THE UNIVERSITY OF ILLINOIS LIBRARY 8 5- sfavai CENTRAL CIRCULATION BOOKSTACKS The person charging this material is re- sponsible for its renewal or its return to the library from which it was borrowed on or before the Latest Date stamped below. You may be charged a minimum fee of $75.00 for eoch lost hook. Theft, imitilatien, and underiining ef beeks or* r«a*em for disdpliiMry action and may rasult in disorissol from Hm Unfvonlfy. TO RENEW CAU TEUPHONE CENTE8, 333-S400 UNIVERSITY or lUINOIS LIBRARY AT URBANA-CHAA4PAIGN FEB 0 6 1997 When renewing by phone, write new due date below ASPETTI DELL'IGNOTO. LA LEDA SENZA CIGNO. LA LEDA SENZA CI- GNO ^ ^ RACCONTO DI GAB.RIELE D'ANNUNZIO J- Ji ^ SEGUITO DA UNA LICENZA J^ TOMO SECONDO FRATELLI TREVES EDI- TORI . MILANO. MCM XVI Proprietà letteraria. Riservati tutti i diritti. Copyright by Fratelli Treves, 1916. 5»' riterrò contraffatto qualunque esemplare di questa Optra che non porti il timbro a secco dell'Autore. Tip. TrcFcs. LICENZA. 363452 A Chiaroviso. Riodo approssimarsi il galoppo delicato dei puledri di gran li- gnaggio sul mio silenzio che oggi è metà nell'ombra e metà nella luce come la prateria liscia nel paese di Silvia l'Italiana. Vi sovviene ancóra, o Chiaro- viso, di quel giorno d'estate acerbo e torbido come un meriggio di pri- mavera immatura? Era l'ultimo spettacolo della vita leggera: la gara breve della grazia e dell' ar- 164 LICENZA dorè ereditati per sangue. 1 pu- ledri di due anni ci parvero le pili belle creature dell' Universo, alti su le gambe e senza ventre come i miei levrieri creati e alle- vati nello stampo ideale dalla mia volontà che impara ogni arte. L'ippodromo era quasi deserto. Rari e assorti gli spettatori, tenuti da una inquietudine comune che inclinava i loro sguardi verso il suolo come se nel verde aggua- gliato cercassero erbe da sortilegi. Taluni erano sprofondati nella lettura dei fogli sibillini, senza volgersi al ritmo delizioso che se- gnavano gli zoccoli dei giovani cavalli partendo in gruppo sul terreno sonoro e cedevole, lo pen- savo al principio di un'ode, che somigliasse a quell'impeto fresco, fresco e allegro come il frullo d'uno LICENZA 165 stormo d uccelli spiccatosi da una frasca rinnovellata ; il quale era per risolversi in schiuma e in su- dore fumanti giìi per la pelle ove il fuoco delle verte palesi dava imagine di quella vibrazione si- lenziosa che. la canicola crea con- tro le sabbie ignude. Patetica ora di bellezza e di divinazione, perpetuata nella me- moria come il frammento d'un fregio sopravvissuto a un tempio in rovina. Non era infatti men bello della cavalcata fidiaca quel grande stuolo di puledri «figli del vento» che non sembravano cal- pestare Verba ma sorvolarla. Era- no ventuno : tre volte sette : il nu- mero ritmico e magico del quale fui sempre studioso. E li cavalca- vano fantini quasi fanciulli, dai visi netti, senza pur la prima la- l66 LICENZA nugine, fratelli minori dei cava- lieri ateniesi, sprovvisti della cla- mide e del cappello t essalico ma non della flessibile eleganza. Ci protendevamo dallo steccato per seguire la corsa, con gli oc- chi avidi di chi s' accommiata e si volge prima di allontanarsi. Seguivamo quell'onda ardente e fremente, dal sole all'ombra, dal- r ombra al sole, su la pista verde e azzurra a volta a volta, con la stessa agitata malinconia che ci travaglia quando vediamo dile- guare l'ultima giovinezza o l'ul- timo amore o l'ultimo piacere. Era l'ultimo gioco dei nostri ozii e della nostra pace. A ttendevamo che del gruppo, compatto come una sola bestia baia dalle zampe numerose, irrompesse il vincitore certo, il campione designato, quel- LICENZA 167 lo che avevamo scelto per la scom- messa, quello che l'eccellenza del- la struttura e la potenza del san- gue annunziavano più formidabile nella lotta, E mi si ripresentava nella mente concitata quel mera- viglioso corsiere britanno, predi- letto della vittoria, che sul punto d'esser superato dal rivale si voltò furibondo e lo addentò al garrese per impedirgli di vincere. Così a un tratto F ansietà del gioco si mu- tava in un sentimento pili acre e pili profondo. Non già sprizzò sangue dal garrese del puledro che alla svolta sopravanzava di tutta l'incollatura lo stuolo chiuso conducendo la corsa; ma F odore del sangue futuro pareva salire da quel dolce seno del F Isola di Francia, ma dai molli orizzonti del Vallese pareva affacciarsi la l68 LICENZA Guerra e soffiare la sua afa di putredine e d'incendio. Non pili palpitavamo per quella vittoria ma per un'altra, non piìi per i giovani cavalli ma per i gio- vani eroi. Ci guardavamo negli occhi, a leggervi lo stesso pen- siero ; ed eravamo un poco pal- lidi, sotto l'ombra d' una nuvola fugace. E, come nei nostri occhi fraterni, in tutta la nobiltà della contrada, su cui tremolava pel declinare del giorno il sorriso ita- liano di Silvia, noi leggevamo il presagio della resurrezione latina. Gli edifizii, le colline, le acque, i prati, i parchi si armonizzavano in lineamenti della medesima ar- chitettura. Nel dominio che la ne- pote trilustre di Maria de' Medici s'ebbe per il piìi abile dei suoi cinti, la mia anima toscana si ac- LICENZA 169 comodava come in una vecchia villa medicea. La Nonetta era va- gabonda e vitrea come l'Ambra. L'Orsina arieggiava la bella Ve- spuccia dalla collana d'angue. Teofilo cantava come il Poliziano. Il puledro vincitore era ricon- dotto a mano nel recinto del peso. Un che di fluido e di fermo, in- sieme : il tremolìo dei muscoli sotto il sudore schiumante faceva pen- sare alla mobilità delle polle im- provvise ; ma i suoi tendini conve- nivano alla sua ossatura come le corde ai tenieri delle balestre. Dalla barbo zza al nodello, dalla spalla alFanca, dalla punta del petto al fusto della coda, era tutto opera di stile ancor pili concisa che quella scolpita nella metope attica. Ma tanta severità di forma non era destinata se non a gover- i70 LICENZA Tiare la strapotenza della vita. Nelle narici e negli occhi gli spi- riti del sangue bruciavano con la forza del fuoco che apparisce per gli interstizii del forno fusorio. E nel modo inimitabile di com- prendere e di sentire quella con- venienza e quella bellezza noi ci riconoscevamo latini. E intorno allo sforzo vittorioso di quel gio- vine animale perfetto vedevamo disporsi la perfezione secolare di tutte le nostre culture. Ed ecco che a quel gioco lieve stava per succedere un gioco tre- mendo, la cui posta consisteva di tutti i nostri beni. Noi eravamo per rischiare tutti i nostri beni contro un getto di dadi. Già udi- vamo risonare i malvagi dadi su la pelle d'asino tesa nel tamburo del lanzichenecco. LICENZA 17« Traversammo la prateria de- serta, quasi a vespero, per tor- nare verso la casa amica, lo pen- savo alla dimora di Silvia spec- chiata nelle acque chiare. Imagi- navo nella parlatura di Francia l'accento della patrizia romana. Rare parole, passi lenti, gravi pensieri. Le torri del Castello al- lungavano l'ombra su i bacini e su gli spiazzi. Laggiìi, forme ta- citurne della sera, un cigno attra- versava uno stagno, una cerva at- traversava un viale. Laggiii, in una sala deserta, il serpe grazioso si dislacciava dal collo della Si- monetta e le si moltiplicava nei capelli ornati. Il bel capo geno- vese si faceva irto e sibilante come quello della Gorgone, e sovr' esso la nuvola del destino si gonfiava di minaccia. 172 LICENZA Sorridevamo di questa imagi- nazione camminando sul tappeto dell' erba ; ma, come la luce si di- partiva da tutte le cose per an- darsene all' occidente, sentivamo tutte le cose più dilette a poco a poco abbandonarci. Non soltanto un giorno finiva ma un mondo si dissolveva. I fantasmi della vita leggera si dileguavano più veloci che il galoppo dei giovani cavalli. In mezzo a quel morbido prato una necessità repentina ci pre- meva e ci curvava, dura come il ginocchio del Genio michelangio- lesco, lo e Marcello, il mio compagno di giuochi, distaccandoci alquanto dalle gonne serrate che sembra- vano impastoiare anche le nostre gambe, ci guardammo con una commozione che scomponeva le LICENZA 173 nostre labbra e ci stringeva la gola; perché il flutto dei nostri pensieri e dei nostri presentimenti^ levandosi e aumentandosi nel tem- po medesimo, ci aveva insieme so- praffatti. La casa materna era là, tran- quilla, sotto la protezione dei vec- chi alberi: bella e comoda casa francese, tutta chiara e nitida, il- luminata dall'ordine quasi più che dalle finestre, un poco italià- neggiante come un sonetto della Pleiade. Udivamo i cani uggiolare e squit- tire nel vestibolo. Come la cate- ratta si solleva e la forza deli ac- qua precipita, così la porta s' a- perse e la loro gioia impetuosa ci assalì senza ritegno. Era una ir- requietudine di muscoli simile allo sbattimento d'una stoffa di seta 174 LICENZA manosa percorsa da rapidi riflessi; e per entro vi brillavano gli oc- chi e vi s' appuntavano i musi che parevan quasi l'acume dello sguar- do nella volontà di penetrare lo spazio. Tutto era potenza ela- stica, levità balzante, secchezza essenziale come nei cespi aroma- tici, giubilo d'amore, malizia in- fantile, desiderio di fuga, avidità e gelosia, fedeltà e disobbedienza. Erano fanciulli capricciosi e tre- mende macchine di vittoria, belve crudeli e damigelle timide, sogna- tori taciturni e dilaniatori ineso- rabili. Li amavamo come si ama una donna malfida e tenera, mi- sta di svogliatezza e d'ardore, di frenesia e di mestizia. E, quando Marcello si chinò verso il predi- letto e gli sollevò una zampa di dietro per esaminare un'unghia LICENZA 175 malata, il cuore ci tremò come davanti alla piii squisita delle opere d'arte vedendo l'estrema luce trasparire nella membrana tra lo stinco e il tendine. Eppure il giorno innanzi, par- lando della guerra, s'era a noi presentata F eventualità di sop- primere una parte del canile, la necessità orribile di uccidere i no- stri amici e di seppellirli in una fossa. Tutto quel vigore scolpito e cesellato era omai sotto la con- danna. 1 morituri erano già scelti. Qualcosa di funebre era entrato con noi nella casa pacifica. Nelle stanze ordinate le tende e le por- tiere non si movevano, ma l'aria pareva inquieta come quando sta per scoppiare V uragano e i servi corrono a chiudere i vetri e gli usci. Il Sacrifizio era venuto a pren- 176 LICENZA der posto tra i Penati. Non vol- gemmo il capo per ignorare la sua presenza. Ma ci avvicinammo a lui, gli togliemmo il velo, e lo guardammo con pupille ferme. Ora non dimenticatile di ami- cizia, dì proposito, di speranza! Eravamo seduti intorno alla ta- vola familiare. Le lampade non ^rano state accese. A una a una le cose erano abbandonate dalla luce del giorno che se ne tornava all'Occidente. Una Vittoria do- rata, del tempo dell' Impero, luc- cicava sul marmo del caminetto. Parlavamo piano, come se l'om- bra di quella sera avesse una grandezza inconsueta. Lasciava- mo freddare l'arguzia nella bocca e la bevanda nella tazza. Il ne- mico non era soltanto al confine ma su quella soglia. La soglia LICENZA 177 della casa e il confine della pa- tria erano una sola santità che poteva essere prof anata. Bisogna- va sorgere e combattere. Allora Marcello venne sorri- dendo, con quel suo viso bianco e affilato come una spada nuda che riposi sopra una lastra di Carra- ra. Venne e recò la sua tunica az- zurra e il suo berretto di fantac- cino tirati fuori dal fondo di unr canterano. Odoravano di canfora. Non altrimenti ci saremmo com- mossi se fossimo stati sfiorati dalle pieghe della bandiera sventolante. Ciascuno di noi palpò il panno rude. Qualcuno forse lo vide in- triso di sangue. Come il berretto andava al micr^ capo, ne traemmo un buono au- gurio ; e ritrovammo il nostro so- brio riso con aggiuntovi un che 23 -lyS LICENZA di tagliente. Fin da quella sera le due patrie furono una sola per noi. Una campana di fuoco sonava in sommo del crepuscolo di luglio. Ci levammo per uscire alF aper- to, come soffocati. Respirammo la battaglia e la liberazione nel vento che passava su l'Isola di Francia. Vi sovviene, o Chiaroviso, di quella sera? In quella sera, per segno di fraternità latina, io vi diedi il bel nome italiano che a un tratto mi ricordai d'avere sco- perto in una vecchia carta nota- rile pistoiese quando i bei nomi ge- neravano nel mio spirito le belle eroine: Chiaroviso. Sembra il no- me luminoso delle due patrie con- giunte. LICENZA 179^ Pei seguirono giorni stupendi, che canteremo. Colgo intanto per voi nel libro della mia memoria queste pagine di passione scritte sotto la data del 2"] di quel luglio tragico, V'è un canto nascosto. {Veramente oggi la vita è so- spesa; e, così com'è, sembra non valga più la pena d'esser vissuta. Il tedio e l'ansia s' avvicendano ; o l'una attraversa l'altro come la corrente che passa pel mezzo del lago stagnante. Non so quante cose malate e quante cose morte appestino l'aria. Respiriamo infe- zioni senza numero e ignote, co- me quando la polvere crassa e il fango risecco ribollono sotto la prima acquata in un paese che- l80 LICENZA devastarono la canìcola e la pe- stilenza. Mi ricordo di aver paragonato una certa tristezza delFuomo alla nave che con l'elica guasta è per- duta nelt immenso polipaio, nel- l'inerzia ardente dell Oceano sotto il Tropico, morendo a poco a poco nel fetore della sua sentina. Sentii l'odore d'un abisso invisibile e onnipresente, il pestifero fiato d'un gran mare tor pente ma pieno di occulta ferocia, di vita vorace,... Ritornano in me le imagini di certi pomeriggi romani, nel tempo pili tristo, quando le oche del Campidoglio scendevano a star- nazzare e a gracidare nella Cloa- ca, restando abbattuto o deserto '4>gni altare venerabile. Ritorna in LICENZA. 181 me qualcosa di quella dispera- zione e di quella nausea. ManìCf Manìe silenziose, erranti nell'inferno della città canicolare, col passo degli sciacalli famelici, tra le bucce lùbriche dei frutti e lo sterco dei cavalli coperto d'insetti che hanno il lucore dell'acciaio azzurrato.... L'aspetto di Parigi è sinistro, sotto il cielo basso umidiccio e grigio come il vapore della cal- daia che bollica. Il fiato di tutti quegli uomini che s'accalcano nel Tribunale sembra appestare la città intera. Ciascuno di costoro ha messo la sua unghia listata a bruno nei buchi fatti dal piombo alla veste delFucciso, e con quella stessa unghia s'è levata la càccola dal naso partigiano e F ha depo- l82 LICENZA sta cautamente su la manica dei suo prossimo. Non c'è dunque altra bandiera che quel soprabito bucato e un po' di biancheria sporca ? Non c'è altro grido di allarme e di riscossa che il falso rugghio avvocatesco ? In un rauco baritono forense Pa- rigi vede un magnanimo leone, e i baffi ritinti e spioventi d'un ac- cusatore ben mandibolato le dan- no imagine dell' antica rudezza gallica. Sii dura alla presa, ma- scella faconda! Dicono che la vendicatrice non abbia ucciso se non per farsi ria- mare da un marito stufo. Non so perché, penso a quel piombo che i pescatori mettono in bocca ai pe- sci morti, di cui si servono per esca. L'anima stessa della città mi ri- corda uno squalo arenato, laggiìtt LICENZA l83 SU la spiaggia atlantica, in una sera di luglio senz'astri, ove Fudii lungamente soffiare e agitarsi fin- ché l'alta marea non lo salvò. La marea sale? Che è questo romore meraviglioso, il guai sem- bra venire dalla profondità del- r orizzonte? Non c'è nessuno che si corichi in capo d'una strada, dalla parte di levante, e ponga t orecchio contro terra in ascolto ? Forse la Francia eterna, la gran- de Seminatrice che ha esausto la semenza del grembo, sta ora così contro terra in ascolto ; e un poco di quella terra arida si pone ella su la lingua, sotto specie eucari- stica, prima di risollevarsi. S'aspetta la sera, per alfine sep- bellire il morto e i mal vivi. Forse a mezzanotte dai quattro canti della città, subitamente, le trombe l84 LICENZA invisibìli soffieranno la guerra ; e nessuno vorrà dormire nel suo letto, ma ognuno aspetterà l'alba per riconoscere il suo vero viso e il viso altrui. E il tono delV ulti- ma canzone, interrotta nella gola grassa della cantatrice da conio, sarà cosa memorabile pel godi- tore costretto a intendere il primo grido dell'allodola come richiamo di combattenti. Tuttavia la speranza della pace cola pei rigagnoli, alla soglia delle botteghe, tra chiavica e chia- vica, come una immondizia tarda che domattina gli spazzaturai mescoleranno all'altro sudiciume e porteranno via su' loro carri ci- golanti. È l'ultimo giorno di vitu- perio? sono l'ultime ore di ver- gogna ? LICENZA i85 Non so se la femmina del me- statore oda ripalpitare il cuore della vittima sotto il pavimento della cella, secondo l'ingenua fa- vola del rimorso e dell'espiazione; ma a noi sembra udire, in una maniera misteriosa, un cuor nuovo battere a quando a quando, non sappiamo dove, forse nella nu- vola, forse già nella nostra carne opaca, come allorché il nostro polso medesimo rappresenta al nostro orecchio un rombo strano e lontano. O necessità della sorte, dura e pur bella, che non ci consente di vivere pili oltre se non siamo ca- paci di creare a noi stessi la no- stra primavera e di restituirci in novità di vita! Perché quello che fino a ieri ci valse, oggi non ci vale pili ; quel 24 l86 LICENZA che ci appartenne, non più ci ap- partiene. 1 sostegni abituali man- cano a un tratto, i comuni ri- medii sono inefficaci. Domani non possederemo piìi nulla, di guanto fu la nostra ricchezza illusoria. La nostra vecchia anima sarà men che un cencio da buttar via. Saremo spogli di tutto, vuoti di tutto. E non ci sarà permesso di mendicare, ma sì ci sarà impo- sto di conquistare. E la vera legge marziale sarà su noi instaurata dopo la guerra delle armi; che uccidere e distruggere sarà ben facile compito in paragone di quel che i superstiti troveranno dinanzi a loro. Quale, tra le sorti del mondo, è magnifica come questa che si disegna ai nostri occhi attoniti? Neppure la resurrezione asiatica. LICENZA 187 // subitaneo ringiovanimento che rinnova la sacra Asia, le è com- parabile ; né alcun altro pili fiero dramma di stirpi nella storia uma- na. Ecco che l'Europa decrepita, la temporeggiatrice incurvata dal peso delle sue frodi e delle sue viltà, sta per immergersi tutta nel sangue con la certezza di uscirne pili giovine che quando su lei bar- bara i freschi vènti della Rina- scenza soffiarono dal Mediterra- neo! Il pili crudo fato diventa una fede inebriante, per gli spi- riti maschi. L'ansia si placa in un culto di aspettazione. Penso che l'antico Ade non fosse nel mondo di giìi, ma rimasto sia con gli uomini che /' imaginarono. In questo intermezzo di giorni so che mi muovo tra le ombre della 1 88 LICENZA vita, ignudo di ogni bene e quasi immemore, non dissimile a un ospite delle valli cieche. La ma- lattia m'aveva già distaccato da molte cose, e liberato interamente dalle ceneri del mio stesso ardore. Esco dalla convalescenza come uno che, abituato a camminare con gravi fardelli e più grave compagnia, passi a nuoto una ra- pida fiumana, avendo prima in essa gettato ogni sua soma e la- sciato i seguaci su la riva. Sono leggero e spedito per andare verso l'avventura, verso il pericolo e verso la morte. Forse mi sarà dato di sentire in me la stupenda no- vità che si prepara, prima di di- sciogliermi. Ma già la ricevo in forma di annunciazione. Dal principio della primavera a questa estate, un sentimento con- LICENZA i89 tinuo di precarietà m ha impedito d' intraprendere qualsiasi cosa e pur di disegnarla. La vicenda co- tidiana m'era estranea e remota. 1 prossimi mi parevano larve in- esistenti. Poiché la vita, quale mi s'offriva, non valeva la pena ch'io la vivessi, ero contento d'essere occupato dal mio male e dalla mia pazienza, chiuso in una sorta d' involucro angusto, simile a una crisalide silenziosa. Ma tuttavia avevo in me la certezza che quel tempo non fosse se non un pas- saggio fatale e che in fondo a quel silenzio si accelerasse il ritmo for- midabile del Destino. Pensavo che una parte della materia umana fosse tolta a me, come a ogni al- tro uomo consapevole o inconsa- pevole in quel punto, per alimen- tare e aumentare l'evento, e che 190 LICENZA il mio soffio e l'altrui fossero me- nomati per accrescere un turbine non del tutto composto ancóra. Tenevo il viso rivolto verso una triste finestra che dava su una corte ove non s'udiva se non cuo- che scodellare, serve cianciare, bambini fiottare, ustolare cani pri- gionieri. Quanto ho amata quella umile solitudine che mi preparava a non essere piii solo! È mezzogiorno, è l'ora alta in cui le carogne abbandonate bru- licano di vermi e ronzano di mo- sche. L' aria è ambigua, calda e fredda a volta a volta, afosa e umidiccia, quasi ributtante come certe mani che ci sono tese nella strada e che ci danno il bisogno subitaneo di nettarci dal loro con- tatto non soltanto con l'acqua ma LICENZA 191 con r acido. Alla punta della Torre di ferro, che sembra il priapo della città, la nuvola si lacera rossastra come il fumo alla bocca del cannone. Pioviggina? o è t im- mondo sudore della Corte d'As- sise, che ricade su Parigi ane- lante? Un venditore di giornali vocia, laggiìi , verso V Arco di Trionfo; e mi par di vedere la sua fauce vinosa, la sua carotide gon- fia che sforza la cravatta rossa, il suo berretto consolidato dal- r untume. Il vano dell' A reo è senza luce : sembra murato provvisoria- mente con mattoni per coltello. Ma domani V alio rilievo eroico di Francesco Rude, la Dipartita, non si staccherà dalla pietra, non diverrà un gruppo scolpito di tutto tondo, non si metterà a cammi- nare, non s' ingrandirà come una 192 LICENZA valairga, non travolgerà tutto e tutti nel suo impeto trionfale? Abbasso le palpebre su la mia intollerabile angoscia ; e rivedo la mietitura del mio paese, un certo campo del Lazio tutto sanguigno di papaveri, una mano bruna che ha un suo certo modo di prendere la manata di spighe da segare, un fastello di covoni coperto di passeri ghiotti nel contado di Set- tignano, uno stuolo di mietitori seminudi lungo la via polverosa di Montecassino, il tremendo spec- chio del lago di Nemi nel suo cer- chio di selve, la lunata d'una spiaggia etrusca, la stortura d'un pino piceno carico di cicale, gli occhi d'una paranza ortonese di- pinti di minio, e la sacra bocca dolente di mia madre. Si parte dalla mia anima un LICENZA 195 gesto improvviso di passione, conte verso una presenza tangibile, come verso una creatura nel tempo me- desimo reale e ideale. Per alcuni attimi il desolato volto materno si pone tra me e il volto della Patria che ho creduto di scoprire come in un lampeggiamento pe- noso. « O timore simile alt inverno che conduce per mano la speranza simile alla primavera ! »] E trovo nel libro della mia me- moria queste altre pagine sotto la data del 3o di agosto. V è un canto celato. [Oggi r invasore è a La Fere, occupa la cittadella forse imme- more d'un altra capitolazione pre- 25 194 LICENZA cipitosa davanti alla medesima forza. 1 suoi cavalli scendono per la vallata dell' Oise verso Parigi, calcano già il vero cuore della Francia, scalpitano la piìi sensi- bile parte della terra afflitta, con ogni pesta profanano una memo- ria, offendono una bellezza, rin- novano un dolore. Ho veduto un velo subitaneo turbare lo sguardo di colui che dianzi mi dava la triste novella, nato nella contrada natale di Jean- Racine, all'ombra delle vecchie torri alzate da Louis d'Orléans. Ora, se socchiudo gli occhi ed evoco l'Isola dai tre Gi- gli, mi sembra di vedere tra pog- gio e poggio tutti i suoi campa- nili tremolare come i suoi pioppi ; e forse non è se non il pianto con- tenuto del mio amico, che mi fa vacillare lo spirito. ' LICENZA 19^ Ma mi riappare, ne miei ricordi di pellegrino, l'antica signoria dei Coucy senza paura, entro la dis- utile cerchia merlata, sopra le praterie basse inondate dalle due fiumane, in un odore di concia. Or è quarantaquattr anni, quella città di pellai, di mugnai e di oliandoli issò la bandiera bianca, avendo perduto tre de' suoi bor- ghesi, dopo un assedio d' un giorno r con tutte le sue vettovaglie intatte e con pili di cento cannoni ammu- toliti. La foschia di quel malva- gio novembre lontano sembra oggi a Un tratto rispandersi su Parigi attonita. Il cielo è ingombro di cenere, le strade sono pallide come arterie senza sangue, la Senna stagnante e spessita sembra re- sistere allo sforzo del rimorchia- tore fumoso che trascina la lunga i96 LICENZA fila dei barconi carichi di carbon fossile; e tutti gli alberi perdono le foglie, come se all' improvviso si ammalassero d'autunno. Il palpito della città è inter- messo, ineguale, rotto da lunghe pause o accelerato da un'ansia folle. Una piazza deserta par vo- tata dalla tromba duna nuvola che s'alza, s'avvolge e trascorre a levante, torbida e gonfia della vita rapita agli uomini. Uno spraz- zo crudo di sole contro un mar- ciapiede popoloso sembra annien- tare i passanti, come uno scoppio di mitraglia. Un gruppo di operai famelici, sotto un muro spellato di vecchi affissi osceni, non è se non una minaccia d'occhi selva- tici e di bocche ferine. Vetture in corsa, zeppe di carne da macello, passano con un gran rombo e un LICENZA 197 gran vocìo, andando verso tra- montana; e tutti ì fantaccini son seduti su le loro brache rosse, come i battaglioni falciati alF al- tezza degli inguini stanno a terra in una pozza grumosa e ancor gridano. Le dodici stazioni di Parigi pompano il coraggio e la viltà: scaricano fuor della cinta quelli che vanno a combattere e quelli che si salvano. Visi bianchi di donne dalle ciglia e dalle lab- bra dipinte appariscono, nella ra- pidità dello spavento, di tra i cu- muli delle valige e delle scatole, in fuga disordinata come se già il primo drappello di ulani fosse alla Porta Delfina. Il veterano già rimastica il pane scuro del- r assedio, tra i denti che gli resta- no. La cortigiana, abbandonata dal mantenitore, si dondola su gli igS LICENZA alti tacchi con un gioco sapiente di ginocchi e di lombi nella gonna stretta, lungo le botteghe chiuse, sotto l'ingiuria delle oneste porti- naie y già pronta ad accogliere il dragone bavaro o l'ussero della morte. Contro i cancelli d'un am- basciatore invisibile s'accalca la fame degli emigrati, s'impazienta la lunga attesa vana ; e già l'odio e la ribellione balenano sopra la miseria, mentre il lezzo umano si mescola al fiato putrido del- l'estate moribonda. Ecco il silenzio della pietra, una via deserta e cieca, un'ombra plumbea fra alte case esanimi, uno spazio morto, qualcosa d'un canale succhiato dalla bassa ma- rea, e me simile a un rottame sperso, a una bottiglia vuota, a una scarpa informe di naufrago. LICENZA 199 « Chi sono ? dove vado ? e che ho mai fatto ? » Le mura si serrano. Mi soffermo, per fiutare quell'aria ignota. In capo della strada, tre vecchie agucchiano e biasciano davanti a una soglia, con le gote grinzute come le palme delle mani €, come le palme, scritte dal De- stino per segni indecifrabili. Par- che senza nome, mi guatano e mi agghiacciano, minacciando con le loro cesoie nascoste l'ultimo filo del mio passato. « Il ragno tumido ha tessuto la sua tela fra i rami del mio lauro, » Perché non posso pili sopportare la solitudine? e perché non posso piìi conservare la mia sostanza né considerare gli aspetti della mia anima? Un tempo sapevo con guai tra- 200 LICENZA vaglio l'operaio sanguigno, che m' ho alla cima del cuore, trasmu- tasse tutte le cose in mio senti- mento. Oggi mi sembra che il cuo- re carnale «non maggiore della man chiusa» faccia un altro la- voro, a me sconosciuto, e eh' egli non riconduca a sé, pel circolo consueto, quel che fuori di sé ha spinto. Tutto si parte, e nulla ri- torna. Tutto si dona, e nulla si ri- prende. Ho perduto il mio mondo, e non so se ne conquisterò un al- tro. Ho ripudiato quel che fu la mia potenza; e talvolta, con un profondo brivido, nel tumulto de- gli uomini, penso a una bellezza segreta che non so rivelare an- córa e che forse altri manifesterà per un'arte misteriosa non posse- duta da me se non in forma di divinazione. LICENZA 201 «r Chi inciderà ancóra una sil- laba nel frontone dell'Arco? E chi nella parete del Monte scol- pirà una lettera sola del nome? E chi scruterà VA wenire convolto nel grembo penoso ? » Talvolta , all' annunzio d' una strage, penso che la guerra pre- para gli spazii mistici per le ap- parizioni ideali. Se resto solo, o nella mia casa o nella via, mi sembra di udire in realtà crollare le masse d'uomini come quando nella foresta folta si pratica la radura che subito è occupata dalla nuova luce. Questo senso continuo dell'opera di morte dissolve ogni pensiero abituale. L' abbattimento è senza pausa. Quel che un An- tico nostro chiamava «il taglia- mento delle genti» non ha mai tregua. In ogni attimo le crea- 26 202 LICENZA ture sono agguagliate alla terra che si abbevera del loro sangue furioso, prima d' inghiottirle e di convertirle in sua grassezza tran- quilla. Anche una volta la divi- nità della terra è testimoniata dal- l' immane sacrifizio. Ella prende il corpo orizzontale dell'uomo come misura unica per misurare il pili vasto Destino. E se si sazia di carne, poi la rende in ispirilo. Dove il carnaio si dissolve, quivi nascono i fermenti sublimi. Dove si sprofonda il peso mortale, quivi la libertà dell'anima si leva. Quan- to pili larga sarà l'offerta, tanto più. alto sarà il prodigio. Così comprendo come la terra e la guerra sieno entrambe d'es- senza divina e per sempre con- giunte da un patto non violabile. Nei campi e nelle nazioni il solco. LICENZA 203 sìa bruno o sia vermiglio, è fatto per essere seminato. E ogni solco non ha altra necessità se non di crescere e d'alzarsi. Mi viene in niente una parola tragica: «Avete voi giaciuto come il figliuolo e la madre, tu e la terra?» Mai fu pili forte e pieno il contatto fra r uno e l'altra. E ora so perché mi diede tanta commozione il leg- gere che i soldati d'Africa, in un assalto disperato contro i reggi- menti della Guardia imperiale, combatterono tutti a piedi nudi. Ogni attimo ha qualcosa di lon- tano e di sacro; e in ogni luogo lo spirito è dalla poesia rapito fuori del tempo. La Senna ristagna sotto una ca- lura cinerea. Di là dalla ripa ar- borata il poggio s'accovaccia sotto 204 LICENZA un castigo di nuvoli. Nell'acqua inerte si specchiano le croci bian- che abbaglianti dipinte su le prore delle lunghe barche di traffico. L'ululo d'un rimorchio lacera l'afa greve, e gli risponde un mugghio dal polverio del ponte. Innanzi la porta risonano i colpi degli ab- battitori d'alberi, che tagliano i tronchi per abbarrare il passo. Dietro la porta, nella via soda, i picconi scavano la trincea. Qual- cosa di primordiale e di selvaggio è nel chiarore del nembo immi- nente. Il pericolo soffia per la valle del fiume tributario ; par visibile come la polvere, come il fumo, ch'entrano negli occhi e nella gola di chi cammina. Una immensa mandria di buoi s'incalza e s'accavalla sul ponte, sbocca su la strada, si spande per LICENZA 205 /a ripa, spinta coi gridi e coi pun- goli dai soldati e dai bovari pol- verosi. Sono mille, sono duemila, sono tremila. Si precipitano in- nanzi come un torrente gonfio; e hanno il colore dell'alluvione che ha rapinato le terre fulve, il co- lore della ruggine e dell'ocra, della paglia e del croco. Perché tanto si affrettano ? per sfuggire all'in- seguimento del nemico? Par di udire già all'altro capo del ponte il galoppo dei cavalli e di scor- gere un balenìo d' armi in asta e di respirare l'antichissima forza dei re chiomati. L'amico che mi accompagna, del- la miglior razza di Francia, mi serra il braccio in una sùbita com- mozione. Egli ha inteso, nel grido cFun giovine bovaro, il nome della bella bestia color di covone che 206 LICENZA passa rasente sfiorandoci col suo corno spuntato: « Jaunet! » Non è l'accento dì Pìccardia? Qual campo del paese invaso arò il bue flavo dal nome leggiadro ? Le figure delle città violate riap- pariscono: Amiens rivolta verso il suo Angelo fulgido di cicatrici diritto sotto la Porta maggiore che il Paradiso invidia; Saint- Quentin, squillo di tromba, rin- tocco di campana, grido di ri- scossa, raccolta nella loggia del suo palazzo comunale la fede in- espugnabile; Noyon silenziosa e pensierosa, con le sue case di cotto e i suoi orti murati, intorno al suo duomo dall'abside coronata di cap- pelle raggianti.... La tristezza del mio compagno e il richiamo rinnovato del bifolco risvegliano in me il ricordo dun LICENZA 207 campo toscano a me dolce, ove sino al tardo vespero udivo la voce di colui che guidava l'aratro inci- tando i bovi bianchi dal muso im- prigionato nella gabbia di salcio splendenti tra gli oppi e gli olivi pili che ogni altra cosa chiara, mentre su dall'Arno veniva il rom- bo della mulina e delle pescaie. Il temporale scoppia sul poggio, come una battaglia. Il tuono imita il fragore del cannone. Le nuvole si squarciano e si riserrano. Una luce sulfurea illividisce la ver- dura. Le prime gocce di pioggia sono tiepide, come se grondassero da una larga piaga. Forse il buon patrono San Dionigi cammina so- pra le nuvole, verso la città mi- nacciata, portando tra le mani ferme il suo capo mozzo che cola e non dole? L' immensa mandra 208 LICENZA sbigottita, sotto gli urli e sotto i pungoli, si precipita verso la por- ta, scalpitando la via sonora, ros- seggiando ai lampi spessi, acca- vallandosi contro i tronchi abbat- tuti, contro l'alzata di terreno che difende la trincea, contro i can- celli afforzati in fretta con trava- ture di longarine, È la vettova- glia d'assedio, la provvisione con- tro la nuova fame, il vitto di scia- gura. Una frotta di colombi mes- saggeri vola basso, nel chiarore sinistro, a poche spanne dal tu- multo dei dorsi fulvi. S'ode in alto, nella regione delle folgori, il battito coraggioso d'un velìvolo che affronta la tempesta. Un carro di feriti è arrestato dal bestiame che si serra contro le ruote fu- manti: il sangue brilla nelle fa- sciature e V intrepidità negli oc- LICENZA 209 chi. Sotto le sferze della pioggia i buoi mugghiano a morte. Le bandiere garriscono nella raffica, come vele sfuggite alla scotta. Le foglie s' involano nelV ignoto, con le sorti sibilline. D'improvviso uno smisurato arcobaleno s' accende sulla città cupa, e il teschio di San Dionigi fiammeggia nel disco del sole. »] Ed ecco, amica animosa, ecco le pagine scritte il 3 di settembre, alla vigilia del miracolo inatteso. V'è un canto nascente. \È un giorno mistico, dominato da un silenzio così alto che il pas- saggio dei carri di guerra ferrati non V interrompono. La gente è 27 210 LICENZA taciturna e raccolta, grave e rara. Le vie sembrano piìi larghe, piene di attenzione dalla parte della luce, piene di aspettazione dalla parte dell'ombra, deserte d'uomini inutili, popolate di pensieri ope- ranti, con in fondo qualche mo- numento solenne che non è se non un gruppo di memorie impietrate. Tutta la paura alfine ha lasciato la città, è fuggita con ogni sorta di veicoli, s'è dispersa per le pro- vince pili lontane, ha messo in salvo il suo ventre correndo senza fiato verso le terre immuni e gras- se, ha già raggiunto i Pirenei, l'Atlantico, il Mediterraneo. Si respira un'aria piìi schietta e pili aspra, come se un vento robusto avesse a un tratto spazzato le in- fezioni. E, considerando Parigi divenuta pili bella e piti forte. LICENZA 211 penso a quell'antica Torre fon- data su la riva destra della Senna da Carlo il Calvo; la quale nella notte che seguì il primo assalto dei Normanni condotti da Sige- fredo, quasi a miracolo crebbe di pili cubiti e si munì d' un altro ordine di feritoie. Oggi mi sembra che nelV Isola della Città si sia novamente raf- forzata l'anima civica. E io veggo entrare nel Duomo di Nostra Don- na l'imagine della Francia male armata ma intrepida, come v'en- trò a cavallo Filippo il Bello con quella mezza armatura, senza usbergo né gambiere, eh' egli por- tava a Mons-en-Puelle vittorioso contro la sùbita aggressione dei Fiamminghi. Non pili brulicanti del formi- caio umano che le celava e lor- 212 LICENZA dava, non più sonanti del penoso strepito, ridiventate a un tratto ignude e libere, le pietre oggi vi- vono d'una vita antica e nova, riacquistano il mistero e la po- tenza, rimemorano quel che fu e annunziano quel che è per appa- rire. Alle rotte luci di questo po- meriggio ove l'autunno sembra scendere precoce, ingannato dalla rossa vendemmia che si fa fuor de' tini, esse hanno l'aspetto pro- fondo dei sogni che sono proposti all'interprete dei fati. L'illusione del tempo è distrutta. E mentre laggiù San Luigi entra per la Porta maggiore tra le due torri recando la corona di spine, ecco che dietro di me, al ponte di Ma- ria, sbarca un giovinetto scono- sciuto, smorticcio e scarno, di nome Bonaparte, LICENZA 2l3 L'Isola, simile a una nave inca- gliata nel limo del fiume, ha la prua frondosa rivolta all'Occi- dente : non soltanto alla parte del cielo ove declina il sole ma al sacro mondo di bellezza, di eroi- smo e di gloria che pesa in que- sta parola nostra dacché verso la plaga incognita F Ulisse novello fece de' remi «ale al folle volo». Occidente, splendore dello spi- rito senza tramonto, nessun bar- baro potè mai spegnerti, nessuno mai ti spegnerà ne' secoli, finché Fuomo porti su' suoi sopraccigli una fronte per rispecchiarti. È un giorno mistico. Le nubi sono così fulgide e si dilatano in così ampio cerchio che mi fanno pensare alla Rosa sempiterna, e mi rammentano la parola di Bea- 214 LICENZA trice: « Vedi nostra città quanto ella gira ! » Quale può esser mai l'ardore dell' azzurro , oggi, su Roma ? e guai mai, apparendo al popolo rapito, la faccia del nuovo pontefice latino? Chiudo gli occhi, col capo tra le mani, coi gomiti su la pietra del parapetto ; e il silenzio m'ac- compagna nella memoria la via di Santa Marta, la via delle Fon- damenta, deserte e sonore sotto il mio passo, ove in giorni inquieti di giovinezza e di ambizione cer- cai un che di grande e di remoto all'ombra dei Palazzi Vaticani. Rivedo, piii oltre, la Pineta Sac- chetti, simile a un colonnato chio- moso, ove tra l'erba fioriva il por- razzo che è l'asfodelo dell' Agro, per me inespugnabile come quello dell'Ade. Là solevo far lunghe so- LICENZA 2l5 sfe, in vista della mole papale e del Sor atte solitario, con una spe- cie di pensieri che non ritrovo piit ma che mi raffiguro quasi corpo- rei, dotati d'una violenza flessi- bile e audace, in quel modo che un cacciatore si ricorda del fiato forte d'una fiera con cui ha com- battuto da vicino. E rivedo la volta dei Profeti e delle Sibille, dove oggi forse di- nanzi all' Eletto si abbassano i baldacchini dei porporati. « Ac- ceptas ne electionem..., » La materia del mondo è di nuo- vo incandescente, come il massello che deve patire l'incudine e il ma- glio ; è in fusione come il bronzo che deve colare per tutti i rami di gitto a riempiere la forma cava. Se il pontefice fosse un artefice di vita, se il vicario di Dio fosse un 21 6 LICENZA creatore onnipotente, quale opera potrebbe escire dalle sue mani! Or è molt'anni, in una notte di dolore commossa da un fremito di speranze, salutammo un re eletto dal Destino con segni che ci par- vero meravigliosi. O tu che chiamato dalla Morte venisti dal Mare, Giovine, che assunto dalla Morte fosti re nel Mare! Si sogna che in questa ora sia vestito della tunica bianca e co- perto del camauro vermiglio un papa giovine come queir Ottavia- no principe de' Romani nomato Giovanni Xll, imberbe come il figlio di Alberico ma capace di contenere nel suo petto il coraggio sovrumano d' Ildebrando. Si so- gna eh' egli non vada a sedersi sul trono preparato davanti all'ai- LICENZA 217 tare per ricevere il bacio dei suoi cardinali, ma rimanga solo e si stenda supino sul pavimento della Cappella, con gli occhi e gli spi- riti rivolti alla visione sublime di Michelangelo , e quivi faccia la sua vigilia, steso come le miriadi d'uomini in quel punto abbattuti su la terra dalla guerra, inspi- rato dalla Morte che è la musa della Resurrezione. E, se tu volgi col dito il foglio del libro verace or che il Genio con la sua face faccende la lucerna, guai tirannide crolla, nasce guai novo mito, guai puro eroe s'eterna? L'acqua passa sotto il ponte, fatta bionda dal riflesso delle nu- vole bionde, come l'acqua del Te- vere. Un segno piii luminoso arde 28 2l8 LICENZA SU i padiglioni del Palazzo comu- nale, a imagine di qiiell' angelo fiammeggiante che apparve sul sepolcro di Adriano mentre Gre- gorio stava per entrare nella ba- silica di San Pietro. Tutto il cielo è solcato di presagi, come nelle ore fatali. Sembra mosso per me dal medesimo ritmo che nello spa- zio curvo della Sistina atteggia le forze necessarie. La Delfica svolge il suo rotolo pieno di sorti, da oriente a occidente. Che guardi? Una cosa fuggente, o una che giunge dai mari onde tu stessa venisti? Scendere su 1 popoli tristi le ceneri crepuscolari, o sorgere l'albe cruente? Mi tornano nello spirito le me- lodie che non furono udite e che perciò a taluno devono oggi sem- LICENZA 21^ Orare più belle. Rimpianto e spe- ranza mi fanno delle due patrie una patria sola. Qual potenza si mostra oggi, laggiit, dall'altura che è la sommità dell' anima cri- stiana, all' aspettazione del po- polo? Qual mano si leva oggi a tracciare tre volte nell'aria di Ro- ma il segno della croce, mentre da ogni terra una crociata senza croce si leva contro l'ultima bar- barie? Ecce sacerdos magnus. Ma forse il nuovo Pastore è ca- rico d'anni e, incatenato alla pie- tra secolare, già si curva sapendo come pesa ti gran manto a chi dal fango ti guarda^ che piuma sembran tutte l'altre some. L'ombra di Dante sembra soc- correre alla mia tristezza, creando in me per l'eco della sua rima un sentimento musicale che si con- 220 LICENZA fonde col desiderio della patria lontana. L'anima affannata si so- gna di cercarlo nei luoghi dove forse peregrinò, e di ritrovarlo, e di domandargli quella consola- zione ch'egli domandò sì dolce- mente al buon cantore da Pistoia. \ Esaudita fu la preghiera, nel (profondo e nelt altissimo. Avevo veduto, pochi giorni in- nanzi, scintillare negli occhi co- raggiosi di Marcello dure lacrime, mentre era egli sul punto di par- tire armato del suo fucile e della sua croce. Il nemico già occupava il dominio della prima stirpe, dalle cripte merovinge della badia di Saint-Médard alle cinque absidi di Saint-Yved, dal dolmen della Fontaine-Bouillante al Sasso fo- 232 LICENZA rato di Morsain, dalla rupe drui- dica di Ostel al mastio di Coucy, la contrada regale che custodisce r anima pura della vecchia Fran- cia e i vestigi della sua piti alta storia, la terra austera e soave che ospitò San Luigi e Bianca di Castiglia nella pace dei suoi ce- nobii adorni. Il nemico già mi- nacciava il paese di Silvia, stava per ardere i boschi e contaminare i ruscelli del Val lese! Tutto era perduto. Chi dirà la bellezza della notte in cui le sorti si volsero e si di- segnò il prodigio ? Era il più sereno dei plenilunii su T altipiano di Villacoublay at- torniato dalle basse tettoie degli aviatori, dai neri nidi dei vola- tori di battaglia. Tutta la volta del cielo era piena d' un silenzio LICENZA 233 straordinario, d'uno di quei silen- zii che sembrano quasi imperiosi, tanto superano di potenza ogni voce, ogni rumore. E il fisso de- stino era la chiave della volta. Bisognava prepararsi a ricevere il nemico; e ciascuno aveva il suo modo, fra spavalderia ed ele- ganza, fra temerità e fermezza. Noi l'aspettavamo sul noto cam- mino del iSyo, al limitare del bosco di Meudon, in quel recinto di fienili e di granai dove è tuttora inscritta la memoria degli Zuavi caduti combattendo. Il casale di Dama Rosa! Questo nome mi spande ancora nell'anima non so che profumo di vecchia Francia, di «Francia la dolce». Lunghi muri pallidi, espressivi come il pallore delle facce sofferenti, pieni di tedio come i testimoni che da 3o 234 LICENZA troppo tempo aspettano, pieni di piaghe e di cicatrici come i men- dicanti nobili che non tendono la mano ma soltanto guardano. Tetti bassi di lavagna o di tegole, sporgenti sopra l' intonaco grigio che non ha pensieri ma soltanto tristezza senza mutamento e vec- chiezza senza riparo. Grandi por- te dipinte di rosso, color digrumo, alte come i carri torreggianti di paglia o di fieno, girevoli a fatica su gangheri che vacillano negli stipiti, rugginose di serrami che non serrano, infracidate da basso nell'umidità della terra senza so- glia. Pietre sconnesse e inverdite della cisterna scoperta dove stagna l'acqua piovana che non piìi ri- specchia la giogaia del bue né tre- mola al belato tremulo della peco- ra immersa. Prato segreto, prato LICENZA 235 cinto e difeso, fratello del chiostro erboso e del cimitero selvatico, orizzontale come i morti che dor- mono senza nome, melodioso di musici invisibili, variato dal vento che lo rovescia come piuma o pe- lame, a onde chiare, a onde scure, inazzurrato dall'ombra della nu- vola, calcato dal corpo che vi si riposa e vi s' imprime. O Chiaroviso, un giorno dirò questi aspetti della mia esule ma- linconia, in quel libro che inco- minciai e interruppi. Non avevo mai sentito più mi- steriosamente la natura [magica dei miei cani. Nel gran canile im- biancato i loro occhi brillavano come carboni accesi su la neve, maravigliosamente. Quando udi- rono i colpi improvvisi battuti alla porta esterna, tutti balza- 236 LICENZA rono dalle cucce e si drizzarono tutti contro i cancelli latrando. Lo splendore ferino dei denti vinceva quello degli occhi. Eretti su le zamfye di dietro, con la carena del petto contro le sbarre, col collo arcuato, con tese le orecchie, erano bestie da combattimento, pronte allo slancio e alla presa. Un \soldato veniva, dal posto vicino, ad annunziare il pericolo imminente e a consigliare lo sgom- bro rapido del casale. Ma aveva- mo imparato il sorriso di Francia, e rispondemmo con quel horriso. Dama Rosa non era piìi difesa dagli Zuavi ma da una muta di sessanta levrieri, da un batta- glione dentato. Non abbandona- vamo i bei compagni, ma vole- vamo con essi aspettare il ferro e il fuoco. LICENZA 237 Inchiodammo le nostre bandiere ai pali del chiuso, esaminammo le armi, distribuimmo un lauto pasto, e ci disponemmo a vegliare. Tra la muta senza collari né guin- zagli, Donatella aveva un viso d'astuzia allegra, come ,chi . con- sideri l'effetto d'uno stratagemma inopinato. Al chiarore della lan- terna, ella si chinava verso la famosa Meg che non aveva ancor finito di leccare i suoi dodici pez- zati cuccioli partoriti la mattina. Con un vezzo infantile, ella par- lava ai suoi prediletti che la com- prendevano e le rispondevano. L' invitto Agitator fiammeggiava dai verdi occhi più folli che mai ; P insaziabile Nut saltava come un canguro, chiedendo di continuo qualcosa da divorare; il gruppo demoniaco dei cani neri, condotto 238 LICENZA dall'enorme Great Man, se ne stava taciturno in disparte, serbando l'attitudine dell'agguato; la mia dolce Dorset color di miele, co- strutta 'come una piccola arpa sensibile, non si dipartiva dalla sua schifiltà d'ermellino timoroso di contaminarsi ; e la vostra vec- chia Deirosa, per la rarissima no- biltà del suo lignaggio scampata al sacrifizio compiuto da Marcello non senza pianto, alzava il sot- tile muso con angoscia cercando di vedere dai suoi poveri occhi in- torbidati, Imaginavamo che i nostri cani fossero per essere i precursori di quelli, in seguito celebratissimi, i quali escivano dal limite dei vil- laggi distrutti formando una ca- tena di difesa intorno ai focolari ancor fumanti. 1 garzoni, in as- LICENZA 239 setto di guerra, motteggiavano spezzando il biscotto quadrato e sparpagliando nelle cucce i lun- ghi fastelli di paglia fresca. A quando a quando, taluno si po- neva in ascolto credendo aver udito il trotto d'una pattuglia di ulani. Il vento vivo, profumato dal fogliame della foresta e rin- frescato dalla corrente della Sen- na, agitava in cima ai pali le bandiere latine. Si udiva talvolta uno strepito di carriaggi per la via di Versaglia ; si udiva tal- volta il rombo di un motore sotto i ricoveri degli uomini alati. Poi seguivano grandi pause di silen- zio radioso. La luna era al colmo. Un comandamento di pace scen- deva dal sereno. La melodia del- Ferba brulicante pareva cullare i morti immemori. Le rane ospiti 240 LICENZA della piscina mettevano a prova note intermesse, come se stentas- sero ad accordare ottavini e cla- rinetti per il concerto di mèzza- notte. A un tratto, scorgevo l'alta ombra della mia compagna che camminava lungo il granaio chia- ro col suo passo spedito di Diana cacciatrice calzata di coturni bene unti; e un sentimento di bellezza eroica superava F ironia della mia attesa. La giovine donna, disde- gnando ogni consiglio di pruden- za, era pronta a perire coi suoi cani ammirabili difendendo le mura del suo rifugio. 1 denti le brillavano più che il bianco degli occhi, rischiarando quel suo viso di bel fanciullo caparbio. Ella imaginava di scagliare col suo grido gutturale la ìnula formida- bile contro i primi invasori ap- LICENZA 241 parsi, e di capitanare la strana battaglia nel rossore dell'incendio. Stando disteso in mezzo all'er- ba, tra D or set e Agitator che si serravano ai miei fianchi tenendo il muso contro le mie ascelle, io la udivo parlare nel canile^ di banco in banco, non altrimenti che un capitano in punto di esor- tare i suoi fedeli. Sorridevo all'av- ventura che d'imaginaria poteva farsi verace, considerando come la morte non mi potesse cogliere in un'ora di più singolare poesia né spegnermi in piìi grande pie- nezza di vita. Il grido di un uccello notturno si prolungò nel sonno profondo della foresta. Di sopra il muro pallido le quer- ce scossero lievemente il capo. Un filo d'erba, che mi sfiorava la tem- 3i 242 LICENZA pia, sentì l' approssimarsi dell'al- ba e me lo disse. L'anima la rico- nobbe prima dell'occhio vigile, piìi esperta a distinguere luce da luce. Allora mi levai, ed eccitai la coppia dei levrieri al giuoco. Essi partirono di balzo nelV erba che si sbiancava pel solco della loro rapidità. Pareva che la falcias- sero col lor vigore falcato. Poi s'aggiravano in volute sempre piii strette, come i venti quando fanno mulinello. La Diana caucasea, alta e pie- ghevole sui suoi coturni allac- ciati, apparì con un'altra coppia al limite della prateria. Non in- cedeva sopra il sangue ma sopra la rugiada, non sopra il vermi- glio ma sopra il verde. Non por- tava in fronte la mezzaluna ma la prima ora del mattino. LICENZA 243 Come i canattieri richiamarono i due corridori anelanti e li pre- sero a guinzaglio per impedire le risse, fu lanciata l'altra coppia. E così tutta la muta, due per due, fece il suo galoppo mattutino nel- l'allegrezza del prodigio. Incominciava, all'orizzonte, la battaglia prodigiosa. Un velivolo passava rombando su la chiostra quadrilunga, accorrendo verso la Marna con le ali candide della Vittoria. O Chiaroviso, come dimentiche- rò quella veglia d'amore sul vo- stro suolo fremente e quella ca- rola selvaggia — vera danza pir- rica — dei miei « lunghi musi » ? Non sentimmo, io e la svelta eroi- na e i nostri compagni fulminei, non sentimmo in confuso la gioia 244 LICENZA della terra che pareva fatta so- nora dal preludio del combatti- mento invisibile ? V'è oggi una condizione singo- lare della nostra sensibilità, che ci raccomuna alla terra. In quei giorni, e nei giorni che seguirono, io ebbi un sentimento quasi euca- ristico della mia patria seconda. Mi parve d'imitare, non in atto ma in ispirilo, la comunione di quella gente a piedi fiamminga che si pose in bocca una parti- cella del suolo invaso, prima di menare il gran tagliamento dei vostri cavalieri. Quando conducevamo a guin- zaglio i cani per ore ed ore nel laberinto della foresta, spesso ci avveniva di far sosta e di cori- carci su la proda erbosa dei viali. LICENZA 245 con l'orecchio chino, quasi a co- gliere il fremito della battaglia. 1 levrieri si ponevano a giacere presso di noi, col muso allungato tra le zampe davanti protese, con gli occhi acuminati e intenti sotto la fiera grazia degli orecchi di- sposti a solicchio. Si faceva gran silenzio fra le radici e le vette. L'agguato dei cani pareva accrescere la forza della nostra attenzione. Origlia- vamo la terra e la sorte. Di sìibito, i cani balzavano dan- doci una grandissima stratta e abbaiavano furenti con lanci di belve, tentando di sfuggire al guinzaglio. Avevano veduto un lepratto o una donnola attraver- sare laggiìi la radura. In piedi, con tutta la possa delle due brac- cia reggevamo il fascio delle stri- 246 LICENZA sce di sovattolo robuste che si tendevano come le redini dei ca- valli sboccati. Invano puntavamo i talloni e inarcavamo le reni: i furiosi ci trascinavano. Il clamore feroce echeggiava f>er tutta l'om- bra. Pareva che nulla piii valesse, nell'ombra, fuorché la bianchezza di quelle giovani zanne pronte ad afferrare e a dirompere. Nulla pili valeva fuorché l'azione, fuorché il combattimento a oltranza, fuor- ché il sangue inesausto. La furia della muta si apprendeva alle no- stre vene. Si accendeva nei nostri occhi la visione della battaglia disperata, di là dai boschi, di là dalle fiumane, di là dalle colline. Il mio cuore gridava d' angoscia verso la mia patria prima, verso l'Italia inerme e irresoluta. Ora un giorno avvenne ch'io LICENZA 247 /ossi da tanta violenza non tra- scinato ma stramazzato , nella mota sdrucciolevole, dopo l' ac- quazzone di settembre onderà stillaìite e scintillante tutto il fo- gliame. Avevo i guinzagli attor- tigliati ad ambo i polsi, é la vo- lontà ferma di non lasciare a nessun costo sbandarsi i levrieri che, come i venti, non tornano pili indietro né si arrestano finché hanno soffio. Come quei condut- tori di carri che urtando la meta precipitano e sono travolti nella polvere dai corsieri impazzati, mi rotolavo nelle peste mollicce, mi avvoltolavo nel fango rossastro, ri- solcavo la carrareccia con i piedi con le ginocchia e col capo. Quando alfine soccorso da un'a- sperità del suolo riuscii a frenare r impeto e a rialzarmi, avevo tutto 248 LICENZA il VISO impiastrato e facevo san- gue dalle gengive e dalle narici, mi sentivo stronchi i gomiti e i polsi. Assistito dai garzoni so- praggiunti coi miei cuccioli di un anno eccitati come gli adulti, di- stricai l'intrico dei guinzagli e mi liberai per tastarmi il corpo contuso. Ridevo di me, e il mio riso sapeva di sangue e di mota. Spedita la muta innanzi, restai solo e mi sedetti contro un ceppo di quercia presso il ciglio del fosso. L' avventura era ridevole, ma su i miei panni terrosi e su le mie mani segate dal cuoio c'era qual- che stilla rossa. Avevo in bocca un sapore di terra e di vena. Allora dalla solitudine, placato l'ansito, sedato l'istinto del gioco, venne in me un sentimento grave che a poco a poco s' illuminò di LICENZA 249 poesìa. Assonno, lasciavo su me gocciolare il sangue e disseccarsi la mota. Quel fosso deserto mi dava imagine della trincea tre- menda. Sentivo la presenza della morte a tutti i crocicchi del labe- rinto Silvestro. Sentivo dentro me il mio scheletro prigioniero, invo- luto di carne riconversa in ar- gilla. Sentivo, presso e lungi, la insaziabile voracità della terra, e la deità sua. L'una e l'altra avevatio obliato gli uomini. Avevano essi creduto di averla vinta e asserznta. Con la rapidità avevano abolito i suoi spazii, quasi direi scorciato le sue forme in sfondi di baleno, quasi palpato la sua diversità con non so qual nuovo senso titanico. Con le macchine simili a miriadi di schiavi senza sonno e senza fame, 32 25o LICENZA avevano forato i monti, cavato le miniere, imprigionato le sorgenti, domato i flutti, deviato i fiumi, ta- gliato gli istmi. Non forse ci sem- brava di averla stretta, con vin- coli pili forti di quelli onde gli Italioti avx>olgevano il pìii antico simulacro di Opi? Non riluceva ella, dietro l'aratro novamente congegnato, piii docile che non la conduca Omero intorno allo scudo di Achille? Avevamo discostato dal nostro spirito il suo genio, come il vangatore col suo coltello distacca dalle suola la zolla pre- muta, stando a sera su l'aia o su la soglia. Ed ecco, di sùbito, ella ci riapparisce in una specie di ri- velazione primitiva, come al pa- store dei tempi dritto su la col- lina e rivolto verso i punti sacri del mondo. Di sùbito, ella ci riaf- LICENZA 25l ferra, ci riprende la carne e V alito, ci spalma della sua creta, ci ab- braccia ineluttabile, ci piega al suo amore vorace, ci inebria di orrore e di virtìi, mescola la sua sostanza al nostro coraggio, la nostra morte alla sua immortalità. Sempre la guerra nei secoli ri- condusse le creature verso colei «che ha un vasto e ricco petto». Il guerriero di Amasi dinanzi a Barce, il Macedone a Tebe, il Romano a Temiscira, il Gallo con- tro Cesare in Avarico, ognuno re- spirava l'odore di giìi, maravi- gliosamente sospeso fra la cuna e la tomba, come il figlio della ter- za Republiea nella trincea della Sciampagna o della Mosa, nelle sabbie della Fiandra o nei forteti dell' Argonna, votato alla profon- da madre « che nutre i giovinetti 252 LICENZA e le ariste». Ma questa guerra suprema sembra interamente ri- fondere tutte le stirpi nella ma- teria originale affinché i loro genii possano alfine ri foggiarli nel fango sanguinoso e risollevarli alla vita con un soffio piìi vasto. L'alpe, il colle, il poggio, il pia- no, la ripa, la duna, la selva non piìi ci appariscono come visioni velate d'aria ma come azioni mi- stiche il cui ritmo si congiunge alle vicissitudini del fato umano non meno strettamente che giu- stizia e forza quando lottiamo col nemico a corpo a corpo. Sopra tanti misfatti, tante menzogne, tante vergogne, si spande per noi Latini non so qual pura magna- nimità. Dalle albe piìi remote ri- splende a noi la nobiltà delle no- stre origini, con i gesti e con i se- LICENZA 253 ffnì. Il cielo su la nostra battaglia è un tempio aereo simile a quello che l'augure partiva sul suo capo, da settentrione ad austro, con la sua verga adunca. Non altrimenti disegnava egli un tempio sul suolo patrio, di forma quadrata, non esistente se non in ispirilo, senza muri né recinto. Tuttavia i limiti erano inviolabili. E gli eserciti, nei loro accampamenti d'ogni sera, imitavano V imagine del tempio onde avevan seco recato gli au- spica. Così mi raffiguravo io allora, così oggi mi raffiguro le linee ideali dei nostri valli latini contro le tane avverse. Così per noi ciascun moggio di terra scavata è offerto agli spiriti che la deificano e di- vengono i Penati del combattente. Tra le radici e le pietre, ben questi 254 LICENZA ritrova nella profondità compatta la virtìi de suoi padri, oppure, sotto l'assiduo fuoco e l'ostinato ferro, inventa la sua, novissima. Il suo grido di vittoria o di ri- scossa screpola sul suo corpo l'in- volucro risecco che stagna le sue ferite. In quelle notti di settembre la buona Vanna, la pulzella di Lo- rena, saltava sul parapetto, in arnese di mota, in tutt'arme di fango, e gridava: «Ohimè, mes- ser Gesù, quanto sangue di mia gente cola in terra! Perché da ninno fui desta? » M'accadde di veder legare a diecine i cadaveri terrosi intorno a un palo, dritti, come intorno al- l'ascia le verghe dei littori; e ri- pensai quella nostra moneta con- solare ove il fascio involto di lauro LICENZA 255 sfa fra una sfjtga e un caduceo. Guardando un de vostri giovani eroi irrompere dalla trincea, co- perto di melma, con la faccia si- mile a un informe zolla armata di denti e di occhi, mi avvenne di ripetere in me medesimo' la pa- rola iniziatrice: «Insieme giace- ste, come il bimbo e la madre, tu e la terra? » Per quanti altri segni riconobbi la nostra elezione, Chiaroviso, mia suora di Francia, nelle settimane miracolose ! O vespri sublimi, in quel do- minio della prima stirpe, in quel suolo di martiri e di re, quando udivo i racconti della recente pro- dezza seguirsi come nelle lasse d'una canzon di gesta, presso le rovine della Badia cistcrciense 256 LICENZA non immemore d'avere ospitato San Luigi! Un gruppo di cavalli morelli s'abbeverava nel nero sta- gno f eodale, ove due cigni immo- bili parevano adunare in sé quan- to di candore e di silenzio rima- neva nel folle mondo. S'udiva to- nare il cannone, a borea, nella montagna occupata dal nemico; s'udiva ansimare come un bufalo enorme il carro di ferro impanta- nato nella via cupa; s'udiva in alto il battito d'un velivolo fen- dere la nube, segnando il ritmo novello del coraggio solitario. E il cielo, dilacerato a levante, aveva il colore del tendine « che pallido è come la perla ineffabile, pale- sato nella ferita». Dimenticherò io quell'ora e la sua bellezza? Gli Zuavi di Pa- lestro e i Cacciatori di Solferino, LICENZA 257 / veterani dell'esercito d Italia, non dunque mi fissavano dal fondo di quelle giovani pupille ? Il can- none di Melegnano non dunque tonava alla mia sinistra, tra il cimitero e il ponte? Non altro se non la forza del- l'amore mescolava anche una vol- ta nel mio sogno i due sangui fraterni. Su i ghiacci dello Stelvio, su le nevi della Gamia, su i picchi delle Dolomiti, su i dirupi del Monte Nero, da per tutto, nella nostra Alpe truce, oggi risuona un canto possente come quello dei Legio- narii: la voce stessa di Roma. Così mi parve un giorno riconoscere la cadenza delF antichissima vostra canzone carolingia nel coro dei vostri soldati. Conoscete, o Chiaroviso, un bor- 33 258 LICENZA go che si chiama Longpont ? Pon- teluugo. Somiglia quasi a una delle mie piccole città umbre, tra l'infranta ossatura della chiesa abbaziale e una porta munita di torricelle eguali a quell' una che Santa Barbara sorregge ìiella pal- ma della mano. Il suo aspetto in- gannava il mio esilio, come il suo ricordo oggi mi ravvicina alla se- conda patria distante. Era una domenica di settembre torbidiccia e dolca. Assistevo alla messa funebre, nella cappella an- gusta fatta di quattro crociere su- perstiti d'una sala ogivale che ave- va lungamente servito di ambula- torio alla comunità cistcrciense. 1 soldati avevano r empiuto di rosso tutti i banchi di quercia ; ma, co- me la cappella non ne poteva con- tenere se non un piccolo numero. LICENZA 259 gli altri si accalcavano al limi- fare, occupavano tutto il sagrato all'ombra delle rovine. Dall'altare luccicante di reli- quiarii, l'abbate a gran voce no- verò i morti. Poi celebrò il sacri- fizio del corpo e del sangue di Nostro Signore. E un canto sorse, nel crepuscolo delle vetrate grevi di piombi, un gracile coro di donne e di fan- ciulli, un coro tremulo, che a poco a poco rafforzarono le voci rauche degli uomini, finché s'ampliò in invocazione robusta. « Kyrie elei- son ! » Tutti i soldati cantavano, nella cappella e nel sagrato, pri- ma di tornare alla battaglia, come neir antichissima canzone carolin- gia. « Kyrie eleison ! » Pur quelli che imbracavano i grandi cavalli da tiro, pur quelli 26o LICENZA che sellavano le loro bestie ferrate a nuovo, pur quelli che carica- vano le lunghe carra di sei ruote, tutti intonarono il cantico santo, come i compagni del figliuolo d'An- sgarda. « Signore, — diss'egli — se non mi scavalca la morte, tutto quel che tu vuoi, e io lo compirò. « Quando si fu da Dio accom- miatato, levò il suo gonfalone e cavalcò per Francia. Coloro che l'attendevano, levarono grido: — Monsignore, gran tempo è che ti attendiamo. «Allora così egli parlò: — O compagni, siate racconsolati. Fin- ché io non v'abbia fatti liberi, non mi poserò. » Lo stesso epico soffio mi pa- reva spingere le nuvole a dilace- rarsi contro gli archi rotti della LICENZA 261 chiesa estinta, mi pareva agitar l'erbe selvagge su pei contrafforti ridotti ornai a non piii reggere se non la deserta fierezza loro. Ve- devo tremare gli spiriti del vento nella grande Rosa vacua come la bocca d'una maschera senza sò- nito. Scheggioni di mura erano come imminenti minacce. Massi informi precipitati nell'abside pa- revan pronti a essere scolpiti in forma di severi sepolcri. E subitamente, nell'erma Rosa, come in uno spazio mistico, scol- pita apparve la faccia della Mor- te: non l'orrida femmina ossuta ma il bellissimo genio maschio. «Dio sia laudato! — disse il condottiero vedendo quel ch'ei cer- cava. » 1 soldati non cessavano di can- tare, prosternati nel rosso di rob- 262 LICENZA bia come nella lor propria strage. A quel modo che la sinfonia del- l'organo accompagna il salmo, tonavano obici e mortai contro la ripida cava donde forse erano escile tutte quelle pietre per ricon- giungersi conce a gloria del Si- gnore. Credevamo a quando a quando udire anche l'ansima del- la belva incalzata, il croscio dei frantumi in fondo ai burroni e ai botri. « Dio sia laudato ! — E si fece innanzi, e intonò un cantico santo. E tutti con lui cantavano : Kyrie eleison ! << Quando finito fu di cantare il cantico, e cominciò la mischia : il sangue schizzò alla faccia, il sudore grondò dalla fronte dei combattenti.... » LICENZA 263 Dopo, dal ciglione della via in- gombra di carra cariche di feriti esposte al fuoco delle batterie av- verse, abbracciai con un atto d'a- more la città di Clodoveo non vi- sibile se non per le punte, delle sue guglie. Erano le guglie di San Giovanni della Vigna. Superavano il colle che nascondeva le mura. Pare- vano i culmini sensibili della città nascosta, sensibili come le mani che si tendono, come le mani che implorano senza congiungersi o prima di congiungersi. Tocca- vano il cielo ma là dove il cielo è cittadino, dov'è umanato dal respiro delle case, delle strade e delle piazze. La forza accolta della città viveva in quell'aria palpitante dove la pietra scolpita 264 LICENZA e commessa sembrava assumere qualcosa di spiritale e quasi di alato. Pur sotto il tuono dei mor- tai, pensavo al canto dell'allodola gallica. Pensavo a tutte le vostre cattedrali, a tutte le pietre delle vostre cattedrali, che il canto ete- reo dell'allodola sembra aver con- dotte dalle fondamenta alle som- mità, piii alto, sempre piii alto. Ora, da quel ciglione, sentivo e misuravo il ritmo generatore della città profonda, con un sen- timento quasi filiale, con un istin- to di razza, con una divinazione non dissimile a quella che mi rap- presentò gli spiriti di Siena quan- do per la prima volta valicai la disperazione sublime delle sue crete affocate dal tramonto. A Uri carri di feriti giungevano, sostavano. Il cammino che con- LICENZA 265 duceva all'ospedale, e Fospedale stesso, era battuto dal nemico, senza tregua. La carne sangui- nosa era stipata, dolore contro dolore, calore contro calore. Non s'udiva un lagno né una impreca- zione. Tutti mi sembravano belli. Il viso della Francia era in cia- scun viso. In rilievi d'osso e di muscoli vi si scolpiva il piìi ma- schio destino. Le recenti ferite non parevano le cicatrici vecchie della nazione riaperte e riaccese? Un sorriso effuso in un volto bendato non somigliava a quel primave- rile sorriso che il popolo vide schiudersi nelle statue delle sue cattedrali costrutte col canto? Un motto eroico faceva ondeggiare in una sìibita ilarità tutte quelle fasce insanguinate, con non so qual freschezza pur sopra l'or- 34 266 LICENZA rore, come un bianco e rosso ro- seto. Qualcuno disse: « Dalla cava bombardano la città ». Allora la città fu come tutta quella carne. Mi pareva udire, di dietro al colle, battere il suo cuore impavido. Nell'aria solcata dal ferro e dal fuoco la pietra delle due guglie protese aveva quel delicato color cinerino che talvolta sembra can- giante come la gola della tortora. Credevo di vederle vacillare a ogni rimbombo. Il nemico occu- pava coi suoi cannoni le cave stesse donde era escita la pietra delle case e delle chiese e dei ba- luardi. Per me che vedevo le due brac- cia della fede intatte, come per i feriti che non vedevano se non la triste via preclusa, la città colpita LICENZA 267 non era soltanto la sedevenerabile della prima dinastia, la diletta del Merovingio battezzato da San Re- migio, ma era l' imagine ideale della città edificata dalla gente franca, della città inginocchia- ta all'ombra' della cattedrale co- strutta dall'artiere e dal popolo come un modello dell'Anima e del Corpo, come un emblema del Cielo e della Terra, come un simbolo del Paradiso e dell' Inferno. Tendevo l'orecchio per cogliere il suono delle campane entro le pause deir atroce rombo. Tendevo l'orecchio per cogliere il suono della gloria, il clangore di tutte le glorie. Tendevo l'orecchio per intendere la voce dei secoli, per ascoltare nei secoli la voce del- l'amore, della costanza e della speranza. 268 LICENZA L'Angelo che veglia allo spi- golo del pilastro, vestito d' una tunica numerosa che non sembra pieghe intorno a una forma, sì raggi intorno a una mente; l'An- gelo che porta V ora solare sul suo petto; V Angelo delle Catte- drali materne era salito a sommo del cielo, si librava fra i due pin- nacoli. E l'attimo inevitabile era segnato da lui. Un abbaglio improvviso turbò i miei occhi. Tutto lo spazio va- cillò. Il respiro della città pro- fonda s'arrestò. Un silenzio umano e sovrumano si fece intorno, si fece in tutte le cose, come quando la moltitudine accolta nella piaz- za si tace per udire il capo del- l' innocente rotolar dal palco nel paniere del carnefice. Una delle due guglie appariva LICENZA 269 mozza. La città non levava al cielo se non un braccio e un mon- cherino. Dal ciglione gridai verso i carri. Allora tutte le ferite sanguinarono per quella pietra che non san- guinò. Dopo, da un'altra altura, toc- cai un amore, un dolore e uno splendore anche più. maravigliosi. Vidi un'altra Cattedrale, la pili solenne, quella delle grandi Sagre, compiersi nella fiamma. Vidi la fiamma, suprema artefice, con- durre tutte le linee della pietra im- mobile alla perfezione della pre- ghiera alata. Le due braccia le- vate al cielo e non congiunte, vidi la fiamma congiungerle. Come il silenzio di Soissons, il cantico di Reims era senza pa- 270 LICENZA role. 1 mille e mille e mille nomi- ni, che avevano cavato tagliato e commesso le pietre cantando, in- tonavano di nuovo il loro cantico interrotto, che saliva fuori del tempo misurato e fuori del lin- guaggio scandito. Non era se non una forza saliente, come la fiam- ma. Era anzi la medesima forza saliente. La Cattedrale toccava alfine il cuore del cielo. Nata da un'aspirazione verso l'altezza, nata da una imitazione angelica, da un bisogno di volo e di coro, la Cattedrale esprimeva un'ansia che non si placa mai. Ella non poteva esser condotta dagli uomini al suo compimento né poteva compiere sé stessa. Nes- suna generazione la vedeva com- piuta. Il peso della pietra, il peso dello scalpello, il peso della mano LICENZA 271 serbavano una terrestrità invitta. L'ansia degli edificatori non riu- sciva se non a volgere verso Fallo il fogliame dei capitelli e le penne degli Angeli impietrite. L'edifizio era un desiderio arrestato nel punto di superarsi. Era una mole radicata che invidiava la nuvola sorvolante. Ed ecco, d'improvviso, la fiamma eroica ne riprendeva e ne svolgeva il ritmo primiero. La pietra si moveva, la pietra si liberava, la pietra saliva nel firmamento. Tutto il suo sforzo di ascensione era se- condato dalla fiamma. Dall'ab- side, dalle arcate dei contrafforti, dalle curvature dei portali, da tutti i luoghi di gloria, le ali si spiegavano, gli Angeli s'invola- vano nel fuoco. E dal fuoco altri Angeli si creavano, e seguivano 272 LICENZA il medesimo volo. Il mistero del- l'Ascensione, chiuso nella Catte- drale, era rivelato non in verbo ma in atto. La Cattedrale era scoperchiata come il monumento presso cui Maria se ne stava in pianto allorché i messaggeri ve- stiti di bianco le dissero : « Donna, perché piagni? » La Cattedrale era fiammeg- giante di resurrezione ; e l'anima della Francia era quivi alzata in pie, come il riapparito. Dopo mi accadde di approssi- marmi al tempio sublimato. La sua nuova bellezza mi sopraffece come un apparizione improvvisa. L'incendio era spento, ma le fiam- me vigevano come gli spiriti della musica si manifestano nellù pausa che segue il suono. LICENZA 273 Ella era giovane e integra, per- ché tutte quelle ferite la conferma- vano invulnerabile. Era tutta pura, come quando fu posta nel suolo la prima pietra ed ella viveva sola nelFaria e nella mente del popolo creatore. I tempi l'avevano caricata di molte cose vane ed estranee; ed ecco, di ogni cosa vana ed estra- nea ella era monda. 1 grandi pilastri parevano esser ritornati alla natura sacra, esser ridivenuti rupi da percuotere per isprigionarne fonti nascoste. Le vetrate non serbavano se non i neri piombi, come le foglie con- sunte dall' atuunno non serbano se non le nervature ; ma i piombi disegnavano imagini di cielo là dov'erano imagini di vetro. 1 sette e sette contrafforti mi 35 274 LICENZA. parevano come ingigantiti dallo sforzo di serrare una vita stra- potente e di sollevarla. La torre incotta dall' arsione ave- va il colore che ha la carne dei martiri quando nel martirio tra- sumana. Pativa e cantava, come i confessori. E v'era un canto udito e un canto inaudito. Dinanzi al Battesimo di Clodo- veo era deserta la cantoria del Gloria dove i chierici solevano in- tonar l'inno nella domenica del- l'Ulivo. Ma l'occupava non so che aspettazione, quasi visibile come quel drappo che vien disteso nella loggia dove sia per apparire il benedicente o Fannunziatore. Dirò forse pili tardi tutto quel che vidi e compresi e interpretai nel tempio non minato ma resti- LICENZA 275 tuito a grazia fjer la Sagra fu- tura. Oggi dico un movimento della mia ispirazione. Guardavo le nuvole cineree la- cerarsi ai pinnacoli dei contraf- forti e correre verso il levante, come battaglioni mandati alla riscossa. Nella torre arsa il capo d'una statua incotto si disfece come al vento la lana d'un cardo; si dissipò, si dileguò; e fin co- sparso da un lieve polverio, quasi da poca cenere squallida. Mi vol- tai verso l'immane Crocifisso tutto arrossato dall'incendio, come trat- to dalla guaina delle sue membra per una perfezione di supplizio, tutto muscoli e vene palesi. Lo vidi senza cranio e non irto di spine ma d'un lungo chiodo rugginoso, pili crudele degli altri tre confitti. 27$ LICENZA La fyìazza era deserta. L'aria fumigava soffra le mura forche delle case bruciate. Il mortaio bru- tale tonava e idulava. Udii un lungo schianto. E il custode si fece al limitare della Porta maggiore e mi chiamò. Una granata aveva colpito il grande organo, aveva ucciso il gran corpo sonoro. La selva delle canne appariva tut- tavia intatta. Non così poteva il canto degli edificatori essere spen- to. Raccolsi una scheggia di quel legno impregnato d'armonia, e rimasi in ascolto. Da una parte e dall'altra della Porta, robuste travature embri- ciate da sacchi di sabbia proteg- gevano l'ordine delle statue belle. Chino scorgevo la luce passare per gli Inter stizii come per le fen- diture d'una caverna selvaggia. LICENZA 277 E subitamente mi tornò nello spi- rito una mia imaginazione d'altro tempo, la quale m'azfeva fatto ri- conoscere la figura cieli' Ulisse dan- tesco in una di quelle statue bar- bata e coperta d'una sorta di ber- retta da navigatore. Ricordavo il vigilante coraggio del suo viso, e la sua bocca sinuosa ma ferma, che i ricci della barba lasciavano libera: bocca degna di proferire r « orazion picciola ». Considerate la vostra semenza: Fatti non foste a viver come bruti.... Travolto da un'onda di tristez- za, mi risentii fuoruscito e di- scorde. La solitudine si fece fer- rea veramente, mi compresse le costole come un congegno di tor- tura. Chiusi gli occhi; e la mia patria, dimentica ma indimenti- 278 LICENZA cabile, mi si formò dal cuore con un rilievo piii potente che il rilievo di qualunque simulacro. E il cuore era pieno di pietà, di rimorso, di rimpianto, di rampogna, di furia, di onta, di supplicazione, di de- dizione, di presagio. Considerate la vostra semenza. Era ben quello il verso eterno da incidere nella fronte dell'or- goglio latino. Dall' altra parte era- no ì bruti, con le loro ignominie. Ed ecco che l' ingiuria loro non aveva potuto distruggere la bel- lezza costrutta dalla volontà crea- trice. Tanta bellezza s'era fatta più altera e pili alta, come ogni creatura regale si solleva sopra l'oltraggio. V'è una superstizione della bel- lezza, lo la posseggo. Perché la LICENZA 279 Cattedrale mi sembrasse più pa- tetica e pili pura, bisognava che veramente delle tante sue pietre profanate falsate racconciate rin- novate ella si fosse alleggerita nella mina e che per una sorte misteriosa ella avesse conservato i suoi segni più nobili. « È salvo r Ulisse di Dante ? » chiedeva al mio cuore la mia an- goscia. Ma già conoscevo la ri- sposta dell' intimo dio. Quel che è pili bello non perisce. Nella sera dell'incendio le fiam- me congiungendosi imitavano i due archi dell'ogiva. Ora Fima- ginazione mi rappresentava il fuoco diviso in due corni, il rogo bipartito ove si consuma il mar- tirio dei due compagni. O voi che siete duo dentro ad un fuoco! 28o LICENZA Nel mìo spirito ogni sillaba s'in- jiovava di significazioni attuali. Il Libro della mia gente non è forse grave di oracoli per ogni in- terprete ? La mia superstizione dalla in- columità o dal guasto della statua eletta voleva trarre l'auspicio di ciò ch'era nella mia fede, nei miei voti e nella mia impazienza. Allora sguisciai fra travatura e modanatura, mi curvai nell'om- bra dei sacchi, palpando la pietra con le mani cariche d'anima, come chi nel buio speri di riconoscere il suo caro tra morienti e morti. Per gli interstizii penetrava qua e là il chiarore svelando Torlo d'una tunica, un gomito piegato, due piedi giunti. V'era quasi l'u- midità della trincea scavata di recente, la segretezza del cam- LICENZA 281 mino coperto, F ììigonibro tumul- tuario dell'opera difensiva alzata per chiudere la breccia. Battevo il capo ora contro una trave ora contro una sagoma. M'arrestavo e repugnavo a ogni tratto, come chi tema di calpestare un cadavere o di rivoltolare un teschio. Final- mente, aggrappandomi, credetti sentire sotto le mie dita le pieghe del saio marino. Mi sforzai allora di allargare lo spiraglio tra sacco e sacco, palpitando come il se- polto vivo che ha sete della luce. Mi volsi nell'angustia, aguzzai la vista in su; e, col tremito di chi disseppellisca un capolavoro pro- fondo, scopersi la chiusa bocca dagli angoli rilevati, che non sor- ridete come le labbra sorridono ma come sorride la mente. L'effìgie dell'Ulisse dantesco, del- 36 282 LICENZA Vesemplare eroe tirreno, era in- . tatta; e pareva spiare in silenzio per la falla da me aperta fra i due sacchi di rena, tranquillo e pronto come nel ventre del cavallo di Troia. Soltanto aveva sul gi- nocchio una scalfittura, bianchic- cia nella pàtina bruna. « A le al folle volo ! » gridò senza suono il mio cuore. Il presagio era fausto, 1 due corni della fiamma antica dovevano convergere. Un presto Ulisside doveva disfare la Circe grinzosa e il suo branco. Ma ho grazia presso di voi, o Chiaroviso, per una sollecitudi- ne pili dolce, Marcello, nei primi giorni della guerra, s'era già ac- commiatato dalle cose più care. Aveva già condotto alla requisi- zione la sua bella cavalla da cac- LICENZA 283 eia, la sua fedele compagna di corse e di fantasie, nata per por- tare i sogni d'un poeta a traverso le bionde campagne e i ruscelli flessibili del Vallese. Aveva già sacrificato le sue cagne, tranne la vecchia cieca Deirosa rifugiata nei granai di Donatella ; le aveva prese egli stesso a guinzaglio per darle alla morte tuttavia gioiose e balzanti; aveva egli stesso co- ricato i nobili corpi, l'uno accanto all'altro, nella fossa cavata in mezzo alla foresta; e se n'era tor- nato per il sentiero, a capo chino, coi collari vuoti e coi guinzagli flosci. L'ora di piii crudeli sacrifizii era sonata. L'invasione barbarica pareva irresistibile; la selva re- gia di Compiègne mezzo distrut- ta, la delicata e pensosa Senlis 284 LICENZA mes^a a sacco, le vie di Chantilly gementi e stridenti sotto i convo- gli e i carriaggi, la bellezza viva di Silvia piagata e straziata ! Sapevo come sanguinasse il cuo- re del mio amico, laggiù, nelle trincee di Lorena. Ahimè, il feto- re dell'orda immonda aveva am- morbato l'aria argentea dell'Isola di Francia e fugato dagli ozii ombrosi le api e le cervie. Sapevo per quali radici, sensi- bili come I / suoi nervi, egli fosse profondato nel paese a cui ave- vano sorriso Maddalena di Sa- voia e Maria Felicia Orsina, nella terra disegnata secondo lo stile del gran Condé vincitore di bat- taglie e protettore delle Muse, nel bel dominio venatorio dove il vel- tro bianco di Enrico IV s'era ac- coppiato con le cagne del Cone- LICENZA 285 stabile Anna per produrre i più eroici cuccioli. Avrebbe egli potuto ripetere sor- ridendo : « Unì Condxo dum placeam, satts est. » Diceva egli: « Certo il fucile non mi pesa, né ni importa di stare giorni e notti fitto nella mota sino alle ginocchia. Ma non so vincere l'angoscia, se penso alla mia casa, ai miei libri, al mio padiglione so- litario nel mio giardino. Fu cal- pestato, insultato, insozzato an- che il nostro suolo ? Quanto della foresta fu arso? quanto del ca- stello fu guasto o rubato ? Il cuore mi si torce se penso al mio bel Vallese profanato. Sì, la piccola patria ci torce il cuore, se la grande ci solleva l'anima.... » Rividi le sue lacrime dure nei 286 LICENZA suoi occhi coraggiosi. Partii su la mia macchina veloce divorando le vie ancor torbide di battaglia, a traverso le campagne sconvolte dalle trincee imbrovvise, cosparse di bottiglie vuote e di proietti non scoppiati, gonfie qua e là di tu- muli freschi, irte di croci rozze, fatte ancor piìi lugubri dalle ca- rogne dei cavalli che tutte gia- centi drizzavano all'aria una del- le zampe di dietro sollevata dal ventre disteso e ripetevano quel gesto orribile per tutto il piano sino all'orizzonte. «La casa di Chiaroviso! La casa di Silvia la Romana! La foresta, il parco, il giardino, lo stagno, la fonte! » Il sole aveva rotto le nuvole, come i bei reggi- menti azzurri e rossi avevano rotto le orde bige. Subitamente LICENZA 287 s'intiepidirono i boschi e aulirono. Sentii la gola calda della signoria di Chantilly, anzi quasi mi sem- brò di palparla. 1 miei occhi cer- carono il tronco abbattuto, il mu- ro crollato. Tutto pareva incolu- me, tranquillo, sicuro. Il castello era tuttavia qual piacque al duca d'A umale : « un cigno dormente su l'acqua». La città era piìi mite e pili taciturna che mai. Il suo silenzio mi toccò il cuore come un'armonia sommessa. Certo, nes- suna branca di turco aveva rubato la divina tavoletta ove Rafaele giovine dipinse le Tre Grazie. « La casa di Chiaroviso ! » Era salva, intatta, affacciata con pace sul lastrico; e si sentiva, dalla sua freschezza, che il suo giar- dino le faceva da ventaglio. Prima mi parlò la giovine don- 288 LICENZA na della bottega accanto, con la gentilezza che dovevano avere le governatrici dei canarini di Ma- dama la principessa di Condé. Poi venne ad aprirmi la vecchia cuoca custode, una figura aperta e accorta del migliore stampo di provincia; la quale doveva aver ben cucinato in altri tempi al- cuna delle trote e delle carpe che il Conestabile Anna si piaceva di pescare dalle sue finestre. Rividi il vestibolo chiaro ; acca- rezzai i levrieri superstiti, che non avevano perduto se non il tono dei muscoli; visitai i libri bene ordinati nel padiglione stu- dioso; entrai nella stanza fami- liare dove in quella sera di lu- glio, dopo la corsa dei puledri di due anni, Marcello mi aveva mo- strato il suo cappotto blu ed il LICENZA 289 SUO cheppì di fantaccino. In ogni angolo della casa materna i pic- coli iddìi domestici respiravano a bell'agio. Allora mandai il messaggio con- solante, e portai via una foglia di edera, di nostra edera vivace se- guace tenace. « Nec recisa recedit. » A utunno piovigginoso e freddo ; fumante vendemmia nel tino smi- surato ; ore d' aspettazione e di so- spensione senza fine. Il recinto solitario di Dama Rosa fu requisito, riempito di be- stiame da macello, convertito in una tetra cloaca nerastra su cui si prolungavano i mugghi degli animali malati d'afta. Nella pra- teria d'allenamento, non piìi un fiore non piìi un filo d'erba ma 37 290 LICENZA una mescolanza nauseosa di bo- vina e di belletta, dove i manzi e le vacche stavano affondati sino al ventre, famelici, sitibondi, sche- letriti, così che a sera ci pareva di vedere su dal mucchio fumi- gare la febbre. 1 granai bassi erano pieni di bestie moribonde coricate sopra la paglia, nel buio e nel fetore. A quando a quando uno sbattimento di luce, per F apertura d'una porta lamentevole, rischiarava due fro- ge color di carne morticela, due occhi torbi dalle lunghe ciglia biancastre, un fianco pezzato e cavo. Tosso arcuato duna schiena falba, le mani villose d'un bovaro neltatto di strascicar per la coda una bestia spirante. I «lunghi musi» non avevano pili i loro giuochi mattutini, le LICENZA 291 /oro fantasie e follie su pel ter- reno soffice, tra le mura dorate dal sole o inazzurrate dall'ombra. Erano sempre condotti a guinza- glio pei sentieri della foresta gialli di foglie, o per le campagne ab- bandonate ove i branchi neri delle cornacchie crocidavano sopra i mucchi di letame color nocciuola come la corteccia del pane caldo. Andavano al passo, di mala voglia, tristi sotto i loro man- telli da pioggia, con le museruole bene strette, spesso ringhiando l'un contro l'altro, quando si davano noia, anca contro anca, essendo in troppi a mano di pochi gar- zoni inesperti; che i buoni canat- tieri erano anch'essi andati alla guerra e s'erano assuefatti a ben altri latrati. Nel parco delle le- pri non era rimasto se non una 292 LICENZA povera zoppa che scavava tutta- via la terra a pie del muro e sal- tava ostinatamente verso i pezzi di vetro fitti nella cresta, spe- rando di scampare di sopra o di sotto. Pomeriggi d'ottobre desolati sul vasto brago, quando ai muggiti dell'armento infetto rispondeva l'uggiolio lugubre dei cani op- pressi dal tedio! Rimanevamo a lungo nell'infermeria su le seg- giole rozze di legno, dopo aver ricucito un po' di pelle lacerata in una rissa di banco o aver cu- rata una zoppìa tenace o avere spennellato una gola gonfia. Ri- manevamo là per riprender cuore prima di uscire a rivedere Forri- bile morìa, prima di riattraver- sare il pattume con i grossi zoc- coli. Ascoltavamo la monotonia LICENZA 293 della pioggia guardando la luce diminuire su i vetri della finestra alta. Le quattro pareti imbian- cate parevano contenere un silen- zio quasi solido. Gli ultimi sac- chi di biscotto erano ammucchiati in un canto, quasi tutti frantumi e forse magagnati, che non co- stole né spigoli forzavano la tela bruna. Un odore di stantio si me- scolava all'odore della tintura di iodio. Fiocchi di cotone nuotavano in una catinella tinta di sangue. Fasce di garza sfilaccicate e mac- chiate rimanevano tuttora su l'im- piantito. Un moscone ronzava den- tro lo stipo socchiuso dei farmachi. Ogni cosa distillava la malinconia nel nostro cuore pesante. In una pausa della pioggia udi- vamo talvolta all'improvviso una rondine tardiva rasente la finestra 294 LICENZA gittare un grido che ci passava l'anima. Non potevamo piìi resi- stere alla nostra tristezza. Ci al- zavamo, uscivamo. 1 cani indo- vinavano e balzavano dai ban- chi disperatamente latrando. 1 latrati e i mugghi facevano un coro tetro nel gran chiostro di melma. Fuggivamo verso la stra- da di Versaglia, per avere una tregua. Là, una sera, incontrammo un carro che portava i resti d'un ve- livolo caduto : le ali rotte e lacere, l'elica schiantata, il motore con- torto e lordo di fango. Una se- conda macchina in corsa passò, sotto il riflesso giallo del crepu- scolo, portando due corpi inerti e insanguinati. Uno dei due era quasi informe. Un'altra volta, verso il tramon- LICENZA 295 fo, nel campo incolto eh' è tra il limite del bosco e il muro di cinta, vidi una greggia all'addiaccio, chiusa intorno da una rete rada, come in uno stazzo della mia terra d'Abruzzi. Le pecore s'am- musavano in un mucchio lanoso, già sentendo la notte. Ma sopra il mucchio turbinava uno stormo sperduto di rondini. Era un tur- bine nero d'angoscia, con qualche guizzo bianco. Erano le rondini sbigottite dal fragore della can- nonata, respinte dal rombo della battaglia, timorose di valicare la linea del fuoco. Ne avevo già ve- dute tante tremare su i fili del telegrafo o tramortire su i mar- gini delle vie solcate e risolcate dalle ambulanze. Ma quelle, piìi delle altre, mi attristarono. Volavano basso, rasente i dossi 296 LICENZA lanuti, per sentire il calore della greggia compatta, per beccare nella lana grassa gli insetti. Ave- vano freddo, avevano fame, ave- vano paura, e una grazia malin- conica che pareva toccare il cuore deserto dell'autunno. Non osavano sollevarsi né orientarsi né intra- prendere la dipartita. Temevano la sera, temevano la notte. Erano condannate a perire nell'Isola di Francia, a marcire come le f rondi, a non piìi rivedere le contrade serene. E s'aggiravano, s'aggira- vano senza posa nel calore esa- lato dal branco raccolto. Le pe- core non si movevano, non alza- vano i musi. Restavano in silen- zio aspettando la notte paziente, dentro la rete sicura. Alcuna ron- dine, a quando a quando, s'im- pigliava nei bioccoli, si dibatteva LICENZA 297 per gualche attimo, nera e for- cuta sul biancicore; poi si libe- rava e riprendeva a roteare. M' appressai con cautela. Una s'era intricata nella rete e non riusciva a districarsi. S'udiva il suo strido superare lo stridio fioco dello stormo disperato. A llora accorsi, per aiutarla. Sen- za farle male, tolsi dal laccio im- provviso i suoi artiglietti selvaggi. L'ebbi palpitante nella mano. Era tutta cuore e piuma. Vedendomi vicino, il suo stuolo s'era alzato nell'aria, lo feci un vóto nella mia tristezza segreta, e diedi la libertà alla messaggera. Ella, co- me se le avessi infuso un corag- gio subitaneo, partì verso austro, simile a una freccia che io avessi scoccata dal mio arco invisibile. E fu condottiero ; che tutta la 38 298 LICENZA compagnia la seguì alla ventura, senza più strida. A ndò a impigliarsi nei veli della notte, con la prima stella ? O riu- scì a valicare l'impedimento fra- goroso e a ritrovare la traccia della speranza? O Chiaroviso, in quel mattino dello scorcio di maggio, quando ebbi l'annunzio inatteso della vo- stra visita air infermo, nella pri- ma meraviglia, udendo gridare una rondine presso il davanzale veneziano già fiorito di gelsomi- ni, m' imaginai che fosse proprio quella delF addiaccio da me te- nuta nella mia mano, tanta fu la forza della vita che a me ritor- nava di laggiìi, dal piano che sta tra la via di Versaglia e la fo- LICENZA 299 resta di Meudon, dalla contrada di Dama Rosa. Subito il mio mattino d'infermo fu agitato dai fantasmi della vita energica neW aria libera, al nu- volo e al sereno. Col gesto abi- tuale, sollevai la benda di su l'oc- chio leso ffer osservare il tristo ra- gno nero che v ha tessuta la sua tela iniqua. Occupava esso pur sempre il centro, col suo addome rotondo, e non erano le cordicine né diradate né impallidite. Ma il mio corpo, vinto dai miei tortu- ratori amorevoli in tredici setti- mane di cure, parve a un tratto percorso dalla primitiva inquie- tudine muscolare. Sentii sul viso mezzo cieco risoffiare la brezza frizzante dei mattini d'allena- mento, quando la potenza ani- male si comunicava anche ai miei 300 LICENZA garetti e alla mia schiena. Sentii quegli atti e quegli sforzi riecci- tare i miei nervi affievoliti, come se una virtù, magica operasse in me una guarigione repentina e mi trasportasse sopra l'erba rasa tra i miei cani gioiosi. Le voci gettate da un'estremità della prateria verso V estremità opposta dove il garzone sguinza- glia la coppia, che alle voci parte bruciando il suolo come una dop- pia fiamma, per alfine gettarsi ai miei piedi e rotolarsi nel verde o solcarlo con la carena acuta del petto. Gli inseguimenti e le scal- mane per sedare le risse che se- parate ricominciano piìi da disco- sto; gli sdruci nel fianco, nel collo, nell'orecchia ; il frignare del ferito sollevato a due braccia e portato all'infermeria come un bimbo che LICENZA 301 ha la bua. Il giudizio ansioso del- l'ultimo galoppo, alla vigilia della corsa ; l'esame minuto dei muscoli, dei tendini, dei piedi, del respiro; le lunghe fregagioni sapienti, stan- do il levriere fra le mie due gambe, giii pei fasci induriti del dosso fino alle masse formidabili delle co- sce, con mani pieghevoli e vigo- rose, nate a quel mestiere che mal s' impara ; e la forza magnetica comunicata a grado a grado, co- me quella che il gran sonatore co- munica alla sensibilità del suo strumento ; e l'orgoglio di ricono- scere nel campione prediletto la struttura sublime di uno Stradi- vario, e la gioia di sentirsi quasi il liutaio di quella perfezione viva. 1 pasti sostanziali di rossa carne trita, data in porzioni esatte, con la mia propria mano abile a non 302 LICENZA /asciarsi prendere un paio di fa- langi dalla voracità che ingoia prima con gli occhi e poi con la gola. La visita notturna di banco in banco, il tocco lieve per accer- tarmi che il tartufo scuro o chiaro del naso sia ghiaccio, segno della tranquilla salute; il rimescolio della paglia compressa ; le coperte riassettate, riallacciate; l'esplo- razione attenta delle correnti d'a- ria e delle lanterne sospese; la carezza tenera per l'eletto, con in cuore l'augurio della vittoria. Scrivi che quivi è perfecta letitia. La sveglia impaziente nel giorno della gara; l' irrequietezza ner- vosa su i banchi di quelli che già sanno di dover correre perché hanno veduto sospesi alle infer- riate i bei mantelli da cerimonia distinti dai tre anelli d'oro e dalle LICENZA 3o3 tre frecce d' argento ; il governo minuzioso, le fregagioni toniche della miscela bianca, l'esame dei piedi tra dito e dito e il lavamento tiepido ; il pasto eccitante e leg- gero, la breve passeggiata nella corte per la comodità del ventre, una occhiata non vana in memo- ria degli antichi aruspici. La ve- stizione dei prescelti, resa difficile dalla loro frenesia, tra- il clamore e i lanci disperati dei prigionieri; la cautela nel distribuirli agli al- lenatori che li pongono dentro le automobili chiuse e li guardano; la gelosia di tutti contro i favo- riti che prendo con me nella vet- tura pili comoda. La pena e la tenerezza per il loro continuo tre- mito, per la loro angoscia, per i loro sguardi ora di belve impla- cabili ora di cortigiane innamo- 304 LICENZA rate. La loro smania di starmi addosso, di insinuarsi dietro la mia schiena, di salire su le mie ginocchia, di alitarmi in faccia a traverso la museruola. La comu- nicanza /profonda, fjer contatto e per imaginazione, tra la loro ge- nerosità e la mia, tra la mia e la loro fiducia, tra la mia e la loro attesa. Scrivi che quivi è perfecta letitia. L'arrivo sul prato della corsa, la prudenza nel moderare il balzo della discesa, la sbirciata ai ri- vali, il passo ondoleggiante delle coppie disdegnose sotto l'eleganza principesca dei mantelli d'ottima foggia. La terribilità che a un tratto s'accende nelle pupille dar- deggiate, quando appariscono le alte stuoie di paglia ond'è cinto il parco delle lepri d'Ungheria. LICENZA 3o5 L'entrata nel ricovero di legno a due scompartimenti, l'un de' quali pieno di uova, di balsami, di dro- ghe, di bevande, di lini, di lane. Il primo suono della campanella, che inaugura la prima gara; il battito concorde dei cuori negli animali a due piedi e in quelli a quattro piedi, divenuti quasi con- sanguinei ; il nome del mio cane gridato dal punto della partenza, ove brilla il panciotto rosso dello sguinzagliatore. Il passaggio so- lenne del campione lungo la fila dei conoscitori addossati al para- petto del campo ; il mio sforzo per serbare un viso tranquillissimo in cima a un ardore e a un'ansietà di gioco che mi travagliano come una passione indomabile ; la con- segna del favorito all'uomo che gli leva delicatamente la coperta 39 3o6 LICENZA pel verso del pelo, lo sospìnge per metterlo a paro del rivale già pronto, lo fascia col sovattolo re- sistente per meglio trattenerlo al primo escire incerto della lepre sul prato. Poi il precipitarsi della coppia occhiuta e zannuta, a lanci, mal frenata dalF uomo che cor- rendo la regge ancóra; lo scatto del congegno che apre i collari e dà la via agli inseguitori ; lo scocco della rapidità, dell'agilità, della ferocia, della bellezza, della mor- te, di tutto ciò che pone lo spirito della lotta all'apice del mondo. Lo spasimo del mio cuore, la con- trattura di tutti i miei nervi, sotto il dominio del mio viso impassi- bile; il soffio della resistenza e del coraggio, comunicato a tra- verso lo spazio, dall' immobilità silenziosa ; lo sguardo fìsso che LICENZA 307 non abbandona mai né i cani né il giudice né la sorte. Infine la preda afferrata in aria, mentre fa l'ul- timo sette; la coda tesa e rigida dell'uccisore, in quel prodigio ela- stico, usata come il timone del na- viglio che vira di gran forza; il gemito leporino, simile al suono di un oboe fesso, nel silenzio dell'aria grigia; V accorrere verso il vitto- rioso, col collare, col guinzaglio, col mantello ; le prime cure della bocca e della gola piene di sangue e di pelame; le parole del gergo di canile mormorate nell'orecchio eretto e vibrante ; il ritorno super- bo nel ricovero ; l'esame di tutte le membra, fatto in ginocchio; il cor- diale dato a cucchiai; il conforto magnetico dato con le palme delle mani e con la dolcezza della voce, . nell'attesa della seconda prova. 3o8 LICENZA Scrivi che quivi è perfecta letitia. Tutte queste cose, o Chiaroviso, o Nontivolio, tornarono a vivere nella mia vita, con gli sforzi, con gli scatti, con i ritmi, con i movi- menti bruschi o lievi ch'esse ri- chiedono. Il vigore dell'uomo sano si levò dal languore dell'infermo. Strappata la benda vile, stavo quasi per gridare: «Datemi gli stivali ingrassati! Datemi la fru- sta lunga! Datemi la pelliccia grigia ! » Era un mattino di corse ? Un mattino aspro di febbraio? Gli uomini, finita la guerra, ri- prendevano i giuochi severi? Ave- vamo noi incettato da padroni, in Ungheria, le grandi lepri rossa- stre di lunga lena ? Il fornimento del nostro parco faceva parte del bottino ? M'era giunta una coppia di levrieri illustri per le prossime LICENZA 309 gare? Chiaroviso e Nontivolio era- no i loro nomi? S'italianizzavano anche le glorie del canile da corsa. Buon segno! O amica, metto anche questo fra i miei sogni d'infermo che so- levo trascrivere nel buio sopra le strette liste di carta sibilline, non senza qualche sorriso nel suppli- zio. Voi, e la vostra svelta com- pagna Nontivolio, mi recavate non soltanto i ricordi di Dama Rosa, ma l'alito di Roma ripalpi- tante neir anniversario purpureo, ma l'odore antico e novo di Villa Medici, di Villa d'Este, di Villa Mondragone, ma sul fondo degli orti e dei ruderi laziali le vostre imagini di cacciatrici disegnate alla Fontana Belio da Benvenuto. Viaggio di alleate, pellegrinag- 3io LICENZA gìo di riconoscimento e di testi- monianza, voto d'amore e pro- messa di fedeltà, fresca ricerca di armonie. Ecco Chiaroviso che, in veste bianca e succinta, poggia il braccio sul margine d'una fon- tana di Villa Tor Ionia; la quale per la grazia di quel gesto le ap- partiene. Ecco Nontivolio che, nella Villa Adriana, lungo la sublime nudità di un muro, lascia trascor- rere la sua spedita eleganza emida di quella propria delle danzatrici negli stucchi delle Terme. Ecco Chiaroviso che, quivi, con una tu- nica liscia orlata di greche, al- larga le braccia in un interco- lunnio e tocca con la punta delle mani tese l'una e l'altra colonna striata, sapendo come la liscezza della sua veste convenga al va- lore delle scanalature. Ecco Non- LICENZA 3H tivolio, che sa con la voluta dei suoi capelli contornare i suoi occhi glauchi a ricordo di Atena quando si poneva in capo F elmetto chia- mato aulopide dai Greci, eccola nella Villa del Belvedere, contro la balaustrata di travertino, in- tenta a contemplare FAgro sino al Tirreno, e i Monti di Tivoli e la Sabina e il Sor atte d'Orazio. Ecco Chiaroviso che, ponendo il suo piede arcuato sul nono gradino del Teatro di Tuscolo, mormora il pili melodioso tra i versi della divina Berenice. O suore di Francia, in ognuno di quei luoghi indimenticabili voi vi accordaste facilmente col loro genio e sapeste comporre un ar- monia latina, come io non mi sentii straniero — nei giorni del ferro e del fuoco — a Soissons, a 3l2 LICENZA Reims, a Senlis, a Chantilly, tra le foreste e le correnti del Vallese. La grazia di Silvia, V ombra di Maria Felicia Orsina, vi accom- pagnava tra le statue e le vasche delle ville romane. E certo con voi ella ripassò le Alpi e se ne tornò nella sua casa a specchio dello stagno, e forse ora seguita a gettar l'amo nelle acque chete del vivaio, stando fra le sue don- ne, col suo cervo bianco giacente ai suoi piedi, « Legato son perch'io stesso mi strinsi. » Sopraggiunte nella intenebrata Venezia di guerra, nella Venezia delle altane munite, non piìi te- nuta desta dalle canzoni voganti ina dal grido delle vedette in guato su i colmigni, voi sembraste su- bito vivere nella sua ombra indi- cibile come nell'elemento stesso LICENZA 3l3 della vostra eleganza ; ne faceste il vostro mantello e la vostra baut- ta, con una invenzione estempo- ranea che stupì e forse indispettì le pili studiose frequentatrici del Liston. Strana cosa, per me monocolo tra due e due occhi invitti, ritro- vare a un tratto nelle mie gambe fiacche, su per i ponti disagevoli e lungo le fondamente anguste, il ritmo flessibile delle nostre lun- ghe passeggiate d'allenamento. Il passo bene accordato è uno tra i pili squisiti piaceri dell'ami- cizia. Sorridemmo tutt'e tre, del mede- simo sorriso, quando riconoscem- mo raccordo. E per alcuni attimi il lastricato della calle fu come il musco nel sentiere della foresta. Nontivolio quella sera portava 40 3l4 LICENZA una veste di tela rude color dì laguna quando intorno alla ba- rena il cilestro muore nel grigio; ma era tutta ricamata d argento, come una veste di Cenerentola trapunta di nascosto da una fata lunatica che l'avesse tolta dal chiodo dov'era appesa e poi ve r avesse riappiccata così mista di luna in fili torti. Chiaroviso invece portava una veste scura, listata di bianco intorno al collo, intorno alle maniche, dovunque toccasse la pelle, orlata di bianco in basso: una veste di lutto; ma il bianco v'era messo con quelVarte lieve che usavano i nostri vecchi vetrai neir orlare un vetro fumato. Amico a Nontivolio era il tremolar delle stelle nei rii colmi di marea alta ; amico a Chiaroviso era il riflesso dei rari fanali tra violetto e az- LICENZA 3l5 zurro. 1 muri, di lontano, sem- bravano paramenti di velluto tesi fin giìi nell'acqua come quei drap- pi che le gentildonne strascica- vano dietro le gondole. Non erano lisci ma a opera, densi d'una ric- chezza profonda e diversa che si scopriva a poco a poco. La coltre che un tempo ammantava il fe- retro del Doge defunto non poteva essere magnifica come quella ban- da di ombra nera. Mi veniva fatto di sollevarla con la mano come un cortinaggio, per lasciare le due ospiti passare di sotto senza chi- nare il capo. Ed ecco che, da presso, non era bruna ma rossa come il robone d'un procuratore di San Marco. La notte trasparente non spegneva il colore del mat- tone salso ma lo vellutava, ma lo rendeva quasi manevole. Avevamo 3l6 LICENZA voglia di toccarlo, di sentirne la morbidezza e il peso, come d'una stoffa che fosse sciorinata nel fon- daco d'un setaiuolo. Ma se tanto era mirabile il nero, il bianco era oltremirabile. La pietra degli architravi, degli sti- piti, dei gradini, degli zoccoli pa- reva imbevuta di lume stellare. La fosforescenza mossa dal remo nel rio pareva vi si propagasse e vi durasse. Valori e rapporti non mai trovati da alcuno piìi potente o esquisito colorista si succedevano con una sensualità che ci rapiva fino alla piìi alta ebrezza musi- cale, come se in una barca invi- sibile ci seguissero i sonatori di Giorgione. La stessa mia infermità mol- tiplicava per me gli incanti e gli inganni, confondendo la mi- LICENZA 3i7 sura delle distanze, prolungando o accorciando gli spazii, congiun- gendo o sovrapponendo i fanta- smi delle cose, per modo che io mi credeva gioco d'una Morgana notturna venuta dall'estremo li- mite delle lagune deserte a illu- dere la città spenta e il poeta se- mispento. Mettevo le mani innanzi per non urtare il capo contro i pi- lastri d'una chiesa quasi bianca e quasi bruna, e la chiesa si disco- stava palpitando come una vela chioggiotta tinta di emblemi neri. Un muro mi precludeva il passo nella fondamenta sonora, ed ecco si apriva davanti a me come una torma di pietre mobili, risveglian- domi il ricordo di quando m'ac- cadeva di traversare trasognato una di quelle greggi che passano 3l8 LICENZA innanzi l'alba per le vie di Roma, appunto intorno al tempo del sol- stizio. Così, di calle in calle, di campo in campo, di rio in rio, già im- provvisavo quell'arte che mi ser- virà ad attenuare il colpo della sorte. Fasciato la tempia dolente, bendato l'occhio estinto, già im- paravo quei movimenti accorti del capo che debbono sovvenire al di- fetto. E mi pareva cominciasse a spandersi nelle mie membra un senso delicato, non forse dissimile a quello che dirige i tentacoli. Ma sul Canalazzo la Morgana ombrifera faceva i suoi giuochi pili molli, dissolvendo la pietra, distemperandola nell'acqua, colo- randone la marea. Tal palagio era convertito in una vasta chiazza d'olio natante, ricco in colore e LICENZA 3l9 //; essenza come gli olii aroma- tici conservati negli otri d'Arabia. Tal altro ondeggiava immerso fino alla sommità, fino all'altana, co- me un edificio della città abissata che traspare nella leggenda ocea- nica. 1 sandali, le gondole, le peote, adunati in una zona d'om- bra, esalavano un respiro di sonno animale, respiravano come il nero della piuma e del pelame viven- te, come il nero dei cani demo- niaci di Donatella, che è il piìi bello e il piìi intenso del mondo. Talvolta Nontivolio tendeva verso di loro la sua lunga mano, come per voglia di lisciarli. Soffermati, stavamo in ascolto, se uno di quei grandi uccelli non togliesse il capo di sotto l'ala starnazzando o se uno di quegli smisurati béveri a un tratto non si tuffasse. 320 LICEITÀ Udivamo il fresco strepito della marea contro le rive levigate, mi- sterioso ed esultante come lo stre- pito del disgelo primaverile nel- Talpe, come la sinfonia remota e prossima che odono i navigatori polari quando il settentrione si disghiaccia. Era una gioia delle vene, un giubilo dei polsi, prima che dell'anima. Il crescente por- tava seco e travolgeva le stelle, mutando le costellazioni in infu- sorii, la Via lattea in fosforescen- za. Alzavamo la fronte per rico- noscere il vero cielo. Era il ve- spro? era falba? Veniva da oc- cidente, veniva da oriente quel chiarore? Innamorata del pallido crepu- scolo, la notte lo aveva preso nelle sue braccia per non lasciarlo mo- rire; e vivo da occidente lo trasla- LICENZA 321 fava a oriente, fra il tremore at- tonito degli astri. A quando a quando si soffermava ella per ri- mirarlo o per baciarlo ; e nell'ab- bandono lasciava cadere alcuno dei suoi veli costellati nel flusso che li rapiva per non più renderli. Avevamo dunque dimenticato il sangue? il bulicame che non re- sta mai? quell'altra marea che sempre monta e che per istelle travolge gli eroi? Riudivo su la città anadiomene l'allarme della sirena sinistra, il colpo di cannone annunziante l'in- cursione celeste, il fragore delle altane lampeggianti come torri di navi in battaglia. E mi ritornava di lontano l'ambascia che mi prese sul ciglione della strada ingom- bra di ambulanze laggiii, nella signoria di Clodoveo, quando vidi 4* 322 LICENZA mozzare la guglia di San Gio- vanni della Vigna. <( Dove andiamo ? » Sorgeva in noi un pensiero concorde. L'alpe scheggiata di Trento, le colline sfigurate di Verdun si levavano sopra ogni bellezza, di là da ogni armonia. Il sentimento della lon- tananza ci affaticava come un af- fanno implacabile. Non avevamo dentro al petto se non la piaga fumante della patria. Lo sguardo fraterno mi rendeva la mia fascia e la mia benda piìi care di ogni lauro, (f Dove andiamo ? » Non era piìi un passo di not- tambuli oziosi il nostro, ma dive- niva rapido e diretto a una meta. Passavamo quasi a tentoni le calli strette, i sottoportici bassi, i pic- coli ponti erti. Non vedevamo più le stelle ma i rari fanali azzurri LICENZA 323 ìncappe//afì. L'ombra non era più di velluto ma di non so che in- certo e incognito. La notte non portava piti su le braccia il dolce crepuscolo ma il destino di ferro. Ci arrestammo davanti a una grande porta nera che lasciava passare un poco di lume tra i bat- tenti socchiusi. Salimmo i gradini, penetrammo nel vestibolo. Fiu- tammo l'odore della carta umida, dei caratteri di piombo, delle mac- chine rotanti: l'odore elettrico, l'o- dore febrile del giornale che scri- vono compongono stampano gli insonni. Nel fondo, a traverso una inferriata, apparivano le facce smorte e sudaticce dei tipografi chini su le cassette, attenti al ge- sto ripetuto, sotto i crudi riverberi. Contro una parete era una sorta di armadio enorme rafforzato di 324 LICENZA chiodi a gran capocchia, come una postierla. Su e giìi per una scala (f ampiezza patrizia salivano e scendevano uomini frettolosi come se dovessero consegnare i loro fo- gli a staffette che li attendessero. V'era là quasi un riflesso della guerra lontana. «Il bollettino di Cadorna! Il bollettino di Joffre! » Quale do- veva esser letto prima? Non era soltanto la guerra d' Italia, non era soltanto la guerra di Francia. Era la lotta suprema dei Latini contro i Germani. Era lo sforzo di Roma e di tutti i suoi secoli. Su ogni altra fronte la batta- glia pareva sospesa, quasi che il mondo volesse assistere in silenzio alla meravigliosa vicenda. Italia! Francia ! Eravamo pallidi nel con- tenere il nostro fremito. A Coni LICENZA 325 Zugna, al Passo di Buole gli Ita- liani avevano sterminato le co- lonne nemiche respingendo F as- salto. Le pendici boreali diDouau- mont erano rialzate da cataste di cadaveri tedeschi, massicce come contrafforti, che i combattenti sca- lavano per venire a corpo a corpo su le creste dei carnai. Escimmo nel buio. Vacillavo so- pra il primo gradino, come cieco delle due pupille. Mi guidò leg- germente la vostra mano di so- rella. E sentii quanto di fierezza era nella vostra gentilezza. Mi sembrò che per voi. Chiaro- viso, il rimatore senese avesse cantato : È gentilezza dovunque è vertude siccome è cielo dovunque è la stella. Passammo per un sottoportico 326 LICENZA basso e vicino all'acqua come il tiemo impeciato di un burchio. Salimmo e scendemmo pel dosso d'un ponte rischiarato da un gran- de zaffiro. Entrammo in una calle cupa che pareva quel corridoio lungo da poppa a prua nei vecchi bastimenti di alto bordo, sotto a tutte le batterie, chiamato di alto puntale perché ci si andava ritti in pie. Le porte chiuse dei fon- dachi le davano pareti di legno dogato ; la mia vista ondeggiante le conferiva un moto di rullio, da banda a banda. V'era un odore forte di caffè, un odore di spezie, esalato dalla stiva su cui cammi- navamo. Si camminava e si na- vigava verso l'Oriente. /Rimane- vamo in silenzio, come chi è pros- simo air approdo e sogna il paese strano. Un altro grande zaffiro LICENZA 327 rischiarava il vano cTun arco pro- fondo e si rifletteva in un pavi- mento levigato. Vedemmo l'Orsa alta brillare in cima a un'alta cuspide, come in cima all'albero maestro. Le sette stelle fatali pal- pitavano al vento come se fossero trapunte nel drappo ceruleo d'una bandiera. « Sub ipsa semper. » La Basilica era là, tutta chiusa come il libro nella branca del Leone irato, cavernosa d'ombra, compatta, larga, come se avesse scorciato la sua altezza e prolun- gato il suo fondamento per meglio radicarsi nella città sua. Lampi di calore si succedevano senza pause dietro le sue cupole, come il battito incessante d'una palpe- bra di fuoco. Le colonne dei lunghi portici s'accendevano e si spegne- vano allo sguardo fulmineo, pa- 328 LICENZA rendo crollare e risorgere. E di laggiù, di tra le due colonne, ve- niva il respiro dell'approdo. Ve- demmo due Vittorie nel luogo dei due Santi stiliti. Allora, su la riva chiara come se Valba vi avesse già posato il suo piede d'argento, fummo ri- presi dalla voluttà della vita che era come la severità della morte. Allora sentii rifluirmi nel cuore l'onda nera che mareggia in quel Notturno da me significato su liste sibilline nelle notti della mia ce- cità e del mio insonnio. Il quale a voi manderò prima che si com- pia questa nostra estate di gloria, come a tutti i miei fedeli. E mi risalì dal cuore quella domanda che l'intona: «O sorella, perché due volte m' hai deluso ? » LICENZA 329 E credo che parlai della morte come si parla dell amore, al modo di quegli enigmi che ingannano per similitudine F interprete. Che potevano omai essere a me i pia- ceri e i giuochi, al paragone di quegli attimi d'altezza in cui m'ero fatto puro spirito in cima all'idea- lità del mondo ? Tutta la mia poesia si era risoluta in quell'u- nica melodia non udita se non da me, non udita neppure dal mio compagno eroico. Una linea ne- cessaria, che stava per compiere la mia imagine vera chiudendosi, era stata interrotta da un comando non comprensibile. Se a quelF ap- prodo mi fosse riapparito il mio compagno e mi avesse portato seco su l'ala «più alto e più oltre», senza ritorno, ecco che la mia imagine si sarebbe alfine conclusa. 42 33o LICENZA Allora NontivoUo, che dava un orecchio alle mie parole e l'altro alla sinfonia del crescente, disse : <( Epfjure la vita è bella ». Disse Chiaroviso: «Eppure l'I- talia è bella, ed è vostra». Ma bisogna morire per confes- sarla. « Confesserò te nella celerà » canta uno degli antichi salmi. Uno dei novissimi canta : « Confesserò te nella tua ala». ASPETTI DELL'IGNOTO. LA LEDA SENZA CIGNO. LA LEDA SENZA CI- GNO J- ^ RACCONTO DI GABRIELE D'ANNUNZIO J- J' J' SEGUITO DA UNA LlCxIiNZA J- TOMO TERZO FRATELLI TREVES EDI- TORI.MILANO.MCMXVI Proprietà letteraria, Riservati tutti i diritti. Copyright by Fratelli Treves, 1916. Si riterrò contraffatto qualunque esemplare di questa opera che non porti il timbro a secco dell'Autore. Tip. Tteres. LICENZA. 43 ^É i ^ ■^^^^^H 1^^ ^^K/8 ^^ns s ^S^ A Chiaroviso. Il giorno dopo, in quel giardino solatio della Giudecca, non respi- rammo tutta r Italia bella sotto la specie del profumo ? Era come uno di quei doni che figurano la copia delle contrade. Era come uno di quei doni che ac- compagnano il commiato, troppo ricchi, fatti per colmare e per stra- ziare. Una ricchezza selvaggia. 1 fiori a mucchi, le erbe a fasci. 334 LICENZA 1 rosai commisti alle ortaglie. Il fogliame frastagliato del carciofo confuso con quello corinzio dell'a- canto. Un arco violetto di pendute clamatiti, piii lieve d'uno sciame, lungo la muraglia ove ingrassano i cavoli glauchi, che sembrano rugiadosi di luna, tutti foglie in- torno il cuore simile a una rosa azzurra serrata e indurita dal gelo. Alti oleandri, non arbusti ma alberi, come nelle spiagge del Tirreno. Strisce di giaggioli come in vetta al muro d'un po- dere di Fiesole; macchie di roso- lacci come sul ciglio duna via laziale. La vite e i suoi viticci freschi, asprigni al gusto; il ri- bes e i suoi grappoletti di vetro lucido ; il fico e i suoi fioroni chiari come le nervature delle sue foglie arrovesciate dal vento; il susino LICENZA 335 e, tra le sue prugne ancóra acerbe, qualcuna già bionda di miele. 1 ciliegi carichi di vìscide e d'ama- rasche, sopra un pratello in dis- parte; e le scale rozze poggiate contro i tronchi, per cogliere le ciocche rosse che fanno pensare agli orecchi dei bambini ornati di quei sugosi coralli. 1 melagrani come candelabri accesi di fiam- melle che sono quasi fiore e quasi frutto, quasi lume e quasi cera. Le teste dei papaveri, alte come la giovinetta Proserpina, coro- nate dalla corona di nove punte, stillanti sopore. 1 garofanetti a mazzi, che i pii Veneziani chia- mano oculicristi e voi chiamate garofani dei poeti, quasi fatti a ricamo sopra una veste di seta verdina. Le viole del pensiero a tappeti gialli, bianchi, violetti; le 336 LICENZA roselline a corimbi, a grappoli, a capanne, a cascate; le rose d'ogni mese a siepi, a masse, a campi. Il rosmarino, la salvia, la menta, lo spigo, il timo, il serpillo, tutte le erbe odorifere, come in un orto domestico. La lupinaggine, il tri- foglio, Verba medica, l'erba sulla, tutti i foraggi, come in un recinto da pascolo. 1 limoni e gli aranci nei vasi di terracotta e nelle casse quadrate di legno dipinto, intorno alla vasca d'acqua verde ove sci- volano gli insetti gambuti e mar- cisce il fascio di vinchi gialli e la rana prova a quando a quando il suo flagioletto fioco. Dove siamo? Ecco un gruppo d allori nobili come quelli del Bo- sco Parrasio. Dove siamo? Ecco una fila di cipressetti compagni a quelli di Vincigliata. Dove siamo ? LICENZA 337 Ecco un pino emulo di quelli che albergano le cicale della Campa" nia e le cornacchie dell'Agro. Camminiamo per una ripa er- bosa, piano, senza parlare, te- mendo che si sveglino i grandi uccelli di paradiso accovacciati, che non sono se non una fila di tuie auree, a cui il libecciuolo ar- ruffa la piuma come increspa la laguna color di foglia daloè. /Rapiti, a un tratto, scorgiamo l'albore dell' A nnunziazione. Mille e mille Angeli sono inclinati da- vanti a mille e mille Marie? e ciascuno alza il suo segno di pu- rità ? È la via lattea dei gigli, il cammino senza labe. Tutti gli steli sono precocemente fioriti, avanti la festa del Santo. Maggiori di Chiaroviso, giungono alla tempia di Nontivolio altocinta. Tanto ar- 338 LICENZA genio vince l'oro del sole e crea un incanto lunare nel giorno. Dove siamo ? Laggiù la Prima- vera d'Italia e F Estate d'Italia alzano ciascuna il braccio nudo e congiungono in sommo l'una mano con t altra, come nei balli a tondo quando tutta la catena deve passare sotto il giogo delle due prime danzatrici. Ma le ospiti volgono per un altro cammino, con non so che umiltà inebriata, E nessun fiore fu colto. Il domani, verso sera, visitam- mo quel giardino bacìo che sta tra la Madonna dell'Orto e la Sacca della Misericordia, pian- tato dal procuratore di San Marco Tomaso Contarini fratello di quel cardinale Gaspare che fu can- LICENZA 339 dìdo amico di Vittoria Colonna e accomandò a Paolo 111 Ignazio di Loyola. Non è un giardino disordinato e copioso come quello della Giu- decca, mescolanza ardente di odo- ri e di sapori. È ricomposto con arte su i vestigi cinquecenteschi, segretamente architettato, simile alle sale e alle camere terrene d'un palagio di verdura ove abiti una Stagione educata come una gentildonna ma non schiva d'in- torbidare con qualche negligenza la sua grazia mite. A traverso le sue grate di ferro guarda la laguna di Murano e di San Michele, dove il Gran Bec- chino attinge Facqua triste con una secchia di vetro forata. Ha le sue vecchie mura, la sua vecchissima cinta, dove ogni mat- 44 340 LICENZA tane ha vissuto la sua propria vita, patito i suoi mali, veduto passare i fantasmi del tempo, ce- duto o resistito alla corrosione dei secoli e della salsedine, acceso o spento il suo colore. Uno ha tanto sanguinato che è come un mas- sello di grumi; un altro s'è tanto consunto che si nasconde dietro un ragnatelo ; un altro, divenuto in- sensibile, s'è indurito come la ro- sea cornalina. Altri hanno altri aspetti, altre infermità, altre ri- membranze. E il muro tocca Fani- ma come un racconto che passi per le pupille, scritto coi segni delle fenditure e delle cicatrici. Quando si vede qua e là riapparire tra il fo- gliame, s'ha pietà come della vec- chiezza denudata. Ma gli uccelli si posano su la sua cresta o sul ra- mo per cantare il medesimo canto. LICENZA 341 Quella sera lo scirocco ci fu favorevole. Inumidì il mattone e la pietra ravvivandole, come t an- tiquario passa la spugna umida su una lastra appannata di pa- vonazzetto o di cipollino per isco- prirne le venature e gli screzii. Nontivolio camminò col suo pas- so (( alla levriera » sopra un pa- vimento a quadri bianchi e rossi orlato di bossolo non piii massic- cio di un festone; e sotto f altis- simo tacco il marmo veronese ri- luceva come porfido suntuoso. Passammo di appartamento in appartamento, per gli anditi dei pergolati. Le pergole erano soste- nute da vecchie colonne, da vec- chi capitelli, da vecchie travi, ove la fronda pareva non anche rac- consolarsi d'aver portato e d'aver lasciato cadere il fiore. V'era un ri- 342 LICENZA cordo di cosa allegra, come quan- do il ramo seguita a vacillare dopo che Tuccello s'è involato. Entrammo in una sala di mu- sica. Gli arazzi erano verdi, verdi i tappeti. 1 sonatori di Giorgione se n'erano già andati, con i loro strumenti e intavolature. Uno ave- va dimenticato per terra un ar- chetto, o qualcosa che ci parve nell'ombra un archetto, non forse fatto di crini ma di bei capelli tesi. Come la nostra malinconia origliò su la soglia, il silenzio le ripetè le ultime note d'una ca- scarda detta la Contarina. Traversammo una fuga di ca- mere attigue, costrutte di bossolo, di carpino, di mortella, d'alloro, di caprifoglio. Qualcuno fuggiva dinanzi a noi, senza mostrarsi, di camera in camera. Avevamo LICENZA 343 l'aria d'inseguirlo, se bene andas- simo adagio. Inseguendolo, ci tro- vammo all'ingresso d'un corridoio basso, di fronda così fitta ch'era quasi buio come un cunicolo. Al- lora stesi la mano e dissi: « Non passiamo di qui ». Credo che voi credeste che fosse una precau- zione d'infermo malsicuro. Il cielo sciroccale fumigava non senza qualche sprazzo di vampa, come quando il fuoco piglia e non piglia nella catasta di legna ver- di. Volgemmo verso il pergolato mediano, simile a un portico di monastero; salimmo tre gradini umidi, ci trovammo dinanzi al cancello di ferro che dà su l'ap- prodo dalla parte della laguna. Ci affacciammo al cancello. E la ruggine fulva tingeva i guanti delle vostre mani appoggiate, fa- 344 LICENZA cendo parer più chiara la vostra biondezza. L'estremo ardore del tramonto s'era aperto un varco nella fumèa pigra e accendeva dinanzi a noi, su F acqua immo- bile, la muraglia claustrale che cinge l'Isola dei Morti. Tutta la palude e le altre isole erano fumo e ceneraccio. Soltanto l'isola fu- nebre e il suo cipresseto e le ali dei gabbiani spersi splendevano in quel silenzio che pareva lor sostanza e spirito. Lo splendore ravvicinava il ci- mitero, abbreviava il transito. La terra sepolcrale invadeva il giar- dino di delizia. Il mio compa- gno sepolto m'era prossimo, come quando mi chinai verso le sue scarne mani violacee, prima che il coperchio di piombo fosse si- gillato dalla fiamma che già rug- LICENZA 345 ffi'va e dardeggiava presso la cas- sa lunga come la sua spoglia. Allora il cuore mi dolse così forte che, per aver sollievo, dissi il suo nome, parlai della sua ani- ma, parlai delle sue ali e della mia promessa. Discendendo dalle nuvole peri- gliose, io solevo condurlo nell'orto contar eno. Il giardino gli pareva più bello in un'aria grigia, o sotto un cielo lavato dalla pioggia d'au- tunno. Preferiva un luogo segreto ov'era non so che pace dell' Estre- mo Oriente, quasi una cadenza della narrazione di Marco Polo. Là in una vasca bassa viveva un loto dalla larga foglia che gli sembrava la piìi dolce e ricca seta del mondo. Una grande e bellis- sima donna essendosi con noi ac- costata alla vasca, si vide che 346 LICENZA aveva l'altezza medesima dello stelo ; cosicché la pelle della sua faccia e del suo collo pareva ve- nire a gara, non senza compia- cenza, con la foglia solinga. Ma questa, sebbene immobile, rice- veva la luce pili misteriosamente, come una creatura divina riceve una cosa divina. Eravamo fermi in un attimo di felicità, senza desiderio. Forse il mio compagno cercava in sé le parole d'uno di quei sentimenti o concetti — gnomas breviculas — pe' quali Giacomo Boni un giorno gli aveva rivelato la grazia dei poeti d'Asia più. lontani. Spesso egli per gioco si piaceva di fog- giarne a sìmiglianza , con quel misto di sottigliezza e d'ironia ch'era il tono del suo spirito tra estranei. LICENZA 347 Allora la bellissima donna si volse verso noi troppo silenziosi; e domandò, con la gota contro il margine della foglia perfetta : « Chi è pili bella? ». (f Quella che non parla » rispose il misogino, placidamente. Non so se in quel giorno o in un altro, seduto sopra uno dei gra- dini laterali che scendono al can- cello dell'approdo, mi ripetè an- cora qualche pensiero e qualche sorriso dell' Estremo Oriente, guar- dando a traverso il ferro battuto l'Isola delFultima pace. Un filo di fumo azzurrino gli esciva dall'angolo delle labbra e, spinto dal vento, si avvolgeva al ferro, vacillava , e poi vaniva. Due farfalle bianche, di quelle che per ali hanno rapito quattro petali a una rosa di neve, esita- 45 348 LICENZA vano su F acqua color di fjerla e poi svolazzavano su per il can- cello come se volessero entrare nel giardino, ma pareva non osas- sero passare per i vani temendo di sgualcirsi. Una alfine si posò sul ferro rugginoso, come su una corolla inflessibile. Allora il mio amico si ricordò d'una di quelle imagini asiatiche di farfalle che gli aveva mostrate il romito del Palatino. E ripetè, in un velo di fumo, guardando con que' suoi occhi (f ambra ver- diccia quel bianco fiore di quat- tro petali fiorito dalla ruggine bruna : « Ha le ali ancor tremule, e già s'è posata ». Avremmo potuto incidere que- sta allusione alla sua anima nel suo cippo di pietra istriana, s'egli non fosse stato un guerriero, se LICENZA 349 nel suo corpo esiguo non avesse chiuso il rigore d'una volontà eroica, se la severità della sua sorte non avesse in noi annerato il ricordo del suo sorriso lieve. Quand'anche questa immensa guerra non altro facesse che ri- condurre l'uomo alla familiarità della morte abolendo quel falso limitare che sembrava separarla dalla vita e dalla luce, già do- vrebbe per noi essere lodata e benedetta. Un giovine granatiere della Bri- gata di Sardegna, tornato con una corta barba rossa da rabbi cre- sciutagli nella trincea intorno a un viso fermo e netto come se glie lo avesse ridisegnato a sanguigna l'intagliatore del Trionfo di Ce- 35o LICENZA sare, parlandomi d'un suo compa- gno che non aveva saputo ben mo- rire, mi disse : « Era venuto alla guerra, come tanti, senza aver pri- ma fatto la pace in sén. Disse que- sto con una piana semplicità. E, più delle parole, mi colpì quella sua aria tranquilla che non somi- gliava a una certa tranquillità usuale ma alla figura d'un senti- mento straordinario, all'espressio- ne d'un acquisto e d'un possesso pili preziosi che tanto di suolo ne- mico espugnato e occupato. Egli era rimasto solo per un giorno intero, in mezzo ai reti- colati austriaci, nascosto in uno di quegli imbuti che scavano nel- la terra le granate scoppiando ; e, mentre il nostro fuoco abbat- teva gli spineti e sconvolgeva il suolo, egli osservava tesattezza LICENZA 35 1 de/ tiro e pigliava rilievi imper- turbabile. Un altro giorno, come la sua gente già provata dall'artiglieria nemica era stata presa di mira per errore dalla nostra, egli solo con una bandiera in pugno, so- pra un'eminenza del terreno sco- perta, tra i due fuochi, ritto in pie, aveva persistito a far segnali finché i nostri pezzi non ebbero mutato bersaglio. Un'altra volta, di notte, su la montagna, in una di quelle glo- riose incamiciate ove eccellono la prodezza e l'accortezza dei no- stri fanti, s'era battuto contro una puntaglia austriaca con la baionetta impugnata come una daga e poi, sopraffatto, a pugni a calci a morsi, lasciando sul ter- reno la pelliccia à'brandelli ma 352 LICENZA riuscendo a svincolarsi e a rag- giungere i suoi per ricondurli alla mislea con un mozzicone di lama e con un largo riso ne' suoi denti di lupo tutti in sangue. Aveva per- so il pelo, non la ferocia. Ammalatosi di tifo e di polmo- nite nella belletta putrida della trincea, i medici avevano diviso in zone il suo corpo paziente, cu- randolo a contrasto, col freddo e col caldo. Una vescica di ghiac- cio sul capo, un'altra sul ventre; un impiastro bollente sul petto; la morte ai piedi esangui. Egli non si ricorda se non di una gran pace deserta, fra sole e neve, ov'e- gli restava immobile senza tempo, come una di quelle sentinelle perse che si considerano già sepolte. Era venuto per un'ora a ve- dermi, senza ansia. Della sua LICENZA 353 compagnia erano superstiti ven- titre uomini. Doveva ritrovarsi all'alba su l'Altipiano tremendo. Diceva : « Comando da una die- cina di giorni una compagnia spe- ciale della Brigata dei Granatieri: la compagnia degli Esploratori, Si tratta di ciò che noi chiamiamo « una f orinazione organica » da istruire particolarmente, con me- todi nuovi , con una disciplina nuova. Si tratta di creare un'ani- ma e un corpo, e di prepararli a sacrificarsi. C'era, in altri tempi, chi allevava le vittime, chi pro- duceva i tori bianchi e le pecore nere. Imagini un che di simile. Non so dove io abbia letto che tre cose costituiscono il sacrifizio : la vittima, l'oblazione della vittima e l'uccisione della vittima. Ima- gini una compagnia istruita in 354 LICENZA questo senso. Si va sempre fuori di notte a far esercizio, da mez- zanotte alle cinque, su i colli. Mi sono amicate le costellazioni, che conoscevo così poco; e son riu- scito a ispirare nei miei Grana- tieri V amore della notte. 1 soldati italiani, in genere, non amano la notte. Gli austriaci ne hanno qual- che pratica; ma anche in questa siamo per superarli. 1 miei Esplo- ratori, per i segnali, già imi- tano maravigliosamente i gridi degli uccelli notturni. Sono quat- trocento ottanta sceltissimi. 1 po- chi superstiti delFultima carnefi- cina vi son tutti. Gente che, a vederla, è più. alta della sua sta- tura vera. Dalle spalle in su, c'è l'aria della testa : il coraggio che non sopporta d'esser misurato, come la passione. In poco pili di LICENZA 355 dieci giorni, avevo formato intorno a questa compagnia qualcosa co- me un'aurèola. L'aurèola aiuta a vederci di notte. Nelle soste, so- levo raccontare anche le storie an- tiche dei Granatieri che si chiama- vano ! E la compagnia sta per essere sciolta, prima dell' immolazione, lo sarò rimandato a inquadrarmi, a ridiventare sagoma da tiro nella 46 356 LICENZA massa. Non mi lagno. Conosco la trincea. Per un mal di trincea, sono stato diviso in zone fredde e calde: esperimento di culture. Ma confesso che m' è, a un tratto, venuta la voglia di volare. Dopo tanta terra, un poco di cielo. Mi aiuti, se può. Conosco bene la zo- na di confine perché ho cacciato nella conca di Gorizia e sul Carso. Sono stato a Lubiana, a Gratz, da per tutto laggiìi. So la lingua, i dialetti, gli usi. Vista ottima. Peso, in allenamento, circa ses- santacinque chili. Ho molta pra- tica di motori a scoppio.... » Parlava semplice, con gesti so- brii. Il reale e V ideale avevano in lui il medesimo accento. Lo guardavo fiso, senza rispondere, con quella pupilla dove ora s'a- duna tutta la voracità del mio LICENZA 357 sguardo. Sentivo in lui l'amore dell'olocausto « in cui tutta la vit- tima si brucia, totalmente ad onor divino », « So che non cessa di pensare al Suo compagno scomparso » mi disse, con una bontà velata. Gli risposi: « Le auguro uno che a lui somigli ». E m'erano là, accanto, sopra lo sgabello, in mucchio, le liste di carta scritte nel buio, quando avevo gli occhi bendati, quando stavo supino nel letto, col torso immobile, col capo riverso, un poco pili basso dei piedi, solle- vando leggermente le ginocchia per dare inclinazione alla tavo- letta che v era posata. Cercai nelle rubriche. Trovai, e lessi. 358 LICENZA [La coppia virile, la coppia da battaglia, rinata nella creazione dell'ala umana, conduttore e fe- ritore, arma d^ altezza, arma ce- leste, maneggiata da una sola vo- lontà, come la duplice lancia del giovine Greco. Il compagno è // compagno. Non v'ha oggi al mondo legame pili nobile di questo patto tacito che fa di due vite e di due ali una sola rapidità, una sola pro- dezza, una sola morte. Il più segreto brivido dell' amore non espresso è nulla al paragone di certi sguardi che, nelle ore leg- gère, riconfermano tra i due la fedeltà all'idea, la gravità del proposito, il sacrifìcio taciturno di domani. Ora la morte, che doveva pren- LICENZA 359 c/ere i due, ne prese uno, un solo, contro il patto, contro l'offerta, contro la giustizia, contro la gloria. Alla cima della gloria, per la coppia alata, è l' olocausto : il sa- crifizio in cui è arsa tutta la vit- tima. La sorte del fuoco è la lor vera sorte. La loro ala rombante diviene il lor rogo fiammeggiante. Come nell'ottava bolgia, essi so- no due « dentro ad un fuoco », ma il fuoco non è diviso. Non parlarono in alto; non ebbero bisogno del- l'ora zion piccola per essere acuti; né parleranno nei crolli della fiam- ma. Come il volo era un silenzio ceruleo misurato dal canto ritmico della combustione, così l'olocau- sto si risolve in nero silenzio. 360 LICENZA La necessità eroica della cop- pia alata, quando sia sopraffatta, è l'arsione totale. Chi si rende prigione, e cede la sua ala, si può dire veramente che pecchi contro la patria, con- tro r anima e contro il cielo. Sven- turato o svergognato, perde ogni diritto alla gloria. Portato dal fuoco, il combat- tente aereo è un incendiario in vita e in morte. Beati i due compagni eroi le cui ossa irriconoscibili sono me- scolate nella barella come tizzoni fumanti!]^ Egli guardava di tratto in tratto la mia tempia fasciata, il mio oc- chio bendato, con un sentimento di dolcezza, ma senza proferire alcuna di quelle parole di com- LICENZA 36l filanto o di conforto che mi sono odiose e mi sembrano vilissime. lo notavo che i suoi occhi bruni erano straordinariamente ingran- diti e che la barba fidva intorno alla faccia ossuta gli dava quel- l'aspetto energico e pacato che do- veva avere il Purificatore quando ebbe cacciato dal Tempio « coloro che vendevano e comperavano in esso». Non v'era più nulla di superfluo nella sua carne come non v'era più nulla di vano nel suo spirito. Non un'oncia di va- nità né un'oncia di adipe. Il vero asceta nei due sensi, come quegli che aveva esercitato e preparato alla perfezione il corpo e lo spi- rito. Certi asceti cristiani parevano respirare veracemente in Dio, cioè non nell'aria comune, non nei 362 LICENZA vènti del mondo ; parevano avere i polmoni e l'anima adattati a una nuova condizione di esistenza. Si- mile egli pareva respirare in di- sparte, in non so che novità in- teriore, consapevole di sé stesso, e pure non piìi appartenente a sé stesso, presente e pur trapassato. Non era un uomo; era un'offerta. Non aveva pili nessun legame, fuorché quello che lega l'offerta al sacrificio. Era, nel pili alto signi- ficato ideale, il Volontario. Parlava semplice, con gesti so- brii. Stava là seduto, occupava poco spazio. Ma quella sua se- renità aveva qualcosa d'immenso e di profondo, lo mi sentivo al- l'orlo della sua serenità come su la riva di un mare raggiante. Di- nanzi a un uomo, ecco che avevo un senso sovrumano dell'uomo. LICENZA 363 Era quello un uomo pel quale la vita e la morte s erano confuse come il giorno e la notte si con- fondono nella zona delValba. Tuttavia le sue mani erano ro- buste e, nella lotta a corpo a corpo, avevano preso il nemico per la gola; forti erano i suoi bianchi denti, e avevano morso alla disperata il nemico; saldi i suoi piedi, nelle grevi scarpe mu- nite di chiodi, e avevano sferrato contro il nemico il buon calcio al- Vinguine. Pensavo : « Ecco un soldato d'I- talia ». Mi tornavano nella me- moria certe sere d'ottobre, lag giti, lungo risonzo, quando parlavo ai reggimenti in punto di mar- ciare verso la battaglia. Da prima i reggimenti non avevano se non un solo viso e un'anima sola, per- 47 364 LICENZA che io non vedevo se non la fronte allineata, a traverso la mutazione della mia voce. Ma dopo, rotte le righe, avvicinandomi, scoprivo in uno sbattimento d'ombra, in un riflesso di lume vespertino, qualche aspetto di sovrana gio- vinezza, qualche testa costrutta come quelle delle statue atleti- che di Delfo, qualche faccia il- luminata come quelle dei mar- tiri invitti, un che di ferino e di spiritale, un che di adamantino e di fervente, come nel volto del mio visitatore. Certo, i più belli erano venuti alla guerra dopo aver fatto la pace in sé. L'ho io fatta in me? V'è certo, per ottenerla senza sforzo, un dono di grazia, una ele- zione gratuita. Allora essa scende e ci sgombra di tutte le infezioni LICENZA 365 e di tutte le fermentazioni, come dei mali incurabili accadeva al tocco del guaritore. A llora l'iden- tità della vita e della morte di- viene un sentimento luminoso. Il pericolo — come da me fu scritto in un libro di prova ascetica — diviene Fosse della vita sublime. Mi guardo dentro; e confesso che quella qualità di pace, quella pura tempra interna, rivelatami dalla presenza di quel giovine amico, non mi fu concessa, ben- ché io mi sforzi di osservare la disciplina utile a conseguirla. Si pecca per ardore, anche in- contro alla morte. Dov'è la pace, non può essere l'ebrezza. Non si può dire che vi sia vero silen- zio in quello spirito che il levarne lirico solleva e infervora di con- tinuo. È necessaria una certa nu- 366 LICENZA di fa interiore, l'assenza delle ima- gini e delle melodie, perché l'a- nima imiti quella trasparenza del- l'alba « dove il giorno e la notte si confondono ». Ma, poiché la divinazione di una trasparenza tanto perfetta mi rapisce, io cerco il modo di accostarmi a quello stato che mi sembra oggi il più alto per colui che vuol donare tutto sé stesso, per il volontario della sua pro- -\ Paolo Stiva- pria libertà. Dal momento in cui nello caduto quel giovine si rizzò in piedi e nel Carso il 9 prese commiato per andare a vi- agosto 191 . ^^^^ come si va a morire, per an- dare a morire come si va a vi- vere, la mia aspirazione lo segue. Quando udii la porta richiudersi dietro di lui, stetti in ascolto. Il suo passo tranquillo risonava nel- la calle stretta allontanandosi. LICENZA 367 Nondimeno egli mi appariva in un modo misterioso, riempiendomi di fremito e d'anelito. Si pecca per ardore, anche in- contro alla morte. Considero le trasformazioni del «pensiero do- minante », da che stette su me, dal principio di un esilio che fu per me una specie di trapasso. Non pace ma ansietà; non fer- mezza ma ebrezza; non silenzio ma clamore. Il sangue sgorgante dal corpo ignudo del mio Seba- stiano aveva per lui medesimo la forza del vino fumoso. Il ritmo del suo canto era come il polso della mia febbre. Per essere a sé il suo cielo, egli voleva le sue fe- rite innumerevoli come gli astri. Era di sé martire e testimone. 1 suoi uccisori gli erano specchio. Egli medesimo era F uccisore e Fuc- 368 LICENZA ciso, il saettatore e il saettato. Cangiava la morte in voluttà, guardandola. Gli arcieri, ogni volta che lo ferivano, morivano in lui; ed egli in loro moriva. Per dire il suo rapimento nella morte, imitava il furore della vita. Come dissimile a quel giovine combattente dell'Alpe! Forse qualche vampa di quel- V antica febbre risorgeva in me, o Chiaroviso, quando vi parlavo della morte lungo la bella riva. Ritornava nel mio sangue l'appas- sionato aroma della Landa che versa la resina dalle mille e mille piaghe dei suoi tronchi morituri. E forse fu la consueta smania di liberazione, o una subitanea cu- riosità di confronto, quella che mi spinse a condurre verso la figura del martire inebriato due compa- LICENZA 369 gne non immemori di quel che già fui e di quel che già mi piacque. Il domani della sosta nelForto di Tomaso Contarini, approdam- mo a quella casa dei Contarini che fu dipinta e dorata da Zuane de Pranza. Passava un canotto veloce, di legno bruno levigato e leggero come quello d'un contrab- basso, con a poppa un Ammira- glio canuto, blu e oro, figura di cera in una custodia di vetro. 1 due filoni della scìa propaga- rono Fonda alle due rive del ca- nale pieno. Dall' improvviso rime- scolamento la gondola stava per essere sbattuta contro i gradini di marmo, quando col remo abile il gondoliere tranquillo la distaccò e la tenne discosta. Il fondo piatto diede tre o quattro colpi su l'acqua 370 LICENZA come la spaiola di Arlecchino. Poi rimanemmo gualche minuto a danzare tra onda e onda, ber una nuova scìa lasciata da un battello neir accostarsi al pontile vicino. E tutta la vita fu una cosa vana, fluttuante e inesplicabile. 1 pensieri si alleggerirono e si di- spersero. 1 sentimenti non ebbero pili alcun peso. Un sorriso eguale s'indugiò nella bocca delle due donne, il sorriso fisso e dipinto delle statue arcaiche dalle molte trecce, mentre s'attendeva che la danza terminasse. Le liste cor- rose del marmo di Verona bril- larono nel portico quasi che la salsedine vi avesse incrostato cri- stalli di sale e schegge di con- chiglie. Lo sciacquìo orlò di bava i gradini gialli come l'avorio dei dittici. Il palagio traforato ci pen- LICENZA 371 deva sul capo come fatto di refe da una Buranella malaticcia e paziente che tuttavia vi lavorasse di sul tetto con le sue mani da dogaressa. Anche le qualità della materia si trasmutavano come le facce della mente. Non sapevo più. nulla, e non v'era piìt nulla, fuorché maniere di dire, figure di musica, ambagi di linee. Non sa- pevo perché fossi là e non altrove, non in cima a una piramide, non dentro a un labirinto. Era come una dispersione attonita, come un annullamento stupefatto. Quel legno cavo e nero danzava sul nulla; e i colpi della spatola di Arlecchino risonavano a quando a quando nel vuoto delV anima. A Ifine mettemmo il piede su la pietra ferma. Avemmo il passo cauto, come dopo una vertigine. 48 372 LICENZA Aspettammo davanti a una porta che non si apriva. Il passato esi- ste ? Tornavo a quella porta dopo vent' anni. Vedevo, a traverso il battente, nella sala terrena, me chino, con Giorgio Franchetti e con A ngelo Conti, me in ginocchio come un operaio a commettere nello stucco porfidi e serpentini per rifare il pavimento di musaico. 1 riflessi del canale entravano coi soffii delFaria marina; e noi secondavamo col nostro lavoro quei giuochi della luce, orientan- do ad arte i tasselli così che cia- scuno pigliasse la sua diversità di chiaro e di scuro e tutta l'ope- ra fosse varia e sensibile, là dove un musaicista meccanico avrebbe tutto appianato e agguagliato in una politura inerte. A ogni pas- saggio di battello, uno strepito di LICENZA 373 risacca si prolungava su la riva, riecheggiato dal portichetto come da un antro. Avevamo nella conca dell'orecchio una melodia argen- tina, e quelle sillabe ineffabili che si creano a quando a quando nei riscontri del vento. Nei pomeriggi di scirocco, i marmi misti suda- vano come le nostre tempie, come le nostre mani; e quella tepidezza umidiccia pareva propagare alla materia la sensibilità della no- stra pelle e più. umanamente as- somigliare a noi la nostra opera. Divenivamo piìi lenti ma più ima- ginosi. Un orto vicino, di là dal muro coronato dai vecchi merli di terra cotta color « rosa di gruo- go», ci mandava l'odore vaini- gliato dell'oleandro nella polvere soffocante dei calcinacci. Perde- vamo a poco a poco la memoria 374 LICENZA di noi, attratti in non so che in- cantesimo delle cose. Vedevamo i piedi ignudi d'una creatura sco- nosciuta passare sul nostro lavoro nettato dalla spugna. Ed ecco che il custode venne ad aprire la porta, dopo vent' anni! E non osai guardarlo in viso. Entrammo. La mia ombra e quella dei miei due amici si di- leguarono pel pavimento, nello sprazzo di luce marina che lo percosse. Nulla intorno era mu- tato. Non camminai sul musaico, quasi temessi di calpestare le mie stesse mani. Camminai rasente. Erano tuttavia là i rottami, le assi, le lastre di marmo non se- gate, le scorticature della parete, le travature scoperte, la solitu- dine aspettante, F abbandono e il trasognamento, e quelle furtive LICENZA 375 larve grige vestite di ragnateli laceri, che abitano le case dove il nuovo fu demolito per ritrovare il vecchio. Il gran pozzo rossigno era là, nel mezzo del cortile, pieno di si- lenzio e di polvere come un'arca. Allora mi ricordai che venivamo a visitare un ospite moriente e immortale. E non mi tornò di so- pra al muro merlato T odore del- Foleandro ma quello della resi- na, quello dei pini piagati d occi- dente; il profumo della Landa, taulente malinconia della spiag- gia oceanica, Paroma dell'esilio. E, salendo la scala erta, riu- divo nelFaria il coro angelico di Claudio Debussy ripetere miste- riosamente il nome del Santo. E il mio spirito tremava di mara- viglia come quando per la prima 376 LICENZA volta sentì dalla profondità del dramma salire la rivelazione del- la melodia. Gli si ripresentò a un tratto revento immenso. « Dal vec- chio mondo che si gonfia e crolla, ecco balza la giovine Musica». Andavamo vacillando sul so- laio sconnesso della sala vene- ziana restituita alla sua vastità primiera. « Dov è ? » diceva Non- tivolio. « Dov è ? » diceva Chiaro- viso. Tavole pencolanti, pareti ra- schiate, usci senza imposte. Come sta ad asciugare il bucato dei poveri, stavano appesi a una cor- dicella per traverso alcuni tap- peti persiani di grande pregio. Attoniti, ci soffermammo a toc- carli. Erano vivi. Avevano ser- bato nei secoli la vita animale onde è pregna la lana tondata nel momento che la tingono i tin- LICENZA 377 fori d'Asia. Nontivolio passò la sua lunga mano in uno sdrucio. Ma che era quella bellezza fe- rita al paragone dell'altra ? Vacillavamo tuttavia sul solaio malfermo. Ed ecco un arco mar- moreo, l'apertura stupenda duna specie di tabernacolo glorioso, tut- to marmi venati e rosati, cui non tanto rischiarava l'alto spiraglio quanto il soffitto a melagrane d'oro. « Dov è ? » ripeteva Chiaroviso. Gli occhi non lo vedevano ancora, che la luce dov' egli viveva era una luce diversa da quella del giorno. « Eccolo. » Egli era diritto in piedi, dentro l'edicola. Era come in un ciborio di marmo. Era nudo, sol fasciato i fianchi sobrii ; gran- de, svelto, col petto quadro. Nella 378 LICENZA sua carne ì dardi parevano fitti con arte, come gli aghi crinali in una capellatura simmetrica. Il suo sangue colava parco, quasi lo ritenesse la durezza dei mu- scoli. Non riconoscevo il mio giovinetto canoro, rivolto verso f Oriente dei misteri sanguigni, turbato dalle lamentazioni degli Adornasti, dal pianto melodiante delle donne di Biblo. L'eroe scolpito dal pennello di Andrea Mantegna era di ve- race schiatta romana. Nella sua larga faccia, sostenuta da un collo robusto come un rocchio di co- lonna, la bocca dai piccoli denti schietti mi ricordava quella del giovine combattente partito per l'Altipiano. Dischiusa, non per dire una parola o per gittare un grido ma per bere Varia silen- LICENZA 379 ziosa, aveva non so che purità belluina, come se vi respirasse un selvaggio istinto. Confitto presso il piede saldo e attraversato dal- la cocca pennuta duna saetta, un cero sottile portava la sua fiammella e un cartiglio dov'era scritto : NiL NISI DIVINVM STABILE EST C(E- TERA FVMVS. Ma il divino lampeggiava e s'o- scurava, appariva e dispariva, presente e fugace, diverso e insta- bile, tra il fumo dalle mille e mille forme. Ripassando lungo F inferriata bassa della sala terrena, mi volsi a cercare l'imagine mia giovenile inginocchiata sul musaico. Si fa- ceva sera. Ripensai la mia fine- stra bassa, laggiìi, su FAusa, dove i miei compagni venivano a chia- 49 380 LICENZA marmi picchiando i vetri con le nocche. Erano giovani. Intrave- devo nell'ombra violetta i loro denti bianchi come quelli del San Sebastiano di Andrea Mantegna il Cesàreo. Ora bisogna che io mi umilii. Di- vini et humani nihil a mealienum.... Apro a caso il libro segreto della mia memoria, e mi chino sopra questa inquieta cenere d'una mia iornata arsa. [li mio generale — dalla cui rude bontà m'ebbi ieri in dono una sorta di alloro spinoso sra- dicato alle falde del sanguinante Podgora e trapiantato in un va- so di terra rossa — // mio ge- nerale mi avverte che stamani l'oratore castrense parla alla Bri- LICENZA 38l grata Caltanissetta accampata in Versa. Vado a Versa. È una mattina d'ottobre limpidissima, quasi tem- prata e forbita come un'arme nuova. Le strade sono già asciutte, stanno per ridiventar polverose. File di soldati, file di muli, file di carriaggi. La mia macchina grigia, snella, vibrante come una piccola torpediniera, fende i bat- taglioni che si aprono. Movimento insolito da per tutto. Si sente che qualcosa è nell'aria, che qualcosa di grande si prepara. Si fiuta già l'odore del sangue, come il fumo del mosto alla vigilia della ven- demmia. Arrivo sul campo. Cerco sùbito l'altare. È alzato in mezzo ai pioppi ingialliti, fasciato con le coperte di lana bruna in cui s'av-^ 382 LICENZA volge il sonno dei combattenti nella trincea. Talune sono così vecchie che mostrano i buchi. Ci si vede il sole a traverso. 1 soldati si schierano dalfuna e dall'altra banda, col fucile e con la baionetta inastata. Hanno un aspetto di vigore che cova Vim- peto. Appartengono alla Brigata siciliana, alla Brigata di bronzo. Taluni sono foschi come i Sara- cini dell' imperator Federico. Il loro capo grida i comandi con una voce dura. Sembra un vete- rano eritreo o libico, che abbia lasciato appeso alt arcione lo staf- file di cuoio d'ippopotamo. Il Duca arriva, con quel suo aspetto grave e un po' distante, ma semplice, tranquillo. Comincia la messa officiata da un prete robusto come uno zap- LICENZA 383 patore, che pronunzia le formule sacre con una bocca accesa spor- gente da una barba fulva. Il capo grida: «Inginocchio! » 1 soldati s'inginocchiano, pog- giandosi al fucile. Come nei duomi la preghiera è sostenuta dalle gu- glie e dai pinnacoli, qui oggi è infìssa nelle punte delle baionette. Una preghiera irta e aguzza. Volti inclinati di giovani imberbi, di uomini maturi, taluni belli come i pili belli esemplari del- r Eliade e del Lazio. Bocche sen- suali, bocche tristi. Lanugine bru- na o rossastra su mascelle risen- tite, su bazze tutt'osso. In taluni Finterò teschio traspare; e si pensa allo scheletro che attende entro la carne e che ne imita i gesti, ne segue le attitudini, prigioniero. Teste già toccate dalla morte, già 384 LICENZA segnate dalF Operaia indefessa. Una massa di carne da macello, un carnaio ben preparato. Il cannone tuona, verso il monte di San Michele. Un velivolo ne- mico si mostra alla sommità del- l'azzurro, tra le nuvolette degli scoppii. Quasi tutti gli occhi si sollevano al cielo lacero. Si vede il bianco ma non è il bianco della paura. Vi balena un sorriso sel- vaggio. Il sacrificio della messa s'inter- rompe affinché il Cappellano parli. Egli sale sopra una bigoncia che domina Fallare fasciato di lana rozza. Con una facondia senza intoppi, egli parla del coraggio. Il coraggio l'ascolta, armato e ta- citurno. Il cielo è d'una purità sublime, incurvato su FAlpe che le prime LICENZA 385 nevi imbiancano. Un tepore lento si forma dalla preghiera, sopra le baionette nude e verticali. Il fogliame moribondo dei pioppi tremola di continuo, oro nelForo. Il Carso è laggiii, laberinto di trincee e forteto di reticolati, quale lo conosco dall'alto. È certo che domani s'ingrosserà quel fiume caldo che vi si forma sotto il sasso. Non odo pili le parole delF ora- tore che ha già la bocca piena di saliva. Odo il canto della terra, odo la pulsazione assidua dei cuori che pompano il sangue del sacrifizio ; odo il silenzio di sot- terra e il silenzio che sta di là dair azzurro. È una grande ora, la piii gran- de da che abbiamo passato il con- fine e piantato la bandiera nel 386 LICENZA suolo redento. So che domani, a mezzogiorno, incomincerà lo sfor- zo, incomincerà la tremenda sin- fonia, assai piit vasta che quella dei giorni di luglio. Volti di soldati in una specie di trasognamento, che sembrano già posati su F erba funerea. L'ani- ma si curva su di essi. Il cielo s'affoca d'amore. Veggo il mio vol- to presso quei volti, agguagliato a quella bellezza. Qualcuno si curva, mi riconosce, mi chiude gli occhi. La marea si ritira di sotto alla volta del mio capo. Due sollevano il mio corpo per cori- carlo nella barella. Perché penso a quella pietra che un giorno sollevai nella fo- resta opaca e lasciai ricadere sbi- gottito, avendovi di sotto scoperta una vita brulicante e fuggiasca ? LICENZA 387 // Barnabita cessa di parlare. Il sacrificio della messa vien ri- preso dalVofflciante, con un su- surro lieve, con un moto di labbra, perché ciascuno oda nel cuore la parola profonda. e di guerrieri e di santi. Egli si volta a guardare un poco in su. Il vino vermiglio brilla neir am- polla, sopra la tavola delUalta- re ; e il riflesso batte nella spalla destra di Emanuele Filiberto se- gnando d'un segno luminoso il rozzo panno soldatesco del cap- potto ampio come una tonaca sen- za cordiglio. « Tenuisti manum dexteram meam, et in voluntate tua de- duxisti me. ...» Un giovine capitano, alto, snel- lo, adusto, si china verso di me e mi dice a bassa voce : « Per- doni, tenente ». Poi mi mette le dita nel collo e afferra una vespa che stava per pungermi. Ha la LICENZA 389 vespa viva tra il pollice e Vin- dice. Me la mostra sorridendo. Sorrido al ricordo della vespa che ronzava sul balcone di mia ma- dre e che mi punse il polso, al momento del commiato. Ferita di poeta! Vulnus hyblaeum. // crocidare fioco delle cornac- chie su gli alberi doro accompa- gna la fine della messa di san- gue. « Ite, missa est. » // sacrificio è compiuto. 1 soldati si levano in piedi, e hanno un poco di terra molliccia ai ginocchi. Presentano le armi, mentre il Duca si muove, seguito dai suoi ufficiali, per rag- giungere il luogo dove aspetterà che tutte le compagnie passino in ordinanza davanti a lui vicario della Gloria. Il sole monta al meriggio. Le ombre sono brevi. Nella gran luce ^90 LICENZA i corpi umani hanno un che di sparente, un che di labile. Quella massa di carne mortale scorre, su la prateria, non men lieve che la fuga duna nuvola. Il passo misurato risona, come una pesta sorda; ma sembra che, dal ginoc- chio in su, gli uomini sieno avvi- luppati di silenzio, d'un silenzio remoto come quello che s'incurva laggiìi su FAlpe bianca della pri- ma neve. La rapidità mi placa. Odo di tratto in tratto, sopra al rombo del motore, il mortaio tonare sul monte. Vado al colle di Medea per visitare V osservatorio di dove lo Stato Maggiore della Terza Armata assisterà alla prossima azione. Possiamo salire con F au- tomobile per la strada nuova. LICENZA 391 rischiando le gomme contro la ghiaia asprissima. Arriviamo al posto telefonico. 1 soldati si rico- verano sotto le tettoie per non es- sere colpiti dai bossoli, che i can- noni della nostra difesa aerea continuano a tirare contro un osti- nato uccellacelo austriaco. Do al- Vuffìciale di guardia alcune istru- zioni per la copritura dei vetri che luccicano e rivelano il posto air osservatore nemico. Entriamo in una specie di ridotto, tutto cor- ridoi bui come quelli delle Cata- combe. Passiamo per una stanza fasciata di legno che un pittore ambizioso orna di festoni, di ghir- lande, di cartigli, come per un convito augurale. Tutti questi ope- rai sono pieni di devozione, di ar- dore, di fremito. Costruiscono e or- nano il Belvedere della Vittoria ? 392 LICENZA Che spettacolo, dalla vetta del colle! La pianura dolce come un invito, i borghi d'un grigio di tor- tora, le città biancicanti, Gorizia condannata, i monti e i poggi già irrigui di sangue italiano e ric- chi di ossame quanto di sasso. Tutto è oro d'autunno, azzurro di lontananza. Intorno al velivolo è una corona di nuvolette bian- che, quasi serafiche. Il sole s'è fatto caldo come in maggio. 1 fianchi di Medea sono vestiti di acacie, di pioppetti, di cespugli. Ho voglia di stendermi su la pro- da e di dormire. Se mi stendessi, non dormirei. L'irrequietudine mi caccia. Rien- tro nel mio rifugio su l'Ausa, nelle mie due stanze basse che la ma- nìa di un cacciatore o di un or- nitologo paesano riempì di uccelli LICENZA 393 impagliati. L'occhio sfugge i pal- mipedi per confortarsi nelle ima- gini della Nike di Samotracia, della Vittoria di Brescia. Che farò per attendere il domani ? Ecco un messaggio. 1 marinai delle bat- terie navali collocate neW Isola Morosina confidano che domani a mezzogiorno sarà con loro il Lanciere di mare. Rivedo il sab- bione biondiccio, le passerelle su la mota, le torri di legno nasco- ste nella fronda delle guerci, la Sdobba azzurra, un lembo del Bosco Cappuccio, Ronchi, Dober- dò, la selva di Monfalcone, la Rocca, e Duino sul precipizio di rocce, e lo smottamento rosso di Sistiana, e laggiii Barcola, e lag- giii Trieste, tutta l'Istria cilestri- na. Le voci dei marinai e delle cornacchie tra gli alberi. A volte 394 LICENZA un gabbiano brilla neltaria co- me un velivolo. Due cavalleggeri guardano i fili del telefono, coi loro piccoli cavalli villosi tra la frasca. NelF osservatorio nascosto dentro la quercia, il comandante calcola sopra un quaderno, tra il goniometro e il canocchiale. Il sole brilla su i treppiedi di legno levi- gato. Il megafono, la grande bìic- cina di metallo, sporcata di verde, sta appeso al ramo. S'aspetta il primo colpo. « Pezzo uno, attenti! Castagnola, fuoco! » Le visioni, le apparizioni e i so- gni mi rapiscono lo spirito a ogni attimo se mi soffermo, se mi seggo, se mi riposo. Già i cavalli sellati sbuffano da- vanti alla porta. Monto Do ber dò, che sembra allegro. Vado su la strada di Palmanova, in cerca LICENZA 395 efun prato per galoppare. Ne tro- vo uno troppo piccolo, dove s af- fonda. Scopro, verso Muscoli, un fiumicello colmo che corre tra file di salici annegati fino a mezzo il fusto, dorati come la chioma di Ofelia. A un certo punto, non in- contro pili né carriaggi né am- bulanze né truppe. Una pace im- provvisa, in una ripa solitaria. L'acqua verde, la viottola umi- da, i salci doro, i pioppi d'un oro anche pili splendido; le erbe lunghe, le vermene oscillanti, un uccello misterioso che fugge per l'ombra, senza grido; il sentiero che si restringe sopra l'argine, fin- ché diventa impraticabile ; una fila di alti pioppi dorati, laggiù, dove non posso andare; e l'acqua che fluisce come un sorriso si- nuoso. 5i 396 LICENZA Soavità di questo paese riacqui- stato! L'autunno vi biondeggia come un ritratto del Palma vec- chio. Qualcosa di femineo e dì docile, da mettervi la mano per entro. Dov'è la guerra? Dov'è tutta quella carne da lacerare e da pestare, che stamani era ac- comandata dal prete al Dio degli Eserciti? Mi arresto là dove è impossi- bile passare col cavallo, tanto è folto l'intrico delle acacie. Torno indietro per le viottole erbose e fangose. La pesta sorda di Vai- vai, che mi segue, sembra attirare indietro la mia malinconia, in un modo musicale che non so espri- mere. Doberdò sbuffa, e a quando a quando tuba, roco come una tortora. Vado a cercare un prato che co- LICEXZA 397 nosco, di là dall'Ausa. Galoppo finalmente sul terreno soffice, so- pra le ombre lunghissime dei fu- sti, come sopra uno smisurato ra- strello. Il prato è segreto, tutto chiuso fra cortine di pioppi, silenzioso, dolce come chi ama arrendersi. Gli alberi ardono per le cime, co- me i ceri, pioppi e salici dai lun- ghi rami verticali: leggeri, aerei. Le ombre s'allungano finché toc- cano r altra estremità. Il cielo im- pallidisce. La mia malinconia si fa piìi musicale ancóra, misura- ta dal galoppo ritmico del ca- vallo. Ripenso, o meglio risento certi vespri fiorentini sul Campo di Marte, in vista di Fiesole glo- riosa, tra una chiarità di muri graffiti.... Il passato non vai più. nulla. SgS LICENZA né vale il presente. Il presente non è se non un lievito. Ho non so che volontà di mo- rire. Ascolto la melodia del mon- do, che significa : « È tempo di morire, tempus moriendi ». Esco dal prato come da me stes- so, col cavallo in sudore. Ritorno su la strada brutale, fra lo stre- pito atroce dei carri. Fumo, pol- vere, puzzo, ingombro, grida. E il cielo così arduo e tanto imma- colato ! Nella scuderia, l'odore della canfora, l'odore della miscela in- glese. Uno strano intorpidimento m'invade, nella posta, tra muro e tramezzo, su la paglia fresca, mentre il palafreniere fa la fre- gagione alla spalla di Vaivai. Nessuna volontà di tornare a ca- sa, di seguitare a vivere. Imagine LICENZA 399 d'una trincea profonda, sul Monte San Michele, nel Bosco Cappuc- cio, dove si muore, dove la morte percote e schiaccia di sùbito, dove il corpo diventa inerte come la mo- ta, come il sasso, air improvviso. Torno a casa. Tutte le noie della vita comune, di quelFaltra vita, sono là, su la mia tavola. Se devo finire domani, vai la pena di oc- cuparsene? Donatella è là, nella cornice di smalto, con i due le- vrieri favoriti, con Agitator e con Great Man, col fulvo e col nero. Mi riappare la prateria di Dama Rosa, il muro pallido, il granaio basso, il gioco dei cani nelFerba non falciata. Ore lontane, ore di solitudine, di ebrezza, di affli- zione. E la tomba della mia po- vera Dorset Red, laggiii, nell'an- golo, rilevata di zolle, simile ai 400 LICENZA tumuli dei soldati, che vidi ieri sotto i cipressi di Aquileia, al- r ombra del campanile venerando. E r immensa guerra che riempie i continenti e le isole, la gigante- sca forza nemica, la pulsazione tremenda della razza barbarica. Dio, Dio, solleva domani di mille cubiti la statura nostra! Dacci il sentimento della potenza, del di- ritto divino, deir imperio ereditato. « Gettiamo il fegato di là dal Carso e andiamo a riprenderlo. Questo bisogna. » Così diceva ier- sera un soldataccio che odorava di trincea muffita. Perché nessun canto mi esce dal cuore? Perché, quando per forza mi dispongo a comporre il canto aspettato, sono preso da una specie di ripugnanza che par vergogna ? LICENZA 401 Lo so, lo so, mia gente. Voglio sparire prima che la fede m'ab- bandoni. Ero intento alle solite cure atle- tiche dei muscoli, quando il mi- gliore dei miei compagni di terra ha picchiato ai vetri della fine- stra bassa: il capitano dal bel capo di negro impallidito, il mio pilota di tempesta, quello del piit arduo volo. Forse viene a offrirmi la fine eroica. « Al quale io dissi: Benve- nuto è il tuo nome. Rispose : Benve- nuto sarò io questa volta per te. » Mistero della sera. delF arrivo inatteso, della voce che suona su la soglia, tra Varia di fuori e l'ot- tusità di dentro. Ogni uomo è un messaggero. Bisogna aprirgli il pugno. 402 LICENZA Il benvenuto ritorna, quando sono pronto. Al primo vederlo, gli trovo la qualità dei sogni. Mi porta il vento alpino che passa pel valico, là nell'Altipiano dei Sette Comuni; mi reca l'odore della prateria soleggiata dove pa- scolano le vacche presso la loro ombra lunga, dove i fiori violetti del colchico si piegano verso la loro ombra lieve. Tutti i nastri delle vie legano la terra verde. Delle abetine non vedo se non le cime fitte come schiere e schiere e schiere di lance. Dell'alpe non vedo se non i denti che stracciano le nuvole, le groppe che s'acca- vallano, le ombre disposte come le nervature nelle foglie palmate... Il benvenuto mi parla, e non lo comprendo. Mi occupa V orecchio il tono del motore. Sto sul mio LICENZA 403 seggiolino di prua. Porto il bara- grafo legato a zaino su la schiena. Mi serro la mia cintura di sicu- rezza. Non ho davanti a me se non il bordo di zinco verniciato di bianco, simile a quello d'un leggerissimo palischermo. Non ho davanti a me se non l'agile mitra- gliatrice collocata sul treppiede d'acciaio. La fisso con la canna in alto. Sento sotto i miei piedi la fragilità dell'assicella di noce. L'aria mi penetra. Sono d'aria e d'anima. Vivo una vita perfetta. Il benvenuto mi parla, e io non l'odo. Passiamo su Gorizia, sotto una cupola di scoppii bicolori. Ora andiamo incontro alla sera, alla nostra sera. Il pilota abbandona le leve e allarga le braccia, come verso una donna bella, con una subitanea fantasia giovenile. Nel 52 404 LICENZA verdognolo e nel bruniccio i na- stri delle vie legano la terra. 1 denti delTalpe masticano l'oro del tramonto, lo ruminano, lo sfilac- cicano. Siamo sopra la pianura. Udine biancica nel violaceo. Il sole scompare nelle liste delle nu- vole, quasi spade che lo decapi- tino. Ora siamo a duemila e ot- tocento metri di quota. Si scende con un volo librato arditissimo. La prua dà di becco nell'ombra. Tutto il mondo gira intorno al mio sogno. La pianura si sol- leva e diventa cielo; il sole mi passa sul capo come se tornasse al meriggio; l'alpe danza una giga frenetica; le città e i bor- ghi sono lanciati nello spazio co- me sassi da una frombola tita- nica. Il sole, fasciato dalle liste d'oro, turbina. Un discobolo di- LICENZA 405 vino lo scaglia verso il fato dì domani.,. Il benvenuto m'indovina assente e mi riconduce a lui toccandomi il gomito, come quando dal suo posto nella carlinga, tra le nuvo- lette bianche e rosse dei tiri au- striaci, mi chiedeva il taccuino per scrivervi tranquillo : p- pa : una squadriglia formidabile, capace di gettare su Schcenbrunn diecimila chilogrammi di tritolo. Siamo tutt'e due sul banco, l'uno accanto all'altro. Ci sembra che ì nostri destini si leghino, si an- nodino. Egli è giovane, io non sono più giovane. E tutt'e due martedì, prima di mezzogiorno, potremmo esser morti, essere un pugno di carniccio carbonizzato, qualche osso annerito, qualche cartilagine rattratta, un teschio spiaccicato con qualche dente d'oro luccicante nella poltiglia. O forse abbatte- remo un velivolo nemico, il primo, e discenderemo nella gloriai Quando glie lo dico, i suoi occhi luccicano tra le palpebre rilevate come quelle dei bronzi arcaici. Si alza per andarsene. Ha i LICENZA 41 3 gitanti troppo stretti. È ancor lon- tano dalla vera eleganza. Ma i denti bianchissimi gli brillano, come lassù, nel nembo montano, su la tempesta impietrita dell'al- pe, quando mi voltavo verso di lui dal mio seggiolino di prua per fargli un cenno risoluto. Su la soglia, nella sera limpi- da, mentre la luna nuova brilla tra la fronda della ripa, mentre un ragazzo fischia sul tiemo d'un burchio ormeggiato, mentre là su la strada di Palma un cavallo nitrisce, mentre laggiìi il Trecen- tocinque dell'Isola Morosina rom- ba e rimbomba, egli riprende a parlare della sua amica bella e della furente ora veronese. Un Maggiore medico, dal treno della Croce Rossa, vedendolo passare, mentre l'infermiera fingeva di non 414 LICENZA conoscer/o e dissimulava l'ansietà, il Maggiore medico aveva detto: « Guardi che capitano giovine! Sembra un ragazzo », Il capitano soggiunge, con mo- destia incantevole: «M'ero fatta la barba». Se ne va. Va a desinare, poi riparte per Campofòrmido. Lo ac- compagno fuori. Lo seguo con lo sguardo fino di là dal ponte. Non ho voglia di andare alla mensa, non ho voglia di ritrovarmi in quella sala fumosa, piena di chiac- chiere; non ho voglia di riudire tra quel baccano l'ufficiale del- l'Intendenza parlarmi del « ca- vallo di carica » e del e il primo pelo dell'acqua e il mare muta colore. Mi volto verso il mio pilota con un gran gesto involontario. Egli si china dalla stessa banda e guarda, mentre F Albatro cala a poche braccia dall'indizio. E una chiazza oleosa, è la nafta del Jalea. Allora l'ansietà di scoprire il fondo mi curva sul bordo della 70 548 LICENZA carlinga, dove la mia gola ade- risce come a una lunetta di ghi- gliottina. Sono tutt'anima e tut- f occhi, tremante e lucido. In un battito delle palpebre mi riappare di tratto in tratto il viso del ca- pitano. Per lui mi fu confidato quel fascio di fiori. Quando mi sollevo per rivolgermi al mio pi- lota, sento nel calore del cofano il profumo della cedrina e delle rose bianche. Sorvoliamo in su e in giù lo stesso spazio. Ci risolleviamo, ci riabbassiamo. Proviamo e ripro- viamo. La trasparenza è mutevo- le, la luce è ingannevole. Il mare ci contende il suo segreto. Distinguo a una profondità di circa tre metri qualcosa di chiaro e di rotondo come una larga me- dusa. È la testa di una torpedi- LICENZA 549 ne. Siamo sopra lo sbarramento, contro il quale urtò nelV accostata il sommergibile. Quale istinto misterioso gover- na ora la nostra macchina alata? Quale spirito la guida ? Dentro di noi, fuori di noi, si fa un grande silenzio. Tutto è acqua e aria. Le coste hanno assunto una qualità eterea. Non le guardo ma le pos- seggo come orli luminosi del mio sentimento. Simile a una visione interiore, simile a una di quelle imagini che la poesia rischiara d'improvviso nella profondità della tristezza, m'apparisce in un attimo la tomba navale. Or dove sono quei fiori che si posarono su lo specchio funebre 55o LICENZA senza turbarlo? Come ritroverò i movimenti di quella sinfonia ve- spertina che pareva rendere a noi sensibili le nostre ali, quasi fos- sero appiccate ai nostri òmeri? Si volava a poca altezza, se- guendo il lido sinuoso, come se alla terra ci avvicinasse un au- mento d'amore. Ma ci sembrava d'essere, in verità, tra due cieli, tanto la faccia della laguna piìi e piìi prendeva simiglianza con la sera già su lei china a rimi- rarla. Tutto quel chiarore diffuso ave- va origine laggiù, sottomare, nel fondo del golfo. Non era un lume di tramonto. Era il lume di non so che spirituali zzamento operato dalla morte immortale. Chi mi raccontò un giorno la leggenda di quell'uomo solitario LICENZA 55« che /asciò lo sguardo sopra una imagine sacra lungamente e fer- ventemente contemplata? 1 suoi occhi continuarono a vivere senza sguardo, pur rimanendo aperti allo spettacolo del mondo. Ma r imagine sacra, la tavola dipin- ta, rimase arricchita dun mistero inimitabile come il Paradiso. Questa figura mi serve a solle- varmi verso il modo di quel sen- timento che s'era generato in me dalla visione del sepolcro immer- so. Il mio sguardo, rimasto nello specchio funebre, s'era convertito in una spiritualità senza confini, ond'ero alleviato e illuminato io medesimo fin nelV imo della mia sostanza. Allora, più che in alcun altra elevazione della mia miseria, co- nobbi come Fanima sia un eie- 552 LICENZA mento perpetuo, non legato ai cor- pi, non prigioniero, ma dai corpi attinto come il vaso attinge F ac- qua e la contiene e poi la river- sa. Ora saliva e fluiva essa come l' alluvione, smisuratamente accre- sciuta dalla carneficina che vuo- tava ogni giorno innumerevoli petti. Restituita in libertà dalVe- roismo, essa fluttuava sul carnaio trasmutando gli aspetti della terra e il senso del nostro respiro uma- no. Sopra tanta strage, sopra tanti cadaveri, non sentivamo noi una pili grande quantità d'anima nel mondo ? Piìi grande in copia, pili pura in essenza. Noi stessi n'era- vamo traboccanti, e ansiosi di versarla ad aumentare la piena. La sua potenza era per sforzare le ossa della stirpe futura, l'an- gustia carnale dei nostri figli; era LICENZA 553 per costrìngerli ad esternarla di continuo in grandi azioni, in gran- di invenzioni, in grandi sacri fizii. Il nostro volo ci pareva soste- nuto da una specie di rapimento. Il mio pilota abbandonava le leve senza che le ali vacillassero. Il palpito del fuoco operoso pareva attenuarsi nello spazio che Vestasi sempre piii allargava dentro di noi respingendo i limiti dei sensi. Respiravamo Fanima e la melo- dia dell'anima, e i pensieri eterni che i poeti traggono dalle improv- vise sue sublimazioni. Era come la beatitudine di un transito. Vivere era come morire, morire era come vivere. La nostra fragilità non era se non divina trasparenza. E il mio compagno mi toccò la spalla, come soleva ; e poi fece un segno verso occidente. 554 LICENZA Mi volsi; mi chinai a guarda- re; insieme ci chinammo. Avevamo di poco passato Caorle bianca come una città votiva d'ar- gento tra i suoi parallelogrammi esatti. La laguna era tuttora lag- giù come la perlagione d'un cielo vista a traverso le nervature d'una foglia macera. Ma nella parte già invasa dalla sera i canali appa- rivano di quel colore profondo che ha l'acqua intorno agli scogli pe- scosi. Una lunga fila di nere bar- che crociate venivano a rimorchio per l'ombra verdazzurra, lascian- do una scìa di santità e di si- lenzio. Era un convoglio di feriti navi- gante verso gli ospedali notturni che laggiù attendevano quel ca- rico di sangue e di dolore. Erano i feriti dell'Isonzo e del Carso. ì LICENZA 555 lacerati, i mutilati, i moribondi che scendevano per le vie quiete della laguna. Erano i feriti sor- ridenti, le giovinezze sublimi, i miracoli inconsapevoli. Qualcosa del loro sorriso ineffabile, quasi non so che freschezza del loro pa- timento, pareva rilucere nella san- ta scìa, solco d'anima, traccia spi- ritale. Il cuore ci tremava come quando eravamo chini a scoprire la tomba di ferro nel fondo del mare funesto. Ci abbassammo a volo, con un movimento che forse rispondeva a una volontà d' inginocchiarci. E i fiori della barena, gli asfodeli vio- letti dell' estuario, che in parte ave- vamo serbati per memoria degli eroi marini, io li sparsi su quel convoglio silenzioso e glorioso co- me il sepolcro sommerso, 7* 556 LICENZA E il mio più alto canto, o Chia- roviso, è il canto che quella sera io non cantai ma che son certo di riudire in me quando si farà notte e rincontrerò il mio pilota a fac- cia a faccia. Venezia, giugno 1916. INDICI DEI TRE TOMI. Tomo primo. Desiderio Moriar e la notte Pag. l La landa del tedio 6 La città dell'Etisìa 12 Le sonate di Domenico Scarlatti 23 La vita è un'opera magica 3i Ritratto d'ignota 33 F^e pastoie 38 Il divino Olore 39 L'osso dell'ala 44 Una bocca 49 Uno sguardo 53 Il carro funebre 58 Il pioppo e il melo 63 La sera silvestra 65 56o INDICI La casa ansiosa Pag. 67 La Leda infranta 7® Il pastore in trampoli 7^ L'amore flagellato 82 L'ora delle lampade 86 La seggiola e il tisico 9^ Il pastello nell'acqua 95 La gozzoviglia dell'amore e della morte 97 La Leda svelata io3 Il pitone compiacente ili Il cammeo bianco e nero 116 Il nepote dei cavalli fidiaci 119 Il giovincello e l'usuraio 123 I porci esorcizzati 126 La marea femmina l3o II lamento del morituro i32 L'Amore claudicante i34 Il giglio di Susa i36 La canzone di Caronte i38 Leda e i cigni i39 Munus funus ^4^ INDICI 56l Il levriere e il pettine Pag. 147 Il pitone in agguato l5i Il gallo della Landa i55 La Leda velata i56 Desiderio Moriar e la notte i58 Tomo secondo. L'ultimo giuoco l63 Il puledro vincitore 169 La collana della bella Simo- netta 171 I cani condannati 173 La campana di fuoco 178 Parigi in ambascia 179 La Francia eterna i83 La necessità di creare 185 La malattia liberatrice 188 La Dipartita 191 562 INDICI Imagini d'Italia bella Pag. 192 L'isola dai tre gigli 194 Parigi si purifica 195 Il ragno nel lauro 199 I fermenti del carnaio 200 I combattenti a piedi nudi 2o3 La mandria sul ponte 2o5 II bue flavo 206 Il teschio di San Dionigi 207 La torre di Carlo il Calvo 211 La nave incagliata 21 3 La fusione del mondo 2i5 Il rotolo della Delfica 218 Ecce sacerdos magnus 219 Il vico degli strami 222 San Severino 225 Il palmeto perpetuo 227 La preghiera di sangue 23o Il plenilunio della Marna 232 Il canile di Dama Rosa 233 I veltri guerrieri 237 La Diana caucasea 240 INDICI 563 L'alba del miracolo Pag. 241 La danza pìrrica 243 La muta in ascolto 245 Il sangue e la mota 248 La madre vorace 249 L'arnese di fango 254 La cittadella in palma di mano 258 La canzone carolingia 260 Kyrie eleìson! 262 Le due guglie 264 La freschezza delle ferite 265 L'Angelo dell'Ora 268 Il moncherino 269 La Cattedrale compiuta dalla fiamma 271 Magnx ossa parentis 273 L'Ulisse di Dante 277 Silvia minacciata 284 La casa incolume 287 L'armento infetto 290 La greggia e la rondine 295 Il ragno nero 299 72 564 INDICI « Scrivi che quivi è per feda letitia» Pag. 3o2 Le alleate pellegrine 3o9 L'ombra di Maria Felicia Or- sina ^^2 Il passo bene accordato 3i3 La notte di Venezia in arme 3i5 Il riflesso della guerra lontana 323 Il corridoio di alto puntale 326 Il Leone a libro chiuso 327 « Più alto e pili oltre » 329 Tomo terzo. Il giardino al sole 333 Il giardino all'ombra 338 Il loto e la bella 345 La foglia e la gota 347 La farfalla sul ferro 348 L'eroe tranquillo 35o INDICI 565 La coppia alata Pag. 358 Necessità dell'olocausto SSg Il volontario 362 La pace del combattente 364 Il pensiero dominante 367 La spatola di Arlecchino 370 Il musaico 372 La melodia del mondo 376 Apparizione di San Sebastiano 377 Cristo in Versa 38l La preghiera su le baionette 383 I facitori della Parola 387 II Duca taciturno 388 Vulnus hyblaeum 389 Il Belvedere della Vittoria 392 Le batterie navali 393 La chioma di Ofelia 395 Il prato segreto 397 Tempus moriendi 398 Il benvenuto 401 L'ala su Gorizia 403 Il vecchio giovine 407 566 INDICI Leda tra i condottieri Pag. 410 L'Ausa e il Lete 415 Il paravento e il parapetto 417 La marcia notturna 418 Il cavallo del Colleoni 419 Il canto della strada maestra 423 Il pane spezzato 424 L'invoglio di fronde 426 Il buio 428 Un'arte nuova 431 Lo scriba egizio 432 Il cartiglio 433 Scrivo su l'acqua 434 Il dono funebre 439 Il conoscitore 441 Una storia di canile 444 Le educande e i cigni 445 La Leda dorata 449 Il sorriso del Demonico 451 I cervi al laccio 452 II fiore del loto 453 La vigna di Murano 457 INDICI 567 Il sandalo marcito Pag. 461 La tavola rustica 4^2 I sette morti 4^5 L'ombra di Roberto Prunas 467 Un concerto di cannonieri 468 II càmice bigio 4^9 L'eco nella Sacca 47* Il tuono sul mare 474 Il genetliaco di luce 47^ L'abbacinato 479 I tre fasci mortuarii 481 La farfalla non parla 485 Le ghirlande calcate 487 II cimitero dei marinai 489 Le tombe di Roberto Prunas e di Luigi Bresciani 490 I gatti lugubri 494 La polizza sepolcrale 497 II vilucchio e la corda 499 Sul sepolcro di Giuseppe Mi- ragli a 5oo Le conchiglie nel fango 5oi 568 INDICI Gli asfodeli della barena Pag. 5o4 L'ala sul mare 5o5 Il superstite del Jalea 5i2 La partenza per la morte 5i5 Dal mare al mare 5l7 Il timoniere dalla barba rossa 5l9 Il boccone e il rantolo 521 Il sonno del capitano 525 Il portello di prua 527 « Sopporta, o cuore » 53o I sei naufraghi 534 II momento eroico 535 La corrente di marea 537 L'ultima prova 539 « Viva r Italia ! » 541 Il sale e il sole 542 Il lito adriano 544 Lo specchio esplorato 546 La chiazza oleosa 547 La tomba navale 549 La leggenda dell'uomo senza sguardo 55l INDICI 569 L'aumento dell'anima Pag. 552 II volo estatico 553 Le barche crociate 554 La scìa e il sorriso 555 A faccia a faccia 556 L'autore avverte che non potè cor- reggere le stampe di quest'opera. C,E.iTECaUTICt, AUrad Hafaar