È n) » PAC Panis 1LGEGLO LOLI € IO OINOHOIL dO ALISHAAINN n T) IN COLLEZIONE DI SeekE INEDITE O RARE DEI PRIMI TRE SECOLI DELLA LINGUA PUBBLICATA PER CURA DELLA R. COMMISSIONE PE' TESTI DI LINGUA NELLE PROVINCIE DELL’ EMILIA — > UA, ORI > i a i La 37 Pie i priv aa p dal, A RSS È sit net ETA FIAT: Dr "PP IE4OEZZINOO pes | IRA IO WATT - =>, sa Sì = F _ — = ai led DI > "ns n Li) ei LE OPERE DI GIO. VETTORIO SODERINI VOLUME III. IL TRATTATO DEGLI ARBORI DI GIOVANVETTORIO SODERINI COLLA SECONDA PARTE INEDITA A CURA DI ALBERTO BACCHI DELLA LEGA — i sl BOLOGNA 74 / ; ROMAGNOLI DALL' ACQUA 1904 PROPRIETÀ LETTERARIA Bologna 1904 — Società Tip. Mareggiani PREFAZIONE Ecco la descrizione del codice donde questo volume, inedito per metà, è tratto. In fol., rilegatura moderna in cuoio e assi- celle odorose di cipresso ; nella prima guardia interna è la collocazione di biblioteca in un biglietto incollatovi col timbro della Bibliotec: Nazionale di Firenze: rr. Iv. 76. Provenienza Strozzi in f° n. 1178. Vecchia Collocazione Magl. CI. xiv, n° 44. 1896. L'antico manoscritto consta di carte 338 num. da mano recente sul solo retto, precedute da due carte bianche non num., che servono da occhietto e frontespizio. Il testo finisce a car. 336 retto e il verso è bianco. La carta 337 contiene nel retto il mor- dacissimo sonetto del Chieli contro il Soderini, e nel verso è bianca. La car. 338 è bianca. Due carte non comprese nella numeraz. e bianche, fra le carte num. 152 e 153, dividono la parte prima generale degli arbori edita, dalla seconda particolare inedita. VIII Mano pur recente aggiunse davanti all’an- tico manoscritto otto carte non num., sulle quali stanno trascritti i contrassegni e le indicazioni del codice. La prima carta è bianca. Sul retto della seconda: rv | Soderini (Gio. Vettorio) | Agricoltura | T. rr. | E in basso: Cod. 76. Nel verso è bianca. Sul retto della terza, in alto: Ex Bibliotheca Stroctiana Cod. 1178. Petri | Leopoldi M. E. D. munificentia nonis | Julii 1786. | Catalogus M. S.Codd. Stroctian. dc. | nostrae Bibliothecae Ferdinandi Fossii. Il verso è bianco. Sul retto della quarta carta, in alto: In sideratur, Catalogo primo nostrae Bibliothecae de- quod ipso iam absoluto Bi- | bliothecae additus sit. In Catalogo Codd. | Stroctian. dc. nostrae Bibliothecae Fer- | dinandi Fossii et Indice gener. Codd. CI. | xrv. P. 3. Cod. 44. Soderini (Gio. Vettorio) | Agricoltura Vol. I. — Il verso è bianco. Nella quinta carta, retto e verso, e nella sesta car. retto è trascritto ciò che segue : « Soderini (Gio. Vettorio) Agricoltura T. 11. Cod. in fol. chart. autogr. saec. XVI. foll. 338. in Cedria Villa scriptus, ubi Tomus 1. et IT. quos vide. Quae a fol. 1. recto usque ad 152 versum complectitur Codex, edita fuere anno 1817. Florentiae sub titolo Trattato degli Arbori di IX (Giovanvittorio Soderini, Parte prima, reliqua inedita sunt. Circa huiusmodi editionem v. quae ad Cod. 74. P. Iv. notavi. Fol. 338 verso legitur epigramma, vulgo Sonetto, Matthaei Chelii (Chieli) Anglariensis cum epigraphe, Jo. Vict. Sod. 9. Patritio Flor. Matt* Chel* Ang.* si fides ha- benda mordacissimo huic epigrammati Soderinius ultra nonagesimum annum virisset, et e solario cadens obiisset, ac proinde veritati absonum dicen- dum esset quod Mannius in iis quae de Soderinio editioni suae anni 1734. praefirit, asseriit pag. xV. nempe 3. Martii anni 1596. diem obiisse supremum septuagesimo aetatis anno nondum expleto. Ast nullo modo fidendum satyrico poetae, dum viri mortem narrat qui quatuor circiter annis illi supervirit. Haec de Matthaeo Chelio habentur in Annalibis Anglariensibus: Matteo Chieli di Anghiari Cavaliere di S. Stefano per vendetta sparò nel mese di Novembre 1575. una archibugiata a Cecchino Dottori e Antonio Angiolieri di Anghiari senza offesa di alcuno di loro, autori dell’omicidio del Cavaliere Mattia Chieli nominato Cavacarne, per cui in confor- mità dei Capitoli dei Cavalieri gli furono con- fiscati i Beni, e confinato al fondo di Volterra, dal quale essendo uscito per grazia di Ferdi- nando Primo dopo dieci anni, andato per suo comandamento in Francia, fu archibugiato da un suo schiavo a Castel Bith, mentre faceva i x suoi agi l anno 1592. Uomo dato più alle muse che allarmi, come quello che era Dottore e Accademico Sboccato sotto nome di Sudicio Rinverdito. HMwiusmodi notitiam debeo humanitati Juliani Corsiù Anglariensis viri eruditissimi, qui meo rogatu avunculm Carolum Tutinm sciscita- tus est, ct annalium relata verba ab codem per epistolam accepit 3. non. Junii 1818. Quae caussa odii inter Soderinium et Chelium fuerit, me latet. Ex dictis constat anno 1585. Chelium Volater- ranam Arcem deseruisse, quae nonnisi anno 1588. domicilimum Soderinit fuit, adeo ut simultas ex contubernis orta minime dici possit. Certum est tamen in allato epigrammate aetatem et mortem Soderinii poetico more fingi quia nec septuagesi- mum annum ercessit, nec vivente Chelio obiit. Fuit JoannisVictorii Soderini auctoris et scriptoris. Philippi Junctae Typographi Florentini ex dono Auctoris; v. Cod. 74. P. Iv. Caroli Strozzae Senatoris, Thomae fil., qui Num. 1178 proprio calamo Codici praenstavit ». Il verso della sesta carta è bianco. Sul retto della settima carta, in alto: OperUM SERIES | ALPHABETICA | Cuievi (Matteo) d’ Anghiari, Sonetto | contro Gio. Vettorio Soderini. N° mme. Soperini (0. Vettorio) Agricoltura, | T. 117. N ume. Il cerso della settima carta è bianco. Sul retto della carta ottava il titolo : SoperiNI (Gio. Vettorio) Agricoltura | T' IL. Il verso della carta ottava è bianco. Delle due carte bianche seguenti, veramente appartenenti al Codice, la prima soltanto porta sul retto il num. 1178 e qualche altra notazione antica di titolo e luogo. La seconda è vuota. (Questo terzo volume è in condizioni migliori dei due precedenti, quantunque non manchi qua e là di qualche punto difficile, di qualche altro impossibile a leggersi, per le stesse cagioni della carta e dell’ inchiostro. Manca ancora un volume, è trattato degli animali domestici, tutto inedito, dopo il quale sarà compiuta questa opera, che a buon diritto può riguardarsi come il breviario dell’ agricol- tura italiana nel secolo decimosesto. ALBERTO BACCHI DELLA LEGA Aix Lace bi. ERA Preto net 199 WA CA) an Ned Lo di AATOLO TT Pa | ©, MIE cl) li Li } > os: y istoni ‘FTA i Lio è WS NT sa sta alta nibteii osi di calurò + iaia ape Hip gipo di find dle mira Si Miret AIA dea 3 fe Figini Sorta dizaon aa mete TEA ala Veratour pentole So aa ian ra tina "Rat, Presenti sai Meg 40 e DRIESTO tf: DIS red tetro tvsoii no: * TEZATATATTA AL “bb |EPrE siti do4P6 «tura gii ca AI ws) Cena Doe ria aterilà - DI È #. 5 da “E ‘ by i ai sà: ae rnai A E pa ì end va ario i Ùi ® 5) © SL die = AT te È Ù 9 st i PE pe | Ù Ù n. , "I i Su ù Ne ‘RIORI i fe di sig Poe Le 2 b t) DIILE 5 AL ti GIO. VET TORIO SODERINI TRATTATO DEGLI ARBORI PARTE PRIMA PUEBITITTITETTPRI} BEFFA AA FAFFKFFLERAAFFEROFAFA VE VEVIEVAABAPAATBAEFFFIFEFOFBEBBBAFA TA PEOFREBGARAEIABA FI FIAREREBARAR Tutte le piante degli arbori così salvatichi come domestichi, e tanto quelli che rendon frutto, quanto gli sterili dell'una sorte e del- l altra, sono stati creati dalla Divina Bontà ineffabile a uso, bisogno, utilità, recreazione e delettamento degli uomini; e quelli che abbon- dano di questo, mancano di quello; et alcuni altri godono del privilegio e benefizio dell’ uno e dell’ altro; come quelli che producono il frutto buono a cibarsi, et il lor legname serve ancora e s adopera a reggere 1 tetti delle case, et agli ornamenti di quelle; come il ciriegio, il pero, il mandorlo, il pino, il pistacchio, il carrobbio e 1 noce. Alcuni altri non hanno che il legname che sia buono a distribuirsi nelle occorrenze umane ; e questi sono i cipressi, gli abeti, gli olmi e tutti i selvaggi. Ma questi ancora, quando sono dei resiniferi, o nella scorza o foglia o ragia possono giovare e giovano agli uomini in qualche remedio medicinale. A tal che si può con chiarissime ragioni affermare niuna cosa essere più necessaria et utile agli uomini degli i arbori, poi che con essi eccitando e mantenendo il fuoco, temperano il cibo loro; come avviene dal frequente percotimento dell’ ellera secca con il simile alloro; appresso questo fanno schermo contro al freddi, scaldando quanto bisogni; e se non serva a far fuoco l’ellera e l’ alloro, farà questo effetto medesimo e ’1 sorbo secco con l’ alloro arido, ripercosso con forza insieme. Di più si tessono in alcun luogo delle lor cor- teccie le vesti, e si cavano dalli loro intimi membrane sottili, atte a scrivervi sopra, come nei fogli. Fannosi cappelli e sporte e panieri delle lor tacchie o brucioli. Procurasi con essi di cavar tutto l utile che si può trarre delle miniere. Conducono il facimento della vena in ferro, e del sale, tanto comodo et opportuno, che niuno popolo di alcun paese si ritruova che senza esso vivino; et è consentanea la ragione : ché sendo i corpi nostri, se bene al sapore appa- riscono saleggiati, tanto putrescibili, abbin biso- gno di così fatto condimento, che condisce cia- schedun cibo, conservando ancora le carni morte degli animali, asperse di quello. E nelle Indie in alcune parti non solo si vestono delle foglie d’alcuni arbori, ma di loro intessendo le case, con quelle fanno di tetto coperta. Et in alcuni luoghi come in Polonia si fanno degli arbori, senz’ aggiugnervi altra materia, ridotti in travi, sopponendo lun legno all’ altro, le case. Che più? col benefizio degli arbori, dei quali si fanno le navi e le galere e tutti i barcherecci (?), si sono fatti gli uomini padroni e van solcando (1) barchettucci, la stampa, erroneamente. le 5 per tutto l’ elemento dell’acqua, accomodandosi dal trasportamento per essa non solamente di tutte le cose cavate da lontanissimi paesi, che al lor bisogni s' affanno, ma con i legni armati e carichi di eserciti acquistando i dominii di quella e della terra. È ben vero che niun uso si può trarre dal legname che con l aiuto del ferro (gli antichi davano la tempra al rame che tagliava poco manco che quello), o, come in India, di qualche tagliente pietra che loro in quella vece serve; ond’ è che racconta un Greco, garbato autore, che essendosi un tratto una selva, grande e copiosa di quercie e cerri e tigli e pini et altri salvatichi arbori, accorta che gli veniva incontra una gran torma d' accette, ristrettisi insieme tutti gli arbori più vecchi della selva, 1 quali da un luogo più eminente d’ essa risguardarono l’ ordine di quelle scuri che così furiosamente se ne venivano alla volta loro, e considerato il più annoso di tutti la qualità di loro, chiaramente scoperse come elle stavano; e chiaritosi che non avevano il manico, con faccia lieta e serena, rimirata tutta la selva, disse: state allegramente e non v’ addu- bitate che e’ ci possin far danno alcuno, perciò che io ho posto mente a tutte 1 accette a minuto, et ho ritrovato ch’ elle non hanno [ma- nichi] dei nostri e non ci possono nuocere in modo alcuno. Di qui s'inferisce chiaramente che il legname non può mettersi in opera che col ferro; benché niuna cosa è al mondo, che voglia usarsi per comodità e qualche servigio degli uomini, che non vi sì adoperi, per poter servirsene, questo 6 metallo; né meno senz’ esso sì può lavorar l’istessa terra; nella quale fu primamente loro abitazione gli arbori e le selve, come degli ani- mali sempre; e furono d’essi ancora il primo vitto, come di questi tuttavia; e di quelli ancora nutrimento continuo sono i lor frutti in alcuni paesi, come nell’ Indie il sorbo solo pasce una nazione di genti intera. E l’esercito di Alessandro Magno fu già satollo e si mantenne con le radici delle palme, delle quali ancora è delicato e soave cibo il midollo per qualche tempo nelle Indie, dove alcuni popoli non vivono d'’ altro, si come fe’ già l’armata de’ Romani in Sicilia di cefaglioni, e di fichi già l’esercito di Filippo padre di Perseo; et i Romani sovvennero di noci gli assediati da Annibale, si come sì man- tennero gli Jonii di faggiuole. E sono ancora genti, lotofaghe dette, perchè mangiano il frutto del loto; e nel paese degli Abissini in Etiopia sono chi vive di cofaccie fatte di radici d’ ar- bori. Et è openione comune che il primo cibo degli uomini fossero le ghiande, le quali, maci- nate a farina, se ben fanno un pane tetro e duro, sovviene ai tempi nei bisogni della neces- sità, e massimamente quelle che si cavano dal faggio e dall’eschio e sopra tutto da certe quercie gentili che fanno in Spagna e dalle sughere istesse e dai cerri; ma questo è il peggiore. E si [son] ritrovati degli uomini sani, degli atleti et alcuni altri uomini forti che si son conten- tati e s' hanno eletto di vivere solamente di pasto di frutte, fra i quali Tirone Citico, e fino di fichi secchi soli, nella maniera che fe’ ancora Santo Ilarione et Anchinolo e Mosco. Et i Per- i { siani già allegramente insegnavano ai lor figli a pascersi di pere salvatiche e mele et altri frutti, come di frutti e di niun cibo cotto visse Achille, giusto il testimone di Omero. Ancora gli uomini principali hanno accostumato et hanno bramato d’ essere donati per lor donativi di frutte, si come accettò volentiermente il pome granato di smisurata grandezza Artaserse nipote di Dario da quel pover uomo. E nelle mense continuamente si ricercano, nella delicatezza dei tempi che son seguiti di poi, che dura ancora e tuttavia si raffina, le frutte, non solo poste innanzi semplicemente, ma condite col zucchero, cotte e preparate in vari modi; e di zucchero schietto si formano di naturale tutte le frutte, si come tutte l’ altre cose che sono, fra gli artefici tutte naturalissimamente e secondo quelle istesse proprie sì posson formare, non solo i liuti e pianelle, ma striglie e stivaletti. Nè son pur le frutte in compagnia dell’ altre vivande che sono agli uomini in uso per cibo, ma in alcune parti cavasi dal frutto degli arbori il vino, si come delle mele appie fanno gli Ungheri il sidero; et [in] altre parti I olio dalle coccole dell’ alloro, delle mortine e del sicomoro e gine- pro; et in altra raccogliono la lanugine degli arbori da farne vesti, come i Seri in Etiopia et in Scizia; et ai vermi che fan la seta secan per cibo le foglie dei mori ('). Quelli pidocchi che nascono in sui fichi d’ India sono quelli che pesti fanno il chermisi, e vi si nutriscono sopra (1) La stampa: e dai vermi che fan la seta. Seccun per cibo le foglie de’ mori, e que’ pidocchi.... A me con lievissime varianti parve meglio fatto e più chiaro di leggere cosi. 5 le lor foglie e per il gambo, a pie del quale, quando si cognoscon maturi pregni di sangue, si pone della calcina viva, spruzzandovi sopra un poco di acqua, e quel fumo che s’ eccita spegnendosi gli fa cadere; e si raguna[no] spaz- zandogli con certe granatine di foglie di palma, facendone monte; di poi, stemprati e pesti, rendon di se quella nobilissima tintura. Fuor di questo, si cavano dagli arbori uti- lità grandissime appartenenti a remedii impor- tanti di unguenti, di mirra, storace, incenso et altre preziose gomme, come quella che rende l’aspalato, che fra i legni dell’ Indie tiene il principato sopra l’ ebano, granatino e legno santo, detto gualiaco in quella lingua. Il mastice dell’ isola di ciò dotata, di Scio, dicono non generarsi in altra parte del mondo e quivi essere perfetto. E vicino alla città del Cairo è un luogo guardato sempre da’ Turchi, dove solo da certi arbori che vi sono a novero si cava il balsamo, attaccando alle ultime vette delle cime d’essi, tagliate in punta, certe ampol- lette di vetro piccole, turate intorno a quella punta con diligenza, nelle quali stilla quel liquore a certo tempo dell’anno; oltre a che con la lor verdura sola recreano la vista, refo- cillano i vitali spiriti e tengono lieto il core. Et alcune altre piante odorifere riparano e fanno ostacolo con la loro refragranzia alla corruzione dell’ aere, come il ginepro, il cui fuoco fa star lontana la peste; e una palla tornita di ginepro, in mano tenuta, conforta l’ arterie (*) e recrea (1) asfizie, la stampa. 9 i nervi. Commodo imperatore fu consigliato nei tempi della peste a trasferirsi in certe selve di lauri, i cui rami nei pestiferi tempi si solevano appendere per tutto, come cosa in quella con- tagiosa stagione salutare. E per consolarsi Erode dal dolore dell’amata moglie, i medici lo fecero andare a stare per abitazione nelle verdi selve, attorniate e cinte di quantità di odorate rose, noci moscade, macis, cinnamomo, garofani e sandalo. Gli aranci et i limoni quando sono in fiore hanno gran virtù di confortamento e d’allegria. E nelle più recondite parti dell’ uni- verso si produce un arbore della grandezza d’ un ragionevole castagno, che primamente crea noci con tutte le loro invoglie, grosse come poponi; e dalla sua dura e soda scorza si trae legname da abbruciare; sotto questa sono filaccichi da far lino, e con esso, macerato e curatolo, tele finissime; sotto a questi v'è una grossissima palla di materia dura che ha da una parte un foro naturalmente fattovi, d'onde, o si veramente tagliandola, se ne trae un liquore assai sodetto di color candido, di che è tutta piena; et ha sapore alquanto delle nostre noci, ma più delicato, gustevole e suave, quando fresco si mangia. E più appresso, l’arbore segato in tavole s' adopera et è atto a tutte le sorte di lavori, e per ardere è ottimo, sendo alquanto untuoso e gommifero. Servonsi ancora per carta d’ una corteccia sottile che egli ha sotto la oTossa. Primieramente si scrisse nelle foglie delle palme; di poi, nelle Indie, nelle sottilissime se- conde scorze degli arbori, di poi nel papiro 10 fatto di midolle de’ giunchi pesti, purgati e con colla impastati insieme; e con le pelli degli animali svizze, dalle foglie di mortella, lentischio e calcina ridotte in carta pecora. Ultimamente, di stracci di tela di lino e di tutte le sorte di stracci lini s'è ritrovata la maniera di far la carta, pestandogli bene; poi cacciati nelle gualtiere e disfatti con l acqua, passati per staccio minuto di ferro, posti nelle forme, pi- gliano garbo di foglio; e datogli la colla, non succia l'umore dell’inchiostro; e come prima con i calami si scriveva, di poi furono poste in uso le penne degli animali volatili e massimamente d’oche, nibbi, aironi, aquile, pavoni d’ India e soprattutto di struzzolo. E si seppellivano anti- chissimamente i cadaveri fasciati di pezzette intinte nel balsamo per tutta la vita, in legnami scavati alla figura d’ uomo così alla grossa ab- bozzata, secondo la costumanza, massime in Egitto, come s'è veduto ai nostri tempi una mummia condotta intera e si ben dentrovi con- servata, che esplicava ancora i tendini, l’arterie, i nervi, con una cartilagine naturale intera, attaccatavi sana. Et a Nisa tutti quelli che abi- tavano all’interno erano seppelliti in casse di legname di arbore di cedro. Abbruciavano gli antichi con i legnami i corpi morti, avendo lor sotto e sopra d’ essi grandissima catasta. Monu- menti d'importanza e leggi sono parimente stati scritti nei legnami, come le antichissime tavole dei precetti delle leggi di Moisè; e ’l titolo che si vede ancora oggi di Nostro Signore è scritto in una tavoletta di legname. E gli oracoli degli dei de’ Gentili sono stati prima- lf mente scritti in certe foglie d’ arbori, come in quelle dell’ alloro, come i delfici. Appresso a questo, i regi antichi sono stati seppelliti negli orti fra gli ‘arbori, come Ciro; et erano in essi piantati frutti e susini d'ogni sorte; e di Belo in quelli di Babilonia, e di Melete nei boschi di Smirna. Sergio Galba negli orti ebbene un suo; e in quelli di Domizia pose Antonino Pio le reliquie di Adriano. Et ai viventi hanno [gli arbori] portata comodità d’ assettare acconcia- mente i letti, massimamente nelle Indie, sospen- dendogli da terra un debito spazio, attaccandogli con corde di cotone tra l uno e l’altro, tirate con ventole ad altri arbori vicini, sì che stian uguali e forti. E sono ancora nelle Indie di quelli, che, o per fuggire gli animali o per per- seguitargli con gli archi o per altra lor como- dità, hanno salito et annottato tra 1 rami sopra gli arbori, e nei lati pantanosi alzati i letti per non dormire nell’ umido. Sono stati ancora destinati agli uomini vari onori dagli arbori, come la corona civica tessuta di arrendevoli rametti di quercia, ai poeti di alloro; a quelli che in alcuni combattimenti vincevano, la palma era loro e l'ulivo, in segnale d’averne conseguita la vittoria; e l’ alloro an- cora si prendeva per insegna da’ Romani e de- notava vittoria. Le corone che erano richieste nelle nozze s' intessevano di foglie d’arbori che tenessino il verde; et i re medesimi sì corona- vano di questa medesima sorte di fronde. Giulio Cesare fu coronato d’ alloro, le cui frondi di poi si veggiono impresse in tutte le medaglie degli altri imperadori. I carri trionfali e gli 18 istessi trofei e trionfi avevano tutti intorno gli ornamenti di frondi d'alloro, la cui peculiar preminenza è non essere tocco dalle celesti saette; onde C. Caligula e Nerone quando tonava vi rifuggivano sotto. Ma più sicure sono da questo le cupe cantine, perchè così come non si truova altezza di nugoli che trascenda 1’ al- tezza di quindicimila passi, né profondità di mare che vadi più sotto, somigliantemente non è saetta che passi quindici braccia sotto la su- perficie della terra. L’ oleastro si donava a chi nei giuochi olimpici avesse la vittoria conseguita. Dagli arbori ancora hanno gli antichi presa talvolta l’interpretazione dei prodigii e da essi indovinati i sogni per le cose future; et accet- tati e presi i responsi dagli arbori delle selve, ordinate le corone agli iddii loro silvestri, e dati da essi arbori loro i nomi; e non pur @ questi, ma agli eroi ('), ai castelli et alle città. Ma soprattutto nelle lor ceremonie dei lor sa- crificii et altari era grandemente in uso l’alloro, del qual solo erano continuamente coronati i sacerdoti et i principali ministri di quelle. E si pascevano gli indovini delle sue coccole, credo io, avendole co ’1 mele rettificate et addolcite, non si ritrovando che avessero il zucchero, quale è venuto dall’ Indie nuove, che saria stato più a proposito. Et oltre all’ incenso, mirra, cinna- momo e lo storace et altre odorifere cose dagli arbori, che egli adoperavano intorno alle loro sacre, come essi chiamano, cerimonie, con alcune altre piante, si servivano del pioppo bianco in (1) agli eterei, errore della stampa. 15 sacrificando a Giove Olimpio; e con le fiaccole di pino accese, facendo sacrifizio a Cibele; e d’ alcuni assegnati per ciò si fecero statue, sî come loro ne consacrarono a felice e perpetua fama in gran numero, dedicando a certi dei e dee principali alcune piante peculiari, come il pino a Cibele, il pome granato a Mercurio, il noce e la quercia a Giove et a Minerva l’olivo, della qual pianta credevano essi lei essere stata la primiera inventrice; e così agli altri molti attribuirono alberi particolari. E la vera reli- gione di poi, per facilitare la fede, andava, volendo instituirla in quei cori de’ Gentili, om- breggiando alcune cose in conformità e confi- gurazione loro; come sacrare il tempio di Castore e Polluce a S. Cosimo e Damiano, quello di Sa- turno a S. Saturnino, il Pantheon a tutti i santi in universale; et altri simili. Sono andati i santi uomini imitando alcune cose a quelle molto simili e che grandemente gli si confanno, come in queste degli arbori, dando la palma a Santa Caterina et ad altri santi e sante, avendo per loro insegna appropriate particolari spezie di arbori e lor frondi. Ma in su legname ancora d’ arbore volle patire il nostro immortalissimo Redentore, essendo stata composta la croce san- tissima di sicomoro 1l fusto diritto e le traverse di cedro arbore e di cipresso, e quelle dei due ladroni di carrobbio; a un ramo del tronco della qual pianta s'impiccò da per sé stesso Giuda, crepando e mandando fuori tutte l’ interiore. E volendo risguardare gli usi degli arbori nelle cose minime, si può considerare che il silio presta i fusi, gli aspi e le rocche; il lentisco 14 gli stuzzicatoi da denti, e l’ acero i taglieri e le tafferie; il bossolo i pettini, il giuggiolo i tenieri delle balestre, il nasso gli archi, gli olmi le casse d’artiglierie, il frassino l’ aste da guerra fornite di ferro; le quercie et i pini alle navi, et all’ ossatura delle galere le medesime quercie et alli squeri ('), e di più i legnami ritorti all'uso di timoni et alle traverse dei navili; e quelli si addomandano legnami di garbo che natural mente hanno la torta che si confà al luogo dove egli s' hanno a applicare; e così degli altri molti. In così fatta venerazione adunque, utile et onore, sono stati tenuti gli arbori dai nostri antenati e di poi, nei tempi succedenti e nei presenti e sì può dir nei futuri, non hanno man- cato, né mancano, né mancheranno già mai d'’ es- sere avuti in quel conto, pregio, stima che facci e sia per fare di bisogno et all'uso et alla ne- cessità dei viventi. E così, come oltre alle cose dette, e molte altre che si potrian dire, se ne cavano dagli uomini i piaceri, le comodità et utili delle cacciagioni d'ogni sorta di terrestri animali e d’ aerei, che vi rifuggono essi; e le lor selve sono le proprie stanze et abitazioni di quelli e delle fiere, sotto esse pascendosi e pa- scendo (*) non solo dei loro frutti, ma delle foglie e di tutte le tenere messe e delle lor cime e frutte. E chi non sa che quelle dell’olmo continuamente sostentano tutto il bestiame vac- cino, lo nutricano e mantengono; e ‘1 caprino e pecorino ai bisogni si satolla della sola ginestra (1) et alli squeri, manca alla stampa. (°) e pascendo, manca alla stampa. 15 o verde o soppassa, e dell’ istesse foglie dell’ el- lera e d’ogni altro verdume di selve? Sono lor buone, et a questi et agli altri tutti, quelle di quercia, di cerro, di farnia, di sughera, di leccio, di sorbo, d’ albero, di salcio, frassino, orno e citiso, non pur domestico ma salvatico, che s'ad- domanda lebbio, tutto somigliante di quello; e per i buoi [le foglie] di quelli, [di] che non siano ancora velenosi i tenerumi; a tal che dove non sia fieno, o che manchi, o paglia, si possono pascere di queste fronde o vette [in] aprile, mag- gio, giugno, luglio, agosto, settembre e ottobre nei lati di temperamento, e nei freddi tutto questo tempo e più. Soppasse all’asciutto e secche serviranno all’ ottobre et al novembre, et anco di corbezzolo e di corniolo, e tutte le frasche dolci; e tutto l'inverno nei lati sani vagliono al bestiame minuto delle pecore e capre. Sono di poi gli arbori di ghianda, che pro- ducono il vitto tanto per 1 salvatichi animali quanto per i domestichi, che dagli uomini per loro uso e comodità si raccogliono, et ancora alla campagna se ne pascono, come ancora i porci; i quali volendo mandare a pascolare nei campi dove sieno quercie, che sotto vi sia semi- nato grano, perché non faccian danno al seminati, conviene inviarvegli quando è agghiacciato il terreno; et a quelli et a questi è la [ghianda] più utile di quercia, di sughero, di faggio, cerro, leccio; e l’altra che si truova è più a proposito per i porci, come gli oleastri, le tamarici, i noc- ciuoli salvatichi e tutti gli arbori che fanno salvatichi pomi, con i quali non pur si nutriscono et ingrassano, se bene il vero, sodo e buon grasso 16 si fa con la ghianda. È buono ancora il prun bianco con sue coccole rosse, le silique, i loti, il pino, il corniolo, il susino, i noci, i fichi; questi tutti, cascando in terra i lor frutti, se ne pascono gli animali, tra 1 quali comodamente s'ingrassano i porci così salvatichi come dome- stichi. Fanno tutte le ghiande grassezza notabile, massime dandole loro mesticate con paglia trita minuta; et Omero aggiugne che si dia loro da bere continuamente acqua nera, cioè torbida, lotosa, piena di fango, belletta e mota. Di ghiande ancora s° ingrassano le pecore, e ne maciullano ancora con buon profitto 1 buoi. La palma appresso molta gente è esca agli animali, come in Egitto, in Cipri; in Siria, in Assiria, Seleucia, ove se ne ingrassano i porci; et i Babilonii macerano i suol ossi, che dentro al datteri sono, pestandogli e disfacendogli triti minuti per 1 buoi e per le pecore; et i liofanti han per gratissimo cibo la palma et 1 cefaglioni. I buoi con i fichi, dove ne sia dovizia, s ingras- sano, né lor nuocono le foglie e verdi e soppasse; et i pastori di Caria, tutte quelle parti del- l’anno in che st ritruovano fichi, ne pascono le pecore loro. La ghianda del frassino ancora essa giova assai all’ ingrassare i porci. L' orso poi e molte altre fiere mangiano tutte le sorte de’ frutti degli arbori, sin a’ cani, e l uva ancora. I ghiri per queste vengon grassi e le rodono lasciando le scorze, come i porci e le talpe; come molti altri le radici ancora. I vermi della seta appresso 1 Seri sì nutricano di certa canna dolce, dice Pausania. A’ nostri tempi, ovunque se ne fa procaccio, Turchia, Francia, Spagna, 17 Italia, mangiano delle foglie di moro bianco. I tordi e le piche, quante ghiande d’ arbori ritruo- vano che piaccian loro, rassettano in luoghi ascosti e l invernata ne vivono. I fichi secchi triti ingrassano le anitre e le oche, conficcate per i piedi al buio, con lume di lucerna, in sur una tavola. I tordi domestichi s'ingrassano di coccole di ginepro, con le quali i Tedeschi cuocono le carni per dare odore a esse et al brodo, mettendole quando bolle la pignatta e che le sieno acciaccate mature. Ma dei tordi niuna [cosa] più di questa rende le carni migliori e le budella più grasse et odorate. Nutrisconsi ancora di quelle di ellera, mortella e lentischio ; et alla campagna, quelli che talora rimangono e ci fanno gli allievi, beccano e sl nutricano delle foglie degli ulivi, come delle ulive gli storni et 1 colombacci; et ambi si pascono dei frutti degli arbori, et i tonni delle ghiande di quercia, che cascando rasente le ripe nei fiumi sono da quelli portati in mare, ch’ altramente non possono averne; e quelli a chi toccano sono più saporiti e grassi di quelli che non v'arrivano. Così racconta Strabone. Di maniera che quanto maggior copia di ghiande vi concorre e s aduna, maggiore è l’ abbondanza dei tonni e son mi- gliori. La seppia ancora lungo la marina va rubando de’ frutti; et un luccio, uscito nella sponda del Trasimeno, afferrò una golpe e la tenne, che la voleva carpire; tanto che un passaggiere gode della preda dell'uno e del- l’altra. I pesci poi molto volentieri si pascono di mele spaccate e fradicie, che truovano rasente l’orlo della marina, se ben spesse volte ne pagano DI A 15 il fio. Le tinche mangiano volentieri le noci ammaccate. I fichi delicati triti minuti o sorbe cotte lesse (perchè abbrustolate nel forno si fa perchè le bastino) e le noci schiacciate e pomi spartiti in pezzi e fichi secchi gettati lor sempre innanzi, piacciono a tutti [i pesci] e gli ingras- sano, come pezzuoli di carne cotta e cruda e lom- brichi et ogni verme che nell'acqua si getti loro. In Betica et in Affrica sono i fichi grandissimi, e con quelli si godono meglio. Non lascierò di dire quello che Aristotile afferma, non poter nascere, non che altro, le cicale, senza intervento degli arbori, allegando che dove elle non sono, non vi vengono ancora a essere gli arbori. Di questa maniera così minimo vano animaletto partecipa dell’ utilità degli arbori per la na- scita sua. Ad alcuni arbori ancora per la lor bellezza e procerità è stata portata affezione da segna- latissimi principi, come da Nerone a un leccio di grandezza smisurata e bellezza, il quale tanto amò, che molte volte lo faceva annaffiare con bonissimo vino; e Passieno Crispo un moro sì fattamente, che l’ abbracciava spesso, stazzonava brancicandolo e baciandolo, e sotto vi dormiva; et anch'esso l’adacquava con vino. Il re Xerse, passando oltre con quel suo numerosissimo esercito a disfar la Grecia, che beveva in un tratto un fiume intero, avendo ritrovato uno smisuratissimo platano, gli lasciò alla guardia una compagnia di soldati, e rimirandolo con vaghezza, I’ accarezzò in disusate maniere, come cara persona. In Zurigo o Ciamberi oggi giorno SS sono In gran venerazione tenuti e conservati, 19 amati da tutti, un olmo et un moro, che con le lor braccia distese in pergola s allargano di modo che cuoprono, facendo uggia grata al maggiori caldi, una piazza intera. Appresso al piacere aggradevole che ren- dono le selve a spaziarvi, con la vista loro e comodità che fanno agli edifizii et a tutte le macchine che occorrono per fabbricare, servono 1 selvaggi arbori ai parchi delle fiere; e per cavarne i frutti ai procinti domestichi. Pagavano 1 Rodiotti a’ Romani, sì come i Segovini, di tanta pietra di broccatello, da essere loro addotta sino a Roma, per tributo olio, vino e frutte, e così alcune altre provincie lo pagavan dei frutti loro; e nelle Indie al re, ove ne son padroni, aromatiche medicine che dagli arbori nascono, gomme et altre cose odorose che dagli arbori si traggono di quei paesi, come gomme odorifere et altri liquori e distillazioni; con essi i popoli soddisfanno il regio tributo. Et in ultimo sin all'ombra degli arbori (si come nelle città principali di Toscana si paga il dazio, ove si vendono gli erbaggi, di quella fatta dalle tende di tela) fu grandemente dagli antichi e prezzata e ricompensata e guiderdo- nata con gran numero di danari, come quella di certi loti da Gneo Domizio. E per contrasse- gnare le corti, 1 palazzi e le vedute (si come sì fa attorniare alcune volte le facciate dalle viti di tre volte, o i cortili) piantavano all’ in- torno grandissimi arbori, che vi erano nel se- guente tempo in grandissima estimazione; e di quanto più antico tempo e vecchi e non pian- tati fossero, gli apprezzavano. Per così fatte 20 cause adunque e così sono stati tuttavia e sono apprezzati gli arbori; e per l’ utilità, dilettazione et usi, sono stati celebrati e lodati, recando agli uomini indicibile comodità e bellezza nella lor vista, verdi, e secchi e segati, nei lor lavori, come il fladro d’ Alemagna, nobilissimo di ma- scherine che vi sì truovano dentro segate e onde lustranti e risplendenti vaghissime, somi- glianti a quelle dei drappi di tabì d’oro e ciambellotti fini. Ma gli arbori tutti avanzano tutte 1° altre cose create per la comodezza degli uomini et utilità loro, e tanto inserti sono ai germi della natura, ch egli è ferma, chiara e resoluta ope- nione che tutte le piante così domestiche come salvatiche, fruttuose e sterili, produrrebbe il suo natio terreno da per se senz’ altra cura umana, mediante la forza della natura mantenitrice e conservatrice di tutte le spezie di qual si vogli ben che minimo individuo; sì come avviene nell’ Indie orientali, occidentali e di mezzo- giorno, dove abbondantissimamente si generano e nascendo fuor da per loro si propagano e mantengono senz’ altro studio o cura di umana solerzia; e con studio d’atti che vi s' aggiunga, tanto le medicinali et aromatiche (') et odori- fere, come tutte altre sorti. E nell’ altre parti del mondo vengono da per loro così le dome- stiche come le salvatiche, come nell'isola di Comaro nel Danubio le mele, le susine e ciriege, e nel monte Argentario queste medesime e più, (1) et aromatiche non è nella stampa, 21 et altre altrove, e quelle per tutto ('). Fra le selve dei castagni e fra i boschi delle quercie e cerri, lecci, carpini et altri, si truovano nati da per loro i meluggini e peruggini e pruni e peri, che insetati quivi profittano grandemente a lasciarvegli stare, e più a cavargli da un anno in là che insetati sieno, trasportandogli in qual- che lato domestico di buono e fondato terreno, simile alla grassezza che suole essere nella su- perficie del terreno delle selve, e massimamente verso certi fossati, vallate o burroni, ove per la calata si fa grandissima massa di foglie, che marcendovisi ingrassano, e lo rendono attissimo loro, facendo giovevolissimo letame, quando sono marcite sopra lune e l altre di parecchi anni; dove alcuna volta ancora si truova che ve ne nascono di buona ragione ; e le salvatiche talora meno aspre, e buone a qualche comodezza umana e ad ingrassare ogni animale. Con tutto ciò l’arte, la diligenza, ingegno e sperimentata osservazione tutti ad uno per uno gli possono megliorare, et acquistano con queste cose tanto, che non le avendo perdono. Perciocché le dome- stiche, dimesso da loro il governo e continua custodia buona, giusta il proverbio vulgato - chi semina e pianta e non custode, assai tribola e poco gode - diventano aspre, rozze, squallide e quasi selvaggie ; e queste con esso [governo] e con la diligenza perseverante che se gli può tuttavia usare, diventano come domestiche e buone. (1) quelle, cioé le salvatiche. Quasi per tutto legge erroneamente la stampa. D9 22 Sono le piante del nostro emisfero molte e di variate fatte, e tanto più le incognite e disusate a noi nelle Indie e lontanissimi paesi meridionali; e siamo tanto lontani da potere avere cognizione di tutte, che dell’ erbe sole hanno in lingua saneruta un libro d'un lor poeta in quella lingua, versificatore in coppia di due versi in rima, che fa menzione, nomi- nandole tutte, per sino al numero di tremila, delle quali a noi è ascosta ogni notizia e cono- scenza. Tuttor come si sia, quanto alle piante, ciascheduna d' esse o nasce da per sè seminata di seme o per meglio dire surgente di semente da terra, o dalle radici va pullulando, o da rimettiticci che gli nascono rasente terra intorno al gambo, che piantati con l’ arte, svelti di quivi, si vanno propagando et ampliando o con i rami o con i piantoni o con l' innestare. Et altre ancora da sé stesse surgono all’ aere, che le produce il terreno, come ciriegi, susini, pom], sorbi, peri cotogni, meluggini e pomi granati ; ma quelle che senza alcuno aiuto umano salva- tiche e foreste si generano, ciaschedune da per loro apportano il lor frutto e seme. Ma quelle intorno alle quali s' adopra e la fatica e la col- tivazione, siano di questa sorte o altre, le sono più atte a render frutti, siccome le gli produ- cono e rendono migliori; sendo sempre più belli, lucidi e netti i capelli pettinati e lavati che gli inculti. Di più certe ne sono che di continuo verdeggiano, non avendo né anco d'inverno foglie che caschin loro; se ben a primavera di quando in quando le rinnuovino. Tra queste è la palma, il cedro così arbore come il fruttifero, 2) l'alloro, l’ ulivo, l’ arcipresso, la siliqua, il pino, il leccio, la lecciastrella che per altro nome sfiocine s' addomanda, il bossolo, il corbezzolo, l’agrifoglio, il lauro regio e ’1 ginepro. Ma trattando prima della generazione che ci dà 1 frutti per la dilettazione del vivere e giovamento, così per il nutricarsene come per la delicatezza del sapore, è da sapere che questa sorte si divide in tre maniere: o che l’ arbore nasce di vermena (') come l ulivo ; o frutice, come la palma campestre et i cefaglioni; o una terza razza che non si può dire né arbore né frutice, come la vite. Appresso seguono le sal- vatiche, che più che altro dal lor natio seme o dalle radici prendono l’ origine della nascenza loro. E per arrivare alla perfetta cognizione di ciò, è di necessità innanzi tutto avere in consi- derazione quello che disse Vergilio Marone: Quid quaeque ferat regic, quid quaeque recuset, essendone alcune che dove elle nascono vogliono stare, nè patiscono d’ essere altrove trasportate, come tutte le odorifere aromatiche delle Indie e le medicinali loro; e non solo questo, ma ben disaminare ogni luogo, ogni posizione di sito et ogni spazio e qualità di terreno. E perché si truova talora un paese intero tutto d’ una fatta o una gran maneggia di terra tutta d’un modo, si può alla magra mescolare la grassa di sopra, sopra la grassa dare ceneracciolo assai, sopra la grassissima l’ asciutta (*) e secca, la quale si (1) surculum, scritto sopra vermena. (2) bibula, scritto sopra asciutta. 24 tempera con l’amida e questa con secca; alla secca, asciutta e magra se gli dà gran copia della grassa, e la creta sl corregge e s’ abbonisce con molta colombina; la resoluta e grassa si gastiga anch'essa con la creta. Di questa maniera si potrà eleggere e dare il luogo conveniente a ciaschedun arbore, operando che la [terra] buona vada di sotto alle barbe. Ma per loro è propria- mente quella che è tenera e soffice (*), resolubile e putrida, ove subito l acqua penetra abbasso alle radici e s' asciuga, perchè in questa fanno radici assai, profonde e dilatate, e nella grassa che rattiene l’acqua avviene il contrario, e quel troppo nutrimento non lo smaltiscono gli arbori, andandosene tutto in rigoglio; a tal che vuole avere ottimo temperamento, come la terra feconda ugualmente et aprica; si che conviene al luogo degli arbori quello istesso che sia giu- dicato buono per le viti, se sia il luogo congua- gliato e pari. E se sia troppo montuoso, inchi- nato et ineguale, facciasi servire alle viti sole. La terra ancora nuova e che non sia stata più lavorata, sarà a proposito loro, avendone sbarbati tutti gli impacci [che] vi sieno. La vecchia selva sarà ottima, avendo dato di sé segno espresso negli arbori salvatichi, che pro- ceri e vegnenti vi sieno; |e) disradicando il tutto, sarà per loro perfettissima stanza; e se anco non sieno così grandi, ma rigogliosi e di mezzana statura, se vi sieno gran siepe e pruni, sarà dell’ istessa bontà, purché sia luogo scoperto né occupato da uggia, e soprattutto che sia di (1) pulla, scritto sopra soffice. qualità che non mantenga e non vi covì l’acqua, ma che la smaltisca senza inzuppare. E con questo bisogna molto bene avvertire quel che cioscheduna pianta, posta più in un luogo che in un altro, possi profittare, e che alterazione sia per patire allogandola in lato non conve- niente alla sua natura, ove talora, posta contro al suo proprio, muterà condizione; e non vi sì confacendo, non produce né viene allegra, ma stentata e trista, men fruttifera, et al fine diventando sterile. Perciocchè negli estremi caldi o freddi le piante non ben profittano, così nei troppo acquidrinosi et umidi, come nei troppo secchi, aridi et asciutti. Per il che si dee con l’arte dell'agricoltura imitar sempre la natura propria di quel luogo dove e’ si veg- gono essere nate da per loro; et assomigliandosi non sì può errare, perché così si procacci loro quei luoghi dove si giudichi che abbino a far bene, come nei freddi quelle che gli appetiscono e nei caldi il simile, e così negli altri; ond’ è che nei paesi temperati son più belli gli arbori et i frutti, se non se in alcuni, che per natura desiderano gran caldo o gran freddo. Ora la terra che si sfende da per sé e s' apre nel caldo dell’ estate è cattiva. La salmastra similmente è trista, et accanto l’amara, e dove nascono simili acque. I terreni duri, aspri, forti, e gli arenosi e deboli non sono il caso loro; così gli assai umidi non sono per troppi alberi buoni, altro che per pioppi, per gli alberi istessi, per 1 gat- tici, vetrici, salci e ontani. La maggior parte delle piante desiderano terreno leggiero, asciutto di sopra nella sommità e sotto nell’ estremità umido e succhioso. Adunque il grasso e leggieri sarà da eleggere per le piante e che sia volto a tal parte che vi spiri l’ aere e vento fresco; et innanzi a tutti quello che senz’ altro adac- quarsi mantenga sotto la frescura. Imperciò gli alberesi et i mescolati con le pietre o sassi mi- nuti, ciottoli minuti spiccati o massi che sì possono romper bene, non sono alle piante disdicevoli, si come i calestri, che son terreni d'una certa sorta di pietra scolorita, bigiccia, che si disfà a falde e co "1 tempo intenerisce, che gli tien freschi, che sono buoni per le piante fruttifere et ancora non si sconvengono alle viti. E tutti cattivi per le piante sono quelli che hanno sotto poco fondamento di terreno, et assai di pancone, di arena, ghiaia, mattalone, terra bigia, loto o argilla, o terra stuccosa e tenace, soda; perche e’ desiderano terre che abbin sotto del terreno fondato e sien sotto come di sopra, perché le si possino scavar bene a dentro, e truovino con le loro radici sempre di buono; sendo la natura degli arbori così fatta, che quanto più vanno in alto con i rami surgendo la cima, tanto più mandano le radici profonde sotto la terra. Però conviene poter far lavorare bene in dentro e che la sia terra simile nella medolla alla scorza, e così per contra. Come s'è detto, i terreni che son buoni per le vigne sono da essere accettati per le piante dei frutti, se sia nel rimanente l’ aere conforme et il sito comodo; così gli alberi grandi e che ricercano gran nutrimento dalla terra, sì pian- tano in quella che sia succhiosa e di gran IX 1 sustanza, come 1 fichi et 1 noci et i meli; e quelli che meno, per contrario, come i mela- grani. (Quelli terreni che producono peri e meli da per se salvatichi, accetteranno volentieri e vi verranno bene i simili domestichi. E dove nascono da per loro i sambuchi fanno bene gli ulivi, e dove si veggiono nocciuoli salvatichi o domestici fanno pruova i susini e quasi le più sorte de’ frutti. Ancora nei luoghi coltivati si dee por ben mente come sieno i vigneti de’ vi- cini e squadrandoli lieti e vegnenti, che la vena della terra sia la medesima, è da seguitare di porvene accanto; e dovunque saranno arbori salvatichi, simili saranno i domestichi. I gessosi e cretosi son cattivi per le radici degli arbori, rodendole, consumandole e magagnandole tutte. Gli arbori che ficcano le radici in fondo, come gli aranci, i peri, i pini e simili, amano la terra affonda; alcuni altri che gettano e spargono le radici a uso di capelli in alto, e l’ erbe e frutti di somigliante natura, si comportano meglio in terreni leggieri all’ aere scoperto e nella terra di poco fondo, come i susini, gli abeti, i casta- gni; e soprattutto [amano] il terreno agevole a lavorare e che è di sapore dolce, abbondevole d’acqua, perchè con essa ancora nei luoghi ste- rili sì riducono i frutti a venir bene e sani, e massimamente potendovi spignere acqua di fermo ('); si come in Spagna allo Escuriale una gran quantità d’ olmi che fanno di quà e di là lunghissima spalliera, per la forza dell’ acqua son stati fatti venire innanzi, sì mantengono e () di fermo, cioè che vi resti ferma; d’ intorno, la stampa. 28 crescono. Ma quelli arbori o fruttiferi o selvaggi che s' accostumano di adacquarsi una volta, con- viene seguitare tuttavia così solamente qualche volta, diradando le poste. È di mestieri ancora avvertire e sapere sotto qual aere e disposizione di cielo facci meglio questa o quella pianta; perchè alcune deside- rano più il caldo, alcune più il freddo, molte son dotate d’ un certo favor liberale di natura benefica, che tanto nell’uno quanto nell’ altro fanno bene; per lo più l amano tiepido e tem- perato; e poche sono di queste che ’1 caldo e 71 freddo separatamente amino, che non faccino ancora nel tiepido, per la clemenza e benignità del cielo. È ancora in certi luoghi una certa forza ascosta, che fa produrne certi contro alla lor natura, la quale creò 1° alloro inimico alla strabocchevol freddura; con tutto ciò nel- l'Olimpo, ove è caldo, ve ne sono in gran copia. Di tal condizione è il rododendro, tanto il bianco quanto il rosso; e d’ ambedue le fatte è piena la Sardegna, che passa anzi che no il temperato nel caldo. Quelle che patiscono il caldo o ’1 freddo, non comportano che sia troppo o l'uno o l'altro, ma conviene che la sia una certa convenienza del cielo con la natura del- l’arbore, perchè l’ eccessivo caldo o freddo fa non solo perire i frutti, ma gli arbori da taglio grandi. Onde nelle solitudini dell’ Egitto e del- l’Affrica non vi son fichi che faccino buon frutti, abbruciando il caldo sì forte, che non lascia concuocere e digerire il nutritivo umore a compimento; che lo impedisce ancora il vee- mente freddo. Et in così fatti lati non v' alli- 29 gnano alcune sorte di arbori. E perciò è di necessità sapere l elevazione dei poli, l' esposi- zione del cielo, la sferza del caldo che batta in su ’l mezzo giorno, per poter porre gli arbori a dove si cognosca che possino stare. Appetisce luoghi freddi il noce; et il pero cotogno sopporta solamente di natura fra ’l freddo et il caldo; diviene sterile il sorbo se sia piantato in lato oltre a modo caldo; la betula si diletta di luoghi freddissimi, così il larice e la zampina. E tutti gli arbori salvatichi forti di legname fanno il medesimo. I nocciuoli possono patire qual si sia aspro e crudo inverno; tanto avviene del cipresso, il quale fa anche nei luoghi caldi, come l’abeto, il ciriegio et il pino; e caldissimi gli desidera la siliqua ('), le giuggiole, i pistacchi, il moro, la palma, il cedro, così arbore come il fruttifero. I pomi granati, il mandorlo, l'alloro, la mortella e la ferula durano nei lati freddi, e men la mortella, sendo nell’ Olimpo lauri assai e di questa pianta niuna. I fichi non si possono far condurre a maturità nei freddissimi luoghi; imperciò in Baviera ne sono in un giardino del signore di quel paese quattro piante di brugiotti, quali tiene ricoperte con capanne di tavole, ben commesse insieme e fasciate con molta paglia e fieno l’invernata; poi quando la primavera ha ben preso piede gli fa scoprire, ne coglie il frutto all’ autunno, poi torna a ricoprirgli. Così fa delle viti, massi- mamente di tre volte, le quali più resistono al gran freddo. Gli ulivi più tosto vengono negli (1) carrubbio, scritto sopra siligua. 50 assai caldi che nei troppo freddi. Il pesco viene quasi in tutti i lati, ma se si ponghi in luogo caldo dura più a star verde e far dei frutti, perche nei luoghi freddi, massime ventosi, se non vi [sia] qualche riparo a sua difesa, si perde. Il nespolo si gode nei luoghi temperati e nei caldi, ma nei freddi ancora viene. I castagni fanno non solo nei luoghi freddi, ma negli agghiacciati fin sotto le Alpi, et ancora rendon frutto nei luoghi temperati et umani, se vi sia terreno umido. Il cedro di frutto fa nei luoghi caldi; et ancora il cedro arbore; e si nutrica ancora nelle montagne della Lidia. I meli et i peri amano il freddo né ricusano il temperato; così fanno i susini et i ciriegi. Il bossolo fa nei luoghi freddi, ma nei freddissimi molto meglio. Sono ancora alcuni arbori che non fanno che in uno paese, sendo di quello solo peculiari, come le piante aromatiche dell’ Indie. Ne ha forza il cinnamomo di attaccarsi nella Siria dai luoghi ove fa, che gli sono vicini. Non è mor- tella né lauro alcuno nel Bosforo Cimmerio; e Mitridate e gli abitatori s' affaticorno indarno di trasferirveli per conto delle lor sacre ceri- monie; ma vi sono fichi assai e pomi granati. Il mastice dicono far solamente nell'isola di Scio, né esserne altrove nel mondo, come quelli quattro arbori o cinque che somigliano il salcio alla foglia, che fanno il balsamo. E una gran maneggia di paese dove fa ogni cosa che vi si pianta e viene innanzi, se non se l'ulivo, il quale s’ afferra in Egitto, ma non vi fa ulive, si come la palma non matura i datteri in Italia. L'Asia è abbondante di assaissimi arbori di ol variate sorte, e n' è quasi per tutto ripiena, ma l’ellera per certo non ha. L'India pate, d’ esse per altro madre, della mancanza di molte nostre piante et arborij; ma ha in vece l’odorifere, il pepe et i garofani. Nelle regioni del Cairo non vi è ancora la pianta dell’ ellera, ma hanno le boscaglie folte di cassia, di mirobolani, et in vece di gramigna capperi sparsi, di quelli grandi, per tutta la campagna. Provò il primo Arpalo a trasportarvene, di poi Ciro, e tuttavia invano. Appresso Damasco vi è un monte pienissimo di terebinto, che non accetta in compagnia alcuna altra pianta. In Sicilia è gran copia di pistac- chi. La sughera fa per tutta Italia et in Spagna per tutto; in tutta la Francia non ve n'è pur un piede, né meno lecci. A_tal che così viene a essere ordinato dalla natura, che non ogni paese produce ogni cosa insiememente, né tutti gli arbori, né tutti gli animali; e taluni, se bene in un luogo s appiccano e vengono, non vi producono poi il frutto, come è detto dell’ ulivo e palme. E l’ ulivo, se bene fa per tutte le parti del mondo, in qualche luogo d’ esse particolare, in Italia et in Ispagna, con tutto ciò grande- mente profitta; et in Italia, in Puglia, sono grandissimi et in quantità. Sono ancora certe provincie che sono in particolare amiche di certe piante, come in Candia i fichi e la vite che produce l’ uva, che se ne spreme la malvagia; et in Cipri son peculiari le viti che fanno l uva passerina di Coranto. In Arabia la trementina e lo storace, et i mandorli sono in copia in Nasso et in Provenza come i noci. I cerri e le quercie, i lecci e farnie per tutta Italia, 532 Ma essendo gli arbori di diversa natura, altri naturalmente allegri, alcuni aspri e ron- chiosi, alcuni a solatio, altri ombrosi e di no- cente ombra, come il tasso; alcuni umidi, altri secchi, altri di palude et altri di lago; et alcuni fanno nei luoghi pantanosi, ricoperto il calcio dall’ acqua perpetuamente e vi vivono; alcuni fra terra fan volentieri, altri lungo la marina si dilettano d’ essere, come talora il ginepro, la tamarigia e "1 lentischio, altri rasenti i fiumi in su le ripe e dentro ai renai, e nell’ istesso letto loro, come le vetrici et i salci; si come degli animali, che alcuni la terra et alcuni altri le acque bramano, e parte l'una e l'altre. E degli alberi di lago sono il salice, lontano, i vetri- cini, le canne e ’l silio e l’alno; per il che si deono fare i salceti nei luoghi acquatici, i can- neti rasenti le ripe dei fiumi e tra correnti rii, ne confini dei campi nel più basso e più umido che vi sia, e rasenti le macchie ancora; e se le provincie sentino di secco, nelle più profonde e cupe vallate e nei più concavi della possessione, et in lato che vi si possino adacquare, o sottoposti alla villa, rispetto all'u- more e grassezza che casca da quelle; e se la regione sia fredda, nei lati di mezzogiorno. L’alno e il pioppo sono arbori di fiume come l'albero istesso et il gattice, e quelli due sono indicatori che vi sia acqua. Il platano ancora ama l’acqua e d’ essere in godimento delle fonti e ruscelli d’ acque correnti, come ancora il loto, se ben l’ uno e l’altro fa nei lati lontani dal- l’acque. Per contra, nei luoghi acquidrinosi non fa bene né il nocciuolo, né ’1 nespolo, nè ‘1 n° 9)» )e) ciriegio, né 1 carpino, né l’ acero, né ’1 tiglio, ne meno il leccio. Il sambuco si fa bello nei luoghi ombrosi e vicino alle acque; e negli altri tutti vien bene; ma non così lieto, né di tanti fiori carico. La canna ancora lei, se ben come il calamo brama di stare rasente l' acqua o nell’acqua, fa non di meno in ogni altro lato, ma son più minute; ma meglio sempre in ter- reno resoluto che denso, grosso, lieto, fecoso ('). Il cedro vorrebbe continuamente bere, e ‘1 pino nei luoghi umidi arenosi distende le radici e profonda la sua fittagnola volentieri, se ben fa ancora nei luoghi magri e negli altissimi e dirupati monti, e fra grandissimi massi dà feli- cemente fuori; massimamente 1 salvatichi della lor razza, che allignano tutti in magrissimi e stentati siti. Il sorbo vien più vivace nei lati umidicci. Gli aranci e tutte le sorte degli agrumi desiderano una terra sottile, ma ner- vosa, e che sì possi per tutto adacquare. El pero si dee piantare nei luoghi tiepidi, purché sia aggiovato da terra rigua; in questa maniera fa fiori assal, et acquista grandezza e grossezza nel pomi, e si spoglia della dura e sassosa na- tura quella sorte che ne partecipa. Et in gene- rale tutte le piante fruttifere che si mettono nei luoghi umidi più presto crescono e diven- tano più grosse dell’ altre che sien poste in contrarli a questi; e certe se ne truovano del tutto diverse dalle sopraddette, come che elle venghino più liete e rigogliose in luoghi aridi, aspri e sitibundi, come talora stiano appiccate (1) Cosi veramente il testo, dove la stampa legge focoso. D ") 54 tra i sassi e crescano nella schietta arena; et altrove trasportate, nell’ umido e grasso, non vi sanno vivere o divengono sterili. I cipressi, i noci, i castagni hanno in odio l’acqua; il frassino si diletta nei monti et ancora fa nel mezzo delle pianure, come si vede in Lombardia; e quelli con tutto ciò pigliano volentieri l’acqua assidua e luoghi pieni di sassi. Le noci et i castagni massimamente amano il terreno sab- bionoso et arenoso et il carbonchioso et il tufo stritolato, recusando la [terra] calcinosa, rossa, la creta [et] ogni grassezza. Il mandorlo ama il campo duro, sassoso, secco, tufoso e magro, volto a mezzodì. La palma desidera luogo sal- mastro e d’ arena, come alle Gerbe che ne son piene per rata, come in Egitto. Gli ulivi vogliono campo d'argilla e biancheggiante, purché sia fertile, sendo tal terreno poroso e gli rattiz- zando. Alcuni han giudicato essere attissimo terreno agli ulivi [quello] al quale si ritruovano sotto della ghiaia e della creta, che sopra abbi il sabbione mescolato; et altri hanno approvato il terreno per loro che abbi grasso sabbione; e la terra densa, se sia vivida e lieta, comoda- mente riceve questa pianta; la creta semplice in tutto dee essere repudiata, il musco rosso e la [terra] scaturiginosa, e dove l umidezza e gli acquitrini stien fermi; è suo nimico il sab- bione magro e la semplice ghiaia; e in questa terra, se ben di tratto non vi muore, non vi campa molto, né bello né sano. Sono ben più sorte di ulivi, che molti d’ essi desiderano il terreno differenziato. I meli vogliono un terreno grasso, più tosto in pianura o in vallate di simil n) DO saliva, e in somma terreno che abbi in sé gran succhio d’ umore, ma non per essere adacquato ; e 1 magro e secco gli fa verminosi e secche- recci (') o magagnati. E le piante che bramano i luoghi aprichi sono assal, e massimamente che appetischino il caldo, come i giuggioli e le palme. Et il giug- giolo vuole una terra sciolta o sabbione, in questo modo poi, che quando la pianta si pon giù, intorno o sotto essa si metta della terra grassa. Il fico ancora desidera luoghi a solatio, e talvolta pietrosi e sassosi, si come si vedon far bene nelli muriccioli, macie e nelle rovinate delle case fra cocci e sassi, allignando presto in simil lati e massimamente facendogli fosse spaziose e ampie: ma quelli arbori che fanno al lor frutti i piccolli lunghi, e certi altri come i vernerecci, brugiotti e simili, amano terra grassa e ben letaminata. Il cedro arbore et i ginepri seguono i luoghi sassosi, e I orno; se ne ritruovano ancora di quelli che sguazzano nei luoghi ombrosi e riposti dai venti; et alcuni ancora vengono innanzi, mai pur illustrati dal sole. L’abeto, per uno, assai più bello viene nei luoghi ombrosi che a solatio, e più s innalza, [come] il tasso, il larice e tutti altri che amano così fatti luoghi. Per contrario li posti ai venti sono più corti, perché ‘1 vento li inasprisce e gli fa bistorti e raggricciati et abbruciaticci, massimamente se sieno agli intoppi de’ venti marini, i quali, si come han per natura di con- sumare e sfare le nevi et i ghiacci, così gua- (1) seccaticci la stampa, ma è errore, 50 stano gli arbori e rodono le estreme vette e le cime delle foglie. In generale tutte quelle piante che producono i lor frutti secchi et asciutti, amano d'essere esposte ai venti, e così quelle che sono nocchiose, come la mortella et i pomi granati, e quelle che per natura non hanno i frutti minuti nocchiosi, come l alloro. Certa- mente che ’1 frutto di queste tali esposto al sole diventa acerbo; e per questa cagione nei verzieri sono da essere tutte piantate più spesse. Più cose ancora desiderano quelle piante che son più secche, che non le umide, come il cor- niolo e la rosa, come che in così fatti lati diventa più odorata. Il pesco ancora averà i suoi frutti più odorosi, se sia piantato in luogo ch'egli abbi l’ aere caldo e la terra arenosa et umida, e durerà più tempo. E quelle [piante] che hanno i frutti sodi e spessi amano i luoghi più secchi, perché queste di manco alimento dalla terra hanno di bisogno. Ama la mortella i liti; et i marittimi sono bramati dal pino, dalla siliqua e dal moro. Il nespolo del grasso sabbione e della ghiarosa terra mescolata con l’arena si gode, e d'argilla mescolata con sassi. Il moro ama i luoghi sabbionosi et a fatica s'afferra nel tofo o nell’ argilla. Il nocciuolo si diletta del sabbione; 1 eschio non ha terra che gli affezioni et in tutte fa. La terra che è rossa, se bene è buona a molte cose, è Inutile a pro- durre arbori. La colombina talora è di pari fertile. Ancora nel piantare gli arbori è di bisogno di osservare dove primamente eglino sieno nati, dandosi ad intendere che somigliante luogo 3 appetiscono quale gli abbi da principio ordi- nato la natura, si che sempre desiderano di starsene più in un luogo che in un altro. Così a tutto che è prodotto dalla natura, come madre d'ogni cosa, ella dà quello che se gli conviene a ciascheduna cosa, e così alli arbori quella terra e quel sito che lor si affacci, secondo la sua qualità; et allora faran bene, né si tosto seccheranno o verranno meno, che ei sieno col- locati secondo l ordine della lor natura. È la comodezza del campo si dee intendere in due modi che ella conferisce, come che egli sia con- veniente alla natura di quella cosa che si ricerca di piantarvi, e che sia conforme a dargli vigore e forza. Trahit sua quemque voluptas. Perciocché ancora agli animali ha dato diverse abitazioni e selve. Altri si stanno in luoghi inaccessibili, come il liocorno nei monti della luna (*), alcuni nel monti, altri nelle valli e nei piani sì vivono. E perche tutte le sorte dei siti dei terreni si restringono a tre, monte, piano, o colle, è da considerare quale sia di questi che brami le piante da collocarvisi. Delle quali tre l’' impor- tanza è quando in una possessione giusta tante sl ritruovino; e talora nella sommità del monti non ne manca alcuna, come in Parnaso, Cillene, Olimpo e Mile, nei quali, et a questi somiglianti, come nel monte Argentario et in Transilvania, molte cose s' accozzano a potervi nascere, purché l’aere lo patisca, rispetto cioè alla varietà dei luoghi che in un sol sito di paese sono, e della terra e di tutte le differenti [cose] che si ritruo- (1) come il liocorno nei monti della luna manca alle stampe. 55 rano. Perciocchè così delle domestiche come delle salvatiche piante amano alcune i monti, altre i luoghi un po’ più bassi et altre le valli et altre le pianure e le campagne aperte; et ancora alcune fanno in qualsisia di questi lati o in molti d’essi per la variata natura che hanno, non disprezzando qual sito di luogo si sia; e quelle che amano i monti sono a por- zione, perché altre nei bassi, altre nelle sommità e nelle istesse cime e cucuzzoli hanno diletta- zione di vivere, come quelle che son tanto amanti dei freddi, come i faggi, che quivi si fan più belli, fruttiferi, e s' innalzano. Certe amano 1 lati che si inchinano ; et i luoghi eccelsi abbraccia il pino salvatico, il larice, il pino domestico, l abeto ; e verso le sommità de’ monti sl ritruovano i sorbi et i frassini; gli aceri vo- gliono il caldio, come i carpini, e gli ontani tutti i bassi et umidi, e quasi ambedue all’ acqua vicini, se bene per tutto anche sparsi varia- mente ne nascono, ma quivi più belli, più vigorosi e più vegnenti, perché son luoghi che più s' affanno alla lor natura; come nei luoghi montuosi l’ agrifoglio, il bossolo, il corniolo, i peri, 1 meli salvatichi, il carpino, il cedro arbore, il ginepro che è copiosissimo intorno al pro- montorio di Cillene, come la teda, la picea, il terebinto e ’1 pistacchio e tutti quelli che colan dalla ragia; et ancora il faggio e ’l tiglio. Il monte d’ Emo è abbondevole di tamarigia; nei colli più che altrove vengon felici gli ulivi e le viti, e nei piani ancora, ovunque l’aere e ’l terreno gli comporti e s' affacci loro. Quegli ulivi che sono nei luoghi caldi si faccin volgere a 59 tramontana, e questi si faccino godere nel cielo di mezzogiorno, ma si che nei luoghi bassi né difficili più che piccoli monticelli si sieno, come in Savoia et in Spagna nella provincia Betica ; nei piani dei campi grassi han belle (') frondi, ma poco è il frutto che e’ danno e ’1 più delle volte niuno. Il cedro arbore solo s' aggiova col vento austro; dall’ aquilone rimane offeso, si che si dee guardare di non porlo in luogo che gli contrasti. Per contrario i tassi sì godono dell’ aquilone. Il castagno si diletta delle calate, massimamente volte a settentrione come rimo- stra il Tmolo, l Olimpo e 1 Mile. I piani sono amici dei pioppi, dei salci e del carrubbio dome- stico, perche il salvatico fa per tutto. Il moro ha in odio le selve et 1 monti, dilettasi dei luoghi piani e degli orti. Molte più son quelle [piante] che bramano i campi, i monti e i luoghi bassi, ma non di pari, si che più quivi che in altri luoghi s in- nalzano e profittano. Il tiglio appetisce il luogo montuoso e le valli, ma poco nei monti si veg- gono il susino, 11 melagrano, il noce, la mortella, l'alloro, il corniolo, il pero, il melo; e questi due nelle radici dei monti e nel piani meglio; et in questi lati non solo fanno i frutti migliori, ma stanno della vita più rigogliosi e sani, per- ciocchè nei monti vengono più piccoli. Il pero cotogno nei colli piegati e ricurvi affatto si produce lietamente. Il fico si può quasi piantare in tutti i luoghi, ma quelli che nei luoghi mon- tuosi nascono e nei freddi, avendo men latte, (1) delle, la stampa. 40 non possono nelle siccità durare. Si come degli alberi salvatichi quelli che son nati a setten- trione per questo più agevolmente si sfendono a far legno, ma men durano a far fuoco, di quelli che volti a mezzogiorno si tagliano; se sieno cerri, sì sfendino dalla punta verso il calcio, e così la quercia, che sarà più agevole, avendo quelli più umore grosso di questi, come questi più sottili et arrendevoli. Ma i fichi dei campi e nei luoghi caldi e grassi sono più frut- tuosi e più assal resistono a quando va secco et asciutto. E nei monti che scaturiscono acqua si diletta assai I acero e ‘1 tiglio, il frassino, il ciriegio e talvolta il sorbo; dai quali discen- dono nelle valli il leccio, il corniolo e la rovere. Il nocciuolo, la quercia, il faggio, il corniolo, l’acero e frassino e l’aborniello amano ancora e si stanno volentieri nei campi. In tutti i luoghi di vallate vien benissimo il nespolo. Le canne fanno meglio nel profondo delle valli che nei colli, e soprattutto ad inviarvele. Quelle cose che s' affanno a tutti i luoghi, se elle desi- derano caldezza di cielo, nelle ‘valli piuttosto che nei monti e luoghi difficili sono da essere collocate, perché le cose calde sono sempre più inferiori delle [cose] che sono in sommo. Le [piante] nei monti [sono] più prolisse, ma più copiosamente, massime delle ghiandifere, portan frutto; e quelle che sogliono allegrarsi del- l'umore, più utilmente stanno nei luoghi cupi che negli alti, perchè quelli sono più tiepidi di questi. Da basso più patiscono di estate, da alto più di inverno. Così, osservandosi il sito e ’1 luogo che cia- 4l scheduno arbore s’ appetisce, s' aiuta a crescere e si fa più vegnente. È ben vero che alcune piante vivono per mezzo della coltivazione, e con essa vogliono essere procurate, allevate e tirate innanzi. Alcune altre l’ odiano, l’ annoiano, né la comportano, diventando con essa peggiori; come alcune altre, non coltivandole, insalvati- chiscono. L' abete coltivato s' attrista, tanto fa il ginepro, et i salvatichi con la coltivazione diventano domestichi; come la vite non colta diventa sterile o lambrusca, et il sermollino ne- pitella; e potando quella che vuole del letame, nocerà. Et ancora alcune piante sono atte a nascere per via di seme, altre da per loro, chi per radice, chi di rami, chi di tronco di legno minuzzato in pezzi piccoli, come le talee (*) degli olivi; ond’è che la scorza di pioppo bianca am- maccata, sotterrata in un solco, dà per buono spazio dell’anno da mangiare [a] due famigliuole. (rodonsi alcune altre dell’ essere traspiantate. Ma se sì vorrà far nascere per via di seme quella che più volentiermente e naturalmente nasce per via di ramo o di radice o di polloni svelti, e quello che per via d’ innesto si cercherà di mutare, darà frutti stravaganti e non naturali. E di qui è openione che i fichi neri insetati faccino 1 frutti bianchi et 1 bianchi neri, o di- ventino sterili e salvatichi. Così V uva nera secondo l’ innesto della vite farà bianco, et il pioppo bianco medesimamente nero. Et è chi crede, ma la pruova [mostra] non essere vero, la mandorla dolce, piantandosi per il seme, di- (1) rami, la stampa. 42 ventar amara o di cattivo sapore. Così del pomo granato, del dolce n’ avviene il garbo, quando e si fa nascere per via di germoglio. È in Candia una sorte di cipolle che seminata per via di seme diventa radice, traspiantata poi diventa cavolo et ha il suo sapor dolce: così ha dato fuori un Greco autore, ma oggi non sì ritruova questo bandolo. Le rape se si traspian- tano rare, diventano femmine, se spesse, maschi, scrive il medesimo; e del frutto della mortella e del lauro che penda in rossigno, affermano che per seme fatto nascere diventi nero. La sementa delle zucche e dei cocomeri, se sono più freschi, generano assai più tardi, e se sa- ranno vecchi, nascono più presto; l’ oppio simil- mente et il nasturcio nascono più presto del seme vecchio anch’ essi che del nuovo. Così dando acqua a chi non l’appetisce, s' altera la sua natura e ne riceve danno: e di qui nasce che le mele granate si fan garbe, annaffiando i loro arbori spesso. Conviene adunque in tutte le piante secon- dare la natura loro, e così in tutte le sorte di semente. E quanto a quello che viene acciden- talmente dai cieli, si dee bramare secondo la voglia del lor supremo Fattore e non secondo la nostra, ché non cognosciamo l’intero bisogno delle cose, né manco intorno a esse la sua vo- lontà. Racconta a questo proposito Aristofane in una delle sue commedie, che un lavoratore di terre chiese a Giove di poter far piovere a posta sua nella sua possessione e gli fu con- cesso; così la domandava quando gli pareva ne fosse bisogno e l’otteneva. Un altro senza 43 altre preci prendeva dal cielo ciò che ne cadeva o veniva, o d'acqua o altro. Costui sempre ebbe la ricolta buona, quell’ altro tuttavia fievole, ne mai s'appose. A tal che noi deviamo colti- vare la terra con attenzione, secondo l’ ordine che ella ricerca, e far le cose ai tempi. Di quello poi che vien dal cielo ne provvede, ché mai non manca della sua grazia, l’ onnipotentissimo eterno Motore. Deesi adunque in tutto il governo delle piante et altre cose che si seminano e commet- tono alla terra, seguir quello che ne rimostr: di continuo, come ha fatto sempre, la maestra esperienza e l'osservazione di quelle, secondo la loro natura; che luna e l’altra ne dà co- gnoscenza dei diversi gusti e governo loro: sî come non si piantino gli arbori presso ai muri o rasenti le siepi, o accanto alle strade maestre, [perché in] queste [han] danno dai viandanti, et in quelle viene nociuto, nell'essere piantati quivi, l’augumento loro. E come di frutti, gli arbori piantati nelle valli sono più copiosi et abbon- danti di quelli dei piani, e questi più degli altri; ma quelli dei colli, in costa, in spiaggia, o luoghi sassosi e freschi, ricompensano la mi- nore copiosità de’ lor frutti con la bontà che in essi è più fina, si come sono più salubri e men nocevoli al corpo per avere meno acqueosità et umidezza. Gli arbori che ficcano bene a dentro le radici, come gli aranci, vogliono la terra di buon fondamento, come i peri e meli. Alcuni altri che gettano le barbe in guisa di capelli in alto, sparse attorno, poco sotterra, come i castagni (e fra l erbe l endivia) sì comportano 44 meglio nei terreni leggieri all’ aere e di poco fondo, come i susini e gli abeti. Ma per gli ar- bori soprattutto è da eleggere il terreno agevole a lavorare, di dolce sapore, con abbondanza d’acqua, perchè con questa si riducono tutti ad allignare ancora nei luoghi sterili et aspri; e massimamente se vi si possi spignere quella di fiume. Deono ancora essere poste le piantate che si fanno degli arbori fruttiferi lontani dal- l’aie, dai pollai, e che i polli non vi dormin sopra, né si facci sotto ortaggio, o vi si facci altra sementa di cosa alcuna. Le piante che si pigliano dagli arbori frut- tiferi per piantare, o siano innesti, o si cavino dalle nestaie o dai boschi per trapiantare, deono avere contraria condizione di tutti [gli] alberi che si eleggono per segare, come gli alberi, gli abeti, le quercie, i noci et altri che s' adoperano negli edifizi; perciocché questi s° hanno a tra- scerre grossi in punta come nel calcio; e gli altri domestichi da piantare s° hanno a eleggere grossi da piede e sottili in punta, che continna- mente vadin diminuendo et assottigliandosi, non come quelli augumentandosi et ingrossando verso la cima; e siano di buccia liscia, pulita e bella, non ronchiosa, non magagnata, non punto gua- sta; et a quelli intiera, salda e non corrosa ('). Quelli il cui frutto vien guasto dalla rugiada, come 1 ciriegi, deono essere volti a oriente; i meli e 1 peri a tramontana et a occidente, secondo le sorte; come i susini, che i semiani, i perni- coni e li del re non rifiutano il freddo, come i (1) ed î quali sian saldi e non corrosi, la stampa. 45 catelani e maglianesi et amoscini che appeti- scono 1l sole. Gli arbori fruttiferi che producono l'estate siano volti a tramontana, e quelli che l'inverno, a mezzodì. E perché a molti arbori è una convenienza e famigliarità di natura, un’a- micizia e consimili affetti, sì dee cercare di cognoscer le lor simpatie e farli stare insieme ; come vicine agli ulivi le viti, ma non fra essi, chè dentro le non vogliono compagnia che di lor medesime; siano dunque accosto e dalle bande; e fra le mele granate si piantino assai mortelle. E perché molti altri s' odiano, si dee scompagnarli, come la vite lontana dal corilo e dal nocciuolo. Alcuni sono che desiderano di stare in coppia, e di questi tutti quelli che hanno il maschio e la femmina, come il cipresso, l’abeto, il terebinto, il pistacchio et il castagno. Il cadimento delle gocciole (') ancora di molti è nocivo, come che sia cattivissimo quello del pino, della quercia e del leccio, come pesantis- simo; e quello del pero cotogno l'uno con l’altro. Nuoce ancora Vl ombra di alcuni arbori, come quella del tasso e del noce, grave e cat- tiva al capo dell’ uomo; e quella del pino ammazza le messe (°); ma l'uno e l'altro resiste al venti. E tutti questi, e massimamente che sono amicissimi (*), si deono piantare sî lontani dagli altri frutti, che stien piuttosto loro a difesa dei venti, che a nocimento [con] Vl ombra. (1) coccole, errore della stampa. (2) messi, altro errore della stampa. (3) e tutte queste messi che sono amicissime, altro errore della stampa. 46 E. con tutto che ogni pianta d’arbore abbi forze di nascer da sé stessa, quelle che di seme nascono, per lo più delle domestiche, nascono fiere e selvaggie, se non si procurano con l’aiuto umano, co "1 quale si rendon più atte a dar buon frutto innestandole. Dalla foglia, di se stessa sola e fitta mezza in terra, [si] genera il fusto, crescendo foglia sopra foglia e nel mezzo ingrossando, che si consolida e serra in tronco. Il fico d'India, la cui foglia dà frutto, foglia et arbore insieme, sta perpetua- mente verde come la palma, ma non resiste all’ingiuria del freddo et agghiacciato gelo o neve. Ogni pianta che fa sementa ha vigore di nascer di quella, se bene a stento alcuna e con tempo grande, così salvatica come domestica. Ma fra queste che s appiccan con le radici è openione, come dei susini, meli, peri e ciriegi, che a rami tuttavia si possino afferrare, pi- gliando quelli presso al tronco e diritti volti all'insù, avendogli sfessi nel calcio dove s° ha a porre in terra tre diti al più, e dentro in quella spaccatura cacciando otto o dieci gra- nella d'orzo o di grano, acconciandovi un sas- solino in mezzo che gli tenga un po’ dilatati a poter nascere, e di più, attorno, dove abbasso vien sotterrato quanto tiene quella sfessura, una giumella del medesimo. Tutte queste pullu- leranno lì sotto e con la lor freschezza e succhio gli inciteranno a barbicare. Ma quelli che si seminano, se non sono o albercocchi o peschi o susini o noci, peschi noci, peschi mandorli o simili che hanno il nocciol grosso, diventano sterili e tralignano. Ma seminati, come susini, 47 meli, peri e ciriegi, sì posson quelle vermene nate e fermate d’un anno innestare felicemente, venendo meglio che i cavati dalle selve per innestare, perché questi non han tante radici, né si rigogliosi crescono e pruovano, e massime a traspiantargli. Le piante che fan sementa inutile, profittano dai loro rimettiticci di ver- mene da pie e polloni che dalle sue radici o ceppo germogliano, avendo ogni pianta in sé medesima concorrente (') et intrinsecata la sua maniera di multiplicare, o di questi o di rami o di radici, come l’olmo. Et in quelli che hanno la sementa minuta è sempre più vivace la virtù e forza per nascere che nei rami, eccetto il cipresso, l’abeto, il larice, l’ alloro, il quale ha virtù, secco e strofinato insieme forte, getta- tovi su zolfo spolverizzato, di suscitar la fiamma e far fuoco. I fichi, gli olivi e le viti di nascita di seme tralignano per lo più, et è di mestiero insetargli. E perché ogni arbore che nasce da se stesso, o di ramo o di seme o di barbe, fa le radici a galla, è di mestiero traspiantare e traspiantato innestare; e meglio viene piantato l'innesto su ’l ramo salvatico che in sul tronco nato di radice con la semente, se ben questo fa più barbe e mediante quelle è più atto a afferrarsi in qual si vogli terreno che e’ s° al- luoghi. Quelli che meglio s' appiccano con i rami son quelli che hanno i rami lisci, puliti, verdi, senza nodi, succhiosi e di sustanza come gli ulivi, fichi, noci, salici et alberi e gattici, perciocchè quelli che hanno la scorza inta- (!) conveniente, la stampa. 45 gliata, doppia, grossa, ronchiosa, screpolata, come il pino, ginepro, cipresso, quercia, cerri e simili, non s'appiccano con i rami, si come quelli che non sì possono insetare, che son tutti i resi- niferi. La quercia giovine accetta sopra di sé, annestandolo, il pero nel tronco e rami lisci puliti. I semi degli arbori sono di due sorte, 0 grossi o minuti; grossi gli hanno i persichi, i noci, i susini, gli albercocchi e sua generazione, e tutti quelli che han dentro la carne, osso duro; minuti gli hanno i peri, i meli, 1 car- robbi, peri cotogni, meli granati, abeti, cipressi, zampine, pini, lecci e simili. E tutti questi si seminano per traspiantare in altri luoghi, dove sono ordinati i siti per 1 verzieri o selve a dovervi stare. Nel che conviene avvertire d’ac- comodarvegli in modo che o per essere troppo accosti o sotto l’ uno all’ altro, non s’ intrighino insieme, perché si togliono il nutrimento l’ uno all’ altro, non gli accomodando che stien par- titi bene; et altramente non possono crescere il lor bisogno et augumentarsi secondo la lor natura; imperciò conviene compartirgli secondo il sito e natura loro. Perché le [piante] grandi occupano più spazio con le radici e con i rami, e le piccole per contrario; et alcune più grosse e più lunghe amano similmente larghi spazi, netti di sotto e non occupati, come tutti i sal- vatichi, i noci, i castagni, i ciriegi e certe sorte di peri e di meli; le piccole, come i pomi gra- nati, l'alloro, 1 sambuchi, la mortella e simili che non van troppo sotterra, si contentano di manco spazio. E tutte queste senza offesa sì " 49 possono mescolare con le sopraddette, avver- tendo di non porre il pero cotogno appresso al noci, nè i castagni vicini al nespolo; né meno s' accompagna il ciriegio co ’1 pesco ; ché tutti questi son nemici insieme, né si patiscono. A tal che la più diritta è piantare ognuno disperse, e ‘tutti di compagnia quelli che sieno d'una spezie medesima, affinché il debole non venghi oppressato dal più potente. Ancora certi più grandicelli non s alzano mai, fastidiscono 1 altri e con l’ ombra di loro istessi ricevono offesa, si che ricercano assai maggiore spazio d’attorno che la lor persona non s' estende; come il noce, che si fa danno con le sue gocciole proprie che gli cascano addosso di foglia in foglia, onde dà fastidio a quelli che gli sieno piantati appresso. Ancora i peri cotogni sono da essere piantati tanto larghi, che i suoi stil- licidii non possino arrivare l un l’altro. Mede- simamente s' hanno a osservare le ombre, ché chi le fa brevi, chi corte, chi folte et ampie, e chi raccolte insieme; il melo e pero s' allarga, il ciriegio e l’ alloro; e chi le ama dei siti e del luoghi che siano naturalmente ombrosi, e chi di lor medesimi; altri per il contrario, come è il moro, che non vuole attorno ombra d’ altrui che gli stia sopra tetto e lo cuopra. Uerti vo- gliono essere posti fondi, come i persichi, perché si faccin riparo l'uno all’ altro dal calore del sole. Ma gli spazii che si convenghino determi- nare fra l'uno e l’altro, dee dimostrargli la natura dei paesi, il sito e la qualità della loro natura e dei terreni. In Affrica hanno gli ulivi d’intorno uno spazio di venticinque piedi; nel d 50 [terreno] magro quaranta; ne è in Betica; né vè arbore a chi bisogni stanza maggiore. I salici nei lati irrigui desiderano gli spazii agiati e larghi; nei luoghi seccagni, men spaziosi e più ristretti insieme amano di stare. I colli ricercano gli arbori più spessi che nei luoghi campestri e piani, massimamente ove fra gli arbori sì semini, che gli vogliono grandissimi. Nei lati ventosi conviene piantar gli arbori un po più fondi, perché possino con esso [il vento] contrastare senz’ offesa di lor medesimi, ripa- ‘ando lun l’altro la sua furia, né avendo [esso] forza di penetrare così libero a fargli danno. Nelle provincie ventose, come è la Francia, e nella ventosissima Sicilia sarà molto profittevole Il’ os- servarlo. I pomi granati, i lauri e le mortelle, quanto saran più folti, meglio faranno, perché hanno poche radici e si riparano più dai raggi solari, né si togliono l alimento lun l'altro, nocendosi; e sarà assai undici piedi l uno dal- l’altro; i meli più, e più ancora i peri; ancora le mandorle et 1 fichi, et 1 mandorli più di tutti; ai quali si conviene nei luoghi che gli s' affanno una distanza l un dall’ altro di trenta braccia, ai meli venti, e quaranta o cinquanta al clriegi, e gli ulivi trenta o trentacinque; e seminandovisi sotto, tanto più; e nel magro meno che nel grasso sieno distanti. È soprat- tutto il piantare assai arbori infruttiferi insieme sarà più utile che di per sé porgli, perché. soli saranno infermi e deboli da resistere ai venti, riparandosigli assai meglio, come i Turchi co ’l diluvio della lor soldatesca. E perche non si può né si dee fare dei fruttiferi arbori una bI mesticanza incompatibile, né meno i salvatichi con i domestichi mescolare, e di questi o di quelli porre i grandi et i piccoli insieme, che si soffochino lun l’altro; e perché a vari usi tutti si ponghino, s hanno a distinguere i luoghi, e sapere che non sta bene mescolare negli uli- veti gli olmi, i pioppi, le quercie, il frassino, ne "1 salcio o la carna fra le mortelle et i ciriegi, discordando lun l'altro di grandezza, di luogo, di sito, di natura, e ricercando altro 1 salvatichi, altro i domestichi. Piantano alcuni intorno al circuito delle lor possessioni o pini o cipressi o abeti o olmi; e questi sono i più utili per la frasca che se ne coglie per i bestiami, oltre a che a ciasche- duno sì può una vite accomodare, pur che se gli ponga discosta dal gambo un braccio e mezzo. Stanno bene intorno alle vie, come ancora i pioppi. Le quercie per ghianda vo- gliono avere il luogo e la selva spartita. Così i salci vogliono stare sequestrati dall’ altre piante, lontani dalle vigne e campi seminati, usufrut- tando troppo il terreno. Somigliantemente i luoghi dei pioppi con le viti siano di per sé, con prato sotto, e se ne caverà vino, erba, fieno e legne; così gli alberi da per sé, come le ve- trici et i salci, 1 quali vogliono essere colti al settembre e sfessi subito e tenuti in lato fra l’umido e l’ asciutto; poi quando s' hanno ad adoperare per cerchi o altro, si ponghino in molle per tre o quattro di; e prima s' avver- tischi che non ribollischino; e quando si met- tono in opera freschi, sì scaldino alla fiamma, come le vinciglie degli arbori. I fichi et i peschi 92 non si vieta che non si ponghino tra le vigne da quella banda che faccino l ombra fuori; né dentro s'ammetta altro che peschi. Gli alni fan buon riparo e nutrimento alle siepi et agli argini, e son muri contra alle piene dei fiumi, e mantengono i ciglioni e renai d’essi, posti nell’acqua, e scapezzati multiplicano fuor di modo. I noci e gli arbori grandi, perchè meno faccino offesa ai seminati che vi sien sotto con la lor ombra, si piantano alla volta di tramon- tana. Per far poi strade coperte e pergolati con gli arbori, si elegghino i più arrendevoli e che stieno sempre verdi, come il bossolo, la lentag- gine, la mortella di Spagna, il lauro regio e ’l nostrale, et il rododendro bianco e rosso; e volendo, si posson fare d’ ogni sorte arbori, sin di cipressi, di tamarigia, di leccio, e di tutti gli altri che tengono o che non tengono la foglia, perché piantandogli giovini piglieranno quella piega che sarà data loro, e s° assuefa- ranno ancora all’opera che gli antichi chia- mavano fopiaria, cioe a essere obbedienti alle forbici, si come per spalliere, e come delle mor- telle di Spagna e bossoli, per formare animali et uomini, vasi et altre cose; e delle quercie industriarle con le legature e cerchi sotto che le regolino, et altri legnami, e de’ lecci, olmi, tigli et altri, far loro pigliare la forma d'un tempio, d'un palazzo, con varie stanze disposte sopra i rami; et insomma fabbricarle in foggia d’un edifizio; ché tutti i garbi, tenere, piglie- ranno; e legate, in crescendo li ratterranno. Le diritture accanto del piantare gli arbori et i riscontri hanno a essere fatti a ragione e 55, con. ordine buono, che è quello che i Latini addomandano in cinquoncie, accomodandogli all’ usanza del cinque dei dadi, che seguendoli l'uno con l’altro a dirittura [o] a traverso, anzi per tutti i versi risguardando, abbi il riscontro, che così darà bellezza all’ occhio et utilità a loro, penetrandovi meglio il sole, la luna et i venti, e matureranno più presto e goderanno più il benefizio dell’ aere aperto e delle ombre. E siano di modo disposti, che ciascheduno arbore pigli tanto di cielo e di terra quanto di tutto ’1 gregge, e tanto 1 rami la parte del calor del sole quanto le radici del succhio della terra succino, occupando così manco spazio di terreno, come si vede per esperienza delle noci, che poste insieme con i suoi malli in uno staio v entrano tutte, che rotte e spezzate ne vogliono uno e mezzo, se vi capiono: tanto può l'ordine della natura fatto da lei. E perciò i saggi artefici, avendo messe insieme più opere in una tavoletta, distinguono con gli spazii, perché non caschino 1 ombre nel corpo. Ora il più bell’ ordine di piantare arbori che sia, viti, frutici et erbe, e che corrisponda meglio all’ occhio è questo quincunciale, che, oltre che dal dado, si può formare dalla X let- tera, attestandogli insieme, e dalla lettera V medesimamente, accozzandogli insieme e segui- tando le appiccature dall’un lato e dall’ altro, di sopra e di sotto, che tuttavia farà Il’ effetto di questo ordine. Il quale giusto ha a essere cosi, che ponendo cinque punti in linea retta, quattro ne seguitano sotto nel mezzo di quei vani, poi altri cinque corrispondino a quei di bd sopra, così si vadi seguendo, e verrà effettuato l’ordine del quincunce, o in quadro, o in aovato, o in rotondo; e nell’ aovato s' hanno a tirare nel primo, secondo e terzo cerchio; e quanto siano le linee distanti, tanto hanno a essere lontani l'uno dall’ altro gli alberi, et essi posti sotto quest’ ordine, che lun vano con l'altro sì risponda, e similmente i pieni intraversati da questi; di modo che, o guardando per un verso o per l’ altro, tutti si dichino insieme per un riscontro. Di questa maniera si veggiono essere disposte le porte delle quattro sale, che son le conserve dell’acqua delle terme di ‘Tito imperadore a Roma. Puossi ancora imitare le mandorle delle finestre invetriate e la fattura delle ragne, che similmente sono ammandorlate. Puossi ancora seguitare di piantargli in fila, che l uno con l’altro riscontri a dirittura per retta linea, acconciandogli di quadro in quadro, in guisa del tavoliere con che si giuoca a scacchi; et appresso questo, sì possono com- porre in triangoli e scalinoni, si che quelli delle punte riscontrino lun con Vl altro. E tutte queste maniere si possono a tutti i siti acco- modare. Si può ancora, se "1 sito lo comporta o ricerchi, andare di mano in mano stremando l'ordine quincunce, si che diminuendo l un dopo l’altro formi in terra a foggia d'una meta, cominciando in molti e finendo in uno. Ancora si possono piantare secondo le forme di tutti gli scompartimenti che si fanno dei giar- dini, ponendogli in su le punte dei loro angoli o di quelle che formano le lor piazze o strade. E se sia un partimento che cominci in quadro dI) et abbi in sè più quadri, che vadi tuttavia per indentro diminuendo e vi sieno linee che gli dividin per il mezzo, dovunque elle si raggiu- gneranno staran posti bene gli arbori, e bella mostra e gran compariscenza faranno. S ordineranno ancora, secondo i luoghi e siti che siano concavi o piani, in costa, in monte o colle o collina o spiaggia, queste pian- tagioni più in una forma che in un’ altra; il che, come delle distanze, si rimette al giudizio del buono agricoltore, che a questo e alla qua- lità del terreno abbi tuttavia considerazione, si come nel saper discernere ove convenghino le piantate a radice, le sementate, o i polloni o rami; e che d’ottobre nei luoghi temperati sin a mezzo novembre et a mezzo dicembre, di gennaio o febbraio, è bene mandare alla terra i semi delle piante; e quelli che vi sì mettono di ottobre hanno più tempo a macerarsi, mas- simamente di grossi noccioli. Ma il moro vuole essere sementato d'aprile a mezzo, come sì cominci a sentirsi ripigliare il caldo; ma se sia umido terreno et all’ acque suggetto, facciasi quest’ opera a febbraio e marzo. I [mori] nei luoghi freddi s hanno a seminar di estate, e se la vadi secca et asciutta, frequentargli con l’acqua. Ma il vero tempo a seminarsi in tutti 1 paesi lo rimostra la natura, che è quando, essendo maturi, cascano a terra i lor frutti; e questo è a tutti manifesto segno della perfe- zione della maturità loro. Onde, chi volesse avergli dentro delle frutte stagionate e buone, averebbe a mettere sotto loro disteso, ma so- speso da terra mezzo braccio, un lenzuolo che 56 le ricevesse senza offesa. Et i più minuti semi, come il moro, è bene seminare di primavera, massimamente nel terreno umido, per fuggire l’acqua dell’ inverno; ma se sia asciutto e caldo, si potrà comodamente far d’ ottobre, perché tanto innanzi abbino a essere fuori del terreno, che possino abbarbicare, e poi coperti venire innanzi con le frondi e fusto, quando si scuo- prono a primavera. Ma volendo che naschino bene i semi mi- nuti et anco i grossi degli arbori così fruttiferi come salvatichi, è di mestieri. apparecchiare nel meglio largo (') più grasso e più fondato del campo o del giardino, o dell’ orto, campo o campagna che s’ abbi, [un luogo) ben volto al sole e che non sia occupato dal meriggio in modo alcuno; e non parendo d’ avere nella possessione luogo a ciò dalla natura, riempiasi un quadro nel sopraddetto sito di buon terric- cio asciutto, trito e crivellato, grossovi un braccio e mezzo o due; e se è naturale si lavori sotto a tre puntate di vanga, tritandolo e mi- nuzzandolo bene, e spianato e pareggiato e conguagliato a modo l'uno e Y altro, Vi sì seminin dentro, come s'è detto di sopra, di primavera, se non nei terreni troppo umidi e freddi, e fuor che nei luoghi troppo asciutti e caldi, le minute sementi e le grosse; queste co 1 piuolo un sommesso sotto, lontano 1 un nocciolo dall’ altro un palmo; e quelle gettare a terra, avendole prima mesticate con grossa arena, ricoprendole in modo che non restin (1) Zzr0go, errore della stampa. aY1 sotto più di due diti, o uno e mezzo, annaffian- dole se bisogni; e vadi tanto rara la sementa minuta in terra, che nata e cresciuta si possi zappettare fra luna e l’altra; così seguendo ogni anno, sin che in capo a due o tre anni quelle [piante] che sono da traspiantare sì tra- spiantino, e quelle che sono da innestare s’ anne- stino quivi. Sia il Imogo compartito in aiuole (') di larghezza tale, che arrivandosi con allargar le gambe da un solco all’ altro, non occorra pestare con i piedi i seminati. Sono alcuni che procurano la nascita di queste sementi minute con il porre sotto terra tutto ’1 frutto intero, e massimamente fradicio, come di mele, pere, nespole, sorbe, peri cotogni, susini, peschi; e di tutti 1 salvatichi si spiccio- lino le sementi, come di arcipressi, di abeti, di pino, di larice, tasso, carrobbo, mortella e simili. Ma nelle pine sono alcuni che avendo co ‘1 maglio fracassata una pina, la sotterran tutta, adacquandovi assai; e come naschino, di quelli lasciano innanzi venire il più rigoglioso, disra- dicando gli altri. Ancora fanno il simile alle mandorle e pesche, cacciandone molte insieme; ma ciò nelle grosse e dure fa men bene, nelle tenere e minute pruova ottimamente, come negli aranci, limoni e tutte sorte agrumi, sorbi e pomi e melagrani. Et a quelli che sono semi- nati per l'autunno, usisi diligenza di seminargli tanto innanzi, che innanzi l’ inverno talora na- scendo, sl ritruovino coperti di paglia o letame (1) alveole altro errore della stampa, che non si legge neanche a volere. 58 crudo, si che non gli offendendo il freddo, pos- sino mantenere la tenera messa et attendere a ampliare le radici e fortificarle, per a prima- vera rinvigorire con più gagliardia. Sopravve- nendo l’ estate e strignendoli il caldo, con coperte di stuoia o giunchi tessuti o altre ver- mene o vimini o paglia distesa fra’ pali e legata insieme si tenghino ai grandissimi caldi coperti e difesi dal sole, scoprendogli (') la sera alla notte rugiadosa, sin a che il di vegnente pigli forza il sole, tuttavia annaffiando senza sole mattina e sera, se si cognosca l’ asciuttore esser- gli nocivo. E quando si seminano le [sementi] minute, se non sia la terra tutta crivellata, almeno quella che hanno ad avere addosso si crivelli minutissimamente, sendo prima ben lavorata sotto la terra. Si possono ancora se- mentare in diversi vasi di terra cotta pieni di terriccio stritolato minuto, o veramente simil- mente crivellato: ma quelli che saranno semi- nati in piana terra, sempre saranno più vegnenti e rigogliosi. E non sarà mala avvertenza tutti i domestichi, cresciuti all’ altezza d’ un braccio, tagliargli fra le due terre, se non se i mori e susini; e di quella vermena che sopravanza, s' assetta una vermena, scarnandola tanto avvan- taggio, che commessa nel fusto che s ha a insetare, scapezzato ancora rasente terra 0 almeno quattro diti presso a quella, avanzi da ficcarsi in terra almeno un palmo, e si man- tenghi intorno (*) fresca con acqua, se non sia (!) coprendole, di nuovo dopo coperti, la stampa. (*) intera, errore della stampa. i 59 umida da per sè; ciò aiuta ad appiccare l’ in- seto, sì come avviene a essere stato in terra da prima; in capo a certo tempo, che sia bene incarnato, si tagli sotto l’ apertura del fesso ove è incastrato l’innesto, e lascisi stare o qui, o si traspianti in lato buono in capo a un anno. Né meno aiuta a fare rigogliosi vegnenti [inne- sti] e da metter bene il pigliare sempre le marze grosse che da per loro son più aiutate e gagliarde, perché le sottili la fessura del legno in che le si commettono le riarde, e quelle contrastano alla forza del riserrarsi insieme. Similmente s' aiuteranno ad appiccarsi tutti gli inseti che sì faranno tanto presso a terra, che con essa sl possino rincalzare sino alla metà della marza, e tanto più di augumento ne sen- tiranno quelli che sieno insetati in su ’1 salva- tico sbarbato, che si ripianti subito tanto in giù, che le marze, come io ho detto, venghino ricoperte almeno tutta la legatura dell’ innesto sino alla marza. Deonosi le sementi degli arbori seminare in giorno sereno, asciutto e quieto, et in questo s hanno poi a scoprire a’ soli et aere buono, massime d'inverno, tenendosi coperte sempre la notte e mentre, come s'è detto, non vi possi dar il sole su. Alcuni accostumano di seminare così fatte sementi al principio dell’ estate, avendo fede che la caldura le aiuti a far na- scere, con il sovvenimento delle frequenti acque che si dia loro a quel riverbero del sole in tempo debito, meglio assai che in altra ma- niera, come i capperi e gli asparagi. Ma ciò si dee osservare e fare secondo i paesi [in] che 60 altrui si ritruova, sapendo che nei lati umidi verrà tuttavia fatto bene; e volendo pur veder cresciute queste piante in arbori grandi e che venghino innanzi, conviene a ciascheduno allo- gare il suo palo e levar via co ’1 pennato di mano in mano tutti 1 rimettiticci dai lati, e traspiantati fra due o tre anni in terreno ben lavorato affondo e divelto, se gli creino i palchi secondo l’ altezza che si desidera. Ma conviene appresso avere in notizia che questi tali arbori così nati, a volere che diano buon frutto e pruovino bene, vogliono essere insetati in altri, come s'è detto, o altri in essi della medesima razza, togliendo la marza dai migliori, o d'altra che e’ possin ricevere. Niuna pianta d’ arbore o frutto si dee porre nel core dell’ inverno, come è gennaio sino a mezzo febbraio, né meno quando abbi di già mosso o dato fuori. Adun- que piantisi o di ramo o di radice o piantone, di ottobre e di novembre, dopo che sieno ite sotto le Pleiadi sino al solstizio iemale, e di più quelle che si pongono con le radici, perché tutto ’1 verno per le pioggie s' adacquano e sicure s' appiccano. Piantansi ancora di febbraio e di marzo, e nei luoghi freddi sino a mezzo aprile; e di qualunque stagione si facci, è da osservare che si facci dopo mezzodì, tirando il vento dall’ occaso equinoziale a luna scema che sia sotto terra: così saranno fertili e di gran frutto. Perché se a luna crescente si pianti l’arbore, grandemente crescerà; se a scema, sarà più piccolo, ma più robusto e gagliardo. Ma certa cosa è che quelli che a piantoni si pongono o a rami, più convenientemente assai 61 si mettono in terra a primavera, perche allora tutte le piante muovono e allora da ogni parte si risente l'umore e rinvigoriscono, mettendo sotto. e di fuori; e piantate nell’ autunno ammortiscono, e talora, per il freddo dell’ in- verno o troppo umido, si perdono; e quelle con le radici piantate seguono, nell’ abbarbicare e nel procreare sotto nuove barbe, a dar fuori la messa più gagliarda a primavera e nel- l'estate i rami. Ma l’importanza è por ben mente alla qualità del paese, del sito e del terreno, che se sia molto freddo et umido, 0 che si possi adacquare nell’ estate, sarà bene piantare di primavera; ma se è caldo e secco, faccisi avanti l'inverno e sin tardi come a dicembre; e se dopo l'inverno, sia presto, cioé al fin di gennaio o principio di febbraio. Le piante che si piantano per porsi di ramo, se si facci di primavera, sia quando cominciano a purgar gli occhi fuori o assai innanzi; e se sì piantano avanti l inverno, taglinsi nel finir d'essere cascate tutte le frondi o poco dopo, et elegghinsi da mezzo il tronco in su verso la cima, e sì piantino da quella via; così ogni marza per insetarsi, ogni ramo per piantarsi et ogni piantone da porsi et ogni barbato da traspiantarsi si spicchino e cavino nel sminuire e mancare del giorno e a luna crescente, e così si ponghino e insetischino nel crescer della luna, con manco sempre che si possi dimora. I piantoni di qualunque stirpe (') sieno spiccati da arbori sani e di buona ragione, lisci e deli- (1) sorta, la stampa. 62 cati e senza magegna, di moderata grossezza; e si stacchino di quelli che siano ben rasenti al tronco e siano levati dall’ orientale parte dell’ albero, o siano piantoni o rimettiticci che venghino da pie, nei quali molti hanno più fede, come più propinqui all’ arbore e alla sua principale radice; e si elegghino non del mezzo tra 1 rami, ma del mezzo dell’ altezza, cioè verso la sua cima, di quelli tuttavia che vanno all'insù ('); e così si osservi dei piantoni degli alberi propri; nè siano spiccati da vecchie piante, ma da capitozze giovini; e piglinsi quelli di mezzo dalla corona dell’ arbore sca- pezzato. E perché meglio si possi e discernere e cognoscere di tutte le sopraddette cose et a che tempo far si debbano, diremo ancora un poco più oltre della natura degli arbori, ai quali importa assai la temperatura del cielo con la condizione dell’anno. Et in ogni luogo fa loro assai l’acqua; a tal che se gli averanno l’invernata tiepida e molliccia, s' avrà lor bene; e quella massimamente sarà approvata che abbondi di frequenza di pioggia mescolata con neve, a tal che chi pregò gli inverni sereni, pare che non lo facesse per gli arbori, per i quali par che preghi bene chi brama loro che la neve duri assai, perché questa non solamente rinchiude nelle porosità della terra la sua esa- lazione che sfuma in su e la ferma e tiene stretta e ritorna indietro alle radici di loro, (1) dell’ altezza, come di quelli tuttavia che vanno all’insu, la stampa. 63 per le quali l’ arbore piglia il cibo, ma ancora perche infonde loro il suo liquore a poco a poco, in acqua convertito, pura e leggerissima. Conciossiache la neve è la schiuma della pioggia celeste et il grasso dell’ aere, e 1 umore [che] di essa si fa non dilava e inghiottisce, ma in quel modo che s' ha sete cola da una mammella e distilla. Sarà adunque eccellente alimento agli arbori et alle biade e farà sempre, dove ella duri assai, molto fruttificare. Ma è cosa chiara che nell’ inverno s' abbino a desiderare le piog- gie, perche gli arbori, vacui del parto dei frutti e fatti languidi per la perdita delle foglie, è cosa naturale che restino con appetito di pa- scersi e consentaneo alla ragione; come anco, levato il lor parto, il concepire, cioè la germi- nazione, al tutto segue. E di poi vi è un’ altra cosa che gli vuota, che è il fiorire; perciocché egli è cosa di ragione che e’ germinino bene e fruttifichino quando v' è assai copia di alimento e buona temperatura di cieli; il che non si potrà già mai fare, se il freddo non li habbi assai tempo ristretti, co 1 che bisogna che gli arbori si concuochino e si stagionino, e le pioggie, cioè l’ alimento, gli aggiovino. Inoltre, se molti inverni durin sereni, le piante peri- ranno; perché, chi è quello che non sl muoia, patendo più di quello che non può comportare la fame, né avendo nutrimento? E di certezza che l’è cosa evidente che le pioggie son l' ali- mento loro, il quale se manchi, è di necessità che venghino meno. E chi è che dubiti, che se il calor internato non abbi di fuori alcun pa- scolo, fatto più potente a saziare il digiuno, 64 [non] consumi quello che dentro era d’ umore ? Il che si vede dove e quando van di gran caldi, e sia la terra arida, secca et arrostita ('), perché l umido viene consumato dal caldo, non essendo pioggie et abbruciando il terreno, quando niuno o picciolo umore se gli infonde, che possi nelle piante rinfrescare e nutrire il natio calore; et allora si veggono le foglie sco- lorite, poi passe, accanto secche cascare, indi le punte, et al fine tutte seccare; per il che si vede sempre perire più arbori l’ estate che 1’ in- verno; il che di raro avviene ovunque arriva l’inondazione del Nilo, che con essa dà quello che bisogna al terreno per tutto l’ anno. Adunque tutte le piante, tosto che manca loro il cibo, così come tutti gli animali, di fame si muoiono. Ma quando ha la terra inzup- pato l'umore delle pioggie, lo dispensa e dige- risce per le parti degli arbori e per le radici che sono la lor bocca, e l altre il ventre; al contrario dei razionali; onde alcuni afferma- rono l’arbore essere un uomo volto capopiée (°). Ora, quelle piante che tengono più i loro frutti addosso desiderano maggiore larghezza di cibo e più spazio di tempo; e tanto avviene a quelle che fan frutto spesso e più d’ una volta lo ren- dono, che secondo il frutto che e’ danno, mul- tiplicato come il fico, bramano il nutrimento; et a queste è utile l acqua serotina, come all’olive et ai pomi granati. È ben vero che (1) erestuans, scritto sopra arrostita. () Molto di questo periodo manca alla stampa: e per le ra- dici..... razionali. 65 l’acque si ricercano variamente a ciascheduna sorte di piante, maturando i frutti certune ad un tempo, altre ad altro; onde veggiamo con le medesime pioggie alcune restar offese et altre rasserenarsene, e talora nella medesima spezie, come nei peri; e si truovano ancora particolari cibi di alcune. E nelle provincie ove è la pioggia rara, come in Spagna, in Affrica, in Arabia et in molti altri luoghi, o la terra è dotata di quella intrinseca virtù d’ umore che lor bisogna, o per via della poro- sità della terra, ripiena di naturale umidezza a bastanza, o di fuori fornendola quell’ aere di rugiadosa temperie e di rugiada istessa per il bisogno. Sono ancora tra gli arbori chi agevol- mente cresce, e chi tardi viene et adagio innanzi, con tempo occulto. Quelli che sono di secca natura, spessa et amara, come caldi e di focosa complessione, s' augumentano con lentezza, come 1 bossoli, i ginepri, l’ ebeno, il guailaco, gli agri- fogli, 1 cornioli, i nespoli, le palme, i cipressi, i lauri e gli ulivi. Per contrario quelli che sono di natura rara, aperta e di umida complessione, e quelli che surgono intorno all’ acque, come il salcio, il pioppo, gli alni, che noi gli schietti alberi chiamiamo, il gattice e le vetrici, cre- scono agevolmente, perche l umidità fa gran nutrizione e porge aumento, come avviene che tutti gli arbori, se si ritruovin posti in terra umida, crescano più presto e vengano innanzi, e più presto ancora quelli che sono in luoghi freddi difesi dai venti. I terrestri son facili a crescere, come l’olmo, il platano, il tasso e l’acero e frassino, e lorno detto abor- " +) 66 niello, sua spezie ('), et il carpino. Quelli che hanno delicato legname più presto crescono come la tiglia, l’ostria (*), la picea, il pino, il pin salvatico, 1’ unedone (*), così detto da’ Latini, quasi mangiare un [cibo] che sazii (‘), che è il corbezzolo, e 1’ abeto; fra i domestici il ciriegio, il pero e "1 melo. Certi crescono più in gros- sezza che in lunghezza, come l olmo, il melo, il pero; et in questa il pino, l’ abeto, il cipresso e l’ albero e ’1 pioppo e tutti quasi quelli di ragia. Di primavera cominciano tutti gli arbori a impregnarsi di umore nuovo e muoversi, ti- rando Zeffiro, che da’ Latini si chiama Favonio e dai marinari Marino, intorno al principio di febbraio nei luoghi temperati, nei freddi un po’ più oltre. Le Indie non vanno con i nostri paesi, perchè in alcuni luoghi di luglio e di giugno v'è acqua e freddo, et il terreno tanto diverso, che in alcune parti arano con le capre, servendosi per bombere d'un corno di becco; e soprattutto si muovono a germinare il mese d’ aprile, detto così, perche la terra s' apre e fa aprire et apparire ogni cosa che gli è sopra; ma non [conviene] il medesimo tempo a tutti, anzi certo e statuito tempo a clascheduno; per- ciocché et in vari giorni, secondo la natura di (1) aborniello, e sua spezie, erroneamente la stampa. L' abor- niello è di spezie di frassino, ripete l’ autore nella parte seconda. (°) Sopra ostria sta scritto larice. Nella stampa è sostituito. © (3) La stampa corregge comedone; ma il Soderini ripete e spiega meglio il vocabolo unedorne, parlando del corbezzolo nella seconda parte. (4) quasi mangiare un [cibo] che sazii, non è nella stampa. 67 ciascheduno arbore, concepiscono, chi presto, chi tardi e chi mezzanamente; si come agli ani- mali è ordinato il tempo del lor parto, così è agli arbori del muovere e del fare i frutti. Ma di tutto questo è gran differenza da luogo a luogo, dalla diversità dell’ anno, dal sito dei luoghi e loro spezie, nel più presto o nel più tardi; e nel modo e [nel]l'andare dell’anno e temperatura varia del cielo muta il muovere, alterandolo in anticiparlo o ritardarlo ; et il sito ancora lo varia dalle quattro parti del cielo a che sieno le piante volte, il che secondo la loro natura le altera a muovere prima o poi. Le prime a farlo sono le palustri dei laghi et intorno alle ripe dei fiumi, poi dei colli, ac- canto dei monti e delle selve; ma secondo la lor positura al cielo, alcune, subito entrato feb- braio, principiano il dar fuori; alcune avanti che Favonio spiri, come nei lati freddissimi a Ida di Creta; ma in tutti i paesi le piante pri- maticcie germinano innanzi a tutte l’ altre, et è dovere per preoccupare la rendita delle sero- tine. Le salvatiche che non si coltivano met- tono e rendono frutto innanzi alle domestiche, conciossiache elle abbino in loro e lo manten- ghino il calor naturale, non si scalzando né scoprendosi le lor radici, perchè il calore è quello che le spigne a dar fuori, et alle dome- stiche avviene talora, essendo potate, di restar ferite, del che patendo e raffreddandosi, ven- gono più tardi a germinare. Ma in ogni luogo hanno determinato tempo di questo quelle che tardissimo muovono, alle quali già niuna a- sprezza dal cielo o dalla tarda mossa e soffe- 65 renza dai paesi [deriva], quando già d'un pezzo la clemenza, benignità e tepore del cielo si sia data a tutti nel circuito della terra. Il moro fra le domestiche [piante] e ’1 giuggiolo sono l’ ultime a germinare ; e da questa mora, che in latino inferisce indugio, è chiamato moro, e savio, chè non gli avviene a pentirsi come al mandorlo, che è tra le prime; e questo lo fa con tanta prestezza quando comincia a dar fuori, che fa quasi tutte le messe in una notte con un certo segreto stridore. Si trova una certa sorta di noce che è cosa rara che non muova innanzi al solstizio, e poi con gran pre- stezza muove tutto: e di questa fatta se ne sono veduti due, e dell’ altre ne possono essere. Alcuni prendono il muover delle piante dalle stelle: e la prima [mossa] domandano vernereccia sotto il nascer dell’ Aquila, la se- conda statereccia dal nascer del Cane, [la] terza autunnale dal nascer dell’ Arturo, la quale quasi a tutte comune giudicano manifestissimamente; e questa alle domestiche e massimamente al pomo granato et al fico. Certune per la troppa grassezza del terreno e morbidezza del cielo, alle quali insieme avviene, come quando è lungo l'autunno e placido, per il diletto di questo più abbondantemente s allignano (') e di nuovo spontaneamente si sforzano a mettere, e talora conducono il frutto, come i susini; e questo suole avvenire sotto il nascere dell’ Ar- turo nei luoghi freddi, et un po’ più innanzi ai caldi. E di qui avviene che in Tessaglia, Mace- (!) coglescunt, scritto sopra s’ allignano, 69 donia et in Egitto allora mandan fuori assai fichi, ma per il più questi svaniscono; ma ciò fa una certa particolar natura d’ arbori di fichi di quel paese, più dedita a generare e di frut- tificare più bramosa, la quale se troppo spesso per tanti sforzi s’ affatichi, poco con tutto ciò riposa, che di nuovo non ripigli le prime fa- tiche. Questa per consenso di tutti è piccolis- sima, né più di quattro mesi vive. Secondo alcuni la prima mossa è incomin- ciando febbraio, la seconda di marzo, la terza d’ aprile; ma queste tre germinazioni non così tutte mandan fuori, ma di questo privilegio è dotato l’ abete, il rovere e ’1 larice, perché le spargono fra le squamme la corteccia, di poi rompon fuori; e ‘1 lentisco ancora fa tre volte mossa e rigermina, come gli agrumi. Gli arbori sterili e giovani raddoppiano i lor germi, per- che hanno più d'umore e calore; e le [piante] fruttifere è di necessità che le mandino fuori il loro umore intorno al parto; le vecchie sono più secche et asciutte. Tutto il rimanente, come prima hanno cominciato di primavera, conti- nuano la loro germinazione allora visibilmente, ringagliardendola quando dopo parecchi di di pioggia sì scuopre di subito un caldo sole. Cosi fanno l’ erbe nate e che per nascere stanno; e dei castagni muovono prima i salvatichi che i domestichi. Innanzi a Favonio il sambuco e il corniolo maschio e femmina muovono, et il pruno (') bianco olivato gentile un poco in- nanzi all’ equinozio ; dal nascere delle Vergilie (1) primo, errore della stampa. 10 comincia a mettere il fico, l'ulivo e ’l1 pomo granato, l olmo, la tiglia, l’ acero, il carpino, il faggio. Quella è al certo la loro stella. Di poi l’alloro, il nocciuolo, il platano, e prima il sa- lice, pigliando pié ('). Entrando la primavera, mettono il noce, il castagno, il caprifico, il te- rebinto, l agrifoglio ; con le [piante] domestiche generano il corbezzolo e l’afarca; fa le sue messe tardie ancora il melo et indugia il pero salvatico: di tutte tardissima la sughera, l’area, la tea, il tasso (*); la rosa concepisce quando l’ alloro (8). Mandano fuore gli arbori le lor messe bianche, tutte pingui d’ umore; rompono la corteccia e s’ apre lor la cotica con crescer di nodi, e fra le squamme spargono la corteccia e mandano fuori le prime cime, e si vede venir fuori crescendo il loro ordine; il gambo anco allora sì spigne innanzi fuori e tutto 1’ arbore sotto e sopra piglia incremento; [ma mettono] variamente, chi dalla cima e chi dai fianchi, come il fico, il pomo granato, la mortella, il pero, il melo e la più parte degli arbori; tutto ‘1 resto non dalla vetta, ma per lato dai fianchi, cioe nelle nocciuole e nelle noci et in certe altre, le cui messe finiscono in una foglia sola; per la quale causa con ottima ragione nessuna messa di più non gli può sopravvenire, per la quale possi crescere, mancando il principio di poterlo fare. Tutte le messe degli arbori sono (1) Sopra pigliando è scritta una parola che la stampa legge innanzi e introduce fra il testo, ma che io leggo ineunte, e lascio fuori. (?) l’artia, la pia, la stampa. (3) 2 albero, la stampa. Io leggo alloro. ni belle, ma più sempre di tutto graziose quelle del pino, dell’ abete e del pino salvatico e della teda, perchè i nodi a tutti questi van su diritti di nodo in nodo, et i rami di pari ordinati si veggono. Nei frutti degli arbori si generano primamente le parti esteriori, perché i semi per lo più son legnosi e nocciolosi; per il che biso- gna procedano più lentamente. A tal che gli arbori sono come tutte le sorte degli animali, che bisogna prima che concepischino e [poi] partorischino, e questo fanno quando fioriscono, che è segnale espresso della rinascenza del- l’anno, della pienezza della primavera e del- l’allegrezza delle piante. Pertanto il fiore, rotti i suol pannicelli e coperte, si chiama che sia il parto degli arbori; l’allevarlo è nel pomo et al seme: e si come negli animali sono di quelli che non lunga- mente portano il concetto, con prestezza parto- rendo, e poco tempo durando a nutricare il parto; e certi in tutte queste cose mettono tempo assai; et altri, che se ben poco il por- tano, assai tempo con tutto ciò spendono in nutrirlo; et il resto finalmente, che se bene sia il concetto pesante, in poco tempo con tutto ciò lo mandano fuori; il che avviene in quegli arbori che subito dopo la germinazione fiori- scono et accanto maturano il frutto, come il moro e ’l ciriegio; ma il mandorlo fiorisce prima di tutti e tardissimo lo matura, sin a settembre, e di qui forse è che natura ha ordi- nato che si mangi in erba a rasciugar l umi- dezza dello stomaco, giovando a questo le man- dorle verdi. E ’1 ginepro germinando di prima- 12 vera, nientedimeno matura 1l parto in un anno, il quale finito, un altro lo preoccupa, affinché il vecchio, se si lasci in su l’arbore, si maturi. Il susino e ’1 persico [primi] fra i pomi fiori- scono, con tutto ciò più tardi il lor frutto sì manda fuori. Il tasso dall’ occaso delle Vergilie concepisce, poco innanzi al solstizio, si che lungo tempo porti il parto e assai più a nu- tricarlo; ma dopo avere un pezzo sostenuti i frutti, presto matura, come i peri e i frutti [di] certe sorte di arbori. Tutti gli arbori hanno differente la natura dei fiori, non tanto nel tempo, quanto nella forma della lor figura: i quali ancora, secondo la ragion del tempo, non son seguitati dai frutti con l’effetto di corrispondere loro. Pur, essendo ben fioriti; i frutti dan segno d’ assai frutte, se non sieno oppressati da nuovo acci- dente di temporali. Dopo il mandorlo seguono appresso a fiorire le meliache, i tuberi delle quali, fa menzione Plinio e Teofrasto dice, che sono radice e frutto della terra. Il persico, il susino, il ciriegio, il pero, il melo vien segui- tato dall’ alloro; [dopo] questi il cipresso, poi il pomo granato, poi il fico; dopo la vite fiorisce l'ulivo. Dei salvatichi il primo è il sambuco e ‘1 corniolo, l’abeto manda fuori i fiori intorno al solstizio, e ’1 pino e la picea lo prevengono di quindici di nel germinare. Dopo le Vergilie fiorisce il corbezzolo: del mese di luglio la noce pontica e la noce greca fiorire con il nocciuolo affermano alcuni. La cassia germina dopo l’equinozio autunnale e fiorisce. Cosi anco sono agli arbori, come i tempi d’ essi, differenti 73 1 fiori. A certi sono sfogliati (!), come al man- dorlo, al pero, al melo, al susino; a altri par- ticolari, come chi l ha lanugginoso, come il moro, l’ellera, il pioppo, la tiglia e l'albero, perchè questi hanno il fiore in tutti i frutti, ma né attaccato nell’ ultime parti, né in cia- scheduno circondante, nel mezzo inculcato ; [e] se già per la lana non si possi discernere cia- schedun altro arbore di per sé, l una dall’ altra gli porta differenza in qualunque modo, di grandezza e di figura. Né fra tanti un solo se ne ritruova o si può vedere che sia tutto al- l’altro simile, si come fra tutte le piante sal- vatiche e domestiche, frutici, sterpi et erbe, niuna n'è che abbi un verde che sia somi- gliante dell’ altre, perciocchè chi è più pieno di questo colore, chi manco; e tutti pur son verdi, ma sempre verdeggianti differenti verdi. Alcuni prima fioriscono che mettin foglie, come il pero, il mandorlo, il persico, il susino e ‘1 ciriegio; altri per contrario mandano prima fuori le foglie che ’1 fiore, come i peri cotogni, il sambuco et il sorbo, fra i frutici il rosaio ; et in molti non v è tempo a vedere chi sia prima di loro che eschi fuori, mettendo tutto a un tratto i fiori e le foglie. Sfioriscono, quando hanno a sfiorire, tutti in due di; niente di meno alcuni più presto et alcuni più tardi, assai intorno all’ ottavo ido di settembre; ma la cassia dopo l’ equinozio autunnale e in assai tempo. E cosa propria a certi alcuni bioccoli (°), (1) con foglie, scritto sopra. (2) amentum sta scritto sopra bdioccoli. (4 come nei nocciuoli, che chiamano /ulum, cioè composto di materia callosa che ha in parti colare un certo racimolato; vien su con un picciuolo prima solo solo e grasso, con minute et infinite squamme; questo nel verno si ac- cresce, nel concepire della primavera si apre e quelle squamme si dilatano in lunghezza, gon- fiando e diventando gialle; poscia spariscono. Questi caccian le foglie e fanno cadere. Alcuni stimano che elli siano in cambio di fiori, come appare nel nocciuolo, nell’ alloro, nelle noci, castagno e pioppo bianco ; et è chi afferma che quell’ amento lo ha Il abeto, il pino, la rovere e l’olmo e la tiglia, che quello che ell’ ha di la- nuginoso è il suo fiore, che non corrisponde all’amento degli altri. E questo a certi avviene come alla rovere, ai noci, al castagno, poco innanzi alla germinazione del tempo di prima- vera; a tutti gli altri, come ai nocciuoli, è come un certo concepimento fra l’ antecedente ostruzione e la seguente germinazione mezzano, e s'ingenera nell’ autunno, dopo cascate le fo- glie. Lamento è negli arbori come nell’ uomo la prima lanugine che spunta e barba (*); nel quale come [i peli] vengono crescendo, massi- mamente dopo il mutar della voce, che è quando ingrossa la gola (a tal che misurando con un filo dalla punta del naso al cocuzzolo dei capelli, né aggiugnendo questa misura al giro della gola, non accerchiandola affatto, ogni poco che si avanzi è segno manifesto di ciò), (') La stampa legge: lanugine e barba che spunta. tO) casca questo primo pelo, di poi in foglie e fiori si convertisce nella più ferma età, come quello a lui. E quanto ai frutti, nella maggior parte d'essi [arbori] si generano in mezzo al fiore, come ai mandorli, susini e ciriegi, né mancano di quelli che hanno il frutto che sta attaccato al fiore, o nel mezzo generandosi, vi siede, come i meligrani, i peri, i meli; e ne sono ancora di quelli, che ne cognosco uno, che fanno il frutto senz’ altro fiore in mezzo alla foglia, come il fico d'India; et uno n'è, come il carrobbio salvatico, che fa i fiori copiosissimamente nei rami e nel mezzo del tronco. Gli arbori ancora in fruttificando hanno dif- ferenza fra loro, in rendendo il loro frutto in diversi tempi e da diverse bande, perchè altri l’imponghino alle novelle messe e certi in su quelle di un anno, e ’1 resto dell’une e dell’ al- tre generano il frutto dall’une e dall’ altre; et è chi pone in generale della. differenza degli arbori, che quelle piante che sono per natura secche e dense, perché in queste coli parcamente il succhio rispetto alla densità loro, sogliono avere la novella messe debole et in- ferma, che non vale né a dare, spargere e tra- smettere abbondante Il umore, né a rattenerlo, come è negli ulivi [che] fanno il frutto sulle messe di un anno. E di queste talora a caso producono il frutto gli arbori, i cui frutti si sbattono con le pertiche, essendo costretti e forzati, rotte le novelle messe che sono fragili, a dar fuoriZil loro frutto per altre parti. Ma quelle [piante] che di natura sono umide, par- toriscono il frutto dalle messe novelle, e quando 76 in queste sia una furia di succhio, e che im un tempo possono insiememente mandar fuori il germe e "1 succhio, come "1 pero cotogno, la mortella et il nespolo ; producegli il fico dalle novelle messe, et alcuni le foglie partoriscono e "1 fico insieme. Delle messe d’un anno dà fuori il pome granato, il mandorlo, il pero; e dell’ une e dell’ altre quelle che due volte ne fanno, come il caprifico. Alcune anco rendono il frutto dalla lor cima, altre in sul mezzo del legno e tronco, come si disse del carrobbio, altre dai lati dei rami, il resto dall’ una e dal- l’altra parte, come l’ ulivo e 1 pero. Dalla cima gli fanno il pome granato, il tico, il nespolo, la mortella, il sorbo. La vite cava fuor tutto insieme da ogni banda. La palma sola fra tutte ha il seme nelle spate, in foggia di racimoli, che hanno foglie e messe, perché la sua virtù genitale tutta è ridotta e consiste nella parte sua superiore. Uerte portano il frutto sopra le foglie, come la mortella salvatica e 1° agrifoglio che lo porta nella schiena d’essa, come certa sorte di vitalba una palletta rossa, e nel mezzo della punta della foglia porta il suo corallo il pugnitopo. Particolare nascita è di quelle che fruttificano nel gambo, come il moro d’ Egitto, benché è chi afferma che elle lo dan fuori dai più gran rami, come il carrobbio e ’1 fico ci- priotto. Tutti gli alberi fanno il frutto posto [sotto] la foglia, perchè meglio difeso da quella, se non se il fico che lo fa per il primo, così che egli [l'] abbi sopra essa, e gli nasce più del frutto tardi la foglia. Scrivono bene, alcune sorte di fichi essere in Cilicia [e] Cipria d’ EL (i lade, che i lor primaticci frutti fanno sopra le foglie e gli altri sotto. Né rimostrano gli arbori quali erano acerbi, o di colore, o d’altro, 1 frutti maturi; e certi la forma inge- nita da prima più presto rappresentano in essi. E questo istesso è negli animali, che certi su- bito che sono nati s assomigliano al padre e madre, e certi non così presto, come l’ orsa che gli forma con le zampe dal massello con [cui] nascono di carne ('). Così i frutti innanzi che maturino molto van variando i colori, come tutte le sorte dei pomi e massime il ciriegio. La galla che nasce nelle ghiandifere, e pertanto è medicina, nasce per il più del mese d’ aprile, così la bianca come la nera, e nasce la maggior parte tutta in una notte, di di poi in di s' aumenta tutta, eccetto la ragiosa, che, se la sia sopraggiunta dalla sferza del caldo, mar- cisce, né può più aumentarsi; per il che molte di esse non riescono maggiori d’ una fava, altre diventano grandi quasi come una mela, ma sono giudicate inutili gallozzole. La nera più assai della bianca si mantiene verde. E così ancora, come negli animali alcuni sono più avidi di procreare, come che partorischino più presto e più spesso, et altri più tardi, e certi che una volta in vita generino, questo mede- simo nelle piante avviene, che chi più tardi e chi più presto, chi spesso e chi di rado pro- duca il frutto, e fra tutte con più abbondanza sempre lo fanno quelle che son già fatte grandi (1) Diversamente la stampa: del massello di carne com’ è NASCONO. (5 e cresciute e vecchie, che le giovini, che men- tre (!) attendono a crescere, mancano di frutto, andando più in quelle che in questo il nutri- mento, né valendo a supplire all’uno e all’ altro più che tanto; e se pure avverrà che ne fac- cino assal, quasi sforzandosi, morranno presto, mancando loro le forze, sendo come le giovi- nette che partoriscono per tempo e come quelle donne che più spesso partoriscono. Il sorbo avanti finiti tre anni non ne fa [dei frutti], e nei piani il più delle volte è sterile o li fa piccoli. E gli arbori quanto più invecchiano più tosto producono, e così quelli che sono in gras- sezza e che son posti a solatio, perciocché assai più che molto importa, a fare che più e men frutto rendino, la qualità della terra, non solo perché ella sia debole, ma squallida e scolorita. Ancora gli arbori a che s° ara intorno o si scal- zano, sono più solleciti a produrre, onde è cosa chiara che nei verzieri, scalzando loro d’ at- torno la estate, quando si cognosca che rab- brusca il tempo et è per piovere, è di gran giovamento, trascendendo l’acqua piovana alle radici a confortargli e rinvigorirgli. Le palme in Cipro per lo più dan frutto il quarto o quinto anno, et in Siria arrivate all’ altezza d’un uomo intero. Il mandorlo e ‘1 pero sono in vecchiezza fertilissimi, come tutte le ghian- difere, nei luoghi buoni e dove non manchi loro il fondo del terreno; et in questi bisogna scapezzare, potare, rinnovare, aprire i rami, far (1) naturalmente la stampa. 19 capitozze, levare il vecchio et allargarli che vi penetri il sole. Più tardi comincia l'ulivo a fruttare, e cavato il quarto o quinto anno dai seminarii e posto dove ha a stare, dopo due o tre anni comincia a farne; ma questo avviene ancora secondo i siti, le sorte e piante. In vec- chiezza più cattivi i frutti produce il melo e più spesso ne fa, ma più piccoli e più bacati, più sempre nel poggio che in piano. In India sono arbori che se non dopo cento anni danno frutto, come i liofanti a generare: e quelli che con più ampia larghezza e con più elevata cima s' innalzano e si diffondono sopra la terra, fanno il frutto minore, come il fico Indico, il casta- gno, la rovere, il faggio, il cipresso, perciocché 1 padri co "1 consumamento del nutrirsi vuotano et impicciniscono i figliuoli. Così fanno ancora quelli che sono troppo oliosi et obesi, come la picea, il pino, il cipresso, perché e tale produ- cono anco il loro frutto infecondo, somiglianti agli uomini troppo grassi e sconci di carne ('), 1 quali per lo più sono inutili a far figliuoli, per la voracità anco del cibo, come nell’ altre cose. Fruttificano di primo tratto e presto il pero et il melo, massimamente i paradisi e moscadelli di san Giovanni, et il persico prima di tutti questi, accanto il susino e l abeto. Et è ancora, quando sono carichi, in essi qualche particolare differenza, perciocché i ciriegi sono più fertili e pieni di frutti verso la cima, i corbezzoli, le quercie, i fichi, i susini, le noci e (') obesi scritto sopra. Nella stampa è introdotto nel testo, così; sconci, obesi di carne, 50) le marasche nella più bassa parte, et i lor frutti, più che sopra, sotto più grossi e sfoggiati, perchè di sopra il sole gli riscalda, e da basso, come più vicini alla terra, prendono nutri- mento maggiore, sendo da quella più aiutati et aggiovati. Certi vanno alternando i lor frutti, non essendo alcuni bastanti a produrre d’ anno in anno, come quelli che son duri e secchi di natura, come l'ulivo; e d’alcuni non matura mai il frutto, come del caprifico, il quale non è perciò inutile, poiché egli contribuisce ferti- lità a chi ne patisce con la caprificazione, della quale tratta Teofrasto a lungo. Dei fiori dei frutti ancora è differente la natura nei colori, [i quali] ancora son d’ una sorte (') negli arbori, perchè i fiori il natio colore et originario non mutano mai, sì come nell’erbe è il medesimo; nei frutti è il con- trario; et in molti credo che avvenga, perché nei fiori si consuma et abbrucia o incuoce l'umore, si che della troppo veloce sparizione dell'umore non patiscono più oltre, ne più lunga [è] la concozione; ma nei frutti l umi- dezza è più ampia, perciò in questi è più da durare e più lunga, sin che sieno capaci di maggior concozione; talché nella più lunga concozione sia necessario mutare i colori, si come negli umori e nelle collere (*) dell’uomo, di modo che il color che di poi viene, muti quello che era prima; et è il colore, come negli accidenti degli uomini della lor complessione, (1) son varie sorti, errore della stampa. (°) negli umori e colori, altro errore della stampa. SÌ nei frutti indizio della concozione, secondo la natura dei frutti. Certi son rossi crocei, alcuni altri rossigni o giallicci, altri verdognoli in rossiccio et altri verdi con tutto che maturi, come le susine che Catelane s’ addomandano, come di color d'erba, si che in questi non si possi mai prendere certo segnale della matu- rità; e di questo colore ne sono degli ottimi. Perciocche primamente in tutte’ le frutte il principal colore è il verde, vario nelle messe, come nelle foglie e nelle frutte, nelle quali non appare concozione alcuna. Segue di poi il color d’erba quando si vede la prima cotica, perché il verde, temperato con i razzi del sole, va pen- dendo in nero a poco a poco; così mescolato diviene di color d’ erbe, e quanto più son vec- chie più si fanno verdi, il che nelle foglie e nelle messe è di continuo. I frutti mutano questo colore, un altro prendendone nel prin- cipio dell’ estate, un altro all’ autunno, di ma- niera che per i tempi dell’anno vadino va- riando i colori. I colori poi particolari che dimostrano la maturezza ancora sono varii, come i negri dell’ olive e [del]le coccole del- l’alloro, alcuni gialli come gli aranci, et in alcune sorte di pesche, e le albercocche con queste, un po’ rosseggianti, altri negreggianti, come dei peri e meli certe sorte, il rimanente di color fosco ('), come le nespole e le sorbe quando sono affatto mature. E d'una spezie sola sì ritruovano varii colori, massimamente nei susini, nei ciriegi e nei persichi e pomi e 1 resco, la stampa con grosso errore. ? lo, 6 32 peri, nei quali son variati i colori, secondo che son diverse le lor sorti. La ragione poi della concozione del frutto è di due cose, dei semi e della polpa; per il cibo questa, quelli per per- petuarne la razza. E sono i frutti di più pur- gata e più sottile materia che le foglie o le corteccie, le quali sono più grosse e più callose, come il legno di queste medesime è più denso. I frutti consistono e di carne e di seme e di succhio, il che s' osserva dai noccioli di molti, perciocché dove è più dovizia di carne, quivi è il seme o ’l nocciolo minore, et il contrario avviene dove egli è più grosso, perche la carne è quivi minore e più insipida. N° abbondano più ancora le domestiche che le salvatiche di carne, et è minore nel coltivato che all’ inculto il nocciolo, perciocché con la coltivazione gli arbori prendono più d'umore, che va in aumento alla carne più abbondante. Ma sono differenti i noccioli di grassezza e grossezza ; ancora, altri son più legnosi; ma tutti sì gene- ‘ano di terreno e di legnoso alimento, ai quali condurre a perfezione è di mestiero manifat- tura maggiore e più tempo. Se più del dovere sia sopravvenuto lor del succhio che spinga innanzi con forza i frutti, dà nocimento che non venghino fuori. La sementa, come negli animali, si fa e compone di purissima materia. I salvatichi vanno più assai amplificando il seme, perché in un certo modo sono come maschi; perciocche con la cultura e con la copia dell’ alimento in una certa maniera si ranno effeminando, e quanto sono più caldi e secchi della qualità che sono gli arbori salva- 83 tichi, per questo tanto più apportano di se- menta. Maturano dunque i frutti tutti, parte per caldezza e parte per freddezza: perciocché il calore, come in tutti è manifesto, ottiene la forza del concuocere et è la semplice cagione della maturezza. Quelli che maturano per la freddezza, sì fa a caso o per ventura o perché così venghi fatto; perche a quelli che tardi si maturano, accade con Il operazione del tempo dell’inverno. Ma quelli, ai quali è il frutto umido et ignudo o coperto di sottile membrana, si conducono i lor frutti a perfezione più presto, come il ciriegio, il moro, il susino et il fico; per contra quelli che sono raccolti con più numerose coperte, e, per dir più in generale, tutti i dolci, con più breve tempo si maturano; ma tardi li che son grassi di succhio e che hanno il nocciolo più duro. Quelle [piante] che fruttificano con i racimoli, e quelle che perpe- tuamente tengono la foglia, e le fredde e secche, poco o assaissimo umore hanno, perciocché queste cose grandemente impediscono la con- cozione; e tutte le novelle piante a questo sono sottoposte. I salvatichi [arbori] se bene sono più gagliardi, con tutto ciò non maturano 1 frutti idoneamente, perchè sono ancora nel produrre i frutti più copiosi, i quali, quanto più fanno, tanto più prevagliono con le lor forze. Et è cosa consentanea che la concozione seguiti di farsi secondo il potere; per la qual cosa gli ottimi agricoltori, quando gli veggono carichi di troppi frutti, gli diradano a terra; ma i salvatichi sono più densi e più secchi, imperciòo attraggono a sé più succhio, perché S4 la concozione si fa dallo spandimento del- l’umore; che se l’ umore si tragghi in altre parti, d’ altrove [la pianta] non può cavarlo. Certi altri e verdi e maturi ad un medesimo tempo si possono vedere, come il moro e ’1 fico; et ancora nelle ciriegie et in qualche altra sorte. In alcuna parte dell’ Indie non maturano i fichi, se non sieno in qualche parte scarpelliti; e così in Grecia, il che avviene dalla troppa superabbondanza dell'umore; et ugnendo con l'olio il fiore, gli matura. I frutti si dicono essere maturi, quando sieno né troppo crudi, né troppo agri, né troppo sodi, né da cadere, né troppo smaccati, ma cresciuti il tempo suo. Aristotele afferma essere maturi negli arbori, quando è in essi una certa concozione intera, che è quando i semi dei frutti son fatti, sì che e’ possino procreare; che è quando innegrisce o rosseggia; perche per il seme cominciano a maturare i frutti l'estate e nella mietitura istessa. I primi sono le mandorle verdi che così mangiate hanno proprietà di rasciugare l umidezza dello sto- maco (*), poi i susini, l’ albercocche, I ermelline, e prima i ciriegi; nell’ autunno il persico; e tra questi ancora ne sono dei primaticci, i peri cotogni, la rovere, l eschio; e l'ulivo assai più tardi. Nel cominciare dell’ autunno rende il seme l’ acero, il frassino, il terebinto e Il’ alno; il corniolo circa al solstizio prima dell’ estate fa il frutto biancheggiante, di poi verdognolo, e accanto sanguigno; et intorno all’ andar sotto (1) che così... stomaco, manca alla stampa. Si delle Vergilie il leccio e ‘1 paliuro, e dopo che le sono ite sotto il pino, l’abeto e l afarco, perciocche il primo lor frutto maturano con l’uva; l’area nel principio del verno con i limoni ('), e lo tengono tuttavia sino al vegnente anno, non avendo sinistro che gli sforzi a ca- dere. Tardissimo maturano i ginepri, il corbez- zolo e ’1 celastro (*); serotina assai è la tiglia e l’ellera, e più di queste la tea e ’1 tasso. Ai peri e alli meli è difficilissimo poter assegnare il tempo della maturità, perché ne sono d’ estate, d’ autunno e da inverno, come nelle altre simili sorte di frutti serotini e primaticci. E perché non la terra ma la qualità dell’anno dà la penuria o l abbondanza dei frutti, conviene o dai cieli o dalla temperatura dell’ aere coniet- turarlo innanzi, perché così come da queste due cose avvengono agli uomini i sinistri delle ma- lattie e l’ essere sano, così segue dei frutti per il predominio dei corpi celesti, superiore a questi inferiori; onde previddero alcuni filosofi. Tra i quali Talete Milesio avendo preveduta la ca- restia dell'olio che aveva a essere dalla nascita delle Vergilie (e come poteva essere ricco, vo- lendo, per il sapere), lo fece palese; e tanto fece Sestio in Atene; e Democrito previdde e si guardò dalla prevista pioggia, alla quale non avendo voluto credere gli altri, a tutti nocé tanto. Affermano l’ Aquila nascere in Italia intorno ai venti di febbraio; innanzi a questa la ragione della natura vuole che niuna certa speranza si possi avere dei seminati e delle () l’area.... limoni, manca alla stampa. (*) ceratum, scritto sopra celastro. La stampa, ceraso. S6 piante; ma s' egli accaggia la volta della luna, tutti i frutti da inverno et i primaticci abbino a restare offesi. Diofane prediceva dover essere gran copia di frutti, se nascesse la Canicola stando il sole in Lione, e raccorsi dell’ olio se ella in Libra fosse, et abbondanza di tutte le sorte frutte che hanno di fuori la coperta le- gnosa; e se in Capricorno et in Ariete, simil- mente fertilità d'olio; se in Gemini, copia di tutti i frutti. Hanno tenuto molti le volte della luna la estate essere sicure, fuori che due di, e d'inverno le lune piene, né essere da temere che nei tempi di estate e nelle cortissime notti, né di non avere la medesima forza. Ma queste cose si possono mutare, quando ciascheduna stella non in ogni luogo a una medesima otta nasce, e fa di mestiero accomodarsi ai climi; oltre a che tutto è da referir sempre alla vo- lontà dell’ Eterno Motore. Ma per la cognizione che s'ha. dalle cose naturali e dall’andare dell’anno, si può, (non seguendo accidenti impensati in contrario), promettere abbondanza di frutte, secondo che faranno la germinazione, causata o dalla pe- nuria 0 dalla larghezza dell’ aere, pigliando il segnale dalla sua multiplicazione, non potendo sopperir la natura ai contrarii di pari. Ma l'abbondante e copiosa germinazione ne scema e danneggia qualche cosa, come quando le biade per troppa grassezza ricascano; il che avviene a quelli arbori che sono allegri e rigo- gliosi per la troppo grassa e buona terra, cau- sata dal superabbondante nutrimento furioso, che non dà loro tempo alla concozione. A certi 87 altri avviene il contrario, come al fico, ché egli germinerà bene [e] meglio fruttificherà; e se gli altri frutti sieno in terra mediocre dicevole a loro, et abbino messo assai, daranno gran frutto. Quanto poi al tempo che e’ desiderereb- bero, è nocivo loro il freddo che viene dai venti settentrionali e fuor di tempo, massime quando per la tiepidezza del cielo abbino già messo, e venghi poi di nuovo il freddo; allora abbrucia e recide le tenere e fresche messe che benigno e mite poco innanzi bramavano, e de- boli a mantenere quelle offese presto s' arren- dono, come i parti agli animali dianzi partoriti che sian cavati dal ventre, et han subito di bisogno della balia. I venti tardii nuocono alle salvatiche piante e più fan danno quanto più ombra abbino. È ben utile il verno in che tiri l’ Aquilone, e causerà utilissima germinazione, né più oltre essere da temere [del]le sequenti frut- tificazioni; ma ciò per la differenza dei climi non è a tutti comune; perciò s' abbi ogni lato la sua osservazione; perché dove giova Favonio, et anche a molte Aquilone, a tutto ’1 resto l’Austro. Imperciò le piante che sono disposte alla marina se ben sieno in magro, faranno frutti assai; con l’ Austro s' inteneriscono et inumidiscono gli arbori e gli indebolisce; et Aquilone gli fortifica, rendendogli atti alla con- cozione, rattenendo il lor calore e le forze inchiuse. Sono migliori degli Austrini i Favonii e gli Aquiloni, ma non a tutti, che ad alcuni nuocono. Cosi è per tutto e di tutti ('). D’ estate (1) La stampa: così é per tutto, e di tutti i venti caldi d’ estate; di primavera i freddi ecc. 88 i venti caldi, di primavera 1 freddi sono nocivi, perché in questa commossi per la penuria del- l’umidezza fanno i frutti peggiori, et in quella s' abbruciano. Sono pessimi tutti i venti, quando [gli alberi] sono in fiore, che fanno per la debo- lezza cascare ancora 1 frutti; e così avviene se piova assai, sfioriti che sieno; et è sî che si per- dono in tutto, come i meli e gli ulivi e le man- dorle et i peri ancora, se sia aere australe e nubi- loso. Il piovere è loro giovevole quando cavan fuori 1 frutti e quando fermi, sodi e fortificati sieno; onde è che perdono il frutto, quando avendo imposto non segue pioggia, come avviene ai fichi, perché dalla natura non è ordinato che tuttii frutti per l'abbondanza del troppo umore sì putrefacciano, sì soffochino o secchino, ma sî bene per la mancanza dell’ acqua. La pioggia intorno al nascere delle Vergilie è inimicissima all’ olive, sendo allora il lor costo decretato lor per quattro di. La grandine è a tutti inimica. Le cose superflue che agli arbori impediscono ‘la generazione sono da essere levate: la rogna, la forfora, il musco et altri escrementi superflui, tutte le cose putride, secche, mal nate, ceppi spessi, vette secche, che togliendo 11 nutrimento impediscono il crescere et infettano 1 altre parti, e massime alla mortella et all’ ulivo et alla vite. Il musco rosso è una peste agli arbori; i quali, tenendosi netti, non contrariando 1 cieli, fruttificheranno. Alcuni arbori sì nutriscono per la corteccia, alcuni altri piglian vita da questa e dal legno, alcuni da questi due e dalla mi- dolla; l'ulivo ha gran vita poiché vive con l'offesa di tutti tre; e "1 fico, guasto dentro il legno, lo mantiene la buccia sola. 59 Sono appo gli arbori della maggiore sta- tura i frutici della minore, che di poco trapas- sano l altezza d’ un uomo, e sotto questi ancora son piante minori. Ma 1 nome d’arbore è nome generale che comprende ogni pianta che sopra la terra surge. Nell’ Indie, per essere tutti gli arbori grandissimi, quelli che a noi son frutici, come che le canne faccin cannelli per far bat- telli capaci a portar quattro o sei, sono le altre piante maggiori di smisurata grandezza, né vanno con questa regola. In Arabia scrivono il corbezzolo essere di cinquanta cubiti. Alcuni fra gli arbori fan cespuglio, crescendo a un tratto parecchi insieme, dopo che rasente terra tagliati si sleno, come il castagno, il salcio, la mortella, il melagrano, il nocciuolo e la quercia, il sambuco, il lentisco e ‘1 citiso, e tutti gli arbori da taglio delle selve che rimettono. Et arbore propriamente par che si dica quello che cresce a giusta grandezza con un tronco solo ramoso e surculoso. Le polpe negli arbori son quelle che negli animali si dicon muscolo, infe- conde a germinare e fendibili; onde avviene che percotendo la testa d'una trave con l altra parte si senta all’ orecchie si gran rintuono, penetrando il suono per i ritti meati e pori, donde si comprende se ella sia torta ('). La mi- dolla è il cuore, per lo più negli arbori vario sempre dal rimanente del legno di colore. In certi è tenera la corteccia come al fico, ad alcuni dura e soda e densa come al corniolo, (1) sentimenti invece di ritti meati; rotta invece di torta; errori della stampa. 90 rovere, citiso, susino, moro, ebeno, loto, tasso et olmo; del fico è carnosa, ferma al granato, legnosa al lauro, all’ abeto, al pino; alcuni l’ hanno dispersa per tutto il legno, come il bossolo, ulivo, leccio e loto et abeto; altri non l’ hanno, come la palma e ’1 corniolo maschio. Con mallo si chiuggono le noci, con cuoio le castagne alle quali si cava; alle nespole si mangia. Con una crosta si cuoprono le ghiande, con cuoio et una membrana i granati, con cotica o pelle e carne le ciriegie, le more con la cartilagine e carne e succhio, come gli uomini; le pere co ‘1 callo come le mele, co ’1 corpo le melimele. Certi subito si spiccan dal legno come le noci et i datteri, alcuni vi restano attaccati, come all’ alloro et all’ ulivo, e l'uno e l’altro avviene nelle pesche; ad alcuni né fuori né dentro al legno, come a certa sorte di palme. I semi sono riposti in tutte le piante a varii modi, ma nell’ intime parti tutti dei frutti, come più cari; e niuno l’ ha vestito e spogliato; e nei più non sì mangiano, perché si conser- vino le spezie, e sono umidi e caldi per la gene- razione. Certi sono coperti di dura scorzetta, come nei peri e meli, certi di liquore come 1 melagrani, altri nell’ istessa carne come le more et il corbezzolo, dentro alla carne come il nespolo e le sorbe, nel legno alle pesche, susine e ciriegie. Altri l’ hanno in baccelli, come il carrobbio, la colutia e la cassia, e tra i frutici lo sparto, la ginestra, la spina. Producono gli arbori il visco, e le quercie galle nere, galle bianche, galluzze, gallozzole, tuboletti rossi vi- scosi e nel mezzo delle foglie taluna una pal- i letta soda, bianchiccia, funghi, funghi duri, entrovi (') l’esca che si cuoce con ranno, poi si pesta e batte; e queste più i cerri che loro. Sono le radici copiose alle quercie et al cerro, al pino, al platano; brevi e corte al melo, sin- gulari all’ abeto alpino, al larice, avendo[ne] una sola diritta, con l’ altre poco allargandosi; al fico minutelle, all’ abeto pelose con assai capelli; l’alno (*) le fa sottili, il sorbo rade e grosse e che non s'infradiciano, inequali e più grosse all’ alloro et all’ ulivo, al quale sono ru- gose; alla rovere carnose, all’ acero nervose, nodose e villose all’ ulivo. Serive Ovidio l’ ulivo avere la femmina et il maschio, e l’ alloro ; nella palma è manifesto che s aggiungono et agga- vignano volentieri insieme. Le femmine sono più feconde; così sono i peri, i meli, che più ne fanno e più crescono. In alcuni son più fer- till i maschi, come l'incenso in Siria, e la fem- mina è sterile, così ne "1 visco. Altrove questo fa le gocciole schiacciate, quello rotonde. Il corbezzolo ha il maschio e la femmina; i sorbi maschi e 1 bossolo riproducono; l'alloro maschio niente altro che l’ uva, e più il maschio cipresso, del quale la femmina è gran tempo sterile. Il tiglio maschio nè fa fiore nè seme, la teda maschia solo la ragia; il terebinto ha doppie le femmine, rosse e pallide; il leccio è femmina, altri lo credon maschio e la sughera la sua femmina. In alcuni genera cosi la femmina come il maschio, ma sempre più la femmina. (1) granini, errore della stampa. (2) ontano, scritto sopra alno. 92 Il corniolo maschio è sterile in Ida, produce intorno al solstizio; la femmina dopo Vl autunno. Il tasso maschio fa il frutto velenoso. L'inseto gli variarebbe tutti. Ha il pistacchio il maschio e la femmina che fa più sodi i pistacchi. All’abeto femmina nella prima parte sono i noccioli, non già alla picea femmina. Sono i noccioli a tutti i maschi più compressi, la ragia men rugiadosa ('), più rotonda e non occupata da vermini; più tardi si maturano. Alla quercia femmina è la ghianda più delicata (°). Nei maschi è più calore, perciò più foglie e più piccole. All’ abeto maschio sono le foglie più pungenti et acute e più piegate, più crespe, tutte più liete. Il pino si tiene che sia tutto d'un sesso; altri credono che il maschio abbi la foglia più dura et il corpo più raccolto, e tal differenza essere nel pino salvatico, nella picea, nella teda e nel larice, nel quale è la femmina di color melato. Il maschio dell’ ellera ha la foglia più grassa e più dura, il fior ros- siccio e di corpo maggiore. Le ferule maschie dividono il gambo da basso, quelle [altre] dalla cima. Il corniolo maschio ha la foglia di man- dorlo, più grossa e grassa, la corteccia nervosa e sottile assai, il gambo poco grosso; la fem- mina fa mazzi sottili, più da banda producen- doli, con coccole acerbe, non tocche dagli ani- mali. Le canne femmine sono più vote, al maschio più spessi i nodi e men capaci. Al (1) viscida, scritto sopra rugiadosa. (2?) piu tardi si maturano alla quercia femmina, e la ghianda è più delicata, erroneamente la stampa. 95 tiglio maschio la corteccia cavata mal si piega, alla femmina più delicata come al faggio. La femmina del cipresso apre le braccia, il maschio in alto le serra raccolte; il legname del maschio è più ritorto, nodoso, sodo, colorito, odorato più per il calore, più duro a lavorare; la fem- mina tutta contraria. Nel cipresso, abete, larice, corniolo e tiglio il colore [è] più nero. Il cor- niolo femmina ha il legno fungoso, il maschio sodissimo. Il legno dell’ abeto maschio è di color vario. Così l agarico, vario dalla femmina. Il platano è vedovo e a tutti gli arbori vedovi sopra vanno volontieri le viti. Il pioppo nero in Candia fa frutto, quà non pure un fiore. Del cedro arbore quello che fiorisce non ha frutti, e quello che fa questi poco fiorisce. È una sorte di meli che non fiorisce et è una sorte di palma che sempre n’ ha delle mature. I frutici che saranno salvatichi, con la sola cultura appari- ranno domestichi. Nel balsamo non è salvatico, ne vuole essere potato; chè spuntate quelle vette per trarne il liquore, ne fa altrove che dove si disse. In Cipri et in Candia scrivono essere stato un platano di perpetua foglia. Al cipresso, al pino, alla mortella, all’ alloro cascano le vecchie foglie fra le nuove e sempre sotto rinascono. L' ulivo sempre serba il suo vestito, né con niuna germinazione di foglie muta quelle che ha; così fa la persea, il susino d’ Egitto, il cedro arbore, il balsamo, la carrobbia ceraum- nia; dei salvatichi il larice, il pinastro, il gine- pro, tasso, teda, terebinto, l agrifoglio, il leccio, la sughera, la picea, la lecciastrella, la tea, l’afarco, il celastro et il filoduno. Nei frutici 94 sta sempre verde l’ ellera, la gabia, il rododen- dro, il lauro regio camemorsine, la tamarigia il robo e la spina acuta ('); e di tutte è causa la gran calidità, dice Plutarco, come nell’ alloro et in tutte l oleose; ma la mortella è tenuta fredda e tuttavia sta verde. Presso ai fiumi gli arbori tengono più la foglia. Nel faggio, quercia, carpino e rovere o cerro si truovano assai volte le foglie a farsi lato l'una all’ altra. Il moro è Pultimo a germinare e primo a chi caschi la foglia. La gomma è una lacrima congelata e rassodata nei tronchi degli arbori che la colano, e fa nel lentisco, olmo, susino e ciriegio (detta orichicco) e pesco; tutte buone a rintenerire i calli, rintenerite (°) nell’ aceto, impiastratevi sopra [per] poi tagliargli. Il visco, oltre alli sopraddetti, vien prodotto da’ peri, meli, sorbi e susini; e quindi lo spaccia [e] lo produce ancora il cerro (3). Le pillole 1 abeto, il larice, la picea, il tiglio et il platano et il rogo; la pillola è in medicina avente forza d’ abbruciare. I boleti e porcini fanno a pié dei cipressi alcuna volta, e più delle quercie e cerri; a’ resiniferi cattivi, a pie di queste buoni. Tra i ghiandiferi quello che si chiama agelospanos, avente un viscoso vello bianco, gli fa non solo nella cor- teccia, ma che pendono dai rami un cubito, odorati. Hanno un umore gli arbori che è loro in lato di sangue, chiamato da certi liquore, (1) tamausia, invece di tamarigia, che si legge chiaro; r090 per robo; e via la spina acuta. Cosi la stampa. (2) mollificate sopra rintenerite, adottato dalla stampa. (3) e granati invece di e quindi che leggo io, la stampa, Come ha spacca, invece di spaccig che è naturale, 05) da alcuni lacrima, nella corteccia, e più quando muovono; ma il buono è fatto il frutto; chi n’ ha assai e chi poco, a molti non punto, a altri bianco e lattato come nei fichi, ai ciriegi gommoso, agli olmi salinoso, lento e grasso. ai meli, ai peri, acquoso come una lacrima al ginepro et a tutti 1 resiniferi, ai quali s'° aggiu- gne quello che fanno l'incenso, la mirra, il mastico e "1 balsamo. Ancora i sapori dei frutti sono varii; altri acerbo, agro, mezzo sapore, aspro, dolce e ma- turo, forte; e chi lo muta, come fanno le olive, d’amaro in acerbo e poi dolce; altri austero, che diventa poi dolce, come le pere. E di tutti i lor principii sono legnosi e secchi et acerbìi, e poi con progresso di tempo si fanno più umidi, e vien via certa acidità, partendosi l’acerbezza. Alcuni da questa subito passano alla dolcezza, come le ulive che co ’1 caldo maturano e sì cuocono, essendo l’ acidità e l’acerbità dal freddo. Né tutti d’acerbi si fanno dolci: certi inacidiscono, altri grassi, altri austeri; tutto il resto rimangono acerbi, come del corbezzolo, del leccio e del faggio e cor- niolo; solamente i teneri raddolciscono senza alterazione. Et i frutti ancora colti mutano sapore, come le pere bergamotte, sorbe e nespole, benché di queste son le mollesi Siciliane che maturano in su ’l frutto, e così cavandogli la buccia si fan buone come le castagne secche al fuoco; et appresso a queste le nocciole. I frutti rimostrano il sapore della lor pianta tanto più, quanto più sono acerbi. Hanno ancora odore, come le mele appie e le pere moscadelle, e colti 96 n’ acquistano, sendo più odorati nei lati asciutti che negli umidi, acquosi o ombrosi. Hanno ancora odore, [secondo] i siti dei luoghi e le nature. Sono i salvatichi più odorati, i piccoli, benche al gusto amari, talvolta acuti, agri e suavi, come i peri, meli, nespoli; i dolcr hanno odore, come i fichi; altri l’ hanno nel fiore, alcuni nel frutto, et altri nella foglia; et a molti in tutti questi; in fiore quasi tutti e sempre. I salvatichi han vita più lunga dei domestichi. Il melarancio è di gran vita e n’ è uno a Santa Sabina in Roma, piantato da san Domenico. Nella selva d’ Eudona, già Ercinia, sono arbori dal mondo nato e tanto intrigati, raggiuntisi 1 rami, che si può camminare per essi le centinaia delle miglia, senza toccar terra; e; consiste. di; quercie,. tiglie; pini, linchtd)i frassini, loti e farnie; un loto ha d’ ottocento anni (°). Alcuni dopo la corteccia hanno il legno, e per cuore hanno una fungosa midolla, come il sambuco; certi vuoti, come le canne; a certi la polpa senza vene. In tutti gli arbori le radici si possono met- tere per 1 piedi, il tronco per la statura del corpo et abito, 1 rami le braccia, et i cauli et 1 pampani e foglia per la palma della mano; e così come negli animali l’ ossa, i nervi, la cotica, le viscere et i peli si ritruovano, le fibre, le vene son parti similari, così nelli sterpi il legno, la radice, la corteccia, la fronde sono le lor (') La stampa ha ommesso questo albero, di cui l’ Autore parla nella parte speciale. (2) Ottocento novantanove la stampa, per uno sgorbio male interpretato del codice, 97 parti similari. L’'arbore rappresenta un uomo a rovescio; poiche le radici sono la lor bocca con che elli si nutriscono, e le minutissime bar- bicole son le fibre, con le quali succiano e spop- pano la terra, confiolandosi con essa lei. Il tronco è quasi il corpo della pianta, et i rami 1 bracci, e gli spartimenti di questi, in surculi 0 tenere messe, i diti; le schiene chiama Plinio (') le parti sotto alle cime che vengono in giù; il cervello l’ultima vetta loro, i nodelli 1 nodi donde suscitano le lor messe nuove, con nuovo ordine a doppio, come l’abeto e pino; ma i nodi nelle piante, somiglianti ai nervi Aristo- tile (°) gli reputava.. Gli occhi nelle tenere messe st chiameranno, d'onde ne naschino altre nuove ; e le gemme son quelle d'onde nasce la tenera messa novella; e l’ ali, come la concavità dei bracci nell’ uomo, negli arbori [sono] simili sotto i rami, da prima concavi in loro, massime alle [piante] tenere et alle quercie più che più; la fronda degli arbori è la chioma, come negli uomini il capello; il pollice, Columella così figura quelli che restano dall’ essere scapezzate le vermene. E quanto alle parti interne, il sangue sarà il loro umore, la cotica la cor- teccia, e sotto la carne; altri la mettono tra i nervi e le vene; ma non in tutti è carne et in certe carni di loro sono le vene e le polpe, et altri domandano nervi; il che si vede maggior- (1) Il tronco.... di questi manca alla stampa, e quindi manca del tutto il senso letterale del periodo. La stampa legge Plutarco, io Plinio, citato anche appresso. (°) Aristotile manca alla stampa. 95 mente nei fichi che si seccano, ché elle riman- gono. Le vene sono più larghe con 1 rametti più bianchi, e sono quelle che sono nelle foglie con quelle che spartiscono la foglia, rilevandosi, con certe costolette piene d’ umore: certi le chiaman nervi. Le polpe negli arbori son quelle che negli animali si dicono muscoli, infeconde a germinare e fendibili. I pettini chiama Plinio le linee rette per la lunghezza, composte modo di pettine; la matrice [con] le viscere tutt’ uno, e sì distingue co "1 color diverso, e sta nel mezzo, come apparisce nel cerro e nella quercia e nel noce; dettane [la quercia] isca. Al moro son le polpe d’ una sottile orditura; a certi è la polpa senza vene. Quelli che non han polpa piuttosto si rompono che si sfendino, come l ulivo. I pettini al faggio sono nella polpa traversi. Negli arbori è l’anima, che è una vegetale e nutritiva virtù innata loro, con la quale at- traggono dalla terra il lor cibo e crescono. Sono fra gli arbori [degli] evacuati, che sono sterili, come le canne e le palme in alcun luogo. A certi animali sono le glandule; et i tuberi, pelle e pori nel cedro e nell’ acero ; e come essi hanno gli escrementi, come sono le gomme, le lacrime, e certi corpicciuoli teneri e cenericci che si veggono intorno alle barbe degli sterpi, e il convertirsi delle foglie e corteccie fradiciate in terra. La digestione e concozione ancora in essi sì vede, come certa lanugine, come nelle mele ; et altri segni in altri. Ancora viene dai siti, che quelli che possono stare nei freddi han più calore. Diogene dall’ acqua che marcisce con 99 una certa mesticanza con la terra teneva che nascesser le piante, altri dall’ aere, altri dai quattro elementi; Pittagora dall’ anima del mondo, che tutto animasse e nascer facesse. Così stavano in dubbio gli antichi di quello che la cristiana verità certifica venir dalla Divina Bontà, che le fa pigliar nutrimento sin dalle fessure dei sassi, spezzargli e talora incorpo- rargli e far che le si procreino e maschi e fem- mine da per loro per concetto, cioé seme, e non per ammissione d’ esso; e quelle che non hanno né maschio né femmina si possono do- mandare vedove, come che sterili e che non fruttificano. Tutte quelle di ragia hanno più spessezza di rami. Tra i domestichi il fico, il quale ficca le barbe nella sommità del terreno, et il cerro ancora, per lo più tanto a galla che si scuopron mezze, e non pur un solo ne viene sbarbato dal vento, ma una selva intera. Il lauro ancora e l’ ulivo per diritti meati di- scende con le radici a basso; il susino ancora va profondissimo e ’1 nespolo con assai barbe ; per questo son diuturne et inestirpabili. Tutte le ghiandifere van bene sotto con le radici. Alcuni hanno affermato, gli arbori salvatichi, o perché vengan di seme trasvettato dagli uc- celli o cascato da sè in terra, non aver troppo affonde le barbe; ma l’esperienza rimostra il contrario, che quanto più abbin vissuto, tanto più addentro le cacciano, né muta il nascer da seme in questi la natura dell’ arbore. Più di tutti le addentra il leccio e ’1 terebinto, più largamente le sparge il cedro arbore, la cui radice è grossissima, tiene e riempie assai lato. 100 Da questo il platano, come in Atene in Liceo ('), n'ebbe di trenta piedi; purche abbin luogo netto, facile, espedito, van quanto vogliono. In cima della terra si gode il cipresso e ’1 pome granato, il melo, ciriegio e "1 tasso. Il sambuco non ha molte radici, né grandi; e nella cotica della terra sguazza il ginepro. Quelli che van più sotto, bisogna da prima porlìi in giù quattro piedi; a tutto ’] resto sarà assai ficcarli in terra due o tre piedi, st che ciaschedun arbore se- condo la sua grandezza abbi le fosse più pro- fonde: e a certi non descendon più a basso le radici, che si penetri il sole con i suoi raggi a rintepidire e scaldare il terreno, e ciò secondo la natura del luogo. Dei pini se ne sono trovati andare otto cubiti in giù ; et era torto e non cavato affatto. Nè per vecchiezza le radici si scortano, né meno fanno seccare gli arbori, il che si vede nel fico che ha le radici lunghis- sime e presto vien meno; e s'è visto una quercia per tempesta cascata in terra sbarbata [aver occupato] un mezzo staioro di paese. Di certune è più vivace la radice intorno alla su- perficie del terreno, come dell’ alloro, ma tutto che gl abbi seccato il tronco, tagliato rasente terra più abbondantemente rimette; così av- viene a’ castagni che tagliati a terra più ga- gliardi rinvigoriscono ; et a’ platani, che son carichi di foglie e di rami, avviene talora il rovinare a terra, e scapezzati sì ripongono nelle sue fosse e si rattaccano. Così si fa al moro e (?) Zicia, la stampa; con grosso errore. 101 all’ ulivo e a tutte l altre piante che son ca- riche di assai fronde ; et ai noci in Provenza accade dalle ripe del Rodano cascarvi drento, e trasportati altrove, ripresi e capitozzati si ripiantano e s' appigliano ; e a questo e a tutto che si traspianta e traspone e si leva da luogo a luogo per porre, o si stacca dall’ albero, o sì leva da pie, o sì taglia da’ rami, o spicca dalla cima, e a tutti piantoni, talee, surculi, clave e stoloni è bene osservare le bande della buccia e suoi lati, a che verso del cielo sien volti, se- gnandoli un qualche contrassegno da poter ri- conoscergli, per potergli voltare ai medesimi lati del cielo in riponendogli; e così si facci ancora le marze, o almeno dalla parte che han più occhi, o non avendone che un solo, sia con questo e quelli posto sempre volto ad oriente, né si spicchino quando la luna è nel colmo, perche allora faranno dei vermini o s' immarci- ranno. Alle piante delicate e che temono il freddo, come i fichi e tutti gli agrumi, per di- fesa si ponga un bucciuolo o covon di paglia o altra coperta migliore in cima che gli difenda dal gielo, massime quando ciò si faccia d'’ ot- tobre et in luoghi non così tiepidi e temperati ; e quando si cavano con le barbe, avvertiscasi che non se ne rompino, e se alcune ne restino offese, taglinsi e levinsi via, lasciando solo le sane e le più piccole, e queste si spuntino per incitare a rinnovar le messe ; et esse si disten- dino in sul terreno, e procurisi che vi sia attac- cata più terra che si può della loro, e massime quando s' hanno a trasportare in qualche parte più lontana, fasciando in panno bene. E volendo 102 far razza di qualche pianta, tirisi a terra un rametto di quella, inarcandovela sin che cavi fuor la punta, tanto che metta le radici, le quali fatte, si sbarbi, tagliato dalla madre, e traspianti. I piantoni degli arbori di condizione deono piantarsi in fosse stagionate d'un anno innanzi o almeno di tre mesi, o vero in divelti lavorati a dentro di terren buono e che si dica loro, come a’ fichi, peri, meli, susini, ulivi et altri simili fruttiferi. I salci, i pioppi, gli alberi, i gattici e simili che a piantoni vengono et a ramo ('), fatta la buca a dentro il bisogno, si prenda di più il palo del ferro, e nel mezzo del fondo d’ essa si facci ancora un braccio all’ ingiù un foro tanto largo, che v' entri il calcio; e pil- latolo bene, accanto si riempia la buca, pigian- dogli il terreno che vi si rimette attorno, fa- cendo che "1 gambo sia recinto dalla terra cotta dal sole o concotta dai freddi. Et è meglio aguzzargli che sfendergli, e più di tutto tagliati pari, intaccandovi la buccia per un braccio d’ attorno destramente con un coltello, per lo lungo e per traverso, perchè di quivi si risen- tirà a dar fuor le radici e pullulerà su meglio. E quanto al modo di venire in razza d'un ar- bore fruttifero dell’ istesso, senza l’ innesto, non sì potendo calar in terra il ramo, accomodisi retto in su pali un corbello tessuto fitto, pieno di buon terriccio e vi sì facci passare di sotto il ramo [che] vuoi, e come vedi con l adacquare e co "1 tempo generate le radici, taglia sotto e (1) a mano, la stampa, erroneamente. 103 traspiantalo. Ma il piantone che si spicchi o ramo che si tagli per piantarlo, sia di buon ar- bore; e l’uno e l'altro si cavino e stacchino dal mezzo in su dell’arbore per di dentro accanto al suo tronco e di verso oriente, che così farà più sicura e miglior pruova; e se sia ramo, si scoscenda verso terra, si che rattenga seco del vecchio, e massime gli ulivi e simili che s° hanno a staccare dal fusto o d’in sul calcio; e se è ulivo, con gran zoccolo al piede e del vecchio assai; e si può ancora, avanti che e’ sì spic- chino, ricoprirne con terra posticcia, si che vamplifichi le radici. Tutti i piantoni che si pongono non si deono lasciar fuori della terra più d’un palmo, perché abbin più ristretta la virtù a dar fuori; ma se vi sia pericolo del pascere dei bestiami, ponghinsi nel terreno tanto più a dentro e fuori d’ esso tanto più all’ aere che non v' arrivino, o si vero con pruni e macchia posticcia si facci lor la difesa. Surgono talora di terra tre o quattro arbori insieme da un ceppo, spartendosi sopra terra; questi sì di- vidino tra le due terre con tagliente ferro, zappa o vanga, e cavati con più terreno si possì e barbette, piantinsi mettendogli ben sotto, ma st che abbino da dove si posano sotto almeno due terzi di braccio di terreno sollo e lavorato ; e se saran grandi, così s' attaccheranno in ogni modo, e massime le piante di natura umorose, come ulive et aranci: perché ogni arbore che è secco et asciutto non si ha a porre che di pianta piccola e ramo vecchio, come rosmarino, mortella, bossolo, lauro regio, citiso e simili. Tutte le piante che nascono da per loro o 104 di sementa, o in altro modo tengono sparse le radici all’ aere (eccetto le quercie che 1 hanno per natura), non conducono i loro frutti a ma- turità, ma trapiantate megliorano et insetate diventano buone affatto. Ma in queste e nelle domestiche traspiantando conviene osservare che la mutazione si facci da luogo più alto, più secco e più debole a più basso, a più umido e più gagliardo, e se bene in questi tali che sieno di terreno umido vengono i frutti vermi- nosì e marci, si correggono con forar loro il tronco rasente terra nella radice più grossa e principale. Ma se elle fussero traspiantate da terra grassa in terra magra, peggiorerebbero al certo; ma aiutate da diligenza di letame e grassume racquisteranno, e frequentandole con la buona coltivazione si manterranno. Ma si trapiantano tutte acconciamente in terreno né troppo umidiccio, né troppo asciutto, ma più convenientemente nel secco che nel molle; e nei luoghi asciutti e secchi, come s'è detto, piantinsi avanti il verno, e negli umidi e bassi di primavera, nei temperati di ogni stagione. Ma perché son si differenti paesi, di qualità d’aere, di freddo e di caldo, e varii siti dei luoghi, nel piantare gli alberi s' osserverà dove altrui sia, scorgendo (') la loro germinazione; e poco innanzi a che essa sogli dar fuore, o vera- mente quando non muovon punto, che stanno cheti, gli pianterai, ma poco innanzi a che tu t' accorga che sieno per mettere, e allora gli pianterai; e ciò servirà a ben piantargli per (1) surgendo, la stampa. 105 tutto, e più a primavera che nell'autunno; ma sì può cominciare in quella e finire in questo, in quella ponendo con le radici, in questo con le radici e con i rami. Ma sono certi paesi tanto freddi et aspri, che non ricevono pianta- gione alcuna prima che sia venuta la prima- vera, perche nei freddi grandissimi e quando inasprisce il gelo non si dee mai piantare sorte alcuna di frutti, e massime fichi o ulivi; i sal- vatichi non così temono, avvezzi alla foresta a tutte le sinistre schermaglie del tempo. Ma nei luoghi caldi sarà dirittamente posto il persico, il susino, il melo e tutti i peri, d’ ottobre e novembre, nei freddi di gennaio, febbraio e marzo; e chi preferisce l’ autunno, vuole che sì cominci dal nascimento dell’ Arturo, perché subito mettono sotto alcune radici, e forti e preparate danno poi gagliarda la messa a pri- mavera. E perché la germinazione che sta un poco a farsi, non come quella di subito, snerva le forze, le marruche per le macchie, i pruni bianchi et i roghi per tutto, sarà più utile piantargli nell'autunno con le barbe, perché mancano di seme; e la sabina ancora, che non l’ha, in luogo caldo si ponghi a ramo; i mori dai tredici di gennaio (') all’ equinozio di pri- mavera, i peri nell’ autunno, si che venghin piantati innanzi alla Bruma; 1 pomi dell’ estate, i cotogni, i sorbi, i susini, dopo il mezzo del verno verso i tredici di febbraio; le carrobbie, i castagni a calen di marzo sino ai tredici; i salci e le ginestre e gli alberi intorno a calen (1) dai diciannove di gennaio, la stampa. 106 di marzo. E quelle piante che non vengono che nelle regioni calde si piantano nell’ autunno, perchè non hanno paura dell’ingiurie del verno, nel quale, sendo tiepido, per tutto esso sì pos- sono piantare. Certe ancora si piantano d’ in- verno, ma non tutte a un tempo medesimo; la noce all’ ultimo di gennaio o di febbraio. Alcuni tengono che e’ sia buona regola di piantare dall’ occaso equinoziale, ma a diversi tempi. Altro tempo e buon di piantare è intorno alla nascita del Cane, il che profitta aiutando con l’acqua, massime gli agrumi, o nei paesi che lo comportano, come nell’ Indie, a chi in quel tempo è d'inverno. Molti han più lodato il porre di primavera, perche allora con la terra ogni cosa sia in umore, quella umida, il ciel placido e rugiadoso, e ’1 sole intiepidisce le piante e tira fuori la germinazione, di che tutto ne conseguitano le messe più prospere e ‘1 ve- nire innanzi più a seconda, e si ingenerano le barbe più utilmente; rigonfiano le terre e i semi genitali crescono, concitandosi le piante all’impeto naturale. Per contra il verno, se- guendo nei luoghi calidissimi ancora dopo l'aver piantato più fredda del solito la sta- gione, nuoce agli arbori, et agli ulivi stacca la corteccia, ingrossa il succhio ai fichi e lo sforza, et a tutto il resto apporta cagion di danno e d’offesa; a tal che d'inverno solo siano da essere piantate quelle cose che sole possono far resistenza al freddo, come tutte le salvatiche piante e tra le domestiche 1 peri, i sorbi, i susini, i ciriegi, e dei meli alcune sorte, come rose, teste e boccaprete. 107 Hanno i paesi certi tempi particolari da porre, come nella Cirenaica regione sotto il soffiar dell’ etesie; et in Grecia l’ olivo, massime Laconica; gli altri appresso i Greci restano di porre arbori. In Egitto si pianta d’ogni mese et in Italia si può far questo medesimo l'estate con l’aiuto dell’acqua, e ponendoli giù (') con barbe e terra della loro assai; e di tutto l' in- verno, con copertare le piante et assicurarle dal freddo. In molte parti dell’ Indie et in Etiopia, quando sono pioggie di estate, pian- tano i loro arbori; et in Assiria intorno al nascimento del Cane piantano le palme. Assai importa il sito del luogo e la natura e più presto nei lati a solatio, dove non sia né troppo piovoso il cielo, né troppo freddo, che in quelli volti a settentrione aspri e difficili, impercioc- ché più presto quivi che in questi son facili a muovere, si che in questi di primavera et in quelli nell’ autunno sia da piantare. Nei luoghi argillosi e magri d'autunno è meglio, di pri- mavera negli acquosi, perciocché in questi così- fatti luoghi per la troppa umidezza del verno e secchezza della primavera al tutto s’ anniega la pianta o sl sminuisce, combattendo la natura contraria con la proprietà del luogo. Oltre a questo, l’ olivo Columella afferma ottimamente piantarsene i luoghi secchi per l’ autunno, negli umidi in modo alcuno (*); ne’ grassi et umidi di primavera; e per la differenza dei campi vuole anco e dirittamente si piantino 1 fichi in (!) piu, errore della stampa. (7) in non alcuno, altro errore della stampa. 108 diversi tempi; al medesimi tempi et in Italia et in Francia. I moderni osservano il piantare gli olivi al fine del mese d'aprile o in calen di maggio, ove sia più freddo. Catone, in lato secco di sementa, in grasso di primavera ebbe openione che piantar si dovesse. Varrone fra l’equinozio di primavera e la nascita delle Vergilie. Columella afferma le castagne doversi porre di novembre e per tutto ’1 verno in terra asciutta; nel luoghi campestri e piani assettare 1 pioppi et i frassini con le viti piuttosto essere buono ai ventitre di febbraio, perché più s' affrettano a germinare. Certe piante hanno i suoi proprii segnali di quando vogliono essere piantate, come i fichi, quando in cima gonfiano una messa. Ma le canne vogliono essere piantate prima che ingros- sino loro gli occhi, il che in molti lati avviene avanti calen di maggio. A. certi hanno ordinato per tutto un tempo dell’ anno preciso da dovere essere piantati, come il ciriegio che si pianti dall’ occaso dell’ Arturo sin alla Bruma ordinò Magone; il che si dee intendere d' Affrica suo paese, perché [presso] a noi si dura a piantargli dall’ autunno a primavera. I peri di frutta lunga e rotonda dall’ occaso delle Vergilie alla Bruma, il rimanente a mezzo inverno dall’ andar sotto della Saetta, parte volti a settentrione e parte ‘a sussolano, perchè non tutte le lor razze ad un tempo fioriscono. Il lauro dall’ occaso del- l'Aquila all’andar sotto la Saetta si dee tra- spiantare; il pome granato in primavera sino in calen d’ aprile dirittamente sl pianta; e la vera stagione di piantare 1 mori è ai tredici 109 di febbraio sino all’ equinozio di primavera. Innanzi alle calende di marzo et ancora sino al tredici st deono seminar li pini; Palladio vuole che si piantino i tuberi con i nocciuoli. Tutti gli olmi, eccetto quelli che si pongono rasente le viti, quindici di innanzi la Bruma, e quindici dopo sono ben piantati; e fra 1 equi- nozio di primavera i salci; la colutéa si pianta quando l’ Arturo va sotto. Piantisi sempre e tutto a luna crescente, poco nel plenilunio e niente quando scema; et osservano altri, dal suo quarto alli diciotto di. Alcuni tengono che solo si dee piantare dal di che ella risurge, e molti fuggono il piantare dai dieci ai venti, perche il suo lume con le piante non vadi sotto; et alcuni hanno openione che a nul- l’altro si badi, se non che si pianti tutto che la luna sia sopra la terra, perche con la virtù del suo lume attragga alle piante nutrimento, umore e rugiada che le consoli. Per contra io ho sentito approvare che e’ si deggia piantare che ella sia sempre sotto, perché ‘1 suo lume nuoce alle barbe. Ma nei lati umidi è da pian- tare in su ’l dar la volta, o intorno a ciò quat- tro di, perche allora la luna non dà fuori tanto d'umore quanto bisogna alla pianta per l umi- dezza del lato, si che per la troppa abbi a perire. Nel piantare fuggasi la tramontana che asciuga, secca e sdegna le scoperte barbe, e quantunque elle sieno fasciate, le penetra e le offende; sia sole, tempo fresco e dolce. Tutti gli arbori nella superficie della terra ricercano il terreno secco et asciutto, e mas- sime perché si possa spesso zappare e scalzare, 110 e sotto avendo umido e fresco; e di cosìfatta qualità s' elegghi per loro, se si ritruova; se non, procaccisi con l’arte che s' assomigli. Agli arbori grandi o salvatichi o fruttiferi, che non passino però nella grossezza del pedale la coscia d’un uomo, se bene ancora ai più grossi, sì può fare, ma non profittano tutti e questi poco, ma per soddisfare a chi ami una pianta o si diletti di piantare arbori grandi, si dee tagliare e spuntare tutti i rami, se n’ abbi pochi, se assai, a corona, quattro diti presso al tronco o nel mezzo del tronco, si che piantato resti sopra terra due braccia o due e mezzo in tre, secondo la qualità dell’ arbore che si vogli formare; di poi, scalzato con diligenza all’ intorno, lontano dal pié un braccio o più, secondo la sua gran- dezza, si dee così, lasciatogli questo terreno attorno, arrivare con lo scalzare sino al piano di tutte le sue radici, mozzando pur le barbe che s'incontrano fuor di quel mezzo che se gli ha a lasciare di terreno in tondo, e subito cignere con una botte che si spartisca in due parti, sostenendosi insieme da ferri di mezzi cerchi inchiodati nelle doghe, et i cerchi inca- vicchiati insieme, da snodarsi con un maschio che entri nella femmina a uso di bandella. Queste due parti della botte s hanno a ricon- giungere insieme e fare che l’ una parte tocchi l’altra; e dee fermarsi o con corde o con chiodi, ben serrata insieme, di poi capovolta conficcare d’ asse di sotto, di modo che la terra non possi sfuggire; e così, senza scuotere, in su carrucci o treggie, o con una lettica o sopra assai curri e tavole, o con barella o con stanghe, secondo ll che sia la distanza, si traini alla buca capace di tutta questa materia in che l'ha a ire, e si che altrui vi si possi raggirar d’ attorno a cavar di sotto le tavole, e dalle bande la botte, cacciandolo più a dentro di quello che prima era un mezzo braccio: et a questo nella buccia s' osservi la positura del cielo che torni all’ i- stessa, e non pur a questo, ma a tutti quelli che di grossezza passino due diti; e sì spunti sempre loro la radice principale e tutte l'altre; ma quelli grandi ripiglieranno 1 incremento adagio che avevano nel natio letto. E a questa foggia non patiranno i meli, 1 peri, i peri co- togni, 1 melagrani, i fichi et i ciriegi, ma con- viene usar diligenza che non si stacchi il ter- reno dalla sua fittagnola e dall’ altre sue radici. Ma la diritta è, per traspiantare, eleggere piante giovani e fuggire di metterle in lati aquidrinosi nei quali si dee andar poco sotto, perché 1’ estate sentiranno in ogni modo il fresco, e d'inverno patiranno assai manco nei tempi che van piovosi. Hanno a essere le buche o fosse strette in bocca e larghe in fondo e nel terren secco più a fondo di tutti gli altri, perché se i razzi del sole penetrino ad arrivare alle radici, sì seccheranno; 1 Greci non le vo- gliono più larghe di due piedi o di due piedi e mezzo; ma certo è che quanto più larghe e patenti si faranno, vi verranno gli arbori più belli e saranno più copiosi di frutto ; perciocché quelli che si piantano a galla e poco fra terra, svegliendosi facilmente, non durano né in vita né ai venti; e li piantati profondi più a tutto resisteranno e piglieranno da ogni banda mag- 112 giore aumento per tutto. E le fosse che s hanno a fare siano alla misura che già sì disse, e non v' essendo sassi da fognarle, ado- prinsi fascine, vermene e rami di salci verdi per traverso e scope; e ogni pacciame è buono dove non sia altro, e non che altro i sermenti et ogni sterpo fa l'effetto; et acconcinsi in modo, che "1 lato della fossa da piantarvi resti nel vano tre piedi e mezzo, et in cima larga quattro; così conviene che la profondità delle fosse e larghezza sia appropriata alla natura del luogo e degli arbori che vi s' hanno a piantare. Nella terra argillosa dicono gli antichi che sta bene per ogni verso due braccia. e mezzo, nel terreno nero un palmo meno ; Seno- fonte poco meno l appruova. Nella terra forte, aspra, secca, umida, deono essere state fatte avanti sei mesi, e se sì può, un anno; se in terreni fiacchi e deboli, tanto più, perché nella maggior parte delle terre la megliore è quella delle superficie, come più stagionata dal sole e più purgata dai freddi, ghiacci e venti; et avendo questo vantaggio quella di cima, tanto acquisterà quella delle fosse fatte d’ un pezzo cavato fuora; perché se ‘1 terreno sarà umido, il terreno si diseccherà e secco inzupperà l’acqua, se sia debole s incocerà di sopra fa- cendo più buono, se sia terren freddo sarà bene fomentarlo in fondo e per tutto con le- tame caldo che si putrefacci. Puossi empiere di strame, sarmenti, sterpi, ginestre, e dargli fuoco, affinché l acqua incorpori la cenere et il letame con la terra, e si duri a fare tanto che con quelli cespugli abbruciati diventi suzzo e grasso, 113 E se qui e altrove non si sieno potute far le fosse prima un anno innanzi, sia almeno un mezzo, con questa preparazione riscorrendole tre o quattro volte ; e se la terra sia o ’1 luogo secco, cinque o sei di prima empiasi la fossa d’acqua, la quale ben succiata, rilavorisi nel fondo quanto si possi aver del tenero, non lo trassinando però fangoso, ma inumidito e suz- zato, per dare all’ arbore sedia migliore e più sano il posamento; e sendo la terra secca in sito di costa o collina o monte asciutto, sieno le fosse più affonde che nei piani e. valli un braccio. Et in tutti quei lati dove si cognosce che l acqua non ha la sua calata o sito smal- titoio (') o scolamento, fognisi con muro secco nel fondo, che riceva tutta l'acqua e la porti a dove la possi sciorare; e se non v' ar- rivi gran quantità d’acqua, serviranno sassi grossi o minuti, accatastati nel fondo della fossa. Altrettanto si facci alle buche o formelle nelle quali s' abbi a piantar alberi e massime degli ulivi; e sieno in foggia d’ un fornello stretto in bocca, largo nel mezzo et in fondo, si che lo stretto s° allarghi per di drento, affinché le barbe più agevolmente abbino a dilatare, e men freddo il verno e men vapor caldo la state Vv abbi a penetrare; ancora la terra che vi sarà posta drento ne luoghi piegati non sarà così dilavata dall’ acqua. Siano le formelle per ogni verso quattro braccia larghe e tre fonde nei luoghi piani, e tre e mezzo in poggio con la medesima larghezza, avvertendo di riempiere (?) esiti smaltitoi, la stampa. 114 di sassi in fondo, a uso di monticello, e rico- perti i sassi un mezzo braccio, piantarvi sopra; e quando si scavano con la vanga o sl rimuo- vono con la zappa o piccone, si getti la terra lontana dall’ orlo un braccio, per poter poi mandar quella delle prode in fondo sopra le radici degli alberi, come più stagionata e mi- gliore della scavata. E volendo veder la prova e quanto vagli il lavoro ben fatto agli arbori che si piantano, bisogna che tutto lo spazio che si destina per questo affare, non ne cavando ne le strade né i viali, sia divelto sotto in piano et in spiaggia e costa tre braccia, et in poggio, collina e colle tre e mezzo; e tutto questo lavoro fa che sia condotto a tempi buoni, non toccando mai con ferro il terreno molle o fangoso, e tanto innanzi che egli sia stato fatto otto mesi prima, affinché tocchi del caldo e del freddo; e poi quando s' ha a pian- tare, fa le buche sul divelto parecchi di in- nanzi, scavandole e spargendo sottile il terreno perché s' incuoca al sole, e discosto dalla buca un braccio, per riempiere intorno all’ albero di terra incotta ('), tocca dal sole, pareggiando con l’altra e conguagliando il terreno. Ogni arbore, frutto o piantone o altro, che si ponga con barbe o senza, si metta in terra in tempo asciutto, in di quieto, di sole, da mezzogiorno in là, inverso la sera; ma se sia il di umido e nubiloso, si può piantare a tut- tore del giorno; e perchè la maggior parte delle piante o arbori, o che sian tirate dal sole, (') ricotta, la stampa. 115 o sia così di lor propria natura, spargono sem- pre e moltiplicano le radici all’ aere e alla superficie del terreno, il che gli causa vizio, fragilità e danno a fruttificare, si rimedierà con il non riempiere, quando si pianta, le fosse o buche tutte a un tratto, ma di quando in quando, a poco a poco per di; e la prima volta lascisi star piena sin a mezzo per un pezzo, quasi tanto che abbia ferme le radici e saldato il gambo, e di poi in più pezzi pareggiare af- fatto; et è bene sempre prima o poi spesso rangare o zappar loro intorno, perché le radici succin l’acqua e si asciughino e perciò vengan meno le radici fondate in alto, e vangandole e zappandole non più loro s' alzi il terreno at- torno, che il piano dell’ arbore. E quando ordi- nariamente si sveglie l arbore di terra per traspiantare, si facci in modo che le radici paino cavate e non sbarbate, con più terra attaccata della sua, fasciando con cenci. 0 cor- belli o con paglia e strame, legandole che stiavi la terra senza smuoversi; e se sia in terra che si stritoli e caschi e resti con le sue pure radici, sfrondisi (') e scapezzisi come si disse e pongasi, distendendogli le barbe per il terren sollo ad una ad una, e voltandolo al cielo alla sua posta di prima, perche altramente le [piante] volte a Aquilone che si ponghino a mezzogiorno si sfendono, e cosi per contrario patiranno. Il che pur anco diversamente desiderano certe, come nel fico, nel quale fa bene mutarlo in contrario di quello dove era quando egli si cavò; e se (1) sfondisi, la stampa. 116 sia ramo, stacchisi verso lo sminuire del giorno; e così tutti che si piantano a ramo, che faran meglio pruova, lasciando lor la vetta sola. Et è openione che voltando il fico la sua posta im- ponga le foglie più fonde, et abbia cagione perciò di tenere 1 frutti più coperti, e meglio difendergli; e massime facendogli, come s'è detto, sopra le foglie, farà più rami e sarà più age- vole a salirvi su; et a questo s avvertisca di non vi montar mai con i pie molli o quando piove, perché si scorteccia la buccia e si guasta il legno; e se bisogni, avendo barbe, scapezzarlo, faccisi che le ferite di così fatto scapezzamento sieno volte a mezzodi, impiastrando sopra di cera, che così non si sfenderà e s’opporrà al troppo vapore ; altri vogliono che ogni fico sia volto a occidente. Nel di del piantare sono da fuggire tutti i venti e acqua, perche il Borea le radici che si portano attorno ristrigne e percuote, e 1 Austro rilassa e manda via le forze, dileguando ’1 vigore: e piantati che sono, non si scalzino mai dalla banda di tramontana, prima che passata sia la Bruma; e dove non occorre fognare, avanti che si mettino giù le piante, zappisi sotto a dove ha a ire la pianta, o vanghisi, lasciandovi la terra smossa. Sono chi impiastra le radici degli arbori da porsi con la bovina; altri la mettono attorno alle barbe; ma meglio è porvi della cenere o ceneracciolo, perché "1 caldo della bovina o altro letame non gli abbruci e facci fare i frutti dissapiti e sciocchi; la cenere apporta densità nel frutto e tenerezza nella buccia; e se sia dell’acqua nelle fosse, conviene cavarla e mettervi per 117 letto del seme d’orzo, di poi vi si cacci dei sassi minuti e della ghiaia mescolata con terra grassa. Piantisi nella buca o nella fossa in mezzo d’ esse la radice principale, poi 1 altre, ben spartite, né mai ripiegate o attorte o ac- cavallate: e [a] quelle [piante] che hanno una sola radice, si ponga giù quella intera e sana, all’ altre che ne hanno più si scapezzi la fitta- gnola, e posto giù un braccio di terra se gli calchi sopra et intorno, ma destramente, con i piedi, di poi con mazza o marra se gli pigi, ma con destrezza, attorno il terreno; e se vi sia bisogno d’ adacquare, per poter farlo como- damente e non appozzare intorno all’ arbore, quando si pianta mettasi rasente il gambo un fascetto di sermenti legati insieme che cavin fuori della terra il capo, e riempiasi tutto in- sieme, per quello poi mandando giù 1 acqua. E se occorra, per traspiantarlo poi, porre più d’un arbore in una fossa o buca, acconcivisi in modo, che non si tocchino le barbe 1 uno del- l’altro. Conviene da piccoli difendere i teneri arbuscelli dai cattivi temporali con accoman- dargli a pali e legargli con l’inframmesso della paglia o fieno destramente, si che la legatura non tocchi la buccia della pianta. Sono alcuni che non con la cera ricuoprono la tagliatura dei rami delle piante, ma con foglie, musco, terra, argilla, massime di quella rossa che si truova a Zerma sotto Pizza d’ Ugella, tanto soda che par sasso, si disfà poi, s'attacca, a difendere dai soli e dalle pioggie; e perché nelle valli e nei piani per l’umido le piante mettono assai prima che non in altre parti, 118 assai prima si faccino quivi le fosse e vi si piantino ; e poi altrove. Gli arbori e piante che producono frutti odorati, caldi e secchi, fanno meglio: nei monti che negli altri luoghi, ma quelli che fanno i frutti sodi et umidi, più acconciamente si pian- tano nelle valli e nei piani. Non si pianti mai tanto in giù che la pianta tocchi la pura ghiaia o la creta o arena o pancone, e dove in questi s incontra, non sì vadi tanto in giù, né alle viti né a arbori; et in tutti i modi vi bastan meno; et in questi lati così quelli come questi bisogna co ‘1 potare ricorreggergli spesso e te- nere indietro e le viti potar corte; né si può rimediarvi con altro che con il portare nel fondo di quelle fosse terra buona. Gli arbori che non fanno frutto faranno meglio appigliati dai rami, e quelli che fanno il seme naturale e forte faranno meglio dal lor seme che dai rami. Tutte le piante vicine all’ acque correnti si mantengono più verdi e fan più frutto, ma vivono meno. E rende più frutto un arbore che non si lasci andar vagando, castigandolo co "1 potare, che uno che sì lasci a benefizio di natura, sparpagliato e largo. Mandisi la pianta diritta, rotonda e ristretta, lascinsigli i rami nuovi e buoni, levandogli via i vecchi et i troppo alti. Conformisi la natura del terreno con quella degli arbori, si che nei lati magri sì spogli meno che nei grassi, e tutti sì potino, o avanti muovino o finito di fare i frutti, e sempre a luna scema: ma allora è meglio, che son più duri i rami. Né si tocchino mai quando sono in fiore, né con zappa, vanga o pennato. 119 Quando si potano sia buon tempo. I rami sec- chi si possono e deono tagliare via senz’ osser- vare il tempo. Giova il potare a intromettere il sole, a restrignere il vigore e dar maggior nutrimento a quelli che rimangono. Gli arbori che vengono ordinati di palco in palco non desiderano mai d'esser tocchi o potati con ferro; e questi sono tutti i resiniferi ; se non se al cipresso, al quale mutando la cima, come a tutti i domestichi, rinnovandola con il ramo accanto a quella, acquistan forza e si fanno più belli. La palma giovane non dee mai essere tocca con ferro. Cosi fanno le tenere messe dei teneri arbori e più gli innestati ne patiscono che gli altri salvatichi: ma tutti, ferme che hanno le radici, si possono avvezzare a essere potati, e di poi conviene di tempo in tempo frequentargli con la potagione, perché gli arbori vecchi e non avvezzi a questo mal volentieri sì possono ridurre a questo e riordi- narsi. Il noccinolo non potato diventa migliore, più dura e si fa più copioso di frutti, sparten- doli in più rami et avendone più addosso, ma allargandogli. Ma Teofrasto tiene che ripotando spesso le sue verghe si facci più fecondo. Manco prosperamente patiscono il ferro quelli che hanno la buccia gentile e delicata, e che se gli inferma la piaga, come al pero et al melo. I noci vecchi, levatigli dal tronco i rami, et ancora scapezzati, fruttificano. Così avviene all’ ulivo, quale vuole essere potato di rado e nei luoghi caldi non mai, alla mortella, al pome granato vecchio, i cui tronchi conviene attendere e coltivare, come se di nuovo fossero 120 piantati; e ricoperti di terra non patiranno. I mandorli che hanno bisogno d'essere potati, che è quando sono troppo imboschiti, sia in- nanzi marzo et a settembre. Il castagno dal- l'essere ben potato acquista assai. Nelle selve è bene tagliare i vecchi rami e tutte le punte e quelli secchi, a rinnovare e dar frutto; ma dove sono invecchiati e non hanno terreno che nella superficie, non giova. Pur se cosa alcuna può aiutare a fruttificare è questa, massime ai cerri e alle quercie. Levinsi 1 figliuoli a tutti gli arbori che gli ingenerano, perchè spoppano, portando via il frutto al padre, il quale essendo invecchiato si può scapezzare, essendo di na- tura di rimettere come il fico, lasciandogli i più vegnenti rami a corona, o da basso i più vegnenti pollonij; ma meglio è un solo, rico- prendogli con terra d’ intorno. Alle piccole piante che sono state poste in terra di nuovo, non sì dee rinnovar cosa alcuna nel primo o secondo anno, et in quelle che hanno la scorza verde e viva, come gli aranci, lauri, fichi e pioppi bianchi e simili, il terzo o quarto anno gioverà scalzargli intorno le lor radici, e spun- tare tutte quelle che si scuoprino; e ciò giova non pur ai gioveni, ma ai vecchi, ricoprendogli poi con terra cotta; e di questo modo s° è veduto il pesco quasi secco rinvigorire. Fra i germogli che fanno gli arbori, come susini, ciriegi, peri cotogni, pomi granati e simili dalle radici, se ne sieno alcuni rigogliosi e vegnenti e sia l’ arbore vecchio, taglisi questo fra terra e lascisi venire innanzi quello. Se negli arbori, per essere intarlati o guasti nella 121 forca, l’acqua che piove si fermasse o facesse lor danno a infradiciargli, tosto avvedutosene nettisi bene e puliscasi con ferro sino al buono, di poi s' impiastri e ricuopra con sterco di capra rimescolato con creta, si che 1 acqua non vi sì fermi più e scorra via; e se pur va innanzi, si sfondi sin sotto le radici, che quivi sfoghi senza putrefare il gambo; et a quelli che sono poco vegnenti e dan poco frutto, scal- zinsi bene le lor radici, et a ciascheduna delle più grosse sfessa si vi cacci dentro una pietra che passi da una banda all’ altra, che di quivi prenderà nutrimento e darà frutto, ricopren- dovi poi con buona terra. L° orichicco nelle piante in che si genera viene [da] che elle tirano a sé più nutrimento che elle non sono poi bastanti a poter digerire, e da questo na- scono ancora le ragie e le gomme negli arbori. E volendo che ciò non segua, se gli fori sotto al pie del tronco la radice principale, ficcan- dovi un subbio di sorbo o d’ altro legno sodo. Se alcuno arbore vadi troppo in alto, si può scapezzare dove si vede possi muovere agevol- mente, e così farà più frutto e ritornerà a essere più valido: e quelli che non hanno a ire troppo alti, arrivati a un certo segno, si può levar loro la vetta principale, e congua- ghiandoli di poi gli altri rami, verranno uguali e meglio per tutto compartiti. Quando avviene che il tronco ingrossi con la scorza dell’ albero, come avviene al pioppi bianchi, ai fichi, mori, aranci, peri e meli et agli alberi, sfendasi la sua buccia dalla forca a terra da tre o quattro bande, e guardisi, in tirando giù il pennato o 122 coltello, di non offendere il legno; e questo e quella si dilaterà ben presto in grossezza e grandezza maggiore. Ogni ramo che si taglia a potare sì levi rasente il tronco e ben si pareggi perché unisca, ricresca e si raggiunghi. Gli arbori che possono vivere fuori dell’ acqua all’ asciutto, durano assai più in vita di quelli che per contrario; ma i salvatichi, naturati () a viver nell’acqua, bastano assalssimo tempo, come nel paese d’ Hessen presso a Heerforth, ove per parecchie giornate si cammina per selve di tigli, quercie, larici e simili, tutti fon- dati al calcio per un braccio nell’ acqua. Tutti gli arbori di frutto che non sono delicati, come tra gli agrumi gli aranci, 1 melangoli e pomi d’ Adamo, degli altri i persichi (°) et i susini, nei luoghi tiepidi stanno bene scavati tutto l'inverno all’ intorno, e massime a quelli ai quali non sia tanto inimico il freddo come ai peri et a’ meli, pur che non resti acqua in quello scalzamento quando gela; et a quelli che s' adacquano non occorre. Scalzinsi con luna scema et alla primavera sì rincalzino a luna crescente con terra cotta presa discosto all’ ar- bore; e ciò più si facci quando la invernata è per andare asciutta. Ma per gli arbori che non temono il freddo fa meglio il tempo piovoso che in altro modo, e più è lor utile la tramon- tana che 1 venti caldi. Nei luoghi piegati si dee scalzare di maniera, che l’ orlo della terra scavato si gitti in su a rattener l’acqua fan- (1) natanti,.la stampa. (?) ed altri. I persichi, la stampa. 123 gosa che vi derivi dentro, e massime agli ulivi, e tagliando le barbicole, tanto più che spop- pano l’arbore, e si dà vita alle grosse fonda- mentali. Si deono ancora e lavorare attorno e scalzare gli arbori con le viti appioppati, perché lasciandovi sodo fanno men frutto, e ciò ram- morbida il terreno, fa rassodar le piante e sta- bilirle in su 1 terreno; e giova anco ai campi spogliati spesso arargli, e tanto gli asciutti quanto i palustri, per diseccargli al sole; et ai fichi si dee rivoltare attorno il terreno et in giro scalzare ne’ piedi. Nei prati, chè sono le piante avvezze a dilettarsi sotto quel verde, si può lasciare stare, errando con le barbe a sommo, fatte già stabilite e grandi; e quivi pertanto ai meli non sì manchi di farlo ; altrove faccis per tutto, d’ autunno o di primavera. Il fico dopo le vigne dee lavorarsi come s’ è detto un po più a dentro. Il susino vuole essere zap- pato intorno spesso, amando ’1 fresco e I’ umido. I salci e le ginestre lo bramano per i primi tre anni. Così si dee fare ai nuovi castagneti, ai melagrani due volte d'autunno e di prima- vera, e così al moro, al cedro, alla palma, al ciriegio; il nespolo e "1 cotogno l' amano in tanto, che senza questo fan le frutte minori. È se convenghi dare, come nei lati magri, letame agli arbori, diasi nell’ autunno, perché per le pioggie e freddo di verno calerà alle radici e conforterannosi. Di primavera anco è [da] lor dare il letame, quando è bene in su la terra piovuto, o nel terreno umido, lavorando in giro attorno all’ arbore un braccio, e quivi metten- dolo attorno attorno con destra misura, e ma- 124 cero e digestito bene. D'estate fuggasi il farlo, ché nuoce: diasi in sul far della luna o quando è sotto terra. Nei campi umidi diasi più spesso e più copiosamente il letame. Così [agli arbori] tenaci e deboli poco per volta, ai fatti e grandi st ponghi abbondante, ai gioveni con scarsezza; e sia tutto d'un anno o di due. Di crudo e gagliardissimo si diletta l’ ulivo ogni terzo anno; rifiuta l'umano. La mortella e ’1 melagrano bramano quello di porco; piace ancora ai man- dorli; e a tutti accresce grandezza e copia. Sia il letame che si dà agli arbori non troppo acre né gagliardo, ma leggieri e facile, dagli animali che ruminano. Il crudo et acerbo disecca troppo et abbrucia, e, se non s° abbi altro, mescolisi con terra, dandone meno, e massime volendo subito piantar letamando e dargli della colombina; et è bene siano gli arbori stati scalzati d’ un pezzo. La calcina che casca dalle concie dei coiami giova in certi luoghi agli arbori e li fa lieti: altri usan della cenere cavata dalle fabbriche dei metalli, della quale si diletta l ulivo. Alcuni scalzano i fichi e gli dan della cenere che cuopra loro e tocchi le radice o 1 gambo, et a ciò serve quella che avanza ricotta da fare i bucati. La magrezza del canneto sì rimedia con la cenere o con letame, e si ricrea, vangato che sia, con il seminarvi della vena minuta. Alcuni ai fichi mescolano la cenere con la terra e credono aggiugner sapore ai suoi frutti; et è come dar sale alle palme, et al lentisco della cenere schietta. Alcuni abbruciano il canneto, tagliato che sia, come gli sparagi; alla mortella si dà 125 l’orina e le sporcizie delle pellicine, quando han dato fuor le messe; e di questo modo non han quasi poi nocciolo. Il persico ama per letame le sue foglie in quantità postegli al piede, né disprezza il noce e ’1 castagno le sue; la sabina si nutrisce di raschiatura di crudi mattoni, o di cotti pesti da’ muri. Alcuni arbori restano offesi dal semi che han sotto seminati, et alcuni godono che siano fra loro, ché n’acquistano, sendo arati dopo che sieno mie- tuti, e che quelli scamozzoli che la falce ha lasciati prima che secchino affatto, il vomere gli tagli e ricuopra, perchè altrimenti succiano il terreno e gli fan danno, e massime le scan- delle, i migli, panico e saggina, fave, lenti, lupini, mochi ('), cicerchie e veccia. Il ciriegio abborrisce il letame di maniera che datogli gli fa tralignare, e la palma ne resta offesa se non sia stemperato, e del sale tutta lieta: al cipresso in tutti 1 modi fa nocimento. Appruovano molti per gli arbori lo sterco di capra, dandone non molta quantità per ciascheduno. Agli arbori ancora nei lati asciutti s’ aftà l’acqua, dando alimento alle radici come il sole e l’aere; ma l’acqua ingrossa le barbe, fa ve- nire innanzi il frutto, rinverdisce le foglie, i frutti, e gli aumenta, allarga 1 rami e dà forza a tutto; e per la secchezza diventano squallide e si seccano le piante; et allora n’ hanno più di bisogno [dell acqua], che si vede mancata la pioggia alla Canicola. Al cedro fa utile l’acqua d'ogni tempo, agli altri di estate, e (') ervum, scrittovi sopra. 126 d’ inverno piuttosto calda che tiepida; e l acqua melata gli fa contrasto al freddo. Bisogna fre- quentargli con l acqua, a mantenere quelle bar- bicole con che succiano la terra. Alcuni pon- gono certe pietre fresche alle lor barbe, che l'inverno ne cavino umore e l’ estate rinfre- schino, facendo strada ai liberi svaporamenti. Deonsi tutte le cose annaffiare avanti la levata del sole, e dopo ito sotto, e la condizione del- l’acqua vuole essere, a detta di Teofrasto, fredda, perché tiene che più lor giovi. Altri appruovano quella che sia stata riposata nei vasi o truogoli grandi o nelle fosse; e l’acqua dolce è meglio che la salata, se ben questa aggiova qualche poco, ma è da fuggire, perché abbrucia, come fa il vento marino ch’ abbronza gli arbori. Il pero e "1 melo aman l’acqua largamente, altri più sobriamente, come tutti i giovani piantati di fresco; et alcuni punto, come il cipresso; ma piccolo s'adacqua, e lo fa crescere, sì come la sua sementa nascere. Il pome granato con lo spesso adacquare diventa agro o forte, e ‘1 secco gli fa saporiti e migliori; ma dove ’1 caldo gli stringa, non sì manchi adacquargli. Di così fatta natura è il nespolo; al moro nuoce lo spesso umore, se non se delle feccie del vecchio vino poste sopra le sue radici; ai mandorli, data in fiore e mentre creano il frutto, diventati più gagliardi, lo perdono; in altro tempo giova. La palma, o se gli dia, com'è detto, del sale, o s'adacqui con acqua salata copiosamente, piut- tosto a gocciole che tutta a un tratto. Il lentisco fa il simile, e la mirra adacquata sl carica più di frutto; così fa il pistacchio. I peri cotogni 127 per essa ingrossano i frutti: al peri sassosi fa bene l’acqua. Il ciriegio ne gusta avanti e dopo il frutto. Palladio vuole che, avendo egli patito nei dì canicolari, s' adacqui con superstiziosa osservanza con tre mezzine d’ acqua tolta da tre fonti, ito sotto il sole e che non luca la luna; o vero circondare a corona intorno all’ar- bore l’ erba sinfoniaca o fargline un letto steso al piedi. Le giovani messe e polloni han cara l’orina vecchia dell'uomo. Nei seminati, se sia secco, adacquisi bene tre volte il mese, ma in questo adacquare conviene seguir l’uso del paese e delle piante, perché le accostumate a essere adacquate vogliono essere continuate, con- vertendosi l’ uso, come in altro, in un’altra na- tura; e le adacquate bastano meno che le secche, avvezze a patire e stare nei lati asciutti. I pla- tani si dilettano del vino puro. Ancora la sabina riceve utile dalle feccie del vino stesegli alle radici. La mortella gode dell’ acqua calda e dell’ orina delle pecore e dell’ uomo. Il melo si rifà del medesimo, aumentando i frutti et in- saporendogli: ancora gli gioverà la morchia senza sale mescolata con quelle, di primavera e d'inverno, scalzando gli arbori; et agli olivi è similmente molto utile luna e Vl altra; alle grandi piante sei brocche, alle minori la metà soddisfaranno. Quelle che non hanno mancamento alcuno si rifaranno assai della morchia non sa- lata e si faranno più liete; ma avvertiscasi a por la morchia discosta dal gambo. Il pesco ama l'acqua che gli scorra al piede. Le corna piene d’acqua sotterrate mantengono la frescure il bisogno, massime a quelle piante che si voglino 128 divezzare dall’ acqua o non dargliene; e sì cac- cino tra "1 terreno attorno quando sì piantano, poste giù per diritto, di castrati e buoi; o vero SÌ facci una fossa lontana dall arbore. che si tenga piena d’acqua, riempiendola di notte ; et appiccata la pianta bene, sì riempia a pareg- giare. Ricevono gli arbori più danno ad avere poca acqua che assal, né si dee inframmettere, cominciando. Fanno questi talora più frutti, ma non così di sapore. L'acqua stagnante e dei gemitii nuoce loro, più che quella dei rii che scorra a dilungo via; ma luna e l’altra si dee derivare e cansar da loro, se non ve ne sia per il secco gran bisogno. Il pino e l abeto non desidera cultura alcuna; e lavorando loro attorno sì danneggiano. Cosi fan quelle piante che non si curano d’altro paese, che del lor proprio natio. Le barbe della mirra restano offese dai rastelli, e 1 balsamo trassinato da questi si farà bello. L’ incenso non vuole essere tocco da alcuna mano, né meno la pianta dello storace. I Sirli non fanno niente alla palma, solo le tengono netto il gambo e da piede. L’ellera e ’1 corbez- zolo non vogliono intorno trassinamento di ter- reno in modo alcuno: così fa il celastro. Il sorbo per la coltivazione resta più dolce, ma perde d’odore. I mandorli lavorati intorno co ’l1 zap- pare o vangare o scalzare perdono il fiore, et innestati non occorre prima scalzargli intorno, che fatti stabili e grandi da portar frutto. Il melo e i peri e l ulivo da grandi più che da piccoli amano la coltivazione, ma per lo più come elli sono avvezzi, conviene perseverar il lor governo, perchè mancandone o intralascian- 129 dolo, ne patirebbero, come mutando custodia e cura. Ora gli arbori fruttiferi si possono piantare per la possessione alla rinfusa e senza ordine, dove più e dove meno insieme, secondo che se gli affacci il luogo, il sito e ‘1 terreno, purché non guastino o impedischino le riquadrature e posizioni dei campi, riempiendo gli sghembi, gli angoli e scalinoni loro; e dove si ponghino con ordine, s' acconcino in modo, che ogni arbore posto in fila riscontri nel vano dell’altro, e nella terza poi sia a dirimpetto d'un altro della terza, e così sì segua con il quincunce giusto, detto di sopra; e nei campi che sono riquadrati dalle pancate di viti, o in terzo o quarto o quinto doppi di viti, o anguillari. come si dichino, & spartire 1 luoghi si ponghino lontani da esse, et in quelle dalla banda dell’ ombra fichi e ciriegi al più, lontanissimi lun dall'altro, e facendo poi le fosse per mezzo ai campi per dirittura, tanto lontane luna dall’ altra che non si guasti ’1 campo, e con la sua forma si mantenghi lo spazio da poter seminarvi. Si può acconciamente, dove sia il terren buono, porre fra ogni due ulivi un fico o un persico o un albercocco o un susino o un melo, et anco una vite in quei mezzi dei frutti, che abbi a ire sur un broncone, perché questi vengono meno e l’ulivo resta, sendo la vite l ultima a irsene ; 0 veramente si deono piantare i frutti a uso d’una domestica selva, tutti insieme quelli che sieno d'una sorte medesima; così s' allegreranno di crescere di compagnia, e più agevolmente si raccorranno i suol frutti, e tanto più, appetendo o) 150 naturalmente ogni simile il suo simile. Né fanno bene insieme i contrarii gli uni degli altri, perche alla vite è nemico, com'è detto, il lauro, il nocciuolo, il susino; a tutti gli arbori e piante fa danno il noce, quanto con la sua ombra e barbe arriva. SV amano l’olmo e la vite, la mor- tella e l’ ulivo, intricandosi volentieri insieme le barbe lun dell’ altro; e la vite volentieri s'aggrappa all’ ulivo, che con la sua ombra rara la difende e fa 1 frutti più suavi e più teneri, se ben minori. S' ama il fico e l’ ulivo, e tra la mortella e 1 pome granato è una simpatia; sono amici il moro e la vite; 1 nocciuoli stanno vo- lentieri tra gli olmi, e bene si piantano gli olivi a dove prima sieno stati de’ lecci o corbezzoli. Hanno ancora convenienza gli arbori con certe sorte di erbe, come co ’1 cedro la zucca; la canna e l’asparago salvatico et il luppolo s° a- mano assai. La ruta sta volentieri sotto il fico e abbonisce i suoi frutti. Il visco per contra e l’ellera ancidono le piante e sono ingrati, reg- gendosi sopra di loro. La quercia inimica sì l'ulivo, che posti in una fossa s’annolano a morte. La quercia con la vite non va, come col noce, troppo volentieri insieme, scrivono gli an- tichi; ma l’esperienza mostra ‘1 contrario, fa- cendovi su bene e copiosa. Il corniolo è inimico del sorbo. Sono in discordia la felce e la canna, perciocche la radice dell'una e dell’altra, trita et impiastrata, cava fuori la stirpe infusa al corpo dell’ altra. Affermano alcuni ararsi la canna con l’aver imposto al vomere della felce, e per con- trario non rinascer questa, mettendo di quella in su 1 vomere, e di più tagliandola con canna. 151 Sono ancora alcuni tanto e di foglia e di le- gname simili lun dell’ altro, che quasi non sì discernono, come il pino, il pinastro, la picea, l’abeto, il larice e la teda, a tal che ciò dà in- dizio che stanno fra loro volentieri, e così s' hanno a piantare. Il quercio, la quercia e la rovere e l’esculo si somigliano, e d'una razza si può dire che sia il leccio e la sughera e 1 faggio. Il gi- nepro e 1 cedro arbore sì confanno insieme. Al leccio et all’ agrifoglio è la foglia d’ un garbo; ma questo l ha maggiore. I peri, meli e susini stanno volentieri insieme, come i ciriegi et i fichi. Ma perché tra le razze di questi ne sono alcune sorte di particolari che non si dicono fra loro et appetiscono diversi luoghi, siti e terreni e venti, perché abbino meglio a frutti- ficare, sarà meglio piantare tutti i fichi d’ una sorte insieme in un lato, e l’ altre in un altro, amando i primaticci più caldio e i serotini e brugiotti più freddo, come dei susini semiani e perniconi a tramontana, e quasi tutti gli altri a mezzogiorno; e i peri dell’ estate abbino il sito da inverno, e quelli dell'inverno il luogo dall’ estate, st che s'arà avvertenza di porgli secondo le lor nature ai luoghi loro, non gli lasciando crescere che ugualmente et a un pari, alzare et aprire et allargare d’ un modo i rami e le cime, et a tutti dare una forma e fazione e garbo medesimo, con porgli con ugual distanza lun dall’ altro, e dando loro più tosto largo che corto spazio, sotto non seminando semente alcuna, ma [lasciando] il terreno vacuo. Ancora è bene di separare gli arbori grandi dai piccoli, st che non gli adombrino o softfochino, e se sieno 132 piantati in paesi e terreni che si soglino agghiac- ciare, ponghinsi a ridosso gli arbori grandi verso quel vento che gli suol far gelaàre, perché i pic- coli abbino schermo da tramontana, ché questa gli secca et agghiaccia; e però è lor buon ri- paro una fila d’ alberi e di pioppi bianchi e neri, e gattici, lauri e cipressi che in alto crescono, facendo difesa dai venti, piantandogli fondi; tanto faranno i noci, castagni e mori, ché tutti questi non la temono; ma se sarà luogo cinto di muro, non occorrerà altro riparo. Le fosse, e massime grandi, fatte loro attorno, levan l u- more al frutti, et 1 dirupati e scoscesi canali o rigoli con la loro profondità portano via l u- more al campi interi; e la estate, sentendo l’asciutto [e] strignendo i seminati, non rendono questi un pezzo quanto nel campi uniti, privi di quelle dirupate fosse sfondate. Ancora le siepi folte, fatte di paliuri o pian- tate o tagliate ristrette insieme, come stanno le fratte romanesche, gli ripareranno dai venti, dagli animali e dagli uomini. Ma le chiusure che si fanno ai verzieri o ai serbatoi dei frutti, delle nestaie, o piantagioni di giardini forniti di fruttiferi arbori, o orti d’ erbe da mangiare, sono di quattro maniere: una naturale, 1 altra rustica, la terza militare, la quarta fabrile; e di queste una che ha in sé più spezie. La siepe naturale è quella che si fa di roghi o altr: sorte pruni o spine postevi con le radici o rami, o seminatevi. Il luogo adunque che si destina a farvi siepe si dee circondare di fossa di due braccia e mezzo fonda e due larga in monte, et in piano due fonda e due e mezzo larga, due o 133 tre mesi innanzi all’ equinozio autunnale; et a questo si riempia tutta e si conguagli il terreno, tirandovi a dirittura tre solchi, uno nel mezzo e due dai lati, tutti più d’un palmo affondi, o un palmo e mezzo; e si lascino stare aperti a incuocervisi il terreno tutto l'inverno. I semi che vi si hanno a seminare hanno a essere di rogo, di paliuro, di spina di cane, di prun bian- chi, di susinelli salvatichi o altre spine, come nepe, asparagi salvatichi e pugnitopi et aponi; e s' hanno ad avere eletti maturissimi nei tempi loro. E quando si voglino seminare all’ ultimo di febbraio nei luoghi tiepidi, e nei più freddi alli dieci di marzo, conviene avere preparate delle corde di sparto, delle gabbie di muli guaste, o di quelle da frantoio consumate, o di canapa logore, e mesticati quei semi con farina di mochi intrisi con acqua, o di veccie, stemperata simil- mente, impiastrargli a quelle corde, e di maniera stropicciarvegli e stendervegli sopra con le mani, che quella mestura con essi vi s' appicchi e pe- netri, si che vi si possino conservare in sur un tavolato o luogo asciutto, che non v'arrivi caldo di fuoco 0 fumo, sino ai dì detti. Nel qual tempo, se sia rimasta dell’acqua in quei solchi, sì cavi e si asciughino, riempiendogli di terra cotta, cioè della cresta dei solchi sino a mezzo, e vi si stendino sopra nel mezzo le funi acconcie, come s'è detto, una per solco, e stese s° hanno a ricoprire leggermente con la terra minuta e stritolata, non ve ne mandando sopra più di quattro o cinque diti, perché i semi delle spine appiccati a quelle corde eschino fuori con faci- lità, il che suole avvenire in trenta di circa. 134 Aiutinsi a nascere e crescere con l'acqua, se non piove; e come son cominciati un poco è crescere, st deono sarchiare, levando le cattive erbe che gli impediscano, allevandogli di ma- niera che si pieghino nei vani che restano fra solco e solco, e massime i roghi che han per natura, come gli aponi, dove ritoccan terra ri- metter barbe, palettandogli o in altro modo rattorcendogli, si che fra loro intrigati abbrac- cino quello spazio e lo riempino. Uosi fatta siepe, massime composta tutta di roghi, non solo non perisce per lungo tempo, ma abbruciata rinasce meglio e si fa migliore. Ma il prun bianco, per avere più presto la siepe in essere, come il pu- gnitopo con la sua piota, si può piantare con le radici in queste fosse, e ritagliarlo spesso, perché rimetta a cespuglio più fondo. La seconda siepe agreste si fa di rozzi legni squarciati o sfessi, o di pali fitti accosti o segati in asserelli, et appuntati di sopra e confitti a traverse, rette da pali fortemente in terra fitti; e s' adopra quercia, cerro, ontano, olmo e castagno; e quando se ne vede delle guaste, rinnuovinsi. La militare è una fossa con l’argine di terra sollevato tutto da una banda, che sia dalla banda di dentro, et acconcia in modo che la possi ricevere tutta l’acqua che vien da cielo, e abbi un’ altezza o colmo che ella eschi dal fondo; e l’argine si facci ripido, che non vi sì possi altrui aggrappare a salir su; e fortifichisi con pali che ’1 terreno non ricaschi, e si tenghi su a uso di gabbione da campo. Il quarto è fabrile, fatto di sassi per mano di artefici, cioè muro a secco, e se ne fanno di cinque modi: il primo è di pietre, 155 il secondo di mattoni cotti, il terzo di crudi, 1 quali si rinvestiscono et inzaffano di calcina, il quarto si fa [con] una forma di legno alta un terzo di braccio e lunga due e larga un terzo, e vi si gitta dentro della ghiaia intrisa con calcina o altre pietrette, e come ha fatto presa, che la si ritira, si cava, et asciutta si compone l’una sopra l'altra, si che l'una commessura sia ricoperta dall'una intera che vi si componga sopra; e questo così fatto getto servirà per dove non sl ritruovino pietre; l ultimo si fa con aver fabbricata una cassa alta un braccio e lunga due e larga uno et un quarto, di legname di castagno, e si ha a empiere di terra bagnata, pesta e rimenata bene, e con quelle tavole s° ha a mettere nel luogo dove ella ha a stare, com- ponendovene sopra dell’ altre sino a quell’altezza che si vuole; e quando le si commettono insieme, bagnisi bene quella di sotto perché dI pezzo di sopra appoggiandovisi vi s' unisca e vi s'Iincor- pori su, et alla cima si cuopra con mattoni, embrici o tegoli, rispetto all'acqua, per più du- rare; altri l incovertano di calcina facendoli la penna a scarpa o cresta di quà e di là da scolar l’acqua; altri lo rinvestiscono di mattoni cotti, coprendo con stipa o pruni. Fannosi anco le siepi di vermene, di vimini, di vetrice, di rovi- stico e di sambuchi, salici et altri, intrecciando ogni cosa insieme; e queste si convengono dove sia gran dovizia di terreno buono e grasso, perché sfruttano, e perciò a queste si deono porre gli alberi fruttiferi di dentro un po’ di- scosto; e così come non s' hanno a piantare ra- sente 1 muri, meno s' hanno a porre accosto 136 alle siepi, nelle quali et in quelle di vermene molti accostumano di piantare dentro nel mezzo degli arbori, e massime olmi o pioppi. Ma perché fanno uggia e scala, è meglio lasciar le siepi sole senz’ altro. Fanno altresi ferma e gagliarda siepe sempre verde le nepe e l’ alloro, ponendo lune addosso all’ altro, e massime intrecciandovi della periploca, o vero dell’ apocino e delle vi- talbe, e, mentre vengono innanzi, aiutarle con l’intricarle insieme. Sono perpetue verdi le siepi d’agrifoglio; delicate son poi di bossolo, di len- taggine, di gelsomini, che tutti tre ubbidiscono alle forbici, mandandosi uguali. Fanno bella vista ancora nei buon terreni le siepi di lauro regio, et ancora sono belle a vedere e strava- ganti nelle terre grasse le siepi di fichi d’ India, piantati fitti e fondi; fanno bene ancora in spal- liere volte a solatio. Ma per ben dentro alle siepi collocare e piantare gli arbori e frutti, importa assai far buon lavori et in tempo, o sieno di divelto, formelle o buche secondo il paese, fognate be- nissimo con buoni sassi grossi nel fondo acconci bene, che l’acqua sfoghi presto, e di sopra assal del piccoli sopra quelli grossi, acciocché la terra non possi così presto penetrarvi a ritu- rare, e conducendo roba alla fogna, turarla. Altri nel porre ciascheduna pianta osservano di ben coricarla e [che sia] messa giù pari diligentemente con le radici bene sparse e spic- cate l una dall’ altra, che non si soffochino et intrichino insieme, spargendo fra l una e l’altra la terra spicinata solla, sì che sieno spartite bene e disgiunte l una dall’ altra, acciò non si 137 soprapponghino o sieno ritorte o involte inviluppate insieme, con far ciascheduna gia- cere per il verso che ella va et al suo luogo diritto; e vicino al pie del cespuglio delle barbe porre quattro o cinque pietre di tre, quattro o sei braccia luna, o breccie minute, ché così non dan fuori sì presto, non gelano e stan fresche l'estate. Non è ancora che bene sopra le radici de’ frutti che si piantano, oltre al gettare la terra cotta raccolta sottil sottile, stendervi sopra un suolo di terra spolverizzata ragunata per le strade, riposta prima di estate, e riserbata a questo effetto in qualche luogo asciutto e secco; e quelli che si pongono con tronchi o rami piantinsi, se sì può, in quell’ ora che sono stati staccati, più alti lasciandogli nella terra grassa che non nella magra. Altri credono che tagliati che e’ sieno, lasciati a suz- zare per tre o quattro dì e non più, succino poi meglio l’umor della terra e così faccino i magliuoli dopo dodici o quindici giorni, e tanto più le piante, e quelli umorosi e freschi di na- tura, come 1 pioppi, le vetrici, i salci, i platani, gli ontani e gli alberi, levando poi lor presto le mal nate messe, mandando innanzi quelle che danno fazione et aggarbano la pianta. Ai piantoni levansi le cime in tondo, et a quelli di ramo, eccetto che ai fichi. Se si piantino gli arbori in luogo dove il terreno sia sotto diffe- rente da sé stesso in cima, mandisi a toccar le radici e rincalzarle il migliore; e se sia in sommo, st mandi a basso; e non ve n’ essendo, cerchisi della buona terra e riempiasi con quella. Ma se il terreno buono sia nel fondo, lavorisi 138 e rifrughisi quivi e lascisi stare. È ben vero che essi tutti desiderano il terreno simile a sé stessi e di bontà uguale, buono sotto almeno due braccia, e ciò gli farà cognoscere all’ essere più rigogliosi e vegnenti; et in qualunque ma- niera si dee avere a mente che egli è meglio assai l aversi a pentire che i lavori che si fanno sieno sempre troppo et a dentro e larghi, e fogne senza rispiarmo e con dovizia di sassi, che per contrario, tanto per le piante frutti- fere, come per l'altre; che se elle si truovano ben servite di lavoro, oltre a che il bene non è giammai in alcuna cosa troppo, lo rimostrano co 1 tempo, così nell’ imporre le messe, come nel proprio frutto, o nel bastare i frutti assai, e fargli grandi e belli. E non sia il padrone infingardo, che quando ha a porre, facci di essere in su 1 luogo, e vedere con l’ occhio e mettervi le mani proprie, e non si fidi di con- tadini, et avvertisca di non pignere mai la terra col piedi addosso alle piante, quantunque sia asciutto, secco e non punto bagno o umidiccio il terreno, perchè l’esperienza mostra che è cattiva cosa d’ uso, se bene gli antichi l’ hanno approvata per buona, e non è da seguitare. Si dee adunque, quando abbin sopra tanta terra che sia un braccio, destramente, come si disse di sopra, e leggermente con i piedi incalcarla una sola frugata o due, e non più. Faccisi ancora tirar loro addosso con le mani e non con i ferri la terra da prima, e faccisi che la terra tocchi e sottentri bene per tutto intorno alle barbe, e massime nel fondo. Ponghinsi bene a dentro questi frutti, e massime in quella 139 [terra] che s’'assetta per i mandorli e susini; in fuori [quelli] che non l amano, ma a modo, e così 1 persichi, albercocchi, azzeruoli e nespoli ; e degli agrumi il cedro, il melangolo e 1’ aran- cio aman l’addentro, il limone meno, e fra i salvatichi il corniolo et il silio stan poco sotto, e così il sanguine; benché io non crederò mai che ’1 mettere a dentro i frutti facci lor male, st bene il contrario, che sia dannoso prima- mente il lavorar poco in giù e di poi il porgli a sommo, e massime nel poggi e ne’ paesi caldi rispetto all’ estate, nella quale sentendo sonare le ventiquattro ore si seccano; che se bene sono di ragione di barbare a sommo, lo faranno col tempo in ogni modo. E per esempio sia l'ulivo, che sempre si pone bene. a dentro, e quanto più, tanto meglio, e col tempo barba a galla; e tutto si fa perché nel principio all’ ap- piccarsi non riceva caldo; si che e per questa ragione e per rispetto delle annestature e per amor dei venti s hanno sempre a mettere a dentro il più che si può, e come s'è tanto detto, secondo 1 siti, luoghi e paesi, perciocché ne’ piani e terreni grossi e fondati è da fare il contrario; e di poi dar loro da rodere ai piedi in sulla fogna della fossa, o sassi della formella, o buca, un buon suolo di roba et uno appresso di terra cotta, e quivi su mettere il nesto o la pianta, e ricoprirgli le barbe tutte di terra cotta, la quale non è altro che quella terra che è stata assai allo scoperto al sole, al freddo, ai ghiacci, all’ acqua et al caldo, due o tre diti in giù dalla superficie, e ciò si facci con le mani, et andar seguitando un suolo di roba et 140 uno di detta terra cotta, e così far empiere la fossa, e nel riempierla andar sempre scassando attorno e dai lati allargando il lavoro, come s'è detto, il più che si può e bene a dentro, e seguitare tanto che ella sia ripiena e congua- gliata al pari. E mettasi studio sopra tutte l'altre cose di far maneggiar simili lavori ai tempi buoni, e sieno asciutti e giornata quieta e la terra ben stagionata, fermentata e purgata; e se ella non fosse così asciutta, et altrui fosse forzato a porre, fa di cavare della terra asciutta di qualche portico o stalla che sieno a terra e non lastricati, o fa d'avere a questo effetto della terra stata al coperto, e mettine prima un buon suolo sotto alla pianta, poi intorno e sopra, sin che gli sieno di questa tutte le barbe ricoperte; poi a riempiere la fossa aspetta il tempo buono, che questa inumidisce dalla molle e non farà danno; o veramente senz’ altro si faranno imporre ai luoghi loro e rincalzarsi con un po’ di terra asciutta portatavi, tanto che si sostenghino e regghino insino che tutto sia secco; o vero si tenghino sotterrate nella terra, e questa non importa che la sia molle, non v'avendo a stare più che tanto, ricoprendo di sopra bene con del paglione, ché cosi acconci possono stare i mesi interi senza patire, aspet- tando il tempo buono, e di poi si palino con pali piccoli o con canne, affinchè sendo palo grosso in quella terra smossa non lo facesse piegare il vento, e rompesse il nesto o pianta, o lo serollasse di sorte che impedisse l’ appic- carsi; e palandolo, vadasi discosto co ’1 palo a 4 . 14l causa ch’ egli non desse in sull’ innestatura (la quale ha a ire sotto un braccio a cagione che possi sopra e sotto metter barbe, e non come gli antichi, che a tutti i rischi la lasciavan fuori) e spiccasse la marza; e vadisi secondando con i pali, sempre crescendogli in grandezza, sin che si sostenghi e regghi forte da per sé, avendo il pedale sodo, ingrossato e fatto. Ecci un modo di fognare le fosse o formelle in paesi aridi e montuosi, e si fa co ’1 fognare con le corna di bue, di bufoli, di capre, pecore e di castrato, volte tutte col vuoto all’ in su, affin- ché piovendo s empino d’ acqua e così d’ estate mantenghino il frutto fresco, e co ’1 tempo fanno grassezza marcendosi et infradiciandosi, stabilito che l arbore è, e fermo dopo molto tempo. Ecci chi usa l’ avena e la loppa molle in quantità, ma nel fare i nesti come nel pian- tare si vede che mettono meglio e più presto sì risentono; che quando la luna cresce, sì ven- gono a risvegliare loro ancora, muovere e cre- scere, e più presto assai che a luna scema, nella quale piantati fan più adagio, e quelli fanno de’ frutti più sollecitamente; ma sì come si vede che crescono e mettono prima, si potrebbe dire che sono più fragili e le lor messe più di risico ai venti. Ma chi ben considera, non vi si truova neanche tal fragilezza, ché sono tutte sode et a un modo, et al potare si vede alle viti, che per quell’anno solo come per gli altri sono della durezza medesima i sermenti stati piantati. È in tutti i modi cosa certissima che e’ faccin le frutte e le messe più presto a luna crescente, e ciò s' esperimenta chiaro nel mela- 142 grano, il quale se sia posto che la luna abbi molti giorni, per tanti giorni quanti ella ha, tanti anni pena a fare i frutti, e se egli sia piantato a luna scema, non se ne vede quasi mai o tardissimamente il frutto; e veggendosi operare in questo manifestissimamente, non è dubbio che negli altri la luna ha la medesima simpatia e similmente opera, et è chiaro che la luna fa operazioni evidentissime nelle piante e nei corpi; e perciò replico che si ponga sem- pre, come ancora di sopra s'è detto, a luna crescente. Ai frutti da far piante non importa tanto, ma per rispetto al mettere, mettono meglio a luna crescente, e vengono più presto. Cognoscesi che grandemente opera questa osservazione della luna nel potare e nel tagliare; e se si poti a luna crescente, ogni cosa mette con più rigoglio che a luna scema. È ben vero che le messe dei tralci stanno più forti e sode e vengono a essere più sicure dai venti, ma perche forse per essere più gravi messe han men carico a luna scema potate e tagliate, che a luna crescente. Le canne fra l’ altre, tagliate a questa, mettono fuor di misura l’anno che segue, ma intarlano, né bastano quasi un anno, e perciò 1 contadini le tagliano a questa luna per vendere, e quelle che e’ vogliono per loro alla scema. Si che di nuovo concludendo, io torno a dire che e’ si ponga sempre tutto quello che s ha a porre a luna crescente, e non solo le piante domestiche, ma le salvatiche; e quelle che hanno le barbe, come s'è detto di sopra, le porrai a luna crescente del mese di ottobre, e quelle senza, come ulivi, fichi, piantoni d’ al- 143 beri e simili, alla luna di marzo, cioè a tempo nuovo. È di più amerei che quando sì pongono, per mio consiglio, avessino messo o almeno ben mosso, e che il fico avesse delle foglie che si spiegassero e apparissero ben fuori; e la ragione è questa, che all’ ottobre l’ ulivo, il fico e cosi tutti i frutti cominciano a essere morti, e la virtù loro tutta si riduce nelle barbe, donde che levandosi elli dalle barbe, che gli danno la vita, sendo semivive, se e’ s° abbatte che di poi egli abbino un’ invernata crudele, è forza che li ammazzi affatto o vero li stordischi, di sorte, che mal volentieri si riabbino, e mettino a stento; et a marzo non avviene così, perché tagliando allora, è uscita la virtù dalle barbe, e di già è sparsa per il gambo e per tutto, et ha in sé vita, umore e virtù, et è fomentato, alutato et aumentato dalla terra, dal sole, dalla luna, dall’ aere, dalla pioggia e da tutto, con maggior rigoglio, vigore e possanza; e di tutto ciò la pruova ne fa vedere manifestissimo segno, che con più virtù e forza metterà sempre un piantone piantato al marzo che all’ ottobre, perché, come s’ è detto, la virtà si riduce nelle barbe et è quella che mantiene il nesto; et avendole è cagione che cavi fuori ogni cosa insieme e la virtù che la dà e che la riceve. Affermo ben questo, come s' è detto anche di sopra, che l’ inseto barbato o pianta cavata subito e posta non è a proposito, perché l’ espe- rienza rimostra che stando due o tre di cavata pruova meglio per questa medesima ragione, che quella virtù sentendosi offendere se n’ esce tutta insieme, e così ha miglior modo che uno 144 senza barbe, e come entra nella terra si sforza tirar da essa tutto quell’ aiuto e virtù ch’ egli può per aiutarsi. E di questa maniera fa com- pagnia con essa terra, e s' accomoda facendo della necessità maggior virtù, e tutto per causa di vivere, come è “Naturale degli uomini e di tutte le ca che ognuno desidcha di vivere, crescere e far frutto per andare al fine. L’ acqua ancora ce lo dà ad intendere, che posta al fuoco in una caldaia e fatta bollire, subito che ella bolle, di sopra non si può toccare, e se si metta un dito nel fondo, levata che s'è subito dal fuoco, si troverà gelata, rispetto a quella virtù unita e ristretta insieme di quell’ acqua, la quale cerca di far resistenza al suo perpetua- mente contrario che l offende con l umido e frigidità sua, e corre subito al fondo dove sente battere il nemico, che di poi non avendo aiuto muore e presto divien tutta calda; che del frutto avverrebbe il simile, lasciandolo senza trasporre, ma presto s' aiuta, come s' è detto, e s'attacca alla terra con le barbe l invernata, e se è piantone le ingenera di nuovo, ma non prima che a primavera, e quello onu che esse l’ invernata sotto, di poi al marzo marcisee e germoglia. È ben vero che e’ si doverebbe sempre dividere il postime che s'ha a fare, come che avendosi quest’ anno sessanta piante o innesti, porne trenta all’ ottobre e trenta al marzo, pesché talora la posta d'ottobre non riesce per troppa pioggia o freddo che soprav- viene all’invernata, e riesce quella di marzo per abbattersi a un’ estate fresca et umida o almeno temperata, e talvolta no, per un’ estate 145 secca e calda fuor di modo e focosa; e quella d'ottobre farà bene solamente quando incon- trerà buona invernata. Imperciò, dividendo, faranno talora bene e luna e l’altra; e tal- volta faranno bene giuntamente i domestichi et 1 salvatichi. Per il che piantisi sempre, piantisi assai e d'ogni tempo e con buon ordine, ché tuttavia saranno più quelli che verranno innanzi che quelli che periranno o resteranno indietro, senza numero; ché così, desiderando di mante- nere le spezie e propagarle, per l'ordine del Supremo Motore fa la natura; la quale molte volte, mediante l umano ingegno, diligenza, arte, studio, osservanza, cognizione e sapere et industria, fa acquisto di perfezione nelle cose sue, migliorandosi con l’artifizio; e questo talora s'è ritruovato a caso, come si disse della cal- cina ('), per dargli aiuto e crescergli operazione, aggiovando tanto più gli umani progressi et opere, come si vede negli inseti degli arbori, perciocche niuno andava pensando di comporre e congiungere insieme le lor tagliature spiccate di già e derelitte dal suo proprio natural tron- cone (se bene sino agli antichi tempi rattacca- vano i nasi tagliati con scarnificare il braccio e tenerlo legato sopra il tagliato naso i Turchi) (*); se non se il caso apportò che un diligente con- tadino, volendo chiudere con siepe il procinto della sua casa e l’ orto, perché meno marcissero (?) Nell’ Agricoltura, pag. 198-199. (*) Cosi leggo colla stampa fiorentina: ma lo spazio della pa- rola, ora corroso, è più lungo assai che non occorra alla parola Turchi, senza però giustificare i Turpiani della ristampa milanese. 10 146 i pali, al cancello dell’ entrata pose per soglia dell’ ellera, ficcandovi dentro per stipiti et architravi della medesima ellera, i quali sendo stati fitti, stretti et afferrati da quella con vivace morso, menarono la vita in quella d'altri; et apparì che un troncone tagliato servì loro in cambio di terra. Altri mettono che fosse Saturno degli innesti inventore in Italia, ma io piuttosto m° appiglierò a credere che si come l’ibis insegnò il clistere, perché pasciuto dei pesci del Nilo fuor che non comportava il suo stomaco, per evacuare, col lungo becco sul lungo collo torcendo, si schizzava dell’ acqua nel sesso, e con quello mandava fuori lo stra- bocchevol cibo, così ne mostrasse gli inseti il nibbio, il quale per fare il suo nidio (') (Sì come sogliono per lo più cercare secchi fuscelli) staccata una vermenetta di cima co ’1 becco, che gli mancava a farlo, di verde ramo, nel portarla gli cadesse fra la buccia e fesso del tronco di un arbore; et a ventura fu osservato che s'era appiccato, quantunque ella fosse di differente spezie. Et alcuni altri hanno creduto che avendo un merlo divorato il frutto di un arbore, volasse poi a digerirlo nella caverna di un altro arbore, e quivi bagnato dalla pioggia nascesse in quella buca, e s’ appiccasse, venendo innanzi della diversa ragione ch’ egli era. Ma fosse come si vuole d’ una di queste, andarono gli uomini escogitando le varie maniere degli inseti, le quali non solo hanno forza di miglio- rare la pianta in sé stessa, di sé stessa anne- (1) sristo, errore della stampa. 147 standola, ma, in un’ altra trasferendola, mutarla in pianta et arbore differente, et a viva forza far venire in altrui madre quello che non aveva essa partorito e che di lei non era già mai punto nato, e come balia prima allattarlo, poi nutricarlo e riceverlo, come quello che può ringiovanire 1 vecchi, rinvigorire 1 deboli, e far vivi e risuscitare quelli che dianzi morivano, col depositargli anzi e seppellirgli in una sepul- tura dante lor vita, sanificando i malati, e più che nel primiero stato ritornargli e sani e validi. Et è si, che non solo con questo si può mantenere e creare nuovi rami nel tronco, ma del tutto rimutare gli arbori e cambiargli dal loro natio essere, e di sterili fargli diventare fertili e di fertili fertilissimi, e spogliare i sal- vatichi di quella lor naturale fierezza, e vestir- gli et arricchirgli di domestichi delicati sapori, facendogli diventare migliori di loro istessi, più vegnenti e più belli. E così come negli animali st fa imbastardire la natura ne’ muli, simil- mente si fa con questo negli arbori, quando che con questo artifizio si può far lor produrre non solo nuove sorte di frutti, ma adulterargli, come avviene in quelli che rappresentano 1 frutti dell’ essere del padre loro, et il sugo e sapore d'un altro adottato in essi, a tal che coll’inseto diventa un’ altra nuova sorta e da se stessa differenziata, come nei noci insetati al susini, che noci pruni chiamar si possono, e le prune insetate ai meli, dette a tempo di Plinio meline, che in Betica le facevano, e le susine insetate nei mandorli, [dette] amigdaline ; perchè a queste così fatte e nel legno dentro è 148 il nocciolo di mandorla, né può vedersi il più ingegnoso frutto. Come anco è cosa bizzarra innestare nei cavoli di questa maniera: levinsi le foglie attorno al cavolo lasciandogli la pipita, e nel gambo presso a terra tre diti con un fruscolo appuntato, grosso quanto la marza che vi ha a entrare, faccisi un foro per traverso, e per quel buco caccisi la marza bene appuntata da quella parte da dove ha a entrare nel per- tuso del cavolo; appiastrisi intorno sotto e sopra della creta stemperata, et adacquisi il piè del cavolo spesso, avendolo ricoperto di terra sopra l’innestatura, sin che la marza v’ abbi messe le barbe, che sarà quando si vedrà il cavolo marcito o venuto meno; di poi si tra- pianti la marza a dove si vuole, che sarà frutto fatto. Ancora, per vedere un’ esperienza sopra ’1 cavolo, per essere umorosissimo, scapezzisi il gambo del cavolo, e pareggiata la tagliatura si sfenda e vi si ponga dentro una marza di pero, acconciandola come si farebbe sopra un altro pero, e vi si attaccherà e vi metterà sopra, durando qualche mese. Ma negli arbori istessi si può insetare con le lor sementi in questo modo: piglinsi sementi di peri cotogni, di meli, di peri e frutti simili, e ponghinsi tra la scorza e "1 legno le simili con la punta in suso, avendo scapezzato e pareggiato il tronco; di poi disco- stata la buccia tanto che vi entrino, acconcian- dole in modo che appena si vegghino le punte delle sementi, e quell’'umore le farà nascere et attaccare. Altri fanno un foro nel liscio del tronco; e con una punta di chiodo, ma meglio è fuscello, avendo per traverso tagliata la scorza, 149 allargano con quello tanto, che vi cacciano la sementa, turando all’ intorno con cera, che l’acqua non danneggi la tagliatura, e dove sì mettono i semi, che solo hanno a mostrar la punta. E ciò si dee farè di primavera, quando è in succhio la buccia. Il nespolo ancora inse- tato nel melo fa, come dicono i Greci, eze474, cioè piccola mela, perciocché dal melo son ve- nuti questi vocaboli, hypomelide, amamelide, omo- melide e simili. E gli Ateniesi chiamavano mele- melide quelle mele che erano state insetate in peri salvatichi o ne’ peri cotogni e nel platano, nel quale diventassero rosse. I peri cotogni (') si fanno grossi insetandogli nella sua marza. Diofane commendava le pere odorate insetate nei meli, e le chiamava mylaphilea, come un’ altra razza fosse. Il cedro ancora s' insetava nel melo, perche fosse detto cetromelo. Il cotogno insetato nel persico chiamavano melo cotogno, in Ispagna membriglio, dove sono crudi commestibili come qui le pere. Sono anch’ oggi le noci pesche. Ma sono ancora certi arbori tra loro con tanto odio differenti, che in niuna maniera né vogliono stare insieme, né meno ricevere in sé l inseto dell’ altro. E se bene contro all’ opinione di Varrone il pero è ricevuto dalla quercia, si pruova che non vi vive, né molto vi si man- tiene, come il castagno in su ’1l silio et il man- dorlo in su ’1 pesco, non sostenendo bene il maggiore il minore, ma si bene per contra. É ricevuto ancora quanto all’ attaccarsi il pero dal melo, e per contra; ma conviene in traspian- (1) StArucis cotonea (pare) scritto sopra. 150 tandolo, si come i peri moscadelli o bronchi che s' innestano in sul pero cotogno, sotterrare per un braccio l'innestatura, perche vi metta radici e col tempo viva in su le sue. Così il pino, il cipresso e tutti i resiniferi, come si disse, non nutricano la razza d’ altri, né meno in su loro istessi la loro. Conviene adunque che quelli che s' insetano lun nell’ altro abbino una certa somiglianza che in tutto li seguiti, perché quelli che sono di duro legno, come è il bossolo e simili, non l’accettano (che è quello che fa che sia difficile innestare 1’ azzeruolo nel sorbo) come quelli di leggieri e debole; imperciocché questi con la lor debolezza non serrano, e quelli con la lor durezza recidono e strangolano; e perciò molti il pero nel melo non insetano. Bisogna adunque cognoscere le buccie, e sapere che quelli arbori che 1° hanno densa e che dalla terra succiano, copiosi d'umore sotto la cor- teccia, vengono insetati più accomodatamente, come il fico, il ciriegio, l ulivo e simili; e quelli che sono vestiti di sottile scorza, contenti di poco umore e senza succhio di fuori, come che l’umore si sia ritirato più verso la midolla di dentro, come il cedro, il melo, la vite e molti altri, fesso per il mezzo il legno, vi sì seccano gli inseti; ond’ è che molti hanno avuto ope- nione che il cedro insetato a occhio traligni, e che meglio sia insetarlo nel tronco; ma la pruova mostra il contrario, facendo gran riu- scita a occhio. I cotogni meglio pruovano inse- tati nel tronco che in altro modo; l’ olivo meglio sotto la corteccia, il ciriegio nel tronco come il noce, il fico con gli occhi più che con 151 le marze; ma vero è che se si accomodano bene nel tronco, daranno più presto il frutto; il castagno il contrario, et a occhi et a cannello o bucciuolo che è tutto uno. E perché egli è lecito mescolare gli inseti, e fa bellezza vederne di più sorte in sur un arbore solo (come che si sia visto in sur un medesimo tronco di pero, peri, peri cotogni, nespoli, sorbi e meli, tutti reciprocamente accettandone in sé ciascheduno, e talora avviene che non tutti muovono a un tempo) per potere insetargli, allora conviene accomodarsi con i tempi, e farne parte a occhio e parte a tagliuola, secondo che si vede di poter fare, secondo quelli; e se talora anco sia trasandato il tempo dell’ uno e dell’ altro, e che si vogli insetare all’ uno e all’ altro modo, con tutto ciò piglinsi le marze da arbori che sieno in luoghi freddi e che non abbino anco tanto messo o tanto ingrossato gli occhi, e ponghinsi a quelli che di già hanno messo, et accomo- dinsi quivi, affinchè quello che non dà 1 arbore lo dia l’inseto dell’ altro. Di questa maniera si potranno accozzare più inseti in sur un solo arbore, e con il tempo, di tutti. Plinio scrive che il platano n’ accetta assai, ma altera il sa- pore, et accanto il rovere; oggi l’uno e 1’ altro è dimesso. Et avviene degli innesti come dei cibi, perciocché essendosi provato già tanti se- coli che la carne delle vitelle, capretti e castrati sono ottime, difficile sarebbe introdurre, né riuscirebbe, carne di cani, gatti et asini alle beccherie; somigliantemente i nesti si sa quelli che stanno bene o male, e quelli che sono accet- tati per far buona pruova; malagevole sarebbe 152 porre innanzi d'insetare il pero su ‘1 faggio, le mele in su ’l tiglio e simili, e credo che ancora in quelli tempi queste stravaganze come inutili poco s' usassero, perché nei nesti bisogna segui- tare l’ ordine della natura, et attenersi a quelli che pruovano meglio secondo la vera regola naturale, che ogni simile appetisce il suo simile; e questi sono quelli che pruovano. Le altre sono esperienze e forze di natura per brevi giorni. E pur si legge che il platano riceve in sé il persico, il cedro e ’1 pero, e che esso diventa rosso, il ciriegio, il fico e ’1 melo. Affer- masi ancora che il. pero cotogno e ’1 caprifico sono atti a ricevere ogni inseto d’ altrui, et il cotogno soprattutto accetta bene il pero, il melo e ’1 nespolo et i tuberi ('). Le mele, che da Appio Claudio appie sono dette, vi fanno bene. Ma a tutti questi bisogna ben sotterrare l’innestatura. Il sorbo, e tutti in esso di sapore, bellezza e grandezza acquistano, migliorando assai, se bene Palladio fu di parer contrario. Il fico sì può, dicono, insetare al moro et all’ olmo, ma si fa infelice. Affricano, toltolo da Florentino, scrisse d’ un ulivo insetato in una vite, [e in un] arbore di Libia detto bolina. Plutarco scrive negli orti di Socaconte dal Cefiso aver visto ulivi che mettevano da quelli lentisco; et alla Meglia fu un susino ai nostri tempi sopra d’ un ulivo. Il ciriegio fa ben solo in su la sua razza, et i viscioli migliorano in su gli acquaiuoli, con tutto che Plinio scriva essersi attaccati in su l'alloro, et altri in sul corniolo. Sopra ’l (1) rubeti, errore della stampa. 155 lauro ceraso alcuni tengono che s' appicchi, e sopra i ciriegi a grappoli, e sopra i ciriegi sal- vatichi a uve. Et è chi scrive aver veduto uno degli agriotti insetato in un olmo presso a Gergonia, e delle dolci nerbonesi in un ontano. Le castagne nel faggio si son vedute, nella quercia e nel noce; et il pero nell’ orno ('), e la quercia nell’ olmo, scrive Virgilio. Il moro l’accettano il castagno, il faggio e ’1 pero sal- vatico, l’olmo et il pioppo bianco, in su ’l quale essendo posto il moro nero fa le more bianche; la noce nel susino e nel corbezzolo, il mandorlo nel pesco, e per contrario. Nel susino innestato il mandorlo le fa piccole e di peggior razza, come il pesco in quello; ma perché du- rino più, vi s insetano gli amari, perché nella sua razza insetati durano poco. Il pesco, scri- vono, fa nel melo, ma imbastardisce i frutti; e nel mandorlo ancora. Plutarco è autore che la quercia ha portato i peri, e questi nel man- dorlo; pomi granati sull’ olmo e frassino e melo e susino aronio sì son visti. Il pero scambie- volmente accetta il melo, et il pruno, il sorbo e l’aronea, et insetato nel moro rosso fa i frutti rossi; e tanto avviene del pero; e se ’1 cedro vi s’ attacchi, darà tutto l’anno frutti, dice Didimo. Il melo riceve l’ alloro, la mortella e ’1 nespolo; il nespolo fa nel pero, in tutti i meli e nel susino aronio. Il nespolo ancora accetta la mortella, et anco l'accetta il melagrano, e quella scambievolmente questo; così farà più mele. Nel cerro s’ afferra il pome granato e nel (!) ontano, scritto sopra. 154 salcio, et il pome granato scambievolmente comporta il cedro, e così fa il moro, ma l'uno e l’altro darà i frutti rossi, et il salcio. Ma il cedro una certa sorte di mandorle riceve, che fan rosso il fiore. Fra alcuni autori [si] conviene che si ricevono fra di loro d’inseto reciproca- mente il lauro, il sorbo e ’1 frassino, sì che in questo s insetano quelli due; e questo riceve quelli. Il castagno si può insetare nel noce; nel salcio fa tardi e diventa aspro. I pistacchi seri- vono insetarsi nel mandorlo; in Francia si son visti nel ciriegio; e questo fa in sul pesco, et in questo il susino. Le mize a tempo di Plinio nacquero in rami insetati nel sorbo; e dice che è in Calavria una spina che ottimamente le riceve, come anco i tuberi, ma meglio è inse- targli nel pruno, nel quale s’inseta ancora il melo. Il nespolo insetato sui pruni bianchi man- tiene la grandezza dei suoi frutti, restando sopra più piccol tronco, e buona cosa è sotter- rare un braccio l’innestatura. I peschi insetati negli spini faranno maggiori frutte, et anco nel faggio. Se si congiunghino due surculi di mandorlo e di pesco nel susino, averanno i loro frutti la carne di persico et i noccioli di man- dorlo. Il pome granato dicono che viene d’in- seto nel salcio, nel frassino, nell’ alloro, nei susini dommaschini, a tutti i susini et al man- dorlo; et insetato in sé stesso migliora 1 frutti, come tutti gli altri. Il susino amoscino s ap- picca al pero salvatico d’ ogni sorta; il susino ordinario s inseta al damaschino et alla noce tasia, che altro non è che "1 mandorlo; e ’l cedro per avere la scorza sottile sta bene 155 in sé stesso, non accettando bene altro che limone. E volendo far pruova d’insetare tutti i sopraddetti, quanto più si farà accosto alle radici, perché quivi è più umore per la vici nità della terra alla loro scorza, e massime se saran grossi, più agevolmente s' appiccheranno; e siano tutte queste esperienze a tutti fatte a marza, osservando di far le marze grosse al grosso tronco, e così accompagnare le scorze. Ma in tutti i modi faran meglio sempre gli arbori insetati in lor medesimi che altramente, dell’ istessa razza, quale come vera compagnia, legame e matrimonio, cresce, moltiplica e s' au- menta insieme cognosciutamente e con più pro- fitto. Adunque il pero farà nel salvatico pero eccellentemente e nel domestico, così il melo, il susino e ’l ciriegio, e nell’ oleastro I’ ulivo, sì come in Affrica s' aCcostuma particolarmente, perche la medesima o poco differente è del tempo e luogo la messa loro, e del fare i fiori, le boccie e ’1 frutto, e s' accompagna a bene unirsi la qualità delle buccie e dei succhi; le quali cose danno tutta la forza e vigore all’ in- nestare. Et insetando in un pero salvatico un pero che non sia troppo buono, diventerà con tutto ciò un pero non cattivo né di tristo sa- pore, quanto che se egli fosse insetato in un che non fosse salvatico. Ma sopra tutto dee osservarsi nell’ insetare che quello che s’ innesta sia più nobile e più generoso di quello in su che s’annesta, altramente sarà l innestare di nullo valore: però danna Virgilio che e’ si facci conto dei surculi dell’ oleastro per insetare. 156 E chi ha poche piante dee cercar tanto più d'avere belli inseti, perché appaia che egli con la bontà ricomperi il numero; e si vede per esperienza, che facendo inseti d'altra sorte, st varia il sapore o la forma o la bontà, e sempre di meglio in peggio. È ben vero che in qualunque modo sia che s’ inseti, s'inseti assai e più d'un inseto sur un arbore, come se sia arbore grande e fatto, a ramo a ramo [sono da] insetare tutti i suoi rami, si renderanno [cosi] gli arbori più fecondi e copiosi di frutto, più vaghi e più belli a vedere, che con qualunque piantare si facci o traspiantarli, o altro lavoro di coltivazione che si facci loro intorno. Talora passano d'una sorte in un’ altra, quantunque insetati in quelli della sorte medesima, come peri cotogni in peri; e s' insetano ancora in mandorli dolci o in nocciuoli. Ogni altro arbore che abbi frutto d’ osso e s'inseti, et il di fuori sarà quello che era innanzi, o persico o susino o albercocco e simili, e la sementa minuta sarà mandorli e nocciuoli; e quanto più basso sì farà l inseto, tanto sarà la mutazione maggiore et alterazione del frutto. E se sia assai sotto terra, maggiore sarà la mutazione et altera- zione del frutto ancora, ma più di durata. Ciascheduno inseto dà il frutto al tempo che lo produceva il frutto nel quale sta insetato, 0 poco vi corre. Tra gli inseti che si fanno di simile in simile, quanto più son simili son più durabili, come dei peri e meli domestichi in sui salvatichi e in su tutte le sorte peri e meli; e tanto avviene dei ciriegi, persichi, susini, ulivi e simili; et i persichi nei mandorli e negli 157 albercocchi. Et ogni frutto di piccol seme s’attacca bene nel suo seme di sementa minuta senza osso nel suo frutto, come pure in meli cotogni, e per il contrario; e quel frutto che ha l'osso s' attacca bene in quello che ha 1’ osso, come il persico in mandorlo e così per contra; e facendo questo, bisogna sotterrare il persico sotto l’innestatura un braccio, per essere mi- nore il reggente del retto. Fa bene in sul pesco l’albercocco, e in sul susino; e ’l susino in sul mandorlo, e 1 mandorlo in sul susino. Né meno s' innesti arbore di lunga vita in quello di breve, e così per contrario. E volendo begli arbori, sì spicchino gli inseti belli e grossi dalle nuove messe; e volendo frutti assai dalle vec- chie messe dell’ anno addietro, [si pongano] accomodandole in modo che ’1 vecchio posi in sull’ arbore, e parte del vecchio e nuovo sia fuori. Tutti gli arbori che hanno la scorza grossa e ronchiosa come quelli che hanno a essere insetati a scudetto e occhio, che tutto è uno, a bucciuolo o a cannello, come si dica, s'appiccano l'uno nell’ altro, se ben sieno di contraria natura; et ancora tutti quelli che muovono a un’ otta, sia di scudetto, o in altra maniera ('). Ogni frutto innestato ha miglior sapore et odore, et è più delicato e gentile del non insetato; e se è di sorte di avere osso, si spicca meglio, e dell’ osso l anima si truova più saporita. Di primavera hanno giudicato molti che sia il vero tempo d’ innestare a marza, quando (1) et ancora.... maniera, manca all’ ediz. fiorentina. 155 le gemme cominciano a gonfiare, che non ancora principino a mandar fuori il fiore; benché il pero si possi insetare, e s attacchi insetato ancora quando fiorisce, et ancora di maggio. Ma dee ancora questo farsi secondo la natura dei luoghi e posizione del sito e qualità dei terreni. Nei luoghi caldi a solatio ottimamente s'inseta di gennaio e di febbraio e di novembre e di dicembre, et in tutti da che han finito di germinare. Di primavera è più il solito; e chi l’appruova pone il termine dall’ equinozio su- bito, o come cominci a tirar Favonio. Allora il tempo spigne, che partorisce i germi, inci- tandosi da sé stesse le gemme, et è scambievole voglia d’ attaccarsi e di rammarginarsi le cor- teccie; et insieme col muover dell’ altre cose si muove la corteccia, s' unisce, rammargina e ricopre, e ciò avviene più tardi o più presto, secondo i paesi, terreni e siti. Nel che diligen- temente bisogna guardare l’ abbondanza o man- canza del succhio; perciocchéè quelli che n’ hanno meno indugino un po’ più tardi, e quelli che n’ han copia più presto s' insetino, eccetto che nel melagrano e nel fico, che se bene sono abbruciati secchi, l’ indugiare non è utile. Im- perciò all’ ultimo di marzo o all’ ultimo di gen- naio, avanti che comincino le sue gemme a lacrimare, s’' inseti il susino; et altri, come Palladio, non prima insetano che egli abbia finito di scorrere e sfogare, affinche sia neces- sario che prima sia attaccato l’ inseto che e’ cominci a germinare. Plinio, di documento di Catone, dice che i peri et i meli si possono durare a insetare cinquanta dì dopo il solstizio, 159 l'ulivo intorno all’ equinozio di primavera, ché in esso vengono gli occhi tardissimo, e pochis- simo succhio hanno sotto la corteccia; molti dopo la Bruma, come a tempo determinato gli insetano 1 mandorli et i ciriegi; i Greci non- dimeno di primavera. Da primavera sino al solstizio doversi insetare i fichi afferma Varrone. Conviene anco discerner nei tempi i modi del- l’insetare, perche | impiastrazione o inocula- zione si prolunga sino a maggio e giugno e più. È buon farlo sempre che gli arbori durano a imporre le messe nuove; ancora quando tirano l’etesie. Altri la fanno di primavera; e più la lodano, per essere pregni gli arbori di frutti, che sì facci quando è l’ equinozio, et in quelli arbori è meglio che si godono di terren gracile e secco assetato; e dove sono in terreno umido, d'autunno; e molti tengono che sia meglio insetare a occhio nel nascere dell’ Arturo, per- che allora s' attacca la buccia mirabilmente e quasi mette con forza radice. L'acqua ancora fa gran danno all’ insetare a occhio et entrando dentro grandemente guasta, per la debolezza della scorza; e s' ha [ad] avvertire sempre di far leggier ferita e piccola. Per contrario alle marze giova per la gagliardezza del legno che ha caro d’inumidire (') e può comportarlo; ma quella perciò è sicurissima nel nascer della Canicola, massime negli agrumi. Ma sia qual si vogli modo d’ insetare, è da farlo a luna piena, poco innanzi o poco dopo, perche così verrà innanzi l’ arbore più gagliar- (') è bene inumidire, arbitrariamente la stampa, 160 damente. Altri appruovano che e’ si facci nel principio del crescer della luna, credendo che si appigli più facilmente : altri hanno openione che si deggia osservare di farlo appunto nel- l’ultimo quarto, pur che non sia nel plenilunio, e così produce più presto il frutto, seguendo per tempo accomodo quello di primavera, quando gli arbori cominciano a dar fuori il bottone e prima che aprin gli occhi. Altri ten- gono per certo che tutti gli innesti che si fanno, si debban cominciare nella prima mossa della germinazione, senza nessun’ altra osserva- zione che sia. Ma quanto alle maniere dell’ inne- stare et alle sorte degli innestamenti, è da tenere per certo che tutti gli innesti che si fanno fendendo il tronco o tra la corteccia, sien fatti con grande speranza di dovere non solo met- tere, ma di venire innanzi più gagliardamente, e massime facendogli del mese di novembre, appunto quando gli arbori hanno dimesse tutte le foglie da loro, coprendogli poi e fasciandogli a doppio per cagione del freddo, o vero facen- dogli tanto presso alla terra, che con essa ammontandola intorno si possino ricoprire almeno sopra tutta la legatura, arrogendovi prima o stoppa o fasci o musco o paglia, con una di queste prima turandogli bene; et in questa maniera faranno ii pruova i peri, i meli, i susini et i ciriegi ot ancora gli ulivi, e servirà a ciò ogni paese temperato, ‘che non sia né troppo caldo ne troppo freddo. Agli innesti fatti di estate è un apporsi, se non se a quelli che si conviene a scudetto o scudic- ciuolo come si dice, che si mantengono in 161 succhio sino a quel tempo. Così nell’ autunno avanti il mese di novembre, se non in qualche sorta di peri, e nell’ estate, si deono fare in qualche terreno freddo e paese simile dove facci un’ estate somigliante della nostra prima- vera, come nell’ Alpi o quivi vicino; e nel- l'autunno o nell’inverno sia in luogo a solatio ove soffia vento, ritirando in questo tempo tutti gli arbori alle radici, et alla primavera tutta la virtù spignendo nel tronco e nei rami. Faccinsi di primavera gli innesti più alti da terra nel tronco e nei rami che non d’ inverno, perche si sparghi la virtà che dà in fuori, benche ancora quei fatti più accosto alla terra faranno maggior pruova e daranno più frutto. È meglio insetare al tardi dopo mezzodi che nella mattina, in di tiepido; e senza vento, e massime Austro; e se pur tira alcun vento, sia caldo. Alla tramontana è cattivo insetare, et al gran sole e caldo; et occorrendo farlo, fac- cist sotto un ombrello, poi si lasci ben fasciato, e di musco, che tien fresco, coperto. Né meno si faccino quando piove; e se la necessità stri- gnesse, asciughisi bene con un panno lino e cuoprisi di sopra quando si fa. Nei luoghi freddi comodamente si potrà insetar d'aprile et al fine di marzo, e nei caldi solamente di febbraio. Insetando contro alla comune in quei tempi e luoghi quando la luna è scema, e massime dopo il tondo, sino ai ventiquattro si facci, perché le marze producono più frutto; et a luna nuova è bene insetare. Nei terreni magri è bene inse- tare a luna nuova, e nei grassi quando è vec- chia, crescendo sempre. Gli arbori di gomma, ll 162 susini, ciriegi e persichi, osservando però la stagione dell’ anno, s' insetino di gennaio, a luna crescente. L'insetare a marza i più ten- gono che sia la vera, ma gli antichi da prima temettero a fendere il tronco, ond’ è da credere che ’1 primo modo fosse tra la corteccia e 71 legno, di poi s' arrischiorno a fendere; e quello che si fa fra il legno e la materia della buccia, si fa più comodamente nei grandi e cresciuti, più vecchi e amici della stabilità della cor- teccia. Le piante giovini per la sottigliezza della buccia più sostengono l’ essere insetate a occhio, ma le piante stentate non lo compor- tano, et i tronchi più robusti non permettono talora il tronco farsi nel fender pari, e talvolta serrano troppo recidendo la marza. Ma per fuggir ciò si sfenda si che venghi sfesso più di quello che si vuole, e si sforzi un po’ ad aprirsi quelli che difficilmente con la legatura si strin- gono; e nelle tenere piante si sfenda in modo che v' entri una marza sola. L’ innestare a occhio desidera una pianta che non sia né troppo sottile né troppo grossa. Innestando a marza, alcuni scapezzano la pianta all’ altezza d'un uomo e più, altri rasente terra, per go- dere della sua freschezza e difesa. La pianta ancora sarà di simil grossezza, perchè se più profondamente sì insetisce il tronco, non mu- terà la sua natia grossezza, che lo stipite del- l'innesto sia differente nella più bassa parte, e per contrario nella superiore, per la natura del tronco e dell’ inseto essendo più sottile, il che da lontano si può vedere. Da altra banda, facendosi l’inseto alto vien sicuro dagli ani- 163 mali, né ha bisogno di pali, e massime i tronchi grossi: e così s' accostuma in Francia e per le Alpi che traversano la Toscana dalla Lombardia. Liberisi adunque la pianta da tutti i figli che ha, e dove ti pare da insetare, che vi sia la buccia liscia, uguale e netta, si seghi senza offender la buccia, la quale si ritocca come il legno (!), per amor della riscaldatura della sega, con un ferro di taglio affilato, dipoi con un conio gobbo di fuori, piano dentro, appuntato, sottile, di osso, di bossolo, di avorio o di corno; di osso di lione lo vorria Palladio ; alcuni l ado- perano di ferro, ma è cattivo per la ruggine che fa. Fra la corteccia smossa et aperta dal- l'osso, si ponghi la marza scarnata dalla parte di dentro, e di fuora raschiata la corteccia, e se gli facci una tacca che posi in sul tronco, cacciando il resto dentro, con avvertenza di non rompere la corteccia dell’ arbore; et entri dentro tre o quattro dita, aguzzata da una banda sola, come vuole Columella, altri. da ambedue, purché non si scuopra la midolla della marza. Certi da una banda la radono di modo, che la scuopre quasi la midolla, dal- l’altra poco fuor della corteccia: e si ficchi tanto in giù che quella della marza tocchi la corteccia del tronco. Sono chi gli aguzza in triangolo la punta, si che due parti sien senza buccia et una con essa, e così ve la cacciano. Quelle che con più forza vi sono messe più forte durano, ma dan più tardi frutto. Abbi in somma la marza forma di conio che da basso (') con il legno, errore della stampa. 164 sia aguzzo in foggia di penna da scrivere tem- perata. Nel cavare la bietta dell’osso non si perda tempo a porre in suo lato la marza che vi calzi appunto, né più di sel o otto diti s' in- nalzi sopra la tagliatura, et è meglio che con la lor vetta naturale, tagliata con due occhi soli, perché facci maggior messa. Attaccata che sia se ne può accecare uno: e non se ne met- tano tre o quattro o sei marze, secondo com- porta la grossezza dell’ arbore. Brevemente, s° insetano a scorza 1 meli et ulivi, cioè dentro alla scorza. Così taglia pari la pianta in che vuoi innestare, poi, ripulito il taglio, con una tagliuola di legno secco stacca e scosta la buccia destramente senza serepolarla, quattro o cinque diti in giù; accanto piglia la marza et aguzzala st che v' entri, scarnandola da un lato, e di fuora lasciando la buccia alla marza, sì che il legno solo combaci dentro col legno del tronco e vi s appoggi su a scaglione. Fatto questo, in questo modo o in quell’ altro che è tutt’ uno, lega attorno, serrando forte o con salcio o con giunco marino, o con buccia d’ olmo o di moro, e cuopri la piaga con argilla o cera, attor- niando tutto ‘1 tronco di paglia, e dentro po- nendo terra cotta per l altezza d’ un palmo, et in cima legando la paglia in aguzzo. Altri senza questo vi lascian pieno di terra stritolata, né prima tagliano la legatura (la quale ai tronchi grossi sì può ancora far con corda sforzata, serrando attorno attorno forte, e per non offen- dere la corteccia si può mettere fra la corda e l’arbore buccia d’olmo o di castagno per diritto) che si vegga che sia attaccato bene et OC 165 abbi gettato fuori le messe grandi. Si possono ancora cavare i peruggini salvatichi dai boschi con salvargli tutte le barbe diligentemente, et ancora quando avessero della natia terra attac- cata al piede non saria male; e di mezzo inverno portati a casa innestargli accanto al fuoco non ch’ altro la sera a veglia, con pian- targli la mattina seguente da quella veglia in fosse ben preparate per ciò, più che in buche e formelle, e ciò si dee fare sfendendo il legno, perché fra scorza sarebbe più difficile che cosi in quel tempo s appiccasse. Ma quali sieno quelli poi che faccin pruova migliore e le frutte più presto, la sperienza lo dimostra, non pure in questo, ma tutte le altre cose ottima maestra n’insegna; et io per me tengo, ché l’ ho veduto per pruova, che quelli fatti a marzo, cioè a tempo nuovo, pruovino meglio, e s' appiccano più presto e migliori frutti fanno, et ho osser- vato sempre quest’ ordine che tuttavia mi è riuscito bene. E quanto al bisesto io non n°’ ho mai tenuto un conto al mondo, perché non mi par gran cosa l’ alterazione d’ un giorno, quando che anco volendo por mente a tutto, da che Giulio Cesare riordinò l’anno a questo tempo è assai stracorso per il moto dell’ ottava sfera e per la mutazione et alterazione che ella reca a tutte le altre sfere. È ben vero che "1 calen- dario gregoriano l’ ha di poi più che per i due terzi ridotto, avendo trasferito indietro dieci di per anno, et ogni cento anni, per mantenere 1 dieci giorni ritornati indietro accresciuto un di, non avendo perciò cassato il bisesto ordi- nario, che corre ogni quattro anni, e la cosa 166 sta così, l’anno è 365 di e un quarto e un centesimo d'un di. Questo centesimo d’ un di, che non l avverti Giulio Cesare, viene a fare un di intero in capo a cento anni e perciò ha dato che s’ accresca ogni cento anni un di, et i dieci di stanno sempre fermamente indietro ritornati. Ora io ho veduto manifestamente, contro all’ openione di coloro che hanno ubbia di non ne fare in quell’ anno, che i nesti fatti in così fatto tempo s' appiccano come gli altri, vengono innanzi, danno frutto e fanno sempre bene l’effetto medesimo, e così d’ altro tempo, osservando i giorni e mesi buoni a ciò. Ma si dee ben tener conto della luna cre- scente quanto al fare i detti innesti, e quanto al trasporgli no, che secondo il diritto importa pure, ponendo o potendo porre a detta luna, tanto meglio. Et ho sempre osservato di non far mai innesti l’anno medesimo che io so ch’ egli è stato assai frutte, e se pure ne ho fatti, ho preso marze di quelli arbori che non è lor tocco a farne quell’ anno, e che gli toc- chino a fare l’anno che io ne fo i nesti, spic- cando pur le marze di quella parte e luoghi e rami che n’ avevano fatte l’ anno dinanzi, e che io sappi certo che egli sia di ragione di farne assai e buone. Si che è da pigliare, volendo far gli innesti a marzo, le marze di così fatta sorte di frutti, dei quali anco si speri che l’anno a venire n’ abbino a fare in copia e che venghino da buon padre, che così saranno anco, secondo il veracissimo detto dell’ Evangelio, i suoi figli; e lodati hanno a essere quelli che sieno belli, interi, pregni d’occhi, poco l'uno dall’ altro 167% discosti, gonfiati di gemme diritte, che non abbino in sè del magagnato, del catorzoluto ('), del bernoccoluto, e di grossezza s' affaccino più o meno, secondo l’arbore in che s hanno a insetire, perché questi non pruovano, e massime di gemme povere e rade; perché quelli daranno il nutrimento per i meati espediti, più facili a far crescere, si come questi altri li ritarderanno. Columella gli desidera che sieno forcelluti di due o tre rametti, ma ciò si dee appostare per i peri (°), gagliardi arbori, come di non moz- zare le marze in cima, e che con tutto ciò le non avanzino sopra l annestatura più di cinque o sei diti; e vogliono essere spiccate che sieno d’un anno o due, e fra ’1 nodo della messa di quell’ altro, il che si cognosce al vedersi cre- sciuto sopra la messa, che apparisce un po’ più grossa e di buccia più soda e ferma dell’ anno innanzi. S' ha a fare la scarnatura con coltello che rada due o tre diti grandi alla marza, che con simile s' ha a staccare che non si pesti; e se s' hanno a porre in arbore fatto e vecchio, si pigli di quelle di due anni, che son più ro- buste. Quelle che hanno un anno si cognoscono a una nuova messa venuta pronta con pre- stezza in su, e quello che vi è sotto è della messa dell’anno dinanzi, e quello che si dee cacciar gia nel tronco fesso, se sia arbore adulto, et il vecchio dal nuovo si cognosce alla variazione della buccia e da un certo che più di grossezza di buccia e quasi come un (1) ritondo par scritto di sopra. (2) pini, errore della stampa. 168 soprosso all’ insù; ma se sla giovine l’ arbore, farà pruova anche dell’anno solo. Della gros- sezza del dito mignolo s’ hanno a eleggere le marze per gli arbori fatti e grandi e vecchi, ma ciò si dee fare secondo la qualità di quello che riceve l’ inseto, perchè non apra il tronco fuor di misura, o questo troppo gagliardo recida la marza. Columella e Plinio vogliono che le si piglino dalle spalle degli arbori, ma ciò non s'affà a tutti gli arbori, perché non a tutti gli arbori è il succhio alle medesime parti. I fichi hanno nel mezzo le parti più secche et in cima pregne, e però in vetta di quelli che vanno all'insù si deono pigliare le sue marze. [Qui, giunti a tutto il retto della carta 85. del Codice, ne troviamo il verso bianco. Il testo riattacca nel retto della carta 86.1). "PARCO 169 Agli ulivi sono assetate le punte et affa- mate, nel mezzo hanno umore, e di qui se gli hanno a spiccare le marze, et a tutti da quella parte che risguarda l'oriente dell’ estate; altri verso Borea; sopra tutto devono essere rifiutate le parti ombrose o di piante in sito tale. Avver- tiscasi che non gemino o gocciolino le marze, e se lo fanno, lascinsi scolare sospese volte a terra, che l acqua n’ eschi, non perciò che sieno secche, perché a quel modo scorre la corteccia con troppo umore, e a quest’ altro, mancando il succhio vitale, non s' appiccherebbe; et è ancora da avvertire che per la troppa verde- raggine e freschezza elle non fossero troppo rigogliose, per il che, staccate che elle sieno, si potranno tenere in un vaso coperto e ben turato in luogo fresco, che non trapeli o traspiri. Altri poste fra due tegoli che si combacino insieme, gli lasciano stare sotterrate dieci di; ma questo tenerle a bada s appartiene più alle viti che sono più umorose; agli arbori basterà uno o due giorni; et anco annestate staccate da quella via, sempre si attaccheranno più agevolmente. Basta che si come a luna crescente si spicchino, alla medesima ancora s' innestino, osservando che il primo occhio della marza, dal quale spe- riamo che più gagliardamente metta per la vicinanza del nutrimento, resti a pena di sopra dal taglio pari fatto al troncone dalla parte sempre di fuori, accomodandovene uno o due secondo la grossezza del troncone, mettendo nella fessura polvere sottilissima delle strade, serbata a quest’ uso in lato secco et asciutto. Di poi, come s’ è detto di sopra, s' ha a mettere 170 la creta o l'argilla 0 musco 0 stoppa sola, co- prendo pur prima il taglio del fesso del tron- cone fra l'una e l'altra marza con buccia di salcio o del medesimo, e dopo questo si legherà d’intorno assai paglia di segala che circondi il tutto, entrovi di molta terra morbida che rin- calzi e riempia le marze, che le faciliterà all’ ap- piccarsi, come a far più bella messa il lasciargli solamente due occhi o vero uno; e se il pedale dove s ha a innestare sia più grosso della marza, assai più si può fendere a due modi : l’uno che sì fenda da una parte sola con un ferro fatto a ciò, che il taglio non passi la mi- dolla e vi si ficchi una marza sola; l'altro è che la fessura passi tutto il tronco o ramo, e vi sì ponghino due marze, una per banda; e così ancora sì può, lasciando Vl altra parte vuota, porvene una sola. E se ’1 pedale o ramo sia più grosso della marza, fendasi nel mezzo e lasci- segli una marza sola, facendo di modo il taglio e la fessura, che la parte che resta fuori sia alquanto più lunga di quella che entra dentro via nel tronco; et a questa di dentro non si lasci [parte] alcuna di scorza o vero poca, ma bene si lasci a quella che resta fuori tutta la corteccia, adattando in modo che ’1 taglio raso della marza [attacchi] alla fenditura del tronco. Ma dove s hanno a mettere due marze faccisi loro la tagliatura da due bande scarnando sin quasi alla midolla, e dalle vicine e dalle altre due parti sia quasi della medesima larghezza, di modo che la parte un po’ più larga, rima- nendo con tutta la scorza, dia modo di con- giugnersi et agguagliarsi alla corteccia di fuori 171 del tronco e del ramo e di dentro, e la parte più stretta, rimossa e tolta via la parte della scorza che va dentro, si disponga verso la mi- dolla del tronco di dentro. E se il tronco 0 ramo in su che s' ha a insetare è uguale appunto alla marza, che ella possi combaciare et acco- starsi per tutto, acconciala che da ogni parte suggelli; e posta una scorza all’intorno gentile, si leghi con un gentile spago o arrendevol salcio, ponendo sopra o creta o cera o musco. Altri fascian sopra con pezze di panno lino; io con panno incerato, posto sopra ‘1 taglio e co- pertato ogni cosa di musco, l’ ho fatto succeder felicemente, come meglio ho visto provare nei tronconi grossi di marze tra la corteccia e ’l legno, che nel legno fesso, purché si piglino le marze che abbino del vecchio, né mai si piglino di quelle sottiluzze e lunghe, ma di quelle corte e che abbino del nuovo e del vecchio, e dei rami alti diritti, e non di quelli che sportano alla terra et aprono il frutto sparpagliato; e che in sul vecchio ne siano certe punte che mostrino bocciolini da mettere i fiori quel- l’anno; e quivi sotto farai che si congiunghi l’acutezza della marza e se gli tagli la cima essendo lunga. E non essendo forzato, si cerchi sempre d’insetare frutti giovini, che abbino la scorza delicata, sana, di bel colore, senza nodi, verde, tonda, bella, non torta e non magagnata in parte alcuna, osservando sempre che l’ inne- statura venga più bassa che si può, e massime avendosi a traspiantare; e prima che si tagli la marza.facciasegli un segnale o con un poco di terra rossa o cera, si che si possi la pianta 172 riaccomodare come stava prima nell’ albero. È dee la marza in età essere conforme all’ arbore in che s annesta, ma questo è difficile a incon- trare, et alla fine importa poco; basta sia la marza giovine di nuova messa in su quelle del- l’anno a dietro. Taglinsi nello sminuir del giorno e della luna. Altri lo fanno a luna cre- scente, appunto come s' è detto, quando comin- ciano a ingrossare i bottoni, avvertendo che le colte per tempo, se s' hanno a insetare in arbore tardio, sì conserveranno in luogo vicino al- l’acqua corrente, purchè non vi dia su l’ acqua, o fitte in fresca terra meno che a mezzo; ma meglio è, come s'è detto, che la marza tardia s'inseti in arbore primaticcio, crescendo con- tinuamente la virtù nell’ albero che non è nella marza, la quale anco dee tagliarsi più lunga di quello ch’ ella s' ha a lasciare un palmo, affinché se gli possino rinfrescare le tagliature e rinnovarla. Sia grossetta e sustanziosa e so- prattutto, come s' è detto, fitta d’ occhi, perché la non abbi a rimanere molto lunga; e tengasi a mente che in arbore giovine non sia di più d'un anno, et in arbore di ramo vecchio e duro vada giù posta, messa nel vecchio del- l’altro anno. Ma meglio sempre fanno le marze giovini; e se non v'è ramo nuovo, scapezzisi l’arbore, affinché dia fuori nuovi germogli, e l’anno seguente faccinsi gli inseti in su i più rigogliosi e vegnenti, levando gli altri. E non si appiccando le marze, facendo più sotto nuovi rampolli, scapezzinsi sino a dove entri il buc- ciuolo o la marza, e si rinsetino il medesimo anno; e così si facci volendo rinnovare con ‘È 175 nuovi inseti un arbore, senza averlo prima innestato in su le nuove messe, avvertendo che il bucciuolo, quanto più sì ficca in giù e s ac- costa alla forca (') dell’ arbore per fermarsi, o nel grosso dei rami, tanto più fa ferme messe; e così in un gambo solo, quanto più si mette la marza rasente terra. E si deono scerre i bucciuoli dalle vermene nuove e non nella cima, e spiccarli con gli occhi nel mezzo dell’ arbore, non sendo questi di vetta buoni; e non si spic- cando la buccia agevole, s' adopri un fazzoletto ruvido con che sì spicchi. Ma avendo a portare le marze, o per questo o per insetare a fessuolo, lontane, si portino fitte in una rapa, conservata perciò in cantina sino alla primavera, o impia- strate di mele, poste dentro a una scatola di piombo o rame piena d’ arena di fiume che vi sì muti spesso; e se non sia troppo lungo viaggio, ravviluppate nel musco, et ancora in un cannone di ferro stagnato pieno d’acqua che se gli muti spesso, o vero sia pieno di creta pesta; et ancora in panno bagno che si rin- freschi ogni sera e di mezzogiorno da colui che lo porta; e tanto si facci ai magliuoli che di lontano paese si procaccino, e così alle marze delle viti; benché [nel]la arena bagnata spesso, posta in un bariglione o bigoncia nel fondo ove stieno fitti un mezzo braccio, non pur questi bene, ma ancora le marze sì conserve- ranno. Ora volendo fare il seminario degli innesti, faccisi sempre o in poggio o in piano, in luogo (1) forza, errore della stampa. 174 magro, scassato tutto e divelto profondamente, come di sopra s' è detto delle vigne, un braccio e mezzo lontano ponendogli l uno dall’ altro o un braccio almeno. Volendo che facci di poi acquisto e pruovi di bene in meglio, trapian- talo. E quanto più sottile, liscio, delicato, senza magagna, non di rimettiticcio, ma di sua pianta naturale, farai sverre i peruggini, i meluggini et 1 pruni bianchi, e con quante più barbe cavati con diligenza e non strappati, e che non stiano molto svelti, tanto più quivi s' appi- glieranno e faranno pruova migliore in tra- spiantandogli, fuggendo sempre i vecchierecci, e di buccia ronchiosa o offesa in alcuna parte; e massime i peruggini che sogliono sempre avere poche barbe. E trascegliendosi così et annestandogli il primo anno, staran sodi e ram- margineranno per tutto. Et è ben vero che a porvi due marze quando sono sottili, rimane sempre nel mezzo fessura, che col tempo molte volte noia e fa danno; e se pur fosse di sorte grosso che e’ fosse capace di due marze, pon- ghinvisi, e dove rimane scoperta quella fessura vi sì distenda sopra della cera rossa tenera e turisi bene, che non vi possi penetrare l’acqua; e vorrei, se e’ fosse possibile, che a fare questi innesti et ancora quelli fra la cor- teccia et il legno non s'adoperasse altro che tagliente ferro e bene affilato, che rada ’1 pelo, perche la sega, sia come si vuole acconcia 0 temperata, riscalda e -fa bollire il legno sem- pre; e se sia arbore non ancor fatto, rintruona sino in su le barbe. Ma a questo si ripara (così alla sega, come al pennato bene arrotato o 175 accetta) con il fare che la pianta di sotto sia tenuta da un’opera gagliarda con due mani; et adoperisi la sega il manco che si può, e quando occorra si tagli poi co ’1 pennato sotto a dove ella ha segato almeno un dito, e sia il pennato affilato che rada. E così scapezzato l’arbore che ha a ricever l'innesto, e fesso, e commesse le marze bene, buccia con buccia a capello e legno con legno, e le marze non molto scarnate, ma a modo, con ferro fatto a ciò che tagli bene, e guardisi che dal lato di fuori della marza se gli lasci la buccia, se gli è possibile, non punto premuta, stretta, o brancicata o malmenata, e faccisi che ella combaci appunto. E così commesse dette marze, le legherai attorno quanto elle durano in giù con un buon salcio a conio a sommo, cioè serrandolo stretto, dan- dogli il conio acciò che serri meglio. Nè guar- disi che di fuori la buccia non unisca e si tocchi e congiunghi così bene se sia più grossa quella dell’ arbore, che basta si combaci quella di dentro, si che pur stia legno con legno e buccia con buccia, almeno la più tenera che è quella di dentro; e subito si cuopra detta anne- statura con terra umida, e fascisi con la paglia, dandogli la prima legatura di sotto, e strito- livisi dentro della terra cotta sin che venghino rincalzate, acciò che l umore dell’acqua non vi penetri, e con tutto ciò le mantenghi fresche e tiri innanzi la messa; e di poi se gli dà un’ altra legatura che tenghi forte fasciata ogni cosa, e non si guardi pol sino a che si cognosca i freddi essere passati. E volendo annestare all’ ottobre o nel mezzo dell’ inverno, 176 o, a quello che io tanto appruovo nei luoghi temperati e caldi, novembre, osservisi la mede- sima regola. Se non si è legato il nesto, in cambio di terra umida piglisi cera nuova me- sticata con la trementina, e questa gli farà il medesimo giuoco in cambio di terra cotta, e dentro alla paglia di segala metterai arena, ché queste due cose lo conserveranno dai freddi meglio che la terra. Altra differenza non c' è; e non s'aprino che quando gli altri. Et ave- ‘assi cura che gli arbori che tu farai cavare per fare l’ annestaia, o per porre così salvatichi nelle fosse o divelti o buche dove hanno a stare i nesti fatti [o i preparati] per annestargli, e non gii avere a trasmutare altramente, quelli della possessione, e massime i ciriegi, che si piantano i salvatichi ai luoghi loro, e in su la forca, quando sono aggiunti a giusta misura, s'annestano quivi e fan meglio. Gli altri che si fanno per vendere hanno a stare in deposito su la nestaia, tanto che gli levi via il compra- tore, al quale s° hanno a cavare con diligenza con tutte le barbe, e se gli abbi a portare o mandare non troppo lontano, basterà fasciargli attorno con la paglia, et il calcio della paglia con essi alle radici rinvoltare in un canovaccio, circondandogli tutti di fine strame, perché le funi caricandogli non venissero a recidergli: et avendo a trasportarsi lontani, empiasi de’ barili o de’ corbelli e bigoncie, e vi si piantino dentro, e così si manterranno per uno o due mesì in nave o per terra, dando loro talvolta un po d’acqua dolce; e non è dubbio che quanto più si tramutano gli innesti, tanto più peggio- 17% rano, né si dà loro il tempo che gli hanno di bisogno per acquistare. E quello era il modo degli antichi, porgli da principio ai luoghi loro, et è la vera, perchè pruovano meglio assai e fanno lor frutti più presto, ché quello non fa che nuocergli. E se bene ordinariamente si piantano arbori salvatichi per innestarvi su i domestichi, tuttavia è chi loda più i domestichi e nati di seme o piantati e svelti e staccati da domestico frutto, perché innestando un salva- tico et un domestico a un tempo medesimo, questo produrrà più grossi frutti, più saporiti, di miglior sugo, più presto et in più copia che quello; il che si può esperimentare facendo più d’un innesto in sur un frutto buono del frutto medesimo, che sempre miglioreranno, et il sal- vatico manterrà il primo acquisto datogli da principio, non passando più innanzi. Come sì sia, il tramutare o questi o quelli sta tuttavia per far lor danno. Ma è pericoloso 1 innesto per amor dei venti, che non gli fiacchi in su l’annestatura; et annestinsi bassi quanto si può, che non si ripara, e massime agli albercocchi, ai susini, al mandorli e simili delicati e gentili; ma come [ai] peri, meli, susini, ciriegi e mandorli, ancora che rammarginino bene, non dan tanta nola e sì deono aiutare con i pali, se non se in quelli paesi ove i venti non possono; ma nella senza comparazione ventosissima Sicilia, che non fangosissima Lombardia, conviene procac- ciarsi dei forti puntelli e validi; ma dove non sia di venti pericolo, vengono meglio liberi. Benchè ancora nel palare si può usare tal dili- genza che loro dal legare nocimento alcuno 12 178 non s'apporti; e questo si fa primamente fic- cando forte il palo di castagno abbrustolato in punta e mondo dalla banda di tramontana, e facendo tre legature, una presso al calcio, l’altra nel mezzo e l’ultima sotto la forca dei rami, mettendo un pimacciuolo di paglia tra ’1 tronco dell’ arbore e ‘1 palo, et un altro di fuora sopra 1 gambo dell’ arbore a rincontro di quello, e mutandolo qualche volta quando si vede che ingrossi e recida; perciocché così come la goc- ciola dell’ acqua con lo spesso cadere sopra la pietra l’incava, così ogni debol legame a poco a poco co 1 tempo recide l’ arbore e lo dimi- nuisce tanto che fiacca. E di più s' avvertisca quando si fanno cavare i salvatichi per inne- stare, oltre al detto di sopra, di non tagliare il loro fittone, perché importa assai, sendo questa la cagione che gli arbori innestati non rattengono i frutti e si fan bacati e guasti dentro, e che i gambali istessi degli alberi frut- tiferi intarlano e bastano poco, e massime dei meli e peri. Abbisi adunque di questo gran cura; e pigliandogli giovini, che non passino la grossezza del dito grosso, si fuggirà questo pericolo e manco fatica sl durerà a cavargli delle selve, macchie e luoghi dove e’ fanno, perché a questi è il fittone o maestra minore; e questo s' ha a intendere di tutti gli arbori fruttiferi che si cavano per porre da un luogo a l’altro. Solo sì concede et è bene spuntare non solo questa, ma tutte le altre radici e barbe che hanno; et ancora osserverai di spiccare le marza quando appunto abbiano cominciato a muovere; il che fanno talora nei dolci e man- 179 sueti autunni, come sogliamo chiamare, nel- l'estate di san Martino, producendo talvolta non ch’ altro i susini le lor frutte almeno di figura, se non di maturezza, rifruttificando, ma non già conducendogli, chè questo saria uguale alla Cina di doppie ricolte dotata, solo espo- nendogli. Et il giorno che s innesta, come s° è detto, osservisi che sia bel tempo e caldo (') il più che si può. E fatta la luna di gennaio si potrà cominciare ad innestare arbori, come mandorli, albercocchi e peschi et azzeruoli, vo- lendo essere a tempo, che per essere frutti di natura caldi muovono prima di tutti gli altri, come il sambuco; e tutti quelli s’ innestano acconciamente in su ’l susino. E di poi se si vede che i tempi vadino secondando con dol- cezza, si dee seguitare l innestatura degli altri, procedendo dagli azzeruoli agli azzeruoli, in sui pruni bianchi e più in sui peri cotogni e ne- spoli; i susini nel susini e prima ai ciriegi e peri primaticci e vernerecci e simili, che sono gli ultimi a muovere, e così i nespoli; e volendo le nespole grosse, s' annestino in sui peri cotogni e sotto terra mezzo braccio, se è in lato che non s' abbi a trasporre, e se è nella nestaia, quando sì trapianta faccisi andare l’innestatura sotto più d’un braccio, perchè abbi causa di mettere le barbe in su ’1 nespolo, e co ’1 tempo annichilare il pero cotogno, chè così basteranno più. I ciriegi in sui ciriegi salvatichi e non in su gli amarini, e [su] questi, se [li] rice- vino, i viscioli; ma meglio è far tutti in su gli (!) calcolando, errore della stampa. 150 acquaiuoli et in su i susini et in sui noci ancora, e così i peschi in sui susini e noci. Ma per essere il pesco men caldo et il noce simil mente, pochi se ne appicca, e quelli che si appiccano gli fa appiccare la qualità del luogo, come l ulivo che si vede attaccato sopra un noce nel distretto di Genova. E così dei ciriegi pur qualcuno a marzo fatto se n’ attacca. Ma il susino per il pesco è il suo proprio; ma i ciriegi sugli amarini se ben pruovano da prin- cipio acconciamente, per essere tanto umorosi, di poi a lungo andare non bastano, perhé in ‘apo a quattro o cinque anni cominciano a far l’orichicco, e vanno per spaccio via, et atten- dono a fare gran rimettiticci da pie. Il ciriegio duracine o del frate per essere, per dir cosi, ciriegio di qualche discorso, come savio sì vede che non si vuole attaccare in su quelli, avendo caro di vivere come ogni persona, e pochi se ne veggono appiccare in su gli amerini e li altri, st come quello che sa che e’ farebbe com- pagnia con un fallito e non vuole impacciarsi con esso, sì che impaccisi di lui chi gli fa per se proprio, ché per vendere, volendo fare il giusto, conviene esser reale, ché in ciò importa assai il buon nome e la buona fama per non avere a fare come uno che ne fu un tratto gabbato, il quale andando poi a comperare i nesti, domandandogli il venditore il pregio, rispondeva che in capo a quattro o cinque anni che e’ farebbe il frutto venisse per i da- nari e prima no; e così faceva delle viti che e vendon barbate, quelle di tre volte, che sono 181 poi sancolombane, e così per contra. Et il simile interviene dei peri innestati in su i peri cotogni, che fanno bene e vengon presto e tosto man- cano; pure annestandone, annestinsi, come s° è detto, bassi, e sotterrinsi le innestature un braccio e più, perche il pero l’ usa di metter barbe, perchè il ramo del pero, melo, susino, e del noce s' attaccano; ma potendo far senza, non è da travagliare con esso loro, perché riu- sciranno sempre col tempo frutti deboli e mal- sani, fragili e senza fondamento buono. Per annestare a scorza così si tagli pari la pianta in che vuoi annestare, poi con una tagliuola di legno secco stacca e scosta la buccia quattro dita in giù, accanto piglia la marza e scarnala aguzzandola si che v' entri, levando del legno e della buccia il bisogno da quel lato che non sono gli occhi, lasciando di fuori la buccia alla marza si che il legno entri dentro e s' appoggi bene in sul tronco a scaglione, o calcagno come si dica; e lega forte intorno con salcio o giunco marino o spago rinforzato, se non hai altro; e se ne può mettere più o meno, secondo che sia grosso il tronco. Annestansi a buccia i peri et i meli come gli altri e fanno miracoli; et a me piace questo modo assai e m'è riuscito molto bene e molto sicuro, e s' intende a non fendere il frutto che s' innesta, ma mettere la marza aguzzata come s'acconcia una cannella quando si mette di nuovo a una botte, da un lato solo; e mettesi fra la buccia et il legno, in prima fessa la buccia dove si mette la marza, un tre diti in giù dalla tagliatura comincia- 182 tasi, e spiccato gentilmente con un calzuolo (') d’ avorio che non tagli, ma stacchi lungo e spicchi come un dirizzatoio da donne, fatto a sommo vuoto; e puossi mettere tre o quattro marze se il ramo o tronco è grosso; e quanto più sia così, tanto meglio, perché hanno la buccia più grossa, che è quel proprio che vuole questo modo dell’ innestare: nel che si può ancora spartire la scorza dal legno alle marze da quel lato che non si rade per due o tre diti, acciò difenda quella del tronco, a guisa di cipolla; quale poi [sia] coperta con cera 0 creta, legando come s è detto e dandogli loro aiuto per due o tre anni con pertiche e paletti, per difesa de’ venti; e le marze sieno spiccate da arbori teneri, fertili, con spessi nodi, da rami d'un anno, verso oriente, di luglio, intere, grosse, diritte come il dito mignolo, secondo i tronchi che s hanno a innestare. E così si possono annestare i noci, i fichi e tutti i frutti che hanno la buccia grossa, et è facile e sicuro da arbori grandi e vecchi. Inoculazione addo- mandavano gli antichi quello che noi a can- nello o a bucciuolo, e l arbore che tu vuoi innocchiare, per dir così, conviene primamente sterpargli e sradicargli d’attorno e da pié tanto i figliuoli, quanto da capo tutti i rametti o rimettiticci deboli, lasciandogli perciò tutti quelli rami che paiono belli e ben fatti, nei quali s ha a cacciare dentro il bucciuolo 0 cannello, che siano netti, lisci et in succhio, di (!) coltruolo, errore della stampa, che è passato con questo esempio nel dizionario del Tommaséo e nella Crusca. 183 imodo che storcendolo con mano sì sparta la scorza dal legno, e così tagliatone d’' intorno circolarmente si cavi e getti via, e quanta buccia sarà cavata da questo ramo, tanta se ne pigli dall’ altro d’ arbore di che vuoi l' in- seto, netto e liscio, d’ una grossezza medesima e misura, e si ponga nel ramo ignudo, di forma simile a un anello da cucire di sartore, la tonda scorza che se ne cavi, con uno o due occhi al più, tagliato il legno rasente quivi un dito sopra, e ricoprendo il cannello con la buccia del ramo che si sia sfessa in quattro parti quanta ne si prepara a lato al cannello riti- randola in su, et ancora se facci di bisogno legandola in su le teste con un filo. Questa fu l'antica inoculazione fatta ai fichi et ai meli, dalla quale può parere che sia nata l impla- strazione, da noi detta a scudetto, a spolo, a scudicciuolo; et all’ arbore che s' ha ad asset- tare si tagliano (') tutti i rami, o se s' abbi a fare nei rami, sì scapezzino i rami e si levino via tutti i rametti, e nel più liscio e pulito di quelli e di questi, con un acutissimo scarpello o coltello, che abbi di dietro un ferro appun- tato bistondo, avendo cavato dall’ arbore che si vuole, del più rigoglioso ramo liscio e suc- chioso e netto e più vigoroso, un pezzo di buccia dell’ altezza di un dito in quadro, che nel mezzo vi sia una bella gemma, e che dimo- stri di voler metter bene, con il medesimo sca- vando in quello vi si riponga che suggelli bene, toccando da ogni banda, e riempiendo il luogo (1) sî togliono, la stampa. 184 appunto; et accanto s' impiastreranno quelle fessure attorno, non toccando l'occhio, e lascian- dolo sempre scoperto, con la creta ben lavorata e grossa e con sottili e delicate scorze di moro o d’ olmo, legandogli intorno 0 fermandolo con un pezzetto di lino o canapa incerata, bucato a dove è la gemma e la pezzetta, fermando bene accosto con altre legature. Né si aftà questo agli arbori di caduca scorza e piena di fessi, che si sfenda e rompa. Si dice bene ai peschi et a’ susini et a mandorli et a tutti quelli che hanno nocciolo d’ osso grosso. Puossi ancora a questo medesimo modo tagliare a scudetto, cioè in forma triangolare, e non sola- mente levar via la scorza con la gemma, ma anco il legno sino alla midolla, e scavato un simil luogo, anzi appunto, anzi a sesto et a cappello dell’ altro arbore, ficcarvelo dentro e legarlo come s' è detto. Ora nel gambo a marza si può insetare, come s' è detto, sino dall’ equi nozio dell’ autunno, nella buccia tra scorza e legno sino alla bruma, e dopo, tirato che sia il Favonio, che comincia a tirare ai due di febbraio, sino al solstizio. Et è chi appruova nel tronco dopo la nascita del Cane, e di nuovo di estate finiti i caldi della canicula, et a occhio et a bucciuolo per tutto il tempo caldo del- l'estate, in che si stacca bene la buccia e che gli arbori sono in suechio. Ma l’importanza è innestare a marza nel legno sfesso, che la cor- teccia con la buccia e legname con il legno si unisca, combaci e tocchi ben per tutto, stiano ben serrati et acconci insieme e stretti, avver- tendo che se le marze si cognoscono troppo 185 umorose, sl lascino un poco avvizzire, perché altramente daranno occasione di marcirsi, e massime in terreni umidi e freddi per il supe- rabbondante umore si corromperanno. L'annestare a bucciuolo, o a cannello che vogliamo dire, pare ai più molto agevole, ma a me più difficile, perchè egli vuole essere ca- vato molto appunto; ma dall altro canto mi pare più sicuro e durabile, perché in virtù di quella scorza tutta in succhio crea nuovo legno e buccia esterna, e da lì in su tutto unito si muta l arbore, e senza avere a raggiugnere più scorza a scorza 0 legno a legno, si cresce tutto insiememente e sta forte, meglio avendo ram- marginato, sì come meglio combacia e meglio calza et entra e s attiene e con più sicuro modo di tutti gli altri, e men pericoloso ai venti et a chi gli maneggia, con niuno impaccio di legame, fascie o loti. Et i castagni che ser- vono per pane a assai parte degli uomini mon- tanini, et ancora per biada ai cavalli et all’ altre bestie muline, non s innestano né vengono meglio che insetati a questa foggia, e basta lasciarvegli dentro; si che questi e gli alber- cocchi non si vorrebbero innestare in altri modi, amandogli più durabili del lor solito, perché l’albercocco, o fatto a marza o a scudetto, non rammargina mai a marza che bene stia, e questo nasce perche tra lui e ’1 susino v’ è contrarietà, e bisognerebbe seminare dei suoi noccioli, dei quali ne nascono i meliachi, in sui quali è bene annestare gli albercocchi che vi fanno su gran presa e vi pruovano bene; ma ciò non s usa prima, perchè i più non sanno questo segreto, 186 e per V abbondanza della copia dei susini; e se poi non sì sotterra bene l innestatura, al tra- sporlo è pericolosissimo; e pur così i venti ne rompono; e per queste ragioni affermo questo modo essere propriamente il suo naturale. E per osservare il più che si può la diligenza, che ben fa fare tutte le cose, è da avvertire che quando si piglia delle marze giovini per annestare a scudicciuolo o a scudetto, che gli antichi addomandavano implastrazione, [basta] un occhio solo e con mezza buccia 0 poco meno; a questo s' ha a pigliare un bucciuolo intero rotondo, e lungo un poco più dell’ altezza d’un dito o così, e che abbi V occhio di donde mettere, e s ha a tagliare col coltello che rada il pelo per aria il tondo di sopra e di sotto la scorza al bucciuolo, sbuceciare la vermena affatto e cavarlo del suo fusto proprio; il che agevol- mente si farà strignendo e tenendo (') forte il legno con i denti, e storcendo poi con le mani la buccia, e come ella si sente spiccata, tirarla fuori come si fanno i zufoli e le gorgoe, et aggiustare il bucciuolo. E bisogna aspettare che e sia bene in succhio e molle bene, che così riesce agevolissimamente, e di poi pigliare quel ramo dove tu lo vuoi commettere di ugual grossezza e messa nuova ancora questa, e ta- gliarla in vetta e fare il simile; e fatto e cava- tone il bucciuolo salvatico rimettervi a sesto il domestico prima fatto, facendo che egli entri appunto e combaci, e soprattutto che e’ non si (1) fendendo, errore della stampa. 187 sfenda; e così fatto, legarlo di sopra e di sotto a scudicciuolo, e con le foglie di vite coprirlo. E fannosi nell’ istesso tempo che i nesti a scu- dicciuolo o scudetto che dicasi o implastra- zione, d’ aprile all’ ultimo nei lati temperati e di maggio, et alcuni tengono che sia meglio al fin di giugno sino a mezzo luglio, come gli aranci e limoni, e nei freddi più innanzi o in tal tempo secondo che vi vadi la stagione, come nell’ Alpi secondo i paesi dove sì truo- vano più o meno in succhio, togliendo (') in su ’l netto e liscio e pur da oriente di estate; ne dee avere più di due occhi, più e meno secondo che è l arbore nel tronco o nei rami ove s' annesti; e sì può insetare a questo modo ogni sorte frutti; et i fichi et i castagni, come s è detto, s innestano benissimo a questa foggia, che hanno la buccia grossa; e si possono inne- stare i frutti grandi e piccoli come vien bene. Et a voler fare una cosa piacevole e di diletto, puossi innestare in sur un medesimo domestico susino di [quella] sorte di frutti altrui voglia, et a bucciuolo et a scudicciuolo, purche s affaccino a pruovare in su "1 susino, come susini di più variate ragioni, mandorli, albercocchi, ciriegi, viscioli e persichi. Così sarà da vedere come la tiglia di che Plinio fa menzione, che era presso a Tivoli carica di tutte le sorte di arbori, noci, alloro, viti, fichi, peri, meligranati, e più razze di meli, ma ebbe breve la vita, non essendo punto utile gravare di tante fatte un arbore (1) tagliando, la stampa. 188 solo, si come uno che s aggrava di troppo va- riate vivande s ammala. Ma per quel poco che così fatti frutti bastano, fan bel vedere in un giardino; ma si viene a cavare di sua natura, e questa tutta non possiamo con l esperienza conseguire e raggiugnere, e quelli vengono ad avere a dare le spese a troppa gente e di varie nature e condizioni et in diversi tempi. E così come in un corpo, componendovi dentro con ordine il cibo, che è prima il liquido e poi il duro; perché mangiando alla rinfusa per con- trario, se ben lo stomaco digerisce il tutto in guisa d'una pignatta che bollendo al fuoco cuoce ogni cosa, tuttavia si mantiene più la sanità con quell’ ordine, si come meglio si coce- ranno quelle cose disperse in una pentola, desi- derando più o meno fuoco luna che Vl altra, cocendosi meglio una cosa. per volta; simil mente gli arbori, essendo maltrattati a quel modo, è necessario sfogare e che perischino presto. Pur per uno o due in un giardino si possono comportare, et è da far lor vezzi a ciò che bastino il più che sia possibile; e questo st fa col dar loro da rodere al piede buon letame trito e digestivo; questo gli aiuta vivere e mantiene. E se il bucciuolo o cannello non s apparta bene dal legno, mettasi tra il legno e la scorza una canna sottile accomodata, che sia tagliente e soda, scarnandola di dentro e lasciandogli la costola di fuori, e rigirisi all’ in- torno nettando e ricercando tutto sottilmente, e levato così si getti in una scodella d’ acqua chiara, scaldata dal sole, e si rimetta sopre sino che l'altra che v' ha a ire sia apparec- 189 chiata et assetta, che vi calzi così giusta che paia un medesimo tronco o ramo, tagliandovi subito sopra o rasente un dito. E sono chi in sul ramo o troncone che ha a ricevere l'altrui bucciuolo per fargli lato non li cavano il can- nello, ma lo spaccano e lasciano in più parti, tagliando la buccia o tirandola giù con li diti senza spiccarla; e quivi sopra mettono il can- nello, lasciando quei ciondoli che col tempo vengono meno. Ma bisogna bene incalcarvi sopra il bucciuolo che vi ponti forte, sì come per tutto a capire stretto e serrato, suggellando per tutto; e quanto a lasciare quei penzoli di buccia, si può usare nei castagni et in tutti quelli che sieno di buccia più dura; e se sia fico, il bucciuolo che s° ha a mettere si può rinfrescare con latte di fico medesimo, e così del suo liquore gli altri, premendovelo su, e non avendo liquore, si ponghino in acqua che vi sia stata in molle la gomma del dragante per tempo breve; ciò farà attaccare, et anco il tenergli per bocca che vi coli la sciliva non gli nocerà punto, come anco a tenere in bocca la punta delle marze, si che se gli appicchi di quella umidità con la lingua. Modo facile truovo essere quello dell’ innestare a scudicciuolo, do- mandato dagli antichi implastrazione, e ven- gono i nesti fatti, serivon loro, in ventun di, ma in più e meno, secondo la disposizione dei tempi e degli arbori, secondo che anco più presto o più tardi dan frutto. E c'è questo solo che e’ sono molto pericolosi dai venti, più che tutte l altre sorte degli innesti, perché mettono con tanto rigoglio e con tanto vigo- 190 roso tenerume e che ingrossa di sorte in su la innestatura, debole suo fondamento, che per leggier vento spesso si fiaccano; e talvolta il peso di lor medesimi gli fa scoscendere sino a terra rompendogli; al che sì sovviene con an- dargli secondando con i pali lunghi, et acco- modargli loro di mano in mano che e’ crescono e vengono innanzi. E questi si ficcano tanto sodi in terra, che senza muoversi punto in vetta tengon salde, sode e ferme quelle messe. Ma per fuggire questo pericolo s° ha a sapere che il vero presentaneo rimedio è annestare a questa foggia in frutti piccoli e giovani, e più accosto alla terra che sì può, o veramente, se sia pur pianta cresciuta rigogliosa e giovine e che sì vogli insetare fra i rami istessi accomodisi poi ove muovono a quelli altri rami; ma meglio è, come si dice, torgli dei piccoli e vicino a terra, come in vero tutti gli altri che si fanno a marza, sopra i quali se, fatti che sieno, nevi- cherà, se ella non ghiacci, lascisi loro stare addosso, che non nuoce, anzi giova; ma se ghiacci, scotendo, guardando a non fiaccare, sì levi via. E possonsi annestare a quella foggia i melaranci, i cedri, i limoni, i merangoli, e tutte sorte di agrumi e frutti che vengono in succhio e che non hanno la buccia frale, caduca e che si sfenda; ottimamente sì fa a tutte le sorte di peschi, mandorli, susini et albercocchi. E così come a bucciuolo lo ricevono bene tutti quelli che hanno la buccia gagliarda, grassa, succosa et umida, così a questi vuole essere delicata, gentile, tenace e trattabile. E bisogna, la prima cosa, che a tempo nuovo, quando sì 191 pota per prepararsi, che e’ si tagli fra le due terre o poco sopra tutti i frutti o sterpigni vecchi che si desiderano di annestare, acciò che l’anno di maggio abbino rimesso di quelle vermene rigogliose, che appunto di quel tempo o poco prima (') venghino a essere rassodate, per potergli annestare. Prenderassi una di quelle messe che di nuovo ha fatto quel frutto che si vuole, e si farà uno scudicciuolo 0 scudetto che sha a innestare, tagliato intorno detto scu- detto che si dica con un coltello appuntato, che levi il pelo e rada, d’ uno di quelli occhi delli più bassi della marza; o veramente abbiasi un ferro fatto apposta con un manico pur di ferro, che in cima abbi un triangolo tagliente e nel mezzo sia concavo, che rappresenti uno di quelli con che si fa il marchio ai cavalli di razza, co 1 quale si può stampare appunto, come ap- punto levare e porre, staccare e scommettere dall’un frutto che V ha a ricevere, e dall’ altro in che si spicca, lo scudetto o scudicciuolo, il quale ha ad avere questa forma et essere fatto a questa foggia \V, che il punto di mezzo sia l’occhio; e spicchisi dal fusto della marza, che verrà fatto, per essere in succhio. E perché le marze o rami d’onde sì leva son tondi, il ferro che impunta nella parte di sopra del triangolo, perche possa ben premere et aggravare in su la buccia, abbi del garbo di mezzo tondo e gli altri taglino per diritto. E perché un ferro fatto di questa maniera non può servire a tutti i rami, abbiasene più d’ uno con più volta e meno, (1) o più, errore della stampa. 192 che si possi giudicare che possi essere al garbo dei rami che s hanno a maneggiare, avendone dei più lunghi, dei più stretti, più fazionati (') con più volta o meno, secondo che possi ‘essere il bisogno. E con sti fatto ferro si potrà tuttavia commettere l uno nell'altro con suggello giusto, legandolo un po’ con un filo sotto e sopra, coprendolo con due foglie del medesimo arbore che vi penzolino su, e lasciarlo stare sino a che egli metta senz’ altro. Ma non avendo detto ferro et avendolo tagliato attorno diligente- mente senza aggravare la mano e senza offendere il legno di sotto, e spiccatolo con un tempe- ratoio, di poi si prenda quella messa nuova di ramo, che è quella che si vuole annestare, e con la medesima diligenza soprapponendovi sopra quella, gli si fenda la buccia nel più liscio e pulito attorno, a mezzo e per diritto, ma dove sia un occhio della grossezza e grandezza e rilievo di quello del sopraddetto sceudieciuolo o scudetto, assettato che [sia], vi s ha a acco- modar su che vi starà a capello, a questa foggia di questo T; e con la punta del temperatoio 0 coltello di sottilissimo taglio, appuntatissimo (ma meglio è con una tagliuola d’oro, d’ argento o di rame, ché tutti sono questi dolci metalli e non incrudiscono et inaspriscono come il ferro il non bene ancora assodato e fatto legno e la morbida, delicata e tenera buccia) si spiccherà la scorza dal legno tanto che basti; e vi sì metta, incastrandovelo appunto, quello scudicciuolo, e che l occhio torni dirimpetto e cuopra che vi (!) fatturati, errore della stampa. 193 stia su a quello che si è fesso per il mezzo e snodato; e quella buccia spiccata gli facci ala soprapponendosi all’ intorno, e lo raccoglia in se come buon padre, e combacivi, calzivi et entrivi appunto, anzi sottentri lo scudetto e di sopra e dai lati, et impunti quanto è grossa una mezza corda rinforzata, e massime a tutti quelli arbori che non sieno di razza d’ agrumi. Et a questi et a tutti gli altri avvertiscasi sempre di far poca ferita, quant’ è un’ ugna del dito grosso e mezzo, e non più. Et agli agrumi importa tanto il soprapporre, anzi quella stampa di ferro detta conviene lor tanto, che con appoggiarvi qualche cosa gli fa in quattro di attaccare. Ora il cognoscere questo e far quello, tutto insegna la pratica, che è la propria dot- trina dell’ agricoltura, agevolissimamente. Appresso ciò sì dee legare Vl innestatura sotto e sopra, lasciando 1 occhio d’ essa bene scoperto e non punto stretto intorno, et accosto a lui con una buccia di moro o d’ olmo sottile o vero d'ogni altro che se gli possa staccare la grossa di sopra e servirsi della bianca di sotto. Scapezzisi appresso a questo 1 innesto fatto rasente un dito all’ innestatura, ma riu- scirà meglio e patirà meno sopra | innesta- tura un sommesso o quattro diti o così. E piglinsi foglie di vite et infilzinsi per quella annestatura e faccisi che elle si appressino allo scudicciuolo o scudetto due diti, affin- che le gli dieno balia e lo difendino dal. sole. Ne sarà male, se stringa la sferza del caldo, mutargliele due o tre volte, benché in meno di quindici di sarà appiccato da poterlo affatto 13 194 scoprire. E si opererà di osservare tutte le sopraddette regole degli innesti a marza. Ma avendo quello instrumento di ferro che tagli appunto l uno e l altro scudetto, non accaderà, come s è detto, tanta diligenza. Ancora si pos- sono trascerre, e massime in tutte le sorte di agrumi, et in tutti quelli altri arbori che met- tono vigorosamente e sono umorosi e che ven- gono bene in succhio, come il salcio e le vetrici, certa sorte di scudetti che abbin cavato un po di rampollo della nuova messa e quasi mandato fuori il ramo, e così tagliato attorno in triangolo, come s'è detto, con un poco di buccia attorno, si può commettere nel T del l’albero, che si combaci bene, e s' attaccherà, come ancora quelli occhi che hanno accanto lo stecco, tagliando di questo rasente 1 occhio, non mancheranno di attaccarsi e mettere ancora questo; ma si dee fargli per necessità, non per elezione. E si dee a tutti avvertire che al ca- rare degli scudetti o scudicciuoli è un maschio di dentro che è V anima del rametto sotto la scorza dell’ istesso legno, il quale s' ha a stac- care con la buccia e portar via dentro all’ occhio dello scudetto, che in altra maniera sarà opera vana e non metterebbe. Perciò cavisi insieme tutto con la scorza et insetisi. Così fatto modo d’innestare, si come s è di sopra detto che accostumavano gli antichi, sì dee fare in ramo verde, liscio, fra nodo e nodo, e [in] simil tronco giovine scapezzato di sopra, nei luoghi ben caldi per il mese di marzo alla luna d'aprile, e nei temperati o più freddi nel mese di maggio o di giugno o luglio, secondo però i paesi et 195 arbori che muovino e venghino in succhio, e secondo che la materia si truovi disposta; ché ho provato a farne sino per il sollione et hanno fatta gagliarda e ferma messa; e fra li altri gli innesti fatti su’ melaranci, che non si pos- sono ad altra foggia che a questa, o pochi, rispetto al calamo che non è tondo, delle messe nuove, che pur qualcuna se ne truova che sì può annestare a bucciuolo o a cannello; dico che pruovano meglio i fatti per il sollione che i fatti di maggio e di giugno, e questo perché le messe sino allora sono più a ordine perché mettono più tardi, e per essere le messe mag- giori penano più a rassodare. Et in tutti gli arbori che s' hanno [a innestare] a scudetto 0 a cannello, faccisi sempre in ramo nuovo 0 tronco giovine, e così quelle scorze che han date le messe ben fuori e quelli fatti rametti sieno rami nuovi o della medesima primavera o vero dell’anno innanzi. Et in tutti quelli che si fanno a scudetto, osservisi, quando si fa lo scudetto, di tagliare il largo d’ esso dalla banda di verso terra così /\, e che la punta sia di verso la cima, e non il largo verso la punta e l aguzzo dello scudetto verso la terra, perciocchè I’ arbore ha il nutrimento dalla terra e quanto gli è più vicino, più [essa] è atta a poter dargliene gagliardamente; e per questa ragione si tagli il T a rovescio così ], e per questo verso si metta lo scudetto tagliato ancor lui capopié; ma non è propriamente ca- popie, perche e’ torna subito per il verso suo; et in questa maniera farà più pruova; et in tutti gli alberi che hanno la scorza sottile, 196 come mandorli, albercocchi, susini e simili, et in qualunque altro che hanno la scorza grossa e sustanziosa, come il fico e ’1 cedro, l' ulivo, il salcio, pioppo bianco, noce e simili, ha a essere la scorza con la messa del rametto d’ un anno, et in quelli il germoglio che ha dato fuori quella primavera. E se quelli altri arbori non le hanno nuove, taglinsi da basso perché faranno nuove messe, e massime i castagni, e tuttavia in su le più (*) belle e rigogliose sì collocheranno all’ anno vegnente, tagliandole al principio di primavera, che poi al maggio vegnente e giugno saranno stagionate. E quando gs annesta a scudetto, che dimostra la messa semplice dell’ occhio ingrossato senza germo- glio, 0 soprappongasi o non si soprapponghi la buccia, leghisi 1 occhio ancora con la diligenza di qualche scorza gentile, che aggravando verrà a farsi appiccar meglio, spianando la buccia co 1 polpastrello del dito grosso, che la tocchi per tutto, né si sleghi prima che si cognosca che sia attaccato. Gettano gli arbori per il tronco giovine alcuni rametti, o novelli e freschi rampolli nel vecchio troncone di due anni 0 tre. Questi sono buoni a innestare a scudetto, tagliando tutto il resto che non è annestato, perche non possi. dare impedimento. Impia- strano alcuni di mele le intaccature, ma è meglio cera o nulla; e tutte le messe che fuor dell’ innesto sorgono, si deono subito levare, ché dan noia all’ innesto. Si possono ancora insetare gli arbori con la trivella gallica, la (') poco, errore della stampa. 197 quale è fatta come una sgorbia doppia, che girando per vigore d'uno spago rinforzato avvolto al manico di legno fatto in foggia di quello dei trapani, accomandato a un archetto, ra bucando il legno senza riscaldarlo, come fa il succhiello. Scelto l arbore che s' ha a inse- tare, faccisi con questa il foro in sbiego a tra- verso il tronco verso il basso sin che aggiunga alla midolla nella metà del tronco, che è sin a dove ha a suggellare la marza che s annesta, la quale ha a essere come l altre, se non se un poco più valida e grossa, e destramente raschiata a dove entra e cacciata nel foro fatto d’uguale grandezza appunto, s impiastri attorno di loto impagliato; e se si potesse calare a terra il nesto fatto o si facesse tanto basso che con ammontargli la terra attorno venisse rico- perto, saria più sicuro per appiccarsi. Sono questi si fatti innesti da cimentarsi in arbori simili di buccia di legno e midollo, e di salva- tichi in domestichi simili, peri, meli e fichi. Hanno openione alcuni che a marza, a corona et a questa, massime ai fatti in arbori di lor natura secchi, asciutti e meno umorosi, si deggia legar sopra qualche vaso, di dove per un sottilissimo buco l acqua a gocciola a goc- ciola vi distilli tuttavia, affinche non prima si possa seccare la marza che ella sia appiccata. E molti altri hanno openione che in così fatti arbori di asciutta natura sia bene ordinare di annaffiargli, perché molto se ne ricreano e massime con l’orina vecchia di sei mesi, o spruzzati spesso con una spugna pregna d’acqua sopravi, adacquando ancora le radici sino a 195 quattro o sei mesi a dilungo. Gli innesti con la semente, di che sì disse di sopra, si possono fare in ogni arbore di scorza grossa e succhiosa, di estate, quando gli arbori sono in umore, facendo nel tronco un buco con la medesima trivella gallica piccoletta, rinvestendo il buco con creta, si che non s impedisca il nascere della sementa a venir fuori. E si possono ancora queste minute semente sempre con l aguzzo all’ aere, tagliato il tronco, porre tra scorza e legno, dilatando tanto che vi stieno appunto, ma andando in giù con il discostamento della buccia più a dentro che se ne s' avesse a porre la marza; et oltre i peri et i meli, tutti gli agrumi profitteranno innestati a questa ma- niera. Deonsi queste semente minute dare a beccare ai colombi in lato chiuso, e di li a tre o quattro ore ammazzandogli ritrovarle e se- minarle. E senza questo, tenghinsi in molle quattro ore o cinque. Et agli ossi di mandorli o peschi, susini et albercocchi, si rompa la dura vesta senza offesa dell’ anima, e vi sì compinghino, che anch’ essì faranno. Columella, chiaro duce di questa certa (') scienza e vera dottrina, tiene per openione che una sola marza d’ una sorte sì possi insetare ad ogni arbore di diversa sorte e dissimil natura, non la stac- cando prima dalla madre con certa ragione. Piantisi un fico presso a un ulivo o susino gio- vine di bella buccia e gambo rigoglioso e ve- gnente, non per ciò più lontano che comoda- mente lo possi toccare l'ulivo, e diasi opera (1) dice chiaro di certa scienza, la stampa. 199 che cosî bello e netto sia, che non si dubiti di macola alcuna, e quel ramo che s ha a inse- tare, che sia il principale di quelli che vadino all’insî dal fianco dell’ arbore, ogni di si pieghi ad assuefarsi a andare a toccare il simil ramo (') del suo vicino; e quando averà acquistato forza, il che vuole essere di tre o quattro anni, s' ha a scapezzare e fendere, e quel ramo dell’ ulivo che sia il più bello e delicato, s inchini a terra e se gli leghi al piede; e rasa la vetta del ramo dell’ ulivo così com’ egli sta attaccato alla madre, acconcio et augnato in foggia di marza, si cacci nella fessura del fico, e $° assetti come si disse dellinsetare a marza; e perché non si scrolli, si leghi a piuoli lunghi fitti bene in terra con i rametti del medesimo; e per rimediare a ogni contraria forza, s' accomodi l’innestato a palo forte e fermo. Di questa maniera, con un temperamento comune fra le due madri d’insetato e propagginato, s attac- cheranno insieme in tre anni; il quarto anno tutto il taglio dell’ olivo e del fico adottato insieme si liberi a star da sé, e far frutto l uno in su l’altro. Così dice M. Varrone potersi fare a tutti i frutti. E si dee tener per certo che quando sono due arbori vicini e contigui, sì possi congiungere insieme unitamente due rami d’essi nel più liscio e pulito che vi sia, freschi, giovini e netti, fendendo l una parte e ’ altra sino alla midolla, e per il loro diritto ricompo- nendogli insieme et incastrandogli si che paia un ramo solo, e si leghino Y uno con l'altro (1) in sul ramo, la stampa. 200 sopra con buccie d’ olmo o moro seconde, levate le prime, ricoprendo tutto con loto impagliato; et incorporati che sieno, taglinsi le legature, et a poco a poco, quando più e quando meno, si stacchi, tagliando il ramo che gli dava il nutrimento attorno; poi il principale, unito che sia; e così s° appiccheranno insieme, ancora che difformi. Somigliantemente passando una vite per un ciriegio, come si disse, et incorpo- rata in esso, tagliata vi viverà ('). Così facendo passare un albero fruttifero da giovine per un altro arbore fruttifero conforme, farà il mede- simo. Et a questo modo si possono fare i pri- maticci tardii, e così per contra. Ancora sì può tagliare, ma meglio è scoscendere et ottimo piegarlo a terra, st che dentro vi si possi e ben sotto ricoprire una pertica di salcio, e sì fori con la sgorbia intera detta, di quella gros- sezza che serva a cacciarvi dentro appunto la marza che tu vuoi, di qualunque sorte ella si sia, e cosi di mano in mano lontane un pie e mezzo luna dall altra vi si acconcino quante ve ne cape, ricoprendo l arco del salcio e tutto di terra. Alcuni forano sin al cuor dell’ arbore che è la midolla, altri la passano fuor fuora e così le marze da quella parte che e’ le cacciono giù, le radono e le commettono fiecandole in quelle fuori (*), impiastrando attorno di loto impagliato, e in su. la commessura; di poi questa pertica così acconcia 0 la mettono sotto terra a pié dell’ arbore si che le marze sole (1) vi verrà, errore della stampa. (2) fiaccandole in quelle forte, la stampa. 201 apparischino con la punta fuori, o vero stac- cata affatto dal salcio con parte d’ esso la sot- terrano in luogo acquidrinoso, tanto che simil mente in sommo apparischino le marze. Altri cavon fuori un capo della pertica, lasciando il rimanente sotterra con le marze assettate quel modo; di poi passato un anno tagliano & ciascheduna marza il suo pezzo di pertica, che di già con esse ha fatto la barba appiccare e surger quelle, et alle sue fosse o buche, come gli altri arbori, V alluogano; e se si facci ciò in lato secco, s' annaffi, che per tutto verranno e proveranno. Quell’ innestare in su ’1 cavolo è piacevol trastullo per una pruova, e bisogna annestarlo fra le due terre con ogni sorte marza non gli legando troppo stretti co l salcio, e pigliando marze che mettino agevol- mente, e rincalzando subito con buon terriccio. I melagrani, peri cotogni, meli e peri vi fanno su bene; rincalzinsi più di mano in mano che crescono, alzando la terra attorno, e presto poi [occorre] traspiantargli, appiccati che e’ sono, ma il più delle volte vengono meno altrui fra le mani. Se sia mestiero d’ annaffiargli, non se ne manchi. Vergilio ebbe a credere che i peri annestati in su l'alloro qualche volta con il tempo avessero a dar frutto, che tanto è da porgli fede, quanto all’ innestare un gelsomino in sur un pie di malva. Ogni albero che si afferra di ramo e di piantoni sì può annestare a marza; e quelli che non s' attaccano a questo modo, non si annestano più agevolmente in altra maniera, che forandogli come la vite nel ciriegio, se non se il susino, melo e pero. Gli innesti che 202 si fanno sotto terra bastano più di quelli che si fan sopra; anzi quanto gli arbori naturali, i quali durano più che gli innestati. Gli innesti nei nodi degli arbori. non vengono bene e s' attaccano male; et a tutti gli innesti che si fanno o che s hanno a fare o che son fatti in tutti tre questi tempi, sempre che e’ n° abbino, si leva loro i rimettiticci d’ attorno, di sotto, di sopra e dalle bande; ma scorgendo che non s' afferra l'innesto, tirisi innanzi uno d'’ essi il più rigoglioso e s inseti l anno a venire, e se è fatto a settembre, o veramente se vi è spazio in su l tronco, si ritagli più basso e si rian- nesti, questi a marza, quelli a bucciuolo. Simil- mente agli innesti che si fanno in su gli arbori grandi ove sieno altri rami, levinsigli d’ attorno quelli che fanno uggia o gli ricuoprono. Gli alberi che fanno Vl orichicco, come susini, man- dorli e ciriegi, s' innestino o innanzi che lo faccino 0 dopo che finito abbino di mandarlo fuora, o vero s' inseti fra la scorza et il legno; e massime se ’l tronco o ramo sia grosso 0 vecchio, e questi talora è meglio scapezzargli, lasciargli rimettere e quivi insetargli. Ma fac- cisi in due volte, non lo capitozzando affatto la prima volta, se sieno grandi e grossi assai, perche si sdegnerebbero, e qualche volta si seccano, e massime i ciriegi, non avendo da sfogare il loro rigoglio e la superabbondanza del troppo umore. Cuoprinsi gli innesti bassi e turinsi bene, o sì faccino tanto alti che non possino essere danneggiati dalle bestie. Arena, creta stemperata con sterco bovino, o loto infardato con paglia trita, terra da purgo, 205 argilla, terra da pallottole e mattoni son buoni a ristoppare i tagli delle fenditure dei nesti ; e per coprire di sopra serve bene l'aliga, la stoppa, il paléo, il fien gentile e la paglia acco- vonata. I giunchi marini sono meglio che i salci o olmo per legargli, e ’1 moro pareggia a ciò tutti questi. Se bene si può innestare d'ogni tempo e quasi fuor di tempo, tuttavia nel buono di e sereno è meglio. Se s' annesti grand’ arbore con piccolo, annestisi sotto terra, affinchè co ’1 tempo dalla marza naschino nuove radici, e se sì annestino ciriegi o altra sorte variata, osservisi il medesimo, e tanto più dei viscioli; nè arbore che produca grossi frutti s annesti in quello che gli produca piccoli, ma si bene per con- trario e sotto terra. E volendo con l insetare avere 1 frutti odorati, si tenga l ordine che si tiene nel far la vite teriaca. Dei peri insetati d’ogni sorte è da essere studioso di far gran procaccio, ponendone assal dove sia paese da ciò, e se bene vengono adagio e ne periscono, quelli che rimangono servono per gli altri che se ne vanno; e se bene penino assai a venire e pochi ne vadino innanzi, preso ch’ egli hanno piede, bastano poi gran tempo e se ne cava piacere et utile; frutto veramente ottimo, e n’ è tutto l’ anno, secondo i tempi. Et osservisi sempre per frutti, o questi o altri, che gli ami il paese dove s' ha la possessione, perchè tutte le regioni sono dotate di qualche sua proprietà particolare, e pochi posson dar tutto in gene- rale, et in tutti i paesi non fanno tutti i frutti, perciocché nel freddo e montuoso alpino pruo- 204 vano bene 1 peri et i meli vernini, come caro- velle bianche e roggie, spine, cipolle e di quelle rose, paradise, teste e francesche, boccapreti; né quivi fanno le pere statereccie, come le garzignuole, diacciuole, bugiarde, pisto- lesi, giugnole, zuccherine e moscadelle, se bene vi faranno le bergamotte che sono ottime al principio dell’ inverno, come per 1 estate le bergamotte estive, che sono le bugiarde [0] pistolesi al sapore. Così nei caldi non pruo- vano le vernereccie e così. per contra di tutte le altre piante. E di più della medesima razza appetiscono diversi luoghi. Gli ulivi moraiuoli non pruovano dove gli infrantoi, e tanto per contrario, e dove pruovano i moraiuoli non pruovano i ciregiuoli, e così dei viscioli e dei duracini. Ma in tutti i modi è da cercare d’averne d’ ogni sorte, accomodando loro i siti il meglio si può. Ma per innestare a un tratto una copia grande di frutti, non è meglio che pigliare le marze d’ un innesto di susino fatto di due anni, che abbi gagliardamente messo, o di qualche altro innesto si sia che facil- mente getti a galla per le sue barbe messe assai, come i susini, peri, meli e ciriegi: e così più uno che un altro di questi così fatti a scelta, sempre i più vegnenti e rugiadosi, sani e diritti; e lo scalzerai ai piedi a uso di propaggine, ma non così a dentro, e gli farai una fossa quanto tu giudicherai che le marze di quell’ innesto si possino distendere, e cosi fatto tira a terra il detto innesto, e propaggi- nalo con detta marza in detta fossa, e cava la vetta della marza fuor della terra, e ricuopri 205 la fossa con terra cotta e con dargli un poco di concime quando l è presso che piena, accioc- che per il leccume di questa grassezza quelle marze gettino presto in fuori quei rimettiticci, che lo faranno messe che avranno le barbe, le quali sono la prima cosa che si studino di fare tutte le piante o rami che si pongono in terra, per fortificarsi con esse. Ma bisogna avvertire che non corra lor mai l acqua attorno, dan- dogli sempre esito, affinché non stieno nel molle e si marcischino ('); e questa operazione, che servirà per averne in breve assai, sì mandi a effetto l’anno d'inverno avanti che 1 nesto sia venuto in succhio, acciocche le marze nel propagginarsi non sì rompessino; e quando si pensi che dette marze abbino barbato, o vera- mente vedendo rimettiticci in su la fossa, va- disi scalzando alla volta dell’ innestatura, e tro- vatala si tagli, sbarbando affatto l innestato vecchio, e così si vedrà che tutti quelli rimet- titicci che sorgeranno su per quella propaggine e quivi appresso, tutti saranno domestichi e della sorte come se annestati fossero, e se ne potrà altri servire a trasporre in cambio d’in- nesti, e si vedrà che co ’1 tempo moltipliche- ranno fuor di modo, i susini più di tutti gli altri; e come dice il proverbio: chi vuole un pero ne ponga cento, e chi cento susini ne ponga uno. E di così fatto modo di fare ne nasce un’ altra comodità, che in su’ detti ri- mettiticci si può innestare sopra, come che salvatichi fossero, che faranno le frutte tanto (1) e si nutriscano, la stampa. 206 più belle, tanto migliori e di grossezza e d’ ogni perfezione più degli altri salvatichi, che i più giudicheranno essere da seguire quest’ ordine senz’ altro, sendo sempre meglio innestare il domestico sopra il domestico, che non il dome- stico sopra il salvatico; e quelli che per salva- tichi sono tenuti buoni, come i peri bronchi e sanfriani e simili, per addomesticargli affatto. Del salvatico non può essere se non salvatico, e non può rendere se non come la botte del vino che ella ha, né sì può cavare dalla rapa sangue o trovare il pelo nell’ uovo. Imperciò chi vuole frutte buone non annesti se non in su 1 domestico. A farne copia in un seminario, che si domanda nestaia, molti tengono, oltre a quello che se ne disse di sopra, ch’ ella vogli esser fatta in luogo buono, di poi gli arbori traspiantare in migliore, se non sì truovi otti- mo; e vi si mettino tutti i frutti domestichi, sbarbati dalle madri o posti a piantone o ramo, che questo sarà meglio che i salvatichi, lavo- rando come si disse il terreno della nestaia bene a dentro e ponendo assai bene a galla, perché non v' hanno a stare, e s' hanno a ca- vare, cioè nelle nestaie dei luoghi grassi dopo due o tre anni, et in quelle dei magri cinque, avvertendo nel trapiantarli (non gli scapezzando nel tronco) d’ osservare la qualità delle radici, lasciandole loro & doppio, e più dei rami che hanno, perch possino far loro le spese con vantaggio. Negli inseti che hanno ricevute due marze nel tronco, se sieno rigogliosi e vegnenti, se gli possono lasciare tutte due, ogni volta ch’ e si vegghi che elle si raggiunghino e 207 s' incorporino insieme, riturando tutto sopra il tronco e ripareggiando il taglio e fessura. Ma se una delle marze pare che rimanghi indietro, è segno che non può sostentarle ambedue; levisi quella; e così si facci a quelli che sono stati annestati fra scorza e legno, e così a cannello et a scudetto tirisi sempre innanzi la più rigo- gliosa marza. Di poi cresciuti (') si potino, assettino e formino alti,.-bassi o larghi o stretti, secondo che desideri il garbo, la qualità del paese e della pianta. Ma quanto al zappare o vangare loro in- torno [faccisi] con diligenza almeno una volta l’anno dopo che vi sia cresciuta l'erba che vi comincia a nascere di primavera; e se sia la nestaia in luogo magro, diasegli da rodere, aiutando ’l terreno con letame macero più che altra cosa. E gli è stata posta innanzi et ha allignato in molti luoghi d’Italia una nuova invenzione venuta primamente et avendo avuto origine di Napoli, bella, utile e che ha in sé assal più che molto del maraviglioso; imper- ciocché con questa, avendo da piccola allevata, nutrita e fatta adulta sino al quarto o quinto anno una pianta in un vaso, di agrumi massi- mamente, ma di pesco, pero, melo e susino ancora, è lecito e si può, appostando uno di questi alberi e massime d’ agrumi, che abbi una ciocca di parecchi aranci, limoni o melan- coli o altra sorte di questa razza in un ramo, appiccata di frutti insieme, o si vero pendenti da più rametti del ramo attaccati più frutti (1) crescenti, errore della stampa. 208 che sieno più che mezzi maturi o mezzi almeno, staccargli co ’1 ramo intero e trasportargli in su quel vaso, dl’ una maniera che quel vaso che dianzi era con foglie sole, sì vesta interamente di tutti quelli frutti, et il ramo carico di essi gli formi e facci arbore sopra, e sia libero poi o lasciarlo star quivi o con essi traspiantarlo altrove. Ma di miracolo maggiore è vedere in su quel vasetto in breve spazio di tempo com- parire i pomi che poi a lungo andare vi sì maturano e sopra gran tempo. vi sì manten- gono, sì come in su 1 proprio arbore di donde sono stati staccati, e fare in somma apparire in sur una pianta nana, inabile a fruttificare, [una pianta] carica di frutti; e quanto più pieno di frutti si sceglia il ramo, tanto più recherà me- raviglia maggiore a chi lo vede, e massime che fatto con diligenza uniscesi col gambo di quel vaso che in termine di sei o otto mesi cuopre l innesto, e fassi tutt uno. Procacciato adunque il vaso o procurato d’avervelo nutrito da per se, che vi sia dentro la pianta d’ agrume, e sia arancio, limone o cedro o merangolo 0 pomo d’ Adamo, taglisi all’ altezza d’ un braccio in circa sopra il vaso, e quando egli è questo gambo arrivato alla grossezza d’ uno o due diti, pareggisi il taglio; di poi s accosti questo tronco tagliato e pareggiato, con averlo acco- mandato a’ pali che lo sollevino da terra quanto bisogna e lo tenghino fermo contro allo scrollar dei venti, a quel ramo pregno di frutti di limone o arancio o simili; e colta la misura di quanto sì possi piegare in su questo gambo che tocchi per tutto, almeno sforzando la pie- 209 gatura d’esso, che sia per due diti ordinari o per un dito grosso e mezzo, e non più, fendasi per diritto, senza punto offendere il legno, la scorza a questa misura dell’ arboretto del vaso, e fatto questo, taglisi il legno per la terza parte che si ritruova essere del ramo fruttuoso, ma senza offendere la buccia, la quale dee rimanere illesa; e procura di cavar il legno dentro a essa con un ferretto in guisa di scar- pello fatto in foggia di zappa in punta che tagli bene, o con altro ferretto; e cavata la terza parte del legno, tirisi il ramo carico di frutti, avendo prima raschiata attorno legger- mente la buccia quanta n’ ha a entrar dentro alla scorza del tronco, et avendo tagliato quella parte di ramo a scaglione, si facci appoggiare in su la testa del tronco pareggiato, ricoprendo il rametto carico con la buccia del tronco, al quale si levi ancora un poco di legno tra essa, e quivi fasciato quasi mezzo da quella si leghi con canapa, e tra quella canapa si mettino certe biettuzze di legno tenero, inzeppandole tra la ‘anapa e la buccia del tronco a farla accostar bene sopra quella del rametto raschiata. Fatto questo, se 1 ramo dell’ arbore carico di frutto sforzasse un poco e vi si conducesse mal volen- tieri, avvertiscasi a farvelo calar su dolcemente e poi si leghi di sotto al tronco un po’ più basso della legatura dell’ innesto fatta con la ‘anapa |o] con corda rinforzata, acconciovi sotto panno lano o lino che non possi recidere; et accanto s' abbi una pallottola di cera alla grandezza d'una palla lesina, et a poco a poco si stenda sopra la legatura della canapa, si che 14 210 cuopra la pareggiatura dell’ innesto, e cuopra sotto e sopra dalle bande ogni cosa, turando e suggellando bene per tutto. E di poi non prima che in capo a quattro o cinque mesi sì guardi se è appiccato, et avendo incarnato bene per tutto e bene incorporatosi Y uno con 1 altro, taglisi al fine della fessura che si fece alla buccia del tronco tutto ’1 ramo dell’ arbore pieno dei frutti, e taglisi rasente in forma di bietta, e ricuoprasi quel taglio di nuovo di cera; e lascisi così, ché col tempo rammargi- nerà e si farà tutto un gambo. Questa sorte d’innesto s'ha a fare a mezzo il principio di primavera, quando sono bene in succhio, agli agrumi; et al pesco et a quelli altri un poco più oltre, avvertendo a tutti di non maculare o far crepare punto da alcun lato o in alcuna parte la buccia che si fende per diritto all ar- bore del vaso, ricordandosi d’ annaffiare se bi- sogna per aiutarlo ad attaccarsi tanto più; e questo medesimo si puo fare al ramo d'un vaso con l'altro, attizzandogli insieme, come sè detto. E sin qui basti dell’ innestare. Et ora, perchè non è cosa negli uomini e negli altri animali irrazionali che ancora agli arbori non sia, così nella disposizione di tutto ‘1 loro corpo, come nelle particolarità delle mem- bra di essi, ancora degli accidenti, dei mali et infermità [che] a quelli in generale et in par- ticolare si conformano, di questi adesso tratte- remo. Hannovene alcuni che sono a tutti [gli arbori] comuni, e certi altri in particolare, come che abbino talora rotti i rami, voto o guasto il tronco, faccino aborto senza condurre i frutti, 211 sieno affamati, obesi e con impetigine, abbino gli occhi delle lor messe abbruciati, secchi e ciechi, e simili disavventure, e molte altre co- muni con le miserie degli uomini, patendo anco di peste e malattia talvolta in alcuna razza di loro (') che tutti gli ancide; sl come in un paese più che in un altro per la moria avviene agli uomini, così a questi come a quelli [è] causato dalla mala abitudine dei luoghi, per l’ intemperie del tempo, per la mala disposi- zione dei cieli e cattiva influenza loro, massime quando sia freddo o caldo fuor di modo 0 pioggia o squallore o qualche altra gravezza d’aere, e intrinsecamente quando sia in loro abbondanza di carestia del nutrimento loro. Et alcuni mali sono comuni a tutti gli arbori, come patir di vermini o tarli o formiche, et assiderare, incarbonare e scoprire le radici, la scabbia, la strangolazione, il dolor dei membri e la sterilità; e certi particolari, come ai fichi l’impetigo (*) e quelle chiocciolette che nascono loro addosso, et agli ulivi i congri. E sono certe sorte d’ arbori, come degli animali, meno soggette ai mali, come tutti i salvatichi, i quali solo patiscono nella germinazione e nel fiore, o per caldo o per freddo, vento o aere che abbino sentito in quell’ essere del muovere, e massime il caprifico, come quello che non pa- tisce di radicazione, ne di scabbia, ne di ver- mini, quasi sano e sicuro da tutti i mali. Ma questo avviene agli arbori che agli uomini di (1) rama di loro, errore della stampa. (") impidocchire, scritto sopra impetigo. 212 campagna, che i contadini meno sono sotto- posti a malattie e si ammalano, di quelli che sono nutricati nelle città; e questi per leggier cagione, quelli non così per poco diventano indisposti, come fanno le domestiche a compa- razione delle salvatiche piante. Stanno talora male e patiscono in tutto "1 corpo gli arbori per colpi tocchi da zappe, o accette nel tronco o in su 1 ceppo delle radici, o per troncamento d'esse, da morsicamenti d’ animali e sbuccia- menti della corteccia loro; e degli animali massime cornuti è tanto velenoso il morso, che anco tagliato sotto questo non si possono ria- vere o rinvigorire. Patiscono gli arbori per la qualità dell'umore, e [di quando in] quando per crudità, per fame e per grassezza s' amma- lano, e così, come gli uomini per la troppa pienezza, incorrono in malattie, sendo che per la superflua nutrizione i meati per I obesità e condensazione si riturano e sì riserrano, che i rami degli arbori non possono pigliare il cibo; perche tutte le cose che nascono sopra la terra desiderano scioltezza e libertà dei loro spiriti e meati ('). E della sopraddetta ripienezza patisce più d'ogni altro il ciriegio, quando egli abbi superfluamente abbondanza di troppo alimento di gomma; e questo vizio si domanda strangola- zione 0 soffocazione. Periscono ancora gli arbori quando loro ingrossano le radici, come gli ani- mali per troppo lardo; e quelli che fanno ragia per la troppa grassezza si convertono in teda (*). (1) menti, errore della stampa. (2) facellina, scritto sopra teda; in teda, ossia facellina, la stampa. 213 Per contrario patiscono le piante di fame per la mancanza degli alimenti, quando le lor ra- dici crescono e restano scoperte, perciocché allora non possono, per cagione dell’ ardore del sole, trasmettere l umore; perché il succo più di quel che gli accomodi sguazza (") e di li ne nasce ’1 malore, e [la pianta] perisce. E ciò avviene per il più quando diventano scolorite per mancanza dell'acqua. Saranno anco troppo rigogliose le piante e ricascheranno, sempre che averanno troppa copia di frutti fuor di stagione, che per la troppa fecondità come gli animali si muoiono, nei quali per il troppo spargimento del seme e ritiramento degli escre- menti si scalda il corpo, e la vecchiezza più tosto gli affronta; cosi nelle piante, che frutti ficando più di quello che comporta la lor fat- tezza, si seccheranno presto, come le donne che fanno figliuoli assai, rade volte invecchiano. Si diranno aborti nei frutti quando gli lasciano indietro, come fanno i fichi assaissimo, et altri che principiano assai frutti, et a pena poi ne conducono parte, lasciando gli altri come vani; e talora si fa con l’arte o del tenergli a dietro co 1 taglio o co 1 piantargli in terreno magro, ponendoli che per mancanza di nutrimento [non] possino crescere. Vengono offese agli arbori dai cieli, come da tempeste e procelle, venti, gragnuole e rovinose pioggie; al che non è altro riparo che allora e sempre farsi innanzi con le divine preci. Appresso questo è l’assiderarsi, che tutto viene dal cielo e dalla (!) crassatur, scritto sopra sguazza. 214 natura delle brinate, che di primavera, crescendo presto et affrontandosi i seminati, et ancor: teneri restando attaccati alle foglie gli occhi pieni di latte che germinano, abbrucia; onde si può dire arrostimento, come in fiore incar- bonchito. Ma della brinata è più cattiva con- dizione quando casca e s' attacca e gela e per niun vento si scaccia, perché ella non si fa che a aere immoto e ciel sereno; perciocché venendo di poi il giorno e ’1 caldo, esso freddo notturno ritira in sé tutte le forze e fa più gagliarda- mente onta al nemico che s affaccia, che per le istesse forze contro agli obietti e somma- mente insiste, sl che per antiperistasi (') si fa st che il freddo ancora abbrucia, tutto che sia questo proprio del fuoco. Ancora è proprio l’assideramento nella nascita del Cane, perché allora il Sirio Cane abbrucia i campi, e la sua nascita gli arbori novelli la presentiscono, come i polloni teneri; e per causa della lor debolezza allora s assiderano, e massime i fichi, percioc- che i troppo gran caldi abbruciano, perché riseccata la terra non possono gli arbori pre- valersi dell'’umor necessario loro; la quale offesa non così sentono le maggiori e più ga- gliarde piante, passando più a basso e più dila- tandosi le lor radici discosto, e perché nelle più antiche è l umore più grasso e più stagio- nato per far frutto, che non nelle giovini, le quali meno possono comportare le mutazioni. (teneralmente le convalli e luoghi concavi stretti e che sono vicini ai fiumi, sogliono essere infe- (1) contrapposizione, scritto sopra. 215 stati da questi arrostimenti, e quelli che son riposti senza alcun vento; perché quello spirito d’aere quivi più si ferma e più v' esercita le sue forze; che negli altri ove sia moto d’ aere non avviene e lo proibisce. Per il grandissimo freddo e ghiaccio non solo le picciole, ma quali sì sieno maggiori portan pericolo, perchè da essi così maltrattate primamente seccano le cime dei rami e della vetta, come si vede nei boschi delle Alpi, quando Vl umore ristretto dal gelo non può arrivarvi, quando son fuori di tempo; ma nei tempi del verno s' aggiovano, tenendo unita la virtà per far dar poi fuori. Et è massimamente dannoso lo stillicidio della terra, quando che gli arbori sono scalzati, e spogliati del lor cespuglio gli abbia soprappresi, e tanto più se vi sia acqua stagnante, che du- rando congeli le barbe al tutto più deboli; e trovando la terra smossa, con più veemenza offenderà, perché più liberamente potrà pene- trare. La tabe negli arbori alcuni la doman- dano certo stupore e rigore, quando per gran freddo e gagliardo gelo il fiume si ritira, quando da un contagioso morbo oppressati si seccano i gambi degli arbori, si che si può dir quasi che di magrezza si consumino, come gli uomini estenuati da una lunga malattia. La scabbia massimamente si ingenera negli arbori quando vengono certe lente pioggie, massime se dopo il nascere delle Vergilie seguiranno; perché se le sieno spesse dilavano V arbore e ne scavano scabbia, perché allora Vl umore viziato come una bollicola sborra fuori; perché di questo vizio i fichi grossi cascano, e se egli sia più 210 copiosamente, trascendendo alle radici le inari- disce et in ultimo fa marcido o glabro, e questo negli altri si domanda radicazione, negli ulivi impetigine. E per conto dei siti dei luoghi vengono ancora le malattie agli arbori dal tirar dei venti, come in Puglia Atabulo ('), e l’Olimpio in Calcide d’ Eubeia (*); ché questo tirando dopo il solstizio iemale, abbrucia gli arbori, gli inaridisce, asciuga e secca, st che non sì possono di gran tempo rifare, perché in un subito dal pedale s' abbruciano, et in tutto, avanti che si senta dalle parti inferiori, si scuopre presto nel muovere, più tardi nel- l’ ulivo, perché sempre sta verde; et è segno di voler rinvigorire, se egli abbi perse le foglie. È quelli a che ne va via meno, che ti pensi che stian bene, sono quelli che si muoiono; talora inaridiscono le foglie e rimettono. Gli arbori nei luoghi settentrionali et in Ponto intorno a Panticapeo et in Frigia in due modi gli aggra- verà la tabe nel freddo quando è V anno ghiac- cioso, se dopo la Bruma continui quattro di; e quivi et in tutto "1 resto de luoghi, se subito fatti i frutti sia gran ghiaccio, in pochi di ammazza gli arbori. Vengono dai freddi ster- minati gravi malattie agli arbori e nelle lor ‘adici e nei rami, e massime agli ulivi, levando il nutrimento che non saglia e seccandogli. Il musco ancora nei luoghi secchi e negli umidi dà lor noia, massime agli ulivi, i quali per una (1) Qui Atabulo figura veramente vento, e non il Tavoliere di Puglia, come mi parve doversì interpretare in un luogo consimile del primo volume, a pag. 68; e sbagliai. (2) in Puglia l Atabulo e l Olimpio, in Calcide V Eubecio, la stampa. 217 certa adustione del sole s' ammalano di clavi 0 funghi come si chiamano, si che diventano un tizzone ('), et avviene anco per troppo grasso; il che ai mandorli di dolci gli trasmuta in amari, ma ali peri per contra fa bene e giova. Nascono nei tronchi degli arbori certi ver- mini che intrinsecamente rodono e gli fanno perire, se troppo gli stieno a rodere addosso, come ai meli e peri, e massime a tutti, come questi, di scorza dolce; lo dimostra questo male quando caccia nel pertuso per pascersene il picchio bianco e nero il becco, sbattendo e scortecciando intorno; e lo scuopre anco un piccolo forame che cola una certa lacrima, di primavera; e questi vermini gli senton più quelli che hanno un succhio di latte, che è come aver la corteccia dolce a ingenerargli. E tanto più v incorrono gli arbori, quanto più patiscono sete, e perciò tanto più avviene nei luoghi secchi e caldi, e massime al susino, al pesco, melo e fico, al pome granato, al sorbo et all ulivo; e generalmente men gli sentono quelli che hanno la buccia amara e 1 lor succhio che sa d'agro e d'acerbo, come il cipresso e ’l lauro, et ancora le [piante] odorate e le dure, come il bossolo, frassino e simili. Tarli ordinariamente in generale si chiamano in tutti gli arbori i vermini che gli guastano; ma sono ancora tra essì bachi di diverse fatte, colore e fazione, come i centopiedi, certi bacherozzoli gialli, grassi, succhiosi, certi altri duri aurico- lari esizialissimi. Trips (*) è un baco del legno (1) theda, scritto sopra tizzone. (?) Leggo cosi, ma non ne trovo cenno nei naturalisti. 218 cattivo; e 1 ceraste è dei fichi proprio, che fa un cheto strepito, rodendo piano. Il sorbo viene infestato da vermini rossi e pelosi, e con essi invecchiando si secca. Il nespolo è molto sog- getto ai vermini e gli fa più grandi; così fatti son quelli della rovere. I vermini assaltano ancora le frutte et avanti che le maturino le fan cadere, come ai meli, peri e granati. All’ ulivo nasce il verme aramo e calpe, e sotto la cotica toglie il frutto; crescono di prima- vera se sieno nel nocciolo a roderlo e si gene- ‘ano per i venti austrini nei rami giovani quando sono seguitati dall’ acque; e quelle che seguono dopo Vl Arturo gli proibiscono. Quelli che sono nei drupi sono più marci e putridi e più cattivi appariscono, et allora sono più caduchi; quelli nei luoghi umidi più penano a venire; il frutto de’ sorbi ancora nell’ arbore crudo si rode: i frutti dei fichi et i fichi sono infestati dai pidocchi. I bruchi son quelli che rodon le foglie, il fiore e ’1 frutto, e quelli che s incartocciano nelle foglie si spandono nati per tutto ’1 frutto. Peste che viene dall’ aere e trista indisposizione dei cieli sono i grilli, che a torme occupano un paese intero, e consumano divorando le campagne dei seminati intere; cavallette si chiamano per altro nome; e s' estin- guono ardendogli co ’1 fuoco. Nascono ancora per umido e lieto tempo, quando l umore abbi riseduto, e poi il sole abbi acremente riscaldato; con questi soli cresce e s aumenta. I pidocchi che vengono ai fichi pare che da dolce umore recondito sieno generati nelle corteccie; dei grossi nascono le cimici e culici dai lor gra- 319 nelli putridi, il che manifestamente si rimostra, che poi che e’ sono volati via non vi si truova più alcun granello; et hanno tanta furia e voglia nell’ uscire, che di molti di loro chi vi lascia un piè e chi un’ ala. N’ è ai fichi un'altra sorte, ch’ è una grande distruzione loro, chia- mata cetina o cetena ('), perché entrano nel fico, come le api vive; e quando si veggono entrate nei fichi si deono ammazzare, entrando nei più maturi (*), et alcuna volta entratevi muoiono dentro alle sue coperte. L' umore che nella prima germinazione si genera nelle foglie dell’ olmo, se si secchi, se ne va in animali; et un altro ne produce nell’ autunno, cancrene chiamati, in assai numero, minuti e ‘negri. Sono ancora bruchi particolari nei pini, detti pythiocampi, che gli conducono male. Fa il tere- binto certi baccelletti che mandano fuori certi minuti animaletti. Le canterelle ancora sono certi animaletti che volano, di color turchino in oro, che guastano le pere e tutti i frutti e le rose. Vanno certi annuali che si guastano tutti 1 frutti da certi animaletti, e massime le noci. I gabbi vengono a tempestare gli escoli. E queste pesti d’ arbori vengono quando in un luogo e quando in un altro, più e meno, si come in diversi tempi. Le formiche sono perpetui ini- mici degli arbori, et ai cerri, quercie, ciriegi et agrumi sono una continua persecuzione; et in somma infestano tutti gli arbori. Ma agli arbori [è nemica] ogni cosa grassa, come alle (1) Forfecchie, scritto sopra cetina o cetena. (*) nei primaticci, errore della stampa. 220 pere è inimico l'olio; e tuttavia impiastran- dosi con questo, si muoiono. Alle piante no- velle tanto maggiormente nuoce per la sua caldezza Ll olio. Lo strame de’ mochi e delle fave cacciato alle radici degli arbori gli fa seccare. Il visco ancora gli conduce a mal ter- mine, e se vi sì lascia star tempo assai, ammazza le piante. Il salnitro, l allume, 1 acqua marina calda ammazzerà le formiche e tutti i bachi. (ili innesti periscono coi mestrui delle donne. A quelli che son cascati i frutti, s' abbruciano le formiche. L’ argento vivo cacciato per un foro all ingi nel tronco dell’ arbore sino alla midolla, lo conduce a perdizione. Ma fra tutti i mali che possono apportare eli uomini agli arbori è lo scortecciargli; il che molte volte avviene e massime ai fichi, quando vi si saglie su che sia piovuto, che non dopo molto si scortecciano da per loro, et anco resta magagnato il legname. Da un colpo che intruoni tutto l arbore gli procedono buona parte dei mali; et a quelli che domandano assiderati, per questo patiscono e si seccano loro le radici; ma tutti sì consumano levando loro la buccia in giro, se non se la sughera e "1 corbezzolo che ne piglia ricreazione e la rimette. Al corbezzolo, toccando gagliardamente con ferri sotto il legname, se gli toglie la vita. L'alno e l’adracne, se non se gli facci altro che intaccare la buccia, non si seccano. Ma volendo preparare i legni che ardino poi bene, e disfarsi di quercie et abbruciarle per colti vare il terreno e migliorarlo, estinte loro, non cè miglior modo che assai tempo innanzi 221 averle scortecciate; e meno bene ne patiscono quelli [arbori] che hanno la corteccia doppia, come il ciriegio e la betula. Et a certi cavata ricresce (') in guisa di pomice, et a certi fa sten- tare a fargli morire, come alle quercie, al fico et al cerro. Ma a voler finirgli conviene far loro larga la ferita, e massime quanto sieno arbori più grandi. Alcuni anco, non s arrivando a tagliargli attorno, massime in terra magra e distrutta, per le lesioni delle parti periscono. Ma tutti finiscono o tagliando lor parti, o tutte le radici, e le più principali. La palma, tosto che sia tocca nel cervello, si muore. I più degli arbori sfendendo loro il tronco sì seccano, perche Tumore esala via, et andando via gli spiriti vitali, mancano di vivere. Con tutto ciò il fico, il melo e "1 pome granato lo possono comportare. Ma cavando la midolla a qualsisia, non per questo muore già, si come si vede dei grandissimi, che voti et escavati vivono, il pioppo, la rovere e 1 salcio e ’1 castagno; gli Arcadi hanno per opinione, che cavandola pur tutta, [gli arbori] si muoiano; e gran ferite patisce il fico, il platano e tutti quelli di ragia, il pino, il pin salvatico, ma piuttosto cascano per quella apertura, che si secchino in su ’l letto. Se passando il sole per Gemini o Tauro, aleuno abbi cavata la corteccia al pino et all’ abeto che germoglia, tosto si seccheranno, ma d'inverno non lo faran così tosto, e più resistono i più robusti, come il leccio, la quercia e 1 cerro, che feriti come si vogli bastano assai, (') riesce, la stampa, SD) A alcune [piante] simil piaghe apportano ste- rilità, e non mortalità, ma, come s'è detto, il mordere degli animali pascendo fa lor più danno che il taglio, massime quando le sono per produrre nuovi germugli, si che molte diventano per questo sterili, come la palma e la picea, e molte si seccano e sì trasfigurano come l ulivo. I conigli rodono i gambi, i porci salvatichi strofinandosi gli scortecciano e talora gli sbarbano, come il castoro (*), capolevandogli nelle ripe e scoscendendogli; e le pecore [fan danno] alle piante gioveni, i cervi et i capri e le capre; e se arrivano a scortecciarle in giro, le seccano. Il mandorlo roso dal bestiame secca qualche volta affatto, come talora il pino e l’abeto, levatagli la vetta da piccoli. È mortale agli ulivi il dente della capra in tanto, che fa diventare sterile l arbore maltrattato da lei, la quale guasta e corrompe tutti i seminati novelli, sdegna le viti e le stecchisce. È velenosa la mano degli uomini agli arbori teneri, come quella delle bestie, perché se troppo spesso sieno tocchi da quelli e da queste, non si possono più rilevare e rimettere; nuoce ancor loro l'essere calpe- state. La pastinaca pesce ancora l ha un ago così velenoso, che se punga gli arbori marci scono, prima seccando le foglie e di poi il resto. Ancora sono noiosi loro gli uccelli come ai seminati, e massime ai maturi frutti, come in particolare agli ulivi le mulacchie e stornelli, et ai fichi, ma con utile, i beccafichi et i rigo- goli in Toscana. La sterilità degli arbori per (!) Fiber, scritto sopra castoro, *) 93 22 lo più è causata dal cielo, come nell’ isola di Pario. 1 salvatichi tardissimamente diventano sterili; il sorbo lo fa, sortendo luogo caldo ; all’ ulivo lo partorisce il freddo. Talora non è a tutto l arbore, ma a parte dei rami | essere ciechi a non germinare; il che avviene per natura, se non sia a caso per la cicatrice del taglio che gli abbi accecati. Ad alcuni la debo- lezza apporta sterilità, come al levar al pino la vetta et alla palma; ad alcuni la troppa feracità è a nocimento, come agli ulivi. Spesso gli arbori per propria natura pronti a far frutto concepiscono e fioriscono per l avidità e spe- ranza del futuro parto, del che vengono poi ingannati per le intemperie del cielo € per l’ottesa dell’ aere; 1 quali arbori, se seguono d’ essere oppressati così molti continui anni, diventano sterili e senza fare alcun frutto pe- riscono, né san poi i contadini ritruovarne la causa. Per troppa abbondanza di nutrimento diventano sterili 1 mandorli; e della loro ste- rilità e degli altri sono infinite le cagioni, le quali tutte è cosa difficile anzi impossibile a raccontare, essendo la minima parte delle cose che noi sappiamo a rispetto di quelle che noi non sappiamo. Avviene ancora agli arbori che inopinatamente alle sprovviste et innanzi tempo, cioé avanti ch’ egli maturino, caschino loro i frutti, come nel parto delle donne che da prin- cipio sono facili a sconciarsi, di poi nei sette mesi che è presso al parto sta appiccato forte, et in somma quando è il parto maturo, fuori esce presto. Così ai frutti da prima ogni po’ di scossa di vento o alterazione d’ aere gli scom- 224 muove, e di Jà dal mezzo tempo stanno attac- cati forte, all’ ultimo vengono maturi in terra da per loro agevolmente. Più a buon’ ora o tardi altri perdono il frutto, come i mandorli, il pero e "1 melo, e più difficilmente di tutti il fico e la palma; il che talora avviene per causa di qualche intracchiuso umore come nel fico, o che con debol picciuolo stanno pendenti. Ma le piante che tardi fan frutto sono di secca et asciutta natura, e più tardi e lentamente intu- midiscono, ma più poi prendono piede in su l'arbore; ma quelle che sono sbattute dai venti, massime che sieno con pesanti frutti, sono facili a cadere avanti che sì maturino ; il che avviene piuttosto per i venti australi che per gli aqui- lonari, i quali se sieno spessi e gagliardi fan più danno; gli aiuti fanno assai, ma più l’ istessa natura degli arbori, perché i primaticci più tosto de tardi vengono a terra. Si putrefanno ancora e marciscono sopra l arbore i frutti, si come diventano bacati avanti che sieno fatti maturi, il che accade dall’ offesa dei cieli, et anco talora dalla complessione dell’ arbore in- fermo. Racconte le malattie degli arbori, merita pregio dell’ opera dar loro i rimedi, tra i quali è più d'ogni altro presentaneo e giovevole la morchia, avendo loro d'inverno scalzate le ra- dici e sovrappostavela con debita discrezione, prima con altrettanta acqua stemperata, se vi saranno vermini o altri animaletti che faccino danno; agli ulivi, come si dirà, è di notabile operazione; e similmente mesticata senza sale fa gran beneficio ai susini, meli granati, peri )o)r Do, e meli che fossero infermi, posta alle lor radici. Gioverassi ancora loro con la cenere del forno, massime di sermenti, con l orina del bestiame vaccino intrisa di pari, e con l'acqua e con l umana orina vecchia e di pecora adacqua- tala; e sarà più utile quella più stantia alle tenere piante et alle viti et a tutte le sorte pomi, accrescendo loro sapore e bontà et ecci- tandogli a maggior copia, e massime le viti. È perche i frutti venghino più presto, è chi appruova che facendo inzuppare la tagliatura delle. radici mozze in cima e le barbicole con l’orina vecchia mesticata con | aceto, rivol- gendo e ricoprendo di loto, con spesse volte zapparvi, giovisi grandemente loro; e lo spar- gere alle radici degli arbori scalzati della feccia del vino, adacquando, gli recria. Fa lor buono seminare attorno dei lupini, e la sua decozione e utile ai pomi. Altri gli tagliano le piccole barbette come capelli superflue, o veramente cacciano un conio di salcio fra le loro radici scalzate; et a tutti gli arbori fruttiferi che mettono e non allegano e cascano loro i frutti, giova fender loro la radice principale fittagnola o le più grosse aderenti, e cacciarvi |fra|] loro una pietra o un conio di sorbo. Saranno copiosi di frutti, ponendo loro attorno al pié, sì che non lo tocchi, sterco di colombi stagionato. Acqui- steranno ancora assai e se ne rifaranno, appog- giando loro al tronco dei covoni di grano che li cinghino intorno, e il dar loro a piè paglia trita di fava e di tutte le sorte legumi. Si manterranno sani, se, scoperte loro le radici di novembre o febbraio, gli si darà quivi et al 15 226 tronco orina vecchia d'ogni sorte, con saziargli poi ancora d'acqua al tempo caldo. Nè gli noieranno i vermini, se si caccierà sopra le lor barbe scoperte, con poi ricuoprirle, sterco porcino stemperato con il liquor della vite; e rifaranno la cera et il cattivo aspetto delle foglie gialle o rossigne, ponendo alle lor radici scavate in quantità della terra polverosa buona raccolta dalle strade e serbata a questo effetto d'inverno. E se non terranno le foglie o i fiori, scalzinsi le lor barbe e quivi si cacci otto 0 dieci fascetti di favuli macerati nell'acqua, se siano grandi assai, se piccoli, meno. Se i frutti gli inverminassero, caccisi in un pertuso fatto lor con succhiello sopra il ceppo delle radici un subbio di quercia che v' entri per forza, e quelli che non rattengono i frutti, o che se gli guastano, e marciscono avanti che e’ maturino, si medicheranno con il fare un buco alto da terra un braccio nel tronco con un succhiello grosso un dito, che passi dentro sino al mezzo, commettendovi poi dentro ben serrata una ca- vicchia di qualunque legno secco, rammargi- nando il foro di fuori con cera cruda, sì che non vi penetri umore; et il legare attorno al tronco dell’arbore un covone di loglio mezzo maturo sbarbato, appresso quello, gli migliorerà il frutto. Servirà al medesimo difetto l avergli bene scal- zate le radici, e bucatele, cacciarvi dentro un subbio di corniolo, ricoprendo tutto con terra; e se sì leghi la pietra aquilina al più alto ramo in vetta, ratterrà i frutti; che, legata al pie, cascheranno. E se aleuni arbori si cognosce- ranno di patire per il troppo gran secco e 227 caldo, s' aiutino con V adacquargli in su la mezzanotte più che ad altra ora, che la terra è raffreddata e non bolle; né mai a mezzodi, che scotta. A quelli che fruttano de duoi anni l’uno si sovverrà co 1 potargli e scemar loro il peso incomportabile dei rami per fare ire la sustanza nei frutti; et agli sterili riparera il cacciar loro, come s'è detto, dei sassi nelle radici, avendole sfesse. [A] quelli che le abbino messe grandi nella superficie della terra a galla, fatta una grandissima buca, vi si facci calar dentro tutto l’arbore, et affondatovisi, si riempia di terra il tutto; ma meglio è, quando 1 arbore è giovine, tagliargli tutte quelle ‘che sono in sommo e lim ienergli quelle di sotto. Agli ste- rili gioverà ancora tagliar via tutto ‘1 vecchio rognoso e storto, e a Alle tele d’aragni che sì avviluppano tra le frondi con- viene rimediare con guastarle con le mani, et affinche non le rifaccino, ammazzare gli aragni. Quando o per venti o per salirvi su si scoscen- dono i rami, rannestinsi insieme retti da pali e legati forte insieme con buon legame di buccie, vitalba o fune, che presto rammargi- neranno, facendolo subito. Se per salirvi su molle o fangoso con i piedi sia guasta la cor- teccia e si cominci a viziare il legno, impia- strisi di loto impagliato, distendendovelo su grossamente; e se non vi sia ancora altra ma- gagna che per questo screpolato, e massime al fichi, cuoprasi le scorza con argilla stemperata con acqua dolce di torbida fossa, rasciugata che sì sia quivi prima con un panno lino. Al pome granato infermo si soccorre con mettergli 228 a pie delle radici scalzate cenere assai; et al cotogno che stia male gli è in aiuto posta al modo medesimo la calcina viva, mesticata con creta o ragia, della pece liquida stemperata, distendendola sottilmente per il suo tronco. Se sia il giuggiolo di cattivo essere, se gli strofini il gambo con una streglia di ferro, o se gli infonda spesso alle radici della bovina schietta. Rinvigorirà e farà tornar lieta la pianta del- l'ulivo maninconosa e scolorita, la sua mede- sima cenere postagli al piede; e tanto farà il letame gagliardo e stagionato. Se ’l ciriegio imputridisca, facciasegli un foro a pié del tronco sopra le radici, per il quale possi sfo- gare il cattivo umore che gli fa danno. Ai nocimenti che sopravvengono dal cielo a fatica si può sovvenire con l arte umana; e vagliono in questo le devote preci porte con pura mente alla Divina Maestà, con le ordinate rogazioni della SS.ma Chiesa: in questo s ha ad avere sicura e certa fede. Con tutto ciò contro alle brinate e contro alle nebbie fa assai aver disposti per la possessione certi monticelli di stipa o sarmenti, che tosto che elle appa- rischino, sì possino incendere, perchè co ’1 fumo si manda via così fatta infezione. Le bovine ancora et i letami secchi per le vigne, le quali sì possino accendere, tosto sì rimedieranno, ardendole contro alle brinate. Il persico sì aggiova con cacciargli dello sterco attorno e della feccia del vino mescolata con acqua, ma meglio è bollirvele dentro; et al mandorlo farà effetto, prima che e’ fiorischino, scoprirgli le barbe e cacciando sopra minutissime pietre me- DO) ina scolate con arena; ma cominciando poi a muo- vere, si levano via. I Greci scrivono assicurarsi gli arbori da ogni nocimento, e porger poi frutti copiosissimamente, se sì stropicci loro il tronco con Verba chiamata polypremmos, cre- duto per il maggior semprevivo, nel quale-sugo macerate tutte le semente non patiranno di vermini o altri animaletti. Altri strofinano le radici degli arbori co ’1 fiele di bue e credono fargli per sempre sani. Contro al gelicidio re- siste lo sterco che sia ben caldo e contro al freddo giova coprirgli con covoni di paglia intessuti insieme, o sagginali o altro a coperta grossa; e ciò si dee massime fare alle tenere piante, massime di agrumi, nei paesi freddi. Contro all uredine abbrucinsi dei monti di sterpi e di paglia, dell’ erbe sbarbate, e dei sermenti, quando sta per venire. Contro ai caldi della Canicola et assiderazione gioverà assai adacquare gli arbori di notte; e Palladio vuole che si circondi il tronco del ciriegio con l’ erba sinfoniaca, detta giusquiamo. I Greci pigliano di tre fonti un boccale per una, e dopo ito sotto ’1 sole le spargono alle loro ra- dici. Altri gli pongono incontra de’ parasoli detti ombrelle, o gli fanno ombra o gli ammon- tano attorno della terra. Giova ancora, scri- vono, attaccarvi la scorza d'un venenoso ser- pente. Contro ai bruchi vale assai il succhio dell’ assenzio e facendo lor sotto fumo co 1 zolfo vivo o con la taffetica o co ’1 bitume o co ’1 galbano si scaccieranno, e con le reste degli agli che vi si abbrucino. Altri dicono che si mescolino i semi con filiggine et acqua. 250 Democrito lasciò scritto che se una donna me- struata discinta e scalza e con la chioma sparsa darà una volta per il verziere o orto, casche- ranno i bruchi, i quali quando si dubita che abbino a dar noia ai peri, ai meli, e massime granati, gli farà continuamente morire l avere prima che e’ si piantino, e sì può di poi ancora, strofinate le radici con fiele di toro. Molti pigliano il capo della squilla e tra i lupini per più di la macerano nell'acqua, et intintavi una spugna spruzzano le piaghe dei vermi e dei bruchi, e dove faccino danno; e se così si durerà per qualche anno di strofinargli il tronco et ugnerlo, non si corromperà. Alcuni vi me- scolano cenere fatta di morchia et orina di bue et una terza parte d'aceto o calcina viva o acqua di cocitura di lupimni; altri bitume o olio di vermini, nei loro pertusi colato; altri semplice morchia e vecchia orina; certi sterco di porco o di cane dilavato con l umana orina o d'asino, e lo cacciano alle radici scalzate. Democrito stropicciava lor le barbe con la ru- brica lemnia, stemperata e battuta con acqua; altri con lupini tritati nell’ olio. Ancora è da scavare e stuzzicar bene la corteccia con un chiodo di bronzo, si che quel verme s arrivi con la punta, poi riturare il pertuso con la bovina. Ma se gli arbori sieno infestati da certi bachi rossi e pelosi, i quali sogliono persegui- tare la midolla intrinsecamente, conviene di procurare di cavargli senza loro offesa et abbru- ciargli. Il melo dai vermini non sarà roso, né meno il pero, se attorno vi sia posta la squilla. Se i frutti dei fichi sieno guasti dalle tignuole, 231 nella medesima fossa dove è piantato l' arbore, fa di bisogno di sotterrare una mazza di len- tischio ordinario, ponendovela con la punta all’ingiù capopie. I bruchi ancora s estinguono con gran calore di fiamma fatta sotto l’ arbore senza abbronzarlo, e presa una gran quantità di loro (') et arsi, s ammazzano tutti per forza di quell’ odore. E del mese di gennaio alcuni diligentemente levano via tutte le tele dei bruchi dai rami dove hanno fatto nidio, cavan- dogliele con le mani o tagliando quelle vette dove le sono aggrovigliolate, e con un paio di cesoie accomodate in sur un’ asta, serrandole a tagliare con una corda lunga quanto essa. Contro ai bruchi è ancora chi lega con un gambo di segala verde il piè dell’ arbore nel solstizio dell'estate. I pipistrelli con un filo sospesi ai rami degli arbori e le locuste fanno andar via le culici dagli arbori, et i granchi penzoloni le tirano a sé tutte. Tengono i Greci che un aglio attaccato ai rami gli liberi dagli uccelli; e strofinando il pennato che gli pota con esso, farà il medesimo; e se in su ’1 gra- nato (*) o una cucuzza s' appenderà o una rapa che non abbi mandato fuori umore che sia. Torna a dire Democrito che [sel e’ si cacci in un vaso di terra cotta pieno d'acqua dolce 0 salata dieci o dodici granchi, e messovi il coperchio lasciativegli stare altrettanti di, si bagni con essa qualsisia parte d’arbore, non (1) di loto, errore della stampa. (*) farà il medesimo che se in sul gambo, erroneamente la stampa. sarà tocca da nocenti animaletti, durando a così fare otto di, con avvertimento che in quel mezzo tempo niuno velenoso animale ne spicchi foglia; e se occorresse, lavisivi subito con bo- vina stemperata con acqua, chè così si medica il veleno di quel morso. Altri distendono della calcina stemperata intorno al gambo. Con lo sterco di porco e di colombo stemperato con acqua si medicano tutte le piaghe degli arbori. Nei luoghi umidi suole essere il fico di sapore ottuso; avendogli tagliate intorno le radici, gli gioverà mettere della cenere. Il pome gra- nato si corregge dall’ acido sapore che e’ facci nei pomi o men dolce con scalzargli le barbe e bagnarvi con sterco di bue mescolato con l'umano e stemperato, e con la vecchia orina; ciò dà fertilità e fa essere più vinoso il gra- nato, et il quarto anno dolce e pieno; et è chi perciò gli infonde alle radici sterco caprino disfatto con orina vecchia d’ uomo, messovi feccia di vecchio vino. Altri disfanno con questo un po di lasero cirenaico, con esso bagnando le più alte cime degli arborij; molti cacciano sotto alle radici dell’ arbore dell’ aliga marina, alla quale si mescoli sterco asinino o di porco; et alle vigne che patiscono mettono degli avanzi di canapa che tien sollo il terreno e fa lor bene. E molti, scalzate [le] radici rasente al principio del tronco, vi forano cacciandovi dentro un chiodo di ferro; et al cedro si fora da una parte a traverso all’ insù, non passando dall’ altra parte nel più basso d’ esso; da questo scorre l umore sino che i pomi sieno fatti; e poi riempiono il pertuso di loto, e con questo 233 tengono che s' addolcisca il mezzo del pomo. È Teofrasto ha opinione che scalzato il mandorlo amaro attorno alle radici tre o quattro diti, vi si facci un foro a scolare la pituita, [e] diventi dolce; o se nel mezzo del tronco bucato vi sì cacci un conio strofinato di mele, o spar- gendovi attorno sterco porcino, 0, se avanti fiorischino, vi si bagni con acqua calda. Agli olmi si cava un succhio forandogli sopra terra sin alla midolla, e ciò in vecchiaia; e così si fa a tutti, se abbondino di superfluo umore. All’ ulivo che non facci ulive vuole Catone che si scalzi bene e vi si ponghino attorno degli strami di legumi, aliga o argilla mesticata con bovina; e secondo che gli arbori sieno grandi, ve ne mettano. Fertilissimi si rendono i fichi, se s' infonda alle loro radici rubrica con letame e morchia disfatta, quando cominciano a met- tere le foglie. Svettando ancora le cime e mas- sime la principale quando muovono, acquiste- ranno per il medesimo. Strofinando il tronco del melagrano col succhio del ..... , mescolato con quello di porcellana, lo farà copioso, e se- condo Dioscoride, legata loro addosso la pietra selenite. A caso avvenne, credo io, in Ceppina di Lunigiana quello che per regola [Dioscoride] lasciò scritto dovere avvenire a tutti gli arbori, a un melo boccaprete infruttuoso; e questo si è che essendovi arrivato uno a sorte che grandemente prego un altro che lo volea ta- gliare che non lo tagliasse, et a sua persua- sione se ne astenne, facendo per lui sicurtà che ne farebbe da quivi innanzi, essendo prima stato sterile; e così fu. Tanto pone Zoroastro 234 per regola, dicendo che se alcuno tiratosi su 1 panni e raccolti, con i capelli annodati et avvolti, e presa l accetta con stizza sdegnato vada alla volta dell’ arbore infecondo, facendo vista con minacciare di volerlo tagliare, e che se gli facci alcuno incontro e l abbi indotto piangendo che gli perdoni, promettendo per lui che se non lo tagli darà frutto abbondante per l'anno a venire, ne farà, quasi avendo dubi- tato di non perire. Ma se son vecchi quelli che sieno sterili, divecchinsi, e se giovini gli sterili si scapezzino; e se sieno fichi, taglinsi da piede a rinnovare; e giova Vl alletamargli e scalzargli intorno. Palladio vuole che ’1 moro pertusato di qua e di là, e cacciatovi dentro due subbi di terebinto e lentisco, con questa quasi con- giunzione non pur lui, ma tutti gli arbori sì faccino copiosi di frutti. Tutti questi soprad- detti esperimenti, talora pruovati e non riu- sciti, ho io per pannicelli caldi, approvando per ottimo rimedio a ritornare in fecondità lo sterile degli arbori l annestargli a corona sui rami, rinnovandogli tutti se sieno grandi, e sendo piccoli, nel tronco; et è maggior cosa mutare un arbore salvatico in domestico, che questo megliorare. Quando certi animaletti come pulici incar- toccieranno le foglie, massime nei ciriegi, scal zato Vl arbore appresso al tronco e postavi molta cenere, ricoprendo di terra, si spegneranno. All’ assedio delle formiche si ripara con porre al tronco dell’ arbore un vaso di terra cotta di due pezzi, ricongiugnendolo insieme, tenendo- velo pieno d’acqua che le non vi possino pas- 235 sare; et un cerchio di calcina viva attorniato all’arbore farà il medesimo, o cenere crivellata ammontonata al tronco, 0 pania, impiastrandone corde che lo circondino: e se il nidio loro averì origine in terra, caccivisi dentro zolfo o origano pesto o acqua bollita; e se sia nell’ arbore, intronisi forte, o vi si cacci fuoco di paglia; et all’ arbore non saliranno, turando loro il valico con una corda che lo rigiri, di lana intinta nell’ olio; e tanto farà un cerchio di bovina fattogli attorno; l uova si guastino in quelli pertusi con un cannello, spruzzandovi acqua di porcellana mescolata con aceto; e tutto si dee fare al principio dell'inverno, avanti che scappino fuori alla primavera. Pascono le formiche le frondi, fiori e frutti, e tanto più, quanto gli truovino più dolci. Ripara ancora a questo un cerchio d’ origano, che fasci Vl ar- bore intorno, o ellera; farà il medesimo il zolfo e la pece liquida, Vl asfalto e la morchia, e ’l succhio cirenaico disfatto nell’ aceto. E s in- tende con questi medicamenti l operazione di distendere, cuoprendo per quasi tutto ’1 tronco. Plinio, st come sopra le felce si ragunano le mosche, fa menzione d’ un pesce che tutte sopra ve le ammazza, attaccandolo sospeso sopra l’arbore arso o affocato; il pesce detto Cora- cino. Palladio [scrive che] l odore di molte formiche arse fa fuggire le altre, sollevando la fiamma in aere. Dice Alberto Magno che un cuor di civetta seppellito nelle stanze delle formiche le farà tutte uscir fuori. Si sovviene al cascar de’ fiori del melag ‘ano con fasciare il gambo con un cintolo di piombo, o infon- 2536 dere morchia et aliga alle lor radici. Gioverà ’1 porlo ancora ai peri che lascino cadere le lor frutte, e poi medicati, levandolo. Il verbasco legato in su 1 noce non lascia cadere i suoi frutti o perdere. Spesse volte ancora gli arbori, o per essere in terra sassosa crudele ghiaiosa, o arena scriva e secca, fanno i frutti ronchiosi che tosto si marciscono e s aprono, 0 sono dentro sodi, per inopia della nutrizione; con- viene soccorrere con Vl adacquare, scalzargli spesso e riempiervi con buona terra attorno. Lo storcere il piccollo (') ai pomi granati, quando son presso che maturi, [farà che] non s'apriranno più oltre; et infradiciandosi le persiche o diventando ronchiose, recidasi la corteccia alla più bassa parte del tronco, e quando ne sia scolato un certo che di putrido umore, si rituri la buca, avendo impiastrata la ferita con l'argilla o loto impagliato, e dan- dogli per tre di tre boccali di latte di capra quando è in fiore, e così il pesco produrrà i frutti di gran lunga maggiori. Il sale e la ce- nere e la ruta si sparga alle radici del fico, perché non gli si infradicino le barbe. I Greci vogliono che per questo affare si tocchino le vette dei meli co 1 fiele del ramarro. Al noce vizioso di frutto duro, per cavargli il ‘attivo umore, avendolo scalzato con tagliargli tutte le sommità delle radici e pertusata la principale, [conviene] ficcarvi dentro un ran- dello di bossolo, o una grossa caviglia di ferro. I peri che fan le pere dure e sassose sì correg- (1) pixolo, errore della stampa. 234 gono co ’l piantargli in terreno delicato e gen- tile; alcuni dalle estreme barbe gli levano la terra, cavandone tutte le pietruzze, e vi riem- piono di terra cernuta co ’1 crivello. Infon- dendo agli arbori per tre di continui feccia fresca di vino quando sono in fiore, non pati- ‘anno. È opera di amorevole agricoltore sca- ricare gli arbori aggravati di troppo frutto, lasciando i più grossi, vegnenti e belli; e non si curando di guastar l arbore che duri poco conducendogli tutti, puntellinsi con diligenza i rami, che per i venti non sì possino scoscen- dere, e gli maturerà tutti, ma gli si scemerà di vita assai, e di quelli [dopo] due anni pochi o niuni ne genererà. Con tutte le sopraddette cose di medicine e rimedii, gioverà agli arbori, per mantenergli sani e che fruttifichino, pri- mamente ad avergli piantati in luoghi che si dichino loro secondo le sorte d’ essi, di poi ben custodirgli co ’1 tenergli da principio palati, gastigargli continuamente co 1 pennato, le- vando loro i rami superflui, e facendo che le lor radici avanzino sempre a doppio di numero i rami; dar loro da rodere quando n hanno bisogno, tagliar tutti i seccumi che hanno addosso, spuntare ai più, e massime ai peschi, attorno attorno le cime delle lor vette, vez- zeggiargli, accarezzargli, con rivedergli con l'occhio diliccole mente e spesso. E tutto quello spazio di luogo del miglior della possessione, che si sarà destinato al postime degli arbori fruttiferi, o gli sia data forma d'uovo, o di rotonda palla o ottangolare 0 quadra o triangolare, o d’ altra maniera che sia 235 occorsa per accomodarsi al sito che si truovi, 0 che sia piaciuto e dilettato di ordinare, si pro- curi che stagionato di lavoro e ben lavorato sia, o avvenghi che sia in monte o in piano o in costa o in colle o in valle non chiusa, cupa et ombrosa, di luogo non umido, non affogato, né suggetto a acque ferme. Il bene lavorato e buon lavoro (lo stagionato, s intende, fatto ai tempi e lasciato stare a incuocere il debito spazio d’indugio che se lì conviene) ha a farsi in stagione asciutta et asciutto terreno, dive- gliendolo, in monte o che ne partecipi, tre braccia, et in pianura due e mezzo. E quando si fa con mandar giù le motte delle fosse inca- vate sotto a franare, s' avvertisca che elle sieno disfatte e sfarinate tutte, perché quei mozzi impedirebbero il barbare, e saria come se aves- sero a penetrare le radici nel duro. E se vi sia pericolo d’ umidità o acquitrini, che possi dar noia al lor crescere e radicare, mettasi in ogni fondo di fossa che [si] fa per altezza d’ un palmo sassi grossi e piccoli alla rinfusa. Sa- ranno ancora buoni a questo i calcinacci e tutti i pezzami di mattoni e frammenti di mu- raglie; e se s' acconcino a uso di fogna, che possi avere per il calo VT esito suo, sarà tanto meglio. Arrivi il lavoro del divelto ancora ai viali e strade che s' hanno a fare, cioè dive- gliendo ancora queste, non essendo cosa più utile alle radici delle piante che trovare smosso e libero il terreno sotto da potere per tutto spaziare. Deesi adunque diverre tutto lo spazio, e poi disegnare i viali sopra ’1 divelto, che così si potrà in un tempo piantare gli arbori, 25 le spalliere e la macchia, tutto su ‘1 divelto; il quale sia lavorato per tutto et affondo, non sotterrando mai zolle e minuzzando il terreno per tutto, o sia vanga o zappa o beccastrino 0 pala, che così s appiccherà meglio ogni cosa, et ancora le spalliere che hanno a vestire i muri per dar loro vista e grazia, che però hanno a essere messe accosto; e quelle che hanno a fare sponda e parapetto ai viali, e come siepe unita di qua e di la et attorno, non vi essendo muro, la viva macchia; che tutto s appiccherà e proverà meglio in su 1 divelto. E chi non ha modo di così fatto lavoro, facci almeno le fosse aperte, grandi, spaziose e larghe che traversino tutto lo spazio, e. per il traverso della calata, non per il diritto, a causa che si rattenghi il terreno, e con fognarle sotto con buon sassi, volti allo scolo e calata del terreno. E quando non vi sia altro modo, fac- cinvisi dei pozzi smaltitoi che vadano bene in fondo, non volendo acqua; et essendovi acqua, lavorando e scavando si ritruovi, perché quel- l’acqua delle fosse e del luogo tutta si smal- tirà per quelle vene dell’acqua naturale e viva; faccinsi nel più basso luogo che sia nello spazio, e siano murati a secco con sassi grossi. È se sia luogo pendente si potrà andar più sotto co llavoro dai lati più alti, e verso il basso meno, con fare le fosse che vadino a trovare quel pozzo, e così se ne cavi tutta T umidità. E se fosse anco in luogo basso e cupo che covi e vi stagni l'acqua, faccinvisi chiaviche mu- ‘ate a calcina, o fogne sopra ricoperte di terra alta, che reggendo con la sua volticciuola non 240 guasterà il terreno, cavando di sotto l' acqua che vi concorra ad avere esito e sfogatoio nel più basso lato. Ma se ella sia una terra risolu- bile e buona, come quella di campagna, che non è veramente nera, ma resolubile e grassa, che spesso arata si sfarina e spolverizza, sfa- cendosi per i freddi, che facilmente ricevendo la pioggia Vl ammette in fondo, mandandola alle radici delle piante e smaltendola, tenera, delicata, facile et agevole a lavorare, non occor- rerà tanta diligenza di chiaviche o fogne o pozzi neri; come se sia interamente nera e grassa e più densa, che non penetri l acqua dentro così a basso; e meno anco bisogna, se sia terra nera e comodamente grassa, che sopporti il freddo e la pioggia; e se s' abbi a fare con terra che non sia più stata lavorata, rozza e cruda, o dove s' abbi a tagliare e sbar- bare una vecchia selva, che il segnale della sua bontà si rimostri per la bellezza dei salva- tichi arbori fitti e fondi, spine e pruni, con- verrà che sia ben fognata, comprendendosi da quello la sua grassezza et ‘umidità, alla quale correggere farà bene mettere in fondo del divelto molti pezzami e calcinacci e sassi. É ciò s' usi in tutti i luoghi concavi e che pen- dino, né si rilievino, e che sono umidicci, non facendo mai in così fatti sorte alcuna di frutti o pochi. Et il trovare uno spazio che vi fosse tutte le sorte di terre insieme per poter piantarvi d’ogni razza arbori secondo la qualità d’ essa che egli desidera, è, piuttosto che difficile, impossibile; e converria abbracciare non un 241 paese, ma assal provincie intere. Bisogna aiutarsi con l’arte e sanificare, difendendolo dall’ acque, il terreno grasso e buono e fondato, et acco- modarlo che s' atfacci a ogni arbore; nel quale (©) traportati, se non tutti, almeno i più arbori fruttiferi, vi faranno. E volendo assegnare a ciascheduno il sito e terreno che se gli viene et ama, è di necessità avere spaziosissimo cir- cuito di possessione, nel quale si possi a cia- scheduna sorte appartatamente in diversi luoghi d’ essa, eleggendo la conformità del suo essere, destinare il lato che e’ [si] richiede, o in di- versi luoghi d’essa piantare spartatamente, se- condo che vi si truovi dirsi (') il sito per cia- scheduno appropriato, o vero riducendo e cor- reggendo il luogo, secondo che si cognosce la proprietà dell’'arbore che vi s' ha a piantare; e così alla rinfusa, mescolando le spezie, pian- targli di mano in mano nel miglior lato d’ essa, cioè che sia delle sopraddette qualità, fuggendo sempre quegli spazii et aperture che sieno troppo dominati dai venti, che essendo fuor di misura variano le stagioni, facendo cadere i frutti e massime i primaticci, come in Avignone et in molte parti della ventosissima Sicilia e quasi in tutta Provenza. In quello di (Genova e di Toscana si riceve danno da Circio, dove piantargli a rincontro è sciocchezza et a se- conda (*) è provvidenza. Talora avviene per la morbidezza del cielo e del luogo, come nelle (1) diverso, la stampa. (2) obbliquo è scritto sopra a seconda: la stampa lo ha intro- dotto nel testo: a seconda in obliquo. 16 242 valli ombrose et acquose, e dovunque non possi punto o poco il vento, [che] gli arbori a buon’ ora fioriscono e sopravvenendo poi freddo s° abbru- ciano et arrostiscono, non avendo modo da pre- valersi del loro umore, impediti da quella fredda ombra et umidità; onde è che non possino con- durre i frutti a bene. Adunque cerchisi d’ avere buon vento al sito del giardino, si che n’ abbi mediocremente; perché così il troppo come il poco fa che non si possi riportar lode delle piantate de’ frutti; dei quali perciò, i tardii massimamente, non tutti fanno bene nei lati scopertissimi, né tutti nei luoghi di vallette e coperti. Fugghisi l intero predominio del- l Austro, perché i volti a dirittura a quello se n’andranno in fiori; tutti s' allegrano della Tra- montana, se non [se] gli agrumi, che a ridosso gli vogliono stare. Et alle piante dei paesi caldi e che ricercano sole che scotti, apportano fer- mezza e stabilità ai suoi fiori et ai frutti, con- ducendogli a maturità, e come questi, quelli che sono in freddi Inoghi et in magri ancora fanno il medesimo. E lodatissimo sito perciò la pianura e spiaggia che sia verso la levata del sole e mezzodi, st che subito levato 71 sole se gli scuopra addosso, e dall’ Aquilone un poco per dirittura, e per fianco dall’ Austro venghi battuto, che gli vadino via le brine della mat- tina e le nebbie, e che sendo in colle o in piano venghi difeso dal troppo freddo e dal troppo caldo, se non in altro modo, per via di muri, o d’'alte siepi o ripari e ridossi di salvatichi arbori posti un po’ lontani. Et in così esposti luoghi s' osservi di piantare gli arbori secondo 243 la banda che più amano, lasciando gli ulivi in assegnato luogo, i quali vogliono il Favonio, e SÌ zodono dell’aere della marina senza vederla; e tutti verso lo scoperto. del sole, come certa sorte di pomi e pere, come bergamotte e teste, che bramano il settentrione, perché più ne possono godere. Sia adunque chiuso dalla parte di mezzodi et occidente per ì cattivi venti di quei lati, et aperto a aquilo et oriente al con- trario, ada a mente che ordinando il giar- dino in luogo non così grasso, ma pendente in magro, s averanno i frutti migliori, più sapo- riti ‘e più da bastare; et in quello a contrario. Ma perché sono tanto varie le condizioni dei terreni o per la propria loro intrinseca natural qualità, o per l'alterazione dell’ aere, del sito e del cielo, che alcuni vengono meglio, come s è detto dei particolari, più in un luogo che in un altro; et ancora certi, diligentemente posti e coltivati, o non allignano bene o presto mancano, et in alcun altro luogo senza cura e diligenza, anzi straccurati, profittano; é niun luogo in niuna parte è tanto ferace e fertile, che in un tempo da queste medesime bande conduca ottimamente a bene il grano, le biade, gli erbaggi, le viti e gli arbori fruttiferi, ricer- cando talora ciascheduno di questi la sua non solo particolar terrà, ma provincia; si che né anco per comando di Ciro, come si disse, poté Arpalo alleficare in Persia l’'ellera che egli tanto bramava d’ avervi; onde merita ’1 pregio dell opera di ricercare e diligentemente inve- sticare quel sito di luogo dove possino fare le più. E questo sarà in una posizione di regione 244 temperata che di terreno e di tutto avendo in se la mediocrità, sia atta a poter ricevere più quantità e diversità di arbori di qual si sia altra. Sia il sito lontano sempre dai laghi e dal cattivo aere, vicino alla città et alla casa per più facilità della cura loro, per la bellezza e sicurezza d'esse. E [se] non si possi avere uno spazio di sito capace d’assai, accomodisene uno piccolo appartato per Vl uso della casa più familiare e vicino, pieno dei più pregiati arbori che si ritruovino; e l'altro, ove si possi più lontano, sì facci grande et agiato, più all’ aperto e più universale, facendovegli compartire dentro da quelle parti che venghino meglio accomo- dati, e più a ridosso e difesa dei venti maligni o cattivo aere delle selve; [con] spelonche, laghi fatti a mano, fonti in grotte adornati e con disegno ripieno abbondante di prati, vivai e boschetti dei più pregiati arbori di verdura, come lauri, cerasi di Trabisonda, 0, se lo comporti il paese, d’ ogni sorte agrumi et altre delizie, con pergole, spalliere, cupole, padiglioni d’arbori, di olmi, mori e quercie, sulle più importanti vedute formate in varii garbi col gastigo de’ legnami che gli guidino a che foggia altrui vogli, non che altro d’ un tempio, d'un edifizio, 0 piano a coprire a uso di pergola, e con capanne coperte di varie sorte d’arbori e passeggiate et anditi simil mente coperti di tutte le sorte di questi, pie- gati di sopra in volta di mezzo cerchio, e final- mente un ordine di stanze rinvestite di ver- dura, ordinate in maniera, che nei più bassi e concavi luoghi e freschi, per l estate ombrosi, 245 rassembrino un gran palazzo e spazioso, quale si vede oggi in Roma nella Vigna Estense. Né vi manchino pilastri, colonne proporzionate fasciate d’ ellera, muri di lentaggine, gelsomini e periploca rinvestiti, con le sue camere, sale, salotti, loggie e cucine tutte dalle bande, e di sopra rinvestite di varie sorte di verzure, che tutto si può fare secondo il giudicio di coloro che di quest’ arte, che gli antichi chiamavano Topiaria (formando ancora di bossolo e mor- tella di Spagna e rosmarini franzesi che sono obbedientissimi alle forbici, statue, figure, co- lossi, obelischi e simil fantasie), più se n’ in- tendino; e sopra tutto nella parte dei dome- stici arbori (perche nelle selve talora il met- tergli a rinfusa e di diverse sorte fa più bella vista, imitando la natura che si diletta sempre di variare) osservando di piantare per tutto con modo di misura proporzionata equidistante e con l ordine sempre quincunciale, il che darà mostra di bella vista, e gioverà alla sanità e variazione degli arbori, bonificamento delle frutte e maturamento loro. Perciocché il sole e la luna grandemente si cognosce che dien loro, come niun danno, [cosi] vivace incre- mento e durabile mantenimento, e massime a quelli [arbori] che hanno le foglie e le messe più verdi, che è il color della luna naturale; e quelli sono umidi come lei; e possin meglio fra essi penetrare et effettuare le potenze delle lor virtù. Adunque si ponghino con uno spar- timento proporzionato al sito, che si dica per ogni verso, sempre a dirittura verso Favonio; spartiscasi in più quadri, o sì veramente, com- 246 pensato tutto, in un quadro grande; e dai quattro angoli di questo quadro grande sì tiri da un. angolo all altro una linea. retta, e di poi per traverso dalla metà del quadro un'altra all’ altra metà, che verrà a fare un altro quadro nel corpo del quadro grande, e queste linee faccino i viali larghi secondo la grandezza del luogo; avvertendo che nel mezzo, cioè nel cen- tro, non arrivino le linee, ma lascino un debito spazio a proporzione del quadro grande che serva per potersi poi ornare o coprir di ver- zura 0 lasciare a prato e verdura; e sarà questo un vago e vistoso scompartimento et allegro. Ora questi quadri, o sghembi triangolari che sì sieno, s' empino tutti di variate sorte d’ arbori fruttiferi, ponendogli co ’1 medesimo ordine quincunce, accomodando in modo che se bene sieno divisi i quadri o triangoli, tutto insieme poi sia a quell’ ordine corrispondente; 0 vera- mente, variate le sorte, seguiti l'ordine degli spazii. Ma meglio è che i quadri abbino gli arbori posti dentro tutti d’ una sorte, con ugual distanza Vl uno dall’ altro, ricignendoli di spal liere tutti, o d'una o di più sorte verdure, secondo che più piaccia, osservando nei luoghi più ventosi di piantargli più fitti, e così per contrario, variando le distanze l uno dall’ altro arbore secondo la natura del paese, della posi- zion del luogo e qualità del sito e differenza delle sorte degli arbori, si come di sopra, quando si parlò in generale del piantar degli arbori, 8 è trattato. Perciocchè alcuni sono che nascon più grossi e più lunghi, che più s° allar- cano con le radici e le cacciano in fondo, ai 247 quali è di mestiero ordinare gli spazii più radi, come ai noci, ciriegi, peri, castagni e mandorli e meli. E tutti i salvatichi e quelli che son più piccoli e non hanno si larghe radici né si a dentro, si contenteranno di assai più breve lato, come allori, cornioli, sanguini e corbez- zoli; e dei domestichi i peschi, susini, mela- grani, albercocchi, mortelle e simili. Per il che sarà meglio farne quadri da per sé TY uno dal- l’altro, in quincunce, delle sorte degli arbori che più si bramano e più vi sì dicono, e mas- sime, come si disse di sopra, e non bisogna porre il noce appresso al pesco, e co ’1 nespolo i castagni, et il cotogno e ’l ciriegio; e così degli altri non mescolare i grandi con i piccoli, affinché il più debole non sia conquiso dal più potente; e certi un po’ più grandetti non ven- gono innanzi né si rilievano, che hanno in odio gli altri, e talora fastidiscono l'indole di lor medesimi, ‘restandone offesi, sì. che ricercano più spazio di quello che elli occupano col corpo loro; perché il noce fa danno co ’1 suo gron- dare di foglie a sé et ai vicini noci della sua razza propria; così fa il pero cotogno; perciò sieno posti radi, e, come si disse, osservisi ancora l'ombra di ciaschedun arbore, perché ne sono alcuni piccoli che sono di sorte di grandi arbori, che perché mandano in tondo i lor rami, come i peri et i pomi, [sono] noiosi ai ciriegi et ai lauri, che fanno i rami fuor di quest’ ordine. Alcuni sono che amano non l om- bra dei luoghi, ma della sua razza o di altri arbori; altri per contrario, come il moro, il quale dall’ ombra dei suoi non vuole essere 248 soffocato o coperto; alcuni vogliono essere più spessi e toccarsi, come i persichi, per difensarsi dal caldo del sole. Ancora, secondo la natura dei paesi e dei siti, conviene o più larghi o più stretti, bassi, alti, piani o piegati o pen- denti disporgli, tenendo a mente che nei ter- reni gagliardi e sustanziosi sì può seminare senza lor danno e grano e biade; ma negli altri, prati, con lavorargli attorno due volte l’anno, all'ottobre et a maggio. Et i salvatichi arbori sì piantino in corona da lontano a ri- dosso dei domestichi, o si vero in un mucchio dalla banda dei venti nocivi. Gli antichi Ro- mani agricoltori accostumavano fra gli arbori porre le viti, spartate sole per non tenere il terreno ozioso tanto tempo, avendolo ridotto con il governo e. buon lavoro atto a produrre ogni cosa, non sì noiando le piante per qualche anno postevi né con l ombra, né con le barbe, né meno con queste sfruttando molto il ter- reno, o in qualunque modo impedendo quello che vi si semina dentro; non lo facevano già di poi che le piante fossero di già cresciute. Si guardavano anco di mettervi cose che aves- sero a recar nocimento a quel primo fine; imperciò tutte quelle erbe che si possono man- tenere senz’ acqua vi sì possono seminare e piantare, come sono carote, pastinache, radicchi, cavoli, radici, sassefiche, maceroni, finocchi, car- ciofi, asparagi, bietole rosse. Vi sì possono anco seminare anici, prezzemoli, lattuga, agretti et acetosa, tenendosi con tutto ciò in cerchio discosto dai pedali delle piante tre braccia e mezzo e più; e da principio si lasci loro tanto 249) di spazio libero in terra, quanto aprono con i rami. Nelle viti non dee farsi, ché sono troppo fonde e vengono più presto. Ben si può fra gli arbori, quando gli arbusti sieno bene all’ aperto e piantati radi, e che sendo di cerro, quercia, pioppi, abornielli, olmi, frassini, cornioli, alberi e vetrici, sì tenghino tuttavia come si fa agli sparsi per la campagna, e nelle selve modolate per bestiami. Osservisi ancora di non piantare varie sorte d’arbori tutte in un luogo, e similmente di non mesticare le piante salvatiche con le do- mestiche, perché è cosa disdicevole a mescolare gli olmi con i frassini, i pioppi et i castagni nell’ uliveto, né i salci e le canne fra le mor- telle e ciriegi, che sono fra loro in tutto diffe- renti e contrari. Sono alcuni che intorno ai circuiti delle loro possessioni per quanto girano, sugli orlicci dei confini piantano pini, cipressi, abeti et alberi, sì come, per contrassegnare l’apparita delle case, delle volte circondano i prati che gli sono innanzi o piantano nel mezzo di essi delle sopraddette sorte di salvatichi. Io amerei così le possessioni come le case e lor praterie recinte d’ abeti o di platani, di quelli in monte, di questi in piano, et anco gli farei porre vicini l uno all altro, così nei prati come attorno alle possessioni; ma a queste tanto lon- tani dal coltivato, che non potesser nuocere al semi. E se si affacci il terreno e sì vogli l'utile, ricingasi di mandorli o mori, se ’1 paese gli comporti. Sarà ancor meglio, più lodevole e più aggraziata cosa far selve appartate dai giardini o verzieri dei sopraddetti arbori sal- 250 vatichi, 0 veramente, se siano grandi, dentro al giardino da una cantonata in un lato [avere] quercie o cerri o alberi per fare un pollaio da colombi grossi, se vi sieno soliti stanziare, accomodando in modo che non noino i dome- stichi frutti, anzi gli riparino e difendino dai noiosi venti; il che facilmente si otterrà pian- tandogli nelle teste o dai lati a rincontro di quelli. Alcuni gli hanno voluti nel mezzo dei giardini o prati, si che di questi s' entri nelle selve e boschi salvatichi, e di quelli si vadi al domestico, avendovi dentro fabbricata la casa. Ma dove 1 fiume sia, o renaio, sta bene pian- tare alberi, pioppi, gattici, olmi, ontani, vetrici, salci e simili, e massime che di questi si cava pascolo per il bestiame; e nelle istesse siepi inframmessi si possono piantare di questi simili e dei sambuchi; e di questi piantandogli fitti, fare una macchia impenetrabile. I fichi ancora Sì possono piantare dai lati delle vigne per avere la loro ombra leggera e sparsa; ancora è fra le viti grata l'ombra dei peschi, né sfrut- tano la terra. Gli ontani, gli alberi, le vetrici, 1 salci, i saliconi et i gattici fortificano le ripe dei fiumi, mantengono gli argini e sono muri forti contro alle rovinose acque e torrenti; e quanto pi si piantano vicino all acqua, più fan riparo e sì possono piantare più fondi e se ne cavano più legne, perché rimettono da pié cespugli e polloni come il frassino, e il lor seme che caschi nei renai nasce e così sì può seminarveli. E tutte queste salvatiche piante stanno bene dalla banda di tramontana, perché così poste manco nuocono con la loro ombra, 251 Per fare poi le strade coperte e gli andari chiusi e serrati, spalliere basse e alte, servono così le salvatiche come le domestiche piante, perche tutte [si adoprano] andando in sui mo- delli delle armadure e tirandovele sopra coi legnami, che sotto se gli hanno a fare di ca- stagno; e soprattutto s' hanno a eleggere di quella sorte che stieno sempre verdi, e mas- sime dove abbi ad occorrere di recrearsi sotto la estate et avere il fresco. Cosi le cupole o padiglioni e tabernacoli che li inframmezzano siano della medesima sorte; e non si curando di perpetua verdura per il verno, bramandola per l estate, sì possono ricoprire d’ ogni e qua- lunque sorte di frutte domestiche e salvatichi arbori. Il cipresso, V alloro, il bossolo e la mor- tella di Spagna e la lentaggine sono molto docili et obbedienti alle forbici. E un poco meno arrendevole il leccio e l agrifoglio e la sfiocina (*), ma con la pazienza pigliano ancora questi come ogni altro la piega che altrui vuole e si arrendono a ogni guida. È sopra tutti pieghevolissimo il moro, consentendo per tutti i versi che si vogli; et appresso questo l olmo. Le spalliere alte accosto ai muri ci sono chi le ha fatte di nocciuoli e di viti, di rosma- rini franzesi e di mortelle di Spagna, peri cotogni e meli granati; e per verdura continua lauri, ellera, agrifogli e cerasi di Trabisonda, aranci, limoni e merangoli, dove gli comporti il cielo, e cedri e tutti gli agrumi. Ma dove (!) spocina, errore della stampa. 292 sia gran freddo l' ellera è buona per le alte e basse spalliere; e per queste fan bene gli spighi, le salvie, il rosmarino e tutte le mortelle e sorte d’agrumi, gli sfiocini, gli agrifogli et i corbezzoli. Queste spalliere basse s' hanno a fare per bellezza et anco per tenere che dai viali non si possi così in un tratto saltare nel verziere. Hanno a essere piantate in tre doppi per dar loro forma di muro, condensandole e tenendole condensate e ramacciute insieme, e massime di lauri; imperciò ridotte poi uguali, co ’l filo tirate a sesto da ogni banda e di Sopra piane o bistonde, mantenendole a terra col tagliare ove bisogni di quà e di là dalle viottole del giardino, secondo che e’ durano, faranno bella vista e riparo. Di bossolo son come muri; questo amavano gli antichi, oggi sì disama per causa del tristo suo tanfo, e sama la lentaggine e le mortelle; e quelle di Spagna minute e le larghe di Catalogna sono aggarbatissime, e più di queste che delle altre durabili. Si disse del far la siepe agli arbori fruttiferi e di tutte le sorte chiudende, di sal- vatichi pruni; ma si possono fare ancora tra i domestici (') di pruni salvatichi mescolando, e di peri cotogni, tutti tenendo a siepe, come di pomi granati e di rosai domestichi e dei sal- ratichi rossi incarnati che fan la rosa di cinque foglie, ottima a far aceto, come di quelle di Damasco e di quelle basse salvatiche e quelle bianche doppie. Il rovistico piantato fitto fa macchia buona e si può col taglio ridurre (') tutte domestiche, la stampa. 253 uguale, come di pruni bianchi e di roghi, che avvertendo di propagginargli solo co ’1 far loro arco spesso in terra, si farà insuperabile; ma faccinsi tutte secondo il luogo e qualità di terreno; perciocché sendo umido, e potendovisi temer rio che corra da fiume, o qualunque avervi acqua d’ intorno, facciasi un fosso da tutte le bande che stia tuttavia pieno e con le cateratte murate, accomodato in modo ch’ egli abbi la calata da scorrere, e vi sì potrà tenere tinche, persi e pesci di fiume o anguille; e piantinsi poi gli alberi su la ripa e in su Vl orlo del fosso dalla banda di dentro in su lo scancio. Ma se vi sì truovi acqua stagnante, della pio- vana, o che vi corra o nasca poco sotto di vena, faccinsi tanto più larghi e profondi, si che non sì possin valicare; e sia tutta la terra che si cava gettata in foggia d’argine dalla banda di dentro in verso il giardino, si che facci un altro bastione, il quale ha a essere rinvestito di sterpi che regghino la terra che la non rovini giù; e voleudola erbosa, cavinsi certe piote quadre d'un prato, et attestata luna con l'altra, si ricuopra tutta di quelle, o sì vero vi sì semini sopra del seme di buon fieno. Per sterpi saran buoni i vimini et i ro- vistichi. Ma perche i muri saldi e gagliardi, fabbricati con sassi buoni a calcina, condotti bene e forti, sono i migliori, più belli e più sicuri ripari che si possino fare ai giardini, si dee dar opera d’ averlo circondato tutto di muro; e massime che questi di dentro e di fuori, ma più di dentro, sì possono vestire e copertare tutti di verzura e di perpetue spal 254 liere, et accomodare le piante ai siti e volte loro, come che a tramontana quelle di leccio, d’ ellera, di lauri, agrifogli, lentaggini e cerasi di Trabisonda; a mezzodi tutte le sorte d’ a- grumi e meli granati, peri cotogni, albercocchi, persichi e peri d'ogni sorte; a occidente tutte quelle che a tramontana, di nespoli e len- tisco; et a questa parte et all’ altra si può accomodare ogni sorta di salvatica pianta e di fruttifera. E se bene le domestiche ristrette non ne faran copia, [ne] faranno con tutto ciò qualcheduna; e lasciando sopra la spalliera una cima d'esse a ogni tanto che si spanda in ro- tondo e s' alzi due o tre braccia, ne farà lassù comodamente, facendole avanzare a giudizio del paese, sito e luogo, e del giardiniere. Gli antichi accostumavano assai nelle loro spalliere il bossolo, e non è dubbio che per i fitti, fondi e copiosi rametti, e piccole e spesse foglie, con le quali così foltamente per tutto ricuopre il legno, rimostrando sempre la verdura, se gli può dare che forma luomo vuole, e non ch’ altro si fabbricheranno aggarbati animali et umane figure, navi, barche, torri, muraglie, fortifica- zioni, case, aguglhie, colonne, tavole, architravi, archi, pilastri e sedie. Ma quel fetore ch’ egli dà è noioso, né vi si può rimediare, perché piantandogli appresso mortelle, lentischi, rosma- rini e le più odorifere che sì truovano piante, con tutto ciò supera co 1 suo puzzo il buono seto degli altri. Ma per chi non si cura di questo, non [si] può aver la più stabile, la più sicura pianta e ferma di questa;-.e se bene l hanno per maninconiosa come ’1 cipresso, non 255 pare né è; tuttavia nel presente tempo s' usano [piante] variate di più sorte; e le di bossolo, poco o niente s' apprezzano. Perché di vero dove elle si possono avere, mantenere, condurre e traspiantare, sono molto più rare di aranci, di cedri, di limoni e merangoli, e nei luoghi dove così. comportano, sì possono accomodare da tutte quattro le parti dei muri del giardino, e massime da tramontana, dove talora si vede che nelle loro regioni fan meglio, e quando poi si mandano alte sono belle, vistose, allegre, e quanto più unite e rasenti le une alle altre, come un braccio e non più, ma discosto un mezzo braccio dal muro e più, e che s' addiriz- zino sopra ammandorlati di legname, rendono più frutto che accosto. Ma ellera, i melagrani, i gelsomini, la mortella, la green 6 ol rescente sempre vivo e la periploca, benché di queste sorte ce ne sia taluna che non regge l invernata, ma per l' estate verdeggiano, e queste sono molto più belle e dilettevoli, se bene non così durabili; et avendo un giardino di giusta grandezza vi faran bene queste tali, eccettuandone il bossolo, che fa bene per le corti et intorno ai vivai e giardini segreti et orticini, mescolato con la mortella, la quale rattiene in sé buono odore, benché co ’1 tempo se gli ingrossi troppo il gambo, onde si sfronda e diventa vecchiereccia e non regge al martello ; et è buona per spallierette a terra un braccio e mezzo, perché se ella si mantiene bassa e che ogni due anni ella si tagli fra le due terre, averà "1 suo vigore. Ora in un giardino quadro che ragionevol- 2596 mente sia grande, e si puo metter da capo (cioè da quella prima parte di dove vi s' entra e vi è la porta principale) che ha da essere in un andito lungo e largo, bene spallierato di verdura di quà e di là; poi quella del giardino a rincontro di questa, posta nel suo muro una spalliera d’ellera con un feston» da capo al muro, o vero festone spezzato se vi sono fr: merlo e merlo, et ordinato in così fatta ma- niera che egli rappresenti uno spezzato archi- trave, e ciò sia dalla banda di tramontana. Da mezzogiorno è da porre aranci e limoni con qualche cedro, e merangoli; e non vi essendo con le barbe, annestarvegli, e noiandoli il vento, che simili roste non se gli reggessero, mettervi a ogni quattro braccia un gelsomino, mandandogli dietro alla spalliera; e sopra il festone si farà conficcare certe palle con i ma- nichi lunghi un braccio in circa, di legname, e su mandarvi quelli gelsomini che le copris- sino; e similmente sopra il festone dell’ ellera, per non aver ancora lei da far le sue roste, s'ha a fare il simile effetto, o in altra foggia variata a piacimento, pur di legname d’ olmo o di castagno o altro legname, come arcipresso, che regghi all’ acqua, e su mandarvi l ellera che le coprisse; con che uscissero sopra a quelli palchi o busti o trofei fatti che appa- rissero uomini o femmine, che comparirebbero molto bene, e questi servissero in cambio di roste pulite e ben gastigate, e che le spalliere e festoni con le roste et altre invenzioni sieno assettate e tenute di modo che una foglia non smagasse a uscire del luogo suo quanto è un 257 nero d’ugna ('). E dirimpetto i melaranci, in luogo dei quali, non vi facendo, sì può porre lauro regio, agrifoglio, lecci e lentaggine, mele granate e peri cotogni; ma che i peri non ser- vissero per ispalliera, ma che andassero dietro ai melagrani, et apparissero in bella forma agguagliati sopra il festone, e che ogni quattro braccia fosse una rosta di melagrani, una di - cotogni et una di nespoli annestati in sui co- togni, et un azzeruolo annestatovi ancora lui, e così seguitando di quattro in quattro braccia insin da piè. E che l’anno, di maggio, quando è vestita questa spalliera di melagrani, che i suoi fiori fan bellissimo vedere, e massime di quella sorte che senza frutto fanno i balausti soli che sono degli altri maggiori, sia rivista e ritocca tutta e conguagliata. E questa fra l'altre vuole essere molto ben tenuta, serrata et intrecciata con buone gelosie et ammandor- lati di spaccature di castagno, o vermene grosse d’ olmo, si che elle ricuoprino bene dette ge- losie; et ancora si faccino d’ ontano o carpine ben confitte da reggere assai tempo, affinché in su 1 buono dell aumentarsi la spalliera non ci lasci e ci venghi meno fra le mani; e tenere le spalliere grosse in modo che elle ricuoprino bene dette gelosie. E all’ entrata del giardino, sendo la porta nel mezzo dal lato di verso i melagrani, farassi una spalliera di lentaggine o allori o rovistichi o cornioli fatta a modo, mescolandovi mortella. di quella larga di Cata- logna, o della minuta delle altre provincie di (1) Poca pulizia dei tempi soderiniani. 258 Spagna, col suo festone in roste variate da alto a basso, e dall’ altra banda metterci gel- somini e madreselve, facendogli al solito il suo festone; e per le sue roste faccisi mettere in ogni cinque braccia un cesto di ginestra che andasse dietro alla spalliera, et apparisse sopra per finire e corrispondere all’ incominciato com- ponimento, che col tempo sarà bellissima a vedere si alla primavera che all’ estate, all’ au- tunno et al verno, che per ognuno vi sarà la parte sua, e foglie e fiori e frutti e verdura. E fornite le spalliere sì metterà da capo al giar- dino, nel mezzo della viottola principale, diviso il giardino in croce, un bel tavolone di pietra; e dietro ad esso nella spalliera d’ellera si potria aver qualche figura di pittura di chiaroscuro o colorita in fresco, che apparisse da discosto, o veramente un figurone di marmo carrarino, che in quel verde scappasse fuori mirabilmente, con il suo pratello aovato, intorno fornito di spalliere basse a proporzione, con un cupolone di castagno ben lavorato, coperto di verdura d’ellera o altro, con i suoi muricciuoli attorno sotto, che circondino V aovato con un’ altra spalliera di verdura dietro variata, col suo sal- vatico di quà e di là e per tutto, che tenghi da quella banda e per tutta la larghezza del giardino, e sia d’ abeti fitti o arcipressi folti o allori, dentro ai quali sieno accomodate in su pilastri le teste grandi di tutte sorte animali fatte di marmo bianco, che in quel verde fa- ranno una vista bellissima, e massime se vi fosse acqua, che tutti potessino gettarla per bocca; che pigliasse un quattordici braccia lon- 259 tano; dal muro al salvatico una viottola, che sia larga a proporzione dodici o quattordici braccia, et il resto boschetto fatto con misura, con i suoi andari da un lato coperti a cupola, lasciandovi una testa per una ragna nel mezzo di questa metà, che divida in due quadri parte di detto salvatico, e quivi sia un andare a chioc- ciola che si riduca a un sedere rotondo in quel mezzo tutto di verdura, e nell’ altro quadro fosse una viottola che lo circondasse attorno e di poi entrasse per una porta fatta di verzura in un verziere, che fosse la mostra di tutta la verzura che fosse in questo boschetto, che vorrei ve ne fosse di tutte le sorte che tenes- sero la foglia linvernata; e dall’ altra banda del cupolone facendosi due stanze di verzura che s entrasse per una porta sola, la quale fosse su la viottola di verso la spalliera del- l’ellera, che una fosse la cucina e questa la più discosta dal pratello, e l altra una dispensa da tagliare, imbandire e tener le vivande e guardarle, di tavolato, con certe buche fatte nella spalliera che riuscissero in su ’1 pratello per porger di quivi le vivande; e di poi un’ altra viottola tra ’1 boschetto e ‘1 giardino, che abbracciasse tutta la larghezza e la spalliera di fuori. Io amerei che ella fosse tenuta più pulita e meglio gastigata di niuna fatta, si che niente trasparisse al di dentro; e dal lato del giardino fare una spalliera di rose in balconate, mescolata con quelle di Damasco, che mettesse in mezzo la viottola, et a ogni quattro braccia un cesto di ginestra mandata alta, tenuta armata da una spalliera di castagni; e per i 260 viottoli ordinariamente tutte le viti variate e di belle sorti, cominciandovi dal principio a mettere con lei viti di lugliole, sancolombane nere e bianche, di tre volte nere e bianche, i trebbiani neri e bianchi, le gallette nere e bianche, insino da pié, poi paradise, agnole, pergolesi bianche e nere, zibibbo, e gallette, e di quella che si chiama di Jerusalemme, per tutti i viali ultimi. Per la viottola del mezzo, messe buone colonne di quercia o castagno investite di verdura e coperte tutte, non si potendo di pietra o marmo, palate con buone traverse confitte, et in tutti quanti i quadri una colonna almeno di pietra con un vaso sopra di terra cotta aggarbato, che tenesse un cedro da poternelo levare il verno e riporre l'estate; tenute di poi pari le spalliere delle viti e per ordine. Per tutto vi metterei tutte le sorte di viti di uve buone che sì ritruovano, e nei quadri del giardino per certe viottole fatte per corre l erbe, certe spallierine basse e tutte variate di spigo, rosmarino, salvia, mor- tella di Spagna, pugnitopi, assenzio, abrotano, sermollino, rosai rossi da Damasco, di quelli piccoli piantati capopie per fargli nani, e si- mili fantasie; e da poi di dette spalliere, lungo il viottolo, fragole e vivuole mammole ('), et in sui canti dei quadri dietro alle viti, dove un rosaio di Damasco scempio e dove un doppio, e dove un lauro silvestre e dove un massimo, e così andar variando, tanto che si riempissero ; dispartiti di poi 1 frutti, tanti per quadro, che (1) monnerole, errore della stampa. 261 tutti a corda sì dicessero, secondo | ordine quincunce per tutti i versi, d'una sorte in un quadro, in un altro d'un altra, con un altro tutto di rare sorte, col farvi ancora gli orticini rilevati intorno al muro così alla rozza, di verso il sole i vivuoli et i garofani, et ogni due braccia (!) uno dei bianchi et uno dei rossi, e tra l'uno e l'altro o capperi 0 persa 0 timo o altre erbuccie, formati in varie fantasie, come vasi, navicelle, galere, animali, gabbie da uccelli e simil cose; e dove non fanno i vivuoli, poni er- buccie in certi quadretti ricinti con mezzane e mattoni per testa mezzi sotterrati, e poi ripieni a quel pari che faccino spartimento in ottangolo, con mandorlati pur in ottangolo e simili, con più piacevol disegno e vistoso che vi si possi accomodare; et in alcuni luoghi tutte l’ erbe, tra le quali sia un raccetto di iacinti tutti non mescolati con altre erbe, et in altri d’ altre, come uno di vivuole mammole, uno di mu- ghetti (*), uno di musco greco, uno di rosai bassi, e così degli altri per insalatine. Ma se il giardino che s ha a formare sia in luogo di monte che sia ben conguagliato, 0 in collina, o in costa, o spiaggia, o vallata aperta uguale inchinata, conviene avere un poco più d avvertenza a divisare le strade et i viali per i quali si possi andare in sù et in giù agevolmente, e che in tutti i modi gli abbino la corrispondenza l’ uno con Y altro. Imperciò considerinsi bene i siti et ordininsi (1) et ogni due di loro, la stampa. (*) margherite, la stampa. 262 secondo quelli; e se gli sarà in monte aspro a salire e scendere e ritorto in sé stesso, et in qualche pendice scosceso, bisogna osservare i modi della dolcezza del salire, e fare certi andari e sentieri per costa e traversati a spi- napesce, 1 quali sieno rinvestiti di qua e di là di spallierette basse d’ ellera, di pugnitopi, di agrifogli gastigati bassi, di lentaggine e simili, che da ogni banda gli rinvestischino. E se si desiderino strade coperte, queste sì potranno indirizzare d'ogni sorte arbori, mettendo loro sotto i modelli dei legnami, sopra ai quali saccostumino a ire; e fermi poi che egli sieno, custodirgli che si regghino da per loro; et in qualunque sito si sieno i giardini, conviene fare in modo che gli abbino dell’ acqua per tutto e massime per gli orticini che si faccino murati da terra alti un dito, rasente a dove sì faccino i muri delle spalliere o altri, larghi due o uno; e non sendo il luogo capace, con certe pilette fatte a nicchi, o altra foggia di pietra a ogni tante braccia; e così da poterla far andare in casa sino in cucina e nella stalla; e fuor di questo, tavoloni di pietra si grossi che vi si facci dentro un canale in mezzo che la vi corra, e a ogni tante braccia in un vaso a nicchi a uso di rinfrescatoio, al medesimo piano della tavola, che vi sia fatto un po’ cupo, risalti e v entri dentro riempiendolo, e scor- rendo poi in un raccetto che cali et abbi più capi da scolare l’acqua in un luogo, di donde la sì cavi poi a adacquare, senza spandersi 0 perdersi; oltre alla bella vista. Così, se saranno in monte, costa, poggio, spiaggia, colle o col- 265 lina, cerchisi di condurvi Vl acqua 0 per acqui- docci murati coperti o scoperti, o con fosse, dai più alti luoghi, affinché ella si possi far andare per tutto e nel pin basso possi effet- tuare una fonte che alzi Vl acqua quanto più si può; e per le calate o viali facci certe ragu- nate d’acqua che per di sotto la mandino negli altri viali e nell’ altre ragunate sino in fondo, dove sia poi tutto lo scolo dell’ acque da fare un gran vivaio o fonte o truogolo ‘d’ altra ma- niera, come più paia, e tanto in questo quanto in quelli di piano a ogni capo di strada, in ogni larghezza, in ogni mezza piazza o prato, starà bene una fonte; e per tutto ove si possi accomodare, fonti in grotte di lavoro rustico, o di tartari, o sotto monte, o fra massi, che pai (*) che l acqua scappi d’ essi, o fabbricati a mano o in altro modo acconcio, staranno sempre bene che rappresentino o caverne, 0 luoghi concavi ovati di belle pietre da fonte, 0 spugne, che tutte colino acqua o la spicciolino, o vi sieno inframessi zampilli a saltar fuori, o bagnar di nascosto, o fare altri scherzi che con l'acqua si possono fare, come che farla scorrere in un grandissimo vaso aovato, ca- pato (*) largo e grande, ove si possino fare stare de’ pesci vivi, et un altro simile senza pesci, che abbi un piede alto alla misura di due uomini, che trabocchi l acqua ugualmente dagli orli a fare un lenzuolo sottile attorno d’acqua, dove si possi star sotto senza immol (') purché, errore della stampa. (2) capace, altro errore della stampa. 264 larsi, e traspaia. Faccinsi fare diversi moti a statue con Vl acqua, e satiri che suonino zam- pogne et altre musiche, e tripudi e canti e suoni e rimbombi diversi, e non ch’ altro, un paio d’ organi che suonino con buon concerto, ché tutto si può fare. Deesi ancora aver delle fonti segrete ben fatte di coralli e pietre rare, che per una cannella faccino buon mormorio nelle sale e nelle camere appartate e segrete, per far dormire, e nelle loggie; et in somma in tutte le stanze terrene della villa ove sì possi fare andare l acqua, non se ne dee man- care, e fuora dargli esito in varie forme. E come s' è trovato oggidì, ponendo sopra dove con furia la fonte gitti all'insù, una cosa come un fungo che abbi il cappello doppio, ma quanto è un quattrino di grossezza e meno rasente, e si soprapponga l uno con l altro; percotendovi l’acqua dentro, darà ugualmente da ogni banda una tela sottilissima d’acqua ('), che calerà sino in terra senza interrompimento che sia, e si farà più e manco dilatare secondo la grandezza del fungo e restringimento dell’ un coperchio con l'altro, dove ella ha a passare. Puossi far dare in un mulinello, in una ban- diera, et anco farvi mettere una palla che sia di metallo, che avendo dentro come un ritre- cine di mulino facci di fuori volteggiare per- petuamente una figura o altra cosa leggiera che vi sì metta. Le fonti hanno a esser fatte a capriccio, sempre mutando l'invenzione di nuovo, e nel (1) di sé, corregge la stampa. 265 più conspicuo luogo le più belle, accomodate con vari scherzi d’acqua, con zampilli di sotto, dalle bande e ancor di sopra, che con furia immollino e faccino l acqua ricrescere in un subito a bagnare; tanto più ficcansi gli zam- pilli nei sedili, e sì fanno nei piombi in cinque o sei doppi, e così nel suolo dei pavimento; et in alcuni luoghi far imitar con essa il fischio degli uccelli, e rimbombar varie voci con la forza del vento racchiuso e dell’ aere, et atteg- giare vari animali et uccelli con le lor membra che vive paiano, e figure che gettino acqua insin da’ capelli spremuti con mano; e zampil- lare da diverse parti della persona, come per le dita, per il naso, per gli occhi e per bocca. Nelle grotte poi far venire acqua furiosa da immollare le genti all’ improvviso, con un gran caraffo d’acqua che sbocchi da un muro, aprendo una cateratta che cuopri e quasi annieghi uno dal capo ai piedi tutto in un tratto, avendolo fatto guardare all’ ingiù, dan- dogli ad intendere scoprendo una pietra che sotto vi sia gran copia di pesci, mentre vi con- sidera e guarda; et alle grotte fare una volta doppia che fra luna e l altra tutta stia alla grossezza d’ un braccio, piena d’acqua, che in un tratto, sotto sturate le callaie, la faccino tra- boccare presto a coprire chiunque vi sia sotto a vedere sino al ginocchio, inondando tutto quel piano in un attimo, che si chiugghi al- l’entrar dentro da sé, si che non possi uscir- sene che molle zuppo fradicio (') bagnato; et (1) sudicio, la stampa. 266 accomodare arbori rinvestiti d’ ellera, che sotto quella per cannelle vadi l’acqua all’ insù diffon- dendosi per i rami, operando che tutti i rami piovino sgocciolando dalle punte e dalle foglie, et in su la forca assettare tavole, et aprire, ricoprendo a cupola et a padiglione, in modo che largamente vi sì possi stare, ponendo la tavola in mezzo a mangiare, e sia grondante sempre l acqua da ogni lato; et in piana terra scavare laghi pieni d'acqua, che abbino in mezzo un isolotto congegnato con tavole, di modo che sendovi posta una tavola da man- giare, sì facci in un tratto affondare tutta la brigata che vi sia per ciò; far ponti levatoi da capolevare nell’ acqua, e simili fantasticherie. Ancora farà bella vista accomodare uno spazio ragionevole in foggia di stagno aovato o ottan- colare con un isolotto di terra dentro, che sia capace d’ orticini e vasi, con un cupolone co- perto di verdura in mezzo, et una tavola corri- spondente alla forma di quello, murato attorno, con muricciuolo in capo al muro, coperti di verdura fronzuta, che in ogni angolo o nel giro a ogni tante braccia abbi un animale acquatico che getti acqua per il becco dentro allo stagno, che sciali in qualche lato più basso da dar acqua alle terre. E sendovi grande abbondanza d’acqua, faccinsi diversi rii che trapassino per il giardino dai lati a traverso e nel mezzo, cavalcandosi lun sopra l altro ove lo concederà il luogo, per farla arrivar per tutto, spartendola in diversi rami a ritro- vare ogni riposta parte e cantonata del giar- dino; e sendovi prati segreti d’ erbe ordinarie, 267 ad allagargli et inzuppargli d’acqua, secondo il bisogno. Se lo dia il sito, che sia costa o spiaggia pendente, far andare da capo un gran canale che abbi in sé gran quantità d’acqua, e farlo sgorgare per diverse cannelle in un altro canale sotto a quello, solo lasciando una strada in mezzo da potervi passeggiare, che abbi simili cannelle a trascendere in un altro, sotto assettato al medesimo modo, e così se- guire fino all ultimo; e poi tutti arrivino a fare un grandissimo vivaio che abbi le sue sponde copertate tutte di verdura, e nel mezzo una grande statua o colosso che pigliando acqua da quel primo, gli risalti l’acqua addosso per ogni verso. Non hanno fine le varie invenzioni delle diverse bizzarrie che si possono fare con l acqua, quando che questa fa battere il ferro, tirare il ferro in fili e metalli, tirar le lame, e battere di tutti questi, far le crune agli aghi et i ca- perozzoli agli spilletti; le gualtiere dei panni, le gramole del lino con questa si fanno fare la loro opera, e similmente andare i fattoi del- l’olio, i pestoni da batter la polvere, le ruote da smerigliare le armi, et i mulini da maci- nare il grano. Ma se non sia nei giardini che s hanno a fare acqua naturale, procaccisi con gli instrumenti manuali e con l aiuto delle bestie l’acqua artificiale; e con vari ordigni si facci dai luoghi bassi per forza salire l acqua negli alti. Quantità grande ne sollevano e tirano fuori le trombe ordinarie, o siano fatte di me- tallo o di legname, ma quelle van più giuste e meglio lavorano e sono più durabili e sì 268 possono fare agitare da poca forza d’ uomini, temperandole bene; et ancora per via di ritre- cini e ruote con un cavallo. Ci sono ancora le norie (') cavate da Vitruvio, che sono un ordine di secchie ferme in su’ canapi d'erba; quando son di legno o di terra cotta o di cuoio o di zucche, e quando sono di rame, appuntate in su catene di ferro, accomodate in sur un roc- chetto di ferro commesso in una trave per piano, che è mossa da un ritrecine dentato, fatto andare con una stanga attaccatagli in mezzo, girata da un cavallo; e queste tiran sù una grande abbondanza d’acqua, alta quanto si assetti l instrumento. Ecci la cloaca di Vi- truvio. Et alcune canne s ordinano ancora per forza di vento, con il vento istesso, per la ragione che così come la natura non ha fatta cosa alcuna indarno, così non permette che luogo alcuno sia del tutto vacuo; e che dove non è aere entra l acqua, e dove non è acqua entra l aere; e l’acqua, preso il possesso del- l’aere, perché non rimanghi vuoto quel luogo, va all ins, come è manifesto, e segue continua- mente, mentre v'è acqua, di farla andare; la quale finita, vi rientra l aere, e resta l acqua di più andarvi. Sonoci instrumenti di metallo fatti con trombe corte, i quali per forza di stantuffi mossi, o da altra forza d’acqua o da uomini o animali, tiran sù acqua gagliarda- mente. Et accomodando una macine da mulino rotonda perfetta, che tocchi appunto e suggelli bene attorno a un pozzo fatto tutto di pietre (1) Nari, errore della stampa. 269 lavorate o di mattoni lisci ben cotti, et avendo nel foro della macine commessa una canna di rame che arrivi sopra la sponda del pozzo quanto altrui si vogli, mandata in su 1 piano dell’ acqua, la premerà e graverà di modo col peso di sé stessa, che l acqua schizzerà fuori per quella canna; e quando resta di farlo, ri- tornisi la macine sopra T acqua con la forza di due mulinelli, un da un lato e VT altro dal- l’altro, o altre lieve che con facilità V alzino; e di questa maniera sì caverà Vl acqua, quanta ve ne sia, dal fondo pozzo. Et ancora facendo una volticciuola di muraglia di mattoni sopra l'acqua del pozzo un braccio, e facendovi nel mezzo due fori, uno che vi sia attaccata la bocca d'un mantice grandissimo a proporzione della grandezza del pozzo, ben suggellata, che passi nell'acqua un braccio e mezzo, e Vl altro foro abbi una canna di metallo che vi sia assettata appunto e di sotto passi nell’ acqua un braccio e mezzo, e l altra parte esca fuori del pozzo, quanto si desideri fuor d’ esso 1 acqua alta; poi si facci con una lieva e contrappesi alzare et abbassare e gonfiare quel mantice, che allora si vedrà che la forza dell’ aere ristretto manderà per l'altra canna 1 acqua in alto; perché non avendo esito, per forza ritrovata quella strada ne uscirà fuori, si come una mina, non avendo uscita, esce fuori il fuoco per la caverna, e non trovando da esalare, si leva in capo, e soqquadra ogni cosa. E l' espe- rimento detto si pruova ponendo in bocca d'una guastada due fili di paglia uguali che vi stieno fermi, e fasciati da cima sl che [essa] 270 non sfiati, e gonfiando con bocca uno di quelli cannelli farà dar fuori V acqua per 1 altro, e così riuscirà nel pozzo. Ma bisogna considerare che se a una guastada ordinaria bisogna il fiato gagliardo della corporatura d'un uomo, quanto gran casse di mantici converrà a far muovere quella del pozzo, avvertendo ancora a far la canna che ha a dar fuori l acqua pro- porzionata alla forza del fiato del mantice, che possa sollevarla e fuori in alto mandarla, dando sempre il vantaggio che tuttavia a proporzione di grandezza avanzi in tutte le parti il man- tice; il quale, accomodandolo ancora sotto l’acqua che se n’ empia tutto, et abbi minor sfiatatura una canna che saglia sù fuori del- l’acqua premendosi con gagliardi pesi in alto di fiato o vento, darà fuori dell’ acqua, poi allentato si riempirà d’acqua, e ristretto la farà di nuovo saltar fuori. Così con ingegni di lieve e congegnamenti di ruote seguirà conti- nuamente, abbassandosi et alzandosi, di man- darla suso. Ecci chi ha pensato ancora al moto perpetuo, ma questo resta ancora come l idea di Platone e la quadratura del circolo di Ari- stotile; cose tutte che talora potria essere ch’ elle fossero per potere essere, ma non sono state che si sappia, né tampoco si vede ch’ elle sieno, come talora da potersi sapere, ma non già sapute. Come si sia, per esser l’ acqua l'anima delle ville e dei giardini e degli orti, o naturale o artificiale, in abbondanza con- viene averne; e così come gli uomini dove- riano sempre abitare alla marina in terre soprapposte a quella, similmente avrebbero 271 sempre a eleggere le ville che avessero acqua in copia. Amavano in tanto gli antichi Romani la comodità dell’ acqua, che non risparmiarono già mai qualsivogli grossa spesa per fare acqui- docci da condurla, e cotanto ne furono vaghi che e’ sì veggono ancora oggi da’ fondamenti le vestigie d’ una volta di spugne di pietra spugnosa, che facendovi andare sopra acqua copiosa per un poco vi stagnava, e pol a poco a poco penetrando e trapelando per i fori d’ esse, cascando a gocciole, sembrava una pioggia naturale a chi v era sotto. Tale effetto farà, come io dissi, una volta doppia che abbi quella di sotto pertusata con infiniti fori che scialin V acqua giù in un subito, con una furia precipitata d’ un piover rovinoso; e quanto più saranno e fitti e spessi i fori, tanto verrà più fonda l acqua e farà mostra d'un croscio d’acqua naturale. Così fatto giardino sarà vario, ripieno d’ ogni sorte cose, e come s' è detto, vi sarà ancora luogo e capacità per gli erbaggi. Ma il giardino che ha da servire per gli arbori fruttiferi solamente, quali aviamo voluto da principio disegnare, et in parte se n'è detto, dee avere attorno i suoi muri con le spalliere, come s'è ragionato e divisato, di queste (') variate; e se sia partito in quadro, ogni quadro dee avere i suoi frutti d’una spezie, i più simili di grandezza, di fazione e figura che si possino ritrovare, da una banda e così dal- l’altra; e se sia quadro, dee avere nell’ incro- ciata di mezzo, dove si riscontrano le quattro (1) di opere, la stampa, 202 strade, uno spazio riquadrato con un orna- mento di modo che non storpi la vista e gli andari degli arbori; e se sia aovato o ìin ottan- colo, il medesimo; ma se sia sessangolo, abbi uno spazio corrispondente del vano del pieno del giardino sessangolo, purché risguardi dalla tavola che si può porre in questo mezzo, con raffazzonamento di una gran cupola, che sia ornata di figure basse attorno a tutti i sel viali, et in sur ogni angolo una colonna che sostenga la cupola col padiglione di pietra, marmo 0 mischio; et a rincontro delle spalliere dall’ altra banda della strada compariranno be- nissimo ancora colonne che segnino il viale e regghino sopra pergola, che può aver fatto il nascer delle viti, dietro al postime che rinveste le spalliere; et è chi si fa far lato nelle spal liere sul muro, e vi pianta capperi fra i peri cotogni, o altro di che ella si sia. E faran bene le colonne sole tese per i viali, e fra luna e l'altra ripiene di mandorlato di legname con finestre o occhi aovati, tutto di verdura rin- vestito; e non avendo comodità di pietre, sì possono fare di terra cotta, o vero lavorate di legname e copertate d’ ellera; e volendo far pergola sopra le strade, lascisi un vuoto in mezzo, e regghinsi in sù i legnami di qua e di là. E buono parimente, vistoso e nobile sarà se dagli angoli del quadro tu tirerai quattro linee per i quattro viali che si muovino dalla metà dei quadri, e poi da altri quattro spar- tischino i triangoli, i quali servino per quadri a piantare i frutti; che farà bel vedere, e creerà un partimento nuovo; e nel mezzo vi sia fatto 273 uno spazio in ottangolo, che risguardi gli otto viali, et in sur ogni testa di viale si pianti o un pino o un cipresso o un platano o un pioppo o moro o albero, e sotto nel mezzo un gran padiglione ordinato di legname co- perto di periploca o di apocino, che I uno e l’altra s avviticchia mirabilmente, e fitti fanno buon’ ombra. Puossi coprire di viti, di vitalba, di lentaggine, quando non vadi troppo alto, di lauro e di ginepro che è assai arrendevole, e a poco a poco si tira dove l uomo vuole. E dalle quattro strade e per tutte quelle che vi sono da ogni banda et in ogni luogo, quivi piene doppie, queste altre scempie sì possono fare, coperte variamente e d'ogni sorte di tanti arbori domestichi e salvatichi che si ritruo- rano. E queste piante vogliono essere, quando sì pongono, giovinette e con buone radici e rami ben condizionati; e così comparirà la diversa veduta, facendo diversa verdura e co- pritura. E volendo giardino che sia aovato 0 rotondo, sì vadi continuamente seguitando con 1 viali, che vadino aggiustando quella forma, do fra viale e viale lo spazio che si vuole, come torna; e nell’ ultimo che verrà nel mezzo sia lo spazio per un pratello, entrovi una adornatissima fonte e spalliere all’ intorno, che da per loro istesse grosse e massiccie, piantate in tre o quattro doppi, sì regghino senz’ altro sostegno, e vi s' arrivi per quattro strade che dai lati e dai capì traversassino; et a queste starà bene il fare le strade coperte et il pratello ancora; e sì potranno ancora coprire i viali con pergole di viti a botte intera o a 18 274 mezza botte, aperte in mezzo, di quà e di là con forti legni armate, che dieno sostentacolo e modello a come hanno a ire. Il quadro ancora si potrà ridurre a questo garbo medesimo, ristringendovi dentro di mano in mano i quadri a un ultimo quadro che sia nel mezzo, che serve per pratello et abbi la fonte; e si può ancora acconciare a modo che abbi forma e facci un grandissimo laberinto. Dentro i giar- dini in qualche separato luogo si possono acco- modare i laberinti con strade ritorte et inin- vestigabili, coperte e scoperte, basse et alte, si che altrui non ne scorga il fine e sia costretto ad avvilupparvisi dentro, prima che ne ritruovi il bandolo di venirne al fine. Riescono ancora ottimamente per la qualità del sito in forma triangolare, et in triangolo riescono perfetti, non occupati né riguardati dalle strade; et in certi luoghi di sito poi cupo e concavo di vallate, sarà di necessità scompartire nei viali principali nel mezzo del convesso per diritto, e gli altri. che taglino dalle bande sino ai sommi di quà e di là, e quivi soprapporre altri viali distinti, che quasi sieno si ordinati, che riquadrino il luogo. In testa poi della vallata, da alto come da basso e nel mezzo, si possono fabbricare fuori vivai, padiglioni, luoghi e stanze coperte di verdura come gli altri, e non pur d’ellera, ma d’ogni sorte pianta. E volendo spalliere basse, che non occupino la vista, fac- cinsì d’agrifoglio, di tasso, di lentaggine, gi- nepri, sfiocini e simili, che si possino mante- nere bassi col taglio; et a versar l’ acqua nelle fonti si dicono assai co ’1 buco aperto a git- 279 tarla fuori gli acquatici animali di bronzo 0 di marmi mischi, che somiglino il lor piu- maggio.. In così fatte guise et altre molte si pos- sono divisare i giardini, secondo i siti che altrui si truova da piantare arbori fruttiferi; i quali, volendovegli fatti e grandi che rifac- cino dei frutti quell’anno, converrà prendere dalla tua (') o altra possessione di quelli frutti che tu brami di buona ragione e varia, giovini, rigogliosi, vegnenti, sani e belli pedali, e che tu sappi che e’ faccino assai frutte, e facci loro entrare attorno, discosto ben dalle barbe, con zappa o vanga, secondo il sito e terreno; e gli farai cavare con un gran pane e zoccolo di terra, e che le radici non sieno lor noiate col distaccarle dal terreno, e massime la mae- stra; e come tu n’ hai gettato uno a terra e che tu lo vedi spiccato da ogni banda, e tu farai un corbello di vitalba o vimini, in modo che tutta quella barbata vi stia dentro appunto, senza avergli a levar niente, e vi metterai dentro la pianta serrata e stivata bene per tutto con paglia, st che la terra non si possi scaricare o spiccinare, e con funi legherai poi la cesta co "1 gambo del frutto insieme, met- tendo paglia fra la legatura e la buccia, che non s offenda; e con forza d’ uomini, o vero posto sopra tavole con manovelle e curri (°), o sopra treggie o carri, retto dalle bande con mani o con legni in foggia di barella, lo farai (!) della sua, errore della stampa. (°) travi, errore della stampa, 276 tirare e portare al giardino dove averai fatta fare prima la buca capace in su ’1 divelto o dentro alle grandissime fosse che vi. sieno, e così lo metterai a dentro bene, avendogli dato per fogna buon sassi, sendo luogo fresco et umido. E se il luogo sia alto e montuoso, siavi una fogna fatta sopra i sassi di quei corni di castrato che si truovano maggiori e rimboccati all’insù co 71 vuoto, con roba assai al piede; e messo nella buca tutto con la cesta, senza muo- verlo punto, perché co ’1 tempo ogni cosa si corrompe e marcisce e infradiciata fa grasso, e finita di riempire con terra cotta, e tutto con gran diligenza et amore, terreno asciutto e tempo buono. È subito lo farai palare con buon palo grosso e lungo fatto a ciò, perché i venti non lo possino fare crollare o dimenare, ché per avere gran rosta di rami sono assai più che molto pericolosi a maneggiare; e siano le legature fatte con la paglia sotto, perché non recidino; e non gli potare se non in capo ai due anni; et altrettanto si farà da chi sì sia che vogli fare una selva presto. E sì può ancora adoperare a ciò la botte dimezzata, di che si parlò a questo effetto. E perché le piante salvatiche naturalmente pare che abbino più vigore e più forza delle domestiche, e perciò manco di queste si sde- gnano a essere tagliate, come che elle ben co- enoschino d'avere il più delle volte a servire per legname, si possono cavare assai sicura- mente le lor piante grandi dalle selve al modo detto, ma scapezzate in su ’1 troncone a capi tozza per fargli far più bella messa a tempo 277 nuovo, da crear la selva alta o bassa come si vogli; e tutto, così di quelle come di queste, si facci all’ ottobre et a novembre nei luoghi freddi, e nei caldi a primavera. E così altrove, volendo fare di piante fruttifere giovini innesti piccoli, i quali non vogliono essere potati, tra- sposti che sieno, prima del secondo o terzo anno; pur tutto sia secondo il lor rigoglio, e che ricerchi il paese e natura delle piante, e secondo l'ingegno di colui che gli custodisce e se n intende, perche talvolta impongono tanto gagliardamente, che il primo anno, non che ’1 secondo, n’ hanno necessità, massime giù per il gambo, bisognando levar via tutto ’l superfluo che impedisce e toglie il rigoglio ai rami et al gambo, strappando con mano quei rimettiticci e non con ferro; avendo avvertenza chi pone nel detto giardino a bacio tutti i susini semiani et i porcini, perchè di quattro sorte susini truovo io essere molto dissimili dalla natura degli altri, due salvatichi e due domestichi; salvatichi sono detti quelli dei quali i rimettiticci sono delle sorte dei pedali; però i domestichi [sono] quello che l’ annestato ; et non è il pedale, che i rimettiticci riescono d’ un’ altra sorte. E non di meno chi tiene il contrario, che i domestichi sieno quelli che sono tutti fatti a un modo, e quelli altri mezzi addomesticati. Ora sia come si vogli, che per essere inteso io chiamerei salvatichi quelli che non sono annestati e gli annestati domestichi, e questi sono il simiano e l amoscino dome- stico et il maglianese et il porcino salvatico, che di quattro due desiderano l uggia e 1 275 fresco fuor di modo, l uno salvatico e 1’ altro domestico, cioè il simiano et il porcino, e perciò non è da porgli che per i giardini e verzieri e lati a bacio per le corti et in pollai murati e simil lati; perciocché, ponendogli all’ aperto e luoghi caldi, faranno si, ma poche e cattive susine, e massime il simiano; il porcino per essere salvatico farà delle frutte assai, ma non di quella bellezza e bontà che nei detti luoghi. E volendo piantarne per i campi della posses- sione, ponghinsi in luoghi bassi pieni di gras- sume, freschi, bacìi et uggiosi. L’ amoscino desi- dera paese freddo e si vede perciò che fa bene in Alemagna, in Ungheria et in Transilvania e che ne sono gli uni e gli altri ghiotti in cotesti paesi, cocendole poi secche co ’1 grasso e magro et in su gli arrosti; lama ancora montuoso, e partecipa della complessione e natura dei peri vernini fuor di natura di tutti gli altri; ma di vero è mirabile susina, cordiale e solutiva, e per seccare avanza tutte le altre. Il maglia- nese desidera ancora esso luogo basso pien di grassezza et umido, come cosa naturale di tutti i susini, sendo tale il lor frutto, ma luogo caldo et aperto bene, volto al sole, che degli altri non avviene così, come perniconi romani e ghiacciuoli, del miracolo, imperiali, catelani, amorosi, sampieri, giugnoli e simili, i quali, se non se quelli del miracolo, che ne fanno un tre o cinque al più per pedale, per tutto pruovano e ne fanno assai; et è bene averne sceveri per il podere, et alto e basso et in costa, secondo che e’ son messi. È ben vero che fanno meglio nel buon terreno che nel 279 magro, e questo lo fanno tutti i frutti, avve- nendo come di loro, degli uomini, che non sono tutti d'una medesima natura, e chi si sente meglio l’ estate, e chi l invernata, e chi il con- trario, e chi male l'estate e peggio l inverno, et alcuni ai mezzi tempi; et è chi è di nature tanto buona, che sendo affatto complessionato bene, nulla gli nuoce. Tanto accade dei frutti. Imperciò è da osservare la lor natura et a quella accomodarsi. L' abeto non pruova nei lati caldi o poco. Le viti non acquistano mai nell’ Alpi, imperciò s° ha a tenere a mente il proverbio che dice: paese che vai, usa che truovi; attenendosi sempre al modo del fare degli antichi, se vuoi che ti riesca. Appresso al susini nei giardini campeggiano i peri, pei quali conviene piantarne assai, perché penano assai a venire, ma afferrati che sono e preso piede bastano assai; e perché ’l1 giardino pro- fitti, bisogna porre di quelli frutti che ’1 paese ama; e se sia il giardino sotto la casa, tutti si faccino mantenere di sopra scapezzati a un pari, si che dalla finestra appaia di vedere una verdeggiante prateria. È ogni paese dotato di qualche particolar genere; nei freddi fan bene ì peri vernini, carovelli, cipolli, spinosi e simili, e non le pere statereccie; e nei caldi e tempe- rati le bronche, le bugiarde pistolesi e le ghiac- ciuole. E così i pomi: le rose fan bene nei paesi freddi, le teste, le paradise, boccaprete e francesche; nei temperati e più caldi le appiuole, dolci, nane e primaticcie. I ciriegi marchiani e duracini resistono al freddo, come quelli del frate e li agriotti; i viscioli amano 280 lati più umani, e li di san Giovanni vogliono il caldo. E volendone d'ogni sorte, sceglinsi luoghi più a proposito che possino servire a ciasche- duno da per sé, della sua diversa sorte, e pon- ghinsi insieme tutti quelli di quella sorte in quel luogo che ne giudichi che e’ faccino bene quivi. Che se non così appunto come nei suoì luoghi naturali vi faranno, s' appresseranno, e tanto più quanto s' userà diligenza almeno in coltivargli, governandogli secondo che bramano le lor nature. E per sapere ancora se si deono mandar alti o tener bassi gli arbori del tuo giardino et intendere l accomodargli, si dee grande- mente considerare se il paese lo ricerca e co- gnoscerlo, perciocché se egli è paese ventoso, il luogo aperto et alto, è da tenergli a terra e bassi, st come si vede in Provenza et a Marsilia, e per molte riviere scoscese esposte ai venti e massime marini, che abbruciano e consumano non pur gli arbori, ma rodono e fracassano le muraglie; e nei lati alpini. E se per il con- trario è luogo basso e non ventoso, come in coste e valli riposte, questi gli puoi e dei man- dar alti, perche faranno molto meglio e si man- terranno più sani, pur con discrezione e secondo la sorte dei frutti, perche il susino non [si] vuole e non si dee mandare alto come il ciriegio, né "1 ciriegio tenerlo come il susino. Il fico non vuole andare molto alto, ma [bisogna] allar- garlo e diradarlo bene. Il pesco, il granato, il cotogno, il nespolo e 1’ albercocco et altri simili vogliono andare alti mediocremente, e piuttosto bassi, come le asberges, le meliache, le noci 281 pesche e pesche mandorle, ma alti bene i peri, i meli, i sorbi e tutte le sorti ciriege, se non se il visciolo e l amerino. Gli agriotti non vo- gliono andar alti. I noci, i ciriegi, i mandorli, i castagni, il sorbo più di tutti amano solle- varsi all’ aere; e di questi ce ne sono, che quando altrui volesse tenergli bassi, sì dure- rebbe gran fatica, essendo di vero contro alla natura loro; e così per il contrario di quelli che volendogli mandar alti col tempo ci man- cherebbero fra le mani, perché gli vedresti andare all’ aere sottili, che è segno di logoro. Perché, come tu vedi che ’1 frutto non ingrossa il pedale e cresce fuor di modo innanzi al tempo, è di necessità tagliarlo e scapezzarlo, perchè da sé medesimo verrebbe tosto man- cando, o ’1 vento straordinario te lo fiacche- rebbe. Imperciò volendo che per bellezza il tuo giardino abbi gli alberi di sopra, cioè nelle cime, tutti eguali, conviene tirare tutti i rami a quel segno, e di poi pareggiargli, si che sem- brino, come sè detto, dalle finestre del palazzo una verde prateria diversa di fronde, di cime dlarbori: tutte! a bun segno. O veramente tu scegli arbori che tutti vadino alti o tutti bassi, e tutti messi insieme si mantenghino poi tutti a una stregua con il tagliargli di sopra nel loro andare; o vero, volendogli d'ogni sorte, accomoda piuttosto quelli che sono soliti andar alti che vadino bassi, che quelli che sono soliti andar bassi ad andar alti; perché in questa forma meglio ti riuscirà e più si manterranno in quel sesto che si desidera, che non a quell’ altro modo. E volendo fare un giardino o un quadro 282 o altra parte in cantonata del giardino, che restino gli arbori nani, conviene medesima- mente avervi la terra divelta o con buone e larghe fosse, et in somma con l'istessa dili- genza assettato il terreno che l’ altro. Il parti- mento poi si può ordinare più piccolo a pro- porzione, e secondo questo, piantare gli arbori più accosto l uno all altro, e nel porgli s' ha ad avvertire che a tutti quelli che s' appic- cano a rami, tu ponga i rami fitti all’ ingiù, come fichi, melagrani e peri cotogni e simili. E di quelli che non s'appiccano a rami eleg- gerai tutti che abbino in su ’1 calcio dello spartimento delle radici dei rami assai a terra; e poi piantargli all’ ordinario, e subito attaccati tagliar loro la punta maestrale e mantenergli i rami bassi, più raccolti insieme che si può e non sparpagliati, in forma che tiri al rotondo ugualmente da ogni lato, e se sieno frutti annestati, abbino l innestatura bassa e quella ancora si cacci sotterra; e taglisi poi sopra l’innestatura che avanza quattro dita e non più; e poi vedi i rami che e’ mette; e se rifà la punta levala subito, e crea i rami da lato a modo tuo, e sempre rasente la terra, ristretti insieme e non larghi o sparsi. E se tu pianti innesti che vi sieno di quella bassezza che tu desideri i rami già messi, lasciagli appiccare con essi, e come questo sia, scapezza la sua cima maestra in su la forcella dei suoi rami, i quali si tenghino per dargli la creanza che si brama, volti ristretti verso il pedano; se bene per così fare bisognasse legargli; e piuttosto che pochi rami mantiengliene assai, che si 285 terranno meglio insieme e staranno più saldi e compariranno con grazia maggiore, dandogli un braccio sopra terra di grandezza di gambo, o un braccio e mezzo e non più; e più ancor: se tu vuoi; ma creandogli tutti a un pari all’ altezza d'un uomo, pare che per nani abbino a star bene. Ancora gli farai nani, con (aven- dogli scapezzati a corona, appiccati che egli sieno) innestargli a marza, capovolgendo la marza all ingiù, che ’1 grosso stia di sopra et il sottile di sotto, tutto a contrario di che sì fa. Conviene di poi questi, come tutti gli altri, potargli spesso, gastigargli e regolargli co ’l () pennato, levando tutti quelli che escono dal- l'ordine, e mantenergli nani in su quel garbo che se gli è dato. Di così fatta maniera e modo si potranno ancora far le selve et i boschi nani, dando alle salvatiche piante l'altezza di tre volte tanto, di questi o alla foggia di quelli di Gneo Marzio Romano amico di Cesare Augusto, che ne fu il primo ritrovatore, il quale avendo strapiantate dalle selve le salvatiche piante a sua eletta d’ogni sorte, le ridusse potando più piccole assai del loro essere naturale e le man- tenne a quel segno che da principio le pose, perché facessero più spessa ombra e pigliassino meno luogo del lor solito, ma con più accura- tezza e fatica, perché più si cavano della na- tura loro; e tutti, così questi come gli altri, nei tempi secchi assai et asciutti fuor di modo desiderano d’ essere adacquati. Alcuni usano per loro verso la estate senz’ altro certe gran lastre attorno, assettandole a un dito presso al tronco sopra le radici, avendo scassato tanto 284 di terreno che rimanghino al paro dell’ altra terra che vi rimane, e con questo hanno fede che lasciativi poi anco stare il verno, dien loro buon umore, e la estate rinfreschino co ’1 cac- ciare il caldo dalle radici. E perché l acqua penetri alle barbe, alcuni fanno una buca che le vadi a truovare, e la riempiono di sermenti triti o di pezzuoli di fruscoli di castagno mi- nuzzato; altri vi cacciano un legno di quercia spaccato in più fessi o vinciglie legati insieme; altri, corna di bue volte all’ insù co ’1 vuoto. Et in effetto, quando gli arbori per l apparire delle foglie incartocciate et inumidire delle vermene e’ si vegghino patire, è da credere che tutti in questo termine si ricreino e sì rifaccino dall’ essere adacquati. Imperciò egli è come il dormire di estate dopo desinare mezzogiorno, che non è buono, se non quando ciò sia grandemente necessario. Onde meglio è, avendogli piantati bene a dentro in un divelto bene affondato o fosse aperte ben fognate o buche ben fatte o formelle lunghe et agiate, non gli avvezzare a questo, che daranno tutta- via più dissapite frutte e squacquerate, andan- dosene in foglie a rigoglio; e meglio è piut- tosto d'ogni tempo e che e’ si cognosce che e’ patiscono, a qual ora tu creda per i segnali che e’ sia di quivi a poco per piovere, scalzar- gli un poco, e smovere con la vanga o zappa, secondo il sito, il terreno attorno, perché so- pravvenendo la pioggia a questo modo con un poco di arte naturalmente che più lor piace e giova, gli rinvigorisce e ricrea, avvertendo, come si disse, che chi più chi manco ama 285 l’acqua, e sapendo che da piccoli quasi tutti i seminati la ricercano, e massime ’1 cipresso e 71 pino, poi non la vogliono più, e l’abete. Ai mori la troppa acqua et umido nuoce. I man- dorli quando sono in fiore non s' hanno a tras- sinare né con acqua né con altro, perché a cagione del rigoglio da loro non abbino a per- dere i fiori. I cotogni che restano nel terreno asciutto sì rinfrancano con l acqua e danno i lor frutti maggiori; si come [l'acqua] mitiga a più umano sapore le pere sassose o sorbe. Il frequente annaffiare così fa i fichi maggiori, ma gli infradicia, se già non fossero o Laconici o di Scio. I ciriegi viscioli se ne rifanno; e 1 pla- tano, se bene ama il vino puro, come fe’ Quinto Ortensio al suo, non disprezza l acqua e gli fa attaccare nell’ asciutto. Il melo cresce i frutti adacquato con orina vecchia d'uomo, e così giova la morchia agli ulivi, non data troppo sotto e senza sale. L' albercocco, il nespolo e l’azzeruolo hanno cara l acqua. Ma sopratutto ai giardini ben regolati è d’ importanza il po- tare al tempi e bene, cosa che gli antichi in tanto l’apprezzavano, che gli stabilirno una deità detta Puta. Ond’è che Varrone lasciò scritto così: chi lavora con vanga o zappa intorno agli ulivi, dà loro il frutto; chi gli dà il concime gli strapaga a farne, e chi gli pota gli sforza e costrigne; e tanto è d’ ogni gene- razione d’ arbori che lo ricercano. Ma non è di mestiero fare come quel contadino di Tracia, che avendo compera una possessione fornita di tutte sorte piante e viti, non sendo pratico né intelligente, posta mente al vicino, e visto che 286 avea tagliato da pie certi roghi che avevano preso per tutto, e che tagliava i rami dei fras- sini, rimondando sino alla vetta; e levar via i polloni dal calcio degli ulivi et altri frutti; gli domandò perché facesse si grande sciopino. Rispose: perche il campo resti netto e dibru- cato et i frutti più fecondi. Andò da quella via il Tracio e messe a terra tutti i più belli rami dei suoi frutti et ulivi, con espresso danno loro, sendo stato troppo fiero e sconsiderato potatore. Il quale conviene che sia accorto, avveduto, considerato, saggio, discreto, intelli- gente, pieno di diligenza e cautezza, di giu- dizio, senno, prudenza e temperanza, non cor- rendo già mai a furia a tagliare, sendo che il potare è simile alla scultura e non alla pittura, perché a questa diceva l Angel Michele che si poteva levare et aggiugnere con i colori a posta sua, et a quella si poteva ben levare ma non già porre aggiugnendo, che questa dee essere e non parere, quella si ben parere. Oltre a ciò dee essere il potatore somigliante al per- fetto sartore, che ha a disegnare tre o quattro volte e tagliare una. Così egli, tenuto a mente questo che si è detto, [dee] squadrare l arbore più d'una volta avanti che tagli, e poi levar quel che bisogna, sapendo che i noci fatti vecchi scapezzati a capitozza sì restaurano e tornano a far delle noci e migliori; e che i mandorli desiderano d’ essere potati di novem- bre, di settembre e di marzo; e che i mela- grani vecchi tagliati da piè si rinnuovano, lasciando loro venire innanzi il più bel pollone che rimetta; e che non ama d'essere tagliato 287 col ferro il pesco attempato, se ben solamente da giovine, per tirarlo al palco che se gli con- viene; tutto che è chi, fatto grande, lo spunta attorno tutto nei rami, perché facci più grosse pesche; e così i mandorli. Il melo, il ciriegio, il noce, il cotogno, l ulivo infrantoio e coreg- giuolo, fuor della natura del moraiuolo e puoce, così il pero, castagno e nocciuolo, non vogliono essere tocchi, come s' è detto, che da giovini; e vi è tra essì chi teme, più uno che un altro, come il ciriegio, il pero e tutti i castagni: pur questi temono manco degli altri. Quelli che volentieri vanno all’ insù a ritrovar l aere e 1 sole, come gli alberi istessi, il salcio e le ve- trici e tutti quelli che s' allungano, vorranno un savio al piede e addosso un pazzo; e tra gli ulivi che desiderano questo è il moraiuolo, il secondo il fico, il terzo il susino, il quarto il melagrano, e simili, folti di rami e foglia di lor natura, come la mortella, ai quali non si leva lor tanto che basti, ma tutto con discre- zione, modo e diligenza. E se bene susa dire che l ulivo vuole un pazzo, brama per certo uno che sia e savio e considerato; e gli con- viene avere grand’ arte attorno, allargargli et aprirgli a misura e rischiarargli, perché se così non sono tenuti, se ne vanno in vermene e non allignano. I coreggiuoli sono in contrario, si come dimostrano quelli del paese di Pisa et a ogni altro luogo che sieno; e se così si lascì stare il moraiuolo, s' aumenta tanto che converrà scapezzarlo. Ma ogni paese talvolta ricerca diversamente e patendo ogni regola eccezione, conviene rapportarsi all’ esperienza 258 maestra, la quale rimostra ancora che senza altra osservazione talvolta conviene potare non pur gli arbori, ma le viti ancora, quando occorre che n’ abbino di bisogno, che di ciò non patiranno, se non per il sollione; il che si chiarisce non ch’ altro nel rilegare un tralcio, che i pampani variano colore; et alla guazza e quando è spiovuto entrar nelle vigne fa danno, come salire in sui frutti, quando la corteccia è zuppa d’acqua e bagnata, fa stac- care la scorza ove si pone il pié, e sì sdegnano, e massime il noce et i fichi e gli ulivi, i quali si pelano, e quelli si scortecciano. E si può prendere l esempio dall’ istessa terra, che lavo- rata fra molle et asciutta patisce et arrabbia, e così alla guazza, e nuoce a vendemmiare. Come s'è detto, i frutti si possono potare, se ti vien bene, a ogni otta, ma la vera è dalla luna di gennaio in là sino a che le piante co- mincino a muovere, et a luna crescente o scema non fa caso in questo tempo al potare; ma allo scapezzare osservisi di farlo a luna cre- scente, come quercie, ciriegi e mori, e tutti quelli che tu desideri che faccino gran messe e presto. Nelle viti sole, sendo giusti, [s1] temono i venti; agli altri non dan noia, se gia non sì scoscendessero o fiaccassero. Altri arbori non vogliono essere trassinati che a marzo, quando sono in succhio, come saliconi, ontani, vetrici, alberi e simili acquatici, che potati all’ ottobre temono dal freddo, e massime allo scapezzargli. Appresso al giardino volendo piantare una ragnala o macchia per pigliare beccafichi con la ragna o altri uccelli, perche le selve et il 259 salvatico tutto ti servirà all’andare a frugnuolo alle merle et ai tordi et ai colombacci e tutti altri che faccino quivi l abitazione, conviene scerre il luogo che sia accomodato nella villa, e se sì può, sia in vallata o in pianura, non molto dal circuito del giardino lontana, con che luna o l'altra abbi l'acqua la estate, e siavi il domestico accosto ben coltivato, di quà e di là ripieno di fichi, e sianovi presso le vigne et in buon terreno, benché ciò accada nei luoghi bassi che abbino colline uguali di quà e di la; e se sia di quà e di là monte ripido a scavezzacollo, avendo la china sino in fondo, questo sarà il vero sito da far volare gli uccelli nella ragna, che vadino serrati e ristretti senz’ alzarsi a darvi dentro, pur che sia questo sito lontano dalla strada maestra e luoghi frequentati dalle persone, e ben riposto che "1 tramontano non vi possa molto, e giù nel basso la forra del canale dove s' ha a pian- tare la ragnaia non sia scoscesa o ripida; 0 veramente, se ha a essere lontana dal giardino, sia in pianura larga et aperta nel mezzo d'’ essa; che se l è coltivata, non gli sia addosso, ma discosto un poco. Nelle valli di gran calata ancora sì ricerca, se vi sia mescolato in quella parte conveniente et agevol pendio, ma sopra tutto che vi sia rio corrente placidamente d’acqua viva, e se non, con qualche artificio vi sì facci venire, né sì potendo anco conse- guire questo, disponghinsi per essa vasi di pietra o di terra cotta giù per il mezzo della ragnala, e si continuamente si tenghino di chiara acqua pieni, mutandola a vicenda, o si 19 290 scavino fosse dove si facci derivare l’ acqua piovana o d’ altrove, si che gli uccelli si pos- sino, quando vi sì ritirano e stanno, abbeverare. Ritrovato a proposito così fatto luogo, dise- gnerassi la lunghezza che sia quanta vuoi, se- condo che possi durare il sito chiuso, che vorria essere uguale da ogni banda, et in piano a distesa diritto da ogni banda quanto si vogli; e la larghezza basterà che sia almeno trenta braccia in valle, in pianura venticinque 0 trenta sino in trentacinque. Ma volendovi, come usano alcuni, le strade coperte dentro per ga- lanteria, non già per utile, perché la macchia vuol essere macchia ben fonda e ben folta di piante, se ben coloro allegano che gli uccelli volano per quelle strade senza impedimento a dar nella ragna, meglio è che di ramo in ramo trasportandosi vi vadino a dar dentro che non se n’ avvegghino, o veramente, volando rasente la cima della ragnaia, la quale essendo tenuta in vetta tutta a un pari, vi sì condurranno quali (') che per una pianura d'un prato in ogni modo. Farassi diverre il terreno che è meglio sempre che far fosse, lasciando il rio dell’acqua in mezzo, o si vero certo spazio da potere nei modi si disse sopra tenervela in un andare che vadi diritto bene, e mentre che si fa il divelto, faccisi di mano in mano piantare, e comincisi questo lavoro alla prima luna di ottobre, seguitando di continuo sino alla luna di marzo; et in queste piante cosi fatte non accade osservare regola di luna o altro, che (1) quasiché, la stampa. 291 non importa, ma si bene buon lavoro a tempo asciutto, lasciando asciugare il terreno quando gli è molle, mettendo giù, sempre che si fa una mandata di fosse, di piante le quali si faccino cavar tuttavia gioveni, rigogliose e vegnenti e con barbe assai, spargendole et aprendole in su 1 fondo della fossa con diligenza e buon ordine, a diritto filo per la lunghezza e per la larghezza un poco più, volendovi pur le strade, ma che sieno strette alla capacità di poco più che si tenga lato un uomo. Piantinsi le piante discosto l'una dall’ altra due piedi e non più, e sopra tutto porvi assai sanguini e saliconi, e di poi scompartendo a modo e fantasia tua i ginepri, gli allori, corbezzoli, sambuchi, len- tischi, rovistichi, agrifogli, quercie, olmi, lecci, tiglie, ontani, mori, alberi, salci, e a tutti questi la sua vite d’abrostino al piede, con che non si coglino mai [le uve], per alleficarvi I inver- nata i tordi e le merle ; e così i fichi, che perciò vi sì ponghino in su le bande, e vetrici, gattici, cornioli, prunbianchi, maggi, mortelle e bos- soli; e di questi e dei ginepri mettere anco un po più fitti per tutto il filare di fuori, man- dandolo poi unito e fondo in foggia di serrata spalliera che si regga da per sé di quà e di la, per fare andare gli uccelli stivati nella ra- gnaia. Piantinvinsi dentro dei rovistichi, del- l’ellera e di tutte le sorti d’ arbori che servono a far cappellacci, e a tutti quelli che non ten- gono la foglia por loro viti d’ uve mangiareccie al piedi, e sopra tutto canaiuole, trebbiane, passerine e di tre volte. Altri le amano solo di piccolo acino; e lungo il fossato dalle prode o 292 rio, dei roghi, le cui punte fanno eccellente pianta, e servono gli uccelli in grato cibo le more, le quali sono per i beccafichi mature avanti ai fichi, e gli ingrassano a pari di loro, come i sanguini. E la verzura che vi sì met- terà è di mestieri variarla, e mettasi rada, che dall’ una all’ altra pianta di queste sia almanco quattro o sei braccia, e dei sanguini per tutto e assai, e della lentaggine di quella sorte che n’ abbonda l'isola del Tino. I sambuchi vo- gliono essere posti nel filare di fuori, e noc- ciuoli e ginepri e mori; e si facci tutto ben fitto e bene stivato, che rattenga gli uccelli, e per assicurare la macchia dalle bestie. Del rovistico non è da por troppo, che fa mala macchia e riesce co ’1 tempo seccagginoso; e pochi sono quegli uccelli che bezzichino le sue coccole. I fichi albi assai vi faranno bene. Il ginepro piantisi piccolo co 1 suo pan di terra che gli cuopra tutte le barbe ; e di questi met- tanvisene buon dato; e quando si va a cavargli, ponghinsi in certi canovacci con 1 nastri quadri a uso di grembiali, e legagli quella terra at- torno con essi, e ponghinsi a quel modo, svi- luppato il canovaccio; che non patirà di niente et appiccherassi forse meglio in su 1 sodo, cioé in su l terreno che non sia altramente lavo- rato, che ama così; e basta fare una buca in terra non troppo affonda e piantarvelo dentro; e non si taglino mai fra le due terre, che non rimettono mai. Così farai ai lentischi, ai lecci, alle sughere, agli sfiocini et alle lentaggini et a corbezzoli, non perché questi non rimettino, ma perche s hanno a lasciar crescere senza 295 trassimargli con ferri da imo a sommo. Si pos- sono bene scapezzare arrivati a una certa gran- dezza, come Vl alloro; e volendo campare le messe, fa che sia di due anni e non più, con buon ceppo capassa di barbe e del vecchio; e tutti questi posti faccinsi tagliare fra le due terre, che cosî vogliono i corbezzoli e loro. Ma l'alloro, quercie, sughere e leccio sì possono seminare; la quercia non di meno posta gio- vine con buon pane, entrovi rattenute tutte le sue radici, fa e viene presto, e così posta piantone come l’ ulivo e con buone barbe che gli sien poco trassinate e tocche, e cavate con diligenza con la sua maestra, in due o tre anni in su ’l divelto fa capitozze da servirsene. La mortella si pone co ’1 suo pane. Il bossolo sì pone piccolo, o a rami o pali. Le tiglie vo- gliono aver buone barbe et essere piccole, e gli aceri vogliono essere giovani, così î faggi, vo- lendovene, et i sicomori; e di questi è bene essere vago, perché crescono presto e fanno bel vedere; e chi volesse fare una selva che presto fosse e grande e fronzuta, non esca di questi sicomori, l quali si pongono con le barbe et anco sì ariano) I platani sieno presso al- l’acqua; e si pongono a rami come gli alberi. Gli aceri penano assai a venire, ma grandi fatti sì possono capitozzare. Ta Simibuchi s' appiccano a rami, e quanto più sottili, tanto meglio; i mori con le barbe; a tempo nuovo i tico salci, gattici, alberi e vetrici si potino a che modo si vogli che si dichino con gli altri ar- bori della ragnaia. I nocciuoli, gli ontani, gli olmi et i carpini non vogliono essere tagliati ; 294 le altre piante di scope, di sanguine e simili conviene che abbino buone barbe, e non por loro amore. Et ogni cosa, posta che tu Y hai, tagliala fra le due terre, e la replico, perche questa è la vera che faccino bene ; e tutto, dal ginepro e dal bossolo in fuori, sì può tagliare, e dando loro qualche cosa al piede non farà che bene. Volendovi abeti, nassì, cipressi, sì ponghino piccoli all’ ottobre, né si tocchino al- tramente, e la estate, se si può, al secco annaf- fisi tutta la macchia et il postime messo tutto sopra al divelto a fondo prima, in piano due braccia e mezzo et in poggio tre, che verrà più presto. Dal primo anno al quarto si facci lavorare sino al quinto a ogni anno di marzo, e con la vanga nettare tutta la ribalderia, e sempre dargli del letame nuovo, potando, dira- dando e ben formando le novelle piante; et a quelle che hanno a servire ai viali coperti dar la piega con il modello sotto di castagno, che poi incavicchiato si può intralasciare di buo- n’ ora, e vogliono essere lauri, lentaggini, rovi- stichi, vitalbe, viti salvatiche, corbezzoli, sam- buchi, pioppi e simili arrendevoli, tutti posti da piccoli, e dopo il quarto anno volgerli sopra la loro armadura; et a questi et a quelli si lasci due messe o quattro al più delle più rigo- gliose ; e come s' è detto si replica, la macchia vuole essere macchia, e per tale s° ha a andare guidando e custodendola alta e fonda a misura, e che gli uccelli vi stiano coperti e -sicuri, tutta, come s' è detto, tenuta pari di sopra, che non avanzino le vette. E non volendo far le strade coperte per tutto il lungo della ragnaia, 995 si possono fare almeno per un venti braccia alla ragna, acciocché il beccafico possi stri- sciare e dar basso nella ragna, e condotto li vicino non possa alzarsi. E per mezzo la mac- chia s' ha a fare una viottola larga tre braccia, coperta, la quale fa due effetti, utile comodo e bellezza, e serve per gli uccelli che vi stri- sciano sotto mirabilmente. E di più v ha a es- sere a capo di detto viottolo il suo raccetto di verdura fatto tutto di rami fondi e fabbricato di bossoli, mortelle o altro, accomodati così che faccino tavola piana et in piano, come se di legno o pietra fosse ; il che si farà con fargli il suo telaio sotto, facendoveli camminare et arrender sopra e spessicare su forte, [che diverrà] soda e fitta, avviticchiando et annodando bene e legando ogni minimo ramettino, torcendo senza rompere o scoscendergli. Sia la capanna, per finimento del tutto, con i sederi di ellera, e per tutto altri sedili di tanto in tanto, e simil cose sino all’ ultimo della macchia, e qualcuno di pietra e figure et altri ornamenti. E qui ancora starà bene un vivaio coperto di verdura, tenuto netto, con pesci, e dirimpetto alla ra- gnaia dai lati fan bene certi capannoni di ver- dura, con i sederi attorno inverdurati, a veder le tese che hanno a essere larghe e con buone pertiche o stili di quà e di là, confittivi dentro i suoi scaglioni attaccati di legname da so- stener le ragne, e sotto certe piantette di cisto, ginestra o sanguine, tenute basse per attaccare i filetti della ragna. E volendo non v' avere a pensare, a dove sono le pertiche si pianti ac- canto un albero o abeto, se è terreno da ciò, 296 se no, olmo o vetricone, quercia, cerro 0 noce, che servirà per stile. E quivi, dove è questa tagliata, s ha a tenere aperta e le frasche lon- tane e tutta pari, perche non s attacchi la ragna; e si può anco attaccare una pertica bassa fitta in sui piuoli rasente terra, che serve a legare i filetti. Ne starà male e farà buon effetto che a dove sta la ragna, in quel valico, a ventiquattro braccia et anco trenta, sia più alta la ragnaia e tutta uguale; e se bene s° è detto che di variate piante si possino fare le ragnale, non è per questo che d’ una sola fatta anco piantate non sieno per star bene, e mas- sime se sieno tutte di lauri, ginepri, lentaggini e di tutte altre piante che tenghino perpetua verdura, come tutta di cipressi che sieno tutti ad una conguaglianza tenuta bassa, perché gli uccelli vi porranno amore, e tanto più volen- tieri se vi nidificheranno, come avverrà se sia tutta d’olmi, di salici e vetriconi. Ma sopra tutto son buone quelle piante dalle quali pos- sino trarre da beccare, il che s' otterrà ponen- dovi di molte viti et ellere e sanguine, fichi, ginepri; corbezzoli e susini assai e simili. Riu- scirà ancora utile e buona una ragnaia posta tutta di frutti domestichi da mangiare, come meli, peri, susini, fondi spessi e fitti e con assai abrostini ai piedi. I mori saranno utili a più cose e daranno da beccare agli uccelli nel tempo delle more, e dureranno quel più, inter- serendovi dei mori neri; ma conviene mesco- lare, come delle sorte dei fichi, che tutti non maturano in un tempo. I valichi per tendere alle ragnaie deono essere a ogni tanto di spazio, 297 secondo la lunghezza delle ragnaie, che sendo lunghe, vi si può accomodare più d'una tesa a un tempo. Il medesimo modo s' ha a tenere volendo porre presso al giardino un uccellare, 0 vo- gliamo dire boschetto da tordi, nel porlo, nel- l’assettarlo et ordinarlo. Ma alcuno per l occa- sione d’ una bella pianta di quercia, leccio 0 ulivo l ha fatto et ordinato sopra queste sole, et ancora sopra grandi elleroni, retti da arbori secchi o verdi, che dall’ ellera restino coperti. E si possono oltre a questo fare posticcie, cioé da levare e porre, come di ginepri, di lecci e di quercie e d’ allori, rimutando di mano in mano dove si seccano ; e se bene non ricercano il sito in pianura, dove sia passo di tordi, an- cora in piano si possono fare, e ’l1 modo è questo, che facendogli un grande e largo fosso attorno, la terra che si cava si getti per di dentro, sopra la quale s alluoghino le piante che hanno a servire a ciò, avendo pur da van- taggio lavorato a divelto prima bene sotto il terreno; ma questo sito di tutti è men buono e quasi non è da eleggere che per necessità, non avendo da farla altrove. E bisognando o volendo così fare, è di necessità eleggere una pianura spazzata per un pezzo attorno di tutti gli arbori e frutti, e se vi sono, levargli che non dieno impedimento. Ora le medesime sorte di piante di verdura che la tenghino il verno, che [servono] nelle ragnaie, possono servire ai boschetti, compartendo e divisando bene tutte le piante che sieno variate, stando meglio così che d’ una cosa sola, se ben sono chi tutto 298 di cipressi, tutto di ginepri e tutto di lentag- gini l’ abbi fatto. Ne ci vuole essere altro di più, se non che vuole essere più a fondo lavo- rato il divelto, da che il suo sito è in sui co- cuzzoli de’ colli o monti o vicino a quelli, in lato ove non manchi e scemi il terreno tut- tavia; e bisogna mettere a dentro. Per il che conviene far più trito, più stagionato e miglior lavoro, come che con più accortezza eleggere e cavar le piante, che non si potendo traspor- tare [con] il lor natio terreno, è necessario con tutta l arte bonificare ottimamente a dove elle si pongono. E se bene il Gran Signore Solimano adiratosi contro uno che gli disse che in manco di due o tre anni nelle colline sue di Costan- tinopoli non potrebbe allignare un uccellare fatto come ’1 suo, in breve tempo s ostinò di farlo in ogni modo, e con la possanza grande degli uomini in meno di otto dì fe’ portare il terreno e le piante intere a quel sito idoneo, ove fe’ venir colui a vedere, che garrito se ne spaventò. I Vinegiani ancora in un mese pos- sono fare cento galere, per avere i prepara- menti, e non hanno potere di fare una galera in un dì, tutto che a Arrigo III, mentre nel- l’arsenale gli diedero colizione nel ritorno di Pollonia, avendo gli ammanimenti preparati, composero insieme una intiera galera, avanti che di quivi egli si partisse. Le pianure, i colli bassi e le valli per questo effetto sono da fug- gire; la vera posta è, in qualunque luogo egli sia, che vi sia buon solito passo, e sì potrà giudicare tale quello che scoprirà, comprenderà et abbraccierà assai vallate e monticelli, si che 999 i superiori a lui gli sieno lontani, a tal che piuttosto gioverà che sieno uguali e paino quasi a un pari tutti con quello a dove sopra sì pianti 1 uccellare. Ma il monte, poggio, collina, spiaggia o punta dove s' ha a far porre, abbi o naturale o fatto fare con l arte un sito piano e rilevato, né sia all’ ultima ultima cima del monte, ma al principio se è grande, se è pic- colo a mezza calata d’ esso, non nell’ alto alto, ma nella piegatura del basso e dell’ alto, sì che pigli la veduta del suo proprio sito e d’ assal vallate, e che il monte, collina o poggio 0 punta dove s' ha a piantare, non abbi arbori grandi attorno che l’ occupino o gli faccino noia, e se vi sieno, si taglino e levino via. Uosi si facci alle vicine macchie che alte sieno da far altri posatoi, che [stiano] impedendo il pas- sare degli uccelli co ’1 fermarsi et intrattenersi quivi. La disposizione della pianta vuole essere quadra perfetta o similmente rotonda o ottan- colare o sessangolare o aovata, se non sia ne- cessario accomodarla secondo il sito. E sendo quadra, vuol essere (se non costringa d’ altra maniera il lato) dalle ottanta alle novanta braccia per ogni verso, e nelle altre si dee an- dare con la proporzione di questa misura, se- condo però la postura del luogo e qualità del passo, non essendo alcun dubbio che quanto è maggiore dove è il passo buono, sia di gran lunga migliore e più atta a pigliare quantità di tordi. Et in sur ogni quadro acconcisi una vertica co ’l suo capannuccio e nel mezzo una capanna grande di dieci o dodici braccia per 500 lato, murata (') a tetto, copertata tutta di verde, con i suoi muricciuoli attorno, e dentro il camino con altre comodità da cuocere i tordi, e goder le fatiche del sollazzo, con una vertica sopra a uso di maschio di fortezza pur quadro; et essendo l uccellare d’ altra forma, con pilastri copertati di verdura, alti da potere impaniare, con un capannuccio sopra la ca- panna che serva all’ uccellatore, e quivi stia a toccare con la ramata (sopravi la civetta) gli schiamazzi ; e di questa maniera non sarà noiato da chi vi fosse altri a vedere (benché per il padrone si può per ciò fare da un lato il più conspicuo dell’ uccellare, un po lontanetto, un capannello di verdura ben turato) perché gli schiamazzi temono la gente e stridono, e lui non sente i tordi e per questo non può toccare al tempi; et in questo modo può lasciare star sotto chi viene a vedere per piacere. Bene dee essere serrata e murata la capanna con quattro uscite sole basse, e lei non più che all’ altezza di quanto stende sopra di se il braccio un uomo, tenuta bene gastigata e pulita; et ancora, [oltre a] questo, l’ uccellare s' ha a porre a mucchi, e [cosi] le strade principali che con- ducono ai lati o canti dell’ uccellare o altri spartimenti et alla capanna grande di mezzo, la quale ha a entrare sotterra un braccio, et il resto si sollevi sopra, purchè non s alzi più che tanto. E sendo fatta di verdura senza mu- rare, entri medesimamente fra terra, e sopra sia coperta dalla verdura tenuta e retta dai (!) misurata, errore della stampa. 301 medesimi mucchi, tra i quali sì possono ancora far le strade sopra terra, o murate fra terra e sopra, o non murate, a piano della terra da mucchio a mucchio, senz’ altra dirittura © scompartimento ; et i mucchi o fantocci che si voglino chiamare, hanno a essere lontani l’ uno dall’ altro tre braccia e mezzo; e di fuori i mucchi s' hanno a toccare V un V altro, che non vi si possi passare se non dall’ entrata, che non ha a essere più d’ una, con una corona che lo circondi, né vi sia più d'un valico che vadi alla capanna di mezzo, e questo perché i tordi non possino entrare et uscire se non di sopra, serratovi ancora e così da pie, in modo che questa spalliera tenghi i tordi (fatta all'altezza degli altri mucchi medesimi) che impaniati non se ne possino andare, e perciò sia ancora al l’ intorno circondata da una gran fossa la quale si può fare sempre che si fa il divelto. Altri pongono in su Vl orlo una spallieretta attorno di mortella o ginepri o altro che rattenga i tordi, e per l uccellare per tutto sopra tutti i rarchi turato, che i tordi non possino strafo- rare. I mucchi non vogliono essere di meno di quattro o cinque piante l uno, variati o d'una sorte sola come più piace, e tutti vogliono es- sere tenuti a un garbo e ben ristretti e serrati insieme, d’ una fazione uguale e pari. È bene porvi delle quercie assai et a ogni quercia del- l’ellera, e massime intorno alla capanna di mezzo, e quivi attorno allevarne delle grandi e alte per impaniare e trascerre il luogo e sito dove ne sia; nel che può servire ancora un ulivo, un leccio o una quercia o altro arbore 302 che vi si ponga o vi. sia, che abbi e se gli mantenghino assai rami. Ma le quercie tengono più il fermo al garbo che se gli dà, e sono age- voli a custodire. Sianovi pochi ginepri e cor- bezzoli, e quelli che vi si mettono si ponghino nel mezzo dei mucchi, perché ’1 corbezzolo ha il gambo spogliato di foglia, e sono difficili e dispettosi a maneggiarsi e a dar loro buona forma. Conviene poi tondarlo ai tempi, che sono quando si potano le altre cose, e tenerlo for- nito e a ordine di mazze che s intraversino con le tacche che tengono ferme le paniuzze da un mucchio all’ altro; e siano di salcio o di vetrice et albero e d'ogni altro legname che abbi umore e non ritiri così presto e tenga la buccia verde. L'uccellatore sia pratico del fischio, se bene in Spagna ne stette uno all’ In- quisizione, accusato che faceva con quello ca- lare i tordi per arte magica, il quale giustificò dal paese d’Italia, di donde era, che così si faceva con l ingegno, e fu assoluto; e sono dell’ uccellare e della ragna il piacere e la fa- tica compensati vicendevolmente. Accanto all’ uccellare et alla ragnaia s' ap- partiene procurare d'avere il paretaio. Sono alcuni che per il medesimo filo, cammino e posta hanno ordinato e fatto l uno e l' altro; e questo si potrà far sempre che il sito con- ceda d’ accomodarli ambedue, che sarà quando estenda la cima del monte, che ha ricevuto in se l uccellare, dopo sè a dar tanto di spazio piano, che di lunghezza e larghezza egli vi si possi adattare su; e quando non bene anco ar- rivasse il terreno con la lunghezza e larghezza, 305 sì può con muro a secco che sostenga la terra quanto ha a essere lo spazio, riempiendo d’ essa, supplire, purche abbi le medesime vallate e vedute dell’uccellare, come egli desidera, ben- che ordinariamente egli richiede il sito più basso dell uccellare, e vuole essere posto al finire della punta del monte o colle, o a mezza costa, scoperto da un lato verso il finir d’ esso. Et avendo il sito in piano, sia spazzato per tutto d’ arbori e piante, e facciasi un cumulo di terra spianata, che l argine del paretaio so- pravanzi il terreno d’ un braccio e mezzo. Sta bene aovato, e la capanna fra terra murata, coperta d’ellera o periploca o altra verdura, che non appaia agli uccelli. Ancora starà bene in forma ottangolare lunga, o in un quadran- golo che vadi a finire in sessangolo o penta- gono, maggiore o minore, secondo che s' abbino grandi o piccole le reti, le quali hanno a essere quadre bislunghe, accomodate con le corde in ammandorlato. Piantinvisi attorno, per coprire le gabbie, mortelle, spighi, rosmarini, lentag- gini e bossoli, tutti di questi variati o uno d’essi disperse, tenuti alti poco più di loro. Fassi far loro un cespuglio e dentro con il pennato o forbice uno scavato, tanto che vi cappia la gabbia un poco riturata; nel mezzo della piazza, un po’ verso la banda di sopra più che di sotto, a vantaggio ponghinsi vive assai piante fitte insieme di salci rossi, ma me- glio è neri, e ottimo di vimini non molto alti lasciati andare, perchè possino ben ricoprirgli le reti soprapposte a vantaggio due braccia 0 due e mezzo. Procurisi di tener | aia netta e 304 pulita da tutte le cattive erbe, e lo spazzato della sua piazza si ricuopra di terra da sapone, assodatavi con la mazzaranga, alta un terzo di braccio. E così s ha a porre per i viali dei giardini, perché non vi naschi erba, e generi un musco gentile, benché questo dalle quercie, non vi si calpestando, vi sì può commettere e fa bel vedere; ancora la ghiaia et arena, ben battuta con polvere di mattone, ben pareggiata, farà l effetto medesimo. Siano i cespugli delle piante, che hanno a tenere acquattate le gabbie, lontani l uno dagli altri un braccio e mezzo, e di quà e di là a dove sono a dirittura le corde, siano discosti gli uni dagli altri due braccia o due e mezzo. E se il passo degli uccelletti che vi capitano stia in alto sito o in qualunque modo egli si stia, si può accomodare, purché sia il passo abbondante che ve ne concorrano assai, o in frotta, o sceveri e sparpagliati. Nei luoghi di pianura si suole far gran fiacco di fringuelli et altri uccelletti di tutte quelle sorte che tu averai in gabbia, che cantin bene, allevativi dentro nidiaci, in compagnia di quelli che sieno di buon canto con varii versi. Il tempo del tender loro le pareti in Italia è pas sato mezzo Vl autunno sino a tutto | inverno, perché per i freddi più badano su per le fra- sche. Sia l uccellatore in ordine con le reti avanti al sole, sappi governare ben gli uccel- letti e disporgli ai luoghi loro, muti spesso i zimbelli che son legati con i fili alle frasche del mezzo. Si possono tanto queste quanto i paretai far posticci, per esperimentare i passi e le buone poste, e seguir così per chiarirsene, 505 poi piantarveli vivi e quelli rinnovare. Gli escati che s' usano in Toscana sono certe spia- nate in sul terreno, in forma d’ una gran tavola lunga, fatta ben pari e pulita, rasente i can- neti, i campi dei migli, saggine e panichi, e nei prati, presso alle macchie e siepi di more nere, per pigliare gli ortolani e altri uccelletti che vi capitino, e passere. Quivi si adattano le reti e quattro frasche da coprirsi, e si fanno maggiori e minori secondo le reti che s° hanno, e tanto in piano, quanto in tutti i siti e luoghi. [Qui finisce, a car. 152 recto, la prima parte, la parte generale, del Trattato degli Arbori. /{ verso della car. medesima è bianco. Due carte bianche, non comprese nella numera- zione, seguono immediatamente e dividono questa dalla parte seconda speciale, medita). S RS o i Li Tuca « S9 de Ò Sy sd i x 3 ” smetcoia MUDITiRLo (RO BATgo At Pa TA ha the) b'Agjt Gai ALU ‘b dint DE ROLica ge si (TO ti wbicgagoi sti fe, IL pi, ae Li grana GL i tod MIRTO, ski pisa tnt A oc (A {Rl MARA LILE pattini 14 dI pagaia IR ui patrie i qale! , ea, dati g ore ul: Adagasti AR «opii lil 47 BEL) sfera CALA È MEDIN PARA ITTAATOI da EDITA Te _ 09 : : Ù x We SVIELTI bi cntiugigo SUL «VIVI sw Lara lat sfandtanp o a ma doi 4 TTSASTÀ. Di: DA TAMETTA CITY Me «sami Mnipago, BETA dd nari PANZA AVIR SISI LISCIA vi errata Vs sint i > imbattuta hang Su ab È VA, " ‘ve è is AI % ì , bi % con nb tig DA) M i È Wikio dit i ata 4 Va LIA IT ‘pain d ’ x TIA i, i ; pi SA ante ? » PACI P L veli ei GIO. VETTORIO SODERINI TRATTATO DEGLI ARBORI PARTE SECONDA (INEDITA) ff }x ox CAMPO V SIA a 4 MO Loi Otr68 a I Abeto, e per aver sortito al nome suo la principal lettera dell’ alfabeto, e per essere fra le salvatiche piante per l utile e per la bel- lezza anteriore a tutte l’ altre, merita il pregio dell’opera di menzionarsi innanzi a qual si sia. Ha il maschio e la femmina. Questa più di quello si distende, ingrossa et allunga; quan- tunque un abeto, non è molto tempo andato, che si tagliò attorno al Lago Santo, fu di gros- sezza nel calcio quindici braccia e la sua altezza passò cento. La femmina nelle sue pine non ha pinocchio alcuno o nocciolo che sia, il maschio dal mezzo innanzi n’ è pieno, né prima generano, che sien cresciuti a una lor giusta altezza; ma nelle montagne di Trento tutti e di fiore e di frutto sono sterili. Hanno i maschi abeti le foglie più aguzze e pungenti, ét i rami più fitti e piegati verso la cima e serrati in- sieme, corti e minuti; le femmine di tutto questo il contrario. Sono più belli i maschi e più vigorosi; e tengono alcuni che creschino più in alto di quelle e che abbino il legname 510 più forte; e dell’ uno e dell'altra è più colorito quando comincia a gonfiare di primavera, et allora è ben metterlo a terra; il legname della femmina è più gentile e delicato, e più atto a far le botti e barili; ma dell'uno o dell’ altro fatti, a lungo andare corrompono il vino infor- zandolo, inacidendo il più delle volte le cose che si corrompono. In Piemonte solo, Stiria, Carniola e Carinzia, ove dalle più basse valli pareggia le più alte cime dei monti, rosseggia il legname dell abeto; negli altri lati, bian- cheggiando da prima, poco rosseggia di poi. Avendo a crescere l abeto in alto assotti gliandosi, tutto che e’ si goda dell’ uggia e ombrosi siti, a contrario del pino che ama il sole, [si alza] si che arrivi all’ aere aperto, et egli pure a godersi libera, lieta et aperta la vista dell’ aere e del sole; poscia nel mezzo ingrossa. La parte sua verso la cima è più nodosa e più soda e dura; l altre senza nodi. Piglia il fuoco presto e manda la fiamma assai in alto, per essere rado di porosità; e ’l1 suo vero sito è nelle vette dei monti, nimico alla vista della marina, se ben tanto in essa sì riceva in servigio degli arbori di nave, di ga- lere et altri usi marinareschi; et ancora nelle basse valli surge e fa bene. Si gode dei luoghi umidi et ombrosi, facendosi quivi più bello assai, più diritto e grosso, che a solatio. L' abeto tagliato di tronco o rami non rimette, e ta- gliata la cima quando è adulto, se gli fa portar pericolo di seccarsi; da piccolissimo la rimette e non patisce; e in alcuni lati, come in Babi- 1) lonia, scrivesi che rimette e ripullula, come 530 molte altre piante non resinifere. L'ombra del- l’abeto è contraria a quella del pino, che giova a tutto che se gli semina sotto, e nociva a tutte le sementi e frutti che gli son vicini. É l’abeto di sapore amaro, che fa che non intarla così presto ; tiene bene la colla et è atto a ogni sorte di fabbrica e lavori; et all’ acqua ancora e sotto e sopra regge per qualche tempo; ma eternamente si conserva nell’ asciutto. Crea l a- beto una ragia utilissima, con che si fa 1’ olio di abezzo, tanto utile e salutifero ai tagli, fe- rite, renelle e altri mali. L’abeto nasce dalla sua sementa solamente, cascandogli [essa] sotto; et ama terreno simile a quello dei luoghi in cui egli così nasce, grasso, in cima di color nero e sotto sassoso, ma fresco. Dispregia ogni sorte di coltivazione e con i vezzi e diligenze che se gli usino diventa men bello. Con tutto ciò, volendosi fare un’ abetina, o per la bellezza della verdura, avendo egli nelle foglie un verde naturale morato et acceso, più vago di qual si sia altra pianta, o per altro uso, o sia in una vallata, o piaccia di vestirne un monte o riem- pierne una pianura, fuor dell’ umido svegliasi il luogo per tutto sotto, in poggio tre braccia e mezzo, et in piano un braccio meno. Facciasi d’ aver dalla selva, ove naturalmente nascono e vengono da per loro, dei piccoli, non più lun- ghi d’un braccio, né meno né più; cavinsi questi con diligenza grandissima e con riguardo di non offender loro la barba diritta maestra, che n’ hanno poi più fatte di questa che va all’ ingiù, con il suo pane natio di terra at- torno, con maggior mozzo di terra che si possi, 312 e sin con la punta intera della lor fittagnola. E volendogli maggiori, cavinsi con questo fine, scalzisi loro d’ attorno un massello di terra da ogni banda, serrinsi con una botte aperta che sì chiugga con i cerchi confitti di ferro che li incavicchino, e capolevati si fascin sotto, con porvi grossa bene la terra che non caschi; e così portati senza scuotere, sì caccin nella buca fatta nel di avanti, e cavata la botte con dili- genza ; il che verrà fatto, avendo fatto la buca tanto grande che si possi stare a lavorargli d’ attorno, avendo tuttavia avvertenza di non gli guastar punto la barba maestra. Ma ver- ranno meglio e più sicuri s attaccheranno, quanto sieno più piccoli e con più terra natia appiccata alle sue radici. Così avendo accomo- dato il divelto, si faranno le buche, tanto in giù che basti a piantargli, e tanto a dentro che, ripiene, venghi la pianta ricoperta un palmo più sotto che [non] era prima in sul suo letto. E l'ordine di piantarla sia questo : mettere prima nel fondo della buca quattro o sei giu- melle d’ arena di fiume un po’ umidiccia e quivi sopra collocar la pianta con la sua fittagnola diritta, senza staccargli piota del suo terren natio, poi riempiere da ogni lato di terra cotta stagionata, calcandola con destrezza e disten- dendola con le mani, e riempiere di poi tutta la buca con suolo di loppa et uno di terra cotta, sin che sia uguale all’ altro terreno af- fatto. Deonsi piantare nei luoghi freddi di pri- mavera a mezzo marzo, nei caldi a mezzo ot- tobre sin a mezzo novembre, a luna sempre crescente ; e se l estate vadi asciutta, s' hanno 5 5 ad annaffiare, seguendo cosi sin che si cogno- schino, passato l agosto, bene afferrati. Ancora sarà bene e gioverà loro a mantenergli freschi seminargli all’ aprile et al maggio attorno la buca, quanto la tiene, lupini, lasciandovegli sopra alleficare. E non avendo comodità di di- velti, terrassi questo ordine: nelle fosse che si faranno, in quello scambio mettansi di molti sassi e fognisi apertamente, sapendo che nelle formelle, quantunque le si faccino agiate e grandi et a fondo bene, Vl acqua gli farà mora che vi stagni; se già non vi sì ponessero ordi- natamente di molti sassi e ammontati, come si fa agli ulivi. Nasce Vl abeto solamente di seme, come fanno tutti gli arbori che fan coccole ('). Genera il fiore di color del gruogo intorno al solstizio di estate, e ’l seme suo fatto si può raccorre quando dopo l' esser ite le Vergilie sotto, casca in terra; perciocche tutti i semi degli arbori che si voglino sementare acconcia- mente, si dee prendere il seme dei lor frutti maturi, il che è quando da per se casca dal l’arbore. Conviene adunque aver preparato un quadretto di terra grassa, crivellata, mesticata con un poco di arena e quivi gettar sopra i semi, sì che si ricuoprino quattro diti della medesima qualità di terra, e piuttosto meno che più; di poi con l annaffiargli due volte senza sole, sin che ne segua la lor nascita, e da quivi innanzi se vadi secco e sia asciutto il terreno, fare il medesimo. E dopo tre anni che sono stati quivi, con la diligenza di quelli che (1) coniferi, è scritto sopra coccole. 514 sono nati nelle selve sì trapiantino. Possonsi ancora seminare al fin di febbraio sin ai dieci di marzo, adacquandogli come s è detto; la- scinsi tuttavia crescer con tutti i lor rami senza mai trassinargli con ferri, perché si sde- gnano, e co ’l tempo saranno secchi da per sé quei rami che potessero dar loro noia all’ ingrossare, che nascon loro nel gambo da pie. E per questo, quando s hanno a piantare per far bosco, ponghinsi discosti sette, otto, in sino in dieci braccia l uno dall’ altro. Sono al- cuni che da piccoli e sin tanto che sieno gran- dicelli gli vanno palando, la qual cosa non è lor necessaria, se già non fossero piantati in lato dove avesse forza il vento fuor di modo. Ma disdegnandosi d’ ogni sorte carezze, è da lasciargli vivere a lor fantasia. I nodi dell’ a- bete fanno corone a tornio bellissime. L’Aborniello è di spezie di frassino, se ben non cresce mai tant’ alto, né sì fa così grande; detto dagli antichi orno e molto celebrato da loro. Ha il gambo delicato e la sua corteccia gentile, si come le foglie più delicate, le quali sono dalle capre e pecore più volentieri man- giate che non quelle del frassino. In alcuni luoghi d’Italia s addomanda costolo. Fa seme, et il suo seme si chiama da alcuni lingua di uccello. Nasce con difficoltà; ma perché fa ce- spuglio e pullula dalle radici, è meglio sbar- bare di questi polloni e con le sue radici tra- piantargli in luoghi che non sieno umidi 0 all’ acqua sottoposti, perché egli di sua natura ama i monti e non rifugge per questo i piani 515 che sieno difesi da quel difetto. Quello che fa nei monti ha il iegname più bianco, quello di pianura negreggia et è men buono; si rifà dei luoghi aspri et asciutti e d’intrigar le sue ra- dici fra 1 massi, dai quali strigati da piccoli et anco grandetti, si trapiantano in terreno ben lavorato, ma loro non troppo a dentro posti. La vite vi risiede su volentieri, si come como- damente vi s' allefica sopra e s aiuta, riducen- dolo a capitozza; si come agevolmente, spesso riformando i rami, sì mantiene. Il suo legname è buono a tutti gli usi che quello di frassino. Ha poco tiglio e si lavora con facilità. TL Acero è nero e bianco; di questo il le- gname è più delicato e gentile. Non è troppo differente dal tiglio di grandezza e di fazione di corteccia, un po’ più rozza, lividiccia, grossa e che contrasta al torcersi; cresce diritto, con poche barbe, e quelle in sommo al terreno. il suo legname è candido, pien di vene che segui- tano per lo lungo in foggia d’ onde marine, atto a tutti i lavori e massimamente a amadie da fare il pane e spianarvi dentro la pasta, et in taglieri per i bisogni della cucina, et a far tavole da portare il pane al forno. Fa in alcuni luoghi nascer del suo fiore un frutto non troppo lungo, simile a quello del paliuro; e matura. Seminato nasce mal volentieri, a tal che è me- glio cavato dalle selve con tutte le sue radici piantarlo con diligenza da piccolo in terreno ben lavorato, ma posto in cima della terra, di- lettandosi egli di stare a galla. Brama luoghi ombrosi, terreno fondato e buono, non suggetto 316 all’ acque. Ritruovasi ancora del grosso e ruvido, e del gentile e delicato, il che si cognosce alla lisciezza et alle vene. La vite non rifugge d’ an- darvi sopra e vi si distende su acconciamente. Il delicato si mette in opera per gli instru- menti da sonare, buono per catini e tatterie. La sua stanza è nelle cime delle Alpi e nei dirupati di esse e suoi burroni. L' Avornio è arbore non molto grande. Nasce nell’ Alpi e nelle folte selve. È detto da alcuni maggio, perche al fine d’ aprile si rin- nova verdeggiante e fiorito; e s usa per calen di maggio, nei luoghi dove si festeggia, in quel di appiccarsi alle finestre e sopra le porte delle case, per verzura primaticcia e bella. Questo arbore, cavato con diligenza dai lati dove egli fa, sì traspianta agevolmente e s appicca; e per i fiori è vario e di bella verdura. Il suo legname, tagliandolo di primavera a luna sce- ma e con la buccia sotterrandolo nella calcina viva o vero sotto al monte del letame, e la- sciatovelo stare qualche mese, piglia il color più nero del suo naturale e quel bianco che ha lo fa pendere in gialliccio e s assoda, somi- gliando l ebeno al colore ; il quale, con olio di lin seme strofinato, si fa più vivace e con lu- stro. Lavorasi al tornio con facilità e se gli fa pigliar forma di qualunque vaso sì vnole. Il [legname] per far scacchi da giuocare su l tavoliere o tavolette da ’1 medesimo, è molto trattabile e comparisce bene. Attaccasi così in piano come in poggio, e per tutto fa bel vedere. 317 IL’ Albero è bianco e nero: questo è fer- rigno ne ’l lavorare, l altro è più agevole. Al- bero è nome generale d’ ogni albero, e partico- lare albero nome [di questo] è. E di questo trattando, dirò primamente come ella è utilis- sima pianta per gli edifizi, per travi, tavole e tutti altri lavori che possino servire alla como- dezza delle case; et ancora nel fondamento delle case che si fondano sopra i pali è eterno sostentacolo fitto sotto l acque, ricoperto da esse. Piantato intorno alle ripe del fiume le regge e mantiene mediante i gran cespugli delle barbe che ha, che si dilatano lontane e rattengono fortemente il terreno dalle balze dei lor dirupi, per tutto intrecciandosi le barbicole loro infinite e confiolandosi in modo co 1 ter- reno, che non basta per la furia dell’acqua a smuoverlo, non che a portarlo via. Non genera frutto di sorte alcuna, ma da’ suoi fiori diven- gono in perfezione le sementi sue da potersi seminare, et alla primavera raccolte acconcia- mente all’ ottobre si seminano nei renai dei fiumi et in tutti gli altri luoghi arenosi, che tale ama terreno, umido, acquidrinoso e reni- schio, e non ch’ altro nell’ arena scriva s' attacca e vien grande, purché truovi sotto fondamento uguale alla rena, e bene a poter ire di pari all’ ingiù, andando egli con la sua fittagnola in profondo. Si pone a piantone, e questi vogliono essere staccati dai diritti rami che surgono verso la cima, o si vero dalle capitozze, sce- gliendo sempre i più belli et i più ben fatti, lisci, delicati e di pochi nodi e di grossezza del braccio ; e quanto più sia lungo, tanto me- 318 glio. È bene tenergli qualche di tagliati avanti che sì piantino, di poi in buche fatte fonde quanto è lungo il manico della vanga; e non volendo andar tanto in giù, faccinsi con essa due buche, e poi con un palo di ferro si facci un foro che arrivi dal fondo di quelle un braccio in giù; e s attaccherà e profitterà bene in ogni modo, da che co ’1 pal del ferro solo senz’ altro sì possono piantare nel terreno delle ripe e de’ renai dei fiumi, ove per tener saldo lo smottamento che fanno i fiumi s hanno a porre in esso fondi due braccia l uno dall’ al- tro; e per far gli albereti nei piani buoni che sì dichin loro, dieci braccia discosto l uno dal- l’altro s' hanno a piantare; e nelle vallate dove non è così terreno a proposito loro o altro ter- reno simile, s hanno a porre lontani I uno dal- l’altro dodici o tredici braccia, e î piantoni si deono aguzzare quando si ficcan giù, come i pali delle vigne. Attaccansi con tutto ciò per tutto come gramigna e massimamente in ter- reno umido e rasente l acqua, et in questi lati cresce presto e s augumenta a grossezza d’ a- beto, dirittura et altezza. Possonsi piantare al- l’ottobre, ma meglio è di primavera, che sono in umore, suzzati che sieno per tre o quattro di. Ponendosi fondi e fitti, meno saranno ve- gnenti e cresceranno, e diverranno più sottili. È di mestiero perché s' allunghino et ingrossino almeno ogni due anni rimondargli sino in vetta, avvertendo di non tagliare i rami rasente il tronco, perché fa incatorzolire il legname e il tiglio ritorto e ritroso, e ciò causa il tagliar lontano quattro o sei diti dal tronco, ché così 519 da per sé sì secca e non inasprisce il legname del tronco, e vieta che gli dien noia i nodi. Scapezzati e ridotti a misurata capitozza com- portan le viti, rendendo da loro assai frutto, si come fan le viti che fan Vl uve da fare il vin greco in Terra di Lavoro, che in su questi quasi tutte si tirano. Riceve in innesto sopra di se il noce che ha la buccia simile et il ci- riegio; e piantato in terra che non se li dica non cresce né ingrossa molto e stecchisce, non essendo buono ad altre manifatture che a far forme da calzolai, e, spartito per il mezzo, far zoccoli per i frati di san Francesco e per pia- nelle da donne. IL’ Albercocco (') il Miliaco et Asberges son tutte sorte di frutti e simili V una all’ altra, le asberges un poco più durette et aspre, si come di buccia men delicate; quelle due il contrario, e massimamente le ermelline e le alessandrine. Le miliache son le prime a matu- rarsi, dopo queste le albercocche ordinarie, le ultime le asberges. Le alessandrine sono più grosse di tutte; le quali insetate sui peschi ottimamente fruttificano e fan più grosse, si- mili al color d’oro, onde molti le addoman- dano volgarmente crisomele. Fanno ancora su questi le miliache, ma meglio in su i susini, ove più durano, come sopra i peri cotogni ; (1) « L’ Albercocco è di spezie di pesco, di gentilezza, di sapore e di bellezza di più pregio; e fansi una frutta mezzana tra l' alber- cocche e le miliache o armeniache », Sta scritto in carattere più piccolo fra le righe. somigliano gli albercocchi, che benissimo s in- nestano sui miliachi, e tuttavia meglio a buc- ciuolo e a scudetto che a marza, e più agevol- mente; sembrano nella foglia la fazione di quella del faggio e nella buccia quella dei susini; e propriamente i lisci di questa sorte e senza pelo sono le miliache, le quali compor- tano un poco più i luoghi e terreni freddi che gli altri che hanno un po’ di pelo, ma tutti sì caricano assai più di frutti nei siti e paesi caldi e terreni simili a solatio. Amano terre leggiere et alquanto arenose et abbondanza d’acqua; s appiccano qualche volta a ramo, sfendendolo da piè, ma con difficultà e con gran diligenza, ponendo delle granelle d’ orzo nel fondo della buca a dove ha a posar la fes- sura del ramo, mettendolo in buon divelto e riempiendo la buca di terra crivellata, solla, terra cotta e loppa assai. Più sicuri vengono i rimettiticci staccati da il lor pie con le barbe; e seminati di ottobre e novembre nei luoghi caldi, e di gennaio e febbraio nei più freddi, i loro ossi, tenuti prima in macero per cinque dì sotto ’1 letame, poi seminandogli con rico- prirgli quattro dita in terra divelta ben leta- minata e adacquandogli spesso; e nati si tra- spiantano avanti comincino a fare i fiori, po- nendogli a dove hanno a stare per attatto. A scudetto fanno bene sopra i mandorli e sopra i nocciuoli, d’ aprile e di maggio; e sì deono cosi questi, come li altri tutti che sieno nati d’ossi, rinsetare. E perché il loro legno è fra- gile e volentieri si scoscende, non sì mettino in luoghi alti e esposti ai venti; e sendo di 521 natura di durar poco, tuttavia sì conservano, levando loro i seccaticci da dosso. Patiscono assai di formiche e di bachi, per aver la lor buccia tenera, dolce e delicata; imperò bisogna riparare da principio, con scavargli con dili- genza e ficcando un ferro nel foro uccidergli, e con i soliti rimedi detti di sopra sovvenirgli. Ne sono d’ una spezie minutissima e di sciocco sapore, se ben multiplicano assai. E se ben fanno più di rado il frutto, non cogliendosi ogni anno, le grosse son più amate e più con- vengono al gusto, han più sapore e [sono] più sane, sendo fuor di modo lassative. Fassi di queste un intriso che si conserva l anno intero, molto delicato, cocendole nel vin dolce buono o nel greco, e passandole per stamegna e poi mescolandovi un mezzo di zucchero; avendo posato il liquore e ricotto e ripassato, assodato che sia, si conserva in vaso invetriato et è molto grato al gusto, intignendovi dentro la carne lessa. Sono gli albercocchi in Baruti grossi e grandi come quercie, fruttificando in abbon- danza infinita; e se ne fa in quel paese piacevol bevanda, cocendole con acqua chiara e passan- dole per staccio minuto, strette che l hanno al torchio, poi rischiarandole con lasciarle star in riposo, e dandogli un poco di sale a discre- zione, secondo la quantità. Condisconsi in mele un po’ acerbette, cocendole con esso e lascian- dovele star dentro coperte; ma con il zucchero son più delicate e meglio si mantengono. L’ Agno casto, casto detto perché conserva la castità messo sotto, e mangiato o beuto 21 322 diminuisce il seme genitale; onde solevano le matrone ateniesi [tenerlo] nei lor temosforii, [dove] sì stendevano i letti delle foglie d’ agno ‘asto per mantenersi la castità. Rende un po’ di similitudine al salcio nelle foglie, se non se sono alquanto più smorte e livide, in guisa di quelle dell’ ulivo; ma, come il salcio, fa alla seconda dei fiumi, nelle spiaggiette bagnate dall’ acqua, come che si goda anzi che no dei luoghi palustri. Così fatto è il maggiore; il minore ha più fitti i rami e le foglie più bian- cheggianti; quell’ altro morate e più piene di lanuggine, di fior di porpora; fa il seme come un granello di pepe nero, come l'altro bianco. E° nasce seminato all’ aprile in terriccio buono e ben adacquato, e traspiantato alligna e cresce nel terreni umidi e lati freddosi più che nei caldi; ma meglio è per piantarlo servirsi dei rimettitieci che egli fa da pié, strappandogli con la barba; et ancora de’ rami. Piantato quin- dici dì innanzi che voglia muovere in buon terreno ben rincalzato e strettogli attorno, feli- cemente s attacca e viene innanzi. Ambedue han V'istessa virtà. I corbi cacciano nei loro nidii, quando possono averne, le bacchette d’agno casto, contro ai pipistrelli che gli annoiano. È pianta di grande e vigoroso umore, come che facci alla primavera grandissime messe, ma più al tardi degli altri arbori, sendo serotino ancora a mandar fuori i suoi fiori. Credesi che chi essendo a viaggio porti in mano o cinta una bacchetta d’agno casto, non abbi per cammino a sentire scorticamento per sé, andando a piedi, in alcuna parte del corpo. 325 ‘L’Agrifoglio, che piuttosto agutofoglio me- ritava d’ essere chiamato, avendo egli pungen- tissime frondi, è arbore venuto d’ Affrica come i più fruttiferi d’Italia, per sino ai fichi. Sta tuttavia verde, e verdissima è la sua corteccia; fa i frutti somiglianti a quelli del pugnitopo, st come questo ha le foglie che pungono. Man- tiene la foglia verde in tanto che a pena si può altrui avveder che ella rimetta; ama ter- reno grasso et uggioso e volto a tramontana, nemico al sole. Preparasi con le corteccie delle sue radici il visco buono, cocendole e passan- dole per vaglio di rame con i fori minutissimi, e cotto, pesto e mantrugiato. Nei luoghi asciutti e secchi non cresce tanto. Seminansi le sue coccole quando son mature, che allora si ri- pruova quando spremute n’ escano i semi senza alcuna altra materia d’ attorno attaccata, riu- scendo puliti e netti, in terreno crivellato e grasso, e nascono agrifogli da traspiantarsi in luogo uggioso e freddo, che questo amano, godendosi della neve. Traspiantansi cavati dalle selve con diligenza e tutte lor barbe, con un poco di terra natia al piede, gioveni e piccoli; né si traspongano in luogo dove l acqua corra o sia [la terra] umidiccia; e servono per spal- liere di verdura continua e siepi impenetrabili. Ne altro studio vuol poi, appiccato, di diligente lavoro; e perché non teme il freddo, è meglio traspiantarlo di ottobre o novembre, che a pri- mavera. È openione che posto rasente le case ne rimuova le fattucchierie e gli incanti e le malie. Una freccia fatta di agrifoglio tirata contro a un animale, ancor che caschi in 324 terra senza colpa di chi la tira, da se si fa più innanzi, tale [essendo la] sua natura di pignersi innanzi. Pitagora scrive che co ’1 suo fiore si fa agghiacciare V acqua. La sua corteccia cava- tagli, involta nelle foglie degli arbori e mar- cita, il che avviene in dodici dì, allor fracidata la cavano, e tanto in una pila di pietra si pesta, che in visco si sdilinquisca; finalmente nell'acqua corrente, si che venghino a galla le reliquie delle buccie restatevi attaccate e l'altre brutture, lo lavano, et aggiuntovi olio di noce, di subito lo ripongono in pentole invetriate. Affermano alcuni appiccarvisi. sopra VT arancio, annestato a marza et a occhio; et io ho favel- lato a chi dice aver ciò visto; e fruttificare, se ben di sugo alquanto più asprigno. L' Azzeruolo rappresenta il garbo di fa- zione, buccia, foglia, d’ albero di pruno bianco; quello sopra il quale vien bene annestato [è] il melo e il pero, di più sapore che non sopra i peri e meli salvatichi, come ancora il nespolo. Imperciò comodissimamente vi s' annesta sopra a marza; e benissimo ancora pruova sopra il pero cotogno, e sopra il nespolo ancora s at- tacca e sopra il sorbo; e s'ha a insetare nei luoghi freddi al principio di aprile e nei caldi a mezzo marzo, perché muove assai per tempo. Ama terren grasso e piuttosto asciutto e re- nischio che umido, né rifugge sopra di se la compagnia della vite. I frutti allora sono ma- turi che appariscono ben rossi e coloriti, al tocco fatti teneri. Ma volendo conservargli, sono da essere colti alquanto innanzi; e tenuti in luogo dove batta il sole per quattro di, s° hanno a riporre in stanza mezzanamente fresca, coperti di asciutta arena. Nasce di seme, ma così vien tardi. La più diritta è fare un semenzaio di pruni bianchi e di peri cotogni, e scegliendo le marze tenere della messa del- l’anno passato, sugose e vegnenti, s' innestino. E quando s insetano, s' avvertisca che egli ha la buccia gentile e fragile e doppia come il ciriegio; facciasi che quella di dentro combaci bene con quella ove s annesta che quella di fuori, come & quello non importa più che tanto che pareggi, ché s' appicca in ogni modo; l im- portanza è che quella di dentro tocchi bene per tutto quell’ altra di dentro, né fa caso che non rimanghi uguale quella di fuori. Quelle che vengono di Napoli, dove prima furono condotte di Arabia, sono le più generose, e ne hanno una spezie senz’ osso, e delle candide lattate; delle quali essendone da messer Pier Vettori data una marza al principe suo signore, e di lì a certo tempo addimandando egli a lui se aveva mai fruttificato, rispose che si e che elle non s erano mai vergognate. Queste sono più delicate al gusto e men piccanti; le rosse acelaccate. e poste. nel vino che si fa per raspato, gli danno gran picco, e tutte condite nel zucchero spengono la sete, si come la lor decozione e gelo. Gli Aranci sono stati trasportati di Media, d’ Assiria e di Persia, e da tutte queste pro- vincie hanno sortito il nome e si descrivono di questa maniera: ch’ egli hanno la foglia 5320 simile all’ alloro, più delicata, più sottile e più nel mezzo corpacciuta e meno in punta aguzza, con molte spine pungenti tra le foglie e nei gambi dei rami, lunghe e sode et acute, e di queste più pieni da piccoli che da grandi; e di questa fatta son quasi tutte le sorte d’ agrumi. Ma la foglia dell’ arancio sola nel suo comin- ciamento ha la foglia spartita, quasi che ella cominci, da una piccola fogliolina la grande, che con questa è insieme appiccata. Gli altri tutti hanno la foglia che da dove ella comincia a dove ella finisce tutt’ una è e tutta intera, d'un pezzo solo; quella sola è divisa e pare che di due parti sia. Cresce ancora l arancio e diventa maggiore, dilatando i suoi rami et ingrossando nel pedale più di qual si sia altro agrume; resiste anche al freddo più di qual si vogli altro di loro, come che ove sia da ogni parte ricinto di muro, il luogo attorno alto quanto lui, facci e venga bene opposto a qual si sia parte di cielo, così in spalliera come in pianta che sia libera. Meno ancora si cura e da piccolo e da grande d’ essere adacquato, se ben piccolo ama et ha di necessità dell’ acqua per venire innanzi. Ma essendo egli posto ben a dentro al terreno, brama egli, in quello che sia simile a sé stesso molte braccia in giù, d’ essere fitto sotto tre braccia intere; non essendo forse altra pianta tra le domestiche che sì diletti d’ &ssere più ricoperta nelle radici di questa nel terreno, nel quale cava tutto quel maggior succhio e nutrimento che si può, con le sue fibre che son barbe come capelli, minutissime, con le quali attrae il nutrimento 327 che trascende al tronco e di quivi ai rami; et è cosa utile loro rinnovarlo e rinfrescarlo tutto al calcio ben sotto ogni cinque anni. L' arancio ha il gambo di metallo, le frondi di smeraldo, i fiori d’argento et i frutti d’ oro, e d'uno di questi du» è sempre carico; e dei frutti sempre, o maturi o mezzi fatti o acerbi, volendo, ne tiene. È ben vero che le melarancie lasciate invecchiare su Vl arbore all’ invernata, le vecchie perdono il succhio, diventando stoppose; ma di poi a primavera rinsucchiascano, diventando più grosse. I cedri ancor essi sì mantengono più dell’anno, fatti che sono in su V arbore; e similmente i vecchi e fatti limoni; ma si dan- neggiano le piante a lasciarvegli dimorar su tanto, facendone poi sino all'anno a venire. Facciasi adunque la pruova di pochi, et degli altri, quando son fatti, sì seemino, decimando gagliardamente; perche i frutti che vi rimar- ‘anno sì faranno più grossi. E così sì facci di tutti gli altri agrumi, dei quali sono varie sorte e fra gli aranci ancora alcune diversità. Se ne truovano dei dolci, di mezzo sapore e degli agri; alcuni hanno la buccia liscia, altri ronchiosa e butterata, et alcuni nascono con molti sbrencioli o escrescenze nella lor buccia propria, et alcuni fatti a uso di occhi divisi, et alcuni, che ne venne la razza di Sicilia, con una scorza variegata, distinta a verghe più grosse e più belle di tutte le altre; alcuni con seme assai, altri con pochissimo. Ne è una sorte in Genova venuti dalla Cina, che son piante piccole che hanno la foglia simile alla mortella, e tanto picciole di frutto, come un 328 fusaiuvolo. Queste sono commestibili e di nuovo buon sapore. L' arancio è detto così da Arancio, castello di Acaia. Altri consentono che fosse portato questo frutto dall’ isole Fortunate da Ercole d’ Atteo in Grecia. Ora gli aranci, i limoni, i limoncelli di Gaeta, i limoni del medesimo luogo, i limoni cedrati, i limoni accannellati d’ Amalfi, i limoni dolci, i limoni fatti a Foggia, i ponsini, le lurnie di Valenza, i limoni spata- fori di Palermo, i cedri, i cedrangoli, i pomi d’ Adamo, i merangoli, i cedri piccoli e grossi, se vuoi che venghin presto quando tu gli se- mini, farai fare una buona buca come usano di fare i contadini per mettervi il concime a fradiciare per servirsene agli ortaggi, che il buono non se ne vadi, a mezzodì volta o a levante, e faraila empiere di concime che sia mezzo spento, e sopra il concime spento un suolo di terra cotta mescolata con terriccio, alto un mezzo braccio e più; et in detto ter- riccio metterai tutti i sopraddetti agrumi, po- nendo i lor frutti fradici in quà et in là ad uno ad uno a uso di seme, o veramente le sementi cavate ad una ad una di qual sì sia l'una delle sorti frutti, e gli sementerai fatta la luna di gennaio, e gli farai poi, come ’l caldo viene, annaffiare gagliardamente, non gli ponendo sotto terra più di quattro o cinque dita. E ciò farai nei luoghi temperati e nei caldi. Nei freddi un poco più tardi; e così seguendo di governargli, coprendogli con dili- genza e con diligenza aggiugnendo lor letame ‘E e limbellucci ai piedi per due anni, vederai 329 che pruova faranno; e di poi gli caverai all’ ottobre e ‘trasporrai a dove gli vuoi; e questa medesima regola userai ai mandorli, persichi e albercocchi; né gli coprirai l inver- nata. Ma è ben vero che così s avvezzano di sorte, che se di poi tu non gli poni in buonis- simo terreno e vantaggiato luogo, ben volto al sole, e lasci di seguire di far loro vezzi straor- dinarii, a lungo andare non profittano così feli- cemente; ma per uno che ne vogli far arte per quelli due anni, di poi lasciarne il pensiero a chi gli compra, pur avvertendoli per l avve- nire di ciò, riescono così belli in vista, che ciascheduno se ne invaghisce e ne vuole avere. E non volendo fare questo modo di semi- nargli, volendo far le barbate di tutti loro e de’ rosai. da Dommasco o doppi 0 scempli, taglierai l arancio o altro agrume dei soprad- detti fra le due terre, e lasciagli far le sue messe; et il vecchio che tu tagli fallo porre a piantone non molto alto da terra, che s' appic- cherà; e tutte le messe del pedano vecchio terrai innanzi, potando i rametti traversi per- ché s' allunghino, e l’anno di poi, cresciuti che elli sono, scalzeraili bene, et avendo fatte certe fossette affonde mezzo braccio, li distenderai quivi dentro a uso di propaggine chi quà e chi là come una stella, cavando lor fuori la punta, riempiendoli di buon terriccio, dandogli dell’ acqua assai l estate, affinchè mettino buon dati barbe e più volentieri. E quando tu pensi ch egli abbin fatto le radici, il che cognoscerai scalzandogli: da una banda, e tu di nuovo ca- vagli attorno e scalza; e ritrovato il capo, 350 taglia quelle propaggini rasente il vecchio, e l’anno che viene fanne Vl acconcio che tu vuoi; e di nuovo l’ arancio vecchio si rimetterà e faratti il medesimo effetto; e potrà ripropaggi- nare, 0 lasciarlo venire innanzi, come più piaccia. Ma bisogna avvertire, perchè sono frutti che temono il freddo e massimamente il vento da tramontana, di turar bene dette propaggini con la paglia e letame grosso e limbellucci a piedi e stuoie, e con gettar loro addosso di molto sterco cavallino crudo; e se siano aranci o altri agrumi di frutto, niuna cosa è migliore che, sopravvenendo il gelo, scaricargli dei pomi; perché, lasciando i frutti, per il troppo umore che esala si seccano. E che ciò sia vero tu vedrai a quelli che non son gravi di frutti, 0 per me’ dire che non n’ hanno alcuno, più contro al freddo si difendono. Ancora, volendo i frutti più gagliardi e grossi, se gli levino questi sparsi dai rami più bassi e se gli lascino i più alti. Si godono d’ assai acqua, e massima- mente il cedro; e soli quasi di tutti gli arbori sentono giovamento dall’ Austro, restando offesi dall’ Aquilone. Nei monti opposti a tramontana, si che loro voltino a mezzodì, posti vicini, vengono innanzi bene. Piace agli aranci avere delle zucche seminate presso e che le lor foglie o viticci saglino sopra a coprirgli, sendo questo così debole lor caro copertoio. La natura di tutti gli agrumi è di migliorare sempre sopra gli arbori delle lor medesime spezie che si ritruovino di miglior sorte, se non se i limoni insetati sopra i cedri fanno i limoni più grossi, suavi d’ odore e sapore; con tutto ciò gli aranci 561 insetati sopra 1 pomi d’ Adamo acquistano fuor di modo e diventano più vigorosi e fatticci; e rinnestati gli aranci sopra gli aranci, di mi- gliori si diventano maggiori e più vegnenti. Quelli di mezzo sapore fan bene in su’ forti e quelli dolci sopra quelli di mezzo sapore; et i dolci sopra i dolci sì fanno più grossi di prima, et insetati sopra il pome d’ Adamo fruttifiche- ranno più presto. Desiderano vedere et essere al sole il più si può; perciò si ponghino a dove batte bene e stia scoperto assai. Amano molto l’aere della costa delle marine e valli e pendii, O pianure esposte a esse. Vogliono il terreno grassissimo e trito e leggieri; nei fiacchi e deboli non fanno così bene, e tutto che com- portino ogni terreno, nella creta et arena scriva non vengono innanzi. Pruovano nella terra fresca e si confanno assai in quella che succia ben l acqua, bramando d’ essere adac- quati tuttavia; ma nella terra che non smal- tisce l'acqua mal volentieri allignano, diven- tando giallicci con frutti vani e le piante squallide. Se la secchezza del tempo e del luogo ricerchi che s adacquino d'inverno, facciasi con acqua subito attinta dal pozzo o con quella di tiepida fonte, nè mai gelata; e tutta sì versi discosto al tronco, sì che in gittandola non Io tocchi e si sparga sopra le barbe. Nei semenzai si seminino lontani un palmo e mezzo l uno dall’ altro, perché si possa zappare fra essi due volte l anno a mezza estate et all’ autunno; siavi il terreno lavorato ben sotto et il solco mezzo ripieno, seguendo di porvi terra mentre che vi creschino, dandogli letame ben macero dI) II Li mescolato con cenere disfatta nell’ acqua. È chi tiene per openione che volte le punte in giù del seme nascendo abbarbichino meglio, come cacciando fitti parecchi granelli insieme, spunteranno fuori più gagliardi, et adacquan- dosi con acqua intiepidita al fuoco, cresceranno più sollecitamente. Ponendo in macero in acqua melata qual si sia seme d’agrume o vero in latte, mutandolo ogni di perché diventa forte, o veramente mettendo il seme in un guscio di noce ripieno di zucchero, si che V altro guscio si componga a lasciar tanto largo che possi spuntar fuori, o acconciandolo così in un fico secco spartito, di poi ricongiunto e seminato iu buon terriccio, poi al tempo traspiantato, farà i frutti dolci in quella parte ove suole essere l agro. Alcuni affermano che seminando 1 semi dell arancio ben maturo che sia di mezzo sapore, in maturando bene sempre più addolcisce, e farà gli aranci dolci; così volen- doli far forti, semininsi i semi d'arancio di mezzo sapore avanti la lor maturezza smaccata, rattenendo 1 semi della complessione del frutto. Le sementi si sceglino dai frutti più foggiati, meglio fatti e più grandi, ben maturi; e dei granelli i più grossi e stagionati e da niuna parte magagnati. Tenghinsi, nati, netti dal- l’erbe: e se ben» si disse di due anni che si possono trapiantare, molti ritengono che sia meglio di tre, cavandogli con tutte le loro principali radici e tagliando loro quelle barbi- cole che hanno come capelli e spuntando loro la maestra; e sì ponghino in terreno simile a quello di dove si levano, da mezzo gennaio in (©) Mi) YO) là nei paesi caldi, ne’ temperati di febbraio, ne freddi di marzo, e nei paesi oltre a modo caldi di ottobre e novembre. E le fosse ove si trapiantano siano agiate e profonde sî che vadi sotto la pianta due braccia e mezzo o tre, ricoprendo subito la metà d'esse, poi di quando in quando tutte, in quattro mesi, se il freddo gli facesse [noia]. Taglisi loro tutto il seccume su "1 verde, che così più felicemente rimette- ranno. Alcuni stanno ad aspettare, essendo secchi in qualche parte, dove e’ rimettano, e quivi accanto gli mozzano, e prima per aiutar- gli strappano con mano tutto ’1 faragginoso, avendo prima scosse tutte le foglie. Taglinsi poi con diligenza e si che la tagliatura riman- ghi liscia fuorché nelle spalliere, né si pon- gano troppo fitti l un sotto V altro, né in com- pagnia d’altre spezie arbori, e massimamente che si godono della compagnia di lor medesimi. Gli aranci ricevono volentieri sopra di loro i limoni, e di questa maniera si fortificano gli arbori dei limoni, che insetati sopra loro stessi si indeboliscono; et è utilissima agli aranci la cenere fatta delle spine di siepi abbruciate. È tutto che si dà di grassume loro s° ha a porre lontano dal pedale. Le corna di castrato sotter- rate lor sotto e appresso, li mantengono freschi e rugiadosi e sani. S'insetano ancora a marze, e queste deono essere elette fra ’1 nuovo e ’l vecchio; ma a scudetto pruovan meglio e più sicuri, e tanto più tagliando sopra l innesto quattro dita tutto il ramo con le sementi, ponendovi terra arenosa fresca; s insetano a scorza con bavero; et in qualunque modo s' in- ded seti, la semenza sì ponghi la punta d’ essa verso la banda di fuori, e sendo secchiccia tenghisi tre dì in molle nell’ acqua. È stato chi dice d'aver provato a insetargli in su ’l1 gine- pro, e sopravi aver fatto resistenza al freddo. Palladio par che dica che s insetano in piante di peri, mori, in meli cotogni e pomi, ma sono pruove che durano poco e vane e piene di menzogne, come chi ha scritto che insetandosi in sul granati i cedri, diverranno di color ver- miglio e di sapore assai più suave e gentile, et insetandosi i limoncelli in aranci, cedri 0 limoni, diventeranno assai maggiori; e quante più volte in loro stessi si rinseteranno, tanto sempre più sì faranno grandi e grossi; ma è meglio, per acquistar loro odore e grandezza, insetargli in cedri; dicono ancora che insetan- doli in salici o vimini, non producano semenza. Ma avvertiscasi, insetandosi in cedri, di por ben sotto l innestatura, rispetto al freddo ; imperciò si facci avanti sempre che si trapian- tino; e se pur sarà fatto l annesto fuori di terra assai et in luogo che non s' abbi a trapian- tare, fascinsì poi bene l inverno e s' adacquino bene, che così meno poi patiscono il freddo, purché non siano in terra che l acqua vi stagni o che se la succi tutta; et è bene per una canna che arrivi alle radici adacquargli, che sia chiusa in bocca perche non v entri l’ aere freddo. Ancora, quando sì piantano, por loro accanto un fascetto legato di sarmenti secchi, la farà trascorrere alle barbe con giovamento, o un vaso lungo di terra cotta bucato in fondo, che sì tenga pien d'acqua e v’ arrivi, o una 355) zucca sospesa che goccioli quivi attorno a poco a poco. Si guastano alquanto gli aranci e perdono di succhio quando viene il lor fiore; ma dopo che viene il succhio alle nuove [piante], torna nelle vecchie, che nei paesi temperati o caldi sì conservano in sul frutto tutto Vanno; ma gli arbori ne patiscono, non rafforzano e duran manco. Gli aranci si conservano in luogo asciutto nell'arena e nel gesso e nella paglia. I Turchi principali, i quali beono il sugo dei limoni mesticato con due terzi di zucchero, fondendolo e ben dibattendolo insieme, gli con- servano sotterrandogli in terra asciutta, sotto mezzo braccio. L'ombra degli aranci è nociva a tutto quello che se gli semina o pianta sotto. La buccia dello scudetto che s' ha a innestare dee essere liscia; e deono cavarsi da messe nate dell’anno innanzi fra ’1 vecchio e ’1 nuovo. Lo scudetto si cavi dove appare il nodo gonfiato un poco, che non vi sia spina; e con questa, quando non s abbi altro, che sia poco rilevato, s'attacca in ogni modo. La diritta è avere un ferro fatto in foggia di quelli con che si mar- chiano i cavalli, che sia triangolare, tagliente da ogni banda, st che spicchi lo scudetto a un tratto, e così, dove s' ha a applicare, si levi la buccia co ’1 medesimo instrumento, e postavelo a sigillo, destramente si leghi sopra Y occhio con delicata buccia di salcio 0 moro o canapa o lino, e lasciato stare per sette di si sleghi che sarà appiccato; meglio è ancora lasciarvi la legatura tanto che cominci a mettere. Giova assai a tener lo scudetto staccato per un poco 536 in bocca o vero in acqua limpida, tanto che si commetta; e perche al fin di maggio vengono in succhio bene, per tutto giugno e luglio sino a settembre sì possono annestare et al fin di settembre ancora e d’ ottobre, che metteranno poi più a primavera. S' hanno a coprire con due o tre foglie raddoppiate gli scudetti per difesa del sole, tanto che si cognosca attaccato, e poi si scuopra; e sendo in lato ventoso, destramente s' accomandi la messa a una canna o palo. Volendo piantargli nelle spalliere che va- dino stesi al muro, conviene piantargli rasenti esso a mezzo braccio, et accoste le piante l una all’ altra un braccio o un braccio e mezzo. Cosi, senza altro telaio che è nidio di topi, su 71 muro intonacato e imbiancato si guide- ranno e terranno attaccati con i chiodi, legati con ginestra o giunchi o salci delicati, d’ anno in anno tagliando le legature vecchie, perché le non recidino, massimamente adoperando spago, canapa o forte filo. E volendo telaio, faccisi ammandolato rasente il muro, di le- gname di castagno sfesso in asserelli, si leghino spianandovigli e distendendovigli su bene, non storcendo î rami, ma tirandogli ove vanno age- volmente a ricoprire per tutto, ricomponendo le nuove messe che fanno di tempo in tempo, tagliando quelle che escono dell’ ordine, si che la spalliera rimanghi unita per tutto e pari, e perciò venghi ben forte. Di marzo o d' aprile, secondo i paesi, s assettino, conguagliando con il pennato o cuoio, come più paia a proposito ; e dove di nuovo mettino, si levino e sì correg- 357 ghino, radduchinsi in sesto e ritenghinsi. Così fatte spalliere tureranno il muro e daranno piena verdura, ma poco frutto; e volendo anche questo, cavisi sopra la spalliera la punta di ogni quattro o sei piante, facendogli fare una bella rosta o foggiata pannocchia, e questa condurrà i frutti a bene; e s' assettino in modo che corrispondino di forma l uno all altro per spazio e misura equidistanti. Si possono ancora piantare accosto al muro un braccio o un braccio e mezzo, e lontana l'una dall’ altra pianta quattro braccia gli aranci, e lasciargli crescere a lor modo, si che si tocchino V uno l’altro; e di questo garbo averne spalliera, aranci e frutti. Et in qualunque modo, si deono adacquare sempre senza sole, nè mai su ‘l caldo; e potare o no, secondo che s' ami che gli stieno in dentro o sporghino in fuori. Nei luoghi caldi, ove fanno senza contrasto del freddo, se ne piantano moltissimi spazii in sui divelti, fosse aperte o buche, e si custodiscono e sì governano bene con lavorargli ai piedi due volte l’anno, concimandogli a primavera et all autunno, con letame fatto ben macero. Fannosi lor sotto i pergolati di legname, perché aprendo bene i rami et allargandosi sostenuti da quelli, portino maggior frutto; e tanto si fa ai cedri che sostengono maggior pesi. Non amano molto né si costumano a potare, imper- ciò il levar loro i rami superflui et infruttuosi fa lor grandissimo utile. Nei luoghi freddi assai conviene coprirgli con tavolato di sopra o tetto fatto di legname o paglia grossa e doppia, con sagginali di miglio e panico, tra 22 335 muri che gli difendino dai venti, con farvi sotto a certi tempi, anzi continuo, come a Parma, il fuoco in varie parti d’ esso, si che si scaldi per tutto. In Savoia a un giardino di quel principe è una spalliera di agrumi che contro al gran freddo di quel paese si man- tiene in questo [modo]: sonovi due muri l uno a ridosso dell’ altro, cioè due muri doppi, lon- tani l'uno dall’ altro un braccio e mezzo; a quello di fuori è piantata la spalliera, la quale sì cuopre con diligenza, non che altro, con panni lani, e tra lun muro e l'altro in terra si fa continuo fuoco di carbone, e quel tepore avvampa il muro che riesce nel viale del giar- dino, in modo che | aere riscaldato mantiene gli aranci a scoprirsi e verdeggianti e fruttifi- canti a primavera; sì come a Parma in piana terra vi sono posti aranci e limoni, che vi si conservano con un muro attorno sopra il quale si eleva un capannone di tavole fatto come s è detto, e col fuoco. È perché germinano poi a primavera scoperti, sì lavorano bene e sì concimano al muro e all’ aprile si scuoprono ai soli, rivangandogli e riconcimandogli di nuovo. Di questa maniera durano ancora nelle gallerie di Francia, tutti posti al coperto, eccetto che per quello spazio di tempo che l'estate comporta che si cavin fuori; né altrove che nei vasi e senza l'aiuto del caldo delle stufe che vi si fanno non basterebbero. Ma nei vasi se ne può fare d’ avere quasi in ogni luogo, se non se in Polonia, dove in ‘ambio s appruovano nei vasi gli allori; ma con l'aiuto del fuoco, si come in Praga, vi si alleficherebbero, e nei vasi anco gli aranci. È quelli che a tale effetto si destinano è bene da prima seminargli in piccole pignatte, et in capo all’ anno trasportargli nei vasi ove hanno a stare, rompendovi dentro la pentola e ra- dendo la terra con quelle barbicole che gli han attorno, e mettendoli quattro o sei dita più giù che non alti nella pentola. Siano i vasi larghi e capaci di corpo, larghi in bocca et in fondo agiati e bucati con tre o quattro fori nel piano d'’ essi, ove si metta dei cocci all’ al- tezza di un sommesso, per scolo dell’ acqua con che s adacqua; e se saranno, per dar loro più bel garbo, stretti di bocca e serrati nel collo e strozzati, abbinsi ferri che scavando attorno possino con la tortezza et acutezza loro arrivar per tutto sino in fondo a scavare il terreno e trarlo fuori per rimutarlo. Conviene questi vasi riempiergli sopra quei cocci o cal- cinacci, senza calcargli, di terra solla, grassa, crivellata, mescolata poi con letame macero bene, et ogni due anni, scavandola quanto più si possi dalla bocca dei vasi, rimutarla con altra simile, et aggiugnere attorno, avendo tagliate quelle barbicole, assai letame fradicio o terriccio buono; e nei vasi grandi sì cavino, affatto scalzati che sono gli aranci; e sospesi con corde legate, fasciando con cenci a dove tocca la fune, tagliar loro la terra con le bar- bette intorno; et accomodato con terra buona il vuoto che vi rimane, sgorgati i calcinacci 0 testi del fondo, ripiantarvegli dentro, e sopra a quel terreno tenere delle lastre che manten- gano fresco a battervi sopra V acqua quando 540 sannaffia; ma meglio è a ciaschedun vaso tenere una zucca pendente con un foro nel fondo entrovi un fil di paglia, che vi goccioli su a poco a poco. Deono potarsi nell’ aprile, tenendosi sempre bassi e che 1 gambo sopra il vaso non alzi più d’ un braccio, quivi lascian- dogli mettere i rami ugualmente in rotondo 0 altra foggia, accortandogli e scapezzandogli affinché faccino frutti e bassi; avendo per po- targli un paio di tanaglie che taglino, affinché stretto là dentro con esse il ramo, si stacchi in un tratto senza pugnersi. Piglieranno che forma si vogli, dandogliela da piccoli e di mano in mano mantenendogli in su quell’ an- dare, o aovata o di scacchi -0 di vaso, con corpo o senza, di navilio, di animali, come più piace, tagliandoli a’ tempi che mettano, non gli lasciando scomporre del lor sesto. Al fine dell’ autunno s hanno a riporre al coperto, e potendosi, in loggie, che si turino dinanzi con panni grossi di lana 0 stuoie per potere alzar- gli ai buon tempi del sole a godere il caldo; e se sia il paese freddo assai, tenghinsi nelle camere o nelle stalle, tenendovi sempre gli usci e le finestre chiuse, e quando allenta il freddo tenendoli socchiusi. Ma e in questi luoghi o in altri suggetti al freddo bisogna per conservargli annaffiargli con l acqua intie- pidita al fuoco, e cosi durare sin tanto che alla gioconda primavera sì cavin fuori. I vasi vogliono essere di terra ben cotta et invetriata per dentro; sono eccellenti di rame o di bronzo gittati, come si vede in...... ('); e .di. marmo (1) Nome di paese illeggibile, forse Tunisi. SAI più che più, o d'altra pietra che tenga il fresco; e soprattutto larghi in fondo e in bocca, per potergli bene e comodamente da tutte le bande lavorare; e quando si ripongono soprav- venendo il freddo, per san Martino, sendo bene che avanti questo abbino una brinata addosso o due, si cacci loro ai piedi assai sterco e pa- glione cavallino, e tanto si facci a quelli delle spalliere, alzandoglielo quanto tiene il lor piede, aggiugnendovi ancora in quantità limbellueci, che sono gli avanzaticci della lana che si lavora a far panni, che gli aiuta assai e gli aggiova contro al freddo; sieno ben turati con stuoie rinvestite con panno grosso, o sì vero appog- giando in testa stanghe o steli lunghi, sieno sopra questi stese coperte di covoni di paglia intrecciati e legati con i salci; o veramente travicelli confitti nel muro di sopra alle spal- liere da capo le turino, avendo sopra per piano stuoie o altra copertura di paglia; e siano tutte congiunte insieme che non vi traspiriì l’aere freddo, contro al quale gli ripara ancora la colombina disfatta e macera, anco cruda, posta un poco lontana dal lor pedale; così fa la pollina et ogni più caldo che sia letame. Quelli che sono troppo aggravati di frutti si scarichino, che più sì conserveranno; sebbene più d'ogni altro agrume resiste ai freddi l’arancio, il quale vogliono molti che venisse da prima dal mare Ircano e dal golfo di Persia trasportato. Fingono oltre a questo i poeti che questo pome fu dalla dea Tellure mandato in luce quando riseppe il messaggio di Giove e di (iunone, per favorire la divinità delle nozze 5342 loro con quell’odore o sì vero del cedro, che riconciliasse l amicizia tra quelli, e perciò detto fosse pomo nuziale. Confettansi le scorze degli aranci co ’1 zucchero; et interi piccoli con mele e con la sapa. La Betulla è un albero molto menzionato dagli scrittori detto nel paese di Trento be- dollo, ove nasce crescendo presto nei più alti monti coperti di neve. Ha la foglia simile al pioppo nero, tutta punteggiata di bianco, né fa frutto ne fiori. Ma la sfoglia della sua cor- teccia di dentro che tocca il legno è buona, rasciutta, a scrivervi sopra, e serviva agli antichi per carta e ne facevano volumi. Il legno suo è attissimo a far bastoni, e le verghe per i magistrati; le sue bacchette sono arren- devolissime, se ne fan cerchi, e il legno è di mirabil candore. Pertusato, scola dal foro acqua chiarissima, buona beuta a romper la pietra, continuandola. Conviene traspiantarla piccola, alla foggia che si disse dell’ abeto, in lato fred- doso. Il suo succhio, messo nel presame del latte, conserva i caci dai vermini, ma più assai la liscia fatta della sua corteccia, la quale mantiene la fiamma accesa, sendo untuosa. Il Bossolo ha le foglie simili alla mor- tella, più piccole, più rotonde, più corte, grosse e meno appuntate. Ama i lati freddi et uggiosi, più volentieri nei monti che nel piano va augumentando, sebben per tutto s' alligna, et in terreno secco et asciutto. Il legname è so- dissimo, senza medolla, durissima sparsa per 343 tutto ’1 legno; atto a tutti i lavori di tornio et a tavole pulitissime da segnarvi su ogni sottilissima lineatura. Nei piani diventa più liscio, più delicato e più tenero. In Inghilterra et in Corsica è grossissimo. Serve all’ opera topiaria per spalliere obbedienti alle forbici, da ridursi in qual si vogli forma e garbo, man- tenendolo con la sola cura di truciolarlo quando muove. Non muta mai foglia; e ’1 suo fiore succiato dalle pecchie fa il mele amaro. Il suo legname pur tuttavia mantiene il color giallo che ha, non avendo né crespe né vene altrove che nelle barbe. Il suo legname per la sua densezza subito va a fondo. Sta verde sempre, ima rende cattivo odore et infetta l’aere di cattivo e grave seto, che par che offenda la testa. Mescolatavi dentro a bollire la cincistia- tura del legname e delle foglie, lavandogli f: rossi i capelli, e ’1 suo decotto ferma l uscita et astrigne. Nasce della sua sementa seminato con la diligenza dell’ arcipresso, e de’ suoi ri- mettiticci da pie s allefica molto; e piantato di ramo, pigliando certe frasche piccole et attorcendole nel calcio e ficcandole in buon terreno, perchè non rifugge il piano e vuole il freddo, ma a solatio, s' appicca e viene innanzi. Non ama d’ essere lavorato e zappettato intorno più che tanto. E buono ancora a piantare di quà e di là per lunga tesa alle ragnaie, per tenere dentro gli uccelli che non svolazzino fuor della macchia; e si piantano ben fondi e fitti et in tre doppi, due terzi di braccio l’ uno dall’ altro per lato, e per lo lungo un braccio e mezzo dall'una all’ altra pianta. Ancora al- 344 l’uccellare dei tordi potrà, nel medesimo pian- tato, circondandolo servire. Il Cedro è pianta nobilissima, più gentile assai, più delicata e tenera dell’ arancio e del limone ('). Ha la foglia tuttavia più liscia, più morbida e grossa del limone; e siccome quelli desiderano d'essere piantati sotto due o tre braccia, a questo basta un solo o uno e mezzo. Sta tuttavia co ’1 frutto, avendone de’ pic- coli in un tempo, de’ mezzani e de’ grossi. I meglio da mangiare fanno in su ’l lago di Garda, ma son più piccoli di quelli di San Remo che sono grossissimi. È di rimedio il suo frutto presentaneo contro a’ veleni, perciocché in Egitto, siccome Cleopatra s' elesse di pro- cacciarsi la morte co ’1 morso dell’ aspido nel capezzolo, così in quel paese facevano morire i condannati con il medesimo morso; a tal che essendo addotti due al luogo della giustizia, che erano per essere puniti a morte, nell’ essere addotti al luogo d’essa, uno di loro, incontrata una donna che aveva dei cedri, compassione- vole chiestone uno, glie lo cortesemente largiì e mangiosselo; arrivato al supplizio, non ne patì alcun nocimento; il che essendo riferto al (1) Sta scritto fra le righe nello stesso carattere più piccolo: « ora con il mirollo dentro agro et ora alcun altro con dolce. Et è ancora differenza dal cedro al cedrangolo: quello ha alti, superbi et elevati rami, con grande e smisurato pedagno ; questo ha i rami più a terra e più bassi, che cascando a terra li lascia andare, et ha più odore la sua foglia et il suo frutto; e quello è più abbon- dante nei tiori. L'uno e l’altro di perpetua foglia: a quello è il fiore biancheggiante e nel mezzo gialliccio sparsamente, a questo rosseggia alquanto ». 545 principe e rinvenuto che aveva mangiato del cedro, fe’ l altro dì esperienza d’ ambeduoi, e quello a cui fu dato a mangiare il cedro scampò; l altro incontinente perì. Onde fu osservata la gran virti che egli avesse contro ai veleni, si come la sua scorza confetta co ’l zucchero è buona contro la peste e conserva dalle corruzioni e putrefazioni: e la sementa loro propriamente preparata in lattovaro con- traria ai veleni, et i loro frutti posti interi tra i panni lani gli riparano dalle tignuole. Truo- vasi scritto che Clearco averebbe fatto morire infiniti suoi sudditi, se non avessero saputa la virtù dei cedri, i quali amano i luoghi caldi et esposti alla marina et i caldi e temperati; e nei freddi ancora alligna, con la cura che si disse degli aranci, usata con più diligenza et esquisita maniera, perché sono tementissimi del freddo e da altra banda amantissimi del mettere tuttavia, onde è che quelle sue cime tenerette son buone così crude nell’ erbosalaceto. Godesi d’esser adacquato assai e solo di tutti gli arbori s aggiova per l Austro, restando noiato per l’ Aquilone; e con muri posti a rincontro con- viene difendergli dal vento tramontano; a tal che alcuni amatori di questa pianta nei fred- dissimi paesi ('), avendo murate a posta certe (!) Sta cosi scritto fra le righe: « Alcuni altri nei paesi freddi empiono una carrozza di buon terreno che sia a proposito loro et a’ tempi tristi la tirano dentro al coperto ben sobbaggiata di strame fitto dentro in stretti graticci di salcio e di sopra stivati e serrati con covoni di paglia, facendo fuoco da lontano, che facci fiamma e fumo se "1 freddo stringa. Ancora vi s° accomodano appresso certi monticelli di calcina viva, spruzzandovi sopra un po’ d’ acqua che ecciti quel fumo, qual ricevendo lor giova, come 346 cappelle in volta verso mezzodì, postigli presso al muro, la estate aprendogli al sole, l inverno gli han coperti con stuoie copertate di panno, tenendo dentro acceso un caldano di fuoco, ponendo loro addosso di molti gambi e foglie secche di zucche; [cosi] li campano non solo a verdeggiare, ma a far frutti. Grodonsi questi arbori d’ esser di continuo lavorati e scalzati attorno. Ama il terreno di molto rara natura, ma grasso affatto e che scoli tutta l acqua. Si pianta e sì semina accon- ciamente nei luoghi caldi nell’ autunno et innanzi all’ equinozio di primavera, nei luoghi temperati e un poco più freddi di marzo, e vien bene a seme, a ramo et a pollone et a piantone. Piantasi in questa maniera: in terreno divelto, fosse aperte, buche o fornelli quadri grandi e fondi, di buon terriccio ripieni e di sassi grossi fognati bene ('), metti i due capi d’ un ramo tagliato dalla cima e da pié, e sotterrato da quello che esalerà dal letame crudo, caldo postovi e rivolto. Ancora, caldani di carboni accesi roventi riscalderanno I° aere a camparli contro la violenza del freddo. Ma tuttavia che si tema di gran caldo e si senta, allora è da adacquargli a doppio mattina e sera e a mezzanotte, e questo occorrerà ancora ai gran freddi e ghiacci e neve, annafliando a doppio con acqua attinta di subito, avver- tendo che dopo che sien seguiti grandissimi freddi, che gli abbino scampati, non sono per un pezzo da essere trassinati con ferro tagliente, si bene lavorargli e letamargli al piede ». (') A questo punto comincia fra le righe il brano seguente : « Et appresso sotto e sopra alle sue radici e barbette sottili gio- verà assai spargervi a discrezione arena di fiume; e multiplicate le radici e quelle fibre che fanno nel processo di tempo, scalzinsi et aprinsi le barbe d’ogni intorno loro e si vadin decimando a discrezione, non ne lasciando loro di quelle, se si spargono all’ aperto più del bisogno ». 547 ogni banda sî che facci arco; e quivi gli occhi che lascierai metteranno con vigore; dipoi ta- gliato averai l arbore, e quella talea, cioè mazza, tagliata da ogni banda, e clava, cioé bastone 0 mazza, che non si vuol torcere, mettila giù da capo. Quello che sarà più grosso, metterà su; et il più sottile si ficca in terra e vi s' aggiugne attorno cenere di fico. Piantandolo con mazza spiccata dall’ arbore, dee essere la mazza di lunghezza d'un braccio e di grossezza d'una aggavignatura di mano, rappianata da tutte le bande dai nodi e dalle spine tagliate rasenti, lasciandovi tutti gli occhi perché possi germi- nare da essi sotto e sopra. Il tallo o ver marza più gracile dee essere, ma non più lungo d'un piede e mezzo, perche non si putrefaccia, e cacciarsi sotto tutto come la mazza. Molti lim- piastrano prima di bovina et alzano un fascione attorno d’ aliga, o l infardano nel calcio d’ ar- gilla stemperata e da capo; e così da tutti i due lati la cacciano nel divelto, sotterrando la mazza tutta ('), lasciandola fuori di terra due palmi. Volendo seminarlo con i suoi granelli, sceglinsi dei più grossi e presine tre insieme, con la punta all’ ingiù si faccino ricoprire in terreno divelto con terreno mesticato di cenere sotto tre o quattro diti, e faccisi che restino seminati nel basso del solco, perché prima sì possino più agevolmente inacquare e più ap- (1) E ancora fra le righe: « Si propagginano ancora i rami, tirando i più bassi sotto terra, accomodandogli dentro a un doc- cione largo e lungo pieno di terriccio; poi in capo a due anni sì taglia rasente la madre e si pianta dove si vogli; ma conviene sempre adacquare ». 348 presso meglio rincalzare di mano in mano che sieno cresciuti di primavera, piantandogli poi all’ altra primavera. Tenghinsi le sementi in macero per tre o quattro di nel latte di pecora, cambiandolo ogni dì perché inforza, ovvero in acqua melata, ché con questa si corregge il loro agro; et annaffiandogli con acqua tiepida, ver- ranno più rigogliosi e più presto, sì come i Giapponesi, bevendo sempre calda la chia, dicon giovi più ai lor corpi; subito nati o in altro modo appiccati, si levi loro l erba d’ attorno e sì scavi bene il terreno per adacquargli, zap- pandogli quando sono asciutti spesso d’attorno, che di questo godono come dell’ essere annaffiati e che sia lor rimesso del terreno grosso al piede. Desiderando (') dove faccin grossi i cedri, ch'egli rappresenti la sembianza umana o d'altro animale, facciasene una forma d’incavo con gesso o terra cotta, che prima, quando è cruda e quel tenero, sia spartito con un filo di ferro, ricongiungendolo poi insieme sopra ’1 cedro, non serrando la stampa prima che il cedro sia sin a mezzo cresciuto, accomandando in modo (1) « E soprattutto bene e presto fruttificheranno, ponendo loro attorno al piede carogne di carne, gli escrementi dell’ uomo e tutte le bestie morte con l’ossa. La cenere giova loro e l’orina del- l’uomo. E tutto questo si facci di notte, rispetto all’odor tristo. Cresciuta di tre anni la pianta, si dee dargli quella forma che si desidera; e tutte le tagliature si ricuoprino con cera; e per fomen- tarla di continuo con acqua e ristorarla, se gli leghi sopra un vaso con corda, pieno d’ acqua, ponendo un cencio lino su l’ orlo che arrivi di dentro in fondo e di fuori alla metà, a stillar 1’ acqua che percotendovi sopra conforti la buccia. E dubitando di saette da cielo, ponghivisi fra i suoi istessi rami dei rami d’ alloro. Cosi di verno e di state averà fiori, frutti principiati e dei finiti ». Cosi tra le prime righe di questo paragrafo è seritto. 549 a legami che non venga offeso né il ramo né ‘1 frutto; il quale riempirà tutti i voti del cavo, rappresentando tutto che vi sia dentro; e se sia colorito nel volto, anche di questo piglierà la forma. Ma è di necessità stoppar il cavo di sotto e di sopra di maniera, e dal diviso che sì ricongiunge, che non traspiri o v entri aere in modo alcuno. E di questo modo accomodan- dogli attorno un vaso di terra o di vetro, che non vi sia dentro figura alcuna, crescendo si sforzerà di riempierlo quanto più si possi. È openione che ’1 cedro insetato a occhio frutti- fichi meno; imperciò, innestandosi a marza nel legno o tra la scorza, farà meglio. Strofinando i cedri su l’ arbore intorno alla corteccia per tutto, si conserveranno assai tempo e quasi per tutto un anno, si come nell’ orzo e nel miglio, colti che sieno, ricopertivi dentro. Con- viene legare quelli che s' hanno a serbare quando la luna è sotto, e sì cogliono rami e lor foglie, con i quali appiccati in Imogo chiuso dureranno assai ('), essendo colti di notte quando non luce la luna. Alcuni gli conser- vano nelle casse fabbricate del medesimo cedro, facendo un suolo delle lor foglie et uno di cedri; rincalzati ancora di minuta paglia i grandi bastano assai. Ai cedri posti nei vasi, come cominciano a crescere e formare Vl arbore, (') Qui comincia un periodo fra le righe: « E volendo che stieno su l’arbore tutto l’anno, ne leverai con mano una parte et il resto lascierai a ingrossare nelle loro boccie gravide; e così tosto da quella parte che ell’ è spogliata, [la pianta] darà nuovi fiori e ripieni i rami di frutti, tenendone addosso continuamente dei maturi ». 550 sì dee spuntare tutte le messe tenere, di mano in mano che le dan fuori e di rado toccarlo con ferro, decimandogli con le mani. Mettinsi al coperto prima degli aranci, non aspettando che dia loro addosso la prima brinata ('), et in luogo che ogni aperto sole gli riconforti; e quando si veggon troppo carichi dovere essere di frutti, il che si cognosce dalla qualità dei fiori, quando vi è dentro una certa pallottolina verde (gli altri che non l hanno sono vani), conviene cavarne parte ai rami più bassi, e quegli che sono negli alti venghino innanzi, che saranno più grossi. Nei luoghi freddi ripon- ghinsi in lati dove sieno turati con panni grossi, e facciavisi del fmoco perché sentino laere caldo. Dicono che Vl agro. di cedro si fa dolce se a piè del tronco dell’arbore così per traverso sì facci un foro che non passi dal- l’altro lato e si riempia di loto dopo che averà fatto tutti i frutti; e prima si lasci scorrere tutto l umore che vi cali. Ma l agro di cedro cavato col zucchero diventa dolce e trae la sete. Alcuni bucano sotto la radice sua prin- cipale stortamente e lasciano scolare quel lacquerugiola che e’ gitta, lasciando aperto sin che i pomi sien formati, e tosto serrando il pertuso, riempiendolo di creta. 0 veramente, si tagli la più grossa messa di ramo ch’ egli (1) Qui comincia un altro periodo: « E volendo acconciargli a spalliera, accomandinsi a asserelle di quercia intraversate di canne, lavorando spesso intorno al piede, ma non appresso, a rin- novare il terreno; e cerchisi con coperture buone difendergli dal vento Borea, lor nocivo, e massimamente quando souo in fiore; et a ciò gioverà assai il riannaffiargli ». 551 abbi e scavisigli il midollo per l'altezza d’ un palmo, infondasi di mele e turisi con cera, coprendo sopra con una lastra che sia piana; e quando si vede che la pianta abbi succiato detto mele, rimettavisene dell’ altro, spargendo al medesimo tempo alle radici dell’ orina, e levinsi da quella parte ove si mette il mele tutte le messe. Saranno così migliori i cedri e l’agro dolce. Un’ esperienza mirabile si vedrà del cedro. Si fa al tempo dell’ insetargli a occhio, cioè a scudetto, che è quando sono bene in succhio, di maggio o di giugno, secondo i paesi. Scerrai sopra la vermena un occhio che sia vigoroso e da dover presto maturare, et a questo avendo con un appuntato coltello tagliente intorno a scudetto, in’ triangolo come si fa, scoperta la prima buccia e seconda sin in sul legno, lasciando stare il puro occhio intero e massi- mamente con l aguzzo, ove ha a spuntare, dei soprapporre lo scudetto intero che tu abbi in un tempo spiccato da un limone, facendo che lun occhio venghi soprapposto e congiunto sopra l altro, et il rimanente della buccia incastri e combaci con lo scavato triangolo nel cedro; dipoi lega e lascia metterlo. Passerà la vermena del cedro e ‘n quella del limone met- tendo, farà tutto un rampollo, il quale poi mettendo farà i frutti così fatti, che nel centro del loro agro averan creato un limone intero; e tagliando prima in mezzo il cedro, taglierai anco il limone con la sua scorza tutto sano. La cenere delle viti è utile al cedro sparta alle sue radici. Nei luoghi caldi si possono 552 insetare d’ aprile, nei freddi di maggio a fes- suolo ben bassi, rasente a dove di terra surge il troncone. S' insetano nel pero e nel moro, fortificando l'innesto con un cestino attorno pien di terra buona, o con un vaso che si ricomponga di terra cotta. Scrivono che se e’ si colì, stilli, sì strofini o bagni per una notte intera Vl agro di cedro negli occhi altrui, in traverso si storceranno; et un cedro posto sopra un pan caldo più tosto contrae la putre- fazione e più presto corrompesi. Contro alle cimicie si cuocono le sue foglie nell’ olio, e con questo s'ungono i legnami dei letti e le lor commessure. Se si innesteranno a marza con la diligenza detta in un moro rosso, s° ave- ranno i frutti rossi; e di questa maniera sono venuti li pomi rodii. Aggiungasi a quell’ in- seto nel moro il piantare appresso delle rose rosse, e diventeranno più rosse. I cedri si faranno più grossi, tagliando dal mucchio dei rami che gli sono attorno più fruscoli che si possi, ancora che fossero carichi di frutti. Suda il cedro una ragia che s addomanda cedria, medicinale. Condisconsi da piccoli interi nel zucchero, facendovegli bollir dentro per un pezzo e schiumando a proporzione. Sì confet- tano ancora le scorze intere et in pezzi con il zucchero, et è conserva molto cordiale e con- fortativa allo stomaco. Giova al cedro essere adacquato con Vl acqua melata o tiepida, e ta- gliare le barbicole che fa in cima alla terra ('). (1) E fra le righe seguita e finisce il capitolo del cedro col seguente periodo: « Il frutto del cedro posto fra î panni gli difende dalle tignuole, come fanno ancora le foglie, le quali proibiscono il 395 Il Cedro arbore della Giudea, del monte Libano, dell’ Assiria e d’ altri luoghi, non alligna nei nostri paesi, dilettandosi di star di là dai mari. S' alza, cresce et ingrossa a pari di qual altra si sia grandissima pianta, e serve con più bellezza a tutti i medesimi usi degli edi- fizii e lavori dentro alle case, avendo un le- gname duro che non sente tarli; onde dei libri cedrini fatti di sottilissime tavole di questo arbore, per scrivere se ne servirono gli antichi. Salomone se ne accomodo per travi agli imba- stimenti dei tetti del tempio. Suda il suo le- gname perché rimette l umore; con tutto ciò è quasi d’ eterna materia, odorata, incorrutti- bile, né mai tocca da tarli. Il suo frutto è similmente di bonissimo seto, del quale, come del legno istesso, s' esprime odorifero liquore. Somiglia di garbo, foggia e fazione il ginepro, avendo quasi come lui la foglia. Approda ancora in Cipri e ’n Candia, Licia, Gade e nel monte d’ Atlante. Somiglia la sua sementa quella del cipresso, della qual nasce, ma non viene innanzi. Ama luoghi calidissimi e terreni oltre a modo sottili. Da questo gran cedro ancora scola l acqua chiamata cedria, che val tanto alla doglia dei denti tenendola in bocca, e s appruova per buona la grossa, la traspa- rente e di grande odore, che mentre che ella generarsi fra loro. Il seme del cedro posto nell’ acqua in un bic- chiere che stia al sereno per una notte, dato a bere ai fanciulli che senton di bachi, beuto gli guarisce. Giova allo stomaco fasti- dito, si come condito col zucchero, e tanto fanno i suoi fiori, così acconci, E cosi tutto il succhio del cedro giova al veleno ». 23 DIL si cola sta contenendosi insieme, e ben rappresa con le gocciole attaccate l una all’ altra, e sempre a gocciole dissipata (') cola. Fassi della cedria l olio. Fu già in Cipri un albero di cedro arbore d’ altezza di cento trenta piedi e di grossezza di dodici braccia; fue tagliato alla galea di Demetrio, che aveva undici ordini di remi. Il cedro arbore di Licia è più piccolo del l’altro: ma in Egitto fa quell’ altro che ha i frutti simili a quelli del ginepro, ma rossi, e proprietà di conservare i corpi morti, fasciati che sieno di quelle pezzette intinte in quei liquori di balsamo e cedria, come accostuma- vano; sì come se n'è visto uno in Firenzia addotto di là, con tal legname e modo conser- vato, di duemila anni e di passo manifesta- mente. Da quel piccolo si cava una colatura con che si faceva il vino cedrino, stimato tanto dai re e da Tolomeo. Vive il cedro eterna- mente; e quando par secco, tagliandosi fra le due terre, rinnuova fresche messe a produrre innanzi la vita. Il Cedrangolo è spezie d’agrume simile al cedro e sì chiama ancora merangolo ; resiste al freddo un poco più del cedro; et il suo frutto del medesimo nome è minore di quello del cedro assai, di forma lunga, rotondo, schiac- ciato, ma grande e grosso. Truovansene delli raschiosi e bernoccoluti e delli lisci, con frutti sempre o fiori. Fa bella verdura nelle spalliere e per tutto. Ha le foglie più vigorose, alquanto (1 staccata è scritto sopra dissipata. 395 maggiori e meno aguzze di quelle del cedro. Attaccasi a ramo e viene ancora bene di seme; e calati a terra e ricoperti, i suoi rami gene- rano barbe presto, e tagliati sì traspiantano in terren grasso e si fanno arbori grandi. Ama l’acqua. Vi s annesta su acconciamente il limone et il cedro medesimo, e vi pruova su bene ancora l arancio, acquistandovi su gros- sezza e grandezza. Levata quella corteccia che ha di fuori e tagliato un poco del suo agro con un poco di sale, è così saporoso e buono a mangiare, quanto si sia qual si vogli altro agrume. Richiede la medesima cultura e rag- guardo dei cedri. Grande obbligazione è quella che si dee avere alla divina bontà del Supremo Motore per il Castagno, poiché le frutte di lui in tutti quelli paesi o alpestri o d’ altra condizione che si sieno, per lo più dove si bee vino d'’ aere, servono per frumento, vivendosi del pane di questo legno et in tanta buona qualità d' ope- razione, che dai più intelligenti si tiene che le castagne di nutrimento sieno le più prossime al grano di qual si sia altra cosa di che si facci pane. Ora, sia egli chiamato così da Ca- stano terra di Magnesia o da greca voce deri- vato o altra, il castagno è arbore veramente utilissimo per cibo e per legname, reggendo questo all’ acque tanto al coperto quanto allo scoperto e servendo agli edifizii per sicurissime travi; e posciaché egli non ha potuto cosi come il mangiare sumministrare il bere ai mor- tali, tuttavia ha provvisto che di lui si possino 550 fare i migliori vasi da tener vino e tini da pigiarvi dentro l uve, di qual si sia altro ar- bore calcante la terra, e tanto tenace e di così fatta sorte buon tiglio, che regge a potersi far d’ esso l'istesse botti senza altri cerchi, inca- strando le doghe sopra i fondi a coda di ron- dine, commesse sottilmente; oltre a che è ottimo ancora a far quelli, e di più i suoi vin- castri, a far graticci, cesti, bugnole, et altri usì necessarii a chi giornalmente tratta la terra con gli instrumenti di ferro e con le mani. Ama questa fecondissima pianta e fuor di modo procera (da che se ne vede una ancora annosissima su la montagna di Silano, rosa dal tempo dentro, dove abita una famiglia, sendo il suo cavo di giro di trentasei braccia ; et alla passata di Papa Farnese a Nizza sgomberata, vi si raggiro con l ombrella, volteggiandovi con la sua candidissima montura) il salvatico, e non rifugge il domestico ; godesi d’ essere posta volta a tramontana e nelle montagne, come che brami il freddo; desidera la terra pura, risoluta, disfatta; con tutto ciò il sabbione e tufo che sia umido non recusa, gli è amico e vi fa bene, come ne’ monti. Rifiuta il terreno denso, l acquitrinoso, V argilla e la ghiaia, e quella terra che sia di rosseggiante colore. Di- lettasi dell'ombra, vi cresce e v acquista fuor di modo. Disama le fonti e V acque e i correnti fiumi e quelle stagnanti; s allegra dei lati sabbionosi et asciutti. Appetisce l aere freddo, et il tiepido e temperato non rifugge, se sia frescoso. Ricerca terreno agevole, negrissimo e grasso, Viene ancora bene in terreno un poco 357 arenoso e carbonchioso, o tufo sfarinato; vuole stare, piuttosto che in piano, in valli, coste e monti; la creta e ogni troppo rossiccia terra gli è inimica. S' appicca meglio il castagno e fa maggior pruova, che traspiantato piccolo con le sue radici, con le sue castagne proprie sta- gionate e mature seminato, e queste si hanno a eleggere sane, fatte, saporite, e che riman- ghino monde dalla ruvida scorza che è in su la lor carne da sé stesse, di fazione rotonda anzi che lunga ; sì possono seminare nel terreno della fatta di sopra detta, lavorato sotto a due puntate, ricoperte con terreno leggermente sollo, alto tre diti, di novembre, dicembre, gen- naio e febbraio. Seminandosi per far bosco per pali si ponghino due braccia e mezzo lontane luna dall'altra; e per innestare et allevare da far castagne grosse, dette marroni, lontane luna dall altra trentacinque braccia, semen- tando sotto, sinché sien grandi a coprire con l'ombra, quello che si dica all’ essere del ter- reno; e seminate fresche pruovano meglio; e per serbarle buone a sementarsi a primavera, conviene raccorle mature e spanderle all’ ombra a asciugare ; dipoi si radduchino ammontate in lato asciutto, e prima, per non salvar le cat- tive, caccinsi tutte in una conca grande piena d’acqua, tenendo per sementa le che vadino in fondo; e si elegghino poi le maggiori e meglio fatte, avvertendo che non sieno guaste 0 ma- gcagnate. Sono ancora chi le conserva a questo uso e per averle tuttavia fresche, in vasi pieni d'esse coperte al pari della bocca con arena. Si mantengono ancora acconciamente nei lor 595 ricci spiccati con esse mediocremente mature, bene asciutte a luna vecchia in luogo fresco senz umido; sotterrate in una stanza simile nella sabbia dureranno assai, e nelle paglie trite minute dell’orzo, 0 in vaso grande ove sia stato dell’ olio, turato con pece. Ancor: poste in un vaso invetriato solle e non calcate, chiuso in bocca si che non v' entri aere, baste- ranno lungo tempo. Piantansi in terra divelta sotto due braccia e mezzo, o in fosse simili, dall’ equinozio del- l'autunno, non solo con i rampolli e polloni e vette sottili, marze e surculi, ma a staccargli co "1 vecchio e con le barbe, come si fa agli ulivi. Con le propaggini pruovano agevolissi- mamente, stendendo sotto terra un braccio e mezzo le lor messe dei rimettiticci da pie, ca- vando fuor d’ essa un mezzo braccio la punta ; poi, fatte le barbe, scalzando, cavarlo e ta- gliarlo con esse, e piantarlo; e se non s usi gran diligenza, mal volentieri s' appicca con le barbe ; et appiccandosi in poco tempo rende frutto. Ma meglio è seminargli in terra divelta un braccio e mezzo da novembre sino a feb- braio, quando le castagne cascan da’ ricci da per loro, onde si vede che da per sé stesse sotto nascono e dentro mettono come gli agrumi. Pongonsi in terra non come le noci e le man- dorle, ma con la parte più aguzza all'insù. Nati, conviene per due anni scalzargli, zappar- gli e potargli, tenendo netto dall’ erbe nate d’'attorno. Di poi si coltiva da sé stesso, fa- cendo l ombrio cascar i fruscoli superflui, e così potrà tagliarsi ogni sette anni; e quelli 359 che sì creano da terra rasente con due messe durano per fino all’ altra tagliatura della sua selva; la quale volendo far venire innanzi per far pali o per innestar le vermene da far mar- roni per allevare, bisogna primamente scerre il terreno della sorte che s' è detto, leggieri e, come si dice, castagnino; il che si cognosce alle scope, che dove esse sono, fan bene; pian- tansi col piuolo a uso di fave, sotto meno d’ un sommesso. Il divelto destinato ai castagni fac- cisì affossare o circondar di siepe, per difesa dalle bestie e dal calpestare. Quelli che si pian- tano con le radici si deono scapezzare da terra all’ altezza d’ un uomo a far nuova messa in su la capitozza, et in fosse o buche o divelto sì trasponghino d’ ottobre, cavati dalle selve ove nascono da per loro, più che dai domestici lati. Questi, volendo farne marroneto, s' annestano in sulle messe nuove, tosto che sieno in suc- chio, al fin di primavera, a bucciuolo, tiran- dogli la buccia sbucciata addosso e legandola con legame arrendevole d’ altra scorza d’ olmo o della sua, perché si ricongiunga insieme; e procurisi che suggelli appunto, tanto sul legno toccando per tutto, quanto ove in su la buccia st posi; et a volergli poi mantenere non bi- sogna né scapezzargli nè potargli, se ben ri- mettano come i salci, perché non fanno buon garbo di pianta, ne ben compartita: e sin che siano bene allignati, si custodischino con la zappa, tenendogli netti dall’ erbe. Lascinsi adun- que crescer da per sé, che così riusciranno più rigogliosi e vegnenti. Sì possono ancora insetare a marza et a 360 scudetto, e le marze si trascegliono dalle vette fresche di rami che abbin fatto frutto quel- l’anno; et insetinsi verso la banda del sole. Scrivono alcuni che s insetano fra scorza nel salcio bianco, nel noce, nel faggio e nella ro- vere, nei quali fruttificano più tardi; ma que- ste sono pruove d’ esperienze inutili e superflue così fatte. La vera è, che scelte le marze di verso oriente da castagni di buona sorte, vo- lendo innestare a coronetta et a bucciuolo, spiccando da basso certi polloni rigogliosi e da alto certe messe che surgono fra i rami lisci e netti, o a occhio, cioé a scudetto, servendosi solamente nel mezzo di quattro o cinque, [biso- gna] insetargli in lor medesimi, sapendo che quanto più s annesteranno in loro istessi, tanto più sempre meglioreranno ; e che gli inseti dal mezzo a dietro li fanno grossi e da indi in su sottili e minuti. Quando i castagni mostrino di voler seccarsi, tagliati fra le due terre rinvigo- riranno; e non essendo alcuno arbore che facci maturi i suoi frutti tutti a un tratto, meglio è lasciar cadere da per se le castagne che sbat- terle, e così rammestate sotto rassettarle. Ma i castagni seminati, come vengono alla grossezza del dito mezzano, si possono tagliare fra le due terre, come si tagliano dai buoni coltivatori i fichi, viti, persichi e le altre piante che s' usano nelle ragnaie, perchè fanno buone ceppaie che sono il caso per fare pali da viti e da frutti come altrui vuole. Ecci chi pone palaie, come ho provato io nel domestico, dei castagni nati da loro; et a questi è bene, subito che son posti, scapezzargli, perché rimettendo fanno buone 561 ceppaie per le palificate. Alcuni i nati di due anni potano, dandogli forma d'un solo arbore et in capo a sei anni tagliatolo, han quel palo; e tagliandolo rasente terra, ne creano poi molti più stabili e più vigorosi di quelli, e da indi in là, scapezzandogli rasente terra, ogni sei anni han cava di pali. Vedesi ancora nel giardino del cardinale Gambero di Bagnaia un casta- gneto posto di castagne e poi innestato, che è molto bello, ma non è stato scapezzato mai. Ma chi vuol porre un castagneto bello che servi per palaie, facci buoni e profondi divelti, che faranno benissimo; più presto, ponghinsi pochi castagneti, cioè di poco spazio e bene; perché la nostra madre terra, se è trattata male e con miscea, il medesimo rende a noi mortali; se è trattata bene, è fertile et abbondante ; questa è regola generale in ogni agricoltura. Quando son seminati a tre o cinque insieme, i nati piccoli, se sia terren debole, non gli sarà cattivo ogni letame disfatto e ben marcio, e soprattutto gioverà loro scavargli spesso e rin- frescare loro la terra ai piedi; e quando siano ancora cresciuti e grandi, lo scalzargli attorno non sarà lor dannevole, rinnovando loro la terra al gambo; e se bene non è necessario, né n’ han di bisogno più che tanto, giova loro assai, come ne rimostra la sperienza. Le castagne che hanno a servire per cibo sì pongono sopra graticci sparse e sotto vi si fa il continuo fuoco di casa, un po’ lontano. Così si seccano; poi quando se n° ha a far fa- rina, ammontate sì percuotino in piana terra con un mazzapicchio in foggia di mazzeranga 502 di legno e con vagli di faggio si mondino, pol sì macerino, e con Vl acqua pura s impasta la farina; e fattene certe schiacciatine sottili, fra foglie del castagno medesimo che fresche o secche tuttavia s adoperano a questo uso, si mettano a lento fuoco a cuocere nel forno, e mangiate calde non sono dispiacevoli al gusto, si come tutte le torte e vivande che si fanno con lardo o olio della farina loro. Si cuocono ancora co "1 guscio lesse, et arrostite sotto le bracie, o in una padella di ferro o rame pertu- sata sopra la fiamma del fuoco. (Queste deono mangiarsi dopo e quelle avanti pasto, avver- tendo alle arrostite di tagliar loro la scorza in su 1 carnezzo da una banda, perchè non scop- pino ; e per ovviar a questo se ne può con uno ago infilare una cinquantina, forandole per il mezzo e passando con esso il filo, serrandole insieme si che stiano ristrette addosso I una all’ altra; poi così poste sotto le bracie, si co- ceranno sin che arda il filo, a tal che scopren- done, quando son cotte, una, e tirando, ne ver- ranno tutte. I pali così di castagno come di tutti i le- gnami, sbucciati, abbrustolati in punta, bastano assai più; sendo sotto terra immortale ancora in mezzo l’acqua, e tanto più di castagno, il carbone, sopra il quale fondarono le tre parti del mondo a comuni spese (altri scrivono l'Asia sola) il memorabilissimo tempio d’ Efeso. Et il carbone di castagno di più serve in vece di quel delle scope a’ fabbri. Fannosi ancora bru- cioli del legno verde di castagni in striscie, da far cappelli leggieri a sporte. 363 il Carpino che molto somiglia di foglia il nocciuolo, un po’ più piccola, ama i monti e gli aspri dirupi e grotte inaccessibili, né perciò disdegna di far nei piani; se ne truova del rosso o nero e del bianco : questo è più gentile, quello più sodo. Il suo legname è buono a tutti gli usi delle fabbriche, attissimo a far i gioghi per i buoi. Germina innanzi all’ equinozio, € dopo la segatura e l Arturo è ben tagliarlo. Cresce agevolmente, resiste posto nell’ acqua all infradiciare, riesce bene ancora ai lavori di fatica, a aratri, a botti, a ruote per mulini e rubecche ('); buono ancora per ardere. Piantasi piccolo cavato dai boschi con le sue barbe, e s'appicca volentieri, massimamente adacquan- dolo, e presso all’ acque. Il Cerro è spezie di quercia, come somi- gliante di foglia, [cosi] di scorza più grossa e distinta con spaccature maggiori e crepaccioli più larghi et ampi, di colore più biancheg- giante, e le foglie più lunghe, aguzze e tagliuz- zate. Va in alto assai diritto e cresce assai con rami sparsi senz’ ordine, ingrossando verso la cima come nel pedale. Il suo legname, quando non abbi nodi, s adopra a’ cerchi di botti e far forti carboni, sebbene schiumi assai. La sua ghianda è più lunga, più aguzza e men fog- giata di quella della quercia. Non si richiede agli edifizii il suo legname, che si spacca e sfende. La ghianda è solo appetita e mangiata dai porci, ai quali fa dura la carne; dopo è (1) O rubicche; ma non so che cosa sia. 364 quella del leccio. Nasce, meglio che dalle sue ghiande, dalla corteccia vuotata, che resta sco- perta dalle sue radici: e di quivi, svegliendogli con le barbe, sui salici sì può traspiantare in domestico, per variare e far verdura di diverso colore; et ancora di piante piccole nate da per sé. Resiste alle nevi e ghiacci dei luoghi freddi, e il suo legname è buono ai lavori dei torchi, a legnami di garbo per navilii sopra il mare, e massimamente il bianco ; il nero è più mala- gevole a maneggiare. Le sue legne sono appro- vate per abbruciare. Produce il cerro come la quercia lo splachnon fasco; brion lo chiamano i Franzesi, hermes o vero hedrum; i Siri wva del diavolo ; nasce non solo nella corteccia, ma nei rami, ma non di questi di dove nasce la ghianda e la gomma, si bene da lato e dalla parte di sopra dei nodi, di grandezza di un cubito et a somiglianza delle braccia; di pelo muscoso bianco che ha dell’ abbruciaticcio, in foggia di pannolino disteso ('). Quello delle quercie ha più odore ; l’ approvato è 1 altissimo e che sia bianchissimo; e ’1 secondo luogo [han] gli splendenti; niente ai negri. Lodasi il ciprio di Cirene. E ’1 terzo è in Fenicia. Quello delle pietre e delle isole è cattivo. È medicinale; e con questo e co ’l ginepro trito nel vino sì prepara agli idropici quanto | anti- monio bevanda salutare. Fassi dagli arbori il visco, detto pania; lodatissima è quella che si fa dal cerro, leccio e castagno, e nelle ma- (1) Sopra pelo è scritto vello; sopra abbruciaticcio sì legge arens. 565 remme di Siena se ne fa grand’ incetta e pro- ‘accio, raccogliendo per farlo da quegli arbori certe granelle o coccole che si fanno bollire nell’ acqua fintanto che le si sfracellino, e ben pestate in una pila di pietra o legno si la- rano nell’ acqua, dibattendo tanto che se ne ‘avi quella robaccia d’ escrementi che hanno. Truovasi ancora nella quercia e nelle roveri, nel leccio, nel salvatico susino, nel terebinto, nel pino e nell’ abeto e nel castagno, nel melo, nel pero, nel sorbo; di questi sono le panie inutili; del castagno ottime. Si rende la pania trattabile con 1 olio; e delle corteccie delle radici dell’ agrifoglio si fa eccellente, caccian- dole in una fossa piena delle sue frondi, in terra umida ; altri le seppelliscono nel letame e quivi lasciano stare finché si putrefaccia ; dipoi le cavano; e tanto durano a pestare in una pila di pietra o marmo che la diventi morbida e si stiri; dipoi la lavano coll’ acqua che sia calda, e benissimo con le mani la rime- sticano, aggiugnendovi olio di noce, et in un vaso di terra cotta invetriata la conservano a pigliare gli uccelli. Il cerro va dilatando le sue radici largamente, ma in cima al terreno, e perciò è facile a essere traboccato dai furiosi venti; e non spande i suoi rami in largo come la quercia. Il Corniolo somiglia di buccia e garbo di pianta il sanguine, alquanto più nodoso; è for- tissimo legno, atto a tutti i lavori di tornio; truovasi la femmina che a contrario di questo ha il legname fievole e gentile. Fa bene nelle 366 valli e nei monti, et ancora nei lati piani sì strapianta e s' alligna. Nasce di seme, seminato in terreno lavorato bene nell’ autunno, et ancora sbarbato con diligenza piccolo dai boschi si traspone in terren grasso e buono, a buche o divelto, non lo mettendo troppo a dentro; e dagli assai loppa al suo piede, che si distenda mescolata con terriccio alle barbe. Fa il frutto a garbo d’ulive, un poco più rotondo in punta, prima verde, poi rosso, e poi rosso pendente in livido quando è maturo: e così ben fatti sì compongono in un vaso invetriato largo in bocca, mettendoveli giù solli solli, di più con spessi fuscelli a traverso perché non venghino a galla si fanno star saldi, riempiendo il vaso di mele tutto o di zucchero; et è conserva ottima, astringente, grata al gusto; fassene un gelo, come delle pere cotogne, che similmente astringe e cava la sete. Acconciansi ancora in salamoia come le ulive. Le viti vi vanno su e vi s' allargano volentieri, fruttificando bene; le sue vermene fanno fortissimi graticci; le torte delle sue mazze, scarnate e levate col caldo del fuoco, tengono il diritto e son buone a sbatter la lana. Le corniole, levatone l osso di dentro e ridotte in pastelli impastati con aceto fortis- simo, poste a disfare nell’ altro aceto lo ren- dono tale, e poste dentro al vino lo inforzano e inacetiscono come fan le sorbe. Le melagrane insetate nel corniolo fan buona pruova, ma bisogna saper corre il tempo che l’uno e l'altro sia in succhio, et acconciare le marze con molta diligenza; e quello sì può appostare, osservando quando l uno e l’ altro muova e sia in succhio, 367 servendosi di quella parte d’essi in che si cognosce che si sono accozzati a farlo a un’ otta. Una corona fatta delle frondi e rametti del corniolo, postasela in testa, è openione che sia buon remedio al capo che abbi doglie causate da caldi vapori et umori. E fu da Alessandro Magno disciolto il nodo gordio con 1 aiuto della buccia del corniolo. È nell’ India un arbore che produce frutti simili alle medesime cor- niole, che perciò si può chiamare corniolo in- diano. E dell’ uno e dell’ altro è la virtù astrin- gente. Il Carrobbio, detto siliqua, rappresenta la foglia uguale a quella del cappero, un po” mag- giore, così il salvatico come il domestico, et ambedue nella lor scorza hanno il colore e la maniera del cotogno, e così il suo pedale. Il salvatico è buono per fare in quelli tempi che la foglia gli dura graziose spalliere, quanto che fa i fiori sul sodo del gambo e dei rami et ancora fra le frondi, vaghi e belli quasi come di lupinelle salvatiche, ma di variegato colore, e gli tiene un pezzo, facendo allor quivi certi baccelletti vani. I frutti del domestico carrobbio sono il contrario dei baccelli delle fave, perciocché di questi si mangiano le se- menti che vi son dentro, di quelli la scorza. Ma i frutti dei carrobbi domestichi maturi colti allora non sono buoni a mangiare; conviene prima seccargli all’ asciutto in sui graticci. Nascono le sementi dell'uno e dell’ altro tenute prima in macero per cinque o sei dì nel- l’acqua, sementati in buon terreno e ricoperti 36S poco. Di poi di due anni sì traspongono. Amano ambedue paese marittimo e terren sottile, se ben si attaccano per tutto; si piantano anche a ramo, ma meglio è servirsi dei rimettiticci delle piccole piante intere, sbarbate di dove fan da per loro. Giova loro d'essere adacquate. S'annestano a scudetto quando muovono, a bucciuolo e scudetto su lor medesimi vicende- volmente. Ancora scrivono che tengono sopra mandorli, susini e persichi. Conservasi il suo frutto assai in lati asciutti. In Siria si fa lino con essi e con la lor corteccia. Ingrossa fuor di questo, e se ne segan tavole buone a tutti gli usi. Il Cipresso è arbore che dà di sé bellis- sima vista, et appare di grandissima manifat- tura, quando è con tutti i suoi rami lasciato crescere; i quali mozzi, perde tutta la grazia, se bene più ingrossa e cresce in alto. Ama i luoghi caldi, e nei temperati non rifugge di venire; nei freddi mal volentieri alligna, come vicino ai fiumi, fonti et acque. Più lieti e vigorosi pruovano nei luoghi alti, e più in coste che nelle valli e luoghi ombrosi. Amano il sole, et alla sua vista è il loro legno migliore. Sono i cipressi fecondissimi, perchè tre volte producono il frutto e tre volte si può racco- gliere, di gennaio, di maggio e di settembre. In luogo di terreno trito, grasso e ben letami- nato (se ben fatto grande annoia il concio che gli sia posto d’ attorno), bene et a dentro lavo- rato si semina il suo seme colto maturo, che è quando da per sé si aprono le sue coccole e 569 casca; et il buono è quello che posto nel- l’acqua vadi a fondo. Si semina il suo seme fitto e fondo, e meglio nascerà nella buona terra che sia tutta crivellata, e con essa rico- perto. Altri fanno pieni di terra grassa crivel- lata asciutta certi catini grandi e vi seminano sopra spesso il seme di cipresso, ricoprendolo per due diti o tre, non più, della medesima terra, alla quale soprappongono un suolo d’ a- rena scriva, annaffando mattina e sera senza sole, tanto che naschino; né prima che dopo l’anno di quivi gli cavano, ponendone ciasche- duno in una pignatta da per sé, rincalzandolo bene, per poter poi di là a un altro anno tra- spiantarlo ove si vogli. Piantando i cipressi un braccio accosto lun Vl altro, faranno sicuris- sima siepe obbediente alle forbici. Si seminano d’ aprile nei luoghi caldi, nei temperati di maggio, in giorno sereno e senza vento; se la stagione vadi asciutta, alutinsi a nascere con Vl adacquare, e dipoi nati si custodischino dalle formiche amicissime dei lor semi, né s'adacquino poi più che tanto, sendo 1 acqua al cipresso nimica, come tutti i lati umidi. Levisegli d’ attorno destramente l erba che vi nasce con le mani, né sì zappino all’ intorno per non danneggiare le radici; piccoli difen- dinsi dal freddo e gelo della notte, coprendogli con paglia di covoni tessuta insieme o panni, né dopo il primo anno fa lor di bisogno tal diligenza. Si traspiantano acconciamente di marzo e d’ aprile, guardando di non offendere la maestra; e se occorresse traspiantargli grossi come il braccio da luogo a luogo, adoprisi la 24 370 mezza botte. Si deono curar d’ andare diritti da piccoli, perché così si mantenghino da grandi. Quelli che si vogliono per legname da travi o altri usi sì possono potare perché fac- cino più bel gambo e liscio; ma volendo la verdura, se gli lascin tutti [i rami]. Ama so- prattutto terra dura e non umida, e piuttosto magra che grassa. Hanno caro d’ essere posti fitti, amando di stare insieme; e volendo far cipresseto, bastan quattro braccia e mezzo dal- l’uno all’altro, e così servirà a ricovero degli uccelli et al frugnuolo. S' adattano a ogni sorta di spalliera e si voltano a ogni piega sopra cupoline, strade coperte et altri andari, e per i mucchi degli uccellari sì possono tener bassi. (Quando sono ancor piccoli, si dee considerare il ramo che è la sua vetta, e sendo doppio, taglisi al sicuro il men vegnente, e tirisi innanzi l’altro, e tanto si facci sempre a tutti gli altri salvatichi et ai domestichi et ancora agli inne- sti, perchè a tutti i frutti et arbori il rinnovar la vetta ho ritrovato che fa sempre bene, si come lo scaricargli dei rami superflui e potargli a ragione. Prendono i cipressi tutte quelle forme da piccoli e quel garbo che se gli dà, e con la cura della buona regola a quel modo si man- tengono, stando all’ obbedienza delle forbici e del pennato più d'ogni altro arbore, perché questo tagliato non rimette mai, se non se scrivono che nell’ isola Enaria. Fugghinsi il piovere e la brinata il dì che si seminano, e che non tiri vento: a calen di settembre si elegga il seme, quale si può anco nei luoghi tiepidi seminare da novembre per tutto ’1 verno, 501 seminando insieme dell’ orzo, et in quell’ anno più d'una volta crescendo egli quanto questo. Fa bene nei luoghi difesi e coperti e che sen- tino alquanto d’umidezza naturale e non acqui- trinosa. La femmina sparge i rami per linea retta piana, il maschio li ha in se raccolti, pontando verso la cima; et è il maschio più fitto, e quella di men rami; l’ uno e l'altra fa sementa e si converte l uno nell’ altra, talvolta facendo il seme del maschio femmina, e così per contrario. In Candia è tanto amante del cipresso il terreno, che alla foresta in alcun luogo razzolato, da per sé gli genera e pro- duce. Il legname del cipresso resiste all’ acqua et i suoi pali non infradiciano; le sue tavole, quando sia tagliato a buona luna, sono eterne; le quali son buone per comporne da mangiare, dando elle odore ai tappeti. Si difendono da loro stessi dalle tignuole e tarli. La raditura del cipresso beuta con acqua fa venir sonno. Il Caprifico è razza di fico salvatico che non matura mai, dai Greci detto /Herinos, così chiamato da un castello di Tessaglia di questo nome. Fa volentieri per le rovine dei sassi e per i muri, è più robusto e nodoso del fico domestico, senza infermità alcuna, anzi si crede che innestato al fico difenda i suoi fichi grossi primaticci. Nasce del granello del fico, mette al principio della primavera, gode nei monti, aggiugnesi nei ficheti, affinché le sue cimici, ingannate di non potere avere da mangiare nel lor frutto vano, vadino a volar nei fichi domestichi; o veramente i grossi e primaticci 372 del caprifico, infilzati per i buchi fattivi con lago, come una corona sì sospendino in sui domestichi, affinché co ’1 benefizio del sole ch’ entra per i morsi et aperture fatte dalle cimici, succiato quel latte che vi è, sì prepa- rino alla maturezza: et il così fare si chiama caprificazione. Perde talora il fico il frutto avanti che diventi maturo, e perciò gli fa di bisogno di quell’ aiuto, perché putrefacendosi rinedesimamente i fichi del caprifico, vi sì gene- rano le cimici ('), alle quali mancando quivi da morsicare di quel marciume di che son nate, volano ai lor prossimi, e morsicchiando con spessi morsi i fichi, mangiando con vora- cità, gli aprono il fiore e gli intromettono il sole e l aer buono a maturargli; e gocciato e consumato il lattificio, gli fanno essere il bi- sogno maturi, il che si fa da per sé. E perciò è permesso che si piantino dei caprifichi tra gli altri fichi, perche a ragion del vento da quello trasportati volino negli altri fichi; e se manchi il caprifico, vi s appendono i rami del- l’abrotano o le vesciche che si ritruovano nelle foglie degli olmi, o sì sotterrano corna di ca- strato intorno alle barbe del fico, o un tronco di fico vi si caccia dentro, scarificando da quella parte perché n’ esca I umore. È più vivace il caprifico del fico, e nell’ isola Coo non pur una volta, ma due e tre produce i suoi frutti; e quegli animaletti o cimici che genera escono il più delle volte dei detti fichi, lascian- dovi una zampa o una penna, e dove son gene- (!) culices, sopra cimici. 379 rati, quando ne sono usciti, non sì muove più seme in quel fico, segno espresso che quivi nati si nutriscono mentre vi è alimento, poi volano via. Così fatto rimedio non occorre usare nei luoghi che sien volti ad aquilone, né in lato magro, percioccheè s inaridiscono per la natura del luogo da per sé stessi e s asciugano, ove con le fessure che s' aprono si fa il medesimo che con l’opera si farebbe di quegli animaletti ; ne ancora avviene dove è di molta polvere, perche la polvere ha facoltà di diseccare e di succhiare quel sugo di quel lattificio; la qual ragione fa che i frutti non caschino, avendosi consumato quell’ umor tenero e con una certa fragilità ponderosa. Scrivono una cosa che ve- ramente è di miracolo: attaccandosi al’ collo d'un toro, quantunque feroce, del caprifico, perdersi d’ animo e restar quasi immobile et attonito ; il medesimo si truova scritto da Plu- tarco del fico domestico. Ma di queste così fatte cose si lascia star la verità al suo luogo et ad arbitrio di che ne rimostri 1 esperienza. Questo di certo si può del caprifico rimostrare per cosa chiara e certa, che egli innestato in se medesimo megliora di condizione, facendosi più bell’ arbore; ma innestatovi sopra il fico domestico si fa bello affatto, accettandone sopra di sé ogni sorte e migliorando i frutti, si come avviene a tutti gli arbori che s insetano. Il suo legname è ottimo per rotelle, ristrignendosi naturalmente la fessura che vi sia fatta dentro da per sé, sì come avviene del fico; è buono anco ai leggieri gioghi dei buoi. 374 Il Cotogno, detto dai Greci Cidoneo da un castello di tal nome in Candia, già di dove vennero trasportati in Italia, è di due sorte, rotondo e schiacciato; questo è minore et è tenuto che sia la femmina di questo arbore, l’altro maggiore il maschio; quella di più virtù e valore et odore, questo come più grande e meno odorato e di manco possa. S'addomandano in Spagna membrigli e quivi son commestibili; crudi in Italia non si costu- mano di mangiare in sapa, vino o zucchero, perché, quantunque maturissimi, crudi non pare che non si dichino né al gusto né a’ denti. Ha la foglia simile al cappero et è arbore di mez- zana statura; la femmina si chiama mela coto- gna, il maschio pero cotogno; l'uno e l' altro nasce di seme; e ’1 membriglio trasportato di Spagna similmente nasce di seme, né degenera a fare il frutto, riuscendo ancora quà per mangiarsi tenero e buono. Fanno assai rimet- titicci dal pedale; di questi si scegliono i più vegnenti e rigogliosi, si svegliono con le lor radici e si piantano; e similmente di ramo s attaccano, pigliando i più lisci e belli di quelli che sono nel mezzo dell’ arbore e vanno all insîì, dalla banda d'oriente; et a voler averne sollecitamente frutto, non si ponghino che a marzo a luna crescente nei luoghi tem- perati, in terreno umido e grasso ben divelto o di fosse profonde, e subito veduta la luna; che tanti dì quanti averà la luna, tanti dì peneranno dal dì che tu gli pigli a farti i frutti. Vuole il terreno fresco et uggia, perciò fa bene nelle corti e cortili grandi e lungo 375 certi muri a bacio, e nei piani e nei campi grassi fanno molto bene. Non ha già gran vita il cotogno: imperciò ama d’ essere riguardato da ’1 pennato, e se gli dee con le mani stron- care i seccaticci. Nei luoghi secchi e caldi piantinsi alla fine di ottobre e di novembre, nei temperati e più freddi di marzo e di feb- braio; nei quali mesi avendone io piantati alcuni in terreno che s' affaceva loro, divelto bene, cominciarono a fare il frutto in capo due anni. Ama i luoghi ancora freddi, umidi e piani e piegati in colie, come propriamente egli desidera, verso oriente; a mezzodi sono sue amiche ancora le coste, verso il cominciamento loro di terra sciolta; et andando seccore, 0 sendo posto in luoghi caldi e secchi, s' aiuti con l’acqua, il beneficio della quale frequen- tando, ti darà i frutti più presto e sarà men fallace e gli farà maggiori. Sono da essere piantati tanto lontani l uno dall’ altro, che tirando vento, non possi l’acqua che cade, sco- tendolo, dall’ uno nell altrui foglie arrivare l’altro, ricevendo egli gran danno ancora dallo stillicidio di se medesimo. Hanno caro d’ essere scalzati attorno e zappati d’ ottobre e novembre nei luoghi caldi, nei freddi di marzo ; e non si facendo ciò spesso degenerano, facendoli minori e pochi [i frutti]. Quando sì pianta e sin che è piccolo se gli dia del letame macero, e cre- sciuto, se gli dia al piè della cenere o polvere di creta una volta l'anno; e ponendo tra le sue barbe orina vecchia o sterco di porco, rat- terrà i frutti che non caschino. Gode assai che gli sien sotterrati fra le radici i favuli; benché 376 a tutti i frutti scalzati, mettendo attorno dell’ orina vecchia umana o di pecore, e dipoi ricoperti, daran vigore e saranno più copiosi di frutti. E se sia infermo, se gli ponga attorno della morchia ch’ arrivi su le barbe, stemperata con la metà d’acqua, o calcina viva temperata con la creta; o con ragia loculare mescolata con pece liquida al pedale dell’ arbore sì stro- fini, ossivero con fiele di bue. S innestano i peri cotogni gioveni alti da terra, i più grossi presso a terra a marza; e riceve in sé 1 sorbi, i melagrani, i nespoli e quasi d’ogni sorte meli e peri, megliorando tutti questi di gran- dezza e bontà esso. Fa bene sopra il prun bianco, diventando di più durata, ma con frutti minori. Sopra tutti ingrossa I azzeruolo e vi fa su lietamente il pero moscadello, e le pere bronche divengono in su ’l pero cotogno gigantee; ma bisogna annestar basso per potere cacciar ben sotto Vl innestatura, si che l inne- stato abbi causa di generarvi le barbe, perché sopra terra sarà tuttavia di poca durata, e massimamente che non può il minore reggere gran tempo il maggiore ('). La pera cotogna racchiusa, come si disse del cedro, piglierà che forma altrui si vogli; e desiderando che le pere o mele cotogne e le mele granate ancora si creino di diversi colori, dall’ arbore da che (1) « E diventeranno grossissime, facendo loro, mentre non hanno ancora scossa quella peluria o lana che hanno addosso, un foro con un ferretto incavato a uso di trivella gallica o di sgorbia sin a mezzo, e vi sì metterà un seme di rapa, riturando con l' istessa materia di pera cotogna, cavata dal ferretto ». Sta scritto a questo punto cosi, dello stesso carattere, fra le righe. 377 noi vogliamo pigliare la marza per questo effetto, come saria a dir mele rose o appie, conduciamo un ramo a quella pianta d’ esse in che noi vogliamo fare un innesto: e quel luogo di donde è stato tagliato il ramo dell’ uno e dell’ altro arbore sia scoperto nel legno e nella buccia, intaccato et accomodato per questo affare, pareggiando e conguagliando con un pennato et assottigliando bene, acciò che poi possi entrare nella fenditura dell’ altro; e da quella parte eretta che guarda verso il cielo abbi la scorza pareggiata et accompagnata, si che l altra scorza e quel ramo che innesterà faccia che sia diritta verso il cielo. E passato l’anno, dove tu gli vedi che abbin fatta presa, taglia e separa l uno dall’ altro, e di questa maniera l arbore tagliato piglierà scorza dal l’arbore con cui è annestato, da far 1° effetto che s' è scritto, reciprocamente, di far nascere le melagrane di varii colori; e molti altri, a questo modo facendo, varieranno. Ma conviene avvertire che le verghe dure s ammacchino con un maglio di legno, perché così ammaccate più agevolmente s attaccano. I crisomelaci © crisomelitani, perche hanno colore che pende in oro, duran poco; et i strutei che vengono per tempo maturan tosto, onde si chiamarono dagli Ateniesi melemele, dolci come mele, detti miscelle; e vengono d’ innesto, quando s innesta la marza di pomo dolce e comune nel cotogno ; si come quelle che sono cotogne, insetate nella sorte degli strutei, che sono le più grosse e bastano assai, più grandi e più suavi, addo- mandate milviane, che come gli altri cotti si 5378 mangiano crude, in Spagna dette melonghe. I cotogni salvatichi piccoli di maggior odore tra gli altri strutei, e che nascono nelle selve, son buoni a fare razza di cotogni nani et a far siepi fitte, fonde e forti. Si fa del vino dai cotogni et ancora del- l'olio; e la perfetta cotognata si fa piuttosto di mele che di pere cotogne, cocendole nel zue- chero disfatto, dandogli due terzi di zucchero et uno di pere, passando tutto per stamegna, e ponendo degli spicchi interi con quel liquore, o raccogliendo il liquore stesso per cotognata, aggiugnendovi garofani, cannella e musco, 0 facendone puro e schietto gelo. Della Madera viene in copia et è eccellente, et a Napoli. Appresso al cotognato sì fa una conditura grata alla bocca e buona allo stomaco, delle pere coto- gne, in questo modo: coglinsi le pere cotogne a luna scema e caccinsi in un vaso invetriato di larga bocca, acconciandovele dentro con tal distanza che non si percuotino insieme e sien nette da quella lanugine che hanno, e pieno il vaso si tenghin calcate con mazze attraverso che le faccino star giù, empiendo il vaso di miele liquido purgato sino alla gola, che non si vegghino ricoperte, avvertendo di non vi met- tere che le maturissime, perché l'altre divente- rebbero troppo dure; e prendendo in cambio di mele zucchero distrutto, saranno tanto migliori. Ancora componendole così dentro alla sapa non saranno ingrate, avendo prima cavati i semi co 1 duro intorno al piccollo et al fiore. Si cogliono d'ottobre a luna scema quando sia venuta la rugiada, bene ingiallate, non molli, 379 riponendo le più odorate, le quali non percosse, non magagnate, scolando loro intorno al pic- collo della pece ordinaria, sì conservano appic- cate al palco, in luogo dove non siano spiragli, asciutto e secco. Cacciate nel mosto si conser- vano, e quel fanno odorifero. Ricoperte nella feccia dei vino durano assai e nel vino istesso, e lo fan diventare odorato, avendo ben chiuso et impeciato il cocchiume. In un vaso nuovo grande, acconcievi dentro che non si tocchino luna l'altra, impeciato di sopra, in lato senza umido, durano gran tempo. Ancora in una fossa racchiusa asciutta, sottovi arena distesa, e fra lo strame minuto e paglia all ultimo solaio, ben serrato per tutto, lontane dall’ altre frutte si conserveranno lungo spazio. Alcuni, ravviluppate nelle lor foglie et impiastrate d'argilla, o con loto o terra da vasi e con peli, le ripongono, seccata che vi sia su la terra, sopra tavolati in luogo asciutto, lavandole poi con acqua per tutti gli usi. Sotterransi ancor: nell’orzo e nel miglio, conservatori di tutte altre frutte. S'impiastrano ancora di gesso e si fa loro una coperta di cera. Alcuni senz’ altro le rinvolgono nelle foglie del fico, altri in paglia d'orzo e migliuli triti. Altri le tengono nel gesso pesto in un vaso, sì che l una non arrivi a toccar l'altra. Alcuni le ravvolgono nella loppa nelle ceste. Ma copertatele di mele o di cera, poste in un vaso ben impeciato in bocca, calato nel fondo del pozzo, si salveranno quanto in alcuno altro modo, se ben raccolte nel midollo del sambuco per un pezzo non si guastano, come ancora nelle casse dei pannilini 350 che suggellino bene e ben serrate, ai quali dà buono e grato odore. Conservansi fra due tegole che combacino bene insieme e sieno da ogni banda suggellate con il loto. Facendo gran copia del loro gelo, che sia condotto con la debita quantità di zucchero quando è liquido, e cacciandovele dentro che sien per tutto rico- perte, sane et intere, sì manterranno assai. Fassi vino delle pere cotogne grattugiate e aggiun- tovi un po di mele e un pochetto di vin greco, resprimendo tutto co ’1 torchio e lasciando schiarire; e non è ingrato, et è salutifero cor- diale. Traesene ancora olio. Che le pere cotogne fossero chiamate dagli antichi pomi d’oro, ne rende chiara testimonianza l Ercole di Campi- doglio che n’ ha tre in mano. Sono i Ciriegi di più sorte, primamente i domestichi et i salvatichi; questi nascono da per loro alla foresta e nelle macchie, le lor piante non crescono molto e fanno ciriegiuzze piccolissime, men d'un cece, che quando sono mature sono nere e di cattivo sapore. Tali le hanno i ciriegì che si chiamano a grappoli, i quali creano tra i lor rami e foglie certe ciocche, come un racimolo d’ uva, che ne sono piene. Ma fra le domestiche ancora se ne sono vedute e sono allignate che fanno quattro o cinque ciriege grosse vantaggiate, tutte attac- cate insieme, dipendenti da una sola messa di ciriegio, con i piccolli lunghi e spartiti, a fare un mazzetto di ciriegie insieme, come s' è detto. Le razze delle ciriegie buone a mangiare si restringono a due: tenere e dure. Di queste 591 sono le duracine, del frate, san Movanni e mar- chiane; di quelle le visciole, le agriotte, le marasche e le acquaiuole, le quali gli antichi addomandavano juliane; et ebbero in pregio le milesi, le ciliciane che son facilmente le nostre marchiane, le azzie nerissime e le aproniane che sono rosse fuor di modo; e lauree si chia- mavano da loro quelle che erano insetate nel lauro, oggi dimesse, si come molti altri inne- stamenti stravaganti, i quali oggidi, o che loro fossero meglio mastri d’ annestare o come si sia, non riescono più et anco sono inutili; e se pure s'attatcassero, duran poco per la spro- porzione. Erano ancora appo loro le macedo- niche che son facilmente quelle che si veggiono nascere nella valle Anania, simili al sapore di quelle che chiamavano verule; ma queste ros- seggiano, quelle son nere e di corto piccollo e nane, non più alte d'un braccio e mezzo. E per non mancar di raccontare di quelle stra- vaganze, che si truovano scritte appo gli antichi, dee sapersi che non lasciarono indietro di dire, che si possono far nascere le ciriegie senz’ osso in questo modo: fendasi la pianta del ciriegio bene atferrata, giovine, un braccio e mezzo sino alla radice, e cavata con una sgorbia diligentemente la midolla dell’ una parte e dell’ altra, si ricongiunghino subito ambedue insieme, strofinando sopra le fessure col letame, et accanto legando con un giunco marino ben per tutto; dopo un anno quelle due parti si saranno ricongiunte e ricomposte rappiccate insieme; allora questa pianta così concia sì inseti d’ una mazza di ciriegio che 382 sin allora fatto frutto non abbi, e lascisi venire innanzi, che quando lo farà, sarà senza noc- ciolo. Altramente senza fendere, cavando al medesimo segno la midolla con un instrumento di ferro, trapano, scalpello o altro che arrivi a farlo, e dipoi si cacci in quel foro della lacrima cirenaica dibattuta e dilavata con l’acqua, st che si facci tenace come la sapa, e turisi di sopra con carta che non sia bastante a uscirne quell’’umore, e in capo a otto dì si bagni tutto ’1 gambo di quella lacrima, perché dia fuori e muova; e facendo passarlo per il mezzo d’ una cipolla squilla, meglio allignerà e farà senz’ osso i frutti. Sonoci ancora di quelli che tengono che facendo passare il ciliegio per un salice, alla foggia che si fa ai persichi, abbi a fare il medesimo effetto. Ma sia come si vogli, minor fatica è fare con diligenza e puli- tamente disossare le ciriegie, e fattone massa, a quel modo mangiarle, insieme infilzandole. Godesi il ciriegio di sito freddo in umido terreno e leggiero; ama i luoghi montuosi, le costiere e valli di fresca terra, né ricusa i piani di queste qualità, e nei luoghi troppo caldi non pruova che con aiuto d’acqua con- tinuo; et annaffiandogli ogni giorno, avanti che mostrino i fiori, alle barbe con la calda, ovvero ponendogli della calcina viva attorno al piede, faranno i lor frutti più primaticci degli altri. Tralignano i ciriegi a cui si mette letame di qualunque sorte al calcio, non sì godendo che dei suoi stessi rami sotterrati triti fra le sue barbe. Nei luoghi temperati crescono assai e s' allegrano d’essere piantati presso alle 335 rive dei fiumi, intorno all’ acque correnti, in terreno fresco e renischio. 1 ciriegi a grappoli s'appiccano di ramo, gli altri tutti di rampolli che rimettono dai piedi e dalle radici, un po dal gambo lontani. Nascono ancora di seme, avendo tenuto i noccioli a rammorbidire quat- tro dì nell’ acqua, et in capo a un anno si tra- piantano; ma senza essere annestati tralignano, facendosi di cattiva ragione; e qualunque pianta di ciriegio non suole mai dar buon frutto se non annestata; e riannestato in sé stesso mi- gliora sempre (*). Si piantano acconciamente di gennaio nei paesi freddosi, negli altri di no- vembre o dicembre, e dell’ istesso tempo sì seminano, et ancora di ottobre, nel qual mese è bene traspiantare i salvatichi per afferrati insetargli piuttosto che insieme, a febbraio o marzo in profonde fosse o terreno ben divelto. Si possono innestare a marza del mese di no- vembre, turando e coprendo bene l inseto come al fin di gennaio; ma meglio sia di marzo; avvertendo sempre che tutti gli arbori che generano gomma o orichicco, s insetano tut- tavia più comodamente quando è finita di sco- lare. Sogliono avere una certa lanuggine o musco che può nuocere all innesto, si come ia lor prima buccia, che avendola doppia, si dee nettare e levare, facendo congiungere quella seconda di sotto con la sua simile. S' appicca (1) Fin qui, con alcune altre ommissioni per entro, pubblicò il chiarissimo e rimpianto prof. Francesco Marconi questo capitolo del ciliegio, a Genova, nel 1890, in un opuscolo nuziale, traendolo dalla copia che dell’ autografo avea fatto eseguire Gaetano Roma- gnoli, SS4 ancora a scudicciuolo, e fra le sue scorze e legno a marza pruova molto bene; ma a marza nel legno fa meglio di tutto, e questo è il suo proprio, spiccando le marze dalla banda d’ oriente nel mezzo verso la. cima, di buona ragione e che siano da fruttificare Vl anno a venire e non abbin fatto frutto quell’ anno. Chi vuol far gran munizione di ciriegi e massima- mente viscioli, ne pianti assai degli acquaiuoli, perchè in su questi gli innesti pruovano più che in su tutti gli altri, né mai s' annestino in su gli amareni, perche se ben pruovano da principio, non durano, creando tanto orichicco che gli spaccia. Innestinsi adunque in su quelli o in sui salvatichi, e pongasi mente che il ciriegio duracine e del frate, per essere ciriegio di qualche discorso come cervelluto, vedi che non si vuole attaccare, e pochi ne saranno su gli amareni, si come quello che cognosce che e farebbe compagnia con un fallito, che non vuole impacciarsi seco; si che imparisi da lui, ch’ egli fa per sé proprio, per avergli buoni. Annestasi adunque in sé stesso, o da prima per farlo di buona razza, o poi, quando si rannesta, per farlo migliore. E accettato ’1 ciriegio dal susino, dal persico, dal terebinto, nel platano, nel pioppo, et in un salice a caso fra scorza col suo seme, scrive Plinio, mescolandovi attorno terra, inumidendola e mollificandola bene. Quelli che s' insetano in sul lauro hanno un sapore aromatico grazioso, come in su 71 lauro regio e sul rogo. Ama il ciriegio l acqua al piede in terreno fresco e sustanzioso, e d’ essere scalzato spesso e tagliatigli continuamente i secchi 555 rami; et in così fatto desidera d’ esser pian- tato il visciolo con la pioggia celeste, annestato sempre su l acquaiuolo ; et in sui ciriegi grandi aggrandisce il frutto, lo fa più sodo e migliore. E per conformarlo alla natura sua che vadi basso, sì possono innestare a cannello et ancora a marza con gli occhi all ingiù, e farà bel vedere. Volendo le ciriegie più grosse, conviene da principio diradarle e lasciar le più vicine alla cima. Facciasi d'avere una pianta di ci riegie nere, dette eplilisnae, perchè di questa sorte piglia più presto; di poi tagliato pari questo ciriegio giovine, dilata la scorza con un conio sottile e forte, pian piano e con la mano non grave, affinché non si stacchi l'altra buccia attorno, e cavata la bietta vi sì metta una marza di vite d’ uva nera fertile e si leghi; e così a primavera, al tempo che ’l ciriegio maturerà il suo frutto, tirerà innanzi ancor l uve, per essere forzato a dar nutrimento all’ annestatovi sopra; istesso. avverrà nel melo e pero, e così nel fico; et in tutti che abbino umore si procaccierà che rendino il frutto dell autunno a primavera, e così le viti, le quali piantate accanto al ciriegio e fattele passare a traverso del tronco per un foro fatto nel gambo, faran meglio quello effetto; essendo poi, quando è ben rammarginata da ogni banda sotto e di sopra, tagliata rasente il tronco. Similmente forisi nel pedale a pié per traverso, st che sgoccioli ogni malattia, se per troppa soprabbondanza d'umore si guasti; e gioveragli assai, scalzato che egli sia, rinnovargli il ter- reno attorno. S' insetano ancora nei ciriegi le 25 356 medicine, scavando la midolla d’ un ramo prin- cipale e riempiendolo di scamonea o reobar- baro, per far poi le ciriege che nasceranno d’ esso oltre a modo solutive; e ponendovi azzurro oltramarino, scrivono alcuni che rap- presenteranno i suoi frutti il colore, e ponen- dovi il musco o zibetto, diventeranno odora- tissime. Scrivesi ancora da alcuno che facendo al pedale da basso con un succhiello un foro non maggiore d’ un osso di ciriegio, e rituran- dolo co ’1 medesimo, solleciterà di fare i frutti. Le agriotte di buona razza si conducono di Lione di Francia, e son buone in cosette di zucchero per tor la sete; sono di corto piccollo come le visciole e di più vivo rosso colore; fanno bene annestate in sui viscioli romani et in su gli acquaiuoli; et in sui ciriegi grandi acquistano forma maggiore. E si tiene per certa e chiara openione che la ciriegia visciola sia artifiziata e non naturale, et affermano che ’1 naturale di questa ciriegia sia l amarena, e per questa causa si dimostra essere così la verità: che pigliando le marze di ciriegio ama- reno di bella sorte et annestandolo in su 7] susino maglianese o altro (ma quello è più appropriato) vedrassi per pruova che s' entrerà in semi di visciole palombine o altre più grosse. Delle visciole si fa la mostarda avvisciolata con due terzi di visciole e uno di zucchero, bollito insieme, schiumato e passato. Sono i ciriegi infestati dalle formiche tra la scorza o nel legno; ammazzansi con aceto, sugo di porcellana e con la feccia del vino vecchio, cacciando loro addosso, dove le sono, aleti tutto questo. Se patischino di troppo caldo e si vegghino avvizzire, s adacquino con buona acqua di fonte. Et appiccando un pesce morto all’ arbore, tutte le formiche concorreranno; si scacciano ancora con l abbruciarne una parte. I viscioli romaneschi e di Ronciglione come tutti altri pruovano bene nelle vigne, et in sui ciriegi capitozzati vi stanno in su le viti volen- tieri a spandere i suoi frutti e con esso loro desiderano d’ essere zappate e lavorate. Le ciriege si mantengono buona pezza cogliendole presso a mature avanti il levar del sole, e ripo- nendole in un vaso invetriato turato bene, che vi s' infonda mele che inagrisca a suolo di satureia; e seccate al’ sole bastano per tutto l’anno, poste a seccar maturissime; e non vo- lendo nel sole, a tiepido forno. Nelle cantine di tufo profondissime si conservano, chiusevi, lungo tempo. Le duracine sono più atte a bastare, e quivi et altrove, dell’ altre; fanno bonissimo gelo e cotognata con il zucchero. Fu il ciriegio di Ponto, da un castello chia- mato Cerasute, per mano di Lucullo traspor- tato in Italia dopo la guerra mitridatica; onde cerase furono dette. Delle marasche sì fa vino, cavate rosse, spremute al torchio, passandole per stamegna, rischiarato, beendolo presto. Il Costolo nasce quasi per tutte le selve e salvatichi luoghi, come di sopra si disse, sotto nome di aborniello, orno dagli antichi; vi vivono sopra le viti volentieri, per aver le foglie rade et i rami a palchi con i nodi uguali, sodo e forte. 5SS I) Ermellino contendono molti essere il guaiaco 0 legno santo; qualche somiglianza per certo e nelle foglie e nel legname con esso ha, se ben questo dentro da noi non diventa così nero e venato come là quello. Fa certe coccole gialle a ciocche, parecchie insieme, sdol- cinate e sciocche. Nasce, ché dentro a queste è, la sua sementa, macerata per quattro o sei dì nell'acqua senz’ altra cura. Ama il piano grasso, nè rifugge le vallate o i poggi (*). I) Escolo o eschio o ischio, tanto è ope- nione che vadi sotto con le radici, quanto in alto co ’1 fusto e con i rami. Fa una certa sorte di ghiande che sì seminano in terreno ben divelto, ricoprendole leggermente, e sì pro- paggina ancora per far pali alle viti; e ’1 suo legname è forte e di buon uso per gli edificii, pur che s alluoghi in lati non umidi, ché questi lo corrompono e guastano. I suoi carboni son buoni alle fucine dei fabbri, come quelli del castagno; le sue ghiande di bontà vanno appresso a quelle della quercia, et è openione che sia detto escolo dal verbo latino, perché elle già si mangiassero. Fa di se bella verdura e dilettevol mostra. La sua galla è buona per conciare i cuoi. Tiensi che ’1 latifolio e l eschio sieno una medesima pianta. (') In fin di pagina è aggiunto, in carattere più piccolo : « L’ Ermellino è quello che sicomoro anche si chiama, falsamente detto il fico egizio. Fa coccole gialle in ciocche, sdolcinatissime, che mature si mangiano e si seminano. Cresce presto et è durabile ». 589 L Ebeno nasce in Etiopia e nell’ India, dove ne fanno le statue dei loro idoli d’ un pezzo solo, e gli scettri reali. Non tiene il chiodo come il gualaco e ’1 granatino. Fannone ancora gli Indiani tazze da bere e molti lavori, inter- serendo con esso dell’ oro. Nasce di seme; e ’l suo seme s' è veduto nascere nel semplicista di Ferrara et esservisi fatto assai adulto. I’) Erbago, detto arbuto, corbezzolo et une- done, fa ottimi carboni e di grandissima du- rata, nasce da per sè nelle selve, e si chiama unedone, forse perché sia assai mangiare una sola delle sue frutte, per essere dissapite, sdol- cinate e smaccate, pungenti e raschianti la gola, sendo piuttosto per cibo di tordi e merli, come le sue frondi per le capre; se bene in zucchero, ponendovene un terzo più che non sì pone a tutte l altre conserve, diventano deli- catissime; cottevi leggermente un poco acer- bette che non si sfaccino e circondate e rico- perte da esso, acquistano un sapore del tutto nuovo. E sono chi scrive tra i medici moderni, che l acqua stillata dalle sue foglie, rimescolata con la polvere fatta dall’osso che si truova nel cor del cervio, come la sua lacrima che si crea in cima del troncone che si sia loro spezzato, combattendo l uno contro l altro per causa d'amore, data bere a chi l’ha da grande, remedia alla peste. Come si sia, le sue piante sono buone a porsi negli uccellari dei tordi, ne farà male tutta piantata di queste, non s' alzando troppo questa pianta, che è molto attestata insieme, accomodata. a far quelli 590 mucchi che vi vanno, atta alle ragne per spal- liere e verdura. Si piantano le sue piante levate con il lor zoccolo e più barbe e terra che si può in terreno asciutto e cretoso come è il lor natìo, ma traposte con diligenza pruovano in ogni lato. Tiene la foglia perpetua et il suo frutto somiglia fuor di modo la fravola, et allora è maturo quando è rosso bene che casca a terra da per se, che avviene nel colmo del- l’invernata ; et in quel tempo, ragunate le più belle e grosse corbezzole che si ritruovano, s' hanno a strofinare con le mani chiuse attorno alle corde vecchie di giunchi, si che vi rimanghi attaccato il seme, il quale poi a primavera sì semina, avendolo conservato in luogo asciutto. Non vuole essere trassinato intorno al gambo con alcune sorti di lavoro, se ben potato e tagliato da piè rimette molte vermene, le quali dopo un anno si possono staccare co ’l lor ceppo, terra e barbe, e strapiantare altrove più tosto in sul sodo come il ginepro, che in divelto o fosse bene affondate, amando d’ essere piantato a galla in sommo del terreno, rico- prendolo leggermente. Lasciò scritto Marone che ’1 corbezzolo riceve d’ innesto il noce. Il Faggio ha la foglia simile al nocciuolo, più piccola, più sottile, morbida e delicata e leggiera : e questo in tanto, che riempiendone delle secche i sacconi fanno dentrovi bonissimo dormire a chi non noia il cricchiare che le fanno nel rivoltarsi per il letto luna contro l’altra, la qual cosa non dà molestia agli abi- tatori delle Alpi, dove è la genuina stanza loro. 591 Crescono alti et uguali alla grandezza degli arbori maggiori, creano frutti triangolari detti faggiuole che sì mangiano, e già se n°’ è vissuto e se ne può vivere, come delle corbezzole ; trite se n’ingrassano i ghiri et i tordi, e cosi acconcie piacciono assai ai pavoni d’ India. Sanifica la carne del porco, facendolo allegro, lo fa agevole a cuocere, tempera quell’ umi- dezza e lo rettifica da ogni parte. Non ricusa d’ essere traspiantato ne’ domestichi monti, e si gode ancora nei piani, in buon terreno et asciutto. Nasce di seme con la diligenza del- l’abeto, ma piccolo trasposto s' attacca e viene innanzi in ogni lato e sito .freddo. Il suo legname è utilissimo a tutti gli acconci, pur che stia all’ asciutto, o se nell’ acqua, sia coperto interamente da quella, come che serva alle fon- damenta et arche dei pozzi. È ottimo legname per l amadie da farvi il pane dentro. Marcisce nell’acqua, se non se per i remi, quasi che riservato in ciò a dar travaglio agli infelici forzati, non si trovando legname più atto e più dicevole a quelli. La vite vi fa su accomo- datamente nei luoghi asciutti et aspri. Gli antichi facevano vasi da vendemmia e corbe da mietere et altro della corteccia del faggio, et instrumenti da sacrificare d'altra sorte e vasi a proposito per ciò. E si legge che Curio giurò non aver presosi altro della preda che un gozzo di faggio per sacrificare agli iddii. Fan- nosi l’ aste per le picche et alabarde di faggio, se bene di frassino sono più forti e migliori. S'addomestica il faggio co ’1 pero e l accetta sopra di sé, annestandovelo con' diligenza. 992 La Farnia éè specie di quercia, arbore peculiare dei boschi delle maremme. Produce ghianda e cresce in grandezza notabile come quella. Fa bella verdura, con rami non tanto alla rinfusa. Come gli altri arbori di ghianda richiede il medesimo trattamento che quelli, e trapiantata piccola alligna fuori del suo natio terreno. Il Frassino si stima per il legname atto a far propriamente l aste alle picche e a tutte le altre armi da innastarsi. Vale ancora a botti e tini per tenere e ben conservare sano il vino. Si.trasceglie in quelle parti ove non abbi nodi; ha certe vene nere che seguono da imo a sommo, di tanta bellezza e vaghe, che si son fatte picche di questo legno di valuta di cin- quanta e cento scudi, e massimamente in una boscaglia d’ esso situata nelle pianure di Lom- bardia, il che rimostra che trapiantandolo da piccolo possa allignare in ogni lato, se bene per natura ama il monte et asciutto terreno ; s'appicca ancora a rami schiantati con un poco del vecchio in divelto, buche grandi o fosse simili. Fa la sua sementa in certe guainelle, dalle quali sgusciandola agevolmente esce, il quale si semina ricoprendolo poco in terren trito; e dopo due anni o tre sì traspiantano fitti, volendo che servino a picche et altre aste, potandogli continuamente rasente il fusto tutti i rami. Alligna in ogni terreno per ben che sassoso, vivo e secco sia. (odesi fra i massi. Piantasi a primavera quando comincia a dar fuori i bottoni; ancora vien bene, ponendolo (TA) ee) dopo la vendemmia che ha finito di fare il seme; et allora è ben seminarlo. Le foglie del frassino giovano a esser mangiate a tutte le sorte di bestie, e tanto sono lontane a nuocere a quelle che non ruminano, e dall'avere in lor veleno, che alle serpi è tanto nemico il frassino, che mai si truovò serpente che gli andasse tanto appresso, quanto ricuopre di terra con l'ombra; onde s' afferma per chiara pruova che se dentro a un cerchio di frondi di frassino si mette in una banda il fuoco e nell altra un serpe velenoso, più presto sì mette a passare il serpe per il fuoco che per il frassino; onde ha fatto la benignità della natura, che sempre produce il frassino il fiore avanti che le serpi escano di terra, né mai lascia le frondi, se prima elle non ritornano nelle caverne loro. Alcune sorte di frassini si dilettano del monte, che sono quelli di più serrata e spessa materia di legname, e quelli delle pianure [l hanno] più crespa e dilatata; quella è più robusta e forte, più colorata, leggiera e lenta; la cam- pestre cresce più scolorita e più ronchiosa. Con tutto ciò è più lodato e migliore e più bello il legname del piano, come a tutta la natura di tutti gli arbori; et ama gli umidi e grassi luoghi di piano, se ben fa ancora nei monti. Ne sono assai intorno al Nilo et in altri luoghi. Ne sono d’ una sorte dei piccoli che non cre- scono molto, buoni per pali alle viti, si come quelli a sostentarle. Crescono i frassini assal presto, e s' insetano in essi tutte le sorte dei peri e dei meli meglio a bucciuolo, quando hanno mosso di primavera; ancora a marza, 594 quando è bene in succhio e muove. Ama i luoghi dei boschi ove concorre umido e grasso. Si piantano per le viti con le barbe assai pic- cole di febbraio e marzo, non gli toccando sino a tre anni passati i rami, per formargli poi che le vi risegghino su accomodatamente; di poi un anno si et uno no si van potando e ‘1 sesto anno vi si può su acconciamente adattare la vite, la quale o prima o poi se gli pianti rasente un braccio; ma meglio è tutto ad un tempo in terreno ben divelto o fosse aperte o buche grandi ben lavorate. Il frassinello è arbore della spezie medesima, un poco più pic- colo, non s' alzando tanto e serve a questo medesimo uso: chiamanlo alcuni. aborniello, come s'è detto di sopra. Come si sia, tutti sono spezie e razza di frassino. Il Fico è arbore che produce frutti ad ogni gusto gratissimi, et appo gli antichi Romani furono tanto apprezzati e cari, che avendo voluto Scipione invitargli al conquisto dell’ Affrica si cavò di sotto la veste in senato un fico ch’ egli aveva addotto di quel paese e lo mostrò loro, celebrando la bellezza e il sapor d’esso, affermando là esserne abbondante copia; e con questo et altro venuti in desiderio di quella provincia sotto la sua scorta, se ne fecero con il valor dell’'armi padroni, et in breve furono a quei tempi trasportate tutte le sorti d’ essi alle nostre bande, come anco quasi tutte le spezie degli altri nobili frutti. Ma quelli in tanto loro gradirono e gli apprezza- rono, che per il soave gusto vi sì immerse così 595 ingordamente Clodio Albino, che se ne mangiò cinquecento dei passarii o calestruzzii e cento persiche di compagnia e dodici melloni. Nei tempi poi più bassi appresso a un banchetto che fece Proculo imperadore a’ senatori romani, ai quali diede in tavola seicento cignali, sei- cento struzzoli, seicento cervi, seicento polli, seicento lepri, seicento fagiani, seicento capril, seicento coturnici e seicento vitelli, con che avessero i convitati a mangiar solamente il cervello di tutte le teste dei detti animali, poi levar via e portare a consumare il resto all’altre genti, esso mangiò cinquecento fichi medesimamente e dodici poponi, così che di poi nei tempi succedenti e ai nostri mancano di esempio ; perché l aver mangiato Massimino quaranta libbre di carne il di continuo, et ai nostri giorni o poco innanzi due Spagnuoli presentati a Solimano aver per una volta sola mangiato venti libre di castrato, che perché disse che questi toglievano la parte agli altri gli fe’ morire; et un altro pur di quella nazione mangiasse cento uova in Ferrara, e che il duca Giovan Federico di Sassonia beesse dodici fiaschi di vino il di, uomo tanto corpulento che per arrivare alle vivande postegli in tavola, v aveva fatto un semicirculo capace della sua sbardellatissima pancia; e molti altri che sono stati grandissimi divoratori di cibi e beoni; non hanno che fare con questo consu- mamento delle tante frutte e fichi, dei quali i poeti han lasciata scritta in greco questa fin- zione d’ istoria. Sendo perseguitato il gigante Siceo da Giove, dalla dea Tellure sua madre 5906 favoleggiato fu che egli fosse convertito in un fico, e che per questo in Cilicia sia stato posto nome a una città Sicea. Appresso si rac- conta che Olisso (') d'una amadriade avesse una figlia detta Sicea; e Ossilo nato d’ Orio suo padre avendo usato con la sorella aver gene- rata la pianta del noce {?), il corniolo, il pioppo, la vite e "1 fico, e queste chiamarsi le ninfe amadriadi. Alcuni altri attribuiscono l' inven- zione del fico al padre Bacco, e perciò i Lace- demoni avere in venerazione Bacco Sicite. I Nassii secondo | openione d’ alcuni vogliono che il padre Bacco si chiami Melichio, perché egli abbi dato fuori il frutto del fico, il quale i medesimi chiamano mediche; e per questa cagione avevano improntata l’ effigie di Bacco con figura di vite, et i Nassii Melichio con quella di fico. Alcuni scrivono primamente in Attica essersi ritrovato il fico, et altri ha scritto che Fitalo ricevesse in alloggio Cerere, e lei, avendo voluto usargli gratitudine per il bene- fizio ricevuto, gli donò l’ arbore del fico; e gli Ateniesi addomandarono il luogo sacro fico dove primamente diede il fico fuori, che fu una via ch’ andava a Eleusine; e s afferma da alcuno che è il medesimo, in Ellade, Cipro e Cilicia primamente essere apparsa in luce una sorte di fico che sostenga il frutto a contrario della foglia et il grosso per l'altro verso, concios- siache tutti gli altri arbori del germe d’ un anno passato e non del nuovo mandin fuori il (1) Ossilo scritto sopra Olisso. (2) nua juglans, scritto sopra. 597 frutto. Erano appo gli antichi Greci varii nomi di fichi ; basilie, cyrrhocelaide, sycobasilie, hyladie, sarcelatie, japirti, pieridii, dracontii, leucophii, melanophii, creneii, mirecii, ascalonii, leucerinii ; che si credono essere i medesimi che produ- cono i fichi bianchi. Questi sono i nomi greci. I Romani poi ebbero in pregio i fichi lidii che sono rossi, i mammellani ch’ han similitudine delle mammelle, i callestruzii poco migliori di sapore, freddissimi sopra tutti i fichi, gli affri- sani lodati da tutti nella disfazione di Carta- gine, et altri d’ Affrica detti libici; sono ancora di là i sulcii et i topii; gli alessandrini dalla patria recarono seco il nome, sono bianchi e detti serini, molto delicati; i rodiotti sono di color nero ; i tivolesi sono dei primaticci. Rice- verono ancora i nomi dalle persone i liviani, i pompeiani che secchi al sole con i mareschi sono accomodatissimi per uso di tutto Vl anno, e così quelli che hanno gli sprazzi di foglie di canna, detti arundinei, da altri alfuli; sono di corto picciuolo gli ercolani, gli albii cerati e eli aratii bianchi, i porfiriti di lunghissimo piccollo, larghissimi di foglia; accompagna questi il popolare ('). I chelidonii sono gli ultimi a maturare verso il verno, e di questi ne sono dei serotini e dei primaticci che ne fan due volte, bianchi e neri, e dalla lor cor- teccia chiamati duri, dei quali i serotini matu- rano con la ricolta e con la vendemmia. Gli ionii solamente a Taranto nascono dolci; dei (1) Sopra popolare son scritte due parole, nome speciale e qualità di questo fico: piattoli, vili. 398 ‘alcidici ne son di tre volte. È lecito adesso considerare tutte le sopraddette razze de’ fichi, e configurandogli con quelli dei nostri tempi, co ’1 cognoscimento delle qualità natura e forma loro, farne conguaglianza con questi ; tra i quali aviamo principalmente i brugiotti, quali dicono essere stati condotti da un castello di Francia nomato Brugiossor; seguono in bontà e gentilezza di sapore e grandezza ben fatta 1 fichi gentili di Napoli primaticci et i fichi fiori napoletani che ne fanno due volte, primaticci et a mezzo tempo, detti da altri indottati. Sono appresso i fichi sampieri grossi e dei minori, ambidue primaticci e che ne maturano dei secondi; così. fanno i fioroni bianchi e neri primaticci, come i neri grossi lunghi che ne fanno tre volte; gli albi ancor essi fanno i lor primi grossi, poi gli ordinarii buoni a seccarsi; 1 lazzeri, ceseni, ribaldi, lar- daiuoli o lardelli, delicatissimi e secchi e freschi. Sono i fichi poponi che hanno la gonnella alla divisa distinti con verghe verdi, essi bianchi detti turchi, come che venissero di Costanti- nopoli; i pizzelluti amati come i ribaldi dai Genovesi, rosselli co ’1 picciuolo lungo, rossetti co 1 corto, corsi piccolissimi ma buoni, mar- sigliesi piccoli e di pianta e di frutto, zuc- cherini dolci, corbi o corbini o corboli, di Madonna, montelioni, pisani, castagnuoli sapo- riti e serotini, e più quelli di Scio che matu- rano dopo i sammartini, pagnottari che sono grossissimi, bitontoni neri, datteri che sono eccellentissimi e secchi riescono dei maggiori, perché ancor essi son freschi assai grossi e 399 grandi, tivolesi, romani, durelli, morati, giu- gnoli, settembrini, piattoli, verdoni et asinacci; ma sono nomi tutti che si mutano secondo i paesi. Ma se bene i fichi sono di diversa qualità di nomi, di figura e di sapore e condizione, tuttavia si piantano tutti a un modo, se bene è qualche differenza tra loro della complessione del terreno che amano; imperciò nei luoghi freddi e nel tempo dell’ autunno ponghinsi i fichi primaticci nei lati acquosi, affinchè si possi raccorre il frutto avanti la pioggia; nei luoghi caldi piantinsi i serotini vernerecci. E volendosi fare i primaticci serotini, se ben non sien così di natura, levinsi via i suoi fichi più grossi dal suo primo frutto; di nuovo ne rimetterà e gli condurrà a maturare, verso il verno. Assai volte ancora giova, quando i fichi cominciano a dar fuori le cime delle foglie, mozzar quelle vette co ’1 pennato, perché così s' intratteranno, diventando più forti e più gagliardi e più fermi e più fruttiferi; e sempre sarà cosa conveniente ogni volta che il fico cominci a far le foglie dilavar la rubrica (') con la morchia e con lo sterco umano e metter tutto alle barbe; cio fa più feconda la pianta et il frutto più pieno. Piantansi i fichi, secondo alcuni, di primavera e d'autunno, ma più s'appruova di primavera che è in muovere sotto e sopra, e massimamente perchè come pianta gentilissima e frangibile teme molto il freddo, i venti e ’1 ghiaccio; con tutto ciò è (1) terra rossa è scritto sopra rubrica. 400 chi scrive d' averne piantati di giugno e di luglio, et essere afferrati e fattisi grandi e belli, ma con il continuo aiuto dell’ annaffiare, sì come nei lati più caldi nel terreno ben divelto ai tempi debiti e che non abbin sentito acqua s hanno a piantare, perché la troppa acqua imbruttisce le piante e le fa apparire squallide et inferme e più atte a corrompersi. Si possono ancora pigliare i fichi ben maturi e strofinargli a una resta o corda tanto che vi restino attac- cati 1 semi e sì ponghino in solchi, traspian- tandogli dopo un anno. Ma una pianta radicata s'appiccicherà bene cacciata in una squilla, © ‘vero impiastrata di morchia. Ancora a spun- targli le barbe e sfendergli la corteccia e porvi della cenere diventano più fertili. I fichi che producono dentro il frutto asciutto per lor natura si deono piantare in luoghi umidi e simili terreni, e quegli che gli creano dentro grassi et umorosi si deono piantare nei luoghi asciutti e terreni secchi, si come quelli che gli producono piccoli, amando i grossi e di lungo piccollo e carnosi terreni grassi e sustanziosi; e questi tali non rifuggono il letame, come di colombina e fradicio di migliori animali; così. quelli che presto cade loro la foglia amano luoghi umidi e freschi; e faran bene i fichi che maturan presto piantati nei ter- reni freddi per tempo. Rifiuta il fico i terreni oltre a modo freddi, sì come i troppo caldi ; nei temperati fa bene; et in quelli che sono assal freddi, essendo il terreno in fondo asciutto, sì condurranno bene, come negli assai caldi, essendo sotto freddo et umido; in questi sì 401 voltino a tramontana, in quelli a oriente e mezzogiorno; e se il freddo rinforzi e sia ga- gliardo, cuopransi d'inverno come gli aranci, o si facci loro una coperta di casa d’ asse, si come il duca di Baviera a quattro che n°’ ha brugiotti, che pur resistono al freddo più di tutti gli altri; i quali così gli conserva, sco- prendogli la primavera al tardi, in quel paese che è freddissimo. Amano per lo più i fichi i paesi e terreni mediocremente pietrosi, casa- linghi e calcinosi, et in questa terra e nella ghiaiosa et asciutta e secca renderà i suoi frutti di più gusto e più saporosi, come nelle rovinate dei casamenti vecchi; ond’è che da principio, posta loro alle radici di molta terra sopra la quale sia stato fatto fuoco assai, gli gioverà grandemente, sì come a por loro calci nacci in quantità nel fondo della buca o fossa o divelto, sopra i quali hanno ad abbarbicare. Non si piantino in tempi freddi, che non si ricuopra tutto quello che rimane .sopra terra con arena o cenere di bucato, poi a primavera, nel qual tempo è la lor vera piantata da mezzo marzo a tutto aprile, e quando voglion mettere, scuoprigli fra le due terre e quivi scapezza, dopo che sia durata la messa un anno. Quelli che si saranno fatti venir di seme conviene insetare dopo la loro nascita due anni o a scu- detto o a bucciuolo et ancora a marza. Quando si piantano i rami, scoscendansi e con quanto ne viene del vecchio si piantino di quelli che sono dal mezzo in su verso la cima, da oriente o da mezzodi, con tutti i rametti che hanno, cacciandoli sotterra, st che il tutto vadi 26 402 in fondo un braccio e mezzo, e la cima sola principale si lasci fuori tre diti o quattro e non più; e se è luogo freddo e si pianti d’ ot- tobre, pongasegli in capo un bueciuolo di canna, mettendogli di primo tratto nel lato ove hanno a stare, benchè oggidi s è speri- mentato che i fichi stati piantati di ramo in sul semenzaio, formati in arbori di tre anni, fanno miglior pruova degli altri posti in altro modo ; e di quelli che si pongono a piantoni, quali si staccano dai rimettiticci del pedale dei fichi grossi fatti vecchi, lasciati a posta per ciò, sbarbandogli da quello con più barbe si può, e piantato che sia, tagliandolo sopra terra mezzo braccio; e dopo il primo anno sì ritagli fra le due terre, tirando innanzi la più princi- pale vermena e formandolo con quei palchi che conviene al paese; quella tagliatura si ricuopra con creta. Così fatta pianta, sfenden- dola da piè e cacciandovi una pietra, metten- dogli attorno parecchie granelle d’ orzo, darà fuori più presto e più gagliarda; e tanto faranno i piantati di ramo. Gli staccati dal pedale non fanno così buona pruova come quelli di ramo e che si cavano di pianta fatta dai semenzai; nei quali, in terreno ben divelto, s hanno a piantare i rami della condizione detta, un poco men sotto, lontani un braccio e mezzo l uno dall’ altro, e dopo due o tre anni si trapiantino a dove hanno a stare. Ma meglio è di primo tratto piantare una pianta lunga cavata di dove si possi avere, et una parte d’ essa distendere a giacer nella fossa, ed’ un ramo suo principale cavar fuori la vetta, o 405 vero se sl può torcer la sua, sotterrando tutti i rami, e cavar fuori una vetta sola sopra la terra un sommesso e non più. I fichi brugiotti sono i più difficili ad appiccarsi di tutti gli altri. Et a questi tutti è da usare così fatta diligenza, e di più, fatta la fossa in su 1 divelto dove s' ha a porre il fico un po’ lunghetta, e presa la pianta del fico dalla parte dove ha a ire stesa nel fondo, sfendasi da pie, et in quella sfenditura incastrando come un conio la bietta che suggelli bene d’ un ramo di salcio d’ uguale grandezza e grossezza del fico, cavisi fuori dall’ altro capo della fossetta la sua cima, avendo steso l uno e l'altro nel piano della fossa e ripienala di buona terra cotta per mezzo braccio ; e mezzo braccio, passato l anno, si tagli il salcio sotto terra, che in quel mentre averà dato tal rigoglio al fico, che metterà con eran gagliardìa e verrà meglio innanzi, si come piantandovi appresso rasente terra o facendo passarlo prima per la cipolla squilla; e massi- mamente se sì bramerà d’ aver fichi di mesti- cato colore. neri e bianchi, avendo insieme sfessi due rami di fichi diversi V uno dall altro piantati accosto insieme, d’ uguale partimento dl’ ognuno, commessi insieme come si disse dei magliuoli e poi legati, facendoli passare per la cipolla squilla; e dopo due anni se si faranno in due piante contigue sfendendo i tronchi, et anco in ramo potranno traspiantarsi, mettendo più sotto che si possi la sfenditura. Et ancora mesticando 1 semi del fico bianco e nero in una pezza lina fradicia, nascerà pianta, incor- porandogli da piccoli insieme in un corno 0 404 altro legno voto, tagliando sopra rasente a far una messa, s' otterrà il medesimo effetto; e fatto passare sotto "1 corno ancora la cipolla squilla, acquisterà vigore e non sarà noiata da vermini, si come tutte le piante appo le quali sarà pian- tata. Gioveragli ancora zappettargli attorno spesso, messo che abbiano, rinnovando loro spesso il terreno al gambo, e se sia troppo asciutto, adacquare. Ha maggior vita del fico il caprifico, sopra il quale perciò si dee inne- stare ogni buona sorte di fichi; e perché non ogni sorte di caprifico si confà con i domestichi fichi che vi s hanno a insetare, è bene avanzar tempo a piantargli a buon’ ora. Ancora, s' hanno a corre i fichi svaniti dai caprifichi ai 10 o 12 di giugno o di luglio, e fattone mazzi, appic- candogli per i picciuoli, metterne quattro 0 cinque mazzi sopra quei fichi che ne stanno tardi a maturare, perche dai granelli di quei caprifichi o dalla materia d’ esso fico del capri- fico si generano certi moscherini che entrano nei fichi domestichi e li costringono a matu- rare a buon’ ora; e tanto farà piantando assai caprifichi fra i fichi; et i migliori sono i cavati tra le pietre e i luoghi aspri della sorte dei neri ; altrettanto causeranno i corni dei castrati staccati freschi dal morto castrato e sotterra- tivi al piede. Ugnendo il fiore ai fichi grossi 0 intorno al fiore con olio comune un poco tie- pido, si solleciteranno a maturare, come mesco- lando con l'olio sterco di colombo e seguitando d’ugnere da che sien grossi come fave, spic- candone i primi fichi che fanno, matureranno il rimanente più tardi. I fichi piantati ove 405 sieno acque stagnanti o acquitrini s' infermano e mal vengono innanzi: con tutto ciò piantati vicini all’ acque dei bagni fanno bene, crescono più presto e con maggior frutto. Desidera 71 fico andar ben sotto quando sì pianta, e quanto più si piglia il ramo grosso che s' ha a pian- tare, tanto fa meglio cotesto, [conforme] al proverbio che dice: ulivo vecchio (altri dice grosso) e fico piccinino, ma non TV appruovo, che l ulivo vecchio ha di già fatto ’1 gambo a dov era e non acquisterà mai tanto altrove, quanto a mettere in terra un piantone grosso a modo di buccia delicata, gentile e sano, e la sperienza sia di mezzo, avendone fatta la pruova; e quanto al fico è più vero il pro- verbio che dice: se tu vuoi piantare bene un fico, guasta un altro fico; che tanto è a dire che si dee tor grande, perché quanto più grande e grosso lo piglierai, tanto meglior pruova ti farà, perché il piccolo il più delle volte così il caldo come il freddo tosto te lo spaccia o mette a stento o con manco sustanza. Imperciò piglia pure il ramo che tu hai a piantare il più grosso che tu puoi, pur che tu non nel fin della pianta fenda la buccia ol legno, che s' allenta attorno per un palmo la buccia e così genera più ‘adiche; ché a fendere come si fa la buccia e il legno e cacciarvi dentro una scaglia e’ fa maggior pruova. Guastasi per dire il vero e sì stroppia l altro fico di dove si cava nel suo pedano; e perciò avvertiscasi di pigliare di quei rami che vanno all’ erta e non mai di quelli che s allargano e vanno a terra, perché pigliando di questi che gittano a terra non 406 riusciranno mai troppo all’ aere e non faranno mai bel pedale, facendo sempre come terragnoli effetti simili a loro. Ma pigliando di quei vet- toni principali che camminano alla cima rigo- gliosi, uguali a loro istessi, metteranno a mera- viglia e faranno bel gambo. Ponghinsi poi in fosse, formelle o divelto, fatto in buona terra e luogo fresco, perché questo è il suo appetito naturale, avvertendo di porre di quella sorte che ama il paese, e squadrar prima con una occhiata i suoi vicini, sapendo che i napoletani et i brugiotti, se ben sono più sfoggiati nei piani, amano piuttosto i pie dei colli e ’1 fine delle costiere dei monti. E che sia vero, pon mente che il fico brama tuttavia, dopo che egli sia zappato o vangato, d'avere buon rincalzo di terra ai piedi; e che spesse volte quelli a chi s è fatto le muricciole attorno che rat- tengan loro l innalzato terreno addosso, fanno meglio. E ciò si dee far loro sempre che abbino le radici scoperte et abbandonate dal terreno, che così sì manterranno quel più e saranno rigogliosi. E fuggasi di porgli vicini alle fosse fognate che si fanno nei campi per sgorgar l’acqua di sotto o presso ai condotti di quelle, perché mettendo le barbe in quel fresco, riem- piendoli di barbe gli rovinerà; e si è trovata talvolta una barba di fico essere camminata giù per i doccioni cento braccia, che poi ingros- sando gli fa crepare e gli tura. Appruovo ancora che posto che è il fico, si propaggini il secondo anno come le viti, per far che venghi presto e bene e facci frutto assai, facendo mag giore e miglior fondamento nel terreno; e 407 perciò opererai così, che quando tu lo poni nel principio o in fossa o in divelto o in buca, non lo poni a dove arebbe a stare appunto nel proprio suo lato, secondo l ordine degli altri frutti, ma discosto un mezzo braccio 0 così, affinche nel propagginarlo ritorni ad arrivare giusto nel luogo suo. E per questo ben fare, tagliato il primo anno al marzo fra le due terre, e il secondo, come lo truovi rigoglioso cresciuto, tu possi acconciamente propagginarlo, quando tu fai la propaggine falla a dentro quanto fu posto il fico da prima, e dagli sopra la terra cotta che l ha a ricoprire del letame marcito mescolato con della loppa infradiciata ; in questa maniera verran presto e bellissimi. Ancora i rami dei fichi che s hanno a piantare gli aiuta assai il tenergli appiastrati con la bovina stagionata per due di; altri con la pianta affondano la calcina viva, o mettono intorno alle barbe terra rossa ('), e così non mancheranno di rendere buon frutto al padrone. Insetandogli a marza, o per l umor loro o per la terra che dentro alla paglia gli fascia attorno, molte volte metton la radice fra 1 fesso del legno; è da lasciarlo fare, ché aiuta l’attaccare; ma veramente l innestare a marza si dee adoperare ai frutti di legno sodo, e non al fico che è tenero come una brina. Fa adunque meglio a cannello o a scudicciuolo, se si facci di giugno o di luglio innanzi alla cani- cola et innanzi che comincino i fichi a matu- rare, perche poi manca il lattificio e non così (1) rubrica, scritto sopra. 408 bene s' attaccano: et il bucciuolo sia di un anno o due e così lo scudetto, e la marza sia di corti occhi e sana, e radasigli alquanto della scorza da quella banda dove ha a entrare perchè combaci meglio, prendendo di dentro e di belle messe da oriente nel fin di marzo 0 principio di aprile. E volendo innestare i capri fichi, facciasi a bucciuolo quando son bene in latte e vi se n’ aggiunghi, se bisogna, perché non n°’ hanno tanto quanto i fichi. Si può, per fare pruova, insetare i fichi nei mori fra scorza et a marza e con quella medesima maniera che si fa agli ulivi; et a occhio nei platani, in salci, in cotogni, pomi e peri. D' aprile s' inseta la ruta nel fico e v acquista sopra virtù e valore maggiore. Come tu vedi il fico brugiotto che cominci a muovere, e tu subito comincerai a ugnerlo mattina e sera con una punta di fuscello in su ’l fiore con olio d’ uliva dolce, e così farai a tutte l'altre sorte; e volendo assi- curarti che non ti sien mangiati, intigni il fuscello nell’ aloe e fa che passi dentro. E se alcuno vuol disegnare qualche cosa in un fico, intacca gentilmente la scorza di fuori con uno stecco dosso o di legno intorno all’ occhio del fico, 0 pur in uno di quelli primi frutti quando son teneri nel principio che l arbore gli prin- cipia a produrre, che quando sarà cresciuto rappresenterà la scrittura. Restano talora nel- l'autunno di maturarsi alcuni fichi; questi tali s hanno così come si ritruovano a involtare nelle proprie frondi o in fieno o in stoppa 0 lana, serrandogli ben sotto e sopra che l' aere non v entri, et alla primavera sciolti all’ aere 409 avanti gli altri co ’1 sole matureranno. Così nei luoghi freddi quelli che non si sono prima potuti maturare fasciati con stoppa gentile ai buoni tempi et a’ soli sfasciati et aperti si faranno maturi. Ateneo dice che fu il fico il principio della pura e semplice vita dell’uomo, e perciò gran- demente o secco o fresco s' usava in cibo. I Lacedemoni per ultima vivanda ne davano dei secchi nei lor conviti. Solevano gli antichi nel di di calen di gennaio dare dei fichi secchi al lor dio, agli amici e parenti, affinché i dolci di dell’ anno dalle cose dolci incominciassero. Artaserse, Memnone detto; fratello di Ciro, sendo in fuga rotto il suo apparecchio d'’ esercito, mangiando pane d'orzo, essendo in fuga, e fichi secchi, sì roppe a dire: oh di che grazioso gusto m' aveva fatto privo la regale abbon- danza! E. M. Catone pone per ottima vivanda al contadini i fichi freschi; e poi si diedero secchi. Crate filosofo assomigliava le ricchezze dei danari degli uomini opulenti prodighi ai fichi nati nei precipizii, dei quali non si pasces- sero gli uomini, ma i corvi e i nibbi, come della roba dei prodighi i parassiti e le corti- giane. Diogene disse ciò di tutti i frutti. A fare andar via i pidocchi pollini ai fichi conviene: o recider lor la buccia fra le due terre attorno al pedale del fico infermo, rico- prendovi di terriccio buono, o veramente scal- zarlo fra terra un braccio, e quivi mettere secondo la qualità del fico uno staio o più di calcina viva, si che la se gli stenda sopra tutte le sue principali radici; ma pi sicuro e certo 410 remedio è a ramo a ramo con panno grossolano e rozzo andarlo strofinando e stropicciando. Si libereranno i fichi dai vermini, se assai cipolle squille se gli pianteranno attorno al calcio; e se pur vi concorreranno, con la calcina sparsa alle lor buche s uccideranno, né gli casche- ranno i fichi se si stropiccierà il gambo co 71 succhio delle more. Terrà i fichi se gli impia- streranno le radici con morchia mesticata con acqua. Hl fico salvatico s' addomesticherà se avanti che tu lo pianti terrai i rami che vuoi piantare sette o otto di alla rugiada, avendogli prima ammaccati nel calcio, tuffati nell’ olio e nel vino mesticato insieme alquanto in macero. Il burro di vacca proibisce le formiche a salire, avendolo incorporato éon olio e strofinando ove concorrono. Sfendendogli la scorza quando è giovine da imo a sommo in quattro lati o spaccandogli per diritto nel gambo, gli farà ingrossare, e gioveragli se annebbiassero e gli cadessero i fichi cominciati a ingrossare. E tanto farà, appiccandosi. sopra il fico dei rametti di ruta, lupini e fior di gigli, non essendo la pianta usa all’ annaffiarsi. La calce morta posta attorno al piè del fico lo ringio- vanisce e risuscita, e gli fa fare i frutti contro alla stagione rigorosa e quasi d’ inverno. Preso l'occhio di fico e di pero a scudetto insetato nel mandorlo, si truova scritto che farà man- dorle. Il fico sterile si dee scalzare e durare di dargli del letame marcio, secondo ’1 testimone ancora delli sacri libri. Il sale e la cenere posta a pie del fico fra le sue barbe lo terrà liberato da pidocchi pollini, si come dalle formiche il 41l fargli sotto un suffumigio (') con zolfo et ori- gano. Ancora, non lo noieranno i pidocchi se nel basso della fossa quando sì pianta se gli ficchi un bastone di lentischio appuntato nel calcio con la punta all ingiù; altri lo fa tra- passare per una cipolla squilla, e così lo pian- tano, sotterrandola insieme. Se il ramo di fico scosceso subito si leghi stretto con vitalba e si puntelli, ramuginerà. Il fico solo fra tutti gli arbori non fa fiori, ma tosto con la foglia fa i suoi frutti o poco dopo, senza quelli apparire. Di più fa diventare mansueti e domestichi i tori o giovenchi non domi legatigli al tronco; onde se ciò è, non sha ad aver maraviglia che ’1 cuoco d’ Ari- stione (dove i nostri i polli morti di subito frollano co ’1 mettergli sotto le coltrici per una notte intera, o co ’1 cacciar loro in gola, tosto morti, della filiggine, o posti subito a fuoco cuocergli con due noci lor fitte in corpo, o ver subito morto mettergli nella pentola a bollire con un nodo di bicchieri o altro vetro) gli dicesse d’ aver fatto frollo e tenero un gallo sacrificato a Ercole morto di fresco, e maravi- gliandosene egli, gli dicesse d’ averlo tenuto appiccato a un fico. Della qual cosa si sforza Plutarco renderne la ragione, allegando che 1 fico spiri un’ aura et un alito veemente e ga- gliardo a poter far l uno e Vl altro, il che si comprende dalla vista, come che 1 arbore del fico sia pregno di copioso latte più di tutti gli altri arbori e ne riempia i rami, le foglie e i (1) profumo, scritto sopra. 412 frutti. Per la qual ragione il fumo, quando s' ab- brucia, che e manda fuori, fa pizzicar gli occhi e pugne, e la liscia fatta del suo cenere, abbru- ciandolo, netta e pulisce più dell’ altre, e di più il suo latte rappiglia il latte degli animali a fare il cacio, il che procede dal suo calore, co 1 quale facci non solo il pollo appeso, ma la carne frollare, come si vede avvenire sotter- randoli in un monte di grano, il quale ha virtù d’attraere e succiare un barile pien d’acqua e massimamente d'aceto o vino, e asciugarlo tutto. Si conservano i fichi freschi ricoperti da purificato mele con i lor piccolli colti avanti che sien maturi smaccati, acconci in un vaso di modo che non si tocchino, V uno con | altro, serrato bene e cacciato in una botte o tino pien di vino, si che vi nuoti dentro; e se il vino non penetri a raccorre e tirare a sé il seto acido dei fichi, di lì a qualche mese come ve gli ponesti gli troverai, quando gli cavi. E nel medesimo modo colti e cacciati ognuno da per sé in un buco d’ una zucca marina o lunga verde, et item spleniata quae secatur tessera inclusis ('*), avendo appiccata quella zucca in lato ombroso, dove non vi si facci né fuoco né fumo, basteranno assai. Alcuni i fichi freschi verdemezzi non così ben maturi con i suoi picciuoli cacciano in un vaso nuovo di terra cotta sottile, acconcisi dentro che non si toc- (1) È un passo di Palladio (4. 10. ad fin.) che veramente dice così: Ficus wvirides servari possunt, singulae intra viridem cucurbitam clausae, locis umicuique cavatis, et item tessera, quae secatur, inclusis. E fra le righe vi è la traduzione italiana: « et ancora pertusa e con il pezzetto segato racchiusi ». 418 chino, senza altro mele, e lo lasciano così no- tare nel vino. Altri rivoltano nell’ arbore un bicchier di vetro a quel fico che vogliono ser- bare, e turata la bocca con cera si che non spiri, in quel modo lo lasciano; ma meglio è, cacciatovelo da piccolo, lasciarlo crescere in una guastada stretta in bocca, turata bene. Ma per conservargli freschi il più si può nell’ essere loro questo è il modo: fa passare da mezzo in su duna botte molti aguti, e quando son pas- sati fa torcer loro la punta, allargando tanto il cocchiume che vi si possi maneggiare il braccio ; et avendo lasciata la botte mezzo piena di vin buono, legati i fichi ad uno ad uno per il picciuolo, appiccali a quelle punte torte di chiodi, st che V uno non tocchi V altro, e calagli rasente il vino a quattro diti; chiudi con cenerata, et apri quando gli vuoi. I fichi secchi chiamati dai Greci ‘scadi, insegna Paxamo a conservargli difesi da ogni putrefazione in questo modo: piglisene ne’ [vasi ] copertati di pece strutta, una [parte] nel fondo del vaso di terra cotta invetriata si metta, dove sì componghino i fichi a suolo a suolo sin a mezzo il vaso, quivi si ponga l’altra [parte], seguendo sopra d’empierlo fino in sommo, dove si ponga l ultimo, chiudendo bene. Ancora, se in un vassoio, graticcio 0 tegame, tosto che sia cavato ’1 pane dal forno, si. pon- ghino dentro i fichi a seccare, di poi si met- tino in un vaso di terra cotta bene impeciato d’ attorno; ma conviene prima cavarli con dili- genza e con la salamoia calda messi al sole in su tavole bagnargli, ugnendoli prima con olio 414 alquanto, e tenuti per una notte a spargervisi sopra la rugiada, turato poi il vaso di loto, portargli in cella. Tutte le sorte dei fichi son buoni a seccare e seccati a mangiare, eccetto che i fichi brugiotti soli, i quali non sono buoni a seccare e seccati che si fossero non riescono buoni a mangiare, et in alcun luogo di Francia è vietato per legge che non si secchino, e prov- visto che freschi si mangino; e la ragione è perché gli hanno la buccia più grossa più di tutti gli altri fichi, e in quella consiste la mag- giore e meglior parte del lor sapore, come quella delle pesche; così. non si mondano quando sì mangiano; e questa lor buccia sec- cata incruoia di maniera, che mal si può distri- care con i denti, e non solo essa resta senza sapore, ma quello che v era dentro di tenero s incorpora seccandosi in essa, e tutto diventa insipido e duro. Imperciò si deono mangiar fre- schi, altramente perdendosi l olio e 1 opera s incorre in condenna delle spese, non si tro- vando da spacciargli che a certe fiere fredde et a vilissimo pregio, a persone di fatica più che ordinaria e che non ne gustarono mai altri ne secchi né freschi. Ora tutti gli altri si pon- gono a seccare in più maniere al sole in sui graticci, o infilzati per il piccollo in tutte le spine delle mazze d’ arboretti pungenti a dove batte continuo il sole sospesi, o in su tavole stesi e rivoltati al bisogno, ritornandogli la notte al coperto; o veramente in capanne rette in su’ pilastri, che con un bilico si gira il lor coperchio fatto a comignolo retto da un legno solo che s alza e abbassa, per poter voltarsi 415 secondo che gira il sole; e la notte calar giù il tetto, e la mattina con facilità alzarlo et aprirlo. Ancora, tenuti per due dì al sole, si cacciano in un forno che tutto ’1 dì abbi cotto pane, sopra una tavola d'ogni altra cosa che di pietra, o graticcio di ginestra, o vitalba; et in su questi tenuti il dì al sole su per i tetti e la notte riponendogli in casa, si seccano, come sotto una loggia percossa dal sole, sopra foglie di loro istessi poste sopra cenere calda sparsavi, con Vl aiuto di questa e del sole. Altri, mediocremente maturi e divisi con taglienti canne anzi che con ferro, gli spandono in sui graticci e gli lasciano seccare al sole. Alcuni i più grossi fichi verdi e freschi spartiscono con le dita e così aperti gli dilatano e in qualun- que lato dove ’1 sol batta gli fan seccare; e secchi così bene alle ore di mezzodì, fatti pa- stosi dal caldo del sole, gli raccogliono e rac- chiuggono insieme, rannestandogli e spianan- dogli che combacino appunto, et accanto gli ripongono in vasi invetriati, facendovi suolo di foglie fresche d'alloro e di foglie di cedro e due o tre di fichi spianati bene insieme, in lato asciutto. E s addicono a ciò i vasi, ma un poco ripuliti, dove sia stato dentro olio, o in cassette di legno o cestelli tessuti di vimini o ginestre, nei quali per lo più dai marini s in- filzano, stivandogli l uno sopra l'altro, e queste reste sì ripongono in lato caldo. Così accostu- mano i pesaresi, che son tenuti i più morbidi, pastosi e grassi dentro. Il modo di seccargli nel forno ancora è (benchè sempre vi ristec- chiscono e diventano duri et incroiati, alla 416 foggia dei brugiotti, che a seccarsi come s' è detto si gettan via) di scaldarlo temperata- mente per questo effetto, a cagione che in esso tutto l'umore non svapori per la forza del caldo; ma è meglio fuori, dove l’ aere che si rivolge attorno vieta che quell’'umore non si ritiri e svanisca; imperciò quello si riserbi alla sola necessità. I fichi secchi danno augumento al corpo, fermano la sete raftrescando il calore, e son lassativi. I giucatori di lotta se ne ciba- vano anticamente, detti atleti; ma Pitagora esercitator d’ essi fu il primo che gli facesse, per stabilir più le forze, mangiar la carne. Sono ottimi ai valetudinarii. Certi ai fichi eletti e ben maturi e della miglior mazza levano i picciuoli e gli stendono al sole in su tavole di legno, e un poco secchi, prima che si faccin teneri, morbidi secchi gli ripongono in vasi di pietra o di terra cotta invetriata. Altri, lava- tisi i piedi, gli pestano, a modo riducendogli d’intrisa farina, e con molto sesamo et anici d’ Egitto e finocchio e comino gli mescolano; e queste cose tutte avendo ben pestate insieme, e tutta la massa dei fichi avendogli prima ben minuzzati, gli rimettono al sole a assodare un poco, et accanto fattene alcune schiacciatette, gli rinvolgono in foglie di fico legate con giunchi o altro, e di nuovo le ripongono in su le tavole al sole a lasciar seccare; di poi che sieno ben secchi, s' assettano in vasi invetriati, e turati con pece si serbano. Alcuni questa forma di fichi così acconci negli orci senz’ altro gli ripongono; ma avendo turatili bene col clibano, col forno gli abbrustoliscono, perché 417 più presto ogni umore ne scoli e sì consumi, e seccati bene gli mettono sopra i tavolati, e quando ne sia di bisogno rompono il coccio ('), perciocche quella massa di fichi indurata in- sieme non può altramente cavarsi. I vasi di terra dove s' hanno a conservare i fichi si deono prima ugnere con la morchia. Alcuni gli lasciano seccare in sui fichi, e stesa la paglia sotto in terra gli raccogliono, come a Mar- silia. I fichi che si chiamano albi, che fanno prima i grossi primaticci, poi gli ordinarii loro primaticci, sì mondano, poi pongono a seccare, e riescono delicatissimi, e riposti a suola nei vasi invetriati fanno una roccia o gomma molto suave; e facendo un suolo d’ essi e uno sprazzo di zucchero, tanto più. Tutti i fichi secchi, facendo un suolo di rose spicciolate et uno di fichi, rivoltandogli qualche volta et in rivoltando rimettervi le foglie di rose fresche, diventano a mangiare molto cordiali e leni- tivi; perciò se ne dee conservare a quel tempo. Scrive Plinio, in Mesia ricoperti di letame gli arbori e lasciatigli [i fichi] più grossi, cavati poi al sole, fargli passi l'altro anno; come ugnendo con olio, mescolandovi pepe con sugo d'altro fico più lungo, quando cominciano a inrossire matureranno più presto, e con porre alle lor radici colombina e pepe mescolato con olio. Fassi vino del fico maturo, spremendo al torchio con sacchi di pannolino grosso, et aggiugnendovi un quarto d’acqua che bolla con sale per conservarlo. Così si fa TY aceto dai (1) textum, scritto sopra coccio. LO = 418 fichi inforzati o inaciditi senz’ altra mestura. Il fico che mangiandolo abbi a muovere il corpo si farà co ’1 porre alle sue radici del- l’elleboro nero (') trito con la lattuga marina; ma è da sapere che queste piante aromatiche fatte con Vl arte patiscono, né mantengono la lor virti, ma diventeranno per contra più fer- tili e ferme, come si disse di sopra, e non sol loro, ma tutti gli altri frutti, se quando comin- ciano a far le lor frondi si mozzino, rompendoli con le dita le cimette di ciascun suo ramo ; e così faran più efficace questo effetto che a toc- carle o tagliarle con ferri, si come si costuma di fare il pane impepato con mescuglio di zuc- cata e ranciata co ’1 mele (ma meglio è co ‘1 zucchero, et in cambio di quella zuccata e ranciata pigliar limoni, cedri et aranci con- fettati nel zucchero) somigliantemente si fa il pane inficato, intridendoli tagliuzzati minuti nella pasta con mele o zucchero, co ’1 quale sì condiscono ancora i fichi in conserva (°), cocendogli poco e lasciandogli fasciati dal liquor del zucchero. Si fanno ancora torte con la sfoglia tirata con chiara d’ uovo e zucchero di fichi, e massimamente dei brugiotti. I fichi nani, da tenere in terra così piccoli 0 da trasporre e conservare in vasi, sì creeranno (!) veratrum, scritto sopra. (2) Sta scritto fra le righe a questo punto dello stesso carat- tere più piccolo: « Le buccie dei fichi mondi stillate fanno le carni chiare, morbide e belle, massimamente dei fichi bianchi; e son buone a cuocere fritte nella padella, tagliate in spicchi prima e monde, e tenute prima nell’ acqua e spremute poi in farmaci d’ ogni sorte, quando sono da principio grosse quanto una noce o poco più », 419 di questa maniera: piglia il ramo del fico di quelli che vanno all’ insù che tu vuoi porre, di qual sorte si sia, e mettilo con punta di sotto nel vaso dove egli ha a stare, e questo a ciò metta le barbe al contrario, perché mettendo le radici fuor dell’ordine della natura mai cre- sceranno troppo; e a luna scema. E volendo che pruovino bene, è meglio tor di quei rami di fico che aprono e pendono al basso, come brugiotti e sanpieri, che saranno tanto più nani; e ponendo di questi al modo ordinario, non cresceranno mai molto, e tanto meno al contrario, et a luna scema; e così sì pongono i salci, perchè non creschino e faccino buona ceppaia di cespuglio. Appresso a questo, pian- tando i fichi nei vasi all’ ordinario, cominciando a fargli il palco alla prima messa bassa, che sian due terzi d’ altezza sopra il vaso, e di poi gastigandogli e formandogli co ’1 pennato che stieno bassi, svettandogli e tenendogli bassi come si vogli, mantenendogli continuamente al garbo nano; e volendo entrare in razza di meli nani, susini o altri frutti, osserva questa regola in tutti, che s' appicchin di ramo, et in quelli di pianta di barbe sia guida il pennato non solo dei domestichi, ma dei salvatichi ancora che tu vogli cacciar ne’ vasi, se ben fossero pini, cipressi e quercie; et a' domestici, volendo insetargli, poni le marze a rovescio e eli occhi all ingiù, come si disse, che saran buoni per i vasi terragnoli; ma questi son così per bellezza e non per utile, e fatti per variare. Il fico d’ Egitto rattiene similitudine di foglia uguale al moro, e in quel paese solamente 420 alligna, né produce frutti per cibo; altri dicono che servono per questo e che gli fa purpurei. È pianta mezzana tra 71 fico e ’1 moro di foglia, fa i suoi frutti in su "1 legno e non maturano che graffiati con ferro, e così scarpellati si fan maturi in tre o quattro dì; e colti subito ne rifanno quivi degli altri, e questo tre o quattro e sette volte in un anno. Il suo legname è uti- lissimo agli edifizii, tagliato mette subito e cacciato nell'acqua si stagiona, andando subito a fondo, e stagionato ritorna a galla; et allora sì può adoperare e mettere in uso. Crea il fico egizio gran copia di latte, come il fico natu- rale, e si chiama sicomoro dai latini. Nasce il suo frutto ancora nel tronco e rasente esso nei più grossi rami che abbi. Il suo seme che è dentro al frutto nasce e viene innanzi, facendo la pianta grande. Il fico di Cipro si truova in Creti, simile al sicomoro ; fa ancora esso i frutti sopra i suoi più grossi rami e sopra il tronco, ma questi sono appiccati a una piccola messa che serve per appiccagnolo. È d’ altezza del pioppo bianco, la foglia è simile a quella dell’ olmo. Produce anch’ egli il frutto quattro volte l anno, e se non è ancor lui sbranato con ferro non matura. Nasce di seme. Il fico pelagico, pianta piuttosto piccola che grande, et è di rosso colore. E chi credesse a Polibio potria dar fede ancora a questo, perche egli ha lasciato scritto che nel mare indico, ben nel profondo, nascono quercie ghian- difere per pastura dei pesci. Il fico ideo fa nel monte Ida; di frutto 49 simile all’ olive nel mezzo delle sue foglie rotonde, con sapor di nespolo, detto alessan- tano. Ha la foglia somigliante di quella del tiglio. Il fico d’ India fu trasportato di là nelle nostre parti con i pavoni di quel paese, se ben pare che gli antichi non n abbin fatta men- zione, dicendo che si semina da sé stesso, pie- gando i rami a terra d'anno in anno e ficcan- dogli in quella a rimetterne dei nuovi. Come sì sia, questa pianta miracolosa ha la foglia di garbo aovato, somigliante d’ uno scudo amaz- zonico ; questa si stacca dall’ arbore fatta d’ un anno, perche le tenere non son buone a porre, e sì sotterra mezza in terreno grasso ben lavo- rato divelto, in sito caldo e volto a mezzodi, difeso dai venti, a novembre ne luoghi asciutti cdcaldi ia... nei temperati e un poco freddi, perche ancora in questi coperto sì mantiene a primavera. Fa di sé vista miracolosa, appa- rendo in molte parti quello che vietò di man- giare ai suoi soldati Alessandro Magno; se non se quello, scrivono, faceva i frutti maggiori d'una fava. Questo ha la maggior foglia, grande quanto un mattone e grossa quanto una pia- nella; fa nel mezzo di sé un fico maggiore aovato, spianato in cima, con certi setolosi spini, quali si cavano con diligenza facendogli andar via con la buccia, mangiandogli maturi, che è quando son rossi, sì come mangiati tingono l’orina di rosso; sono sdolcinati, sciocchi, ma nel lor paese hanno buon sapore dolce a modo. Quella prima foglia che si pianta in terra col tempo piglia forma di pedale, rotondandosi et 492 indurendo, come Il altre che di foglia in foglia crescendo riarrivano a toccar terra e far nuova pianta. Ne sono nel Messico le boscaglie intere dei domestici e dei salvatichi poco dissimili, et anzi creano certi pidocchi che sono come i pidocchi pollini dei nostri fichi, su per le foglie attaccati gremiti; e a certo tempo dell’anno verso l'estate, avendo posto della calcina viva a pie dell'’arbore ove sono, la spruzzano d’ acqua, e quel fumo che ella solleva, spegnendola così, gli fa tutti cascare in piana terra, dove gli spazzano con granate, facendone certi monti- celli, i quali, lasciati stare per un poco a som- mosciare al sole, raccogliono et assettano per cavarne il colore del chermisi, e di là si con- duce in queste parti a farsene questa tintura ; e la ragione accompagna ciò, perché si vede che schiacciando un pidocchio dei nostri fichi tigne in rosso. Oltre a questo questa pianta in quel paese serve a far ombra, avendo tanto grosse le foglie che i razzi del sole poco le possono penetrare; e sotto quelle volte e vacui che naturalmente fanno inarcando le foglie a terra, lasciano giusto spazio da potervi stare al fresco ai lor balli e sollazzarsi. Essi tengono gran conto del frutto, prima per mangiare e poi per il guadagno del chermisi che se ne cava, e massimamente che l uno non toglie l’altro, e si può avere e s' ha l'uno e Vl altro insieme d’ anno in anno. Cresce a maraviglia e non essendo impedito dai vicini arbori con i quali egli s intreccia et intriga, attende a ire sempre innanzi, crescendo e dilatandosi. Quà non fa questo effetto per non ce’ essere il ter- DO, de) reno così sustanzioso come quivi e quell’ aere così proficuo. Basta che la pianta ci s' allefica e può far fitta siepe. Il Granato così detto dalla quantità delle granella che dentro alla sua scorza tiene il suo frutto del medesimo nome, fu chiamato ancora melo affricano e massimamente punico, perché di là venne e n’ era attorno a Cartagine grande abbondanza. Produce frutto di grandissimo arti- fizio e di maravigliosa manifattura e d'una qualità miracolosa, poiche la quantità dei suoi granelli è in ogni pomo uguale di numero ancor che piccolo, purché in uno medesimo arbore sieno tutti pari et uguali di grandezza, a somiglianza di come hanno a essere le repub- bliche per mantenersi tutte equali e d’ accordo, perche di quello come di questa, scommessone molti, tutto ’1 frutto come lei si guasta e cor- rompe. Ha le foglie della fazione di quelle del salice, ma di più naturale pienezza, di color verde, come la vite, olivo e fico; spaccato il suo legno, vive, ma dura poco spazio di tempo, o scosceso 0 intero. È sano di sua natura; ha le spine nei rami, come il ramno. I suoi frutti hanno sapore gratissimo al gusto, atto a repri- mere dopo il cibo i fumi che sagliono al capo. In Soria fanno grossissimi presso ad Aleppo. Gli antichi approvarono li apirini che sono quelli che hanno il nocciolo piccolissimo © quasi niente, e appo questi gli egizii molto grossi. Ne sono delle dolci, di mezzo sapore e delle forti: nascono di seme tutti, che sono tardissimi a venire innanzi. Di ramo e di 494 pianta spiccata dal suo pedale s appicca feli- cemente, nei luoghi temperati di marzo e d'aprile, nei caldi e secchi, perche nei freddi non alligna, di novembre; e di questo mese con le barbe si traspongono per tutto accon- ciamente. Desiderano il terreno asciutto et are- noso, il luogo e ‘1 cielo caldo, e non acqui- drinoso ; et in questo si conserva meglio come nella creta e nel magro, che fa che ancora nei luoghi alpestri s' allignano e negli aspri, come che in questi non ch'altro piantati fitti e fondi fanno alle vigne siepe impenetrabile, e tanto più ai giardini et orti nei domestichi luoghi di terreno buono, tenendoli castigati e a segno co ’1 reciderli. Ancora nei piani et in terra grassa sustanziosa fanno progresso buono; e nella fresca, se ben non vogliono acqua. né umido, non mancano di fare, come nei cortili delle case e nei pollai, fra le mmuricciòle e monti di sasso, rincalzati da quelli. Si gode alquanto dell’ uggia e del terreno fresco, sendo questo della natura del susino simiano, perciò fa bene ancora rasente certi muri a bacio. Scri- vono che spargendo quantità di cenere al suo pedale, che sia fatta di legname di quercia, renderà i suoi frutti più rossi. Ma per aver frutto presto, sì deono spiccare d’ accanto le lor madri i suoi rampolli et i rami quando cominciano a mettere, di quelli di verso la vetta, di sotto e di sopra impiastrati di sterco porcino e un po a giacere; ancora senza questo s'attaccherà; e quelli, se han punto di radice o del vecchio, siano grossi a mezzo del braccio; e tutti s' hanno a piantare in buca grande, 425 fossa o divelto, non gli cacciando perciò troppo sotto, ma mettendo in fondo sette o otto pietre, sapendo che ciò proibisce che i frutti non sì spacchino ; e nel porre gli uni o gli altri s' ha a osservare i dì della luna ('), perché ai tanti dì quanti ne averai della crescente nei quali gli porrai, daranno il frutto al medesimo tempo dell’anno. Ancora, scelto sopra il pedale del granato un pollone o più che vi sia, che sì possi senza scoscenderlo tirare a terra, e questo come gli altri arbori per infiltrazione, cioé tra la corteccia, s inseta d’ alcun granato di razza buona e si lega con buccie di salcio; dipoi sì ‘accia in terra tenuto da-un palo, non rico- prendo l annestata parte, e avvertendo che non sì possi muovere a tornare a dietro, sì lascia stare tanto che muova e facci una messa, poi si gode la pianta assettata. Piantandolo a rami o vero spaccatura, che si dee far loro nel ‘aleio, si cacci una pietra che farà germogliare le radici più presto che ad aguzzargli, sì come gli farà produrre loro maggiore e miglior frutto dandogli dell’ orina vecchia al piede, e quando vogliono germinare, strofinargli tutti con il sugo della porcellana; et i forti si cor- reggeranno ponendogli al piede della fossa, quando sì metton gi, sterco di porco mesti- ‘ato con quel d'asino, o vero di quella palla che genera il melo e che si produce dal casta- (!) La carta 209.8 del codice che contiene il brano racchiuso fra questa nota e la seguente, è la più danneggiata di tutte dalla corrosione dell’ inchiostro. Mi è voluto assai tempo a ricostruire il testo, e a supplirlo ove era illeggibile. Né confido di esservi intera- mente riuscito. 426 gno. E cacciato al pedale un cartoccio di piombo gli farà [tenere] i frutti che non gli caschino, o tre volte l anno scalzandogli, met- tergli [intorno] una brocca d'orina vecchia marcia alle radici, o morchia; Vl adacquargli assai [presso] al gambo, gli farà più belli e fruttuosi. Quando è di primavera sarà bene [adacquargli] verso terra, perchè non si fermi l'acqua nei fiori a guastargli et infradiciarli. Mescolando argilla, creta e gesso, e gettandogli questa mestura tra le radici, produrranno, a detta di Teofrasto, i granelli bianchi; e ponendo i lor frutti da piccoli in pentole capovolte e serrate bene con pece in bocca, si sforzeranno di crescere quanto lei o almeno di farli mag- giori del solito. Hanno caro d’ essere sbucciati due volte l anno e scavati una e ben zappati nel tempo che si cogliono i frutti, perché le foglie cascano in su quel lavorato, che così ama. Spianisegli la terra al pedale e non s' am- monti quando se gli lavora intorno. Ritorcendo loro i picciuoli, non si spaccheranno i suoi frutti dopo che sien maturi, e [facendo] così, per due mesi più del solito in su gli arbori si manterranno. I vermi che vi si truovano non rinasceranno, ammazzandogli con [ferro] o con bronzo. Affermano i Greci che fa ben fra loro la pianta della mortella, e che [di primavera] si confiolano le barbe fra loro: et innestatevi sopra venghino bene innanzi. Medesimamente amano essere piantati rasente gli ulivi e fan più forti le [radici, massimamente] essendo accanto al luoghi che s' adacquano maggiormente. Alcuni] promettono che riusciranno senz’ osso (benché 427 di questi ho inteso esserne [alcune] sorte [natu- rali], se scavandogli il midollo farai come si disse delle viti e ciriegi, che si sotterra la messa, e come sia afferrata si taglia quello che esce fuori. Si fanno agre annaffiandole assai; e fic- ‘ando loro un baston di ginepro nella radice principale, ritorna a essere dolce. Dicono ancora alcuni che ’1 melograno fa volentieri (') nei lati dove egli abbi compagnia di quella sorte d’arbori che non creschino di vantaggio di lui, come del corniolo, dei susini e di loro medesimi. Fu dagli Ebrei nelle sacre cerimonie il granato avuto in pregio, e dagli altri Gentili in queste medesime cose; e Dario padre di Serse con gran venerazione un grande ne por- tava, e domandato se volesse tanti mondi quanti eran granelli dentro in quel granato che portava, rispose : tanti Zopiri; e dipoi un'altra volta: tanti Megabizi, che non la Grecia tutta soggetta. Milone Crotoniate tenne un pome gra- nato stretto si, che niuno gli lo puotè cavar del pugno, né meno se gli infranse per questo in mano il pomo, il quale una sua innamorata di poi senza alcuna fatica scherzando gliel trasse delle dita. Tanto, niente è che l amore, cosa più che mortale e c’ ha origine da mag- giori principii che non si stima la gente bassa, non pieghi, non addolcisca et ottenghi. I gra- nati si faranno lisci e belli e non ronchiosi, scavando a quella parte che si spacca il midollo, e riempiendolo di sterco di porco, e nel porlo (1) Qui finisce il maggior guasto del codice col fine della carta 209,* 425 mettergli al piè di molta cenere e durando di adacquarlo quaranta dì, e levandogli, tut- tavia ch'egli n’ abbi, i rimettiticci da piè, che sogliono averne un numero grande; imperciò levinsi via d'ogni tempo et a tutte lore del dì; e dove tu poni il sasso nella sfenditura, fa che non s' apra più di sei o sette diti, che ciò sarà cagione, come s è detto, che ratterrà i frutti la state, e massime se al tempo conve- niente dell’ entrare di primavera gli taglierai tutti i rami superfini, allargandolo che v' entri il sole, rifacendosi da capo ogni anno, rinvol gendo in sottili sarmenti di vite et arrendevoli, legando sotto e sopra con corda ciaschedun granato, infardatolo co ’1 gesso da ogni banda perché non crepino, basteranno su 1 arbore un pezzo; sotterrando presso al granato una pignatta nuova mezzo piena d’acqua e piegan- dovi un ramo che abbi il fiore co ’1 pome alle- gato, vi si facci entrar dentro, accomandandolo a un palo che non possi stornare, e turando la pentola in modo che non vi possi entrar acqua; al tempo degli altri cogliendo questo, si tro- verà di grandezza straordinaria, e sforzatosi di riempiere la pentola con la sua grossezza il più potrà. Lo migliora assai la cipolla squilla piantatagli al pedale, o sotterrarvi di molte chiocciole; e non si apriranno i pomi, come quelli che sien piantati in testa di tutti gli altri. Scrivono ancora i Greci che ’1 melagrano fa volentieri con ogni arbore amicizia, e soprat- tutto avere una certa simpatia con la picea. I granati si conservano bene nell’ arbore, rin- voltandogli bene con fieno impiastrato sopra 429 terra da vasi; e dubitando del freddo, ponghi- visi fieno e terra a doppio. Uno aguto fitto nella barba maestrale del melagrano, avendolo bene scalzato e poi ricoperto, gli farà rattenere i frutti soliti a cascargli. E volendo mettere in pruova quella pignatta, come s è detto, con- viene empierla d’acqua, ma in modo che non la tocchi il pomo in crescendo; e la ragione è che si farà più grosso, che quell umore che gli soleva torre l’ aere e ’1 sole glie lo ha tratte- nuto sotto la umidezza della terra e la fre- schezza dell’acqua; la pignatta così acconcia lo conserva, mantiene e ristrigne, che andando poi [l umore] a penetrar su per arbore ingrossa il frutto e lo fa maggiore. Con il medesimo modo possiamo far crescere gli acini della melagrana che parranno cosa stupenda. Pianta un mela- grano appresso a un corniolo e pertusagli il tronco con un succhiello, poi con una sgorbia cava quel legname o forfora riscaldata, e dentro a quel buco fa passare la pianta del granato, e quando egli averà finiti tre mesi, sradicalo e segherai il corniolo appresso a quel pertuso di sopra dove gli è messa la pianta, affinché non toglia il succhio e ’1 nutrimento a quel suo forestiero compagno, o vero che non gli ne toccasse più parte a lui che all innesto; così farà i granati di grossissimi acini, quasi come di corniole di raro sapore e suavissime. Inoltre, durando di dare ai granati tre anni alle radici la quarta parte di gesso e creta ben stemperata insieme, alle radici così piccole come grandi, farà gli acini bianchi. Si possono far di mezzo sapore, se elli fossero a sorte troppo forti, con 450 fare una fossa ben scavata in giro attorno che gli scuopra le radici di sopra, e d’ indi si facci un intinto di orina vecchia umana e sterco di porco e d'uomo, ovvero, avanti ch’ egli abbi fatti i fiori, discalzategli ben le radici, gli darai dell’acqua bollente e ricorreggerassi il sapore. Non è cosa consentanea alla ragione quello che io dissi di sopra d’ openione di Plinio, che il granato sia atto a ricevere in sé ciascheduna sorte di inseto, perché egli ha un legname asciutto non punto umoroso e la scorza debole e sottile. Adunque rapportandosi alla sperienza, c'atterremo solo all’annestarlo in sè medesimo, delle miglior razze sempre, che cosi megliorerà sempre i frutti; e volendo pur fare una pruova, pare che simile alla sua complessione sia la mortella. Deesi adunque aver accostata questa al granato, e congiungendo i rami di queste due piante, liscio con liscio, buccia con buccia e legno con legno, legargli bene insieme e con diligenza far che si combacino per tutto ’l taglio che se li fa, di poi fare come si disse della vite; et insetandolo in sé medesimo fac- ciasi a marza dell'istesso mese di marzo, presto spiccandola e di subito componendola al luogo suo, perché è legno troppo secco et asciutto et ha sottilissima scorza, e bisogna accomodarlo presto e bene. È ancora chi scrive, ma è greco autore, che mescolando T acqua con liscia fatta d’acqua di bagno e con questa annattfiando il granato, farà i frutti più vermigli; e strofi- nando tutto l’arbore avanti che egli metta con sugo di titimalo e porcellana ugualmente dibat- tuti insieme, moltiplicherà i frutti in numero 451 et ampiezza; afferma il medesimo che egli si può insetare nel salice e nel citrio. Sono i gra- nati tardi a maturarsi, perché se il freddo non abbi resa umida e debole la sua forza calda, non può questo arbore comodamente maturarsi il suo frutto; ond’ è che solo meglio matura i suoi frutti, se bene non cognoscendo........ (') e men utile, ama più lo stare in compagnia dei freddi. I granati si conservano colti maturi a luna scema, posti dentro a una brocca grande larga in bocca, accomodati in modo che non si toc- chino lun l'altro, turata con pece e cac- ciata nel fondo del pozzo. Altri, fatta una cassa di legname di pioppo e di leccio, si procaccia accanto della segatura dell'uno e dell’ altro, e compostivi i granati di modo che ciascheduno senza toccar l altro venga stivato, investito e rincalzato da quella, si sotterra la cassa in lato che l’umido non vi possa, o coprendola 0 accon- ciandola in modo che non vi possi. concorrere ne acqua né umido; et ai bisogni si cavano. Altri, semplicemente colti con leggier mano e destra che non s' offendino di percosse, li cac- ciano nella segatura della quercia, lasciandoli quivi a mantenersi in luogo asciutto. Ancora, staccati maturi, si dà loro un tuffo nell’ acqua marina o salamoia, di tanto tempo che muti la scorza colore, di poi s attaccano sin su 1 solaio, e quando si vogliono adoperare si rimet- tono un poco a stare nell'acqua dolce; et in questa ancora bollente attuffandogli, e di poi (1) Un buco prodotto dalla solita corrosione dell’ inchiostro. 452 appiccati in luogo asciutto, si manterranno. Colti con diligenza e non franti, affondati nella pece liquida et attaccati al palco si custodi- ranno; sotto il grano e nell’ arena asciutta, attuffati prima nell’ acqua calda, dureranno, e posti in un tino, pieno il fondo di rena, e che vi stieno sospesi un palmo da quella a mazze traversate, turato di sopra, sì manterranno ; fra le foglie di sambuco, coperti sotto e sopra, in lato secco, bastano; e chiusi ciascheduno in vaso che non v’' entri né aere ne vento, baste- ranno freschi da poter corre dall’ arbore in mezzo al verno. Ancora, in una vasca mezza piena d’acqua, appiccandoveli sopra che non tocchino l’acqua, e chiusi di modo che non vi entri spiraculo alcuno, dureranno; fra 1 orzo, in un doglio copertato da un altro doglio, messivi che non si tocchino insieme; ancora, colti con il lor ramo e posti in una cassa mezza piena di arena, sospesi a mazze di sam- buco o canne, lontani da quella un palmo, che sia di sopra serrata e chiusa bene, in casa al coperto sì conserveranno; e senza altro, appic- cati nel palco, impeciati intorno al piccollo, dureranno. Spremesi dalle granella dei granati, chi lo vuol far buono, e non dal granato intero, il vin di granatino; conviene a questo effetto spicciolargli maturi, e cacciati in una gabbia di giunchi minuti o fatta di tela grossa gli spre- mono al torchio, e riposato e schiarito lo ripon- gono in vasi di vetro copertati da un dito d’ olio in cima, che gli mantiene Vl essere. Altri, che n’ abbondano, sgranati posti in una tinella gli pigiano con i piedi e con bastoni grossi in 455 punta, e cavato fuori il vaso al sole quivi lo lasciano bollire, coprendolo di modo che né pioggia nè rugiada vi possi entrare, fin tanto che la feccia vadi al fondo e che sia divenuto tutto chiaro; di poi l imbottano in caratelli di legno, mettendo però nel cocchiume dell’ olio. Altri pigliano i granelli dei granati et altret- tanta uva di sapor garbo, nera; e pigiato tutto insieme in una tinella, lo lasciano bollire si che chiarisca, et accanto lo ripongono nei bari- glioni, soprapponendo olio in cima. Et altri, senza lasciarlo bollire, vi mescolano del miele a discrezione e lo serbano all’ uso di bere; ma quello mescolato con V uve è più grato al gusto, e vino da temperare sano ai malati et ai sani. Il Giuggiolo negli ultimi tempi di Cesare Augusto fu portato d’ Affrica da Papinio, semi- nato (') nel campo, grandemente compariscente nelle trincee (*). Ha le foglie simili alla mor- tella, al corniolo simili le frutte. Ne sono di due sorte, uno che fa i suoi frutti un poco sbiancati, l’ altro. rossi, rotondi uno, 1 altro bislunghi; questi sono alquanto di quelli più grandi; et ambi copiosi di frutto ogn’ anno come i mori. Truovansene assai in Linguadoca, massime verso il ponte San Spirito; le corte che tirano al rotondo sono le megliori, di più sa- pore, queste di più giovamento al petto et al polmone; sono dure a smaltire e di pochissimo nutrimento. Si può seminare il nocciolo del (1) piantato, sopra. (*) aggeres, sopra. 454 giuggiolo, ponendone tre insieme con la punta all’ ingiù del mese di marzo in terreno delicato nei luoghi temperati, nei luoghi caldi d'aprile, e sotto e sopra letame marcio in quantità e cenere, levando sempre con le mani 1 erbe che gli nascono d’ attorno; e come egli sia grosso un dito si ponghi ove ha a stare in divelto, buca grande o fossa aperta. Ama terra non troppo grassa ne magra affatto e sottile, luogo caldo et a solatio; d'inverno gli giova essere rincalzato di sassi, i quali d'estate s' hanno a levare. Se non viene innanzi allegro, ma infermo, gli giova strofinarlo forte con una striglia di feno e dargli ai piedi di molto letame di bue. Mettono e rimettono i giuggioli assai polloni dalle barbe, e questi son buoni a essere pian- tati di novembre o di marzo, e fanno meglio che a seme, sbarbandogli con diligenza, e con le sue radici intere e con una piota di terra ai piedi, traspiantandogli, con spuntarle loro; ma la maestra con poco o non punto di ter- reno del suo. E se bene e’ pare in principio che egli venga tardi, preso poi piede cresce a dilungo e dura tempo quasi infinito, come che sia legname durissimo pendente in rosso, atto a tutti i lavori da tornio e che riesce ai minu- tissimi intagli di fogliami e figure, e soprat- tutto sodo e bello che piglia lustro, come le pietre per tenieri da balestre. Fa certi catorzoli ronchiosi nei rami, con i quali stroncato s ap- picca, torcendolo un poco nel calcio, e non vuole quando egli è grande essere tocco 0 potato ancor lui. Brama il fresco e l uggia e fa bene ancora in terreno grasso, e vorrebbe 455 sempre stare nelle corti e su per l aie e negli orti a dove egli possi cavar sustanza, perche non fallisce mai di fruttificare. È tenuto arbore savio come il moro, e da questo si dee impa- rare d’alleggerirsi o aggravarsi di panni, osser- vando quando mette e quando | abbandona la foglia, perché tardìîo più di tutti la mette, e l'ultimo se ne spoglia. Il suo fiore somiglia quello dell’ ulivo et è profittevole alle api, traendo assai dai suoi fiori. S' inserisce a marza, a bucciuolo et a scudicciuolo in sé stesso, né in altro passa, ne alcun altro riceve..I giug- gioli tenuti bassi fanno una siepe impenetra- bile come il paliuro, avendo come lui le spine acute e pungenti e più lunghe. Scrivono, ma sono i Greci, che nasceranno le giuggiole senz’ osso, se tagliata la giovine pianta quivi da basso sì pertusi e si vi metta dentro un conio o palo di salcio o corniolo, per modo che si spicchi la midolla, affinché si possi con- sumare e seccare. I suoi frutti spiccati con i suoi rametti e raccolti nelle proprie . foglie, appiccati in luogo asciutto si mantengono bene; et il simile fanno in una pentola ben turata e negli orciuoli impeciati et infardati di loto; e ponendoli fra l arena asciutta, non aguzze- ranno tanto, e non punto, dandogli un tuffo 0 st vero lasciandoli per un dì stare nel vin vecchio puro. Ma secchi a un poco di sole 0 all uggia, stesi su per tavolati in luogo asciutto, non avvizziranno molto e lungo tempo si con- serveranno. Lasciò scritto Galeno che ’1 giug- giolo non era d' utilità alcuna e solo di passa- tempo alle donne et a’ putti. Il giuggiolo per 436 far curri da muover gran pesì è ottimo legname quanto il sorbo. Le giuggiole vagliono alla tossa con il lor decotto. Il Ginepro è sempre verdeggiante, più presto per foglia avendo spina che foglia, che non gli casca o muta mai. Ha il maschio e la femmina: questa fa le coccole rossiccie, quello nere: questi s alzano in arbore grande, quelle a terra con i rami sparsi si stanno. Solo fr: tutti il ginepro tiene il frutto due anni, et in capo a quelli, più tosto che si maturi, casca 0 si infradicia. Ne sono d'una terza specie che non crescono molto e fanno gran cespuglio di rami e coccole grosse quasi come nocciuole. Fa le radici a sommo della terra, e questa cerca pietrosa, asciutta e leggiera. Comportasi nondimeno in ogni qualità d’essa, purche umida o acquidrinosa non sia, e nei piani non alligna così bene. Ama le coste e i monti in sito caldo e temperato, e nel freddo ancora pruova, mas- sime esposto a mezzogiorno. Le sue coccole nere, che così danno indizio d'essere mature, seminate in quel tempo che sono tali in terra trita leggiera, di novembre e di marzo nascono, e di tre anni i nati d’ essi ginepri si possono traspiantare, cavandogli co ’1 suo pane di terra e tutte sue radici. E così le piante delle selve ove nascono da per loro, cavate quanto più giovinette con una sola piotata di terra e con quella trasportate in su ’1 sodo solo, fatta una buca che le riceva quattro diti più sotto che prima non erano, meglio s' attaccano e vengono più presto, più rigogliose e più sicure che non 437 le poste nei divelti, buche o fosse aperte con tutte le diligenze. Cosi m'ha attestato e fatto veder la pruova il signor Raffaello Maffei gen- tiluomo volterrano, dotato di esquisita littera- tura, ingegno e virtù, a una sua villa detta San Donnino, molto ampia e comoda e copiosa di tutti gli emolumenti villarecci, dove ha ragnaie e boschi tutti ginepri, di terreno che gli produce da per sé, e cavatili a quel modo piccoli, posti in sul terreno crudo in quella buca sola che gli basti a riceverli, han fatto progresso grandissimo in tempo breve, né se n'è perso uno, avendogli piantati per verdura a uccellari e ragnaie. Con tutto ciò gli giova qualche volta essere attorno zappato e scavato, ma non se gli ha a dare letame di sorte alcuna; e piantato di novembre fa meglio che a marzo, rispetto al caldo e secco che dopo questo mese all’ estate gli sopravviene. Elegghinsi le pian- ticelle con tutti i suoi rami et avvertiscasi che non sieno vecchiereccie (il che si cognosce al gambo sotto e fra i rami pulito e liscio, senza magagne e non catorzoluto, diseguale e di mal sana buccia magagnato), alte tre quarti di braccio o un braccio, o un braccio e mezzo e non più, cavandole con quella piota al piè, fieccando la vanga tanto sotto che vi venghi la maestra intera e non punto offesa, e così sì collochi in quella buca fatta in su "1 terreno rozzo e non altramente. Non vuole il ginepro essere già mai tocco con ferro perché si sdegna et invecchisce, e soprattutto Ss’ avvertisca a conservargli la vetta, perché persa questa non profitta più. Lascisi crescere con tutti i suoi 435 rami, massime per le ragnaie et uccellari, per questo con i legami ritirandogli all insù e ristrignendogli insieme a fare i mucchi belli e folti. Ma desiderando che vadi alto e gli ingrossi il gambo, s avvezzerà da piccolo a essere po- tato e rimondo, che così si danneggierà meno e col tempo Vl uso diventa un’altra natura, come in questo, in tutte le cose, e diventerà grande per fare ogni lavoro. Et Annibale dai fondamenti avendo voluto drizzare un tempio come fe a Diana, vi pose le travi di ginepro per materia da durare centinaia d'anni, come che anco i carboni sotterrati accesi nella cenere del ginepro bastano tempo assai: gli alchimisti dicono un anno. Come si sia, il legname del ginepro è atto a ogni lavoro et è utilissimo più d’ogni altro per casse da panni a difendergli dalle tignuole, e per botti da tenervi dentro aceto a propositissimo. Ma di prima giunta, fatte che le sono, vi si dee mettere dell’ aceto forte; e come vi sia stato dentro un pezzo, quel seto dell’ inforzare sarà in esse incorporato di modo, che avendovi messo aceto buono diven- terà migliore, e ponendovelo migliore diven- terà ottimo, e imbottandovi dopo certo tempo vino ancora, esso diventerà aceto e si farà fortissimo, facendo fabbricare le botti oltre a modo grosse di legname che sia secco, e turato bene il cocchiume, tenendole al sole. Il suo fuoco e fiamma e fumo è fuggito dalle serpi et è sicurissimo dormirvi sotto; et è openione che inciti al sonno, onde fu detto letéo, e le serpi non arrivano mai a star sotto la sua ombra. Gli Arcadi affermano che ’1 ginepro ha 4539 in un tempo medesimo tre sorte di coccole addosso, une non mature dell’anno dinnanzi passato e del terzo innanzi al presente, già mature e che si possono assaporare, e l altre terze nuove verdi e fresche dimostra, le quali ben mature in poca quantità poste a cuocere nella pentola della carne, massime d’ inverno, o col castrato quando bolle, fanno il brodo di bonissimo odore. Stilla il ginepro intac- ‘ato un umore che in foggia d'una lacrima cresce, la quale abbruciata fa un odore che spirando cede di poco all incenso, e questa gocciola di lacrima scrivono indurarsi di estate per il caldo, ragunandosi a gomma, che sì chiama vernice, la quale colta da prima riluce di color bianco, invecchiando piglia il color di loto, e fatta vecchia affatto degenera in rosso; e quella che di chiara splendidezza riluce, è più di tutte l altre approvata. E° si fa una composizione, che pigliandosi questa gomma pura e stemperandola con V olio di linseme, fa una mestura di colore che s' attacca, postavi su e distesa calda, sui legnami di noce e più no- bili, e tiene il saldo pertinacemente, acquistando il lucido, il trasparente e 1 bello, con cacciarvi sopra della polvere fatta minuta di questa gomma. Le radiche del ginepro si dilatano sparsamente e libere nella superficie del ter- reno e non mai molto sotto, fuori che col fit- tone. Le coccole del ginepro fatte nere hanno al gusto et all operazione dell’ astringente ; acerbe sono ingustabili; né prima cascano che ne rinascono sotto delle altre. Il legname del ginepro non intarla mai tagliato che sia a luna 440 scema. La liscia fatta della cenere del ginepro abbruciato, lavandosi, è buona alle morici; e volendo sperimentare quanto vi possin durar dentro i carboni accesi ricoperti, convien met- tervi di quegli di quercia giovine. Abbruciando in casa, e standovi, continuamente legna di ginepro, assicurerà la stanza dalla peste, quanto se si facesse l odoratissimo fuoco di cannella, quale mantenne sempre l Affetato (*) in Anversa, regalando d'inverno Carlo V d’ Austria nel suo palazzo. Giova ancora in quel tempo a tener di continuo una palla di ginepro fresco in mano, odorandola spesso. I pali fatti di rami di ginepro addirizzati co ’1 fuoco, tagliati a luna scema, sono immarcescibili. Fassi del legno di ginepro e delle sue coccole vino. Di tre fatte si pone il ginepro: il primo più denso e nero dentro, che rimbocca lascia; V altro bianco più di fuori e dentro nero, ma di men cerchio; il terzo bianco dentro e di fuori. Ancora, un bastone mondo di ginepro messo nella botte dell’aceto lo fa più forte. Il Guaiaco o Gaiaco o Guaiacon, in altra maniera detto Legno Santo, quanto più è nero dentro e ne ha espresso segno di vecchia età nel- l’arbore, tanto più è approvato per cincistiarsi con lascia a darsi in vino o acqua per guarire il male di Carlo vm franzese, talora più bian- cheggiando 0 avendone manco, non è che sia arbore d'altra spezie, ma tagliato in diverse età o nel tronco o nei rami varia il colore; e ne (1) Un Affaitados forse, governatore spagnuolo. 44] sono di tre sorte, ma tutte ritirano alla sem- bianza di un solo. E se nero, se ha la corteccia, secondo descrivono, intagliata et aspra come l’annoso pero, saria quello che volgarmente si chiama ermellino, che fa in su i suoi rametti in più doppi un mazzetto di coccole, gialle quando son mature, prima di color verde, grosse come ciriegie marchiane, dolci smaccate a mangiare, e perciò presto ristuccano. Ma come si sia, sementato in queste parti di sementa [cresce], eccetto che ha il legno dentro tutto bianco, ma con quelle vene di cerchi, e non è di pari sodezza, e la corteccia bigia e liscia tutta d’ un colore ; rappresenta nel resto della fazione il guaiaco, e massime nella foggia, forma e figura dell’ arbore, non essendo differente dal frassino, al quale il guaiaco dicono agguagliarsi. 0 sia adunque quello, o che traligni in queste nostre parti, ancora questo alcuni guaiaco o legno santo l addomandano, ma questo non ha quella virtù, che si sappi, di quello dell’ India in questi paesi, o che sia che quà la perde, né è sì sodo, che quello pareggia di duro ogni osso, ogni vecchio ebeno. In qualunque modo, i suoi semi venuti dall’ Indie (così m’attestò il celebre Altoviti arcivescovo, che me ne diede nati, cioé del guaiaco, venuti dall’ Indie), seminati nelle nostre parti di primavera in buon terriccio, aiutati a dar fuori con l adacquare, generano l’arbore che io ho detto, e seminati in terren buono e grasso divelto ben stritolato nascono ancora felicemente a ottobre, e di tre anni e prima si traspiantano. E tanto presto cresce, che di quattro può sostenere la vite che se gli 2 pianti appresso di magliuolo al medesimo tempo, alla quale reggere e mantenere è attissimo, patendo d’ essere guidato con l accetta come altrui vuole. Non s' appiglia di ramo, né meno rimette dalle radici o da pie del tronco, ma bisogna seminarlo, e nato se gli levan l erbe, zappettando d’ attorno e scavandolo, riempiendo di terra cotta sino al quarto anno; dipoi non gli accade altro reggimento di coltura, com- portando ogni aere, ogni cielo; né tien la foglia l inverno. Il Gattice o (iattero è simile all’ albero, ha la foglia un po più scura e più polputa, lanuginosa dalla parte di sotto e di sopra liscia e morata, la corteccia più soda e brutta. Ama la medesima terra e cultura che gli alberi e listesso sito. È il suo legname più sodo, più ferrigno e salcigno di quello degli alberi, e perciò pende tra ’1 bianco un poco in rosso, più bello a vedere, et è più durabile a tutti i medesimi usi, sì come egli diventa grande, grosso et alto di pari. Nasce di seme ; ma questo cresce adagio. Volendo insetare un arbore che non facci frutto in un altro simile, insetisi il gattice in su l'albero e per contra l'albero in sul gattice fra scorza come l'ulivo, non per altro che per variare. IL’ Ellera si ritruova essere di più ragioni, maschio e femmina: questa ha foglie più lun- ghe e maggiori, il maschio più strette e minori, tagliuzzate a creare un triangolo in punta, e più ruvide; quella più lisce e delicate. N° è 445 della terragnola che non s'alza e fa la pianta di tutte più piccola, e di quella i corimbi in alcune biancheggiano, in alcune altre negreg- giano, et in alcune altre si ritruovano rossi; e tutte queste s' arrampano o sopra i domestichi o sopra i salvatichi arbori, perseguitandogli sino alla cima et aggrappando e dilatandosi per il tronco e per i rami, aggavignando, ser- rando e strignendo di maniera tutto, che nuoce grandemente ai loro augumenti non solo per questo, ma perché essa per tutto il disteso del suo tronco e rami dalla parte che s abbarbica agli arbori ha certi principii di radici che s' attaccano all’ arbore, spoppano et usufruttano il suo umore, onde nasce che tagliata da pié vi vive alquanto in ogni modo, et intaccata nel gambo non patisce offesa e campa come non ferita. Attaccasi ancora ai muri e tanto va penetrando nelle commessure e fesse d'’ essi, che se sono punto fievoli affatto gli rovina. Nascono tutte l ellere di seme, quelle che fanno i grappoletti di coccole, perché le di foglia stretta sono sterili. Coglionsi. nell’ inverno quando son mature et in ogni terreno, poco ricoperte, nascono; ma meglio è traspiantare certe pianticelle di qualunque sorte l uomo si vogli, che nascono da per loro per le selve, giovani con le lor barbe; e queste bene alli- gnano. Dicono alcuni che quella che ha la foglia più larga e maggiore sia il maschio, è l’altra che ha la foglia più aguzza e più pic- cola la femmina. Seminasi e piantasi l' ellera da calen di novembre sino a marzo, e se se gli spargerà attorno della cenere di tre conchiglie Ad abbruciate, o sì adacqui con acqua, stemperatovi dentro dell’'allume, darà graziosi assai più e belli corimbi ; e di nera diventerà l ellera bian- cheggiante, se per otto dì si seguiterà di scal- zarla e mettergli attorno al piè della terra bianca. È il legname dell’ ellera il più leggieri che si ritruova, atto a far tutti gli istrumenti di tasto e di corde. Et, oltre a che, a voler vedere e chiarirsi se sia mescolata acqua col vino, alcuni vi mettono o canna o papiro (') 0 legno o altro frutice intinto nell’ olio, e tiran- dolo su guardano se vi sia alcuna gocciola d’acqua; altri empiono di vino un vaso nuovo, che non vi sia mai stata dentro cosa alcuna, e per due dì lasciatovelo, si vedrà distillar Y acqua di fuori, sî come cacciato in mare sotto un vaso di cera nuova, restata la salsedine di fuori, v entrerà solo il dolce dell’acqua marina; altri, posto il vin caldo al sereno in un simil vaso, se v è acqua, lo truovano convertito in aceto ; et alcuni gettano il vino sopra la calcina viva, se la ristrigne insieme non vi è acqua, se la dilata e allarga è inacquato; e altri dicono che messo del vino in una padella che sia sopra il fuoco piena d'olio che bolla, se facci romore e mandi fuori certe vesciche o gocciole d'olio bollendo, vi sarà dell’acqua dentro ; altri turano la botte, che tocchi il vino, con una spu- gna inzuppata nell’ olio, e la rivoltano, se v' è acqua, colando dalla spugna, uscirà fuori ; altri nel doglio del vino infondevano dell’ allame liquido e con un pennello (*) unto d’ olio per (1) carta, scritto sopra papiro. (*) penicillum scritto sopra pennello. 445 un foro che v' entrasse appunto in capo al doglio l otturavano, e ripiegato il pennello all ingiù, stavano a vedere se colava acqua, che sola così dee uscirne; l ellera ne dà mani- festissimo segno, perciocché Catone lasciò scritto, che facendosi un vasetto di ellera e cacciandovi dentro vino adacquato, l acqua vi rimarrà e 7] vino se n’ uscirà per i suoi pori; e le coccole d’ellera poste nel vino che si bee, scrivono che fa ubbriacare, movendo il corpo gagliardamente. Se ben Vellera par che facci in tutti i lati, con tutto ciò Alessandro Magno, che aveva gran vaghezza di averne nel paese di Babilonia, commesse a Arpalo che con tutta diligenza ve ne trapiantasse; provo Arpalo tutti i siti che giudicò a proposito per ciò, né puoté ottenerla, non s'affacendo a quel paese forse per il troppo caldo ; e pure Teofrasto scrive essere Il ellera tanto attaccaticcia, che fu osservato un cervo a chi ella aveva radicato su per le corna. L' el- lera cotta e bollita nell’ aceto, risciacquandosi con essa la bocca quando dogliono i denti, leva quella pena; et il suo succhio che si cava di primavera, cacciato nei denti guasti, gli rompe e fa cadere; ma bisogna prima aver fatto qualche difesa ai denti vicini che sieno buoni. Il Larice cresce in alto a diritto et ingrossa quanto arbore che sia, ha la femmina e il maschio differenziato come il cipresso, di corteccia più liscia del pezzo, tutta piena di profonde crepature e di dentro rossa. Produce i rami su ’1 tronco di grado in grado, come l’abeto; i fiori suoi escon fuori alla primavera, 446 vaghi a vedere et odorati, come le coccole che e fanno alla foggia di quelle del cipresso, al quale tutto s' assomiglia il larice giovine; et è vanità a credere che non arda, perchè non è il meglio carbone a far colare il ferro di questo, né s adopera altro in quei lati dove si fanno d’esso le gran fucine, come in quel di Trento, Val Camonica e Trompia nel Bresciano et, altrove. Ha la foglia come il pino e più pun- gente e più corta, genera i funghi dell’ agarico, e se ne cava un liquore che serve per la tere- bentina. Intorno ai castelli del Po e liti del mare Adriatico soleva essere frequente, si come oggidi vi si vede della tamarigia. In Francia, nei lati contermini all’ Alpi, ne sono assai, et in Italia, nelle montagne veronesi. Ama i monti che sieno di terreno secco et asciutto, né ricusa qual si sia freddo maggiore, ma umido; somiglia la picea e sta sempre verde. A fatica con tutta la diligenza cavato dalle sue sedi piccolo sì traspone nel domestico, cavato co ’l suo pane di terra, che non pur le radici, ma la maestra gli ricuopra; trapiantasi a novembre, perche a farlo nascer di seme è malagevole, e di settembre e d’ ottobre, in terreno ben lavo- rato, in ogni cielo, allignerà bene e darà di sé bella, nuova e graziosa vista nei salvatichi dei giardini o altrove. Il larice femmina produce quello che i Greci chiamano egida, di color mellacchino; questo legno è vicino alla midolla, serrato e bello, et in questo riescono i più vecchi et antichi, et è quello che è venuto perfetto e caro; quel dozzinale si truova spesso e vale alle tavole dei pittori, senza niun fesso; 447 compongonsi di questo i codicilli per V opere di più importanza. Nell’abeto si truova quello che e chiamano /excon, che corrisponde all egida, ma questo è più bianco. Ma gli urundi (') tanto nell’abeto quanto nel larice lo chiamano egida, nell’abeto più abbondante, nel larice più raro, ma più caro. Fu cognosciuta la materia del larice essere utilissima. In questo modo ©. Giulio Uesare avendo l'esercito intorno all’ Alpi e sendo attorno in assedio a un castello detto Laringia, mando a dire a quei di dentro che s arren- dessero; loro, sapendo la natura di questo legno, se ne fecero beffe, ché avevano di questo legname avanti le porte fatto un grande argine e riparo, dal quale offendevano grandemente il nimico; né potendo Cesare espugnarlo, comandò che se gli mettessero d’attorno assai fascine, alle quali dato fuoco, pareva che tutto fosse abbruciato ; consumate poi le legne e fermo il fumo, si vide quella macchina in piedi ; allora Cesare maravigliatosi fece circondare tutto luogo da un gran fosso, perché costretti dalla fame si dessero, il che fecero per non perire; e domandando Cesare perche quella mole arsa non fosse, risposero che era di larice, che aveva questa natura di mal volentieri abbruciare. Restò capace e ne vidde dovunque intorno ne fossi gran quantità e intese che per ciò ne facevan ripari contro al fuoco. E però gli antichi gli adoperavano per gli spazii di legno. Plinio tratta d’ una stupenda grandezza d'un larice e referisce d’ una trave che vidde, lunga {1) Cosi leggo nel codice ed interpreto per oriundi, o nativi. 445 cento venti piedi e grossa ugualmente per tutto, a tal che si conietturava di tutto | ar- bore una grandezza d’ altura inestimabile ; questo legno si grande l accomodò Tiberio a un ponte per la naumachia, e durò sino ai tempi di Nerone per il suo anfiteatro. La ragia del larice è molto efficace per la tossa, e le sue foglie cotte con l aceto con quelle della picea vagliono contro al duol de’ denti. Il Lentisco ha foglie somiglianti a quelle della mortella, un poco meno aguzze, ma buone ai medesimi usi di conciar le cuoia. Diviene in arbore assai grande, come pero e melo. Truova- sene per tutti i monti di boscaglie d’ Italia e ancora nei piani verso Napoli. Ama i lati caldi e renischii, né rifugge i freddi e montuosi, e nel terreno grasso che non sia né umido né acquidrinoso s' attacca, cresce e vien bene. Tagliato rimette da pié con gran cespuglio; et a volerlo traspiantare conviene eleggere piccole piante gioveni, e queste con ogni diligenza cavare con tutte le sue barbe e terra sua natia il più si può, che è molto sdegnoso e vuole essere con esse intere; e porlo di novembre nei luoghi caldi, di marzo e febbraio nei più freddi. Seminansi ancora le sue coccole di questo tempo in buon terriccio, innaffiandole, et in capo a un anno si traspongono. Il lentisco tre volte l anno fa la mostra dei suoi frutti © allegati o verdi o maturi, sempre carico, con il che dimostra i tre tempi buoni dell’anno da lavorar la terra. Produce la ragia che si chiama mastice, bianca in Chio, e nera dove fanno i 449 più belli e buoni, ma il vero non nasce altrove che nell'isola di Scio; conferma le gengie e giova ai denti ogni sua cocitura nell’ aceto, di foglie o legname; e questo a stuzzicare i denti è buono quanto Vl oro, l argento e la busnaga. Secco bene si pulisce al tornio in ogni lavoro, e per letti non creerà cimice, come il granatino. Questo è quell’ arbore sotto il quale i due vec- chi posero la falsa accusa a Susanna. Fassi vino et olio del lentisco, cavato dalle sue coccole mature. Il Lauro (') fu consacrato ad Apolline per Dafne convertita in esso. E di perpetua ver- dura, di foglie simili a quelle dell’ arancio, un poco più grossette e ruvide, né tanto fonde per l’arbore, di sapore et odore aromatico, buono come le coccole, le quali sono prodotte in copia tanto dalla femmina quanto dal maschio: e perche la femmina ne crea meno, è domandata sterile a comparazione di quello, che se ne carica; e per aver quel sapore di spezierie, le sue coccole poste nel vino che abbi la muffa, lo ricorreggono alquanto dal malo odore e sapore. Chi favoleggia che questa pianta venisse da cielo, racconta che a un’ aquila cascasse una gallina, che. n aveva un ramo in bocca, in grembo di Livia, moglie che fu poi di Cesare Augusto. Fu tenuto gran conto e della gallina (1) Fu da me pubblicato in un opuscolo nuziale pei tipi Zani- chelli, nel 1889; e per le nozze della figlia terzogenita del prof. G. Carducci col prof. F. Masi. Trascritto e collazionato sulla copia istessa da cui il prof. Marconi trasse il Ciliegio. 450 e del ramo, e di questo piantatone, ogni rami- cello si dilatò in breve per tutto, stimato sem- pre dagli imperadori, come che di quello si coronassero ; e perche non è tocco dalla saetta il lauro, tonando, Tiberio la testa se ne copriva. Rifugge il lauro i luoghi e regioni fredde, nelle quali non si conserva che nei vasi, come in Polonia, dove si pregia e così s allieva. È pianta dedicata ai trionfi, di che si adornano i sacri templi ancora, et anticamente se ne coro- navano gli imperadori et i poeti, come ancora oggi sopra (*) di questi. Godesi nei luoghi tem- perati e nei caldi, in terreno umido e grasso ; desidera al gambo l uggia e nel rimanente di se stesso il sole, imperciò nei cortili e nei luoghi murati cresce, ingrossa, s' alza et augu- menta tutto a maraviglia. Scrivono i Greci che le sue coccole si cogliono al primo di dicembre, e tenute stese perché non riscaldino, al mezzo marzo almeno si seminano in terreno buono e lavorato bene, et a ottobre prossimo si traspon- gono; ma seminandosi nei solchi replicati per far siepe o macchie, vengono ben seminate di novembre nei luoghi caldi e nei freddi di marzo, e il terzo anno si dà lor forma co ’1 ferro. Di gennaio ancora si cogliono acconcia- mente, tirando il tramontano che gli secca; di poi, preparando a seminarsi, nel letame mar- cito si tengano mesticate con l'orina per quattro o cinque dì. Altri con i piedi pestan- dogli in un cestino posto nell’ acqua corrente, ne staccano la buccia che suole impedirgli a (1) sz fa, la stampa. 451 nascere, di poi a marzo in terra ben lavorata, trita, grassa (se ben fanno ancora nel magro), si seminano, e di quivi a un anno gli trapiantano in quel lato ove hanno a stare, che sia divelto, fossa 0 formella. Alcuni, macerate con Vl orina sola, gli seminano a monte nei solchi ricoperte un palmo, pigliandone diciotto o venti insieme, di marzo. Alcuni, da che va sotto V Aquila a che si ripone la Saetta, piantano i rami e così le barbate che e’ gettano al piede, et anco nel fine dell’ autunno, se sia secco il terreno e mal comodo a adacquarsi; amando questa pianta (per essere di natura calda, che come all’ ellera non vi stia mai su ferma troppo la neve) d’ es- sere adacquata assai bene sotto, perché senta il fresco; e se si pianta in luogo che ella si possi innaffiare, o di sua natura umido, si può piantare di gennaio e di febbraio e marzo, e così ancora di piantoni; ma senza barbe è maraviglia se s afferra. Pur volendo farne la pruova, piglinsi grossi pareggiati sopra e sotto, di lunghezza di tre braccia, che basta avanzino quattro diti fuor della terra; spacchinsi nel calcio, ponendovi dentro una pietra; et ancora senza farà bene, purché non si riempia la buca affatto di terra, per potere empierla d’acqua o che piovendo la non se ne fugga. Ma i rami scoscesi dagli arbori grandi anderanno a rischio di attaccarsi meglio, e così i polloni staccati con un po di vecchio e barbe, dando loro d’ attorno un po lontano dal gambo del letame ben macero nel terren magro, e di poi scal- zandogli e lavorandogli attorno qualche volte ; et i lauri piccoli, se sieno in lato freddo, sì 452 cuoprino, tal che si difendino dal gelo. L'ombra del lauro è nociva a tutte le cose che vi sieno sotto, et a sè medesima dà utile e giovamento ; perciò non è selva che più sì dica insieme e venghin meglio fra loro, che di lauri. E per ciò ben fare, quelli che si procurano aver di seme per traspiantare altrove, è meglio prov- vedere che naschino in pentole o in corbelli ; quelle acciaccate (') e questi interi come stanno a sotterrare con essi; e questi, subito nati e un palmo cresciuti a questo modo, si possono traspiantare per la selva. Alcuni tengono che i seminati non si deggino traspiantare prima che di tre anni, et allora cavargli, con avver- tenza con più terra si può che fasci ancora la maestra, perché han le radici secche, e la terra «si scarica, adacquandolo sempre, mentre che egli è giovine; perché altramente patisce, come d’esser posto a galla e con poca terra alle barbe. Nuoce alle viti di modo, piantato fra esse, che, sendovene in copia, le più accoste conduce a seccare. Serve a spalliere, ma a quelli che s' hanno a lasciare andare alto non solo si potano sino alla cima, ma si leva loro d’ attorno ai piedi tutti i rimettiticci. S' innesta in sé stesso, e d’'osso e fra scorza, scrivono, nel ciriegio; et avendo il lauro qualche buco, postovi con della [terra] (*) il suo seme, dentro vi nascerà e verrà innanzi l innesto ; sì come a marza sì possono l uno nell’ altro insetare. (1) Corregge l’ autografo cosi la stampa: quella acciaccata. (2) buca..... postovi in detta, la stampa. Ma leggere e supplire cosi è più consentaneo all’ autografo. 453 Scrivono attaccarsi d’ innesto e nel frassino e nel sorbo. Scrive Virgilio : Insere, Daphni, piros: carpent tua poma nepotes. Tenuti in cantina, i rami del lauro proibiscono il danno che potriano lor far le saette et i tuoni, e così preserva i nidii degli uccelli, colombaie e pollai. I suoi pali sono buoni alle viti e non infradiciano così presto; se non se le inimicizie fra gli arbori ancora morti durano. Tengono alcuni che non i maschi, ma le femmine sieno fra i lauri le più fertili, e in queste s hanno a fare gli innesti, e dei maschi, che si caricano di fiori e non di frutto, sono migliori le foglie da porre fra i panni o nella carne che si cuoce o pesce, 0 si serba di composizione, come di più sustanza et odore. Il lauro trionfante è ste- rile, di foglia crespa, basso, e di raro se ne ritruova. Il lauro ciprio è di foglia più nera, più piccola in margine, con certe gocciole fatte a onde. Il salvatico è di foglia piccola, dentrovi certi segnaletti; per spalliere, il frutice del lauro; il lauro salvatico di larghe foglie nomi- nasi da alcuni tino, et è questo più grande. Il lauro che nasce fuori dalle colonne d’ Ercole nel mare, tolto via, sì muta in pietra pomice. Il lauro del mar Rosso vi vive dentro, come altri arbori in altri mari, simile all’ agrifoglio. Il lauro regio o d’ Augusto, detto ceraso di Trabisonda, o lauro ceraso, ha le foglie più grosse e più lunghe del nostro e più distanti luna dall altra; fa certe coccole come grosse ulive, prima verdi, poi nere quando son mature, et in Sorìa si mangiano; seminate, come sì dbd disse. dell’ altre, nascono. S'appicca di ramo, pigliando certe vette che abbino un po’ del vecchio e storcendole da pie, come la salvia; è sempre verde e fa resistenza a ogni gran freddo; atto a spalliere, piantandolo più fitto che gli altri. Ama il terreno grasso, e non molto d'esser potato; ma volendolo in arbore grande, crescendo egli quanto un susino, conviene ingarbarlo da piccolo. Scrivono che riceve d’inseto il cotogno, Vl albercocco e sé stesso. Il Leccio verdeggia di perpetua fronde, fatto in foggia di quercia con fronda assai più minuta, aguzza ; cresce e diventa grande a pari adagio co "1 tempo. Fruttifica le sue ghiande dopo che sono ite sotto le Vergilie, e penano un anno a farsi; imperciò Vl une aspettano l'altre. Ama i monti e le valli profonde ove cali assai grassume e di foglie e del terreno di cima, che è sempre migliore che non sotto, si come desidera terreno grasso, sbozzolato e di buon fondo, se bene s' alligna ancora nei luoghi magri e sassosi et aspri, cacciando le radici et uscendo dagli istessi massi. Vive quasi eterno, si come il suo legname è di perpetua durata ; et a (Gangalandi di Toscana, villa dei miei antenati, n’ è uno che per memoria degli uomini trapassata per più succedenti età, per parola passata di questo in quello e per scritture di più di cinquecento anni, caro al Mag. Piero Soderini gonfaloniere a vita della sua patria, uomo di bontà di vita esemplare, virtuoso e della virtù amatore, non meno che si fosse il suo a Nerone, che l'amò di maniera che l adac- DD quava co ’l vin greco, vezzeggiandolo et acca- rezzandolo in guisa d’ umana creatura, con abbracciarlo, baciarlo e lodarlo senza fine. Le sue ghiande mature smaccate si cogliono di gennaio, et allora o a marzo acconciamente si seminano a dove hanno a stare in terreno ben smosso, buche o fosse aperte, perchè a stra- piantare questo di seme viene a perder tempo e non viene così bene che dopo assai più tempo; e se ne deono gettare parecchie insieme, sotto un buon palmo, fatto un solco o a buca, perché non tutte nascono, facendo poi andare innanzi il più vegnente, e ponendogli radi o fitti, secondo che si vogli la selva folta o ’1 pas- seggio ombroso, per strade coperte o aperte, 0 per spalliere ; alle quali spalliere sì deono o di seme o di pianta metter ben fondi, cioé tre braccia o quattro il più dall’ uno all’altro, e cavar su fuori della spalliera una cima, ridotta in foggia di rosta o dun pallone o altra figura, perché il leccio piglia ogni forma, perfino a farne festoni come dell’ ellera; ma questa seconda ogni modello che ella abbi sotto da per se, e questo legato fa il medesimo; ma bisogna co 1 pennato svettare spesso e rego- larlo, intanto che se ne possino fare ancora spalliere basse e mantenerle a terra. Ancora, sbarbati dai boschi grossi quanto una gamba con tutte le loro radici, che rattenghino un poco della lor terra, sì piantano all’ ottobre in terreno lavorato ben sotto, e cacciandogli attorno di molta terra cotta e scapezzando il piantone presso a terra un mezzo braccio, o su alto in foggia degli ulivi, come più pare. Ma 456 tagliato a terra farà bel cespuglio per mucchi d’ uccellare, o per lasciare venire innanzi il più di rigoglio a far belle e grandi piante. Ma i postimi dei lecci piccoli, cavati co 1 lor pane di terra senza levargli i rami, sono, lasciandone tanti quanti a doppio delle barbe possino essere, spessi da loro; faranno buona pruova, sì come dalle capasse che fanno in terra staccarli co ’l vecchio e con le barbe fatte di nuovo, il che avviene quando per questo effetto di farli radicati si tagliano fra le due terre, usando sempre diligenza in staccarli con più vecchio e barbe si può. Il legno del leccio è pesan- tissimo e buono a tutte le sorti di lavori sodi e di fatica, per ruote da carri, denti da mulini e per magli da battere le palle a maglio, ma a tutto vuole essere secco e stagionato, se non se sotto nell’ acqua si dee metter verde, e stando sempre ricoperto durerà assai; scoperto e nel l umido non regge molto tempo che s' infra- dicia. Produce il leccio l kyfino (') et il visco, si che talora ha questo arbore quattro frutti, due da settentrione e quelli da mezzodì. Quel frutice che produce il cocco o scarlatto cher- misino, che non colto presto diventa vermine inutile (e se ne raccoglie assai in simil frutice), somiglia tutto nelle foglie il leccio, nella Gallia Narbonese ; e ve n’ è copia sempre che la pri- mavera sia piovosa, e vanno quelle genti in frotta, ma con regola, a corlo, ordinata dalle leggi, che l’ uno non possa impedire 1’ altro ad andare a cercarne in quei lati dove fa. Il lione, (!) Hypnum, la borraccina. 457 avendo calpestate le foglie del leccio, diventa stupido, come alla vista del gallo bianco, tutto sospeso e ritirato in sé. Il Lecciastro o Lecciastrello ha la foglia un po’ più grande del leccio pur salvatico, ma piccolo, buono a spalliere basse, e non cresce molto; si cava con diligenza con tutte le barbe e si trapianta all’ ottobre o a primavera, fa- cendo in tutti i terreni. Ha la buccia bian- cheggiante, et è chiamato da alcuni Sfiocine ; verde più chiaro del leccio. Il Loto ha la foglia simile a quella del gelsomino, più lunga e grande e soda, la buccia del colore di quella del fico, più sottile e smorta, ben appiccata al legno che è saldo e senza magagne più che arbore che sia, chiaro indizio dell’ eternità sua, come quello che si vidde durare dalla creazione di Roma sino a tempo di Nerone ancora vivace e tutto verde, se quel principe, più forsennato che capriccioso, non gli avesse affrettato la morte. Fa bene nei cortili e pratelli delle case fuori alla campagna, desidera terreno campigiano, fa grata ombre: ma di poca durata, come che gli caschi la foglia presto. Scrivono che fuor di qua fa frutto buono a mangiare, e Plinio fa menzione dei Lotofagi; e ne fanno vino che dopo quattro dì inforza. È il suo legname delicato e gentile, entro nericcio, atto a ogni lavor casalingo : amaro esso assai, et il frutto che fa, dolce. Tagliato a luna scema non intarla mai. Il suo frutto dalle nostre bande non è buono a man- 458 giare. Raccolto maturo, sì semina a novembre o marzo, come quel dell’ anno, e nasce. Ma in molte boscaglie d’ Italia, come nel pié di Monte San Giuliano se ne truovano delle piante gio- vini, le quali traspiantate, come si disse dei lecci, fan bene. E bello arbore a vedere e si manterrà con la forma datali da piccolo, con i ‘ami così ben compartiti, come si sia di qual si vogli arbore. Il Caccamo della chiana di Paliano, quà detto Forcingo, mi pare questo esso: e vi vanno su liete e festeggianti le viti. Del loto gli Arabi. Il Linch, arbore di Fiandra e d’ Alemagna come il Fladro, che è quello che ha quelle belle vene mascherizzate, di donde pare che si sien cavate quelle che si danno con Vl acqua al tabi; e se ne ritruova ancora in Ungheria quantità. Ha le foglie simili tra il loto e 1 olmo, e fa un fioretto bianco quasi che di mortella, bianco odorifico, e di quivi nascono i suoi semi, dai quali nasce; e s' appicca di ramo. Fa della verdura e dolce ombra, e si distende in largo assal; ama terra sustanziosa, e comporta ogni gran freddo, facile all’ arrendersi et a piegarsi come il moro. Volendo entrarne in razza, con- viene cercare d’ avergli di là piccoli con le lor barbe sotterrati in cestini pieni di terra e fatti portare con diligenza. Così si manterranno, per appiccarsi felicemente in terreno ben lavorato di trita terra. Le Lumie di Valenza sono agrumi natìi di quella città dove n'è copia, più delicate a 459 mangiarsi che non i limoni di qual si sieno sorte. Ricercano la custodia e ’1 governo in tutto e per tutto degli aranci e limoni. E le lumie spatafore, così dette da una casata di nobili di Palermo, detti Spatafori, che i primi le addussero di Spagna in quel paese, sono gentilissimo agrume, e vuole anch’ esso la dili- genza dell’'arancio; e come ancora il Limone; ma questo teme più di tutti gli altri il freddo, come pianta più delicata e più gentile di tutti gli altri agrumi. $' innesta in sé stesso o in su l’arancio, in su "1 cedro, et in su questo migliora assai. Vuole essere procu- rato e governato come l' arancio. Il Limoncello non fa molto grande arbore, et i frutti poco più che noci, allegati, di sottil buccia non buona, d’ agro più acuto, piccante e forte di qual si vogli agrume ordinario. Teme assai più il freddo, come pianta più delicata e gentile. Chiamansi limoncelli di Napoli e questi sono i più eccellenti. Si procurano come i limoni e nei vasi fan buona pruova, e massime anne- standosi in su V arancio, ché si fortifica la pianta contro al freddo et a dare assai più frutto. I limoncelli accannellati dicono non esser frutto d’ artifizii, ma naturali, e veramente la lor buccia masticata fa sapore che par mesco- lato con l’ odore e gusto della cannella, e sono di grandezza tra "1 limoncello e ’1 limone ordi- nario; et annestato in su questo megliora e sì conserva assai più. È pianta peculiare d’ Amalfi e della sua costa. Nasce bene di seme e profitta 460 assai con l’ essere innestato in se medesimo ; è insomma odorifero di sua natura. : I limoni dolci sono una spezie da per loro, e la buccia di questi non è buona a mangiare: e sono anch’ essi in quel mezzo tra ‘1 limone ordinario e ’1 limoncello. Nasce bene di seme senza tralignare. E tutti questi come quelli, interi piccoli, o la scorza sola, si confettan con zucchero, con l agro e tutto: e soprattutto l'agro di cedro. Il Mandorlo, detto dagli antichi Noce Greco, è così stato domandato perché egli abbi molti fessi, sforacchiamenti e pertusi nella sua coperta d’osso, che chiude Vl anima, e Noce Tasio da Taso isola di Tracia. Plinio menziona le mandorle albensi, noi apprezziamo quelle di santa Caterina per le più grandi, grosse e belle, da mangiar ancora più di tutte l'altre verdi, e quelle del miracolo, che come il susino di questo nome, ne fanno tre, insino in cinque 0 sette, quando n’ abbi gran copia. In Italia son lodate quelle di Puglia. In Nasso et in Cipro nascono distinte dall’ altre le dure di scorza, veggendo vendersi il doppio, verso delle co- muni d’ esse. Sono eglino ancora in Villa delle Pietre. Son più lunghe, alte, più rade, certe schiacciate e verso il fine con piegatura. E il primo frutto che dia fuori, come quello che nei luoghi caldi muove all’ ultimo di gennaio e nei temperati di febbraio; imperciò bisogna sollecitarsi di presto insetargli con V azzeruolo che muove ancora lui presto. Conduce in quei lati da potersi mangiar fresco di marzo, a tal 461 che in tre tempi si mangiano le mandorle fresche, assodata l anima dentro, e di poi per ultimo fatte stagionate e secche. Ama il man- dorlo di sua natura il paese caldo e piuttosto il monte, la costa e il colle che ’1 piano, e in questo e nel temperato vien bene, perché nel freddo profitta male. Vuole il terreno duro, secco e pietroso, puro e caldo; non rifiuta il gessoso, magro, ghiaioso, renastro, e 1 tufo stesso penetra con le radici, cavandone il sugo ; ricusa Y umido e dove che sieno gemitii d’acque desidera d’ esser lontano; così nel troppo grasso e acquidrinoso diviene sterile. Deesi piantare posto verso mezzodì, e i suoi semi, quando sì seminano, verso tramontana con il lor taglio; e siano le mandorle che si seminano di arbore nuovo cascate da per loro, che sarà segno d’ essere ben mature, e di quel- l’anno, pesanti, ben fatte e delle maggiori, di guscio più arrendevole che tastando con le dita si truovino. Queste così fatte nei luoghi caldi e temperati si seminano d'ottobre e di novembre, in quelli che siano un poco più freddi, di gen- naio e febbraio, in terreno leggieri e sottile, minutamente lavorato e ben concimato di letame marcito di porco, et in questo, mesticato con acqua, stiano prima quattro o sei dì in macero; e con tale acqua si segua d’' annaf- fiargli parecchi dì, mescolando anco in quella terra con la quale e’ sì ricuoprano, grossa un palmo, dell’'arena; e si caccino con la punta in giù. Di poi nati si sarchino dall’ erbe e si tenghino netti, adacquandogli di dieci in dieci dì, facendo guazzare bene il terreno; e di due 462 anni, e non prima, si traspiantino a dove hanno a stare, venticinque braccia lontani lun dal- l’altro, in buon divelto, buche o fosse. Altri li tengono per una notte in macero nell’ acqua melata, alcuni nel letame liquido di che sorte si sia per tre dì; nel mele, non passe dieci ore, perché il mele non disecchi il germe che ha a mettere. Ma nasceranno più presto e di succhio migliore, buono ordine, e ancora tutte le scelte (che saranno buone le più falcate), avendo un vaso di terra, e farne un suolo di loro et uno di arena grosso tre diti, e così seguitare insino all'orlo, et ogni dì due volte gettarvi del- l’acqua sopra, sendo però il vaso bucato minuto sotto, che quella che non è inzuppata dal- larena e da loro n' esca colando a stento. Durisi a così fare cinque mesi interi, di poi sì seminino con la punta in giù e col taglio dalla banda verso aquilone. Ma perché il mandorlo ha assai radici et ama d’ andar ben sotto e che gli sia salvato il suo fittone, meglio è semi- nargli a dove hanno a stare, in su ’1 fondo della fossa o buca che sia ripieno un mezzo braccio, e di mano in mano, nato che sia e che il mandorlo cresce, secondandolo riempirla, perche in quello traspiantarlo sempre patisce, si come i poderi: tante tramute, tante cadute. E nel divelto si faccin le buche per due terzi di braccio o un braccio sotto, e quivi sì semini la mandorla, riempiendo la buca co 1 crescer di quello. E quivi mentre son gioveni si zappino quattro volte l anno, nettandogli ben d' at- torno, né mai sì trassini loro intorno quando sono in fiore, né si letamino altramente che nel tempo dei freddi eccessivi, 465 È il mandorlo frutto che basta assai e che frutta più in sua vecchiaia che giovine, e rende quanto un ulivo nato in buon paese, di poca briga, utile, che quasi ogni anno raffronta et incorre, vero indovino della ricolta futura, perche avendo assai mandorle, sarà fecondis- simo. Pruovano i mandorli quasi per tutto ancora nei [paesi] ventosi, come in Provenza e Sicilia, dove n’ è abbondanza, avendo forte picciuolo. Puossi ancora co ’1 pal di ferro fare un buco grande, profondo due terzi di braccio, largo in bocca un sommesso, dove hanno a stare, avendo prima ripieno o buca o fossa 0 divelto, e messovi dentro del terriccio buono, quivi seminarli senza avere più a mutarli, che faranno sempre meglio che non sì traspiantino, mettendoli sotto cinque o sei diti senz’ altro, avendoli prima un po’ schiacciati con tal destrezza che non resti offesa l anima posta giù così spezzata. Nel paese di Napoli i più pratichi le schiacciano cavandone I’ anima intera e non punto offesa, e fasciatala in tre o quattro doppi in carta molle o cencio fradicio, le pongono sotterra ritte con l aguzzo all'ingiù, sotto tre diti e non più, e le fan nascere feli- cemente con gran messa; e questo fanno subito dopo la luna di gennaio. Ma avendogli a impiantare da principio, non vogliono essere posti troppo a dentro, ma si bene, fatta lor buona fossa, buca o divelto, porli in su 1 piano, fattogli sotto d’ un braccio e mezzo, et a poco a poco, come s'è detto, rincalzarli; e non tutto da prima pareggiare, ma secondo che egli cresce, dandogli sempre terra cotta vicino al 464 gambo; e da giovine il letame macero mesco- lato con essa non gli farà male, ricordandosi che egli è della natura del pesco, che non vogliono essere trassinati se non da. piccoli. Imperciò, quando tu gli averai data quella forma e garbo che tu vorrai, non occorre più potargli o toccargli co ’1 pennato, se non se alcuna volta levargli tutti i seccumi da dosso, per mantenerlo che facci frutto, ché fa come il fico, che quanti anni più ha, più ne fa. Più acconciamente si semina o si traspianta nel- l’autunno che in altra stagione, mettendo egli tanto presto. Vengono più rigogliosi, mettendo una fronda nelle fossette ove si semina. Si pianta e s' appicca a ramo, e questo dee essere tolto di quelli che vanno verso la vetta di mezzo dell’arbore, spaccato nel calcio e postovi dentro un sasso e di molto orzo attorno quando sì pone giù; così faranno quelli rimettiticci che pullulano lor ai piedi, staccandogli con un poco di vecchio e talvolta con qualche barba. Ama il mandorlo la compagnia di sè medesimo e d'essere esso appresso l uno all’ altro. Pro- durrà il mandorlo i suoi frutti con quelle linee che altrui dentro v abbi scritte, avendo tenuto in macero la mandorla per due o tre di nel letame liquido ben temperato con 1 acqua, di poi aprendo con una punta di coltello destra- mente il guscio, con ragguardo di non ammac- care l anima di dentro, scrivivi sopra quello che ti piace, ma fa che quello scritto sia bene scolpito a dentro con fuscello appuntato © altro, leggermente addentrandoti con la mano; accanto, fasciato in un foglio di carta con dili- 465 genza o vero in un panno lino di rensa o di bisso, con del loto mesticato, con il letame, e sotterrandolo, nascerà. E tuttavia che, o così nati di lor seme o traspiantati, cresciuti gli innesterai, verranno acquistando virtù a meglio- rare. I Greci affermano che cacciando un subbio di quercia nel gambo, che vi suggelli appunto al buco fattovi, saranno più abbondanti di frutto. E V innestare vuole essere fatto a marza presso alla sommità del suo troncone ai rami che si spandono e s aprono, finito Vl autunno. Sono alcuni mandorli dal guscio tanto tenero che si schiacciano con le dita, e questi nascono semplicemente senza tenerli punto in macero ; basta annaffiare ogni dì il terreno, tanto che elli sien nati. Di duri diventeranno teneri e di amari dolci, se avanti che e’ fiorischino aven- dogli scalzati e scoperte le radici, spesso gli adacquino con acqua calda o con orina vecchia o con sterco macerato di porco nel tempo del- l’ inverno, et ancora quattro diti da terra avendoli per traverso all ingiù bucati per lasciarli scolare: e l'acqua calda gli gioverà a fare ai frutti la scorza più tenera. Ma più sicuro di tutto è l'innesto che si può fare a bucciuolo, tolto questo dalle vermene fresche di buona sorte e collocato in su le messe fresche del mandorlo che s' ha ad annestare, di maggio e giugno, et ancora di questo tempo a scudetto, ma a marza di decembre, gennaio e nel principio di febbraio, secondo il paese avvertendo et anticipando il suo muovere. Riceve in sé l'innesto d’ogni sorte visciole, e s'averanno più primaticcie ancora, vi segui 30 466 tando l'innesto la natura dell’ arbore innestato ; riceverà ancora i susini, gli albercocchi, i ciriegi, e tutti acquistano di farsi come lui più primaticci; scrive Palladio che s' afferra ancora in su "1 castagno, ma sia volto a mezzodì in luogo caldo, et innestisi a marza, coprendo bene l innesto di dicembre e gennaio. Il man- dorlo amaro diventa ancora dolce, cavando intorno al tronco e forando al calcio d’ esso, affinché per quello n’ esca I umore : altri dicono forandogli quivi il tronco in quadro alto un palmo, lasciandolo lacrimare ogni anno si che diventi dolce: il che farà ancora scavandogli il piede e facendogli un buco presso a terra che vadi in su a traverso, et empiendolo di mele spesso a colar con esso, e di poi ponen- dovi a sigillo un piuolo di sorbo, facendo ciò in sul crescere della luna, poco innanzi al suo voler muovere. Ma più fecondo diventerà, cac- ciandogli nelle più grosse radici che abbi scal- zateli una pietra per buco, lasciandola poi raffermare e ricoprendo di terra. Alberto Magno scrive che vi si cacci un fuscello d’oro, ma sia fatto senza fiamma. Volendo far indugiare il mandorlo a mettere, tengasi scalzato sino in sulle barbe tutto il tempo dell'inverno, si che se gli fermi l'acqua piovana attorno. Se farà foglie senza frutti, mettasi nel buco fattoli nel tronco sopra terra un palmo un caviechio di pino, e farà delle mandorle le quali s' averanno per mature quando aprendosi la lor coperta, cascheranno da sé, o che con facilità tutta stac- candosi sì caveranno di luglio o agosto; e di poi stropicciandole con la salamoia si faranno 467 bianche e dureranno. E le dolci diventeranno amare, se quando i mandorli sono giovini sì lascieranno pascere le lor cime dalle bestie. Le mandorle dette taccarelle sono le antiche tarentine, che si schiacciano con l indice e con il pollice; le dette di santa Caterina sono gros- sissime e mangiate fresche come l altre hanno proprietà d’ asciugare 1 umidità dello stomaco e secche hanno più carne che l'altre. Imnestandosi il mandorlo in su 1 susino farà buona pruova, e lasciandovi un’ innesto di mandorlo medesimo et uno di susino, farà quivi su il frutto suo più tardi, se sieno tardìi i susini che lo rice- vono; e faccisi con marze spiccate ben verso la cima dell’ albero, che abbino cominciato a spuntare i bottoni, ma che non abbino messi fuori i fiori, ne paesi caldi di dicembre e gen- naio, nei freddi di febbraio, che allora vi sono in quel termine; et insetati in albercocchi e persichi e susini faranno il frutto mescolata- mente e variato, come è a dire che la pipita sarà mandorla e quel di fuori persico 0 alber- cocco 0 susino come era da prima; e questo innesto dee essere a marza o passato per foro. E senza mallo si faran nascer le mandorle e così tutte Vl altre frutte che V hanno, se schiac- ciando e spezzando la coperta, resta I anima non offesa, e in lana avvolta o freschi pampani, si pianti a dove ha a stare, o nel semenzaio ; e mettendo attorno alle loro radici scalzate bene calcinacci o pietrame, diventeranno pit fertili; e quando sia gran freddo, sarà utile dar loro del letame. E con questa cura nei piani ove arrivi il freddo s allegreranno, ma 468 nei terreni grassi e fondati faranno men frutto. Alcuni alle mandorle che seminano mettono il grosso di sopra in terra et ai castagni la cima. Le mandorle in qualunque modo mangiate sono di gran nutrimento e mantengono il ventre ben disposto; avendo mangiate cinque o sei mandorle prima, i bevitori non senti- ranno danno dal vino. Scrivono che le golpe mangiando delle mandorle si muoiono. Manco ragliono nei remedii le dolci; niente di meno le purgano e muovono |’ orina. Il legname del mandorlo pulisce bene, ma di facile schianta e si sfende; è buono ad abbruciare; e la liscìa fatta delle legne del mandorlo riesce fuor di modo forte, buona per i saponi et ad altre manifatture, dove si ricerca gagliardo il ranno. Fanno bonissima composizione e si dicono benissimo insieme le mandorle et il zucchero ; e le mandorle peste, per due terzi poste in un tegame con un terzo di fava infranta, fatta con olio fresco di mandorle dolci, cocendole nel forno le fa eccellenti. Condisconsi ancora tutte intere tenere e verdi nel zucchero, aven- dovele cotte e lasciandovele star dentro. Fan- nosi con le mandorle peste molti manicari et il savore in tutta sua perfezione; ma soprat- tutto l'olio che si fa dalle mandorle fresche, adopratovi subito, condisce preziosamente tutte le sorte d’ insalate, e massimamente lattughe e fiori, con più grato et allettevol sapore. Mandorlo Pesco. È nata questa genera- zione tutta simile all’ asberges, innestando la marza del persico nel chiamato dagli antichi 469 noce greco, cioè mandorlo, che ha fuori forma di persico. La sua carne si mangia, ma la noce di dentro s assomiglia alla mandorla nella scorza, nell’ osso e nel nocciolo che è dolce; il quale nasce come il mandorlo, asberges e noce pesco, e produce frutto che non degenera come loro. Conviene adunque pigliare una marza di persico rigogliosa e vegnente di nuova messa d’un anno, e ritrovato un mandorlo dolce gio- vine ve l'innesterai sopra, fendendolo a ra- gione, legandolo, fasciandolo e ricoprendolo bene; dopo innestato, l innesterai di nuovo all’ altro, e farai questo tre o quattro volte, e darà il frutto che s' è detto. E se dal man- dorlo e dal pesco pigliando le marze si con- giungeranno insieme i lor occhi e s' inseteranno nel susino, i frutti la carne del persico et il nocciolo di mandorlo rappresenteranno. L' uno e l altro appiccato desidera, venendo innanzi, d’ esser custodito alla foggia del mandorlo. Il Melo è arbore molto universale, come quello che quasi sotto ogni cielo et in ogni terra fa, sopportando il caldo e ’1 freddo, ma nel temperato fruttifica, sì mantiene e cresce meglio, e massimamente se sortisca terreno che per sua natura sia fresco et umido, senza l’aiuto dell’ innaffiare, basta che d’ umore egli non sia privo, o per ingegno dell’arte o per natura grasso e sustanzioso. (odesi del sito delle valli ove coli grassume assai, né rifugge ì monti, purche sia volto a mezzogiorno nei luoghi assai freddi; nei caldi e temperati a contrario, massime le mele da verno e che ma- 470 turano più tardi, come le rose, le teste, le caro- velle e le gelee di Francia, che son più grosse di loro, di sapor buono, bianche e trasparenti, la loro scorza e la carne pendente più nel ritondo che nello schiacciato. Né ricuserà di fare in aspri e montuosi luoghi, purché con l’aiuto dei massi o dei gemitiìi acquistino fre- schezza et attragghino umore. E nei luoghi oltre a modo freddi farà, se il tepor del cielo punto l aiuti; e fra le salvatiche piante ancora non rifiuta di stare, e viene innanzi fra castagni e quercie. Nei luoghi magri, asciutti e secchi, o gli cascheranno i pomi, o gli farà bucati, svaniti o verminosi; ma i vermini s' estinguono con lo sterco di porco mesticato con l’ orina umana datagli alle radici, e questa, datagli del continuo, lo ricrea e lo fa più fecondo; l’adacquarlo in quella magrezza glie la farà sopportare, e soprattutto vi reggerà ben l'appio, producendolo un poco minore, ma più saporito. Et in questi luoghi, che vi sia caldo e secco paese o temperato, s' hanno a porre di ottobre e novembre, nel freddo di gennaio, febbraio e marzo; e se convenghi adacquargli, faccisi di primavera, cominciando ad annaffiargli da pic- coli e di poi seguitando, che altramente secche- rebbono, venendo presto meno o sterilendo. Ha poca vita il melo, e meno il primaticcio del tardìo, et il dolce dell’ agro; ma sì come presto manca, tosto viene innanzi e dà frutto solleci- tamente, se ben suole caricarsi un anno si e l’altro no. Non è mai quasi che qualche sorte d’esso (sendo le sue spezie quante dell’ uve, che son quanti i paesi) ogni anno non renda {71 frutto. Le mele rose, e le teste che in Francia sono dette cappendue, del color di loto, e le paradise ancora di tutte l’ altre più, come che ne sia allignata copia in Germania, e delle destilene, et appresso gli Ubii delle postellane, fanno resistenza al freddo, si come elle matu- rano tardi, e sì conservan quasi insino all’ altre. Quelli che ne fanno due volte l anno degene- rano nella loro specie, et è di mestiero di rin- setarli e sono facili, come anche li altri, a pro- durre il frutto per venti, per nebbie o troppe pioggie. Imperò, se bene acconciamente frutti- ficano nei piani, nei poggi e luoghi rilevati son meno inferme e più liete piante; quando innebbia, rendono meno frutto e nella mezzana età sono del tutto fertili et abbondanti. Delle mele dell’ estate gli arbori più acconciamente producono piantati di febbraio, le vernareccie dopo che sieno cessate le pioggie, e massima- mente in quei luoghi dove non sia natural mente troppa umidezza, amando la terra sempre grassa e soffice ('). Ama d'esser annaffiato di quando in quando, sin che vogli mettere. Se vuoi che mantenga i frutti assai, levagli i rimettiticci da pie e pongli al calcio presso a terra un mezzo braccio un cerchio di piombo che vi vadi serrato; e quando cominciano @ mettere innanzi le mele, levaglielo; e ogni anno gli farai il medesimo. Col fiele del ra- marro ugnendogli il gambo non si putrefa- ranno, né sentiranno offesa dai vermini, strofi- nando con fiele di toro le sue radici; e se pur () pula, scritto sopra soffice. 472 i vermini lo perseguiteranno, con fil di ferro messo giù per il pertuso, tanto che sì ritruovi il baco e s' ammazzi, se gli porrà Vl ultimo re- medio. Se gli cascheranno i pomi, una pietra, fessa la sua radice e cacciatavela, gli ratterrà. Come il melo comincia di tralignare e [dar] segnale di vecchiezza, se le troppo fitte mele caricano i rami, conviene diradarli di giugno o luglio; di questa maniera andando il nutri- mento nell’ alto, si faranno più grossi e belli e sani; e desiderando che le conduchi tutte se ben più minute, assicurinsi i rami con pali fittigli attorno e legati, si che non si scoscen- dino ai venti e li regghino. Non abbandonerà i frutti né sentirà vermini, se con orina umana e letame di porco si rinvestiranno spesso le sue radici, scalzandole e tosto riempiendovi di terra cotta buona avanti ai lor fiori. A che le mele non si guastino in su l arbore, riparerà il ficcare un chiodo sovente al piè sopra le radici, e similmente fattovi un foro nel gambo rasente terra a traverso che scoli; e piantando loro sotto delle cipolle squille, si vieterà che i vermini non gli danneggino. L’'orina umana marcia di sei mesi e datagli al piede et alle radici di febbraio gli farà fertili, se fossero diventati sterili, e renderà i fiori meglio colo- riti e rubicondi. Altri gli acquistano il color rosso più vivace (se bene di lor natura ne sono dei rossissimi) in questa maniera: tirano a terra un ramo carico di mele, avvertendo a non romperlo, accomandandolo a un palo fitto in terra, sopra un vaso che vi sia posto sotto pien d’acqua, acconciovi in modo che "1 sole a 475 mezzodì ripercotendovi co ‘1 reflesso de’ suoi razzi facci salire ai pomi quel vapore; in tal maniera si faranno essere più vermigli. Altri per questo effetto vi piantano sotto di molti rosai. Serivono ancora che a certi pomi che sono di fatta di rossi, quando son verdi se gli scriva attorno qualche parola di buon inchio- stro, levando l inchiostro quando vengono ben rosse, resteranno le lettere bianche nei lor segni; e di più, che se i granati e le mele si metteranno piantati spessi fra i pomi, di modo che s'accostino Vl uno all altro debitamente, i pomi si faranno più rossi. Et in quelli, se si faranno passare, come sì disse delle viti per i ciriegi, nel mezzo del gambo dei granati, facen- dovi un foro a traverso per in su con le sgorbie, e se in una buca scavata a pie del melo si metterà sterco di capra stemperato con vin vecchio, morranno tutti i vermini dell’ arbore. Alcuni hanno openione che si faccino rossi inse- tandogli nei mori. Son certi meli primaticci che adacquandosi con acqua tiepida meglio ratterranno il lor frutto, come tutti gli altri primaticci d'ogni sorte che maturino al fine di primavera e al principio dell’ estate. I meli di tutte le sorte e massime i dolci et i nani, dei quali si possono fare spalliere fruttifere e delicate agli orti, libere per i viali e non accoste ai muri o in certi lati separati, et appresso a questi i peri cotogni et i peri gio- vini, son sottoposti a essere infestati dai tarli, causati dalla dolce buccia che hanno e corrut- tibile, che talvolta accozzata co ’1 terreno della medesima qualità gli genera, e proibiscono loro 474 landar innanzi; e qualche fiata rodendogli di modo trasversamente per li rami, che sì fiac- cano. Credono alcuni che questa peste venga dalla suprabbondanza di grassezza del terreno, altri che nasca dall’ essere stati piantati a luna crescente, e chi a luna scema: alcuni ne danno causa all’ annestare et non al potare. E si sono per molti osservate simil regole e tutte falliscono; e questo ritengo che venghi dal cavargli, che quando si cavano non si usi la debita diligenza per non guastare la lor maestra, che si come sì vede nei peri che il tagliar loro il fittone è causa di far loro bacare le pere e che non le tenga, non può questo non essere ancora causa nel melo di fargli intarlare, tagliandoglielo; e così questa tengo essere la causa principale. Come si sia, il modo di gua- rirgli è questo: ove tu vedi cominciata la ma- lattia in detti frutti, che la cognoscerai in certa buccia fatta nera e scolorita a petto all’ altra e seccagginosa, e vedrai apparire qual- che poco di polvere di tarlo, piglia allora uno scarpello e stuzzicando quivi oltre scoprirai la magagna; e fa di avere un frugatoio di ferro fatto in foggia d'un sottilissimo stidione che regga al pignerlo dentro et all’ attastare, e spi- gnilo giù lungo un due braccia, mettendolo per il buco che si vede principiato, e fruga tanto che tu vegga d'aver arrivato il tarlo et ammazzalo, che tutto scorgerai al ferro che resti imbrattato; e di questa maniera andrai facendo a tutti gli altri che tu vedi infetti di questo male. Dipoi ritura quel buco con terra umida o con sterco di bue, a causa che le for- 475 miche avvistesene non v'annidiassero, che fa- rebbero peggio che non il tarlo, accampandovi dentro. Con tutto ciò tutti i mali, scrivono, si rimoveranno dai meli. E per sei o otto dì, ito sotto il sole, gli adacquerai con acqua, stempe- ratovi dentro lo sterco dell’ asino. Certi ancora vaggiungono lo sterco di capra disfatto con l’orina vecchia d'uomo, et alcuni, sperando d'aver più dolci e saporite mele, v’ infondono alle sue radici feccia di vin vecchio. Ma sempre che occorra per il secco e grande asciuttore di rinfrescargli con l acqua al piede, massime i gioveni, non se ne manchi. Pigliandosi i semi di deutro delle più belle mele e mature che sieno nei luoghi caldi, gli seminaremo all’ otto- bre o novembre in terreno buono ben trito e letaminato, sotto quattro o cinque dita, lontani l’ uno dall’ altro due terzi di braccio, et appresso far certi solchi per i quali sì possino innaftiare ; cresciuti di due anni o cinque al più, fatti grossi da potersi innestare, annestinsi quivi di buona ragione e poi all’ ottobre si traspiantino a dove hanno a stare in su divelti, fosse aperte e gran buche, di maniera che non si guasti lor la bi. e si caccino ben sotto terra, perché il melo sempre vuole abbarbicare a galla; lon- tani l uno dall’ altro trenta braccia, in poggio meno; e bisognando, s adacqui spesso, tanto che s attacchi, e bisognaiic o, s'allarghi bene il terreno, tanto cho s' inzuppi. Di poi all’ asciutto sì scavino bene, e tutte le barbe che si truo- vano messe in sommo si taglino rasente il gambo. Se gli suole assodare la terra assai intorno al pedale; imperciò è bene ogni mese, 476 l'estate, una volta zappare o vangare attorno; e questo quando son gioveni; e quando son fatti maggiori è assai una volta la estate, e diventati grandi affatto, se gli lasci l'erba sotto rasente e per tutto, sì come perciò stan bene nei prati. Abbia il pedale alto, quanto alza un uomo in piedi col braccio destro, e se gli creino i rami in modo, che con essi venghi a ricoprire il gambo il più si può, né se gli lasci più d’ un pedale, ché due congiunti insieme, come avviene degli innesti, ingrossando, s inframmettereb- bono; e tuttavia che se gli veggiano rami secchi si taglino con due diti del verde, e sì potino di due anni un tratto a luna vecchia al tardi, perché il sole v’ entri dentro a ricrear- gli e fruttificare. Desiderano e stanno bene che siano creati da piccoli a forma e garbo rotondo con assai rami, e vogliono essere piantate le lor sorti differenziate tutte insieme, perché le deboli non sieno oppressate dalle più gagliarde ; e considerate le ragioni di che elle sono, porle lontane lune dall’ altre quaranta piedi, pec- cando sempre nel più che nel manco. Con la medesima diligenza si piantino i cavatigli d’ at- torno al piede, i quali, quanto più stati lontani dall’ arbore, come di tutti gli altri frutti, si piglieranno, saranno megliori; e di ramo ancora schiantati dall’ arbore così per una pruova s at- taccheranno, facendo di mettergli tanto a fondo che n’ esca fuori solo quattro diti una cima, e sfendendo il calcio, col porre ove e’ si pian- tano nel basso della fossa delle granelle d’ orzo attorno. Ma la vera è, a volere avere dal melo presto frutto e l arbore grande, faccisi presto 477 cavare a scelta dai boschi, senza guastare loro soprattutto la maestra e l altre barbe, dei meli salvatichi grossi un’ asta; e questi, piantati con diligenza ove hanno a stare, dopo due anni annestare; o vero annestati nell’ istesse selve, traspiantargli nel domestico e buon terreno. È soprattutto s avvertisca a cavare gli arbori di buccia liscia, sana e non punto magagnata, gioveni e che non abbino punto del vecchie- reccio; e più felicemente sempre vengono questi novelli arbori insetati a fessuolo, a occhio 0 impiastrazione intorno al solstizio, et ancora dopo l equinozio di primavera. S' inseta ordi- nariamente nel melo salvatico, o pruno (') di salvatico melo, prima traspiantato nel semen- zaio 0, come S'è detto, nel luogo proprio. Ri- ceve in sè l’inseto di tutte le sorte buone di pomi, fa ancora in su tutte le sorte di peri salvatichi, e messo in su 1 melo cotogno darà quei pomi che i Greci chiamano melemele (che così sì possono ancora dire le condite co ’l mele), al febbraio e marzo a marza, et a buc- ciuolo et a scudetto d'aprile o maggio; et andando molto secco e caldo, s' aiutino con adacquarli. Né si crederebbe quanto facci pro- fitto loro a’ pomi spandere dell’acqua in che sieno stati cotti i lupini. S' appigliano in peri salvatichi, spini, in sorbi, in perì cotogni, in persichi, in platani et in salci; et in questi perdono i semi, e nei platani fanno i pomi rossi. Nei susini damaschini fanno bene, et insetati nel cedro non falliranno mai, sit come il cedro (1) rubo, sopra pruno. 475 è fruttuoso; s' attacca ancora nel pioppo e nel tiglio; ma tutte queste sono pruove per fare un tratto, ma di sua natura sta bene et ama essere insetato in sè stesso e sempre della spezie minore nella maggiore, e non mai per con- trario, 0 pari con pari: rose con rose, paradise con paradise, teste con teste; e così con tutte, sempre di miglior sorte. A questo modo alle mele gli possiamo imprimere diversi lineamenti, descrivendo quei segni o quelle linee che ti piace con uno stiletto, non solo sopra queste, ma sopra d'una scorza d'un granato o d’ un pero cotogno; poi ne caverai una forma con gesso intenerito con acqua, e vi racchiuderai dentro le poma quando son piccole, chè quando saranno cresciute per modo che possono empire quelle forme, vedranvisi dentro quelle linee statevi impresse. Tutti i frutti dei meli e dei peri accetteranno le figure degli animali e d’altre cose, in questa maniera: l' effigie di quello che tu vogli rappresentare in essi, sì formi d’incavo di dentro con gesso o loto, con delicata e sottile coperta il più si possi, perché meno gli sia molesta e l annoi; e si dee anco fare il getto di due pezzi da suggellare e com- mettere insieme; e quando si vede che il frutto sia pervenuto alla metà del suo crescimento, vi si metterà, e legata la forma d’ attorno si che non possi offendervi V acqua, si lasci stare così accomodata sin che sia maturo il frutto, e di poi s' apra con la forma presa. I meli insetati di novembre nei luoghi temperati, avendogli ricoperti diligentemente al tempo di prima- vera, faranno messe sbardellate, ma conviene 409 eleggere vigorose piante e vegnentissime marze, e con doppia accuratezza assettarle e ricoprirle bene. Scrivono i Greci che le mele insetate, come si disse delle viti, nel ciriegio, si matu- reranno nel tempo delle ciriegie, benché tardie, e che insetate in mortella produrranno i pomi verdi, sì come in rododafne rossi, ma di amaro sapore, di quella sorte che ne sono alcuni dolci e nani. Sono ancora le mele moscadelle dette mele appie, molto odorate; e le mele rose moscadellate si fanno con lo studio dell’ in- dustria dell’arte dell’insetare, annestando il melo rosa in su l’'appiuolo o in su ’1 melo moscadello. I meli neri si faranno gli appii, insetandogli in un arbore che gli dia quel colore, come in un moro nero ; così si fa l uva moscadella nera, insetando in sur una vite d’ uva moscadella nera la bianca. Dicono le mele essere gravi alle bestie da soma, perché offese dall’ odore si straccano, e si rimedia col darle loro assaggio; e tanto avviene e si fa delle pere. Gli antichi apprezzarono le mele appie, le quali insetate nel pero cotogno diventano migliori assai di loro istesse, saporite e deli- cate, dette da Appio Claudio, come le marie, le cestie, le manlie e le sopriane, le scandiane © scantiane, tutte dai nomi proprii dei loro introduttori. Alcune altre dalla patria, come le cavritine e le grecule, certe altre dal colore, rubelle, sanguigne, sericee, auree; di figura rotonda le septiane; dal sapore melemele e mellee, le mestie e glicomele; dalle foglie millefoglie, che hanno spesso da una banda 450 una foglia; e pur dalle foglie belgemelie e pannuccie, che aggrinzendo prestamente mar- ciscono; pulmonee, goffamente ingrossando. Catone aggiugne le quiriane, le conditive e scanziane, ancora le pusille, per altro nome petilie. Dalla similitudine delle zinne, ortoma- stiche, dalla condizione dell’ essere castrate, spadonie. E dai nomi dei paesi stimarono ancora assai: le dache, le pelusiane, le ame- rine, le tiburneziane o tiburzie e le seriche. Le mele d’ Assiria nascono solamente in quella provincia, a tutte lore [il melo] ha pomi, :ascandone e maturandone sempre. In Francia le capendue di color di loto, di grato sapore, che in tanta suavità non van via presto ; hanno le passipone, le rabaudiche e le gelee ; i Tede- schi le destilene e paradise, oltre alle loro forestiere; appresso gli Ubii, le postellane. I Greci celebrano le corinzie, le delfiche, le laconie, l erinie, gnidie, setinee, platinee, amfrosimele e mordie: e gemelle si chiamano quelle che nascono in copia. Avevano ancora gli antichi le armenie, cotonee, citrie, covi- mellie, marziane, ogromine, precoci, punicee, quinziane, prosine, rosse, silvestri, seruzie, tibolesi e veriane, mateane, gangre; mustie chiamavano gli antichi quelle che noi addo- mandiamo primaticcie; altre ne sono agre dal sapore agro, come le mellee dal gusto di mele; le castinie sono di gusto più austero. Frange- ture sono appo gli oltramontani e le rubelliane e molte altre che hanno sortito il nome secondo la fantasia delle genti e dei paesi. Imperciò ai tempi nostri s' apprezzano le rose dette susene 481 da Susa castello agli ultimi confini di quà d’ Italia, che bastano da per loro un anno intero, e le paradise dette dagli antichi petilie, per quelli che se ne rintraccia il riscontro, le appiuole e le appiolone, le capendue di Francia, in Italia calamele, vinigirne, cala- manne, altri boccaprevete, porporine, rubel- liane, sanguigne o rosse, che sono facilmente le mele francesche addotte dalla medesima Francia, pomi mirabili in Toscana, hierosoli- mitani; i Liguri lungo ’1 Po gli dicono balsa- mini insieme con le piante, perciocché i suoi pomi ripieni d’ olio, tenuti al sole per alquanti dì, di poi con fango o terra ricoperti sinché marcischino, hanno vigore di balsamo a saldare le ferite; e le mele dolci che non maturano mai affatto e si mangiano primaticcie con le mele nane, che maturano le prime; le zucche- rine così dette dal sapor dolce, e le teste dette ancor roggie, tonde e lunghe. E in Batavia alcune mele si fanno di sorte che durano più dun anno e talora tre. In Inghilterra sono grossissime; e di questa qualità molte altre sorte, di nome secondo i paesi. Rimostrano le mele d’ essersi condotte alla loro intera maturezza, quando, avendole partite per mezzo, sì ritruovano morati e neri i lor semi; e le rose, le paradise e le teste e le appiuole sono Vl ultime a maturarsi, e se sì possi lasciar loro avere una brinata, si come alle pere cotogne, saranno più stagionate e basteranno quel più. Queste sorti sono di inverno e si cogliono con mano senza sbatterle o farle cascare in terra; l'altre sorti sì cogliono SI 482 prima, dopo l equinozio autunnale, dal fin di settembre a mezzo ottobre, dopo i sedici dì della luna, cioè a luna vecchia, in dì sereno, non torbido nè da piovere. Quelle che si truo- vano cascate in terra sono da essere tenute e messe da per loro, e deonsi o cuocere nel forno sui graticci per mangiare di dì in dì, o spartite in quattro pezzi, e cavata col coltello quella cartilagine intorno ai semi, sono da essere poste a seccare al sole, per servire, serbate in lati asciutti, agli usi degli intingoli et altri man- giari dell’ invernata; e così si facci ai più gialli, maturi, smaccati e bacati. E a ciasche- duna razza è da assegnare un luogo distinto per conservargli, che Vl una sorte non guasti l’altra; e ponghinsi rade, perché i termini del poco spirito non ingannino quelle che son pari. Cosi non percossi si conservano in luogo freddo, asciutto, tenendo da tramontana le finestre aperte nei dì buoni, con fuggire che non sen- tino i venti australi da mezzodì (il vento Aqui- lone gli fa diventar grinzi), sopra tavole di legname ben secco, distesi e rasvolti in foglie di noci, sopra graticci, paglie o altro strame, in lato difeso dai venti e dall’ aere, oscuro e ben serrato. Alcuni, una per una ben fasciate, le racchiuggono in quelle foglie, certi altri con li suoi rametti le appiccano (ma sì danneggia la pianta) in luogo ombroso e secco. Deonsi adunque corre con il lor piccollo solo, senza portar via il legname. Bastano nel gesso spol verizzato, nell’ orzo, e tempo assai cacciate in un vaso impeciato nel fondo del pozzo. Ancora, cava il fondo a una botte, e poni in fondo un 458 suolo di paglia e poi un suolo di mele, così seguitando sin che sia a sommo; di poi ritor- nagli il suo fondo e serra bene il cocchiume, esso e tutti i fessi, impeciando di pece greca 0 nera, e metti la botte in luogo asciutto; e basteranno come quando tu ve le mettesti insino all’ altre, come quando le cogliesti. Var- rone scrive che le si ravviluppino nelle foglie del fico, e sì mettino nelle ceste fatte di ser- menti, o si infardino di creta. Diofanto vuole che le si ravvolghino nel musco marino, si che non apparischino da parte alcuna. E poste in un vaso coperto e serrato bene che non si toc- chino Yuna laltra, posto in su ’l solaio si conserveranno bene, purché in quella stanza non sia né odor tristo né fumo, rinvolte nel- l’ aliga; e non n' avendo, Ss impiastrino con terra da far vasi. Alcuni nelle sue archettine fabbricate di legno di melo [vanno] empiendole alla rinfusa di mele e di cipolle, le quali stando fra loro le conservano, et esse vengono contrap- pagate di questa amorevolezza dalla gratitudine delle mele; perché queste a quelle levano il fortore e mitigano il forte odore; di poi sì cuoprono con il lor coperchio che serri bene, impiastrando i fessi con l argilla, perché non vi entri a corrompere spirito d’ aere; e pon- ghinvisi tutte d'una sorte, perché ponendovene di diverse, non s' affacendo insieme, più presto si guastano. Assai durano le struzie, le came- rine, l orbiculate, le quinziane: da noi le rose, le' teste, l’appie: le francesche e le carovelle son da durare. Apuleio scrive che le mele si coglino con diligente mano, e non frante punto 484 o percosse, tutte intere sì caccino in un vaso non peciato e bucato nel fondo, tanto che sia pieno, e si turi di sopra con la pece; di poi s'attacchi il vaso a un ramo del suo arbore, e sì conserveranno per tutto il verno; et in un raso incerato di dentro di cera vergine, turato bene, in lato secco, faranno il medesimo. Ancora, senza spiccarle dall’ arbore, le più insieme in un mazzo di rami senza percuoterle si componghino in una pentola ben turata, accomandandola a un palo ; vi sì conserveranno sino a che vogli di nuovo muovere. Alcuni le ravvolgono in foglie delle medesime mele e sopra le impiastrano di terra da pallottole © creta o argilla pestata con i pili; altri con morchia e vino ben strofinate le ripongono al secco ; ma prima le pongono al sole e scoprendo nuove fessure le rinzeppano e riturano, di poi le mettono sopra le tavole, e questo sì fa senza fasciarle nelle foglie; e rotta, quando le vogliono, la coperta del loto, le ritruovano come elle erano; ma alle mele cotogne aggiun- gono il cuocerle in mele ; e di poi le chiuggono in vasi che non traspirino. Similmente, avendo trascelte quelle che non sieno guazzose 0 sappin di vecchio, et acconciele con diligenza in una brocca (') non impeciata piena sino in bocca, senz’ altro ve le lasciano all’ asciutto. Ancora, rinvolte nelle foglie di fico secco, impiastrate d'argilla bianca o loto, sì lasciano al sole, tanto che asciughi et indurisca questa crosta, e sì mantengono all’ asciutto : et attuffando le mele (1) Aydria pare scritto sopra brocca. 455 nel vino vecchio, non aggrinzeranno. Le mele appie o altre che odorate sieno, cacciate in un vaso di mosto diligentemente chiuso, gli danno odore e bastano. Ancora, poste in catini di legno sì che nuotin nel vino, l’odoreranno e si vi conservano. Ancora, acconcie in un canestro di vimini, e tuttavia co ’1 picciuolo all’ ingiù sotterrate nella loppa vagliata, dureranno un pezzo. Il mele vale a conservare un corpo molti anni che vi sia ricoperto dentro; così le mele tanto più, o tagliate in pezzi o intere o levato loro il torso di mezzo, con una canna tagliata o coltel d’ avorio. Cogli le pere, .le mele e le cotogne sane et un po mal mature con li loro ramoscelli e frondi, et intignile nella pece distrutta calda, leggermente dandogli un tuffo, che altramente le guasterebbe allora, e da quella via rinviluppate nella canapa o nella stoppa; oltre a questo fagli una coperta di cera nuova, e dureranno assai. E lasciate stare nel mele tutte intere in un vaso impegolato che non traspiri, vi staranno verdi tutto l anno. Finalmente scrivono i Greci che non si marci- ranno quei pomi che sieno stati strofinati con destrezza dal sugo dell'erba satirio verde. Sono ancora alcuni che pigliano la segatura del pioppo e dentro v' acconciano le mele di modo che non si tocchino luna | altra, avvertendo di mettervele come stanno nell’ arbore con il fiore all'insù e con il piccollo all’ingià ; e così poste in luogo asciutto le conservano. Tutti questi modi sopraddetti o la maggior parte vagliono a serbarle assai, se le sieno colte con diligenza senza infragnersi o malmenarsi, 0 486 percuoterle luna con l'altra, e sempre per quattro dì tenute al sole. E così legate ancora per il piccollo al palco si manterranno. Rin- volta la mela in pasta cruda, ponla sotto la cenere calda a cuocere, sin che la pasta secchi e sì stagioni. Si fa grata bevanda delle mele appiuole : et in Ungheria, dove ne è quantità, massime nelle isole di Chiaverino e Comaro del Danubio, grattugiandole minute, poi sotto lo strettoio in sacchetti di soda tela doppia ponendole a strignersi, di poi riposte nel tino, mescolandovi del vino a discrezione, ripigiato ogni cosa insieme, aggiuntovi un po’ d’acqua, lasciano levare in capo e bollire, di poi pre- mere e passare tutto per stamigna e imbot- tarlo; e conviene berlo presto, perché non basta. Chiamano questa bevanda in quel paese sidro, e di mele sole ancora non è ingrata. L' aceto di mele si fa più con le salvatiche che. con l'altre, non ancor ben mature; così state ammontate per cinque o sei di si gettano nel tino, e postavi dell’acqua a proporzione, sì ten- gono coperte per un mese, poi sì cava per di sotto l'aceto. Fassi vino di tutte le mele, pesta- tele con alquanto di zucchero mesticato, aggra- vate con contrappesi o con le macine schiac- ciate, e poi premute, si mette a schiarire il sugo che n’ esce, tenendolo in riposo ; poi ripo- nendolo in vasi invetriati ben chiusi, dura buono sino all’ estate : poi è aceto. Le mele son fresche et umide, e perciò i meli richieggono il terreno conforme alla lor natura e luogo ; et è fresco anco il rosaio e le rose. Scrivono che se s'inseti alla buccia del melo un rosaio darà 487 rose, quante esso le mele. Ancora si fa aceto di tutte le mele salvatiche e domestiche acerbe in questa altra maniera: si seccano spartite al sole per tre dì, poi state a riscaldare ammon- tate si mettono in un tino e dopo tre dì si cava di sotto il liquore che n’ esce, ponendovi acqua a misura, e s adopera per aceto. Ancora sopra il vino detto di sopra si può rincappellare alle due volte, detta la seconda loro. Tutte le mele scrivono che son male, eccetto che le mele appiuole e le appioline. Il Meliaco è della razza dell’ albercocco, e chi lo chiama Crisomelo, perché mature fatte [le meliache], son gialle smaccate con il noc- ciolo amaro. Desidera la terra et il sito come il susino, sì come in esso annestato profitta. Fa bene in terren grasso, rifuggendo l argilla e la creta e tutto ’1 terren magro et i luoghi ventosi, sendo molto sottoposto allo scoscen- dersi, squarciarsi e rompersi con facilità. Ama d'essere spesso scalzato e nei tempi asciutti d’ essere adacquato. Desidera che gli sia levato ogni seccume dai rami, facendone assai per la debolezza d’ essi: è con tutto ciò di corta vita. Si pianta co ’1 seme di gennaio e febbraio, e sì trapianta poi di novembre, febbraio e marzo, et in questo mese convenientemente s innesta in se medesimo, nel persico, nell’ albercocco e nel susino e nel mandorlo, altramente da sé stesso traligna. Molte cose a caso si veggono senza pensarvi, che spesso considerate fanno che e sia agevole aggiugnere alle cose trovate, e massime con l aiuto della madre natura: vedesi 485 adunque che i sassi talora sono incorporati dagli alberi e talora concentrati tra le lor radici e scorza e legno, di modo che il più tenero ha fatto lato al duro. Così s incarnano ìl rami da natura dall’ uno arbore nell’ altro; e di qui s ha avuto pensiero dell’ innestare. E tanto più le frutte cedono ai rami intraversatisi loro et a’ buchi o altro che incontri più sodo, si come si vedono i cedri che incontrando in questo intoppo, prendono la docilità di diverse figure. Adunque se tu accomoderai un vaso di terra alle frutte che crescano gagliardamente, empieranno, quando le sono nella gioventi, quella stampa o forma che v' è dentro incavata. E se vi saranno messi colori diversi impiastrati et incavati in quei vasi, gli daranno quel colore come se l’ avessero di natura; onde spesso s’ è veduto nelle crisomele un capo umano piccolo a proporzione della frutta, con i denti bianchi, con le gote rosse e con gli orecchi neri, a tal che, lasciata tutta la verdura, ha seguìta la testa dell’uomo. Di maniera che se tu desideri che ’1 crisomelo, il cedro e ’1 cotogno o altra frutta ti rappresenti il capo o di cavallo ancora o d'altra bestia, farai un incavo di getto tanto grande quanto è il frutto quando gli è compiutamente maturo, e questa forma farailla di creta o di gesso tenero, e lasciata poi seccare un poco; quando vuoi formar l’opera poi, fendi detta forma con un filo di rame sottile per poter cavarne l esempio o la figura, et accanto si possa comodamente con- giungere; e se l impronta sarà di legname, sia incavata dentro, e se di creta 0 gesso, quando 489 l’averai seccata e che 1 frutti crescono a furia, aprila, affinché vi possi ricever dentro il pomo. Serra poi quella forma di terra e legala forte con spago e vimini. Così egli andrà riempiendo quei vani, circondando ai sodi, e rappresenterà il cavo del getto. Questa pruov: sì può speri mentare alle dui dette, ma più che più alle zucche. Il Moro è di tre fatte: una sorte fa i frutti bianchi, un altra neri e di quelli più grossi assai, la terza neri pendenti in rossigno e della grandezza e qualità dei bianchi, venuti di Gra- nata e di Spagna; e la foglia di quelli neri è più grossa e differente in grossezza, ruvidezza e Dizione; diversa da quella di questi dueyi quali Y hanno del tutto somigliante I uno del- l’altro. E tutti tre sono tenuti arbori savii, poiché non spuntano mai fuori (chiaro indizio di ciò) che passato il freddo, e poi tanto presto lo fanno, che in una notte danno fuori le messe tutte in un tratto e con un brulichio che si sente, tanto sono poi in mettere solleciti. Di queste tre sorte il nero che ha i frutti né mag- giori né minori del bianco, per i bachi della seta è il migliore degli altri, quando son pic- coli; per i grandi il moro nero che fa i frutti più grossi d’ ambedue è migliore, per far poi la seta più soda e più forte; benchè è meglio finir di dar loro quella sorte di foglia con che si è cominciato da prima, senza mutar loro in alcun modo sorte. Ciascheduno di questi ama il paese caldo e temperato, e nell’ assai freddo non pruova, o se pur alcuna sorte v' alligna, è 490 quello che fa le more grosse, rosse da prin- cipio, di poi mature nere, il quale non rifugge ne ancora i luoghi vicini all’ alpe, et il suo legname, massime dell’ alpestre e pendente in rosso con certe macchie e vene nere, è buono a tutti i lavori sottili e d’ intaglio, ottimo a tenieri di balestre. Deesi, piantandolo nell’ alpi, porlo dalla banda d’ oriente verso mezzo giorno. Nella creta o tofo appena s’ appiglia, e nel ter- reno magro e cattivo non piglia augumento ; non disama la [terra] sabbionosa e mezzana- mente soluta e per lo più alla vista della ma- rina; ma il suo proprio è di voler la terra grassa e sustanziosa. E volendogli piantare per la foglia da bachi, ne faranno più e maggior foglia in terreno che si possi adacquare e che abbi assai umore e che sia vicino a fiumi, e massime che appetiscono i terreni freschi et arenosi. Ma volendo aver i frutti saporiti e buoni, i quali, secchi e spremuti così soppassi, [danno] quel sugo che n’ esce misticato nelle vivande ove va sapa, che è più di questa aggra- devole in esse, si piantino in lati asciutti. Amano d'essere presso alle case, godendosi del grasso e del colaticcio del letame che scenda loro addosso, del quale dandosi loro abbondanza al pié, si faranno copiosissimi di frutto. Amano i mori d’ essere piantati in luoghi spartati da per loro, lungo i fossi pieni d’acqua che vadi ai mulini, o in su le rive dei fiumi e intorno ai laghi, ma non pantani o luoghi paludosi, dove l acqua non abbi il suo sfogo e covi, e tanto lontani luno dall’ altro che non si abbino mai cre- scendo a toccare. Piantati intorno a vigne 0 491 nei campi di grano danneggiano di modo il terreno, spoppandolo con le sue numerose radici, che non vi profitta o poco. Nei paesi caldi si pianta d'ottobre e novembre, nei temperati di gennaio o febbraio e marzo, e nei freddi in parte d’ aprile. Si traspianta essendo grande di ottobre e novembre, essendo piccolo di febbraio e marzo, e piantandosi a questo tempo di pri- mavera, si ponga quando comincia a muovere. Si pianta con cime, vettoni o tronchi lunghi un braccio e mezzo, e questi hanno a essere da ciaschedaun capo pareggiati et impiastrati di bovina; et avendo fatta prima la fossa, il divelto o buca grande, si sotterrino e cuoprino bene con terra mescolata con cenere, o cenere pura, non lasciandovene sopra più di quattro diti, adacquandogli spesse volte tanto che s' ap- piglino. Di poi attaccati, sì riempiono in sommo le fosse, le quali s hanno a riempiere a poco a poco perché barbino ben sotto, affinchè avendo a reggere gran pondo di rami non capolevino, come se ne veggiono molti che da per loro, aggravati dal peso di quelli, si sbarbano. Ma questi, quanto prima si vegghino pendere a terra si che minaccino rovina, sì deono o pun- tellare, o fattovi sotto il muro in guisa di bar- bacane forzargli a stare in piedi in su ’l ter- reno, dentro al quale vogliono stare a fondo, avendo pur sotto un terzo di braccio di ter- reno lavorato in su "1 piano del lavoro. Quando le piante son piccole, bramano d’ essere scavate e vangate attorno, e giova loro star così scal- zate tutto l'inverno poco più d'un palmo; e se allora et al tempo della primavera et all’ otto- £92 bre se gli getterà al piede la feccia del vino, gli farà gran profitto, facendo che ella tocchi et arrivi quanto più si può su le radici; e ciò gli farà maturare i frutti più presto. Giove- ragli ancora il letame macero. I rametti freschi dei mori d'un anno, piegati in terra a modo dei fichi, s appiccano, e massime infragnendo con un maglio di legno le parti tagliate che ranno in terra, ponendogli a dove hanno a stare, accomandati a un paletto, in luoghi piut- tosto piani o valli che altri. (uidinsi di ma- niera che faccino il pedale alto otto in dieci braccia, et i rami si scompartischino per con- guagliare in contrappeso. Dopo tre anni si dee potare e levargli ogni ramo rotto e seccume, e ciò si facci tuttavia, dandogli una rivista che sia colta la foglia per i bachi, la quale, non volendo guastare il moro, non si coglia mai nell’ ultime cime da alto; et i miglior mori che si coglino per i bachi son quelli a chi s appoggiano le viti, molto loro amiche e che vi vanno su volentieri. L' arbore del moro diventerà più fecondo e più primaticcio, se forato in sul calcio di quà e di là il suo tron- cone, vi si cacci dentro in ciascheduno, uno per uno, conii di terebinto o di lentisco. A piantoni si possono piantare, scrive Palladio, al principio di primavera, all ultimo di marzo, pigliando i rami più diritti, più belli, come che d'una capitozza di moro, che vi sieno, cacciandogli ben sotto e non riempiendo tutto in un tratto di terra buona. Quando si voglino piantare a rami non è che bene, sfessigli da pié, cacciarvi dentro una pietra, schiantandogli 495 dall arbore dal primo accorgersi che voglia muovere. I mori neri che fanno i frutti grossi fanno più di tutti gli altri resistenza al freddo, e più malagevolmente s' appiccano senza barbe. Fanno talora alcun rimettiticcio da piedi che ha qualche radice; questi s' appiccan bene; e conviene in ogni modo tener lor netto il pe- dale. Tutte le more hanno la semenza, la quale è buona dalle more mature, il che si cognosce alle bianche, quando dai mori sani senza inter- rompimento di venti cascano a terra da per loro nel principio di giugno, et ai neri di Spagna un poco più tardi, et ai neri grossi gli ultimi d'agosto o settembre, secondo i paesi. E queste si fanno di tre colori: prima bianche verdeggianti, poi rosse, e mature nere; e col succhio maturo tingono le mani, con l' acerbo le nettano. Gli uni e gli altri sono fecondis- simi et ogni anno senza fallo se ne caricano, avendo sempre più more che foglie, o di pari; et avendo dentro più granelle le more, n’ ave- ‘anno gli altri anco di quell’ arbore. Le quali sì piantino tutte intiere così fresche e verdi in terreno ben grasso, ben netto, lavorato trito e spolverizzato, e sotto per un braccio e mezzo divelto, quattro diti o piuttosto meno, ricopren- dole con terriccio buono, asciutto, tutto crivel- lato; e questo crivello dee essere di fil di ferro tessuto minuto, o di rame pertusato tutto minu- tamente; e quando la terra non passa, pur che sla secca et asciutta, vi s' ammacca e spiana dentro tanto che la si facci passare. E le more st mettino tutte a diritto filo ad una ad una, lontana luna dall altra un palmo, affinché fra 494 loro sì possino nettare e zappettare ; et affinché le non siano trafitte dal sole, sì deono coprir di stoppia; e perche non si pesti il terreno, adacquandogli dalle solca o dal terreno sodo che resta attorno, e frequentisi la sera dopo 1 sole, tanto che sien nati alti un sommesso, seguitando ancora se la stagione lo ricerca e 7] paese; e nascendo troppo fondi, si diradino subito nati. Di poi all’ altra primavera si tra- piantino a dove hanno a stare, in terreno lavo- rato come s è detto, sarchiandogli più volte l’anno e tenendogli netti, scalzandogli all’ otto- bre, levando lor via tutte le barbe che mettes- sero all’ aere, dando loro del letame macero e cenere assal. Si possono ancora stropicciare le more mature attorno a una corda di giunchi 0 d'erba, e por la corda nel solco distesa, e rico- prendo come s' è detto. Ancora, sì possono stro- picciare con le mani le more mature nell’ acqua chiara, tanto che si distrighi il seme dalla lor carne, soffregando le more, sfrangendole, stro- picciandole et ammaccandole tanto che ’1 seme vadi affondo, quello che è buono, e 1 altro cattivo a galla, quale si getta via; l'altro si ponghi ad asciugare all uggia, disteso e spia- nato bene sopra tavole secche, tenendole in luogo asciutto; et a luna crescente di marzo, verso il fine, o in quella d’ aprile si seminano al modo detto. Uresciuti questi mori a gros sezza di picca, scapezzati sopra terra due brac- cia, sì deono insetare di mori neri a fine di giugno a bucciuolo, 0 a scudetto o a marza di aprile, al feno. Ora ia vera approvata e chiara regola di seminare le more e conservare i semi 495 è questa: cogliansi le more con mano quando le son mature di qualunque delle tre sorte, e prese delle foglie grandi di mori rossi 0 pam- pani di viti dei maggiori, e postivine dentro sette o otto e non più, leghinvisi dentro con un filo che s attacchi al palco penzolone, in lato asciutto, all’ ultimo solaio della casa, e quivi si lascino stare sino al principio d’ aprile (perchè quanto più tardi sì seminano le more, più le aiuta il sole e ’1 caldo a nascere con l'appoggio dell’ 'adacquare), nel quale calate dal palco si sfascino tutte, e tutte le lavino con le mani dentro al vin pretto vermiglio 0 bianco, sano e buono; aridranno i semi buoni al fondo; questi si ponghino per quattro © cinque dì a macerare nel greco, di poi così molliccichi, mescolati in una tafferia con l'arena, sì gettino nel terreno preparato come di sopra, seminandogli alla rinfusa e ricoprendogli con terra crivellata tre diti e non più, e coprendo il luogo di finocchi secchi o favuli, sopra questi gettando due volte il dì senza sole l’acqua per annaftiarli, seguitando tanto che sieno nati, e dopo quanto si cognosce bisogni; questi si tra- piantino con tutte le lor barbe e terra al piede il più che si può a dove gli vuoi, e di poi si procurino come s'è detto, e prima si zappet- tino spesso e si tenghino netti da tutte 1 erbe. S' ha per constante che tosto che il moro co- mincia a mettere non vi sia più dubbio di freddo, e allora è il vero tempo di seminare i semi delle more; e se con tutto ciò si veggla perseverare il freddo, il seminargli al fin d'aprile non sarà cattivo, Diradansi subito nati, 496 di modo che resti lo spazio d'un palmo tra l'uno e l'altro, ma desiderando più presto, o per imprese di bachi o per vendere la foglia; ché in vero è arbore molto utile il moro, e per fino le sue legne secche e fresche ardono bene, e le sue tavole segate son buone a tutti gli usi dell’ altre che si ritruovano, e soprattutto a far doghe da botti per tenere il vino, quale vi sì conserva eccellentemente. È di poi il moro un arboro docile pieghe- vole da stendere i suoi rami in piano e farne pergola, da mandarlo in alto sopra legname a far cupole, stanze sopra di se e andari in foggia di gallerie e veroni o passeggiatoi d’ andare attorno, si come se ne vedde uno, con la vista del quale si ricreò l occhio di Carlo v in ve- nendo a Fiorenza, che volle squadrarlo, come fe per cosa di miracolo nel giardino dei Ru- cellai. Circondava questo moro e copriva paese per più di ottantuna braccia all intorno, fa- cendo prima un piano in giro attorno, retto da rami, e tenuto insieme dal rami di mezzo larbore, i quali con un equilibrio lo sostene- vano, e di sopra creando altri rami facevano graziosi e gran padiglioni, entrovi accomodato uno spazio di tavole da potervi mangiare e passeggiare, con un balcone attorno che di nuovo lo rigirava. More il moro per le troppe carezze. Per asseguire adunque quello che s è detto, il modo è questo: scapezzisi un moro 0 più, di buono, grosso e sano pedale, piuttosto torto verso terra o che accenni di cadervi, a corona, e più rasente terra che si possi, quale sia in lato umido e grasso, dove e’ fanno bene 497 ordinariamente; e sia l’anno di marzo ; e 1 anno di poi fagli fare al piede una gran buca, scal- zandolo bene da tutte le bande, e lo farai traboccare in detta fossa; et operisi di ma- niera che e’ non sì spicchi affatto dalla terra; e le sue vermene che gl’ averà messe in quel l’anno (non essendo arbore alcuno che facci maggior messe di questo per anno, né che cresca più presto accanto a lui del sicomoro) falle distendere a uso di propaggine in foggia d'una stella, ricoprendole di mano in mano, rincalzandole e mettendole sotto bene. Così averai belle barbate sicure, le quali dopo due anni che le sieno state sotterrate, traspian- terai con la regola detta a dove hanno a stare, cavandogli con tutte le sue barbe all’ ottobre o novembre, avvertendo a non gli piantare sopra le gore dei mulini o lati paludosi o sopra vivai di pesci, perche la foglia mucidisce et ammazza i bachi e non ha condizione, ma sì bene in lati aperti, solatii, caldi, grassi et umidi. Ancora, sì può scapezzare a capitozza alto da terra, e fatto capolevare in una fossa, spartirgli di quà e di là tirando le vette delle vermene messe fuor del terreno, e ricoprire il gambo e loro nella fossa, così cavando barbate. Quanto al potare, i mori non vogliono essere troppo tocchi e massime all’ ottobre rispetto ai freddi; a tempo nuovo un poco più, e quando gli scapezzi, il medesimo si può fare alle vetrici, saliconi e salci, arbori contadini: ma questi fanno al marzo come gli arbori. È ben fatto ad ogni moro piantare la sua vite e sia per lo più di raveruschio o sangiogheto. Ricevono i 32 498 mori in loro per annesto di foro le viti et i fichi, di cannello o a occhio. Se s’ annesterà una marza di cedro o di pero in un moro nero, saveranno i frutti rossi. Cosi vennero le mele rodiotte, scrivono i Greci. S' inseta nel persico, s' attacca nell’ olmo, ma in questo perde, dice Palladio; s' attacca nel castagno, nel faggio, nel platano; e nel pioppo che sia bianco insetando i mori neri, diventeranno bianchi. Ma i mori insetati in lor medesimi megliorano sempre, e massime i seminati, altramente tralignano. S' attaccano i mori vicendevolmente nei neri. E tutti i semi d'ogni sorte moro seminati in carriuole piene di buon terriccio che si cavino la notte fuori alla rugiada e ’1 dì si tenghino dentro al coperto o in lato dove non batta sole, nasceranno come tutte altre semente simili al maggio anzi che d’ aprile, aiutando il caldo, e annaffiando, a nascer tutti 1 semi. Le more colte mature si serbano per qualche poco di dotta di tempo in un vaso di vetro ne ’l lor vino, il quale si fa spremendole un po’ rasciutte al sole e passandolo per stamegna; e questo anco, lasciatolo schiarire, a bere non è insuave, si come le more di grazioso sapor dolce. È cibo che presto si corrompe, perciò vuole essere mangiato da stomachi netti la prima cosa. Le more secche anch’ esse non sono cattive: e tutte sono oltre a modo lassative, né troppo amiche allo stomaco. Il Nespolo non è frutto di molta condi- zione, ma per restar solo fra gli ultimi a ma- turarsi sì dee apprezzare, e massime che è gran- 499 demente lenitivo; e se bene in vista apparisce, quando è presentato in tavola e si mangia (il che si dee fare all’ ultimo boccone per sigillo allo stomaco in cambio di cotognato), fradicio e marcio, questo è il suo maturo; non si cor- rompe sopra l altro cibo, come gli altri frutti, e di questa qualità ancora è il sorbo: et ambe- due mangiati innanzi restringono e dopo son lassativi. Non fu a tempo di M. Catone il ne- spolo in Italia, ove se ne veggiono di tre sorte, il domestico e ’1 salvatico e le nespole mollesi di Sicilia, le quali hanno per proprietà di ma- turare in su l’arbore; e l'altre ancora per accidente lo fanno, essendo in qualche lato caldio, dove il freddo non l incuoi o inacidisca. L'openione è che a Napoli ne sia la quarta razza di quelle che non abbino gli ossi dentro; gli hanno ben minori, ma non son senza. Le gigantee poi si fanno con l'arte, acquistando grandezza e grossezza il frutto del nespolo, non solo per la qualità del terreno et aere che se li confacci, ma per essere insetato in arbore che gli possi dare quell’ augumento. Ama il nespolo e si gode d'essere piantato in luoghi caldii, dove ai tempi asciutti sia adacquato, sì come gli fa di bisogno; vien bene ancora nei temperati, né rifugge d'essere nei freddi, pur che quivi sia volto a mezzogiorno. Ama terreno sabbionoso grasso et in terra ghiaiosa mesti- cata con arena et argilla, con sassi, non fa che bene: sì gode dei lati caldi, ma che si possino adacquare. Piantasi secondo i Greci dai venti di marzo in là, mettendone ancora nei boschi di quercie, tra le quali fa bene, come il pero 500 cotogno; et a questo medesimo tempo, con piante spiccate dal tronco con un poco del vecchio, nei luoghi freddi a novembre e nei caldi di novembre ('), in terra ben letaminata e grassa divelta, e con piantoni sotto e sopra impia- strati di bovina, e di sementa ancora, ma tardi. E per agevolare la nascita loro, tenghinsi a macerare nel letame fradicio per tre o quattro dì. Diventa fertile con averlo bene scalzato, di che si diletta come d’ essere potato, una volta l’anno di ottobre, [e dandogli] cenere di ser- menti mescolata con letame marcio. Se siano molestati da bachi, gli rimedia l acqua della cocitura dei lupini, datagli alle radici intorno al gambo scalzato, e la vecchia orina dell'uomo; o con un fil di ferro ricercati s' ammazzino, 0 con un poco di calcina viva, perché troppa lo seccherebbe; e se gli dieno noia le formiche, la terra rossa mescolata con cenere, posta @ dove sono, le ammazzerà, disfatta con l aceto forte. Se gli cadessero i frutti, un pezzo della sua radice ridotto in foggia di subbio e pas- sato per un foro fatto nel mezzo del tronco, lasciandovel dentro, ve gli farà rattenere. Si piantano ancora i nespoli salvatichi nel dome- stico, e quivi dopo due anni s' annestano di quelli. Fanno bene i sorbi et i nespoli posti insieme. Ancora, piantando pruni bianchi et annestandoveli sopra, si viene in buona razza di nespoli; ma sopra tutto cresce et acquista assai il suo frutto sopra il pero cotogno ; ancora (1) Qui v'è errore di scrittura senza dubbio, che non mi posso provar di correggere. 501 profitta in sul melo e pero et in sul pruno (') ordinario ottimamente. Il nespolo riceve in sé la mortella come il melagrano, e la mortella il nespolo e ’1 melagrano. Sono osservate dei nespoli due sorte, una ruvida con più rade spine che fa per le macchie e boschi acerba, ne prima che per il verno rintenerisce sen- tendo il freddo, un’ altra senza spine di più grandezza, che pare che sia stata fatta dome- stica con l’ annestare. Annestandolo nel salcio alla foggia del pesco, è openione che possì crearlo senza noccioli, se con la diligenza sì facci attaccare. Le nespole, se sia in luogo riparato, son migliori a lasciarle maturare in su l’arbore sino a febbraio, e, cascando prima la foglia, sì mandano a cogliere di mano in mano che si vogliono mangiare, senza tenerle fra la paglia, ove in luogo caldo et asciutto si tengono a maturare e conservare, colte da mezzodì in là, in dì sereno, e vi si deono por sopra che luna non tocchi l altra; e mezzo mature così colte, tuffate nell’ acqua salmastra o fatta artifiziata co ’1 sale, fredda, anzi tenu- tevi in macero per cinque dì, di poi spesso vi si intinghino, sin che le stieno a galla; e si conserveranno di poi sopra tavole in luogo asciutto; e nel mele, nella sapa e nella posca, se alquanto monta che mature le vi si mettino, e coperte con quel cuoio che a loro sì mangia e alle castagne si getta via, sì manterranno. Truovasi scritto, che pigliando le cime del pesco in marza e annestandole nella spina grande, la (1) rubo, scritto sopra. 502 quale somiglia nel legno e nella buccia il faggio, e perciò sì domanda spina faggiana, nasceranno nespole che faranno frutto maggiore e megliore del suo proprio naturale. Il legname del nespolo secco con la scorza et all’ umido in tempo molto perché non fenda, o tenuto nell'acqua assai, è vantaggiato a tutti i lavori da tornio, et il salvatico a’ razzi delle ruote et a’ venabuli, e le sue vermene son buone per scurisce per i cavallerizzi a addestrare i cavalli, come d’ olmo. Il Nocciuolo, chiamato Corilo, fa in ogni aere, sito e luogo, come quello che non rifugge i più aspri siti dell’alpe. Venne di Ponto in Asia et in Grecia, perciò sono dette noci pon- tiche, e s appellano ancora noci avellane. I Greci le nominano heracliotiche e leuptocarie. Ne sono di due ragioni: alcuni che fanno le nocciuole lunghe rosse, e bianche e rotonde, ambedue torretine. Delle prenestine fa men- zione Catone, e che si conservano verdi riposte in pentole ben chiuse. Queste son coperte di tenera barba, la sua guscia e ’1 nocciolo è sodo e rotondo. E le salvatiche ancora sono commestibili, più piccole delle domestiche; e ne sono delle rosse e delle bianche, sì come si truova della lambrusca nera e della bianca naturalissima; et insetati tutti si migliorano. I rotondi, o piantati o seminati al tempo che quelli altri, e nati cresceranno e piantati pren- deranno augumento più presto di loro. Si semi- nano le nocciuole o intere ammollite nell’ acqua schietta per sei o sette dì, o intere schiacciate senza danneggiare l anima loro, seminandole 503 così acciaccate, o involte in lana o bambagia sottile o con carta molle in terreno trito mi- nuto e ben sotto lavorato, adacquandole qualche volta, né pit ricoprendole di tre o quattro diti, et anco meno, tanto che naschino; di poi pro- curandogli, col tenere nette le barbe loro tene- rette dall’ erbe, in capo a tre anni si traspian- tino a dove hanno a stare, in fosse profonde o buche grandi simili o in divelto, in luogo di valle o collina piegata o costa o pianura, tutto scoperto all’ aere, di terreno magro, umido, freddo et anco sabbionoso e presso all’ acqua. Patiscono ancora, allignandosi nell’ alpi et aspri monti, i sassi, i geli, i ghiacci e le nevi. I sal- vatichi trasposti in luogo di lor terreno, si fanno più belli. Deono i nocciuoli potarsi qual- che volta quando si veggono imboschiti folti, allargandogli bene di rami, levando i fruscoliì et aprendogli all’ aere et al sole dentro. Fanno dei rimettiticci al piè senza numero: questi cavati con diligenza s attaccano bene, spiccati con del vecchio e barbe dalla madre. Non sì piantino tra le viti, ché di questi sono micidiali le barbe loro e l’ ombra, e stiano lontani l uno dall’ altro dodici o i braccia. Ancora [s attacca] di ramo ragionevole e piantone, cac- ciandone una parte ben sotto e coricandone una parte ben stesa nel fondo della fossa, fra terra trita e cotta, avendo intaccata questa parte sino in su ’1 legno con tre o quattro tacche in altrettanti luoghi, perché di quivi possi muovere le barbe; né sia ramo troppo nuovo, ma che di questo e del vecchio parte- cipi; e se sia piantone, sì stacchi con esso. Né 504 sì riempia a un tratto la fossa, ma a poco è& poco, perchè più riceva e vi si fermi V acqua che piove, non avendo altro modo di potere adacquare. In questa maniera non s appicca così agevole, ma quando avviene, riescono gli arbori più belli e migliori i frutti, si come di tutti quelli che si possono piantare a piantone o a ramo, che sempre sì perfezionano. Ma perché e’ si riesca al sicuro, cala in terra pian piano e con destrezza il più vegnente e più propinquo a essa ramo del nocciuolo, 0 pro- paggina al piè, ricoprendo i suoi polloni con molta terra, torcendogli in arco sotto il ter- reno, e fatta che averanno la radice, taglia e pianta. Seminagli di ottobre e di novembre, se 1 luogo è caldo, e se è freddo, di febbraio o marzo; e di ramo ancora o barbate di marzo si possono porre; e le rotte co ’1 guscio semi- nansi tuttavia di febbraio sino a mezzo marzo, e non mai avanti l inverno. Desiderano d’ essere zappati ogni anno e sradicati i polloni, se non se quelli che tu averai deliberato di piantare, i quali sì strofinano levando lor quella peluria in squamme che hanno, riducendogli dilicati. Farannosi i nocciuoli più abbondanti a sca- pezzar loro tutte le messe dei rami, deciman- dogli col pennato. $S' insetano a scudetto o a bucciuolo in loro medesimi, et a marza tra loro istessi s' appiccano. Ricevono i persichi, i quali come sopra i mandorli raddoppiano il frutto, e le marze poi tolte da questi assai più ne produrranno. Il legname del nocciuolo e fresco e secco, ma più verde che secco, ridotto con la pialla in brucioli o col tornio in tri- 505 tume, posto nel vino mentre ancor bolle, più che poi quando ha finito di bollire, schiarisce il vino, dagli buon picco e frizzante. Fa buona macchia intorno alle vigne tenuto basso, ma conviene farla un po’ discosto da loro; e farà le nocciuole. Fa bene ancora lungo le mura degli orti e di casa, perche ama l uggia come il sambuco. È stato osservato che gli è tanta simpatia del nocciuolo con i metalli, che le sue bacchette diritte, portandovisi sopra, subito si pieghino, a tal che questo sia un indizio dei metalli ascosti quivi; in tutto il rimanente dei luoghi, diritti sempre stanno; e ben si sa che i carboni del noccinolo pesti condiscono per un terzo il salnitro e zolfo che va a far la polvere dell’ artiglierie. Le serpi tocche co ’1 legno del nocciuolo intormentiscono, e ferite con questo aguzzo più tosto muoiono. S' affanno i noc- ciuoli piantati per le ragnaie lungo i fossati, e fanno, per il tempo che dura loro la foglia, vaga, graziosa e fresca spalliera, piantati fondi rasente il muro e tirati su diritti con ogni lor ramo e foglia. Si conservano le nocciuole in luogo asciutto ravviluppate fra le foglie di lor medesime, e nei coppi dove sia stato l’ olio ben chiusi. Ma in questi le mandorle e le noci, secche che elle sono, in luogo asciutto, e stese in monte o su per tavole, si conservano bene. Ma l'altre frutte di peri e meli, peri cotogni, granati e simili, vogliono essere disposte in lati separati et appartati, secchi et asciutti, dove s acconcino tavole ai legni fitti nel muro che elle vi si possino stendere su, perché non diven- tino viete, guaste e marcie, quando sieno prima 506 state al vento tramontano due o tre di, et abbino lasciato l umore. Stanno bene ancora a conservarsi in luogo che sia e freddo e secco, dove non giunga fumo o cattivo odore; imper- ciò chi inecrostasse le mura delle stanze da tener le frutte, di marmo, come facevano gli antichi, e con il pavimento di marmo, non farìia che bene per conservarle, perciocché quando il caldo le matura, raccoglie la fer- mezza dell’ aere et asciuga le vene naturali con i fervidi vapori; e la parte di tramontana di niun tempo patisce mutarsi, ma di perpetuo è ferma et immutabile. Imperciò Vitruvio com- menda che le si tenghino da quella banda di casa ove possì il tramontano assai, con le spalle opposte a mezzodì et al sole. Scrivono i Greci, a Micalesia città in Beozia lungo il mare essere bastate le frutte intere e sane da un anno all’ altro in su l'arbore. Si deono man- giare le nocciuole abbrustolate al fuoco; et in qualunque modo usate in cibo con poco vino, con biscotto o pane arrostito, giovano a stre- mare la estrema grassezza del corpo. Il Noce tra i domestichi arbori è in questo quasi che singulare, che non si truova il noce salvatico. Può bene insalvatichire negli aspri monti e salvatiche selve, con fare i frutti minori et esservi egli più squallido e scabroso, ma che salvatichi se ne ritruovi questo non è. Dome- stico nasce, cresce, vive e muore, 7uglande detto, quasi ghianda di Giove o perchè giovi, se ben altri tengono che noce da nuocere s' addomandi, perciocche l ombra sua è a tutte le cose nociva, 507 e ’1 dormirvi sotto intormentisce le membra e fa dolor di capo poco manco che ’1 tasso, e le sue foglie prima che sieno marcite nocciono ai seminati, si come egli istesso se questi ricuopre. Noce greco ancora si chiama e regale, perché dai re fu di Persia trasportatovi; onde son dette ancora le pesche noci e le pesche man- dorle che son diverse, queste co ’1 mallo pelose, quelle liscie e con mallo commestibile come le pesche, delicate, rubiconde. Nella noce ha la natura ordinata un’ altra singularità, che ha la coperta del suo tenerume distinto sopra in quattro spicchi divisi da una certa mem- brana cartilaginosa, spartita in due pezzi che sì commettono come incollati insieme. Tutte l'altre frutte hanno l'osso o nocciolo d’ un pezzo solo intero e sano. Il noce viene adagio e dura assai, non vuole essere tocco né potato, ma divenuto vecchio scapezzato a capitozza mette gran polloni e quasi ringiovanisce ; nel rimanente s' ha a lasciar fare senza toccarlo alla natura. Con tutto ciò quanto più sono bat- tuti e percossi e scamozzi i rami suoi, quando si battono con le pertiche le noci, tanto più ne produce l anno a venire, e perciò molti savia- mente, sapendo la sua condizione, conficcano in su 1 bastone dei chiodi, sbattendo con essi. Ebbero in pregio gli antichi le noci basiliche, galbe, calve, tasie et albese e le tarentine, e fra queste le molluscule, che sì schiacciano con le dita agevolmente, come le mandorle schiac- ciatoie, delle quali se ne ritruovano in Candia e piantate in Italia non tralignano. A Preneste (') (1) Palestrina, scritto sopra. 508 eran noci assai, ma piccole, e queste son più saporite dell’ altre e meglio a mangiare. In Inghilterra nascono grossissime, e piantate in Italia in luoghi buoni fan grosse come quivi, ma dentro riescono poco piene o del tutto vane o bacate. Le noci tarentine son dette da Taranto castello di Napoli, delle quali alcune sono dette moracie e moracelle, dure di guscio: 1 altre mezzanamente grandi, e son dette molluscule dal lor guscio tenero e frale, volendo dire in lingua salina Taranto, molle e tenero. E si può ancora, scrivono, con arte far la noce tarentina in questo modo: nella fossa dove averai desti- nato di seminare la noce, poni terriccio minuto buono altovi un piede e mezzo, et in su quel suolo semina un seme d'una ferula; come la ferula sia nata, sfendila, (aspettando che sia tanto ingrossata che vi cappia), e poni in quel fesso una noce senza il suo guscio, che stia dove la midolla, e così tutto sotterrerai e nascerà poi tale; così si fa nelle canneggie alle nocciuole et alle mandorle, e sì scapezza la can- neggia e la ferula; et un arbore grande di noce che facci frutto, volendo mutarlo in tarentino, s annaffi per un anno intero tre volte il mese con la liscìa. Nascono i noci per lo più piantati dagli uccelli, e lasciati stare a dove nascono fanno meglio; ma volendo traspiantargli, faccisiì quando hanno tre anni, e di dieci chi gli ha trapiantati, gli han fatto bene. Ma come sì sia, quando tu gli trapianterai, avvertisci quando gli cavi a non rompere loro la fittagnola, che ti farà sempre le noci guaste e bacate. 909 Ama terra grassa e sciolta e ben fondata, né rifugge la secca, non teme il freddo, allegrasi nei monti e nelle profonde valli, dove gli coli assai grassume al piede: ha in odio l acque stagnanti che se li fermino al piede, si diletta delle correnti e dei rii che gli corrino appresso. Farà ancora nei luoghi cretosi e magri, cac- ciandogli assai terra buona ai piedi che fasci le sue barbe e rinvesta, alta per tutto un palmo, si che non tocchi da principio la creta, nelle gran buche o fosse o divelti che sien perciò fatti profondi. Conviene adacquargli tanto che s'attacchino nei luoghi caldi, che con questo si mantengono; nel piani grassi et umidi e fondati ove perciò non sieno noiati da acque, vengono i noci sfoggiatissimi, sempre più fertili nella parte più bassa che verso la cima. Scri- vono di gran nimicizia tra 1 noce e la quercia, si che postogli appresso si secchi, se ben con il tempo si muti in quercia; cosa troppo favolosa e piena di menzogna, lontanissima dall’ ordine della natura. Vogliono alcuni, che piantati che sieno s' adacquino in modo che non gli manchi l'umore, né che stiano troppo umidi, che Y uno el Ito gli danneggia. Si possono ancora pian- tare i rami, scoscendendogli con del vecchio dal tronco o dagli altri rami a primavera, ai quali si dee molto ben prima percuotere quella scheggia di scorze che si stacca co ’l ramo, punteggiarla et intaccarla con un coltello, di poi piantargli ben sotto in divelto, fossa 0 buca fonda, mettendo lor sopra buona terra cotta e calcandola con discrezione, scapezzandogli sopra terra un braccio; e di tal grossezza sia il ramo 510 da piantarsi, et in terreno caldo sì facci di febbraio, adacquando sempre se vedi asciutto; di novembre si può far ciò anco nel freddo; e così attaccandosi cresce e viene innanzi più presto; e ponendosi di noce sia di buona razza. E' si può metter la noce in terra dal tempo che si sono raccolte le noci mature a gennaio e febbraio, di questi due mesi ponendole, se il . paese è freddo, e se è caldo, di novembre; e quelle che di questi tempi s° hanno a piantare, bisogna per quattro o cinque dì prima tenerle al sole, e poi un dì solo intero nell'acqua; e ponendosi per non Vl aver più a levare, riem- piasi mezza la fossa o buca, o sì facci la buca un braccio e mezzo nel divelto, e in su quel fondo si metta la noce con la punta d’ essa volta verso Aquilone, e lei a giacere con le sue commessure dal guscio sano, con sotto un coccio o una pietra, perche abbi causa, nata, di spargere le radici, e cuoprasi di terra minuta quattro o cinque diti; e venendo a crescere, si rincalzi di mano in mano di terra. Ma doven- dosi traspiantare, semininsi in un luogo lavo- rato minuto, ancora senza tenerle al sole, sola- mente facendole stare per un dì e per una notte nell'acqua semplice in macero. Ma me- glior pruova che i seminati fanno i tolti a caso alla campagna, fatti nascere per opera delle cornacchie o altri uccelli che in volando se li sien lasciati cader di bocca, o in stuzzicando e bezzicando su per i noci l’ abbino fatte venire in terra. La noce, con tutto ciò, che tu hai a porre, meglio crescerà e verrà innanzi e nascerà, se nell’orina d'un putto vergine l’averai prima 5II tenuta in macero per quattro o cinque di, e più lietamente ancora se più volte sia tra- spiantata. E si deono piantare i noci lontani da tutti gli altri arbori per difesa loro dai venti così per fianco fuora via e non mai fra gli altri, perche la sua ombra s' allarga assai, et è lor nocevole, come le gocciole che cascano sopra qualunque cosa delle sue foglie, le quali anco fanno danno a lor medesime: e nei luoghi freddi si traspiantino di due anni, e nei caldi e temperati di tre, impiastrando loro le barbe di sotto con letame liquido di buoi, o vero spargasi nelle buche della cenere nei luoghi freddi, e nei caldi della creta o sabbia; et in tutti i modi la cenere, datagli abbondantemente e postagli al piede e alle barbe, lo farà più fertile e più tenera la noce di scorza; e tanto farà cacciandogli nel tronco dal calcio un subbio d’ arcipresso o altro palo di legno che arrivi sino alla midolla; e se scalzati avanti mandin fuori il lor fiore, si getterà alle loro radici dell’acqua calda, farà le noci più tenere. E bucando con ferro che passi, e cacciandovi un conio d’'olmo che vi suggelli nel tronco, medesimamente le rintenerirà, né farà le noci cascole, appiccandovi sopra un panno rosso che sia stato nel letame, o la barba del verbasco in cambio di difesa ('); et a volere che il loro guscio sla rintenerito, quando sì seminano schiaccinsi con tanta destrezza che non s offenda il di dentro; e questo si rinvolga in foglie di pla- tano, di vite, o carta molle o lana gentile, e si ricuopra con terra a quel modo. (1) appellato vice, pare scritto sopra. 512 Non ama il noce di essere scabrato o zap- pato o vangato al piede che da piccolo. Ingros- seranno in certo tempo le noci, se da dove mette i rami in su ’l tronco lo sfenderai sino a terra, non intaccando il legno nella corteccia sola da quattro lati; e questo gli gioverà ancora che non si voti o guasti il legno del gambo del noce per altro tempo, e facendogli un canale da alto a basso per la buccia volto al sole et ai venti, lo farà durar più; e se facci troppo ronchiosa o dura la noce, intacca la corteccia intorno al gambo in giro, che scolerà il cattivo umore. Ha insegnato l’ esperienza essersi attaccato il noce nel terebinto e nel pistacchio, et esservi sopra divenuto di maggior grandezza che non è la sua razza. Il terebinto e il pistacchio rice- vono adunque la marza del noce, e se non sempre ciò sortisca, non è da perdervi la fede, ma con un poco di diligenza, se ben difficile, s' afferra. Conviene seminare il noce, e come egli abbi due o tre anni si dee sbarbare affatto con tutte le radici e nella fittagnola cacciare la marza che incarni e di nuovo ripiantarlo, e si vedrà l uno e l’altro appiccato insiememente venire innanzi; o veramente eleggasi un ra- metto d'un anno e rivoltisi, et insetato dili- gentemente si leghi con salce. Piglisi una noce e da ogni parte se gli rompa il guscio per modo che non si guastino punto gli spicchi che sono dentro, e con gran cura appresso @ questo si cavino quei frammenti legnosi che sono tra spicchio e spicchio, dipoi involta questa noce in foglio bagnato o pannolino fradicio gentile, perché le formiche non lo mangino, e 515 seminisi come di sopra; e nasceranno, scrivono i Greci, le noci ignude e senza mallo di sorte alcuna. Ancora affermano che se sia uno che da per se mastichi delle lenti, essendo digiuno, e mentre che ancora, senza averlo mandato giù, mastica questo boccone, quando le noci sono in fiore morsicchi un di quei rami, si sec- cherà l arbore e marcirà; ancora verrà meno se se gli caccierà nelle radici un granel di lente che abbruci, e se avendo forato ’1 tronco a traverso, vorinerà dentro un fanciullo; 0 se alcuno avendoli scalzata la radice vi metterà del dittamo, delle fave, o un panno mestruato di donna, diventerà larbore secco et andrà via. Ciascheduna noce da prima mette una sola radice e con questa sola cammina all ingiù; come arriva al fondo della fossa, ribattuta dalla durezza della terra si ritorce, e da sommo manda fuori da due rami tutte due le radici. Le noci che s' hanno a eleggere per seminare sien salde e di buona proporzione, perche le grandi e grosse non profittan bene; pesanti, liscie, ben fatte e mature. Pruova il noce bene annestato in sè medesimo a marza di marzo, et a bucciuolo un poco più tardi, d’ aprile, quando si stacca la buccia; et allora si può annestare in sui nocciuoli et in sui castagni, e così per contrario, a bucciuolo più che a marza. Gli antichi credettero un tempo che non ricevesse il noce inseto in alcun modo, come tutti gli arbori di ragia non lo ricevono, tra i quali pur s'è visto per un poco il pino aver accet- tato il nespolo. Ma i Greci l insetarono, si come sì può vedere; ma son pruove così fatte per 33 DI4 un bel vedere, ma non da farne incetta. Certa cosa è ancora che in quello di Genova fu inse- tato un noce presso alla città d’ una marza d'ulivo e tenne per un pezzo: e di vero che fra l'ulivo et il noce vi è gran conformità delle scorze, ma bisogna poi che s accozzi la qualità del paese temperato e d’ aere mite che si confacci all’ uno et all’ altro, perche non in ogni luogo e non d'ogni sito riescono, ne ad ognuno, questi inseti. Quando il mallo della noce si stacca dal guscio, allora è segno che ella è fatta e matura, il che è all’ autunno, nel qual tempo colte sbatacchiando i rami, s' am- montino insieme al sole e così riscaldate fra loro e da quello si staccherà il mallo; di poi smallate si tenghino quattro dì al medesimo sole e di quivi sì portino in una stanza in palco asciutta e si conserveranno; e nell’ arena sì manterranno per un pezzo come fresche, come colte allora, ma più tempo, messe in un vaso ben turato in bocca e sotterrate, o messe in una brocca impeciata in bocca posta in fondo del pozzo. Conservansi comodamente nella paglia e più nelle sue foglie secche all’ uggia, et in una cassa che sia fatta tutta del lor legno medesimo; mesticate ancora tra le cipolle ba- stano assai, alle quali stando insieme leveranno il fortore. Se subito colte le noci e schiacciate senza guscio sì comporranno nel mele buono in un vaso di sopra ben riserrato, in capo a un anno saranno listesse, et si farà il mele buono alla gola e alle arterie. Ancora secche, tenute nell'acqua chiara, mutandole ogni dì per tre dì, si monderanno i suoi spicchi ritor- 515 nati freschi. Le noci che appariscono nere di fuori, smallate, lavate con acqua salata torne- ranno bianche; le abbrustolate nutriscono meno e mangiate all ultimo incitano a bere. Con la corteccia del noce, massime quella delle barbe, si tingono le lane et i capelli di natura rossi. Fassene olio e schiacciate, poste nelle gabbie sotto lo strettoio. E grave allo stomaco. Ai panni e alle lane fa buono effetto, e per ardere. Il legname del noce è ottimo a tutti i lavori e coperti e scoperti, et all’ intaglio ancor che minuto regge con lo scarpello. Segasi in pan- coni grossi, e questi sotterrati sotto la mota 0 presso all'acqua o sotto i vivai, in capo a tre anni et asciutti si lavorano, avendo preso buon colore, e seuoprono belle vene e marezzi secondo i paesi, come a Napoli e Bologna et in Spagna, ove :son noci che aprono di tavole nel mezzo tre braccia; come ne fu uno al Borgo San Sepolcro. E tra i domestichi arbori questo e ’l ‘astagno crescono et ingrossano più di tutti gli altri. Le travi di noce avanti che sien per rompersi danno un cricchio, come fu nel bagno a Antandro. Dell Olmo se ben si truova chi ne scrive di quattro sorte, tuttavia si riduce a due, mon- tano e campestre. Questo si dilata e cresce fuor di modo in alto, l altro più corto e per tutti i versi di minore grandezza; domestico quello, questo salvatico. Altri tengono tutte queste particolarità a contrario l uno dell’ altro. Come si sia, l olmo marito, detto attinio, perché alle viti è sommamente comodo, diremo che sia il 516 minore; Vl altro chiaman gallico, eccelsissimo, detto francioso; e TY olmo naturale, il simile; et ottimi per vinciglie e per scamati da ma- neggiare cavalli i suoi rimettiticci che egli fa, tagliatigli i rami. Questa pianta e gene- rosa e lieta produce assai fronde e poco seme: di qui s' è creduto da molti che sia sterile, perché il seme nel primo germinar delle foglie sotto quelle e tra esse si nasconde; ne sono tra questi i seccagni che non ricercano acqua. L'altra sorte è 1 olmo naturale comune per tutto, che ha la foglia un po’ più divisa, ma tutta addentellata minutissimamente, e dal me- desimo picciuolo quella multiplicata, buona al pascolo dei buoi, capre e pecore, dopo quella che è migliore come più grande. Godesi meno dei luoghi montuosi, ma si bene delle acque con le quali s' annaffi o che gli corrino al piede. E vero che la Spagna per la rarissima pioggia che vi è (passando tal’ otta un anno che non vi piove) viene ricompensata dalle grosse bri- nate e dall’ umidezza e freschezza naturale delle notti nei tempi caldi, ma queste non bastano a far belle e vigorose piante degli olmi, poiché alla lunga e larga viottola che va diritta allo Scuriale, guarnita di grandissimo numero di quà e di là, è salariato uno che di continuo giornalmente gli annaffia, derivando solchi d’acqua pieni dal vicin fiume, dal che si cognosce espressamente la differenza che è in loro da innaffiargli a non dar loro acqua; è ben vero che adulti, cioè carichi d’ anni, non n hanno più di bisogno, divenuti a quel- l'ampiezza massima che se ne veggiono molti; 517 Ma annosissimi sono e grandissimi e grossis- simi quelli della piazza dell’ antica Fiesole, che per memoria d’ uomini, passata per le mani e memoria dell'uno nell’ altro, valicano di gran lunga un mezzo migliaio d’ anni; et uno anti- chissimo ne è lungo la Sonna in Lione di Francia, di mirabil procerità, che serve per campanile a una chiesa con molte che vi sono campane attaccate. E openione che l olmo aggiovi e nutrisca la vite, ma bisogna che discosta dal suo piede piantata vi saglia sopra, che allora non sendo offesa dall’ intricate radici dell’ olmo, s accompagnerà seco più volentieri, tenendo poi l'arbore aperto al sole e povero di rami. Così lama per marito la vite et in tanto amandolo, che per foro innestatavi come sì disse nel ciriegio in se stesso, nutricandola la mantenghi con fargli fare il suo frutto. Desiderano ambedue terreno grasso e di tempe- rata umidità; né rifiuta l olmo la creta o terra soluta. Si raccoglie la samara, che così in latino s appella il suo seme che nasce su le frondi, dando, come s’ è detto, nella prima messa fuori a calen di marzo 0 poco dopo, secondo il paese, quando comincia a ingiallare, Columella dice rosseggiare; di poi tenuto all’ uggia per due dì, Columella dice al sole, sì che non secchi, sì getti in terreno acconcio come si disse dei mori, e si ricuopra leggermente due diti con terra grassa, putrida, letamata, crivellata minu- tissimamente, cuoprisi quivi poi con robaccia o stuore, e non piovendo vi si spruzzi sopra dell’acqua piuttosto che s adacqui, e si netti dall’ erbe; e così si facci, cavata la coperta DIS quando saranno nati; e cresciuti un braccio e mezzo si trapiantino all’ ottobre ove hanno a stare, in terreno divelto, fosse o buche spaziose e profonde, eleggendo il tempo asciutto e gior- nata buona. E volendo indugiare a trasporgli di primavera, bisogna avvertire di farlo innanzi che movendo si sbuccino le barbe, le quali, perché crescono assai abbracciando del paese, sì deono sempre i nati di seme traspiantare di buon’ ora; e cresciuti di cinque anni, se gli dee porre le viti accosto un braccio o un braccio e mezzo, di pari età, perche la vecchia lo secca e l’uguale vive insieme e cresce e gli giova, non come il salcio o la vetrice che fa nocimento al vino; non già l albero o 1 pioppo; se gli dà allora creanza d’ alto o basso secondo che richiede la natura del paese, qualità del sito e terreno, perché in monte vuole essere meno alto, e in piano si può crescergli i palchi secondo l augumento della vite, alla quale lascierai sempre i capi principali che superino di sopra l olmo. E così fanno a tutte le sorte di viti che sieno accomodate a andare sopra a qual si vogli arbore, rastremandogli le messe et i rami, allargandolo bene in mezzo, accomo- dandolo di maniera che la vite apparisca sempre dominante padrona dell’ arbore, e massime sopra l’olmo che fa gran messe e pullula tuttavia sopra di nuovo. Ma è più util cosa e non punto fallace piantare gli olmi mariti nell’ autunno, perchè non hanno seme: e si pongono con pianta di radice, togliendogli dal calcio del l’olmo, di quelli che sien nati dalle sue barbe i più lontani, o vero dai boschi, nei quali ne 519 sono molti, che ’1 terreno gli produce da per se. In alcuni luoghi si pongono a marza, tolte dai più vegnenti rami, cacciandogli nelle fosse, come si disse dei mori; e ripropagginando i suoi rami si multiplicheranno tuttavia a far nuove piante per riporre; et altrettanto sì può fare ne’ frassineti. Scrivono che riceve 1 olmo d'inseto il moro, ma sì va a perdita manifesta, perdendovi su di bontà la sua foglia. Produce l’olmo un uva e gomma, massime in Corito monte di Sicilia, ma non è d’ uso utile alcuno, se bene le sue foglie tenere, quando da prima dan fuori, cotte a modo degli spinaci, si man- giano come l'altre erbe, né sono d’ insipido sapore. Volendo nei campi sementare fra gli olmi con potervi arare, ponghinsi lontani Y uno dall’ altro quaranta braccia, perché sfrutta, con- suma e si dilata assai e fa uggia fitta e soda per la foglia, che ha tanto serrata insieme et abbondante, che occupa e danneggia, tenendo a dietro tutto quello che gli è sotto e d’ attorno; e si formino di maniera i rami che l uno riscontri nel vano e non sia opposto all’ altro; e quando l olmo invecchia scavisi ove sì guasta vicino alla midolla, in modo che scoli Vl umor cattivo e ritorni sano. Zappisigli di continuo 0 vanghi attorno e si procuri di sfrondarlo senza danno della vite; piuttosto se gli scemi la ma- teria co ’1 pennato per i bestiami. Gli olmi nati alla campagna si traspiantino grossi quanto è il braccio nel polso, scapezzandoli bene alti con due forcelle o tre, che così non patiranno: e quanto l uomo è grosso, cavato con dili- genza con le sue barbe senza la botte, s' appic- 520 cherà felicemente, avendone fatte capitozze : ma sopravvenendo caldo adacquisi copiosa- mente. Si rivoltano tutte le foglie ad una ad una all’ olmo subito dopo ’1 solstizio, il che mostra che gli è passato. Il suo legname è tutto di serrato e sodo midollo. Basta all’ aere come la quercia, e nell’ acqua è eterno, buono per ruote di carri e per mozzi e per sale e forche. È legname che tiene il fermo, sodo e forte, buono per travi, per viti da strettoi e panconi da ogni uso e stegolati e burie et anelle da gioghi, durabilissimo per porte, all'acqua et a’ vendi resiste voltando le sue asse capo pie nei lavori ritti, et in questi cioè che sì ponghi la cima verso terra et il calcio all’ aere. Le foglie dell’ olmo poste sopra a ferite che non penetrino molto a dentro, pestate e messe sopravi fasciate, le sanano. L' Orno da Columella è chiamato ’1 frassino selvaggio. È arbore assai grande, con pulito pedale, di corteccia leggiera e serrato di foglie, quasi simile al frassino, a tal che tutto rassem- bra LV aborniello, del quale s' è scritto di sopra in questa parte. L' Ontano, detto dai Latini alno, ama tanto l'umidità e la frescura dell’ acqua, che cresce ne pantani e sta volentieri rasente le ripe dei fiumi e sostiene tuttavia l’acqua stagnante attorno, si come posto per palo a fondamenti nell'acqua, dura eternamente; fuori vien meno in breve tempo, ma è legname sodo da soste- nere importantissimo peso; per i fondi di nave è | 921 e squeri che van sott'acqua dura assai et è buono. Nasce di seme da sé stesso cascando in terra, et ancora raccolto quando è maturo può seminarsi in terreno umido; ma meglio è tra- piantare dei nati in luoghi acquidrinosi, per aver l uso del legname e bella verdura, avendo egli le foglie alla foggia e quasi grandi quanto quelle del nocciuolo. Riceve in sé, se si facci l’innesto sotto la terra, l'inseto del pero a marza, osservando di farlo quando è in’ succhio. La sua corteccia s adopra a tignere i cuoi. Fa il suo seme nell'autunno, avendo prima fatti i suoi fiori. Aristotile scrive come per miracolo eli alni nella sola isola di Candia non essere sterili; nelle nostre bande per certo non porta frutto alcuno; i suoi rami son buoni a far pali per le viti. Truovasi il tubero ancora nell’ alno, ma tanto più cattivo, quanto è differente dal cedro e dall’ acero l’ alno, a tal che i tuberi dell’ alno non sono in prezzo. Sono in stima quelli dell’ acero e del carpino, e più quelli dell’ acero, del quale gli uni e gli altri hanno il brusco e 1 mollusco, ma il brusco ha più ritortole e più crespo, il mollusco più semplice e più sparso, e se e’ capisse la larghezza delle tavole da mangiare avanzerebbe il cedro; serve con tutto ciò a tarsie et a tavolini. È il tubero vizio delle radici degli arbori e grandemente è appruovato quello che sotto terra sì ritruova, il che è più raro, e non tanto per la rarità quanto per la degnità della sua bellezza è apprezzato. Sopra la terra ancora e nei rami si genera più spesso, e tanto più si compera quanto è maggiore. Ne sono altro i tuberi degli 599 22 arbori che a similitudine di ghiande di carne et a un certo esempio di nocchio serrato, et in- somma una nodosa parte tutta insieme ristretta e riserrata, tutta nodo apparente di dentro non solamente, ma ancora di fuori, più dura, soda, densa e stivata insieme di tutte l’ altre parti: né in essi è né polpa né vena, come un callo di carne ravvolto in sé stesso. Apprezzatissimi sono nel cedro, tanto sono i nodi dell’ abeto, e nodi e gruppi e marezzi e mascherozzi di legname ss addomandino, per commetter in tavole o studioli di legname, et in tarsie di sottile e bel lavoro. ]l Pero, si come il melo, si ritruova dome- stico e salvatico e di tutte sorte, credo io ; come dell’ uve, quanti paesi. Imperciò tutti ad uno ad uno richieggiono la medesima coltiva- zione e governo; solamente alcune sorte ne sono che desiderano differente sito e talora differenziata qualità di terreno; e molte volte di più razze traportandone in un sol paese, tutte le fanno, se non così bene come nel lor natio, almeno rappresentano la forma della razza di quella spezie e talora gli stessi pomi e di grandezza e fazione uguali, se non di sapor pari. Onde è che aviamo vedute in Italia pere di Polonia, di Costantinopoli e di Francia, le tanto menzionate e tanto miracolose pere foglie, le quali sono così fatte che nella propria carne della pera rasente il piccollo hanno di piccole foglie una corona, e le pere della Miran- dola, le quali di grossezza e grandezza avan- zano tutte l altre che si ritruovano, poiché io 523 ne ho avuto di quelle che non avendo rifug- gito i lor peri i luoghi piani e grassi, hanno passate trentadue e trentatré oncie; le pere bergamotte che chiamate pere del Signore, trasportate dalla Natolia hanno benissimo alli- gnato nelle parti di qui, che sono di gentilis- simo e delicato sugo per la stagione dell’ in- verno; imperciò quelle che io soglio addoman- dare le pere bergamotte dell’ estate, sono le bugiarde pistolesi, e veramente così, perché hanno di estate l istessa suavità di sapore che quelle d'inverno, e queste vengono di state; al mezzo come al principio d’ essa le che sono primaticcie, giugnole, di più sorte, piccole e grossette; accanto le quali e con quelle a un’ otta le moscadelle et un poco poi dopo le moscadellone; et in ogni mese che segue si può mutare non solo una sorte, ma più sorte di pere che maturano di tempo in tempo, sempre più d’ una sorte, anzi molte sorti insieme. E per l'estate ancora, le diacciuole, tanto suavi e sugose, le spine, le cipollone e le limone, le carovelle bianche e nere, le buone cristiane, le pere roggie d’ ogni fitta) le bugiarde, le zuc- cherine, “lo limone, le rosselline, le campane, le sorbe, le pere coscie di monache, le cosime, le gentili, le sozze, brutte buone, sanfriane, stroz- zatoi, sanmarine e sammartine, le garzignuole, le romane tanto piene di succhio e che bastano ; le bronche che durano tutto l anno e non sono in perfezione se non come comincia a riscal- dare Vl aere; le rosselle e le papali che son grosse e grandi e vogliono essere mangiate presto, di buon sugo e sapore; le verdone grosse tonde che non maturano mai che in su la paglia e sì cogliono al fine dell’ autunno, buone cotte anzi che crude, come molte sorte delle dure e sode, che son piuttosto medesimamente buone cotte che crude, come molte sorte addotte qui d’ Alemagna e d’ Ungheria, di Francia le lionesi e di Polonia le polacche e di Dacia e d’ Inghil- terra e le turche e di molti altri paesi che a noì mutan nome, e sì chiamano secondo i paesi variatamente; ma le dette sono veramente le principali. Deesi soprattutto osservar questo, che le statereccie sì ponghino tuttavia nei lati più freddi e volti a tramontana, se bene tutti i peri sono di natura di amare più il freddo che il caldo; et in quei luoghi che sono più freddi e che vi tiri anco del vento fanno meglio pruova e più frutto, desiderando sempre d’ es- sere nelle radici dei monti, nelle coste delle alli et in poggio, piuttosto che nei piani; avverto che in questi ancora fanno, ma con più belle piante e minor frutto. Non ostante ciò amano terreno grasso e sustanzioso, tutto uguale e di buon fondo, e questo ricercano assai più nei paesi freddi, perciocché nei caldi vogliono terra tenera, leggiera e al tutto priva di umidità, non fangosa e non cretosa, e nei temperati si contentano di mezzana qualità; e se s' appiccheranno ancora nella magra, cretosa, asciutta e gessosa, faranno i frutti piccoli e ronchiosi, et alle tardie gli cascheranno i frutti prima che le conduchino, come nelle acquidri- nose faranno assai men frutti e cattivi. Imper- ciò nel terreno lieto, grasso e dolce staranno 925 le piante sane e produrranno buon frutto, e massime se sieno alle spiaggiate de’ monti o ne piani che danno loro il cominciamento, vicini a essi, che in questi sì mantengono bene e non traligneranno. E ’1 bergamotto più che d’altra sorte et in piano et in poggio non degenererà, provando per tutto, se bene natu- ‘almente ama le valli grasse in lato freddoso, ma che non vi possi molto il vento. Perde facilmente il pero avanti la maturezza il suo frutto ancora che non piova, ma sia nugolo e regni il vento Austro, perde il fiore et i primi frutti; se saranno cosifatti dì, e se orezzi l Austro quando s' aprono i fiori e seguitino accanto le pioggie, in tutto periscono i suoi pomi. Fanno ancora due volte tra i peri quelli che sono pri- maticci. I peri non sono da essere piantati tutti ad un tempo: i lunghetti e rotondi dall’ occaso delle Vergilie sino alla Bruma; tutte l altre sorte dall’ andar sotto la Saetta a mezzo inverno. Dirittamente ancora si piantano i peri nei paesi ‘aldi et asciutti di novembre; e nei freddi, ove si possono adacquare le piante giovini, se ’l caldo poi stringa, di febbraio e marzo; e volendo seminare il seme delle pere mature, lo seminerai come quello delle mele alla prima- vera nei luoghi caldi ove si possino innaffiare, e nei freddi a novembre. Nati, cresciuti, alle- vati e fatti grossi con avergli ben custoditi, come si disse dei meli e noci, in capo a due anni, volendo averne frutto, presto s insetano a marza, cavandola dalla vetta l un dell'altro; o vero si traspiantino più d'una volta et alla terza sì mettino a dove hanno a stare, in 926 divelto, fossa aperta o buca grande, ben lavo- rato in asciutto; e la prima volta si incominci a muovere finito l anno. E volendo ancora più presto vederne il frutto, nati d'un anno si taglino rasente la terra e cavatane dalla più grossa parte una buona marza, s' innesti in sur un pero giovine di buona razza e vegnente 0 in un salvatico ben appiccato, benchè i peri domestichi sopra i domestichi annestati prove- ranno meglio che sopra i salvatichi, si come i meli e susini. I peri volti a tramontana o al Subsolano si avvantaggino a piantare con le radici quindici dì e non più avanti la Bruma: e quelli che sono di razza di maturar le pere presto in su "1 suo arbore, e che sia di questi di natura d’ essere gran piante, come i mosca- delli e tutti i giugnoli, sarà bene che si pian- tino in luoghi freddi al mezzo della primavera, e nei caldi poco innanzi, come nei temperati verso a dove naschi il sole et a tramontana. Volendo far pruova di piantarne a ramo, con- viene scoscendere dei più rigogliosi con un poco del vecchio come si disse del noce, o veramente delle più belle messe giovini di cima e rami che siano dal mezzo in su e con la diligenza posti e procurati che si disse di quello, s appiccheranno. Altri spiccan dal tronco più basso le più belle scytale, ciò è come uovoli, e le piantano come quelle degli ulivi, sì come anco i germogli che talora gli nascono al piede, tanto migliori quanto più discosto averanno pullulato dall’ arbore, si come quelli che dalle radici saranno nati, che non deono avere manco di tre anni, se bene anco di due si posson 527 porre e terranno. Ma a voler venirne in piante da presto fruttificare, vadasi alle selve e cavinsi con diligenza i peri salvatichi grossi quanto un’ asta, di buccia lisci, giovani, non rimessi o vecchiaticci, rigogliosi e sani; e questi si pian- tino a dove hanno a stare, dando loro della terra cotta al piede, et afferrati di due anni s annestino della miglior sorte che si desideri, a marza, di novembre, in luogo caldo, fascian- dogli bene e turandogli con stoppa; e nei freddi a febbraio e marzo. Si possono ancora insetare a piastra et a bucciuolo et a scudetto, di maggio e di giugno: e di marza s' inseta bene in altro. Imperciò così et a coronetta s insetino i peri moscadelli nei peri cotogni, che ingros- seranno î frutti e cresceragli l odore: ancora le pere bronche acquisteranno sopra 1 cotogno; ma bisogna fare linnestatura nei giovini a terra, e di poi traspiantandogli fare andar ben sotto l'innestatura; et insetando a bucciuolo, quello seamozzolo di legno ignudo senza scorza che avanza sopra ’1 bucciuolo conviene ben coprir di cera o altra materia che lo difendi dal sole, il quale lo seccherebbe per altro e sarìa cagione che non s' attaccasse: e tanto si facci a’ fichi et a tutti, eccetto che a’ castagni, i quali, per aver il legname sodo e resistente al caldo e al freddo non ne hanno di bisogno. Ricevono i peri i mandorli di scudetto, per far così. una pruova: ma per allignare le razze meglio, è di melo in pero e così per contrario; e più di tutti è sicuro e buono di pero in pero, e, come si disse, domestico più che salvatico, ma per produrre poco frutto, piccolo e di più 528 sapore. S inseta ancora nel pruno spino, cioé spina bianca o prun bianco, orno, nel noce, nell’ aborniello, nel frassino, nel castagno, nel salcio e nell’ alloro; ma importa tor marze che abbino spuntato e non ch’ altro cominciato a dar fuori il fiore, perche s attacca in ogni modo; e fra scorza e Jegno innestato in sé medesimo, se sia grosso e giovine, di bella buccia e liscia, accetterà in giro sino in tre marze, le quali s' hanno a eleggere vegnenti, rigogliose e gagliarde. Nel pruno bianco fa buona pruova con acquisto di sapore; ma sì sminuisce la pianta. E volendo far peri nani, s annestino in su questi, gastigandogli con il pennato. E tutte le sorte d’odori che se gli ponghino nel modo detto di sopra accettano e rattengono meglio d’ ogni altro frutto, si come più di tutti gli altri frutti desiderano d’ essere scalzati spesso e zappati intorno al piede, e così scavati bramano di star tutta Vl invernata. E se e’ si scalzeranno bene avanti che e’ comin- cino a fiorire, adacquandosi poi quando fiori- scono con acqua mescolata con vino, o vero si riempia quella buca di buona vinaccia, lascian- dosi infradiciar quivi, ratterrà quasi tutti i fiori e condurrà i frutti. Gioveragli se passato l’anno se gli dia qualunque sorte di letame: quello di bue gli crea densi e spessi, et una carogna di bue sotterratagli al piede dalla banda di sopra, se sia in costa, che gli possi calare il succhio alle radici, e se sia in piano, un poco discosto, gli farà bene in accrescer frutto e rigoglio: e tanto farà a tutti gli arbori, e massime agli aranci, sì come ogni bestia 929 morta. Alcuni mescolano co 1 letame da darsi a’ peri della cenere, per acquistar grado al sapore. Nei terreni umidi o che s' adacquino amano d'essere bene letamati; e ne’ terreni asciutti e secchi diasegli cenere e ceneracciolo di bucati pur assai, mettendogli una zeppa di quercia o di faggio nella buca fatta nella radice principale con la trivella gallica, rico- prendo prima con cenere che sopraggiunghino i freddi grandi; produrrà frutti assai e più delicati, et avendo l arbore inclinazione a mar- cirsi, sì ricorreggerà. Facendo il pero i frutti ronchiosi e quasi sassosi, cavisi della terra dalle più basse radici e portisi via con tutte le pietre e pietruzze che vi sì ritruovano, e vi si riponga in cambio terra minuta crivellata o cotta, con adacquare spesso; e diventeranno di miglior tempera. E strofinando le barbe del pero quando si pianta con fiele di bue spremutovi sopra, acquisterà bontà ne’ frutti e gli manterrà, né patiranno i suoi fiori; la messa in che s inseta il pero sia d'un anno, o 1 pollone, e prima che si spicchi dentro si spogli d'ogni foglia e tenerume; e se vorrai che siano i pomi dolci et abbondanti, forerai il tronco appresso terra e vi cacceral un conio che suggellivi appunto, di qualche legno sodo come pino, o tutta cenere, oltre a quello che s' è detto, di faggio o di quercia; insetando il pero nel moro nero, ché così verrà meglio ad attaccarsi, farà le pere rosse. Quelli che sono di razza di fare pere dure et aspre, traspiantandogli in terreni più delicati e morbidi e gentili, s emenderanno dei difetti loro. Ancora, co ’] fiele di toro stro- 34 9530 picciando le radici, e più ammazzando, gli sì vieterà che non gli faccin danno i bachi o i vermini. I bruchi gli danno talora gran danno, al che conviene di riparare con levar via loro certe foglie che gli restano cartocciose e gonfie secche, perche quivi generati al caldo pigliano la via e mangiano tutte le messe tenere dei peri, meli, cotogni e susini; bisogna tagliarle del tutto et abbruciarle. Le pere carovelle così bianche come rossiccie e negreggianti, volendo farle diventare d’ odor di moscadelle in questi nostri paesi e caldi e temperati (perché il pero carovello non pruova che nei freddi e fan più grossi nell’ alpi), piglierai marze da loro di questi luoghi e le annesterai in su ’1 pero moscadello, il quale ti farà le pere del sapore et odore di moscadelle, e verranno un poco prima del solito, né basteranno come le proprie; imperciò bisogna mangiarle dietamente senza serbare. È di mestiero di cor le pere secondo le loro spezie più a buon ora o più tardi, secondo la loro qualità e a mezzo tempo secondo che maturano: e quelle che si vogliono per serbare, eleggonsi delle più sane senza pestarle o percuoterle, e massime le bergamotte, le quali anticipandosi a corle al fin d’ agosto, basteranno più che colte al fin di settembre; imperciò l usanza è di coglierle tra l'una santa Maria e l altra. Ma volendo servirsene in varii tempi, in diversi tempi bisogna corle e porle a serbare in luogo asciutto su per tavole secche, che non si tocchino Vl una Vl altra, e mangiarle di mano in mano che s inteneriscono et imbian- cano di colore, che è il segnale della maturezza 55 loro, perché di raro s aspetta a lasciarle matu- rare in su l’arbore; ma se fosse possibile che Vv aspettassero sopra una brinata, questa sarìa la strada d’ averle stagionate, come le sanfriane che sono di sapore appresso a queste eccellenti, e di sugo e sapore come le bugiarde pistolesi, le buoncristiane e tutte le pere d'inverno. E tutte le dure e le aspre così di queste sorti come delle altre si hanno a mangiare cotte con zucchero o mele o sapa o pur nel forno, poste in tegame senz’ altro semplicemente; ma le moscadelle nel zucchero conservate, bollite prima in giulebbe, sono molto buone e disponi- tive del benefizio del corpo. Deonsi cor le pere a luna scema in giorno asciutto e sereno dal mezzodì a sera e con mano, perché sbattendole sì guastano, e s' avvertisca a non spezzare i rami, i quali son più d'ogni altro arbore fra- gilissimi; coltevi si tenghino al sole per due dì, e distruttavi in su ’l piccollo della pece, s' attac- chino al palco in luogo secco difeso dai venti e serrato bene. Altri le cacciano in sapa, in vin dolco, in passo o mosto, che vi stieno rico- perte nei vasi pieni; molti fra la segatura del- l’arbore di lor medesime sotterrate; altri in un vaso fra le foglie secche di noce, altri fra le vinaccie, st che le non si tocchino luna l’altra, et in vasi impeciati volti sozzopra e ricoperte di segatura del medesimo arbore; molti, mettendole in vasetti bene impeciati una per una, tutti gli cacciano in un gran doglio ben serrato e coperto; altri, fatta una fossa, ponendo nel fondo dell’ arena di fiume umi- diccia, ricuoprono sopra di arena asciutta e 99 952 poi di terra sopra, accomodata in modo che non vi possi entrare V acqua: altri nelle fanfalugole o flocce dentro alle casse turate e stoppate bene con loro; altri fra le paglie trite o monti di grano. Alcuni altri subito scelte 1 hanno cacciate in vasi col lor picciuoli impeciati, e similmente in vasi turati in bocca con la pece o gesso e posti allo scoperto, sotterrati dentro al sabbione; altri nel mele acconcie, si che luna non tocchi Vl altra; alcuni, posta a fuoco l’acqua salsa, quando per il bollore levi la schiuma, fattala schiumare e lasciata raftred- dare, ve le caccian sotto e lasciano stare per un poco, di poi le mettono a serbarsi in un orcio turato bene; et alcuni altri, lasciatele stare nell’ acqua fredda o salsa o salata un dì et una notte, le pongono appresso nell’ acqua dolce pura a macerare, et accanto le mettono nel vin dolce, mele, passo o sapa. Ma le pere che a questo si eleggono hanno a essere trascelte non affatto mature, non bacate, colte il dì al caldo, a luna crescente; e dure allora e sode alquanto, un po’ verdi, si mettano in un vaso turato con un coperchio, stivato ben per tutto, e capovolto si sotterra in lato ove passi sopra l’acqua d'un rio corrente, ma che non penetri punto dentro. Ancora, le dure e sode di carne e di buccia, primamente ammontate in su "1 palco quando cominciano a intenerire, sì pongano in un vaso di terra cotta impeciato e coperto co ’1 suo coperchio, si riempino i fessi di gesso stemperato, di poi sì sotterri in una piccola fossa, in un luogo ove batta il sole continuamente. Oltre a questo, le pere divise e e(3 19) #); )e) seccate al sole st conservano a vari usì di manicari. Ancora, in una brocca di terra cotta, togliendole non crude affatto né troppo mature, empiendola di sapa sino a un terzo, sane et introdottevi dentro, poi finita d’ empiere sino a sommo che vi restino dentro, sì conserveranno, avendola ben serrata in bocca. Fassi una gela- tina delle pere per i digiuni delle donne, detta castimoniale. Cacciansi le pere maturissime fra "1 sale, e quando sono le sue polpe disfatte, si conservano col medesimo sale, e si ripongono in vasì di terra cotta impeciati. Le pere caro- velle d’ ogni sorte, ma più le roggie dell’ altre, sì conservano al buio lungo tempo appiccate all’ ultimo solaio, tenute chiuse le finestre della stanza e gli usci che vi sono, che hanno a essere doppi, affinché non s' apra mai uno che sia serrato l altro. Basta il pero di sua natura assai per essere arbore che indugia assai a venire, così come di tutti i frutti simili, come quercie, pini, noci, abeti, e per contro quelli che vengono presto, presto se ne vanno, come arbori, saliconi, ontani e peschi. Volendo che il pero basti più lungo tempo, traspianta quer- cietti giovini in luogo buono et annestavi su i peri; scegli le quercie di buccia liscia e deli- cata e gentile, e vuole essere annestata a buccia, che così come t ho detto il pero fa meglio che in altri; e fallo quando le comin- ciano a muovere et a buccia: ma le pere non ti riusciranno sugose. Imperciò piglia delle ber- gamotte, ghiacciuole e sementine, e così fatte pere nate basteranno senz’ altra diligenza tutto l’anno. Ma sono cose queste da farne pruova 95 per saperle e vederle un tratto, ma da non ne fare incetta o impresa più che tanto. Ora quel gelo scolerà di quei vasi dopo tre mesi, aven- dogli appiccati in alto; e quando s insalano è bene infondervi la nigella verde, et [avranno] (?) non ingrato sapore. Delle pere ben mature si fa vino, strignen- dole al torchio in sacchi con le viti, o con gravissime pietre caricandole: dura di verno, ma nel primo caldo inacidisce, e acerbo è accomodato allo stomaco e ristagna le destil- lazioni degli intestini. Seccansi le pere mature e delle migliori, avendo cavato l'osso loro e le granelle, dividendole piuttosto con canna e mondandole, che con coltello, spartite in tre o quattro parti. Il legno del pero è molto dentro unito e senza tiglio, imperciò s' adopra a tavole per stampare, a cose di intaglio mi- nuto e per figure; e le casse fatte di pero conservano le sue frutte serrate bene senz’ altro. Le pere cotte sgravano lo stomaco e crude l’aggravano: et ambedue conviene mangiarle a questo effetto per ultimo cibo, et innanzi mangiate astringono grandemente. La soma delle pere è grave e disagiosa alle bestie che la portano, et il rimedio è darne a mangiar loro prima che le se ne carichino. Ebbero in pregio gli antichi le pere nordacee, dette cosi perchè accompagnano facilmente le nostre giu- gnole e le sementine, che vengono alla semente; (1) Non è facile leggere nel mezzo delle due carte 263 e 264 per una macchia d'inchiostro che le ha seriamente danneggiate: onde qualche lacuna che si troverà più avanti. © )* e) le ricordò Catone, dette ancora mustie. Fra queste sono le serotine, di figura d’ un turbine, che stanno in su "1 pero sino all’ inverno, per maturarsi co ’1 freddo; e le prestissime prima- ticcie odoratissime chiamavano superbe, noi moscadelle; le crustumine, dette da un castello di Toscana oggi disfatto, rosseggian da una banda, gratissime al gusto; glatiole, dette in Italia le regie; di corto piccinolo l amerine; e le più di tutte tardìe le signane; e le sirie di color nero con le quali contendono le picen- tine; le sirie si dicono in Italia corocle, altri pensano che le sieno le tarentine; testacee dal colore, lanuvinie, numantine, alessandrine, nu- midiche, greche che per il freddo maturano, decimiane e falsodecimiane, delobelliane di lungo picciuolo, pompeiane, mammose, lice- niane, sivariane, tivanniane di lungo piccollo, favoniane delle superbe un po’ maggiori, ani- tiane d’agretto giocondo sapore, tiberiane dette oggi agostine, del gusto di Tiberio, che crescono e maturano co ’1 sole; in altra maniera sono le medesime che le liceriane; amerine, nucetine, numantine, picentine, latiune o laterisiane, vo- conie, lolliane, meviane, tulliane, settimiane che son serotine, tetiane, turiane, antiane, preciane, auleriane, coriolane, cucurbitine; volinie altri volumie, Vergilio le chiama gravi, altri libe- rali; mirapie, nardine, mitie, mespelee, lauree, rubele, onichine, pupurie, le rossette, le calcu- lose, barbarice, venetie, patritie, voconie verdi lunghe, corvische, timose, le lacrie, pomponiane, siviliane, favoniane, brumali, selignee, mulse, cetilie, lolliane e rubelliane, rosate dal colore 536 e dal sapore, avendo intinta la marza in acqua rosa, o maceratovi li semi o adacquando con essa; titiane, milesie, mirtie, orbiculane, pre- ciane, valeriane e callimane rotonde odorate, e molte altre delle quali i nomi sono variati, secondo le provincie; e molte volte in una d’ esse hanno diversi nomi. Appresso i Franzesi sono stimate assai le buoncristiane di suavissimo sapore che in bocca si disfanno e sofferiscono d’ essere trasportate da lontano, come che elle si conducessero di là sino a Napoli a Carlo vm; le mariane ancora apprezzano, dette da santa Maria; le moscadelle son chiamate chie volgar- mente da loro; et appresso queste le di due capi e le certoliane, dette ancora di campagna, le m.....niane; le finore, che così diconsi rap- presentando il color d’oro puro, e le strangu- glione, pere d’ angoscia dette, che mal volen- tieri s inghiottiscono; sono ancora le tofaceci, dentro come tufo. In Spagna si lodano le regie et appresso ai Belgi le edue e falsedue. Appo i Turoni grossissime le senane. Ma non si può assegnare a tutte i nomi che si riscontrino 0 ritruovino, come a certe che vennero da Rodi portate a Lione odoratissime da un cavaliere maltese, chiamate là in un modo et a Lione in un altro, dette vernine. Così vanno mutando i nomi secondo i luoghi, come a noi le semen- tine oltre alle menzionate di sopra, di san Gio- ranni, di san Lorenzo, l agostine e le di san Martino, V arancie dalla similitudine, e molte altre, delle quali, come si dice, non sì possono assegnare di tutte in tutti i luoghi i certi nomi. Ma assai è sapere che per tutto la colti- vazione dei peri sia la medesima di governo e cura. Il Persico fu primamente di Persia in Grecia trasportato e di quivi in Italia, et è vana relazione e del tutto favola che là fossero le pesche veleno, e quà addotte, mutato cielo, sten diventati salubri e buone per cibo; per- ciocche e in Persia buone e quà buone, migliori et ottime sempre sono state, come di presente essere sì ritruovano. E si come egli è arbore di delicata buccia, legno e foglia simile, ma un poco più lunga di quella del mandorlo, somigliantemente produce il frutto suo di grato e gentilissimo sapore, confortatore del cuore et allo stomaco grandemente dicevole. Sonone delle primaticcie: fra l altre une addotte di Savoia, poco più grosse d’un fusaiuolo, che maturano per san Giovanni; e questo anticipare acqui- stano molte altre secondo la qualità, sito e natura dei paesi; le megliori sono le lucchesi, di forma aovata, con una punta in cima acuta. Per tutto ’1 tempo dell’ estate ne sono delle rotonde spiccicatoie e che non si spiccano dal nocciolo, più saporite e meno, secondo le varie ragioni, sì ritruovano. Le precoci di Napoli, alessandrine, sono tra tutte le più pregiate, [dette].cotogne; d’ odore, sapore e bontà passano tutte le altre, come che in quel paese e dovunque trasportate allignano, non sono nocive, ancora che altrui se ne sazii abbondantemente; benché e di queste e di tutte che altrui si mangi stra- bocchevolmente, il remedio è posto: mangiare l’anima del lor nocciolo, levando questo tutto ’1 538 lor nocimento. Le più sono le statereccie et appresso a queste le vernie, che si cogliono al principio del freddo, e co ’1 freddo in su la paglia maturano. Non sono inferiori di bontà ad alcune le carote, così dette perche tagliate referiscono il colore traversato sanguigno delle carote; et è openione anche che le si possino così far nascere con l'industria dell’ artifizio, mettendo i noccioli un poco ammaccati, si che l’anima non patisca, o involti in carta bagnata o in sottil bambagino molle nelle carote spar- tite e poi racchiuse, sotterrandoli: e fuor di questo, pestando di molte carote e cavato il sugo d'esse, et in questo avendo tenuto il nocciolo a macerare per parecchi dì, o vero adacquando con esso il nocciolo fitto e piantato nelle carote, riceveranno ancora in sé sapore et odore diverso (oltre a che ne sono delle moscadelle odorate di lor natura) acconcian- dole come si disse della vite. Scrivono che in Rodi solamente fioriscono i peschi, né vi con- ducono il frutto, per causa dell’ aere e terreno che non si confà loro, imperciocche egli amano l’aere ben caldo si, ma accompagnato co 1 terreno arenoso et umido e leggieri; che nel freddo e ventoso, se non difesi da muri o altri ripari, non fanno né vivono quanto in quelli. Fu fatta dagli antichi menzione di quella sorte pesche, rodicine o duracine precoci, pesche armenice, che sono le albercocche. Oggi si sti- mano quelle a chi si spicca 1 osso. E così delle duracine come di queste ne sono delle sbian- cate, delle gialle e delle cotognine, dette coto- ene, che sono le proprie di Napoli così dette; 539 e le vernine di color verde da prima, poi biancheggianti, che tardi maturano. Nei luoghi temperati vengono bene i persichi, purché sor- tischino terreno delle sorti dette et in lato che secondo ’1 bisogno si possi adacquare. Dilettansi di sito a solatio e difeso dai venti, chè questi gli scoscendono agevolmente e gli fan perdere i fiori: perciò nelle valli, nel piè de’ monti e delle coste serrate, o a mezzo d'esse o pianure a ridosso dei monti pruovano grandemente. Gli ossi trascelti di persichi di buona razza, nei luoghi caldi di novembre, nei temperati o un po più freddi di gennaio o febbraio, si semi- nino. Altri tengono openione, e questa univer- salmente di tutte le frutte, che a qual ora la terra madre se le ritoglie da i suoi figliuoli, che è quando mature da per loro in terra cascano, s' abbino a seminare, sendo quello segno espresso che ella desiderosa non d’ altro che di propagare e mantenere la generazione, gli farà d'allora meglio nascere, crescere e fruttificare. Seminansi in terreno trito e ben lavorato di divelto sotto, prima avendogli tenuti in terra stemperata con cenere a macerare, 0 vero lasciatigli star sotto ‘1 monte del letame stagionato sette o otto dì, involti in cencio ad uno per uno, tanto che muovino alquanto; di poi con mano o con piuolo si caccin sotto non più di tre o quattro diti, ponendogli giù capo pie, cioè con la punta verso terra, lontani un braccio l uno dall’ altro, affinche nati si possa lor lavorare attorno e levare l erbe, aiutan- dogli se occorre con l acqua per due anni. Altri in capo a uno gli traspiantano, tagliando 540 lor la maestra e ponendo lor sotto una lastra che facci loro dilatare le barbe. Altri, bucata una canna lunga un braccio o un braccio e mezzo, fanno passare per essa il pesco giovi- netto, calandola per il pedale sino che arrivi a dove partisce le barbe; e sotterrandolo due diti più della canna, hanno fede che più basti e meglio imponga le sue radici. Altri senza questo nel divelto, fossa aperta o gran formella dove abbi a stare, lo pongono alquanto a gia- cere, cavando lor fuori la cima un mezzo braccio solo. Altri, piantatolo diritto, non riem- piono la fossa che due palmi, di poi a poco a poco riempiono la fossa secondo cresce. Appic- cati che sieno dopo ’1 primo anno si spuntino, et avendo due cime, si lasci la più vegnente, lasciandogli i palchi e formandoli con buono ordine. Molti, cresciuto l arbore alla sua gran- dezza, continuamente gli spuntano co ’1 pen- nato tutte le cime rotondandolo, e così seguono di fare di due anni in due anni, sperando così aver frutti in copia e più belli. Zappisi tre volte l’anno, finito ’1 frutto, come muove e quando è in vigore, et il letame macero se gli dia nell'autunno e sia di porco, et allora se gli levino tutti i seccherecci et i guasti, allar- gandolo al sole et aprendolo all’ aere; così darà i frutti più copiosamente e più grossi; e più grossi gli darà, se con diligenza come le pesche hanno allegato e sono al mezzo del tempo del loro maturare et anco più oltre, senza molto malmenargli, avendo perso i frutti ad uno per uno, in mano se gli farà assai fori con la punta d'uno spilletto d’ ottone, et in quel buco sì DAI caccierà granelle di rapa a mezzo ca..... ('). Et a voler ricuperare il persico quando vuole sec- carsi, scapezzisi di tutti i rami a capitozza, e quando son rigogliosi, il fendergli dalla forca alle radici per il gambo a diritto nella scorza sola, senza offendere il legno, gioverà loro assai. E nei piani, quando sono nati a dove hanno a stare, fatti grossi d'un dito grosso, si taglino rasente o fra le due terre, affinché faccin prima le barbe e poi i rami. Ma volendo fare il semenzaio dei peschi, dei eleggere luogo fresco e quivi posta terra scelta o buon terriccio sopra la buona che vi sia, pareggiando tutto con la vanga a due pun- tate, mettivi i noccioli acciaccati, come sì disse, o vero la pesca intera matura fradicia: e chi potesse aprendola cavarne l anima, malmenarla un pezzo per bocca e poi rimessala al suo luogo, ricongiunti insieme il nocciolo e la pesca, saria assai meglio e profitterebbe a nascere et a frutto grandemente: et avvertisci a non ser- bare i noccioli delle pesche, se non delle ben mature, e piuttosto delle cascate sotto il pesco che delle colte, perché non nascono, poi che il nocciolo non viene a essere granato. I noccioli senza schiacciare, gettati sopra questo terriccio così separati, nascono presto non ricoperti : l’anime proprie schiacciate che non sieno offese, con quel guscio in pezzi poste sotto due diti e non più, fanno benissimo; e ciò s'ha a fare al marzo per i freddi, gli altri all’ ottobre, interi e sani; e nati che egli sieno in secondo (1) La carta in margine è lacera, e non si legge altro. 942 o terzo anno, come s' è detto, si faccino tra- spiantare; et a voler che faccin presto il cre- scere e 1 frutto, bisogna senz’ altro seguitar di continuamente adacquargli l estate. E bra- mando d’ aver le pesche grosse sfoggiate terrai questo modo: piglia tre noccioli di pesca e seminagli ove hanno a stare, mettendogli insie- me rasenti bene Vl un l altro che si tocchino; e nati così tenerini intrecciagli avanti finischino il mese tutti tre insieme in treccia in un terzo l'uno con l’altro, così seguendo mentre cre- scono di mano in mano, tanto che co ’1 tempo si venghino a rammarginare l un con l altro, crescendo di pari, si che diventino un persico solo; et ogni anno poi al piede gli darai della loppa. Et a voler che le sieno oltre a modo grossissime, farai che questo persico con estrema diligenza egli sia traspiantato in un divelto ben fatto, profondo e di buon terreno; e quando lo cavi per mettervelo, fa d’ avere la botte che s apre e cavalo con un buon pane di terra grande fuor di modo, affinché venutone con tutte le barbe, le non patischino punto; e questo si facci alla fine di ottobre; e quando lo trasporti, fa che nel fondo della botte ove si mette sia una lastra grande piana e rico- perta con un palmo di loppa fradicia; qui su lo pianterai a dilatar le radici e spandere la maestra in quà et in là, e che si possi [muo- vere] più agevolmente, se si vogli mutare un’altra volta, facendogli tuttavia dare del- l'altra loppa spenta e terra cotta, scabrandolo ogni anno come le viti a ottobre, tagliandogli tutte le barbicole che a sommo egli avesse D45 messe (') fra le due terre, riempiendo con la detta pula che co ’1 tempo infradicia affatto e fa grassume e tien fresco, che altro non vuole. Così fatto pesco ti farà le pesche fuor dell’ usata misura, ma presto ti verrà meno fra le mani; benché i persichi tutti bastin poco. Ma volendo fargli durare quanto gli altri frutti, quando tu traspianti il pesco per affatto dal semenzaio, di due anni o tre, dove ha a stare, piglierai un ramo di fico e in su la tagliatura cacciando ’1 pennato, lo fenderai una spanna verso la vetta, et in quella fessura, avendola fatta stare aperta, v incastrerai dentro il pesco, e fa che la barba fittagnola tocchi la fessura, et avvertisci di allungare che ’1 pesco non si sbucci, e di poi metti il pesco con quel ramo nella buca, e sotterra il ramo con le barbe del pesco; e fa a questi il contrario che vogliono ghi altri, mettilo a dentro bene et in buona buca, e fagli vezzi al solito; e cosi quel ramo del fico farà compagnia al pesco, e massime lasciandogli due diti di vetta fuori ancora a lui. In capo a due anni, fra le due terre taglia- tolo, verrai ad aver dato al pesco la vita, la virtù, valore et umore di esso fico, che sarà quanto basta; e per freddo non perde mai le barbe come il granato e l’ arancio e tuttavia (!) In questa carta 267.*, sul retto, stanno scritte di traverso sul margine interno le seguenti parole: « Le pesche diventano grossissime, bucando la lor carne quando sono mezzo fatte con uno spilletto spagnuolo e con il capo d’ esso cacciandovi dentro un seme di rapa et in un’ altra un altro: ma basta uno. Così fai alle persiche cotogne quando hanno quella lanugine, con una trivellina gallica, rimettendo nel foro la carne si cava », DA rimette dai piedi. In tal maniera partecipa il persico della sua natura e ti farà le pesche migliori delle altre: e se prenderai ramo di fico primaticcio, come napoletano, gentile © fiore, farà le pesche più primaticcie. E la ca- gione perchè i persichi non bastano, è che natu- ralmente mettono le lor barbe a galla fra le due terre, et il fittone abbandonato dalle sue membra trovandosi più basso infradicia e muore, onde poi tutto l arbore si secca, perché morta la maestra è spacciato del tutto. Ma per ripa- rare a questo inconveniente, quando tu trasponi il persico col fico o senza, piglierai una canna come sì disse di sopra: ma meglio è sfenderla e scannellare quei tramezzi che sono tra can- nello e cannello, e sgarratolo bene, cacciatovi dentro il pesco, ricongiungerlo con un salcio e farlo calar che non tocchi a un palmo le barbe da piede; e così tutto a torno di terra riem- pierai. Oltre a questo e’ sì può ancora credere che ’1 difetto perche e’ non bastino venga dal mancamento, perche i contadini. o i fattori o chi pone i peschi non usa quella diligenza che negli altri frutti, quali prezzan più; e questo non stimano e massime da piccolo; e tanto più che nascendo alle volte da loro o sendo nelle vigne quando si lavorano, hanno per poco di scalpestargli, troncargli, ferirgli e maltrattargli, non guardando a corgli con le vanghe e zappe. Se bene alcuni, come io dissi, usano spuntargli le cime, come verso Genova, con tutto ciò il pesco di sua natura non vuole essere tocco co 1 pennato e massime dai tre anni in là; ben d'autunno levargli i seccaticci; e quando D4D sono nelle vigne, perché quivi ben fanno quando il terreno si confà, non lasciar loro aggattic- ciare addosso i tralci, pérché il villano tira poi, quando pota, a terra ogni cosa, rompe e fra- cassa, e così avviene degli altri frutti se non ha l'occhio il padrone. Si godono i peschi, quando si scalzano nel- l’autunno, d'essere letamati con le proprie foglie, delle quali si dee far carovana per questo effetto. Contro alle brinate se gli dà a’ piedi dello sterco di cavallo crudo o feccia di vino mesticata con acqua o acqua di coci- tura di fave; e se gli dien noia i vermini, l’orina di bue con terza parte d'aceto li sov- verrà; e gli farà grossi i frutti, se per tre dì, quando fiorisce, fattagli un poco di buca al pedale, se gli dia un fiasco (') o due di latte puro il giorno, che gli scorra alle radici. E se per l ardore del sole inaridischino e se gli attorciglino le foglie, ammontisegli spesso della terra addosso, adacquisi da sera e mettasigli attorno delle frasche verdi a fargli ombra: et apparendo malato, la medesima orina vecchia stemperata con feccia di vino lo riparerà. Il terreno proprio che egli desidera è il sustan- zioso, mediocremente grasso, soffice e delicato: e se ben vengono in tutti i luoghi, amano fuor di modo gli acquosi, e non avendo questi, di continuo s' adacquino. Ponghinsi i peschi tanto accosto l uno. all’ altro, che cresciuti e fatti grandi s arrivino a toccarsi lun l altro, per ripararsi meglio dal caldo del sole e dalle tra- (1) sestario, scrittovi sopra. I Ut D46 versie dei venti. Schiacciando con diligenza il nocciolo e cavandone senza offesa l anima, ten- gasì questa per qualche dì in acqua ove sia disfatto del zafferano, e poi fasciata in cencio fradicio e marcio, o in carta bagnata, quivi si semini, come sì disse, e sì segua d’ annaffiare con la medesima sorte d’ acqua tanti dì quanto peni a nascere, e darà i frutti ben coloriti gialli. Scrivono che a voler che naschino carat- terizzati, sì seminino l’ ossa, e come sotterra volendo nascere comincino ad aprirsi, cavinsi e s' aprino affatto, serivendovi dentro con terra rossa tutto che vuoi; tornisi incontinente riu- nita a rimetter nella sua stanza ben serrata come era prima e procurisi come gli altri. I Greci assegnano il numero dei dì; e dicono che dopo due giorni si cavino di sotterra e cava- tane l'anima e scrittovi dentro con cinabro che ti piace, tornisi con diligenza a serrargli legati con accia, ravvolti con sterco di porco 0 loto, e rimettergli ricoprendo a lasciar nascere; e fra questi Democrito afferma che si dee tenere il nocciolo in molle per tre dì in acqua, di poi aperto, cavata l anima, scrivere intorno alla corteccia con uno stiletto di bronzo, non aggra- vando troppo la mano, ricommettere di poi i suoi due gusci e rinvolti in foglio bagnato semi- nargli; e così facendo alle mandorle, avverrà il medesimo. Il medesimo promette che nasce- ranno ben colorite le pesche di rosso, se vi si pianti sotto buona quantità di rosai: e volen- dole ancor più rosse, dopo sette dì che gli averai seminati (perché in tanti, adacquandogli bene, s aprono i gusci) si cavin del terreno e 547 divisi affatto s empia di cinabro il voto del- l uno e dell’ altro, si che vi cappia l anima, la quale rimessavi e combaciata bene insieme e legati i gusci, sì tornino a ripiantare e rico- prire, et in fruttificando se ne vedrà l effetto, come interserendovi altra sorte colori. Promette Affricano che se nel tronco del pesco bucato a traverso se ne caverà la midolla e vi si cac- cierà un palo di salcio o di corniolo, nasce- ranno le pesche senza nocciolo. Se il pesco produrrà le pesche ronchiose o marcie, scalzisi attorno al gambo sopra le barbe et intacchisi sin in su ’l legno; e lasciato per qualche dì scolar l umore, s impiastri la piaga con loto mesticato con paglia trita o con argilla, e si ricuopra. A ogni suo mancamento rimedierà l’attaccarvi sopra uno spoglio di serpe, e legare ai rami dello sparto. Se si carichi troppo di pesche, levinsigli le più piccole, lasciandogli a venire innanzi le più fatticcie e migliori, Il persico insetato nel pero cotogno presso a terra, a marza 0 a bucciuolo o a scudetto, basta più, come in su 1 mandorlo amaro; et insetato nel platano renderà i suoi frutti ben coloriti di rosso; ma ottimamente s annesta il persico d'aprile a marza o di marzo, et a scudetto et a bucciuolo di maggio e giugno; a marza di novembre ancora e di gennaio e febbraio nei paesi caldi fa bene. S' annestano acconciamente ancora nei mandorli dolci, nei susini e nei noc- ciuoli e negli albercocchi; ma i duracini fanno miglior pruova nei mandorli. Ma affinché il nocciuolo diventi di vera mandorla, s' inseti in questo di marza o di forare, e così seminando D4S poi quest’ osso nascerà mandorlo. S' inseta, seri- vono, in lauro fra scorza e vi dura; e che inse- tando il pesco come i susini nel salcio, come si disse della vite, non farà osso; ma insetando i rami del vicin pesco nel tronco del susino pertusato, e lasciatovi incarnare, dipoi tagliato, farà i frutti maggiori. Considerando le sorte delle pesche, le primaticcie si faran tardie e le tardìie primaticcie, con forare innestandogli in frutti di questa sorte, o susini o peschi istessi, per poter ciò fare, piantati quivi vicini. E piantato un pesco vicino a un salice, dicono chi dice d'aver provato, che abbi un ramo grosso arrendevole di grossezza del braccio, sodo, liscio e lungo due braccia, ha a pertu- sarsi nel mezzo; et accanto la pianta del pesco, mozzatigli tutti i rami, solo lasciatagli la vetta, si dee far passare per il foro del salcio, in quel luogo proprio dove egli si sta; allora il medesimo ramo del salcio dall'una banda e dall’ altra piegato si dee tirare in terra e sotter- rare in foggia d'un arco, e serrare e turare il buco con loto e musco, strignendolo con legami di vimini o altro. Passato poi Vl anno, dove fra la corteccia, legno e midolla del salcio il capo della piantetta del pesco così sì sia attaccato che si sia contratta un’ unione di due corpi, si ha a tagliare sotto la pianta del pesco e traspiantare il ramo del salice, sbarbando e tagliando da una parte, dall’ altra sbarbandolo solo, ammontandogli tanta terra attorno che possi l'arco del salcio con la vetta che esce fuori del pesco ricoprire, lasciata la pura vetta fuora; e venuto adulto si conseguirà 1’ effetto, 949 Ma questo conviene di farsi nei luoghi dove sia commodità d’acqua, perché è di mestiero d’adacquare il salcio, perché il suo legno sia vigoroso, e si come si diletta d’ essere annaffiato, abbi possa di somministrare copia di succhio e di nutrimento al germe forestiero. Et a fare del persico e noce persico un melo, si potrà cercare d’ ottenere con l'innesto a piastra, detto dagli antichi impiastrazione: come che pigliando un ramo di persico giovine e di noce persico simili e fertili, che mostrino d'avere a venir belli, e per spazio di due diti segnare attorno IRE tal che l'occhio dell’ arbore sia nel mezzo, e così leverai con un coltello bene appuntato ia scorza degli arbori piano e destramente, affinché non s offendi il legno: fendilo per il mezzo, affinché attestati e stretti possino incalorire e fa in modo aperti che non si vegga il luogo del taglio, ma paia che un occhio entri nell’ altro, da quella parte del- l’arbore ove è la buccia più netta e che la si vede più vegnente, tagliando tutti gli altri rami, perché non levino il nutrimento all’ in- nesto, ma tutto vadia quivi; apri la scorza, et a cio che il ferro non intacchi il legno, circon- dalo secondo la grandezza dell'occhio et acco- modalo bene che sia a sesto l una parte pareg- giata con l'altra, lega bene attorno et avvertisci che in legando non gli facci danno. Bisogna ancora d' attorno mettervi del loto, fasciandolo con cencio lino o altra cosa che lo tenga insieme e coprendolo, perche la pioggia ol vento non lo sbatta via. Così farà i germugli che saranno (©) d’ambedue partecipanti, di melo pesco e noce 550 pesco, in colore, fazione e sapore rappresentanti l'uno e l’altro. Così si potranno fare i mela- grani da una parte dolci, da l altra agri, così sì formeranno i meli peri, e di questa maniera saranno mescolati di diversi sapori: i cinomeli a limoni, e meli dolci con gli agri, e mezzi dolci e mezzi agri. I persichi rossi e bianchi sono venuti per questa strada dalle carote, né è da maravigliarsi, dilettandosi di congiungerli et apparentargli insieme si che sia ognun di loro vivente. Le marze del mandorlo e del pesco, se congiunte con le gomme insieme s' insete- ranno nel susino, produrranno frutti che ave- ranno la carne del pesco et il nocciolo di man- dorlo. Le pesche si conservano colte quasi che mature a luna scema, empiendo il cavo a dove era il lor picciuolo di pece distrutta calda, e poste in un vaso turato si che non v' entri aere; ma è meglio empierlo di sapa, si che le pesche vi nuotin dentro, e turarlo bene. Ancora se gli fa una coperta che tutta l asconda ad una ad una di cera nuova, e sì ripongono in un vaso turato bene in bocca in lato asciutto. Basteranno le pesche calate con il lor ramo in una cassa di noce ben turata, nel fondo piena di arena, ricoperta tutta di terra acconcia in modo che non vi possi penetrare l acqua; e nel mele acconcie, si che l una non tocchi l’altra, colte con diligenza a luna scema e senza spremerle, sì conserveranno assai in un vaso grande posto all’ asciutto, e le duracine più di tutte l altre; e le vernereccie assettate come s'è detto, e nella salamoia e nell’ aceto e DDI nell’ agresto si conserveranno assai. Si seccano le pesche cavatone l osso e spartite monde e non monde al sole, e son buone allo stomaco negli intingoli et ancora mangiate a quel modo. Con la cottura del zucchero si fa la persicata come il cotognato, più grata al gusto. E le pesche colte quasi mature e rinvolte e fasciate in lino, copertate di pece et appiccate al palco in lato asciutto, si conservano lungamente. Il Noce persico o Persico noce è quello che con la regola detta di sopra si fa artifiziosa- mente, adulterando le razze di questi due, noce e pesco, facendo tutt’ uno. Altri tengono che con la marza del noce insetata nel pesco si generi e che così si facci il pesco mandorlo; e che quella del pesco noce sia una spezie da per se così creata dalla natura. Come si sia, egli è un arbore un po minore del pesco primaticcio, di foglia di mandorla, ma maggiore in lun- ghezza e larghezza; fa il fior rosso e ’l1 suo pome comincia a dar fuori verde, maturo ros- seggia; rappresenta la grossezza della noce co ’l mallo, è di quella grandezza senza pelo e liscio, di grato sapore e di molto succhio; matura per l'autunno, durando più che le pesche. S' an- nesta scambievolmente su ’1 pesco et in su l’albercocco, e desidera la medesima cura, governo, aere e terreno del persico; e poi che n° han fatto menzione gli antichi, tra i quali è Marziale, si può tener per fermo che ella sia una spezie da sé stessa così fatta, che in modo alcuno non traligni. 952 Il Pesco mandorlo è più verisimile a darsi ad intendere, che in quella razza abbi contratto fra Vuno e l'altro la produttrice natura una mezzana spezie, e portato abbi, come si può credere, con la diligenza dell’ innestamento o del seminare e piantare la mescolanza, una nuova sorte d’ adulterio o d'adozione, di maniera che del mandorlo o noce greca e pesco sia nata una nuova progenie non più veduta ne secoli da prima, che rappresenti dell’ un padre e dell'altro la qualità dell'ingegno e natura, avendo preso in adozione ancora la fioura e Vl effigie tutte insieme, cioè un pomo che fuora via con somigliante faccia mentitrice rappresenta il frutto del pesco e dentro la dolce mandorla al gusto et alla figura, onde dirittamente si possi chiamare mandorlo pesco o pesco mandorio; chèé.,ancora egli s inseta nel mandorlo, nel pesco e nell’ albercocco, come le mandorle senza peli, che così sì appellano anco i peschi noci. Ma d’ambidue trovandosi la razza in piedi che non traligna, et in Francia di questi gran copia in alcune parti, sì può cer- care d’ avere di questi o di quivi o d'altro, ché ne sono in Italia ancora in più d'un lato; e pianterai di questi o sî vero le sue marze inseterai, come s' è detto. E volendo pur farlo da per se, fa d’ aver piantato un noce giovine et un pesco vicini che si tocchino, e sfessi e levata via la metà all’ uno et all’altro sino al midollo, ricongiugnigli insieme buccia con buccia legate o con legno, e mezz’ occhio con mezz’ occhio, e farà l effetto del pesco noce e del pesco mandorlo; similmente, assettando un 995 mandorlo con un pesco che si rasentino a questa medesima foggia. Scrivesi da alcuni che insetando il susino su ’1 mandorlo, farà il frutto come la mandorla nella scorza e di dentro [simile] al susino; et insetando una marza di melo sopra un pesco, il che s otterrà quando sieno in succhio l'uno e l altro, e a cannello ancora, e similmente fa del pesco sopra un pero, et averal pomo pesco e pesco pero. Piglia ancora tre noccioli di frutti grossi tutti d’ un arbore e piantagli sotto una pignatta rimboc- cata nel terreno pertusata a dirittura ove sia il postime dei noccioli a rincontro, et usciti fuori s unischino insieme senza intrecciargli, come si disse di sopra, ma legandogli con giunco, tanto che così teneri incorporati l uno con l’altro faccino un gambo solo; et in questa maniera ancora farà i frutti a suo tempo gros- sissimi. Ma innestandosi lo scudetto del fico o del pero in un mandorlo et attaccandosi, il frutto che di lui nascerà sarà mandorlo. Il Ponsino, massime di Napoli, spezie d’agrume delicato, fa i frutti grossi quanto si sia qual più grosso limone, e ricerca la cura e governo del limone et in su questo s' innesta e fa bene. E pigliando per contra un occhio, tagliando la buccia a scudetto di limone al fin di maggio e per tutto giugno e più, scegliasi poi in su ’1 ponsino un occhio da voler mettere che un poco ingrossi e non abbi ancor messo fuori; e sopra questo tagliando e scarnando destramente la scorza del ponsino intorno all occhio senza offender questo, et avendo DIA similmente assottigliato per di sotto 1’ occhio del limone, si componga sopra 1 occhio del ponsino, e legato sotto e sopra che suggelli quello del limone nel lato che se gli è fatto in scarnare la metà della buccia del ponsino, s' aiutino con l' aprire la scorza quando comincia a mettere, per entro l occhio di quello del limone, con uno stecco appuntato, pulito, et incorporata luna messa con l'altra; facendo poi il frutto del ponsino e tagliandolo per mezzo, vi sì troverà dentro tagliato un limone ancora con la scorza e co ’1 suo agro. Altri per ottener questo, usando maggior diligenza, pigliano un occhio del ponsino e uno di limone con la sua scorza tagliata a uso di scudetto e l’occhio in mezzo, poi dividono l uno e Vl altro per ugual parte, tagliando la scorza e l'occhio, et attestandoli insieme gli ricompongono nel vuoto della scorza di quel del ponsino, legando all’ordinario; e tanto si può fare in su ’1 cedro d'un limone e ponsino, e di cedro e limone; e farà il medesimo. Ma conviene in questa sorte d’annestamento essere sollecito all’ operazione, e, come si dice, menar le mani, affinchè per- dendo tempo nel dividere e penare e ricom- mettere insieme quelli scudetti partiti per il mezzo, quell’ umor d’ acquerugiola ch’ è dentro la sustanza della buccia non se n’ andasse via, che non s' attaccherebbe, sendo quella la potis- sima causa di fare appiccare non pur questa, ma tutte le altre scorze et allignare insieme. Ancora, avendo un cedro et un limone giovini, piantati l uno rasente l’ altro, o un ponsino e limone, et acconciandogli come s è detto del DDD fabbricare il noce pesco, si manderà a effetto la medesima operazione; et è bella cosa vedere nell’agro del cedro creato un limone intero unito dentro a quell’ agro, et essere l' istesso limone che sarìa fuor d’ esso; sendo la natura tanto vaga di generare, che dovunque se gli porge occasione di ciò, ancora che con l'arte sia mutata dall’ ordinario del sesto suo, per propagare crea in ogni modo e fa questi abor- tini vaghi e dilettevoli e non meno meravi- gliosi a vedere di quelli, anzi più, che lei istessa tutto dì senza aiuto o sforzo alcuno dell’ arte va procreando, giusto il termine datogli dalla bontà del Supremo Motore, co ’1 quale si vede ogni anno ripullulare e dar fuori di nuovo indefessamente i frutti degli arbori et i semi delle erbe. Ama il ponsino i luoghi caldi quanto si facci il cedro o altro agrume; imperò nei rasi con le regole dette di sopra darà frutti e si conserverà benissimo. Il Pomo d’Adamo ancor esso è di rara spezie d’ agrume, di foglia più grossa e che non ha tanto l' aguzzo quanto 1 arancio o 71 limone, e più di questi è resistente al freddo. Fa i frutti simili al pomo del merangolo, ma non è commestibile. Si può ben la sua scorza condire con zucchero come i limoni, et il suo agro mescolato con quello del limone, si come quel del merangolo, fa buona composizione; tutti tre insieme s' accozzano a far perfettissimo agro; e serve per bevanda ai principali Turchi et al Signore, quando vogliono osservare la lor legge maomettana, servendosene per delicata 551) bevanda in cambio di vino. Si strigne adunque l’agro in sacchi di grosso pannolino al torchio, e "1 succhio che se ne trae s' imbotta, dando per ogni barile d’ agro una dramma di sale. Addu- cesene assai nei lor paesi di Candia, e quivi infondono due terzi di giulebbo con un terzo di quest’ agro, il che fa una composizione di gusto raro. Altri per contrario pigliano, secondo i gusti, due terzi d’agro et un terzo di limone e saporitissimamente beono. Riceve d’ innesto convenientissimamente e vi fa su bene il limone, e tutte le sorte d’agrumi; ma annestandone su dei tementi il freddo, bisogna pensare di coprir l’arbore. Il frutto suo ha la buccia molto liscia e di grossezza agguaglia quasi il merangolo. Attaccasi di ramo e vien bene di seme, rian- nestandolo in sé medesimo. I suoi rimettiticci da pie son buone piante. Vuole il medesimo governo dell’ arancio, con il quale dura di pari. Il Pome Merangolo è nobilissimo agrume, si per il verdeggiare delle folte foglie, uguali a quelle del pome d’ Adamo, un poco più dure e maggiori, e si per la sfoggiata grandezza dei frutti che avanzano in ciò ogni altro rotondo o lungo frutto di pianta d’agrume, fuor dei cedri che sono più grossi di loro: e tutto s' in- tende nei luoghi di terreno grasso e polputo che si dichi loro. Ne sono delle ronchiose e men ronchiose, e di quelle fatte a foggia come i limoni, che hanno certi rimbrencioli che spor- tano in fuori, come escrescenze di carne. Resi- stono i merangoli al freddo più d'ogni altra sorte d’agrume, e tutto questo allegramente 5BI ricevono sopra di loro: e bramando d'avere i limoni grossi, annestisi il limone sopra il me- rangolo in pianta giovine, si che tutto si tra- smuti in limone, sopra la quale fortificato, si come sopra l arancio, si riparerà dal freddo con più gagliardia. Seminansi di seme, e cre- sciuti di due anni, annestati in lor medesimi, si lasciano venire innanzi. Fanno bella vista nelle spalliere, rispetto ai lor pomi gialli che tra quel verde lietamente appariscono. Piegasi ancora a terra o si scalza tutta la pianta del merangolo in terra; e ricoprendola in fossa, spartendo i rami, daranno tante piante sicure fra un anno da trapiantare ove si vogli. Le scorze delle merangole confettate con zucchero o mele sono di delicato sapore; e la scorza cruda, levatone il giallo di sopra, passa per cibo di sapore il limone. La Palma, per la diversa e disusata et insolita fazione e non più veduta, simile ch’ è di foglia ai cefaglioni, di gambo fatto a vite di torchio, broccoloso, ronchioso e rozzo e sca- broso, e per la suavità dei suoi frutti molto nutritivi, e per la mirabil virtà di non s' arren- dere, nè aprendosi nè torcendosi, a qual si vogli peso che gli sia sopra posto, volgendosi all’ insù, urtando e pontandogli contra (si come una gran pietra ella smoverà, che sia messa di fuori dalla terra a dirittura a dove ella ha a spuntare e dar fuori), e si da a chiunque in egregie azioni abbi ottenuta la vittoria, merita giusta palma tra tutti gli arbori di frutto: come ancora la sterile, la quale nella domestica D9S si può insetare, ha gagliardito legname, atto ai più faticosi lavori. Truovasi della sua spezie variata, secondo Plinio, in quarantanove, il maschio e la femmina: quello fiorisce prima, questa dopo con i rami sparsi et allargati, quello ristretti et indirizzati verso la cima; così le sementi dell’ osse dei maschi sono sottili e lunghette e più dure a tagliare di quelle delle femmine, che sono rotonde e grossette. La fem- mina non produce frutto se non gli è appresso il maschio, e nel tempo del muovere va disten- dendo i rami verso lui, a tal che conviene insiememente piantarli, e massime che troncan- dosi un maschio e spezzandosi, sì vede di ciò patire e divenire sterile la femmina che gli è accanto. La femmina fa il frutto senza prima fiorire. Creano prima la carne nel suo frutto e di poi l’osso che è il seme; et ambedue a dove nasce quell’ orlo per lo lungo che si congiunge insieme, facendo canaletto Vl uno con l altro, s'accostino insieme da quel fesso quattro o cinque, facendo che ’1 sottile vadia verso oriente; hanno, dove nasce quel taglio o rim- boccatura, poco di sopra un pertuso, per d’ onde si muove a gettar fuori a nascere. Serviranno così legati insieme con canapo o filo, unendosi et incorporandosi a fortificare l’ arbore, facendo tutto un gambo solo; e così legati et acconci in un cencio marcio si sotterrano in terra trita, sotto quattro diti o sei, avendola prima ben letaminata d’ogni sorte concio, eccetto che di capre che l annoiano, e ricoperti di sale soprà il terriccio di due diti, s' adacquino tanto che dien fuori, avvertendo che l’acqua non si fermi 999 intorno alle cime a infradiciarli, e sia di novembre o ottobre o di febbraio 0 marzo, 0 più tosto d’ aprile e maggio, perché gli aiuti il caldo a nascere. Diasi l'acqua loro ogni giorno et in modo che arrivi alle radici, e dopo due anni nate in terra divelta, buona, o formelle o fosse fonde cavate con diligenza, con il lor fittone intero messo giù quanto va, sì trapian- tino, o vero in così fatto luogo sì seminino, come s è detto, senza trasmutargli, con tutto che elle bramino anzi che no d’ essere trasposte. Desiderano buon terreno, ma leggieri, arenoso, salnitroso e salso, e niente di meno farà ancora bene nell’umido o che s' innaffi, non rifuggendo l’acqua; e fa pigliar loro grande aumento la feccia del vino. Vogliono ogni anno essere scal- zate e che sia lor rimesso del sale attorno. Ma nel nostri paesi, amando di veder questa pianta et alleficarla, perche ella non produce frutto che nei caldissimi paesi e non s' alligna che in lati caldìi, è meglio, acconci i suoi semi come s è detto, porgli in un testo, e di quivi, stativi un anno, rompendolo in più cocci senza muover la pianta, traspiantarla con essi e traspiantata poi scalzare ogni anno; e dando loro del sale al pié, s accomodi in modo che non tocchi le radici, ponendolo da lontano a discrezione, o vero se gli dia parte che s' adacqua, non gli lasciando covar Vl acqua al piede, con gettarvi della terra secca che l’ asciughi; e s' assetti in maniera, che scorra via sopra e dentro in parte, penetrando alle barbe a tenerle fresche. E se bene amano d'essere adacquate tutto l’anno e terreno pien d'umidezza, niente di 560 meno sì godono della arena scriva, e quivi talora si fanno più liete e più belle nell’ anno che patiscono la sete che non nell’ adacquato; ond è che le restano offese dal letame. Et essendo il paese non molto caldo, si cuoprino d'inverno e se gli ammonti la terra attorno, e così faranno bianca anco la cima per la quale portano il frutto; et affinchè ne siano copiose, si come del caprifico al fico, si leghi delle palme maschie sopra le femmine. Bramano d’essere adacquate con acqua fredda, perciò quella dei pozzi è meglio, la piovana la peg- giore. S'annestano sopra loro istesse, tenuto prima bene il seme in molle, di poi ficcandolo nella lor corteccia con terra umida d'ogni intorno in quantità. Non vogliono letame per lor natura, fatte grandi; altri tengono che giovi loro, ponendolo al piè ben marcito. Vivono in alcuni luoghi battuti dall’onde marine, altri dicono in mare, e nei paesi dove le fanno naturalmente s' attaccano ai rami d’ un braccio e mezzo, spiccate e divise dalla cima e fesse sino al midollo, il quale cavato dal gambo spartito o altramente è buono a mangiare, ma cavato [che sia, la pianta] non vive più, sì come a essere scapezzata dalla cima, che marcendo si secca. Rinascono qualche volta certi polloni intorno al calcio delle palme, i quali poco più sotto che fra le due terre mettono le barbe, con le quali diligentemente cavate sì possono traspiantare in terra (come in terricci i rami) simile a dove sì cava, alla quale, essendo grassa, se gli dee mescolare assai arena, e se gli dia letame, s adacqui spesso, con tutto che sia D6I marcito bene. Plinio scrive appresso Babilonia piantarsi le foglie delle palme et appiccarsi; appo i medesimi Babilonii si cantavano versi, dice Strabone, contenenti trecento sessanta virtù della palma, fra le quali una n° è che nulla di esse si getta via. Ama la palma, non meno che i fichi e gli aranci, che gli siano fatti attorno muricciuoli di sassi che la tenghino rincalzata, tutto che quivi ancora sia buono lo scalzarla. La palma scrivono che non fruttifica in Italia né altrove che dopo cento anni; con tutto ciò si è veduto a Roma e si vede, in un chiostro di San Piero a Vincola, che campò la vita con cento scudi donati a coloro che la volevano tagliare per il sacco della città (si come per duemila in quello di Genova la squella di sme- ‘aldo, che i soldati volevano, rotte le sette porte, levarla via) che di meno assai che di cento anni imposto ha i datteri, ma non gli conduce, ma tanto innanzi che agguagliano in lunghezza ! olive grosse di Spagna. Fanno vino d’essa molte nazioni, come gli Indi, che la potano d'agosto come le viti, e quivi ripullula tagliata da piede, e quell’'umore che scola dalla tagliatura del legname raccogliono con dili- genza in vasi, e dopo tre dì dal taglio fatto l usano in cambio di bevanda di vino, e da tre dì in là lo lasciano inforzare e l adoprano per aceto. Ma quando vogliono quello che sgocciola dal tagliato legname, per quelli tre dì mettono i paiuoli di bronzo e fan bollire tanto al fuoco che se ne scemino i due terzi, e così diventa mel suave, et in capo a venti dì lo passano per stamegna questo medesimo, e diventa vino 36 562 suavissimo. Gli Arabi ancora et i Parti, i Medi et alcuni altri popoli dell’ Oriente usano di palme il vino, si come in altri luoghi dei suoi ossi e della corteccia si cava olio medicinale. La palma sola fra tutti gli arbori genera il suo frutto dentro alla spiga, et i .suoi fiori son gialli simili a un grappol d’ uva; e quello vien cagionato dalla sua siccità; e quando la comincia a muovere, in ogni nascita di luna fa una messa di foglie nuove, e comincia a muovere il primo mese dell’anno, a tal che in capo d’ esso ne dà fuori dodici; cagione che con quelle lor lettere jeroglifiche per questa pianta manifestamente [gli Egizii] lo esprimevano. Poco avanti l autunno apportano i lor frutti maturi nei luoghi calidissimi le palme, ove elle abbon- dano, come in Jerico della Giudea. Raccolti i datteri da questo tempo con mano senza sbat- tergli, o vero aspettando che a terra caschino maturi, con diligenza posto lun sopra l' altro nei vasi di terra cotta invetriata, ben serrati con pece in bocca, si sotterrano nell’ arena acconci in modo che l’acqua non vi penetri e vi si conservano. Altri semplicemente, di quei paesi, inzipillandogli ne’ bariglioni, pesti am- maccati e soppressati insieme, gli mandano a trasportarsi per terra e per mare nei paesì stranieri, e per un anno intero così sì manten- gono. Ma i datteri freschi avanzano di gran lunga questi che son serbati, di sapore grande e bontà. Alle Gerbe et in Affrica dove n'è quantità, sì traspiantano con tutte le lor barbe di due anni. Fu nocivo il frutto delle palme, chiamato dattero, a’ soldati d’ Alessandro Magno 903 e però loro vietato. Piacevano le palme cariote a Nicolao peripatetico amatissimo da Augusto, al quale ne mandava a presentare spesso, et in sua grazia que frutti chiamò nicolai. Il legno delle domestiche è finissimo e serve a tavole, palchi, asse, casse e travi. Il Pino fu dedicato dagli antichi alla Dea Cibele per amore di Ati che ella amava, con- verso in pino; è di messa di rami a palchi, e di fondezza et ampiezza supera tutti gli altri arbori; e quello memorabile del monte Ida copriva due staiora di terreno con essi. La sua ombra nocente ammazza ogni germoglio, scri- vono molti; si ben resiste il pino ai venti. Adunque stando questa openione in piede, è vana cosa a credere la contraria, che ancora scritta si truova, che l ombra del pino aggiovi tutte quelle cose che sotto seminate vi sono, quando che la chiara esperienza rimostra 1 op- posito, e massime nei luoghi asciutti, secchi, arenosi e marini, i quali desidera innanzi è tutti gli altri, se ben si fa ancor lieto ‘e vien bene negli umidi, grassi e ventosi, pur che l’acqua non vi stagni, et in questi così fatti può essere più, abbruciando egli con la calda natura sua, la quale ancora nella virtù simile si rimostra de suoi pinocchi e caldezza delle sue barbe e nutrimento che trae con esse, allar- gandosi assai in tutto ’1 terreno che sotto e sopra abbraccia. È ben vero che per le biade ‘e gli ortaggi minuti, un pino solo che sia in quello spazio di campo, che vi si semini sotto a dove è, profondando egli le sue radici, non 564 lieva alla superficie della terra V alimento che si viene a quelli; e che l ombra ancora, se non gli giova, almeno non li danneggia, veggendosi sotto venirvi il grano bello, le “hiade e loro; ma [nuoce] ai frutti, che nati anch'essi sotto, ricevono danno dalla sua copertura e dal- l'ombra ancora, rifiutando tutte le piante l ombra dei lor consimili, se non se Vl ellera, che ne gode ancora di quella dei casamenti e muraglie. Fa ancora il pino nel terreno che sia leggieri, pien d’ arena e non ch’ altro sterile, sì come comport ‘a ogni aere, divenendo con tutto ciò assai più bello nel molto freddo che nel molto caldo, che se sia assai più che molto, non vi viene; et i pinocchi dei più secchi et are- nosi luoghi sono i più saporiti e migliori. Hanno i pini il maschio e la femmina; questa ha il legname più delicato, più gentile e non si fende, e dentro l'egida di color di mele buona per i pittori. Per aver razza e quantità di pini si seminano i lor pinocchi, et è chi senz’ altra cura, avendo solamente arata la terra una volta sola, getta i pinocchi come si semina il grano in quelle solca, et ha fatta una pineta da vedere, ricoprendogli alla maniera del grano, né più cacciandogli sotto. Tale se ne vede una a Gangalandi, luogo che fu del non mai abba- stanza lodato messer Piero Soderini. Ma volendo tener di ciò regola buona, sappiasi che i pinoc- chi nello spirare delle etesie di giugno o di luglio, avanti che caschino dai lor gusci, sì aprono e si colgono per mangiare freschi, che’ allora, cavati dalla pina pesta (più che tenen- dola ad aprire al fuoco) sono i perfettissimi di 565 gusto buono. Ma per seminare ottimi sono quelli che da per loro cascano dalle pine che sì spaccano in su l arbore; questi tali, raccolti con diligenza, sono buoni per seminare, quando cacciati nell'acqua s elegghino quelli che non vanno a galla, lasciandovegli stare per quattro o cinque dì continui, ma meglio è, secondo molti, tenergli questo tanto nell’ orina di putti; di poi in terra di quella fatta che s'è detto, arata et intraversata e minuzzata bene a fondo, gettandovi a imo dell’ orzo, spargendovelo, seminargli con la punta all’ingiù, non gli rico- prendo più d'un palmo, e nati gli diraderai più o meno, secondo che tu ami la selva fonda o larga, lasciandovegli cascare o stare senz’ altra cura; solamente così piccoli potargli ogni anno, tanto che sieno ridotti all’ altezza che si desi- dera, e di poi ancora seguendo di potargli nei rami per allargargli che v' entri il sole, che così renderanno più frutto, come anche quelli sotto a' quali si lavora o si ara il terreno. I rami se gli taglino da piccoli vicino al tronco, e si tenghino discosti i bestiami, che non si soffreghino nei gambi dei pini a grattarsi o gli spuntino. Truovansi ancora dei pini nati alla foresta o cascati a uccelli di bocca o talora nati da per loro, et inoltre di cascati sotto a’ pini grandi, i quali piccoli, d’ altezza d’ un palmo e non più, scavando ben sotto il terreno quando sia umido, per aver con essì una piota di terra senza guastare il fittone, si trapian- tano in buone buche, lavorate ben sotto, a dove altrui vuole. Nasce loro fra la corteccia o vermini o formiche, al che giova di scortec- 966 ciare quella lor prima o seconda che egli hanno, e si farà bello e vegnente; et ancora indurendo, o nel calcio o alla radice taglinsi un poco o s intacchino sopr’ essi o sotto, affin- ché scoli quell’ umore, se bene i domestichi che fan frutto han poca ragia; per contrario i sal- ratichi, ai quali ella si cava, intaccandogli per fino al midollo del legno di estate ne’ maggior caldi, ogni giorno tornando per essa; e portano pericolo di seccarsi e restano secchi et al certo non fanno frutto, se sia tirata loro molta terra al pedale e quasi ricopertegli le radici, le quali amano di tenersi a galla sparse sopra la terra e quasi a mezzo scoperte. Il che se avvenga, non lo sapendo, scoprendole e lasciandole com’ era suo naturale di prima, ritorneranno a dare il frutto; così ho provato io per espe- rienza (che era grandissimo) in un mio. È volendo farne semenzaio per poi trasporgli, semininsi in solchi, come s' è detto, e di due anni sì traspiantino a dove hanno a stare, ponendo in giù la lor fittagnola non punto mossa, il più che si può a diritto punto; e dove si vede che ella vogli attaccare, pon- ghinsi delle granella di orzo, le quali lo faranno crescere a maraviglia, e così traspiantati me- glioraranno i suoi pinocchi assai. E a voler che s' attacchino di sicuro e senza patire, semina i pinocchi in un vasetto o pentolo pien di terriccio mescolato con arena e letame, e nati che vi sieno e poco venuti innanzi, sbarba tutti gli altri e serba il più rigoglioso e robusto, lasciandovelo stare sino in tre anni, e di questo tempo co ’1 suo vaso fracassato mettilo nella 507 fossa, divelto o buca, profonda e ben larga, affinchè le radici vi possino avere il lor luogo agiato e comodo, e massime per il fittone, ponendo nel fondo letame di cavalli, e con un suolo di questo e uno di terra cotta scambie- volmente riempiendola sino a sommo, nei luoghi caldi di novembre, nei freddi di marzo e feb- braio; et il seminargli sia sempre di marzo, affinche co ’1 caldo del sole venghino meglio fuor del terreno. Palladio vuole che si faeci di novembre et ottobre, perché non temendo il freddo, se s' ottenghi, come scrive, che al pino s' inseti il nespolo, produrrà un frutto dolce ma non durabile. I pinocchi si conserveranno meglio schiacciati e mondi, serrati in vasi inve- triati, più senza avere ad adoperare fuoco a aprir le pine, che con esso; et ancora bastano ne’ lor gusci fra le guscie delle pine; et ancora senza le guscie delle pine i pinocchi saldi durano assai. Nei vasi di terra cotta ripieni poi a sommo di terra in luogo mezzanamente asciutto basteranno assai. Il legno del pino dee tagliarsi affatto, quando sia prima tre mesi stato tagliato sino a mezzo a scolare il cattivo umore; et alla luna scema di gennaio sì dee fare al fine. È legname più per acqua che per terra, atto a navili e pali et altri usi in essa, non tiene colla, è buono per porte e finestre dove batta l acqua, genera cimici, et è odor sazievole. Il Pinastro o pino salvatico non è mai di quella procerità che ’1 domestico; è buono a fondamenta per pali; fa le pine aguzze di o ] 5 965 pinocchi vani; e nei più aspri monti profitta. E più forte in questo (come in quello) la parte volta a mezzodì che quella a tramontana. Il Platano è arbore che trovando terreno fresco, grasso e fondato, come egli ama, benché nel mediocre ancora venga e nell’ asciutto, aiu- tato dall'acqua e con mettergli dell’ arena attorno al piede in quantità, in piano e in pro- fonde. valli piuttosto che in alti monti, in aere freddo piuttosto che caldo e nel temperato cresce oltre a modo, e si fa per tutti i versi grande e spazioso più d'altro qualsiasi arbore e di grossissimo pedale, come che in Atene fosse un platano con rami di trenta cubiti, et in Licia uno co 1 gambo scavato in foggia d'una casetta in giro di cinquanta piedi, dove dentro Muciano, legato di quella provincia, vi banchetto con diciotto compagni e dormi sotto le sue frasche, pigliandosi piacere di sentire lo strepito dell’acqua per le sue foglie. In terra di Lidia fu un platano, sotto il quale si tempo- reggiò per un dì intero Serse senza alcun negozio, e per averlo trovato sfoggiatissimo lo cinse di un vezzo d’oro, e lasciò Meledonio a guardarlo in quella gran solitudine, avendogli intorno disposto l esercito. Ha le foglie simili a quelle delle viti, le quali vi vanno su volen- tieri; sono men larghe e divise, co ’1 picciuolo lungo e rossigno, e genera certe coccole piccole pelose, dentro alle quali è il suo seme; e se sortisca luogo presso a acque o che sia di con- tinuo adacquato, non truova fine nel dilatarsi et alzarsi, come quello che s' è detto in Atene, 569 che era presso a un acquedoccio, smisuratissimo. Ma più ancora quell’ altro nel paese di Licia, famosissimo per molte cose, come quello che nel cavo del suo tronco aveva una fonte d’acqua stillante buona a bere, e la caverna di spazio di ottantun piedi, come di fuora via i rami coprivano i campi interi, con spelonche dentro di sassì e pomici, rinvestite di muschio. Di maniera che si come papa Pagolo m Far- nese in un pedale roso d'un castagno in quel di Silano, con l ombrello e con la mula si potè raggirare, senza urtare punto da alcuna banda, similmente con comodità in quel platano Licinio Muziano tre volte banchetto con diciotto com- pagni agiatamente, ponendovisi a tavola nel vuoto di quel pedale, accomodandosi di tutto quello che gli occorse, per riposarsi e sedersi quietamente, con l abbondanza delle sue foglie e rami, i quali tanto oltre per la campagna si distendevano, che si poteva sotto essi larga- mente passeggiare e fare esercizio. Così fe Caio Galba in un altro a Veliterno, dove convito quindici, statovi tanto con agio, che lo chiamò il nidio. Sì racconta ancora da Pausania di quello sotto il quale nacque l idra. Scrivono in Candia essere stato uno di perpetua foglia, sotto il quale giacesse Giove con Europa; e Dionisio Siracusano averne traspiantati due erossissimi da lontano in Reggio, dove poi tenne scuola; ma non potettero mai, se bene appiccati, prendere aumento. Et ai nostri tempi uno se ne vede in Basilea che cuopre quasi una piazza intera, mirabilissimo, con una fonte appresso. Un platano delfico e l altro in Uafii 970 d’ Arcadia scrive Teofrasto che durava a tempo suo, con credenza che li fossero stati piantati già dalla mano d’ Agamennone. Le quali cose tutte rimostrano in che stima si deggia avere la pianta del platano, la cui ombra è giocon- dissima, se bene un po’ grossa. Ammette il verno il sole e la estate lo rattiene; vien presto, ama l acqua e dove è adacquato si sol- lecita di metter presto più umida, più fresca, rugiadosa e delicata la foglia, e con questa e con l arena ai piedi, scalzandolo, e rinnovan- dola ogni anno o aggiugnendovene spesso, prende grandissimo aumento. Ama ancora d’ es- sere annaffiato col vino e con questo si fa fuor di modo vistoso e bello. S' allieva ancora nei luoghi asciutti e monti, ma vi viene stentato e non troppo vi cresce. Fa bene attorno ai pra- telli dei gran palazzi villerecci a far gratissima ombra e stare al fresco. Il platano comporta ogni colpo d’ accetta, né patisce d'essere sca- rato, nutrendosi per la corteccia ove non lo possi più sostentare il legno. Vive assaissimo tempo. Ne nascono in Sicilia in molti luoghi; e vicino al Mongibello nei monti di Randazzo ne sono le selve intere, se bene è arbore forestiero in Italia, portato primamente nell’ isola da Dio- mede. Ora di dovunque egli nasce e si produce da per sé, cavato con diligenza, quantunque grosso di venti o venticinque anni, scapezzato a corona dove muove i rami, coperto in su ’l taglio d'argilla o cera, s attacca felicissima- mente come l' ulivo, et è assai che sia piantato in divelto, fossa aperta o buca, larga e profonda, all ottobre nei luoghi caldi, al febbraio et al DI marzo nel freddi; et ancora, un poco prima che cominci a muovere, dopo l equinozio, conviene nel fondo dove sì pone mettere assai arena, et appresso a questo frequentare d’innaffiarlo, et accanto a questo, secondo la qualità del paese e del luogo, crearlo, stendergli i rami o innal- zargli o dar loro quella forma che si desideri. I quali rami, strappati freschi dall’ arbore, e piccoli e grossi s' afferrano piantati con dili- genza alla foggia degli alberi, ma scapezzati, o lasciandogli con una cima sola a primavera; ma scoscendinsi in modo che portin seco alquanto del vecchio. Seminansi ancora quelle sue coccole intere, ma nascono con fatica e per forza di continuo innaffiare, e poi nate vengono a bell’ agio. E quelli che hanno le barbe, di tre o quattro anni, grossì come un’ asta, s' appiccano con facilità e cascano presto. Volendovi mandar su le viti, manten- ghinsi larghi et aperti, ché sono arrendevoli quanto il cipresso e sì guidano per ogni verso come si desidera. Il platano riceve in sé lieta- mente il pero, e il moro ancora vi s attacca; [ma] né l uno né l'altro molto vi dura et è difficile a insetarlo, perché ha la buccia troppo sottile et il legno duro, il quale è buono per tavole pulite, a impalcare e a molti usi casa- linghi. Le foglie del platano appiccate per le stalle ne rimuovono i pipistrelli. Le pallottole del platano e la corteccia macerate con acqua e sale fanno olio buono a far lume. I platani che sono piccoli e bassi di natura, detti Cami- platani, sono sconciature dei grandi, del tutto nani. Tagliansi, potansi in quella guisa e pian- 902 tansi che fu ritrovata a tempo di Cesare Augusto, della maniera con che s' avessero a potare i boschi. Ritruovasene quasi per tutte le selve e son buoni a verdure basse e spalliere nane; et ancora possono servire a rifortificare le siepi. Il Pioppo o Popolo bianco ha le foglie di sopra che biancheggiano; è albero di sua na- tura campestre e bramoso d’acqua; ha il tronco erto e diritto, il legno bianco dentro e pieghe- vole, molto a proposito per far targhe, per essere tenace e leggieri. Ha la scorza sottile e carnosa, le foglie tremolanti e numerose, den- tate d’ attorno quando sono giovinette, e poi che invecchiano riescono a cantoni, a contrario dell’ ellere che si fan tonde, biancheggianti di sopra e lanuginose di sotto, di color d’ erba. Le frondi vagliono solamente a fare scope. Non fiorisce, ma produce un uva che si chiama brion, della quale se ne fa l unguento popolino di primavera, che è sugosa e ben piena. Mette il popolo bianco fra i primi arbori poco innanzi all’ equinozio di primavera, sì confà al salcio, all’olmo, all’ ulivo nel rivoltarsegli la foglia sozzopra, fatto il solstizio di estate. Produce ancora una gocciola nelle sue foglie, con la quale le pecchie turano e fortificano le loro entrate; il suo legno posto in su ’1 fuoco fumica assai. Ama luoghi acquosi e palustri, e però fa bene nei terreni umidi et arenosi; et in questi, vangati sotto un braccio, spiccatone un tronco diritto di un braccio e mezzo, per due dì posto ad appassire, s appiccherà. Si pianta lontano DIS un braccio dall’ uno all’ altro, riempiendovi sopra di terra per un braccio, si che a fatica eschi fuor la punta pareggiata; a questo modo fatte le vive radici d’ essi, che noì chiamiamo barbate, sì traspiantano a dove vuoi che stieno a sostener le viti, le quali da loro sono gran- demente amate, et esse sopra vi stanno e sa- gliono volentieri. Ma meglio riusciranno e da più presto servirsene alle medesime viti, pro- ‘acciandosi dalle selve di dove nascono, cavati con le barbe con diligenza, della grossezza d’ un’ asta, gioveni e non vecchierecci, e sca- pezzati sopra terra due braccia, piantati in terren buono divelto o buca grande o fossa aperta, a febbraio e marzo nei luoghi freddi, a ottobre e novembre nei luoghi caldi. Fu dedi- sato questo pioppo ad Ercole, come l'eschio a Giove, il lauro ad Apolline, l ulivo a Minerva, la mortella a Venere e l ellera a Bacco. Il Pioppo o Popolo nero è più alto e più robusto che ’1 bianco, ha più strette frondi e scorza più aspra, e quelle paiono fatte con le seste, tanto son tonde da giovine; vecchie diven- tano angolari fatte a cantoni, di sotto erbose, di sopra biancheggianti, con un picciuolo tre- molante che le fa sgricciolare insieme. Il bianco e 1 nero ambi sono diritti, ma ‘1 nero è mag- giore et il legname è all uno et all’altro bianco. Credesi da alcuni che per vecchiaia il bianco traligni in questo, ma è più da tenere che elle sieno spezie diverse. Questo ancora genera nelle foglie una gocciola che serve alle api a far il lor riparo all’ entrata delle cassette. DI4 Manda ancora fuori un umore come di ragia, il quale dicesi che stillando nel Po, intorno alla ripa del quale ne sono in gran copia, indura e rappigliasi in ambra gialla, detta dai Greci chrisoforon, il quale pesto rende grato odore et ha color dell’ oro, e strofinato a un pannolano tanto che si riscaldi un poco, tira a sé e tiene attaccata la paglia, come la cala- mita il ferro, e tutte le più leggiere cose, eccetto che l ocimo, che cintone lo rifugge. Si pone e cresce come l altro, amando il terreno medesimo, benchè s appicca ancora in più asciutto luogo, ma non vi s aumenta tanto. Questo è legname più sodo e più forte dei cerri e degli aceri neri, atto agli edifizii di dentro, a travi, come l altro. 1] Pioppo detto alpino, da altri chiamato libico, del quale fa Teofrasto menzione, è alto come gli altri, simile nella scorza al pero, che così l hanno intagliata tutti, ma questo più aspra; i rami candidi, la foglia alla foggia dell’ ellera, sparsa da ambedue le bande di pien colore verde nero, e da una parte piana, dall’ altra a cantoni, i picciuoli sottili e lunghi, il colore di sopra quasi simile a quel di sotto. Libico si chiama quello che ha la foglia pic- cola e nerissima, imperciò si doveria chiamare il pioppo nero. È lodatissimo per far nascere de funghi. Se adunque la corteccia del nero e del bianco si tagli in piccoli pezzi e sì sparga in fossette letamate di buona terra, produr- ranno su funghi casalinghi e sicuri per tutto l’anno. Nel rimanente si pianta e s' appicca = Da) come gli altri, e le viti vi vanno su volentieri e vi s accomodan sopra comodissimamente; e massime riducendolo a capitozza e sfoggian- dogli et aprendogli i rami, vi farà su abbon- dantissimamente dell’ uva. Il suo legname, quando è ingrossato assai l’ albero, è buono per tavole, bianco e delicato, e per ogni lavoro di casa. Il Pistacchio è simile di garbo di pianta al lentisco, avendo egli quella fazione e la foglia un poco maggiore, ma posta a riscontro l'una dell'altra per ordine di quà e di là. Negli ultimi tempi di Tiberio Cesare, Vitellio che fu censore innanzi governatore in quella provincia, gli portò di Siria, e poco dopo in Spagna Flacco Pompeo cavalier romano; poi se ne sono visti per tutta Italia, et in Sicilia nell’ istesso monte di Mongibello sono frequenti, et in Parigi scrive il Ruellio essersene veduta una pianta nata di seme nei chiostri di Santa Maria in Parigi. Et in Toscana ne possiede uno in un suo luogo in val di Pisa, sotto una grotta a un caldîìo, Gio. Vettori virtuoso e di virtù amatore, cresciuto in pianta grande, il quale senz’ altro vedere o avere appresso la femmina ne conduce dei freschi alla sua dovuta matu- rità. Per contra ne ha uno Raffaello Maffei alla sua villa volterrana di San Donnino, che è assai maggiore di quello e più annoso, il quale è sterile; o venghi che è in un chiuso freddo, o volto alla tramontana, d’ esso non si veg- giono altro che foglie. Il padrone, complitissimo in ogni lodata qualità e sciente d’ assai più 976 che molte cose, non ha mai saputo ritrovar la via di farlo fruttificare; perche è cosa vana quello che continuamente tengono in Sicilia per openione, che se non può il maschio essere in lato onde possi veder la femmina e così per contrario, essere ambedue sterili. È ben vero che ha il maschio e la femmina. Il maschio ha sotto la coperta de’ suoi frutti le scorze degli ossi un po’ più lunghe, la femmina più corte e grossette, si come s è visto a Napoli et a Vinegia et a Gaeta, dove sono le piante che ne fanno. Riceve in sé d’inseto il noce e ‘1 mandorlo e ’1 terebinto et in sé stesso. Dama- geronte Greco così gli seminava: congiungeva del mese d’ aprile l’ uno e l altro seme in modo che la schiena del maschio voltasse a Favonio, e la femmina per contrario; insieme conviene eleggere i pistacchi più gravi perché naschino meglio, e deonsi tenere parecchi dì nell’ acqua, di poi in terra trita, ben lavorata sotto, coperti quattro dita e non più, seminargli con la punta all’insi a luna crescente; nati, zappinsi all’ in- torno e sì tenghino netti dall’ erbe, et in capo a due anni si traspiantino in divelti, fosse aperte o buche grandi, in luoghi caldii et umidi; sl come ama d’ essere adacquato. Queste piantette di due anni, Passamo, in luoghi a solatio, avendo fatte fosse ben lavorate et a dentro, eleggendo le più vivaci e rigogliose e fresche, due insieme legate et impiastrate di letame a luna crescente ve le cacciava dentro, e così bene strette e legate insieme sino alla cima, ammontandogli la terra in giro, sino a sommo le ricopriva, ma dava opera che di con- SY tinuo le s' annaffiassero, et in capo a otto dì riguardando come stavano le rilegava e restri- gneva bene insieme con giunchi, perché sì incorporassino e commettessino bene insieme; e come queste piante avevano tre anni finiti, scabratele e cavata bene la terra delle fosse, vi spargeva del letame macero assai, e cacciato più a dentro il pedale, le riempieva di terra e con questa molto bene le fortificava, perché elle potessino poi meglio resistere ai venti, stare in piede e venire innanzi; così faceva più ampie le piante e più belle. S' insetano d’ aprile verso gli ultimi giorni, essendo allora in umore, a marza et a bucciuolo et a scudetto, e ’1 suo legname è lustrante e sodo; et al tornio, a lavori di letto e tavole, pendente in rosso, riesce pulitamente. Nasce con la diligenza detta in Italia, ma per lo più non fa frutto, se già non si facci venire in luogo a solatio et in terreno della qualità sopraddetta; et in simile lato farà bella spalliera per variare. La Quercia, per autorità del detto di Plu- tarco dedicata a Giove, delle cui foglie face- vano gli antichi le corone civiche, è il più bello dei salvatichi arbori e fertilissimo sopra tutti gli altri, perciocché oltre alla ghianda della quale ella continuamente nei luoghi buoni quasi ogni anno sì carica, e quando o per vec- chiezza o per mancamento di terreno ella resti talora di far ghiande, gastigata con 1 accetta con scapezzarla o con tagliargli i rami grossi et inutili a rinnovargli, tornerà decrepita a produrne, e massime levandogli ogni seccume SÙ 9(S d’ addosso, e Vl istessa sua cima, dalla quale il più delle volte comincia a venir meno, seccata levar via. Et è la sua ghianda per i porci la miglior che sia e massime d'una certa sorte quercie, che le fa più delicate dell’ altre, tra le quali sono le enninas di Spagna, che si possono quasi domestiche quercie chiamare. Ne vissero delle ghiande di quercia già antichissimamente nei primi tempi del giovine mondo gli uomini; e nei tempi della carestia, delle ghiande maci- nate s'è fatto pane commestibile e nutritivo e di quelle farine, manco peggiore dell’ altro, rifatto che spesso egli sia. Producono le quercie, oltre alle ghiande, due sorte di galle, le une dette gallozzole, le altre galluzze, queste buone per le tinte, quell’ altre inutili, come un certo tenerume che le fanno in foggia d'un tartufo bianchiccio, che casca presto senza far altro. Genera ancora tra le foglie nelle cime dei ‘ametti una cosa in foggia d’ un tubolo, rossa, viscosa e ragiosa di fuori, che pare invernicata; e genera un’ altra cosa simile alle more nel mezzo della foglia, bianche ma liscie e rotonde, molto dure e malagevolissime da rompersi, che raro si truovano e poche; et un’ altra ne fa simile al membro virile, la quale crescendo alla perfezione, genera nelle parti superiori una durezza pertusata, simile alla testa d’ un toro, in cui è dentro un certo che simile a un nocciolo d’ uliva. Fa ancora da principio gran quantità di pallottole acquose che si chiamano uve del diavolo, et una cosa come un riccio di castagno, che comincia in una pallottola soda e sopra quello vien circon- 519 data d'un folto pelo ruvido e tenace, rattorto alla grandezza d'un riccio sopraddetto, et un’ altra che vien cinta d’ una certa lana mor- bida la quale può servire per lucignolo alle lucerne piene d’ olio; quell’ altra pallottola capigliosa è inutile, simile al riccio, come si disse, di castagna; tenera imbratta come mele, toccandola. Fa oltre a ciò nelle concavità dei rami alcuni pallottolini senza picciuolo, concavi ove elli veggonsi, che si ritruovano quasi in tutte le quercie e di diversi colori. Genera ancora una piccola pietra rossa, ma rare volte. Fa appresso a questo una pallottolina più rara di foglie ravviluppate in sé stesse, lunga e schiacciata, et un’altra sopra e sotto alle foglie, bianca et acquosa mentre che è tenera e fresca, che talvolta ha dentro di sè delle mosche, e crescendo indurisce assai bene, come le galluzze piccole liscie. Nascono fuor di queste cose appresso alle lor radici de funghi che son buoni a mangiare. E rovinata e tagliata che ella sia, stando stesa in terra a giacere, tra la scorza ne genera degli altri, et alcuni quando è in piedi, buoni a far esca e a stropicciare la testa: ma più questi il cerro. E finalmente genera il più buon vischio da far pania di tutti gli altri. Varrone attesta che fra i Turii, che anticamente si chiamavan Sibari, alla vista del castello era una quercia che sempre stava verde, e Teofrasto fa menzione d'un’ altra a Sibari che non perdeva mai foglia, né metteva quando l'altre, ma nel sormontare della Cani- cola; e nascerne nel Mar Rosso, nel più profondo che vi fanno ghiande et in altri mari più 550 presso alla terra, certe querciette fra i sassi e sopra li cocci rotti di terra cotta, senza barbe, che stanno attaccati come le patelle. E Polibio scrive una delle gran cose del mondo, nei mari di Portogallo far quercie ghiandifere che som- ministrano quivi il mangiare ai tonni. Il legname della quercia è durabilissimo in terra e nell’ acqua, et in queste quasi eterno, solo dopo molte centinaia d’ anni diventandovi nera morata come l ebano, buona a tarsi et altri lavori. Richieggonsi le tavole delle quercie segate grosse per le carene delle navi, per l’ossatura delle galere, per le squere, per timoni e tutti legni di garbo rattorti. È buona per travi, et in alcuni luoghi ancora se ne ser- vono per far botti. Si trovano quercie di smi- surata grandezza: ai nostri tempi, scrive Vl Her- bacchio, in Westfalia esserne una non troppo lontana dalla rocca Altenura che avanti che gli comincino i rami ha di gambo pulito cento trenta piedi, che a fatica l aggavignano tre uomini; e in un altro luogo di Germania un’ altra caricò cento carri, disfatta del suo legname; et un’altra, non molto discosta da quivi, grossa dieci ulne, ma non così procera. Scrive Plinio che gli assassini di Germania andavano in arbori scavati, dove trenta ne capivano. Piglia oltre a questo la quercia, industrian- dola da piccola, qual forma altrui si vuole, di tabernacolo, di capannone a cupola, di gal leria, di stanza piana o rotonda, di pergola; e di tutto quello che sotto se gli ponghi per guida, seguiterà, procurato di tempo in tempo, bSi il legname, come se ne vede una alla Spinu- cola, che ha sollevato da terra uno stanzone in foggia dun tempio, con un andare attorno che si regge e cammina sopra i suoi rami, del signor Gaetani in quello di Pisa, et altre altrove. Scrivono che Alessandro Magno con- salvava la neve nelle fosse sotto terra tra i rami della quercia; ma il vero modo è [d' aver] fatta una grande stanza quadra con grosse mure verso tramontana, che vadi sotterra quattro o cinque braccia, il resto sopra con tetto che chiugghi per tutto; in questa si fa, di vimini di castagno o di rami intessuti di quercia, un tessuto di graticcio, che come una guglia a rovescio [stia] appoggiato alle mura con pali che pontano; quivi dentro si porta la neve quando la non è ghiacciata e vi si pesta con le mazzeranghe, e ripulita e stivata bene vi sì conserva all estate. In qualunque opera ancora che la quercia si sia allogata sotto terra in luogo umido, si come viva vi vive, vivendo vita infinita, non suggetta a ingiuria di mali, fuor che per la vecchiaia diventar cavernosa, al che sovvenendo col tagliare, levando il cat- tivo et aprendo ’1 legname a dargli sfogo, si nutrisce e mantiene per la corteccia. Ristrignesi la quercia e si riserra, non mai seccando bene che dopo lungo numero d’ anni. Desidera anzi che no aere caldo, nel temperato fa bene, ma non si grande, nei paesi oltre a modo freddi non fa così bene et i frutti ancor cattivi, se ben anco si comporta non pur nel freddo ma nel freddissimo, come nell’ Alpi. Vengono meglio in terreni leggieri et arenosi che nei grassi e gelo) gravi, se bene le non rifiutano terreno che sia, né anco sassoso e pieno di massi, e nell’ albe- rese fanno sfoggiatissime. Sofferiscono ogni sito o basso o alto, ma nei luoghi asciutti fanno le miglior ghiande; e nella [terra] paludosa ancora s' allignano e vengono belle, non rifiutando quasi alcun terreno, che il secco affatto. Fra i sassi istessi vengono e nei [luoghi] montuosi, ove fanno utilissime ghiande. Riceve in sé d’inseto la quercia il pero, si come ambi questi arbori hanno la buccia screpolata e ronchiosa, ma l innestare vuole essere fatto nel liscio e nei querciuoli giovanissimi fra le due terre, et attac- casi fra un anno: [appresso è da] trapiantare, e in trapiantando far andar ben sotto 1 anne- statura. Così viverà il pero più del suo solito, acquistando anni dal robusto della quercia. Vien meglio la quercia da per se che semi- nata, a tal che volendo far quercieto è meglio trasporre di quelle delle selve nate da loro, met- tendole o fonde o larghe come si vogli, in ter- reno che se gli affacci, in divelti o fosse aperte o buche grandi, risguardando nel cavarle di non impedir la maestra, e l offese tagliare anzi che fracassate sotterrarle. Ma volendo farle nascere di seme, s hanno a cogliere le ghiande mature che è quando cascano da per loro, grosse, ben fatte e di buon sapore, sane, intere, e non intarlate e venute a terra o colte dalla banda che poco sieno percosse dal sole; e disumidite per tre o quattro dì all ombra, si seminino in terreno trito e ben lavorato e fitte, perché luna sostenga Vl altra sino ai cinque anni; et abbisi a mettere di mandare dalla banda della 585 ghiera la ghianda in terra, ricoperta per un palmo; e quando le trapianti, fa d'aver cura alla maestra, ponendole come le prese dai boschi, e in tal terreno voltandole fra bacio e mezzogiorno, e massime volendole per legname, del quale il volto a tramontana è più sodo e fendibile, quel di mezzogiorno più delicato e trattabile; e così di tutti questo ancora arde meglio e più dura, quello fa del tutto il con- trario. E desiderando ancora di far selva alla campagna aperta, di circuito grande, arivisi la terra una volta e gittivinsi le ghiande a giu- melle, poi si rintraversi, e così ricoperte alla rinfusa nasceranno; e nate diradale secondo che tu le vuoi, o fitte o rade; e questa sementa sì facci di novembre nei luoghi caldi, e di feb- braio o marzo nei temperati o più freddi. Quando le quercie son giovini s' hanno a potare i rami sino alla cima, e da piè tagliati peri- scono; il che non avviene alle grandi, che allora per legne si possono tagliare da pié o alte quanto un uomo, per farne capitozze, il che è ben fatto alla luna crescente di gennaio, o sì vero a quella luna scema di ottobre; e scapezzate che le sieno per la prima volta se gli deono compartire le messe, che così ogni sette anni saranno da poter essere ritagliate, e rimetteranno, per seguitar così di continuo alle medesime e più messe, avvertendo di fondarle bene con taglienti istrumenti, senza guastargli la corteccia. Le ghiande si conservano ammon- tate nei luoghi asciutti; e chiuse sotto l arena secca sì conserveranno un tempo come fresche. Le ghiande, oltre all’ essere cibo perfettissimo DS4 ai porci, che fa loro la carne soda e più sapo- rita, per i polli ancora fan buono effetto, frante, di crear carne densa e buona, e se gli possono, pestate in truogoletti di pietra, mescolare con la crusca, e massime ai pavoni d’ India che di così mescolata piglieranno grande augumento, ingrassandosi a meraviglia. La quercia è per natura nemica all’ ulivo, e le gocciole del- l’acqua che cascano dalle sue foglie fan noci- mento a tutto quello a che sopra danno: et avversaria ancora al mandorlo et ai noci. Il carbone della quercia basta più d'ogni altro e sopra questo voglion dire che fosse fondato il memorabil tempio di Diana Efesia, che fu attac- catovi fuoco et abbruciato da un uomo greco per acquistar fama. Ha la quercia la buccia più crespa del cerro: e meno si profondano e s' allargano le sue spaccature. La foglia ancora del cerro è più lunga e più intagliuzzata, si come le ghiande più lunghe e peggio fatte. Alcuni tengono che la quercia, perché cresce tardi, non sia da essere tagliata prima che ella abbi otto anni, e quanto più appresso a terra sia tagliata, meglio rimetta. Le quercie sono differenti di sito e spesso di frutto, di sapore, di grandezza e di figura, perché altre sono più rotonde, altre più lunghe, altre aovate; et ancora della delicatezza della buccia e sotti- gliezza. A alcune è sotto un’ invoglia scabrosa di rossore , altre hanno bianco ot corpo, altre di color più bianco, altre di nerissimo; passa innanzi la più bianca. Ancora la sodezza del pedale e grandezza fa differenza. E commen- data oltre a modo quella nelle cui ghiande 5S5 dall'una banda e dall’ altra V estrema durezza impietrisce, e nelle cui estremità è l amarezza, nel mezzo dolce. Rimase alla quercia attaccato per i capelli in un ramo basso Absalone ('). Il Rovere da tutti è messo per la quercia salvatica, e genera quelle medesime cose che la quercia ordinaria; solo le sue ghiande sono alquanto più piccole. Ha i rami sparsi, la foglia con grinze fatte a vesciche, e la scorza grossa e scabrosa. Porta, oltre alle minute ghiande che ella fa, gallozzole di più sorte, funghi, vischio, e secondo dice il Ruellio, certe pie- trette rosse o più tosto certi noccioli acquosi, biancheggianti e trasparenti, mentre son teneri, di poi induriscono come la galla, la quale ancora in esso sì genera; ma la vera gallozza è quella della quercia. Genera ancora certe pallottoline molto varie, delle quali alcune non dissomigliano dalle noci, che han dentro certi filucci lanuginosi, che possono servire ancora essi alle lucerne. Presso alle sue radici nascono volentieri i boleti. Del rovere quattro sono le (1) Il capitolo della Quercia è compiuto col brano seguente, scritto fra le righe, e che attacca subito dopo la parola Absalone: « Le ghiande della quercia si conservano all’ asciutto, quelle di cerro meglio nell’ umido, ma ambedue dopo un anno sono inutili. È la quercia sopra gli armamenti di legname che vi sia fatto a che garbo altrui sì vogli, ubbidiente al pennato et accetta, pigliando qualunque garbo se gli dia; ma conviene avvezzarla da giovine a prender la forma, torcendola ove si vogli. N° è una di memorabile artificio rappresentante un tempio sopra il suo gambo, con un bal- latoio attorno di giro di più di settanta braccia, e il tempio di set- tantasei, e sì sostiene su sovra i rami istessi, alla Spinucola del sie. cavaliere Francesco Gaetani Hieros., condotta con continuo studio di trenta anni ». 5S6 sorte, dice il Ruellio: la quercia, il cerro, l’eschio et il rovere. Et il legname della rovere è men buono di quello della quercia, ma non infradicia come il cerro, e tagliato a buona luna alla primavera più che di inverno, dura condensato e sodo come un corno. Molti osser- vano di tagliarlo tra il ventesimo e ’l trente- simo dì della luna; altri dicono che si dee atterrare nel suo coito, che molti interlunio et altri luna silente l appellano; e certi aggiun- gono che ella sia in coito e sotto terra. Soli l’abeto, il rovere et il larice fanno tre messe e partoriscono il lor frutto con il riempiere tre coperte che hanno di scorza, e così questi come la quercia impongono le ghiande in su la mossa dell’ anno dinanzi. Sono ottime le ghiande di quercia, accanto a queste son le faggiuole e le castagne, poi l eschio e poi il rovere con le sue piccole; del cerro sono cattive. La ghianda di quercia condensa la carne del porco e la fa durare, se la sia insalata e tenuta al fumo a modo; per contrario quelle di faggio e le castagne, perche ambe son dolci, fanno bella carne e utile allo stomaco, ma non così dura e da bastare; prossima al cerro, né altra si crede che facci al porco più soda carne, più bella e più pesante della ghianda del leccio; quelle dell’ eschio fanno la carne fangosa, e quelle della sughera peggio. Sono detestati i carboni del rovere giovine e del vecchio, commendati di mezza età. Il rovere manda in profondo le sue radici carnose, la quercia più schiette le sparge per il terreno. Tagliato di primavera non intarla. Altri dicono nel cominciar del 587 verno doversi tagliare, e per la Bruma tagliato putrefarsi. Il suo legname nell’ acqua dolce è eterno, nelle salate marcisce. Il rovere scrive il Ruellio essere tanto sodo, che se non nell'acqua tenuto non si poter succhiellare, et un chiodo che vi sia fitto non si poter più cavare: il suo medollo è sodissimo oltre a modo. Serve il rovere al medesimi usi di lavori che la quercia, e sì semina, nasce e s' allieva come la quercia, amando la qualità del sito e terreno di essa. Il Rhododendron (') suona propriamente lauro che facci rose, chiamandolo Rhododatne: e di vero che egli ha le foglie somiglianti al lauro, un po’ più lunghe e più strette e più ruvide e per i rami non tanto fonde e tuttavia verdi come quello. I suoi fiori agguagliano le rose per il colore incarnato, ma sono d’ altra fazione, e d'un’ altra sorte ne sono che le fanno bianche: nel resto tutti uno. E di questi in Sardignia ne sono i boschi interi, come che egli amano i luoghi di marina ameni e d’ essere a seconda dei fiumi; imperciò il terreno fresco, leggieri et arenoso fa per loro. Hanno il seme giusto come quello della Periploca; e seminato alla primavera et all’ ottobre in terreno ben trito minuto, nasce, seminato alla foggia del seme che si disse del lauro regio; e dopo due anni si traspiantano a dove altrui gli vuole, per godere in spalliere la sua vista e verdura, non avendo altro in sè di buono, perciocché i (i) Già pubblicato da me dopo il Lauro e nello stesso opuscolo per nozze Carducci-Masi; Bologna, Zanichelli, 1889. 58S suoi fiori e fronde non sono buoni a mangiare per .le bestie, anzi gustati che li hanno le ammazzano, come di morbo regio sbalordite, e massime il cavallo; se bene all’ uomo fa effetto contrario, ché spolverizzato con la ruta apporta remedio contro al veleno. E le pecore e ’1 minuto bestiame beendo dell’ acqua dove sieno state le sue foglie, perdono la vita come di mal caduco; cosi n’ avvenne a’ soldati di Alessandro Magno, guerreggiando in Siria. Sogliono pullulare a pie del tronco certi rampolli, che avendo messe le radici, et anco scoscesi con un poco del vecchio, si traspiantano a l ottobre nei luoghi ‘aldi, nei temperati e freddi, chè tutto com- porta, a primavera, facendo buona pruova come tutte le altre piante che si desidera che pro- fittino bene, in divelto, fossa aperta e buca larga e profonda. Non rifiuta al piede e gli fa bene ogni sorta di concio fradicio et il cene- racciolo dei bucati. Si deono nelle spalliere mescolare i bianchi con i rossi, che faranno vaga composizione: così nei capannelli e strade coperte. Se le buche a dove passano i topi si riturano con le sue foglie, di modo che volendo uscir fuori sieno costretti a mangiarne, muoiono; e se getterai dei suoi pezzetti di legno tagliati minuti in una cassetta aperta, tutte le mosche e pulice vi concorreranno. Dicono che Moisé, co "1 bastone di questo legno toccando 1’ acque, d'amare le fe’ diventar dolci. Il Sanguine è una piantetta che se ben cresce assai, non per questo si può dire arbore, ma frutice. Ha la foglia come il gelsomino e L'E DA 9S9 la corteccia sottile e di color sanguigno in qualche parte. Fa certe coccole grate agli uccelli, imperciò è buono a piantare per le ragnaie. Il suo legname è arrendevole e deli- cato. Truovasene per le macchie, nati da per loro, e con ogni poco di diligenza cavati s' at- taccano. Il Silio ha la foglia simile et un poco più sottile e foggiata, fa il fusto rotondo et i rami crea quasi che di forma quadra; cresce e s' alza un poco più del sanguine. Fa certe coccole rosse triangolari, e quando sono ben rosse, allora sì seminano e nascono. Ancora questa pianta fa bene nelle ragnaie. Truovasene per i boschi e macchie da trapiantare. Ricerca buon terreno come il sanguine, ma fa per tutto. Il suo legname è buono a far fusi, aspi e rocche, e sopratutto lardaiuoli. Il Susino è nobilissima pianta per far frutti delicati a mangiare e cavar la sete, mollificare e lenire, e delle sue sorte ne sono quasi quante delle persiche e dei fichi, delle primaticcie, di mezzo tempo e serotine, a tal che dall ultimo di primavera sino all autunno se ne possono avere, e massime a buon’ ora, che se ne man- giano ancora delle non mature, e di quelle che altramente non maturano, sempre di color verde, chiamate verdacchie, non aspre né che alleghino i denti. Appresso a queste sono le giugnole grosse e minute, le porcine, le asinaie, le maglianesi, tutte primaticcie e delle men buone, le catelane, le dommaschine, le perni- 990 cone, le imperiali, le basilicate, le del miracolo, le belcuore. Vengono dopo, come quelle del re, le prugnole e le abosine, e le simiane sono l’ ultime. Sono le susine di diversi colori, negre, bianche et orzaiuole, che accompagnano l'orzo; sono delle rossigne e di color dorato. Sono larmeniache di buon odore, sono le onichine lodate da Columella più delle nostrane. Se ne ritruovano delle adottate nel noce che rendono il sapore dell adozione e la effigie del padre, chiamate nucprune. Per ricordo di Plinio in Pontica le maline inserite ai meli, et altre mandorline a’ mandorli; e queste hanno dentro il nocciolo di mandorla: né è altro frutto più di questo ingegnoso in doppiezza. Le dama- schine da Damasco di Siria vennero portate. Le mixe sono in Egitto, delle quali si fa il vino, familiari in Italia, inserite ai sorbi. Tutte le susine è cosa chiara che furono addotte in Italia dopo Catone. Sono in Egitto, dice Teo- frasto, susini oltre a modo grandi, somiglianti alli nespoli, di foglia simile al susino, che per alcun tempo non gli casca. E le susine mirobo- lane ancora esse sono state trasportate d’ Egitto, et inserite in su i susini naturali pruovano bene; e così queste come le dommaschine vo- gliono essere piantate a mezzogiorno in tert: asciutta e secca; le simiane, così bianche come nere, vogliono essere poste a tramontana, e le pernicone amano l uggia e di stare in luoghi serrati difesi dai venti; tanto amano quelle chiamate del re, che di Francia sono venute, st come le vere pernicone, che sono più minute assal dell’ ordinarie, un poco più grosse delle 591 ciriegie marchiane. Tutto il rimanente dei su- sini, come pescaccie e belfiore, desiderano aere fresco e temperato, et in questo stato profittano meglio che nel troppo freddo o troppo caldo, nel quale conviene aiutarle con l adacquare; nel freddo si comportano per la lor natura sì come in Ungheria, ove n'è grandissima quan- tità, et in Transilvania eccene più grosse del- l'altre. Ricercano terra grassa et umida et in questa sono più fruttifere: ma nelle più deboli e magre fanno il frutto più saporito. Amano nei piani luoghi che sotto abbino ghiaia e nel monte o collina vogliono sassi, nell’ un luogo e nell’ altro facendo bene; e nelle valli e a pié delle radici dei monti è il lor proprio luogo da farvi bene. Non andando i susini con la lor radice troppo a fondo, nei terreni grassi e soffici sì può fare il lor divelto, buca o fossa, meno a dentro, ma nei luoghi magri et asciutti si dee andar sotto quanto s' è detto che si vadi in giù per i frutti nei piani. Si godono per il più d’ aere freddo, venendovi meglio innanzi e potendolo sostenere: e per riparargli ove ge- lasse, sì piantino un po’ più fondi; ove non sia questo pericolo, ponghinsi assai più radi. Ma fugghinsi i luoghi ventosi, perché in questi perdono il frutto e s' atterrano dalla lor furia et impeto, capolevandosi. Desiderando di entrare in razza d'ogni sorte susini, procurerai d’ avere d'ogni sorte d’ essi susini piccoli nati a pie degli alti susini, pigliando dei più lontani dal gambo, i quali s impiastrino di bovina o altro buon letame marcio; e nei luoghi caldi pon- gonsi d'ottobre, novembre o dicembre dove 592 hanno a stare, in divelto, fossa o buca, e quivi dopo un anno si annestino di quelle razze che si desiderano, scegliendo delle più gentili deli- cate piante di buccia e di gambo diritto e liscio che vi sieno. Nei luoghi grassi non fa lor mestiero di letame, e dandogliene dello sta- gionato nei magri, farà loro rattenere i frutti, e gioverà loro, si come a fargli crescere e migliori. Non toccar loro i rami che vengono a terra, ma lasciagli loro, non che amino Vl uggia più che tanto, fuori de’ simiani e perniconi, ma perché le susine, maturate all’ uggia senza sole, sono più dell’ altre saporite e migliori. Giova lor la cenere e la polvere delle strade. Al modo detto si possono ancora traspian- tare, e fan buona pruova nel domestico, i susini salvatichi, ma non quelli che fanno quelle susine piccole assai su per le macchie, che non maturano mai, chiamate prugnole, per- ciocche questi, st come tutti i seminati fanno, piantati fitti fanno foltissime siepi; e quelli poi innestati fanno mirabil pruova. Ancora, volendo multiplicare in quantità di susini, procurerai d’ avere d’ ogni sorte noccioli d’ essi susini, quando [le susine] sono mature, et in terreno trito e ben lavorato e grasso, coperti 9 due palmi sotto, prima avendogli tenuti in macero nell’ acqua per sette dì, o vero tre nella liscia dolce o nell’ aceto per mezzo, perché muovan più presto e più sien quelli che ne naschino, con Vl aguzzo all insù, di ottobre e novembre nei Inoghi caldi, e nei freddi di feb- braio e marzo. Nati che saranno è di bisogno sarchiargli spesso, tenendogli netti e ben pur- 995 gati dall’ erbe; e quando averanno due anni, cavati con diligenza e con le loro intere sane ‘adici, sì traspiantino a dove hanno a stare, impiastrandogli bene le radici di litame mar- cito di buoi e riempiendo il luogo di terra cotta. Quivi in capo all anno, fermi e bene afferrati in sul terreno, si possono innestare in lor medesimi, pigliando della miglior sorte o che più piaccino, e s' annestano acconciamente avanti che colin gomma, di gennaio o febbraio, o quando han finito di scolarla, quelli a marza più che fra scorza, e questi a occhio o buc- ciuolo et a marza; et è meglio. Si possono annestare sino al fine di marzo. Riceve d’ in- seto il persico e ’1 mandorlo, ma vi fan sopra minori, e per contrario, come s' è detto, il su- sino acquista sopra il mandorlo, et i susini insetati nel persico faranno i lor frutti mag- giori. Non lascierò di dire che sotto il castello della Meglia sopra la Magra un ulivo ha sopra di se in innesto un susino, e vive e fa frutto saporito, se ben minuto. Insetati in mandorlo daran l'osso dentro simile al sapor di quello delle mandorle, a marza e forando; e così in nocciuolo. Accettagli ancora qualche delicata pianta di rovere o castagno o sorbo. Annestati in meliachi o albercocchi rappresenteranno di quel sapore, e sopra gli aranci renderanno il frutto primaticcio. Le susine che hanno la carne soda, come le pernicone, così dette dalle pernici, la cui polpa è di bontà sola, così [come la] lor buona, ne sono delle grosse e delle minute poco meno di quelle delle siepi, dette prune del re, e seminate richieggono 994 terreno freddo et umido più degli altri; e. queste si fanno megliori insetate in sè che negli altri; e tutti gli altri in esse. S'allegrano i susini d’ essere piantati verso il vento di mezzogiorno, per il che si potrìa arguire che fosse loro alquanto contrario il sole, si come sono essi alle viti, le quali s° annoiano con le lor radici et uggia fuor di modo; e volendo chiarirsene, s' osservi che le viti che saranno sotto loro faranno poca uva o quasi niente. Se sieno in terreno caldo e casalingo che gli nuoce, levisegli un braccio di terreno in giro e se gli ponghi in cambio terreno di pietra umido e fresco. Per la feccia del vino o dell’ aceto gettatagli alle radici produrranno più sollecitamente e più saporosi frutti. Vo- gliono i susini essere scalzati al novembre, e con terra cotta riempiere loro al piede: così essere adacquati. Se stanno infermi e faccino assal bozzacchi svariati, gettinsegli al piede due o tre panieri di morchia stemperata con acqua per uguale porzione, o se gli metta alle ‘adici della cenere di sermenti fatta con l’ averne scaldato il forno, o orina vecchia mesticata con acqua o di buoi sola. Se gli caschino le susine, se gli cacci un conio di pino salvatico; la pece liquida mescolata con terra rubrica o la morchia mescolata con aceto, impiastrandogli a dove gli faccin danno le formiche, ponendovene destramente che non gli nuoca, le estingueranno. Sogliono ai susini come ai melagrani empiersi le cime delle foglie di bruchi, al che sovviene il tagliar presto quelle vette, avanti che vi piglin campo, e le 995 mangino. Le susine create da susino fatto inne- stare in su ’1 noce sì conservano più di tutte le altre; ancora le pernicone e simiane, e più queste, le quali bastano assai sotto ’ asciutta arena o in una brocca chiusa in bocca con pece, cacciata in fondo del pozzo; e poste in scatole di legname secco, situandovele che Vl una non tocchi l'altra, sì possono, involte in bam- bagia, trasportare ancora in posti et in paesi lontani. Le damaschine e basilicate gialle, cac- ciate in un vaso pien di vin dolce o mosto, sì che vi nuotino, sì manterranno assai; ancora mature si dia loro un tuffo nella caldaia che bolla, di poi si ponghino al sole, e dureranno: e tenendovele un ottavo di ora quando bolle ben forte, poi poste al sole a seccare, avendo preso bel lustro, basteranno, cansate dall’ umido e tenute distese in lato asciutto; ancora affon- date per un tratto nell’ acqua marina calda bollente, faranno .il medesimo effetto, e nel- l’acqua ordinaria modestamente salata. Altri interamente le seccano al sole ove è ardente, e dove non è così fervido, si sfendono, e cavatone l'osso, aperte vi sì mettono: et a questo modo le catelane che vennero di Spagna e le simiane e pernicone riescono eccellenti, ma sopra tutte le damaschine, le quali poi cotte dispongono il corpo e cotte nel vino di sapa giovano allo stomaco. Si spera, a detta dei Greci, aver susine senz’ osso, cavando alla pianta piccola il mi- dollo, scapezzata un braccio e mezzo da terra, sfendendola perciò sino dove cominciano a spar- tirsi le barbe, acconciandola come si disse del ciriegio; o veramente, ficcato un ramo di salice 596 > in terra a guisa d'arco, vi si facci passare di sotto il susino, piantato quivi a posta per ciò; e quando averà fatta insieme la presa, sì tagli rasente sotto ’1 susino e si traspianti co ‘1 sa- lice, ammontandogli terra addosso; così, nutrito dal salice con gran contento suo, per il miglio- ramento produrrà susine senza nocciolo. Così si facci al persico, al giuggiolo e a tutti che hanno l osso. Ancora ho inteso essere una razza di susine che naturalmente le fan senza noc- ciolo, e di queste s' ha a cercar d'avere e pian- tarle nel secco. Facciasi fare un vaso di stagno o rame che ben si possi chiudere, soprappo- nendo bene incastrato l uno con l’altro insieme, si che serrino in modo che non v entri aere né acqua: acconcinvisi poi dentro le susine di maniera che le non si percuotino luna con l’altra, a suolo a suolo, e turate bene, si con- serveranno fresche; e volendo mandarle discosto, colui che le porta metta ogni sera quel vaso nell'acqua, che senta il fresco e non v' entri dentro; e le susine che per questo vi s° asset- tano, non siano colte mature affatto, ma a modo. E questo vaso, cacciato sott'acqua nel pozzo, le conserva buone e sode per tre mesi; e così per un mese sì conserveranno, metten- dole nell’ arena umida, ma non molle. Le basi- licate, colte gialle mature e sfesse, poste a sec- care al sole, cotte nel zucchero, se ne compon- gono tre o quattro insieme, facendo lor fare un corpo solo d’ una susina alquanto grossetta, e così molto salutiferamente per lo stomaco si mangiano a far discendere il cibo in cambio di cotognato dopo pasto, et innanzi a confor- 597 tarlo, per il buon gusto e grazioso sapore che le prendono; et in Genova ne sono di ciò arte- fici eccellenti. Ancora, ogni sorte di susine pic- cole, come pernicone o del re, sfesse e secche al sole, cavatone il nocciolo, si ricompongono insieme, di poi si mettono a suolo a suolo, un suolo di zucchero e un suolo di queste susine, in un vaso di terra cotta invetriata; e chiu- solo bene e ponendolo in luogo asciutto, fanno una gromma delicata, et esse diventano di gra- tissimo sapore e sane. Ancora secche disfatte e poste in mortaio e passate per stamegna, se ne fa un intinto, ponendovi al peso d’ esse un terzo di zucchero in giulebbo. Ancora intere e mezze intere s' acconciano cotte nel mele o nel zucchero in conserva; et in ultimo se ne fan schiette susinate. Il Sorbo, detto da’ Greci os, ancora esso ha il maschio e la femmina, la quale sola fruttifica poi che ha tre anni, e le più piccole e le più rotonde nascono da questa, la quale se sarà sterile e non produca frutto, fendasi per il mezzo la sua principal radice e sì vi metta una sporta di cenere, sopra ricoprendo con terra cotta, o vi sì cacci un conio di radice (') di arbore di ragia. Le acute e piramidali, che han quasi garbo d'una pera bronca, son prodotte dal maschio, più grosse e più foggiate di quelle. E quella sorte riesce più abbondante e più bella, che ha intorno al picciuolo più sottili le foglie. Amano i luoghi vicini ai freddi, et in questi (1) Teda, scritto sopra radice. 595 3 più pruovano che nei caldi e temperati, e sem- pre in terreni grassi; e piuttosto in lati alti delle valli o nei monti, quali più ama, che nei bassi d’ essi o piani, nei quali rare volte frutti- fica bene. Nascono nei boschi da per loro e fra le salvatiche piante producono i lor frutti di più virtù e maggior sapore (*), amando le alture delle selve, quali più ama e vi vien più vivace: e gli umidi ancora non disama, piuttosto freddi che caldi, e nei piani di questa qualità crescono e sì fanno grandi a maraviglia, ma vi fruttifi- cano poco o niente. Il sorbo perde le foglie tutte a un tratto, crescendo lor sotto il pic- ciuolo quando cominciano a muovere a tempo nuovo. Affermasi nei luoghi caldi il sorbo diven- tare sterile, noiandolo il troppo. Sono alcune sorte di sorbe di figura e di forma aovata, più dolci e odorate di tutte le altre, che prendono il color rossigno, cascando da per loro avanti che maturino; e quando si veggono cominciare a far ciò, allora s' hanno a cogliere ad una ad una senza sbatterle, perché elle hanno per na- tura di non maturare in sul sorbo; ma quando elle sono vicine a poter pigliare la maturità, cascano da per loro, che è segnale espresso di voler maturare affatto, il che fanno distese, e non ammontate perché inacidiscono, sopra la paglia trita e massime coperte di sopra con la medesima, in stanza asciutta volta a mezzo giorno, e perché le bastino un poco più a man- (1) E scritto fra le linee di questo brano: « Et in su le lor radici, o scoperte o poco sotto terra, mettono pianticelle molli e spesse, buone a traspiantarsi ». 599 giar fresche, avendo la proprietà delle nespole, che è di non si corrompere in su lo stomaco, se ben appariscono marcide e putrefatte, ma di far discendere il cibo, che è la cagione per- ché elle s' hanno a pigliar dopo pasto, in cam- bio di cotognata o di formaggio, che sono il sigillo dello stomaco dopo il cibo. Non s' hanno a porre tutte ad un tratto in su la paglia, ma in più volte, benché ancora fuor della paglia in qualunque lato tenute maturano, né son sì buone da per loro. Sceglinsi adunque le sorbe mature di buona ragione, di ottobre o novembre nei lati caldi, ne’ freddi di gennaio, febbraio e marzo, e se non è il paese o terreno umido, per tutto l’ inverno; e queste intere, in terra trita e minuta, ben sotto lavorata, sì ricuoprino poco men d'un palmo. Nati poi si custodischino con sarchiare, e cresciuti d’un anno si tra- piantino all’ ottobre e novembre in terreno ben divelto e grasso, in fosse aperte o buche grandi, cacciandoli ben a dentro, perché met- tono ben sotto le radici e s' allargano, pigliando con esse assai paese. Vogliono poi per un pezzo essere zappati bene e scavati all’ otto- bre, et agli asciutti che vanno desiderano d’ essere adacquati; et il lavorare loro attorno al piede più spesso, gli farà ancora essere più delicati i lor frutti. Di seme non degenerano, per quello che si vede per i frutti nati da loro nei salvatichi, i quali, trascelti ai boschi alla grossezza di una corsesca, cavati con diligenza e con la lor fittagnola si traspiantano nei luo- ghi un po’ più temperati all’ ottobre, nei freddi 600 ; a marzo 0 febbraio, e con rami spiccati e sco- scesi dalla madre e dal tronco spiccati co ’l vecchio i suoi, quando non han rimettiticci da piede, s' attaccano piantati in buon terreno e ricoperti e pigiati ben attorno con terra cotta al mese di febbraio e marzo. Del mese di aprile si insetano i sorbi in loro stessi, nel cotogno, nel prun bianco, ne meli fra la corteccia, e di marzo ancora a marza et un poco prima; et al fin di maggio e di giugno, a scudetto et a bucciuolo. Se siano noiati da vermini rossi che sogliono infestargli, cavinsi da dove sono e quivi vicino s' abbrucino: così succede che fuggiranno, morti quelli, gli altri. E venendo da troppa grassezza, se gli fori sotto la radica grossa e senza cacciarvi dentro altro, si lasci scolare. Si dee dar da principio al sorbo quella forma che se gli desidera, con tagliargli i rami che per ciò paino a proposito di dovere essere tagliati ; di poi non si ha più a potare, se non se levar- gli qualche seccume. Avendo accomodate le sorbe quando ros- seggiano bene in un vaso di terra cotta inve- triato, bene impeciatagli la bocca e con questa in giù sotterratolo, tanto che sia dalla terra ricoperto un braccio, in luogo a solatio, si conserveranno, o vero colte a ciocche con i loro rametti e poste in un doglio turato. Ancora, scelte le più sode quando cominciano un poco ad ammezzire et avvizzire in su l' ar- bore, ché allora stanno per cadere da per loro, s accomodino in vasi di terra cotta inve- triati, insino a sommo separate, e più che sieno intramezzate luna dall’ altra con terra nella 601 fossa, perchè cavatane una sì guasterebbero le altre; e poi si finischino d’ empiere di gesso, e capovolti si sotterrino in luogo asciutto o den- tro in casa al coperto, in una fossetta fonda due terzi di braccio, calcandovi ben sopra la terra. Ancora divise per il mezzo sì seccano al sole e si servano all'inverno nei vasi, e quando si vogliono mangiare si rinvengono nell’ acqua calda, dove lasciate per un poco, racquisteranno il loro colore con buon sapore; e seccate su graticci nel forno, servono talora il verno ai contadini a cacciarsi la fame, o a non mangiare affatto il pane asciutto. Alcuni, legate per i loro picciuoli, le attaccano nei luoghi bui et asciutti, in stanze a palco, chiuse sì che non vi penetri l’aere. In su la paglia del grano intera, poste fitte, si matureranno presto; e messevi rade, più indugieranno a maturarsi e si conserveranno. Ancora nella sapa con del finocchio acciaccato, sì che vi nuotino, si manterranno. Passandole per staccio o stamegna se ne fa vino, e poste in sacchetti forti di tela, spremute con lo stret- toio; e quando sono inacidite, se ne fa ancora aceto in questo medesimo modo. Et in alcuni luoghi dell’ India, ove in quel paese solo vivono gli uomini senza sale (cosa disputata da molti che tengono in contrario, perché il sale, corpo secco et asciutto e salso, conserva i corpi umidi disseccandogli e perciò mantenendogli), se ne fa pane, seccate che e’ l hanno e ridotte in pol- vere, dipoi intrise con un po’ d’acqua e ridotte in forma di pane, posto a cuocer nel forno; e di questo quivi senz’ altro pane vivono. Per con- stipare il flusso del corpo non è rimedio più 602 i presentaneo che sfendere le sorbe un po’ mal mature, seccarle al sole, di poi mangiarle. Le sorbe mangiate innanzi, sì come le nespole, restringono e dopo allargano. Il legname del sorbo è duro e colorito, riesce bene secco a tutti i lavori del tornio, e soprattutto per far curri da farvi sdrucciolare su grandissimi pesi; et eccellentemente serve a tutti i lavori sodi, et ancora all'acqua. E le botti fatte di sorbo conservano l’ aceto fortissimo, quando ve ne sia stato messo tale da principio, per tutto 1 tempo a venire: ma vogliono essere le botti fatte di legname verde e cerchiate di ferro, e se rallenta, diminuire i cerchi, né altrimenti porlovi in legname secco. Ma così è buono per botti e mantiene il vino molto fresco, massime facendo le doghe grosse un ottavo e mezzo di braccio. Il Sambuco, qual Sabuco, dalla sabuca instrumento da sonare antico della Sibilla, molti contendono che s' abbi a chiamare. Fa le mazze o rami a nodi, i quali in un anno si distendono tre o quattro braccia, poi attendono a ingrossare. Fa assai rimettiticci ai piedi. I suoi nodi sono compartiti come quelli delle canne, et i fiori suoi bianchi nascono da piccolli piccoli come quelli dell’ aellina. L' acquatico non ha i rami né il pié così rotondo, né dentro tanto midollo; e quelli non tanto distanti l uno dall’ altro; né tanto cresce e si fa grande: i suoi fiori sono minori e recano nausea, né come quelli cascano tanto; e più s attiene a terra. Quello di Fiandra non è molto grande, ma più 605 bello di tutti a vedere per il fiore che è pan- nocchiuto, bianco lattato, e gonfia con foglie assal odorate in rotondo, né tanto grave quanto il sambuco ordinario. Quello che fa i fiori a grappolo rossigni, che si truova nell Alpi, mas- sime sugli abeti, non cresce ancora egli troppo, se ben quanto gli acquatici; et il lor fiore non s apre, ma fa certi grappoli rossigni con aci- nini d’uve minutissime; ama i luoghi ombrosi, nè vuole essere tocco con mano, traspiantato nei domestichi luoghi, dove ha questa pro- prietà: ha le foglie più leggiere, il fiore ha miglior odore dell’ acquatico e più simile a quello del primo, che ha assai gentile odore, ma un poco gravetto. Con tutto ciò, colto maturo spicciolato si fa bollire con olio buono, o fresco o secco che sia, pur che secco sia secco all’uggia, spicciolato e sparso sui lenzuoli (che così si conservano al verno); e con quello s impasta la farina, e fassi schiacciata o pane delicato e di buon sapore, che riscalda lo sto- maco et è odorato; e si friggono con la padella nell’ olio, e con quel fritto e I ovo s' intride la pasta nella padella tanto che succi ogni. cosa, poi si cuoce in forno, e le frittate con essi e le frittelle. Similmente, stillando il suo fiore a bagno maria et impastando con esso, fa il medesimo buon sapore et odore alla pasta, pur che sia ben cotta, quando si mangia. I suoi fiori gettati o freschi o secchi fra l aceto nella botte, gli danno grato odore e lo fanno più inforzare, e posti dentro a un cencio bianco ca- lato fanno il medesimo effetto nella botte, fermi a mezzo: ma bisogna porvene quantità. Ancor: 604 quando il vino non è ben chiaro, né ha finito di bollire, messovene dentro al medesimo modo nella botte, gli dà odore di moscadello. Amano tutti qual si sia umido luogo e terreno grasso, e l’'acquatico presso alle istesse acque gode. Il primo desidera pur terra grassa e fa benis- simo nei piani, ne rifugge l ombrìo. Seminasi di novembre, gettate le sue coccole fatte nere e mature in terren trito lavorato ben sotto e ricoperto tre diti soli: e d'un anno, perché cresce presto, sì traspianta a dove ha a stare (servendo ancora bene per arbusti a mandarvi su le viti; ma bisogna crearli da giovani in capitozze che stieno aperti e si mantenghino poi larghi a pigliare il sole, ché son folti di rami e foglie) in terreno non molto sotto lavo- rato, né in fosse non molto cupe, facendosi assai luogo da per sè con le radici, et abbarbi- cando da per tutto, piuttosto all’ aere che in profondo spargendole. Serve alle ragnaie dando buon pasto ai tordi con le sue coccole, et a far siepe sol fitti fitti i suoi rami o polloni da pié, sbarbati dal vecchio o tagliati in tutti i modi, con un palo fatto il foro e pillato bene, s'attacca, di febbraio o marzo avanti che e’ met- tino, che sono i primi a dar fuori. Ponendo nel fuoco dei rami di sambuco e di fico verdi ad abbruciare, faranno spiritar le brigate che gli stanno d’attorno et arcoreggiare il corpo, strepitando di modo, che saran costrette a par- tirsene. Le sue coccole son volentieri mangiate dagli stornelli e da’ tordi. Il legname del sam- buco è fungoso e quando è secco leggerissimo, dentro pieno di midollo più che arbore che sia, 605 che si cava facilmente con i fuscelli et ingros- sando si scema. Seccato dura nell’ acqua ancora sbucciato. Le sue mazze son buone per pertiche ai cacciatori, e per condotti d'acque i suoi cannelli vuoti e commessi insieme. Le sue messe tenere cotte, condite con olio e sale, si mangiano del minor sambuco, che muovono il ventre e sono buone al catarro; le sue radici cotte nel vino sono buon rimedio agli idropici, e beute nel medesimo modo riparano dal morso delle vipere; gli acini suoi neri beuti in vino fanno l’effetto medesimo e di più tingono bene le barbe e capelli canuti. Scrive lo Spagnuolo che i sambuchi ricevono sopra di loro d’inseto l’ ulivo; io ho provato a tutti i modi d’in- nesto, né mi è riuscito: ben lui istesso sopra se medesimo. Il Salcio è di più sorte, ma si ristrigne a tre, o ch'egli è da legare, o a far pertiche per sostener le viti, chindende o anguillari o pali in altro modo; ma a questo uso conviene sbuc- ciargli, perché con la scorza mettono, e sfrut- tando il terreno danneggiano ancora le viti; e l altro domandato viminale e da noi vimine, sottile, diritto e liscio, buono a far cesti, panieri e simili lavori gentili, che nascono da per loro di lor seme nei renai dei fiumi, et ancora con ficcare in simil lati le lor bacchette in terra, piantandogli a solca, con tirar lor della terra addosso; e perciò nelle piene che vengono dai fiumi, per la malizia che s' aggrega loro d’ attorno, fanno bene, na- scendo a cespugli con gran quantità di ver- 606 mene; buoni ancora a piantare ne’ paretai, massime quelli di color nero, che non molto van crescendo. Crescono con questi i renai e le isolette dei fiumi, rattenendo loro la terra che lor s impone intorno, e però mantengono le ripe dei fiumi con le lor radici, non le lasciando soggrottare et ampliando et abbracciando assai paese co ’l1 propagginarsi da per sé. Tagliansi ogni anno o ogni due anni, volendogli più grossi, fra le due terre, che rimetteranno die- tamente, facendosi sempre più belli: e questi ancora sono vincidi, et amenduoli buoni a legare. Ma la differenza dei salci consiste nella qualità delle lor piante che più o meno van crescendo; e quelli che crescono meno sono più buoni a legare e tengono più forte a strignere; i quali tanto meglio sì governano, quanto più a terra i lor ceppi si tengano a uso di capi tozza scapezzati: e ne sono dei neri, dei rossì e dei gialli; e di tutti i neri son tenuti migliori et i gialli, che son quelli che gli antichi chia- mavano greci, e questi sogliono essere i più bassi, detti dagli antichi amerini e sabini. Altri dicono gli amerini ritirare al bianco; et il nero è da Plinio detto franzese, e quel ros- seggiante da Columella greco o viminale. Il primo detto, buono a pertiche, sì chiama ancora salicone, che cresce come le vetrici, et i suoi rami sono facili a spezzarsi come i loro. Tutti amano luoghi ombrosi, di terra grassa et umida, presso alle paludi, laghi, fonti o fiumi, dove l umore non manchi, ma facci lato alle sue piccole radici; amano ancora la terra rara et 607 agevole a coltivarsi; non temono il freddo, come quelli che crescono ancora in mezzo all’ Alpi. E perché le viti sopra questi maggiori non rifuggano d’andarvi sopra, s' accomodano in ogni terreno che elle sieno, eccetto che nella creta scriva o terra rossiccia. E piantati nei luoghi umidi et acquidrinosi produrranno sopra di loro tutte quelle sorte di frutti che non possono venire in simil lati per ordinario, dan- done con l’inseto il frutto per loro, e massime i pomi e le ciriegie e fichi e persichi, insetan- dogli a bucciuolo, come si disse dei castagni, quando sono in sul muovere di febbraio o marzo, e nei luoghi caldi ancora a marza di novembre, fasciandogli bene; et ancora di otto- bre. Et in questi medesimi siti sì possono pian- tare di questo tempo a rami, ficcandogli in terreno divelto mediocremente o in buche o in fosse simili, quattro dita e non più scapez- zate da terra, e sotto un braccio o un braccio e un quarto. Ma meglio è ancora di febbraio o marzo, quando voglion muovere, al crescere della luna, tagliati nello sminuir del giorno; et i rami o piantoni si cavino dalle più belle messe che egli abbino, di due o tre anni grossi, quanto si possi aggavignare colla mano. Et in quel luogo che si sia destinato per loro, che ha a essere grande spazio per poter cavarne pertiche assai a tutti gli usi, legname per abbruciare in fascine e verdura per le bestie, basta per fargli appiccare, e verranno bene innanzi, fare una buca con la vanga sotto un braccio nel sodo, et in fondo con un palo di ferro pertusare per mezzo braccio, e quivi pian- 605 tarli stivati co 1 medesimo palo, di poi [far] di terra ripiene le buche. E migliore ancora sarà tagliare le mazze, quando non fanno ancora segno alcuno di muovere, anzi un poco innanzi, perchè le sieno asciutte, perché tagliandole umorose non proveranno tanto bene, sempre nel primo quarto della luna crescente, con gittargli al piè una secchia d’acqua nera grassa di letamaio, cioè di quella che corra intorno a dove il letame sì tiene, ovvero di quella di fosse esposte al sole, ingrassata co ’l sterco marcito, che lo farà mettere più gagliardo e spesso.. Né si poti mai o si tagli il salcio in dì di piova; et il pioppo et il salcio s hanno a potare a un modo, più o meno, secondo che desideri o assai o poche mazze. E perché in tagliando la pioggia non Vl offenda, facciasi il taglio per lungo in traverso, il taglio netto verso mezzo dito, e quel che si ficca in terra sia appuntato, e si levi continuamente ciò che nasce di sotto a dove s' hanno a mantener le messe, perché queste vengono innanzi allefican- dosi. Puossi lasciare ancora il palo che si pianta fuor della terra, quanto desideri che sia il tronco dell’ arbore alto, che a quell’ altezza imponga i rami, i quali dopo un anno potrai scompartire a modo tuo; e "1 primo anno averà caro d’ essere zappato attorno più d'una volta, di poi una volta per anno per due anni con- tinui e niente più; e se alcuno ne venghi meno, per essere luogo che forse non vi s attac- chino volentieri, dal vicino attaccato sì cali un ramo in terra e vi sì propaggini quello, e \ 4 di poi passato un anno si tagli dalla più grossa 609 parte, un braccio sotterra. Ma volendo man- darvi su le viti, non sì cerchi di porgli in luoghi tanto umidi et acquidrinosi, perche gua- steranno il sapore al vino; e le viti, fuor che barbate, a magliuoli non vi s attaccheranno. Quelle sorti di salci che biancheggiano si rom- pono più di tutti gli altri, e son buoni, come anco tutti gli altri, a piantare fondi intorno alle ripe dei fiumi per mantenerle e per fare gagliardi ripari a dove elle franassero; posti fondi col palo un braccio dall’ uno all’ altro, s intricheranno in modo e sotto e sopra, che le consolideranno a reggersi e farvi stare il terreno senza punto smottarlo; e sbarbati in parte e piegati i rami a terra e sotterrati, si propaggineranno, facendo tante piante quanti sì metton sotto rami, amando massime tutti 1 terreni arenosi. Volendo cavare, senza danneggiargli, dei salfioLsh.i (') in fascine o altri pezzami, si taglino un poco innanzi che e’ voglino lor cascare le foglie; e volendo servirsene per per- tiche o pali, hanno a essere potati nello scemar della luna di gennaio o febbraio, prima che comincino a muovere; e così s' ha a fare nei bassi che si serbano a legare, fendendo i più grossi e ponendogli a mazzi nei luoghi mez- zani fra umido e caldo di casa a mantenersi; e quando si vogliono adoperare, si. ponghino per due o tre dì nell'acqua a invincidire. E volendo dei vimini servirsi per cesti, cestini o paniere o altro, gli taglierai dopo che hanno (') Una rappezzatura della carta, 39 610 mosso, poi che sono in succhio, la primavera, a luna scema, in dì asciutto. Se. si potano i salci ogni anno, faranno pedali e rami grossi e lunghi, e se si intralascia di potargli, gli faranno più minuti e sottili. Potinsi poi questi tali sino al vivo della corteccia ove egli nascono, et ai grossi si lasci quattro dita di capitozza ben pareggiata. Se il salcio nel tronco patisce di seccume, taglia sino in sul vivo che risanerà: e voto il legno tutto, viverà per la corteccia. Le opere che si fanno dei rametti sottili e messe diritte di quelle che non si spezzano e sono arrendevoli, sono infinite; e il legname dei grossi fa buone botti da tener vino, e se ne fanno varii istrumenti da sonare e cerbottane diritte, come d’ arcipresso e sorbo. Con la cenere del salcio mescolata con aceto et impostavi sopra calda, sì cavano i chiodi (') et i calli, rinnovandola e risoprapponendovela spesso. Non s hanno a piantare i salci da legare della più bassa sorte attorno alle vigne, se nen in luoghi umidi; e fuor di questi, nei poggi e monti e colli sì sceglia luogo per loro dove sia più umore, e volendo tenergli bassi, tutti sì piantino capopiè. Scrivono che ogni abeto che sia insetato in salcio non farà nocciolo dentro. I salci pigramente coltivati vengono meno presto, e con la troppo cura ancora peri- scono molti salci, e perciò nel largo s' hanno a propagginare con i rimettiticci, piegando a terra le cime, e cavate fuori sotterrare il resto, dove ne manchi. D'un anno poi sì tagli sotto (1) clavi, scritto sopra chiodi, 611 terra, perché si nutrichi da per se. Quelli che s allievano per pertiche scalzinsi e scavinsi spesso con zappa o vanga, perché è di questa natura, che non viene bene che nei luoghi che sieno umidi, e non meno che la vigna ha utile d'essere sfrondato e d’ essere tirato più in lar- ghezza che in lunghezza. Merita il pregio del- l’opera adunque di procurargli con diligenza, per l'utilità che di loro si cava. Beuta la coci- tura delle foglie del salcio nell’ acqua semplice, leva lo sperma d'avere a poter concepire. Cavasi ancora olio dal salcio, buono a molti malori. Le foglie del salcio tritate e spremute, beendole, levano l intemperanza della libidine raffrenandola, e spesse volte per sé la fermano per affatto, e proibiscono che non sì possi usare più efficacemente che non l agro del limone più volte bevuto. Il legname del salcio secco e spulito è ottimo per dare buon filo a’ coltelli arrotati, unendo fuor di modo il taglio. La Sabina è di due sorte, una che si ras- sembra al cipresso e l’altra alla tamarigia. Ha il maschio e la femmina, questa sparge i rami, quella gli ha più raccolti. È arbore che gran- deggia alla misura del lentisco. È la sabina calda e secca nel terzo ordine, e del numero di quei medicamenti che sono sottilissimi nelle parti loro. Ammazza ancora il fanciullo nel ventre e fa partorirlo quando è morto. Provoca ì menstrui quanto niuna altra cosa e fa orinare il sangue. Desidera la sabina luoghi umidi are- nosi e spesse volte marittimi, ma non rifugge i terreni grassi e vi s' alligna. Nei siti caldi e 612 temperati pruova bene. S' appicca di febbraio e di marzo posta a rami, i quali s hanno a scoscendere con un poco di vecchio in terreno minutamente lavorato e bene affondo, grasso et umido, attorcendogli con le mani attorno al calcio, come si fa alla mortella; e volendo tra- piantare de’ suoi barbati che si truovano nati alle foreste, conviene cavargli piccoli con tutta la lor radice e trasporgli con diligenza in divelto, fossa aperta o buca grande. Nasce di seme, seminata come Vl abeto: fa certe coccole che si possono corre ben fatte all’ autunno e seminarle di novembre o di marzo. In Sardigna ne sono assai; et il suo legname è odorato, buono a tutti i lavori di casa, e si pulisce ancora bene al tornio. Fa graziose spalliere e ben chiuse le strade coperte. Il Sughero o Sughera, perchè molti ten- gono che ella sia la femmina del leccio, quando che ella ha la foglia del garbo della sua, un poco più grande, e le ha più rade, si come ancora ella è povera di rami e [li ha] scoloriti. E arbore di colore e faccia maninconica, fa ghianda piccola, brutta e scriata; e seminata al modo e tempo di quelle della quercia, nasce e traspiantata similmente viene innanzi. È pianta per variare nelle selve che si fanno; e perché tiene la foglia l'inverno, si può per spalliere anch’ essa e per strade coperte acco- modare. Ma volendo traspiantarlo nel dome- stico, conviene dargli buon terreno al piè, e che sia terra fondata ove egli sì pone; e cava- tala dai luoghi di dove ella nasce incolti et 613 aspri, con il suo pane e piota al piedi, et eleg- gere delle piante più piccole e meglio fatte, che non siano imbozzacchite e ristecchite, come elle sogliono essere per lo più. Desidera e fa bene nelle terre grasse, se bene non manca di venire ancora nelle magre, e lavorando et assettando bene il terreno dove ha a stare, sarà vegnente e s' appiccherà per tutto. Delle ghian- difere l’ultima a mettere è la sughera, et ai porci fa la carne fungosa, sendo le sue ghiande le più cattive di tutte le altre. La sua cor- teccia è la più grossa di qual si vogli altro arbore e la più leggiera e spugnosa, d’ una sorte che non inzuppa mai l'acqua; e fu chi n’ ha fatto un barchetto di pezzi confitti con chiodi di legno, che rigira più peso degli altri sopra l acqua, senza andar mai a fondo. Cavasi la sua corteccia alla primavera quando comincia a muovere, in pezzi grandi o piccoli come sì vuole, sino in sul legno scortecciandola attorno di tutto ’1 suo tronco, ogni tre anni; et ancor che sia in giro staccata per l'altezza di dieci piedi non patisce; et in tempo di tre anni l’averà per essere ritagliata un’ altra volta tutta rimessa. E solo scorticata in cerchio non si secca, avendola la natura provvista di doppia corteccia, la quale agevolmente con il fuoco al caldo si dirizza a far pianelle contro all’ umido, a far girelle che tengono sospese le sciabiche et altre reti nell’ acqua dirette. Sono chi crede che e’ sia bene divider l arbore da capo a piò, altramente farsi Vl arbore più cattivo. La sua materia è densa e spessa, né sente vecchiezza o tignuole, o dopo lunghissimo tempo. Nasce 614 in molti luoghi per tutta Italia, ma per la campagna di Roma, non molto lontano dalla città, è frequente. Non si levando la corteccia alla sughera, in ingrossando conduce il suo legname, con lo strignerlo, a mal partito e lo strangola e con forza lo serra a danneggiarlo a venir più innanzi. Paulo Egineta scrive, la cenere del leccio che abbi servito nei vasi del vino essere veementissima nell’ essiccare, e me- scolarsi attamente nelle medicine contro ai bachi delle budella. La corteccia della sughera trita e spolverizzata, bevuta con l acqua calda, ferma il sangue che scorre dall’ una e dall altra parte; e la medesima cenere, bevuta con il vino caldo, fa gran giovamento a coloro che sputan sangue. Il Sicomoro ordinario che per lo più si ritruova nelle corti, cortili e chiostri dei con- venti delle chiese dei frati, ha la buccia somi- gliante a quella del sanguine, e la sua foglia in parte somiglia a quella del sanguine e s' ap- pressa in parte a quella del loto; ma non getta latte per la buccia, come il fico egizio, quale dicono essere il vero sicomoro, che ritrae nella qualità e proprietà dei frutti al moro et al fico, di dove è così composto il nome. Ma questo sicomoro, che volgarmente sicomoro si chiama e per tale è cognosciuto, fa certe coccole in ciocche gialle quando sono mature, che hanno dentro osso assai e fuori poca e sottil buccia e carne, che non sono buone a mangiare, e gli ossi forati s adoprano a corone; e seminate a marzo et a febbraio in terreno umido et 615 annaffiate giornalmente nascono, et in capo a due anni si trapiantano a dove hanno a stare, in terra grassa ben lavorata sotto, con divelto, fosse o buche aperte; e di dove ancora si veg- gono esser nate da per loro, sì sbarbano con tutte le loro radici da piccole e s' attaccano. È arbore grande che fa in ogni terreno, eccetto che in Ghiaioso e cretoso; rimette tagliato da piè et a capitozza pullula rami. Dicevami il cavalier Gaddi, gentiluomo di virtuosa memoria, che di null’ altro arbore sì doveva investir selve che di questo, osservato da lui crescer più presto e rimetter più presto di tutti. Il suo legname è mezzanamente sodo, bianco e pulito, buono ai lavori di casa. Il Sandalo è domestico e salvatico. £ Lo Scotano è arbore indiano ; s adopra alle tinte; il legname è giallo e tritasi per esse. Il Sommacco, detto f/kX, è di due sorte, uno piccolotto che non s' estende più che due braccia di grandezza, del quale si servivano gli antichi in su le iivande a dar loro sapore, in cambio di sale; l’altro cresce quanto il san- guine o poco più, et ha le foglie simili ai fras- sini, parecchie dependenti da un piccollo. Fa un fiore da prima bianco a racimoli, il quale consumato, nascono sotto certi acini in foggia d'uva, di grandezza d’una veccia, rotondi, che quando sono maturi negreggiano in rosso. Truo- vasene ai monti e fra le pietre, di dove cavato con le radici si trasporta a’ domestichi luoghi e 616 s attacca posto con diligenza (e cavato co ’1 suo pane da piccolo) in buon terreno. È approvato il siriaco; e le sue foglie son buone alla concia dei coiami, e massime di quelli che dal som- macco han tratto il nome, così detti ancor essi sommacchi. E pianta differente di fazione dal- l altre, imperciò per variare se ne possono fare spalliere e strade coperte. La sua decozione annerisce 1 capelli e mescolato co ’1 Silfio, detto Laserpizio, a cuocere le carni, le fa di sapore migliore; e pigliando carboni di quercia e pestandogli co’1 frutto del sommacco e posto al luogo affetto, sana le morici. Stilla questo frutice piuttosto che arbore una gomma, la quale, posta nelle concavità dei denti che son guasti che dogliono, leva il dolore affatto. Là Tamarigia, secondo che scrive il Mat- tiolo, è domestica e salvatica; e afferma la domestica non si ritrovare appresso noi, come che ella sia familiare nella Siria e nell’ Egitto, et essersi ricreato in Roma più volte sotto una grandissima pianta che è ne’ diversorii dello spedale di Santo Spirito, la quale tengono per domestica et è salvatica, ma che fa i fiori simili alla domestica. Come si sia, le nostre tamarigie ordinarie nascono per lo più a cespugli nelle ripe e nei renai dei fiumi, e lasciate stare a quel modo fanno macchia e non s alzano; strigate dai suoi tanti figliuoli, s' alzano in arbore di giusta grandezza. Nasce quivi da per se e nei boschi ancora nascere si ritruova. Ha le foglie cenerognole, simili all’ arcipresso © savina, le quali tiene perpetua. Ama luoghi 617 arenosi et umidi: e di quivi cavate piccole s attaccano in ogni terreno. Possono servire anch’ esse a spalliere et a strade coperte. Been- dovi dentro gli epatici, gli idropici et i tisici nei vasi fatti d’ essa, hanno gran giovamento; et i porci beendo in truogoli di tamarigia sì sanano del male della milza. Fu trasportata da Rodi in Italia dai cavalieri di Hierosolima; ora è per tutto. Quando fiorisce dà buon odore. L’egizia è a par di qual si sia altro arbore grande, e quivi et in Siria fa un frutto legnoso che è succedaneo della galla; in Tile fa un legname gagliardo e sodo come il leccio. Serve a fondere e formare il vetro, abbruciato nelle fornaci d'’ esso. Il Tasso, detto dai greci Smilace, da noi Nasso, nasce abbondantemente nella valle Ana- nia, in sui monti, in luoghi sassosi e difficili, tra gli abeti, e se ne ritruovano per tutte le selve d’Italia; ma in Inghilterra, dove se ne servono assai per far saeppole e per altri archi alla foggia loro e per quelle loro pallottole da giuocare schiacciate, n’ è gran copia, come in Germania, dove se ne servono a tavole et altri lavori al coperto casalinghi e per aste da picche e loro alabarde. Quello che nasce in Arcadia è di nero e rosso colore; l’altro tutto di biancheggiante in rosso; ma quello del monte Ida è giallo, simile al cedro arbore. Truovasi il maschio e la femmina: il maschio è velenoso nel frutto. Ha le foglie simili al- l’abeto. E legname tossicoso, il che si guarisce, scrive Plinio, con il conficcare nelle sue radici 615 o nel tronco un chiodo di bronzo. La sua ombra a chi vi dorme sotto intorpidisce le membra e fa danno grande alle viti. Le botti o vasi fatti di nasso fanno il vino velenoso, e per contrario il succhio del tasso è buono contro al veleno, si come scrive Cornelio Tacito che per un editto pubblico fece intendere Claudio Cesare. Il suo frutto beccato ingrassa i polli, e le sue foglie mangiate ammazzano tutte le bestie che non ruminano. Se ne truova in Corsica frequentemente. Cresce il tasso veloce- mente et ha il legno un poco più grasso del l’abeto; fruttifica da quando le Vergilie vanno sotto, e comincia a dar fuori i fiori avanti il solstizio; ha le barbe sottili et al sommo del suo cespuglio corte. I fumacchi fatti co 1 tasso ammazzano i topi. In Spagna, nella pro- vincia di Narbona, se i polli ne gustano, seri- vono diventare le lor carni nere, e la sua ombra aver tanto di forza, che se alcuno vi sì ponga a seder sotto, morirsi. Ora questi suoi frutti, che quando sono ben rossi e che da sé cascano, allora significano d’ essere maturi, rac- colti e seminati alla foggia degli abeti nascono felicemente; ma meglio ancora se n’ entra in razza, cavandogli dalla foresta con tutte le lor radici, e piantargli in buon terreno che questi amano; e nel piano grasso e fondato vengono sfoggiatissimi e molte volte doppi di pedale, anzi in tre o quattro doppi con tutti ad uno per uno, crescendo et ingrossando ugualmente. Fanno bellissima verzura per spalliere e simil mente per strade coperte; ancora nell’ uccellare dei tordi e nelle ragnaie solamente per la ver- 619 dura fanno bel vedere, e sono utili piantati dalle bande per rattenere dentro gli uccelli. IL’ Ulivo è nobilissima pianta et onoratis- sima, poiche i suoi rami rappresentano il vero segnale della conseguita vittoria della guerra, lodata e celebrata più di qual sì vogli altro arbore che sia dagli antichi, tra i quali Colu- mella la pregia per la principale, et a questa openione soscrive il dottissimo Pier Vettori, particolare commendatore d’ essa e disamina- tore. E di vero che se e’ si considera il profitto che si trae dall’ utile e comodità del suo frutto e del suo liquore, non ritroverassi fra tutte le piante arbore di più valore. [Delle olive] ebbero gli antichi in stima le pausie, le algiane, le liciniane, le sergie, le nevie, le calamine, le orichie, le regie, le circee e le mirtee ('). Sono ancora gli ulivi salvatichi di qualche conto, poiché, oltre a che le loro olive dan qualche frutto dell’ olio che se ne spreme che è assai ragionevole, nascono più saporite, se ben più piccole, delle domestiche, andando più dietro a queste i tordi, le merle e gli storni che non a quelle. Fanno frequenti in Dalmazia et in molte isole del mare Adriatico e per tutta Italia. Sono molto più piccoli dei domestichi e di foglia assai più minuta et assai spinosi e nei rami di più corti nodi, di più vita e più (1) Pier Vettori, Trattato delle lodi e coltivazione degli ulivi, ediz. Manni, pag. 74: « Columella le sue dieci maniere chiama per questi nomi: pausia, algiana, liciniana, serg'a, nevia, culminia, orchis, regia, circites, murtea ». 620 duri e sodi, e sono molto a proposito per le ragnaie e per gli uccellari; e non ch’ altro, piantandone sceveri alla campagna, gli uccelli al tempi loro vi concorreranno; e piantando un uliveto d’ ulivi salvatichi, et annestativi su oa marza 0 a scorza i domestichi, sarà più durabile, più bello, di più frutto. Scrivono a Minerva essere stata attribuita l invenzione del- l'ulivo e l'uso dell’ olio e delle istesse olive, le quali oltre al dar di se quel liquore, addolcite e condite lor medesime servono in cibo. È da poi che di Grecia fu dilatata questa pianta (se bene per la maggior parte dell’ universo sì vive senz’ olio, e si servono in quel cambio di butirri et altre cose untuose) e trasferita in tutte le parti ove ella fa bene e produce, da tutti gli antichi e moderni, di età in età, è sempre stata procurata e custodita da tutti ogni di più; et il re Deiotaro, ancor che nonagenario, ne fu tanto studioso, che perfino in quell’ età ne poneva, essendo sempre stato loro amorevole coltivatore. Come cognosciuta ancora meglio è per l’antichità della vecchiezza che ella dura, nella maniera che c' è nota e chiara fama (contro all’ openione di Teofrasto che solo gli messe di vita duecento anni et all’ oleastro un poco più) di quella che non è molto numero d'anni che ancora si ritrovava a ‘Tivoli in quella villa d’ Adriano, che rappresentava la fabbrica del mondo, Asia, Africa et Europa con il circuito dell’ acque significante i mari, pian- tatavi a tempo suo; come perché ella per espe- rienza non pena più né tanto a venire e dar frutto di sé, quanto avevano per openione per 621 l’addietro; oltre a che l ulivo ricerca minima spesa, e le viti assai e diligente; e se bene non continua il frutto anno per anno e quasi risponde dei due anni l uno, è bel guiderdone il suo in ogni modo, perché non rendendo frutto, niuna 0 poca spesa ricerca di lavoro, e quando la se ne veste, strapaga con gran copia di frutti, quali rende sempre più abbondanti, procurata e governata bene. E insegna di pace, poiché i supplicanti si rappresentano nel tempio con essa: e per il ramo di quella, che con essa in bocca ritornò la colomba nell’ arca, dimostrò essere appacificato il grandissimo diluvio del- l’acque. Le cicale amano più di tutti gli altri arbori di cantare sopra l ulivo; et il polipo pesce esce dall’ acqua a pasturarsi con le sue foglie, delle quali fattosi satollo, festeggiante e lieto se ne ritorna nell’ acque salate; et i pesca- tori con l’aiuto delle sue frasche lo pigliano. E openione che Y ulivo allontanato dalle marine sessanta miglia fra terra non fruttifichi e non venga bene come dentro a quello spazio. Più appresso, questa pianta sola si adopra in più modi che non qualsivoglia altra all’ uso del- l’uomo, cavandone frutto e condizione, man- giando i suoi frutti e servendosi in più guise del prezioso liquore che sì trae di quelli, per fortificare e mantenere la gagliardìia e sanità del corpo; onde è che i Mori sono tanto ghiotti di berlo, sentendo il suo giovamento, sì. come quelli che desiderando di bere assai vino, beono prima due o tre bicchieri d'olio, poi non temono di bere un barile di vino senza noci- mento, aprendo egli la strada all’ orina e dila- tando i vasi orinatorii, si che passa di continuo orinandosi e per quella via francamente gittan- dosi fuori. Ma quello che più di tutto importa è che ella serve alla perfezione dell’ anima nostra, la quale malagevolmente si potrebbe cercare senza l aiuto del sugo del suo delica- tissimo frutto, atto solo con facilità a far della notte oscura chiarissimo giorno, per coltivare di continuo il nostro ingegno a tutte l' arti e scienzie che si ritruovano. Per il che merita il pregio dell opera che con ogni studio, più che a tutte le altre piante, s attenda a far nascere, allevare, custodire e mantenere questo utilis- simo arbore. Questa adunque gentilissima, leggiadra e vaga pianta, si come morbida e delicata è, non patisce di stare sotto aere interamente freddo, né interamente caldo, ma ama la mediocrità e temperatura, godendosi ancora più che del piano (se bene ancora in questo fa, che abbi terreno sotto con ghiaia, mescolandovi sabbia e soprapponendovi creta) del monte a mezza costa e delle colline, non amando i luoghi del tutto alti ne del tutto bassi, ma i pendenti; e non mai i 'cocuzzoli, cime o vette dei monti. Desidera ghiaia o creta resoluta per mestica- mento di sabbione, né vuole i luoghi scoscesi e ripidi, ma piegati e convessi, come fra i Sabini e tutta la Riva in Ispagna et in Italia in Puglia. Nei luoghi caldi si dee trapiantare volta a tramontana e nei freddi verso oriente e mezzodi: et avendo il vento a riscontro più si fortificano, come tutte le altre piante. E si vede che nei lati dove s' aprono ai venti, come 625 nella ventosissima Sicilia, sono più liete e più verdi cogli altri arbori, più squallide e scolo- rite dove i venti stan queti, né possi penetrare a recriargli lo spirito del vento, che non è altro che moto d’aere; e deono essere tanto distanti, che liberamente e’ possi passare. Per questo rifugge i luoghi bassi et umidi, e che sieno. del tutto cupi ed affogati; ma sì bene [ama i] piegati e pendenti in costa difficili, ove tirando il vento, niente mandi fuori della sua saliva, ma rattenendolo da ogni parte, ugual- mente lo munisca, ecciti, svegli e facci risen- tire. Imperciò nei piani che non rifugghino alti e rilevati allo scoperto non fanno bene, e massime nei chiusi e non aperti ove non tiri vento, che quivi abbruciati dal calore intenso del sole non fanno l olio ben purgato, ma più grasso. Nelle colline che mezzanamente s alzano, pruovano oltre a modo bene, et in queste fanno buonissimo olio, rinfrescandosi dall’ ardente calor del sole per il vento che vi tira. Profitta ancora nei monti scoscesìi a mezza costa, dove sieno massi e sassi, pur che vi sia tanto di ter- reno che vi si possi annidire, che fra quelli ritruovano poi anco le radici il fresco di che si godono. Squallidi e macilenti vengono nel tufo, se ben vi s attaccano; e se bene gli antichi scrissero che non facevano bene vicino al mare, sì truova che a certo aere delle marine pruovano acconciamente. Il terreno fresco (') e grasso lietamente riceve l'ulivo e dà più frutto; e trovandosi tale in monte, sì dee a tutti gli (?) umido, scritto sopra fresco, 624 altri riferire. Divengono nei piani anzi che fruttiferi grandi e delicati di buccia, e massime nel grassi ragionevolmente, non leggieri, e sustanziosi; et in così fatti colli faranno molto bene et ancora in terra mescolata buona con creta leggiera. E buona ancora loro la terra che abbi sotto argilla e quella che sia mesco- lata con ghiaia e creta resoluta per mescola- mento di sabbione o sabbia grassa o terra di più densa e vivace natura; e nella densa e fertile et umida vien bene. Dice Columella, la rubrica e la creta scriva non amar questo arbore, tanto peggio la salsa e piena d’ acquitrini. La più asciutta è accettata da questo arbore, come a Corfù, dove n’ è copia e nascono in tale da per loro; e v'è l'olio di tanta eccellenza che ha sapore di butirro, né offende con la sua delicata e dolce untuosità punto la gola, anzi conforta lo stomaco et è dilettevole a mangiare, si come senz’ alcuna conditura l’ ulive istesse mature masticate co ’1 pane, che sono al gusto oltre a modo suavi. Nimico gli è il sabbione magro e la ghiaia scriva. Ama ancora il terreno che sia di colore di sé stesso cenereccio e bige- rognolo, se per altro sia fertile e buono. Nei luoghi temperati stan bene posti a pendîo alla chinata del monte, che gli coli grassume e terra addosso, che di questo si diletta sempre e gli giova; e ciò s intende di tutte quelle sorte ulive che sono buone a far olio, tra le quali in alcuni luoghi le più grossette ne fanno più et in alcuni le più piccole e minute, secondo la qualità del paese e spezie loro; et in Spagna sono quelle che chiamano «zetunas del rio, 625 piccolissime, le quali non hanno quasi osso; e dicono esserne una spezie che non ne ha punto, ma vero è che ne han pochissimo; e queste sono bonissime per conciare, si come delle ordi- narie, quelle che si prendono dall’ arbore colte ad una ad una, senza mantrugiarle, che non abbino ancor sopra dentro generato l osso, quando sono ancora tutto tenerume; le quali s' hanno a cacciare in un paniere di vimini ben serrato di sopra, o in un tessuto d’essi a uso di nassa, di vermene di castagno sottili strette in modo e tessute si fitte insieme, che le non ne possino uscire; e così accomodate chiuse di sopra metterle alla corrente del fiume e lasciarvele star tanto, che le si sentino al dente tenere et indolcite: accanto, tratte fuori, s hanno a mettere in vasi invetriati con la salamoia, sollecitandosi di mangiarle, perché non bastano quanto l'altre. Le grosse poi, che solo avendo molta polpa per cibo s adoprano, la miglior sorte delle quali è di quel paese venuta e son quelle che han l osso minore, vogliono terreni in sito di pie di colle o di cominciamento di vallata o monte, piuttosto grassi che altrimenti, non rifuggono questi e fanno bene nei piani che sieno un poco a pendio, quasi in spiaggia e grassi et in sito a caldio. Ma per tutti è buono quel terreno che ha arena mescolata con terra grassa, non perciò argillosa da far vasi. Quello che tiene di cal- cina è ottimo et ancora quello dove sono state fatte le fornaci da calcina o lavori; e qui fanno gran pruova i gentili e grossi ulivi, giovando lor sempre la calcina pesta loro a modo al 40 626 piede, spenta nelle fosse e vecchia, e dove sieno state piante di quercie, purché ne sieno ben cavate tutte le radici; per ciò che scrivono che gli ulivi hanno in odio le quercie et i cerri, e che se gli ulivi averanno per confino un quer- ceto, non solo non renderanno frutto, ma si ritireranno dalla lor compagnia; e se sì piante- ranno a di dove sia stato cavato Il’ eschio e ’1 cerro, sì morranno, perche sono certi bachi nelle lor barbe che consumano le piante del- l’ulivo; con tutto ciò, dove siano bene e dai fondamenti stati sbarbati i lecci et i corbezzoli, staranno bene e profitteranno. E piantandosi gli ulivi a dove sotto s° ha a seminare il grano, siano radissime poste le piante degli ulivi, sì che ’1 sole possi penetrare, e tanto più dove sotto egli abbino ad avere viti, avvertendo di non le porre accanto al tronco, se già per carestia di terreno non fosse necessitato, che in tal caso si può ancora mandarvele sopra che non le rifiutano, e tenute poi larghe ne danno buon frutto, come sì vede in alcuni lati di quel di Genova, dove quivi sì cognosce ciò esser fatto per carestia di terra; et in Linguadoca per il contrario, perché quivi il terreno sostenta le viti e gli ulivi, i quali su le istesse vigne et anco assai fondi vi sì piantano con buon frutto di quelle e di questi: i quali non vorriano altro arbore fra loro che il granato, del quale s' alle- grano e fioriscono più presto, non minor con- forto prendendone per cosa muta, che si facci il polipo dell’ aver trovato l'ulivo, che esce a posta dall’ acque salse per avidamente pascersi d’ esso, cercandolo al seto, come ’1 bracco le fiere, 627 Questo generoso arbore che produce il tanto nobile e non mai abbastanza celebrato liquore, che principalmente serve e dee servire ai sacro- santi usi divini della religione et altari, è dotato d’ appiccarsi e venire innanzi in tre maniere agevolmente, a tal che profitta ancora di sementa. E a questo fare, si dee trascerre delle mature ulive e di meglior sorte i noccioli levati dalla polpa, con legno o altro mastica- mento, e fatta una fossa fonda un braccio e mezzo, sì riempia parte di terra cotta e parte di letame ben marcito, vi sì mettino dentro ad un per uno a giacere, ricoprendogli un palmo co ’1 medesimo terreno, lontani l uno dall’ altro un braccio, adacquando due volte la settimana da sera; e passati due anni, sì traspiantino in divelto, fossa o buca larga e fonda, dandogli ancora del letame marcito alle radici e della loppa. E prima, subito nati, si deono zappettare, tenendogli ben netti e purgati dall’ erbe, sì come traspiantati tuttavia ben procurare, lavo- rando, zappando e scalzando loro attorno spesso, e così non si creeranno le ulive bacate, ma meglio raffermeranno la razza e non traligne- ranno, quando poi traspiantati d’ un anno sa- ranno innestati con quelli di miglior sorte o delle lor medesime, a occhio, bucciuolo o scu- detto, a aprile o maggio. Seminansi di novem- bre questi ossi nei lati caldi e nei temperati o più freddi, di marzo o febbraio, et avanti che e’ sì seminino, tengonsi a macerare, come si disse delle coccole dell’ alloro. Sono ancora chi prende le cimette dei rami, lasciando lor la vetta sola lunga un braccio, o vero certe messe 625 diritte dei rami pur lunghe un braccio, come bacchette, senza punto guastar la buccia nel tagliarle di sotto e di sopra; e dalla parte che va in terra sì strofini con cenere e bovina, di poi sì caccino in fosse che sien lasciate in parte concave, perché quivi rattenghino l acqua, e si riempia di terra cotta, lasciando la cima da terra fuori un palmo, discosto un braccio 1 uno dall’ altro; e questi di tre anni si traspiantino in divelto, buca grande o fossa aperta, et in capo al quarto anno si poti e se gli dia quel garbo che li appartiene, volendolo alto o basso, secondo i venti, che dove possono assai è bene non gli mandare tanto alti, ma tenergli bassi verso terra. Sì piantano ancora di quelli rimettiticci che si truovino nascere al calcio dei vecchi ulivi, dei quali quello si ha a trascerre per meglior che sia, discosto il pedale, più in su ‘1 ceppo dell’ ulivo, e questo s° ha a staccare con più radici o del vecchio si può; e perche Vl ulivo in qualche parte di così fatto taglio patisce, non se ne spicchi più che uno per ulivo, gli altri sì taglin via che spoppano l'ulivo, si come quelle mazze che si lascian loro a’ piedi per far foggiate piantine, delle quali non se n ha a lasciare venire innanzi più che una per gambo; or quella tagliatura che scuopre il legno del- l’ulivo s impiastri subito con bovina, fasciando sopra con musco; et al novembre nei luoghi più caldi e temperati, nei più freddi al marzo e febbraio, piantisi in terreno trito e minuto, grasso, d’ortale, ben lavorato, sotto due terzi di braccio mettendolo e non più, lontano l uno 629 dall'altro un braccio e mezzo. E quando sia ingrossato quanto un’ asta, cavisi con ogni dili- genza e traspiantisi a dove ha a stare, in divelto, fosse fognate o formelle aperte, le quali siano state fatte un anno innanzi, perché dall’ acqua sola e freddo vi sia incotta e fer- mentata la terra; e perché si stagioni ancora più, essendo il luogo grasso, di due o tre mesi l'uno, si dee, avendovi cacciato dentro pezzami, pietraccie, pagliaccie, sterpi, scope, loppa, leta- maccio, tagliature di legname o altro ciarpame che possi pigliar fuoco et appiccarvelo, che così metteranno poi le radici quà e là più presto, con far sopra più bella la messa. Si riempiano poi quando si piantano, se son fosse o formelle, di terra cotta, in su le barbe facen- dola andare, poi si soggrottano per dilatarli tanto più, e si finiscono di riempire di terra cotta il più che si può, e di poi un anno, appic- cato l ulivo, si crei l arbore con i rami come si vuole, alto o basso, largo o aperto, secondo ’l paese. Questi rimettiticci quando si piantano in terreno che sia grasso, non si levino loro i rami, nel magro si pareggino e scapezzino sopra terra quattro diti, ancora avendo lasciato crescere qualche pollone, dei quali, se 1 arbore sia gagliardo, se ne possono lasciare anche più d’ uno, sino in due o tre, e lasciargli ingrossare a far piantoni; e piglierai di questi o dei rami lisci novelli freschi e serrati e più belli del- l'ulivo, dalla parte d’ Austro, segnandogli da ogni banda, per poter riporgli a quella parte che gli trovasti volti, e tagliati sotto e sopra con tal diligenza che non s offenda la buccia 630 in modo alcuno, il che si può fare fasciandogli quando gli seghi; e segandogli leva poi il riscal- dato della legatura con un ferro tagliente avanti che tu gli sfasci; e siano lunghi due braccia o due braccia e mezzo; e gli porrai in terreno trito e minuto nel tempo detto, secondo i luoghi, avendovi impiastrato da quella parte che va in terra un palmo o più con sterco di bue o altro mescolato con cenere, mettendogli sotto un braccio, e diritti; perche se traversi sì pongono, o sì riducono sterili o con difficultà s appiccheranno. Sarchiagli appresso il primo anno secondo e terzo al novembre, et in questo lasciagli due messe sole: il quarto taglia la più debole: et il quinto, cavato con diligenza con più terra si può, con un cestino aperto che chiudendolo sì rileghi insieme e con tutte le sue radici, levato poi il cestino, traspiantalo a dove ha a stare in divelto, formelle o fosse aperte, fognate sopra i sassi, scavando prima sopra di loro della terra dalle bande e di sopra; e se fosse poggio in che non occorresse fognarle, zappare il fondo della fossa, e poi ripieno un po di terra cotta, e sopra quella gettate delle granella d'orzo, vi trasporterai la pianta, rise- gnatale con cinabrese la buccia, perché 1’ ac- conci volta al cielo come la stava prima; e se la fossa avesse ragunata acqua in fondo, la dei cavare con mettervi della ghiaia che la succi o pietruzze minute, mescolandovi del terren grasso e buono e letame marcio, e così finire di riempirle al pari. Altri, presi questi rami vegnenti e forti, grossi come il braccio, acconci come s è detto, 65 gli pongono di prima giunta a dove hanno a stare, fendendogli da basso un sommesso e met- tendovi una pietra, impiastrandogli di bovina o altro letame buono mesticato con cenere, non gli cavando fuori più d'un palmo; e se dopo tre anni che egli sieno piantati, si tagliano lor le messe presso terra e se gli darà un taglio sotto terra, cresceranno più in quell’anno che non faranno poi in quattro. Passato lY equinozio dell'autunno si scalzino, e sendo in luogo pen- dente, si faccino di sopra canalette che condu- chino l’acqua fangosa alla scorza, che gli gio- verà; st come dopo il solstizio, quando la terra s' apre, è da avvertire che il sole non entri per quelle fessure a nuocergli alle radici, non tosan- dole e riturandole co ’1 terreno, come lo scal- zargli e zappargli attorno ogni anno; e se gli tiri innanzi la più bella messa, levando tutte le altre per fare il pedale a quella altezza e forma che si desidera; e si piantino nei luoghi caldi e secchi all’ autunno, di primavera nei grassi, umidi e freddi, nei giorni che tira il vento Austro. Avvertiscasi a non gli porre capovolti, che oltre a che vengono a stento, si fanno sterili; imperciò per non scambiarli, quando sono vegnenti, di grossezza, si segnino loro le teste. Sono ancora chi prese le piccole piante dai pedali, scapezzandole e levandogli tutti i ramucelli, ridottele a uso di troncone scamozzo, nella terra dove gli hanno a stare le pongono, continuandole in quel lato a modo degli altri. Similmente è bene traspiantare rami da radici di ulivo, e poi che i sambuchi sieno appiccati, traspiantargli ove hanno a stare et insetarvegli sin sotto terra; e dice Teofrasto che se sì pongono i piantini dei sambuchi fre le pietre, che piglieranno meglio che sotto terra, e per questo è bene di porgli così freschi o con pietre minute a basso. S' hanno a tra- spiantare dai tre fino ai cinque anni (e quelli dei sambuchi si possono traspiantare e poi inse- tare) et ancora innanzi; e sempre resti scoperto il luogo dell inseto, o a marza o a bucciuolo o a scudetto; ma è meglio insetare in sam- buchi a dove sono, e di poi afferrati sbarbargli e trapiantargli, con far andar sotto terra l in- nestatura. Poi che l'autore spagnuolo scrive questa cosa dei sambuchi, la quale non ha altra con- formità se non che ’1 sambuco ha vita quanto l’ulivo o d’avvantaggio, porrò appresso quello che io truovo scritto dagli antichi, di che fa memoria Pausania, raccontando in un certo tempio essere stato un arbore, dalla cui radice nasceva insiememente un ulivo et un leccio; e poco men di questo è che l ulivo ha gran conformità con la vite, la quale forata a terra con la trivella gallica, vi si cacci dentro un ramo d'ulivo che vi s' appicchi et incorpo- rato facendo frutto, renda sapore d'uva et uliva, frutto da’ Greci chiamato heliostasilos ; di poi trapiantando i magliuoli di questa vite che non faccino ancora uva e l abbino a fare, trapiantati ratterranno nei frutti il sapore dei suoi progenitori. Come si sia (perché non mi pare che la sia cosa da poter essere così @ grado, che abbi a essere molto a cuore il voler provarlo) se le piante degli ulivi o cavate dal 655 piede o poste di ramo non germugliassero il primo anno, scavisi la terra al piede, e nel tempo dell’ inverno se gli cacci al piede letame ben marcio mescolato con terra; e non pro- vando, s' adacqui in abbondanza una volta la settimana, e tanto si facci la estate e di notte- tempo; e massime sendo l'ulivo una pianta, che nei lati secchi et asciutti avvezzi ad adacquarsi, renderà più frutto, fallirà meno e renderà fermi e rattenuti i suoi frutti e fiori allegati, sotto i quali giace l’ oliva; e loro cascati danno indizio chiaro quanto ve ne sia per essere l anno a venire, massime quando appariscano in terra grandemente pertusati. E di maniera vivace la pianta dell’ ulivo, che posto in opera il suo legname in luogo umido ha fatto messa, di maniera che un pezzo di legno d’ ulivo posto a girarvi sopra una porta in terra s è visto germugliare, et un vaso del medesimo legno gettato nel fango aver dato fuori una messa. Che più? scrive Virgilio Marone Quin et caudicibus sectis, mirabile dictu! Truditur e sieco radix oleagina ligno. Inoltre è di tanta vita e di qualità di voler durare e così avidamente ss appiglia, che togliendo un pedale d'ulivo grosso e sfenden- dolo in tre o quattro parti e ponendo in terra ciascheduna d’ esse, s° appiccheranno tutte, come se gl avessero la scorza sana e salva da ogni banda, et ancora che secco da una d'’ esse, s’ at- taccherà in ogni modo; anzi tagliato 1’ ulivo da piede rigermuglia e diventa migliore di 654 prima; et il Poeta disse legno secco, cioè quasi secco, perchè cosi appare dentro il legno del- l’olivo, tanto e’ suzzi et asciutto; che se egli avesse scritto che e’ rimettesse dalle barbe tagliato come l' arancio e molti altri, secchi affatto fuor della terra e sotto verdi, non era maraviglia l'aver così detto. Ma chi non sa che gli ulivi vecchi scapezzati e grossi quanto la metà d'un uomo e più, cavati con dili- genza e con buon mozzo di terra et il lor pane al pié, s' appiccano, mettono, vengono innanzi e fan frutto? Ma conviene, così a questi tali come agli squartati, avvertire di pareg- giargli di sopra bene il taglio e in piantan- dogli cacciargli tanto sotto; o vero, togliendo la misura appunto, acconciandogli si che ven- ghino due diti da capo ricoperti con terra cotta, sopra quella lastruccia che vi s' ha a metter sopra, e la terra sia bene spicinata e stritolata che sopra vi si pone, così farà più bella messa; e facendone più d'una, si tiri subito innanzi la più bella. È ben vero che riuscirà e metterà sempre meglio un piantino a grossezza di stinco e piuttosto di polpa deli- cato, di buccia gentile e sano, non vecchio né giovane, di bella taglia, rigoglioso, con buon zoccolo da pie del vecchio, posto in buona fossa, divelto o formella, secondo i luoghi, ben fognata, con dargli al porlo della pagliaccia e loppa assai e qualche poco di arena, ne’ poggi massime ripieni di buona terra cotta, lasciato alto da terra un braccio e mezzo o due, e non basso per niente; che per ben che metta più gagliardo, pena più tempo a venire ulivo fatto, 655 per avere con i suoi rami a fare il gambo, che sendo lasciato alto, in quattro o cinque anni pare ulivo fatto; e questo è dei veri e dei buoni modi da piantare gli ulivi, e deesìi fare all’ aprile o marzo, quando Vl ulivo ha mosso e non prima, e pongasi scapezzato senza rosta rispetto al vento, e per amor del sole, che non fenda, cuoprasi quella testa di cera e d’ argilla molle, coperchiandola bene. E di più conviene sapere, contro a quell’openione detta prima, che se egli accadesse che tra questi piantoni alcuno mettesse male, che tu giudicassi di volerlo tagliare fra le due terre, non lo fare, cavalo più presto, e rifatta altrettanta buca che e’ vi cappia, riponvene un altro, che più presto averai dell’ olio da quel rimesso che da quel primo tagliato fra le due terre, che viene ciò da essere malato; e non per loro amore ne meno guarda che costino. Et altrettanto per mio consiglio farai degli innesti e degli altri frutti quando tu gli vedi tentennare e barcol lare a venire innanzi, che è più agevole senza comparazione aiutare un vivo, che non è cer- care di voler risuscitare un morto. Perchè come tu vedi che in cambio d’ acquistare all’ innanzi e danno all indietro, non aspettare altro da loro, cava e rimetti, e di poi non lo poterai per due o tre anni; e quando lo poti, levagli tutte le materie superflue e lasciagli un tre o quattro rami raccomandandoli al palo, che faccino il suo palco secondo ti pare; e il quarto anno gli farai fare una buca al piede, pur di sopra, a vantaggio sempre che ’1 grasso scoli in giù, e gli farai dare un corbello di rima- 656 sugli e cincistiamenti di coiami, mescolati con un po di sugo pecorino; e fa che la detta buca sia bene in dentro, affinché, lavorandovi, la vanga né la golpe non gli ritruovi, e vedrai che effetto faranno, e se l ulivo vien presto o tardi o adagio o pigro o lento o sollecito e per tempo facci frutto. E quando lo torni a potare, avvertisci a tenerlo sempre con i rami allargati et aperti, perchè non v’ è pericolo che "1 vento abbi ad aver possanza di scoscen- derlo. Piuttosto le sue furie sbarbano i vecchi dai fondamenti, avendo sempre l ulivo natura di metter poi nell’ ultimo della sua età le barbe all’ aere, o perché ’1 terreno essendo in poggio gli venghi a mancare, o come si sia, così essere si vede. Et a tutti gli ulivi vecchi osserverei di levar sempre da capo e porre da piedi ai moraiuoli, quanto al potare, e non agli infrantoi o coreggiuoli che non vogliono essere tocchi, e quelli sì e senza discrezione, come ben dice il proverbio, l ulivo non si pota bene che da un cieco o da un pazzo, e così il fico; et a tutti darai quei ritagli dei calzolai e ciabattini ogni quattro o cinque anni almeno, e non avendo da mescolargli col pecorino, mescola con letame marcio ordinario, e così facendo gli terrai in vermene larghe bene, et averai ogni anno, contro alla regola che tiene il volgo stolto et ignaro, che l ulivo facci un anno si et uno no, delle mignole e dell’ olio poco o assai, secondo l’ annuale, mantenendosi freschi e rugiadosi. Pier Vettori gentiluomo consumatissimo nelle lettere ha rimostro come si possi rinno- 65 vare et ha rinnovato un antico modo di ve- nire in abbondante razza di piantare ulivi, dopo l avere ancora tocco che le talee, cioè le piante degli ulivi che si cavano dai rami del- l'ulivo vecchio tagliati, lisci, delicati e puliti, grossi quanto un manico di vanga, di tre quarti di braccio l’ uno, segnata la testa che non si capovolghino in piantando, né che sieno punto stati sotterrati prima, ma si ben posti a suzzare, come ben dice Plinio, si hanno a pian- tare diritti in terra divelta un braccio e mezzo e coprirvisi tutti, tal che ‘entrino sotto tre o quattro diti e non più, avendo sopra terra trita e leggiera, netta di sassi e spicinata, affinche agevolmente dien su le messe per il caldo, dovendosi far questa piantagione alla primavera e non all autunno; le quali marze o bastoni o talee, ancora posti a giacere, se si sceglino che abbino certi gonfi come bernoccoli, schiacciati alquanto, rilevati nella buccia, che dieno indizii d occhi da mettere e ricoperti al detto modo, daran fuori; ciaschedun occhio farà una pianta da potersi poi in capo a tre o quattro anni ritrapiantare come queste, spic- cando luna dall'altra con la sega, se sia più d'una data fuori, cavandola con più parte di radici abbi messe. E per preparare un luogo da fare un semenzaio di così fatta sorte di ulivi, vuole che si elegga un luogo scoperto e non punto uggiato da arbori, monti o macchie, e sia di quella sorte terreno che gli ulivi vi faccin bene, che per avervisi a nutrire le nate piccole piante vuole essere grasso e buono; di poi s ha a torre dal ceppo degli ulivi vecchi 655 certi bernoccoli che dal somigliar che fanno alle uova mnovoli si addimandano, cioè quelli gonfi e rilevati di quelle parti piccole del ceppo a basso, congiunte con le barbe scoperte, verdi e vigorose, dove apparisce maggior bitor- zolo, e che l'ulivo vuol mettere da pie di quelli rimettiticci che suole mettere e non gli abbi ancor messi. Danno fuori ancora di questi nocchi a piè o nel gomito e congiuntura dei rami grossi e qualche volta nel mezzo del pedale o più sotto o più sopra; e non volendo errare, sì può prendere di quelli che hanno messo, cioè di quelli rimettiticci piccoli con un poco del lor pane di legno che sia la metà della palma della mano in grandezza et alto un dito e mezzo, tagliato via a ricisa, medi- cando la piaga come si disse. Ma fanno miglior pruova in dar fuori più gagliardamente quelli che ancora non hanno punto mosso e sono enfiati assai; gli antichi gli addomandavano occhi; e questi tali, spiccati di quivi come scheggie quadre o come venghino, non mag- giori di quattro diti per ogni verso e grossi due, o con scarpello che è meglio o con accetta, porgli in quel divelto, con la corteccia di sopr: ricoperta di terra cotta e trita minuta tre o quattro diti in sino in sei e non più. Et avver- tiscasi che questi hanno a essere di quelli che non abbino spuntato fuor punto; né meno si cavino dalle ceppaie degli ulivi salvatichi, né si tema di spiccargli dai domestichi e di buona ragione, perché non ne cavando più d'uno 0 due per pié, non si farà lor danno, non temendo l'ulivo la scure, ma godendosi d'essere rinno- 654 vato co ’1 taglio d’ essa. E conviene cercargli agli ulivi vecchi e che hanno gran ceppo, perché agli altri non se ne truova; e quella piaga si rimedia, ricoprendola di bovina e musco. Ma chi non volesse toccare ne di quelli che sono nel pedale o nelle voltature dei gomiti dei rami grossi, e sì truovano per tutti gli uliveti certa sorte di ulivi che sono venuti su doppi din su la terra, e sono ancora in modo separati dal compagno, che senza danno alcuno se ne può levare uno; d’onde si cava un nu- mero grande di questi a modo d’ uovoli, perché non solo dalle barbe se ne può fare, ma dal pedale ancora, come ho detto, dove egli è rigo- glioso e gli gonfia, si gli innalza; e se gli sol leva la buccia sfendendolo e facendone pezzi, e dei rami sottili e dei rami più grossi et atti a ciò se ne faranno talee. Questi uovoli s° appic- cano per certo e mettono più barbe, per il che più tosto crescono e vengono innanzi; riescono poi più facili a cavarsi che le talee o altri rimettiticci, piantati più sotto di questi; i quali poi malagevolmente si possono trasportare con le lor radici, se non fasciando la terra tagliata con la vanga, largo un piè attorno, che egli han con essi, legandovi un pannaccio, percioc- che è di mestiero cavar l ulivo con diligenza e portare attaccate alla terra quante più barbe sì può; così non se ne perderà a trasporgli. Ora di questi uovoli non solo se ne può fare munizione in un luogo destinato, divelto come sé detto, d'un campo posto alla larga, non occupato e rilevato; ma senza danno se ne può mettere nelle fosse delle pancate delle viti et 640 in quelle degli anguillari e nei divelti istessi dove sien piantati i magliuoli, perché e’ non v hanno a stare più di due anni e non usu- fruttano gran fatto il terreno, et in quel tempo e basta tenergli netti dall’ erbe, co ’1 sarchiar- gli spesso; e da prima quando mettono è bene appoggiarvi per contrassegno e tenergli diritti e per fuggire il pestargli, una cannuccia. Il terzo anno trapiantati et appiccati sì possono potare e lasciargli due vermene sole e zappar- gli un po’ più affondo, per iscerre poi l' altro, che sia il quarto, la più vegnente a lasciarla ire innanzi. E per ristrignere la pianta in sua virtù più a sé quanto sì possi, è bene lasciar la seconda e levar via la cima, contando da questo i mesì: se ambedue le messe saranno uguali di rigoglio et un po’ lontanette, si può cavar l uovolo, e legato cavarne due piante e trasporle in su ’1 divelto o loro buche grandi o fosse aperte, fognate se bisogni, mettendo loro in su "1 fondo delle granella dell’ orzo et attorno alle radici, che gonfiando, preso l umido, le tengan fresche e le inciti a pullu- lare. Si dee ancora quando sono tenerette e non traspiantate, venendo il verno, coprirle con un poco di pagliericcio e letame grosso; et a quelle che sono poste nella vigna s avvertisca che nel vangarle non si cavino su, né che si lascin loro attaccare addosso i tralci a far uggia. Queste si possono porre tra un magliuolo e l’altro, ma nel semenzaio basterà che dal- luna all altra sia un braccio e mezzo; né si farà loro danno, ché non gli nemicano come il cavolo e sfruttan poco il terreno tirando poco 64I umore. Et a volere che e’ faccino buona pruova, e conviene di non gli cavare da dove e’ si son posti la prima volta prima che in capo a cinque anni, come le talee, le quali a voler che s' ap- picchino e profittino bene, bisogna che sieno di rami gioveni e freschi, e che la lor parte più grossa e che va sotto alla terra per appic- carsi e far radici, s' intinga et infardi in un vaso dove sia stato stemperato sterco di pecora e bovina con terra cotta et acqua, rimenandola bene e voltandola con mano. Questo mescuglio sarà sempre utile a ciò che si pone di ramo, e tanto più all’ ulivo, che è legno secco et asciutto et ha la buccia assai incorporata e fitta co "1 legno. Ma come si sia, considerato quanto sieno sfruttati gli ulivi vecchi dai piantoni che se gli allievano al piede e quanto si danneggi poi a levargli et il tempo che vi va a tener- vegli sino che sieno da traspiantare di dodici o quindici anni e quello che costino poi a comperargli e quello che e’ patischino avanti sieno posti e la spesa che vi va a ben pian- targli et i pericoli che vi sono dopo piantati, sì troverà per esperienza che è manco costo e più breve per mettere in piedi un uliveto far preparazione di questi uovoli, i quali dopo cinque anni da nati e traspiantati che sieno, con la diligenza detta, dan frutto in sette o otto anni. Ma conviene risolversi a piantargli in terren buono e atto a ciò, perché nei luoghi magri e deboli e terreni troppo leggieri non ti riuscirebbe; e non è dubbio che questa è minor spesa. Ma per dire interamente il vero 41 642 e toccare la fondamentale esperienza di questo fatto, dico se in alcuna cosa s ha a far rispiar- mo di spesa, per chiaro e certo 1 agricoltura non è quella, perché in questa di ben lavorare la terra et assettar bene tutta la coltivazione e governo d’essa non s ha mai a cercare di rispiarmare denari, perché la terra, quanto più spendi in acconciarla a modo, tanto più essa si sollecita e ti rende il guiderdone d'ogni spesa e carezze che gli son fatte. Adunque chi non guarda a danari né si cura in ciò di rispiarmargli, compri i piantoni, chiamati da Columella tronconi, fatti belli, sani, lisci, interi di buccia, non macolati, freschi, rigogliosi, ve- gnenti, grossi il più puoi et alti e grandi di tronco; e metterà l uliveto in assetto da utile in quattro anni o al più in cinque, piantando in terreno di buona ragione, e cacciandogli bene a dentro, che barbichino ben sotto e si mantenghino freschi; et anco osservando di raschiare quella lor buccia ronchiosa e cresposa, levandone la prima pelle scabrosa a quanto ne a sotterra, il che si può far con destrezza alle talee che non s impiastrino. E così ancora presto ss appiccheranno, avvertendo che gli ulivi non sì vangano nei paesi freddi, perché nei caldi, facendolo, daranno su le radici a galla e farà lor danno; o se pur si fa, sia legger- mente. Imperciò, a quelle piante che sono acco- stumate da piccole a essere lavorate intorno, non sì dee mancare del lor solito, et anco così si facci del potargli; i fatti grandi, dice Colu- mella, ogni otto [anni]. Ma nei paesi di Regno di Napoli dove sono uliveti assai, lo fanno e 645 gagliardamente ogni anno che abbi fatto del- l ulive assai, e ancora scapezzano quando sono invecchiati d’ anno in anno una parte per rin- novargli. Potansi nei luoghi caldi al febbraio o al marzo e nei freddi all aprile o al maggio, e per luna vecchia in tempo asciutto in di sereni, e tuttavia prima che comincino a rin- novare, levando tutti i rami superflui e secche- recci, torti, 1 troppo lunghi, massime di mezzo, o doppi che s' urtano l uno con l altro, gli sconcertati, gli infruttuosi e mascalciati, apren- dogli bene al sole et ai venti; e dove questi possino, sì mantenghino le piante basse a... braccia d’ altezza, e tirando i rami a terra, ché andar all insî non giova. Così daranno più frutto e massime togliendo via quel ramo che si disse, a dove e’ si truova, più vegnente e più rigoglioso di tutti gli altri, e se non si taglierà parrà che stia contristato tutto l' ar- bore; similmente se gli hanno a tagliare tutte le barbaccie che gli surgessero appresso sopra terra per tener l'altre sotto smorte e tutti i rimettiticci, se già non bisognasse per la vec- chiezza rinnovare la pianta, che allora si può tagliare affatto e lasciare poi venire innanzi di quelli più rigogliosi e vivaci, o si vero lasciarne per traspiantare i più discosti dal pedale. Et ancora a questo modo tagliando gli ulivi vecchi fra terra si può far procaccio di piantoni, lasciando venire innanzi et allevando tutti i suoi rimettiticci, i quali, sendo arrivati a debita grossezza di piantoni, cavati questi ne ripulluleranno degli altri, e così s' averanno (44 i piantoni fatti. Ma queste così fatte maniere di far procaccio di piante d’ ulivi, o per via di lasciare agli ulivi vecchi le vermene piccole a diventar co 1 tempo piantoni, o veramente tagliati alcuni ulivi vecchi da piedi ch’ abbin disertati i rami o altro mancamento, lasciar venir su quei polloni che e’ rimette a divenir piante fatte, o vero mettere et allevare degli uovoli a fare il medesimo, sono cose anzi che no da lasciarle fare ai vicini se vogliono 0 agli altri, e da questi a tua scelta gli dei com- perare, non guardando a spesa per far la cap- pata a modo tuo, non pur dei piantoni, ma delle piante dette e degli uovoli fatti. Non dico che degli uovoli, trovandone qualcheduno dei belli fra’ tuoi ulivi tu non abbi a levargli e piantargli al modo detto, per servirtene poi un tratto con lungo tempo quando sieno piante fatte; ma non già per farne incetta. Questa incetta è da lasciarla fare a chi la vuole; e tu, per vedere a’ di tua l uliveto in essere, va e compera i piantoni dove sono e buoni e belli, e conducigli nei tuoi campi a fare l uliveto, dove tu hai a tenere i tuoi ulivi netti da ogni rimettiticcio; e a qualche gran pianta puoi lasciare una vermena sola e quella discosto al pedale a fare col tempo un piantone. Gli uovoli col tempo fanno bene l' effetto loro, ma è tedio e fastidio grande, e grande indugio vi bisogna per vederli grandi piante e fatte, il che non avviene dei piantoni fatti, che qualche volta, quando si spiccano dalla madre, sono arbori fatti. Procura dunque il tuo uliveto senza questi 645 impacci, e se nelle ceppaie dei tuoi ulivi 0 nel pedale si ritruovano magagne, levinsi sino in sul vivo e dalla parte della buccia si scarni sino in su la buona, e questa finita, s impiastri con morchia perché non patisca. E nei luoghi di terra dura e secca asciutti adacquandosi, e nei caldi (quando sono ancora piccole piante ) daranno maggior frutto e più presto; e sia acqua piuttosto di fiume che altra, la quale se averà seco del letame tanto più gioverà; et è il tempo giusto d’annaffiargli quando le foglie comin- ciano loro a ingiallire o rosseggiando a scolo- rire; e deono essere messe in giù rasente il gambo alle radici un mazzo di sermenti di bac- chette o canne, et all’ingiù cacciare nei luoghi vacui calcinacci o rottami e coprire con una pietra maggiore, quando gli sia stata calcata la terra addosso, affinché l acqua gocciolando a dotta gli aggiunga alle barbe. Ma se siano nei luoghi che gli amano naturali non occorrerà, se però il paese non fosse più che caldo. È neces- sario ancora, nel porgli, collocargli nelle fosse, buche o divelti con il partimento in quin- cunce che darà di se bella vista e farà che venghi da quel terreno dove sieno le piante dispensato il nutrimento ugualmente, né s oc- cuperanno con luggia luna Valtra più del dovere; et in osservar questo modo quanto più si potrà, tanto meglio si potrà cavare sotto il frutto della terra non coperta da loro, lavo- randosi più agiatamente. Columella ordinò che da una pianta all altra fossero trentun piedi e dall'una fossa all’ altra sessanta nel terren grasso, che non si semini sotto grano; e nel 646 magro che non sì facci sotto grano il mede- simo, un poco meno, cioè venticinque per la lunghezza della fossa e dall’ una all’ altra qua- rantacinque. E dove sia divelto tutto il campo, si distribuisca alle piante la distanza eguale e si facci giusto l ordine quincunce, si come per gli altri frutti, i quali volendo intramezzare s'accreschino gli spazii la metà più, e un terzo alle viti che vi si voglino in sui bronconi: e si può, accomodando gli spazii, inframmettere di queste e di quelli tutti in un filo. È opinione che l ulivo piantato presso al noce lun l'altro si danneggi con stare male in essere e patire, e che con la mortella s' amino e s aggiovino insieme, facendo bene l uno per l altro. Quanto poi a che e sia meglio o peggio di piantare gli uovoli di autunno o di primavera, conviene molto bene esaminare il paese se è freddo o caldo, et appresso il terreno se è umido o asciutto, et inoltre il proprio campo in che si piantano, se è volto a mezzodi o a tramontana, e veder bene che sorte di piante vi si confac- cino, perché tutte queste così variano molto e ricercano diversa stagione, il che tutto si può rimettere al giudizio del buono agricoltore, sapendo che la pianta dell’ ulivo fatta in questa foggia fra Vl altre grazie si può piantare in tutte le stagioni sicuramente, perciocchéè cavan- dola con quella terra che s'è detta attaccata alle radici s° appiccheranno, tuttavia che se gli usi la diligenza (se non avvenghi eccessivo caldo o freddo che talora gli secca tutti) detta in ciascheduna di queste due stagioni. Dove che i piantoni e le talee che non hanno vetta, 647 parlando dei paesi temperati o un poco più freddi, ti riusciranno meglio a primavera, come è nel nostro paese. Con tutto ciò abbinsi nelle barbate degli uovoli le sopraddette considera- zioni, e governisi altrui secondo la qualità del sito, del cielo, del luogo e delle piante. A questi uovoli trapiantati si richiede, se non sì semina il campo, che così per altro si lavori, et anco con questo attorno a loro si dee van- gare all’ autunno e dar loro del polveraccio, così seguitando mentre son giovini come al piantoni, e così in buon terreno saranno grossi come un manico di vanga; e ciò si dee fare nei paesi buoni per loro e di terreno e di luogo, perché nei lati natii della Riviera di Genova non è così a tutti la maceria e mas- sime nei luoghi bassi, ma l'ulivo come il timo e cappero è amico della maceria, cioé dei muri a secco in cerchio che gli sostenghino il terreno e di quel vento marino. Et a Trento et in altri paesi et in Sicilia, dove è la natia lor patria, et in Puglia e Calavria et in Baruti non occorre loro altra cura di lavoro, ricrean- dosi a sufficienza di quello: e fra terra avviene il simile quando sono nel lor patrio suolo. E se bene in simil luoghi senza altro governo fan buona pruova, non è per questo che e’ non fus- sino per farla migliore, procurandogli anch’ essi come s’ è detto. Vezzegginsi adunque secondo sì vede rendino il merito delle carezze che se li fanno. Ma a voler ben governargli e ben trattargli si richiede lavorargli attorno, dando lor qualche cosa ai piedi che gli riscaldi e rin- vigorisca e un po meno nei luoghi che sono 645 umidicci ('). E ciò bisogna fare verso il verno, quando si appressano i freddi grandi et i ghiacci; e sia ciò letame di pecora o di castrone. Sono ancora, come s' è detto, a pro- posito i ritagli dei cuoi nuovi et il carnezzo e pelo che si spicca d’ addosso alle pelli, quel raschiaticcio e gli avanzumi e bioccoli delle lane, domandati limbellucci; e dandone di questa sorte agli ulivi grandi che rendono frutto, sì potrà stare tre anni continui senza dar loro altro. Facendo gli ulivi il lor frutto su le messe vecchie non come il mandorlo, melo, pero e granato in su le nuove et in su le nuove il fico e la vite’ et in su le giovini et in su le vecchie il melo che ne fa due volte l’anno alla primavera et all'autunno e l'altre piante simili, che quelle frutte che sì maturano prima sono in su ’1 vecchio et i serotini su ’l nuovo, non è d'aver paura di tor loro il frutto a potargli; ma non amano i razzaiuoli d’ esser potati, sì bene i gramigni, assai e spesso. Usavano ancora gli antichi governare Ì frutti, gli ulivi e le viti senz’ altro letame; e massime nelle coste, colline e spiaggie all'autunno avanti che comparissero i i freddi grandi et in su ’l cominciar delle pioggie, lavorando al piè del- l ulivo in cerchio, e facendovi attorno dalla banda di sotto a modo d'una pozzanghera, e quivi voltando uno o più solchetti, i quali quando venivano poi le pioggie gagliarde vi riducevano il terreno cotto dal sole dell’ estate dinanzi, fermandosi quell acqua torbida terrosa; n le . . 43> . (1) uliginosi, scritto sopra umidicci. 649 e di questa maniera senza altro del fiore e grassume della terra rincalzavano l ulivo, le viti e Vl altre piante. Nè ciò può lor nuocere, come qualche volta il concime, secondo poi il tempo che viene, il quale alle viti grandi non si deve dare, perche farebbe il vino grasso e da guastarsi, ma più tosto far questo se già elle non fossero scadute; ond’è il proverbio delle viti: non mi dare e non mi torre, non mi toccare quando io sono molle. Ond’è che occorrendo tagliare per il secco tronco 1 ulivo, dalle radici scavisi quanto più si può e taglisi quanto più a terra, scalzando quel che rimane e gettandogli del letame marcio attorno con assal acqua con esso, perché questa è regola ferma, che dove e quando si dà il letame se gli aggiunga acqua assai e tanto più quanto è men vecchio e marcio e quanto è men freddo il paese; chè dandosi talora alle viti o agli ulivi gli abbrucia, se non piove bene poi, o si facci questo; per il che è meglio Y abla- queare, cioe lo scalzare e lasciar lor quella pozza attorno. Il musco ancora che si truova generato in su gli ulivi sì dee strappare con le mani o ferro atto a ciò, raschiando, altra- mente si infermerebbero senza fruttificare ; così nuoce e si dee estirpare loro l ellera, la quale porta nocimento ancora alle quercie e cerrì, tanto gagliardi e sodi; e seguendo questa regola, agli uovoli non occorrerà dar loro l’anno letame. S' hanno gli uovoli da piccoli a tener potati con una vetta sola, e se rimettano tuttavia, ritagliare; e gli ulivi grandi e fatti che danno frutto, cosi i vecchi, quando sì paia 650 che non sieno da potare, è bene in ogni modo disbruscolarli (*), cioè quando e’ gli hanno troppo folti i rami giovini e le vermene dentro, scemarli et aprirgli, il che è ben fatto di due anni l’ uno alle piante fatte e grandi. Ancora, scalzato l'ulivo, gli gioverà assai più che nulla, facendolo più lieto e più fruttifero, il dargli della morchia mesticata con acqua e massime ai più gagliardi, la quale vien tanto da Catone commendata per tutti i frutti, che e’ dice che l’ulivo farà doppio frutto, l olive e la morchia. Ma bisogna lasciarla infradiciar bene, e poi farà bene usata a tutte le piante et ai campi, e massime dove sia copia d’ erba. Appresso questa farà allegri gli ulivi il dar loro al piede i gambi delle fave, le pagliaccie, dell’ orina fradicia o argilla mesticata con bovina vecchia o tanto del fuco marino; e ciò si facci alzan- dogli in argine il terreno attorno per rattenere la pioggia, e massime nel solstizio, quando desiderano d’ essere adacquati. Se l ulivo s in- fermasse per la troppa umidità, diasegli della ‘alce morta al piè. Se da giovine sia roso da qualche bestia, taglisi rasente se ha fatto messa, e non assai più sotto; se sia arso taglisi da pié, con porvi del letame, come s è detto. Se dia poco frutto, gli gioverà lasciarlo stare scalzato tutto l’inverno, con scoprire bene attorno alle radici e porvi sopra sterco marcio di capra, prima terra cotta e poi questo, così alle pic- cole piante come alle grandi a proporzione. Et essendo sterili, faccisegli qualche forame per il (1) intertundere, scritto sopra. 651 mezzo delle radici grosse, 0 vero si spacchino con mettervi qualche pietra o zeppa che non sì serrino, di sambuco verde con la sua scorza; ma meglio è tagliargli da pié, di poi insetare i polloni nuovi. I Quintilii Ro. affermano questo: dalla sua grossa radice in sul ceppo, da quella parte che è volta in Austro, per uno spazietto d’un cubito, scalzatolo lo forerai che passi con il succhiello gallico quanto è lungo il dito grosso, et allora tolti due rami d'un ulivo fruttifero dalla medesima parte australe, che appunto suggellino nell’ apertura fatta, gli farai passare che sì serrino stretti uno di quà et uno di là, e tirate forte le vette di questi pali e tagliato rasente quello avanzerà, riturerai con loto mesticato con paglia. Così affermano loro: e si faranno quasi che quelli congiunti fruttificare. E bramando che ella facci più d'una sorte che d’ un’ altra, di quella gli inca- vicchierai i rami; così averai migliore olio, pigliando delle [olive] domestiche e buone, dalla parte che sia di verso l’ Austro. Ancora farà l'effetto, cacciando in quel forame un pezzo di ulivastro o di pino o di quercia 0 una pietra. Se non rattenghi i fiori che gli caschino, i Greci scrivono di cacciare un bac- cello di fava, turando il buco con cera, in una zolla fattagli fra le radici. La morchia datagli alle radici. riparerà che non gli caschino i fiori, e la squilla postagli d’ attorno ammazzerà i vermini che ella possi avere, come la morchia intrisagli fra le barbe. Affermasi da tutti che gli ulivi nei luoghi freddi si deono innestare in loro istessi d’ aprile, 652 nei caldi dai diciotto di marzo sino a luglio nelle barbe che sono scoperte, fra la corteccia in quelli che sono in fresca e sottil buccia; a marza fra la scorza; e quelli che l hanno un po più soda e dura e grossa, fra il legno. Di bucciuolo e a scudetto è bene annestargli nel crescer della luna d'aprile e di maggio in paese caldo, in più freddo di giugno in ramo nuovo di scorza grossa e sugosa; et ancora nel tronco se è verde e sano da basso e da alto, sopra l innesto scapezzando. Et in ramo nuovo e fresco sì può anco a buon’ ora, quando vuol muovere, annestare a marza, dice Palladio, ma meglio è da mezzo maggio, cavandogli dal mezzo dell’ arbore, nei luoghi temperati. Degli ulivi quelli che hanno la corteccia grossa fra quella et il legno s' hanno a insetare, e negli oleastri fra la corteccia et a occhio; altri nelle radici; e quando sono appiccati con qualche barba, cavati gli trapiantano a dove egli hanno a stare. Secondo lo Spagnuolo (') s innestano bene in sambuco, e conviene che in essi sia l’innesto molto basso quanto lo possi compor- tare, o sia per aversi a traspiantare altrove, o per avere a restar quivi. L'insetare a scudetto sia sempre in rami nuovi e secondo Il età del ramo che s' innesta, e così sia la buccia (*) che in esso sì pone, perchè in ramo vecchio s' ha a mettere lo scudetto cavato di ramo vecchio, (') A questo punto vi è una nota del Montelatici: « Spagnolo. Questo è Alfonso d. Herrera. Cosi serivo io D. Ubaldo Montelatici COR: (2) yem, pare scritto sopra. 655 così dell’ ulivo istesso in sé medesimo, come in quel del sambuco che abbi la scorza grossa, e così per contrario; e sia a luna crescente, in dì buono, di cannello o a scudetto quando l’albero è in succhio e che la buccia si spicca, il che al sambuco dura assai. Degli ulivi i maschi hanno le foglie più strette, più verdi e più carnose, cioè più polpute, e fanno men frutto che le femmine, molto verdi e fresche; hanno il frutto più piccolo et in esso I osso maggiore; e di questa sorta si deono piantare e di essi sono meglio le talee o uovoli che s hanno a piantare e traspiantare, perciocché ‘adicano meglio e così meglio vi s attaccano gli innesti. Ma perché sono maschi e men frut- tiferi, s hanno a insetare in essi buona sorte d’ulive, insetandosi perciò rasente terra o sotto, perche terranno, per essere più vigorosi delle femmine e di maggior sustanza, che fa poi bene fruttificare quelle piante che sono insetate in essì; ma non s' avendo a innestare non sì piantino, che vaglion poco. I sambuchi, dice lo Spagnuolo, vivono più tempo che gli ulivi e sono più sani; e gli ulivi insetati in essi ser- bano quella proprietà, che vivono più anni e con più grassezza e frescura. Scrive Palladio che si possono passare gli ulivi per i salci come sl disse del persico, e nasceranno senz’ osso. Columella racconta una cosa maggiore e scrive così: caverai una fossa di quattro piedi per ogni banda, tanto dall’ ulivo lontana che i rami ultimi dell’ulivo la possino toccare; pianta poi nella fossa un arbuscello di fico, sollecitando che venghi bello e rigoglioso; passati tre anni 654 o quattro, essendo bene alleficato, piega un ‘amo dell’ ulivo qual sia più bello e legalo al tronco del fico; tagliati poi gli altri rametti, lasciagli quelli solamente che tu vuoi anne- stare; allora taglierai dal fico i rami; liscia il taglio e fendilo nel mezzo, mettendovi un conio, e raderai le cime dell’ ulivo da tutte le parti, lasciandole alla madre congiunte; così inne- stato nel fico cava il conio e lega il tutto di maniera, che non possino per alcuna violenza di vento o altro essere cavati i rametti del fico. Così per tre anni lasciandogli s' appic- cherà l ulivo co 1 fico, e ultimamente l anno quarto, quando Vl ulivo sia bene co ’l fico unito, taglierai le ramelle dall’ ulivo. Di questa ma- niera s' innesta, dice egli, di qualunque in qua- lunque, se ben disforme; e che e’ possi essere vero e che e’ sia possibile, guarda qual è mag- giore e parla di veduta. Nel territorio della Meglia v è una possessione d’ un Picedi, dove è un ulivo che ha ricevuto sopra di sé d' in- nesto un susino; così produce susine et ulive; e questo era, mentre scrivevo queste cose da principio. Questi inseti d’ ulivo, è sempre ben fatto spruzzare loro come una pioggia d’acqua, che sarà sempre buona cagione di farlo attaccare. Ogni oliva maggiore per mangiare, ogni oliva minore per far olio è buona; e si tiene che sia matura, quando elle sono i due terzi 0 tutte nere: e passato questo termine, se ben poi elle ingrossano, crescendo la carne et il nocciolo, s empiono d’ acqua, la quale da cielo, quando son fatte, corrompe l'olio e nuoce loro, e massime la nebbia che è umore grosso e 655 materiale. Tenevano per openione gli antichi che quando nasce e vien su la stella dell’ Ar- turo, che è di là da mezzo settembre in circa, sì cominci a crear l'olio nell’ ulive, e che e’ fosse da corle per natura quando l andava sotto che è di là da’ ventuno di novembre, et il tempo poi atto a far l'olio tutto decembre, come oggi ancora; perché niuna sorte di ulive colte subito e subito spremute rende l'olio che ha, si come lo fa più buono di quella che è in tutto nera quella che quando è stata verde un pezzo comincia a diventar nera, sendo che quando è più matura l uliva Volio è più grosso e di peggior sapore, e massime se sia l’anno pioggioso, che allora si dee affrettare di coglierle, ché nuoce all’ olio et all’ ulive guastandoli. Et è ancora vero il proverbio, che chi vuole tutte le ulive non ha tutto l'olio e chi vuole tutto l olio non ha tutte le ulive, sendo che s' ha a cercare d’ avere più olio che sì può e non assai ulive, il che interverebbe quando elle si cogliessero non bene ancor mature, nel qual tempo non ne sono ite male ne dalle pioggie ne dagli uccelli. Ancora si tiene per openione che non sia bene lasciarle stare quando sono stagionate molto in su gli ulivi, perche scemano beccate dagli uccelli, e cascandone da per loro ne van male, e consu- mano appresso l umore di quelle che con esso hanno a essere nutrite l’anno a venire; che si vede chiaro che se elle vi si lasciano stare sin che tiri il vento marino, che e muovono, ripi- gliano forza né si fan cadere così facilmente. Così interviene alle vecchie melarancie, che 656 lasciate stare a primavera, ai nuovi [venti] ripigliano il sugo. Ma, e per cavarne più olio e salvare gli ulivi all’ altro anno, come io ho detto, quando ne saranno i due terzi fatte nere, è da anticipare a coglierle avanti ai freddi; e s osservi la giornata asciutta, che ’1 toccare l’ulivo molle gli fa danno e guasta quelli rametti, troncandosi più agevolmente, massime che e’ sì dee corle con mano senza stropicciarle o spremerle punto; et è antica legge di quelli che andavano a cor l ulive che vietava di non battere le olive con canna anzi che con pertica; e se sia fango sotto, scuotinsi destramente dimenando et incalcando con i piedi i rami in una stuoia o lenzuolo disteso sopra terra o o tenuto sospeso; e se pur ne siano ite in terra che siano fangose o piene di terra o guaste, cascate per il tristo temporale, si lavano prima con l'acqua calda; e così, come si dilettano d'essere gli ulivi piantati da pura e vergine mano, da simile hanno caro d’ essere trassinati e colti. Ma non si potendo mandar ciò tuttavia a effetto, sì deono almeno con nette e pulite mani, non li premendo, discretamente fare, come con aiuto di scale fatte in tre piuoli, dei quali due formano la scala e uno in triangolo la sostiene diritta con un tagliere sopra, a tal che rizzata, senza salir su’ rami, possono circon- darli a cor tutte le vette e loro, senza offesa o danno alcuno, perchè scotendo i rami grossi fortemente si fa danno alle messe nuove, facen- dole cadere, come avviene sbattendole e perco- tendole con le mani, il che non si dee fare, spiccandosi, come s è detto, a questo modo 657 quei ramicelli da dove averà a uscir fuori la mignola; e di più le ulive percosse sì macerano, come cascando in terra e macolate mandano fuori manc olio, a tal che s hanno a corre con mano e senza i digitali. Né si deono ancora i rami carichi strisciar giù con la mano, come si mal costuma da molti; e quando pur non si possono arrivare con mano, piglisi in cambio d’ una pertica dura e grave una canna o bac- chetta sottile, e non si stia a battere con essa di fuori verso l ulivo quasi contro a pelo, ma sotto o di dentro, perchè così non si scoscen- deranno quei ramucelli ove è la speranza di frutto futuro, la quale si può indovinare quando l ulivo manda fuori quelle boccioline; noi chiamiamo ciò mignolare, come quando elle s' aprono, fiorire; che le tengono chiuse non come i susini, peschi o ciriegi che l' hanno e le tengono meno tre settimane o più, secondo che è sole e le fa aprire; né perciò l'uno o l’altro ne dà speranza ferma, ma piuttosto la dà il cascare dei fiori in quantità, che sono in tutto simili a quelli dei sambuchi quando si spicciolano fioriti. Poichè si è cominciata a nascer l uliva che sotto esso [fiore] rimane (e se non nasce, disgrazia, come il più delle volte suole a Taranto accadere, dice Teofrasto, ove ad un cheto spirito che si comprende al senso certamente molte se ne abbruciano, generato ciò dal mare; e s' abbatte che sia, che avendo spinta una salsedine, si corrodino e perischino; et ancora una certa caligine senza alcuno spirar di fiato avviene che come la tocca i fiori gli abbrucia); quanti più fiori si 42 655 vegghino essere cascati, tante più saranno ulive. Ma conviene guardare che se siano in quel tempo seguite gran vampe, che le genera il tramon- tano, o sieno pioggie continue, il fiore ancora a noi s abbrucia e si macera, e cascando giù insieme col frutto non apparirebbe bucato, ma senza buco appiccato insieme, perciocché quel pertugietto è quel che mostra che ’1 fiore è restato in su l'ulivo, il quale ha il suo prin- cipio nel mezzo del fiore. Appresso questo ancora è buon segnale quando le vette degli ulivi sì caricano di mignole, perciocché e’ sono alcune piante et erbe che fanno il seme nella punta e sommità loro, et alcune dalle latora, et altre dalle latora et in cima, come l ulivo; ma non sempre l'ulivo è per tutto a un modo; ma la più certa è quando l anno dinanzi non n’ hae avuti, aspetta l altro piena e grossa ricolta. La ragione è che questa pianta suole produrre copiosi frutti alternativamente. Le olive polverose che sono cadute in terra renderanno l olio di terrestre e cattivo sapore, ma fan più olio che le colte da 1 ulivo. Imperciò sono da essere lavate, poi rasciutte, quali in tre di si seccano assai; se gelino i freddi, il quarto dì è da fragnere. Quanto più sono verdi le ulive, tanto è migliore, più saporito e deli- cate»l’ olio che elle fanno; onde è tenuto l'olio om;acino, che ciò suona ottimo per mangiare e medicine; e quanto meno sono state colte le ulive, tanto è più buono, ma non già più olio fanno; e quanto più stanno in sul palco et in luogo caldo ammontate le ulive a incalorire, fanno più olio, ma riscaldato e peggiore; e di lol) 659 tutti è pessimo quello di sansa, che si cava dopo le ultime franture dei rimasugli delle prime, sotto il torchio rispremendole, come si fa al vino stretto. E questo è olio verde di colore, sappiente e cattivo, e non come quello lucido, chiaro, trasparente e lampante, quale tenuto in serbo negli orci su’ palchi scema, stillandolo il caldo e purificandolo più di una libbra per cento, e nei magazzini terreni, se non ricrescerà, manterrà il peso medesimo che quando vi si messe. Le ulive mai nell’ albero sono sì fatte che di subito di ragione si possi far ber l olio; e perciò colte si deono stendere ammontate su palchi di tavole più che in su gli ammattonati, che dai mattoni succiano e dalle tavole non tiran punto; e si conviene, colte et acconcie così che elle sono, indugiare a far l olio quindici o venti dì; manegginsi in quel mezzo tempo da un capo all’altro, rivol- tandole sozzopra con pala di legno, leggermente che non si spremino, perchè non riscaldino et ammuffischino, che fa poi l'olio di tristo sapore e riscaldato. Et ancora dopo certo tempo in sui tavolati l'olio scema nelle ulive e vi cresce la morchia, e perché [Il oliva] s increspa, diventa minore; con tutto ciò per qualche dì riposatevi, gittan più olio; ne vi si lascino stare molto, basta sin che l'osso si stacchi dalla carne age- volmente, che [altro] non importa; importa più il troppo tenervele; e meglio è quanto prima portarle a spremere e spedirle. Nei luoghi freddi perché si congelano, indugiano il più delle volte al maggio, al giugno e per tutto agosto a farlo, sperando per mezzo del tempo 660 caldo cavarne più olio; et intanto le tengono in sui tavolati stese e non ammontate, perché non riscaldino. Alcuni appruovano che elle vi si debbano tenere sopra sospesi graticci di canna, vimini, castagno o corniolo o altro, d’ onde scoli per alquanto i cattivi umori, sven- tolandole qualche volta in alto per far cascare se vi fosse cosa d’ impaccio alcuno; e se sono imbrattate, lavarle con acqua chiara, né prima che asciutte all’ uggia porle sotto la macine. Nei luoghi temperati e caldi sì possono porre sotto la macine tosto stagionate; e prima ancora in questo è bene sceverarle e stenderle sopra graticci di canna o altro, e crivellarle, per vedere se vi è altra ribalderia o foglie, che tutto impedirebbe la limpiezza e purità che desidera V olio. E non si potendo così sollecitare a fare l’ olio presto che co ’1 vapore e co ?l freddo più sì constrigne, sventolinsi i monticelli d’ esse [olive] che non riscaldino, e sì portino di mano in mano al frantoio, che sia volto a mezzodi e caldo, come le celle, perché più como- damente si disfà ogni liquore; e si fugga il fuoco e ’1 fumo che fa danno all’ olio e pur l’abbrucia lo splendor del sole. E Vl olio, più netto, più delicato e più bello e più presto si farà, che sia di macine soda di breccie minute, fatta muover dall’ acqua, da bestie o da uomini, come quella mezza macine di invenzione di Lorenzo Lupicini, uomo di solerte ingegno e letterato. Ma quella schiaccia più presto e cava meglio l'olio dalle bande, rimettendole pur sotto con la pala di mano in mano che gira; e lascivisi stare il meno che si può; 661 poi cacciare nelle gabbie di giunchi sode e fitte il cominciato a strignere e rimasto nella carne et ossa, che così fatta morchia gli nuoce, come lo star troppo ammontate le ulive. E conviene senza intrattenerlo finir di farlo da quella via che si comincia a mettere sotto alla macine; né si vadino mescolando le fran- ture che si fanno, mescolando la terza con la seconda e la seconda con la prima, ma sì facci di per se l'una dall’ altra: sendo sempre quel- l'olio migliore che si cava da ulive poco state acciaccate sotto la macine. Imperciò questo primo che si cava è il migliore che non s' ha a mescolare con gli altri, anzi farlo e mante- nerlo di per sé; oltre a che si dee avvertire che la macine non infranghi l' ossa, perché attristiscono ammaccate il sapore dell’ olio; imperciò si facci da per sé l'olio di sansa e da per se si tenghi, sapendo che tutto l'olio che si fa con la macine è migliore di quello, che è più utile che si facci in canali o truogoli. E se ai tempi freddi l olio con la morchia rimanesse congelato e massime essendo freddi eccessivi, vi sì cacci un po di salnitro abbruciato e trito, perché questo risolve e lo separa da ogni vizio; o vero vi sì metta del sale cotto e si torni a fare, che non per questo sarà l'olio salato, non ricevendo l'olio il sale a questo modo, quanto egli si sia. E se per il freddo questo non facci l’effetto, mettavisi in ogni modo quel salnitro abbronzato, mescolandovelo e spargendovelo per tutto. S'accresce l'olio, scrive Plinio, dalla nascita dell’ Arturo a’ diciotto cal. d’ ottobre, di poi crescono i noccioli e la carne. Quando ha patito (662 di secco l'ulivo e che sopravvenghi copia di pioggia, sì guasta l’ olio in morchia; la calorìa di questa sforza le ulive a diventar nere; e perciò cominciando la negrezza v’ è quasi niente o poco di morchia et innanzi punto. Et è falso errore degli uomini che stimano essere prin- cipio di maturezza quello che è prossimo al vizio, appresso a questo che e’ pensano che le ulive creschino con la carne quando che tutto ’1 succhio va nel corpo et il legno dentro s’ ag- grandisce, et allora massimamente se sieno sopravvenute dall’ acqua; il che avvertendo (') che e’ venghi dalle pioggie, l olio va via e si consuma, se già non segua appresso un bel sereno che assottigli il corpo dell’ oliva. Imper- ciò quando mezzo appaiono nere si possono corre queste e lasciare campo a l’ altre d’ ingros- sare. Ma in questo ancora conviene rapportarsi all’uso e qualità delle regioni; e certo è che per le pioggie dell’ inverno si concepisce la morchia, congregandone più per essa che del- l’ olio. Facevano l'olio già gli antichi con ma- novelle o stanghe, nei truogoli o murati o di pietra, o con i piedi; ma è mala usanza. Ora l’ordinario del farlo è questo: si pongono quante olive stagionate e preparate come sè detto possino stare sotto la macine nel truo- golo murato, ma meglio è che sia di pietra, a premersi con girar della macine, e strette et ammaccate tanto che si facci una massa della lor carne e dell’ossa, senza romperle; il che (1) cura multa, è scritto sopra avvertendo. (563 avverrà avendo l occhio co "1 non ve le tener troppe volte sotto; allora raccolte sì mettano in gabbie solite di giunchi, ma meglio è di salci fitti intrecciati e tessuti, credendosi che questi aggiovino l olio d’ un certo che; e cac- ciata l una sotto l altra a piombo, perché nello strignere non dieno giù dai lati, sotto a l assone del torchio si spreme l'olio, arrovellando la vite quanto si può con la forza delle stanghe, gittando sopra le gabbie continuamente del- l’acqua calda bollente, la quale cavata di sotto e posta in un vaso, che non sia di piombo o di rame, che ciò dà noia all’ olio, ma di terra cotta o di legno, si lascia riposare tanto che venghi a galla; che non fa come negli otri, che pieni d'olio posti nell'acqua vanno a fondo; e di poi con una mestola cupa di legno (altri prendono una padelletta co ’1 manico corto di rame, ma è meglio di legno) si trasceglie da quello; e questo è il primo olio netto, buono e bello, quale s' ha a porre in orci di per sé e non mescolato con l'altro. Di poi si cava quello che è restato nelle gabbie e rimesso sotto alla macine si ritorna la seconda volta e sino alla terza e più, fragnendo l’ossa e tutto ; et accanto rimesso nelle gabbie si serra al torchio più gagliardamente sempre, gettandovi su acqua bollente, e si tiene il medesimo ordine per cavarlo, ma scema sempre di bontà e schiac- ciandosi gli ossi tanto più. Gli antichi non la guardavano circa al metterlo nei vasi di bronzo, ma non ve lo lasciavano stare molto, perché vi patisce, come a lasciarlo badar troppo sopra la amurca o morchia che si chiami o fra le 664 sue feci, perche vi si fa cattivo; e quanto più mentre sì fa si tramuta di vaso in vaso, tanto sì fa più liquido divenire e dalla morchia si libera. Patisce ancora e si guasta dalle conche bollenti; e perciò chiusi s' hanno a tenere i frantoi e che non vi sventoli l aere o poco aperti, st che non vi si vegghi lume da spez- zare legne, per il che è attissimo il fuoco della sua sansa, che sono i noccioli dell’ ulive venuti pestati male. Di poi è stato trovato che si lavino le olive con l'acqua bollita e subito si caccino sotto al torchio sode, perché così se ne cava meglio la morchia, poi frante sì caccino sotto la mula e di nuovo se gli dia dell’ acqua calda tuttavia, sino che sieno spremute bene. Ma pigliando un sacco di stoppa grossa tessuta soda e mettendovi dentro*le olive intere a pre- mere sotto al torchio, destramente gettandovi sopra dell’ acqua calda, n° esce fuor l’ olio senza rompere l'osso, più puro, più limpido e migliore. E l'olio che s addomanda vergine è quello che senza spremere quasi punto le olive acconcie nelle gabbie intere e lasciatovi solamente calar su il toppo o pancone, e senza, che è meglio, con la gravezza di lor medesimi, sì raccoglie in un vaso invetriato di terra cotta l olio che scola giù da sè dentro, e questo è ottimo per le insalate et altre vivande. Et è meglio sempre l’olio fatto d’olive fresche per cibarsi, e di quanto men tempo è, e quello di sopra che di mezzo 0 di sotto; et in questa parte è migliore il mele, et in quella di mezzo il vaso il vino. Ha a essere il frantoio in luogo caldo, né vi si facci mai troppo fumo, che è mnimico 665 all’ olio, ben serrato e chiuso che i venti non lo noino; e perche la morchia non lo danneggi, sianovi vasi da porlo da parte e conservarlo, mantenendosi nelle brocche come il mele. Vuole essere volto a tramontana e farvisi poco fuoco; e quelli che fanno professione d’intendersene a fatica vi patiscono una lucerna, anzi con un lumicino solo fanno tutto 1 olio, il quale se talora avvenghi che per non avere usate tutte le diligenze sia muffoso o pieno di brutture, friggasi nell’ olio una padelletta di sale, e così caldo bollente vi sì metta sopra, poi si cuopr: bene il vaso che non svapori, e ritornerà buono. Di sordido si farà lampante (') se la corteccia dell’ ulivo et i rametti pestati con sale et insieme legati [farai] sospendergli sopra l'olio, st che non lo tocchi, e la radice del cedro cacciatavi dentro; et in questa maniera più limpido si schiarirà l olio, che sia stato abbru- ciato dalle sue troppo ardenti fragie (°); e ne lo libererà anco da questo vizio una pina affo- cata che si metta a spegnere nell’ olio. Se averà preso cattivo odore, macininsi olive verdi senz osso e mettinvisi dentro, o vero quelli rametti teneri o cime di olivi o vero ambedue questi così insieme con un poco di sale sparso vi sì ponghino in un sacchetto che penda a mezzo, et allora si tritino quelle vette; e dopo quattro dì che le si sieno tenute pendenti fra l’ olio, si muti in un altro vaso e correggerassi. Altri vi mettono un mattone pulito affocato (1) perlucidum, scritto sopra lampante. (2) Latinismo da fraces. La polpa delle olive. 666 rovente o una schiacciata d’ orzo calda, mutan- dolo come s'è detto; altri, strofinato il vaso, per un dì et una notte vi cacciano il meliloto; ma quella schiacciata calda fa mancare Y olio. Ancora, una pina ardente trattavi dentro. L'olio che sappia di rancido s' emenderà con cacciarvi dentro assai sale fritto nell’ olio buono, e mas- sime aggiungendovi cera bianca strutta, bol lendoia e mescolandola ancora con acqua bol lente, rimesticandola all’ ardente sole et al fuoco, e poi sceverando et imbottando. Ancora faranno ciò gli anici messivi acciaccati, nè sarà mai rancido l'olio, ponendolo in vasi dove siano prima stati degli anici, ovviando il lor seto a tal difetto. Nel vetro sì mantiene bene sempre l’olio, perché egli è freddo e questo si gode sempre del freddo con una certa simpatia. Se dentro vi fosse caduto qualche gatto 0 topo 0 altra bruttura, mettavisi dentro più volte un mazzo d’anici graniti o di coriandoli, mutan- dolo ogni volta, poi si ponga in vasi ove sia stato aceto. Altri mescolano il seme di fien greco secco al sole e trito, e spesse volte spe- gnonvi i carboni accesi di rami grossi d’ ulivo; ma se sia acerbo l odor dell’ olio, sei dì v’ affon- dano della vinaccia ben pesta; altri uve secche, cavatine gli acini, tritandole ve le mettono. E l’olio agitato in altro vaso s' emenda dalla grassezza co ’1 sale et al sole si fa bianco, cavandone egli la terrestre età sua, che è la cagione di sua negrezza. Ha più suave sapore l'olio, tenendo il vaso mezzo pieno o non pieno, affatto a contrario del vino, perché così disecca il superfluo umore, 667 vien meglio netto et acquista sapor nuovo; et ottimo olio è quello che infondendolo resta a galla sopra l'altro; et il vecchio è più bianco del nuovo per la cagion medesima, sendo nel nuovo più umore; et il vecchio, vecchio di trecento anni, scema per 1 quattro quinti nel vaso pieno, diventa stillato, come balsamo me- dicinale. L'olio di sansa è quello che si cav: con doppia forza dalla materia spremuta per l'olio ordinario due o tre volte, il quale essendo buono è sempre giallo; il verde è tuttavia sappiente. Quando si tramuta l'olio da vaso a vaso cavisi bene la feccia della morchia che gli ha fatta nel fondo, e non con ranno caldissimo, perché non facci dar fuori la cera con che fu il vaso accomodato, ma lavisi co ’1 freddo tanto che resti netto e pulito; et ancora con acqua tiepida, asciugandolo con una spugna. I vasi da tenervi dentro 1 olio vogliono essere di terra cotta, bene et inve- triati, o impiastrati ben di gesso; nettinsi bene sempre in fondo i vasi dell’ olio, che dalla posa- tura non prendessero tristo sapore; e così fac- cisi ai bottini da olio murati con gesso dili- gentemente, o che sieno pur di pietre di lavagna commesse insieme con stucco e rintasate di piombo, o di marmo o di macigno vasi quadri, che tutti questo gli mantengono benissimo. Sono chi prende terra da far vasi et a modo di liquida feccia disfattala e lavati i vasi con questa spoltiglia, strofinando attorno ve la lasciano dentro immucidire, poi quando vo- gliono empiere il vaso, con pura acqua lo lavano. Alcuni, strofinato prima ben dentro con 668 la morchia, la quale non è altro che quel- l’acqua che fanno le olive colte nel monte dove si pongono prima che si macinino, poi con acqua gli lavano et asciutti gli empiono. Oggi serve l avergli fatti invetriare alle for- naci; e Catone insegna assettargli così, che e si ‘tenghimo pieni prima per otto dì di mor- chia, et ogni dì calando, vi se n° aggiunga; di poi si cavi la morchia e si facci fuoco dentro, e com’ ella abbrucierà, lun dì innanzi caccisi del comino nell’ acqua, e risciaquato con quella, sempia d'olio. Ma prima che tu abbi riscal- dato il vaso, manco che se tu avessi a impe- ciarlo assai, che e’ sia tiepido con legne leg- giere; fa che riscaldi, e come sia tiepido, stro- fina co 1 comino. In un orcio di cinquanta libbre basteran quattro oncie di comino. La morchia, dice Varrone che se se ne mette troppa nel campo, fa la terra sterile e nera, e poca l’abbonisce; e giova a tutti gli arbori posta alle lor radici e massime all’ ulivo, e dovunque nasce erba o pianta che patischi di vermini. Catone scrive che si cuoca la morchia a mezzo, et ungasi il fondo della cassa et i piedi di fuori e le cantonate, e poi che ella sarà secca, vi sì riponghino i vestimenti, e non vi sì genereranno mai tignuole; e le masserizie di legname unte con questa non marciranno, ne i ferri senti- ranno ruggine e si faranno lucenti. Alcuni diligenti torchiai non cacciano sotto il torchio le ulive intere, perché pensano che così perisce qualche parte d’ olio, perché com’ egli ha preso il peso del torchio non s' esprime la morchia sola, ma qualche parte 669 di grassezza che attrae seco. E per far l olio che s ha a mangiare buono, sì dee avvertire che talora cascano le ulive rose dai vermini, 0 per la tempesta o pioggia scorrono nel fango ; imperciò si scalda dell’ acqua temperatamente, perche la bollente attraerebbe a se tutte le brutture e ne saprebbe l olio; e lavansi. E gli antichi cavavano Vl olio dell’ uliva caduta, cioé cascata da se, e cavato con bollentissima acqua lo lavavano due e tre volte; di poi se vi era acqua corrente, cacciavano sopra delle pietre alla materia restata, affinché stesse a fondo aggravata dal peso; e non le mescolavano con le altre. E di ciascheduna uliva si cava buon olio, e massime accomodandole al tempo, ché quando sono stagionate gettano più olio assai; e sempre che siano imbrattate, lavinsi con acqua chiara, né prima che asciutte si mettino sotto alla macine. L'olio non può adulterarsi con altro umore, ma sempre si mantiene nella sincerità sua e mesticato con qualsisia altre sorte d'olio, che d'altra cosa sia sì cognosce subito. Le cantine da ben conservare ’ olio, perchè nelle sotterranee o che almeno siano situate al pari della terra si manterrà meglio e scemerà meno, deono essere volte opposte a mezzodì e da quella parte che non sia esposta a venti caldi; imperciò voltinsi a tramontana, perche l olio brama il freddo in lato secco et asciutto; il caldo e l umido Y ha per nimico. Et accanto alle celle così volte (nelle quali s' hanno a accomodare gli orci turati in bocca con cencio lino, poi con legno e pietra sopra, che non traspirino, e similmente i bottini grandi 670 ben chiusi e serrati) dee essere il fattoio, l une e l’altro con lume dalle parti di mezzodì, perche vi si pratichi con manco lume e fuoco si può. Gli antichi spremevano le ulive ado- prando cinque macchine, mola, trapeto, canali, solina, radicola. Oggi serve la mola, lo strettoio e la vasca dove dentro coli ; et allo strettoio si serrano le gabbie fatte di giunchi, le quali si aggravano o con la vite che tira giù per forza la mula o con una marla lunghissima che da un lato si regge attaccata e dall’ altra banda dove ha ad aggravare le gabbie ha un gran- dissimo sasso appiccato, oltre a che è lei pesan- tissima, facendosi di rovere o quercia o cerro o noce 0 leccio 0 olmo, e con una vite s in- nalza e abbassa accomodata da una banda; ma è più lodata a vite; e le viti s' hanno a serrar forte con le manovelle, e nelle manovelle un ferro che si mette nei fori del calcio della vite, la quale deve essere fatta di sorbo, et il toppo spicca meglio se sia d’ ulivo, benché d’ olmo, noce e quercia ben secca sarà ancor buono; et il toppo spicca bene d’ olmo, di quercia ancora e di noce, come la lucerna, la quale è quella che riceve a scolar l'olio nel vaso che sotto si pone. Le ulive ben mature colte dall’ albero così senz’ altra concia in alcun luogo si mangiano col pane .o0 senza, come a Corfù, dove si fa eccellente olio; e tali sono a essere mangiate le olive. Ma nei nostri paesi sono d’ aspro sapore e conviene addolcirle e correggendo loro il sapore ridurle commestibili. Ora le ulive nere per mangiare s hanno a accon- 671 ciare di questo modo: trascerle ben mature e sopra graticci poste nel forno caldo lenta- mente asciugarle, sì che aggrinzischino senza seccarsi, et anco al sole; di poi si serbino in vaso chiuso invetriato; e si possono man- giare acconcie così et anco poste nell’ olio su scaldavivande a rintenerire; et ancora senza porle in forno, così come sieno colte tenere mature, facciasi un suolo in un vaso invetriato di due diti et uno mezzo dito di sale, sin che sia pieno; e s indolciranno, quivi conser- vandole. Ancora empiasi un vaso d’acqua sa- lata e vi si ponghino dentro quante ulive vi ‘apino, e turisi; et in capo a un anno saranno accomodate quivi dentro senz’ altro studio, da poterle mangiare condite poi tutte con olio solo, calde o fredde come più piaccia. Pren- dinsi le ulive dopo due mesi che gli ulivi abbino rimesso la foglia (che cominciano a farla nei dì canicolari, mettendo la nuova sotto la vecchia e facendo cascare quella) quando sono verdi, prima che piglino segno alcuno di voler arrossire o diventar nere e che non siano oliose ; et a questo effetto sono buonissime quelle chiamate pwoce; e tenute in un vaso di terra cotta invetriata, pien d’acqua chiara di pozzo, fiume o fonte, che per il buco di sotto, senza toccarle con mano, scoli di sotto, si muti loro ogni due o tre dì, e meglio è ogni dì per dieci o dodici di; sì tolga poi del sale bianco e netto e bene asciutto e poi si metta in molle sino che sì disfacci tutto nell’ acqua chiara e colisi per un colatio quella salamoia; e gettinsi in tanta acqua quanta cuopre le ulive un dito, 672 sopra mantenendovela sempre a quel pari; sia questa salamoia d’acqua corrente e tanto grossa che sostenghi un uovo, né più forte o pun- gente che sopporti la lingua, aggiungendovi dell’ aceto a modo bianco; et in questa sala- moia sì possono gittare, da prima tenute in molle in acqua; così si fa se da principio se gli facci quattro tagli per diritto sino in su l’osso; poi se gli metta su la salamoia. Fan bene tra esse pezzetti di limoni tagliati sot- tili con il suo agro, di cedri o di aranci di mezzo sapore, e fra la salamoia è buono porre foglie di limone o ver cimette di questi tenere e di cedri e di lumie e qualche rametto d’ ulivi, gambi di finocchio o anici e simili: per l' estate vogliono salamoia semplice; e stieno sempre sotto con un legno aggravato di sopra da una pietra ricoperte, senza mettervi mai le mani; e quando le vuoi cavare adopera un mestolino nuovo di legno; et amandole ama- rette più o meno, si lascino star nell acqua dolce, da prima gettando più e più volte sopra le ulive che sieno sfesse dell’acqua bollente, ma non durar poi troppo; si faran ben presto dolci; e fatta loro la solita salamoia, si dee seguitare di mangiarle. Tagliansi ancora leg- germente sì che l'osso non s intacchi, e mu- tata loro l'acqua per cinque o sei dì ogni dì una volta, sì spremano e sì mettano in salamoia; e meglio ancora, punteggiarle con un fuscello appuntato o destramente fenderle con un coltello di canna; e nell’ acqua in che le si mettono in molle vi. sì ponga delle cime di esse ulive tenere e di quelle simili di sam- 675 buco. Si conservano verdi poste dentro a buon olio per un anno e più, et allora cavate si nettino e condite con sale si mangino. Nel mele si custodiranno ancora per farne olio, chi volesse vergine di quivi a un anno fresco averlo: e così ogni sorte di frutto, levato il piccollo, perché di quivi le si putrefanno. Piglinsi ancora le ulive colte di tre dì e si facci una spoltiglia di cenere e calcina per ugual porzione, disfacendo nell’ acqua; e meglio sarà ancora e basterà due terzi di cenere et un di calcina viva et acqua, come io dico, bastante a stemperare, e tanta materia che le olive vi sieno ricoperte dentro; e ben meste insieme, larghe che non s ammacchino, vi s° hanno a tenere per otto o dieci ore e non più, sin che provandosi si stacchi con l aprirle la polpa dall’ osso; e quando ciò segue, lavinsi diligentemente con acqua chiara, e con anici, finocchio forte, pezzetti d’ agrumi, si ponghino in vasi invetriati dentro alla lor salamoia, la quale, volendo conservarle più tempo, se gli cambi ogni tre mesi; il medesimo si farà tenen- dole per venti o ventiquattro ore nel ranno di mezzo o fin sapone o da partire, come si dice, che tutti tre sì fanno, colando l acqua per la calcina viva. Ma le più delicate di tutte sono, levare con un coltello di canna o d' osso ta- gliente alle ulive verdi la carne d’in su l'osso, e questa polpa metterla ad addolcire in acqua piovana o corrente, o nella corrente istessa in uno reticino minutissimo lasciarle addolcire quelle, mutandola ogni dì, et in questa tenen- dole ferme, sino che al gusto sieno dolci; e di 43 674 poi si tenghino nella lor salamoia. Ancora, prese le ulive verdi da indolcire, ad una s' ac- ciacchino destramente con un martelletto di legno in sur un zoccolo di legno, tuttavia git- tandole nell'acqua chiara di fiume; di poi, per un pertuso fatto al vaso si scoli l acqua ogni dì et ogni dì si muti, tanto che in quattro o cinque dì si sentiranno dolci; caccinsi poi nella salamoia e s attenda a mangiare di queste prima dell’ altre, mettendole a rifriggere con olio in un piatto di stagno sotto lo scaldavi- vande. Ancora, secchinsi all’ ombra le ulive nere ben mature ove non tiri vento, rivoltan- dole spesso, e fatta mistura d'una libbra di sale, un’ oncia di pepe, una di garofani, una di anici, una di coriandoli, pestando bene ogni cosa con sugo di otto o dieci limoni, si cacci con esse in una pignatta invetriata turata; basteranno e saranno buone tutto l’anno. Si seccano ancora le ulive ben mature al sole, e quando si vogliono mangiare si rinvengono tenendole nell’ olio buono. Quelle d’ Affrica che hanno molta carne, così colte mature si man- giano senza altra conditura, si come in quello stato si conservano; le ulive puoce sono le meglio per indolcire; per far olio le infrantoie, le moraiuole, le razzaiuole, dette dagli antichi radie; le ulive a grappoli sono buone per indol- cire; et è una razza che le fa a ciocche tra piccole e maggiori. L’ulive grosse sono buone per indolcire, perché fanno men olio; e l' ulive, quanto più sono maturate in su l arbore, più olio fanno, ma men grato. Intorno alle ulive che cascano in terra, perché elle caschino non 675 occorre avere ragione alcuna per corle, ma scelte tra loro le non guaste si condiscono a questo modo, e massime quelle che ritirando la pelle sono crespe: le raccoglierai e spruzzate di poco sale trito sin che sieno secche dal sole ve lo spargi; allora distese nei graticci delle foglie di lauro vi metterai sopra sparse le ulive, ordinate a un suolo, e più volte quivi le rivolgerai, perché sopra e sotto si secchino; finalmente secche, presa dell’acqua bollente con sapa, entrovi un fascetto di satureia, get- tato dentro un poco. di sale, e cacciata tutta questa mistura in un vaso invetriato, la porrai, chiudendolo e conservandolo agli usi. Le ulive prima che elle diventino nere im- biancano, questo è segno di maturezza, quello che elle sono ancora in vigore, il che dopo la vendemmia dee essere. Scelte adunque le ulive bianche, prima che nell'acqua calda sì caccino, aggiugnerai dell’ origano; ammaccale con un legno; e quell'acqua così acconcia si muti loro spesso, e tosto che elle sono macerate si spre- mino, poi in una brocca di terra cotta inve- triata con rametti di finocchio e di lentisco tenero e con un poco di sale cotto mescolato, turando la brocca o giarra, si riponghino, infondendovi anco freschissimo mosto et altret- tanto aceto soprapponendovi; poi vi s affondi un mazzo di finocchio, perché le ulive l' incor- porino ('), in modo perciò che quella composi- zione stia a nuoto sopra le ulive; così il secondo giorno si potranno usare. Ancora le pausee e (1) premere, scritto sopra incorporino. 676 regie, le più bianchissime e segnalate, s' eleg- ghino, poi steso nel fondo d'una giarra secco finocchio e rametti di lentisco, di pari porzione insiememente mescolato, e piena la giarra d’ una potente salamoia dura sino al collo, e mescolata ogni cosa insieme, fatto un intinto, con foglie di canna perche s affondino nel brodo le pre- mono e di nuovo salamoia dura vi rimettono, sin che quasi trabocchi la giarra, e la turano, serbando ai tempi d’ usarle. Altri in acqua ma- rina per sei dì le tengono in macero, mutan- -dola mattina e sera, poi le mettono in un vaso di terra cotta invetriata, cacciandovi mosto nuovo che vi stieno sotto, empiendo il vaso affatto, perche ribollendo non sì versino ; e come abbi bollito, lo turano; altri le acciaccano o con una canna tagliente le fendono e non con ferro, perché non rechi cattivo sapore, et in un vaso stretto di bocca di terra cotta inve- triata fra vinaccia fresca prima che sia spre- muta le ripongono; altri senza ammaccarle così intere fra la vinaccia fresca non ancora spre- muta le rassettano, e nell’'un modo o nell’ altro stoppano bene il vaso; e di questa maniera mantengono meglio il colore delle acciaccate. Così, o ammaccate o intere, con un po’ di sale cotto, mesticato finocchio e lentisco, vi cac- ciano sopra sapa e le lasciano star turate all'uso. Ma luliva pausia, che facilmente è puoce, innanzi che scolorisca o intenerisca, con il picciuolo la cogliono et in ottimo olio la infondono; così dopo un anno rappresenta il vero colore e il sapore veritiero d’uliva. Et i più quando l hanno cavata dall’ olio, sparsa 67% con sale trito, per nuova la mettono in tavola. Le estive nere son da corre, ma non mature nere; poi in un vaglio trasceglinsi le macolate e le men naturali, V altre vigorose e buone sì distendino in un graticcio; e sopra certa quan- tità d’ ulive si mestichi altrettanta quantità del sale, come sarebbe a dire in un quarto di olive una libbra e mezzo di sale intero sodo; et in quelli graticci dimenando infonderai che restino ricoperte dal sale, e così trenta di lasciarle a scolare (') o sgocciolare, e di questa maniera far stillare tutta la morchia, poi disten- derle nel fondo d’ un vaso di terra invetriata, di poi mettervele dentro, riempiendo tutto di mosto cotto, con spessamento di finocchio forte soppostovi, che tenga l ulive sotto. Altri, aven- dole elette e messe insieme, le cavano con la salamoia e cacciano in una pignatta, metten- dovi due parti di mele, due parti di sapa et una di vino, le quali cose tutte quando ave- ranno insiememente bollito gettano via e vi mescolano aceto e le messedano, e come sia raffreddato, vi distendono sopra cimette d’ ori- cano, perché l umore avanzi sopra. Molti le eleggono con i piccolli e le spruzzano d’ acqua, di poi per dodici dì le mettono nella salamoia e scolate le cacciano in un vaso pieno d’ ugual porzione d’ aceto e di mosto, e chiuggono sopra il vaso, st che non rifiati punto. Le colibande erano ulive condite, così dette perche nel lor olio puro stando a galla notavano; adunque le ulive mature acconcie in colibande caverai (1) consudescere, scritto sopra scolare. 675 dalla salamoia e netterai con una spugna e gli farai tre fessure da tre bande con canna tagliente, e per tre dì tienle nell’ aceto e 71 quarto rinetta con la spugna et in un vaso di terra cotta invetriato, distesovi sotto dell’ appio e un po di ruta, [le porrai]; di poi a così sfesse ulive metti della sapa sino alla gola del vaso; e dopo venti dì sì possono usare. Ancora si macerano le ulive intere nella salamoia, di poi si getta via; e due parti di mosto, una d’ aceto con menta trita, in un vaso cacciano con le ulive, e riempiono si che le stieno sotto ricoperte dalla mestura. Ancora, composte le ulive in un vaso, mescolavi insieme aceto, coriandoli, comino, finocchio, ruta e menta minuzzata, cacciale poi in un orcio si che l'olio stia di sopra, e quando s° hanno a usare sì nettino; altri le acconciano con la morchia sola e ve le tengono dentro. Questi e così fatti simili modi di condire ulive accostumavano gli antichi; delle quali credo io che la maggior parte avessero (') stravagante sapore; e che però sieno state dismesse queste maniere, aman- (1) Da questo punto comincia fra le linee, e seguita anche nella pagina successiva (pagg. 334 verso e 335 retto) il brano seguente : « Ottima conditura delle ulive è quando colte mature senz’ altro si mettono in un vaso di bocca stretta e pieno d’ olio, sì tura, e lasciasi star dieci mesi; o si vero in un vaso pieno di gagliarda salamoia e turato, lasciato stare il medesimo. Usano ancora molti, colte l’ ulive mature non punto macolate, cacciarle in un vaso invetriato di terra con la bocca stretta; accanto l’empiono con la salamoia detta, e turato bene il vaso, lo lasciano star cosi due mesi; e di poi gettano via quella salamoia, e met- tendovene dell’ altra, ve le lasciano stare otto mesi di più e poi le usano. Fa si bene alle grosse -ulive come alle altre; et a quelle proprie di Spagna, cosi come elle di là vengono, sì possono A Ri CRAS RLIR RR A A 679 dosi Vl amorevolezza e piacevolezza del gusto e. non l’ aromaticità che con quelle manifatture par che si procacci, al palato abbominevole e per lo più da rifiutare. È Aristotile e Plutarco affermano l’ olio con- servarsi meglio negli orci scoperti e non affatto pieni, perché cosi svapora e sfoga, se vi è di cattivo nulla, e fa miglior sapore. Muta I ulivo la foglia, come s'è detto, dopo il solstizio; ma in quella foggia che il sole in quelli dì caldi rasciuga talmente le costole delle foglie, che dai lati si arrovesciano e s incartocciano, che e pare che le si travolghino, venendo il bianco di sopra; così fa il sole all’ erbe che lo figurano, voltandoli il fiore, come ’1 lupino, l elitropio, il radicchio e l'erba massima. Gli ulivi s' an- nestano accomodatamente a piastra di buccia, quando è grossa la scorza; e quando mediocre o sottile, a scudetto; e quando han buccia soda e gagliarda, fra scorza e legno. E fatto il nesto e messavi la terra come agli altri, bisogna fa- sciargli bene co ’1 capecchio e legargli benissimo su l'innestatura e mettervi assai terra, perché si difenda dal caldo; né v' occorre paglia, ma esservi d’ intorno spesso a levargli sotto e d’ attorno i rimettiticci; e quando le marze mettono, che penano talora assai, assicuralo con canne; e lascialo fasciato per un anno. rimettere in questa nuova concia di fresca salamoia, e lascie- ranno quel cuoio di che elle sanno, diventando più tenere e com- mestibili, né più né meno come i pesci marinati rifritti ritorne- ranno per la virtù dell'olio e di quel friggimento, e lasciata l’acetosità, saranno come cavati dal fiume, messi a friggere nella solita padella ». ATTR RIO RT TALR 650 Mentre a che il cervo mangiando il dittamo sana le ferite delle freccie, masticando i teneri rami degli ulivi si sana di tutti i mali; e le locuste rodendo le foglie degli ulivi guariscono le lor malattie. Con la decozione o vogliam dire cocitura o brodo d’ ulivi, mescolatovi un po di comino e spruzzando la stanza con essa, si libererà dalle pulci. Il legname dell’ ulivo fa bonissimo fuoco et abbrucia volentieri e regge al tornio e le sue barbe venate a tutti i lavori di commessi e tarsi. Serve a pali per le viti et a tavole et a tutti i lavori gentili et a doghe per. far botti, mantenendo d’ ottimo odore e sapore l imbottatovi vino. L’ olio riposto in un orcio turato bene, dopo duecento anni diventa come balsamo medicinale. Il ferro temperato nell’ olio rintenerisce; e tenendo unto l avorio con esso, lo difende dai tarli. La Vetrice nera è minore, ha più rami, le foglie più candide e lanuginose et il fiore purpureo, come la gialliccia verderognola bian- cheggiante. Nascono ambedue e stanno volen- tieri lungo i fiumi e ne’ renai, et amano tutte un aere et un terreno, e tanto luna può semi- narsi quanto l’altra e come gli alberi; e si possono ancora piantare di quelle che elle rimettono dalle radici o veramente a piantoni; et il tempo è comodo di primavera avanti che muovino. T'rapiantansi di due anni; o cresciute nate di tre si potino e si dia lor forma per sostener le viti, le quali vi vanno e stanno su volentieri. Le vetrici talora invecchiate in su l’inforcatura si votano e talvolta nel gambale; 651 et all’ una et all’ altra mascalcia è bene bucare di sotto per traverso, per dar esito all’ acqua et ovviare che la non vi si fermi. Piantansi fonde un braccio luna dall’ altra intorno ai fiumi e nelle ripe e renai, che ratterranno la ripa che non smotti et addirizzeranno il letto, alzando dalle bande il terreno, et ancora da- ranno adito di poter far campi da seminarsi, come vi sia imposta di modo la terra, che non possi essere noiata dall’ inondazione dell’ acque, estirpandole e sradicandole prima diligente- mente. Giova loro [essere] intorno ai fiumi e vi faranno bene a essere piantate fra la bel- letta, gemitii, e dove la terra o renaio con È acqua guazzi linvernata, purché la prima- vera vi resti qualche poco d’ asciutto e stia non che altro tanto che s attacchino. È la foglia delle vetrici nere migliore per nutricare le bestie che quella delle bianche; e serve prin- cipalmente ai buoi et alle pecore. Medesima- mente il legno della nera è più forte che della bianca, buono a far selle, basti e tavole per ogni uso. L'una e l’altra riceve in sè d’an- nesto la vite, facendola trapassare per il gambo, fattovi un foro co ’l succhiello franzese, soste- nendola lietamente incorporata e bene inca- strata che la vi sia e di poi tagliata rasente. I cerchi sono a proposito di questo legname, ma vogliono stare in cantina asciutta le botti che sono cerchiate di questi. Fannosene ancora le botti e tina. Accettano d’innesto il salcio vicendevolmente. I corvi adoperano ne’ lor nidi le vermene delle vetrici contro alle offese dei pipistrelli. 652 Il Vimine o Vinco è di tre sorte, rosso, nero e gialliccio; e tutto fa cespuglio di questo colore e così nasce fra la ghiaia e renai dei fiumi, facendo più mazzi insieme, li quali senza barbe s' appiccano per tutto, ficcandoli senza altro lavoro in terra. I neri sono buoni per i paretai al lor cespuglio. Tutti ne fan belli lavori di paniere e panieri. Conviene tagliargli ogni anno per quelli e per graticci; et il tempo è quando son fatti, all’ ottobre. Appassiti legano bene e scaldati. Tengono la terra in sé e fanno buon riparo. La Zampina è chiamata ancora Pezzo, tanto simile all’ abeto che si scambia. Imperciò questa ha le foglie su per i rami, oltre a questi, in croce di foglie, più negreggianti 0 verdi che non l’abeto. Cresce a un modo et è buona ai medesimi usi e di più bel legname. Seminasi e traspiantasi come l abeto. Sono fre- quenti nelle montagne di Verona e di Trento. [Cosi finisce il testo a car. 136 retto; verso della carta medesima è bianco]. JOT VECK.-SODQSPATRITTIO BLOOR METE SS CHELSANG 0: NON CI PISCIATE. (Quel mostro empio e crudel che nel mio danno fu sempre così pronto e nel mio scorno, e che ’n questo del mondo atro soggiorno numerò sopra il nonagesim’ anno, è morto, Soderin; nè tolto gli hanno febri ardenti o gelate l aura e ’1 giorno; ne fune, ond’ ei dovea girsene adorno, mercé delle sue frodi e del suo inganno. Ma mentre si credea vivere ancora e nuove porte al mio dolore apriva, del precipizio mio non ben satollo, d’un suo veron, dove solea tal’ ora starsi a diporto, u’ le sue frodi ordiva, cadde e fiaccò miseramente il collo. ci e Sit CSLRTN a A val co Agaii VISTASE 0 vai (OE b DR 2 3 te i ni È 14 dine ene - IRGARA SET pa) 1 GENT doc at e e Lal ni Sndiviza ino uo, ipa ne di i * I PS TAI ua \ a) | È, da "fra pod (59 | LA i fiera lrn ir i RISE i, i da casi} I ML srt DA Fa rm 2 i boh red "4 € G "I PECAIt?I ali AZZ ses api ‘dd Jobro dec 4a sHAbUEE ta Ù i ora eni dos è otr0gg: n) cirio IS rato. o PUgRA, E SVI RE 23 e Sn d'eta le Becidnila;o. disite 19 dpi Cis ‘anti "ST Ni Pe persa) la LAURA a LS sfuol A: oa è i “a tioorre cmd pre ja» Gatrvate «Bi lsartugiie stola Liaida. st nno. no Fili ns soda: Siusi ‘dilaga {olo el — è - Ria "ipt De, Toh IGTOT Qua br? corto doti Dite du tac rr igiana ci Une lito dina «sasa sf raà De FNEDICHRI ani Prefazione A E RIO Trattato degli arbori. Parte prima » » » Parte seconda . Nomi degli arbori nella parte seconda Abeto Aborniello Acero Avornio Albero . Albercocco, Miliaco, Asberges Agno casto Agrifoglio. Azzeruolo . Aranci . Betulla . Bossolo . Cedro Cedro arbore. Cedrangolo Castagno . Carpino Cerro Corniolo Carrobbio . Cipresso Caprifico Cotogno Ciriegi . pag. » » VII 686 Costolo . Ermellino. . . , ROBART E Escolo, Eschio, Ieohiy Ebeno : Erbago, ia Corlicnagio. Widono Faggio . Farnia . Frassino Fico . Granato Giuggiolo . Ginepro Dro Guaiaco, Gaiaco; CRA Gattice, Gattero Ellera Larice . Lentisco Tanto gi ia dentoo Mecciog. a cca Lecciastro, PRESI Loto . o Tinch è. , mamies:/ . i. PiMong. a. i Limoncello . . . Mandorlo , Mandorlo Pesco Melo... , Meliaco. . . Moro Nespolo Nocciuolo, Corilo Noce. Olmo Orno. } Ontano, Alno Pero . Persico . Noce Persico, Poco Nuce Pesco Mandorlo Ponsino Pomo d’ Adasnoi Pome Merangolo . Palma . Pino . 1 Pinastro, Pino ci lvgtia Platano E Pioppo, Popolo Bino ° Pioppo, Popolo nero . Pioppo alpino Pistacchio . Quercia. Rovere . Rhododendron, Rho iodafis ; Sanguine . Silio . _ Susino . Sorbo * Sambuco, Sabuco . Salcio Sabina . Sughero, Susniera: Sicomoro . Sandalo Scotano Sommacco . Tamarigia . Tasso Ulivo Vetrice nera . Vimine, Vinco . Zampina, Pezzo i a Li Più sa i #93 i * 4 LAO PICS, Ti nb. Coe eb nd 5 * ” 3° Cai A sa Pi PI LI È \f° ® . dea Pal SI € wa 0 g00 . . Bat SEE IO PINE E MELIA a n) fi a avA ia +9 E sd ra * eo, r i = % * » » E È E Ca i : * i Li * » » . . » . È FP è Ca È RR HT eg nta, è . . Li è; * . Di . . , " s è ei . (e dot, di Pa: 29, * Pavei CI e io e 8 peer eo VESTA 00 è è a ai catia oli dg 7 a DIN DINI ?; desi a e AL andate $ » ® ri e .* . "a . è . SERLT Li » i ar . » . +, . ‘» . Pier A è o EMIL aria anda e e n e ® » # * . ® » CI va . CI * . , " . ® . 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