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GIUSEPPE GIUSTI

EGIDIO BELLORINI

Giuseppe Giusti

A. F. FORMIGGINI

EDITORE IN ROMA 1923

Proprietà Letteraria

/ diritti di traduzione sono riservati per tutti i paesi.

Nella filigrana di ogni foglio deve essere visibile l'impresa editoriale.

Selci (Umbria), Società Anonima Tipografica Pliniana, 1923

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G] RAN festa vi fu certamente in casa Giusti a Monsummano il 12 maggio 1809, quando Ester Chiti, la giovane e bella sposa del signor Domenico, diede alla luce il primo figlio, che secondo 1' uso comune un tempo e non ancora del tutto scomparso fu battezzato il giorno dopo col no- me dell'avo paterno, Giuseppe. E in questo rinnovarsi del nome era qua- £^^'1 si un augurio. Disceso di buona ed agiata famiglia, il vecchio Giuseppe era meritamente salito in alto, a suo tempo, nella scala de' pubblici uffici, divenendo persino amico e ministro di Pietro Leopoldo, il granduca riformatore, che avendo riformato, tra l'altro, an- che 1' ufficio di presidente del Buon governo ch'era una specie di direttore generale della po- lizia, con attribuzioni amministrative e giudizia-

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rie l'aveva conferito al suo prediletto ministro. venuta poi la rivoluzione che, col turbine na- poleonico, portò lo scompiglio in tutti gli Stati italiani, il vecchio Giuseppe Giusti aveva visto scemare la propria dignità, che anzi, nel 1805, Maria Luisa di Borbone la quale teneva allora le redini del così detto regno d' Etruria = dopo averlo fatto consigliere intimo di Stato e di fi- nanze, gli conferiva anche patenti di nobiltà, con titolo trasmissibile a' suoi discendenti in linea mascolina. E il signor Domenico che non aveva nutrito mai per grandi ambizioni, pago di cu- rare l'amministrazione e l'aumento del patrimonio domestico e di coprire qualche modesta carica locale rinnovando nel figlio il nome del padre suo, augurò certamente che si rinnovasse in lui anche l'antico lustro della famiglia e ch'egli fòsse chiamato ad una gloriosa carriera nei pubblici uffici.

Ignaro di questi ambiziosi disegni paterni, che dovevano poi essere fonte di contrasti in avve- nire, il piccolo Beppe passò lietamente i primi anni nella casa paterna, e divenne un ragazzo vi- vace, rumoroso e un po' turbolento, com'egli stes- so ci narra in certi frammenti autobiografici.

Il signor Domenico era uomo di qualche col- tura : amava la musica, faceva dei versi, -ammi- rava Dante, e queste passioni egli trasfuse ben presto nel figlio, insegnandogli, quand'era bam- bino ancora, le note musicali e il canto del conte Ugolino; ma non aveva le cognizioni l'at- titudine necessarie per far da maestro a quel

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diavoletto. Perciò, quando Beppe ebbe poco più di sette anni, lo affidò ad un prete, un tal Sacchi, perchè l' istruisse. Era questi un uomo colto, ma piuttosto stravagante e come disse poi il suo allievo « di metodo tedesco perfettamente >, e cioè abituato ad usare spesso le mani e forse an- che il bastone come strumento di correzione ; e il ragazzo, nei cinque anni che stette con lui, molto s'annoiò e poco imparò. Poi, nell'ottobre del 1821, il padre lo mandò a Firenze nel colle- gio Zuccagni-Orlandini, che aveva fama di ottimo. E qui le cose andarono meglio, specialmente per merito di Andrea Francioni, maestro ammirabile, che seppe metter in cuore al giovinetto l'amore per lo studio. Di che l'allievo gli fu sempre ricono- scente, tanto da dir poi clie il Francioni era stato per lui non padre-maestro, ma maestro e padre. Disgraziatamente, col finire di quell'anno scola- stico, il collegio si chiuse, e il ragazzo fu inviato a proseguire gli studi, prima, per un anno (1822- 23), nel Seminario di Pistoia, quindi, per due anni (e cioè fino al luglio 1825), nel Collegio dei no- bili a Lucca. Ma in nessuno di questi due istituti Beppe fu un allievo modello; non perchè studias- se meno degli altri, ma per la condotta. Le disco- laggini da lui commesse furono anzi tante e tali che, sulla fine d'aprile del 1825, venne persino espulso temporaneamente dal collegio. Ciò non ostante, nel luglio seguente potè dare egualmente gii esami nello stesso collegio ; ma poi il padre pensò ch'era meglio richiamarlo presso la fami- glia, la quale nei frattempo era passata da Mon- summano a Montecatini.

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Beppe tornava così in famiglia a sedici anni, senza aver compiuto gii studi clie noi diremmo secondari. In compenso vi tornava però circon- dato da una certa gloriuzza nascente di poeta.

Veramente poco ci resta di que' suoi primi saggi, diciamo pure « poetici » ; ma se ci mancano le ottave sulla torre di Babele, scritte a dodici anni, quand'egli smaniava ancora sotto la disci- plina del prete Sacchi, come ci mancano le ter- zine per la sorella Ildegarde, minore pochi anni di lui, scritte a Lucca, insieme con altre terzine in morte del granduca Ferdinando II, e con un poemetto in sestine sul ratto delle Sabine, per- duti, credo, anch'essi al pari di un certo numero di versi in vernacolo lucchese, ci restano però altri versi composti in quegli stessi anni, in par- te seri come sarebbero un sonetto sulla libertà e un altro di soggetto amoroso e in parte bur- leschi ; e questi bastano per farci concludere che, sebbene egli suscitasse ammirazione tra i condiscepoli e i famigliari, poteva, tutt'al più, esser lodato per una certa facilità nel buttar giù endecasillabi di giusta misura. Se vogliamo, ciò non è poco per un ragazzo; ma non è neppure presagio di futura grandezza.

A Montecatini Beppe continuò a verseggiare a tutto spiano, trattovi anche dall' uso locale delle gare di sonetti a rime obbligate ; e in queste ten- zoni egli riportò facilmente più d' una vittoria. Poi, a richiesta del preposto Orlandini, fece una canzone sul crocifisso, che venne stampata in una raccolta e gli procurò molte lodi. Quel che va-

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lesse la canzone non sappiamo, perchè non ci è pervenuta; ma del valore poetico del Giusti in quel tempo è indizio una imitazione oraziana scrit- ta in versi abbastanza disinvolti, e un'odicina, la- sciva ma non brutta, per una giovinetta, Isabella Fantoni, da lui ammirata ai Bagni di Montecatini e della quale s'immaginò per qualche tempo di essere innamorato sul serio.

Ma di queste più o meno felici esercitazioni poetiche non poteva essere pago il signor Do- menico, se pur qualche volta ne andava orgo- glioso. Egli mirava sempre allo stesso scopo: metter il figlio in grado di coprire un pubblico ufficio; e poiché, a tale scopo, bisognava ch'egli prendesse la laurea in leggi, incaricò il già ri- cordato preposto Orlandini di prepararlo all'esa- me d'ammissione all' università. Qualche mese dopo, Beppe, bene o male, superava l'esame e, nel novembre del 1826, cominciava a frequentare i corsi della facoltà di leggi nella Università di Pisa.

Che cosa fossero studenti e professori a Pisa, in quel tempo, ha detto, con molti particolari gu- stosi e col garbo consueto, Ferdinando Martini, e non discorda da! suo racconto quel che pos- siamo dedurre dalla testimonianza che ci il Giusti stesso nelle Memorie di Pisa, scritte nel 1841. Tra i professori non mancavano i buoni, rispettati dagli studenti; ma tra gli studenti pre- valevano, o almeno avevano gran seguito, gli

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scapati, ai quali era duce un tal Salvatore Ar- cangeli soprannominato Stravizio, che il Giusti conobbe e, pare, anche imitò. Veramente, a legger le lettere eh' egli in quel tempo scriveva a suo padre, si direbbe che fosse un modello di stu- dente, tutto occupato, il primo anno, a studiare geoinetria e filosofia perchè così volevano i programmi d'allora e a studiare diritto nei due seguenti. A sentirlo, unico spasso era per lui qualche serata trascorsa a teatro o in casa di gente per bene, come quella della contessa Ma- stiani, conosciuta dal padre e accetta a corte. Le 105 lirette che gli mandavano da casa ogni mese, erano pochine, a dir il vero ; ma il saggio stu- dente sapeva farle bastare ; e quando il padre sospettoso l'accusò di buttar via i denari, egli se l'ebbe a male e gli rispose, non senza un po' di risentimento, dimostrandogli che aveva torto. In realtà invece il padre aveva ragione di sospet- tare. È bensì vero che il giovinotto studiò, se non troppo, almeno quanto bastava per cavarsela agli esami ; ma si intrufolò in compagnie poco buone, spese troppo e fece dei debiti che alla fine ven- nero a galla e dovettero esser pagati dal padre il quale, un po' tirato nello spendere, se ne sgo- mentò, e, nel giugno 1829, richiamò il figlio a casa facendogli interrompere un' altra volta gli studi.

Nel frattempo la famiglia s'era trasferita da Mon- tecatini a Pescia, ed il giovane figliuol prodigo do- vette quindi rassegnarsi a vegetare in questa cit- tadina, tanto meno allegra e tanto più pettegola

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di Pisa. Se non che neppur qui mancavano i gio- vanotti dissipati e le occasioni di non difficili amori ; cosicché, in sostanza, Beppe mutò com- pagni ma non genere di vita, e bagordi e amo- razzi e debiti si rinnovarono ben presto, con quan- to conforto del padre è facile immaginare.

Eppure, nemmeno in questo brutto periodo della sua vita, non smise mai, a Pisa a Pescia, di fare versi. La vena infatti aveva con- tinuato a scorrere sempre abbondante, ed anzi a poco a poco si era fatta anche più limpida e più tersa, come appare dai pochi sonetti amorosi e dai molti componimenti burleschi di questi anni. I primi sono probabilmente pure esercitazioni let- terarie, ed esprimono sentimenti poco in armonia cogli amorazzi volgari che il Giusti coltivava al- lora ; ma ci attestano però lo studio dei grandi poeti antichi, e specialmente di Dante e del Pe- trarca, e lo sforzo, non sempre vano, di addolcire l'armonia del verso e di affinare lo strumento della parola. I componimenti giocosi invece si ricollegano evidentemente colla poesia burlesca di Antonio Guadagnoli, popolarissimo allora in Toscana e conosciuto personalmente dal Giusti, che gli si era legato a Pisa di cordiale amicizia; ma talvolta ci presentano anche, pur nella loro facile superficialità, qualche tratto inspirato fe- licemente dal vero, che par quasi preannunciare il futuro poeta satirico. Questo è, per es., il caso della Mamma educatrice, il più noto de' suoi com- ponimenti giovanili.

E che tali versi gli procacciassero fin d'allora

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una certa fama, ci è attestato dal fatto che a Pisa, nelle famiglie signorili che frequentava, egli era invitato a recitare versi, in gara con Giovanni Rosini, professore dell' università e suo buon ami- co, e che, a Pescia, egli, oltre a partecipare vit- toriosamente ai soliti tornei poetici, era accolto nelle migliori famiglie e per una di esse, i Ma- gnani, scriveva una corona di sonetti ad illustrare i quadri decoranti una loro villa.

li.

Le giornate di luglio del 1830 e tutti i fatti che ne seguirono, in quello stesso anno e nel seguente, in Francia e in Italia, vennero a sorprendere il giovane scapato in mezzo alle sue dissipazioni, e destando in lui più gravi pensieri e piij nobili affetti, mutarono in parte l'indirizzo della sua vita e quasi del tutto quello della sua arte.

Quali fossero le idee politiche del Giusti negli anni precedenti non ci è noto. Che fosse del tutto indifferente al sordo travaglio che agitava allora tante generose anime d'italiani, non è credibile ; ma forse, distratto dal poco nobile genere di vita al quale s'era abbandonato, non era andato oltre una vaga simpatia per le idee liberali, a cui lo doveva inclinare il ricordo dell'avo materno. Ce- lestino Chiti (m. 1825), che, al tempo della grande rivoluzione, aveva, col Sismondi, sofferto perse- cuzione e carcere per opera dei reazionari, ed era

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poi sempre rimasto fedele alle idee democratiche. Ma i fatti del 1830-31 colpirono la sua fantasia e commossero il suo cuore di 21 anno, esaltandolo per le idee di libertà e di patria. Idee molto in- certe però, almeno per allora ; e tutto doveva ri- dursi, probabilmente, ad un generico odio, di tipo alquanto alfieriano, pei tiranni, e ad una mal de- terminata aspirazione per la libertà repubblica- na; né d'altro dovevano essere piene le concioni che, a sua confessione, andò allora declamando pei caffè e per le osterie di Pescia, come non d' altro eran pieni i versi che gli furono ispirati dai fatti di quel tempo e dalle sue nuove idee e passioni, e dei quali riparleremo a suo tempo.

Quello che pensasse frattanto il signor Dome- nico, fedelissimo a casa Lorena ed alle vecchie idee, di queste scalmane patriottiche e democra- tiche del figlio, è facile immaginare. Ma si do- vette quietare, quando i moti rivoluzionari ces- sarono senza portare alcun mutamento nelle cose d'Italia e vide che i vecchi sovrani restavano più che mai saldi sui loro troni. Tornarono allora pro- babilmente a galla le sue vecchie speranze di ri- cavare dal figlio un dottore in leggi e quindi un servitore del governo, e poiché il figlio dal canto suo, stanco forse della vita oziosa e sconclusio- nata che menava a Pescia, gli fece solenne pro- messa di non ricadere nelle passate dissipazioni, deliberò di mandarlo ancora a Pisa a riprender gli studi.

Ed ecco il nostro giovinotto di nuovo all'uni- versità, nel novembre 1832.

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Egli vi tornava però alquanto mutato, e trovò qualcosa di mutato anche a Pisa, dove pure gli avvenimenti politici degli anni precedenti non erano passali senza lasciar traccia. La scolaresca era un po' meno dissipata e più studiosa; inoltre aveva una passione nuova, la politica ; e «on era difficile trovar studenti che coi loro baffi dessero indizio di idee liberali. E tra questi fu anche il Giusti che ben presto si acquistò una certa fama tra i condiscepoli, per le sue idee e per i suoi versi, e quindi venne anche in sospetto alla po- lizia. Non che la polizia toscana fosse terribile come quella di Napoli, di Modena e del Lombardo- Veneto ; tutt'altro!; ma non poteva chiuder sem- pre gli occhi e gli orecchi, come forse avrebbe qualche volta desiderato, ai trascorsi troppo ru- morosi degli studenti, perchè il governo grandu- cale, tormentato dalle richieste e dai rimproveri degli altri governi d'Italia, doveva pure, di tanto in tanto, impartire ordini di vigilanza ed esortare alle severità, E i sospetti polizieschi contro il Giusti non furono, per lui, senza conseguenze di una certa importanza.

Venendo a Pisa, egli nutriva speranza di com- piere i suoi studi e di conseguire la laurea entro il giugno del 1833; invece ecco, nel febbraio di quest'anno, un improvviso ordine dell'autorità accademica gli vieta di sostenere un esame che era già stato fissato per quei giorni, ciò che porta un rinvio della laurea da giugno a novembre. Più tardi poi gli si fa sapere che questo non basta e che dovrà rimandare la laurea nientedimeno che

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fino al giugno del 1834! Offeso ed irritato, anche per gì' inevitabili rimbrotti paterni, il Giusti ri- corre al granduca ; ma il ricorso non è preso in considerazione ; prega il padre di parlare al so- vrano del quale è amico, quando verrà a Monte- catini per la solita cura ; ma anche questo passo è vano, ed egli deve finalmente rassegnarsi a ri- mandare la laurea di un anno.

Che era mai succeso? Il Giusti, scrivendo al padre, si l'aria di non comprendere il per- chè del provvedimento, e protesta quando il pa- dre gli scrive che era effetto della sua « cattiva condotta » ; ma il fatto si è che proprio in quei giorni egli era stato chiamato in polizia e rim- proverato per i troppo rumorosi applausi prodi- gati in teatro ad una cantante in fama di liberale, che, nella serata d'onore, era venuta alla ribalta con una ghirlanda di fiori bianchi, rossi e verdi. Beppe s'era difeso dimostrando che quella sera non si trovava in teatro ; ma la chiamata stessa dimostra in qual concetto egli fosse tenuto dalla polizia. Però evidentemente la punizione scola- stica doveva avere avuto un altro motivo; e que- sto fu probabilmente come suppone il Marti- ni — la GuigUottina a vapore, che figura in testa alle edizioni delle sue satire, e eh' egli aveva composto appunto in quel tempo. Il gu- stoso scherzo satirico ebbe subito una certa dif- fusione, e il Martini basandosi su un certo rac- conto dei Proverbi toscani suppone che un condiscepolo denunciasse il Giusti alla polizia come autore della mordace poesiola; donde l'im- provviso provvedimento accademico.

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Comunque sia, il Giusti chinò il capo ai vo- leri superiori, contentandosi di vendicarsene con un' altra poesia, la Rassegnazione e proponimento- di cambiar vita, e al tempo stabilito, il 28 giugno 1834, a 25 anni circa, riusciva finalmente ad ot- tenere la laurea in leggi. Dopo di che, lasciando per sempre la «baraonda tanto gioconda» di Pi- sa, si recava, seguendo il volere del padre, a Fi- renze, per farvi pratica di giurisprudenza nello studio dell'avvocato Cesare Capoquadri, presso il quale aveva già fatto la sua comparsa, allo stesso scopo, anche nelle vacanze dell'anno pre- cedente.

* *

Il Capoquadri era uno dei prìncipi del foro toscano; ma il Giusti, a dire il vero, non fece troppo tesoro di quanto avrebbe potuto appren- dere nel suo studio. Lo frequentò bensì per più anni, ma non troppo assiduamente e senza alcun entusiasmo.

Nella mente del signor Domenico, il tirocinio ch'egli faceva allora avrebbe dovuto servirgli per intraprendere poi la carriera dei pubblici uffici; ma, quando si fu al punto di prendere una deci- sione, il figlio si ribellò, e per quanto il genitore insistesse, e lo esortasse e lo rimproverasse, fu irremovibile nel non volerne sapere. Qualche amico di famiglia si mise di mezzo, e alla fine si concluse che Beppe avrebbe dato gli esami d'av- vocato e quindi, aiutandolo il padre finanziaria- mente per qualche anno, si sarebbe avviato ad esercitare la libera professione.

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Questa era già una grave delusione pel signor Domenico; ma dovette rassegnarvisi. Se non che il giovine dottore glie ne preparava un'altra anche più grande. Infatti egli diede bensì, al tempo sta- bilito — e cioè nel luglio del 1838 gii esami di avvocato, e li superò... ; ma poi non esercitò mai la professione, ed anzi non volle neppure che lo chiamassero avvocato. E il padre che, sebbene discretamente fornito di beni di fortuna, non era molto largo nello spendere, dovette, alla fine, chi- nare il capo e acconciarsi a spedirgli ancora ogni mese la solita modesta retta che il figlio dovette ingegnarsi a far bastare per i suoi bisogni ordi- nari. Vero è che tutto ciò non accadde senza con- trasti, penosi sempre e talvolta anche piuttosto aspri, tra padre e figlio, accusando il primo a torto e a traverso, e difendendosi l'altro con parole a volte non molto rispettose, sebbene in parte giu- stificate dalla palese esagerazione dell'attacco; e se non avesse fatto da intermediario, col suo tatto materno, la buona signora Ester, vittima anch'essa talvolta delle asprezze del marito, non è improbabile che ne sarebbe derivata qualche fave rottura tra i due contendenti.

Ma si può chiedere: perchè mai tanta rilut- tanza del figlio ai desideri paterni? Finché si trattava di assumere un impiego governativo, si può credere che derivasse dalle idee politiche del giovine dottore in leggi ; ma questa difficoltà spariva o veniva almeno attenuata di molto col libero esercizio dell'avvocatura. La ragione vera è quindi un'altra.

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Non però l' inclinazione alla vita dissipata, co- me — dati i precedenti si potrebbe supporre. I disordini della prima gioventù il Giusti li aveva ormai lasciati in disparte : non più debiti, non più bagordi. A Firenze, accolto un po' per merito della famiglia un po' per quello dei versi' nella migliore società, frequentando scrittori ed artisti, egli non faceva certo vita monacale ; ma non era più il discolo di Pescia e di Pisa. Inappuntabile ed anzi elegante nel vestire, amava andare a tea- tro, ai ricevimenti, ai balli anche a quelli di corte, dove ebbe occasione di scambiare qualche parola col granduca ma non si appassionò mai troppo per questi divertimenti. Nemmeno l'amore, che ha spesso tanta parte nella vita dei giovani, riusciva a destare in lui vera passione. Non che la beltà femminile lo lasciasse indifferente; anzi da vero figlio del signor Domenico che fu in ogni tempo della sua lunga vita un impenitente vagheggino amo corteggiare signore e non signore, e potè vantarsi che più d'una accolse benevola i suoi omaggi ; ma furono passion- celle o capricci, nei quali i sensi avevano molta parte e il cuore assai poca: vero e proprio amore non ne provò forse mai, anche se per le donne corteggiate scrisse, come vedremo, versi pieni di sentimenti idealmente nobili e di proteste di passione sublime.

Esempio tipico di questo stato d'animo è la sua relazione con Cecilia Piacentini, che cade appunto negli anni del ritorno a Pisa e nei primi del soggiorno a Firenze, dopo la laurea. La Pia-

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centini era una giovine e bellissima signora di Pascià. Il Giusti l'aveva conosciuta prima del 1829, ma poi frequentandola al suo ritorno in fa- miglia negli anni seguenti, la corteggiò e ne ot- tenne l'amore. La passione, da parte della signora almeno, sembra sia stata assai viva ; il giovinotto, per parte sua, le indirizzò versi traboccanti di melanconica sentimentalità, come la Dedicatoria delle sue poesie (1835) e l'ode All'amica lontana (1836), che parrebbero inspirate da un amore idealmente sublime. Ma la vanità giovanile in- dusse il Giusti a qualche indiscrezione cogli amici, la signora se ne sdegnò, e nell'estate del 1836 la ruppe con lui. Ed egli ne soffrì ; anzi, a dargli retta, la sofferenza sarebbe stata tanto grande da produrre una vera rovina nell'animo suo ; sarebbe stata insomma per lui una di quelle tragedie sentimentali che lasciano tracce indele- bili. In realtà, non tardò a consolarsi, e annodò un idillio letterario sentimentale con Isabella Rossi, giovine poetessa fiorentina. Ma la Rossi era nubile, e la conclusione dell'amore doveva essere il matrimonio. Se non che il Giusti non si sen- tiva, nato < a portare quel giogo », come disse più tardi; e poi: di che avrebbe mantenuta la sposa? Avrebbe dovuto ritirarsi con lei a Pescia, nella casa paterna ; prospettiva poco lieta anche per la giovine poetessa. E la gran passione, di cui faceva pompa in lettere infocate, svanì. Qualche tempo dopo Isabella sposava il conte Gabardi, e il Giusti le indirizzava un'ode, mediocre ma corretta, di saluto e d'augurio.

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Staccatosi dalla Rossi, riannodò la relazione colla Piacentini; ma per poco. Nel 1841 seguiva una nuova, clamorosa e definitiva rottura, dalla quale il poeta disse di aver molto sofferto, pur consolandosene presto, al solito, con nuovi amori. In seguito, sbollite le ire, si rappaciò colla buona signora Cecilia; ma oramai all'antico amore era subentrata una pacata amicizia che durò anche dopo la morte del marito di lei (1841). Del resto, già nel dicembre del 1840, il Giusti, da amico di casa, aveva scritto per Giovannino, figlio della signora, che andava a Lucca in collegio, la notis- sima lettera esortatoria, piena di saggi consigli, che è riportata in moltissime antologie scola- stiche.

In tutto questo diciamolo pure il Giusti non fa sempre ottima figura ; ma non bisogna poi esagerare e giudicarlo peggiore di quello che fu. In amore, come nei rapporti col padre e come in altre circostanze della vita, egli dimostrò d'es- sere un uomo come tanti altri, con difetti che sono purtroppo comuni in questa nostra povera umanità, e che, in parte almeno, possono essere scusati cogli esempi eh' egli ebbe in famiglia e colla educazione che ricevette.

Ad ogni modo, tutto ciò dimostra che neppur l'amore gli fece perdere la testa e lo sviò dal- l' intraprendere una carriera regolare e < seria », come avrebbe voluto suo padre. E tutto fa cre- dere infatti che la sua riluttanza ai voleri pa- terni derivasse in parte dalla antipatia per gli arzigogoli legali e in parte anche maggiore dalla

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ripugnanza per ogni occupazione che richiedesse impiego metodico e regolare del tempo e che Io distogiiesse perciò da quella che ormai consi- derava come la sua vera vocazione : le lettere e specialmente la poesia.

Già fin da quando era in collegio a Lucca, egli dichiarava di sentirsi nato alle lettere ed alla poesia {Lett. fam. 15 e 20). Al presente, ciò che poteva essere in quegli anni illusione o vanteria da ragazzo, era diventato, nel giovane verseggia- tore, seria e salda persuasione. E per quanto egli dichiarasse più volte, allora ed anche più tardi, scrivendo agli amici, di non essere un letterato e di scrivere a orecchio, il vero si è che aveva deli- berato ormai di darsi tutto alle lettere ed alla poesia, nella speranza che glie ne verrebbe ono- re ; e in una lettera alla madre, del 10 dicembre 1836 {Lett. fam. 135), lo dichiara apertamente.

Ma allora il signor Domenico ebbe un'altra idea. Poiché il figlio voleva darsi alle lettere e si era già fatto un certo nome come poeta, per- chè non accetterebbe una cattedra di eloquenza? E le antiche speranze, cacciate dalla porta, rien- travano così per la finestra. Ecco intanto che nel 1840 corre voce che il Rosini sta per abban- donare la cattedra di Pisa. L'occasione non era propizia ? E il giovane poeta fu per un momento sedotto dall' idea di esserne il successore. < Una cattedra > aveva scritto ad un amico sin dal 1836 e confermava quasi colle stesse parole al Monta- nelli nel 1840 {Ep. I, 169, 292), il posto più indipendente e più onorifico che possa coprirsi

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da un galantuomo >. Permise quindi che il padre intavolasse delle pratiche per fargli avere il po- sto, e, cosa più notevole ancora, fece qualche passo egli stesso per ottenerlo, sebbene a volte sorgessero in lui dei dubbi, perchè sentiva di non avere, pel momento, la preparazione necessaria, e perchè avrebbe voluto esser sicuro di non dover rinunciare alla sua libertà di giudizio e di parola. « Mi sento liberissimo >, scriveva al padre {Leti. fam. 183), « e se pretendessero castrarmi l'anima e la testa sbaglierebbero ; intendo per questo di voler portare la toga tricolore, ma sola- mente di dire quel vero che mi fosse conceduto di conoscere, e di dirlo con convenienza >. Ma, pel momento, il Rosini non si ritirò, e l' idea fu quindi messa in disparte.

Se rie riparlò qualche anno più tardi, quando si trattò daccapo del collocamento a riposo del vecchio professore ; ma nemmeno allora la cosa ebbe seguito, e il Giusti continuò quindi a vivere libero da ogni impiego pubblico o privato, non avendo altra occupazione seria che la composi- zione de' suoi versi, alla quale soleva attendere a sbalzi, quando l'estro si risvegliava. A volte, dopo mesi d' inerzia e d'apatia, nei quali « la penna gli pareva di piombo e il cervello gli si faceva di sughero > {Ep. I, 154), buttava giù a furia, senza concedersi un minuto di riposo, versi e versi; poi li lasciava a riposare, per ripi- gliarli in seguito a suo agio e tempestarli di cor- rezioni, esitando mille volte prima di recitarli agli amici o di darne loro copia. <'

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E così durò, conducendo una vita relativa- mente tranquilla e felice, fino al principio del 1843, quando alcuni avvenimenti imprevisti ven- nero a turbarlo profondamente e a mutare anche in parte il colorito della sua poesia.^

III.

Ecco giunto quindi il momento di prendere in esame la sua opera letteraria nel dodicennio che corre tra il 1831 e il 1842, per vedere donde egli abbia preso le mosse, a qual punto sia arrivato e quali nuovi accenti abbia fatto risonare nella poesia del suo tempo.

Nato e vissuto fino a venticinque anni circa in un ristretto ambiente provinciale, il Giusti ne riportò certe abitudini e certe tendenze spirituali, che poterono poi esser temperate in parte, ma non distrutte, quando egli passò a Firenze, tanto più che anche Firenze, sebbene fosse capitale dello Stato e centro letterario ed artistico di qualche importanza, era tuttavia una città al- quanto provinciale anch'essa, dove si viveva come in un'isola intellettuale tranquilla, tra le torbide onde della vita italiana d'allora, in una isola nella quale il fragore e l'impeto delle bur- rasche letterarie e politiche si sentivano solo in ritardo ed attenuati.

A quelli dell'ambiente, s'aggiungano gli effetti della cultura, che il Giusti non ebbe profonda

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estesa, per colpa de' suoi studi tante volte interrotti e trascinati avanti con poca buona vo- lontà da parte sua, in iscuole generalmente non troppo buone. Più tardi, è vero, cercò di rime- diare alle deficienze della propria coltura, almeno nel campo letterario; ma vi riuscì solo ìh parte.

Di greco, infatti, confessò egli stesso di non saper nulla. Di latino, a scuola imparò tanto poco, che più tardi, quando si diede di proposito alle lettere, sentì il bisogno di rifarsi da capo. Per- venne così a gustare i classici di Roma, e spe- cialmente Virgilio, che già fin dalla prima gio- ventù aveva prediletto ed anche ingenuamente parodiato in certi suoi versi scherzosi; e fu il < suo autore > fra i latini, come Dante fra gli ita- liani; ma la sua arte aveva ormai trovata la pro- pria via, e lo studio degli antichi non poteva avere grande efficacia su di essa.

Meglio naturalmente conobbe la letteratura italiana, e specialmente predilesse Dante, del quale non è difficile scorger le tracce in qualche suo com.ponimento serio in terzine della prima gioventù, ed anche nei primi sonetti amorosi. E poco meno di Dante ammirò fin d'allora il Pe- trarca, che pure imitò spesso nei sonetti amo- rosi — Come dice neir0/7^/«^ degli scherzi: « pagando al Petrarca il noviziato, belai d'amo- re > ; e anche in età matura lo ebbe poi sem- pre caro, e il Canzoniere soleva essere sua let- tura preferita, insieme col poema dell'Ariosto, nelle uggiose giornate autunnali. Ma di quest'ul- timo ricordò tuttavia più spesso, in qualche suo

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componimento, le satire. Il poema del Tasso fu per lui OjQ^getto di parafrasi scolastiche, quando era nel Collegio di Lucca, ma non pare che fosse tra i suoi autori preferiti. Tra i prosatori, ammi- rò certo il Colletta, che gli servì di modello pei Cenni intorno alla vita di Celestino Chiti, scritti nel 1837 ; e, da ragazzo, venerò Carlo Botta. È an- zi curioso vedere con quale entusiasmo ne loda lo stile {Leti, fam., 7-8) contrapponendolo a quello delle Ultime lettere di Jacopo Ortis, la cui enfasi lo disgustava. Poco dopo dovette però ammirare il Foscolo poeta, come attestano alcune remini- scenze de' suoi scritti giovanili. Conobbe certa- mente i canti del Leopardi, che viveva a Pisa proprio quand'egli frequentava l'Università; ma, com'ebbe a dire molt'anni dopo, quel suo dispe- rato pessimismo gli faceva freddo e sgomento {Ep.,\\, 211), e non fu quindi trai suoi autori pre- feriti, sebbene, in età matura, pensasse poi, co- me vedremo, a fare uno studio su di lui e sul Foscolo. Di altri nostri grandi scrittori, dal Boc- caccio al Parini e al Monti, non risulta che avesse da giovine conoscenza alcuna; ma è impossibile che li ignorasse. Dell'Alfieri, sebbene poco ne parli, i suoi scritti giovanili rivelano una buona conoscenza; quel che pensasse del Manzoni ve- dremo pili avanti; ma, ad ogni modo, ne conobbe gli scritti solo relativamente tardi, quando la sua arte era già matura.

Molto invece apprezzò, fin da giovinetto, i poeti satirici e giocosi, e specialmente studiò, come vedremo, il Menzini. II Casti era allora per

28 Egidio Betlorini

lui < r immortale autore degli Animali parlanti > ; ma soprattutto ammirava, tra i più recenti, il Pa- nanti, e più ancora come già si accennò il Guadagnoli.

Delle letterature straniere conobbe special- mente la francese, favorito in ciò da una discreta conoscenza della lingua, appresa in collegio; ma tra gli scrittori francesi conobbe da giovane specialmente i classici; i moderni invece, gene- ralmente, gli furono noti solo più tardi, ed ove si eccettui il Béranger del quale si dirà più avanti non ebbe per essi grande simpatia, e parlò con poco rispetto della Sand e dell'Hugo.

Il che si ricollega, del resto, col suo atteggia- mento verso il romanticismo. In collegio, co- me si disse, ammira il Botta e disprezza il ro- manzo del Foscolo ; e potrebbe parere indizio di tendenze antiromantiche, ma è forse soltanto il riflesso di qualche giudizio de' suoi maestri. A Pi- sa non risulta che si occupi della dibattuta qui- stione tra classici e romantici; ma poi, nei primi tempi del soggiorno a Firenze, vivendo tra let- terati ed artisti che certo ne discutono, si rende conto anch'egli dei termini della contesa, ed il suo buon senso gli fa vedere che i classicisti arrabbiati < hanno perduto il credito e bisogne- rà finalmente che chiudano bottega >, e dichiara che occorre « liberarsi dalle pastoie aristoteli- che >. Ma, nello stesso tempo, sente una certa avversione per il romanticismo, del quale pare non veda che gli eccessi di origine straniera; e deplora la < fuliggine satanica > {Ep., I, 37),

Giuseppe Giusti 29

inveisce contro i < romanzi strampalati della scuola galvanica d'oltremente > (I, 162), contro i

< poeti macellari >, e contro quelli ch'egli chiama <i secentisti del secolo XIX > {Leti. fam. 154). E se, parlando di lingua, sostiene che < vai me- glio una bestemmia contro le regole, che espri- ma qualcosa, che un testo di lingua minchione > (£■/?., 1, 193), si sdegna però contro quei forti in- gegni italiani che si perdono dietro alle < ciurme- rio dei romantici esagerati {Ep., I, 162), e dice che, se gli stranieri ci dominano in altri campi, bisogna almeno sapersene difendere in quello delle idee, ed < esser nazionali > ; e, quanto a sé, dice che gli <fia bello l'aversi fatto parte da stesso >.

E queste idee raccoglie poi e ripete nella sua ode a Girolamo Tommasi, su la Origine degli scherzi, che è, come disse qualcuno, la sua

< arte poetica >, scritta nel 1841-43, quando or- mai si era reso ben conto della strada percorsa. sono in contrasto con le idee di quest'ode quelle che esprime in due altri componimenti, posteriori di qualche anno A uno scrittore di satire in gala e Avvertimento a un giovine scrit- tore — nei quali, in sostanza, egli esorta chi si alle lettere, a lasciar da parte i soggetti an- tichi o stranieri, per ricavar materia dall'età e dalla patria sua, a scartare ogni stravaganza di concetto e d'espressione e a dir le cose alla buo- na, pigliando arditamente in mano il dizionario che gli suona in bocca.

Insomma egli non vuol essere classico

30 Egidio B elio r ini

romantico, sebbene, in sostanza, non la pensi molto diversamente dai romantici temperati man- zoniani; e possiam dire che le sue idee lettera- rie — le quali d'altronde non si raccolgon mai in un tutto organico sono una specie. di na- zionalismo letterario temperato dal buon senso, sebbene non sempre tanto sicuramente da fargli evitare qualche ingiustizia e qualche gretteria. Ma forse alla parola « nazionalismo >, che può generare equivoci, è meglio sostituire quella che avrebbe preferito il Giusti, di « paesanità >, in- tesa come un amore, talvolta un po' troppo esclu- sivo e ristretto, per tutto ciò che è paesano: scrit- tori e idee, lingua e argomenti. E < paesano >, per lui, quando si tratta di letteratura, vale quasi sem- pre < toscano > e raramente « italiano >.

Al nazionalismo letterario corrisponde quello politico, inteso questo vocabolo nel senso che egli poco s'occupò di ciò che accadeva fuori del suo paese. Ma qui « paese > vale generalmente e francamente < Italia >, se anche è naturale che egli vedesse e conoscesse specialmente la To- scana e ciò che vi accadeva.

Da ragazzo scrive il sonetto alla libertà ; ma è roba di scuola e di maniera, e nulla più. Di politica, per quanto sappiamo, si occupa sol- tanto dopo i fatti del 1830-31, che destano in lui, come vedemmo, un amor di patria vivo e sin- cero, e ne fanno per sempre un fervente liberale.

Giuseppe Giusti 31

Da prima ha tendenze repubblicane, sebbene le sue idee in proposito siano un po' vaghe e co- lorate da un residuo di odio retorico contro i tiranni; ma ben presto il buon senso gli fa ve- dere che quello che veramente importa è liberar l'Italia dagli stranieri, e darle nello stesso tempo l'unità che la renderà forte e rispettata. Se a ciò può valer meglio la monarchia, come sembra, perchè non accettarla? E fin dal 1836, nello Sti- vale, invoca < un uomo purché sia, fuorché pol- trone » il quale rechi questi beni all'Italia ; a patto che non cerchi poi di farsene tiranno.

Ma quel che importa per noi è che le idee politiche danno un nuovo indirizzo alla sua atti- vità letteraria, ed anzi la dominano e contribui- scono efficacemente a renderla originale.

Scrivendo, egli, fino allora, era andato un po' a tentoni. L'istinto lo spingeva alla poesia; ne sentiva, fin da ragazzo, la passione, e qualche volta lo disse chiaramente, con iattanza giova- nile ; ma non aveva trovato la propria strada. Le letture fatte a scuola e l'ammirazione per Dante, per il Petrarca e per qualche altro classico, gli dettarono sonetti, canzoni, componimenti in ter- zine di vario argomento, sacro, elegiaco, descrit- tivo, amoroso; tutta roba seria, compassata, con qualche buon verso e con qualche immagine fe- lice, e anche con segni di progresso, dirò così, tecnico via via che gli anni passavano ; ma senza carattere alcuno di originalità; erano cose me- diocri e incolori, e nulla piìj. Nessuno parlerebbe più del Giusti, se avesse continuato per quella

32 Egidio Bellorini

via, e poco ne avrebbero parlato anche i con- temporanei.

Se non che in Toscana, accanto alla lettera- tura seria, di scuola e per così dire ufficiale, fio- riva un'altra letteratura popolarissima, quella sa- tirico-giocosa, che aveva una lontana tradizione e non pareva affatto vicina al tramonto. Orbene, per il Giusti, Dante, il Petrarca e gli altri grandi poeti del passato rappresentavano l'ideale del- l'arte ; ed egli li collocava in alto nel tempio della gloria e li venerava con riverente ammira- zione ; ma i poeti satirico-giocosi, e specialmente il maggiore dei viventi, Antonio Guadagnoli, era- no uomini come lui, che vivevano la sua stessa vita e la ritraevano beffandosene allegramente, con una risata un po' superficiale ma schietta, che corrispondeva perfettamente alla sua indole allegra ed ai suoi gusti non troppo raffinati di giovinotto provinciale un po' scapestrato, amante delle liete brigate di capiscarichi e dei facili amori. Ed ecco il Giusti buttar giù tutta una se- rie di epigrammi e di poesiole ridanciane e non di rado alquanto licenziose {La molla magnetica, La mamma educatrice, A Nena ecc.), come quelle del maestro.

Ma a che sarebbe arrivato il Giusti continuan- do per questa via? Forse a superare nella spon- tanea festività e nella perfezione formale il Gua- dagnoli; e forse ci avrebbe anche dato egualmente, nel 1845, VAmor pacifico, che nel suo genere è bellissimo; ma, in sostanza, figurerebbe come uno dei tanti nostri poeti satirico-giocosi, o anzi

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come r ultimo rappresentante di una lunga schie- ra; ma nulla più. Avrebbe quindi avuto una certa fama, specialmente in Toscana ; ma non sarebbe uno degli scrittori piii notevoli della prima metà del secolo scorso.

L'amor di patria e la passione politica lo tras- sero fuori da questa morta gora e fecero di lui il Giusti che tutti conosciamo, che ha un carat- tere tutto suo, pel quale può essere ammirato od anche criticato, ma non confuso con nessun altro.

Però anche in questo nuovo indirizzo c'era un pericolo per la sua arte. Da principio infatti egli ondeggiò incerto tra la poesia politica se- ria e la scherzosa, ed eccolo scrivere nel 1832 il coro «Fratelli sorgete», d'intonazione, dirò così, berchetiana, e nel 1836 la retorica Tirata con- tro Luigi Filippo e la canzone classicamente atteg- giata Sulle arti, in cui l'amor di patria e di libertà r impulso, ma che artisticamente sono assai povera cosa. Contemporaneamente però, cedendo a quelle ch'erano le sue più spontanee simpatie letterarie e le sue native tendenze di < caratteri- sta >, lo vediamo, colle Parole d'un consigliere al suo principe (1831), col Mio nuovo amico, colla Guigliottina a vapore, colla Rassegnazione e pro- ponimento di cambiar vita (1833), e con gli altri suoi scherzi notissimi degli anni seguenti, met- ter in burletta la politica, come prima aveva messo in burletta la Mamma educatrice o come, di quello stesso tempo, si prendeva beffe della Casta Susanna o dell'impresario Ricotta. Era già sulla via buona. Profili G. Giusti. 3

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Se non che, eccolo arrestarsi poi incerto un'al- tra volta. Gli dovette sembrare, forse, che far la burletta su cose tanto serie fosse sconveniente. Non era forse materia degna di satira vera e pro- pria? E si volse a studiare i satirici dell'età pre- cedente, dall'Ariosto al Rosa e all'Alfieri ;, ma so- prattutto studiò il satirico maggiore di Toscana, Benedetto Menzini, e lo studiò così a fondo da prepararne un commento. Anzi, per tutto il 1835, tanto si appassionò in questa impresa, che poco scrisse di originale.

Nello stesso tempo, la maggior esperienza della vita, acquistata prima a Pisa e poi a Fi- renze, e forse in parte anche lo studio stesso dei satirici precedenti, gli facevano comprendere co- me uno stretto legame unisse tra loro le istitu- zioni e le idee politiche che voleva combattere, e certe istituzioni, idee e persino costumi ed abi- tudini della società contemporanea. Ed eccolo far dei tentativi di satira, dirò così, classicheggiante, in terzine o in ottave, non più soltanto politica, ma anche morale e civile, come V Apologo contro i falsi liberali e i Costumi del giorno. Ma questi tentativi non dovettero soddisfarlo, forse perchè sentì che vi mancavano quel brio e quella spon- taneità che tanto piacevano nella Giiigliottina a vapore e negli altri componimenti dello stesso genere.

Tornò dunque ai suoi « ghiribizzi » o « rabe- schi >, o «scherzi » come li chiamò più comu- nemente, desumendo il nome dalla poesia gioco- sa — e lasciò in disparte la satira vera e propria ;

Giuseppe Giusti 35

ma non del tutto però. Infatti, in un certo caso, egli stesso rimase indeciso se un suo compo- nimento dovesse considerarlo satira o scherzo {Ep., I, 40); e noi più d'una volta, leggendo 1 suoi scherzi di questi anni e dei seguenti, no- tiamo, in una certa maggior serietà o asprezza d'intonazione ed anche nell'uso di certe forme metriche, l'influenza evidente e non sempre arti- sticamente utile della satira tradizionale. Ma, in complesso, restò fedele al tipo dello « scherzo > che, per l'intonazione, ci richiama alla solita poe- sia giocosa, ma se ne distacca in quanto il sor- riso ed anche la risata traggono dal sentimento che li fa spuntare sul labbro dell'autore, un fa- scino speciale, derivante da una certa finezza e compostezza che temperano ma non distruggono la briosa spontaneità della espressione, e che invano si cercherebbero nella poesia giocosa di tipo guadagnolesco, la cui gaiezza è spesso sguaiata e quasi sempre superficiale. E il Giusti mostrò di comprendere anch'egli la differenza che corre tra i suoi « scherzi > e quelli della poe- sia giocosa tradizionale, quando si vantò {Ep., I, 40) di essersi sforzato di elevare la poesia bur- lesca e quasi di redimerla dalla pena non sua che la condannava da tanti anni < a chiacchie- rare inutilmente ». Ma avrebbe potuto aggiungere che, liberandola dalle chiacchiere, ne aveva fat- to qualcosa di artisticamente nuovo e tutto suo.

36 Egidio Bellorini

Se non che, intorno alla originalità degli < scherzi >, furono mossi dei dubbi. Altro che Guadagnoli ! disse qualcuno; il vero padre della poesia giustiana è Giovanni Giraud, che, se è noto specialmente per le commedie, scrisse però anche delle satire, ben conosciute a Firenze, dove egli dimorò per circa dieci anni (1815-1824), e no- tissime certo al Giusti che ne possedeva un intero quaderno e le sapeva tutte a memoria. E, dopo l'accurato studio di Tommaso Gnoli (1913), non si può negare che vi sono metri, atteggiamenti stilistici, immagini del Giusti, che ricordano quelli del Giraud, e che, a leggere certe satire del poeta romano, par di scorgervi un'aria di famiglia co- gli scherzi del Giusti. E ciò è tanto vero che un Desinare in tempo di quaresima del Giraud fu stampato molte volte, in buona fede, come opera del Giusti. Bisogna però aggiunger subito che, se questa poesiola fosse del Giusti, diremmo che è una delle sue cose meno ben riuscite, e che, del resto, in tutta quella filastrocca satirica che in essa tien dietro alla prima parte seria, ci par di veder quasi una caricatura anticipata di certe assai più moderate filastrocche del Giusti, le quali poi si noti bene non sono quel che di me- glio s'incontri negli scherzi.

Concludendo, dobbiamo dire che il Giusti co- nobbe senza dubbio le satire del Giraud, ma che ne derivò qualche cosa soltanto nei particolari.

Giuseppe Qlusti 37

Nel loro complesso, i componimenti satirici del poeta romano, sboccati spesso, violenti quasi sempre e atteggiati il più delle volte a libello piuttosto che a satira, hanno ben poco a che fare colla lieve ironia e colla festività spontanea dei migliori scherzi del Giusti. E, s'intende, non hanno a che fare, punto poco, colle idee e colle passioni politiche dalle quali gli « scher- zi > trassero l'inspirazione.

Ma un altro e più serio concorrente fu messo avanti da molti per contendere al Giusti il vanto della originalità, P. J. di Béranger. E che il Giu- sti ne derivasse qualche concetto o qualche im- magine è indubitato, come dimostrarono pur con qualche esagerazione nei particolari il Mounier, il Montazio, il Ghivizzani, il Coppola, il Palmarocchl, il Surra ed altri ; ma di qui a fare del poeta francese il maestro e quasi il padre spirituale dell'italiano, ci corre. Certo, a leggere i versi loro, non si può negare che l'uno ricordi un po' l'altro, ed anzi, a leggere certi « scherzi > del Giusti tradotti in francese dal Monnier, par di leggere, a volte, delle chansons del Béranger. ma credo che esageri stranamente il Palmaroc- chi, quando sostiene che il poeta italiano apprese dal francese: 1) a correggere i suoi versi con lungo e paziente lavoro di lima; 2) a servirsi della satira per la lotta politica e patriottica; 3) a fonder la satira colla lirica. Infatti, c'era proprio bisogno che il Giusti imparasse dal poeta francese a correggere i suoi versi mentre sono infiniti, in tutte le letterature, gli scrittori che

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correggono con infaticabile diligenza le loro ope- re ? E quanto ad impiegar la satira a scopo po- litico e patriottico, era forse difficile trovar mo- delli nella nostra letteratura, da Dante in poi ? Quanto al terzo punto, conviene soffermarcisi al- quanto.

Che la originalità del Giusti consista nella unione della satira colla lirica dissero molti ed autorevoli critici, e certo volevano dire che nella sua satira vi è qualcosa di lirico. potevano riferirsi con ciò ai metri, perchè metri lirici usati in poesie più o meno compiutamente satiriche, si trovano, per esempio, in certe odi del Parini come Vlmpostiira e la Musica e nelle satire già citate del Giraud. Quindi vollero dire piut- tosto che il Giusti unì e fuse nello stesso com- ponimento tratti satirici e tratti lirici, e cioè che, mentre fa la satira, il sorriso gli si vela spesso per il sopravvenire di un sentimento serio. Ma questo si potrà dire, credo, per alcuni « scherzi > composti nell'ultimo decennio della sua vita; e vedremo a suo tempo che l'origine della unione o fusione si spiega benissimo, senza ricorrere al Béranger. Quanto agli scherzi dei primi anni, dal 1831 in poi, la mescolanza o fusione non so dove si possa vedere.

Il Giusti, dal canto suo, dichiarò in una pre- fazione rimasta incompiuta, di aver letto e riletto il Béranger « specialmente dopo essersi imbar- cato da un pezzo > ; ma insieme protestò contro il raccostamento che già allora si faceva tra lui e il poeta francese, affermando di credere che il

Giuseppe Giusti 39

suo genere di poesia fosse nuovo « o che egli almeno non sapeva di dove derivasse ». {Se. v., 56); e in un abbozzo di lettera che voleva indi- rizzare al poeta francese nel 1847, dichiara di essere suo ammiratore e aggiunge che gli < scher- zi > < riconoscono da lui non dirò la nascita e la fisonomia ma dicerto una buona parte dell'al- levatura » {Ep., Ili, 53). Dunque non negò di aver conosciuto, relativamente presto, le chansons, ma negò di aver tratto dal loro esempio altro che r< allevatura >; col quale vocabolo che di so- lito significa « allevamento » e si usa parlando di animali, credo volesse dire che egli si sentì in- coraggiato a proseguire per la sua via e a far meglio dall'esempio del poeta francese. E, se è così, non c'è ragione di non prestargli fede. Quan- to al carattere particolare, alla < fisonomia » tutta propria che il Giusti attribuiva ai suoi versi, non v'ha dubbio che consiste nella loro « paesanità > di argomento, di sentimento, di espressione. Egli era e voleva essere italiano, e più precisamente toscano, come il Béranger era francese e più precisamente parigino.

IV.

Ma l'aver mostrato per che vie il Giusti sia pervenuto a scrivere i suoi < scherzi >, non ba- sta. Redimere la poesia giocosa dal suo peccato di chiacchierare vanamente fu buona cosa; ma solo dal punto di vista patriottico e morale. Ar-

40 Egidio Bellorini

tisticamente non significa nulla; e se il Giusti non avesse avuto altro merito, la sua poesia avrebbe conseguito tanta popolarità fin dal suo tempo, tanto meno sarebbe ammirata ancora da noi, dopo quasi un secolo.

Se non che, fortunatamente, il Giusti era qual- cosa di più d'un semplice verseggiatore animato da buone intenzioni morali e politiche. Egli s'ag- girava nelle sale sfarzose della corte grandu- cale e dei palazzi della nobiltà fiorentina, nei ritrovi dei letterati e degli artisti, nei teatri, nei caffè, nelle vie, dovunque fosse gente che si divertiva, che discorreva, che lavorava, e col- l'occhio animato e reso sagace dall'amor di pa- tria e da quello per l'arte, notava tipi, atteggia- menti, discorsi, e sorrideva tra e delle ridicolaggini e delle storture che vedeva; tal- volta anche s' indignava scoprendo delle colpe. Tutta questa materia si accumulava e a poco a poco si ordinava nella sua mente ; poi, un bel giorno, i ricordi si componevano in immagini, delle quali la sua tendenza nativa allo scherzo ritoccava, ingrossandoli o attenuandoli, i tratti del vero, tanto da farne delle caricature, e queste ritraeva poi ne' suoi < scherzi >, con schietta sem- plicità, senza orpelli di immagini peregrine, nella lingua viva e popolare del suo tempo; ma però bisogna aggiungerlo subito con una pro- fonda coscienza della dignità dell'arte. Il Guada- gnoli e gli altri verseggiatori del suo genere, usa- vano pure la stessa lingua e le stesse espressioni, e traevano materia dalla vita della stessa socie-

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; ma non erano animati da alcuna viva pas- sione, e paghi di provocare il sorriso o suscitar la risata, non cercavano altro. Facili scrittori di versi, ne tiravano giù in gran numero, ma senza sentire la necessità del < fren dell'arte»; abban- donandosi a lungaggini e a sguaiataggini, per le quali non di rado annoiano e persino, in qualche caso, disgustano. Il Giusti invece medita a lungo, sceglie con ogni cura il metro piii adatto, e cor- reggendo e ricorreggendo con instancabile pa- zienza, cerca di rendere sempre più propria e viva la parola, sempre più serrata e densa la espressione, e se talvolta, a forza di martellare e di concentrare, diviene o ricercato od oscuro^ molt'altre volte raggiunge la piena efficacia.

ci deve traviare un noto accenno del Ta- barrini, che parrebbe in contrasto con quanto si è detto finora. Secondo questo scrittore, « nel Giu- sti poeta si direbbe che la forma precorra il pen- siero. Qualche volta infatti gli veniva fatto un verso che per l'eleganza della frase e del ritmo contentava il suo orecchio. Egli soleva ripeterlo mille volte, finché a poco a poco se ne aggiun- geva un secondo, e poi un terzo che scolpiva un pensiero, e la strofa era fatta. Quella strofa era il principio d' una poesia, della quale poi veniva l'argomento ». Da queste parole si volle dedurre che il Giusti fosse una specie di improvvisatore che si lasciava trascinare dalla parola o dalla rima, senza alcuna guida di pensiero, senza un disegno prestabilito. E si trovò conferma a que- sto giudizio in ciò che lo stesso Giusti racconta

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della composizione della Chiocciola {Ep., I, 253-5). Passeggiando per la campagna, vede una chioc- ciola, ed esclama: viva la chiocciola! e Questa esclamazione era un quinario sdrucciolo, metro che mi piace oltremodo. Sai che tutto sta nel cominciare»; e infatti da quel quinario, un verso dopo l'altro, venne il resto. Ma si badi bene il Tabarrini afferma che « si direbbe » che nel Giusti poeta la forma precorresse il pensiero, non che lo precorresse davvero, e aggiunge che « qualche volta » un bel verso o una bella frase gli suggerirono una poesia, non che ciò gli av- venisse abitualmente. E l'esempio della Chioc- ciola prova, se mai, che il Giusti meditava pri- ma di scrivere. Quel verso quinario sdrucciolo infatti è una esclamazione colla quale il poeta dice d'aver concluso una serie di riflessioni, fatte prima di vedere il piccolo mollusco e introdotte poi nella composizione dello « scherzo ».

Ma esaminiamo qualcuno degli scherzi, e ci renderemo conto più chiaramente delle qualità della sua arte.

Sebbene abbia voluto purgare la poesia giocosa dalle chiacchiere vane, egli, d'ordinario, non mo- ralizza, ma racconta e ride, o anzi, più spesso ancora, sorride, con gustosa malizia.

Il primo esempio ce lo quello che è assai probabilmente il più antico degli « scherzi », Pa- role d' un consigliere al suo principe (1831 ?). Non

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è tuttavia un esempio dei più felici sebbene vi appaia già la vivace quartina di ottonari, che sarà poi uno dei metri preferiti dall'autore, perchè la beffa è un po' troppo grossolana ed anche la espressione verbale imperfetta. E 1' autore stesso se ne dovette accorgere, tanto che non pubblicò mai questo componimento, come non pubblicò mai r altro < scherzo > in terzine di ottonari che gli tenne dietro (1833), // mio nuovo amico, nel quale ci presenta, burlandosene, un tipo di spia, che, più accuratamente studiato e ritratto, riappa- rirà poi, dopo alcuni anni, nel Ballo. In questo secondo tentativo lo scherzo non è mai grosso- lano ; ma il disegno generale è confuso; si di- rebbe una serie di strofe buttate giù senza sa- pere dove s'andrebbe a finire; e in realtà non paiono neppur finite. Un gran passo avanti si fa invece nella Guigliottinaa vapore, il primo «scher- zo > che il Giusti reputò degno di veder la luce. In queste agili strofette di cinque ottonari chiuse da un quinario, pare a tutta prima che il poeta vanti per burla i miracoli della fantastica mac- china, riferendo gli onori tributati a chi la inventò. Si starebbe per chiedere : Che significa tutto questo ? È proprio per burlarsi < dei premi mal dati» come disse poi ad un amico che il Giusti scrisse questi versi? Ma ecco l'ultima strofa rivela, sempre scherzando, a chi va il col- po: ai reazionari e ai tiranni che vorrebbero po- ter «far la testa» alla spiccia a tutti i liberali d' Italia.

Prevalentemente scherzoso è anche Lo Stivale

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(1836), che ebbe a' suoi tempi grande popolarità, non del tutto immeritata, nonostante i difetti del- l'allegoria che ne costituisce il fondamento; ma lo supera di molto il Dies trae (1845), nel quale il poeta, riflettendo i sentimenti dei liberali che vedevano andarsene, con un sospiro di sollievo, un loro acerbo nemico, trae argomento di scher- zo dalle morte di Francesco I. Il che è certamente poco cristiano, ma molto umano. Il metro, dedotto dallo Stabat mater e da certi componimenti del Giraud, è dei più felici, con quei due ottonari uniti dalla rima e seguiti da un senario sdruc- ciolo che, colla sua cadenza più viva, interrom- pe e rileva la tranquilla armonia dei primi due versi. Si comincia coli' annuncio beffardo della morte, poi viene una serie di strofe nelle quali è messo in burletta il lutto ufficiale degli altri sovrani e dei grandi dignitari, che mal nasconde la loro profonda indifferenza, e si accennano insieme le speranze, gì' intrighi e i timori dei vari prìncipi d' Europa. Tra tutti questi accenti scherzosi, ap- pare quasi come una nota fuori di chiave il ri- cordo del «povero polacco» (v. 25); mentre invece è intonata al resto la chiusa, nella quale vien dimostrata in tono canzonatorio la vanità delle speranze liberali italiane.

Più spigliato è II ballo (1837), colle sue snelle quartine di versi quinari, nelle quali ci vediamo sfilare davanti agli occhi una serie di macchiette ridicole, schizzate alla brava e fatte muovere e parlare con grande vivezza, così da presentare un quadro largo ed animato della società mista

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di immigrati stranieri, di nobilucci toscani e di figuri equivoci che popola le sale di certi cresi esotici, piovuti a Firenze ad occupare gli storici palazzi delle antiche famiglie cadute in rovina. Ma dove il Giusti raggiunge la perfezione del genere scherzoso è nel Brindisi di Girella (1838?). In esso il vecchio voltacasacca ubriaco espone la propria < cronaca particolare >, ed è tutto un vertiginoso succedersi di nomi, di fatti, di allu- sioni, di giustificazioni, di accuse, che incatenano r attenzione del lettore dal principio alla fine di quella serie di agili quinari, uniti dalle rime, ri- levati dagli sdruccioli e conchiusi, alla fine d'ogni strofa, da una specie di ritornello, che, come una risata birichina, interrompe la filastrocca ed è interrotto e conchiuso alla sua volta da un endecasillabo che sembra un ultimo e prolungato scroscio di risa sonore.

. Però non sempre il Giusti s' abbandona senza riserve alla gaiezza dello scherzo. Nello stesso Gi- rella ed anche nel Dies irae e in più altri compo- nimenti, lo scherzo rasenta qualche volta l'ironia, e in molti l'ironia finisce anche col prevalere, sof- focando lo scherzo. Ma è almeno nelle poesie migliori una ironia leggiera, sorridente, che sembra mettere in burletta, senza cerimonie, i di- fetti e i mali che prende di mira. Si direbbe quasi che parli uno scettico il quale sorride argutamente delle storture e delle brutture umane, rassegnato ad esse come a dei mali incurabili. La Rasse- gnazione e proponimento di cambiar vita (1833), la Legge penale per gV impiegati (1835), il Prete-

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rito più. che perfetto del verbo pensare (1835 o 39 ?), V Apologia del lotto (1838), Gli Umanitari (ISiOo Al) sono da mettere, quale più quale meno risoluta- mente, in questa categoria ; ma i due esempi più notevoli e più giustamente ammirati sono La chiocciola (1840-41) e il Re Travicello (1841), nei quali l'ironia s'attenua fin quasi a svanire in una sorrìdente caricatura, e che hanno di comune tra di loro, pur nelle diversità del metro quinari nell'uno, in istrofe di dodici versi; senari nell'al- tro, in istrofe di otto versi quella specie di ritornello che anche qui, come nel Girella, chiude le agili strofe, variando un poco dall'una all'altra, ma sempre richiamando scherzosamente il con- cetto fondamentale della poesia.

Ma più d'una volta, in altri componimenti, il sorriso si spegne sul labbro del poeta, per dar luogo all' aperta invettiva, e l' ironia scherzosa si trasforma in amaro sarcasmo; e siamo allora sul limite della satira vera e propria. Ma, in que- sto caso, quasi sempre l' arte ne va di mezzo. Non che il poeta manchi allora di sincerità; il sentimento è proprio suo ; ma l'espressione non è quella più adatta alla sua natura poetica. È co- me un tenore che voglia cantare da baritono, e mentre era un buon tenore, è un baritono me- diocre.

Questo gli accade, per esempio, nella Incoro- nazione (1838), dove, alla prima parte nella quale ci si presenta quel capolavoro di caricatura che è la sfilata dei sovrani d' Italia, segue, dal verso 56 in poi, una seconda parte in cui la santità dei

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sentimenti e dello scopo non salva la poesia dalla retorica, dai luoghi comuni e dalle oscure con- torsioni. Solo, qua e là, qualche buona immagine o qualche buon verso, come nei vv. 97-100 e nel- r ultima strofa; ma non sembra più il Giusti del- l'esordio.

E la stessa osservazione, presso a poco, si può ripetere per altri scherzi : A San Giovanni (1837), Per il secondo congresso dei dotti (1839), Gli immo- bili e i semoventi (1840-411), Per un reuma d'un cantante (1841), // mementomo (1841), A Girola- mo Tommasi, l'origine degli scherzi (1841-43), e anche per il secondo de I Brindisi che è del 1838, mentre il primo, scritto parecchi anni dopo, è una pura e semplice poesia burlesca. sarà forse inutile osservare come la maggior parte di que- ste poesie siano scritte (come il noto epigramma Una levata di cappello involontaria, composto fin dal 1838, ma pubblicato solo nel 1841) in istrofe saffiche di tre endecasillabi seguiti da un qui- nario, e cioè in un metro che ha in una certa solennità.

carattere molto diverso hanno, per questo rispetto della intonazione generale, quelle due lunghe narrazioni polimetriche e satiriche che sono La vestizione (1839) e La scritta (1842). La prima potè avere grande popolarità e buona fa- ma anche presso qualche critico, in grazia del- l' argomento e di certi particolari ben riusciti come il ritratto di Becero e il saluto che gli rivolgono gli antichi compagni di Camaldoli e di Mercato ma, in complesso, ha un che di

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slegato e d' incerto nel disegno generale della composizione, la quale ci appare, come disse il Carli, < artificiosa e un po' teatrale non senza vanità letteraria > ; la seconda, che le è stretta- mente legata per l'intonazione generale e per l'argomento un usuraio arricchita che si fa conferire le nobiltà, qui un usuraio arricchito che pesca un genero nobile ha anch'essa delle parti poco felici come la descrizione delle pitture murali e la visione dello sposo ; ma piace per la viva descrizione della mista società che assiste alla cerimonia e per la naturalezza dei discorsi che vi si tengono.

Questo primo periodo della attività poetica del Giusti si chiude con due componimenti parti- colarmente notevoli, perchè, mentre si ricollegano a tutto il passato letterario del loro autore, pre- annunciano, per qualche rispetto, l'avvenire. Nel primo di essi. Le memorie di Pisa (ìSil), il poeta, vicino ormai al mezzo del cammin di sua vita, volge il pensiero non senza rimpianto alla passata e spensierata gioventù, e ne rievoca i giorni lieti e tumultuosi, e ne difende e quasi ne glorifica le scapataggini e le birichinate. Nel se- condo invece. La terra dei morti {18A2), il Giusti, mettendo in ridicolo gli sciocchi disdegni degli stranieri che sparlano dell' Italia, augura e prean- nuncia il trionfo di quello che è scopo di tutta la sua attività di scrittore : il futuro e glorioso risor- gimento della patria. E se l'uno l'altro dei due componimenti è perfetto, perchè nel pri- mo stonano alquanto l'elogio esagerato della

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scapataggine e l'invettiva, pure esagerata, con- tro gli sgobboni, e nel secondo spiace il sover- chio prolungarsi dello scherzoso equivoco tra i due significati di « morte », che finisce per tra- sformarsi in un giuoco di parole; pur tuttavia entrambi attraggono la nostra attenzione, perchè ci rivelano una nuova vena di poesia, che non eravamo abituati ancora a veder scorrere nei versi del Giusti : quella del sentimento. Ed è sen- timento sincero, non sentimentalità di maniera come quella che s' incontra nelle poesie amorose di questi stessi anni ; e quindi si può alleare, senza stonatura, anche allo scherzo, e dà, nelle Memorie, quel « mesto riso », che il Giusti diceva esser caratteristico della sua poesia, e che vi si trova invece così raramente in questo primo pe- riodo, mentre nella Terra dei morti inspira le ul- time e belle strofe in cui l' apostrofe eloquente alla terra d'Italia e la viva rappresentazione delle sue bellezze si chiude col minaccioso preannun- cio del « giorno del giudizio ».

Ma la produzione poetica del Giusti, dal 1831 al 1842, non si riduce tutta a queste poesie satiri- co-scherzose. Contemporaneamente ad esse, egli scrisse anche nuove poesie schiettamente burle- sche e un buon numero di liriche serie, oltre quelle politiche già accennate.

Le burlesche si distinguono da quelle della prima giovinezza solo perchè ci appaiono più Profili G. Giusti. 4

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castigate ; ma del resto non hanno alcun speciale valore, e furono sempre lasciate inedite dall'au- tore. Ed anche le liriche serie non hanno gene- ralmente grande importanza, perchè sono, in buo- na parte, poesie d'occasione (versi in morte o per nozze di parenti o conoscenti ; in lod^ del pa- dre Bernardo da Siena, per una raccolta; una can- zone sacra per le feste triennali di Pescia), o sonetti amorosi poco dissimili da quelli del pe- riodo precedente, o frammenti di poesie lasciate a mezzo dallo stesso autore (come il canto degli Ismaeliti). Ma ve n'è pure alcune che lo stesso Giusti presentò fin d' allora al giudizio del pub- blico, e che ebbero anche una certa fama, non ancora del tutto tramontata.

Tra esse è la canzone A Dante Alighieri {\84ì), della quale basterà dire che fu composta dal Giu- sti quando venne scoperto il ritratto dell'Ali- ghieri nella cappella del Podestà a Firenze; ma sebbene l' autore vi lavorasse a lungo e ne fa- cesse gran conto, non è che un ingegnoso cen- tone di versi e di frasi dantesche, che prova il suo lungo studio della Divina commedia e il suo grande amore per il sommo poeta; ma nulla più.

Vengono poi le odi All'amica lontana (1836) e // sospiro dell'anima (1837-41). Intessute di bei versi armoniosi e ripiene di melanconica e va- ga sentimentalità, esse rappresentano una con- cessione del Giusti alla moda letteraria del tem- po, e credo abbiano avuto anche uno scopo pra- tico, quello di piacere alle amiche per le quali furono scritte. Anche l'ode All'amico nella pri-

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mavera del 1841 ha presso a poco Io stesso ca- rattere sentimentale, ma con un' aria di maggior sincerità. Invece La fiducia in Dio (1831) e gli A.ffetti d'una madre (1839) sono buone poesie, in cui c'è vero sentimento, efficacemente espresso.

Però, in sostanza, che importano queste poesie alla fama del Giusti ? Ben poco, perchè non si distinguono da tante altre poesie di quel tempo. Eppure, a sentire certe ripetute dichiarazioni del Giusti, si comprende ch'egli ci teneva in modo particolare, come alla più genuina espressione del suo animo. Egli asserì infatti più volte di sentirsi nato per la poesìa seria, inspirata da sen- timenti gentili, e di aver scritto poesie satiriche solo per obbedire alle dolorose necessità dei tem- pi, essendo questo il solo mezzo ch'egli aveva per servire la patria.

Ingenua illusione, alla quale del resto il poeta stesso sapeva talvolta sottrarsi. Infatti, per esem- pio, nel settembre del 1844, parlando di un tale che aveva ammirate le sue liriche serie pubbli- cate da poche settimane, ù'ictvs. {Leti. fam. 260): « Forse, se vedesse le altre mie poesie, quelle nelle quali ho abbandonato le tracce degli altri per fare di mio, quelle che m'hanno dato un poco di nome, non sarebbe tanto disposto a andare in visibilio.... Nonostante, colle rime stampate a Li- vorno, io potrò passare per verseggiatore netto, elegante, formato alla vera scuola, colle altre.... può essere che passi per poeta >.

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V.

A soli trentatre anni, il Giusti era pervenuto ormai alla fama e le sue poesie correvano ma- noscritte in tutta Italia, ricercate ed ammirate tal- volta anche da quelli che ne erano colpiti. Ed egli continuava in Firenze la sua vita tranquilla e serena, « parte nel mondo >, come scrisse poco dopo in un sonetto al Grossi, «e parte ritirata», occupandosi, quando l'estro glie lo suggeriva, di comporre nuovi versi, soddisfatto, in complesso, dell'opera sua e desideroso soltanto di renderla sempre più degna della aspettazione degli amici e degli ammiratori.

D'un tratto, nel 1843, tutto cambia. L'anno era cominciato male, con uno dei soliti contrasti di famiglia. La madre si preparava a fare un viag- getto a Roma, e avrebbe voluto condurlo con se ; ma il padre si oppose, impensierito dalla spesa; e tra i due corsero parole un po' risen- tite. Poi, quando le difficoltà erano appianate, e la partecipazione al viaggio decisa, ecco s' am- mala un fratello del signor Domenico, Giovac- chino, carissimo al poeta. Tosto egli, rinunciando a partire colla madre, corre a Montecatini per assistere lo zio ; quindi, prolungandosi e aggra- vandosi la malattia, lo conduce a Firenze, perchè possa giovarsi dell'opera di medici più reputati. E qui lo assiste sempre con grande amorevo-

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lezza, finché, a nulla giovando tutte le cure, il povero zio viene a morte il 21 maggio. I maligni supposero che le cure indefesse ed amorose pre- state dal giovane nipote, fossero dovute alla spe- ranza di un' eredità; ma il nipote sapeva benissimo che erede sarebbe stato, come fu, il signor Do- menico, il quale non si scomodò neppure per dare 1' ultimo saluto al fratello.

Lo spettacolo della morte, al quale assisteva per la prima volta, commosse profondamente il Giusti, e specialmente rimase afflitto e turbato al vedere che il povero zio Giovacchino sca- polo impenitente si spegneva senza aver at- torno al capezzale, a confortarlo, altro parente che lui. Ed allora egli che, da giovinetto, non si era forse neppure curato del proposito paterno di dargli moglie ; egli che nel 1838 non aveva voluto sposare Isabella Rossi, e che tre anni prima aveva nettamente respinta una proposta di matrimonio {Ep., I, 267), ora, davanti al desolante spettacolo di quella morte solitaria, pensò che sarebbe stato opportuno anche per lui crearsi una famiglia. Ma forse, in quel primo momento, non trovò la donna che gli conveniva, oppure il corso de' suoi pen- sieri fu mutato per i casi imprevisti che gli so- pravvennero poco dopo ; il certo si è che, in se- guito, non parlò più di prender moglie, e che due anni dopo, quando il suo amico Prassi gli fece altre proposte di matrimonio, non venne ad al- cuna conclusione.

Intanto le fatiche e le ansie per la lunga ma- lattia dello zio avevano nociuto alla sua salute

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inacerbendo certi disturbi di fegato e d'intestino che gli avevano qualche volta dato un po' di noia negli anni precedenti, e ch'egli aveva curato colle acque di Montecatini. Ma di peggio gli ac- cadde pochi mesi dopo.

Il 30 luglio passava per via de' Banchi, da- vanti al palazzo Garzoni, quando un gatto gli si avventò addosso, graffiandolo e mordendogli an- che la gamba sinistra tanto forte da stracciare i calzoni, ma però senza rompere la pelle. Il Giu- sti respinse la bestia e a tutta prima non fece gran caso dell'incidente. Ma poi, saputo che il gatto era idrofobo, fu assalito dalla paura di es- ser preso dal terribile male, e per quanto la ra- gione gli dicesse che, non essendo intaccata la pelle della gamba, il sangue non poteva essere infetto, la fantasia si accese, e glie ne venne un gran turbamento nervoso, che aggravò anche i mali precedenti e, per mesi e mesi, lo fece sof- frire terribilmente, senza che giovassero cure mediche distrazioni.

Tra quest' ultime vi fu anche un viaggio. Ripi- gliando il disegno interrotto per la malattia dello zio, ai primi di febbraio del 1844 egli partiva in- fatti colla madre alla volta di Roma. Le impres- sioni di viaggia che ci lasciò nelle lettere e in certe sue memorie sono molto sommarie; ma da esse rileviamo che lo colpirono assai la de- solazione della campagna laziale e la grandio- sità delle rovine di Roma antica, specialmente quelle del Colosseo, davanti alle quali si fermò estatico a lungo, meditando e fantasticando. Ma

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dopo pochi giorni era già in viaggio di nuovo per Napoli, in cerca d' un clima migliore. Qui fu accolto a festa dai Poerio e dalla società colta e liberale che si raccoglieva attorno ad essi. E ne'ila loro gradita compagnia, ammirando i din- torni della città, trascorse circa un mese. Ma poi la salute, che dapprima sembrava aver miglio- rato, si arruffò, ed egli ripartì per Roma, dove si fermò ancora una decina di giorni. Il 21 marzo era nuovamente in viaggio per Firenze, tormen- tato per via da violenti disturbi viscerali che fe- cero correre la voce di un avvelenamento da parte di nemici politici ; di che egli rideva.

Nel luglio, per consiglio dei medici, si recò ir cerca di salute al mare, a Livorno, e vi restò a lungo, in casa di F. S. Orlandini, prima ritraen- cone giovamento, ma poi ricadendo nei soliti disturbi. Allora, in settembre, trasmigrò a Colle Val d' Elsa, in casa di un fratello dell' Orlandini, che era medico; ma anche lassù, dopo un certo periodo di benessere, nel quale si credette fuori di guai, ricadde ammalato ; e ai 24 di novembre scappava a Pescia donde non si mosse più fino al maggio dell' anno seguente, e dove a poco a poco cominciò a star meglio. Ma del tutto non guarì mai, cosicché diceva melanconicamente di esser condannato ad una perpetua convalescenza.

Intanto era accaduto un fatto che ebbe per lui molta importanza. Le sue poesie, toltene poche liriche serie che, pel loro argomento re- moto da ogni allusione politica, avevano potuto veder la luce in pubblicazioni periodiche o in

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raccolte d'occasione si erano fino allora diffuse solo in copie manoscritte, nelle quali il testo ve- niva naturalmente deformato spesso da inabili amanuensi ; e non di rado anche poesie di altri autori erano state messe in giro come opera sna. Il Giusti, per salvaguardare la propria fama, ave- va pensato quindi, fin dal 1840, di raccogliere i suoi scherzi migliori e di farli stampare all'estero; ma poi non aveva concluso nulla. Quand'ecco, proprio mentre egli era più afflitto da' suoi mali, nel 1844, esce a Lugano un volumetto nel quale, senza fare il suo nome, si pubblicavano le sue poesie serie e scherzose, in forma scorrettissima e coir aggiunta di parecchie poesie apocrife. Una prefazione piena di elogi opera di Cesare Cor- renti — apriva il volumetto. Appena il Giusti seppe di questa pubblicazione, arse di sdegno, e dopo avere in tutta fretta preparato e fatto stampare in Livorno, dove allora si trovava, un opuscolo contenente sei delle sue liriche serie, con una dedica alla marchesa d'Azeglio, nella quale protestava in termini prudenti, per non in- cappare in noie coli' autorità politica, contro la edizione di Lugano raccolse trentadue de' suoi < scherzi >, e, coli' aiuto di alcuni amici, li fece stampare in Corsica, a Bastia, in una edizione che vide la luce solo nell'anno seguente. Però, mentre nella edizione di Livorno figurava il suo nome, in quella di Bastia esso era taciuto. Tutti sapevano che quei versi erano suoi; ma la indul- gente polizia toscana poteva far finta di non sa- perlo, e ciò le bastava.

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Era uscito da poco questo nuovo volumetto, quando, nell'agosto del 1845, accettando un invito del suo giovine amico G. B. Giorgini, il Giusti si recava alla Spezia per salutare due conoscenze: Vittorina, figlia di Alessandro Manzoni, e la zia di lei, Luisa Maumari, seconda moglie di Massi- mo D'Azeglio (quella a cui aveva dedicato l'opu- scolo un anno prima e che, pare, fu anche amata da lui), le quali stavano per partire alla volta di Milano. Il Giorgini, che era forse già innamorato di Vittorina, la quale un anno dopo divenne sua sposa, propose all'amico di accompagnare le due signore fino a Genova ; e il Giusti aderì alla pro- posta. Ma perchè, dissero allora le due signore, non le avrebbero da Genova accompagnate fino a Milano ? Il Giusti rimase un poco perplesso. Da un lato, conoscendo la severità della polizia austriaca, temeva che non gli si concedesse l'in- gresso in Lombardia ; dall' altro, non era ben si- curo che il Manzoni gradirebbe una sua visita, sebbene fosse da qualche anno in cortese rela- zione epistolare con lui. Ma il passaporto venne rilasciato senza difficoltà, 1' autorità lombar- do-veneta pose alcun inciampo al suo viaggio ; e il Manzoni, dal suo canto, scrisse assai affet- tuosamente al Giusti, manifestandogli tutto il piacere che avrebbe dalla sua visita. E così, ai primi di settembre, il poeta giungeva a Milano, e vi restava poi, ospite gradito del grande scrit- tore lombardo, per tutto il mese, allontanandosene soltanto per qualche breve gita sul lago di Co- mo e in Brianza.

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Quanto discorrere di lingua si fece in quel mese ! Tra i tanti pregi che il Manzoni ammi- rava nella poesia del Giusti, uno ve n' era che gli stava soprattutto a cuore, quello della lingua. Quei versi mostravano praticamente attuata, e in modo che non si sarebbe potuto immaginar più efficace, la sua teoria sulla lingua, poiché a qualche espressione non fiorentina che vi si tro- va, il Manzoni non doveva dar troppo peso, se pure se ne accorgeva. È quindi naturale che fos- se ben lieto di far parlare e di interrogare 1' ami- co toscano. E il Giusti, dal canto suo, era più che mai lieto di vivere presso il grande scrittore pel quale nutriva da molti anni devota reveren- za, non solo pei meriti letterari, ma anche per- chè diceva che i Promessi sposi erano stati a lui farmaco efficace a trarlo fuori da una specie di sonno intellettuale e' morale nel quale era preci- pitato in un certo momento della sua traviata gioventù {Ep., II, 312). Il soggiorno a Milano con- fermò i sentimenti di venerazione per il Manzo- ni e restrinse anche i vincoli di simpatia per gli amici che lo circondavano ; primi fra tutti il Grossi e il Torti.

Il distacco da essi, ai primi d'ottobre, gli riu- scì doloroso, e ne fu malinconico per qualche tempo. Ma poi un utile diversivo gli venne in novembre in seguito ad un invito dell'amico Prassi che lo volle ospite in casa sua a Pisa, dove, insieme con tre altri amici di giovinezza Biscardi, Giacomelli e Montanelli si trova- vano uniti a desinare, e recitavano versi, dice-

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vano barzellette, ricevevano visite di amici co- muni; spesso andavano anche presso la d'Azeglio e Vittorina Manzoni, reduci a Pisa, e le intratte- nevano piacevolmente. 11 Giacomelli soprattutto, eh' era un gran burlone, le faceva ridere saporita- mente colle sue trovate ingegnose.

Questa lieta vita che giovò assai alla sa- lute del Giusti e diede nuovo impulso, come ve- dremo, alla sua attività di scrittore durò fino al maggio del 1846; poi egli s'allontanò da Pisa, ma per accettare un altro invito, quello di Gino Capponi che lo voleva ospite suo a Firenze.

Il Giusti aveva conosciuto il Capponi fin dal 1836, e gli era, a poco a poco, divenuto amico, sempre più intimo e più caro, ricevendone spesso ospitalità in villa a Varramista. In ricambio egli aveva esaltato il Capponi in un sonetto Se vedi un grande di nobil sembiante •») e gli aveva dedicato La terra dei morti. Ora il Capponi lo volle definitivamente suo ospite nel palazzo di via San Sebastiano, e il Giusti accettò.

Questo parve a taluno poco dignitoso per il poeta e indizio di taccagneria; ma non si conside- rò forse che allora i costumi letterari erano un po' diversi dai nostri, e che il mecenatismo con- servava ancora in parte le sue forme tradizionali. Anche il Berchet, proprio in quegli anni, viveva presso gli Arconati, e il Colletta, pochi anni pri- ma, aveva accettato una simile offerta dello stes- so Capponi, senza che nessuno vi trovasse a ri- dire. Si aggiunga che il ricco e munifico patrizio, per indurre il Giusti ad accettare l' offerta, gli

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parlò non soltanto del conforto che egli, cieco, trarrebbe dalla compagnia di lui, ma anche di una storia della nostra letteratura che avrebbero scrit- to in collaborazione. Vero è che poi le fortunose vicende degli anni seguenti impedirono 1' attua- zione di questo disegno.

Del resto, non bisogna credere che il Giusti, stabilitosi in casa Capponi, non se ne allontanas- se mai. Tutt' altro ! In quello stesso anno, per esempio, da agosto a novembre, egli girovagò tra Livorno, Pescia e Montecatini, e poi, da novem- bre agli ultimi di gennaio del 1847, fu daccapo a Pisa, presso 1' amico Prassi, del quale egli era ospite gradito bensì, ma solo a patto di pagar la sua parte.

VI.

Intanto, dal 1843 al 1847, mentre la vita del Giusti, dopo un periodo piuttosto burrascoso, s'andava a poco a poco riassettando, maturava- no i nuovi destini d'Italia, e l'arte del poeta, mentre da un lato si colorava, almeno in parte, secondo il suo nuovo stato d' animo, dall' altro traeva piii vivo impulso dalle vicende della patria.

Dopo il 1831, r Italia, apparentemente, si era composta in quiete ; ma il diffondersi sempre più largo delle idee liberali, per opera di poeti, di romanzieri, di storici, di scrittori di politica ed anche per opera delle società segrete e della

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loro assidua propaganda, aveva portato ben pre- sto a nuovi arresti, a nuove persecuzioni, a nuo- ve condanne, ed anche a nuovi tentativi di som- mosse, sempre repressi ma sempre rinnovati. E dal 1S43 in poi i segni dalla vicina riscossa si fecero sempre più frequenti. Basti ricordare le ripetute agitazioni dell' Italia meridionale e delle Romagne, e specialmente il tentativo dei fratelli Bandiera, che diede materia ai bellissimi Ricordi del Mazzini (1844), e i moti di Rimini (1845), che inspirarono al D' Azeglio il famoso opuscolo. E chi non ricorda gli entusiasmi e le discussio- ni suscitati in quegli anni dal Primato giobertia- no (1843), seguito, dopo poco, dai Prolegomeni, e dalle Speranze d'Italia del Balbo (1844)?

Tutto questo non poteva certamente lasciare indifferente il Giusti; e infatti se nell' autunno del 1844, a Colle Val D' Elsa, in un intervallo di benessere, nel quale si credette liberato per sem- pre da' suoi mali, scrisse quel capolavoro di poesia burlesca che è U amor pacifico, nel quale si di- vertì a disegnare 1' arguta caricatura dei pingui ed apatici protagonisti, Taddeo e Veneranda ben più numerose sono le poesie d' argomento pa- triottico, scritte in quegli anni.

Fin dal 1843, proprio nei mesi in cui era più agitato ed impensierito dalie dolorose vicende per- sonali, e quindi la sua attività letteraria era qua- si del tutto interrotta, accoppiava, in un frammen- to di ode («In lei vergini ancora») l'amor di donna a quello di patria, accennando insieme al < gentil raggio d' amore » che gli balenava da-

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vanti allo sguardo, e all' alito di vita novella, che spirava per le contrade d' Italia, agitando popoli e re. È poesia tutta seria. Ma ben presto, alleviati alquanto i suoi mali, torna a quella scherzosa, e tra la fine del 1844 e il 1845, com- pone Gli eroi da poltrona, I grilli e // papato di prete Pero, nei quali mette in burla quelle che al suo pacato buon senso sembrano utopie, del Balbo, del Mazzini e del Gioberti, e più le esa- gerazioni dei loro seguaci. Unità sì, libertà sì, pensa il Giusti ; ma perchè abbandonarsi a fan- tasticherie tanto remote dalle realtà presente e incombente? perchè lasciarsi esaltare dai ricordi di un passato, glorioso certamente, ma che non può rinascere ? perchè illudersi colle speranze di un papa veramente cristiano e italiano, mentre regna Gregorio XVI ? E nel Papato di prete Pero, svolgendo quest' ultimo concetto, egli trova an- cora una volta (riprendendo il metro del Dies irae, che gli era tanto gradito) tutto il brio e la festività dei suoi migliori « scherzi », e prete Pe- ro gli riuscì una figurazione felice, quanto il Roi rf' Yvetot del Béranger, al quale alcuno lo volle accostare. Ma divenuto papa, un anno più tar- di, Pio IX, anch' egli, come quasi tutti gli Italiani, credè che il nuovo pontefice fosse proprio quello preconizzato alla risurrezione d'Italia, e lo di- fese in un sonetto II papa, il papa, il papa, pover' uomo >) contro gl'impazienti che l'accu- savano di poca solerzia nelle riforme ; mentre d'altra parte tutti videro, in prete Pero, non più uno scherzo, ma un profetico presagio.

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Però, contemporaneamente a questi « scher- zi > politici, il Giusti conduceva a compimento anche una delle sue più note poesie, il Gingilli- no, il quale è satira amara senza nessuno sprazzo di festività. Si direbbe che risenta della natura del male che travagliava 1' autore quando lo ideò e lo cominciò, nel giugno del 1844. La parte mi- gliore sono le sestine colla parlata della strega, che contengono accenni vivi, gustosi ; nel resto c'è qualche tratto felice, ma il tono è spesso esa- gerato come la caricatura. Fu definito come « // giorno del Giusti » ; ma è un paragone che non reg- ge. Certo Gingillino è una quintessenza di tutti i difetti e i vizi di un giovane destinato alla carrie- ra dai pubblici uffici nella Toscana del 1844, come il «giovin signore » pariniano è una quintessenza di tutti i difetti e delle ridicolaggini del cavalier servente lombardo del 1760; ma nel Giorno v\ è altra vita, altra verità. Nel Gingillino, in sostanza, non vi sono che discorsi dell' uno o dell'altro per- sonaggio, o dell' autore stesso ; ma nessuno fa nulla. Il carattere di Gingillino risulta dai discor- si altrui, non da quello eh' egli fa o dice. E se, ciò non ostante, questo « scherzo » fu uno dei più po- polari del Giusti e venne lodato assai da molti critici, anche di buon gusto, forse lettori e critici furono guidati nel loro giudizio più dal valor morale del componimento che dal suo merito ar- tistico, ed anche dalla considerazione che esso, insieme col Ballo, colla Vestizione e colla Scritta, compie il quadro della società, dirò così, ufficiale toscana di quel tempo : nobiltà e ricca bor-

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ghesia, qui burocrazia, colle loro ridicolaggini, coi loro vizi, colle loro vergogne.

Per l'intendimento sociale e morale si ranno- da al Gingillino un altro < scherzo >, // giovinetto, composto sul finire del 1848, che ebbe anch' es- so una certa voga, perchè presentava, in carica- tura, il tipo del giovine sentimentale, o finto sentimentale, allora di moda, e del quale La don- na non compresa (titolo d' un frammento dell' an- no seguente) ci presenta la degna compagna.

Ma non sono certo questi componimenti ciò che di meglio ha scritto il Giusti nel 1848, che fu uno degli anni più fecondi per la sua attività di poeta satirico.

Dopo aver cominciato con un sanguinoso e volgaruccio epigramma per la morte del duca di Modena, proseguì infatti con una lunga novella in ottave, // sortilegio, nella quale, riprendendo un argomento trattato già fin dal 1838, si volge contro il giuoco del lotto e schizza alcuni per- sonaggi e alcune scene con tocco felice ; quin- di compose : La guerra, ironica ed amara beffa contro i predicatori della pace ad ogni costo ; La rassegnazione, al padre *** dell' ordine dello stata quo, che mette alla berlina i reazionari, subdoli predicatori di fratellanza, per tenere schia- va l'Italia; il Delenda Carthago, invocazione della indipendenza, come fondamento della libertà ita- liana. Tre componimenti notevoli, e gli ultimi due anche tra i suoi migliori.

E di questo tempo è anche il SanV Ambrogio. Per un certo rispetto, queste famose ottave si

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possono ben dire il miglior frutto della gita a Milano dell' anno precedente, non solo perchè in- spirate da un episodio della permanenza in quella città, ma anche perchè ricordano, nella mossa iniziale, qualcuna delle poesie di Carlo Porta. Il 'Manzoni soleva dire che il Giusti era il Porta to- scano, ed è naturale che il Giusti approfittasse del soggiorno a Milano per conoscere e gustare il Porta meglio di quei che non avesse potuto far prima, approfittando della compagnia degli amici lombardi e specialmente del Grossi che era stato amico fidatissimo al grande poeta meneghino. L' artificio di rivolgere famigliarmente il discor- so ad un personaggio importante, usato dal Porta con tanta felicità nel Giovannin Botigee, dovette allora piacer singolarmente al poeta toscano, che si affrettò quindi ad usarlo, non solo nel SanV Ambrogio, ma anche nella Rassegnazione e nel Delenda Carthago. E non ebbe torto, perchè esso contribuiva a dare al discorso quell'anda- mento spigliato e disinvolto, che era più consono alla natura sua di poeta.

Ma non è certo tutta qui sopratutto qui la bellezza del Sani' Ambrogio. La nota patetica che abbiamo già visto degenerare facilmente in sentimentalismo un po' di maniera nei versi amo- rosi del periodo precedente, e far capolino an- che nelle Memorie di Pisa e nella Terra dei morti, era poi riapparsa nel 1843, oltre che nel già ci- tato frammento « In lei vergini ancora >, anche nella sospirosa ode Ad una giovinetta, e in se- guito si era poi affacciata con sempre maggior fre-

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66 Egidio Bellorini

quenza nei versi del Giusti. La troviamo infatti nel sonetto «Tacito e solo in me stesso mi vol- go > e nel frammento < Con la fida lucerna » del 1844, e, mista con qualche tratto scherzoso, nel- r altro sonetto al Grossi su / trentacinque anni e più tardi ancora nel sonetto « A notte oscura per occulta via> del 1848. La tristezza derivata dai mali che afflissero il poeta in quegli anni, la malinconia che gli recava il fuggire irreparabile della giovinezza e il cadere delle illusioni che le sono compagne, avevano via via temperato lo spontaneo rigoglio della gaiezza d'un tempo, e quella ch'era stata una volta quasi sempre po- sa sentimentale divenne allora assai spesso vero e schietto sentimento, che, alleandosi al sorriso, gli diede quasi un' aria di pensosa rassegnazione. Abbiamo allora veramente un < riso che non pas- sa alla midolla », un < riso nato di melanconia >, un « mesto riso >, « il sorriso che nasconde una lagrima », « quello che par sorriso ed è dolore >, che il Giusti disse più volte esser caratteristico della sua poesia satirico-giocosa. Ed è appunto questa fusione del sentimento collo scherzo, che apparendoci nel SanV Ambrogio perfetta più che in ogni altro componimento, gli un fascino speciale. Qui la inspirazione fondamentale è data dall'amor di patria, che fu il più vivo e il più sincero di tutti i sentimenti del Giusti, ma vi ha gran parte anche il sentimento musicale che fu pure in lui molto vivo. L'animo portato allo scherzo lo fa sorridere alla vista della goffa ri- dicolaggine di quei tipi esotici di soldati < boe-

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mi e croati > ; 1' amor di patria lo spingerebbe a odiarli come strumento di oppressione; ma la dolce musica italiana delle trombe di guerra co- mincia a commuoverlo ; il patetico canto che ri- suona poi sulle labbra di quei soldati stranieri finisce per soffocare ogni sentimento ostile ; e nel suo animo 1' amor di patria si fonde colla pietà umana per quegli inconsci strumenti di ti- rannia, che sono anch'essi, alla loro volta, vitti- me dello stesso despota che opprime il popolo italiano. E anche quando, sul finire delia poesia, l'umor scherzoso riprende il sopravvento, ed egli si burla del caporale « duro e piantato come un piolo >, si sente che la simpatia destata dalla musica e dalla comunanza di dolori, non è sva- nita in lui.

Il Sant'Ambrogio, cominciato fin dall' ottobre 1845, fu portato a compimento solo un anno più tardi, proprio quando il Giusti abbozzava già la sua epistola in versi sciolti, non ridotta mai a compimento, sulla Gita da Firenze a Montecatini (ottobre 1846) e mentre stava già per metter ma- no alle None, a Gino Capponi (dicembre 1846), due componimenti in cui la politica non ha parte alcuna, ma che sono entrambi notevoli anch'essi per varie ragioni ; ma soprattutto per la prova che danno essi pure delle mutate condizioni spi- rituali del poeta.

Il Giusti fino allora non aveva forse scritti al- tri versi sciolti eccetto quelli della Dedicatoria delle sue poesie nel 1836, che non sono gran cosa. Ben più felice gli riuscì il nuovo saggio datone

68 Egidio Bellorini

nella Gita, quando 1' arte sua era giunta ormai a maturità. Seguendo da lontano l' esempio di Orazio che nella satira V del libro I descrive un suo viaggio da Roma a Brindisi, egli traccia qui rapidamente i tipi buffi del cocchiere, del pode- stà e della podestessa, suoi compagni di, viaggio in diligenza, e riferisce i discorsi scambiati con essi; ma di tratto in tratto la narrazione è inter- rotta da svariate considerazioni nelle quali 1' ani- mo commosso gli inspira accenti di amor filiale, di pietà umana, di ammirazione per i grandi poe- ti a lui cari. Il sentimento che nella Gita pre- domina a tratti, domina invece incontrastato nelle None, dove, risuscitando 1' antico metro ormai di- susato, che lo aveva colpito leggendo la Intelli- genza fatta allora conoscere da poco, il poeta ritrae il doloroso contrasto dell' anima sua che, stanca del « misero sdegno » per le brutture uma- ne, sua principale inspirazione in passato, vagheg- gia insieme la perfezione morale e quella del- l' arte, senza poterle raggiungere mai. E se anche non si vorrà convenire col Martini nel giudicare queste None come una delle più alte liriche che la poesia italiana vanti nel secolo XIX, bisognerà tuttavia convenire che, nonostante qualche par- ziale difetto di espressione e di composizione, esse sono veramente una bella poesia, e forse la più notevole tra le liriche serie scritte sino allora dal Giusti.

Certo è molto superiore all' ode Al medico Carlo Ghinozzi siili' abuso dell' etere solforico, composta pochi mesi dopo, nel marzo 1847. Qui

Giuseppe Giusti 69

il Giusti, pur senza abbandonar del tutto il fare ironico e scherzoso, si atteggia di tratto in tratto a moralista serio, ricordando un poco, e non pel metro soltanto, il Parini, de' cui versi aveva cu- rato da poco un'edizione, della quale ora ap- punto dobbiamo parlare.

Fino al 1846 il Giusti era noto al pubblico solo pei versi. Una sua Cliiaccliierata ai lettori di Dan- te, pubblicata fin dal 1838 nel « Giornale di com- mercio >, e la prosa scherzosa SulV uso del chia- rissimo, apparsa nel 1844 sulla < Rivista di Firen- ze >, non avevano attirato potevano attirare grande attenzione. Ma sul finire del 1845 l'edi- tore Le Mounier, spinto certo dalla fama che si erano acquistate le satire, lo indusse a preparar- gli una scelta di poesie del Parini, preceduta da un discorso sulla vita e sulle opere del grande lombardo. 11 Giusti si lasciò tentare dall' offerta, per dimostrare, come disse poi, esser falsa la voce da lui raccolta nel recente viaggio in Lom- bardia, che il Parini non fosse apprezzato in To- scana quanto si meritava {Ep., HI, 380) ; e mes- sosi tosto all'opera, durante il primo soggiorno a Pisa, aveva già condotto a fine il lavoro agli ultimi d'aprile del 1846. Circa sei mesi dopo, ai primi di novembre, il volume vedeva la luce, e, com'era naturale, dati i due nomi di poeti che recava in fronte, veniva rapidamente e larga- mente diffuso. Ma, sebbene non mancassero al

70 Egidio Bellorini

Giusti gli elogi degli amici, non si può dire che il suo discorso sul Parini trovasse grande favo- re presso il pubblico e presso i critici, allora poi. E non a torto. Infatti il Giusti che fu gran- de ammiratore dei Saggi del Montaigne e che due {SulP Educazione) ne aveva tradotti da p,oco col proposito di pubblicarli poi in un periodico di Firenze volle, nel suo scritto sul Parini, se- guire l'esempio dell'autore francese, e credette di raggiunger lo scopo abbandonandosi a diva- gazioni, per lo più di natura morale, esposte ora con spigliata naturalezza, ora invece con quella affettazione di naturalezza che fu poi uno dei difetti rimproverati alle sue prose. Ma, in complesso, il discorso riuscì scormesso e fram- mentario, la figurazione storica incerta e sbiadita e la critica letteraria superficiale, inetta a porre convenientemente in rilievo i caratteri dell' arte pariniana e le ragioni della sua efficacia. Solo riu- scirono felicemente alcuni tratti descrittivi e nar- rativi, come la rappresentazione dell' alta figura morale del Parini, disegnata nelle ultime pagine. Il che, del resto, non dimostra altro se non che il Giusti era artista, ma non pensatore critico. Tuttavia, come spesso accade agli artisti, egli, traviato forse dalle parole benevole degli am.ici, si illuse d'aver fatto buona prova in questa nuo- va forma d'attività letteraria, e tosto meditò ed anche iniziò altri lavori su Virgilio, sul Foscolo e sul Leopardi. Ma le vicende della vita e gli avvenimenti politici degli anni seguenti, gli vie- tarono di condurli a compimento, cosicché ce ne

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restano, solo poche tracce nel suo epistolario e ne' suoi manoscritti.

fu certo gran danno per la fama di lui. 11 Giusti, anche in questo periodo della sua vita, resta sempre e soprattutto il poeta degli < scher- zi >. Soltanto vediamo che in essi la inspirazione strettamente politica prende il sopravvento co- me volevano i tempi su quella morale e so- ciale, e che una nuova vena di sentimento non affettato, sgorgando dall'animo del poeta, non so- lamente dà un'impronta di maggior sincerità alla sua lirica seria, ma conferisce anche una nuova potenza di commozione alla poesia scherzosa, e gli inspira un capolavoro, il Sani' Ambrogio.

VII.

Quasi tutto il 1847 e i primi mesi del 1848 fu- rono per l'Italia tempi di ansiosa aspettativa pri- ma, e di febbrile preparazione poi ai grandi eventi che tutti ormai, da tempo, sentivano imminenti.

< Forse siamo sul punto di veder tornare i tempi solenni e difficili nei quali l' uomo si mostra >, aveva scritto il Giusti al Capponi sin dal febbraio 1846, ed anch'egli, come tutti i liberali italiani, vi s'andava spiritualmente preparando. La Tosca- na, com'ebbe poi a dire in seguito {Ep., II, 547)

< di sbadigliante che era, pareva uno di quei po- veri tribolati di nervi che, dopo un torbo e le- targico sonno, si svegliano eccitati e quasi con-

72 Egidio Bellorìni

vulsi>; e non vi mancarono proteste e tumulti, finché il governo granducale, dopo avernicchiato alquanto, non si mise risoluto per la via delle ri- forme, e concesse, negli ultimi mesi del 1847, la guardia civica, la libertà di stampa e la consulta di Stato, mentre sopprimeva la famigerata Pre- sidenza del buon governo con gli odiati birri.

Ne venne una generale esplosione di gioia. Per un momento, tutti, nel calore dell'entusiasmo, si sentirono fratelli ; dimostrazioni clamorose di po- polo, guidate spesso da sacerdoti, salutavano e celebravano Pio IX, il granduca e le riforme ; bandiere tricolori sventolavano dovunque, e il Giusti, recandosi a Lucca per una dimostrazione, tirava fuori commosso da un ripostiglio la coc- carda dai colori italiani che già si era appuntata sul petto nel 1831. In quei giorni egli era l'idolo di Pescia ; una sua parola bastava a frenare gì' im- pazienti e a impedire ogni disordine ; il vicario, durante un'assenza temporanea, gli mandava un sergente dei gendarmi ad avvertirlo, quasi per affidare a lui il governo della città ; e una volta egli, schivo del parlare in pubblico, fu tratto persino a concionare in piazza, durante una di- mostrazione popolare.

Non è strano perciò che, quando si trattò di eleggere gli ufficiali della guardia civica, la voce pubblica lo designasse al governo perchè gli fosse conferito il gfado di maggiore. Ma ai reg- gitori di Firenze questo parve uno scandalo. Pro- prio il granduca avrebbe dovuto sottoscrivere il brevetto d'ufficiale al poeta che l'aveva messo

Giuseppe Giusti 73

in canzonatura? E il poeta che, d' altra parte, non si sentiva nato a quel!' ufficio, esortò i con- cittadini a non insistere, e restò pel momento semplice gregario, contento com'egli disse di far l'esercizio col fucile, perchè questo gli gio- vava alla salute. Non solo ; ma la prima volta che gli toccò r umile ufficio di montar la senti- nella provò una grande commozione. < hi quella monotonia dell'andare in su e in giù, mi volava la testa ai begli anni d' una giovinezza sprecata in bagattelle e mi s'empivano gli occhi di lacrime, parte di sdegno e parte dalla gioia d'essere fi- nalmente lì> {Ep., Ili, 52); e in quei giorni sentì che, se quell'alito di vita fosse venuto a scuo- terlo nella sua prima giovinezza, invece di con- solarlo adesso negli anni maturi, sarebbe stato capace di morir fortemente o di fortemente ope- rare in prò del suo caro paese {ibid., 54).

Tuttavia, alcuni mesi più tardi (marzo 1848), ritiratosi il maggiore in carica, ed essendo d'altra parte scomparse le riluttanze del governo che aveva ormai dovuto piegarsi a ben altre conces- sioni, il Giusti finì per cedere alle insistenze dei concittadini, ed accettò la carica di maggiore, seb- bene sospettasse di essere alquanto ridicolo con tutto quell'oro addosso e con quella sciabola che gli batteva sulle gambe. Fece tuttavia con impegno il suo dovere, e si occupò anche attivamente di preparare le squadre di volontari pesciatini che dovevano raggiungere i soldati di Carlo Alberto sul campo di battaglia. E quand'essi partirono, avrebbe voluto seguirli, stimando che fosse que-

74 Egidio Bellorini

sto il dovere di chi tanto aveva scritto per pre- parare gli animi alla guerra; ma la sua salute, sempre vacillante, proprio allora peggiorò, ed egli sentì che le forze non lo avrebbero sorretto e che sarebbe rimasto a mezza via, ingombro e inciampo agli altri. Restò quindi a casa^ ma av- vilito e malcontento, tanto da vergognarsi a ve- stir la divisa di maggiore e da sentir rimorso quando si coricava nel suo comodo letto, pen- sando alla terra coperta di poca paglia sulla quale giacevano i combattenti {Ep., Ili, 145-6); ed escla- mava: < lo darei i miei versi e tutta la mia vita passata, per essere nei piedi dell'ultimo volonta- rio accorso costà >.

Fu proprio verso questo stesso tempo (aprile 1848) che, su proposta del Capponi, la Crusca lo nominò membro residente ; e il governo gran- ducale che pochi mesi prima avrebbe certo ne- gato la ratifica, la concesse invece senza diffi- coltà. Dal canto suo, il Giusti che non era stato mai troppo tenero per l'Accademia e gli acca- demici, né s'era trattenuto dal metterli qualche volta in burletta, ora, in sostanza, gradì la nomina, e prese parte abbastanza attivamente ai lavori del vocabolario, con quella competenza che gli ve- niva dagli studi sulla lingua a cui gli era stata incentivo soprattutto la raccolta di proverbi to- scani, alla quale attendeva da molti anni. E, chi sa?, forse è di quel tempo anche la filastrocca tra seria e faceta Dell'Accademia della Crusca, che si trovò incompiuta, quand' egli morì, tra i suoi manoscritti.

Giuseppe Giusti 75

Ma ben più importanti vicende si andavano intanto maturando : il granduca aveva concesso la costituzione, e si preparavano le elezioni dei deputati al Consiglio legislativo.

11 Giusti era d'avviso che si dovesse nominare gente pratica degli affari e non letterati ; ma fini per accettare la candidatura offertagli con insi- stenza dagli elettori di Borgo a Buggiano, dove riuscì eletto, il 18 giugno, con 158 voti su 163 votanti ; fiducia confermatagli poi anche nelle nuove elezioni che ebbero luogo nel novembre successivo, sebbene questa volta egli fosse aspra- mente combattuto dal Guerrazzi e da' suoi par- tigiani che allora tenevano il potere.

Si disse che alla Camera egli fu un deputato quasi muto ; ma Ferdinando Martini dimostrò che anzi egli parlò più volte con senno e con garbo, riuscendo anche a far accogliere dalla assemblea qualche sua proposta. Certo però non si sentiva nato per le lotte parlamentari, specialmente vive in quei momenti torbidi e tumultuosi. Egli non aveva (e lo riconosceva) la stoffa di uomo po- litico, né di uomo di parte : amava l' Italia, la desiderava indipendente e libera, e perciò voleva veder cacciati gli Austriaci e mantenute e raf- fermate le costituzioni e le altre larghezze con- cesse dai prìncipi; ma colla libertà voleva l'or- dine. < Ordine e libertà quanta ce ne cape > {Ep., IH, 212), scriveva allora; e come un tempo ave- va aborrito dalle società segrete {ibid., 525) ora aborriva dai tumulti di piazza e dalle sopraffa- zioni dei violenti, e scriveva, contro gli arruffa-

76 Egidio B e Ilo r ini

popolo, un iroso sonetto, nel quale, non a torto, si crede che prendesse a modello il Guerrazzi. Da giovane era stato repubblicano ; ora vedeva i sovrani cooperare al risoigimento d'Italia, e non si ostinava nella pregiudiziale antimonarchica ; e se i democratici gli davano per questo, del co- dino, ne sorrideva. Ma d'altra parte non era nep- pure disposto a fare la guerra ai democratici solo perchè tali; e sebbene il Guerrazzi, loro capo in quel momento, fosse giunto al potere combattendo aspramente il suo carissimo Gino Capponi e rovesciandone il ministero con arti che egli non approvava, lo appoggiò fino all'ultimo, perchè gli parve di vedere in lui l'estrema pos- sibilità di salvezza per la libertà^ in quei momenti difficili ; e se perciò lo accusavano di demagogia, ne sorrideva ancora. E chi sa quanto si sareb- bero scandolezzati e spaventati quei buoni con- servatori che lo avevano in uggia, se avessero saputo che egli credeva che le idee sociali piiì ardite produrrebbero col tempo del bene, quan- tunque i modi seguiti dai loro apostoli gli sem- brassero pazzi e spaventevoli, e che scriveva che, come dalla dichiarazione dei diritti dell' uomo uscì giustizia per tutti, così « dalle teorie sociali passate per ultimo staccio, uscirà pane per tut- ti > {Ep., IH, 267).

Mentr'egli sedeva nell'Assemblea, vi furono se- dute tempestose, e in luglio e in settembre vi furono anche moti violenti di popolo, che minac- ciarono la dignità del consesso. Ma, mentre altri temeva e si allontanava, egli restò al suo posto,

Giuseppe Giusti 77

e tenne contegno fermo e sereno. Però dentro di fremeva, e ne ebbe la salute scossa al punto che, in ottobre, pochi giorni prima della caduta del ministero Capponi, avvenuta il 12 di quel mese, dovette andarsene da Firenze, e restare per più mesi a Pescia e a Montecatini, travagliato da gravi disturbi di stomaco, d'intestino e di fe- gato, aggravati anche da una forte bronchite.

Tornò a Firenze per la ripresa delle sedute dell'Assemblea, nel gennaio del 1849, ed era a Firenze quando il granduca partì per Siena e poi per Santo Stefano, dove il 20 febbraio s'imbarcò per Gaeta, abbandonando lo Stato in balìa del Guerrazzi e de' suoi seguaci.

Degli avvenimenti di quei tristi giorni non dobbiamo occuparci qui. Basterà ricordare che in febbraio il Mazzini venne a Firenze, e che il Giusti fu l'unico testimonio che assistè al lungo colloquio che il grande patriotta ebbe col Cap- poni. Discioltala seconda Assemblea, il 15 marzo 1849 ebbero luogo le elezioni per la terza, che doveva poi mutarsi in Costituente ; e il Giusti, entratovi solo per la rinuncia di chi lo precedeva nell'elenco degli eletti a scrutinio di lista nel col- legio di Pistoia, non volle accettar mai la no- mina, disgustato dall'andamento della cosa pub- blica.

Dopo che il disastro di Novara ebbe distrutte le speranze dei patriotti, i disordini, com' è noto, crebbero in Firenze, finché, l'il aprile, il Guer- razzi venne sbalzato dal potere a furia di po- polo, e il Granduca fu richiamato. E Leopoldo II

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tornò, ma facendosi precedere dalle soldatesche austriache ; e poiché non poteva esservi dubbio sul significato di questo intervento straniero, ciò valse ad alienargli per sempre le simpatie di quegli stessi moderati che, come il Capponi e il Giusti, avevano sperato eh' egli, riprendendo il trono, ristabilirebbe l'ordine, conservando però le istituzioni liberali concesse un anno prima.

È naturale che, in così grande tumulto di av- venimenti pubblici e in tanto infuriare di pas- sioni, quasi tutte le poesie del Giusti avessero inspirazione politica.

Veramente, nel primo entusiasmo per gli av- venimenti del 1847, ed anche poi allo scoppiar della guerra nazionale nel 1848, egli ebbe a di- chiarare ripetutamente che ormai era tempo d'a- gire e non di far versi. < 11 popolo, eterno poe- ta >, scrisse allora {Ep., 11, 55), « ci svolge davanti la sua meravigliosa epopea, e noi miseri accoz- zatori di strofe dobbiamo guardarlo e tacere >. La sua poesia satirica gli pareva ormai < una cosa passata > ; il volume dei Nuovi versi che, raccogliendo le sue ultime poesie serie e scher- zose aveva pubblicato a Firenze da poco, gli pa- reva ormai qualcosa di arretrato, che avesse va- lore storico, e valesse al più ad attestare, come disse più volte, che egli aveva parlato mentre gli altri tacevano ; e si propose quindi di non scrivere più versi, o di scriverne solo d'ai-

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tro genere, traendo l'intonazione «dall'inno so- lenne che sonava nel cuore di tutti » (£/?., II, 555). Ma furono tutti propositi vani, che la sua natura di poeta e gli avvenimenti che gli si svolgevano attorno, dovevano cancellare in breve.

Infatti r intonazione solenne egli la prese una sola volta, nell'ottobre del 1847, per esaltare Leo- poldo II, in un'ode dignitosa e grave, piena di nobili sentimenti, che può essere documento della fede ch'egli riponeva nel popolo italiano, ma che poeticamente non si leva sopra la mediocrità, sebbene sia scritta con arte molto superiore a quella delle poesie politiche serie composte al- cuni anni prima. Ma come avrebbe egli potuto tacere a lungo e trattenere il « pungolo severo > che nell'ode a Leopoldo II aveva dichiarato di voler deporre per sempre, quando vedeva, nel 1847, i fedeli seguaci delle vecchie istituzioni crollanti dai birri ai ministri di Stato cor- rere ai ripari, per tentar di sorreggere l'edificio che minacciava rovina ? Ed ecco derivarne alcuni de' nuovi < scherzi » più vivaci : le Istruzioni a un emissario, la Storia contemporanea, il Consiglio a un consigliere, la Supplica e infine // congresso de' birri, che è l'ultimo de' suoi polimetri, e che, preseiìtandoci tre tipi di poliziotti i quali dispu- tano fra loro sui mezzi per conservare l'antico predominio, ci una specie di scena da com- media che, al suo primo apparire, fu molto gu- stato dal popolo toscano.

E poco dopo, come avrebbe potuto il Giusti trattenere gli strali della satira, quando vedeva

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i più autentici codini, quelli ch'erano stati fino al giorno prima fedelissimi alle vecchie idee, tra- sformarsi ad un tratto in ardenti liberali, e buttarsi nelle dimostrazioni coperti di coccarde, e declama- re, e fare i demagoghi in piazza e nei caffè, e criti- care perfino quelli che erano in guerra a combatte- re ? oppure quando vedeva gazzettieri disonesti o ciecamente partigiani insultare ed accusare i più puri patriotti che rifuggivano dalle intemperanze della plebe incolta e degli arruffapopolo ambizio- si ; e i paurosi rabbrividire ad ogni stormir di fron- da, e gì' indifferenti danneggiare colla loro inerzia o screditare colle loro beffe quelle istituzioni li- berali ch'erano costate tanti anni di lotte e di sof- ferenze? Ed ecco derivarne sul finire del 1847, nel 1848 e in principio del 1849 una serie ab- bastanza lunga di componimenti, dallo < scherzo > Alli spettri del 4 settembre, al Brindisi che co- mincia < Ma eh, l' Italia >, aWElezione, al Depu- tato, ai versi Contro un giornalista, ai frammenti « Io per r Italia >, a Un fossile, ai versi intitolati A Radeschi nei quali si celebra la fine gloriosa di Alessandro Poerio, ai sonetti A Dante, La maggiorità, L'arruff apopoli, L'uomo di parte, e ai più notevoli componimenti di questo periodo, che sono : l'ode Dello scrivere per le gazzette, lo < scherzo > su La repubblica, e i dialoghi / di- scorsi che corrono e // pauroso e l'indifferente.

Nell'ode Dello scrivere per te gazzette \ con- cetti, su per giù, sono gli stessi che si trovano in altri versi e in molte lettere giustiane di quel tempo : l'avversione a perseguitare colla satira i

Giuseppe Giusti 81

potenti il cui trono vacilla, il disdegno per la sa- tira personale, il ribrezzo pei demagoghi che sor- gono a declamare quando il pericolo è passato, la illusione che sedusse il poeta al primo scop- piare dei moti di libertà. Ma qui la inspirazione calda e piena ha trasformato in immagine viva il concetto astratto e ne ha colorito l'espressione, dandole spontaneità ed impeto. E se non manca qualche punto debole come tutta la settima strofa, intessuta di luoghi comuni e chiusa con un verso infelice, < il ben che più desia » il complesso è veramente bello, e trascina ed av- vince, specialmente nelle due commosse apostrofi alla libertà ed all' Italia. Qui, ben più che nell'ode A Leopoldo II, il Giusti assurge a vera e nobile poesia; qui altezza di pensiero e forza di com- mozione trovano perfetta rispondenza nella pa- rola rimata.

Con La repubblica invece il Giusti, ripren- dendo per l'ultima volta il metro vivace del Dies irae, torna ancora allo scherzo, per mettere in burletta, con brio spontaneo e franca festività, le illusioni degli ostinati repubblicani che, per amor della repubblica, avrebbero messo in pericolo an- che la vagheggiata unità italiana ; ma però il sor- riso è interrotto, per un momento, da un tratto di sincera commozione dove il poeta accenna ai ventotto anni di apostolato patriottico del repub- blicano Pietro Giannone, al quale lo « scherzo > è dedicato.

Ed anche / discorsi che corrono e // pauroso e l'indifferente restano nel campo della satira

Profili G. Giusti. 6

82 Egidio Bello rial

scherzosa; ma si cambia tipo. Il Giusti aveva già da molti anni pensato di scrivere commedie, e aveva fermato anche la propria attenzione su qualche soggetto comico; ma senza attuare mai alcuno de' suoi più o meno vaghi propositi {Ep., \, 28, 40; II, 105, 124, 200). Nel Ballo, nella Scrilta, neXVAmor pacifico, nella Storia contemporanea aveva poi introdotto dei dialoghi, in cui il vero è in generale intuito e ritratto felicemente ; e in- fine nel Congresso de' birri aveva dato una spe- cie di scena da commedia, con quei tre tipi carat- teristici di birri, che prendono successivamente la parola, conservando ognuno assai bene il pro- prio carattere. Ora finalmente, ne I discorsi che corrono e nel Pauroso e V indifferente, affronta di- rettamente il dialogo comico. Che proprio egli avesse anche ideato tutta una commedia, o me- glio due commedie, della prima delle quali do- vessero far parte i due dialoghi tra Granchio e Ventola e tra Vespa e Crema, e della seconda il dialogo tra Granchio e Trippa, non credo, perchè in queste scene non vi è accenno alcuno di azio- ne ; né, d'altra parte, per quel che si può desu- mere da altri suoi scritti, pare che il Giusti avesse l'attitudine a svolgere un'azione in una serie di scene dialogate ; ma ciò non toglie che questi frammenti non siano, come dialoghi satirici, bel- lissimi, benché il metro (quartine di settenari) sembri poco adatto al dialogo, e benché non manchino qua e specialmente nel Pauroso e P indifferente tratti in cui la caricatura nel grottesco. Ma, in complesso, quanta efficacia

Giuseppe Giusti 83

di rappresentazione e quale scintillio di arguzia ! La satira salta fuori spontanea dalla figurazione del vero, e la caricatura è quasi sempre il natu- rale effetto del vero fedelmente ritratto e arguta- mente sottolineato nelle didascalie.

Vili.

Il disprezzo per il granduca, reduce dall'e- silio sotto la protezione delle soldatesche au- striache, lo sdegno contro i demagoghi che ave- vano affrettata colle intemperanze la rovina della libertà, e per i girella che, voltando casacca da un giorno all'altro, dopo aver fatto i liberali sfegatati, s' inchinavano al padrone che tornava sul trono, inspirano al Giusti gli ultimi e melan- conici versi, composti sul finire del 1849 e ai primi del 1850, come i frammenti lirici Lo schiavo e < Se Dio mi vita >, i sonetti satirici Tede- schi e granduca, « Signor mio, signor mio, sento il dovere > e < Voi governaste fino al quarantot- to >, all'ultimo dei quali si ricollega il sanguinoso epigramma, certamente diretto allora contro Leo- poldo II :

Chi fé' calare i barbari fra noi ? Sempre gli eunuchi da Narsete in poi.

E l'amarezza dell'animo suo riversò allora an- che nelle Memorie che, pur risolvendosi in una requisitoria, non sempre equanime contro il Guer-

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razzi e i guerrazziani, sono però un prezioso do- cumento storico ed anche come si vedrà più avanti una notevole opera letteraria.

Ma purtroppo il Giusti, tormentato ormai, ol- tre che dal dolore per la rovina della patria e della libertà, anche dai sempre crescenti mali fi- sici, dovette lasciarle incompiute e frammentarie.

Già neir inverno del 1849 era stato afflitto da una violenta tosse catarrosa, accompagnata da sputi sanguigni e inasprita da una bronchite. Venuta la primavera, si era rifugiato, in una sem- pre vana ricerca di salute, a Pescia, a Colle Val d' Elsa, a Viareggio, a Montecatini, sinché in ot- tobre, stanco ed affh'tto, aveva fatto ritorno a Firenze. La tosse e gli sbocchi sanguigni non erano cessati ; di più egli era ormai quasi del tutto afono e ridotto in tale stato di debolezza che si stancava per ogni minimo sforzo. Qualche medico gli diceva che tutto era effetto di bile, qualche altro invece parlava di ultime conse- guenze della bronchite, ma tutti Io incoraggia- vano a sperare nell'avvenire. Ed il poeta li ascol- tava senza dar troppo peso alle loro diagnosi ai loro conforti.

Era da poco a Firenze, quando fu colto da una febbre miliare che lo condusse in fin di vita. La madre accorse al suo capezzale e lo assistè amo- revolmente ; ed egli, comprendendo la gravità del pericolo, era ormai rassegnato al suo desti- no ; anzi sarebbe stato lieto di deporre il fardello della vita che, dopo tanto soffrire, gli sembrava troppo grave. Tuttavia, nel gennaio del 1850, si

Giuseppe Giusti 85

riebbe alquanto. Ma era tanto debole ancora da dover restare a letto giorni e giorni senza muo- versi e da non poter nemmeno ricevere gli amici, perchè il parlare lo stancava troppo. Cercava perciò di svagarsi leggendo e occupandosi a riordinare i suoi appunti danteschi, e, quando si sentiva un po' meno male, scriveva qualche let- tera 0 tirava giù dei versi mestamente scher- zosi, come il sonetto al Capponi, < Verso le tre mi son sentito male > ; e forse componeva anche le brevi strofe della Preghiera a Dio, che fu tro- vata poi, quand'egli fu morto, tra le sue carte. Perchè, senza essere troppo osservante delle pra- tiche del culto, il Giusti era però stato sempre sinceramente religioso, anche in mezzo ai travia- menti giovanili ; e se anche aveva canzonato i < religionari >, che componevano inni sacri alla manzoniana, senza aver la fede, non aveva ricu- sato però di scrivere una canzone per le feste triennali di Pescia nel 1841 e di celebrare la po- tenza della fede nelle terzine al padre Bernardo da Siena nel 1834; e se aveva satireggiato un pontefice cattivo come Gregorio XVI, aveva però dichiarato sempre di rispettare chi esercitava degnamente il ministero sacerdotale. Ed ora, av- vicinandosi la Pasqua, pensava di adempiere an- che quell'anno i suoi doveri religiosi, non ap- pena la salute glielo concedesse.

Proprio il giorno di Pasqua (31 marzo) gli par- ve di stare un po' meglio, tantoché aveva pro- messo di lasciare verso sera la camera per stare un po' in compagnia di Gino e degli altri fami-

86 Egidio Bellorini

gliari. Ma quando, verso le quattro del pomerig- gio, il servo gli portò il suo parco desinare, al primo cucchiaio di zuppa ebbe uno sbocco di sangue pili forte del solito. Restò calmo, e disse al servo di non farne caso. Ma al secondo cuc- chiaio lo sbocco si rinnovò con maggiore vio- lenza, e pochi minuti dopo egli era già morto, senza che gli si fosse potuto recare alcun soc- corso. — 11 famoso dottor Bufalini che l'aveva in cura, disse poi che doveva essersi formata un'ul- cera nei grossi vasi sanguigni, e che questa, dopo aver corroso a poco a poco la parete che la conteneva, rompendola ad un tratto, l'aveva soffocato.

Così, nel tramonto delle fortune d' Italia, che poteva sembrare allora senza speranza di un'al- ba vicina, si spegneva malinconicamente, a meno di quarantun'anno, il poeta che co' suoi versi tanto aveva contribuito ad aprire i cuori all'amor di patria ed a ridestare in essi il vivo desiderio della riscossa nazionale.

La sera dopo, un numeroso stuolo d'amici e d'ammiratori ne accompagnava, mesto e riverente, la salma a San Miniato, dove gli fu poi eretto un sepolcro, pel quale Gino Capponi che, sebben cieco ed affranto dal dolore, ne aveva voluto se- guire il feretro dettò una bella epigrafe.

Liberata la patria, anche Monsumano gli eres- se, ventinove anni dopo, un più ricco monumen- to, sul quale, con felice pensiero, fu incisa la calda apostrofe all'Italia, dell'ode Dello scrivere per le gazzette :

Giuseppe Giusti 87

O veneranda Italia, sempre al tuo santo nome religioso brivido il cor mi scosse...

IX.

spesse volte la fama d'un artista, nei primi anni dopo la sua morte, declina rapidamente; ma così non accadde di quella del Giusti. Le condizioni della patria erano, pur troppo, sempre simili a quelle che gli avevano ispirati gli « scher- zi >, e quindi la sua popolarità durò vivissima, anzi parve quasi andar crescendo, fin verso il 1870.

Nel 1852, Gino Capponi, al quale erano restati i manoscritti del poeta, ne raccoglieva, coll'aiuto di Marco Tabarrini, i versi già pubblicati essendo vivo l'autore, insieme ad altri fino allora inediti, e li dava a stampare ai Le Monnier. II governo toscano s'affrettò a sequestrare l'edizione e a im- bastire un processo : ma il Le Monnier invocò la legge sulla libertà di stampa non ancora revo- cata, e il governo, comprendendo di aver torto e non volendo suscitare chiassi, finì per togliere il sequestro e per abbandonare il processo. Tosto l'edizione andò a ruba, e trovò, al solito, chi la contraffece in Toscana e anche fuori, dove, se pur non vigeva dappertutto la libertà di stampa, erano sempre fiorentissimi il contrabbando e il commercio clandestino dei libri patriottici.

88 Egidio Bellorini

L'anno dopo il Capponi dava un'altra prova del suo memore e devoto affetto per l'amico, riordinando, arricchendo e pubblicando la Raccol- ta di proverbi ^oscaw/ che il Giusti aveva comin- ciato fin dal 1836 e alla quale aveva poi atteso di quando in quando fino agli ultimi giorni di vita, ampliandola ed illustrandola con certe sue narrazioni ed osservazioni argute, proponendosi di contribuire con questo lavoro allo studio della lingua e all' incremento della sapienza pratica, < di quella sapienza che non figura tra le monete d'oro, ma serve mirabilmente per le spese minute della vita» {Ep., II, 313). E la pubblicazione ebbe tanto favore che in breve se ne dovettero fare nuove edizioni.

Tre anni più tardi, sempre valendosi larga- mente delle carte possedute dal Capponi, Aurelio Gotti dava fuori un nuovo volume di Scritti vari in prosa e in verso per la maggior parte inediti, tra i quali figuravano anche, per la prima volta, buona parte degli scritti ed appunti danteschi, che il Giusti aveva buttato giù in tempi diversi, e dai quali aveva sempre avuto intenzione di rica- vare un'opera organica, che però non riuscì mai a comporre. E sebbene, questi gli altri scritti contenuti nel volume come i Cenni intor- no alla vita di Celestino Chili (1837), che sono certo una delle prose più notevoli del Giusti nulla aggiungessero alla fama dell'autore, pure anche il nuovo volume ebbe parecchie ristampe.

Ma ben più calorose e clamorose accoglienze ebbero i due volumi A^W Epistolario che, sul finire

Giuseppe Giusti 89

del 1859, pubblicava Giovanni Prassi, insieme con una Vita del Giusti. Queste lettere vedevano la luce nei momento in cui, avviata ormai al trionfo, dopo la recente guerra vittoriosa, l'opera della unità politica d'Italia, sembrava più che mai urgente affrettare anche l'opera della unità lingui- stica, a conseguire la quale il Manzoni aveva additata la via da tanti anni. Le lettere del Giusti, scritte nel vivente linguaggio toscano, erano, o almeno parevano, un esempio perfetto di quel che dovesse essere la lingua italiana moderna, tanto più che alla purezza dei vocaboli molte di esse aggiungevano una strabocchevole ricchezza di modi di dire caratteristici ed efficacissimi e una vivacità di espressioni e una snellezza di perio- dare grandissima. E se già vi era stato per l'addietro chi aveva studiato i versi del Giusti come un testo di lingua, ciò avveime ora assai più spesso per le lettere che, diffuse tra le per- sone colte e lette e studiate nelle scuole, diven- nero, per molti, non solo un testo, ma un codice della lingua nazionale, e suscitarono un nugolo di imitatori che, specialmente se non erano to- scani, esagerarono, com'è naturale, la tendenza che già appariva talvolta nel modello, ad abusare dei toscanesimi.

Donde, al solito, dopo non molti anni, la rea- zione. 11 Carducci, che nel 1859 aveva pubblicato una edizione delle poesie preceduta da pagine piene di ammirazione per il poeta di Monsum- mano, quindici anni più tardi si ribellava contro le inconsulte idolatrie, e tratto dalla sua natura

90 Egidio Bellorini

focosa, esagerando alquanto egli pure, inveiva, non solo contro i malaccorti imitatori della prosa giustiana, o, com'egli diceva, contro i « cianciato- relli che ci han fradicio e seccato e stufato in questi ultimi anni >, ma anche contro il Giusti stesso, che, come prosatore e specialmente come scrittore di lettere, accusò di mancanza 'di spon- taneità. < Oh quell'epistolario così freddo, così artificioso, così civettuolamente smorfioso per chi ha letto gli epistolari del Monti, del Leopardi, del D'Azeglio! >; e dopo aver mosso rimprovero al Giusti di far giri e rigiri di parole per « venire a introneggiare la frase il motto l' immagine che quel giorno gli occupava le mente >, conchiudeva dicendo che la sua affettata ribellione a tutto ciò che sapesse di accademico e di studiato era < pedanteria alla rovescia, pedanteria in maniche di camicia >. E così il Carducci veniva a confon- dere un po' troppo maestro e discepoli, ed esten- deva a tutto l'epistolario e quasi a tutta la prosa del Giusti, ciò che è vero di una parte soltanto delle lettere, e specialmente di quelle che il Giu- sti scriveva agli amici non toscani, agli occhi dei quali amava forse un po' troppo di sfoggiare la sua dovizia linguistica e la disinvolta famiglia- rità della sua parlata toscana. Invece quante lettere, specialmente descrittive e narrative, sono veramente ammirabili per vivacità e spontaneità ! tantoché il Biagi potè dire persino che probabil- mente le novelle toscane del Fucini sono, in certo senso, una derivazione delle lettere del Giusti che descrivono scene rusticane.

Giuseppe Giusti 91

E questo avrebbe riconosciuto certamente Io stesso Carducci, se avesse avuto occasione di ri- parlare della prosa giustiana e specialmente se avesse potuto tener conto delle Memorie, pubbli- cate solo nel 1890 da Ferdinando Martini, nelle quali il Giusti evitò quasi sempre i vezzi un po' artificiosi delle < veneri > del parlar toscano.

Ad ogni modo, qualunque sia il giudizio che si voglia dare della prosa giustiana, considerata ne' suoi difetti, non v' ha dubbio che essa con- tribuì efficacemente, insieme col romanzo del Manzoni e con poche altre scritture della prima metà del secolo, a diffondere il gusto di una pro- sa semplice ma non trasandata, e soprattutto schiettamente italiana.

Ma il Carducci non si fermò alla critica del Giusti come prosatore. I più ferventi ammiratori avevano esaltato il Giusti come uno dei più grandi poeti del secolo, mettendolo alla pari col Foscolo, col Leopardi, e il Carducci, pur confermando il suo rispetto per il Giusti « poeta a volte origi- nale e finissimo >, si ribellò anche contro questa esagerazione.

E d'allora in poi, mentre vediamo moltiplicarsi le edizioni delle poesie e delle prose del Giusti, e con esse i commenti e gli scritti intorno alla sua vita e alla sua opera letteraria, tutti impron- tati a schietta ammirazione, sebben spoglia or- mai dalle antiche idolatrie e basti ricordare.

92 Egidio B e Ilo r ini

fra i tanti, gli scritti di Guido Biagi, di Plinio Carli e soprattutto quelli di Tommaso Parodi e di Ferdinando Martini ; d'altra parte vediamo anche, di tanto in tanto, sorgere qualcuno a par- lar del Giusti con una cert'aria di compassione- vole commiserazione od anche di aperto disprez- zo, come se si trattasse di un poetucolo ormai insopportabile al nostro gusto mutato e raffinato. Esagerazioni anche queste, delle quali è ben le- cito sorridere.

Ma, collo scrittore, si colpì qualche volta an- che r uomo. Già, lui vivo o morto da poco, lo avevano dipinto a colori poco belli alcuni suoi avversari o nemici personali, come F. D. Guer- razzi, come quel gazzettiere pieno d' ingegno ma poco onesto che fu Enrico Montarlo e come an- che Niccolò Tommaseo, il quale, sebbene amicis- simo del Capponi ed in buoni rapporti personali col Giusti stesso, non seppe trattenere la sua ten- denza alla critica epigrammatica e mordace. Il Montazio, per mettere in mala luce il Giusti, giunse a dar corso a delle frottole, come quella ch'egli fosse morto in seguito ad eccessi a cui si sareb- be abbandonato durante un pranzo presso i rea- zionari frati minori osservanti di Monte Olivete. Il Guerrazzi disse che il Giusti fu uomo «di bello ingegno ma di povero cuore» e che «dopo aver scosso con braccio di Sansone l'edificio sociale ebbe paura dei calcinacci che cascavano > ; al che fu risposto che il Giusti non ebbe paura dei

Giuseppe Giusti 93

calcinacci ma delle rovine, come ne ebbe paura lo stesso Guerrazzi il quale invano tentò anche egli di correre ai ripari. Il Tommaseo poi coin- volse nella sua critica l'artista e l'uomo. Nei versi del Giusti, secondo lui, manca quello che mancava all' uomo, e cioè il cuore. « II suo ge- mito è fremito, il suo riso è ghigno, il suo zelo disprezzo >. Quando il Giusti volle scrivere liri- che amorose serie, finse dolori che non sentiva e «pianse lacrime d'inchiostro». Nelle sue bat- taglie contro il vizio e per la'patria, < il Giusti fa del Tancredi con uno stuzzicadenti o uno spillo, e insegna la pietà della patria colle beffe ; il Giu- sti gamba di coniglio e cuore di gatto; Stente- rello colle mutande di Dante ». ¥u iracondo, ava- rissimo, < e la sola eccezione ch'egli introdusse nella sua ingegnosa taccagneria consistè nel ve- stiario lindo e galante >.

Molt'anni dopo, Leopoldo Barboni tornò alla carica, e dopo aver confermato l'accusa di tac- cagneria, mise anche in ridicolo le « paure del Giusti e i suoi rinnegamenti di fronte alla polizia lorenese, che, del resto, non lo pigliò mai sul se- rio, reputandolo, com'era in fatti, un Aristofane e un Giovenale di carta pesta >. Ed Emilio Del Cer- ro, dal canto suo, in seguito a certe indagini su i documenti della polizia toscana, credette di poter concludere che il Giusti fu, non solo di animo pacifico, ma di carattere frollo, che la sua satira fu una mera esercitazione letteraria, e che l'animo del cittadino non valeva, in ogni caso, la frusta del poeta.

94 Egidio Bello r ini

Da ultimo Giacomo Surra prese ad esaminare con molta diligenza e con grande acume ma con spirito, oserei dire, un po' inquisitorio tutte le ope- re e tutte le vicende della vita del Giusti, e finì per concludere che fu un uomo poco sincero, che ebbe affetti deboli e sentimenti poco profondi ove eccettui l'amor di patria e che appunto perciò, se anche fu spesso artista valente, rara- mente fu poeta vero.

Ora, che in tutto questo male detto del Giusti come uomo vi sia qualche fondamento di verità è innegabile; ma quanto vi è anche d'esagerato! Il Martini e il Carli lo dimostrarono già, ed io non ripeterò quello ch'essi hanno detto assai bene.

Certo il Giusti non fu un uomo perfetto. Fu, come suo padre, alquanto tirato nello spendere, e non sempre molto riguardoso o delicato nei rapporti colle donne che corteggiò ; come non fu sempre rispettoso nei rapporti col padre, che, d'altronde, non era sempre dalla parte della ra- gione. Afflitto da disturbi di fegato e d' intestino, e malato anche di nervi dopo la scossa avuta nel 1843, non fu sempre di umore piacevole, e si ab- bandonava talvolta a scatti d'ira, che lo spinsero anche, in qualche raro caso, alla satira violenta e personale. Timido nei rapporti sociali, non ebbe sempre il coraggio di manifestare apertamente il proprio sentimento quando si trovava davanti a persone che non stimava o non amava, e faceva loro egualmente buon viso. Ma non fu neppure quel mostro morale che dipinsero certi suoi ne- mici ed anche certi suoi critici. Ebbe amici fé-

Giuseppe Giusti 95

deli e li amò fedelmente tutta la vita; nutrì rive- renza profonda per qualcuno di essi, come per il Manzoni e per il Capponi, e non vorremo fargli carico se talvolta si mostrò un po' vano di queste amicizie. Se l'occasione si presentò, seppe anche essere giusto coi nemici, come quando, nel 1849, propose ed ottenne che il Guerrazzi, che l'aveva combattuto aspramente poco prima al momento delle elezioni politiche, fosse nominato accade- mico corrispondente della Crusca. Amò sempre e caldamente la patria, e questo amore trasfuse tutto ne' suoi versi ; e se questi non gli attira- rono persecuzioni dalla polizia, ciò si dovette, non alla persuasione che essi fossero un innocuo esercizio letterario come credettero il Barboni e il Del Cerro , ma al fatto che la polizia to- scana non osava perseguitare nessuno per le sue scritture, tantoché non molestò mai, per i loro scritti, il Guerrazzi, il Niccolini.

Insomma il Giusti non fu un eroe ; anzi fu un uomo che ebbe difetti e, se vogliamo, anche vizi; ma ebbe pure dei meriti e delle virtù di cui gli va tenuto conto, e di cui certamente gli tennero conto i suoi fedeli amici, e soprattutto il Capponi che tanto fece per averlo con sé, che ne difese con tanto calore la memoria quando un france- se, Gustavo Planche, ne parlò con poco rispetto nelle Revtie des deiix inondes, e che ne curò con tanto affetto le opere, dopo che la morte lo ebbe strappato dal suo fianco. Inoltre e soprattutto noi dobbiamo ricordare i suoi meriti di poeta, pei quali soltanto la nostra attenzione si rivolge oggi

96 Egidio Bellorini

a luì, inducendoci a scrutare con una curiosità talvolta indiscreta come del resto siamo soliti fare con tutti gli uomini famosi i piij minuti particolari della sua vita privata. E i meriti di poeta non è lecito ormai negarli ragionevolmente perch'egli fu poeta vero, se non grande, e perchè la sua opera ha, com.e si è dimostrato, un carat- tere tutto suo, originalissimo, per il quale dob- biamo assegnarle un posto onorevole nella storia della nostra letteratura, nel periodo che corre tra il primo tentativo infelice di riscossa nazionale del 1831, e la sfortunata ma gloriosa guerra del 1848-49. Ed anche dobbiamo ricordare che questi suoi versi ebbero efficacia grandissima nel pre- parare gli animi a questa prima e a tutte le suc- cessive guerre combattute pel risorgimento della patria.

Delle Mie prigioni si disse che danneggiarono l'Austria più di una battaglia perduta. Gli « scher- zi > del Giusti non ebbero e non potevano avere la diffusione mondiale del libretto del Pellico ; ma, dentro i confini d' Italia, recarono anch'essi un danno gravissimo all'Austria e ai prìncipi indi- geni che le tenevano bordone. Essi furono, coi romanzi del Guerrazzi e del D'Azeglio, colle poe- sie patriottiche del Berchet e del Rossetti, colle tragedie del Niccolìni, vital nutrimento spirituale a quei giovani che sulle barricate di Milano, per le vie di Brescia, sui campi di battaglia della Lom- bardia e del Veneto, sulle mura di Roma e nella laguna di Venezia affrontarono il nemico, e ver-

Oiiiseppe Giusti 97

sando il loro sangue per la patria ne prepararono il risorgimento.

E se oggi, dopo che più di settant' anni son trascorsi dalle morte del poeta, quei versi non sono più popolari come in quegli anni gloriosi e remoti, più gli artigiani se li fanno leggere e commentare dai giovani studenti, più gli stu- denti stessi ne fanno la loro lettura favorita, dovre- mo perciò meravigliarci o dire come qualcuno ha osato che ciò sta bene, perchè la fama del Giusti era usurpata? No certamente, perchè è destino comune a quasi tutte le opere letterarie, anche alle più grandi e gloriose, di essere lasciate alquanto in disparte dai posteri, non appena le idee, le passioni, le vicende che le hanno inspi- rate e le tendenze letterarie alle quali risposero, si trasformano o scompaiono col passar del tem- po, e sorgono altre opere d'arte, forse di minor valore intrinseco, ma che rispondono alle nuove idee, alle nuove passioni, alle nuove circostanze, alle alle nuove tendenze letterarie. Ma delle opere che hanno veramente pregio d'arte, qualcosa so- pravvive sempre, e fa vibrare ogni animo creato a sentire il bello. Per questo piacciono ancora i più spigliati < scherzi » giustiani, dalla Guigliottina a vapore al Brindisi di Girella, alla Chiocciola, al Re Travicello, alla Rassegnazione, al Delenda Car- thago, e, pur facendo sorridere, destano sempre nell'animo un dolce sentimento di commozione le ottave del Sant'Ambrogio.

Il resto dell'opera letteraria del Giusti può avere ed ha forse soltanto ormai valore storico,

Propili G. Giusti. 7

98 Egidio Bellorini

ma questi e alcuni altri « scherzi > sono sempre poesia viva, e si può credere che lo saranno an- cora tra molti anni, quando tante opere che ora sembrano vive e grandi, avranno soltanto un va- lore storico.

=^11

NOTA BIBLIOGRAFICA

Una completa Bibliografia giiistiana aveva cominciato a pubblicare Ugo Ceccherini nella «Rivista abruzzese » del 1893, ma non la portò a compimento.

Dopo d'allora nessuno riassunse l' impresa, cosicché gli studiosi devono contentarsi delle indicazioni bibliografiche che si trovano nei soliti repertori, come l'Ottocento di Guido Mazzoni e il Manuale della leti. ital. dei professori D'Ancona e Bacci. Un'utile rassegna di pubblicazioni giustiane uscite in occasione del centenario della nascita fece Rosolino Gua- stalla nel « Giornale storico della lett. ital. ■» del 1910. Qui mi contenterò di ricordare le pubblicazioni di maggiore impor- tanza.

I. Opere del Giusti.

Alcune poesie furono pubblicate sparsamente, mentre vi- veva l'autore, in fogli volanti, in raccolte onorarie, in strenne, in riviste o giornali, dal 1826 in poi. Ma la prima edizione no- tevole de' suoi versi è quella del volumetto anonimo intitolato Poesie italiane tratte da una stampa a penna (Italia, ma Lu- gano, 1844) che diede occasione al G. com'è detto nel testo, cap. V, di pubblicare l'opuscolo di Versi di serio argomento (Livorno, Antonelli e C, 1844) in testa al quale figura il suo nome, e che contiene: La fiducia in Dio, Affetti d' una madre, All'amica lontana, All'amico nella primavera del IS41, Sospiro dell'anima, Ad una giovinetta. L'anno dopo usciva, senza no- me dell'autore, ma da lui curato, il volume di Versi (Bastia,

100 Bibliografia

tip. Fabiani) che contiene i primi 32 scherzi delle consuete edizioni di poesie del G., dalla Guigllottina a vapore al Gin- gillino. In seguito, colla data 1847, ma in realtà al principio del 1848, usciva in Firenze, tip. Baracchi succ. G. Piatti, un volu- metto di Nuovi versi di Giuseppe Giusti, con altre 13 poesie, scherzi la maggior parte, composte dopo la pubblicazione della edizione di Bastia. È inutile aggiungere che, date le condizioni del commercio librario in quei tempi, ognuna di queste edi- zioni diede origine a numerose altre edizioni fatte senza il consenso dell'autore. Nel 1848 egli pensava di raccogliere in un solo volume tutte le sue poesie; ma non potè condurre a compimento questo disegno, che fu ripreso poi, dopo la sua morte, da Gino Capponi e Marco Tabarrini, per cura dei quali fu pubblicato nel 1852 (Firenze, Le Monnier) il volume di Versi editi e inediti, edizione postuma e corretta sui manoscritti, che servì poi di fondamento a tutte le edizioni posteriori. D'allora in poi le edizioni dei versi si moltiplicarono, accre- scendosi via via di componimenti inediti o pubblicati sparsa- mente durante la vita del G. e rimasti ignoti ai precedenti edi- tori. Tra queste edizioni convien ricordare gli Scritti vari in prosa e in versi per la maggior parte inediti pubblicati da Aurelio Gotti (Firenze, 1856), il volumetto diamante delle poe- sie curato da G. Carducci (Firenze, 1859),e le edizioni commen- tate da O. Turchetti (Firenze, 1868), G. Fioretto (Padova, 1875), P. Fanfani (Milano, 1876, e con postille di G. Frizzi, 1881), C. Causa (Firenze, 1882), G. Biagi (Firenze, 18841, G. Puccianti (Firenze, 1899), C. Romnssi (Milano, 1899), E. Ceria (Torino, 1902), E. Bicci (Firenze, 1905), R. Guastalla (Livorno, 1910), P. Carli (Firenze, 1912), E. Marinoni (Milano, 1918), E. Bellorini (Torino, 1921). Le edizioni più complete sono quelle curate da E. Chec- chi (Firenze, Le Monnier), e F. Martini (Firenze, Sansoni).

Quanto alle prose, a non tener conto di qualche lettera o articoletto, possiamo dire che il primo saggio notevole sia stato il Discorso su G. Parini (Firenze, Le Monnier, 1846). Morto l'autore, uscì nel 1853, (Firenze, Le Monnier), per cura di G. Capponi, la Raccolta di proverbi toscani, alla quale tennero dietro nel 1857 i già citati Scritti vari in prosa e in verso per la maggior parte inediti^ \' Epistolario che, pubbli- cato da Giovanni Frassi, in due volumi, nel 1859 (Firenze, Le Monnier) fu poi ripubblicato in tre volumi, nel 1904, da Ferdi-

Bibliografia lOI

nando Martini, il quale rivide diligentemente il testo delle lettere già pubblicate, molt'altre ne aggiunse e tutte illustrò con note ed appendici. Un' altra notevole raccolta sono le Lettere Ja- migliari inedite, pubblicate da G. Babbini Giusti (Pescia, 1897) ; ma ben più notevoli sono le Memorie inedite (1845-49) pubblicate da Ferdinando Martini (Milano, 1890) con introdu- zione e appendici. Assai minore importanza hanno altre pub- blicazioni di prose, come le Postille alla Divina Commedia edite da G. Crocioni (Città di Castello, 1898), e le Nuove po- stille alla Divina Commedia edite da G. Pedrotti (Girgenti, 1904). Delle lettere e di altre prose scelte si fecero numerose edizioni per le scuole, con note. Le più notevoli sono quelle di G. Rigutini (Firenze, 1861), P. Carli (Firenze, 1914), ed E. Ma- r:noni (Milano, 1918).

II. Scritti sulla vita e sulle opere del Giusti.

Sono numerosissimi. Ricorderò soltanto quelli che mi sem- brano più notevoli, in ordine alfabetico, avvertendo che ad essi bisognerebbe aggiungere le già citate introduzioni e ap- pendici del Martini alle opere del G., e le introduzioni o pre- fazioni a quasi tutte le edizioni delle poesie e delle prose del Giusti.

1. - AzzoLiNA L., La poesia del G., nell' < Annuario del R. liceo

di Cagliari > del 1914.

2. - Barboni L., Geni e capi ameni nell'Ottocento (Firen-

ze, 1911).

3. - BiAGi G., La fama postuma del G. nel volume «Aneddoti

letterari » (Milano, 1887) ; Amori giustiani nella « Illustra- zione italiana > dell'S agosto 1909 ; Ricordi giustiani in Valdinievole, nella « Lettura» del luglio 1909.

4. - Capponi G., Sopra un articolo intorno a G. G., negli

< Scritti vari », Firenze. 1863.

5. - Carducci G., G. G.; Correttivo al saggio su G. G. ; Dopo

quindici anni, < Opere » II, VII, XIX.

6. - Carli P., G. C, romanziere ? nella « Miscellanea in onore

di V. Clan », Pisa, 1909 ; Intorno ad alcuni autografi di G. G., nel « Giorn. stor. delle lett. ital. », 1909; G. G. sot- to processo nel « Fanfulla della Domenica » del 12 otto- bre 1913.

102 Bibliografia

7. - Coppola S., P. J. De Béranger e G. Giusti, nella < Rivi- sta abruzzese > del 1906. 8 - Croce B., G. G., nella < Critica » del 20 marzo 1923.

9. - Del Cerro E., Misteri di polizia (Firenze, 1890).

10. - Del Lungo I., La poesia di G. G., nella < Vita italiana del Risorgimento », 111, serie I (Firenze, 1909).

11. - Foresi M., G. G., nella e Rassegna nazionale» del 16 maggio 1909. '

12. - Prassi G., Vita di G. G., premessa aW Epistolario.

13. - Gargano G. S., G. G., nel e Marzocco » del 15 agosto 1909.

14. - Ghivizzani G., G. G. e i suoi tempi, Reggio Emilia, 1882.

15. - Gnoli T., Le satire di Giovanni Giraud, Roma, 1903.

16. - Guastalla R., La donna nella vita del G., nella «Nuova Antologia» del 16 luglio 1909.

17. - Martini F., G. G. ; // G. studente; L'onorevole G. G. ; Le Memorie del G. e la Toscana dal IS45 al 1S49, nel vo- lume «Simpatie», Firenze, 1900. Nel Centenario di G. G. ; Il G. in Campidoglio, nel volume « Pagine raccolte » (Firenze, 1912).

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28. - Settembrini L., Lezioni di letteratura italiana, ca.ip. CU.

29. - Stampa S., A. Manzoni, la sua famiglia, i suoi amici (Milano, 1885).

30. - Surra G., // discorso del G. sul Parini; Impronte giustia- ne nelle poesie di G- Carducci; Imitazioni e reminiscenze nelle poesie del G- nel « Giorn. stor. della lett. ital. » del 1913-14 ; Indagini sul carattere e sull'arte di G. G., nelle < Memorie della reale Accademia delle Scienze di Torino », 1914.

29. - Tabarrini M., Gino Capponi, i suoi tempi, i suoi studi, i suoi amici (Firenze, 1879;.

30. - Tommaseo N., Di G. P. Vieusseux, Firenze, 1869; Carteg- gio con G. Capponi, passim.

31. - TOMMASONI G., Se il Manzoni stimasse il G., nel « Fan- fulla della domenica > del 20 dicembre 1885.

32. - TORRACA F., Giusti e Béranger, nella « Illustrazione ita- liana > dell'agosto 1909.

33,- ZuMBiNi B., Varte del G. nella <>: Illustrazione italiana > dell'8 agosto 1909.

Mantre correggo le bozze a questo mio lavoretto, leggo, nella Critica del 20 marzo 1923, la nota di Benedetto Croce, in cui si esprime l'opinione che quella del Giusti sia « poesia prosa- stica », e cioè una poesia che si chiama con tal nome solo per- chè ha forma metrica, mentre « nella sua realtà è prosa >. Tra i poeti prosastici dice il Croce - il Giusti è uno dei < più eminenti », e i suoi versi hanno pregi letterari non piccoli, ma egli è pur sempre « poeta prosastico » e non vero poeta. E que- sta appunto sarebbe la ragione per cui la sua fama scemò così rapidamente da un certo tempo in qua. Un'opinione di Be- nedetto Croce è sempre degna, non solo di rispetto, ma di se- rio esame; pure confesso che questa sua intorno al Giusti non mi persuade del tutto.

Non ho qui spazio a discuter di ciò: chi desiderasse sa- pere quel eh' io pensi, potrà vedere le obiezioni che mossi altrove (Poesie di G. Giusti, Torino, U. T. E. T., 1921, p. XXVI) a Giacomo Surra il quale, fin dal 1914, sostenne (sebbene per ragioni diverse da quelle del Croce) che il Giusti è artista va- lente, ma di rado vero poeta.

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PQ Bellorinl, Egidio

4692 Giuseppe Giusti

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