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LIRICI MARINISTI

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BENEDETTO CROCE

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GIUS. LATERZA & FIGLI

TIPOGRAFI-EDITORI-LIBRAI I9IO

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PROPRIETÀ LETTERARIA

V

f:3 20S741

LUGLIO MCMX 25091

STIGLIAM - MACEDONIO - CAETAXO - MAXSO B.ALDUCCI - DELLA V.ALLE

TOMMASO STIGLIANI

I

LUNA IMPORTUNA

O del traterno lume a torto adorna, poi ch'in danno d'altrui l'usi e in oltraggio, Luna spietata, al cui improviso raggio l'ombra che m'ascondeva or chiara torna;

chi vieta i furti a te? chi ti distorna, quando a trovar vai Pane, il dio selvaggio; ch'abbi a troncarmi il mio dolce v. aggio, con lo splendor che l'atra notte aggiorna?

Lasciar ti possa il Sol per sempre oscura, che t'illustrava, e, fatta ai divi odiosa, ti discacci dal ciel l'eterna cura;

e tu giù vadi, ov'al demon sii sposa, qual fusti ognor; si che tua faccia impura più non debba agli amanti esser dannosa!

LIRICI MARINISTI II

IL DONO DEL FIORE

Splendea d'alta finestra il viso adorno, in cui natura ogni sua grazia pose ; qual, coronata di celesti rose, appar l'aurora dal balcon del giorno.

Io, che sempr'erro al car'albergo intorno, qual fanno intorno ad urna ombre dogliose, fermo era, quando, avvista, ella s'ascose, tutta vermiglia d'amoroso scorno.

E gettonimi in ritrarsi un fior dal seno, in atto che fu studio e parve errore; di che augurio prend'io felice appieno

che, forse, appresso al picciolo favore verrà l'intera grazia un di, non meno che venir soglia il frutto appresso al fiore.

Ili DURANTE UN GIUOCO DI VEGLIA

Ardisci! disse a me l'idolo mio, quand'agio gliene porse il gioco impreso; poi, di terger fingendo il lume acceso, nella forbice argentea il sepellio.

Ratto un tacito bacio allor cols'io, consigliato dall'ombra e audace reso; si che prima ubbidito ebbi ch'inteso quel che dir volse il mio dolce desio ;

che, rallumato il già morto splendore, la rividi più lieta e dissi meco: Quest'era certo il senso del suo core.

O benedette tenebre, voi speco siete a' furti dolcissimi d'Amore; per altra cagione ei finto è cieco.

TOMMASO STIGIJANI IV

A UNA ZINGARA

O maga egizia, che si audace e franca, benché ravvolta in povere divise, vai su le mani altrui, con varie guise, presagendo ventura, or destra or manca ;

vanne alla donna mia, di cui la bianca palma mirando e le sue righe incise: Questa mano le di' già si promise ad un amante in fede, ed or gli manca.

Poi soggiungi che '1 ciel di ciò minaccia grave vendetta. Che, s'a sorte crede tant'ella a l'arti tue, che pia si faccia,

dirò che i fiati suoi Febo ti diede; e, quel che forse a te fia che più piaccia, la man ti colmerò d'aurea mercede.

v IL CAGNOLINO DONATO

Quella candida man, che sempre scocca nel misero mio cor faci e quadrella, or un vii can, ch'ebbe più amica stella, teneramente lusingando tocca.

E quella amorosetta e dolce bocca, ov'ha per me '1 silenzio eterna cella, a lui non ride pur, non pur favella, ma in lui di baci una tempesta fiocca.

Deh, perché questi agli amator dovuti soavissimi vezzi, or da te sono concessi, ingrata donna, ai rozzi bruti?

Tu sai che chi Zerbin donotti , io sono : or perché a lui tu baci i membri irsuti? Si premia il donatore e non il dono.

LIRICI MARINISTI VI

AMORE E SPERANZA

L'ardor del nostro amore in te fu lampo, ch'arde improviso e subito trapassa; ma fulmine fu in me, dal quale scampo non v'ha, perché vestigia eterne lassa.

Pur, se non morto in te, ma ascoso è il vampo dall'onestà, che '1 copre e giù l'abbassa, fa ch'in ciò saggia almen, porgi almen campo a mia speranza, che non resti cassa.

Che, perché sino a qui dubbio timore che tu non m'ami più mi stringe e preme, temo che '1 temer mio spenga il mio ardore.

Non può dov'è paura essere speme, dove non è speme esser amore, perch 'amare e sperar van giunti insieme.

VII

IL SOGNO

Godete fra le doglie, accorti amanti, serbando sempre adamantina fede; ch'alfin, quando più s'ama e men si crede, v'è dato il guidardon di strazi tanti.

Mentre io dormiva, apparsami davanti la bella donna che '1 mio cor possiede, tante gioie e piacer fìnta mi diede, quanti vera mi tormenti e pianti.

Or siemi ella crudel pur come suole, poi ch'ho, malgrado suo, chi la fa pia ed a forza voler ciò che non vuole.

E tu, sogno gentil, ch'ov'io languia veder mi festi a mezza notte il sole, torna di novo e poi partirti oblia.

TOMMASO STIGLIANI Vili

NEL COMPORRE IL « MONDO NUOVO »

A Cesare Orsino

Or nemica fortuna or febbri ardenti, Cesare, m'assaliscono si spesso, mentr'io la chiara istoria in versi tesso del gran Colombo alle future genti,

che temo no '1 vigor cosi s'allenti, ch'io caggia un di, tra via, dal peso oppresso, e tante mie vigilie a un tempo istesso, tanti affanni e sudor restino spenti.

Deh, re del ciel, se t'è la vita amica d'un che non la consuma in ozio cheto, ma per pubHco prò l'usa e fatica,

non mi lasciar perir fin ch'io non mieto de' lunghi studi miei la dolce spica; e, poi, chiamami a te, che verrò lieto.

IX

L'INVIDIA DEGLI EMULI

Potuto ha ben con sue mal arti tante, mentre io vivo, l'invidia iniqua e fiera dal mio Colombo allontanar la schiera de' leggitor del secolo regnante.

Ma d'avermi però non fia si vante dramma scemato di mia gioia intera; di me non tien quella vittoria vera, ch'ella s'ha finta e presentata avante.

Che se mi loderan le lingue umane, quando udir non potroUe, e sorde e spente avrò l'orecchie alle lor voci vane;

godo oggi per allor, poi che con mente quasi l'etadi anticipo lontane e '1 mio futur onor mi fo presente.

LIRICI MARINISTI X

PER FLAMINIA CECCHINI

COMICA

scampata all'incendio del Vesuvio e recatasi presso Luigi XIII

Nel più bel lido de' campani lochi favoleggiava io già da palco altiero come Fortuna, che del mondo ha impero, le sue felicità consacri a pochi.

Ecco, ella, che cangiar fa nostri giuochi in vivo pianto e nostre fole in vero, fé' improviso tremar Vesuvio fiero e gittar dalla cima immensi fuochi.

Tal ch'a me, lassa, in un momento fue ogn'aver tolto ed ogni bene assorto dall'empia arsura e dalle fiamme sue.

Vendica or tu della mia sorte il torto, buon re di Gallia, e sien le braccia tue de' miei duri bisogni il dolce porto.

XI

IL RITRATTO Al cavalier Giuseppe d'Arpino

Ben si somiglia in parte, Arpin, la tua pittura a costei; ma può l'arte mal giunger la natura. Sempre resta minor l'ombra che '1 vero, e sempre cede l'opera al pensiero.

Molto sai, ma non puoi tutto '1 bello di lei veder cogli occhi tuoi, perch'accese non sei. Sol io, perch'amo, integra la guardo e l'ho tutta negli occhi e nello sguardo.

TOMMASO STIGLIANI

Pure, a me giova poco, senz'ingegno, il vedere; com'in te non ha loco, senza vita, il sapere; che tu la formeresti e non t'appare, eJ io la veggio e non la so formare.

Invan tu la ritrai ed io la miro invano; che tu gli occhi non hai ed io non ho la mano. Deh, potesti! cogli occhi miei minirla, o potess'io con la tua man ritrarla !

Che cosi fora il iìnto tanto bello ed adorno, che '1 ver resteria vinto ed il vivo avria scorno; ed avverria che l'imitata cosa fusse dell'imitante invidiosa.

Avria ciascun nui premio eguale al lavoro: tu lodato d'altrui ed io fuor di martoro; tu ne trarresti fama ed io diporto, tu n'avresti la gloria ed io '1 conforto.

Or poi che tu amante io son dipintore, si che quel bel sembiante tu veggia ed io colore; l'opra godrò ch'i tuoi pennelli ha stanchi, col pensier rifacendola ove manchi.

Di rifarla con rime anco direi vivaci, se foss'io si sublime fra i pittori loquaci, qual fra i muti poeti esser tu mostri ; ma pèrdon, co' tuoi lini, i fogli nostri.

LIRICI JIARINISTI XII

LA CANTATRICE

A Setlimia, figliuola di Giulio Romano

Chi non sa quanto puote l'umano canto in noi colle vezzose note de' bei numeri suoi, overo il canto angelico non crede, venga ad udir costei, che ne fa fede.

Ella, mentre, sedendo, va co' taciti avori di sue dita scorrendo gli altri avori sonori, canta in tal guisa e cosi dolcemente, che per l'orecchie i cor fura alla gente.

Or volanti passaggi, or affetti e sospiri, ora fughe e viaggi, or riposi e rispiri, ora suole alternar dolci durezze, ora suole intrecciar dure dolcezze.

Quando schiude un accento tremolante e soave, quando move un concento armonioso e grave,

quand'aito forma il canto e quan io basso, quando vivace il fa, quando il fa lasso.

E, quasi un rio corrente, qui mormorar appena, gemer altamente tu l'odi in nota piena; qui gir quieta e placida l'ammiri gorgogliar con tortuosi giri.

TOMMASO STIGLIANI

nuda spada in mano di snello schermidore girò mai per lo vano con si presto splendore, e si ratta e si lieve e si veloce quanto la bella e delicata voce.

Anz'ella, a chi sentendo ne sta l'alta dolcezza, non già una parendo, ma tre per la prestezza, fa all'orecchie talor l'istesso inganno che le lingue de' serpi agli occhi fanno.

Or quando mai più vanto si diede alcun d'udire nel para liso il canto senza prima morire,

com'oggi avvien a noi, mentre ch'udiamo questo spirto celeste e vivi siamo?

O nel velo mortale angelo dimorante, se 'n ciel si canta tale qual in terra tu caute, io qui, perché lassù ne possa girmi, voglio veracemente or or morirmi.

E s'ancor non è giunto alla fragil mia vita il destinato punto della mortai partita, far vo' si sante gesta e si giust'opre, ch'io merti, poi che moia, andar sopre.

Che, chi ben mira il vero, tu stata esser non puoi senza divin mistero qua giù mandata a noi ; ma a ciò ch'alzando a Dio l'umano zelo, facci la terra innamorar del cielo.

LIRICI MARINISTI XIII

IL SALUTO DELL'AMANTE

Ripigliate, augelletti, i vostri dolci canti. Già vien co' zefiretti la stagion degli amanti; e ne' prati è rinata la famiglia odorata.

Ride il fresco giacinto, il gelsomin nevoso; ride il ligustro, tinto di pallore amoroso; ride il narciso in sponda, ride la calta in fronda,

il soave amaranto, le pallide viole, il pieghe voi acanto, Clizia amante del sole, il giglio che biancheggia, la rosa che rosseggia...

Mancava a tanti fiori solo il fior di beltade. Ma eccol, che vien fuori, o Po, di tue contrade. Questa è l'alma mia diva, eh primavera viva.

Cosi Tirsi cantava a suon d'arguta canna, mentre Lidia menava gli agni fuor di capanna. E quella volse il viso e '1 premiò d'un sorriso.

TOMMASO STIGLIANI I3

XIV

IL CHIARIMENTO ALL'AMATA

Già cessa il metitor col torto ferro di córre i frutti del sepolto seme, e sotto l'ombra del fronzuto cerro

sta '1 gregge insieme. Fugge ogni fera gì' infiammati lampi, che '1 sole avventa dall'ardente faccia; alma v'è che per gli aperti campi dimora faccia. O bionda più della matura spica, ma più crudel della pungente arista, che qualor vai nella fontana aprica

traggi ogni \'ista ; per non venirne all'ombra ove son io, perché or dal camino arder ti fai ? infino a quando questo sdegno rio meco tei'rai? Dunque, t' han le bugiarde altrui parole potuta trarre a prestar compita, ch'io ami altra che te, mio caro sole, mio ben, mia vita? Spogliati, semplicetta, i rei pensieri, ch'io non seguo Licori, ancora ch'ella séguiti me, le mandai l' altrieri

la bianca agnella. Bench'egli è vero (acciocché chiaro appaia che falsata han l'istoria a te costoro) che fu ella ch'a me mandò dall'aia un pomo d'oro; su '1 quale era con lettera cavata scritta questa sentenza in corti accenti : « Giace per te Licori, empio, infermata, e tu '1 consenti ».

14 LIRICI MARINISTI

Lessila e tosto il dono a terra trassi. Vedi tu, dunque, com'hai meco sdegno per cosa, ond'io sarei che mi lodassi

più tosto degno ! Cosi parlava l'amator selvaggio, quand'ella, alquanto accoltasi la vesta, ridendo segui oltra il suo viaggio,

coll'urna in testa.

XV

LA LUSINGA AMOROSA

Dolce Lidia, Lidia bella, sporgi quella

bocca ov'abita '1 mio core; ch'io farò de' labbri bei poppe ai miei, vera pecchia di tal fiore.

Che insoffribile contento è ch'io sento?

Dimmi, Lidia: hai pur capanna; sei svelata al ciel giaciuta che piovuta su le labbra t' è la manna?

O pur nettare cibasti, curasti

poi la bocca rasciugarti? Ah crudel, tu non rispondi, ma confondi col baciar gli accenti sparti.

Grandinate, dolci baci, ma loquaci,

che il silenzio Amore annoia, e dir l'ultime parole sempre suole, quand' un'alma avvien che moia.

TOMMASO STIGLIANI I5

Or perché, se t'aggio in braccio, pur mi sfaccio? pur sospiro, idolo mio? per penderti dal collo fo satollo il famelico desio ?

Deh ! si come da natura l'onda pura

nella spugna entra e s'asconde; cosi entrarti cogli amplessi io potessi

nelle viscere profonde;

tal eh 'ognun di noi cangfiato di suo stato, io tu stessa e tu foss'io; come a Salmace addivenne, quando tenne il fanciullo in mezzo al rio.

Oual dolcezza indi saria ch'uom tra via te per Tirsi salutasse; e chi meco all'ombra siede, se mi chiede, sol per Lidia m'appellasse!

Dolce Lidia, Lidia bella, sporgi quella

bocca ov' abita '1 mio core; ch'io farò de' labbri bei poppe ai miei, vera pecchia di tal fiore.

l6 LIRICI MARINISTI

XVI

GUERRA INTERNA

Spesso espongo a tenzone, nell'agon de' pensieri, duo contrari guerrieri, il senso e la ragione. Ma essi, benché fieri, luttando amici fannosi, e gì' istessi della contesa amplessi in amplessi alfin mutano di pace. Questo nasce e si face perch'ambi, col toccarsi, soglion lor qualitati accommunarsi ; si che poco si pena che '1 senso è divo e la ragion terrena.

XVII

AD AQUILINO COPPINI

Coppini, io vo' di me novella darte. Talora, leggo in parte ciò che del ver fu dai due greci scritto; talora, mi tragitto dell'alme muse all'arte, ed o concepo in mente o partorisco in carte. Cosi di mezzo verno ognor sudando e allor più travagliando quand'avvien che più 'I vulgo goda il sonno o con Vener si diporte, moro in vita, per viver dopo morte.

TOMMASO STIGLIANl 17

XVIII

CONTESE AMOROSE DI FIORI

Il giglio ama la rosa, ed ella lui non sdegna; ma più inchina al giacinto, sol perché quello un « ahi » mostra dipinto. Ecco lite amorosa fra '1 giacinto ed il giglio. L'un dice: Io son vermiglio, com'è la bella sposa. L'altro dice : Io son pallido in sembiante, com' esser dee l'amante. Ella si sta tra l'uno e l'altro fiore ad udir con rossore;

poi lor concede a ciascheduno un bacio, quasi volendo dir: Nessuno escludo; siami il giacinto sposo, e '1 giglio drudo.

XIX

IL MONTONE VEZZOSO

Lidia, il bianco monton ch'io ti donai, oh quanto per suoi vezzi merita che tu '1 prezzi! Ecco, per roder ora la ghirlanda di ftonde, che la fronte gli onora si ch'un occhio gli asconde, egli ha in tutto obliato di pascolar sul prato; e, perch'ella è tropp'alta, erge il grifo, e s'affanna, e par che tenti la stessa fronte sua giunger co' denti.

Linci marinisti 2

l8 LIRICI MARINISTI

XX

IL GIUSTO MEZZO

Se con lunga fierezza i fidi amanti scaccia, la pregata bellezza

uccide in quei la speme e i cuori slaccia. E s'ella ai primi preghi avvien, senza contesa, ch'addolcita si pieghi, fa in breve intepidir la voglia accesa. Dunque, s'usi in amore troppa crudeltà troppa grazia, perché l'una dispera e l'altra sazia.

XXI

GRADAZIONE CRESCENTE DI FELICITÀ

Felice chi ti vede! Più felice a cui è dato di parlarti ! Felicissimo quel che può toccarti! Semidio chi ti bacia il bel sembiante! Dio chi ti fa il restante!

TOMMASO STIGLIAMI 19

XXII

SONETTO NELLO STILE DI MODA

Parodia.

Quasi viva felluca ed animata, naviga l'aria coi pennati remi il baldo nibbio, e scorre indi e boemi e l'arrostita zona e l'annevata.

Poi giù piombando ov'il terren s'imprata, acciocch'ivi a sua fame ésca vendémi, rape alla chioccia un de' suoi vivi semi, fatto corsar della progenie alata.

Allor la rauca madre arruffa i cigli e invan croccia al volante involatore, che '1 picciol Ganimede ha negli artigli.

Cosi non meno a me rapi il mio core; poi, volando, carpi lontani esigli il gran nibbio dell'alme, io dico Amore.

xxni

IL BIDELLO DELLO STUDIO

nel chiedere la mancia agli scolari

Sono il vostro bidel, che m'appresento per la colletta a voi, larghi scolari. Non appiattate sotto '1 manto il mento, non vi mostrate dell'avere avari. Questo ch'ho in mano è un bacil d'argento però convien che d'or siano i danari. Su, dunque, se larghezza in voi s'aduna, gettate alcuna stella in questa luna.

MARCELLO MACEDONIO

I

LE BUGIE NELL'AMORE

Se '1 petto ha cristallino e mostra fòre le viscere più interne e più celate; se nudo è sempre e nulla asconde Amore, chi fa bugiarda voi, che tanto amate?

Quanto con bocca angelica dettate scrivo in diamante e serbo in mezzo al core. O divina bellezza, or non vogliate il tempio in cui v'adoro empir d'errore!

acciò che l'alma a voi devota ed usa a dar incensi al vostro altare adorno, che miracoli tanti or di voi crede,

non abbandoni il vostro culto im giorno e, da fallaci oracoli delusa, perda a l'idolo suo l'antica fede.

MARCELLO MACEDONIO II

ALLA DAMIGELLA DELLA SUA DONNA

O de la Luna mia seguace stella, che fai terrena a le celesti oltraggio, anzi, o splendor, che sei d'un Sol messaggio, d'amoroso orizzonte alba novella;

l'alba, del sole orientale ancella, gli prepara il bel carro al gran viaggio, e tu, d'un Sol ministra, appo '1 cui raggio par l'altro agli occhi miei spenta facella,

tu ne dispensi il vago lume altero ed in cielo d'Amor l'aggiri intorno; io, che tanto bramai, da te lo spero.

Fa', tu che puoi, che Sol cotanto adorno, ch'or co' begli occhi alluma altro emispero, al mio si volga ed a me porti il giorno.

Ili VIAGGI ED AMORE

Peregrino, cercai stranio ricetto: vidi antica città cui nulla è pare, già regina del mondo, ed anco appare agli occhi altrui d'imperioso aspetto.

Vidi Adria tempestoso e nel suo letto tra' venti insuperbir machine rare, che si fan base cristallina il mare, e, col ciel confinando, han lui per tetto

E s'io poggiassi a le celesti piagge mirando il Sol nel suo palagio adorno e la magion de l'alba e de le stelle,

certo direi che son rive selvagge, begli occhi, e pur farei di ritorno a vagheggiar in voi forme più belle.

LIRICI MARINISTI IV

LE VESTI DI VARI COLORI

Quei tuo' vaghi colori onde vai tanto altera, variando or le bende ed ora i manti, in te son quasi fiori, cara mia primavera, che togli dal mio cor verno di pianti. Or fingi gli amaranti, or ne mostri le rose, or viole ed or gigli dolcemente somigli ne le felici tue spoglie amorose; manca a si bel maggio d'un vivo sole il raggio.

Torbido il ciel sovente mostra in segno di pace fra le nubi dipinte un arco vago. O corpo adorno, ardente, tu se' cielo verace,

che de l'altro io conosco in te l'imago. Ed oh, quanto m'appago, mirando che ti cinge con si vario colore! Si consoli il mio core, che ne le spoglie sue l'iride pinge questo ciel di beltade, e promette pietade.

Fu già de' saggi avviso che forman la bellezza i vivaci color d'eguali membra; però l'amato viso ha cotanta vaghezza, quindi armato ed ardente ai cori sembra.

MARCELLO MACEDONIO 2$

E costei, che rimembra

sua bellezza infinita

farsi da color vari,

or negli abiti cari

diversa di color pompa n'addita,

e mostra il bello, accolto

ne le vesti e nel volto.

Dal mondo tenebroso i colori hanno essiglio, si veggon da noi senza la luce ; l'azzurro e il verde, ascoso, e sepolto è '1 vermiglio, alor che l'ombre sue notte n'adduce. Se quel Sol che riluce in due pupille ardenti nascondesse i be' rai, i colori più gai

certo fòran per me languidi o spenti. Or, perché sono in lei, son belli agli occhi miei.

Voi, mirabili ingegni, che movete i pennelli per imitar ne l'opre sue natura, oh che novi disegni, oh quai colori belli usa costei che l'arti vostre oscura! E, pittrice e pittura, ella fia che vi mostri come ben si dipinga, qual color più lusinga. Imparate da' suoi temprar i vostri, che talor pingereste qualche forma celeste.

Vo rimembrando spesso l'animai che si crede viver digiuno o sol d'aria cibarsi;

24 LIRICI MARINISTI

scolorito in se stesso,

dovunque posa il piede

suol del color che gli s'appressa ei farsi.

Ed io lo cor mutarsi

a que' colori sento;

questa cangia le spoglie,

ed io cangio le voglie,

e n'acquisto or dolcezza ed or tormento,

e mi discopro in fronte

novo camaleonte.

Occhi belli ond' io ardo, occhi crudi ond' io moro, poiché si vaghi di colore séte, a me girate il guardo, che con altro lavoro altro nel viso mio color vedrete. Ch'io son ghiaccio direte, se ne la fronte essangue la pallidezza ha loco; direte che son foco,

se mi fugge dal cor nel volto il sangue. L'uno e l'altro mi viene da voi, luci serene.

Fia vantaggio, canzon, ch'io ti nasconda; che mal con fosco inchiostro si bei colori hai mostro.

MARCELLO MACEDONIO

25

DISFIDA DELLE ACQUE E DELLE AURE

ACQUE

AURE

ACQUE

AURE

ACQUE

AURE

Cedete, aure volanti, cedete a l'acque belle, che vi son pur sorelle, gli alteri vostri vanti.

V'adornan molti fregi, acque, ma quando ardite entrar con l'aure in lite, pèrdono i vostri pregi.

Noi siam tesor del prato, argento fuggitivo, zaffiro molle e vivo, diamante distillato.

In petto a le montagne filze di perle fine e serpi cristalline sembriam per le campagne.

E noi, spirti vitali, che scorriam gli elementi, quasi angeliche menti, con invisibil ali,

figlie de l'aria pura e nunzie de l'aurora, e compagne di Flora e sospir di natura.

Noi degne che ne rubi il Sol di man dal mare, e n'alzi a trionfare sul carro de le nubi.

Noi possiam da' suoi raggi i corpi altrui schermire, quand'ei più scalda l'ire nei lunghi suoi viaggi.

26

LIRICI MARINISTI

ACQUE Noi, sangue dei terreni,

latte clie nutre l'elei, nettare de le selci, manna degli orti ameni; noi, vita d'ogni stelo e specchio ai boschi folti e pittrici dei volti e ritratti del cielo.

AURE Noi, penne degli odori

e linguaggio d'aprile e musica gentile a cui ballano i fiori ;

e noi, fiato del mondo, che spira al spirar nostro: che più ? flagello vostro, che vi scote dal fondo.

ACQUE Ben séte ingiuriose,

aure mormoratrici, aure vendicatrici; ben séte ingiuriose.

AURE Deh, garrule, tacete,

voi che già cominciaste, voi che ne provocaste, temerarie ben séte !

AURE à Or cessino gli sdegni,

ACQUE ^ si cerchi vittoria; ma sia pari la gloria di si congiunti regni.

MARCELLO MACEDONIO VI

INVOCAZIONE ALL'AURORA

Niso, a cui già la greggia chiedea belando i rugiadosi paschi, vedendo tutto ancor d'ebeno il cielo, se non che già d'avorio si facea l'orizzonte, or premea la sampogna onde con soavissimo lamento fuggia musico vento, or l'alba ch'indugiava con tal voci invitava :

Pastorella celeste, sonnacchiosa ti stai fuor del tuo stile; raccogli omai ne l'infiorato ovile dai torti suoi viaggi la greggia de le stelle, lucide pecorelle,

a cui son ricca lana i folti raggi. Tutta notte han pasciuto per li sereni campi che germogliano lampi, ed assai ruminato han per le valli dei concavi cristalli, in fonti di rugiada ed in laghi di manna sommergendo la sete, e ne la via di latte, quasi in fresco ruscello, lavando a gara il fiammeggiante vello. Deh, guarda ben di non smarrirne alcuna per la contrada bruna. Tosto verran le vagabonde al fischio de l'Aura tua bifolca.

28 LIRICI MARINISTI

e tu r indrizza al solito camino col baston corallino, e, tosandole poi, di quel tesoro fa' per te gonne d'oro.

Mentre ch'ai favellava, tra colline di rosa, in campagna di gigli, la ninfa orientai vide apparire; ond'ei sospinse la sua mandra ai prati e la fistola empi di novi fiati.

SCIPIONE GAETANO

I

LA LUSINGATRICE VOLUBILE

Somiglia fronda a cui fa guerra il vento, o picciol legno in mezzo al mar sonante, la donna mia, che in tante parti e tante si raggira e si volge in un momento.

Or di gioia è ministra, or di tormento, or incerta nemica, or dubia amante; è in amar varia, in variar costante, ha '1 pensier vario, in varie parti intento.

Or arde, or gela, e l'ardor suo comparte, prodiga a mille amanti, in mille ardori, quasi raggio del Sol ch'in rai si parte.

Fa mille alme d'un'alma; in mille cori cangia, infida, un cor solo; ahi, con qual arte un amor si divide in tanti amori?

30 LIRICI MARINISTI

II

IL CONTATTO DEL SENO

Quel vago sen, che di sua mano Amore tutto cosparse di ligustri e rose, sul petto mio Glori leggiadra pose, per sanarmi di fuor lieve dolore.

Ma quanto questo diventò minore quando tanta virtute a lui s'oppose, tanto il foco che dentro Amor v'ascose più fiero corse ad infiammarmi il core.

Cosi dal mal mi guarda e mi difende; un dolor sana e fa più l'altro atroce, e, credendo giovar, m'arde ed offende.

Or so, lasso, per prova (e ben mi nóce) che vicino e lontan quel seno accende, ma quanto è più vicin tanto più coce.

Ili IL PIANTO

Piangea Corinna, e da' begli occhi fviore, onde par ch'ogni petto arda e sfaville, con nova arte d'amor fiamme e scintille uscian converse in lagrimoso umore.

E pietosa negli atti e nel colore, sugger mi fé' l'insidiose stille, e fùr le finte in lagrime faville refrigerio a la bocca e foco al core.

Facea vago parer più che non suole quell'umor di cui tanto io mi querelo, il bel volto di rose e di viole.

Tal, distillando il matutino gelo, rassembra, alor che s'avicina il sole, sparso di fiori, in oriente, il cielo.

SCH'IONE GAETANO 31

IV

LA VECCHIA AMBASCIATRICE

Alor che immerso in tenebrosi errori aspetto un Sol via più dei sole adorno, veggio apparir la vecchia nunzia e intorno seccarsi i prati e raddoppiar gli orrori.

Ma poi che cinta di più bei splendori fa la luce ch'io bramo a me ritorno, porge luce a quest'alma e luce al giorno e raddoppia a la terra erbette e fiori.

Quella fra noi, quasi novella Aletto, ciò che mira avelena; e questa indora tutto quel eh de' suoi begli occhi oggetto.

Quella spoglia il terren, questa l'infiora; coni 'esser può che sia guidato e retto cosi bel Sol da cosi brutta Aurora?

V

LA CASA DELLA DONNA AMATA

Corinna, alor che il rimirarvi è tolto agli occhi, che non hanno altro diletto, le mura io miro in vece de l'aspetto, ed Ivi è dico ogni mio ben raccolto !

E qual si vede entro a cristallo accolto, rinchiuso si, ma non celato oggetto, cosi scorge il pensiero e l'intelletto, ben che cinto da mura, il vostro volto.

Si che séte, qualor voi v'ascondete, dal corpo si, ma non da l'alma assente; perché a quella celar non vi potete.

Che '1 pensier vi figura a la mia mente, quasi industre pittore, e sempre séte, benché lunge dagli occhi, al cor presente.

32 I.IRICI MARINISTI

VI

ALLA LUCCIOLA

V «'■

Pargoletto animai cui che natura

luce, eh 'a pena fra l'orror traluce,

ogni stella del ciel eh 'a noi riluce

agli occhi miei sembra di te men pura.

Tu nel più oscuro de la notte oscura, che segno alcun non apparia di luce, fida stella mi fosti, e scorta e duce a quelle amate e desiate mura.

Se potess'io quel che poter vorrei, sarian men vaghe, che non son le stelle, e tu più vaga assai di quel che sei ;

tu sol in ciel stella saresti, e quelle, che propizio non furo ai voti miei, sarian di te men lucide e men belle.

VII

VENEZIA

Alta città, ch'in mezzo a l'onde hai nido, adorna e ricca di bellezze tante, ch'Amor per te, fatto d'amore amante, lasciato ha Pafo e derelitto ha Gnido ;

quand'io l'orgoglio di fortuna infido foggia scacciato peregrino errante, tu fosti a me, eh' in te fermai le piante, dolce albergo non sol, ma dolce e fido.

Non posso, io no, quel che poter desio; voglio almen quel che posso; e viva e fresca di te memoria entro al mio cor si serra.

Piaccia or voler, quel ch'io non posso, a Dio, e col crescer degli anni a te s'accresca grazia in ciel, forza in mar, potenza in terra.

GIAMBATTISTA MANSO

I

ALLE FALDE DELLA COLLINA DI SANT'ELMO

Chiari, tranquilli e liquidi zaffiri; piaggia, ch'a l'onde loro apri il tuo seno; ermo colle, cui rende il ciel sereno l'aura de' miei dolcissimi sospiri;

fiorita valle, che de' miei desiri e d'amorose gioie il grembo hai pieno; fonte, ch'intorno a si bel prato ameno baci a madonna il pie, mentre t'aggiri:

voi, che d'amor siete tesoro, e miei secretar i e custodi, a cui '1 mio core ciò ch'altrui celar brama apre e ridice;

serbate eterne in voi del nostro ardore segno, ma occulto il bel nome di lei e la gioiosa mia vita felice.

Lirici ìiiarifiisti 3

34 LIRICI MARINISTI

II

IL RITORNO DELLA PRIMAVERA

Questi fior, queste erbette e queste fronde, di novella stagion pompa superba, e questi, che serpeggiano tra l'erba, o liquidi cristalli o lucid'onde;

pria che d'aspre catene e di profonde piaghe pena sentissi ardente acerba, che state verno or disacerba, trovai sovente a' miei desir seconde.

Ma poscia che cangiar m'ha fatto amore, che mi lega il voler e '1 cor mi sface, libertate in prigion, gioia in ardore,

fuggo frond'erba fiore onda fugace, e bramo sempre un tempestoso orrore, che, quando orrido è il mondo, allor mi piace.

Ili LA SOLFATARA DI POZZUOLI

Nuda erma valle, ai cui taciti orrori accrescon tema ombre solinghe oscure; sulfuree rupi, acque bollenti impure, sanguigni fumi e tenebrosi ardori ;

voi, ch'in parte apprendeste i miei dolori dagli accesi sospiri, e l'aspre cure dal largo pianto che disfar le dure selci potè co' suoi continui umori;

ditemi pur se nel penace seno del vostro cieco, afflitto, orrido regno, ove '1 pianger non ha conforto o freno,

venne uom giainai d'in voi penar si degno e di tanti martir l'alma ripieno, che d'un sol de' miei strazi ei giunga al segno!

GIAMBATTISTA MANSO 35

IV

PLACAMENTO DI GELOSIA

Freddo pensier, che d'agghiacciato zelo creò nel petto mio fervido amore, e di tema nudrito e di dolore mi pasci sol di venenoso gelo;

sgombrisi omai dagli occhi miei quel velo che '1 ben nasconde e '1 mal palesa al core; ritorna nel tuo cieco ed atro orrore, oscura nebbia del mio chiaro cielo.

Se l'altrui vista la mia vita offende e d'empia voglia invidiosa armato sol del piacer altrui mi spiace e dole;

or eh 'a ciascun si cela il mio bel sole, ne le tenebre mie vi\'0 beato e l'altrui povertà ricco me rende.

. V GELOSIA OSTINATA

Vattene, infernal mostro; altrove vibra tue serpi, ch'ebbre del mio sangue pasci. Ecco che corre già per ogni fibra freddo venen, d'infestarmi lasci.

L'amaro tuo, maggior (se '1 ver si libra) è del dolce d'amor, da cui tu nasci; soavemente i lievi spirti ei cribra, e tu d'acerbo duol mi cingi e fasci.

Che non fuggi, crudel, pria che più cresca quel rio timor, che turba il mio diletto, che troppo agli angui tuoi fu nobil ésca?

Ma, lasso, il gelo tuo più sento al petto, quanto più le sue fiamme amor rinfresca. . Oh congiunto al piacer mortale effetto !

FRANCESCO BALDUCCI

I

AMORE PALESE, AMATA NASCOSTA

La fronte esangue, lo smarrito aspetto tutti gli occhi del mondo ha in me rivolto, e scovre ornai la cenere del volto qual sia la fiamma che mi scalda il petto.

Dice altri, mosso da pietoso affetto: Questi in breve sarà spento e sepolto ; ed io per lei ch'adoro ad arder vòlto, il mio proprio penar prendo a diletto.

Veggia ognun le mie fiamme al core apprese ; ma la bella cagion de l'arder mio non già, per qual mano Amor l'accese.

Fiammeggi pur, se sa, l'alto desio: pur che '1 mio sole, onde lo 'ncendio prese, altri non sappia mai, ch'Amore ed io.

FRANCESCO BALDUCCI 37

II

AL FIGLIOLETTO DELLA SUA DONNA

Oh caro agli occhi miei novello Amore, de la Venere mia parto diletto, che mostri a me nel tuo leggiadro aspetto le sembianze ch'io porto impresse al core;

fiamma seconda del mio primo ardore, uscita forse a 'ncenerirmi il petto, poiché, mentr'io ti miro, entro al diletto sento lo 'ncendio mio farsi maggiore; oh del vivo mio sole alba novella, che sembri, a quel rotar di lumi intorno, de la materna luce emola bella;

se fa, scorto da l'alba, il Sol ritorno, certo a sperare il tuo venir m'appella che presso sia di que' begli occhi il giorno.

Ili IL DOLCE SOGNO INTERROTTO

Ahi, chi mi rompe il sonno, or che l'amica luce tra l'ombre agli occhi miei s'apriva? or ch'era giunto di mia speme a riva e al fin de l'amorosa mia fatica?

Pareami che l'amata mia nemica, fatta pietosa, i miei lamenti udiva, e le dolci acque a la mia sete offriva, nova pietà de la mia fiamma antica.

Ma, lasso me, per l'infeconda sabbia non da Tantalo il rio fugge cotanto, ond'a l'arsura sua cresce la rabbia,

come allor di quel fonte amato e pianto l'onda fuggi da l'assetate labbia, e, di nettare in vece, io bevvi il pianto.

3^ LIRICI MARINISTI

IV

IL RIVALE

Dunque, un vano, un spergiuro, un fuggitivo, che dianzi '1 giogo tuo scuoter si volse, che '1 pie di nodo e '1 cor di disciolse, concorse meco? ed io mei veggio e vivo?

Dunque, colui ch'ai volto amato e divo per vii sasso adorar le spalle volse, quel ch'offese il tuo nume e non si dolse, s'appressa a l'ara? e tu noi prendi a schivo?

Dunque, in servendo avrà di par mercede il giusto e '1 reo? Dunque, egual forza teco ha l'altrui tradimento e la mia fede?

Ah, schernita virtù, che fai più meco, lasso, s'Amor sol per ferirmi vede, ma per mirar le mie ragioni è cieco?

V

A SANTO STEFANO

Felice te, che per sanguigne vie movi '1 primo a seguir l'orme di Cristo, e sai, morendo, far di vita acquisto e vincer tutti gli anni in un sol die.

Perché l'umano pie mai non travia, il mal noto camin selciar s'è visto de le tue pietre, e quindi al gran conquisto dirizzar l'orme poi l'anime pie.

Te mira il cielo dal balcon sovrano, che gli apre del zaffiro il fianco inciso, pugnar, campion di Dio, presso al Giordano.

Oh, quanto agli empi, onde ne cadi anciso, Stefan, de' tu, se la nemica mano t'apre, a colpi di pietre, il paradiso!

FRANCESCO DELLA VALLE

I

AL NASCER DEL GIORNO

Or che '1 di nasce e la mia bella e cruda forse dal cheto sonno è desta al lume, e su le molli fortunate piume posa le membra pensosetta ignuda;

Amor, pria ch'ella sorga o gli occhi chiuda, deh valle a rimembrar com'è mio nume, e che pensando a lei, com'ho costume, quest'avvampato cor s'agghiaccia e suda.

Chi sa se per pietà de' dolor miei forse in quest'ora, eh' ad Amor si piace, pensa ella a me, com'io sol penso a lei?

Ahi, che vaneggia il mio pensiero audace? Se ciò mai fosse, io di piacer morrei. O miei stanchi pensier, datevi pace.

40 LIRICI MARINISTI

II

COMPIACIMENTO DEI PASSATI AMORI

Fùr si care le piaghe e si gradite le fiamme onde il mio cor arse e si dolse, e con si vago laccio Amor m'avvolse quelle poche felici ore sparite,

ch'avvivar le reliquie incenerite, or che lei che l'accese il ciel mi tolse, tento, e, ristretto il nodo onde mi sciolse, aprir l'antiche mie dolci ferite.

E s'anco affanno in rimembrarle io provo, pur non potete voi, memorie amare, far che sia vago il cor di piacer novo.

Ma bacio il luogo ove alcun segno appare del mal antico, e le scintille covo de le ceneri mie soavi e care.

Ili PASTORALE

Bacia , non più rossor , Filli , cor mio e sian risposte dei miei baci i baci; faccian le braccia al sen nodi tenaci, che nelle labbra tue spirar desio.

Quel susurro de l'aure e '1 mormorio di queste linfe liquide fugaci, qui sol s'ascolta, e l'amorose paci sapran de' nostri cori Amore ed io.

Quell'usignuol, che mille voci imita, con dolci fughe tremole e canore a gioir noi soavemente invita.

E se questo silenzio e quest'orrore miri, questa gentil riva romita quasi fatta è per noi scena d'amore.

FRANCESCO DELLA VALLE 41

IV

ALLA STANZA

dov'era stato con la sua donna

Pur a voi volgo il pie, solinghe mura, e in voi mi poso, o vedove mie piume; ma non già, come un tempo ebbi costume, quietar vi posso o rammollir mia cura.

O cieca notte, e quanto meno oscura se' di quest'occhi onde ognor verso un fiume, or che altrove rimaso è il chiaro lume, di cui sempre nel cor sento l'arsura.

Voi sole, ahi lasso, in fra i sospiri udite quante volte la nomo; e mentre taccio, voi, ombre, in sogno agli occhi miei l'offrite.

Voi, ch'in vece di lei si spesso abbraccio, dogliosi lini, oimè, perché non dite, quando vi vede il di, come mi sfaccio?

V

PRIMA DELL'ALBA

Pria che l'alba si desti in oriente quest'occhi lassi a lagrimare io desto, e con un roco oimè, languido e mesto, chiamo il nome di lei, che non mi sente.

Poi vo pensando e mi riduco a mente del di già scorso or quell'incontro or questo, e '1 balenar del dolce sguardo onesto parmi sempre veder quasi presente.

Onde le parlo e un suon di sue parole mi sembra udir soavemente espresso, ch'in guisa ch'io vorrei mi racconsole.

Cosi covo le piume e chiamo spesso de le mie gioie invidioso il sole; cotanto io godo in lusingar me stesso.

42 LIRICI MARINISTI

VI

AMORE RECIPROCO

Lunge, lunge da me, pianti e sospiri, ch'in gioia ha vòlto ogni mia noia Amore. Ardo ed è chi m'accende in pari ardore, cosi conformi abbiam voglie e desiri.

S'incontran lieti de' nostri occhi i giri e sempre uniti abbiam core con core; s'io per lei moro, ella per me pur more: o dolce morte, o miei cari martiri!

Gareggiando d'amor, baci ed amplessi godiam felici, e nel seren de' volti portiam l'alme dipinte e i cori impressi.

Io priego Amor che le mie voci ascolti, ch'il mal non sani, che l'ardor non cessi, e ch'i nodi del cor non sian mai sciolti.

VII

L' IRREQUIETEZZA

Qual famelico augello, ove rimira custodito il suo cibo avido vola, or di quel poca parte ardito invola, ora di ramo in ramo erra e s'aggira;

come d'amor lungo digiun mi tira, corro a colei che di beltade è sola, ed un guardo, un sorriso, una parola involando talor, l'alma respira.

Al felice di lei caro soggiorno giungo a pena che parto , e parto a pena , ch'odiando il partir faccio ritorno.

Se m'è tolta di lei l'aria serena, almen beato a quelle mura intorno ha qualche tregua il cor con la mia pena.

FRANCESCO DELLA VALLE 43

Vili

LA CASA DELLA SUA DONNA

Al nobil tetto ov'il mio sole ha sede, quasi a lume farfalla ognor m'aggiro; ora un guardo vi mando, or un sospiro, e v'enti'o col pensier, se non col piede.

S'il mio ben non m'ascolta e non mi vede, parlo ai muri in sua vece e i sassi miro, e ovunque gli occhi innamorati giro, l'aria infocata del mio ardor fa fede.

Dal dolce fiato suo fatta odorosa, l'aura, che spira là, mi ristoro, e, vagando le piante, il core ha posa.

Cosi, felice in quelle vie dimoro, e, se m'è de' suoi rai la luce ascosa, l'alba attendendo, l'orizzonte adoro.

IX

IL RITRATTO DELLA DONNA AMATA A Girolamo Brivio

Dopo due lustri, le romane mura, ov'io vissi non so se vita o morte, lascio, e sperando di cangiar mia sorte, stolto il partire ogni mio ben mi fura.

Se resta il lume e meco vien l'arsura degli occhi che mi diede Amor per sorte, in uscir queste antiche amate porte esce a me l'alma ed il mio di s'oscura.

Tu che sul Tebro ancor, Brivio felice, già glorie acquistar sai con nobil arte e sei del mio bel Sol fatto fenice,

deh, fammi per pietà picciola parte del ben che godi, e mentre a me non lice, invola raggi e a me li manda in carte.

44 LIRICI MARINISTI

LE NUOVE FABBRICHE DI ROMA sotto Paolo V

Già cede il tempo e coronata sporge d'aurei tetti ogni monte al ciel la cima, ed a l'altera maestà di prima da le ruine sue Roma risorge.

Ogni machina antica a l'aure sorge, quant'in terra giacca s'erge e sublima, e ciò che de l'età róse la lima, ristorato dal ferro omai si scorge.

Gli arapi spazi non copre inutil soma, ma l'adornan le fonti e inondan l'acque, e fatta sopra Roma è nova Roma.

Oh valor del gran Paolo! Ella, che giacque nel furor de' suoi figli estinta e domd, sott'un gran figlio in pace al fin rinacque.

XI

ALLA CITTÀ DI COSENZA

Nobil città, ch'ai chiaro Grati in sponda siedi e superba all'aure ergi le mura, de l'errante virtù stanza sicura e di cigni e d'eroi madre feconda ;

non lodo io te perché il tuo seno abbonda di ciò che parca altrui dona natura: ch'il cielo hai temperato e l'aria pura e cospira a tuo ben la terra e l'onda;

ma perché degno sei nido e soggiorno di pellegrini ingegni, e in te s'aduna d'armi Marte e di lauro Apollo adorno.

Lunge de' colli tuoi, prego fortuna ch'in te tomba mi dia l'ultimo giorno, come presso al tuo seggio ebbi la cuna.

II

ACHILLINI - PRETI PAOLI - GIOVANETTI - SEMPRONIO

CLAUDIO ACHILLINI

I

LA DIPARTITA

Ecco vicine, o bella tigre, l'ore che tu de gli occhi mi nasconda i rai. Ah, che l'anima mia non senti mai, meglio che dal partir, le tue dimore!

Fuggimi pur con sempiterno errore: sotto straniero ciel, dovunque, sai che, quanto più peregrinando vai, cittadina ti sento in mezzo al core.

Ma potess'io seguir, solingo errante, o sia per valli o sia per monti o sassi, | l'orme del tuo bel pie leggiadre e sante ;|

ch'andrei là, dove spiri e dove passi, con la bocca e col cor, devoto amante, baciando l'aria ed adorando i passi.

48 MRICI MARINISTI

II

LA BIONDA SCAPIGLIATA

Tra i vivi scogli de le due mammelle la mia bella Giunon veggio destare dal suo crinito ciel piogge e procelle, prodighe d'oro e di salute avare.

Se mostra gli occhi o quelle poma belle, più ricco s'apre e più fecondo appare, mercé di due rubini e di due stelle, quel ciel di stelle e di rubin quel mare.

Ma sia di scogli e di tempeste or pieno, ch'io, dai venti d'amor sospinto e scorto, vo' navigar col core un si bel seno.

tem'io già di rimanerne absorto, poiché la sua tempesta è '1 mio sereno, poiché gli scogli suoi sono il mio porto.

Ili LO SDEGNO NEL BIANCO VOLTO

Corteggiata da l'aure e dagli amori, siede sul trono de la siepe ombrosa, bella regina de' fioriti odori, in colorita maestà la rosa.

Superbo anch' ei per gli odorati onori, mirasi il giglio al pie turba odorosa d'ossequiosi e di devoti fiori, e lo scettro ne vuole e non ha posa.

S'arman di spine e d'archi, e danno segno fra lor di guerra; alfin, prendon consiglio d'esser consorti a la corona, al regno.

Cosi nel volto tuo bianco e vermiglio. Filli, cangiato in imeneo lo sdegno, veggio la rosa maritarsi al giglio.

CLAUDIO ACHILLINI 49

IV

L'ANTICA AMANTE FATTA MONACA

Quell'idolo mio dolce, a cui si rese vinto il mio core, al ciel vinto si rende ; la beltà del suo volto il cor m'accese, la beltà del suo core il cielo accende.

S'egli alle fiamme mie placido scese, or tutto fiamma al paradiso ascende; e s'egli a' miei desir nulla contese, or nulla ancora al suo Fattor contende.

Vedrem quell'alma al suo signore ancella sparsa in sospiri e. seminata in pianto animar di pietà povera cella.

Potessi anch'io per le sue preci intanto, soggiogata ogni voglia a Dio rubella, condur quest'ombra al primo sole accanto.

V LA MENDICANTE

Sciolta il crin, rotta i panni e nuda il piede, donna, cui fé' lo ciel povera e bella, con fioca voce e languida favella mendicava per Dio poca mercede.

Fa di mill'alme, intanto, avare prede al fulminar de Tuna e l'altra stella; e di quel biondo crin l'aurea procella a la sua povertà togliea la fede.

A che fa le diss'io si vii richiesta la bocca tua d'orientai lavoro, ov'Amor sul rubin la perla inesta?

Che se vaga sei tu d'altro tesoro, china la ricca e preziosa testa, che pioveran le chiome i nembi d'oro.

Lirici marinisti 4

50 LIRICI MARINISTI

VI

LA SPIRITATA

nel mezzo del tempio, a l'improviso, Lidia traluna gli occhi e tiengli immoti, e mirano i miei lumi a lei devoti fatto albergo di furie un si bel viso.

Maledice ogni lume errante e fiso e par che contra Dio la lingua arroti. Che miracolo è questo, o sacerdoti, che Lucifero torni in paradiso?

Forse costui, che non potea nel saggio \ sovrastar, per superbia, al suo Fattore, i venne in costei per emolarne un raggio? j

Torna confuso al tuo dovuto orrore, torna al nodo fatai del tuo servaggio, e sgombra questa stanza al dio d'amore !

VII

LO SCOPPIO DELLA MINA E IL BACIO

Entra per nera e sconosciuta bocca e in sotto al muro ostil duce tiranno, e con industre e vigilato affanno v'aggiusta un muto foco e poi ne sbocca.

Ma non si tosto una favilla tocca r incendioso e prigioniero inganno, che in un solo momento, eterno al danno, crepa il suol, tuona il ciel, vola la ròcca.

Portai del cor nel più secreto loco semi di foco e ne cercai lo scampo per non esser d'un cieco e scherzo e gioco.

La favilla d'un bacio accese il lampo in su la mina e publicossi il foco; ed ecco Amor trionfatore in campo.

CLAUDIO ACHILLINI 51

Vili

IL RUSCELLETTO

nella villa Camaldoli, appartenente ad Annibale Marescotti

Tesse quest'ermo bosco, allor ch'ei fugge a l'ombra di se stesso il raggio estivo, un ricovro frondoso, anzi lascivo, ove in sen di Lesbin Lidia si strugge.

Qui, se il Leon tra mille fiamme rugge, mormorando sen vien limpido e vivo dal fianco di quel monte un picciol rivo, cui l'arsiccio terreno avido sugge.

Mira l'acqua gentil come s'affretta e forma col suo corso un liquid'arco, che d'immensa dolcezza il cor saetta.

Qui, di cure, Annibal, men venni carco; ma, in quest'onda che tanto il cor m'alletta sommergendo le cure, il cor ne scarco.

IX

NELLA .SELVA PRESSO IL RENO

al ritorno dalla corte di Roma

A Gasparo Ercolano

Siedo al rezzo gentil di selva antica, che se stessa nel Ren pinge e vagheggia, or che il sol bacia Sirio e ne fiammeggia ed arde quasi la campagna aprica.

Qui par che il fiume in suo tenor mi dica : De' bei riposi tuoi questa è la reggia; qui pur sui colli del tuo cor verdeggia la fronda degli ulivi al cielo amica.

Gasparo, io sento in su l'ombrosa riva mormorando recarmi il picciol Reno la pace, che col Tebro al mar fuggiva.

Cosi l'ore tranquille e quel sereno, cui l'aprico di Roma a me copriva, svelato godo a le bell'ombre in seno.

52 LIRICI MARINISTI

X OMBRA DI NUOVE FOGLIE

Or che del Sol più temperato è il raggio, il fiume che dormia fra bei cristalli si sveglia e segue in sugli obliqui calli, garrulo peregrino, il suo viaggio.

Saluta l'usignuolo in suo linguaggio aprii, che tanti fior vermigli e gialli semina su le piagge e su le valli, vago forier d'un odorato maggio.

E perché d'ombre il pastorel s'invoglia, a lo spirar di placid'aura i' veggio che verde il bosco a quel desio s' infoglia.

E dice: A te m'inchino, a te verdeggio; e l'ombre mie la giovinetta foglia tesse col sole e ti ricama il seggio.

XI

SIC VOS NON VOBIS

Io corsi, o bella Dora, ogni tua riva, quanto cura d'onor stimola e preme; e vidi pur la rinascente oliva porgere un nobil verde a la mia speme.

Con la man, con la lingua, io sparsi un seme, che sul Tebro il suo bel fior m'apriva; onde il mio cor, che per lung'uso geme, nel dolcissimo aprii lieto gioiva.

Già d'oro eran le spiche, al monte, al piano, quando, per riportar le mie fatiche, straniero mietitor non giunse invano.

Corrono il solco mio falci nemiche, taglian la cara mèsse, e quella mano che nulla seminò, miete le spiche.

CLAUDIO ACHILLINI 53

XII

MORTE E IL TESTAMENTO DI SAN GIUSEPPE

Al padre Gioacchino Ciomei, cappuccino

In braccio a Cristo, agli angeli, a Maria era nel letticciuol Gioseffo assiso, e stava per morire e non moria, che non sapea morire in paradiso.

Ma l'età, ma il dolore al cor conquiso insegnò del morire al fin la via; e lo spirito, ornai quasi diviso, converso a Cristo in questi detti uscia:

Io moro, o figlio, e la paterna fede vuol che del mio retaggio non ti frodi, ma vi succeda tu, l'unico erede.

Vanne, e le mie fortune accetta e godi ; stendivi pur la man, drizzavi il piede, che troverai martelli e travi e chiodi.

XIII

IL FIOR DI PASSIONE

Passi colà ne' messicani regni, mercé d'un fior, religioso aprile. Mira che spiega in su la foglia umile dei tormenti di Cristo espressi i segni.

Bel libro di natura, ai sacri ingegni de' sacri libri imitator gentile, tu ne' tuoi fogli in adorato stile le pene altrui, la mia salute insegni.

Se fia giammai che degli odor su l'ali da' tuoi sanguigni e tormentosi inesti voli dentro il mio cor duol de' miei mali;

oh me felice allor, che da funesti caratteri trarrò sensi vitali, e da terreno fior, frutti celesti !

54 LIRICI MARINISTI

XIV

A LUIGI XIII

dopo la presa della Roccella e la liberazione di Casale

Sudate, o fochi, a preparar metalli, e voi, ferri vitali, itene pronti, ite di Paro a sviscerare i monti per inalzar colossi al re de' Galli.

Vinse l'invitta ròcca e de' vassalli spezzò gli orgogli a le rubelle fronti, e machinando inusitati ponti die fuga ai mari e gli converse in valli.

Volò quindi su l'Alpi e il ferro strinse, e con mano d'Astrea gli alti litigi, temuto solo e non veduto, estinse.

Ceda le palme pur Roma a Parigi : che se Cesare venne e vide e vinse, venne, vinse e non vide il gran Luigi.

GIROLAMO PRETI

I

LE ROSE PALLIDE

Ite in dono a colei, pallide rose, a cui l'alma donai senza mercede; e poi che '1 mio penar non cura o crede, siate del mio morir nunzie amorose.

Vidi voi d'ostro già tinte e pompose, d'ostro che '1 labro suo forse vi diede; ora il pallor di morte in voi si vede, imitatrici del mio duol pietose.

Dite, se pur vi mira e se v'accoglie, ch'io son mal vivo e sarò tosto esangue, come voi moribonde aride foglie;

e se 'I vostro color pallido langue, ella ravvivi l'odorate spoglie con l'onda del mio pianto e del mio sangue.

56 LIRICI MARINISTI

II

LA CASA DELLA DONNA AMATA

Notturno e solo, a queste mura intorno vòmmene errando e queste pietre adoro ; eh 'a me sembra influir pace e ristoro questo de la mia dea cielo e soggiorno.

E qual avai'o che la notte e '1 giorno s'aggira ove le gemme asconde e l'oro, tal io dove si cela il mio tesoro vengo, guardo, m'aggiro, e parto e torno.

Entra il pensier dove non entra il passo, spargo a l'ombre i sospir tra vivo e morto, ed ora abbraccio il muro, or bacio un sasso.

Cosi, quasi nocchier naufrago in porto, qui mi ricovro tempestoso e lasso, e qui rimango infra '1 mio pianto absorto.

Ili LA DONNA A CAVALLO

Frenava il mio bel Sol vago destriero, ch'avea di neve il manto, il crin d'argento ; movea veloci i passi a par del vento e insuperbia di si bel pondo altero.

Pronto di bella man seguia l'impero, a la sferza, a la voce, al cenno intento; dorato il morso avea, spumoso il mento, lungo il crin, curvo il collo, il cor guerriero.

Sovra un colle di neve un fior parca colei, ma per odor spirava ardori, ed ogni cor fra quelle nevi ardea.

Parean le Grazie e i faretrati Amori ministri a lei d'intorno; ella pungea con lo sprone il destrier, col guardo i cori.

GIROLAMO PRETI 57

IV

L'AMANTE TIMIDO

Ardo, tacito amante, e '1 foco mio celar non posso e palesar pavento; e vuol quinci il timor, quindi il desio, or ch'io taccia, or ch'io dica il mio tormento.

Or uno sguardo, or un sospiro invio, muto nunzio del cor, muto lamento; ma sdegno turba i be' vostri occhi, ond'io di quello sguardo e del sospir mi pento.

Omai privo di speme, anzi di vita, scopro a voi la mia morte e non l'amore, e vi chieggio pietà, ma non aita.

Chiede l'alma dolente al crudo core solo un sospiro all'ultima partita... È pur poco un sospiro a chi si muore.

V

LA DONNA ALLO SPECCHIO

Mentre in cristallo rilucente e schietto il bel volto costei vagheggia e mira, armando il cor d'orgoglio, il ciglio d'ira, del suo bel, del mio mal prende diletto.

Vaga del vago e lusinghiero aspetto dice: Ben con ragion colui sospira! Sembrano a lei, che sue bellezze ammira, oro il crin, rose il labbro e gigli il petto.

Ah, quel cristallo è mentitor fallace, che scopre un raggio sol del bello eterno, anzi un'ombra d'error vana e fugace!

Vedrai, se miri il tuo sembiante interno, cui ritragge il mio cor, specchio verace, angue il crin, tòsco il labbro, il petto inferno.

58 LIRICI MARINISTI

VI

IN VILLA

Verdi poggi, ombre folte, ermi laureti, perpetui fonti, limpidi ruscelli, mormoranti e canori aure ed augelli, vaghe piagge, odoriferi mirteti;

antri e silenzi solitari e queti, valli romite e boschi orridi e belli, tremule fronde, teneri arbuscelli, siepi rosate, pallidi oliveti;

oh quanto or godo, abitator selvaggio, più che morta speranza, un verde vivo, più che regio splendor, l'ombra d'un faggio!

Deh, quanto più qui desiando vivo povera libertà ch'alto servaggio, più che sete d'onor, sete d'un rivo!

VII

PAESAGGIO

Un rio, qui gorgogliando in fra le sponde, con tributo d'argento al Ren deriva; qui fa un'ombrella il platano e l'oliva, rami a rami intrecciando e fronde a fronde.

Al garrir degli augelli Eco risponde ; qui tempra un venticel l'arsura estiva; molle il suol, fresco il rio, verde è la riva; qui fan letto l'erbette e specchio l'onde.

Quanti augelletti, o Cinzia, ascolti e miri, in quel linguaggio lor pianger, cred'io, della fierezza tua, de' miei martiri.

Anzi, mossi a pietà del dolor mio, vanno emulando i pianti e i miei sospiri, spirando l'aura e mormorando il rio.

GIROLAMO PRETI 59

Vili

PAESAGGIO AMOROSO

've quel monte infin al del inalza la frondosa di querce ispida schiena, e par che regga il debil fianco appena quella d'alti dirupi orrida balza;

stassi Cinzia e, leggiadretta e scalza, con l'orme del bel pie stampa l'arena, dove quel rio da cavernosa vena sbocca di grembo al monte, al pie gli balza.

Mira, o Tirsi, colà come lasciva or bagna il suo bel viso ed or le piante ne l'onda cristallina e fuggitiva.

r giurerei che quella rupe amante è di lei fatta, e quella fonte viva è di pianto amoroso onda stillante.

IX

INVITO

Cinzia, colà tra quelle balze alpine stassi la mia capanna, opaca, ombrosa: la difende dal ciel quercia frondosa e le fan mura intorno ortiche e spine.

Giace un mio giardinetto in quel confine, ch'ha una veste di fior varia e pomposa; la calta, il croco, il gelsomin, la rosa daran fregi al tuo sen, ghirlande al crine.

scaturisce un'onda in grembo al monte, nel cui specchio potrai limpido e schietto mirar quanto se' bella, ornar la fronte.

Cosi, tu stessa a' tuoi begli occhi oggetto, vedrai qual sia maggior, giudice il fonte, l'ardor de le tue luci o del mio petto.

6o LIRICI MARINISTI

X

PER UN CAVALLO BARBARO

A Vitale de' Buoi

Figlio dell'aura, emulator de' venti, cursor veloce e volator senz'ale, di cui vola più tardo alato strale, volan per l'aria i fulmini più lenti;

lo tuo corso a mirar corron le genti, ma per seguir tuo corso occhio non vale; non corre il cielo a le tue piante eguale, men veloce il pensier movon le menti.

Tuona il nitrito, e la ferrata zampa sparge de le faville i lampi intorno e pur selce non tocca, orma non stampa.

Te brama il Sol per lo suo carro adorno ; ma, traendo del di l'ardente lampa, breve faresti col tuo corso il giorno.

XI

ALLA PENNA DEL CAVALI ER MARINO

Penna immortai, che col tuo volo arrivi ove d'umana mente occhio non sale, e, quasi de la gloria alato strale, l'oblio saetti e le memorie avvivi;

fonte d'eternità, che mentre scrivi spargi d'eterno onor vesta immortale, da cui traggon gl'ingegni umor vitale come traggon umor dal fonte i rivi;

per te, mia penna umil s'alza dal suolo, come l'augel che, per tardo e vile, già si levò su l'altrui penna a volo;

e, per far ch'ella sembri a te simile, a te forme, colori e spirti involo e de' tuoi spirti sol vive il mio stile.

GIROLAMO PRETI 6l

XII

L'ORIUOLO

Fabricando sonora e viva mole arte si mosse ad emular natura, che, se diede natura il moto al sole, questa il moto del Sol segue e misura ; se eternamente il ciel girar si suole, il giro anco di questa eterno dura, e ciò che faccia il Sol, nasca o tramonte, mostra, nunzia fedele, in voce e 'n fronte.

Grave al canape torto il piombo appeso, aspirando al suo centro, in aria pende contro al piombo maggior più lieve a un peso, e con moto contrario un sale, un scende. La machina dal pondo a lei sospeso quasi da intelligenza il moto apprende ; che, girando la fune un polo immoto, un sol motore a cento moti il moto.

Come sfera maggiore in ciel s'aggira, che col suo cerchio i minor cerchi abbraccia, e le tonanti sfere al corso tira, che del corso di lei seguon la traccia; cosi ruota maggior qui seco gira ruote minori e col fuggir le caccia, e, come appunto i cieli, intorno ruota corso a corso contrario e ruota a ruota.

Girasi un orbe e con tenaci denti muove sospesa in alto instabil libra. Questa de l'ore il tempo e dei momenti quasi con giusta lance appende e libra : tarda i moti veloci, affretta i lenti, l'un de' bracci ritira e l'altro vibra, e, mentre è mossa, altrui muove e governa, e pari il moto a la quiete alterna.

62 LIRICI MARINISTI

Poiché volubil cerchio in giro è corso ai confini de l'ore e tocco lia il segno, scocca tenace ferro e scioglie il morso, che al fuggir d'altre ruote era ritegno. Movonsi i poli in giro, i giri in corso, e sembran in girar fremer di sdegno, che rauco un mormorio precede al suono com'anzi il fulminar mormora il tuono.

Ferro percotitor s'alza pesante sovra il cavo metallo e d'alto piomba: tuona ai colpi di lui squilla sonante, che a le guerre del tempo è quasi tromba; tromba, che a noi funesta e minacciante numera quanti son passi a la tomba, gridando a l'uomo, al numerar de l'ore, che, quanto ei vive più, tanto più muore.

Stella, quasi cometa errando intorno, gl'interni giri in suo girar seconda, che morte annunzia in distinguendo il giorno col suo raggio mortai, lingua faconda. Cosi la mole al mentitor fa scorno, mentre fa che la lingua al cor risponda; né, simulando il vero entro sepolto, quel che cela nel sen scopre nel volto.

PIER FRANCESCO PAOLI

I

NELLA CASA DELLA SUA DONNA

durante l'assenza di lei

Belle mura felici, albergo eletto di lei, che dal mio cor giamai non parte: or che, standosi lunge ella in disparte, di meco ragionar non v'è disdetto;

dite: Mostra ella mai pietoso affetto de le mie ch'ho per lei lagrime sparte? dite: Legge ella mai le meste carte, in cui scrivo l'ardor che chiudo in petto?

Vedeste mai per solitaria via venir notturno amante, armato e solo, a trionfar de la guerriera mia?

Ah, voi tacete, ed io che per lung'uso so quanto piaccia altrui l'esser secreto, voi, fidi secretari, or non accuso.

64 LIRICI MARINISTI

II

IL BACIO DATO PER DISPETTO

Semivivo anelar costei mi vede, or che torno a mirar suo vago volto; e, caramente infra le braccia accolto, soave un bacio al mio languir concede.

Poscia, che dispettosa ella me '1 diede dice; e tutto dal cor fummi allor tolto quel dolce ond'io sperava indi a non molto altra più ricca al mio servir mercede.

Chi vide mai cader dal ciel sereno, dietro a bella rugiada aspra tempesta e stillar da un sol fior manna e veleno?

Giardiniera d'amore empia è ben que.sta, che del mio cor nel povero terreno sovra un bacio vital la morte innesta.

Ili IL CENNO NON INTESO

Appena i passi entro le scole ho steso d'Amore e forse in me l'ingegno è tardo; ancor non so quand'ei da l'arco teso avventi d'oro o pur di piombo il dardo.

Con immensa mia gioia ho solo appreso questi primi elementi Io amo, io ardo». Dunque, donna, io non deggio esser ripreso se non intendo il favellar d'un guardo.

Ben fia ch'in queste scole io soffra e tenti ogni affanno, ogn' impresa, e in esse accolto spenda del viver mio l'ore e i momenti.

Tacerò i lustri interi e, in voi sol vòlto, leggerò quei caratteri lucenti, che v' ha scolpiti il ciel entro al bel volto.

PIER FRANCESCO PAOLI 65

IV

LA LETTERA

Or che formo di pianto un ampio lago lunge da lei, che hinge anco innamora, non acconsente un suo pensier ch'io mora, un suo pensier del mio morir presago ;

e invece del suo volto amato e vago, in cui bellezza angelica s'adora, carta m'invia, perch'io la miri ogni ora, che di lei che la scrisse è viva imago.

La miro, e cangia il ciel meco tenore, mentre con quei caratteri possenti, fatto mago d'amor, scongiuro Amore.

La miro e, rileggendo i dolci accenti, con gli occhi entro quel nero asciutto umore bevo la medicina a' miei tormenti.

V

LA CHIOMA

Vago de le sue glorie, il ciel ripose di bellezze in costei ricco tesoro; ma più del biondo crin mostra fra loro essa le voglie sue liete e fastose.

Belle ha le luci si, ma sonnacchiose prendon stanche talor dolce ristoro; belle ha le mani ond'io beato moro, ma l'ascondon talor spoglie odorose.

Solo il crin, non mai stanco e sempre in mostra, fra le belle di lei pompe guerrere, predando ì cor, vittorioso giostra.

Vero è che l'occhio incende e la man fere; ma legate in trionfo il crin dimostra l'incenerite e le piagate schiere.

Lirici marinisti 5

66 LIRICI MARINISTI

VI

DINANZI A UN OSPEDALE

Qui, dove giace in un turba languente, or che '1 Sol men benigno il terren fiede, veggio mostrar costei pomposamente la sua beltà, ch'ogni beltade eccede.

Cosi forse talor, vaga e ridente, fuor da la reggia sua mover il piede, per le vie de la dannata gente, la regina Proserpina si vede.

Già non le scalda il sen pietoso ardore ; troppo ha l'affetto a la fierezza esperto nel mirar le ferite del mio core.

Ben lieto mor chi qui di morte è or certo, che mira, ad onta del mortale orrore, in quel bel volto il paradiso aperto.

VII

DISTILLANDO ROSE

Tiensi costei (si vago ha '1 seno e '1 volto) da la bellezza de le rose offesa; e, di disdegno ambizioso accesa, il pensier contra lor tutto ha rivolto.

Le chiude in cavo rame, ove raccolto tien lento foco, a tormentarle intesa; sin che '1 bel, ch'ai suo bel facea contesa, vagheggia in poco umor stillar disciolto.

Quinci lieta e superba, ove '1 Sol splende, in questo vaso e in quel l'acque odorose, quasi trofei di sua fierezza, appende.

Poi, per le sue saziar voglie fastose, in varie guise a dissiparle attende... Oh beltà, eh tiranna anco a le rose!

PIER FRANCESCO PAOLI 67

Vili

NSEGNANDO A LEGGERE ALLA DONNA AMATA

A me sen vien, per sua vaghezza eletto, i primi ad imparar puri elementi, costei che sa, bench'io H chiuda in petto, legger ne la mia fronte i miei tormenti.

Ridice ella inesperta ogni mio detto, ma tace, scaltra, a' miei sospiri ardenti; onde ascolto con pena e con diletto d'eco muta e loquace i vivi accenti.

Talor taccio le note, e 'n dolce errore Amo: le dico, ed Amo: ella risponde. Ah, rispondesse in un la lingua e '1 core!

Fingo in lei tardo ingegno, e minacciante tocco sul volto suo le chiome bionde, maestro ardito e rispettoso amante.

IX

LE AMICHE

Stendea Fillide mia la man cortese a Glori amica, e balenar fé' un riso: la bianca man, eh 'a me giammai non stese se non armata, onde ne caddi anciso.

E, vòlte in bel seren le luci accese, vide il pallor che mi dipinse il viso; anzi in più parti entro il mio sen comprese per due destre congiunte il cor diviso.

Con gli scherzi leggiadri, ond'esse ardite stringonsi dolcemente. Amor m'afferra, e le dolcezze lor son mie ferite.

In un languido « oimè », che il cor disserra, dissi : Oh stupor ! due belle destre unite simboleggian la pace, e a me fan guerra.

68 LIRICI MARINISTI

X

FRA LE MASCHERE IN CARNEVALE

Costei da parte eccelsa il popol folto stassi a mirare in varie larve ascoso, e '1 suo rigido cor dentro al bel volto de l'altrui vaneggiar mostra gioioso.

Se talun miro in rozze spoglie involto dico : Quegli è rivale insidioso ; se chi d'amarla infìnge intento ascolto, anco il finto amator mi fa geloso.

Se avanti a lei talun con dubbio errore scherza d'ebro in sembianza, io dir mi sento : Quegli per lei vacilla, ebro d'amore.

Lasso, e quando giamai vivrò contento, s'anco da vane larve entro al mio core nel comune gioir nasce il tormento?

XI

LA BAMBINA DELLA SUA DONNA

Pargoletta vezzosa, i miei pensieri regge la man eh 'a te regge le piante dentro a quegli amenissimi sentieri, dove io giro a pena il guardo amante.

Tu movi il pie sicuro ai dolci imperi, ed io vacillo a duo bei lumi avante; odi tu cari accenti e lusinghieri, ed io, colmo di duol, labro tonante.

A te già stanca il molle sen concede l'amorosa maestra; al mio languore niega fin d'un sospir poca mercede.

Oh stravaganza, oh crudeltà d'Amore ! Far ne la stessa via sicuro un piede e fabricare il precipizio a un core.

PIER FRANCESCO PAOLI 69

XII

LA DONNA SFIORENTE PER MALINCONIA

Ne la tempesta de le cure ascose, ond'è il tuo cor miseramente involto, la bellezza eh' il cielo in te ripose, naufragante si mira entro al tuo volto.

Pietà dei labri, a cui mancan le rose ! pietà del sen, eh senza gigli incólto! pietà degli occhi, in cui l'alme amorose piangon de la lor vita il Sol sepolto !

Erran d'intorno a te le Grazie e il Riso, le Gioie e i Vezzi; ed, esuli innocenti, braman che li richiami al tuo bel viso.

Prenda eterni un augel \-ivi alimenti da un cor dannato : il bel del paradiso non sia preda agli affanni, ésca ai tormenti.

XIII

LO SPETTACOLO DELLA GUERRA E L'AMORE

quando l'autore fu addetto alla segreteria di guerra

I lunghi affanni onde, scrivendo in carte l'occulte voglie altrui, sudo ed aghiaccio, m'han pur sottratto a quel gravoso impaccio ch'opprimeva di me la miglior parte.

Or da' campi d'Amor movo in disparte, sicuro il pie, senza sentir suo laccio, quanto più lasso infra le cure io giaccio qui dove aprono i suoi Bellona e Marte,

M'han le piaghe e le morti il cor sanato; ne le perdite altrui sedendo ho vinto guerra mortai, di debil penna armato.

Ho da me, faticando. Amor sospinto; e ben dovea chi di vii ozio è nato cader per man de la fatica estinto. ''

70 LIRICI MARINISTI

XIV

L'ABITO SACRO

quan<ìo l'autore ebbe dal suo signore un beneficio ecclesiastico

Armato il fianco, or non sei più di Marte, come sembravi, intrepido seguace; ma, il guerriero desio posto in disparte, sembri in vesta sacrata angel di pace.

O pur son l'armi tue di vote carte, onde già fatto umilemente audace, pugni per gir vittorioso a parte del bel, che sempre sazia e sempre piace.

Arda pur nel tuo sen si bel desio: già t'ha '1 sentier per le vittorie aperto l'augusta man del tuo signore e mio;

e '1 nero manto, in cui rivolgi il fianco, è l'ombra del favore onde coperto vai da l'insidie altrui sicuro e franco.

XV LA MADDALENA

Venite a rimirar la gloria vostra, o già di Maddalena accesi amanti ; venite a rimirar come i sembianti, con novello artificio, ella s'inostra.

Oh d'eccelsa beltà leggiadra mostra! cangia le ricche vesti in rozzi manti, il riso insidioso in tristi pianti, i superbi palagi in umil chiostra.

Quel biondo crin, ch'in dolci nodi accolto fregiò di perle, or fra le brine e '1 gelo sovra gli omeri porta ispido, incólto.

E cosi, armata di verace zelo, serena il core e nubilosa il volto, se già l'alme rapia, rapisce il cielo.

PIER FRANCESCO PAOLI Jl

XVI

LA POSA DELLA PRIMA PIETRA DEL NUOVO CONVENTO DEI CAPPUCCINI

Ad Urbano Vili

Picciolo è '1 sasso ond'or tu, grand' Urbano, di sacro tempio il fondamento appresti ; e pur terrore immenso entro il cor désti de l'ombre eterne al regnator insano ;

che ben tra '1 cieco orror già di lontano mira prodi guerrieri in sacre vesti mover contra i suoi campi armi celesti, qui dove architettrice è santa mano.

Davide generoso, a cui bastante sola è una pietra a dar con dardo eterno fiera percossa a l'infernal gigante,

che non farà tuo giusto sdegno interno, se, mentre il getti in placido sembiante, va picciol sasso a lapidar l'inferno?

XVII

IL MAL DI PIETRA

Questa, ch'in cieca parte afflitto io celo, pietra pesante, è del mio fallo indegno pena, che avvento anch'io colmo di sdegno pietre pur troppo dure incontro al cielo.

Se poso o vado, io sotto il pondo anelo, però langue il travagliato ingegno, che farsi ora una pietra alto sostegno di mia salute al mio pensier rivelo.

Si, si, col peso in me s'avanzi il duolo, cresca l'atra procella, io già m'avviso ch'ho meco il sasso onde discopro il polo;

e tutto lieto al cor, se mesto al viso, m'inalzerò con grave sasso a volo. Sisifo penitente, in paradiso.

72 LIRICI MARINISTI

XVIII

A LEI CHE ABITA IN UN TUGURIO

Statti pur baldanzosa in quell'albergo umile, mia diletta gentile. Basti a te l'esser degna che non solo t'inviti Venere ambiziosa

a passeggiar su la sua conca il mare, ma su l'eterea mole ad albergar ne la sua reggia il sole. Basti a te che conservi, come dal ciel gli avesti, in terrena magion pregi celesti. Son forse vili i fiori, perché stan su la terra? son men graditi gli ori, perché stanzan sotterra? Forma in quel basso tetto il tuo volto, il tuo seno, un praticello ameno, e la chioma dorata un tesoro amoroso; anzi, a gloria d'Amore, ciò che vantar non puote altro terreno, quivi con novi orrori dov'è già stato l'or, miransi i fiori. In quella bassa terra sarai tu stabil centro a cui discenderanno, se benigna il consenti, a ritrovar quiete i miei tormenti. Una io dirò che sia de le cimerie grotte, ove, notturno amante,

PIER FRANCESCO PAOLI 73

dopo le sospirate

mie vigilie amorose,

per prolungar la vita,

verrò del sonno a mendicar l'aita.

In quell'ima pendice,

più che in alto palagio,

trarrò sicuri i giorni,

mentre talor fortuna

con violento sdegno

per le ruine altrui scuote il suo regno.

In quell'ermo ricetto,

con divoti sospiri

adorarò, d'ogni pensier disciolto,

peregrino idolatra, il tuo bel volto.

Godo, mia bella, godo,

che vivi in parte dove

non giunge irato il fulmine di Giove.

Spero ben che terrai

quivi esposto il tuo core,

per mio conforto, ai fulmini d'amore.

Già non tem'io ch'il Tebro

venga, come talor tumido ei suole,

per inondar quella terrena soglia;

che ne sarò custode,

ed esalando fiamme

fuor del mio cor geloso,

respingerò l'assaltatore ondoso.

Albergo prezioso,

mio vago paradiso,

mio leggiadro oriente,

da cui, di balcon privo,

tu, mio bel sole adorno,

quante volte apri l'uscio, apri il mio giorno ;

chi potrà dir che ancora

sia superbo tiranno,

se per le tue bellezze,

74 LIRICI MARINISTI

che pur tue forze sono,

poco men che sotterra hai posto il trono?

Oh quante volte, oh quante,

mentre chiusa è la porta

de la real magione,

non avendo altro varco

da penetrar le riverite mura,

anelante si duole,

quasi mendico in su la soglia, il sole!

Fra queste del mio cor candide gioie

serpe mortai veleno

che viatore accorto,

mentre vede, in passando,

il letticciuol eh' è campo

del duello amoroso,

entrerà baldanzoso.

e con sua lieta sorte

vibrerà l'armi e sfideratti a morte.

Deh, per schivar perigli

tieni tu sempre chiusa

a l'arditezze altrui

quella beata porta,

com'io tengo a tutt'ore

aperto ai cenni tuoi

questo misero core;

t'affanni il pensiero

di rimaner tra l'ombre,

che può de' tuoi begli occhi un lampo solo,

non pur far luminoso un picciol tetto,

ma, con vanti più alteri,

i negri abissi e i torbidi emisperi.

Che se ciò non t'aggrada,

legge sia la tua voglia;

e s'altri pur tentasse opra si rea,

tu, in guardia de la fede,

contra il crudo omicida,

senza mostrargli altr'arme, alza le strida.

PIER FRANCESCO PAOLI 75

XIX

UNA DAMA SPAGNUOLA

dove more il sole nata è costei; ned è stupor, se accolto quanto ha di bello il Sol porta nel volto. Egli, pria che la sera giunga a la tomba ibera, per non lasciar senza splendor quei campi, nel bel volto di lei lascia i suoi lampi.

MARCELLO GIOVANETTI

I

CHIOME NERE

Chiome, qualor disciolte in foschi errori da la fronte vi miro in giù cadenti e velate al mio Sol gli aurei splendori, siete nubi importune, ombre nocenti.

Ma s'in groppo accogliete i vostri orrori, nera cote sembrate, ove pungenti rende Amor le saette; e l'ambre e gli ori vincete d'ogni crin, chiome lucenti.

Escon da' vostri torbidi volumi, come lampo talor da nube impura, verso il mio cor d'accese fiamme i fiumi;

ch'arte fu, non error, se die natura, quasi pittor che mesce l'ombre ai lumi, de la fronte al candor la chioma oscura.

MARCELLO GIOVANETTI 77

II

LE POZZETTE NELLE GUANCE

Qualor Cilla vezzosa i lumi gira, e s'avvien che ridente il guardo ruote, forma vaghe pozzette in su le gote, ove quasi in suo centro il cor s'aggira.

Quivi Amor certo ad alte prede aspira, ed indi l'alme semplici e devote con saette invisibili percuote, e poi colà, furtivo, ei si ritira.

Direi valli di gigli in campo alpino, direi cave di nevi in mezzo ai fiori quelle fosse sul volto almo e divino.

Ma come non si sfanno in larghi umori, s' hanno di que' begli occhi il Sol vicino e del mio cor non lunge anco gli ardori?

HI

NELLO SCORGERE DA LUNGI IL PAESE

DELLA SUA DONNA

Ecco al fin pur ti scopro, amato colle, che 'n brieve giro ascondi ampio tesoro; ove non giunge il pie, prende ristoro lo sguardo almen, che di dolcezza è molle.

E col pensier, che solo a lei s'estolle, se non posso vicin, lunge t'adoro. Sallo Amor con qual laccio io qui dimoro e qual caldo desio nel cor mi bolle !

Che di lontan sente gli ardor più fissi e lunge vede il cor più che non suole de' suoi begli occhi i luminosi abissi.

Traggami, dunque, il cielo ove '1 ciel vuole, che far non puote ingiuriosa eclissi lunga terra interposta al mio bel sole.

78 LIRICI MARINISTI

IV

LA DONNA PRESENTE A SPETTACOLO DI GIUSTIZIA

've la morte in fera pompa ergea spietata scena di funesto orrore, vidi colei, che nel tuo regno, Amore, di mille colpe e mille morti è rea.

Fra que' nocenti uccisi, ella uccidea più d'un 'alma innocente e più d'un core; e pure, intenta al tragico rigore, spettatrice impunita anco sedea.

Quale scampo il mio cor fia che ritrove? fra rigide morti a morte ei langue, qua di dolci ferite un nembo piove.

Resta per doppia strage il petto essangue; fan bellezza e spavento eguali prove, e nuotano gli amori in mezzo al sangue.

IL BAGNO NEL LAGO

AUor che l'alba dal mar d'Adria inalza la face per fugar l'ombra notturna, a solitario lago, incólta e scalza, col canestro sen va Fille e co' l'urna.

Per bagnarsi il bel pie, con mano eburna i lembi de la veste accoglie ed alza; e l'onda, ch'era immota e taciturna, con garrula allegrezza al sen le balza.

A l'apparir di lei sopra la sponda, al discoprir degli animati avori, al folgorar de l'aurea chioma bionda,

alga o scoglio non è, che non s'infiori; fiore, che non si specchi entro quell'onda; onda, che non sfavilli a tanti ardori.

MARCELLO GIOVANETTI 79

VI

LA DONNA E IL VECCHIO

Nisa, è pur ver che tu ne l'alma impressi hai di veglio Titon gli essangui ardori, e di braccia cadenti ai freddi amplessi offri del tuo bel seno i caldi avori ?

Meraviglia è d'amor veder connessi crespo crin, crespa gota, ostri e livori, e con le man di latte insieme espressi fra le rughe senil scherzar gli Amori.

Ah, sian lunge i tuoi fior da quel confine! entro que' solchi de le guance annose il tempo sol dee seminar le spine;

ch'ei de le guance tue molli, amorose, farà col gielo del suo freddo crine pallidi i gigli e livide le rose.

VII LA NINFA E IL ROZZO AMANTE

Cinzia, Cinzia del Ren, colei che finge la ritrosa, la schiva (il dico o taccio?). Cinzia, bella qual dea, fera qual sfinge, a rozzo pastorel si reca in braccio.

Sovente il collo d'amoroso impaccio al perfido Filen circonda e cinge ; e sembra meco poi rigido ghiaccio l'empia, e le guance di rossor non tinge?

Ben la vid'io scherzar sotto una folta siepe col vago, e sua beltà divina esser da rozza man recisa e còlta.

Cosi in prato talor giace vicina vipera al fior ; cosi talor sta involta candida perla in fango o rosa in spina.

8o LIRICI MARINISTI

Vili

LA BELLA SERVA

Se diede al tuo natal, bella mia Glori, oscure fasce il ciel, povera cuna, ecco più chiare perle e più fini ori Amor prodigamente in te raguna.

E se d'altrui ti fé' serva fortuna, ch'a la cieca dispensa i suoi tesori, tu per quella beltà, ch'ogn'altra imbruna, se' reina bellissima de' cori.

Di che ti lagni tu? Sappi che ancora sono serve di Cinzia in ciel le stelle ed è serva del Sol la bionda Aurora.

Denno esser sol le voglie tue rubelle serve d'Amor, come a te sono ognora, tributarie de' cor, mill'alme ancelle.

IX

LA CORTIGL'\NA FRUSTATA

Era esposta ai flagelli Eurilla mia, per lieve colpa condennata rea; ma fra l'ombra del duol che l'avvolgea il Sol di sua bellezza anco apparia.

E mentre in lei, da man nocente e ria, tempesta di percosse aspra piovea, quanti gigli sugli omeri abbattea quella tempesta, tante rose apria.

Chi sa che, mosso Amor da' miei lamenti, per punir di costei l'empio rigore, la mia tormentatrice or non tormenti?

Ma qual gloria sperar potea maggiore? Diranno ormai l'innamorate genti: Questa è la bella martire d'Amore.

MARCELLO GIOVANETTI 8l

X

LA DORMENTE

A Girolamo Mattei

Presso un bel rio, che de la sponda erbosa umido amante iva baciando i fiori, Cilla, ch'ai mio languir non mai posa, posando un di, del di fuggia gli ardori. In su la guancia di color di rosa parean tiepide brine i bei sudori, e spogliavan d'odor quelle pendici le frese 'aure, del sonno allettatrici.

Mentre co '1 crin, che s'increspava ai venti, sovra letto di fiori ella dormia, agli occhi miei vagheggiatori intenti duo preziosi fiumi Amore offria: l'uno scorrea con liquefatti argenti, l'altro con onda d'or serpendo già; ciascuno i suoi tesori avea disciolto: quegli un prato rigava e questi un volto.

Le spoglie ella s'avea tolte d'avanti e fidatele in guardia ai fior vicini, che '1 calor fastidia le spoglie e i manti, tolerando a fatica i bianchi lini; e questi ancor, mossi da l'aure erranti, gian scoprendo del seno i bei confini, e l'altre membra tralucean fra quegli, quasi gemme velate in tersi spegli.

Io muovo intanto il pie furtivo e tardo, ove costei giacca su l'erba molle; nel vel de le palpebre ascoso il guardo punto non mi vietava il pensier folle. A lei m'appresso, in lei m'affisso e guardo, ch'a vagheggiarla anco ogni fior s'estolle. Dico allor io : Per man del sonno unita, sotto imagin di Morte, ecco la Vita.

Lirici marinisti 6

82 LIRICI MARINISTI

Ornai cessino, Amore, i vanti tuoi, non dir ch'ai tuo poter nulla contrasti; ch'in paragon del sonno, o nulla puoi o rimangon delusi i tuoi gran fasti. Per far ch'ella piegasse i desir suoi, sai pur ch'ogni tua possa indarno oprasti. Ecco: il sonno, maggior di tutti i numi, la stende a terra e le imprigiona i lumi.

Più forza ha il figlio de l'oscura notte di te, fanciul de la più bella diva? l'abitator de le cimerie grotte supera un Dio, che da lo ciel deriva? Sian le saette ornai tarpate e rotte e la faretra d'ogni gloria priva, s'al tuo fuoco invisibile, immortale, onda scarsa di Lete assai prevale.

Ma come il cor d'amor più forte acceso sento, s'Amor, vinto dal sonno, or giace? come breve riposo emmi conteso, se chi guerra mi muove ha posa e pace? scocca strali non visti arco non teso? e vibra fiamme non vibrata face? con quali armi innocenti ed omicide giacendo vince, addormentata uccide?

Certo ch'ella a nuove arti allor s'accinge, quando al suo mal pietosa altri la spera ; non dorme- no, ma di dormir s'infinge, appiattata tra i fior, la scaltra arciera. Sonnacchiosa in tal guisa anco si finge, nei campi d' Ircania, empia pantera, e con la pompa di sue spoglie ognora suol le fere allettar, che poi divora.

Ben si vedean per le beate sponde arder vicine a lei quell'erbe e queste, languir le piante, inaridir le fronde, chinare i fiori l'odorate teste;

MARCELLO GIOVANETTI 83

e già forano asciutte anco quell'onde, che per l'erbe muovean tremole e preste, s'io con l'urne colà del pianto mio non dava piogge al prato ed acque al rio.

Come s'avvien talor ne' giorni estivi che densa nube intorno al Sol s'accampi, vibra egli i raggi più cocenti e vivi, e chiuso par che con più forza avvampi ; cosi costei, per far eh 'anco i più schivi sentan di sua beltade accesi i lampi, vuole colà che le circondi e tocchi bella nube di sonno il Sol degli occhi.

Anzi ella soffre che sia fatto donno un ministro di Lete in quel bel viso, e di tenebre armato il nero sonno sia nel trono de la luce assiso. L'ombre cieche oggimai vantar si ponno d'aver posta la sede in paradiso; ma, con le stelle chiuse in fosco velo, chi mai dirà che sia più bello il cielo?

Ed è pur vero, e più leggiadre forme ne r incomposto volto il sonno acquista; veglia l'arso mio cuor mentr'ella dorme, e d'un sole ecclissato ama la vista. Stanno in sua guardia faretrate torme, a cui la schiera de le Grazie è mista : altri terge i sudori, altri con l'aura, mossa da lievi piume, il cor ristaura.

Amanti, o voi che con ardente zelo bramate l'ombre amiche ai furti vostri, de la notte pregiando il fosco velo più che de l'alba le chiarezze e gli ostri, venite a schiere; ecco: propizio il cielo tragge la notte dagli opachi chiostri; e perché a voi più ratta ella sen vole colà in quegli occhi è tramontato il sole.

84 LIRICI MARINISTI

Oh se di questa Pasitea giacente diventar potess'io larva vagante, oh come lieto a la sopita mente discoprirmi potrei, fantasma amante ! Sonno, felice or te cui si consente star catenato a que' begli occhi avante; non potea darti de le luci accorte più leggiadra prigione il cielo in sorte.

Mentre si parlo, e non sapea levarmi dal contemplar l'addormentato viso, e d'immenso piacer sentia bearmi in quel dolce periglio intento e fiso, a caso leggo in mal vergati carmi su la corteccia d'una pianta inciso: « Se non fuggi, pastor, tu resti essangue; giace quivi fra l'erbe ascoso un angue ».

XI

LA FONTANA NEL GIARDINO DI TIVOLI

RAFFIGURANTE L' ANTICA ROMA Al cardinale Alessandro d'Este

Colà dove con flebile singulto il precipizio suo piange Aniene, mentre con procelloso aspro tumulto giù da' monti latini a cader viene, che poi, placido fatto, or muove occulto fra cavi sassi e sotterranee vene, or con la lingua tremola de l'onde lambendo va le tiburtine sponde;

s'apre vago giardin, di cui natura, di cui l'arte la palma aver presume, che poi (sia loro o negligenza o cura) di cangiar le vicende han per costume.

MARCELLO GIOVANETTI 85

Or dentro a queste villarecce mura, libero volse imprigionarsi il fiume, e sembra sol che di formar s'appaghi loquaci fonti e taciturni laghi.

Qui le ninfe de' liquidi cristalli con le ninfe de' monti in schiera accolte, fabbricando tra lor trecce di balli, ora in gruppi annodate ora disciolte, scherzando gian per quegli ondosi calli con auree chiome in su le fronti avvolte, e di mirto e d'allòr frondosi rami eran del biondo crin verdi legami.

Giunse fra loro altera donna armata in sembiante magnanimo e augusto; ferreo arnese copria la fronte aurata, grave d'asta la man, d'usbergo il busto. Forse in aspetto tale figurata Pallade fu nel secolo vetusto, e dagli anni e da l'arme ancor non doma nel suo volto esprimea l'antica Roma.

Per ascoltar costei le gelid'urne lasciar de' fonti lor Tetide e Flora; dagli antri oscuri alzar le membra eburne la dea casta e la dea che n'innamora; cessar da l'opre solite diurne gli augelli e l'aure mormoranti allora, e per non fare a lei garrule offese il corso per udir l'onda sospese.

O de l'altro Alessandro emolo altero disse e de l'attio sangue inclito pegno, splendor de l'ostro, cardine di Piero, aquila lucidissima d'ingegno, di magnanimità ritratto vero, de la nuda virtù ricco sostegno, de l'antica valor novella prole e del del de la gloria unico sole ;

86 LIRICI MARINISTI

lascia oggimai, ti prego, i sette colli che di Roma novella ornano il seno, che sol di fasto allettatrici e folli aure nutre nel torbido sereno, ha mentiti i costumi, i vezzi ha molli, nel facondo suo dir mesce il veleno, e allora indice altrui guerra verace quando par che più spiri aura di pace.

Lascia pur Roma, e vieni omai qui dove fresco è il rio, dolce è l'aura e lieto è il cielo; nembo di perle qui l'aurora piove qualor diffonde il matutino gielo; la libertà, ch'invan si brama altrove, qui sol lieta fiorisce in ogni stelo; e van per l'amenissime pendici l'aure, de l'alme ognor tranquillatrici.

Qui senza velo agli occhi altrui dispiega nuda semplicità le sue ricchezze; qui riposa il Riposo e qui non nega di compartir altrui pure dolcezze; qui con laccio di gioia i sensi lega l'ombra fra le real salvatichezze; può quinci lontano esser diviso s'è ver ch'abbia la terra il paradiso.

Vieni, e de' grandi Augusti il mio desio di nuovo in te vagheggi i gesti e l'opre; vieni, ch'ogn'uom costi fallace e rio sotto contrario vel l'alma ricopre; qui schietto il fonte e trasparente il rio sin da l'intimo fondo il cor ti scopre; e, di te imitatrice, in grembo ai fiori versa prodiga vena i suoi tesori.

Se le romane mura e gli archi e i tempi ti spiace forse di lasciarti a tergo, qui, dagli Estensi tuoi sottratta agli empi, mirerai d'altra Roma il prisco albergo;

MARCELLO GIOVANETTI 87

ch'io qui ricovro e de' passati scempi fra i diluvi de l'acque il duol sommergo, e trovo sol per questi chiostri ombrosi nel secolo del ferro aurei riposi.

Qui, qui, scorno del tempo, onta de l'armi, ogni abbattuta mole anco torreggia; qui co' teatri e con le statue parmi traspiantata veder l'antica reggia; distillan acque gli obelischi e i marmi e quasi la città fra l'acque ondeggia; vieni, e se '1 Tebro hai di veder desio ho fra queste mie sponde il Tebro anch'io.

Qui potrà sollevar da gravi cure l'alma tua degnamente ozio non vile: vedrai Pandora acque salubri e pure dal suo vaso stillar, fuor del suo stile; e Bacco, invece pur d'uve mature, ampie tazze colmar d'onda simile; e, lasciato Elicona il bel Pegaso, d'acque aprir con la zampa argenteo vaso.

Vedrai per te formar con saggi errori i fonti, al ciel balzando, umidi giochi; di finti augelli inanimati cori sciorranno a te canti non finti o rochi ; vedrai lieta spelonca in cui gli Amori, poste in disparte le saette e i fochi, al cenno di colei che dal mar nacque, i petti altrui san fulminar con l'acque.

Fastose ch'a tal gloria il ciel sortille, se son di fasto qui l'onde capaci, con riverenti, ossequiose stille stamperan su '1 tuo pie gelidi baci- le fontane più lucide e tranquille faransi al volto tuo specchi vivaci, e '1 dio de l'onde anch'ei sarà tenuto darti in coppa d'argento il suo tributo.

LIRICI MARINISTI

Vieni, Alessandro, e mirerai disciorsi in lagrime di gioia i vivi fonti; a le tue piante i lor marmorei dorsi supporran volentier portici e ponti; e i simolacri e le colline forsi per adorarti piegheran le fronti: certo, per pregio suo fia che s' inchine la palma e '1 lauro a coronarti il crine.

Ma se a l'altro Alessandro intero un mondo era spazio incapace, angolo breve, il tuo valor, che non ha mèta o fondo, termine angusto imprigionar non deve. Sollo, gran prence, e pur non mi confondo, ma d'adempir miei voti anco fìa lieve, che ben che sia maggior de l'ampia terra, pure in brieve epiciclo il Sol si serra.

Accompagnò quest'ultime parole con lieti applausi ogn'aura, ogni spelonca, e dispiegar da le canore gole i selvaggi cantor voce non tronca; ogn'onda mormorò più che non suole armoniosa entro la propria conca, ed agli organi die, con modo ignoto, a tempo il canto ed a misura il moto.

Fùr veduti a la fin da cento bocche cento fiumi versar gonfi serpenti, e con tal precipizio avvien che fiocche il bel diluvio di que' molli argenti, che sembra udir da le superbe ròcche il sonoro ulular de' bronzi ardenti. Ai lieti augùri, al plauso de le linfe Eco rispose e risero le ninfe.

Pastor del Tronto a vagheggiar sedea gli orti famosi, a cui null'altro agguaglia, di cui forse men bello esser dovea o '1 giardino di Pesto o di Tessaglia.

MARCELLO GIOVANETTI

Or mentre ei d'alta gioia il cor ricrea, le sparse voci in verde pianta intaglia; poi, con note che ruvide compose, al gran prencipe estense il tutto espose.

XII

L'INONDAZIONE DEL TRONTO

A monsignor X'itello

Fra l'atra notte e 'I luminoso giorno egualmente diviso era l'impero, e spandea tanto l'ombra il manto nero quanto splendea di raggi il sole intorno;

onde, se l'alba ai soliti lavori destava l'uom su l'aure matutine, il dolce sonno, con egual confine, sopiva i sensi e raddolciva i cori ;

con grati nodi agli olmi lor mariti dolcemente stendean le braccia amiche e discoprian per le colline apriche lieti tesor le pampinose viti ;

quando s'udio sul nubiloso velo, presagio d'oscurissima tempesta, mormorando con voce orrida infesta, tuono bombar fra inille lampi in cielo;

s'udirò urtarsi in fera giostra i venti, spinti da profondissime caverne; fùr visti a gara poi da le superne magioni in giù precipitar torrenti.

Mai non s'udi del ciel per le campagne, cotanto imperversando, austro nimboso scuotere il dorso a l'Apennin selvoso, fracassar nubi e tempestar montagne.

Ma crescendo maggior l'impeto a l'onde, e qual rauco fragor d'acque sonanti, parea che l'etra a tanti flutti e tanti picciole avesse e troppo anguste sponde.

90 LIRICI MARINISTI

Da disusata violenza spinto, correva il flutto ad inondar la valle; era Iago la piazza e fiume il calle e la cittade ondoso labirinto.

Il troppo fosco orror rendea cotanto confuso il ciel, che per tre spazi integri il Sol rotar non volle i lampi allegri, la notte spiegar gemmato il manto.

Da cento e cento lubrichi vassalli ebbe tributo volontario il Tronto, che, fatto ingiusto rege, audace e pronto corse a tiranneggiar l'amiche valli.

Se pria devoto a la città di Pico il pie baciò de le famose mura, ora senza ritegno ei s'assicura moverle aspra tenzon, fero nemico;

e disdegnando omai degli alti ponti, novello Arasse, l'odiosa soma, scuote con atto altier l'umida chioma e guerra indice con spumosi monti.

E qual vittorioso capitano per batter mura di superba ròcca opra ferrate travi e sempre scocca più forti colpi con robusta mano,

cotal ruina orribile minaccia, ed avventando ai ponti elei ed abeti, fa tremar, fa crollar l'alte pareti il fiume altier con spaventosa faccia.

Ma raddoppiando le divelte piante ognora formidabili percosse, forza è che '1 ponte al fine a tante scos cada e l' inghiotta pur l'onda tonante;

l'onda, ch'ornai la chioma più frondosa copre de' pioppi, e, dove fece il nido semplicetto augellin, del fiume infido allora ivi nato plebe squammosa;

MARCELLO GIOVANETTI 91

l'onda che sozza, fra gli acuti dumi e fra le tane di spinosi sterpi, suflFoca ancor le velenose serpi strette ed avvolte in lubrichi volumi;

l'onda che seco raggirando balza rotte schegge, alti scogli, alpestre rupi, e ne' vortici suoi rapidi e cupi ora assorbe gran tronchi, ora gì' inalza.

Stillava pria con limpidi zampilli entro nera spelunca a goccia a goccia l'onda gelata da scabrosa roccia, secreta stanza di Piloro e Filli ;

ed ora in questa, fatta orrida grotta, formando tal rumor ch'il mondo assorda, diluvia l'acqua impetuosa e lorda, e un fiume intero v'entra e vi s' ingrotta.

Scopre l'intima selce e '1 tufo scabro, impoverito omai di poca terra, il colle, e 'I monte e se medesmo atterra, fatto del danno suo mal cauto fabro;

poscia che, riversando a nembo a nembo prodigamente Giuno le procelle, egli lieto le accoglie e 'nsieme a quelle offre ampiamente l'arido suo grembo.

Per intenso dolor con occhi asciutti il povero cultor vide che '1 crudo fiume rapigli, di pietate ignudo, del dolce Bacco i sospirati frutti.

Le guance lacerò, squarciossi i crini il timido pastor, che '1 caro armento vide preda de l'onde, e 'n fero accento più volte bestemmiò gli empi destini.

Ove trasse talor notte serena il villanel, sott' umile capanna, co '1 suol di lievi ariste e '1 ciel di canna, è fatto lido d'infeconda arena.

92 LIRICI MARINISTI

Udii talor sopra frondoso legno balenando cadere a me vicino folgore orrendo, e nel percosso pino restar del suo fragor perpetuo il segno;

tonar superba mole al Tebro in riva udii talor d'orribile rimbombo, ed alternando ancorché lieto il bombo, il mio volto per téma impallidiva ;

e quand'anco da l'antro austro sen fugge e '1 sonoro ocean mesce e conturba, celasi per terror l'ondosa turba, ove men rauco il mar mormora e mugge.

Ma son sembianze ornai troppo ineguali folgore, irato mar, fulmin terreno, a l'impeto del Tronto irato e pieno, che s'erge su, dove fu '1 varco a l'ali.

Impetuosamente orride belve vedresti per le liquide pianure seco trar l'onda, e fra quell'onde oscure rotar case e natar l'intere selve.

Mal cauto peregrin, che vide l'onda scorrer si gonfia per gli aperti campi, esser pensò dove il sole i lampi vibra accesi e l'Egitto il Nil feconda.

Le driadi, le napee e l'altre ninfe, ch'abitan l'onde ed oprano le frecce o veston le selvatiche cortecce, tutte stupir de le cangiate linfe.

Stupir che '1 Tronto, ch'aggirar solca lubrico il pie per limpida pendice, e che scopriva altrui ciò che felice nel più secreto fondo ei nascondea,

e che più volte a lor fido consiglio somministrò co' liquidi zaffiri, e come s'orni il crin, l'occhio si giri, e come rida, in su la rosa, il giglio;

MARCELLO GIOVANETTI 93

ora, fatto d'orror scena funebre e bara de' cadaveri insepolti di pallor sparsi, in negro fango involti, fa stillar di pietà mille palpebre.

Fu chi pensò che '1 secolo di Pirra già ritornasse al mondo; ond' altri il voto preparava a Nettuno, altri devoto offriva al divo Giove incenso e mirra.

Oh quante volte il tridentato dio rivolto ad Ino, ad Anfitrite, a Glauco: Chi è disse costui si altero e rauco, ch'esser mostra ribelle al regno mio?

Mirate come per larga foce sgorgando in mar, qual tortuosa biscia, serba fra l'onde mie ben lunga striscia, e non l'arresta lo mio guardo atroce. Allora anch'egli i suoi spumosi regni scosse col gran tridente, e 'n un s'udirò tonando i flutti in un profondo giro ravvoltati assorbir volanti legni.

Cosi cavallo indomito, che '1 morso rallentato si senta, urta e si scuote, pesta il suol, sfida l'aure e 'n varie ruote girando squassa orribilmente il dorso.

Ma, poi che in volto formidabil scerse il mar d'Adria turbato in carro assiso, a le guerre del ciel, de l'onda fiso e muto spettator, gli occhi converse.

Cosi dicea con più sonori carmi, posta da canto l'umile sua cetra, Aldin, che di dolcezza i marmi spetra, Aldin, che canterà guerrieri ed armi.

GIOVAN LEONE SEMPRONIO

I

AMORE FATTO DI SGUARDI

Parlo con gli occhi a' tuoi begli occhi, e spesso con gli occhi ancora i tuoi begli occhi ascolto; s'abbraccian gli occhi nostri in dolce amplesso, e bacian gli occhi nostri il nostro volto.

Ma tu inganni te stessa ed io me stesso: tu troppo semplicetta, io troppo stolto; poscia che indarno agli occhi miei concesso è quel piacer, ch'agli altri sensi è tolto.

Miro morendo ogni or, moro mirato; ed usurpando i propri uffici al core, amo con gli occhi e son con gli occhi amato.

Or chi dirà che in tenebroso orrore abbia d'oscuro ve! l'occhio bendato, s'altro non è, che un solo sguardo, Amore?

GIOVAN LEONE SEMPRONIO 95

II

LA PENSOSA

Con immoto ti stai ciglio severo in te raccolta e nel bel velo ascosa; ond'io, nascendo il mio dal tuo pensiero, penso a che pensi, o bella mia pensosa.

Pensi forse donar pegno più vero e più dolce al mio cor gioia amorosa? o pur pensi trovar strazio più fero e più cruda al mio sen pena angosciosa?

S'al mio novo gioir, Lidia, si pensa, si pensi pur, che farsi ben maggiore può quel piacer, ch'avara man dispensa.

Ma s'a novo si pensa aspro dolore, si pensa invan; che divenuta immensa, più oltre non può gir pena d'amore.

ITI

I CAPELLI FASCIATI DOPO LA LAVANDA

Sembra Eurilla gentil vaga turchetta, quanto barbara più, tanto più bella: porta il turco sul fianco arco e saetta, porta Eurilla negli occhi archi e quadrella.

Ei di nemici, ella d'amanti ha stretta in catena servii gran turba ancella; egli i corpi, ella i cori arde e saetta; egli del cielo, ella d'amor rubella.

Ciascun di veli ha la sua chioma attorta: egli ha più d'una benda al crin contesta, all'ha più d'una fascia al crin ritorta.

Ma differente è sol quello da questa, ch'ella duo Soli interi in fronte porta, e mezza Luna a lui riluce in testa.

96 LIRICI MARINISTI

IV

LA CHIOMA ROSSA

Tutta amor, tutta scherzo e tutta gioco, il suo vermiglio crin Lidia sciogliea, e un diluvio di fiamme a poco a poco sovra l'anima mia piover parea.

E con ragion, s'io dal mio cor traea mille caldi sospir languido e fioco, succeder finalmente un di devea a vento di sospir pioggia di foco.

Certo costei nel tuo bel regno. Amore, scioglie, quasi cometa, il crine ardente, per minacciar la morte a più d'un core;

o pur, per gareggiar col Sol lucente, tinge la chioma sua di quel colore, di cui la tinge il Sol ne l'oriente.

v I CAPELLI PENDENTI SUGLI OCCHI

Cari lacci de l'alme aurati e belli, oh 'a ciocca a ciocca in su la fi-onte errate, e lascivi e sottili e serpentelli con solchi d'or le vive nevi arate;

oh quanto, oh quanto ben lievi scherzate su due stelle d'amor torti in anelli, e di voi stessi ad or ad or sembrate preziosi formar ricchi flagelli !

Ecco, vostra mercé, non più sospiro, che, se gran tempo io sospirai d'amore, quanto già sospirai, tanto respiro.

Meco fa tregua il mio mortai dolore, poi eh 'a vendetta mia sferzar vi miro quegli occhi bei che m'han piagato il core.

GIOVAN LEONE SEMPRONIO 97

VI

LA DONNA DI ALTA STATURA

Mentr'io teco tentava, idei diletto, paragon di grandezza, altero amante, provai com'ad Encelado è disdetto giungere al ciel, bench'egli sia gigante.

Ma nell'eccesso tuo fosti mancante, e nel mio mancamento io fui perfetto: tu picciola a l'amor, grande al sembiante, ed io basso al sembiante, alto a l'affetto.

Ben fui, noi niego, e temerario e stolto; ma se non mi partii contento a pieno, non fummi ogni piacer negato e tolto.

Giunsi a baciare, idolo mio terreno, se non gli amati fior del tuo bel volto, i dolci frutti almen del tuo bel seno.

VII

LA MAESTRA DELLE FANCIULLE

Stuol di varie fanciulle in giro accolte davanti a la mia Glori un di sedea, ed ella molte in tesser tele e molte in far trapunti ad instruir prendea.

Là, de le fila a l'arcolaio avvolte un bianco e picciol globo altra facea ; qua, con le sete or annodate or sciolte preziose orditure altra tessea.

O tènere diss'io vaghe donzelle, ch'or questi ite annodando or quei lavori, ch'ite pungendo or queste tele or quelle;

guardate ancor non imparar da Glori, nemiche di pietà, d'amor rubelle, a punger l'alme, ad annodare i cori.

Lirici marinisti 7

98 LIRICI MARINISTI

VII

GIOCANDO AI DADI

Quelle, che in mezzo a spettatrice schiera picciol ossa, giocando, agiti e tiri, denti fur già de la più vasta fera che ne' gran lidi suoi l'India rimiri.

Quindi, s'a loro il tuo pensier raggiri, o mia dolce d'Amor bella guerriera, t'avedrai dove al fin termini e spiri orgogliosa beltà, fierezza altera.

Que' vaghi pregi onde t'adorni il viso, s'or danno ai cori altrui pene e tormenti, saran de' cori altrui favola e riso.

Cosi que' fieri e que' temuti denti, per cui giaceva ogni animale ucciso, gioco son, se terror fùr de le genti.

IX

IL BALLO DELLE VILLANELLE

Carolando intrecciate ai lor pastori, catenate per mano e in giro avvolte, vincean de le cittadi i regi cori lascive forosette al ballo accolte.

Avean le piante lor, snodate e sciolte, legate l'alme ed annodati i cori; l'erbe crescean sotto il lor pie più folte, più bei crescean sotto il lor piede i fiori.

Ed ecco, ornata il sen d'azzurro e giallo, e d'ostro, Cilla mia, tinta la faccia, sotto il braccio girommi in mezzo al ballo.

Ferma diss'io, che non cosi s'abbraccia; star ti vorrei, ma tu mi poni in fallo, sotto le braccia no, ma fra le braccia.

GIOVAN LEONE SEMPRONIO 99

X

ALLA SUA DONNA

nell'atto che annoda le trecce

Lascia, Cilla gentil, lascia disciolte le ricciutelle tue fila divine, che, ben che sparso e ben che sciolto, avvolte ha pur mill'alme entr'i suoi lacci un crine.

Non voler di tue chiome aurate e fine catenelle intrecciar lucide e folte; lasciale pur su '1 bianco collo incólte preziose formar belle ruine.

Quanto è più cólto un crin, tanto pivi spiace; ma quanto è lento più, più l'alme allaccia, e quanto s'orna men, tanto più piace.

E se treccia vuoi far, treccia si faccia ; ma si faccia fra noi treccia tenace, non del tuo crin, ma de le nostre braccia.

XI

RICORDI DI VITA STUDENTESCA

a Bologna

In fin di qua dal mio natio terreno panni sentir, o mio gentil Ferrari, che tra i cristalli suoi limpidi e chiari mormori ancor le nostre gioie il Reno.

Ivi l'aria tranquilla e '1 ciel sereno e i di godemmo luminosi e cari, e mille or dolci amori or colpi amari n'arsero il core e ne ferirò il seno.

Sovente io la tua donna e tu la mia, tu con le tue preghiere, io co' miei canti, rendemmo al nostro amor tenera e pia.

Sovente ancor ci rasciugammo i pianti, fera placando orgogliosetta e ria, fidi amici non men che lieti amanti.

LIRICI MARINISTI XII

LA RACCOLTA DI CODICI

lasciata dal duca alla città di Urbino

Queste famose e celebrate carte, che Federico, il gran guerrier, raccolse qualor l'ingegno a Pallade rivolse dagli studi fierissimi di Marte;

perch'apprendessi ogni più nobil arte ai propri eredi il tuo signor le tolse, e a te donolle, o cara patria, e volse questo de l'amor suo pegno lasciarte.

Questi i retaggi son, questi i tesori: rendon gemme eritree l'anima ancella e son lacci del cor gli argenti e gli ori.

Su queste impallidisci; e rinovella i Baldi, i Commandini, i Polidori, che t'aggiunghino ogni or gloria più bella.

XIII

LODI DI FABIO ALBERGATI

al figliuolo di lui, Ugo

Come acchetar, come compor si deggia d'antica nemistade odio privato, e di che raggi esser convenga ornato vermiglio Sol, che in Vatican fiammeggia;

qual esser debba entro superba reggia d'alto monarca il glorioso stato, e quanto sia con gran ragion dannato ciò che '1 falso Bodin sogna e vaneggia;

quei che per padre il ciel ti diede in sorte, qui dove il bel Metauro il pie raggira, scrisse d'Urbin ne la famosa corte.

Quindi ciascun le sue grand'opre ammira, poi che per lui non è ch'invidia or porte del suo buon vecchio Felsina a Stagira.

GIOVAN LEONE SEMPRONIO XIV

IMPOSSIBILITÀ DI OCCULTARE IL PROPRIO ANIMO

Oh come vano, oh come folle e stolto è chiunque fra tenta e presume l'immutabile suo natio costume negli abissi del cor tener sepolto !

Traspar di fuor ciò eh' è di dentro accolto, quasi per chiaro vetro ardente lume; e, quasi in breve e picciolo volume, ciò che détta il pensier, scritto é nel volto.

L'occhio de l'uomo è una finestra aperta, onde si puote ogni suo chiuso affetto ed ogni voglia sua mirar scoperta.

Un cenno, un gesto, un movimento, un detto, testimonio assai buon, prova assai certa pòn far altrui di ciò che chiuda il petto.

XV

LA MADDALENA AI PIEDI DI GESÙ

Se già con cieco e poco saggio avviso mossi le piante al regno tuo rubelle, lungi da te, che su le sfere assiso scorri il ciel, calchi il Sol, premi le stelle;

oggi a le piante tue candide e belle piego il sen, gli occhi abbasso, inchino il viso, per discoprir, per imparar da quelle il sentier che conduce al paradiso.

Anzi, per dimostrar prova più espressa de la cangiata mia vita infelice, a pie de' piedi tuoi getto me stessa.

Oh de le colpe mie peso felice, da la cui grave soma a terra oppressa, chinar me stessa a si bei pie mi lice!

Ili

MAIA MATERDONA - BRUNI - ERRICO

GIOVAN FRANCESCO MAIA MATERDONA

I

ABBIGLIAMENTO MATTUTINO

Ad un tempo col Sol madonna desta, apre del del d'un volto i gemin' astri, bagna di nanfe i teneri alabastri e serici al bel fianco arnesi appresta.

Lo speglio adatta, e de l'inculta testa ara il crin sciolto con eburnei rastri; l'accoglie e intreccia con argentei nastri e di mille narcisi indi il tempesta.

Increspa il più minuto a ferreo stile, a l'orecchie sospende aurate anella e fa di perle al collo e d'or monile.

Esce alfin di sua reggia e si favella ne' suoi silenzi : Or chi, da Battro a Tile, vide cosa già mai di me più bella?

Io6 LIRICI MARINISTI

II

L'ASCIUGAMENTO DEI CAPELLI

Spiega madonna i bei volumi d'oro de la gemina chioma al sole, ai venti : questi col soffio e quel co' raggi ardenti beono, accesi d'amor, l'umor eh' è in loro.

Glorioso de l'alme almo tesoro, preziose de' cor reti lucenti, nodo più non v'intrecci e fian le nienti via più vaghe di voi, che pria non fóro.

Oh come bello il Sol degli occhi splende tra l'auree nubi e, mezzo ascoso, il volto oh quanti lacci insidioso tende !

Tanto è più vago il crin quanto è men cólto, e quanto molle è più tanto più accende, e tanto lega più quant'è più sciolto.

Ili LA PROMESSA

Verrò mi disse, e mi prefisse a punto il di terzo d'aprii la donna mia. D'indi in qua par eh 'a me sia stato e sia anno il di, mese l'ora e giorno il punto.

Spero e temo, ardo e gelo, e a tal son giunto che mia vita è delirio e frenesia; meglio il non aspettarla a me saria, sete ingorda d'amor si m'ha consunto.

Crudo aspettar, cagion d'acerbe pene mi sarai tu, cagion d'estrema noia, venga e non venga il sospirato bene.

Poiché verrà che o per gran doglia i' moia, se non vien la mia donna; o se pur viene, che s'anneghi il mio core in mar di gioia.

G. F. MAIA MATERDONA I07

IV

INVIANDO L'« ADONE »

Queste carte che Pindo ammira e cole e ch'io supplice umile a te presento, quant' hanno in d'amore e di lamento tutte menzogne son, tutte son fole.

Sol verace è l'amor, vago mio sole, sol verace è '1 martir ch'io nel cor sento; pinto è '1 duolo e qui vivo '1 tormento, qui traboccano affetti e parole.

Leggi pur, leggi, e la mia vita amara d'amara morte apprendi ; e ad esser pia dalla pietà di bella diva impara.

Leggi, e se '1 tutto è finto, a te pur sia scorta il finto del ver e fiati chiara ne le favole altrui l'istoria mia.

V

A UNA ZANZARA

Animato rumor, tromba vagante, che solo per ferir talor ti pósi, turbamento de l'ombre e de' riposi, fremito alato e mormorio volante;

per ciel notturno animaletto errante, pon freno ai tuoi susurri aspri e noiosi; invan ti sforzi tu ch'io non riposi: basta a non riposar l'esser amante.

Vattene a chi non ama, a chi mi sprezza vattene; e incontro a lei quanto più sai desta il suono, arma gli aghi, usa fierezza.

D'aver punta vantar si ti potrai colei, ch'Amor con sua dorata frezza pungere ed impiagar non potè mai.

[lo8 LIRICI MARINISTI

VI

LA MASCHERATA

Tra venti dame ordir danza reale, con finte spoglie e maschere in sembiante, devrò dicesti: or vienne, e se fra tante riconoscer mi sai, danne un segnale.

Non che venni, io volai; diemmi Amor l'ale: tutte osservai dal crin fino a le piante, e te conobbi a le due luci sante, perché vidi indi uscir l'usato strale.

Poscia, per lo segnai ch'a me chiedesti, ersi il ciglio a le stelle e lagrimai, e tu '1 chinasti a terra, indi ridesti.

Non t'avrò fede io dir volea più mai : m'invitasti ai piacer, pianger mi festi ;

anzi, preso i miei pianti a riso t'hai.

VII

LO SDEGNO LIBERATORE

Qual uom talora in alta notte suole, mentre i sensi ha sopiti, ebra la mente, scorgere assalti di perduta gente, e fugge e teme e si contrista e duole;

se poi vien desto a l'apparir del sole, ogn' affanno da fuga repente, e '1 ciel loda e ringrazia immantinente che i passati timor fùr ombre e fole :

tal io, mentre t'amai, spietati morsi d'amore e gelosia provar mi parve, onde sentia dal cor l'alma disciorsi;

ma, poi che sdegno a risvegliarmi apparve, giubilai tosto e al cielo grazie porsi che fé' da me sparir fantasmi e larve.

G. F. MAIA MATERDONA I09

Vili

IL PRIMO DI MAGGIO

Ecco l'alba, ecco l'alba, ecco il bel giorno che riconduce al nostro mondo il maggio; salutatel, pastor, dateli omaggio, or ch'ei fa dolcemente a voi ritorno.

Di verde smalto a coronarlo intorno, pria che '1 coroni il Sol di biondo raggio, altri al colle ed al prato i fiori, al faggio altri involi le frondi ed altri a l'orno.

Su, su, gite, pastor; per l'odorate erbe movete a vaghi balli il piede e '1 cantar degli augelli accompagnate.

Io non verrò, poi che per me non riede il maggio: nel mio cor sempre la state, sempre ne le mie luci il verno ha sede.

IX

L'ESEMPIO

Tisbe, il so, noi celar; non è difetto ch'abbi a celar, ch'opra è d'amore al fine: ier, su l'ore più fresche e mattutine, t'abbracciò Coridon dentro un boschetto.

Fa' ch'io t'abbracci ancor, che ti prometto tre canestri, un di gelse, un di susine ed un altro o di fraghe o d'armelline, e, s'al padre l'involo, anco un capretto.

Diman, cor mio, ne la medesim'ora torna al boschetto istesso; ivi m'attendi, eh 'a quel luogo, in quel tempo, i' verrò ancora.

Taciturna pian pian per l'orto scendi, che non t'oda o ti veggia altri uscir fuora, e m'aspetta, o t'aspetto: intendi?

no LIRICI MARINISTI

X

AMOR CONCORDE

La ninfa sua d'orgoglio amica e d'ira altri pur chiami e rigida e ribella: s'io miro la mia ninfa, ella mi mira; s'io d'amor parlo, essa d'amor favella.

S'io rido o scherzo, e scherza e ride anch' ella; piange ai miei pianti, ai miei sospir sospira; s'io lei mia gioia, essa suo ben m'appella; vuol ciò ch'io vo', ciò ch'io desio desira.

Ella è ver' me pietosa, i' ver' lei pio; de' suoi cenni io fo legge, ella de' miei; ella a me cara e caro a lei son io.

Ella tutta in me vive, io tutto in lei; io spiro col suo spirto, ella col mio; e s'a lei do tre baci, ella a me sei.

XI

LA LODE DEGLI ALBERL DEI VENTI E DELLE ACQUE

Ramillo, Eurino e Idrino

Ram. Compagni cari, or che siam qui soletti,

e venti ed acque e piante abbiam presenti,

cantiam su, lodiam su, con tre versetti,

io le piante, Idrin l'acque. Eurino i venti.

Canti Eurin, segua Idrin. Eu.-Idr. Si, siam contenti. Eu. Sospir voi siete onde gli antichi affetti

scopre a la terra il ciel, voi siete accenti

d'innamorato cor, venti diletti. Idr. Lagrime di natura, acque, voi siete,

eh 'ad Amor, di cui visse eterna amante,

a palesare il bel desio correte. Ram. Siete figlie del Sol, tenere piante;

le fasce da l'aprii, da l'alba avete

il latte, e i vezzi da l'auretta errante.

G. F. MAIA MATERDONA XII

GIUOCO DI NEVE

Cilla di bianco umor massa gelata coglie e preme e ne forma un globo breve; n'arma poscia la mano, a fredda neve calda neve aggiungendo ed animata.

Al mio sen poi l'avventa, amante amata; ma se fìnto è il pugnar, se '1 danno è lieve, tragge pur da que' scherzi offesa greve l'alma, a provar gli antichi assalti usata.

Porta amico sfidar battaglia vera, nascer dal riso il lagrimar si mira, fa verace impiagar mentita arcera;

mirasi il duol uscir di grembo al gioco, da nuvoli d'amor saette d'ira e da strali di giel piaghe di foco.

XIII

LA LEGATRICE DI LIBRI

Costei ch'altero esempio è di beliate, oh con che leggiadria, con che bell'arte troncar le fila, adeguar sa le carte ch'io con logiche penne avea vergate!

Poscia-; di greve acciar le mani armate, le batte e le ribatte a parte a parte, e tra pelli sottil, tratta in disparte, le rende in mille modi incatenate'.

Lasso, e questa è d'amor frode novella, inganno, oimè, che in atto umile e pio scopre il fero tenor de la mia stella.

Tronca il filo, ed è il fil del viver mio; martella i fogli, ed il mio cor martella; legagli, e son tra lor legato anch'io.

LIRICI MARINISTI XIV

AD ISABELLA CHIESA che rappresentava sul teatro una regina

Questi, o bella istriona, onde tu cingi fianco e crin, regi ammanti, aurati serti, mostrano ai guardi alteri, agli atti esperti, ch'esser devi-esti tal, qual ti dipingi.

Stringer con quella mano, onde tu stringi un finto scettro, un vero scettro merti; t'ammirano i teatri e stanno incerti se vanti i veri regni o se li fingi.

Sii pur finta reina: or se le vere cangiasser col tuo stato i regi onori, quanto gir ne porian ricche ed altere !

Ch'è gloria assai maggior d'alme e di cori reggere il fi'en, che in testa e 'n braccio avere cerchio e verga real di gemme e d'ori.

XV

LE DONNE DI VENEZIA

Voi che de l'Adria a le famose sponde sovra l'ali de' remi il volo ergete, meraviglia ben fia se vedrete moli eccelse e superbe uscir de l'onde.

Ma se candide membra e trecce +)ionde vedransi, che de' cor son fiamma e rete,

Maggior beltà, stupor maggior direte

mai non si vide altrove, e forse altronde. Qui direte è d'ardor più che d'umore

ricca ogni riva, e fare al ciel qui piacque, più che Hbero il pie, prigione il core.

Direte al fine: In mar Venere nacque: Veneri belle, ond'oggi nasce Amore, nascono a mille a mille entro quest'acque.

G. F. MAIA MATERDONA II3

XVI

IL GIOCO DEL PALLONE

Ignudo il petto alabastrino e bello se non quanto il copriva un lino adorno, per temprar con bel gioco il lungo giorno formava Ascanio mio nobil duello.

Battea con picciol globo i sassi, e quello scacciava al salto, e s'a lui fea ritorno, correa, lo dibattea, lo fea d'intorno girar, volar, quasi fugato augello.

Assai più che la palla, il cor feriva; largo, più che '1 sudor dal bel sembiante, dagli occhi de l'amanti il pianto usciva.

Premean, più che '1 terren, l'alma le piante, e la vampa d'amor, più che l'estiva, fean cocente provar le luci sante.

XVII

LA GIOSTRA

Per il mantenitore marchese Pepoli

Esce d'armi pomposo e folgorante d'un 'aperta montagna alto guerriere, e pender fa le s ettatrici schiere da' moti de la destra e de le piante.

Poi, fatto in campo a l'aversario avante, il batte e scuote con cent'aste altere, e, queste infrante, invittamente il fere con brando lucidissimo e sonante.

S'ordina che '1 valor più non s'adopre e confessa ogn'eroe ch'ivi è raccolto, che attonito è rimasto a si degn'opre.

E Io stuol de le dame illustre e folto perché vinto anco resti, ecco che scopre il campion valoroso il suo bel volto.

Lirici ntarinisii 8

114 LIRICI MARINISTI

XVIII

A MARIO ALBRICCI FARNESE Per le conclusioni da lui sostenute

In pacifico agon Mario contende con chi provar ne le dott'armi il vuole; da mille colpi arguti ei si difende con iscudo fatai d'alte parole.

Da lui nov'arti e novi schermi apprende il fior de' fior de le più sagge scole; discepola già fatta, intenta pende dal discepolo suo l'Ignazia prole.

Stupisce il cerchio universal latino ch'ai mostri ingegno intrepido e costante, in si tenera età si pellegrino.

Formar poi s'ode un suon per l'aria errante: Senno star non dovea se non divino sotto divino angelico sembiante.

XIX

I SEPOLCRI DEL SANNAZARO E DI VIRGILIO

Non perché le tue falde il bel Tirreno baci con labra di spumosi argenti ; non perché voli ogn'or ne' Siri ardenti freschissim'aura a vezzeggiarti in seno;

non perché sempre il tuo bel colle ameno smaltin foglie odorate, erbe ridenti; ne le future età, ne le presenti n'andrai, ne vai di pregi ricca a pieno:

ma perché '1 cener sacro il gran Sincero, Mergellina gentile, in te nasconde, l'ossa in te chiude il mantuano Omero.

Anzi l'inde, oso dir, le maure sponde onor non han di quell'onor pili altero, di cui son due brev'urne a te feconde.

G. F. MAIA MATERDONA 115

XX

LA FONTANA DI PONTE SISTO IN ROMA

Vedi, non che cader, precipitare piogge d'immensi umor quasi d'un cielo, che ne pungono il cor di dolce telo, agli orecchi sonore, agli occhi chiare.

Liquida è l'onda e pur gelata appare, di lassù trabocca altro che gelo; poi se ne forma un curvo e crespo velo, y

che si frange in sui marmi e cangia in mare.

Vedi quel mar di quante spume abonda; par che bolla anco il giel, fumi e faville par che surgano ancor da gelid'onda.

Vedi come concordi anco le stille, a l'armonia di quegli umor gioconda, ballano a cento a cento, a mille a mille.

XXI

LA VERDEA DI FIRENZE

Ai labri miei, quando più gela il verno, l'alma città, cui danno il nome i fiori, offre un sacro licor che tra i licori serba vanto superbo e pregio eterno.

Nei suoi color le liquid'ambre scerno, cedono agli odor suoi gli arabi odori, sembran tasso ed assenzio ai suoi sapori chiarello, albano, asprin, greco o falerno.

Ben questa esser dovea l'ambrosia eletta che '1 cor di Giove e de gli dèi pascea, poi ch'ella tanto inebriando alletta;

o questa del piacer la « vera idea » , d'Arno o la « vera dea », che poi fu detta di « ver' idea », di « vera dea », « verdea ».

Il6 LIRICI MARINISTI

XXII

NELL'OSPEDALE DEGL'INCURABILI DI NAPOLI

Ahi mondo, ahi senso! or ve' qui tanti e tanti in tende anguste, ancorché auguste, accolti! Di profana beltà fùr tutti amanti, tanto or tristi e meschin quanto pria stolti.

Per picciol riso hann'or continui pianti, portan l'inferno ai cor, la morte ai volti, vita speranti no, vita spiranti, morti vivi e cadaveri insepolti.

Questi è in preda al martir, quegli al furore, un suda, un gela, un stride, un grida, un freme, un piange, un langue, un spasma, un cade, un more.

Quinci impara, o mortai: dolce è l'errore, breve è '1 gioir; ma pene amare estreme spesso al corpo, eterne sempre al core.

XXIII

NEL PETTINARSI

La bella Elisa arava con terso eburneo vomere dentato campi d'oro animato. L'era un garzone a canto, che i rotti stami ad uno ad un cogliea e in sen gli nascondea. Rise ella e disse: Inutili capegli a che tu serbi? Ed egli: Quinci ordisco le corde a l'arco mio, quinci le reti ond' io impiago l'alme ed imprigiono il core. Sappi ch'io sono Amore.

G. F. MAIA MATERDONA II?

XXIV

I BACI DELLA DONNA MUTA

Quand'io ti bacio, allora, muta bocca amorosa, muta bocca odorosa, intendo la cagion perché tu taci : nascesti solo a mormorar co' baci.

ANTONIO BRUNI

I

IL LUOGO DEI PASSATI AMORI

Sotto l'ombra di quelle edre tenaci che l'olmo han con più viti avvolto e cinto, la mia vita al mio cor temprò le faci, con lei seno con sen qual edra avvinto.

Di due guance godei l'ostro non finto, qui dove aprono i fior gli ostri veraci; s'udi confuso almeno, ov'or distinto è '1 suon de l'aure, il mormorio de' baci.

Rimembro ancor con amorosa arsura il guardo e '1 riso altrui, molle e lascivo, nel tremolo seren de l'aria pura.

Lasso, e mentre son io vedovo e privo de le gioie d'amore, al cor figura il fugace mio ben fugace il rivo.

ANTONIO BRUNI II9

II

GLI OCCHI AZZURRI

Qualor de' tuoi begli occhi il bello io guardo, cui d'azzurro color fregiò natura,

s'è ceruleo l'arciero, aureo è '1 suo dardo, che le piaghe al seno, al cor l'arsura.

Fra quello azzurro, il lascivir d'un guardo rassembra il Sol ne l'onda azzurra e pura; del pianto i mari ove sommerso io ardo, quel ceruleo ondeggiar finge e figura.

Cosi parlo al mio ben; quando i ridenti lumi rivolge a me, spargendo ardore, de la rosa la dea con questi accenti:

Sotto due archi ove trionfa il core,

del ceruleo onde scorno han gli ostri ardenti fahsi il manto le Grazie, il velo Amore.

III IL NEO SUL LABBRO

Giugne fregio a la bocca e fiamme ai cori, donna, il tuo vago neo, per cui pomposo va '1 tuo molle rubin che i primi onori toglie al rubin più ricco e prezioso.

Con si bel neo, cred'io, voller gli Amori, come in Menfi solca fabro ingegnoso, segnar nel tuo bel volto i propri ardori, qual con strano carattere amoroso.

O, presa Amor la bella Psiche a sdegno, te bacia e '1 bacio suo, ch'altrui si vieta, lascia l'orma in quel neo, del core in pegno.

Quinci quest'alma andrà festante e lieta, s'ei, qual nel labro tuo d'Amore è segno, de' miei labri cosi sia segno e mèta.

LIRICI MARINISTI IV

IL VENTAGLIO

D'ambizioso augel piume gemmate bella donna d'amor distinse e prese, e per trarne aria fresca, aure gelate, n'ordio leggiadro ed ingegnoso arnese.

Lasso, e quinci tem'io che innamorate, mentre cercan temprar le fiamme accese ne l'aria, intorno a le bellezze amate apran più luci a vagheggiarla intese.

O con piuma leggiera, aura volante, mostra vario desio, volubil core, più che vento leggier, piuma inconstante;

o con esse a me spiega, empia in amore, ch'odia si dentro il seno incendio amante, che l'abborre, non ch'altro, anco di fuore.

V LA LODATRICE DI POESIE

Ond'è che i versi miei leggi ed ammiri qualora il foco mio vi leggi impresso, ed ingrata che sei, poscia t'adiri, s'a le tue labra le mie labra appresso?

È ministro d'amore il bacio istesso, quinci degno è d'amor, se dritto miri; e darti un bacio a me non fia concesso, di cui lodi le rime, il cor martiri?

Lasso, e se tanto io non impetro in loro e nel Parnaso mio ch'almen ti baci, maledetto quel di che fui canoro!

Stimo assai più de' labri tuoi vivaci cortese un fiato sol, che '1 proprio alloro, o che tu sdegni i versi ed ami i baci.

ANTONIO BRUNI VI

A UNA POETESSA

Oh qual radoppia in te gemini onori, nobil donna, fra noi pompa novella, o se ti mostri altrui leggiadra e bella o se spieghi talor carmi canori !

Sotto l'ombra or de' mirti or degli allori, fai col volto e co' versi ogn'alma ancella; si che dea degli Amori Amor t'appella e del canto le dee col canto onori.

Tu, di par chiara in Cipro e in Elicona, ardi i cor, verghi i fogli e in ogni parte con doppia gloria il nome tuo risona.

Ma più ricco è '1 tuo crin cólto senz'arte che di sacra ravvolto aurea corona: parlan gli occhi d'amor più che le carte.

VII

LA DAMA FRANCESE IN ROMA

Già da la Senna al Tebro, ove t' invita gloria d'amor più che gli altrui stupori, passi e a l'orgoglio hai la bellezza unita, tra le Grazie famosa e tra gli Amori.

Cosi ciascuno in te, fra gli ostri e gli ori, l'ostro del volto e l'or del crine addita, ti vagheggia mai che non t'adori e non t'adora sol chi non ha vita.

Di de l'Alpi incatenata e doma la Gallia, a incatenar giunta qui sei eserciti di cor con una chioma.

E ben chi vince altrui vincer tu dèi, e stimerà di trionfar pur Roma, mentre, donna, trionfi in lei di lei.

LIRICI MARINISTI VITI

A DIPORTO PER LA RIVIERA DI POSILIPO

In questo lido, ove tra bei cristalli gli smeraldi ogni pianta ognor confonde e va Flora con Teti, e i tralci a l'onde e i corimbi nel mar mesce ai coralli;

per li tranquilli e sempre ondosi calli passi al lieve spirar d'aure seconde, 've sotto il bel pie d'oro le sponde fansi, se movi i leggiadretti balli;

e stillando, qualora il ciel s'accende, sudori a l'ombra preziosi e cari, mentre perle gli dai, perle ti rende;

ma se dagli occhi tuoi stellanti e chiari, lasso, il seren de l'aere il lito apprende, tu dai suoi scogli ad esser cruda impari.

IX

LA FAVOLA DI EUROPA

Rapita Europa, il nuotator cornuto che passeggia le sfere intorno intorno col diadema real di gemme adorno e di fiammelle lucide intessuto,

fra divino e ferin, loquace e muto, si parla a lei ch'altrui fa ingiuria e scorno: Non temer, dea terrena; attienti al corno che spuntar vedi in me, duro ed acuto.

Già presso è il lido ove, sott'altro velo, lieta e fastosa or or veder tu puoi l'alta divinità ch'ora ti celo.

Stella non splenda, aura non spiri a noi, o sia l'aura il tuo fiato ond'arde il cielo, o pur sian tramontana i lumi tuoi.

ANTONIO BRUNI 123

X

LE BELLE CHIOME

Di spiegar vostri vanti già m'acquista vigor, grazia m'impetra da le muse mia cetra fra i cigni e fra gli amanti. Quinci a voi giro il cor, volgo lo stile, preziosi legami, nembi d'oro sottile, auree nubi, aurei stami. Ai vostri merti il metro avrà concorde, se de le vostre fila avrà le corde.

Voi, luminose e pure, sol fate ai lumi altrui ben ricchi oltraggi; sol presso ai vostri raggi l'alba ha le chiome oscure; voi, ondeggiando in preziosi errori su le guance fiorite, al naufragio de' cori,

o belle chiome, aprite,

con tremolo sereno, aria celeste,

su '1 vaneggiar de l'aure auree tempeste. Sciolte in anella d'oro,

di voi caro è l'error, grazia il disprezzo;

in voi l'industria è vezzo

ed è '1 vezzo decoro.

Non so dir se con gioia o se con onte

de l'alme innamorate

sul collo e su la fronte

voi scherzando baciate

talor candido avorio e nevi intatte,

animato alabastro e vivo latte. Nove anella talora

pur forma in voi dal lucido oriente

aura lieve e ridente,

124 LIRICI MARINISTI

ministra de l'aurora;

si che mentre ondeggiate ai soli estivi

con lei, che lussureggia

con errori lascivi,

non sa chi voi vagheggia,

del servaggio d'amor fatti trofei,

se son vostri gli errori o pur di lei.

Ma qual maestra mano, di qual ricca materia ignota a noi le fila ordisce a voi, con lavoro sovrano? Forse de' velli d'or per cui ne gio cosi Giason famoso, a voi le fila ordio ingegnerò ingegnoso? o per ordire a voi fila si belle filano il Sol la luce, i rai le stelle?

Se tronche vi rimiro, di farne corde a l'arco Amor la palma porta, o lacciuoli a l'alma che legata sospiro ; o pure a' rai de l'amorosa face, tratte su l'alte sfere in un groppo tenace da l'acidalie schiere, vi trasforma possente il dio di Delo di crin reciso in terra in stelle in cielo.

S'in lavacro d'argento, entro i cui flutti Amor le piume asperse, io vi contemplo immerse, a contemplarvi intento gode l'alma di voi l'aureo riflesso per l'argentato umore; anzi l'umore istesso solo al vostro splendore che fa l'aure più fosche anco serene, se d'argento già fu, d'oro diviene.

ANTONIO BRUNI I25

XI

I BACI

Soavissimi baci, che son nettare ai labri e manna ai cori, già mi desti, o Licori. Quinci un bacio vorrei rapir co' labri miei, per dir se sian più dolci e più graditi i donati o i rapiti.

Bacia, baciami, o Glori, ma '1 tuo bacio si scocchi o nel labro o negli occhi; perché l'anima mia,

che negli occhi e nel labro ognor desia e baciarti e mirarti o mirarti o baciarti, goda pari dolcezza, amante amata, o mirata o baciata.

Perché, mentre mi baci, donna, mi mordi e vuoi ch'io provi dolci i baci e i morsi tuoi? Aggiungi i morsi ai baci,

perché nel labro impresso il bacio io miri? Si, si, con labri accesi e denti ingordi bacia, baciami pur, mordimi, mordi, perché dolcezza egual l'anima sente, se talor morde il labro e bacia il dente.

126 LIRICI MARINISTI

XII

IL RAPIMENTO D' ELENA

DI GUIDO RENI E

LA BIDONE TRAFITTA

DEL QUERCINO Al cardinale Spada

Stupor de la natura, onor de l'arte, tua mercé pur rimiro in tela espressi i pregi altrui ch'idolatrando io lessi in argolico stil, latine carte.

Ecco il lino animato agli occhi esprime l'ideo pastor, de la beltà l'idea, eh' è frigia meraviglia e pompa achea, de l'italico Apelle opra sublime.

La bella greca al giovine troiano già fu rapina a' suoi desir gradita, e disciolse la vergine rapita i gridi al ciel, le trecce a l'aura invano.

Già di tanto tesor vedove e prive, per insolita via correndo al Xanto, più che d'umor vedeansi ebre di pianto d' Inaco l'onde e d'Acheloo le rive.

E già, tosto ch'aperse i primi albori a l'Asia, del bellissimo sembiante, adultera in amor, lasciva amante, arse a Scamandro i flutti, ad Ida i fiori.

Ma pur oggi, nel lino, al patrio lito Pari, ch'altri non ha pari nel viso, pur lei rapisce, onde ne resta anciso e ne la sua rapina anco rapito.

Ben veggio in lui, se lui contemplo e guardo vagheggiator del vagheggiato volto, col vezzo in bocca a lascivir rivolto, il lusso del color, ma più del guardo.

ANTONIO BRUNI 127

Ritratti, ancor miracoloso amore gli arde fra l'ombre e '1 foco lor non cela, e se da lor non miro arsa la tela, è di pennel miracolo maggiore.

Tremanti si, ma nel mirar non lassi, volgono gli occhi a l'amorose prove; ma per molle sentiero impenna e move il volo il cor, più che la pianta i passi.

De la coppia d'amor ebra e seguace è precursore Amor; ma stella e guida è di lei la beltà cupida e fida, vie più che di Cupidine la face.

Ma come avvenir può ch'ella s'avvezzi nel tuo albergo, ov'Apollo ha '1 simulacro, a trattar si profana in loco sacro varie lascivie, e la lascivia i vezzi?

Se di greca eloquenza amico fonte ne l'eccelsa magion lor corre avanti, come da Grecia i fuggitivi amanti ne l'eccelsa magion volgon la fronte?

Qui, di cura real gravido il seno, spieghi i pregi de l'ostro e de la penna, famosissimo al par, s'unqua a la Senna giugni dal Tebro o se dal Tebro al Reno.

Non intrecci di mirti altri le chiome qui, dove a te l'intreccia o lauro o palma; non sia ratto d'amor dov'hai la palma di rapire a l'oblio famoso il nome.

Da la sacra magion, dunque, sen vada lungi la coppia effeminata e molle. Miri ch'incontra a lei la punta estolle già di Febo lo strai, d'Astrea la spada.

Ma quale agli occhi miei s'offre novella opra d'amore? a qual di morte acerba apparato d'orror, scena superba or guida i guardi miei tragica stella?

128 LIRICI MARINISTI

Veggio pur io l'innamorata Elisa al suo spirto che fugge aprir la via, onde scerner non so s'ella più sia arsa nel rogo o più nel sangue intrisa;

e seco miro anch'io pietosa cura mostrar su lei l'addolorata suora che sospira e che piagne, ond' avvalora col pianto il foco e co' sospir l'arsura.

Sembra vivo il color, se '1 miro intento; e ben opra è di lui ch'illustre e chiaro de la canora dea discioglie al paro inver' la gloria e cento penne e cento.

dev'ella mostrar nel regio tetto su '1 rogo in pria d'amore, indi di morte, de la vita le fila o tronche o corte, incenerita il cor, svenata il petto.

Sol ne la reggia tua nutre e conserva il ciel, tra varie imagini ingegnose, o magnanimo eroe d'opre famose, la clemenza e '1 valor, Febo e Minerva.

Ah, ben leggo il magnanimo pensiero! De la gemina imagine discerno non vulgare il concetto, il senso interno, e certo, invariabile, il mistero.

Vuoi che guardo modesto, alma pudica, argomenti infallibili n'apprenda, se fia che a contemplar sui lini intenda l'afflitta Dido e la rapina antica.

Chi di teneri mirti avvolge il crine fugga i furti d'amor, saggio ed accorto; a chi da due begli occhi in terra è scorto, s'è principio l'amore, il rogo è fine.

Se '1 frigio involator, d'amor campione, l'adorata bellezza ha sempre appresso volge, rivolto in cenere se stesso, in fiamme l'Asia, in cenere Ilione.

ANTONIO BRUNI I29

S'al troian peregrin l'anima inchina, da lo strale d'amor ferita e vinta; giace da l'armi de la morte estinta di Cartago la nobile reina.

Par che '1 saggio pittor fregi ed allumi con l'ombre de' colori e de' pennelli quei de' furti d'amor pregi novelli vie più che col disegno e che co' lumi.

Fuma l'accesa e 'nsanguinata pira ov 'omicida e vittima è pur Dido; e '1 caro amante e fuggitivo infido con gli aliti di morte anco sospira.

Quinci cortese il ciel questo n'adombra veracissimo senso agli occhi miei: « Fuggi lascivo amor, se saggio sei : la gioia è un fumo ed è '1 diletto un'ombra ».

XIII

PER LA RELIQUIA DEL LATTE DELLA VERGINE

Sacratissimo latte a cui sono purissime ed eterne fonti due mamme intatte, virginali, materne,

che l'offriscono a lui, ch'in rozze fasce sazio è di gloria e pur la gloria il pasce ;

fosti già sangue eletto de le vergini membra unqua non grevi di terreno difetto, e de le bianche nevi a le porpore tue diede il candore, più ch'ardor di natura, ardor d'amore.

Lirici marinisti 9

130 LIRICI MARINISTI

Mentre il petto stillante te, vie più che mortai, licor divino, pascea Cristo lattante stretto in povero lino; chi sa che non spargesse i pregi tui e che allor non toccassi i labri a lui!

O forse allor Maria con prodigio d'amor dal sen ti sparse, mentre il figlio languia e sitibondo apparse, perché bevesse umor di latte almeno, non l'offerto amarissimo veleno!

Tu degno sol, tu degno che '1 cielo istesso i tuoi candori imiti de l'empireo regno sui talami fioriti,

e che presti sol tu, mentre s'inalba, la candidezza al cielo, il latte a l'alba;

degno tu che, novello fiume, sii specchio a le beate menti, poiché il latteo ruscello ch'ha le sponde lucenti, benché scorra sul ciel stellato chiostro, presso a te sembra d'ebeno e d'inchiostro.

Anzi, perché tu sei de la diva degli angeli fattura e col dio degli dèi sue viscere e sua cura, dimostra alma trafitta e fioca voce ella a pie de la croce ed egli in croce;

sui poggi stellanti, con nov' ordine d'astri e sito estrano, guardo di lumi amanti, perché fregio sovrano tu giunga a inestinguibili zaffiri, tra la Croce e la Vergine ti miri.

ANTONIO BRUNI I3I

Quivi, qualora il sole con diadema di gemme e aurei lampi de la celeste mole scorre i prefissi campi, riverente, adorando i tuoi candori, ceda a le stille tue le stelle e gli ori.

XIV

SOFONISBA A MASSINISSA

Mentre gli occhi a le lagrime discioglio, scriva la man col sangue, e quel rossore che manca al tuo sembiante abbia il mio foglio.

Sdegno spiri il pensier vie più che amore, e la mia schernita altrui dimostri svenato il braccio e lacerato il core.

In questi amari miei vermigli inchiostri, s'altri gli guarda mai, spero ch'almeno si tinga di pietà, se non s' inostri.

Si dunque, o Massinissa, il bel sereno de l'amor che la destra e '1 cor mi giura, qual baleno svanisce in un baleno?

Qua! rigido destin, qual ria sventura miete in erba i miei fasti, anzi la vita? chi su l'alba il mio di smorza ed oscura?

Misera Sofonisba ! oimè, tradita l'hai tu, crudel, con ferità latina, pria da te vinta e poi d'amor ferita.

De la nobil Numidia alta reina e del regno d'Amor trionfo altera, il mio volto, il mio scettro ogn'alma inchina.

Gemina maestà placida impera ne la mia fama, oltre l'Idaspe e '1 Moro, a qual gente è più barbara e più fiera.

132 LIRICI MARINISTI

Più che di gemme orientai tesoro, m'orna aspetto reale; ho su la fronte corona di beltà vie più che d'oro.

E '1 romano campion passa ogni monte, varca ogni fiume e '1 mio reame assale e desta a mie bellezze oltraggi ed onte;

mentre tu, seco unito al mio gran male, vinci invitto il mio regno e m'incateni, a me negli anni ed in bellezza eguale.

AUor, preso d'amor, che teco io meni in nodo maritai le notti e i giorni brami, e le nebbie mie squarci e sereni.

Quinci, lassa (oh mie gravi ingiurie e scorni, oh servili e durissimi legami di cui vien che me stessa onori ed orni!)

fia ch'amante io ti segua e sposo io t'ami, mentre leghi il mio sposo, il gran Siface, e sconfitta mi vói, vinta mi brami.

E dove il mio trono a terra giace, l'alma al tuo amor sollevo e, ft-a gli ardori di Bellona, d'Amor tratto la face;

e poss'io tra le morti e tra i furori, con disprezzata man, fredda qual ghiaccio, destar le Grazie e suscitar gli Amori ;

anzi, mentre i miei fidi in stranio laccio languiscon di dolor, d'amor poss'io languirti in seno e tramortirti in braccio !

Ma che troppo il tuo volto è vago e pio; più che '1 valor, la tua beltà guerreggia e vince i miei guerrieri e più '1 cor mio.

Miro e piango i miei fasti e la mia reggia e, di pianto amoroso ancor stillante, la tua grazia in amor l'occhio vagheggia.

Erro, ma non ho schermo, egra e tremante; donna tenera e molle or che far deve già preda e serva a vincitor amante?

ANTONIO BRUNI 133

Erro, e in amore il mio contrasto è breve; ma pur pietà non che perdono io merto, che se '1 fallo è d'amore, il fallo è lieve.

Cosi, vinto il mio regno e '1 core aperto, trionfando ne vai di me, de' miei, o di Marte, o d'Amor guerriero esperto;

e fra soavi lagrime ed omei passi (oh vergogne mie!) dal campo al letto, via più fabro d'amor che di trofei.

Quivi il bel fianco ignudo, ignudo il petto t'offro; ne' lacci tuoi forti e tenaci godon l'anima avvinta, il sen ristretto;

e quivi or fra le risse or fra le paci, giungi a molli sospir dolce lusinga, a le lusinghe i vezzi, ai vezzi i baci.

Sai ben, la 've a la pugna Amor s'accinga, come labro con labro in un s'accoppi, come core con core in un si stringa;

anzi, mentre al desio l'ardor raddoppi, doppian per te, solo a' diletti inteso, le catene le braccia e l'alma i groppi.

S' è di mia pudicizia il pregio offeso, in me provo il rossor, dal labro impuro di lascivia assai più che d'ostro acceso.

E poi (ben di mia stella orrido e scuro tenor!) fra tenerissime dolcezze mostri il cor di diamante assai più duro.

Empio e crudo che sei, di mie bellezze sazio, or torci da me le luci amate, che furo in prima a vagheggiarmi avvezze.

E le leggi d'amor rotte e sprezzate, se de l'armi il furor l'alma non pavé, mi dai colme di fel coppe gemmate;

mentr' è ancor la tua bocca umida e grave de' miei baci, il veleno a me presenti in difetto del nettare soave.

134 LIRICI MARINISTI

Dunque, in ora si breve in te fian spenti tutti i sensi d'amore? in te s'annida, in te spirito uman, dunque, pur senti?

Dunque, fia eh 'a te il Sol splenda ed arrida, s'ei, che su l'alba già sposo ti vide, ti vede anco su l'alba empio omicida?

Perché il cor con la man, con voglie infide, se promette la fé, la schernisce, se mi giura l'amor, l'amor deride?

Ben più che l'alma, in te l'amor languisce; brina in neve si tosto o neve in spuma come la fiamma tua già non svanisce.

Dura più nebbia a sole e fiore a bruma; già più di te volubile e leggiero non ha volo l'augel, augel la piuma.

Quindi, tanto infedel quanto guerriero (amante io non dirò, s'amor gentile sprezzi, vie più che uman, spietato e fero),

porgi in vece d'anello e di monile ai solenni imenei lacci e catene, con servaggio si barbaro e si vile;

e '1 tesoro che in don da te mi viene, è vascello che tòsco a me sol porta e col dono primier l'ultime pene.

Deh, non tronchi mia vita, a pena attorta, altro che '1 ferro tuo; so che mi vuoi al tuo trionfo e catenata e morta.

Ben riede il fato in me degli avi eroi, del forte genitor, del gran campione, d'Asdrubale, ch'illustre è si fra noi;

di lui che coltivò l'armi e l'agone col sudore e col sangue, e talor, doma l'oste, intrecciossi al crine auree corone;

di lui, che in un d'allòr cinse la chioma, e con lume d'onor che non s'imbruna, fé' superbe cozzar Cartago e Roma.

ANTONIO BRUNI I35

Ma giace vinto al fin ; ned altri aduna l'ossa famose e '1 glorioso busto, com'io d'amor trastullo, ei di fortuna;

proviam ambi il destino e '1 cielo ingiusto, fatto già spettator de' nostri scherni orgoglioso il Metauro, il Tebro augusto.

Lassa, ma pria che in me rigido verni di morte il gelo, io spegnerò l'indegno foco e del foco i sensi e i moti interni.

Si, si, perdasi amor, se persi il regno; m'abbian morte ed amor tra le lor prede; siasi, tradito amor, giusto lo sdegno.

Ben cieco è chi tue frodi oggi non vede: ecco priva d'amor, d'amante, io giaccio; ecco rompo l'amor, qua! tu la fede.

Già fui tutta di foco, or son di ghiaccio, serva no, ma nemica; a' tuoi trionfi mi vedrai morta, pria che serva al laccio.

Invano, invan di mia beltà trionfi, di Numidia e d'amor barbaro infido; invano, invan del tuo valor ti gonfi.

Cerca ornai che del Tebro al patrio lido, de le tue glorie illustri e pellegrine, pria che tu quivi aggiunga, aggiunga il grido;

che già le vaghe vergini latine mostran, perché '1 lor bello ami ed ammiri, latteo sen, rosea guancia, aurato crine;

già già nel grembo tuo le abbracci e miri : vie più dolci de' miei so che saranno misti i lor baci a languidi sospiri.

Ma so pur ch'amarissime godranno le dolcezze d'amor: fian mie rivali si nel provar l'amor come l'inganno;

non mancheran già loro urne regali, dove ondeggi il velen ch'immerga e chiuda in caligine eterna i di vitali.

136 LIRICI MARINISTI

Certo è pietà far che vulgare e cruda man col laccio o col ferro in me non privi del suo corporeo vel l'anima ignuda!

Regio e degno pensier ch'altri rav\'ivi con lode ognor, rubarmi il regno e il trono, tormi la fama e me ritorre ai vivi !

E si vii, si schernita ancor ragiono? vivo ancor, spiro ancor? L'uomo si pio pur la vita m'invola, e viva io sono?

Moro, ma pria vuo' spento il fuoco mio; il velen beverò, pur che ne' miei scorni beva ogni età l'acque d'oblio.

A l'incendio mio spento or si che dèi scaldar l'alma col gel, mentre al mio foco breve punto scaldarti non potei.

Non sarò più di te favola e gioco, chiuderò gli occhi ove al tuo amor gli apersi, avrà in vece d'amor l'odio in me loco.

In preda ai venti poi parte si versi di quel foco la cenere gelata, parte asciughi il mio sangue in questi versi.

Ma de la vita mia da te sprezzata, reliquia miserabile e funesta siasi la polve al tuo gran danno armata.

Quasi turbo sonante ed ombra infesta io, io, rivolta in polve, ovunque andrai t'apparirò crudel non che molesta;

sdegnerò, t'odierò quanto t'amai; e di larve e d'orrori avvolta, intorno turbando ove tu sia la luce e i rai,

l'ombre sol mi fian grate, in odio il giorno (^).

(i) Allegoria. L'innamoramento di Massinissa con Sofonisba in mezzo del l'armi accenna quanto sia più potente degli eserciti armati una bellezza, bencht ignuda. L'aver ella nella perdita del regno, e fra le proprie catene e fra quelle di suo marito, dato luogo agli amori acconsentendo al volere altrui, significa la legge- rezza e fragilità delle donne in affetti somiglianti. Il passar poi in un subito dai letto di nozze alla bara di morte, avendo per mezzo del veleno provato il nuove sposo ed amante omicida e nemico, ci dichiara esser vero in più guise ciò che de gli effetti d'amore testificò il greco Focilide: Amor ìiominuni sanguini Hdev.do gatidet.

SCIPIONE ERRICO

I

CONTRO L'AMOR PLATONICO

Baciami, o Clori, e fa' ch'io goda a pieno tua leggiadra beltà, tuoi pregi tanti, e de le grazie tue nel prato ameno fa' che appaghi a mia voglia i sensi erranti.

Fa' che nel molle tuo nettareo seno gli spirti appaghi languidi e tremanti, e con l'opre da noi scherniti sieno quei che dan legge ai desiosi amanti.

Non vuol filosofìa de l'amar l'arte, perché il fanciullo Amor non ha costume molto internarsi ne le dotte carte.

Ceda al tatto la vista, al labro il lume; il guatar, l'affissar vada in disparte, perché tocca e non mira il cieco nume.

138 LIRICI MARINISTI

II

L'AMANTE TACITO

Ardo, e l'immenso ardor ch'ho in seno accolto regna ne l'alma e a pena il petto sente; e cresciuto e già grande amor fervente in fasce di silenzio ho stretto e involto.

Talor tento mostrar nel mesto volto il celato desir, ma ne la mente tosto ritorna il rio pensiero ardente, e rassembro Meandro, in me rivolto.

E come spesso il mar con onde piene romper le mète sue par che si miri, sol poi spuma e rimbomba in su l'arene;

cosi tentan passare i miei martiri il confine del cor, ma fuor sol viene spuma di pianto e suono di sospiri.

Ili LA BALBUZIENTE

Del tuo mozzo parlare ai mozzi detti mozzar mi sento, alta fanciulla, il core. Lasso, con qual dolcezza e qual valore quella annodata lingua annoda i petti!

Tu tronco, io tronco il suon mando pur fuore, ma fan varie cagioni eguali effetti, che gli accenti a formar tronchi e imperfetti te insegnò la natura e me l'amore.

Or la beltà de la leggiadra imago, cime, qual fia, se delle tue parole il difetto gentil, pur è si vago ?

Eco sei di bellezza? o la favella tra' labri appunta e abbandonar non vuole di coralli d'Amor porta si bella?

SCIPIONE ERRICO 139

IV

PER UNA MERETRICE SPAGNOLA MORESCATA

Chi vuol veder pur come alletti e tiri un laccio ogn'alma in questa nostra etade, la grazia di costei, l'alma beltade e '1 soave parlar contempli e ammiri.

Chi vuol veder come contrario giri il sole e a sorger vada ov'egli cade, questo che da quell'ultime contrade sen vien. Sol di vaghezza, osservi e miri.

Giunto l'invitto Alcide a l'oceano, già con l'ispane e con l'arene more pose la mèta a l'ardimento umano.

Or di lui fatto illustre imitatore, in costei ch'ha del moro e de l'ispano pose la mèta alle bellezze Amore.

V

AL PRINCIPE TOMASO DI SAVOIA

Tratti, o Tomaso invitto, aste e cimieri, onde muto l'estran ti tema e ammiri; e chiarissimi rai dagli occhi alteri di sovrana bellezza intanto spiri.

Cosi in uno e de l'alme e de' destrieri il bel fren con destrezza allenti e tiri ; alletti e morte dai, se dolci e fieri i vaghi sguardi e i ferri infesti aggiri.

Tu de le vesti più pregiate e fine o d'esercito anciso o in fuga vòlto arricchisci talor le rupi alpine.

E spesso l'Alpe fai, di sangue involto, mentre rosseggian le sue bianche brine, imitar gentilmente il tuo bel volto.

I40 LIRICI MARINISTI

VI

A GIOVANNI ANTONIO ARRIGONI

Poggia al monte di Pindo e ardito e snello, Arrigoni, trascorri a ogn' altro innante, e de l'invidia il guardo atroce e fello prendi a calcar con l'onorate piante.

Tra' cigni di Parnaso altero e bello apparirà tuo giovenil sembiante, come fiorito e nobile arboscello talor verdeggia entro l'annose piante.

Fia che prenda per te dolce martoro, d'amorosi legami il core involto, de le vergini muse il sacro coro.

L'alta corona ond'egli ha il capo avvolto, Febo a te sol darà di sacro alloro, perché l'altra, di raggi, hai nel bel volto.

VII

LA VIA LATTEA

Al cardinal Borghese

Sorge nobil città, che altera siede del bel Tirreno in su l'argentee sponde, che l'ossa illustri ond'essa è degna erede di Partenope bella in grembo asconde. Tra verde e fertil urna ella si vede del riverente mar restringer l'onde, e con cento edifici e cento braccia, Briarea torreggiante, il ciel minaccia.

Ma frondosa con lei città confine, con bei verdi palaggi, alta gareggia, dove Pomona il pampinoso crine tra vetri di ruscei specchia e vagheggia;

SCIPIONE ERRICO I4I

dove con vive e ruggiadose brine imperlarsi il bel sen Flora si preggia; dove odorad, candidi e vermigli cittadini sen stan del sole i figli.

Di piropi e smeraldi allegri tetti fan le viti serpenti, alto poggiando, e morbidi figura e ft-eschi letti l'umido suol, la molle erbetta ornando, e, con fertil guatar, ne' verdi aspetti stansi l'amanti palme amor spirando, e spiegano i naranzi in bel tesoro odorati diamanti e poma d'oro.

\'aghi accenti, volando in vaghi cori, la dipinta d'augei schiera difi"onde; garrulo rio per trasparenti errori con la lingua d'argento a quei risponde; forma anch'essa tra lor detti canori l'aura con susurrar tra fronde e fronde, si che in dolce armonia s'accoppia intanto d'aure, d'acque, d'augei la voce e '1 canto.

L'aura, che del ballar nobil maestra, dolce commove a vaghe danze i fiori, e seco or a sinistra or move a destra con lunghi giri i lascivetti odori ; l'aura, ch'or dona or toglie e, accorta e destra, di natura comparte almi tesori, de la verde famiglia è spirto e vita e '1 ciel ridente a vagheggiarla invita.

Vicino è '1 mare, e vaghe e ricche sponde fanno minute perle ai .suoi zaffiri ; vago specchio è del ciel, qualor senz'onde placido starsi e trasparente il miri ; vago è s'al moto il mormorio confonde, e increspandosi ancor par che s'adiri; vaglie son l'ire sue spesso a vederle, quando il vago zaffir trasmuta in perle.

142 LIRICI MARINISTI

Era nel tempo allor che in trono ardente coronato di raggi il Sol sedea e ne l'aria accampar duce potente con falangi di fiamme alto parea; struggeasi in foco il tutto e riverente a l'aspetto di lui l'aura tacca; par che acceso stupor la terra ingombre, fugge il fresco nel centro e fuggon l'ombre:

quando quivi fur viste ignude a l'onde vaghe ninfe tuffarsi e vaghe dee: tra nereidi cosi liti gioconde vengon dolci a mischiar l'alme napee; rideva il mare e germogliar feconde bianche spume parean di Citeree. Cosi a l'erm'acque, ai ciechi sassi, a l'ore, spettacol di sue pompe offerse Amore.

Lega in trecce una il crin, l'altra il figura piramide gentil d'oro con oro; questa al vento il preda e di natura fa ne l'aria ondeggiar crespo tesoro; fallo incolto cader quella e noi cura, de' morbidi alabastri aureo lavoro; gli occhi azzurri una tien, ma pura luce da due neri levanti altra ci adduce.

Clizia ha d'ostro le guance; un puro latte in faccia ha sol la delicata Irene; Silvia per tutto le sue nevi intatte tempestate di rose intorno tiene; di dolci baci al molle invito fatte di rugiada d'amor gravide e piene ha due porpore Filli e par che scocchi dolce riso con lor, ma pria con gli occhi.

Spira con grato e con mortai diletto da mantice gemmato Armilla i venti ; l'alma Clori consuma in vago affetto al dolce foco di rubini ardenti ;

SCIPIONE ERRICO 143

mamme l'una non ha, l'altra nel petto immature le mostra ancor nascenti ; altra grazia e beltà si cangia e mesce in altre ed altre, e si diffonde e cresce.

Ma gli scoperti e tremoli candori, de l'incendio d'amor brine cocenti, al par dolci, al par vaghi e pari albori son de' chiari dal mar Soli sorgenti ; schiera parean di delicati avori, schiera di vaghi e teneretti argenti ; nuotan leggiadre e fan vezzoso e vago di tenerette nevi amato lago.

Ed in un s'inargenta e in un s'indora con spume il mar, con sciolte chiome e bionde, e gemiti d'amor mandan talora da le tenere palme aperte l'onde; spingonsi destre e fan lor moto ancora le man, le gambe alabastrine e monde: vaghi remi d'avorio ai vivi legni, di merci di bellezza onusti e pregni.

Or inarcan le braccia ed agli aspetti son con archi d'argento ignudi Amori; or fermi e stesi in sugli ondosi letti spiegan molli d'amor gli aperti onori ; talor mostran sott'acqua i membri e i petti, tra vasi di zaffir divi candori ; si tuffan, s'ergon, fan carole e balli per l'ampie vie de' trasparenti calli.

E tra moti e tra nuoti urtansi a gara l'amorose guerriere in lieta giostra; e vi è cui l'onestà pur troppo è cara, che a le ignude bellezze il volto inostra; de' bei membri altre ancor parte più rara toccan scherzando a chi schivar ciò mostra; d'acque si spruzzan gli occhi, e i vaghi visi accompagnano al nuoto e vezzi e risi.

144 LIRICI MARINISTI

Tal era il nuoto e cosi arar parieno con aratro d'avorio i salsi campi; vibran tra '1 mar, pur come un ciel sereno, gli occhi, stelle d'amor, tremoli lampi; con bellezze schierate ond' è il mar pieno par che contra i rubelli Amore accampi, o che vogli destar quasi per gioco per le nevi guizzanti a l'onde il foco.

E voi, stellati pesci, e tu bramasti tra bei pesci d'amor guizzar, delfino; ed anco per costor tu desiasti essere, o can celeste, il can marino; de l'acceso desir parte appagasti tu de l'eterne sfere occhio divino, tra le bellezze e tra l'argentee stille seminando talor lampi e faville.

In ninfa Proteo per nuotar con loro mutossì; e tutto l'umido confine, per mirar, ingombrar vidute fòro, sorte dal cinto in su, le dee marine; invaghiti correan de' lacci d'oro i bei muti nuotanti al biondo crine, e tra lor dolce e con tarpate penne stuol d'ignudi Amoretti a guizzar venne.

Escono alfin da' salsi ondosi umori e stillan molli perle i vivi argenti, che gocciolando van tra' bei candori, de l'aria di beltà stelle cadenti. Ruggiadose cosi n'appaion fuori l'aurore al bel seren de' giorni algenti; uscir de l'acque e mano a mano unirò ne l'arenosa scena e han fatto un giro.

Vago giro d'amore e vaga sfera d'alta beltà ne l'amoroso mondo; la soma soffreria dolce e leggiera, fatto Atlante, ogni cor di si bel pondo;

SCIPIONE ERRICO 145

vago e novo zodiaco, entro '1 qual era fatto più nobil Febo, Amor fecondo, o pur d'ogni bramosa accesa mente del bel foco d'amor sfera cocente.

Danzan festose, e l'animate brine volgon giocose e lascivette e snelle; sfavillanti le luci e peregrine seguon pargoleggiando i piedi anch'elle; scende dal molle capo il folto crine sovra le mamme tenerette e belle, e al par d'un Sol che dal mar Indo è fuora, quei due monti d'argento il capo indora.

Treman le crude mamme e trar diresti nel teatro de' petti i balli a prova. Qual veder fu, come d'ignudi e presti vaghi avori saltanti un stuol si mova? qual veder fu senza l'odiose vesti danzar cerchio amoroso in foggia nova, che gira e spiega al fin d'alquante rote, orologio d'amor, sonore note?

Canti, scherzi, sorrisi entro i tesori di scoperte bellezze Amor confonde; quando cantan costor, tra salsi umori sembran vaghe ballar ne l'alto l'onde; quando ballan costor, detti canori confonde il mar tra miniate sponde, ch'or vago suoni a le lor danze, or pare che balli al suon de le lor note il mare.

La donna è un ciel diceano, ha il capo aurato, di Berenice i lucidi capelli ; porta negli occhi il Sagittario armato, porta negli occhi i lucidi Gemelli; gli occhi ond'è vago un Orion formato, gli occhi. Soli de l'alma amati e belli, gli occhi che, vòlti in varie e gentil arti, sembran Veneri ed Orse e Giovi e Marti.

Lirici vtarinisti io

146 LIRICI MARINISTI

Del troian l'urna è de la bocca il vaso, son picciole vigilie i bianchi denti ; son l'aquila in prontezza e '1 gran Pegaso, cigno e cetra in dolcezza i lieti accenti ; libra due poli, ed orto sono e occaso le due del bianco sen poma sorgenti ; la donna è un ciel, ma al moto suo giranti son caduchi elementi i fidi amanti.

A tal canto, a tal ballo, al divo aspetto ch'offre ignuda beltà d'almi candori, tacquer gli uccelli e sul depinto letto trattenne il rivo i fugitivi umori ; gli elementi arrestarsi, e per diletto fermar le sfere i sempiterni errori : le vidde e tenne in lor stupide e fisse l'eterne luci il sommo Giove, e disse:

Che veggio? or che vaghezze oggi apparirò, che indizi son d'alte bellezze eterne? Non formar tai concetti unqua s'udirò si vaghe girar le sfere eterne. Più non dimori in terra un si bel giro, ma faccia adorne le maggion superne, e dal candor di quelle nevi intatte si figuri nel ciel strada di latte.

Cosi diss'egli e, chini e riverenti, gl'imi abissi tremar, tremar le sfere; veggonsi in ciel di fiamme e d'or lucenti le donzelle poggiar ratte e leggiere; s'alzan tra l'aria, e tra le nubi e i venti sparivan già; ma allor che in vesti nere dal bel terrestre sen la notte uscia n'apparve impressa in ciel la Lattea via.

Cosi per sommo eroe spiegava il canto Opico pastorel presso a Peloro; poi disse: O gran Borgesi, accetta intanto frutto immaturo di toscano alloro;

SCIPIONE ERRICO 147

mentre non può mio suon poggiar cotanto che narri i preggi tuoi, che muto onoro. Solo umil sotto te star io m'appago, come l'aquila tua sta sotto il drago.

IV

DIVERSI

GIAMBATTISTA BASILE

I

SANTA CRISTINA

Di Cristo in croce essangue amante sviscerata, nel suo duol, nel suo sangue Cristina trasformata,

sente dentro al suo cor mesto e doglioso amorosa pietade, amor pietoso.

Brama con lui patire e sferze e spine e croci ; seco desia morire fra' suoi tormenti atroci ; e, gravida d'amor, nel cor istesso ciò che brama e desia le resta impresso.

Talché ne l'alma sente i medesmi flagelli, la corona pungente, i chiodi acuti e felli

e, nel suo duol cangiata acerbo e forte, prova seco ad ogni or viva la morte.

152 LIRICI MARINISTI

sazia l'alma immersa d'esser ne' suoi martiri, in luì tutta conversa, vuol ch'anco il corpo aspiri a trasformarsi ne l'amato Cristo e a far d'eterna gloria eterno acquisto.

Col chiodo aspro e mortale trafìgge il pie beato; ma in amoroso strale il ferro trasformato, con soave d'amor dolce ferita a la carne morte, a l'alma vita.

Gusta l'assenzio e '1 fele, ma quel licor l'è dolce vie più che d' Ibla il mele, SI '1 cor le nutre e moke: stupendi effetti del divin amore, ch'amareggia le labbra e sana il core.

Fu d'alto amor altrice al suo celeste amante e vera imitatrice de le sue piaghe sante, e ben mostrò mirabilmente come di Cristo corrispose a l'opre, al nome.

Or degnamente in cielo gode, fra spirti eletti, del suo amoroso zelo più soavi diletti, e dolcemente di mirar s'appaga di Cristo in lei le piaghe, in lui sua piaga.

GIAMBATTISTA BASILE I53

II

PER L'INCENDIO DEL VESUVIO DEL 1632

Mentre d'ampia voragine tonante fervido vedi uscir parto mal nato, piover le pietre e grandinar le piante, spinte al furor d'impetuoso fiato,

e i verdi campi già si lievi avante coprir manto di cenere infocato, e '1 volgo saettar smorto e tremante solfurea parca, incendìoso fato:

Ahi ! con lingua di foco ei par che gridi arde il tutto, e sei pur alma di gelo; tu nel peccar t'avanzi e '1 mar s'arretra.

Non temi, e crollar senti i colli e i lidi ; non cangi stato, e cangia aspetto il cielo; disfassi un monte, e più il tuo cor s'impetra!

III LA BELLA CHIOMA

Sovra gli omeri bianchi via più che freschi gigli e pure brine, l'aureo mar ondeggiava del bel crine, e al dolce lusingar d'aura seconda rendea più chiaro l'or, più ricca l'onda. Cosi, lucente e vago copre l'arena d'or superbo il Tago, e cosi '1 Gange ancora l'illustre riva alteramente indora.

154 LIRICI MARINISTI

IV

PALLORE GRADITO

Pallidetta mia vita, il minio cangerei col tuo pallor, cosi leggiadra sei. Pallido il volto bramo, vermiglio già non l'amo; questo è color di sdegno, quel di pietade è segno: anzi, segno è '1 pallore di chi, d'amor ferita, e langue e more.

BIAGIO CUSANO

I

LE TRE BELLE

O belle Parche al mio stame vitale, o separato Gerion d'amore, o tridente gentil che nel mio core puoi con tre punte aprir piaga immortale!

Ecco, nuove sirene Amor fatale ne dà, che non i corpi in salso umore, ma sommergono l'alme in dolce ardore, canto sol, ma sguardo hanno mortale.

Ecco quelle tre dee, che scorse in Ida del più bel re troian la bella prole, più de la greca fede al greco infida.

Ecco già da la terza eterea mole discese le tre Grazie, ove s'annida mirabilmente triplicato il sole.

156 LIRICI MARINISTI

II

MUSICA NOTTURNA

Tu, che fra le caligini profonde spiri armonia, de la tranquilla notte le dolci pose dolcemente rotte che del fiume leteo stillano l'onde,

ben sembri chi di Lete in su le sponde fra l'ombre già de le tartaree grotte, per trarne le bellezze ivi condotte, sciolse dal mesto cor note gioconde.

Quindi ben io l'orride pene intanto di questo scorgo invisitato inferno a si placido suon temprarsi alquanto.

Ecco, arresta la luna il moto eterno; stupisce forse, poich'un simil canto fra gli orrori ascoltò del nero Averno.

ni SEDENDO GIUDICE IN TRIBUNALE

Io, che giudice altrui qui siedo in trono, son fatto reo di deità terrena; io, eh 'a le colpe altrui parto la pena, a chi pena mi dà, lasso, perdono.

Quell'io, ne la cui man che punge e frena, e l'altrui vite e l'altrui morti sono, a l'empia ferità di tigre armena de l'egra vita mia l'imperio dono.

Altri al mio spesso riverito sguardo timido agghiaccia; ed io, se miro mai un bel volto avvampar, l'adoro e n'ardo.

Giudice, invero, avventurato assai, se, qual giudice Ideo, giamai riguardo di mia Venere ignuda i bianchi rai !

BIAGIO CUSANO 157

IV

PER I SETTE MONTI

nella mano della sua donna

Roma sembri animata a più d'un core co' sette bianchi tuoi monti spiranti, mano, in cui forma il Campidoglio Amore, trìonfator de' prigionieri amanti.

Anzi, pur hai di ciel vivi sembianti : ecco la bella in te via di candore, ed ecco per mirabile stupore vi miro i corsi de' pianeti erranti.

Qui, mentre del pensier dibatto l'ali, a preveder da si bel ciel la sorte degli amorosi miei corsi vitali,

ah mio destino doloroso e forte! con infausti caratteri fatali scritto in ambe le palme io leggo: Morte.

V

ROMA - AMOR

Nel Tebro andrai, fra tante moli e tante, de l'arte a contemplar gli alti stupori; meraviglie però molto maggiori scoprirà di natura il tuo sembiante.

Già non entrò con si superbi onori nel Campidoglio mai gran trionfante, qual tu, che porti a' tuoi begli occhi avante novo trofeo d'incatenati cori.

A Marte crescerà l'antica arsura, or ch'altra Citerea fa più sereno il ciel de le sue belle invitte mura.

E Roma, dolcemente arsa al baleno di tua beltà cosi leggiadra e pura, quel che porta nel nome avrà nel seno.

158 LIRICI MARINISTI

VI

ALL'AMANTE, CHE SI È RASO

Scritto ad istanza di una cortigiana

Quella selva di peli orrida e scura, dove occulto leon par che si renda Amor, tronca già cade, oh mia ventura! e l'ingiurie del tempo il ferro ammenda.

Ferro, per me felice oltre misura, di lanoso Silen squarcia la benda, onde nova beltà celeste e pura, qual Sol rotte le nubi, avvien che splenda.

Cosi lasci a ragion barba infelice Febo novel, che per fatai tenore al bel Febo nutrir barba non lice.

Ti radi il volto ed a me rodi il core; tu di bellezza, io son d'amor fenice; tu rinovi la luce ed io l'ardore.

GIOVANNI PALMA

I

IL SORRISO MODESTO

Ove il Sebeto al mar porta di pianto, più che d'onde lucenti, argentea soma, e di folti ginepri il capo inchioma la bianca amica in sul sinistro canto;

quella vid'io, che lume al mio canto, volger in groppi d' òr la lunga chioma; allor: Qual più leggiadra oggi si noma, doni a te dissi, o bella ninfa, il vanto!

Quanti in vari composti usò natura di bello, ha messo in tuo gentile aspetto, o più che umana angelica figura!

Non può scerner l'invidia in te difetto, si perfetta ti rende egual misura... Ella sorrise e chinò gli occhi al petto.

l6o LIRICI MARINISTI

II

LA BELLA PARLATRICE

con si vaghi ed amorosi accenti narra Progne a voi, selve, i suoi dolori ; Filomena i suoi secreti amori con si facondo dir commette ai venti ;

si rotto fra sassi i pie lucenti, mormora il rio lungo il pratel de' fiori, come la bionda mia leggiadra Glori, mentre a l'amica sua spiega i tormenti.

Un fiume d' òr, che di rubini ha sponde, scogli di perle, il suo parlar simiglia; ma come arciero il cor punge e saetta.

Deh, qual veggio d'amor gran meraviglia ! lingua chi mosse mai si dolce, o donde, se non forse dal ciel scesa angioletta?

Ili L'AMOROSA IMAGINAZIONE

Amor, che mal mio grado mi trasporta a far mia stanza in solitario monte, nei fior, ne l'erba, in verde faggio, in fonte mi figura colei che '1 mio cor porta.

Onde io, vòlto a seguir si fida scorta, e mirando or le luci al ferir pronte, or gli atti onesti or le bellezze conte, sento un dolce piacer che mi conforta.

E mentre a le sembianze amate e belle son fiso, io veggio uscir la notte o '1 giorno, e l'un l'alba condur, l'altra le stelle;

e passar fere a l'ombra, al rivo, al prato, e far gli armenti a lor magion ritorno... Me solo in un pensier tien fermo il fato.

GIOVANNI PALMA l6l

IV

IL PAESE DI PUGLIA

O felici di Dauno alme contrade ove ha sede il riposo, o campi lieti, o folti boschi solitari e queti, che l'ondoso Adrian circonda e rade,

o monti, o valli, o piante onde ognor cade salubre manna, o fidi antri secreti ove zefiro ha regno, o querce e abeti il cui rezzo fé' d'or la prisca etade;

ben reo tenor di non amica stella m'invidia il vostro caro ermo ricetto che la mia vita ai suoi diporti appella.

Ma siami il voi goder dal ciel disdetto, e' non potrà l'imagin vostra bella tórre al pensier, eh' è suo continuo obbietto.

Lirici marinisti ii

GIOVANNI ANDREA ROVETTI

I

IL LAGO DI DIANA IN NEMI

Lago ove Cinzia regna, Amor barcheggia, gloria del primo Augusto, onor de l'arte, occhio de la natura ond'ella sparte mille vaghezze sue lieta vagheggia, *

Giove sovra il tuo ciel stende la reggia, quando i consigli suoi libra e comparte; ivi danza Ciprigna e giostra Marte, quando il coro sovran su festeggia.

Placidi sempre in te scherzano i venti, di greggi ondosi le tue ninfe appaghi, fatto speco ai pastor, specchio agli armenti.

Ma quel recinto d'arboscelli vaghi, teatro illustre de' tuoi chiari argenti, vuol dir che la corona hai tu dei laghi.

GIOVANNI ANDREA ROVETTI l6^

II

IL PIANTO DEL FIGLIUOLO

Un pìcciol cane, un ghiro ed un augello del tuo caro fanciullo sono, bella Lisetta, ognor trastullo. Ruzza col ghiro il cane, ne brilla il putto in vista; ma l'augel, che non tresca e becca il pane, infranto ne rimane:

tu ne ridi, io ne godo, ei se n'attrista, e scaccia stizzosetto il ghiro e '1 cane e piagne l'augelletto. Se ridi, o cruda, del tuo figlio ai guai, al mio duol che farai?

Ili PREMENDO IL PIEDE

Tu chiedi quel ch'io voglio, quando a mensa talor ti premo il piede ? Ah, che negli occhi ogni tuo sguardo il vede! Lusingando t' infingi e '1 bianco volto in bel rossor dipingi. Vorrei, dolce ben mio... Lasso, eh' a dirlo m'arrossisco anch'io!

BARTOLOMEO TORTOLETTI

I

LA SEGRETEZZA

Lilla, al comune onor più ch'ai piacere vo' che serviam; questi passeggi e queste vanità da fanciul son poco oneste, poco conformi a le tue doti altere.

Amiamci di buon cuor ; queste le vere parti son d'amor puro, amor celeste. Oh bell'inganno ad altrui fa chi veste gli amorosi pensier d'arti severe.

Lilla, fa' a modo mio; non ti dispiaccia ch'io ti venga a servir si parcamente, ch'altri non creda i nostri amori e taccia.

Patisco io più di te; ma finalmente, dopo alcun di che non si vegga in faccia, fa vista più soave il Sol lucente.

BARTOLOMEO TORTOLETTI 165

II

LA SOMIGLIANZA

Ove d'avara chiostra a me s'involi, idolo mio leggiadro, il tuo splendore, maestro a vagheggiar mi guida Amore somigliante beltà che mi consoli.

Tu non temer però che sen voli da le tue fiamme fuggitivo il core; giuroti ch'ardo più, quanto maggiore conosco il raggio onde tu splender suoli.

In lei null'altra cosa amar poss'io ch'il tuo solo ritratto: una è la bella luce d'entrambe ed uno il mio desio.

Tai sono i rai del Sol ne la sorella; e se tu sole sei del giorno mio, luna esser può de la mia notte anch' ella.

Ili LE ROSE GITTATE AL FUOCO

Ite, rose lascive, ite d'amore pegni vani e nocenti, un tempo cari, e da l'arido vostro e dal pallore qual sia chi mi vi die, per me s'impari.

Tal diverrà quella beltà, ch'in fiore oggi par che non abbia al mondo pari ; e deggio ancor seguirla? ancor dal core m'usciranno per lei singulti amari?

Ahi, che pur troppo il mio desire insano mi fé' soggetto; or tempo è ben che fia sciolto il laccio crudel da la mia mano.

Intanto, itene voi per cotal via, ch'il rogo vostro e '1 cenere profano primo trofeo di mia vittoria sia.

l66 LIRICI MARINISTI

IV

BELLEZZA CHE RESISTE AGLI ANNI

Barbara, da che vesti il mortai velo a l'undecimo lustro il tempo inchina, e pur non anco in te scesa è la brina, cadute le rose a tanto gelo;

e vibri ancor da' tuoi begli occhi il telo eh 'a ferir ogni core Amor destina, vai saper che si l'età camina, ch'ella non può mentir se mente il pelo.

Fu assai che, cinta tu d'aurata gonna, amorosa guerriera ognun vincesti, nel fior degli anni tuoi vergine e donna;

ma perché non giungean si chiari gesti al gran valor che del tuo cor s'indonna, de la natura trionfar volesti.

v LA MASCHERATA DELLE ZINGARE

Vaghe di misurar nuovo emisfero, scoprendo ignoto clima, isole estrane, da le dolci d' Egitto aure lontane a voi ne scorse peregrin sentiero.

Quattro zingane siam ; chiedere il vero sogliam al ciel de le venture umane; ma, qui, son l'arti nostre oscure e vane: altre stelle, altro ciel v'hanno l'impero.

Ivi lumi veraci e certi errori son caratteri fidi, in cui si mira o giusta speme o pur timor de' cori.

Qui, senza legge ogni pianeta gira, e folle è ben, fra si bugiardi ardori, chi per un guardo mai teme o respira.

MAFFEO BARBERINO

(dipoi papa urbano vili)

I

IL DILETTO TERRENO

Acqua limpida sorge e si diffonde in verde prato tra l'erbette e i fiori; spira l'aura e n'invola i cari odori e fra le nubi il Sol più non s'asconde.

Ride il suol, ride l'aria e ridon l'onde, e gli augei, dell'aurora ai primi albori, con note argute e sibili canori gioia stillan, ch'ai cor dolce s'infonde.

Tal di felice stato il bel sembiante qui sembra al senso, che non mira al fine; ahi ! che quaggiù il diletto in un momento

da noi sen fugge con alate piante; qui l'alme albergan come pellegrine, stabil sol hanno in ciel vero contento.

l68 LIRICI MARINISTI

II

OCCHI CASTI

Mortai bellezza ascoso il foco tiene per assalir chi '1 guardo non reprime. Ahi, mentre cauto a terra non s'adirne, ratto l'ardor li scorre entro le vene !

Ch'è varco l'occhio al cor, onde sen viene l'imagin de l'oggetto e vi s'imprime. Se dunque fia che sua salute stime, schivi mirar dove non conviene.

Alle pupille l'uno e l'altro lume delle palpebre tien pronto lo schermo, eh' a tempo è di celarle arbitro e donno;

come vergini in sacro chiostro ed ermo, che di velarsi il volto han per costume, si che non vedon veder si ponno.

HI

LA FONTANA

Qui, dove sorge la volubil onda, arresta i passi, o pellegrino, e intento in mille guise il bel limpido argento mira cader del fonte in sulla sponda.

S'erge altronde l'umor ch'in copia abbonda, in stille altronde piove ; indi non lento vibrasi in giuso, e quivi in un momento sale e in torna ond'è ch'in s'asconda.

E mentre or poggia or cade o in si rota, tal or si spande, or medesmo fiede, si d'uno in altro moto si trasforma,

che, sebben nel cristal mobile immota sua sembianza abbia il fonte, l'occhio crede ch'ognor si cangi in varia e nuova forma.

PAOLO GIORDANO ORSINO

DUCA DI BRACCIANO

I

LA BELLA PELLEGRINA

La leggiadretta e vaga pellegrina, che mano ostil de l'aver suo fé' manca, fuggendo l'arsa patria, ardita e franca venne altrove a portar luce divina.

La lontana, dapoi che la vicina provincia scorse, scorre e non si stanca: intanto l'occhio nero e la man bianca fan dei semplici cor strage o rapina.

Tu che rimiri ognor serrate e sole le donne di bel volto o di crin biondo e risponder altrui poche parole,

non prender meraviglia, non immondo giudicare il pensier : proprio è del sole l'andar girando e illuminando il mondo.

I70 LIRICI MARINISTI

II

SENSO E RAGIONE

Apria bocca vermiglia un vago riso, occhio azzurro vibrava aureo splendore, guance rosa spargea del suo colore dove più dove meno in un bel viso.

Nel mirar quel seren, da diviso per l'estremo diletto era ogni core; questo potea ben dirsi il di d'amore, d'amor la primavera, il paradiso.

Chiuse gli occhi il mio volto, aprigli il seno; era (oh stupori) la primavera inverno, la rosa spina, lo splendor baleno;

il breve riso, ésca di pianto eterno; notte il giorno, tempesta era il sereno, duolo il diletto, il paradiso inferno.

Ili VANITAS VANITATUM

Tu, che giamai non ti contenti e vuoi laute mense bramar sotto aurei tetti, consorte eccelsa entro a gemmati letti, esercito di servi a' cenni tuoi ;

di regnar dagli espèri a' lidi eoi, di canti e melodie dolci diletti, di cacce e di tornei giocondi aspetti, quando alla fin tutto ottenessi... E poi?

In breve è nulla. Ed anco è nulla adesso se tu lo paragoni al ben eh' è vero, e sol ti sembra ben perdi' è d'appresso.

E corta hai tu la vista. Occhio sincero, se lo mira e multiplica in se stesso, ritroverà zero via zero, zero.

PAOLO GIORDANO ORSINO I7I

IV

LA BUGIA

La bugia non mai sola; uno squadrone ha sempre in compagnia de la sua setta, che le va dietro o innanzi, e l' interdetta strada corre con essa a perdizione.

Se non ha gran memoria, è confusione ; se tra nemici sta, calunnia è detta; s'alberga tra gli amici, è barzelletta; se versa circa ai grandi, adulazione.

Riso, pianto e parlar non è sincero sempre in noi; ma il vestir verace addita se teniamo dal franco o da l'ibero.

Questo nostro costume non imita già la bugia: ella è contraria al vero e va di verità sempre vestita.

v LA CITTÀ

Ne le cittadi ove i monarchi han sede, disusato è pel tristo il bon sentiero; fassi solo apparir per bianco il nero, oprar fortuna e non virtù si vede.

Quivi al torto ragion soggiace e cede, il doppio cor conculca il cor sincero, l'interesse l'onore, il falso il vero, l'odio l'amor, l'infedeltà la fede.

Teco piange il tuo mal chi gusto n'ebbe, ti promette favor chi vói vendetta, arride a te chi '1 pianto tuo vorrebbe.

Ti il buon di chi il tuo mal anno aspetta e ti saluta chi ti caverebbe più volentieri il cor che la berretta.

172 LIRICI MARINISTI

VI

IL RITORNO ALLA PROPRIA TERRA

Varcato ho mari adusti e freddi, ho visto del franco regnatore e de l'ibero province immense, e del romano Impero, e parte ancor de l'ottomano acquisto.

Ho dimorato ove il potere ha misto sacro e profano il successor di Piero; ma di smarrir desio, guardo e pensiero in tante vastitadi alfin ravvisto,

fermato ho il pie dove dal ciel il freno regger de la Sabazia è a me concesso, che giunge al mare e ha cinque laghi in seno.

Angusto spazio ai nominati appresso; ma il debito in che nacqui adempio appieno verso i popoli miei, verso me stesso.

GIACOMO D'AQUINO

PRINCIPE DI CRUCOLI

I

IL FASTIDIO

Di pianto molle e di sospiri ardente, bagno, lasso, la terra e scaldo il cielo; e colmo avendo il sen di mortai gielo, di dogliosi pensier pasco la mente.

Se cosa veggio mai lieta o ridente, chiusi gli occhi vorrei d'oscuro velo; e quanto posso più m'ascondo e celo, straniero e peregrin da l'altra gente.

Anzi (colpa d'amor) da me stesso amo esser da lungi, oimè, perché me stesso più ch'altri a mio poter odio e disamo.

Ma poiché tanto più me stesso ho appresso quanto più di fuggir me stesso bramo, son, più che d'altri, da me stesso oppresso.

174 LIRICI MARINISTI

II

IL GIORNO DEI MORTI

Queste pompe di morte e questi odori d'arabi incensi e queste accese faci memorie son de' nostri di fugaci per pianger sempre i già commessi errori.

Tu, che godi fra gli ozi e fra gli amori le lusinghe del mondo empie e fallaci, e tra i diletti addormentato giaci, ami ombre, abbracci vento e siegui orrori.

Chi un tempo, carco d'amorose prede, ebbe l'ostro a le guance e l'oro al crine, deforme arido teschio, ecco, si vede.

Superbi regi e la Vii plebe alfine poca polve vegg' io sotto il tuo piede, oppressi e vinti da un medesmo fine.

Ili LA TEMPESTA

Armato il ciel di tuoni e lampi ardenti, e col volto cruccioso oltre l'usato, vibrò da l'arco suo, fremendo irato, contro la terra i fulmini pungenti.

Tolsero i nembi e le pruine e i venti allo stelo le frondi e l'erba al prato; e tonando da l'uno e l'altro lato, cruda guerra tra lor fean gli elementi.

Da l'arenoso letto, ecco, il mar esce, ed ingombrando il mondo or vaga errante fra l'onde il cervo, or tra bei fiori il pesce;

e tra diluvi e tra tempeste tante, con gì' infocati lampi il giel si mesce, e tra le nevi il cielo è fiammeggiante.

MICHELANGELO ROMAGNESI

I

LA MORTE

Andriozzi, si muore: in lance eguale premio e pena ha condegna il buono, il reo; e per alto decreto ogni mortale della pallida man resta trofeo.

Picchia l'orribil dea con pie letale alle porte dèi grande e del plebeo, ma lottando con l'Ercole fatale non risorge da terra umano Anteo.

Cosi, allor ch'andrem sciolti all'ultim'ore, non avrem più l'invidia al fianco unita, nemico armato, amico ingannatore;

superbia entro i suoi fumi andrà svanita, non ci faran più guerra odio ed amore, eh principio di pace il fin di vita.

1/6 LIRICI MARINISTI

II

LA TOMBA

Allor ch'io copra in sonno eterno i lumi, freddo cibo de' vermi e poca polve, mausolei non ambisco: Atropo solve i più famosi marmi in ombre, in fumi.

Ad erger tombe Egitto età consumi; ciò che i secoli fanno, un di risolve: tutte un oblio le umane cose involve, come in accoglie il vasto mare i fiumi.

D'Agamennone e d'Irò Euro confuse le ceneri, e del cinico mendico e d'Alessandro il grido eco deluse.

D'urna paria o corintia son nemico, vo' in amomo l'ossa o in mirra infuse, purché m'apra natura il grembo amico.

GENNARO GROSSO

I

LA NASCITA DI MARIA

Soìietto in bisticcio

Nasce di Dio la genetrice eletta, ch'apre a l'uscita sua gli usci de' cieli; nostr'alme ergono il volo infra que' veli, ella s'allatta e nel Signor s'alletta.

Da que' lini la lena a noi s'aspetta, quelle tele a Satan rompono i teli, la culla il calle adagia e spezza i geli d'Averno, inverno de la colpa infetta.

Sorge a pena e di Dio s'erge la reggia, spunta e punta a Lucifero è la squama, nasce e n' esce a guardar cara sua greggia.

Col dolce nome di Maria si chiama, qual bersaglio d'amor, perché si veggia che Dio nessun più di Maria riama.

Lirici ma-finisti 12

lyS LIRICI MARINISTI

II

I SANTI INNOCENTI

Per accordar d'alti profeti il canto spargono afflitte madri alte querele, mentre i bambini lor, per man crudele, solcan felici un ocean di pianto.

Essi prenci immortali ergonsi in vanto, poiché morte lor prence infedele; veggonsi a quelli insanguinar le tele, perché tinto ne l'ostro abbian l'ammanto.

Vuol piccioli Amoretti il nume amante per far ch'entrino al ciel, regno divino, che picciolo è del ciel l'uscio prestante.

Si denno in vero, e con fatai destino, pargoletti vassalli a un rege infante, guerrier fanciulli a capitan bambino.

Ili CRISTO ESORTANTE ALLA CONFESSIONE

Schivo de' folli errori, agile e mesto corri d'un pio ministro al sacro piede, che, prostrandosi il corpo, alzar si vede e l'uom col pianto a le delizie è desto.

Oh come un puro umiliato gesto umilia Stige e la conculca e fiede ; oh come al tuo parlar mutolo riede, qual da sacra magia, Satan l'infesto!

Per darti gaudio il tuo dolore io bramo, son tuoi misfatti i miei diporti ameni, piropi e gemme i tuoi peccati io chiamo.

Io ti darò la grazia e i miei sereni, tu mi dà' l'atre colpe. Ai doni siamo: tu prodigo di falli ed io di beni.

ANTONINO GALEANI

I

IL PERICOLO

Festeggiano le squille, Egle, a vicenda, ritorna a queste ville il di festivo; a' nostri balli il cittadin lascivo verrà pomposo, onde l'incaute accenda.

D'Amarilli tu sai: pria ch'ei te prenda, prendi tu lui, più di lei cauta, a schivo; diman fia '1 suo partir, s'oggi è l'arrivo, ch'a variar piacer sempr'è che attenda.

Noi mirar, se di sete ei coloreggia; noi curar, se col piede or gira or striscia; noi sentir, se con man molle tasteggia.

Anch'ella agile al moto, al tatto liscia, e variata di color pompeggia, ma velenosa è poi su '1 fin la biscia.

l8o LIRICI MARINISTI

II

I NASTRI SEDUTTORI

Diman che festo è '1 di, col crin ripieno di nastri Egle vedrete, occhi dolenti; di que' nastri, di cui miraste intenti far ieri acquisto a la città Sireno.

Per Egle sono infra me dissi ; almeno perduto avesse i pattuiti argenti, o perda sé, pria che col don la tenti! Tal ne sentia geloso picchio al seno.

Sii cauta, o bella; di quei nastri ei trama lacci a l'onore e, credi a me, n'avrai, via più che fregio al crin, sfregio a la fama;

che l'indegno amator già tra caprai gloriando si va (vedi se t'ama!) ch'avranne in cambio... Io noi vuo' dir: tu '1 sai!

Ili IL BALLO GALEOTTO

Lilla, i' mei veggio, il cittadino Aminta più che a' suoi campi, a tue bellezze attende, e la tua fama ed il mio core offende, e pur lo stringi, seco al ballo accinta.

Tu '1 neghi? e che dirai se sei convinta? Su la man che tu prendi e che ti prende, chi non vede restar, se ben v'attende, la stampa a' diti ed a pallor dipinta?

Ahi, fai rosse le gote e '1 ciglio hai basso! Perché rossor la guancia, allor, non veste? perché a lui, come a me, non sei di sasso?

Se tra le belle sei, sia tra le oneste; che villanella al cittadino è spasso, ma '1 cittadino a villanella è peste.

ANTONINO GALEANI IV

LA RANA

tra i giunchi palustri e l'alga immonda odi gracchiare, o Filli, in strana foggia, figlia del fango e de l'estiva pioggia, quella verde loquace in grembo a l'onda.

O che '1 più cupo gorgo in sen l'asconda, o nuoti all'aure o s'in pantano alloggia, inver' la sponda avidamente poggia, se mai face apparir vede a la sponda.

Purché godano gli occhi al caro lume, dimenticata ogni contraria sorte, v'arde il cor di desio, se non ha piume;

cura o vede che quel raggio acceso è fiaccola parata a la sua morte... Tal de' tuoi lumi al lume anch'io fui preso.

V

IL DONO DEL LEPRE

Questo bel leprettin, eh' a me dal braccio pendente prigionier l'orecchio rese, ch'ognor fa, ranicchiandosi, difese, per levare a te '1 dono, a l'impaccio;

non fu tolto al covile o còlto al laccio, di degno cacciator men degne imprese; ma questo pie col pie di lui contese, se ben rovescio ne cadei sul ghiaccio.

Non sprezzar. Lilla, il don, che, se noi sai, accresce la beltà s'è cibo a noi. Tienlo, che fuggirà; stringi, che fai?

Ma che guardi? che ridi? e che dir vuoi? Ch'esser bella e fugace imparerai? Più bella e più fugace esser non puoi.

LIRICI MARINISTI VI

LA BELLA E IL VECCHIO

Crespo e segnato il viso a maraviglia, lanoso tutto più del proprio gregge è Mopso; un occhio ha lippo, un pie noi regge, fosco il pel, nero il crine, irto le ciglia.

E pur Lilla gentil bianca e vermiglia, forsennata d'amor, d'amarlo elegge, o sia necessità che non ha legge, o sia che donna al peggio suo s'appiglia.

Natura offesa ! e chi dirà che piaccia ogni pari al suo pari or che si molle e caro sen sta fra si rozze braccia?

Ma come offesa? anzi non già: che volle cosi natura pur, che stretta giaccia perla in gusci, astro in nicchi ed oro in zolle.

GIAMBATTISTA PUCCI

I

L'ARDORE

Ardo quando talor vien ch'io rimiri madonna lampeggiar lieta e vezzosa; ardo quando talor, mesta e dogliosa, china degli occhi i lucidi zaffiri.

Ardo s'avvien che contra me si giri, turbata il volto, altera e minacciosa; s'a la mia pena ancor si fa pietosa, ritrovo ésca novella ai miei martiri.

Se sospira, quell'aura il foco accende s'apre un riso talvolta, è foco il riso; è foco tutto il bel ch'in lei risplende.

Ma nel foco del seno e del bel viso terrei, cosi m'appaga il bel ch'offende, quasi farfalla rimaner ucciso.

l84 LIRICI MARINISTI

GLI OCCHI E IL SENO

Dentro al candido sen, tra le mammelle, stese madonna la man bianca al core, e da' giri lucenti il vivo ardore rivolse a un punto istesso in questa e in quelle.

Biancheggiar, lampeggiar nevi e fiammelle, de' begli occhi e del sen foco e rigore, fatto un misto di luce e di candore, qual tra '1 latte del ciel fanno le stelle.

De le mamme e del sen la candidezza, emula al latte, unita allor splendea dei luminosi giri a la chiarezza.

Questa in quella a vicenda in guisa ardea, che un confuso di luce e di bianchezza quinci i begli occhi e quindi il sen parca.

ITI

LO SVELAMENTO

Era il vel di madonna al volto e al crine qual nube che nasconda il dio di Delo, quando parve dicesse: A te non celo quel che de l'alme fa prede e rapine.

La man, cui di candor cedon le brine, portiera fatta d'amoroso cielo, stese, e al tergo raccolto il bianco velo, forme scoperse angeliche e divine.

Vidi allor lampeggiare a l' improviso e gareggiar di luce e di splendore il crin, gli occhi, la bocca, il guardo e '1 riso.

Di tanta luce innebriato il core, non sa s'egli sia in terra o in paradiso, se paradiso ha cosi dolce Amore.

ANTON MARIA NARDUCCI

I

LA VESTE E LA GHIRLANDA

Qualor di veste serica trappunta d'una ricca di stelle aurea tempesta, donna, adivien che le tue membra vesta, notte mi sembri in bruno carro assunta.

Ma se poi veggio a quelle stelle aggiunta primavera di fior su l'aurea testa, allor dico fra me: L'aurora è questa, che fregiata di fior ridendo spunta.

E si m'aggrada per mia dolce pena mirar costei, che pur m' ha il cor piagato, di mille fior, di mille stelle piena,

ch'io, con un giorno si ridente e grato e con notte si bella e si serena, dormirei lieto e veglierei beato.

l86 LIRICI MARINISTI

II

LE « FERE D'AVORIO » TRA I CAPELLI

Sembrar! fere d'avorio in bosco d'oro le fere erranti onde si ricca siete ; anzi, gemme son pur che voi scotete da l'aureo del bel crin natio tesoro;

o pure, intenti a nobile lavoro, cosi cangiati gli Amoretti avete, perché tessano al cor la bella rete con l'auree fila ond'io beato moro.

O fra bei rami d'or volanti Amori, gemme nate d'un crin fra l'onde aurate, fere pasciute di nettarei umori;

deh, s'avete desio d'eterni onori, esser preda talor non isdegnate di quella preda onde son preda i cori !

Ili A CAMILLO BAFFI

Per domandargli la propria « natività »

Scrivea nel ciel caratteri di stelle con la penna de' raggi il mio natale il Sol, chiaro scrittor d'oscuro annale, de le fortune mie benigne e felle.

Dicean le gieroglifiche facelle d'ogni fortuna mia l'ora fatale; ma non sa sporre interprete mortale note di ciel misteriose e belle.

Tu, che sovente al ciel t'ergi vicino, discepolo di Febo, anzi sua prole, Esculapio celeste, Orfeo divino;

apri i segreti de l'eteree scole, tanto ch'intenda anch'io nel mio destino del linguaggio del ciel l'alte parole.

TIBERIO SBARRA

L'AMOR NOSTRO

Ardano pur d'immacolati e puri desir, Licida mia, Dameta e Glori, e godan sol tra loro anime e cori, più altro si brami o si procuri;

tengano pur d' incontinenza oscuri e rei di pianto i lascivetti amori, e siano i casti cor senza rancori e di merto e di lode anco sicuri.

Noi tal foco non arda, e sia da noi lontana pur si cieca via d'amare, e tutte le sue glorie e pregi suoi.

Ma ristorino i sensi ora due chiare luci ridenti or dolci note, e poi vezzosi baci o cose altre più care.

l88 LIRICI MARINISTI

II

IL PANIERINO DI FRAGOLE E ROSE

Questo bel panierin, di fiorfiorelli ricinto, e pien di fragole e di rose che Filli ha per te còlte, e con ascose maniere esalta i tuoi sembianti belli,

cara Lilia, io ti dono. I fior novelli non dimostran però tutte le cose; che son le luci tue stelle amorose, l'immitan del Reni anco i pennelli.

De le chiome non parlo, ella nei prati non ha fior di ginestre: usò le fi-aghe per l'essenzia gentil de la tua bocca;

che son le labra tue com'esse vaghe e ravvivan gli spirti arsi e gelati, con quel misto sapor che ne trabocca.

FILIPPO MASSINI

I

IL VINO

Vatten, Volpin, sotterra al picciol vaso cui ferro cinge, e traggi il buon liquore eh' ha di topazio e d'ambra aureo colore, senza cui mai non oso ire in Parnaso.

Apra altrui fonte o rio col pie Pegaso, perché scriva di Marte o canti Amore, che sol nasce da Bromio il mio furore, onde poi vinco e la fortuna e il caso.

Più non m'impenna l'ale o scalda il seno Amore, e pur talor sovra me stesso m'ergo, e non temo le pruine e '1 ghiaccio;

perché con questo mio nettar terreno di sorso in sorso al ciel men volo, e spesso a la madre d'Amor mi sveglio in braccio.

igo LIRICI MARINISTI

II

IL VINO

Questo di puro vin spumante vaso, che scintillando essala a mille a mille vive saltanti e spiritose stille onde gli occhi mi punga e ingemmi il naso,

è '1 mio Elicona; e sono il mio Parnaso, ove l'ore men' io liete e tranquille, di Bacco i colli e queste amene ville, orto degli ozi e de le cure occaso.

Mentre la lingua il buon Lieo m' inonda, oh come dolce mormorar si sente e fra i rami e fra i sassi e l'aura e l'onda!

O soave liquor dolce e pungente, se mai fortuna i miei desir seconda, terrò le muse a le tue lodi intente.

CESARE abbellì

I

LA VITE

Fatto ai raggi del Sol maturo alfine, de la feconda vite il biondo incarco ornai del grave peso incurva l'arco, perché si sciolga il pampinoso crine.

La vite, che pur dianzi in sul confine d'aprii, d'erbe e di fior gravido e carco, degli occhi aprendo il lagrimoso varco pianse l' ira del verno e le pruine,

già ride; e mentre da la verde treccia lieto cultor su le ramose braccia i bei racemi ad or ad or distreccia,

gioir, Fillide, impara; e, perch'io faccia poi vendemia d'amor, meco t'intreccia, come vite gentil ch'il tronco abbraccia.

192 LIRICI MARINISTI

II

GLI ASTRI NOTTURNI

Quando spuntar de l'oceano fuori veggio la notte e scintillar le stelle, giro tacito il pie, scòrto da quelle lampade amiche a' fortunati amori.

Certo non è ch'in que' profondi orrori, gli occhi rivolti al cielo, i' non favelle:

Qual di voi, faci luminose e belle, infuse in questo san fatali ardori?

E del ciel vagheggiando i fregi d'oro

Chi sa dico fra me eh 'ancor non giri gli occhi lassù colei, ch'in terra onoro?

Cosi, con nova idolatria, ne' giri del cielo il bel di quel sembiante adoro, favellando tra lor gli occhi e i sospiri.

LUDOVICO TINGOLI

I

INVOCAZIONE ALL'INTEMPERIE

Ne' boschi è l'idol mio: finché tu ridi, invido ciel di chiare tempre adorno, spegnere il pianto mio col suo ritorno non è che la speranza egra confidi.

Deh movi, austro gentil, dai mauri lidi di sonore tempeste orrido il corno; involvi d'atre bende i climi intorno, porta in aria Nettun co' flutti infidi.

Spero tregua ai sospir sol dal tuo fiato, luce a l'orbo desio dal tuo baleno, pace dai tuoi tumulti al cor turbato.

Sta la mia calma a tue procelle in seno, sol da' tuoi nembi attendo il sole amato, solo da le tue nubi il mio sereno.

Lirici tnarinisti 13

194 LIRICI MARINISTI

II

LA BRUTTEZZA INGIOIELLATA

Costei cui sol di tenebre e d'orrori natura acherontea veste e circonda, osa intorno spiegar quanti ne l'onda del Gange e del Fattoi nascon fulgori.

Spargon le chiome e '1 labbro ombre e squallori, e d'oro e di rubini il braccio abbonda; invece che lo sguardo i rai diffonda, sfavillano dal sen compri splendori.

La perla, onde la bocca orba notteggia, a l'orecchia plebea quasi per scherno pende, ed intorno al nero collo albeggia.

Ma che stupir, s' è pur decreto eterno ch'ove ricco tesoro arde e lampeggia, ivi custode sia spirto d'Averno?

FILIPPO MARCHESELLI

I

L'ABITAZIONE PRESSO LA FONTANA DI TREVI

Qui dove il crin d'umide perle in onde scioglie prodigo fonte e fuggitivo, che più natali in triplicato rivo, quasi Nilo del Lazio, a confonde;

qui stassi Nice, e le catene bionde del crine onde il mio cor splende captivo, de' franti argenti al fluttuar lascivo spesso avvien che, qual Sol, tra l'acque affonda.

Al mormorio di quei tesor stillanti, che pure al pianger mio sempre s'accorda, più stringe il gel de' suoi rigor costanti.

stupor è se, di mia morte ingorda, mai non ode del cuor l'angosce e i pianti, ch'anco, ove sgorga, il Nil l'egizio assorda.

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LIRICI MARINISTI

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ALL'ANCELLA

Docile ancella, che mia verace animasti di speme e di consiglio, e del linguaggio onde parlommi un ciglio fosti interprete pia, cifra sagace;

or che colei de l'invecchiata face spense ogn' ardore e al mio peggior periglio diede a' suoi sguardi dal mio cor l'essiglio per non mirarmi in sen piaga vorace;

dille ch'eterno strai non sazia un core, che se medico sdegno il sen mi tange, d'un' ingrata beltà rido al rigore.

L'Astrea di Cipro a un cor che avvinto piange, se fu innocente, in criminal d'Amore, apre alfin la prigione e i ceppi frange.

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PAOLO ADRIANI

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LA BELLA TARTAGLLA.NTE

Mio co-co-cor, mio ben, mia pu-pupilla, s'io mi-mi-miro il tuo be-bel vi-viso, se-se-sentomi il sen co-co-conquiso, pe-per l'ardor, che da te-te sfavilla;

ma tu-tu-tu non hai sci-sci-scintilla d'amor e stài da-da-da me diviso, e avendo^^ln te-te-te il pa-paradiso, di gio-gioia mi nieghi anco una stilla.

S'ogni mia po-potenza a te si diede, s' hai di me-me la mo-mo-monarchia, pe-pe-perché mi nieghi egual mercede?

Cosi, d'amor ardendo in fiamma ria, qualche segno maggior della mia fede tartagliando chiedea la bella mia.

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196 LIRICI MARINISTI

ALL'ANCELLA

Docile ancella, che mia verace animasti di speme e di consiglio, e del linguaggio onde parlommi un ciglio fosti interprete pia, cifra sagace;

or che colei de l'invecchiata face spense ogn' ardore e al mio peggior periglio diede a' suoi sguardi dal mio cor l'essiglio per non mirarmi in sen piaga vorace;

dille ch'eterno strai non sazia un core, che se medico sdegno il sen mi tange, d'un' ingrata beltà rido al rigore.

L'Astrea di Cipro a un cor che avvinto piange, se fu innocente, in criminal d'Amore, apre alfin la prigione e i ceppi frange.

PAOLO ADRIANI

I

LA BELLA TARTAGLL'\NTE

Mio co-co-cor, mio ben, mia pu-pupilla, s' io mi-mi-miro il tuo be-bel vi-viso, se-se-sentomi il sen co-co-conquiso, pe-per l'ardor, che da te-te sfavilla;

ma tu-tu-tu non hai sci-sci-scintilla d'amor e stai da-da-da me diviso, e avendo" jn te-te-te il pa-paradiso, di gio-gioia mi nieghi anco una stilla.

S'ogni mia po-potenza a te si diede, s' hai di me-me la mo-mo-monarchia, pe-pe-perché mi nieghi egual mercede?

Cosi, d'amor ardendo in fiamma ria, qualche segno maggior della mia fede tartagliando chiedea la bella mia.

198 LIRICI MARINISTI

II

IL SONETTO

Vorrei per Nuccia mia far un sonetto, ma sento che la vena or non mi serve, e quanto il desiderio in me più ferve, tanto il mio ingegno a questa impresa è inetto.

Pur mi ci vuo' provar, che se più aspetto, dubito che '1 poter più mi si snerve: « Nuccia, coni' hai per me cosi proterve tue voglie? ». Eh, non va ben questo concetto!

Voltiamo faccia e andiam da poppa a prora: « Io canto di colei l'alta eccellenza ». No, diciam meglio e incominciamo ancora:

« Celebra, Urania, tu, l'alma presenza ». Ma come c'entra Urania? Or su, per ora, far sonetti non so; ci vuol pazienza!

FRANCESCO BRACCIOLINI

L' INQUIETUDINE

O de la pace mia nemica imago che, scacciata da me, torni sovente qual vespa impronta a raggirar la mente, per trafiggermi il cor di pungent'ago;

ti ravviso ben io l'accolto e vago crin su la fronte e groppo d'angui algente, crudelissima Aletto, empia, nocente abitatrice del sulfureo lago;

e la facella ond' avventar tu suoli ne le viscere altrui veleno e fiamma, porti ne gli occhi e in lor l'aggiri e scoti.

Vattene, va', più circondi e voli d'intorno a me; l'abisso orrendo infiamma, tuo degno albergo, e l'ombre ree percoti.

ANDREA BARBAZZA

LA PARTENZA ALL'APPARIRE DELL'AURORA

Già le tremule stelle in ciel più rare chiudon le luci impallidite e spente, e già la rugiadosa alba ridente rende col suo seren l'ombre più chiare.

Ecco di nova luce asperso appare il cristallino e candido oriente; già si cangia in vermiglio e già crescente Febo con aurei lampi esce dal mare.

Ogni scoglio, ogni lido arde e balena, e Glauco fuor del suo ceruleo vaso co' guizzanti triton sferza l'arena.

Io sol, Filli, di luce orbo rimaso a lo sparir di tua beltà serena, qui, su l'orto del di, piango l'occaso.

ANTONIO FORTINI

IL POETA SEGRETO

A l'amico silenzio, a l'ombra folta narro per uso i miei secreti amori, perché de' pianti ascosi e degli ardori resti ogni stilla, ogni favilla accolta.

Quindi la musa mia rozza ed incólta sol raccomando ai lor eterni orrori, perché, morta a le lodi ed agli onori, queta riposi in dolce oblio sepolta.

Chi dolce canta e chi lodato scrive offra sue rime a bella donna in dono e scopra del suo amor le fiamme vive.

Io, che solingo amante e muto sono, quelle oscure mie note e di suon prive al silenzio consacro, a l'ombre dono.

AGOSTINO AUGUSTINI

IL BRACCIERE AVVENTURATO

Filli, a cader da picciol sasso astretta che duro intoppo al molle pie propose, per non pestar del sen le vive rose tutta tremante in sul braccier si getta.

Servo felice ! or chi di te più eletta sorte vantar può mai, se rovinose per sostegno puoi dir ch'a due vezzose sfere d'Amor servi tua man negletta?

Ma che negletta? Per un nuovo segno degna è d'alzarsi allo stellato velo, che die cadente alla beltà sostegno.

Lo stato tuo, benché di servo, anelo; che mi terrei d'Atlante ancor più degno, se potessi addossarmi un si bel cielo.

MARCANTONIO ARLOTTO

L'OFFERTA

In cima a quegli altissimi dirupi, ove sol fra latebre e ripostigli stanzan veloci damme, ingordi lupi, sals' io l'altr'ier, non senza aspri perigli.

E poi che nulla v'è che '1 guardo occupi, vidi scherzar fra teneri vincigli, d'alto mirando giù ne' fondi cupi, due vezzosetti e timidi conigli.

Ratto calàimi da la balza alpestre e, rannicchiato e quatto, ambi pigliai, giuntili tra i ginebri e le ginestre.

A te, Nisa, gli serbo, ed anco avrai da me più vaga fera e men silvestre, se men fera e selvaggia a me sarai.

FABIO LEONIDA

LA BELLEZZA AL TRAMONTO

Non già perché degli anni il primo fiore t'abbia tolto l'etade invida e ria, donna, sei tu men bella, o men che pria degna per cui sospir tragga ogni core.

Ancor le membra tue spiran di fòre r usata lor vaghezza e leggiadria; anzi col tempo avien che '1 volto sia cresciuto in maestà, l'alma in valore.

Più tranquillo e sereno anco risplende, senz'alterezza e con misura ardente, il raggio che negli occhi Amor t' accende.

Cosi riluce '1 Sol più dolcemente e meglio si vagheggia, allor che scende, passato '1 mezzo di, verso occidente.

GHERARDO SARACINI

IL LACCIO DI CAPELLI

Questa pur or d'aurei capelli intesta nuviletta lucente e preziosa, attorta in cerchi d'or, dianzi pomposa splendea nel ciel de la tua ricca testa.

Ed ora a me l'invìi, non perché mesta fortuna mi minacci e lagrimosa, ma perché versi sovra me pietosa d'alte gioie d'amor dolce tempesta.

Eterno laccio a la mia costante fia questo crine, onde con bel lavoro legheran fila d'or di diamante.

Ma io ben a ragione, o mio tesoro, solcai di pianto un mar, Giasone amante, s'ottengo al fine un si bel vello d'oro.

PIETRO PAOLO BISSAR!

BACIANDO

Bindo, che fai? se non mi baci, io moro. Ecco aperte le labbra, il seno ignudo; bacia, baciami pur, si, bacia: ah, crudo troppo grave è il desio, lieve il ristoro!

Altro ci vuol che baci al mio martoro: ahi, che mentre baciando il cor deludo, di sdegno io son, tu di pietà sei nudo, che mi lasci morire e pur t'adoro.

Baci, ma son tuoi baci e dolci e rei; mira s'ornai piagato il cor ne fu, che di tua ferità sparge i trofei.

Eccomi morta alfin; ma che fai tu? Deh, che tardo soccorri ai dolor miei! Lascia, ferma, cor mio; non voglio più.

CLAUDIO TRIVULZIO

LA VILLANELLA IN CITTA

Dinanzi al novo Sol, pien di vaghezza sorger insieme il mio bel Sol vedrassi, e drizzando i leggiadretti passi, far mostra alla città di sua bellezza.

Ella, a gir tra i pastor, tra l'erbe avvezza, tra genti astute andrà, tra duri sassi; ma voi, pietre, onde avvien ch'ella trapassi, deponete al bel pie l' usata asprezza.

E ben di varie man l'arti e i lavori intenta mirerà per maraviglia, larghe vie, gran palagi, ampi tesori.

Ma della guancia sua bianca e vermiglia recheran più stupor i vivi fiori, e '1 semplice girar de le sue ciglia.

GIOVAN FRANCESCO CORMANI

LA DORMENTE AL FAR DEL GIORNO

Sorge l'aurora e con la man di rose tragga da l'oceano il sole e '1 giorno: fan dai riposi a l'opre lor ritorno, col ritorno del di, tutte le cose.

Voi con le stelle sol, luci amorose, che imparaste a vegghiar per far più adorno il notturno seren, pur qui d'intorno con lor sparite e ve ne state ascose.

Nascondetevi pur, ch'a voi non lice, immortali bellezze e fiammeggianti, con la turba mortai sorgere a l'opre.

Godete, chiuse, pur sonno felice, per risorger aperte e vigilanti quando ogni stella si risveglia e scopre.

ERMES STAMPA

LA DONNA VESTITA ALLA GHIBELLINA

coi fiori al lato sinistro della chioma

Del crine il manco lato orni di rose e rinovi ne l'alme ire e furori, tu, che dovresti sol guerre amorose col sembiante gentil movere a' cori.

Del bellicoso Ren segui ed onori l'insegne formidabili e famose, onde il Tebro nemico i bianchi umori cangiò sovente in porpore dogliose.

Di fiori, -idolo mio, spoglia la chioma; non accrescer nuov'ésca a l'ira antica, onde Italia sospiri oppressa e doma.

Non permetter, crudel, ch'altri predica: Con diverso destino, amica a Roma l'una Venere fu, l'altra nemica.

Lirici maiiiiisli 14

AURELIO MANCINI

LA DONNA CHE BACIA IL PAVIMENTO DELLA CHIESA

Bianca il sen, bionda il crin, bruna le spoglie, nel tempio divin, con sacri accenti, Lilla baciava, al cielo i lumi intenti, ippocrita d'amor le sacre soglie.

Arsi io di sdegno, allor eh 'a le mie voglie sempre schivi trovai quei labri ardenti ; ma pensai che baciare i sassi algenti sol dee colei che cor di sasso accoglie.

Di quella bocca i stessi marmi, audaci, come già a Pirra ed a la tracia cetra, corsero per baciar gli ostri vivaci ;

ond'io bramai mirar la testa tetra del Gorgon, per poter vago di baci cangiarmi in sasso o trasformarmi in pietra.

D' INCERTO

IL GELSOMINO TRA LE LABBRA

Quasi in giardin di perle, a cui ridenti fan due vaghi rubin mura pompose, avea madonna un fior tra i bianchi denti, che del latte del ciel Flora compose.

Contendea il suo candor co' gli ostri ardenti de le labra bellissime di rose; ridean queste arrossendo e più lucenti le sue fiamme scoprian dolci amorose.

Oh felice diss'io, s'entro a le porte di quella si gentil bocca fiorita con la mia d'involarlo avessi in sorte;

che se, spiccando in paradiso ardita la prima donna un frutto, ebbe la morte, da un fior del paradiso i' avrei la vita!

MARTINO LUNGHI

IL PALLONE

Questa, ch'in sen di cuoio alma ha di vento, industriosa macchina leggiera, forse è di novo mondo imago vera, di superbo ludibrio alto istrumento.

L' arte, che ancor mirabilmente altera negli scherzi si mostra, ebbe ardimento qui dentro imprigionare un elemento e di membrane edificar la sfera.

Questa, or umile a' colpi or baldanzosa, lieve in aer dal gioco erra vagante, se stabil nel suo centro il mondo posa;

onde il globo dagli omeri pesante sottragga Alcide e con la man famosa, scotitor d'altro mondo, irrida Atlante.

ANTONIO DE' ROSSI

CONTRO IL SALASSO

Fiamma gentil, eh' è spirto insieme e vita, il gran padre de' lumi accese in noi ; di vivo sangue ei si compiacque poi si pura alimentar luce gradita.

Quel chiuse in vene a cui l'arteria unita ministra alta virtù co' spirti suoi, e perché oltraggio ostil qui non l'annoi veste gli fabricò forte e munita.

Questo a formar vari instrumenti ordio nel corpo uman l'onnipotente mano, e '1 passo a lui per tutti i membri aprio.

Ma, per l'altrui sciocchezza, oprossi invano: quel tesor che di vita a l'uom fé' Dio, ardisce di versar medico insano.

D' INCERTO

TA KATAMHNIA

Pallide il mio bel Sol, ma pur vezzose, porta di bel pallor le guance sparte; ivi languian, ma in più nascosta parte, ne' begli orti d'Amor, fiorian le rose.

Ma io, ch'in cotal mar tai sirti ascose di trovar non credea, sciolte le sarte e drizzato il cammin, l'ingegno e l'arte, a solcar m'accingea l'onde amorose.

Quand'ella: Ah, non fia, no! disse, ben mio, non fia che tenti i perigliosi umori, che causar ti potrian naufragio rio.

So che tu il frutto de' tuoi degni amori da me ricerchi, e dar tei bramo anch'io; ma cor noi puoi ne la stagion de' fiori.

D' INCERTO

ZITELLA ROMANESCA RITROSA

Oimè, che fastidioso! andate in là, non vi vollio baciare, signor no! Che ci credete forse? Oh, guarda un po' costui come è sfacciato! Oh via, in che dà?

Orsù, andate via, lasciate sta', ch'io non fo queste cose: oh, via, mò; che si, che sul mustaccio io vi darò una pianella; io non ci voglio fa'.

Se non andate via, io grido a fé, e lo dirò a mia ma', e allora qui più non verrete e vi dirà il perché.

Più presto un'altra volta o un altro di... Come séte ostinato ! In quanto a me, credo con tutte voi fate cosi.

Pure volete, eh si. Uh, poveraccia me! oh, via, su, io voglio fa', per non sentirvi più!

D'INCERTO

LA MOSCA NEL CALAMAIO

Bevi, augello infernal, pugliese mostro, sanguisuga volante, alata strega; bevi a schiattabudella e vatti annega, sporca arpia della terra, in mar d' inchiostro.

Tanto sangue m'hai tratto, orca vorace, che come Erisitton vuote ho le vene; di tua crudeltà presi le pene, che quant' empia e crudel fosti fugace.

Senza pace tregua, atra Medusa, di te stessa facendo arco e saetta, cavallo e cavalier, tromba e trombetta, bersagliasti il mio muso e la mia musa.

Gittar la penna e rinegar Parnaso, percoter l'aria e schiaffeggiar me stesso, quante fiate m'hai fatto? e come spesso mi fé' una mosca andar la mosca a! naso?

D INCERTO 217

Anzi, mosca non sei; ma il fiero assilo, che Giunon mandò dietro alla baldracca dal tonante rivai cangiata in vacca ch'andò per rabbia a pascolar nel Nilo.

S'io scrivo, in su la man scendi boccone; se difendo la man, l'occhio è assaltato: cosi gli occhi ho trafitti e '1 naso enfiato, ch'io simiglio ad Omero ed a Nasone.

Trarmi il sangue e gli spirti, questo è un nulla; ma sorbirlo e cacarlo per dispetto, e sporcarmi la carta e '1 mio concetto, son pur cose da Gheto e Cacafulla.

Ma quel dio che protegge in Elicone l'onor delle sue muse e de' poeti, con degna punigion t'ha posta in geti, e un corno per tuo scorno è tua prigione.

Nel sacro inchiostro, onde l'ingegno ameno riga gli orti di Pindo, intirizzita, hai lasciato lo strai, l'ali e la vita, e il latte delle muse è il tuo veleno.

Or voi con labra di tenaglie armate, correte a questa preda, o formicioni ; pulci, vespe, tafani e farfalloni, a stuzzicar poeti oggi imparate !

V

GIROLAMO FONTANELLA

I

IL VELO SUL PETTO

Qual bianca nube d'odorosa tela, preziosa d'Olanda alma testura, nel petto di costei candida e pura, tanta vaghezza di candor mi cela?

Deh, tu, pietoso Amor, scoprimi e svela quel bianco marmo eh' intagliò natura, e per 1' Egeo de l'amorosa arsura tu di quel velo omai fammi la vela!

Prendilo, o tu ch'hai di volar costume i campi del volubile elemento, paraninfo d'amor, leggiadro nume!

Ed ecco già che spiritoso e lento, col ventilar de le sue molli piume, quel che mi nega Amor mi dona il vento.

LIRICI MARINISTI II

IL DONO DEI GUANTI DI SETA

Pompe di leggiadria, spoglie odorate, di sidonia maestra opre ingegnose, ove l'industria a meraviglia pose mille di seta e d'or fila intrecciate;

ite per custodir quell'animate nevi, quelle d'amor candide rose: quanti baci vi do, nunzie amorose, a la bella ch'adoro oggi portate.

Vestite quel purissimo candore, con quei viluppi di meonie sete prendete i lacci ad emular d'Amore.

Oh quanto agli occhi miei grate sarete, se quella man, che m'imprigiona il core, per mia vendetta in prigionia stringete !

III LA NENIA PRESSO LA CULLA

Tremola navicella un di movea quella che del mio cor regge la chiave, e spirando col canto aura soave, per l'onde de l'oblio lieta scorrea.

Ubbidia la quiete al moto grave, che con impeto lento il pie facea, e l'agitata e pargoletta nave in braccio a Pasitea lieta correa.

Placida nube e graziosa intanto chiuse al fanciullo il delicato ciglio, ch'umido si vedea di molle pianto.

Cosi, dentro un bel velo aureo e vermiglio, il sonno apporta Citerea col canto, dentro cuna di rose al nudo figlio.

GIROLAMO FONTANELLA 223

IV

INVIANDO UN PAPPAGALLO

Questo de V indo ciel pomposo augello, peregrino volante, alato mostro, che discepolo apprese, accorto e bello, distinto il suon de l'idioma nostro;

mira com'ha leggiadro il curvo rostro, come liscia la piuma e terso il vello; ha manto di smeraldo e bocca d'ostro, che ridice talor quanto io favello.

In cosi vaga prigionia raccolto, miralo com'è vago e come arguto, come a la tua beltà si sta rivolto.

Ma temo, oimè, ch'in tuo poter venuto, stupido a lo splendor del tuo bel volto, ove garrulo fu, non torni muto.

V

IL SALASSO

Prese medica man serico laccio, ove inferma languia la bella Irena, e quel molle annodò candido braccio, che nel regno d'Amor l'alme incatena.

Per toglier de la febre il grave impaccio, destro ferio la delicata vena, che, da ferro sottil percossa a pena, il rubino spiccò dal vivo ghiaccio.

Al zampillar di quel sorgente rivo mancò la bella, e dolce, a poco a poco, tinse un bianco pallor l'ostro nativo.

Ratto l'anima mia corse in quel loco, per tòr la sete in quel zampillo vivo; ma l'onda ritrovò ch'era di foco.

224 LIRICI MARINISTI

VI

IL PETTINE ROTTO

Candida e delicata navicella, ch'era di terso avorio opra gioconda, d' una chioma fendea dorata e bella l'aurato flutto e la tempesta bionda.

Guidata da una man polita e monda, prendea de' miei sospir l'aura novella; ed un cristallo ch'ebano circonda innanzi avea per tramontana e stella.

Vago di gir con peregrino errore, senza temer di rimanere assorto, v'ascese incauto il semplicetto core.

Ecco, mentre attendea vicino il porto, per quello biondo pelago d'amore si divise la nave e restò morto.

VII

LA BELTÀ VINTA DAL TEMPO

Ecco, piena d'orror, l'età canuta, ch'ogni umana grandezza abbatte a terra: chi mi fece in amor si lunga guerra, da la guerra degli anni ecco abbattuta.

Quella beltà, eh 'a trionfar venuta, sovra ogni altra innalzò natura in terra, per man del tempo, ch'ogni gloria atterra, miserabil trofeo miro caduta.

Pallida agli occhi miei mostra i sembianti chi ne la maestà del suo bel viso mille fece tremar pallidi amanti.

Il mio sole adorato oggi è deriso; se cominciò la mia tragedia in pianti, or la favola sua termina in riso.

GIROLAMO FONTANELLA Vili

CONFESSIONE DI POETA

Ne la scola d'amor non fui giammai, e de l'arte d'amor détto e ragiono; come esperto amator, di duo bei rai descrivo il lampo e non conosco il tuono.

Mostro in carte d'amar, seppi mai come d'alma beltà gli effetti sono; piangendo vo con dolorosi guai, ma de' miei pianti è simulato il suono.

Quel che sento narrar vero ed espresso da un fedele amator coi detti sui, figurando talor vo di me stesso.

Dipinsi amor, ma non conobbi lui, e colorii con la mia penna spesso ne le favole mie gli amori altrui.

IX

LA NUOTATRICE

Lilla vid'io, qua! matutina stella, spiccando un salto abbandonar la sponda, e le braccia inarcando, agile e snella, con la mano e col pie percuoter l'onda.

La spuma inargentò canuta e bella, ch'una perla sembrò che vetro asconda, e disciolta nel crin parea fra quella nova aurora a veder, candida e bionda.

L'onda dolce posò, zefiro tacque, e dove il nuoto agevolando scorse, tornar d'argento e di zaffiro l'acque.

A mirarla ogni dea veloce corse, e fu stupor ch'ove Ciprigna nacque, un'altra Citerea dapoi ne sorse.

Lirici ;: marinisti

226 LIRICI -MARINISTI

IL RUSCELLO

Questo limpido rio, ch'ai prato in seno da una lacera pietra esce tremante e, quasi re di questo campo ameno, s'incorona d'erbette, orna di piante;

quando il sole col raggio apre il terreno su '1 leone del ciel fiero e stellante, allor che stanco dal calor vien meno, dolce ristora il peregrino errante.

Sono i suoi mormorii trilli canori, al cui suono gentil canta ogni augello, a la cui melodia danzano i fiori.

Ben si può dir, tanto è suave e bello, per questi alati e musici cantori, organo de la selva e non ruscello.

XI

LA TERRA ASSETATA

Cento bocche la terra apre anelante, domandando pietà, venendo meno, e, da l'armi del Sol trafitta il seno, mostra le piaghe al ciel, focosa amante.

Qual Mongibello di calor fumante, bolle ai raggi del Sol l'arso terreno e sembra, di sudor sparso e ripieno, converso in fonte il peregrino errante.

Celisi il pesce pur nel salso fondo, che fin dentro a quel ceruleo umore ferito vien dal sagittario biondo.

Si fiero hanno i mortali aspro calore, che se '1 diluvio ritornasse al mondo, stilla non spegneria di tanto ardore.

GIROLAMO FONTANELLA XII

INVOCAZIONE ALLA PIOGGIA

Apri i fonti superni, e larga a queste sitibonde campagne acque diffondi, tu che cinta lassù d'arco celeste sopra trono di nubi il capo ascondi.

Son de la terra i fior bocche funeste, e sospiri gli odor, lingue le frondi, che per tante ammorzar vampe moleste pregan che sopra lor prodiga inondi.

Tragico il bosco; e '1 monte orrido e solo funestato ha di polve il crine e '1 manto, e campo d'Etiopia appare il suolo.

Per aver nel calor rifugio alquanto, querulo piangerla l'almo usignuolo; ma gli manca la voce e muore il pianto.

XIII

AL VENTO

Alito de la terra e spirto errante, che da concavi monti in aria esali, e questi in agitar campi vitali la natura fai bella e '1 mondo amante;

tu nel fiato volubile e vagante le fortune del mar segni ai mortali, e mentre batti l' invisibil ali, per le liquide vie scorri volante.

Ogni nube, ogni nembo agiti e giri, fai volar, fai gonfiar vele ed antenne, fai che '1 tutto respiri allor che spiri.

Quanto lieve ritrovi, alzi ed impenne; di qua voli e di giri e raggiri, e veloci alla Fama ergi le penne.

228 LIRICI MARINISTI

XIV

LA PERLA

Vaga figlia del ciel, ch'eletta e fina sei di conca eritrea parto lucente, ricchezza del bellissimo oriente, nata e concetta in mar d'umida brina;

tu allumi di candor l'onda marina, uscendo incontra al Sol bianca e ridente; il cui valor, la cui beltà nascente, ogni ninfa, ogni dea pregia ed inchina.

Tu, pullulando fuor d'alma natura, non prendi qualità di salso gelo, non tingi il tuo splendor di macchia impura;

ma qual vergine bella in bianco velo lasci a l'onda l'amato, e pura pura fai de la tua beltà giudice il cielo.

XV

L'ERMELLINO

Animaletto placido e vezzoso, eh' hai di morbida neve adorno il vello, e per téma di macchia o neo di quello movi tremolo il pie, l'occhio geloso;

tu, quando il bosco appar sozzo e fangoso, non esci fuor giammai dal chiuso ostello: e come giglio inargentato e bello, trovi in mezzo al candor pace e riposo.

Spento, sei degno poi, con alto vanto, quelle porpore ornar che '1 sacro onore a la mistica sposa adorna il manto.

Vestir non osi te vano amatore: ti vesta ben chi con affetto santo mostra puro il desio, purgato il core.

GIROLAMO FONTANELLA 229

XVI

IL CORALLO

Collinette fiorite, ombrelle amene sola al mondo non ha Pomona e Flora, che Teti e Citerea giù pur tiene, dentro l'onde del mar, giardini ancora.

Sono l'alghe l'erbette e i fior l'arene, o\e ai pascoli suoi Proteo dimora; frutti son quelle in mar conche serene, che la luna inargenta e '1 sole indora.

Purpurino virgulto ivi natura il ramoso corallo aver si vanta, eh' è di magico sangue alma fattura.

Dal tronco il nuotator destro la schianta ; la prende molle e la ritrova dura, e dubbioso non sa s'è pietra o pianta!

XVII

IL GAROFANO

Sdegna la plebe de' minuti fiori e star negli orti abitator non cura questi, ch'ambisce con fastosi onori ne' supremi balcon aver cultura.

Ivi candida man nobile e pura la sua maschia virtù nutre d'umori, per acquistarne poi gemina usura di molli fronde e di soavi odori.

Tal con fasto e con festa a l'aria uscito, gode, adobbato di purpuree fasce, a la rosa leggiadra esser marito.

Di rogiada o di linfa egli si pa.sce; sorge reciso e, pullulando ardito, quasi mostro lerneo sempre rinasce.

230 LIRICI MARINISTI

XVIII

LA MADDALENA

Cangia in ruvida spoglia, in corda irsuta, questa bella pentita il manto adorno, pompa di vanità, fregio di scorno, di caduca ricchezza ombra caduta.

Prima, tra lussi in maestà seduta, mille ricche vedea cortine intorno; or mira, entro selvaggio ermo soggiorno, con frondosi ricami edra intessuta.

Trionfa ella del mondo, illustre ed alma, non più con armi di beltà profana, ed ha sotto una palma oggi la palma.

Cosi, presso una limpida fontana, de le lagrime sue purgando l'alma, ov'era Citerea, sembra Diana.

XIX

SAN FRANCESCO D'ASSISI

Godea, rapito al ciel, languido amante, Francesco, acceso il cor d'ardente zelo, e parea sospiroso ed anelante da le rupi d'Alvernia alzarsi al cielo;

quando in mezzo al rigor, fra l'ombra e '1 gelo, cherubin luminoso e sfavillante, che stampa in lui come in purgato velo r imagine di Dio, viva e spirante.

Ben del sommo Pittor mostra i disegni chi per l'uomo salvar mostrò nel mondo tanti esempi di vita illustri e degni.

Dovuto a lui fu tanto onor giocondo; dovea portar de la salute i segni chi fu de l'uomo il redentor secondo.

GIROLAMO FONTANELLA 231

XX

IL BEATO GIOVANNI DI DIO

Angoscioso, anelante, in rozzo letto su l'estrema agonia Giovanni accolto, sostenendo la croce in mezzo al petto, sta con gli occhi e con l'alma in Dio rivolto.

E mentre fuor dal tramortito aspetto piove il freddo sudor, da morte sciolto, trova Maria, che con amico affetto li sostiene la fronte e asciuga il volto.

Soave è di sua morte e dolce l'ora, trovando lei, che con pietoso zelo il suo dolce sudor terge e ristora.

Ma se Maria l'accoglie in si bel velo, meraviglia non è; ch'essendo aurora, vuol con queste rogiade andar nel cielo.

XXI

IL SANGUE DI SAN GENNARO

Vedo che sciolto ogni rigor tenace sei de la parca a trionfar bastante e, qual fervido umor bolle in fornace, presso il foco divin bolli spumante.

Vedo ch'acceso ed agitato amante, salti per allegrezza, almo e vivace; che, placando di Dio l'ira tonante, con la porpora tua n'impetri pace.

Vedo eh' hai d'ammorzar valore eterno quanto il Vesevo per l'arsiccia fronte vomita fuor dal tempestoso Averno.

E tante hai tu dal ciel grazie congionte, ch'atto saresti a superar l'inferno, non che bastante a trionfar d'un monte.

232

LIRICI MARINISTI XXII

ALLA VERGINE

Penso, misero me, dubbio in aspetto, del mio corso mortai l'ultimo passo, e come avrò sotto un marmoreo sasso con immondi animai commune il letto.

Io già l'ora fatai sicura aspetto; ma, quando ha da venir m'è ignoto, ahi lasso! Cosi pensoso e mesto i giorni passo, ed a la morte a più poter m'affretto.

Ah, che sarà di me quando sia giunto il termine prescritto e l'ultim'ora? Ahi duro passo, ahi formidabil punto 1

Ognun mi fuggirà; ma tu, signora, madre del redentor, discendi a punto, e non lasciarmi in abbandono allora.

XXIII

LA SALTATRICE

A Fabio Ametrano

Questa beHa d'amor maga innocente, che con giri fatali i balli move inegualmente eguali, fa d'insolita gioia ebra ogni mente, e 'I pie sciogliendo ai regolati errori, incatena gli spirti, incanta i cori.

Prima, accorta ne' moti, alza e misura col bel suon de le corde ne la musica danza il pie concorde, dando al corpo gentil grazia e misura; indi parte e ritorna e, mentre riede, sopra l'ali d'amor regge il bel piede.

GIROLAMO FONTANELLA 233

Desta e sciolta, in un pie s'attiene e libra, indi il passo radoppia, e l'alza in aria e nel cader l'accoppia; si rota intorno e se medesma vibra, e ne' suoi modi e ne' suoi moti erranti, fatta rota d'amor, volge gli amanti.

China a tempo il ginocchio e l'aurea testa con bell'atto soave, e posando la danza, ergesi grave; poi si spicca in un salto, agile e desta, che leggiero nel voi s'erge tant'alto, che dubbioso non sai s'è volo o salto.

Va con breve ed armonico intervallo, regolato da l'arte,

or da la manca or da la dritta parte; fugge e rompe la fuga in mezzo al ballo, e ne l'ordine suo mutando gioco, la credi in uno ed è ne l'altro loco.

Mentre fuor dal bel lembo aurato e bello de la gonna sua vaga spinge il pie delicato, ogn'alma impiaga; par la punta del pie strale novello, che spedito e veloce in mezzo i petti fuor da l'arco d'Amor l'alme saetti.

Forse scesa qua giù la bianca luna dai volubili calli,

ha traslati fra noi gli eterni balli ? o pur nova d'amor vaga fortuna, rendendo altri infelice, altri beato, volge in vario tenor l'umano stato?

Da si belle e si rapide carole apprendete voi, stelle, a danzar colà su più vaghe e belle. Ore, ancelle del di, figlie del sole, che danzando su guidate il giorno, fermate il ballo ad ammirarla intorno.

234 LIRICI MARINISTI

E voi ditemi ancor, nunzi volanti, che con alto governo regolate del ciel l'ordine eterno: da quei zaffiri mobili e rotanti, ch'han nel danzar si numerosi corsi, danzatrice si bella è scesa forsi?

Già di rispondete, e già v'ascolto dai celesti zaffiri :

Donna umana non è costei che miri ; se veder brami il ciel, mira quel volto; mira quel pie, ch'in maestà reale ha dagli angeli appreso il moto e l'ale.

XXJV

LA RICAMATRICE A Francesco Sacchi

Questa Aracne d'amore, che con dita maestre adopra l'ago e con industre errore prende accorta a fregiar drappo si vago, l'arteficio e '1 lavor si ben comparte ch'a natura fa scorno, invidia a l'arte.

Mentre il lino trapunge, d'acute punte il cor ferir mi sento; mentre insieme congiunge e sposa a stami d'or fila d'argento, ne la testura sua pregiata ed alma la prigione d'amor tesse a quest'alma.

Su l'ordita ricchezza move l'agile man tanto spedita, ch'a quell'alta prestezza in lei folgori pensi esser le dita, che fra tremoli rai d'argentei fiori fan con gelidi lampi ardere i cori.

GIROLAMO FONTANELLA 235

Su la rosa gentile, ch'animata di fuor le ride in bocca, il bell'ago sottile

pensosetta talor leggiadra incocca, ed in quell'atto insidiosa e vaga, sagittaria d'amor, gli animi impiaga.

Talor col puro dente, per aggiungere un fil, l'altro recide, e qua! parca innocente lo stame ancor de la mia vita incide, e con alterni ed ordinati modi mi stringe il cor fra quei minuti nodi.

Palla forse è costei, ch'agli atti, a l'arti, a le maniere, al volto ben somiglia colei,

ch'in bellezza e valor senno ha raccolto, e qual donna immortai dal ciel venuta, mostra in giovine età mente canuta;

o la tenera Flora su le tele a provar viene i suoi pregi, che ricamando infiora con groppi d'or, con ingemmati fregi e, di se stessa imitatrice, gode schernire altrui con ingegnosa frode;

o, novella angioletta, per dimostrar quegli artefici aurati ha con industria eletta i ricami del ciel qua giù traslati ; poi ch'a far si bell'opre, ad altri ignote, chi celeste non è, giunger non potè.

236 LIRICI MARINISTI

XXV

AL FIUME SEBETO

Per la fontana nella casa di Francesco .Xardilli

Fiumicello vezzoso, che con passo lucente fuor d'un seno petroso con bel roco vagir spunti nascente, e discorrendo in tortuosi errori stampi in mezzo le piagge orme di fiori;

movi il pie susurrante, peregrin fuggitivo, e nel corso tremante sei di posar nel proprio letto schivo, e girevole e torto in vari modi col tuo lubrico dente i sassi rodi.

Qual coppiero gentile, dentro vaso d'argento a la corte d'aprile somministri da ber gelido e lento e, qual musico bel, tra pietra e pietra del tuo vivo cristal suoni la cetra.

Sei tu povero d'onde, ma ben ricco di pregi, ed angusto di sponde il nome augusto hai d'onorati fregi, e benché umil per le campagne corri, per le penne di cigni altero scorri.

Nel bell'orto reale, che fa scorno a l'Eliso, per occulto canale compartito in più rivi entri diviso, e per opra de l'arte argenti molli, disdegnando la terra, al cielo estolli.

GIROLAMO FONTANELLA 237

Ivi, limpido e bello, colorando i bei campi con argenteo pennello, mille forme di fior dipingi e stampi e, gorgogliando entro marmoree conche, par che mostri parlar, ma in voci tronche.

Passi tacito poi a le mura beate ove, seggio d'eroi, la Sirena inalzò l'alma cittate, ed in mezzo le vie più illustri e conte per diletto d'altrui fai più d'un fonte.

Giungi al tetto onorato del mio caro Nardillo, e da piombo forato, prigioniero vagante, esci tranquillo, e con tremola fuga e dolce suono fai di specchi cadenti un regio trono.

Qui, tra marmi spiranti ch'han silenzio facondo, versi piogge stillanti, d'argentato licor Giove fecondo, e di ricco tesor largo e ripieno mille pesci guizzar ti vedi in seno.

Qui con tremole ampolle par che placido balli fuor d'un. picciolo colle, che con arte s'incurva entro due valli, ed in ruvida si ma vaga cote formi in dolce cader lubriche rote.

Qui son musiche corde le tue linfe cadenti, onde lieto e concorde traggi roca armonia di bassi accenti, che lusinga l'udito e fa che l'alma de le cure maggior sgravi la salma.

238 LIRICI MARINISTI

Tu, qualora cantando il tuo dotto signore va con l'arco temprando ne la lira gentil fila canore, qual Castalio novel ti vedi intorno col drappel de le muse il dio del giorno.

Deh, se stanco egli brama al suo corpo riposo, e nel letto richiama ai suoi lumi talor sonno gioioso, in pacifico oblio, mentre dispensi il tuo limpido umor, lega i suoi sensi.

XXVI

ALLA BOCCA

Bella fabbra d'accenti, vaga culla del riso, ricca cella d'odor, pompa del viso, ingemmata prigion di cori ardenti, amoroso spiraglio onde odorato esce al foco de' cor tepido fiato;

arco tenero e bello, eh' hai di minuti avori le tue saette onde ferisci i cori; prezioso d'amor nobil cancello, di corallo e di perle uscio lucente, pellegrina conchiglia, urna vivente;

fresca rosa animata, che da gelo e d'arsura ti serbi intatta e ti mantien sicura; del palagio d'amor porta ingemmata, ove ai moti del cor l'aura di vita trova dolce l'entrar, dolce l'uscita;

GIROLAMO FONTANELLA 239

ricco e lucido chiostro, ove musiche intorno

fan passeggio le Grazie ed han soggiorno; bel teatro gentil d'avorio e d'ostro, ove giostra la lingua e ardente e vaga con acuto parlar gli animi impiaga;

odoroso giardino, ove ordiscono i favi gli Amoretti volanti, api soavi; puro fonte d'ambrosia aureo e divino, ove il fervido cor, pien d'allegrezza, assetato d'amor beve dolcezza;

nova lancia d'Achille, che con colpi vitali ne le guerre d'amor gli animi assali, e traendo di gioia umide stille giovi poi se ferisci, e a le ferute con soave baciar porti salute;

tu, fra i brevi confini di duo labbri giocondi, l'Arabia accogli e '1 paradiso ascondi; e con le chiavi di duo bei rubini apri il cielo agli amanti e in dolci calme fai lieti i cori e fai beate l'alme.

Saggia e bella riprendi, persuadi ed alletti, e sai destare e dominar gli affetti; preghi, canti, lusinghi, ardi ed incendi e, con dolce fiicondia, alta e divina, fai de l'alme e de' cor dolce rapina.

Or ch'in rime ho tessuto la tua gloria e '1 tuo vanto, bocca bella e gentil, baciami intanto. Sia premio il bacio al mio cantar dovuto; la mercede a la bocca e '1 premio tocca, che lodò, che cantò te, bella bocca.

240 LIRICI MARINISTI

XXVII

ALLA LUNA

Candidissima stella che '1 silenzio tranquillo apri nel mondo, e pacifica e bella

rendi il fosco de l'ombre almo e giocondo, e de l'umido sonno umida sposa, abbracciando la notte, esci pomposa;

tu con provvida cura spargi d'alta virtù gravidi effetti ; tu, ne la notte oscura, sagittaria del ciel, l'ombre saetti e, menando su danze e carole, scorri i lucidi campi, emula al sole.

Tu con freno d'argento reggi, in campo d'orror, carro di stelle; tu con vago concento mille guidi nel ciel musiche ancelle e, reina de' boschi in bianca vesta, coronata di corna ergi la testa.

Piovi, balia feconda, su le bocche dei fior manne stillanti, e soave e gioconda versi in largo tesor mille diamanti, e squarciando le nubi intorno intorno, rendi chiara la notte, emula al giorno.

Apri e chiudi i canali de le fonti del ciel puri e giocondi, e con acque vitali la crescente virtù nei corpi infondi, e cortese a le piante, amica ai fiori, spargi in grembo a la terra ampi tesori.

GIROLAMO FONTANELLA 241

Variabile ogn'ora, fai, mutando color, diverso effetto: ora pallido ed ora

rosseggiante nel ciel mostri l'aspetto, e con vario apparir vari figuri del futuro avvenir segni sicuri ;

or superbo e ripieno di fecondo licor gonfi il sembiante, e di Teti nel seno

movi al moto che fai l'onda incostante; or cornuta hai la fronte e scema i rai, come parti nel ciel non torni mai ;

or con languido lume fra le nubi sepolta umida manchi, or con candide piume le selve inalbi e le campagne imbianchi, e risorta fenice alma ed adorna, rinovando la luce ergi le corna.

XXVIII

AL MELOGRANATO

O piropo de' campi, ch'emulando la rosa nel tesor di natura ardi ed avvampi, e con bocca focosa par che muto ragioni, e quante belle hai faville d'amor, tante hai favelle;

tu con vago cimiero, eh' hai di porpora tinto, sorgi in campo di fior molle guerriero ; e di foco dipinto

sfidi il gelido verno, e mentre t'armi, ne le spine ch'hai tu, dimostri l'armi.

Lirici mariìiisii 16

242 LIRICI MARINISTI

Tu, fenice de' colli, col natale de l'anno rinascendo più bello, il capo estolli ove i rami ti fanno glorioso corteggio, e in bel lavoro la spoglia hai d'ostro e la corona hai d'oro.

Sopra trono di frondi reggi popol minuto di vermigli granelli orbi giocondi ; a ragion t' è dovuto il bel nome di re, che in vari segni ne le celle ch'hai tu dimostri i regni.

Per dar vita a' tuoi parti, che son molli rubini, pellicano d'amor, t'apri in due parti, e 'n due brevi confini, da materna pietà venendo meno, mostri lacero il fianco, aperto il seno.

In te schiera volante di solleciti Amori

sugge d'aureo licor manna stillante; in te Zefiro e Glori

scherzan placidi e belli, e intorno al viso ch'in tal forma cangiasti, aprono un riso.

Quanti piccioli e belli, graziosi e stillanti,

chiudi tu globi dolci, aurei granelli; tanti cori d'amanti, in compendio bellissimo ristretto, possiede Lilla mia nel bianco petto.

GIROLAMO FONTANELLA 243

XXIX

A POSILIPO

Paradiso del mare, vaga reggia d'Amor, trono d'aprile, Pausilippo gentile,

che, stendendo sul lito ombre gioconde, incoroni le piagge, abbracci l'onde;

in te placida vola, refrigerio di vita, aura novella, aura tremola e bella,

che sgombrando dal cor l'ombre e i martiri, i sospiri d'amor cangia in respiri.

Sacro albergo a le muse, odi mille intonar dolci istrumenti : concertati concenti,

che sopra un legno di bandiere adorno le sirene ch'hai tu siìdano intorno. Mille navi dipinte,

ch'hanno prore d'argento e poppe d'oro,

ricche d'alto lavoro,

ti corteggiano intorno; onde in vederle

ne le spume che fai produci perle. Hai di ricchi edifìci,

prove illustri de l'arte, alteri fregi;

in te vengono i regi,

ed a stanzar ne le tue rive belle

scenderiano gli dèi fin da le stelle. Sei di Flora e di Teti

grazioso ricetto, altero nido;

e sul colle e sul lido,

con soavi armonie, pari e concordi

le sirene e gli augelli insieme accordi.

244 LIRICI MARINISTI

In te l'alga è smeraldo, bianca perla la spuma, argento l'onda, bel cristallo la sponda, vaga stella ogni fior pura e serena, gemma fina la conca, oro l'arena.

In quest'antri, in quest'ombre, spesso il tenero Amor giunge danzando; in quest'alghe posando, baldanzosi nel cor, lieti nel viso, chiaman Cerere e Bacco il canto e '1 riso.

A delizie si belle, a si dolci armonie ch'in te son mosse, qui, se muto non fosse, quando sopra de l'onde ergesi ed esce, parlerebbe d'amor lo scoglio e '1 pesce.

Salta il curvo delfino con la coda forcuta entro i cristalli ; i suoi guizzi son balli e si attento l'orecchio in te ripone, eh 'a la musica tua lascia Ar'ione.

Qui non morono i cigni, come in riva del Po sovente avviene; qui le belle sirene, con melodia eh' è di dolcezza ordita, danno invece di morte altrui la vita.

O bel monte fra' monti, per delizia de' sensi a noi risorto, tu, pacifico porto

d'ogni mesto pensier, d'ogn'alma errante, porti pace al nocchier, requie all'amante.

Grazioso il Tirreno, con la bocca de l'onde il pie ti baci; in quest'acque vivaci, ove danzano ognor ninfe e tritoni, mentre fiori li dai, perle ti doni.

GIROLAMO FONTANELLA 245

XXX

I PIACERI DELLA VILLA

Ad Isabetta Coreglia

Pace a voi, pinti augelli, delicate pianure, alme colline, ombre fresche, erbe molli, aure divine, solitari recessi opachi e belli, alti monti, ime valli, orti fioriti, rotte balze, erme rupi, antri romiti!

A voi lieto ritorno, del mio povero aver contento e pago, di silenzio e di pace amico e vago. Deh, tumulto non sia dov'io soggiorno; qui stia sepolto ogni mio lieto accento; a la città non riportarlo, o vento.

Porti l'occhiuta Fama, che d'applausi si pasce e d'alti fasti, a l'orecchio civil pugne e contrasti: chi, fra strepiti avvezzo, avido brama del fiero Marte esaminar gli errori, legga pugne, oda trombe, ami furori.

Ma chi, vago de' boschi, desia d'amica pace intender carmi, meco venga tra' colli e lasci l'armi: qui, soletto fra rami ombrosi e foschi, ove l'ombra cader serena io veggio, riposato nel cor danzo e passeggio.

Poggio dal piano a l'erto, e parmi ad ora ad or toccar le stelle su le cime de' monti altere e belle. Pendo nel mio piacer dubbio ed incerto, e dico, asceso in si sublime loco: D'arrivar sopra il ciel mi resta poco.

246 LIRICI MARINISTI

Ivi, mentre respiro, fra due valli mi fermo ombrose e cupe. Ove si sporge fuor diserta rupe, sorger tempio devoto al del rimiro, aula sacra di Dio, ch'infonde al petto riverenza, stupor, téma e diletto.

Santo e romito stuolo, ch'ha di cenere sparsa ispide vesti, spira qui con silenzio aure celesti : ricco di povertà, solingo e solo, ha d'irsute ritorte il fianco avvolto, scalzo il pie, rozzo il manto e magro il volto.

Aer sacro e sereno, che di dolci pensier m'empie la mente, ventilando di là, spira sovente; d'usignuoli selvaggi il loco è pieno, ivi vengono e van gli augelli erranti; ciascun, dubbio, non sai se pianga o canti.

In quel tempio sacrato tuona concavo bronzo, alto e canoro, che la sacra famiglia invita al coro: non da fabbro mortai sembra formato, ma d'angelica man, che, mentre suona, come lingua del ciel parla e ragiona.

Ben composto orticello di spinosi roseti intorno cinto, godo di vaghi fior smaltato e pinto; poi, quando spunta il primo albor novello, lascio le piume e per le siepi ombrose di qua colgo e di fragole e rose.

Quante belle farfalle vagabonde e dipinte aprono i voli, e quanti arguti e queruli usignuoli fan qui col canto lor sonar la valle! Ride il campo ed olezza, e lieto in viso ogni fior che germoglia apre un sorriso.

GIROLAMO KONTANEIJ.A 247

Qui porporeggia il melo, giallo impallidisce il cedro antico. e con lacero sen lagrima il fico; di rubini la vite orna il suo stelo, e di porpora e d' òr pendendo altero miniata ha la scorza il pomo e '1 pero.

Alzo gli occhi bramoso, spio tra' rami le fi-utta e '1 braccio stendo, e qual più mi diletta avido io prendo: poi vicino ad un lauro il di riposo, e per frutti gustar soavi tanto, ho melata la lingua e dolce il canto.

Scorre l'ape soave, e tanto i suoi susurri in aria ponno, che mi stillano agli occhi un dolce sonno: .scende l'ombra da' monti umida e grave: ecco stridulo il grillo, e in voci rotte par ch'annunzi la pace e dica: E nottv.

Odo a punto a quest'ora semplicetto cantor d' incólte rime il villanel, che le sue fiamme esprime; tratta cava testugine canora, e con rozzo cantar dolce e concorde, porge grazia a le voci, alma a le corde.

A quel rustico accento immerso in un sopor cupo e tenace, prendo posa tranquilla e dolce pace; poi de' garruli augelli al bel concento, salutando de l'alba il novo lampo, gli occhi desto dal sonno e torno al campo.

Sotto i piedi l'erbetta lagrimosa mi ride, e sono i pianti, ch'ella sparge tra' fior, perle e diamanti. Febo, amico di pace, allor mi détta mille belli pensier; Febo m'è scorta, e m'inalza la niente e al ciel mi porta.

248 LIRICI MARINISTI

Qui, leggiadra Coreglia, ove l'ombre più dolci il monte serba, meco il di ti vorrei tra' fiori e l'erba. Ecco il lauro, ecco il mirto, ecco la teglia, che fra mille d'amor zefiri ameni mormorando ti chiama e dice: Vieni.

Vieni, o saggia Nerina, pastorella gentil, musica ninfa, ove giubila qui l'aura e la linfa. Ma tu, nova fra noi musa divina, degni fai di tue luci oneste e pure altri colli, altre ripe, altre pianure.

Tu sotto il clima tosco, bella italica Saffo, al mondo splendi, e '1 tuo picciolo Serchio augusto rendi ; di civil maestà si veste il bosco, qualor prendi la piva e mandi fuora dal rubino spirante aura canora.

Mille pinti augelletti odi intorno cantar dolci e lascivi, ne le cortecce ove intagliando scrivi. Riverisce il pastor gl'incisi detti, e son tanto i caratteri soavi, che l'ape corre e vi compone i favi.

Cangia l'empia fierezza in costume gentil l'aspido sordo e porge al tuo cantar l'orecchio ingordo; e tanta dal tuo dir beve dolcezza, ch'a l'armonia de la tua bella canna il veleno ch'avea converte in manna.

L'aria in vista s'allegra, dal tuo vago splendor resa tranquilla, e rose e gigli il ciel piove e distilla; e benché in spoglia vedovile e negra apparisci colà, tosto al tuo viso l'ombra in luce si cangia e '1 pianto in riso.

GIROLAMO FONTANELLA 249

O beata campagna, felice colle, avventuroso fiume, che degni fai del tuo cortese lume ! Beato il Serchio ove irrigando bagna, che, nel suo molle e cristallino gelo stampando il viso tuo, contiene il cielo.

Io di qua, dove seggio or fra sacri silenzi ombroso e muto, col cor t'inchino e col pensier saluto. Da quest'occhi non vista io pur ti veggio. Oh stupor non udito, oh strano gioco! la tua luce non vedo e sento il foco.

XXXI

PER LA MONACAZIONE DI SILVIA DELLA MARRA

Al padre di lei, duca della Guardia

Verginella innocente in bianco velo, miro pura donzella, tutta candida e bella, far de la sua beltà giudice il cielo; calca i fasti e le pompe e sembra umile, in sua tenera età, giglio d'aprile.

Nel suo casto voler ferma ed immota, tronca il biondo tesoro e consacra quell'oro, Berenice novella, al ciel devota; e di Cristo imitando il regio crine, la sua tenera fronte orna di spine.

Veste candida lana e bianco lino, che si ritorce in onda cosi pura e gioconda, che somiglia in candor terso armellino; e ben dovea chi di colomba ha il core, di colomba vestir l'almo candore.

250 URICI MARINISTI

Serba il sacro silenzio i muti nodi in quel labbro modesto; ma poi libero e presto l'apre, dando al suo sposo inni di lodi; serve con libertà signore immenso, signoreggia le voglie e doma il senso.

Dentro spine di ferro intatta rosa, ha del mondo vittoria; di sua fuga si gloria, poggia sopra le stelle e in terra posa; con devota umiltà china i ginocchi e la mente inalzando abbassa gli occhi.

Prigioniera, a la terra invia più franca la sua candida mente; bella, casta, innocente, alba sembra a la gonna intatta e bianca; e mentre di pietà raggi sfavilla, di sue lagrime pie rugiade stilla.

O felici serragli, o sacre mura, che chiudete e serrate quel tesor di beltate, quella gemma d'onor si tersa e pura; riverente a voi giro i lumi e i passi, vi saluto con gli occhi e bacio i sassi.

E tu d'opra si pia, signor, ben pago, godi d'aver produtto si generoso frutto, che serba fior di purità si vago; deh, se paterno amor ti punge il petto, mostra che 'n ciò sai dominar l'affetto.

Padre par ch'ella dica, oggi m'ascondo dentro un'angusta cella, »

per fuggir la procella del tempestoso ed agitato mondo. « Ben mostra per salvarsi animo accorto « chi fugge la tempesta e corre al porto ».

GIROLAMO FONTANELLA 25I

XXX 11

LE DELIZIE DEL SECOLO

Al niarchest> di Villa G. B. Manso

Giace il mondo fra lussi, e l'uomo insano rende sudditi a' sensi i propri affetti; prezza crapole e giochi, amante vano, veste pompe, usa lisci, ama diletti.

Negli agi immersa effeminata e folle la pronta gioventù marcir si vede: regna il sonno e la piuma, e l'ozio molle su le morbide coltri a l'ombra siede.

Miro l'opre e l'usanze oggi diverse da quel secolo d'or purgato e casto: le pelli usò chi nudità coperse, or di serica pompa orna il suo fasto.

In quel primo vagir del mondo infante era stanza il tugurio a l'uomo imbelle; or da la terra emulator gigante edifici sublimi alza a le stelle.

Fa sviscerar da peregrini monti superbo ingegno i più pregiati marmi, per farne o logge o preziosi fonti, che del tempo guerrier durino a l'armi.

Fa ch'i suoi tetti a riguardar si belli siano d'arte maestra ultima prova: novi Dedali chiama, e novi Apelli al suo regio lavor prodigo trova.

L'onda che sprigionata un tempo apriva da la pomice scabra argentea vena, che senz'arte correa purgata e viva tra vaghi fior per la campagna amena;

252 LIRICI MARINISTI

custodita e riposta oggi tra chiavi, fa per opra de l'arte opre stupende, con soave rumor dai piombi cavi le reggie illustri ad arricchir discende. Non più rustiche paglie, aspri fenili, rozzi e poveri velli, ispidi stami; ma molli sete e preziosi fili fanno al regio suo tetto ombre e ricami.

Pendono in giù per le sue logge arcate mille d'aureo lavor tappeti industri, e ne le mura e ne le travi aurate mille ammiri d'eroi memorie illustri.

Del più famoso e nobile metallo il suo ricco balcon cerchia sovente, e dei monti rifei puro cristallo fa ne le sue fenestre ombra lucente.

Ei, gonfio il cor d'ambiziose voglie, calcar povero suol rifiuta e sdegna; pavimenti gemmati, aurate soglie il suo nobile pie toccar sol degna.

Nel suo morbido letto ombrando il lume, padiglione si leva alto e pomposo, e fra lini odorosi e bianche piume presta al languido corpo agio e riposo.

Vengon a esercitar musiche danze donzellette lascive in ricca veste; spirano arabo odor le regie stanze, e fra dolci armonie s'odono feste.

Fra cancelli d'argento in aria appeso, prigioniero giocoso, il verde augello qui da l' India remota a lui disceso, mille nomi ridir sa vago e bello.

Mille d'argento e d'or conche e vasella sopra candido lin prepara e spande, ove miri in sua mensa agiata e bella odorosi fumar cibi e vivande.

GIROLAMO FONTANELLA 253

Attuffato nel ghiaccio, esposto a l'oro, generoso Lieo spumante brilla, che 'n tazza di finissimo lavoro con soave allegria placido stilla.

Sontuoso teatro, altera scena di figure e di lumi erge a suo vanto, ove ispana leggiadra il ballo mena e marito del ballo unisce il canto.

Ahi, ch'onesto rossor più non inostra in donnesca bellezza il bianco viso; lasci vetta in andar gli abiti mostra, lussureggia nel petto, arde nel riso.

De la chioma sua bionda il campo adorno con rastrello d'avorio ara e coltiva; poi vi semina odori e sparge intorno di licori sabei pioggia lasciva.

A che dentro le pompe alma bellezza, e tra firegi non suoi giace sepolta? Schietta e nuda beltà via più si prezza, tanto meno è gentil quant'è più cólta.

Oh d'umana follia prova superba! Sa ch'ogni opra de l'arte al fin rovina, sa che sparsa nel Tebro arena ed erba ricopre ancor la maestà latina.

Cadde Menfi superba e Caria illustre, cesse a l'armi del tempo Argo e Micene, e sepolta in oblio fosco e palustre fra le nottole sue sta cieca Atene.

Le piramide sue trovi, se puote, glorioso l'Egitto e '1 Nilo altero; Troia miri le mura a pena note, che fér si grande il suo temuto impero.

Trovi Rodi il colosso, Efeso il tempio, miri tumido Creso oggi il suo trono; contro i colpi del tempo ingordo ed empio i romani trionfi ove ora sono ?

254 LIRICI MARINISTI

A che, dunque, inalzar tetti eminenti, s'ogni fasto mortai rapido piomba? s'altro non resta a ricettar le genti, eh 'un freddo marmo, una funerea tomba?

i

XXXIII

CONTRO L'IGNORANZA E L'AVARIZIA DEI PRINCIPi

A Gaspare de Siineonibus

Già d' una piva insuperbito e vano, che gli pendea dal setoloso collo, si gonfiò, si levò satiro insano, ch'osò sfidar, prosuntuoso, Apollo.

O tu dicea, che con aurato scettro ti fai signor de l'eliconio fiume, non ti vantar s' hai ne la mano il plettro, che non è tuo, ma del cillenio nume.

Cedi il tuo vanto all'armonia ch'io reco con una canna industriosa ed alma; ma se ceder non vuoi, provati meco, e premio sia del vincitor la palma.

Prendi il telar de le tue varie corde ove in musica tela ordisci il suono, e vedi poi chi nel sonar concorde fa di noi due più grazioso il tuono.

Io d'armoniche fila ordine industre luminoso non ho pettine bello; ma con un legno ruvido e palustre ti sfido intanto a singoiar duello.

Udio la voce il biondo arcier canoro del vantator del rusticale arnese, ed armando la man di cetra d'oro, guerrier canoro a la disfida scese.

GIROLAMO FONTANELLA 255

Cinto colà da montanaro stuohj, fatto l'arcade re giudice al canto, dal commune parer discorde ei solo il castalio signor pospose al vanto.

Di ciò sdegnato il sagittario biondo, eh' è de la lira armonioso arciero, per castigar tanta follia nel mondo, rese a Mida l'orecchio ispido e nero. Ma per coprir l'ingiurioso scorno, che deforme rendea la regia testa, la corona adoprò ch'intorno intorno di scoltura gemmata era contesta.

Con esempio si bello attica musa sotto favola finta il ver ragiona: che spesso mente torbida e confusa va sotto ricca imperiai corona.

Chiude orecchio di Mida in aurea fascia ricco signor, che vanità gradisce; perir gì' ingegni amaramente lascia, le muse sprezza e le virtù bandisce. Negletti in corte, i peregrini cigni agiato nido al poetar non hanno; sotto fero tenor d'astri maligni d'una in altra città dispersi vanno.

Non è chi merchi i lor soavi accenti, sol per desio d'immortalarsi almeno; per inchiostri non cambia ori ed argenti, cosi bollente ha d'avarizia il seno.

Va ne le reggie a celebrar talora gli eroici vanti un peregrino ingegno; ei mal gradito e mal veduto ancora, premio non trova al suo gran merto degno.

Contro irata fortuna ei per riparo una povera lira in man si prende; un frutto coglie in guiderdone amaro, ch'inasprisce la lingua e '1 gusto offende.

256 LIRICI MARINISTI

Deh, tornate a la luce, al mondo, voi, Mecenati famosi, eccelsi Augusti, ch'i poetici ingegni e i sacri eroi accoglieste a tutt'or pietosi e giusti.

Oggi al mondo non è chi largo e pio amico venga a sollevar le muse; per cibo un lauro e per bevanda un rio hanno, in cima ad un colle accolte e chiuse.

Più d'un nobile ingegno e più d'un vate sotto scarso destin perir si vede; ma colpa sol de la moderna etate, che nega avara a la virtù mercede.

Tesse eroico scrittor bellici vanti, con la penna intrecciando almi episodi ; ma dai versi non prende altro che vanti e per lodi non coglie altro che lodi.

Sparge in mezzo a le corti un'aurea vena di faconda armonia, ch'in versi scioglie; ma da mano real cortese e piena, vena prodiga d'or giamai non coglie.

Stima il garrulo vulgo un che togato giudica ne le rote i dritti e i torti ; un ch'ha la lite e la discordia a lato, cicalator, mormorator di corti ;

un che d'Astrea torcendo i puri sensi, la nuda verità veste di frode; corvo inuman, ch'ove a litigio viensi de l'altrui mal come suo ben si gode.

E chi d'Apollo imitator ne l'arte ai bianchi cigni è in purità simile, chi spira amor da le sue belle carte, come inutile e vano ei prende a vile.

Oh di secolo pravo insania folle, che l'umano giudizio ombra ed appanna! Parolette e menzogne il mondo estolle, e i poetici studi a terra danna.

GIROLAMO FONTANELLA 257

Ma stiasi pur nel suo parer fallace la sciocca plebe a vii guadagno intesa, ch'in si povero stato avendo io pace, lasciar non vo' l'incominciata impresa.

Benché frutti non abbia il sacro monte e miniere produr non sappia d'auro, benché poveri umor stilli il suo fonte, in si povero umor prendo ristauro.

Più mi giova raccòr sterile alloro tra i silenzi di Pindo alti e divini, che tra i fremiti rei del rauco fòro di fruttifera palma ornarmi i crini.

M' è più grato fra cigni essere accolto, lunge avendo da me discordie e liti, che di garrulo stuol, fallace e stolto, i vani applausi e i popolari inviti.

Leggi e riti d'Astrea do prendo, nel causidico fòro amati tanto; reggo me stesso, e quelle norme apprendo, che fan puro lo stil, perfetto il canto.

XXXIV

LA MORTE DI MARIANNA

Poiché in cima riposto al regio onore, quando Erode credea perdere il regno, vide l'imperio suo crescer maggiore;

pensando aver col temerario ingegno vinto l'insuperabile destino, più non temea del ciel castigo o sdegno.

Vedeasi tributario il palestino, innanzi ai piedi suoi servo il giudeo, e vòlto a suo favor l'eroe latino.

Lirici mannisti 17

258 LIRICI MARINISTI

Vedea de' suoi nemici aver trofeo, di sue fatiche inaspettati onori, e di nuovo seder nel trono ebreo.

Un di, tornando a' suoi lascivi amori, condur si fé' la sua real consorte, che per abiti aveva porpore ed ori.

Egli volea che di sua lieta sorte godesse ancor la peregrina sposa, gioisse ancor l'ambiziosa corte.

Ma turbata la vide e in sdegnosa, a lui, siccome pria, lieta in aspetto, venne a far di beltà pompa amorosa.

Ei, che nutre per lei si caldo affetto, che sfavilla in amor, ch'anela ardente, de l'insolita vista ha dubbio il petto.

Qual cosa, anima mia, fia si possente a turbarti le dice, or ch'io ritorno d'allegrezza e di gioia ebro e ridente?

Devi tu, mentre ognun m'applaude intorno, più d'ogni altra goder lieta e festante, e in diamante segnar si fausto giorno.

Come, o sposa diletta, allegra avante non mi fai di tue braccia oggi catena, nel tuo sen non m'accogli avida amante?

Lasso, ogni mio gioir converti in pena, mentre in si bella eclissi oggi m'ascondi vista si dolce candida e serena.

Chi ti turbò, cor mio, ben mio? rispondi! Farò, farò che '1 temerario mora, che fu cagion de' tuoi dolor profondi.

Oh Dio, che cosa è quel che il cor t'accora? di' pur, comanda pur; quanto richiedi eseguirò, per compiacerti, or ora.

Non solo io vo' che '1 regno mio possiedi, ma il dominio del cor siati concesso; sia tuo quanto in Giudea scopri e rivedi.

GIROLAMO KONTANIil.LA 259

Comanda pur, ch'obedirotti appresso; in servo umil mi cangerò da sposo, farò del tuo voler legge a me stesso.

È tempo ormai eh' io prenda àlmen riposo ne le tue braccia, ove tu puoi bearmi, queste piume premendo ebro e gioioso. Ma s'a guerra d'amor godi sfidarmi, placa le luci tue spietate e crude, e poi, bella nemica, accingi l'armi.

Prima ch'a la battaglia io serva e sude, sia questo letto l'odorato campo, l'armi di tua beltà mostrami ignude.

Fonte de' miei piacer, spegni il mio lampo, sazia la sete mia, poich'in amore tutto anelo, sfavillo, ardo ed avampo.

Incatenami il collo, e a tanto ardore giungi meco anelando, avvinto e stretto, seno a sen, labbro a labbro e core a core.

Ma, per frenar l' irregolato affetto del lascivo suo re, l'ebrea reina mostrò nel volto aver sdegno e dispetto.

Troppo la tua ragion s'abbassa e inchina a dar licenzioso ai sensi il freno, troppo dal dritto amor torce e declina.

Spegni dice il bollor ch'accogli in seno; come i popoli tuoi reggendo vai, si le sfrenate voglie accogli a freno.

Moderi altrui te corregger sai ; le città signoreggi, ed or si folle da' sensi tuoi signoreggiar ti fai?

Gran vergogna è d'un re se in ozio molle, a lascivie ed a lussi in preda dato, non freno al furor ch'ai cor li bolle.

Tu, che eserciti indomiti hai domato, d'un lascivo desio resti abbattuto, d'un fugace pensier resti espugnato?

26o LIRICI MARINISTI

A tal dir resta il re tacito e muto, qual veltro che famelico talvolta sol per ésca cercar resta battuto.

Ei vergognoso altrove i passi volta, e la sete del cor soffrendo ardente, l'onda eh' in van bramò vedesi tolta.

Da la mensa ritorna il di seguente; di dolcezza e di vin ebro e fumante di lussuria avampar maggior si sente.

Verso il caro suo ben corre anelante, ma, scacciato di nuovo, egli s'accorge di nemica beltà trovarsi amante.

A la repulsa infuriato ei sorge dal letto maritai rapido e presto, quando in premio d'amor tant'odio scorge.

La cagione saper brama di questo; ond'ella irata al fin con questi accenti fece noto il suo cor turbato e mesto:

Vuoi, traditor, ch'ai tuo voler consenti e chiami te, che nell'amarmi infingi e bugiardo nel dir falseggi e menti?

So come le tue frode ombri e dipingi di falsità; come, amator fallace, l'infida lingua a lusingarmi spingi.

Se questa (qual si sia) beltà ti piace, e s' io ti serbo costante e forte, come, o crudel, ch'io viva oggi ti spiace?

Se mi leghi in amor dolce consorte, come per atterrar l'egra mia vita nodo in me trami poi d'occulta morte?

Non hai tu con Soemo insidia ordita, che da lui resti uccisa? Empio mio fato, misera me, si a torto oggi tradita!

Questo è l'amor che tu mi porti, ingrato? questa dunque è la fé? Va', ch'io non credo a parole di re crudo e spietato.

GIROLAMO FONTANELLA

Ahi, de le frodi tue tardi m'avvedo; altro porti nel petto, altro hai nel viso, e mentito è l'amor ch'in te già vedo.

Non ti bastò d'avermi il padre ucciso, soffogato il german, l'imperio tolto, ed il trono usurparti e starvi assiso?

E ancor contro di me, perfido e stolto incrudelirti vuoi, donna innocente, che quel ch'asconde al cor, mostra nel volto.

A tal parlar tutto di rabbia ardente, uscito fuor di grida il tiranno: Tanto ardisci tu dir, donna insolente?

T'ho scoperta infedel, non più m'inganno, e la che macchiata io non vedea, m'apre i lumi a veder l'occulto inganno.

Tal secreto scoprir chi mai potea se non un che ti gode, ama ed adora, ed abbraccia nel sen femina rea?

Fra tormenti farò ch'esposto or ora di tua camera sia l'empio custode, e l'adultero tuo pur seco mora.

Si, si, scoperto ho ben l'iniqua frode; folle chi più si fida in donna errante, ed a la sua beltà vanto e lode !

Da lei parte nemico ov'era amante, nel parlar, nel trattar fiero e sdegnoso, di furor, di dolor caldo e fumante.

Va nel trono a seder ricco e pomposo, e del passato e ricevuto scorno non può coi suoi pcnsier trovar riposo.

Di fulgido diadema il crine adorno, fra cento squadre di guerrieri e cento eroi togati, signoreggia intorno.

Sotto un gran ciel di luminoso argento, calcando sotto il pie porpore ed ori, con alta maestà porta spavento.

202 LIRICI MARINISTI

Con un sol guardo sbigottisce i cori, e col pie tempestando il regio soglio sveglia e desta del cor l'ire e i furori.

Poi, sbuffando in parlar l'ira e l'orgoglio, con un tuono di voce alto e spietato fa palese il furor, noto l'orgoglio.

Or prendete Soemo ei grida irato - e innanzi agli occhi miei vo' che l'infido, pena debita a lui, resti svenato.

A pena di sua bocca esce tal grido, ch'eseguito riman; scusa non giova a Soemo apportar d'amico fido.

Ciascun rabbino il suo parere approva; muor l'infelice, e funestando il piano, l'ira del suo signor rigido prova.

Non s'acqueta perciò l'empio e inumimo, ma nel furor più bolle e intorno gode bruttar la reggia sua di sangue umano.

Ma chi può dir la scelerata frode, eh' incontro Marianna empia cognata ordendo va col dispietato Erode?

Miser chi di tal gente empia e mal nata senz'amor, senza fede oggi si fida, che palese t'accoglie, odia celata!

Accusa l'innocente e afferma infida come per dar la morte al regio sposo, procurasse costei tòsco omicida.

Fede le presta il barbaro sdegnoso, da la furia acciecato e, dentro il petto, da gelosia, senza trovar riposo.

Chiama il senato a dar sentenze eletto; vuol che la moglie si condanni a morte, qual donna rea nel suo reale aspetto.

Ecco in presenza di sua regia corte, senza temer del tribunal giudeo, furiosa compar l'alma consorte.

GIROLAMO FONTANELLA 263

Comincia: Or chi di voi, giudice reo, condannar temerario or mi presume, per compiacer si fier tiranno ebreo ?

Ben del giudicio ha ottenebrato il lume, e ben mostra di senno in tutto oscuro de l'ingegno tarpate aver le piume.

Scorgo il vostro parer torto ed impuro; o mi dannate o m'assolvete intanto, de le vostre sentenze io nulla curo.

Ma chi vi tanta baldanza e tanto ardir di condannar donna innocente, che di casta riporta il pregio e '1 vanto?

Ben ciascuno è di voi scemo di mente, che di si crudo e barbaro tiranno a l'infame parer tosto consente.

Ma il eie! che mira il torto e osserva il danno, chiamo sol punitor di tanta offesa, chiamo vendlcator di tanto inganno !

Cosi, sdegnosa in atto e in volto accesa, la donna ferocissima dicea, senza cercar, senza trovar difesa.

Bella, casta e gentil, sovra ogni ebrea riportava il trionfo, ergea la palma, s'eguale a la beltà modestia avea.

Ma donna cosi bella, inclita ed alma, freno all'ira non diede, e nel bel volto la luce intorbidò di si bell'alma.

Non deve spirto in regie membra accolto farsi signoreggiar, servo del senso, da l'insano furor torbido e stolto.

Sgombri il fumo de l'ira in petto accenso, che del chiaro intelletto offusca il sole, qual nemico vapor torbido e denso.

Costei, quantunque sia di regia prole, troppo nel suo garrir si mostra audace ed in furie trabocca ed in parole.

264 LIRICI MARINISTI

Ma si scusi, eh' è alfin d'alma vivace; e, se troppo nel dir sciolta si vede, è proprio de la donna esser loquace.

Fra tanti, ecco un rabbin si leva in piede, in senil gravità non visto eguale, ed al re di parlar licenza chiede.

Fu di parer, scusando il sesso frale, costei non meritar si rea sventura, ma ben dannarsi in prigionia reale.

Ma questa, d'alma intrepida e sicura, di modestia passando il segno ardita, da la morte scampar punto non cura.

Su, toglietemi grida or or la vita; per non veder si barbaro spietato, bramo far da' viventi oggi partita.

Si, si, verrò nel sonno a te più grato, e con flagel di lividi serpenti ti sferzare quel cor perfido e ingrato.

Ombra infesta verrò da l'ombre ardenti, e se '1 cielo a patir giù ti danna, ministra io ti sarò di rei tormenti.

Anco la madre (oh crudeltà tiranna!) approva quanto il re fra' suoi consiglia, ed a morir tanta beltà condanna.

Senza bagnar di lagrime le ciglia, senza mostrar pietà, rigida prende a incrudelir contro la propria figlia;

e la sgrida e l'accusa, odia e riprende; cieca, la sua follia non vede espressa, ch'in offender costei se stessa offende.

Ma se fa ciò per non morire anch'essa, l'empia ancor patirà consimil fine, le fia tanta colpa unqua rimessa.

Poi, stendendo la man su l'aureo crine, troncò col ferro rigido e tagliente le belle masse d'or lucide e fine.

GIROLAMO FONTANELLA 265

Madre non già, ma fera o furia ardente parve a l'atto crudel, quando, spietata, quella chioma troncò, parca nocente.

In mirar che la madre anco sdegnata era contro di lei, tacque la bella, muta e mite rimase ov'era irata.

De la sala sul suol le bionde anella crebber luce a le gemme; e al crin reciso non più donna real, ma sembra ancella. De l'ingiusta sentenza al crudo aviso si parte e va a la morte e gli occhi abbassa, ed intrepido mostra il cor nel viso.

Move a pianto, a pietà dovunque passa; solo il rigido re nulla commove, e più l'anima indura e il core insassa.

Ogni téma dal cor franco rimove, generosa la morte incontra e abbraccia, e d'insolito ardir mostra gran prove.

Non smarrisce le rose asperse in faccia; per dimostrar che paziente more, piega in forma di croce ambe le braccia. O stupori lei che dianzi entro il furore parve stolida tigre, agna or si vede, tutta mite nel volto, umil nel core.

Al luogo destinato arresta il piede, piega l'alma cervice e '1 ferro aspetta, ed al fato ed al ferro inchina e cede. A darle morte i rei ministri affretta; ma mori pure, intrepida reina, che '1 ciel farà del tuo morir vendetta!

Il carnefice a lei già s'avvicina, sguaina il brando e lo solleva in alto, e sul candido collo il colpo inchina.

Tingendo il suol di porporino smalto, che dal vivo alabastro esce in canali, spicca il teschio reciso in aria un salto.

266 LIRICI MARINISTI

Chiuse in sonno leteo gli occhi fataH, che sotto l'arco di quel nobil ciglio fùr di vivo splendor fonti vitali.

Tosto in pallido cangia il bel vermiglio, e ne la guancia delicata e pura come neve fioccata appare il giglio.

Morta, con gli occhi ancor gli animi fura; ciò che d'allegro appar, ciò che di fausto ne la corte real tosto s'oscura.

Tal fu di Marianna il caso infausto, la falsa accusa, il fin tragico e rio; ma, d'innocenza candido olocausto,

casta e bella in amor visse e morio.

VT

SALOMONI - MORANDO - BRIGNOLE SALE

GIUSEPPE SALOMONI

I

BRAMA DI FORZE MOLTIPLICATE

Qualor ti miro, oh che gentil diletto nascer in me da quel mirar sent'io! Qualor t'ho fra le braccia, idolo mio, oh che dolce piacer m'ingombra il petto!

Se l'animate rose e l'ostro eletto ti bacio, dissetando il mio desio, oh di che manna scaturisce un rio ai labbri miei dal tuo baciato aspetto!

Bramo in Argo novello esser rivolto, di farmi un Briareo sarei contento e '1 volto de la Fama aver nel volto;

per mirar te con cento lumi intento, per serbar te con cento braccia accolto, per poterti baciar con bocche cento!

270 LIRICI MARINISTI

II

I MORSI E I BACI

Famelica d'amor, l'amato volto al suo caro Filen Lidia mordea, e sovra il volto stesso indi piovea di baci un nembo affettuoso e folto.

Ed ei, eh' a lei sedendo in braccio accolto, or baci or morsi ai labbri suoi rendea, cosi con voce languida dicea ver' la bocca bellissima rivolto:

O di doppio tesor scrigno natio, bocca de la mia serpe amata e vaga, stampa pur de' tuoi morsi il volto mio;

poiché de le tue perle egli s'appaga d'esser ferito e n'arde di desio, pur che i rubini tuoi sanin la piaga!

IH LE FRAGOLE E LA BOCCA

Mentre la bella bocca onde talora cibi la mia, famelica amorosa, colà sedendo in su la piaggia erbosa cibavi oggi di fraghe, o bella Flora;

io, che poco lontan facea dimora nel grembo assiso a la verdura ombrosa, con mente insieme stupida e bramosa mandai dal cor queste parole alora:

O bocca, alta cagion de le mie faci, quanto somigli il cibo delicato di cui pascer te stessa or ti compiaci!

De le fraghe hai l'odor nel dolce fiato, de le fraghe il sapor ne' cari baci, de le fraghe il color nel labbro amato.

GIUSEPPE SALOMON 1 ^71

IV

ANTEA

Voi del nome crudel ben degna siete de l'antico di Libia empio gigante, poiché, fatta ne l'opre a lui sembiante, donna superba, i suoi costumi avete.

Forte ei pugnò, voi forte combattete, con l'arme ei de la man, voi del sembiante; e s'egli fulminò, voi fulminante, gigantessa d'amor, l'alme uccidete.

Ver è che voi da l' immortai soggiorno nasceste, egli dal suol nascer si vide; egli diforme e voi con volto adorno.

Cosi mi desse Amor, che '1 cor m'ancide con la vostra beltà, ch'io fossi un giorno ne la lotta amorosa il vostro Alcide!

DIO, AURIGA DELLE ANIME

L'uomo è nel mondo un corridore umano, e '1 cavaUer che l'ammaestra è Dio, che, se talvolta egli si fa restio, col pie lo spinge in corso e con la mano.

E se talor, precipitoso, insano, s'avventa ove '1 trasporta il suo desio, con duro fren che di sua mano ordio. dal mortai precipizio il tien lontano. E se superbo calcitra e sdegnoso, stancandolo per strade alpestri e felle nel maneggio si fa più rigoroso.

Se poi gli scopre alfin sue voglie ancelle e corre seco al ciel, gli dà, pietoso, biade d'eternità, stalle di stelle.

272 LIRICI MARINISTI

VI

IL PENSIERO AMOROSO

Oh quanto a te degg'io, pensier, compagno errante d'amor, cervier de l'alma, Argo del core! Tu fuor del petto mio, spiritello volante,

per dar riposo al cor t'alzi a tutt'ore; per te dolce l'ardore, il languir m'è soave, il penar non m'è grave, ed obliando il mio dolore immenso, spensierato son io sol quando penso.

Tu, corrier pronto e desto, ver' madonna ten voli, e più la giungi allor eh più fugace; indi veloce e presto ten riedi e mi consoli con risposta gentil, muto loquace: Soffri dicendo in pace; che s'or languisci ardendo, tosto arderai gioiendo, e ricco mietitor, nocchiero accorto, corrai la mèsse e giungerai nel porto.

Tu, nuovo e strano Apelle per me ti fai sovente,

sol per mostrarmi il mio bel sole espresso, e con tempre si belle, con color si lucente, fìngendo il vai, che '1 simolacro spesso s'agguaglia al vero stesso; anzi pingerlo sai e colori non hai

e pennel non adopri, e mentre fingi, pittore e non pittor, pingi e non pingi.

GIUSEPPE SALOMONI 273

Ma di ciò non contento, ogni chiuso sentiero varchi d'onor malgrado e di fortuna; e quindi in un momento vivo il suo cibo e vero,

quando Giunone è bianca e quando è bruna, porti a l'alma digiuna; ma pur più spesso alora che notte il ciel scolora, e tu, volando per gli orrori suoi, porti, notturno ladro, i furti tuoi.

Alor si ch'io m'aggiro fra le notturne piume felice amante e fortunato appieno. Quivi lieto rimiro degli occhi amanti il lume splender tra l'ombre agli occhi miei sereno; quivi mi scorgo in seno tutto il mio ben raccolto, e cosi dir l'ascolto:

Godi e prendi da me pur la mercede, o mio caro fedel, de la tua fede.

Quand'io, ch'ardo e mi sfaccio di gioia e di diletto, a diletto maggior ratto m'accingo, e lei, eh 'a prova in braccio chiuso mi tiene e stretto, con parole e con man tocco e lusingo; e dico: I' pur ti stringo, già dispietata, or pia, viva catena mia,

e pur ritengo qui spirante e vera te, mia bella prigion, ma prigioniera.

Quinci, a le labbra amate giunte le labbra amanti, con qualche oimè dolcissimo mi dolgo,

Lirici marinisti

274 LIRICI MARINISTI

e le rose baciate

con le rose bacianti,

qua] famelica pecchia, involo e colgo.

Dai baci al fin mi volgo

con più dolce desire

dolcemente a morire,

e con la vita mia, col mio tesoro,

restando in vita, esco di vita e moro.

Qui frena, alma mia stolta, la lingua audace e sciolta; pon freno al canto ormai che ti distorna, e fra il silenzio al tuo pensar ritorna.

VII

IL RISO

Qualor da bel desio tratto gli occhi e la mente, gli occhi e la mente al mio bel sole affiso, si dolce al guardo mio si scopre e si lucente, che da me dolce il cor resta diviso. D'oro è il crin, d'ostro il viso; ma più che l'oro e più che l'ostro eletto il crine arde e fiammeggia, il viso arde e lampeggia; d'alabastro è la man, d'avorio il petto, e nel bel ciglio splende fiamma d'amor che mille fiamme accende.

Ma se per mia ventura riso lucente e chiaro scopre fra tanti rai sue fiamme accese, luce mirar più pura, raggio trovar più caro, non san le luci a rimirarlo intese.

GIUSKPPK SALOMONI 275

Riso vago e cortese,

riso figlio del cor, pregio sovrano

di natura e splendore

di bellezza e d'amore,

toco contende, a te s'agguaglia invano

bianco sen, nero ciglio,

bianca man, biondo crin, volto vermiglio.

Tu, dolcemente uscendo fuor per gli interni calli, quasi da fosco ciel chiaro baleno, e dolce un uscio aprendo di perle e di coralli, m'apri soavemente il core e '1 seno. Quel tuo dolce sereno si dolce foco entro il suo lume asconde, ch'ognor più l'alma mia accesa esser desia;

si chiari ognor, si dolci ognor diffonde quei raggi ond' io m'accieco, che tanto veggio sol quanto son cieco.

Tu l'alma ardente e vaga feri e pungi a tua voglia, e sei fulmine al cor, se lampo agli occhi ; ma si dolce è la piaga, si soave la doglia,

che d'estremo i^iacer vien ch'io trabocchi. .Si dolce il cor mi tocchi, riso dolce e gentil, si vago sei, che spesso in fra i martiri ridono i miei sospiri, ridon nel cor ridente i dolor miei, e dolcemente intanto ne le luci e nel cor ride il mio pianto.

Quanto dal ciel si serra, ,

quanto è nel cielo accolto ride e nel riso sol vago si mostra.

276 LIRICI MARINISTI

Ridente è della terra

il verde grembo e '1 volto,

e di ridenti fior s'orna e s'inostra.

Ne la sua cupa chiostra

con crespo volto il mar ride ed affrena

l'aura che stride e geme,

l'onda che piange e freme.

Ride al riso del mar l'aria serena,

e negli aerei campi

ridon le nubi e son lor riso i lampi.

Ride spiegando il velo e di ridenti orrori

la notte il chiaro volto a l'aria imbruna; e di ridente gelo spargendo l'erbe e i fiori, nel suo ridente ciel ride la luna. Per l'ombra azzurra e bruna nel notturno seren spiegan le stelle ridenti i crini d'oro, ridenti i raggi loro; e con le rose sue ridenti e belle fa l'alba in ciel ritorno, tutta ridente dal balcon del giorno.

Scopre ridendo il sole, quando al ciel splende e s'erge, di ridenti fiammelle il crine ornato; e pur ridendo sòie, quando nel mar s'immerge, tuffar tutto ridente il carro aurato. Riso, riso beato,

tanto hai di bello in te, tanto in me puoi, che, sciolto il fren tenace a la favella audace, ornai dirò eh' un sol de' raggi tuoi faria, tra '1 pianto eterno, quasi sereno ciel rider l'inferno.

GIUSEPPE SALOMONI 277

Canzon, figlia del riso, indegna figlia di padre si gentile, sol tu resti al suo lume oscura e vile.

vili PALINODIA

Già menzognero e stolto biasmai, vecchia gentile,

il tuo sen, la tua chioma e '1 tuo bel volto. Or, cangiando pensier, vo' cangiar stile e farti udir d'ogni menzogna mia una palinodia.

Tu cortese m'ascolta, e mira intanto vòlto in gloria il tuo scorno e '1 biasmo in vanto.

D'argento è la tua chioma, ma pur cosi d'argento, più che se fosse d'or m'allaccia e doma; ed o sia chiusa in treccia o sciolta al vento, più che se fosse d'or, m'alletta e piace; e d'argento è la face e la saetta insidiosa e vaga, che l'anima m'incende e '1 cor m'impiaga.

La tua fronte serena, che fu già di beltade, sparsa di bianchi fior, piaggetta amena, dal freddo aratro de la vecchia etade solcata è, si, ma con quei solchi sui produce ai cori altrui di diletto e di duol confuse e miste soavi biade e rigidette ariste.

Le tue ciglie falcate, l'inarcate tue ciglia

ond'han gli Amori ancor le destre armate, sembrano (oh meraviglia!)

278 LIRICI MARINISTI

inutil arme e fragili stromenti; ma più che mai possenti sen van co' loro arcieri e mietitori mietendo l'alme e saettando i cori.

Le tue luci leggiadre languiscon, ma languendo non restan già d'esser rapaci e ladre, o di far si ch'io non languisca ardendo. Son vecchie; ma sent' io sempre per loro giovane il mio martoro, ed ai lor giri il prencipe degli anni, fatto stupido amante, arresta i vanni.

Pallidetto ed esangue nel tuo languido viso

co' suoi vecchi augelletti anch' egli langue de le Grazie e d'Amore il paradiso; ma pur non men leggiadro e non men dolce; l'anime alletta e molce, dopo la lor morte i cor piagati che volano lassù fan men beati.

La tua bocca rosata, bel tesoro de' baci e del parlar soave arca animata, non teme de l'età l'unghie rapaci; ma con la sua ricchezza fuggitiva restando ognor più viva, con chi baciarla suole ed ascoltarla dolce più che mai fosse, or bacia or parla.

Il tuo candido seno di bei pomi la.scivi lieto orticello e giardinetto ameno, dolci non men men leggiadri e vivi scopre, benché sian vecchi, i frutti suoi; ma serba ancor tra noi l'antico stile, e con suo pregio eterno sprezza del tempo la tempesta e '1 verno.

GIUSEPPE SALOMONI 279

La tua man bella e bianca, tocca da la vecchiezza, sembra dal lungo saettar già stanca; ma languendo non langue e di bellezza alcun vanto non perde, anzi n'acquista, e ben quest'egra e trista anima il sa, che se per lei dolente sentiva un colpo già, mille or ne sente.

Crespa hai la gola e crespe le guance e crespo il petto, ma son, mercé d'amor, quelle tue crespe trofei di leggiadrìa, non di difetto; e qual più bel con crespo volto il mare sedendo in calma appare, tal tu, mar di beltà, con crespa faccia mostri ai nocchier d'amor la tua bonaccia.

Si, si, bella mia vecchia, vecchia sei ma leggiadra, e nel tuo bel la giov^entù si specchia; tu sei vecchia guerriera e vecchia ladra, che in pugnar e rubar sai più d'ogni altra esser possente e scaltra; teco Amor pargoletto invecchia, e vuole teco invecchiando incanutire il sole.

Canzon, sen vola il tempo, ma non temer però le sue quadrella, che diverrai ne l'invecchiar più bella..

28o LIRICI iMARINISTI

IX

ALLA CICALA

O rauca si, ma rara, stridola si, ma cara, de la dea biondeggiante messaggera volante; de la stagion più fruttuosa e calda canora insieme e strepitosa aralda;

questa acerba tua voce offende, ma non nóce; ruvidetta e loquace spiace a l'orecchie e piace; anzi mai sempre è con diletto udita, e quanto è più spiacente è più gradita.

Ne la stagion novella riede la rondinella, e col suo metro dolce l'aria addolcisce e moke; ma, foriera d'aprii, tromba di Clori, che n'annunzia di buono altro che fiori?

Quand'apre il riso il suolo, ritorna il rosignuolo a scior tra i fior ridenti armonici lamenti;

ma che fa l'armonia sua lusinghiera? Nunzio il suo canto è sol di primavera.

Cent' altri augelli e cento stendon le piume al vento e van spiegando a prova melodia rara e nova,

mentr' ha di fiori il Sol gravido il raggio; ma che portan, cantando, altro che maggio?

Delicati augelletti, cantori lascivetti son questi, che di buono

GIUSEPPE SALOMON!

non hanno altro che '1 suono,

e sol tra noi mortali han questo vanto

ch'han dolce si, ma infruttuoso il canto.

Ma tu vie più felice, sonora ambasciatrice, col tuo, non men che grave, stridor caro e soave,

n'annunci or per le selve or per le rive la venuta del cibo onde si vive.

Tu sembri alora quando t'affatichi cantando dir al villan, che lasso al Sol raggira il passo: Suda e raccogli, o mietitor, la spica, che madre del riposo è la fatica !

Sembri una tromba agreste, che richiami e che déste del rustico guerriero il braccio adusto e nero a far col ferro suo torto ed acuto strage del biondo esercito granuto.

Ma che? non s'ode stile al tuo pari o simile; ti cede il r aparino, t'onora il lucherino, ed è col calderugio e col fringuello presso il tuo rauco stil rauco il fanello.

Vinto ti cede spesso il rosignuolo anch'esso, ritien presso te muta Progne la lingua arguta, spande augel per l' aria o voce od ala, che divenir non brami una cicala.

già per meraviglia deve altri alzar le ciglia, se tu fra gli altrui canti

282 LIRICI MARINISTI

riporti i primi vanti;

poiché sol da la forza ardente e viva

del dio del canto il tuo cantar deriva.

Ouand'ei con l'aurea lampa in ciel pili forte avampa, e col raggio che bolle tormenta il piano e '1 colle, alor tu senti in te ben mille e mille di poetico ardor spirti e faville.

Alor l'alte tue rime, poetessa sublime, con indefessa vena sciogli, di furor piena, e fai veder altrui eh' a te non sòie dettar si nobil canto altri che '1 sole.

Qui potrei dir eh' un die alle dolci armonie di spiritoso ingegno fosti spirto e sostegno,

mentre accoppiasti il suon che M mondo ammira, di rotta corda in vece a la sua lira.

Ma questi, ancor ch'egregi, son troppo antichi pregi ; son queste in ogni parte glorie già note e sparte; si che più tosto con stupor si denno lodar senza lodar, che farne cenno.

Io vo' ben dir ch'io vidi or nei campi or nei lidi, ove tu dispiegavi gli strepiti soavi, l'ali ritrose e i passi fuggitivi quinci arrestare i venti e quindi i rivi.

E vidi spesso ancora star la turba canora or tra i faggi or tra i mirti

GIUSEPPE SALOMONI 283

con diletto ad udirti,

per imparar da la tua voce eletta

([ualche bel madrigale o canzonetta.

Vidi i rami baciarti, vidi le fronde ornarti e, tratti da' tuoi carmi, correr i tronchi e i marmi ; e vidi il carro aurato il dio di Delo spesso arrestar, per ascoltarti, in cielo:

quel dio ch'assai più brama le tue canzoni e l'ama, vie più che l'armonia d'Euterpe e di Talia, e fa, fermando i corridori adorni per udirti cantar, più lunghi i giorni.

Ma dove incauto e stolto follemente ho rivolto le temerarie note? Lodarti appien chi potè con cetra d'armonia tumida e pregna? Tu sol te stessa di cantar sei degna.

BERNARDO MORANDO

I

INVOCAZIONE DEL BACIO

O coralli animati, o vive rose, caldi rubini e porpore spiranti, de l'orto de le Grazie usci fragranti, de l'amoroso ciel porte odorose;

o del diletto uman mète gioiose, de l'erario d'Amore arche gemmanti, o soavi prigion d'anime amanti, o fonti del piacer, labra amorose;

s'in voi l'anima mia gli spirti suoi raccoglie mai, qual fia di me più pago? qual fia ch'altro piacer più brami io poi?

Di men puri diletti altri sia vago; io più non chero, o dolci labra, e in voi, quasi in mio centro, ogni desire appago.

BERNARDO MORANDO 285

II

INAPPAGAMENTO DEL BACIO

Ecco pur, labra mie, rompeste al fine l'amoroso digiun nel cibo amato; avete pur il nettare libato da l'animate rose porporine.

Or che più bramo? Ahi, che non giunge a fine il desio sitibondo innamorato: bevver le labra e il cor resta assetato, baciai le rose e sento al cor le spine.

Bevvi, assaggiai non so s'ambrosia o fiamma; so ben ch'il fiero ardor più sempre abbonda, de la sete mia manca pur dramma.

Come ad egro talor sete profonda breve sorso non tempra, anzi l'infiamma, cosi io bevvi gran foco in picciol'onda.

Ili INAPPAGAMENTO IN AMORE

Ben veggo. Amor, che il cibo tuo non pasce, o pur pascendo accresce fame al core; a pena un tuo desio tramonta e muore, eh 'un altro sorge e pargoleggia in fasce.

Un sol desio che muore avvien che lasce ben cento eredi, ognun di maggiore: idra se' tu di mille capi. Amore, a cui più d'uno, al troncar d'un, rinasce.

Sei di Tantali mille un lago A verno, una ruota immortai d'alme meschine, dei cori umani un avoltoio eterno.

Sei mar che non ha termine o confine, confin di questa vita e de l'inferno, inferno in cui l' ardor mai non ha fine.

286 LIRICI MARINISTI

IV

LA RACCOGLITRICE DI CASTAGNE

Lascia di coglier più ricci pungenti con quella man si delicata, o Filie, e a goder ombre amene, aure tranquille, qui sotto ai tronchi lor meco trattienti.

Tante punte spinose, ah, non paventi, che traggon da la man purpuree stille? No, che d'Amore a mille strali e mille anco resisti e i colpi lor non senti.

Ma il mio cor da quei strali è a tal ridutto (tanti per te già ve n'infisse Amore), eh' un riccio appunto ei rassomiglia in tutto.

Noi somigli già tu; ch'egli di fuore aspro è ben si, ma dentro molle ha il frutto; tu sei molle nel volto, aspra nel core.

v LA FILATRICE DI SETA

China il sen, nuda il braccio, accesa il volto, sottilissime fila Egle traea da ricchi vermi, ove bollendo ardea breve laghetto in cavo rame accolto.

Vago de la sua man, semplice e stolto, il mio cor tra quei vermi arder godea, e la ruota volubile avvolgea lo spirto mio tra quelle sete involto.

Ella con l'empia man, ch'ardor non teme, nudi rendea fra i gorgoglianti umori i bombici di spoglie e me di speme;

ed agghiacciata il cor fra tanti ardori, bella parca d'amor, filava insieme ricche spoglie a le membra e lacci ai cori.

I?KRNAKUO MORANDO 287

VI

L'AMANTE E GLI OCCHIALI

Per vagheggiarti, Ermilla, a mio diletto, di sferici cristalli i lumi armai ; che se per te mancò già spirto al petto, or luce agli occhi, ecco, mi manca omai.

Fui lince pria, ma poi che gli occhi alzai de' tuoi begli occhi al troppo chiaro oggetto, quasi gufo dal Sol vinto restai : nacque (\a la tua copia il mio difetto.

Indi per tua fierezza io piansi tanto, che questi umori incristalliti in giro da le vene del cor trassi col pianto.

Ma che prò, s'a me l'alma onde t'adoro manca, non che la luce onde ti miro? Se miro, abbaglio, e se non miro, i' moro.

VII IL DENTE MANCANTE

Centra il tiranno Amor, cui sempre cura fu d'opprimere i cor con pene e pianti, ordirò già ben mille offesi amanti, agognando vendette, aspra congiura.

Fèssi il foco in Amor giel di paura: fuggi; volse a te, bella, i pie tremanti, che del tuo cor nei rigidi adamanti s'avvisò di trovar magion sicura.

Ma, rispinto dal cor, dentro la bocca fra quei muri d'avorio ei tutte accolse le forze sue, quasi in munita ròcca.

da l'ordine eburno un dente tolse, onde stassi in agguato e i dardi scocca, onde, presa la mira, al cor mi colse.

LIRICI MARINISTI Vili

ALLA COMICA LAVINIA

Mentre con umil socco in cari accenti tutto il regno e i tesori apri d'Amore, non è, Lavinia, chi gli strali ardenti per te d'amor non senta dolci al core.

Se col coturno spieghi aspri lamenti, non è cor che non gema al tuo dolore; se favellando giri i rai lucenti, alma non è che non ne provi ardore.

S'apri le labbra al riso o gli occhi al pianto, non è si duro cor, che a te soggetto possa di libertà più darsi il vanto.

Ma, sia tragico o lieto, ogni tuo detto è sempre finto, ed altri prova intanto non finto duol, non finte piaghe al petto.

IX

A UN'ATTRICE DI TRAGEDIA

Quando al lugubre suon di mesti accenti, bella e faconda mia, sfogasti in scena per tragico accidente interna pena, pendè tacito ognun da' tuoi lamenti.

mai si dolce a le sue voci attenti tenne nocchieri in mar blanda sirena, in selva rinovò mai Filomena con si soave suon casi dolenti.

Allor che tu piangesti, a que' tuoi pianti piansero mille luci, al tuo pallore fùr visti impallidir mille sembianti.

Ma un solo e finto strai del tuo dolore fé' doppia e vera piaga a mille amanti, e fu piaga di duol, piaga d'amore.

BERNARDO MORANDO 289

X

ALLA CANTATRICE ANNA RENZIA, ROMANA

Vaga ninfa del Tebro, a cui concessa è de' teatri oggi la palma e il vanto, che a la vaghezza, agli atti, al riso, al canto si eccedi altrui, ch'hai già l'invidia oppressa;

perché l'alma mi togli? omai, deh, cessa; ferma la voce armoniosa alquanto, che di dolcezze in mar si vario e tanto l'anima fuor di perde se stessa.

Anzi, pur segui, o bella, i cari accenti, che se per te da l'alma io son diviso, per te m'unisco a le beate menti.

In estasi elevato io già ravviso l'angelica armonia ne' tuoi concenti, la celeste beltà nel tuo bel viso.

XI

INVITO ALLA POESIA NELL' INIZIO DELL' ESTATE

Su la cetra del ciel poeta il sole muove già de' suoi raggi il plettro ardente, e de le sfere al suon con pie lucente guidan stelle brillanti alte carole.

Mille nel regno suo musiche gole apre Giuno a cantar soavemente, e fin l'arsa cicada il suon stridente spiega in vece di canti e di parole.

A lieti versi in dolce mormorio, tra dipinte pietrucce e bianchi marmi, la voce di cristallo apre ogni rio.

Chi fia dunque di noi che più risparmi, amici, il canto ad incantar l'oblio, se il tutto in terra e in ciel c'invita ai carmi?

Lirici marinisti 19

290 LIRICI MARINISTI

XII

ESTATE E VINO

Non più benigni raggi, amici lampi sparge, ma vibra il Sol dardi nocenti: tacciono in mare i flutti, in aria i venti, manca il rio, secca il prato, ardono i campi.

Perché da tanto ardor s'involi e scampi, cerca ogni fera indarno ombre e torrenti; par che diluvi il cielo influssi ardenti e in pelago di fiamme il mondo avvampi.

Arsiccio il suol con tante bocche e tante quant'apre in lui caverne il fiero ardore, chiede invan refrigerio al ciel fiammante.

Or chi dunque sarà che ne ristore? Amor no, ch'ei non meno arde ogni amante: Bacco, sia nostro scampo il tuo liquore.

XIII

A GIOVAN VINCENZO IMPERIALE

per la sua villa di Sampierdarena e pel suo matrimonio con Brigida Spino!

Quanto la terra e l'acque han di gentile, quanto natura ed arte han di diletto, Clizio, quasi in compendio hai tu ristretto ne le tue ville, appo cui Pesto è vile.

Qui stagna più d'un lago al mar simile, qui scorre più d'un rio ch'erboso ha il letto, e del verno crudel quivi al dispetto, coronato di fior s'eterna aprile.

L'acqua ne' fonti in vari scherzi ondeggia, gode la terra in villa, e ricca mole sostien sul dorso, imperiai tua reggia.

Le bellezze del ciel mancavan sole: or non più no, poiché fra lor lampeggia Brigida tua, ch'ha ne' begli occhi il sole.

BERXARDO MORANDO 29T

XIV

A GIOVAN VINCENZO IMPERIALE

esiliato da Genova con la pena dell'ostracismo.

Clizio, un animo grande, un petto augusto fra limiti ristretto esser non suole: gira il tuo nome ovunque gira il sole, varcato ogni confin, di gloria onusto.

Pari a quel grande, con dolor ben giusto, per teatro un sol mondo aver ti duole; che sembra questa immensa e vasta mole al magnanimo cor carcere angusto.

Or dunque fia, mentre del suol nativo si contende al tuo pie la bella Arena, che a si gran cor sia brev' esilio a schivo?

Genova, di te priva, esili in pena; tu, fuor di lei, non sei di patria privo; patria t' è degna il mondo e degna a pena.

XV

LE MASCHERE DI CARNEVALE

Folle volgo, che fai? Deh, chi t'ha tratto di senno in cosi stolida maniera, che di forma indegnissima straniera copri quel volto eh' è di Dio ritratto?

Di vergogna e d'onor spogliato affatto, vesti tra spoglie finte infamia vera, e mostri sotto maschera di fera che col volto anco il cor ferino è fatto.

Già di mentito vel coperto il petto e di virtù tra finte larve involto, d' ire incognito il vizio ebbe diletto.

Or che vede baccante a fren disciolto il mondo -errar sotto larvato aspetto, nudo ei trionfa e smascherato il volto.

292 LIRICI MARINISTI

XVI

L'AVARIZIA PUNITA A istanza di Ferrante Porta Puglia

O de le umane brame la più cieca e più ria, brama de l'oro, sacra, esecrabil fame, che un fango vile usi chiamar tesoro; che non fai? che non puoi? qual non cede uman petto agli urti tuoi?

La vergine Atalanta, non men ch'agii di pie, stabil di voglia, di libertà si vanta,

ma un pomo d' òr di libertà la spoglia; avida d'aureo nembo, porge la bella Danae a Giove il grembo.

Per mercé d'auree armille Tarpeia offre a' sabini il gran Tarpeo, e con mill'arti e mille scossa da Brenno invano, al fin cadeo per la mercede istessa da l'or più che da l'armi Efeso oppressa.

sol cura si vile molle femineo seno abbatte e atterra, ma con palma virile vince i togati in pace, i duci in guerra, e quasi dir potrei che sforzano anco i doni uomini e dèi.

Ove l'or folgoreggia, ogni altro lume, ogni fulgor s'oscura; virtù più non lampeggia, non più splendor di nobiltà si cura. Ben l'età d'oro è questa, se in pregio altro che l'oro oggi non resta.

BERNARDO MORANDO 293

Tu, di virtute amico, che da vizio si reo l'anima hai sciolta, Puglia, di ciò ch'io dico nuovo esempio verace in prova ascolta: vedrai ch'a l'oro cede nobiltade ed amor, virtude e fede.

Fiamma d'amor s'apprese nel casto sen di duo leggiadri amanti ; una bella, un cortese, ambo di sangue, ambo d'onor prestanti; di pregi alti e gentili, di costumi e d'etate ambo simili.

Alme più belle e fide non legò, non accese Amore unquanco, spogliato ei si vide per più bella cagion di strali il fianco: già con eguali aff"etti una sol 'alma e un cor tengon due petti.

Imeneo già s'invita, che stringa ai degni cor nodi più degni ; quando serpicrinita furia flegetontea turba i disegni e, perché l'or prevaglia, quei che legge a lei con l'oro abbaglia.

D'oro e di gemme altero, ei destina a la bella altro consorte, di nazion straniero, di nome ignoto, inferior di sorte, tale nel cui lignaggio di chiara nobiltà non splende un raggio.

A lo splendor vetusto d'alta stirpe gentil l'oro prevale; per l'oro, oh cambio ingiusto ! amor, fede, valor ponsi in non cale; di lei, ch'invan contende, la liberiate a prezzo d'or si vende.

294 LIRICI MARINISTI

Stupido e mesto insieme restò il fedele a la ria nuova acerba; pianse sua verde speme da l'altrui falce d'or troncata in erba, e con sospiri atroci cosi fra sdegno e duo! sparse le voci:

Dunque, o bella e crudele, cosi in fumo svanisce il nostro foco? Dunque, del tuo fedele la costanza e l'amor curi si poco, che perfida, incostante, lasciar puoi me per vii straniero amante?

Perché di biondo peso ei gravi ha l'arche e via più grave il core, fia da te vilipeso

un tesoro di che t'offre Amore? Deh, per lo spregio indegno ver' te lo stesso Amor s'armi di sdegno!

Che tu d'amor non goda col nuovo amante i frutti Amor permetta; fame eterna vi roda fra le mense d'amor per mia vendetta, i maritali cibi a me dovuti il mio rivai delibi.

Presso oggetto si bello si strugga in van, il suo desio s'acchete; ei, Tantalo novello, in mezzo a si bell'acque arda di sete e tu, qual Mida avara, non men qual Mida a star digiuna impara.

Del buon fedel deluso l'alte querele al terzo ciel salirò, fu il suo voto escluso, ma il fin bramato i prieghi suoi sortirò; che al talamo disdetto fu da Ciprigna avara ogni diletto.

BERNARDO MORANDO 295

Di gemme alti tesori fan de la bella '1 portamento adorno; di sposerecci onori tutta risplende alteramente intorno, ma senza cibo alcuno disperato Imeneo langue digiuno.

Tale al fin, qual partio, lo sposo al patrio suol si riconduce, e col primier desio seco la bella inviolata adduce, a cui dal fianco avvinto Venere ancor non ha disciolto il cinto I

XVII

LA VISITAZIONE

Luminosa stendea l'aurora in cielo de' primi raggi il suo vermiglio ammanto; altra aurora spargea più chiari intanto ne' monti di Giudea raggi di zelo.

Quella d'un breve fuggitivo sole al mondo promettea povera luce; questa del sole onde quel Sol riluce chiudea nel sen meravigliosa prole.

Che non può santo zelo? Ecco vagante quella eh 'a noi del ciel le strade addita, peregrina d'amor per via romita, ver' la cognata umil move le piante.

Gran merto, e che non può? Gli angeli a schiere ecco, per addolcire a la gran diva de l'alpestre caniin la noia estiva, scendon qua giù da le celesti sfere.

Sospende altri di lor serico tetto sul regio capo a riparar gli ardori ; altri d'Arabia i più pregiati odori versa d'intorno al virginal cospetto;

296 LIRICI MARINISTI

altri onor trionfale in più d'un arco inalza, ove la dea sue glorie scorge; evvi intanto chi umile il braccio porge del divin braccio a l'onorato incarco;

parte di passo in passo, a coro a coro, temprando a vario suon musiche note, rinovan de le celesti rote il concento dolcissimo canoro;

molti di rose non caduche e frali, ch'ebber stelle per stelo e rai per spine, vanno intrecciando al sacrosano crine ghirlande incorrottibili, immortali;

parte col ventilar di leggier volo le spira intorno zeffìri celesti ; parte, ov'avvien ch'il sacro pie calpesti, di rari fior va lastricando il suolo.

Il suolo istesso, ov'ella i passi move, si fa di fiori in mille guise adorno; l'aura che spira, a lei sospira intorno; il ciel nembo di grazie in sen le piove.

S'alza ogni basso fior, quasi che brami de la veste real baciare il lembo, e per fioccarle i dolci frutti in grembo ogni pianta sublime inchina ì rami.

Che dico? anco ogni sfera in ciel s'atterra a riverire, ad adorar tal nume; e per farsi più chiaro a si gran lume il ciel desia di tragittarsi in terra.

Che meraviglia è ciò, s'ebbe desio di farsi il sommo Verbo anch' ei terreno? Ma un ciel pur anco è quel vergineo seno, che quivi è il ciel dove sua stanza ha Dio.

Vanne, animato ciel, vanne felice, che la felicità teco s'annida: Dio ti sia scorta, anzi tu a Dio sii guida, poiché Dio stesso oggi portar ti lice.

BERNARDO MORANDO 297

XVIII

PER MONACAZIONE

Alla monacanda vengono presentati una facella, un giglio, una palma, una corona di spine e una croce

Pagella

Dai tenebrosi orrori del mondo rio fallace spingiti, o saggia, fuori; ecco del ciel la face, che con interna luce da l'abisso de l'ombre al ciel t'adduce.

Giglio

Ne' giardini del cielo dal sommo Sol nodrito su non caduco stelo un giglio, ecco, t'addito, onde al candor de' gigli con virgineo candor ti rassomigli.

Palma

Pugna con core invitto, amazone di Dio; per te cada sconfitto nemico il senso rio; vinci ; sembianza è questa de la palma ch'in cielo il ciel t'appresta.

Corona di spine

Di momentanee rose altra il crin faccia adorno; tu di spine dogliose cingi le tempie intorno, che vedrai da le spine rose di gloria germogliarti al crine.

298 LIRICI MARINISTI

Croce

Ecco il tronco fiorito, ove il fior nazareno, dai rai d'amor ferito, apri languido il seno; vieni, ed il tronco e il fiore ti spunti al seno e ti s'alligni al core.

XIX

IL NANO DI NOME « AMICO »

Di che stupido t'ammiri, tu che miri

la mia picciola statura? Non fii avara, come credi : se ben vedi, mi fu 1 rodiga natura.

Nel mio breve corpicello il modello

ella fé' d'un gran colosso: novo Encelado compose e mi pose su le spalle un monte addosso.

Quando nacqui, influssi rei ai di miei

non promise astro nemico; ma in compendio il ciel cortese farmi intese un grand' uomo e grande amico.

S'al di fuori altrui son scherno, ne r interno

non la cedo al magno Atlante: picciol son ne la sembianza, ma in sostanza corpo nano ha cor gigante.

BERNARDO MORANDO 299

Non mi dir ch'io sia pigmeo, che non feo

guerra mai che con le gru. Vieni in prova, se t'aggrada, con la spada, s' anch' Orlando fossi tu.

Ben è ver che corto ho il braccio, ch'ai mostaccio arrivarti non potrò. Ma se in alto più non saglio, io di taglio sul tallon ti ferirò.

Poco son ma tutto core, e timore

non alberga nel cor mio; temo sol quando m'assale col suo strale picciol nano qual son io.

Questo è Amor, che, pargoletto, al mio petto

guerra fa con forze estreme: ei mi fere e strugge in duolo, m'arde, e solo tal nemico amico teme.

ANTONIO GIULIO BRIGNOLE SALE

I

LA CORTIGIANA FRUSTATA

La man che ne le dita ha le quadrella con duro laccio al molle tergo è avvolta. L'onta a celar eh' è ne le guance accolta, spande il confuso crin ricca procella.

Sul dorso, ove la sferza empia flagella, grandine di rubini appar disciolta; già dal livor la candidezza è tolta, ma men candida ancor non è men bella.

Su quel tergo il mio cor spiega le piume e, per pietà di lui cria tutto essangue, ricever le ferite in presume.

In quelle piaghe agonizzando ei langue; ma nel languir non è il primier costume che il sangue corra al cor : ei corre al sangue.

A. G. BRIGNOLE SALE 30I

2.

Segue

Troppo tenero cor, perché, commosso di questa cruda a la vermiglia vista, mandi avvolta in « oimè! » l'anima trista, a insanguinarsi in quel purpureo dosso?

Che sovra lei brutto flagel sia mosso, più dèi goder quanto ella più s'attrista: nostro sperar quindi vigore acquista, è nel suo tergo il suo rigor percosso.

Che se finor con l'amorosa fronte negò dare al languir dolce soccorso, anzi le piante ebbe al fuggir si pronte,

or freneralla di vergogna il morso; poiché per non mostrar le livid'onte non oserà volgere in fuga il dorso.

3-

Segue

Per qual sua colpa essaminata e vinta costei, che al bel candor sembra innocente, sotto le scosse di flagel pungente il molle dorso a insanguinare è spinta?

Se del mio cor furato appar convinta, si castighi il suo crin, ch'egli è nocente; se di mia vita ancisa, il ciglio ardente paghine il fio: fu da' suoi dardi estinta.

Ah, non è questo il fallo! Ella è punita perché allor che io le apersi il mio martire voltommi il tergo e fé' da me partita.

E '1 tergo ha duol. Donne, or da voi si mire, che non ver' voi giusto rigor s'irrita pel furare o '1 ferir, ma pel fuggire.

LIRICI MARINISTI

4- Segue

Verso i giardin di Cipro a voi sciogliete, vezzosetti Amorini, ali odorose; dolci viole, morbidette rose con la tenera man quivi cogliete.

Tra mille e mille quelle sol scegliete che nelle foglie appariran pietose; segno ne fia se molli e rugiadose per lagrime d'amanti le vedrete.

Quindi un flagel ne fate, onde ferita de l'anime la bella feritrice, lacerata non sia, ma rabbellita.

Ah, se tardate più, quest'infelice avrà i colpi da sferza incrudelita ! E sapete chi sia: v'è genitrice.

II RICORDI DI UNA MORTA

Per la morte di Emilia Adorni Raggi

De l'arrabbiato can sotto i latrati, sotto il ruggir de l'anelante fiera, io t' ho visto esalare, o primavera, di moribondo odor gli ultimi fiati.

E pur sorgi di nuovo e i pregi usati teco hai di molli fior, d'aura leggiera; rinascer tosto entro la guancia altera miro di rose iblee gli ostri beati.

Ma d' Emilia gentil che si morio più non vedrò le belle guance e i rai, dove un aprii rilusse, un Sol fiorio.

Degli anni tuoi, mia vita, or che farai? Vengan pur rose, escan pur gigli, oh Dio, eh ' un aprile per me non fia più mai !

A. G. BRIGNOLE SALE 303

III

CONTRO LA FEDELTÀ IN AMORE

Chi nel regno almo d'Amore brama l'ore trar serene fuor di pene, d' una sola amante stolto non si chiami; molte n'ami, —ma non molto.

Finga pene per ciascuna, ma nessuna abbia la palma d'arder l'alma; talor esca in mezzo al viso breve pianto, ma fra tanto in cor sia riso.

La modesta, se ti scaccia, tu procaccia che l'audace ti dia pace;

se la bianca ti beffeggia, la brunetta per vendetta -e tu vagheggia.

Quando vede donna bella che sol ella nel tuo petto ha ricetto;

in trofeo, meschin, ti mena, flagellato, condannato a vii catena.

Ma se scorge che tu scaltro, tosto ad altro amabil volto sarai vòlto,

non si mostra più severa, ma pietosa, amorosa, —lusinghiera.

304 LIRICI MARINISTI

Quel van titolo di fede, che ognun chiede -e ognun desia, è pazzia.

A vestirsi è fede avezza di candore, eh il colore di sciocchezza.

VII

MICHIELE - ZAZZARONl - QUIRINI

Lirici Marinisti 20

PIETRO MICHIELE

AL RITORNO DALLA VILLA

Qual parti? qual ritorna? e quale io veggio metamorfosi strana di colori? e di die larve oscure ombrata è Dori, se pur Dori costei creder io deggio?

Ove di gelsomini in bianco seggio la peonia spiegò purpurei onori, zingane Grazie ed interrotti Amori sotto ciel di giacinti, ecco, vagheggio.

Forse Febo, a mirar costei rivolto, le sue rose dipinte ha di viole per figurar l'Egitto in si bel volto;

o Amor pur ch'oltraggiarmi intende e vuole, col fumo de le faci, audace e stolto, abbozzato ha la notte in faccia al sole?

3o8 LIRICI MARINISTI

II

LA BELLA DERUBATA

Quel ch'a la bella mia ladra d'amore furar sagaci man di ladri erranti, era l'avaro prezzo onde il suo ardore vende lasciva a poco onesti amanti.

Ma non già con sospir, non già con pianti de la perdita sua mostra dolore, che stimar l'oro avvien ch'ella si vanti quanto stimò, di chi donollo, il core.

Correte a risarcir con larga usura de la perdita i danni, o voi rivali del lascivo piacere della natura.

Move Amor ne' begli occhi aurate l'ali, e a voi, mentre a costei l'oro procura, mostra d'oro la face e d'or gli strali.

Ili AMORI

Tra i rami d'un frondoso ermo boschetto avea con Filli il pastorel Tirreno, ebro d'amore e di dolcezza pieno, bocca a bocca congiunto e petto a petto.

Un diluvio di gioia e di diletto versava in loro Amor cortese a pieno; ella giva mancando, ei venia meno, l'uno con l'altra avviticchiato e stretto.

Accoppiavan le lingue e i dolci baci confondean co' sospiri, avvinti insieme com'orno antico ed edere tenaci;

e mentre l'un sospira e l'altra geme, tra lor temprando l'amorose faci giunser concordi a le dolcezze estreme.

PIETRO MICniELE 30q

IV

A UN'ATTRICE che rappresenta la peccatrice convertita.

In preda già de' più lascivi amori, a cui con piacer vano il mondo invita, la peccatrice in su l'età fiorita s'ornò di gemme e profumò d'odori.

Poi de' commessi suoi vulgari errori passò tra i boschi a sospirar romita e, mentre apriva a sospirar l'uscita, aprian per lei del ciel gli angeli i cori.

Tu, mentre in finta scena il mondo insano segui, poi sprezzi e tra i celesti giri spieghi lodi canore al re sovrano;

prima tra molli vezzi ogn'alma aggiri, poi teco al ciel da questo fango umano per la traccia sen va de' tuoi sospiri.

V

IN MORTE DI LOPE DE VEGA

A la gelida tomba ov'è sepolto l'esperio Vega e de l'Esperia il vanto, cinte le muse di funebre ammanto mostran lacero il sen, pallido il volto;

e, '1 cor già tutto in lagrime disciolto, gli fan correr intorno un rio di pianto, e con pietosa man spargonli a canto dei fior di Pindo un ricco nembo e folto.

E mentre in duro suon geme e sospira lo sconsolato coro, egra e dolente chi spezza la sampogna e chi la lira.

A si mesto spettacolo presente romper anch' egli Amor l'arco si mira, e nel pianto ammorzar la face ardente.

LIRICI MARINISTI VI

BACI

Altro piacer non sento se non quanto di voi, rose vivaci, porpore rugiadose,

spargo in sonoro stil dolce concento; e tanto sol mi par che dolce sia quanto parla di voi la musa mia. Or, s' ho tanto piacer di voi parlando, che farei voi baciando?

Da' miei sospiri vinta, Dori cortese un di dar mi volea que' baci ch'io chiedea. Ma, per baciarmi accinta, ritenne il bacio, pallida e smarrita, per non esser udita.

Lascia, Dorina, ch'io faccia a mia voglia a pieno di mille baci miei segno il tuo seno; che, sazio che sarà quest'ardor mio, s'averai poi desio che la tua bocca bella goda de' baci anch' ella, pareggiar ti prometto i diletti del labro a quei del petto.

4.

Quando, dove s'intese che chi ferito more lieto baci il nimico, il feritore?

PIETRO MICHIELE 311

O occhi, o Stelle accese

da le faci d'Amore,

ecco sol nato in me strano desio.

Da voi còlto son io

d'amorosa saetta in mezzo al core;

pur di baciarvi godo,

e la ferita e il feritore io lodo.

Coi più soavi baci che possan ristorar un cor languente, tutta d'amore ardente, la mia donna m'assale. E mentr'ella m'abbraccia, par che manchi il mio cor tra le sue braccia. Fors'è destin fatale, se m'uccide di doglia e d'amarezza, che m'uccida di gioia e di dolcezza.

VII

L'INVERNO

Era ne la stagione che l'aquilon gelato dagli iperborei monti il freddo porta; e già l'aureo balcone, ma di nubi velato, apria colei che de la luce è scorta; quando la chiusa porta del rustico tugurio apri Fileno, e di nevi ripieno

mirando il prato al furiar de' venti, vòlto a Filli proruppe in questi accenti!

312 LIRICI MARINISTI

Deh, non lasciar ancora, Filli, si frettolosa, del letto amico le feconde piume; è pur sorta l'aurora, ma non già luminosa

arreca il giorno a noi, com' ha in costume. Ombra '1 suo chiaro lume nube piena di ghiaccio e cela il cielo caliginoso velo,

e la terra tra neve orrida involta, che fu sepolcro altrui, giace sepolta.

A novi scherzi il verno chiama l'anime amanti, e chi non sa gioir non merta vita. Di vivace falerno colme tazze spumanti Bacco in tal tempo a rivotar c'invita; alma del cor gradita, de' freddi giorni a rinovar l'onore venga dolce liquore; e poscia uniti in non usati modi de l'algente stagion cantiam le lodi.

Cara stagione, amica di quel dolce riposo che gode l'uomo affaticato e stanco! Porge al mondo la spica il luglio polveroso,

ma rende sotto '1 peso ansante il fianco; in te robusto e franco, de' passati sudor il volto asciutto, gode il bramato frutto, e lieto il villanel con la famiglia tra suoni e canti a bel piacer s'appiglia.

L'ostili armate schiere che fanno d'ogn' intorno risuonar stragi e cruda errar la morte,

PIETRO MICHIELE 3I3

e con auree bandiere

a pena nato il giorno

de' chiusi alberghi altrui scuoton le porte,

rese nel male accorte

lascian l'armi, e con lor, se non l'ardire,

depongon almen l'ire;

e ammutolito il rauco suon la tromba

altrui più non minaccia e morte e tomba.

L'altre stagioni ornate portan corona al crine che, come varie son, varia colori; le chiome circondate' hai tu di vaghe brine e sol godi vestir puri candori. Co' superbi amatori eh 'a l'amata beltà professan fede, che bianca esser si crede, gareggiando in vestir candido, mostri che non sta fedeltà sott'oro ed ostri.

Depon la serpe il tòsco, lascia il leon lo sdegno, ogni fera più fiera è resa umile. De le lor furie il bosco solo è ricetto degno; stassi illesa la greggia entro l'ovile. Stagion cara e gentile,

di veder l'anno ancora un giorno io spero esser un verno intero, perché 'n te gode sol lieto e giocondo e la sua pace e la sua gioia il mondo.

314 LIRICI MARINISTI

Vili

A PAN

Musa, che 'n vario stile già narrasti sovente del cor la fiamma ardente, or accorda la lira a novo metro, e a maggior gloria aspira.

Cantate meco, o ninfe, il terror de le belve, il nume de le selve, eh' i venti dietro lassa col pie caprigno e i folgori trapassa.

Or di mortelle e d'edre coroniamo le chiome, pria che si canti il nome de' cui sublimi onori han Menalo e Liceo gli echi sonori.

Pan, venerabil padre de le ninfe montane, che per l'erte più strane ad arricchir di prede godi seco di trar veloce il piede;

tu serbi i lieti paschi e le fontane algenti agli ovili, agli armenti, che di terrene manne ricche pur fan le povere capanne;

morbo maligno o suono di malefiche note o lupo mai non puote nuocer a quella greggia ch'una volta de te sola si veggia.

Oh felici quei boschi che, quando tu talora

PIETRO MICHIELE 3I5

con armonia sonora

chiami l'amato nome,

ombra ti fan con le frondose chiome !

A le tue rime, ai versi i canori augelletti son vinti e i zefiretti, e '1 cristallino rio raddolcisce al tuo canto il mormorio.

Han men dolci gli accenti i cigni d' Ippocrene e con men grate avene Filomena infelice le sue sciagure altrui cantando dice.

La dea di Cinto, quella che nel cielo s'adorna d'inargentate corna e negli azzurri calli degli eterni zaffir guida i suoi balli ;

vinta di grazia e d'arte, di scorno arder si vede, e confusa ti cede quando in leggiadri modi con l'amadriadi tue danzar tu godi.

Qualor, da! sonno oppresso, godi affannato e stanco di riposar il fianco, letto ti porge il prato ed ombraggio la selva amico e grato.

Aure fresche e soavi movono i venticelli, e con canzon gli augelli, le più dolci che sanno, la tua quiete lusingando vanno.

I più bei fiori a gara, candidi e porporini, ne' più vaghi giardini

3l6 LIRICI MARINISTI

colgon le ninfe, e poi

ti consacra ciascuna i doni suoi.

Questo, di rozza musa inno selvaggio, anch'io ti sacro, agreste dio: tu non prender a sdegno povero don di mal sonoro legno.

IX

ALLA NOTTE

O notte, o de le stelle imperatrice altera,

ch'in mezzo appunto a la celeste sfera ricca ten vai di quelle, perdona a me s' intanto rompo il silenzio tuo muto col canto.

Ne le tenebre antiche dolce desio mi mena le tue lodi a spiegar, diva serena. Le canore fatiche sacro a te de l'ingegno, se pur non son di tanta grazia indegno.

Tu, se d'ombra velata succedi al sole in cielo, pomposo d'astri a dispiegar tuo velo, d'argentei raggi ornata, Espero ti precorre, e se in mar cadi, in mar dietro ti corre.

Con le tenebre ascondi, quand'è invecchiato, il giorno, che fanciullo sen fa poscia ritorno. Tu di quiete abbondi, onde riposa il fianco l'uom da l'opre diurne afflitto e stanco.

PIETRO MICHIELE 3^7

Te regnando, han riposo tra i frondosi arboscelli de le selve canore amici augelli; tu l'umor rugiadoso spargi sul prato, e avvivi tra l'erbe verdi i fior di vita privi.

Di quella onde tu pura rugiada abbondi ognora, la biada degli altrui campi s'irrora; e di cibarsi han cura di questa pur quei fochi, che t'illustrano ognor d'aurati fiochi.

AUor le belle ninfe, coronate di fiori,

forman di danze più leggiadri cori. Le naiadi tra linfe, e i piedi ai balli han pronti oreadi e napee tra selve e monti.

Tu, de' studi amatrice, a vigilar c'invogli, cupidi di saver sugli altrui fogli: tu rendi altrui felice, mentre facile e piano rendi il giogo di Pindo aspro e sovrano.

Caramente nel seno tu gli raccogli e dai ristoro ai lor martir, pace ai lor guai; e sol, tu sola, a pieno di ritrovar ti vanti ne le guerre d'amor pace agli amanti.

Tu, mentr'io taciturno a ritrovar m' invio Dorina, il mio bel Sol, l'idolo mio, col tuo velo notturno rendi i miei passi occolti, si ch'altri non mi veggia e non m'ascolti.

3l8 LIRICI MARINISTI

Al ritorno io prometto con più soave stile a la lira accordar plettro gentile, dandoti in ogni detto tante lodi veraci, quanti saran de la sua bocca i baci.

X

A SE MEDESIMO

trovandosi in Dalmazia nelle guerre del Turco con Venezia

Lascia, Pietro, la penna. Invan coltivi con vegghiati sudori de r Eliconio suol le sacre piante. Vana fatica è di pensiero errante bramar fronda d'alloro e d'Aganippe dissetarsi ai rivi, quando i traci Gradivi movon armi sanguigne e cheggion tutta veder Europa a' piedi lor distrutta.

Son seguaci de l'ozio, e de la pace tracciano l'orme i cigni e sogliono sprezzar tromba guerriera; dove il latonio dio canoro impera, crudi affetti maligni non sa destar ne' petti infernal face; testudine loquace

suole a gloria invitar, ma non a quella gloria che fra le stragi a morte appella.

È de l'aonie suore immortai vanto col plettro e con la cetra l'altrui fama involare al cieco oblio; e se talor del bellicoso dio alzan l'imprese a l'etra.

PIETRO MICHIELK 319

reso soggetto a le lor lingue il pianto, è perché deve il canto d'ogni degna virtù ch'a lui si mostri porger materia ad ingegnosi inchiostri.

Perch'espongano i petti a la diffesa de' combattuti regni,

non vende Apollo a prezzo i suoi seguaci. Sol contro '1 tempo a guerreggiare audaci sanno i canori ingegni ar a l'ingorda età lodata offesa; pur che d'applausi resa a le fatiche sia degna mercede, in Cirra maggior premio altri non chiede.

Parte alcuna non ha de' studi suoi commune il sacro coro del bistonio signor co' duri affanni ; sa tra le morti immortalar gli eroi e più verde l'alloro rinova inaridito in grembo agli anni. Sol Marte armato è ai danni de l'altrui vita e a vincitrice tromba accompagna sovente infausta tomba.

Ma cangiate l'età cangian costumi, Pietro, e deponer dèi su tanti fogli la stancata penna: poco di gloria a tue vigilie accenna tenor di fati rei, ,

che privi i carmi ha d'apollinei lumi. Versar molti volumi

che vai, s'alma non v'è che i versi lega? Fuor che di Lete, ogn' acqua a te si nega.

Lascia dunque la penna, e si procuri eternar il tuo nome:

s'agì' inchiostri è vietato, il faccia il sangue. Forza a la destra tua so che non langue per circondar la chioma

320 LIRICI MARINISTI

de' fregi eh 'a virtù non siano oscuri. Fia che morte congiuri contro le tue fatiche invano, quando vorrai di penna in vece oprare il brando.

Qual ardimento in nobil cor non desta de la patria l'affetto, ch'ad oprar meraviglie eletto parmi? D'innumerabil aste espone a l'armi il generoso petto,

e sol tra mille Orazio ultimo resta; da marzial tempesta salve del Tebro le fugate squadre, più che figlio di Roma, a Roma è padre.

Ma che giova il narrar del Lazio antico l'ardimento più chiaro, quando raggio più bel Venezia spande? Vantano i tuoi maggiori eroe più grande, di cui giungere al paro alcun non può d'eccelsi fatti amico. Di Domenico io dico, de' Michieli rampollo, augusta prole, d'Adria e d'Europa tutta unico sole.

Imperator de le falangi armate, fulmine de la guerra, sempre invitto domò barbare genti. Del Saracino stuol l'armi possenti vince in mar, vince in terra, quasi sian le vittorie a lui sol nate. Prodezze non usate ! Allor ch'altri ha timor de la sua fuga, acquista Tiro e i suoi nemici ei fuga.

De la città le mura, ove sepolto di Dio sen giacque il figlio, restar per lui da' rei tiranni illese. Serva la sorte al suo valore ei rese;

suo manto a vermiglio

PIETRO MICHIELE 321

tinse a' petti nemici il sangue tolto; più che tra gli astri involto sostenendo diadema e scettro regio, la sua propria virtute a lui fu fregio,

Col lusinghiero suon di queste note di me stesso io solea bellicoso pensier destar nel seno, quando, d'ingiusti sdegni il cor ripieno, tracia Bellona rea i campi funestar d' Illiria puote; ma sepolte ed ignote l'imprese son che la modestia copre, e nega il premio invidia a le degn'opre.

Lirici marinisti 21

PAOLO ZAZZARONI

I

A UNA ZINGARA

Zingaretta gentil, eh 'a nove genti il passo peregrin girando vai, e tra mille disagi e mille guai trascorri in povertà l'ore dolenti;

cosi benigno il ciel d'affanni e stenti te tragga e '1 lungo error fermi; se mai t'appressi del mio sole ai dolci rai, spiega questi per me supplici accenti:

Glori, v'è un tuo fedel, che sospirando per le bellezze tue pietà richiede, può il" misero più viver penando.

Per questo avrai da me doppia mercede: argento prima, e poscia, il ver narrando, a la tu' arte acquisterai più fede.

PAOLO ZAZZARONI 323

II

IL NEO

Per accrescer di fregi opra maggiore ornò di neo brunetto Amor quel viso, che qual pittor industre ebbe in aviso di spiccar con quell'ombra il bel candore.

Sotto la guancia ove rosseggia il fiore, vezzoso splende in compagnia del riso; atomo sembra in quel sembiante assiso per far centro di gloria al dio d'amore.

Sorse in quel cielo e seco alba gemella in due luci spuntò, quand'ei defunto al doppio Sol languia picciola stella.

Da quel loco però non fu disgiunto; ch'Amore, in terminar faccia si bella, lasciò de l'opra al fin quel neo per punto.

Ili EPITAFFIO DI UNA PULCE

Spirto guerriero io fui mentre il ciel volse; a l'ultimo destin l'ora fatale mi richiamò; qui poi tutto il mio frale amica mano in breve fossa accolse.

Gran colpo fé' chi l'anima mi tolse, ch'atomo aver credea sorte immortale; ma l'arciera crudel col giusto strale in si picciolo punto anco mi colse.

Qual fosse il mio valor, la fama il dice; lo sanno i petti vostri, o donne, ch'io, dove non punse Amor, mòrsi felice.

Appresso i miei trofei sepolcro pio avrei di Glori in sen, ma non mi lice la tomba aver sul Campidoglio mio.

324 LIRICI MARINISTI

IV

LA VITE IMPORTUNA

Vite importuna, al viver mio rubella, quanto m'offende il tuo malnato stelo, mentre col verdeggiante ombroso velo il mio bel Sol m'ascondi, invida e fella!

Lo tuo frondoso crin laceri e svella del più freddo aquilon l'orrido gelo; tuoni da l'alte nubi irato il cielo e versi sul tuo capo empia procella.

Ma teco forse a torto ora mi sdegno; chi sa che Glori, al mio martir costante, non apprenda pietà da quel tuo legno?

che, mentre tu con tante braccia e tante stretta t'annodi intorno al tuo sostegno, impari anch'essa ad abbracciar l'amante?

v LA DONNA PREGANTE

Da la sua bella stanza, ove divote Glori le preci sue dal cor sciogliea, colmi d'ogni pietate orando ergea gli occhi stillanti a le stellanti rote.

Al centro ove tenea le luci immote, supine ambe le mani ella volgea, ove dai labri ancor volar facea su l'ali de' sospir calde le note.

Beltà che supplicando e piange e plora ah, che non può! diss'io: ben certo piega, non che '1 cielo a pietà, l'inferno ancora.

Ma mi disse un pensiero: Indarno prega costei, che si crudel m'affligge ognora, che non trova mercé chi altrui la nega.

PAOLO ZAZZARONI 325

VI

IL GIORNO DELLE PALME

In sacro tempio, ove divota schiera seguia di Cristo i trionfanti onori, con verde ulivo in man vidi mia Glori al volto, ai gesti umilemente altera.

Oh ! dissi alor ha pur la mia guerriera dal cor diposto i suoi natii furori, mentre con nova insegna a' miei dolori pace e speme promette ond' io non pera.

Con simil ramo ancor, doppo che '1 fio pagò sommerso il mondo in mar vorace, segno di tregua ebbe Noè da Dio.

Ma si cruda quest'empia ognor mi sface, che porta quelle frondi a creder mio sol per trionfo suo, non per mia pace.

VII

LA SIGNORA E L'ANCELLA

Per doppio incendio mio m'offre fortuna, entro un albergo sol, serva e signora d'egual beltà; se non ch'a questa indora natura il capo e a quella il crin imbruna.

L'una rassembra il Sol, l'altra la luna, o questa l'alba appar, quella l'aurora; arde l'una per me, l'altra m'adora, e d'ambo io sento al cor fiamma importuna.

Misero, che farò? dovrò fors' io sprezzar l'ancella? a la bramata sorte chi scorta mi fia poi de l'idol mio?

Ah, ch'ambe io seguirò costante e forte; e se '1 destino arride al bel desio, o l'una amica o l'altra avrò consorte.

32Ó LIRICI MARINISTI

Vili

LA LAVANDAIA

Su quel margo mirai donna, anzi dea, succinta in veste, il crin disciolto ai venti, ch'assisa in curvo pin fra i puri argenti gl'immondi panni al fiumicel tergea.

Se da l'umido Un l'onde spremea la mano al cui candor le nevi algenti s'annerano, il ruscel con rochi accenti, amando la prigion, sciolto fremea.

Più pure a lei correan l'acque sul lido, ch'ai volto la credean di Cipro il nume che le bende lavasse al suo Cupido.

Di beltà cosi rara al dolce lume arsi tradito in elemento infido, e crebbi le mie fiamme in mezzo al fiume.

IX

ALL'ADIGE

Figlio de l'Alpi, ondoso peregrino, che con orme di gel stampi il viaggio, e qual umido serpe ov' hai passaggio lasci strisce d'argento in sul camino;

al tuo liquido vetro e cristallino l'olmo s' inchioma e si riveste il faggio; a la tua reggia illustre eterno omaggio paga divoto ogni ruscel vicino.

Dal mormorio che formi in son si chiaro, tanto m'alletti il senso e l'alma bèi, ch'io, benché mergo, esser canoro imparo.

Per tue glorie emular dir più devrei; ma che scriver poss' io, se dolci al paro non son de l'acque tue gl'inchiostri miei?

PAOLO ZAZZARONI 32?

X

L'ARCA DI RE PIPINO nella basilica di San Zeno in Verona

O tu, che per sentier torto e celato scendi tra questa cava erma e romita, sol per veder quaggiù d'urna fallita un vedovo ricetto, un marmo alzato;

l'avel qui dentro al gran Pipin fu dato, quando dal mondo al ciel fece salita; ma quindi poi da mano ignota e ardita fu con la spoglia il cenere furato.

Ora, di quello in vece, altro stupore per ammirar di novo è qui rimase, d'un vivo fonte il rinascente umore.

Mira qui da vicin per entro al vaso stemprarsi il sasso in limpido licore, quasi pianga del furto il tristo caso.

XI

LA TOMBA DI TAIDE

Taide qui posta fu, la più perfetta dispensiera de' gusti al molle amante. Lettor, s'ardi d'amor, fatti qui inante, che stesa in questo letto ella t'aspetta.

LEONARDO QUIRINI

I

LA PENITENTE

Per una principessa italiana, che dopo vita d'amori si chiuse in monastero.

Costei che già di mille amanti e mille libero a voglia sua resse l'impero, e con lascivo sguardo e lusinghiero dai più gelati cor trasse faville;

con occhi mesti e di pudiche stille gravidi, ad or ad or volge il pensiero a rintracciar de lo sfuggito vero qualche vestigio almen fra caste ancille.

O di mentita perfido zelo ! Chiude i leggiadri angelici sembianti entro ruvidi panni e rozzo velo,

per far, Circe d'amor, con novi incanti inamorar di sue bellezze il cielo, sazia del fasto de' terreni amanti.

LEONARDO QUIRINI 329

II

TRISTEZZA DELLA VITA SENZA AMORE

Care fatiche e fortunati affanni fùr quelli ch'io soffersi allor ch'amai; or che libero son, colmo di guai consumo i di miseramente e gli anni.

D'amico sen fra i dilettosi inganni riponmi, Amor; che del mio sole a' rai l'estinto foco ravivando ornai, vo' riparar de la tua face i danni.

Prega dunque, signore (e fien tuoi preghi lingue de le mie fiamme), il viso amato che di nova catena il cor mi leghi;

che fra due belle braccia, or che n'è dato ch'ai giogo antico il mio pensier si pieghi, fia dolce libertà l'esser legato.

Ili AMORI

Qualor le labra a le tue labra accosto e de l'anima il fior suggo coi baci, da due rose sent'io fresche e vivaci aura spirar di cinnamo e di costo.

Poi di teco morir, Glori, disposto in fra nodi scambievoli e tenaci, mentre suscita Amor dal sen le faci, loco tento più dolce e più riposto.

Pugnando allor con gl'impeti del core, nel sen con la man candida e vezzosa neghi l'alma raccor, ch'uscir vuol fòre.

Ma de la brama fervida amorosa con la destra temprando il fiero ardore, s'una man fu crudel, l'altra è pietosa.

330 LIRICI MARINISTI

IV

IN MORTE DI GIAMBATTISTA SORDONI

ucciso mentre assoldava genti per Levante

Morto è il Sordoni. Invida man recise con la vita di lui l'impiego degno, eh 'a la Donna del mar, di fede in pegno, cominciava a prestar mentre l'uccise.

Ma che? morto ei non è, se ben divise l'anima già dal suo mortai sostegno; che l'opre de la mano e de l'ingegno vivono immortalmente in mille guise.

Corcira il dica, il dica Creta e '1 Tronto, che ben spesso portò forse più d'una spoglia nemica al mar rapido e pronto.

Oh, s'arrideva a lui destra fortuna, fiaccato un giorno avrebbe in Ellesponto le corna audaci a l'ottomana luna!

v SERENATA

Buona notte, cor mio. Tu forse in grembo a morbidette piume sciogli le membra in dilettoso oblio; ed io qui, lasso, in lacrimoso fiume stemprato il cor e l'anima t'invio.

Buona notte, cor mio.

Buona notte, cor mio.

Tu dormi si, ma '1 tuo fedel non dorme,

o se pur dona il faretrato dio

LEONARDO QUIRINI 331

tregua agli occhi suoi stanchi, in mille forme lo sgomenta il suo fato acerbo e rio.

Buona notte, cor mio.

Buona notte, cor mio. Tu pur concedi al travagliato fianco per breve spazio almen ristoro, ed io di sospirar per te mai non mi stanco, da l'esser fedel punto travio.

Buona notte, cor mio.

Buona notte, cor mio.

Dormi pur, dormi, e teco dorma Amore,

o de l'anima mia dolce desio;

turbi i tuoi riposi ombra od orrore

di fantasma notturno. Io parto, addio.

Buona notte, cor mio.

VI

GELOSIA DELLA BELLEZZA

Se ben siete l'idea della stessa beliate, Cinzia, non v'adirate che '1 pregio di bellezza io non vi dia. Che questo io scrivo ad arte, spinto da gelosia,

perché vostra beltà ne le mie carte adombrata non sia. Voletelo sapere? Io vi vorrei brutta agli altrui e bella agli occhi miei.

332 LIRICI MARINISTI

VII

VOLUPTAS

Dio, se tu sapessi, se tu sapessi, o bella, quanta dolcezza io provo quando talor ti trovo pronta ai baci, agli amplessi, giuro per le quadrella d'Amor, per l'arco d'oro, che, baciandoti sol, languisco e moro. Or pensa tu qual essere può '1 diletto, che l'estremo piacer nel cor mi piove, r non invidio il paradiso a Giove!

vili IN MORTE DI CLAUDIO MONTEVERDE

PADRE DELLA MUSICA

O tu che in nere spoglie del gran padre de' ritmi e dei concenti l'essequie rinovelli e le mie doglie, segui gli uffici tuoi dolenti e mesti, ma pian, si che no '1 désti; ch'egli estinto non è, come tu pensi, ma stanco dal cantar al sonno i sensi.

vili

BASSO - ZITO - MUSCETTOLA

ANTONIO BASSO

I

INVOCAZIONE ALLA GELOSIA

Cara fame di zelo onde destina suo vitale alimento amor più grato, aura ch'aurea susurri entro il suo prato, in guardia di sua rosa ardita spina,

cote ov'egli i suoi strali ogni ora affina, gel che rivai ardor sol fai gelato, specchio ch'ai Sol rifletti il raggio amato, degli affetti d'un 'alma alma rapina;

te chiamo, o del ciel prole, a cui commesso è d'un seno a guardar pudico onore, ond' occhi hai tanti al tuo bel volto impresso.

Vieni, vestal divina, e nel mio core siedi custode a la sua fiamma appresso, che dove manchi tu s'estingue amore.

336 LIRICI MARINISTI

II

CONVALESCENTE

Ecco riedo agli errori e '1 core infido pur osa ai prischi aflfetti aprir le porte, e del mondo io seguendo ancor le scorte, i sensi appago e la ragione ancido.

Egro, a Dio tutto amico, or sano annido nemiche voglie a cui mi tolse a morte; e, quasi Anteo caduto, ornai più forte sorgo di terra e '1 ciel di novo io sfido.

Cosi le grazie abusi, ingrato? Ahi, quali son tue vittorie ove la colpa è palma, mentre al tiranno applaudi e '1 rege assali?

Sorgete, umori, in me: dolci fien salma rie febri al sen, poiché di quelle i mali son morbi al corpo e medicine a l'alma.

Ili LA TRINITÀ

Siringa di tre canne ond'esce eletto un suon che fiato armonioso spira, e di tre corde sol temprata lira, ch'unica melodia porge e diletto;

acceso torchio, che in concorde effetto tre lumi a l'aria sfavillanti aggira; specchio, nel cui cristallo esser si mira di forme illustri un triplicato oggetto;

arbore eccelsa di tre rami cinta, fonte da cui traggon tre rivi umore, di tre colori adorni Iri dipinta,

stel di tre fiori e di tre foglie un fiore, de l'unità di Dio triade distinta forman l'esempio onde l'apprenda il core.

ANTONIO BASSO 3S7

IV

L'ORAZIONE

P'onte di limpid' acque, in cui si terge de le sue macchie ogni or l'anima immonda; ferro, per cui si tronca e si disperge il laccio onde l'inferno il suol circonda;

mar, nel cui vasto sen cade e s' immerge il vizio e spento al fin giace a la sponda; monte, il cui giogo oltre a le nubi s'erge ove tempio virtù fabrica e fonda;

Iri, ch'annunci a l'uom pace ed amore; stella, in cui fato d'alta gloria stassi ; Sol, che dei falli sgombri il fosco orrore;

motor che 'I ciel raggiri, anzi l'abbassi a l'alme in terra; ahi, qual sarà quel core che teco in compagnia l'ore non passi?

V

A FRATE ANGELO VOLPE DI MONTEPELOSO

reggerne del collegio dei minori conventuali in San Lorenzo di Napoli

Chi t'alzò ne le sfere? e per quai mani s'aperse a te l'empireo, onde sui cieli quegli che velan Dio spirti sovrani non san con l'ali agli occhi tuoi far veli?

Tu ciò eh 'a ingegno uman vien che si celi, con sovruman pensiero intendi e spiani, e con note veraci a noi riveli i più chiusi del ciel sublimi arcani.

Tua mente in mirar l'uom, qual si solleve degli studi terreni oltre il confine, stupor nei fonti de' tuoi fogli ei beve.

Ma toglia a lui la meraviglia al fine tuo nome alder; ch'a un angelo è ben lieve spiegar con chiari sensi opre divine.

Linci marinisti 22

338 LIRICI MARINISTI

VI

A GHERARDO GAMBACORTA

generale della cavalleiia di Napoli a Milano

Questa è l'urna, o guerrier, ch'entro il suo seno ceneri illustri accoglie, ossa onorate di chi con mille al crin palme innestate scudo a le Spagne fu, gloria al Tirreno.

Cadde fra l'armi, e del cader non meno fia glorioso a la futura etate, di quando ei fé' cader le schiere armate, reso di tuon ostil fulmin terreno.

In lui pianse i suoi vanti estinti in terra natura afflitta, e lagrimar si vide orbato il campo e vedova la guerra.

Sol di tal pianto il ciel gioisce e ride, ch'ebbe, mentre in sue stelle eroe tal serra, Palla un novo Perseo, Marte un Alcide.

VII

LA PRIMAVERA

Del Sol prole gentile, che con chiave di fiori lieta al mondo apri aprile, colma il sen di rugiade e '1 crin d'odori, de l'alba emula bella, de le varie stagioni alba novella;

prima figlia de l'anno, che con tenera mano del vecchio padre il danno ristori, d'erbe ornando il colle e '1 piano, e, qual Medea più giusta, giovinetta gli fai l'età vetusta;

ANTONIO 15ASSO 339

paraninfa amorosa d'odorati imenei, che con face di rosa e con lacci di frondi entri fra dèi, e de' fiori nel letto Flora e Zefiro in noi chiami a diletto;

di Pomona foriera, che con mani feconde sai, ne gli orti primiera, rami tessere in piante e fiori in fronde, onde vengon produtti a la dea de l'autunno in terra i frutti;

Iride de la terra, che dopo il verno audace, de le piogge a la guerra, colorita di fiori, apporti pace, e con occhi fioriti

gli austri allegra licenzi e l'aure inviti; dei cor diva leggiadra,

che con l'erbe i natali

degli Amori a la squadra

apri, armati qua giù di novi strali,

e con vista benigna

rendi un Cipro ogni campo e te Ciprigna; emula de la notte,

che, se quella vien fuora

da le cimerie grotte

e di lucide stelle il cielo infiora,

tu, dal ciel scesa al prato,

d'almi e nobili fiori il fai stellato... Ma qual tenta mia musa,

tesser versi a' tuoi vanti?

Ceda intanto confusa .

degli alati tuoi cori ai dolci canti,

che gli encomi tuoi belli

de le muse cantar più san gli augelli.

VINCENZO ZITO

I

IL RIMPROVERO

La mia bella a goder seco m'invita i dolci amplessi e gli amorosi baci; ma, lasso, nel mio pie lacci tenaci pone il destin, che giusta causa addita.

Se talor vien da lei mia scusa udita, dice, mostrando al volto ostri vivaci : Tu non senti d'Amor l'accese faci; perfido, regna in te fede mentita!

Bramasti un tempo di godermi in braccio; or che sei mio bel nume, a te cai poco; e pur t'adoro? e non da me ti scaccio?

Benché sia dentro inestinguibil foco, divento a cotal dir freddo qual ghiaccio, mesto il cor, molli gli occhi e '1 parlar fioco.

VINCENZO ZITO 341

II

IL CENNO DEL CIGLIO

La sentenza crudel di non amarmi sdegna di profferir con le parole *

colei ch'avanza di chiarezza il sole, ma '1 ciglio innalza e '1 « no » prende a spiegarmi.

Dunque, pronto si scorge a guerra farmi arco di pace? ed iride che suole annunziar sereno, ahi, dunque vuole le tempeste predir per atterrarmi?

Se gli occhi amati hanno vitale il lume, ch'ancor gli estinti sa tornare in vita, come il ciglio dar morte ha per costume?

Siasi arco o ponte: ella, o se stessa invita a passar di mio pianto il largo fiume, o di me vinto il suo trionfo addita.

Ili IN TEMPO DI VENDEMMIA

Or che '1 natal si celebra del vino, pigiando l'uva il villanel campano, libero il dir concede il dio tebano, stando Priapo alla fescina vicino.

Deh, perché a Cilla, cui divoto inchino, non scopro il sen trafitto, il cor non sano? Fra gli scherzi mischiar non sarà vano quel ch'a tacer mi strinse il fier destino.

S'ella un si grande ardir prendesse a duro, mostrerò finto il mio penar verace e '1 chiaro coprirò col senso oscuro.

L'uso, o mia lingua, rendati loquace; e, s'è timido Amor, ben t'assicuro ch'unito con Lieo farassi audace.

342 LIRICI MARINISTI

IV

LA PELLEGRINA

Vestendo a te simil logore spoglie, ' n'andremo uniti, o pellegrina errante; se nel cammin stancassimo le piante, con pari amor compartirem le doglie.

Mercè chiedendo, busserem le soglie, tu ferma al duolo, io nel patir costante; il poco cibo ne sarà bastante, in ogni evento avrem concordi voglie.

Il retaggio paterno in tutto oblia l'alma ch'ha di seguirti immenso ardore, ogni paese a noi la patria fia.

Ma quando il mondo occupa il cieco orrore, un sol letto n'accoglia; indi si dia riposo al piede e refrigerio al core.

V

LA DONNA ALL'AMANTE CHE VA ALLA GUERR/

Disarma il fianco e frena ira e furori ; altra guerra cercar, deh, che ti cale, se fai con gli occhi tuoi guerra mortale, onde avvien ch'ogni amante umil t'adori?

Altri pur sudi a' marziali ardori, l'empia spada vibrando a l'altrui male; tu, guerriero d'Amor, con l'aureo strale piaga il sen, struggi l'alme, ancidi i cori.

Non mai tuo brando manderà sotterra campion ; che pria che gli trafigga il petto cadrà da' guardi tuoi ferito a terra.

S'hai pur di guerreggiar dolce diletto, meco guerreggia in amorosa guerra; li miei baci sien trombe, agone il letto.

VINCENZO ZITO 343

VI

L'AMORE ARDENTE

Imitazione da Ausonio

Bramo da lei, cui riverisco amante, qual edera strettissimi gli amplessi, i baci a mille, incatenati e spessi, vezzo ridente e riso vezzeggiante.

Se m'ingiuria sdegnosa e minacciante, reintegrino amor gli sdegni stessi, e d'ira e di pietà scopra gli eccessi, e s'infuri e si plachi in un istante.

Pudicizia in disparte! Accenda ogn'atto, se raffreddo il desio, tutta focosa, e povero mi renda e sodisfatto.

Che '1 vederla in contegno e schizzinosa, gelo al mio foco e selce al molle tatto, son diletti freddissimi di sposa.

VII

LA SETE NELLE CAMPAGNE DEL VESUVIO

Stanco da lunghi errori, ahi, mi trov'io fra sentieri dubbiosi a Vesbio a fronte; e mentre bolle la campagna e '1 monte, arida sete offende il petto mio.

Deh, chi m'insegna ove zampilla il rio? deh, chi m'addita ove gorgoglia il fonte, che spegnesse, immergendovi la fronte, l'assetato ardentissimo desio?

Mal soffrirebbe ardor si crudo e fero, onde sento mancarmi a poco a poco, l'adusto tingitan, l'etiopo nero.

Chi mi condusse in tal penoso loco? Dell'inferno non ha strazio più vero, ch'esser senz'acqua ove più brucia il foco.

344 LIRICI MARINISTI

Vili

LA LUiNA ED ENDIMIONE

Era la notte e 'n florida collina gli occhi avea dati al sonno Endimione; lo scorge dalla splendida magione degli astri la bellissima regina.

Sente farsi nel sen dolce rapina, condursi l'alma in placida prigione; cruda non più, qual videla Atteone, al faretrato nume, ecco, s'inchina.

Stima il passato secolo funesto, e cercando goder tempo migliore, in Latmo di calar non l'è molesto.

Molle già fatto l'indurito core, formando amplessi al giovane già desto, suo gel natio trasforma in foco Amore.

IX

LA GALEA

Mole rostrata che, raccolti insieme i boschi d'Appennin, l'Egeo trascorri, disprezzi il suo fragor quando più freme, s'a' Palinuri tuoi scossa ricorri;

al fianco hai l'ali, al dorso alzi le torri, di cui presso e lontan guerra si teme; ne' gran perigli i popoli soccorri, unisci i mari e le province estreme.

Formanti crin le tremole bandiere; ti son i gonfi lin spoglie nevose ed occhi l'ardentissime lumiere.

A gara nel tuo sen Marte nascose, pronte a le stragi, le falangi intere, ed i fulmini suoi Giove ripose.

VINCENZO ZITO 345

X

AGLI ACCADEMICI OZIOSI DI NAPOLI

nell'essere ammesso nella loro società

Cigni del bel Sebeto, in vostra schiera mi date loco, ad acquistar gran vanti, e la norma apprendendo ai dolci canti, su le vostre ali io vo da sfera in sfera.

Or comprendo qual sia la gloria vera, che goder soglion di virtù gli amanti ; ecco armoniche lire, archi sonanti, onde l'ombra d'oblio non più m'annera.

L' ozio qui si trafigge e, a morte spinto, in segno di vittoria ogn'alma intende prendersi il nome del nemico estinto.

Cosi latino eroe, mentre che rende l'Africa doma, dall'imperio vinto per gloria il nome d'african si prende.

XI

A SCIPIONE ZITO che regge truppe di fanti in Ispagna

Nati d'un sangue in una stessa parte, al colle di virtù ten voli, io m'ergo: agli ozi, agli agi ambo volgendo il tergo, io seguace d'Apollo e tu di Marte.

Ambo per guida abbiam natura ed arte; ordini tu le schiere, i fogli io vergo; tu brando tratti a fracassare usbergo, io penna adopro a linear le carte.

Io caro ai dotti e tu gradito ai forti ; tu dai norma alla guerra, io legge al canto; io frequento i licei, tu le coorti.

Pari è d'entrambi il pregio, eguale il vanto: tu spegni i vivi ed io ravvivo i morti ; tu fai l'eroiche imprese ed io le canto.

346 LIRICI MARINISTI

XII

DURANTE LA RIVOLUZIONE DI NAPOLI DEL 1647

Ai nostri danni è scatenata Aletto e della guerra in man porta la face; schiera imbelle e plebea fatta è pugnace, il prode e '1 forte è di fuggir costretto.

Relig on, pietà non han ricetto nello stuol troppo fiero e troppo audace: Armi, armi grida, e timida la pace non ha più sangue in fibra e fibra in petto.

Ecco falso l'amor, la fede infida; terminan l'accoglienze in tradimenti, l'amicizia è sacrilega, omicida.

Sovente avvien che nelle furie ardenti il figlio il padre, il padre il figlio uccida. Oh novo inferno d'anime languenti !

XIII

A DON GIOVANNI D'AUSTRIA

invocando l'arrivo di lui a Napoli

Seconda il volo degli ispani abeti, o rege dell'eoliche foreste; vadano altrove a scaricar tempeste gli orgogliosi aquilon, gli euri inquieti.

D'aprii fiorito ai di sereni e lieti non siano più l'atre procelle infeste; d'Austria all'eroe faccian carole e feste con le nereidi la cerulea Teti.

Al lito di Partenope le schiere giungan del Beti gloriose e forti, a incatenar Tesifoni e Megere.

Che mal possono più nostre coorti, benché di posse intrepide e guerrere, cibare i vivi e sepellire i morti.

VINCENZO ZITO 347

XIV

IL DIGIUNO

Santo guerrier, che della gola infetta t'oppugni all'armi e vendichi l'ardire, ed assiso nel cielo a mensa eletta hai sol del poco un singoiar desire;

pietosissimo arciero, uso a ferire con forte ed acutissima saetta Venere e Bacco, e sai nel tuo languire legar la mano a Dio nella vendetta;

altissimi pensier désti agl'ingegni, che sorvolan per te da sfera in sfera e di parto sovran rendonsi degni;

all'alma, al corpo sei salute vera, rintuzzi a morte gli sfrenati sdegni, hai pronti ai cenni tuoi gli angeli a schiera.

XV

LA CHIOMA SCIOLTA

Scherzava a l'aura errante il lucido crin d'oro di Lilla, il mio tesoro. Or nel tergo volava, or nel seno calava. Lasso, qual simulacro a l'alma mia formò la gelosia!

Temei che, divenuto il gran tonante di sue bellezze amante, trasformato si fosse in aureo nembo e, nova Danae, le piovesse in grembo!

348 LIRICI MARINISTI

XVI

LA FENICE

Ne l'indico oriente, nobil parte del eie), porta del giorno, sen vive eternamente, di mille pregi adorno, di morte ad onta, un immortai augello, fra le schiere volanti unico e bello.

Il suo bel capo ha d'ostro, l'ali son d'oro, il collo è azzurro eletto, gemma somiglia il rostro, vivo smeraldo il petto, ne la sua coda alto splendor riluce, gemino sole è l'una e l'altra luce.

Mostra ne l'andar solo augusta maiestà, regio decoro, varca le nubi a volo se spiega i vanni d'oro, e verso il ciel cosi veloce ascende, che l'augello di Giove ira ne prende.

Se scorge aver per gli anni deboli le virtù, gravanti l'ale, tarpati e bassi i vanni, e '1 suo valor già frale, in quella parte il suo bel volto affretta, che da fenice vien Fenicia detta.

Quivi in limpido fonte, chiuso da' boschi, il nobil corpo immerge, e vòlta a l'or ente scioglie il canto e si terge; indi s'inalza e la sua pira appresta: vitale io la dirò più che funesta.

VINCENZO ZITO 349

In un composto accoglie tenero nardo e balsamo stillante, e con la mirra coglie l'amomo odor-spirante, e poscia invola a più remoto loco il cinamo, il cipresso, il costo e '1 croco.

L'alta funerea mole sovra palma sublime erge e sublima, e che rinasca il sole quivi n'attende in cima; non turba il vento allor l'aereo seno, ma si mostra a tal opra il ciel sereno.

Ecco che già risplende il gran pianeta, assiso al carro aurato, e col suo raggio accende il bel rogo odorato; e la fenice in tanto allegra e viva de l'ali al ventilar più il foco avviva.

Sparisce a poco a poco il color vario de le piume belle, e va rodendo il foco ciò che natura dielle,

e mentre il corpo suo flagra e si strugge, l'aura vital già l'abbandona e fugge.

Ma intanto la natura, per non impoverir d'un cotal seme, pone in raccor la cura l'alte reliquie estreme, e dispargendo in lor liquidi umori vita a la cener dà, spirto agli ardori.

Formasi un picciol ovo, in mezzo al foco, ove apprestò la pira; poscia in sembiante novo spiumato augel s'ammira, e si vede cangiar, mentre rinasce, la tomba in cuna ed il feretro in fasce.

350 LIRICI MARINISTI

Ecco ringiovanisce, e '1 capo inostra e i suoi bei vanni indora, e d'azzurro arricchisce il collo, e si colora di vivace smeraldo il petto e '1 tergo, e '1 collo drizza a più gentile albergo.

ANTONIO MUSCETTOLA

L' INNAMORAMENTO

durante la rivoluzione di Napoli

Colma d'empio furor, di rabbia armata, spargea ne' tetti altrui fiamme nocenti, e di sangue civile ampi torrenti spandea nel patrio suol turba sdegnata;

quando a danno de' cor beltà spietata tese degli occhi suoi gli archi possenti, e da le vaghe lor saette ardenti in un punto mi fu l'alma piagata.

Cosi tra' mali altrui nacque il mio male, e dentro un mar di sanguinoso umore l'infelice amor mio sorti il natale.

Oh di stelle crudeli aspro tenore! Perché sperar no '1 debba unqua vitale, dier tra le morti alor vita al mio amore.

352 LIRICI MARINISTI

II

IL NASTRO VERDE

A biondo crin, che scarmigliato e vago 1 campi di un bel sen scorrea fastoso, forma con verde nastro un fren vezzoso la bianca man per cui languir m'appago.

Per oggetto mirar si dolce e vago drizza l'anima mia l'occhio bramoso, e parie vagheggiar lieto e pomposo tra verdi sponde imprigionato un Tago.

Poscia tra ragiona: Ah, perchè abbonda di tempeste la speme onde son viva, in quel verde color l'unisce a l'onde!

No, no risponde Amor; s'egra languiva la tua speranza, de le chiome bionde con gli aurei flutti il suo bel verde avviva.

IH INVIANDO LA « GERUSALEMME »

Queste a cui chiaro stil mille comparte di bellicosi eroi scempi e furori, or che parto a te dono, o bella Glori, pegno dell'amor mio, famose carte.

Tu, leggendo le note a parte a parte, scorgi ne l'altrui morti i miei dolori; d'accesa torre negl'immensi ardori l'incendio del mio cor ravvisa in parte.

Il mio petto, di mostri infausta sede nel bosco immondo, e '1 mio sperar, estinto negl' incanti svaniti, ivi si vede.

Ne le stille del sangue al fin dipinto rimira il pianto mio; si farà fede liberata città di core avvinto.

ANTONIO MUSCETTOLA 353

IV

LA DONNA CHE LEGGE L'UFFICIO

Di sacri fogli a le celesti note Lilla, già fatta .pia, gli occhi volgea, ed al suol inchinata, al cielo ergea con basso mormorio preci devote.

Ma se su tra le stellanti rote con la bilancia sua soggiorna Astrea, cruda beltà, di mille morti rea, impetrarne pietade, ah, che non puote!

Che se ben china par che '1 cielo adori, gode a la sua beltà mirar prostrata schiera infelice d'adoranti cori ;

e, chiusa a' pianti ed a' sospir l'entrata, strali avventando e fulminando ardori, mentre prega pietà fassi spietata.

V

ATTEONE E DIANA

Pittura di Domenico Gargiulo, detto Micco Spadaro

Invan per l'ira tua, Cinzia sdegnosa, estinto giacque in su l'età fiorita il bel garzon, eh 'a le tue ninfe unita ti vide ignuda ne la valle ombrosa.

Ecco d' immortai destra opra famosa fa che mal grado tuo ritorni a vita, e rieda a vagheggiar con vista ardita del tuo bel corpo ogni vaghezza ascosa.

Ben te ravvisa minacciosa e fera, e pur, quasi li fosse il rischio ignoto, non prende ad iscampar fuga leggiera.

Ah, che '1 mortai periglio è a lui ben noto; ma, nel mirar la tua bellezza altera, pien di dolce stupor rimansi immoto.

Lirici marinisti 23

354 LIRICI MARINISTI

VI

NARCISO

Per saettarmi il petto il cieco dio di straniera beltà l'arco non tende; me con me stesso impiago, e '1 desir mio me di me stesso innamorato or rende.

Ardo, misero, amando e '1 foco rio in un gelido umor da me s'accende; adoro un volto eh' è mio volto, ed io, io che l'offeso son, son chi m'offende.

Per annodarmi il core io stringo il laccio, i pregi miei com'altrui pregi io lodo, di speme un'ombra, e la mia ombra, abbraccio.

Oh d'ingiusto penar diverso modo! Mentre sospiro il ben per cui mi sfaccio, meco unito è il mio bene e pur noi godo.

VII

LA FARFALLA AL LUME

Dell'aure agli urti inestinguibil face in cavo vetro imprigionata splende, la cui luce a goder veloce stende semplicetta farfalla il volo audace.

Ma di quel lume i rai per cui si sface, quel fragil muro ai suoi desir contende; pur vaga dell'ardor che '1 cor l'accende, vola, riede, s'aggira e non ha pace.

Mira vicine a le fiamme amate, raggiungerle puote, e in van tuttora cerca al proprio morire aprir l'entrate.

Che deluso ciascun vi segua ognora gioie, scettri, tesori, ah, non vantate, or ch'ha i Tantali suoi la morte ancora!

ANTONIO MUSCETTOLA 355

Vili

IL MIRACOLO DELLE ROSE E GLI SPOSI CASTI

Fremea stridendo e da caverne alpine sciogliea fiero aquilon l'ali nevose e, distruggendo i fior, su piagge erbose nembi scotea di congelate brine;

quando, di casto letto entro il confine, a bearsi correan alme amorose; ed ecco, al giunger loro, aure odorose non vedute esalar rose divine.

Fugge il senso lascivo a quell'odore, e '1 caro sposo e la donzella amata alla verginità sacrano il core.

Oh del vano piacer diva mal nata, t'è la rosa fatai! Da questo fiore fosti un tempo ferita e poi i"ugata.

IX

CASISTICA DI NAUFRAGIO

Già del torbido mar l'ira spumante fa del naufrago abete aspro governo, ed io se debba aitar non ben discerno nemica amata o non amata amante.

Ceda al giusto il disio. Del mar sonante abbia tra l'onde il suo sepolcro eterno chi, i miei preghi e '1 mio duol prendendo a scherno, parve di crudeltà scoglio costante.

Ma del vasto Nettun l'ondoso umore assorbir non dovrà chi sempre unita tenne del cieco dio la face al core.

Su, veloci corriamo a darle aita; sgridar mi potrà deluso amore, se a chi l'alma mi die rendo la vita.

356 LIRICI MARINISTI

X

AL LEGNO DELLA CROCE

Te sol, tronco divin, bramo ed anelo, de l'empireo giardin parto fecondo, in cui depose il redentor del mondo, fenice eterna, il suo corporeo velo;

carro ove colmo di pietoso zelo tr.onfò Dio del fier serpente immondo, beato Atlante che reggesti il pondo del ciel non già, ma del signor del cielo;

sacro, beato e riverito legno, tu appresta a l'alma, d'empia sorte a l'onte quasi cadente omai, forte sostegno.

Già d'ascender al ciel le voglie ha pronte: falle tu scala, o su ne l'alto regno perché possa poggiar, formale un ponte.

XI

AL MONTE VESUVIO

Per il sangue di San Gennaro

Potrai ben tu, co' tuoi volanti ardori, alzarti il trono in fra gli eterei lumi ; stender potrai co' temerari fumi in faccia al chiaro sol notte d'orrori.

Ma con le furie tue danni e terrori dare a Napoli mia non ben presumi; spegnon del foco tuo gli ampi volumi del mio Gennaro i sanguinosi umori.

Queste lucide ampolle, ove il sovrano sangue si serba, del tuo incendio tetro son mète imposte all'ardimento insano.

Ecco, già volgi i tuoi furori addietro; che sa di Dio l'onnipotente mano fare a fiumi di foco argine un vetro.

ANTONIO MUSCETTOLA 357

XII

AL SONNO

Dall'ondoso ocean l'asse stellato trasse la notte. Or delle cure il pondo deposto avendo ornai, gode beato alto silenzio taciturno il mondo.

Sparse d'alto sopor premono il suolo degli antri cavi le romite belve; sa de' venti il temerario stuolo chiamar feroce a sibilar le selve.

Della cerulea Dori il popol muto posa le membra entro l'algoso nido, e 'n tranquilla quiete il mar canuto inchina i flutti a riposar sul lido.

Io sol non poso. L'amorose cure men porgono a me sonni interrotti; sicché, vagando in fra vigilie dure, sono secoli a me tutte le notti.

Non giova a me di melibei murici stender su l'ebre lane il corpo stanco, se mi sembrano ognor gli ostri fenici colmi di spine a lacerarmi il fianco.

Tentai che fusser tomba al mio dolore d'indomito Lieo tazze spumanti; ma del Vesuvio il prezioso umore tosto dal duol fu convertito in pianti.

E pur del pianto mio l'onde cadenti un cor di sasso intenerir non sanno, e gli ardenti sospir, scherzo dei venti, per lo vano del ciel dispersi vanno.

Oh quante volte fra' notturni orrori inghirlandai le dispietate soglie; ma, per mio mal, quegl' intrecciati fiori già non fruttàro al tristo cor che doglie.

35^ LIRICI MARINISTI

Deh, tu, possente domator de' mali, ozio dell'alme e regnator di Lete, dal ciel movendo rugiadose l'ali all'agitato cor reca quiete.

Già non chiegg' io che dalle fosche piume sparga tutto il sopor nel petto mio; pago sarò se l'uno e l'altro lume toccherà, tua mercé, stilla d'oblio.

Dalle tempeste de' pensier mordaci l'animo lasso è per restare assorto; ma, se tu vieni a me, fra dolci paci ritroverà nelle tue braccia il porto.

Benché di neri stami a' giorni miei componessero il fil perfidi fati, per te, placido dio fra gli altri dèi, non dissimil sarò da' più beati.

Tu, delle menti languide ristoro, della figlia di Temi inclito figlio, se ingiusto è il male onde penando io moro, porgi i tuoi lacci a l'uno e l'altro ciglio.

Se nell'attica terra aitar famoso con l'ardalide muse unito avesti, la tua destra gentil grato riposo ad un seguace delle muse appresti ;

ch'io di vin coronando ampi cristalli al nume tuo gli offerirò di voto; poi di vegghianti e strepitosi galli un'ecatombe svenerotti in voto.

Farò ch'a gloria tua piova su l'are di papaveri molli un largo nembo, ed avverrà che da' miei preghi impare la bella Pasitea d'accòrti in grembo.

Su vieni, o sonno, e '1 tuo favor m'apporte contro al tiranno amor pietosa aita. Vientene, o sonno, e per beata sorte dal fratel della morte abbia io la vita.

ANTONIO MUSCETTOLA 359

XIII

I TUMULTI DI NAPOLI

sedati da don Giovanni d'Austria A Francesco Dentice

D'angui crinita dal tartareo tetto, spargendo ira e furor, sorse Megera, e la facella sua squallida e nera l'orbe tutto infiammò, rotando, Aletto. Del dio bifronte a disserrar le porte i fulmini avventò nume sanguigno, ed al fragor di strepitoso ordigno in sul Sebeto s'aggirò la morte:

E quai sul lido suo vide il Tirreno di barbaro furore empi vestigi, mentre percossa il cor da' numi stigi sdegnò plebe infedel l'austriaco freno!

In dispietati incendi arder fùr visti d'illustri fabri gì' immortai lavori; fùr le sete, le gemme e gli ostri e gli ori di fiamme ingiuste momentanei acquisti.

A le vite più auguste i degni stami troncò il furor de le masnade nitrici; lungi da' busti lor teschi infelici fèr diadema funesto a' tetti infami.

A fulminar le ribellanti mura mille e più si drizzar bronzi tonanti; cadder tocchi dal ferro i sassi infranti, cadaveri in un punto e sepoltura. Dal patrizio valor mirò la plebe innestarsi a le palme atri cipressi; da nobil ferro i sollevati oppressi col lor vii sangue imporporar le glebe.

360 LIRICI MARINISTI

E quali or promettean fere procelle de l'armato Orion gl'infausti lampi! Ma veggio, ecco, illustrar gli eterei campi di felice splendor propizie stelle.

Per te, germe sovran del rege ibero, fuggon negli antri lor gli euri frementi, e, degli astri infelici i lumi spenti, piove influssi benigni il ciel guerriero;

per te di sangue rosseggianti i fiumi non portano al Tirren tributi orrendi; per te nel patrio suol funesti incendi non inalzano al ciel torbidi fiumi;

per te, di Marte l'armonia sepulta, corron cetre a sferzar plettri festivi ; e per te, cinta di pallàdi ulivi, tra noi la pace sospirata esulta.

Tanto può, tanto fa de' suoi bei giorni rispano eroe nel giovinetto aprile: or che fìa alor che di virtù senile gli anni robusti suoi sien resi adorni?

Già veggio a circondargli il crine invitto nutrir le palme ossequiosa Idume, e di sue glorie riverente al nume erger colossi memorandi Egitto;

veggio di sue virtudi a' vasti abissi offrir tributi il galileo Giordano, e de l'armi al fulgor fuggir lontano la tracia luna paventando eclissi.

Deh, Francesco immortai, tempra la cetra ond'eterni gli eroi, fulmini gli anni; e de le note in su' canori vanni il semideo garzon porta ne l'etra.

Se de le glorie sue porgi il tuo canto, che da se stesso ancor chiaro rimbomba, Tebe la lira e la famosa tromba al tuo pie chinerà stupida Manto.

IX

CIRO DI PERS

I LE CHIOME NERE

Chiome etiope, che da' raggi ardenti de' duo Soli vicini il fosco avete, voi di mia vita i neri stami séte, onde mi fila Cloto ore dolenti.

O del foco d'amor carboni spenti, ma che spenti non meno i cori ardete; pietre di Batto, che mostrar solete falsi d'ogn'altro crin gli ori lucenti;

o di celeste notte ombre divine; in duo emisperi è il ciel d'Amor diviso, e voi del giorno suo séte il confine.

Venga chi veder vuole entro un bel viso, con una bianca fronte e un nero crine, dipinto a chiaroscuro il paradiso.

364 LIRICI MARINISTI

II

LA VESTE BIANCA

Bianca tra bianche spoglie era Nicea, saprei dir quai fusser bianchi meno, mentre un leggiadro paragon facea, i candori del manto o quei del seno.

Corsi a mirarla, e di stupor ripieno:

Donna non è costei fra me dicea, che raggio splende in lei più che terreno, ma la nunzia del Sol, candida dea.

Quando il soverchio lume insieme unito col soverchio calor, cadde repente l'occhio abbagliato, il core incenerito.

Allor gridai con un sospiro ardente:

O del manto dell'alba è il Sol vestito, o l'alba è più del Sol fatta lucente!

III IL BAMBINO

Vago fanciul, che fra le braccia stretto de la mia dea, dal suo bel collo pendi, e l'inesperta man scherzando stendi or agli occhi or al labbro ed or al petto;

tu, di doglia incapace e di diletto, tocchi il Sol, tratti il foco e non t'accendi, siedi in grembo a la gioia e non l'intendi; oh quanto per te provo invido affetto !

Deh, potess'io cangiar teco il mio stato; che, possessor di ^sconosciuto bene, sarei non infelice e non beato.

Già ch'intero piacer qua giù non viene, se ventura al gioir mi nega il fato, mi negasse egli ancor senso alle pene !

CIRO DI -PERS 365

IV

L'ELOQUENZA DEGLI OCCHI

Poco è facondo Amor quando egli scioglie innamorata lingua ai dolci accenti; poco in querulo suon mesti lamenti acquistan fede alle amorose doglie.

Ben è facondo allor quando egli toglie a far loquaci duo begli occhi ardenti, che formando co' rai note lucenti fan palesi del cor l'interne voglie.

Egli è bambino Amore: a pena ei puote snodar la lingua alla favella, e poco, fuor che nel guardo, egli ha loquaci note.

Mal con lingua disciolta aver può loco core annodato, e solo altrui far note può le fiamme del sen voce foco.

V

PURIFICAZIONE IN AMORE

Prima, Nicea, che '1 tuo bel ciglio ardente mi soggettasse agli amorosi oltraggi, per l'orme del piacer torti viaggi féron col senso i miei desir sovente.

Ora d'amor lo stimolo pungente desta ne l'alma mia pensier più saggi, e mi porgono i tuoi pudichi raggi, non men che fiamma al cor, luce alla mente.

Veggio ch'ogni tua cura al ciel diretta bave d'eterno ben santo desio, e che lassù ten poggi, anima eletta.

E voglio, al ciel drizzando i passi anch'io, la tua scorta seguir, pura angioletta, per teco unirmi eternamente in Dio.

366 LIRICI MARINISTI

VI

SOPRAVVIVENZA DELL'AMORE ALLA BELLEZZA

Languidi l'aggi e scoloriti fiori entro '1 bel volto tuo scorgo, Nicea; e pur quivi il mio sen, come solca, s'arricchisce di gioie e di dolori.

Sfavilla ancor per entro ai tuoi pallori quel non so che, quel che mi strugge e bea; più vago un tempo il tuo bel ciglio ardea, ma non vibrava già più gravi ardori.

Sempre per me tu sarai bella, ed io sempre amante per te: non è mortale, non ha mortale oggetto il mio desio.

Indarno il tempo s'arma, indarno assale la tua beltà con gli anni e '1 foco mio, che non soggiace a lui cosa immortale.

VII

SULLO STESSO ARGOMENTO

Veggio, veggio, Nicea, le tue vezzose guance obhar le porpore native, che, quasi timidette e fuggitive, vansi tra i gigli ad occultar le rose.

Le nevi, ove le fiamme Amor nascose, son de la lor vaghezza in parte prive, e con languidi raggi e semivive faville ardon le tue luci amorose.

Scema in te la bellezza, e forse ancora di par negli altrui cor manca il desio, mentre manca quel bel che gì' innamora.

Ma non scema però l'affetto mio, ch'oggetto fral non ama e solo adora un raggio in te de la beltà di Dio.

CIRO DI f'ERS

Vili

367

LA LOTTA COL TEMPO

Mentre vuoi riparar del tempo il danno, il tempo, o Lidia, inutilmente spendi; quell'ore stesse eh' a lisciarti attendi per giovane parer, vecchia ti fanno.

I mentiti color forza non hanno di destar, di nutrir d'amor gl'incendi; cedi, cedi pur vinta e l'arme rendi, che 'nvan contrasti al volator tiranno.

Cosi cadendo va bellezza umana, e per riparo ogni sostegno è frale e per ristoro ogni fatica è vana.

Ah, che l'impiastro tuo punto non vale per le piaghe del tempo, e sol risana le piaghe in me de l'amoroso strale.

IX

SULLO STESSO ARGOMENTO

Oblia la fronte, o Lidia, i suoi candori, disimparan le guance il lor vermiglio, ^ e qual ombra aduggiò la rosa e '1 giglio? e chi dal volto tuo sbandi gli Amori? Al tuo leggiadro aprii fura i tesori del tempo involator l'ingordo artigho, ed allo specchio invan chiedi consiglio di ravvivar gl'inariditi fiori.

Non può far d'aurei fregi il manto adorno, non le nevi mentite o gli ostri finti ricorrer dietro un sol passato giorno.

Tutti i tuoi vanti alfin l'etade ha vinti, ed hai nel volto per maggior tuo scorno di propria mano i suoi trofei dipinti.

:68 LIRICI :marinisti

X

LA PENITENTE

Sotto il cener del manto il foco ascoso porta costei, ch'in umiltà risplende; con la pietà del cor fa il ciel pietoso e col cielo del volto i cori accende.

Per posar nel suo Dio non ha riposo, e per difender l'alma il corpo offende; e se del crin straccia il tesoro ondoso, con le perle degli occhi adorno il rende.

Quindi, mentr'ella piange il proprio errore, adorar mi costringe il volto amato e mi fa reo di profanato amore.

Deh, come potrà il Ciel render placato, se fra i cilici ancor m'infiamma il core, e la sua penitenza è il mio peccato?

XI

LA DIPANATRICE

Un girevole ordigno oggi volgea Filli, di bianco stame intorno avvolto, che d'ampio cerchio in picciol globo accolto, quanto scemava l'un, l'altro crescea.

Quella la rota d' Issi'on credea il mio cor, ch'in que' giri era rivolto; se ben colei che l'aggirava, al volto più ch'una furia un angelo parca.

Lo stame quello fu de la mia vita, ch'io vedea con piacevoli martiri passar di bella parca in fra le dita.

E se pria dilatossi in ampi giri, or la raccoglie in uno, e vuol ch'unita solo nel suo bel volto e viva e spiri.

CIRO DI PERS 369

XII

LE LODI DELLA FATICA

Varcar col nuoto il rapido de' fiumi, l'erto dei monti superar col corso, di feroce destrier regger il morso, varie genti cercar, vari costumi;

errar per aspre balze ed aspri dumi l'adiroso cinghiai tracciando e l'orso; del profondo ocean fender il dorso, benché frema orgoglioso, irato spumi;

la sete al fonte trar, la fame al bosco, per le nevose piagge e per l'aduste sudar col nasamon, gelar col mosco;

di ferrea scorza aver le membra onuste, quand'è il ciel luminoso e quand'è fosco; delizie ed agi son d'alme robuste.

XIII

IL CACCIATORE D'ARCHIBUGIO

Solo e notturno uccellator tonante chiama l'usato can, la fune accende; cinto di grave cuoio il piede errante, laberinti palustri e cerca e fende.

Immoto al fin su riva ascoso attende tra soffi d'aquilon lo stuol volante, ch'alia valle s'invola e al mar si rende, mentr'a l'aurora il di bacia le piante.

Vibra Giove alle fere unico un telo, ma questi a lo scoppiar d'un colpo solo mille alati cader fa al flutto, al gelo.

Che più? s'ei può, stringendo un dito solo, trar fulmini dall'acque, augei dal cielo, far il piombo volar, piombar il volo!

Lirici marinisti 24

570 LIRICI MARINISTI

XIV

ALL'AMICO CHE HA PRESO MOGLIE

Per secondar le sconsigliate voglie, sei d'Imeneo fra i prigionieri accolto; quella promessa hai proferito, o stolto, che la si dolce libertà ti toglie.

Laccio, che fuor che morte altri non scioglie, t'hai da te stesso intorno al collo avvolto; tu te medesmo a te medesmo hai tolto; Lidio, non sei più tuo, sei della moglie.

Ore non più sperar tranquille e liete, cure noiose ingombreranti il petto, e più moleste allor che più scerete.

Sei sposo, addio riposo: entro un sol tetto non soglion albergar moglie e quiete, si divide senza lite il letto.

XV

AL PROPRIO LETTO

Mio notturno sepolcro, ove doglioso ad ogni moto sol la morte imparo, pien di cure diurne in pianto amaro nella mia requie inrequieto io poso;

chiuder luci sicure in te non oso, mentre agli affanni miei cerco riparo; so che del tempo un sol momento avaro ivi de' alfìn rapire il mio riposo.

Questi alzati sostegni alzan ruine; queste piume ch'io premo, ancor che morte, fabrican ale al volator mio fine.

Tu, funesto feretro, al suol mi porte; in te, nido vitale, io so che alfine con assiduo calor covo la morte.

CIRO DI PKRS 371

XVI

AL SONNO

O sonno, tu ben sei fra i doni eletti dal ciel concesso ai miseri mortali; tu l'agitato sen placido assali e tregua apporti ai combattuti affetti.

Tu d'un soave oblio spargendo i petti, raddolcisci i martir, sospendi i mali ; tu dai posa e ristoro ai sensi frali, tu le tenebre accorci e l'alba affretti.

Tu della bella Pasitea consorte, tu figliuolo d'Astrea, per te di paro vau fortuna servile e regia sorte.

Ma ciò che mi ti rende assai più caro è ch'all'orror dell'aborrita morte io col tuo mezzo ad avvezzarmi imparo.

XVII

IL MAL DI PIETRA

Son nelle rene mie, dunque, formati i duri sassi a la mia vita infesti, che fansi ognor più gravi e più molesti, ch'han de' miei giorni i termini segnati?

S'altri con bianche pietre i di beati nota, io noto con esse i di funesti; servono i sassi a feibricar, ma questi per distrugger la fabrica son nati.

Ah, ben posso chiamar mia sorte dura, s'ella è di pietra! Ha preso a lapidarmi dalla parte di dentro la natura. [ < So che su queste pietre arruota l'armi la morte, e che a formar la sepoltura nelle viscere mie nascono i marmi. /

372 LIRICI MARINISTI

XVIII

L'OROLOGIO DA RUOTE

Nobile ordigno di dentate rote lacera il giorno e lo divide in ore, ed ha scritto di fuor con fosche note a chi legger le sa: sempre si more. '\^

Mentre il metallo concavo percuote, voce funesta mi risuona al core ; del fato spiegar meglio si puote che con voce di bronzo il rio tenore.

Perch'io non speri mai riposo o pace, questo, che sembra in un timpano e tromba, mi sfida ognor contro all'età vorace.

E con que' colpi onde '1 metal rimbomba, affretta il corso al secolo fugace, e perché s'apra, ognor picchia alla tomba.

XIX

EGO SUM QUI SUM

Triplicata unità, trino indiviso son io che mi distinguo e son l'istesso; e mentre in tre persone io son impresso, io son tre, tre son uno, uno è diviso.

Son senza luogo in ogni luogo fiso, luogo mi comprende e son in esso; io sol sono ed il tutto ho sempre appresso, tutto veggio e in me sol godo e mi affiso.

Privo di estension, convien che mande di mia presenza in ogni parte il dono, ch'indivisibil si divide e spande;

e, senza qualità, son tutto buono, e, senza quantità, son tutto grande: io son chi seiìipre sono, io son chi sono.

CIRO 1)1 PERS XX

IL TERREMOTO

Deh, qual possente man con forze ignote il terreno a crollar si spesso riede? Non è chiuso vapor, come altri crede, sognato tridente il suol percuote. Certo, la terra si risente e scuote perché del peccator l'aggrava il piede, e i nostri corpi impaziente chiede per riempir le sue spelonche vote.

È linguaggio del ciel che ne riprende il turbo, il tuono, il fulmine, il baleno; or parla anco la terra in note orrende,

perché l'uom, ch'esser vuol tutto terreno, del cielo il parlar straniero intende, il parlar della terra intenda almeno.

XXI

PER UNA NIPOTINA DELL'AUTORE

la ciuale visse pochi giorni

Fortunata fanciulla, al ciel nascesti non alla terra, e non ti fu immatura l'ora fatai che dei tesor celesti e dell'eterno ben ti fé' sicura.

Tu breve il corso della morte avesti, che con lungo penare altri misura; la frale umanità poco piangesti, poco spirasti di quest'aria impura.

Chi solca il mar del mondo ogn'or aduna maggior peso di colpa, e '1 cammin torto sul tardi dell'età vie più s'imbruna. Viaggio avesti tu spedito e corto; navicella gentil fu la tua cuna, che ti sbarcò del paradiso al porto.

373

374 LIRICI MARINISTI

XXII

IN MORTE DI GUSTAVO ADOLFO

Qual da turbato eie! fulminea face, cui da gelido sen nube disserra, scende tonante a spaventar la terra, e dopo il colpo incenerita tace;

tal dal freddo aquilon lo Sveco audace vien ruinoso fulmine di guerra, che le moli superbe orrendo atterra, poi tra l'alte ruine estinto giace.

Dubbie ancor le vestigie avvien che stampi l'austriaca speme a tal cader risorta, stordita ai tuoni, abbarbagliata ai lampi.

Pugnai! feroci, intanto, e non riporta la vittoria nessun de' duo gran campi, che con Adolfo la vittoria è morta.

XXIII

CRISTINA DI SVEZIA IN ROMA

Del baltico Nettun l'algenti arene lasciando e gli astri ad Anfitrite ignoti, per sentier troppo, o Roma, un tempo noti, l'artica regnatrice a te sen viene.

Colma di sant'amor, di santa speme, quasi l'irriverenti orme de' goti venga per cancellar co' pie divoti, dell'avito furor nulla ritiene.

E se ben lungi da nemico orgoglio con umiltà pacifica s' inchina del successor di Pietro al sacro soglio;

pur, facendo de' cor nobil rapina, di Roma soggiogata in Campidoglio trionferà la gotica reina.

CIRO DI PERS 375

XXIV

CONTRO L'AMARE UNA BELLEZZA SOLA Ad Andrea Vallerò

Celeste dono è la beltà, che scende ad invaghir qua giù l'umane menti de' beni eterni, e a sollevarle al cielo; chiare faville accende ne' foschi cori e co' suoi raggi ardenti sgombra de' pigri affetti il lento gelo; sotto un leggiadro velo, vie più eh' all'occhio, all'intelletto scopre di lavoro divin mirabil opre.

Ma non sempre ella suol ne' regi tetti covar tra gli ostri e riccamente adorna sfidar le gemme in paragone e gli ori; che d'ameni boschetti spesso a l'ombra riposta anco soggiorna, e d'un prato ridente emula i fiori. Quivi ne' freschi umori d'un puro fonticel si specchia e lava, e co' fregi dell'erba i crini aggrava.

Fan di gemme inaspriti aurei monili, d'argentei scherzi variati manti, pompa non di beltà, ma di ricchezza; son degli avi gentili l'alte memorie e i celebrati vanti, fregi di nobiltà, non di bellezza: ch'ella per s'apprezza e si brama per tutto ove si vede, e cieco è quei ch'altra ragion ne chiede.

376 LIRICI MARINISTI

Ma cieco e stolto è quegli ancor che l'ama solo in un loco, e se la mira altrove o non la riconosce o non la cura. Chi la bellezza brama, la brama sempre in ogn'oggetto, e dove la scorge ivi d'unirsi a lei procura. Animata pittura,

all'è di Dio ritratto; io stimo un empio chi la vuol adorar solo in un tempio.

Quegli che non ha cor d'amar capace l'universal bellezza, ama e desia la bellezza di Filli o di Nigella; quindi non trova pace co' suoi meschini affetti ; erra e travia, mentre la luce vuol sol d'una stella, che se splende rubella a le sue voglie, infra gli orrori immensi ei non ha scorta al traviar de' sensi.

Sol una è la beltà che '1 divo lume in più corpi diffonde, e quasi Sole a molte stelle i raggi suoi comparte; end' è stolto costume di chi solo in un volto amar ne vuole con povero desio picciola parte. Volgi l'antiche carte e sovente vedrai lo stesso Giove in nuovi oggetti amar vaghezze nove.

Tu, saggio Andrea, che non restringi il core fra l'angustie d'un viso, e a' desir vasti una sola speranza ésca non fai ; per te non trova amore entro due sole luci ardor che basti, e i lacci d'un sol crin non sono assai. Quindi è che tu ben vai col libero p;nsier per varie forme de l'unica beltà tracciando l'orme.

CIRO DI PERS 377

Quinci' è ch'or la capanna ed or la reggia ti vede amante a vagheggiare intento una sola bellezza in molte belle; creder già ch'io deggia dannare il tuo consiglio; anch'io mi pento che non presi a cercar altre facelle, tosto che le due stelle, che m'allettaron pria, mostrarsi avverse e fero orgoglio il mio sperar disperse.

Sciocco Tantalo er'io, che 'n mezzo l'acque dura sete soffria, perché volea sol di fonte lontana onda interdetta. La beltà che mi piacque, mentre mal saggio fui, solo in Nicea, or dovunque la miro ivi m'alletta. Due begli occhi ha Lisetta ed ha Glori un bel sen di vivi avori: di Lisetta amo gli occhi e '1 sen di Glori.

XXV

I VIAGGI SULLE GALEE DI MALTA

Qui dove, loia, in grembo al mar sen corre dal mal gradito amante fuggitiva Aretusa, d'orme penose imprimo il bel lido sicano, col pensier misurando quanto mar, quanto cielo quanta terra fraposta mi disgiunge da quelle ch'io solca chiamar de l'alma mia parti migliori, di cui runa sei tu, l'altra è Nicea. E penso ch'ora a punto

378 LIRICI MARINISTI

l'intero suo cammin fornito ha il "sole,

da ch'io lasciai partendo

cotesti ameni colli, che sovente

imparano a fiorire

da quelle belle guance,

e son forse ancor caldi

dell'amoroso ardor di que' begli occhi;

ed ho in spazio si breve

tanti lidi trascorsi,

che de l'itaco duce

stimo men lunghi i peregrini errori.

E se d'udir t'aggrada

quel che feci pur dianzi

per le contrade eoe lungo camino

sui nostri armati pini,

che contra l'elespontico tiranno

spiegan candida croce

in purpureo vessillo,

tei narrerò; della mia rozza musa

tu gli accenti improvisi intanto escusa.

Già mezzo avea trascorso della fera nemea l'adusto segno il portator del lume, allor che i bassi lidi di Melita lasciando con cinque audaci legni ch'hanno d'armi e d'eroi gravido il seno, venimmo a queste arene dove l'antica Siracusa ancora con rinovate moli contro il tempo contrasta; e di qua poi rivolte al rinascente Sol l'ardite prore, fidammo i lini al vaneggiar de l'aure, e dopo lunghi spazi di vastissimo mare,

CIRO DI PERS 379

mentre spuntava in ciel la quinta aurora,

sorger si vide a fronte

di Berenice il lido,

che di cinque cittadi, onde famosa

fu Pentapoli un tempo, appar primiera.

Quindi non lungi infra i cerulei flutti

chetamente confonde

l'oblivioso Lete

i suoi tartarei umori.

Si vide poscia il loco

dove era Arsinoe e dove

Tolomaide risorse,

dove Apollonia fu, dove Cirene,

che dell'alte ruine

sparso da lungi ancor biancheggia il suolo.

Già fùr città superbe, or sasso a pena

v'è eh 'a sasso sovrasti:

cosi fragili sono incontra il tempo

l'opere de' mortali.

Non have alcun albergo

che sembri ad uso umano

quel barbaro terreno ; e pur è tutto

dagli uomini abitato,

i quai non so s 'io debba

infelici chiamare o pur beati ;

cosi mal si misura

l'altrui felicità coi propri affetti.

Ma se beati furo

quei del mondo novello

primieri abitatori,

perché non doverò chiamar beati

questi ancora, che sono

tanto a lor somiglianti?

Quello che piace lece,

quel che diletta è onesto;

re, ciascun a se stesso

380 LIRICI MARINISTI

obbedisce e comanda,

tien, fuor che la gregge, altri soggetti.

Quindi essi tranno il cibo,

qualor non glielo dan le scosse palme;

la clemenza dell'aria,

over l'uso più tosto

toglie loro il bisogno

d'ingombrar con le vesti

l'esercitate membra,

ed hanno al caldo, al gelo

letto il suol, tetto il cielo.

Nessun di vano onore

rispettoso ritegno

pon mèta ai lor diletti ;

nessuna avara brama

le lor menti molesta;

poiché '1 biondo metallo,

d'ogni volere espugnator possente,

solo fin de' mortali e sola cura,

appo lor è si vile

che in nessun pregio, in nessun uso s'have.

Son tai gli abitatori della bella Cirene, ed anco appresso di Marmarica tutta, che tutta noi scorremmo con le temute prore per insino a 1' Egitto, presso ai cui verdi lidi il Nilo, peregrin del paradiso, stanco dai lunghi errori, riposa in grembo a Teti, che non come vassallo ma come ospite suo l'onora, e pare che turbar non ardisca co' salsi flutti i di lui dolci umori. Oui nel lido si vede

CIRO DI PERS 381

la famosa cittade

cui die l'essere e '! nome

il Macedone invitto.

Quindi non lungi un giorno

nell'apparir della novella aurora:

Ecco s'udì gridare, ecco una squadra

di veleggianti abeti.

Destossi a quelle voci

di ciascuno guerriero

e la speme e l'ardire,

e con veloce moto

spingendo i remi e dando in preda a l'aure

da l'alte antenne le più larghe vele,

s'affrettava il camino.

Già già distinta appare

di torreggianti pini

la vasta forma, e da l'eccelse poppe

scorgonsi tremolar le tracie lune,

onde certo ciascuno

che son nemici : All'armi, all'armi grida,

e di ferrato usbergo

il petto cinge, e grava

d'elmo pesante l'onorata fronte,

e la spada fedel s'acconcia al fianco,

tenendo ne la destra

apparecchiate le fulminee canne.

Ed ecco, ecco d'intorno

freme il ciel, mugge il mar, rimbomba il lido,

mentre i bronzi tonanti

con orridi fragori

replican quinci e quindi

gli spaventosi colpi.

Fugge timido il giorno

tra densa nube ascoso

che celando l'orror l'orrore accresce;

ne' più riposti fondi

382 LIRICI MARINISTI

vanno a tuffarsi le cerulee ninfe,

e timido Nettuno

fin oltre il varco d' Elle

gli squaminosi destrier fuggendo affretta.

Sti'ingesi intanto la feroce pugna,

e de' nostri l'ardire

ogni vantaggio de' nemici adegua,

in guisa tal, che i dieci

cedono a' cinque, ed hanno

ogni speme riposta

nella vicinità del porto amico.

E già l'un d'essi in mezzo agli altri, a fronte

della città nemica,

nostra preda rimane;

gli altri fìdan lo scampo

ai lini fuggitivi.

Cresciuto il vento intanto

disperse in noi la speme

de la vittoria intera,

e la lor favori timida fuga.

Allor quindi partendo,

le vincitrici antenne

volgemmo inver' Boote;

corse il Sol tre volte,

di dov'ha per cuna aurato il Gange

fin dove ha per tomba aurato il Tago,

ch'accostammo le prore

a quelle un tempo si felici piagge,

che de la dea più bella

furon delizia e cura.

Or soffrendo l'impero

di barbaro tiranno

sono più che ad Amor soggette a Marte;

pur mostran ne l'aspetto

placida amenità, ch'alletta il guardo

a rimirar colà fiorito un prato.

CIRO DI l'ERS 383

qua verdeggiante un bosco,

quinci un'aprica collinetta e quindi

una riposta valle,

in cui serpeggia un fiumicel lascivo,

che 'n fra smeraldi teneri confonde

i susurranti suoi fugaci argenti,

che sembran dire: Anco qui regna Amore.

Qui Pafo, o pur di Pafo

si vider le vestigie e d'Amatunta;

qui Curio s'additò, qui Salamina.

Drizzati poscia altrove i legni erranti, fummo di Siria a quei beati lidi, che di sante vestigie il re del cielo impresse già, mentre l'umane colpe trasse seco a morir, fatto mortale. Qui del Tabor, qui del Sion le cime, qui del sacro Oliveto e del Carmelo inchinai riverente, e fra me stesso piansi di sdegno che per nostro scorno calchi con pie profan barbara gente quei lochi santi, e par che ciò non caglia a quei che sovra il popolo fedele tengon gli scettri, e poi ciascuno a gara vuole con vano ambizioso nome dirsi re di Sion, dove non hanno se non chi prende i loro fasti a scherno ! Nelle fenicie piagge dapoi vidi Sidone e vidi Tiro, che già pescar nel margine vicino le pregiate conchiglie onde il manto tingean gli antichi regi. A le falde del Libano frondoso Giulia felice e Tripoli si scorse, indi Seleucia di Pieria, ed indi Alessandria minore entro l'issico seno;

384 LIRICI MARINISTI

di dove poi prendendo

a tergo il Sol nascente

si scorse lungo la Cilizia e lungo

la Panfilia vicina;

e poi di Licia e poi di Caria i lidi

si costeggiar. Quivi si prese un legno

degl'infidi nemici,

di ricche merci onusto;

ed altri due pur dianzi,

vinti sol dal timore,

fatti eran nostra preda.

Quivi deserto un porto,

il quale un di n'accolse,

alla vista n'offerse

d'Alicarnasso le ruine sparte,

e de la vasta mole

onde Artemisia volle

del marito onorar le nobil ossa.

Sono i marmi più fini

troppo fragili basi

in cui si stabilisca il fasto umano:

quella superba machina, che valse

stancar cinque scarpelli

di Grecia i più famosi,

or giace si, eh 'a pena

può dirsi : Ella fu quivi ;

che tra l'arena e l'erba

è lo stesso sepolcro ancor sepolto.

Poscia Rodi si vide, che già fu nostra sede; or vi s'annida il nemico ottomano, non so con qual maggiore scorno, o di noi ch'alia fatale e dura necessità cedemmo, o pur di chi potea, di chi doveva darci soccorso, e da sicura parte

CIRO DI PERS 385

neghittoso mirava

de' campioni di Cristo il gran periglio,

over commosso da privati sdegni

l'arme irritava ambiziose, ingiuste,

contro quei che la fede avean comune.

S'andò poscia a Carfati, ed indi a Creta,

Creta, patria di Giove,

per ben cento città superba un tempo;

di si venne ad Epla ed a Citerà,

che Venere nascente

prima raccolse dall'ondose spume.

Malea rimase a destra

ed i tenari lidi

si videro in passando; e Sfragia apparse,

Corifagio e Metone

s'additaron vicini, e non lontani

i colli di Messenia, in verso il polo.

L'isola scorsa, che di Prima ha il nome,

n'accolsero le Strofade, che furo

già nido infame de l'immonde Arpie.

Indi Zacinto, ed indi

ne' lidi cefaleni un ampio poi'to;

e perché Circio irato,

tiranneggiando d'Anfitrite il regno,

tutte commosse avea l'ondose moli,

qui ci fermammo il terzo sole e '1 quarto,

sin che 'I padre Nettuno,

sbandite le tempeste e le procelle,

col tridente appianò l'umide vie.

Traendo allor dall'arenoso fondo

l'ancora adunca per gli aperti campi

della salata Teti,

trascorremmo di novo

sin che riconoscemmo amico il suolo

ne le Calabre spiagge; indi passando

il periglioso varco

Lirici marinisti

386 LIRICI MARINISTI

dove il roco latrato

s'ode di Scilla infame, e di Cariddi

s'aprono le voragini profonde,

entrammo ove a le falde di Peloro

de la bella Messana

con ampio giro si dilata il porto,

che da moli superbe intorno cinto

toglie all'antiche meraviglie il vanto.

Corsero obedìenti

e in ordin lungo s' adatterò i marmi

ai regi cenni tuoi, gran Filiberto,

della cui stirpe al nobil scettro antico

inchinan l'Alpi le superbe fronti.

Dopo qualche dimora di partendo, la felice piaggia di Trinacria si scorse, da quella parte che del Sol nascente esposta giace al redivivo raggio. Qui vidi Etna fumante dal cavernoso seno vomitar, esalar fiamme e facelle; maraviglioso mostro in cui si scorge l'ardor unito al gelo, che di mezzo alle nevi sorgon gl'incendi e le solfuree vampe lambendo van le gelide pruine. Trascorso poi de' catanesi il suolo e di Megara, fummo a questi un tempo si felici lidi di Siracusa, e poscia ove Pachino frange i cerulei flutti; e lasciatolo a tergo, di Malta entrammo il sospirato porto, mèta de' lunghi e travagliosi errori.

In cotal guisa errante peregrino cerco fuggir dall'amorose cure;

CIRO UI l'EKS 387

ma sotto ciel diverso

provo i medesimi influssi: ad or ad ora,

con dura rimembranza,

Nicea mi torna in mente,

e del suo nome impresso

d'Asia e di Libia infra i deserti lidi

più d'un barbaro scoglio insuperbisce,

e vidi l'onda a gara

correre per baciar si belle note.

Ma già con rauco suono

le strepitose trombe

ne invitano al partir, l'aure seconde

chiaman le vele; anch'io

men vo co' gli altri; addio!

XXVI

L' ITALIA A\'\'ILITA A inonsi.scnor Ciherardo Saracini

O di possente impero inclita sede, Italia, un tempo e gloriosa e forte, qual con dure vicende abietta sorte servii catena or ti consente al piede?

Per opra già del tuo valor guerriero cadde lacera al suol l'alta Cartago, e con l'arene tributarie il Tago i margini indorò del Tebro altero.

Portò l'Eufrate ad Anfìtrite in seno di pianto prigionier torbide l'onde, e mormorò tra soggiogate sponde de' latini trionfi il vinto Reno.

E s' abbattuto ogn' altro incontro ostile ai propri danni i tuoi furori armasti, furo i tuoi vizi e generosi e vasti e la tua sceleraggine non vile.

388 LIRICI MARINISTI

Che duo mal atti a sopportarsi pari e men disposti a rimaner secondi, l'empia discordia de' tartarei fondi trassero a funestar le terre e i mari.

Fervidi fùr d'ambizioso sdegno gli emazi campi, del cognato sangue rigarsi l'aste, e della patria esangue su le ruine fabbricossi il regno.

Se '1 vinto o '1 vincitor con più ragione degli arnesi guerrier vestisse il pondo, fu tra doppia sentenza ambiguo il mondo, giudici quinci i dèi, quindi Catone.

Ah, che più di magnanimo e di grande nulla ritieni, effeminata e molle! Gli olivi ond'altri il crin cerchiar ti volle, furon legami e ti parean ghirlande.

Quindi, fra gli ozi d'una ingrata pace comprata a prezzo d'un umil servaggio, obliato il valor, spento il coraggio, di barbaro voler fusti seguace.

Ed or se i sonni tuoi rompe talvolta tromba di Marte, impallidisci e tremi, e neghittosa infra i perigli estremi agli altrui scettri ogni tua speme hai volta.

E s' alcun figlio tuo d'ardir s'accinge, per l'altrui signoria solo contende e sol la propria servitù difende: gettisi il brando che si mal si stringe !

Sotto altro nome e da diversa parte s'avvien che torni un Annibal novello, dove un Fabio sarà, dove un Marcello, e dove un Scipion, folgor di Marte?

Minacci ampia vorago ampie ruine, e ciò che più s'apprezza avida attenda; Curzio s'arretri, e 'n vece sua vi scenda sparso di molle odor Batillo o Frine.

CIRO DI PERS 389

Erri la destra, e gastigar la voglia Muzio moderno; avralla forse il foco? Anzi pure il Sol vedralla un poco, se non coperta d'odorata spoglia.

S'opponga il Tebro tumido e sonante a Clelia, e rivedrem l'esempio antico, non già se d'uopo fìa torsi al nemico, ma ben se d'uopo fia darsi a l'amante.

Infra i duri novali esercitata di Cincinnato la virtù robusta più non si piega; alma di vizi onusta torpe fra i lussi e detta vien beata.

Di Curzio e di Fabricio oggi s'onora l'altera povertà con poca laude; sol ricchezza s'ammira e '! volgo applaude al tradimento ancor, s'altri l'indora.

Oggi chi pregio vuol d'alma gentile spieghi fra i lussi altere pompe; a lui Dedalo sudi a far palagi in cui non vi sia del padron cosa più vile.

Qui cosi terso il pavimento splenda che il piede di calcarlo abbia rispetto, e l'oro qui, sotto il superbo tetto, d'un pallido fulgor le travi accenda.

Veggansi qui da le pareti illustri di serico lavor drappi pendenti, ove su l'ostro co' filati argenti scherzin degli aghi le vigilie industri.

La mendace di Rodi arte vetusta qui con mute bugie schernisca il vero, e sia vii prezzo un patrimonio intero de l'ombre vane d'una tela angusta.

S'ornin le mense e Bacco in tazze aurate sposi l'alpino gel : turba di cuochi sudi ad un sol palato e in vari fuochi stridano l'esche in più d'un clima nate.

39f> LIRICI MARINISTI

Aliti nabatei bevan le piume da la pigrizia acconce, ove gl'impetre i tardi sonni un molle suon di cetre, per lui splenda il matutino lume.

Sorga e ad uso del crin grande apparecchio trovi apprestato, e qual novella sposa l'unga, il terga, il gastighi e senza posa il pettine e la man stanchi e lo specchio.

Prenda il vestito e sia di foggia strana, marchio di servitù ; gentil lavoro gì' indori il lembo e serpeggiata d'oro cinga la spada, inutil pompa e vana.

Greggia di servi a solo fasto eletti, pari al vestir di ricchi fregi adorno, arresti il passo al di lui carro intorno, qual volta avvien ch'ei fastidisca i tetti.

Quinci prenda ad ambir titoli vani, quindi a mercar con simulati ardori agli altrui letti ingiuriosi amori, quindi a sfamar mille appetiti insani.

Ma s'anco sia che bellicose lodi fra duri studi d'usurpar sia vago, moderi il freno ad un destrier del Tago e lo spinga e '1 raggiri in vari modi.

Su questo e di gran piume e di grand 'ori superbo stringa in piazza asta dorata, trastullo al volgo; e la sua bella amata plaudendo esalti i non sanguigni orrori.

Tali sono, ed è vero, oggi quei ch'hanno fra noi più pregio, ond'a ragion mi sdegno. Deh, turbi ornai questo vii ozio indegno straniero Marte, e sia beato il danno!

Gherardo, a te cui de l'aonio monte cede i musici imperi il biondo dio, miei carmi aspersi di quel fele invio ond' amaro ha talor Permesso il fonte;

CIRO DI PERS 391

acciò tu di gran corde armi la lira, da trarne forti e generosi accenti, atti a destar ne l'avvilite genti nobil vergogna e vie più nobil ira.

XXVII

LE CALAMITÀ D'ITALL-\

Chi mi toglie a me stesso? qual novello furor m'agita il petto? chi mi rapisce? Io seguo ove mi traggi, io seguo, o divo Apollo, o vuoi per l'erte cime del tessalico Pindo, o su l'amene balze del beato Elicona, o lungo i puri gorghi dell'arcado Ippocrenc, o presso i sacri fonti di Permesso, Aganippe, Ascra e Libetro.

Ecco la cetra a cui marito i carmi, che d'ogni legge sciolti van con libero piede a palesar d'un cor libero i sensi.

O de ridalie selve temuto nume, s'io rivolgo altrove lo stil eh 'a te sacrai, che d'altro a pena seppe mai risuonar che de' tuoi vanti e di colei del cui bel ciglio altero formasti l'arco a saettarmi il petto, tu mi perdona ed ella; le mie querule note non parleran d'amore. Lungi da me, deh, lungi

392 LIRICI MARINISTI

cosi tenero affetto;

un'orrida pietà mista di sdegno

tempri le corde al mio canoro legno.

Veggo da' fonti uscite del torbido Acheronte errar crinite d'angui per l'italico del le Furie ultrici.

L'una, pallida, asciutta, l'ossa a pena ricopre con pelle adusta, e le canine fauci con radici satolla, ed a se stessa i morsi non perdona, e falce orrida stringe con cui disperde l'immatura mèsse.

L'altra, tutta stillante di caldo sangue, il nudo ferro impugna, e lo sdegno ha negli occhi, gli oltraggi nella lingua, nella fronte il disprezzo, in man la morte.

La terza atro veneno vomita da la gola,

ch'ovunque passa impallidisce il suolo e d'orrido squallor l'aere ingombra; e di vive ceraste

scuote una sferza, ai cui tremendi fischi sbigottisce l'ardire, ed ella intanto con orribil trionfo sui monti de' cadaveri passeggia.

Perché il timor de' numi ìmpari ogni mortale, questo drappel feroce quasi in un'ampia scena negl'italici campi fa di se stesso portentosa mostra. Chi può con occhio asciutto a spettacol si fiero

CIRO DI l'ERS 393

rigido starsi, ha ben ricinto il core del più duro metallo, o chiude in seno viscere adamantine.

Oh in quante strane guise languir si mira il villanel digiuno, chino in su quella terra che menti le promesse e la speme ingannò de l'anno intero, chiederle almen la tomba, se gli negò la mensa! Altri alle sorde porte dell'avaro crudele

sospira indarno e le preghiere vane termina con la vita. Altri, di strani cibi pur tocchi finora dai ferini palati empiendo l'alvo, per la morte fuggir la morte affretta. Altri, mentre pur trova chi con tarda pietate la sospirata Cerere gli porge, entro gli avidi morsi lascia la vita. Altri, de l'empia parca scorto il fatale irreparabil colpo, cadavere spirante porta se stesso a la vorace tomba.

Con qual orror s'ascolta, con qual orror si mira, da furor inuman barbara gente spinta al sangue, a le prede, mischiar stragi e ruine, e per lieve cagione l'armi dovute a vendicar gli oltraggi del fero usurpator dell'Oriente volger contro a se stessi quei che del vero Dio vantan la legge!

394 LIRICI MARINISTI

Duro a veder ne' campi, ove già lieto il mietitor solca di Cerere maturi

raccorre i doni e l'animate biade, mieter la morte ed ingrassar col sangue, spaventosa cultrice, le zolle abbandonate.

Duro a veder l'ampie città, le Ville, fatte misera preda

del vincitore ingordo ; indi gli avanzi dati alle fiamme e le delizie amene de' bei palagi, antico sudor degli avi, in breve ora consunti; e le sacre a Lieo vigne feconde potate in strane guise da l'indiscreto ferro, si che mai più non chieda da lor, se non indarno, o frondi il maggio o grappoli l'autunno.

Duro a veder su' geniali letti, prima di sangue aspersi, le caste mogli violarsi ; e duro veder l'amate figlie immature a le nozze fatte ludibrio e scherno più che diletto di sfrenate voglie; e per ischerzo barbaro, inumano, a pena nati i pargoletti infanti macchiar le cune d'innocente sangue.

Ma più duro a veder ne' sacri templi, vano refugio ai miseri, trattarsi i misfatti più gravi, e la votata al cielo sacra verginità ne' sacri chiostri a le celesti spose con sacrileghi amori

CIRO DI PERS

395

rapire, e dispogliando

irli altari istessi, dagli stessi numi

non astener le scelerate destre.

Ahi, qual dall'altra parte miserabil spettacolo mi tragge, ove la peste orrenda diserta le cittadi? A cento a cento cadon gli egri mortali d'ogni età, d'ogni sesso e d'ogni grado, cui nulla giova l'arte del buon vecchio di Coo, con quante man perita svelle radici in Ponto, e con quanti raccoglie ricchi sudor dagli arbori di Saba; anzi il medico stesso cade nell'opra e i propri studi accusa, si che ognun fatto accorto che nell'altrui soccorso è il proprio danno, fugge, ma spesso indarno, chT prevenuta è dal malor la fuga.

Non v' è nodo di fede che con l'amico infermo stringa l'amico, o col padrone il servo; anzi all'estremo passo, privo ognun di conforto, non ha l'antico padre pur un de' figli a cui dia gli ultimi ricordi, o che gli serri con gli estremi uffizi i moribondi lumi, e la canuta madre cerca indarno con gli occhi, che dèe chiuder per sempre, la sua diletta prole; ma si fugge, s'aborre

390 LIRICI MARINISTI

dal figlio il genitore,

dal genitore il figlio;

e da la casta moglie

s'oblia l'ardor pudico

verso il caro marito,

parte già di se stessa.

Solo spavento, invece

de' già si dolci affetti

di carità, d'amore,

entro le menti sbigottite alberga.

Son muti i fòri e sono l'officine oziose, ogn'arte abbandonata; la mèsse già matura entro i campi negletti l'agricoltore oblia; e sui tralci pendenti del dolce ismenio nume lascia invecchiare inutilmente i doni ; lascia senza custode andar la greggia errando, inerme preda ai fieri lupi ingordi. Di ragunar tesori la sollecita cura

oblia l'avaro; e l'iracondo oblia gli antichi sdegni, e degli amati lumi non apprezza il lascivo i dolci sguardi, rivolgendo i sospiri a miglior uso. ■^ Per le vie già frequenti e per le piazze

già strepitose alto silenzio intorno e strana solitudine s'ammira, se non se 'n quanto ad or ad or si scorge senza pompa funebre portarsi in lunghe schiere a sepellir gli estinti. Sceglie le tombe il caso, onde ciascuno

CIRO DI PKRS 397

fra ceneri straniere

nel sepolcro non suo confuso giace;

ma gran parte insepolta

ingombra i campi intorno,

o di rapido fiume

si raccomanda a l'onde,

ésca al pesce, alla fera,

se i cadaveri infetti

non abborrisce ancor la fera e '1 pesce.

pur con una sola

lacrima s'accompagna

il folto stuol de' miseri defonti,

poscia che lo spavento

ha nelle luci istupidito il pianto.

O già si bella Italia e si felice, ah quanto, oimè, da quella diversa sei ! da quella che solca con dilettosa invidia vagheggiarsi dai popoli stranieri ! D'ogni miseria colma, spettacolo doglioso a l'altrui vista t'offri, a mostrar ch'in terra ogni felicità passa fugace.

Santi numi del cielo, ch'onnipotenti e giusti con providenza eterna le vicende ordinate de le cose mortali, io non mi volgo a voi ; so ben che i nostri errori son gravi si ch'in paragon leggère s'han da stimar le pene.

Ma ben mi volgo a voi, numi terreni, a voi che de l'Europa il fren reggete, e che dai seggi eccelsi date le leggi al popolo ch'adora

39^ LIRICI MARINISTI

con vero culto deità non falsa.

Poscia che i vostri immoderati affetti

e quella poco giusta arte d'impero,

che voi chiamar solete

ragion di Stato e gelosia di regno,

sono, a chi il dritto mira,

in gran parte cagion di tanti mali.

Tu che sostieni il glorioso scettro dell'impero roinan, tu che correggi con la destra possente la gran Germania, al cui valor sovrano serva è fortuna, obbediente il fato; tu che a tanti rubelli depor facesti il pertinace orgoglio, tu che i santi disdegni rivolti avevi a fulminar sugli empi, che con rito profano tolgon l'antico culto ai sacri altari; perché tronchi nel mezzo un'opra si magnanima e si giusta? Qua! di ministro infido consiglio interessato ti fa stimar più degno de l'ire tue sul Mincio un tuo vassallo, che fuor che '1 regno avito, per legge a lui dovuto e per natura, altro non chiede? E se dimostra in questo forse minor la riverenza in parte che a te si deve, è tanta però la colpa, che mandar convegna cento barbare squadre nei campi ausoni a comperar la morte a prezzo di ben mille stragi, ruine, violenze, furti, rapine, incendi, sacrilegi e stupri? e (quel che fa più giusti

CIRO DI l'ERS 399

miei gridi) a seminar gli empi veneni

de l'idra di Lutero e di Calvino,

onde s'infetti (ah, noi permetta il cielo!)

la bella Italia, eh' è maestra e madre

de la relig'ion verace e santa?

E poi, se '1 turco infido

ti spezza la corona

degli ungarici regni in su la fronte,

e per ne ritien la miglior parte,

non par che te ne curi !

In contro lui t'adira;

è colà degno campo

a tua possanza, a tua fortuna augusta.

Che tardi a vendicar gli antichi oltraggi?

Non son, non son giganti

i traci, no. San paventar la morte

anch'essi, e san fuggendo

a vergognose piaghe esporre il tergo.

Tu che a la Francia imperi, invitto re de' bellicosi Galli; tu cui fin nella culla fanciulleschi trastulli furo i guerrieri arnesi, nutrito all'ombra de' paterni allori, da la cui forte destra se piantate non son, fiorir non sanno le marziali palme; ben da giust' ira spinto l'armi vittoriose

finor movesti, o se dall'empie tane scacci il rubello o i profanati templi ritorni al vero culto o se soccorri l'amico oppresso. Ah, qui l'impeto affrena; d' italici acquisti pensa a glorie, minori del vasto animo tuo. Volgi la mente

400 LIRICI MARINISTI

de' tuoi grand'avi alle famose imprese;

essi per simil opre

non salir de la gloria all'erte cime,

ma perché su l'Oronte e sul Giordano

trofei piantàro e gloriosi e santi,

e di palme idumee cinser le chiome.

t'invitan gli esempi,

ti chiaman quei generosi spirti

che nutri in sen, di nobil fama ingordi.

Non sa sperar altronde

che dal franco valor giusta vendetta

da tanti oltraggi e tanti

la sacra tomba. A servitù profana

tolta due volte l'ha gallico ardire:

or serba a la tua fronte il terzo alloro.

Vanne e 'n quel sacro marmo

con la tua spada intaglia

il titolo di giusto,

se poscia vuoi che si registri in cielo.

,Tu, gran monarca ispano, che di cento corone gravi la fronte, al cui possente scettro più d'un mondo s'inchina, che, se dal ciel scendesse teco a partir l'impero della mole terrena il sommo Giove, più da lasciar che da pigliare avresti ; tu, che quando il Sol nasce e quando more, a lui presti la cuna, a lui la tomba; a che dar loco a cosi bassa cura, fra i tuoi vasti pensieri, di creder che t'importi eh 'un più eh 'un altro regga ne' lombardi confin poche castella, si che tutti i tuoi fulmini apparecchi contro il signor di Manto

CIRO DI PERS 401

cui tu dovresti a pena degnar de' tuoi magnanimi disdegni? Almen, se non ti preme che il Belga ribellante schernisca già tant'anni le tue giust'ire, a l'Africa ti volgi. Ella ti siede a fronte pur lungo tratto e teco antichi odi professa e spesso ardisce mandar pochi corsari a depredar de' regni tuoi le sponde. Se colà volgi l'armi, i tuoi guerrieri allori ne la terra e nel cielo germoglieran frutti di gloria eterni. Tu, veneto Leon, tu che raffreni con giusto impero i flutti d'Adria, tu che fuggendo delle spade barbariche l'oltraggio, con pacifiche leggi sovra l'onde incostanti stabil sede fondasti a regno eterno, ov'han fido ricovro i grandi avanzi della famosa libertà latina; deponi omai, deponi l'antica gelosia. Forse non hanno i possenti vicini tanto le voglie ingorde

d'aggrandir co' tuoi danni; o se pur l'hanno, il ciel eh' ha di te cura, renderà vani i loro ingiusti sforzi. Mentre esser puoi delle tragedie altrui spettator, non ti caglia entrar in scena a recitar la parte; riserba i tuoi tesori a miglior uso, fin che tramonti l'ottomana luna.

Lirici inarinisti 26

402 LIRICI MARINISTI

che dal sublime punto

le rintuzzate corna

ornai piega declive inver' l'occaso;

allor ne' greci regni

offriransi al tuo crin ben cento allori.

Intanto, già che brama

teco l'aquila augusta

stringer nodo di pace,

tu '1 dèi gradir, che forse

vuol ragion che congiunta

sia col re delle fere

la regina del popolo volante.

Tu, regnator dell'Alpi, che quinci stendi nell'Italia e quindi l'antico scettro ne la Francia, ah tanto non t'alletti la pompa de' paterni trofei, che non raffreni gli spiriti magnanimi e feroci ch'altro apprezzar non sanno che bellicose palme ! Deh, lascia che riposi, dopo tanti travagli, all'ombra sospirata di pacifiche olive il tuo popol divoto, finché più nobil tromba a ricalcar ti chiami l'orme de' tuoi grand'avi in Oriente.

Ma tu, del Vatican pastor sublime, padre comun che premi il trono santo che più d'ogni altro in terra al ciel s'appressa, so ben ch'ogni tua cura rivolgi all'util nostro; so ben che i tuoi pensieri altro oggetto non hanno che '1 servigio di lui, che tra' mortali

CIRO DI l'ERS

403

in sua vece t'ha posto;

e so che l'api tue,

per fabricar favi di pace in terra,

favi di gloria in cielo,

entro i prati fioriti

de le potenze umane

cercan diversi fiori,

volan solo ai gigli,

coni 'altri pensa. Cosi il cielo ascolti

i santi voti tuoi, si che tu scorga

la tua diletta greggia,

sommerso in Lete ogni privato sdegno,

passar con voglie unite

nell'Asia a racquistar gli antichi ovili,

e l'abbattuta croce

a raddrizzar sul Tauro e sul Carmelo. Arresta, o cetra, i carmi;

troppo lungo è '1 mio canto; io qui t'appendo,

non come pria d'un verde mirto ai rami,

ma d'un secco cipresso,

per non toccarti fin che non si mostri

il cielo udir placato i voti nostri.

XXVI li

LA PREDESTINAZIONE

O muse, o voi ch'ove '1 Castalio inonda bever torbidi umori a sdegno avete, ma del sacro Giordan lungo la sponda v'è diletto appagar più nobil sete;

datemi note ad abbassar possenti l'orgoglio ond'uomo in suo voler si fida, e si crede appressar gli astri lucenti se sua cieca ragion prende per guida.

404 LIRICI MARINISTI

Ah, che gli occhi deirahiia adombra a l'uomo caliginoso orror di nebbia inferna; fé' che, la destra all'interdetto pomo stendendo, offese la giustizia eterna.

Quinci da false imagini di bene deluso, ognor va d'uno in altro errore, pur in mente un sol pensier gli viene che l'inviti a calcar strada migliore.

forza ha d'eseguir quanto comanda la sacra legge del verace nume, se divino favor dal ciel non manda di grazia in lui non meritato lume.

Allor col proprio arbitrio al ben ch'intende, e volontario e libero si move; allor per l'erta faticosa ascende, che sono a sciolto pie facili prove;

allor declina i precipizi, allora fugge i delitti infra i diletti ascosi ; non han per lui sirene arte canora, non han per lui vaghezza ostri pomposi.

Tutto in virtù di quell'interna aita, eh 'a suo piacere il gran motor dispensa, dagl'influssi di lui l'anima ha vita, egli la pasce ad invisibil mensa.

Nulla abbiam che sia nostro; il vanto cessi d'un retto oprar, d'una costante fede; diasi sol lode a Dio; da lui concessi tai doni son, merto alcun precede.

L'alto voler di Dio, prima che l'ali spiegasse il tempo a infaticabil volo, avea descritto entro gli eterni annali gli eletti ad abitar la sovra il polo.

A questi ei preparò gli empirei seggi, a quesù agevolò gli aspri sentieri ; tu che ti fidi in tuo poter, vaneggi ; giunger senza scorta indarno speri.

CIRO D! PERS 405

Ben ha folle pensier chi si promette più di che di Dio. Fidiamci in Lui, e stimiam libertà ciò ch'ei commette pronti eseguir, se troviam forze in nui.

Dannasi l'empio: è di giustizia effetto. Salvasi il giusto: è di clemenza dono. Questo è da diva man guidato e retto, quei lasciato a se stesso in abbandono.

Non viene a me, non viene alcun, se tratto non è dal Padre mio. Prestisi fede alle voci del vero: alcun affatto mai non perdei di quei ch'egli mi diede.

Si disse il Verbo. È temeraria inchiesta del consiglio divin cercar ragione, perché quella a tragga e lasci questa alma cader ne l'infernal prigione.

D'infinito saper scarsa misura son pochi raggi d'intelletto umano. Quanti a noi la sensibile natura secreti asconde, e '1 ricercarli è vano!

Ei, che del eie! le stelle, ei che l'arene numerate ha del mar, solo comprende perché patisce l'un dovute pene, e l'altro a premi non dovuti ascende.

Ma non quinci al peccar porgan licenza sciocchi argomenti, e dica alcun: L'abisso o '1 ciel m'attende, cangiar sentenza puossi di quel ch'eternamente è fisso.

Perché, duro a me stesso, ognor co' prieghi inutilmente ho da stancar gli altari, se '1 decreto del ciel non fia ch'io pieghi, quando a me pene o premi egli prepari ?

Dunque, fia meglio a' lieti scherzi intento passar con Bacco e con Ciprigna il giorno, e '1 fugace piacer stringer contento, di tempestive rose il crine adorno.

4o6 LIRICI MARINISTI

Stolto, non t'ingannar! Ciascun l'inferno col suo voler, col suo poter s'acquista; e la colpa onde merchi il danno eterno destinata non è, ma sol prevista.

Ma per salire al ciel non solo i fini, ma i mezzi ancor son preparati ; a Dio sol ne guida un sentier; mentre il cammini, forse puoi dir: Son degli eletti anch'io.

Ma se per altra via t'inoltri, oh quanto hai ragion di temere! e 'n fra i timori d'un danno eterno, ancor ti darai vanto di goder liete mense e lieti amori?

Amareggiati e miseri contenti, che dalla via del ciel tranno in disparte ! Deh, stiam quanto si puote al cielo intenti, grazie rendendo a chi '1 poter comparici

Di divina rugiada il seno asperso ne' dotti fogli suoi cosi ragiona, a le bestemmie di Pelagio avverso, il saggio, il santo, ond'è famosa Ippona.

X

GIUSEPPE BATTISTA

I

GLI OCCHI BELLI

Esca dalla sua cuna e goda il giorno di ricondur per suo fanale il sole; pieghi l'ale la notte ed apra intorno tremole faci in su l'eterea mole;

de' vaghi rai fra la minuta prole fregi Dittinna il luminoso corno; che costei tutto il bello adunar suole negli occhi suoi, d'ogni splendore a scorno.

Oh qual hanno due luci in valore! Talora l'apre ed ha le Grazie ancelle, talor le chiude ed ha legato Amore.

Le fisa al mare e '1 mar non ha procelle, l'abbassa al suolo e '1 suol produce il fiore, l'innalza al cielo e accresce il ciel le stelle.

4IO LIRICI MARINISTI

II

L'INNAMORATO DEL RITRATTO

Oh, chi me '1 crede? Io, che delusi amore, sotto il giogo d'amor mi trovo avvinto, e, quel che sembra a me scorno maggiore, da simolacro inerme oggi son vinto.

Già mi vela il pensier lino dipinto, adombrata beltà m'adombra il core, sento da finta immago ardor non finto, e mi vivo duo! morto colore.

Ho tutti a cieca larva i voti intenti, tributo a sordo nume i miei sospiri, narro ad idolo muto i miei lamenti.

Cosi non han conforto i miei martiri, refrigerio non provo a' miei tormenti, e rimedio dispero a' miei deliri.

Ili L'AMANTE E LA CICALA

Del viver mio l'insolito tenore pur troppo al tuo la somiglianza ha vera, o tu, che flagellando ale sonore sei de le bionde ariste atra furiera.

Tu sei de' boschi abitatrice altera ed io d'ermi recessi amo l'orrore; tu delle membra tue la spoglia hai nera, a me tinge l'aspetto egro pallore.

Talora hai tu dal ferro il petto inciso di parto arderò, ed io dall'arco intanto porto del dio eh cieco il cor diviso.

Agli ardori del Sol tu formi il canto ed io le mie querele a' rai d'un viso; tu vivi di rugiada ed io di pianto.

GIUSEPPE BATTISTA IV

LA MORTE DEL MARITO

Stilla per gli occhi in lagrime stemprato su lo spento consorte Irene il core; a tragedia si mesta anch'io turbato verso dalle pupille un mar d'umore.

Ella sente gran pena, io gran dolore, troppo ella amando, io non essendo amato; la falce ella di Morte, ed io d'Amore maledico lo strale avvelenato.

Io cerco a lei, ed ella al cielo aita; ella l'estinto suo brama risorto, io ch'in lei la pietà rinasca in vita.

Ella a ragion si lagna, io non a torto; celebriamo cosi, coppia smarrita, io l'esequie d'un vivo, ella d'un morto.

V

AL FIUME SEBETO

Liquido specchio della vaga Irene, Sebeto mio, ne' cui tranquilli umori il suo volto vagheggia, e i biondi errori dell'aurea chioma ad emendar sen viene;

ti facciano cosi le sponde amene pallidi mirti ed immortali allori, e fregino le gemme, ornino gli ori le tue superbe e gloriose arene;

quando ella rieda in sugli albori eoi, turba dell'acque tu la mole ondosa, la mostrino bella i gorghi tuoi.

Forse, di sua beltà non più fastosa, quanto parrà deforme agli occhi suoi, tanto alle voglie mie sarà pietosa.

41X

412 LIRICI MARINISTI

VI

LA BUGIARDA

Nice, qualora il suo pensier mi spiega, ogni parola è di bugie vestita; quando ella mi discaccia, allor m'invita, e quando mi minaccia, allor mi prega.

Ora pietà promette, ora la nega, ed ora m'abbandona, ora m'aita; mesta e lieta mantiene a me la vita, e mi discioglie allor quando mi lega.

Dopo tante menzogne, alfin m' in luce a non amarla più giusto furore, benché beltà celeste in lei riluce.

Poi dico : Il non amarla è grave errore ; che se la veritate odio produce, dritto è che la bugia produca amore.

VII

AMORE E DOLORE

Oh della fede mia bianchi trofei ! Nelle felicità son fatto un dio. Madonna m'ama, amo madonna anch'io, diletto maggior bramar saprei.

Sono spiriti suoi gli aliti miei: penso col suo pensier, pensa col mio, tempra con la mia voglia il suo desio, vive in me trasmigrata, io vivo in lei.

Le sue bellezze alla mia fame espone, e godo il mio bel sole al di più fosco, ella Venere fatta, io fatto Adone.

Dell'empia gelosia non bevo il tòsco, e pur mi doglio e piango. E la cagione del mio duol, del mio pianto io non conosco.

GIUSEPPE BATTISTA 413

Vili

CONFESSIONE DI POETA

Scrivo talor che m'avviluppa un laccio, narro talor che mi saetta un guardo; ma favoloso è del mio sen lo 'mpaccio e dell'anima mia mentito il dardo.

Crede altri già eh' io ne' martir mi slaccio, e che di fiamme in un torrente io ardo; ma quel foco ch'io mostro è tutto ghiaccio, e '1 martir che paleso anco è bugiardo.

Tra gli scherzi acidali onesto ho il core, ed al garrir di questa penna giace sordo il pensier, che non conosce amore.

Cantò Pale Marone e '1 dio del Trace, vincastro trattò, rozzo pastore, brando fulminò, guerriere audace.

IX

IL MANDORLO

Prima cura di Flora, occhio degli orti, bella pompa del popolo frondoso, che portanL'O sul crin fregio odoroso dell'esequie del verno annunzio apporti;

al tuo gaudio garrisce i suoi conforti l'esercito pennuto armonioso, e, sciogliendo da' ghiacci i! suo riposo, correr il fiume all'oceano esorti.

Fa' mostra pur di tue bellezze altera, che mentre nel fiorir precorri a tutti, porti la primavera a primavera.

Tu, mentre chiami il riso e scacci i lutti, maestro sembri alla ramosa schiera d'aprire i fior che son furier de' frutti.

414 LIRICI MARINISTI

X

LA ZANZARA

Se la madre d'Amor dall'acque uscio e vanta in mezzo all'acque il suo natale, alla madre d'Amore io fatta eguale dall'acque vanto il nascimento mio.

Se di Venere il figlio, il cieco dio, ha sugli omeri vanni e porta strale, anch'io su le mie spalle innalzo l'ale e sono di saetta armata anch'io.

Labro che in due coralli appar diviso piacemi baciare; e mio conforto stimo libar le rose in un bel viso.

Co' miei susurri alle \igilie esorto; e se l'uomo ferisco, e pria l'avviso, delle ferite mie si lagna a torto.

XI

LA GRANATIGLIA

OSSIA FIORE DI PASSIONE

Non più lo stranio fior Pindo rammenti che '1 nome avea d'un morto re descritto, s'oggi r indica pianta ha gli stormenti della morte d'un re che cadde invitto;

libro, dove stampar fogli dolenti il martirio crudel d'un dio trafitto, e per narrar d' un dio gli aspri tormenti vegetanti elegie natura ha scritto.

Volle certo scolpir stelo architetto la catastrofe qui del suo Fattore, a scorno mio, che non la porto in petto.

La tragedia d'un dio purgarmi il core oggi potrà del più smodato affetto, poiché muto istrione è fatto un fiore.

GIUSEPl'K BATTISTA 4^5

XII

L'ACQUA

Latto con mille poppe e rendo vive io, ricca genitrice delle cose, le querce a Giove, a Pallade le ulive, i gigli a Giuno, a Citerea le rose.

Nel grembo algente o sulle rive algose danzatrici canore ho le mie dive; siano l'ore gelate o sian focose, senza l'umido mio vita non vive.

Non ondeggiar quaggiù solo a me lice, ma sciolgo ancor sul fornice librato delle sfere profonde il pie felice.

E '1 Dio che sulle stelle ha trono aurato, quando dal sen del nulla il mondo elice, gode su le mie spalle esser portato.

XIII

LA LETTERA

Figlia del mio pensier, nunzia veloce, che corri senza pie, voli senz'ale, rapida più che vento e più che strale, e dove l'aere agghiaccia e dove coce;

palesi la mia mente e non hai voce, ordisci tradimenti e sei leale, erba non sei di Coleo e sei letale, non sei libica belva e sei feroce.

Spirto de' passi miei, lingua del core, mi conduci colà dov' io non sono e chiedi quanto vuoi senza rossore.

Delle tue note, allor che note sono, ha la suora d'Encelado minore ne' vanni il moto e nella tromba il suono.

4l6 LIRICI MARINISTI

XIV

LO SCHIOPPO

Questa di man germana opra guerriera, se di zolfi nitrosi accende il seno ed a piombo pennuto allenta il freno, fulmine par della tonante sfera.

Svena in mezzo al fuggir partica fera, benché rapida il pie scorni il baleno, e di sùbita morte atro veleno porta ne' globi alla volante schiera.

Erutta il tuono e partorisce il lampo, fa d'estinti guerrieri il suol fecondo e di vermiglio umor lastrica il campo.

Lascia, o Morte, la falce, inuti! pondo, e con l'ordigno, a cui non giova scampo, dal mondo impara a fulminare il mondo.

XV

APOLLO E DAFNE

Poiché Dafne cangiò le braccia in rami, in radici le piante, il crine in fronda, 've tesse Penco molli ricami con l'argento purissimo dell'onda;

per dar qualche ristoro alle sue fami Apollo giunge in su l'erbosa sponda, e di teneri amplessi in più legami la donna, fatta pianta, egli circonda.

Indi, ch'altro non può, sol tanti ottiene d'imprimer baci in su la scorza acerba, quante il fiume vicino involve arene.

Esclama abbandonato in grembo all'erba: Dafne la sua durezza ancor mantiene, l'amarezza di prima ancor riserba!

GIUSEPPE BATTISTA 417

XVI

MEDEA

Io diveller mi vanto, iu crollar posso, di lingua acherontea con sacri accenti, a Pelia gli orni ed a Pirene il dosso, i vanni ai grifi ed ai pitoni i denti.

Le nubi ho accolto e le procelle ho mosso, schiodato gli astri, imprigionato i venti, alle pallide tombe il grembo ho scosso e tratto al nostro mondo ho l'ombre algenti.

Chiamai quaggiù fin dagli eterei calli la sorella di Febo, argentea luna, le giovàro i temesei metalli.

Di caligini al Sol cinsi la cuna, e dal volo fi'enai gli aurei cavalli ; ma con Amore io non ho forza alcuna.

XVII

EROSTRATO

Rinascete, architetti: incendio insano i miracoli vostri oggi divora; l'opra di cento età disperde un'ora, l'opra di cento re strugge una mano.

Ecco, per mio coraggio, infiranta al piano la macchina miglior l'Asia deplora, e quel sacro delubro, ove s'adora Delia, deride i terremoti invano.

Vadane a calpestar soglia regale, e sia madrina al bambolin di Fella la dea che nacque ad avventar lo strale;

ch'io bramo esser famoso, e sia pur ella, siasi dell'empietà parto fatale, la fama, quando è grande, è sempre bella.

Lirici marinisti 27

4l8 LIRICI MARINISTI

XVIII

GIUDITTA

« Saiida/a eius rapuerunt oculos eiiis »

Le chiome attorta e colorata il viso, passa l'oste nemica, adito chiede dove il re degli assiri in trono è assiso, la bella di Manasse unica erede.

Mentre a quella beltà di paradiso s'abbaglia il sire ed ai suoi detti ei crede, ha con piaga mortale il cor diviso dai socchi superbissimi del piede.

Poi quando, estinto il di, gode riposo, gli recide l'invitta il capo insano, nel sonno immerso e di Lieo spumoso.

Oh d'amazone ebi'ea valor sovrano, ch'Oloferne crudel, duce orgoglioso, pria ferisce col pie, poi con la mano!

XIX

ALLA VERGINE

Curvano vago serto in sul bel crine le stelle a te, che son del cielo i fiori, e del pianeta, onde il natale han gli ori, vesti spoglie lucenti e peregrine.

Hai sotto il pie dell'argentate brine, onde Cinzia s'adorna, i puri albori, ed alla tua beltà, ch'avviva i cori, servaggio fan le gerarchie divine.

Tu, della mente dell'eterno Giove figlia non favolosa, albergo pio fusti d'un re che tutte cose move.

Nel seno ove le grazie Amore unio, con maniere di cielo al mondo nove, per scioglier l'uomo imprigionasti un dio.

GIUSEPPE BATTISTA 4^9

XX

SAN MACUTO

che celebra messa in mare sopra una balena

Sul dorso navigabile del mare stende d'insane scaglie atra la schiena, che d'alghe lastricata isola pare al più cauto nocchier, vasta balena.

Qui, curvata d'arazzi illustre scena, sacro ministro innalza augusto altare, dove rinova in sacrosanta cena d'un morto dio le rimembranze amare.

Troppo cortesi, o belva, avesti i -cieli, mentre su le tue spalle a stuol eh' è pio voce sacerdotal détta vangeli.

Del cumano delfino urna d'oblio le memorie più vive al mondo or celi, ch'ei trasse un uomo, e tu sostieni un dio.

XXI

BELISARIO

Pietà di Belisario! A quella mano, ch'all'ombra delle belliche bandiere dispensava stipendi a mille schiere, porgi mercede, o peregrino umano!

Della fame lo rode il dente insano e pur nudrito ha le falangi intere; stimò termine angusto anco le sfere; or Io serra di selci antro villano.

L'oste guidò nel marziale ardore, or gli è scorta vii canna; un rege ingrato die si barbara paga al suo valore.

Chi l'ale della fama ha d'occhi armato, orfano è d'occhi; e pallido livore il fulmin della guerra ha fulminato!

420 LIRICI MARINISTI

XXII

IL CAOS

Macchina mal composta, a cui non porse beltà la forma onde ogni cosa è bella, e dove de' contrari a far concorse il popolo guerrier pugna rubella;

era terra, era mar, mai si scorse in questo errar le navi, i plaustri in quella; era aria ed era cielo, e mai non corse in quell'aria, in quel ciel, turbine e stella.

Una tavola forse allor parca, dove man di natura avea dipinto di tutte cose un'abbozzata idea.

Era ne l'esser suo mondo indistinto, che nel difforme seno amor chiudea, donde il mondo confuso usci distinto.

XXIII

LA MATERIA PRIMA

Asilo è di contrari, e se s'intende dall'intelletto, all'occhio altrui non giace; creata in tempo, e pur del tempo edace non è mai sottoposta alle vicende.

Perché di forme assenti ardor l'accende, le presenti ch'abbraccia ella disface, ed è la fame sua tanto vorace eh 'alle forme corrotte anco si stende.

Per lei quanto è per lei cade distrutto, e, benché il moto abbia da disgiunto, parte dal fiore e fa passaggio al frutto.

Fa, vaga brutta, il vago, il brutto; non ha divisione e non è punto; in atto è nulla ed in potenza il tutto.

GIUSEPPE BATTISTA 421

XXIV

IL TEMPO

Nacqui e vivo nel cielo, e pure il cielo le mie forze tiranne unqua non sente; misuro i moti al sole e col mio dente rodo i marmi a Numidia, i bronzi a Delo.

Do le fiamme alla state, al verno il gelo, rendo la notte ombrosa, il di lucente, e so portar della mondana gente rughe alla fronte e canutezza al pelo.

Angue son io da mano egizia espresso, che mordo la mia coda. Or qual veleno vomito a' danni altrui s'odio me stesso?

In tante scene io mi paleso; appieno di saper l'esser mio non è concesso; quanto si pensa più, s'intende meno.

XXV

DEMOCRITO ED ERACLITO

Democrito, tu ridi e col tuo riso tutte le umane cose a scherno prendi e, sia del fato o mesto o lieto il viso, con lieto viso ogni accidente attendi.

E tu col mento in sulla destra assiso piangi, Eraclito, e sempre al pianto intendi; forse che quanto è fra di noi diviso, lacrimosa tragedia esser comprendi.

Ma siate pure al pianto o al riso intenti, che '1 riso e '1 pianto a me rassembra intanto vano delirio delle vostre menti.

I mali di quaggiù gravi son tanto che, per guarir le travagliate genti, è vano il riso ed è più vano il pianto.

LIRICI MARINISTI XXVI

IL RICCO OZIOSO

Le fatiche del bue l'agricoltore copulando a le sue, frange le zolle, e della vite appoggia il tralcio molle su le baiule canne il potatore.

Mena per pascolar l'erbe il pastore l'agnelle al piano e le caprette al colle, e mentre nel suo luglio il Sol più bolle, taglia oceani d'ariste il falciatore.

Tessitrici non men vegghian le fanti, e di stame filato aurei volumi sudano industri a fabricarne i manti.

Versando agii ozi tuoi voler di numi larga benignità, l'opre di tanti che travaglian quaggiù tu sol consumi.

XXVII

EPITAFFIO DI UN UOMO FELICE

Se tutta l'età mia fu primavera, spopola, man cortese, il mondo erboso, e d'aurei fiori una tempesta intera grandina su la tomba ov'io riposo.

Qui nel sen d'una pietra io vivo ascoso, che del mio di non son venuto a sera; mutai sol tempo ove tornar non oso, e son giunto in un loco ov' io non era.

Ad altri il fato ogni diletto annulla, che le delizie mie meco ridutte in questa sepoltura hanno la culla.

Qui l'allegrezze mie non son distrutte, o pensa tu ch'io mi ricordi nulla, o pensa tu che mi sovvengan tutte.

GIUSEPPE BATTISTA 423

XXVI li

IL LUSSO DELLE FEMMINE

Non ha satolle mai l'avide voglie donna ch'ai vaneggiar l'animo intende; tanti profumi in su le chiome scioglie, quanti ne' templi suoi l'arabo accende.

Tutto l'oro diffonde in su le spoglie, che nelle arene illiriche risplende; il vasto Eritra in una mano accoglie, l'intera dote in un orecchio appende.

Nome di « mondo » a tal superbia insana, che sembra agli occhi altrui fasto giocondo, die la gente magnanima romana.

E volle dir, nel suo pensier profondo, che nelle pompe sue femmina vana tutto racchiude epilogato il mondo.

XXIX

L'UOMO E LA PACE

Per non cader squarciato all'altrui morso ha le zampe falcate il fido alano, e se talor guerreggia il toro iiiL?.no dalle corna lunate ottien soccorso.

Unghia laceratrice aguzza l'orso e dente avvelenato il mostro ircano, l'aquila ha il rostro e l'istrice montano selva d'acuti strali erge sul dorso.

Ha lorica di squame il pesce avaro, arma dedala pecchia ago mordace, cela serpe crudel veleno amaro.

Natura sol, nell'opre sue sagace, fa l'uomo inerme. Ed argomento è chiaro ch'altro non vuol, se non ch'ei viva in pace.

424 LIRICI MARINISTI

XXX

L'UTILE DELLE AVVERSITÀ

Chi nimici non ha, non vince mai, e chi non vince mai gloria non spera; d'una luce immortai non gode i rai, se contrasto non ha virtù eh vera.

Sarebbe ignota a noi la man guerriera d' Ettor, s'a fronte ei non aveva i grai, e del gran filisteo la daga altera altero fece il pastorel d'Isai.

Chi di fortezza vuol grido preclaro, con duro petto alle maligne risse di contraria fortuna alzi riparo.

Tifi con le tempeste a prescrisse mèta di fama eterna; e fecer chiaro i lunghi errori il peregrino Ulisse.

XXXI

IL VECCHIO

Giunto l'uom di sua vita al verno ingrato, di cave rughe e di canute brine ha il volto arato e seminato il crine, per la gelida man del vecchio alato.

Tremolo i piedi e gli omeri curvato, addita le sue prossime ruine; dell'agghiacciato cor le nevi alpine il fanno inerme e sol di lingua armato.

Sempre il nocchier di Stige orrido e tetro tien per lui tragittar spalmato il legno, e figurano i fabri il suo feretro.

Povero de' suoi sensi arriva a segno che va la vista a mendicar dal vetro, e dalle canne a procurar sostegno.

GIUSEPPE BATTISTA 425

XXXII

LA DONNA INVECCHIATA NEL GIARDINO

Nice, di solchi annosi il volto arata, dentro a reggia sabea calcava odori, e col volto rugoso a fuga alata sollecitava i cittadini Amori.

Qui, d'ogni stelo alla pittura innata, del suo viso piangea gli egri colori, e, ripensando all'età sua passata, l'età presente invidiava ai fiori.

Ella, premendo zolle ove non perde lussuria erbosa mai campo ridente, vedeva già le sue fattezze al verde.

Perché la gioventù godean vezzose, carnefice degli orti impaziente, tutte facea decapitar le rose.

XXXIII

CONSIGLI A UN POETA FRETTOLOSO

Sdegni norme latine, esempli argivi, qualora di cantar prendi diletto; scrivi tu mille carmi intempesti\i, allor che maturato un carme aspetto.

La tardanza è maestra a chi vuol vivi gli onori suoi, dove l'onore ha il tetto; maturità se nel cantar tu schivi, chiudi le furie e non le muse in petto. Rodi l'unghie sui fogli; o saran poi da carboni più neri i fogli intatti, se nemica d'oblio gloria tu vuoi. Pensa che la testudine tu tratti, e da quella, s'hai senno, imparar puoi che non si poggia in Pindo a passi ratti.

426 LIRICI MARINISTI

XXXIV

IL POETA E IL BEVER ACQUA

Beva nettare Chio chi peregrino tester di sacri carmi esser procura; chi brama col cantar gloria futura fugga gelido rio di ghiaccio alpino.

Quel verso, o sia toscano o sia latino, che finge il bevitor dell'onda pura, piacer troppo non può, troppo non dura, e divino non è se non divino.

Ennio che nella tromba ha glorie prime, e '1 maestro de' lirici, eh Fiacco, ebbero da Lieo lo stil sublime.

E chi stese in Beozia il pie non fiacco m'insegnò che Parnaso abbia due cime. Luna a Febo sacrata e l'altra a Bacco.

XXXV

L'IMMORTALITÀ LETTERARIA

Sembra la vita, che da noi sen fugge, onda del Nilo in su l'egizia rena; sembra fiore sabeo che, nato appena, turbo lo schianta o fulmine l'adugge;

lieve vapor, ch'avidamente sugge il pianeta gentil che il di rimena; vampa, che per lo ciel striscia e balena; nu'oe, che sul Pirene Euro distrugge.

Ma sol pagine verghi e sparga inchiostro chi brama eternità. Cosi deride il velen delia morte il viver nostro.

More colui che le lusinghe infide siegue dell'ozio e dell' idalio mostro: una punta di penna il tempo uccide.

GIUSEPPE BATTISTA XXXVI

NEL PARTIR DA NAPOLI

durante i tumulti del 1647-48

Degli oricalchi ai queruli clangori schiva gli ozi notturni ancor Cleante, e d'Elicona i popoH canori fuga a barbaro ciel bronzo tonante.

Io pur diparto, e cerco i miei ristori della madre natia nel grembo amante. Se non ebbe di me gli anni migliori, vo' che m'abbracci almen, vecchio anelante.^ Qui, tutti in Lete i miei pensieri immersi, col nume di Permesso e di Libetro ^ darò lingua alla lira e metro ai versi.

Felice me se dalle stelle impetro che le mie luci chiuda ov'io le apersi, che dov'ebbi la cuna abbia il feretro!

XXXVII

PASSANDO PER PUGLIA PIANA

Ecco l'Aufido io bevo, e su le rive a Cerere sacrate inganno il piede; qui, per fuggir dall'inclemenze estive, tede non hanno i camii, ombra le tede. Messaggiera di piogge aura non riede, mentre un sole d'Egitto il di prescrive; d'anima, eh' è caduca, è l'erba erede, e la vita prolissa il fior non vive.

Ad Aconzio amator pomo da ramo qui non sa partorir tronco infecondo, dov'ei possa stampar: « Cidippe, io t'amo».

Edificar dovea cielo secondo Adamo qui, che senza colpa Adamo vedrebbe il cielo e senza morte il mondo.

428 LIRICI MARINISTI

XXXVIII

IL RITORNO AL PAESE NATALE

Miro quel giorno pur, che de' miei giorni sarà fausto preludio alla quiete, ed io, sepolta ogni fatica in Lete, oziosa godrò l'ombra degli orni.

Voi, d'inculte boscaglie ermi soggiorni, province po]ìolate a me sarete; voi, della patria mia rupi secreta, lusingate a letizia i miei ritorni.

Diedero, della luce a' primi inviti, l'euro quivi talor, talor qui l'ostro, aria reciprocata a' miei vagiti.

Ecco, di tufi infranti il picciol chiostro dov'io, per fabricar metri eruditi, sparsi a note latine il primo inchiostro.

XXXIX

LA VILLA

D'api dorate è qui grappolo folto, ch'abita d'una quercia ermo pedale, dove dal suon di rauco rame accolto vigila al canto e sonnacchiose ha l'ale.

Colà, di canne fluttuanti ascolto su le sponde d'un rio bosco vocale, il cui fischiar, che fu dall'aure sciolto, diede alle melodie rozzo natale.

In mezzo, ho la capanna, e mi contento narrar qui fole al pastorel montano, che da me pende ad ascoltarle intento.

E schiuda pure il suo delubro Giano, ch'io godo pace, e nulla angoscia io sento eh 'a me porpore nieghi il Vaticano.

GIUSEPPE BATTISTA 429

XL

FILOSOFANDO TRA I CIPRESSI

Qui, dove un fiume ha lacerato i sassi, e cozzando co' sassi il corno ha infi-anto, m'alzo a pensieri arcani e lascio intanto all'arbitrio del pie guidarmi i passi.

Dal gran Liceo filosofie già trassi, per cui trovar nuove dottrine or vanto; rubar non penso, abbandonato il canto, l'arpa agli Grazi più, la tromba ai Tassi.

Farò, s'arride il cielo all'opra ardita, da' rami ombrosi, in cui verdeggia impresso simolacro di morte, uscir la vita.

E dar potrà, se fu talor concesso a un platano d'aprir scola erudita, principio alle mie scole anco un cipresso.

XLI

IL CANTO DELLA PASTORELLA

Dall'isola di Circe usciva il sole, e quanto allor per le sue vie toccava di questo mondo in su la bassa mole, fatto novello Mida, egli dorava.

Alla greggia lanosa intanto Iole i velli canutissimi tosava, e di calte la fronte e di viole alla plebe tosata indi fregiava.

Cantò fra le fatiche e disse: O fiori, allegrezza degli alberi ramosi! O poeti del bosco, augei canori!...

Poi, mirandomi, tacque. Ed io risposi: O cibo delle orecchie, inni sonori! O degli occhi armonia, sguardi amorosi!,

430 LIRICI IMARIMSTI

XLII

I DOLORI ARTRITICI

Per far idolo un ventre io mai non tento turbar l'alghe rimote ai mari eusini, dai torchi di Lesbo imploro i vini, ma del poco nostrale io son contento.

E pur soggiaccio ai mali, e pure io sento armarsi contro a me Busiri e Scini, tutte le tirannie degli Ezzelini e quanto s'è patito in Agrigento.

Meraviglie dirò. Mai non amata fu la bella da me Rachele o Lia, e pur senza fallir la pena ho data.

Siano tutti epuloni, e ciascun dia larghe indulgenze al genio suo, se nata dall'astinenza è la podagra mia!

XLIII

IL RITORNO DEI DOLORI A PRIMAVERA

Or ch'han le cose esordio, ascolto i venti alitar per lo cielo anima molle; e, sciolti in rio canoro i ghiacci algenti, ride popolo d'erbe in su le zolle.

Da' rostri suoi l'eroe pennuto estolle, a cibarne l'orecchio, inni languenti, e dove tiepidezza aspetta il colle, Venere a provocar vanno gli armenti.

Sul mattutino albor fugge dal tetto e con rombi festanti è l'ape or desto a depredare il sempre verde Inietto.

Non temono i Leandri il mar di Sesto, che lor promette amenità d'aspetto... Il mondo tutto è lieto, ed io son mesto.

GIUSEPPE BATTISTA 43^

XLIV

ASPETTANDO LA CHIRAGRA

In nome d'un anìico

Già preveggo gli strazi e già detesto i proemi d'un duol più che pungenti; già preparo una lingua a' miei lamenti ed al martirio mio due mani appresto.

Se '1 timor delle pene è più molesto, vengano i miei dolori e non già lenti; vengano, ma con l'ale, i miei tormenti, che parte è di pietà l'uccider presto.

Insegnano del mal l'acerbe scole che '1 pensiero del mal un cor sgomenta, più che lo stesso male offender suole.

Per le penne d'altrui più non si senta che piaga antiveduta assai men duole, che saetta prevista arriva lenta!

XLV

LO STUDIO DELLE LETTERE

Sudi l'avaro. Io fadcar lo 'ngegno per ricchezze barbariche non voglio. Mi chiuda un tetto. Altri del mar l'orgoglio valichi audace oltre di Calpe il segno.

Io non invidio agli Alessandri il regno, lo scettro ai Ciri ed agli Augusti il soglio, quando, cinico novo, entro d'un doglio ho, divorando i libri, il mio sostegno.

.Se intendo sol come il divino Apelle r iri colora e come l'aere piove agitato da stridole procelle,

come immota è la terra, il ciel si move, e per lo molle ciel guizzan le stelle, sol mi reputo inferiore a Giove.

432 LIRICI MARINISTI

XLVI

AI LIBRI

Muti maestri miei, voi m' insegnate come io debba adorare i santi numi, e con veri precetti a me mostrate come io possa comporre i miei costumi.

I sentieri spinosi a me segnate, voi, d'Elicona, a delibarne i fiumi, e d'eleganze voi, sciolte o legate, preziosi rendete i miei volumi.

A quanto dite voi l'orecchie intente con diletto disserro, e poi rivelo io le vostre dottrine ad altra gente.

Quand'io vivo tra voi, godo il mio cielo; e se turba alcun dubbio a me la mente, non cerco sfingi in Tebe o Febi in Delo.

XLVII

INSAZIABILITÀ D' IMPARARE

Un Caucaso di nevi ho su le chiome e precipito gli anni in occidente; pur l'anima, che chiudo in scorza algente, curva non cade a faticate some.

Alzano a me le più faconde Rome tra le pareti mie rostro eloquente, e d'una Atene, a risvegliar la mente, scritto in picciol museo contemplo il nome.

Quando cosi predestinò la sorte, per farmi di dottrine inclito erede, apritemi, licei, le sacre porte.

Chi sa pur troppo e di saper non crede, tra '1 confin della vita e della morte il libro ha in mano e su la tomba il piede.

GICSEl'PE BATTISTA 433

XLVIII

LA SPERANZA

A richiesta del duca di Seiano

Fra le nevi d'un seno le sue fiamme nudrisca acceso amante; qui gioir, eh' è baleno, sia dell'anima sua cibo volante, e da labro mordace ei beva un rio di nettare fugace.

Dalla speranza sola alimento riceve il viver mio; nell'amorosa scola tal m'insegna dottrina alato Dio; la speme sia mercede a me, ch'ho puro cor, ch'ho bianca fede.

Altri goda il suo bene, che solo di goderlo un tempo io spero; siagli cagion di pene lungo sperar, eh' a me diletto è vero; vastissimo gigante fa latte di speranza Amore infante.

Se '1 timor del morire rende più che '1 morir la morte amara, la speme del fruire

più che '1 fruire stesso a me sia cara; speme sol di conforto nell'amoroso Egeo m'additi il porto.

Riveli invido il sole Marte e Ciprigna entro alla rete altrove; la bellissima Iole

non invidio ad Alcide, Europa a Giove; s'io sono amante amato, nella speranza mia vivo beato.

Lirici marinisti 28

434 LIRICI MARINISTI

Se la sete ammorzata ha bocca sitibonda, il fonte oblia; se la piaga è saldata, medica man si sdegna; e s'amò pria, desiderio compito rende bellezza vile, amor schernito.

XLIX

LE MERAVIGLIE DELL'ACQUA

Al padre Filippo da Cesena, cappuccino

Fonte, che d'un Pegaso vanti scultrice industre unghia pennuta, e del sacro Parnaso tagli l'aonie vie con onda arguta, versa da' fianchi infranti a bagnarmi le labra umido rio; i tuoi garruli pianti concessi a me, saranno il Febo mio; l'acqua, che un tempo encomiò Talete, con metri ascrei di celebrare ho sete.

La divina potenza poiché trasse dal nulla e cielo e terra, con la sua trasparenza l'acqua nel di secondo emerge ed erra; e, benché sia distinta da' compagni elementi e pur sul dorso di tenebre dipinta

e scioglie su la terra ignoto il corso, lo spirto del Signor, che non ha moto, gode di passeggiar su l'acqua a nuoto.

GIUSEPPE BATTISTA 435

Poscia nel proprio loco imprigiona se stessa e nome ha mare; con istrepito roco

intriga le sue spume e sono amare, e se talor da' venti, araldi di tempesta, ha fìer conflitto. i suoi liquidi argenti non sanno valicar l'orlo prescritto; tra le fauci singhiozza alto muggito, che lo stringe fra ceppi un secco lito.

Oh come sembra lieto quando increspa i suoi piani aura clemente, e con flagel discreto bacia di bianco umor scoglio pungente! Su la fronte canuta apre le placidezze e par ch'e' rida, i piloti saluta

con amico fragore, e quegli affida a corredar gli abbandonati pini e di remi voganti e d'aurei lini.

Per non visti canali dalle viscere erutta umide moli, che sui monti ineguali, come s'avcsser penne alzano i voli. Sul Caucaso nevoso

l'Indo, che all'India il nome diede, ascende, e da quel crin selvoso precipita se stesso e giù discende. Ha per balze montane erta salita contro il peso nativo il Tanai scita.

Mille scherzi natura opra nell'acque e le ragioni asconde. Odio perpetuo giura contra il vino chi bee clitorie l'onde. L'acqua di Giove Ammone cuoce su l'alba e nel meriggio agghiaccia:

436 LIRICI MARINISTI

l'affrica regione

chiude fonte cantor, che i sensi allaccia, e, se l'umor d'un lago Epiro avventa, spegne la face accesa, arde la spenta.

Qui cade un legno breve, e diviene, caduto, un sasso grande; ivi fronda, eh' è lieve, in augello si cangia e l'ali spande; e qui dolce talora, ed è salsa talor linfa incostante; bianca gregge colora ivi di nero vel Peneo spumante, e del Galeso mio l'onda sincera veste di bianche lanegna eh' è nera.

A consolar la state dispensa anima all'erba, anima al fiore, e prolunga l' etate

al fiore, all'erba, il derivato umore. Dov'acqua abbonda, è vivo tronco al suol, ramo al tronco e frutto al ramo; ma poi, se d'acqua è privo, e frutto e ramo e tronco arso veggiamo, e .se l'acqua non porge all'uomo aita, cade languido l'uomo e senza vita.

Ubbidiente all'arte talor si rende e rende l'arte illustre; l'ore al tempo comparte, se la chiude in duo vetri ingegno industre. In un filo ristretta con assiduo viaggio ella giù cade, e con caduca fretta mostra caduca ancor l'umana etade; insegna a noi ch'ogni terrena massa è debil filo e come l'acqua passa.

Il passaggio sicuro al fuggitivo ebreo l'acqua concede;

GIUSEPPE BATTISTA 437

s'erge in liquido muro

e lascia intatto al peregrino il piede.

Siegue Toste d'Egitto

e si finge ai suoi passi il passo asciutto;

ma sul denso tragitto

rapido scende, e poi l'annega il flutto.

Variando cosi nel mar la sorte,

vita incontra l'ebreo, l'egizio morte.

È lavacro al mio Cristo l'acqua del bel Giordano; e qui, diviso mentre il cielo fu visto manda pura colomba il paradiso. Mentre il balen veloce, e col tuono il balen l'etra tempesta, del padre Dio la voce esser figlio di Dio Gesù protesta. Nell'acqua palesò l'esser divino il mio Gesù, quando mutolla in vino.

Su le cime d'un monte poich'è confitto in croce e pende esangue, versa dal cavo fonte del petto lacerato ed acqua e sangue; e dall' umida vena

la vista impetra il feritor eh' è cieco; quando teme la pena, allor porta mercè del fallir bieco. Ma qual vanto maggior? L'acqua cancella la colpa a noi, ch'originai s'appella.

43S LIRICI MARINISTI

L

FILOCRATE

IN MORTE DI MARIA MADDALENA

All'armonia più flebile d'un legno piacemi disposar metrica voce; a me ne' moti suoi genio veloce di musico furor scalda lo 'ngegno.

Amai chi volle amarmi e chi congiunte bramò le fiamme mie, le fiamme sue; fece un'anima sola anime due e seppe unir due volontà disgiunte.

Amai la bella estinta, e gelosia ardenti più rendea gli amori miei. Io la bellezza idolatrai di lei, perché la sua bellezza era magia.

Per la beltà di lei la Grecia tutta sollecitar potea prodi campioni, e dopo mille rischi e mille agoni potea l'Asia dal foco esser distrutta.

Quand'ella nasce, alla Betania nasce di giorno senza occaso alba giuliva, e della prima vita in su la riva il gaudio corre a vezzeggiarla in fasce.

Se grondar gli occhi suoi liquido gelo, se le fauci temprar singhiozzi infranti, erano que' singhiozzi, eran que' pianti brine d'aurora ed armonie di cielo.

Lasciò la sfera sua la cipria dea, e discesa fra' turbini guerrieri sul plaustro a cui colombe eran destrieri, venne a baciar la pargoletta ebrea.

GIUSEPPE BATTISTA 439

Le disse poi: Tu meritavi, o bella, d'aver meco nell'onde il tuo natale. S'a me nella beltà rassembri eguale, la mia conca era tua; tu, mia sorella.

pigre sono a ricettarla in seno perché le tergan gli occhi allor che piagne, della madre d'Amor le dee compagne, le dee dell'Acidalio e d'Orcomeno.

Ma se piangeano gli occhi, in su la fronte iride di letizia apparve il riso; dal labro, che in coralli era diviso, tra i vagiti alitò mirre d'Oronte.

Degli amori pennuti il coro arderò esultò su la culla e sparse rose; vibrò per l'aria i vanni, e poi dispose su lo spazzo alle danze il i leggiero.

La fanciulla schiudea le due pupille e nel cielo d'un viso eran due stelle; compartivano allor calme o procelle, quand'eran men turbate o men tranquille.

Al nascer di costei, della sua Tai obliò la beltà l'attica Atena, e se Aulide non più vantò Lacena, Corinto, ch'ha duo mar, tacque di Lai.

Crebbe con gli anni e crebbe seco ancora quella beltà che bambinetta espresse; dove col bianco pie vestigio impresse, sul vestigio ridea più d'una Flora.

Scioglieva i suoi capelli ed eran lacci, lacci per intrigar core eh' è sciolto; e mentre svolazzavano sul volto, libera fantasia stringeva impacci.

Della cervice i palpitanti avori godean di posseder quell'ambre intatte, e della fronte il più canuto latte d'aver godeva in compagnia quegli ori.

440 LIRICI MARINISTI

Depositati all'aure, e fuor de' nastri, scoteano vampe d'or, strali di foco; ed allor si pensò di splendor fioco esser di Berenice il crin tra gli astri.

Calamistri di ferro all'auree some, che '1 foco riscaldò, facean torture, perché del cor tra le cocenti arsure apparissero ardenti ancor le chiome.

Le inebriò talor nardo straniero per dispensar novelli odori al vento; nella sua man tra martellato argento venne a farsi l' Idaspe un prigioniero.

Sudar le tele a lei subbi etiopi e fregiò le sue gonne ago troiano, e per le gonne ancor pino africano tributò la Giudea de' suoi piropi.

Cosi temprate le maniere avea, che, se parean senz'arte, eran con arte; or flessibile alquanto, or dura in parte, e speranza e timor destar solca.

Dove mirava esser la fiamma ardente, ella men soccorrendo era più schiva; dove face d'amor vedea men viva, palesava d'ardor petto cocente.

Se girava lo sguardo, era delitto, e non mirava altrui, benché mirata; piacevole talor, talor sdegnata, r un rendeva contento e l'altro afflitto.

Mostravasi men scaltra al più sagace e col più lieto amante era più mesta; sovente con gli audaci era modesta e co' modesti tdoì sembrava audace.

Era lasciva ed onestà fingeva; quando mostrava sdegno, allora amava; sotto ardor simulato ella gelava, e sotto finto gelo ella coceva.

GIUSEPPE BATTISTA 441

Mentre in tante follie le voglie implica, bieco disnor nel proprio nome imprime; le infamie sue fama loquace esprime e palesa Maria meno pudica.

Mentre è lecito a lei ciò che non lice e cieca vuol per guida i ciechi sensi, gridan con libertà gli altrui consensi che la suora di Marta è peccatrice.

Donna, quantunque vanti aver bellezza, men bella è poi se tien l'onor negletto; qual cristallo è l'onor fragile e schietto, schietto si macchia e fragile si spezza.

Lunga stagion vaneggia e per le scorte de' più sozzi diletti a Dio s'invola; tien ragion vilipesa e la sua scola, ama il mondo maestro e la sua corte.

Stima suo bene il male e col tributo fa delle colpe insuperbir l'inferno; oblia la nobiltà, prende a scherno esser, come d'Amor, preda di Pluto.

Ma Dio che la vuol seco a la chiama, e consiglio miglior le spira in mente; già delle colpe andate ella si pente e di virtù novelle ornarsi brama.

Dal profondo letargo alfin si desta, ammenda l'opre ed i pensier corregge; già gli arbitri dispone a nova legge e l'antiche libidini detesta.

L'accusano le colpe ond'ella è grave, ma la pietà del Redentor l'affida; la combatte il timore e nulla fida, la speranza l'assale e nulla pavé.

Vince alfin la speranza, il timor cede, ma non lascia il dolor de' falli suoi; in un sospir l'anima scioglie e poi perdono del fallir l'anima chiede.

442 LIRICI MARINISTI

Si duol d'amor, si duol del mondo, accusa artefici d'inganni amore e mondo; ducisi che mondo insano, amore immondo con l'esca del piacer l'abbian delusa.

Un aspe appella amor, da cui si beve con bocca baciatrice egro veleno; il mondo un Mongibel, che chiude in seno incendio edace ed ha sul crin la neve,

un mare, che tranquillo appar su l'onde e bianca su l'onde sue promette, ma sotto l'empie spume, ancorché schiette, o baratri disserra o scogli asconde.

Amor non sazia mai l'umane brame, che quando par che piaccia, alloi'a incresce; quando par che più manchi, allor più cresce, e l'esca d'un desir dell'altro è fame.

Poi rapida sen corre a' pie d'un Cristo, dove, fermando il pie. Cristo l'aspetta; e qui nel suo pensier tutta ristretta, pensa del cielo al glorioso acquisto.

Qui di balsamo colma un'urna infrange e del balsamo innaffia a Cristo il piede; ma scusa qui dell'ardimento chiede, e quando chiede scusa, allora piange.

Al puzzo delle colpe al fin marcite di peregrino odor sparge tempeste; o porge unguenti al medico celeste, forse per medicar le sue ferite.

L' Ibla sicana ed il cecropio Inietto, l'anima de' suoi fiori ha qui sommersa; Arabia d'alimenti è qui dispersa, e rinchiusa l'Assiria in picciol tetto.

Delle chiome prolisse il gran volume da seriche ritorte in giù discioglie, e con si vaghe e preziose spoglie degli unguenti diffusi asciuga il fiume.

GIUSEPPE BATTISTA 443

Disciplinato crin varia compensa, perché l'uso fu vario, a tutti addita; a Maddalena il crine apporta vita, il crine ad Assalon morte dispensa.

Appaga qui le simpatie divine di fragranze lugubri umida usura, e godono di far bella congiura gli alabastri d'un pie, gli ori d'un crine.

Edera tronco mai, smilace pietra non stringe si, com'ella stringe un Dio, perché dimostri a lei piede eh' è pio al novello cammin la via dell'etra.

Benché vegga Giesù fatto cortese, a tanta cortesia l'occhio non fisa; stassene addietro mesta e ben s'avvisa che rimirar non dèe nume ch'offese.

Il Redentor non sa partirsi intanto, che pur di Maddalena è fatto amante, e rivolto a goder quel suo sembiante, piangente il vede ed egli gode il pianto.

Oh di pianto orator dedalee vene, che convincono Dio, quantunque mute! Perché malvagità speri salute, quel che non può la lingua, il pianto ottiene. Ottien perdono, e non qual era è tutta, postergato l'inferno, al ciel rivolta; e da' lacci mondani al fin disciolta, degli affetti s'oppone all'aspra lutta. Delle spoglie ch'avean tesori eoi povera fa la più caduca salma, e spoglia delle membra, oblia dell'alma, come gli abiti suoi, gli abiti suoi.

Lascia i bissi più molli e d'irte lane al molle petto i bei candori ammanta; ignudo brama il piede, o talor vanta di coturno più vii piante villane.

444 LIRICI MARINISTI

Pruine di cerussa ella delude e di cinabro invetriate fiamme, che non più brama adulterar le mamme e vuol di stranio ardor le gote ignude.

Sdegna quanto pria volle. Al mar di Gnido non più le squadre imprigionate invola, per servir l'ambiziosa gola agli augelli di Colchi insidia il nido.

Già le crapule sue son l'astinenze per dar legge frugale a' lussi sciolti; richiama a sanità sensi più stolti e danno economie le penitenze.

Le dovizie detesta e le divide a povertà, eh' è della fame afflitta; cieca spelonca agli anni suoi prescritta, agli anni suoi bel paradiso arride.

Fugge dalle città, fugge alle selve e cangia in cavo speco i suoi palagi ; e se gli uomini pria trovò malvagi, ora bontà san palesar le belve.

Tra l'angustie più corte aduna i passi ed ama calpestar dumi spinosi. Vuol poi, per disturbar lenti riposi, piume le paglie ed origlieri i sassi.

Qui su roso macigno aitar dispone, dove invece d'incenso offre i sospiri, e con ostie di sangue e di martiri memorie di clemenza al cielo espone.

Vive cosi più lustri. Ed un sol grato raggio consolator appena vede, ed ha, s'è d' ombre eterne un antro erede, sepolcro alla sua morte anticipato.

Del manto a lei co' più sdruciti velli tempo divorator non fa più scudo; ma pure all'onestà del corpo ignudo fanno splendida veste i suoi capelli.

GIUSEPPE BATTISTA 445

Stupor non è che '1 pendulo tesoro, impudico non più, rassembri onesto: che se baciò d'un Cristo il pie modesto, or tesse alla modestia argine d'oro.

Talor d'Averno empio drappello afflige la bella penitente, e l'etra accorre, mentre pennuto esercito giù corre e giù disperge i cittadin di Stige;

flagella d'arpa aurata indi le corde, e sposa all'arpa analogia di lode. Respira intanto Maddalena e gode letizie vive all'armonia concorde.

Gode cosi tra le beate schiere pegno di gloria. Ed accorciate l'ore, deliquio tenerissimo d'amore l'anima scioglie a passeggiar le sfere.

XI

ARTALE - LUBRANO - CANALE

GIUSEPPE ARTALE

I

AL LETTORE

S' io non scioglio la lingua in quelle voci che sposarsi col suon sanno ai concenti, stupor non fia, che in marziali eventi da le trombe imparai fremiti atroci.

Si, le mie lire fùr l'ire feroci e i miei stromenti i bellici stormenti, dove non caducei, ma in tuoni ardenti presi de' brandi ad impugnar le croci.

Quinci carmi io non so, perché mi furo, di Pindo in vece, aspre campagne offerte, e fu mio Febo insanguinato Arturo.

cantar qui poss'io, che in guerre incerte accoppiar non potei sott' astro oscuro le belle chiuse e le ferite aperte!

Lirici nia>-inisii 29

450 LIRICI MARINISTI

II

LE BELLEZZE DELLA SUA DONNA

Occhi, bocca, pie, mano e chiome aurate, bella, fra noi san debellar gli amori ; canti, balli, ardi, atteggi, e reti amate intesse il crin per catenarne i cori.

Pie, mani, labra, crin, luci adorate, moti, voci, lacciol, nevi ed ardori offrite, alzate, ordite, ornate, armate, co' giri, incanti, ardor, lacci e candori.

Vago è '1 crin, l'occhio, il labro, il braccio e '1 piede, ma ognun empio, inuman, fier, crudo e rio stringe, strugge, calpesta, impiaga e fiede.

O crin, pie, mani, o luci, o bocca (oh Dio!), voi, voi, cinque nemici a la mia fede, date cinque ferite al petto mio !

Ili IL RIVALE

Naufraghi il vostro gaudio entro i miei pianti e sian le voci mie tempeste irate, o del mio cor crudi omicidi, amanti, ch'ai suon de' miei sospir, ahi, riposate!

Poiché, quai fùr le mie speranze erranti, sian le vostre dolcezze or fulminate; scagli il ciel contra voi folgori tanti, quanti per mio dolor baci scoccate.

Sia la notte che strinse i vostri nodi eterna notte, e lungamente amara le vostre luci in ferreo sonno annodi.

E dritto è ben che d'ogni lume avara ella, ch'agevolò le vostri frodi, converta il letto, or profanato, in bara.

GIUSEPPE ARTALE 451

IV

LA CANTATRICE

Moro a tue fughe e son tuoi canti incanti, con cui maga canora anime ammaghi, e in legar con più corde i cori amanti co' semicromi i semimorti impiaghi;

passi i cor co' passaggi, e in tuon se canti, con dolce tuon di fuhninar t'appaghi, e a le sincope tue petti costanti de le sincope lor gemon presaghi.

Non poso in pause, e i miei sospiri etnei son tuoi respiri, e son per tua virtute le tue cadenze i precipizi miei ;

e in acuto in vibrar saette acute, dirò che dian ne' miei dolor più rei mille colpi al mio cor le tue battute.

V

LA DONNA CON GLI OCCHIALI

Non per temprar l'altrui crescente ardore sugli occhi usa costei nevi addensate, ma per ferir da più lontano un core rinforza col cristal le luci amate.

Se co' riflessi il Sol nutre il calore, questa, per far più fervide le occhiate, l'oppon due vetri, acciò che '1 suo folgore vibri, in vece di rai, vampe adirate.

Ella, quasi Archimede, arder noi vuole, che sa che cagionò fiamme e feretri per diafane vie passando il sole;

o i petti tutti acciò ferire impetri, ed a gli strali suoi cor non s'invole, vie più scaltra d'Amor, benda ha di vetri.

452 LIRICI MARINISTI

VI

LA PULCE

Picciola instabil macchia, ecco, vivente in sen d'argento alimentare e grato, e posa ove il Sol fisso è geminato breve un'ombra palpabile e pungente.

Lieve d'ebeno star fera mordente fra nevosi sentier veggio in agguato, e un antipodo nero abbreviato d' un picciol mondo e quasi niente un ente.

Pulce, volatil neo d'almo candore, che indivisibil corpo hai per ischermo, fatto etiopo un atomo d'amore;

tu sei di questo cor lasso ed infermo per far prolisso il duol, lungo il languore, de' periodi miei punto non fermo.

VII

LA DAMA INFANTICIDA

Tu ch'hai ne l'alba tua sera immatura e sei nell'orto un abortito infante, io ti son madre, culla e sepoltura, tu vita e matricida agonizzante.

Sorte è aver madre e averla è tua sventura; nóci innocente, ancor non balbettante mie colpe accusi; ed io pietosa e dura madre t'uccido, e ti composi amante.

Mori! Morte mi dan le tue dimore; ti chi ti die vita ore si corte per svenar con tua morte il proprio errore.

Amor ti diede (oh Dio!) la vita in sorte a dispetto d'onore, ed or l'onore a malgrado d'amor ti la morte.

GIUSEPPE ARTALE 453

Vili

IL CREATO E DIO

Stupisco!... Un fior chi '1 pinge? e come è nato da un atomo d'un seme orno eminente? come il popol marin, terrestre, alato, ha volo, corso, nuoto, e l'uomo ha mente?

dal proprio pondo il suol com'è librato? chi agli astri ed al sol norma esistente? come il mar varia il flusso, e 'I flusso irato stanca e i confili non preterisce un niente?

Ah, trino ed uno a nostre menti ignare incomprensibil è, quant'egli è pio, l'increato fattor d'opre si rare!

Ch'ove un sol guardo e un sol pensier drizz'io, miri il ciel, calchi il suolo o prema il mare, veggfio e contemplo in ogni oggetto un Dio.

IX SANTA MARIA MADDALENA

A Maria Maddalena Loffredo, principessa di Cardilo

Gradir Cristo ben dèe di pianto un rio, torrente ov'egli bee d'alme assetato; se su l'acque vagò spirito e Dio, su l'acque a passeggiar torna incarnato;

e se la pace a chi l'offese offrio, giusto ben fu poiché pietoso e grato videsi a' pie di chi piagarlo ardio l'aureo crin, che l'insegna è del peccato.

L'occhio e la chioma in amorosa arsura se 'I bagna e '1 terge, avvien ch'amante allumi stupefatto il fattor di sua fattura;

che il crin s'è un Tago e son due Soli i lumi, prodigio tal non rimirò natura : bagnar coi Soli e rasciugar coi fiumi.

454 LIRICI MARINISTI

X

IL BUON LADRONE

A Pietro Valeri

Qui sagace l'ingegno e '1 saldo amore e di Cristo e del ladro oggi si mira; questo del primo ardir perde il vigore, quei del giusto rigor depone or l'ira.

Questi l'empio furor cangia in fervore e quei fervor ne l'altrui petto inspira; quei vuol, quei dona, e in quello e in questo core l'industria, o Pietro, e la pietà s'ammira.

Cristo, ai martir giunto di morte in atto, glorie a quello e con pietoso zelo ne la sua povertà prodigo è fatto.

Rapace è l'altro, e dal corporeo velo pria che l'anima uscisse, egli ad un tratto ruba a costui con un sospiro il cielo.

XI

IL TERREMOTO DI RAGUSA

Circonferenza il ciel, punto inchiodato la terra è in centro, e pur tremar la sento. Come ? forse soggetto a nobil fato cede l'ordine eterno al violento?

No, no, scote un Tifeo monte inceppato, a sveller torri ogni vapore è lento; move immoto il suol spirto esalato, milesia vertigine vento.

Uom tu sei, che se reo pecchi e non gemi, e in peccar Cristo uccidi, arcan profondo vuol che, Cristo morendo, il mondo tremi.

Quinci or che al primo error giungi il secondo, già sono, anzi che sieno i giorni estremi, i falli tuoi paralisie del mondo.

GIUSEPPE ARTALE 455

Xll

IN MORTE DI TROIANO SPINELLI

DE' PRINCIPI DI TARSIA il quale lasciò all'autore in segno di affetto una spada preziosissima

Voli al ciel, lasci acciar? Doppio martoro lasci a chi t'ama, a tua fatai partita; anzi tu fra' beati, io senza vita, vivi morendo, or che vivendo io moro.

E mistero il tuo dono. Al ferro, a l'oro tua gran virtute a specular m'invita; perché sai che al goder va morte unita, ben armato d' acciar lasci un tesoro.

Ma non più sangue io spargerò pugnando, che vinto a tua bontà l'umano orgoglio cade al mio pie per adorarti il brando.

Quinci sol per dar i^ace al mio cordoglio, col tuo nobile acciar penne temprando, la morte che t'uccise uccider voglio!

XIII AL PADRE MICHELE FONTANAROSA

È lingua o fiume? ed è facondia o mare ciò ch'ammirano in te gl'ingegni altrui? Mare non è, che non ha l'onde amare; fiume non è, che non ha sponde in lui.

Pur è mar, pur è fiume: è mar che rare gemme produce infra' concetti tui, è fiume che su rose uniche e care forma d'alta eloquenza i corsi sui.

Dunque è mar, dunque è fiume; oltre l'usato è dolce l'uno, e l'altro oltre il costume ha da la rosa tua fonte odorato.

Cosi, carco d'onor, ricco di lume, scorgo il tuo vasto ingegno in mar cangiato e la FONTANA tua conversa in fiume.

456 LIRICI MARINISTI

XIV

IL TESCHIO DEL TURCO

Questo che morto ancora il ciel disfida, orrido teschio di terribil trace, mira, Lidia, mio Sol, l'empio omicida sprezzator d'ogni legge e pertinace.

Questo de' traci e capitano e guida drizzò pronto di man, d'ingegno audace, ferrata scala, e perché ed arda e uccida portò ai muri sovente e ferro e face.

Poggiava alfine, ed io sul collo invitto tal percossa avventai, che '1 busto forte senza capo restò fra' morti ascritto.

Or mira, e fa' che sdegno il guardo apporte, perché può tua pietà d'un uom trafitto far vita per miracolo la morte.

XV

EPITAFFIO A SE STESSO

Sparsi sangue ed inchiostro, e in ciel straniero diedi d'alte speranze ésca al desio; ma invan, che fei sotto Saturno austero, martire del destin, ritorno a Dio.

Or di quel ch'io girai doppio emisfero, e del mare e del suol vario e natio, tanto mar, tanto suol converso in zero, questo zero mi chiude, e questo è il mio.

Cosi, se nel tenor d'aspra sventura non posai vivo, a la fatai partita presto a l'ossa riposo in sepoltura.

Riposo, e non mi svegli alma imperita; ch'io temo, oimè, l' immortai mia sciagura non torni a l'ire, e mi richiami in vita.

GIUSKPPE ARTALE 457

XVI

DOPO UN DUELLO

Alla sua donna

Punto di più d'un ferro e semimorto, mentre tutto il mio sangue al suol trabocca, sol per estremo e singoiar conforto ti scrivo, anima mia, co' l'alma in bocca; e, benché sia nel proprio sangue absorto, roso ancor da lo strai ch'Amor mi scocca, senza speme di vita, agonizzante, non mi posso scordar d'esserti amante.

Forma or tu gli amorosi alti argomenti, s'io tua beltà costantemente amai, mentre per te fra bellici stormenti avido di servirti il sen portai, e i colpi mortalissimi e pungenti, quasi a gran nume, al tuo voler sacrai, benché mirò per mio svantaggio ognuno quattro e quattro guerrier incontro ad uno. Pur non temei, poiché non mai si vede

paventar ai perigli amante un core,

e fra le pugne orrende or ben si crede

giungere ardir, vie più che Marte, Amore !

Quinci non mai torcere in fuga il piede

mi scorse, benché fier, l'altrui furore;

anzi mirò per altrui scorno il polo

far fronte ad otto brandi un brando solo. Non curai l'armi e non temei gli armati,

offesi offeso e rincalzai ferito;

provocai, minacciai quei volti irati,

fatto guerrier de la ragione ardito;

i colpi non curai, ver' me vibrati,

quantunque fùr di numero infinito;

si non fé' per timor fallo in effetto,

fatto bersaglio ad otto ferri un petto.

45S LIRICI MARINISTI

Trafiggeami un nemico, e noncurante de le ferite mie feriva anch'io, ed or questo mirava or quel sembiante correr misto al suo sangue il sangue mio. Cosi, senza mostrarmi unqua anelante, sprezzai di più d'un uom l'impeto rio; anzi nel duol multiplicai fortezza, sol pensando al valor di tua bellezza.

Di voi diceva, o sanguinosi acciari. Lidia più strugge, ovunque avvien che tocchi; ella vibra di voi più colpi amari, se talora un suo strale avvien che scocchi ; siete pur troppo di ferirmi ignari, o ferri, al paragon de' suoi begli occhi, poich'essi, archi inerrabili d'Amore, scoccansi sempre ad impiagarmi il core.

Cosi ardeva la pugna, ed o che fosse che i cori audaci ogni fortuna aiute, o che fra squadre insanguinate e rosse qui difesa dal ciel sia la virtute; degli altrui ferri io non curai percosse, quantunque altri dicean con note argute: Cadrà chi pugna sol ; cadrà pugnando. Che far potrà fra tanti brandi un brando?

Già già l'ira s'avanza e '1 furor cresce, si che pugnan per noi l'ira e '1 furore; odio con odio si confonde e mesce, altri aumenta lo sdegno, altri il rigore. Ma già fra tanto orror l'orror rincresce e quasi è di pugnar lasso il valore; cessa la zuffa, e fra lo stuolo essangue verso pur io da più ferite il sangue.

Or se mai tu da queste luci i pianti chiedesti allor che fido io t'adorai, godendo sol ch'io mi stemprassi avanti l'animato splendor de' tuoi bei rai;

GIUSEPPE ARTALE 459

se tante or del mio sen piaghe inondanti versan torrenti sanguinosi, ed hai ancor tu di mie lacrime desio, prendi in vece del pianto il sangue mio.

E la cagion di si costanti effetti è sol di me l'immensurato ardore, che sol per dimostrar più caldi affetti, in cambio d'acque io do sanguigno umore: anzi spero diran gli accesi petti, che fùr costanti in ubbidire Amore: Ecco, mancando i pianti a un cor che langue, ofifrisce a l'idol suo fiumi di sangue!

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Or va', rifiati al br-'i/xio; offendi irato chi )'ar vóto «li forze, inerme al i^iiartU), cM Kentirai mancarti il moU) e 'I fiato.

Non è men fort'- il mal, benché inhuKanlo U: torperlini »u' li.i |/ure il fatr>; ov 1'- l'ini ni<;n, covan'^ il <Uir<\<>.

I f l-.I^I'l !■ AN'I AS'I U;i

Rustiche fren'ifiie, iso^ni fioriti, deliri ve}<ctabili o'lor'>si, <;apricci de' }<Jardin, l'r';t'-i frondosi, e d'ameno furor cedri imi>a/./,iti,

quasi inante di Cafimo armano arditi a l'autunno i^ncnn-.r ionv.ì selvosi, o, di l'omona adulteri '/joKOhi, fan nascere nel suol m'astri mentiti. Vedi zampe di ti^ri «r ctffi 'l'ors^^ e chimere di serpi, e, »c l'arldenti, quasi ne temi il tr>cco e fuj<gi il morso

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GIACOMO LUBRANO

I

IL SONNO

Antipode del senno, oppio de' sensi, benché di mezzo l'essere ci privi ed a dazio di morte astringa i vivi, esige il sonno volontari censi.

Rende cimmeria l'alma, e ciò che pensi, sposando a lazie muse i plettri argivi, larva è di sogni or mesti ed or festivi, delirio di vapori or radi or densi.

Di piacevole oblio vesta l'orrore, di sibarite rose il letto impiumi ; sepolcro è pur de l'uom che a tempo more.

Torbido il viso e '1 sen d'umidi fumi, per non farsi veder che ruba l'ore, adulato ladron ci chiude i lumi.

GIACOMO LUIìRANO 461

II

LA TORPEDINE

Di lubrici letarghi oppio squamoso e di sincopi vive estro guizzante, che, vii parto del mar, spira anelante gelide epilepsie di verno ondoso;

funambolo velen per gli ami ascoso corre ad assiderar la man tremante, e può render col tocco in un istante intormentito Marte, Ercol pauroso.

Or va', fidati al braccio; offendi irato chi par vóto di forze, inerme al guardo, che sentirai mancarti il moto e '1 fiato.

Non è men forte il mal, benché infingardo le torpedini sue ha pure il fato; ove le temi men, covano il dardo.

Ili I CEDRI FANTASTICI

NEGLI ORTI REGGITANI

Rustiche frenesie, sogni fioriti, deliri vegetabili odorosi, capricci de' giardin. Protei frondosi, e d'ameno furor cedri impazziti,

quasi piante di Cadmo armano arditi a l'autunno guerrier tornei selvosi, o, di Pomona adulteri giocosi, fan nascere nel suol mostri mentiti.

Vedi zampe di tigri e ceffi d'orso e chimere di serpi, e, se l'addenti, quasi ne temi il tocco e fuggi il morso.

Altri in larve di lemuri frementi arruffano di corna orrido il dorso, e fan cibo e diletto anco i spaventi.

402 LIRICI MARINISTI

IV

LA CACCIA DEL PESCE SPADA

NELLO STRETTO DI MESSINA

Per le liquide vie vola ondeggiante del tempestoso nume orrido figlio, ch'ha di cerulea spada armato il ciglio, terror di Teti e fulmine guizzante.

Trema negli antri suoi Scilla latrante, mirando negli assalti il mar vermiglio, che ad ogni pescator vivo periglio intima il mostro fier, strage natante.

Ma se '1 colpiscon mai l'aste già pronte, si sbatte e sbuffa e l'agonie si affretta con la morte nel sen, la spada in fronte.

NobiU, a voi! Un tal destino aspetta chi morde acciari e sanguinario a l'onte stima gloria del brando ogni vendetta.

v LA LIBRERIA FINTA DI LEGNO

Apresi inciso entro un'adriaca scola di apocrifi volumi ampio museo, che a' famosi d' Italia il pregio invola, di erudito scarpe! vago trofeo.

Quivi assaggia degli occhi anco la gola di spirti intelligibili un archeo, e scopre fuor la superficie sola quanto scrisse la Stoa, quanto il Liceo.

Leggere in pochi sguardi a parte a parte puoi l'enciclopedia di molti ingegni, senza stancar la mano a svolger carte.

Del veneto saper vanti ben degni fan che innesti col ferro arguta l'arte l'arbor della scienza a' morti legni.

GIACOMO LUKRANO 4^3

VI

L'OCCHIALINO

Con qual magia di cristallina lente, picciolo ordigno, iperbole degli occhi, fa che in punti d'arene un Perù fiocchi, e pompeggi da grande un schizzo d'ente?

Tanto piacevol più, quanto più mente; minaccia in poche gocce un mar che sbocchi ; da un fil, striscia di fulmine che scocchi, e giuri mezzo tutto un mezzo niente.

Cosi se stesso adula il fasto umano, e per diletto amplifica gl'inganni, stimando un mondo ogni atomo di vano.

Oh ottica fatale a' nostri danni ! Un istante è la vita, e '1 senso insano sogna e travede eternità negli anni.

VII

A UN VANTATORE DI NOBILTÀ

L'arbore imperiosa in cento rami di tua stirpe s'inalzi, e colma abondi di corone e di mitre; infra le frondi la fama canti pur ciò che più brami.

Fingila nata ancor pria degli Adami, quando vagiano in culla ombre di mondi; che investigando già dove si fondi, non troverai che polvere e letami.

Vane genealogie! Se i pregi augusti ne la posterità restan sepolti, vili epitaffi son, titoli ingiusti.

Odi tu, che degli avi i tronchi avvolti vanti di glorie sol perché vetusti: la più antica famiglia è degli stolti.

464 LIRICI MARINISTI

Vili

LE BEVANDE AGGHIACCIATE

Doni del del, gratuiti tesori cadono giù le nevi, e in bianca mole si rapprendon penose, onde la prole lattin poi sciolte a rustici lavori.

E pure il lusso l'offre in tazze d'ori per estri a Bacco e fomiti a le gole, e benché arrabbi ingiuriato il sole, mira tremar l'està, freddi gli ardori.

Ebri Epuloni, o voi che in laute cene fate brillar voluttuoso il verno, ne' di canicolari entro le vene,

tempo verrà che nel profondo Averno impetrar non potrete, arsi da pene, un'istantanea stilla al foco eterno.

IX

IL BACO DA SETA

che si schiude nel petto di una donna

Si slaccia Filli il petto e le native poppe son d'un vii verme albe di vita; fra palpiti d'argento il latte invita ad animarsi in oro un che non vive!

Non si vaghi del Gange entro le rive smalta i natali al Sol l'onda fiorita, più morbida culla o più gradita le Veneri sortir ne l'acque argive.

Pria che il serico stuol l'ambite prede stenda col labro in biondo fil serpendo, par che del core uman vagisca erede.

La mia mortalità quindi comprendo, senza gire a le tombe. In noi si vede la morta polve inverminir vivendo.

GIACOMO LUBRANO 465

X

I TUMULTI DI NAPOLI DEL 1647

Mormorava ai singulti di moribonda schiera l'ebraica pescliiera,

e de l'acque sconvolte infra i tumulti bevean le turbe inferme centra l'ire del fato vitalissime terme. Or del bagno odorato l'onde un tempo superbe nutrono in sozzo suol povere l'erbe.

Mondo, correggi il voto. Non più torbido flutto a le piaghe del lutto le panacee sue stempra col moto. Quanti offre l'incostanza al genio turbolento pelaghi di speranza, son eolie di vento; mai piena di sdegni co' precipizi suoi fa base a' regni.

Insolenza plebea, stolta quanto spietata, ne la patria turbata credè trovar di libertà l'idea. Pianse la mia Sirena tra tempeste d'inganni, che più schiavi di pena regnasser da tiranni ; e da stragi confusa bramò per fuggir via farsi Aretusa.

Quanti aborti di terra su le reali altezze

Lirici maiinisti

466 LIRICI MARINISTI

disegnano grandezze?

quanti Marti cenciosi escono in guerra?

Il più vile è più audace;

al veder mi vergogno

idra d'odi la pace.

Republica di sogno

con suffragi protervi

vuol ergere in sul tron cònsoli i servi.

Qual fascino d'inferno a un pescatore insano pose lo scettro in mano? tolse le canne? Ahi, de le leggi a scherno ogni spiaggia par fòro da publicare editti; pregi di sangue e d'oro corrono per delitti, mentre in reti di morte scalzo un Timoteo osa pescar la sorte.

Bella reggia d'eroi, Partenope infelice, cangiò la plebe ultrice in arte di perfidia i plettri tuoi. Non più t' intreccia al crine vero valor le palme; bollon rabbie assassine in proditorie calme; sognano (il dico e piango) pazze democrazie spirti di fango.

So che nel ciel sovente a fulminar il fasto marciò con nembo infausto di zanzare e locuste oste fremente. Teman l'anime insane di egizi Faraoni fiumi di sangue e rane, piogge di piaghe e tuoni.

GIACOMO LUBRANO 467

che sempre a' re malvagi

la maestà fu merito di stragi.

Ma de l'Austria fedele chi non adora i pregi? Fan volare i suoi regi per l'indo mar cattoliche le vele. Quanti nascono augusti portano da le cune il titolo di giusti, arbitri di fortune; e dove stende il piede lo scettro de' Filippi, entra la fede.

Del volgo la potenza si fa legge d'un « voglio », e con rabbie d'orgoglio suona le trombe a popolar licenza. Spartachi e Vibuleni, barbari disumani, non resero sereni gli emisferi romani. Al Sol pon fare scorno, ma non mai le comete han fatto un giorno.

Svegliati a' pianti miei, Britannia sconsigliata, or che di frodi armata condanni a le mannaie i re da rei. Già fulmina perigli di ben giusta vendetta l'amor d'orfani figli, ed offesa t'affretta (né senza vero io parlo) l'ultimo funeral l'ombra di Carlo.

Emolo de' monarchi accampi un Cromuelle esercito rubelle, e di Londra infedel sospenda agli archi

468 LIRICI MARINISTI

trofei d'empie vittorie:

saettaranno i cieli

l'odiose memorie

di pompe si crudeli,

che potenza rapita

efimera del fasto ha poca vita.

Spesso nube orgogliosa con parelio mentito ruba dal Sol tradito di sinonimo onore ombra vistosa. Ma quel ch'agli occhi parve riflesso di splendori, fu ludibrio di larve, maschera di vapori : in un breve momento le porpore non sue disperge il vento.

GIOVANNI CANALE

I

IL PAVONE E LA DONNA

Godea Lilla in mirare augel dipinto, che dell'alato stuol portava il vanto; avea fregiato il capo, azzurro il manto, d'un pennuto gemmalo adorno e cinto.

Pompa facea suo ambizioso instinto coi fior del prato a garreggiare, e 'ntanto si vide di bellezze un sole a canto e dubitò di rimanerne vinto.

Fatto egli emulator del bel sembiante, al di cui lume s'abbelliva intento, il suo occhiuto spiegò cielo rotante.

Gioia dal riguardarla ebbe e tormento, vinto si rese, e divenuto amante, per vagheggiarla apri cent' occhi e cento.

470 LIRICI MARINISTI

II

LA CHIOMA INCIPRIATA

Se con la face Amor saetta ardori, accende l'alme e rende i cori amanti, tu di Ciprigna con la polve i cori più che fiamma d'amore arder ti vanti.

Maga amorosa, or con novelli incanti da questa polve fai nascer gli Amori ; ritorni profumati or gli altrui pianti e al fumo de' sospir spargi gli odori.

Alchimista d'amor, polve odorata mischiando al vivo dell'altrui tormento, vuoi far dolce il martir, la pena grata.

Mentre l'oro del crin mostri d'argento, discopri ancor che tua beltà pregiata si cangia in breve ed è sol polve al vento.

Ili A UN POETA CHE SI TINGE LA BARBA

Adulterare il venerando argento che t'accredita il volto or si mentito, è d' ingegno senil già rimbambito e di vano pensier chiaro argomento.

T'inganni, se '1 vigor debile e lento cerchi coprir col pelo or si annerito, che, s'appare al color ringiovenito, rinvecchia in breve a tuo maggior tormento.

Pur sei caro alle muse e '1 tuo gran stile sopra ogni stile hai candido e sonoro; il tuo candido pel non abbi a vile !

Cosi più amato dal vergineo coro sarai, che '1 cigno nell'età senile ha più bianca la piuma e più è canoro.

GIOVANNI CANALE 471

IV

IL TAMBURO

Sorte perversa! In vii tugurio nato, per secondar fatiche e accrescer stento, di paludosi umori e fien cibato, diedi lena ostinata al mio tormento.

Dal peso degli affanni alfin sgravato, che d'essere vivuto ora mi pento, una cassa portatile tornato della mia pelle accoglio al seno il vento.

A mille e mille colpi il fiato scioglio, in campo marziale indi venuto a portar nuove glorie al Campidoglio.

Se vivo tacqui, in essere battuto morto assordo col suono, e ben mi doglio che chi mi batte è assai di me più bruto!

V

I RAZZI

Da ricinte prigion di carta avvolta sprigionata da ardor polve nitrosa, spinta nell'aria ed in faville sciolta, sibila irata e strepita orgogliosa.

Di stellucce fugaci appar pomposa col ciel stellante a garreggiar rivolta; reca alla notte oscura, all'ombra ascosa de' suoi fatui splendor famiglia stolta.

D'ardori nell'efimere procelle resta assorta la vista, e mille e mille luci ch'ammira a lei sembrano stelle.

Questi focosi rai, queste faville son nulla a par di quelle eterne, e quelle del divino splendor sono scintille.

472 LIRICI MARINISTI

VI

ALLA REPUBBLICA DI VENEZIA

Per l'armata del Morosini

Monarchessa del mar, ch'ardita sdegni picciole imprese, il tuo valor t'affida di render serva ora la Tracia infida, che nutrisce nel sen mostri si indegni.

La selva formidabile de' legni ch'armi su l'onde ove il Leon s'annida, che col ruggito alla battaglia sfida lo scita, e al grido suo tremano i regni ;

mentre fa ventilar l'insegne altere, rende avvilita ogni nemica parte, che cade a' lampi tuoi d'armi guerriere.

Col valor della destra, ingegno ed arte, vinte ti condurrà barbare schiere il tuo gran Morosin, nautico Marte.

VII

PER LA CADUTA DEL CARDINALE ORSINI

NEL TERREiMOTO DI BENEVENTO

Nella sannia magion scossa e cadente cade l'Orsino eroe tra pietre involto, e riman tra le pietre ivi sepolto poco meno che morto e mal vivente.

Ferito sopra il crin, sangue innocente ingemma l'ostro ch'ha sul crine accolto, e intento al ciel, l'affetto al ciel rivolto, gli affanni altrui più che '1 suo mal risente.

Morte non teme ed ha la morte avante, il core in man di Dio gli è duol giocondo, e tra angustia mortai ne gode orante.

S'ora sostien d'infrante mura il pondo, stupor non è, se dèe poi, sacro Atlante, regger la chiesa e sostenere il mondo.

GIOVANNI CANALE 473

Vili

LA TRINITÀ DI CAVA

Dure balze, aspri colli e selve antiche, pendenti rupi e monti alpestri ed erti, folti boschi romiti, ermi deserti, grotte del chiaro Sol fosche nemiche;

bramo cangiar con voi le piagge apriche, le superbe cittadi e i campi aperti, e menar di mia vita i giorni incerti tra queste piante di silenzio amiche.

Che '1 vostro sacro e solitario orrore (lungi dal mondo, anzi da me diviso) daria riposo al mio turbato core;

e presso al dolce rivo all'erba assiso che fa a' cantanti augei specchio e tenore, godrei fra questi boschi un paradiso.

IX

AD ASCANIO PIGNATELLI

che in un suo discorso lodò il Tasso ed il Marino

Se il Tasso ed il Marin, spirti canori, coppia immortai, che morte ha già schernita, giovanetto real che tanto onori, oggi nel mondo avesser senso e vita;

del lor plettro gentil l'armi e gli amori per te fariano alta armonia gradita, e r Italia n'avria nuovi splendori, dal nuovo canto lor via più arricchita.

saria d'uopo a si elevati ingegni, per dare aura alla fama e gloria al canto, soggetti ricercar da stranei regni ;

che di Marte e d'Amor chiaro campione, s'hai d'Amore e di Marte il pregio e '1 vanto, tu saresti il Rinaldo e tu l'Adone.

474 LIRICI MARINISTI

X

AL PADRE GIACOMO LUBRANO

Per l'infermità che l'affliggeva alla lingua

La tua lingua immortai, ch'offesa offende l'inferno, s'ella è nel parlar languente, l'alme infette a guarir pietosa intende e nel suo tronco dire è più eloquente.

Se l'udito talor mal la comprende, scopre arcani ineffabili alla mente; se bassa, de' pensieri alta si rende, alzando al ciel l'ascoltatrice gente.

Le ceda ogn'altra nell'orar fiorita, che i cori al vivo il suo dir punge e tocca, e, cosi inferma, al peccator vita.

Se di celeste ardor strali ne scocca stridendo, e al proferir non è spedita, de l'incendio divin la fiamma ha in bocca.

XI

ALLO STESSO

Per le poesie da lui composte, latine e italiane

In riva del Sebeto in suon latino mentre tu canti ove cantò '1 Marone e accordò la sua lira anco il Marino, i vanti lor co' tuoi par ch'ei risuone.

L'ammirabi! tuo stil, ch'ha del divino e indietro ogn'altro stil lascia e ripone, s'or tratta il plettro tosco, alto destino cela il tuo nome e in anagramma espone.

Spande l'ali la fama, e in ogni parte le tue va in promolgar rime pregiate, l'autor tacendo, non espresso in carte.

Son le tue glorie al maggior segno alzate; che creda il mondo ella l'occulta ad arte che d'angelica penna or sian formate.

GIOVANNI CANALE 475

XII

LO SCHELETRO

Tu che dal riguardarmi orror apprendi, timido parti e la mia vista abborri, arresta il piede e la mia voce intendi : se movi il piede, in grave error già incorri.

Come a fragil beltà perduto attendi, che sarà qual son io, pensa e discorri ; un punto mi mutò, da un punto pendi, e col tempo che vola a morte corri.

Begli occhi, vago crin, guance rosate amabil mi rendeano, e in un momento divenni schifa polve, ossa spolpate.

A macchinar disegni io vissi intento; ma i disegni, i pensieri e la beltate al mio estremo spirar sparirò in vento.

XIII

IL VECCHIO

L'uom ch'ai volto ha le rughe, al crin la neve, incurvato dagli anni è reso un gioco; trema nel pie, che '1 passo ha lento e breve, da un legno aitato, e non mai giunge al loco.

L'offende lo spirar d'un 'aura lieve e nel più estivo ardore a grado ha il foco; il tacer, il parlar gli è noia greve, poco intende e '1 suo dir è inteso poco.

Nel suo freddo vigor l'ira l'accende, ogni lungo piacer l'infastidisce, nulla gli piace e ad ogni cosa attende.

Quando più sano appare, allor languisce; mentre schivo a se stesso e altrui si rende, fra miserie la vita egli finisce.

476 LIRICI MARINISTI

XIV

IL DESIDERIO DI VIVERE ANCORA

Folle pensier, che la mia mente ingombra, ch'io dal punto fatai viva lontano, e di speranza mi nutrisca insano, che '1 vero a non veder cieco m'adombra;

temerario ch'egli è, pur non disgombra da me col suo freneticar si vano; mira che la parca ha il fèrro in mano a far che cada e mi risolva in ombra.

Corre la vita al nonagesim'anno e tornar gli anni indietro indarno aspetto, d'età cadente a risarcirmi il danno.

Or che d'attender morte io son costretto, panni cangiato in agonia l'affanno, in tomba la mia stanza, in bara il letto.

XV

IL PENSIERO DELLA MORTE

Tu, che superba vai di ferro armata, cruda per atterrar l'umane vite, valor forte beltà pregiata rendon tue man pietose o meno ardite,

sempremai voracissima e spietata pascon la fame tua genti infinite de' sensi prive, e tu non mai cibata vibri colpi accanita, apri ferite;

s'al tuo orrendo apparir si suda e trema, è che ti crede ognun lontana ancora, e giunta all'improvviso apporti téma.

Ognor t'ho avanti e penso ognor ch'io mora, onde nel punto di quell'ora estrema fia men duro il morir, se moro ogn'ora.

GIOVANNI CANALE 477

XVI

GLI ABUSI MODERNI

A Federico Meninni, fisico e poeta

Al terminar degli anni eccomi giunto; e del mio albergo alla prigion rinchiuso, vivo nel mondo e son dal mondo escluso, che '1 pie tremante al camminar fé' punto.

Se non vaglio a formar debile un passo, m'aggiro immoto, e fra i veduti oggetti, eh' a riveder mi sono ora interdetti, pellegrinando col pensier mi spasso.

Piani erbosi solcar mugghianti bighe, che la lunghezza lor stanca la vista, col pensier veggio, e separar l'arista dai biondi grani in fìaggellar le spighe.

Or godo meditar vago ricinto, che di piante fruttifere ripieno Pomona alletta a riposarvi in seno, e '1 suo tesor dal variare è vinto.

Collinette frondose e selve chete, oscurissime valli, orridi monti, laghi, fiumi, ruscelli e chiari fonti rendono al mio pensier l'ore più liete.

Borghi, ville, città chiuse ed aperte, che dan ricovro ai passaggieri erranti, torno a veder co' miei pensier vaganti, calco senza partir strade deserte.

Irato il dio del procelloso regno vedo (lungi il timor) come già vidi, e poi placato passeggiando i lidi di bella calma in sen depor lo sdegno.

Ritornan quindi alla memoria viva della mia fresca etade i tempi e gli anni ; m'addolora il veder del tempo i danni, che veloce si parte allor ch'arriva.

47'^ LIRICI MARINISTI

O dolce tempo andato, ove fuggisti, teco fuggendo ogni modestia umile e '1 portamento nobile e gentile, che con lussi superbi il mondo attristi?

Semplici addobbi la natia bellezza rendean pomposa si, ma non altera, ed imitando la maniera ibera non mai s'impoveri l'altrui ricchezza.

Or le gemme eritree, gli ori del Tago tessuti a siri stami in tele e in nastri per legar l'alme ed apportar disastri, delle donne il desio non rendon pago.

Di gonfia vanità portano un mondo, eh 'a soffrirlo non rendonsi mai stanche, ed emulando le fattezze franche gradito è a lor di sconce vesti il pondo.

Ergon sul capo altier, come Cibelle, merlata torre di galani e veli; v'imprigionano il crin eh' avvien si celi in pena che d'amor fé' l'alme ancelle.

Candida benda dispiegar si vede qual bandiera di pace in su la torre, sotto il dominio lor il mondo a porre, cui muovon guerra poi, mancan di fede.

Sprigionato indi il crin, rivolto in fiocchi, ne formano piramide d'Egitto, per dare alla beltà termin prescritto, parlare a mille e stuijor mille agli occhi.

Col rinvenir si disusate forme credon più bella far beltà natia; ma ingannate ne van da lor pazzia, che la beltà natia fassi difforme.

Di Firenze non mai bestia da soma portò di rozzi fregi il capo greve, com 'altre ch'hanno poco senno e lieve portan monti di fior sopra la chioma.

GIOVANNI CAXAI-E 479

Vivon sott'arso del di fiamme armato nere beltà come le fé' natura, coperte sol dalla nerezza oscura, ma vergognose il sen tengon velato.

Vedesi qui, se borea agghiaccia il rivo all'aria in risoffiar fiato di gelo, mezze nude beltà senz' alcun velo, che d'onesto rossore il volto han privo.

Gli uomini intanto la follia donnesca accompagnano, ancor resi più folli; gli abbigliamenti femminili e molli usar par eh' a ciascun la stima accresca.

Han quelle, il perucchin dismesso e guasto, per sempre variar vario 1' umore; questi col ripigliare il loro errore nel renderlo maggior recansi a fasto.

Or le perucche a frenesie tessute fan di lor copia ed intrecciate e scinte; altre son naturali, altre son tinte, altre corte, altre lunghe, altre ricciute.

Quel che non fé' natura inventa l'arte, dando alle sete color vari e belli; maestre mani in trasformar capelli stravaganti chimere ai crini han sparte.

Varie di più color ferman lo sguardo, aggravando col peso or l'altrui fronte, che di sudor fan che distilli un fonte, quando che in capricorno il Sol vien tardo.

Or d'un villan gli scarmigliati crini, che pendendo da un legno ei diede al vento, pria sotto a' piedi vili, indi ornamento d'illustre capo han riverenti inchini.

Industria mercantil, chiome europee, rubate a morti e da languenti accolte, son divenute in molte fogge e in molte pompe alle fronti nobili e plebee.

4So LIRICI MARINISTI

Diviso un monte altri ne forma e innalza novel Vesuvio, e se non par ch'allumi, pur di superbia all'aria esala i fumi, da cui discende al sen gemina balza.

Due ciocche acute avvien ch'altri riporte sul capo, qual portò raggi lucenti quel grand'ebreo ch'in adoprar portenti diede altrui con la verga or vita or morte.

Che s'in mano ei non tien verga fatale, fanciullesco spadin gli pende al fianco, ch'ora da lussi effeminato e stanco l'annoia arma pesante e a trar non vale.

Già composte le chiome in tante guise dal mondo alla vecchiezza han dato il bando, tornata in gioventù, si sa il quando, ch'ai figlio Enea somiglia il padre Anchise.

Or temerario il pelo invano insulta, col rinovar l'uscita, il volto antico, che lo sgombra da qual rio nimico; niun si vede più d'etade adulta.

S'ammira altri bensi d'etade annosa, che siede in primo loco egli fra i matti, giovane in apparenza e vecchio in fatti, ch'imperruccato ha la canizie ascosa.

Dal mento grinzo il bianco pel reciso, rasa ben la lanugine canuta, ha faccia giovami, ma non creduta per tante crespe che dimostra al viso.

Vuol l'amata ingannar con tal menzogna in mentir chioma, in falseggiar sembiante; ma non mai donna amò rugoso amante, e d'esser riamato egli si sogna.

Al rinascer del pel non ha riparo, vero appalesator di sue bugie; onde per occultar le sue follie spesso vi fa adoprar rodente acciaro.

GIOVANNI CANALE 481

Ingannato al pensier mentre folleggia, smarrito del discorso il buon governo, si rende a. tutti e passatempo e scherno; vaneggia ognor, sa ch'egli vaneggia.

Posta in oblio la gravità spagnuola, l'uso di nere vesti oggi è abborrito, eh 'a più colori sciamberghin fiorito il pregio maestoso a quelle invola.

Gli abiti colorati e da campagna mostran che i cittadin sien forestieri, o che voglian segnar lunghi sentieri per veder curiosi Italia o Spagna.

Onde di vesti baldestanie cinti, brandisse, brandeborghe e patalette, di boUanchine e di sciamberghe elette, son da ventosa bizzarria sospinti.

Par che perda d'onor, manchi a se stesso chi per capricci bave il cervel non sodo, se la moda che s'usa e senza modo non usa e qual monton non vada appresso.

Scemo cosi farnetico delira, idea de! bello alla sua idea si pinge; credesi un altro, un semidio si finge, e a vertigin di smanie il capo ei gira.

Menin, cui Febo die penna erudita, la mia già è stanca; a scriver tu ripiglia gli altri eccessi, a stupir la meraviglia, che lasciai, di Partenope impazzita.

La tua man valorosa indi a lei porgi, ch'espugna i morbi e d' Esculapio ha i vanti. Ma che? per far che torni il senno a tanti non bastan cento rote e cento Giorgi!

Lirici marinisti

XII

MENIiNNl - L. E P. CASABURl - GAUDIOSI

DOTTI - FERRUCCI

FEDERICO MEXIXXI

I

I FIORI E LA SUA DONNA

Mentre le vie più tenere del prato premi, o Nice, talor nuda le piante, de' tuoi begli occhi e non del nume aurato Clizia si volge al gemino levante.

Tra la plebe de' fior fatto gigante s'alza il giglio a mirar tuo volto amato, e viene a corteggiar l'aura vagante più tua beltà che il popolo odorato.

De' roveti a macchiarsi entro l'asprezza di vago sdegno e di rossor non poco la reina de' fior j er te s'avvezza.

E con tre lingue onde somiglia il foco, per tributar gli encomi a tua bellezza, di te favella, innamorato, il croco.

4-86 LIRICI MARINISTI

II

GLI ALBERI E LA SUA DONNA

Degli orti, ch'erudì destra ingegnosa, qualor ten vieni a passeggiar la via, umiliata ogni albore frondosa offrir suoi parti a la tua man desia.

S'apre il re de le frutta, e la natia ricchezza de' rubin ti scopre ascosa; a te la vite i suoi piropi invia, lussureggiante in su la rupe ombrosa.

Parla a te sospirando il pero, il moro, mentre par che sue frondi in lingue cange: Io pero, o Nice; innamorato io moro. -

Il pesco, acceso, il proprio sen si frange; per te serba l'arancio i pomi d'oro, per dolcezza d'amore il fico piange.

Ili IL VESUVIO E LA SUA DONNA

Vedi, Nice, quel monte? Egli è Vesevo, ch'ha su le viti i grappoli pendenti, i cui vermigli, indomiti torrenti, per estinguer talor la sete io bevo.

E dal breve dormir poi che mi levo per girne errando a pascolar gli armenti, contra i raggi che il Sol vibra cocenti sotto i pampani suoi schermo ricevo.

Vulcano non è Sterope o Bronte, ch'assidui colpi in su l'incude incalza, benché sparsa di fiamme abbia la fronte.

Ma da quella fumosa arida balza, con petto acceso, innamorato, il monte per mirar tua bellezza il capo innalza.

FEDERICO MENINNI 48?

IV

CONSOLATORIA

A donna che invecchia

Nel vetro lusinghier l'aspetto antico, poiché Nice mirò, die varco al pianto, e '1 fulgido censore, un tempo amico, fé' che nel suol precipitasse infranto.

Poi disse: Invano a ravvivar quel vanto di mie guance adorate io m'affatico; mi cingo invan di prezioso ammanto, s' oggi il mio volto è di beltà mendico.

Fatta è difforme, e in questa bassa mole col ,dio che in oriente ha d'or la cuna, gareggiar più la chioma mia non suole.

Ma Nice, a che biasmar la tua fortuna? Se con l'oro del crin sembrasti il Sole, con l'argento del crin sembri la Luna.

V

IL PAVONE

Questi, che spiega a l'aure ali splendenti, è ne' vari color Proteo vagante, iride de' pennuti, Argo volante, eh' ha mille in vagheggiarsi occhi lucenti.

Se a la vaga stagione i fior languenti render sa de le sfere il can latrante, il samio augel, eh' è primavera errante, non paventa di Sirio i vampi ardenti.

Emolo par de le sideree scene, qualor sue penne occhiute, auree fiammelle, l'Olimpo degli augelli a scoter viene.

Anzi, d'Atlante emulator s'appelle, mentre con meraviglia altrui sostiene sovra gli omeri suoi mondo di stelle.

488 LIRICI MARINISTI

VI

LA CARTA GEOGRAFICA

Forza d'umano ingegno! In breve giro Europa tutta epilogata io trovo; per sentier sconosciuto il pie non movo, e pur straniere io le città rimiro.

Quanto in più lustri altri mirò, se giro un sol guardo, distinto io tutto approvo; veggo regni remoti e clima novo, e d'incognite balze il ciglio ammiro.

D'ogni fiume natio scorgo la foce, e d'ogni mar tra' scogli suoi diffusa l'onda, che, benché finta, appar feroce,

Stupor non fia se de l' argiva musa fu l'Iliade ristretta in una noce, quando 1' Europa in picciol foglio è chiusa.

VII

FUGACITÀ DELL'UOMO

E PERSISTENZA DELLE COSE

Questi hbri, da cui più cose imparo e che divoro anco di Lete a scorno, altri, per innalzar forte riparo contro l'oblio, divoreranno un giorno.

In questo albergo, in cui ricovro ho caro, mentre le cure a riposar qui torno, se '1 ciel non fia di sue vicende avaro, altri faranno in altra età soggiorno.

In questo letto, ove fra l'ombre assonno perché rechi a' miei sensi alcun ristoro, altri ancor chiuderà le luci al sonno.

Quindi rodemi il cor più d'un martoro, solo in pensar che qui durar ben ponno cose che non han vita, ed io mi moro !

FEDERICO MENINNI 489

Vili

SPERANZA DI GLORIA

Con vomere stridente il suol disserra l'agricoltor ne la stagion più fiera, e sudando fra il gelo i rastri afferra, per mieter poi l'aurata mèsse altera.

Tratta i remi il nocchier, ch'in strania terra predar tesori avidamente spera; suda gli agoni un fulmine di guerra per trionfar de la nemica schiera.

Straccia il seno a le belve in Eri manto versando il cacciator tepido rio, per impetrar d'arcier superbo il vanto.

E vegghiando le notti anco sper'io forse con la mia penna e col mio canto ferir la morte e fulminar l'oblio.

IX

LA BUGIA, REGINA DEL MONDO

Sol menzogne ravviso ovunque il guardo de l'intelletto e de le luci io giro. Se d'un nume terren la reggia io guardo, mille di falsità ritratti io miro;

se '1 pie talor entro i musei ritardo, iperboli dipinte i lini ammiro; lusinghiera beltà viso bugiardo m'addita, allor che a vagheggiarla aspiro.

Turba di fole entro i licei dimora, di finte apparenze è '1 cielo avaro, quando a l'iride un arco il Sol colora.

Ma che giova schernir gli altri che alzàro trono superbo a la bugia, se ancora bugie da Febo, io che ragiono, imparo?

490 LIRICI MARINISTI

X

IN UNA VILLA PRESSO SORRENTO

Ad Antonio Teodoto

Vivo, amico, a me stesso. A pie d'un fonte, ch'odorosa la conca e l'onde ha chiare, non più cure celando in petto amare, a l'armonie le mie vigilie ho pronte.

Mentre accordo la cetra e la mia fronte fregio d'allòr che non ha frondi avare, più sirene ritrovo in questo mare, più camene ritrovo in questo monte.

Qui le vane speranze in aria ho sparte, qui canto i miei più giovenili errori, qui d' inchiostri febei vergo le carte.

Fra le pallide ulive e fra gli allori or facondie Minerva a me comparte, or mi spira Calliope i suoi furori.

XI

NEL TEMPO DELLA PESTE NAPOLI

Al padre Niceforo Sebaste, agostiniano

.Sovra carro funebre con tartareo flagello i draghi alati furia di Flegetonte agita a volo. De l'enfiate palpebre ai guardi infetti e de la bocca ai fiati, d'ossame imputridito ingombra il suolo. Spettatrice di duolo fassi l'Esperia, e di conforti esausto, di tragedia fatai teatro infausto.

FEDERICO MENINNI 49I

indomito veleno per le viscere altrui serpe baccante, mentre qual idra il suo livor propaga; sul margine tirreno con pestifero strai parca anelante di popolo infinito i petti impiaga; con tante morti appaga gli sdegni suoi, che di tristizia gonfi erge in orride bighe i suoi trionfi.

Spopolate le ville son di bifolchi e di guerrier le ròcche, di toghe i fòri e di ministri i tèmpi ; di lacrimose stille

son aride le luci, e le altrui bocche stanche di morte a detestar gli scempi ; perché di madre adempì la terra i mesti uffici, ancorché vasta, l'ossa insepolte a sepellir non basta.

D'antidoti salubri al contagio non è sicuro schermo da l'arte d' Epidauro unqua prescritto; su' talami lugubri,

mentre s'adopra a sollevar l'infermo, cade su l'egro il fisico trafitto; il genitore afflitto, di gelido pallore il volto tinto, spira l'anima in braccio al figlio estinto.

Attaliche ricchezze, lacera povertà, rapido strugge con assalti improvvisi il morbo infame; fulminate bellezze, deformità spiranti il foco adugge, di fiamme ingorde a saziar la fame; a recider lo stame

di tante vite, infra singulti e strida ~~~~

stanca la falce sua Cloto omicida.

492 LIRICI MARINISTI

Fra si tragiche scene io vivo, amico, e provvido riparo contra influsso maligno alzar m'ingegno; or co' fogli d'Atene dal comun fato a riserbarmi imparo, or animando armonioso un legno; degli Elisi nel regno,

se resta il mondo in fra le stragi absorto, entro un mar di sudori io spero il porto.

O di musici accenti delfico re, che d'immortali e casti lauri fregi il tuo crin sui gioghi ascrei, se da languidi armenti l'aure contaminate allor fugasti quando l'ostie fumar sui colli idei, dagli aliti letei

tu preservami intatto; in roghi accensi già le vittime sveno, ardo gl'incensi.

Sovra letto spiumato ove d'Olanda e di Getulia a scorno ricca pompa facean gli ostri e le tele, pallido, addolorato

languia l'inclito Alfonso, a cui dintorno di ministri assistea turba fedele; al palpito crudele

del suo petto anelante in dare esiglio, d' Esculapio non giova arte o consiglio.

Tutto ciò che da l'erbe e dai fiori stillò chimica mano, de la vita real si sceglie a l'uso; le dovizie superbe

di Cleopatra invan distempra, e 'nvano altri il biondo metal rende diffuso; che al temerario fuso,

benché gli ori de l'Ermo in tazza ei mesce, Cloto stami più lunghi indarno accresce.

FEDERICO MENINNI 493

Gusta appena di Faso l'ambito augel, che nauseante il rende antipatia di congiurati umori ; da cruda sete invaso,

che d'incendio vorace il sen gli accende, brama d'un fonte i gelidi liquori; e fra notturni errori, quand' altri le pupille aprir non ponno, vien co' fantasmi a funestarlo il sonno.

Cosi languia, quand'ecco le memorie erudite, espresse in fogli, con occhio immoto a contemplar s'accinse. Dal petto arido e secco gli occulti, inconsolabili cordogli tosto a fuggir con quelle note astrinse. In mar d'inchiostri estinse gli ardori esorbitanti, e gli die scampo sol di bella virtù sereno un lampo.

LORENZO CASABURI

I

LA POZZETTA NELLE GUANCE

Rise Clorinda, e su la guancia bella dolcissima pozzetta allor s'aprio; quando il mio cor ad osservar sen gio si leggiadra d'amor cifra novella.

Fors'è questa dicea propizia stella, eh 'ad affrenar le mie tempeste uscio? fors'è '1 fonte del riso, ove m'invio a delibar di gioie alta procella?

Amor l'udi, che v'era ascosto. E, sciolto ver' lo 'ncauto mio cor dardo improviso, cadde trafìtto e vi restò sepolto.

Oh cor beato, in si bel loco ucciso! poiché, di fiori in sul feretro accolto, ti fu tomba la rosa e nenia il riso.

LORENZO CASABURI 495

II

INGENIUM IPSA PUELLA FACIT

Col domestico lume altri pur tenti accrescer lumi a' numeri sudati, eh 'a far chiaro il mio stil saran possenti i dolci rai di duo begli occhi amati.

S'altrui dan metri amenità di prati, a me dan melodie guance ridenti ; s'altrui destan lo 'ngegno i pinti alati, alza un cigno fastoso i miei concenti.

Se d'erto faggio il verde crin si mira altrui la lingua all'armonie disporre, a me chioma dorata i canti inspira.

S'altri la cetra sua brama comporre lungo un ruscello, io vo' temprar mia lira presso un tenero sen, che latte corre.

Ili OCCHI NERI

A richiesta di Giuseppe Mastrilli Gomez

Occhi neri, occhi belli, or quale avrete nome che '1 vostro esprima alto valore? Bruni lapilli io non dirò che siete, se i di fausti per voi mi segna Amore.

Calamite non già, mentre sapete a me rapir, del ferro in vece, il core; fosche stelle pur, poiché potete di mia stella cangiar l'aspro tenore.

Direi ch'abbia la notte in voi soggiorno, se non sapessi ben che solo io vissi per voi sereno e sempre lieto il giorno.

Se miei Soli ecclissati io dirvi ardissi, folle sarei, eh 'anco del sole a scorno mi sa vita recar la vostra ecclissi.

496 LIRICI MARINISTI

IV

LE DONNE ASCOLTATRICI DELLA SUA POESIA

Coronatemi, o lauri. Il tracio legno a te, cetera mia, ceda i suoi vanti, che se quegli placò lo stigio regno, tu cieli di beltà tragger ti vanti.

De' Campidogli tuoi l'alto disegno io non invidio, o Tebro, a' tuoi regnanti; che teatro più nobile e più degno m'alzar di belle ciglia archi stellanti.

Mecenati, or non più chieggio a' destini che d'alme bocche al plettro mio sonoro s'apran arche di perle e di rubini.

Taccia chi inutil chiama il dio canoro, che di candidi petti e biondi crini tratti ho monti d'argento e fiumi d'oro.

v L'OROLOGIO FERMO

Frena, o bella, il dolor, se '1 veglio alato sta nel tuo grembo in vasel d'oro immoto; ch'invaghito di te, priega devoto la deità del tuo sembiante amato.

O s'arrestò perché '1 tuo bel furato non gli sia dell'età dal dente ignoto, o per aver da' tuoi begli occhi il moto, s'è da sue rote a più bei giri alzato.

Forse del ciglio allo 'nfiammato lume, forse del seno all'animato gelo, il suo pie s'agghiacciò, s'arser le piume;

o del tuo petto in sul celeste velo d'agitarsi nel corso invan presume, perché correr non puote il tempo in cielo.

LORENZO CASABURI 497

VI

LA BELLA MUTA

Forse in limpido specchio o in fresca riva fisasti della fronte i vivi avori, e della tua beltà gli alti stupori della propria favella oggi t' han priva?

Od a natura il tuo tacer s'ascriva, presaga già de' tuoi celesti onori, perché dovevi in sugli aitar de' cori adorata seder mutola diva?

O la tua lingua entro il silenzio asconde, mentre per intimar e guerre e paci sono i begli occhi tuoi lingue faconde?

O d'uopo non stimò formar loquaci de' labri tuoi le porpore gioconde, perché senza parlar chiamano a' baci?

VII

LA GIOCATRICE DI CORDA

Corre Clorinda in sui ritorti lini qual per l'aeree vie stella cadente, e formano un meandro aureo lucente agitad dall'aure i suoi bei crini.

Or non sospiro più gli orti latini ch'in aria architettò la prisca gente, s'in un florido qui volto ridente godo più belli i penduli giardini.

Cade e sorge in un punto, onde deriso vien l'occhio altrui, mentre gli dona e fura del suo vago sembiante il paradiso.

E quindi istupidito ogni uom la giura del piede al moto, alla beltà del viso, miracolo dell'arte e di natura.

Lirici mat-inisti 32

498 LIRICI MARINISTI

Vili

IL GIOCATORE DI CORDA

Lunghi voli, alti scherzi, erta salita tu formando in un laccio al ciel disteso, stupido lo stupor mira sospeso quanto possa dell' uom la mente ardita.

Non vanti più la sua colomba Archita, or che rapido il volo ha l'uomo appreso; sia Dedalo teco a gara acceso, se volante senz'ali oggi t'addita.

Già de' canapi tuoi gli occulti ponti fatt'han per gelosia Giove di ghiaccio, che 'n grembo a Giuno a tuo piacer sormonti

e più che de' Tifei teme il tuo braccio, poiché, se quei non v'arrivar co' monti, tu su l'etra poggiar puoi con un laccio.

IX

LA DONNA AL MARITO

the vuole andare alla j^uerra contro i turchi

Dal letto al campo? e d'Imeneo le faci spegnerà nel tuo cor di Marte il foco? per gir la luna a catenar de' traci, lasci un Sol di beltà de' proci al gioco?

Con le querce cangiar ti cai si poco questi de' bracci miei serti tenaci? e sdegnerai pe '1 timpano, eh' è roco, la melodia dolcissima de' baci?

Dalle sanguigne vie del dio più fero, per far più senno, il tuo jDensier distorna al vago del mio sen latteo sentiero.

Ma di penne, a fuggirmi, il capo adorna; che porterai nel tuo trionfo altero della luna ottomana ambe le corna!

LORKNZO CAS AHI- RI 499

X

PEL RITRATTO DELL'AVO E^IETRO URRIES

uditore generale tlell'esercito nel regno di Napoli

È questa quella fronte in cui sen venne Temi dall'etra a stabilir suoi sogli? questo è quel ciglio pur, ch'Iri divenne de' rauchi fòri a' tempestosi orgogli?

questo è quel labro ancor che fiumi e scogli d'inceppar, d'impennar virtù ritenne? e questa quella man, ch'arando i fogli già gli elmi aviti impoveri di penne?

Lieto è '1 giusto a sua vista, il reo tremante; delle vedove afflitte il duol disgombra, degli orfani consola egro il sembiante.

Astrea, cui di dolor Lachesi ingombra, china le luci qui: sarà bastante del mio gran Pietro a serenarti un'ombra.

XI

LE LAGRIME

Mute oratrici, a mitigar possenti l'irato re degli stellanti fòri, e sapete abolir co' vostri umori delle sentenze sue gl'impressi accenti;

di vostre perle i fulgidi torrenti pagar dell'alma, anzi annegar gli errori; che se Giove invaghi Danae con gli ori, innamorano un Cristo i vostri argenti.

Ei de' nettari suoi l'alme procelle pose pe '1 vostro amaro anco in oblio, per le cui stille abbandonò le stelle.

Voi dell'ambre assai più pregiar degg'io; se l'ariste rapir vantansi quelle, voi serbate virtù di trarre un Dio.

PIETRO CASABURI

I

INNANZI ALLO SPECCHIO

Concedi al crin, ch'ai Sol fa biondi oltraggi, con aurei calamistri ondosi errori, e d'un cristallo a' getici rigori pingi sul viso i più fioriti maggi.

D'un duro gelo a' balenanti raggi désti al regno di Cipro immensi ardori, e rendi a te necessitati i cori sacrar de' pianti i liquefatti omaggi.

Cosi col vetro, ond' eleganze ha rare, la tua beltà turbe d'amanti atterra; tanto nell'arti insidiosa appare.

D'Archimede rinnovi a noi la guerra: ei con gli specchi accese l'oste in mare, tu con gli specchi accendi l'alme in terra.

PIETRO CASABURI 50I

II

LA CHIOMA NERA

Tenebroso meandro, entro il cui giro naufragato m'avvolgo in dolci errori ; ombra ch'oscuri l'ombra e vinci gli ori, mentre le tue caligini rimiro;

scorni agl'inchiostri tuoi gli ostri di Tiro, onde sui petti altrui descrivi ardori, e, da gli ebeni tuoi vinti gli avori, la tua leggiadra oscurità sospiro.

Notte filata, alle tue chiare luci, che sul ciel d'una fronte hanno il chiarore, nel bel regno d'Amor l'alme conduci.

Ma se notte rassembri al vago orrore, meraviglia non è s'amor produci, poiché sol dalla notte è nato Amore.

ITI

TRAMONTANDO IL SOLE

Ed ecco, o Filli, avventurosa aurora portò quel giorno onde il mio duolo ha pace; ecco in sen pur ti .stringo, ecco si sface l'anima per dolcezza e si ristora.

Ma Febo, ahi lasso, inver' la spiaggia mora già va del giorno a sepellir la face, e già convien che tu, da me fugace, tristo qui m'abbandoni e ch'io mi mora.

Giove, perché costei dalle mie braccia non parta mai, del sole inchioda il volo, e su l'eteree vie lung'or sen giaccia;

se, nel concetto già d'Alcide, il polo fé' di duo giorni una sol notte, or faccia di due notti congiunte un giorno solo.

502 LIRICI MARINISTI

IV

A GIOVANE INNAMORATO

DI BIANCHISSIMA DONNA

Sia di neve un bel seno. Ivi i candori invan dell'onestà trovar già tenti, poich'alle nevi ancor sugli emi algenti il filosofo acheo negò gli albori.

Sia d'avori un bel seno. Indarno implori dal suo bello pietà ne' tuoi tormenti, che còlti son dall' affricane genti, porzione d'un mostro, anco gli avori.

.Sia di latte un bel sen. Di morte il gelo paventa ancor, che contro i Fabi io scerno volar nel latte anco di Cloto il telo.

E se scritto è lassù dal Giove eterno ch'altri per via di latte entri nel cielo, tu per calli di latte entri in Averno.

v LA ROSA

Nella vaga republica di Flora sol di beltà le maggioranze io vanto; cede il giglio appo me, vile è l'acanto onde superbo il molle aprii s'infiora.

Me l'alata famiglia in su l'aurora lieta saluta allor che tempra il canto, e perché di reina io porti il vanto, ricco diadema in sul mio crin s'indora.

Simile a' re su la mia regia sede, eh' è di smeraldo infra i miei verdi chiostri, darmi fregi al bel sen l'ostro si vede.

Ma cedetemi, o regi, i vanti vostri; s'una conca le porpore a voi diede, il sangue di Ciprigna a me die gli ostri.

PIETRO CASABURI 503

VI

A UN BAMBINO IN CULLA

Si nasce alle fatiche; uopo è che sudi, se tu goder felicità mai speri; s'esser vuoi glorioso infra i guerrieri, dèi di Bellona affaticar gli scudi.

Incontrerai nel mar gli austri più crudi, se conquisti vuoi far d'ori stranieri; s'ami cingerti il crin di lauri alteri, dèi di Minerva esercitar gli studi.

Se contraria non ha Giuno importuna il greco Alcide, in su le stelle i Giovi non gli schiudono mai soglia opportuna.

Disagi hai da soffrir, se vuoi che giovi a te la sorte. Ecco, bambino in cuna, s'agitato non sei, pace non trovi!

VII

ESCULAPIO, INVENTORE DELLO SPECCHIO

Fisso il pie vagabondo a' vivi argenti, e svelti dalle gelate valli dell'Alpi ombrose i lucidi cristalli, lo specchio esposi alle mondane genti.

Qui r Ecube e i Tersiti a' lussi intenti di natura emendar sul volto i falli; porsero a' labri teneri coralli, ostri alle guance ed alle chiome unguenti.

Dell'arte opra migliore, onde gli oggetti per cui gli egri amatori hanno il feretro, par eh 'a legar le fughe han gU anni astretti;

iodi i miei vanti il musico Libetro, ch'additando nel sen gli altrui difetti, Momo della natura ho fatto un vetro.

504 LIRICI MARINISTI

Vili

ALL'OBO, ALBERO INDIANO

che distilla acqua in tempo di siccità.

Rivolo vegetante, a te da' cieli privilegio immortai solo è concesso, quando da nera sete è l'indo oppresso, grondar su' prati i liquefatti geli.

Vanti lo re delle cantate Deli, onde scorna le parche, il suo Permesso, ch'a scorno di più fonti anco è permesso a te spuntar d'arida morte i teli.

Pria che gli giunga ad eclissar le luci con giorno arsiccio il fato, altri tu bèi, mentre dell'acque l'umido gli adduci.

Se nell'acque assegnerò i saggi achei la vita al tutto, ed acqua altrui produci, ben de la vita l'albero tu sei.

IX

AI SANTI INNOCENTI

Spettacoli d' A verno! ancor lattanti svena barbara man vite bambine; e di figli e di madri alle ruine s'ergon fiumi di sangue, Egei di pianti.

Cadete, fortunati, invitti infanti, sotto il furor di dure destre alpine, che tinti voi di sanguinose brine, gite lieti a calcar gli orbi stellanti.

Se delle genitrici i dolci accenti lasciate qui, le sfere ancor son fatte a discioglier lassù vaghi concenti.

E del materno sen le poppe intatte s'altri vi toglie, o bamboli innocenti, hanno i cieli per voi le vie del latte.

TOMMASO GAUDIOSI

1

L'OMBRA

Mentre di lei, che mio bel sole adoro, idolatra vagheggio il bel sembiante, ed ella, empia, ritrosa e noncurante, delle bellezze sue cela il tesoro;

del corpo mio, che di lontan mi moro, veggo per opra del gran lume errante l'ombra felice a la superba avante usurparsi il mio gaudio, il mio ristoro.

Cosi m'è forza invidiar quel vano apparente di me che l'aria ingombra, mentre io vivo e verace ardo lontano.

Oh come. Amor, le tue fallacie adombra il mio stato infelice; onde sia piano ch'ogni gioia d'amor consiste in ombra!

5o6 LIRICI MARINISTI

II

LA PENITENTE

Quella che tutta vezzi e leggiadria, o giri '1 guardo o pur le labbra scioglia, miir occhi abbaglia e mille cori invoglia a prestarle fedele idolatria;

oggi, tutta di vota e tutta pia, cangiati i fregi e la porpurea spoglia in nero ammanto, in abito di doglia, le proprie colpe a detestar venia.

Meraviglia giammai non fu cotanta, su la scena mutabile d' un viso, da spettatore o riverita o pianta;

che se '1 mondo vincea formando un riso, sprezzatrice del mondo oggi si vanta guadagnarsi col pianto il paradiso.

Ili MEMENTO MORI

Qualor tutta leggiadra e tutta bella a questo tempio fai, Lidia, ritorno, ove con viso industremente adorno fai della tua beltà pompa novella;

l'umana sorte a rammentar m'appella, che tuo malgrado ha da venir quel giorno in cui, d'amore e di natura a scorno, ritornar vi dovrai, ma non più quella.

Lasso, tremo in ridirlo. Il di fatale ritornar vi dovrai di morte scherno a far pompa di te, ma funerale.

Misera umanità, che dunque vale in sembiante divin stimarsi eterno, e per legge immortale esser mortale?

TOMMASO GAUDIOSI 507

IV

LA DONNA AMATA UN TEMPO

Redivivo agl'incendi, oggi le belle luci incontrai della mia fiamma antica, di quella un tempo mia gentil nemica per me tant'anni amorosette stelle.

Se la mia piaga al vagheggiar di quelle rinovasse il dolor, chi '1 prova il dica; pur incontro stimai di sorte amica sentir d'antico stral punte novelle.

E benché '1 petto, a nuovo oltraggio duro, trionfasse le fiamme e la bellezza, che già di lui tr'ionfatrici furo,

pur apprese il mio cor tanta dolcezza in veder lei, che per quegli occhi io giuro che sol gode in amor chi lo disprezza.

V

LE STRAVAGANZE DELLA MODA

Studia a l'amante suo più delicata parer Licori, onde accurata stringe quella parte dal corpo in cui si cinge, stringe il tenero pie, la bocca amata.

Ma poi le vesti sue sporge e dilata e su la fronte un gran cimier si finge, e con solchi si grandi il suolo attinge, che sembra agli occhi suoi torre animata.

Mirala il vago e di stupor n'agghiaccia; ma s'a stringerla poi le braccia spande, e nulla stringe e tutto il mondo abbraccia.

Oh stranezze di femina ammirande ! Cerca il modo costei ch'altrui la faccia in un tempo parer picciola e grande.

508 LIRICI MARINISTI

VI

IL GUARDINFANTE

Che le donne talor che copia fero di se medesme al desiderio umano, prendano in uso l'abito straniero, che da le membra lor gira lontano,

soffrir potrei ; però che '1 sesso vano dilata il manto al faretrato arciero, per dar più campo a queir ardor profano, che ristretto nel sen si fa più fiero.

Ma schietta donna e di consorzio priva, che porti 'ntorno un padiglion rotante, sembra ad onesto cor pompa lasciva.

Come creder potrò che senz'amante, come creder potrò che casta viva, chi si dispone a custodir-l' -infante?

VII

LO SPADINO IN TESTA

Lottò con Marte in singoiar tenzone la bella dea ch'ai terzo cielo impera, e del nume guerrier, fatta guerriera, baldanzosa sostenne il paragone.

Vinselo alfìn nel dilettoso agone, e per trofeo de la vittoria altera tolto il brando di lui, presso a Citerà armonne il fianco al suo diletto Adone,

Ma da quel di eh 'a trionfar fu presta, usò la dea de le leggiadre e belle portar picciola spada ai crini intesta.

Quindi fra noi l'antica usanza desta, le seguaci di Venere ancor elle d'indorato spadino arman la testa.

TOMMASO GAUDIOSI 509

VITI

IL TABACCO DA NASO

Già del mar de' piaceri e del diletto il superbo mortai toccava il fondo nel lusso abominevol ed immondo d'apicia mensa e di venereo letto.

Votar la terra e l'ocean profondo per render pago un indiscreto affetto, era commune error, commun difetto, non sazio ancor di tutto il mondo il mondo.

Alfin tant' oltre a trapassar risolve, che per pascer le nari in picciol vaso indica foglia in polvere dissolve.

Siam de la vita omai giunti all'occaso! Ha portato fra noi barbara polve le delizie del mondo insino al naso.

IX

IL GIOCO DE' COLOMBI ALLA CAVA

Move colà dai più gelati lidi innocente d'augei schiera volante, che fendendo le nubi a borea avante, cerca altra terra a rinnovar suoi nidi.

Ecco la scopre ai cacciatori infidi, sul primiero apparir, corno sonante: ecco, fra i colli e le frondose piante la caccian frombe e strepitosi gridi.

Ella, seguendo le fallaci scorte de' tinti sassi, incautamente piomba ne' tesi lacci a terminar sua sorte.

Cosi la semplicissima colomba, senza passar pei cardini di morte, perde il ciel, ferma il volo, entra a la tomba.

5IO LIRICI MARINISTI

X

LA RAPIDITÀ DEL TEMPO

Un tempo, il di cui restringean poch'ore parea si lungo a la tranquilla mente, che l'ora non vedea che in occidente tuffasse i raggi il luminar maggiore.

Or che degli anni è già passato il fiore, mi tramontano i Soli a l'oriente; veggo il tempo volar, l'orecchio sente una voce ch'intona: Ecco, si more.

Già già panni l'altr'ier quando ero in culla; or m'aspetta il feretro, e 'n breve, ahi lasso, sarò un mucchio di polve, e poscia un nulla.

Perché terra siam noi. Pur terra è '1 sasso; e se spingerlo in alto uom si trastulla, più veloce ne vien quanto è più basso.

XI

L'INFELICITÀ UMANA

Dieci lustri di vita o poco meno porto sul dorso; e se ricerco quante son l'ore liete, a numerar l'istante posso a pena formarne un di sereno.

Parte fra l'ombre del materno seno vissi ignoto cadavero spirante; parte poco miglior che belva infante soffrii di balia e pedagogo il freno.

Ne l'avanzo infelice (ahi, sallo il core!: parte ne tolse necessaria sorte, parte ne diedi a volontario amore.

Se la vita che resta è tanto forte, viver che vaimi, ove ogni di si more? È men pena il morir ch'attender morte!

TOMMASO GAUDIOSI 51 f

XII

IL LETTO

Rassembra a l'egro mio stanco pensiero sovente il letto un marziale agone, ove fo con me stesso aspra tenzone, or di fortuna ed or d'amor guerriero.

Talor mi sembra un mar turbato e fiero, ove scherzo son d'austro e d'aquilone, ove absorta dal senso è la ragione e, se non giunge il di, porto non spero.

Sono di questo mar venti i sospiri, di questo campo il militar congresso è di sogni, chimere, ombre e deliri.

Ove, lasso, trovar mi fia concesso tregua ai pensieri miei, posa ai martiri, se combatto, se ondeggio al letto stesso?

XIII

IL BACIO DI GIUDA

Spira il Verbo umanato aura celeste, spirti di paradiso; e Giuda spira turbini di nequizia e fiati d'ira, aneliti infernali, euri di peste.

E pur s'inclina, e pur Giesù da queste labbra lascia baciarsi, e non s'adira! L'appella amico, e senza sdegno mira quelle luci esecrabili e moleste!

Ben crederò ch'ogni motor superno, per l'immenso stupor fatto di gelo, tralasciasse in quel punto il moto eterno.

Sofferenza del cielo, ardir d'Averno! Si solleva l'inferno e bacia il cielo, s'inclina il cielo a ribaciar l'inferno.

BARTOLOMEO DOTTI

I

GLI OCCHI NERI

Luci caliginose, ombre stellate, Luciferi ammorzati, Esperi ardenti, Orioni sereni. Orse turbate, mesti Polluci e Pleiadi ridenti ;

Soli etiopi e notti illuminate, limpidi occasi e torbidi orienti, meriggi nuvolosi, albe infocate, foschi emisferi ed èrebi lucenti,

ottenebrati lumi e chiare ecclissi, splendide oscurità, tetri splendori, firmamenti in error, pianeti fissi,

dèmoni luminosi, angioli mori, tartarei paradisi, eterei abissi, empirei de l'inferno, occhi di Clori!

BARTOLOMEO DOTTI 513

II

DI DAL MURO

Angelica mia voce, indarno ormai un muro a le tue gorghe argine fassi, che _^ già, mentre scoccando al ciel le vai, di dolcissima gioia il sen mi passi.

Come un tenero sen non passerai, se le dure pareti anco trapassi? Stupisco ben come tu possa mai con si gran tenerezza uscir dai sassi.

Ah, credi a me! Dal tuo confin sicura non esci tu; che amor robusto e forte di lasciartimi al cor confitta ei giura.

Ma giuro bene anch'io che se ti porte coi canti a violar tu le mie mura, coi baci vo' sforzar io le tue porte.

Ili AMANTIUM IRAE

Oh Dio, che dolci guerre ed aspre paci ebbi con Filli! E l'una e l'altro sordo già da le strida, in qualche bacio ingordo punto facean le nostre lingue audaci.

Pareano i labri, al disfidar mordaci, replicarsi tra lor: Tu mordi, io mordo; ma stanchi poi con volontario accordo, ai morsi patteggiar pausa di baci.

Armati risorgean d'ire moleste, ma succedean fra lor, giunti a le strette, segni di pace a le minacce infeste.

Cosi '1 mar, cosi '1 ciel talor permette le perle scintillar fra le tempeste, le gioie sfavillar fra le saette.

Lirici maritiisti 33

514 LIRICI MARINISTI

IV

RESTITUENDO LE LETTERE

Tornatevene pur, note mendaci, sovra cui distillai lo spirto in guardi ; tornate pur, caratteri bugiardi, sovra cui distemprai l'anima in baci.

Si, si, tornate in quelle man fallaci, che già vi colorirò. Or se ben tardi io mi strappo dal cor le faci e i dardi, in voi tutti suggello e dardi e faci.

Ite, dite a colei che mi vi diede, che l'occhio mio senza l'ostacol vostro, disappannato ai fin, meglio ci vede.

Vede che quando l'empia a l'amor nostro in voi giurò costanza e giurò fede, fu costanza di carta e d'inchiostro.

v FUMANDO

O caro indico germe, oh quai diporti trovo ne le tue foglie al mio dolore ! Ardi, e de l'alma mia tempri l'ardore; fumi, e col fumo i miei sospir ten porti.

Or chi dirà che l'erba non apporti medicina salubre al mal d'amore, se da te solo i lenitivi ha il core, e da' tuoi suffumigi ho i miei conforti?

Sventura è ben eh 'a la mia piaga acerba fumo che spiro e foglia che consumo lieve e caduco il refrigerio serba.

Cosi, misero, quando aver presumo del mio ristoro la speranza in erba, con l'erba va la mia speranza in fumo.

BARTOLOMEO DOTTI 5I5

VI

IL FUMARE E LA MESTIZIA

Muse, poiché non so co' canti vostri i terreni placar purpurei numi, echeggiar più non fo d'Amicla i chiostri, gorgogliar di Pindo i dolci fiumi.

Questa canna è mia penna, e questi fumi mi servon già di geniali inchiostri, onde scrivo de l'aria in sui volumi a cifre vagabonde i dolor nostri.

Sorgono l'atre note, in cui diffondo i cordogli onde muto io mi querelo, e i nembi del mio cuor fra i nembi ascondo.

Quindi ritrar qualche conforto anelo, che se i sospiri miei non cura il mondo, gli accoglie almeno in questo fumo il cielo.

VII L'ABORTO NELL'AMPOLLA

A (jiacopo Grandis, fisico e anatomico

Questo, Giacopo mio, sconcio funesto cui die morto natale il sen materno, se maturo nascea, moria ben presto, e voi d' intempestivo il fèste eterno.

Non so se dolce latte o pianto mesto gli sia di quel cristal l'umore interno; so ben che l'alvo suo fu come questo, poi ch'utero da vetro io non discerno.

Vive quasi per voi chi per langue; embrione mori, scheletro nacque, fatto parto immortai d'aborto essangue.

Uomo, impara! Insegnarti al Grandi piacque che sia ventre di donna e maschio sangue più fral del vetro e men vital de l'acque.

5l6 LIRICI MARINISTI

Vili

LE FONTANE DI BRESCIA

Ruscello, naturai figlio de' monti, figlio adottivo a la mia patria viene, e per amor si svena in cento vene e sparte cento vene in mille fonti.

A più selci, a più mura empie le fi-onti,. che gettan per le vie piogge serene, dove per ribaciar le amiche arene par che l'acqua dai marmi a terra smonti.

Da l'occhio qui, non dal cammin riceve la sete il pellegrino; e se a le sponde discende a ber, del nostro amor s'imbeve;

che se l'acqua letea l'oblio c'infonde, il passeggier qui sempiterna beve la memoria di Brescia in si bell'onde.

IX

A SIRMIONE

Ognor che del Benaco io vengo e torno per questa inferior pendice aprica, in te fiso le luci, o Sirmio antica, già di Catullo mio dolce soggiorno.

Tu, penisola umil, che sporgi il corno da la terra e da l'acque a gran fatica, si nota sei, mercé la musa amica, che a più province, a più città fai scorno.

Quel cigno fu di nominarti vago, e col nomarti sol fu si fecondo, che fece del tuo nulla un'ampia imago.

Cosi ti pose per destin secondo una striscia di terra in braccio al lago, una striscia di penna in faccia al mondo.

ANDREA FERRUCCI

I

CHE COSA È AMORE

Ti dirò che sia amore. Amore è un fuoco, che dal bel volto tuo vola al mio seno; de' tuoi lumi è chiarissimo baleno, atro fulmine in me, per cui m'infoco.

Se in te lo miro, è tutto festa e gioco; se in me lo provo, di miseria è pieno; è degli occhi invisibile veleno, che circola nel sangue a poco a poco.

Amor che cosa sia? Veder se '1 vuoi, scorgi ne l'opre del suo fiero ardore numi accesi, arse dive, estinti eroi.

Si bella, vuoi saper che cosa è amore? Specchiati, e '1 mirerai negli occhi tuoi; aprimi il petto, e me '1 vedrai nel core.

5l8 LIRICI MARINISTI

II

IL RISO E IL PIANTO

Se Democrito stempra il core in riso e s' Eraclito stilla il core in pianto, il pianto di costui merita il riso, il riso di colui merita il pianto.

Ma se un'aura di duol fugace è il pianto, efimero balen di gioia è il riso; se ride Ciro e versa Creso il pianto, piange poi Ciro e di Tomiri è un riso.

È l'orbe un embrion di riso e pianto, del fato i giochi degni son di riso, le miserie de l' uom degne di pianto.

Cosi congiunti sono il pianto e '1 riso, che scorger non si sa tra riso e pianto se riso il pianto sia, se pianto il riso.

IH

L'OROSCOPO

Dove, dove t'innalzi, temerario pensiero? Il volo arresta! Su quai vanni ti sbalzi, curiosità funesta

a calcar di Giunon liquidi i campi, ove gli eterei lampi scrisser cifre di stelle a mie sventure, quanto lucide più tanto più oscure?

Stimolo dell'ingegno, folle curiosità, sprone al pensiero, oh temerario impegno, oh desiderio fiero,

ANDREA FERRUCCI 519

voglia del mio voler tormentatrice, ansietà infelice, ,

spia de' segreti, esploratrice audace, alfin ritroverai ciò che ti spiace.

Ferma l'icario volo; Argo è di luci il ciel, talpa tu sei. Per osservar nel polo gli abissi degli dèi

più svelati e più chiari invano impetri tersi veli di vetri ;

cozzar col lume invan, occhio, presumi, benché scudi di gel t'armino i lumi.

Sovra i cerulei giri, o che, pesci del ciel, guizzin le stelle, o in piani di zaffiri sian nodi ; a me procelle sempre presagiranno astri guizzanti ; le sventure costanti ne le fisse averò; contrarie sempre, non d'or, gli astri han per me ferree le tempre.

Stanchino i Tolomei sfere, astrolabi, tavole e figure; leggano i Galilei chiare le mie sventure; senza che me '1 predicano i Cenoni, i Firmici, i Ticoni, teorica che lor studian sugli astri, pratticata ved' io ne' miei disastri.

Con la diva di Delo l'oroscopo contende il dio cretese; al mio natale in cielo stanno i numi in contese; esser ricusan forse astri adirati signori a' sventurati ; guarda di trin Saturno la Fortuna, retrogrado è l'Eleo, cade la Luna.

520 LIRICI MARINISTI

Stelle, che più volete? avete influssi più maligni e infesti? stelle no, ma comete, che presagi son questi ? ogni segno per me s'accozza infausto? del destino olocausto bamboletto perché mi fece il fato, se cagion non sapea men di peccato ?

Vibra clava nocente armato di terror crudele Alcide; stella non più splendente le mie speranze uccide, ed avverati vidi i suoi presagi finor ne' miei naufragi. Alma, qual dunque scampo aver tu puoi, se tuoi nemici in ciel s'arman gli eroi?

In questo giorno appunto infausto... ah no, che dissi? oh folle! e dove a delirar son giunto? Se al sempiterno Giove consecrato ved'io si lieto giorno, di nuova luce adorno ecco risplende fausto il natal mio, se in oroscopo uman risplende Iddio.

Sogni, larve, follie, d'Ipparchi indegni e d'Apolloni infidi, pelasge fantasie, non sia ch'in voi mi fidi. Che Eudossi, che Maneti ed Albategni? che figure? che segni? Se in segno di pietà Dio mi sovrasta di pan con gli accidenti, a me ciò basta.

Pensier, se occulti arcani hai desio di spiar, qui ferma il volo. Qui misteri sovrani apprendere puoi solo.

ANDREA FERRUCCI 521

Ve' la sostanza in Cristo traformarsi, senza l'annichilarsi,

e mentre gli accidenti agli occhi appresta, forma sostanziai di pan non resta.

Sofisticar chi vuole come accidenti stian senza soggetto? de le sacre parole in istante l'effetto? Come è de l'alma il naturai ridutto in parte ancora tutto, tutto è nel tutto, e con mirabil arte tutta la quantità sta in ogni parte.

Pensiero, ove t'interni? Tanto secreto occhio mortai non vede; per tanti arcani eterni telescopio è la fede. Tu questo Sol ch'il tuo natale onora, entro la sfera adora; e se adori splendor che non comprendi, quali sian de la gli arcani apprendi.

FINE.

NOTA

II nome di « marinisti », dato ai poeti raccolti in questo vo- lume, non comporta (come, del resto, nessuna di siffatte deno- minazioni) un significato rigoroso. Esso serve a designare quei poeti che si mossero su per giù nella cerchia d' ispirazione trac- ciata dal Marino; ed è stato esteso perciò anche a coloro che, come lo Stigliani, si professarono antimarinisti, ma effettivamente non uscirono dallo stato spirituale del marinismo. Tuttavia, se ad altri piacerà di cangiarlo con altro nome, non disputeremo.

Non esisteva finora un'antologia di codesti poeti (salvo la scelta di cento sonetti, pubblicata nel 1880 da M. A. Canini, in un abortito tentativo di Sonettiere italiano, Torino, Candeletti); e, quantunque la presente sia stata fatta con lo spoglio di oltre un centinaio e mezzo di canzonieri di quel tempo (molti dei quali, s'intende, letti con risultato negativo), non viene licenziata alle stampe senza qualche riserva su quel che potrebbero offrire alcuni canzonieri, che non è stato possibile per ora procurarci.

Naturalmente, se la scelta fosse stata condotta dal punto di vista dello stile corretto, essa sarebbe riuscita assai diversa; e, se dal punto di vista della poesia, infinitamente più esigua. Ma si è voluto tener conto in essa degli spunti artistici, che presenta- vano interesse anche in componimenti mediocri e scorretti; delle più caratteristiche trovate bizzarre o mostruosità; dei vari argomenti che si solevano trattare e di certe forme predilette (p. e., l'epistola e l'elegia); e, infine, dare saggio di quel che sapessero produrre alcuni scrittori, ricordati dalle storie letterarie o celebrati al loro tempo. Si è escluso, in genere, ciò che era privo di carattere anche nella bruttezza; e perciò non si troveranno saggi, p. e., delle opere del Murtola, il quale deve la sua fama esclusivamente alla contesa personale col Marino. Insomma, l'antologia è stata condotta

526 LIRICI MARINISTI

dal punto di vista di chi raccolga documenti per uno studio sulla lirica del Seicento. Perciò anche la prevalenza è data alla poesia amorosa; quantunque questa nelle raccolte del tempo rap- presenti solamente una sezione, occupando le altre sezioni le poesie sacre, eroiche, funebri, morali, e via dicendo, che sono quasi sem- pre rimerie senza interesse di sorta.

L'ordine adottato è, nei limiti del possibile, quello cronolo- gico; e talora, in sottordine, quello per regioni o per affinità. I componimenti sono pubblicati fedelmente secondo le stampe o i manoscritti del tempo, col solo cangiamento dell'ortografia e della punteggiatura e con la correzione di evidenti errori tipografici : si sono serbate alcune forme proprie del tempo. Ma è parso op- portuno rifare quasi tutti i titoli delle poesie, le quali li avevano spesso lunghissimi e con monotone ripetizioni (p. e.. Bella donna o B. D.), e talvolta ne mancavano affatto. Abbiamo sostituito, dunque, molti titoli, sfrondati altri e aggiunti quelli mancanti. Di questo lieve arbitrio (il cui vantaggio, per altro, ci sembra supe- riore al danno) chiediamo venia.

Intorno alla fisonomia generale delle composizioni qui raccolte, si possono consultare alcune pagine del volume di B. Croce, Saggi sulla letteratura italiana del Seicento (Bari, Laterza, 19 io, pp. 377-433); aspettando che qualche studioso scriva di proposito sull'argomento.

I

STIGLIANI MACEDONIO GAETANO MANSO

BALDUCCI DELLA VALLE

I. Tommaso Stigliarli. Da // canzoniere del signor cavaliere fra' Tomaso Stigliani, dato in luce da Francesco Balducci, di- stinto in otto libri, cioè amori civili, pastorali, marinareschi, gio- cosi, soggetti eroici, morali, funebri e famigliari; purgato, accre- sciuto e riformato dall'autore istesso (in Roma et in Venetia, 1625).

Dell'edizione del 1625 esiste una copia manoscritta nella Bibl. Naz. di Napoli (xiii. D. 60), preparata per una ristampa che non ebbe luogo, e che reca nel titolo l'aggiunta: « in questa nuova impressione aumentato dall'autore di molte poesie non più pub- blicate ». Da questo ms. abbiamo tolto i componimenti che recano i numeri vi, ix, x, xv, xx, xxi, xxn.

NOTA 527

Su Tommaso Stigliani di Matera (1573-1651), si vedano G. Gat- tini, Note storiche sulla citta di Matera (Napoli, tip. Pernotti, 1882); M. Menghini, T. S., contributo alla storia letteraria del secolo xvii (Genova, 1890: estratto dal Giornale ligustico); F. Santoro, Del cava lier Stigliani, con appendice di poesie inedite (Napoli, tip. san- nitica, 1908).

II. Marcello Macedonio. —Dalla Scelta delle poesie di Marcello Macedonio (in Venetia, appresso Gio. Battista Ciotti, 1615). I nn. v-vi sono presi da Ballate et idilli dello stesso (ivi, 1614).

La prima ediz. della Scelta era stata fatta nel 1614, col titolo: Le nove muse di M. M., raccolte e date alla stampa da Pietro Macedonio suo fratello (in Napoli, ad instanza di Gio. Ruardo, all'insegna del Compasso). Il M. pubblicò anche / nove cori degli angeli (Roma, appresso Guglielmo Facciotti, 1615).

Di lui, gentiluomo napoletano, nato nell'ultimo quarto del se- colo XVI, innamoratosi d' Isabella Sanseverino moglie di Fran- cesco di Costanzo, esule per essa, poi frate, e morto qualche anno prima del 1620, discorre A. Borzelli nella introd. a / ca- pitoli della bellezza di M. M. (Filenio Pellegrino), con noticine (Napoli, Stanziola, 1895).

III. Scipione Gaetano Dal volume: Alla chiarissima Ma- datna Maria Medici reina di Francia. Rime dell' ili. mo signor Sci- pione Gaetano (in Viterbo, appresso il Discepolo, 1612).

Del C, figliuolo di Cesare e Vittoria della Valle, e morto prima del 1612, è cenno nel Quadrio, Storia e ragione di ogni poesia, II, parte i, p. 293.

IV. Giambattista Manso. Dalle Poesie nomiche di Gio. Bat- tista Manso, marchese di Villa, signor della città di Bisaccia e di Franca, academico otioso, divise in rime amorose, sacre e morali (in Venetia, 1640, appresso Francesco Babà).

Sul Manso, amico e biografo di Torquato Tasso, n. in Napoli nel 1561, m. nel 1645, cfr. L. Crasso, Elogi d' huomini letterati (Venezia, per Combi e La Nou, 1666, i, 309). Intorno a lui, un'am- pia monografia prepara Angelo Borzelli.

V. Francesco Balducci. Da Le rime del signor Francesco Balducci (in Roma, per Guglielmo Facciotti, 1630). Altre edizioni: Roma, Moneta, 1645; Roma, Manelfi, 1646 e '47; Venezia, Babà, 1655, 1663.

Intorno al Balducci, palermitano (1579-1642), oltre il Mongi- TORE e il Mazzuchelli, si vedano E. Cozzuoli, F. B., ricerche e

528 LIRICI MARINISTI

Studi (Palermo, tip. Giannone e Lamantia, 1892: cfr. Giorn. stor^ leti, ital., XXI, 188-9); e un cenno nel ^^\a.q^\, Il Seicento, p. 94.

VI. Francesco della Valle. Dalle Rime del signor Francesco DELLA Valle, in questa seconda impressione corrette et accre- sciute con gli argomenti dell' istesso autore (in Roma, appresso Alessandro Zannetti, 1622). I nn. viii, ix sono nella Raccolta del Guaccimanni, che si cita più oltre.

La prima ediz. delle Rime è di Roma, per Gio. Giorgio Razzi, 1618. Il Della Valle scrisse anche: Lettere delle dame e degli eroi con le risposte alle medesime lettere dell' istesso autore (in Napoli, per Camillo Cavallo, 1644).

Era nativo di un paesello presso Cosenza (cfr. son. xi); e di luì fa cenno lo Spiriti, Memorie degli scrittori cosentini (Napoli, Muzi, 1750), pp. 130-2.

II

ACHILLINI PRETI PAOLI GIOVANETTI

SEMPRONIO

I. Claudio Achillini. Dalle Rime e prose di Claudio Achil- lini, in questa nostra impressione accresciute di molti sonetti e altre composizioni non più stampate, con aggiunta di diverse bellissime lettere di proposta e risposta del medesimo autore (in Venezia, 1662, presso Zaccaria Conzatti).

La prima ediz. è di Bologna, presso Clemente Ferrini, 1632; seguirono altre di Venezia, Giunti e Babà, 1650; ivi. Babà, 1651 ; ivi, Bertoli, 1656.

Suir Achillini (n. in Bologna nel 1574, morto il i ottobre 1640), si veda la breve vita unita alla ediz. delle Rime e prose : Le glorie degli Incogniti (Venezia, 1647), pp. 109-111; Crasso, Elogi, 11, 161-5; e più ampiamente Mazzuchelli, i, 105-108; Fantuzzi, Scrittori bolognesi, i, 55-62. Cfr. anche B. Malatesta, C. A., cenni (Modena, 1884) e Belloni, Il Seicento, pp. 85-7.

II. Girolamo Preti. Dalle Poesie di Girolamo Preti in quest'ultima impressione corrette et ampliate di nuove materie non più stampate (in Venezia, 1656, per Gio. Battista Brigna).

Edizioni precedenti: Venezia, 1614; Bologna, 1618; Milano, 1619; Venezia, 1624; Roma, 1625; Bologna, 1631, 1644; Mace- rata, 1646.

NOTA 529

Sul Preti, oltre Le glorie degli Incogniti, pp. 277-9, e il Crasso, Elogi, II, 140-3, si veda Fantuzzi, op. cit., vii, 122-5. L'idillio La Salmace è ristampato in L. Fatane Finocchiaro, Appunti su G. P. (Milano, Albrighi e Segati, 1898): cfr. Giorn. stor. d. lett. ital., xxxii, 227-9, e Belloni, op. cit., pp. 88-9.

III. Pier Francesco Paoli Dalle Rime di Pier Francesco Paoli da Pesaro, in questa seconda impressione dedicate al se- reniss. signor principe Vittorio di Piemonte (in Modena, 1619, appresso Giuliano Cassiani). La prima ediz. è di Ferrara, 1609.

I nn. ix-xii, xiv-xix sono tolti dal più grosso volume delle Rime varie, dedicate al cardinale Antonio Barberini (in Roma, per il Corbelletti, 1637).

II Paoli, pesarese, dimorò a lungo in Roma, ai servigi di casa Savelli. Era già morto nel 1642, come risulta da un sonetto di P. MiCHiELE, Rime (Venezia, 1642), parte 11, p. 265. Cfr. Qua- drio, II, parte i, pp. 289. 581-2; e Crescimbeni, Comentari, IV, 181-2.

IV. Marcello Giovanetti. Dalle Poesie di Marcello Giova- netti, compartite in affettuose, boschereccie, nuttiali, eroiche, sacre, varie, e dedicate al card. Lorenzo Magalotti (in Roma, 1626, per Francesco Corbelletti).

Edizioni precedenti, col titolo di Rime, Bologna, Bonomi, 1620, e di Sonetti, canzoni, madrigali, Venezia, 1622.

Del Giovanetti (nato in Ascoli Piceno il 1598, morto il 14 agosto 1631) si vedano vita e ritratto xìq Le glorie degli Incogniti, pp. 329-31; e notizie in Crescimbeni, op. cit., iv, 168; G. Can- TALAMESSA CARBONI, Memorie ititorno i letterati e gli artisti della città di Ascoli nel Piceno (Ascoli, Cardi, 1830), pp. 183-4. Scrisse altresì una Citta, favola pastorale (Roma, Corbelletti, 1626), e una Vita di Sani' Emiddio protettore di Ascoli (Ronciglione, 163 1).

V. Glovan Leone Sempronio Tf-à. La selva poetica, ?,o\\&\.\À à\ Gio. Leone Sempronio, urbinate, nella Notte di Bologna il Vi- gilante e negli Assorditi di Urbino il Fuggitivo (in Bologna, presso Clemente Ferroni, 1633).

Fu ristampata con una seconda parte (Bologna, per Carlo Ze- nero, 1648).

Il Sempronio mori il 31 dicembre 1646: cfr. Quadrio, op. cit., II, parte i, p. 306. Scrisse anche un poema II Boemondo (Bologna» Zenero, 1651), e una tragedia // conte Ugolino (postuma, Roma, Salvioni, 1724): cfr. Quadrio, iv, 688; v, 199.

Lirici marinisti 34

530 LIRICI MARINISTI

/ III

MAIA MATERDONA BRUNI ERRICO

I. Gian Francesco Maia Materdona Dalle Rime del signor Gian Francesco Maia Materdona, distinte in tre parti, sesta impressione (in Napoli, 1632, per Lazaro Scorigio).

Altre edizioni: Venezia, Deuchino, 1629; Milano, Bidelli, 1630; Genova, 1660. Le Rime pescherecce, dedicate a Carlo Emma- nuele I di Savoia, furono stampate in Bologna, Moscherini, 1628.

Nativo di Mesagne, in provincia di Lecce, scrisse anche le Lettere di buone feste (Roma, 1624; Venezia, 1644), e L'utile spa- vento del peccatore (Roma, 1629; Venezia, 1665, 1671). Intorno a lui, Crescimbeni, IV, 170; A. Profilo, ]^ie, piazze, vichi e corti di Mesagne (Ostuni, 1894), p. 295 sgg. Una biografia di lui, do- vuta a un Ortensio de Leo, si serba ms. nella biblioteca di Brindisi.

II. Antonio Bruni Da Le tre Grazie, rime del Bruni ^in Roma, ad istanza di Ottavio Ingrillani, 1630); Le Veneri (Roma, 1632); Epistole heroiche (Venezia, 1647).

Delle Tre Grazie si ha altresì un'edizione di Venezia, 1627. Delle Epistole heroiche, la prima ediz. è di Milano, 1026; ne se- guirono altre del 1627, 1634, 1636, 1644, 1658. Il primo volume del Bruni è La selva di Parnaso (Venezia, Dei, 1616), componi- menti ristampati quasi tutti nelle Tre Grazie.

Il n. vii è tolto dalla Raccolta del Guaccimanni.

Del Bruni (n. a Manduria, in provincia di Lecce, nel 1593. morto nel 1635), si leggono cenni nelle Glorie degli Incogniti, PP- 55-7) e nel Crasso, Elogi, 11, 274-8; e discorrono ampia- mente il Mazzuchelli, II, 2180-2185, e il Minieri Riccio, No- tizie biografiche e bibliografiche degli scrittori napotitaìii fioriti nel secolo XVII, lettera B. (Napoli, Rinaldi e Sellitto, 1877), p. 47. Cfr. anche Giuseppe Gigli, Scrittori manduriani, 2^ edi- zione (Manduria, Spagnoli, 1896), pp. 51-92; e Belloni, op. cit., pp. 90-1, 480-1.

III. Scipione Errico Dalle Poesie liriche Scipione Her- rico, dedicate al principe Leopoldo Medici (in Venezia, 1646, appresso Giacomo Hertz). Il poemetto La via lattea era stato già pubblicato a Messina, 1614, e ivi anche Rime, 1619.

NOTA 531

Dell'Errico (n. a Messina nel 1592, morto il 18 settembre 1670), autore di molte opere, in tutti i generi, e tra le altre della com- media Le rivolte di Parnaso, è notizia nelle Glorie degli Incogniti, PP- 397-9i e nel Mongitore, Bibl. sicula, 11, 210-12; ed esame delle opere nel Salpi, Hist. liti. d'Italie, voli, xi-xiv, passim.

IV DIVERSI

I. Giambattista Basile. Dalle Ode (Napoli, Roncaglielo, 1627), e dai Madriali et ode (Mantova, Osanni, 16 13).

Sul Basile, si veda la monografia di B. Croce, in Saggi sulla leti. ital. del Seicento, già cit., pp. 1-104.

II. Biagio Cusano. Da L'armonia del signor Biagio Cusano (Napoli, per Ottavio Beltrano, 1636).

Sul Cusano, nativo di Vitulano, Toppi, Bibl. nap., p. 49; un ritratto di lui in G. F. Bonomi, // parto dell'orsa (Bologna, 1667), parte II, pp. 204-5. Scrisse anche: De' caratteri d'heroi (Napoli, 1661), Li dolori consolati della Sirena, ecc. (ivi, 1665), Poesie sagre (ivi, 1672).

III. Giovanni Palma. Dalle Rime del signor Giovanni Palma, tra gl'Infuriati accademici napoletani l'Impaziente (in Napoli, per Lazzaro Scorigio, 1632).

Era di Brindisi: Toppi, op. cit., pp. 121, 351.

IV. Giovanni Andrea Rovetti. Dal Mormorio d' Elicona, poesie del capitano Giovanni Andrea Rovetti (in Roma, per Ludovico Grignani, 1625).

Era genovese. Nella prefazione al voi. cit. il catalogo delle altre opere da lui composte.

V. Bartolomeo Tortoletti. Dalle Rime di Bartolomeo Tor- toletti, morali, eroiche, giovanili (Roma, Grignani, 1645).

Era veronese e scrisse un poema La Giuditta vittoriosa (Roma, 1628), e parecchie tragedie: Crescimbeni, iv, 174; Quadrio, ih, parte i, p. 79; IV, 686.

VI. Maffeo Barberini. Dalle Poesie toscane del card. Maffeo Barberini, hoggi papa Urbano ottavo (in Roma, nella stamp. della Rev. C. Apostolica, 1635).

VII. Paolo Giordano Orsino. Dalle Rime di Paolo Gior- dano II, duca di Bracciano (in Bracciano, per Andrea Fei, 1648).

532 LIRICI MARINISTI

Nato nel 1591, morto nel 1656: cfr. Quadrio, ii, parte i,

P- 317-

Vili. Giacomo d'Aquino. Dalle Rime e prose di D. Giacomo d'Aquino, principe di Crucoli (in Napoli, per Roberto Mollo, 1638).

Sul D'Aquino, Minieri Riccio, Not. biogr. e bibl., ecc., lett. A. (Milano-Napoli-Pisa, Hoepli, 1875), p. 55.

IX. Michelangelo Romagnesi. Da M. A. Canini, Il sonettiere italiano, sez. v (sola pubbl.), Seccìitisti, centuria i e 11 (Torino, Candeletti, 1880).

X. Gennaro Grosso. Da La cetra, divisa in metro divoto e funesto, di Gennaro Grosso (Napoli, per Francesco Savio, 1650).

XI. Antonino Galeani Dalla Raccolta di sonetti d'autoìH di- versi ed eccellenti dell'età nostra, di Giacomo Guaccimanni da Ravenna (in Ravenna, 1623, appresso Pietro de' Paoli e Giov. Battista Giovannelli).

XII. Giambattista Pucci. Dalla Raccolta del Guaccimanni,

XIII. Anton Maria Narducci Dalla stessa Raccolta. Al primo verso del son. II allude Salvator Rosa, nella satira La poesia.

XIV. Tiberio Sbarra. Dalla stessa Raccolta.

XV. Filippo Massini. Dalla Grillaia delI'ApROSio (Napoli,. de Bonis, 1668).

Il Massini (fióiy) era perugino, e pubblicò, tra le altre cose, un volume di Rime (Pavia, 1609).

XVI. Cesare Abbelli Dalla Raccolta del Guaccimanni. SuU'Abbelli, bolognese, che pubblicò un voi. di Rime (Bolo- gna, 1621), si vedano Mazzuchelli, i, 23-4, e Fantuzzi, i, 1-2.

XVII. Ludovico Tingoli. Da / cigni del Rubicone, poesie liriche degli illustrissimi signori Ludovico Tingoli e Filippo Marcheselli da Rimini, date alle stampe da D. Girolamo Avan- zolini (in Bologna, per Giacomo Monti, 1671).

Del Tingoli (1602-1669) un cenno nelle Glorie degli Incogniti, pp. 317-9, e nel Crescimbeni, iv, 201-2.

XVIII. Filippo Marcheselli. Dal voi. cit. di sopra. Sul M, (1625-1658) si veda Crescimbeni, iv, 210-11.

XIX. Paolo Abriani. Dalle Poesie di Paolo Abriani, se- conda impressione corretta ed accresciuta (in Venezia, 1664, ap- presso Alessandro Zatta).

Era vicentino; noto sopratutto per una traduzione delle Odi di Orazio (Venezia, 1650). Intorno a lui G. Lovascio, Un seceìi- lista, P. A., vicentino (Terlizzi, 1907).

NOTA 533

XX. Francesco Bracciolini. Dalla Raccolta del Guaccimanni. Il Bracciolini pubblicò anche un voi. di Poesie liriche toscane,

parte i (Roma, Grignani, 1639); cfr. M. Barbi, Notizie della vita e delle opere di F. B. (Firenze, Sansoni, 1897), pp. 138-145.

XXI. Andrea Barbazza. Dalle Poesie de' signori accademici fantastici di Roma (in Roma, Grignani, 1637).

Sul B. si vedano le Glorie degli Incogniti, pp. 23-5.

XXII. Antonio Fortini. Dalla Raccolta del Guaccimanni.

XXIII. Agostino Augustini. Dalle Naturalezze poetiche del si- gnor Agostino Augustini da Pesaro (s. La., dedica da Roma, 1647).

XXIY. Marcantonio Arlotto. Dalla Raccolta del Guaccimanni. Sull'Arlotto, Mazzuchelli, i, 1097.

XXV. Fabio Leonida. ^ Dalla stessa Raccolta.

XXVI. Gherardo Saracini. Dalla stessa Raccolta.

XXVII. Pietro Paolo Bissari. Da Le stille d'Hippocrene, trat- tenimenti poetici del commend. conte Pietro Paolo Bissari il Rincorato dell'Accademia Olimpica (in Venezia, 1648, per Fran- cesco Valvaseuse).

Sul B., oltre Le glorie degli Incogniti, pp. 38 1-3, si veda la monografia di G. Brognoligo, La vita di un gentiluomo italiano del Seicento, il conte P. P. B., vicentino: 15S5-1663 (Napoli, Io- vene, 1909: estr. dagli Studi di letter. Hai., vii sgg.).

XXVIII. Claudio Trivulzio. Dal Sonettiere italiano del Canini. Il Trivulzio pubblicò un volume di Rime (Milano, 1625).

XXIX. Gianfrancesco Cormani. Dalla Raccolta del Guac- cimanni.

XXX. Ermes Stampa. Dal ms. della Biblioteca Casanatense, n. 3392, ff. 362-3.

Dello Stampa (1615-1647) si ha un volume di Rime (Milano, 1671): cfr. Quadrio, ii, parte i, p. 328.

XXXI. Aurelio Mancini. Dal ms. cit., f. 359.

XXXII. D'incerto: « Il gelsomino tra le labbra ». Dalla Raccolta del Guaccimanni.

XXXIII. D'incerto: « y.ocTa;jLiìV'.a ». Ms. della Biblioteca Vittorio Emanuele, n. 487 [671-629], f. 121, dove ha un titolo più volgare.

XXXIV. « Zitella romanesca ». Ibid., f. 120.

XXXV. Martino Lunghi. Dalle cit. Poesie degli accademici fantastici.

534 LIRICI MARINISTI

XXXVI. Antonio de' Rossi. Dai Sonetti del sig. D. Antonio de' Rossi (Napoli, Mollo, 1661).

Sul De' Rossi, cfr. Toppi, p. 31.

XXXVII. « La mosca nel calamaio ». Dal Cannocchiale ari- stotelico di Emmanuele Tesauro (ed. di Venezia, 1682), pp. 171-2. Anonima, ma forse dello stesso Tesauro.

V GIROLAMO FONTANELLA

I nn. i-xxii, dai Nove cieli, poesie del signor Girolamo F^dn- tanella, all'altezza serenissima di Ferdinando II, granduca di Toscana (in Napoli, per Roberto Mollo, 1640).

I nn. xxiii-xxxiii, dalle Ode, consacrate all'immortalità del- l'ili. ma et ecc. ma signora D. Anna Carafa, principessa di Stigliano e vicereina nel regno di Napoli, seconda impressione (in Napoli, per Roberto Mollo, 1638).

II n. XXXIV , dalle Elegie, dedicate all' ili. mo et ecc.mo signore D. Diomede Carafa Paceco, duca di Maddaloni (in Napoli, per Roberto Mollo, 1645).

Il Toppi, Bibl. nap., p. 156, e il Crescimbeni, v, 170, danno il Fontanella per napoletano; ma il Quadrio, v, 87, fa notare che la prima edizione delle Ode (in Bologna per lo Tebaldini, 1633) ha sul frontespizio: «Girolamo Fontanella, reggiano». Un'allusione alla sua provenienza dall'alta Italia si può vedere, del resto, nei versi pubblicati in questo voi., p. 244. Visse molti anni a Napoli, dove mori nell'agosto del 1644; e postume furono pubblicate, nel 1645, le Elegie. Il Tiraboschi, Biblioteca modenese, 11, 340-2, non sa nulla di lui, trova come riattaccarlo alla famiglia Fontanelli di Reggio Emilia: « forse il F., uscito da Reggio in età fanciullesca, non vi fece ritorno, e perciò niuna memoria ne è poi rimasta ». Due lettere a lui dirette sono in Vincenzo Armanni. Lettere (Roma, 1663), i, 566.

VI

SALOMONI MORANDO BRIGNOLE-SALE

I. Giuseppe Salomoni. Dalle Rime di Giuseppe Salomoni, accademico Sventato detto il Sano (in Bologna, presso gli eredi dei Dozza, 1647).

NOTA 535

Edizioni precedenti della parte i, Udine, Lorio, 1615; delle due parti, Venezia, Ginami, 1626.

Intorno al Salomoni, udinese, cfr. Quadrio, ii, parte i, p. 295. Nelle Rhne del Michiele, parte 11, p. 250, è un son.: « In morte del sig. Gioseppe Salomoni ».

II. Berardo Morando. Dalle Opere del conte Bernardo Mo- rando, nobile genovese, divise in quattro tomi, cioè i. Fantasie, II. Poesie dramatiche, in. Poesie sacre e morali, iv. Rosalinda, dedicate a Ranuccio II, duca di Piacenza, Parma, ecc. (Piacenza, nella stampa ducale di Gio. Bazachi, 1662).

Sul Morando, genovese (morto il 1656), si vedano i Viaggi di G. V. Imperiale (ed. Barrili, in Atti della soc. ligure di storia patria, xxix, fase, i), pp. 208, 229, 252; Angelo Aprosio, Bi- blioteca aprosiana (Bologna, Manolessi, 1673), pp. 547-553; e Le glorie degli Incogniti, pp. 85-7.

IH. A. G. Brignole-Sale. Da Le instabilità dell' ingegno, di- vise in otto giornate dall' ili. mo signor marchese Anton Giulio Brignole-Sale (in Bologna, per Giacomo Monti e Carlo Zenero, 1635). Il son. Il, dalle Lagrime per la morte della signora Emilia Adorni Raggi (in Piacenza, per Girolamo Bazzacchi, 1634), rife- rito in F. Meninni, // ritratto del sottetto (Napoli, 1677), p. 99.

Il Brignole-.Sale (1605-1665), genovese, si fece poi frate: onde le Instabilità dell'ingegno ricomparvero con mutamenti e tagli nelle edizioni di Venezia, 1641, 1652. Scrisse anche: // carnevale con l'anagramma di Gotilvannio Sallibregnio (Venezia, 1639, 1641, 1663). Si vedano Le glorie degli Incogniti, pp. 67-9, e Maz- zucHELLi, lì, 2098-2 lOI.

VII MICHIELE ZAZZARONI QUIRINI

I. Pietro Michiele. Dalle Rime di Pietro Michiele, nobile veneto, terza impressione (in Venezia, 1642, appresso gli Gue- rigli); e da La benda di Cupido, aggiuntovi (sic) la terza parte e le odi (ivi, 1648).

Delle molte opere del M. un catalogo è innanzi alla Benda di Cupido: si vedano Le glorie degl' Incogniti, pp. 373-5; Crasso, Elogi, II, 265-8; Quadrio, ii, parte i, 312, 592, 625, 669; in, parti II, 466; IV, 116, 274, 582-3, 685.

536 LIRICI MARINISTI

II. Paolo Zazzaroni. Dal Giardino di poesie, distinte in mirti, viole, rose, allori, cipressi, spine, coltivato da Paolo Zazzaroni (in Verona, appresso Bartolomeo Merlo, 1641).

Dello Z., notizie nelle Glorie degli Incogniti, pp. 365-7.

III. Leonardo Quirini, Dai Vezzi d'Erato, poesie liriche di Leonardo Quirini, nobile veneto (in Venezia, 1649, appresso Gio. Giacomo Hertz).

Vi è incluso un idillio : // Narciso, già pubblicato in Venezia, 1612.

Intorno al Q., Le glorie degli Incogniti, pp. 309-311.

VII! BASSO ZITO MUSCETTOLA

I. Antonio Basso. Dalle Poesie del dottor Antonio Basso, accademico Otioso (in Napoli, per Giacomo Gaffaro, 1645).

Il Basso, napoletano, prese parte alla rivoluzione di Masa- niello, e fu decapitato nel febbraio 1648 per cospirazione contro il duca di Guisa : v. i Mémoires de feu monsieur le duc de Guise (2* ediz., Paris, 1668), pp. 239-269.

Di lui fa cenno anche 1' Imperiale, Giornali (ed. Barrili, in Atti della soc. lig. di st. patria, xxix, f. 2), pp. 386, 470. Oltre brevi cenni nel Toppi, p. 24, e nel Mazzuchelli, ii, 532-3, si veda Minieri Riccio, Notizie biogr. e bibliogr., ecc., Lettera B, pp. 13-14.

II. Vincenzo Zito. Dagli Scherzi lirici di Vincenzo Zito, (in Napoli, per Ottavio Beltrano, 1638); e dalle Poesie liriche (in Napoli, per Novello de Bonis, 1669).

Era nativo di Capua, secondo il Toppi, p. 310, e già morto nel 1669, quando le poesie di lui furono edite dal figliuolo Mario.

III. Antonio Muscettola. Dalle Poesie di don Antonio Mu- scettola, parte prima (in Venezia, 1661, per il Babà); e parte seconda (ivi, 1669, appresso Zaccaria Conzatti).

Una terza parte fu pubblicata postuma dal figliuolo Francesco, duca di Spezzano (in Napoli, nella stamperia di Giacomo Raillard, 1691). La prima raccolta di Poesie è di Napoli, per gli eredi del Cavallo, 1659.

Il Muscettola (1628-1679) scrisse anche una tragedia La Belisa (Napoli, Rossi, 1664), una favola drammatica La Rosalinda (Ve-

NOTA 537

nezia, Babà, 1661), un volume di Epistole famigliari, in versi (Na- poli, Bulifon, 1678), e un altro di Prose (Piacenza, Bazacchi, 1665). Si vedano intorno a lui Crasso, Elogi, 11, 225-30; Biblioteca apro- siatia, pp. 468-78; BoNOMi, Parto dell'orsa, parte 11, pp. 202-3; U. Tria, D. Antonio Miiscettola, duca di Spezzano, e il p. An- gelico Aprosio (Napoli, d'Auria, 1897); e Belloni, Il Seicento, PP- 94-5-

IX CIRO DI PERS

Dalle Poesie del cavalier fra' Ciro di Pers, dedicate alla sacra cesarea maestà di Leopoldo imperatore augusto pio pannonico. (in Venezia, per Andrea Poletti, all'insegna dell'Italia, 16S9; due volumi). I sonn. x, xiii, xv, xix sono presi dall'edizione di Na- poli, Poli, 1669, dalla quale (per altro scorretta e qua e mu- tila) ci siamo giovati anche per restituire qualche verso tralasciato nell'ediz. del 1689.

Sul Di Pers (nato nel castello di Pers nel Friuli, 1599-1662), oltre un cenno nelle Glorie degli Incogniti, pp. 105-7, e la bio- grafia che precede l'edizione del 1689, curata dai nipoti di lui, si ha una monografia di Bruno Guyon, Ciro di Pers e le sue poesie (Udine, tip. del Bianco, 1897): cfr. Giorn. stor. d. letter. italiana, xxxi, 439-41.

X

GIUSEPPE BATTISTA

Dalle Poesie meliche di Giuseppe Battista, parti i-iii (Venezia, per li Babà, 1659), parte iv (ivi, 1664), parte v (Bologna, per Gioseffo Longhi, 1670); e dagli Epicedi eroici, poesie (Venezia, 1667).

Delle due prime parti si ha un'edizione anteriore di Venezia, Babà, 1653, e più ristampe; degli Epicedi, una, accresciuta, di Bologna, Longhi, 1670.

Di Giuseppe Battista (nato a Grottaglie, in prov. di Lecce, II febbraio 1610, morto in Napoli 6 marzo 1675), e autore altresì di Epigrammata (Venezia, 1653), di Giornate accademiche, prose (Venezia, 1673), di Lettere (Bologna, 1678), di una Poetica (Ve-

538 LIRICI MARINISTI

nezia, 1676), scrissero i contemporanei Crasso, Elogi, i, 334-341, e BoNOMi, Parto dell'orsa, pp. 212-3; e sfavorevolmente G. Ci- ciNELLi, Censura del poetare moderno (Napoli, Passeri, 1672), e F. Meninni, Furti svelati nelle poesie meliche e negli epigrammi di G. B. (s. 1. a.). Recentemente, Edoardo Pedio, G. B., poeta e letterato del 600, con documenti inediti (Trani, Vecchi, 1902). Le più ampie e precise notizie sono, per altro, in Minieri Riccio. Not. biogr. e bibliogr. cit., lettera B., pp. 15-17.

XI ARTALE LUBRANO CANALE

L Giuseppe Artale. Dalla Enciclopedia poetica di Giuseppe Artale, cavaliero angelico-aureato-costantiniano di San Giorgio, corretta ed accresciuta dall'autore, tre parti (in Napoli, presso Antonio Bulifon, 1679).

Dell' Alloro fruttuoso, che costituisce la terza parte, la prima ediz. è di Napoli, per Novello de Bonis, 1672.

L'Artale (n. presso Catania, 1628, m. in Napoli, 1679) scrisse anche un romanzo, // Cordimarte, una tragedia di lieto fine, Guerra tra vivi e morti (Napoli, Bulifon, 1679), e un dramma musicale, La Pasife ossia l' impossibile fatto possibile (Venezia, 1661). La vita di lui si trova alla fine del primo volume A&W Enciclopedia, e fu scritta da Catone Aurelio Clabbes (anagramma di Vito Cesare Cabballo). Si vedano Mongitore, Bibl. sic, i, 371-2, e Mazzu-

CHELLI, I, 1 143-4.

IL Giacomo Lubrano. Dalle Scintille poetiche o poesie sacre e morali, di Paolo Brinacio [Iacopo Lobrano] napoletano (in Napoli, nella nuova stampa delli soci Doni. Ant. Barrino e Mi- chele Luigi Muzi, 1690).

Nella prefazione di .Silvestro di Fusco : « Eccoti alfine le poe- sie italiane del signor Paolo Brinacio, il quale, tuttoché trave- stito di nome, darassi ben a conoscere al mondo letterato in que- sti pochi tratti della sua penna, appunto come si facevano discer- nere le linee rosse di Apelle Avvegnaché la sua professione

non sia di far mostra di colla cetera al collo, ma di sacro ora- tore, non per tanto che si vuol fare? in quelle ore nelle quali te- trica sunt amoenanda iocularibus, si ha lasciato lusingar dalle muse ». Cfr. anche, in questo voi., il son. xi del Canale.

NOTA 539

Oltre le prediche, il Lubrano pubblicò un volume di poesie latine: Suaviludia musaruni ad Sebeihi ripani, epigrammatum libri x Iacobi Lubrani, e societ. Jesu, neapolitani (Neapoli, ex typ. la- cobi Raillard, idgo). Cfr. intorno a lui Capone-Marano, Un poeta satirico del XVII secolo: Giulio Acciaili (Salerno, lovane, 1892), pp. 133, 263, e il Vico, Autob., in Opp., ed. Ferrari, IV, 331.

III. Giovanni Canale. Dalle Poesie del signor Gìovanni Ca- nale, divise in morali, varie, eroiche, di lodi, funebri, sagre, dedicate al card. F. Vincenzo Maria Orsini (in Napoli, 1694, per li soci D. A Parrino e M. L. Muzi).

Ediz. anteriore delle parti i e 11, Venezia, Conzatti, 1667.

Il Canale era della Cava, secondo il Toppì, p. 116, e nacque ai primi del Seicento. Scrisse anche L'anno festivo overo i fasti sacri, poema (Venezia, 1674Ì e un romanzo L'Amattinta (ivi, 1681).

XII

MENINNI L. E P. CASABURI GAUDIOSI DOTTI PERRUCCI

I. Federico Meninni. Dalle Poesie di P'ederico Meninni, al- l'ili. mo signor marchese D. Giovan Battista Spinelli de' principi di San Giorgio (in Napoli, 1669, per Luc'Antonio di Fusco).

Secondo il Toppì, p. 81, era nativo di Gravina. Di professione era medico. Scrisse anche // ritratto del sonetto e della canzone, discorsi (Napoli, Passeri, 1677).

II. L. e P. Casaburi. Da Le quattro stagioni, poesie varie di D. Lorenzo Casaburi Urries, napoletano, dedicate al prin- cipe di Sanseverino Gentile Albertino (in Napoli, 1669, per No- vello de Bonis); e da Le sirene, poesie liriche del signor D. Pìetro Casaburi Urries, dedicate al principe di Macchia Pietro Gamba- corta (ivi, 1676).

Sui fratelli Casaburi, Toppi, p. 245-6. Pietro pubblicò anche / concerti poetici (cfr. Gimma, Elogi, i, p. 346).

III. Tommaso Gaudiosi. Da L'arpa poetica, distinta in sei parti (Napoli, per Novello de Bonis, 1671).

Era della Cava (Toppi, p. 297), e compose anche una tragedia: La Sofia ovvero l'Innocenza ferita (Napoli, 1640).

IV. Bartolomeo Dotti. Dalle Rime: i sonetti di Bartolomeo Dotti (Venezia, 1689).

540 LIRICI MARINISTI

Il Dotti (di Valcamonica nel Bresciano, 1642-1712) è più noto come scrittore di satire. Ediz. postuma: Satire del cavalier Dotti (Ginevra [Parigi], 1757).

V. Andrea Ferrucci. Dalle Idee delle muse, poesie del dottor Andrea Ferrucci, dedicate a Carlo Ferdinando Gonzaga, duca di Mantova (in Napoli, 1695, per li soci Parrino e Muzi).

Del Ferrucci (nato a Palermo, 1651, morto a Napoli, 1704), autore di moltissime opere drammatiche e melodrammatiche, e tra le altre del Verbo umanato, rimasto per secoli popolare nei teatri di Napoli (cfr. Croce, Teatri di Napoli, pp. 159-163), di- scorrono il MoNGiTORE, Bibl. Sicilia, I, 32-34, e F. Martorana, Notizie biogr. e bibliogr. d. scritt. del dial. napol. (Napoli, 1874), pp. 323-7.

INDICE

TOMMASO STIGLIANI:

I. Luna importuna pag. 3

II. Il dono del fiore » 4

III. Durante un giuoco di veglia » ivi

IV. A una zingara » 5

V. Il cagnolino donato » ivi

VI. Amore e speranza » 6

VII. Il sogno » ivi

vili. Nel comporre il Mondo nuovo. A Cesare Orsino . » 7

IX. L'invidia degli emuli » ivi

X. Per Flaminia Cecchini, comica, scampata all'in- cendio del Vesuvio e recatasi presso Luigi XIII . » 8 XI. Il ritratto. Al cavalier Giuseppe d'Arpino ... » ivi XII. La cantatrice. A Settimia, figliuola di Giulio Ro- mano " i*^

XIII. Il saluto dell'amante ' » 12

XIV. Il chiarimento all'amata » 13

XV. La lusinga amorosa » 14

XVI. Guerra interna » i^

XVII. Ad Aquilino Coppini » ivi

XVIII. Contese amorose di fiori » 17

XIX. Il montone vezzoso » ivi

XX. Il giusto mezzo » 18

XXI. Gradazione crescente di felicità » ivi

XXII. Sonetto nello stile di moda. Parodia » 19

XXIII. Il bidello dello studio nel chiedere la mancia agli

scolari ' IVI

542

LIRICI MARINISTI

MARCELLO MACEDONIO:

I. Le bugie nell'amore pag.

II. Alla damigella della sua donna ....... »

III. Viaggi ed amore »

IV. Le vesti di vari colori »

V. Disfida delle acque e delle aure »

VI. Invocazione all'aurora »

SCIPIONE CAETANO:

I. La lusingatrice volubile . , II. Il contatto del seno

III. Il pianto

IV. La vecchia ambasciatrice v. La casa della donna amata

VI. Alla lucciola

VII. Venezia

25 27

29 30 ivi

31 ivi

32

ivi

GIAMBATTISTA MANSO:

I. Alle falde della collina di Sant'Elmo II. Il ritorno della primavera ....

III. La solfatara di Pozzuoli

IV. Placamento di gelosia v. Gelosia ostinata . . .

33 34 ivi

35 ivi

FRANCESCO BALDUCCI :

I. Amore palese, amata nascosta II. Al figlioletto della sua donna .

III. Il dolce sogno interrotto . . .

IV. Il rivale

V. A santo Stefano

36 37 ivi

38

FRANCESCO DELLA VALLE:

I. Al nascer del giorno » 39

II. Compiacimento dei passati amori » 40

III. Pastorale » ivi

IV. Alla stanza dov'era stato con la sua donna ...» 41 V. Prima dell'alba » ivi

VI. Amore reciproco » 42

-'««•'-^ f^vu) L' irrequietezza » ivi

vili. La casa della sua donna » 43

IX. Il ritratto della donna amata. A Girolomo Brivio . » ivi

X. Le nuove fabbriche di Roma sotto Paolo V . . » 44

XI. Alla città di Co.senza » ivi

INDICE 543

II

CLAUDIO ACHILLINI:

r. La dipartita pag. 47

II. La bionda scapigliata » 48

III. Lo sdegno nel bianco volto » ivi

IV. L'antica amante fatta monaca » 49

V. La mendicante » ivi

VI. La spiritata » 50

VII. Lo scoppio della mina e il bacio » ivi

Vili. Il ruscelletto nella villa Camaldoli, appartenente ad

Annibale Marescotti » 51

IX. Nella selva presso il Reno, al ritorno dalla corte

di Roma. A Gasparo Ercolano » ivi

X. Ombra di nuove foglie » 52

XI. Sic vos non vobis » ivi

xn. La morte e il testamento di San Giuseppe. Al padre

Gioacchino Ciomei, cappuccino » 53

XIII. Il fior di passione » ivi

XIV. A Luigi XIII dopo la presa della Roccella e la li- berazione di Casale > 34

GIROLAMO PRETI:

I. Le rose pallide » 35

II. La casa della donna amata » 56

III. La donna a cavallo » ivi

IV. L'amante timido » 37

V. La donna allo specchio » ivi

VI. In villa » 58

VII. Paesaggio » ivi

vili. Paesaggio amoroso » 39

IX. Invito » ivi

X. Per un cavallo barbaro. A Vitale de' Buoi ... » 60

XI. Alla penna del cavalier Marino » ivi

XII. L'oriuolo » 61

PIER FRANCESCO PAOLI:

1. Nella casa della sua donna durante l'assenza di lei . » 62,

II. Il bacio dato per dispetto » 64

III. Il cenno non inteso » ivi

IV. La lettera » 63

V. La chioma » ivi

VI. Dinanzi a un ospedale » 66

544 LIRICI MARINISTI

VII. Distillando rose pag. 66

vni. Insegnando a leggere alla donna amata .... » 67

IX. Le amiche » ivi

X. Fra le maschere in carnevale » 68

XI. La bambina della sua donna » ivi

XII. La donna sfiorente per malinconia » 69

XIII. Lo spettacolo della guerra e l'amore: quando l'au- tore fu addetto alla segreteria di guerra .... » ivi

XIV. L'abito sacro: quando l'autore ebbe dal suo signore

un beneficio ecclesiastico » 70

XV. La Maddalena » ivi

XVI. La posa della prima pietra del nuovo convento dei

Cappuccini. Ad Urbano Vili » 71

XVII. Il mal di pietra » ivi

xviii. A lei che abita in un tugurio » 72

XIX. Una dama spagnuola » 75

MARCELLO GIOVANETTI:

I. Chiome nere » 76

II. Le pozzette nelle guance » 77

III. Nello scorgere da lungi il paese della sua donna . » ivi

IV. La donna presente a spettacolo di giustizia ...» 78

V. Il bagno nel lago » ivi

VI. La donna e il vecchio » 79

VII. La ninfa e il rozzo amante » ivi

vili. La bella serva » 80

IX. La cortigiana frustata » ivi

X. La dormente. A Girolamo Mattei » 81

XI. La fontana nel giardino di Tivoli raffigurante l'an- tica Roma. Al cardinale Alessandro d'Este ...» 84

XII. L'inondazione del Tronto. A monsignor Vitello . » 89

GIOVAN LEONE SEMPRONIO:

I. Amore fatto di sguardi » 94

II. La pensosa » 95

III. I capelli fasciati dopo la lavanda » ivi

IV. La chioma rossa » 96

V. I capelli pendenti sugli occhi » ivi

VI. La donna di alta statura » 97

VII. La maestra delle fanciulle » ivi

VIII. Giocando ai dadi » 98

IX. Il ballo delle villanelle » ivi

X. Alla sua donna nell'atto che annoda le trecce . . » 99

XI. Ricordi di vita studentesca a Bologna » ivi

INDICE 545

xii. La raccolta di codici lasciata dal duca alla città di

Urbino pag. loo

XIII. Lodi di Fabio Albergati al figliuolo di lui, Ugo . » ivi

XIV. Impossibilità di occultare il proprio animo ... » loi XV. La Maddalena ai piedi di Gesù » ivi

III

GIOVAN FRANCESCO MAIA MATERDONA:

I. Abbigliamento mattutino » 105

II. L'asciugamento dei capelli » 106

ni. La promessa » ivi

IV. Inviando l'Adone » 107

V. A una zanzara » jyi

VI. La mascherata » 108

VII. Lo sdegno liberatore » ivi

Vili. Il primo di maggio » 109

IX. L'esempio » ivi

X. Amor concorde » no

XI. La lode degli alberi, dei venti e delle acque . . » ivi

XII. Giuoco di neve » m

XIII. La legatrice di libri » ivi

XIV. Ad Isabella Chiesa, che rappresentava sul teatro una

regina » „2

XV. Le donne di Venezia » ivi

XVI. Il gioco del pallone » u^

XVII. La giostra. Per il mantenitore marchese Pepoli . » ivi XVIII. A Mario Albricci Farnese, per le conclusioni da lui

sostenute » ^a

XIX. I sepolcri del Sannazaro e di VirgiUo » ivi

XX. La fontana di ponte Sisto in Roma » 115

XXI. La verdea di Firenze » ivi

XXII. Nell'ospedale degl'Incurabili di Napoli .... » 116

xxiii. Nel pettinarsi » ivi

XXIV. I baci della donna muta » ny

ANTONIO BRUNI:

I. Il luogo dei passati amori » ng

II. Gli occhi azzurri » ug

III. Il neo sul labbro » ivi

IV. Il ventaglio » 120

V. La lodatrice di poesie » ivi

VI. A una poetessa » 121 .

VII. La dama francese in Roma » ivi

/. l'ric i~}i!aiin isti

35

546 LIRICI MARINISTI

Vili. A diporto per la riviera di Posilipo pag. 122

IX. La favola di Europa » ivi

X. Le belle chiome » 123

XI. I baci » 125

XII. Il Rapimento d' Elena di Guido Reni e la Bidone

trafitta del Quercino. Al cardinale Spada ... » 126

XIII. Per la reliquia del latte della Vergine » 129

XIV. Sofonisba a Massinissa » 131

SCIPIONE ERRICO:

I. Contro l'amor platonico » 137

II. L'amante tacito » 138

'^lii. La balbuziente » ivi

IV. Per una meretrice spagnola morescata » 139

V. Al principe Tomaso di Savoia » ivi

VI. A Giovanni Antonio Arrigoni » 140

VII. La via lattea. Al cardinal Borghese » ivi

IV

GIAMBATTISTA BASILE:

I. Santa Cristina » 151

II. Per l' incendio del Vesuvio del 1632 » 153

III. La bella chioma » ivi

IV. Pallore gradito » 154

BIAGIO CUSANO:

I. Le tre belle » 155

II. IVIusica notturna » 156

III. Sedendo giudice in tribunale » ivi

IV. Per i sette monti nella mano della sua donna . . » 157 v. Roma- Amor » ivi

VI. All'amante, che si è raso. Scritto ad istanza di una cortigiana » 158

GIOVANNI PALMA:

I. Il sorriso modesto » 159

II. La bella parlatrice » 160

III. L'amorosa imaginazione » ivi

IV. Il paese di Puglia » 161

GIOVANNI ANDREA ROVETTI:

I. Il lago di Diana in Nemi » 162

II. Il pianto del figliuolo » 163

III. Premendo il piede » ivi

INDICE 547

BARTOLOMEO TORTOLETTI:

I. La segretezza pag. 164

II. La somiglianza » 165

III. Le rose gittate al fuoco » ivi

IV. Bellezza che resiste agli anni » 166

V. La mascherata delle zingare » ivi

MAFFEO BARBERINO (dipoi papa Urbano Vili):

I. Il diletto terreno » 167

li. Occhi casti » 168

III. La fontana » ivi

PAOLO GIORDANO ORSINO, duca di Bracciano:

1. La bella pellegrina » 169

II. Senso e ragione » 170

III. Vanitas vanitatum » ivi

IV. La bugia » 171

V. La città » ivi

VI. Il ritorno alla propria terra » 172

GIACOMO D'AQUINO, principe di Crucoli :

I. Il fastidio » 173

n. Il giorno dei morti » 174

III. La tempesta » ivi

MICHELANGELO ROMAGNESI:

I. La morte » 175

li. La tomba » 176

GENNARO GROSSO:

I. La nascita di Maria: sonetto in bisticcio .... » 177

II. I santi Innocenti » 178

III. Cristo esortante alla confessione » ivi

ANTONINO GALEANI

I. Il pericolo » 179

II. I nastri seduttori » 180

III. Il ballo galeotto » ivi

IV. La rana » 181

V. Il dono del lepre » ivi

VI. La bella e il vecchio . . . . , » 182

GIAMBATTISTA PUCCI:

I. L'ardore » 183

II. Gli occhi e il seno » 184

III. Lo svelamento > ivi

548 LIRICI MARINISTI

ANTON MARIA NARDUCCI:

I. La veste e la ghirlanda pag. 185

II. Le « fere d'avorio » tra i capelli » 186

III. A Camillo Baffi per domandargli la propria « na- tività » » ivi

TIBERIO SBARRA:

I. L'amor nostro » 187

II. Il panierino di fragole e rose » 188

FILIPPO MASSINI:

I. Il vino » 189

II. Il vino » 190

CESARE ABBELLÌ:

I. La vite » 191

II. Gli astri notturni » 192

LUDOVICO TINGOLI:

I. Invocazione all'intemperie » 193

II. La bruttezza ingioiellata » 194

FILIPPO MARCHESELLI:

I. L'abitazione presso la fontana di Trevi .... » 195 II. All'ancella » 196

PAOLO ABRIANI: \\

^,^^_. I. La bella tartagliante » 197

II. Il sonetto » 198

FRANCESCO BRACCIOLINI:

L'inquietudine » 199

ANDREA BARBAZZA:

La partenza all'apparire dell'aurora » 200

ANTONIO FORTINI:

Il poeta segreto » 201

AGOSTINO AUGUSTINI:

Il bracciere avventurato » 202-

MARCANTONIO ARLOTTO:

L'offerta » 203,

INDICE 549

FABIO LEONIDA:

La bellezza al tramonto pag. 204

GHERARDO SARACINI:

Il laccio di capelli » 205

PIETRO PAOLO BISSARI:

Baciando » 206

CLAUDIO TRIVULZIO:

La villanella in città » 207

GIOVAN FRANCESCO CORMANI:

La dormente al far del giorno » 208

ER:\IES STAMPA:

La donna vestita alla ghibellina coi fiori al lato si- nistro della chioma » 209

A1TRELIO MANCINI:

La donna che bacia il pavimento della chiesa ... » 210

D'INCERTO:

Il gelsomino tra le labbra » 211

MARTINO LUNGHI:

Il pallone » 212

ANTONIO DE' ROSSI:

Contro il salasso » 213

D'INCERTO:

xaia.iiYiV'.a » 214

D' INCERTO :

Zitella romanesca ritrosa » 215

D'INCERTO:

La mosca nel calamaio » 216

V

i;iki)LAMO FONTANELLA:

I. Il velo sul petto » 221

il. Il dono dei guanti di seta » 222

550 LIRICI MARINISTI

III. La nenia presso la culla pag. 222

IV. Inviando un pappagallo » 223

V. Il salasso » ivi

VI. Il pettine rotto » 224

VII. La beltà vinta dal tempo » ivi

VIII. Confessione di poeta » 225

IX. La nuotatrice » ivi

XX. Il ruscello » 226

XI. La terra assetata » ivi

XII. Invocazione alla pioggia » 227

XIII. Al vento » ivi

XIV. La perla » 228

XV. L'ermellino » ivi

XVI. Il corallo » 229

XVII. Il garofano » ivi

XVIII. La Maddalena » 230

XIX. San Francesco d'Assisi » ivi

XX. Il beato Giovanni di Dio » 231

XXI. Il sangue di san Gennaro » ivi

XXII. Alla Vergine » 232

XXIII. La saltatrice. A Fabio Ametrano » ivi

XXIV. La ricamatrice. A Francesco Sacchi.

XXV. Al fiume Sebeto. Per la fontana nella casa di Fran- cesco Nardilli » 236

XXVI. Alla bocca » 238

XXVII. Alla luna . » 240

XXVIII. Al melogranato » 241

XXIX. A Posilipo » 243

XXX. I piaceri della villa. Ad Isabetta Coreglia. ... » 245 XXXI. Per la monacazione di Silvia della Marra. Al padre

di lei, duca della Guardia » 249

XXXII. Le delizie del secolo. Al marchese di Villa G. B.

Manso » 251

XXXIII. Contro l'ignoranza e l'avarizia dei principi. A Ga- spare de Simeonibus » 254

XXXIV. La morte di Marianna » 257

VI

GIUSEPPE SALOMONI:

I. Brama di forze moltiplicate » 269

II. I morsi e i baci » 270

III. Le fragole e la bocca » ivi

IV. Antea » 271

INDICE

55'

V. Dio, auriga delle anime pag. 271

VI. Il pensiero amoroso » 272

vii. Il riso » 274

vili. Palinodia a 277

IX. Alla cicala , 280

BERNARDO MORANDO:

I. Invocazione del bacio » 284

II. Inappagamento del bacio » 285

ni. Inappagamento in amore » ivi

IV. La raccoglitrice di castagne » 286

V. La filatrice di seta » ivi

VI. L'amante e gli occhiali » 287

VII. Il dente mancante » ivi

vili. Alla comica Lavinia » 288

IX. A un'attrice di tragedia » ivi

X. Alla cantatrice Anna Renzia, romana » 289

XI. Invito alla poesia nell'inizio dell'estate » ivi

XII. Estate e vino » 290

XIII. A Giovan Vincenzo Imperiale per la sua villa di Sampierdarena e pel suo matrimonio con Brigida Spinola » i\i

XIV. A Giovan Vincenzo Imperiale, esiliato da Genova

con la pena dell'ostracismo » 291

XV. Le maschere di carnevale » ivi

XVI. L'avarizia punita. A istanza di Ferrante Porta Puglia. » 292

XVII. La visitazione » 295

xviii. Per monacazione » 297

XIX. Il nano di nome « Amico » » 29S

ANTONIO GIULIO BRIGNOLE-SALE:

I. La cortigiana frustata » 300

II. Ricordi di una morta. Perla morte di Emilia Adorni

Raggi » 302

III. Contro la fedeltà in amore » 303

VII

PIETRO MICHIELE:

I. Al ritorno dalla villa » 307

II. La bella derubata » 30S

III. Amori » ivi

IV. A un'attrice che rappresenta la peccatrice convertita » 309 V. In morte di Lope de Vega » ivi

552 LIRICI MARINISTI

VI. Baci pag. 310

VII. L'inverno » 311

vili. A Pan » 314

IX. Alla notte » 316

X. A se medesimo, trovandosi in Dalmazia nelle guerre

del Turco con Venezia » 318

PAOLO ZAZZARONI:

I. A una zingara » 322

II. Il neo » 323

III. Epitaffio di una pulce » ivi

IV. La vite importuna . » 324

V. La donna pregante » ivi

VI. Il giorno delle palme » 325

VII. La signora e l'ancella » ivi

VIII. La lavandaia » 326

IX. All'Adige » ivi

X. L'arca di re Pipino nella basilica di San Zeno in

Verona » 327

XI. La tomba di Taide » ivi

LEONARDO QUIRINI:

I. La penitente. Per una principessa italiana, che dopo

vita d'amori si chiuse in monastero » 328

II. Tristezza della vita senza amore » 329

III. Amori » ivi

IV. In morte di Giambattista Sordoni, ucciso mentre assoldava genti per Levante » 330

V. Serenata » ivi

VI. Gelosia della bellezza » 331

VII. Voluptas y> 332

vili. In morte di Claudio Monteverde, padre della musica » ivi

VII!

ANTONIO BASSO:

I. Invocazione alla gelosia » 335

II. Convalescente » 336

ni. La Trinità » ivi

IV. L'orazione » 337

V. A frate Angelo Volpe di Montepeloso, reggente del collegio dei minori conventuali in San Lorenzo di

Napoli » ivi

INDICE

553

VI. A Gherardo Gambacorta, generale della cavalleria

di Napoli a Milano pag. 338

VII. La primavera » ivi

VINCENZO ZITO:

I. Il rimprovero » 340

II. Il cenno del ciglio » 341

III. In tempo di vendemmia » ivi

IV. La pellegrina » 342

V. La donna all'amante che va alla guerra .... » ivi

VI. L'amore ardente. Imitazione da Ausonio .... » 343 VII. La sete nelle campagne del Vesuvio » ivi

vili. La Luna ed Endimione » 344

IX. La galea » ivi

X. Agli accademici Oziosi di Napoli nell'essere ammesso

nella loro società » 345

XI. .\ Scipione Zito, che regge truppe di fanti in Ispagna » ivi

XII. Durante la rivoluzione di Napoli del 1647 ... » 346

XIII. A don Giovanni d'Austria, invocando l'arrivo di

lui a Napoli » ivi

XIV. Il digiuno » 347

xv. La chioma sciolta » ivi

XVI. La fenice » 348

ANTONIO MUSCETTOLA:

I. L'innamoramento durante la rivoluzione di Napoli. » 351

II. Il nastro verde » 352

III. Inviando la Gerusalemme » ivi

IV. La donna che legge l'ufficio » 353

V. Atieone e Diana, pittura di Domenico Gargiulo,

detto Micco Spadaro » ivi

VI. Narciso » 354

VII. La farfalla al lume » ivi

VIII. Il miracolo delle rose e gli sposi casti ■» 355

IX. Casistica di naufragio . . . » ivi

X. Al legno della croce » 356

XI. Al monte Vesuvio. Per il sangue di san Gennaro. » ivi

XII. Al sonno » 357

XIII. I tumulti di Napoli, sedati da don Giovanni d'Austria.

A Francesco Dentice » 359

554

LIRICI MARINISTI

CIRO DI I

II III

IV

V

VI

VII

VIII

IX

X

XI

XII

XIII

XIV

XV

XVI

XVII

XVIII

XIX

XX

XXI

XXII XXIII XXIV XXV XXVI XXVII XXVIII

IX

PERS:

. Le chiome nere pag. 363

. La veste bianca » 364

. Il bambino » ivi

. L'eloquenza degli occhi » 365

. Purificazione in amore » ivi

. Sopravvivenza dell'amore alla bellezza » 366

. Sullo stesso argomento » ivi

. La lotta col tempo » 367

. Sullo stesso argomento » ivi

La penitente » 368

La dipa4iatrice » ivi

Le lodi della fatica » 369

. Il cacciatore d'archibugio » ivi

. All'amico che ha preso moglie » 370

. Al proprio letto > ivi

. Al sonno » 371

. Il mal di pietra » ivi

. L'orologio da ruote » 372

Ego suni qui sum » ivi

Il terremoto » 375

Per una nipotina dell'autore, la quale visse pochi

giorni » ivi

In morte di Gustavo Adolfo » 374

Cristina di Svezia in Roma » ivi

. Contro l'amare una bellezza sola. Ad Andrea Vallerò. » 375

I viaggi sulle galee di Malta » 2)17

L' Italia avvilita. A monsignor Gherardo Saracini . » 387

Le calamità d' Italia » 391

La predestinazione » 403

X

'GIUSEPPE BATTISTA:

I. Gli occhi belli . . . , L' innamorato del ritratte L'amante e la cicala La morte del marito Al fiume Sebeto . . VI. La bugiarda . . . VII. Amore e dolore . . vili. Confessione di poeta

II.

IV. V.

409

410 ivi

411

ivi

412

ivi

413

INDICE 555

IX. Il mandorlo pag. 413

X. La zanzara . . » 414

XI. La granatiglia ossia fiore di passione » ivi

XII. L'acqua » 415

XIII. La lettera » ivi

XIV. Lo schioppo T> 416

XV. Apollo e Dafne » ivi

XVI. Medea » 417

XVII. Erostrato » ivi

XVIII. Giuditta » 418

XIX. Alla Vergine t> ivi

XX. San Macuto, che celebra messa in mare sopra una

balena » 419

XXI. Belisario » ivi

XXII. Il caos » 420

XXIII. La materia prima » ivi

XXIV. Il tempo » 421

XXV. Democrito ed Eraclito » ivi

XXVI. Il ricco ozioso » 422

XXVII. Epitaffio di un uomo felice » ivi

XXVIII. Il lusso delle femmine » 423

XXIX. L'uomo e la pace » ivi

XXX. L'utile delle avversità » 424

XXXI. Il vecchio » ivi

XXXII. La donna invecchiata nel giardino » 425

xxxm. Consigli a un poeta frettoloso » ivi

XXXIV. Il poeta e il bever acqua » 426

XXXV. L' immortalità letteraria » ivi

XXXVI. Nel partir da Napoli durante i tumulti del 1647-48. » 427

XXXVII. Passando per Puglia piana » ivi

XXXVIII. Il ritorno al paese natale » 428

XXXIX. La villa » ivi

XL. Filosofando tra i cipressi » 429

XLi. Il canto della pastorella » ivi

XLii. I dolori artritici » 430

XLiii. Il ritorno dei dolori a primavera » ivi

XLiv. Aspettando la chiragra. In nome d'un amico . . » 431

XLV. Lo studio delle lettere » ivi

XLVI. Ai libri » 432

XLVii. Insaziabilità d'imparare » ivi

XLViii. La speranza. A richiesta del duca di Sciano. . . » 433 XLix. Le meraviglie dell'acqua. Al padre Filippo da Ce- sena, cappuccino .... * » 434

I.. Filocrate in morte di Maria Maddalena .... » 43S-

556

LIRICI MARINISTI

XI

GIUSEPPE ARTALE:

I. Al lettore pag.

II. Le bellezze della sua donna »

III. Il rivale »

IV. La cantatrice »

La donna con gli occhiali »

La pulce »

La dama infanticida . »

Il creato e Dio »

IX. Santa Maria Maddalena. A Maria Maddalena Lof- fredo, principessa di Cardite »

X. Il buon ladrone. A Pietro Valeri »

XI. Il terremoto di Ragusa »

XII. In morte di Troiano Spinelli de' principi di Tarsia, il quale lasciò all'autore in segno d'affetto una spada preziosissima

XIII. Al padre Michele Fontanarosa

XIV. Il teschio del turco

XV. Epitaffio a se stesso »

XVI. Dopo un duello. Alla sua donna »

V. VI.

VII.

vili.

449 450 ivi

451

ivi

452

ivi

453

ivi

454 ivi

455 ivi

456

ivi

457

-.^te>^

GIACOMO LUBRANO:

I. Il sonno

II. La torpedine

'lììNI cedri fantastici negli orti reggitani

IV. La caccia del pesce spada nello stretto di Messina. v. La libreria fìnta di legno

VI. L'occhialino

VII. A un vantatore di nobiltà

VIII. Le bevande agghiacciate

IX. Il baco da seta che si schiude nel petto di una donna. XX. I tumulti di Napoli del 1647

460 461

ivi 462

ivi

463

ivi

464

ivi

465

GIOVANNI CANALE:

I. Il pavone e la donna » 469

II. La chioma incipriata » 470

III. A un poeta che si tinge la barba » ivi

IV. Il tamburo » 471

V. I razzi » ivi

VI. Alla repubblica di Venezia. Per l'armata del Mo-

rosini » 472

INDICE 557-

VII. Per la caduta del cardinale Orsini nel terremoto di

Benevento pag. 472-

Vili. La trinità di Cava » 473

IX. Ad Ascanio Pignatelli, che in un suo discorso lodò

il Tasso ed il Marino » ivi

X. AI padre Giacomo Lubrano. Per l'infermità che

l'affliggeva alla lingua » 474

XI. Allo stesso. Per le poesie da lui composte, latine e

italiane » ivi

XII. Lo scheletro » 475.

. xiii. Il vecchio » ivi >-

XIV. Il desiderio di vivere ancora » 476

XV. Il pensiero della morte » ivi

xvi. Gli abusi moderni. A Federico Meninni, tìsico e poeta » 477

XII FEDERICO MENINNI:

I. I fiori e la sua donna » 485

II. Gli alberi e la sua donna » 486

III. Il Vesuvio e la sua donna » ivi

IV. Consolatoria a donna che invecchia » 487

V. Il pavone » ivi

VI. La carta geografica » 488

VII. Fugacità dell'uomo e persistenza delle cose ... » ivi

vili. Speranza di gloria » 489

IX. La bugia, regina del mondo » ivi

X. In una villa presso Sorrento. Ad Antonio Teodoto. » 490 XI. Nel tempo della peste di Napoli. Al padre Niceforo

Sebasto, agostiniano » ivi

LORENZO CASABURI:

I. La pozzetta nelle guance » 494

II. Ingeniuvi ipsa piiella facit » 495

III. Occhi neri. A richiesta di Giuseppe Mastrilli Gomez. » ivi

IV. Le donne ascoltatrici della sua poesia » 496

V. L'orologio fermo » ivi

VI. La bella muta » 497

VII. La giocatrice di corda » ivi

vili. Il giocatore di corda » 49^

IX. La donna al marito, che vuole andare alla guerra

contro i turchi » ivi

X. Pel ritratto dell'avo Pietro Urries, uditore generale

dell'esercito nel regno di Napoli » 499

XI. Le lagrime » JvL

558 LIRICI MARINISTI

PIETRO CASABURI:

I. Innanzi allo specchio pag. 500

II. La chioma nera » 501

III. Tramontando il sole » ivi

IV. A giovane innamorato di bianchissima donna . . » 502 V. La rosa » ivi

VI. A un bambino in culla » 503

VII. Esculapio, inventore dello specchio » ivi

vili. All'obo, albero indiano che distilla acqua in tempo

di siccità » 504

IX. Ai santi Innocenti » ivi

TOMMASO GAUDIOSI:

I. L'ombra » 505

II. La penitente » 506

III. Memento mori » ivi

IV. La donna amata un tempo » 507

V. Le stravaganze della moda » ivi

VI. Il guardinfante » 508

VII. Lo spadino in testa » ivi

VIII. Il tabacco da naso » 509

IX. Il gioco de' colombi alla Cava » ivi

X. La rapidità del tempo » 510

XI. L'infelicità umana » ivi

XII. Il letto » 511

XIII. Il bacio di Giuda » ivi

BARTOLOMEO DOTTI:

I. Gli occhi neri » 5j2

II. Di dal muro » 513

III. AmantUim irae » ivi

IV. Restituendo le lettere » 514

V. Fumando » ivi

VI. Il fumare e la mestizia » 515

VII. L'aborto nell'ampolla. A Giacopo Grandis, fisico e

anatomico » ivi

vili. Le fontane di Brescia. » 516

IX. A Sirmione » ivi

ANDREA FERRUCCI:

I. Che cosa è amore » 517

II. Il riso e il pianto » 518

III. L'oroscopo » ivi

INDICE 559

NOTA pag. 523

I. Stigliani - Macedonio - Caetano - Manso - Balducci - Della

Valle , » 526

II. Acliilliiii - Preti - Paoli - Giovanetti - Sempronio ... » 528

IH. Maia Materdona - Bruni - Errico » 530

IV. Diversi » 531

V. Girolamo Fontanella » 534

V!. Salomoni - Morando - Brignole-Sale » ivi

VII. Michiele - Zazzaroni - Quirini » 535

Vili. Basso - Zito - Muscettola » 536

IX. Ciro di Pers » 537

X. Giuseppe Battista » ivi

XI. Artale - Lubrano - Canale » 53^

XII. Meninni - L. e P. Casaburi - Gaudiosi - Dotti - Perrucci. » 539

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UNIVERSITY OF TORONTO LIBRARY

4213 A6C7 cop. 2

Croce , Benedetto Lirici marinisti

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