano quasi una enciclo- pedìa dantesca, una specie di manuale ormai indispensabile per quanti vogliano attendere seriamente agli studj su Dante e promuoverne con efficacia 1* avanza- mento. Corredano questi due preziosi volumi un ritratto dell* Alighieri secondo un antico disegno a penna, e una pianta topografica di Firenze alla fine del sec. Xin, sussidio anche questo utilissimo. Peccato che T edizione per quanto nitida ed elegante, abbondi di errori tipografici, massimamente nella parte italiana.

6. La vita e le opere di Gitdio Cesare Croce, monografia di Olindo Guer- BiNi. Bologna, Zanichelli, 1879.

In 8.<» di pp. XIII-516. Dopo aver brillato nella palestra dell'arte il si- gnor Guerrini ora si è volto alle non meno utili discipline della storia lettera- ria. Diamo il benvenuto al nuovo autodidatta. Egli lavora in Bologna, ove seppe trovare un beli* argomento pei suoi studj, il noto libretto di Bertoldo e Bertoldino f scritto nel sec. XVII dal Bolognese G. C. Croce, e divenuto popohi-

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108 BULLETTINO [giouials di filoumu

rìfltimo, massime fra i volghi romagnuoli. Bello il qnadro cbe ci fa TÀ. dei tempi che produssero il Croce, copiosi ì documenti e le notine biografiche e bi- bliografiche onde arricchisce il suo volarne. Ma la parte principale di questo consiste nella ricerca sulle origini della tradizione di Bertoldo, che il G. sagace- mente ricollega alla leggenda salomonica e ai eosidetti dialoghi di Saltmome e MarcolfOt e per questa parte VA, non dissimula di presentire accuse di omissioni, che infatti non gli mancarono, v. Nuova AntcHogia, 15 Genn. 1879, Zeitsdmfì far rom. PhU, III, 121. Egli si difende col ricordare le eondiiioni delle nostre bi- Woteche pubbliche, condizioni che formano un vero ostacolo agli studj di era- dizione in Italia. Ma se una tale considerazione vale più per Fautore che per il suo libro, il sig. G. può almeno rall^rarsi, e con tutta ragione, che dallo searso materiale che ebbe alle mani, riuscì nonpertanto a raccogliere ciò che era più essenziale nella sua ricerca, e a determinarne i punti principali. Ulteriori spi- golature varranno ad arricchire, non a menomare il valore del suo libro.

7. Documenti storici Fahrianesi raccolti e pubblicati a cura del Can. Au- BELio ZoNOHi Bibliotecario Comunale e custode dell' archivio storico. Fabriano, Tip. Sociale, 1879.

In 8.0 gr. di pp. 53 con una tavola. Contiene i Capitoli della Fraternità dei Disciplinati di Fabriano, scritti verosimilmente nel sec. XIY ma conserfati in un cod. di età meno antica; inoltre, un frammento Debordine dèUe predy da altro libro di quei Disciplinati, e quattro Laude con un sonetto alla Ma- donna da mss. del sec. XIY ; tutti questi testi hanno particolare importanza per

10 studio deir antico dialetto di Fabriano, e sono accompagnati da una dotta illustrazione storica e paleografica dell' egregio editore.

8. Lamento di Bernabò Visconti. Milano, Bemardoni, 1878.

In 8.<> di pp. 15, estratto dair^rc^ivj'o Storico Lombardo, an. V, fase. 4.*

11 Lamento si compone di 49 ottave, « è contemporaneo alla prigionia di Ber- nabò > e « il più antico Lamento politico in lingua italiana di cui s'abbia no- tizia fin qui ». (Conf. D'Ancona, Poes. pop. ital, p. 66, n. 2). D testo è tratto dal cod. Marciano CI. IX, n.<» CXLU degl'Italiani e fu comunicato al- l'^rc^tt?*o dal prof. Rajna.

9. Due novèlle di Giovanni Sercambi. Milano, Bernandoni, 1879.

In 8.® di pp. 16. pubbl. dal sig. Isaia Ghiron per nozze Gori-Riva. Le due novelle sono « tratte dalla Biblioteca Trivulzio .... appartengono ad un codice del XV secolo, in cui stanno racchiuse molt' altre che non videro la luce nella più ricca edizione fattane dal ch.™° prof. A. D'Ancona ». Il loro titolo è De leaUate, e De sapientia et vero judicio.

10. Novelline e Canti popolari détte Marche. Pano, Pasqualis, 1878.

Elagantissimo opuscolo in 8.'» di pp. 18, dedicato dal nostro egregio amico, prof. Carlo Gargiolli, alle nozze ImbrianiRosnati. Le novelline sono due, El fijo del Be, El fijo deWOrco, nove i canti, e le une che gli altri consenrano la schietta forma vernacola nella quale furono raccolti dal prof. Qianandrea.

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«OMAKEA, ».• 4] BIBLIOGRAFICO 109

11. P. ToRRAccA. Sacre rappresentazioni del Napoletano. [Napoli, 1879.]

In 8.® di pp. 52, estr. àdXÌ^ Archivio storico per le province Napolitane, an. IV, fsc 1.® È una memoria i cui materiali furono tratti da una interessante col- lezione del sec. XVI, che trovasi fra i msa. della Nazionale di Napoli e che nes- suno finora aveva fatta conoscere. Avendo io esaminata qresta raccolta nel 1874, ne do qui la registrazione che il sig. T. forse per dimenticanza non indicò. Essa è XIII. D. 40, La memoria è ben fatta e dk intorno air uso delle sacre rappresen- tazioni nella provincia di Napoli dei particolari che formano un opportuno com- plemento al lavoro generale del D' Ancona sulle Origini del teatro in Italia, Tuttavia il soggetto è lungi dalP essere esaurito. Conosciamo alcune Laude dram- matiche provenienti dalla città di Aquila, nelle quali si ritrova cronologicamente e topograficamente quasi Panello di congiunzione fra le antichissime rappresen- tazioni deir Umbria e i successivi esplicamenti di questo genere nelle provincio napolitane. Le copiammo dal codice XIII. D. 59 della Nazionale di Napoli e ci riserviamo di pubblicarle con altri documenti che vi stanno accanto (v. Riv, di fi, rom, II, 24, 114 ). Di altra raccolta pure interessante per questo argomento toccheremo in altro fascicolo.

12. Saggi critici di Francesco D'Ovidio. Napoli, Morano, 1879.

In 16. di pp. XVI-677. -— Oltre a varj articoli di critica e letteratura con- temporanea, questo bel volume del nostro amico contiene altri scritti letterarj e filologici in parte inediti, in parte estratti da diverse Riviste e qui ristampati con correzioni od aggiunte. Non potendo, come pur vorremmo, discorrere lar- gamente di cotesti scritti, ne faremo almeno conoscere i titoli. Questi sono: « Pio Rajna e le sue Fonti deW Ariosto; Fontano del Tallarigo; Il ca- rattere, gli amori e le sventure di T. Tasso ; Due tragedie del cinquecento {V Edippo delPAnguillara e il Torrismondo del Tasso); Nota sul verso del X canto deir Inferno : Forse cui Guido vostro ebbe a disdegno ; Sul trattato De volgari éloqtientia di Dante Alighieri ; La metrica della canzone secondo Dan- te ; Lingua e dialetto ; Della questione della nostra lingua e della questione di Giulio d'Alcamo; La lingua dei Promessi Sposi ».

13. Un document inédit sur Laure de Sade par M. db Berluc-Perussis. Aix en Provence, Marino Illy, 1876.

In 8.* di 16 pp. estr. dai Mémoires de VAcademie d'Aix, Non riuscimmo finora a vedere questo opuscolo e solo ne leggemmo un resoconto che ne il sig. A. Roque-Ferrier nella Bevue des langues romanes, 1878, pg. 293. Se- condo questo, dal documento di cui qui si parla, che ò tratto da un nobiliario della Provenza, risulterebbe che la Laura amata dal Petrarca sarebbe stata so- rella e non moglie di Ugo de Sade.

14. Die proveìualische Blumenlese der Biblioteca Chigiana, Erster und getreuer Abdruck nach dem gegenwartig verstiimmelten Originai und der voUstandigen Copie der Riccardiana. Von Edmund Stbngel. Mar- burg, Elwert, 1877.

In 4.« di pp. IV-79. È noto che il cod. L. IV. 106 della Bibl. Chigiana contiene, oltre ad una copiosa raccolta di poesie di Beltramo dal Bornio, un flo-

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110 BULLETTINO [oiornalb di filoioou

rilegio di altre poesie, parie intere e parte a frammenti, che spettano a di- versi trovatori, parecchie delle quali non si trovano che in questo canzoniere ed alcune erano anche inedite. Lo Stengel , inaugurandosi nelP Ottobre 1877 il suo rettorato alla Università di Marburg, pubblicava per intero quel florilegio, e siccome il codice presentemente è mutilo in questa parte di 10 fogli, lo S. supplì la lacuna coli' ajuto del cod. 2981 Riccardiano, che è una copia con data del 1594, eseguita allorché il cod. Chigiano (allora Stremano) era tuttavia intero. L'edi- zione è diplomatica ed é arricchita da ottimi indici di riscontro. Il Bartsch nella Zeitschrift del Grdber (II, 128) notò alcune differenze di lettura; avendo ri- scontrato quei passi in sul codice, ci riserviamo di dare in altro momento il ri- sultato della nostra collazione; ma intanto avvertiamo che tali differenze si ridu- cono a ben poche e sono lievissime.

15. Dm ròle hìstorique de Bertrand de Barn (1175-1200) par Leon Clédat. Paris, Thorin, 1879.

In 8.® di pp. 122, eatr. dal fase. VII della Btbliothèque dea écóles franeaises éPA- thènes et de Rome. Benché parecchi si sieno occupati della biografia di Beltramo dal Bornio, e taluni anche con lode, come il Diez ed il Laurens, nessuno aveva peraltro esplorato tutte le fonti che si conoscono e che possono giovare ad illu- strar la vita di quel famoso trovatore. Primo il Clédat si è servito di tutte le cronache contemporanee, francesi ed inglesi, e oltre a ciò attinse all'intero Car- tulario di Dalon, documento molto importante por questo oggetto, del quale conservasi una copia nella Nazionale di Parigi e che il Laurens aveva appena consultato qua e Ik. Coir ajuto di coteste fonti e per una accurata analisi di tutte le poesie di Beltramo, PA. ò riuscito a precisare assai meglio che non fosse stato fatto per T innanzi razione storica del trovatore di Autafort e a ri- schiarare molti punti della sua vita che finora erano rimasti nella oscurità. Nel tutto insieme questo studio è assai buono per il metodo e per i risultati a cui giunge, e fa onore al novello cattedratico di Lione, come oAVÉcole des chartes di cui il Clédat ò antico allievo. V. Rassegna settimanale, voi. IV, n.° 79.

16. Bertran de Barn, sein Lehen undseine WerJce, mit Anmerkungeu und Glossar herausgegeben von Albert Stimming. Halle, Niemeyer, 1879.

In 8.° di pp. VI-370. Mentre il Clédat pubblicava in Francia il lavoro so- pra annunciato, altro lavoro usciva in Gei-mania sullo stesso trovatore per opera di A. Stimmig, nome già favorevolmente conosciuto fra i cultori della filologia neolatina. II Clédat ha studiato soltanto la biografia di Bertrando, lo Stimming alla biografia ha aggiunto una edizione critica delle opere poetiche di lui, e que- sta si può dire che sia la parte principale del suo volume. Per la biografia lo S. non attinse direttamente al Cartulario di Dalon, ma invece si servi del Lau- rens, al quale poi spesso sembra accordare fede più che non ne meriti, onde in questa parte il libro dello S. riesce inferiore a quello del C. Già però notammo che Tobbjetto principale dello S. fu di dare un testo critico delle numerose e importanti poesie (per la maggior parte storiche e politiche) di Beltramo, e bi- sogna riconoscere che in quest'opera faticosa e ardua egli si è acquistato un merito eccellente. Si potrà discutere sulla preferenza data ad una o ad altra variante, si potrà dubitare della giustezza di qualche interpretazione, si potrà

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AOMANEA, N.o 4] BIBLIOGBAFICO 111

ancora modificare questa o quella classificazione dei mas. (v. per ora Clédat nella Bomania n.<* 30); ma, a parte ciò che in simili lavori vi è necessariamente di soggettivo e che come tale non potrh. mai essere sicuro da dissensi e da opposti giudizj, resta sempre allo S. il merito di avere per la prima volta raccolto tutto l'abbondante e complicato materiale critico e di averlo messo in azione con me- todo rigoroso e veramente scientifico, il che gli permise in passi difficilissimi di giungere talvolta a restituzioni che sono davvero felici, come, per esempio, nel n.*» 24 (Non puosc mudar). Questa bella edizione è arricchita di ottime anno- tazioni e di un glossario che ci pare molto accurato. Diedero conto di questo libro Btengeì néìl^ Jenaer Lìteraturzeitungf 1879, n. 25; Clédat nella iJ^rwc cn- tique, 1879, n.<> 26. La Bomania (n.<' 31 nella Cronaca) lo riconosce anch* essa per « una importante pubblicazione >.

17. Las niocedades del Cid de D. Guiìlem de Castro. Reimpresion con- forme a la edicion origiual publicada en Valencia, 1621. Bonn, Weber, 1878.

In 8.° picc. di pp. VIII-214. Tre edizioni moderne si possedevana di queste due belle commedie del De Castro sul Cid, ma nessuna abbastanza accessibile agli studiosi abbastanza conforme all' originale. Per ovviare al bisogno nei suoi corsi accademici il prof. W. Foerster della Università di Bonn ha curata questa ristampa, per la quale, non avendo potuto adoperare l'autografo del De Castro, pi*ese a base la edizione principe (Valenza, 1621), secondo una copia fornitagli da un suo allivo di su l'esemplare che si conserva a Vienna. La nuova edi- zione riproduce dunque l'antica, tranne che negli errori di stampa e nella con- fusione delle strofe, e in pochi altri passi che sono a suo luogo indicati e giu- stificati. La stampa è accurata quanto elegante, e oltre la tiratura in carta comune a prezzo mitissimo, ne furono tirati altri esemplari su carta distinta ed in formato più grande, con inquadratura della giustificazione in rosso, che fa- ranno la delizia dei bibliofili. Un resoconto del Morel-Fatio è nella Bevue crttique, 1879, n,^ 15; un altro se ne legge nella Zeitschrift del Gr5ber, III, 131 (Lemcke).

18. Ueber Calderons SibyUe des Orients. Festrede gehalten in der offentli- chen Sitzung der k. Akademie der Wissenschafte?! zu Miinchen zur Peier ihres einhundert und zwanzigsten Stiftungstages ani 28 Marz 1879, Yon Wilhelm Meyeb aus Speyer. Miinchen, 1879.

In 4.^ di pp. 28. Dopo alcune considerazioni generali sulla importanza degli studj che riguardano il medio evo, l'A. si volge a dimostrare come il Calderon nel suo Auto El Arbor del mejor fruto si sia servito della leggenda del legno della croce in quella forma in cui l'ebbe trovata nel libro del gesuita Pineda intorno a Salomone, fatto a cui il Mussafia nel suo bel lavoro su quella leggenda aveva soltanto accennato. Mostra quindi probabile che il poeta spagnuolo nel- r altro suo dramma La Sibila del Orient y gran Beina Saba che l'A. non dubita di ascrivere al Calderon medesimo, abbia messa a suo profitto la stessa opera del Pineda solo dando all' azione la forma drammatica. Come tutti i lavoii del giovane erudito di Spira anche questo si distingue per copia di dottrina, e per fino intuito critico.

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112 . BULLETTINO [aioRNALE di fu^looia

19. L^ Espagne au XVI* et au XVir siede, documents historiques et litteraires publiés et annotes par Alfred Mo&el-Fatio. Heilbroniii Henninger, 1878.

In 8.° di pp. XI-698. Tutti i documenti qui pubblicati sono importanti e conferiscono a meglio chiarire o anche a correggere qualche punto della storia spagnuola, ma due soli hanuo particolare interesse per la storia letteraria. Questi sono: 1) Cancionero general de obraS nuovas hasta aora impressas assi por éH arte espanola comò por la toscana; 2) Accademia de burla que se hizo enhuen retiro a la magestad de'Philipo quarto el grand, ano de 1637. Del primo di questi documenti aveva già rilevato il valore e datane una descrizione F. Wolf nella memoria letta alF Accademia di Vienna che ha per titolo: Ein Beiirag zur Bibliographie der Cancioneros und zur Geschichte der Spanischen KunsQyrik am Hofe Kaiser KarVs V (Sitzungsherichte, 1853, X, 153-204). U M.-F. Tha tutto ristampato secondo Punico esemplare che se ne conosce nella biblioteca ducale di Wolfenbiìttel , sfuggito alla distruzione della intera edizione , e T ha accompagnato con una dotta prefazione e con copiose note e varianti. Il secondo « è un episodio delle feste straordinarie celebrate a Madrid dal 15 al 25 feb- braio 1637, in occasione del voto degli elettori dell'Impero riuniti a Ratisbona, che conferiva la dignità di re dei Romani al re di Ungheria più tardi impera- tore sotto il nome di Ferdinando III ». Si tratta, come osserva T editore, di composizioni improvvisate dove non si cercava che di cogliere il lato comico dei soggetti, di svolgerlo con spirito e con grazia, evitando le volgarità e le scor- rezioni di lingua e di verseggiatura ; e se non vi si ritrova V arte e lo stile gran- dioso del seicento , vi s' incontrano peraltro dei componimenti ben condotti e piacevoli a leggersi per la forma che pel contenuto. « Cette Académie con- clude il M. F. est une plaisenterie, parfois un tant soit peu risquée, mais qu*on doit lire et comprendre comme telle, sans j attacher plus d'importance qn'elle n'en mérite pour le fond des idées ». Anche questo testo ha una buona intro- duzione e abbondanti note illustrative.

20. Dos altfran^'ósiscìie RolandsUed. Genauer Abdruck der Oxforder Hs. Digby 23 besorgt von Edmund Stengel. Heilbronn, Henninger, 1878.

In 8.*» di pp. XI-143. -- Questa nuova edizione della Chanson de Boland ri- produce fedelmente, pagina per pagina, abbreviatura per abbreviatura, il piiì importante dei mss. di quel poema, ohe è conservato nella Bodleiana di Oxford. Sottostanno al testo brevi note che offrono succinte avvertenze paleografiche o che fanno conoscere le differenze di lezione e gli emendamenti critici introdotti nelle edizioni precedenti , e il volume è accompagnato da un fac-simile fotografico di due pagiue del codice medesimo. Questo fac-simile anche saggio della riproduzione fotografica che lo Stengel medesimo testé pubblicava a suo spese deir intero codice , col titolo Photographische W leder gàbe der Hs. Digby 23 ( Chanson de Boland) mit Genehmigung der Curatoren der bodleyschen Bìbìio- thek zu Oxfordf veranstaltet von D.*^ Edm. Stengel. Heilbronn, Henninger, 1878; riproduzione che non meno della edizione qui annunziata, sarà utilissima prin- cipalmente per le esercitazioni scolastiche dei corsi superiori. A tale scopo i fogli della fotografia sono stati messi in vendita anche separatamente.

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ROMANZA N.o 4] BIBLIOGRAFICO 113

21. Le Mystère de la Passion cPAmotd Gréban, pablìé d*après les mss. de Paris, avec une introdnction et un glossaire par Gaston Paris et Gasto!^ Raynaud. Paris, Vieweg, 1878.

In 8."* gr. di pp. Ln-474. JQ Mistero della Passione di A. Greban era finora conosciuto soltanto per un rifacimento di Jean Michel dell' ant^ 1486, rifacimento che aveva talmente trasformato T originale del Greban, da farlo parere quasi una composizione novella. Il Paris e il Raynaud ci danno per la prima volta la forma genuina di questo dramma (composto di 34,574 versi), che può dirsi uno dei principali monumenti in cui esplicossi e poi si chiuse il mistero francese della età media. L'edizione, opera di molta fatica, si fonda principalmente sul- rSlG dei codd. fr. della Nazionale di Parigi, che fu scritto nel 1473, circa 23 anni dopo la composizione del dramma , e attinge le correzioni da altri due mss. meno antichi che rappresentano la lezione più diffusa e derivano probabilmente dalla redazione del testo fatta da Simone, fratello di Arnoul, dopo la morte di questo avvenuta nel 1470. Utili materiali per T edizione si sarebbero potuti raccogliere anche dal cod. Corsiniano già segnalato dallo Steugel (Biv. di filol. rom. li, 128), e fatto meglio conoscere dopo questa pubblicazione dal Tobler (ZeitscHrift f. rom. Phil, II, 589) ; ma gli editori pur riconoscendo T utilità di estendere l'esame anche ai mss. che trovansi fuori di Parigi , furono costretti dal soverchiare del lavoro a chiudersi entro limiti più angusti e ciò, giova notarlo, non ha loro impedito di dare un testo soddisfacente e abbastanza corretto. Un ottimo glos- sario chiude il volume, che d'ora innanzi sarà spesso sfogliato da quanti studiano l'antico francese, ed ò quasi superfluo l'aggiungere che l'introduzione nella parte biografica come nella letteraria compie degnamente questo volume che è riuscito quale potevasi aspettare da due editori si distinti.

Recensioni ed appunti particolari leggemmo nella Bevue des latigves roma' nes, 1879, p. 135 (Chabaneau); Jenaer Literaturzeitung , 1879, n.*» 2 (Stengel); Literar. Centraìblatt, 1879, n.«» 3.

22. Aticassin et Nicolette^ chantefable du XII" siècle tradoite par A. Bida, re vision da texte originai et préface par Gaston Paris. Paris, Ha- chette, 1878.

In 4.<» di pp. XXXI-104, con nove acque-forti.

23. Aucassin und Nicolete nen nach der Handschrift mit Paradigmen nnd Glossar von Hermann SucnneR. Paderbon, Schòningh, 1878.

In 8.*» di pp. VIII-116. Le due edizioni qui sopra annunciate hanne intenti affatto diversi. La francese, pur cercando di ridare al testo una forma corretta, arricchì questo di una traduzione e di una prefazione che permetteranno anche ai non eruditi di gustare questa graziosissima novella, e l'elegante volume è princi- palmente destinato a costoro. La tedesca invece ha fatto dell' Aucassin un libro esclusi vameu te scolastico, e sotto questo riguardo il Paris stesso, che gli dedicava un bell'articolo nella 22omama, n,^ 30, riconosca che l' edizione risponde perfet- tamente al suo scopo, e non dubita che avrà quella riuscita a cui mira. Il testo è restituito criticamente solo in quanto al senso e alla espressione, non in quanto alla forma dialettale. Corredano il testo: 1) una tavola delle abbreviature ado- perate nell'unico ms. ove si trova V Aucassin, colla giustificazione del loro sclo-

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114 BULLETTINO [giohnalb di filologia

glimento: 2) alcune note esplicative del testo e delle congetture; 3) uno studio accuratissimo sul dialetto del poema; 4) i paradigmi grammaticali ; 5) un glos- sario di tutte le voci che occorrono nel componimento. Malgrado appunti par- ticolari, i critici più competenti sono concordi nel lodare il libro e riconoscono che le ricerche dell* A. esposte nel § 3 spesso estendono ed approfondiscono la conoscenza deèl' antico francese. Oltre il citato articolo della Romania, v- Literarisches Gentralblatt, 1879, n.*» 18; Jeaner Liteì'aturzeitung ^ 1879, n.* 11 (Stengel); Zeitschrift fur rom. Fhil, II, 624 (Tobler).

24. Die nordische tmd die englische Version der Trisfan-Sage. Herausge- geben von Euqen Kolbino. Erster Theil: Tristrams Saga oh Isondar. Heilbronn, Henninger, 1878.

In 8.° di pp. CXLVIII-224. È noto come i paesi scandinavi e tedeschi du- rante il medio evo accolsero con molto favore e si assimilarono una parte non piccola delle tradizioni epiche della Francia; onde avviene che per parecchie di tali.'tradizioni, i cui originali francesi andarono perduti, la storia letteraria at- tingendo alle vei sioni nordiche possa sovente ricolmare fino a un certo punto le sue lacune. Una di queste tradizioni au cui vediamo ora dirigersi T attenzione degli studiosi, è la Saga di Tristano, saga della quale si ritrovano tre versioni nella letteratura inglese, nella islandese e nella tedesca, e alcuni frammenti di una quarta, attribuita ad un certo Thomas, nella francese. Il Eoelbing, distinto cultore della filologia germanica e neolatina, ha preso a pubblicare le versioni islandese ed inglese di cotesta saga (essendo già a stampa la tedesca che è il Tristano di Gottfried di Strasburgo, e in via di pubblicazione i frammenti della francese) e a quelle versioni pose innanzi una elaboratissima prefazione, dove sono accuratamente e largamente studiate le diverse relazioni che intercedono fra le quattro versioni anzidette. Risultato di tale studio b che la versione francese deve aver servito di fondamento alle altre tre, e che mentre la islan- dese (scritta nel 1226 da un chierico di nome Roberto per impulso del re Hakon il vecchio) ci rappresenta più completamente e fedelmente il poema di Thomas, la tedesca poi è quella che maggiormente se ne allontana, senza guadagnare per questo in originalità: onde il valore poetico del celebre minnesingero di Stras- burgo resta omai considerevolmente attenuato. Il volume pubblicato testé, oltre la detta prefazione, contiene il testo islandese della saga accompagnato da una traduzione tedesca e da abbondanti note filologiche. Recensioni di questo libro possono leggersi nella Romania, n.° 30 (Vetter); nella Jena&r LUera" turzeitung, 1879, n.^» 25 (Lòschhorn) ; nel Literar. CeniraJblaU, 1879, n.*» 23; Reme critique, 1879, art. 90 (Vetter). Qui poi cade in acconcio di ricordare la interes- sante nota di G. Paris su Breri, fonte di Thomas, inserita nella Romania, n." 31, p. 425 e ss.

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ROMANZA, N.** 4]

115

PERIODICI

1. Archivio glottolooico italiano, III, punt. 3. U. A. CanellOf Oli alJòtropi ita- liani. — G, P. Hasdett, Le type syntaclique « homo-ille ille-bonus » et sa parentèle. 6. I. Ascoli y Varia: Le doppie figure neo- latine del tipo « briaco imbriaco »; brillo, brio, brillare; ascia ascula; iscla Ifichia; Peschi© ; ancora di pesclo, Peschio; bisca spagp.; gl9ma ; Zara,Troyes ecc. ancora del tipo « vime vimine »; ancora del participio in -ésto; Il testo istriano del Salviati. Indici del volume.

2. Romania, n.« 28. A. Morel-Fatio, El Libro de Exemplos por a, b, e de Cli- inente Sanchez. E. Cosquin, Contes po- pulaires lorrains. Mélanges: J. Cornu, Mien = meum. L. Havet, Couturae, enclu- me. P, JVf., Antz en langue d*oc. J. Cornu, Etyraologìps espagnolea: burdo, di- zer. G, Raynaud, Le dit de Jehan le Ri- golé. E. Rolland, ti signe d'interroga- tion. Correction: A. Lùttge, Sur la Vie de Saint Jehan buoche d*or, Comptes-ren- dus. Póriodiques (pp. 625-7, resoconto del n.** 2 del Giornale; nota snirorifrine di Sir- ventese e osservazioni sulPart. Di un poe- ma inedito di Carlo Mertello e di Ugo conte d'Alvernia. Il resoconto del n.*^ 1 è nel fase. 27). Chronique.

--N.<>29. A. Longnon, Uélément histo- rique de Huon de Bordeaux. /. Ulrich, Miracles de Notre Dame en provencal. G.Paris, Lais inèdita: Tyoipt, Guiugamor, Doon, le Lecheor, Tydorel. A. Stickney^ Chansons fran<jai?es tirées d'un ms. de Flo- rence (Strozzi-Magliab. CI. VU,n.o 1040).— Mélanges: L. Ifavet, L'italien anche, le fran- Qais . ncore. GP., Diuer. G. Raynaud, Rigot; à tire-larigot à tire le rigot. Ch. Joret, Non* et on.— G. Raynaud, Un testament raarseillais en 1316. P. M., Un nis. du XV® siede de la cronique de Dino Compagni. C, Chabaneau, I final non

étymologiqìie en langue d'oc. /. Bauquier^ Changement de ts final en ce et toh. Koehler, L'àroe en gage. V, Smith, Chants populaires du Velay et du Forez; fragraents de bestialres chanlés. Cor- rections: C, Chabaneau, Marcabrus: Pax in nomine Domini; Cercamon: Car vey fé- nir a tot dia. Coroptes-rendus. Périodi- ques. Chronique.

^ N.** 30. H, D'Arbois de Jubain- ville. Dea rapporta de la versification du vieil irlandais avec la versification romane. P. Meyer, L'imparfaìt du subjonctif en es (provenQal). {?. Paris, La vie de Saint Aleii en vers octosyllabiqoes. P. Meyer, Traités catalans de grammaire et de poéti- tique ; Terramagnino de Pise. M. Cohendy d A. Thomas, Strophes au Saint Esprit, suivies des statuta d*une confrérie du saint Esprit, en dialecle auvergnat. II. Carnoy^ Contes, petites légendes, croyances popu- laires, coutumes, formujettes, jeui d'enfanta, recueillis à Warloy-Baillon (Somme) ou & Mailly. Mélanges: /. Ulrich, Étymologies: amonestar, carestia, des ver. G. P., San- cier, essancier. G. P., Un fragment in- connu. L. Clédat, Le sirventes Bera piai lo gais tempa de pascor. Comptea-ren- dus. Périodiques. Cronique.

3. RbVUE DBS LANOUES ROMANES, DeUX.®

Serie, a. 1878. n.* 5-6. C. Chabaneau, Es- sai d'une traduction catalane de la Legende dorée. P. Preda, Trois poésies milanaises de Carlo Porta.— V, Smith, Vn Alleluia pascal en Velay. /. Sant-Rémy, Pouesias dioisas de Gusté Boueiasier. A. Gazier, Leitres à Grégoire sur les patois de Fran- ce. i?. Alecsandri, Cantul gintei latine.— Matheu y Fornells, Lo cant del Llati. F. Mistral, A la ra^o latino. MM' L. Gai- rand, Calabrun. Th. Aubanel, Lnno pie- no. — C. Laforgue, La Bouraiano. M.^ L. de Ricard, A la mar latina. A, Roux^

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116

PERIODICI

[giOBXALE di PILOL06U

A Mount-peliè. L. Roumieux, Lou Branle de las Trelhas. Ch. Gros, UAutouna. Bibliographie. Périodìques. Chronique.

X.* 7-8-9. C. Chabaneau, Noèl lan- guedocien inédit. M, Rivière ^ Notes sur le langage de St-Maurice-de-rExil. Mou dera coucon. A. Roque-Ferrier, Un fragment de poème en langage de Bessan. /. Saint- Rémy, PoueÌ8Ìa8 dioisas de Ousté Boneis- sier. yl. Gazier, Lettres à Grégoire sur lee patois de France. A. Montel db L. Lam- bertf Chants populaires da Langaedoc. Piat, Maucor. G^. Bonaparte-Wyse , Lou Dióu vivent. L Roumieux, A Ni?o. A. Foures, La Semenairo de milh. J£°« L. Goirand, Vespre d^estiéa. V, Lieu' taud, Marina. L. Roumieux, Ponlimnìo. Bibliographie. Périodìques. S. Leotard, BuUetin bibliographique de la langne d*oc pendant Tannée 1875. * « « , Le parage a Maguelone. A. de Quintana y Combis, Discours prononcé à Touverture de la seance du Chant du Latin le 25 mai. Chronique. ~ Errata.

N.^ 10. C, Chabaneau, Une inscription provengale du XVI* siècle. C. Chabaneau, Noèl périgourdin. Martin, Un sonnet de Ranchin traduit en proven^al et en langue- docien. A. Gazier, Lettres à Grégoire sur les patois de France. M, Rivière, Un conte dauphinois sur le Loup et le Renard.— Poésies: L. Roumieux, Urous Naufrage. CLaforgue, LUver. G, Bonaparte Wyse, A Clement Fanot. A, Chastanet , Moussu Chasaud. A, Galtier, Le Pintaire. A, Fourès, Les Nouiès. Bibliographie. Pé- riodìques. — Chronique. Errata.

N.* 11-12. A. Boucherie, L'ensei- gnement de la philologie romane en France (LeQon d'ouverture des Conferences de phi- lologie romane à la Faculté de lettres de Montpellier). /. Bauquier, Étude sur quelques pronoms provengaux. Poésies: V. Smith, Le Moine, chanson de Velay. (7. Lafórgue, La Naturo. A. Fourès, Atos. G, Bonaparte Wyse, Lou Calignai- re. /. Gaussinel, Sa maire Tes vengut cerca. G. Bonaparte Wyse, A prepaus de la mori di dous cri-cri de Madamisello Er- nestìno de Boruier. J. Roux, Gondoval. Bibliographie. Périodiques. * * * , Le Parage à Maguelone. Chronique.

A. 1879, n.' 1-3. -Affre, DocumenU sur le langage de Rodez et le langage de Mìlhau du XII» au XVI* siècle. l?ato^w«r y Merino, Ordinacions y bans del Comtat d'Empurìas. F. Castets , Dante philolo- gue. A. Gazier, Lettres à Grégoire sor les patois de France. J. Saint-Rémy, Poueisias dioisas de Ousté Boueissier.

F. Vincent, Le Pitit tro de jau. Poésies:

G. Aza'is, La Roso de Margarido. Tk. Aubanel , La fio de Bornier. A. Fourez, Le coumpousitou. G. Aza'is, Uno meno de sauvages que trevo pas lous bosques. A. Fourès, A Leucado. A. Carefa y Vi- dal. La can^o del rat penat. C. Gros, La maire e l'enfant. Bibliographie. Pério- diques. — Chronique. Rectiflcation.

N.* 4-6. C. Chabaneau, La langue et la litterature proven^ales (Le^n d'ouver- ture du Cours de langue romane à la Fa- culté de lettres de Montpellier). Balagver y Merino, Ordinacions y bans del Comtat d'Empurias. A, Gazier, Lettres à Grégoire sur les patois de France. P. Fesquet, Le proven^al de Nimes et le languedocien de Colognac comparés. Poésies: A. Lan- giade, Lou las d'amour. M. Rivière, Loa tems delle vandame. C. Malignon^ L'estel- lo dou Felibrige. L. Goirand, Mort d'uno iroundella. A, Amavielle^ Tabo! T. Au- banel, Lacrymae florum.^ Bibliographie. Périodiques. A. R. F. , Deux imitations d'un sonnet de Fizes. Chronique.

4. Zbitschrift pOr romanischb Philo- logie, II, 3. Af. Gaster, Zur rumftnischen Lautgeschichte : Die Gulturalen. A, Tobler, Vermischte Beitràge zurGrammatikdesFran- zòsischen. F. Perle, Die negation in Altfran- zòsischen. P, Rajna, Il cantare dei cantari e il serventese del maestro di tutte l'arti.— Th, Auracher, Der Brandan der Arsenalhand- schrift B L F 283. Miscellen: K Bartsch, Weiteres Vorkommendes elfsilbigen Verses.— G. Gròber, Franz, ausi, f = Dentai. P. Foerster, Zu C. Michaèlis: Romanische Wortschopfung. Recensionen und Anzeigen (pp. 501-3 resoconto e note del Gròber sul n.° 1 del Giornale). Diez-Stiflung.

N.** 4. A. von Flugi, Die ladinischen Dramen des 16 Jahrhunderts. 0. Ulbrieh , Ueber die vocalisirten consonanten des Alt-

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B^M^KU, «.o ,4]

PEBIODJCI

H^/

franzósischen. A, Tobler, Vermischte Bei- trftge lur Grammalik des Franzosischen. E, Gessner, Alfraozdsisches si bis , bevop. Miscellen: E. Stengel, Die wiederaufge^n- deoe Quelle voo Raimon Ferauts provenza- lischem Gedicht auf dea heil. Hoaorat und der 1501 gedruckten lat. Vita S. Honorati. K, VoUmòller, Zur Bibliographìe der Roman- oeros^r— J9.. Dinter,. Altfranzòsisches Liebes- lied. iC Tobler,, Die Corsini^sche Hand-j. schrift des Mjstère de la PasaioD. J, Baur^ Franz, aller; churw. gomgnia, giamgia. G^ Groòtr, Oli, egli, ogni. Recensionen und Anzeigen (pp. 629-35) articolo di H, J, Bidermann sulla memoria del Malfatti, Degli idiomi parlati nel Trentino, Giornale n.^ 2, sulla qaale v. ancb^ la Romaipa, n.^28 p^. 627}. JC'Merwart, TV, Fo^rster, E, Stengel,^ ^r- clftrang. Néumann, Registen

Supplementheft II.-— Bibliographie 1877.

Ili, 1.*» ^. Morel'Fatio, Vicente No- guera et son Discours sur la langue et les aijteurs d'Espagne. G. Gròber^ C, von Le- binschi, Collation der Berner Liederhand- schrift 389. F, A, Coelho, Romances popu- lares e rimas infantis portuguezas. Miscellen : R. Koehler, La fabula del Pistello da Taglia- ta. — K, Bqrts,ch , Aus einem alten Hand- schryien Kijitalogue. JC Vollmotl^, Mit- theilungen aus spaoiscben Han4schrii!ten» G. Baisi, Zu Blanquema. A. Toìket, Ro- njanische Etymologien. TT. Foerster, Dìp altfi*anzòsischeu Participia Perfecti auC eit (-oit).— Recensionen und Anzeigen (pp. 158-9,^ nota del Tobler sulTart. del Caix pubblicato nel n.^ 1, pp. 43 e ss. del Giornale }. Diez- S^fìung,/

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118 [OIOBXALB 01 riLOLoeu

NOTIZIE

L* iosegnamento della filologia neolatina ha ottenuto nuove catedre in Francia. Dopo che a Parigi, altre ne furono istituite ad Aix, Bordeaux, Lione, Tolosa e provvedute colle nomine dei proff. Joret, Luchaire, CIódat e Couture, e due finalmente ne fondava il Go- verno a Montpellier centro del movimento letterario delle provincie meridionali, chiamando ad occuparle i proff. Chahaneau e Boucherie. A compimento poi di (Questa notizia aggiun- geremo che il Ministro della istruzione pubblica, affinché la sua istituzione non riuscisse niusorìa, assegnava subito alla Facoltà di Montpellier un fondo straordinario di sei mila franoki per fornire la biblioteca dei libri necessarj al nuovo insegnamento. Auguriamoci che quest* esempio non rimanga del tutto sterile m Italia, dove le catedre abbondano, ma le biblioteche

Il prof. W. Foerster ha pubblicato nel fase. XIII dei Romanische Studiennn testo che per la sua antichità ed estensione occuperà un bel posto nella serie monumentale dei ver^ nacoli italiani. Questo testo consiste in una raccolta di ventld ne sermoni scritti in un dia- letto gallo-italico, e il ms. che ce li ha conservati ò del sec. XII. Esso trovasi nella Bi- blioteca di Torino. Di un* epoca così remota non si conoscevano finora se non poche carte « qualche altro brevissimo frammento; onde la pubblicazione del Foerster, non fosse che per questo riguardo, porta alla nostra storia lerieraria un considerevole arricchimento. Un altro testo italiano, minore per mole ma anche più venerando forse per antichità, fu ritrovato nella Bibl. Vallicelliana dal Ds G. Loewe e communicato al prof. Flechia, il quale presto lo pubblicherà neir ^rc^tt^to dell* Ascoli.

Dalla Romania, n.^ 28, p. 631. apprendiamo che il D.' Ive ha trovato nella Biblio- teca Nazionale di Parigi un ms. del Libro di Fioravante in dialetto napolitano. Di un altro pregevole trovamento si è debitori al prof. Puielli, il quello nella Biblioteca Vesco- vile di Udine rinvenne un antico codice contenente fra altre cose una nuova redazione ve- neta di quella stessa branca del Renart che pubblicò il Teza, e un secondo ms. del poema di fra Giacomino da Verona, De Jerusalem celesti et de Babilonia infernali, 11 prof. Pu- telli farà conoscere questi testi nei prossimi fascicoli del Giornale.

P. Mejer ha pubblicato il secondo ed ultimo volume della sua bella edizione del poema sulla crociata contro ^li Albigesi. Dal Seminario tilologico di Marburg abbiamo rice- vuto diverse dissertazioni per laurea e ne daremo conto nel prossimo bullettino.

Il prof. Caix pubblicherà quanto prima un volume Sitile origini della lingua poetica ita- liana.— Nel venturo novembre uscirà il voi. II delle Comunicazioni dalle Biblioteche con- tenente le inedite del Canzoniere portoghese Colocci-Brancuti. Sono annunziate come in corso di stampa: una Chrestomathie catalane pel Morel-Fatio; il Poema del Cid rive- duto sul ms. a cura del Vollmdiler; Ein spantsches Steinbuch per lo stesso; una tra- duzione con comentario del Gir art de Roussillon per P. Mejer, fa quale sarà seguita da una edizione critica delPistesso poema; una edizione diplomatica dei mss. di Parigi, Lione, Cambridge, Ch&teauroux e Venezia (VII) della Chanson de Roland a cura di W. Foerster; una ristampa delle Vies dee plus célebres et anciens pòetes provenqaux con note stori- che e critiche dello Chabaneau; il seguito della Biblioteca delle tradizioni popolari si- eiliane del Pitrè. Questo seguito, composto di altri otto volumi, conterrà: voli. VIII-X, Proverbj siciliani raccolti e messi in rafl'ronto con quelli degli altri dialetti d* Italia, con discorso preliminare. Saggio di proverbi lombardi in Sicilia; XI, Spettacoli e Feste po- polari; XII, Usi, Credenze, Superstizioni e Giuochi fanciulleschi; XIII Cdkti popo- lari siciliani inediti; XIV, Novelle popolari siciliane inedite; XV, Varj studj pubblicati in Italia e alPestero Sulle tradizioni popolari siciliane.

Nei bei cataloghi della Libreria Morgand A Fatout (Parigi, Passage des Panoramas, 55), che quella ditta spesso cortesemente e* invia, troviamo annunciate queste pubblicazioni d* interesse pei nostri lettori: Pierre Gringore et les Comédiens italiens sous Francois /.•" par Èmile Picot; Collection d*anciens chansonniers franqais publiée sous la direc- tion du Baron James de Rothschild, I: Noelz de Jehan Chaperon dit le Lasse de repos Dubliés d*apròs Texemplaire unique de la bibliothèque de Wolienbùttel, par Émile Picot; Notice sur Jehan Chaponneau^ Docteur de TEglise réformée. metteur en scène du my- stère des Actes des Apostres, joué à Bourges, en 1536, par -Émile Picot.

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R0MANJ5A , ll.« 4] NOTIZIE 1 19

Una Società di studiosi eotto direzione del prof. A. Bartdi ha intrapresa la com- pilazione di un Indice completo degli scritti italiani che si ràcchindono nei Codici delle tre sezioni della Biblioteca Nazionale di Firenze f Magliabechiana, Palatina e Riccardiana). L* opera sarà divisa in due erandi serie: Poesia e Prosa, ed dire un'accorata descrizione dei rass., conterrà estratti, facsimili, e notizie artistiche dei più importanti codici miaiati. Alla parie artistica assisteranno i profF. O. Milanesi e B. Malfatti. La pubblicazione sarà fatta per fascicoli mensili di pajrp. 64 in 8», e comincerà appena raccolti 100 associati. Le domande di associazione (lire 48 annue pagabili in due rate semestrali) debbono essere di- rette al prof. Adolfb Bartoli (Borgo Ognissanti, 37, Firenze), e noi facciamo voti che i cento soscrittori sieno tosto trovati, perché i^ostri stodj possano presto avvantaggiarsi di un'opera, la somma importanza della quale non ha bisogno di essere dimostrata.

I proff. Carducci e Monaci stanno preparando una edizione di tutte le poesie proven- zali composte da trovatori italiani.— Il prof. Rajna è in sul compiere un'opera bmììsl Epopea earlovingia in Italia.

Nella prefazione ai suoi Sludj d*etimol. ital. e rom. il Caix diede notizia che due tra- duzioni si preparavano contemporaneamente dell' EtymoL Wórterbuch del Diez, una in Francia, T altra in Italia a cura di alcuni studenti di filologia della Universi di Roma. Riguardo alla traduzione italiana aggiungiamo che essa doveva essere seguita da un in- dice dì rinvio a tutte le giunte e correzioni delle etimologie dieziane che si trovano sparse nelle Riviste di filologia, e fu cominciata durante il corso scolastico 1876-77. Il lavoro era ben progredito e vi attendevano i giovani sigg. S. Morpurgo, A. Polo, A. Zenatti; ma non essendosi trovato in Italia un editore che volesse intraprenderne la stampa, rimase inter- rotto e dopo la notizia della traduzione francese è stato abbandonato.

Da una circolare trasmessaci dagli editori Sigg. Henninger di Heilbronn, apprendiamo che i DD.rf 0. Behaghel e F. Neumann colla cooperazione del prof. Bartsch pubbliche- ranno, cominciando dal gennaio 1880, una rivista mensile intitolata Literaturblatt fùr per- manische und romanische Philologie Scopo del nuovo periodico sarà di dar notizia di tutto il movimento contemporaneo nel campo degli studj germanici e neolatini, e conterrà perciò: bibliografìa e recensioni dei libri recentemente venuti a luce; spoglio dei periodici; notizia delle opere in preparazione; indicazione di corsi universitarj , ed altri annunzi che possano essere utili agli studiosi. Un numero di saggio sarà distribuito nel prossimo ot- tobre, e a suo tempo non mancheremo di farne parola; intanto diamo il benvenuto a (Que- sto programma. É pwe annunziata una specie di continuazione della Italia dello Hille- branid col titolo di Italienische studien a cura del D.' G. Koerting.

Per facilitare V avanzamento degli studi critici sul testo degli antichi lirici italiani sa- ranno pubblicate edizioni diplomatiche di aftri canzonieri. Crediamo che il prof. Compa- retti pubblicherà il Laurenziano-Rediano 9; il Monaci, parte solo e parte m collabora- zione, pubblicherà il Vat. 3214, i Barber. XLV-47 e XLV-130, il Palatino (di Firenze) 418. Intanto il conte Luigi Manzoni sta ultimando un Indice di tutte le liriche antiche a stampa, che verrà a luce in questo Giornale, ed in seguito il Giornale darà pure un altro Indice generale di tutti i Canzonieri manoscritti.

Il nostro amico Ds G. Pitrè ci scrive da Palermo: « Non potendo quindMnnanzi ac- cettare la responsabilità della Rivista di letteratura popolare che si pubblica anche col mio nome in Roma, ti prego di far sapere per mezzo del tuo Giornale che io non voglio più rappresentarla da condirettore di quella Rivista, con la quale non ho più da far nulla. Avrei scritta prima d'ora questa dichiarazione, se gravi malattie di famiglia non me lo avessero impedito. Palermo, 25 Sett. 1879. »

L'Accademia delle Iscrizioni e Belle-lettere di Francia nella tornata del 13 giugno 1879 conferiva il primo dei premj della fondazione Gobert a P. Mejer per la sua edizione della Chanson de la Croisade albigeoise. Altri premj furono conferiti dall'Accademia allo Chabaneau per la sua Histoire etthéorie de la conjugaison franqaise^ al Luchaire per i suoi Ètudes sur les idiomes pyrénéen», al De Chambure per il suo Glossaire du Morvan,

Dalla Romania, n.^ 31, togliamo le seguenti notizie, intorno alla Società francese dee anciens textes. « La Société des anciens textes va imprimer une édition critique de la Vie de Saint Grégoire, donneo par M. A. Weber d'après le cinq manuscrits connus. Elle a aciuellement sous presse: le t. IV des Mirades de Nótre-Dame pubbliés par MM. Paris et Robert; la Vie de saint Gile^ publiée par MM. Paris et Bos; trois versions de VÉvangile de Nicodème, par les mémes éditeurs; une chronique normande du XIV« siècle publiée par M. Luce; la Chanson d*Elie de saint Gilè, publiée par M. G. Ray- naud; le Voyage du seigneur d*Anglure à Jérusalem, publié par MM. Bonnard et Lon- gnon; le t. Il des CEuvres d'Eustache Deschamps, ])ubliés par M. le marquis de Queux (le Saint-Hilaire; l'amati t rendu cordolier, de Martial d'Auvergne, publié par. M. A. de

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lao NOTIZIE

MoDtaielon, «aispurler du t. II du MUtèrt du vUU Tfstament^ oSéri p»e M. le barou de Ròthshiid a«x membres de la Société. ^La Société a teou le 18 juini sa cinquième asMmblée generale: elle a Dommé préeident M. A. de Moataiglon, vice-présidents MM. Ù Paris et F fiaudry. Rappellooa ^ue la Société a mis eu distributiqn » au commea- cernevi de cette année» let ouvragea «uivanta; l^ Débat des Hérauts de France et d'Art- fflaterre, suivi de The DebaU benoeen the Heraidet of Englande and Fraunce compiled by John Coke, édiiion commencée par L. Pannìpr et aehevée par P. Mejer ( cette ourrage complète ì'exercioe 18T7); le t I des CEuvree d'Euetache Deschampt, publiés par M. le marquis de Queuz de SaintrHilaire ; le t. UI des Miracles de Notre^Dame lce% denu . ouvrages appartiennentii' rexercioe' 1873 qui .sera, comfilété par Ì^Voyages du seigi^eur d* Anglaterre),

39 Settembre 1879.

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ANNUNZI

di altre pìibhlicasioni pervenute alla Direzione del Giornale.

ToRRACA F., Jacopo Sannazaro. Note. Napoli, Morano. 1879.

Malfatti B. , Della parte che ebbero i Toscani all' incremento del sapere geogra- fico. Firenze Succ. Le Mounier, 1879.

Croce £., Carta cT Italia illustrativa della Divina Commedia di Dante Alighieri con indice di tutti i luoghi in essa carta contenuti. Genova, Pellas, 1875.

ZuMBiNi B., Alla primavera o delle favole antiche canzone di Giacomo Leopardi. Napoli, Perrotti, 1879. Estr. dal Giornale napol. di filos. e lettere ec.

Mazzi C, Alcune leggi suntuarie senesi del Sec. XIII. Eair. daW Arch. stor» ital.

Cerquetti a., Pietro Fanfani e le sue opere, Firenze, Tip. d. Gazz. d* Italia, 1879.

NovATi F., Delle Nubi di Aristofane sec. un cod. cremonese. Torino, Loescher, 1879.

AuBERT D.', Et grossh Senatsconsult om Thisbceerne i Boeotien fra Aaret i70 f. Chr. (Sserskilt aftrykt af Christiania Videnskabs-Selskabs Forhandlinger for 1875.)

LiBBLEiN J., Bidrag til cegyptisk Kronologi. ( Sserskilt aftrykt af Christiania Videns- kabs-Selskabs Forhandlinger for 1873.)

BuGGB S., Altitalische Studien, Christiania, Brogger, 1878.

SucHiER E., Zur Versbildung der Anglonormannen. Estr. dsiiVAnglia,

Rajna P., On the Dialects of Italy {neXVEighth annual address of the President to the philological Society). London, Trùbner, 1879.

VoLLMÒLLER K., Poema del Cid nach der Madrider Hndschr. mit Einleitung, An- merkungen und Glossar neu herausgegeben. 1 Th. Text. Halle, Niemeyer, 1879.

Vigo P. , Uguccione della Faggiuola potestà di Pisa e di Lucca. Livorno, Vigo, 1879.

Canello U. a., Dei Sepolcri j Carme di Ugo Foscolo comentato per uso delle scuole. 2.A ediz. interamente rifusa. Padova, Draghi, 1880.

Cappelletti L., Studi sul Decam^rone. Parma, Battei, 1880.

ScHUCHARDT H., Camoens. Ein Festgruss nach Portugal zum X Juni MDCCCLXXX. Graz, Buchdr. Styria, 1880.

Storce W., Luis* de Camoens sàmmtliche Gedichte. Zum ersten Male deutsch. Er- ster Band: Buch der Lieder und Briefe. Paderborn, Schoning, 1880.

SucHiER H., Zur Versbildung der Anglonorm,annen. Estr. duìVAnglia,

Lbvy E., Guilhem Figueira ein provenzalischer Troubadour. Berlin, Liebrecht, 1880.

Braga, Th., 0 Centenario de Camoes. Porto, Impr. Comercial, 1880.

D'Ovidio F., Altro Contrasto sul Contrasto di Ciullo d' Alcamo, Estr. dal Giom, Napolet.

Bollati F. E., Chanson de Philippe de Savoie publiée poup la première fois, avec Prèface et Notes. Milan, Civellì, 1879.

FoERSTER W., De Venus la deesse d'ambir: altfranzosisches Minnegedicht aus dem XIII. Jahrhnndert zum ersten Male herausgegeben. Bonn, Cohen A Sohn, 1880.

De Mattio F., Grammatica della lingua provenzale con un discorso sulla storia della lingua e della poesia dei Trovatori, un Saggio di componimenti lirici provenzali con note per la traduzione in italiano e col rispettivo Vocabolario provenzale-italiano. Innsbruck, Wagner, 1880.

Gloria A., Del volgare illustre dal sec, VII fino a Dante. Venezia, Antonellì, 1880.

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Casini T., Documenti dell'antico dialetto bolognese (\2S0'14\1). Bologna, Fava e Oaragnani, ISSO.

Casini T., La vita e le poesie di Ranibertino Biivalelli trovadore del sec. XIII. Bologna, Fava e Garagnani, 1880.

HuB IL, La Chanson de Ueruis d^ Afe*: Inaltsangabe und Classification der Hand- schriften. Heiibronn, Ilenninger, 18*9.

Ottmann il, Die Stellung von V* in der Veberliefervng des altfr. Rolandslied. Eine Textkritische Untersiichung. Heiibronn, Ilennìnger, 1879.

EiCHELMANN L., Veber Flexion und attributive Stelhmg des Adj^ctivs in den àl- testen franzòsischen Sprachdenkmalern bis zura Rolandsliede einschliesslich, Marburg, Pfeil, 1879. .

DòNGES E., Die Balingtepisode im Rolandsliede. Marburg, 1879.

Andresen D.»* H., Maistre Ware*s Roman de Roti et des Ducs de Normandie nach den Handschriften von Neuem herausgpgeben.* Zweiter Band ; 111 Theil. Heiibronn, Hen- ninger, 1879.

Wentrup D.*", Beitràge zur Kenntniss des sicUianischen Dialectes. Halle, Buchdr. des Waisenhauses, ISSO.

ToBLER A., Vom franzòsischen Versbau alter und neuer Zeit. Leipzig, Hirzel, 1880.

Meyer P., Fragmentum provinciale de captione Damiatae. Accedit Prophetiae cujusdam arabicae in Latinorum castris ante Daraiatam vulgatae versio quadruple!. Ge- nevae, Fick, ISSO.

Monaci E., D'Ovidio F., Manualettl d"" introduzione agli studj neolatini composti per uso degli studenti delle Facoltà di ledere: I Spagnolo: Grammatica di F. D'Ovidio; Crestomazia di E. Monaci. Napoli, 1879.

Pitrè O., Antichi usi nuziali del popolo siciliano. Palermo, Montaina, 1880.

D'Ancona A., Jacopone da Todi, il giullare di Dio del sec. XIIL Estr. dalla Nttova Antologia.

[Zambrini F.] Leggenda di S. Fina scritta nel buon secolo della lingua. Imola, Ga- leati, 1S79.

Pasqualiqo C, / Trionfi di Francesco Petrarca corretti nel testo e riordinati con le varie lezioni degli autogratì e di XXX mss., Con Appendice di varianti del Canzoniere. Venezia, Grimaldo e C. 1874.

DICTIONNAIRE

DE L'ANCIENNE LANGUE FRANCAISE

et de tous ses dialectes

du ix« au Kv*" siècle

par FBÉDÉRIC OODEFROY

ptiblié B0U8 les auspice^ dn Ministère de llnstmction publiqne.

Parigi: editore F. Vieweq. L'opera sarà comj)leta in 10 volumi. NV^^ce uno all'anno, distribuito in 10 fascicoli. Prezzo di ciascun fase. fr. 5.

com:^iunicazioni

DALT.B

BIBLIOTECHE DI ROMA E DA ALTRE BIBLIOTECHE

per lo stadio delle lìn^ae e delle letteralare ronatie

a cura di E. Monaci

voi. II:

IL CANZONIERE PORTOGHESE

COLOCCI-BRANCUTI

pubblicato

nelle parli che completano il Codice Vaticano 4S0S

da

ENTIICO MOLTENI.

Halle: Niemeycr editore. Voi. in 4.** di

pp. ix-200 con un facsimile in eliotipia.

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ANNUNZI . di recenti pubbUcamni pervenute alla Direzione del Giornale

(Soppltmeoto del Bullettino, t. p. 106 e 88.^

Stickney a. The Romance of Dande de Pf^adas on the four cardinal virtues edited toith brief notes. Ploreoce, Wurtenberger, 1879.

D'Ancona A. XIX sonetti inediti di Antonio Pucc* Estr. dal Propugnatore,

BOBHMBE K. Spoìisus mystère des vierges sages et des vierges.folles ; Zur Cler-* monter Passion; ^-~ Zìi Ì)ante*s * JJe vulgari eloqu&ntia », Eiìtr, dai Roma- nische Studien,

Gbap a. La leggenda del paradiso terrestre, Torino, Loescher, 1878.

Parecer apresentado à Acodetnia Real das scieneias de Lisboa sobre a reforma ortographica proposta pela jO&mmissào da Cidade do Porto, Lisboa, 1879.

Flbchia G. Sulle accorciature dei nomi italiani race, da P, Fanfani. Estr. dalla Hi'o. di filologia classica.

Del LuNoa T. Notizia risguardante la Cronaca di Dino Compagni, -^ Eéir, d&U V Arch, stor. italiano,

TiBABOsCHi A. Usi di Natale nel Bergamasco, Bergamo, Bolic^, 1879.

D* Ancona A. Usi natalizi dei contadini della Romagna. PiaA, Nistri, 1878.

Rajna P. L Rinaldi o Cantastorie di Napoli.-^ Estr. dalla Nuova Antologia.

La fabula del PisteUo da V agliata tratta da uo' antica stampa e La quistione d'Amore testo inedito del sec. XV. Bologna, Roinaguoli, 1878.

Lb Cooltrb J. e Schultzb V. JSonecH composti per M, Johanne Antonio de Petruciis conte di Polìcastro publicati per la prima vòlta dietro il Ms, della Bibl, Na-^ ' lionale di Napoli. Bologna, Romagnoli, 1879.

Gaboiolli C. Lettere di Laura Battiferri Ammannati a Benedetto Varchi, Bolo- gna, Romagnoli, 1879.

Ferbabg O; Alcune poesie del Saviozso e di altri autori tratte da Ms.del sec. XV e pubblicate per la prima volta. Bologna, Romagnoli, 1879.

Cattaneo G. La vita nuova di Dante Alighieri, Discorso. Trieste, Herrmanstor- fer, 1878.

Canbllo U. a. Gli Allòtropi itaZtani. Estr. dallMrc^. glottologico.

Pabis. G. La legende de Trojan. Paris, Imj). Nationale 1879.

Lumini A. V ideale nella poesia popolare italiana. Catanzaro, 1878,

ToRRACA F. P. A, Caracciolo e le Parse Cacaiole. Napoli, Perottj, 1879.

GiANANDBBA A. Festa di S. Floriano martire e tiro a segno colla balestra instituito nel i45S. Estr. dall' ^rcA. Stor. Marchigiano,

Meter W. (aus Speyer) Vita Adae et Evae herausgegebcn und erkiutert. Miiiichen, 1879;

BuGHHOLTZ H. Priscae iatinitatis originum libri tres. Berolinì, Dummler, 1877. "

KoscHWiTZ E. Sechs Bearbeitungen des altfranzósischen Gediehts von KarUdes Oros" sen Reise nach Jerusalem und Constantinopel. Heilbronn, Hennin£er, 1879.

Paul H. Untfrsuchungen ueber den germanischen KoAa/f>mu*. Halle, Iviemeyer, 1879.

Fbakckb D."* K. Zur òeschicht^ der lateinischen S>chulpoesie des XII. und XIIL Jahrhunderts, Mùnchen, Literan-artist. Aistalt, 1879.

VoEGELiN A. S. Herder^s Cid, die franzqesische und die spanische Quelle. Heil- bronn, Henninger, 1879.

Mattioli A. Vocabolario romagnolo-italiano. Imola, Galeati^ 1879.

Rime di Messere Tristano di Meliadus e della bella Reina i^otto.. Bologna, Regia tipogr. 1879.

Riardo della inaugurazione del monumento a Boccaccio in Certaldo il 28 (Hu'* gno i879. Firenze, Pieri, 1879.

Bucbholtz H: Zu den Eiden vom Jahre 842.~^^^it,ÒASì Archiv. fur das Stiidium der neueren Sprachen.

BuQHHoLTz li. Oskisches Perfectum inlateinischer Inschrift.B&tììn, Diimmler, 1878*

CoRNU J. Phonologie du Bagnard. Estr. dalla Romania.

CoRNU J. Glanures phonologiques. Estr. dalla Romania. ,

CoBAZziNt P. Appunti storici e filologici sulla Valle tiberina superiore. Sansepolcro, Becamorti, 1875.

CoBAZziNi F. Relazione ai soci promotori della Società dialettologica italiana. Be- nevento, De Gennaro, 1876.

Cbcconi G. Statuti di Offagna. Ancona, Tip. del Commercio, 1879.

Lupi E. Z)et caratteri intrinseci per classificare i Langobardi nelle loro attinenze storiche cogli altri popoli germanici. Roma, a cura delia Soc. rom» di storia pa- tria, 1879. rx-- ^ f i-

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PUBBLICAZIONI DELLO STESSO EDITORE

Kenier Adolfo, La Vita nuova e la Fiammetta^ Suidxo critico. In 16.^ •' L. 5«<«

Visentin! Isaia , Fiabe mantovane in 16** » 5

Forma il VII Tolame della collezione Canti e Racconti del popolo Itidiano

pubblicati per cura dei sìg.^ Prof. D. Comparetti ed A. D^Ancoua. I volttnù

I-VI pubblicati, contengono le opere seguenti : 1. Canti popolari Monferrini raccolti ed annotati dal D,' Giuseppe Ferrarò. > ? II e ni. Cfanti deUe provincie Meridionali raccolti ed annotati da A. Casetti

e V. Imhriani . .. »0

TV. Canti popolari Marchigiani, raccolti ed annotati dal iProC Oianandrea. » 4 V. Canti popolari Istriani ^ raccolti ed annotati da Antonio Itc. . . » 5 VI Novelline popolari Italiane, pubblicate ed illustrate da Domenico Complurelti.

voi. I . > 4

Pezzi Domenico, Glottologia etria recentissima. Cenni stOTico^critici « » 5-«-

AECHIVIO GLOTTOLOGICO ITALIANO

diretto da G. L AbooU

V Archivio esce a liberi intervalli, per fascicoli da non meno di sei iogli^ e dnesft

fascicolo, come ciascun volume, è posto in vendita anche separaiamente. Se ne è pubblicato quanto segue:

Voi I, Proemio generale e Saggi ladini di O. L Ascoli, con una carta dialet- tologica . L. 20

Voi. II, 1: Postille etimologit^e di G. Flechia; Sul De Vulff, Eloquio, di P. D* Ovidio: Sul posto che spetta al ligure nel sistema det dialetti italiani di O. I. Ascoli j»6

Voi. II, 2: Rime genovesi della fine del secolo XIII e del principio del XIV,

edite da N. Lagomagoiorb » 6 -*-.

Voi. Il, 3: Postille etimologiche di G. Flechia; P, Meyer e U franco-proven- xale^ di G. I. Ascoli; -Rtcordì bibliografici, dello stesso: Indici del volume, di F. D'Ovidio »6— .

Voi. III, 1: Fonetica del dialetto di Val-Soana (CanaveseJ, di C. Niora;

Schizzi franco-provenzali di G. L Ascoli » 5 «-^

Voi. in, 2: Postale etimologiche di G. Flbchia; La Cronica deli Imper^adori Romani, edita da A. Ceruti; Annotazioni dialettologiche alla Cranica deli Imperadori, di G. I. Ascoli . »750

Voi. Ili, 8: I Divariati italiani di U. A. Canbllo; Il tipo sintattico itHonuf Ule iUe-honus » di B. P. Hasdeu; /ndic^ dtfZ volume di F. D* Ovidio . » 7*-

VoL IV, 1 : dialetti *'omaici del mandamento di Bova in Calabria, descritti

da G. Morosi . . . » 4 -•

Voi. JV, 2: Il vocalismo leccese di G. Morosi; Fonetica del dialetto di CamwH . basso di P. D'Ovidio; Testi inediti^ friulani dei zec, XIV al XIX, pubbli- cati e annotati da V Joppi *»5'=-'

Voi. IV, 8: Testi inediti friulani ^ pubblicati ed annot. da V. Joppi j Annota" zioni ai Testi friulani e Cimelj tergestini, di G. I. Ascoli; Articoli vari, , di G. Flechia, G. Storm e Q. I. Ascou; Giunte e catTezioni e Indici del del volume, F, Vi' Ovidio »8

Voi. V, 1: 12 Codice Irlandese deU* Ambrosiana, edito e illustrato da O. I,

Ascoli, fascicolo primo; con due tavole fotolitografiche . . » ^8 —,

Antonio. Costantini gerente responsàbUè.-

'.V

LIVORNO, dalla Tipografia Vigo

/^^ '- ^">.'

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X.° 5 (T. IL Pasc. 3-4.) LUGLIO 1879

GIORNALE

DI

FILOLOGIA ROMANZA

DIRETTO

ERNESTO MONACI

,.^« ^^v^^

TOEINO ROMA FIRENZE

ERMANNO LOESCHER E C

Tia del Corto, 807.

PABIGI LOHDBA

Libreria F. VIewog. Trùbner e 0.

HALLE

Libreria Llppert

(M. Niemefer).

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CONTENUTO m QUESTO FASCICOLO

F. NovATi, H Pater Noster dei Lornbardi . . . R. PuTiLLiy Un nuovo testo veneto dd Renard .

G. BEHNAXùit NotereUa, al verso 46 del III deW Inferno F. SiTTEOJLST, Jaeos De Foresi e la sua fonte A. D* Ancona, Strambotti di Leonardo Giustiniani fr. SÀtvADORi, Storie Fopoìdfi Toscane .... A. TaoHAt; De la Confusion entre r et bz en provenQal d en frangais

Varietà

I. GiOBei, Aneddoto di un Codice Dantesco .

G. Leti, Poesie civili del secolo XV

G. Salvapori, Due Bispetti Popolari

A. GiANAMDBEA, DéHa novella dd Petit Poucet

Rassegna bibliografica

E. Monaci »i7 FUocopo del Boccaccio, per B., Zumbini . . . . G. Navone, Shrammatica italiana ddCuso moderno compilata da Rap-

VASLLO FOBNACIASI.

G. Natone, Italienische GrammatiJc mitberùcksichtigung des lateinischen und der romanischen Schwestersprachen von D.' Abistide Baeaoiola.

BoUettino bibliografico

Periodici

pag. 122

> 158 P 164 » 172 » 179 » 194

> 205

213

220 230 231

> 234 » 237

> 289

Notisie

GIORNALE DI FILOLOGIA ROMANZA

241

251

2M

Ogni volunie di 16 fogli di stampa (256 pagine in 8* gr.) distribuiti per fasci- coli, possibilmente trimestrali, da 4 a 8 fogli cadauno, costa iO lire in Italia» 10 mar' chi in Germania, 12 franchi negli altri paesi deir estero. Gli abbonamenti si fanno per volumi e si ricevono dagli editori (E. Loescber e C* Roma, Torino, Firenie) e da tutti i principali libraj.

Per quauto s^ attiene alla compilazione, e per l'invio dei mss., cambj ed altre stampe T indirizzo è al prof. E. Monaci, Boma, Piazza della Chiesa Nitova, 33; per quanto poi si riferisce alla amministrazione T indirizzo è al signor Ermanno LoEscHER e C* Boma, Via dd Corso, 307,

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GIORNALE DI FILOLOGIA ROMANZA

... pAtrIam diversis gcntlbiis nnitm.

RCTILXO NAMAZIAMO.

N.** 5 LUGLIO 18 7 9

UNA POESIA POLITICA DEL CINQUECENTO:

IL PATEB NOSTER DEI LOMBARDI.

I

In una vecchia Cronaca scritta da Domenico Bordigallo, patrizio e notajo Cremonese, vissuto alla fine del XV secolo, trovammo inserita, quale Quotidiana oratio et lamentatio Jtalum, la poesia che ora vede la luce (1). Più tardi venimmo a conoscere che di essa esisteva una ra- rissima stampa Veneta del secolo XVI ignorata quasi, e della quale un esemplare probabilmente unico era conservato nella Biblioteca Marciana (2). L' edizione fatta in Venezia per Mathio Pagan in Frezaria al segno della Fede^ sebbene non porti data d'anno, pure ci sembra da ritenersi indubbiamente posteriore al tempo in cui il Bordigallo racco- glieva dajla bocca de' suoi concittadini ed a noi tramandava la lamen- tosa canzone popolare. Infatti, quantunque dal Cronista riferita sotto Tanno 1520, nulla però ci vieta di credere che essa fosse composta e corresse fra il volgo, fin dagli ultimi anni del quattrocento: quando ap- punto le mal vietate Alpi lasciavano irrompere nella penisola i primi ar- roganti invasori del bel suolo italiano : ì Francesi. E ne abbiamo forse prova nel fatto che mentre i primi versi della poesia suonano, secondo la lezione del Bordigallo :

(1) D. BuRDiGAU, Chron. ab orig. della stampa air illustre prof. A. D* Ancona mundi usque ad ann, 1527. Ms. -nella al quale rendiamo di questa e d* altre comu- biblioteca Pallavicino (C. 978, fol. 234). nicazioni, le più vive grazie.

(2) Dobbiamo questa notizia e la copia

9

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122 1\ NO VATI [(ilOUNALK DI riLOLOGIÀ

Audi il 8npplitio de nuy poveri Lumbardi, Che da Francesi, Guasconi et Pichardi Crudelemente siamo straciati etc

nella impressione Veneta invece si legge nel secondo verso:

Che da Francesi, Spagnuoli e Alcmani,

e questo associarsi al ricordo dei Francesi, contro i quali unicamente era rivolto il canto popolare, quello di altri stranieri mostra, a nostro giudizio, che la stampa fu condotta in tempo in cui agli antichi s' erano aggiunti nuovi danni: ai barbari altri barbari. Inoltre del Pater Noster la Cro- naca Cremonese ofiFre una lezione molto migliore che la stampa, dove leggesi guasta, straziata, corrotta in più luoghi, come era naturale che avvenisse durante quel ventennio nel quale era andata esprimendo le sofferenze ed i dolori di tutti i popoli dell' Italia settentrionale (1). Ma comunque sia di ciò, tanto nel ms. dei primi anni del cinquecento, ove è Lamento dei Lombardi: quanto nella edizion Veneta, ove divien l'Ora- zione dei Villani « cosa ridicuìosa et bellissima » questo P. N, è poesia affatto popolare. Tale la addimostra la trivialità dei concetti: giacché non si aderge mai a nessun sentimento nobile, dignitoso, ma si aggira nella sfera ristretta dei danni, delle privazioni materiali: deplorando non r onta del servaggio, ma le busse toccate, le cantine vuotate, i de- rubati granai; e la addimostran pure la rozzezza grandissima della forma ; le leggi della misura apertamente violate ; i versi zoppicanti, ove più volte alla rima si sostituisce spontanea ed inavvertita V assonanza. Ed affatto popolare si è questa poesia per il genere a cui appartiene: genere curioso e poco esplorato, del quale non sarà forse discaro ai let- tori r intrattenersi alquanto.

II

Già in secoli molto lontani, come il XII ed il XIII, avviene di in- contrare esempj numerosi e svariati del vezzo abituale nel popolo di servirsi dei canti appartenenti alla liturgia ecclesiastica a trattare argomenti di ogni fatta, dall'ammaestramento morale alla canzone da taverna. Parafrasi e versioni di inni sacri, ispirate al pio intendi- mento di renderle utili documenti di buon costume, erano composte

(1) Questa» p(I altre consideraz'oni ci iiuhis- varianti dell' Ediz. Ven. poche, spre- Kor.) a riprodurre la lezione del Hordij/allo, jrevoli, troveranno luo^ro a pie di pagina. niaii'enendoiie '^(•rnpolovameiite la irrafìa. Le

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ROMANZA, N." 5] IL PATER NOSTEli DEI LOMBAIWI

123

assai di frequente in Italia dai monaci, che le distribuivano ai fedeli, qual ricompensa dei doni loro arrecati ; sapendo essi forse quanto grato dovesse tornare ai laici indotti e devoti il poter recitare, intendendole, quelle sante orazioni, che avevano balbettate fanciulli e delle quali la nessuna o imperfetta cognizione dell'idioma in cui eran scritte, lor na- scondeva sovente V intimo concetto. Forse di fatto genere erano que' brevi che sui brandelli di pergamena strappati ai codici venerandi, scrivevano (se non è favola) i frati di Monte Cassiuo ; e sen doleva il Boccaccio. Mentre in una letteratura, universale nell'evo medio tanto, quanto forse non arrivò ad essere nel tempo moderno, la francese, tali parafrasi e traduzioni volgari di documenti sacri non sono, a quanto sembrerebbe, in gran copia (1); nella nostra letteratura più antica invece esse abbondano: i codici del trecento e anche dei primi del quattrocento ne son pieni. Ma di tanta ricchezza di poesia sacra volgare non è fa- cile il formarsi adeguato concetto, giacché la maggior parte di questi componimenti è sempre inedita (2). Gli oscuri rimatori che riguarda- vano le loro fatiche come opera pia, non si spaventavano dinnanzi al lavoro, quantunque ingrato o diflBcile; ed imprendevano a ridurre in volgare non solo le orazioni più note, gli inni più cantati; ma le stesse Sante Scritture, e specialmente gli Evangeli trovarono molti parafra- sti (3).

(1) ì:l9\V Uistoire littèr, de la Frutice^ tomo XXIII, p. 254 8i ricordano: una luu- (^hissima parafrasi in francese di 33H6 verdi sopra il libro di Giobl)e, nella quale P amore si perde in digressioni che non hanno nulla a che vedere col testo sacro; un l*aterìiostre en Francois in 1048 versi di un tal Silvestro, esso pure non men facile versificatore che fervido moralista; un'anonima Patenostre farsity che in dieci strofe, di sei ottonari l'una, racchiude amplissime esposizioni del- 1* orazione domenicale, scritte in un rozzo linguaggio mezzo francese, mezzo latino. Ricorderemo ancora la Parafrasi deH\4re Maria di Rutkbecf, (Ocuvres complèies de R. ree. par A. Jubinal, Paris, 1839, voi. II).

(2) Lo Zambrini, Catal. dei testi roig. etc. (IV ediz.) non enumera che poche esposizioni (cioè illustrazioni e commenti), pochissime parafrasi rimate di orazioni e di inni: non più insomma d'una decina di componimenti in mezzo a tanti che pur ne rimangono. A questi H i>ossono \.e\b ag^riun^'ere i VuììtjfU

in versi composti per Castellano di Pie- rozzo Castellani, dottore Fiorentiìio (fivc. XV) in numero di trenfasette, che ripnhiicò, j^iovandosi di un' antica edizione fiorenti- na (1514) il Galletti, nel volume Lande spirituali di Feo Bclcari, Firenze, Molini, 18G4.

(3) Non sarà forse inutile il ricordare qui alcuni de' più importanti fra siffatti vol^'a- rizzamenti, che ci vennero sott'occhio nelle biblioteche fiorentine. 11 Cod. lliccurd, 17(>4 (Misceli, secolo XV) ci offre una Passio Dominy nostri gieso Cristi secondo chano scripto i vangilisti, che incomincia;

Gran chon8lt»llo fecciono gli Farisei Principi e sacerdoti 6 gran giudei etc.

Nel Riccard. 27C0, esso pure del sec. XV, si ìoi^^e: Questo el vangello dela yeneratione di Xpo in volgare serondo la lederà pero chel decto Vangelio non r dis'iposlo in que- sto libro ne adietro ìie inanzi il quale Van- gelio dice cosi: (f. 17), ma però è mutilo dopo pochi periodi. A questo segue il Passio

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124

F. NO VATI

GIOUNALE DI FILOLOGIA

m

Ma questi travestimenti pii, queste parafrasi volte ad intenti mo- rali e religiosi se formano forse la parte maggiore non formano però la più notevole in siffatto genere letterario. In età, nelle quali incom- beva sul mondo V onnipotenza di una religione, quale la cristiana, noi

del nostro Signore Gesocristo composto per M. Dolcibene (f. 53):

P»88io Domini noetri Yha Cbrieti Secondo oano scritto i vangelisti etc.

Deir Evangelo di S. Gìovanai si hanno nella stessa Biblioteca tre diversi volgarizzamenti: due d'anonimi (Codd. 1155 e 1705); il terzo, (Cod. 1591) fatica di Francesco d' Altobianco degli Alberti; e degli Evangeli quaresimali secondo Matteo Lucha Marcho et Giovanni Evangelisti ci offre pure il Cod. 1332 una versione ritmica che comincia:

Sempre si vuole fatare

In penitenza con vera intentione,

Oggi più che stagione

Cbel tempo è rirtuoso di ben fkre.

Il già citato Cod. Riccard. 2760 racchiude poi gli Evangelii dela quaresima in volgare in rima (f.° 1 ), ai quali tangon dietro, dopo pa- recchi fogli / vangeli di fuori quaresima in rima e in volgare ( f.** 17). Agli uni ed agli altri va premf»s^o il medesimo Proemio, la qual cosa potrebbe farli giudicare opera d'un solo autore. Il Proemio è degnissimo di attenzione, giacché, se non andiamo er- rati, giova molto a confermare quanto si è di sopra accennato, che autori di siffatti vol- garizzamenti fossero per lo più dei monaci:

Quantunque i mi cognoscba dignoranzia Tanto picn che aio facessi mio dovere Celerela acque can de seno abondanzla

Pure non posso volendo tace eie Quel che piacoere dedeo chio manifesti Onde per rima diro mio parere

Sopra Vangclie quatunque loro testi Confusi sleno a me che pocho spcrto Son degni grossa cosa e men di questi.

Alraen dalchun che me si mostri aperto Senza muttar la forma del chontratto Da qiial i^artir nomintcndo p€-r certo

Easlo me ne partissi in alchnn atto La prosa chebbi si può ripigiare Che cbi la scrisse pin de me ta. matto

MtUogìi in rima ptrcogni mio pars Orotfio rechandosene uno alameni» Sì€ più i^foimato andando al predichare etc

In altro Cod. Riccard. (1155), che contie- ne varie versioni di inni e orazioni, come la Dispositione de la magnificat rimata (p. 7), Y Espositore del Miserere in rima (p. 8), il Credo piccolo in rima (p. 11), la Salce Regina (p. 34). un altro Magnificat (p. 35), VAce Maria (Ave Regina de" su- perni cieli) (p. 3fì), YAre Maris stella (p. 36 d."), si trova premessa alla maggior parte di siffatte poesie l'indicazione: compilata per il decto frate (che non è mai ricordato col nome suo) di S. Benedetto.

Un Codice, già appartenente al Convento di S. Marco, e secondo ogni probabilità ivi scritto, conteneva (a quanto ricaviamo dal voi. XIX p. 48 degli Estratti da mss, e rare edizioni, spogli autografi di L. Mehj's. che si conservano nella Riccard iana, 3351-3376) anch'esso molte versioni ritmiche di orazioni: cosi V oratione domenicale del P. N. detta la Orazione Signorile alla quale non si può levare porre fatta per Jesu Christo ed è in rima (com. O Padre nostro onni- potente Iddio) ; L'Oratione dell' A. M. che fu fatta dall'Agnolo messo mandato da Dio per nostra salute, che è avochata de' miseri peccatori e per nostro salvamento (Ave Ma- ria^ che se' del del regina) ; // Simbolo, cioè la Ballata degli Apostoli in rima e dice cosi : Credo in uno Dio vero Signore ec IIP.N. disposto in rima per ternate scritto per Antonio di Matteo di Churado Fioren- tino. Abita a Vinegia: a laude sia didio (Com. Pater dell' universo e del prò fondo); L'A. M. in rima e in tcrnaie compilata

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ROMANZA, N.*> 5J IL PATEB NOSTER DEI LOMBARDI

125

la troviamo strana cosa vilipesa iu ciò che meno si potrebbe cre- dere, irrisa nelle sue forma stesse. Avviene è argomento di poca meraviglia di leggere in antichi manoscritti, talvolta nel medesimo foglio (1) accanto alla imitazione seria di una preghiera, di un cantico appartenente alla inuologia sacra, una parodia burlesca, bacchica o satirica di tale audacia, di tal sfrontatezza, che un devoto non poteva, potrebbe, chiamar altrimenti che un sacrilegio. Eppure nei versi degli scolari vaganti, di quei chierìci scapestrati, che attraversavano la vita col sorriso sulle labbra, e lanciavano agli echi dei campi, o ri- petevano nelle taverne rumorose dei canti ispirati al più ardente paga- nesimo, in quello scolorito ed imbarbarito idioma che era stato la lingua del Lazio, nei Carmina Burana^ come in tutte le altre raccolte di poesie medievali, queste parodie abbondano, pungenti e facete spesso, irri- verenti sempre. Quindi del Laetabundus^ canto che recitava S. Agostino in un antichissimo Mistero latino del Natale, assai prima del secolo XIII trovasi una famosa parodia bacchica, non ancor dimenticata dicesi in Germania (2): e così uno dei tanti inni composti in lode della Ver- gine, il Verbum bonum et suave cangiavasi in un'ode al buon vino: Vi- num bomim et stmve (3). Ma non a modesti principi limìtavasi la li-

|)«' detto Antonio Cxirradi (Com. Ave Re- gina diddio figlia e madre) \ La Magni- ficat rimata (Cora. U anima mia magni- fica il Signore); Salve Regina in rima per rinterzato (Com. Salve Regina di Mi- sericordia) ; Inno della Verg. Maria (Com. Ave stella del mar tutta splendente)'^ il Te- deo rimato (Cora. Te Dio laudiamo et te Si- gnor Santissimo etc.). Nel Cori. Riccartl, 1764 troviamo a p. 123 Qui comincia la sposizione deW orazione del santo pater nostro dove si contenghono sette petizioni etc. a p. 1G3 Ave Maria in 49 terzine (Com. Ave Reina excelsa umile e pia); a p. 184 volparizza- raento letterale in prosa del P. N. A. M. e C. Nel Cod. 2734, scritto, a quanto ci sembra, per intiero di raano del poeta fiorentino Mi- chele del Gioganre, a p. 33 trovasi il P, No- stro disposto, ma rautilo sulla fine; nel Cod. 2760 a p. 14 il P. iV. disposto per sette domandamenti contro a sepie vitti prin- f'ipali; a p. 83 lAtntemerata in volgare (Com. 0 sempre benedetta intemerata); a p. 87 Questo è il credo ritnato in volgare (Cora. Credo in itn deo padre onipotente); t' a p. 89 la gloria in ejccelsis in volgare e in rima (com Gloria sia nYgli alti luoghi a D/o); nello stesso t.: ìnagìiifìcat anima

mea in volgare e per rima (Com. L* anima mia grandi fica a Dio); e il Pater nostro in volgare e in rima (Com. Padre nostro che se* in del beato); e VAve Maria in volgare in uno madriale ( com. Dio ti salvi Maria di gratia piena) Tuno e T altra assai graziosi. Il Cod. 2198 (sec. XIV) contiene prre un'^r^ Maria disposta, in 15 terzine, che com. Ave stella diana, luce serena; ed il Cod. 1540, che racchiude un bel volgarizzamento di Boe- zio, porta neir ultimo foglio la Salve Regina disposta per uno valente Poeta conventato in ogni scientia, che com. Iddio ti salvi al- tissima allegrezza. Altra A. M. contiene il Cod. 1246; un* altra in 8 ottave il Cod. 1939 (Com. Ave Maria reina dello etterno); una bella parafrasi del Miserere il Cod. 1622. An- che il Cod. Laur. già Oadd. 33 contiene il Credo il Magnificat ed il Te deum in ter- zine, versificati con molta scioltezza.

(1) Ifist. littér. de la France 1. e.

(2) Wright, Reliq. antiq. t. II; Du Mkril, Orig. latin, du theatr. mod. p. IIM, e Poès, pop. anter. au douz. siede, p. 96. Carmi lìur. p. 84.

(3) Du Mkril, op. cit. p. 96; Hist.littcr. de la France, XXll, p. 140.

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126 F, NO VATI [giornale di filologia

cenza: e presto non solo gli inni e le orazioni più note, ma gli Evangeli stessi e perfino la Messa divenivano argorfienti di parodìa. Si ebbe quindi la Missa de pofatoribus o Missa gulonis (1), nella quale a Bacco si indirizzavano le preghiere dei bevitori: Introiho ad altare Bacchi^ ad eum qui laetificat cor hotninis; ad esso il loro pentimento: Confiteor reo Baccho omnepotanti et reo vÌ7io coloris rubei etc; affinché li conduca: ad majorem tabernam, qui hibit et potat per omnia pocula poculorum. Stra- men. La parodia cade adunque perfino sulle parole rituali, consacrate, alle quali, per maggior derisione, si sostituiscono vocaboli di suono affine: così ad Anirn, Stramen; a Pax vobiscum^ dolus vobiscum; all' Oi*e- miés^ Potemus. Di simil fatta è V Officium Lusorum(2), nel quale pure è tutto il rituale posto in ridicolo, riferendolo non più a Bacco, ma a DeciOj non più al vino, ma ai dadi; ed ai versetti segue V Oratio^ a que- sta le Epistólae^ la lettura degli Atti degli Apostoli, la Sequentia falsi Evangeli secundum Marcam argenti (3). Altra parodia del Vangelo è V Initium fallacis evangelii secundum lupum (4).

Semplicemente giocosa e senza satiriche allusioni, è invece una pa- rodia bacchica dell' Orazione Domenicale, che si rannoda però per i ca- ratteri intrinseci ed estrinseci alle precedenti. Essa è il Pater noster del i>ino (5), notevole per l'ingegnosa rassomiglianza del suono dei vo- caboli col modello: Pater noster^ qui es in scyplm^ sanctifìcetur vinum istiid: adveniat Bacchi potus: fiat tempcstas tua sicut in vino et in ia- berna. Panem nostrum ad devorandtcm da nobis hodie, et dimitte nobis pocula magna, sicut et nos dimittimus potatoribus nostris^ et ne nos in- ducas in tentationem vini^ sed libera nos a vestimento.

Dello stesso titolo e sul medesimo argomento, ma differente sia per la lingua in cui è composta, sia per la disposizione ritmica giacché ogui strofa in antico francese comincia con uno dei versetti latini si è un altra parodia del P. N,^ che spetta al XII o XIII secolo e nella quale devesi riconoscere lo stesso spirito befl^ardo che ha ispirato la prima, la Patenostre du vin (6), che non doveva essere poi altra cosa, a giudizio nostro, da quel Paternostre aus Gouliardois , di cui pubblicò le ultime strofe, traendole da un codice Parigino mutilo, il Wright (7). Nel fram-

(1) Wright, lieliq. antir/. t. II, S08-210. (7) Wrigiit, The latin Poems attrib. io

(2) Carm. ììar. p. 248. TT'. Maj^fs. London, 1845: « ihere was a Fa-

(3) Carm. lìnr. p. 22. E parodia del hliau entiil^d: Le Paternoster aus Gouliardois, Cap. 13 della Seq. S. Evavg. sec. loan. in a Ms. of the thirteenth ceutury preserved

(4) Wright, lieliq. antiq. t. Il, 5S. in the Bihliothèqne du Roi at Paris, but in-

(5) Ved. Uist. Littèv. de la Franne, 1. e. fortunately, frora (he mutilaiioa of the ma-

(6) JriìiNAL, lo'iìglevrs et Trom-crex. Pa- nuscrijjt, the concludiug lines only are preser- rÌ8 1835, p. G9: veti. » (Introd. p. XIV). . lVaiu:uento è staiu-

Paier uoaUi : blaus sire Dicx ecc. pulo nelT Apj>e/id. VI.

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MOMANZA, N.° 5] IL PATER NOSTEB DEI LOMBARDI

127

mento del Wright e nel Fabliau, pubblicato per intiero dal Jubiual, trovano versi identici (1) ; e se nella chiusa diversificano alquanto, pure non possiamo stimar questo come argomento a danno della nostra opi- nione, essendo troppo noto quali differenze di lezioni si incontrino quasi sempre nelle poesie popolari, raccomandate prima che alla scrittura alla memoria ed all'arbitrio del volgo.

Al XIII o al più XIV secolo, si possono ricondurre parecchie altre parodie del P. N. e del Credo : il Patenostre d' Amour s (2) ; il Fatenostre àVU$urier{3); un altro del medesimo soggetto di quest'ultimo, ma peg- giore per le idee e per le espressioni (4) ; il Credo à V Usurier (5) ; il Credo au Ribaud (6): molto lunghi, ma altrettanto insipidi. Migliore assai di queste parodie si è una poesia francese, la Letanie des bons Com- pagìwns, nei quali è agevole riconoscere dei Goliardi o dei Ribauds^ stam- pata nel 1545, ma da ritenersi indubbiamente, a giudizio del Montaiglon, assai anteriore, del XTV o XV secolo (7).

Così noi arriviamo al quattrocento. Ecco in Germania due pa- rodie: del P. N. runa, l'altra dell' ^. M: ambedue dialoghi erotici fra un frate ed una monaca, burlescamente- intessuti colle frasi latine delle orazioni parodiate (8). , Fra i medesimi personaggi avviene pure un altro dialogo poco edificante, composto di frasi tedesche e di versetti del

(1)

Chascuiì jour 1111 patpnostre Rìbaut et gouliardois duivent Par le pais tiex .e. denìers

Sed libera nos i sentieri Le matin quaat moy leverai Par tous les vignerons dirai, Pour les cepes qu'ils ont piente, Qui du vin donnent a piente etc.

Chascun jor coste patrenòtre Di-je por toz cels qui bieu boivent Ribaut et gouliardois doivent Par le pais tei e. deuiers.

Sed libera nog, I sentier,

Au matin quant je leverai

Par toz les vignerons dirai,

Por les cps que il ont plautez,

Ou il croist des bons vins assez etc.

(2) Barbazan, Fabliaux et contes des Poetes Frane, des siccl. Xl-XV. Tom. IV, p. 441.

(3) id. ibìd. Tom. IV, 99.

(4) JuBiNAL, Rapport sur les Mss, de Berne, p. 32-35. Ms. de Berne 354, fol. 108. Questo -secondo P.N.de l' Usurier porta il nome dell'autore, il Trovatore normanno Richard de Lison, Cfr. Hist. Littér, de la Fr. le.

(5) Barbazan, op. cit. T. IV, p. 106. (0) Id. ibid. p. 445.

(7) A. De Montaiglon, Recueil des Ptìés, frane, des X V et X VI siécles. Paris, 1855. Tom. VII , p. m.

(8) Vennero pubblicati nella Germania (Voi. XIV, Vienna 1869) da I. V.Zingerle, che trasse T uno da un Ms. Viennese del 1393, r altro da uno d* Innspruck del 1456. Negli Alt- deutschen Liedersaal del Lassleig (Band III) leggesi una poesia: des Ruben Klage, nella quale un giovane recita al mattino il P. N. e VA. M. frammischiandovi lamenti e riflessioni.

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128 F. NOVATI [giornale di filologia

Salmo LXIX che, senza rammentanse la data, riporta il Du Méril (1). E ritornando alia Francia, ci soccorre il Pater Noster des Verollee (2), ove nella forma troviamo dei cangiamenti ; il versetto dell' Orazione non apre più la strofa, come si nsava per innanzi, ma la chinde, esempio che verrà poi quasi sempre seguito. Quindi una parodia di carattere politico, il Pater noster des Angloys (3), scritto probabilmente in occasione del rin- novarsi delle lunghe e disastrose guerre fra i due paesi tanto vicini, e che s'odiaron tanto. Gli Inglesi sgomentati secondo finge l'autore della nuova guerra che loro sovrasta, si rivolgono a Dio per soccorso:

Pater noster, dieu étemel Tout-puissant en ciel, en terre, [Vois] 168 Angloys, qui ont la guerre; Lea Francois par mer, par terre, NouB feront des maulx infinis; etc.

e cosi continua la poesia per alquante strofe ; ma sulla fine lo scrittore che si compiacque a dipingere le angoscie degli abborriti nemici, butta la maschera e con significante incoerenza couchiude col dimandar vit- toria per i suoi:

Amen, pour finable conci usi on Priant Jesus, sa doulce mère, Tenir les Fran9ois en union Et les garder de vitupero. Et donner puissance, victoire Au roy contre tous ses ennemys: Anglois, notez ce pour mémoire Et vive le roy des fleurs de lys!

Anche più ricca è la messe nel secolo XVI. In esso è però a no- tarsi, che sebbene si ritrovino ancora parodie di canti religiosi indiriz- zate all'espressione di vari sentimenti, come in Francia il De Profundis des Amoureiix (4), pure nella pluralità esse intieramente convengono a manifestare sentimenti politici. I grandi avvenimenti che sconvolgono allora l'Europa: le guerre di conquista in Italia, di religione in Germania attirano singolarmente l'attenzione, risvegliano, padroneggiandola, la fantasia dei poeti popolari. Perciò la letteratura francese, che fino ad

(1) Du MÉRIL, Poés. popnl. lat. antér, (2) De Montaiglon, op. cit. Tom. I,

au douz. siede, p. 96-97. 11 dialogo ioco- p. 68. miiicia: (3) Id. ibid. Tom. I, p. 125.

r lìnts in adiutorium mmm ù>tende W ^^ MoNTAlGLON, op. cit. Tom. IV,

Spraeh ein hnbaches nunutliu das was P* 206. bcbonde ctc.

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ROMANZA, N.<> 5] IL VATElì NOSTER DEI LOMBARDI 129

ora ci ha pòrto il maggior numero di esempi, cede il campo alla italiana ed all'alemanna. Infatti, oltreché il Fater Noster cles Flamaìis^ Uc- iwuyers et JBrebansos e V Ave 3Iaria des Espagnoh stampati, secondo giudica il Brunet (1), fra il 1520 ed il 1525, noi non conosciamo altre pa- rodie, che appartengano in questo secolo alla Francia, se non si voglia ad essa ascrivere quella vergata da mano francese, ma di argomento nostro, che è Le Patenostre qui es in coelis des Genevoys en halade (2), opera di Andry de la Vigne, segretario della regina, di cui rimane una rarissima stampa.

Italiani poi per il soggetto e la lingua sono anzi tutto que' versi conservatici dal Sanudo, fati a ferrata 1499 di fevrer^ per Mamdio Lu- cense (3): parodia del Te Beum indirizzata a Lodovico il Moro, che pro- babilmente trovavasi ancora fuori d'Italia:

Te Maurum ìandamus cum voce e canti; •te doìninum fatemur: non più Galli;

te elernum patreiu, te vogliamo avanti. 2%i omnes poptili fan balli ,

tihi rustici fan leticia e festa,

Omnes cìamant al gal, scazialo e dalli. Vieni siam tutti d* una rabia infesta :

omnes damamus: dura Ludovico,

veni abassar al gal l'ardita cresta etc. .

Un'altra poesia, che doveva essere per piìi riguardi importantissima, ora perduta o almeno ignorata, è la canzone composta da Re Federigo di Napoli nel 1501, anno in cui perse il regno; e della quale conservò quattro versi l'Oviedo, che ne scrivea: Questa canzone ha che si canta ^ 34 anni et non si dimenticherà di molto altro tempo:

Alla mia gran pena e forte Dolorosa, afflitta e rea; Diviserunt vestem meam Et super eam miserunt sortem (4).

negli ultimi due versi noi riconosciamo agevolmente il versetto 18 del Salmo XXII.

E per un fatto inandito, che sgomentò il mondo cristiano, la presa

(1) Brunet , Manuel. T. IV, Part. I, A. Bartoli e R. Pulin per nozze d' Ancona- col. 431. t Nissim, iu XXIV esemplari.

(2) Id. ibid. tom. ITI, part. I, col. 889. (4) Oviedo, Naturale e gener, Historia

(3) Vennero pubblicati con altre Poesie delle Indie ai tempi nostri ritrovate. Ve- storiche tratte dai diarii di M. Sanudo nezia, 1606, voi. HI <lella Raccolta del Ra- (mcccclxxxxix-mdxxii), (Venezia 1871) da musio, p. 93.

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130 F. NO VATI [giornale di filologi!.

ed il sacco di Roma nel 1527, venne pure composto un Credo dei Ho- mani (1), nel quale imprecando contro le infamie degli Imperiali, i cit- tadini si rivolgono al Re di Francia per soccorso;

0 tu ai^or[e] del fiorito giglio di questi cani fa aspra vendetta, segue del padre T amoroso figlio,

qui concepì US est Non vi valerà già fin V indo andare, contra la synagoga pesa deos, nemanco far la messa celebrare

del spinto santo, Sconfondi tutti questi cani iudei, Jesu benigno, che la magior parte tengon per certo che tu non sei

natus de maria Vergine. Italia mia, asta pur con lieto core, sta forte in lega e non haver timore, che te annuntio chel tuo redentore

Surrexit a mortuis, El bon Jesù che mai se trovò scarso ha exaudito el prego de Taliani, perché la voce del gran sangue sparso

Ascenda ad coeìos. Siede a man stancha quel chera Be Leva del gran Minos judice infernale, et il CoIona che più degno era

Sedet ad dexteram. Ma tutto il resto per gran punitione non starà troppo che credo per certo ritorneranno alla maleditione

dei patris omnipotentis. Anderk a Napoli il liberatore De Italia bella per poner il freno, el Duca de Lorena con lonore

inde venturus est. In pace e in gaudio Italia noi vedremo, tal che simil a lei mai esser stata facilmente da noi stessi potremo iudicare.

Posteriore di alquanto tempo e di origine meno popolare che let- teraria e forse per questo di minor eÉBcacia e nella espressione e

(1) Brinkt, Manuel, Tom. IV, col. 8G3: Pasq. e Marf. Venezia, Guadagnino. Stampa

Presa di Roma el lamento e le gran cru- rarissima e non mai se non nello stesso se-

deltate fatte dentro con el credo che ha fatto colo ripubblicata. Il Credo comincia:

li Romani con un sonetto et un successo di Credo, so creder se in la speranza etc

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BOMANZA, N.« 5] IL PATER NOSTEB DEI LOMBARDI 131

nel concetto che quello da noi pubblicato, è un altro P. N^ nel quale r autore sconosciuto lamenta le guerre fra T Imperatore ed il Re Cristia- nissimo e li esorta a volgersi contro il Turco che minaccia l'Italia; ciò che lascia luogo a stimare questa poesia composta verso la metà del secolo XVI. Anch* essa è cavata da una stampa senza data luogo, rarissima tanto da poterla a buon dritto chiamare inedita: e per questo rispetto e per il suo valore poetico e storico non spregevole, ne ripro- duciamo i brani più rilevanti (1).

0 Sommo Iddio che tutto V universo Di niente creasti, e poi volesti E^sser detto da noi in simil verso:

Pater, D' Italia i tuoi figliuoli afflitti e mesti Con salda fé, con cuore umile e pio Gridano a te che protettore resti

Noster, Se non T ajuti tu, nel mondo rio Chi sarà quel? chi darìi lor la pace, Se non gliela dai tu, o sommo Dio

Qui es in coelis?

Liberali, Signor, da Turchi e cani: Scampali da quei ladri e assassini, A' quai poco parrebbe in le lor mani

Regnum tuum. Signor, fa che ascoltando nostri inchini Ti degni dir, secondo sua dimanda, Nauti li spirti tui almi e divini:

Fiat

Ch' abbi Italia aver guerra ognun ragiona. Per il Turco che viene, e alcuni sono Che dicon che sarà quivi in persona

Hodie. S' Italia non soccorri, signor buono. Già non so altrove di voltar miei piedi, A me i peccati miei per grazia e dono

dimitte.

(1) Il Pricgho \ d' Italia detto \ il Pa- hehbe prima e darlipace uni ( versale come ter Noster \ Fatto al sommo Iddio | Nel hebbe al tempo \ d'Augusto con altri capi- quale ilpriegha voglia liberarla dalle lon | toli I cosa molto degna e \ bella di nuovo | ghe guerre miserie et affanni, dei quali stampata. 8 facciate e. a. n. I. Ne dobbiam per I longo tempo è stata afflitta, e gli la coraunicazioiie all'illustre prof. A. D'An- piac I eia renderli quella libertà r/te già \ cona.

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l'*- F. XOVATI [giorxàlr di filologia

Quanta gente mi strazia ognora, il vedi, Da un canto l'Aquila ho, dall'altra i Gigli, E questa e quelli dicono: vo', cedi

Nohis. Ma io che già ho provato con miei figli Quanto superbo sia lor fare e dire, E in quanti posti mi hanno, oltre i perigli,

Debita ; Vorrei dalle lor man, potendo, uscire; (iridando i miei figliuoli: o sommo Iddio, De, facci ormai la libertà fruire

Nostra,

Porgi r orecchio a noi, o sommo Iddio,

Ascoltaci, signor invitto e degno:

Da guerra, da tormento e afiaimo rio

Libera nos. Oh' ognun di noi laddove al santo regno

Siedi con tuoi, ti manderà suo cuore:

Liberato sarà, quantunque indegno,

A malo. Fallo per tua bontà, dolce Signore:

Dammi libertà, pace e buon governo,

Che sia tuo santo nome in tutte V ore Dall'Italia lodato in sempiterno.

la Germania è in questo secolo inferiore all'Italia nella produzione letteraria di parodie religiose-politiche: la pare^^gia anzi indubbiamente, se pur non la supera. In essa si prepara infatti e si compie nno dei più grandi rivolgimenti dell'evo moderno, la Riforma: ed è più che na- turale che a manifestare un'agitazione, la quale aveva le sue origini in questioni di fede e di culto, venisse preferita dai poeti popolari una forma che si prestava, svariatamente atteggiandosi, così all'espressione seria come alla satirica e burlesca dei sentimenti e dei fatti.

Ed è in Germania appunto che, quale non ultimo ineflBcace stru- mento a combattere la Chiesa Romana, pubblicavasi nel lo44 da Celio Se- condo Curione quella curiosa e ormai rarissima raccolta di satire contro la Curia, che si intitola Pasquilìorum Tomi duo (1). In essa, fra le molte e varie forme di componimenti, sonetti, terzine in italiano, epigrammi, endecasillabi, dialoghi e ritrai latini, si trovano pur anco due parodie

(l) Pasquillorum I TOMI | Di'o | rpiomm pii I lectaris animum | opprime | condu-

primo ^eri^ihiis ac rhytmiSf altero \ soluta centia, \ Eorum catalogìtm pro.rin\a \ a

oratione eonfirri \ pta quamplurima ronfi- Pracfatiotìe pagella reperies. \ Eleulhero-

nentnr y \ ad \ e.rhUarandnm ^ confirman- poli | MDXLIIII. dinnqnc hoc. \ perturbai issimo rerum statu

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ROMANZA, s.'^ 5] IL PATER NOSTEE DEI LOMBARDI

133

latine degli Evangeli, di molto interesse. Se esse poi si debbano giu- dicare opera di italiani o surte, come le più antiche goliardiche, da biz- zarro cervello germanico, mal sapremmo giudicare: perché le scritture raccolte dal Curione non sono tutte Pasquinate: bensì esso di questo nome si fa schermo pubblicando poesie più antiche, che giovano a mo- strare la secolare corruzione della Chiesa Romana, a giustificare la ri- bellione recente (1).

Le due parodie, di cui teniamo parola, possono ricondursi al me- desimo tempo: giacché Tuna e l'altra riguardano avvenimenti vicinis- simi: la morte di Papa Clemente (1534) ed ir viaggio di Carlo V com- piutosi poco dopo. La prima è imitata dal Capitolo XXIV del Vangelo di S. Luca (2), in cui è descritto l'incontro dei due Discepoli che an- davano in Emaus, con Gesù: ma Luca e Cleofa divengono per Pasquino, S. Pietro e la Curia; Cristo, il morto Clemente. Questi chiede ai due viaggiatori di che cosa si attristino : De Clemente 7* Pietro ri- sponde — et vir iitstus iniuria populi mortuits est: nos autem timide ru- mores fugimuSy quia ei sticcessisse Fauhim III audìvimus^ qui hanc cu- stodiam rcmovìt^ domumque orationis caprarum ceìlidam fecit , htijtis prò- ventus suis nepotibns contuìity oh quae Topuhis stupet, Quare Clementem summopere cupimus et eupcdamns resurgere, Ille aufem respondens^ dixit : 0 staiti et tardi cordis ad eredendmn nonne oportuit Clementem mori, et aìium surgere qui in vos peius tyrannìzaret? Così continua il dialogo, secondo le esigenze della parodia più o meno letterale : ma sempre acuto e pungente, quale lama a doppio taglio: ferisce il nuovo Pontefice e non risparmia T estinto. Contro lo stesso Paolo III, sul quale altrove Pasquino barbetta questa giaculatoria.

Oremus prò Papa PaidOy quia zelus Domus suae comedit illum (3),

(1) Pag. 94 (per errore d'imprpssiotie: si corregga 99): Ad Lectorem. Libuit hic subijcere Qiiereiam de fide^pii et spiritua- lis cuiuspiam Parochi^ ut videtur, ante hoc nostrum secnlum, nuper in (ie-nnania reperta, ut videas, optitne Lector, etiatn ante nos fuisse semper in Ecclesia aliquot pios et sanctos viros, qui rum publice non aitderent suum spiritum et sensum prò- /iteri, tamen in angulis suis, ut erat tunc Ecclesia in desertum pulsa per Ihmconem {ut Apocalypsis dicit) suum dolorem ejntil- laverunt et vìsitationis dieta suspirarte- runt. La Querela de fide ha lutti i carat- teri d'un ritmo goliardico. Ma ciò che è molto

notevole e che, se non erriamo, sfuggi fi- nora all'attenzione di chi si occupò della poe- sia Goliardica , si è il fatto che a p. 302 (t.II) è rijwrtata sotto il titolo di Evangelium Pa~ squilli o I lim Romani iam, peregrini Do- lus vobiscum. Et camiti tuo. Frequentia falsi Evangelii secundum Archam Auri et Argenti. Gloria tibi Auro et Argento, la famosa parodìa Goliardica, la Sequentia falsi Evangeli secundum Marcam argenti, che si lej?ge nei Carm. Pur. p. 22.

(2) Pag. 308: Evangelium secundum \ Marphorium. In ilio tempore Petrus et Curia iltani in Castello nomine Emaus. etc.

(3) Salmo LXIX vers. 9.

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134

K NO VATI

[aiOBNALB DI FILOLOGIA

legge nello stesso volume altra violentissima satira sotto forma di pa- rafrasi del Mìserere (1).

L'altra parodia cade sul Capitolo XII del Vangelo di S. Gio- vanni (2). Come abbiamo già detto, ne viene colpito Carlo V, al quale Boma, come già Maria a Cristo, efifonde sui piedi preziosi unguenti. Ad un francese che ne mormora (Quare hoc unguentum non venit ad nos dccem millibus et non datur Francisco?)^ Carlo risponde: Sine iUam: in die enim victoriae meae lioc unguentum servavit. Vos enim Gallos sempcr Bontà nutrii^ me vero non sempcr. Crudele verità ammantata da cru- dele ironia! Al banchetto segue T ingresso dell'Imperatore in Roma; la preghiera d' esser liberato dalle francesi molestie {transeat a me calix Galli) e la affermazione, che se vincesse, trarrebbe a tutti e tutto {et ergo si exuKatus fuero in viatoria^ omnes traham ad me ipsum): il che si verificò davvero (3).

Venendo adesso alla Grerraania, appartengono a questo tempo al- cune parodie in prosa del Benedicite, del Gratias, del Pater Noster^ del-

(1) Pag. 425: Psalmus Miserere mei, se J cundum Aìnbrosiiim, Pas | qvUlo para- paraste:

MiBorere mei Panie non socnndnm Ravignanam

miserioordiam tuam, Nec SGoundnm consuetiidinem tnam dde sostan-

tlam mcam eto.

Termina:

Tono imponent in mensam tuam in argento meo capones et vitnlos.

Gloria Patri Alio et nepotnm tnornm choro, 8icut fnit in Ravenna et medice et me et nuuc et Bomper et in obitiuu prelatomm. Amen.

(2) P. 305: Evangelium \ secundnm Pa- squillum: In ilio tempore ante decem dies Pafichae Carolus venit iu monasterium |)()st- qnam Clenifns mortiius erat etc.

(3) Della fine àA cinquecento, allusiva alla occupazione di Marsiglia fatta a tradimento dagli spapfnuoli. che nel medesimo modo la perdevano per opera del Granduca di To- scana nel 1595, è una parodia del Salmo CXIII, conservata iu un Cod. del tempo, ^\h Spirniano ora Laur. 14; e in un altro Riccard: il 771. Essa è molto notevole ed è stata composta da un fautore de' francesi :

In exitu Caesaris de Ghallia, Andreas de Boria de mari prof undo: facta est Mar-

silia forti fichatio regisymonumentvmeius Druentia.

Caesar Druentiam vidit et fvgit: Do- rias propter regis copiosa classe conversus est retrorsmn et eqintes Caesaris exulta- bunt ut arietes et pedites eius sicut agni.

Quid est tibi Caesar guod fugisti et tu Boria quare coyì versus es retrorsum ?

Marsiliam munitissimam vidi et fugi: propter Bretoyium et Normanorum dassetn ronversus smn retrorsum. Quid vobis /uit, equitcs, quod fugistis ut cervi silvestres et vos prdites ut lepores campestresì

A facic regis motus est exercitus, afacie eius motae sunt triremes.

Qui Marsiliam in medio constituit et Arelatam propc fontes aquarum.

Non nobisy Bomine^ non nobis militibus regis y de Caesaris fuga et suorum strage, sed r/' gloria nomini tuo etc.

Più inaanzi rammenta gli alleati del Re francese: Bomus Orlienensis ducis spe- ravit in Boni ino et ab insidiis Caesaris li- beravit eam Bominus.

Bominus memor fuit Ioannis Punii Ursini et bencdixit UH.

BenedÌKÌt Bominus Stephano Prene- stino et Co filiti Rangoni.

Bcnedùvit Bomitttfs omnibus sub Rrge Gallorum militantibus equiiibus et pedi- tibus , etc.

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BOMAxzA, N.*^ 5J IL PATEB NOSTEE DEI LOMBABDI 135'

V Ave Maria: e di queste due ultime orazioni e del Credo se ne hanno pure altre in versi (1). Del Salmo CXIII cita pure una parodia politica il Du Méril (2) ; ed il Soltan pubblicò il Vater Unser der Herzogs Ulrich voti Wiirtemberg (3) , che comincia:

Vater unser: Beitling ist unser; Der du hist in den himmdn Tilbing und Essling wòUn wir auch hàld gewinnen.

Questa predilezione del popolo tedesco per le parodìe, continua nel secolo seguente e prende anzi maggiore incremento coir aprirsi della guerra dei Trenf anni: quando gli eserciti Danesi, Francesi e Spagnuoli apportano nelle ricche provincie Germaniche quel lutto e quei danni, che aveva tanto tempo sofferto la misera Italia. Nei Canti Storici già citati, il Soltan ha raccolto anche V Ileidelbergische und Eebellen Vater Unser (4) del 1621: ed un Der Soldaten Vatter Unser (5), che suona:

Wenn der Soldat eum Bauren keret ein, Grùsset er ihn mit freundlichem Schein: Vatter

del quale ci occorrerà di nuovo tener parola. E nella raccolta di Canti appartenenti ai medesimi tempi, del Weller, un Mahrisclie Vatter Un- ser (6)^ in prosa, del 1619: un altro del 1631, svedese: Das Schwedische Vater Unser (7) ; e del 1646, Das Forstensohnische Vatterunser (8) ; tutti e due in versi. Nel volume dell' Opel e Cohn leggesi pure Das pdpstir sche Vater Unser (9) del 1620 unito a tre parodie di Salmi, nonché varie parodie in prosa dell' Evangelo di Giovanni (10), di Luca (XIX) (11), del Salmo I e II (12), della tentazione di Cristo (13); una poesia intito-

(1) Ved. 0. ScHADE, Satiren und Pa- (6) E. Weller, Die Lieder des Dru- squUlen aus der Reformationsxeit, 2.^^ stigjdrhigen Krieges, Basel, 1855, p. 61. Band, p. 270-71 (Hannover 1856). Questi Nella stessa pagine trovasi das Bóhmische componimenti si trovano agj:^iunti al Der aller Angen^ pure in prosa.

Papisten Handthùchlein (1559). (7) Id. ibid. p. 204.

(2) Du MÉRiL, Poés. lat. anter. etc. p. 96: (8) Id. ibid. p. 263.

In exitu Landgravii de Ilassia; domus Saro- (9) I. Open und A. Cohn, Der drustig-

num de populo barbaro etc. jàhrige Krieg, Etne Sammlung von histo-

(3) F. L. Soltan, Ein Ifundert deuts- riscJien Gedirkten U7id Prosadarstellun- che historische Volkslieder. 2 Ansgabe, gen. Halle, 1862, p. 32.

Leipzig, 1845, p. 241. Sopra una Litania (IO) Id. ibid. p. 100.

Qermanorumy cfr. D. F. Strauss, Hnlrich (11) Id. ibid. p. 195.

von Hutten, II, 183. (12) Id. ibid. p. 209 e 210.

(4) F. L. von Soltan, op. cit. p. 460. (13) Id. ibid. p. 99.

(5) Id. ibid. p. 67.

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•13(5

NO VATI

[oiOhNALE DI FILOLOGIA

lata: Il decalogo degli Spagnuoli {Die Spanischen Zelien Gehot) (1): una parodia dell' In didci jubilo (2) e finalmente alcune parodie di Canti ecclesiastici protestanti conosciutissimi (3).

L' Italia che ha tanta ricchezza di poesie politiche nella letteratura colta di questo secolo, non manca di parodie, esse pure rivolte a ram- mentare avvenimenti storici. Due però fra esse hanno altro carattere : il De Profundis d'una monaca disperata (4), nel quale si svolge un ar- gomento assai gradito, a quanto sembra, in quel tempo; e un P. N. di- retto contro il Senatore Rossi, ministro del Granduca di Toscana, at- tribuito nel ms., da cui lo ricaviamo, al bizzarro ingegno del fiorentino G. B. Fagiuoli: cosa che non ci sembra priva di probabilità (5), Il P. N. comincia :

0 del Toscano ciel Giove benigno, Avvezzo ad influir con mani d*oro, Grazie a quei che ti acclamano per loro

Pater,

Noster?

Qual fallo nei tuoi servi mai scorgesti, Che gli facessi dare in man d' un cane Quel che dato ci fu dal ciel per pane

Rivolti dunque a te, Rossi inumano, Non ti sovvien che mulattier sei stato? Rispondi or che tu sei infarinato:

Qui €S?

Cagione delle invettive e dei lamenti si è la ingordigia del ministro e la durezza adoperata nelle esazioni esagerate:

(1) Id. ibid. p. 6.

(2) Id. ibid. p. 91.

(3) Id. ibid. p. 318. Molte di queste in- dicazioni ci sono state fornite dalla genti- lezza del D.' R. Kòhier di Weimar.

(4) Questo De Profundis è stato edito da O. Leti nella Vita di B. Arese (Colonia, della Torre 1682 ) senza nome d* autore. Ade- spoto si legge pure in un Codicetto misceli. Riccard. (il 2883) intitolato: Varie cose scrit- te da Gio. Minuti nel Collegio di Prato nel- l'anno 1713: e salvo parecchi sformati er- rori di ortografia non differisce dalla stampa. Fra le poesie di P.Maura (1638-1711) del quale ripublicò recentemente (Milano, Bri- gola, 1879) i componimenti in dialetto sici- liano L. Capuana, sono ricordate Y A. M. ed il P. N. di una Monaca : ambedue ine-

dite. Ad un Miserere scritto contro la città di Messina dopo la rivolta del 1672 dovette

10 stesso poeta la liberazione dal carcere. (5) Cod. Riccard. 2947. In esso però è

taciuto il nome del Rossi, contro al quale la poesia è diretta: e dove occorreva, come nel primo verso della terza terzina, è stato sosti- tuito con un epìteto. Invece questi riguardi non si sono avuti da colui che copiò la mede- sima poesia nel Cod. Riccard. 2242, che pre- senta anche varianti non poche senza va- lore. Per i brani che citiamo, abbiamo scelto dall'uno e dall'altro Cod. le lezioni che ci pa- revano più conformi air intento deir Autore.

11 ritrovar tante varianti di si breve poesia, può esser prova della diffusione che essa ebbe quando apparve in pubblico.

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BOMANZA, x.« 5] IL PATER ^VSTEM DEI LOMBARDI

Se anderan, come credo, nell'Inferno, Metteranno T appalto anche sul fuoco, Giacche hanno fatto questo simil gioco

137

Et i)ì terra.

E che occorre più dire il Pat^r Noster, Se ora appaltato è quel che ci consola? Per noi infruttuosa ò la parola

I*anem,

La disperazione in cui sono entrati i toscani è, secondo il Poeta, grandissima :

In Tripoli, in Alfieri, in Barberia Mandaci, Serenissimo Padrone, Che liberi sarem dal ^eo fellone

Et ne nos.

Per concluderla adunque dichiaro Vi risolviate l'impresa lasciare; Ohe a de Dio voi ci farete entrare

Sottoporremo il capo al manigoldo Ed i suoi strazi a noi parran men fieri, Ma da navicellai e mulattieri

E gih che 1 nostri queruli lamenti Non son sentiti, bisogna sbrigarsi. Unirsi ciaschedun per liberarsi

in tentationeììì.

libera nos.

a malo.

E se '1 nostro poter non fe bastante, Venga in nostra difesa U Turco e '1 Moro, Gik che si sa che il fiorentin decoro Deve un giorno morir con il turbante.

Amen.

Poco interesse presentano due altre parodie dell' Orazione domeni-* cale, una di proposta, l'altra di risposta, le quali si possono ascrivere al medesimo tempo (1). Non contengono che indeterminate domande di soccorso celeste e altrettanto vaghi rimproveri della divinità per i com-

(1) Si leggono nel Cod. Riccard. 3464. 11 a p. 3 segue la Risposta di P. N: primo componimento intitolato Rime sopra Figlluol, s'io U son padre e redentore etc.

ti P. N. consta di 25 terzine e comincia:

Paitr celeste Iddio, onnipotente Padre, sofferma alquanto il tuo faroro. Se ti Siam figli sempre ti stia a mento.

a p. 12 le Ri)ne sul Salmo XXV :

Ad ie Uvati gli occhi, o Signor mio, A te ricorro l'alma tribolata, A te Trinità santa, solo Iddìo.

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138 F. NOVATI [giornalk di filolooia

messi peccati. Sono però lavoro di non rozzo versificatore tanto esse, quanto un^ amplificazione (più che parodìa) del Salmo XXY : lunga assai e nella quale non vi sono che queste due strofe, le quali faccian cenno dei fatti contemporanei:

Omnes gentes gran duol ci fan patire, Con strazi con minaccio et con ingiuria che U ben manca e cresce il gran martire.

Principes persectUi sunt con furia Il popol nostro con acerbi stenti, Et d' ogni ben sentiamo gran penuria (1).

Uno de' maggiori tentativi che la Potenza Ottomana, già declinante, ardisse, cioè l'assedio di Vienna del 1683, che ha ispirato le magnifiche canzoni al Filicaja, viene pure rammemorato da due umili componimenti, sin qui, a quanto pensiamo, ignoti. Il primo è parodia del notissimo inno sacro, il Dies irae (2) :

Dies irae dies illa Turcas solrit in favilla Bex Jouannes cum Maxilla.

Quantus terror iam futurus, Si in Viennam intraturus, Omnia strage vastaturus!

Tuba cìrcum sparsit sonum Per Provincias Polonum Vocans Ducem legionum.

Facta dicunt et natura Quod Germania semper dura Sit Turcarum sepultura;

e COSÌ continua piuttosto lungamente : ma a noi sembra opportuno fer- marci a tale saggio: giacché questo ritmo non ha certo molto pregio, come ne ha pochissimo un altro componimento, formato di tanti ver- setti scritturali, cavati dal libro de' Salmi, da quello de' Giudici, da Ge- remia, che celebra lo stesso fatto, cioè la liberazione della capitale au- striaca (3).

(1) Pag. 14. 106: Popxdus Viennae ah óbsidione divino

(2) Si trova nel Cod. Riccard. 3473, che auxilio liòeratus , sic loquitur ; Audlte è un volume di poesie varie, autografe per haec oranes gentes, auribus percipite omnes la più parte e indiriiJzate al Fagiuoli: il quale qui habitatis orbem etc. In fine si legge: non solo deve essere stato il possessore, ma A. Z, ex divinis scripturis hos flores U- il formatore di questa miscellanea. Questo gebat. Anno apartu Virginis CIO ,IOC. componimento però non ha nome d'autore: LXXXIII Ex Psalterio Davidis, Ex libro porta il N. 11. ludicinn. Ex oratione Jercmiae. C. V.

(3) Ck>d. Riccard. misceli. 2593, cart. 105-

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ROMANZA, H.^ 5J IL PATER NOSTEB DEI LOMBARDI 139

Della fine del seicento, è pure una parodia del P. N. diretta contro Alessandro Vili (1689-1691), che abbiamo ricavata da. una raccolta di Pasquinate (1). A noi non occorse mai vederla ricordata : è molto vio- lenta, ma non priva però di qualche eleganza di forma. L* anonimo au« tore apostrofa così il Pontefice:

Oh tu che avesti il regno in Vaticano, E fusti eletto dallo Spirito Santo, Esser tu sol nostro sovrano e santo

PateVt

Tu fa che il gregge tuo, eh' ò già disfatto, Non resti esposto al Gallico giudizio E che il misfatto altrui non sia supplizio

Noster,

0 tu che Pietro ancor con tua follia, Con Prencipi rimetti a competenza. Forse che non conosci in tua coscienza

Qui es?

Sei altro eh' un pezzente rivestito, Ch'opera buona mai sapesti fare, £ ti ricordi al fin che devi entrare

in coeìis?

i desideri suoi si limitano a poco. La preghiera che rivolge a Dio, è che faccia morire il Papa al piìi presto: giacché in Eoma non si può più resistere alle vessazioni* dei ministri d'Alessandro:

Roma sta male, mai stette peggio, E s' i capi non hanno compassione, Non pagheremo nell' occasione

Debita nostra.

Non s'userebbe tanta tirannia Se li Papi con noi stesser del pari, E se mangiasser dei bocconi amari

gli pare d' aver detto abbastanza :

Sicut et nos.

Molto in ver vorrei dir, ma perchè, so Che della veritade ognun si picca, E chi vuol dir il vero alfin s'impicca;

dimiUimus.

S' i Veneti ah aeterno furon pazzi. Però ti prego, Padre onnipotente, Che più al governo di pazza gente

ne nos inducas.

(1) Gxl. Uiccai-«1. 25(M, \^. 22.

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] 10 F. NO VATI [giornale di filologia

Altro non brama il popol che un motivo, Ter dar Roma principio a sollevarsi, Che saria lor pensiero sollevarsi

a malo. Allora vorressimo vedere Subito un parapiglia, un serra serra E Monti e Stelle e Quercie andar per terra:

Amen.

A questi lamenti dei popoli della media Italia contro i loro gover- nanti si uniscono espresse nella medesima forma, le querele dei Lom- bardi soggiacenti a dominio più di tutti stolto ed iniquo. Una parodia Lombarda del P. N. per stessa notevole , ma che acquista per noi maggiore importanza per un fatto che metteremo ora in luce, veniva parecchi anni sono pubblicata dall' illustre letterato G. Carducci in un periodico fiorentino (l).

Il Carducci in una Notizia premessa alla poesia, diceva crederla inedita e tale era difatti nella forma in cui usciva alla luce. Eppure essa non opera originale di ignoto secentista, ma devesi ormai conside- rare come rifacimento letterario del P. N, plebeo dell' antecedente secolo contro i Francesi. Curioso a dirsi: la parodia misogallica cent'anni dopo rimaneggiata e trasformata in parte, diveniva misoiberica, ma in fondo rimaneva sempre la stessa. Il rifacimento del secento si scosta e non poco dal modello: opera di persona non indotta, essa non presenta più quelle forme dialettali a mala pena larvate da desinenze italiane e quelle licenze di metrica e di rima che si incontrano nella poesia anteriore: anche la distribuzione dei versetti seguenti ad ogni strofa è fatta da ar- bitraria, regolare: talché non ne viene ommesso alcuno; riferito or un solo or molti a capriccio : ma per quanti mutamenti siano stati intro- dotti nelle espressioni e nel linguaggio, le due parodie hanno conser- vato una sostanziale identità. I raffronti che, a dar forza alla nostra affermazione, potremmo fra Tuna e l'altra istituire, sono troppo nume- rosi per poterli riprodurre in queste pagine: troppo evidenti per non indurre chiunque sentisse curiosità di farli, a riconoscere l'indiscutibile aflBnità che lega le due poesie.

Per questa ragione ci siamo indotti a ripubblicarla in seguito alla prima: giacché si è questo, a giudizio nostro, un fatto degno di consi- derazione, e che addimostra una volta di più, come nelle forme adoperate

(1) L'Ateneo TtaliartOyOìornHÌe Scieu' colo XVII, p. 90-93. Venne tolta da due

zp, Lettere ed Arti etc. diretto da G. CniA- Cotld. Riccard. il 2868 (indicato con A) e

RiNi. Voi. I, fase. VI (IHGó). Puhblicaz. di il 2977 (indie, con B).

Senili Iiu'il. Ina Poesia Storica del Se-

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BOMANZA, N.o 5] IL PATER NOSTEB DEI LOMBABDI

HI

dalla fantasia del popolo all'espressione de' suoi sentimenti, nulla mai si ritrovi in realtà, sebbene talvolta l'apparenza possa ingannare, di in- consueto e di nuovo. Il popolo predilige pur sempre quelle forme che tra- dizionalmente furono da esso adoperate : e molte, già scomparse e sepolte, veggonsi rianimate di nuova vita risorgere, e manifestare, coli' eloquente linguaggio, la storia di nuovi affetti e di nuovi dolori.

Questi vincali di rassomiglianza che annodano alla parodia popolare del cinquecento, l'altra più letteraria del secolo posteriore; vincoli che noi stimiamo prodotti ^da voluta imitazione, e non fortuita coincidenza di casi e di sentimenti nella plebe Lombarda, intercedono in grado mi- nore, ma non meno singolare fra i due P. N. italiani ed uno tedesco del secolo XVIII, il Pater Noster dei Villani di Colonia^ composto nel 1704 contro i francesi (1).

La parodia germanica Valer unser der Colnischen Bauern, della quale il modello, o certo almeno una redazione anteriore si è quel Der Soldaten Valer Unser, che abbiamo già rammentato, del seicento, è molto probabilmente una cosa sola con la poesia popolare del Meklenburg in- titolata Bauern vaterunser, e l' altra rammentata dal Prohle, come quasi identica a questa ultima, l' Hamwversches Vaterunser (2). E la identità di questi quattro canti popolari, che potrebbe forse ad alcuno sembrar strana, non parrà più tale, quando si pensi che prodotta dai medesimi fatti, esprimendo gli stessi affetti, questa parodia dovette rapidamente diffon- dersi in tutte le provincie dell' Aleraagna e divenire in ciascuna di esse la manifestazione dei pianti e dei desideri comuni.

Nella poesia tedesca adunque e nelle parodie lombarde, che certo non hanno altra relazione fra loro fuorché quella prodotta dalla origi-

(1) H. Proiile, Weltliche xmd geistli- che Volkslieder nnd Volksschaicspiele. 1855 ; n.** 99. Alcune strofe (cioè la 1», 2% \2\ e 22^) tradusse; citandole per saggio, il prof. E. Teza in una nota apposta alla notizia del Carducci.

(2) A meglio stabilire questa relazione fra le quattro parodie crediamo che non sarà inopportuno il dar qui un brano di ciascuna. Il Pater Noster dei soldati del XVII secolo, dato alla luce dal Soltan, comincia cosi:

Wenn der soldat zun Banren koret ein, Orùsset er Ihn mlt freandlichen Schein:

Tatter,

Dankct ihm daneben zìi aller Frisi: Bauer, wa« tlu ha»t, uIIuh ist

l'iLscr. utc.

La parodia Meklenburghese, edita da H. Gadke nel Deutschen Museum del Prutz, anno 1855, n.° 47, p. 769 non è che una tra- sformazione di quello;

Der Fransoz der tritt ics Haua hinein Band sprlcht zom Haaawirth aos falaohem Scbein :

Vater eto.

II P. N. Aunoverese , della fine dello scorso secolo, citato dal Soltan (p. LXXVII) non abbiamo veduto , ma basta, crediamo, T assi- curazione del Soltan stesso, che lo dice quasi identico al Meklenburghese. 11 P. N. dei Co- lognesi poi, pubblicato dal Prohle, ò quasi preciso :

Wo nur der Franzmann kehret ein So grusat cr uuh mlt falschcni Schein

Vater! ctc.

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U2 F. NO VATI [giornale di filologia

nana aflBaità del pensiero del popolo in tutti i paesi, è mirabile la coin- cidenza delle idee e del linguaggio. I villani di Colonia soffrono gli stessi insulti e le stesse privazioni dai Francesi guidati dal re Luigi, che i contadini Lombardi avevano patiti da Carlo Vili: quindi nella parodia germanica, che si divide in ventotto distici, chiusi ognuno da una parola o una frase del P.N. in tedesco, non in latino, troviamo come nelle italiane, gli invasori tutti umili dapprima, brutali subito dopo:

Wo nur dar Franzmann kehret ein, So griisst er uns mit falschem Schoin:

Vater! Man bald hSret zur selben Frist: Mein Vater, was du hast, das ist

Unser.

ne vediamo istessamente descritta la rapacità:

Ach Gott, wenn's stfind in ihrer Macht Zu spliindern waren sia bedacht

dein Reich.

e gli insulti all'onor maritale:

Solch'Volk hat man gesehen nie; Bei unsern Weibern liegen sia

ala auch wir.

e parimenti espresso il desiderio di liberazione:

Ach Gott, lass sia bei uns nicht lang, Dia Schelmen thun uns angst nnd bang,

sondern erlQse ans (1).

Dei primi anni del secolo XVIII sono pure due altre parodie del- l'Orazione Domenicale. La prima, il Pater Noster di Mantova pentitOj non può riferirsi che alle conseguenze della imprudente deliberazione di Ferdinando Gonzaga ; il quale nella guerra per la successione di Spagna, sebbene fosse soggetto all'Impero, pur volle stringersi in alleanza coi Francesi ed aprì loro le porte della città, perdendo e libertà ed onore: e poco pili tardi (1707), come ribelle, lo stato. La supplica di Mantova all'Imperatore è piuttosto lunga e scritta con qualche eleganza: ma venne in piìi luoghi guasta dal trascrittore nel ms. dalla quale la rica- viamo (2). Nelle necessità della guerra cerca scusa la città alla sua ri- bellione :

(1) Cfr. del P.N. contro i Francesi, da noi pentita supplica l'Imperatore per il per-

pubblicato, le strofe 1, 2, 5, 15, 19: e «li quello dono :

del Carducci, la 3, 4, 6, 16, 21.

/o\ r. j r»- 1 Il 0101 ^r * Ravveduto, siguor, del grave errore etc

(2) Cod. Riccard. misceli. 2121, Mantova

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aoMAKZA, N.o 5] IL PATEE NOSTEIi DEI LOMBARDI 143

Son rea di ribellion, già lo confesso» Ma la necessità, tale mi rese, Per non veder distrutto il bel paese

Noster.

Troppo lo 80, presume mia baldanza E U temerario ardir : ma pur pietade Spero da te, esempio di boutade

Qui es. L*ambizion trasportommi a tanto eccesso, E credendo il Re Gallo un altro Dio, Sperai che trar potesse il stato mio

In coélis.

Hora provo T Inferno, e quello istesso Che '1 sollievo mi dio, via più mi noce ; K^ mi vale il gridare ad alta voce:

Santificetur,

E pur se sfogar vói Tira terribile Sul duce mio, perché ti fu infedele. Purché salvi il mio popolo fedele,

Fiat

Vìò. breve assai, ma di gran lunga più vivace e pungente è il Pater Noster Francois en 1708 (1) , contro il Boi Soìeil :

Nòtre-Pére qui est à Versailles,

Son nom n^est plus precieuz, t

Son Kojaume n^est plus si grand,

Sa volente n'est plus faite

Sur la Terre, ny sur la Mer;

Donne-nous du pain qui manque

De tous oostez: pardonne lee enemys

Qui nous ont battus et ne pardonne

Pas les Q«neraux qui les ont laissés faire;

Ne nous abandonne pas auz caprices

De la Maintenon, et delivre nous

De Chamillard et de Partisans.

Aincy-80it-il.

Molto posteriori sono tre parodie in versi italiani, di qualche im- portanza. La prima, imitazione della Salve Regina^ allude al matrimonio di Ferdinando di Borbone, Duca di Parma, con Amalia d'Austria. I sudditi, a quanto accenna la poesia, accolgono con gioja l'arrivo della novella sovrana, che deve ajutare i maneggi di coloro che osteggiano il

(1) Cod. Riccard. Misceli. 2593.

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144 F. NO VATI [giornale di filologia

governo del Du Tillot. La poesia è anonima, ma abbastanza felice nel- r accoppiamento, spesso arduo, dei due idiomi :

Donna regal, donna pietosa Salve,

Tu degna figlia d'Austriaca Regina;

Verso i sudditi tuoi mostrati Mater,

E i segni fa veder Misericordiae:

E fa che tornì a noi vitae dulcedo,

E che in te cognoscendo ogni spes nostra ^

Ognuno nel suo cor ripeta: Salce, etc.

L' altre due parodie del P. N, furono scritte, In occasione della par- tenza del Granduca di Toscana, V una ; di quella della Granduchessa V al- tra: senza dubbio di Leopoldo e della moglie che ascendevano per la morte di Giuseppe II al trono imperiale (1790). L'addio al sovrano non è scevro di asprezza:

Pater, tu parti e porti teco il noster, Contro il decreto del qui es in codis ; Tu fosti finto qui sanctificetur, Ma noi malediremo il nomen tuum. Tu che facesti volentier Vadveniat, Se il ciel ti punirà, noi direm : fiat, Che iniqua sempre fu voluntas tua etc.

Affettuoso invece è il saluto alla Granduchessa:

#

Tu la consorte sei del Pater tioster

Per il volere del qui es in coeUs;

Com'ei non fosti qui sanctificetur i

Perciò fu sempre amato il nomen tuum,

Sebben tu avessi in grande orror Vadveniat,

Nulla potesti oprar pel regnum tuum;

Mentre, quand'egli detto aveva: fiat,

Inutil si rendea voiuntas tua.

Felici sol con te sicut in cado

Noi saressimo stati etiam in terra.

Mangiato avremmo in pace il panem nostrum

Lodando tua bontà nel quotidianum;

Noi diremmo languenti allor : da nobis

Qualche cosa da viver come hodie;

Liberi dal gridar dimitte nobis,

Non ci tormenterian débita nostra.

Lieta saresti tu siciU et nos.

Ma tu parti; noi mesti or te dimittimus,

E nel libro riman de debitoribus

Pien d'afflizion segnato ognun de nostris.

Gran forza ci vorrà ne nos inducas

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B0MAN2A, N.o 5] IL PATER NOSTER BEI LOMBARDI 145

Di venir a seguirti in tentationem. Per quanto puoi olmen da lungi libera, 0 Pier Leopoldo, nos a malo. Amen.

E nella penisola ed in ogni altra parte d' Europa il grande conflitto d^arnii e di idee eccitato dalla Rivoluzione Francese, avrà certamente dato la vita ad un numero ingente di parodie religioso-politiche, fra le moltissime poesie di forma e d' indole popolari. A noi per vero manca e il tempo e la possibilità di estenderci in malagevoli, e forse poco grate ricerche a tal proposito. Ne ricorderemo tuttavia alcune che ci ven- nero sottocchio; così da poter dire d'aver seguito, sebbene in modo rapidissimo e certo incompiuto, il fantastico cammino di questo bizzarro genere letterario, dai secoli che diconsi più immersi nella caligine me- dievale alla aperta luce del secolt) XIX.

In un volume ms. miscellaneo conservato nell'Ambrosiana che con- tiene discorsi, proclami, poesie pubblicate in occasione della venuta dei Francesi a Milano e dello stabilimento della Repubblica Francese (1), leggonsi, fra altri componimenti, un Credo reptibhlicano (2), per nulla no- tevole, ed un Pater nostro patriottico che vorrebbe esser spiritoso ed è triviale (3). Dello stesso tempo è pure un Dialogo intessuto di frasi scritturali fra il pontefice e vari stati d'Italia e d'Europa; i Doveri d'un cristiano da recitarsi sera e mattina in onore e gloria della Sant."^ e Beat.'''' Libertà ed altri (4). Ma più opportuna a chiudere la nostra rassegna è da giudicarsi la Orazione Domenicale che recitano i Francesi nel partire dàUa bella Italia. Al lamento degli oppressi Lombardi, che viene ora alla luce, così si unisce la querela degli oppressori :

Che infamia ò mai la nostra, massime quella del nostro capo, che col suo molto operare si meritò il bel nome di Pater,

Essendo ridotti ad una miseria tale, che quel poco che possediamo lo possiamo nem- meno dir Nosterl

(1) Voi. segnato S. C. V. IL U, colP epi- Non aUm beaU© some: grafe: si quid delirant auctores ne typi cui- SI aantifichl il tuo nomo.

P^*^^^^' Venghl tosto U tuo regno:

(2) Pag. 134: ») Credo nella Repubblica ^Hi altH Ee non han aoatogno. Francese, una ed indivisibile, creatrice del- l'Eguaglianza, Libertà sociale; ^•^^ ^«°^^ ^ "''^''^

«) Credo nel general Bonaparte suo fi- ^^^ «^° ^^^ P^^^ ^ ^"*^

glinolo, unico difensor nostro etc. Tanto in cielo quanto in terra

Lo rammenta anche N. Bianchi, nella Vuol pazienza in noi la guerra ctc. Storia della Mon. Piem. T. Ili, p. 516.

(3) Pag. 133. Comincia: (4) G. De Castro, Milano e la lìcpvh» O buon Dio che eoi in cielo. ^'''^« Cisalpina. Milano, Dnmolnrcl, 1879.

Padre nostro e del Vongole I

10*

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146 F. NO VATI [giornale di filologia

La ragione giusta e vera delle nostre disgrazie si è il non aver volato riconoscere qui ea in codis,

Il non aver voluto osservare i suoi precetti, e sue feste aanctificetur.

Ahi Francia infelice ! Ciò di che dei più crucciarti si è questo che in te non debba rimanere che il solo infame nomen tuunu

L'Italia or gioirà, e godrà de* nostri mali, e tutta allegra e contenta, rivolta verso l'Austria griderà: Adventat regnum tuum,

Pochi nostri partitanti ci restano ancora, ma essendo anche questi resi vili e inti- moriti dalla nostra sorte fatale, con voce tremante diranno: fiat voluntas tua.

Iddio pur troppo sa mostrarsi sempre in ogni evento lo stesso sicut et in coda et in terra.

Che ci resta or dunque? Nuli' altro che andar cercando il Panem nostrum.

Ma terminerà questa nostra cattiva condizione, o sarà il nostro disdoro quotidianum ?

Ove sono quei felici, che con tanta prepotenza, coli' alterigia inaudita ci presen- tavamo agli Italiani, quai creditori scadute cambiali, dicendo: da nobis hodie ?

Ma ora ci tocca dire: dimitte nóbis.

Ora è giunto il momento in cui riconoscere, ma troppo tardi, ddnta nostra.

Con qual animo vorranno gli italiani far fronte a chi si impadronisce dei loro stati, e difender noi, se sorgono dal male che gli abbiamo cagionato, sicìd et nos dimittimus ?

Se anzi da moltissimi Italiani si ritiene che l'Austria abbia da soddisfare dd)itori- bus nostris?

Che valsero tutti i tentativi da noi usati per fare che il popolo Italiano ci ajutaMO? Che giovarono le nostre finzioni nelle gazzette, ne' fogli e ne' bollettini per te- ner celata la nostra rovina ? Esso pur troppo saprà le disfatte continue per la nostra parte : per cui franco risponderà : et ne nos inducas in tenlationem.

Se Napoleone fosse ancor grande come era, gli potressimo almeno dire : libera nos « malo.

Ma ahi! che siam forzati a replicare: Amen,

IV

Il Pater Noster, che cantava la plebe Lombarda nel XVI secolo, per quanto si può rilevare dalle poche notizie che abbiamo cercato di rac- cogliere nelle pagine antecedenti, appartiene adunque ad una categoria speciale nel genere delle Parodie : non spetta alle imitazioni serie del- l'Orazione Domenicale, alle satiriche o semplicemente giocose. In esso si trovano, come in molte altre parodie religiose politiche suac- cennate, misti i due elementi: T intenzione ne è seria, l'espressione non sempre. Ecco perché la nostra poesia è detta nella stampa ve- neta cosa ridicidosa e hcllissima: eppure si tratta del Lamento dei vtl- ìaniy di quegli infelici che vedevano la messe dispersa, gli armenti rubati, il casolare preda alle fiamme: non gioconda scena. Ma in essa il pianto talvolta adito al sorriso: e accanto alla imprecazione di- sperata contro l'oppressione straniera, v' è l'ironica beffa: in mezzo a

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BOMANZA, N.« 5] IL PATER NOSTEE DEI LOMBABDI U7

tante sventure, fenomeno bizzarro, pur di ridere il popolo rideva di medesimo, delle proprie calamità, della propria vergogna: ed era intanto pervenuto a tal bassezza da giustificare quasi T acerbe parole dell' Alione:

Per Galli e noi raduti a tanto Che se passemo la montagna, Podenio dir fin in Alamagiia Con reverenzia, siam Lombardi (1).

Quale è tuttavia, nella rozzezza della sua forma e nella trivialità de' concetti, non dubitiamo di affermare che questo P. N. si unisce bel- lamente a completare la serie già copiosa dei canti popolari d'argo- mento politico, che possediamo di quel tempo. Esso porta una nuova nota in quel contrasto veementissimo di opinioni e d'affetti, sorto nell'Ita- lia, bruscamente strappata ad una lunga, ahi troppo lunga! pace. In mezzo alle tante disastrose avventure di quelle diuturne guerre che scop- piano per il Reame di Napoli, per il Ducato di Milano, i poeti popolari profondono i loro versi, per ogni avvenimento importante, ogni vittoria, ogni sconfitta: ed i canti o in metro lirico, o in terzine e in ottave, i Lamenti^ le Barzellette, le canzoni, nate fra il popolo e per il popolo, corrono l'Italia narrando indifferentemente d'Alessandro VI, del Valen- tino, del Moro, di Luigi XII; la prigionia di Massimiliano e quella di Francesco I, eccitando la compassione sui caduti, o sovra di essi provo- cando le risa e gli scherni del volgo (2). Ma fra tutti questi canti, mentre alcuni si preoccupano soltanto delle battaglie, delle vicende de' Principi, che vertiginosamente passavano dalla reggia alla prigione, altri invece deplorano i mali della patria e piangono sovra le città saccheggiate e distrutte : i campi abbandonati ed incolti. A questi oscuri ignorati ri- matori, improvvisatori, cantori in banca si aggiungono nelle querele i più eccelsi, i più classici fra i poeti del secol d'oro; all'Altissimo, allo Strascino da Siena, all'anonimo scrittore del P. N., van compagni il Fra- castoro, il Bojardo, l'Ariosto, il Vida. E tutti insieme o nel monotono ritmo popolare e nel breve ottonario, o nella ottava splendida e nell'en- decasillabo latino maestoso alzano un grido d' angoscia e d'affanno di- sperato, una chiamata alle armi, cui non risponde che il gemito d'un popolo infiacchito che non può sollevarsi, lo sprezzo dello straniero che lo sa e ne approfitta.

F. NOVATI.

(ì) Commedia e farseec.(Farsit.de\FrQ.n- del sec. XVI, v. D'Ancona, La poes. pop. zoso alogiato ec.) p. 352. Milano, Duelli, 1865. ital. § IV, pag. 41-79. (2) Su queste Canzoni popolari politiche

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148 JP. NO VATI [giornale di filologia

FATERNOSTEB CONTRO I FRANCESI

Pater noster, Audi il sapplitio de niiy poveri Lumbardi Chi da Guasconi Francesi et Pichardi Crudelmente sciamo stradati: 5 De(b) non guardare a nostri gran pacati,

Qui €8 in codia. Quando lor veneno in le terre nostre Tanto pietosi et honesti se fano, 9 Che pareno con soi ofiìcioli in mano

Santificetur» Poy che in casa sono arrivati Pareno orsi et leoni dsscadenatì: 13 Biastemano corno Cani renegati

Nomen tuum, Poy subito comentiano a ondare : - Baliate le claves del granare, 17 Et quella de casa et del solare

Adveniat -. Fano poy de nostri ben tal masaria Questa crudel et perfida genia, 21 Che in un giorno se consumaria

Regnum timm. Se alcuna cosa voleno domandare Et nuy sei baston volemo provare 25 Dir ci bisogna, corno el marinare,

Fiat E se la rason alcuno domanda Perchè el gran Roy è passato in qste bande, 29 El ci risponde certo che le stato

Vóluntas tua. Poi te dirano che se trova scritto Che luy sera imp*atore del tuto, 33 E questo afirmano esser stabilito

Sicui in coda, Sumergeli qui, dio de passione, Si commo submergisti Pharaone, 37 Et dalli in celo la malìditione

Et in terra, E non li basta ancor far tanti mali, Che ne tractano corno animali, 41 Et dano (o dio) insino a li cavalli

Panem nostrum.

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BOMANZA, N.o 5] IL PATEM NOSTER DEI LOMBAUVI 149

E molti affani se passeno in un momento, £ ogni mal se purga in qualche tempo; 45 Ma pure il dolore nostro è in un tormento

Quotidianum. Se habiamo caponi over galine Et se voliamo e'var per la matina, 41> Comenziano a cridare in gran ruina

Da nohis Jwdie. . Quando ne la Camera sono arrivati Et hano li boni vini retrovati, 53 Gridano corno cani renegati

Et dimitte nohis. Pur se volesseno usar discretione, Si comò fano le bone persone, 57 Doveriano pagare cum rasone

Débita nostra. Se habiamo moglia over donzelle Le volano per lor et le più belle, 61 Et in nel lecto ancor dormir cu elle

Sicut et nos. E noi per non recevere le derate De calzi e pugni e male bastonate, 05 E anchor per schivar le cortcllate,

Dimittimua. Pensa se questi sono gran dolori! Se fano si stessi procuratori, 09 Bescodeno li dinari corno aignori

Debitoribus nostris. Signor Idio, cum devotione Noi te pregamo per la tua passione, 73 Che ci deftendi da questa maleditione

Et ne nos inducas in teniationem. Ma tu signor che sei justo e clemente. Da queste bestie e crudel gente 77 Che ci consumeno, presto ci deffende:

Et libera nos ab eis. Amen.

Bibl. Marc. Cod. Misceli, 22 13, 4. Il titolo è nella stampa cosi espresso: Lo Alphabeto | delli Villani | Con il pater noster e il lamen | to che loro fanno, cosa | ridiculosa A bellissima. Anche neW edizione Veneta la prima strofa è di quattro versi. Verso 2 de noi poveri villani 3 Che da Francesi Spagnuoli e Alemani 4 Siam crudelmente straziati 5 a li ni peccati 7 vengono in le case nostri 9 con suoi offici e pater no- stri— 11 in casa nostra sono intrati 12 Paieiio leoni e orsi scatenati 13 Biastemando come fanno i renegati 16 Baja sa le chiave 17 della casa del cellaro {francese collier) 18 Alveniant 19 E fan 20 gente— 21 in tre giorni gli 2JHianno a comandare. 24 Se dal baston non vogliamo 25 Dir ne bisogna come fa 27 Se la cagion la fusse addi- mandata 28 Perche cagion gli monti abbina j>assare 29 Risponden loro e dicono esser stata 31 E poi dic**no 32 Che pt^r lor rim;)erator psst»r diritto (?) 35 Sommergili Signor 39 Falli 40 Che lor ne uccidon tutti gli animali 41 Ma danno ancor alli lor 43 Molli affanni passauno ad 44 st* sana a 45 Ma Io male ns» è un 47 Se noi

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150 F, NO VATI [giobjjale di filologia

48 E volessimo salvar 49 con 51 E quando in lo cellaro sono intrati 52 già trovati 53 arrabbiati 54 dimitte 55 chi volesse 56 Come fan gli gentili e buon 57 Che pagar ce volesser. 59 E se abbiam mogliere 60 per loro le 61 Ne li letti voleno dormir con quelle 63 Per non recipere de li derate 64 Che ci minaccian di bon col- tellate— 65 bastonate 67 crudel 68 Che lor si fan ni procuraldori 69 E voglion ri- scotere da gran 71 tutti in genocchione 72 con devotione 73 Che da noi discacci 75 Liberaci Signor 76 Da questa fallita e disperata gente 77 Che ne consuma e guar- daci al presente 78 soltanto : Amen, Amen : In Venezia per Mathio Pagan in | Frezaria al segno del | la Fede.

PATEBNOSTER

CONTRO GLI SPAGNUOLI

Pietà, signor, ch'ogni speranza è morta: Porgi rimedio a' poveri cristiani, Che non sien strapazzati da' marrani, 4 Pater noster.

Questi son quei che in su la dura croce Sino alla morte ti fér sempre guerra; E peggio ti farien se fussi in terra, 8 Qui €8 in coeìis.

Quando son questi entrati in casa nostra, Vanno guardando intorno umanamente Co' colli torti, e paion veramente

12 Sancii ficelur.

Da una sera in su si fan padroni; E non si può lor praticare intorno, Perchè rinnegan mille volte il giorno

16 Nomen tuum.

La prima cosa che fa lo Spagnuolo, Per ogni luogo della casa bada; E dove veda cosa che gli abrada,

20 Adveniat.

Di poi dice al patron - Traiga aqui todos - Col petto gonfio e con il viso altero. Che non gli basterebbe un giorno intero

24 Begnum Tuum.

- Vengas los poUos %j ìas gaUinas : Si non, quiero ammattar con U cuciglio - Tal che si convien dir con basso ciglio,

2X Fiat.

Forse Milan per qualche gran periglio È sottoposto a questa gente ria: Bcuchè si creda, o giunto Dio, che sia

•'- Vvlttììtiiii tua.

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ROMANZA, K.- 5] IL PATER NOSTEB DEI LOMBARDI 151

Caccia, signor, d'Italia questi cani,

Nostri nemici e tua, perfidi, infidi;

Acciò che non ne resti a' nostri lidi 36 Sicìit in coelo.

Signor, ti prego per la tua clemenza.

Che questi che non credon nel vangelo,

Sian maledetti da te sempre in cielo 40 Et in terra.

Non gli basta straziar e tòr la robba: Per doppio scorno di tutti e vassalli Danno in cambio di biada a'ior cavalli 44 Panem nostrumé

Signor, metti or mai fine a' nostri mali:

Chò ciaschedun di noi si trova afflitto.

Mentre voglion per loro il nostro vitto 48 Quotidianum.

S'abbiam nulla di buono da mangiare

Che salvar lo vogliamo all'altro giorno,

Dicon - Rinego Dios - sempre d'intorno, 52 - Da nohis hodie -.

E questo lor non basta : e' vogliono anco

Ch'andiamo lor davanti peccatori,

E che dichiamo: Per gli nostri errori ^0 Dimitte nóbis.

Dopo avergli serviti e dato loro

11 nostro aver, trattano ognun da matto.

Dicendoci che non li abbiamo fatto 60 Debita nostra.

Appress'a questo ogni altro male è poco, Che si voglion cavar tutte lor voglie, Mettendosi a dormir con nostre moglie 64 Sictit et nos.

Poi minaccian dicendo - 0 vos ombre, Juro a Dios te dare una scarcigliata - E noi, per non toccar cotal picchiata, 68 Dimittimtts.

Non basta tòrci la roba e l'onore:

Vedi se son ribaldi, iniqui, avari:

Voglion anco riscuotere i danari 72 Debitoribus nostris.

De, benigno signor, fa ch'oggi mai,

Quantunque grandi sien nostri peccati,

A discrezion di questi scellerati 76 Et ne nos inducas.

Questi son perigliosi ancor parlando;

Che gli santi farian scandalizzare,

E forse gli farebbon anco entrare 80 In tcntationem.

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152 F, NO VATI [oiohnàle di filologia

Piglia pur quanto vuoi d'oltramontani, Che di tutti peggior son gli Spagnuoli. Però con nostri ben, moglie e figliuoli, 84 Lihei-a nos.

Cessa Tira, signor, di tua giustizia: Che i gran peccati che commesso abbiamo Sono la causa che condotti siamo 88 A malo.

Metti, signor, l'Italia in unione, Acciò da questi can siam liberati: E pigli Parme ciaschedun barone, Acciò che a pezzi sian tutti tagliati. 93 Amen.

V, 5 Che strapazzati non sien : B. b che su : A. 13 che paion : B 18-19 In ogni luogo di tua casa vadi, Addove trova cosa che gli aggradi: A, 21 traino qui: A. Do- vrebbe leggersi todo ove nel testo è todos. E vale : Porti qui tutto. Le parole spagno- lesche del testo valgono: Porti qui tutto, È imitile del resto avvertire che, dove si contraffa in questi versi il parlare degli Spagnoli , le dizioni non S07i tutte spagnole regolari. 25 Traga aqui : B. Ma non va bene Vuno V altro. Quel testo po- trebbe racconciarsi: Vengan aqui los pollos y gallinas. 26 chreo amcon Io scorciglio :

A. Quel testo dovrebbe ridursi così: Si non, quer matar el cuchillo {seno, voglio am- mazzar COI} il coltello). Valgono: voglio ammazzar con il coltello. 27 Si che: A. torto ciglio : B. 29 Invece di periglio probabilmente doveva leggersi peccato. 30 a questa cotal gente: B. 31 Ben che ognun creda, o giusto Dio potente: B. 35 non ne siano a':

B. 48 basta saziarsi: B. 42 Per troppo: B, 48 Cotidiano: ^. 49 Se nulla abbiamo di buon da: 5. 50 per l'altro: B. 53 basta: voglion: 5. 54 andiam da lor: 2?. 55 E gli dichiara: B. 57-60 Mancano in A. —61 Appresso questo: A.— 62 Toglion cavar: A. 63 Voglion anco dormir: A. 65 Putto pebro: B. Dove non so che voglia dire pebro, se pure è scritto cosi nel cod. 66 covillada: B. Nel testo dovrebbe dire cuchillada. E vale: 0 voi uomo, giuro a Dio ti darò una coltellata. 67 cotal pric- ciada: B. 77 anco: A. 78 farian : B. 79 forse li farieno: A. 81. Piglia quel che tu: ^. 81 i peggior: ^. 83 Però i nostri: ^. 85 Cessi, signor, l'ira di: fi. 87 Son la cagion che condotti noi siamo : A. 90 Acciò siamo da questi liberati : B. 92 Acciò che in mille pezzi sien tagUati: A.

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BoMAszA, s.» 5] B. PUTELLI 1".:{

UN NUOVO TESTO VENETO DEL RENARD

Chiedo ospitalità al Giornale di filologia romanza per un nuovo testo veneto del jReìiard, che a me fu dato rinvenire. Il testo che io pubblico, contiene le stesse avventure che trovansi in quello edito, anni sono, dal Teza; T identità però, consiste solo nel* contenuto, che la re- dazione è affatto diversa, specialmente nella seconda parte. Nella quale, l'accenno che si fa (vv. 575-587) ad un' altra avventura, di cui non v'ha parola nel testo del Teza, ci può far credere che anche quella fosse co- nosciuta in Italia; il che importerebbe stabilire, per cancellare mag- giormente l'opinione, un tempo accettata, che le ragioni storiche e le condizioni psicologiche negarono agli Italiani ogni partecipazione alla gran satira che si esplica nel Renard. parmi di essere fuori del vero, se penso che il nostro testo abbia per ciò una speciale importanza, ma- nifestandosi di forma e di contenuto popolare, con quel suo prologo (vv. 1-42) a sentenze morali, e colla moralità che in fine (vv. 695-703) si deduce da ciò che è stato narrato. La mancanza di tutti i mezzi necessari mi tolse di raffrontare i due testi veneti con quello, o con quelli da cui possono derivare, e stabilire cosi la relazione che passa tra loro. Desidero che altri si accinga a questa ricerca, e spero che ai dotti riescirà accetto anche il solo testo, quale io sono costretto a dare.

Ho tratto il testo del Renard da un codice miscellaneo, apparte- nente alla Biblioteca Arcivescovile di Udine, che per errore figura nel catalogo dei codici latini, de' quali segna il numero XIII degli in 4**; è membranaceo, di carte complessive 64; alto cm. 19, largo cm. 14. È rilegato, e sulla costola porta la scritta: e Mss. Asceti[ci] sec. XIV ». Nella faccia interna della legatura leggesi, dopo l'indicazione 4** XIII, questa nota: e Codicem hunc | Bibliothecae Archiep." Utiuen. | dono de- dit I Petrus Braida sacerdos | et ejusdem Bibliothecae praefectus | Kal. Decemb. 1783 ». Insieme al codice è legata una nota, probabilmente del bibliotecario Ongaro, nella quale si una diffusa descrizione del codice, e si dice, cadendo in vari errori, della natura di ognuna delle sette scrit- ture contenute. L' autore di questa nota afferma che il codice « vuoisi supporre scritto, se non prima, al cadere del sec. XIV », ed infatti i criteri paleografici lo assegnano alla seconda metà di questo secolo.

Nel recto della prima carta, che un tempo faceva da foglio di cu- stodia, si vedono i segni di parole ora quasi scomparsi, e leggibili forse solo con grande fatica. Contiene quindi il codice:

11

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154 B. PUTELLI [giornale di filologia

a) Una Somma sul modo da tenersi nella confessione (e. 1 b 8 b). Comincia :

Incipit quedam sumela sub brevitate vulgariter conpìllata qualiter maree et mulieros debent sui [a] confessionibua per ordinem sua confiteri peccata. In poi quello che multi homini e femine falire alguna fiata e veramente falla per ìnyiatiga- cione de lo diavolo

Finisce :

a90 che uni (?) ne possa seguire utili tade he le altre persone ne possa piare bono exemplo. am. am. am. Deo sit laus et honor. Explicit liber confesaionum deo gratias.

h) Il noto poemetto sulla Passione (e. 9 a 15 b). Comincia:

Aldite bona gente questa mia raxone Col cor e cun la mente e cun la entencione La qual non e parabole ne fable ne can9on Àn9e de jesu cristo la vera passione.

Finisce:

Li sant e le sante mai^tir e confessor

K elli per pietai fa^a preg al segnor

Ke perdon a queluj ke de quest fo auctor

£ deali vita eterna en pres de quest lavor. Amen.

11 poemetto è intercalato da rozzi disegni a penna coloriti, che rappresentano i fatti della passione.

e) Una preghiera latina alla Vergine (e. 16 a); il verso della stessa carta è occupato da un disegno che raffigura, nella parte superiore G. C, seduto tra due angeli^ nella inferiore molti santi.

d) I salmi graduali (e. 17 a 22 b).

e) Una raccomandazione dell'anima in latino, seguita da preci la- tine; senza alcuna distinzione da ciò che precede, teugon dietro due preghiere latine alla Vergine e a S. Giovanni Evangelista; a queste si accompagnano le litanie alla Vergine diverse dalle Laure tane, e molte preci latine (e. 23 a— 38 b) ; a e. 33 b, nelle ultime linee, tra una prece e l'altra, v'ha questa curiosa ricetta:

Per la discorencia. Tuo del ór^o e fallo inbrustularlo quando questo e fato tuo e failo bulir chom el planiagn quant el bavera ben bolito va chiòlo de la aqua mediesema chel a buli entro e tuo el rosso d un ovo e batilo ben e tu del grasso della tella d un becho e messeda tuto quanto e haveray fato un bon cvistiero.

Le parole in corsivo souo friulane, e ci fauno pensare che il codice sia stato scritto in Friuli, tanto più che in uua delle preci latine precedenti si invoca S. Gallo, patrono della Chiesa di Moggio; ciò che fece pen-

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BOMAKZA, N.« 5] NUOVO TESTO VENETO DEL BENABD 155

sare all'autore della nota unita al codice, che questo provenga dall'ab- bazia di quel paese.

/) Il poemetto di fra Giacomino da Verona, e la Gerusalemme ce- leste e la Babilonia infernale » (e. 39 a, 49 b), già edito dall'Ozanam {Documents iìiedits) e dal Mussafia {Monumenti di atUichi dialetti italiam)^ del quale ci riserviamo di far conoscere la lezione secondo questo nuovo codice in uno dei prossimi fascicoli del Giornale. Comincia:

D una cita sanota ki ne voi oyr Cum eli e fata dentro un poco n o dir E 90 ke gen diro se ben le voi retenir Gran prò farà senya uegun mentir.

Finisce :

L 0 conpilla de teste de glosse e de sermone Ase ave enteso de le bone raion

emo tuti ke quel ke 1 sermone

Ke Xristo e la soa mare ie fa9a guedon.

A e. 50 a, un disegno illustra i versi di fra Giacomino; nella parte superiore si vede G. C. seduto, alla sinistra la Vergine e una piccola figura di santo, alla destra un altro santo; nella parte inferiore Luci- fero siede sul suo trono, mentre altri diavoli s' affaccendano a cacciare con forche i dannati in una caldaja.

g) Il Betiard (e. 50 b 64 b) il cui testo riproduciamo nelle pagine che seguono, adorno anch'esso di parecchi disegni ispirati dai fatti narrati. *

Raffaello Putelli.

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i5a

R, FU TEL LI

[giornale di fu.oi.ogia

1 oEgnori e done che se qui , [50 b]

Plasve intender et aldir

Un sermon de grant sola^,

A chi intender si li plas. 5 El e sermon de grande festa

A chi intendre se deleta,

E scìeuoia sen trar,

Chi in bona part la voi retrar,

Che beìn dise la scritara: 10 Tate cosse voi mesora.

Chi altri briga de inganar,

L ingano in lui sol retronar,

E chi per altri fa la fossa,

Entro el ca9e con soa volta: ift E 1 omo ohe pensa vadagnar,

Con mal[i]oia aveir trovar,

El perde quel et altro

Et e fora del so salto.

Nui om no diga mal d altmi, to Che altri diga beiu de Ini.

Chi voi dir ma del so visin,

Inprima inpense par de si

E soa rason si de cercar,

E postra (1) diga de altri mal. S5 Chi de altri dise vilanìa

Ella retorn^in soa camissa.

Or, per9e che lo mondo se de mal afar

Et ogn omo briga de far mal,

Imper90 xristo veras signor [51 a] so Si ne a dado cotal rason,

Che tuta 9ente al mont vivent

E tute bestie curent.

Viva soto segnoria

Che li demene per dreta via, 85 Che tuti aibia soa rason

A soa dreta domandason.

E si plasete a ieshu xristo,

Che del mondo fo magistro.

Che lo lion fosse podestà 40 E signor e re clama

De tute bestie che al mondo son,

Per far a lor soa rason*

Ur sta lo lion su in una grant montagna Con molte bestie in soa compngna,

(1) Cosi il nis. per poscia.

46 Et avea soi conscieri

Quant li fasea mesteri,

E comandadorì e scrivan

Si aveva d ogna man.

Elo tegniva pledo e rason 60 Si com re e grant signor;

Tute le bestie fese adunan9a

E si fese grant lementan9a

Sovra reinaldo corannament

Deli soi grandi offendiment. 55 Li 9a[n]tacler orden segra

Si se comen9a a lementar.

Or dise quelli : miser lion, [51 b]

Yui se re e bon signor,

Nui ve pregemo fortement 60 Entendi nostro lementame[n]t.

Et a dreta demandason

N avreine in nostra rason.

Dananti vui fasemo reclamo

De rainaldo to vasallo, 65 Che sempre ne va mal metant

Lo orden segre e la nostra 9ant.

Nui cantemo li officii e li maitin

Et el no cessa de nui alcir;

Ancora non e tropo tenpo 70 Che de nui a morti bein cinque cento,

Cen9a queli eh eli a inavra

E poco vivi li a laga;

E questa se cosa manifesta

Ch io d ai perclada la ala dreta. li Or, mesier, per nostro honor

De questo vui ne fai rason.

Si deo m ai, dis lo lion, [52 a]

Questa se grande offension

Ad alcir 1 orden segre. 80 Eo son tegnu de 9ustisier.

Or andei, busnard lo criador,

E i mei cridai in bant mortor,

E vui, simia, scrivan facent,

Scriveme 1 ordenament, 85 Si che per scrito sempre se trova

E bein ne sia in memoria,

Che in bant mortor sia crida

Quel malvasie omicidial.

E la simia si se aprestava

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BOMAHZA, N.o 5] NUOVO TESTO VENETO DEL BENABD

157

90 A far 90 che lo lion comandava.

Or e vegnu 9ilbert lo tason

Che de rainaldo se compagnon.

Si venne dananti lo lion

£ si disse saviamentre 95 Dananti lo lion so parlament:

0 nobel lion, per deo mar9e,

Vui deve intender me.

Molte false lementason

Se fa davanti voi, baron, 100 Incontra rainaldo loro vasaio

Che sovra tuti li altri vai. '

Ma se rainaldo fose qni,

Chel soa rason podese dir,

Bein vederis, nobel lion. 106 Ora non e qui rainald, [52 b]

Ch el e anda in altra part,

A feste o a predicacion,

Per inparar cant e ferm.

Eo ven prego, gentil signor, no No mei mete in bant mortor,

Che eo voio eser so 9nrador

E dananti vui manie vador.

De qui a trei 9orni vel faro vegnir

A rason far e pleido aldir. lift In bon ora, dis lo lion,

Da poi ch eo trovo 9urador

E per lui manlevador,

Non e dreto ni rason

De cridarlo in bant mortor. Ito Or andai, 9ilbert le tason,

Per rainald vostro compagnon ;

De qui a trei 9orni mei fai vegnir

A rason far e pleido audir.

Dis 9ilbert che bein lo farà, lift Partise de la oort e si sen va

Dreto al castello de rainald,

Sen va cilbert 9en9a revart

Rainald era in una montagna, [53 a]

De le altre bestie no se da lagna. 180 Bein XV porte elo a d andar

E bein quaranta onde el scanpar :

El e bein perta9a la noit

Del man9ar a grant deport.

Sette galline, cinque caponi isft E doi 9antacler grosi e boni,

Ch el aveva porta de la noit

Per aver so grant se9orn.

E 9ilbert fo a le porte

E si clama rainaldo molt e forte. 140 E rainaldo respose in alt:

Chi e tu che ses vegnu in questa part?

Eo son 9Ìlbert le tason.

E que voi tu far, bel compagnon?

Eo te voi parlar e dir, 146 Dis, rainaldo, che avem nui a partir.

Eo vegno da la corte de lo lion

Che se imperer e baron;

Eo te digo novella tal,

Che li 9antacler orden segra ifto Dananti nostro re lion

De ti a fat lementason,

Et eo per ti son 9urador

Et alo lion manlevador,

De qui a trei 9omi ti presentar iftft A rason e pleid menar.

De 90 no sia in ti rancura, [53 b]

Che nui semo si savi de scritura

E si doti in la rason.

Che, s el torto fose d[e] nui, 160 Bein saveremo nui si far

Ch el pleido avere vadagnar.

Chi a si tegna, 90 dis rainald,

Eo no vegno in quella part,

Che remor de voi bein m avraf alcir, 165 Ch eo no porave mia rason dir.

Char compare, dis lo tason,

Vegni ala corte de lo lion :

Da che eo son stado to 9urador,

No me lasar in desenor, 170 Che deo ne a dado si bon signor,

Ch el no sen ausa far remor

Ni parola alsa dir,

Se no a chi el fa mestier.

Dis rainald : eo vegnero ;

176 Eo cre90 che mai no tornerò. Eo ven prego, cilbert le tason. No mintrei a far manlevador E non m intrei a manlevar, Se eo no ven vegno bein a pregar;

180 Eo vel voio paleismentre dir, Bein ven porave mal avegnir. Quando eo te vegno a pregar. Che tu men entresi a manlevar; Quant prega 1 om per grant amor [54 a]

185 No el trovar manlevador. Or dia 9Ìlbert ch el bein farà.

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158

E, PUTELLI

[gIOBNALB di FILOLOGU

Partise intrabi e si sen va. La mula de 9ilbert bein trota E quella de rainald e 9ota,

190 La mulla de cìlbert bein ambia E qnela de rainald e stancba. Or son apres de l£^ cort de lo lion C[h]e se inp[e]rier e grant baron. Quando le bestie li veto vegnir,

196 Tute si 8cumen9a a dir:

De qua ven rainald e lo tason, Andemo a corte de lo lion, 0 sia dret, o sia tort, Si li farem donar la mort.

200 Compare cilbert, 90 dis rainald, Tu m ai conduto in mala part ; Bein tei vegni per tempo a dir, Remor de povelo me ave alcir, Ch 60 no por ave mia rason [54 b]

S06 Dir ananti lo lion.

Or semo apresso de la cort, Grant paura ai dela mort; In corte semo delo lion Che se imperìer e grant baron.

aio Or intranbidoi se apresenta E lo tason preis parlar :

Sire lion, 90 dis lo tason. Vedi rainald meo compagno [n] Che sovra tuti li altri vai. (1)

216 Ni che aibia si frane cora90 De bein portar un mesa90, Com fu rainald, sire lion. Si mei tegni bein a rason, Ch eo 1 incontrai a me9a via

220 Cen9a demora ch el vignia.

Lo lion rainaldo varda, [55 a]

Avri la boca e si parla: Bestia mala de natura, Tu ei de si pigola figura, 225 Com poi tu tante vere far E tante brige demenar? Dis rainald: miser lo lion, Imper90 ch eo ai rason.

Et isìgrin, che rainaldo non ama, 280 Dananti lo lion se reclama:

Nobel lion, per deo mar9e, De rainald fai rason a me, Ch el m a uni da mia muier. De isigrina, ch e qui a river.

285 Ad un pertus el 1 a trova, A mal so gra si 1 a for9a. Si deo m ai, dis lo lion, Questa fo grant ofFension A for9ar 1 altrui muier ;

240 Eo son tegnu de 9U3tiser.

nEesponde 9ilbert lo tason [55 b]

Che de rainald e compagnoni

Sire bon, per deo mer9e,

Vui deve bein intendre me; 245 Molte false lementason

Se fai ananti vui, baron.

Per meo compare voio parlar

E voio soa rason cuiter;

Quel che de 9oar a rainald 260 Digo per lui in questa part.

Quel che li devese noser per se

No digo per lui, anci per me.

Con dret deveres tu isigrin

Far condur a mala fin, 255 E la putana de soa muier

Farla arder e brusier.

Com poraf eo a meo signor dir

Parole che non e de crer.

Che rainald, ch e qui river, 260 Podes isigrina a for9er?

Che isigrina se si forte

Che a dodese darave la morte.

Or vel digo per convent

Del bant no de 1 pagar nient, 265 E fai, mesier, comandason

Che de 90 più no sia ten9on.

Se deo m ai, dis isigrina,

£0 me lomento de puta ostri na

De un falso sper9urador, [5(3 a]

270 Che e bande9a de so signor. Rainald se ca9a in una tana. Et entro la tana se aposta; Eo me ca9ai entro la ter9a part, De fora romas la quarta part;

•276 Uncha no poti dentro entrar

(1) Dopo questo manca uu verso, come vede .lalla rima ♦» dal senso.

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ROMANZA. N.<» 5] NUOVO TESTO VENETO DEL BENAED

159

Ni de fora no poti tornar.

Fora ensi rainald da 1 altra part.

De dreto me venne C6n9a revart;

A ma meo gra si m a for9a, tso Entro la via se acolega,

£o no me podeva corler,

Per 90 sofri quel gref mestier.

Dis rainald: questo no fes eo miga,

Ella ve dise grant folla. 8S5 Ella fo altra mala bestia,

0 altra mala cosa pessima

Che lil feis intro la tana.

Sert eia e paleis putana.

Se dio m ai, dis lo lion, 190 El par che rainald aibia rason:

Da che 1 se con dret defender,

A tort non li voio la morte render.

Li 9antacler si s apresenta,

Davanti lo lion si s alementa : J93 Saipia bona ^ent,

Che i era bein seto cent,

Un si n era sanguanent [56 b]

Che rainald trova la noit;

Con li dent li trase 1 alla del corp 300 Ont el parea eh el fosse mort.

Quel eh era inavra e sanguannent,

Davanti lo lion si veni plan^ent:

Nobel lion, per deo mer^e,

De raimld fai rason a me, 805 Che 1 m alci 1 orden segre :

Tu ei tegnu de 9ustiser.

Bein sai tu eh eo son to 9antador

E prevede de 9antar le ore.

SE(o) deo m ai, dis lo lion,

810 Questa fo grant offension Ad alcir lo[r]den segre, Eo son tegDu de custi[s]er. Se deo m ai , dis rainald , De queste parole eo son ben calt;

815 De 90 no responda negun per mi Ch eo no li prego, si deo m ai : S el de responder algun baron , Eo no la tegnaro per responsion. A vui digo, meser lion,

880 Eo ve credeva un bon signor; Vui se 9per9uro per tute part,

Mal de andar tute le art.

La podestà de bein intender [57 a]

E 1 apelason inprendre

826 E la rason bein ascoltar E dreta sentencia debia dar. Ancora te digo, miser lion, Se tu no me teines bein in rason, Eo no te presio un speron.

830 Deli 9antacler a mi sient

Eo n ai man9a bein cinque cent. £0 son veglo, non poso vir. No de ver ave a cort vegnir, Mai vos tu pur ch eo devegna

335 E 1 to comandament mantegna. Eo non volsi mai in glesia intrar Per messa ni per maitin sooltar, Se no andai per galine prender Et alo meo corpo grant asio render,

840 0 per galine 0 per capon Ond eo me fes de gres bocon. Eo son bestia per andar E li auselli sa bein volar, Chi non voi lo mal fu9ir,

345 De rason lo de padir.

Si deo m ai , dis lo lion ,

El par che rainald aibia rason;

Da poi ch el se con dret defender,

A tort no li voio la morte render. 850 Dis rainald: grant marce, miser lo lion.

Dis 9ilbert: miser fase li don. [57 b]

Dis lo lion: vele vui mestier?

Dis rainald: no voil mesier,

Trop son vetran, noi pos durer. 855 Or a fato comandament

Lo lion incontinent

A rainald bel e 9ent,

Sota peina de sagrament:

Eo ve comando, rainald, 800 Treva e pas in ogna part.

Reteite, rainald, do lavorer

E lasa star lo reo mestier;

Reteite, rainald, de te lavor

E non eser più scacador. 8di Se più mal fasi, eo te faro prender

E la morte te farai render.

DAla cort rainald sen part Con reo incegno e con mal art.

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160

B, PUTELLI

[aiOBNALE DI FlLOLOaU

E va digand: deo criator,

370 Que m a fato 9urar lo meo signor! Ch eo me mantegDO de lavorer £ lasa star li rei mestieri (1) Eo non sei arar, ni capar, (2) Ni sachi adoso no sai portar,

876 Ni travesar vin in ve9ol, Ni capar fava ni fasol. Ni cambiar or ni ar9ent, Ni far nisun lavorament: Ni far nave ni sandon, [58 al

880 Ne alguna lavora (vora) son, Ni menar mercadantia, Ni lavorer ch al mondo sia. Eo cre9o bein eh eo me sper9urero El sagramento no tegnero:

383 Femel 9arar a mal meo gra, Seo me 8per9ur non el peca.

In una braida rainald intra,

Una cavra si ne trova.

Deo te salve, comare cavra, seo Que fasta in questa braida?

Dia la cavra cen9a rancura:

Deo ve dia mala ventura,

De qui se vui, mia compare^

Che vui m apelai vostra comare ? 396 Dis rainald: del cavriel

Ch 60 te bati9ai 1 autrer :

Bein te devrestu arecordar

Ch eo tei teni a batÌ9ar.

La cavra li dise in quela ora: 400 Bein cre90 ch eo mei recorda.

Car conpare, que vole vui far?

Or mei dise, se l ve plaa.

Eo vegno de la corte de lo lion

Che se imperer e gra[n]t baron, 406 Eia m a comanda per so art

Treva e pas in ogna part,

E ch eo me tegna de lavorer [58 b]

E lasse star li rei (3) meatier.

Eo cre90 bein che men speryurero

410 Ne 1 sagrament no tegnero; Femel 9urar a mal meo gra, S eo me 8per9uro non e pe^ja.

La cavra responde e si li dis:

Vui no se savio ni corteis 416 A sper9urarve del sagrament,

Fartireseve da deo omnipotent

E avei-aae bando mortor

Da lo lion oh e inperer e baroo.

Or mi e vui comunament 4J0 Semenemo questa braida de furraent ;

Grant bein ne porave deo far

Se nui scumencemo a lavorar,

D un gran ne darà bein cent

Lo vero deo omnipotent. 436 E rainald un poco se inpensa:

Comare, nui non avemo 8emen9a,

Arar tera 8en9a semenar

Poco ne pora 90var. [50 a]

Dis la cavra: bein la troveremo 480 E tosto la recovrerremo.

Un vìlan de quella villa

Si n n a piena una tina ;

Doman per tenpo nui anderemo

Et asai nui de involeremo: 436 Si la voremo semenar

Grant bein ne poremo trovar.

Dis rainald: ala bon ora,

Deo ne fa9a far bona ovra.

La cavra inver la villa va 440 E rainald con si mena.

Dis rainald per lo (4) primer :

In la villa no voio intrier,

Che tuti li e mei verier;

Eo me staro pur da lu[n]tan, 4 «6 Ch eo ai vere con li can.

La cavra inver la villa va

E de forment se carega.

Dis rainald : per mia fé, [59 b]

La cavra qui no trova me. 450 Ella vein de forment cargada

(1) Il cod. me scier.

(2) Capar come al v. 376 per ^apar.

(3) Il cod. lieri.

(4) Il cod. prima di lo ha la traccia d'una lettera ora affatto svanita; ho congettu- rato fosse un p con segno d'abbreviazione, ed ho letto per.

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ROMANZA, N.« 5] NUOVO TESTO VENETO DEL RENARD

101

E rainald non a trova, Et 0 alegra, anauti sen va E rainald si trova. Or semenemo lo forment 4S5 Intrabidoi cumunament. La cavra fo bo per arar E rainald preis a semenar; Tant cercha rainald vai e dos No li remase pel a dos.

460 ol deo m ai, dia rainald,

Eo 8on conduto in mala part.

Alto pare creador,

Com mala cosa fo lavorason:

Eo cre90 bein eh eo me 8per9urero 405 Nel sagrament no tegnero:

Femel 9urar a ma meo gra,

S eo me 8per9uro non e 1 peca.

Or e semena lo furment

In la braida bel e 9ent, 470 Tant che 1 furment e cresu

E grant bein li e deveguu.

La cavra va per lo furment

E man9a la erba e bein e 9ent.

So deo mai, dis rainald, 475 Vui men fare mala part,

Bein sa ve 1 erba (1) man9ar; [00 a]

Eo d ai dura fadiga e pensier,

Tant ai cerca e vai e dos

No me remas pel ados. 430 Si deo m ai, la cavra dis,

Vui no se savio ni cortes;

Vui non se uso de lavorason,

Per90 parla vui contra rason;

An me te cretev eo servir, 495 Bein sai a lavor che fai mistier.

Atant che 1 furment e cresu,

E madur el e vegnn,

El a medu e taia,

Et al ara e 1 porta, 490 De un granel lind a rendu cent

Lo vero deo omnipotent.

AMantenent rainald si dis: Questo furment se voi partir;

Del partir bein e rason

495 La soa part eiba 9a9cadun. Eo faro la partita, dis rainald, E vui tore la vostra pai-t: Lo stran a la paia toi a ti, E lo frumento eo voio a mi.

600 A chi el doia, 90 dis la cavra, La mia part averai eo a casa, E la mia parto bel e 9ent, Intregamentre del furment, E la 8emen9a del meo signor [60 b]

605 Tuta dananti alo lion.

Dis rainald: lo sol fir a monta, Plai9ar de not me fai grant onta; Doman per te[nJpo qua vegneremo. Se a deo plas, si s' acorderemo.

610 La cavra sen va per un camin, E 9ura deo e aant martin; Rainald, tu me voi in9egner, Eo tei faro bein conprer: Se eo non demeino intrabi li mastini

615 A questo furment partir, Samai no voio deo orer. Ne 1 creator che ferma lo cel ; Se tu veines rainald a la ten9on. Se tu no lasses lo pi]Ì9on,

6S0 Samai no voio deo orer. Ni 1 creator che ferma lo cel. A li cagnoni la cavra anda E si li parla com ella fa. Dont vegni vui, mare, dis li cagnou?

525 Fioli, de molto mala ten9on. Oh eo semenai furment Con rainald oomunament, E lo traditor rainald No me voi dar la mia part.

530 Fioli, eo voleva del gran. Oh 60 ve voleva far del pan , E si ve voleva dar man9ar, jOl al Unde eh eo ve voleva alevar.

Dis fortinel: mare, intendi mi, 635 Menci me a quest furment partir; Se l vein rainald a la tenyon , Se 1 no lasa lo pilÌ9on ,

(1) Il cod. lebar: la correzione è resa evidente dal v. 473. Noto die bar è parola friulana e vale: cesto, ccsi)0, corona di foglie o raiAoscelli sopra una radice (Piuona, Vor. Friulano).

Il*

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162

R. FUTELLI

[giobnale di filologia

9amai no voio dee orer,

Ni 1 creator che ferma lo ceL

540 Dls bonapresa: mare, intendi me,

Da che meo frer voi lo pili^on,

Sego no voio far ten9on;

Ma in tanti logi lo scuracero

E si 1 ai romper e forer, b\h Che non pura nui bein avein

Dis la cavra: a bon ora,

£o ven prego, fìoli cagnon,

Che vui vigne ala ten9on.

A la maitina la cavra s a leva, ft^^ Intranbi li mastin si trova,

Si sen va bel e 9ent

0 e la paia e 1 furment :

Soto la paia li cani sacolega.

La cavra la paia su li 9ita: 555 Si li covri e bein e 9ent,

Uncha no par che sia nient.

h Rainald sen va per un camin, E 9ura deo e saint martin: Cavra tu me voi in9egner,

660 Eo tei faro bein conprer. [61 b]

S eo non demein isigrin A questo frument pa[rltir, (^amai no voio deo orer. Ni 1 creator che ferma lo cel ;

566 Se tu no gen lases lo pilÌ9on, (1) ^amai no voio deo orer, Ni 1 creator che ferma lo cel. Tant k el trova isigrin Ch el noi tein per bon visin.

670 Deo te salve, 90 dis rainald. Isigrin sen9a rancura: Deo te dia mala ventura, Per que m intrei vui ad apelar, Ch eo non a mo dun dinar?

675 Tu credi eser verament A la caneva del vilan: Tu menassi acan (2) salear mancer, Poi me fasisti bein fruster. Se de m ai, dis rainald,

580 Eo ve menai in bona part; E 1 era asai carne salea, Vui ne mancasse oltra mesura; Si ve fo streto lo capei. Che 1 ve trova lo vilan

- 585 Ch aveva lo baston in man ; Per la cam che avevi mau9ea El ve de una mala copea.

£0 ai eemena furment (62 a)

Con una cavra grossa e 9ent: 69(. Vui pori la cavra prender,

Al vostro corpo grant asio render.

Dis isigrin: or sia in bon or,

Eo ve apello per meo signor.

Si se mete allo via90 695 L un e 1 altro a frane corano,

Si se mette amatiuent

Ad andar la ch e 1 furment ,

Amantinent si sen va

E la cavra si a trova, eoo Quant la cavra ve isigrin,

C[h] ella noi tein per so bon visin,

Ne a paura, ne voi fu9Ìr,

Anci sta ardida e balda;

Con le graspe comen9a graspar 605 E con le come a mane9ar:

Se tu vens rainald ala ten9on.

Se tu no lasses lo pilÌ9on,

(^amai no voio deo orer.

Ne creator che ferma lo cel. 610 Rainald varda per vai in perdos,

E varda per tute part,

E lo stalo rainald varda:

Ad una volta de via

La paia cresuda li paria. 615 Si deo m ai, 90 dis rainald.

La cavra se de mala art : [62 b]

Questa note fo rosea

E la paia me par basea.

Vede lo furment in quella part, 620 Andai, compare, in quella part

E si teiere la vostra part (3)

(1) Manca un verso facilmente ricostituibile, quando si pensi che qui si ripete la stessa formula occorsa ai w. 518-521 , 536-539 e ai vv. 606-607.

(2) Forse: uguanno,

(3) Probabilmente qtiesti tre versi non dovettero essere che due.

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BOMANZA, N.° 5] NUOVO TESTO VENETO DEL MENARD

163

A mi se pres grant mal de ventre,

E sapìai eh eo ai reo talento,

Grant mal me farave intro 1 era star. 635 E rainald intro un bosceto se ca9a,

Sa in un arbor si monta.

Si che lue e bel e 9ent,

La 0 e la paia e 1 furment.

Dis isigrin a grant baldor: »8o Eo sou gastaldo e partidor

De rainald eh e meo signor.

Dis la cavra: a mi siente,

Vui no portiri gran del furment:

Vegna meo conrpare rainal, 635 Si torà la soa part.

Isigrin toat sen va.

Lo dent a col si li ca^a.

Intranbi li mastin su leva, [63 a]

Portinel lo pia fort, 640 Per 1 ara lo getta stravolt.

Bonapresa Io scuarca fore

Tanto li tira si che 1 e mort.

Si deo m ai, 90 dis rainald,

La cavra se de mal art; 6t5 S eo fos anda al furment pa[r]tir,

Bein ni averave condut a fin,

Mai meo compare isigrin

Bein a conpra lo desin.

De la pasava doi vilan 650 Che aveva doi forche in man:

Deo, dis 1 un incontr a l altro,

Varda la che sta rainaldo;

Com el e ven^a de isigrin [63 bj

Che l noi [tein] per bon viain. <i55 E li cagnon si l aldi ;

Entro lo bosco eli sp-li,

E rainald se mete de l altra part ;

E li cagnon si sailuto.

Si che non 1 a miga veduto. 660 Dis 1 un incontr a l altro :

Eo cre90 che l sia scampa per ria art,

Ananti non e 1 anda ,

Ni in dreelo (l) non e 1 trona :

El e scampCa] per art, 665 Sin noi trova in nuia part. Rainald se pia ad una rama, Dre9a la coda inver la montagna.

hi Li cagnon oltra se torna; Mare, isigrin e mort, 67 0 E rainald ^onyessemo in lo bosco, E se anda de tosto in tosto: Om ere eh ei sia scampa per art, Avanti non e l anda. Ni ananti non e 1 torna.

676 iJls la cavra mal usada.

Se lera arbor in la contrada?

Si era bein seto cent

Petiti e grandi comunamentre.

Vui non vardalle ad alto rainald, [6^1 aj 680 Bein sa 1 montar in rama ad alt.

A chi el peis et a chi e sen caia,

La cavra a 1 furment e la paia

E la semen9a del so signor

Tuta dananti a lo lion. 0*5 E rainald se ca9a inn un bosco,

E si sen va de tosto in tosto,

E gara deo lo creator :

El 9amai no farà lavor;

Ananti voi eser scacador 690 Sicom fo li soi ma9or.

Eo non era uso de gran man9er,

Ni de far nisun lavorer;

Eo partiva falsament

Non e meraveia se 1 mal men preujb. 695 Li mal in9egni sol mal fenir:

Chi altrui mantel voi retenir.

Lo 80 ne sol bein remagnìr;

[Ch]i a[ljtrui mantel voi in9egner

[Ljo so ne sol bein laser, [61 bJ

700 Si com fo quel de isigrin.

Che de soa muier fo oni,

E si fo avergon9a.

E si perdi tute l so plaid.

Finito libro sit laus et gloria xristo.

Qui scribiit scribat semper cum domino vivat:

Vivat in celis Marcus in nomine Felis.

Amen.

(1) Cum il ins.

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161 G. JiEliXAEDI Ir.IOIlN A LE DI FILOLOGIA

NOTERELL A

al verso 46 del III delVlnferno : QrESTI NON HANNO SPERANZA DI MORTE.

Con parecchi miei amici, ma in particolare col mio rimpianto Al- fonso della Valle di Casanova, tanto sottile e felice interprete di Dante, mi sono assai volte bisticciato per questo benedetto verso, ma senza poter mai venire a una ragionevole conclusione. Io a dirgli : Quella speranza di morte^ non può, non dee significare speranza di annulla' menfOj come dicono tutti i commentatori. 0 che gli altri dannati T hanno forse cotesta speranza ? E se non T hanno, ctme sarebbe venuto in testa a Dante di notare pei soli dannati del primo cerchio un male che han comune con tutti gli altri? E lui: Ma che vuoi che significhi, se per morte non si può intender che la morte ; e per chi è già morto corpo- ralmente, che muoia anche neir anima? Io però non mi rassegnava. A forza di pensarci su, la spiegazione mi pare d'averla trovata final- mente; ed eccola qua, se piace.

Incomincio con un lemma ^ coni' usano alcune volte i matematici. Che cosa ha voluto dir Dante in quell'altro verso (117, Inferno, I):

Che la seconda morte ciascun grida?

Francesco da Buti, il piii felice interprete di Dante dice:(l) « cioè chiama. Qui si dubita quello che l'autore intendesse per la seconda morte, e quanto a me pare che l'autore intendesse della dannazione ultima, che sarà al giudicio: imperò che per invidia vorrebbero che già ella fosse per avere più compagni, però che la prima morte è la dannazione prima, quando l'anima partita dal corpo è dannata alle pene dello inferno per li suoi peccati. La seconda è quando al giu- dicio risuscitati, saranno dannati ultimamente l'anima col corpo in- sieme; e questo ciascun grida, perché ciascun vorrebbe come dispe- rato, che già fosse l'ultima dauuazione. Altrimenti si può intendere della annullazione, dicendo che la prima morte sia la dannazione del- •r anima, quando si parte dal corpo; la seconda morte sarebbe, quando l'anima fosse annullata. »

(ì) Comtìicììto ecc. pulfblicato da Crescentino Giannini. Pisa^ 1858.

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ROMANZA, N.<» 5] NOTEBELLA AL III, 46 INF. 165

La chiosa cassinese, posteriore alla scrittura del codice, è questa: Grida: Quasi diceret quilibet vellet iterum mori ut pena finem ha- beret. >

Il P. Lombardi (1) e invoca ad alta voce : allusivamente a quei del- l'Apocalisse: DesiderabufU mori, et fugiet mors ah eis; e dice la seconda per rapporto alla prima già successa morte del corpo. »

Brunone Bianchi (2), brevemente : < la secoìida morie^ quella del- r anima. >

Il Giuliani (3) : < Dolenti, che ciasctm grida ^ chiama, invoca ad alte voci la seconda morte ^ che è la distruzione dell'anima, l'annullamento dell'essere, perocché i dannati sono già veri morii {Purg. XXIII, 122) avendo perduto Dio, bene dell'intelletto {Inf. Ili, 17) e perciò la prima vita dell'anima. E poiché non hanno più rimedio a tanto do- lore, bramano la morte seconda, di essere cioè annullati: Desiderabunt mori, et mors fugiet ab eis: Apoc. IX, 6. Mors secunda. Ib. XX, 14. >

Mi fermo qui; perché tutti gli altri interpreti di cui ho notizia, anche il Landino, in sostanza non dicon più meno diversa- mente. Mi attacco però a quella seconda citazione dell' Apocalisse, fatta dal Giuliani (cap. XX, 14), e ne aggiungo due altre della stessa Apo- calisse (XX, 6, e XXI 8), dove ritorna appuntino la mors secunda. Or S. Giovanni, in tutti e tre i versetti, dice che la seconda morte é la pena eterna, e non già l'annullamento dell'essere (4). E mi sembra assai giusfo questo, di chiamare seconda morte la dannazione.

Come vi son due vite, la temporale e l'eterna, così anche due morti. Entra l'uomo nella prima morte, quando più

Non fiere gli occhi suoi lo dolce lome:

nella seconda, quando la giustizia di Dio lo caccia nella pena dell'eter- nità, nella morte eterna^ come canta la Chiesa. Or Dante, al quale era assai viva e presente nella memoria l'Apocalisse, donde ha tratte tante immagini e allegorie, si deve ragionevolmente credere che abbia tolta di peso da S. Giovanni quell'espressione, usandola nello stesso signi fi-

(1) Ed.dellaMinerva.Pa(i.,MnCCCXXII. « Tira'ulis autem,etincredulis,et execratis,

(2) Le Monnier, Firenze, 1857. et homicidis, et fornìcatoribus, et veneficis,

(3) Metodo di commentare la Divina et idololatris, et omnibus mendacibus, pars Commedia. Le Monnier, Firenze, 1861. illorum erit in stagno ardenti igne et sul-

(4) « Et infernus et mors missi sunt in phure: quod est mors secunda, » stagnum ignis. Haec est morx secunda. » Comunque considerino questi luoghi di

« Beatus et sanctus, qui habet partem in S. Giovanni , sempre la mors secunda sigui-

resurrectione prima: in his secicnda mors fica la pena eterna, non haliet potestatem. »

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166 Gr. BERNARDI [oiormalb di filologia

cato (1). Come supporre che, veduta in certo modo fissata dal santo quella espressione, come una espressione tecnica, l'usasse poi lui per si- gnificare tutt' altra cosa, cioè T annullamento dell* anima? Ritorna, sì, nel poema la stessa espressione, e propriamente nel XX del Paradiso:

E, credendo, s'accese in tanto fuoco Di vero amor, ch'alia morte seconda Fu degno di venire a questo giuoco;

ma qui si parla di Trajano, il quale, dannato air inferno, fu richiamato a vita per le preghiere di S. Gregorio, secondo la leggenda; e così poi, giustificato per la fede e la carità in Gesù Cristo, quando ritnorì^ fu fatto degno delle gioje del paradiso. Qui è chiaro il senso; e non si potrebbe in verun modo pensare all'annullamento, alla pena di dannazione eterna.

È vero anche, come si vede dall'altro passo dell'Apocalisse, ricor- dato dal Lombardi e dal Giuliani, che i dannati provano il vano e pun- gente desiderio di morire anche nell'anima, cioè d'essere annullati; ma nel verso in quistione, se si vuole stare con S. Giovanni, conviene ad- durre i passi dove si parla della niors sccunda, e non già quello del de- siderabunt mori. Il desideràbiint mori toma invece a capello in qu*el- r altro verso del XIII deW Inferno^ dove Lano da Siena, inseguito dalle nere cagne bramose e correnti, grida invano.

Ora accorri, accorri, morte.

Veniamo ora al grida, che tutti i commentatori, eccetto uno solo, spiegano chiama, invoca ad alte voci. Trentadue volte si trova questo verbo nel poema, stando al vocabolario dantesco del Blanc, e non mai nel senso di chiamare. Si troverebbe in questo senso, soltanto nel verso del quale ci occupiamo. E in esso, e in due altri soli, il gridare è usato transitivamente, con l'oggetto:

La fama, che la vostra casa onora. Grida i signori e grida la contrada,

{Purg. Vili). L'alto preconio che grida T arcano:

(Farad. XXVI).

(1) Al modo che fece anche S. Francesco Dio, ha la ynorte sccunda non li farà male.

nel cantico del sole, j^iusta rai ricorda oppor- Cioè, perché essi sono immuni dalia (Jan na-

tunaraente il D'Ovidio. Quivi il poverello zione eterna, a cui vanno invece soggetti

d'Assisi (o chi per lui) fatto prima cenno quelli che muoiono in peccato mortale.» Qui

della morte corporale, dalla quale nullo il contrapjK)sto tra la morte corporale e la

omo vivente pò* scappare, dice |X)i: « gu^i *<?c»<nrf« »iorfc rende sicura T interpretazione,

a quelli che muojono in peccato mortale; e che in Dante par disputabile. beati invece, quelli che muoiono in grazia di

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ROMANZA, K.° 5] NOTERELLA al III, 46 INF. 167

e in questi due casi significa, indubbiamente, prèdica^ puhUica^ mani- festa j handisce^ come iutendon tutti. Questo senso però non è applica- bile al verso in quistione, perché non se ne caverebbe nessun costrutto. Ch' io sappia, e confesso di sapere assai poco, nessun poeta o prosatore usò mai gridare per chiamare^ e non mi so persuadere che Dante solo, e una volta sola, l'abbia usato così.

Ma se non s'ha da intendere che i dannati chiamino la seconda morte, nel senso che invochino il loro annullamento, s'ha da intendere che cosa?

Due codici autorevoli, il vaticano e il cassinese , e l'Aldina di Ve- nezia (1502), leggono

Malia seconda morte. . . .

Or la povera vecchia Crusca spiega il gridare, parlare a voce alta; e il gridare a qualcuno, garrirlo, riprenderlo, non giù chiamarlo, invocarlo. Anche dunque accettando questa lezione, per cavarne il significato di chiamare converrebbe che al grida fosse sottinteso, sottilizzando sul con- testo, un die venga. Ma noi che intendiamo quella seconda morte per pena eterna, ci atteniamo naturalmente alla lezione comune; perché se no, i dannati butterebbero via il fiato a gridare che venga a loro quello che hanno, cioè quella pena eterna che già soflfrono!

Intanto, se non Tho buttato io il fiato, posso oramai concludere, che il grida la seconda morte significa : Ciascun piange con gran voce il suo eterno danno; ovvero, si lamenta con alte strida della pena eterna cJie soffre. Non mi sembrerebbe tanto strano spiegare il grida, in co- struzione transitiva , come lo spiegò quélV uno detto più su, il Tommaseo, per lamentarsi , piangere (1), quanto mi sembrerebbe spiegato per chia- mare, invocare. Ma se fossi giunto a dimostrare che la seconda morte s'ha da ritenere per la, pena eterna, non saprei quale altra significazione che calzasse gli si potrebbe dare a quel grida.

Questo è il lemma, un po' lunghetto, per verità, contro mia voglia; e vengo al verso per cui scrivo questa noterella.

Se Dante ha detto che quell'anime, poste nell'Antinferno, non lianno speranza di morte, nessuno potrà sostenere che l'abbia detto così

(1) Commedia di Dante Alighieri con avendo spiegato il grida per piange, dovè

ragionamenti e note di Niccolò Tommaseo; necessariamente prendere la morte dell* a-

Milano, 1865. Ecco la nota al verso 117: nima in senso religioso; in forza del quale

« Morte deir anima. Grida; piange. » È si dice morta l'anima, quando è priva in tutto

strano come al Tommaseo, espertissimo delle della grazia divina, e si trova nello stato di

cose bibliche, sia sfuggito il riscontro della riprovazione. A ogni modo, rafforzata la sua

secondamene di questo verso di Dante con nota con quei testi dell' Apocalisse, essa di-

i passi di S. Giovanni. Certo è però che, venta preziosa.

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168 G. BERNARDI [giornale di filologia

per dire, o per darci la gran bella nuova ch'esse non sperano d'essere annullate. Si sa che non lo sperano! In tutti i quattordicimila due- cento diciassette versi del poema, egli ha mostrato che non è poeta da cadere in siffatte puerilità, neanche dormitans» Soltanto uno che avesse dato di volta, potrebbe dirmi: Amico, sai? io non ho speranza di cam- par senza fine. Invece, se qualcuno, roso dalla smania dell'immorta- lità, mi dicesse che, per quanto ha fatto, non è riuscito ad aver fama fra i presenti, spera d'averla tra coloro

che il nostro tempo chiamecanno antico;

capirei benissimo la tribolazione di cotesto poveromo per un desiderio sempre vivo e non mai sodisfatto. Dunque Virgilio non volle già dire a Dante che quell'anime li non hanno speranza d'essere annidiate y ma che non hanno speranza d'aver qualcos'altro che, avuto, le farebbe sof- frire meno abbiettamente. Or tutto si riduce a fissare il concetto che il poeta ha voluto esprimere con quella parola morte. Vediamo che cosa dicono gì' interpreti Cito gli stessi citati di sopra, per risparmiare ai lettori scrupolosi il fastidio di andarli a riscontrare.

Il Da Buti : « Questi non hanno speranza di morte ; cioè costoro son fuori d'ogni speranza: imperò che eziandio sono privati della speranza della seconda morte, per la quale s'intende l'annichilazione, et in questo si manifesta la loro miseria, in quanto dice che vorrebbero innanzi essere annichilati, che vivere in tanta miseria, e soggiunge la lor miseria quando dice: E la lor cieca vita è tanta bassa^ Che in- vidiosi son d'ogni altra sorte. Per questo significa l'autore che sono tormentati dalla invidia che è gravissimo dolore, secondo che pone Orazio nel libro primo delle sue Epistole^ ove dice: Invidia siculi non invenere tyranni Majns tormentum ecc.: quasi dica Virgilio a Dante: Questi sono in tanta oscurità, et in tanta bassezza che ogni altro stato pare loro migliore che il suo; e però d'ognuno posto in qualunque stato anno dolore ; ecco la cagione perché sono invidiosi d' ogni altro. »

Il Codice cassinese, nella nota marginale scritta di altra mano, ha: morte. Si de essentiali inferno loquitur bene dicit quia ibi est mors sine morte. Si de morali dicendum quod intentio vera auctoris est quod isti viles ut plurimum devenlunt ad tara miserabile vite statura quod vocant mortem que eos spernit. ^

Il Lombardi : e Sono certi di dovere nella loro miseria durare eter- namente. »

Il Bianchi : « Questi non hanno speranza di tornare al nulla, come bramerebbero. »

Il mio carissimo Giuliani, richiamando il verso 117 del primo

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ROMANZA, M.° 5] NOTEBELLA AL III, 46 INF. 169

Canto, scrive: e Gridano essi la seconda morte (la propria annichila- zione ), e la morte si fugge da essi. »

Il Tommaseo : « Morte : che li tolga all' onta tormentosa. > - Gli altri interpreti, sottosopra, dicon tutti lo stesso. Però mi par degno di nota il commento di Francesco da Buti. Ma se il panto sta tutto nel sapere che cosa si debba intendere per quella voce, morte, e morte è per lui e per tutti V annientamento delV anima, la quistione non si può dire che sìa sciolta, e neanche spianata per niente. Prendiamo tutta la terzina di Dante,

Questi non hanno speranza di morte, E la lor cieca vita è tanto bassa, Che invidiosi son d'ogni altra sorte.

La bassezza o abjezione del loro stato li fa invidiosi dello stato degli altri; perché la lor cieca vita non può significare che la condizione in cui sou essi rispetto agli altri dannati ; e fa riscontro con ciò che di loro è detto da Virgilio quattro terzine più su:

Questo misero modo Tengon P anime triste di coloro, Che visser senza infamia e senza lodo.

L'invidia è naturale effetto del non aver essi speranza di mortCj cioè speranza di quella cosa che gli altri dannati hanno, ed essi no. Or qual vita fu la loro su nel dolce mondo? Vita senza infamia e senza lodo^ cioè vita senza valore nessuno, in bene in male, spregevole in- somma. E qual' è la vita loro laggiii? Egualmente spregevole; perché son raeschiati a quella schiera abiettissima di angeli, che non furono ribelli fedeli a Dio, ma per foro; cioè che non furono caldi freddi, ma tiepidi, per paura di compromettersi; e aspettarono di risol- versi a battaglia finita. A costoro dice il Giudice eterno {Apoc. Ili, 15 e 16): Scio opera tua: quia ncque frigidus es ncque calidus; utinam /iri- gidìis esses aut ccdidus. Sed quia tepidus es^ et nec frigidus nec calidus^ incipiam te evomebe ex ore meo (1). Epperò il cielo li vomitò, per non macchiarsi della loro bruttezza; e T inferno non li volle, perché nessuna gloria (2) veniva agli angeli ribelli dall' aver compagni nel regno della

(1) Ripensando a qweWutinam di S. Gio- calisse nello scrivere di tali stomachevoli ri- vanni, starei per dire che fu esso che ispirò fiuti del cielo e dell'inferno. a Dante Tidea di fare un luogo a parte, e (2) Sto col Monti e con gli altri che spie- non propriamente neir Inferno, a questi scia- garono queir a/cuna gloria per nessuna glo- gurati, e di attribuire ad essi il rodimento ria. Se non s* intendesse cosi , finirebbe Tef- deir invidia che li strazia. Anche T evomere ficacissimo contrapposto voluto dal Poeta {per (cacciarli idei.,.,) mi fa sospettare che forse non esser men belli: che alcuna gloria Dante ebbe in mente questo passo dell' Apo- i rei,,.. )

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170 G. BERNARDI [qioukale di filologia

morte quelli che non ebbero cuore di esser compagni ad essi nella ri- bellione.

Rifiutati dunque dal cielo, perché non operarono il bene; rifiutati dall'inferno, perché non operarono propriamente il male; e non l'ope- rarono per paura di uscir fuori da quella loro specie di autolatria^ spre- giati da tutti gli spiriti celesti e infernali, questi egoisti si rodono d'in- vidia eternamente. Non si lamentano forte per acerbità esteriore di pena: benché

stimolati molto da mosconi e da vespe ch^eran ivi,

e costretti a tenere i piedi tra fastidiosi vermi^ pure non si tratta di nessuno di quegli atroci tormenti sofferti dagli altri peccatori; ma si la- mentano di esser rifiutati da tutti, in dispregio a tutti. Come il mar- tirio rero di Capaneo non è la pioggia di fuoco che lo marturOy ma la rabbia d'essere veduto vinto è quella che lo strazia senza mai posa; così il martirio vero di quegli egoisti, superiore a qualunque altro, è il di- sprezzo in cui son avuti eternamente. Per sottrarsi a un tale insoppor- tabile disprezzo, parrebbe a loro un gran sollievo, se potessero avere lo stesso destino degli altri dannati (invidiosi son d'ogni altra sorte); ma appunto la certezza di non poter mai trovarsi con essi, e liberarsi così dair insopportabile dispregio, li strazia in eterno. Si ricava pertanto da tutto il contesto, come la speranza che non hanno della morte ^ è questa, cioè di non esser proprio nell' inferno vero con gli altri dannati, ma fuori di esso; vale a dire non nella perfetta seconda morte, che è vera e compiuta pena, ma in una mezza morte; la quale, se non è più cruda dell'intiera, certo è più spiacente. Ed ecco in che modo, almeno come sembra a me, quella seconda morte ri toma qui a spiegare il pensiero di Dante, e rende ragionevole il senso del verso:

Questi non hanno speranza di morte.

Lassù, nel primo Cauto, dove si trattava di determinare generica- mente il supplizio di tutti i peccatori, conveniva quel supplizio chiamarlo seconda morte^ rispetto alla prima. Qua poi, dove i due poeti son già in sulla proda

Della valle d'abisso dolorosa,

cioè presso il proprio luogo della seconda morte^ bastava dire soltanto morte, senz' altra aggiunta; perché s'intende di qual morte si tratti, es- sendo succeduta già la prima, che sta nella separazione dell'anima dal corpo.

Non voglio dire che Dante avrebbe potuto parlar più chiaro, come s' è detto, e non a torto, tempo fa dal D' Ovidio a proposito di le jw-

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BOMAiwA, N.» 5] NOTERELLA AL III, 46 INF. 171

róle tue sien conte; ma che doveva tenerla ben di conto la diflferenza tra scrittore e lettore, per non dar pretesto ai futuri interpreti di anuojare i galantuomini con notereUe più o men lunghe di questa.

G. Bernardi, cassinese.

P. S. Era già scritta questa noterella, quando dal trovare assai lodato da un amico mio, più sopra nominato, il Commento dello Scartazzini, ch'io non conoscevo, mi nacque il desiderio di vedere come vi fossero interpretati i due versi in questione.

Un altro amico mio, il sig. Americo De Gennaro, ebbe la gentilezza di man- darmi trascritti i luoghi che m'importavano. Dice dunque lo Scartazzini:

« 117. Che la seconda morte ciascim grida. Tutti i commentatori intendono per la seconda morte la morte dell'anima, ossia T annichilamento, e spiegano que- sto verso: « Ciascuno desidera, chiede con grida di morire una seconda volta, cioè di rientrare nel nulla. » Senza accingermi a dare una nuova esposizione di questo verso, mi sia lecito di esternare alcuni dubbi. Primieramente non vo' decidere se il verbo gridare abbia il senso di desiderare, chiedere ad alta voce; ma appo il Dante un tal senso il verbo gridare non lo ha, e sarebbe questo il solo passo, nel quale esso verrebbe preso in questo significato. In secondo luogo non mi sembra molto probabile che Dante voglia dire che ogni dannato chiede con grida ciò di che è certo, non potergli esso giammai venir concesso. In terzo luogo la frase seconda morte vuol dire qualche cosa altro che annichilamento ; eccone il senso (E qui l'A. riporta due dei tre passi da me riportati dell' Apocalisse, il 14 del XX, e 1' 8 del XXI). Forse il Buonanni aveva un ceito presentimento del vero , scrivendo a questo verso : « Cioè tutti i dannati aspettano la resurrezione, e di ripigliar carne, > Ma ho già detto che non vo' azzardanni a darne una nuova interpretazione; aggiungo sol- tanto che il Tommaseo spiega grida per piange, »

« 46. Speranza di morte : son certi che il loro misero e vile stato non avrà mai fine. Gli uomini cercheranno la morte e non la troveranno : e desidereranno di mo- rire e la morte fuggirà da loro. Apoe, IX, 6. »

< 48. D' ogni altra sorte : dunque anche della sorte degli abitatori del pifi pro- fondo inferno. Questi miseri preferirebbero al loro vestibolo sinanche la bocca di Lucifero. »

« 50. Misericordia e giustizia : la misericordia di Dio risplende particolarmente nel cielo, la giustizia sua si mostra terribilmente nell'inferno. Ma questi mise- rabili sono esclusi dall' uno e dall' altro luogo : non gli vuole Iddio il diavolo. Vedi V. 63. >

Ai dubbi espressi* dal valente interprete, intorno al verso 117, vorrei che gio- vassero le mie osservazioni per trasformarli in certezza. Quanto alla nota del Buo- nanni, non so capire come i giustissimi dubbi dello Scartazzini si possono accordare col presentimento del vero di un commentatore, il quale, per giunta, ripeto le cose dette in proposito da Francesco da Buti. Vedasi il commento che ho riportato.

In ordine poi ai versi 48 e 50, ch'egli spiega così bene, se gli avesse considerati intimamente congiunti col verso 46, forse non si 8arebl>e appoggiato a quell'altro passo dell'Apocalisse.

G. B.

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172 F. SETTEGAST [giokhalb di filoloqu

JAGOS DE FOREST

E LA SUA FONTE

Da più anni sto preparando nna edizione del Roman de Julius Cesar composto da Jacos de Forest, e della sna fonte, che ora indicherò, ed ho al presente raccolto tutto il materiale a ciò necessario, per quanto m' era conosciuto. Ma poiché questa edizione non potrà venire alla luce tanto prossimamente, premetto alcune osservazioni relative a quei testi, le quali spero serviranno a rettificare ed ampliare le notizie finora pub- blicate intorno di quelli.

Si è creduto sin qui che il Roman de Juks Cesar di Jacos de Fo- rest traesse origine dalla Pharsalia di Lucano come da fonte diretta. Questa è l'opinione della Histoire littéraire [\) che in un bell'articolo del sig. A. D. (Duval) s'esprime a proposito del poema in discorso:

Cast Iv tort, au reste, qu*il [i. e. Jacos] a donne à son ouvrage le titrede Ju- les-César, puisqne ce n'ost qu'uno traduction de la Pharsale de Lucain. Il est vrai qu'il a osé completar Tépopée da poète latin : il n'abandonne Cesar que lorsqu'il en a fait un empereur de Rome etc.

In queste notizie intorno a Jacos de Forest il sig. Duval coramu- nica che nel Vaticano (Reg. 824) si trova un ms. francese il quale tratta appunto dei fatti di Giulio Cesare. Egli dice relativamente a questo ms. (pag. 686):

Il commence par une miniature presque entièrement efFacée, au-dessus de la- quelle on lit ce titre en lettres rouges : « C'est de Julius Cesar > ; et au-dessous : « Cj oomence li histoire de Julius Cesar ke Jean de Cuien translata de latin en romnan, selon les X livres de Lacan. » Yoilà du moins un des translateurs de Lucain bien oonnu: c'est Jean de Cuien. Mais nous ne pouvons rien dire, jusqu'à présent do moins, de cet auteur dont nous trouvons ici le nom pour la première foia, ni de son ouvrage que nous n'avons point sous les yeux.

L'ultima circostanza allegata dal Duval, che cioè non potè vedere egli stesso quel ms., serve a scusarlo; poiché in quel ms. (2) non è

(1) Anche Joly segue questa opinione (2) Dal quale il prof. Monaci ebbe la bontà

nella sua opera: Btfnott de Samt«-3for«, Pa- d'inviarmi copiosi estratti, e che io stesso rigi, 1870, t. I, p. 383. neiranno 1878 copiai in Roma per intero.

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BOMANZA, N.«> 5] JACOS DE FOEJEST 173

scritto Jean de Cuien, ma chiarissimamente Jehans de Tuim. La stessa opera di questo Jeban è contenuta nel ms. n.*" 722 della Biblioteca pub- blica di St. Omer(l), nel quale comincia in questo modo:

Chi commencent les estoires de Julius Cesar, comment Jehans de Thuun les translata de latin en romans salone les X livres de Lucan.

Quest'opera di Jeban de Tuim o Tbuun (2), il quale deve essere vissuto circa la seconda metà del XIII secolo, è la fonte immediata di Jacos de Forest; anzi può dirsi che il poema di quest'ultimo non sia altro che una versificazione di quel romanzo in prosa. Ambedue le opere raccontano dal principio alla fine gli stessi fatti, nella stessa maniera, sovente con le stesse parole. Per mostrare questa relazione, riporto qui sotto il Prologo, il quale in Jeban de Tuim viene dopo il Sommario.

1. Jbhan db Tuim ( Vatic. f. 1^)

Ci coumence Jehans son prologue et dist ensi :

Puis qua volentes me semont ko je vous raconte en Pestore roumain (sic) cou- ment Julius Cesar coumenca le guerre et le maintint encontre les citoaius de Roume, les queus il desconfi es chans de Thesale , et commout il couquist toute le seignorie dou monde: bien est drois ke si dit soient racontet et si fait ausi en tei maniere, que tout li haut home ki terre ont a garder et a gouvrener, pour con que il miex se maintiegnent en gentilleche et an toutes bontes, i prcndent examples et ensei- gnemens; car quant il fìst tant (f. 1*^) et conkuist par le viertut de nostre seignour premierement et par se proeche en apries, Vii fu oremus et redoutes par tout le monde et ses nons ensauchies et se vie, bien est drois que si fait soient ramenteut et racontet apries se mor en avant. Pour cou ke Jehans Tuym (sic) veut ke la grans bontes des preudounies que Julius Cesar fu a son tans soit seue et racontec, il translata Testore roumain de latin en roumaut sclonc cou ke Lucans en escrist; mes tant i a k'il redente sour toute rions les me.sdis des envios, k'il ne li atournent a folie cou k'il fait pour sens et pour edefiier les cuers des prodoumcs ki Testore en ascouteront. n croit bien ke li mauves Ten blasmeront et sans raiaon, et s'il en devant ne le font, si le feront il en derriere. Il lor donne rose pour beine odour, et il li rendent espines encontre ; il lor donno miei por doucour, et il li rendent fiel amer. Mais pour ce k'il set bien et voit que li mauves ne puet laissier (f. 1^) son vili usage ne se mau- vesse acoustumance, ains art tous de duel et d'envio pour le bontet k'il voit ou boin, ausi com li plons s'art pour l'argent: nonj ourquant Jehans dist qu'il pueent de lui mesdire, car on sarà bien k'il ne le feront fors par envio, ne ja pour lor envie sa bontes n'abaissera, car li biens si vaintera tous tans; et pour cou veut il revenir a se matere et commoncera en tei maniere.

2. Jac s DE FonEST {Paris , Bibl Nat. fr. 1457, fol. 4 r.^)

Uns pensers qui mon cuer ontalente et esprent be trover me semont et a dire m'aprent

(1) V. su ciò il CatcUogue des Manu- {%) Sembra al certo la città di Thuin nel

scrits des Bibliothéques des Départements, Belgio (Hainaut).

t. m.

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174 F. SETTEGAST [oiobmale di fuloloou

Selonc Teetoire vraire (aie) endroit mon escient L*estoire des Romains et por quoi et comment Julia Cesar li preus qui tant ot hardement La guerre commeoca et mena loDguement Vera les citains de Rome, qu'il par eaforcement Enz ea chana de Teaaale deaconfi plainement, Et qui par aa valor, ae Teatoire ne ment, Citez, bora et chaatiaua conquist ai amplement Con li cieux le mont coevre et la terre a'eatent. Bien est droia, ce m^eat via, qui raiaon i entent, Que de celui aoit faia romanz nouvelement Por aon pri» eaaaucier et por ce enaement Que haua hom qui tient terre par aon droit fievement, Pour tant qu'il a'en maintiegne mieula et plus franchement, De bonte prandre (sic) ezample et bon enaeignement A la yertu du aien et a aon hardement, Qui tant fiat et conquiat, que li nona aeulement De lui fu redoutez deai qu*en orient Et de la dusqu'au lieu c'on apelo occident; foi 4 v.o Qui tant fìat en aa vie, bien eat droia voiremcnt Qu'aprez aa mort en aoit loez a tonte gent

De Temperor Ceaar qui par aa baronnie

Le pina du mont conquist et miat en aa baillie,

Qui fiat tante bataille et tante aoraaillie,

Tant eator, tant aasaut, tante dure envaie,

Dont maina bera et maina cora d'omme a chicre hardie

Et maina bona chevaliera a perdue la vie,

Qu'il deaconfi Pompeo od aa chevalerie

Et lea citains de Rome par bataille arramie:

De celui fet Tauctora, que qu'enviouz en die,

Cea vera de tei matere qui n'est paa molt oie;

Quar il Ta du latin tonte en romanz changie

Et de la vraie estoire de Rome departie.

Mea il doutent (sic) forment les mesdis et Tenvie

De pluaors gena qui sculent atomer a folio

Ce que on fet por aena et aanz losangerie;

Nea ce qui bien est fait ne laissent encor mie

Qu'il n'i voilent noter ou mal ou vilenie.

Bien le croi qu'envioux a tort me blasraeront Et capine por rose, fiel por miei me rendront; Quar ce que por sena faz a folie atorront Et ce que por bien di en mal reprenderont, El s'il nel font devant, en derrier le feront, Quar tex est lor coustume que il pas ne lairont Por moi, ce poise moi; raes tant lor cu respont Qu'ausi bien li mal vaia pour le bon se confont Con fet li plons qui s'art por Targent ou il font:

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ROMANIA, N.*» 5] JACOS DE FOEEST 175

ÀU88Ì s^ardent malves por cela qui vaìUant soni

Par Tenvie et par Tire qu'il de lor bonte ont;

Et 8*il de moi mesdient, plus que moi s^empìront,

Con saura bien que il d'envie le feront;

Por ce petit me chaut de quanque il diront;

Et si porrà bien estro que il me greveront,

Mais ja voir mon boin non don tòut n'abaisseront ,

Quar ades en la fin li bien se proveront,

Et il com mesdìsant menteor remainront.

Or s'en voit envious et cil qui sordit sont,

De mesdire se taissent, quar encombrier nous font,

Et je dirai comment li premerain vera vont

De Testoire de Rome, qui a verte respout,

Que Tauotors de?ant dis en romanz vous despont.

Ambedue questi passi bastano a far riconoscere che l'uno dei nostri testi è solo un rifacimento dell' altro. Un solo dubbio può tuttavia sus- sistere; si può, cioè, fare la domanda se Jacos abbia posto in versi il romanzo in prosa, o se al contrario Jehans abbia ridotto in prosa il poema. Da questo dubbio ci libera lo stesso Jacos con il passo se- guente (f. 147^:

Maia adone en son ost avint merveille granz, Quar une nuit a Tore que les gaites vaillanz Doivent aler par Post por guaitier les dormanz, Adono fu une ploeve jus du ciel descendanz, Qui molt fu perillouse et qui molt fu nuisanz; Quar 0 la pluie estoient groses pierres cheanz, Qui erent tot entor comues et poignanz, Si fu molt cis tempcs les Romains apressanz; Quar les pierres les erent molt durement blecanz Et contro lor cols nus n'avoit autre garanz Que ce que chascuns s'iert de son esou covranz; Quar cote ne mantiaus ne lor valoit una ganz Que tres parmi les dras ne fast li cols sentanz, Si ronpoient les pierres des tentes plusors panz. Ensi c'iert cis oragea Ceaare molt grevanz Si com l'sstoibs dist bt ek apbes Jehanz.

Il passo corrispondente in Jehan de Tuim dice (Vai. f. 74*):

Maia une grana mierveille i avint adont une nuit ; car une grana pluie commenca et avoec cele pluie cheirent grana pieres comues teles ke cotea ne mantiaua ne draa ne lor porent valoir, ains se (Ma, le) couvroient de lor escus et de quanque il pooient avoir pour aus garandir; et cheoient cea pierea de ai grant ravine, k'elea dearompoient les pana dea trea ki fort estoient et doublé. Que vaut con ? Molt grevoient ces pierea a Ceaar et a aa gent.

Da questo confronto si rileva che il Jehans (de Tuim) menzionato da JacoS; fu la sua fonte diretta. E da questa menzione della e Estoire »

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176 F. SETTEGAST [giornale di filologia

si potrebbe anch'essere indotti a conchindere che Jacos abbia avuto anche un'altra fonte insieme a Jehan; ma tuttavia ciò è abbastanza inverosimile. Jehans dall'altra parte ha attinto il passo sopra riportato dal e. 47 De hello Africam. La sua fonte principale è Lucano, ma anche i Commentari di Cesare da lui non menzionati ; dal punto in cui Lucano interrompe la narrazione, cioè dal principio dalla guerra d'Egitto in poi, egli segue (senza citare tal fonte) la continuazione delle storie di Cesare De bello Alexamlrino e De hello Africano; si è anche giovato della storia De hello Hispaniensi.

Qui troverà luogo anche una osservazione intorno alla relazione fra il testo di Jehan de Tuim ed un altro d'eguale contenuto. Io alludo all'anonimo romanzo antico francese intomo alla vita e ai fatti di Giulio Cesare, contenuto in numerosi mss. e compilato dalle opere di Sallustio, Lucano e Svetonio. Lo citerò in seguito col nome di Vie, Esso è stato anche tradotto in italiano, e questa versione italiana fu pubblicata dal Banchi col titolo: I fatti di Cesare (Bologna, 1863; una critica molto istrut- tiva di questa edizione fu inserita dal Mussafia nel Jàhrhuch fUr roman. Litcr. VI, 109 ss.) La Vie e il testo di Jehan de Tuim sono fra loro indipendenti ; le somiglianze che reciprocamente presentano, provengono generalmente dall'avere ambedue in parte la medesima fonte, Lucano. Solo mi sembra in qualche maniera verosimile che Jehans abbia al- meno conosciuta la Vie. Dei passi che mi hanno condotto a questa supposizione, ne riporto due i quali forse sono adatti anche a dare un po' di luce sulla domanda: da chi sia stata composta la Vie, Jehans (e il suo seguitatore Jacos, f. 160'') narra che Catone dopo la sconfitta dei Pompeiani a Thapsus si trafisse con la spada per non sopravvivere alla schiavitù della patria:

Il avoit 0 lui pourpenseement portee s'eapee si Ta sachie dou fuerre et s'en fiert ou costet seniestre si cruelment qne Tespee li partist le cuer et sana en saut apries le cop. (Vat f. 8P).

Jehans si fa un po' dopo (f. 83^) a sostenere questo racconto della morte di Catone come il vero, contrariamente ad un altro, secondo il quale Catone si sarebbe ucciso col veleno, e che egli ascrive ai e mestres d'Orliens»:(l)

Ensi s'ocist com je vous di ; mais li mastre d'Orliens en vont contant autre obese, car il diont qu'il s'ocist par venim et par ire ; mais li hestore ne s'i assent point

(1) Come Jehans racconta anche Jacos f. KH'^. La « hestore » a cui si richiama Jehan è senza dubbio « De hello Africano » dove al cap. 88 si legge : « ferrum iotro clam in cubìculum tulit atquo ita se transjecit. »

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«0MA1I8A, M.'> 5J JACOS DE FORESI 177

Se noi ora cerchiamo nella Vie il passo corrispondente, troviamo difatti che qui si racconta che Catone s' uccise col veleno. Così in uno dei mss. di questo testo (Bibl. Nazion. di Parigi, n.° 295 fr. p. 614) si

dice relativamente a Catone: « U adevauca sa mort par venim il

s'envenima et morut » (1).

11 secondo passo si riferisce alla morte di Cn. Pompeo, figlio di Pompeo il Grande. Jehans racconta (secondo il Bellum Hispaniense cap. XXXIX), che quegli dopo la disfatta di Munda si nascose fuggendo dentro una fossa, e continua:

Mais con ne li valut riens, car paissant, ki a Cesar se tenoient de guerre, le

trouverent la se li cauperent la tieste si Taporterent a Cesar Ensi com je

Yous di fu Pompee mors, mais li maistre d'Orliens en dient autre chose en lor fa- bles, car il dient que Cesar (xsega Fompee en Mondain et mortit par famine (Vatic f. 84^, Jacos f. 166 v.«).

E qui nuovamente corrisponde ciò che è attribuito ai e maistres d'Or- liens » col racconto della Vie, sebbene non in tutti i punti, almeno in un punto principale, cioè T assedio di Munda. Poiché infatti in questo testo (per esempio nel N.** 281 fr. della Bibl, Naz. f. 226') ambedue i figli di Pompeo vengono assediati da Cesare in Munda (chiamata « Mon- de » e anche « Mede »). Diversamente è qui narrata la morte di Cn. Pompeo (chiamato nel n.* 281 <c Gaio > invece di e Gneo »); poiché quivi è detto che egli sarebbe stato ucciso in una sortita fatta dall'as- sediata città (2).

Da ciò sembra discendere che se la Vie è davvero, come si può supporre, opera dei e Maistres d*Orliens, > Jehans ne aveva solamente un'imperfetta conoscenza, o che egli, cosa che non può sorprendere in uno scrittore del medio evo, ha dato di quella soltanto una notizia inesatta. Sempre però è cosa degna d'osservazione che in ambedue i passi nei quali il racconto di Jehans contradice a quello dei e Maistres », quest'ultimo concorda quasi in tutti i punti con la Vie. Io riassumo il risultato di questa piccola ricerca nelle seguenti proposizioni:

1) Il Boman de JtditiS Cesar di Jacos de Foresi non è rifacimento diretto della Pharsalia di Lucano ma sibbene della Estoire de Jviius Cesar di Jehan de Tuim;

2) Con la menzione dei e Maistres d'Orliens » Jehans sembra al- ludere agli autori della Vie.

(1) I Fatti, cap. XXXV, narrano di Ca- (2) Con la Vie concordano i Fatti, capi-

tone: « Prese uno beveraggio che si chiama telo XXXV. cicuta e mori. »

12'

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178 JACOS DE FORESI [qiohkalk di filologia

Per conchiusione mi sia lecito d'aggiungere che sarò gratissimo a chiunque mi saprà indicare altri mss. diversi da quelli da me conosciuti del testo di Jehan (Vatic. Reg. 824, St. Omer 722 (1)) e di Jacos (Bibl. Naz. 1457).

Zurigo, 10 ottobre 1879.

P. Setteoast.

(1) Ultimamente il signor Professore D.' Gròber ebbe la bontà di darmi notizia di un terzo manoscritto, il quale si trova a Parigi nella biblioteca dell'Arsenale, n.» 3344.

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«oiiAMA, M.o 5] A. D'ANCONA 179

STEAMBOTTI DI LEONAEDO GIUSTINIANI

Quando io metteva insieme quegli Studj suUa poesia popolare ita* liana che furono stampati nell'anno 1878 dall'editore Vigo di Livorno, io ricordava di avere tra i miei libri un opuscoletto stampato nel se- colo XVII di Stranfìbotti del Giustiniani, e mi sembrava per una certa rimembranza che- me ne era restata, che non dovesse esser inutilo alle ricerche che allora facevo, e sopratutto a meglio confermare le continue ed antiche relazioni fra la poesìa cantata dalle plc1)i e quella di autori che imitarono la forma plebea. Riuscitami vana ogni indagine dell'opuscolo, perdutosi in mezzo a volumi di maggior formato, e non avendone trovato copia nello Biblioteche pubbliche e private di queste parti, non ci pensai più, finché per caso mi ritornò sotto gli occhi. È desso un libercolo di 8 carte non numerate , così intitolato : Stuambotti | in

PROPOSITO I DI CUSCTTNO | AMATOUB | LI QUALI SCUISSE DI SUA PROPRIA | MANO | IL

NOBILE MESSEtt LEONARDO | GiusTiNUNO. | III Trcvigi | Per Girolamo Righet- tini. 1641 I Con licenza de' superiori | e di nuovo ristampato. Rilettolo, e colla memoria fresca dei molti canti popolari che avevo dovuto ri- petutamente leggere nel comporre il volume degli Studj, mi avvidi che vi erano per entro non pochi Strambotti tuttora viventi sul lal)bro dei nostri volghi, ed altri compresi nel Cod. perugino del sec. XV da me ripro- dotto in Appendice al mio lavoro. Pensai allora che non sarelibe stato inutile agli studj della popolare poesia il riprodurre questi Strambotti del Giustiniani, corredandoli di qualche rafiFro)ito colle versioni antiche e moderne; ed offro questa tenua fatica ai benevoli del nostro Giornale. Se non che una stampa popolare del sec. XVII <li poesie che risal- gono al XV non offriva sufficiente sicurezza di huona lezioue: e pensai si dovesse ricorrere o a manoscritti o ad edizioni antiche, o a tal fino mi rivolsi all'egregio bibliofilo e cortese amico il signor cav. Andrea Tessier di Venezia, perché nella Marciana mi trovasse ciò che fosse a me ne- cessario. Ed egli con quella sollecitudine che rende più graditi i fixvori, mi trasmetteva copia degli Siramhotti del Giustiniani secondo una antica, e forse prima edizione veneziana, accompagnando la trascrizione con una lettera, che stimo utile riprodurre per le notizie biografiche e bi- bliografiche che in essa contengousi.

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180 A. D" ANCONA [giokkàlb di rnxiLoeiA

« Leonardo Giustiniani, che nacque intomo al 1388 e morì il 10 Novembre 1446, era patrizio veneto e fratello al Protopatriarca di Ve- nezia, il B. Lorenzo ; ed è autore degli Strambotti, non meno che delle Canzonette^ delle Laudi Spirituali ecc. Di lui parlarono moltissimi autori, fra' quali ricordo i seguenti: l'Agostini negli Scrittori veneziani^ tomo I, pag. 135 e seg. e tomo II, p. 31; il Foscarini nella Letteratura vene- jsiana, a pag. 368, nota 94; il Contarini (G. Battista) negli Anecdota veneta^ 1757, a pag. 73 e seg.; il Morelli a pag. 193 della sua Disserta- eione sulla cidtura della poesia presso i Veneziani^ riportata anche nel t.1 delle Operette, Venezia, 1820: il Tiraboschi nel voi. VI, part.I, pag. 157-9 della Storia della Leti, ital, e voi. VI, pari IV a pag. 1069 dell' ediz. di Venezia, 1823; il Crescimbeni nei Commentari a pag. 246 del voi. Il, part. II; il Sansoviuo nella Veìiezia descritta, lib. XIII, cart. 244 tergo; il Quadrio, voi. II, 469, 474; VII, 100-101, 125-6, 200; il Comiani nei Secoli della Letteratura, voi. II, p. 289; il Cicogna, Inscris, veìxeziane^ t. II, pag. 71-3; t. V, pag. 516; t. VI, pag. 775-6; ed altri assaL

Quanto agli Strambotti, oltre l'edizione di Trevigi da lei posse- duta, varie altre ne esistono. La più antica ch'io conosca è la seguente, di cui sta un esemplare nella Biblioteca Marciana, ov'è contrassegnata A. T. 7. 5761 : Questi Strambotti scrisse de sua maó in prepo | sito d' ciascaduno amatore il nobile misser | Leonardo lustiuiano. Senza anno e senza note tipografiche, ma degli ultimi anni del sec. XV o dei primissimi del sec. XVI. Di sole 4 e. in 4** con fig. intagliate in legno nella l* e 3* carta.

La stessa Biblioteca possiede le due altre edizioni che seguono: Tuna intitolata: Strambotti | m proposito | di cuscuno j amatore. | Li quali scrisse di sua propria mano, il Nobile Missier | Leonardo Giusti- niano I In Trevigi, con licenza de' Superiori | ed in Vicenza per il La- nezari. Senz'anno, del sec. XVII, di 4 e. non numer. in 4'. Tale esemplare è contenuto nel voi. miscellaneo n. 1945. L'altra è intito- lata: — Strambotti | in proposito | di ciascuno amatore ) Li quali scrisse di sua propria mano | Il nobile missier | Leonardo Giustinuno | In Trevigi, MDCLXII. I Appresso Francesco Righettini | Con Licenza de' Superiori. Di 4 e. non numerate , in 4% con fig. intagliata in legno sul frontespizio e nell'interno dell* opuscoletto. È nel voi. misceli, n. 2677.

Però i detti Strambotti, che sono i medesimi in ciascuna delle succitate edizioni, vennero tratti dalle più copiose stampe, di cui mi è dato darle una breve descrizione, per averne trovato esemplari nella Marciana. La più antica è la seguente: Comincu il fiore delle ele- gantis I siME Canciouete dil nobile messere Leonardo | lustiniano. In fine: Il fiore delle elegantissime caucionette di mes | sere Leonardo lustiniano qui finisse: ì Vene | tia con ogui diligentia impresse per An- tonio I de strata. a di none Marzo MCCCCLXXXIl | Messere Giovanni

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BOMAH8A, N.« 5] 8TBAMB0TTI DEL GIUSTINIANI 181

mocenigo inclyto principe I Venetia. In 4* di e. 44, non nnmer. Magnifica edizione, contrassegnata CXIII, 4, 41127. Altra edizione: Queste sono le Canzonette et | Strambotti damore compo | ste per il Ma- gnifico mi I ser Leonardo Insti | niano di Venetia. In fine : Impres- sum Venetiis per Ioannè | Baptistam Sessam Anno | diii MCCCCC | Die nero XUII | Aprilis. In 4% di 16 e. non numer., contrassegnato col n.** 2677. Altra edizione : Queste sono le Canzonette et | stramboti damore compo | ste per el Magnifico mi | ser Leonardo lusti | niano di Venetia. In fine : Impresso in Venetia per marcliion Sessa | nel MCCCCCVI. adì XII octobrio. In 4% di 16 e. non numer. Contrasse- gnato A. T. 7. 5761. Altra edizione: Queste | sono le canzonette Et I Strambotti Amoro | si. Composte per | el Magnifico | miser Leo | nardo lustiniano da | Venetia. Stàpa | ta Novamète. In fine: Stam- pata in Venecia p Zorzi de Rusconi | Nel M. D. XVIIII. adi XIII de Novèbre. In 8**, di 40 e. non numer. Contrassegnato A. S. 3. 5003.

< Quanto a codici manoscritti, la Marciana ne possiede uno con- trassegnato col n.*" CV della CI. IX degli italiani, del sec. XVI, in 4% il quale contiene Eime di vari antichi autori. Fra queste àvvene alcune del Giustiniani, che reputo inedite, ad eccezione di quella che comincia: Io vedo ben che amor è traditore, la quale è stampata fra le Canzonette delle quattro edizioni poc'anzi indicate.

< Quanto a Laudi Spirituali del suddetto Giustiniani, se ne trovano inserite in varie raccolte a stampa, insieme con quelle di altri autori, secondo ne fa menzione il Gamba sotto i n.' 105, 106, 107, 108 della Serie de' testi di lingua, Venezia, 1839, mentre il Cicogna nel t. II, pag. 72, col. 1 delle suddette hiscrizioni veneziane accenna esistere la seguente edizione: Le devotissine et sauctissime Laude. Cremona, 1474, in 4**; le quali Laude furono ristampate più volte.

« Molte Laudi Spirituali^ poi, di esso Giustiniani stanno nel ms. Marciano contrassegnato col n.** CLXXXII della ci. IX, il quale è in foglio, e del sec. XV: e taluna delle stesse Laudi sta nell'altro cod. Marciano contrassegnato col n.** LXXVIII della detta ci. IX, il quale è in foglio piccolo, e della fine del sec. XVI o del principio del se- colo XVII. »

La copia fattami diligentemente dal sig. Tessier è tratta dall'edi- zione s, a. ma della fine del sec. XV o dei primissimi del XVI. Il testo da me prodotto, ha per principal fondamento quella stampa, contrad- distinta colla lettera a, ma si giova anche dell' edizione del Righet- tini 1641, notandola con 6.

Le relazioni fra gli Strambotti del letterato veneziano ed i Rispetti colti dalla bocca del popolo per opera dei moderni editori sono evidenti dai paragoni che verremo notando, e de' quali forse alcuno ci è sfuggito. Ma riconosciuto il fatto, resta sempre da sapersi se il letterato imitò

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182 A, D' ANCONA [oiobm aia di riuajo&u,

il popolo, o qaesto V altro : e la questione è pressoché insolubile. Certo il Giustiniani dovette imitare le forme plebee; e spesso, non che i sen- timenti e i concetti, riprodusse nei suoi Strambotti anche versi che ripe- tevansi popolarmente; ma a perpetuare fra il popolo la memoria di canti suoi propri ab antico, non poco dovetter giovare le molte e ripetute ri- stampe volgari di questi Strambotti giustinianei. Del resto, approprian- dosi le ottave del poeta veneziano, il popolo riprendeva il suo; e, mu- tandole e modificandole variamente, vi imprimeva il proprio suggello, come ha fatto sempre delle forme di poesia letterata che andarongli a genio. Ad ogni modo, se questi Strambotti che qui riproduciamo, non servono a sciogliere la controversia, servono almeno a sempre meglio comprovare ciò che nei nostri Studj, con frase mercantile ma acconcia al caso, dicemmo « partita aperta di dare e avere tra la poesia eulta e la popolare, e conto corrente sempre acceso fra i rimatori illustri ed i plebei » (pag. 322).

Alessandro D'Ancona.

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noMAHZA, H.O 5] STBAMBOTTI DEL GIUSTINIANI 183

I

Amore viìol che novamente io canti, Tanta è la pena che sente il cor mio. Tsono el più fidel fra li altri amanti, E sempre vivo lieto e con disio. Bisguardo ancor quando vi son avanti El vostro volto signoril e pio: E poi ringrazio Idio che vi produsse, E avanti aWostri occhi mi condusse.

1 9Ì9ol: a, «i puoi: b 2 Tantalo: th N«i:a 6 Tt rUguardo: a, JUsffuario amo: h^6 bel v.: u- 7 che d'amor vi: a, Ringratio i Dti ch'ancora: b 8 b€lU ochi si tne: tk, E iMnansi i: b.

n

Amor mi sforza amare il tuo bel viso Lk dove ogni piacer chiaro si vede, Con quel suave e dilettoso viso, Con tuo dolce parlar, con tua mercede; Tu puoi d* inferno tranne al Paradiso, Contento mi puoi far, come tu vede. Di tutto quello che'l mio core brama, 0 fior, eh* avanzi ogni leggiadra dama.

1 »i me condusii: a, «{ io: a —4 parlar tua: a— 5 poi da linftmo: a, 2^ puoi di brutto farmi il ver Narciao: h^6 S cotUetUo me poi: a, $i vede: h^l lo c%tor mio: b > 8 avatua: b, ogni altra: a.

Ili

In questo mondo Idio t^ha mandata Per morte darmi, e non per altro fare; Dime: che tu no* cerche una fiata, Quando ci passo, dovermi parlare? L'anima mia sarebbe consolata. Non mi faresti più tanto stentare: Tu hai diletto di farme languire: Deh guarda ancor che non t'abbi a pentire!

l credo tu iti naia: h-^ 2 dormii non: buschete no: a. Dimmi che noglia ti ioria: b 0 S non: a, A^: b 7 farmi: b 8 eh' ancor mon; a, ancora non: b, abbia: b.

IV

Il Papa ha concesso quindeci anni De indnlgeniia a chi te parlare;

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184

A. ly ANCONA

[gJORVALK di FUXILOGIA.

Cento e oinqoanta a chi te tocca i panni, E altri tanti a chi te basare; E io che per te porto tanti affanni, Di pena e colpa mi vói perdonare; E se basar potesse '1 t5 bel viso L'anima e'I corpo mando in Paradiso.

Mano» in b, doye, come ai vede, sono sUti modifleati o tolti 8onip<dosaiuente tntti gli accenni a oose More o dlTine. ^ e di colpa: a 7 qutl io: a.

Se li arbori sapessen favellare E le lor foglie fusseno le lingue, L'inchiostro fosse T acqua dello mare, La terra fusse carta e Terbe penne, Le tue belleze non potria contare. Quando nascesti, li angioli ci venne; Quando nascesti, colorito giglio, Tutti li santi fumo a quel consiglio (1).

1 Mj»99»tno: a , wptaHr: b *- 2 foglie lor: a é carta T.* a 6 amoli'. a, to gr<uia : b 7 a r«/.^ b. 8 Dti\ b.

(1) A pag. 204 del mio scritto sulla Poe- sia popolare italiana io supposi che la prima forma di questo Canto fosse, come in tanti altri casi, siciliana, sebbene in Sicilia non si trovaisse se non un Canio consimile, ma vòlto ad argomento religioso, ed a glo- rificazione di Maria (Vigo, n.** 3297: cfr. n.*» 3944):

Se rinca fusai lu mari snprana , La cela cca la terra fossi carti, L'anoili'n celu e la manna aaprana, E l'orna 'n terra, la natura e Tarti, Si ogni orna milli manu avissi , Ed ogni mana milli penni e carti, Soriviri di Maria mai nun putissi Di li grazil ao'la quinta partL

La forma toscana, che più si accosta a quella del Giustiniani, è la seguente (Tommaseo, pag. 98):

Se gli alberi potossan favellare Le flronde che son su fossauo lingue» L'inchiostro foese l'acqua dello mare La terra fusse carta e l'erba penne, E in ogni ramo ci fusso va bel foglio»

Ci foste scritto il bene che ti Toglio: E in ogni ramo ci fosse nn bel breve, 01 fosse scritto quanto ti to' bene 1

Per altre varianti toscane vedi Tigri, n.* 483, Nerucci, pag. 191; per le venete, Dalmb- DICO, C. pop. venez. p. 70, e C, popol. di Chioggia, n.^ 29, e Bbrnoni, VII, 30; per le marchigiane, Gianandrba, p. 153; per le friulane, ÀRBorr, n.^ 351. L* immagina è comune alla poesia di molte letterature, e specialmente alla popolare, come si Tede da un artic. del Kòhler, neìi^Orient und Occid, li, 546: Wenn der Uimmel tcar Papier, Ma in italiano qual è la forma ori- ginaria, la popolare o questa del Giusti- niani f

Gli ultimi tre versi si raffrontano a quelli dei Rispetti toscani (Tommaseo pag. 61; Tigri, n.*» 93):

La vostra mamma quando v' ebbe a fare Salì negli alti cieli a far consiglio. Da quattro Dei la ne prese parere eco.

Quando la vostra madre v'ebbe a fare Andiede in alto cielo a far configlio ecc.

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ROMANZA, M." 0 1

STRAMBOTTI DEL GIUSTINIANI

185

VI

Sia benedetto il giorno che nascenti, E r ora e '1 punto che fusti creata ! Sia benedetto il latte che bevesti, E il fonte dove fusti battezzata! Sia benedetto il letto ove giacesti, E la tua madre che t'ha nutricata! Sia benedetta tu sempre da Dio; Quando farai contento lo cor mioV (1)

1 che tu: a 4 la fonti : a 5 dovt : a T A te siano propigj sempre % Dei, Quando farai cOììtfvti i voUr miei: b.

VII

Non perder, donna, el dolce tempo e' hai: De, non lassar diletto per dureza: Tempo perduto non s'acquista mai; anche in donna non riman belleza ; Però, madonna, guarda quel che fai, Non perder tempo di tua gioveneza; che, donna, da voi debo venire? Con qualche modo mandamel a dire.

ti tempo: a 7 dama a' a te debba: b 8 bel m.: a.

(1) Un Canto siciliano dice cosi (Salo- monb-Marino, n.** 3):

Binidittu la Din chi ti oriau. E la mammuzsa ohi ti parturiu, E la patrussa chi ti giniraa, Ln campati chi a fonti ti tinia; La parriaedda ohi ti vattiaa. E l'acqua oa lu sali ti mittia : Beniditta oa'fa chi t'addivaa, Ca t' ha 'ddivata pri l'amari mia.

Un Canto Toscano (Tigri, n.** 253):

Benedetto qael Dio che t' ha creato, E qaella madre che t' ha partorito ! E il padre tuo che t*ha ingenerato. Benedetto il compar che t'ha assistito. Il sacerdote che t'ha battezzato, E alla luce di Dio t'ha istituito! Benedette parole, e quella mano £ poi quell'acqua che ti fo' cristiano:

Gli ultimi tre versi almeno sanno di ritoc- catura letteraria. La versione veneta (Dal- medico, p. 170) è diventata una Ninna-nanna, ma ritrae da quella del Giustiniani, ancho in qualche rima e in un verso intero:

Sia benedeto a l'ora che nassestl, L' ora e '1 momento che ti ò partorito :

Sia benedeto 1 lato che bevesti A la tua mama ohe t'ha nutricato;

Sia benedeto '1 prete, e anca'l compare, Che t* ha tegnùo a la fonte a batizare.

Sia benedeto '1 prete, e anca '1 zaffheto, Ohe t'ha messo quel nome benedeto:

E benedeto, e benedeto sempre. Sia benedeto a chi te dormo arcntc :

A chi to dorme arento a ti , putcla ; Fame la nana, che ti ò tanto boia!

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186 A, ly ANCONA [giornale di filologia

vili

Presto me acorgerò, donna, se m*ami, £ se vói trarmi di questo martire; Presto m' acorgerò, donna, se chiami Contenta de l'antiquo mio servire; Presto me acorgerò, donna, se brami Di dar soccorso al mio giusto deeire; Presto me accorgerò di tuo talento, Stu vói eh* io mora, o che ahi contento.

1 «r ; b 2 E voi . . . trarmi qvisto mio : a 4 antico : b. 6 w' ; b C De . .. gran ; » T m' : b, dtì : b 8 Se. . . 0 pur che sia: b.

IX

stu sei donna gentil, tu*l degi amare, Servo che del tuo amore sia ben degno E l'amor di quel solo seguitare, Usando verso d'altri del contegno; Un solamente ti potr'ia bastare; Per Dio, m'agreva che dir tei convegno; Che non è onor non è gentileza 'N tanti amanti voler aver fermeza.

1 Se vuoi ... ti fUgga : h i lU altri: a 6 patria ben : a 6 A /* : b 7 ni meno h 8 In. . . toìer avir: a, aitr ìa tua: b.

Gioja mia cara, com' te soffre il core Che'l caro amante stia da te diviso? Non ti ricordi il nostro antiquo amore, L'usate feste e'I dolce paradiso? Queet'è la doglia che mi passa el core, E rivoltami in pianto el dolce riso: 0 labri di coral, zucaro e mèle. Non hai pietà del tuo servo fedele?

1 Zoia... soffri: a, Cloìi gentil. .,. soffri : b 3 aricordi: h 4 il dolce: b 5 Qticsta la: a —6 Ri'

foltatnt : a, E mt rtro//«r : b. 7 corallo ora 8 /o : a

XI

Io mi viveva senza nullo amore, Non era donna a chi volesse bene;

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ROMANZA N.° O

STRAMBOTTI DEL GIUSTINIANI

187

Denanti a me paristì, o nobel fiore, Per dar a la mia vita amare pene; E presto m'entrasti tu nel core, Come saetta che da V arco vene ; E come intrasti, io presto serrai; Perché noli' altra donna e' entri mai

(!)•

1 Io: h 2 E: At a cui voUnsi: b 3 Davanti a me paresti: b, «o6i7: h 6 tu m' intrasti: a, cosi presto m'entrasti nel: h 6 tiene: b 7 entrata /osti io lo: b 8 eintro Marnai: s, altra donna non c'entrasse mai: b.

XII

Gioioso vorria star, ma la Fortuna Per molti modi par che mi molesta; Par che '1 ciclo e le stelle con la luna Cercan di tòrmi ogni diletto e festa ; D'amarte non starò per cosa alcuna, E la mia fé' faretti manifesta ; Fortuna, fortuneggia quanto sai : Peggio non mi pòi far che fatto m'hai (2).

1 stare : % 3 S par : b, del stelle : 8 Che peso. ../are: a, pi40i: b.

ft é cerea a 5 amarti: b 6 /ede: a 7 /oriunda: a -

XIII

Dio ti dia bona sera; son venuto, Gentil Madonna, a veder come stai; E di bon core a te mando il saluto. De miglior voglia che facesse mai. Tu sei colei che sempre m^hai tenuto In questo mondo inam orato assai: Tu sei colei per cui vo cantando, Giorno e notte me vado consumando (3).

1 la h.:i^Ti do la hwma: e son : b 3 Edi buon cuor io che mi /a gir: b 8 giorni: a, E giorno e notte andarmi : b.

ti: b, tot: b. é Di. ../acessi: b -

(1) È il bV dei Rispetti del Cod. peru- gino da me stampati in Appendice al libro sulla Poesia popolare italiana: e nel Cod. sta cosi:

Io Tivea senza seutir d'amore, E DO avea donna a cni io voIcbo bene. Quando m'aparisty innanzi bonobel flore Per dare alla mia vita amare pene. Subitamente m'entrasti nel core. Come salietta che dall'arco venne ,- La prima volta ohe merexguardasti Lo cor miaaperae, e tu dentro intrastty.

(2) Nel Cod. perugino, n.'^ 29, si leggo cosi, seguendone la grafia in tutto:

Giolioxo voria star, ma la fortuna

Per mily modi par che mi molesta: E par ohe il cielo o le stelle e la luna ^irchi dintorno ogni allegreza e festa: Damartte nom starò per cosa alcuna E la mia fede ttisera manifesta Serotty Adele e tu lo poray videro Per multti muodi ettelo farò a savere.

(3) Nel Coti, perug., n.^ 99, dice così:

Dio ti dia la bona notte, e son venuto Bella madonna, a veder come stai; Fatti di fuora , e mo ti do saluto De mioro volia ch'Io foso giamai. Tu sie chulio che sompro mattcnuto In qnesto mondo innamorato assai : Però ttl pricfro s io tto ben servito Non mi lasaro a duro partito.

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ISH j4. D' ANCONA [giornalk di filologia

XIV

Piular io ti vorìa, e io non osso: Tu che sai el modo mei degi indignare: Che co' li occhi m' ha* posto foco adesso ; ,,— ^ Vedi ch'el arde, e non lo vói stuare; Ajutame per Dio, che più non posso Cotante amare pene, omè, durare; Se non me ajuti, moro per tuo amore; Agi di me pietà, ligiadro fiore (1).

1 Parlar ti: », vorria: b 2 e' hai il modo mei debbi insegnare: b 3 il /.: h i che l'arde non lo 1-uoi: b: 5 AjxUami perciocché: b 6 pene amare ahimi : b 7 m'a.: b 8 abbt pietà di me legata- dro : b.

XV

K vengote a veder, perla lizadra, E vengote a veder, caro tesoro; Non sa' tu ben che tu se* quella ladra Che m' hai ferito il cor, tanto che moro ? Quando io passo per la to contrada De, lassati vedere, o viso adomo; Quel giorno che ti vedo, non potrìa Aver doglia nessuna, anima mia.

1-2 vtngott: b, che sei leggiadra: b 3 gai: b. é m* ha: b 8 tua: b 6 teder: a, o riso d'oro: b H mssuna, o vita : b.

XVI

Non te maravigliar, lizadra donna, Se spesse volte passo de qua via: Non sa' tu ben, che non ho altra donna Che signoreza la persona mia? Tu sola sei d'està vita colonna; E quella sola che '1 mio cor desia ; Sapi per certo che tu sola sei Quella che bramo, e quella eh' io vorrei.

1 .. . dolce Madonna b 3 «ni: b A signoreggia: b. & de questa: m, di sta: h 7 Sappi: b H rht r.: b.

(1) Nel Cod. porug., n.'^ 12, dice cohi : Tutto m'acende e non me voi aitare.

Vorrlate favellare, ma io nom posso, Scchurlme per Dio, che più nom posso Tu che sai ol modo mei dio insignarc;

Tanti crudi martiri più durare: Vorie che tu fusai gentile e cortese

Clic li occhi tuoi m' hu nuso el foco adn3>o A lo niiv pene ch'io te fa^o palese.

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ROMANZA, N.« 51 STRAMBOTTI BEL GIUSTINIANI 189

XVII

Quei labri mi consuma fin a tanto

Che non li strenzo un poco al mio diletto : Dò, vengati piet^ de mi alquanto, Cara speranza del mio cor perfetto. Tu sei colei che porti il dolce manto B^ogni mio bene senza alcun sospetto: Tu sei colei per fin che tu sei viva Ch'io amerò se morte non ci priva.

1 roHSwmn : b 2 Ch'io non li stringi: b 8 (f t : b 8 Hamerò : a, lo V amir

XVIII

r t* 6 dipinta in s' una carticella , Come se fusti una santa de Dio; Quando mi levo la mattina bella Ingenochion mi butto con desìo:

t'adoro, e poi dico: Chiara stella,

Quando farai contento lo cor mio? Bìisote poi, e stringo con dolceza: Posala mi parto, e vòmen^a la mesa (l).

1 in su: n, su una: b 2 Comi /.: a, foHi: b, il vero idolo mio: b 4 Avanti a t€ mi fermo : b 5 K 8i...poi d.: a, E si t'onoro e <f.: b 7 Basciottiih, stringott: a 8 Poscia: b; dispario:9k; e la- scio tua bellezza: b.

. XIX

Dezo sempre servire al vostro aspetto Che me destruge V alma e '1 cor ognora ? Non se de' mai porger qualche diletto Al tristo del mio cor, prima che mora? Dezo sempre portar bagnato il petto De lacrime cotante che me accora? Dezo sempre servir chi più s^ indura, 0 maladetta mia disa ventura?

1 Veggio ...il e. ; b 2 Che V anima ed il cor mi strugo : b. 3 porgere : a , «• die horamai pprger d.: a 4 -A /o tristo mio: b, ch'io: b 6 Leggio: b 6 Di:b, cotattiii a 7 Veggio: b. tsrvùre: th seguire: h % Che maiadeita sia la mia sciagura : b.

(l) Nel Coti, perug., n/* CO, dice cosi: Ogni mattino po' che aon levato.

Guardoli speRRO, che mi par pur quella; T' aggio dipinto in una carticella : Poi ti priego te sia ricomandato

Quando ti veggio mi nto inginocrbiatn : El più fidel che donna avesse mai

Adoroml la Kua persona Ixlla Che in questo mondo attormentato Thai.

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190

A. ly ANCONA

[OIOBNAI.E DI FILOLOGIA

XX

Quattro sospii-i ti voria mandare, E mi, meschino, fossi ambasciatore! Lo primo te degia salutare, Lo secondo ti conti el mio dolore. Lo terzo te degia a^ai pregare Che tu confermi questo nostro amore; E lo quarto io te mando inamorato; Non mi lassar morir disconsolato (1).

1 ci: b 2 IO. ..fosse: h é E lo: a. Il: h » conta: b 5 H: b 7 ttO: b 8 lasciar: b.

XXI

Più lieto amante de sto mondo fui, Ora mi trovo el piìi disconsolato: E questo ò stato pe '1 dir mal d'altrui; Che malanno aggia chi m' ha incolpato !

(l) Questo Canto è passato al popolo, che lo legge in questa forma aulica {Poes. pò- poi. ital., p. 382):

Quattro sospiri miei ti vo' mandare. So che sono fedeli ambasciatori : n primo genuflesso in adorare, n secondo a ricordarti i nostri amori; Il terzo a dirti il mio lagrlmare. Il quarto che contempli i miei dolori; Piangendo tutti uniti poi cercar© Vendetta a chi divise i nostri amori.

E nel vernacolo chietino suona cosi (Im- BRiANi, C. prov. merid.y II, p. 30):

Quattr* suspir' mie' ti ho mandaf, Nen sacce si so* fedel* li rabawciatur' ; Lu prim' gonuflcss' per adnrart', Lu Bccond' a ricurdarece lu nostr* amor*, Lu terz'a dirt'ln mie lacrimar', Ln quart' che cuntempl' In mie dnlor'. Piangend' tutt' unif, e poi cercand*

Vindett'a chi ha divis'lu nostr* amor.

*

E a Ribera in Sicilia (Salomone-Marino, Tip 182):

Quattru suaplri ti vnrrìa mannari, E tutti quattru susplri d' amuri: Cu lu primu ti mannu a salutari, L'autru cuntirà lu nostra amuri ;

Ma cu lu terzu ti mannu a vasari, L'autru ti sta davanzi addinucchiuni; A tutti quattru li (arrìa gridari: Giustizia di Dio cu 'sitarti amuri.

Questa è variante di Minèo (Vigo, n.** 1447):

Quattru suspiri ti mannu , patruns . Tutti quattru fidili ammasciaturi : Unu a la scala lu fazzu mintiri, E unu a la finestra o a lu barchnni; Unu a l'oricchia ti veni a parrari, L'atru ti cuntirà li me' raggluni : E tutti quattru li fazzu bramari: Giustizia di DIu cu' cangia amurll

Che nel Lazio dice così ( Marcoaldi, n.** 29):

Quattro saluti ti voglio mandare Come quattro fedeli ambasciatori: Uno verrà nella porta a bussare, L'altro si metterà ginocchioni: L'altro ti toccherà la bianca mano. L'ultimo conterà le sue ragioni.

Altre forme consimili, vedi nei Rispetti pe- rugini, n." 39, pag. 449; e nei canti Toscani (Tigri, n.° 263); cfr. anche Giananbrba, pag. 131; Marcoaldi, C.p. umbri, n.** 69, latini, n.o 40; Visconti, n,° 32; Ive, p. 72. Vedi La Poesia popol. ital., p. 143 e 411.

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HOMAHZA. M.o 5] STEAMBOTTI DEL GIUSTINIANI 191

Ancora spero di veder colui

Stentare al mondo per sto graii peccato:

E spero in Dio di veder vendetta

Di quella lingua falsa e maledetta (1).

1 El più: a, di questo: n 2 trovo più: b 9 V4r il dir: a —4 tinga bene è: h^ nu n'ha: b 6 Dtibiio ancora : b TE temo ancora : b 6 si al dir mal peifetta : b.

XXII

Da poi ch'io vedo fermo il tuo volere £ che al tutto abandonato m' hai , Lassar te voglio per farte a piacere ; Di quk per te non passerò giamai: El piacer ch'io ho avuto il vo' perdere, E più per servo, donna, non m'arai: Fami quanti dispetti che tu sai, Quel ch'agio avuto, tu non mei torrai.

1 Dopo ; b 3 farti p.: b 4 E quinci per tuo amore non passarò : & 6 Im morte cercherò per mio piacere: b, elvoglio: a 6 E se: b 7/ai: b 8 to: a Che quel ch'ho avuto tu: b.

XXIII

Biastemo il giorno che me inamorai, Biastemo il giorno che ti missi amore, Biastemo il giorno che in te mi fidai, Biastemo il giorno che ti dèi il mio core ; Biastemo il bene ch'io te volsi mai, Biastemo l'ahna mia che per te more; Biastemo l'assai beffe che m'hai fato: Ancor biastemo chi cason n'è stato.

Manca in b. 6 beit . a.

XXIV

Non ti ricordi quando mi dicevi Che tu m'amavi perfettamente? Se stavi un giorno che non me vedevi Con li occhi mi cercavi fra la gente.

(1) Nel Cod. perugino (n.*^ 2) suona così: Or malena^a chi mena incolpato.

Àncora sploro di veder cbalny Più lieto amante di questo mondo fUi, Stentare al mondo sol per sto peccato:

Ora mi trovo el più disconuolato : Ancora spiero di veder vendetta

Questo mi viene per lo mal dir d'altrui: Di quella falsa lengua maledetta.

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192

A. D' ANCONA

[giornale di filologia

E risgaardando sta non mi vedevi Dentro de lo tuo cor atavi dolente: E mo mi vedi, e par non mi cognosci, Come tuo servo stato mai non fodci (1).

3 »>M : b 5 riguardando: b, tu: a, chr: h 1 or : h, ( non mi: a. conoati: b.

XXV

Viver al mondo non voglio più mai, più conforto non spero d'avere; Poi che del tutto abandonato m^hai, La morte cercarò per mio piacere.

(1) Il principio del Canto è comune o simile almeno a quello di parecchi Rispetti toscani (Tigri, n.*» 884):

E ti ricordi quando mi dicevi?

0 n.« 889:

Non ti ricordi, turca rinnegata, Quando t'amavo e ti portavo amore?

Ma più stretta simiglianza ha con questo tetrastico, evidentemente monco del principio (ivi, n.*» 887):

E se tu stavi un* ora e 'n mi vedevi Ck)n gli occhi riguardavi fra la gente. Ora mi vedi e non mi dici addio; Come 80 tua non fossi stata io.

Più intera e simile alP ottava del Giustiniani è la versione romana (Nannarelli, p. 48):

Dov'è tutto quel ben che mi volevi, Dov'ò tutto l'amor che mi portavi? Se stavi un'ora che non mi vedevi Coli' occhio fra la geuto mi cercavi. Adesso passo, e non so' più guardata, O mai la diva tua non fossi statai Adesso passo, e non mi riconosci ; Oh mai la diva tua stata non fossi !

Tornano al tetrastico due forme venete : V una (Dalmedico, p. 128):

Ma dove xe quel ben che me volevi, Quele careie ohe d'amor me fèvi? Co' g'era un'ora che no mo vedevi Del vostro caro ben vu dciuandcvi.

E l'altra (Bernoni, punt. l.«, n.° 30), che varia il solo 4.'* v.:

Co i oci in tra la gente mo 9erchevi.

Nel vicentino è un esastico (Alverà, n.^85):

Do' è quel tanto ben che mi volevi. E quele carezzine chi mi favi? Passava un giorno che non ,me vedevi Col oci per le genti mi cercavi: Bassavi 1 oci, e la bocca ridevi, Dentro nel vostro cor mi saludavi.

E nell'Istria (IvE, p. 205) con evidente sal- datura di due tetrastici diversi:

Bagasse bielo, nuobili sembianze. Testimonio saruò li me belisse; Ku* xi uingoùn che me purtasse amante. Bagasso biel che me farà caresse. E duve xi quii ben eh' i me vulivi , Duve li caresseine, Amur, me Mi Un giorno, biela, cu' i* nu' me vedivi, Cu* i noci in fra la zento i' me cerchivi.

La forma toscana intera, e assai prossima a quella del Giustiniani, è la seguente (Ti- gri, n.° 978):

Non t'arrlcordi quando mi dicevi Che tu m' amavi sinceramente ? So stavi un'ora che non mi vedevi Cogli occhi mi corcavi fra la gente. Ora mi vedi e non mi dici addio, Como tua dama non fossi stat'io: Ora mi vedi o non mi riconosci, Como tua dama io Fiata non fossi!

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noMANZA, s- 5] STRAMBOTTI DEL GIUSTINIANI 193

Ancora una sol grazia mi farai, E poi contenta tutto il tuo volere : Dimmel palese, e no'l tener celato SeU tuo amor ad altri Thai donato.

2 più spiro'. tk—Sal UUtóx b— »5 »olaì a— »6 lo: a -*7 non iHd tenirì a— 8 Vantor htot h.

XXVI

Non piangerò giamai quel che t^ho fato, Nè*l dolce e longo ben che t*ho voluto; Ma ben me dolo chMo te sono stato Fidel amante, e non m^hai cognosciuto. K per lo grande amor che Vho portato Merito alcun non aggio ricevuto) Ma sempre arai piacer di poter dire: Ho fatto sto meschin per me languire.

1 quello ch'ò fatto: b 2 lungo", b 3 fon: a, mi duole perch'io ti aott: b 4 Fedeli b 5 l'n- l'amor grande ch'io ti hot b 6 alcuno non hot b 8 /aio questo*, a.

XXVII

Per fin che vita avrò non sarò stanco Do biastemar i giorni trapassati; Oimè, che Palma trista vien al manco Pur in pensando i bei piaceri andati! Misero me, che per conforto abranco I fazoletti che tu m^ hai donati , E poi piangendo dico: lasso a mene, Questo m'avanza de tutto il inio bene! (1)

1 charo vita non sero mai*, a 2 Di biasimar*, b 8 mia m 9ienei b i impensando: a, Solo pen- smuLo ai bei piacer pataaiii b ^ 6 e branco: a, chi conforto io branco: b -* 7 lasio mem: b 8 Qmtt't l'ftmmo: b,

(1) Segue neir antica stampa questo terzetto:

Chi se dilecta de aeqiiitar amore Per un Marchetto dhavor questo no stia Che son a preposi to a ciascnn amatore.

13*

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101 (}. SALVADOlil [tlIOKNALK DI FILOLOGIA

STORIE POPOLARI TOSCANE

AVVERTENZA

Ho chiamato qneste canzoni Storie, perché così le chiama il popolo che le cauta; e le ho intitolate toscane , perché in Toscana le ho sentite e raccolte. Del resto quattro di esse (la IV, la V, la VI e la VII) sono oramai conosciute da tutti per non toscane di origine; le altre quattro invece, che credo nuove, danno nell' andamento e nella forma indizii di molto probabile toscanità. Con ciò non aflfermo nulla; espongo semplicemente un parere che non è soltanto mio. La sola esistenza di questi indizii è cosa degna di attenzione, mentre fino a ora tutti o quasi tutti i dotti italiani, che si sono occupati di studj popolari, han dato per certo che i nostri canti narrativi non riconoscono patria diversa dall'Italia traspadana; perché i canti trovati di qua dal Po mostrano tanto ben distinti nella sostanza e nella forma i segni della nascita, che non si può stare in dubbio nel battezzarli. Ed è vero: ma la conclu- sione è forse troppo recisa; già che, se la scarsezza dei canti narrativi e l'abbondanza dei lirici nell'Italia che il Nigra chiama inferiore (cfr. Boiìiania, voi. V, p. 423), lusingava gli studiosi a raccogliere piuttosto questi che quelli, tanto che per parecchi anni ci fu un vero diluvio uni- versale di strambotti e stornelli; non mi par giusto dir questi i soli fi'utti del paese. più mi par giusto lo star troppo attaccati alla sen- tenza ripetuta anche dal Nigra in quel suo scritto pregevolissimo su La poesia popolare italiana (cfr. 1. e. p. 448), che la narrazione poetica è contraria all'indole dei popoli italici: poi che è vero che noi non ab- biamo né i Nibelmigen^ la Chanson de Roland^ il Romancero dd Cid; ma questo" non vuol dire che presso di noi non si possa proprio trovare qualche ombra di leggenda poetica, qualche briciolo di epopea. Si tirano in ballo i latini; ma presso i latini di leggende ce n'erano e non poche, se non vogliamo che Tito Livio e Virgilio se le siano fab- bricate da sé; e c'erano ^che, probabilmente, dei canti popolari che le conservavano; anzi le tracce di questi canti sonosi volute trovare da certi critici tedeschi nelle istorie stesse liviane.

Ed è impossibile che non sia così. L'istinto epico si trova sempre, come il lirico ed il drammatico, presso tutti i popoli di questo mondo. L'epico si sveglia primo, quando lo spirito troppo occupato dalle cose

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BOMÀNaA, K.« 51 STOBIE POPOLARI TOSCANE 195

e dai fatti esteriori, ehe la fantasia gli riveste di luce, non è ancora capace di rivolgersi sopra stesso, ed è qnello che lascia traccie più profonde; il lirico poi, che dipende dalla prevalenza del sentimento per- sonale sa r impressione degli oggetti esterni; ultimo il drammatico, che non può essere. senza la conoscenza del cuore umano. Ora può darsi che, per l'indole particolare d'un popolo e per T effetto delle circostanze fra le quali ei s'è trovato, l'uno o l'altro di questi istinti sia più de- bole e rimanga in parte soffocato; ma che taccia del tutto, no. Nel nostro popolo il lirico ha maggior forza, e nessuno lo nega; nei celtici e più nei germanici, come osserva benissimo il Comparetti (cfr. liassegna settimanale^ voi. II, p. 45), prevalgono invece i due altri: ma, come sarebbe contrario al vero dire che tedeschi e francesi non hanno l'espres- sione lirica dei loro sentimenti, così mi pare un poco esagerato affer- mare che le genti italiche non abbiano affatto rivestimenti poetici delle nostre e delle leggende straniere.

Io non dico queste cose perché si conceda un passaporto alle quattro storie* che, fra le qui raccolte, credo, almeno quanto alla forma, toscane di origine, che in verità sarebbe troppo misera cosa; ma per combattere un principio che mi pare e mi è parso sempre troppo dogmatico. Del resto, ad una conclusione sicura riguardante i nostri canti narrativi credo non si possa ancora arrivare; e questo perché (come dice il sig. John Addington Symonds, dotto inglese amantissimo di cose italiane) abbondantemente ricche di canti erotici, rispetti, strambotti, stor- nelli ecc., le raccolte recentemente fatte con somma e lodabilissima industria in tutte le province del Regno, sono finora scarsissime di cauti narrativi » (cfr. Rassegna settimanale, voi. Ili, p. 195). E il D'Ancona stesso, in que' suoi Studj tanto importanti, ne tocca a mala pena e di volo.

La ragione che mi ha indotto a creder toscane di origine le quat- tro storie suindicate, sta nei loro caratteri esterni concordanti precisa- mente con quelli per i quali, secondò lo stesso Nigra, si riconoscono facilmente i canti che non provengono dall'Italia superiore. E questi caratteri sono: la presenta dell'endecasillabo, che loro un andamento epico ben diverso da quello semilirico delle canzoni norditaliche ; la de- sinenza regolarmente piatta e parossitona, che però si potrebbe osservare non tanto necessaria, forse, ai canti del centro e del mezzogiorno d'Italia quanto la vogliono il D'Ancona ed il Nigra; e finalmente V assenza di di versi sciolti.

Debbo inoltre avvertire che, per gli schemi delle varie specie di versi, ho adoperato i segni appartenenti alla metrica antica; indicando col seguo di brevità (u) le sillabe non accentate, e le accentate col segno di lunghezza (i): costume introdotto recentemente dal Forna- ciari con la Gnmmiatìca deiruso moderno. Osservando questi schemi,

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10<3 G, S AL V ADORI [giornalk di filologia

sarà facile T avvertire: prima, che T endecasillabo, il settenario e il qui- uario, sono sempre composti di serie giambiche pure; poi, che molto spesso, cioè qnaudo T accento grammaticale non combina col ritmico, il popolo, nel canto e nella recita, sforza il primo ad obbedire al se- condo; osservazioni non del tatto inutili per gli stndj metrici, che solo da poco tempo si cominciano a coltivare un po' seriamente in Italia.

Debbo finalmente ringraziare il eh."" prof. Monaci, che mi giovò di consiglio e d' aiuto e mi oflfrì V ospitalità nel Giornale di filologia romanza,

Roma, 23 Novembre 1870.

Grtlio Salvadori.

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ROMANZA, X." f.| STORIE POPOLARI TOSUANK 107

I

LUGGlERI(l)

[Nella seconda parte di questa storia, che incomincia Quando al castello, e finisce con la storia stessa, c*è, se non erro, qualche somiglianza con la seconda parte della bal- lata danese Erlkònigs Tochter, tradotta dal prof. Carducci e da lui pubblicata sotto il titolo di Sir Oluf nel n.*^ 1 della Rassegna settimanale. Eccone gli ultimi versi, che fanno appunto per noi:

T. 25.... £ quando alla porta di casa egli venne. Ed ecco (il mattino tremava ancor fosco)

Sua madre al veniente gnardò con terror: La sposa e l'allegro corteggio ne vien.

Ascolta, mio figlio: su, che t'avvenne ? Perché cosi smorto? che è quel pallor?

37 Recavano cibi, recavano vino.

Ov'è il mio sir Olof, lo sposo dov'è? 29 Come esser non debbo pallido e smorto? Usciva a sollazzo pel bosco vicino

Nel regno degli elfi mi avvenne d'entrar. Ck>n cane e cavallo: verrà presto a te.

Ascolta, mio figlio, mio dolce conforto ; Ed ora alla sposa che debbo contar?

33 Le di che a sollazzo cammino pel bosco Con cane e cavallo, provandolo al fren.

41 La sposa nna rossa cortina solleva: E morto dietro air Oluf giaceva.

l'n fatto simile, di uno sposo cioè ucciso dai fratelli della sposa, è anche raccontato nel Sigtirdharkvidha àeWEdda; dove lo sposo è SgurJh, e la sposa Gudruna sorella di Ounnar (Cfr. nella trad. del Pizzi, Antol. epica, Loescher, 1877, p. 233). Del resto questa canzone, di cui lìnora, per quel ch*io so, non sono state pubblicate varanti, mi pare no- levolivSsima, princpalmente per la sua forma schiettamente toscana e pel metro che rara- niont'» si riscontra nella po\sia lìopo'are (e anche non popolare) italiana, si antica eh? moderna (Cfr. Carducci, int. ad alcune Rime dei secoli XIII e XIV ecc., Oa- Ifali, 187G, p. 100).]

.Kj l\u Skj .

Era seren che si rannuvolava :

C'era Lugf^icri che moglie menava.

E quando funno là. pella via piana,

E' prese la su' sposa pella mana.

I su* fratelli stimano V onore ;

Gli denno un colpo senza fa parole.

I su' fratelli T onore stimonno,

Gli denno un colpo e quasi T animazzonuo.

Quando Luggieri se sentì ferito,

Diede una si^eronata al su' cavallo:

Parenti mia, venitene bel bello,

Che me voglio condii verso '1 castello.

Quando al castello se ne fu arrivato,

CI) Già pubblicala da me nella Rasseyììa settimanale, voi. III. p 485.

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108 G. SALV ADORI [giobsalk di kiu*logia

14 Le porte del palazzo eran serrate:

0 madre mia, aprite queste porte ; ir. Vedarete Lu^gier condotto a morte:

0 madre mia, apritemi quest'uscio; Vedarete Luggier mezzo distrutto. I 0 figlio mio, e' hai fatto al tu' cavallo,

20 Che del tu' sangue gronda propio tutto?

-— 0 madre mia, pensate a fk costie, Che 'l mi' cavallo deve fk cosfe.

0 madre mia, pensate a cucinare; 24 Quando arriva la sposa, abbia a mangiare.

Quando la sposa a casa fu arrivata, «6 Del su'Luggieri n'ebbe a domandare.

0 nora mia, pensate su a mangiare, 2M Che Luggieri è nel letto a riposare.

Quando la sposa ebbe mezzo pranzato, :<u Del su' Luggieri n' ebbe a domandare.

0 nora mia, pensate su a cibarvi,

Che Luggieri è nel letto, e verrà tardi. ~

Quando la sposa ebbe beli' e pranzato, 34 Del su' Luggieri n'ebbe a domandare.

0 nora mia, caviti testi panni,

30 Che Luggieri è nel Ietto in grand' affanni :

0 noi-a mia, caviti testi vezzi, 38 Che Luggieri è nel letto in gran tormenti:

0 nora mia, caviti testi anelli, 04 Che Luggier l' hanno ammazzo i tu' fratelli.

Sorella mia, piglia cotesti panni, 4s Che a casa noi te se rivuol menare

E un conte o un cavai ier te se vuol dai-e. 44 Un conte o un cavaliere non io; Voglio Luggieri che l'è da par mio.

(Da Donata Ma<»ini di Ciggiano, prov. d'Arczzc».)

II

LA BARBERA BELLA

[Nel Legenda RIO | delle Santissime | Vergini | Le quali volsero morire per il nostro Si \ gnor Oiesv Christo, et per mantenere la sua santa \ de, et virgini- tà I In Venetia appresso Domenico et Gio. Battista Guerra, fratelli, MDLXXVIII; la leggenda di S. Barbara (p. 172) è presso a poco raccontata come nella nostra sloria quella di Barbera bella; anzi in certi punti la corrispondenza delle parole è veramenie notevole: che facilmente si vede che la Barbara della leggenda cristiana e la Barbera della nostra storia non son che una sola. É vero che la prima ci appare martirizzata dal

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HOMAKZA, N.« 51 STORIE POPOLAHI TOSCANE 199

padre p?r essersi l'atta cristiana, e la seconda per essersi o])posta alle tarpi proposte di lui; e che il racconto del martirio della prima non procede in tutto e per tutto come il racconto del martirio della seconda: ma chi sa quanto sian facili ad alterarsi ì racconti affidati alla fantasia e alla memoria del popolo, non ne farà le meraviglie.]

[ ^ 1 \^ 1 \j lyf 1\j1\j1kj1\^Jì\j 1

Sta sa, Barbera bella costumata,

t Che io te con me per maritata.

Sta sn, padre diletto;

4 Lo sposo mio gli è Gesù benedetto.

Quando 1 sa* padre gli sentì qaesto. Alle prigioni la fece menare; 7 Tre giorni senza bé, senza mangiare.

Sta sn. Barbera bella, costumata...

Sta su , padre diletto . . .

Quando '1 su' padre gli senti questo , Alle segrete la fece menare; 10 Tre giorni senza bé, senza mangifiure.

Sta su, Barbera bella, costumata... - -

Sta su, padre diletto...

Quando 'l su' padre gli sentì questo. Alle colonne la fece legare; 13 Tre giorni senza bé, senza mangiare.

Sta su. Barbera bella, costumata...—

Sta sn, padre diletto...

Quando *1 su' padre gli sentì questo, Per terra ignuda la fece trainare; 10 Tre giorni senza bé, senza mangiare.

Allor la Santa si voltò 'n ve' '1 cielo :

Angioli santi, fate coprì questa vergogna. 19 Allora vennon giù T angioli santi,

Ed in palma de mano la piglionno E 'n paradiso con la portonno. tt Angioli santi, su su su 'n ve* *1 bello ;

Io vado'n paradiso, e te air inferno: Io 'n paradiso con canti e con suoni ; 2s E te all'inferno con sospiri e duoli:

Io 'n paradiso con suoni e con canti ; E te all'inferno con sospiri e pianti.

(Dalla med.«)

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2(.H)

G. SALVADOBl

[OIORNALR DI FILOL(H>lA

III

[Questa storia mi fu cantata tutta storpia e malcoDcia; molti versi non tomanOf c'è qualche lacuna fra mezzo, e manca la fine. Ad ogni modo, cosi com'è la pubblico, perchè mi pire, nel suo genere, molto importante. Del resto, di mostri divoratori e di giovinetti figliuoli di re destinati ad esser divorati da loro, son piene le mitologie auliche e moderne.]

Un mago *ii una macchia scura scura 8 Ogni giorno voleva una persona.

Chi toccherà, e quell'anima cura: 4 Toccò al re; n'aveva altro ohe una.

Per in già che mangia me la volete, 6 Sett'otto giorni me la lascerete:

Per in già che mangia me la volete mangiare, R Sett'otto giorni lasciatemela stare.

Quando funno compiti i giorni,

Il mago gli mandò d' un' imbasciata

Che la su' figlia gli avesse mandata.

Quando fu pe' 'na viottolina scura,

Non ce batteva éole luna;

La se riscontrò 'n un vecchiarello ;

Gli disse: Dov'andate, o ragazzina,

Che ve sete saputa accomodare,

Che pare che a marito abbiate a andare V

Rispose: Dal mago a fammi mangiare. (1) E il vecchiarello le disse: Quando sarai

Sciogliti i nastri del grembiul, che vinchi, so Lo meni a mano com'un agnellino. -—

( Dalla mcd.* )

(1) Qui è interrotta la serie de' Tersi,

IV IL MARINARO

[Cfr. WoLF, il marinaro e la sua bella, pag. 74; Ferraro, Rit\ di fiioL ra^.^ voi. 11, pag. 198, t tre marinari; e Riv. di lett. pop., fase. 1.1

Bel marinaro, che vai peli' acqua, Che vai peli' acqua col ciel seren, 3 Per riscontrano l'amato ben.

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RoiiAxzA, N.O 5J STORIK POPOLAMI TOSCANE

£ quando furono a mezza strada^ Se riscontrarono tutti e tre: 0 Dov*anderemo stasera a ce?

Co n'anderemo dalla bell'oste, Dalla beiroste che al cor ci die; 0 La più bellina de lei non c^è.

Mentre la bella gli apparecchiava, Il marinaro la rimirò; it E la su' mamma gli domandò:

-*- 0 che rimiri, bel marinaro? ~ lo la rimiro la tu' figliò ; 16 Che per amore sposare la vò.

E quando Tebbe belPe sposata, 11 marinaro se la 'mbarcò ; 13 Nell'alto mare se la menò.

Ma quando funno nell'alto mare,

La su' barchetta nel fondo andò :

itt Mai più la bella non rivedrò!

Se io campassi quattrocent' anni , Il marinaro non lo fo più, il Ch'ò la rovina 'Ila gioventù.

(Dalla med")

V. 6: Cniti. 14: FiylinUt,

201

V

LA BELLA INGLBSE

f Cfr. Marcoaldi, La tendicatrice , pag. 1(56; Nigra, Afonferrina, nella Itti\ contemp.t Voi. XXlll, pag. 73-74; Righi, paj?. 30; Ferraro, La Movferrina incontaminata e La Liberatrice f pagp. 3 p 4 ; Wolf, La figlia del Conte, aeb, pag. 47-40; Caselli, pag. 191 ; Bellermann, a Romeira, pag. lf)8; Puymaiore, Renaud et ses qtiatorse fentmes, pag. 98; Beppino, li, n.°63, pag. 167; Villemarqué, Les trois moines rouges , I, pag. 305; Am- père, pag. 40.]

Dimmelo, bella Inglese, Se te vuoi marita.

sì, 0 padre mio, Chi me volete dà?

- Un cavai ier di Francia Te vuol per su' moglie.

" sì, 0 padre mio, Mandatelo a chiama.

Quando gli fu arrivato,

Dal prete la menò; Quando l'ebbe sposata.

In Francia se n'andò. fece trenta miglia;

L'Inglese mai parlò: fece l'altre trenta,

E pianse e sospirò. 14

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2iyi

O, S AL V ADORI

[giornale di filologia

Dimmelo, bella Incr|epe: Cos'hai da sosinra?

Sospiro padre e madre, Che rho lasciati andà.

Se tu sospiri questo, L'avrai 'na gran ragió.

Kimira quel palazzo: E lei lo rimirò:

C'b trentasei ragazze 'Nvaghite dalPamó;

Una de quelle sei

Me P ha ferito '1 co.

Dimmi, marito mio,

M' impresti un po' la spa V -

Dimmelo, bella Inglese, Che cosa ne vuoi la?

speronìi '1 cavallo, Che presto arriva.

Quando glie Tebbe data Nel cor se la sentì.

Scendi, marito mio, Quaggiù 'ji questi fosso:

Celi rospi e li serpi ;

Saranno i tu' padró : Il più bello del mondo

Sara '1 padron de me. Rivolta la pariglia,

Addietro rivoltò; Quando fu a mezza strada,

'L fratello riscontrò.

Dimmelo, bella Inglese, Tu sei rimasta so?

L'assassini di strada

M' hanno ammazzo '1 mari.

Dimmelo, bella Inglese; L' avrai ammazzo da te. -

Non ho tanto coraggio Da ammazzano da me.

Manda a chiamaìlo '1 prete Che me confessa:

Ce l'ho un peccato grave, Lo voglio soddisfìi:

L'ha perdonato a tanti; Perdonerà anco a me. --

(Dalla med.*)

V. 0: Mo>/l,fr(t. -IH: Core. 30: Spndt. »8: Fo.ssoui, 48: Sola.

VI

LA CECILIA

[Gfr. BoLZA, Cecilia, png. 671; Wolf, La povera Cecilia ^ pag. 64; Ferraro, Ce- cilia, pug. 28; e Rìv. di filoL rom., voi. 11, png. 206; Gianandrea, pag. 264; Briz, La (lama de Tolosa, pag. 120; Mila y Fontanals, La dama de ReuSy pag. 143; D'An- cona, Studi su la poes. pop. it.^ putrj;. 110-123. Questa storia che, dopo quella di Donna iMinbarda, è la più diffusa di tutte in Italia, è riportata dai D'Ancona verso la metà del 8 colo XVI; e i primi dodici versi di questa lezione, che mancano nelle altre, con l'ac- f, -nno che vi si fa alla causa dei fatto racconUito, avvalorano la sua opinione. Qaesto fatto è, come appare chiarameate da tutte le lezioni, una violenza soldatesca; e, come appare chiaramente da questa lezione, una violenza fatta a popolani osservanti delle pra- tiche cattoliche da dispregiatori di queste pratiche: non è difficile dunque che avvenisse al tempo delle contese religiose p t la Riforma e delle frequenti calate in Italia degli eser- c ti cesarei, guidati qualche volta e composti in parte da riformati.]

Bona sera, sor oste. Bona sera anche a :

Siamo tre capitani ; Volcm carne e picelo.

Rispose la Cecilia:

Questo non se può fìi. Che l'è un sabato sera

Giorno de devozió.

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BOMAKZA, N.*' 5]

STORIE POPOLABI TOSCANE

203

L'oste n'andette in corte

A le su' ragìó ; E fu preso e legato

E fu inesso 'n prigió. Eccola la Cecilia

Che piange '1 su' mari :

Me r han preso e legato ; Me '1 voglion fa morì.

Senta, signor tenente, La grazia lei m' ha a fa.

La grazia te sia fatta; Vieni a dormì con me.

Cecilia andette a casa; Si mise il grembio bianco E le scarpette fi':

Caro signor tenente. Venuta sono qui.

Quando fu mezzanotte

Cecilia se svegliò; Disse : L' ho fatto un sogno ;

L' è morto '1 mi' mari.

Sta giù, sta giù, Cecilia, E non te fk sentì:

Siamo tre capitani;

Padrona sei de qui. Quando fu fatto giorno.

Cecilia se svegliò; La se mette 'n camicia;

S'affaccia nel balco: Lo vidde '1 su' marito

'Mpiccato a ciondolò.

Senta, signor tenente, Lei m'ha preso a tradì:

M'ha levato l'onore;

La vita al mi' mari. Addio, bandiere rosse;

Addio, bella città: Le calceri de moda

Io più non rivedrò.

( Dalla mcd.» )

V. 4: Piccioni. 23; Fitte. 44-47: che cosa siano queste hnndiere roane e queste careni di moda io nou ho potuto capire. Ne lascio quindi la spiegazione a chi ne sa più di me.

VII

LA DONNA LOMBARDA

[Cfr. Marcoaldi, D. L., pig. 177; Nigra, D. L. , nella Riv. contemp.^ voi. XII, pag. 17 e s-gg.; Wolp, D. L., pag. 4C; Righi, D. L. , pag. 37; Caselli, D. L., pag. 210; Ferraro, D. L., n^i C. |J. jji., pag. 1; e Rit\ di FUol. rom., voi. II, pag. 196; Saba- tini, Riv. di leti. pop. y fasci; D'Ancona, Studi ecc. , pag 117-119; E. Dorer-Egloff, Zur Literatur des Volksliedes. Qu -sta lezione poi è evidentemente incom pitta: manca il racconto della morte di Rosmonda che ne dovrebb' esser la parte più importante. E no- tevole p»rò la regolarità del metro il quale, in questa più che nelle altre lezoni, si avvi- cina alia strofa tristica quinaria degli antichi celti, che fu probabilmente Poriginale (cfr, NiGRA, 1. cit.). La irregolarità, della strofa quinta dipende, credo, dall'aggiunta fattale deirultimo verso della strofa seguente che aveva perduto i due primi.]

-- Donna Lombarda, Vogliami bene, Vogliami bè.

Com'ho da faro A volerti bene, Clio ci ho mari? -

' !<.]

Se ci hai marito, Fallo morire: T' insegnerò.

Vanno iu nell'orto Del sii^nor padio. ('ho c'ò un sorpò;

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*20l G. SALVADOlil [giornale di filologia

Piglia la testa Che ha questo vino

De quel serpente, ss Che turbo Tè?

Pestala bè; _ Saranno i tuoni

16 Dagliela a bé. ^ Dell'altra sera,

Torna '1 marito i8 Che turbo V è.

Da lavorare p^rl5 „n bambino

19 C'ha una gran sé: j^g ^o^e n,eai

Donna Lombarda, si De nove me:

Dammi da bere, _ q padre mio,

" Dammi da bé. Non lo bevete

Donna Lombarda, 3+ Che c'fe'l vele.

( Dalla med." )

V. 4,5: L'a che coroincift il iJ. ' versti gi fondo oou IV ohe tcrmiua 11 4.o 19: Sdt. 27: Var.: luì- rullo ritto. 31: Mfni,

Vili LA SANTA LUCIA

[Cfp. per questa storia il Legendario citato inn-inzi, a p. 198, dove si racconta all'in- cii'ca come nel nostro canto la leggenda di s. Lucia. J

Santa Lucìa vergine e polzella 2 De quindici anni se richiuse in cella.

Ce se richiuse perch'elPera bella. 4 Passò '1 re de Malvagio pella via;

Gli disse : Cosa fai , Rosa Lucia ? 0 Disse : Se vuoi veni con mene a stare,

Oro e argento te farò portare, H Padrona del mio regno te fare.

Disse : con voi cor uomo nato , 1 0 ' Quando m' èssi a ridurre a fk 1 peccato.

'L re de Malvagio se n*andette a casa, li Nel letto se buttò per ammalato.

Ecco Lucia dal coraggio fino u Se cavò Tocchi e glie ne mandò 'n piattino:

Dite che se ne sazii veramente, 10 Che da Lucia non aspetti più niente.

E '1 re : Gli manderò 'n par de giovenchi is Che *un sian domati e da domare.

E allora Lucia la farò portare. lio Quando i giovenchi enno tocco Lucia,

Loro person la forza e la possia: Qimndo i giovenchi enno tocco la Santa,

Loro persou la forza e la possanza.

(Dulia iiictl." )

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ROMANZA, N." 51 A. THOMAS 205

DE LA CONFUSION ENTRE 72 ET ^ J^

EN PROVENgAL ET EN FRAN9AIS DOCUMENTS NOUVEAUX

7. Provenqal.

Le fait linguistique sur leqnel nous noua proposons de fournir quel- ques documeuts nouveaux a été sigualé et étudié pour la première fois en proven9al par M. P. Meyer, en 1875. Dans un premier article ( Jio- niama, IV, 184-194), réminent romaniste, après avoir expliqué et dé- crit au poiut de vue phonétique le fait en question, en a signalé la fréquence relative dans trois textes: une partie du Petit Thalamus de Montpellier, le libre de Mcinonas de Mascaro et VEvangile de VEnfance ; il en a aussi relevé des exemples dans la nomenclature géographique, et il est arrivé à cette conclusion « qne la confusion dV et de 5 -g? s'est surtout manifestée au XIV* siècle dans la partie du Languedoc qui cor- respond aux départements du Gard et de THérault, et qu'il n'est pas probable qu'elle ait été frequente 'ailleurs ni en aucun autre temps ». Dans un supplément à cet article {ibid. p. 4G4), Tauteur a cité des exemples nouveaux, et par la publication d'une lettre de M. Alard, ar- chiviste des Pyrénées-orientales, il a montré que le méme fait s'était éga- leraent produit avec assez d'intensité en Roussillon au XIV' siècle. Enfin dans un dernier article il en a précise encore {ibid. V, 488-490) les li- mites géographiques et chronologiques: « tout considéré, dit-il, on peut, ce me semble, tenir pour certain que le changement à's £ en r et in- versement dV en s ;? ne s'est point étendu, sauf en des cas isolés, au delà du Rhòne et qu'il a en general cesse vers le commencement du XV" siècle > (1). D'autres exemples relevés par M. Chabaueau (Bcvue des langués romanes, 1"" sèrie, t. Vili, p. 238, et 2" sèrie, I, p. 148-151) u'ont guère fait que confirmer les réaultats obtenus par M. P. Meyer sans apporter aucun élément nouveau à la question. Il n'en est pas de méme de ceux qne nous avons publiés une première fois (Rmnania, VI, 261- 2GG): ils ont montré que vers le milieu du XV* siècle la confusion de r et de .s" ìs avait été très frequente dans les provinces du nord de la

(1) CVst évidt'mmeiU jtar suite fl'uu" fante d'imprcssion qu on lit XIV*" dans la Romania.

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206 A. THOMAS [giornale di filologia

laDgue d'oc, dans la Marche, le Limonsin et surtont la Basse- Au verone. Ceux qae uous avons réunis depuis et que nous publioDs ci-dessons ap- partieuneut égalemeut au milieu du XV" siècle, contiuuaat ainsi à faire fléchir la limite chronologiqae primitivemeut établie par M. P. Meyer; ils dépassent également la limite topographique assiguée JQsqu'ici à la coii- fusion de r et de 5 0, limite que nous avions déjà notablement élargie dans notre premier article. Ces exemples en efifet se diviseut naturel- lement en deux séries : la première relative au département de TAude et spécialement à Tancien diocèse de Narbonne, montrera qu'au milieu du XV" siècle le confusion entre s js et r o, été aussi frequente dans cette partie du Languedoc que dans la Basse-Auvergne ; la seconde, formée d'éléments empruntés à dififérentes régions du domaine provenyal, prouvera que cette confusion, à 1 etat accidentel, s'est raanifestée presque partout à la méme epoque.

1.° Département de VAudc.

A. Diocèse de Narbonne. Nos exemples soni empruntés à einq ròles d'assiettes d'impóts conservés à la Bibliothèque nationale de Paris 80US les n."* Fr. 23901 et 26071 n.^ 4894, ròles dont deux datent de 1434 et trois de 1443, 1445 et 1495. Le róle de 1443 (26071 u.^ 4894) est le Seul dont le préambùle soit redige en proven9al (les autres sont en franjais). Voici ce préambùle qui, dans un texte très-court, nous oflFre déjà deux exemples du passage de 5 «e^ à r:

< S'ensiec la asaieta de X"* 1. 1. donadas a Mossonhor d'Orliex (1) lo darla cof^elh tengut a Monpelia, en lo mas d'octobre Pan M HIP XXXXIII, don toqua la vielha e dieussera de Narbona la soma de VP XVIII 1. XIIII s. Villi [d.], laqual se tU- veris coma s'ensiec : »

Les exemples que nous avons relevés dans ces cinq textes (exemples qui naturellement portent sur les noms de lieux) sont les suivants: (2)

Auriac{^\ 1434 A, B; 1445; 1495. Ausiac, 1413.

^i>aw-las-Granolheyra8 (4), 1434 B; Bi- U/ran-laa-Granolheyras, 1434 A.

^an-las-Granoleyras, 1443 ; Bùan-Grano-

Iheyras, 14 15; I^isan-Granolheres, 1495.

(1) Il 8*iigìt du poète Charles d'Orléans, ignoroiis la forme primitiv,».

et la somme en question lui fut donnée par (3) Canton de Momhoumet. La forme pri-

oi"dre du roi pour Ini aid»r à payer sa ran- mitive est rn r: castellum de Auriago 102S

<:on aux Anglais. {llist, de I^njnedoc, II, 181).

(2) Gomme on le verrà, dans ce tableau (4) hìzQn(en*3\ì Binìano, /list, de Latiff. nous mettons à gauche la forme moderne II,54)*8t anj. Bize, C.^" de (nnestas; nm* et nous ne fornions pas deux séries distin- nous ne voyons plus de traces de la di'stinc- cteSjPune pour sz=-r et i'autre pourr=3 tìon de Bhan-las-Atheiias et i\e Bizan-/fl*- « ^; cette distinction ne nous parait pas très- Granolhciras, à moìns quo Tune des dfux utile, et d'ailleurs elle ne pourrait pas étre localités ne soit Bizanet, C.^» de Naritonne. faite avec sùreié pour Us mols dont nous

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BOHANKA, N.'* 5]

DE LA CONF. ENTEE R ET S Z

207

Bizan'klhejrM, 1445; Bwan-Aillieres,

1495. Montpezat (1), 1445; Montpesat, 1495. Montseren (2), 1434 A, B; 1445; Moni-

seré^ 1495. Pazan(3), 1443; Paza, 1495. Pa^ii/^ (4), 1495.

Fosol8(b)y 1495.

r6zan(6), 1445; Tesaw, 1495.

Biran-ìes- Aìhey Toa, 1484 A; las-Alhey-

ras, 1434 B; laa-Aleyras, 1443. Monperat, 1434 A, 1443 ; Montperat, 1434 B. Monsezen, 1413.

Para, 1434 A, B; Paran, 1445. ParwZ.?, 1434 A, B; Poruls, 1443; PoruoU,

1445. Porofe, 1434 A, B; 1443; 1445. Teran, 1434 A, B; 1443.

B. Bìoche de Carcassonne. Nous avons des assiettes d'impóts de 1434, 1435, 1438, 1453 et 1455 dans le N. Fr. 23900. Uu seul nom nous fournit des exemples, c'est Sainfe-Eulalie^ C."" d*Alzonne. Cette loca- lité est appelée en 1434 Sainte-Eidalie comme aujonrd*hui; mais eu 1435 et 1438, nous trouvous S*' Atdane, en 1453 et 1455 Sanf-Atdasia, Ces formes eu 5 supposent Texistence à la méme epoque d'une forme Sanf'Aidaria derirée de Sanf-Aidalia qui se retrouve d'ailleurs aujourd'hui dans Sainte-Aulaire (Corrèze), que Ton écrit à tort Saint- Aulaire.

2.° Dcpartements divers. A. Gard. Pour les diocèses de Nìmes et d'Arles, nous avons des roles d'assiettes d'impòts à la Bibliothèque Nationale, Fr. 26071 (N. 4823) et 23901, et nous y relevons les cas suivants:

Ardes8an(l), 1439. Arder an\ 1438; 1143.

Gratusieres (8). Graturieres, 1443.

VergesesiS), 1439. Vergeres, 1438; Vergieres, 1443, 1491.

Vizenóbre[\0), 1438, 1439; Vìsenobre, 1491. Vircnobre, 1443.

(1) C.n« de Roquefort-d^s-Corbières, C.o" de Sigean. La forme latine n'est pas dou- leuse: cVst Montepelìì^sato.

(2) Montsep«^t, C.o" de Lézignan; costei- liim de Montesercno 1134 (Jlist. de Lang. 11,473).

(3) Pasa, C.ne de Soulatge; Petiamtm, 889 {Hist. de Lang. II, 24).

(4) Paziois, C.<»n de Tuchan. Nous igno- rons la forme primitive.

(5) Pouzols, C.<>" de Oinestas. La forme latine primitive est évidemment Pnteolis,

(6) Thézan, C.»" de Durban. Il y a aussi un Thézan dans VUéranhj castra m de Te- ciano 1105 {Ilist. de Lang. II, 368).

(7) La forme primitive est Arderancum (918); le plus ancien exemple de la forme avec * z est de 1384 ; aucun des exemples

réuuis par M. Germe r-Durand {DictAop.du dt'p. du Gard) et reproduits pas M. P. Meyer n'appartient au XV® siècle. Il y a pourtant dans Vlntrod. du Dict. top. p. XIX, uu exem- ple d'Ardesan en 1435 que l'auteur a oublié de reproduire à l'article alphabétique d'.4r- dessan.

(8) Cette localité était dans la vìguerie du Vigan. Dans la préface du Dict. top. p. XXI , on trouve locus de Gratuseriis , 1384, Gra- tusieres, 1435, 1530; mais on chercherait en vains dans le corps du dictionnaire Gratu- sieres ou Graturieres.

(9) La forme primitive est Ver seda 1125; M. M. Durand et Meyer ne citent qu'un exem- ple, de 1435, de la forme avec r.

(10) Auj. Vezenobre; form? primitive: Ve- denobrium (voy. le Dict. top.).

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208 A. THOMAS [qiornalk di filologia

Les assiettes des diocèses d'Uzés et d'Avignon, contenues dans le méme N. 23901, nous fouruissent deux exeraples:

Salazac (1), 1438, Salezac et Salesac, 1445, Salerac, 1403.

1464, 1488. Valeguiere(2), 1438, 1445, 1464, 1488. Valayguese, 1404.

B. Haute-Garomie. Assiettes du diocèse de Toalouse dans le méme volume:

Boqueseriere (3), 1438, 1449. Ko^ueserieze, 1439.

C. Lot. Une commune de ce département, dans le cauton de Ca- stelnau-de-Montratier, porte le nom de Sainte-Alauzie. La méme forme se trouve au XVIP siècle, et est traduite en latin par Sancta-Alausia (4). Mais il n'existe pas de sainte de ce nom. En 1526, cette localité est appelée Sainie-Aìdaye (5), et cette forme montre que nous avons réelle- ment affaire à Sancta-Eulalia (6). Alauzie est une corruption de Aulcusie, dont nous avons expliqué ci-dessus la formation^

D. Tarn-ct-Garonne. Dans ce département, commune de Lapenche, se trouve également une localité appelée Sainte-Aulazie (7): e' est dono le méme cas que ci-dessus.

E. Haute -Viemie. Dans une pièce écrite à Limoges en 1430, on lit deux fois evesque de Maillerais (8) : il s'agit de l'évéché de Maillezais {Malleacensis)^ aujourd'bui réuni à la Rochelle. Nous notons également les formes MaiUerés et Maillerais dans deux antres pièces d'origine lan- guedocienne des 18 octobre 1383 et 4 mai 1450 (9).

77. Fran^ais.

Il n'entrait pas dans le pian de M. P. Meyer d'étudier la confusion de 5 ^ et de r en fran^ais. Toutefois il ne pouvait s'erapécher de rap- peler après Diez Thabitude que Théodore de Bèze et Palsgrave repro-

(1) Forme primicive avec s (tbùl). de L:\penche, 14 hab. » et « Sainte-Eulalie,

(2) Valliguière, Valle-Aquaria {ibid.). Tariwn-Garonne, C. de Lapenche, 10 hab.»

(3) La forme primitive u'est pas douteuse: On trouve ces deux articles dans le Dict, Rocca-serraria. des Postes , et nous pensons qu'il font douWe

(4) Pouillc du diocèse de Cahors , p. p. emploi: il est néanmoius curieux de voip les M. LoNGNON dans la collection des Docu- deux formes subsistant cóte-à-cóte. inents inèdits , Mélanges , sèrie, t. II, (8) Voy. notre travail intituié Les États N. 658. provinciale^; de la France centrale sous

(5) Ibid. Charles VII ( Paris, Champion 1879) , t. II.

(6) 11 y a en effet encore auj. Sainte- p. 110 et 111).

Aulaye dans la Dordogiie. (9) Bihl. Nat. Fv. 20884 f. 13, et 20S85

(7) « Sa!nt-Aiauzie, Tarn-e*-Garonne, C. f. 25.

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ROMANZA, N.o 5] DE LA CONF. ENTRE R ET S Z 209

chaient aux Parisiens de leur temps, habitude qui consistait à prononcer s pour r, et dont nous avons un débrit ' incontestable dans le doublet cJiaise et chaire (1). M. Ch. Joret (2), dans un article évidemraent inspiré par le travail de M. P. Meyer, bien que Tauteur n'en dise rien, s*est efforcé de traiter plus à fond cette questi*n: mais sauf des détails intéressants sur quelques patois modernes, il n'a rien dit de bien nouveau, et les rapprochements à priori qu'il établit entre des formes de noms de lieux avec r ou 5 manquent absolument de base. En somme on ne sait guère sur ce sujet que ce que Th. de Bèze et Palsgrave en disent: les pré- cédents du fait qu'ils signalent n'ont été montrés nulle part. Les quel- ques textes que nous avons réunis et que nous publions ci-dessous servi- ront donc de jalons sur ce terrain inexploré. Nous ne voudrions par bàtir un système avec des éléments si insuflBsants, mais nous ne croyons pas nous éloigner de la vérité en pensant que la confusion entre r et £? s'est produite en fran9aÌ8 comme en proven9al, mais un peu plus tard, c'est-à-dire surtout dans la seconde moitié du XV° siècle, que cette confusion s'est manifestée particulièrement à Paris, dans le langage parie, et que nous en trouvons les dernières traces, au XVI* siècle, dans le fait cité par Palsgrave et Th. de Bèze. 1.** Pièces isolées de provenance douteuse.

Un acte originai de Charles VII dauphin (3) du 2 février 1420 porte allocation de 150 1. t. à son chambellan messire Guillaume de CJiastel' Tieuf-de-Randon^ sire de Saint- Ramcry; en 1426-1427 on trouve une montre de Guillaume de Saint-Bemery , qui est éviderament le méme personnage (4) ; le 26 mars 1420 nous avons (5) une quittance il est dit seigneur de Saint- Remaisy : cette forme nous fait facileraent recon- naìtre qu'il s'agit de S*-Remeze {S. Remigius) dans TArdèche. Dans une quittance originale de 1460 (6) nous lisons Girors pour Gisors en Normandie, et dans une autre (7) de 1466, deux fois Vierron pour Vierzon en Berry (8).

2.** Registres de la Cour des Aides de Paris (9).

A la date du 23 juin 1445 nous lisons:

(1) Au derniep moment nous relevons cAa- (5) Cab. des Titres.

ieze cathedrale dans un ms. de Jean Chartier (6) Ibid. au dossier Gaucourt.

dVnviron 1470 (Vat. Reg. 687, f.** 7(3, v.**). (7) Ibid.

M. ttré,au mot cAai^ff, ne ci te pas d'exem- (8) On lit également Viarron dans la

pie antèrieur au XVI" siede. chroniqu»* de Louis XI écrite à Paris et dite

(2) Mém, de la soc. de linguistique de chronique scandaleuse,cx>ììecL MiCHAUDet Paris, t. Ili, p. 154-162. Poujoulat, t. IV, p. 252.

(3) Bibl.Nat.de Paris, Cabinet des Titres. (9) Aux Archives Nat. Z. 1 A. 15, 16 et 17.

(4) A rchi ves Nationales, Cartons des liois, n/' 2014 «le Plnventaire.

14*

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210 A. THOMAS Igiornalk di filologia

Entre les consulz du bourg de CarcassoDne, d'une part, contre ceulx de Lozan d'autre. Lefevre pour lesdiz de Carcasaonne dit que lesdiz de Lauzerit etc

Et le 26 juin suivant:

Entre les habitants de Carcassonne .... contre les habitants de Lauren ....

La localité meutionnée sous ces diverses formes est Laure, près de Car- cassonne. — En 1446 nous ne trouvons pas moins de six fois la forme Vierron pour Vierzon (1). En 1448, deux fois Desire pour Decize, dans la Nièvre (2).

S.** Le mistère da sihge iVOrleans, p. p. MM. Guessard et de Cer- tain. Texte d*environ 1470, d'apròs les éditeurs. On y reraarque plusieurs exeraples Aq jilaisa ^ovix pìaira (3):

V. 11992. Ou il V0U8 piai sa h, aller.

V. 12128. Ce qui vous plaisa nous ferous.

V. 12639. Quant y vous plaisa partirona.

V. 12<)i3. Ou il vous plaisa les bouter.

V. 12856. Nous ferons ce qui vous plaisa.

V. 15393. A partir quant y vous plaisa etc.

De nieme condulsons pour conduirons au vers 11991 ; rcìnedisoient pour remrdìroient (v. 18299) etc.

4.'' Procès de JaajHcs d' Armagmic (4), fait à Paris en 1476-1477:

f." 4M v.° Et lui faisoit tres mauvaise cheze de ceste cause....

i> 48 v.<* Hugues de Bournarel,.., (appelé ordinairement Bournazel),

5.** Vig'des de Charles VII, par Martial d'Auvergne, ouvrage com- pose à Paris en 1484. Il y a un exemple très-iniportant, parce qu'il est assuré par la rime: la ville de Decize y figure sous la forme Decire et rime avec le verbe dire (5). Peut-étre y trouverait-on plus d'un exemple analogue.

6.° Chronique univer selle jiisqiCen 1461, Ce texte est le plus impor- tant que nous ayons à cause des exemples relativement nombreux que Fon y trouve. Il est contenu dans un manuscrit de la Bibl. du Vatican, Reg. 811, in S.** de 402 f.*"* L'ouvrage est sans titre, et va de la créa- tion à la fin du règne de Charles VII: le récit de ce dernier règne n'est

(1) Z. 1 A. IG f,''* 19 r/\ 21 r.' d v.'\ il ne faut dono pas voir là, du moÌDS au 97 r." et 260 r.*^ X1I1« s., un exemple du passage de r à s,

(2) Z. 1 A. 17 f.'^» 52 v.« et 59 r." (4) Bibl. S.t« Geneviève, L. 7. in 4."

(3) M. Gi'ESSARD fait remarquer (p. XL) (5) Nous avons fait cette observaliou sur ces formes plaisa, condii isons, mais il i 's un incnnable les vers ne soDt pas numé- rapproche à tort de la forme archaique fise ut rotés et nous avons malheureusement onblié à coté de firent que Pon trouve au XII« et de noter la page; en tout cas c'est à Pannée au XI1I« 8. FisENT derive de la forme pri- 1440, à la fin ou à la suite du récit de la in.tive fisrent (féctrunt) par la chùte de r Pra.L^uerie,

comrae firent en derive par la chùte de *•;

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ROMANZA, s.- r>] J)E LA CONF, EKTBE R ET S Z 211

autre que Touvrage de Jean Chartier. Le ms. est d'une écriture assez mauvaise et paraìt avoir été exécuté très-rapidement. La date en est assez bien fixée par le fait suivant : à Tannée 1458 Jean Chartier .men- tionne la mort d'Arthur, due de Bretague, et Tavènement de son suc- cesseur Pran9ois II; notre ms. ajoute: « lequel f respassa en la ville de Nentes Tan mil quatre cent quatre-vingz et huit en son lit peu après la journée de S* Aubin-du-Courmier et laissa deux filles seules lieri- tieres ». Le texte est donc postérieur à 1488; mais comme Tune de ces filles mourut en 1490 et que Tautre, la célèbre Anne de Bretagne, se maria en 1491 avec Charles Vili, il n'est pas probable que Tinterpola- teur eùt omis ces deux faits s'il avait écrit postérieurement à leur ar- rivée. Il est donc à peu près sur que le ms. date de 1489. Ajoutons que le filigrane du papier, identique pour tout le volume, est un écu chargé de trois fleurs de lys, circonstance qui pourrait peut-étre servir à en fixer Torigiue et à y reconnaitre, corame nous le peusons, un texte écrit à Paris. Nous ne pouvions pas raisonnablement nous cbndamner à lire tout Touvrage d'un bout à l'autre pour y relever des exemples de s = r et de r-=s. Nous avons uniquement parcouru les vingt pre- mières pages et la plus grande partie du règne de Charles VII: voici les cas que nous avons remarqués; ils suffisent amplement à justifier notre affirmation.

8 v*»: Quant Moyse et tout son peuple furent en ce desart qui estoit oultre la mer, ilz ne trouverent nulles maisons, nulles gens, nulles vivres, ne point d'eau doulce que nulle creature peuat hoisCf et quant leurs vivres furent faillies, les peuples vindrent ò, Moyse et lui fisent grant murmuration en leur remonstrant

leurs necessites de boire et de manger Adone ìk la priere de Moyse, Dieu

envoia au peuple la manne du ciel pour manger et de Teau doulce pour boise^ eulx et leur baistail.

333».... de laquelle (de Maine-la-Geuhais [sic]) estoit capitaine Pierre Le Porc, lequel se deiFendit moult vaillamment, mais en la fin fut constraint de rendro la ville aux Angloys par comporicion, .,.

f** 334*.... laquelle (ville de Pontorson) fut prise bien toust apres par comporicion,

338'* .... et s'en alerent par comporicion leurs corps et biens saufvés (de Beaugency ).

f" 339*» Le roy luy respondit (h la Pucelle) que creile diroit chose qui fust pourfi- table, qu'elle seroit creue.

f" 3 40* ... . comporicion .... (de Troyes ).

f* 3t0'* Et quant le due de Bethfort.... scout les nouvelles, il partit de Paris et s'en alla à Corbuel et h Mohm et diroit qu'il conibatroit le roy de Franco ... .

f** 341* Messire Loys de Luxembour, evesque de Therouane, lequel soy diroit ch'An- cellier de Franco.

f" 314^ ... Et envoya (Florent d'Ili iers) plusicurs de ses gens ch lieiix que on diroit esquelx y avoit gens desobeissans au roy.

f* 345'» comporicion.,, (de Louviers en 1431).

f' 346* Ilz firent une conclusion on dirant quo la place ((ieiberoy) n'estoit pas fortifióe.

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212 A. THOMAS [giornalk di filologia

fo 385 v*"... et alla (le comte d'Armagnac) mettre le siege devant ane place nom- mée Eions ou il fut une espasse de teraps en fairant forte guerre aux Auglois.

( Ed 1461 ) . . . . fut some aucun laagage en dirant que od vouloit empoisonner le roy de France .... et quant lo dit roy fut informe du dit empoisonnement, il y beuta tellement son ymaginacion qu'il cn lessa le hoise et le manger.

Antoine Thomas.

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KOMAXZA, X." f)\ 2\'\

VARIETÀ

ANEDDOTO DI UN CODICE DANTESCO

A proposito delle interpolazioni trovate dal Palmieri (1) e dallo Scarabelli (2) in tre codici della Commedia di Dante, il prof. D'Ancona giustamente osservò essere < probabile che d'ora innanzi si avvertano nei codici danteschi altre simiglianti interpolazioni, le quali mostreranno come a più d'uno piacesse nel sec. XIV, per ragioni private o pubbliche di aggiungere nomi e fatti al registro d'infamia, e fors' anche a quello di gloria, composto dall'Alighieri, cercando per tal modo di raccoman- dare i sentimenti proprj alla fortuna del poema famoso » (3). Ecco difatti un altro codice, ora esistente nella Bibl. Nazionale di Roma, offrircene un nuovo saggio, e qui non si tratta più di poche terzine, ma di due interi canti. Uno di questi canti è contro gli Usurai, T altro contro i Golosi, e nel primo è tolto di mira un certo Bonafidanza, nel- r altro si ragiona di Messer Filiseno, di Lambertaccio da Faenza, di Mannello Scotto, tutti nomi che per me suonano affatto nuovi. Il codice è un bel volume membranaceo, alto 0.°* 290, largo 0."222; consiste di flf. 146, scritti forse da tre mani diverse ma tutte verosimilmente del sec. XIV, ed essendo provenuto dalla Biblioteca dei PP. Scolopj di S. Pantaleo, ora porta la segnatura e S. Pantaleo 8 ». Mutilo al prin- cipio e alla fine, presentemente comincia col verso < Che tu mi segue et io sarò tuo guida », 113* del I Inf., e seguita colla Commedia fino al f. 132, ove questa finisce. Appresso, il Codice contiene queste altre materie :

F. 132 r. Quidam uersua rithimici facti per dominum Bmonem de EguhiOj super exposiiione totius corneale dantis et breuiter: Pero che sia più frutto et più diletto.

(1) V. V Athaeneum, 21 Agosto 1875, 7 Lana p. p. L. SrARABELLi, t. 1, p. 463. Aprile 1877, 24 e 31 Agosto 1878. (3) Rassegna Settimanale del 9 Febbr.

(2) Dante col commento di Jacop4j della 1871*.

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f.

134 V.

f.

135 r.

f.

135 V.

f.

136 r.

f.

136 r.

f.

136 V.

f.l36»'T.

f.

137 r.

214 VARIETÀ [giornale di filologia

f. 133 V. Htc 8unt uersus editi de morte dantis, Seu ufn, quando et qualiter sit defunctus: Teologus dantes nuUius dogmatis expers.

Canzoni di Dante e di Guido Cavalcanti

f. 134 V. Poscia e amor del tutto m a lasciato. Io son venuto al punto della rota. E m incr escie di me si duramente. La dispietata mente che pur mira. Tre donne intorno al cor mi son uenute. Amor da chei conuen pur eh io mi doglia. Donna me prega per eh i uoglio dire. Uoi eh entendendo U tergo del mouete. Cosi nel mio parlar non gli esser aspro. Doglia mi reca neU orecchie ardire. Epistola missa ad Regem romanorum per dantem allegheri florentinum.

Versione italiana ; comincia : Al gloriosissimo et felicissimo triunfactore . . .

Si clwme testimona lo smisurato amore.... f. 140 r. n testo latino della stessa lettera ; comincia : Gloriosissimo atqìie felicissimo

Triumphatori . . . Inmensa dej dilectione testante.... f. 142 r. L' altra lettera di Dante ai principi italiani. Comincia : Uniuersis et sin-

gulis ytcUie regibus et senatoribus . . . Ecce nunc tempus accetabile . . . .

Altre rime di Dante

f. 144 r. Parole mie che per lo mondo andate. f

0 dolci rime che parlando andate.

Amor che ne la mente mi ragiona. f. 145 r. Le dolci rime d amor eh io solia. f. 145 V. Amor che muoui tua uirtu dal cielo.

Io sento si d amor la gran possanza. f. 146 r. Al poco giorno ed al graìi cerchio d ombra.

Amor tu uedi ben che questa donna.

Donne pietose di nouella etade.

Donne e auete intelletto d amore.

In fine della pagina, precedute dalle parole e Frate Ugolino » se- guono cinque linee pressoché interamente svanite e illeggibili. Comin- ciano « In nomine exccìso Jesuano^ Philosophum Insfruenfe laicum »

Al f. 42 r. Il De Batines (1) avendo letto le seguenti parole che tro- vansi dopo la Cantica dell' Inferno: MCCCCXXVIIIJ Martis XIIJ Decemhris \ Non (ma 1. Nero noìi) si fa leggero \ Trar del gran sospetto el mal pensiero > argomentò da queste che il Codice sia stato scritto nel sec. XV. Ma chi bene osservi la scrittura di quelle righe, tosto rico- noscerà che per la forma delle lettere come pel colore dell' inchiostro rosso che vi è adoperato, essa è affatto diversa dalla scrittura di tutto

(1) Bibliografia Dantesca, II, 208.

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i

1

ROMANZA, N.° 5] ANEDDOTO DI UN CODICE DANTESCO 215 |

il resto del ms., e se quella è del 1429^ questa non si può assegnare se. non agli anni che precedono la fine del sec. XIV.

I canti di cui sopra ho parlato, si trovano ai flf. 86 e 88, subito dopo la Cantica del Purgatorio. La scrittura non differisce da quella del resto del poema; ma la pergamena è un po*piii bianca e levigata che non i fogli che ora stanno prima; onde inclinerei al sospetto che vi sia stato uno spostamento per opera del legatore, e che in origine quei due canti fossero destinati ad entrare nella cantica dell' Inferno: ma la robusta legatura del volume ora non permette di appurare que- sto dubbio. Lo scrittore del Codice conobbe certamente che qui aveva che fare con opera non Dantesca, e a sgannare i mal pratici sulla fine del secondo canto annotò e Expliciunt duo capitala fada per àlium quam per daìitem > ; ma chi fosse quest' altro egli stesso dovette igno- rarlo, né a scoprirlo valse l'eruditissimo Cittadini, il quale studiò su questo codice, benché alle forme vernacole vi avesse riconosciuto uno della sua patria. Onde il medesimo vi scriveva sotto di suo pugno Quisqtiis ille fuerit seneìms uidetur fuisse talisque dicitur ex idioniate proprio. »

Qualche indagine da me fatta intomo alle persone alle quali i due canti si riferiscono, tornò del pari vana; ma ciò non mi trattiene dal darli alla luce tali quali si leggono nel codice. Solo credetti necessario di riordinare i nessi secondo le parole e di aggiungere la punteggiatura, nell'intento di rendere agevole, per quanto era possibile a me, l'intel- ligenza del testo. Debbo però confessare di non esser riuscito a spiegare diversi passi veramente intricati ed enimmatici che il lettore troverà perciò anuotati con un segno di dubbio. Forse un giorno o l'altro troverà chi meglio di me valga a chiarire 1 soggetti di questo nuovo aneddoto che si volle intrecciare alla storia del divino poema, e a de- cifrarne le parole oscure.

L Giorgi.

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216

VAEIETA

GIORNALE DI FILOLOGIA

[Bibl. Nazion. Roma, S. Pantaleo 8, f. 86 r.J

Capiiulum De vsurariis et nominatur honafidanza

(iOme le tre sorelle, che un sol occhio comune usauan riguardando altrui, chi riguardava si uolgea n un rocchio

Di dura pietra; cosi, quand io fui fra quelle genti, che per laida brama uisser con onta, non guardando cui

SpoUiasscro usurando, unde lor fama in questo et nel mal mondo e bassa et uile, douenni per mirar la turba grama.

Ma 1 alto ngengno del dottor gentile uolse la faccia mia in altra parte, celando a me ongni ueduta hostile.

Po, per mirabil 8apien9a et arte, lo cuor che d ogni senso ora (1) spogliato, rimise u possession di parte a parte.

Appresso: o fìlliuol mie, tu se smaghato, disse I buon duca sorridendo un pocho quando mi uide alquauto confortato:

Perch e si uil la gente d esto locho, che mmobil uiso nella prima gionta fra llor uieu men come nell acqua foco.

Omai la uista tua non sarà ponta da brutti aspetti eh ai press alle spalle; uoluet allor, che Ila lor pena et onta

Non ti fia rea, ma guarda per la ualle, si che nel mondo tu ritorni experto di quei che son per lo molesto calle.

0 signor mio, che ma non a sofferto mie mpedimenti che techo foi, dissi a lini chol uiso dischuperto:

Que duo chi son che uan dinan9Ì a noi V et ei: se tu uedrai a llor la faccia, farati certi li difetti suoi.

Perch io : maestro mio, dunqua procaccia come le faccio lor a noi sien uolte. e 1 duca: anime uil, non ui dispiaccia

Che questo nino uostr esser ascholte: uolget e passi ncontr a le uostr orme uoi che corrite come fiere sciolte.

Et quelle allor despetto (2) et brutte forme isbigottite et smorte s arrestaro, dando le spalle a le dolenti torme.

Et io, quand elle a no più s appressare, nidi animai che si pascien di loro, come mastin cacciati per lo charo.

Non eran d altro tallio che coloro cho la in soria n gran selue anno lor esca nome qui non e fenice il moro , (3)

Saluo e ognun la testa aue lupesca, quiui mangiauan color facend un cerchio ciaschun rotondo, unde non conuien eh escha.

E 1 un che di lor pelli abbian coperchio ei raspaion rodendo sopra 1 ossa la carne che rinasce del soperchio

Lor; perch i dissi : o uo eh en questa fossa set aspramente, com i ueggio, rosi, pregho le colpe nostre saper possa.

Et 1 un di loro a me : i mi naschosi uintesett anni la press a maghan9a in una torre ou a prestar mi posi.

Et fu lo primo d esti che 1 usanya posi nel mondo de romiti felli, et fecimi chiamar buonafidanva.

I rodeua le carni a pouarelli, pascendo uiolent i sudor macri lor, e spolliando i burchi de capelli.

Contra ponti ficchai decreti sacri, et perch i rosi, uede chon che morsi continuo son roso che più acri

So che di fore uipcre o ched orsi, et questo mio corapangno che si tace, ne parlo poi che qui deniro lo scorsi.

Chon dio non uolse ma triegua ne pace, nell uopare et nel cuor fu si peruei-ao che non bastolli sol e.^sor mordace

In toUar; ma 1 fattor dell uniuerso presumpse disputar tanto che uolse che non potassa mai esser conuerso

Al primo poijsessor, quel che mal tolse, et prouidesi a questo si dinan9Ì, eh el nodo che legho mai non si sciolse.

Et i ali istigian: di, come dian9Ì dicesti 1 nome tuo, quel di costui, et mostraci n che pena elli tauan9i,

(l) Leggasi era.

(2) L. d. spelte.

(1) "/* O^st nel Codice.

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R0MAK2A, N.* 5] ANEDDOTO DI UN CODICE DANTESCO

217

Ch e tuoi anaD9an li defetti sui. allor la man li mise nella 8tro99a e trasse fuor la lingua di colui,

Ch era mirabil mente infiata et soc^a ; poi la tiro si forte, ch i pensai allor che n man li rimanesse mo99a.

Vid allei cosa ch i ne. lacrimai, che 1 cuor del corpo li si suelse et uenne fuor de la boccha, et io poscia guardai

Buonafidan9a che insieme sostenne la lingua e 1 cuor di quello sciagurato \ et quando presso al niso li mi tenne,

Vid \m serpente ch era nuiluppato nel membro prìncipal, misero, ch era di nero toscho tutto nuetriato.

Et quel facia la lingua grossa et nera, sopra la quale i uidi spessi spessi scarpion et uermi di crudel maniera.

Poi quel rimatro parbe ch ali auessi a ritornar co le dolenti membra nel luogho onde per for9a eran discessi.

El mal romito poi: non ti rimembra che tu costui uedessi mentre nisse? mi disse, et io allui: non mi rassembra

Alcun oh a mia notitia peruenisse. et elli : 1 martir grane li a trasuolte 81 le fa99on che n lui natura fisse,

Che da tuo occhi non per sue sou tolte. or ti sia conto che fu tuo uicino, ch ebbe parole come 1 opre sciolte.

Piagentin nacque et uisse fiorentino, goloso fu et non ubse di starne, et lasso 1 mondo quando celestino.

Et i: non e mistier più ricordarne

di suo condition, che sol per questa cognoscho ben ohe questi e neracarne.

Che, sano essendo, duo pomello agreste tolser del mondo, et non s acorse come, ora, maestro mio, quelle moleste

Ombra, chu non ueggia se non le chiome, giognan, diss io; ma se tu mei lodi, et quelli allor chiamandomi per nome:

Quella turba ohola chu pianger odi, trafitta et morsa fra quelle aspre ualli uendette 1 tempo per diuerei modi.

Que dimandar de coniati metalli u la proprietà non e da 1 uso distinta, ma chi presta insieme dalli

Con uso et propneta, sen^a altro abuso, oompcnsation distinta di ciascuno, di magri o grassi non facendo scuso.

Et sempre ognun di lor parbe digiuno in agu9ar lo ngeguo in usurare i ma se di presso tutti ad uno ad uno

Color guardassi, non potresti trare cosa che 11 andar nostro ualesse, perche ti lodo di lassarli stare.

Et ì : buon duca, quel e a te piacesse mentre conto mi fusse non mi spìacquc, ne potrebb esser ma che mi spiacesse,

Cosi 1 talento mie sotto 1 tuo nacque, et elli: el uoler tuo, filliuol, me conto, disse, uolgendo li occhi sopra 1 acque

Del mal cocito, che sor torna al ponto di quella spera; diss io: m acosto nerso colu ch e più dal ciel dìgiunto, . Che per leuarsi fu si basso posto.

ff. 88 r.l Hic itwijyit de Gulosis CapUnìum

NOu (l) era n tutto la ueduta sciolta di noi da cerber per lo scender fatto, quando 1 maestro disse : uolta nolta.

Allor mi uolsi presto, con quell atto che fa colui che per paura triema, dicendo: signor mio, partianci ratto >

Teniam altro camin, che già si scema ongni mio spirto per la scura forma di pluto, si che par da me li prema.

Et elli a me s non ci e mestier un orma far i>er fugir lo doloroso aspetto che temi, ma perciò che questa torma

(1) Leggasi Non

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218

VARIETÀ

[giornale di filologia

Vo ti sia conta, diss io con affetto che tti uolgessi, e or dico raguarda lo stato loro, et come il lor difetto

Segue la colpa, ne un punto tarda: uede la dolorosa fiamma et bruna und a ciaachun la gola conuien e arda,

Et uede 1 altre pene che ciaschuna ombra dolente de la greggia scioccha, che sotto al mastin cerbero 8 aduna.

Queste parole fuoro al mie cor roccha di tanta sicurtà, che con franche9^a guardai color e uedi per la bocba

D alcun intrar di si laida brutte99a un animai, che quasi un choncodrillo K0990 pareua fuor de la grande99a.

Questi facea fra 11 uno e 1 altro cillo crespa la pelle altrui col forte on-ore che di se daua ; ma chome e aprillo

La bestiai boccha, cosi uenne fuore del brutto neutre co la testa lorda, e in boccha li torno con quel furore

Ohe 1 iaculo s auenta, se a acorda in alcun animai di fare assalto, quando conuiensi che per fame morda.

£1 peccator treschaua con quel salto che fanno quei che in frigia del gallo beuon che reca lor li fumi in alto.

£1 cerebro lo turba, si che fallo perdar de la ragione il nobil uso talora, si eh alcun mai non riallo.

Pietà mi nacque allor di quel confuso et uolsimi al mio sauio et diss : io cheggio chi e costui e a tanta pena et (1) chiuso

Ti piacci dirmi, et perche questi a peggio eh e uicin suoi, e anno di pena meno, et elli: 0 filliuol mio, si com io ueggio,

Sappi che questi e misser filisene, mi disse, e a la mal disposta gola inordinata mai non pose freno.

Costui proferse la bestiai parola che mosse la gholosa ardente uollia, che parbe che mouesse de la schuola

Del misero epycurio, eh a dolila maggior che questa per la fede corta, che la durabil uita d altrui spollia.

Questo dolente ebe n creden9a morta

che 11 anima uiuesse etemalmente, ma 1 uan diletto i la lingua achorta

A orar per lo corpo bestialmente, cherendo spesso a dio che i concedesse longhe99a de la gola quanta assenta

C abbian le grue, accio che ssostenessc tanto maggior diletto in prender 1 escha quanto più longo el collo si facesse.

Perciò trapassa la rabbiosa trescha de suo consorti , che quanto 1 affetto e più pemerso, più conuien che crescha

La pena, et io: maestro, questo letto tien, lasso, lambertaccio da ffaen9a, e or non udij biasmar di tal defetto.

Qual ebber quei che qui an peneten9a mala , ochat^ eh enea porto in borsa, questi ebbe in ata a chomune 8enten9a (2).

Perche e 1 ombra sua dunque chi morsa dal nero fuocho che Ili edaci morde, non e a ttorto in lui tal pena corsa.

Et ei: filliuol, geu non fu disorde (3) di morte laida, perche li hebrei folli de nati lor facieno offerte lorde.

Et dato che tal opra non da molli fusse, ma sse potesse dirsi bona in se, la nten9Ìon rea condannolli.

Cosi la fama che di costui sona, non uide la nten9Ìon eh ebbe peruersa, eh a la uendetta che tu uendi (4) el dona.

Perche non die parer cosa diuersa a tte, se non s acorda nostra fama chol diuino giudicio che qui 1 uersa.

Che quest intese a fornir la sua brama cupertamente, et, per piacere a charlo, la uita che nel mondo troppo s ama,

Dispose a morte, et non già per amarlo, ne per amar uirtu fece opre molte che parber da uirtu; di che lodarlo

L umane uoci, et fuor dal uero sciolte; che la suo ghola fu 1 ultimo fine de 1 opre sue, per che a tal fin (5) uolte

Fuoro. 1 uigor che mostro nel confine che parte 1 queto mar da etyopia uerso gauleon , u uon uicine

Son giamai serpi, non uenne da copia di uoler forte; ma 1 altr opre et quella,

(1) /.. e (2) Così nel codice. (3) Cos'i nel codice. (4) L. uedi (5) L. fin

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ROMANZA, N.° 5] ANEDDOTO DI UN CODICE DANTESCO

219

carne l gran lume uolge 1 elitropia,

A sse riuolse quella alplestia (1) fella, et perche l fine da in tali opre il nome, goloso non ardito quei s appella.

Che Ili atti audaci a ghola ordina come, se 1 aspro faentin che si somise legieramente a le più graui some.

Mannello schotto alfin la uita mise et prima si saria 1 aspetto spei.to che cotai uoUie da cholui diuise.

Et io : 0 ducha mio, che m ai contento sempre, disse io, di quel che da tte chiesi, chi e colui eh ali atto par si uento ?

Quand ebbi detto al caro duca, attesi, et elli a me: colui e labeone, da chui molti golosi so discesi.

Et labeon chiamato ogni ghiottone et (2) da colui, et ancho un uil poeta che più eh a uersi intese al garghalone.

Questi e ssi concio, che tten uerrie pietà, che fra putrida carne elli e sepolto, di ohe la gola sua spesso repleta

Era, ne faccia for9a auesse molto, del eh intesi che fu nero sepolcro

di quell uu egli et (3) d ongni parte inuolto.

La pena e laida si eh io la t apulcro per quel eh en tendi, or queste anime antiche che già mill anni fuor del mondo pulcro

Qui messe, lassa, et perche tu non diche di cholui che tti pare ali atto stancho, io non discerno anchor da quai fatiche?

Et si appresso guardai presso al fianco et uede con che rabbia i polseggia un gran serpente eh e dal lato mancho.

Et non si vede quanto forte il feggia, perch e cuperto et perche send allunga et pur conuiensi a for9a che qui reggia

Matto, quantunque lo trafigha et pungha ; eh el membro ou e 1 principio motiuo, etsichi (4) d ongni for9a, prema et munga,

G appena scerno come riman uiuo. se non eh i so e a la uendetta eterna già non sarebbe, se di uita priuo

Fusse giamai. or uo che tu discema come gli auari presso a pluto conci son, color assai uo che tu sperna,

E 11 iracundi che men presso sonci.

Expliciutit duo capUula fada per alium quam per danteni.

(1) Cosi nel codice.

(2) Legg. ^

C3) Legg, e

(4) essicclii?

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22<» VARIETÀ {UIOBNALK DI FILOLOGIA

POESIE CIVILI DEL SECOLO XV

Da UD codice miscellaneo (T, 4, 15, di flf. 364 di circa e. m. 15 X 21) che dalla biblioteca del card. Passiouei è passato airAngelica, traggo alcune poesie volgari che per la forma e per il soggetto credo non del tutto immeritevoli di essere conosciute. Il numero delle parti onde si compone il volume, a prima vista sembra maggiore che non sia in effetto, essendo state nel rilegarle malamente scomposte: ma non è dif- ficile riordinarle. La parte che più ci preme, è di 72 fogli (ff. 38-109) e appartiene alla fine del secolo XV o al principio del XVL Ne è prin- cipale contenuto una raccolta di formule cancelleresche, come lettere di nomina a podestà, gonfaloniere, maestro di grammatica; salvacondotti, benserviti ecc.; e insieme, di discorsi da pronunciarsi dai detti magistrati o dal cancelliere del comune ueir accettare T ufficio, o nel prenderne o darne il possesso, ed in altre simili occasioni; come anche per nozze, conviti e funerali. E in questi squarci oratorj specialmente si vuol far pompa di elegante latinità e di classica erudizione ; erudizione ingenua, che in jan discorso da farsi neir essere ammesso nel collegio dei notai, trova modo di citare tutti gli illustri oratori romani, dando a ciascuno queir attributo onde ebbero particolar lode da Cicerone. Degli atti pub- blici alcuni non hanno indicazione di città, di persone di tempo, proprio a modo di formulario: altri invece sono dati quali uscirono dalle Cancellerie, specialmente di comuni dello stato ecclesiastico (1); e il documento più recente è una lettera di famigliarità (f. 56) del cardi- nal Ludovico del titolo di S. Lorenzo in Damaso, Camerario del papa (10 settembre 1482). In una tale raccolta trovano naturai posto le poesie volgari (2) che pubblichiamo, composte da un notaio o cancelliere comu- nale (persona pubblica e connina ) in onore dei podestà ed anziani di

(1) Toscanella. Acquapendente, Forlì, (2) Fol. 40 v. al 43 v., (\o^e la poesia diui

Spoleto, Velletri, ecc. Di Roma abbiamo et ejccelsi resta interrotta al verso Jone le

il buon servito a Giovanni « de Floribus... wuse apollo ne xo arte: ma si trova il pe-

ijni officium sacri senatus.... ultra consue- j^niito al f. 109, il quale termina con la se-

tum tempus exercnit » ( f . 67) e ai suoi ma- jiuente intestazione di altra poesia che ora

rescialii (f. 08); del comune di Firenze ab- non si trova più nel codice: In lattdem Ma*

bìamo la nomina prndentis iiiri Nicolai dei lacobi Civis Amerini gonfalonerii be-

Franciiici Ciuis Bononiensis a curiale neweriti et suorutn collegarwn domino'

famigliare perché rallej^ri con onesta gio' mm Antianoriim. condita i conviti ( f. f51>).

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ROMANZA, N.» 5] POESIE CIVILI DEL SECOLO XV 221

Amelia e di Norcia, dov' egli esercitò il suo ufficio, non posso dire pre- cisamente in qnal tempo, non essendomi riuscito di sapere quando sìa stato gonfaloniere di Amelia Matteo Iacopo (1), e governatore Gen- naro Riccio.

Al formulario il suo compilatore ha fatto seguire un trattatalo di prosodia e metrica latina (fif. 86-91 y.),. ed è andato poi valendosi dei fogli rimasti bianchi per appuntarvi motti e sentenze morali di scrittori sacri e profani, versi di Virgilio, Dante, ecc.

Se le poesie volgari presentano un qualche interesse per una certa novità del soggetto e pel curioso contrasto fra la palese imitazione Dan- tesca e la semplicità dei concetti e la rozzezza della forma quasi popo- lare; r insieme del codice resta singolare monumento degli studi di quella schiera numerosa di persone che in qualità di cancellieri, notai, giudici ramingavano allora da un comune all'altro d'Italia: ai quali l'ambizione e il desiderio di vita più riposata faceva sperare dal merito di maggiore coltura qualche posto più agiato presso le corti dei principi, dei cardi- nali o dei pontefici ; per cui scrivevano le penne dei più eleganti umanisti.

Sotto lo stesso aspetto, poiché per lo meno ha appartenuto a qual- cuno di simile condizione (2), può considerarsi T altra parte del volume (3) donde tolgo la versione di alcuni distici in onore di un Orsini : la quale, sebbene di argomento diverso dalle precedenti poesie e di scarso valore letterario, credo non inutile di aggiungere a modo di appendice per riguardo al personaggio a cui si riferisce. Non occorre dare delle materie contenute in questo codice particolareggiata descrizione: basti dire che buona parte di esso è consacrata alle Satire di Persio con note inter- lineari e marginali, seguite da copioso commento; alla Poetica d'Orazio pure con note, e a Marziale, di cui però è perduto il testo e resta solo parte delle illustrazioni. Accanto ai elassici troviamo poesie e prose di umanisti, come due elegie di Paolo Marso a Sisto IV e alcune orazioni di Gio. Battista Volterrano, le quali trovansi insieme con altre scritture di minor conto ne' fogli che, staccati dal resto, stanno ora in principio del volume.

Al foglio 271 leggesi la poesia Salve magne parens scritta con molta cura e in carattere identico, parmi, al testo delle satire di Persio. Sotto è

(1) V. nota precedente. Rendo grazie alla dell'8 gennaio 1520, questa del cardinale cortesia del signor Cav. Carpenti, Sindaco di Francesco Orsini; uonchó un sermo prò Amelia, il quale a mia preghiera fece fare nvptiU (Roma 1518. .. giugno) della stessa le opportune ricerche in quell'Archivio Co- mano che al f. 369 ha scritto un orazione mnnale: ma senza frutto. prò renando ejrponitur cnrpìfx christi.

(2) Di fatto in alcuni foglietti inseriti in (3) Ff, 271 al fine, e di più i primi 34 questo codice trovansi due littere hoite ser- fogli.

ritKtis, una del 23 marzo 1-1(^2, e l'altra

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222 VARIETÀ [giuumàlk di filologia

la traduzione, che a dir vero non mostra una grande conoscenza del latino del volgare. Tuttavia fa credere che sia opera di chi ha co- piato quei classici il confronto con nna scrittura volgare, dovuta alla stessa penna, dove si la regola e il computo AqW epatta per gli an- ni 1471-1480 (indizio dell'età del codice), scrivendo costantemente li andi, Vanda (anni, anno) come nei versi é colonda per colonna. A tergo è un' altra elegia latina per le nozze fra un Giordano Orsini e una Chiarina (1), delle quali non ho trovato alcun ricordo nel Litta altrove. Tali distici ad ogni modo confermano che anche i primi sieno, come mostra la versione, dedicati ad un Orsini: della cui casa, famosa più per allori guerreschi che letterarj, dovrebb' essere anche il giovane poeta (parvi.... nepotis) autore pure dei due carmi che ora stanno nel foglio 358, certamente spostato, e scritti nella stessa foggia dei prece- denti. L' uno comincia :

Fax tibii dine parens, ueteri quam misit ab alto luppiter Augiisto, coelicolunque salus:

Haec eadem patruo etc.

«

L* altro riporto per intero, sembrandomi che ci offra i dati sufficienti per iscoprire la persona di questo illustre sio di cui si fa per la terza volta menzione.

Salue, diue sacri custos; florentia, que te

Tarn claram genuit sit quoque salve precor, Hec generis nostri repeto sic facta, priorum

Semper allumaa pontificumque domus; Neo simulare licet, quamvis fortuna fatiget

Quos colimus, nullo turbine cessat amor. Te quoque certa fides, patrui te maxima nostri

Gratia, sed piladis fedus utrumque tenet: Ille flurentino gaudet nunc nomine preses,

Nomine tu malphe dignus honore micas : Sit felix utrumque decus, florentia felix,

Et, uos qui uinxity sit quoque faustus amor.

Non vi ha dubbio che questi distici sieno dedicati a un nobile fioren- tino Vescovo di Amalfi : e nella serie dei Pastori di questa Chiesa dal 1475 al 1483 figura infatti Giovanni Niccolini, di famiglia certamente illustre per civili ed ecclesiastici onori (2). Al tempo stesso (1474-1505) in Fi-

(1) yec mirum ex alto iordano Sattguitte crelus [1516], ilo tanto meno al Cardinal Giovanni

Clarinam duxit nobUiiaU parem. Jg' Medici [ 1510-1515] , pei quali il vescovato

Vrsiger kune genuit duro sub marte potente, jj Amalfi fu una commenda non certo un

Illa pudicitie d««. columna subii. ^^^^^ y Ughblli , Ital, Sacr. , Vili , 252 e

(2) Non è da pensare al Cardinal Pucci, per Uainaldo, II, 181 (ed. Coletti).

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ROMAXZA, N." 5] POESIE CIVILI BEL SECOLO XV 223

winze era Arcivescovo Rinaldo Orsini, fratello di Clarice moglie di Lo- renzo il Magnifico, al quale ben potè essere diretta la poesia antecedente con opportuno augurio di pace quando il poeta altrove dice quos colimus fortuna fatiget; come a lui è dedicata un'altra elegia che comincia nel verso del citato foglio, proseguendo nel f. 369. E scritta con penna frettolosa e con varianti quali solo possono uscire dalla mano dell'au- tore stesso: anzi in fine sono ripetuti con leggere modificazioni i due primi distici. Il poeta, esule dal Lazio, già godeva il favore Mediceo:

Aspice, diue, precor (1) natum de stirpe latinum, Quem reppulit puerum (2) sede inalignus amor.

Sors sua nunc facilis, medices qui gente benigna Utitur:

ma chiedeva la speciale protezione di Lorenzo,

at melior cnm dabis ipso manunii

quando il Magnifico era scampato al ferro di un Pellace Ulisse (la con- giura de' Pazzi) ed era gloriosamente vittorioso di re, di duci non meno che dei cittadini: perciò forse non prima della pace del 13 Dicembre 1483, dopo il 1489, quaAdo nominato Cardinale Giovanni de' Medici già erasi avverato l'augurio:

Maior adhuc quondam poteris sub sole uideri (3) Si cui (4) purpureus fronte galerus erit.

Cercando ora con tutti questi dati di scoprire l' autore delle poesie, ricorre subito alla mente il nome di Franciotto Orsini nipote appunto dell'Arcivescovo Rinaldo, allevato alla corte medicea, e della cui cultura in mezzo all'amore per le armi ci fanno fede le lettere a lui dirette dal Poliziano (5). Se non che, secondo l'iscrizione della sua tomba, come è stata letta dal Forcella (6), Franciotto sarebbe nato nell'anno 1483, ultimo del Vescovado Amalfitano del Niccolini. Ma certo, o la data della morte (1544) o il numero degli anni suoi (61) è inesatto: poiché le lettere del Poliziano (1492) ce lo mostrano giovane di già vigo- roso. Anche però accettando la lezione seguita dal Litta che anticipa di 10 anni la data della morte (1534), neir83 sarebbe stato ancora troppo

(1) Var. pio, (4) Prima fu scritto sibi.

(2) Var. miserum. (5) Politiani, Opp. (Basileae 1558),-Ep|).

(3) VeiV. Maior adhuc liincta poteris cnm lib. X, p. 145.

gente rideri: ed anche super a^fra invece (6) Forcella, Iscriz, VI, 48, n.^ 174.

di sub sole.

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224 VARIETÀ [giobnalis di filologia

fanciullo per poterglisi attribuire i versi diretti al Niccolini, che del re- sto debbono essere stati probabilmente scritti prima del 1481 (1).

Senza far altre congetture, e solo considerando meglio tutte queste poesie che per lo stile e l' intimo nesso che le unisce non dubito attri- buire ad un solo autore, io credo si possa trovare modo di spiegare questo anacronismo. I versi a Giordano Orsini e gli ultimi a Lorenzo presentano una notevole differenza con gli altri, dove con evidente compiacenza si fa sempre menzione dello zio: invece in quelli non si ricorda affatto il vincolo di parentela che con Lorenzo e cogli Orsini avrebbe avuto l'autore. Inoltre, a guardar bene, Franciotto altri di sua casa poteva implorare il favore Mediceo così dimessamente come è fatto nei citati versi. Mi sembra perciò di potere con qualche ragionevolezza conchiudere che dove parla un nipote dell'Arcivescovo è per cortigiano artificio di un poeta, aio forse del fanciullo o per altra ragione addetto al suo servizio, autore anche delle altre poesie scritte invece in proprio nome.

Roma, Novembre, 1879.

Guido Levi.

[Bibl. Angelica, Cod. T. 4, 15; fol. 40-1

IN INTROITU PRET0RI8.

Non chiamare d apollo di parnaso

Le muse ad fauorir lu nostro ingresso,

Ma solo hauero impresso

Dell incarnato nerbo el nero amore. Quel patre eterno nostro redemptore

Presente sia ad questo nostro ofBcio,

Si che nel summo hospitio

Ne senta laude omne beato coro. Et per nirtu del celeste thesoro

Monarca di nirtu San benedecto

Norscìa col suo distrecto

Triumphi sempre in liberta et pace

Sobto la del pastor uerace.

(1) Non v*ha più dubbio sulKanno delia Januarij ClementU PP. f.^ Breve y quo

morte di Franciotto dopo che air ultimo mo- Octavio IJrsino concedit donatque bona

mento ho trovato la seguente notizia nel- omnia et jura ad Cameram ApostoUcam

V Estratto de' Libri del Contelori (presso spectantia super hereditate Franciotti

l'Archivio Romano di Stato) pag. 318: « 1534 : Card, de Ursinis eius genitoris. »

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nc.MAx^cA, x/' 5| POKSIK CIVILI DEL SECOLO XV 225

Da che sooto ci cielo omnuno ni chiama

Ad gubernar la liberta nursina,

Questa breue doctrina

Con fede iurarete de obseruare. Promecterete ad me per le sacre bare,

Come persona publica et comuna,

Che da gente importuna

La liberta di Norcia saluerete. Et poscia con fede sancta promectete

Di ministrar rascione in equal parte :

Legi) statuti, et carte

Dèi alma norscia conseruare inlese, che le sol rascion sien ben difese.

Lu publico thesoro, o signor mio,

Non spendarai che utìl non sia,

Terrai quella uia

Che tenne Rodomante in fai* rascione. Sbanditi latri et chi rebellioj^e

Con tra questa Republica ha usata.

Che sia persequitata

La falsa turba et le genti maligne. Parrete che 1 adomate et digne

Laudi che acquistar quei bon romani.

Con necte et pure mani

Se sequino da noi con acto pio,

Et cussi iurarete in di dio. Finis. Nursi e.

IN PUBLICATlONB DOMINORUM AKTIAXORUM I*OST BREUEM ORATIUNCULAM KXORATAM.

Gloria in excelsis deo, in terra pace,

Triuropho et stato del sucoessor di piero,

Del suo collegio del protector uerace; Del bon legato sotto el cui emispero

Questa proni ncia uiui del naturale

Don Gen. Eiccio Signor degno de impero. Pace, reposo di questa alma ciptade,

Del quieto, ciuile e degno stato,

De tutto el suo distrecto forza e contato. Sia el presente Acto, questo Antianpto,

Con 1 aiuto de olimpiades et firmìna»

Si che cipta Amerina

Viva vnita dentro dal tuo ostello.

Morte de chi ad te fusse rebello. Finis, Ameri e*

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2*20 VABIETA [oiobnalr di ftIìOlogia

IN INTROITU DOMlNOnriC AM'IANOKUN.

Quella excelsa uirtu che i coeli guberna

Et guida di ciascun mortai suo curso,

Sia quel nostro succurso

Et nostra intrata judica et discema. Sia qui presente maria uirgo superna »

Ad ciò che nel celeste et summo coro

De radiante loro

Con fronde sia coperto el sacro altare. Lagiuto de Olimpiades uoglio inuocare

Insieme con la martire firmina,

Si che questa amerina

Patria triumfi con lustitia e pace

Socto a la del pastor verace. (1) Il ms. eh col 0 uoi eh' a (1) sorte publicate set^

8ogno di abbrevia- * ■• , i " ,

tura attraverso r A. Ad gubernar nostra cipta amerma,

Questa breué doctrina

De obseruare ad me promecterete. Prima nostra Cipta conseruarete

In questo degno et glorioso stato,

Si che sempre exaitato

Sia, et de qui scacciate omne tirampno. Tucti culoro che de intorno uanno

Per occupare uostre roche et castella, (2) n ms. sìriiia Con mente ferma e snella (2)

Persequitate sempre in omne parte. Solleciti starete con uostre arti

Ad conseruare prìuilegii et ragione ,

Et sensa passione

Tractate tucti questi publici facti,

Si che chi justo uiui sien satìsfacti. Lu publico thesoro, o signor mei,

Nel qual consiste omne felice stato,

Fate sia consemato

Et non se expenda senza gran bisogno. Lu mio parlar già non e in sogno :

Lu sudor de li orfani et pupilli

Sien sempre nanti ai cigli

De li nostri ochi, et chiesie et hospitale. Promecterete a me per le sacre are,

Como persona publica et comuna,

Che da gente importuna

Le loro ragioni sempre defendarete.

Et cussi in di dio jurarete. La sancta vnione vi sia ad mente

Di vostri ciptadini si gloriosi,

Nobil degni et famosi.

Che ne fie coronata 1 alma roma.

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ROMANZA, N." 5] POESIE CIVILI DEL SECOLO XV

Quell alta donna che terra et mare doma,

Venegia giusta et napuli gentile

Con loro sensi virile

Tucti son Bodomante in far rascione. Scacciate latri et chi rebellione

Centra lor justo uiuar tentasse,

Si che lor ossa lasse (1) Così il nis. Vite (1), insepulte, et al tucto scherniti.

Che chi mal fa sempre sian puniti. Finis. Amerie.

IN PUBLICATIONE DOMINORLM ANTIANOUUM.

Gentes jam nidi de sinu Israel, Cantando: osanna, figliuol di dauit, Benedictus qui venìs summus Emanuel.

Tra gli altri vidi la casta Judit, Che la divina gloria exaltaua, Eam fauendo dum olophernes ocoidit.

Vidi el psalmista^ dolcemente cantaua: Deus in adiutorium meum intende; Gloria in ezcelsis, Tangel preconizaua,

Misericordiam tuam nobis estende Et salutare tnum da semper nobis Centra Caronte che tanto ce offende.

Del mio parlar comprende Chel tuo fauore inuoco con noce pia Cantando, osanna, figlici de maria.

Quiui consiste la pace et 1 unitade Di questa patria, o summo justo dio, Che laude rende ad uostra maiestade.

Et perche sempre, o patre, fusti pio, Sei, et serai di fin che 1 secnl dura; Pero ti degna, benigno signor mio,

Infeudare la tua gratia da 1 altura Degli alti celi con summa melodia Per contentare in terra la creatura.

Manda qui Olimpiades et quella diuina, Che collocata fu colle tue manu Nel diuo coro, la martire firmina;

Si che questamerina Cipta mantenga so santa unione Col uiuar justo et con summa rascione. Finis, Amerie,

IN INTROITU DOMINORUM ANTIANORCM.

Diui et excelsi mie patri et signori, Justi, prudenti, temperati et forti, Publicati per sorte Al degno Segio per duj mesi futuri;

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'12< VAUIKTÀ [aioMXALK ui filologia

Nou chiamaro li dei falsi et obscnri Joue, le muse, apollo ne so arte,

Minerua et anchor marte

Ad fauorire el degno nostro ingresso. Sol ne la mente mia jo ho jrapresso

Chiamar Jesu et la matre divina,

Olimpiades et firmina

Che sien presenti ad questo vostro officio,

Ad ciò laude ne senta el summo hospitio. Da poi che 1 mondo, li celi, et dio ai chiama

Ad gubernare questa digna ciptade

Con fede e caritade,

Questa breue doctrina observerete. Vostra republica conseruar promectete

Socto la fede del pastor verace,

Con vnione et pace,

Sempre scacciando la tyrannica gente. Si come ad roma fece quel possente

Oratio Cocles, che solo el ponte tenne,

Ad morte quasi uenne

Sol per saluar la liberta di roma; Mutio sceuola, che si constante doma

L errante dextra e quella in fiamma cosse,

Perche ella non percosse

Quello che la sua patria subiugaua:

Et per quella saluare ad morte annaua. Justitia che di Ascreo fu figliola,

Sia uostra Concubina, o signor mei;

Castigate li rei,

Li bon sempre exaitate con honore. Ascolta patiente, ad chi propone

Le nostre menti sempre firme terrete,

Benigne responderete,

Contentando ciascun e far rascione. Di nostri ciui la sancta vnione

Antiporrete ad uostri cari figli,

Orfani et pupilli

Fauorirete sempre jn omne parte. Legì, statuti, priuilegij et carte

Dell alma Amelia obseruar farete

Et sempre obedirete (i)Notamargmaie: Do. Gen. Riccio (l). Signor Justo e pio,

Et cussi jurarete in di dio. Finis, Amei'ie,

fFol. 211.]

Inclito patre, excelso mio signore, tra sacri diui lume, specchio, fonte, norma do costumi et fermo ponte, de genti ursin colenda et alto honore.

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uoMA»zA, N.» 5J POESIE CIVILI DEL SECOLO XV

In uuoi speranza, fede et aero amoro de mei parenti et anchi de passati, gloria, fama, triumphi et alti fati in uuoi se sbelie, si eh ognun ui adoro.

Pietà prudentia sblende più che sole in uui, signor; qual idio mantegna ^

felice al mundo quanto tra soi uole.

Ynde ad mi gratia spero che trasegna, come da patre al piccolo ilo i celi consento che pace vegna cuf. da mente benegna (1).

Cosi sperando, o car mio thesoro, Contento uiuo et solo uui adoro.

220

(1) Goni il ms. il tetito latino!

(2) leggi laetor

Salue, maguQ pater, sacre lux inclita gentis,

Salue iterum nostre sola columna domus. lu te spes omnis certa est et prima parentum

Gloria, si detur quod fuit ante decus. la te nera fìdes, pietas, prudentia, uirtus,

Presidium parui cura nepotis amor. Lector (2) ego, a pedante patrem plus forsitaa ilo

Oppida dum repetis que puer ipse colo. Te presente, mihi crescit tum nomen et etas

Gaudet et aspectu subdita turba tuo. Viue, precor, felix, quo te iam principe martem

Comprimat infensum pastor in orbe plus.

* Vedi addietro pag. 221.

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230 [aiOKNAhK DI FILOLOGIA

DUE RISPETTI POPOLARI.

Il D' Aucona, parlaudo dei canti popolari apocrifi introdotti nelle raccolte per astuzia o per vanità di coloro che hanno porto aiuto ai col- lettori, e per imperizia o sbadataggine dei collettori mede imi {Studj su la poes. pop. it, pci^O' *^24, e 325), come evidente fattura di un inesperto il seguente rispetto, che nella raccolta del Tigri è segnato del n.^ 548:

Caro amore mio, chi me lo avesse detto

Ch'io non t'avessi a por l'anello in dito!

Il naso mi sarìa tronco di netto,

E in boccon me lo sare' inghiottito. 0 Nina mia, la mastico, la mastico,

Ma mi pare un boccon troppo fantastico:

Troppo mi par fantastico, e il sai tu: 0 Nina mia, e' non mi vuole ir giù.

Ora, che questo rispetto sia apocrifo, va benissimo; ma fattura di un inesperto collaboratore del Tigri non è. Difatti nella Gambata di Ba- rincio di Lazzaro Migliorucci, pubblicata dal Trucchi {Eacc. di poes, il. ined. di 200 aut, voi. IV, pagg. 288-293), si leggono i segg. versi:

V. 105 Tina, una volta chi m'avesse detto,

Ch'io non t'avessi a por l'anello in dito, Staccato il naso gli averei di netto Coi denti, e poi me lo sare' inghiottito

V. 119 Io la mastico mal, Tina, la mastico;

Canchero! gli è boccon troppo fantastico.

Ora non ci vuol molto a vedere che V onesto collaboratore del Tigri ha tolto di peso il suo rispetto da questi versi.

Non così dell'altro rispetto {Oh quanto tempo sola sono stata), che subito dopo il D'Ancona pur per apocrifo. Esso fu pubblicato, prima che dal Tigri, da Tullio Dandolo, in certe lettere indirizzate dai bagni di Livorno al Belgioioso. E probabilmente il Tigri lo prese di li, giacché, se la memoria non m'inganna, (il libretto del Dandolo mi è an- dato perduto fra le carte) le due lezioni sono uguali. Ora è possibile che il Dandolo abbia limato e pulito quel rispetto per renderlo più ac- cetto all'amico; ma non che lo abbia .fatto o contraffatto lui; non ci sarebbe stata ragione.

G. Salvadori.

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ROMANZA, N." 5| 231

DELLA NOVELLA DEL PETIT POUCET

Una delle novelle popolari più difiFase in tutta Europa è quella, che, conosciuta in Francia col titolo sopra indicato, fu non ha guari assai dottamente e ampiamente illustrata da Gaston Paris nella sua mo- nografia Le Petit Poucet et la grande Ourse. A comprendere il significato di questo titolo, o meglio qual relazione possano avere i due soggetti in esso espressi, è mestieri notare che fra i popoli valloni il nome dato alla nota costellazione dell' Orsa è Chaur-Pocè, e che P6cè è chiamata sin- golarmente la piccola stella, in cui essi pretendono vedere il condut- tore del celeste carro. In pari modo V astro medesimo viene appellato Poucet tra i francesi del Nord, e, secondo il Grimm con nomi analoghi lo si conosce tra gli Alemanni e tra gli Slavi. Il Paris pigliando in ac- curato esame tutte le varianti di questa novella, richiamandosi agli an- tichi miti di Grecia e d* Asia, facendo profitto dei sussidi della moderna scienza linguistica, s* argomenta di rinvenire nel Petit Poucet una rela- zione evidente col classico mito di Boote, il condottiero del celeste carro, che impropriamente fu chiamato la Grande Orsa.

Ma di questo noi non intendiamo occuparci. L' intento nostro è di rettificare ora un fatto, circa la diffusione della novella, sconosciuto al- r illastre filologo francese. Egli afferma a pag. 52 della sua preziosa monografia che soit ce conte ^ soit ceite denomination trovasi essenzial- mente presso i popoli slavi (lituani e schiavoni) e presso i germanici (ale- manni, danesi, svedesi e inglesi). E dopo avere aggiunto che Ze^ C09}^ des AlbanaiSf des Roumains et des Grecs modernes sont sans doute em- pruntés aux slaves, e che le nom toallon et le conte forézien nous mon^^ trent en France la legende de Poucet; mais elle a pu fori lien, comme tant d^autres recits semhlables, y étre apportée par Ics GermainSj afferma recisamente ni en Italie, ni en Espagne, ni dans hs pays celtiques je ne trouve trace du conte ou du nom. Io non so, se questo si possa rivo- care in dubbio per la Spagna e per i paesi celtici. Ma che la leggenda tra noi sia conosciuta V ebbe già dimostrato il mio egregio amico Dott. Giuseppe Pitrè (cui è noto quanto debbano gli studi demopsicologici), pubblicandone nel fase. III della Rivista di letterat. popolare (luglio 1878) una variante toscana dal titolo di Cecino. A me poi venne fatto di rac- coglierne nelle nostre Marche, e notisi bene, in una cerchia di esplora- zione molto ristretta (il iesino e T esimano), ben cinque varianti; una delle quali, eh' è quella che qui si riferisce, non solo riproduce nella

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232 VARIETÀ [OIOnNALK di FIfX»LOGIA

parte più sostanziale il racconto tipo; ma ne conserva ancora il nome: Deto grosso; che così tra noi chiamano il pollice.

Giovi premettere una notizia sommaria del racconto tipo, quale dal Paris è dedotto da tutte le varianti per lui esaminate. Le Pctit-Poucd è un uomo, se così è lecito chiamarlo, che nato non più grosso di un pollice e, in alcune varianti, di un grano di pepe, di un cece, di un fa- giuolo o qualche cosa di simile, tale si mantiene per tutta la vita, del resto non molto lunga. Ma è un eroe, un eroe di destrezza e di fur- beria; un ladro audacissimo, cui V estrema esiguità come agio di pe- netrare per il più piccolo pertugio, così permette di celarsi ad ogni accuratissima ricerca. La sua vita e le sue geste possonsi ridurre a quattro o cinque episodi principali: l."" la nascita soprannaturale o per lo meno non ordinaria ; tratto che ne avverte qtie nous sommes en pré- sence d'un récìt véritàblement mytique: 2.** il mestiere di bifolco, di car- rettiere 0 semplicemente di custode di bovi o di cavalli: che è giusta- mente a giudizio del Paris, le fond primitif de san histoire; 3.* Paucd ladro, e delle bestie per lo più colle quali ha che fare, voleur de boeufs; ma anche di pecore e, in alcune varianti, di grano, denaro e via di- cendo; 4°. e 5**. Poucet rapito o comprato egli stesso a gran prezzo da qualche persona, et réussissant a s'enfuir: ingoiato da uno dei suoi bovi o cavalli, o da una pecora e successivamente un lupo, scampandone vivo e senza danno. Una particolarità di secondaria importanza poi, ma che per la spiegazione del mito ha un valore incontestabile, è que- sta, che il nostro eroe guidando o involando le bestie, di cui sopra s'è detto, è solito di prender posto nelle loro orecchie o cacciarsi tra le cri- niere, ifciò, secondo il Paris, se rattache a la conception waUonne dn Chaur Pócè^ in cui il conduttore del celeste carro vien collocato al di- sopra della stella di mezzo delle tre, che rappresentano i cavalli o i bovi; mentre altri popoli le placent non pas là, mais au devant du char.

Il nostro Deto grosso è anch' egli, come in quasi tutte le varianti di simile novella, e nella stessa toscana, miraculeiisement accordò a d^spa- rents affligés d'une longue sterilite, L' incidente anzi della madre che pre- gava Iddio ecc. si riscontra ugualissimo nel principio del racconto schia- vone, ove altresì la preghiera è limitata al desiderio di avere un figliuolo pur che sia, e quand il ne serait pas plus gros qu'un moineau. Mestiere principale del piccolo eroe della variante marchigiana, e a cui si una volta e poi vi ritorna per passarvi tutto il resto della vita, è quello di 2}arare o guardare le cavalle, prendendo posto tra la criniera di qual- cuna di esse. Chi non vede qui riprodotto il tratto più caratteristico della leggenda del Petit Poucet in una maniera che pochissimo si al- lontana dal concetto primitivo, se non è il concetto primitivo essa stessa? Nel vero, dato che il nostro mito si riferisca al mito classico di Boote, avrebbesi per avventura nella variante marchigiana un vestigio del modo

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BOMANZA, N.'» 5] DELLA NOVELLA DEL PETIT POUCET 233

più semplice e primitivo, secondo il Grimm, d'immaginare la costella- zione dell' Orsa o del carro come sette bovi, i septem triones di Varrone , viaggianti pei campi del cielo. La trasformazione dei bovi in cavalli ognun vede che poco altera; e nella più parte eziandio delle varianti, esaminate dal Paris, il carro o T aratro di cui Poucet è conduttore, vien tratto ora dagli uni ora dagli altri. Di più, e questo pure ne sembra degno di nota, il Poucet degli altri popoli è bifolco o carrettiere tem- poraneamente, mentre il nostro passa nel parare le sue cavalle la mag- gior parte della vita, e vi muore per un accidente, che può anch'esso esser soggetto di studio. Sul terzo e sul quinto episodio, che il quarto non è riprodotto in questa variante, ma V abbiamo nondimeno in un' al- tra nostra, lascio indietro le non poche considerazioni, che vi potrei fare. Per una notizia qual'è questa, ciò che si è detto è già quasi di troppo. Un' ultima cosa però voglio aggiungere, ed è, che se lo Schenkel ebbe a trovare un legame molto stretto di parentela tra la leggenda del Petit Poucet e il mito omerico d' Ermete, l' umile novella di Deto grosso e le sue varianti marchigiane potrebbero offrire più d'un argomento ad av- valorare la sua opinione. Antonio Gunandbea.

DETO GROSSO

C'era na cita na donna, che non ci avea nisciun fijo, e pregava Iddio che je ne dacease uno magari piccolo^ piccolo. Sta donna dopo tanto preg^ fu esaudita, e je vinne finalmente sto fijo, che potea esse come un deto grosso.

Quanno se fa fatto granne, ma senza cresce più de quanno era nato, un giorno fu chiamato da certi ladri che ndera a rubbli le pecore nte na stalla. Lu bboccò drente da un bugio, e dicea all'altri ladri, che stera de fòri: Ohe! quale volete, le bianche o le nere? E quelli risponnea: Sta zitto; che sente '1 padrò! Ma lu, sempre più forte: Quale volete mbè; le bianche o le nere? Infine se ne ccorse '1 padrò, e ndette giò la stalla. L' altri ladri allora fi^ò tutti ; e Deto grosso je toccò a nisconnese drento la crepaccia de n muro. £1 padrò va per conta le pe- core, si era tutte, e mette la luma ntella crepaccia; e Deto grosso se mette a sgag- già : Oh I m' acciechi ! Allora '1 padrò je vinne na gran paura ; e pensava che i ladri ce fusse ancora drento. Pija la luma, e se mette a guarda per tutte le parte; ma ah! non potè vede gnente; e rva a dormì! Deto grosso scappa da quella cre- paccia e se nnisconne drento la lana de n castrato. La matina va fòri le pecore: passa n lupo, e se magna '1 castrato con Deto grosso e tutto. Ma drento al lupo lu ce stette poco : perché questo fece n bisogno, e lu cuscì scappò fora com era prima. Allora per diversi giorni ndette a park le cavalle, e per badalle se nnisconnea tra le crine. Dopo artomò a casa, e la madre je disse: Tu n' ht fatto mai be con nisciù : va vvia eh' io n' ho voja de combatte con te. Deto grosso ndette vie, e je convinne de gir^ pel monne domannanno la carità. Quanno rrivava ntelle case , domannava sotto le finestre n pezzo de pa : la vergara jel portava giÒ ; ma non lo vedea in velie ; e lu ndera dicenno : Che te cciechi ! me pisti ? Dopo ritornò n al- tra olta a casa de la madre, e n altra olta la madre el manuò via; e Doto grosso artomò in fine a para lo cavalle; e sto pòretto morì n giorno sotto na zampata de na cavalla. (Casonuoye di Osimo).

le

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2:M

[UIORNALK DI FILOLOGIA

KASSEGNA BIBLIOGRAFICA

1. Il Filocopo del Boccaccio^ per B. Zumbini. iiier, 1879. In 8.° di pp. num. 65.

Firenze, Snec. Le Mon-

Considerato come cosa letteraria il Filo- copo «è l'opera più povera di pregi d'arte fra quante ne abbia scrìtte il Boccaccio ». Ma da essa « più che dalle altre di Ini, pos- siamo intendere il primo periodo sua vita e quel primo dispiegarsi delle sue facoltà in- tellettuali e morali, da cui derivò tutto l'av- venire dell'uomo e dello scrittore». Di più, in quel li )rQ si accoglie « una leggenda dif- fusa da qualche secolo innanzi per tutta Eu- ropa, ed obhietto a molte narrazioni in prosa e in verso » ; e ciò basta per dar ragione della cura con cui distinti critici si volsero in questi ultimi tempi ad esaminarlo, e della importanza che fu riconosciuta al Filocopo non solo nella letteratura italiana, ma anche nella letteratura comparata. Principalmente il Du Méril, il Landau e poi il Bartoli dedi- carono a quest'argomento belle e dotte pa- gine; ma un lavoro definitivo sul Filocopo non era stato fatto ancora, e soltanto adesso può dirsi che sia stata pronunciata su quel libro l'ultima parola, nel nuovo studio dello Zumbini, del quale qui veniamo a render conto. In quello scritto l'A. ha trattato i seguenti cinque capi: l.*» delle fonti del Fi- locopo; 2.° degli elementi onde è formatoli suo contenuto; 3.o del suo organismo; 4.° del suo valora come opera d'arte; 5.** dplla im- ])ortanza particolare che esso ha nella storia del Boccacc'o.

Parlando delle fonti, TA. comincia dal- r aggiungere nuovi argomenti a quelli già addotti dal Du Méril per provare che la leg- genda di Florio e Biancofiore, che costituisce il fondo del Filocopo^ fu derivata da un ro- manzo greco; mostra come i raffronti già fatti di quella leggenda coi romanzi greci sieno ancor pochi al bisogno, ed altri ne produce egli interessantissimi, tratti dai rac- conti di Giarablico, di Kliodoro, di Achille

Tazio, di Eumazio e di Senofonte Efesio, fa- cendo vpdere quanto tali raffronti conferi- scano per chiarire sempre più la parentela del Filocopo con i romanzi greci , e la « gre- cità maggiore nella narrazione italiana che non forse in qualsiasi altra straniera intorno alla medesima leggenda ». Diversamente però dal Du Méril, lo Z. non crede probabile che al Boccaccio « insieme con la materia della sua storia, sieno venute anche da fonte greca (^u^'lle favole mitologiche, onde è sparso il suo racconto ». A ragione egli osserva su questo proposito che nella maggior parte dei romanzi greci « gP intervenimenti degli Dei nei casi umani sono pochi in propor- zione dei fatti narrati. Ciò che vi abbonda, sono più propriamente gli amori degli Dei e le loro trasformazioni, descritte ora a modo di episodi, ora come esempi, onde s'illustri l'azione principale ». Cosi la mitologia è spesso in quelli piuttosto « ornamento, che non forza viva ed attiva, da cui proceda o abbia nuovo impulso l' azione dei perso- naggi ». « Nel Filocopo invece gì' interve- nimenti degli Dei sono continui, superflui e diversissimi da quelli che hanno luogo nei suddetti romanzi; e, inoltre, sono imitati dai poeti latini, che non furono mai tolti ad esempi dagli scrittori erotici ». Riprendendo quindi la questione già sollevata dal Bartoli intorno alle tradizioni orali delle quali il Boc- caccio abbia potuto almeno in qualche parte giovarsi, egli pensa che quella probabilità non sia esclusa dall'avere il B. seguito un testo greco o di provenienza greca ; reca nuove testimonianze della diffusione della leggenda di Florio e Biancofiore in Italia e della sua popolarità già in tempi anteriori a quelli in cui fu scritlo il Filocopo; ma ri- tiene che sieno insuffìcenti gli argomenti coi quali fu sinora impugnata la relazione, af-

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ROMANZA, M.*' 5 ]

BIBLIOGRAFICA

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fermata dal Le Clerc e dui Landau, fra il nostro romanzo e i poemetti francesi che pubblicò il Du Méril : cosa questa ben diversa dal fatto « di uu testo in tutto o in parte co- mune cosi al Filocopo, come ad altre reda- zioni straniere ».

Venendo agli elementi onde il Filocopo è composto, TA. combatte « T antico e co- stante errore della critica italiana, il credere che il Boccaccio abbia escluso dal suo rac- conto i soliti elementi cavallereschi e il so- lito portentoso dei romanzi d'avventura, e posto al loro luogo le favole e il portentoso della mitologia pagana ». Addentrandosi nel- r analisi del libro meglio e più compiuta- mente che non fosse stato fatto per V innanzi, egli nota che gli elementi più o meno feu- dali e cavallereschi , quelli cioè che non sono essenzialmente classici e formano la sostanza dei poemetti francesi , « si trovano tutti, senza eccezione di sorta, nel Filocopo », e così pure altri ne ha comuni il Filocopo colla ver- sione spagnola e colia tedesca del Fleck. Donde si vede che il B. non solo non voile escludere dal suo racconto questi elementi medioevali, ma ve li mantenne in tutta la loro ricchezza e varietà. E se altri ve ne introdusse di diversa natura, quali le favole mitologiche, osserva qui di nuovo il Z. che r A. « non usò quelle favole allo stesso modo che avevano fatto gli erotici grt»ci, ma imitò e spesso trasportò di peso nel suo racconto le immaginazioni beli' e fatte degli scrittori latini »; nel che « era mosso non tanto dal bi- sogno di uu meraviglioso mitologico, quanto dalla ammirazione particolare per Parte dei poeti classici. » Du questi egli « imitò non solo le immaginazioni mitologiche, ma an* cora i caratteri dei personaggi , le battaglie, i casi amorosi e altri fatti epici ed erotici di ogni sorta ». Copiosi e affatto nuovi sono in questa parte i riscontri che il Z. rileva fra il Boccaccio e i classici latini, specie Virgilio ed Ovidio « le due grandi fonti a cui egli attinse »; ma più importanti ancora sono le osservazioni ,clie soggiunge dopo, « sulPuso tutto suo proprio che delle due materie, Tantica delia 1 ggenda e ia mito- logica, fece il nostro Autore ». Quanto alla materia propria della leggenda, volendo per il primo determinare in che consistano le al- terazioni elio vi sarebbero stat»» portale dal

Boccaccio, egli si ferma sulla « massima di quelle alterazioni, che si riferisce alla pue- rizia dei due protagonisti » diffusamente nar- rata nei poemi stranieri, mentre nel Filocopo n'è appena menzione. La maniera diversa di trattare quel primo periodo è per il Z. « come una riprova del diverso concetto, che gU autori s' eran fatto di tutta la leggenda ». « Nel primo poema francese, come nel te- desco, sono meglio che in molte altre reda- zioni conservati quelli che probabilmente fu- rono i caratteri primitivi della tradizione; perché, come si vede da tanti altri segni, ne' loro autori er^ grande l'affetto per quella semplice e leggiadra storia », la quale « ciò che avea di più mirabile era appunto l'amore nato e divenuto invitto nella primissima età della vita, quando tale passione è ignota fin di nome. » Ma il B. « s'era messo a scri- vere questa storia senza che ci si sentisse

inclinato, e sol per ubbidire a Fiammetta

una leggi tri ce a cui rinnamoi*ameuto dei due bambini, per quanto egregiamente ritratto, sarebbe dovuto sembrare una insulsa novella, non buona nemmeno a far ridere »; e^questa ragione spiega abbastanza « perché il nostro Autore parla così poco, e forse solo per un residuo di ris{>etto alla leggenda, della pue- rizia dei due amanti. »

Ragiona poscia del modo onde furono trattati nel Filocopo gli elementi mitolo- gici, e' trova inesatta la sentenza del Lan- dau, che il B. abbia «tradotto la leggenda di Florio e Biancofiore, oltre che dal fran- cese nell'italiano, dalla sua forma me- dioevale in una forma pagana ». « Questa forma pagana, questo apparato mitologico, secondo lo Z. , tiene ancor molto del medio evo, nonostante lo studio che l'autore avea fatto dei poeti classici ». Giunone che scende a confortare il Papa contro gli Svevi ; gii Svevi perseguitati dalla moglie di Giove per- ché, per lungo ordine d'imperatori germanici e romani, discendenti da Enea; la fede nei Numi pagani e la devozione a S. Giacomo di Com(>o$tella, sono bizzarri accozzamenti che nulla sanno di classico, che fauno invo- lontariamente cadere il B. nel comico e che bastano a mostrare « come debbasi esser ))iu cauti nel giudicare della mitologia usata nel FilocopOy e come non sia giusto il farne un vero e proprio segno di riuascimento. Se i/.a

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RASSEGNA

[giornale di FILOLOGrA

che gli si neghi la debita importanza, si do- vrebbe insieme riconoscere quanto ancora di medioevale ritenesse un simile uso, e come esso significasse un certo retrocedere dal punto, dove, adoperando la medesima mito- logia, erano giunti Dante e il Petrarca. »

Lo scopo che aveva dinanzi a il Boc- caccio diverso da quello degli altri più an- tichi narratori della stessa leggenda, come influì nel modificare i caratteri di questa nella redazione italiana, così anche fu cagione che ne restasse modificato l'organismo. « Egli volle servirsi della famosa leggenda non solo come materia da fame un racconto partico- lare, ma da innestarvi quanti altri racconti eterogenei gli venisse fatto di comporre in quella occasione. li qual suo scopo in tanto gli era più facile conseguire, in quanto quei racconti egli doveva comporli , e poi leggerli o dargli a leggere, volta p?r volta, alla donna da cui gliene era stato commesso Tufficio. » Colta cosi la vera ragione dell'opera e il concetto della sua composizione, lo Z. ha po- tuto molto naturalmente spiegare 'a enorme [ polissifà con cui si svolge il Filocopo « quat- tro o cinque volte lungo che non sieno le più prolisse tra le tante redazioni stra- niere della medesima leggenda», e così anche la eterogeneità de* suoi elementi, i suoi ca- ratteri, le incoerenze, le contradizioni e le ri- petizioni della narrazione, e tutti insomma i difetti, le anormalità che si notario nel- Porganismo di questo romanzo. per altra ragione egli spiega la singolarissima geo- grafia ora fantastica ed ora reale del Filo- copo: il Boccaccio seguiva or questa or quella « secondo che gli paresse di poter trarre maggior profitto dall'una anziché dall'al- tra », si dava gran cura « che quelle di- verse indicazioni di luoghi, fatte secondo l'occasione con criteri opposti, non concor- dassero fra loro,... perché la maniera onde componeva non gliene faceva sentire il bisogno il dovere ».

Cosi composto il Fìlocnpo s'intende come potè piacere a' suoi tempi e particolarmente in quel circolo di uditori pel quale l'aveva scritto il Boccaccio ed al quale è probabile che egli lo recitasse; ma la sua fortuna do- vette epsere breve, e volendosene oggi misu- rare il valor Iftterario, bisogna convenire collo Z. che esso resta al disotto di tutt» le

altre redazioni straniere che lo precedettero e massime alla tedesca del Fleck. Una sola parte si sottrae a questo giudizio, ed è quella dove « sono evidentemente ritratte, come nelle Questioni d* Amore, persone e costumi con- temporanei e noti per esperienza al nostro Autore..., e tutte le altre narrazioni in cui, sotto una veste mitologica o fantastica, si contiene una sostanza tolta anch'essa dalla realtà ». Questa materia essenzialmente sto- rica è esposta dal Boccaccio molto meglio che non quella della leggenda, e vi si pre- sente il grande narratore che non appena lo invade « il senso della realtà , comincia a do- mare la rettorica. » Ciò principalmente si osserva nelle Questioni d'Amore, dove a c'è una verità mirabile di caratteri, e finanche quella verità che diremmo topografica »; esse formano la parte più piacevole della intera opera. Li « perfino Florio e i suol con>- pagni, che sono i caratteri ideali e .conven- zionali, acquistano sopra quelle scene, ri- tratte dalla realtà, una verità che nel Filo- copo non avevano avuta mai fino allora, e che poscia perdono di nuovo, quando, non appena finite le Questioni e ricominciato il racconto principale, essi ritornano sulle scene mute e fittizie della leggenda ».

E nella elaborazione della materia storica un'altra qualità affatto propria e caratteri- stica dell'ingegno narrativo del Boccaccio è pur messa in rilievo dallo Z.: quella di moltiplicare gli episodj e di dare a questi tale svolgimento, che lungi dall' intrecciarsi al fatto principale e di cospirar tutti ad un'unica catastrofe, essi via via se ne allon- tanino sempre più fino al punto di rimanerne indipendenti. Così nel B. si prepara incon- sapevolmente la Novella, e ciò che nel Fi- locopo è ancora un vizio capitale, cui si deve il morire della simpatica leggenda di Florio e Biancofiore, più tardi maturando diventerà il fattore del racconto Decameronico. Il Fi- locopo adunque, tuttoché poverissimo (li pregi artistici, e tra le versioni della leggenda di Florio e Biancofiore l^ roen bella, ha nom- pertanto un grande valore per la storia del primo prosatore italiano, poiché vi si sco- prono, in germe ma già abbastanza di- stinte, quelle qualità che più tardi faranno di lui un sovrano dell'arte innovata. E al Ziimbini spetta tutto il merito di questa bella

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ROMANZA, K.** 5]

BIBLIOGBAFICA

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determinazione; ma il sno opuscolo, che in 65 pagine con rara e perfetta economia con- densa un lavoro pel quale ad altri forse non ne sarebbero bastate 300, richiama singolar- mente r attenzione anche per altri riguardi: per il metodo cioè rigoroso ed esatto che egli portò in questo studio, e per la vasta e profonda conoscenza di che diede saggio,

non solo nelle letterature del medio evo, ro- manze e germaniche, ma ancora nelle lette- rature classiche , specie nella greca della de- cadenza ; ed esso ci fa sempre meglio sentire quanto altro debbasi aspettare per la storia delle lettere italiane dalP eminente autore dei Saggi critici e degli Studj sul Petrarca, E. Monaci.

2. Graniìnatica italiana deWuso moderno compilata da Raffaello Fob- naciam. Firenze, Sansoni, 1879. - In 16.o di pp. num. XXV - 363.

« Ognun sa oramai quanto gli studi della filologia abbiano, anche nel campo delle lin- gue romanze e perciò delP italiana, trasfor- mato i criteri ed il metodo su cui riposavano molte teorie grammaticali . . . Ora di questi nuovi studi , la più parte dei nostri moderni grammatici ed i più autorevoli non hanno potuto o voluto trarne profitto: altri si sono valsi largamente del metodo scientifico, ma non hanno serbato tutta quella chiarezza e facilità ohe ad uso dei non filologi sarebbe stata necessaria {pref. p. X Vili) ». In queste parole sta la prima ed ultima ragione del libro, la causa, cioè, che Io produsse e il fine a cui tende; v*è pure implicita Tenun- ciazione del metodo e un cenno della più grave difficoltà a superare. V*ha molti me- todi di grammatiche: filosofiche, storiche, comparate; ve n*ha di empiriche e di scien- tifiche, e per T italiano anche quelle delPui^o classico e dell'uso moderno. Tutte hanno un ordine e un fine particolare; ma tutte si connettono e si compiono a vicenda, ed una nuova grammatica doveva tener conto dei resultati di tutte per esporre le più esatte osservazioni deiruso secondo il sistema e i criteri ultimi della scienza. E per essere d'usocomun»e specialmente scolastico , do- veva escludere gli errori ed anche le inesat- tezze tradizionali delle grammatiche ante- riori al nuovo indirizzo scientifico, senza pure recare un'innovazione troppo grande e improvvisa; che una terminologìa e un ordine affatto nuovo Tavrebber resa meno pratica ed efficace. La difficoltà era grande, e TA. che Taveva misurata (XX) dev'es- sere ben soddisfatto d'averla vinta. La sua fjram natica è chiara, ordinata, facile e ri-

spondente, almeno nel suo complesso, ai criteri della, scienza filologica, tanto nelle parti che trattano dei suoni e delle forme, quanto in quella che riguarda la metrica e il verso. Se qualche inesattezza v*è corsa, questa è più che scusabile in un primo ten- tativo, e le osservazioni che seguono, mirano soltanto a chiamare l'attenzione dell'egre- gio A. su qualche punto particolare, e si rimettono al suo giudizio.

Distingue il suono chiuso e aperto di e, o; avverte che « di tal differenza non si possono dare regole sicure in tutti i casi (8) » e poi ne fissa la pronunzia « in certe parole d'uso frequentissimo nel discorso e in certe ter- minazioni e suffissi di formazione (9-18) ». Donde è tratto questo criterio di sicurezza? certo dalla pronunzia toscana, se non dalla fiorentina; ma perché e sino a qual punto la moderna pronunzia toscana dev'essere di refrola universale? non certo per la ragione medesima della lingua. Pertanto non sem- brano certi gli esempi : èbbi, - ebbe etc, - ètti," énto, -iè,' osto. La stessa incertezza è pure nella pronunzia aspra (ts) o dolce (ds) della z nelle parole: loUe, iucca; brezza, frizzo, ghiribizzo, ribrezzo, sozzo, scorza, sfar* zo (29) e nel raddoppiamento della conso- nante iniziale prodotto dall'accento di vocale finale o penultima in: da-lloro, dove-ssei, come-ccredi etc. (52-3). L'accento acuto e grave può essere utile in una grammatica per indicare il suono chiuso o aperto delle vocali e,o (59); ma di regola non è usato a tal fine nei libri italiani, ove soltanto e raramente si distinguono con l'accento le parole che cambiano il senso con la sede di quello. Le declinazioni dei nomi « quanto

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BASSEGXA

[giounale di filologia

a diversità fra singolare e plurale, si tro- vano realmente nella nostra lingua e possono riuscire di molta chiarezza e comodità a chi studia questa per passar poi ai latino (XXV) » ; ma è una concessione troppo grande fatta alla tradizione quella di dividerle empirica- mente in prima, seconda e terza (83), invece d'introdurre, analogamente al greco e al latino, la divisione per temi. Non s'intende quale « amore di esattezza » consigli di con- servare nelle forme plurali -eia o-gia la i, la quale nella pronunzia non si fa sen- tire né « poco (84) » molto, ed è affatto inutile per ragione analoga di- ciò, -^lo (86), e contraria a quella che introduce Vh nelle forme plurali di - ca o - ga. Ne < è necessa- rio di conservare V i quando il plurale potesse scambiarsi con qualche altro nome » (ivi), perché anche per il solo articolo ninno può confondere le ferocie e il feroce, le sagacie ed il sagace, le camicie ed il ca- mice. Maggior peso ha la ragione etimo- logica per la conservazione dell' t organico; ma P uso, non potendo distinguere T / orga- nico da quello puramente ortografico, segue la pronuncia e tende a sopprimerli entrambi nella scrittura. É pure inutile il doppio i nelle forme plurali di io (86) quando non sia possibile equivoco. Parrebbe meglio d'escludere affatto da una grammatica per quanto « d'uso moderno » parole barbare come : bagher e gibus (93 ). I plurali masc. in i e femm. in a di nomi col sing. in o hanno una spiegazione in tutto etimologica e la loro diversità di significato, special- mente metaforico (95-95), fu talora intro- dotta veramente dall'uso {bracci y braccia ; cigli f ciglia etc); ma assai spesso è una sottigliezza immaginata dai vecchi gramma- tici, che non sapevano come spiegarsi quella diversità. Difettivi sono piuttosto da chia- mare i nomi che hanno uno solo dei numeri, che quelli che designano il loro femminile con voce di diversa radice (104). Come le declinazioni dei nomi, così le coniugazioni dei verbi sarebbero state meglio distinte dal tema, che dall'infinito; bastava forse di chia- mare vocali tematiche quelle che sono dette

caratteristiche (151), e distìnguerle costan- temente dalla flessione. Io tal modo sarebbe stato possibiTe d'escludere assolutamente la divisione dei verbi in regolari ed irregolari, la quale, per quanto solita e tradizionale, è contraria alia verità, e alla proprietà scientifica. L'A. ammette che < la distin- zione della coniug. debole e della coniug. forte sarebbe stata di vantaggio a quelli che studiano l'italiano in comparazione col latino e col greco ; » ma teme che « a chi studia soltanto l'italiano sarebbe piuttosto di confusione che di vera utilità (186) >. Il greco va messo da parte: e quanto al lati- no, anche a prescindere da una comparazione attuale e continua, la quale richiederebbe la conoscenza delle due lingue, quella distin- zione introdotta nella grammatica italiana risponderebbe benissimo a quella che è nella grammatica latina, e l'analogia aiuterebbe a vicenda Io studio delle due lingue, fosse Tuna o l'altra studiata per prima. Non sono da riguardare alcimi esempi che di tale rinnovamento si sono avuti (1); che quelli, per esser posti a rovescio, hanno sconvolto un ordine, che, se non altro, era empirico e tradizionale, per sostituirne uno contrario egualmente alla scienza che ai fatti. Qual- che difficoltà sai'ebbe di certo nel modo di esporre con chiarezza la nuova teoria; ma cesserebbe l'altra di raggruppare in modo convenzionale i verbi chiamati irregolari, e un piccolo sforzo dell'intelletto ne rispar- mierebbe uno maggiore della memoria.— Non è detto con esattezza che < la terza con- iug. conserva dappertutto la sua vocale caratteristica t, rafforzandola, nei tempi e persone dove anderebbe perduta, con se (166) ». La forma incoativa non è un feno- meno fonologico di rafforzamento; rientra invece nella morfologia anche quando sia effetto di semplice processo analogico. Le forme parallele ai participi passati della l.ft coniug. non sono, come vengono quali- ficate: « aggettivi atfini di senso e di forma al participio stesso, del quale o sono o pa- iono un accorciamento (169) » ; ma sono, per la maggior parte forme di veri participi forti,

(1) Teorica dei terbi irre/jolari della Ungttu itnlinun. Saggio di morfc»logi« comparata di Lritu Amki>£o; ToriJio, Losclicr, 1877. Cuf. 0 tomaie, I, 'HO.

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ROMANZAt N.** 5|

BIBLIOGRAFICA

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parallele alle deboli, originarie come: adat- tato e adatto, confessato e confesso, ov- vero analogiche o, secondo altri sincopate, come: pestato e pesto, votato e vuoto etc. Più minute osservazioni non ci consente il limite d* una rassegna, e preghiamo l'egre- gio A. di accogliere queste come un segno

deir interesse che desta lo studio della sua grammatica, e come espreasione del desi- derio che in una nuova edizione, la quale certo non mancherà, risponda più compiu- tamente air utilità degli studiosi e alle esi- genze dell'uso scolastico.

G. Navone.

3. Itàlienische Grammatik tnit herucTtsichtigung des lateinisclwn und der romanischen Schwestersprachen von D/ Aristide Baragiola. Strass* burg, Trùbner, 1880. - In 8." di pp. uum. XVII - 240.

« Il libro è diretto particolarmente a quei lettori, i quali vogliono giovarsi della cono- scenza del latino per lo studio deiPitaliano, sia che intendano imparare soltanto T italiano moderno, sia che vogliano prendere cono- scenza anche dell' antico e porre cosi il fon- dament.) a studi di filologia più profondi » (Vorwort). L'A. ha creduto opportuno di riunire tre scopi in uno e fare una gram- matica che fosse al tempo stesso comparata, storica, e d'uso moderno. Il compito può sembrare subito troppo difficile , specialmente in quanto al metodo e all'esposizione; ed infatti quella triplice natura fa si che il libro, a parer nostro, non ne abbia interamente alcuna, e i tre scopi raggiunga imperfetta- mente. Fra i libri consultati si annoverano le grammatiche del Cinonio, Buonmattei, Fornasari, Valenti ni, accanto alle opere del Diez, Brachet, Eonsch, Schuchardt; gli esempì sono tratti da Dante, Boccaccio, Villani , Ariosto, Firenzuola, Gozzi, Goldoni, Leopardi, D'Azeglio, Manzoni e De Amicis. Materiali così diversi, per quanto disposti e ordinati, non potevano fondersi, e T edifìcio apparisce sconnesso e screpolato in più par- ti. — La fonologia manca di base: semplici enunciati generali, senza la necessaria di- stinzione delle leggi, non servono alla scienza all'uso. Non giova sapere che una vocale, senza distinguere se iniziale o media, se per evoluzione propria e per po- sizione, sì modifica in un modo o in un altro, anzi che si modifica in tutti i modi. E questo mostra l'A. in un paradigma da cui risulta che a ioti. ital. viene da lat. a, e, i,o, ea, au; che u lat. in pos. tanto u che ò; che 5, d restano d, ò se non s'oscurano in

u: che t si ha egualmente da t, ì, è, H, mentre i , X danno pure è, e, ed è, è pro- ducono alla loro volta è, é (6). Lo stesso avviene per le vocali atone e per le conso- nanti: s si ha da « iniz. e med. e per con- trario s iniz. 0 med. s'ammollisce in se (13); t rimane inalterato in principio e in mezzo di parola, ma anche vi si cambia in d (14). È da aggiungere che molti esempi non sono addotti a dovere: au ton. fPisaurumJ non avrebbe dato a (Pesaro) se non avesse per- duto l'accento; la sibilante doppia di rus- sum non può essere considerata come quella scempia innanzi ad i vesica; saldo può paragonarsi direttamente con «solidus»; madre deriva da « mater ». Assai meglio è trattata la morfologia. La declinazione vi è divisa in tre classi secondo la desinenza, l'esposizione è informa di paradigma, e in nota sono date le forme antiche e qualche cenno d'etimologia, a dir vero, non sempre esattissimo. La parte più importante ò quella dei verbi. La classificazione in forti e deboli vi è bene applicata anche all'uso di una grammatica prattica; ma non le ri- sponde la divisione delle coniugazioni basata sulla desinenza (115) ; forse era meglio divì- derle prima secondo il tema, e mantenere per le derivate la divisione in classi rispon- denti alla vocale tematica. Per spiegare la pluralità delle forme nella coniugazione an- tica e moderna non è necessario ricorrere all'influenza letteraria (116), la quale ha piuttosto unificato con la scelta e con l'esclu- sione; né è esatto dire che la nuova coniu- gazione sia effetto d' una nuova e particolare evoluzione (117), poiché consta delle forme antiche più in uso o di più spontanea ana-

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BASS. BIBLIOGB.

[OIOBMBLE DI FILOLOGIA

logia. sembrano accettabili gli esempi addotti a praova di quell* enunciato, perché le forme del pres. ind. mod : - o, - 1, - a, - Ì€uno, - ate, - ano ant: - o, - a, - a, - amo, - ati, - ano ( 119) dovrebbero essere costantemente distinte per le due coniugazioni, mentre le antiche sono oscillanti, e si potrebbe dire anche rare in confronto delle altre parallele, che, appunto perché più comuni, sono passate alla lingua moderna. L*ant. creare , apendre etc. non sono esempi di metatesi, ma di sincope vi- cino air apocope di chieder, spender; sembra che le forme delP infinito in ari, eri, iri debbano ripetersi dalle forme passive la-

tine (127). Non è chiaro il perché siano classificati fra i verbi che hanno la forma incoativa vicino alla semplice: convertire, divertire (133); nella prima classe delle forme forti il raddoppiamento della nasale di venni non è « efletto di un* inclinazione deir italiano a quello » (145); ma piuttosto della vocale lunga di « veni ».

Altri rilievi potrebbero farsi; ma questi mostrerebbero sempre che se è sparsa nel libro qualche incertezza e talora anche un pò* di confusione, il difetto va attribuito in gran parte allo scopo molteplice e forse non ben definito di quello.

G. Navone.

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ItOMANZA X." 5| 211

BULLETTINO BIBLIOGKAFICO

1. Le origini della Unguu poetica italiana: priucipii di grammatica sto- rica italiana ricavati dallo studio d^i manoscritti con una introdu- zione sulla formazione degli antichi canzonieri italiani, del Dott. C. N. Caix. Firenze, Succ. Le Mounier, 1880.

In 8.** gr. di pp. num. 284 ; forma la Disp. 6.* del voi. II delle Pubblicazioni del R, Istituto di studj superiori in Firenze t sez, di filon, e di fdologia. Di questa importantissima pubblicazione ci limitiamo per ora a dare il semplice annunzio, intendendo di ragionarne diffusamente nel prossimo numero.

2. Studj di critica e storia letteraria di Alessandro D'Ancona. Bologna, Zanichelli, 1880.

In 16.° di pp. num. 504. Il volume non contiene cose nuove, ma la ri- stampa con correzioni ed aggiunte di quattro belle memorie che nel modo come furono pubblicate la prima volta, non erano rimaste abbastanza accessibili a tutti gli studiosi. Queste memorie sono : 1.» Il Concetto déW unità ^litica nei poeti italiani (prolusione letta nella Università di Pisa) ; 2:* Cecco Angiolieri da Siena, poeta umoristico del sec. XIII (già edita nella Nuova Antologia); 3." Del Novellino e deUe sue fonti (edita la prima volta nella Bomania)-, 4.* La Leggenda d^ At- tila flagellum Dei in Italia (inserita nella Collezione Nistriana di Antiche scrit- ture italiane).

3. I Manoscritti italiani della Biblioteca Na.ifbnale di Firenze descritti

da una società di studiosi sotto la direzione del prof. Adolfo Bartoli: con riproduzioni fotografiche di miniature, eseguite da V. Paganori. Sezione prima: Codici Magliabechiani ; Serie prima: Poesia. Tomo L Firenze, Carnesecchi, 1879-80.

In 8.*>; fase. 1-5 da p. 1 a 3'20 con tre tavole fotografiche. La scuola del prof. A. Bartoli si distingue per una operosità veramente feconda e degna d* in- coraggiamento. Nel corso di un anno appena di uscirono i bei lavori del Biagi, del Bariola e dello Straccali, dei quali si parla qui e nel fase, seg., e ora si è cominciata la grande illustrazione di tutti i mss. italiani che si conservano nella Magliabechiana. Così mentre il maestro sta componendo una storia della nostra letteratura che fa dimenticare tutte le precedfnti, i suoi allievi li vediamo con bella gara intenti a lavorare nello stesso campo, dissodando ed esplorando il ter- reno per ogni verso. Questa pubblicazione dei Manoscritti ^ di cui tenemmo pa- rola (Num. 4, p. 119) facendone conoscere il programma, ora è di già per- venuta al h,^ fascicolo, e in 320 pagg. ha data la descrizione di 00 codici. Parrà forse un pò* di lusso in queste proporzioni, trattandosi di un catologo; ma pur

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m2 BULLETTINO [oiorn ale di filologia

bisogna notare che in questa parte si descrivono tutti testi poetici, e che di ogni poesia benché brevissima si àò» sempre con ottimo consiglio, oltre al tìtolo , anche il primo e V ultimo verso : s'intende così che non potevasi fare troppa economia di spazio. E le descrizioni dei mss. sono accuratissime ; qua e è pubblicato per intero qualche testo più importante, e vi si ancora conto minuto di tutte quelle particolarità esterne od interne che potrebbero recare schiarimento sulla storia del volume. Di tavole fotografiche ne furono date finora tre. Non sap- piamo che resterà di queste tavole da qui a dieci o dodici anni. Intanto due di esse offrono un saggio di due codici danteschi , V altra rappresenta una Danza Macabra inserita in una raccolta di Laude della prima metà del sec. XIY. Es- sendo stato dimostrato che V affresco del Camposanto di Pisa é, non delP Orgagna, ma d'altro artista che visse circa il 1370, T anteriorità della miniatura qui ri- prodotta « può ritenersi indubitata » ed essa acquista da ciò un grande valore per la storia dell' arte. Nelle descrizioni dei mss. sono aggiunte di tanto in tanto anche indicazioni bibliografiche, e della scarsezza di esse alcuni critici mossero lamento. Noi la pensiamo diversamente, e se ci fosse lecito di dare un consi- glio, vorremmo persuadere gli egregi autori di questa pubblicazione a lasciare affatto da parte, almeno per ora, qualunque indicazione di quel genere. Se in- completa, la bibliografia è inutile, completa poi altererebbe soverchiamente l'eco- nomia del Catalogo, il quale non deve avere altro scopo che quello di far cono- scere i manoscritti.

4. Le Novelle Antiche dei codici Panciatichiano-Palatino 138 e Lauren- ziauo-Gaddiano 193 con una introduzione sulla storia esterna del Novellino per Guido Bugi. Firenze, Sansoni, 1880.

In 8.<» di pp. nura. CCVl-2ri8, con un facsimile; edizione di 500 esempi.— Con questo volume ha principio una nuova Raccolta di opere inedite o rare di ogni secolo della letteratura italiana, altra impresa promossa dal prof. Bartoli, editore il Sansoni; ed è uno dei più distinti allievi del Bartoli, il D.' Guido Biagi, che fa degnamente gli onori della inaugurazione. Le difficoltà che si presen- tavano ad un nuovo editore del Novellino non erano poche lievi, trattandosi di un testo, del quale profonde sono le disformità che corrono tra le antiche edizioni ed anche fra i codici manoscritti. Che se diversi studj e particolar- mente quelli del D'Ancona avevano dato già un buon impulso per avviare la critica sul retto sentiero, al Biagi peraltro spetta il merito di aver portato que- sta crìtica a risultati che per gran parte possono dirsi definitivi. La sua In- troduzione sulla storia esterna del Novellino ò un lavoro che fa veramente onore alla scuola italiana. Essa è seguita dalla edizione di due distinte redazioni del Novellino che si conservano nei Codd. Panciatichiano-Palatino 138 e Laurenziano- Gaddiano 193, e di tutto riparleremo più distesamente dopo che sarà pubblicato l'altro volume, al qual questo serve di prodromo, e che, secondo promette il Biagi, conterrà il testo critico del Novellino,

5. Felice Bariola, Cocco (T Ascoli e V Acerba, Saggio. Firenze, Tipogr.

della Gazz. d'Italia, 1879.

In 8.** di pp. num. 133. Estr. dalla Rivista Europea Rivista Intemazio- nale, — Molti scrissero anche recentemente di Cecco d'Ascoli, ma si può dire che il sig. Bariola ò stato il primo a parlarcene senza essere preoccupato da spi-

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HOMANXA, N.*» 5] BIBLIOGRAFICO 243

rito di partito e dopo avere maturamente studiate le opere di lui e tutto ciò che si riferisce alle sue vicende. Egli esamina e discute accuratamente quanto fu nar- rato della sua vita, sceverando con sagacia quel che si sa di certo dal dubbio o dal leggendario : passa indi a trattare degli scritti dell' Ascolano e particolar- mente dell* Acerba j della quale d^ una minuta analisi accompagnata da un buono studio letterario, e termina con un saggio del testo di questo poema secondo la lezione di uno dei mss. più antichi, comparato con altri quattro mss. Il sig. B. lascia sperare che in seguito dark una nuova edizione deìV Acerba, e dobbiamo rallegrarci di questa notizia, perché egli, massime per la parte letteraria, si mostra molto ben preparato a un simile lavoro. Ma la parte filologica, nella quale non volle ancora provarsi, presenta anch'essa dei problemi che vogliono essere risoluti , principale dei quali quello della lingua in cui fu scritta l'opera; e non sapremmo incoraggiare l'egregio A. di avventurarsi in quella specie di eccletismo cui sembra inclinato (v. p. 128), disperando già di poter riuscire nella ricostituzione della genealogia dei codici. Senza dubbio' in siffatto lavoro non è sempre possibile di determinare tutte le incognite ; ma riconosciuti almeno i co- dici che sono fra loro indipendenti, riconosciuto il dialetto dei copisti, e rico- nosciuti finalmente ì caratteri del dialetto dell'autore, non gli sark difiicile di procedere innanzi e di compiere l'opera in quel modo che dobbiamo aspettarci da chi vi diede principio con un saggio così benfatto.

6. Sonecti composti per M. Johanne Antonio de Petruciis Conte di Poli- castro j pubblicati per la prima volta, dietro il lus. della Bibl. Naz. di Napoli da Jules Le Coultre e Victor Schultze. Bologna, Ronia- guoli, 1879.

In 16.° di pp. num. XLVI-102. G. A. de Petruciis visse nel sec. XV e avendo preso parte insieme con altri gentiluomini napoletani alla celebre Congiura dei Baroni contro re don Ferrante d'Aragona, nel 1486 fu fatto prigione e poco più tardi decapitato. Durante la sua prigionia scrisse i Sonecti qui pubblicati, i quali se non abbondano di pregi poetici, hanno tuttavia un interesse storico che non si può disconoscere, ritraendo essi al vivo le idee, i sentimenti e la coltura di un cortigiano di quei tempi. I giovani editori nel darli alla luce secondo un ms. assai guasto che si conserva nella Nazionale di Napoli, arricchirono il vo- lume di una diffusa illustrazione storica, e vi aggiunsero ancora alcune note gram- maticali che ci sembrano la parte men buona di questo volume. dove peres. si osserva « la confusione continua (che spesso chiamano « equivoco ») dell'i o dell' in sillaba accentata, non abbi»mo veramente che o il solito effetto del- l'azione regressiva di un % finale come in pmcirt, ri ecc., o uno scambio di suf- fissi^ome in delectivile {-ibilis per -ébilis), ovvero affettazione di forme latineggianti. Così pure non ò una « originalità ortografica » di questo autore lo scrivere per ch. disprecza, grandecze, ma anche questa b una affettazione di ortografia etimolo- gica, frequentissima nelle scritture del medio evo in Italia e particolarmente nelle Provincie meridionali. Riguardo poi alla lezione dei Sonetti, importanti correzioni e supplementi pubblicò già il Miola in un ottimo articolo su questo libro, iuse- rito ueWArch, stor, 'per le prov. Napol, an. 1871), e a qncll' articolo rimandiamo i lettori nostri, anche per ciò che riguarda una poesia spagnola che si trova framezzo ai Sonecti del l>e Potrucìi!' e che il M. restituiva a Diego Hurtado do Mendoza.

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211 BULLETTiyO [giobx ale di filologia

7. Rispetti del scc. XV. Ancona, Civelli, 1880.

Eatratto dal n.° 1 del Preludio, Sono ventidue Rispetti che il aig. Eduardo Alvisi ha tratto da un formulario cancelleresco del notajo Pietro di Antonio da S. Croce di Valdarno (cod. Gadd. Laurenz. n.** 161). Come gli antichi cancel- lieri bolognesi scrivevano sulle pagine bianche dei loro Memoriali quelle Rime che il Carducci pubblicò, così fece dei Rispetti del suo tempo il buon notajo fiorentino. L'AI visi ha scrupolosamente estratto dal codice e pubblicato questi documenti della poesia popolare quattrocentista, facondo notare il ragguaglio del n.** 3 colle molte lezioni moderne, e l'importanza del n.** 22 (Venir ti possa il diavolo allo letto) menzionato nella Mandragola, e del quale il D'Ancona {Studi siUla poesia popoL p. 160) riferì solo lezioni moderne delle Marche e del- l' Istria. Altri raffronti da farsi sarebbero i seguenti : il n.° 2 col n.° 214 del Tigri; il n.° 4 coi n.» 818, 821, 856 pur del Tigri; il n,^ 5 col 4.» Strambotto del ^ Giustiniani, il n.** 8 collo Strambotto riferito dal D' Ancona, op, cit. pag. 131 ecc.

8. ToRRAC'A F., P. A. Caracciolo e le Farse Cava Jole, Napoli, Perotti, 1879.

In 8.'* di pp. num. 30. È questa un'altra buona contribuzione che il prof. Tor- raca offre alla storia del teatro nelle provincie Napolitane (v. Giornale^ 1, 109). Dalla Sacra Rappresentazione qui passa col Caracciolo (sec. XV) alla Farsa, e colle Farse Cava j ole ci fa giungere fino al sec. XVII. . Del Caracciolo disgraziata- mente sembra tutto perduto, tranne gli argomenti di undici farse e alcuni brani di queste, che bastano per farci deplorare la loro perdita. Le Farse Cavajole, che appariscono nel secolo successivo a quello del Caracciolo, sarebbero secondo r A. uno svolj^imento della farsa caraccioliana, che il D'Ancona definì « capricci semi-improvvisati, lazzi senz'arte e senz'intreccio, destinati a sollazzare gli ascol- tanti colla vivezza dei motti, la prontezza delle arguzie, i sali del dialetto ». Orig, del teatro itah II, 214. Il Torraca ne trovò nella Nazionale di Napoli una bella raccolta compilata nella prima metk del sec. XVII, e nell'ultima parte di questa memoria ne fa l'analisi, dopo avere illustrata l' etimologia del nomee la storia del genere, uno schietto prodotto indigeno dello stesso paese che in altri tempi fece gustare a Roma le Atellaue.

9. Mascarata villanesca recitata nel mese di Maggio 1580 di M, Ales- sandro Sozzini da Siena, ora per la prima volta pubblicata con Pre- fazione e Note dal prof. A. Lombardi. Siena, Gati, 1879.

In 8."* di pp. nnra. 35. Elegante edizioncina del Gati, resa più pregevole dall'opera letteraria del prof. Lombardi. Solo b da notare che non si sieno fatti rilevare colla stampa i cominciamenti metrici delle ottave e delle terzine. Le note sono attentamente compilate; la prefazione contiene rapidi ma utili rag- guagli sull'autore e sulla forma comica del teatro senese del cinquecento, e una congettura notevole sopra la probabile etimologia della denominazione di Bru- sccUo, La Mascarata oltre esser importante per la lìngua villanesca, può gio- vare a conoscore alcuni costumi della gente di contado nel sec. XVI. Augu- liamo che il Lombardi faccia a queste seguire altre pubblicazioni congeneri, e che l'esito di c^uesta edizione dia animo al Gati di accompagnare la Mascarata sozziniana con altri sa;^gi doli' antico teatro senese.

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ROMANZA, N.-» 5] BIBLIOGRAFICO 245

10. Leggende popolari siciliane in poesia raccolte ed annotate da Salva- tore Salomone-Marino. Palermo, Pedone Lauriel, 1880.

lu 16.** di pp. num. XXIX-435. Questo voluire richiamerà in particolar modo Patteazione degli storici della letteratura popolare. Fu già affermato e soverchiamente ripetuto che la poesia del popolo siciliano è essenzialmente lirica, e quasi negavasi a quel popolo la facoltà epica. A questa sentenza il Salomo- ne-Marino contrappose la Baronessa di Carini, simpatica leggenda locale ita a frammenti e da lui amorosamente ricomposta e studiata; indi dava nel voi. Vili del Propugnatore quattordici Storie popolari in poesia siciliana riprodotte da vecchie stampe, e finalmente nel volume qui annunziato ha fatto conoscere sessan- tuua Leggende verseggiate, che potè raccogliere dalla tradizione orale: tutte com- posizioni che se non provengono da analfabeti, certamente però appartengono al popolo, che solo le gusta e le mantiene in vita. Vi si canta del Conte Ruggeri e del Vespro Siciliano, della rivoluzione del 1860 e della morte di Vittorio Ema- nuele e di Pio Nono, di Gioacchino Murat e di Fra Diavolo, e poi di fate, di banditi, di santi, di monaci, di avventurieri, d'incantagioni, di terremoti, di ca- restie e di quant' altro la storia, o la immaginazione impresse nella fantasia di quelle vivacissime popolazioni. A questi interessanti materiali il S. M. aggiunse copiose note storiche, raffronti, e glosse per la intelligenza delle parole meno fa- cili; onde ci sembra che il volume nulla lasci a desiderare e offra nel suo con- tenuto una delle più utili e pregevoli contribuzioni che in questi ultimi anni furono recate agli studj sulla letteratura dei volghi italiani. Vd. su di esso il bollo scritto del D'Ancona nella Rassegna Settimanale, 4 Luglio 1880.

11. Za legende de Trajan par M. Gaston Paris. Paris, Impr. Nationale, ^ MDCCCLVIIL

In 8.<* Estr. dai Mclanges puhliés par VÉcole des hautes études, da pp. 261 a 298. Le più antiche redazioni finora note di questa leggenda che trovò luogo anche nella Divina Commedia, sono dell* VIII e del IX secolo, in Paolo e in Pietro Diaconi. Ma la sua origine risale molto più addietro ed ò riconosciuta in un aneddoto che riferì Dione Cassio dell'imperatore Adriano. Costui un giorno incontrò una donna che gli porse una supplica. « Non ho tempo » disse egli sulle prime, ma l'altra: «'Allora non regnare » gli soggiunse, e l'imperatore colpito da quella risposta, tornò addietro e le rese giustizia. Da Adriano facil- mente il popolo trasportò questo beli' aneddeto alla vita di Trajano, il quale fu per esso l' imperatore buono e giusto per eccellf nza ; e in un bassorilievo così opina il P. lungamente couservatosi nel Forum Trajani e rappresentante l'im- peratore a cavallo con innanzi a una donna ginocchioni, la quale doveva sim- boleggiare una provincia conquistata, il popolo credette raffigurare il fatto della vedovella che chiedeva giustizia. Come tutti i Romani che passavano pel Foro, anche S. Gregorio dicono che un giorno fermasse l'occhio su quella rap- presentazione, e tornandogli a mente il bellissimo atto del principe, implorò per lui la liberazione dell'inferno, ecc. ecc. Tale in succinto ò la storia di questa curiosa leggenda: la quale se più volte, era stata studiata, e particolarmente dal Massmann, dal D'Ancona, dell' Oesterley e dal Kòhler, soltanto però in questa bella dissertazione del P. più dirsi che abbia ricevuta una illustrazione completa e definitiva.

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24G BULL E TINO [giornalb di filolooia

12. BaccoUa di Proverbi Veneti fatta da Cristoforo Pasqualioo. Seconda edizione accresciuta e riordinata. Venezia, Coletti, 1879.

In S.*» di pp. num. VIII-327. La buona accof^lienza fatta alla prima edi- zione di questa raccolta che vide la luce fra il 1857 e il 58, mosse TÀ. a cu- rarne un'altra che non fosse semplice ristampa, ma largamente ampliata e cor- retta sempre meglio rispondesse ai molteplici desiderj della scienza. La novella edizione contiene oltre a cinquemila proverbj raccolti in Venezia e nella sua pro- vincia, per la più parte dalla viva voce del popolo, ma in parte ancora da col- lezioni manoscritte e da una stampa del sec. XVI (Le TJiece Tavole de proverbi ^ sentenze ecc.), che di veneti ne contiene circa 300. Questi Proverbj sono aggrup- pati secondo gli argomenti, e gli argomenti sono disposti per alfabeto, formando ben 88 capitoli che bastano a farci fare piena conoscenza con quel gentile e vi- vace popolo che è il veneziano, e a farci gustare tutto lo spirito e il sentimento che esso manifesta nelle varie contingenze della sua vita. Il testo dei proverbj è spesso accompagnato da varianti e riscontri, vi mancano note che dichia- rino le locuzioni o i vocaboli men facili del dialetto. Bensì manca ai proverbj una numerazione, che pure sarebbe stata molto comoda per chi voglia lavorare su questo interessante volume. Nel fine di esso il sig. P. quest'annunzio: « Perché agli studiosi della demopsicologia non manchi alcun elemento di giu- dizio sul popolo Veneto, verranno stampati a parte i Proverbi erotici, in una edizione fuori di commercio. »

13. Sul parlare dei Sardi e la derivazione dcW articolo determinativo nelle lingue neolatine. Saggio di Alessandro della Barba. Reggio d'Emilia, Calderini, 1880.

In 8.^ di pp. num. 55. E^tr. dalla Cronaca del R. Liceo Spallanzani di Reggio d* Emilia, an. scoi. 1878-79. Il Liceo non ci pare il luogo più opportuno per fare della filologia comparata, ma questa é ora la moda corrente in Italia, e se nem- meno il nostro A. seppe resistervi, non dobbiamo imputarglielo a colpa. In questa dissertazione egli dk> parecchi ragguagli sul dialetto Sardo, sul suo fonetismo e in specie sulle difl'erenze, poco notate finora, tra Sardo parlato e Sardo scritto: ragguagli che possono dire originali, poiché una dimora non breve fatta dalP A. nell'isola, gli permise di raccogliere da stesso materiali abbondanti e sicuri, che sarebbe buono facesse conoscere in più larga copia agli studiosi. Una mono- grafia metodica dei vernacoli della Sardegna, anche dopo il lavoro del Delius che si limitò al Sassarese del sec. XIII, non può non tornare utile per quanti colti- vano la dialettologia italiana. Incorando a un simile lavoro il nostro A., non dubi- tiamo che egli, dopo essersi meglio addentrato nella struttura di quelle parlate, abbandonerebbe da T opinione che qui produce, sulla origine dell' « articolo de- terminativo » cercando di riconnetterlo col greco e col sanscrito. Pare strano a lui che il Sardo abbia derivato il suo articolo da «pse, mentre gli altri popoli neolatini lo avrebbero derivato da Ule; ma non variarono egualmente le lingue romanze in altri casi analoghi ? come p. e. neir uso dei verbi ausiliari, di guisa che airit sono stato, risponda il fr. f ai étc e il port tenho sido e il vai. am fost, ove vediamo colla stessa funzione hahere, esecj tenere , fieri? T avere il Lo- godurese conservato intero Vipse in qualità di pronome, può fare difficoltìi per la forma dell* articolo; perché questa, come proclitica, avcudo perduto Taccento, sog-

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ROMANZA, N.*^ 5] BIBLIOGAFICO 247

giacque naturalmente ad alterazioni ben diverse, e so ed ipse (art. e pron. sardo) stanno di regola ad tpse lat., come lo ed egli (art. e pron. ital.) stanno di regola al latino iUe.

14. Vocabolario dell'uso Ahmazese del Doti. Cav. Geknàeo Finamobe. Lanciano, Carabba, MDCCCLXXX.

In 8.*» di pp. num. VII-306. Questo volume, che per la eleganza con cui fu stam- pato fa onore alla tipografia Abruzzese, esce come saggio di più vasta opera destinata ad illustrare i vernacoli e le tradizioni popolari degli Abruzzi, e contiene non sol- tanto un Vocabolario, come parrebbe dal titolo, ma anche una bella scelta di Pro- verbj. Motti e Sentenze, nonché 269 canti raccolti in ventidue paesi delle Pro- vincie di Chieti, di Teramo e d'Aquila. Vi sono inoltre copiosi appunti fono- logici e morfologici sulle parlate di quella regione , e nel Vocabolario abbondano i raffronti delle varietà sotto-dialettali , di guisa che nel tutt^ insieme si ha qui un manuale che tornerìi utilissimo per la conoscenza di quel gruppo di dialetti.' Nel Vocabolario TA. non volle omettere la dichiarazione etimologica di molte delle parole registrate , e questa parte darebbe luogo a varie osservazioni. Ah^ herrutà per es. nulla ha che fare coir Ungherese horitàniy ma suppone un lat. adoolutare; ammuccià non h da ohmutescerey ma già dal Diez fu ricolle- gato al m. a. ted. sich mùzen (cnf. fr. musser, pie. mucher); stutà non ò dal greco eOo, ma ha base in *tutar e (v. Arch, glottol. I, 36, n.); chiocchia (= san- dalo) piuttosto che ravvicinarla al latino <^ caliga o calceus », era da ravvicinarsi a ciocia^ che è da sacci, mutato genere e numero (v. Caix, Studj d* etimól. 280), e chiocchia starebbe a soccit come chiappine pure abruzz. sta a sapinus. Ad altri appunti darebbe luogo anche la fonologia, dove TA. prese a base di confronto rital. letterario anziché il latino; ma è da ricordare ciò che egli dichiarò nel modo il più esplicito nella prefazione : non aver qui voluto presentare studj suoi proprj, ma soltanto dei materiali per agevolare gli studj altrui.

15. Chrestomaihie provengale accompagnée d'une grammaire et d'un glos- saire par Karl Bàrtsch. Quatrième édition, révue et corrigée. El- berfeld, Friderichs, 1880.

In 8.° di coli. 600. L' essere in pochi anni arrivato già alla quarta edizione ò la più bella lode che possa farsi di questo libro, il quale insieme al Grundriss zur Geschichte der prov, Literatur forma un manuale il più completo e il più co- modo non solo per V insegnamento nelle scuole superiori , ma anche per tutti co- loro che vogliano da soli acquistare una sufficiente conoscenza della lingua e della letteratura provenzale. Questa nuova edizione presenta notevoli miglioramenti sulle precedenti. L'A. vi tenne conto delle critiche che gli erano state dirette, aggiunse qualche nuovo testo, altri corresse nella lezione o nella cronologia, varj ne collazionò sui mss., accrebbe per alcuni il materiale delle varianti, ritoccò la grammatica e il glossario, e tutto insomma il volume sottopose ad una revi- sione accurata e diligente quale non era stata fatta nella terza edizione.

16. Le debat d'Imam et de Sicari de Figueiras, Poèrae proven^al publié, traduit et annoté par Paul Meyer. Nógent-le-Routrou, Daupeley- Gouverneur, Avril 1880.

In 8.<» di pp. num. 53. Eatr. dM'Annuaire Btdletin de la Società de VHistaire de France, an. 1879. Il Débat d' Izarn non era ignoto agli eruditi. U Millot

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248 BULLETTINO [giornale di filologia

ne aveva data uoa analisi e varj brani tradotti, degli estratti ne pubblicarono il Raynonard e il Bartach, il David ne diede conto nella Ilistoire lUtéraire de la Fr. ed altri ancora se n'erano occupati. Coatuttociò una edizione dell* intero testo mancava ancora, e questa è stata procurata testé dal Meyer, il quale T ha inserita fra le pubblicazioni della Società per la storia di Francia come naturale appendice alla nuova edizione che egli compì Tanno scorso del poema sulla cro- ciata contro gli Albìgesi (v. Giornale, n.*» 4, p. 119). Il testo , che riproduce fe- delmente l'unico ms. ove ci fa conservato, è accompagnato da una traduzione in francese, e da uua prefazione, in cui l'A. discute il valore di questo poe- metto e mostra l'importanza che esso ha per la storia dell' Inquisizione nella Francia meridionale, e per meglio chiarire le dottrine professate dagli Albigesi.

17. Ein spanisches Steinhuch mit Einleitung und Annierkungen zum er- stenmal herausgegeben von Karl Vollmolleji. Heilbronn, Heunin- ger, 1880.

In 16.** di pp. num. VI-34. È un Lapidario spagnolo tratto da un ms. del sec. XV, che si conserva nel Mu^eo Britannico. Nella succinta introduzione che gli premise, TE. ricorda gli altri lapidarj spagnoli di cui ebbe conoscenza, e tocca delle fonti di questo, che sarebbero le Ongmes di Isidoro e il Liher de gem- mls di Marbodo. I riscontri di questi due autori accompagnano il testo, il quale e stampato con quella cura intelligonte che potevasi aspettare dall'egregio pro- fessore di Erlangen, dal quale ci auguriamo di veder presto compita la sua edi- zione del Poema del Cid.

18. Diciionnaire de Vaucioine lanfjuc frangaisn d de toiis ses diàlecfes dii IX au XV siede compose d'après le dépouillement de tous les plus importants documeuts manuscrits cu impriiués qui se trouvent dans les grandes bibliothèques de la Frauce et de TEurope et dans le3 principales archi ves départemeutales, municipales, hospitalières ou privées par Frédéric Godefroy. Paris, Vieweg, 1880.

In 4.°, fase. I, da p. 1 a 64. L' opera intrapresa dal signor Godefro}" risponde ad un lungo desiderio e ad un bisogno che ogni giorno facevasi sentire più forte in tutti coloro che occupandosi, sia di letteratura o di filologia, sia di storia o di diplomatica, hanno di sovente a spiegare testi antico-francesi. Il signor L. Favre credette, qualche anno fa, di poter riempire una simile lacuna stampando i materiali raccolti e preparati un secolo addietro dal Sainte-Palaye; ma fu quello uno stupido anacronismo, che valse soltanto a far perdere un po' di lire ai meno accorti, e ora fa meglio risaltare i pregi del Dizionario del signor Godefroy. Degno seguace del Littré, egli presenta in questa pubblicazione il frutto maturo di trent'anni di fatiche e di studio, dopo avere spogliato da le migliori edi- zioni moderne e quanti codici e pergamene potè vedere nelle biblioteche di Fran- cia e dell'estero contenenti scritture in lingua d'oìl. La massa principale dei vocaboli da lui raccolti proviene da testi anteriori al sec. XIV; tuttavia ne diede ancora dal sec. XV e del XVI quando gli apparivano di formazione p'ù antica, o gli sembravano utili per determinare la durata che ebbero nell'uso. Le varietà ortografiche e dialettali vi sono raccolte in abbondanza; gli esempj copiosi, bene scelti, accompagnati sempre da indicazioni precise e chiare delle fonti; le spìe-

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HOMAHZA, N." 5] BIBLIOGRAFICO 249

gazioni delle parole proposte con cautela e senz' arbitrio. Tutto infine ci a bene sperare in questo primo fascicolo, e giustifica il patrocinio che questa pub- blicazione, coraggiosamente intrapresa da un editore così solido e puntuale come il Vieweg, ottenne in Francia dal Ministero della istruzione pubblica. L'editore promette di darne un volume air anno, e saranno in tutto dieci volumi, ognuno dei quali é distribuito in dieci fascicoli. Quando la stampa sarh inoltrata un po' più, ne riparleremo.

19. Eapport à M. le Ministre de Vlnstruction Tnhìiqiie et des Beaux" Arts sur une mission philologique dans le département de la Creuse (avec une carte) par M. Antoine Thomas. Paris, Impr. Nationale, MDCCCLXXIX.

In 8.** di pp. num. 55 e una tavola litografica. Estr. dalle Archives des mis- sions scientifiques et littéraireSj 3.* Sèrie, Tom. V. Su questo bel lavoro che aveva per iscopo « de rechercher les limites des troia variétés principales qui se partagent dans des proportions inégales les patois me'ridionaux du département » , rimandiamo i nostri lettori alla relazione e air autorevole giudizio che ne ah il Meyer nella Romania , Vili, 469.

20. Altfrans^dsisclie BihliotheJc herausgegeben von D. Wendelin Foerster Prof, der romanischen Philologie an dar Uuiversitiit Bonn. Heilbronn, Henninger, 1879-80.

In 16.0; voi. I di pp. num. XLVII-246; Voi. II di pp. num. 113.

21. Bibliotheca Normannica, Denkmàler normannisclier Literatnr und Sprache herausgegeben von Hermann Suchier. Halle, Niemeyer, 1879.

In 8.*^ di pp. num. LVI-109; voi. II di pp. num. 127. La publicazione di testi dell'antica letteratura francese va prendendo in Germania proporzioni sempre maggiori. Alle opere isolate vengono ad aggiungersi intere collezioni, e due, a distanza di pochi mesi, ne furono di recente intraprese colà, sotto la direzione di uo- mini non meno competenti che operosi. La prima è VAltfranzdsische Bibliothek diretta dal Foerster, V altra è la Biblioteca Normannica pubblicata dal Suchier. Nella Altfr, B. uscirono finora le seguenti opere: voi. I, La vie de seìnt Josa- 'pliaz, La vie des set Dormans, L% Petit Plet^ tre poemetti in ottonarj rimati a coppia, di Chardry troverò an^o-normanno del sec. XIII. La edizione fu cu- rata dal D. J. Koch, il quale vi unì una accuratissima prefazione, cinquantasei pagine di note critiche ed emendamenti al testo, e finalmente un glossario delle forme più notevoli. Una bella recensione di questo volume diede il Mussafia nella Zeitschrift del Gròber, III, 591. Nel voi. II, è uscito il Pellegrinaggio di Carlo Magno a Gerusalemme e a Costantinopoli, del quale si parla più sotto. Nella B'ibl. Norm. i due volumi finora dati alla luce contengono: I, Reimpredigt, un sermone verseggiato in 129 strofe, seguito da altro simile di str. 122. Il testo del primo è costituito criticamente in base di tre mss. e vi sta innanzi una pre- fazione elaborata dal Suchier, il quale vi discute da suo pari tutte le questioni filologiche che hanno attinenza con questo testo. II, Der Judenknabe, una antica leggenda che narra di un fanciullo giudeo liberato per miracolo dal fuoco a cui era stato condannato per aver communicato con fanciulli cristiani. Di questa

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250 BULL. BIBLIOGR, [giornale di filologia

leggenda il signor E. Wolter pubblica qui cinque versioni greche, quattordici latine e otto francesi, accompagnandole con una erudita introduzione che illustra egregiamente questa curiosa tradizione medioevale. Ci auguriamo che qualcuna almeno delle nostre biblioteche non manchi di fornirsi di queste due interessanti collezioni, nelle quali anche gli studiosi italiani, non fosse che per il metodo da seguire nel dare alla stampa antichi testi, troverebbero pur tanto ad imparare.

22. Sechs Bearbeitungen des altfrans'ósischen Gedichts voti Karls desgrossen Reise nach Jerusalem und Constantinopel herausgegeben von D. Eduird KoscHwiTz, Privatdocent an der Universi tàt Strassburg. Heilbronn, Henninger, 1879.

In 16.*» di pp. num. XIX-185. Il Pelle^rrinaggio di Carlo Magno a Gerusa- lemme e a Costantinopoli è V argomento di una delle più antiche ed insieme più iuteressanti chansons de geste francesi. Il signor Koschwitz si ò posto da alcuni anni a studiarla con singolare amore, e primi saggi di questo suo studio furono due belle memorie, una intitolata Ueber das Alter und die Herhunft der chanson du Voyage ecc. edita nel fase. VI dei Romanische Studien, T altra intitolata Ueherlieferung und Sprache der chanson ecc. pubblicata dagli Henninger di Heil- bronn, nelle quali si discutevano le principali questioni filologiche cui da occa- sione questo poema. Ora poi nel volume annunziato qui sopra il signor K. pre- senta riuniti sei diversi racconti dell' istesso pellegrinaggio, i quali ad un tempo dimostrano la grande diffusione che quella tradizione ebbe una volta nei volghi europei, e concorrono utilmente alla illustrazione del testo più antico, il quale, composto a quanto pare neir XI secolo, pervenne a noi in un solo codice scritto nel XIU in Inghilterra da un menante che di francese sapeva punto o poco, e che orribilmente lo deformò. Il primo di detti racconti è in gallese e V accom- pagna una traduzione inglese del sig. J. Rhys ; tre sono in prosa francese e rap- presentano diverse redazioni del Galien le retore o restare, che è un rifacimento del Pellegrinaggio, della fine del sec. XV : due di queste sono tratte da mss. , la terza riproduce una stampa popolare del 1528. Gli ultimi due sono scandinavi, in versi, editi dal Kòlbing, e si credono derivati da un Turpino gallese. Tutti questi materiali dovevano, secondo il primo disegno del dotto editore, far corredo alla sua edizione della Chanson ; ma giuste ragioni poi lo determinarono a darle in un volume a parte, ed ha pubblicato poi nel voi. II della AUfr. Bibliothdc, sulla quale vedi sopra, il testo critico delkb Chanson, lavoro sagace e coscenzioso, col quale il signor K. ha degnamente compiuta la sua fatica. Vedasi su di esso, Mussafia nella Zeìtschrift fùr d. òsterr, Gymnasien, 1880, n.*» 3.

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HOIIANZA, N.'* T)]

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PERIODICI

1. Archivio glottologico italiano, VII, punt. 1. W. Foerster, Antica parafrasi lombarda del « Neminem laedi nisi a se ipso di S. Giov. Grisostomo, edita ed illustrata. O. Flechia, Antica confessione latino- vol- gare edita e annotata. Varietà: B. Biari" chi. Del vero senso della maniera dantesca « feraine da conio » Inf. xviii, (SQ. G. 7. Ascoli, « Tortona » e « Tortosa »; « To- sto»; (a proposito della etimologia discussa nel nP A del Giornale.) Ancora della Cro- nica deli Jmperadori. Fondazione Diez.

2. Revue des langues romanes, a. 1870, n.' 7-8. W. Foerster, Épitre farcie de la Saint-Etienne en vieux fran(:ais du XII* sie- de. — Alat't, Étude su Thistoire de quelques mots romans: Rana, ran, rana r, randa, ran- dar. A, Boucherie , Vienr. Brunier , L'Amour mouillé d'Anacréon Irad. en lan- guedocien. A. Langlade, Les noms de la pierre à batir à Lansargues (Hérault). Poésìes: A. Langlade, Lous las d* amour. A. Henry, Lou mes d'abrieu. A. Fourès, Mascarado. L. Goirand, Couquiheto. Bibliographie. Périodiques. Chronique.

N.* 9-10. F. Pasquier, Leudaire de Saverdun. A. Roque-Ferrier, Vestiges d'un article archaTque roman conserve dans les dialectes du midi de la France. Ck. ReviUout, Le a Pauvre driile » de La Fon- taine. A. Espagne, k-i\n\i = hvLpyxvà^hm,— J. Bauquier, Le jargon Chinook. P. Fes- quet, Énigmes populaires recueillies ò. Co- lognac(Gard). Poésies: A. Mathieu, Lou rescontre. -- Variétés: C. C, Aire; Sur un vers de Pierre Cardinal ; Deux vers d'une danse provengale. Bibliographie. Périodiques. J. Bauquier, Florian imité par Fabre-d'Olivet. A. Glaise, Mistral à Toulouse. lìoucherie, Discours prononcé à la séance pub.du 3 Sept. 1879. Chronique.

N.! 11-12. L. ConstanSf Quelques mots sur la topographie du po6me proven^al iiititulé: Vie de Salute Knimie. Mila y

Fontanals, Lo Sermó d'En Muntaner. Castets, Rapport sur le concours de philo- logìe de la Socìété des langues romanes. A. Roque-Ferrier, Rapport sur le concours de poesie. V. Smith, Dieux complaintes du Velay. Poésìes: i. Goirand, A Flo- rian: remembran^o d'uno visito à soun toum- bèu, à Sceux. L. Roumieux, Lo roso e lou soulèu. C. Malignon, Bèu-Caire. A. Arnavielle, Lous gorbs. L. de Berluc- Perussis, Per un eros que s'alesiis dins uno capello dòu campestre prou ven^au.— J. Roux, Sent Marsal à Tuia. C. Gleyzes, Lous car- rassìés. A. Roux, Lou vela e Tanel. Variétés: A, Boucherie, Le Chevalier aux deux épées. Bibliographie. Périodi- ques. — Chronique.

A. 1880, n.* 1-3. A. Boucherie, La langue et la littérature fran^aises au moyen àge et la Revue des deux mondes. Mila y Fontanals, Lo Sermó d'En Muntaner. D/" Mazel, Les prove rbes du Languedoc, de Rulman. J. Bauquier, Les proven^alistes du XV1II« siede, Lettres inódites de Sainte- Palaye, Mazaugues, Caumont, La Bastie, etc. G. Clément^imon , Proverbes re- cueillis dans le Bas-Limousin. V. Smith, Chansons populaires historiques. Poésies: P. Gaussen, La cigalo. W. Bonaparte- \^yse, À Mounsegne Dubreil. G. Azaìs, Lou sarralher blu, lou picou-vert e lou mer- le. — C. Bistage, Contro l'amour. Varié- tés: Z).** Noulet, Observations sur le Leudaire de Saverdun publié par M. Pasquier. A. Boucherie, Oster, Esfraer ; Onde. Biblio- graphie. — Périodiques. A. Roque-Fer- rier, Trois formes negli gées du substantif Diable. A. Roque-Ferrier, L'artide ar- chaìque dans la vallèe de Larboust (Haute- Garoane). Chronique.

3. Romania , n.o 31. P. Meyer, Les mss. frau^ais de Cambridge: I, Saint John's Col- lege. — G. Paris, Le roman du Chàtelain de Couci. J. Ulrich, Le Sacrifice d'Abra-

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252

PERIODICI

[giornale di filologia

ham, mystèreengadinois. O.NlgoUsy Chute de / mediale dans quelques pays de lang:ue d'oc. V. Smith, Chants populaires du Te- lay et du Forez. Mélanges: H. d'A, de J., « Lai » (Nota sulla probabile derivazione del Lai fr. dairìrl. Loid o Laidy e sopra alcune forme di questa composizione ). G. P., Breri (Nota relativa a Tomas, l'autore del poema di Tristran). F. J. Child, Sur le miracle de rima de Jésus-Christ prise pour garant d'un prét. K. Nyrop, Notice sur un nou- veau ms. de la Chronique de Reiros. G.P., Figer (etimologia). H.Wedgwood, French etymologies (agacer, blaireau, boulanger, guignon, pilori, sentinelle, sombrer). Ch. /orei, Etyraologies normaodes (égailler,gade, crevette, crevuche). A, Thomas, Une bal- lade politique, 1415. Comptes-rendus. Périodiques. Chronique.

N.'' 32. P. Meyer, La vie latine de Saint Honorat et Raimon Féraut. A. de Montaiglon, La vie de Saint Grégoire le Grand (testo a. fr. in versi contenente un vol- garizzamento della vita di Gregorio Iscritta da Giovanni Diacono). E. Co.^qvin, Contes populaires lorrains. Mélanges: J. Tailhan, Notes sur la langue vuigaire d'Espagne et de Portugal au haut moyen age (712-1200). J. Fleury, Rindon, conte haguais. L. Ha- vetf Tapabor (étiraol.). Comptes-rendus. Périodiques. Chronique.

N.^ 33. G. Paris, La Chanson du Pèlerinage de Charlemagne. P, Meyer, Traités catalans de grammaire, et de poé- tique: IV, laufré de Foxa. J. Cornu, Étu- des de phonologie espagnole et portugaise (grey, ley et rey disyliabes dans Berceo, r Apollonio et l'Alexandre; La pers. plur. du parf. en -ìoron dans l'Alexandre; Par- faits dits fortsde Ia2«, et conjugalson; Parfaits dits faibles de la et conju- gaison; Parfaits de la conjugaison; L'en- clitique nos dans le poème du Cid; Encore -lume = -tudinem). A. Lambrior, Essai de phonétiqueroumaine. Mélanges: J..Ulrich, , Pisciare. /. Cornu, Gii = hoc illic. J. Cornu, Trois passages de la Chanson de Roland corrigés à tort. Ch. Joretj Etymo- logies fran^aises (ébrouer, s'ébrouer, brouée, br(o)uine; man; merlan; merlus; orphìe). G. P., Quia. A. Dclboulle, Martin-ba- tou. F. Armitage, Au, fau, vau. J,

Cornu, Etymologies espagnoles et portu- gaises (corazon, escada, escupir, espedir, fazilado, halagar, lexar, llevar, mienna, pa- lancada, prendar, quexar, sencillo.) K. Nyrop, Variantes indiennes et danoìses d'un conte picard. Comptes-rendus. Périodi- ques (pp. 159-63: rivista dei no. 3 e 4 del Giornale). Chrooique.

4. RomanischeStudien, n.** X.— E. Boeh- mer, Nonsbergisches. E. Boehmer, Gred- nerisches. F. Settegast, Calendre und scine Kaiserchronik. E. Boehmer, Abfassungs- zeit des Guillaume de Paterne. E, Boeh- mer, Catalanisches. E. Boehmer , Zum Bocci. E. Boehmer, Ritmo Cassinese. E, Boehmer, Zur Dino-Frage. E. Boeh» mer, Ueber zwei dem zwòlften Jahrhuodert zugeschriebene sizilische Texte. Mit einer Photographie. J. Schmid, Ueber zwei Ma- nuscripte sizilianischerGedichte des 16. Jahr- hunderts. E. Boehmer, Zur sizilischen Aussprache. E. Boehrner, Die beiden U. E. Boehmer, Z\i Juan de Valdés. M, Hart- mann, Boehmer, Koschwitz, Zum Gxfor- der Roland. W. Foerster, Schicksale des iat. 6 im Franzòsischen. Beiblatt.

N." XI. H. Morf, Die Wortstellung im altfranzòsischen Rolandsliede. E. Ko- schwitz, Der altnordische Roland im deut- sche iibersetzt. E. Boehmer, Klang, nicht Dauer. •— E. Boehmer, Gautier's Epopéee frangaises, zweite Ausgabe. Beiblatt.

N.° XII. G. Willenherg, Historische Untersuchung ùber den Conjunctiv Praesen- tisder erstenschwachen Conjugationin Fran- zòsischen.— //. Stock, Die Phonetique des « Roman des Troie » und der « Chronique de Ducs de Normandie ». E. Koschwitz, Der Vocali V in den Ultesten franzòsischen Sprach- denkmftlern. R. Heiligbrodt, Fragmentde Gormund et Isembard. Text nebst Einlei- tung, Anmerkungen und vollstadigem Wort- index. E. Boehmer, Wie klang o/u? E. Boehmer, Dous. E. Boehmer, Tirole- risches. E. Boehmer, EulaUa. E. Boeh- mer, Klang, nicht Dauer, li. Beiblatt. Berichtigungnn.

N.-^ XIII, - W, Foerster, Galloitali- Rche Predigten aus cod. mise. Iat. Taurinen- sis D. VI. 10, 12t<» JahrhunderU Mit einer photolito'j:raph. Tafel. W, Foerste \ Zu

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BOMANZA, N.^ 5]

PERIODICI

253

den altfranzòsischen Predigten des heil. Ber- nhard.— E, Boehmer, Sponsus, mystère des vierges sages et des vierges folles. £. Boeh- mer, Zur Clermonter Passion. E. Boeh- mer, Zu Dante 's « De vulgari eloquentia. » R. Heiligbrodt, Zur Saga von « Gormund und Isenibard ». R. Heiligbrodt, Synopffs der Tiradenfolge in den Ildsch. des Girart de Rossilhon. A. de Cihac, Sur les études romanes de M. Hajdèu. E. Koschwitz, E. Boehmer, W. Foerster, Beiblatt.

N.'^ XIV. K, VollmoUer, Der Can- cionero Gayongos. K. VollmoUer, Aus dem Oxforder Cancionero. A, Uorìiing, Le pronom neutre il en langue d*oil. - - F. Ilar- seim, Vocalismus und consonantismus im Oxfortler Psalter. A. Horning, Bris, Bri- con. W. Foe>^ster, E. Boehmer, Nach- trag zu den gallo-italisclieu Predigten. E. Boehmer, Zu Juan Valdes, II. E. Boeh- mer, Klang, niclit Dauer, IH. Beiblatt.

N.^ XV. E. Schwan, Philippe de Remi, Sire d'3 Beaumanoir, und seiae Wer- ke. M. Knj^fer-Schmidt^ Die Havelok- sage bei Gainiar und ihr Verhiiltuiss zur Lai d'IIavelok. A. de Cihac, Le type ho- nio-ille i Ile-bonus. A. de Cihac, Meine Antwort an II. Dr. M. Gastt r. //. Varnha- ge7ì, Churwillsche Handschriften des British Museum. //. Varnhagen, Altfranzusische Miscellen.— E. Boehmer, Ein Brief von Cas- siodoro de Reyna. E. Boehmer, Pieniso- nant, seniisoaant. E. Boehmer, Diakriti- sche Bezeichnung der Vocalbuchsiaben. Beiblatt.

5. ZEiTsamiFT pur romanisciie Puilolo- GiE, III, 2. H. Varnhagen, Das altuor- maniiisch(? C : I, das Ciro Oxforder Psalter. A. Tahler, Eine Sammlung von Dichtungen des Jacopone da Todi. A. Coelho , Ro- mances populares e rimas infuntis portu- guezes. //. Rt'insch, Les Joies nostre Dame des Guillaume le Clerc de Normandie. Miscellen: A. Gaspary, Zu Ariosts Cinque Canti. E. Stetìgel, Zum Mysière von den klugen uud thòrichten Jungfrauen. K. VollmoUer, Mittheilungen aus spanischen Handschriften: London: Brit. Mus. Lansd. 735: Obras satiricas del Conile [de] Villa- mediana. A. Mussa fia, Zu Marc. Gali. IV. W. Foerster, Revision des Textes

des Richart le biel. A. Mussafia, Zu Guil- laume de Palerne ed. Michelant. A. Mus- sa/la, Zu Roland V. 240*, 455, 3860. A, 3rftwa/?a,Aiol 7645-6 (7644-5), 8188 (8186).— A. Gaspary, Zu dem Ausdruck ValtePa pe- sca.— W. Foerster, Romanische Etymolo- gien (it. menzogna, ruvido, fr. moite, a. fr. roisie, fr. ornière, fléchir, here, son, a. fr. tarier, fr. charade, it. accia, arcigno). J, Ul- rich, Deutsche Verba im Romanìschen. J. Ulrich, Fr. accoutrer, prov. acotrar. A, Mussafia, Cateron. A. Mussafia, Zu mien = mcum. A. Mussafia, Zu den Par- tic. Perf. auf -ect, und -est. A. Mussafia, Altital. ricentare. Recensionen und Anzei- gen. Nachtràge und Berichtigungen. E, Stengel, Berichtigung zu Zeitschrìft III, 114. W. Foerster, Zu Zeitschrift III, 160.

III, 3. J. Aimeric, Le DialecteRou- ergat. K. Bartsch, Keltische und roma- nische Metrik. 0. Ulbrich, Zur Geschichte des franzòsischen Diphthongen ci. Mi- scellen: A. Gaspaty, Filocolo oder Filo- copo? H. Krebs, Eine Handschrift von Lionardo Bruni Aretino*8 Vita di Dante e Petrarca. A. Englert, Zwei limousinische Schaferlieder. G. Gróber, Bearnische Tod- tenklage. M. Gaster, Die rumànische Con- demnatio uvae. Recensionen und Anzei- gen. Berichtigungen. E. Stengel, W, Foerster, Zu Zeitschrift III, 318.

III, 4. TF. Foerster, Beitrtige zur romanischen Lautlehre. Umlaut (eigentlich Vocalsteigerung) im Romanischen. A. von Flugi, Ladinische Liederdichter. G. Ja- cobsthal. Die Texie der Lìederhandschrift von Montpellier H. 196. Diplomatischer Ab- druck. -— Miscellen: K. Graf Coronini, Ue- ber eine Stelle in Dante's Inferno (I, 28, 29). //. Suchier, Zu den « Mainengebe- ten ». W. Foerster, Romanische Etymo- logien (sp. encentar, fr. meublé, sp. lóbrego, nata, a. sp. boto, fr. froisser, it. andare, port. eito, a. fr. crueus, fr. maquiller, it. putto, nocchiere). A, Tobler, Romanische Ety- mologien (fr. ótage, a. fr. cuisen^on, ban- quet, malade, it. fandonia, prov. desleiar). Recensionen und Anzeigen. (Gaspary conto dei n.* 2-4 del Giornale). Zus&tze und Bcrichtiguugen. Register.

III, 5. Bibliographie 1878.

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2.>4

NOTIZIE

Il Ministero della Pubblica istruzione ha fìnalmente provveduto alla catedra di lette- ratura italiana nella Università di Napoli, rimasta vacante per la morte del Settem- brini, ed ha chiamato ad occuparla il prof. Zumbini. Con ciò lo Stato ha compito un atto di giustizia e di dovere, la scienza ha conseguito quanto di meglio poteva desiderare.

Il Comitato Italiano per la Fondazione Diez (sulla quale v. V Arch. glottol. Ili, 425 e ss.) ha chiusa la soscrizione, e la somma raccolta, consistente in L. 2636, è stata trasmessa al Comitato di Berlino.

Il D.' Tommaso Casini di Bologna ci annunzia che attende da qualche tempo alla pnb- blicazione del Poema d* Attila di Nicolò da Casola e che spera di cominciarne la stampa in breve.

Il Sig. A. Martelli, Direttore dello Stabilimento d'eliotipia e litografia in Roma, Via della Vite 105, ha intrapreso una riproduzione eliotipica di quella parte del Codice Chi- giano C. V. 151, che contiene il Mistero provenzale di S. Ajrnese. Se questo saggio non sarà male accolto, l'editore darà altre simili riproduzioni d'interesse per gli studj della letteratura e della paleografia, dell'arte e del costume medioevale. Intanto cominciò dalla S. Agnese appunto perché essa richiama l'attenzione non solo dei romanisti, i quali non sono ancor paghi delle due stampe che ne furono fatte, ma si raccomanda del pari apli studiosi di storia della musica e particolarmente del melodramma, è affatto indifferente pei paleografi. Si tratta del resto di un codice unico.

4 Agosto 1880.

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RECENTI PUBBLICAZIONI pervenute alla direzione del Oiornale

D'Ovidio F., Italica: Un caso di cl=tl neir umbro e due neiretrusco? È autentica riscrizione Osca di Nesce? Estr. di Rio. di filoL class, a. IX.

Flechia G., Nomi locali derivati dal nome delle piante. Torino, Paravia, 1880.

Avoli A., Saggio di studi etimologici comparati sopra alcune voci del dialetto alatrino. Roma, Tip. di Roma, 1881.

Carducci G., Un poeta d'amore del sec XII. Estr. d. Nuova Antologia, 1881.

Cantare di Madonna Elena imperatrice. Livorno , Vannini, 1880.

Cinque rispetti inediti del sec. XV. Firenze, Tip. d. Arte d. Stampa, 1881.

Mazzatinti G. , Poesie religiose del sec. XIV pubbl. secondo un cod. Eugubino. Bo- logna, Romagnoli, 1881.

MiNOGLio G., Laude de Disciplinati di S. Maria. Torino, Paravia, 1880.

ZoNGHi A., Saggio di sentenze latine trasportate in poesia volgare da Fr. Giovanni di Ginesio di Quaglia da Parma. Fabriano, Crocetti, 1879.

Castets F., Il fiore, Poème italien du XII1« siècle en 232 sonnets imité du Roman de la Rose. Paris, Maisonneuve, 1881.

Arnone N., Le rime di Guido Cavalcanti; sesto critico. Firenze, Sansoni, 1881.

Rossi A., Un quaderno della Cronaca Perugina del Oraziani, sconosciuto a chi la pubblicò neir Archivio Storico Italiano. Perugia, Boncompagni, 1879.

Prato S., Caino e le spine secondo Dante e la tradizione popolare. Ancona, Tip. dell'Ordine, 1881.

Ferrari S., Documenti per servire all'istoria della poesia semipopolare cittadina in Italia nei sec. XVI e XVII. Estr. d. Propugnatore, a. 1880.

Zenatti a., Mazinae. Verona, Civelli, 1880.

GuERRiNi C, Alcuni canti popolari romagnoli. Bologna, Zanichelli, 1880.

Bartoli a., Una novellina e una poesia popolare gragnolesi. Firenze, Carnesec- chi, 1881.

Prato S., Quattro novelline popolari livornesi accompagnate da varianti umbre, rac- colte, pubblicate ed illustrate con note comparative. Spoleto, Bassoni, 1880.

Dell'Angiolo B. , Sonetti in vernacolo pisano. Pisa, Valenti, 1880.

ScHMiDT J., Die alteste alba. Estr. d. Zeitschrift f. deutsehe Philol. XII.

Vigo P., Manumissione di una schiava; documento inedito del sec. XII. Livorno, Vigo, 1880.

Giorgi I., Description du Liber bellorura Domini [Rome, Vatican, Reg. Christ. 347]. Génes f Impr. des Sourds-Muets , 1881.

BoucHBRiB A., La langue et la littérature fran^aises au moyen àge. Reponse a M. Brunetière. Paris, Maisonneuve, 1881.

Graevell D., Die Charakteristik der Personen im Rolandsliede. Jleilbronn , Jlen- ninger, 1880.

lIoRMBL H., Untersuchungen ùber die Chronique Ascendante und ihren Verfasser. Marburg, Elwert, 1880.

Brunner il, Ueber Aucassin und Nicolete. Halle •!«, 1880.

Perschmann H., Die Stellung von 0 in der Ueberlieferung des altfranzòsischen Ro- landsliedes. Marburg, Pfeil, 1880.

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2

Castets F., Le Roman de la vie dea Perca hermites. Sonnet contenant une recette «l'Alchimie, attribué à Dante et au frère Helyas. Paris, Maisonneuve, 1880.

Hofmann K., u. Muncher F., Joufrois, altfranzòaiachea Rittergedicht zum eraten Mal herausgegeben. Halle, Niemeyer, 1880.

RiESE L, Recherches sur Tuaage ayntaxique de Froisaart. Halle, Niemeyer, 1880.

Braga T., Theoria da hiatoria da litteratura portugueza. Tercera edigao. Porto, hnpr. Portugueza , 1881.

Braga T., Bibliographia Camoniana. Lisboa, Rodrigues, 1880.

Centenario de Camoes. Catalogo d' una coUecQao camoneana expoata na Biibliotheca Publica de Ponta Delgada. S. Miguel, Typ. do Archivo dos Agores.

Paoli C, Miscellanea di paleografìa e diplomatica. Eatr. l-III d. Arch. stor. ital. 1880-81.

Mestica E., Esame critico degli Adelphi di Terenzio con cenni preliminari au la poeaia drammatica latina. Foligno, Campitelli , 1880.

De Chiara S., Saggio d'un comento alla Comedia di Dante Allaghieri: Inf. C. V. Na- poli, Morano, 1880.

Cipolla C, Una festa per Claudia di Francia. Veroyia, Franchini, 1880.

Del Lungo I., Ritratti fiorentini: Un don Chisciotte fiorentino del sec. XVI; Un gen- tiluomo erudito del sec. XVII; I corrispondenti fiorentini del Muratori. Eatr. d. Nuova Antologia, 1880.

ZuMBiNi B., Il Bruto Minore e T Ultimo canto di Saffo, canzoni di G. Leopardi. Na- poli, Perrotti, 1880.

Mestica G., La conversazione letteraria di G. Leopardi e la sua Cantica giovanile noma. Barbèra, 1880.

Moretti A., Commedie acelte di G. B. Molière, traduzione italiana. Milano, Tre- ves, 1880.

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PUBBLICAZIONI DELLO STESSO EDITORE

AKCHIVIO .GLOTTOLOGICO ITALIANO diretto da a. L Ascou

V Archivio esce a liberi inteirvalli, per fascicoli da noa medo di sei fogli; e ciascun

fascicolo, come ciascun Tolcune, è posto in vendita anche separatamente. Se ne è pubblicato quanto segue:

Voi. I. Proemio generale e Saggi ladini di G. I. Ascoli, con una carta dialet-

tologica L. 20

Voi.' li, 1: Postille etimologiche di G. Flechia; Sul De Vulg. Eloquio, di F. D* Ovidio: Sul posto che sjpetta al ligure nel sistema dei dialetti italiani di O, I. Ascoli p6

Voi. II, 2: Rime genovesi della fine del secolo XIIZ e del principio del XIV,

edite da N. Lìvgo&ugoiorb »5

Voi. II, 3: PoHille etimologiche di G. Plbchia; P, Meyer e il franco-proven- xaley di I. Ascoli; Ricordi bibliografici, dello slesso; Indici del volume, di F. D'Ovidio. . . . . . » 6

Voi. III, 1: Fonetica .del dialetto di Val-Soayia fCanavese)^ di C. Nigra;

Schizfi^franco^provenzali à\ Oc.l, A^coiA » 5

Voi, III, 2: Postille etinwlogiche di G. Flbchia; La Cronica deli Imperatori Romani, edita da A. Ceruti; Annotazioni dialettologiche alla Cronica deli Imperadori, di G. I. Ascoli » 7 50

VoL III, 3: / Divariati Italiani di U. A. Canello; tipo sintattico < homo- ille ille-bonus » di B. P. Hasdbu; Indici del volume di F. D'Ovidio . » 7

Voi. IV, 1: Dialetti romaici del mandamento di Dova in Calabria, descritti da G. Morosi '. . . . . . . . » 4

Voi. IV, 2: Il vocalismo leccese di G. Morosi; Fonetica del dialetto di Campo- basso di F. D'Ovidio; Testi inediti friulani dei sec. XIV al XIX, pubbli- cati e annotali da V, Joppi . . »5

Voi. IV, 3: Testi inediti friulani, pubblicati ed annoi, da V. Joppi; Annota^ zioni ai Testi friulani e CimelJ tergestini^ di G. I. AsroLi; Articoli varj, di G. FlechiA, G. Storm e G. I. Ascoli; Giunte e correzioni e Indici del volume, F. D' Ovidio »&

Voi. V, 1: Ti? Codice Irlandese dell' Ambrosiana, edito e illustrato da P, I.

Ascou, voi. primo, fascicolo primo, con due tavole fotolitografiche. . » 8

Voi. VI, I. II codice Irlandese dell'Ambrosiana, edito e illustrato da G. I. Ascoli^

voi. secondo, fase, primo . . » 12

Voi. VII, 1: Antica parafrasi lombarda di un testo di S. Crisostomo, edita da W. FoBRSTER; Confessione antica, latiuo-volgnre, edita e annotata da G. Fle- chia ; Articoli vari di B. Bianchi e G. I. Ascou , 7 ^

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