RETI È r v° SAI LIU: DEI FRITTA Ca i ge (Cal ila & TA RA E « € CO MKE UU «duna «ad dec. (i GT. dC € (CTC ao EA - € Té da (Edil E TC «a (CCM di AC GA € pi _£ (LETI FCE UT Cdc « da CUI d@ SCUO Ca CL SR id t (Cra @ UT a Mil CE € £ li uu } p. LC € 4 Ca « OL da KE (€ NA Cc G$ I € ( dE < EEE < d QUORE a Cu d((@ °C r@ Es < ( {CLS [é (_@ 4 COLORATI i (CT Ca é Cer TC Cd r CT E. € € AU. d € i — 7 d((€ ST «a pi | Cedega € GE Sk e dea È ( dA (Ce (€ È & € Te € Cc d e È [4 c.d > D o IT (CE «(lla c'e &. > Cl MEL TW € «(€ € c. IC. « Ca di TC IG re (((( aa gua > [AT € CT «i CE il di LR GL TI é € dC dll TUT «Tac UTC MAC COCA ‘ rè dC‘ MR KAC_T € CT @MMCE E ll TE | gl «€ GA ECC CUTMITI «€ ame. «I COOMT € id è are (UU UU AI € TU Ge & (da a E a ( = € So («& CCAC KM Gi € « . GA Cr (I (4 Ca ala È (La «RL (CO MTA SCA MAGI: Pa (| LUI € ELE Tm d Tree TIE W GU « € (GEN CIUEnaR METE ‘ i (ICT «€ GIURA. E € © e « CqUetT RT CC > ec do -( ta et € qcqamere uce € € | TA ‘€ QICCOA C € € PP? 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OSCAR CHISINI letta nella Sessione del 14 Novembre 1920 Introduzione. l. — Ricordiamo che il problema della risoluzione della singolarità di una curva piana viene posto, e risolto, in due aspetti diversi: risoluzione della singolarità mediante trasformazioni birazionali del piano, o invece, mediante trasformazioni birazionali della 2 curva (non estendibili — come birazionali al piano): precisamente per mezzo delle prime si arriva ad una curva dotata di punti multipli a tangenti distinte, e mediante la seconda a una curva dotata di soli nodi. Quando si voglia trattare la medesima questione per una superficie, si può considerarla dal ‘primo o dal secondo punto di vista, riferendosi cioè a trasformazioni birazionali dello spazio ambiente o a trasforma- zioni birazionali della superficie (1): noi. qui ci poniamo dal primo di tali punti di vista; e precisamente. in questa memoria dimostriamo che: Mediante trasformazioni birazionali (quadratiche e monoidali) dello: spazio ambiente, una superficie, f, dotata. di singolarità qualsiasi, può essere trasformata in un’altra /', dotata di curve multiple a piani tangenti generalmente distinti e' priva di punti multipli isolati: sulle curve. mul- tiple. si hanno due sole specie di punti singolari: a) incroci ordinari di due curve multiple; per. un tale ‘incrocio le due curve passano linearmente e con direzione diversa, e il punto non riesce ipermultiplo, nè base per il sistema delle curve polari variabili staccate su /' dalle sue superficie polari; (1). Dal punto di vista delle trasformazioni birazionali delle superficie il problema fu risolto da B. Levi nella Nota dell’Accademia delle Scienze di Torino intitolata « Risoluzione delle singolarità puntuali delle superficie algebriche » (1899). L'A. usa qui di trasformazioni cremoniane dello, spazio pur arrivando solamente a una trasformazione birazionale della superficie, giacchè egli trasforma la superficie data in una superficie iperspaziale che ha per proiezioni la superficie di partenza e la sua trasformata mediante una trasformazione cremoniana, In tal guisa egli elimina le singolarità create dalla trasformazione, singolarità che noi, in questa memoria, dovremo invece minutamente esaminare. DESIO), > b) punti cuspidali ordinari, in cui due falde lineari della superficie si fondono in un’ unica falda del second’ordine: per un tale punto le curve polari passano sempli- cemente e con direzione diversa da quella della curva multipla. Riassumeremo quì, per comodità del lettore, la via seguita per giungere alla con- clusione enunciata, cercando di render conto delle ragioni che hanno suggerito il nostro procedimento. 2. — Poichè la superficie f può presentare tanto curve multiple che punti mul- tipli isolati o punti di singolarità straordinaria appartenenti alle curve multiple, si presenta conveniente cominciare dallo sciogliere le singolarità puntuali della superficie, che è quanto viene fatto nel primo capitolo del nostro lavoro. Volendo generalizzare naturalmente quanto si fa per le curve piane, sembrava ovvio usare di una comune trasformazione quadratica di prima specie, Q, e collocare nel punto singolare, O, che si voleva sciogliere, il punto fondamentale isolato della tra- sformazione. Così l’ intorno del punto singolare veniva trasformato in una curva, sulla quale tuttavia potevano esservi ancora nuovi punti singolari a cui si sarebbe dovuto applicare di nuovo la trasformazione; occorreva quindi ricercare un carattere numerico che, diminuendo mediante la @, garantisse che la serie delle trasformazioni da usarsi riuscisse finita. E, procedendo per analogia col caso delle curve piane, era ovvio ricer- care questo carattere della singolarità 0, nel comportamento delle superficie polari, 0 delle curve polari loro intersezioni con la f. Ora accade che la curva polare, Z, relativa a un polo preso sul piano della conica fondamentale della ‘trasformazione quadratica, si trasforma sì sostanzialmente nella curva polare di un punto analogo, ma alla trasformata di Z occorre aggiungere una parte che giace sul piano fondamentale e che proviene dall’ intorno del punto 0, i cui. punti appartengono: virtualmente alla Z: così che, mediante una tale trasformazione può acca- dere che la singolarità della polare aumenti invece di diminuire ("). i Si riesce tuttavia ad eliminare tale difficoltà collocando il punto 0 sopra la conica fondamentale della trasformazione @ (e conviene prendere la conica spezzata in due rette), sicchè da esso nasca una retta multipla, le curve polari trasformandosi allora sostanzialmente ‘nelle curve polari. Tuttavia poichè la @ fa corrispondere al piano della conica fondamentale un punto, in questo nasce per la superficie trasformata, f', una nuova singolarità di natura complicata (?). Ma' sì evita questo secondo inconveniente ricorrendo ad una trasformazione qua- dratica di seconda specie, 7, la quale non crei punti multipli isolati, e collocando il (*) Un chiaro esempio di ciò e offerto dal punto cuspidale, O, di una curva doppia; per O le curve polari passano semplicemente mentre, trasformando, dall’intorno di 0 nasce un punto doppio per il quale le curve polari passano doppiamente! (°) Come abbiamo notato nella nota di pag. 3, ci si potrebbe risparmiare l'esame delle singo- larità create dalla trasformazione ove ci si limitasse a considerare trasformazioni birazionali della super- ficie e non dello spazio ambiente. Hr DES (7 pa punto singolare 0 sopra la retta fondamentale della 7: al punto O viene ancora a corrispondere una retta multipla, e. per l’esame della singolarità dei punti di questa, giova l’osservazione fondamentale, che la trasformazione di seconda specie 7, avente la retta a come fondamentale, e la trasformazione di prima specie @, che possegga la retta a come parte della sua conica fondamentale, operano ugualmente nell’ intorno di un punto generico della retta a, differendo per una trasformazione regolare; ciò nel senso che a un punto P,, infinitamente vicino a un punto P di a, la 7° e la @ fanno corrispondere rispettivamente un punto P/ e P,', fra gli intorni di quali viene subor- dinata una trasformazione regolare, onde identiche appaiono dla singolarità che abbia in P/ la superficie /', trasformata della f mediante 7, e quella che abbia in P,'" la f'', trasformata mediante la Q (1). In base a questo concetto riesce agevole eliminare le singolarità puntuati della superficie 7 mediante una successione di trasformazioni quadratiche di seconda specie, che risultano in numero finito. A tale scopo definiamo anzitutto un carattere numerico di un punto singolare P, che chiamiamo rarg0: nella formazione di questo carattere numerico figurano la singolarità del punto singolare P per il cono circoscritto alla 7 (cioè la singolarità della curva polare), la moltiplicità e la singolarità di P per la così detta polare semplificata (intersezione della superficie con una polare, in cui le parti multiple vengano contate una sola volta), e il numero dei rami della curva multipla. Il rango gode della proprietà di restare inalterato per una trasformazione regolare nel- l’intorno del punto, e di diminuire invece per una trasformazione quadratica la cui curva fondamentale passi per il detto punto singolare. Quindi mediante queste si può trasformare la superficie data 7 in un’altra di tipo zormale, per i punti singolari della quale il rango ha il valore minimo; questi punti singolari normali risultano semplici per la polare pura (se a questa appartengono) e nodi per la polare semplificata, cioè: a) punti doppi della curva multipla, intersezioni di due componenti diverse, per cui non passano le curve polari (imeroci normali); b) punti semplici della curva multipla per cui passano le curve polari sempli- cemente e con direzione diversa da quella della curva multipla (punti cuspidali o punti chiusi come vedremo poi). 3. riducendola a possedere solamente curve multiple e su queste punti singolari ben defi- Essendo pervenuti così ad eliminare le singolarità puntuali della superficie, niti, si può procedere alla risoluzione delle singolarità costituite dalle curve multiple infinitamente vicine alle curve multiple proprie. Quì soccorre il concetto fondamentale, dovuto a Del Pezzo, di trasformare la superficie mediante successive trasformazioni monoidali che abbiano come curva base una delle curve multiple della superficie: ma per attuare tale concetto è necessaria un’analisi minuziosa -ed approfondita, sia della (*) La considerazione di trasformazioni equivalenti trovasi in B. Levi « Sulla riduzione delle sin- golarità puntuali... » (Annali di Matematica, 1897) e « Sulla trasformazione dell’intorno di un punto... » (Atti dell’Accademia delle Scienze di Torino, 1899). trasformazione monoidale, che della singolarità della superficie sulla quale si opera, singolarità che è già stata ridotta a tipo normale. Per l’ esame degli incroci normali di due curve multiple, e per quello dei punti della curva multipla che riescono base per le curve polari, ci serviamo di un teorema relativo alla curva di diramazione di una funzione algebrica di due variabili, stabilito in un precedente lavoro ('). Questo teorema dice che le due sostituzioni sopra i rami di una funzione algebrica z =:z (xy) relative a due curve di diramazione che si taglino, senza oscularsi, in un punto, sono nell’ intorno di tale punto, permutabili fra di loro. Si arriva in tal modo a riconoscere che: 1) un punto della curva. multipla che sia base per le curve polari è un punto cuspidale, in cui si saldano due falde lineari in una falda del secondo ordine, o. un punto chiuso appartenente ad una falda del secondo ordine; i 2) un incrocio, ZI, della curva multipla è tale che, se per esso passano due curve di uguali moltiplicità » che non abbiano infinitamente vicina un altra curva 7-pla, un piano per Z sega secondo una curva dotata di due e non tre punti 7-pli infinitamente vicini; fa eccezione il caso in cui lungo entrambe le curve si abbia un solo piano tangente, nel qual caso la sezione può presentare tre ma non mai quattro punti 7 pli infinitamente vicini. Se poi per l'incrocio passano due curve di moltiplicità diversa, e quella di molteplicità maggiore, 7, non ha, infinitamente vicina a sè, altra curva di eguale: molteplicità, la sezione con un piano per I presenta un solo punto 7-plo. La conoscenza di questi fatti permette di sciogliere facilmente la singolarità della superficie, considerata nell’intorno di un qualunque suo punto. Anzitutto è chiaro come si possa sciogliere |’ intorno di un punto generico di una curva multipla, mediante trasformazioni monoidali che abbiano come curva base la curva stessa. e le sue trasformate; ma più difficile riesce la risoluzione di un incrocio di due ‘curve multiple di egual ‘molteplicità, 7. Per questo ci si riduce anzitutto. al caso che infinitamente vicina ad una delle due curve non esista altra curva 7-pla; poi si applicano due trasformazioni monoidali che abbiano come curva base rispettivamente le due curve 7-ple, e si riconosce che dal- l’intorno dell’ incrocio (le sezioni con piani presentando due. soli punti 7-pli) nascono punti la cui molteplicità è inferiore a 7; nel caso poi in cui le sezioni per. |’ incrocio presentassero tre e non: due punti 7-pli successivi, occorre aggiungere una terza tra- sformazione avente come curva base la trasformata dell’ unica curva infinitamente vicina a una delle due curve incrociantisi. Così, da un incrocio di due curve 7-ple, e simil- mente da un incrocio di una curva 7-pla con un’altra di molteplicità s < 7, nascono punti e curve di molteplicità inferiore ad r, onde diminuendo l° ordine delle curve mul- tiple si arriva infine a sciogliere la singolarità. Il caso del punto cuspidale, non presenta difficoltà alcuna, e dal punto chiuso può nascere solo un punto doppio, facilmente risolubile con una nuova trasformazione quadratica. ‘<(*) « Sugli incroci della curva di diramazione di una funzione algebrica di due variabili » Rendie. dell’Accademia dei Lincei, 15 febbraio 1920. IE Ma (utte queste operazioni che riuscirebbero abbastanza semplici ove si operasse solo nell’ intorno di un punto, riescono molto complicate quando si debba tener’ conto della superficie nella sua integrità, la trasformazione monoidale generando nuove curve multiple e incroci non normali di queste. luttavia, aggiungendo ad ogni trasformazione monoidale un certo numero di trasfor- mazioni complementari, quadratiche e monoidali, atte ad eliminare le singolarità create, e scegliendo convenientemente le successive curve multiple, sulle quali si deve operare, sì arriva infine al. risultato richiesto: e quì non conviene parlarne più a lungo trat- tandosi non di idee direttrici ma di avvedimenti tecnici che il lettore potrà vedere! partitamente ove essi sono posti in atto. CAPITOLO I. Riduzione delle singolarità puntuali di una superficie mediante trasformazioni quadratiche di seconda specie. $ 7. - Le singolarità di una superficie e le curve polari: caratteri di un punto singolare. 1. Si considera come punto singolare di una superficie algebrica f(ey:)= 0, un punto multiplo per la superficie stessa; un tale punto può essere isolato, oppure appartenere a una curva luogo di punti multipli: in ogni caso un punto singolare di f appartiene a tutte le sue superficie polari. Il sistema lineare co? delle superficie polari, sega sopra la 7 un sistema lineare co° di curve polari: ove la superficie abbia delle curve multiple, queste figurano, ciascuna contata un conveniente numero di volte, come componenti fisse delle curve polari. Per chiarezza e comodità di espressione chiameremo: polari totali, le curve sezioni di 7 con le sue superficie polari; pol@'i pure, o anche semplicemente polari, le polari totali spogliate delle (eventuali) parti fisse; polari semplificate, le polari totali in cui ciascuna curva multipla sia contata una volta sola, cioè le polari pure cui si aggiungano le curve multiple. Indicheremo con Z le polari pure, con A le polari totali, e con À le polari semplificate. Vengono considerati come punti generici di una curva multipla, i punti, semplici per questa, che non appartengano ad altra curva multipla e che non riescano base per il sistema delle polari pure: ciò perchè nell’ intorno di un punto generico della curva multipla si hanno, per la superficie, una o più falde, ciascuna rappresentabile mediante uno sviluppo: in serie di Taylor (per le falde lineari) o uno sviluppo in serie di Halphen per le falde superlineari: per una falda di ordine », si ha: > Dagati tr, io = INI II d DT E QUI essendo y= X b; &° lo sviluppo in serie della proiezione della curva multipla nell’ in- torno del punto considerato. 2. — Se P è un punto singolare, multiplo per /, la curva €, sezione con un piano generico ‘passante per P, presenterà in P una singolarità che abbasserà di un certo numero 4 Ja classe della C, X essendo il numero delle intersezioni, assorbite in ?, di C e di una sua polare generica. Si riconosce subito che questo numero %, che chiameremo molteplicità polare del punto P, non è altro che la molteplicità in P della curva A, polare totale di un punto generico. Ciò dipende dal fatto che la superficie polare è il luogo delle curve polari rispetto alle sezioni piane passanti per il relativo polo; ma di questo conviene dare una verifica analitica. Sia dunque f (eyz) — 0 l’equazione della superficie, P = (000) il suo punto singolare, e TI Th == l’equazione di un piano generico per P. La C ha 1’ equazione Ci—18(Z40)40R e la polare di un suo punto generico, quale può essere supposto il punto all’ infinito dell’asse y, è fly) =0, —,,, =03=0; poichè la curva intersezione delle prime due superficie è la A, polare totale del punto all’ infinito dell’ asse y, si ha che il numero % è precisamente la molteplicità della A in 2, ove si escluda che il piano z = 0 sia tangente ad essa. E ciò si esclude osservando che l’asse y può essere supposto non tangente in P alla f, e quindi neppure alla A, sicchè 2 = 0, piano generico per questo asse, non riuscirà tangente alla A. Ma si ha di più: la moltiplicità, h, che ha in P la polare totale generica, dà l'abbassamento della classe, dovuto al punto P, anche per lu curva sezione di f, con una superficie S, la quale passi per P, semplicemente e con piano tangente generico. Sia AS 129 NA) lo sviluppo in serie che dà lo sviluppo della superficie S° nell’intorno del punto P: potendosi supporre che ‘sia 3 = 0 il piano tangente ad S, la serie comincerà coi ter- mini di secondo grado (almeno) in x e y (complessivamente). ea Per determinare la singolarità della sezione di f e .S in 2, proiettiemola sul piano z=0 dal punto all'infinito dell’asse 3: otteniamo una curva X di equazione K=f(yY (ey) =0; e dovremo valutare l’abbassamento della classe di X, dovuto alla singolarità P. Per la curva X, e rispetto la sua singolarità in P, possiamo supporre generico il punto all’ infinito dell’asse y, onde il numero in questione è quello delle intersezioni, assorbite in P, di X e della sua polare DI df dI RL == 0 dy dy dz dY 2 cioè il numero delle intersezioni delle tre superfici df df dI f@y2))—=0) > AMULE —— +- l'aa dY dz dy Similmente (la polare totale del punto improprio dell’ asse 3 avendo in P la moltepli- cità 7% almeno) P ha almeno la molteplicità X# per la intersezione delle tre superficie: f(ey)=0, Dormi zii (24), e quindi molteplicità maggiore di 7% per l’ intersezione delle superficie p 85 Ji I df dY f(ey3)=0, aida a=VY (0y) È 3 QUE, giacchè % si annulla per e=y=0. Segue che la superficie df df dY === =l, dy dz dY sega sulla curva f(2y2)=0, s:= Y (xy), un gruppo di punti che contiene P con- tato & volte, essendo essa combinazione lineare di due superficie, per la prima delle quali il punto P ha la molteplicità d’ intersezione %, e per la seconda una molteplicità maggiore di /%; ciò significa appunto che le tre superficie, dî . dd hanno, in P, 4 intersezioni riunite, essendo % la molteplicità della polare totale generica. Dall’ osservazione fatta segue che: Za molteplicità della polare totale in un punto P, singolare di f, è invariante per trasformazioni regolari nell’ intorno del punto. Infatti una trasformazione regolare che porti il punto P in P' fa corrispondere alle sezioni piane per P, sezioni con superficie passanti per P' con piano tangente generico. 2 Serie VII. Tomo VIII. 1920-1921. RETI E poichè la curva multipla per P si trasforma nelle curve multiple per P', segue che anche Ze molteplicità della polare pura e della polare semplificata sono invarianti per trasformazioni regolari. 3. — Ma la molteplicità delle curve polari in un punto P è un carattere che tiene conto solamente dell’ intorno del prim’ ordine, mentre per lo studio delle singo- larità avremo bisogno di considerare anche gli intorni successivi. Pertanto introdurremo due altri caratteri relativi alla singolarità della superficie 7 nel suo punto P. Suppongasi che il punto P sia base per le polari pure L: una polare generica, proiettata dal relativo polo sopra un piano generico per P, dà origine ad una curva piana, per la quale P sarà un punto singolare abbassante Ja classe di un certo numero: questo numero lo chiameremo valenza del punto P rispetto alla polare pura, e lo indi- cheremo con w (P). Poichè il cono che proietta una ZL dal relativo polo, 0, non è altro che il cono circoscritto alla 7 dal polo O, si ha che la ww (P) è l'abbassamento della classe del cono ciscoscritto da un punto generico 0, prodotto dalla generatrice singolare OP. Per es. un punto doppio conico ha la valenza 2, invece un punto doppio unipla- nare, nel quale le polari ZL hanno una cuspide, ha la valenza 3 (almeno in generale). Invece un punto per cui le Z passino semplicemente ha la valenza zero. Come si è definita la valenza di P rispetto alla polare pura, può definirsi la valenza di P rispetto alla polave semplificata, carattere che chiameremo brevemente valenza di P e lindicheremo con ©(P); la valenza di P è dunque l’ abbassamento che la singolarità della generatrice OP produce sulla classe del cono (A), che da O proietta la polare semplificata A relativa al polo 0. Per esempio la valenza di un punto conico vale v = 2, quello di un punto cuspi- dale della curva multipla è © = 2, quella di un punto triplo della curva multipla @ ®© = Go Accanto alla valenza di un punto singolare P conviene definire un altro carattere che tenga conto delle curve multiple che passano per P: indicando con © la valenza di P, con » la’ molteplicità della polare semplificata A, con c il numero dei rami (lineasi o no) della curva multipla, definiamo come rargo del punto P il numero: p=do—5c—r(e— 1): (0) per un incrocio di due curve multiple si ha [A°) o==9 G= By ,p=—-4; per un punto cuspidale della curva multipla si ha ) (1 O=3Zg @== 1, P=Bs p (') I caratteri ed i coefficienti che entrano a formare il rango sono scelti in modo che il rango di un punto P si possa abbassare mediante trasformazioni quadratiche, la cui curva fondamentale passi per P, ove questo non sia doppio a tangenti distinte per la polare semplificata. Cfr. $ 3, n. 3. SEA NI 4. — Conviene ora fare un’ osservazione circa il modo di calcolare la valenza 20 (2) di un punto P rispetto alla polare pura, e similmente la valenza »v(P) rispetto alla polare semplificata. Nella definizione della valenza (2) rispetto alla polare pura, si parla di polare (pura) di un punto generico, 0; occorre riconoscere ora che è generico un punto O tale che la retta OP non appartenga al cono osculatore in P, o alla con- gruenza, X, delle tangenti doppie o a quella, 2, delle tangenti principali alla superficie f. Sia dunque O un punto tale che OP non appartenga al cono osculatore in P, nè alle due sunnominate congruenze (liberate s'intende dalle eventuali stelle, quali P), ed ZL, la sua polare pura; sia inoltre 4 un punto generico dello spazio ed Z la sua polare pura: dovremo dimostrare che la generatrice singolare OP del cono 0(L,), abbassa la classe di esso come la generatrice HP abbassa la classe del cono H(£). A tale scopo si osservi anzitutto che quando H tende ad 0, non può accadere che una generatrice cuspidale del cono (LZ), dotata di un contatto tripunto con la f, tenda alla OP, il punto di contatto tendendo a P, nè — similmente che vi tenda una generatrice doppia (bitangente alla /f) i cui due punti di contatto si riuniscano in P: ciò perchè le generatrici cuspidali e le generatrici doppie del cono H7(L) appartengono rispettivamente alle suddette congruenze 3 e V'. In secondo luogo si vede che, se la generatrice singolare OP abbassa la classe del cono 0(L,), di un numero 7 maggiore di quello relativo alla 7 per il cono H(L) — la singolarità della OP essendo valutata in relazione alle falde del cono 0(Z,) che proiet- tano i rami di Z, passanti per P_— quando il punto # tende ad O, dall’ inviluppo proprio dei piani tangenti al cono #(L) si stacca, al limite, il fascio OP. E ciò è una immediata conseguenza dell’ osservazione precedente, la quale esclude appunto che la generatrice OP sia limite di una generatrice cuspidale o di una generatrice doppia, il cui abbassamento per la classe del cono 0(Z,) figuri nel numero #%. In terzo luogo si supponga che H tenda ad O lungo la retta OM: in questo pas- saggio ì piani del fascio HO tangenti al cono H(L), e quindi alla Z, in punti sem- plici di Z, non variano essendo i piani tangenti alla 7 condotti per la retta 70; segue che il piano HOP, ove non sia tangente alla Z in , non può essere limite di un piano tangente al cono 4(Z). Pertanto se, al tendere di 4 ad O, dall’ inviluppo dei piani tangenti al cono H(L) si stacca il fascio OP, il piano HOP è tangente in P alla Z. Ma poichè tutti i rami della Z per P devono essere tangenti al cono oscula- tore alla 7 in P, non può il piano HOP (per qualunque 2) essere tangente alla Z, ove non sia OP una generatrice del suddetto cono osculatore. Si conclude così che, quando OP non appartiene al piano osculatore in P, nè alle due congruenze ®, 2', l'abbassamento della classe del cono 0(L,)), dovuto alla gene- ratrice singolare OP, è uguale a quello che la generatrice 7? produce per il cono H(L) circoscritto ad 7 da un punto H generico: è chiaro infatti che tale abbassamento non può essere minore per il punto particolare O che per il punto generico H. Volendo passare ora alla considerazione della valenza v(P) propriamente detta, basterà osservare che la polare semplificata si compone della polare pura cui sì aggiunge la curva multipla di contatto, C, contata una volta. Dovremo quindi escludere, per la valutazione di v(P), quei punti O, per i quali la proiezione della polare L e della curva multipla €, risultano fra loro tangenti in P, ed anche quei punti O per cui la proie- zione della € acquisti in P una singolarità ulteriore; in altre parole dovremo esclu- dere che la retta OP appartenga alla congruenza, £'", delle rette tangenti ad f ed incidenti alla €, nonchè a quella, 2''', delle corde di C. Adunque ogni punto dello spazio che non appartenga al cono osculatore alla f in P, nè ai coni formati dalle rette per P appartenenti alle congruenze 2, 2', 2", 2", e così pure la relativa polare semplificata, possono essere considerati generici rispetto alla valutazione della valenza di P. 5. — Importa ora riconoscere che : Il vango di una singolarità P è invariante per una trasformazione birazionale dello spazio, regolare mell’ intorno di P. Essendo il rango f dato da p = 4v — 5c — (vr — 1) cominciamo a dimostrare l’ invarianza della valenza di P; e precisamente, essendo la polare semplificata rispetto cui si vuluta la valenza v(P) composta della polare pura e della curva multipla, con- verrà anzitutto dimostrare |’ invarianza della valenza w(P) relativa alla polare pura. E tale dimostrazione si svolge come segue. Si riconosce anzitutto che una trasformazione birazionale 7", regolare nell’ intorno di un punto P = (000), può essere decomposta nel prodotto di tre altre trasformazioni, T,x Ty, Ty, regolari nell'intorno di P e dei suoi trasformati, ciascuna delle quali muta una stella di piani in une stella di piani ad essa proiettiva. Infatti sia la 7 definita dalle formule dove @,, P, e Fi, sono funzioni razionali fratte che si annullano per e=y=z<3=0 senza riuscire indeterminate. Poniamo CAI t,=9yU3TY = Pa eye), ed indichiamo con @,, (@, y, 3) la funzione trasformata mediante la 7, di @, (@y2). Poniamo in secondo luogo Vo = x] T, = YUn= Pay (7,73) NI hi Ms ed indichiamo con Ps (2,4, 5,) la trasformata di @, (242) mediante il prodotto 7, 7,. RS A o Poniamo infine Lola Pros (CAVA A) | 3 2 Si ha evidentemante 2, = a", y,=y', z,=2'; onde segue 3 U = Il To, TE d’altra parte la trasformazione 7, muta la stella di centro 0, = (a =y=0, = cc) nella stella di centro 0,= (@, — RIN CORTA nta NaistelaMdicentro Oi la 7, muta la stella di centro 0, = (y,==z,=0, a,= 00) nella stella di centro 0, = AA e) nellafstolla(dnicentro 0,1207100) (Y,=3=0, a, = 00). In secondo luogo si indichi con /, la trasformata di f mediante 7,, con /, la tra- sformata di f, mediante 7, e con = trasformata di /, mediante 7,, cioè la tra- Sformata (di ({f mediante (T:; e con P, P, P —P' i trasformati del punto P. Si vede allora che — ove ad / si sostituisca una sua trasformata mediante un’ omografia gene- rica che abbia P come punto unito — i centri 0,, 0; 0,, 0;; 0,, %, possono essere supposti generici rispetto le superficie /, f,; fo; fa; per quanto riguarda la determinazione della valenza del punto ?P. Ora è chiaro che il punto O è affatto generico rispetto ad 7, ma tale appare anche il punto O; rispetto ad f,. Anzitutto infatti la 0} P, può supporsi non appartenere al cono osculatore ad (RZ, giacchè la 7, subordina un’ omografia fra i coni osculatori alla f ed alla f, in Pe P,. In secondo luogo si può anche supporre che la retta 0} P, non appartenga alla congruenza 2 delle bitangenti ad /,: infatti alle rette dello spazio (@,7,2,) corrispon- dono per la 77! certe curve C dello spazio (#72), e alla congruenza 2 della bitan- gente ad /, corrisponde la congruenza X delle C bitangenti ad 7, e una © passante per P ed appartenente a X (cioè limite di una bitangente propria) cessa di essere ancora tale, ove ad / si faccia subire un’ omografia generica che lasci fermo P. E similmente si riconosce che la retta 0} P, non appartiene alla congruenza £' delle tangenti principali ad /,. Lo stesso ragionamento vale a provare che anche la retta 0, P, può essere supposta generica, e così via le’ altre rette ‘0; EBENONE.; 0; P,. In fine si osservi che la 7, trasforma la polare rispetto ad 7 del punto O, nella polare rispetto ad f, del punto O, , onde appaiono riferiti proiettivamente i coni che ha detti punti proiettano le loro polari pure (almeno nell’intorno di P e P,). Questi punti essendo generici rispetto alla valu- tazione della valenza x(2P) rispetto alla polare pura, segue che questo carattere è uguale per P e per P,. Similmente esso è uguale per P, e per P, e per P, e PP Si conclude che la trasformazione 7° muta P in un punto P' perciò è w(P')= w(P). Nello stesso modo si dimostra che v(P') = v(P), cioè che la valenza propriamente detta di P eguaglia quella di P'. Infatti basterà riconoscere che le rette 0) P,, 03 P,, 0; TOMO, O, P,, possono essere supposte generiche, anche rispetto alla polare sem- plificata, il che importa che la retta 0} P, (e similmente le altre) non appartenga alla congruenza £'' delle tangenti alla f incidenti alla curva multipla di questa, nè alla congruenza £'" delle corde di detta curva multipla; le quali ipotesi si escludono nello stesso modo con cui si esclude che la retta 0, P, appartenga alla 2 e alla 2°. E poi chiaro infine come, essendo c ed » invarianti per la 7, anche il rango. p risulti invariante. $ 2. - La trasformazione quadratica di seconda specie. 1. — Dovendosi nel seguito usare della trasformazione quadratica di seconda specie per sciogliere le singolarità puntuali di una superficie, ricorderemo in questo paragrafo le particolarità di tale trasformazione: inoltre confronteremo la trasformazione quadra- tica di seconda specie con la trasformazione quadratica di prima specie, a conica fon- damentale riducibile, per riconoscere come esse operino in modo sostanzialmente identico nell’ intorno di un punto appartenente alla curva fondamentale. Si ottiene una trasformazione quadratica di seconda specie, 7, la quale trasformi lo spazio S = (a@y2zu), definito dalle coordinate omogenee x, y, 2, «, nello spazio S' = (2' y' 2' u'), definito dalle coordinate omogenee ', y', 2', «', facendo corrispondere proiettivamente i piani dello spazio .S' alle quadriche dello spazio S passanti per una retta fondamentale e per tre punti fondamentali il cui piano non contenga la retta. Se si assume come retta fondamentale la retta y=z = 0; e come punti fonda- mentali i punti (0100), (0010), (0111), la trasformazione 7 e la sua inversa possono essere definite dalle. formule a'=(y—-z)w o=(y' —3)y 3 r 12 r I NIRO, 2 = 29) RO 106 qT= Te a, qT == EAT, Ù Ù IH DMN z=y 3. (a -u)_-z°u U Ul MOTI u=y(s—-), UA E conviene particolarmente osservare che ai piani Ò, di equazione y= 0, di equazione y' = = 0 Ò, di equazione z= 0, corrispondono le rette LU di di di equazione 2'=a'+u'= Ò, di equazione y — 2 di di equazione &' = y y di equazione @ = 0, g' di equazione y' = 3'=0; Ù le tre rette dj, di, d;, e la g' risultano rispettivamente direttrici e generatrice della quadrica Q, di equazione a'y'+y'u' — 3'u = 0. La trasformazione 7° subordina una omografia fra i due fasci di piani aventi per sostegni gli assi 2 e 2', ed anche un’omografia fra i punti dei piani omologhi. Al ESC e variare di un piano per l’asse «, la retta omologa all’ asse stesso descrive la quadrica Q;, e il punto omologo di un punto P (generico dell’ asse «) di coordinate descrive la retta p' di equazioni y+4-hu' =0, ho'+2'+ hu = 0, che è una generatrice della quadrica 0. La trasformazione 7 non ha nello spazio S alcuna superficie fondamentale cui cor- 1? 0%, OS Y; al quali abbiamo visto corrispondere quattro rette appartenenti alla quadrica @. Precisa- risponda un punto: le sole superficie singolari sono i quattro piani d mente un punto di dj nasce da tutti i punti di OD appartenenti ad una medesima retta per il punto (0010), e similmente dicasi per d, e d,; invece un punto di g' nasce da tutti i punti di y appartenenti a una medesima conica passante per i quattro punti (0010), (0100), 0111), (0001). 2. — A un piano generico 77' dello spazio .S' di equazione = ax' + by + cu', la nostra trasformazione fa corrispondere la quadrica, X, di $, di equazione x%3 = ayu — azu + bay + cyz — cyu, la quale passa, in particolare, per il punto (0100). Si proietti 7' dal punto (0010) sopra il piano 7j di equazione 3' = 0, e la quadrica X dal punto (0100) sul piano y di equazione y = 0. Considerando come omologhi i punti dei piani 7j e 7 che sono proiezioni dei punti omologhi in 7’, si ottiene fra essi una trasformazione che si trova definita dalle equazioni: y {y' va ri + cu')] y È +0) — u' (ax' + dy' + cu') Z i | i ] S SE \ WU Questa trasformazione è una trasformazione quadratica, la quale ha come punti fondamentali, nel piano 7j, i punti di = =0 o'=y — (ax +by +cu)=0, y = aa' + by' + cu' = 0 che sono le proiezioni (fatte dal punto (0010)) delle intersezione di 77° con le tre rette dj di equazione y'=u = 0, di di equazione a' = y'—2'= 0, g' di equazione y' = 3' ES e Poichè il piano 7; è proiettivo al piano 7', si ha che fra quest’ ultimo e 7 [ove si considerino come omologhi un punto A' di 7' e la proiezione su 7 — fatta dal centro (0100) — del punto A di X corrispondente ad A' per la Dt intercede una trasforma- zione quadratica, I, che ha come punti fondamentali in #' le sue intersezioni con le tre rette di, di, g'. (Il fatto che le tre rette dj, d;, di, non fisurino qui simmetri- camente, dipende dalla scelta del centro da cui la X viene proiettata sul piano 7). A questi tre punti corrispondono in % tre rette, che si riconosce immediatamente essere le proiezioni delle rette intersezioni di X coi piani d,, d, e y, le intersezione di d, e ò, essendo considerate fuori della retta y=3 = 3. — Vogliamo ‘ora confrontare la trasformazione quatratica 7, con la trasforma- zione quadratica di prima specie, la cui conica fondamentale si spezzi nell’ asse 2 e in una retta residua. La trasformazione quadratica di prima specie @ che faccia corrispondere i piani dello spazio Si = (@1y1 21%) alle quadriche dello spazio .S passanti per il punto (0010) e per la conica spezzata negli assi 2 e y, può essere rappresentata dalle equazioni ' r x) RAI 4g= XL Zi 4 r , = 2000 . pi YU, 51 = Yi Y invertite dalle Q= nia n = 690] GS LALh Îl ' LU u, = Uz n= Giova in particolare notare: $ 1) Alle rette passanti per il punto x =y=z=0 corrispondono rette passanti per il punto a = y=z= 0, e fra le due stelle intercede una trasformazione qua- dratica che ha come rette fondamentali gli assi, @, y, 3, e rispettivamente 2j, Yi. z55 2) A un punto P dell’ asse «, di coordinate x = hu, y=z<=0, corrisponde la retta p,, rappresentata dalle equazioni IMAA 0 3) A. una retta passante per un punto P| (della retta pj) di coordinate vp= 0, ah ah: la quale retta è rappresentata quindi dalle equazioni c=ay — hu, = + ha, corrisponde la conica di equazioni ec=0Yy + hu, cy= Byz + huz, la quale passa per il punto P ed è quivi tangente ad una retta variabile del piano (00) = BB: Per confrontare la 7 e la @, consideriamo la trasformazione prodotto Q= Q7, la quale trasforma lo spazio .S' nello spario S|. or = Si trova che la trasformazione Q e la sua inversa Q7 = 7@Q7 risultano definite dalle formule , U I e= (AR) SER=VU008 (ZAONATA) ' U Ul Ù r ' Ù r LA yEZLY+yu—-3 di VIZI Q = Ali TI Ul r All Q PA Ala RIO AI) le Ù LIGEST, I TRESSIT TEGSNT Vi = 0 = UE Si vede così che la trasformazione Q è una trasformazione quadratica di prima specie, la quale, nello spazio S', ha come curva fondamentale la conica degenere di equazioni y —z' = 0, 2'y = 0, e come punto fondamentale un punto infinitamente vicino al punto &' = — «', y = 0, 3'=0, avendosi quivi come piano tangente a tutte le quadriche trasformanti il piano a' = 0. Ciò posto si consideri un punto P generico sopra l’asse «, di coordinate x = hw to) b) 2 y=z=0; la 7 trasforma P nella retta p' di equazioni: IRLESE IRRRTIART. pan, pi y= —hu,3z =— ha — lu, e la @Q trasforma lo stesso punto nella retta Pj, di equazioni: r r Ù dle Me dc Così la trasformazione Q trasforma luna nell'altra le due rette, ed è regolare per tutti i punti di p' che non giacciono sui due piani &'=0, y— 3'=0, i quali proiet- tano la conica fondamentale dal punto fondamentale, il secondo dei quali coincide col piano della conica stessa. Possiamo pertanto enunciare che: A meno di una trasformazione regolare, le due trasformazioni quadratiche Q e T, trasformano nello stesso modo l’ intorno di un punto P, giacente sopra una retta fon- damentale per entrambe, nel senso che al punto P corrispondono due rette, e fra gli intorni dei punti omologhi di esse si ha in generale una trasformazione regolare. S 3. - Riduzione delle singolarità puntuali mediante trasformazioni quadratiche. 1. dratiche di seconda specie, una superficie 7 possa trasformarsi in un’altra Y, di zipo In questo paragrafo vogliamo mostrare come, mediante trasformazioni qua- normale, i cui punti singolari hanno per il rango i due valori minimi ] e — 4, riu- scendo punti doppi, a tangenti distinte, per la polare semplificata : si arriva così a una superficie in cui mancano i punti multipli isolati, le curve multiple non hanno altri punti singolari che incroci normali, per cui passano due curve multiple (e non rami di una medesima curva multipla) con tangenti distinte, e punti base per le polari pure, Z, per cui queste passano semplicemente e con direzione diversa da quella della curva multipla. Arriveremo .al nostro risultato in base all’ osservazione che una trasfor- mazione quadratica di seconda specie, 7, la cui retta fondamentale passa per un punto P, Serie VII. Tomo VIII. 1920-1921. 3 TRIO (CRE singolare di f, diminuisce il rango del punto P, ove questo non sia un punto doppio, a tangenti distinte, della polare semplificata A, avendosi allora per il rango i valori minimi: — 4 (incrocio normale di due curve multiple) e 1 (punto semplice di una curva multipla che risulta base per le polari pure). 2. — Sia dunque data una superficie f (x2yzu) = 0 d’ordine x, dotata di singola- rità qualsiansi, e sia P un suo punto singolare, # — po, che collocheremo in un punto generico della retta fondamentale di 7, cioè nel punto di coordinate o=ihi yY=B= di Eseguiamo ora la trasformazione 7; la superficie 7 verrà mutata in un’ altra f (2'y3'u)= 0, d'ordine 37, di cui dobbiamo esaminare le singolarità. Si osservi anzitutto che la trasformazione 7 è regolare nei punti dello spazio S= (wyzu), che non appartengono ai quattro piani d,, d,, d,, Yy, di guisa che le sin- golarità di /, esterne a questi piani, si riproducono invariate: precisamente punti sem- plici si trasformano in punti semplici, punti singolari isolati in punti singolari isolati, e curve multiple in curve multiple di eguale molteplicità: inoltre resta invariato il rango dei punti singolari. Invece la trasformazione 7 crea quattro nuove rette n — ple, cioè le rette di, da, ds, e g', omologhe dei quattro piani d,, d,, d,, 7, e una retta » — pla, p', corrispondente al punto 7 — pilo, P. Per le nuove quattro rette 2 — ple importa riconoscere le seguenti circostanze : a) Esse sono a piani tangenti generalmente distinti ; B) I loro ineroci con le trasformate delle curve multiple di 7 sono incroci normali, per cui passa — oltre la retta multipla —-una sola curva multipla con tangente diversa dalla retta, e non riescono base per le. curve polari LZ; y) similmente sono incroci normali i punti: Gj, G), Giie Pi, Pi Pig anfeni le di, di, di, incontrano rispettivamente la g' e la p'; d) all’ infuori dei suddetti incroci, gli unici punti delle 4 e della 9, in cui coin- cidono i piani tangenti alla /', sono punti cuspidali ordinari, cioè punti in cui coinci- dono. due soli piani tangenti, la sezione generica con un piano per essi presentando una cuspide. Questi punti cuspidali ordinari sono punti base per le Z, ma queste vi passano con tangente diversa da quella della curva multipla. a) Per riconoscere la prima circostanza mostreremo che un piano generico 77' di S° taglia la dj in un punto 0' che risulta 2 — plo a tangenti distinte. Infatti a 7' corri- sponde per la 7 una quadrica X segata dal piano Ò (fuori dell’ asse x) in una retta, 0, la quale può essere supposta intersecare la f in 72 punti distinti: pertanto ove si consideri la trasformazione quadratica T° (incontrata al n. 2 del S$ 2) intercedente fra n' e 1, si vede che questa trasforma 0 in n punti distinti, e poichè questa trasfor- mazione ha in O uno dei suoi tre punti fondamentali distinti, risulta chiaro l’ asserto. La stessa I° mostra che sono punti n — pli a tangenti distinte le intersezioni di 7' con ds e g', e una trasformazione analoga mostrerebbe la stessa cosa per 1’ intersezione CONO ANasE 8) Nel medesimo modo si vede che l’inerocio di dj (o di un’altra d') con una curva C', trasformata di una curva s— pla di f, è un’incrocio normale. Possiamo infatti supporre che il piano d, incontri la € in punti semplici, generici, distinti, e non allineati col punto (0010); allora la dj; incontrerà la C' in punti per i quali questa passerà semplicemente, e con tangente diversa dalla dj. Ma occorre anche vedere che per un tale inerocio, I", non passano le curve polari £. A tale scopo si indichi con o la molteplicità di C per la polare totale, cioè la molteplicità polare dei suoi punti; anche la curva C' sarà s— pla per f', e o — pla per la polare totale rispetto a f': per mostrare che JI' è un incrocio normale della C' e della retta n — pla di, basterà riconoseere che /' ha, per la polare totale, la mol- teplicità o + x (n — 1), cioè che un piano per Z' sega secondo una curva che ha in J' una singolarità che ne abbassa la classe esattamente di o +7 (2 — 1); sicchè I', avendo tale molteplicita per la polare totale per la quale dj è 7 (a — 1) — pla, non riuscirà base per le Z. Sia dunque 7' un piano passante per /'; ad esso corrisponde una quadrica X secante la C in un punto 7, omologo di /' appartenente al piano d,; e la sezione di X e f in I ha una singolarità che ne abbassa la classe di o, e una uguale singolarità appare anche ove si proietti la sezione sul piano 77 dal punto (0100). Inoltre la retta î, omologa di /', incontra la f fuori di I, in altri n — s punti distinti. Ora si vede che la trasformazione I° trasforma la sezione di 7 con y in modo che al punto /', corrispondono n —s punti semplici, e un punto s — plo la cui singolarità abbassa la classe di o, il quale punto è Ja proiezione di un punto sezione di XA e C, sicchè la molteplicità polare di /', risulta appunto o +7 (a — I). E ugualmente segue che è normale anche un incrocio di l' e di g'. Y) Analogamente si riconosce che è incrocio normale il punto G,, comune a di e g': infatti facendo passare il piano s' per il punto Gj, la trasformazione quadratica T, viene ad avere due punti fondamentali infinitamente vicini rinniti in Gj, la loro con- giungente riuscendo la retta #, sezione di 7' col piano dj g': la I trasforma l’ intorno di Gj in » punti distinti, sezioni di f con la retta comune ai due piani ORNCTANSI riconosce così che la sezione con 7' ha in Gj una singolarità abbassante la classe di 2r(n — 1), essendo costituita da due punti x — pli infinitamente vicini. Gj ha dunque la molteplicità polare 27% (2 — 1), ed essendo comune a due curve » (n — 1) — ple per la polare totale, risulta incrocio normale. Ancora in questo stesso modo si vede che è incrocio normale il punto Pj comune a p' e a di. Infatti sia u la molteplicità polare di P: a un piano per l’asse « corri- spondendo proiettivamente per la 7 un altro piano, si ha che un punto generico di p (appartenente alla superficie trasformata /') ha parimente la molteplicità Lu per la po- lare totale (di 7'), e occorre riconoscere che P| ha invece la molteplicità Ue W(@_1) A tale oggetto si seghi con un piano 7' passante per P,; la T trasforma | intorno di Pi inmx —» punti semplici e in un punto » — plo abbassante la classe di 4, onde appare che u +(2 — 1) è appunto la molteplicità polare di 2}. Ò) Ci restano da esaminare i punti di dj (e così ds e d;) e di g', in cui coinci- dono due dei piani tangenti ad /j, per mostrare che essi sono punti cuspidali ordinari LO (in cui due falde lineari si riuniscono in una falda cuspidale del secondo ordine) e che per questi le Z passano con tangente diversa da quella della retta multipla, sicchè il punto infinitamente vicino su tale retta non risulta esso pure punto cuspidale. AI nostro scopo si faccia variare il piano 7' in un fascio generico: al punto A', sezione di 7 con dj, corrisponde una retta a del piano dg la quale varia in un fascio; qualora f sia in posizione generica rispetto al piano OS le rette del suddetto fascio che seghino f in due punti coincidenti, sono tangenti semplici a contatto bipunto, o rette che vanno a punti della curva. multipla; a una tangente semplice non è infinita- mente vicina altra retta del fascio che intersechi secondo due punti coincidenti, e ad essa corrisponde un piano che sega la /' in A', secondo una sezione dotata di ramo cuspidale in A4j, mentre il piano infinitamente vicino sega secondo una curva che ha nel punto infinitamente vicino ad A' (sulla dj) un punto n — plo a tangenti distinte. Risulta così che su dj ci sono solamente punti cuspidali ordinari. Lo stesso ragiona- mento si può ripetere per la g', con la sola variante che ai punti g' corrispondono in y le coniche di un fascio. 3. — Dopo avere esaminato le rette multiple, omologhe ai piani fondamentali dello spazio .S, ed aver riconosciuto che in esse si hanno solo ineroci normali e punti cuspi- dali ordinari, ci occorre esaminare più da vicino la retta multipla p', che nasce dal: punto P, singolare per la /. Per i punti generici di questa retta abbiamo già visto che essi hanno la moltepli- cità polare w, uguale a quella di P, e inoltre abbiamo visto che gli incroci di p' con le rette dj, di, di, sono incroci normali (il cui rango vale dunque p = — 4): vo- gliamo ora dimostrare che un punto singolare di p', incrocio di un’altra curva mul- tipla, o base per le polari pure Z, ha un rango minore del rango del punto singo- lare P , ove questo punto non sia un nodo per le polari semplificate A. Per arrivare al nostro risultato osserviamo che un punto P' della retta p', ha lo stesso rango che il punto P,, suo omologo per la trasformazione Q = Q77, la quale è regolare nel- l’intorno di P'. Ci basterà dunque riconoscere che un punto Pj, proveniente dall’ in- torno P mediante la trasformazione quadratica di prima specie Q, e generico sopra la retta p,, omologa di P in Q, ha per la f;, trasformata di 7 mediante Q, un rango pi minore del rango del punto P. Per valutare il rango ', dovremo esaminare il comportamento in Pj delle polari rispetto ad fj: ricordando le formule che danno la trasformazione quadratica @Q, si ha che la superficie 7, ha l’ equazione /j (2iy, 214) = f (212, %i2: %1%1; 421) e la (super- ficie) polare rispetto ad /j del punto 0, = (0001) risulta Ciò significa che la polare del punto 0j si compone della trasformata della polare del punto 0= (0001) e del piano z1= 0, e quindi la polare totale del punto 0} rispetto ad 7) si compone della trasformata della polare totale di O rispetto ad 7, e SONS della sezione di fj col piano z| = 0. E si noti che nella polare totale di 0 figura la retta p;, omologa del punto P, la quale risulta una retta multipla per la /j. In base a questa osservazione possiamo dimostrare che il rango di un punto P; della retta p, è minore del rango del punto P, supposto che P non sia un incrocio normale (fp = — 4), un punto cuspidale ordinario o un punto chiuso (p = 1). Ammettiamo per il momento (cosa che dimostreremo in seguito) che il rango di Pi si possa valutare in base alla polare del punto 07, come il rango di P si può valutare in base alla polare del punto O che è generico rispetto alla 7. Ricordiamo che il valore del. rango del punto P è dato da PACIS (E dove © indica la valenza propriamente detta (cioè relativa alla polare semplificata A) del punto P, » la molteplicità di A, c, il numero dei rami della curva multipla; e similmente il rango del punto Pj lo esprimiamo con p' = de — 5e — (1). La trasformata della A passi per Pj e per i punti ad esso infinitamente vicini, sopra la pj, con le molteplicità VP Yg ----®sîì giacchè passando da Pa Pi sì perde- ranno c — (c' — 1) rami di ordine > 1, sarà r rtntic+5sSr—[e— ('— 1)]. Questi punti Pj avranno per la mo polare semplificata di 0', le molteplicità (r,+ 1), (+ 1)....(rs+ 1), in quanto la A' (nell’intorno di P|) si compone della trasfor- mata di A e della retta pj. Quindi, tenuto conto delle cuspidi che si perdono nel pas- saggio dalla singolarità P della A alla singolarità Pj per la trasformata, si ha vd Zo-rWA_-1)+ Ga bias Dee «(nl n(Gs lecce Ra ale e = Pe Vyocao== 2 3 cioè, per la disuguaglianza precedente, vSv_-r(t-l)+r—-(e—c+1)+r,. Facendo la differenza p — p' si trova p—_p'>4r—1)+4(c—c' +1) 4r— 4r,— 5e — —re-l)+50+r' (1 — 1) cioè PEpf=Bid od Meda); ora è r=r+1, pe 1 e quindi ed è inoltre c3r(e— 1) — 5r. Questa disuguaglianza mostra che per 7 > 2, p— p'> 0, e quindi il rango del punto P, è minore del rango di P. Ma si riconosce che è p > p' anche per "=" 2, ove la A non passi per P con due rami lineari a tangenti distinte. Infatti ove ciò non accada, la A avrà infinitamente vicino a P un solo punto, o semplice (essendo costi- tuita allora da un ramo cuspidale) o doppio; e si ha sempre g=@e54h vil) —-4r_—-1)=2 (=a,4+1, tanto per »,= 1 che per 7, = 2, e quindi la disuguaglianza 1 p_p>3r(_—l)—e+c — 4(—1)—4r+r' (/— 1) Cè AMOR, Der PR = BL LU p—=:pr> 0. Aggiungiamo che si ha p — p' > 0 anche quando P, pur essendo doppio, a tan- tenti distinte per la Aa sia un punto singolare isolato, fessendo c = 0. Infatti in tale Caso visi anale — Loi 6002067 — 0a i Abbiamo così riconosciuto che il rango del punto P., è minore del rango di P, ove P non sia un inerocio normale o comunque un nodo per le A, ma dobbiamo ancora: dimostrare che il rango ' del punto Pj può effettivamente essere valutato mediante la polare del punto 0', o che almeno così se ne ottiene un valore maggiorante. Per riconoscere questo fatto osserviamo che al variare del polo può aumentare, ma non diminuire la valenza v del punto P} per la polare totale, mentre il numero c dei rami della curva multipla che passano per Pi non muta, sicchè essendo p'= 40 — 5 —1' (e — ]), si ha che il valore di p calcolato in base alla polare di 0' è effettivamente un valore maggiorante, ove la polare totale di 0' abbia in Pj la stessa moltiplicità #' (o mol- teplicità non maggiore) che la polare totale di un punto generico. E che ciò accada si riconosce immediatamente osservando che, al variare del polo, varia solo la polare pura, e che se, per una posizione particolare 4 del polo, questa aumenta la sua mol- teplicità, i piani per 7 e P| segherebbero la fj secondo curve aventi in P| una sin- golarità abbassante la classe più di quel che accada relativamente alla sezione con un piano generico per ‘Pi, e quindi la retta AP) sarebbe una generatrice del cono oscu- latore ad fj in Pj, ed avrebbe quindi con fj un contatto in P) maggiore che le altre rette per Pj: Ora per la Q7 alla retta 0'Pj corrisponde la retta 02, mentre alle altre rette per Pj corrispondono coniche passanti per P e tangenti al piano @ di equazione hy — k: = 0 (essendo x, = hu, z:= ku, y,= 0 le coordinate del punto Da, Pi) e del resto con direzione generica. Essendo f in posizione generica rispetto alla trasformazione @, si può supporre che la retta OP non abbia in P un contatto mag- giore che le coniche suddette, onde la retta 0'F non risulta tangente al cono oscu- latore in PI alla fi. Si conclude che la polare pura di 0' ha in Pj la stessa molteplicità che la polare pura di un altro punto qualunque, e quindi il valore di p =4v —5ce_r(r— 1) calcolato in base alla polare di 0', dà un valore maggiorante per il rango. 3. invariate le singolarità dei punti della 7 che non appartengano a uno dei suoi quattro Abbiamo visto che la trasformazione quadratica di seconda specie lascia piani fondamentali, crea quattro nuove rette 72— p/e a falde distinte dotate solo di incroci normali e di punti cuspidali ordinari, e trasforma il punto singolare P di rango p in una retta multipla, dotata di incroci ordinari o di punti singolari il cui rango p' è minore di , ove il punto P non sia un punto doppio a tangenti distinte per la polare semplificata A (P_i 0h epasiN0) Pertanto ove si applichi successivamente la trasformazione quadratica di secondu specie, la cui retta fondamentale passi per un punto singolare della superficie trasfor- manda che non sia doppio a tangenti distinte per la polare semplificata Ja6 e anche a un punto siffatto che sia doppio per una curva multipla, sì @riva a mutare la super- ficie f in una superficie F_a singolarità normali, sulla quale gli unici punti singolari sono incroci normali di due curve multiple diverse; o punti della curva multipla per cui le L passano semplicemente e con direzione diversa da quella della curva multipla. CAPITOLO II. Riduzione delle singolarità di una superficie mediante trasformazioni monoidali dello spazio. Nel capitolo precedente abbiamo dimostrato che, mediante trasformazioni quadratiche di seconda specie, una superficie 7 può essere ridotta ad avere soltanto singolarità normali; in questo daremo una riduzione ulteriore delle superficie, usando di trasfor- mazioni più generali, le monoidali, le quali permettono di sciogliere anche le curve multiple: precisamente arriveremo ad una superficie /, dotata soltanto di curve mul- tiple a falde distinte, sopra le quali come unici punti singolari si hanno incroci nor- mali di due di esse, e punti cuspidali ordinari in cui due falde si saldano in una falda cuspidale del second’ ordine. Lenza COVE $ 4. - Analisi delle singolarità normali di una superficie. 1. superficie, occorre una conoscenza delle singolarità normali, alle quali ci si può sempre Per poter procedere ulteriormente alla soluzione delle singolarità di una ridurre mediante trasformazioni quadratiche. Qui ci importa anzitutto riconoscere che : « Se I è un incrocio normale di due curve 7 — ple C. e C,, un piano per I sega Il 2 la superficie secondo una curva che presenta in Z due punti 7 — pli successivi, e non più di due se infinitamente vicina a C, o a €, non vi è altra curva v— pla; fa ecce- zione il caso in cui, C, e C, essendo origini di falde cuspidali, Ja superficie abbia un unico piano tangente nei punti delle nominate curve multiple, chè allora si potranuo avere tre, ma non mai quattro, punti 7 — pli per la sezione, sempre nell’ ipotesi che a C, e a C, non sia infinitamente vicina altra curva 7— pla ». Per dimostrare questa proposizione conviene considerare quello che: accade per una curva < = z(v), quando due suoi punti » — pl, P, e P,, dati dai medesimi rami, Rc della funzione 2, si avvicinino fra di loro. Siano «, ed «, le ascisse dei due punti P. e P,: la differenza (z; — zx), per 13 rispetto ad (uv —x,), quando u tende ad «,, ed analogamente di un certo ordine O55 quando « tende ad u,; qualora i,k=1,2....r, sarà infinitesima di un certo ordine d ® la differenza (2; — 2) non sia monodroma nell’ intorno di P, e di P,, considereremo il prodotto, 3 (2; — zx), di tutte le differenze analoghe in cui la (z; — 3%) è portata dalle due sostituzioni del gruppo di monodromia relative ad «, e ad w,; potremo dire che quando P, si avvicina a P,, senza che a P, si accosti altro punto multiplo o punto di contatto di tangenti parallele all’ asse z (cioè in modo che la singolarità limite sia puramente limite delle singolarità di P, e di P.), la differenza (3; — sx), 0, se questa non è monodroma, il prodotto s (z; — x), diventa infinitesima d’ ordine d, +ò,: il che risulta chiaro osservando che i suddetti ordini di infinitesimo non sono altro che gli ordini degli zeri della funzione (z; — zz), la quale si annulla solo in corrispondenza a punti multipli o a punti di contatto di tangenti parallele all’ asse 3. E conviene osser- vare che se la differenza (z; — zx) non è monodroma nell’ intorno del punto P, (o di P.), il prodotto 7 (3; — zx) delle differenze in cui la data è portata dalle sostituzioni relative al punto di diramazione w,, sì compone di fattori tutti infinitesimi di eguale ordine. Ciò posto notiamo che: condizione affinchè infinitamente vicino ad un punto re 1). »— plo vi siano altri 2 — 1 punti parimente 7 — pli, è che tutte le Sl diffe- renze z; — zx siano infinitesime di ordine 2 almeno: il che riesce ovvio considerando, per es., la singolarità come riunione di 2 punti 7—pli (e di altri eventuali punti singolari). Vediamo ora come le considerazioni sopra esposte valgano a dimostrare il nostro asserto: e a tale scopo cominciamo dal caso più semplice, in cui la differenza (z; — sx) sia funzione monodroma nell’ intorno dei due punti P, e P.,. BRESSO RE: Suppongasi dunque che lungo la €, non si abbia un solo piano tangente, ma due (almeno). Si consideri un piano «, prossimo a passare per I: questo segherà CARCRiG in due punti P, e P,, ein P, la curva sezione della superficie col piano « avrà almeno due tangenti: siano, in generale, / tangenti, 7 2 13 To; ©,-- -- Uh; potremo, dividere Je z in f gruppi corrispondenti ai rami tangenti alle 7 suddette: siano ZORIZASII II le z tangenti a 7,, CONZONEETSE le z tangenti a 7,, ZCHSRAA: le z tangenti a Tx. Sia ò, il minimo valore degli infinitesimi (z; — zx) nell’intorno di P,: osserviamo che esistono una 3; ed una zx appartenti a due linee diverse del quadro precedente, tali che la differenza (z;— zx) sia precisamente infinitesimo di ordine d, (nell intorno 2 di P,); perchè se ogni differenza così fatta avesse un ordine di infinitesimo d, > ò,, ne seguirebbe che anche la differenza relativa alle z di una medesima linea sarebbe infinitesima d’ ordine maggiore di 09: infatti è, per esempio, BB “i =) ll 12 ll 2 "21 2 e la differenza di due infinitesimi risulta di ordine maggiore od uguale a quello del- l’ infinitesimo d’ordine minore. Ora, se prossima a €, non vi è altra curva »— pla, sarà ò, <2, e quindi la differenza fis soa quando P, coincide con P,, è d'ordine 1 = 20) <3, sicchè il piano & passante per / sega secondo una curva che non ha tre punti » — pli infinitamente vicini. Il ragionamento si estende al caso in cui lungo la ©, si abbia un solo piano tan- gente: si scriverà ancora un quadro come quello di sopra, dove le z di due linee diverse diano una differenza z; — 2, d'ordine minimo d. - e quelle di una medesima linea differenze d’ordine di infinitesimo superiore: si vedrà ancora che esistono una zi ed una ZE appartenenti a due linee diverse, tali che la differenza fa Gp abbia l'ordine di infinitesimo dè, +0,, che risulterà minore di 4 se d, < 2, d, < 2, cioè se pros- sima ta ttC. le tal (C, non v'è altra curva »— pla, onde la sezione di 7 con a potrà presentare in Z tre, ma non mai quattro punti 7. — pli successivi. In quanto precede abbiamo supposto che la differenza 3; — zx fosse monodroma nell’ intorno di P, e di P. DE) ipotesi semplificativa del ragionamento, ma affatto ecce- zionale. Occorre quindi ora vedere come il ragionamento svolto si modifichi nel caso generale in cui (3; — zx) sia polidroma. Indichiamo con D, la differenza (z; — zx) e con D, Da D, le » differenze in cui questa si muta per la sostituzione 2, relativa al punto di diramazione %, . Posto poi f=29) DEEEEDE si indichino con IE i prodotti in cui II, viene portato dalla sostituzione £,, relativa al punto w,. 1 Serie VII. Tomo VIII. 1920-1921. 4 LIO Ora si osservi che, nel nostro caso, P, e P, sono le intersezioni C, e C, col piano a? e che le sostituzioni X,, %, sono fra loro permutabili. Abbiamo infatti dimostrato, nel nostro citato lavoro che « data una funzione algebrica di due variabili, s = z2(2y), nell’ intorno di un inerocio «di. due delle sue curve di diramazione (passanti per |’ incrocio semplicemente e con tangenti distinte) le sostituzioni dei rami della 2, corrispondenti alle due curve di diramazione, sono fra loro permutabili ». Segue da ciò che il prodotto i U=M0,....I è funzione uniforme nell’ intorno di P, e P,. Ora se ò, è l’ordine di infinitesimo della differenza 2; — zz nell’ intorno di P,, vò, sarà l’ordine di II,, ma di più si riconosce che uvd, è l° ordine di infinitesimo di II, cioè che tutti i prodotti II, HI, ....II, hanno (nell’ intorno di 2,) lo stesso ordine di infinitesimo. Per dimostrarlo si consideri nello spazio a quattro dimensioni, immagine dei punti reali e complessi del piano (2g), le due superfici Jr e T,, corrispondenti alle curve del piano (xy) proiezioni delle C,, C,, le quali sono curve di diramazione per 2) la funzione (ay) definita dalla nostra superficie. Queste due superficie, I, e I,, avranno 2 a comune un punto I che corrisponde all’inerocio Z della C, e C,. Si faccia muovere il punto P, sulla I°, facendolo ritornare in se stesso dopo aver descritto un giro chiuso n9 avvolgente I e quindi la IRSA Mediante questo giro il prodotto II, viene portato nel prodotto GS e siccome il suo ordine di infinitesimo non può variare lungo questo cam- mino, segue il nostro asserto. Similmente si riconosce che II è infinitesimo d’ ordine uvò, nell’ intorno di 165, Al limite, per P, = P,, l'ordine di inflnitesimo del prodotto II nell'intorno di 7, diventa vu (d, +0), e. contenendo esso vu differenze (z; — zx), queste appaiono appunto infinitesimi di’ ordine d, +0d,, come nel caso in cui tale differenza fosse mono- droma nell’ intorno considerato. E con ciò il nostro teorema è dimostrato completamente. 2. — Il risultato stabilito nel numero precedente si estende al caso dell’ incrocio di una curva 7— pla, 0. e una curva s—pla C,, con 7:> s: allora Ja sezione con 1? Di un piano passante per l’ incrocio presenta un solo punto 7— plo, ove non sia prossimo a C, una seconda curva 7"— pla. La dimostrazione si fa come precedentemente, inter- secando con un piano prossimo.all’ incrocio, avendosi così una curva dotata di un punto DI(QISNI i ==plo) Pe di un ‘punto s— plo P.. Delle i (4 differenze z; — zz ne esiste al- meno una che è infitesima d’ ordine d, <2 nell’intorno di P, ed è finita. nell’ intorno di P,, sicchè, quando (il piano passando per 1’ incrocio) P. 2 viene a concidere con P,, la differenza (3; — (2yz+0n (ey) = 0; la curva T è d’ordine 7 (2 — 1). Inoltre il punto 0 ha la molteplicità (2 — 1) (n — 2) per la I le cui 22 — 2 intersezioni variabili con un Diano per 0 costituiscono i punti fondamentali semplici per la trasformazione di De-Jon-. quières, subordinata della (1), che opera su esso. La condizione che la I sia deter- minata, cioè che Q ed @ non abbiano una superficie come parte comune, equivale alla condizione che la trasformazione non degeneri. Ai punti della curva fondamentale T corrispondono, in generale, nella trasformazione, le generatrici del cono (d’ordine 2 #—2) LO) rai By —’ Wn-1 (@' y) De (Gel Yy') “ui n (2 y) 0, (a Y) ==i)b vi è corrispondenza fra l’ intorno di un punto / di T ei punti della generatrice omo- loga p', e precisamente ai punti dell’ intorno di P in un piano per la tangente a T risponde un medesimo punto di p'. Nello spazio (yz) si hanno pure due superficie fondamentali per la trasformazione cioè : il monoide o—_ Ga (& y)z ali OE (cy) = ai cui punti generici corrisponde ugualmente 0', e il cono d’ordin 2, che pro- ietta da 0 la curva T': a US (2y) 9 (2) sai Wy, ( XY) do a) alle cui generatrici rispondono i punti della curva fondamentale pd (CAO Yy) 3 — Wn( CY) Oo (@ Yy') È So Wn_a (CA 0) eo == In ciò che precede viene contemplata la trasformazione monoidale più generale: nella costruzione che segue occorrerà tener conto delle particolarizzazioni di questa in rapporto a due circostanze: punti multipli della curva T, fuori di 0; e staccamento dalla I° di rette per 0. 2. — Data ora una curva gobba €, d’ordine w:, priva di singolarità, ci occorre costruire una trasformazione monoidale 7 che abbia © come curva fondamentale o parte di questa. A tale scopo ricordiamo che per un ordine x abbastanza grande (in confronto di m2) esistono infiniti monoidi d’ordine 7, passanti per la curva € e dotati di un punto (2 —1)—plo, 0, prefissato, che prenderemo come punto all’ infinito dell’ asse 3; di più esiste un monoide di cui sia data ad arbitrio la sezione con un piano « per O (sog- getta solo a passare n —1 volte per 0 e per le m intersezione di a con C) (). Ora dunque preso un 7 abbastanza alto possiamo supporre che esista un monoide @ (0) (2Y3) == Oo (2Y) BAR Ch (2) =) d’ordine 2 —1, avente in 0 il punto (1 — 2) — plo e passante per C'; inoltre esisterà anche un monoide irriducibile @, d’ordine x, P(0y) = Wn_(0y) + a (y) = 0 con 0 (2 —1) — plo e passante ugualmente per C: allora si ottiene una trasforma- zione monvidale d’ ordine 2 avente la C come curva fondamentale e il punto 0 come centro, scrivendo: ( 0oe=98 \ o=% ria P (Yz) (243) Il sistema trasformante (omologo a quello dei piani di S') a cui appartiene P è il sistema lineare co? costituito da tutti i monoidi analoghi, $, che hanno la stessa intersezione con @. La trasformazione monoidale che abbiamo costruito possiede come curva fondamen- tale, oltre la €, una curva residua d’ ordine 2 (mx — 1) — wm, che sega i piani per O in 2-2 —m punti fuori di 0. Di questa curva residua fanno parte delle rette per 0, cioè precisamente le corde di C passanti per il detto punto le quali avendo (a —1)+2=%+-l1 intersezioni con i monoidi @ vi giacciono interamente. Le con- dizioni che così vengono imposte ai @ in rapporto ad una corda a, portano che 4 sia in generale retta semplice per i @; infatti, come si è detto sopra, si. può ammettere che un monoide @, generale, seghi sopra un piano per 4 una curva composta della retta « e di una residua curva d’ ordine x — 1, passante per le intersezioni di C fuori di a, e del resto arbitraria. (*) L'esistenza di un monoide passante per la C fu già assunta da Cayley come base per la rap- presentazione delle curve gobbe, e il fatto che i monoidi di un ordine x abbastanza elevato, passanti n—]1 volte per O e per la ©, seghino sopra un piano per O il sistema completo delle curve d’ordine n con O(2—1)— plo e passanti semplicemente per le n interzioni con la €, si collega alle formule di postulazione per le superficie, ottenute secondo la via di Enriques-Castelnuovo. Oa ‘Siccome anche per il monoide .@ si ‘può dare ad arbitrio la sezione piana per 4, composta di 4 e di una residua curva d'ordine n — 2, così si riconosce che la. più generale trasformazione monoidale 7 subordina su un piano per 4 una trasformazione di De-Jonquières d'ordine 7 — 1 (anzichè n), con 2X.— 4 punti fondamentali sem- plici fuori di 4: ciò corrisponde all’ipotesi che i monoidi @ del sistema trasformante (P) non abbiano, in generale, punti doppi su 4. Possiamo aggiungere l’ ipotesi che i monoidi $@ (costretti a passare per €) non con- tengano altre. rette per 0, fuori delle corde, a, di C: infatti basta costruire P in modo che ‘non contenga alcuna delle altre rette di @ passanti per 0. (1). Ciò posto la curva I°, base del sistema ($), sarà costituita dalla €, d’ordine 72, da d corde, a, di C per 0, e da una curva X d’ordiné n° — m —d, che non si appoggerà alle corde a fuori ;di 0. Inoltre si prova che, per. una trasformazione 7 generale, XK non possiede punti doppi; così la I° non ha altri punti doppi (fuori di 0) che i punti di appoggio della € colle rette a, e quelli di € e di X, cadenti in punti di C che possono ritenersi generici. - La prova dell’ affermazione precedente risulta dall’ osservare che: in primo luogo i monoidi $ non hanno alcun punto doppio fisso fuori di 0, e la curva £, sezione di P e @, non ha alcun punto doppio fisso sopra P (altrimenti non sarebbe arbitraria una sezione piana di @ per il detto punto fisso); in secondo luogo le X segate dai monoidi $ sopra P non possono avere punti doppi variabili, e ciò per un noto Teorema di Bertini, giacchè le loro proiezioni fatte da 0 sopra un piano formano un sistema lineare. Si riconosce infine che un punto comune a C e X non può essere fisso per tutti i monoidi @, ricordando l arbitrarietà di una sezione piana. Si osserverà anche che le circostanze particolari cui dà luogo la trasfofmazione 7 nel primo spazio, si riproducono similmente nel secondo, avendosi in generale corri- spondenza biunivoca fra le curve fondamentali T' e I" le cui proiezioni sui piani 3 = e 3'— 0, date dalla medesima equazione, sono proiettive. Invero quando dalla T si stacchi una retta a, corda della curva residua cui si appoggia nei punti A, e A,, il cono 0' (I°) avrà una generatrice doppia, la quale risponderà ai due punti A, e 4, Se poi la I° si spezza ulteriormente in parti C, K,, K,....;, altrettanto accade per Ip; e le parti C,, 3 K,, K,.... (tolte le rette per 0) risultano riferite biunivocamente in modo determinato alle parti omologhe C', Xj, Ki... i 3. — Abbiamo costruito una trasformazione monoidale 7, la cui curva fondamen- tale I° dà luogo a due particolarizzazioni in confronto al caso generale : 1) figurano in T' reite semplici per 0, che sono le corde a di C; 2) la T=C+K+ Xa possiede dei punti doppi (fuori di 0) che sono i punti d’ incontro di. C-con @ e quelli comuni a © e X, cadenti in: punti generici di C. fn (24) 1) Un imonoide:z=ia ù i Ra i&7) alimni a@M)=0d e 7a possiede in generale n (n—1) rette che sono le intersezioni dei due lella pere Studiamo anzitutto cume 7 operi sulla retta «a. Stante l’ omografia che 7 subordina fra le stelle O e 06 alla retta a per 0 corrisponde una retta @' per 0' (che si po- trebbe riconoscere staccarsi dalla curva fondamentale [" del secondo spazio, ed essere una corda della curva residua). Ora se si considera un piano generico a per 4 ed il piano omologo a' per a', si ha fra 4 e a' una trasformazione di De-Jonquières d’ ordine pel 1, per cui @« e a' non sono rette fondamentali: questa trasformazione di De-Jonquières subordina fra a e a' una proiettività. . Ma tale proiettività varia col piano & e, si ottiene così un fascio di proiettività fra a e a'. Invero pongasi che a sia l’asse 3 e scriviamo: 1 P_W_a YZ +- Wa (24) UG II 075 (2Y) 5 + UDO (xy) ei 0000) 1900) (00)—{0/ facendo (qui 'y_—Aax divi dendo @ e @ per @ e facendo «= 0, si trova 3' espresso per z mediante una sosti- 2 tuzione lineare i cui coefficenti contengono linearmente 4. Ora per due valori di 4 il determinante della sostituzione lineare predetta si an- nulla, ayendosi così una proiettività degenere fra a ‘e a': questi due valori rispondono a due posizioni del piano a per cui la trasformazione di De-Jonquières subodinata da 7 viene ad avere un punto base semplice su a, cioè ai due piani a = a, e 4 =%, tangenti a C nei due punti A, e A, ove C incontra la corda 4. 1 Ma se ad A, risponde nel piano a, tutta la retta a', e, in un altro piano @, un determinato punto 4 di a', si deduce che ad A, risponde Aj in tutte le proiettività del nostro fascio. Similmente ad A, risponde un punto fisso A) di a'. Siccome poi Arp dii © 469 LEA possono definire in modo simmetrico come « coppie di punti omo- loghi fisse » per il fascio di proiettività, si deduce che Aj e A saranno i'punti di appoggio della a corrispondente ad 4, con la curva fondamentale €' omologa a C. Queste conclusioni si confermano notando che il sistema trasformante (@) tocca in A, (0 in A,) il piano fisso a' e però contiene co? superficie P passanti doppiamente per: A,, a cui corrispondono i piani di una stella di centro Aj; si ottiene una trasformazione qua- dratica fra le stelle delle direzioni analoghe A, e Ai, dove i coni quadrici osculatori alle coÈ P predette (che si vedrebbero passare per la tangente a C per 4, e toccare un piano fisso per questa retta) porgono il sistema trasformante della prima stella. Dopo ciò, passando ‘ad esaminare i punti comuni alle curve fondamentali € e &, diremo, per la stessa ragione, che ad uno di questi punti, 58, risponde nella nostra b) trasformazione 7" un punto fisso B' (ove s’inerocia la C' e X'); imperocchè le super- ficie P del sistema trasformante hanno in B ii piano tangente fisso, sicchè. vi sono co° @ aventi in B un punto doppio: fra le stelle delle direzioni uscenti da. B e 3' nasce pure una trasformazione quadratica (avendosi come sistema trasformante per 2 quello dei coni che passano per la retta 08 e per le tangenti a C e XK). In tal guisa le circostanze particolari cui dà luogo una trasformazione monoidale 77, costruita assumendo ad arbitrio una curva € (priva di singolarità) come parte della sua curva fondamentale, sono sufficientemente chiarite e precisate per quello che riguarda il nostro scopo. OE S 6. - Analisi delle singolarità di una superficie create da una trasformazione monoidale. Nel paragrafo seguente mostreremo come — mediante trasformazioni monoidali — una superficie possa essere ridotta ad avere soltanto singolarità elementari; a tale scopo ci occorre ora esaminare quali siano le singolarità create da una trasformazione monoidale 7, che abbia come parte della curva fondamentale una curva €, singolare per la superficie f che si trasforma. 1. — Si consideri una superficie /, già ridotta, mediante trasformazioni quadra- dratiche, ad avere solamente singolarità normali; la 7 possiederà, in generale, delle curve multiple non a piani tangenti distinti, e per queste vi sarà un ordine massimo di molteplicità: 7. Sia adunque © una curva multipla di /, non a piani tangenti distinti, aventi la suddetta molteplicità massima 7. Sia 7° una trasformazione monoidale generica, avente la © come parte della curva base T, la quale dunque si compone della €, di una curva residua X, e di un certo numero di rette, 4, corde della curva Cl. La superficie /', trasformata di f mediante 77, possiederà un punto multiplo isolato 0', centro della trasformazione monoidale inversa 77, e le seguenti curve multiple: 1) le trasformate delle curve multiple di 7, diverse: dalla €; 2) le curve C' e X' omologhe delle intersezioni di f coi coni 0(C) e 0(K); 3) le rette a', corde della cuva C', passanti per 0'; 4) le rette d', trasformate degli incroci di C con le altre curve multiple di 7, di molteplicità s > 7, e quindi a piani tangenti distinti ; 5) le curve C; (i = 1,2....%), trasformate delle curve C;, infinitamente vicine alla C. A queste singolarità occorre aggiungere gli eventuali punti multipli isolati, A', che provengono dall’ intorno di qualche punto & della C. Ci importa esaminare in particolar modo le curve dei tipi 2, 3, 4, che sole ap- paiono come muove curve multiple, effettivamente create dalla trasformazione 7", e in fine considereremo anche il punto 0' e gli eventuali punti A'. 2. —. Si riconosce anzitutto che le due curve C€' e X' sono a piani tangenti distinti, considerando la trasformazione di De-Jonquières che nasce fra due piani omologhi passanti per 0 e 0': si vede così anche come in un punto P' di €' (o di K') si ha coincidenza di due piani tangenti, quando la retta p, corrispondente a P' tocca f fuori di C (o di K). Data l’ arbitrarietà del punto 0, può supporsi che i punti cuspidali di €' (e così di X') siano punti cuspidali del second’ ordine ordinari, per i quali le polari pure, £, passano linearmente con direzione diversa da quella della C: ciò segue dal fatto che Topi la 7 trasforma la polare di 0 rispetto ad /, nella polare di 0' risfetto ad f', e quindi la Z relativa ad 0 nella Z relativa ad 0': basta quindi che la Z del punto 0 non sia tangente al cono 0(C), nè al cono O(X), cosa che evidentemente può sempre sup- porsi ‘essendo generico il centro 0, della 7. Si ha però coincidenza ‘dei piani tangenti a due falde di €' o di X', oltre che nei punti cuspidali, in un punto P' per cui passi qualciina delle altre curve multiple di /', e questi ineroci verranno esaminati in appresso (n. 3). In secondo luogo vediamo la singolarità presentata dalle rette a', corde della curva C', che corrispondono alle corde @ della © passanti per 0. Designando con N l° ordine della superficie 7, ed essendo 7 la molteplicità della €, si ha che una retta «a, corda della ©; incontra la f inié=N—2» punti, 2, P,.... P; fuori della €, a-ciascuno dei quali corrisponde per effetto di 7° l’ intiera retta a': precisamente ai piani tangenti ad f nei. punti P., P,.-.. P;, rispondono i monoidi @,,: P, --.<:P;, passanti per. a’, che approssimano le falde di /' lungo questa retta. Supponendosi « una corda gene- rica di C (e ciò data l’arbitrarietà di 0) le i falde di /' per « riescono a piani tan- genti distinti; anzi una coincidenza di questi può aversi solamente in uno dei due punti in cui la «' incontra la €', oppure in 0', giacchè due superficie @, generiche, non possono avere alcun contatto fuori dei punti per cui passa la curva base residua di a', comune a tutte le f. Ed esamineremo più avanti (n. 3) questi punti. Infine si creano ancora su /' delle rette multiple 2', in corrispondenza ai punti B ove la C, »— pla per f, incroci una curva M di molteplicità s= rx +4 (kK> 0), la quale risulta a piani tangenti distinti. Precisamente si vede che un piano passante per la retta £, tangente. a C in 5, contiene &_ punti infinitamente vicini a B sopra i & piani tangenti ad f che non contengono #, onde a B risponde su f una retta & — pla. Appare anche di qui che la d' è una relta multipla a piani tangenti distinti, veri- ficandosi la nostra ipotesi che B sia un incrocio normale della € con la M, onde i & piani tangenti ad 7 (e non contenenti #) sono fra loro distinti: a questi & piani cor- rispondono altrettanti monoidi 9 che approssimano la f' lungo la €'. Si riconosce in tal guisa che su d' non si presenta mai una coincidenza di piani tangenti fuori dei punti di incrocio di d' con la €' e con la curva .M', trasformata di M. 3. — Procediamo ora all’ analisi degli ineroci che si hanno nella superficie /', trasformata dalla 7 mediante la 7, lasciando da parte il punto multiplo singolare 0', centro della 7. a) Si ha un incrocio, P', di €' (o di X') con una curva M', trasformata di una qualunque curva M, multipla di 7, quando la retta p, che corrisponde a P', in- contra la curva M. È anzitutto chiaro che per un tale inerocio non passano altre curve multiple all'infuori della C' e della M', le quali vi hanno tangenti diverse, potendosi sempre supporre che il cono 0(C) incontri le curve multiple M in punti generici e distinti. Ci occorre di più riconoscere che, ove si supponga che la retta p incontri la 7 fuori di € e M, in punti distinti, non riuscendo neppure tangente nei punti di appoggio = Serie VII. Tomo VIII. 1920-1921. 9 DEVI LA con C o M, l'incrocio è normale; e a tale scopo basta far vedere che esso non abbassa la classe delle sezioni piane, non riuscendo così punto base per le polari pure. Questo fatto è messo in luce dalla trasformazione di De-Jonquières che la 7 subordina tra un piano 4 per p e il piano omologo per p' = 0'P': questa mostra che la sezione con a' presenta in P' la singolarità costituita da un punto (N— 7) — plo cui è infinitamente vicina la singolarità equivalente alla sezione di a con M, che a sua volta è equivalente alla sezione generica di un piano con M'; e poichè la 0' è una curva (N — 7) — pla a piani tangenti distinti, si vede appunto che la sezione con a' presenta in P' la singolarità limite, riunione delle singolarità che presentano le sezioni di un piano generico nei punti in cui esso taglia la C' e la M'. Del resto si può riconoscere direttamente che per P' non passano le polari pure, osservando che la polare pura di 0 (rispetto ad /) si trasforma nella polare pura di 0' (rispetto ad /'), sicchè questa non passa per P' ove la precedente non incida. p. 8) Si ha un incrocio, P', di €' con una curva Ci, trasformata di una curva C, infinitamente vicina a €, in corrispondenza ad una retta p che tocchi f in un punto di €, incontrando ivi una curva €,, infinitamente vicina a C. Qui si riconosce (come nel caso precedente (mediante la considerazione di due sezioni piane fra le quali inter- cede una trasformazione di De-Jonquières) che P' è un izcrocio normale. Occorre però escludere che la retta p incontri ulteriormente una curva C, (semplice o mul- tipla) successiva a C,; e tale ipotesi può effettivamente escludersi, operando eventual mente una trasformazione quadratica di seconda specie affatto generica, chè allora una retta incidente a € e C, non risulta in generale incidente a CRE y) Si ha un incrocio, P', di €' e di K' in corrispondenza a un inerocio, P, di C e K. Per il punto P' vanno a passare le curve €, trasformate delle curve C;, infinitamente vicine a €. Siccome le €;, giacciono tutte sul cono 0'(C'), in P' esse sono tutte tangenti a un unico piano tangente al cono 0'(C') il quale piano non è tan- gente alla X'; di più si riconosce che le curve C;, hanno tutte, in P', tangenti di- verse: infatti la trasformazione monoidale subordina una trasformazione quadratica fra le due stelle di direzioni P e P', sicchè — essendo diversi fra }Joro i piani tangenti ad f in P e corrispondenti alle curve €;, egualmente diversi sono i piani contenenti la tangente a X' e alle C;. Il nostro incrocio dunque nor é normale; ma esso non abbassa la classe delle se- zioni piane, ove prossima a € non esista qualche curva (semplice o multipla) succes- siva a una delle curve C;, e di questa satellite (!). E quest’ ultima cosa sì può riconoscere anche direttamente come nel caso a) osser- servando che per P' non passa, nella detta ipotesi, la polare pura dal punto 0'. O) La curva multipla €' ha due incroci (A4j e 45) con ciascuna della sue corde a', che risultano pure rette multiple per f': per un siffatto punto d’ incrocio, per es. 43, passano anche le curve C|. (1) Per la definizione di prossimità e di satellitismo, cfr. Enriques-Chisini: « l’eoria geome- trica delle equazioni » Vol. II, L. IV, SS 5-7-8-13. Qui la curva satellite di C;, dopo la. trasforma- zione, viene a trovarsi sul cono O(C'), infinitamente vicina a C,. LATTE Ma importa riconoscere che per Aj le Ci}, e la a' passano con rami distinti e che 6 . ' . r O esse sono tangenti a un piano non tangente alla € in A,. A tale oggetto si ponga dapprima che l'ordine, N, di 7 sia il doppio della molteplicità » di €, sicchè la mol- teplicità di a' per f' valga k=N—2r=0, e quella di C' valga N—r= 7; e si consideri un piano generico s' per a', cui corrisponde un piano, pure generico 7, passante per una corda a di C: fra questi piani la .7' subordina una trasformazione di De-Jonquières d'ordine n — 1, regolare nei punti di a e di a' (fuori di 0 e 0'), e quindi anche nel punto A, di a che dà origine ad 4. E importa notare espressa- mente che i punti A, e Aj non si corrispondono fra loro nella corrispondenza che viene posta fra C e C' quando a un punto di € si associ l’ intersezione di C' con la retta omologa a detto punto, poichè, in questo senso ad A, corrisponde MSI (ciriisio 9) segue da ciò che le curve ©; appartengono alle falde del cono 0'(C') che proietta il ramo di ©€' passante per 4}, sicchè esse, con la a', appaiono tangenti a un piano non tangente a €' in A'. Per riconoscere poi che le loro direzioni sono distinte e diverse di a', basta osservare che in A) si hanno /% piani tangenti distinti in corrispondenza alle % curve ©}, non contenenti la 4, come mostra la sunnominata trasformazione di De-Jonquières. Ora passando al caso in cui X > 0, la singolarità che la 7' ha nel punto (N—r)— plo A, si può caratterizzare come quella relativa al caso precedente, ove si aggiungano & = N — 2r falde approssimate da monoidi per a' e C€', e del resto generici (tangenti fra loro in A4j © A ma non alle altre falde della /'), le quali & falde corrispondono agli intorni delle & intersezioni distinte di a con f fuori di C. Abbiamo dunque che l'incrocio A4j n0r è un incrocio normale; tuttavia si può rico- noscere facilmente che esso non abbassa la classe delle sezioni piane, ove non esista qualche curva (semplice o multipla) prossima a C'e satellite di una delle curve C;. €) Si consideri un punto P incrocio della curva € con una curva M di molte- 0. Al punto P viene a corrispondere un punto P' sulla 47°, per il quale passano le curve c' plicità » +Rk(k 2 0), a piani tangenti distinti, e si consideri dapprima il caso R trasformate delle curve C;, infinitamente vicine a C. Queste curve €; appartengono tutte al cono 0'(C'), e importa riconoscere che esse passano per P' con tangenti di- stinte. A tale uopo si osservi che P essendo un incrocio normale, i piani per esso se- gano secondo una sezione la cui singolarità si compone di un punto 7» — plo cui segue la singolarità presentata dalla sezione in un punto generico di C. Si consideri ora un piano 7 per OP e il piano omologo, 7°, per 0' P', fra i quali viene subordinata una trasformazione di De-Jonquières: questa mostra che la sezione 7' presenta in P' la singolarità generica della sezione di C, cioè che in D' si hanno X piani tangenti alla /', diversi, in corrispondenza alle varie curve C;: e poichè questi sono tutti tangenti alla M', segue che le ©€;, hanno in P' tangenti distinte. L’inerocio P', qui considerato, ron è dunque un incrocio normale, ma tuttavia non abbassa la classe delle sezioni piane che vi passino, sempre — come negli analoghi casi precedenti — ove non esistono curve prossime a C, satelliti di una delle curve C;. Liga Dal caso. &= 0, si passa facilmente al caso. k > 0, osservando che in questo si aggiungono alla 7, & falde secantisi lungo la M, a piani tangenti distinti, le quali danno origine a R falde di /' passanti per la M', contenenti tutte la retta 9' = 0' P', e del ‘resto generiche, le quali risultano non tangenti alla €' nè alle Ci. ©) Si hanno poi incroci di una curva H', trasformata di una curva H di mol- teplicità < a piani tangenti comunque coincidenti, con una 0 più curve C;, in corri- spondenza ai punti comuni di 7 e €; sulla natura di questi ineroci non possiamo qui dir nulla, dipendendo essi dalla natura della curva A. 7) Si riproducono poi su f' gli incroci che si avevano in f in punti generici rispetto alla trasformazione, e si riproducono invariati; 4. — Il punto multiplo 0', centro della trasformazione inversa 7, richiede uno studio particolare, essendosi considerate la curve multiple della /' che vi passano fixcendo astrazione da esso. E anzitutto chiaro che per il punto 0' passano: le curve C' e X', corrispondenti ai coni 0(C) e 0(K), le trasformate delle curve multiple proprie di f, le €}, prove- nienti dall’ intorno della €, le rette a', e le rette d'. Essendo poi n l'ordine della. trasformazione monoidale 7, N quello della. super- ficie 7, # quello della curva multipla €, ed 7 l’ ordine di molteplicità di questa, il punto 0' risulta multiplo per la /' secondo N(2 — 1) — 7. Riesce poi necessario per la nostra analisi, riconoscere che una trasformazione qua- dratica. di seconda specie $, che abbia in 0' uno dei suoi tre punti fondamentali iso- lati, ne scioglie la singolarità: ciò va inteso nel senso che.le curve multiple che vi passano, cessano di avere punti multipli, i trasformati su di esse del punto 0' risul- tano punti di singolarità generica, e le. nuove curve .muliple create dalla S sono a piani tangenti distinti e incrociano le altre curve in ineroci normali. Ciò segue da alcune semplici osservazioni : a) L’ intorno del punto 0' corrisponde biunivocamente al monoide @: fanno ecce- zione i punti infinitamente vicini ad 0', sopra i rami delle curve C', X' e sopra le relte «' cui corrispondono tutti i punti delle rette del monoide @ passanti per 0. La corrispondenza fra i punti dell’intorno 0' e. le rette della stella 0 che proiettano da 0 il punto omologo, di @ è omografica. b) Nella trasformazione quadratica di seconda specie (!) al punto 0' corrisponde un piano 8 (determinato dalle due rette, g' e dj, corrispondenti, rispettivamente, la prima al piano y dei tre punti fondamentali, e la seconda al piano è, che da 0' proietta la retta fondamentale); e si vede che fra i punti. infinitamente vicini ad 0' e i punti del piano 8, la corrispondenza è proiettiva. ce) Trasformando f' in una superficie /"" mediante la trasformazione quadratica di seconda specie S, all’ intorno di 0° su 7", corrisponde proiettivamente la sezione () Gia Cape SS im I PERE IE di f'' col piano 8 (fuori delle rette singolari g' e dj), come, similmente allo stesso intorno corrisdonde proiettivamente la sezione di @ con f (fuori degli elementi sin- golari di @). d) Le curve C', K' e le rette a' passano per 0' con tangenti distinte, corri- spondendo queste alle rette di @ passanti per 0. Si consideri inoltre 0' sopra un ramo, P; di C' (e analogamente di X' o di una retta d'); ad esso S fa corrispondere un punto o", per cui la C', trasformata della €, passa semplicemente, la /" avendo in 0" la singolarità di un punto generico di Cl", cioè un punto (N — ») — pilo a piani tangenti distinti. Ciò si riconosce osservando che il punto 9 su f, corrisponde a una retta del monoide @, la quale intersecherà f (fuori della C) in N— r punti semplici e distinti : i piani tangenti in due di essi corrispondono a due monoidi passanti per C' che si trasformano, per la S, in due superficie passanti per €" e non tangenti in 0". e) Rispetto ad un incrocio del tipo €), la considerazione dei piani tangenti alle & falde della f, passanti per la curva M e non per la ©, mostra che le rette d' ven- gono trasformate dalla .S in curve su cui il trasformato di 0' è affatto generico, e ciò in modo del tutto analogo al caso precedente. f) Il monoide @ sega le curve multiple di 7, (quelle proprie e quelle infinita- mente vicine a ©) in punti affatto generici} come un generico monoide appartenente al sistema trasformante P: segue da ciò immediatamente che il piano 8 sega le curve multiple di /', trasformate di quelle di /, in punti di singolarità generica. Essendo poi generici i due piani y e d, passanti per 0', le due rette multiple g' e di avranno piani tangenti distinti, incroci normali con le altre curve multiple, e punti cuspidali ordinari. 5. curva €, si può avere solo ove R sia base per le polari pure (') e similmente solo in Un punto multiplo isolato ', proveniente dall’ intorno di un punto # della questo caso si può avere un punto ' che sia ipermultiplo sopra una curva €. Per quanto si è visto alla fine del n. 3 del $ 4, il punto £' può solo essere un punto doppio, per la falda che lo contiene, e ciò nel caso che la curva » — pla C sia ori- gine di una falda cuspidale del second’ ordine, sulla quale £ è un punto chiuso, dal cui intorno proviene A". S 7. - Trasformazione di una superficie in un’altra dotata di singolarità elementari. Nel paragrafo precedente si è visto che la trasformazione monoidale 7, la quale abbia come parte della curva fondamentale la ‘curva C, la cui molteplicità 7 è mas- sima astraendo dalle curve a piani tangenti distinti, dà origine ad una superficie 7", dotata di curve multiple, parte delle quali sono le trasformate delle vecchie curve (*) Ogui altro punto dà una singolarità generica per la superficie. Ofr. la mia Nota letta a questa Accademia il 22 febbraio 1920. RT ARTT multiple di 7, e parte sono create dalla trasformazione 7. Più precisamente le nuove curve multiple prodotte da 7, sono a piani tangenti distinti, e danno luogo ad incroci normali, a quattro tipi di incroci non normali, corrispondenti ai casi 7), Ò), €), L), e a un punto multiplo 0', la cui singolarità può essere eliminata mediante una conve- niente trasformazione quadratica di seconda specie, S. Ma mediante trasformazioni monoidali complementari della 7, si possono sciogliere anche gli incroci non normali dei tipi y), d) e £). 1. — Per sciogliere un incrocio del tipo y), cioè un punto P' comune alle curve multiple C' e X', per il quale passano anche le curve Cj 05....C,, si opera una trasformazione monoidale, 7,, in cui è parte della curva fondamentale la X' (o per 0 dir meglio la sua trasformata mediante la trasformazione $S riduttrice del punto mul- tiplo 0'). Infatti la curva X' è a piani tangenti distinti, e su essa unici punti singo- lari sono: incroci normali con le altre curve. multiple, e punti cuspidali ordinari e incroci non normali del tipo y: occorre però notare che la K' (dopo avere applicata la trasformazione $S) incrocia anche delle curve di molteplicità superiore alla sua (che è N): queste curve sono le 4 rette omologhe ai piani fondamentali della trasforma- zione S, le quali rette sono a piani tangenti distinti: tolti questi incroci non esistono sulla X' altri punti ipermultipli. Pertanto applicando la T, (che oltre la X avrà una residua curva fondamentale) si avranno soltanto nuove curve multiple a piani tangenti distinti e ad incroci normali: dall’ intorno di un punto P, incrocio del tipo y, non nascono punti multipli di curve multiple, in quanto le curve Ci, C5....C, passano per P con direzioni diverse e non tangenti a un medesimo piano tangente a X': ma occorre anche riconoscere che il punto P', omologo di P, sopra la trasformata di C', è un punto generico della €' stessa. Ciò è anzitutto chiaro nell’ ipotesi che il punto P non abbassasse la classe delle sezioni piane; ma anche nell’ ipotesi che ciò accadesse, essendovi infinitamente vicine a C due curve €, e ©, di cui la seconda (semplice o multipla) satellite della prima, il punto P' riescirebbe generico sulla trasformata di 03, giacchè P abbasserebbe sì la classe delle sezioni piane, ma le polari pure Z, aventi P come punto base, apparterrebbero a quelle falde della superficie f' che corrispondono alle curve C, e €C,, e non a quelle relative alla curva 0°. Inoltre occorre osservare che la trasformazione 7,, produce sì una nuova curva multipla analoga alla X' ma su essa gli incroci del tipo y) sono incroci normali, la K' non avendo infinitamente vicina altra curva multipla. Infine poichè la trasfor- mazione monoidale 7,, crea un nuovo punto singolare nel centro della inversa Tea così questo verrà sciolto con una trasformazione quadratica ausiliaria S,, avente come punto fondamentale isolato il punto suddetto. In modo analogo si scioglierà un incrocic del tipo d), che è un punto di molte- plicità 2N — 3r, seguendo una trasformazione monoidale complementare 7,, che abbia come curva fondamentale (o parte di essa) la C', (o, per meglio dire, la sua trasfor- mata mediante le trasformazioni precedenti) sulla quale il punto d’incrocio non è ES (O ipermultiplo. Anche qui si osserverà che le varie curve multiple passanti per il nostro inerocio hanno direzione diversa e non giacciono in un piano tangente alla €', sicchè dell’ intorno di €' non nascono nuovi incroci di curve multiple. Similmente essendo €' a piani tangenti distinti, ed incrociando le altre curve mul- tiple in incroci normali, si ha come unico punto di singolarità non normale il centro della trasformazione inversa 7,!, che si scioglie con'una trasformazione quadratica S,. In fine gli incroci del tipo £) si sciolgono in modo del tutto analogo ai precedenti, e ci si garantisce di non creare nuove singolarità che poi si debbano ancora sciogliere mediante le stesse osservazioni. La curva J', fuori dell’ incrocio di tipo €) (che non è ipermultipto sopra la curva M') ha solo incroci normali, ed è a piani tangenti generalmente distinti, coincidendo essi solo in punti cuspidali ordinari. Si eseguisca allora una trasformazione monoidale 7,, che ha come curva fondamentale la M' (o per dir meglio una sua trasformata mediante le trasformazioni precedenti): poichè le varie curve multiple che passano per un punto P, incrocio del tipo €) hanno ivi direzioni diverse e non sono tangenti a un medesimo piano tangente a 44’, così dall’intorno dell’incrocio non nascono punti multipli della curva multipla; per di più il trasformato di P sopra la trasformata della 2M' e della C' riesce un punto generico, non base per le polari pure. Ciò è chiaro nell’ ipotesi che, non essendovi satellitismo fra le curve infinitamente vicine a €, il punto P non abbassi esso stesso la classe delle sezioni piane, e il fatto sì riconosce anche nel caso di tale satellitismo: essendo per es. ©, satellite di C,, allora la polare Z passante per P appartiene alla falda contenente C, e C,, e quindi dopo la trasformazione potrà essere punto base per le polari il trasformato di P sopra la trasformata di Cj, ma non sopra la trasformata di M' o di C'. Si osservi inoltre che le curve di molteplicità superiore a 4’, incrociate da M', sono a piani tangenti distinti, siechè le nuove curve multiple, create dalla 7,, sono a piani tangenti distinti, e non nascono incroci non normali tranne, al solito, nel centro della trasformazione monoidale ®7;', che si elimina con una trasformazione quadratica di seconda specie $,. Indicheremo con 7, la trasformazione che si ottiene applicando alla superficie f la trasformazione monoidale 7, che ha come curva base la curva » — pla C, e le tra- sformazioni complementari S, 7,, S,, T.,S, quanti sono gli incroci del tipo e) che si trovano sulla f', potremo concludere T,, S,, nonchè tante coppie di trasformazioni dicendo che mediante la T, si rendono proprie le curve multiple infinitamente vicine alla curva C, e le nuove curve multiple create hanno tutte piani tangenti distinti e punti cuspidali ordinari: gli incroci sono tutti normali meno quelli del tipo L) e quelli inerenti ai vari incroci delle curve che erano infinitamente vicine a C e che si sono rese proprie. E a queste singolarità occorre aggiungere i punti multipli isolati che pos- sono, come le curve Ci, C2.... C,, provenire dall’intorno di C. Ma degli incroci tipo È) e di detti punti singolari ci occuperemo in appresso. BESATA(() RE 2. — Osserviamo anzitutto che se la curva »— pla C, ha infinitamente vicina una sola curva €, di ugual molteplicità », la trasformata 7, rende propria la C,, € gli incroci del tipo £) restano in questo caso ineroci normali di due sole curve mul- tiple. Ora se la curva € aveva infinitamente vicine o — 1 curve 7 — ple, la sezione piana in un punto generico di essa presentando o punti 7 — pli infinitamente vicini, la curva €, avrà solo o — 2 curve »—ple infinitamente vicine. Pertanto mediante successive trasformazioni ci possiamo ridurre ad una superficie per la quale le eurye di massima molteplicità » (escluse quelle a piani tangenti distinti) non abbiano infini- tamente vicina altra curva » — pla. Ciò posto si consideri un inerocio I, del tipo È) incrocio della curva 7 — pla, C, con una seconda curva ugualmente 7 — pla, Q, nes- suna delle quali avrà, dunque, una curva 7: — pla infinitamente vicina. Distinguiamo due casì : a) la sezione con un piano generico (e quindi con una superficie generica ad esso tangente) per I presenta due e non tre punti 7 — pli successivi; b) tale sezione invece presenta tre e non quattro punti 7 — pli successivi, aven- GO) 2 dosi lungo la C e @ falde cuspidali e un solo piano tangente (cfr. $ 4 Cominciamo dal primo caso: si eseguisca una trasformazione monoidale 7 ('), che ha C come curva base, e poi una seconda trasformazione monoidale 7°, che ha ‘come come base la @', trasformata di Q@ mediante 77: mediante il prodotto di queste due trasformazioni nascono dall’ intorno di I punti di molteplicità < r. Infatti se P fosse un punto 7 — plo della superficie /'" trasformata di 7 mediante il prodotto 7" 7, a un ramo generico di curva passante linearmente per P verrebbe a corrispondere una curva passante linearmente per I, e non tangente a © nè a Q, e una superficie avente con questa un contatto tripunto dovrebbe segare 7 secondo una sezione dotata di tre punti 7 — pli infinitamente vicini, contro 1° ipotesi. Passiamo al secondo caso. Lungo le curve C e Q la 7 avrà un solo piano tangente, e infinitamente vicino ad esse vi saranno due sole curve C, e @,, di molteplicità PIEMONTE 00 PIA E o Si eseguisca su f la trasformazione monoidale 7 in cui C è curva base, poi la trasformazione monoidale 7' in cui è curva base la trasformata di @', e infine la trasformazione 7"' in cui è curva base la trasformata di C,. La 7 fa corrispondere ad Y una superficie f', e all’ intorno di / su f, l’ intorno di un punto » — plo I' di f'; la 7" fa corrispondere ad f' una superficie 7", ed all’ in- torno di I' su f' l’intorno di un punto »— plo I" di /"; infine la 7" trasforma la f'" in f"', e siccome essa ha come curva base la curva trasformata di C,, di mol- teplicità 2" < 7, all’ intorno di I'' corrisponde una retta di molteplicità # — #', per f'". E vogliamo riconoscere che su questa non vi è nessun punto P di molteplicità 7. Ciò si dimostra come nel caso precedente, giacchè | esistenza del punto 7 — plo P, porte- (1) Qui, come nei casi analoghi seguenti si sottintende aggiunta la trasformazione quadratica S che vale a sciogliere il punto singolare che sorge nel centro della trasformazione inversa 77. ERNIA rebbe che una superficie passante per / e non tangente a C o a @, segherebbe la / secondo una curva dotata di quattro punti » — pli infinitamente vicini. Si conclude che: eseguendo le trasformazioni monoidali che abbiano come curva base la C e la Q, cui eventualmente si aggiunga, nell’ ipotesi che alla C e alla @ sia pros- sima una sola curva, rispettivamente C, e Q,, la trasformazione monoidale che ha C, come base, dall’ incrocio ordinario delle due curve » — ple, C e @, sorgono solo punti di molteplicità minore di n. . Passiamo ora al caso in cui la curva @ che incrocia la C abbia una molteplicità S 0). Indichiamo con 7,, la trasformazione analoga alla 77, definita al numero 2, essendo la 7,, presa relativamente alla curva @, e similmente indichiamo con 7, ..-. Ty le trasformazione relative alla @, ....@;, 0, per dir meglio, alle loro trasformate me- DI diante le trasformazioni precedenti. n IT) n diagesoadi poi, se infinitamente vicina alla Q, vi è una sola curva @,, (di molteplicità », < ) sì Ciò posto si eseguiscono sulla 7 successivamente le trasformazioni 7 lato eseguisca anche la trasformazione monoidale 7 che ha come curva base la @,, (cioè la sua trasformata), e a questa si aggiunga la trasformazione quadratica S' riduttrice del centro della trasformazione inversa della 7; similmente, se del caso, si esegui- scano le trasformazioni 7, Sj,.... relative alla curva 013:---+ che siano (come unica curva) infinitamente vicine a Q,,.... Lasciando per il momento da parte i punti £', doppi per la relativa falda, che possono nascere dall’ intorno di punti chiusi, abbiamo che dall’ intorno di una curva v— pla C, sorgono soltanto punti di molteplicità minore di 7, i quali però possono essere punti di singolarità comunque complicata; le altre curve multiple sono a falde distinte, o di moltiplicità minore di », e ad incroci normali. Normalizzando poi mediante trasformazioni quadratiche, le singolarità non normali, le quali provengono solo dagli incroci delle curve 07 si arriva ad una superficie di tipo normale, per cui le curve non a falde distinte hanno tutte una molteplicità minore di n. Ma ci occorre ancora esaminare gli eventuali punti doppi £', che nascono dall’in- torno di un punto chiuso & della curva C. Il punto £& sarà un punto base semplice Serie VII. Tomo VIII. 1920-1921. 6 a La per le curve polari Z, quindi un piano per esso segherà secondo una curva la cui classe viene abbassata di un’ unità. La curva polare LZ, apparterrà ad una falda cuspidale del secondo ordine, avente per origine la curva €; ora considerando una sezione piana per £, la quale sega la falda suddetta secondo un tacnodo formato dal punto doppio £ e da un altro punto doppio &,, cui corrisponde R', si vede che non può accadere che per R' passi una falda lineare della 7, altrimenti & abbasserebbe la classe delle sezioni piane per più di una unità; quindi il punto £' sarà un punto doppio isolato, o sarà la moltepli- cità », della curva C, maggiore di quella di £', e ciò qualora € fosse origine di una seconda falda superlineare passante per '. Ora se R' è un punto doppio isolato, le curve polari devono passare per £', con due rami lineari distinti, poichè rispetto ad /, le polari passano per £ con un ramo non tangente alla curva €, origine della falda del secondo ordine (), onde £' appare un punto conico (senza punti doppi infinitamente vicini), sicchè una trasformazione qua- dratica di seconda specie basta ad eliminare questo punto doppio. Qualora invece £' non fosse un punto multiplo isolato, riuscendo esso multiplo d’ordine minore di 7, non ci interessa la sua singolarità, poichè esso può essere elimi- nato con trasformazioni quadratiche, dando origine a curve multiple, a singolarità normali, e con molteplicità ancora minore di 7. Possiamo finalmente concludere. Con le trasformazioni indicate siamo riusciti ad abbassare il valore 7, del massimo ordine di molteplicità delle curve multiple a falde non distinte, passando da una super- ficie f a singolarità normale, ad un’altra dotata ancora di singolarità solo normali, onde, ripetendo il procedimento, si arriverà ad una superficie ancora a singolarità nor- mali, per la quale inoltre tutte le curve multiple hanno piani tangenti distinti. Ricordando le caratteristiche delle singolarità normali, possiamo enunciare che: Mediante trasformazioni quadratiche e monoidali, una qualunque superficie f può essere trasformata in un’ altra f', priva di punti multipli isolati, e per la quale le curve multiple sono a piani tangenti generalmente distinti. Su queste curve multiple fanno generalmente eccezione : a) un numero finito di punti cuspidali ordinari semplici, nei quali si saldano due falde lineari in una falda del secondo ordine; per questi punti passano le curve polari semplicemente e con direzione diversa da quella della curva multipla ; b) un numero finito di incroci, in cui si tagliano due curve multiple diverse, di molteplicità v e s (r > s), avendovi tangenti distinte ; questi incroci non sono punti base per le polari, e presentano la molteplicità vr; un piano che contenga un tale in- crocio, sega la superficie secondo una curva che presenta ivi un punto » — plo, cui seque un punto s — plo e poi s punti semplici e distinti. (1) Si ricordi che in una trasformazione monoidale la superficie polare rispetto ad 7 del centro O si trasforma nella superficie polare del centro O' rispetto ad 7". SUL PONTI TERMONETRICI DI RITARDO DI \RRESTO DORANTE IL RISCALDAMENTO LENTO 0 RAPIO DELLA SELEMTE MEMORIA Prof. ALFREDO CAVAZZI letta nella Sessione del 28 Novembre 1920. Nel 1907 fu pubblicata negli Atti dell’ Accademia una mia nota intorno alla disidra- tazione della selenite, nella quale, dopo aver brevemente ricordato le ricerche fatte nel 1884 dal Le Chatelier, che applicò a questo sale il noto metodo di riscaldamento progres- sivo, descrissi quello da me immaginato e seguito, che consisteva nell’ introdurre della selenite pura, passata allo staccio di 4900 maglie, entro tubo d’ assaggio alto cm. 19 con diametro interno di cm. 3 e pareti dello spessore di 1 mm. circa, finchè, battendo legger- mente sul tubo, lo strato o colonna di polvere avesse raggiunto 1° altezza di cm. 6, e con ciò il peso approssimativo di g. 27. Poscia affondavo il tubo in un bagno ad olio tanto che a temperatura ordinaria il livello del liquido fosse di cm. 2 0 3 più alto della superficie del gesso esistente nel tubo. Allora nel mezzo dello strato di polvere del minerale si faceva penetrare con precisione un termometro in modo che | estrema punta del bulbo restasse alla distanza di em. 2 dal fondo del tubo: il bulbo aveva il diametro di mm. 5,2. Una distanza molto maggiore era tenuta fra il fondo stesso e quello sottile e piatto del grande bicchiere cilindrico di vetro contenente il bagno ad olio: il bicchiere poggiava sopra un sottile strato di sabbia posta su di una padeletta di ferro riscaldata da un fornelletto a gas munito di molti fori disposti in ordine di circoli concentrici. Un altro termometro faceva conoscere la temperatura del bagno ad olio, che mediante bacchetta di vetro era tenulo in continua agitazione. La principale parficolarità del metodo di riscaldamento da me seguìto consisteva essenzialmente nell’ artifizio non facile di mantenere costantemente, fra la temperatura del bagno ad olio e quella del gesso contenuta nel tubo, una differenza di soli 30°, anche nel caso di ritardo o di arresto o di retrocessione nella temperatura segnata dal termo- metro interno, ossia immerso nel gesso. Esperimento di lunga durata, che richiedeva grande pazienza ed altenzione. Nella presente pubblicazione conviene che io faccia ben rilevare e riflettere che il riscaldamento così regolato non é il riscaldamento progressivo impiegato dal Le Cha- Serie VII. Tomo VIII. 1920-1921. 6° Sgt telier, durante il quale ogni 5 minuti primi Ja temperatura del bagno si innalzava di 20°. Non ignoro che questo è il metodo generalmente usato nello siudio dei fenomeni di disi- dratazione dei sali, ma a me non sembra il più conveniente e razionale, allorchè un sale idrato presenta due o più punti di ritardo o di arresto durante il riscaldamento, o come suol anche dirsi, due o più punti critici. Così nella disidratazione della selenite col metodo di riscaldamento progressivo, il Le Chatelier, operando su g. 10 di sostanza ben pol- verizzata e contenuta in un piccolo tubo di vetro immerso in bagno di paraffina osservò, partendo da 100°, un primo arresto a 128° nell’ elevamento di temperatura del gesso, che durò all’ incirca 15 minuti primi, per cui al termine di questo arresto la temperatura del bagno si era elevata sopra quella del gesso di 60°. Di guisa che finito il primo periodo di arresto si accresceva la rapidità del riscaldamento, la quale, secondo la minore o mag- giore intensità fa variare molto, come vderemo in seguito, gli effetti prodotti sulla selenite. Espressi inoltre il parere che i dali più importanti siano quelli a cui conduce un riscaldamento molto lento. Questo fu il concetto direttivo degli esperimenti eseguiti nel 1907, nei quali tenni appunto una differenza di soli 30° fra il bagno ad olio e il gesso, affinchè avvenendo Ja disidratazione della selenite con grande lentezza, riuscisse più chiaro e fedele tutto il quadro relativo all’ andamento del fenomeno. Data così ragione del metodo di riscaldamento da me praticato nelle ricerche del 1907, riporto nello specchio seguente, senza alcuna variazione, i risultati allora conseguiti con tre esperimenti fra loro molto concordanti. Per innalzare Per innalzare la temperatura del gesso Tempo impiegato la temperatura del gesso ‘l'empo impiegato ch 70% 950 Ore 0, 2' >» 140° a 145° Ore 0,3' D. Za 80 » 0,2' » 145° a 150° > 0,3 » 80° a- 85° N01: » 150° a 155° » 0,3 » 85° a 90° DIOR] » 155° a 160° » 0,3 » 90% a 95° » 0,2',30” » 160° e 165° » 0,3 » 95° a 100° » 0,5',30" » 165° a 170° » 0,3,82 » 100° a 105° » 0,38,20” » 170° a 175° >» 04 » 105° a 110° » 0,8 » 175° a 180° » 0,8,35" ; » 110° a 115° » 1,26" » 180° a 185° » 0,39 >» 115° a 120° >» 0,29 » 185° a 190° >» 0,2 >» 120° a 125° >» 01130" \ » 190° a 195° » 0,2 » 125° a 130° >» 0,9 » 195° a 200° » 0,2 » 130° a 185° » 0,54,25” » 200° a 205° >» 0,2 » 135° a 140° ) VI Da questo specchio viene in chiaro, come dissi nella pubblicazione del 1907, che la temperatura del gesso si eleva regolarmente fra 70° e :90° come se nulla accadesse all’ in- BRA fuori del semplice riscaldamento, e non mi fu dato di scorgere condensazione di vapor d’acqua nella parte superiore fredda del tubo contenente la selenite. Questa regolarità nell’ innalzamento della temperatura del gesso comincia a venir meno palesemente fra 95° e 100°, ed è fatto notevole che il tempo impiegato per portare il gesso fra questi due limiti di temperatura sia maggiore di quello richiesto per far pas- sare il sale da 100° a 105°: ho detto fatto notevole, perchè se ne fosse causa una inci- piente disidratazione del sale, dovrebbe naturalmente accadere il contrario. I’ effetto della disidratazione raggiunge dipoi il valor massimo fra 110° e 115°, e per questo breve intervallo occorse 1 ora e 26 minuti primi di riscaldamento, e ciò cor- risponde quasi esaltamente ad un vero e lunghissimo periodo di arresto. Dopo i 115° sino a 140° il tempo necessario per innalzare successivamente di 5° la temperatura del gesso diminuisce sempre più rapidamente, finchè a 140° segue un periodo di riscaldamento regolare che si estende sino a 165°: periodo che, a mio avviso, corri- sponde abbastanza chiaramente ad un grado lievissimo di disidratazione. Questa regolarità comincia di nuovo a venir meno palesemente a 170° con un ritardo nell’ innalzamento di temperatura del gesso, che dura 50' circa, e si estende fra 170° e185°, rilevantissimo fva 175° e 180°, il quale assume poi il valor massimo (arresto di 35°) fra 180° e 185°, a cui segue un periodo regolare di riscaldamento conforme a quello che avviene fra 70° e 90°, cioè occorrono 2 minuti primi per innalzare la temperatura del gesso di 5°. Nel periodo di ritardo nel riscaldamento del gesso fra 170° e 185° ebbi sempre una retrocessione nella temperatura del gesso, la quale incomincia generalmente fra 179° e 180° dove la temperatura resta stazionaria per alcuni minuti, poi questa si abbassa di 2 o 3 gradi per riprendere poscia il suo cammino ascensionale. Non eredo di poter attribuire questo fatto alla difficoltà di mantenere fra il bagno ad olio e il sale una differenza di 30°. Il Le Chatelier fece le sue esperienze di riscaldamento progressivo operando su g. 10 soltanto di selenite polverizzata posta entro piccolo tubo di vetro immerso in bagno di paraffina, e, partendo da 10C°, trovò due punti di arresto: l’ uno a 128° e l’altro a 163°. Il primo, secondo l’autore, corrisponderebbe alla trasformazione della selenite CaSO,.2H,0 in semiidrato CasSO, .0,54,0, e il secondo alla formazione del solfato anidro. Così il gesso passò da 100° a 200° in 36 minuti primi, laddove ne’ miei esperimenti, per lo stesso intervallo di temperatura, occorsero ore 3 e 48’, ossia 228 minuti primi. Scaldando rapidissimamente Il bagno di paraffina, il Le Chatelier trovò il primo punto di arresto non a 128°, ma a 133°. Dal canto mio in tre esperimenti del 1907, nei quali diedi tutta la fiamma al bagno di sabbia sin dal principio dell’ esperimento e pro- dussi con ciò un riscaldamento del gesso piuttosto rapido, tanto che il sale passò da 100° a 200° nello spazio di 1 ora soltanto, osservai io pure un arresto fra 127° e 128° e un altro fra 185° e 190°, ma la temperatura del sale crebbe colla maggiore uniformità fra 140° e 165°. In conclusione, coi miei esperimenti del 1907 restava escluso il punto di arresto a 163°; punto che non è da confondere con quello che si palesò nelle mie espe- rienze fra 180° e 185°, perchè, in causa della maggiore rapidità di riscaldamento, il Le SILA II. Chatelier l’avrebbe dovuto trovare probabilmente ad una temperatura non inferiore a 185°, come trovò a 128° il punto di arresto che io ebbi in grado massimo fra 110° e 115°. Nella nota del 1907 mi feci inoltre la seguente domanda : Il ritardo nell’ innalzamento della temperatura del gesso fra 170° e 185° è 1’ effelto di un periodo distinio della disi- dratazione del sale o di un semplice cambiamento molecolare? Risposi che a mio parere la causa più probabile del fenomeno è la seconda, perchè esso avviene e si compie dopo un lungo periodo di riscaldamento, ossia quando il gesso ha perduto, se non tutta, la massima parte dell’acqua e non può tutt’ al più che patire una disidratazione lievissima insufficiente a spiegare il notevolissimo ritardo che avviene fra 170° e 185°. Questa è la spiegazione che diedi nella nota del 1907, nella quale riferii pure i risul- tati che ottenni scaldando in bagno ad olio, nelle singole prove, un sottile stralo di g. 5 di selenite passata allo staccio di 4900 maglie e contenuta in maltraccino conico: risultati che allora non tenni nella debita considerazione nei successivi esperimenti. Operando alla temperatura di 100° osservai che dopo 24 ore di riscaldamento la desidratazione cessa, il sale perde quasi esattamente i 5, della sua acqua di cristallizzazione, ossia è convertito in semiidrato CaSO, .0,54,0. Altre esperienze furono fatte scaldando a 120° e a 140°, nelle quali l’ acqua tratte- nuta dal sale fu naturalmente minore. Nella prova con riscaldamento a 200° la disidratazione della selenite si arresiò dopo 6 ore, ma la sostanza conteneva ancora una piccola: quantità di acqua che, secondo il Millon, non può essere interamente espulsa che a 300°, e credo che abbia ragione. Si rifletta che in queste particolari esperienze di disidratazione, il matraccino conico conteneva uno strato sottile di selenite, e che |’ atmosfera interna veniva rinnovata a debiti intervalli per aspirazione, di guisa che |’ acqua proveniente dalla disidratazione del sale poteva disperdersi liberamente. Negli esperimenti del 1907 l° ultimo periodo di ritardo avviene {ra 170° e 185°, cioè ad una temperatura alquanto inferiore a 200°: di più la selenite entro il tubo di vetro formava una colonna di polvere costipata alta cm. 6 circa che il vapor d’ acqua non poteva altraversare che con certa difficoltà e lentezza. Onde si comprende che la selenite in queste condizioni dovesse trattenere a 170° ed anche a 185° unà quantità di acqua non poco superiore a quella che resta nei &. 5 di selenite riscal- data per 6 ore a 200° nel matraccino conico. In seguito a queste considerazioni sono stato portato a cambiare opinione, a credere cioè che negli esperimenti del 1907, il ritardo che si manifesta fra 170° e 185° sia non già )’ effetto di un semplice cambiamento molecolare, ma quello bensì, almeno prevalen- temente, di un periodo distinto della disidratazione della selenite. Il falto poi della retrocessione nella temperatura del termometro immerso nel gesso fra questi due limiti di temperatura non sarebbe a mio avviso che l’ effetto di un lieve raffreddamento prodotto dal vapor d’ acqua che si svolge e attraversa il sale durante questo ultimo e speciale periodo della sua disidratazione. A. questo punto dò termine al larghissimo riassunto della pubblicazione del 1907 per riferire sulla descrizione, sui dati e sulle conclusioni di altri esperimenti. Esperimenti A (Differenza fra il bagno ad olio e-il sale di 40°) L’ influenza della rapidità del riscaldamento del gesso venne subito dimostrata dai primi quattro esperimenti che feci nello scorso estate, nei quali tenni fra la temperatura del bagno d’ olio e quella del gesso una differenza di 40° invece di 50. L'apparecchio che adoperai non si distingue essenzialmente da quello che usai negli esperimenti del 1907. L’ altezza del tubo d’ assaggio fu ridotta a cm. 14 a fine di evitare l'inconveniente e l’ imbarazzo di togliere con carta bibula le goccioline d’ acqua che si condensavano nella parte fredda del tubo più alto negli esperimenti del 1907.-Il diametro interno del tubo era di cm. 2,9 e quello del bulbo del termometro di mm. 5,2, di guisa che il bulbo stesso era circondato tutto all’ intorno da uno strato di selenite dello spessore di mm. 12 circa. L’ olio del bagno era contenuto in un recipiente cilindrico di rame, non di vetro, alto cm. 16 con diametro di cm. 10. Il bagno ad olio veniva riscal- dato colla fiamma di un cannello Bunsen, col quale riusciva più facile regolare la tempe- ratura chiudendo o aprendo più o meno con pinzetta a vite il tubo conduttore del gas e al bisogno allontanando la fiamma. Il tubo era caricato colla selenite e disposto come fu detto negli esperimenti del 1907. I risultati che ottenni nei quattro esperimenti appariscono nello specchio seguente : Per innalzare Per innalzare ln temperatura del gesso ‘Tempo impiegato la temperatura del gesso —’empo impiegato ca 70 a 75° Ore 0, ]' da 140° a 145° Ore 0, 1' >» Mb a 80° >» 0,1 » 145% a 150° DIPLOMI » 180° a 850 DONI N50 rta Moe DO DNiSoLT 00, >» 0,1 » 155° a 160° > 0, 130% » 90% a 95° » 0,1! » 160° a 165° DOO » 95° a 100° >» 0, 1' » 165° a 170° DO EZI » 100° a 105° > 0, 1' » 170° a 175° DIMORO: » 105° a 110° SARONIO Di IT a 0 >» 0,250" » 110° a 115° >» 1,30 » 180° a 185° >» 0,19 d VIVI a JI. » 0,3/,30" » 185° a 190° DINONIL > VIZI È 125 » 1,2 > 190% a 195° PI ODI » 125° a 130° ». 0,5! » 195° a 200° di LOI i) Ia, oe » 0,8! » 200° .a 205° di (00 AZ 071/30! TRN Lo specchio dimostra che la temperatura del gesso si eleva regolarmente fra 70° e 110°, e viene perciò meno il breve ritardo nel riscaldamento del gesso, che ebbi negli esperi- menti del 1907 fra 95° e 100°, Si rileva pure che per innalzare la temperatura del gesso da 100° a 200° occorre 1 ora e 54, invece di 3 ore e 48° impiegati negli esperimenti del 1907, nei quali tenni una differenza di soli 30° fra la temperatura del bagno e quella del sale. In tutti e quattro gli esperimenti, il massimo effetto del primo periodo di ritardo (arresto di 1 ora e 2°) avvenne fra 120° e 125°, anzi che fra 110° e 115°, e quello del secondo (arresto di 19°) fra 180° e 185°) o si sposta di poco. In proposilo debbo dire che in un esperimento, pur ben riescito, avvenne un arresto di 4 fra 180° e 185° e di 15° fra 185° e 190°. È adunque bastato aumentare di soli 10° la differenza di temperatura fra il bagno ad olio e quello del gesso per ridurre approssimativamente alla metà tanto |’ intero primo periodo di ritardo (da 115° a 135°), quanto il secondo (da 170° a 185°), e per far scom- parire quello fra 95° e 100°. Un altro fatto avvenuto sempre in tutti questi esperimenti, che non credo di poter attribuire alla difficoltà di mantenere esattamente una differenza costante di temperatura fra il bagno ad olio e il gesso, è che quando il termometro immerso nel gesso fu giunto a 120° circa si ebbe una retrocessione della temperatura sino a 119° ed anche 118°, alla quale ultima temperatura avvenne un vero arresto’ che durò non meno di 30‘,-dopo il quale il termometro ritornò a 120°. Durante questa retrocessione e questo arresto ho man- tenuto nel bagno ad olio la temperatura che aveva allorchè il gesso giunse a 120°. Questa prima ratrocessione molto probabilmente avviene nel momento del maggiore svolgimento di vapor d’ acqua. Un’ altra retrocessione si manifestò pure nel secondo periodo di ritardo similmente a quanto fu osservato negli esperimenti del 1907. Quando il termometro immerso nel gesso fu salito a 184° o 185° si ebbe un abbassamento di temperatura di 2° o 3°, e un mas- simo di ritardo fra 180° e 185° o fra 185° e 190.°. Un esperimento di disidratazione lentissima, in cui tenni fra la temperatura del bagno ad olio e quella del gesso una differenza di soli 20°, ha valso particolarmente a mettere fuori d’ ogni dubbio questo fatto della retrocessione, tanto nel periodo della massima disi- dratazione della selenite fra 110° e 140°, quanto nel secondo fra 160° e 185°. Esperimenti B (Riscaldamento rapido col bagno ad olio) Lo specchio seguente contiene i risultati ottenuti con un riscaldamento rapido del bagno ad olio, durante il quale, almeno nel principia dell’ operazione, sì riscaldava il reci- piente di rame con due lampade Bunsen a fine di portare in breve tempo il bagno stesso “a 250°, mantenendo in seguito questa temperatura per tutta la durata della operazione. = eo — Temperatura Per innalzare del bagno ad olio la tomperatura/del gesso l'empo impiegato 165° da 90° a 95° Minuti 0,30" IDA » 95° a 100° » 0, 30" 205° » 100° a 105° » 3,00 212° > 105% a 110° ».' 0,30" 220° > IO NS » 1,00 240° DSL 208 » 13.041 250° >». 120° a 125° » 9,30! id d IZ? a 180 » 14,30" id > 160.a Jo » (901) id » 135° a 140° >» 5,00 id » 140° a 145° » 2,00 id > 145° a 150° » (1,00 id DIS pa » 0,30" id nobel 008 » 0, 30" id ; ». 160% a 1650 » 0,30" id >» 165° a 170° » 0,30" id DIVO? dI » 1,00 id » 175° a 180° » 1,00 id » 180° a 185° » 2,00 id > Ioia de » 3,00 id >» 190° a 195° SA id » 195° a 200° » 0, 30" id » 200° a 205° » 0, 30" Dal quale specchio si rileva che con questo riscaldamento rapido per portare la tem- peratura del gesso da 100° a 200° sono occorsi 49° soltanto. Il massimo primo periodo di ritardo o arresto si è avuto fra 125° e 130°, e il secondo fra 185° e 190° Tanto il primo, quanto il secondo periodo sono stati grandemente abbreviati. Complessivamente il primo si compie in 80° circa e il secondo in 7° 0 8° Accresciuta così la rapidità del riscaldamento, è comparso manifestissimo un ritardo di 3° fra 100° e 105°, sulla causa del quale dirò più innanzi il mio parere. Esperimenti C (Riscaldamento rapidissimo in crogiuolo di platino) In questi esperimenti ho sottoposto il gesso a riscaldamento molto rapido abbando- nando il bagno ad olio, riempendo un crogiuolo di platino, alto cm. 4, diametro cm. 3,5, con selenite passata allo staccio di 4900 maglie e ben costipata, e riscaldando diretia- mente il recipiente colla fiamma di un cannello Bunsen, la quale deve essere non troppo forte e ben regolata sino all’ inizio dell’ esperimento, perchè in tutto il periodo del riscal- damento non va accresciuta nè diminuita. La estremità inferiore del bulbo del solito termo- metro, affondato nel centro dello strato di selenite, era tenuta ad una distanza dal fondo del crogiuolo di quasi cm. 2. I risultati ottenuti sono i seguenti : Per innalzare Per innalzare la temperatura del gesso Tempo impiegato la temperatura del gesso Tempo impiegato da 80° a 90° Minuti 0', 15" da 170° a 180° Minuti 0',30" » 90° a 100° » 01,30" » 180° a 190° » 0,30" » 100° a 105° » 5,15 » 190° a 200° » 0,30" » 105° a 110° » 0,30" » 200° a 210° 5 » 0,30" » 110° a 120° » 0,30" » 210° a 220° » 0,30" » 120° a 11300 » 1',00 n 22 022308 » 01, 30" » 130° a 140° >» 0,30 » 230° a 240° > 0,80" >» 140° a 150° » 0,30 » 240° a 250° 030% » 150°a 160° >» 1,00 » 250° a 260° > N05 » 160° a 170° >» 1,00 » 260° a 270° >» 0,15" =II Il gesso è passato da 100° a 200° in 11°, 45". Molto accresciuto, rispetto al precedente esperimento (B), è il ritardo fra 100° e 1059, durante il quale si è avuto un vero arresto durato 4° e 15” a 102°. Leggermente manifesto è il ritardo fra 150° e 170°. Si può dire infine, che con riscal- damento rapidissimo vien meno il secondo periodo di arresto che in quello lento o meno rapido avviene fra 170° e 185° o fra 180° e 190°, e che questo periodo e quello corrispon- dente alla massima disidratazione della selenite si distribuiscono in 9° circa fra 110° e 250° senza ritardi abbastanza sensibili. In un esperimento in cui il gesso passò da 100° a 200 in soli 8,457 si è avuto sempre manifestissimo il ritardo fra 100° e 105° (3°, 157) o fra 100° e 110° (4,15). Esperimento D (Riscaldamento in crogiuolo con piccola fiamma) Con questo esperimento ho creduto opportuno di riscaldare il crogiuolo di platino con fiamma molto ridotta all'intento di avvicinarmi abbastanza alle condizioni in cui operò il Le Chantelier. Per il resto niente di cambiato. Risultati ottenuti : SA Per innalzare la temperatura del gesso Tempo impiegato da 70° a 80° Minuti 0',15! >» 80° a 90° » (OEIISO » 90% a 100° » RUSSO, » 100° a 105° » 8! 00 DO 5 ATA 06 » 0,30" DAGIMORNA 202 » 1',00 » 120° a 130° » 4,00 » 130° a 140° » 6',00 » 140° a 150° » SO, » 150° a 160° » 2, 00 » 160° a 170° » TO. » 170° a 180° » ITS » 180° a 190° » 1',80" >» 190° a 200° Si » 200° a 210° 100, Il gesso passò da 100° 200° in 30,30”. Per ‘lo stesso intervallo di temperatura il Le Chatelier impiegò 36°. Ben distinto è il ritardo di 8° nel passaggio del gesso da 100° a 105°, durante il quale si ebbe un vero arresto di 7° a 100°, e ciò spiega la ragione per cui questo punto di arresto non figura nel diagramma del Le Chatelier, che cominciò a registrare i dati del suo esperimento quando il gesso era già giunto a 100°. Il ritardo corrispondente al periodo della maggiore disidratazione della selenite avviene in 17° circa fra 120° e 170°, concordemente coi dati del Le Chatalier. Fra 180° e 190° il ritardo è quasi insensibile, onde si spiega come anche questo ritardo, immanchevole nel riscaldamento lento, non potesse manifestarsi nelle esperienze del Le Chatelier. Sospesi l’ operazione a 210° perchè in causa del debole riscaldamento prodotto dalla piccola fiamma sì sarebbe accresciuta sempre più la difficolià di trasmissione del calore attraverso la massa del gesso e conseguentemente si sarebbero avuti dei ritardi succes- sivamente crescenti per ogni aumento di temperatura di 10° del sale senza che avvenisse in esso alcun cambiamento. Dal confronto dei dati di tutti i precedenti esperimenti viene palesemente dimostrato che col cambiare la intensità o rapidità del riscaldamento della selenite, varia la posi- zione termometrica, la estensione, la durata e il numero dei punti di ritardo o di arresto, e conseguentemente quanto sia difficile complesso e delicatissimo lo studio della disidra- tazione dei sali. Fermiamo un momento |’ attenzione su due dei punti di ritardo più singolari: quello breve fra 95° e 100° osservato negli esperimenti del 1907 a riscaldameuto molto lento, e quello fra 100° e 105° che si manifesta soltanto nel riscaldamento rapido e nel rapi- dissimo. Non credo superfluo riportare il seguente periodo della pubblicazione del 1907 « Cosa notabile, forse non casuale, nei tre esperimenti che mi fornirono i dati del precedente quadro è che il tempo impiegato per riscaldare il gesso da 95° a 100° fu maggiore di quello che occorse nei 5 minuti successivi, ossia per condurlo da 100° a 105° ». Questo ritardo, come già dissi, non può essere l’ effetto di una incipiente disidratazione, altrimenti accadrebbe necessariamente il contrario. Pare adunque che nel riscaldamento molto lento (Esperienze del 1907) qualche cosa avvenga prima che incominci la disidratazione. Rispetto a questo fatto viene in acconcio il ricordare che Shenston e Cundall nel 1888 fecero osservare che la espulsione dell’ acqua nel riscaldamento della selenite non comincia immediatamente. In una pubblicazione apparsa nel 1907 nel giornale inglese l' Industry il Davy credette ragionevole attribuire questo fatto alla trasformazione della selenite o biidrato a in una varietà allotropica 6, e quindi della stessa composizione CasSO,.2H,0. Il calore fornito nel principio del riscaldamento trasformerebbe da prima la selenite o varietà di gesso biidrato a, la sola stabile alla temperatura ordinaria, nella varietà £, e poscia per perdita di acqua in semiidrato CasS0,.0,54,0 0 20480, . H.0. La quale spiegazione sembra comprovata dalle modificazioni che sono state osservate nelle proprietà ottiche dei cristalli di selenite al prizcipio appunto del riscaldamento. Alla temperatura ordinaria gli assi otlici della selenite sono nel piano di simmetria del eri- stallo, e quando questo è sottoposto ad una temperatura prossima a 100°, essi si spostano disponendosi ad angolo retto della loro posizione primitiva. La varietà f sarebbe ortorom- bica, laddove la varietà a normalmente stabile (selenite) è triclina. Non credo poi che sia casuale o frutto di errore sperimentale il fatto che negli espe- rimenti del 1907 ebbi sempre fra 95° e 100° un piccolo ritardo nel riscaldamento del gesso, il quale starebbe a confermare piuttosto validamente |’ opinione del Davy. di cui io non poteva avere conoscenza, poichè tanto le sue ricerche, quanto le mie furono pub- hlicate nello stesso anno 1907. In altre parole, quando osservai questo piccolo punto di ritardo non era insidiato da idee preconcette, le quali talvolta anche a persone di molto sapere e prudenti fanno scambiare onestamente lucciole per lanterne. L'altro maggiore e singolare ritardo sì manifesta ben distinto fra 100° e 105° negli esperimenti B, C, D condotti con riscaldamento rapido o rapidissimo. Ho detto singolare perchè, a mio avviso, sarebbe grave errore attribuirlo alla stessa causa che produce il piccolo ritardo fra 95° e 100° negli esperimenti del 1907 a riscaldamento molto lento, ossia sarebbe errore il volerlo spietare colla trasformazione della. selenite o biidrato a nella varietà 8, poichè, come si disse, elevando di poco la rapidità del riscaldamento sopra quella degli esperimenti del 1907, il detto ritardo non avviene più, come si scorge nel- l’ esperimento A. o To porto opinione che la causa, per lo meno predominante, del notevole ritardo fra 100° e 105° sia I’ effetto della disidratazione che si compie in tempo brevissimo, al prin- cipio del riscaldamento, dello strato di selenite che è in contatto o molto vicina alle pareti metalliche del crogiuolo o del tubo di vetro come nell’ esperimento B. Sulle quali pareti si forma senza dubbio e subito uno strato di gesso anidro con svolgimento abbon- dante di vapor d’ acqua, il quale, attraversando la massa più interna e superiore del gesso, la mantiene per un cerlo tempo fra 100° e 105° in tutti gli esperimenti eseguiti tanto con riscaldamento rapido, quanto con riscaldamento rapidissimo. Sarei infine ben contento se altri chimici avessero desiderio o interesse di verificare i dati de’ miei esperimenti, confortato dalla buona speranza che, operando nelle stesse con- dizioni, ci troveremmo d’ accordo: accordo, ben inteso, in cui non si può pretendere la perfezione in esperienze che presentano non comuni difficoltà. E ciò dico non tanto perchè lo avessi soltanto a mia disposizione, come strumenti di misura, due termometri ed un orologio comune a secondi, ma perchè parecchie condizioni possono far variare sensibil- mente i risultati di un dato esperimento: la massa della selenite e la sua compattezza, il grado di polverizzazione del sale benchè passato sempre al medesimo staccio, lo spessore dello strato che circonda il bulbo del termometro e di quello delle pareti del tubo di vetro che contiene il gesso, |’ altezza dello strato di selenite che il vapor d’ acqua ha da attra- versare, ed altre ancora. Non crederei, ad esempio, di essere trovato in fallo se nell’ espe- rimento che eseguii nel 1907 altri trovassero che la durata del massimo ritardo nel periodo della maggiore disidratazione della selenite, invece di 1 ora e 26’, fosse di 1 ora e 30' o di 1 ora e 22°. Altrettanto direi per differenza di alcuni secondi nei piccoli ritardi o per lievi spostamenti nella posizione termometrica dei punti di arresto osservati nei singoli esperimenti. In ogni modo credo che in esperimenti ben preparati e condotti nelle mede- sime condizioni le differenze non saranno tali da cambiare essenzialmente i dati e le con- clusioni a cui sono giunto col presente lavoro. Serie VII. Tomo VIII. 1920-1921. i DL rertia N “ages sw nb "RA sape, AVANTI PA di Suri #4 0 SI Cpt ; ni Îi Ei Din ua i ogg ao ho "e > l id Aa ct Is vert iL Lou i siti 1 na È ni Carnage sul di dui di ita E TEN VR LAS SUL CONTEGNO DI ALCUNE SOSTANZE ORGANICHE NEI VEGETALI XIII. MEMORIA DI GIACOMO CIAMICIAN E CIRO RAVENNA letta nella Sessione del 14 Novembre 1920. (Con 3 FIGURE) Le esperienze che descriviamo nella presente Memoria sono, come è naturale, la con- tinuazione di quelle precedenti. Questa volta peraltro non divideremo la Memoria in due parti perchè le prove sulle ossidazioni stanno in stretto nesso con quelle di cultura; la Memoria sarà divisa invece in singoli capitoli corrispondenti ai diversi argomenti trattati. Le esperienze di cultura vennero eseguite quasi esclusivamente sui fagioli coltivati sul cotone idrofilo e innaffiati colle soluzioni a uno per mille adoperando a seconda i casi, germinatoi di vetro e di ferro zincato. L’anno scorso avevamo osservato che l’ isoamilamina determinava un albinismo che aveva qualche somiglianza con quello prodotto dalla nicotina. Ci parve utile di ritornare su queste esperienze per vedere se tale corrispondenza avesse qualche fondamento per l’essere 1’ isoamilamina presente nel tabacco. Inoltre abbiamo ripreso in esame tutte le amine studiate l’ anno scorso che, come si sa, presentavano una decrescente velenosità coll’ aumentare della lunghezza delle catena di atomi di carbonio. Ci siamo però accorti che le differenze, pur mantenendosi nello stesso ordine, erano meno accentuate perchè le soluzioni impiegate l’anno scorso, per un errore di determinazione, erano meno con- centrate. Dalle nostre esperienze sulla piridina e la picolina, la piperidina e la metilpiperidina era risultato che le prime sono meno velenose delle seconde ; poteva però darsi che l’ idro- genazione avesse pure un’ influenza sull’ effetto dei composti e però abbiamo sperimentato in quest’ anno Ja chinolina e la tetraidrochinolina : l’ acido fialico e il tetraidroftalico ; il cimolo e il limonene. Essendosi dimostrati molto velenosi gli indoli; la chinolina e l’ isochinolina più vele- nose della piridina, era da esaminarsi se le basi a nucleo condensato fossero più velenose A di quelle a nucleo semplice e però abbiamo sperimentato |’ effetto dell’ anilina in compa- razione con quello a-naftilamina. Abbiamo voluto, per portare un ulteriore contributo alla regola dei metili, provare l’azione degli acidi cresilici in comparazione coll’ acido salicilico di cui, già dagli anni scorsi, conoscevamo l° innocuità. fi L’anno scorso avevamo osservato colle. serie delle amine e poi comparando |’ acido ossalico coll’ acido succinico, che la lunghezza delle catene esercitava un’ influenza sul- l’azione delle sostanze. A questo proposito quest’ anno abbiamo sperimentato la serie degli acidi grassi, dal formico al palmitico. Il fatto che la betaina è quasi innocua mentre i composti quaternari ammonici sono velenosi, ci aveva fatto supporre che la ragione di questo contegno fosse da ricerdarsi in una eventuale presenza della betaina nei fagioli. Per risolvere il problema abbiamo esa- minato l’ estratto di una notevole quantità di piante, ma in esse non abbiamo ritrovato la betaina. Abbiamo esteso inoltre la ricerca anche per vedere se in esse fossero presenti le basi pirroliche di Pictet, ma anche queste non poterono essere riscontrate. Non potendo invocare la presenza della betaina nei fagioli come spiegazione della sua innocuità, abbiamo supposto che la influenza dei metili potesse dipendere dalla natura della sostanza fonda- mentale e che se questa fosse decisamente innocua e normalmente presente nelle piante, l’ introduzione ‘di metili o anche di radicali acidi, potrebbe non determinare un’ azione venefica. A questo riguardo abbiamo comparato anzituito la betaina colla glicocolla esten- dendo le esperienze all’ alanina e alla leucina per comparare quest’ ultima coll’ isoami- lamina. Volendo approfondire questi studi abbiamo comparato l’ acido carbopirrolico coll a- Gido dimetilpirroldicarbonico : il glucosio ai metilglucoside e finalmente il solfato potassico col metilsolfato potassico ottenendo, come si vedrà, risultati conformi alla suaccennata supposizione. Per trovare una spiegazione del fatto assai rimarchevole che vi sono sostanze meti- late provenienti da composti fondamentali perfettamente innocui le quali non esercitano un’ azione nociva, abbiamo pensato che |’ influenza tante volte accertata nei nostri prece- denti lavori dei radicali alcoolici e delle catene laterali potesse almeno in parte essere determinata da un fatto puramente chimico. Poteva cioè darsi che la presenza di questi radicali servisse alle piante per preservare dall’ ossidazione quei corpi così detti accessori e segnatamente gli alcaloidi e però mantenerli inalterati nell’ organismo per adibirli a quelle funzioni ormoniche a cui tante volte abbiamo alluso. A questo proposito conviene ricordare che già l’ anno scorso avevamo osservato che le sostanze assorbite per ie radici delle piantine di fagioli si rilrovavano in esse in quantità assai differenti, così ad esempio, più caffeina che teobromina. Per cercare di confortare con nuovi fatti queste vedute abbiamo, durante l’ inverno, determinato la resistenza di alcune coppie di sostanze all’ a- zione ossidante della poltiglia di spinaci e così abbiamo dosato la quantità residua della pirocatechina in comparazione col gQuaiacolo; della morfina colla codeina; della caffeina colla teobromina; della cocaina coll’ atropina ; delle diverse amine e finalmente dell’ acido butirrico e isobutirrico. Come si vedrà, i risultati ottenuti sembrano parlare in favore SC o della supposizione annunciata. Non abbiamo trascurato di fare anche per mezzo dell’ ino- culazione delle prove sulle giovani piante di mais, ma per diverse ragioni questi ultimi risultati non sono stati molto fortunati. Per seguire un consiglio del nostro collega Prof. Morini abbiamo voluto vedere se sostanze generalmente venefiche fossero innocue per specie affini a quella che le conten- gono normalmente. Così l’ eserina, essendo contenuta nel Physostigma venenosum, che è una pianta affine al fagiolo comume, poteva essere innocua per quest’ ultima pianta. Abbiamo comparata perciò il contegno dell’ eserina sui pomodori e sui fagioli; ma, come sì vedrà, essa è assai velenosa per entrambi. Per ultimo pubblicheremo alcune osservazioni fatte a parecchie riprese sull’ influenza del tannino su diverse piante. 1. — Contegno dei fagioli colle amine e cogli aminoacidi. Le esperienze dell’ anno scorso ci avevano indicato che, ad eccezione della metila- mina, che è quasi innocua, la tossicità delle amine diminuisce col crescere della lunghezza della catena. Poichè ci eravamo accorti che le soluzioni impiegate l’ anno scorso per un errore di determinazione del titolo erano troppo diluite, abbiamo ripetuto quest’ anno l’esperienza colle soluzioni a uno per mille delle basi neutralizzate con acido fosforico. Abbiamo inoltre sperimentato alcuni aminoacidi, cioè la glicocolla, 1° alanina e la leucina e ci è sembrato utile confrontare il contegno di quest’ ultima coll’ isoamilamina. Per le prove colle amine si posero a germinare i fagioli il 14 maggio in quattro germi- natoi di vetro ed il 23 maggio, quando le piantine avevano raggiunto un certo sviluppo si, iniziò il trattamento quotidiano rispettivamente coi fosfati di et, propel, butil e amilamina. Dopo qualche siorno apparvero sulle foglie semplici delle macchie caratteristiche più numerose in quelle delle piante trattate coll’ etilamina ed in misura decrescente nelle piante che ricevettero la propil, la butil e 1’ amilamina. Tutte quattro le basi si dimostrarono peraltro notevolmente tossiche e, sebbene le differenze accennate si siano mantenute evidenti per tutto il periodo di sviluppo, nessuna pianta giunse a fioritura. Alcune foglie di soggetti trattati colla butilamina manifestarono un albinismo analogo a quello da noi altre volte osservato coll’ isoamilamina e simile a quello determinato dalla nicotina. Questo fatto sta ad indicare che il fenomeno, come avevamo supposto, non è peculiare della nicotina e dell’ isoamilamina, che si trovano en- trambe nel tabacco, ma può essere determinato anche da altre sostanze. Non pertanto l’albinismo prodotto dalla nicotina è assai più marcato e si presenta in modo caratteri- stico per questo alcaloide. Le piante che servirono a queste esperienze, completamente sec- che, vennero gettate il 3 luglio. Per le esperienze cogli aminoacidi abbiamo messo a germinare i fagioli il 27 maggio in quattro germinatoi di vetro ed il 3 giugno si iniziò |’ innaffiamento colle soluzioni a 1 per mille rispettivamente di glicocolla, alanina, leucina e, per confronto con quest’ ultima, di 2s0am2- lamina neutralizzata con acido fosforico. Gli aminoacidi si dimostrarono peraltro, a differenza delle amine, tutti innocui così che le piantine poterono giungere a fioritura e fruttificazione. L'esperienza venne abbandonata Ir 10 luglio. 2. — Influenza dell’ idrogenazione. Nella nostra precedente Memoria abbiamo accennato, trattando delle esperienze colla piridina, la picolina, la piperidina, l’n-metilpiperidina e la conina che probabilmente l’ idrogenazione influiva sulla tossicità dei nuclei fondamentali. Abbiamo perciò sperimentato quest’ anno |’ acido ftalico in comparazione coll’ acido tetraidroftalico, la chinolina colla tetraidrochinolina, il cimolo col limonene. La semina venne eseguita il 29 aprile in germinatoi di ferro zincato ed il 17 maggio si iniziò il trattamento colle soluzioni all’ 1 per mille delle varie sostanze neutralizzate, I’ acido ftalico e il tetraidroftalico con potassa; la chinolina e la tetroidrochinolina con acido fosforico. Gli acidi ftalico e tetraidroftalico non determinarono da principio alcun effetto. In seguito però, dieci giorni dopo il trattamento, si manifestarono sulle foglie delle piante che ricevettero l acido tetraidroftalico alcuni segni di sofferenza coll’ appassimento dei margini mentre l’ accrescimento si faceva più lento. Le piante giunsero peraltro a fioritura e fruttificazione sebbene lo sviluppo si sia mantenuto assai più stentato di quelle trattate coll’ acido ftalico. L’ esperienza fu abbandonata il 3 luglio. I soggetti coll’ acido tetraidro- ftalico erano ormai disseccati mentre quelli coll’ acido ftalico, con legumi notevolmente più sviluppati, erano ancora in buone condizioni. La chinolina e la tetraidrochinolina si dimostrarono entrambe tossiche provocando il rapido appassimento delle foglie; ma il derivato idrogenato in modo nettamente più accen- tuato. Le sofferenze apparvero il 29 maggio per la tetraidrochinolina ed il 21 per la chi- nolina. L’ esperienza venne abbandonata il 26 maggio; le piante che ricevettero la tetrai- drochinolina erano ormai morte mentre le altre sì trovavano ancora in condizioni diserete. Il cimolo è il limonene determinarono entrambi qualche effetto tossico che non impedì peraltro la fioritura e la fruttificazione. Le piante crebbero stentatamente. Ma anche in questo caso il composto idrogenato, il limonene, dimostrò nna tossicità maggiore che si manifestò con un minore sviluppo delle piante. L’ esperienza venne abbandonata il 3 luglio. 3. —- Influenza dei nuclei condensati. Le esperienze precedenti ci avevano indicato che i nuclei condensati quali 1° indolo, la chinolina e 1’ isochinolina sono fortemente tossici per i fagioli mentre la piridina non lo è affatto. A complemento di queste ricerche abbiamo creduto utile studiare il contegno del- l’a-naflilamina in comparazione coll’ anilina. I fagioli per questa esperienza vennero seminati il 14 maggio e si iniziò il 24 maggio il trattamento colle soluzioni a 1 per mille delle due sostanze neutralizzate con acido fosforico. Come si prevedeva, l’ a-naftilamina si dimostrò assai più tossica dell’ anilina. Le piante presentavano il giorno successivo al trattamento una strozzatura al colletto che le faceva ripiegare. L’ esperienza venne abbandonata il 31 maggio quando tutti i soggetti erano caduti mentre quelli trattati con anilina sì trovavano ancora in discrete condizioni. Sg 4. — Influenza della lunghezza della catena. Il contegno delle piante colla serie delle amine poteva far supporre che anche per altri corpi la tossicità diminuisce col crescere della lunghezza della catena di atomi di carbonio. Abbiamo perciò sperimentato vari termini della serie degli acidi grassi e preci- samente l’ acido formico, l’ acetico, il propionico, il butirrico, il valerianico, l isovaleria- nico, il caprilico, il laurinico ed il palmitico. La semina venne effettuata il 14 maggio in germinatoi di ferro zincato ed il 24 maggio si iniziò il trattamento colle soluzioni a 1 per mille degli acidi allo stato di sali potassici. Le piante che ricevettero i diversi trattamenti non dimostrarono fra di loro differenze apprezzabili; ebbero peraltro tutte uno sviluppo più limitato rispetto ai testimoni. A. ciclo vegetativo pressochè compiuto vennero gettate 1° 11 luglio. 5. — Influenza dei metili. Colle esperienze degli anni precedenti avevamo messo in evidenza che i derivati meti- lati sono di regola più velenosi dei composti fondamentali. Un contegno singolare presen- tava peraltro la betaina che si è dimostrata pressochè innocua per i fagioli a differenza degli ammoni quaternari che hanno un’ azione molto marcata. Si poteva pensare che 1 in- nocuità della betaina fosse dovuta al fatto di trovarsi normalmente presente nei fagioli, ma la sua ricerca, come sarà detto nel susseguente capitolo, risultò negativa. Abbiamo perciò supposto, come è stato detto nell’ introduzione, che 1’ influenza dei metili potesse dipendere dalla natura della sostanza fondamentale e che se questa fosse decisamente innocua e normalmente presente nelle piante, l’ introduzione di metili o anche di radicali acidi potrebbe non determinarne la velenosità. Per avere un appoggio sperimentale a questa supposizione, che era già in parte avvalorata dal confronto fra la betaina e la glicocolla, abbiamo sperimentato alcune sostanze fondamentali decisamente innocue quali l’acido carbopirrolico, il glucosio ed il solfato di potassio in comparazione coi derivati metilati a6,- di metilpirrol -a,f- dicarbonico, metilglucoside e metilsolfato potassico. Inoltre, a complemento delle esperienze degli anni precedenti, abbiamo confrontata l’ azione del- l'acido salicilico con quella degli acidi cresilici. Acido carbopirrolico e acido dimetilpirroldicarbonico. — Queste sostanze vennero sp rimentate in soluzione a 1 per mille allo stato dei rispettivi sali sodici, in germinatoi di ferro zincato. La semina venne effettuata il 14 maggio ed il trattamento si iniziò il 24 maggio. Le due sostanze si comportarono in modo pressochè analogo non producendo alcuna sofferenza caratteristica salvo uno sviluppo un poco più limitato rispetto ai testimoni ed un intenso colore nelle foglie. Le piante vennero gettate il 3 luglio. Glucosio e melilglucoside. -- L' esperienza con questi corpi fu eseguita in germinatoi di vetro, contemporaneamente alla precedente. . Il metilglucoside si dimostrò, come il glucosio, perfettamente innocuo. La prova venne abbandonata il 10 luglio a ciclo vegetativo compiuto. SLM Solfato potassico e metilsolfato potassico. — Queste sostanze vennero somministrate alla concentrazione di 1 per mille, dal 16 giugno. dopo un periodo germinativo di 11 giorni. Anche in questo caso il derivato metilato non esercitò alcun effetto tossico. Le piante ancora rigogliose vennero gettate il 10 luglio a fioritura avanzata. Acidi o-, m-. p- cresilici. — Gli acidi cresilici vennero sperimentati in soluzione a 1 per mille allo stato dei rispettivi sali potassici. La semina fu eseguita il 29 aprile in germinatoi di ferro zincato e si iniziò il trattamento il 17 maggio. Tutti e tre gli acidi si dimostrarono lievemente tossici provocando nelle piantine prima un parziale appassimento, poi l’ingiallimento delle foglie più vecchie. Sulla tossicità influisce peraltro in modo evidente la posizione del metile poichè le piante maggiormente soffe- renti erano quelle trattate coll’ acido o-cresilico e seguivano, con segni più attenuati, quelle col meta. ed infine quelle col para. L’ esperienza venne abbandonata il 3 luglio: tutte le piante avevano fiorito e fruttificato. Non abbiamo ritenuto necessario ripetere la prova di confronto coll’ acido salicilico perché dall’ esperienza descritta nella nostra XI Memoria questa sostanza si era dimostrata pressoché innocua. 6. — Ricerca della betaina e delle basi pirroliche nei fagioli. Nelle nostre ricerche dell’ anno scorso abbiamo irovato che la betaina, a differenza delle basi quaternarie come i sali di tetrametilammonio, è per i fagioli soltanto lieve- mente tossica e ci ripromettevamo di tornare su questo argomento che appariva rimar- chevole. Il comportamento poteva trovare la sua spiegazione nell’ eventuale presenza della betaina nei fagioli, come si trova in tante altre piante, perchè appariva probabile che con- tenendo i fagioli già tale sostanza non avrebbero dovuto risentirsi molto anche da un prolungato trattamento con essa. Siamo perciò ricorsi alla gentilezza del Doit. Morselli procuratore della Casa Erba perchè nel suo stabilimento ci preparasse un estratto con acido tartarico diluito di 113 Chgr. di piante di fagioli, raccolti a fioritura incipiente, per cui anche in questa occasione gli esprimiamo la nostra più viva riconoscenza. Una parte dell’ estratto tartarico fu sufficiente per la ricerca della betaina e poichè ne era avanzata una quantità rilevante, l’ abbiamo utilizzato per ricercarvi le basi pir- roliche che secondo Pictet sarebbero presenti in tutte le piante e costituirebbero i così detti protoalcaloidi, ma che noi non potemmo mai riscontrare. Ricerca della betaina. — L'estratto tartarico dei 113 Cher. di piante di fagioli giuntaci da Milano pesava Cher. 6. Sopra mezzo Chgr. dell’ estratto, corrispondente a circa 9 Cher. di piante abbiamo esesuito un primo saggio per la ricerca della betaina. A tal fine il liquido. conve- nientemente diluito, venne defecato con acetato basico di piombo ed il filtrato, liberato dal piombo con acido solforico, fu trattato con acido fosfotungstico. Il precipitato venne raccolto dopo qualche giorno su filtro. quindi scomposto con calce ed il liquido filtrato. saturato con anidride carbonica, fu portato a secco. Il residuo secco venne estratto con alcool e |’ estratto alcoolico avrebbe dovuto contenere la betaina. Siccome ci siamo accertati che il cloroaurato di betaina si presta bene per riconoscere la base, abbiamo svaporato l’ alcool ed il residuo, ripreso con acqua acidulata con acido cloridrico, fu trattato con cloruro d’oro. Il precipitato, purificato dall’ acido cloridrico diluito, diede un cloroaurato cristallizzato in aghi disposti a spina di pesce fondenti a — 61 — ; 244°. L'analisi diede numeri corrispondenti al cloroaurato di colina, la cui composizione peraltro non si allontana molto da quella del cloraurato di betaina. mg. 6,262 di sostanza diedero mg. 3.18 di CO. e mg. 1,77 di #30. mg. 3,650 di sostanza diedero mg. 1,616 di Aw. Im 100 parti: calcolato per CH; NO AuCl, C,Hx,NO;- HAUCI, Trovato (colina) (betaina) C. 13,54 13,12 13,85 FI 2.62 9,14 Au 4447 43,10 44,25 Per risolvere in modo indubbio la questione abbiamo preparato espressamente il cloroaurato di betaina e quello di colina. Il primo ha un punto di fusione notevolmente più basso del nostro cioé a 225°; quello di colina cristallizza in aghi disposti a spina di pesce e fonde a 244°. Mesco- lando questo cloroaurato con quello da noi ottenuto dall’ estratto di fagioli, il punto di fusione rimane invariato. Esso quindi non è altro che cloroaurato di colina. Poichè col metodo precedentemente descritto non avevamo potuto dimostrare la presenza della betaina nei fagioli, abbiamo ripetuto la prova con una maggiore quantità di materiale e con un altro dei metodi prescritti per l'estrazione della betaina dal succo di barbabietole. A questo scopo, 1 Cher. circa dell’ estratto, corrispondente a circa 18 Chgr. di piante, dopo con - veniente diluizione venne trattato con calce fino a reazione alcalina per separare tutti i sali insolubili ed il liquido filtrato bollito, secondo la prescrizione, con barite per parecchie ore. La soluzione venne saturata con anidride carbonica e svaporata a secco. Il residuo fu estratto con alcool ed il liquido alcoolico convenientemente concentrato venne trattato con soluzione alcoolica di cloruro di zinco. Il precipitato fu scomposto con barite ed il filtrato, liberato esattamente dal bario con acido solforico, venne trattato, dopo conveniente concentrazione, con cloruro d'oro. Il precipitato, purificato dall’ acido cloridrico diluito diede anche questa volta dei cristalli a forma di spina di pesce riconosciuti dal punto di fusione e dall’ analisi per cloroaurato di colina. mg. 4.290 di sostanza diedero mg. 1.910 di Av. Calcolato per C;H VO - AuCt, Trovato Au 44,47 44,52 Mescolando questo cloroaurato col cloroaurato di colina il punto di fusione rimase anche questa volta invariato. Da queste esperienze risulta dunque che la betaina non è contenuta nei fagioli e che il contegno sopramenzionato è da ricercarsi in altre cause, Ricerche delle basi pirroliche. — Poichè avevamo a nostra disposizione una notevole quantità di estratto tartarico delle piante di fagioli abbiamo voluto vedere se in esse fosse contenuto qualcuno di quegli alcaloidi volatili descritti da Pictet, che, secondo questo autore, sarebbero di natura pirrolinica e pirrolidinica e costituirebbero quelle basi da lui chiamate protoalcaloidi, le quali sarebbero presenti in tutte le piante. A questo proposto giova ricordare che parecchi anni fa, ripetendo le esperienze di Pictet, non abbiamo potuto nelle stesse piante da lui esaminate riscontrare la presenza, di queste sostanze La ricerca attuale venne eseguita trattando il rimanente dell'estratto dei fagioli, corrispon- dente a Chgr. 85 di piante, con un eccesso di barite e distillando col vapore fino a esaurimento Serie VII. Tomo VIII. 1920-1921. 8 NE GONE — delle basi volatili. Il distillato venrie neutralizzato con acido cloridrico, portato a secco. estratto con alcool per liberarlo dal cloruro ammonico. ridistillato con soda su acido cloridrico e il liquido raccolto, convenientemente concentrato, trattato con cloruro d’oro. Si ottenne un preci- pitato oleoso difficilmente solubile nell’ acqua anche a caldo. Esso venne sciolto in molta acqua e la soluzione svaporata sotto campana su acido solforico. Si deposito una polvere amorfa. giallo chiara contenente circa il 51 per cento di oro; non poté essere identificata, ma è escluso che essa contenesse le basi di Pictet. mg. 4.499 di sostanza diedero mg. 2,258 di Aw. Au trovato 50,87. Le acque madri, da cui era stato separato il cloroaurato oleoso, dettero per concentrazione dei cristalli a forma di spine di pesce fondenti a 238?-259°. Una piccola porzione trattata con potassa svolgeva odore di trimetilamina e l’analisi ne confermò l'identità (1). mg. 4,650 di sostanza diedero mg. 2.282 di Aw. Calcolato per C3H,N - HAUCI Trovato Au 49,42 49,05 Anche in questo caso dunque non abbiamo ottenuto di basi bene accertabili che la trimetilamina. 7. — Ossidabilità di alcune sostanze per mezzo delle piante. Abbiamo accennato nell’ introduzione che la presenza dei radicali potesse servire alla pianta per preservare dall’ossidazione quei corpi così detti accessori e così mantenerli inal- terati nell’organismo per adibirli alle funzioni a cui sono destinati. Qualche indizio in ap- poggio di questo modo di vedere ci era stato fornito dalle esperienze dell’anno scorso poichè avevamo osservato che le sostanze assorbite per le radici dalle piantine di fagioli sì ritro- vavano in esse in quantità differente e cioè ad esempio più caffeina che teobromina. Per portare nuovi argomenti a favore della nostra supposizione abbiamo sperimentato la resi- stenza di alcune sostanze organiche all’azione ossidante degli enzimi vegetali e cioè della pirocatechina in comparazione col guaiacolo; della morfina colla codeina; della caffeina colla teobromina; della cocaina coll’atropina; delle diverse amine e finalmente degli acidi butirrico e isobutirrico. Le prove vennero eseguite per tutte le sostanze ponendole in con- tatto colle poltiglie di spinaci in presenza di ossigeno; alcune poi vennero sperimentate sulle piante viventi di mais per mezzo dell’ inoculazione. Pirocatechina e guatacolo. — In due palloni della capacità di circa 5 litri vennero posti il 18 novembre rispettivamente 500 er. di poltiglia di spinaci, mezzo litro d’ acqua. gr. 2 di piro- catechina in uno e gr. 2 di guaiacolo nell’ altro. I palloni furono riempiti di ossigeno e chiusi alla lampada. i La poltiglia contenente la p2rocatechina venne presa in lavorazione il 28 novembre. Per dosarvi la pirocatechina residua venne preparato un estratto acquoso che fu portato al volume di due litri. Una parte aliquota dell’ estratto (500) cc.) venne trattata con acetato neutro di (1) Gli autori danno per il cloroaurato di trimetilamina punti di fusione variabili fra 200° e 250°. Il nostro cloroaurato non potè essere ulteriormente purificato in causa della piccola quantità. MEZIeI 0 A piombo; il precipitato, lavato, fu sospeso in acqua e decomposto con idrogeno solforato. Il liquido filtrato dal solfuro di piombo venne esaurito con etere e per purificare l’ estratto etereo questo venne, dopo evaporazione del solvente, ripreso con acqua. Il liquido ottenuto, filtrato dalla parte rimasta indisciolta. fu di nuovo esaurito con etere. Eliminato il solvente si ottenne una traccia di pirocatechina (un centisrammo). La sostanza era stata quindi pressochè completamente ossidata. La prova col guaiacolo venne presa in lavoro il 16 dicembre. All’ apertura del vallone si notò lieve pressione. Per dosare il suaiacolo tutta la poltiglia venne distillata in corrente di vapore fino a che non passavano più gocce oleose. Il distillato, di colore rossastro. venne estratto con etere. Per evaporazione del solvente rimase il guaiacolo nella quantità di gr. 1,2. Il guaiacolo dunque, a differenza della pirocatechina, era rimasto in buona parte inal- terato. Nella massa oleosa estratta si formarono col riposo dei cristalli in piccola quantità la cui identità non poté peraltro essere stabilita. Morfina e codeina. — In due palloni vennero posti il 18 novembre rispettivamente er. 2 di morfina e gr, 2 di codeina, gr. 500 di poltiglia di spinaci, gr. 500 d’acqua e un poco di toluolo come antisettico. Si fece quindi passare per circa due mesi nella massa una lenta cor- rente di ossigeno. Il 15 gennaio le prove vennero prese in lavorazione. Per dosare la morfina si fece colla poltiglia un estratto acquoso che venne portato al volume di 2 litri. 500 ecc. furono concentrati a piccolo volume; il liquido trattato con barite, bollito ed il filtrato saturato con anidride carbonica ed evaporato a secco. Il residuo venne estratto con alcool: l’ estratto alcoolico dopo evaporazione venne ripreso con 15 ce. d'acqua e qualche soccia di ammoniaca. Non si ottennero cristalli di morfina, la quale era stata perciò completamente distrutta. Per dosare la codeina si fece del pari un estratto acquoso che fu portato al volume di due litri. Una quarta parte venne resa alcalina con carbonato sodico ed estratta con etere. Per eva- porazione del solvente si ottenne un residuo oleoso che lentamente cristallizzò nel vuoto. Era costituito da codeina e pesava gr. 0,33 corrispondenti a gr. 1,32 in tutto | estratto. Per controllo si determinò la codeina con. un altro metodo. Altri 500 cc. dell’ estratto furono per concentrazione portati a 200 ce. e trattati con barite fino a non avere più precipitato ; quindi portato il tutto all’ ebollizione. filtrato, saturato il liquido con anidride carbonica ed evaporato a secco. Il residuo. estratto con cloroformio cedette al solvente er. 0,95 di codeina pari a gr. 1,40 in tutto l’ estratto in confronto dei 2 gr. introdotti. L'esperienza colla morfina e la codeina fu eseguita anche sulle piante viventi di mais. A tal fine il 81 maggio vennero inoculati in tre piante gr. 2 di morfina ed in tre altre gr. 2 di codeina. Le piante vennero prese in lavoro | 11 giugno. Quelle inoculate colla morfina pesavano Chg. 1.086; quelle colla codeina Chgr. 0,554. Colle piante venne preparato l° estratto acquoso che fu portato a tre litri per quelle che ricevettero la morfina e a due litri per quelle colla codeina. I relativi dosamenti si eseguirono sopra metà dell’ estratto coi metodi precedentemente indicati. Risultò anche ‘in questo caso che la morfina era completamente scomparsa mentre si estrassero gr. 0,176 di codeina corrispondenti a gr. 0,35 in tutto l'estratto in confronto dei due srammi introdotti. Da queste esperienze è dunque risultato che mentre la morfina è completamente di- strutta non soltanto dalle piante viventi, ma anche dalle sostanze attive contenute nelle poltiglie di spinaci, la codeina rimane per la maggior parte inattaccata dalle poltiglie di spinaci e viene assai più lentamente distrutta anche dalle piante viventi. Caffeina e teobromina. — Il 18 novembre vennero posti in corrente di ossigeno rispetti- vamente gr.2 di caffeina e gr. 2 di teobromina con mezzo litro d’acqua, mezzo Chgr. di poltiglia atgapee di spinaci e un po’ di toluolo. Il 7 gennaio si eseguirono i dosaggi delle quantità residue di sostanze. Per dosare la caffeina si fece colla poltiglia un estratto acquoso che venne portato al volume di due litri. Una quarta parte della soluzione fu concentrata a piccolo volume, trattata con ossido di magnesio in eccesso ed evaporata a secco. Il residuo cedette al cloroformio gr. 0, 48 di caffeina pari a gi. 1,92 in tutto l'estratto. Per il dosaggio della teobromuna venne fatto un estratto acquoso a caldo e portato al volume di litri 2,400. Una parte aliquota (600 ce.) fu concentrata fino al volume di 100 ce. e bollita per 20 minuti con 5 gr. di acido solforico. Al liquido filtrato si aggiunse acido fosfomolibdico in eccesso e dopo un giorno di riposo il precipitato, lavato con acido solforico al 5 per cento. venne sospeso in acqua, bollito con barite ed il tutto saturato con anidride carbonica. Dopo eva- porazione a secco il residuo, estratto con cloroformio, cedette gr. 0.11 di teobromina pari a gr. 0,44 in tutto l' estratto. L'esperienza colle due sopramenzionate sostanze venne eseguita anche sulle piante viventi di mais. A tal fine il 31 maggio vennero inoculati rispettivamente in tre individui gr. 2 di caffeina e gr. 2 di teobromina. Le piante vennero prese in lavoro il 26 giugno. Quelle che ricevettero la teobromina pesavano Chgr. 0,983; quelle colla caffeina Cher. 1,066. I relativi dosa- menti vennero eseguiti sopra la metà dell’ estrato acquoso delle piante coi metodi precedentemente descritti e si ottennero er. 0,063 di caffeina pari a gr. 0.12 in tutto l'estratto e gr. 0,056 di teobromina pari a gr. 0,11 in tutto |’ estratto. Da queste esperienze è risultato, per quanto riguarda le prove colle poltiglie di spi- naci, che la caffeina è rimasta pressochè inalterata mentre la teobromina in gran parte è stata distrutta. Colle piante vive anche la caffeina per la massima parte è scomparsa e si è ritrovata in quantità uguale alla teobromina. Bisogna però osservare che in causa della piccola solubilità di quest’ultima sostanza essa non era stata completamente assorbita e si trovava ancora in parte nella cavità ove era stata fatta l inoculazione ed è probabil- mente tale parte non assorbita che si è ritrovata nel dosaggio. Vocaina e atropina. — Per queste esperienze venne posto in corrente di ossigeno il 30 gennaio un pallone con gr. 2 di cocaina, 300 gr. di acqua, 500 gr. di poltiglia di spinaci e un poco di toluolo ed il 9 marzo un pallone nelle stesse condizioni con 2 gr. di atropina. Il 10 marzo venne iniziato il dosaggio della cocaina ed il 14 aprile quello dell’ atropina. Per la determinazione della cocaina la poltiglia venne estratta con acido cloridrico diluito ed il liquido fu portato a due litri. Di questi 500 ce. furono resi alcalini con potassa ed estratti con etere. La soluzione eterea venne dibattuta con acido cloridrico diluito e per evaporazione della soluzione acida rimase il cloridrato di cocaina nella quantità di gr. 0.3 pari a er. 1,2 in tutto |’ estratto corrispondenti a gr. 1,07 di base. Per determinare l’atropina la quarta parte dell’ estratto acquoso venne resa alcalina con potassa ed estratta con cloroformio. Per evaporazione del solvente si ebbe un residuo cristallino del peso di gr. 0,15, corrispondenti a er. 0,52 in tutto |’ estratto. Anche queste sostanze furono esperimentate nelle giovani piante di mais. Il 31 maggio vennero inoculati rispettivamente er. 2 di atropina e gr. 2 di cocaina. Le piante furono prese in lavoro il 16 giugno; quelle colla cocaina pesavano Chgr. 1,778: quelle coll’ atropina Cher. 1,570. Le determinazioni si eseguirono coì metodi precedentemente descritti, ma non sì otten- nero che delle tracce trascurabili delle due basi che erano quindi state completamente distrutte dalle piante. Come si è visto, colle poltiglie invece, in armonia colle previsioni, la cocaina si dimostrò più resistente dell’ atropina. Amuine. — Le amine sperimentate furono le prime cinque amine grasse normali e 1° isoami- lamina, in palloni riempiti di ossigeno, nei quali vennero introdotte rispettivamente con mezzo SE. Gh — litro d’acqua, 500 sr. di poltiglia di spinaci e un poco di toluolo le seguenti quantità delle sostanze in esame : (1) metilamina gr. 2: etilamina gr. 2; propilamina gr. 1.2; butilamina gr. 0,54: amilamina gr. 0. 42; isoamilamina gr. 2. La durata del contatto fu per la metilamina dal 30 gennaio all’8 marzo; per l’ etilamina dal 16 aprile al 31 maggio; per la propil e la butilamina dal 80 gennaio al 20 marzo; per l’amil e l’isoamilamina dal 16 dicembre al 21 gennaio. Per il dosaggio delle amine rimaste alla fine dell’ esperienza, le poltiglie, diluite convenien- temente, venivano trattate con barite in eccesso e distillate col vapore. I distillati, acidificati con acido cloridrico, furono evaporati a secco nel vuoto e i residui estratti con alcool assoluto per separare il cloruro ammonico. Tutte le basi sperimentate si comportarono in modo analogo colla poltiglia di spinaci perchè si ritrovarono alla fine dell’ esperienza nella quantità presso a poco uguale a quella introdotta. Acido butirrico e acido isobutirrico. — In due matracci della capacità di circa 5 litri furono posti il 16 dicembre rispettivamente 2 or. di acido butirrico e 2 gr. di acido isobutirrico con 500 sr. di acqua, 500 gr. di poltiglia di spinaci e un poco di tolnolo. I matracci, riempiti di ossiceno vennero chiusi alla lampada. Il 27 gennaio le poltiglie si presero in esame per gli opportuni dosaggi. A tal fine, dopo averle convenientemente diluite con acqua furono acidificate con acido solforico e distillate in corrente di vapore fino a reazione neutra. Ai distillati si aggiunse un accesso di carbonato di calcio, si fece bollire ed i filtrati vennero evaporati a secco nel vuoto. Si ottennero, per l'acido butirico, gr. 2,17. per |’ isobutirrico gr. 3,79 di sali di calcio. I sali di calcio ottenuti dalla poltiglia trattata con 4cido dutirrico vennero sciolti in acqua e trattati con nitrato d’argento in difetto (er. 2,25). Si ottennero gr. 2.3653 di sale argentico (1° frazione). Il filtrato dal sale argentico fu ‘trattato ancora con gr, 2.25 di nitrato d’argento. Non si ottenne precipitato. Per concentrazione a fiamma diretta si ebbe forte annerimento per la presenza di acido formico; il filtrato lasciò cristallizzare gr. 0,796 di sale argentico (3* fra- zione). Il filtrato dalla terza frazione fu infine trattato con gr. 2,25 di nitrato d’ argento. Dopo concentrazione si ottennero per raffreddamento gr. 0,7008 di sale d’ argento (4° frazione). La prima frazione di sale argentico venne cristallizzata dall’ acqua. La determinazione del- l'argento diede una percentuale di poco superiore a quella del valerianato. mg. 2.579 di sostanza diedero mg. 1,231 di Ag. Calcolato per C;450: Ag Trovato Ag 51,67 51,87 Il sale nuovamente purificato dall’ acqua formò una piccola quantità di cristalli riconosciuti all’analisi per butirrato d’argento. mg. 6.870 di sostanza diedero mg. 6,29 di CO. e mg. 1,98 di 430. mg. 3,303 di sostanza diedero mg. 1,838 di Ag. Calcolato per (44,0, Ag Trovato C 25.00 24,97 H 3.09 3,20 Ag 55,98 55,64 La seconda frazione, cristallizzata dall’ acqua dimostrò un contenuto in argento intermedio fra l'acido valerianico e l'acido butirrico. (1) Le differenti quantità impiegate derivarono dall’ aver impiegato volumi uguali di soluzioni che, come ci siamo accorti in seguito, avevano titolo diverso. mg. 2,816 di sostanza diedero mg. 1,516 di Ag. Calcolato per Trovato C:H0% Ag C,H0 Ag Ag 51,67 55,98 59,82 La terza frazione, anch’ essa cristallizzata, dimostrò una composizione intermedia fra il butir- rato e il propionato d’ argento. mg. 5,478 di sostanza diedero mg. 1,985 di Ag Calcolato per Trovato C,H;0; Ag C3H;05 Ag Ag 55,88 59,65 51,12 La quarta frazione, purificata dall’ acqua, dimostrò all’ analisi una composizione intermedia fra il propionato e l’acetato d’ argento; più prossimo all’ acetato che al propionato. mo. 2,500 di sostanza diedero mg. 1,579 di Ag. Calcolato per l'rovato C3H:0% Ag (CHIEFO5 Ag 50,65 64,66 63,16 Infine tuito l’ argento ridottosi nelle varie operazioni venne disciolto in acido nitrico e dosato allo stato di cloruro allo scopo di calcolare l’ acido formico corrispondente. Si ottennero sr. 1.0778 di cloruro d’argento corrispondenti a gr. 0.69 di acido formico. Le operazioni testé descritte sui sali di calcio ottenuti dalle poltiglie trattate con acido butirrico vennero eseguite anche sui sali di calcio provenienti dalla poltiglia trattata con acido isobutirrico. Precipitando frazionatamente con nitrato d’ argento abbiamo ottenuto anche in questo caso quattro frazioni di sali argentici; la prima nella quantità di er. 1,7735 dimostrò all’ analisi la composizione dell’acido valerianico; la seconda, gr. 1.2956 diede una percentuale di argento intermedia fra l'acido valerianico e l’ acido butirrico; la terza, gr. 1.0450, una percentuale vicina a quella dell’ acido propionico; la quarta, gr. 0,9014, fra l'acido propionico e I° acido acetico. I frazione — mg. 5,747 di sostanza diedero mg. 6,08 di CO:, mg. 1,97 di 4:30 e mg. 2,988 di Ag. Calcolato per C;4,0, Ag Trovato GAMA] 28.85 H 4.30 3.81 Ag 51,67 51,88 II frazione — mg. 3,138 di sostanza diedero mg. 1,707 di Ag. Calcolato per Trovato (08 Hs0; Ag (CA H-0; Ag 51,67 55,38 54,59 IIl frazione — mg. 4,580 di sostanza diedero mg. 2,706 di Ag. Calcolato per C377;0» Ag Trovato Ag 59,65 59,08 SI IV frazione — mg. 6,569 di sostanza diedero mg. 4.025 di Ag. Calcolato per Trovato C3H:0s Ag CxH30 Ag Ag 59,65 64,66 61,27 L’argento ridotto nelle diverse operazioni diede gr. 0.8312 di cloruro d’argento corrispon- denti a gr. 0,53 di acido formico. La presenza dell'acido valerianico è dovuta ad impurezza dei prodotti da noi impiegati. Abbiamo infatti accertato in seguito che I’ acido isobutirrico malgrado fosse un vecchio preparato proveniente dalla fabbrica di C. A. F. Kahlbaum conteneva acido valerianico. Le esperienze cogli acidi butirrico e isobutirrico vennero eseguite anche per inoculazione nel mais. A tal fine furono inoculati il 81 maggio a tre piante, rispettivamente sr. 2 di acido butirrico e gr. 2 di acido isobutirrico allo stato di sali di calcio. Le piante vennero prese in lavorazione 1 8 giugno quelle trattate coil’ acido butirrico pesavano er. 662: quelle coll’ isobu- tirrico er. 964. Vennero triturate e sottoposte dopo acidificazione con acido solforico alla distil- lazione col vapore fino a reazione neutra; i distillati furono bolliti con carbonato di calcio ed i filtrati evaporati a secco fornirono rispettivamente gr. 4 per l'acido butirrico e gr. 3,72 per l'acido isobutirrico di sali di calcio che vennero trasformati, precipitando frazionatamente con nitrato d’argento, in sali d’ argento. Si ottennero rispettivamente tre frazioni di sali argentici. La prima frazione. proveniente dalle piante trattate con acido dutirrico pesava gr. 2,39 e ricristallizzata dall'acqua dimostrò una percentuale in argento corrispondente a quella dell’ acido butirrico. mg. 5.414 di sostanza diedero mg. 3,002 di Ag. Calcolato per C4H4:0, Ag l'rovato Ag 55,38 55,43 La seconda frazione (gr: 1,08) e la terza (gr. 0,47) dimostrarono una composizione intermedia fra l'acido butirrico e l'acido propionico. II frazione — mg. 2.900 di sostanza diedero mg. 1,684 di Ag. III frazione — mg. 2,770 di sostanza diedero mg. 1,627 di Ag. Calcolato per Trovato C,H,0, Ag C3H;0s Ag II frazione III frazione Ag 55,58 59,65 58,05 58.33 Le tre corrispondenti frazioni provenienti dalle piante inoculate coll’ acido isobutirrico pesa- vano, er. 1,58 la prima; gr. 1,15 la seconda e gr. 0,68 la terza. All’analisi, la prima frazione dimostrò una percentuale d’ argento corrispondente a quella dell'acido propionico; la seconda e la terza percentuali intermedie fra quelle dell’acido propionico e dell’ acido acetico. I frazione — mg. 5,972 di sostanza diedero mg. 3,545 di Ag. II frazione — mg. 5.291 di sostanza diedero mg. 3.261 di Ag. II frazione — mg. 2,735 di sostanza diedero mg. 1,706 di Ag. Calcolato per Trovato C3H;0, Ag CsH,0s Ag I frazione II frazione III frazione Ag 59,65 64.66 59,36 61.63 62,37 Riassumiamo nel seguente prospetto le esperienze descritte in questo capitolo STORES Esperienze con gli spinaci. I frazione II » III » IV » Peso dei sali ACIDO BUTIRRICO Ag per cento ACIDO ISOBUTIRRICO Peso dei sali Ag per cento Esperienze col mais. d’argento d’argento gr. 2,36 51,87 ol, DI 51,86 » 1,90 53, 82 » 1,29 54,39 » 0,79 57, 12 » 1,04 59, 08 » 0,70 63,16 » 0,90 61,27 ACIDO BUTIRRICO ACIDO ISOBUTIRRICO Peso dei sali È Peso dei sali ‘ d'argento Ag per cento (Praga Ag per cento I frazione E 2) 55, 43 SIMS 59, 36 II » » 1,08 58,05 » 1,15 61, 63 DOC. » 0,47 58, 73 » 0,68 62437 Calcolato per C:H50z Ag (07 H; (05 Ag C3 H;0» Ag CIHEO: Ag Ag 51,67 55, 58 59, 65 64, 66 Come si disse, l'acido valerianico ritrovato era contenuto originariamente nei prodotti da noi impiegati. La sua presenza peraltro non infirma i risultati perchè |’ esperienza poteva essere eseguita cogli acidi valerianici in luogo dei butirrici. È risultato ad ogni modo da queste esperienze che, contrariamente a quanto poteva prevedersi in vista della resistenza al permanganato dell’acido isobutirrico in confronto al butirrico, questi due acidi vengono dalle piante entrambi ossidati. 8. — Contegno dei fagioli e dei pomodori coll’ eserina. Come è stato detto nell’introduzione abbiamo voluto vedere, seguendo un suggerimento del chiar.mo Prof. Morini, se l’esevina, normalmente contenuta nel Physostigma vene- nosum, pianta affine al fagiolo comune, potesse essere tollerata da quest’ ultimo. Per con- fronto abbiamo inoltre studiato il contegno di una pianta alcaloidica, il pomodoro, coll’eserina. A tal fine vennero seminati il 14 maggio due germinatoi di vetro. l'uno con fagioli. l' altro con pomodori e a partire dal 24 maggio si iniziò il trattamento delle piantine con soluzione di eserina a 1 per mille, neutralizzata con acido fosforico. SOR Questo alcaloide si dimostrò peraltro assai velenoso per entrambe le specie sperimen- tate. Già tre giorni dopo il trattamento le foglie presentavano numerose chiazze giallastre che, andandosi rapidamente estendendo, condussero in breve alla morte delle piante che furono gettate il 31 maggio. 9. — Esperienze col tannino. Nella nostra X Memoria abbiamo descritte alcune esperienze sopra l’azione del tannino sui fagioli e sui lupini da cui era risultato che questa sostanza non esercitava alcun effetto nocivo nè sulla germinazione nè sullo sviluppo delle piantine. Sperimentando in seguito sopra una pianta di tabacco coltivata in vaso e trattata per vari mesi quotidianamente con una soluzione di tannino a 1 per mille, avevamo osservato il fatto singolare che essa pur non dimostrando alcuna particolare lesione, aveva un acere- scimento limitatissimo che non impedì peraltro il compimento del ciclo vegetativo, otte- nendosi una pianta a sviluppo completo, di dimensioni assai ridotte, ma proporzionata in tutte le sue parti. Abbiamo creduto utile di studiare su più larga scala l’azione del tannino sul tabacco estendendo la ricerca anche ad altre specie e cioè alle fave, alle patate, al mais e ai fagioli. Le esperienze si fecero coltivando le piante in vasi con sabbia di fiume ed innaffiandole quotidianamente colle soluzioni di tannino a 1 per mille. Sul mais e sul tabacco si fecero inoltre alcune prove di inoculazione. Le coltivazioni in vaso vennero iniziate il 17 giugno del 1918. Si seminò un vaso con alcuni semi di fava; uno con fagioli; uno con mais; uno con pezzi di tubero di patata ed in tre vasi di differente grandezza vennero trapiantate tre piantine di tabacco. Per ciascuna esperienza si fece, colla stessa specie, la rispettiva prova di controllo. L’innaffiamento fu iniziato il 24 giugno e si continuò il trattamento quotidiano colla soluzione a 1 per mille di tannino fino al succes- sivo agosto per tutte le piante all’ infuori del tabacco per il quale 1’ esperienza continuò fino all'ottobre. Le piantine di fave non dimostrarono effetti apprezzabili per la somministrazione del tannino ; i fagioli, il mais, le patate e segnatamente il tabacco, pure non manifestando particolari sofferenze, si mantennero sempre di dimensioni più ridotte dei testimoni come dimostrarono i seguenti relativi pesi della sostanza secca : TRATTAMENTO PIANTA con acqua con tannino RESI ro gr. 14,5 gr. 10,2 RAFA RE > 113,1 DO MESE sean » 54,0 » 36,0 Tabacco (vasi grandi). . » 870 » 475 Tl'abacco (vasi medi) . . » 500 » 215 'l'abacco (vasi piccoli) . . » 260 » 125 Nei diversi gruppi di piante abbiamo dosato il tannino. Serie VII. Tomo VIII. 1920-1921. ; 9 BR e A tal fine una parte dell’estratto acquoso veniva trattato con acetato di zinco e poca ammo- niaca: il tutto si riscaldava per 5 minuti a bagnomaria; il precipitato, lavato veniva sciolto in acido solforico diluito 1:3: la soluzione portata a 250 cc. e sopra 100 ce. di questa si eseguiva n la titolazione con permanganato 10 in presenza di carminio d’ indaco come indicatore. I risultati ottenuti sono i seguenti : PIANTA Sostanza KMn0, N ‘lannino impiegata 10 per cento Fagioli con acqua . . gr. 5,80 CCSRIPal 0,19 Fagioli con tannino . » 4,10 da 07 0,17 Patate con acqua . . » 4,84 » 0,9 0, 19 Patate con tannino. . » 3,08 DINO | 0,29 Mais con acqua... DIZIZO OZ | 0,04 Mais con tannino . . » 14,4 D (07 | 0,06 'Pabacco con acqua . . ».. 14,4 | » dé | 0,12 'l'abacco con tannino . » 8,0 | DINA. | 0,44 | | Come risulta dal precedente specchietto le piante o non assorbono il tannino oppure lo fanno in misura assai limitata, e perciò sarebbe stato da supporsi che il suo effetto non sia dovuto all’assorbimento ma bensì ad un’ azione sulle radici. Una tale interpretazione non è peraltro esauriente perchè anche inoculando il tannino nel fusto del mais e del ta- bacco l’ accrescimento viene rallentato. L'esperienza di inoculazione nel mais venne eseguita l’anno scorso inoculando in alcuni individui, il 13 giugno, circa un grammo di tannino per pianta. Esemplari di uguali dimen- sioni vennero prescelti per testimoni. Le piante inoculate col tannino si mantennero sempre di dimensioni assai ridotte, senza dimostrare altri segni di sofferenze. Il 6 luglio due di esse vennero prelevale: quella inoculata pesava gr. 232 mentre il testimonio gr. 832. Le prove di inoculazione nel tabacco vennero faite quest’ anno. A tal fine si inocularono il 19 giugno in 4 piante giovani, complessivamente gr. 2 di tannino e rispettivamente in altre quattro, a scopo di confronto, gr. 2 di salicilato sodico, er. 3 di benzoato sodico e gr. 1,5 di pirogallolo. Il confronto per il salicilato e il benzoato non fu peraltro possibile perchè qseste due sostanze si dimostrarono assai velenose per le giovani piante che in breve perirono. Il tannino determinò, come il solito, un rallentamento di sviluppo e nessun altro segno di sofferenza. Il pirogallolo produsse invece dei rimarchevoli fenomeni tossici ; delle quattro piante inoculate, una morì il giorno successivo all’ inoculazione ; le altre con- tinuarono a vivere stentatamente: alcune foglie si disseccarono e lo sviluppo venne quasi arrestato. Il 25 luglio sì prelevò una pianta testimone, una inoculata col tannino e una col piro- gallolo. La pianta testimone pesava Chgr. 2,070; quella inoculata col tannino gr. 650 e quella col pirogallolo gr. 255. STA e Queste prove dimostrano dunque che lo sviluppo limitato, che è quasi caratteristico per il tannino, non è dovuto soltanto a un’azione sulle radici, ma è anche causato dalla sua introduzione nel fusto. Alla fine della Memoria riuniamo in una tavola le fotografie che illustrano le esperienze descritte in questo capitolo. Nella ficura 1 è rappresentata a sinistra una pianta di tabacco testi- mone; in mezzo una inoculata con tannino e a destra una inoculata in comparazione con piro- gallolo. (Inoculazioni eseguite il 19 giugno; fotosrafia del 25 luglio). Nella figura 2 è rappresentata a destra una pianta di mais campione; a sinistra una inocu- lata con tannino. (Imoculazione eseguita il 13 giugno; fotografia del 6 luglio). Nella figura 3 sono rappresentate a destra piantine di patate campioni e a sinistra quelle innaffiate con tannino. (Innaffiate dal 24 giugno; fotografia del 20 luglio). Le piante rappresentate nelle figure 1 e 2 erano coltivate in terra e vennero trapiantate in vaso al momento per poterle più comodamente fotografare. Invece quelle della figura 3 furono, come è stato detto, coltivate in vaso e fotografate tal quali. Conclusioni. Riassumiamo, come di consueto, brevemente i risultati delle esperienze descritte nella presente Memoria. Come si è accennato nell’ introduzione, interessava accertare |’ in- fluenza dell’ isoamilamina sulle piantine di fagioli per l’albinismo da essa determinato in relazione coll’analogo fenomeno causato dalla nicotina, non essendovi nessun nesso fra la costituzione delle due basi. Il problema si è risolto nel modo più semplice perchè ripe- tendo le esperienze colle altre amine abbiamo osservato che un fatto analogo, sebbene meno pronunciato, lo produce anche la butilamina normale. Si vede dunque che l’albinismo è un fenomeno tossico che può essere prodotto da diverse sostanze, mantenendo però nei singoli casi le sue speciali caratteristiche. Le esperienze dell’anno scorso a proposito della piridina, piperidina e suoi derivati, facevano apparire che l’idrogenazione esercitasse un’ influenza nel senso di aumentare la tossicità. L'argomento invitava a nuovi studi ed è risultato realmente che in primo luogo la tetraidrochinolina, C,H,,NH, è più velenosa della chinolina, C,47,N, e che inoltre questa 10 relazione viene confermata dalla comparazione dell’acido ftalico, C,H,(CCOH),, col tetra- idroftalico, C,H,(COOH), e del cimolo, C,77,,, col limonene, ChH,;. Questi ultimi, per le catene laterali che contengono, avrebbero dovuto essere forse più dannosi, ma potrebbe darsi che la loro poca solubilità abbia impedito il manifestarsi dell’effetto completo. Non saranno inutili ulteriori esperienze in proposito. L’a-naftilamina, C.,H,NH,, si mostrò più venefica dell’anilina, CH.NH, come era da attendersi in base alle nostre precedenti esperienze cogli indoli e le chinoline. L'effetto dei nuclei condensati merita di essere ulteriormente esaminato per accertare, come nel caso dei derivati idrogenati, la ragione che lo detetermina, non stando questi fatti in relazione colla presenza di catene laterali. La serie delle amine poteva far supporre che la lunghezza delle catene esercitasse un’ influenza sulla tossicità delle sostanze; ma cogli acidi grassi il fatto non potè essere I DIRI confermato forse perchè in questo caso non si tratta di sostanze alcaloidiche, che sono quelle che precipuamente esercitano un’azione venefica sulle piante. Come s'è accennato nell’introduzione, la betaina o trimetilglicocolla, CO0H.CA,N(CH,),0H, avrebbe dovuto essere tossica analogamente alle basi quaternarie; invece, a differenza dei sali di tetrametilammonio, (C7,),N. f, è soltanto lievemente dannosa. Da principio, per spiegare la ragione di questo contegno, abbiamo supposto che la betania fosse contenuta normalmente nei fagioli, ma le prove fatte sull’ estratto di una notevole quantità di piante ci convinsero del contrario. Non potendo invocare una simile spiegazione abbiamo imma- ginato che l’influenza dei metili da noi tante volte riscontrata dipendesse dall’ indole della sostanza fondamentale in questione e che se questa fosse completamente innocua e nor- malmente presente nelle piante, l'introduzione di metili o di radicali acidi potrebbe non determinare un’azione venefica: che in altri termini non fossero i radicali per se stessi dannosi, ma che servissero assai più ad esaltare l’effetto di sostanze più o meno nocive o estranee alle piante. Così, come s'é visto, essendo la glicocolla, COOH.CH.NH,, simil- mente agli altri acidi amidati, innocua, si capirebbe che lo sia pure la betaina. Le ulteriori esperienze fatte in questo senso confermarono la supposizione. Comparando i tre acidi cre- silici o metilsalicilici, 0;H,(C4,)(04)(COOH), coll’acido salicilico, C,H,(0H)(COO0H), ab- biamo trovato che essi sono lievemente tossici perchè quest’ ultimo non è del tutto innocuo ed è estraneo alle piante di fagioli; invece l’ acido dimetilpirroldicarbonico asimmetrico, C,(CH,),(COOH), NH, è innocuo come il pirrolcarbonico, C,H,. COOH.NH, perchè il nucleo pirrolico, come è ben noto, non è estraneo allo piante ma costituisce la parte essenziale della clorofilla. Peraltro la prova più stringente in favore di questa tesi l’abbiamo avuta comparando l’azione del glucosio, 0;47,:0;, con quella del metilglucoside, C,4,,0..0CH,, e del solfato potassico col metilsolfato potassico, K(CZ,).SO,, che sono tutti e quattro innocui. L'azione dei derivati serve dunque a svelare quella dei composti fondamentali e se i primi non producono effetti dannosi, ciò significa che la sostanza fondamentale è del tutto innocua. Inversamente peraltro non si può dir sempre che sostanze le quali non manifestano effetti nocivi si mantengano tali anche nei loro derivati metilati; così la xantina è innocua mal- grado la velenosità della teobromina e della caffeina. La spiegazione di questo fatto appa- rentemente contraddittorio è compresa in quella più generale che noi crediamo possa servire a risolvere il problema. fondamentale dell’ influenza dei radicali nell’azione delle sostanze sulle piante. Si potrebbe ammettere che, come si fa nei laboratori, le piante si servano di radicali alcoolici od acidi per rendere più resistenti all’ossidazione quei composti che con- tengono il gruppo ossidrilico, l’aminico e l’ iminico in quelle sostanze di cui abbisognano e ne viene che permanendo esse così nell'organismo esercitino quell’azione che altrimenti verrebbe a mancare. Per averne la prova sperimentale abbiamo comparato la resistenza all’ossidazione impiegando la poltiglia di spinaci in presenza di ossigeno delle già accen- nate coppie di sostanze note per la loro diversa azione sulle piantine di fagioli. I risultati corrisposero pienamente all’ aspettativa, come dimostrano i numeri riportati nel seguente specchietto : SOSTANZE INTRODOTTE RITROVATE Pirocatechina . DG 0,01 gr. Guaiacolo 2 » 120» Morfina. . , 2 gr. distrutta Colelma, e seo 2 » 1,32-1,40 gr. ‘l’eobromina . . . 2 (U 0,44 gr. Cate N 2 » 1,92 » NTMOPIDA eo - (2 Ge OE Ge COCRIMA: 0 ooo 2 » 1,07 » Le prove tentate per inoculazione nel mais dettero risultati incerti, ma non sconcor- danti coi precedenti, per la troppo rapida ossidazione che ha luogo nelle piante vive e per certe difficoltà sperimentali che richiederanno prove ulteriori. Risulta dunque che realmente nei casi sperimentati, le sostanze più dannose sono quelle che meglio resistono all’ ossida- zione enzimatica nelle piante, ciò che può dirsi in modo abbastanza generale perchè le prove sono state fatte in condizioni diverse e cioè nei fagioli, e nel mais e colle foglie di spinaci ridotte in poltiglia. Il problema della funzione degli alcaloidi nelle piante verrebbe così risolto e risolto per via chimica. Le piante avendo bisogno quali stimoli di certi alcaloidi utilizzerebbero prodotti del loro ricambio, come per esempio la xantina; ma perchè pos- sano resistere all’ ossidazione o ad altri agenti eliminatori li trasformano opportunamente introducendovi radicali alcoolici od acidi. Con ciò peraltro non deve credersi che la que- stione delle catene laterali sia completamente risolta; esse potranno avere anche qualche altro scopo perchè, come sè visto, l'acido butirrico e l’ acido isobutirrico vengono ugual- mente ossidati tanto dalla poltiglia di spinaci che dalle piante viventi di mais. Parimenti deve dirsi ancora oscura l’ influenza dell’ idrogenazione e quella delle sostanze complesse. Come s'è visto l’eserina è velenosissima per i fagioli malgrado sia contenuta in una specie affine, nel Physostigma venenosum. Questo dimostrerebbe che soltanto piante che contengono un dato veleno sarebbero per esso immuni come abbiamo dimostrato a suo tempo per la nicotina nel tabacco. Cogliamo questa occasione per mettere in rilievo che a differenza di altre sostanze più o meno dannose o tossiche, soltanto gli alcaloidi deter- minano fenomeni caratteristici, che come abbiamo esposto nelle nostre precedenti Memorie, consistono nell’apparire sulle foglie di bollosità, di macchie, di verruche e specialmente dell’albinismo in modo che alle volte le pagine fogliari presentano un aspetto ornamentale. Come risulta dalle esperienze surriferite il tannino, a differenza del pirogallolo non determina un’azione venefica sulle diverse specie di piante da noi sperimentate, ciò che E sta in buona armonia con analoghi fatti da noi riscontrati coi glucosidi ed in contrasto con la supposizione del Dott. Bernardini (1). La sua azione, più che tossica, sembra limitarsi a produrre uno sviluppo deficiente in modo che le piante che hanno subìto il trattamento riescono più piccole, ma proporzionate in tutte le loro parti. Questa osserva- zione potrà forse avere un peso per giudicare della funzione che esercita il /tannino nelle piante, ma per ora sarebbe prematuro esprimere delle congetture in proposito. Per ultimo vogliamo mettere in rilievo che, come risulta dalle esperienze sopra de- scritte, anche esaminando una cospicua quantità di piante di fagioli, non abbiamo potuto riscontrare la presenza di quelle basi pirroliniche e pirrolidiniche che il Pietet chiama protoalcaloidi ‘e che secondo lui dovrebbero essere presenti in tutte le piante. Questo risul- tato si accorda colle nostre precedenti esperienze e riteniamo pertanto che la presenza dei così delli protoalcaloidi nol senso voluto da Piclet non possa essere generalizzata. Anche questa volta esprimiamo assai volentieri alla Signorina Dott. Paolina Cico- gnari i nostri più vivi ringraziamenti per aver voluto con grande zelo prestarsi il suo aiuto intelligente ed accurato. (1) Rendiconti della Società chimica italiana, Vol. V, pag. 278 (1913). Figura l Figura 3 Figura 2 sirnyiiieatiza ada n ; “) ANCORA DEL METODO INGUINALE eee dicale dell'ernia ‘crusale - Pia E -=-— NOTA DEI. Prof. Comm. GIUSEPPE RUGGI letta nella Sessione del 1 Novembre 1920. (CON UNA FIGURA) Signori, In un libro a stampa e nella scuola, parlando ai giovani miei allievi dell’ ernia crurale e sua cura, ho fatto conoscere che, se pure nella maggioranza dei casi è facile curare l’ ernia crurale attraverso la fossa ovale, esistono non pertanto forme speciali nelle 4 quali ciò non è possibile; ed altre in cui la cura stessa, eseguita poco razionalmente, non può dare un risultato buono e duraturo. Ora, colla presente nota tale asserto desidero ripetere, servendomi delle pubblicazioni di egregi colleghi che di questo argomento più specialmente s’ interessarono. Fu nel /892 che ideai il metodo di cura radicale dell’ ernia crurale attraverso del canale inguinale, e che consta di due processi (1). Naturalmente questa pubblicazione molto originale, interessò tutto il mondo chirurgico, dato ancora il momento nel quale (dopo la classica pubblicazione del Bassini intorno alla cura radicale dell’ ernia inguinale), eva generale la ricerca di un metodo razionale per la cura radicale anche dell’ ernia crurale. — Le approvazioni al mio metodo preval- sero; e, fatta eccezione di quelli che erano inventori di uno speciale metodo o processo coi rispettivi allievi, tutti gli altri chirurghi principali d’Italia ed alcuni esteri, fra i quali il Tuffier, encomiarono od accettarono senz’ altro il mio metodo. — Ma non è di questo che desidero ora interessarmi, voglio soltanto, come ho detto più sopra, riferire alcuni casi, pubblicati da colleghi, in epoche diverse, i quali stanno a comprovare ancora il mio asserto; e cioè che, nel pratico esercizio, si danno casi nei quali solo col mio metodo si può riparare a speciali evenienze patologiche. (1) Bull, Scienze Mediche di Bologna 1892. Nell’ anno successivo poi diedi alle stampe uno studio completo, avente per titolo: Del metodo inguinale nella cura radicale dell’ ernia crurale (N. Za- nichelli Bologna 1893). Serie VII. Tomo VIII. 1920-1921. 10 A ge I.° Era il 1900 allorchè, essendo alla Direzione della Clinica chirurgica di Modena, il Dott. Natale Zoia mi rendeva noto un suo speciale caso, già pubblicato fino dal 4878 (1), accompagnato da un pezzo anatomico che ora presento. Trascrivo senz’ altro il caso del Zoia come egli lo descrisse in un suo lavoro inse- rito negli Annali universali di Medicina e Chirurgia di Milano. Zoli G. di Magno di Cugino sui 50 anni ed ernioso da tempo. da sé colla mano si rimetteva facilmente un tumore alla regione crurale destra senza mai curarsi di applicare un cinto: nel settembre 1859 vide quel suo tumore farsi più grosso dell’ ordinario e non riuscendo a ridurlo mi mandava a chiamare. Accertatomi dello stransolamento di un’ ernia crurale destra presentante un tumore del volume di una noce più elastico che fluttuante lievemente rivolto in alto misi in opera il taxis, e senza fare molta pressione mi riusci di sorpresa |’ inaspettato e pronto sfuggirmi sottomano della tumidezza e di ogni traccia della preesistente ernia. Non mi accorsi di gorgoglio. Dopo pochi minuti l’ infermo si senti sollevato: ma trascorse alcune ore i sintomi di strozzamento si resero di nuovo palesi, e dovetti convincermi di avere fatta una riduzione completa in massa, stante che l’ anello crurale era ampio ed accessibile al dito esploratore. il quale sentiva dietro di esso un tumore tondeggiante e dolente. Tentato inutilmente ogni mezzo per ottenere che venisse fuori. proposi l’ operazione. Feci intervenire il collega dottor Acheni, al quale, esposto il caso, dissi di volere intraprendere il taglio dapprima esploratore poi come dell’ erniotomia ap- pena avessi riconosciuto ed estratto quel tumore. Ma a nulla valsero le parole: 1° ammalato si rifiutò e dopo 36 ore moriva. All’ autopsia si osservò nel sito ove prima della riduzione esisteva l’ ernia sotto la plica fal- ciforme del fascialata, 1’ esistenza di una nicchia a pareti cellulari e vuote, dell’ ampiezza corri spondente al tumore retrospinto. Aperta questa cavità si notò che essa aveva pareti liscie e si prolungava approfondendosi tra la vena ileo-femorale ed il legamento di Gimbernat, nel canale erurale lungo 2 centimetri circa e largo in modo da lasciar passare il pollice. Imsinuandovi un dito si arrivava al tumore ernioso, inclinato sul di dietro della branca orizzontale del pube e sulla parete posteriore del legamento ora nominato. Nel sito ove erasi collocata |’ ernia notavasi uno spostamento del peritoneo parietale per uno spazio superiore al volume del tumore medesimo, per cui mentre all’ interno la detta sierosa distaccata dalle pareti ventrali, stava immediatamente alla parte convessa del tumore, all’esterno invece era sollevata posteriormente come stirata dall’ estremo interno del tumore stesso conti- nuandosi col sacco erniario. Un cingolo strozzante al collo di questo stringeva una piccola ansa dell’ intestino gracile; una ecchimosi dell’ ansa strozzata le comunicava un intenso color di vino e consistenti ne erano le tonache; quindi liberata quest’ ansa sarebbe stata suscettibile di funzionare. Con una pinzetta potei afferrare il tumore e con facilità stirarlo per il canale crurale al- l’infuori. Per il che l’ operazione non avrebbe trovato ostacolo od imbarazzo alcuno. Mi riusci facile poi, attesa la lassezza del tessuto cellulare che circondava quel tumore, il ripetere a più riprese il meccanismo che aveva permessa la riduzione in massa. Oltre questa descrizione così esatta e dettagliata, il Dottor Zoia preparò il pezzo anatomico che poi mi offrì, e che ora è conservato nel Gabinetto della mia Casa di cura in Bologna. (1) N. Zoia — Studi e riflessioni intorno all’ ernia strozzata e ridotia in massa — Annali uni- versali di Medicina e Chirurgia. Ottobre 1878, Milano. TO e Il Dott. Zoia nella lettera d’ accompagno del pezzo patologico, oltre a parole molto gentili e lusinghiere al mio indirizzo, osserva che se fosse stato in precedenza ideato il mio metodo, il suo malato si sarebbe potuto con sicurezza salvare. II.° Un’ altro caso, pure interessantissimo, appartiene all’ egregio Prof. Schiassi, da lui ampiamente descritto in una pubblicazione intitolata: Note di Clinica e di medicina operativa (1). 1. Art. epigastrica — 2. Peritoneo e fascia trasversalis spostate — 3. Ernia cerurale ridotta in massa — 4. Nervo erurale — 5. Arteria crurale destra — 6. Aorta — 7. Cotone nel moncone dell’ intestino — 8. Vena cava ascendente -— 9. Arteria otturatoria. ‘lrattavasi di ernia crurale strozzata: l’ operatore si accinse ad eseguire il metodo Salzer-Novaro. Aperta la fossa dello Scarpa ed isolato il tumore, aprì il sacco il cui con- tenuto era dato da un entero-epiplocele. La metà interna del sacco era occupata dal- l’omento, il quale tenacemente aderiva al fondo del sacco stesso, ed un’ ansa di intestino tenue congesto di colorito rosso-bluastro vi era compressa a lato. (1) Bologna, Tipografia Gamberini e Parmeggiani, 1899. ZI Resecato l’ omento, praticato Jo sbrigliamento, intestino ed omento varcarono con ab- bastanza facilità |’ anello crurale trascinando però con loro una piccola porzione di sacco. L’avveduto chirurgo si accorse che la riduzione, benchè sembrasse, non era avvenuta regolarmente giacchè |’ ernia scivolando fra il connettivo grassoso della regione si era convertita in properitoneale. Ricorse allora senz’ altro al metodo inguinale; potè così como- damente dominare il tumore erniario e vedere che le aderenze fra omento ed intestino colla superficie interna della sierosa parietale continuavano anche al di là del colletto del sacco e si opponevano alla libera, completa riduzione degli organi fuoriusciti: | aito operatorio fu condotto a termine coll’ applicazione, al dire dello Schiassi, del metodo del Ruggi. Lo Schiassi infine trae da questo caso le seguenti conclusioni : I. Le aderenze non di rado riscontrabili fra visceri erniati e parete interna della superficie peritoneale specialmente negli epiploceli possono occasionare la formazione di ernie properitoneali. II. Non è difficile che queste siano create anche per opera di un taxis cruento e che | in- cidente sfugga all’ attenzione dell’ operatore. IIT. Il metodo del Rugsi offre la sicurezza di avvertire sempre e di evitare quindi la gra- vissima complicazione. In questi due casi che ho qui riportato trattasi adunque di ernia properitoneale : quella forma che va anche sotto il nome del Kroenlein, perchè fu da questo eminente Chirurgo con ogni diligenza studiata ed accuratamente descritta (1). | Ai casi del Zoia e dello Schiassi seguirono altre pubblicazioni pure importanti per lo studio dell’ argomento che tanto m?’ interessa. III. Dopo una lunga e dettagliata storia relativa ad un ernia crurale strozzata dalla quale era residuato una fistola stercoracea crurale, il Dott. F. Calzolari nel 1907 parlava dei vantaggi ottenuti col mio metodo dal suo maestro Prof. E. Casati di Ferrara. La storia del caso clinico è descritta e commentata dal predetto Dott. Calzolari, allora assistente nell’ Arcispedale di S. Anna in Ferrara, in una nota a stampa avente per titolo: Di un’ indicazione assoluta per |’ operazione del Ruggi nell’ ernia crurale (2). All'esame cruento della regione crurale fu trovato che |’ ernia erurale strozzata che aveva dato luogo alla fistola stercoracea era dala da una appendice vermiforme, senza sacco. Ora le condizioni dell’ appendice vermiforme erano tali da richiederne |’ asportazione. Ma, dice il Calzolari, come applicare tale intervento, quando l’ impianto di quell’ organo era strozzato dall’ anello crurale? Quali erano le condizioni della porzione più bassa del cieco, da cui l’ appendice si origina? Poichè conveniva ammettere che anche il cieco fosse stato leso, non essendo sufficientemente spiegati, dall’ impegno nell’ anello erurale della sola appendice, il quadro imponente dei fenomeni presentati dalla paziente e le dimensioni pri- (1) Wheitere Mittheilungen, uber die Hernia inguino-properitonealis. Kroenlein. Arch. fire Klin, Chir. 1880, pag. 548. (2) Tip. Bresciani e Succ. Ferrara 1907. Ea seno mitive del tumore erniario. Era perciò necessario avere sotto mano |’ intestino cieco per potere sopra di esso intervenire. A tale scopo nessuno dei tanti metodi consigliati per la via crurale conveniva; quand’ anche si fosse ampiamente aperto l’ anello crurale sarebbe stato necessario, per operare liberamente sull’ intestino, esercitare delle manovre e delle trazioni che sarebbero riuscite certamente pericolose. Era pure da eliminarsi la via addominale, la quale, se appariva più facile per le manualità operatorie, presentava |’ inconveniente di un intervento di eccezionale gravità, tanto più che non si sarebbe potuto avere l’ assoluta certezza della più scrupolosa asepsi. Non rimaneva che il metodo inguinale, al quale si decise di attenersi, ritenendolo esclusi- vamente indicato, come quello che presentava tutti i vantaggi degli altri, senza averne el’ inconvenienti. Approfittando dell’ incisione cutanea già -pralicata e che era sufficiente, si incise l’aponeurosi del grande obliquo parallelamente al legamento di Fallopio, e spostando la parete inferiore del canale inguinale si riescì ad afferrare |’ intestino cieco che con tutta facilità fu messo a nudo, a traverso l’ apertura praticata, insieme all’ appendice che era stata preventivamente liberata dall’ anello erurale. Si potè allora constatare che I ampolla cecale era nella sua porzione inferiore di colorito rosso-brunastro, afflosciata e che tale si manteneva anche dopo l’ applicazione di pezzuole calde; sì asportò quindi insieme col- l’appendice, Si provvide poi alla sutura intestinale a punti staccati con fili di seta a di- versi strati siero-muscolari e sierosi, poi si affondò il moncone del cieco. Si riunì poscia con sutura il legamento del Cooper e quello del Fallopio ottenendo in questo modo | oc- clusione del canale crurale. La parete posteriore del canale inguinale venne ricostruita come nel processo Bassini; così per l’ aponeurosi del grande obliquo; infine si provvide alla sutura della cute colle agraffe metalliche del Michel. Il decorso post-operatorio fu normale. IV°. Anche il caso pubblicato dal Dott. A. Nardi di Bologna nel 1909 merita il massimo interesse. Il titolo della memoria del Nardi è il seguente: Ernia crurale destra strozzata con ernia crurale inguinale di Littré pure strozzata. Il caso descritto dal Nardi, che io ripeto, gli occorse osservare allorchè si trovava a S. Pietro in Casale in servizio chi- rurgico di quell’ Ospedale in qualità di Direttore. Il Nardi aveva felicemente operata un’ ernia crurale strozzata e scrive nell’ accennata sua memoria : (1) Il decorso successivo all’ atto operatorio procede normalmente : |’ ammalata si risveglia dalla narcosi dichiarando di sentirsi gia meglio della oppressione addominale. Poche ore appresso si ha una abbondante uscita di gas dall’ intestino e più tardi una scarica alvina di materiali poltacei seguita in appresso da altre scariche di materiali liquidi. Nel secondo giorno dall’ atto operativo la malata, pure accusando qualche insistente dolorabilità del (1) Comunicazione fatta alla Società Medico-Chirurgica di Bologna nell’ adunanza scientifica del 3 Dicembre 1909. O i ventre, dice di sentirsi molto sollevata ; il polso si è fatto più pieno e meno frequente; l’aspetto del volto è soddisfacente. La mattina però della terza giornata la donna dice di sentirsi tendenza alla nausea e più tardi, senza causa apprezzabile, viene presa da sin- ghiozzo da prima raro e poi progressivamente più insistente fino a farsi quasi continuo. Nella giornata stessa però la donna ebbe ancora una discreta scarica alvina ed emissioni di gas dal retto. Ciò non ostante lo stato generale si va facendo più torpido, si riaffaccia il volto ippocratico, il polso si fa piccolo e frequente e nella notte in uno stato di pro- gressiva depressione |’ ammalata muore. L'esito inatteso e repentino meritava una qualche plausibile spiegazione, non potendo soddisfare |’ ipotesi di un processo peritoneale diffuso del quale, oltrecchè non potevo sospettare per la cura più attenta dell’ asepsi operativa, mancarono i sintomi più salienti come la iperestesia dolorifica di tutio 1’ ambito addominale e la paresi motoria dell’ in- testino che, come dissi, si era svuotato abbastanza regolarmente il giorno stesso della morte. Non mi pareva neanche poter sospettare di un processo setlico per diffusione di materiali fecali caduti nella cavità peritoneale per necrosi cangrenosa dell’ ansa strozzata e ridolta, giacchè, come dissi, all’ atto operatorio l’ ansa non mostrava le caratterisiiche del tessuto intestinale già in preda a processo gangrenoso: d° altra parte contro tale sospetto poteva pure sempre deporre la scarica regolare dell’ intestino effettuatasi poche ore prima della morte. Ottenni per ciò dalla famiglia di poter esaminare l'addome del cadavere e_l° esame diede il seguente reperto : Aperta la cavità con un’ incisione longitudinale di ampiezza sufficiente lungo il margine esterno del retto addominale destro, procedo a sollevare un ansa del tenue più prossima alla sede della lesione. Da questa svolgo gradualmente la massa delle anse stesse fino a che rag- giungo una di queste che mostra ancora i segni dello strozzamento subito per una specie di de- pressione a solco che la circonda in due punti distanti fra loro circa 8 centimetri, nelle faccie opposte alla inserzione mesenterica. Il tratto di parete intestinale interposto fra queste due lievi depressioni sì mostra ancora discretamente iperemico con qualche chiazza emorragica in via di regressione. In complesso l’ aspetto della parte è quello di tessuto che subii fatti di congestione passiva in via di risoluzione per ripristinato circolo. A questo punto mentre con lieve trazione cerco ancora di esternare il tratto di intestino che fu strozzato, questo non cede perchè appare tenuto fisso alla parete addominale. Per rendere allora evidente la causa di tale aderenza, ag- giungo alla prima incisione longitudinale sull’ addome una seconda trasversale verso destra e l’ esterno normalmente alla prima si da sollevare un lembo triangolare della parete colla base rivolta verso gli orifizi interni inguinale e crurale. Con tale apertura si riesce direttamente ad osservare che subito appresso al tratto di intestino già strozzato, l’ansa intestinale è aderente con parte della sua parente all’ orifizio interno inguinale cui é fissata abbastanza strettamente come appare praticando una discreta trazione. Allora per ciò metto a nudo dall’ esterno il canale inguinale come per praticare la classica erniotomia inguinale, e con tal mezzo appare. dopo I° a- pertura di un minuscolo sacco peritoneale, una zona bluastra rotondeggiante di tessuto intestinale che fa ernia attraverso l’ orificio interno inguinale. Fatta poi una conveniente pressione sulla porzione di ansa erniata, questa rientra nella cavità dell’ addome ed allora riesce ben facile esternare tutta l’ ansa interessata, la quale cosi mostra circa 5 centimetri sotto il limite inferiore dell’ ansa ridotta dallo strozzamento crurale una chiazza parietale di colore bluastro cianotico. di aspetto rotondeggiante, del diametro di una moneta da 2 centesimi. Tale chiazza turgida per LIZA edema corrisponde alla parte di parete intestinale pizzicata e strozzata entro 1’ anello inguinale interno. Manca qualsiasi segno di flogosi peritoneale diffusa, nè si riscontrano altre lesioni negli or- gani addominali. La diagnosi necroscopica per ciò è di strozzamento erniario del tenue in via di re- gressione - ernia inguinale di Littré destra pure strozzata. Dato quindi un tale reperto necroscopico, sembra non si possa attribuire la morte ad altra causa che allo scok nervoso prodotto in un soggetto non molto resistente per ec- cesso di stimolo dolorifico da protratta lesione dell’ intestino. Il caso presente nella cui descrizione mi sono forse trattenuto con minuti dettagli che non credo però inutili, ha a mio avviso una discreta importanza per la sua rarità in quanto che, se sono noti nella letteratura molti esempi di contemporanea presenza di diverse varietà di ernie nello stesso soggetto, non fu però riscontrato che di rado la contemporanea esistenza di strozzamento di due varietà di ernie coesistenti nello stesso individuo. Dirò poi anche che, almeno per quanto mi consta, non è stata finora resa pub- blica notizia di un caso analogo a quello descritto testè, nel quale cioè lo strozzamento di un’ ernia crurale fosse accompagnato dallo strozzamento omologo di un’ ernia parietale di Littré inguinale. Non insisto poi quì nel dimostrare come la sintomatologia in vita trovi. pieno ap- poggio nel reperto necroscopico, essendo ben chiaro come solo lo strozzamento dell’ ernia littrica poteva consentire quell’ apparente benessere di cui la donna ebbe per qualche tempo a godere dopo la riduzione cruenta dell’ ernia crurale ed ancora quelle abbondanti scariche alvine che, pel loro mantenersi fino all’ ultimo giorno di vita, deviarono il criterio dell’ operatore che forse con un opportuno ulteriore intervento (perchè non dirlo ?) avrebbe potuto evitare la catastrofe. Ed anche per questa considerazione può tornare non inutile questa mia modesta nota se varrà ad impedire che altro collega non sia tratto come me nell’ inganno da una erronea lusinga. Ma un ultima considerazione mi pare molto opportuna ad occasione di questo caso, per quanto riflette il trattamento terapeutico dell’ ernia crurale. Giacchè infatti niuna ragione vieta a noi di credere che con ogni probabilità i due strozzamenti sopra accennati coesistessero fino dal primo apparire dei fenomeni di occlusione dell’ intestino, anzi ce ne potrebbe accertare il fatto che la donna, se pure ebbe un qualche miglioramento del tutto passeggero dopo la operazione subìta, questo più che ad una piena guarigione dello strozzamento erniario poteva attribuirsi alla liberazione dell’ ansa totalmente occlusa; è ragionevole dedurne che al caso si sarebbe prestata ottimamente per la totale e radicale cura dell’ infermità la scelta di un processo operatorio per la cura dell’ ernia crurale che forma vanto della scuola bolognese: voglio alludere alla erniotomia crurale col metodo Ruggi. È noto infatti che il processo consiste principalmente nella trasformazione del pedun- colo peritoneale crurale in inguinale, ciò che il Ruggi ottiene coll’ apertura del canale inguinale e lo spostamento in esso del peduncolo peritoneale cruraie. È evidente che con Lila e tale pratica si sarebbe; per ragione della speciale tecnica, evitato 1° errore di lasciare accanto ad un ernia crurale ridotta uno strozzamento di ernia Jli{trica inguinale, con quanto vantaggio per l’ inferma non è il caso di dimostrare. Se pertanto il metodo di riduzione proposto dal Ruggi per molte e ben altre ragioni può sempre essere vantaggioso nella cura dell’ ernia erurale e per la profilassi contro le eventuali e non rare recidive, nel caso mio speciale, oltre questi peculiari vantaggi, avrebbe senza dubbio evitato quell’ esito che con altro metodo terapeutico, ma non per colpa di quello, io ebbi a deplorare. v°., Nella seduta del 2 Aprile 1913 della Societe de Chirurgie di Parigi il Dottore Le Clerc (di Saint-Lò) riferisce intorno ad un caso di ernia properitoneale crurale. Operaia una tale, per fenomeni di strangolamento fu trovato dell’ epiploon ed un’ ansa intestinale grossa come un ovo di piccione, non aderente, ma assai stretta dal legamento del Gimbernat. Morta 1 inferma, fu trovato che un’ ansa intestinale, diversa dalla prima era penetrata in un diverticolo peritoneale posto al didietro ed alla parte superiore del legamento di Gimbernat dove si era strozzata. Il dito introdotto per |’ anello crurale, attraverso la fossa dello Scarpa lasciava |’ ansa strozzata al disopra ed al didietro di questo. In tale caso non si trattava molto probabilmente di un’ ernia ridotta strozzata, ma di una vera ernia properitoneale, che però il chirurgo, ad ogni modo, avrebbe potuto vedere seguendo il mio insegnamento: e curare razionalmente con successo. Le conseguenze che si possono {trarre dai casì clinici riportati sono evidenti. I fatti stessi sono la riprova di quanto io asseriva 28 anni fa; e cioè che, di fronte a speciali casi, i processi del mio metodo, sono i soli che possano servire a sanare l’ ammalato. Ri- tengo con questo d’avere adempiuto ad un dovere a vantaggio della scienza e dell’ u- manità. LE GRANDI DIGITE NELLE ZONE SISMICHE MEMORIA Prof. UMBERTO PUPPINI letta nella Sessione del 23 Marzo 1921. (con l FIGURA) 1. - Nelle zone soggette a terremoti si conferisce alle ordinarie costruzioni una maggiore resistenza di fronte a moti del suolo verticali o orizzontali, seguendo il criterio empirico di valutare 1’ effetto del moto sussultorio con una variazione virtuale del peso delle strutture e dei sopraccarichi nella misura del cinquanta per cento e l° effetto del moto ondulatorio con forze orizzontali proporzionali al peso dei singoli elementi della struttura e dei carichi su esso gravanti. Il coetficiente di proporzionalità fra azioni orizzontali e peso di ogni elemento, o coefficiente sismico, è assunto come una quota parte del rapporto fra la massima accelerazione del moto sismico e 1 ac- celerazione di gravità. 2. - Terremoti violenti, disastrosi hanno colpito in questi ultimi anni, in varie zone dell’ Appennino ligure, emiliano e toscano, anche località nelle quali o sono già costruiti o si stanno costruendo impianti idraulici per produzione di energie o per irrigazione. Tra i quali impianti alcuni presentano come elemento fondamentale idrau- licamente e costruttivamente una grande diga per formazione di lago artificiale. La diga di sbarramento dovrà essere considerata anche sotto il punto di vista delle azioni sismiche cui essa possa andare soggetta? Insieme cogli sforzi interni provenienti dal proprio peso, dalla pressione dell’ acqua e di eventuali terrapieni, dalle sottopressioni, dalle variazioni di temperatura e dalla spinta dei ghiacci, sì dovranno valutare anche gli sforzi provenienti da scuotimenti della terra ? Intendo di porre tale quistione esaminando le conseguenze cui si giunge appli- cando norme analoghe, se non identiche, a quelle imposte per i comuni edifici. 2. - Ricordo che, come dimostrai in una memoria pubblicata nel 1916 sul Moni- tore tecnico, il criterio adottato nelle norme sismiche con riferimento alle scosse sus- sultorie corrisponde alla considerazione di accelerazioni sismiche di un valore, m. 2,50 al secondo, pari a quello che nelle discussioni della Commissione per le norme rela- tive alle zone colpite dal terremoto del 1908 fu ritenuto come il massimo. Questo Serie VII. Tomo VIII. 1920-1921. ll egg lo valore non fu assunto »dalla Commissione suddetta anche a base dello studio delle azioni sismiche ondulatorie, perchè fu convenuto di « ammettere, per quanto riguarda « le azioni sismiche orizzontali, in omaggio alle esigenze economiche e sociali, un « equo temperamento a ciò che vi sarebbe di esagerato, se, rispetto a fenomeni che « si ripetono a periodi quasi secolari, si richiedesse il medesimo grado di sicu- < rezza che si esige rispetto alle azioni di carattere permanente »; sicchè il valore 1 SEE TI OT subì riduzioni a 9 Ma se tali riduzioni sono ragionevoli per costruzioni ordinarie di limitata altezza, forse non parrebbero altrettanto prudenti per costruzioni spesso di notevole altezza, sempre di grande delicatezza, come le dighe, per le quali nei calcoli che seguono si i : 1 a intenderà appunto per 4 il valore lio salvo a doverlo sostituire con valore anche maggiore, se la geodinamica ci indichi come possibili accelerazioni sismiche più grandi di m. 2,50 al secondo. 3. - Ciò premesso, si consideri una diga a gravità la cui sezione trasversale sia prossima a uno schematico tipo triangolare. La configurazione usuale di paramento a monte verticale o quasi non è compa- tibile colla considerazione delle forze orizzontali che sì sostituiscono alla azione sismica. ale condizione sarebbe sì ammissibile a serbatoio pieno, ma non a serbatoio vuoto, nel quale caso con forze orizzontali applicate alla massa della diga e dirette verso l’ interno del serbatoio si avrebbero inevitabilmente tensioni nel paramento a valle. Dovranno pertanto ambedue i paramenti a monte e a valle della diga essere incli- nati rispetto alla verticale. Considerando poi che le forze orizzontali da sostituirsi alle azioni sismiche ondulatorie debbono pensarsi in ambedue i sensi nella direzione nor- male all’ andamento planimetrico della diga, si vede bene che a lago vuoto il profilo che si presenta come il più opportuno è quello dei due paramenti ugualmente inclinati. Vediamo quale spessore s ne consegue per la diga a una generica profondità %, assumendo come condizione cui il profilo della sezione deve soddisfare solamente quella del non aversi tensioni in sezioni orizzontali presso il paramento a monte per serbatoio pieno fino al livello di massima ritenuta, nè tensioni in ogni punto del paramento a valle e a monte a serbatoio vuoto. Indichiamo con &, &' il peso specifico dell’ acqua e il peso specifico della mura- tura, e scriviamo la condizione che a serbatoio vuoto non si abbiano tensioni in giunti orizzontali presso il paramento a monte per l’ azione di forze orizzontali proporzionali ai pesi secondo il rapporto 4% aventi senso da monte verso valle nè sì abbiano ten- sioni presso il paramento a valle per analoghe forze ma dirette da valle verso monte, associandosi in ambo i casi una virtuale riduzione del peso della muratura da uno a a. L° equazione che esprime siffatta condizione è evidentemente ; i 1) AD dalla quale : ] 1 MERA] Supponendo il paramento a monte meno inclinato rispetto alla verticale di quello a valle e le forze orizzontali dirette verso monte, lo spessore occorrente per non aver tensioni presso il paramento a valle risulta: maggiore dello spessore indicato dalle 2), 3). Se, ad esempio, si suppone che la proiezione orizzontale del paramento a monte Ios 25 È su e quella del paramento a valle 3° allora si trova, analogamente al caso pre- cedente : 3u 4) spe a e.con u—= 0,25, AEON 5) = 5070 4. - Accertato così che, limitandosi alla considerazione di serbatorio vuoto, la sezione più opportuna sia quella con paramenti a monie e a valle ugualmente incli- nati e con spessore uguale all’ altezza, resta a vedersi se tale profilo sia adatto anche in condizione di serbatoio pieno. Scrivendo per questo caso l’ equazione corrispondente alla equazione 1) del caso sopra ; 4u 4n SM Spuditio-Mefmporendo pi — === .sothene: Ra + dn 2a + 3n 2 40 6) (PARA I D) 2 Io gg ee 4 e con u= 0,25, a= 0,50, Heil 7) SIMS Come si vede, lo spessore. s = sufficiente a lago vuoto non lo è più a lago pieno ; esso deve essere aumentato di circa |’ undici per cento. Analoga ricerca per il caso di paramento a monte avente per proiezione oriz- s SS : 25 zontale 3 e paramento a valle avente per proiezione orizzontale DI porta, colle po- sizioni so Se al risultato IVA! re == === r1S O Reso gg ) + Vp +4 8) s __ pari 17, 3 2 e con u= 0,25, a=50: 9) S=I7Ul7 5. - Si vede dunque che sensibilmente lo spessore occorrente rimane il medesimo a lago pieno per inclinazione del paramento a monte uguale a quella del paramento a valle come per scarpa dal paramento a monte metà di quelle a valle, mentre invece nel primo caso a lago vuoto si richiede uno spessore, s = %, notevolmente minore che nel secondo caso, s = 1,50 A. In definitiva, non occorrendo più minuta indagine, dato il grado di approssima- zione in cui si svolge questo studio inteso a porre più che a risolvere una qui- stione, sì può dire ‘che la sezione di diga a gravità conveniente a zone sismiche con IE i a= 0,50, u= 0,25, Halo è quella di una diga coì paramenti a monte e a valle SARA 11 ugualmente inclinati e con spessore alla base O dell’ altezza. TEGO [NA PARTICOLARE MANIERSTAZIONE DI SCINTILLA CONTINUA = NOTA Prof. LAVORO AMADUZZI letta nella Sessione del 13 Febbraio 1921. (cOn 8 FIGURE) In una Memoria (1) da me pubblicata nello scorso anno, e che presentai poi in copia a questa Accademia, riferii alcune mie osservazioni fatte con conveniente dispo- sitivo sulle scintille cosidette continue e sulle scintille cosidette intermittenti, ripren- dendo per tal modo una antica ricerca del Righi. Collo studio sulla scintilla con- tinua mi venne dato di osservare una manifestazione particolare, della quale credo opportuno richiamare i caratteri anche perchè ad essa si riferiscono ulteriori mie osservazioni; dichiarando peraltro che per il dispositivo sperimentale e per le locu- zioni usate intendo richiamarmi per brevità alla Memoria citata. Voglio solo avvertire che la denominazione di cortine per certune scintille non implica da parte mia |’ o- pinione che ciascune di esse corrisponda in realtà ad un processo non interrotto. Ho inteso solo di far uso di un termine già adottato da chi prima di me, e con compe- tenza, si occupò dell’ argomento, e poggiò tale adozione sulla apparenza allo specchio girante. Sarei pronto anzi a cambiarlo, anche perchè, ricerche delle quali parlerò più am- piamente in altra mia Nota e nelle quali ho fatto intervenire un telefono nel circuito di scarica, mi fanno pensare che si tratti in generale di un processo intermittente di frequenza varia al variare di vari elementi caratteristici del circuito e dell’ ambiente. Se si osserva con qualche attenzione una delle scintille ottenute con una resistenza nel circuito nè troppo piccola nè troppo grande, quale occorre per ottenere le scin- tille del 3° tipo del Righi, si nota, come già osservò il Righi per un caso parti- colare, che la scintilla stessa è costituita da una parte estesa di color rosso (che non sembra affatto formata da un fascio di scintille riunite come nel caso citato dal Righi, ma un tutto a sè) prospiciente all’ elettrodo positivo, e da una parte di piccola estensione, colorata in violetto, prospiciente all’ elettrodo. negativo. (1) Osservazioni e ricerche sperimentali sulie scintille continue. Bologna, Zanichelli 1920. Serie VII. Tomo VIII. 1920-1921. 12 — 90 — Colla disposizione sperimentale da me usata e colla notevole capacità adoperata, il fatto è ben manifesto e costante, non solo, ma le parti terminali delle due striscie ‘luminose non sono frastagliate come appariscono dalla figura stessa che rappresenta le osservazioni del Righi, bensì a contorno più netto e deciso. A parità di tutti gli allri elementi, col crescere della capacità aumenta 1° aureola e diminuisce la luminosità della pilota. Non ho notato, col variare da 4 a 12 a 24 il numero delle bottiglie, variazioni sensibili nel colore dell’ aureola. A parità di tutte le altre condizioni, le varie parti, collo spazio oscuro, appariscono tanto meglio quanto più piccola è la distanza esplosiva, purchè non sia troppo piccola. Anche dalla fotografia riprodotta nella fig. 1 apparisce chiara la interruzione fra le due parti colorate in rosso e in violetto rispettivamente. Essa si riferisce alla scarica quale si manifesta fra due sfere nelle condizioni sperimentali colle quali osser- vavo. Questa scarica nella regione sua più ‘appariscente ha andamento curvo che parte in corrispondenza della regione mediana dell’ elettrodo negativo per raggiungere attra- verso a un flesso 1’ elettrodo positivo in posizione più elevata della mediana. Per evitare il fenomeno dell’ incurvamento dell’ aureola quale apparisce dalla fotografia riprodotia, usai dapprima, quale elettrodo positivo, di una punta smus- sata, e poi decisamente di una punta conica. Diffatti pensai che con un elettrodo di questa forma, il sollevamento delle scintille corrisponderebbe ad un aumento di distanza esplosiva troppo forte, e quindi la scarica preferirà | andamento rettilineo. Giusto o no il precedente ragionamento, sta di fatto che il risultato della esperienza è stato conforme alla previsione. Con elettrodo positivo in forma di punta smussa o conica ottenni, oltre ad un allimento orizzontale della scarica, una più manifesta esplicazione di quella inter- ruzione fra parte allungata gialla o rossa positiva, e parte violacea negativa. Dirò più esplicitamente che risulta evidentissima una colonna gialla (con piccola resistenza) o rosea (con resistenza maggiore) dalla parte dell’ elettrodo positivo, seguita da una regione oscura e da un’ appendice violacea del conduttore negativo. Confrontando tale scintilla con quella che in condizioni analoghe si ottiene fra conduttori sferici, apparisce chiaro come quest’ ultima corrisponda alla prima, salvo un prolungamento della parte violacea negativa, che rende l° insieme un tutto confuso, con prevalenza, per 1° intensità luminosa, dell’ una parte o dell’ altra, a seconda del valore della resistenza inclusa nel circuito. Vi è però una differenza che merita di essere considerata. Colle sfere, la massa luminosa che e collegata al conduttore posi- tivo, va decrescendo di grossezza dalla superficie dell’ elettrodo alla regione oscura, come nel caso ricordato della osservazione del Righi (salvo le differenze già indi- cate). Colla punta e colla sfera, la regione luminosa ha grossezza, o sensibilmente costante, ovvero crescente dalla superficie dell’ elettrodo alla regione oscura. Il fenomeno acquista un tale aspetto da far pensare che si sia di fronte ad una scarica in gas rarefatto con colonna positiva, spazio del Faraday e luce negativa. Già ebbi a dire (I. c.) che un fatto di polarità analogo ad uno descritto dal Righi, PIRO ma non a questo identico, sì manifesta nell’ uso di uno spinterometro dissimetrico con punta e sfera. Orbene, a parte il fatto già preveduto, che la manifestazione della scarica come unica scintilla e colle varie regioni di queste già descritte, si ottiene dando carica positiva alia punta e negativa alla sfera; altro fenomeno di polarità si manifesta colla collocazione opportuna della resistenza. Se questa si mette dalla parte del conduttore positivo la scarica assume un carattere più raccolto e deciso. Basta esaminare le figure 2 a 5 riproducennti scariche ottenute colle condizioni più sotto specificate per ciascuna di esse, al fine di concludere che per la pura mani- festazione del fenomeno descritto e studiato conviene che la punta sia positiva e la sfera negativa e inoltre che la resistenza sia dalla parte dell’ elettrodo positivo. Le condizioni in cui si sperimentò corrispondentemente ai varii aspetti rappresentati dalle figure, riproduzioni di fotografie, sono i seguenti : fig. 2 punta negativa, resistenza della parte del conduttore positivo fim. 3» negativa » » » negativo fig. 4» positiva » » » negativo fig. 5» positiva » » » positivo Dalle fotografie 2 a 5 ultimamente citate, sembra anche risultare, che, se la forma data all’ elettrodo positivo per evitare il fatto dell’ incurvamento della scarica, porta ad evitarlo completamente quando la resistenza è dalla parte dello elettrodo positivo, non consente di evitarlo completamente quando la resistenza sia dalla parte dell’ elettrodo negativo : il che, nella supposta causa dell’ incurvamento potrebbe signi- PEER O 2 NESS ficare che la pilota sia più calda quando la resistenza si trova dalla parte dell’ elet- trodo negativo di quando essa si trovi dalla parte dell’ elettrodo positivo. Fissa la carica positiva per la punta e la negativa per la sfera, a parità di tutte le altre circosianze, le scariche son leggermente più frequenti quando la resistenza è dalla parte dell’ elettrodo positivo di quando è dalla parte dell’ elettrodo negativo. Così con punta e sfera distanti 6 mm. e con tre tubi a resistenza liquida, quando la resistenza era dalla parte del polo negativo si avevano in media 21 scariche al minuto. Quando invece la resistenza era dalla parte: del polo positivo se ne ave- vano 25. Noterò per ultimo che a parità di tutte le altre condizioni vi è una distanza esplosiva ottima per |A manifestazione del fenomeno. Non mi pare esagerato 1’ asserire che il fatto, nelle condizioni di migliore mani- festazione, è fortemente suggestivo, talchè si sarebbe indotti senz’ altro ad ammetterlo come una riproduzione in condizioui sperimentali diverse, della scarica in gas rare- fatto, se non intervenisse il giusto temperamenjo di una ponderata riflessione. Del resto, che cosa si oppone ad ammetiere possibile una manifestazione della scintilla quale si ha in gas rarefatto, anche nell’ aria in condizioni normali ? Evidentemente ad ammettere possibile una manifestazione della scintilla quale si ha in un gas rarefatto anche nell’ aria in condizioni normali si oppone il più forte (e) o GETE IAA AAAA SI valore della densità del gas, e le condizioni più difficili di ionizzazione. Se però in una prima fase, meno appariscente, della scarica sì operasse nel gas una modificazione di densità, per effetto, ad esempio, di locale e forte riscaldamento, e si rendesse più ionizzato o più facilmente ionizzabile il materiale gassoso, la fase successiva, più appariscente, della scarica, potrebbe assumere carattere analogo a quello che si avrebbe in gas rarefatto dotato di rarefazione non eccessivamente forte. La pilota, ad esempio, potrebbe operare 1° azione di rarefazione per locale riscal- damento e fornire vapori dissociati o dissociabili in condizioni e misura conveniente perchè si crei per 1° aureola un ambiente in certo modo analogo a quello che sì ha in un gas rarefatto. og Esaminiamo, secondo questa idea, i vari tipi di scintilla : la ordinaria, la oscil- lante, la continua. Nella ordinaria, la pilota essendo molto forte, alla forte rarefazione associa una fortissima emissione di vapori e 1° incandescenza dell’ elettrodo negativo, talchè anche per la forte intensità della corrente di scarica realizza (1) le condizioni per la for- mazione dell’ arco. Î Nella oscillante | energia della pilota è tanto piccola da non doversi attendere un forte effetto di rarefazione, mentre per essa esistono condizioni adatte ad una mani- festazione di arco nell’ aureola. Nella continua, la pilota ha sufficiente vitalità per una rarefazione efficace, e nello stesso tempo non si verificano per essa le condizioni di forte intensità di corrente atte a determinare una manifestazione d’ arco nell’ aureola. Sarà quindi possibile che una eventuale manifestazione analoga a quella della scarica in gas rarefatto si mani- festi, se mai, nell’ aureola di una scintilla continua. Da un altro canto, che cosa si ha, nella descritta osservazione, di più di una semplice apparenza esteriore ? Non credo che sia facile trovare nel campo sperimentale molto di più per chia- rire il dubbio, tuttavia per ragioni che dichiarai nella Memoria citata feci osserva- zioni e misure sotto 1’ azione del campo magnetico e feci anche osservazioni in aria a pressioni superiori a quella atmosferica. Ma sopratutto mi parve che un elemento di giudizio non trascurabile fosse quello di osservare il fenomeno in gas a pressioni gradatamente decrescenti. sino a quella in corrispondenza della quale si ha la carat- teristica scarica in gas rarefatto con colonna positiva, spazio oscuro del Faraday e luce negativa, per vedere se la manfestazione osservata a pressione ordinaria viene a subire sensibile modificazione. Costruii quindi un tubo chiuso, munito di rubinetto, quale è rappresentato dalla fig. 6 contenente elettrodi accessibili all’ esterno per una comunicazione metallica, uno sferico e l’ altro conico, perfettamente identici a quelli usati comunemente per le mie osservazioni poco prima richiamate. Uno di questi elet- trodi (A) era fisso, e l’ altro (8) collegato ad una lunga elica di filo metallico s uscente a perfetta tenuta da uua parte allungata da D del tubo, era fissato ad un tubo di minor sezione di quella che aveva questa parte allungata, cosicchè poteva scorrere facilmente entro di essa. Da ciò risultava la possibilità di far variare, occor- rendo, la distanza fra gli elettrodi. Mediante |’ apertura del tubo munito di rubinetto © era possibile, usando una pompa, mettere il gas contenuto nel tubo in quelle con- dizioni di rarefazione che si fossero desiderate. Orbene, le osservazioni che potei fare con tale dispositivo, mi permisero di giun- gere alle seguenti conclusioni : a) L’ aspetto dell’ aureola della scintilla continua non si modifica in modo molto manifesto col procedere della rarefazione sino a pressioni dell’ ordine del decimo di (1) Occhialini. Nuovo Cimento, Giugno 1914, SOIN millimetro di mercurio. Solo che a pressione superiori alla diecina di millimetri, si nota una leggerissima e debolmente percettibile sfumatura della colorazione propria della regione anodica, al di là della regione oscura, sulla parte estrema (verso l° anodo) della luce aderente al catodo; sfumatura che non apparisce in condizioni di più bassa pressione. b) Al di là di un certo valore della distanza esplosiva, che varia colla capacità e colla resistenza del circuito, vi ha un intervallo di pressione, nella diminuzione di questa dalla atmosferica a quella più bassa, in corrispondenza del quale 1° aspetto della scarica corrispondente a due piccoli fiocchetti luminosi (fig. 7). Tale intervallo cresce al crescere della distanza esplosiva. Così per una distanza di 3 mm. era com- pieso fra 22 e 26 mm. di mercurio, laddove per una distanza di 6 mm. era com- preso fra 25 e 30 mm. mercurio, c) Col crescere della rarefazione cresce il numero delle scariche per unità di tempo, e a pressioni basse l° aspetto è di scarica continuata. Proseguendo ancora nel medesimo campo di osservazione mi è stato possibile avere un nuovo elemento a favore della ipotesi da me fatta sulla natura della manifestazione. Come è noto, uno dei caratteri della scarica in gas rarefatto è quello di mostrare in condizioni particolari il fenomeno della stratificazione della colonna “positiva. Questa stratificazione è fatto che si manifesta o sfugge per modificazioni spesso impercettibili delle condizioni del circuito di scarica o delle condizioni del gas che ne è sede. In ogni caso esso si verifica ìn corrispondenza di valori della pressione variabili da gas a gas, ma che sono generalmente di pochi millimetri, specialmente per il miscuglio gassoso che costituisce l’aria atmosferica. Inoltre, gli strati, variabili di numero e di grossezza al variare delle suindicate condizioni appariscono più o meno incurvati colla concavità rivolta verso 1° elettrodo positivo. Orbene, con conveniente distanza esplosiva e con valore conveniente della resi- stenza liquida inclusa nel circuito di scarica ho potuto ottenere per la scintilla con- tinua la stratificazione della colonna positiva se non alla pressione ordinaria, ad una pressione di gran lunga inferiore a quella che si richiede perchè il fenomeno si veri- fichi nella cosidetta scarica in gas rarefatto. Non è una stratificazione regolare ed a strati numerosi come si è abituati a vederla nelle scariche in gas rarefatto; ma tuttavia è ben percettibile. E Producendosi come ho già detto la scintilla a brevi intervalli, gradatamente decre- scenti col crescere della rarefazione, non mi è stato possibile ottenere la fotografia di una sola di tali scintille. Ma anche la fotografia ottenuta per sovrapposizione di un gruppo di esse e che qui è riprodotta (v. fig. 8) mostra abbastanza chiaramente il fatto. La condizione di pressione alla quale fu ottenuta era di circa 50 mm. di mercurio e la distanza esplosiva di 3 cm. Degno di nota l incurvamento degli strati colla concavità verso |’ elettrodo positivo. Forse questo fatto della stratificazione è anche legato alla intermittenza del pro- cesso di scarica. LI - TRS, VITTI) ii dA sino vg RE ius (IO (A UTRISE NARSIA TOI FLAT” Ops 1025 FAVIVU OTOGIURO TR TRIATI CO PURA REZTIRI Fip ae 4 ER) Ms sten AV x VO ieri Î IAVPATIA SOI AVI TI CI CORI TRAEI CAI O CA CREN I SCOTTO E it nai e ALA 4 . n : = î > = a } x. " Ì DE RA $ L P pi. > POPE ° oggi no ea HE ADEN AA Abano pei pri daga i i Ki; ; Ta abi tt ile arido 0) 24 va We apeotigni i uo nera cat A Ra SULLA UTILITÀ DELLA FARINGOTOMIA IO-TIROIDEA bee MPACGHOSITDET VARE PROCESSI MMORBOSI = DEbLERTASCRE:GUTBURABES a MEMORIA DEL Prof. ANGELO BALDONI letta nella Sessione del 17 Aprile 1920-21. IL’ accesso al faringe nei solipedi, come è noto, offre grandi difficoltà sia per la lun- ghezza della via naturale che si deve seguire, sia specialmente per lo sviluppo e per la conformazione del palato molle. Molte vie artificiali furono tentate per arrivare nella cavità faringea dei solipedi, ma ben tosto furono abbandonate perchè praticamente non corrispondenti allo scopo. Nel 1901 proposi la faringotomia anteriore, o io-tiroidea, operazione semplice e senza conseguenze, e ne dimostrai la grande utilità nella diagnostica e nella terapia di processi a sede nel faringe e negli organi vicini. Ma forse per la diffidenza generata dagli altri metodi proposti e riconosciuti non pratici, la faringotomia io-tiroiodea non fu eseguita al di fuori della nostra Clinica che assai raramente. Moerkeberg nel 1907 in un lavoro sui tumori e sulle neoformazioni affini del faringe e delle regioni vicine, parlò di questa faringotomia come di un'operazione del tutto nuova, senza indicare cioè che essa veniva praticata da noi da varii anni. Vennerholm, nello stesso anno 1907, nel suo trattato di medicina operatoria, riferendosi unicamente al lavoro di Moerkeberg, indicò la possibilità di aprire nel faringe una via all’esterno, cioè sulla parete ventrale, mediante una incisione fra il limite superiore del laringe e 1° osso inide. In questi ultimi anni, Ghisleni e Mensa hanno eseguito 1 operazione in molti casi per scopi diversi, diagnostici e terapeutici, e l° hanno diffusa nella pratica. Mensa in una recente pubblicazione dice fra |’ altro che la faringotomia praticata nello spazio io-tiroideo, da quando fu proposta e studiata da Baldoni ad oggi, sarebbe dovuta entrare nella pratica di tutti e che c’ era anche da aspettarsi che tutti si dicessero che la via era così facile, così naturale, che non avrebbero potuto non conoscerla e non usarne. Fra le molteplici indicazioni della faringotomia io-tivoidea, accennate nella mia nota del 1901 e con maggiore completezza dimostrate recentemente da Mensa, figurano i pro- Serie VII. Tomo VIII. 1920-1921. 13 LOR cessi morbosi delle tasche eutturali. In questi processi sopratuito la faringotomia ci è riuscita utilissima, specialmente a scopo diagnostico, e perciò riteniamo opportuno richia- mare su ciò l’attenzione dei colleghi. Nelle tasche gutturali, come tutti sanno, si possono avere: raccolte di aria, cioè vere e proprie timpaniti per alterazioni ancora non ben definite della tromba di Eustacchio. per cui essa agisce come una valvola, permettendo Ja penetrazione dell’ aria e impeden- done | uscita; enfisemi sottomucosi in seguito a lacerazione della mucosa per forti colpi di tosse, secondo Falconio, o prodottasi durante il cateterismo, secondo Gaddi; rac- colte di gas sviluppatosi nell’ interno delle tasche nei processi infiammatori con pnirefa- zione dell’ essudato; idropi congenite, di cui Gurlt e Thomassen hanno descritto qual- che caso; raccolte liquide da processo infiammatorio, le quali possono essere sierose, 0 catarrali, o purulente, o emorragiche; raccolte catarrali, o purulente, insieme a quantità più o meno rilevante di geutturoliti; neoformazioni infiammatorie (botriomicotiche, ecc.): raccolte di sostanze alimentari passate attraverso comunicazioni anormali fra il faringe e la tasca, prodotte da corpi stranieri, o da schegge dello ioide fratturato, o da processi ulcerati, e più spesso attraverso la tuba di Eustacchio congenitamente ectasica, o resa più ampia da ferite a tutta sostanza o da processi ulcerativi e necrotici dei suoi margini, e tumori nel vero significato della parola. In tutti questi diversi processi la diagnosi per il passato presentava per lo più grandi difficoltà e talora era possibile farla soltanto dopo aver aperta la tasca; ora invece ese- guendo la faringotomia è facilissima la diagnosi di sede ed assai spesso si arriva anche con facilità alla diagnosi di natura del processo, Infatti attraverso la breccia faringea, benchè per ragioni anatomiche non molto ampia, è possibile entrare nel faringe degli equini con due dita ed eseguire direttamente la pal- pazione sulla parete faringea delle tasche, particolarmente nella parie inferiore di esse, che in tutti i casi di raccolte si estende più in basso del normale. In tal modo le tasche gutturali divengono accessibili ai mostri mezzi di indagine clinica come un organo qual- siasi situato all’ esterno. Così con la palpazione si possono riconoscere lo stato di ripie- nezza delle tasche e la natura del materiale (gassoso, liquido, solido) in esse contenuto. Nellie raccolte liquide la diagnosi completa non può risultare che dall’ esame del con- tenuto delle tasche. La faringotomia io-tiroidea, rendendo facile il cateterismo delle tasche, permette di completare la diagnosi. Ginther nel 1834 propose il catetevismo delle tasche sutturali e consigliò un cate- tere speciale, da introdursi nelle cavità nasali, nell’ apertura faringea della tromba di Eustacchio e quindi nella tasca. Ma l’idea del cateterismo è di data molto più antica perchè, secondo affermazioni di Goubaux, quasi mezzo secolo prima era stata concepita da Lafosse, che aveva adoperato nelle esperienze su cadaveri un catetere simile a quello di Giinther. Taluni clinici ritengono che il cateterismo per la via nasale non sia diffi- coltoso, nè pericoloso, ed arrivano persino ad ammettere che le copiose irrigazione anti settiche nell’ interno della tasca, fatte mediante il catetere, possano, anche se ripetute ad intervalli non brevi, essere sufficienti a combattere processi infiammatori. ENO l'uttociò è molto esagerato ed asserito forse da chi non ha mai praticato il catete- rismo delle tasche gutturali. A parte il fatto che le copiose irrigazioni antisettiche mediante il catetere di Giinther, o con qualsiasi altra cannulla simile, possono riu- sclre assai dannose perchè, mancando un mezzo di scarico, il liquido di irrigazione mesco- lato al materiale contenuto nella tasca passa necessariamente in faringe e in parte viene deglutito, in parte inspirato, producendo, come osservò Haubner, la polmonite, il cate- terismo per la via nasale non è facile e non è sempre ‘esente da inconvenienti. Bouley nel suo rapporto sul catetere di Giinther sostenne che con tale istrumento si penetra con difficoltà nelle tasche; che sovente, quando si usa il catetere in casi di raccolta di pus, si deve perforare la parete della tasca che è distesa ed assottigliata, e passare a lato dell’ apertura naturale, e che questo ultimo fatto deve essere accaduto proba- bilmente qualche volta a Giilnther. Defays si lamentò di alcuni accidenti spiacevoli del cateterismo durante | operazione per i movimenti violenti a cui si abbandonava l’animale per sbarazzarsi del catetere. Stockfleth scrisse che il cateterismo delle tasche eutturali difficilmente avrebbe acquistata un’ importanza pratica perchè sul cavallo in piedi non è facile, nè scevro di pericolo, e che il pericolo si fa maggiore coricando l’animale, perchè questo, se la raccolta è notevole, avrà anche molta difficoltà a respi- rare. Peuch e Toussaint ritengono che il cateterismo delle tasche gutturali non dovrebbe essere impiegato che in una maniera eccezionale nella pratica; che il catetere non sempre fa raggiungere lo scopo che si è proposto il suo inventore; che però si dovreb- bero fare dei tentativi per stabilire se si possa adoperare questo istrumento per ricono- scere lo stato delle tasche gutturali e per vuotarle senza alcun danno. Si potrebbero riportare opinioni di moltissimi altri egregi colleghi per dimostrare infondata | affermazione che il cateterismo sia facile ed esente da qualsiasi pericolo, perchè chiunque abbia avuto occasione di tentare molte volte il: cateterismo delle tasche gutturali per la via nasale, sa per propria esperienza che in generale si riesce difficii- mente, pur seguendo le norme indicate da Giinther, a penetrare nella tromba di Eustac- chio, e che per un movimento disordinato della testa dell’ animale, movimento non sempre evitabile, tanto meno quando si pratica il caleterismo in soggetti in piedi come molti consigliano e come talora è imposto dalla minaccia di asfissia se non si ritiene conve- niente ricorrere alla tracheotomia od alla laringotomia, si possono produrre lesioni nelle cavità nasali e nel faringe. Il cateterismo delle tasche gutturali riesce invece realmente facile e per nulla peri- coloso se praticato attraverso la breccia della faringotomia io-tiroidea. E ciò riesce evi- dente se si tiene presente che |’ apertura praticata sul pavimento del faringe, fra il mar- gine superiore delle cartilagini tiroidi e quello posteriore del corpo dello ioide, dista dall’ apertura faringea delle trombe di Eustacchio 10-14 cm. a seconda della grandezza della testa; che per la disposizione anatomica dell’ apertura delle trombe, la quale guarda verso il pavimento del faringe, la penetrazione nelle tasche con un catetere riesce incom- parabilmente più facile per la breccia faringea che per la via nasale, e che mediante la incisione della faringotomia è possibile guidare il catetere, il quale non può in modo assoluto determinare lesione alcuna sulla mucosa del faringe, delle trombe e delle tasche. — LO) — Da osservazioni fatte in molti soggetti ci è risultato che facendo scorrere il caietere lungo la parete laterale del faringe secondo una retta che va dal centro della breccia faringea al margine posteriore dell’ articolazione temporo-mascellare si entra subito nella tromba. La certezza di essere penetrati nella tasca si ha naturalmente dall’ uscita del immateriale liquido in essa raccolto, e nei casi in cui la tasca è vuota, dal fatto che non si possono eseguire che movimenti limitatissimi coll’ estremità anteriore del catetere. Per il cateterismo attraverso la breccia della faringotomia può adoperarsi anche il catetere di Giinther, ma essendo eccessivamente lungo, è poco pratico. Noi usiamo una cannula metallica a doppia corrente, lunga 18 cm. e del diametro di 1 cm., la quale è leggermente curva all’ estremità anteriore dove è chiusa, arrotondata e munita di due finestre ovalari laterali, e termina Diforcata all’ estremità posteriore. ‘l’ale cannula è simile a quella a doppia corrente per le irrigazioni uterine nella donna. Essa oltre a permettere l’ uscita del contenuto liquido della tasca, può servire anche per irrigazioni nell’ interno della tasca stessa; però le nostre osservazioni ci hanno dimostrato che le irrigazioni anti- settiche fatte in tal modo, benchè non offrano gli inconvenienti di quelle fatte col catetere di Giinther a corrente unica, non possono riuscire molto efficaci perchè. come accade in tutte le cavità, il liquido di irrigazione cade subito nel fondo e viene poco a coniatto con le porzioni più alte delle pareti, e parte di esso si sofferma nella parte più bassa della tasca a causa della posizione della tromba. — 101 — BIBLIOGRAFIA Baldoni. — Sulla favingotomia anteriore od io-tiroidea nei solipedi. La Clinica Veterinaria 1901 p. 542 e 551. Bouley. — Rapport sur l’ instrument de M. Gunther. Bulletin de la Soc. Centr. de Médecine Vétéerinaire 1846 p. 756. Defays. — Catarrhe des poches guttuvales. Annales de Médecine Veterinaire 1871 p. 525. Falconio. — Enfisema nella borsa gutturale. 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Tomo VIII. 1920-1921. 14 ne ai } ji ù DO, è i SU DEVO TRIS Pi En) ACRI di 33 “ del Shit Vie ei > APRAIDOI MI proc ac A PREREStROI id DI DADI no i " fi pisa dr “agi ; [pred Fi PRESSE 1: dpi di ti Ù | ala di % tore NT nt M& PRU MELA PRA mi Ù Lu STRA pià ua brio ANNA Ladlele, sir ui MEET 6 né [TARANTA ie ALIA: -$ Di i9d AT ii ; stia (LIL alii da SO do sone: 2006 Aso dgr pe ae OMEGA E vi Po e bip DIR SI Rata Muli ACI POTRA ENIT cdi al dass dano vit 1 Nara) 0 dll "RL dee monti #5 fra: DR VSSRTA nas Ùi ui FIA (ari IR e DAI n Ag e lio, 4 ; n 4 vi ta Li ) ipa 1 SRI den a pit di E RF pisa LOLA MI TSI IRR REC "ig 10 a 65) Poe POTRA MIOIITTTA TO | LG "Rai Ania ss he bin da & n ° RULE citi AL ao tati sq rape i "(Ra dati Moto agi OA ii gita 1 dt pr ft eaoAlimabbatt: TARE ubte! (o) dial ni inetiali pirsittos Madl vat vu: i ninfa iva ARTIIOTI $i, mn sad TRL gli WIR] bbc ci ia s ANTE ip OMO an doti da able gii abit bi EI 2 ti ba» [ELIO PREIS ARI SVENTMELIOLSTICES MGNTT I, X FA È PORENI IRBI GETOIIA IPSE N RE saatbi si i Lois tion Mopti di ua: si RISSA RIA PRRCZI PACCO A TO 0 WAV rat ai RS io KAI ONE, ALTERAZIONI TERMICHE E LESIONI TROFICHE NEI PROCESSI MORBOSI O <@ ca DI kh SECONDA COMUNICAZIONE DEL Prof. Sen. PIETRO ALBERTONI letta nella Sessione del 14 Novembre 1920. In un precedente studio sulla malattia di Raynaud ho trovato che in sifatto pro- cesso morboso essendo lesi i punti cutanei per il caldo e per il freddo da detti punti non sono (rasmessi in maniera normale gli stimoli che mantengono | attività dei centri trofici. Riferisco ora un’ altra serie di ricerche nella siringomielia, nella sclerosi late- rale amiotrofica, nella sclerodermia e delle esperienze speciali allo scopo interpretativo. Ho studiato due casi di siringomielia di cui espongo brevemente la storia ed i risul- tati ottenuti. Cleonice Moretti d’ anni 56, contadina, di Calderino. All’età di 27 anni la donna cominciò a notare parestesia a carico degli arti superiori ed inferiori con dolori a carattere folgorante, poi flictene alle mani, fenomeni distrofici. È donna di piccola statura con spiccatissime note di acondroplasia. Tutte le tre specie di sensibilità sono offese, specie nelle mani e nei piedi; in generale si osserva modicà offesa della sensibilità tattile, spiccata offesa della sensibilità dolorifica, grave offesa della sensibilità termica (dissociazione). Nelle mani e nei piedi la malata di rado riesce a distinguere la temperatura di 50° da quella del ghiaccio fondente. Senso muscolare conser- vato, sensibilità barica, sensibilità ossea, sensibilità stereognostica normali. Si osservano molteplici ed apparentissime lesioni che interessano sia la pelle, sia i mu- scoli, sia le ossa alle mani ed ai piedi, assai meno alla faccia. L'esame radiografico fa vedere a carico delle mani e dei piedi un osteite rarefacente. La diagnosi di siringomielia risultava in questo caso manifesta e la ricerca dei punti termici ha dimostrato 1’ estrema loro riduzione e scomparsa in larghi tratti delle mani; la sensazione di freddo era denunziata come freschino e quella di caldo pure in senso diminutivo come caldino. Le stesse osservazioni abbiamo potuto ripetere in altro caso di siringomielia nel quale il processo aveva attaccato a preferenza i piedi ed i risultati furono anche più spiccati e — 104 — notevoli in confronto di altra persona della stessa condizione ed età Diamo una breve storia anche di questo caso di siringomielia. Fig. 1. Fig. 1. A. R. — Individuo normale A. R. — Individuo z0ormale Punti per il /reddo (T. + 5°). Punti per il caldo (T. + 42°). Fig. 2. Monetti Cleonice. — (Sirivgomielia). Punti per il /reddo (+) e punti per il caldo (0). Antonio Dovesi d’ anni 70, cantiniere, di Bologna, è stato forte fumatore e bevitore. Il paziente non ha avuto malattie degne di nota fino a 50 anni. epoca in cui cominciò ad avvertire al piede destro senso di calore, seguito da lieve tumefazione delle dita e della regione dorsale del piede: poi comparvero piccole ulcerazioni alle dita ed alla regione plantare. La sensibilità tattile ovunque ben conservata, la sensibilità dolorifica di poco diminuita. La sensibilità termica, un po diminuita alle regioni dorsali e palmari delle mani, è profondamente alte- rata ai piedi in tutta la loro superficie, dove il paziente non sa differenziare il caldo dal freddo, anzi tutte le stimolazioni vengono avvertite come caldo. Queste alterazioni della sensibilità vanno bruscamente diminuendo subito al di sopra dell’articolazione tibio-astragalica per scomparire total- mente verso il ginocchio. Senso muscolare. senso stereognostico e sensibilità ossea conservate. La cute che riveste i piedi è pigmentata intensamente in bruno. coperta costantemente di goccioline di sudore, nella regione plantare ulcerazioni indolenti. Le dita dei piedi hanno subito profonde deformazioni. Wassermann negativo, esame delle urine negativo. sangue con notevole eosinofilia (14%). -— 105 — Anche in questo caso la diagnosi di siringomielia essendo sicura abbiamo fatta la ricerca dei punti termici ed i risultati appaiono evidenti dall’ esame della figura e dal confronto con quella che si riferisce ad Armieri Francesco (fig. 4) degente in Clinica Medica per malaria. Fig, 3 E Dovesi Antonio. — (Siringomielia). Dovesi Antonio. — (Siringomielia). Dorso del piede : 3 soli punti per il caZdo (0) Pianta del piede: 2 soli punti per il /reddo (+) a destra; nessuno per il freddo (+) a sinistra; nessuno per il caldo. Fig. 3 . Dovesi Antonio. — (Siringomielia). Punti per il cado (0. Non si trova nessun punto per il freddo (+). All’ eminenza tenare di sinistra vi sono alcuni punti in cui il freddo è percepito come caldo. Riassumo la storia di un caso di selerodermia diffusa con estrema sensibilità al freddo, in guisa che le dita delle mani per un lieve abbassamento di temperatura diven- tavano di un pallore cadaverico che spariva lentamente e si ripeteva ad accessi. In questa malata la sensibilità per il freddo era grandissima ed io ho ammesso che il processo — 106 — morboso si fosse organizzato in conseguenza dell’estrema eccitabilità dei nervi vasoco- strittori, avendo | ammalata lavorato indefessamente da sarta, anche nelle ore notturne, in ambienti freddi ed umidi. I nervi vasocostrittori dovevano in simili condizioni esagerare la loro funzione a scopo protettivo. I nervi vasodilatatori non erano paralizzati. perché Fid. 4. Fig. 4. ” A. F. — Individuo normale. A. F. — Individuo normale. Punti per il fredda (+) e PURO per il caldo (0) Punti per il freddo (+) e punti ver il caldo 10) nel dorso del piede. nella pianta del piede. reagivano al nitrito d’ amile, ma non potevano entrare in funzione date le persistenti con- dizioni di ambiente. La storia che esponiamo non ammette dubbi sulla diagnosi. D Fig. 5. (SII Benassi Francesca — (Sclerodermia). Benassi Francesca. — (Sclerodermia). Punti per il /reddo (+) Punti per il caldo (0). — 107 — Francesca Benassi d’ anni 30, sarta, ha sempre lavorato, anche di notte, in luoghi umidi e freddi. Nel Dicembre 1919 avverti che l'indice della mano sinistra diveniva pallido, dolente; alcune settimane dopo lo stesso pallore si manifestava alle altre dita della mano sinistra, poi anche a destra con formicolio e pesantezza. I fenomeni si ripetevano ad accessi. specialmente per esposizione al freddo; le dita divennero dure ed a nulla valsero i bagni caldi, le frizioni. La motilità delle braccia diventava quasi nulla e le articolazioni rigide. Nell'estate 1920 non poteva quasi aprire la bocca e introdurre il cibo. Si vede la pelle lucente al viso, al dorso. tesa al viso e sulle dita delle mani dove non si può sollevare e sembra incollata ai tessuti sottostanti; sensibilissima al freddo, che determina un pallore caratteristico cadaverico delle dita delle mani. Sviluppo muscolare normale, ma consistenza dei muscoli aumentata e articolazioni rigidissime. Spiccata diminuzione di forza di tutti i muscoli. Sclerodermia del frenulo della lingua. Sensibilità tattile normale; la sensibilità termica esplorata cogli ordinari metodi sembra nor- male, ma se si immergono le mani risulta una grande sensibilità per il freddo, maggiore resi- stenza per il caldo. Ipotrofia dei muscoli della mano. Per l’ inalazione di nitrito d’ amile (10 goccie) comparve un colorito roseo ai pomelli, abitual- mente pallidi, nessuna modificazione nelle altre parti del corpo. In un caso di sclerosi laterale amiotrofia in via di sviluppo, ma abbastanza progre- dita con atrofla di alcuni muscoli delle mani, i punti per il freddo erano abbastanza nume- rosìi, ma rari quelli per il caldo. Ho cercato una conferma della mia ipotesi esaminando le reazioni termiche e vaso- motorie in questi malati, e precisamente nelle parti lese, cioè nelle mani. A tale scopo mi sono valso della vecchia esperienza di Brown-Séquard e Tholozan (1) opportu- namente modificata. Quest’ esperienza consiste nell’ esaminare gli effetti del raffreddamento di una mano sulla temperatura dell’ altra mano, e venne immaginata dai detti Autori per lo studio delle azioni vasomotrici reflesse. A tale scopo Brown-Séquard faceva strin- gere un termometro con una mano, mentre faceva immergere l altra mano in acqua molto fredda, tenendola immersa alcuni minuti. La temperatura della mano non immersa si abbassava progressivamente. Gli Autori escludevano che questa diminuzione di tempe- ratura potesse essere dovuta a raffreddamento del sangue di tutto il corpo, perchè il termometro applicato in altre parti del corpo all’ infuori della mano non subiva variazioni e concludevano per un'azione vasomotrice reflessa vasocostrittiva. Vulpian (2) ha fatto osservare che questo risultato non è costante, ma in varie esperienze egli ha veduto tenendo qualche minuto una mano nel ghiaccio fondente innalzarsi la temperatura della mano opposta. Ricordiamo, anche per i dati di confronto che può offrirci, le esperienze di Neri in soldati sani e congelati. Neri ha immerso per 5 minuti in una miscela di acqua e ghiaccio le mani di 100 soldati (50 meridionali e 50 settentrionali) di forte e sana costi- (1) Tholozun et Brown Séquard, Recherches expérimentales sur quelques-uns des effets du froid sur |’ homme (Méemoire lu à la Societé de Biologie en 1851). Journal de Brown Séquard, t. I, 1858 p. 497 e p. 502 a 505. (2) A. Vulpian, Lecons sur l’appareil vaso-moteur. Paris 1875 Vol. I, pg. 232. — 108 — tuzione, ai quali era stata preventivamente rilevata la temperatura cutanea a mezzo di termometro tenuto fra i polpastrelli delle prime dita congiunte. Dopo | immersione, è stata presa la temperatura ogni 5 minuti per il periodo di un’ ora e più. Il 90 per cento dei soggetti sperimentati ha raggiunto e sorpassata la temperatura cutanea precedente l'immersione in un periodo di tempo oscillante fra 15 e 25 o al massimo 30 minuti: il 10% non ha raggiunto la temperatura iniziale ma, a rilento, una temperatura intermedia fra quella iniziale e la minima registrata. Appena estratte dall’ acqua ghiacciata le mani di quelli a reazione vasomotoria normale apparivano di un colorito uniformemente rosso vivo, quelle dei soggetti a reazione vasomotoria debole avevano un colore ardesia, la punta delle dita appariva intensamente ischemica, come nella « sincope locale ». Ripetuto |’ esperimento su 63 congelati, in massima parte di 1° e 2° grado, ormai guariti, 91 hanno dato reazione vasomotoria debole e 32 reazione vasomotoria normale. Che in generale gli stimoli portati su una parte del corpo valgono a provocare un aumento locale della temperatura risulta da un esperienza fatta da Brown-Séquard; il quale coll’ aiuto delle pile termo-elettriche nell’ uomo vide che pizzicando la pelle del- l’avambraccio si causava ivi una elevazione della temperatura ed un abbassamento nel- l’arto opposto, e lo stesso succedeva per i piedi. Le nostre esperienze vennero praticate nella stagione calda e nella fredda, variando colla stagione |’ intensità dei fenomeni morbosi. In tutte le esperienze fatte nel Luglio 1918 nel soldato Punzo con pelle delicata alle mani, ed immergendo ora la mano destra ed ora la sinistra per 5 minuti in acqua alla temperatura di 4° C.. essendo 27 la temperatura ambiente, la temperatura della mano destra scendeva da 35, 2 a 16. 2 e soltanto dopo 40' riacquistava la temperatura primi- tiva; la mano sinistra non immersa da 33,7 scendeva a 33,5 e dopo 20 minuti a 33,9. In un altro soldato di controllo perfettamente sano, certo Guidi, essendo 29 la temperatura ambiente; la temperatura della mano sinistra immersa da 36,8 scendeva solo a 27,1 e per pochi minuti e dopo 20' era ancora a 36,8 mentre la mano destra non immersa conservava la temperatura primiera di 36,8 con oscillazioni di qualche decimo. Più imporianti ed istruttive sono le esperienze fatte nella Mengoli Caterina ed in confronto con altra donna sana della stessa età e condizione sociale. Il 14 Giugno 1920 con temperatura ambiente di 17 cent., l'ammalata stringe nel palmo di ciascuna mano un termometro. ambedue i termometri salgono lentamente ed alle 16.50 quando s inizia |’ esperienza i termometri segnano le seguenti temperature : Mano destra 28,7 Mano sinistra 26.7 s' immerge allora la mano s?r7sta in una catinella d'acqua e ghiaccio a temperatura costante di 5° C.° e si mantiene immersa per 5 m'; estratta la mano e prosciugata leggermente e rapi- damente riprende il termometro. — 109 — Ore Mano destra Mano sinistra 16.51 28.7 immersa 16.59 29.8 15 6 ‘ 17.6 30.7 14.8 17.11 31.5 16.1 17.14 92.0 705 7 33.0 19.8 17,58 34. 6 22.1 17.50 54.7 24.3 18.00 34.9 26.3 18.04 34. 8 26.7 18.15 34. 6 30. 1 18.45 34.2 31.6 La mano immersa ha impiegato un’ ora e mezzo per raggiungere la temperatura pri- miera e la mano non immersa ha segnato un aumento graduale di temperatura abbastanza significante In altre due esperienze sulla Mengoli si sono verificati gli stessi fatti anche più spiccati. Sono occorse due ore perchè la mano immersa riacquistasse la temperatura precedente all’ immersione. Invece in una donna sana della stessa età e condizione la mano immersa riacquistava la temperatura precedente in meno di mezz’ ora sebbene 1° abbassamento iniziale fosse stato uguale, e l’ aumento della temperatura della mano opposta era meno spiccato. Queste osservazioni confermano che il sistema nervoso va considerato come il rego- latore dei processi che si svolgono negli altri tessuti, che esiste uno stretto legame fra centri e fibre per le sensazioni termiche e centri e fibre che governano le funzioni nutri- tizie e vasomotorie, che è l’ irritazione dei nervi e dei centri nervosi, più del deficit, che in determinate condizioni serve a provocare a distanza i disturbi troflci più svariati. Crediamo anche che in seguito a contrazione spasmodica durevole dei vasi, come nella sclerodermia e nella malattia di Raynuand, si possono determinare alterazioni dei vasi stessi e dei tessuti, e ne abbiamo un esempio negli effetti dell’ ergotossina, la quale pro- voca lo spasmo dei vasi e la gangrena della cresta del gallo, del muso del maiale, dovuta ad una caratteristica mogificazione delle pareti vasali, a trombosi ialina dei rami arteriosi più sottili. Serie VII. Tomo VIII. 1920-1921. 15 v li È DI | Ù 4 s Ì S È Vo ) I Mura ) 4 i } Puecti F j y da] , CI “ ni f Di de pe ù n LL) % at o - î 4 I feto SA b ” î Lat 8A Il Ò Î) Il E) È : LH/IPONI ‘ GP 583 i i , "i ; \ P z \ À n i î e, ti i ni Li ul “MISSA Vr Pelia IPC Dai i) EE a Den A « ij 4 S a iy ER 7 } Avia oi i erge Aaa rei 1 ARI EE 20] Ù 4 Î di e ì 1) » c ld lp È # da È % N ti ; 3 ALL ILA NGN OO ORIONE aa fhi Ù ì SVPARATO CCIE TRO i IT” Hi BICUORERO LIA TICREÀ bi i i af ‘De % Tui pio î I L ci TRVORATA CARERO, ACI AAT I ALDO BIEL, SLIDE i È s n 5 te ULS PES [9a ve LITE 2 OLO CU (ASTTINTi.. i IUEETA LIA ENOARE] ASS LITTARIICCETRA TITO DI RIINA) CTS Pe AGI TI VO dA ANT ARIE FHRIA A III ENT CROATIA BiFIeLi i POR; Ti LFPLLS j III TATAIOII gi beth CAI (gt EEC MISTO PRE IEatOn RI TECA TAN VEE NIE ATTO seSTITRO Hi ; i SDAI OLI SIP LA TI È fi È x MEREIEEAR SET GTO î " Cos) VARE (At DIETRO RIA ARTE LIT AA IRE TINA SITR A ANEZO] SÙ TLAMOTTTÀ FREGIA = fatt DICI AA PnsS DAESIPRRRE NES LILLE î Pi CR ; \ - î 2 S Ù mae È ni s BOS, PERE 3 o ‘ 3 è i 4 S ME ERXIRPRESENTAZIONE ASSINTOTICA DI INTEGRALI DIVERGENTI NOI MEMORIA DEL Prof. ETTORE BORTOLOTTI letta nella Sessione del 1° Maggio 1921. In una interessante comunicazione alla Soc. Fisiografica di Lund (*), il Signor N. E. Nérlund ha fatto l’ applicazione delle funzioni permutabili di 1% Specie del Volterra alla determinazione di un limite medio per funzioni /(2) le quali non hanno limite proprio per 2 —+ 00. Il metodo da lui proposto si appoggia a principî che si trovano esposti anche in alcune mie precedenti pubblicazioni, nelle quali sono anche esplicitamente enunciate proposizioni e risultamenti che, ove fossero stati da lui presi in esame, avrebbero permesso al Norlund di togliere la limitazione relativa alla permutabilità, che egli impone alle funzioni regolarizzatrici da lui introdotte. Ed, oltre al caso, che è il solo da lui considerato, di espressioni indeterminate nel punto 2 = 00, e di algoritmi rego- larizzatori divergenti per x —+ 00, di trattare anche quelli di espressioni indeter- minate in punti 2 = A a distanza finita, e di procedimenti che si appoggiano ad algoritmi convergenti. Dalle mie formule, poi, egli avrebbe potuto ricavare anche la dimostrazione ge- nerale e completa del principio di coerenza, cioè della unicità del limite, per tutte le molteplici forme di procedimenti assintotici che rientrano nel tipo da lui preso a studiare. Ciò mostrerò brevemente nella presente comunicazione ; ed accennerò inoltre ad una estensione dei miei teoremi che rende applicabili. anche a procedimenti assintotici che fanno uso di funzioni regolarizzatrici a due parametri e richiedono un doppio passaggio al limite, quei criteri che usualmente si adoperano per il calcolo di espres- sioni indeterminate. Tali criteri, che sostituiscono il quoziente di due funzioni di una variabile «, in un punto @ = A di definizione impropria, col quoziente delle differenze finite, o delle (°) Cfr. Lunds Univ. Arskrift. Bd. 16, N. 23 (1919). Serie VII. Tomo VIII. 1920-1921. lo” — lla — derivate rispetto ad , non potrebbero infatti essere applicati senza che le funzioni proposte fossero, per 4 —+ A, entrambe infinite ed entrambe infinitesime. Ma se si tratterà di funzioni /(2y), P(ey), le quali, oltre la variabile 4 rispetto cui si vuol derivare, contengono un altro parametro y, dimostrerò che, sotto determinate condi- zioni, quei criteri rimangono validi anche se le funzioni /(2y), P(2y) assumono valori diversi da zero e da infinito al tendere di 4 verso |’ ascissa A del punto (A, B) di definizione impropria, per qualunque == 5, purchè esse divengano in quel punto entrambe infinite od infinitesime per y—-+ 2; cioè al variare di un parametro diverso da quello rispetto cui si fanno le derivazioni. Quest’ ultima parte della mia comunicazione sarà convenientemente sviluppata in una ulteriore pubblicazione. 1. Richiamerò, anzitutto, alcune proposizioni contenute in memorie precedenti (*). Tror. I. Date le funzioni a(x), b(x), c(x), finite ed integrabili in ogni intervallo finto a, e (con 0 < sia positiva, e la ba) positiva, monotona e derivabile per x, < x < A ; che la deri- X ZA, A finito od infinito), e supposto che la funzione c(x) vata b'(a) sia integrabile in ogni intervallo x, %, (2 < A), ed infine che esista il limite: 1 f a(e)dx Ioni : CORSSIA É EE (1). c(x)de «I Lo A). Se l integrale [e { c@0) ar) è divergente per x ->A e se il rapporto «I Lo Lo b(a)c(ae c(x SHE Ag : ene è limitato superiormente, nell’ intervallo & b(e) c(xe)dx I c(a)da I Lo «I Lo n A; diverge anche l'integrale UD) c(@)da e si ha: I Lo ce) b(a)dx | ad \da î lim I: i —i lin. 4a, (-) e->A Te TI de=> 4 pe 2 fe) c(@)da | cia Lo I Lo ar FIR B). Se l’ integrale | (0'(€) J c(e)de)dax converge per v->A, se è e Lo To li FEMTE dI DE 3 b(2x) [cia —ME Po (*) Cfr. E. Bortolotti. Sugli integrali definiti improprii |< Rend. Cire. Mat. di Palermo, XXXV, a. 1913 »]. Cap. IV. — — Il Metodo di sommazione per parti nel calcolo delle Serie [« Giorn. di Battaglini Vol. LIV (1916) »] S. 4° n. 20-22. Weor. 2° e 38 <= 118 <> 2) c(2) 1 _—____ nell'intervallo e se inoltre è limitato superiormente il rapporto —-; := | b(a) c(e)da f c(e)dx IL IT ‘A RA x TA; convergono anche gli integrali Il a(c)b(x)dx, | b(x)c(x)da, e si ha To To SA Da | a(x) b(a)dx | a(x)dx lim x lm Teo (3) GR SALTA iena J b(x) c(a)da I c(x)da L Lo Teor. II. Date le funzioni a(x), b(x), c(x) finite ed integrabili in ogni intervallo e € (0<%; A I Lo e Lo ed esista determinato e finito (0 nullo) il rapporto dei resti : “A ; Î a(e)da ° im: Ja (4) ì IL + A SIA RITA | c(2)da va = i i (2) b(£) c(a) A). Se Vintegrale | b(a)c(x)dx è convergente ed il rapporto :— pe c(de) ba) dx / c(e)dx è limitato superiormente, si ha ua ni PÀ A | a(x)b(x)dx i [© dx Lioni ua lim. Ie (5) IO green b(x) c(e)de fear IL XL i È "CEN c(1) b(2) c(@) |. B). Se l’integrale | bi) co) è divergente ed il rapporto — o è i pi b(x) c(a)dx | c(a)da limitato superiormente nell'intervallo e, TA; sì ha: jp ph PA ei I a(x) b(e)dx I a(e)da lim do i aim (6) gi EIN NO age A al 190 b(a)c(a)dx fear Lo L 2. Conservando le ipotesi fatte negli enunciati dei teoremi precedenti, si ha, come è noto, per integrali divergenti, la formula : lim fe) a(e)dx 1) na = do; b(a)da UO per integrali convergenti : PA È b(x) a(e)dx I im Sx im uh (8) SS a (2) [Las L Queste formule, sia per A a distanza finita, sia per A = 00, esprimono una iden- tità numerica se esiste il secondo membro; se poi il limite a(x) non ha definizione propria, ma se esiste determinato e finito il limite del primo membro, si potrà assu- mere questo come valore assintotico del secondo membro, e le formule scritte avranno valore di definizione del secondo membro nel punto x 3. In particolare si potranno così definire valori assintotici di integrali diver- genti, (per intervallo di integrazione infinita se A = cc, per funzione sotto il segno avente in A un punto di infinito se A è a distanza finita) ponendo : (9) a(x) = funds, L= La Lo Lo ed intendendo che I rappresenti la espressione : | I (2) | (2) d#) ax lim Ie AS xo XK->A CE b(x)dx e Lo (10) a== CA per integrali [2a divergenti; oppure fer iL x (2)dx)dx lim Dì To 70 == (11) == L do )da Jr per integrali convergenti. 4. Ma, a giustificazione di un tale procedimento occorre dimostrare che, comun- que sia scelta la funzione regolarizzatrice b(a), dia poi essa origine ad integrali convergenti o ad integrali divergenti, il limite delle espressioni (10), (11), quando esiste, deve esser sempre il medesimo. La dimostrazione si ricava dai teoremi superiormente ricordati. Supponiamo infatti, per fissare le idee, che si sieno scelte due funzioni regola- A rizzatrici d(2), c(@) tali che l’ integrale { 5(2)dx risulti divergente, e gli integrali I Lo feto ) dx, [pene x)d2 convergano entrambi. Nella ipotesi che esistano limiti finiti : CA ‘B(@) al a(e)da 4 | c(x) a(x)dx lim i ua Ii PES i ep A a b(e)da | ct) aa = by, b(x) c(2)da I b(e)dx ed, applicando la formula (5), A RA |a) b(x) c(e)dx | c(x) a(x)da lim x iaia C+ A FA alri A ==JR b(x)c(x)dx co) aa SUA LC Dunque Z3 = I. Analogamente si procederà in ogni altro caso. 5. Se, in particolare, si fa 9 = 1 ed A= co, l’applicazione successiva della for- mula (10) porta alla ricerca del limite, per x —+9, delle espressioni : ho cer = (ce ada, Le Li — = (La 1 fe da (1) J le quali corrispondono a quelle date dal Cesaro nel notissimo suo metodo di som- mazione di serie divergenti. Eseguendo invece le successive integrazioni, feefet u(a fee | darf Lap lim e lim 970, v) I=%_- —+009 Le C+ DI n% Ti [def ae DAL 0 (Ù) ia Reale 3 E IC-> 9 x f da [a de fa dee 0 ZA.0) I 0 si hanno le altre : I = lara dee== 42) |\v42]CL47E = (defa 29 defudo,. G0do ; SIONVIO © lo Vo do RZ 3 154 come c’ indicano le formule : Micia) Serie VII. Tomo VIII. 1920-1921. — 116 — che corrispondono al metodo di sommazione di Holder; e la identità dei due metodi risulta nel modo più evidente (*). K >% X 6. I risultamenti ottenuti sono suscettibili di una molto maggiore estensione, tale da poter comprendere anche i vari metodi, introdotti principalmente dal Borel, per la sommazione di algoritmi divergenti. A ciò serviranno i teoremi seguenti : 7. TroR. III. Sieno date due successioni FA): Pr(4), DARI O NEZA0E e si supponga che la P,(Y) sia reale, positiva, monotona per ogni valore di y>0, e diventi infinita per n -—+ DO fn41(Y) — Pr(4) | ==219 Pn) y > SQ Pr + 1 ( Y) i | P,(4) b} purchè esista il secondo membro. 9. Tror. V. Se le funzioni f(e, y), P(x, y) delle variabili reali x, y sono deter- minate, finite ed ammettono derivata parziale rispetto ad x in ogni punto e > 0, D) y> 0; se la si ha sempre lo stesso segno e se la D(xy) è infinita per acc, ni da (*) Cfe. W. Schnee. « Die Identitàt de Cesaroschen ùnd Holderschen Grenswerthes » |Math. Ann. LXVII (1909) pp. 110-125]. Cfr. anche Borel E. « Legons sur les séries divergentes » (Pa- ris 1901) Cap. III. — K. Knopp. « Grenswerthe von Reihen bei der Annaherung an die Konwver- genzgrenze » [Inaug. Diss. (1901), pag. 19-22 — 117 — y-+0c con la condizione che, ad ogni coppia E, x, di numeri positivi corrispon- dano due numeri positivi x,, y,, tali che j{e>x > |f@g)| P(2,, 4) E €, Mea, < €, (CSQ P(0y) P(2y) si ha lim lim i (13) pece I Ga) i; y +0 P(7y) y > da dae purché esista il secondo membro. 10. TEoR. VI. Se le funzioni a(ey), b(xy) sono determinate e finite in ogni punto a distanza finita (xy), c > 0 y2 0, se la b(xy) è positiva e tale che ad ogni coppia €, %,, di numeri positivi corrispondano due numeri positivi &,, Y,, con la condizione Lo | "Lo | xv\dax AO) [cen b(ay)da | feed: UMESI i Tae im ezonone 11: in b(wy)da fe (2y)dx S0 A) si ha: lim | a(2y) b(ey)da n (14) Lx -+00 L_—_-% a(2y) y > | beyaa y + I 0 purchè esista il secondo membro, 11. La dimostrazione di questi teoremi si farà con le stesse riflessioni che ser- virono a dimostrare gli analoghi teoremi nelle citate memorie « Sugli integrali defl- niti impropri », e senza alcuna difficoltà se ne potranno ricavare le condizioni che assicurano la validità di teoremi corrispondenti ai teor. I e II, superiormente recati. 12. Se nella formula (14) il secondo membro non ha limite proprio, ma esiste il limite del primo membro, si potrà assumere questo come valore assintotico del secondo : e dai teoremi ricordati risulterà il principio di coerenza, con ragionamento analogo a quello fatto al n.° 4, del presente lavoro. In particolare, posto adi | u(@)dx, I 0 la relazione: lim f (2624) | u(x) te) dx 5 > (15) VISSERO di 0 DE Ge fat) ded UO b(2y)dx o (0) — 118 — CA) risulterà dimostrata, se 1’ integrale fatoraz è convergente, servirà invece a definire gt 0 il valore assintotico di questo integrale, nel caso che esso diverga e che esista limite determinato e finito pel primo membro. 13. La funzione b(2y) =[ TI Ten ya soddisfa le condizioni richieste dagli enun- ciati dei teoremi precedenti, perciò oa servire alla determinazione di valori assin- totici per integrali divergenti, al modo indicato dalle formule (15): e, considerando che si ha lim _ ——_a==1 YT>OO gY Ia i potremo scrivere la formula (15) al modo seguente : lim Se, > o AF re indi (16) y-+ 00 È * far( [undr) rr Joe —I la quale, quando il secondo membro non abbia definizione propria, ed esista, invece il limite del primo membro, ci esprimerà il valore assintotico dell’ integrale diver- gente, con formula perfettamente analoga a quella data dal Borel nel suo DETTI di sommazione esponenziale per serie divergenti. 14. La formula (16), con trasformazione analoga a quella indicata dal Borel (*) si muta nella seguente : L fas i Y Y TONI (LOI pn (17) J, e dy [era ne la quale pure corrisponde ad uno dei noti metodi di sommazione di serie divergenti. Se ora supponiamo che 1’ integrale | u(x)dx converga e che sia lecita la inversione 0 nell’ ordine delle integrazioni, potremo scrivere la (17): (18) i DO pe pogca DPF Cp= See, ) Te +1dx= fe u(x) )dx : e, rifacendo il cammino in senso inverso, sì scorge che tale metodo di sommazione assintotica, nella sua forma più generale, si riduce ad una inversione di limiti, e può enunciarsi al modo seguente : L Dato l'integrale [ u(a)dx, determinato e finito per ogni x a distanza finita, ed inde- I 0 terminato per 2 —+ 09, si scelga in modo opportuno una funzione b(a)= fhe eyf,(y)dx, (*) Cfr. « Legons sur les séries divergentes » loc. cit. pag. 98. — 119 — e si scriva la identità : & Tu(x) Few (0 (19) frode |a (2 2=| 7 Dm) so ae (f. xy) f. SRO un Ue) Y Vic: yo] JAM, se, invertendo l° 07 ro delle integrazioni, risulterà determinato e finito l integrale doppio : lim (ZOVNZ = [£0% fato) rey) dai 1409 f(y )dy fa (2) f,( (&y)d( 0 0 (0) Vi ODORI si assumerà questo come valore assintotico dell’ integrale proposto. DICA da 7 (RAV n UNI] 077 de ORTA i RI ‘ r MSI TV ARCI VI ULI OA ATTI Ù; Mr E; ID Li TAPIRO. l YA n. Y îo È dl i GU 3 , n Ù Ù È STTMIO DINPSIORIOTA IO A ILOCO, IALIA o Ùa RX au La p CRA % 9 te Di TRAME ME Hat uil AR Fd df° 229 7 2, Mc} PALA) ATI) NIDNIM: 4 I COLLEGAMENTI DELLE STAZIONI IN CRLERIMENSURA Fe MEMORIA DEI. Prof. FRANCESCO CAVANI letta nella Sessione del 17 Aprile 1921. La Celerimensura o Tacheometria, come fu chiamata dopo essere ritornata a noi dalla Francia, è un metodo di rilevamento della Geometria pratica, dovuto, come è ben noto, al prof. Ignazio Porro di Pinerolo, che nacque nel 1801, fu maggiore del Genio mili- tare piemontese e morì nel 1875 professore nel Politecnico di Milano. Il Porro fu ed è una gloria italiana; di Lui scrisse lo Schiaparelli, nell ultimo suo lavoro (1) dicendo « che ebbe in se il genio della meccanica e dell’ ottica pratica, e « le combinazioni loro seppe in nuovi modi usare a vantaggio della Geodesia e della « Astronomia ». Questo metodo di rilevamento al quale molti in passato negarono l’ utilità e la novità, aprì un nuovo orizzonte alla Geometria pratica. Il Porro ideando il cannocchiale anallatico, prima ad anallatismo nel centro ottico dell’ obbiettivo, col suo cannocchiale sferreogonico, poscia ad anallatismo centrale, rese veramente utile e pratico ‘il metodo di misura indiretta delle distanze colla stadia; perfe- zionando la costruzione degli istrumenti; stabilendo regole razionali nelle operazioni di rilevamento, mentre prima non ve ne erano; sostituendo all’ empirismo norme scientifiche; abolendo il graficismo nelle operazioni sul terreno, compose un nuovo metodo speciale di rilevamento, il metodo numerico, che a giusta ragione deve dirsi a Lui dovuto. Sono note le cause molteplici e svariate che impedirono sin da principio lo sviluppo della Celerimensura e non sono qui da ricordare. Gli oppositori maggiori li ebbe forse nella sua regione; sostenitori valenti vi furono in altre parti d’Italia e specialmente qui a Bologna, ove gli Ingegneri Gualandi, Reg- giani, Pancaldi, Zanolini, e vari altri apprezzarono subito ed applicarono gli stru- (1) Rivista di Astronomia e scienze affini -—- Anno IV n. 7. Luglio 1919, Torino, Società astro- nomica italiana, 1911. Serie VII. Tomo VIII. 1920-1921. 16 — 122 — menti e i metodi del Porro. I due primi fecero parte sin da principio della Associazione geodesica nazionale fondata dal Porro nel 1868 ed i loro nomi (1) furono pubblicati con quelli degli Schiaparelli, Paleocapa, Richelmi, Codazza, Lombardini e di altri uomini illustri nella lista dei primi 39 membri di quella Associazione. Ad onorare la memoria di un illustre bolognese, dell’Ing. Doti. Francesco Gua- landi, non è fuor di luogo il ricordare due importanti sue pubblicazioni conosciute da ben pochi fra i cultori della Celerimensura. La prima del 1851 (2) riguarda |’ Olometro, uno dei vari istrumenti ideati dal Porro, l’ altra tratta dello studio fatto colla Celerimen- sura, dagli Ingegneri Gualandi e Zanolini nel 1853, del primo progetto della ferrovia cosi detta direttissima Bologna-Firenze per quella valle del Setta (3) nella quale ora si eseguisce il tracciato definitivo. Per molti anni la Celerimensura non riuscì ad estendersi e ad acquistare fra noi quel posto nella Geometria pratica a cui aveva diritto, non ostante le cure indefesse, le sem- plificazioni ed i perfezionamenti specialmente negli istrumenti, dovuti all’ingegnere Angelo Salmoiraghi di Milano, ora Senatore del Regno, principale e prediletto allievo del Porro che lo sostituì nella direzione della Filotecnica sua officina, e che della Celeri- mensura può dirsi giustamente il secondo Autore. Al Prof. Cesare Razzaboni fondatore della nostra Scuola di Applicazione per gli Ingegneri e Membro per molti anni della nostra Accademia, spetta il merito di essere riuscito a far riconoscere da tutti in Italia i vantaggi di questo metodo di rilevamento ed a farlo introdurre nei grandi lavori dello Stato e più specialmente nei rilevamenti catastali. i Dopo il Razzaboni, nessuno più mette in dubbio 1° importanza della Celerimensura del Porro ed ovunque essa è adoperata razionalmente, quando il luogo e la specie del rilevamento che si deve eseguire lo comportino. * *_* Nel rilevamento colla Celerimensura |’ operazione di maggiore importanza è quella dei Collegamenti delle stazioni di rilievo, poichè essi servono a dare le linee poligonali, 0 poligonazioni, che il Porro chiamava anche camminamenti, le quali danno i punti d’ ap- poggio al rilevamento dei particolari del terreno, o li aumentano appoggiate alle trian- golazioni nei grandi lavori. Uno dei tanti meriti del Porro fu pure quello d’ avere fatto rilevare, forse per il primo, l’ importanza delle poligonazioni; importanza che, riconosciuta dopo il Porro spe- (1) Atti dell’ Associazione geodesica nazionale — Adunanza 22 Novembre 1868. Milano, Tip. e Lit. degli Ingegneri. (2) Dell’ Olometro di Ignazio Porro per l’ Ing. Dott. Francesco Gualandi — Memorie della Società Agraria di Bologna — Bologna, Tip. Sassi 1851. (3) Relazione sullo studio di una ferrovia nella Valle del Setta dell’ Ing. Francesco Gua- landi — Atti Collegio Ingegneri ed Architetti di Bologna. Anno II° 1883. — 123 — cialmente in Germania, ha condotto alla conseguenza di aggiungere un capitolo speciale negli studi di Geometria pratica, quello cioè delle Poligonazioni e di prescrivere di con- seguenza che le operazioni di rilevamento del terreno di una certa importanza siano stu- diate ed eseguite in tre stadî distinti, in quelli cioè della Triangolazioni, Poligonazioni e Rilevamento dei particolari, gli ultimi due dei quali in Celerimensura possono essere svolti contemporaneamente con un notevole risparmio di spesa e di tempo. I collegamenti delle stazioni si fanno, come è ben noto, con vari procedimenti, ai quali si usa dare le denominazioni di collegamento diretto od a punto indietro, di Moinot, del Porro e misto. Gli Autori non trattano in generale diffusamente, come sarebbe utile, argomento dei collegamenti ed alcuni ne trattano anche in modo incompleto, ma tutti o quasi tutti ne fanno rilevare l’importanza, segnalata pel primo dal Porro in varie sue pubblicazioni. Soltanto in una pubblicazione recente (1) che pure ha molti meriti in altre parti, non solo non è sviluppato lo studio dei collegamenti delle stazioni, ma si dichiara invece che alcuni Autori, seguendo |’ esempio di Ignazio Porro, hanno creduto di ricorrere « ad « artificiosi procedimenti per collegare i punti di stazione. Questi procedimenti sono da « abbandonarsi ». Sarebbe molto dannoso se gli Ingegneri ai quali è dedicata tale pubblicazione, poichè essa fa parte di un trattato generale Teorico-pratico dell’ Arte dell’ Ingegnere, dovessero seguire questo consiglo. I collegamenti diretto od a punto indietro e del Moinot che col primo si può confon- dere, non presentano alcun vero artificio. Solo anche per essi conviene |’ artificio di prendere un punto fra le due stazioni da collegare insieme, rilevandolo da entrambe, se vuolsi, come si può dire sia quasi indispensabile, verificare tutti tre gli elementi che costituiscono il collegamento delle stazioni stesse, ossia la loro distanza orizzontale, la loro differenza di livello, ed il trasporto dell’ orientamento. Ne presenta il metodo di collegamento Porro, allo scopo di poter dimezzare il nu- mero delle stazioni necessarie in un qualsiasi rilevamento e di poter collegare insieme due stazioni che non siano visibili fra di loro, servendosi di punti intermedi che dal Porro stesso furono chiamati punti di collegamento. Il primo scopo presenta grandi vantaggi nella pratica, per economia di lavoro e quindi di tempo e di spesa, evitando di avere estese zone di terreno rilevabili da più stazioni; per semplicità di operazioni e per maggiore precisione di risultati, riducendo sen- sibilmente il numero dei lati dei poligoni nelle poligonazioni. Il secondo scopo di molta minore importanza presenta vantaggi soltanto in vari casi speciali e non merita molto di essere preso in considerazione. Il collegamento Porro è stato abbandonato e non è da consigliare perché richiede molti calcoli ed obbliga ad un procedimento non razionale di calcolare angoli per mezzo (1) Geometria pratica e l'acheometria per l'Ing. Vincenzo Reynà — Casa Editrice Dott. Francesco Vallardi, Milano. — 124 — di lunghezze che non presentano al riguardo un conveniente grado di precisione. Richie- derebbe inoltre un 3° punto di collegamento se si volesse verificare anche il trasporto dell’ orientamento. Al collegamento Porro si cercò di togliere gli inconvenienti ora indicati, mantenen- done i vantaggi e ciò fondendolo cogli altri metodi di collegamento, ai quali di conse- guenza si venivano a togliere gli svantaggi che essi presentavano. Ne venne il collega- mento misto, così chiamato appunto perché presenta promiscuamente i vantaggi dei vari altri metodi di collegamento, senza averne gli svantaggi. Comunemente si consiglia di applicare il collegameuto misto con un solo punto di collegamento, ma esso deve invece applicarsi con almeno due di tali punti, come inse- gnano i migliori Autori, per poter verificare tutti tre gli elementi che lo costituiscono. Il collegamento misto con due punti di collegamento è quello che si usa ora gene- ralmente quando le condizioni del terreno e quelle del lavoro da eseguire non obblighino forzatamente a far uso di quello diretto od a punto indietro, o dell’ altro consimile del Moinot. I provvedimenti artificiosi di collegamento delle stazioni sono quindi necessari e di una utilità indiscutibile. Con essi si hanno i vantaggi seguenti : Non si sovrappongono le zone di rilievo delle stazioni ponendo una stazione qualsiasi in una località nella quale il terreno circostante o è stato tutto rilevato da precedenti stazioni, o solo in parte, mentre |’ altra parte si può rilevare da stazioni successive. Si ha maggiore celerità di lavoro dimezzando il numero delle stazioni. i Si hanno poligoni con minor numero di lati e quindi minori cause di errori e mag- giore precisione nei risultati. Si hanno verificazioni negli elementi di cgni collegamento e si può sempre aumen- tarle aumentando i punti di collegamento. Si suddividono le grandi distanze fra le stazioni in modo da ottenere maggiore preci- sione nelle misurazioni, con errori medi eguali a quelli delle distanze stesse ridotte a metà. Le distanze dei punti di collegamento delle stazioni presentano la stessa precisione di quelle maggiori che si misurano da ogni stazione. Si ha maggiore precisione nel trasporto dell’ orientamento collimando a punti molto distanti. Si rendono trascurabili, per la maggiore distanza fra le stazioni, le piccole differenze provenienti dalla non rigorosa identità dei punti e quelle pure dipendenti da piccole eccen- tricità del cannocchiale dello strumento usato nel rilevamento. Un ultima considerazione riguarda le basi fondamentali del metodo di rilevamento del Porro. Il nome di Celerimensura dato al suo metodo di rilevamento e il fatto di avere Egli sempre messo un declinatore magnetico nei suoi istrumenti, diedero un’ arma agli opposi- tori per combatterlo, dicendo Essi che la Celerimensura altro non era che il metodo della Bussola topografica, allora in vigore e che non aveva altro scopo che quello di far presto. P=STESI RIT aio Nulla di men vero. Il Porro intese la celerilà nei rilevamenti nel senso di far presto sul terreno non svolgendo in campagna tutte quelle operazioni che si potevano fare dopo a tavolino. E ciò in senso affatto opposto al principio che regolava in quei tempi il vile- vamento colla lavoletta Pretoriana, allora il principale strumento della planimetria. Egli mise il declinatore magnetico nei vari istrumenti soltanto per impedire grossolani errori di orientamento e per determinare errori minori di orientamento da doversi correggere, sia nel collegamento Moinot, come e più specialmente nel suo metodo di collegamento ora abbandonato. Il Porro raggiunse il suo scopo prescrivendo procedimenti semplici, regole precise di rilievo e adottando il principio razionale della divisione del lavoro col mandare in cam- pagna delle squadre di operatori. I collegamenti delle stazioni poste alle maggiori distanze possibili fra di loro, costi- tuiscono una delle regole principali per raggiungere lo scopo voluto dal Porro di impie- gare in campagna il minor tempo possibile. Il collegamento misto è stato trasformato dagli operatori del catasto italiano in un altro che usano chiamare collegamento coi punti in linea e che si applica sempre con almeno due di tali punti. Alcuni Autori fra i più riputati, come il Baggi ed il Tadanza fanno cenno di punti di collegamento presi sulla linea delle due stazioni, ma senza darvi l’importanza di un metodo speciale di collegamento, che non era in passato e non è neppur ora dai più cono- sciuto come tale. Questo metodo di collegamento merita di essére preso in considerazione e conosciuto ed applicato, poichè nella generalità dei casi presenta vantaggi sugli altri. Esso sostituisce quello misto applicato con due punti di collegamento che si prescrive di prendere possibilmente uno da una parte e | altro dall’ altra, a brevi distanze dalla linea che unisce le due stazioni. I due punti di collegamento in linea debbono essere a piccola distanza fra di loro, 405 metri al più, e situati possibilmente verso la metà della distanza fra le due stazioni. Si ha qui una regola in più da applicare, quella cioè di misurare esattamente con metodo diretto, la piccola distanza fra quei due punti. Tale misura verifica quelle fatte colla stadia nelle due stazioni sui due punti di collegamento, poichè ridotte queste all’ oriz- zonte, le loro differenze in entrambe le stazioni debbono essere eguali alla misura stessa o meglio trovarsi nel confronto con essa entro i limiti delle tolleranze prestabilite. Si vede subito come tale verificazione sia importante e rigorosa. Ai vantaggi già indicati per il metodo di collegamento misto, si aggiungono con questo i seguenti: Si può subito verificare stando in ogni stazione, se siansi commessi errori nelle deler- minazioni delle distanze dei punti di collegamento dalla stazione stessa. Serie VII. Tomo VIII. 1920-1921]. 17 = Wo Si può subito verificare nella seconda stazione se siansi commessi errori nella deter- minazione della distanza fra le due stazioni. Non debbonsi fare calcolazioni speciali per determinare la distanza fra le due stazioni, all’ infuori della somma delle distanze dei collegamenti dalle stazioni stesse. Questo metodo, così applicato, ha però l’ inconveniente di non presentare una verifica- zione nel trasporto dell’ orientamento, poichè in ogni stazione si collima collo stesso azi- mut fanto ai punti di collegamento, come all’ alira stazione. Per avere una tale verifica- zione bisogna prendere qui pure un terzo punto di collegamento fuori linea. Lo studio teorico degli errori in questo metodo di collegamento e quello critico sui risultati ottenuti col metodo stesso nei rilevamenti catastali ed in varie esperienze da me eseguite, formeranno oggetto di un’ altra nota. SULLA: FISIOLOGIA DEI CENTRI INTRACARDIAGI LET 2 2 IL. COMUNICAZIONE Ancora dell’azione dei cardiocinetici sul centro atrio-ventricolare isolato MEMORIA DEI Prof. LODOVICO BECCARI letta nella Sessione del 30 Gennaio 1921 In un mio precedente lavoro (1) ho accennato ad alcune ricerche di Fròhlich e Pick (2) intorno all’ influenza di veleni parasimpatici sull’ azione della legatura di Stannius nel cuore della rana; e per i rapporti, che tali fatti possono avere co’ miei studi, ritengo utile esaminare i risultati dei predetti AA. Tali risultati si possono riassumere così: La muscarina, (e in modo analogo si comportano l’ acetilcolina e la pituitrina) fatta agire sul cuore di rana, rende del tutto inefficace la prima legatura di Stannius; vale a dire il ventricolo continua senza pausa le sue pulsazioni e non si ha nessun accenno di fase preautomatica o di arresto diastolico. Questo effetto si osserva specialmente nello stato di avvelenamento incompleto, cioè quando si svelena il cuore, trattato con muscarina fino ad ottenere l’ arresto diastolico, facendo circolare liquido di Ringer puro; si arriva così ad uno stadio (che precede la completa restitutio del cuore), nel quale tanto il seno-atrio quanto il ventricolo riprendono a pulsare regolarmente, ma quest ultimo con ritmo indipendente cioè dissociato. Gli AA. affermano che eguale effetto si può osservare nell’ avvelenamento completo da muscarina, cioè quando si è prodotto l’ arresto dia- stolico del cuore; anche qui, dopo |’ applicazione della prima legatura di Stannius, pur continuando 1° azione della muscarina, il ventricolo riprende a pulsare spontaneamente, sebbene spesso solo dopo alcuni minuti. In base a tali risultati essi concludono, che la dissociazione dei battiti e la ineffi- cacia della legatura di Stannius possono spiegarsi soltanto col blocco della trasmissione (1) L. Beccari, Sulla Fisiologia dei Centri intracardiaci, I Comunicazione: Azione dei cardio- cinetici sul centro atrio-ventricolare isolato. (Mem. della R. Accad. delle Scienze di Bologna, S. 7, T. 5, pag. 129, 1919). (2) Arch. f. Exper. Path. u. Phurmak. (Bd. 84, S. 267, 1918). SE da A a V, e coll’ insorgere (come conseguenza di ciò) dell’ attività automatica del centro di eccitazione ventricolare. .Ma evidentemente gli AA. si avvidero che tale conclusione era in contraddizione col fatto, che tanto nell’ arresto per stimolazione del vago quanto in quello per ecci- tazione tossica delle terminazioni parasimpatiche non si manifesta questa pretesa attività automatica del ventricolo: essi perciò trovano necessario ammettere che la conduzione dello stimolo, in seguito all’ avvelenamento da muscarina ece., si reintegri con maggiore difficoltà che non la produzione degli stimoli nel ventricolo stesso; e che a determinare 1’ attività automatica del ventricolo del cuore della rana, nonchè la completa abolizione della conduzione degli stimoli, sia sufficiente | indebolimento progressivo di questa 0, che è lo stesso, la graduale reintegrazione della stessa dopo che era stata abolita. Giova premettere che gli AA. ritengono dimostrata la natura automatica dell’ at- tività ventricolare, che essi hanno riscontrata in seguito dell’ avvelenamento incom- pleto da muscarina ed alla susseguente legatura del seno. Infatti, essi soggiungono, è noto che dopo questa legatura il ventricolo, anzi il resto del cuore, non avvelenato, resta lungo tempo in diastole. Ora su questo punto credo necessario fare alcune osservazioni : Anzitutto bisogna tener presente che il risultato della (prima) legatura di Stannius sopra di un cuore di rana non può essere preveduto con assoluta sicurezza e preci- sione, sia per quanto riguarda la produzione dell’ arresto diastolico e la durata di esso, sia rispetto al susseguente ritmo secondario ventricolare. Minime differenze di tecnica possono portare effetti molto diversi, fino alla mancanza dell’ arresto diastolico. Sopratutto le condizioni. di massima integrità del cuore al momento della legatura hanno il maggior peso sull’ effetto di questa. Di guisa che facendo agire sul cuore, prima della legatura, qualche sostanza 0 modificando in qualsiasi modo le condizioni di nutrizione e di funzionalità del cuore stesso, e successivamente praticando la detta legatura, non possiamo in modo assoluto valutare le modificazioni che quelle precedenti azioni possono avere determinato sul conseguente arresto diastolico e sul ritmo secondario ventricolare ; perchè ci manca il dato di confronto sullo stesso cuore, sottoposto all’ esperimento, prima che su di esso agissero le sostanze impiegate. Il metodo da me seguito nelle mie ricerche è quindi preferibile, perchè esente da tali cause di errore. Infatti praticando sul cuore intatto la prima legatura di Stannius, noi possiamo perfettamente osservarne le conseguenze, che possono variare in relazione alle diverse circostanze (come lo stato di ibernazione della rana, la temperatura ambiente, variazioni accidentali nella tecnica, ecc.). Dalla durata dell’ arresto diasto- lico prodotto, e sopratutto dal tipo che presenta il ritmo secondario ventricolare che fa seguito, in relazione specialmente ai gruppi di contrazioni atrio-ventricolari ed alle pause che li separano, noi abbiamo un punto sicuro di partenza per studiare con precisione le eventuali azioni di sostanze applicate o fatte agire altrimenti sul cuore. — ego Tuttavia i risultati ottenuti dai citati AA. potrebbero, nonostante queste mie obbiezioni generali sul metodo seguito, avere qualche valore probativo, poichè essi osservarono, che, in seguito all’ applicazione delle sostanze sperimentate, 1’ arresto diastolico per la lesatura di Stannius veniva a mancare affatto. Ora un esame più minuto delle ricerche di Fròéhlich e Pick permette di esclu- dere anche la legittimità di questa conclusione. Anzitutto gli AA. affermano che gli stessi risultati essi hanno ottenuto nell’ avve- lenamento completo per muscarina (V. pag. 270); le loro stesse parole smentiscono il fatto, giacchè essi asseriscono che « dopo | applicazione della prima legatura di Stannius, il ventricolo comincia a battere spontaneamente nonostante continui |’ azione della muscarina, sebbene spesso soltanto dopo alcuni minuti »: ciò è quanto avviene precisamente anche nel cuore normale, in cui la sosta che segue alla legatura di Stannius, prima che si inizi il ritmo secondario ventricolare, può essere più o meno lunga, e non può quindi mai essere preventivamente determinata la sua durata. Si potrebbe soltanto chiedere se, sotto 1 azione della muscarina, questa sosta venga modi- ficata, cioè abbreviata. E ciò potrebbe essere anche effetto di un’ azione diretta della muscarina sul centro eccito-motore ventricolare. A tale proposito debbo incidental- mente dichiarare, che io stesso sperimentando la muscarina sul cuore già arrestato con la prima legatura di Stannius, secondo il metodo da me impiegato, in qualche caso ho avuta | impressione che tale sostanza avesse una certa azione eccitante sul ventricolo; ma il fatto merita conferma di nuove ricerche. Però si può obbiettare che la mancanza dell’ arresto diastolico, cioè la completa inefficacia della prima legatura di Stannius, fu osservata da questi AA. sempre nelle fasi di svelenamento del cuore, cioè per azione incompleta della muscarina e delle sostanze analoghe sul cuore. Ma, se bene si osserva la tecnica seguita da essi in queste esperienze, troveremo la spiegazione del fatto riscontrato dagli AA. ma dovuto a causa ben diversa. Infatti essi hanno operato sul cuore di rana, praticando la circolazione artificiale, mediante la cannula di Straub, con liquido di Ringer (V. pag. 269), sia puro che mescolato alle sostanze tossiche. Ora questa metodica toglie ogni valore dimostrativo alle esperienze di Fròhlich e Pick, poichè sul cuore distaccato e irrigato col liquido di Ringer la legatura del seno non provoca un’ arresto diastolico come sul cuore intatto o normalmente irrigato dal sangue. Io stesso ne posso dare Ja dimostrazione rimandando il lettore alle ricerche sull’ azione del potassio (1). In tale lavoro, operando sul cuore di rana isolato, sì dimostra che anche la circolazione artificiale con siero di sangue fa sì che, in seguito alia legatura di Stannius, il cuore (atrio-ventricolo) non si arresta, ma presenta soltanto un rallentamento del ritmo; se poi si fa circolare il liquido di (1) L. Beccari. Azione del potassio e degli omologhi rubidio e cesio sul cuore. Arch. delle Scienze Biol. Vol. 1°, N. 1, Dec. 1919. Ringer allora non si osseva quasi nessuna modificazione del ritmo ventricolare e ciò è dovuto sopratutto alla. presenza del potassio, che agisce come uno stimolo diretto sul centro eccito-motore del ventricolo. L’ arresto diastolico atrio-ventricolare non si manifesta con sicurezza se non quando le condizioni di nutrizione del cuore si allon- tanano il meno che sia possibile da quelle normali; è necessario che, allorquando la lesatura del seno ha intercettato gli stimoli fisiologici che scendono al centro atrio- ventricolare, questo non possa ricevere alcuno stimolo abnorme, che può essere rap- presentato molto spesso dal liquido circolante. In un altro mio lavoro precedente (1) ho dimostrato, come cosa molto probabile, che la proprietà automatica del ventricolo, generalmente ammessa, sia piuttosto da riferirsi al fatto che tanto la prima legatura di Stannius che gli altri metodi finora impiegati per mettere fuori di azione il centro automatico del seno sono parimente causa di stimolazioni, le quali arrivando e som- mandosi nel centro eccito-motore ventricolare provocano la scarica funzionale, che si manifesta col ritmo secondario atrio-ventricolare. Perciò la conclusione generale degli AA. che cioè Ia muscarina, modificando la conduzione degli stimoli possa provocare |’ attività automatica del ventricolo del cuore di rana, non può accettarsi come legittima conseguenza delle esperienze surricordate. Nello studio ulteriore dell’ azione delle sostanze cardiocinetiche sul centro atrio- ventricolare isolato, si possono riconoscere alcune differenze nelle manifestazioni del- l’ attività di questo centro, specialmente nella fase iniziale, differenze che certamente corrispondono a diversità del meccanismo di azione e che possono illuminarci sulle complesse proprietà dei centri intracardiaci finora molto imperfettamente conosciute. Comparando insieme il modo di manifestarsi della attività autonoma del centro atrio-ventricolare sotto l’ azione della caffeina, della canfora e delle sostanze digi- taliche si possono riconoscere due tipi di azione eccito-motrice di questi principi. Rimando in proposito alle grafiche della mia precedente comunicazione (2) e precisa- mente alle figure 5, 6 e 7 per la caffeina, 2 e 3 per la canfora e 15-21 per la digitalina, sufficienti a dimostrare il fenomeno, che del resto si presenta con costanza notevole. i Tali tipi sono i seguenti: a) l’ uno, che si manifesta in modo spiccato con la caffeina, è caratterizzato dalla progressiva diminuzione delle pause fra i diversi gruppi di contrazioni atrio-ventricolari spontanee (che costituiscono il così deito ritmo secon- dario del cuore dopo la legatura del seno); mentre questi gruppi (che possono essere (1) L. Beccari. La funzione del seno e l’ automatismo del cuore della rana. Mélanges biologi- ques. Livre dedie è Charles Richet. Paris, 1913, pag. 31 e Bull. delle Scienze Mediche. Bologna, 1913, pag. 245). (2) I. c. pag. 133 e seg. = dB1 = costituiti da 1, 2 o più contrazioni) restano immodificati per il numero delle contra- zioni, ma si avvicinano progressivamente fra di loro fino a costituire una serie continua e regolare, che dà | impressione di un’ attività ritmica permanente del centro atrio-ventricolare; è) l’altro, che è sopratutto ben manifesto per azione delle sostanze digitaliche, è caratterizzato da un contegno perfettamente opposto, cioè dalla costanza delle pause che si mantengono pressochè invariate; ma, per converso, ì gruppi delle contrazioni atrio-ventricolari si modificano progressivamente per aumento delle contrazioni stesse, aumentano cioè di durata e di estensione fino a che, per dosi sufficienti della sostanza attiva, si stabilisce un ritmo continuato e rego- lare, che può durare più o meno a lungo. Al cessare o al diminuire dell’ azione dei detti cardiocinetici spesso si manifesta nuovamente lo stesso aspetto del fenomeno ma in senso inverso. Per ciò che riguarda la canfora ho potuto osservare, che a seconda della dose o del modo di applicazione della sostanza al cuore si possono presentare i due tipi descritti. Così istillando direttamente sul cuore preparato una semplice soluzione di Ringer saturata con canfora, | attività atrio-ventricolare aumenta secondo il tipo proprio della caffeina finchè si stabilisce un ritmo regolare e di frequenza quasi pari a quella del seno (V. fig. 3 citata). Se invece si fa agire la canfora in dose molto più elevata e direttamente sulla base del ventricolo (applicandovi un dischetto di carta bibula imbevuta di olio canforato al 10%) allora l’attività atrio-ventricolare si esalta secondo il tipo proprio delle sostanze digitaliche. Non potendo riportare le grafiche relative, riferisco alcuni esempi: In un caso, in cui i gruppi di attività spontanea atrio-ventricolare erano rappresentati da quattro o cinque contrazioni, separate da pause uniformi e della durata di circa un minuto, l’ applicazione dell’ olio canforato per circa 5 minuti sulla base del ventricolo ha fatto aumentare fino a 16-18 le con- trazioni dei singoli gruppi senza modificare affatto le pause interposte. In un altro caso, in cui i gruppi spontanei erano costituiti da 8 contrazioni atrio-ventricolari sepa- rati regolarmente da pause di 2 minuti, I’ applicazione dell’ olio canforato ha deter- minato un ritmo continuato e regolare senza pause per parecchi minuti. L’ esistenza di questi due tipi ben distinti, secondo i quali il centro atrio-ventri- colare risponde ai diversi cardiocinetici, mi pare possa contribuire ad illuminarci sulla intima e complessa natura della funzione di questi centri. Bisogna anzitutto ammettere, che nel processo di eccitazione esistono varie fasi fra loro collegate, sulle quali però possono singolarmente agire differenti stimoli, rap- presentati dai diversi farmaci, i quali perciò -possono esplicare effetti diversi ma sempre determinando un aumento di funzione del centro intracardiaco. Pur non conoscendo con precisione queste fasi, noi possiamo però ritenere che nel centro nervoso cardiaco avvengano almeno due ordini di fatti, che si succedono in istretto collegamento. Anzitutto una corrente di afflusso e di efflusso di eccitazioni, che può subire modificazioni riguardanti specialmente la velocità e le resistenze di trasmissione degli stimoli fra il centro nervoso e gli altri elementi in rapporto con op = esso. Ed un processo di elaborazione o trasformazione di energia, che riguarda |° in- timo lavorìo fisiologico dell’ elemento nervoso, come generatore di stimoli specifici per altri elementi funzionalmente dipendenti da esso. È evidente che esaltando |’ una o 1’ altra di queste fasi del processo di eccita- zione del centro, | effetto, pur essendo alla fine il medesimo, potrà esplicarsi con quelle differenze di ritmo e di aspetto che abbiamo sopra notato. To propendo a credere che la caffeina agisca specialmente nel senso di ageyolare le correnti di eccitazione che vanno o vengono dal centro, diminuendo le resistenze ed esaltando |’ eccitabilità; in tal modo le pause fra i gruppi di contrazioni atrio-ven- tricolari verrebbero a diminuire perchè la scarica funzionale del centro sarebbe faci- litata ed avverebbe non appena la elaborazione centrale degli stimoli avesse rag- giunta la tensione necessaria a superare le diminuite resistenze. Al contrario la digitalina eserciterebbe la sua azione specialmente sulla fase di elaborazione o trasformazione di energia del centro nervoso accrescendo in questo le forze tensive, che si manifesterebbero poi nel momento della scarica funzionale con una serie di stimoli assai più prolungata dell’ ordinario. Questo modo di interpretare i risultati osservati, pur essendo null’ altro che un’ ipo- tesi, si accorda anche coll’ azione farmacologica generale dei cardiocinetici speri- mentati, e mi pare non manchi di interesse specialmente come punto di partenza per ricerche ulteriori e più approfondite sulle proprietà fisiologiche della innervazione intracardiaca. Istituto di Fisiologia della R. Università di Bologna Diretto dal Prof. Sen. P. Albertoni og GI { LA RISICOLTURA IN ALBAN MEMORIA DEI, Prof. ANTONIO BALDAE@CI letta nella Sessione del 22 Maggio 1921. Fin dal 1888, quando vidi per la prima volta nella Susitza presso Vallona le col- ture del riso albanese, ebbi la convinzione che questo cereale avrebbe potuto incon- trare in Albania un avvenire sicuro. Il riso albanese, benchè appartenga alle varietà più antiquate, è di bella e buona qualità; ossia ha valore nutritivo, sapore, durezza, trasparenza. I pochi coltivatori della Susitza erano giunti ai miei tempi a questo suc- cesso con riproduzioni di una diecina di anni (1). Nel maggio 1915, ricordando alcuni miei appunti intorno alla risicoltura nell’ Al- bania, volli rivolgermi per parere al Prof. N. Novelli, Direttore della R. Stazione di dsicoltura di Vercelli. Egli mi rispondeva il 5 giugno nel seguente modo. « Ritengo certo, per quanto ho letto e sentito riferire da chi ha conosciuto 1° Al- « bania, che vi sia in quel paese molto da fare per la risicoltura; qualche anno fa mi « venne affidato uno studio di massima per la coltura a riso di una zona di terreni « nel Montenegro, nella valle della Bojana, che ritengo in condizioni di ambiente ana- « loghe a quelle che in Albania potrebbero venire destinate a tale coltura, e ricordo di « aver concluso per la possibilità della coltura con le condizioni più favorevoli. « Ella farà quindi benissimo a cercare in avvenire di dare incremento a tale coltura. « Poichè Ella mi scrive di gradire anche il mio consiglio, mi permetta di aggiungere « un modesto avviso, e cioè di farle presente la necessità, per questa coltura tanto « complessa e tanto sensibile, di studiare obbiettivamente, con criteri desunti dall’ am- « biente, I’ applicazione di essa nelle condizioni locali, non basandosi troppo sulla tecnica « e pratica colturale che si segue come ottima nel nostro paese. (1) Per questo lavoro ringrazio toto corde et animo l’ amico Prof. Giuseppe Dessì, Direttore della Cattedra Ambulante di Oristano, il quale durante la sua permanenza sotto le armi in Albania raccolse molte delle preziose notizie che qui risultano e che rispondono a un largo questionario rivol- togli in collaborazione col Prof. Marcarelli della R. Stazione di Risicoltura di Vercelli. All’ uno e all’altro, così valenti in materia, esprimo i miei ringraziamenti più vivi per i consigli di cui mi furono larghi per lo svolgimento di questa Memoria. Serie VII. Tomo VIII. 1920-1921. 18 ZARE « Per esperienza, ho dovuto constatare quali gravi errori tecnico-economici iniziali « si siano commessi, per esempio, nelle nuove regioni risicole del Brasile, dell'Argentina, « ed anche in quelle costiere della Spagna ove ogni imprenditore della coltura intese « foggiarla subito con i criteri e con la tecnica portati dal proprio paese ». L'Albania è realmente, come si vedra anche in questo studio, un paese favorevole alla risicoltura. Il riso vuole a un tempo molta acqua e molto caldo, onde non si col- tiva in Europa che in pochissime plaghe ove, come appunto nell’ Albania, tali condi- zioni si trovano riunite. Con questa premessa fondamentale, l’ Albania, costituita da una fascia marittima di terreno inondato la maggior parte dell’anno e di valli interne anch’ esse sovente inondate, e provvista di un clima la cui temperatura media oscilla intorno alle nostre più miti, possiede i requisiti specifici di base per sviluppare una risicoltura proficua. Nell’ Albania, il riso è conosciuto col nome indigeno « ris », con quello gereco « oryza » e col turco « piring »; il nome italiano è quello più commerciale lungo la costa. Nessuno degli scrittori che si occuparono dell’ Albania parla della storia dell’ agri- coltura locale. Soltanto qualcuno accenna all'introduzione della coltura dell'olivo, che si attribuisce a provvedimenti e incoraggiamenti della Repubblica di Venezia, senza precisare l’epoca. La coltivazione del riso in Albania sara stata introdotta per opera dei Vene- ziani, o dei Turchi, o dei Serbi, o dei Greci? In altre parole, l’ introduzione della risi- coltura si deve ai cristiani o ai musulmani e verso quale epoca è avvenuta? Ho avuto cura di compiere un’inchiesta sufficiente, facendo convenire nei principali centri della produzione attuale del riso nell’ Albania i migliori coltivatori, ma nessuno di essi ha saputo precisare a chi e a quale epoca si debba la introduzione della risicoltura nell’ Albania. Alcuni propendono a credere che questa introduzione sia dovuta a inizia- tiva di italiani (più verosimilmente di veneziani) (1); ma non si ha notizia dell’ epoca in cui ciò può essere avvenuto. Tutti, peraltro, sono concordi nel ritenere che le prime coltivazioni non debbano essere di molto anteriori all’ epoca di Ali pascia e che lo svi- luppo più intenso sia stato raggiunto mezzo secolo fa nell’ Epiro (2), e un poco prima nel Nord (3), nella quale epoca la produzione locale (che si ritiene presso a poco nella (1) L'ipotesi che l'origine delle colture del riso nell’Albania sia dovuta ai Veneziani può venire confermata dal fatto che nella zona di Venezia e particolarmente nei tervitori di Portotolle, Adria, Cavazuccherina, Portogruaro e altrove, la coltivazione del riso vi è praticata da lungo tempo. (2) Una delle località classiche di coltura di quel tempo è la vallata della Susitza. Il riso della Susitza era realmente ottimo. Ai tempi del Visir Ferid Pascià, della casa dei Vljora, non convenendo nè a lui, nè ai suoi fratelli questa coltivazione, fu fatta sospendere. Il divieto venne motivato con la scusa della malaria, per cui si doveva evitare oguiì coltura irrigua. Infatti, nel suo basso corso la Susitza allaga per ampio tratto i terreni adiacenti, specialmente nell’ inverno, sì da permettere a primavera una larga coltivazione del riso. (3) Le relazioni politiche e commerciali tra la Repubblica di Venezia e il Nord albanese furono assai intense dopo la caduta di Scutari nelle mani dei Turchi. estensione doppia di quella attualmente coltivata) bastava sufficientemente ai bisogni lella popolazione e non si era ancora manifestata la importazione del cereale dal- l’ estero. Secondo le mie indagini, la risicoltura fu fiorente in molte parti del « vilayet » di Scutari e nei territori di Tirana, Elbasan e Berat, e, a parere di taluni, anche in quello di Argyrocastro. Per quest’ ultimo territorio, io esprimo il mio dubbio perché le acque dlel Drynopoli non sembrano mai state sufficienti ad alimentare una coltivazione intensa del riso. Diverso, invece, può essere il caso nei territori di Delvino e di Janina e nella regione di Prevesa dove la coltivazione del riso è nota da molto tempo. Attualmente, la risicoltura nell’ Albania è piuttosto in decadenza nonostante che potesse sempre trovare le migliori condizioni di sviluppo. Le località più note sono: l) fra Tirana e Kroja, nella vallata del fiume di Tirana; 2) in qualche parte del Zadrima ; 3) nella conca di Eibasan, cioè al Sud del fiume Shkumbi ; 4) nel territorio di 3erat lungo il fiume; 5) nel distretto di Fieri e in altre parti del Musakijà ; 6) presso Vallona, lungo la Susitza; 7) nel territorio di Delvino (fiume Bistritza, Kalasiotiko e paludi dipendenti); 8) nel distretto di Prevesa (vallata del Luro, regione di Philippiada, Parga e altrove, come a Han Virò). La coltivazione del riso ha subito in Albania le più forti oscillazioni: in sostanza, però, non ha potuto progredire per l’indolenza sempre più grave del governo ottomano e per l'impossibilità di lottare contro la concorrenza dei prezzi fatti ai prodotti locali dai risi esteri, che ne resero la coltura spesso impossibile, sì da stancare anche i più volonterosi. Nell’ Epiro, la sregolatezza sempre crescente del fiume Bistritza di Delvino ha reso, oggi, meno propizia che nel passato la risicoltura e si tende ogni giorno più a restringere la superficie che prima veniva destinata al riso. Quindi, il riso è una pianta che meriterebbe nell’ agricoltura albanese molta maggiore attenzione di quella di cui gode, perchè questo cereale è destinato a prendere sempre più larga diffusione nell’ alimentazione della popolazione indigena. L° albanese con- suma abitualmente pochissima pasta, ma molto riso, che cucina a minestra e asciutto (1). L'Albania, che ha terreni adatti (2) naturalmente per sviluppare la coltivazione del riso, dovrebbe perciò potersi affrancare dall’ importazione. Oggi, per la sua importanza, questa coltivazione occupa il 4° posto fra le erbacee che in quella regione sono così stabilite: I. Mais; II. Frumento, avena, orzo ; III. Faggioli; IV. Riso. (1) Gli albanesi si servono del riso per il piliaf turco, per il risotto, riso con carne, per la mine- stra (ciorda, alla turca). ” (2) La natura prevalente dei terreni di tutta la zona ove si coltiva il riso è quella siliceo- argillosa, tendente allo sciolto; si tratta di terreni facili a lavorare quando sono freschi e umidi, ma tenacissimi e difficili a penetrare, se asciutti. Serie VII. Tomo VIII. 1920-1921. 18” La coltivazione del riso nell’Albania — nelle condizioni in ‘cui attualmente si esercita — non è prospera. Essa è quanto di più trascurato si possa immaginare nel- la parte centrale, mentre è un po’ più accurata nell’ Epiro. In tutte le località ove il riso si coltiva, esso può dare prodotti tanto più abbondanti e rimunerativi, quanto la colti- vazione viene praticata con maggiore volontà razionale. Le condizioni dei lavori per la risicoltura sono nell’ Albania le seguenti. Nell'Al- bania centrale e nel Nord non si fa alcun lavoro speciale di preparazione del terreno e si semina sul sodo. Nell’ Epiro si fa una buona aratura o una zappatura. Non si pra- tica in alcun caso concimazione di sorta; non si mette alcuna cura nella scelta della varietà e del seme (se si toglie una cernita grossolana a mano del risone che si fa nell’ Epiro); non si fa alcun ricoprimento del seme all’ atto della semina, né si ha alcuna cura di intorbidare l’acqua al momento della semina; non si pratica alcun lavoro colturale, nemmeno una scerbatura. La sistemazione del terreno per la risaia è molto semplice in Albania. Abbon- dando le terre adatte (naturalmente piane) alla coltura del riso, non si procede ad alcuna sistemazione artificiale (spianamento o livellazione). Le risaie sono quindi situate in terreni completamente piani; sono sconosciute le colture nei terreni in dolce pendio. La semina sul sodo è di rado preceduta da lavori di erpicatura e mondatura del terreno. Nei terreni asciutti si fa precedere qualche tempo l irrigazione alla semina. Presso Tirana, il terreno viene sistemato in piccole aiuole (regolari) di m. 3 X4, separate da arginetti provveduti di sfioratori di comunicazione; in queste aiuole viene immessa l acqua per mezzo di fossi appositi. Presso Elbasan, le aiuole sono irregolari e più ampie (in media m. 5 XX 12); anche in questo caso, le aiuole sono divise da arginetti e comunicano fra loro per mezzo di sfioratori. Presso Del- vino e Filippiada, il terreno è sistemato a piccoli quadrati di m. 4 di lato. La esten- sione media degli appezzamenti a risaia è di uno o più dulum o strema (1); comum- que, è variabile ‘assai. Nell’ Epiro meridionale ogni dulun comprende 10 caselle. In generale si assegna uno spazio così limitato a ogni casella per evitare qualsiasi lavoro (1) Il dulum o dunum, misura di superficie, oscilla fra i 900 mq. e i 5000 mq. secondo i diversi paesi dell'Albania. PROVA I GELISLO mq. 4000 SMD URAZZON ER » 900 — 1100 ERIEGRA Aa 0 ea Sd » 1150 QEDITANa tia . >» 1000 — 1200 DEB a NERE » 2000 — 4500 aa Sha e » 1600 amtavajaii Casi iti » 1200 RIAVa ON >» 1000 — 1700 » RRMIFOLi i are te » . 1000 HD IEMIOOlS Sto SS «+ > 1380 in pianura, 675 in collina Berra a » 1600 — 5000 Naz. oe DIO D — 137 — di livellazione. Ciò si esegue anche per la forza dei venti in determinate zone. I venti, in tal caso, obbligano a restringere quanto più sia possibile gli specchi d’acqua per evitare l’ ondeggiamento della medesima e quindi la cattiva nascita del riso. Con questo sistema, però, si ha una perdita assai notevole di superficie utilizzabile a coltura. In pari tempo, essendo la risaia in rotazione, il sistema suddetto porta a spese conside- . revoli di mano d’ opera nei passaggi dall’ una all’ altra coltura. La mancanza di lavoro preparatorio prima della semina è regola costante a Tirana, Elbasan, Berat, ossia in tutta l'Albania centrale. Verso gli ultimi di marzo, nell? appéz- zamento destinato alla coltura si elevano con la zappa piccoli arginelli di 15-20 cm. di altezza in modo da dividere l’ appezzamento nelle sue caselle. Nel territorio di Tirana eli arginelli sono fatti in modo che ogni casella acquista forma rettaneo- lare, mentre nella. conca di Elbasan, dove le caselle sono di forma irregolare, anche gli arginelli sono irregolari. Nell’ Epiro (cazd di Delvino e Prevesa) si prepara in febbraio il terreno con una buona aratura a 10-15 em. (1); a marzo si fa |’ argi- natura e contemporaneamente si dà una zappatura al terreno per appianare la super- ficie; questo lavoro di zappa viene compiuto dalle donne (2). In generale, se si eccei- tua 1 Epiro, la preparazione del terreno per la risicoltura è sempre assai trascurata ; l’erpicatura e lo spianamento del terreno sono operazioni che non si fanno mai prima di gettare il seme e anche il lavoro di aggiornamento degli arginelli è sempre molto trascurato. Nessun procedimento speciale si usa per la selezione del seme. Nell’ Epiro si purga il seme a mano. Si usa seminare il risòne prodotto nella stessa azienda e località e non sì ricorre mai a semente prodotta altrove. A Berat, Tirana, Elbasan si coltiva una varietà di riso di medio vigore che raggiunge l altezza di un metro ed ha pan- nocchie allungate, glume pubescenti e lunghe ariste di colore rossastro. Il seme è minuto, di forma allungata, ottuso alla sommità e dopo la pilatura conserva venatura rossa- stra. Riso rosso è detto nella regione; forse è la varietà wufescens. Nell? Epiro non si conosce che il nostro riso, il quale non raggiunge mai più di cm. 70 di altezza ed ha il seme bianco. Nel paese di Vrioni (Delvino) si ottiene una qualità di riso rinomata e veramente pregevole. La coltivazione del riso rosso nei territori di Berat, Tirana ed Elbasan dimostra la poca 0 niuna conoscenza che hanno gli albanesi di varietà oggi più diffuse e più atte alla produzione: la coltivazione delle varietà antiquate è ormai abbandonata nei paesi risicoli a coltura intensiva. In ciò consiste a mio modo di vedere una delle ragioni indirette della diminuita superficie destinata alla risaia, venendo a costare la, produ- zione unitaria di tale razza molto più di quella a grana completamente bianca e di (1) La profondità dell’ aratura dipende dalla forza dei buoi o dei bufali (2 buoi o 2 bufali) che si adoperano, ma in generale non supera i 15-25 cm. (2) Per spianare il terreno arato, i contadini si servono di un graticcio (lesha) tirato dai buoi o dai bufali sul quale si mette un peso o si adagia il contadino stesso che serve, così, da peso. LR elevato rendimento, come si fa nel territorio di Delvino. Tra i risi rossi albanesi si col- tivava in passato una razza le cui cariossidi si distaccavano con facilità sia prima della mietitura, sia durante la medesima e sia durante il trasporto. Questa razza venne gra- datamente in disuso non perchè di scarso valore nutritivo, che anzi, si trattava di uno dei risi più ricchi in sostanze azotate; ma il suo basso rendimento in causa della facilità con la quale cade, non ne poteva consigliare la coltivazione. D’ altra parte, questa varietà era anche di basso rendimento unitario, data la brevità del suo ciclo di sviluppo. Tanto più breve i cereali hanno il loro ciclo vegetativo, pure tanto più bassa è la loro produzione. Dalla semina, ossia dalla fine di aprile, il riso impiega fino alla maturanza (terza decade di settembre) circa cinque mesi. Nell’ Epiro, qualcuno ricorda varietà resi- stenti oltre la fruttificazione, ma al presente non si coltivano che varietà tipicamente annue, le quali impiegano per maturare 180 giorni, calcolandosi la semina alla fine di aprile. La coltura del riso si esercita dovunque avvicendata con altre colture. Nel ci/lik Valjas di. Avdi bey (valle di Tirana) si usa il seguente avvicendamento: 1° riso, 2° riposo, 3° orzo 0 avena, 4° mais, 5° orzo o avena (1). Nella conca di Elbasan, invece della rotazione quinquennale, alcuni adottano quella biennale, ossia granturco e riso ; altri al riso fanno seguire per due anni il riposo e quindi il pascolo. A Delvino e a Filip- piada si usa il seguente avvicendamento: 1° riso, 2° granturco, 3° e 4° riposo (pascolo). Se si praticassero concimazioni e si regolasse il corso dei fiumi, la risaia potrebbe finire di assumere in molte regioni carattere di stabilità (2). La grande estensione adatta e disponibile per la risicoltura permetterebbe di scegliere e di cambiare la coltura dove meglio talenta. Per la semina del riso (modo, tempo, quantità di seme) si varia alquanto a seconda dei luoghi. A Berat, Tirana, Elbasan il riso sì semina su terreno sodo sistemato nelle caselle di cui si è detto; la semina viene fatta sopra terreno coperto da circa 10 cm. di acqua alla fine di aprile. Nell’ Epiro (zona di Delvino e Filippiada), sì fa dovunque la semina a spoglio ai primi di marzo. È regola di impiegare da 6 a 8 oke di seme per strema = 36 — 60 oke per ettaro, ossia Kg. 50 — 80 per ettaro (3). Si semina su ter- reno coperto da 3 a 5 cm. di acqua senza praticare, come si è detto, alcun intorbida- mento per ricoprire il seme. Dal momento della semina e per 15 giorni, si lascia il terreno all’ asciutto per provocare un buon abbarbicamento delle piantine, dopo di che (I) La rotazione della valle di Tirana é una delle più irrazionali non essendo il terreno mai occupato da altre colture che non siano quelle di graminacee. Sarebbe perciò da consigliare di inter- calare per uno o due anni la coltura di una leguminosa foraggiera. (2) Gli argini delle risaie, compresi quelli delle caselle, sono temporanei o stabili, a seconda dei luoghi. (3) L'impiego di soli 50-80 Kg. per ettaro di seme implica necessariamente un grande disperdi- mento di superficie utile causa gli arginelli, giacchè dove la risicoltura è intensiva si semina da 140 a 160 Kg. l’ ettaro. i — 139 — si irriga, tenendo costantemente uno strato di acqua di 10 cm. sul terreno, fino al raccolto. La irrigazione si applica costantemente durante l’intiero periodo della vegetazione, ma non si fa mai precedere qualche tempo prima della semina. Solo a Delvino e a Filippiada si sospende nei primi 15 giorni della semina. L'acqua di irrigazione viene derivata dai fiumi per mezzo di canali sia pure modesti e rozzamente costruiti. Presso Elbasan, 1’ acqua si deriva dallo Shkumbi per mezzo di una diga formata da una palizzata di legno e da pietre; questa diga forma col fiume un angolo acuto verso monte, in modo da facilitare l'ingresso dell’ acqua nel canale, il quale si presenta largo circa m. 8 e profondo m. 1. In modo analogo si deriva l’ acqua del Devoli fra Elbasan e Berat. Presso Berat, invece, l’acqua si deriva dal fiume omonimo e si solleva per mezzo di una primitiva ruota idraulica a cassette; l’acqua così sollevata viene a cadere entro un piccolo canale di legno, che la conduce sopra i terreni da irrigare. Alcune volte i canali che servono al trasporto dell’ acqua sollevata in tal modo sono costruiti in muratura. Nell’ Epiro l’acqua viene derivata a mezzo di canali dai fiumi. Le colature non si raccolgono in alcuna parte ;1 acqua si disperde nelle caselle per evaporazione. Peraltro, ciò non costituisce la regola assoluta. La sola dispersione dell’acqua per evaporazione non potrebbe sussistere a meno che il terreno non sia eccessivamente bibulo. Nei casi di terreno sodo, i coli sono convogliati in canali di scolo, oppure raccolti per successive irrigazioni, a meno che l’acqua non si faccia disperdere ed impaludare nei terreni incolti. » A Elbasan, Tirana, Berat, la irrigazione per le risaie si effettua per sommersione sul terreno sistemato a caselle; l’ acqua corre continuamente, passando da una casella all’ altra. Nel territorio di Delvino e di Filippiada l’acqua del canale adacquatore si immette nella prima fila laterale delle caselle; dalle prime caselle passa poi nelle suc- cessive, a mezzo di fossetti affioratori, fino all’ ultima che chiude 1’ appezzamento. Non esiste, nè si conosce modulo o misura qualsiasi per l’acqua di irrigazione (1). Per la irrigazione dei terreni a risaia si utilizza l’ acqua dei fiumi e delle paludi. Nel territorio di Tirana, si impiega l’acqua del fiume omonimo; nella conca di Elbasan quella dello Shkumbi; a Delvino e circondario sì utilizza l acqua del fiume Bistritza con quella delle paludi dipendenti del fiume Kalasiotiko; a Filippiada quella del fiume Luro (2). (1) In riguardo alla diminuzione di coltura del riso nella regione di Delvino, in seguito alla srego- latezza della Bistritza, essa -è dovuta alla mancanza del sistema del trapianto che permette la perma- nenza della risaia per un periodo molto breve (circa 2 mesi meno della coltura ordinaria) per il fatto che la durata dell’ irrigazione ridotta e anche davanti a trasporti di limi grossolani, le piantine tra- piantate sono già in forza per sostenersi. (2) Però se l’acqua viene fornità a pagamento da qualche canale privato, in questo caso si paga ogni ora di fornitura da 1 a 4 cirek (franchi) per ora, seconio la forza della corrente. —\140 — Durante la germinazione (nei primi 15 giorni della semina), nel territorio del cazé di Delvino e di quelli di Filippiada e Prevesa si sospende di irrigare il terreno allo scopo di favorire il buon radicamento delle piantine; poi si mantiene costantemente il terreno coperto di acqua (10 cm.) fino al raccolto. Nell’ Albania centrale, invece, si semina sull’ acqua e si tiene senza interruzione il terreno sempre coperto d’ acqua. La irriga- zione si fa per mezzo di un solo canale adacquatore; così che le prime caselle ricevono l’acqua più fredda e le successive 1’ acqua meno fredda. Nel territorio del cazà di Delvino si fa derivare in grandi canali I acqua dai fiumi o dalle paludi prima di immetterla nei terreni da irrigare e ciò allo scopo di evitare l’acqua corrente, che è troppo fredda:.da questi erandi canali si deriva ancora nel canale adacquatore unico per ogni appezzamento di 4-5 strema. Dal canale adacquatore si manda l’ acqua nelle parcelle a mezzo dei fossetti affioratori. Si nota che nelle parcelle vicine al canale sviluppa meno la coltivazione che nelle parcelle susseguenti a cagione della diversa temperatura dell’ acqua (1). L’irrigazione si sospende 7-8 giorni prima di eseguire il raccolto. Nessun lavoro si fa durante la vegetazione ; neppure l’ erpicatura e la scerbatura. L'unica cosa è quella di non fare mai mancare l’acqua e di mantenerla costantemente a 10 cm. di altezza fino quasi all’ epoca della maturazione. Anche nell’ Epiro, da Delvino fino a Prevesa, ossia nella regione più evoluta per la risicoltura, alla risaia anche infestata dalle male erbe non si pratica quasi mai alcuna mondatura (2). Nei casi molto rari in cui si proceda a togliere le erbe infestanti, il lavoro viene compiuto da zingari e zingarelle nomadi. Nell’ Albania centrale, una settimana prima della raccolta — cioè verso la prima metà di settembre — si toglie l’acqua e poi si miete col falciuolo e con la falce dalle donne (1) Per la frase: sviluppa meno la coltivazione si deve intendere una maggiore fallanza nelle parcelle dovuta alla mancata germinazione nel riso, oppure con ritardo notevole nella vegetazione che porta molte pannocchie a restare immature. (2) Il Prof. G. Dessì mi scriveva in data 7 settembre: « Ho potuto visitare due risaie di parecchi ettari di estensione ciascuna nel territorio di Delvino. Esse sono state abbandonate per le erbaccie prepotenti che occupano tutto lo spazio. Le erbaccie che infestano il terreno per la coltivazione del riso sono di natura palustre e rigogliosissime ; esse potrebbero però distruggersi con ripetuti lavori di aratro eseguiti col secco. dell’ agosto; sono ciperacee, graminacee, tifacee, specie acquatiche di ogni famiglia. Il terreno a visaia per la nessuna cura di coltivazione e per il sopravvento che vi prendono le male erbe palustri, s72selvatieRisce a un punto tale che spesso riesce difficile penetrare nella risaia sia per lavori, sia per pascolo da bestiame. Saranno ricoltivate nell’anno prossimo; è terreno che farebbe ottimo granoturco e magnifico prato.:.. Nei terreni asciutti circostanti si è ottenuto del magni- fico frumento con produzione rimunerativa. Nella regione da Delvino a Butrinto, il riso può coltivarsi con profitto; terreni adatti ve ne sono a esuberanza; la mano d’opera anche sì troverebbe. Occorre organizzarla con criterio industriale e dirigerla con persone capaci d’imporsi all'elemento locale, troppo attaccato ai proprii metodi ». Data la mancanza di mondatura della risaia, nelle annate più calamitose per invasione di male erbe, la quantità di erbe infestanti che giungono a maturanza nella risaia è sempre notevole. La sepa- razione di tali erbe viene fatta irregolarmente, in parte ‘all’ atto della mietitura e in parte durante il processo di ventilazione nell’ aia per tenere separato il risone dai semi di erbe infeste. — il e dagli uomini. Anche nei territori di Delvino e Parga si smette di dare acqua al ter- reno 7-8 giorni prima della mietitura, che, come si è detto, si fa verso la fine di set- tembre. Dopo la falciatura i manipoli si portano fuori dal terreno della coltivazione in luogo più asciutto e si formano dei mucchi, avvertendo di mettere i manipoli con le pannocchie rivolte all’ interno del mucchio allo scopo di completare la maturazione e l’asciugamento. Questa disposizione delle biche alla moda del frumento non varia: io non ho mai notato che i covoni non si riuniscano. Il trasporto viene fatto a mezzo dei cavalli o degli asini o con i carri locali, raramente a dorso dei coltivatori e con il rac- colto quasi completamente essiccato. I mucchi si lasciano fermi 8-10 giorni, dopo di che si procede alla trebbiatura. La trebbiatura viene fatta col calpestio dei cavalli, senza munire generalmente gli zoccoli di stoffa per non danneggiare i granelli. Le aie destinate alla trebbiatura, alla ventilazione e alla essiccazione del risone sono esclusivamente in terra battuta. La separazione della paglia dalla granella si fa mediante la ventilatura, sollevando il prodotto con le pale. Prima di ritirare il prodotto pulito in magazzino, si espone all’ aria e al sole per 8-10 giorni, coprendolo nella notte con coperte per evitare 1° u- midità. Durante l’ esposizione del riso al sole sull’ aia si fanno pochi lavori di rivolta- mento con le pale. Il risone si pila e si utilizza per l’ alimentazione; la paglia si somministra al bestiame e si adopera anche per imbottire sacconi, cuscini e materassi. Per la pilatura del riso si usa una pila primitiva costituita da una leva di legno, imperniata sopra una specie di forca, pure di legno, mediante un perno in ferro; alla estremità larga di questa leva, trovasi unito un pestello di forma tronco-conica che corrisponde a un mortaio interrato in pietra. La leva viene fatta oscillare colla pres- sione del corpo del lavoratore, che mette, per tale operazione, i piedi ai due lati del perno. Anche a Delvino si usano dei mortai grossolani per la pilatura del riso. La brillatura (relativa) si ottiene fregando il riso con la sabbia. Il prodotto oscilla in maniera sensibile. Un dulwr può dare da 5-8 kiasé (1) di risone. A Valias (Tirana) si hanno facilmente 5-8 Riagsé di risone a ditar (2) = a Kg. 160- 260, pari a quintali 8-15 circa per ettaro. A Berat si producono normalmente 300-400 (1) Kzasè, misura di volume corrispondente a litri 60 nel territorio di Durazzo e litri 70-77 in quello di Vallona. (2) Il ditar è di mq. 2600 a Bilagni. Questa unità di misura di superficie è adottata nell’ Albania settentrionale e corrisponde a circa mq. 4000 e sarebbe equivalente a 3 dulun. Per la lavorazione di un ditar di terreno occorrerebbero 2 giornate di buoi. Nell’ Albania centrale, il di/ar corrisponderebbe a 3 dulun (mq. 3000 circa) o meno (2600 mq.). A Kroja corrisponde a 2 delum. (2000 mq.), a Vallona si usa il dit-miser (giornata granturco), unità di superfieie lavorata in un giorno da un paio di buoi e che corrisponderebbe a circa mq. 2000. In tutto |’ Epiro si usa come unità di misura di superficie lo strema di m. 40 x 40 = a mq. 1600 (6 strema formano un ettaro). Nell’Epiro non si usa la misura Ziasè, ma solo il peso in oke. — 142 — oke di risone a dulum (di mg. 5000) e si possono raggiungere perfino le 1000 oke nelle annate buone. Tali produzioni corrispondono a Kg. 450-600 fino a 1500 a dulum. ossia a 9-12 quintali fino a 30 di risone per ettaro. La produzione del riso a Delvino (circondario) e Prevesa (circondario) è di oke 125 (Kg. 160) per strema, ossia circa 10 quintali a ettaro. Si ritiene opportuno dare qui una statistica di produzione del riso di uno degli ultimi anni nel circondario di Delvino. Statistica delia coltivazione nel cazà di Delvino. Estensione Prodotto Quantità Prezzo | Valore | Località | == totale | Medio ta | . in quintalil ESE | Lire in strema| in ettari |per strema| per ettari | quintale | italiane EA | | cifl. Kasa 100 16.60 | 125 10 TGR _ Delvino | » Bajcaj 50 8:30.) » » 83 WPIOmMI < 3 + è 666 | 100 16.60. | » » 166 | | Mauropulo . .... 60 10 » | » 100. | | EE ooo 100 16.60 » | » IMBRIEDIOO | | | | Mulà Musnà . . . . 50 8.30 » » 83 | | | n | | » | | CAUSARE 80 13.30 » » 133 | Î | | Tremanie paid 30 5 | » » | 50 | | Coloritza. ... 60 10 5 » 100 | | | INCIOMRO sidoo ì 50 8.30 » » 83 | | Î | : | l'Spilizio o ao ot 70 11.60 » » 116 | | | Miciopoliti. . . .. 40 6.60 > » 66 | | | VRORIGRO: die sto 20 3.30 » » 33 | | | | | | | Tora colo 810 IS45 000] — — 1345 — | _ | Il cazà di Delvino ha molta estensione adatta per il riso dove per altro il cereale non si coltiva ancora, come, ad esempio, a Morsi, Zora, Vacalati e altri territori. La superficie che potrebbe mettersi a riso è nel cazd di Delvino di circa 2-3 mila strema, ossia ettari 350-500. Nel territorio di Prevesa si coltiva il riso per una estensione di !/, minore di quella coltivata nel distretto di Delvino, e cioè circa 90 ettari. Anche nel territorio di Prevesa, la risicoltura si potrebbe molto vantaggiare utilizzando larghe superficie oggi abban- donate e adatte al riso. — 143 — Per gli altri distretti dell’ Epiro, mancano le statistiche, come non risultano per l’ Albania centrale. Azzarita da la produzione totale del riso nel wilaye! di Janina nelle seguenti cifre (1914): estensione coltivata, ha. 770, e prodotto, quintali 10.000, produzione media per ettaro, quintali 13, reddito totale, L. 304 mila. prezzo medio per quintale, L. 30.50, reddito per ettaro, L. 394,80. La coltivazione del riso si è praticata nell’ Epiro solo nei comuni indicati nel sud- detto specchio statistico di Delvino e per Prevesa non credo che si possa cambiare la proporzione che si è data. La superficie di ettari 770 coltivati a riso, indicata dal- l’Azzarita per tutto il vilayet (nel territorio di Berat la coltivazione si pratica in iscala ancora minore che nel casd di Prevesa) è da ritenersi esagerata o per lo meno raddoppiata, In ogni caso, tale cifra è solo presso che valevole per 1° estensione che ‘ attualmente potrebbe adibirsi alla coltivazione del riso in tutto 1’ antico vilayet. Schema di conto colturale (elementi di indagine). a) per le diverse zone di coltivazione ; b) secondo i sistemi di conduzione (conto diretto o a mezzadria); c) per unità di superficie; I. - Spese. A) Interesse capitale fondiario : (Il valore del terreno si determina capitalizzandone al 3-5 %, il reddito). Nell’ affitto o nella cointeressenza si calcola un ca- none che è wr terzo del prodotto). B) Interesse del capitale bestiame. (Quota spettante alla estensione coltivata a riso in una grande azienda) pari a 8% sul valore del bestiame. C) Interesse del capitale circolante (5-8%) . . - D) Imposte: 4%, sul valore del terreno (per il proprietario del terreno) E) Spese generali (quota) . 6 PF) Decima del prodotto lordo (quantità — prezzo). ; ” i | animali. G) Preparazione del terreno: aratura | opere arginatura e zappatura .. . SA DIRI ROSAE H)iSeme \quanitità»= iplezzo alate 4990 ina DE 1 asa awd donnaa: veloka ie etto La aree ALE: OTO: PARETI SO I 0 TR) Mcebblatura gs OMMI Per NM RR A RR EEE animali arte d AO NIRO 1 cc o 1) Vena aulin, è UST UNE. doo Aia o cl Bloo De a Totale Spese L......-. JI. - Entrate. A) SemernrisoneLofesa ni to lie e n Lieder B)Pacla:rokerali tia alora MODI De Snare TotalexBntrate pe 1 DIL ESE III. - Riepilogo. 2 EUratet ci TS, MOV Bro: gens se Ole, Mae at STRO 00, SPESEH CR CARI ISO OR OST RI LORI AS LL EZRA, AES GODS RCA IO MMS ESEMPIO Conto colturale per uno sfrema a riso in territorio di Delvino. I. - Spese. A) Canone di cointeressenza, '/ (risone oke 40 a L. 0,30) . . . .L. 12, 1) Decima sul eprodovtoglocdoR (07642808 0 eee G) Preparazione terreno : AraWUrA EE 2IOrNA ARDUO RITO] CORR 00 ( di uomo 1 a L. 1,50 . » 1,50 Argin. e zapp.: opere | : Las x DI P { di donna (1)3 a L. 1,20. » 3,60 » 12,60 H)\Semepsrisonestoke 000 1) Raccolto : opere {CONAI IE MIEI IR RE E = | donmmnaranz » Et 440) RIRMIOIe sEoo H1A50» 3,90 UIOID O RR E 1.50 K) Trebbiatura e ventilatura: opere | donne 1... . » 1,20 | animali (1 cavallo) » DI » 7,70 Totale Spese L. 43,80 (1) Nel circondario di Delvino lavorono tutte le donne di povera condizione, senza distinzione di religione, Lavorono più le donne che gli uomini. In quanto alle cifre, esse si riferiscono al 1917. — 145 — 1I. - Entrate. Seme: risone e 25 A IL 00 ie MI Paglia i 0A e, Totale entrate L. 75,00 Riepilogo. ENO CR E O ni 000 SIOE SCE NOE CIR R0 DER 49780 Reddio: LOSE. CRE e AA cioè : L. 187,20 per ettaro. Sulle qualità del riso albanese non vi è discussione. Esso è fra i migliori del Me- diterraneo. Il riso locale si pagava in Albania di più di quello di importazione ed era preferito allo stesso tipo italiano perchè di sapore migliore. Prima della guerra, il riso albanese costava 4 piastre l’okRa mentre il riso detto di Rangoon costava da 214 a 3 piastre ed il riso brillato italiano si teneva a piastre 4% (1). Di questo cereale non si è mai fatta esportazione, poichè il prodotto locale non bastava neppure per una parte all’ alimentazione, dovendosi perciò ricorrere all’ importazione dei risi a buon mercato di Rangoon e a pochissima quantità del brillante, che veniva considerata varietà di lusso. Certo, nonostante la qualità ottima, la risicoltura è andata sempre più decadendo in Albania. La causa principale di questa decadenza è stata la solita incuria dell’ uomo. Il riso, pur con la grande trascuratezza della coltivazione, è meno invaso dal gia- vone che in Italia e il brusone non è malattia più diffusa che da noi. Siccome il riso costituisce la base dell’ alimentazione del popolo albanese e 1’ Albania ha terreni per produrne la quantità necessaria e di qualità ottima, è da augurarsi che la risicoltura possa diventare colà una delle occupazioni più sentite e crescere di estensione e di attività, rendendo più sollecita e meno costosa la lavorazione delle risaie e miglio- rando sempre più la qualità del prodotto con la seminagione delle più scelte varietà per emanciparsi dalla rilevan'e importazione di riso straniero. (1) Sotto il nome di risi di Rangoon venivano in Albania molte varietà di risi indiani attraverso gli scali ottomani o da quello principale di Trieste; i risi indiani in genere sono noti perchè giungono nei mercati di Occidente a condizioni di prezzo inferiori a qualsiasi altro paese importatore. Serie VII. Tomo VIII. 1920-1921. 19 \° IE Ra DE dario prote. it { { domus 4. 902 fi N) Ea ‘dae pi; ia to BAIA ti a ORI pantitiarizna matin ago BELIA OE dl stai (dA resneteten. PALIARAL Lr are ISPRA sol 108, si ata il, d'a 3 ita Ro a > LETO TS re fia % LT LR i po) conii: iii & e bom e log Lay “pesati ih dilsuip ili dig 16. gilndlà i stra Postal de Piton n cn 0 ih aaa aifoh priest a roilglat o1ogs* tb. Adoiny indie soit. crzsia, able 3 S08 al bi RtA0g forgnsa db prok gaia Li ontrgue sd, - STIRARE RT it fog alnotes: otesmp 40..(1) br: ibasi PRA io DIA ntiggon VAI fot pi, dici f Do IPCTo: De Motor nix ban RX {rd dio carnali. lap ipso sio È dd PRE vai Liana (API RURTOA Publs dito BL i Sai a a MI RO Pi pini aaa Ci gigi rali “VEDA di A Raiano sSttaoù LL i DO 066E TL avo E fa Î .0199Q data! sibi bbLid sò: Srigennii” "i pr o si atoi Laney SA, dla Bigli E ottoni Mer i SARO idee a nur filradi 3 si ici sli ett pi i de lord tor aa Li debian Pi mint mi z spia ami [ala i, ln bis SH i elia hp»: SÙ "atta sn) cssin indian Lo 19614 i8 Inpisituno a atte SOPRA ALCUNE VARIETÀ DELLE DUE IMPRONTE OCELLATE CONGENITE DEL PREPUZIO CON IPOSPADIA BALANICA ““ Stigmata Ocellata penis,, Le, si. può ritenere (salvo piccole eccezioni) quella da me descritta nella mia precedente memoria, e che può riassumersi nel modo seguente : 1.° Duplicità delle impronte ocellate, carattere che può dirsi costante : i 2.° Formazione costante delle due impronte ocellate da rughe più o meno sottili e concentricamente disposte : 3.° Costanza delle due impronte ocellate, sia per forma, o ellittica, 0 circolare, come pure per grandezza, nel centro delle quali havvi un’ eminenza che d’ ordinario contiene una fossetta. i ® ul ie — 149 — 4.° Postura delle medesime sulla stessa linea orizzontale nella faccia superiore ed esterna del prepuzio. 5.° Equidistanza quasi costante in tutti i casi delle forme ocellate (da 4 a 5 mm). 6.° Distanza dal margine prepuziale alquanto variabile (3-4-6-8 mm.). 7.° Sede delle impronte ocellate fra le rughe prepuziali. 8.° Presenza di peli (in rarissimi casi) disposti in due distinti ranghi per cia- scuna delle impronte ocellate (cr’inibus ornatae « Fribe »), simulante due soprac- ciglia, come rinvenni in un caso descritto nella precedente Memoria. Ma se tali sono i caratteri teratologici delle due impronte ocellate, è d’ uopo tener conto che queste sono costantemente legate con altre anomalie del pene, delle quali alcune devono certamente avere un’ influenza diretta sulla genesi delle stigmata ocellata. Di queste pure possiamo fare il seguente breve riassunto. 1.° Cortezza del prepuzio, tanto che questo raramente copre il ghiande dei bam- bini nella sua faccia superiore e più raramente lo sorpassa, laddove rimane scoperto costantemente nella sua faccia inferiore : d’ ordinario però ne ricopre appena un terzo, e talvolta appena il solco coronale, nei giovani e negli adulti. 2.° Divisione del prepuzio « Postioschisis » nella sua faccia inferiore, in direzione longitudinale (in corrispondenza al rafe penieno), che divaricata si presenta in forma di V di varia apertura, o anche con una semplice concavità (1). 3.° Afrenulia, che sta bene in correlazione colla Postioschisis. 4.° Presenza non infrequente di sinechie balano-prepuziali « sindalano-postion » di varia lunghezza e spessezza, di vario numero, quasi che esse supplissero alla man- canza del frenulo. 5.° Ghiande nano, curvo in basso, alquanto appianato e mai subconico. 6.° Ipospadia balanica di vario grado; raramente però l’ orificio uretrale va al di là di qualche millimetro dalla base del ghiande. 7.° Dimensioni del pene alquanto ridotte, soprattutto per la sua lunghezza, e che d’ ordinario sono in ragione della cortezza del ghiande e del grado d° ipospadia. La facoltà al coito, come pure alla generazione, d’ ordinario non è impedita. Ora che questi caratteri teratologici si riscontrino pressochè tutti (sebbene talvolta in vario grado) nel massimo numero di stigmate ocellate, i casi osservati fin qui ne danno una prova ineluttabile. Ma è d’ uopo rilevare che in qualche raro caso, pure rimanendo tipici gli altri caratteri teratologici, si è potuto notare che le stigmate ocel- late, essendo poco sviluppate fin dal loro inizio, possono più tardi cancellarsi per l’ appianamento delle rughe, lasciando però in vicinanza dell’ orlo prepuziale due pic- coli yialzi (simili a due piccole orecchie) che ricordano ancora la sede delle stigmate medesime (1). (1) Di recente ho avuto un’ infermo nella clinica, che presentava tracce appena di stigmate ocel- late, mentre le altre caratteristiche anomalie (ghiande nano, ipospadia balanica, postioschisis.....) erano accompagnate da un’altra formazione anomala, costituita da un canale parauretrale con para uretrite blennorragica. — 150 — Comunque si trova sempre più o meno evidente questo legame di sviluppo fra le stigmate ocellate, e gli altri caratteri teratologici del pene: ed. intanto, a conferma della forma tipica di questa anomalia, farò seguire la descrizione di alcuni casi sol- tanto, scelti fra i più caratteristici. Caso I. — 7. D. di anni 30, soldato 240° Resgimento Fanteria, della provincia di Verona (Soave) vedovo con tre figlie, desente all’ Ospedale militare Minghetti. inviato in Clinica dal Direttore Prof. G. Pini il 26 Febbraio 1917 (Fig. 1). Esame terutologico. — Pene discretamente sviluppato: misura allo stato fioscio cm. 9. Ghiande: tozzo, appianato. misura nel D. verticale mm. 30, nel D. trasrerso mm. 40. Prepuzio corto, ricopre appena un terzo del ghiande e misura nella sua faccia superiore mm. 12: nella sua faccia inferiore assai più corto, aperto a Y (postioschisis) e terminante in vicimanza dell’ orificio ipospadico. Orificio wretrale sotto fotma di un leggero infossamento imbutiforme. continuantesi nella doccia balanica, e questa della lunghezza di mm. 18. Orificio ipospadico in forma di una apertura semilunare, posto alla base del ghiande e distante dall’ orificio uretrale normale 14 mm. Stimmate ocellate in forma di due occhietti ovali, costituite da rughe ben distinte con fossetta mediana, giacenti sopra una linea orizzontale: di grandezza non perfettamente uguali. misurando l’ occhietto desiro nel suo D. trasrerso 9 mm. e nel D. verticale 5 mm.. e | 0c- chietto sinistro nel suo D. (rasverso 7 mm. nel suo D. verticale 5 mm., distanti fra di loro 6 mm. e dall’ orlo prepuziale 8 mm. La faccia superiore del prepuzio è tutta solcata da rughe alquanto ondulate, delle quali alcune (5 0 6) più grosse avanti alle forme occellate, e più sottili dietro di esse: come pure sottilissime quelle poste fra i due occhietti. Ambedue le funzioni, coitale e generativa, normali. Caso II. — De C. P. di anni 11 da Monopoli (Bari) osservato nel Dispensario Clinico. Pene corto — Ghiande tozzo, piatto e ricurvo — Orzficio uretrale normale alquanto al di sotto della sommità del ghiande, continuantesi con la doccia balanica aperta — Orzficio pospa- dico alla base del shiande, di forma semilunare — Prepuzio corto, ricopre appena un terzo del ghiande, fornito di rughe ben distinte. Î Stimmate occellate spiccatissime, rotondeggianii. di uguale grandezza, misurando nel D. tra- sverso mm. 5, nel D. verticale mm. 4, distanti fra di loro mm. 5 e dal margine prepuziale 6 mm.. con fossetta ben distinta. Tralascio di riferire con descrizione dettagliata altri casi appartenenti alla forma tipica, non avendo essi speciali particolarità degne di annotazione. Mi restringerò pertanto a menzionare i soggetti, nei quali mi venne fatto di osservare 1’ anomalia ocellata. Caso III. — Osservato in Pelliccioni Aususto di anni 4, nativo di Minerbio. nell’ Ambu- latorio Clinico durante il 1917. Caso IV. — Osservato in Battistoni Armando di anni 2, da Granarolo, venuto all’ Ambu- latorio Clinico nel 1919. Caso Y. — Osservato nel bambino Mazzesi Walier. di mesi 9. venuto da Porto Corsini all’Ambulatorio Clinico nel 1920. intbaica.. — Jbl = ur Varietà delle stigmata ocellata penis. Non sono molte e non tutte di eguale valore teratologico; ma, trattandosi di un’ anomalia così piccola, sebbene spesso assai spiccata, è d’ uopo tener conto anche delle minime particolarità differenziali, che è quanto dire dei più minuti caratteri teratologici, diversi da quelli considerati come costanti o tipici. Esaminiamo breve- mente in che consistono queste varietà desunte dagli esemplari teratologici delle impronte ocellate. 1.° Varietà per forma. -— Innanzi tutto la forma ordinaria, che potremo dire tipica, è o circolare, o ellittica, o ovale. Al contrario si hanno talvolta stimmate ocellate di forma ovale allungata a guisa di una fessura, e talaltra rotondeggiante, ina fornite, di angoli in diversi punti del loro contorno (forma angolare). Vi hanno alcuni esemplari, nei quali si nota la forma piana e la forma elevata degli ocelli: nella prima questi stanno allo stesso livello delle rughe circostanti, ma Spiccano in modo evidente per la loro disposizione; mella seconda gli occelli sono fatti da rughe più prominenti (eminentiores sunt « Fribe »), mostrando la parvenza di piccole circonvoluzioni, e queste d’ ordinario sono le forme più frequenti. Talvolta gli ocelli sono costituiti da due sollevamenti di pelle a guisa di tubercoletti, o ombe- licati, o forniti di una piccolissima fossetta centrale. Più raramente ancora si possono avere ocelli fatti da rughe piane concentriche (come si è detto più sopra), ma non perfettamente circolari, aventi fossette molteplici. Siffatte modalità di forma non sembra che siano in rapporto colla direzione delle rughe e nemmeno col grado d’ ipospadia e di postioschisis. È d’ uopo attendere in pro- posito ulteriori osservazioni e ricerche istologiche. Caso I. — Osservato nella pratica privata in un giovane di 25 anni, celibe, nel quale durante la visita fu eseguito uno schizzo a matita, non avendo potuto ottenere la fotografia (Fig. 12). Pene normale per lunshezza — ghiande grosso, tozzo, che fa prendere al pene una forma alquanto clavata: funzione coitale normale — prepuzio copre, superiormente due terzi del ghiande, inferiormente è assai più corto e forma una leggera postioschisis a largo MV — orificio ipospadico alquanto al di soito del meato urelrale normale. Stimmate ocellate situate nella faccia superiore del prepuzio, ricco di molte rughe ondulate e assai grosse, tanto davanti, quanto dietro alle stimmate stesse: sono distanti fra loro 3 mm. e dal marsine prepuziale 4 mm. circa: sono costituite da grosse rughe concentriche, ed hanno forma ovale allungata, fornite di ristretti angoli, continuantisi con le rughe circostanti, aventi nel centro una fossetta anch’ essa allungata a guisa di fenditura: misurano nel loro D. tra- sverso 9 mm. e 4 mm. nel D. verticale. Una particolarità, che merita di essere notata, è questa: che fra le rughe posteriori agli ocelli trovasi (sopra una linea che passa fra i due ocelli stessi) un'impronta quasi losangica, fatta da rughe alquanto più sottili, provenienti da due direzioni opposte, (superiore ed inferiore) e incontrantisi ai lati, impronta, la quale mentisce un terzo ocello alquanto più piccolo degli altri due e distante da questi circa 4 7277.; inoltre esso manca di una vera fossetta centrale. Serie VII. Tomo VIII. 1920-1921. 198 — 152 — E d’uopo anche rilevare che alcune delle rushe posteriori agli ocelli mostrano tale dispo- sizione curva, 0 vorticosa da simulare altre impronte ocellate, le quali però. ben riguardate. non hanno una costituzione concentrica, e perciò facilmente si differenziano dalle vere stimmate ocellate. Da tutto ciò è facile comprendere che il caso suddescritto, mentre si presenta come una varietà di forma delle stimmate ocellate, tenderebbe a simulare anche una varietà per numero, che però agevolmente si può escludere con la semplice osservazione obbiettiva. Ma più tardi tornerò sullo stesso punto. 2.° Varietà per grandezza. Delle stinunate ocellate ve ne sono grandi, medie e piccole. Le medie sono le più comuni e misurano nel diametro trasverso da 4, 5 a 6 mm. e per ciò rientrano nelle forme tipiche sopradescritte: nè è d’ uopo qui darne figure illustrative, bastando quelle già riportate nella mia precedente memoria. Al contrario le piccole e le grandi costituiscono sempre varietà teratologiche delle stimmate ocellate : misurano nel loro D. trasverso, le piccole da 2 a 3 mm., le grandi da 8 a 10, a 12 mm. E d’ uopo rilevare che la grandezza delle stimmate ocellate è in rapporto col numero, colla sottigliezza, e talvolta anche grossezza delle rughe, come pure colla disposizione circolare concentrica di queste. Del pari si comprende che la piccolezza delle medesime è in correlazione colla scarsezza delle rughe stesse; infatti in qualche caso la costituzione degli ocelli è fatta da una sola ruga circolare grossa e prominente in mezzo ad altre più sottili della superficie del prepuzio. Ma in qualche raro caso la piccolezza degli ocelli non risulta dalla formazione di scarse rughe, bensì, come dissi, è fatta da due piccoli sollevamenti di pelle 'a guisa di nodetti rotondeggianti e: leggermente ombelicati. In tale evenienza si nota che le rughe prepuziali, circostanti alle stimmate ocellate, hanno la loro direzione tra- sversale, ondulata, o curva sulla superficie del prepuzio, e per ciò gli ocelli, benchè piccoli, fanno maggiore risalto su di esse. Rispetto poi alla varietà per grandezza delle stimmate ocellate è d° uopo rilevare che queste sono ben distinte nei loro limiti periferici, quante volte le rughe prepu- ziali, anteriori e posteriori ad esse, abbiano una direzione inversa. Allora 1° ultimo giro circolare dell’ ocello appare ben distinto e circoscrive decisamente il contorno del medesimo. Da ultimo delle stimmate ocellate le piccole sono rare e di queste possono servire come esemplari quelli riferiti nelle Fig. 3 e 4: rarissime invece sono quelle grandi, delle quali per ora mi è dato riferire un bell’ esemplare che arriva a misurare 12 mm. in entrambi i diametri di uno degli ocelli. Devo però ricordare che fin qui non mi sono ancora imbattuto in un caso, in cui questa grandezza fosse uguale in ambedue gli ocelli. Caso I. — Osservato nella pratica privata sopra il giovane G. N. di anni 32, affetto da blenorragia, che presentava 1 anomalia ocellata, sotto la varietà per grandezza e per asizmne- tria, e della quale si potè eseguire soltanto un disegno a matita-(Fig. 2). Pene corto e tozzo — ghiande srosso tozzo, appianato, che fa assumere al pene un aspetto claviforme — orzficio wretrale normale, aprentesi alla sommità del shiande con rima di aspetto — Ino), == normale, ma a fondo cieco — pospadia balanica e orificio ipospadico alla base del ghiande — prepuzio corto, riccamente rugoso, ricopre superiormente due terzi del ghiande, inferior- mente assai più corto e con postioschisis a largo \/. Stimmate ocellate assai evidenti sulla faccia superiore del prepuzio provvisto di rughe grosse, tanto davanti, quanto al di dietro degli ocelli, delle quali le anteriori disposte in due serie, corrispondenti agli occelli stessi, con la convessità in alto e la concavità in basso, mentre le posteriori, alquanto più scarse di numero, mostrano una disposizione inversa. Fra queste due serie di rughe stanno i due ocelli, distanti appena fra di loro 1 mm., e dal margine prepuziale, il destro 14 mm. e il sinistro 12 mm., costituiti da molteplici rughe, delle quali nel destro se ne possono numerare 5 o 6 e nel sinistro da 12 a 13: sono disuguali per forma, essendo questa ovale nel destro e rotondesgiante nel sinistro: ma la disuguaglianza maggiore é per la gran- dezza, dappoiché il destro misura nel suo D. frasverso 6 mm. e nel D. verticale 4 mm., men- tre il sinistro misura 12 mm. in ambedue i diametri: sono forniti entrambi di fossetta ovale piccola e piuttosto profonda. Risulta dunque chiaramente che il caso qui sopra descritto, mentre presenta le stimmate ocellate colla varietà di forma e di grandezza, mostra ancora i caratteri riguardanti la varietà per asimmetria. 3.° Varietà per la distanza. — Di questa particolarità anatomica si hanno le più numerose varietà nelle stimmate ocellate. D’ ordinario sono esse divise da un istmo di pelle, o liscia, o lievemente rugosa, e in media si può stabilire che la loro distanza è di 4 a 5 millimetri. Ne consegue che, quando la distanza delle stimmate ocellate non si conservi entro questa media, ma, ora sì accorci fino a portare a con- tatto i due ocelli fra di loro, ora sì allunghi al di là dei confini stabiliti dalla media stessa, si entra subito nelle varietà. Ma troppo lunga sarebbe la descrizione dei singoli casi nei loro diversi gradi di varietà per la distanza degli ocelli ; dovrò restringermi ai punti estremi, riuscendo facile comprendervi gli intermedi. Innanzi. tutto vi hanno casi, nei quali le due impronte ocellate si trovano a con- tatto fra di loro: ed in tale evenienza mi fu dato di scorgerle due volte alquanto più rilevate del solito come due piccole eminenze rotondeggianti, ora liscie, ora costi- tuite da una, o al più da due rughe, sia circolari, sia ovali, concentriche, fornite sempre di una fossetta nel loro centro. Nei tre casi, che riferirò qui appresso, in due il grado d’ ipospadia era assai lieve, e lievissimo il grado di postioschisis. D’ altra parte il pene (d’ ordinario corto) era qui di sviluppo normale, o anche alquanto supe- riore. Invece nel terzo gli ocelli erano piani, formati da tre rughe concentriche, ed a contatto per due rughe a loro interposte. In qualche altro caso le due impronte ocellate sono divise da un solco .intermedio di appena 1 mm. di larghezza, ed è però che manca quell’ istmo di pelle lievemente rugosa, che si incontra nelle forme tipiche. Di maggiore importanza sono i casi, nei quali 1 allontanamento fra le due stim- mate ocellate è piuttosto notevole; infatti, tanto nei primi casi, da me descritti nella precedente memoria, come in quelli osservati in appresso, rinvenni distanze tali da costituire vere varietà di questa singolare anomalia, distanze che oscillavano da 10-12-20-30, a 38 mm. Mi è d’ uopo però rilevare che in complesso rinvenni più raramente la contiguità delle impronte ocellate, che non il loro allontanamento. D’ altra parte, per le osser- — 154 — vazioni fatte sin qui, posso stabilire che la distanza delle impronte ocellate non è in rapporto colla loro forma e grandezza. Ma in questa varietà devesi anche tener conto dell’ allontanamento degli ocelli dall’ orlo prepuziale, il che può variare di grado da caso a caso: come gradi mas- simi si possono ritenere gli allontanamenti di 20 a 18 mm., i minimi da 10 a 8 mm. a) stimmate ocellate anomale per contigrità. Caso I. — (Offertomi dal Dott. Francesco Mazzini, già assistente di Clinica) (Fig. 3). Un giovane soldato degente nell’Ospedale da Campo N. 239, curato di ulcero venereo dal Doti. Mazzini, presentava l'anomalia ocellata, della quale egli riusci a fare una fotografia che qui viene riprodotta. Le notizie intorno al caso, fornitemi dal Dott. Mazzini stesso. sono le seguenti : 1°) N ghiande era normale: il n7eato normale all’ aspetto era alquanto in basso. ma di qualche mm. soltanto dall’ apice; 2°) pene di dimensioni e di asse normale; 3°) prepuzio alquanto corto, in modo che |’ apice del ghiande rimaneva scoperto: un po’ più corto ancora in basso; 4°) il prepuzio non presentava sinechie; 5°) il paziente era ricoverato all’ Ospedale per ulcero venereo. Nessun'altra anomalia. Avendo io richiesto il Dott. Mazzini di nuove informazioni, sia sulla lunghezza del prepuzio. sia sul grado di pospadia e di postioscluisis, egli, con una sua seconda lettera mi confermò : 1°) che il prepuzio era semplicemente alquanto più corto del normale. lasciando scoperto 1’ apice del ghiande (come si vede anche sulla fotografia): 2°) che inoltre lo scoprimento del ghiande era un po più spiccato di sotto, ma senza che quivi il margine prepuziale formasse |’ apertura a V (postioschisis; 3°) che il lieve grado d’ipospadia fu il fatto che attrasse maggiormente la sua ‘attenzione. Comunque anche con questi dati raccolti dal Dott. Mazzini nel miglior modo possibile, come si poteva in un Ospedale da Campo. il caso di sligmata ocellata penis, riesce pur sempre inte- ressantissimo per i seguenti fatti; 1°) per il lieve grado di ipospadia:; 2°) per la mancanza della vera postioschisis, essendo soltanto più corto il prepuzio nella sua faccia inferiore, e formante soltanto un margine curvo e non una divisione a V; 3°) per le particolarità morfologiche delle stimmate ocellate che rendono il caso veramente singolare. Carattere delle sltinamate ocellate. Quesie si presentano come due piccole eminenze rile- vate, ovali, formate ognuna da una grossa ruga. nel centro della quale sta una piccola fossetta molto ben distinta; ma ciò che maggiormente attira 1 attenzione è la contiguità dei due ocelli. Stanno circa 11 mm. distanti dall’ orlo del prepuzio, e questo. mentre si mostra alquanto più corto del normale (lasciando scoperto il aliande per 9 mm.) è tutto ricoperto da rughe, delle quali quelle davanti agli occelli sono assai spiccate e numerose, laddove quelle di dietro sono sottili e scarse. si Caso TI. — Questo caso di anomalia iocellata fu visto nel febbraio 1917 dal Dott. Mario Cesari in un militare tal Franceschini di Vicenza, celibe, caporale automobilista. mentre questo veniva curato di scabbia nell’ Ospedaletto da campo 138 (1) (Fig. 4). Esame teratologico. — Pene assai sviluppato: funzione coitale perfetta. — Ghiande abba- stanza grosso e di forma conica. non appianato come nella maggioranza dei casi — pre- puzio assai corto, tanio da ricoprire appena un terzo del shiande, ma assai più corto nella faccia inferiore, per una forte insenatura, senza però essere totalmente diviso. come nella vera postioschisis — pospadia abbastanza notevole — orificio uretrale ipospadico, alcuni mm. al di sotto dell’ orificio normale. Stimmale ocellate ben distinte per i seguenti caratteri: 1°) per la forma. essendo esse rotondeegianti, rilevate, costituite da due tubercoletti lisci, della grandezza ognuno di 5 mm. di (1) Fotografia eseguita dal Dott. Cesari con una piccola macchina, e che qui viene riprodotta. — 155 — diametro: 2°) per la contiguità, trovandosi a contatto sopra una linea orizzontale, distanti dal- l’orlo prepuziale mm. 37; 8°) per la mancanza di rughe nella loro costituzione. mentre sottili ® . O . . . rughe trovansi, tanto davanti, quanto dietro i due ocelli. Caso III. — Raccolto nel dispensario della Clinica Dermosifilopatica nel 1916 sopra un fanciullo di 8 anni, curato di eczema, il quale presentava ben distinta 1’ anomalia ocellata (Fig. 5). Esame teratologico — pene corto e curvo in basso — ghiande nano, e assai appianato — prepuzio piuttosto lungo, assai rugoso, ricoprente interamente il ghiande, e sporgente alquanto da esso — orificio wretrale mancante, essendo aperta l uretra balanica in forma di doccia (/(pospadia balanica) — orificio ipospadico alla base del ghiande — postioschisis totale in forma di V. _Stimmate ocellate assai spiccate, di forma rotondeggianti e piuttosto grandi, misurando esse 4mm., a D.e 5 mm. a S., costituite da 3 0 4 rughe concentriche, ben distinte, e fornite di fossetta mediana. Stanno a contatto fra di loro e distanti dall’ orlo prepuziale 7 mm. Le rughe anteriori agli ocelli sono piuttosto grosse, sottili le posteriori. ») stimmate ocellate anomale per allontanamento. Caso I. — Osservato nel reparto celtico dell’ Ospedale M. Minshetti dal Direttore Prof. Gio- vanni Pini, sopra il militare Vertua Abele di anni 35, ammogliato, padre di ire figli, del quale m' informava con lettera in data 26 Febbraio 1917, (Fio. 6 4, d). Esame leratologico — pene corto, in posizione curva; allo stato flaccido misura cm. 5 — ghiande tozzo, corto e alquanto curvo in basso: misura nel suo D. verticale 32 mm. e nel D. trasverso 35 mm. — prepuzio corto superiormente e lateralmente, tanto da ricoprire appena la corona balanica, inferiormente più corto e aperto in forma di V (postioschisis) — orificio ure- trale normale in forma di fessura di 8 mm. a margini irregolari, alquanto sotto alla sommità del ghiande, continuantesi con la doccia balanica, la quale allo stato di riposo appare come una fenditura lineare, mentre divaricata si presenta costituita da una cavità triangolare con angolo acuto in alto e la base in basso, a margini netti e rivestita da una mucosa di colore roseo pallido. La doccia balanica misura in lunghezza 6 mm., alla base 8 mm. — or/ficio ipospadico uretrale di forma semilunare, situato in fondo alla doccia balanica a distanza di 25 mm. dal- l’orificio uretrale normale, e di 30 mm. dalla sommità del ghiande. Stimmate ocellate poste sulla faccia esterna e superiore del prepuzio, distanti fra di loro 20 mm. prendendo la misura dell’ istmo cutaneo ad esse interposto: sono di forma ovale e costi- tuite da rughe concentriche, rilevate, con fossetta centrale poco spiccata: di queste la destra misura nel suo D. {rasverso 16 mm. nel D. verticale 8 mm.. la sinistra misura mel suo D. tra- sverso 13 mm. e nef suo D. merticale 4 mm.: ambedue quasi equidistanti dal margine prepu- ziale e, prendendo la misura, sia dal centro, sia dal contorno anteriore di ognuna al margine libero del prepuzio, si hanno rispettivamente le seguenti distanze: a destra mm. 14, 8, a sinistra mm. 15, 3. Caso II. — Osservato sopra il militare Del Fattore Quinto di anni 40, ricoverato nell’ Ospe- dale Marco Minghetti, ammogliato e padre anch’ esso di tre figli, a me inviato dal Prof. Giovanni Pini. Direttore del Reparto-venerei. Esame teratologico — pene corto e leggermente curvo, misura in lunghezza allo stato flaccido cm. 5; funzione coitale normale — ghiande nano, appianato nella sua sommità e legger- mente curvo in basso: orlo coronale poco sviluppato, per modo che manca un vero solco balanico: D. longitudinale del ghiande 22 mm. D trasverso 28 mm. — prepuzio scarsamente rugoso, molto corto, che ricopre appena la base del ghiande: stiratolo fortemente copre due terzi del ghiande stesso — or/icio uretrale normale, costituito da una piccola rima infossata, situata alquanto sotto alla sommità del ghiande, profonda 2 mm. ed a fondo cieco — , cioè un sistema di raggi uscenti dal punto 0, e formanti fra di loro angoli eguali: accanto a uno di do ; 3 | s 100 50 s0 20 10 Fig. 3 essi (per esempio a quello corrispondente al Nord) si segna lo zero, e accanto agli altri i corrispondenti valori della direzione , cioè dell’ angolo che ciascuno forma col raggio iniziale); naturalmente i raggi si segnano più o meno fitti (e in parte diver- samente marcati) secondo |’ ampiezza del disegno. 3) Un sistema dr linee di livello della funzione « sito », cioè un sistema di archi aventi per centro 0j e per raggio 7 = g, cotg €, essendo q, la quota del piano 7 (naturalmente in iscala): accanto a ciascun cerchio si segna il valore del corrispon- dente £. La figuga 2) dà schematicamente il grafico per la scala 1:80.000, avendosi il piano 3 di quota g, = 1000 metri e la direzione 0, 0, data da a = 22 ettogradi (1) I raggi di egual direzione sono segnati di 8 in 8 ettogradi, ed i cerchi di egual sito di ettogrado in ettogrado da 5 a 10 ettogradi e poi di 2 in 2 ettogradi: nella pratica si può prendere una scala 10 volte maggiore e quindi segnare raggi e cerchi molto più frequenti. Ciò posto, dati i valori a,'ed e, della direzione e del sito di A rispetto al centro O,, per avere A, basterà segnare il punto d° incontro del raggio corrispondente ad a,, Il 2T 1 IR ERE (*) 1 ettogrado = I° SITA col cerchio corrispondente ad £, (ricorrendo eventualmente ad una interpolazione). Similmente si segnerà A, in base ad a, ed e,. Ed è chiaro che i punti A, ed A, relativi ad un medesimo punto A dello spazio, devono appartenere ad una medesima retta parallela ad 0} 0;. Ora si riconosce subito dall’ esame della figura 1 che la quota del punto A è data I) OO don piego essendosi posto na 0705 Pertanto è possibile leggere direttamente la quota del punto A, facendo uso di un regoletto (fig. 3) trasparente (per es. in celluloide) graduato secondo la formula 1); (nella scala 1:80.000 del grafico 2). Collocando il punto del regolo (su cui è segnato co) origine della graduazione nel punto A,, e ponendo la linea di fede secondo A,A4,, sì leggerà direttamente g in 4,. Similmente si possono costruire le due proiezioni R, ed R, di una rotta R, come luogo di punti A, e A,, € ciò rilevando un certo numero di punti A della rotta; e non è necessario che il pnnto A sia osservato contemporaneamente da 0, e 0,. Se la rotta & appartiene a un piano orizzontale le linee R, ed , devono essere uguali ed una traslata dell’ altra mediante un vettore parallelo alla retta 0| 0): per leggere la quota basterà collocare. l’ origing del regoletto in un punto qualunque A, di R,, disporre il regoletto parallelamente ad 0j 0) (la quale operazione può essere facilitata tracciando sul grafico un sistema di rette parallele a tale direzione, alcune delle quali sono riprodotte nella fig. 2) e leggere la quota sul punto in cui , taglia il regoletto. 5 Qualora la £ non giacesse in un piano orizzontale 1° operazione indicata fornisce solo la quota del punto A di corrispondente ad 4,. 3. Vediamo ora come le cose esposte si modifichino quando gli osservatori 0, ed O, non siano più allo stesso livello, quale difficoltà si presenti e come si riesca a 2 superarla. Anche in questo caso si prenderà come piano di proiezione un,piano 7 di quota ® rispetto ad 0,, su questo si segneranno i punti 0, e 0}, e inoltre i raggi per 0j, e i cerchi di centro 0,, che sono le linee di livello della direzione e del sito; per di più si segnerà il punto O in cui la retta O, 0, incontra il piano 7. Di un punto A si prenderanno ancora come proiezioni : A,, intersezione di 7 con la retta 0,4, ed A,, intersezione di 7 con la parallela per O, alla O,A. È chiaro che i punti A, ed A, devono riuscire allineati con 0; inoltre, dall’ esame della fig. 4 si ricava che la quota gq di A è data da: ORE AI 0 04 OA; nigi A tod 44, AA 0,9, | 00, 2) essendo 9,, quota di 0,, data da q,=% 2) I gia Pertanto, ove si volesse avere il valore di g, utilizzando tale e quale il nostro grafico, occorrerebbe costruire una quarta proporzionale, cosa facile ricorrendo al sistema del paralleloeramma articolato che da le rette parallele : tuttavia il proce- dimento riuscirebbe relativamente lungo, (!) ed altri meccanismi ausiliari, che si potessero escogitare, porterebbero sempre dannose complicazioni e richiederebbero inoltre che il punto 0 sia materializzabile, cioè appartenga al foglio (il che.in molti casi non avviene affatto). l'uttavia si riesce a ricondurci all’ estrema semplicità del caso precedente usando di una trasformazione del piano 7, che si ottiene come segue. SRooso 30 20 10 Fig. 5 Fig. 6 Indichiamo con P e P' due punti del piano 7 e con g,0; p',0' le lorò coordi- nate polari riferite al polo O e all’ asse polare 00|. Eseguiamo sul piano 7 la tra- sformazione a i p'=klog p 3) 0' == h 0, scegliendo convenientemente i valori. dei numeri X e &, e segniamo le linee trasfor- mate dei raggi di ugual direzione e dei cerchi di ugual sito. La fig. 5 dà il grafico trasformato : qui si ha gg = 1000 m., g,= 200 m. e si è preso A—= 20000, 1 fre e la scala è ancora 1:80.000 come nel grafico 2). Il punto O viene fuori del grafico distando un metro da 0;, trasformato di 0;. Fatto ciò, dati a, €, € @, &,, si segneranno i punti A; e 43, trasformati di -A, e Ag, in base alle suddette linee di livello trasformate; i punti Aj e 43 riusciranno ancora allineati con O, e la loro distanza risulterà Lul r fi OA q 4) Aid = 04) — 04j= klog pg = * 192 ( ser) - OA q ottenendosi dalla 2) —‘—1—-. osi dalla 2) 0A, È (*) In tutte le operazioni relative al rilievo di un aereo il minuto secondo non è affatto un tempo trascurabile, ETA IERI Ora, in base alla formula 4) e alla scala 1:80.000, si costruisce un rego- letto (fig. 6) del tutto analogo a quello della fig. 3, e con questo regoletto si leggerà immediatamente la quota collocandone 1’ origine (co) nel punto A; e leggendo il valore q corrispondente al punto As. i Similmente si procede quando si abbiano le due proiezioni (trasformate) Rj e PR, della rotta R; per facilitare la leltura si aggiungeranno al grafico un sistema di rette concorrenti nel punto O (che risultano qui sensibilmente parallele data la distanza di 0) lungo le quali occorre disporre il regoletto per la determinazione della quota. da Qual ih , più lens di lamp: son, a a Ù Lelli I Ure: k fini sio iù alibtioniy: dec Men ‘ospigg pisa dum; de Svabio it dl doit La sl, AN dig Lac cr v s SULLE SCARICHE GLOBULAR NOTA Prof. LAVORO AMADUZZI letta nella Sessione del 20 Novembre 1921. de Sono noti gli studi del Righi sopra particolari scariche costituite da masse luminose in movimento lento. Egli dimostrò sino dal 1891 (1) che la scarica di un grande condensatore può produrre, in certi gas ed in opportune circostanze, un fenomeno luminoso differente da quelli noti fino allora, e cioè una luminosità, che nasce presso | eleitrodo posi- Livo, cresce di dimensioni, poi si stacca da quell’ elettrodo e cammina, con una len- tezza relativa, verso il catodo, che però mai raggiunge. Spesso alla prima massa luminosa ne seguono altre, e la scarica, da semplice che era, diviene composta. Più esplicitamente diremo che il fenomeno si produce nel modo seguente. Al momento in cui comincia la scarica, si vede formarsi all’ estremità dell’ elettrodo positivo una luminosità, che tosto si allunga, e poi, affilandosi e strozzandosi a poca distanza dall’ elettrodo, si stacca in buona parte. La massa luminosa, così isolata, cammina verso l’ elettrodo negativo con velocità decrescente e abbastanza piccola, specialmente verso la fine, perchè 1° occhio possa comodamente seguirla ad osservarla. A qualche distanza dall’ elettrodo negativo la massa luminosa si arresta, e poi d’ un tratto sparisce, ciò che segna la fine della scarica. In certi casi prima di sparire retrocede verso 1° elettrodo positivo. La lunghezza della corsa, che fa la massa luminosa, dipende dalla pressione del gas, ed anzi cresce al crescere di questa. La distanza reciproca degli elettrodi sino ad una distanza non troppo piccola in corrispondenza della quale il fenomeno cambia aspetto, non ha una influenza diretta, giacchè con un elettrodo negativo spostabile secondo |’ asse del tubo, la posizione, in cui va a spegnersi la massa luminosa, è sempre la stessa, anche variando assai la posizione del catodo. (1) Memorie della R. Accademia di Bologna, serie V, t. 1, pag. 315. — Rendiconto della Reale Accademia dei Lincei, 19 aprile 1891. — Memorie della R. Accademia di Bologna, sserie V, t. I, pag. 679. — Memorie della R. Accademia di Bologna, serie V, t. IT, pag. 379. (2°) Serie VII. Tomo IX. 192]-1922. — 10 — Dette e conservò a questa forma di scarica la denominazione di scarica globulare, suggerita da una certa analogia con un fenomeno naturale ancora non bene spiegato, benchè in nuove ricerche abbia spesso ottenuto masse luminose di forma assai diversa dalla forma ovoidale che presentavano quelle precedentemente studiate. Condizione indispensabile alla produzione delle scariche globulari è che il circuito di scarica abbia resistenza grandissima, quale può raggiungersi introducendovi colonne d’ acqua distillata. Ma inoltre è utile che il condensatore abbia capacità grandissima, giacchè più grande è questa capacità e più lento è il moto delle masse luminose, come pure che il gas nel quale sì produce il fenomeno sia convenientemente rarefatto, giacchè in tal modo aumenta la grandezza delle masse luminose, e la lunghezza del cammino che esse percorrono. Queste circostanze, insieme a molte altre studiate dal Righi nei suoi vari lavori, influiscono sul risultato, e cioè sul numero e forma delle masse Iuminose, come pure sulla loro velocità. Alcune di quelle circostanze possono compensarsi fra loro, per cui non può dirsi che per prodursi il nuovo fenomeno sia necessario adottare, né una certa pressione del gas, nè una certa capacità del condensatore ecc. La velocità delle masse luminose è più o meno grande a seconda dei casi. Se essa è assai grande, la scarica, osservata direttamente, non sembra diversificare affatto da una usuale scintilla, ed è solo osservandone l’ imagine in uno specchio piano rapidamente girante, che si riconosce l’ esistenza delle masse luminose. Se la velocità non è tanto grande (per es. di un metro al secondo), e_ partico- larmente se la scarica è semplice (cioè costituita da una sola massa luminosa), |’ esi- stenza di questa e il suo moto sono sensibili direttamente, benchè |l° occhio non possa ancora seguire la massa luminosa nel suo movimento. Generalmente chi osserva il fenomeno crede vedere una lingua luminosa, che nasca sull’ elettrodo positivo, e si allunghi rimanendo ad esso attaccata. Questo è |’ aspetto che aveva ordinariamente la scarica nelle prime esperienze, giacchè solo in certi casi speciali ottenne un moto delle masse luminose qualche poco più lento. Nelle ultime mirò principalmente a trovar modo di rendere il più lento possibile il movimento delle masse luminose, e di aumentare il tempo durante il quale restano: visibili. Giunse effettivamente ad ottenere in certi casì masse luminose della durata di più secondi, che si muovono abbastanza lentamente perchè l° occhio le segua senza difficoltà, o anche che restano quasi immobili per un certo tempo, tanto che ha potuto fotografarle aprendo e chiudendo a mano l’ obbiettivo fotografico, come se davanti a questo si fosse trovato un oggetto stabile qualunque, anzichè la scarica di un con- densatore. Altri sperimentatori prima del Righi avevano già ottenuto una luminosità dotata di movimento, colle scariche d’ induzione; ma questo moto non era abbastanza lento perchè lo si potesse rilevare senza l’ aiuto dello specchio girante, per cui la scarica non assumeva il singolare aspetto di quelle da lui studiate. Le immagini ottenute dal Feddersen fin dal 1862 accennano ad un tal movimento, che meglio fu poi dimo- strato da Wullner, (1) Hertz (2) ed altri. Nessuno di questi Autori ha poi studiato 1° influenza delle varie parti del circuito di scarica, della resistenza di questo, della capacità del condensatore ecc. sui feno- meni, nè le modificazioni che in essi si producono in genere variando le condizioni del circuito, nè infine ha studiato la forma, la luminosità e il modo di formazione delle singole masse luminose. JUE Anch° io ebbi occasione di produrre in modo diverso da quello usato dal Ri@hi (3) masse globulari in moto oltre che di studiare in lun®hi e larghi tubi una bella sca- rica a grosse e larghe stratificazioni ottenuta mediante 1° intervento di una differenza di potenziale alternativa e che mi parve potesse riattaccarsi alle masse luminose studiate dal Righi (4). In relazione allo studio che da qualche tempo ho intrapreso intorno alla influenza della variazione di temperatura nel processo di scarica elettrica (5), ho voluto esaminare in siffatto riguardo anche le scariche globulari del Righi, ed ho procurato di rimet- termi nelle condizioni sperimentali da lui descritte. Mi sono però limitato al caso intermedio di masse a movimento di media rapidità. Ho perciò ricostituito un condensatore formato di 108 grandi giare. Queste giare erano disposte in modo da formare due batterie di 54, disposte in serie o in cascata. La capacità del sistema era dunque eguale a quella di sole 27 giare in batteria, lo caricava una grande macchina di Holtz a quattro dischi, mossa con motore elettrico. Il circuito di scarica comprende uno spinterometro, un tubo pieno d’ acqua distil- lata rinnovata spesso, che permette d’ introdurre nel circuito una colonna liquida di lunghezza variabile, ed il tubo di vetro, munito d’ elettrodi metallici e contenente un gas più o meno rarefatto, nel quale si produce la scarica globulare. I tubi usati avevano una lunghezza di circa 40 cm. ed un diametro di 4 c. Erano muniti di elettrodi filiformi di platino o di alluminio. La scarica globulare non è il solo fenomeno luminoso che si possa osservare nel tubo di scarica, Infatti si producono in esso gli altri noti fenomeni luminosi, e cioè scarica a pennacchi, a bagliore ecc. - A parità di tutte le altre circostanze, il presentarsi delle varie forme di scarica nel tubo dipende dall’ ordine, nel quale si seguono lungo il circuito i diversi appa- recchi. (1) Pogg. Ann. Jubelband 1874, p. 32. (Vol. senza numero, che manca in molte raccolte degli Ann.) (2) Wied. Ann. 1883, t. 19, p. 78. > (3) Nuovo Cimento. Agosto e Dicembre 1905. (4) Mem. Ace. di Bologna, 14 gennaio 1912. Physikalische Zeits, 1912. (5) Mem. Acc. Bologna, 11 febbraio 1917, 19 maggio 1918. Rend. Acc. Bologna, 14 nov. 1920. Si produce difficilmente la scarica globulare, quando il tubo di scarica è messo nel circuito che congiunge le armature del condensatore, fra lo spinterometro e la resistenza d’ acqua particolarmente poi allorché lo spinterometro è dalla parte del- l’armatura positiva. Negli altri casi si produce di preferenza la scarica globulare. La disposizione fu quindi la seguente (fig. 1) Dalle armature del condensatore € partono due conduttori 45 che vanno ad un inversore I. Da questo partono altri con- duttori formanti il circuito di scarica, nel quale sono inseriti uno spinterometro $, Fig. 1 una resistenza d’ acqua & ed il tubo di scarica 7 coi due elettrodi D ed £. Inver- tendo, per mezzo del commutatore, le comunicazioni fra condensatore e circuito di scarica, si può far sì che l’ elettrodo D (il tubo d’ ordinario era collocato vertical- mente) sia positivo o negativo, cioè che l’ armatura positiva sia dalla parte dello spinterometro o dalla parte del tubo. Quando non si dirà nulla in contrario si deve ritenere positiva l armatura comunicante direttamente collo spinterometro. UD Influenza della elevazione di temperatura sulla costituzione di una sca- rica. — Questa ricerca sembrò di notevole interesse allo stesso Righi tanto che la operò, ma entro limiti di temperatura assai ristretti. Posto il solito tubo di scarica entro un bagno d’ olio di vasellina, che poi sì scaldava lentamente o si sostituiva con altro freddo, potè constatare che, a parità delle altre circostanze, il numero delle masse luminose costituenti la scarica cresce insieme alla temperatura. Infatti, disposte le cose in modo che la scarica globulare fosse semplice alla temperatura ambiente di 22°, la scarica stessa divenne costituifa da due masse luminose, allorchè la temperatura fu portata a 45° e da tre alla tem- peratura di 65°. Ricondotto il tubo alla temperatura ambiente, si ottenne da capo la —lù De scarica semplice, e queste alternative si ripeterono più volte. Di tali risultati dichia- rava il Righi in un suo lavoro sull’ argomento, si dovrà tenere ben conto, discu- tendo le possibili spiegazioni delle scariche globulari. Io ho spinto le osservazioni sino a circa 300 gradi ed ho potuto constatare un aumento assai grande nel numero delle masse costituenti la scarica. Le fotografie 2 e 3 rappresentano |’ aspetto del fenomeno alla temperatura ordi- naria ed alla temperatura massima da me raggiunta. Mentre nella 2 si distinguono in piccolo numero le masse, nella 3 esse sembrano quasi costituire un tutto continuo. Il fatto può utilmente ravvicimarsi secondo me ad altra constatazione fatta sulle scin- tille continue e della quale vien dato conto in altra Nota (1). IRVE Influenza della elevazione di temperatura sulla successione delle scariche in regime di funzionamento continuo del dispositivo di scarica. — Mante- nendo in funzionamento continuo la macchina e lasciando prodursi con continuità le Fis. [a°) Fig. 3 scariche entro il tubo potei constatare che 1° elevazione di temperatura porta ad una variazione nel numero delle scariche, pur multiple nel senso considerato nel. prece- dente paragrafo. Così, mentre nel tubo mantenuto alla temperatura ordinaria di 13° si producevano 25 scariche al minuto, nello stesso tubo portato alla temperatura di 300° se ne producevano soltanto 9, e la diminuzione del numero delle scariche era graduale in corrispondenza dell’ aumento della temperatura. Il fatto forse è legato a ciò che coll’ aumento di temperatura cresce anche la pressione del gas e se ne aumenta conseguentemente la rigidità dielettrica. Anche per le osservazioni di questo paragrafo non è fuori di luogo operare il ravvicinamento col caso della Nota citata alla fine del precedente paragrafo. Per i (1) Rend. Ace. Bologna - Sed. del 20 Nov. 1921. (19) Serie VII. Tomo IX. 1921-1922, casi quivi studiati l’ aumento di temperatura porta a un aumento del numero di scintille ma le condizioni sono diverse nel senso che il riscaldamento non opera varia- zione di pressione a favorire presumibilmente una diminuzione di rigidità dielettrica. A In relazione a precedenti mie ricerche e tentativi già ricordati, mi sono occupato della produzione della scarica globulare anche con altri mezzi che non fosse 1° uso della grande batteria di condensatori praticato per la prima volta dal Righi. Così son ricorso: 1°) ad un grande rocchetto di induzione, usato, sia con |’ interruttore eletirolitico, sia con interruttore a getto di mercurio; 2°) ad un apparecchio tipo Gorla per radiografia usato colla corrente stradale a 100 volt e 42 periodi; 3°) ad un trasformatore da laboratorio nel quale immettevo direttamente la corrente alternata stradale a 110 Volt e 42 periodi. Le esperienze sono state eseguite: 1°) con un tubo che chiamerò A, di forma cilindrica come quello usato già dal Righi, largo cm. 10 e lungo cm. 39, munito di elettrodi sferici e con manometro collegato; 2°) con un tubo che chiamerò 8 pure cilindrico lungo 3,30 metri e largo 57 mm. munito pure di elettrodi sferici e con manometro collegato. In essi il voto poteva farsi con una pompa rotativa a mercurio mossa da motore elettrico. 1. Col rocchetto di ‘induzione e coll’ apparecchio Gorla ho potuto produrre nel tubo A il fenomeno di masse in moto susseguente, nel diminuire della pressione, a manifestazione di scintille, e seguìto a sua volta dalla ordinaria scarica in gas rarefatto. Veramente bella è la manifestazione che si ottiene usando il tubo 82. Applicando agli elettrodi del tubo la più alta differenza di potenziale fornita dal- l’ apparecchio si hanno col diminuire graduale della pressione della atmosferica ai due o tre mm. di mercurio 1 seguenti fatti in continua successione : a) Bagliore agli elettrodi. b) Lunghi pennacchi agli elettrodi. c) Scariche di debolissima luminosità che tendono ad appoggiarsi alla superficie interna del tubo di vetro sino a che decisamente vi si appoggiano. d) Formazione di una bella successione di masse ovoidali rosse suscitanti in corrispondenza loro una bella fluorescenza azzurra nel tubo di vetro. Tale successione si inizia all’ anodo e termina presso il catodo a breve dìstanza da questo. Il catodo ha contemporaneamente tutt’ intorno una netta luminosità violacea. e) Le masse hanno la forma di uovo allungato colla parte più dilatata e più luminosa verso 1° elettrodo negativo e coll’ altra meno luminosa e più diffusa verso l'elettrodo positivo. Il loro numero è vario col variare della differenza di potenziale usato (fio, 4, 5, 6, che rappresentano una parte soltanto del tubo di scarica verso l'elettrodo negativo). = = f) Alla successione delle masse luminose si sostituisce una luuga colonna rossa di aspetto continuo dall’ anodo sino a breve distanza dalla luce catodica. 9g) L'intervallo fra estremo della colonna positiva ed estremo della luce catodica va gradatamente crescendo. Le masse di cui alla lettera (4 mostrano un movimento di assieme generalmente dall’ alto al basso qualunque sia la disposizione degli elettrodi. Talvolta il movimento appare di direzione opposta e riguarda una parte soltanto della corona di masse. Fig. 6 Ciascuna massa peraltro osservata con lo specchio girante ha per il breve inter- vallo che la riguarda tutte le caratteristiche genetiche delle masse globulari del Righi. Parrebbe quasi che ciascuna massa fungesse per la successiva da elettrodo positivo e che il tubo fosse virtualmente costituito come da tanti tubi in successione. A questo pensiero conforterebbe la circostanza di una leggera colorazione azzurrognola all’ estremo di di ciascuna massa verso 1’ elettrodo negativo. Il moto di assieme delle masse può rendersi meno visibile con graduale dimi- nuzione della differenza di potenziale applicata agli elettrodi e sinanche sopprimersi ed invertirsi. Ciascuna massa conserva però sempre tutte le caratteristice preceden- temente indicate. 2. Notevole il fatto che cessata la scarica nel tubo, per qualche tempo dopo tale cessazione è possibile produrre nel tubo stesso scariche ben visibili costituite da luce diffusa col toccare la parete esterna del tubo ad una distanza da ciascun elettrodo non superiore a cirea un terzo della lunghezza del tubo. La luminosità va dall’ elettrodo alla regione toccata. Nelle ripetizioni successive del fenomeno dopo la cessazione della scarica principale si ha peraltro questo, che ogni ripetizione richiede il ravvicina- mento della regione toccata all’ elettrodo corrispondente. Le scariche, diciamo così, secondarie ottenibili, diminuiscono successivamente di lunghezza. "ille ec Il fenomeno deve secondo me attribuirsi ad una forza controelettrometrica mani- festantesi nella scarica in gas rarefatto e della quale mi occupai in precedenti miei lavori (1). Il tentativo di produrre scariche secondarie fallisce se la scarica principale o primaria fu ottenuta con differenza di potenziale alternativa, in accordo con tale sup- 2 posizione. 3. Col trasformatore da laboratorio ho potuto produrre nel tubo A alla pres- sione di tre mm. il fenomeno continuato di masse luminose in moto sino a raggiun- gere anche una sola massa per volta. Il numero delle masse diminuisce entro certi limiti colla pressione, e cresce colla intensità della corrente colla differenza di poten- ziale e colla temperatura. 3 Il movimento delle masse si effettua in genere dal basso all’ alto dipendentemente forse dalla diversa temperatura del gas (più elevata in alto che in basso). Questo moto peraltro è in contrasto con quello osservato facendo uso di un tra- sformatore di maggior potenza e del quale sarà cenno più avanti. Con una conve- niente pressione e con intensità di corrente conveniente si può ottenere che la scarica sia costituita da una sola massa fissa nella regione mediana del tubo (fig. 7). Basta produrre, utilizzando il reostato incluso nel primario del trasformatore, un rapido Fio. 7 aumento nella intensità della corrente perchè si abbia lo spostamento della massa verso l’ alto. Talvolta lo spostamento avxiene verso il basso e mentre più spesso colla diminuizione della intensità oltre al valore per il qnale la massa è unica si inverte il moto, talvolta il moto avviene sempre nello stesso senso. Degno di nota è la trasformazione che subisce la scarica globulare ottenuta mediante il trasformatore quando sì lasci crescere oradatamente ma lentamente la pressione nell’ imterno del tubo. Abbandonando il tubo all’ azione della differenza di potenziale mentre con grande lentezza si lascia ritornare in esso l’ aria esterna si notano le seguenti trasformazioni : la massa luminosa mediana si allunga e si diffonde a poco a poco mantenendo il proprio colore roseo. Questo colore si trasforma a poco a poco in rosso aranciato mentre lungo 1 asse della scarica apparisce un esile filamento di intensa luminosità bianca. La guaina rosso-aranciato che lo circonda sfumata verso l° esterno si diffonde di più in più assumendo una colorazione gialla ora molto diluita. (1) Rend. Acc. Boiogna, Nov. 1920. — Ann. Scient. ed ind. 1921 (Vol. 11). Col progredire della pressione a 15 a 20 a 25 cm. la luminosità si accentua. Poi accenna ad irrequietezza. Si assottiglia e assume andamento serpeggiante. Final- mente si spegne. A seconda della intensità della corrente inviata nel primario del trasformatore la pressione alla quale la scarica si spegne va notevolmente crescendo. E la pressione che il manometro segna nell’ atto dello spegnimento subisce una brusca e notevole diminuzione, indizio che sulla pressione indicata dall’ apparecchio il gas attraversato dalla scarica interveniva con un’ azione perturbatrice propria evidentemente di dilata- zione per azione tecnica. Comunque, in corrispondenza degli ultimi sforzi della scarica per il suo manteni- mento si ha una splendida manifestazione. A partire dall’ elettrodo inferiore si staccano talora in rapida successione, dalle belle e vivide masse sferoidali che sì direbbero formate da materiale incandescente e a costituire le quali sembra intervenga la materia stessa dell’ elettrodo. Se | elettrodo è di ottone tali masse sono di color giallo oro e costituiscono un fenomeno veramente bello. Utilizzando il tubo 8 ho potuto constatare che, come per una distanza troppo piccola dell’ elettrodo negativo dal positivo, viene a. mancare la manifestazione di scarica globulare anche per una distanza molto grande quale è quella offerta dal tubo usato. Ciò dipende evidentemente oltre che da insufficiente differenza di poten- ziale anche da limitata disponibilità di energia eccitatrice. Sostituendo difatti al tra- sformatore di laboratorio quello appartenente all’ apparecchio Gorla ho potuto riavere il fenomeno, ma sotto la forma di quelle masse luminose delle quali mi occupai altra volta. VIE La sostanza di questo mio lavoro è poca cosa. Si riduce alla raccolta di osser- vazioni più o meno coordinate fra di loro dalle quali non scaturisce gran che di utile a considerazioni di indole generale. Meglio sarebbe stato forse non renderle note prima di utilizzarle per uno studio sistematico in cui i vari fatti trovassero i corri- spondenti addentellati coi quali, tutti assieme, si inquadrassero in una visione sintetica soddisfacente. Ho seguito altro consiglio, perchè non sembra sempre corretto trascurare le osservazioni che pel momento non mostrino una qualche fecondità. Tuttavia in linea generica mi sembra di poter dire che la scarica in gas con pressione variabile dal millimetro di mercurio ai 76 normali sembrerebbe seguire le varie seguenti vicende: 1°) Manifestazione della colonna positiva, dello spazio oscuro del Faraday e della luce negativa. 2° Scarica globulare. 3°) Fascio di esili scintille che si appoggiano alla parete interna del tubo di scarica, tanto più quanto più questo è lungo. 4°) Pennacchi. ME Se la distanza fra gli elettrodi è piccola la 3% fase sembra suddividersi in due costituite, la prima da scintille di rottura vivide e decise, e 1’ altra di scintille esili con contorno sfumato. La 2* fase, dovremmo dire col Righi, manca nel senso che non appaiono nette masse in moto. A dir vero però si sarebbe tentati di pensare che si abbiano nuove masse globulari in rapidissimo moto. Mi richiamo per ciò all’ aspetto di una scintilla continua descritta in altra mia Nota (1). La cosa meriterebbe parti- colare studio. I’ altronde conviene osservare che se non sempre la fase delle masse in moto si mostra, tanto che il Righi potè pensare che occorrono condizioni specialissime fra le quali quelle di una natura speciale del gas, ciò dipende da varie cause che pos- sono intervenire assieme o separatamente. Esse sono forse: 1°) la insufficiente diffe- renza di potenziale agli elettrodi. 2° La troppa ristrettezza dell’ ambiente (tubo) nel quale avviene la scarica il che porta ad una perturbazione per opera della parete del tubo agente elettrostaticamente o come superficie conducente 3°) la insufficiente quantità di elettricità messa in esercizio nella scarica. Le varie fasi della scarica in corrispondenza della indicata variazione di pressione, considerando il gas in parte dielettrico ed in parte conduttore per ioni in esso esistenti o in esso formantisi, e ferma restando la concezione ionica di iutti i tipi di scarica, si potrebbero poi giustificare nel seguente modo : Per la 1° fase si avrebbe nel gas rigidità dielettrica forte, e quindi si noterebbero i pennacchi quali notevoli sforzi di rottura, o scarica decisa di rottura quando le con- dizioni opportune fossero raggiunte. Per la 2* fase si avrebbe nel gas diminuita la rigidità. Il gas quindi si com- porterebbe come corpo di meno in meno cattivo conduttore. In certo senso si verifi- cherebbero fatti analoghi a quelli del quadro scintillante. Parteciperà anche la parete del tubo, tanto più quanto più piccolo è il rapporto fra il diametro e la lunghezza di questo. Per la 3° fase la rigidità diminuirebbe ancora. La scarica sarà per gran parte di convezione ionica oscura. Poi sì potrebbero formare per abbondante emissione di cariche in vario modo giustificabile, ammassi di ioni che si staccherebbero come goccie, lonizzando il gas sul loro tragitto. Saremmo alla scarica globulare. In altre parole, ad intervalli, dopo un lavoro preparatorio con scarica oscura per il diminuito valore della rigidità dielettrica del gas ed in conseguenza dell’ accre- scersi del potenziale agli elettrodi, sì potrebbe avere una abbondante emissione di cariche ioniche dall’ anodo, con velocità sufficiente da agire sulle molecole neutre del gas in guisa da renderle momentaneamente iuminescenti per processo di ionizza- zione od altro, e ciò anche in accordo con altre osservazioni comprovanti in genere che la prima manifestazione visibile della scarica parte dall’ elettrodo positivo. I vari fatti e le varie influenze sulla scarica globulare da noi considerati dareb- bero ragione a questo modo di vedere. (1) Mem. Ace. Bologna, febbraio 1921. SEA Oi Per la 4* fase la rigidità sarebbe ancora diminuita. Interverrebbero allora pura- mente e semplicemente i fatti considerati dalla teoria ionica della scarica in gas rarefatto. * o» Se eli elettrodi sono relativamente vicini le condizioni sperimentali usate per la prima volta dal Righi e da me necessariamente praticate coll’ uso della macchina elettrostatica per la osservazione della scarica globulare, corrispondono a quelle per cui si hanno le cosidette scintille continue alla pressione ordinaria. Ad esse sì può applicare forse la spiegazione data per le scariche globulari. Solo che mentre a proposito di esse si può dire che 1 aumento di temperatura deve far diminuire la rigidità dieletrica del gas e quindi il loro numero deve crescere colla temperatura salvo una multiplicità minore di ciascuna di esse, quando non sieno semplici; per le scariche globulari che avvengono a volume costante, 1° aumento di temperatura, determinando un aumento di pressione farà crescere entro certi limiti la rigidità dielettrica del gas e quindi produrrà una diminuzione del numero delle masse, salvo a renderne più elevata la multiplicità di ciascuna quando non sia semplice (1). (1) Questa stessa Nota, Cap. IIT e Rend, Acc. Bologna - Sed. del 20 Nov. 192] == SI rt Pa SAL Hi "io e. hi Du mi pa agg di) : LP Segr retti: ab shbbtt,. EE si “ i SLI) ARIA he dedito 1 Sao) Pia MAIS toa; “pe # saro fergata. Pelppidi ia vane LA AO pr ici "0, into, Ma tiohasa: plot ibi cata N ea alluà Tae e as ben’ LA Mora: MEN 1% furto ineriberelibo ii Ri psc nto lofasitinage: ilioixilutoa "bf falade Atutneribalier MMOG ibotsiaia sudan nttabiasttoo csmiane cretini ai pi atolrioaiziot i spada oloni api imeziai at: miephi ‘ a da ana sita ia Ante cio Li n tai Cade Brione silla) s Ab altra Cama ngn bivio “edunetto | uit gie pupe benna fs hat aviaria Riso î Ve doc a pla SE CRETA pf: fapatuli Di e fore diri oppio ny ‘i Ji (VINTO 3A IIRTAMPRA 1 ni ubi i hi i plat du di do )) ci è PAIN Ni ter art | sagre tO adito: PTAL ein) di Porn È sinti, abit pri parità, i ( sia cadi Li eat te, toa ata niarina: bivio vera i Ls psenld; SMETTO osi serorata tata 408 i Varie: wa “a o DI ic: noi pa conii OTTO e: pur Mi, tn Rot tere a È cu) ERRO / Dr fai da di: bg # usa, sala asi ge i 1. pdl arr # EA Nago Lonate gita” dere sbioniaze da cab Cero CIRIE “ae hi fido er 3 ica VE) HavaAr leda ci seri I CONSIDERAZIONI CALORICO SPRCIFICO DEI GAS PERFETTI MEMORIA Prof. ALFREDO CAVAZZI letta nella Sessione del 27 Novembre 1921. La nota su cui oggi mi reco ad onore di riferire, e che |’ Accademia colla con- sueta benevolenza e fiducia vorrà accogliere nei suoi Atti, riguarda l’ argomento della tesi o dissertazione che nel 1875, ossia quarantotto anni or sono, presentai all’ Uni- versità di Bologna, a fine di conseguire la laurea in Scienze fisico-chimiche. La dis- sertazione ebbe per titolo « Considerazioni sul calorico specifico dei gas perfetti » titolo che per semplicità di discorso qui ho conservato, pur sapendo che la espres- sione di gas perfetti manca di precisione scientifica. Alla dissertazione primitiva portai in seguito non pochi cambiamenti, dopo i quali fu stampata a mie spese nel 1875, ma non comparve mai in altre pubblicazioni scientifiche. La Nota che ora presento, sia per osservazioni che per conclusioni, è sostanzial- mente la dissertazione di laurea condotta nella nuova forma. Ho detto sostanzialmente, poichè in’ alcuni punti di essa ho falto abbreviazioni e in altri invece ho stimato opportune e necessarie non poche aggiunte e di dare inoltre all’ insieme un più acconcio coordinamento delle diverse parti. La mia prima pubblicazione, sia detto con tutta sincerità, conosciuta da pochis- simi, competenti e mon competenti, passò innosservata, cioè senza infamia e senza lode, ossia ottenne il successo riserbato alle cose leggiere o inutili o sbagliate od oscure. Nondimeno rileggendo attentamente il mio lavoro dopo quasi mezzo secolo di silenzio, le considerazioni in esso fatte e le conclusioni cui giunsi non mi sembrano anche oggi prive tutte quante di opportunità e di ogni valore. Riconosco in pari tempo che la coltura ordinaria di un semplice e modestissimo chimico, quale io sono, E) non può essere adeguata alle molte difficoltà che ss’ incontrano nello studio anche parziale di così delicato argomento. Serie VII. Tomo IX. 1921-1922. 3 SIMO E superfluo dire quale e quanta importanza ed efficacia abbia avuto nel progresso delle teorie chimiche fondamentali la conoscenza del calorico specifico di certi gruppi di composti solidi e liquidi, e particolarmente quella degli elementi forniti di pro- prietà metalliche, la quale condusse poi Dulong e Petit a formulare la legge che porta giustamente e con tanto onore il loro nome. Nè minore importanza possono avere i dati relativi al calorico specifico dei gas perfetti in virtù delle loro comuni e peculiari proprietà fisiche. Nel riscaldamento di questi gas, a differenza dei corpi liquidi, dei solidi, dei vapori e dei gas facilmente condensabili, il lavoro interno è quasi insensibile onde logicamente e teoricamente dovrebbero essere considerati come i corpi più acconci alla ricerca delle leggi fonda- mentali del calorico specifico. Si obbietta con ragione che il numero dei corpi annoverati fra i gas perfetti, e di cui sia stato determinato con esattezza il calorico specifico, è ristrettissimo, e non havvi di più speranza di poterlo accrescere quanto sarebbe desiderabile e necessario per stabilire su basi larghe, solide e sicure 1° edificio delle leggi stesse. Quel tanto però che la scienza possiede, frutto di lunghi e difficilissimi esperimenti, ha senza dubbio importanza e valore indiscutibili. Nella seguente tabella figurano i dati del calorico specifico dei corpi aeriformi, distribuiti questi in tanti gruppi secondo il numero degli atomi contenuti nelle loro molecole. Volumi | Volume Peso SE Calorico Nome del gas compo- del moleco- ESE moleco- nenti (composto| lare | di peso lare TA RO SCNORZ ARESE AE 2 2 2 3,4090 | 6,8180 OSSISENOMO Se 2 2 32 0,2175 | 6,9600 Niolleegle FATZO VOTO SE RO RTO ET 2 2 28 0,2438 | 6,8264 biatomiche | Ossido di carbonio CO. . . . 2 2 28 0.2450 | 6,8600 Biossido di azoto NO . . . . 2 2 30 0,2317 | 6,9510 Acido cloridrico HCl... .. z 2 36,5 0,1867 | 6,8145 ICIOrO RGS RERGOTA O 2 2 71. | 0,1210 | 8,5910 Protossido di azoto N30. . . 3 2 44 0,2262 | 9,9528 Molecole Anidride carbonica CO, . . . 83 2 44 0,2169 | 9,5436 triatomiche | Anidride solforosa SOs. . . - 3 2 64 0,1550 | 9,9200 Idrogeno solforato HsS . .. 3 2 S4 0,2431 | 8,2688 Molecole o 5 S = È tetratomiche | AMMoniaca NH oro 4 17 0,5080 | 8,636 O Idregeno protocarbonato CH, 5 2 16 0,5929 | 9,4864 Molecole Idrogeno bicarbonato Ce . 6 2 28 0,404 |11,3121 esatomiche 0,388 | 10,8640 SEI I quali dati riguardano il calorico specifico determinato @ pressione costante che secondo Regnault è per i gas perfetti un elemanto invariabile. Ciò ha fatto supporre che altrettanto sia del calorico specifico determinato a volume costante, dato che si avvicina di più al calorico specifico vero, perchè in questo caso il lavoro esterno è nullo e il lavoro interno piccolissimo. D’ altra parte però è cosa nota che la determinazione del calorico specifico dei gas a volume costante è operazione prati- camente molto difficile. In base ai dati sperimentali che si conoscono, il calorico specifico molecolare di un gas perfelto a volume costante sarebbe approssimativamente uguale al calorico molecolare a pressione costante diminuito di 2, come vedesi nel quadro seguente. Calorico molecolare TOT! Lr — __________us5tpswwxxwr____ A pressione costante A volume costante Molecole biatomiche. . ../..... 6,864 (media) 4,866 Molecole triatomiche (V,0, S0,, C0,) 9,797 (media) 7,766 Molecole tetratomiche (NZ) . . . . 8,636 6,647 Molecole pentatomiche (CH) . . . . 9,486 7,488 Molecole esatomiche (CH). . . .. 10,864 10,052 Colpisce subito la eccezione presentata dall’ etilene C,277,. Fra 24° e 100° il Wie- demann trovò per calorico specifico di questo gas 0,388 e quindi il calorico mole- colare 10,864: prima di lui ii Regnault fra 10° e 202° trovò 0,404 e quindi il calorico molecolare 11,312. Col dato del Wiedemann la differenza fra il calorico specifico molecolare dell’ etilene a pressione costante e quello. a volume costante sarebbe soltanto di 0,812, ossia molto inferiore a 2. Causa precipua di questo fatto è l’ estrema difficoltà, o forse la impossibilità, di ottenere, col metodo ordinario di sua preparazione, dell’ etilene privo di vapori di alcool e soprattutto di etere, cioè di corpi che hanno una composizione atomica più complessa dell’ etilene e che mancando inoltre, come vapori, dei caratteri proprii dei gas perfetti non possono che elevare più o meno, secondo il grado di dette impurità, il calorico specifico di questo gas. In tale proposito è da rilevare che nelle tabelle del Landolt relative al calorico specifico dei gas a pressione costante, sotto il nome o la formola dell’ etilene C,2, sta scritto l° aggettivo wnrein (impuro). È quindi certo che anche il valore più basso trovato dal Wiedemann è un po’ superiore al calorico specifico del gas puro. Ciò premesso, tre fatti nella precedente tabella sono particolarmente palesi e meri- tevoli della massima considerazione : 1.° L’uguaglianza del calorico specifico delle molecole biatomiche dei gas perfetti, comprese quelle dell’ ucido cloridrico e dell’ ossido di carbonio. L’ osservazione non sfuggì al Dulong, che in un lavoro, i cui dettagli andarono dispersi dopo la sua morte, la presentò in forma della legge seguente: / gas com- posti formati di gas semplici (H,0,N,CI) senza condensazione hanno sotto ugual AURON SE volwune lo stesso calorico specifico dei gas semplici, come se i componenti fossero sem- plicemente mescolati. Presentemente a più chiara spiegazione del fatto giova far riflettere che i gas semplici (4,0, N, 01) e i loro composti (4C7, NO) contengono sotto ugual volume non solo ugual numero di molecole, ma anche ugual numero di atomi (2 in ciascuna molecola). 2.° La eccezione presentata dal cloro fra i gas del primo gruppo, aventi cioè molecole biatomiche. 3.0 La grande differenza che passu fra il calorico specifico delle molecole biato- miche dei gus perfetti e il culorico specifico delle inolecole contenenti più di due atomi. Il fatto espresso al numero 3°, ed al quale non fu data, a mio parere, la debita importanza, porta implicitamente ad ammettere che il calorico specifico molecolare medio 6,871 è dato caratteristico e distintivo delle molecole biatomiche dei gas per- fetti. Il calorico specifico più basso delle molecole più complesse è quello dell’ am- moniaca 8,636. Or bene, la differenza di questi due dati (1,765) è senza dubbio molto superiore a quella cui potrebbero condurre i piccoli errori commessi da speri- mentatori valentissimi nella determinazione del calorico specifico dei gas a pressione costante. Basterebbe quindi un solo gas perfetto e composto che avesse il calorico mole- atomico dei due componenti, come nel caso del biossido di azoto, dell? acido cloridrico e dell’ ossido di carbonio. L’ effetto della condensazione sulla grandezza del calorico specifico dei ‘Sas (già rilevato dal Dulong nella memoria i cui dettagli, come dissi, andarono perduti) si appalesa chiaramente nei dati della precedente tabella, dove si vede che il calorico specifico molecolare dell’ ammoniaca, benchè formata di 4 atomi, è decismmnente inferiore a quello delle molecole formate di 3. Fatto che si spieca riflettendo appunto che nella formazione delle molecole triatomiche (come 0, SO,, 7,8, CO,) la condensazione è di 3 dei volumi componenti, laddove quella dell’ ammoniaca è della metà. Più innanzi metterò in maggior rilievo gli effetti della condensazione. In un pregevole articolo pubblicato molti anni or sono nel Dizionario di Chimica del Wurtz, il Salet dice « Anche allo stato gassoso i calorici specifici presentano delle anomalie inesplicabili nelle teorie dove si trascura l’ influenza dell’ aggruppa- mento degli atomi sulla loro capacità calorifica » La espressione usata da Salet in questo periodo a me sembra alquanto vaga. Due cose sono state trascurate molto più essenziali e concrete, cioè il numero degli atomi contenuti nelle molecole dei gas perfetti e la grandezza della condensazione, che dipende appunto, come vedremo, da questo numero. Dai dati sperimentali della precedente tabella si deduce che gli atomi esistenti nelle molecole biatomiche dei gas perfetti, non esclusi quelli del carbonio e del cloro, È AA 6,871 hanno tutti la stessa capacità calorifica media 3,485 ==, conformemente alla ra legge di Dulong e Petit. LD ce In quanto al carbonio, che specialmente a bassa temperatura sì distingue fra gli elementi solidi per la sua eccezione alla legge di Dulong e Petit, viene a propo- sito il ricordare che facendo passare una corrente lenta di ossigeno sopra una massa di carbone puro allo stato di forte incandescenza, avviene che 1 atomo di carbonio si sostituisce ad 1 atomo di ossigeno in ciascuna delle molecole 0,, generando ossido di carbonio CO. E siccome la molecola dell’ ossigeno è formata di 2 atomi, così nella sua trasformazione completa in €0 nascono due molecole onde il volume raddoppia 0, +C,= 2C0, ma per il semplice fatto della sostituzione di 1 atomo di € ad 1 atomo di O nella molecola O, non cambia il volume nè la capacità calorifica del gas primitivo, come vedesi nella tabella. Ciò, dimostra che 1° atomo del carbonio nella molecola CO si comporta fisicamente come l’ atomo di ossigeno «che ha sostituito nella molecola O 929) di 1 atomo di ossigeno, di idrogeno e di azoto nelle rispettive molecole 0,, H,j, N ossia Ra lo stesso volume e la stessa capacità calorifica (3,435) DI Conseguentemente |° ossido di carbonio è formato di 1 volume di gas carbonio e di 1 volume di ossigeno come il biossido di azoto NO e l acido ‘cloridrico H#07 sono formati da volumi uguali dei due elementi componenti: intendendo con ciò di espri- mere il fatto reale della equivalenza di azione fisica dei due atomi che compongono le molecole biatomiche di gas perfetti. ® In conclusione, la struttura volumetrica dell’ ossido di carbonio viene così stubilita dal calorico specifico di questo gas su base sicura, pur non conoscendo la densità di vapore dell’ elemento carbonio. Conclusione cui era giunto il Berzelius con un ragionamento manifestamente erroneo. Nel suo Truttato di Chimica egli dice « Il gas ossigeno combinandosi col carbonio (per formare 0) raddoppia il proprio volume, d’ onde noi concludiamo che il volume aggiunto è quello del carbonio » Per svelare questo errore basterà ricordare che lo stesso ossigeno trasformandosi in vapor d’acqua raddoppia pure il proprio volume, ma il volume dell’ idrogeno a cui sì combina è doppio di quello dell’ ossigeno. In passato alcuni chimici avevano supposto poco rigorosamente ciò che risulta provato dalla conoscenza del calorico specifico, cioè che la densità dell’ ossido di carbonio fosse formata dal peso di vol. di ossigeno, più il peso di vol. di va- ne wi pore di carbonio. Se l’ Hofmann avesse falte le precedenti considerazioni, che credo giuste, sulla struttura volumetrica dell’ ossido di carbonio, nella sua bella Introduzione alla Chi- mica moderna non avrebbe forse scritto ì periodi seguenti. « Tutti i criteri che possiamo formarci riguardo ai rapporti di volume dell’ idro- geno protocarbonato CH, appartengono inevitabilmente al regno della speculazione ». E più oltre « Prima di esser giunti a gaseificare il carbonio e di aver pesato il gas carbonio, il concetto volumetrico del gas delle Maremme non si deve ritenere fondato sulle medesime sicure basi di quello dell’ acido cloridrico, dell’ acqua e dell’ am- moniaca ». 225 (Digy 22 19 Logicamente |’ Hofmann avrebbe fatto le stesse. affermazioni qualora avesse parlato della struttura volumetrica dell’ ossido di carbonio. In altro punto della medesima Introduzione, considerando semplicemente le den- sità anomale di vapore, che allora si conoscevano, del fosforo e dell’ arsenico, l° Ho f- mann dice « L° idrogeno fosforato PH, e 1° idrogeno arseniato AsH, differiscono essen- zialmente nella loro composizione dall’ ammoniaca NH, nel cui volume di 2 litri si trova contenuto 1 litro di azoto » mentre « il volume di 2 litri di idrogeno fosfo- rato ed arseniato contiene non già 1 litro di gas fosforo o di gas arsenico, ma bensì le solamente 3 litro ». IL’ Hofmann ebbe cioè piena fiducia che le densità di vapore del fosforo e del- l’arseniéo fossero dati sufficienti per ammettere una differenza essenziale di compo- sizione o, meglio, di struttura volumetrica fra |’ ammoniaca e l’ idrogeno fosforato ed arseniato., Della quale opinione non fu lOdling che, pur conoscendo le dette ano- malie, nel suo Manuale di Chimica teorica pratica così si esprime « Questi tre idruri NH,, PH,, AsH,, che sono tutti gassosi, contengono condensati in 2 volumi 3 atomi o 3 voluni di idrogeno e 1 atomo 0 1 volume di uno degli elementi di questo gruppo » cioè di azoto, o di fosforo o di arsenico. L’ errore dell’ Hofmann fu adungque di credere che la densità di vapore degli elementi, particolarmente solidi nelle condizioni ordinarie, sia un dato necessario e sufficiente per dedurne la struttura volumetrica dei loro composti aeriformi. Che ciò non sia valga fra gli altri 1° esempio dello zolfo e dello iodio. I chimici avrebbero dovuto attribuire all’ anidride solforosa .S0, e all’ idrogeno solforato H,S una strut- tura volumetrica diversa da quella del protossido di azoto N,0, qualora avessero con- nosciuto soltanto la densità del vapore di zolfo a 500° e non quella a 1000° che è un terzo della prima e conduce alla formola $, come pei gas semplici. Similmente la struttura volumetrica dell’ acido iodidrico riuscirebbe diversa da quella dell’ acido cloridrico quando fosse nota soltanto la densità di vapore dello iodio ad altissima temperatura. A buon conto 1 errore che si commise attribuendo una struttura volumetrica diversa fra NH,, PH, e AsH, fu poi dimostrato fra il 1883 e il 1889 da Men- sching, Meyer, Biltz, i quali provarono che anche le densità di vapore del P e dell’ As diminuiscono col crescere della temperatura e che al calo» rosso bianco, temperatura superiore a 1000°, conducono alle formole biatomiche As, e P,, laddove fin verso 1000° per il fosforo e a 600° circa per l’ arsenico avevano condotto alle formole doppie P, e As,. Conferma. non meno valida si avrebbe .quando fosse sperimentalmente provato che il calorico specifico molecolare dell’ idrogeno fosforato e dell’ idrogeno arseniato è uguale a quello dell’ ammoniaca. Ad uguaglianza di calorico molecolare in corpi aeri- formi di uguale costituzione atomica e tanto analoghi per proprietà chimiche dovrebbe corrispondere uniformità di struttura volumetrica. Ma PA, e AsH, si comporteranno fisicamente come gas perfetti ? MEDI: 3 A Del resto, ben considerando ciò che di fatto avviene in tutte le molecole biato- miche dei gas perfetti, non mi pare ammissibile che in un dato composto gassoso gli atomi componenti, qualunque sia il loro numero e la loro natura, possano avere volumi e quindi capacità calorifica diversi. In quanto alla eccezione presentata dal. cioro nel gruppo delle molecole biatomiche basterà dire che il cloro non è un gas perfetto, tanto che a temperatura -ordinaria diventa liquido alla debole pressione di 4 atmosfere e mezzo. Fra le molecole di questo gas chimici e fisici hanno sempre ammesso un residuo di coesione, ossia un’ azione attrattiva che ha appunto la sua manifestazione e prova evidentissima nel calorico specifico molecolare di questo gas (8,591) molto superiore a quello delle molecole biatomiche dei gas perfetti (6,871). La differenza dei due dati significa che nel riscaldamento del cloro havvi un lavoro interno sensibilissimo e forte. La eccezione presentata dal cloro fece concludere al Miller che era inammis- sibile la legge di Dulong e Petit nei gas elementari: conclusione a cui non sarebbe giunto qualora avesse eonsiderato, come han fatto altri, che nella molecola dell’ acido cloridrico, gas che a 10° diventa liquido soltanto a 19 atmosfere, l’ atomo del cloro ha la stessa capacità calorifica, ed, io aggiungo, lo stesso volume di 1 atomo di idrogeno. Difatti, similmente a quanto avviene nella formazione dell’ ossido di carbonio, 1 atomo di cloro sostituisce 1 atomo di idrogeno nella molecola H, senza cambiare il volume e la capacità calorifica del gas primitivo. Quindi nessuna eccezione finora alla legge di Dulong e Petit per gli elementi che entrano nelle molecole biatomiche dei gas perfetti. Nelle quali molecole (#,, 0,, N; NO, CO, HCl) il calore atomico degli elementi è in media 3,435, ossia la metà circa del calorico atomico degli elementi metallici. Ora passerò ad altra considerazione di interesse forse maggiore. Se nella molecola CO 1° atomo di carbonio ha lo stesso volume e la stessa capa- cità calorifica di 1 atomo di O, di 4, di N e di CZ nelle rispettive molecole hbiato- miche O,, H,, N, NO, HCI, non vi è ragione alcuna di mettere in dubbio che altrettanto sia allorchè il carbonio è combinato coi medesimi elementi (0,4) in mole- cole di gas perfetti più complesse, come C0,, CH,, C.H,. È quindi naturale e logico ammettere che, come |’ ossido di carbonio è formato di 1 vol. di O ed 1 di gas carbonio, così l° anidride carbonica CO, è formata di 1 vol. di gas carbonio e 2 di ossigeno con condensazione di 3 a 2, come ammise pure il Jamin nel suo Trat- tato di Fisica: che |’ idrogeno protocarbonato CH, è formato di 1 vol. di gas car- bonio e 4 di idrogeno con condensazione di 5 a 2: l idrogeno bicarbonato C,H,, di 2 vol. di gas carbonio e 4 di idrogeno con condensazione di 6 a 2. Di guisa che nelle molecole di questi composti aeriformi del carbonio, come in quelle di tutti gli altri gas, semplici e composti, considerati nella presente nota, i volwni componenti sono tanti quanti gli atomi. Anche l Odling nel periodo più sopra riportato dice che NA,, PH, a AsH, sono formate da 3 atomi 0 3 volumi di idrogeno e di 1 atomo e di 1 volume di azoto, o di fosforo o di arsenico. Allorchè gli atomi sono in 28 — numero superiore a 2, a limitare lo spazio occupato dalle singole molecole, in con- formità della legge di Avogadro, interviene il fenomeno della condensazione, causa della quale è Vl azione chimica da cui ne consegue una diminuzione o decrescimento della capacità calorifica degli atomi man mano che entrano in molecole gassose di composizione atomica più elevata, come vedesi nel seguente quadro : Capacità calorifica media degli atomi. ; 6,864 Nelle molecole biatomiche (#,, 0,, M,, NO, HCI, CO). ——— = 3,4320 SON Nelle molecole triatomiche (M,0, S0,, CO)... ... rag mine i 8,636 NelleXmolecoleNfetraromiehe size NZ Tg Seat 9,4864 NellexmolecoleWpenta/omiehe/(CA)L re en Tr: = 8072. i 10,8640 Nelle molecole \esatomiche (CZ) er n Ta gnanir 1,8106 Mentre fra 3,432 (per molecole biatomiche — senza condensazione) e 3,2656 (per 1 molecole triatomiche — condensazione di >) la differenza è 0,1664, fra 3,2656 e 2,159 (per molecola tetratomica NZ,, condensazione della setà) la differenza è 1,1066, ossia quasi selte volte la precedente. Poi fra 2,159 e 1,8972 (per molecola pentatomica CH,), e fra 1,8972 e 1,81 (per molecola esatomica C,H,) le differenze sono rispel- tivamente 0,2618 e 0,0872. La differenza fra il calorico specifico degli atomi della molecola CH, e quello degli atomi nella molecola dell’ etilene puro è senza dubbio maggiore di 0,0872, essendo certo che il calorico molecolare del gas privo di impu- rità è minore di 10,864. Quindi il decrescimento della capacità calorifica degli atomi sì mantiene, più di quanto si desume dall’ ultimo dato del quadro, nel passaggio della molecola pentatomica CZ, alla esatomica C,H,. Anche a questo proposito sorge di nuovo la obbiezione circa la eseguità del numero e della varietà dei dati sperimentali, e in ciò bisogna convenire; ma rico- noscere nel tempo stesso che non è possibile negare il fatto dell’ accennato decresci- mento che a mio avviso sta in strettissima correlazione colla legge di Avogadro, la quale si verifica per tutti i corpi aeriformi qualunque sia il numero e la natura degli atomi che compongono le loro molecole. Se, per ipotesi, ì 4 atomi o volumi necessari a formare l’ ammoniaca conservassero dopo combinazione la loro capacità calorifica primitiva, molto probabilmente, per non dire certamente, non si avrebbe condensazione, come avviene del biossido di azoto NO. Insisto su questo particolare, che io sappia da altri non considerato, perchè ho fede che non solo i chimici riconosceranno e ammetteranno il decrescimento della capacità calorifica degli atomi man mano che entrano in molecole di gas più com- plesse, ma che la scienza riuscirà un giorno a dimostrare che detto decrescimento è regolato da una legge senza la quale (dirò apertamente il mio pensiero) non saprei spiegarmi quella che a mio parere ne discende, voglio dire la legge di Avogardo. Fede che non parmi in tutto il frutto di una semplice troppo ardita intuizione o con- geltura campata in aria. La legge di Avogadro e i dati dell’ ultimo quadro, benchè pochi ma senza eccezioni, non sono mere opinioni. Non posso quindi essere della seguente opinione espressa dal Jamin nel suo Corso di Fisica (leoria dei gas. To. II, Fasc. II, Capit. VI, pag. 163) « Quando i gas composti obbediscono alle leggi di Mariotte e di Gay-Lussac (quindi gas perfetti) il loro calorico specifico rimane sensibilmente invariabile » Ciò è vero soltanto appros- simativamente per i gas considerati pure dal Jamin, che sono formati di 3 atomi o di 3 volumi condensati in 2 come N,0, C0,, S0,, H,S e soggetti perciò al grado minimo di condensazione, ma non è manifestamente vero per l’° ammoniaca, il metano el’ etilene. In coerenza poi dei concetti espressi in questa memoria penso che le conside- razioni alle quali dà argomento il calorico specifico dei gas dovrebbero trovar posto adeguato e distinto nell’ insegnamento della teorica atomica. Taluno chiederà: A che prò ? Non ignoro che parecchi anni or sono alcuni studiosi di lunga vista ebbero la illusione di assistere in tempo relativamente breve ai funerali della teoria atomica ; così semplice razionale e così salda nelle sue fondamenta. 'eoria che, come ognuno sa, ha contribuito grandemente e non è mai stata di impedimento ai maggiori pro- gressi della scienza, dei quali si è giovata perfezionandosi e ognor più affermandosi. Io credo perciò che il sacerdote che dovrà cantare o celebrare le esequie ad onore della gloriosissima teoria non sia ancora arrivato a comporre latinucci nel seminario e sia anche molto lontano dal nascimento. Il tempo dirà se io ho torto o ragione, non a me però, vicinissimo come sono al misterioso fatale iniquo e non temuto trapasso. Serie VII. Tomo IX. 1921-1922, 4 Mn ni PISA ont ATEI ani ta SERE ni tin Nt; pone A Bots ros vi be! sttaort vba dg bag trà dti O i forti POT TO O ANTE Tra gir Ghitaniae: bltp* ib SIN "mi? five bott sia sbs sdorad OTOBU] asti" Mob ata pa avion Aso atessl at So sti stia. sai ng ) itoigigò Stadi one Arost. soi NAds9a Ha) at ia | ose fan ii ar te boasi puotio SINAWASE nttsb dica ifanisarps sezoG auido do oto VI UE Ta IR na I TARE A ino pira so (FHiotraq ea ibiriarp) > dn muri Movnil in Sos! suo pieonaiiridà Muti i oRAPIOTTR uova E RE ii raro, “stviati cottianiz oo ì ieols o db iiatierot care dro Ara dat aq Betobiaitoo am A a 6108 lata pia ona RO 15 Ri, Ri: ig 0 OA ondoo Sr ipenohibo: iattoli oniasori Di) ROGO ‘l'A 097 slanittesti nie # mos EIN sudiseasebano Li ARE . î : SRI h. ù 4 «Qbiaios ‘4 adi AB] Giona BICOND ini “iggenias diga Lap) PRSST oie0g PIRSZIOII OTT sio But at haltinsge doisolgo {7 dranogte Ae iaop a Aado 4 siro aid più HAL astio AGitos) attab oisbdraernzoiti» "Toe. “olnittzib.» iva] eroi iglali siga ipa ieoilutas iosa LITHGRA 6?! LALA) booster da pati pedoni givss] rilab iarogbi is aver aifrspira vijplor ornati piste | alito stase ee RM SISI “ne” abteli* DOIREO Ta GALDO vata l “(ri 10iRZA Bo ontprifeorterib aledaa inn, PRINT ig plitsnra funegis J SEIta) i ulaieoniona sn TAL meant 6 ie ste do «esnniaz ar Ko Pa, Voga tab perio dui ni soft DL) Pio miei è Wsora Tea : ni "i ‘pl puoi Arte Da doti PARI deri coon ivià ST) SA de PROSE Bir è Time, nos: Mi. a) fi rai Hr RIS riale farne DIVIDE FRANCESCO DAL POZZO e la sua critica di VESALIO MEMORIA DEI, Prof. GIOVANNI MARTINOTTI letta nella Sessione del 7 Maggio 1922. poss in Italia, vera ingeniorum altrice. VrsaLIo. Gli avversari di Vesalio si possono distinguere in due categorie : i rigidi Galenisti che vollero dimostrare falso tutto ciò che Vesalio aveva affermato non conforme a Galeno e coloro che lo attaccarono nei suoi lati deboli, dimostrando, con le osservazioni dirette, erronee le sue affermazioni. Nella prima stanno Jacopo Dubois (Silvio) (1) e Francesco Dal Pozzo (2); mentre Falloppio (3) è il rappresentante più autorevole della seconda categoria (4). Chi fosse il Dubois (che lasciò il suo nome a varie parti del corpo umano: scis- sura del Silvio, acquedotto del Silvio, ecc.) tutti sanno; ma chi era questo Dal Pozzo che osava levarsi contro il genio di Vesalio, quando esso risplendeva nel suo massimo fulgore ? Bartolomeo Dal Pozzo fu medico valente e personaggio molto stimato a Vercelli, dove si era recato sul principio del secolo XVI da Villanova di Casale (5), sua (1) Vesani cujusdam calunniae in Hippocrulis et Galeni rem anatomicam depulsio, per Jaco- bum Sylvium etc., Parisiis 1551, 8°. (2) Apologia in anatome pro Galeno, contra Andream Vessalium Bruxellensem, Francisco Puteo, medico Vercellensi authore. Cum Praefatione, in qua agitur de Medicinae inventione. Venetiis, apud Franciscun de Portonariis, de TUridino. MDLXII. (3) G. Falloppii. Observationes anatomicae. Venetiis 1561, più volte ristampato, da ultimo a Leyden nel 1725, con le opere di Vesalio (1. II, p. 685). (4) Loeply. Geschichte der Anatomie in Neuburger u. Pagel. Mandbuch der Geschichte der Medizin, t. II. p. 231. Jena 1903. (5) Villanova è un borgo sulla sinistra del Po, a non molta distanza dal punto in cui vi affluisce la Sesia. Si trova sulla strada provinciale da Vercelli a Casale, a circa 5 Km. da quest’ ultima città. Fu fondato dai Vercellesi con atto del 15 agosto 1197 e costituito in borgo franco ; agli abitanti furono accordati privilegi per difendersi dalle scorrerie dei Pavesi e dei Marchesi Monferrini: anzi fu il primo borgo franco fra i molti creati successivamente dal Comune di Vercelli (Dionisotti. Studi di Storia patria subalpina. Vovino 1896, p. 75-76). In seguito passò alle dipendenze di Casale e prese il nome di Villanova Casalese; poi di Villanova di Casale Monferrato e da ultimo di Villanova Monferrato. Serie VII. Tomo IX. 1921-1922. 4a : — 32 — patria (1). A Vercelli fu Rettore degli scolari nel 1539 e Professore di Filosofia. Scrisse. un. commento a Platone, che il figlio Amedeo doveva pubblicare se morte immatura non lo avesse rapito (2). Sposò Agnese de Longis di S. Germano Vercellese e da essa ebbe due maschi e due femmine; il primogenito fun Amedeo, che morì avvelenato a Pavia, appena ventunenne, mentre attendeva a studiare Leggi (3). .Il terzogenito fu Francesco, che nacque pure a Villanova Casalese, come egli stesso ebbe a dichiarare nel suo testamento (4), e non a Vercelli come erroneamente dice il Dionisotti (5). Francesco Dal Pozzo studiò a Pavia, dove ebbe a maestro Branda Porro, di cui esalta il valore come filosofo e come medico, che ogni anno insegnava |’ anatomia (6). Fu pure suo maestro il celebre Matteo Curzio, del quale fa molti elogi dicendo che rimise in onore la medicina greca, mentre prima i medici seguivano ciecamente gli arabi (7). Sembra che il Dal Pozzo abbia scritto un libro: De Venae sectione in plew'ilide pro Cuwrtio contra Andrean Thurinum Pisensem (8). Egli fu pure certamente a Venezia (9) e forse a Pisa: la città però dove dimorò più lungamente fu Bologna. Ivi egli ebbe a maestro Jacopo Pacini, « vir magis atque magis doctus » (10); strinse relazione con Bartolomeo Maggi, chirurgo valorosissimo, che a Bologna insegnava l anatomia (11), e con altri dotti bolognesi. Di Bologna ricorda vari luoghi: le gradinate di S. Petronio, i portici del Baraccano, il sepolero di S. Stefano, S. Michele in Bosco ecc. (12). Secondo 1’ ultimo censimento {1921) conta 3372 abitanti. Amministrativamente fa parte del Circon- dario di Casale (Prov. di Alessandria) ma per la natura del suolo, per le condizioni agricole e per le consuetudini degli abitanti appartiene all’agro Vercellese. ; Alcuni scavi fatti or sono molti anni misero in luce gli avanzi di un’ antica strada romana paral- lela al Po: forse quella che, scendendo dalle Gallie, veniva a congiungersi con la via Emilia. Chiedo venia al Lettore se mi sono soffermato su questi particolari intorno all’ umile villaggio che mi diede i natali e che fu patria di Francesco Dal Pozzo. (1) Dionisotti. Notizie biografiche dei Vercellesi illustri. Biella 1862 p. 247 nota 2. (2) Putei. Apologia ecc. p. 57 bis. (3) Putei. Loc. cit. (4) Claretta G. Afonso Corradi ricordato nei suoi lavori scientifici in relazione alla storia (Memorie della R. Accudemia delle Scienze di Torino. Serie II. V. XLIV, 1894, nota alla p. 23 dell’ estratto). (5) Dionisotti. Op. cit. p. 247. Nella successiva sua opera (Memorie storiche della città di Vercelli, t. I, p. 294, Biella 1864) il Dionisotti dice Francesco Dal Pozzo di Villanova, cittadino di Vercelli. 7; (6) Putei. Apologia ecc. p. 69. (7) Id Opyicito pr 90! (3) IL Id. p. 154 bis. (©) GL Wi Ped (10) Id. oh ap Ul (AB) I eb Po 1 (012) NNT ato Ds I rr Ma più di tutto notevole é la memoria che egli ci ha tramandato di una discens- sione anatomica avvenuta a Bologna quando Vesalio passò per quella città (1). Nel- Panno 1544 (quello stesso in cui Vesalio doveva lasciare !’ Italia per recarsi in Spagna (2)) Vesalio, dovendo recarsi a Pisa per invito del duca Cosimo de’ Medici, (3) si fermò a Bologna, ospite di Giovanni Andrea Albio (4), Professore di Medicina ippo- cratica in quella Università, che già altra volta lo aveva ospitato nel suo passaggio = per Bologna (5). Spiegava l° anatomia su due cadaveri Bartolomeo Maggi: Vesalio vi Di TRANCESCO DAL POZZO dimostrò la distribuzione delle vene e la riunione si protrasse fino a tarda notte; ma il tempo era rigido e la discussione fu rimandata. Senonchè | indomani, di buon (1) Putei. Apologia ecc. p. 117 e seguenti. (2) Gabrielis Cunei, Mediolanensis. Apologiae Francisci Putei pro Galeno in anatome exa- men. Venetiis MDLXIV p. 70-7#; ibid. p. 81. Vesalii Opera omnia Lugd. Batav. 1725 1. II. p. 674. (3) A. Corsini, Andrea Vesalio nello Studio di Pisa. Siena 1915. (4) Giovanni Andrea Bianchi (Albius), da Parma, fu Lettore di Medicina a Bologna dall’ anno 1525 al 1565 (Mazzetti. Repertorio di tutti i professori dell’ Università di Bologna. 1848 p. 55). (5) <..... Johanni Audreae Albio, Hippocraticae medicinae apud Bononienses Professori clarissimo.... : « quum is, ut vir est splendidissimus, omni hbumanitate, adlmodum liberaliter in ipsius aedibus me Bono- « niam Anatomes docendae gratia vocatum, secundo excepisset ». Vesalii. Opera omnia I. IL p. 67. mattino, Vesalio partì per Pisa. Allora i dotti convenuti discussero intorno all’ organo della sanguificazione ed all’ origine della vena cava. Fu invitato a parlare prima il Boccadiferro (1); ma siccome egli difendeva le dottrine di Aristotele contro quelle di Galeno, fu interrotto e fischiato (2). Poi fu invitato a parlare Antonio Francesco Fabio « philosophus consumatissimus, in quo omnia sunt quae ant fortuna ant natura homi- nibus largitur » (3); dopo di lui Jacopo Pacini già ricordato (4); quindi Bene- detto Vittorio Faentino « senex venerandus, qui utrasque faculiates, dogmaticam scilicet_ et empiricam suis illustravit commentariis » (5); dopo di lui Domenico Bonfiglioli « in omni doctrinae genere praeclarissimus. » (6); poscia Bartolomeo Maggi (7) e finalmente Alcide Bonacossa « vir admodum facundissimus, sed ob pau- pertatem valde incognitus » (8). ; Il Dal Pozzo ci riferisce in disteso i loro discorsi (se conformi al vero o foggiati da lui nessuno può dire), dai quali risulta che tutti diseussero le questioni teoricamente, senza punto riferirsi ai due cadaveri che pure il giorno prima erano stati sezionati. Alla disputa erano pure presenti: Antonio Maria Alberghini (9); Giovanni Bat- tista Pellegrino (10); Enrico Bonassono (11); Baldo (12), Filippo Bianchi (Albius, figlio (1) Putei. Apol. p. 117 bis, 118 e segg. — Lodovico Boccadiferro, che il Dal Pozzo chiama « tam excellens philosophus quam unquam alium audierim » insegnò Filosofia e Medicina prima a Bologna, poi a Roma e di nuovo a Bologna (Mazzetti op. cit. p. 58 e Fantuzzi. Scrittori bolognesi V. II, p. 210). Morì il 3 Maggio 1545, per cui Vesalio, scrivendo nel giugno 1546 e ricordandolo, aggiunge « piae memoriae » (Vesalii. Opera omnia Vol. II, p. 674). Più oltre (p. 678) Vesalio aggiunge che avrebbe desiderato conoscere le ragioni esposte dal Boccadiferro in quella circostanza. : (2) Putei. Apol. p. 121 bis. (3) Nè il Mazzetti, nè l’Alidosi, nè altri autori da me compulsati recano alcuna notizia di questo Antonio Francesco Fabio; il Cavazza però ricorda un Antonio Francesco Filippo de Fabis, Artium et Medicinae Doctor, che fu Lettore fino all’anno 1571 (J. B. Cavatius. Catalogus omnium Doctorum ecc. Bononiae 1664 p. 27). (4) Putei. Apol. p. 124. Jacopo Paciui fu Lettore di Filosof. e di Medicina pratica a Bologna (Mazzetti o. c. p. 280; Fantuzzi 1. VI p. 114). (5) Putei. Apo? p. 128. Benedetto Vittorio insegnò Filosofia e Medicina prima a Bologna indi a Padova, poi di nuovo a Bologna (Mazzetti p. 321; Fantuzzi 1. VIII p. 187). (6) Putei. Apo?. p. 180 bis. Domenico Bonfiglioli (o Bonfioli) insegnò Filosofia e Medicina prima a Bo- logna, poi a Padova e di nuovo a Bologna (forse anche a Roma). (Mazzetti p.65 e Fantuzzi T. IL p. 29). (7) Putei. Apol. p. 131 bis. Bartolomeo Maggi fù Lettore di Chirurgia a Bologna. Fu anatomico, chirurgo e medico reputatissimo. Cfr. Medici. Compendio storico della Scuola anatomica di Bolo- gna. Bologna 1857, pagg. 64-66 e gli autori ivi citati. (8) Putei. Apo? p. 134 bis. Il Mazzetti (p. 64-65) ’Alidosi (Dottori bolognesi di Teologia, Medicina ecc. p. 52) e l’Orlandi (Scrittori bolognesi p. 105) parlano di un Ercole Bonacossa che insegnò Filosofia e Medicina a Bologna dal 1526 al 1578. Certamente è quello a cui accenna il Dal Pozzo: forse era chiamato Alcide (sopranome di Ercole) dai uaar (9) Antonio Maria Alberghini fu Lettore di Filosofia e poi di Medicina dal 1530 al 1587. (Maz- zietti p. 14, Fantuzzi I. WI0, p. 49 nota 2, A dosi p. 12-18). (10) Giovanni Battista Pellegrino detto di Lanzi, inseguò Filosofia e Medicina a Bologna. (Maz- zetti p. 288. Fantuzzi T. VI, p. 380. Alidosi p. 103. Orlandi p. 158. Cavazza p. 28). (11) Il Mazzetti (p. 63) ricorda un Antonio Bonassoni che insegnò prima Filosofia e poi Medi- cina, fino all’ anno 1556. (12) Probabilmente Pietro Baldi, laureato in Filosofia e Medicina, Lettore di Logica e di Filosofia fino al 1568. (Mazzetti p. 86). CIAOO di Giovanni Andrea); Antonio Pollaroli; Tommaso dei Salomoni fossanese e Gerolamo cremonese (1). Im un’altra occasione pure il Dal Pozzo ricorda Bologna (2). Dopo aver accennato a Bartolomeo Maggi « chirurgus praeclarissimus, qui adeo Anatomes tune erat stu- diosus, quam unquam alium agnoverim, qui praeter illos qui ab illustribus quadra- ginta viris Bononiae dominis, singulis annis pro Anatome pubblica dabantur, quam plures alios ex coemeteriis in domum suam sub noctu deferre etiam non preaeter- mittebat » narra il caso di una meretrice gravida, che morì e fu sepolta nella chiesa di S. Lorenzo. Procurarono di averne il cadavere e vi studiarono gli involucri fetali. Francesco Dal Pozzo fece ritorno a Vercelli, dove esercitò la Medicina, scrisse l’opera a cui è affidato il suo nome e vi morì il 29 novembre 1564. Fu. sepolto nella cappella della sua famiglia che esisteva nella chiesa del Carmine. Aveva sposato la nobile Franceschina Caccia di Novara; non ebbe figli e morendo lasciò le sue sostanze affinché fosse fondato in Vercelli un Collegio per 1° istruzione di 12 giovanetti, 6 dei quali da eleggersi fra i parenti od agnati della sua famiglia di Villanova e gli altri fra gli alunni vercellesi (3). Garlo Antonio Dal Pozzo (che si laureò in Leggi, con grande plauso, a Bologna il 5 ottobre 1556), essendo Arcivescovo di Pisa, vi fondò nel 1604 il Collegio Puteano per scolari piemontesi e particolarmente per « alunni del Collegio fondato in Vercelli <« per messer Francesco Puteo, medico insigne, al quale per le sue virtù e servitù < fatta a casa mia, fu dal mio padre e zio concessogli il cognome e arma di casa <« mia e aggregato a dello cognome » (4). L’opera del Dal Pozzo, divisa in sette libri, è preceduta da una lunga prefazione con dedica al Cardinale Giacomo dal Pozzo. L'A. vi fa una esposizione storica delle origini e dello sviluppo della medicina, dai tempi mitologici, fino agli scrittori greci e latini, con largo sfoggio di erudizione. Il Dal Pozzo s’ indugia sul significato del bastone e del serpente di Esculapio, per farvi entrare la spiegazione dello stemma della sua famiglia, nel quale si vedono due serpenti alati, che si abbeverano ad un pozzo. E, facendo le lodi della famiglia Dal Pozzo, augura il Pontificato al Cardinale Giacomo Dal Pozzo, elogia altri della stessa famiglia, comprendendovi anche quel Carlo Dal Pozzo, allora giovanissimo, che fu poi Arcivescovo di Pisa e vi fondò il Collegio puieano. Di sè dice: « ego autem omium minimus, a natura doctus, etsi non possum. aliis « dignioribus fieri illustrior, ad primos tamen honores me contuli, nec dedignor, elenim, ut inquit Homerus, Vir medicus multis aliis aequabitur unus ». (1) Nessuna notizia ho potuto trovare intorno a questi tre ultimi citati dal Dal Pozzo. (2) Putei. Apol. p. 165. (3) Confr. Dionisotti op. cit. e Claretta loc. cit. (4) Lenivelli. Biografia piemontese. V. II. Torino 1785 p. 292. Serie VII. Tomo IX. 1921-1922. 4 Da — —— Nella chiusa della prefazione dice che scrisse il libro per dimostrare « quania « sit Hippocratis et Galeni divinitas et quanta sit illorum temeritas et impudentia, < qui de ipsis male sentiunt et impudenter lapsi sunt ». E soggiunge: « Sed siu- « diosos admonitos esse velim, non livore ductus sed pro veritate indaganda semper « insudavisse ». Nel corso dell’ opera il Dal Pozzo comincia col ribattere 1° accusa di Vesalio che Galeno abbia sezionato soltanto cadaveri di scimmie e non di uomini: in seguito esamina passo passo le affermazioni di Vesalio contro Galeno, di cui cita largamente Il testo greco, facendolo seguire dalla traduzione latina. E sulle divergenze fra i due autori fa delle lunghe disquisizioni per dimostrare che Vesalio ha torto e Galeno ha ragione. Ma il metodo è sbagliato, perchè lA. raramente ricorre a dati di fatto, ad osservazioni dirette sul cadavere che avrebbero risolto le questioni. Egli comprende il lato debole del suo metodo e prevede le critiche che gli saranno Mosse « ..... non me praeterit plerosque equidem fore qui etiam me calunnia- « buntur, quod voluerim in Anatome Galenum defendere non oculata fide, ut praestabat, « sed rationibus, quum non opus sit in his quae oculis discerni quidem possunt » (pag. 64 bis). E si scusa dicendo che le circostanze non gli permettono di seguire questa via, la quale egli consiglia caldamente agli studiosi « ..... quaeso vos, 0 « studiosi, qui isthaec legitis, nec illi (Vesalio) nec mihi fidem adhibeatis, sed vosmet « ipsis, ut eas videatis curare velitis..... » e soggiunge che al lettore sarà cosa facilissima specialmente se si troverà a Bologna e andrà da Bartolomeo Maggi o da Andrea Albio, oppure a Pisa, od a Ferrara presso Giambattista Canani, od a Padova presso Gabriele Falloppio, od a Pavia presso Gabriele Cuneo o presso Pietro Martire Trono (pag. 37 bis). Lo stesso consiglio ripete poco dopo (pag. 40 bis): RINO quaeso vos, o studiosi ..... in sedula humanorum corporum inspectione « exercere non praetermittatis, nec Galeno nec illi (Vesalio) credite, sed vosmet ut « videatis abhortor plurimum ..... » — <« Hortor igitur et moneo plurimum, qui « in Anatome excellentes esse volunt ut ad sectiones..... se quidem conferant » (pag. 65 bis). Più oltre (pag. 182) consiglia gli studiosi di andare nei macelli per vedere come sono disposte le meningi cerebrali. E per conto suo non tralascia le occasioni per accertarsi, sul cadavere, della verità. Il 17 agosto 1553 morì a Vercelli, di morte improvvisa, Carlo III, Duca di Savoia. In presenza di vari medici, che il Dal Pozzo ricorda, fu fatta 1 autopsia e poi fu imbalsamato il cadavere (pag. 153, 1553 bis). I presenti poterono constatare come non fosse esatta l° affermazione di Vesalio sui rapporti fra la vena cava ed il fegato, in contrasto con quanto aveva scritto Galeno. Ed il Dal Pozzo commenta : (APREA: ipsum omnes vidimus, tetigimus incidimusque .. ... > (pag. 154). L’ episodio sopra ricordato del cadavere della meretrice gravida, che il Dal Pozzo (forse insieme con Bartolomeo Maggi) procurò di avere a Bologna per studiare l° ana- tomia della placenta, conferma questo bisogno che il Dal Pozzo sentiva di dissetarsi alle fonti vive dell’ osservazione diretta per conoscere la verità. “ E PS Ma i tempi, toxmentati dalle continue guerre, erano oltremodo difficili e non per- mettevano di attendere ad alcuna cosa seria (p. 157 bis). L’A. confessa di non aver scritto spontaneamente, ma costretto da molti ai quali aveva promesso di scrivere ]l libro, tantochè gli sarebbe sembrato di mancare ad un impegno di onore se non avesse mantenuto la promessa data (ibidem). Il Goelicke (1) afferma che il Dal Pozzo scrisse il suo libro per incitamento di Silvio. Ora il Dal Pozzo cita una sola volta il Silvio, e non risulta che sia stato suo discepolo (2), come dice il Goelicke. Meno inverosimile è la supposizione di Gabriele Cuneo (3), accolta anche dal Portal (4), che egli sia stato incitato a scrivere da Antonio Fossano, 0, più precisa- mente, da Antonio Tesauro di Fossano, (5) di cui il Dal Pozzo parla con entusiasmo (6) ponendolo fra gli antivesaliani più convinti, insieme con altri medici, dei quali ricorda i nomi e coi quali sì trovò alla corte del Duca Carlo di Savoia. Se il Dal Pozzo può essere scusato per non avere attinto dall’ osservazione diretta del cadavere le ragioni delle sue critiche, meno scusabili sono le numerose invettive contro Vesalio, che ricorrono, si può dire, ad ogni pagina, in tutte le forme imma- ginabili. Il Dal Pozzo non esita di chiamare Vesalio impudente (pag. 4 bis) anzi impu- dentissimo (pag. 61), stupido (pag. 5), di ingegno ottuso (p. 6), mendace e vanilo- quente (pag. 24 bis e pag. 62), calunniatore (pag. 32 bis), ignorante e temerario (pag. 43 bis, pag. 59 bis e pag. 112 bis); spesso lo tratta da pazzo (pag. 38 bis, pag. 47, pag. 72 bis, pag. 74 bis, pag. 109 bis, pag. 148 ecc.). Sopratutto lo accusa di non capire Galeno (pag. 15, pag. 76, pag. 81 bis, pag. 84, pag. 102 bis, pag. 103 bis, pag. 114, pag. 137, pag. 142, pag. 142 bis). In qualche luogo lo chiama, ironicamente, amicus noster (pag. 97 bis e pag. 137 bis); in altro punto lo scusa perchè, invece di consultare il testo greco di Galeno, Vesalio ebbe dinanzi a sè la traduzione di Nicolò da Reggio (pag. 29 bis); lamenta che molti ai suoi tempi, pur sapendo come la medicina derivi da fonti greche, non curino di attingere alle medesime, per cui esorta gli studiosi a ricercare gli esemplari greci (pag. 30). Le intemperanze di linguaggio sopra riferite (ed altre che per brevità ho taciuto) non saranno mai abbastanza deplorate ; giova però ricordare che esse non erano cosa insolita negli scritti scientifici di quei tempi. (1) Goelicke A. O. Zntroductio ad historiam litterarian Anatomes. Francofurti ad Viadrun 1738 p. 146. (2) Putei. Apol. pag. 69. Sembra che il Dal Pozzo non conoscesse neppure il libro del Silvio stampato nel 1551. (3) Cunei. Op. cit. pag. 4. (4) Portal, Histoire de V Anatomie V. I. p. 607. (5) Sul Zesauro cfr. Vrompeo B. Dei medici e degli archiatri dei Principi della R. Casa di Savoia. Torino, 1858, pag. 28. (6) Putei. Apol. pag. 86. bis. Sage a Eustachio. accusa Vesalio di aver spogliato Berengario da Carpi e di averlo poi chiamato la feccia degli anatomici (1). Silvio aveva chiamato pazzo Vesalio perfino nel. titolo della sua opera (2). Ben altrimenti il Falloppio - altrentanto grande quanto modesto - criticando Vesalio, non con disquisizioni teoriche, ma alla siregua delle osservazioni dirette, si proponeva « nulla unguam petulanti oratione, aut acensatione « esse usurum, cum nullam aucupem gloriolam ex dedecore alieno, sciamgue neminem < gratis esse pungendum offendendumve » (3). Come a difendere Vesalio contro le accuse del Silvio era sorto Hener (4), così contro le critiche di Francesco Dal Pozzo Vesalio trovò un difensore in Gabriele Cuneo (5). Sulla fede del Cardano (6) si credette che Gabriele Cuneo fosse un pseudonimo assunto da Vesalio per difendere sè stesso. In tale opinione convennero il Douglas (7), l’ Haller (8), il Tollin (9), il Bain (10) e parecchi altri. Boerhaave ed Albino (11), fondandosi sullo stile e sull’ ortografia caratieristici di Vesalio, nonchè sul fatto che il Cuneo afferma di aver sezionati cadaveri di tedeschi e di svizzeri, accolsero senz’ altro e stamparono il libro del Cuneo fra le opere di Vesalio (12). L’ Haller fa osservare che Cuneo cita la risposta di Vesalio alle osservazioni di Falloppio, la quale non era ancora stampata quando il Cuneo scrisse la sua risposta al Dal Pozzo. È verissimo che il Cuneo (pag. 13, pag. 39, pag. 81) cita la risposta di Vesalio alle osservazioni di Falloppio; ma é d’ uopo notare che tale risposta subì varie peregrinazioni prima di essere stampata. Il manoscritto di Vesalio porta la data di Madrid 26 dicembre 1561, fu consegnato in Ispagna al Tiepolo che lo portò in Italia nel 1562 e fu stampato a Venezia nel 1564 (la prefazione dello stampatore reca la data del -4 maggio 1564); il libro del Cuneo porta, in fine, la data del 26 marzo, 1563 ma fu stampato a Venezia nel 1564 e dallo stesso editore che aveva stampato la risposta di Vesalio al Fallopio. È possibile dunque che il Cuneo abbia avuto fra le mani il manoscritto di Vesalio prima che esso fosse stampato. (1) Eustachii. Opuscula anatomica. Venetiis, 1564 p. 153. (2) Vesani cujusdam ecc. vedi il titolo citato nella nota 1% a p. 1. 3) Falloppio. Observationes anatomicae, nell’ introduzione. (4) AdQversus Jacobi Sylvii depulsionun anatomicarum calumnias, pro Andrea Vesalio apo- logia, Renato Henero Zindoense medico authore, Venetiis MDLV. (5) Gabrielis Cunei. Op. cit. (6) Cardani Hier. Mediolanensis. De propria vita. Opera omnia. Lugduni 1663. 1. I. p. 46. (7) Douglas Jac. Bibliographiae anatomicae specimen. Bd II. Lugd. Batav. 1734 p. 120. (8) Haller. Bibliotheca anatomica T. I. p. 186. (9) L'ollin. Andreas Vesalius (Centralblatt f. Biologie V. V. 1885 p. 413). (10) Bain E. Un anatomiste au XVI” siècle, André Vesale. Thèse de Montpellier 1908 p. 49. Il Bain anzi critica la risposta data da Vesalio, sotto il pseudonimo di Gabriele Cuneo, al Dal Pozzo. (11) Nella prefazione alle opere di Vesalio da loro edite a Leyden nel 1725. (12) 1°. II p. 881 e seguenti. TA ZAMPA 0 O SIRBGIES Certo è che Gabriele Cuneo è realmente esistito : il Dal Pozzo stesso lo cita con onore chiamandolo « vir nostrae aetatis insignis splendor » (1). Il Cuneo incomincia il suo libro dicendo che egli insegna anatomia a Milano ed a Pavia ed invita il Dal Pozzo ad intervenire alle lezioni di anatomia che nel. pros- simo inverno terrà nell’ Università di Pavia (2). Ma a togliere ogni dubbio basterebbe l’ alta autorità del Corradi, il quale attesta (3) che Gabriele Cuneo di Milano fu Lettore di anatomia a Pavia dall’ anno 1554 al 1574, anzi fu il primo titolare di Anatomia e di Incisione a Pavia. La risposta del Cuneo al Dal Pozzo non è meno aspra della critica di quest’ ul- timo a.Vesalio. Il Cuneo rimprovera al Dal Pozzo di ingerirsi in un’ arte a cui non aveva mai posto mano (4), lo accusa di avere in modo turpe e ridicolo criticato Vesalio (5); altrove lo chiama allucinato (6). IL’ opera del Da! Pozzo fu anche dagli scrittori successivi giudicata piuttosto seve- ramente. Haller (7) lo rimprovera di aver cercato unicamente di salvare Galeno; il Por- tal (8) afferma che il libro fu ispirato da una bassa gelosia; il Bonino (9) esagera al punto da considerare il libro del Dal Pozzo come il parto di un cervello in delirio! Ma nel giudicare degli uomini e delle opere loro bisogna tener conto delle condi- zioni in cui si svolge la loro attività. La Medicina aveva allora scosso il giogo degli Arabi che su di essa aveva pesato per dei secoli. Specialmente nell’ anatomia, gli arabi non avevano fatto altro che copiare dai greci, nulla aggiungendo del loro, ma più spesso offuscandone il limpido pensiero (10). « Chi vuol sapere quello che conosceva Galeno in fatto di anatomia « può leegere Avicenna, e chi ha letto Galeno può risparmiarsi di leggere Avicenna « e gli altri Arabi » (11). « La scienza araba non era che una meschina traduzione della scienza greca. « Quando la Grecia autentica si leva, quelle povere traduzioni perdono il loro scopo (1) Putei. Apol. pag. 37 bis. (2) Cunei. Apol. ecc. pag. 117. (3) Corradi. Memorie per la storia dell'Università di Pavia 1878 p. 127. (4) Cunei. Apol. p. 3 « arti cui manus numquam adbibuisti ». (5) Cunei. Apol. pag. 3. (6) Cunei. Apol. pag. 45 e pag. 57. (7) Haller. Bibliotheca anatomica. V. I. pag. 222. ($) Portal. Op. cit. T. I, pag. 606 (9) Bonino. Biografia medica piemontese V. I, p. 259. (10) « In primis.... disciplinas omnes medico necessarias.... mon e Graecis fontibus haurire, sed ex arabicis rivulis lutulentas excipere necesse fuit » (Cocchi. Oratio de usu artis anatomicae. Florentiae 1766 pag. 27). (11) Pagel in Neuburger u. Pagel. Handbuch der Geschichte der Medicin. Band I, Jena 1902 pag. 701. Cfr. anche Sudhoff in Meyer-Steineg u. Sudhoff. Geschichte der Medicin. Jena 1921 p. 163. Tx E <« e non è senza ragione che tuiti i filologi del Rinascimento intraprendono contro di < esse una vera crociata. D’ altra parte, guardando bene addentro, questa scienza « araba non aveva nulla di arabo. Il fondo è completamente greco; fra quelli che « la crearono non si (rova alcun vero semita; erano degli Spagnuoli, dei Persiani, « che scrivevano in arabo » (1). Le traduzioni dal greco in arabo erano poi riportate dall’ arabo in un latino barbarico, infarcito di parole arabe (furono perciò dette perversiones !), scorrette, talora monche, talaltra deturpate da aggiunte dei traduttori o degli amanuensi (2). Quando il pensiero greco brillò agli occhi dei dotti dell’ Occidente europeo nella sua originale purezza, le menti ne furono affascinate. L° entusiasmo per la medicina greca sorpassò i limiti del credibile: si venne alla convinzione che Ippocrate e Galeno avessero saputo tutto quello che in fatto di Medicina si poteva sapere, e così dal- l’Arabismo esagerato si passò ad un cieco Galenismo. Il settimo ed ultimo libro dell’ opera di Francesco Dal Pozzo è intto dedicato ad esaltare i meriti di Ippocrate e di Galeno. Tuttociò che era stato fatto nell’ anatomia prima di Galeno era confuso, indelerminato, senza eriterio scientifico. Ma sorse Galeno « qui a coelo datus est ut isthaec et alia in Medicina illustraret », pose ordine in ogni cosa, distinse le cose confuse, completò le parti monche, dimostrò quelle igno- rate « adeo ut de ipsa (Anatome) nihil sperari possit melius, idque in omni parte de Anatome » (3). Giova motare che Vesalio stesso era pieno di ammirazione per Galeno: nei suoi studi anatomici egli non aveva altro nè migliore consigliere degli scritti di Galeno. Questi non solo gli offriva i dati anatomici, ma anche I° indirizzo per studiare ]° ana- tomia e perfino gli strumenti più adatti per intraprenderne lo studio (4). Solo più tardi, non trovando i fatti conformi alle descrizioni di Galeno, osò criticarlo (5). Ma egli non tralasciava occasione per protestare il suo ossequio a Galeno; si scusava perfino di doverlo combattere (6), riconoscendo il culto e la venerazione che gli ita- liani avevano per Galeno (7). Il Darenberg (8), pure rendendo omaggio ai meriti di Vesalio, afferma perfino che (1) Renan E. De la part des peuples semitigues dans l’ histoire de la civilisation. Paris 1862 p. 16. (2) Neuburger. Geschichte der Medicin. Band II. Stuttgart 1908 p. 148 e pag. 164. I tradutori si scusavano adducendo |’ 2ropia latinitatis, la mancanza cioè di parole latine corri- spondenti alle arabe (v. Leclerc. Histoire de la Medecine arabe, 'V. II, p. 347, Paris 1876). (3) Putei. Apol. pag. 174. (4) Cfr. l’opera magistrale di M. Roth. Andreas Vesalius, Berlin 1892 pag. 107 ed in varii altri. luoghi. (5) Burgraeve. Précis de V histoire de V Anatomie, Gand 1840 p. 66. Id. Etude sur André Vesale. Bruxelles 1862 p. 39. (6) Pollin. Loc. cit. pag. 343. (7) ....quum nulla divinis italorum ingeniis Galeno magis colant et venerentur » Vesalii Opera omnia. Lugd. Batav 1725 1. II, p. 632. (8) Darenberg. ZMistoire des sciences médicales. Paris 1870. T. I, p. 829. nai e l’opera capitale di lui - De corporis humani fabrica - non è che una seconda edi- zione, riveduta corretta e migliorata, degli scritti anatomici di Galeno. Confrontando opus majus di Vesalio ed i Zibelli awvei di Falloppio, il Darenberg dice che que- st’ ultimo « aveva il genio dell’ invenzione, Vesalio il genio del metodo; o piuttosto « Falloppio aveva del genio, Vesalio non aveva che della scienza ». Non si può che rimanere perplessi dinanzi alla gravità di tale giudizio, emesso da un uomo di tanta autorità come il Darenberg che, avendo tradotto in francese le opere anatomiche di Galeno (1), doveva pure conoscerle a fondo, specialmente poi se, come egli dice, si era dato cura di controllare de visu le affermazioni di Galeno (2). E assai prima del Darenberg il Piccolomini (3) aveva sostenuto che gli sarebbe stato facile dimostrare come tuttociò che di buono aveva scritto Vesalio nella sua grande opera lo aveva preso da Ippocrate, da Aristotele, da Galeno e da altri antichi, senza citarli, mentre gli errori - e molti - contenuti nell’ opera provengono ea suo furibundo Marte. Quando Vesalio cita Galeno lo fa per attribuirgli degli errori e prenderne occasione per criticarlo. Giovanni Caio Britanno (4), che abitava a Padova nella stesa casa del Vesalio quando questi scriveva la sua opera, narra che il tipografo Giunta gli mandò i libri sull’ anatomia di Galeno affinchè li correggesse, ma Vesalio alterò ancora più il testo di Galeno per aver motivo di criticarlo. G. B. Carcano (5) fa a Vesalio le stesse accuse che gli aveva mosso il Dal Pozzo. Mentre Vesalio rimproverava a Galeno di aver desunto la sua anatomia, non dal- l’uomo, ma dai bruti, tre grandi anatomici, Colombo, Eustachio ed Aranzio fanno a lui la stessa accusa (6). Critiche acerbe rivolgono pure a Vesalio Fabrizio d’ Acquapendente (7) e In- grassia (8). L’ ossequio a Galeno durò immenso per dei secoli, non solo nelle scuole, ma anche fra i grandi maestri della medicina. 2 Il sommo Eustachio (9) si proponeva come duci Ippocrate e Galeno e confessava che preferiva errare con Galeno che seguire i maestri moderni, anche se dicessero il vero. Gaspare Bahuino chiamava suoi maestri Ippocrate, Aristotele e Galeno e non trarasciava di difendere quest’ ultimo contro Vesalio. (1) Darenberg. Oewvres anatomiques, physiologiques et medicales de Galien, traduites pour la première fois en francais, avec notes, Paris 1854, 56. Darenberg. La medecine, histoire et doctrines. Paris 1865, pag. 59. (2) Idem ZHistoire etc. V. I, pag. 210 e segg. (3) Piccolomini. Cit. dal Douglas, op. cit. pag. 80-81. (4) Caio Britanno. Cit. dal Douglas, op. cit. pag. 81. (5) G. B. Carcano. Cit. dal Douglas op. cit. pag. 81. (6) Cfr. il Douglas ibid. (7) Fabricius ab Aquapendente, citato dal Roth, op. cit. p. 283. (8) Ingrassias Cit. dal Roth op. cit. p. 285. (9) Eustachii, Opuscula anatomica. Venetiis 1564 p. 189. cao: Un secolo dopo Vesalio, 1° Hoppe (Professore di anatomia a Lipsia dal 1644 al 1647), nella sua orazione inaugurale, vantava i meriti anatomici di Galeno e si proponeva di seguirne le dottrine (1). Sono note le acerbe critiche di Giovanni Riolano juniore a Vesalio e le di lui lodi a Galeno. Secondo Riolano, Vesalio non ha detto nulla che non fosse già stato detto da Galeno (2). Da tutto ciò risulta evidente che le critiche di Francesco Dal Pozzo a Vesalio sono quelle stesse che altri (e fra questi dei sommi anatomici) rivolsero poi a Vesalio. La sua sconfinata ammirazione per Galeno, non solo era condivisa da suoi contem- poranei, ma continuò per dei secoli nelle scuole di medicina. Il vero torto del Dal Pozzo fu di non aver compreso il nuovo indirizzo dell’ ana- tomia che, sorto per l’ apvunto in Italia col Mondino e con Leonardo da Vinci, con- tinuato da Berengario da Carpi, da Falloppio e da Vesalio, doveva ricostruire |’ edi- fizio anatomico su quelle solide basi sulle quali tuttora riposa. « Il grande merito di Mondino è di aver inaugurato il metodo di studiare l ana- tomia, non sui libri (come prima di lui si faceva) ma sul cadavere umano, metodo che dalla Scuola di Alessandria in poi - ossia da circa 1600 anni - non era più stato adoperato » (3). « Tutte le ricerche di Leonardo da Vinci sono basate sulla dissezione del corpo « umano. Paragonando il modo con cui i dotti suoi contemporanei e gli antecessori « avevano cercato di giungere alla conoscenza del corpo umano con quello impie- « gato da Leonardo, egli appare come il vero fondatore del metodo anatomico. « Leonardo diede all’ anatomia una base scientifica e lo si può quindi dire Awuctor « statorque anatomiae humanae » (4). Di Berengardo da Carpi è ben nota la sua tendenza a ribellarsi ad ogni autorità per seguire |’ osservazione diretta dei fatti (5). « I professori italiani, gncitati dal brillante esempio di Mondino, precedettero « tutti gli altri perchè non sdegnarono di prendere essi stessi in mano lo scalpello « anatomico, invece di limitarsi a spiegare i capitoli di Galeno, lasciando la sezione. « dei cadaveri ai chirurghi ed ai barbieri. Perciò già verso la metà del secolo XV « in Italia l anatomia fu coltivata con maggiore larghezza di vedute, gli anatomici « italiani fondarono nel cinquecento il periodo più famoso nell’ arte della dissezione « e divennero maestri ai medici di tutto il mondo » (6). (1) Rabl. Geschichte der Anatomie a. d. Universitaet Leipzig. 19009, pag. 26. (2) Johannis Riolawni filii. Opera anatomica. Lutetiae Parisiorum 1649. (3) Martinotti. L’ insegnamento dell’ anatomia in Bologna ecc. Bologna 191] p. 72. (4) M. Holl. Die Anatomie des Leonardo da Vinci (Avchiv. f. Anatomie u. Physiologie. Anat. Abth. 1905 pag. 254-255. Idem. Ein Biologe aus der Wende des XV Jahrhunderts, Leonardo da Vinci. Graz. 1905 p. 14. (5) Sperino G. Per la difesa della scienza anatomica italiana. Modena 1917 p. 14. Martinotti. Lav. cit. pag. 74 ed i passi di Berengario citati nella nota alla stessa pagina. (6) Neuburger in Neuburger u. Pagel. Handbuch der Geschichte dev Medicin, Band II, Jena 1903 p. 23. 3 a Il Puschmann, dopo aver riferito come | insegnamento dell’ anatomia era dato a Parigi, scrive: « gli anatomici italiani tennero una via assai più giusta, facendo essi « stessi le sezioni dei cadaveri. A ciò è certamente dovuto in gran parte il fatto che « tutte le erandi scoperte anatomiche di quel tempo vennero dall’ Italia. Le scuole « anatomiche di questo paese erano le migliori di tutto il mondo. Tutti i migliori « anatomici del secolo XVI ebbero in esse la loro educazione: fra i maestri di quelle <« scuole brillano i più grandi nomi che la scienza anatomica possa vantare » (1). Francesco Dal Pozzo, trascinato dal suo entusiasmo per l antichità classica e dalla sua cieca ammirazione per Galeno, non s’ avvide di questo magnifico movimento scien- tifico che si svolgeva ih Italia sotto i suoi occhi e che doveva condurre al rinnova- mento, non solo dell’ Anatomia, ma di tutta la Medicina. Ma la sua memoria di medico colto e studioso, di dotto umanista, di benefattore della sua patria e della gioventù studiosa, ha diritto a tutto il rispetto ed a tutta la stima della posterità. (1) Puschmann. Geschichte des medicinischen Unterrichts. Leipzig 1889, pag. 272. TRE SI sinti ilison Lira 0 i up imnionio iparo 4/0 ; Dad sta 1 crnip rivagi ni lofovob Siiaatainao 4 dio A dionabao inte itgissa sl “alora” atto mi HE Map raridiehaguii nipote Master | LiMoitaitin puniti condontip'astini Vibeitoilgioa dinorito s2sig oesmpi i Ripi patiti SM roncissombo otol st seen ni diaddo IUZ closer ef LEE} la aettror nandipi adibiti sistraite sali corpe train pi soli tirboe bosso noia 6g | ‘omesiemini one ati omanionetà nti lansaz onistaivoie coniugi oieonprib-@bineg ‘a oe; Lahti cruibuoo carstod ail ia Lido0o rione, dolor cnilagl vic venire i «di nera at i Pipuanisibel6 al int price È LasGmtan it, bela giraproto li qoroibuta e odia@revibast, ibesi ULULLE n bol'ottageini di vonurra; ottinifia ni beoihate Canepa 111766 Bad Raina n atla "bolide AGERt atto piste Lettonia. 9 ‘prora ÉiadeoIp 1) grato evito di Modà © did 7 lai ina O ruota apt it Pn A sub Hdi sedia pred hat “ Tresa % pivogi DI mati) dioperp ta w(D vt ia pirerolma + i VOTO suresto i: Wituagener ata sonagozie ita) curpo' ant 20 n“ pato da Tagnardo, “igiià cepyraies cono 1 vato > fondatore dtt i di ieonarto foi at” “atagtonatee Leuas basa: ubientifca: » aa pd ® noie vos muavertaaa: » Pi i Fia BI Peritiamto Sa Caepi da pae supra dn an sian a citi TTT WE alii ani 1 ‘9A 0 Aia ASL SA id 0 Sc sinrfmadeti artigiani elit pot' ri Mabel: ea: Ci d., Ltd sg. pg “peliare li Ta AI 0 tem nd, quei Vit 165 i bia coito vari (DA) ra ghi #« ; nat dapbri. 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IE; Io credo che pochi siano coloro che sanno con precisione in che cosa consista la “ Geodesia ,, pochissimi quelli che sanno ciò che essa ha fatto, meno ancora quelli che conoscono i suoi moderni scopi; i più ritengono che unico suo compito sia di for- mare la carta della Terra e che, perciò, la sua funzione sia avviata all’ esaurimento; ritengo perciò non del tutto inutile richiamare brevissimamente | attenzione sulle ori- gini e sul processo evolutivo di questo ramo delle matematiche discipline, purtroppo così poco conosciuto ed apprezzato, sulle sue passate benemerenze e sulla portata dei problemi che, nel campo della filosofia naturale, formano oggi |’ oggetto delle sue ricerche. Ufo La parola “ Geodesia ,, sta, nel suo significato etimologico, ad indicare divisione o spartizione della terra; e appunto con tale modesta funzione (probabilmente di natura censuaria o catastale) sembra sia essa apparsa nell’ antico Egitto; se non che, collo svolgersi della civiltà, essa avrebbe cambiato natura passando ad occuparsi della forma e delle dimensioni della Terra. Non è qui il luogo di indugiarsi ad esaminare e discutere l’ opinione (invero alquanto ardita) di taluni i quali, pel fatto che il perimetro di base della grande piramide di Cheope agguaglia, con una certa approssimazione, la centoventesima parte dell’ arco di un grado del meridiano egiziano, ne vorrebbero dedurre che quegli antichi popoli, 1600 anni circa prima dell’ èra volgare, fossero già riusciti a misurare la Terra e la lunghezza del suo grado, e che, per tramandare questo dato ai posteri, lo avessero, per così dire, affidato alla custodia di quell’ insigne monumento destinato Serie VII. Tomo IX. 1921-1922. io) Se a sfidare i secoli; al modo stesso che, secondo loro, le dimensioni. delle diverse parti della piramide stessa dovrebbero, opportunamente combinate fra loro, fornire molti altri dati conquistati dalla scienza di quei tempi ed ugualmente affidati, sotto forma muta e misteriosa, alla stessa custodia. . Comunque sia, è però certo che il primo tentativo a base razionale e storicamente accertato, diretto a misurare la ‘lerra risale ad Eratostene, bibliotecario ad Ales- sandria ed uomo dottissimo, vissuto 230 anni circa prima dell’ èra volgare. Avendo egli supposto, secondo le teorie filosofiche del suo tempo, che la ‘Terra avesse forma sferica e che Ja valle pianeggiante del Nilo si potesse assumere come una porzione della superficie generale si essa, il problema riducevasi per lui a determinarne il rag- gio. Ed, a tale scopo, scelti due punti di distanza conosciuta, Alessandria e Syene, situati presso a poco sul medesimo meridiano, misurò in ambedue a mezzodì di uno stesso giorno, l’ altezza angolare del Sole sull’ orizzonte, ottenendo così, dalla differenza di queste due altezze, l’ angolo fra le verticali dei due luoghi, col quale e colla distanza conosciuta fra i punti, venne a conoscere il raggio. ale operazione, per quanto riuscita difettosa a causa della imperfezione dei dati di osservazione adoperati ma, al tempo stesso, inaccepibile dal punto di vista del metodo, costituisce, si può dire, 1° inizio della Geodesia; e, sulle traccie di Erotostene, altri tentarono con mezzi e precisioni diverse, ma con metodo sostanzialmente identico, il medesimo problema. Troviamo così, fra gli antichi, Posidonio da Rodi, Ipparco e Tolomeo ; nel medio evo, il califfo Al-Mamoun; in tempi più recenti (1550), il fran- cese Giovanni Fernel e, nel 1615, 1 astronomo olandese Snellius il quale, incaricato dal suo governo di determinare di posizione alcuni punti dell’ Olanda, intuì (precursore dei tempi moderni) che per superficie generale alla Verra si doveva intendere una superficie di livello simile e prossima a quella del mare: e, misurata con precisione la distanza fra due punti scelti in riva a questo, si servì di essa distanza come base di una catena di triangoli appoggiati 1° uno all’ altro ed aventi per vertici i punti che egli doveva determinare di posizione. Ottenne così, pel primo, ciò che oggi chiamiamo una Triangolazione e trasse partito dalla distanza calcolata fra i paralleli di due di questi vertici. per eseQuire sopra questa col sussidio delle relative determinazioni astronomiche di altezza degli astri, la solita operazione. Questo lavoro di Snellius, per quanto riuscito assai difettoso a causa di errori nei quali egli incorse, è rimasto tuttavia celebre nella storia della Geodesia perche, a parte la precisione degli stru- menti e dei mezzi adoperati, rappresenta, nella sua sostanza, il metodo che si segue anche oggidì in consimili lavori. Dopo questo lavoro, anche |° inglese Nordwood e gli italiani PP. Riccioli e Gri- maldi dello Studio Bolognese si applicarono al medesimo problema ; però, anche qui, la imperfezione dei mezzi usati e, più che tutto, il modo grossolano di collimare gli oggetti mediante semplici traguardi a fili, portarono a risultati molto errati, mentre intanto regnava una grandissima incerlezza sul valore, sia pure approssimato, da attri- buire al raggio della Terra. Fu allora che |’ Accademia Francese incaricò | abate Picard, già noto per molti interessanti lavori da lui eseguiti, di ripetere, col inedesimo metodo, una analoga misura nei dintorni di Parigi, misura che Picard eseguì negli anni 1669-70 fra Amiens e Malvoisine usando la maggiore diligenza in tutte le operazioni ed introdu- cendo negli strumenti un perfezionamento d’ importanza sostanziale, consistente nel sostituire ai traguardi semplici a croce di fili fino ad allora adoperati dei traguardi a cannocchiale, ciò che permise di aumentare straordinariamente tanto la distanza che la precisione del puntamento. Il risultato ottenuto da Picard, per quanto riscon- trato in seguito anch’ esso alquanto difettoso, fu tuttavia il primo ad avere un valore scientifico ed è rimasto celebre nella storia della scienza perchè fornì a Newton un valore abbastanza approssimato del raggio terrestre col quale egli potè verificare l’ esattezza della sua famosa legge di gravitazione applicandola all’ azione reciproca fra la Terra e la Luna; leege da lui intuita dieci anni prima e sperimentata senza successo, e, perciò, temporaneamente abbandonata, appunto per avere adoperato nei calcoli un valore troppo errato del raggio terrestre. È dunque intanto un merito incontestabile della Geodesia 1° avere, per lo meno, affrettato la scoperta di detta legge, aprendo così il campo alle ricerche dei sommi, che succedettero e che condussero la meccanica del cielo a quel grado di meravi- gliosa perfezione in cui oggi si trova. Il risultato della operazione di Picard ebbe anche il merito di richiamare | attenzione dei dotti sugli importantissimi movi- menti detti di nutazione e di aberrazione fino ad allora completamente ignorati, e le cui cause e le cui leggi formarono il più bel titolo di gloria dell’ astronomo Bra- dley che ne fu poco dopo lo scuopritore. Il. Tutto ciò avveniva. verso la fine del Secolo XVII alla quale epoca, in seguito appunto alla scoperta, da parte di Newton, della legge di gravitazione e, da parte di Huyghens, della forza centrifuga, si incominciò a pensare che, ammesso per la lerra uno stato primordiale di fluidità, le azioni combinate della attrazione Newto- niana e della forza centrifuga sviluppata dalla rotazione, dovevano aver prodotto in essa un rigonfiamento all’ Equatore avvicinandone così la figura a quella di un’ Ellissoide di rotazione schiacciato ai poli, forma di equilibrio che le sarebbe poi, presso a poco, rimasta dopo il raffreddamento. Incominciò dunque da questo momento ad affermarsi nettamente il concetto, già intravisto da Snellius, che per superficie terrestre si deve intendere una superficie di livello, cioè una superficie normale in ogni suo punto alla direzione del peso, ossia della risultante fra 1 attrazione Newtoniana delle masse e la forza centrifuga. Tale supposizione sostenuta dall’ autorità di Newton e avvalorata anche da fatti soprav- venuti nel campo sperimentale, eccitò la curiosità degli scienziati i quali si diedero con nobile gara a saggiare la variabilità della curvatura dei meridiani, misurando L'A ge di essi, col solito metodo e a diverse latitudini, Ja lunghezza di un grado, ossia la distanza fra due punti situati in direzione Nord-Sud le cui verticali formano fra loro un angolo di un grado. Fu così iniziata nel 1680 una nuova misura dell’ arco francese incaricandone ancora Picard il quale propugnò anche | idea di prolungare attraverso a tutta la Francia la relativa rete. meridiana per saggiare la curvatura dell’ arco stesso in diversi suoi punti, ed ampliandola anche lateralmente per farla servire di appoggio ai lavori. della carta del paese. Egli si pose dunque all’ opera, se non che, essendo venuto improvvisamente a morire, ebbe a continuatore Giacomo Cassini il quale terminò il lavoro nel 1718 coll’ inatteso risultato che la Terra anzichè schiacciata ai. poli era invece ad essi rigonfiata, in modo da rassomigliare nella sua figura ad un limone anzichè ad una arancia. Questo fatto, che era in completa contradizione colle teorie di Newton, destò una enorme impressione in Francia e nel mondo, tantochè, in seno all’ Accademia francese, sorsero vivaci discussioni le quali portarono alla organizzazione di due celebri spedizioni, l una al Perù, l’ altra in Lapponia, allo scopo di misurare la lunghezza dell’ arco di un grado in queste due differentissime latitudini, lunghezza che, se la Terra era schiacciata ai poli, doveva risultare in Lapponia maggiore che non all’ Equatore. Senza tessere qui la storia (del resto interessantissima) di queste due celebri spedi- zioni alle quali presero parte scienziati di primissimo ordine, ci limiteremo a constatare che, il risultato delle operazioni confermò pienamente le previsioni di Newton, mentre d’ altra parte Cassini, in una revisione del suo operato, riscontrò alcuni errori nei quali era caduto; ed anche questo lavoro, debitamente corretto, confermò lo schiac- ciamento della Verra ai poli. TAV: Il nobile esempio dato dai Francesi trovò presto imitatori negli altri paesi e si ebbero così, verso la metà del secolo XVIII, i lavori di Lacaille al Capo di Buona Speranza e di Mason e Dixion nell'America settentrionale per conto della Società Reale di Londra; di Cassini de Thury, che iniziò, nel 1761, la misura di un’ arco di parallelo fra Brest e Vienna; del P. Beccaria in Piemonte (1768) e dei PP, Oriani, Cesaris e Reggio in Lombardia nel 1788. La Francia stessa dopo pochi anni (1792) incaricò gli scienziati Delambre e Méchain di rimisurare ancora e colla massima precisione l’ arco francese, che fu poi prolungato da Biot e Arago fino all’ Isola Formentera nelle Baleari. Su questo lavoro, al quale collaborò il fiore della scienza francese, la Francia basò il rinnovamento della sua unità di misura lineare assumendo per essa la decimilionesima parte della lunghezza di questo arco compresa fra il polo e l’ equatore; si ebbe così il m2e00 unità di misura che regola oramai i rapporti scientifici ed economici di pressochè tutte le nazioni civili del mondo. Altri lavori. vennero eseguiti nell’ India, in Russia ed in Italia mentre intanto, anche la Germania, nel 3° decennio del Secolo XIX si lanciava essa pure con grande TTI SES gprs lena in questi lavori. riuscendo in breve tempo ad assumerne, in certo modo, la direzione. Nell’ Hannover, il sommo matematico C. F. Gauss intraprese una misura di grado che gli dette. occasione di far progredire grandemente la Geodesia tanto nel campo analitico quanto in quello operativo; accanto alla grande figura di Gauss troviamo anche le due figure, pure grandi, di Bessel e di Baeyer i quali ci lasciarono lavori che sono veri monumenti di scienza e di ordine. Da tutti questi lavori risultò che, pur rimanendo vero, in massima, che la lunghezza di un grado di meridiano decresce procedendo dal polo verso 1° equatore, la legge di tale decremento non è però regolare e tale da adat- farsi sufficientemente ad un’ arco ellittico, e che inoltre essa varia anche da un meri- diano all’ altro; dal che si rileva che la superficie della Terra, intesa come una superficie di livello rispetto alla gravità (e corrispondente praticamente alla superficie media dei mari imaginata prolungata entro i continenti) è una superficie irregolare assimilabile bensì mel suo complesso, ad un’ Ellissoide di rotazione schiacciato ai poli ma che si discosfa quà e là da questo formando delle ondulazìoni più © meno sentite, tantochè il problema della figura della Terra si ridusse così a determinare per punti gli scostamenti di questa superficie irregolare da un’ Ellissoide geometrico di assegnati parametri assunto come forma provvisoria di riferimento. Bessel pertanto, riassumendo ed elaborando tutti i lavori geodetici eseguiti fino al suo tempo, determinò nel 1841 ì parametri più probabili di un’ Ellissoide schiacciato che meglio di ogni altro rappre- sentava la figura della ‘lerra nel suo insieme. Altri valori di questi parametri sono stati successivamente determinati da Clarke, da Helmert e recentemente (1909) da Hayford, facendovi contribuire anche gli elementi di osservazione recentemente raccolti. Questi valori sono fra loro assai concordanti e ognuno degli Ellissoidi ad essì corrispondente più indifferentemente venire assunto come figura di riferimento. VE Come si vede, il problema della figura della Terra ha cambiato alquanto di aspetto ed, in seguito a ciò, gli Scienziati di tutti i paesi si diedero a moltiplicare le misure astronomiche e geodetiche onde raccogliere materiale di osservazione per procedere a questa determinazione per punti, mentre in pari tempo non si risteitero dal cercare di approfondire il problema anche da altri punti di vista. Così. non si tardò a riconoscere che la risoluzione del problema stesso presentava un punto debole nel fatto che la superficie dei continenti non rappresenta che i $/, circa della superficie tetale del globo, per cui, coi soli lavori geodetici ordinari fin qui considerati, non si viene a saggiare che una piccola porzione di essa. Fortunata- nente però, in seguito a studi di Laplace, Legendre ed altri sommi, ai metodi geometrici per la misura della ‘lerra, vennero aggiunti anche dei metodi astrono- mici e fisici. Così, Clairaut, nel 1743, aveva già dimostrato che con una formola sem- plicissima si può calcolare con molta approssimazione lo schiacciamento dell’ Ellissoide terrestre (il solo schiacciamento) in funzione della intensità della gravità determinata col pendolo alle diverse latitudini ed, in particolare, all’ Equatore e ai poli. Sulle tracce di Clairaut lavorarono anche Laplace, Airy, Stokes, Kater, Sabine, Peirce, Bruns, Helmert ed altri; ed un tal metodo, per quanto non ci dia che lo schiacciamento, riempie molto opportunamente la lacuna lasciata dal metodo geome- trico in quanto ci permette di saggiare la superficie terrestre anche nelle isole lon- tane dai continenti alle quali non si può arrivare colla triangolazione. Di più, lo scien- ziato svedese Mohn scuoprì che la temperatura del vapore dell’ acqua in ebullizione è in stretta relazione col valore della intensità della gravità locale; il che permette di determinare questa intensità con un’ istrumento che, a differenza del pendolo il quale abbisogna di un supporto fisso, può essere adoperato ovungue ed anche sulle navi, dandoci così il modo di saggiare (per quanto con precisione un poco minore ma pur sempre non disprezzabile) un punto qualunque del globo. VI. Come si vede, il campo di attività della Geodesia è andato molto allargandosi rendendo i relativi lavori, di necessità, vasti e costosi e perciò (tali da non potere essere sostenuti individualmente dai singoli scienziati; tantochè, ad un certo momento, fu necessario promuovere una cooperazione fra i governi dei diversi Stati civili nel senso che i lavori di rilievo che ognuno di essi era chiamato ad eseguire nel proprio territorio pei. bisogni cartografici, civili, militari, venissero condotti con metodi, siru- menti e sistemi disciplinati ad un programma a base scientifica di comune accordo . stabilito; questi rilievi, riattacati fra loro alle rispettive frontiere ed integrati poi dalle opportune determinazioni astronomiche e fisiche, venivano a costituire un tutto omogeneo atto a servire di base allo studio della Terra. Nacque così nel 1864, sotto 1° impulso del Generale prussiano J. Baeyer, | As- sociazione geodetica internazionale costituita dall’ insieme di Commissioni, (una per ogni singolo stato) che presero il nome di « Commissioni Geodetiche » ed alla quale parteciparono successivamente pressochè tutte le nazioni civili del mondo coi più illustri rappresentanti della scienza; tantochè essa si onorò, di nomi come quelli di Helmoltz, Faye, Tisserand, Cornu, Schiaparelli, Helmert, Foerster, Backlund, Poincarè, Darboux, Darwin e tanti altri oggi, pur troppo, scom- parsi. Essa visse a spese dei diversi Stati i quali pagavano contributi commisurati alla loro popolazione; ebbe una « Commissione Permanente », organo scientifico consultivo nel quale ogni stato aveva uno o più rappresentanti, ed un’ « Ufficio Centrale >», che risiedeva a Potsdam, organo esecutivo che raccoglieva e coordinava i lavori dei diversi Stati, ne curava la pubblicazione ed organizzava nuovi lavori di carattere generale. Essa teneva, di regola, ogni tre anni le sue riunioni nelle quali ogni Stato portava il contributo dei propri lavori. Grande fu |’ attività dell’ Associazione Geodetica Internazionale per lunga serie di anni durante i quali si occupò di misure di basi, di triangolazioni, di misure astro- mnomiche, livellazioni ecc. Ad una certa epoca poi incominciò ad occuparsi intensa- mente di determinazioni di intensità della gravità mediante il pendolo, determinazioni che molto hanno durato e molto dureranno ancora essendo esse oramai divenute un potentissimo mezzo d’ indagine nello studio della figura della Terra. VADO Mentre si svolgevano da parte di tutte le nazioni i lavori di livellazione per dare quote altimetriche alle carie partendo dai livelli medi dei respettivi mari, nacque il sospetto che questi livelli medi non si potessero considerare come appartenenti ad una unica superficie di livello; il che avrebbe reso non paragonabili fra loro le quote di punti provenienti da mari diversi. Il dubbio non poteva venire risoluto che coll’ osservazione diretta, ponendo cioè fra loro in relazione altimetrica questi livelli medii dei diversi mari; ed un primo saggio di tale operazione fu eseguito, per iniziativa dell’ Italia, fra 1° Adriatico a Venezia, e il Mare del Nord ad Amburgo, passando attraverso la Svizzera e la Ger- mania con un percorso di livellazione di alcune migliaia di chilometri eseguito col massimo scrupolo e coi migliori istrumenti che la meccanica di precisione poteva fornire. Si trovò così un dislivello di circa 32° una parte dei quali si riconobbe imputabile al cumulo di errori residui di osservazione inevitabili in un sì lungo per- corso. Altri saggi furono intrapresi fra il Mediterraneo e 1° Oceano Atlantico attra- verso la Francia e fra il Baltico e il Mare del Giappone con risultati dello stesso ordine e, per ultimo, fra | Atlantico e il Pacifico, da New Jork a S. Francisco di California, con un percorso di oltre seimila chilometri e con una discordanza altime- trica di soli 13°" circa. Se ne dedusse perciò che i dislivelli fra i diversi mari, se pure esistono, sono però dell’ ordine degli errori di osservazione e perciò trascurabili. Per quanto dopo un tale risultato sia venuto a cessare lo scopo gecdetico della livellazione di precisione, questa è stata nondimeno continuata da tutti gli Stati lungo le principali. strade europee dando così quota sensibilmente esalta a innumerevoli punti del loro percorso. L’ Italia, durante la sua partecipazione all’ Associazione Geodetica Internazionale, ha, per mezzo della sua Commissione Geodetica coadiuvata dall’ Istituto Geografico Militare sorto nel 1871, misurato alcune basi, completata o rinnovata la sua trian- golazione, eseguito molti lavori astronomici e gravimetrici ed ha compiuto due lavori grandiosi cioè, il riattacco geodetico delle Isole Maltesi alla Sicilia e quello della Sardegna al continente attraverso le isole dell’ Arcipelago Toscano. In seguito a tutti questi lavori, occasionati dagli studi per la misura della Verra, tanto |’ Italia che le altre Nazioni si trovano oggi ad aver determinato di posizione tanto planimetrica che altimetrica, centinaia di migliaia di punti che hanno servito di base alle respettive multiformi produzioni cartografiche ed ai numerosi lavori civili, militari, idraulici, ferroviari ecc.; il che costituisce pure una segnalata benemerenza degli studi geodetici nei riguardi della cultura e della pubblica utilità. VIII. Abbiamo già accennato come le misure d’ intensità della gravità costituiscano un potente mezzo d’ investigazione nel problema della figura della Terra. La legge di variazione di questa intensità è stata rappresentata approssimativamente mediante una espressione pressochè empirica con coefficienti determinati a posteriori in base all’ 0s- servazione; però in discordanza con questa legge, la gravità presenta delle anomalie tanto d’ intensità che di direzione le quali, naturalmente, dipendono dalla distribuzione capricciosa delle masse nell’ interno della Terra, ed il cui studio ha condotto a delle conclusioni importantissime. Così è stato osservato che le anomalie d’ intensità si veri- ficano principalmente nelle regioni sismiche e quelle di direzione sembrano derivare da azioni attrattive di forti depositi di minerali metallici o di rocce compatte. Così p. e. fortissime anomalie d° intensità si sono riscontrate nella regione setten- trionale della Sicilia che, come si sa, è stata sempre, insieme alla Calabria, la regione classica dei terremoti: analogamente, nella regione Toscana sono state osservate pel filo a piombo delle forti deviazioni verso occidente le quali, secondo ogni probabilità, ripetono la loro causa dall’ azione attrattiva delle masse metallifere dell’ Isola d’ Elba e della Maremma toscana. Come si vede, dunque, queste osservazioni, oltrechè servire al problema geomorfico, gettano viva luce sulla costituzione interna del nostro globo con grandissimo vantaggio della Geologia, della Geofisica e delle discipline affini. TX. Altro campo di attività della moderna Geodesia merita di essere segnalato. Si sa che la Luna e il Sole, passando al meridiano di un luogo, determinano colla loro attrazione un sollevamento delle acque del mare; in altri termini, danno luogo al fenomeno delle maree. Questo fenomeno viene da molti anni osservato mediante istru- menti autoregistratori distribuiti lungo le coste per dedurne, con opportuni calcoli, il punto di quota zero che serve di partenza per 1° altimetria generale. In seguito ad accurati studi fu notato che, sotto l’azione attrattiva di questi astri, non solo le acque del mare, ma anche la crosta della l'erra si solleva e si contorce dando luogo essa pure ad un’ onda la quale, modificando temporaneamente le superficie di livello terrestri, fa. cambiare durante il suo passaggio la direzione del filo a piombo, cam- biamento che si è arrivati a discernere e separare dalla marea generale mediante un’ apparato delicatissimo (il pendolo orizzontale sul quale però non ci fermeremo), che col movimento di un suo indice ci accusa e ci misura |’ entità del fenomeno ; ; a le osservazioni sistematiche ad esso relative sono appena iniziate ma si scorge fin d'ora di quale importanza sia lo studio del fenomeno stesso per la meccanica e la geofisica. X. Anche ad un’ altra importantissima ricerca si è dedicata la moderna Geodesia. Fu notato, circa quaranta anni or sono, da alcuni astronomi, primo fra tutti dal- l’ astronomo italiano A. Nobile, che le tatitudini di alcuni Osservatorî europei subivano delle piccole variazioni periodiche a breve periodo; e poichè il fenomeno si manifestava nello stesso tempo e nella stessa misura in ciascuno di questi Osservatorî, così apparve fino da allora che la causa si doveva, secondo ogni probabilità, ricercare in un piccolo movimento conico dell’ asse di rotazione terrestre entro la Terra stessa; in altri termini, i poli geografici, anzichè punti fissi sulla superficie terrestre, sareb- bero punti mobili descriventi, attorno ad una posizione media, una piccola circonferenza di circa 16" di raggio. Di tale singolare fenomeno si sono occupati molti astronomi ed, in particolare, gli astronomi italiani Fergola, Schiaparelli, Lorenzoni, Celoria ed altri; e, se esso dipendeva effettivamente dalla causa attribuitagli, doveva accadere che, nell’ emisfero australe e a longitudini differenti di circa 180°, le dette variazioni si dovevano manifestare nel medesimo tempo, presso a poco della medesima grandezza ma di segni opposti. Una apposita spedizione fu dall’ Associazione Geodetica Internazionale organizzata ed inviata a Houolulu nelle isole Hawai, con incarico di osservare colà con ogni scru- polo, la latitudine, mentre analoghe osservazioni si eseguivano contemporaneamente negli Osservatorì d’ Europa. I risultati confermarono pienamente le previsioni, e rimase così dimostrato che | asse di rotazione terrestre ha affettivamente quel piccolo moto che gli si era attribuito. Il fenomeno pertanto acquistava un particolarissimo interesse astronomico e geofisico in quanto il suo periodo, che è di circa 430 giorni, non si concilia cogli altri periodi astronomici e, come può ben comprendersi, nel mondo scien- tifico, la cosa non poteva passare senza che si cercasse di approfondirne le cause, a riguardo delle quali varie ipotesi vennero affacciate. Si pensò dapprima che potesse esserne causa uno spostamento del centro di gravità terrestre per effetto di un moto periodico dei ghiacciai polari o anche del ritardo delle acque marine ad entrare e ad uscire dai mari interni a causa del frastagliamento delle coste, il quale è maggiore nell’ emisfero nord che in quello sud; non sembrando però sufficienti queste ipotesi, ? Associazione Geodetica Internazionale, specialmente dietro consiglio dello Schia- parelli, decise di organizzare un servizio continuo di osservazioni di latitudine in punti di un medesimo parallelo e situati a differenti longitudini, allo scopo di racco- gliere in grande quantità materiale di osservazione dalla cui discussione, si sperava luce sul fenomeno. L’ Italia pertanto e, per essa la Commissione geodetica italiana, sì offri con entusiasmo di cooperare all’ interessante ricerca onorandosi di ospitare nel suo territorio uno dei punti prescelti (il punto Carloforte nell’ Isola di S. Pietro nella Serie VII. Tomo IX. 1921-1922. 6 . regione Sud della Sardegna) nel quale, oltrechè negli altri punti : Cincinnati, Gaiter- sburg e Ukiah, degli Stati Uniti; Tchurdjni della Russia Asiatica; Mizusawa del Giap- pone, si raccoglie da circa 20 anni questo materiale di osservazione che deve servire allo studio del fenomeno L’ astronomo giapponese Kimura ha da qualche tempo affacciata l’ ipotesi che lo strano periodo posga attribuirsi ad una anomalia di rifrazione dipendente dall’ essere gli strati zenitali dell’ atmosfera inclinati rispetto alla verticale di un angolo variabile colle stagioni, influenzando così le misure di latitudine; altri insiste ancora nella eventualità di uno spostamento del centro di gravità della terra lungo il suo asse di rotazione, e, appunto in quest’ ordine di vedute vengono oggi orientate le ricerche. Intanto sla Commissione geodetica Italiana presenterà alla prossima riunione in Roma dell’ Unione (Geodetica e Geofisica Internazionale un metodo di operazione proposto dall’ astronomo G. Zappa detl*osservatorio del Collegio Romano atto a sepa- rare gli effetti eventmali della rifrazione zenitale e del moto di va e vieni del centro di gravità terrestre, e chiederà una collaborazioue internazionale in tal genere di osservazioni dalle quali si spera luce sull’ interessante fenomeno. Finalmente, un’ altro vasto ed importantissimo lavoro si sta preparando; la deter- minazione, cioè mediante i segnali radiotelegrafici lanciati da stazioni ultrapotenti, delle differenze di longitudine fra tre punti fondamentali, Algeri, Shangai e S. Fran- cisco, situati presso a poco sul medesimo parallelo a otto ore di distanza | uno dal- l’altro, e che verrebbero a costituire, insieme ad altri punti con essi riattacati, un poligono di longitudine chiuso attorno alla Terra. Con un tal lavoro si rende possibile di porre in evidenza e sorvegliare le eventuali deformazioni della crosta terrestre. Infatti i valori del tempo osservati direttameute nei diversi luoghi paragonati cogli analoghi valori dedotti da quelli delle stazioni fondamentali mediante segnali radio- telegrafici. debbono dare differenze costanti finchè non intervengono cambiamenti di direzione nelle. verticali locali; quando invece questi avvengono, ossia quando le superficie di livello terrestri vengono a subire variazioni, le dette differenze fra i tempi varieranno. È questo, come si vede, un metodo di indagine grandioso in un’ al- tissimo problema di filosofia naturale. XI. Tali e di tal natura sono le ricerche cui la Geodesia si è applicata e si applica; e, se giunti a questo punto ci volgiamo indietro richiamandoci alla mente il modesto, per quanto ingegnoso, lavoro di Eratostene, vediamo quanta e quanto luminosa strada la Geodesia ha saputo percorrere, quali aiuti ha potuto dare alle scienze affini e x quali benemerenze si è essa acquistata nei riguardi della cultura e del benessere civile. der DELL’AZIONE DELLE STELLE SUI PERIELI DEI PIANETI E DELLE COMETE e NOTA DEL Prof. PIETRO BURGATTI (letta nella Sessione del 7 Maggio 1922). Data la grande importanza che la teoria della relatività ha fatto acquistare al fenomeno dello spostamento dei perieli, vien naturale di cercare tutte le cause che possono produrlo e di calcolare per ciascuna di esse 1° ordine di grandezza dello spo- stamento che ne segue, allo scopo di raccogliere anche in questo campo tutti i dati possibili occorrenti per un esame obbiettivo della maggiore o minore attendibilità della bella teoria Einsteiniana. In questa Nota viene esaminata l’azione globale esercitata dalle stelle sul moto dei corpi appartenenti al sistema solare, e si dimostra che pro- duce uno spostamento dei perielî insensibile alle nostre osservazioni. ]. - Ritenendo, come ha fatto il* Prof. Armellini (*), che 1’ insieme delle stelle vicine al sole formino un gruppo presso a poco sferico ed omogeneo, la loro azione sul sistema solare equivarrà ad una forza attrattiva diretta verso il centro VO del gruppo e proporzionale alla distanza da 0. Perciò Il’ equazioni del moto del sole .S e del pia- neta P saranno, in forma vettoriale, d°S Ku 9 —-=—_-(P_ “(O0T—- S dt 73 | Sar® ( ) d° P tI gene anlS Po o (0), con manifesto significato dei simboli. Di qui si trae (e K (i 2 = LORI Ste @=,9) — (PSI che definisce il moto di P rispetto ad ,S. Tutto accade dunque come se il pianeta fosse (*) « Osservazioni sopra le comete secolari ». Rend. Acc. Lincei. Settembre 1920. —'Bg = attratto dal sole con una forza dotata del potenziale __K(m+ u) dir Ne segue che hanno luogo gl’ integrali 2 \c 3 dr 2(d@G\} 2K(m+- A gela i di E, dt dt 7 od PERITO di e il moto è in un piano. Di qui si trae dr ce ali 1 z i 1,9) (1) - \ — 0 + n° + 2K(m+u)v— = ZA > f()- P o Pr v L'equazione (7) == 0 ha due radici reali positive; come assicura il teorema di Cartesio, unitamente alle disuguaglianze fr <0 f(0)> 0; ove 7, è il valore iniziale di 7. La traiettoria sarà dunque compresa fra due circonfe- renze 7 =, e = 7. Se a, — 7, (1, > 73) è piccola, 7, e 7, poco differiranno da 7,; perciò le varie spire, in cui può immaginarsi decomposta la traiettoria, saranno presso a poco circolari. Se P, è il punto in cui il mobile tocca al tempo /, la circonferenza PESSP e P, quello in cui tocca per la prima volta, dopo il tempo %,, l’altra circon- ferenza ; l’angolo P 02, sarà l° angolo aspidale. * Facciamo 1’ ipotesi che cotesta mezza spira sia assai prossima a una semicirconfe- renza. In tal caso l’angolo aspidale è dato con sufficiente approssimazione dalla nota formula di Newton dè = 18 + PT Pg | 0 dove @ (7) è la forza sollecitante ; ossia, nel caso presente, — RK 4-4) pati o. Essendo ; 2K(mn+u)— 07 pe) 3 vi si deduce Dir) Km+u + 40% °pir) Km+u+0% Ora, se il moto di P rispetto ad .S fosse veramente circolare sotto l’azione della d3+% K(m + u) O”, sai 3 cl + 0 ; To dove @, è la velocità angolare del pianeta. Ne segue che possiamo usare il valore 77 K(m4u)= ri(06— @°) ricavato da quella equazione. Allora si deduce D'(r o +30 È 3+% Wal _ o —=1+3e, dn) ©; avendo posto e=@:@,. Risulta dunque alla fine sui (2) o=%mt(1+3é);}=m:(1-=@€); nell’ ipotesi che & sia sufficientemente piccolo. Deduciamo di qui che lo spostamento p del perielio in una intera rivoluzione è p=?2(1— a) — s3imcd: ossia, in secondi, La costante @ ha le dimensioni d’una velocità angolare ; ed è precisamente, come subito si vede, la velocità angolare del sole rispetto al centro O considerato di sopra. Ne segue che & uguaglia il rapporto della rivoluzione del pianeta intorno al sole alla rivoluzione del sole intorno ad 0; rapporto certo assai piccolo, benchè ignoto. La gran- dezza di p è del secondo ordine rispetto a questo rapporto ; perciò insensibile. Per esempio; supponendo che il periodo della rivoluzione sia di 1.000.000 d’anni soltanto, lo spostamento del perielio di Mercurio risulterebbe di 4 % 10-® di secondo in un secolo; quello di Nettuno, di circa 25 millesimi di secondo in una rivoluzione. 2. - Si potrebbe pensare che tale spostamento non fosse tanto insensibile per orbite molto eccentriche, come sono le orbite cometarie. Per esse ]’ analisi precedente non è più valida. Conviene perciò cercare una formula generale, valida per qualunque orbita. Ciò è anche interessante dal punto di vista puramente matematico. Indicando con 7, e #, (, < 7) le due radici dell’ equazione f(r) = 0, il polinomio sotto il radicale nella (1) può scriversi nella forma 2KM | MESS E (68 — r)(hr_ 1%) [o (+ 10) (+ Po) + mr, 223 Allora le costanti c e % risultano definite da Co 2KM A 5 3: 2KM ae +07 h=og(n+#———-. Pup P + Via < \ PA 7 4 F 102 1 2 ] 2 Introduciamo altre due costanti a e e mediante le posizioni rd) TO) si trova c= KMa(1T— e) + o°a'(1 — èÈ) (3) KM DEA h=— — 2a0°0°(14+ e) a Ne consegue che l’azione delle stelle, a parità di ogni altra circostanza, fa accrescere di qualche poco il momento della quantità di moto dei corpi circolanti intorno al sole e fa diminuire, in valore assoluto, la costante della loro energia. Poniamo 2KM : @?° = R*. Questa R è, secondo i calcoli del Prof. Armellini (*), la massima distanza a cui potrebbe giungere una cometa avente orbita esattamente parabolica al perielio. Allora, in base alle posizioni fatte, si ottiene KM R 2 2,2 (Pi [e Ae (1 — o} | | a Da (+ a 02) | - (01 Ora noi consideriamo, oltre ai pianeti, anche comete con orbite di carattere ellittico 2 2 2 per le quali 7, e 7,, e quindi a ed 7, sono piccole in confronto ad È; che è espresso te. . da parecchie migliaia di unità astronomiche. Ne segue che il 2° termine della seconda parentesi è quantità assai piccola; talchè si può scrivere con grande approssimazione a l CE 2,2Ì bro = 4 Vee PPS |1- li le pra il i Dopo ciò l’ equazione (1) diventa vdr rdr [+ af — d'e]dr E BVZIO) VE KM Vae—(r— af i n Vee — (= af Per il differenziale dell’angolo @, si trova subito dd= cdr Ve: / a Lo dr a) ta ) a; (» + af — de? ur. eV) KM rVae—(r—- af R°VKM Va — (n— af Integrando quest’ ultima equazione fra 7, e 7,, si otterrà l'angolo aspidale d. 1? (*) loco cit. Notando che dr aTi UA |, Vale = af e ana i Ta De e prendendo, a norma delle (3) e della approssimazione adottata, e _ CANE ___—__—— ai e= VEMa(1 — €) (1 2 7 VEM (1 — e°) (1 +) ; si deduce anzitutto 3 x 9 e at CS | (Manni = E =a+aimne ; Rn PVEM dr r Vale — (rt a) Yj Anche qui si può porre c = VEMa(1 — e°) nell’ ultimo integrale, essendo piccolissima la parte che ha per coefficiente la sesta potenza di 4: #:; e allora, decomponendo l integrale nella somma di tre integrali più semplici, si ottiene È (14%) Sea n rta 1A, nu = — nn ita R? R a Vale —n— a | Vale — (r— a) Va °' rg dr A+ dr DIL r Vale? — (r — a) Ya + a°(1 0 2 Il primo integrale è nullo ; il secondo è uguale a 7, ed il terzo a 7: ANIET: Risulta dunque a riduzioni fatte 3 d=i+at|e-s vie], valida per qualunque valore di e < 1. (*) Per e molto piccola si ritrova la formula (2), trascurando e? ; perchè, essendo in tal caso NAME RIO) 3) mat oza risulta 3E sal) Per e° = 0,907 è nulla la quantità entro parentesi. In tal caso è @== 7, e non esiste spostamento del perielio. È un’ orbita sizgolare per il problema in discussione. (*) Questa e=(r1— r9): (1 — 72), che per una traiettoria perfettamente ellittica sarebbe l’ eccen- tricità, può chiamarsi eccentricità anche per le orbite più generali che qui si considerano. Per e? < 0,907 e per un dato valore di 4: lo spostamento del perielio è maggiore per le orbite quasi circolari che per quelle aventi grande eccentricità. Per è > 0,907 ma (e < 1) lo spostamento del perielio cambia di senso. In ogni caso, anche per le comete in massima lo spostamento dei perielii dovuto all’azione stellare è piccolissimo. Si può anche fare l’esatto calcolo del periodo relativo a due successivi passaggi al perielio. Senza entrare in dettagli diremo che, integrando la (4) e procedendo come nel caso del calcolo @, si trova 1; CONSE {rey L= ®) (4e + 3). . A JM À Qui si vede che, contrariamente a quanto succede per i perieli, a parità di a il pe- riodo aumenta col crescere dell’ eccentricità; ma sempre d’una quantità dell’ ordine di Gr 3. - Dalla formola (1) si deduce infine un’altra conseguenza interessante. Per @* = 0 e hR<0 il moto sarebbe ellittico. Le radici x" e +" di Pr = — hr + + 2KMr=0 darebbero le distanze dell’ afelio e del perielio. Tornando allora al caso di @° diverso da zero, risulta Oro ORTO or IE per conseguenza le due radici 7, e 7, di f(7) = 0 sono o interne o esterne all’ inter vallo 7”....7°. Ma in questo intervallo la $(r) è negativa, e fuori di esso è positiva; perciò le radici di /(r) = @%'+@(:)=0 dovranno cadere fra 7' e 7". Ne segue che la corona circolare entro la quale deve muoversi il pianeta o la cometa è più ristretta nel caso di @*= 0 che nel caso di 0° = 0. La presenza dunque delle stelle rende le orbite più rotonde ; ossia, le stelle hanno azione condensatrice sul sistema solare ; il che risulta, in altra maniera, anche dalle ricerche del prof. Armellini. SUL CONTEGNO DI ALGUNE SOSTANZE: ORGANICI NEI VEGETALI XIV. MEMORIA DI GIACOMO CIAMICIAN E ALBERTO GALIZZI (1) letta nella 2* Sessione del 27 Novembre 1921 (con UNA TAVOLA FUORI TESTO). IE Le esperienze che descriviamo in questo capitolo sono state fatte per illustrare con nuovi esempi quanto era stato esposto nella Memoria precedente relativamente alla maggiore resistenza all’ ossidazione che presentano quelle sostanze che hanno una azione venefica maggiore (2). Come si è visto allora questo si verifica confrontando, rispetto all’ azione ossidante determinata dalla poltiglia di spinaci, il contegno delle seguenti quattro coppie di sostanze: pirocatechina e guaiacolo, morfina e codeina, teobromina e caffeina, ed atropina e cocaina. A questa abbiamo ora aggiunto la seguente serie di composti, comparando il contegno, sempre rispetto agli enzimi vege- tali, dell’ acido urico col dimetilurico, dell’ anilina con 1 acetanilide e con la metila- cetanilide, dell’ acido salicilico con il salicilato di metile e con l’ acido m-cresilico, dell’ acido pirrolcarbonico col dimetilpirroldicarbonico ; poi dell’ acido ftalico con il tetraidroftalico, dell’ anilina con l’a-naftilamina, della piridina con la chinolina, ed inoltre dell’ urea con la guanidina. Infine abbiamo, pure, sperimentato il contegno, rispetto agli enzimi ossidanti degli spinaci, dell’ eugenolo, della vanillina, e dell’ alcool benzilico. ACIDO URICO E DIMETILURICO. — Per queste esperienze furono impiegati rispettiva- mente gr. 2 di ciascuna delle due sostanze, sciolti in mezzo litro di acqua con la quantità necessaria di potassa, gr. 500 di spinaci ridotti in poltiglia ed un poco di toluolo. (1) Alla fine dello scorso anno il Prof. Ravenna è andato ad occupare la Cattedra di Chimica Agraria alla Scuola Superiore d’Agricoltura di Portici, e però non abbiamo più potuto continuare insieme questi studi. Serberò sembre il più grato ricordo del comune lavoro. — G. Ciamician. (2) Mem. XIII Serie VII. Tomo VIII. pag. 72-73 (1920-1921). Serie VII. Tomo IX. 1921-1922. =} ee) La poltiglia contenente 1° acido w'ico fu lasciata in corrente di ossigeno dal 2 febbraio al 13 marzo; con essa, previa aggiunta di potassa, venne preparato un estratto acquoso di due litri. Il dosaggio dell’ acido fu fatto, sulla decima parte del liquido, secondo il metodo di SOLISTI e Ludwig (1), ottenendone gr. 0,036 (quantità corretta) corrispondente a gr. 0,36 in tutto 1° estratto. La poltiglia contenente 1° acido Ai fu lasciata in corrente di ossigeno dal 26 febbraio al 29 marzo, e con essa, previa aggiunta di ammoniaca, fu preparato un estratto acquoso di due litri. Sulla decima parte di esso venne dosato |’ acido col metodo seguito nel caso precedente, nella quantità di gr. 0,058 (quantità corretta) pari a gr. 0,58 in tutto 1’ estratto (2). ANILINA, ACETANILIDE, METILACETANILIDE. — Per l’ esperienza con |’ anilina gr. 2 di questa base vennero salificati con acido acetico, e quindi sciolti in mezzo litro di acqua: la soluzione unitamente alla poltiglia e ad un poco di toluolo, fu lasciata in un matraccio pieno di ossigeno e chiuso alla lampada dal 28 ottobre al 17 dicembre. Col miscuglio venne preparato un’ estratto acquoso di 1500 c. c. e da un litro di questo fu separata l’ anilina alcalinizzando con carbonato sodico e distillando in cor- rente di vapore acqueo. Il distillato venne esaurito con etere, e per svaporamento dell’ estratto etereo, seccato con carbonato sodico anidro, si ebbero gr. 0,37 di anilina pari a gr. 0,55 in tutto l° estratto, in confronto dei 2 gr. adoperati. i Le prove con l’acetanilide e con la inetilacetanilide si fecero in modo analogo adoperando gr. 2 per ogni sostanza, sciolti in mezzo litro di acqua, e lasciando le soluzioni a contatto delle poltiglie ed in presenza di poco toluolo, in corrente di ossi- geno rispetfivamente dal 30 dicembre al 4 febbraio e dal 5 gennaio all’ 8 febbraio. Dei due miscugli furono fatti gli estratti acquosi di due litri, e sulla metà di cia- scuno di essi vennero dosale le sostanze alcalinizzando con carbonato sodico ed estraendo con etere. Per evaporazione degli estratti eterei rimasero due residui di acetanilide e (1) Z. anal. Ch. 21°, 148; 24°, 637-638. 3 Si credette peraltro di accertare se il metodo, indicato dagli autori per le urine, poteva essere seguito nel nostro caso. A questo scopo gr. 0,5 di acido urico vennero sciolti, con l’ aggiunta della quantità necessaria di potassa, in mezzo litro di un liquido ottenuto da una poltiglia di spinaci laseiata per un mese in corrente di ossigeno. La quinta parte di esso fu trattata con 40 e. e. di soluzione argentico-magnesiaca. Il precipitato ottenuto, lavato con acqua ammoniacale, venne scomposto all’ ebol- lizione con solfuro di potassio: dal liquido filtrato, concentrato sino a 15 c. c., ed acidificato con acido cloridrico, dopo un giorno di riposo si separarono i cristalli che, seccati a 100°, pesavano gr. 0,0974; a questa quantità vanno aggiunti, per la solubilità dell’ acido urico in 40 ce. ce. di filtrato, gr. 0,0019, per cui si ebbero un totale gr. 0,0993 di acido urico, pari a gr. 0,4965 in tutto il liquido primitivo. (2) Il metodo fu prima esperimentato adoperando soluzioni dell’ acido in un liquido ottenuto, come nel caso precedente, dalla poltiglia lasciata in corrente di ossigeno: constatammo che a parità di con- dizioni, occorreva impiegare, questa volta, quantità doppie di reattivi. Da 100 c. e. di una soluzione contenente gr. 0,1046. di acido dimetilurico, ne furono ottenuti gr. 0,0858, a cui vanno aggiunti gr. 0,0132 quale correzione per la solubilità in 25 c. ce. di filtrato (solubilità a 18°: 1 parte in 1885); in totale si ottennero perciò gr. 0,099 di acido dimetilurico in confronto di gr. 0,1046 adoperati; di questa differenza in meno fu tenuto conto nella determinazione sopra descritta. ° CINA di metilacetanilide che, purificati dall’ acqua bollente e seccati nel vuoto, pesavano rispettivamente gr. 0,74 e gr. 0,97, pari a gr. 1,48 ed a gr. 1,94 in confronto dei due grammi delle sostanze impiegate. ACIDO SALICILICO, SALICILATO DI METILE, ACIDO M-CRESILICO. — Per la prova con l’ acido salicilico se ne impiegarono gr. 2 sciolti in 800 c. c. di acqua, e la solu- zione unita alla poltiglia con un poco di toluolo, fu lasciata in corrente di ossigeno dall’ 11 dicembre all’ 11 gennaio. L’ acido rimasto inalterato venne determinato pre- parando con la poltiglia un estratto acquoso di 2500 c. c. e dosandolo, sulla quinta parte di .esso, allo stato di tribromofenolo (1). Questo pesava gr. 0,489 ai quali vanno aggiunti gr. 0,076 per la quantità rimasta sciolta nei 1085 c. ce. di liquido filtrato (solubilità del tribromofenolo in acqua a 15°: gr. 0,07 in 1000), in totale dunque, gr. 0,565 equivalenti a gr. 0,236 di acido salicilic6, corrispondenti a gr. 1,18 in tutto |’ estratto in confronto dei 2 gr. adoperati. L’ esperienza col salicilato di metile venne fatta ponendo gr. 2,35 di questo etere con la poltiglia di spinaci in un matraccio pieno di ossigeno e chiuso alla lampada, e lasciando il tutto a se stesso dal 3 febbraio al 7 marzo. Per determinare la quan- tità di sostanza rimasta inalterata si distillò il miscuglio in corrente di vapore ; il distillato, che aveva reazione neutra, venne esaurito con etere e |’ estratto, seccato e lentamente evaporato, dette gr. 1,65 di salicilato di metile. Per vedere se fosse avvenuta una saponificazione parziale dell’ etere salicilico, con la poltiglia rimasta indietro dalla distillazione venne preparato un estratto acquoso di due litri e sulla metà di questo venne determinato 1° acido salicilico sotto forma. di tribromofenolo; si trovarono gr. 0,178 di acido corrispondenti a gr. 0,356 in tutto l’ estratto ed equivalenti a gr. 0,39 di salicilato di metile. Per cui, sommando assieme le due quantità, si ebbero gr. 2,04 in confronto dei gr. 2,35 di etere salicilico adoperati. Abbiamo creduto necessario di accertare se l’ idrolisi avvenisse anche in un ambiente non ossidante, ed a questo scopo |’ esperienza fu ripetuta con gr. 2 di sostanza, e lasciando il miscuglio in un matraccio chiuso, pieno di anidride carbonica, dal 28 gennaio al 3 marzo. Col metodo sopra indicato furono trovati gr. 0,38 di etere inalterato e gr. 1,26 di acido salicilico corrispondenti a gr. 1,38 di salicilato di metile. Si vede dunque che in presenza di anidride carbonica la saponificazione va più oltre che in presenza di ossigeno. I’ esperienza con l’ acido wm-cresilico fu condotta in modo analogo, con gr. 2 di acido sciolti in mezzo litro di acqua, e lasciando la poltiglia in corrente di ossigeno dal 29 gennaio al 3 marzo. La quantità di acido rimasto inalterato venne deter- minata allo stato di tribromocresolo, impiegando la quarta parte dell’ estratto acquoso preparato con la poltiglia. Ci siamo assicurati che il dosaggio dell’ acido m-cresilico, C,H,(CH,)(0H)(COOH)=1:3:4, ma non degli altri due, può essere eseguito ana- (1) Mem. IX Serie VII, ‘l'omo IV pag. 80 (1916-19I7). . logamente a quello del salicilico, trasformandolo in tribromocresolo (1). Questo pesava gr. 0,73 ai quali vanno aggiunti gr. 9,092 per la solubilità (2) in 1000 ec. c. di filtrato : in totale si ebbero gr. 0,82 equivalenti a gr. 0,36 dell’ acido corrispondenti a gr. 1,44 in tutto l’ estratto in confronto coi 2 gr. impiegati. ACIDO CARBOPIRROLICO E DIMETILPIRROLDICARBONICO. — I due acidi, nella quantità di gr. 2 per ciascuno, furono impiegati allo stato di sale alcalino e le due soluzioni mescolate ciascuna con mezzo Kg. di poltiglia di spinaci e con un poco di toluolo, vennero esposte alla corrente di ossigeno dal 12 marzo al 14 aprile e dal 14 marzo al 16 aprile. Da metà degli estratti acquosi preparati con le due poltiglie, gli acidi furono tolti con etere, previa acidificazione con acido solforico ; le soluzioni eteree, seccate con solfato sodico anidro, furono evaporate. Le quantità dell’ acido carbopir- rolico e dell’ acido dimelilpirvoldicarbonico, così ottenute, erano rispettivamente di gr. 0,53 e di gr. 0,306 corrispondenti a gr. 1,06 ‘ed a gr. 0,61 dei due acidi in confronto coi 2 gr. impiegati. Naturalmente bisogna ricordare che in causa della grande alterabilità degli acidi. pirrolcarbonici, questi numeri non possono essere molto esatti. Tuttavia sembrerebbe che 1 acido dimetilato sia più ossidabile dell’ altro, ciò che in fondo sta in accordo coi caratteri degli omologhi del pirrolo. In questo caso la presenza dei metili non renderebbe il composto più resistente all’ ossidazione. ACIDO FTALICO E 'TETRAIDROFTALICO. — Essi furono adoperati allo stato libero. in quantità di gr. 2 per ciascuno sciolti in mezzo litro di acqua. Delle due poltiglie che, con un poco di toluolo, furono tenute in corrente di ossigeno rispettivamente dal 21 ottobre al 27 novembre e dal 21 ottobre al 29 novembre, vennero preparati, come al solito, due estratti acquosi di due litri ciascuno. Metà di questi furono esauriti con etere, previa aggiunta di acido solforico. Per evaporazione degli estratti eterei si ottennero i due acidi che vennero purificati dall’ acqua bollente e seccati nel vuoto : l’ acido ftalico pesava gr. 0,86 e l acido tetraidroftalico er. 0,616 corrispondenti a gr. 1,72 ed a gr. 1,23 in tutto l’ estratto in confronto dei 2 gr. impiegati. ANILINA, NAFTILAMINA. — L’ esperienza con l° a-maftilamina venne condotta in comparazione con quella dell’ anilina in modo corrispondente a quanto è stato descritto più avanti per quest’ ultima; la durata dell’ esperienza fu dal 28 ottobre al 13 dicembre. Il dosaggio della base rimasta inalterata venne eseguito come per l’ anilina. trovando in totale gr. 0,04 di a-naftilamina su 2 gr. impiegati (3). (1) La determinazione è analoga a quella fatta per l’ acido salicilico. Per provare il metodo, si impiegò mezzo litro di una soluzione a 1 per mille di acido m-cresilico nel liquido preparato con una poltiglia lasciata in corrente di ossigeno; furono ottenuti gr. 1,0593 (quantità corretta) di tribromo- cresolo, equivalenti a gr. 0,408 di acido m-cresilico in luogo di gr. 0,5. (2) La solubilità del tribromocresolo fu determinata mescolando gr. 0,243 di sostanza con 100 c. e. di acqua, e separando, dopo un giorno, la parte rimasta indisciolta nella quantità di gr. 0, 2338. La solubilità nell’acqua, a 18° e di 0,0092 0%. (3) Prima di procedere alla determinazione ci siamo accertati che l'a-naftilamina poteva essere elimi- nata quantitativamente dalla soluzione mediante la distillazione in corrente di vapore acqueo; per evitare l'ossidazione della base venne fatta passare contemporaneamente una corrente di anidride carbonica. N = 60 — PIRIDINA, CHINOLINA. — Da precedenti esperienze si era visto che la piridina non viene sensibilmente alterata dagli enzimi degli spinaci; in seguito alla prova, ora descritta, relativa all’ anilina ed alla naftilamina, abbiamo voluto sperimentare il con- tegno della chinolina. Si eseguì la prova con gr. 2 di sostanza, lasciando il miscuglio in un matraccio chiuso alla lampada e pieno di ossigeno dal 9 marzo al 9 aprile. La poltiglia venne distillata in corrente di vapore acqueo, ed il liquido esaurito con etere. Dalle soluzioni eteree, seccate con solfato sodico anidro, per evaporamento del solvente, si ottennero gr. 0,78 di chinolina in confrontò coi 2 gr. adoperati. Questi risultati stanno dunque in accordo con quelli avuti nella prova con | ani- lina e con la nattilamina se si tien conto che la piridina, in condizioni analoghe, rimane pressochè inalterata cioè che di 2 gr. di base adoperati se ne ritrovarono SRI (106 E nostra intenzione di completare 1’ esperienza, ora descritta, studiando | azione della poltiglia di spinaci sugli omologhi e sui derivati idrogenati della chinolina. UREA, GUANIDINA. — Per l’ esperienza con l’ wrea si pose in un pallone mezzo Kg. di spinaci con gr. 2 di sostanza, 500 c. c. di acqua ed un poco di toluolo. Nella massa si fece passare una corrente di ossigeno dal 15 gennaio al 23 febbraio. Con la poltiglia si fece il solito estratto acquoso portato a 2 litri, e su una parte aliquota di esso, 200 c. c., si determinò | urea con il metodo di Pfliiger-Bleibtreu modificato da Gumlich e Schéondorff (2). A tal fine il liquido venne defecato con acido fosfotungstico : se ne precipitò quindi l° eccesso con latte di calce ed al filtrato ven- nero aggiunti er. 15 di acido fosforico cristallizzato. Il miscuglio concentrato a b. m. e riscaldato a 150° in stufa per quattro ore e mezzo, venne ripreso con acqua, e da esso, previa aggiunta di soda fu eliminata 1° ammoniaca col metodo Kjeldah], racco- gliendola su 100 ce. c. di soluzione NA di acido solforico. Se ne ottennero in tal modo gr. 0,0088 equivalenti a gr. 0,0156 di urea, e cerrispondenti a gr. 0,156 in tutto 1° estratto. Per aver una conferma dell’ esattezza di questa determinazione siamo ricorsi anche al metodo proposto da E. Fosse che separa l’ urea allo stato di xantilurea (3) usando come reattivo lo xantidrolo, 0 (C,7,), CHOH. A tal fine 200 c. c. dell’ estratto acquoso vennero evaporati a secchezza, ed il residuo ripreso con pochi c. c. di acido acetico al 10 Aa e filtrato. Al liquido si aggiunse una soluzione di gr. 1,5 di xanti- drolo in 60 c. c, di acido acetico glaciale, e dopo due giorni il precipitato formatosi fu raccolto su filtro alla pompa, lavato con acido acetico al 10% fino a che il filtrato non si intorbidava per aggiunta di acqua, poi con acqua, e quindi seccato a 100°. Esso pesava gr. 0,088 equivalenti a gr. 0,0125 di urea, che corrispondono a gr. 0,125 in tulto 1’ estratto. (1) Mem. IX. Serie VII, ‘Pomo IV, pag. 82 (1916-1917). (2) Abderhalden: Handbuch Bioch. Arbeits-methoden Vol. III, 781 (1910). (3) E. Fosse: C. R. 145, 813; 154, 1188. Hugounengq et Morel: BI. 81. 18 (1913) 767. Serie VII. Tomo IX. 1921-1922. o — 66 — È Come si vede le due determinazioni dettero numeri abbastanza concordanti, cioè gr. 0,156 e gr. 0,125 (in media gr. 0,14) di urea rimasta inalterata in confronto coi 2 gr. impiegati. Per renderci conto dell’ azione esercitata sull’ urea dagli enzimi vegetali, abbiamo voluto ricercare se fosse avvenuta 1’ idrolisi, e se quindi | urea scomparsa si fosse trasformata in ammoniaca e non avesse subito un processo di ossidazione. A tale scopo fu determinata |’ ammoniaca, per confronto in 200 c. c. di un liquido ottenuto da una poltiglia lasciata in c6rrente di ossigeno, ed in un’ eguale quantità dell’ estratto acquoso rimanente dalle due determinazioni ora descritte, alcalinizzando con magnesia e distillando in un apparecchio Kjeldahl. Nel primo caso si ottennero gr. 0,0068 di ammoniaca pari a gr. 0,068 nei due litri di liquido campione, e nel secondo caso gr. 0,1069 pari a gr. 1,069 nei due litri di estratto. Da queste determinazioni appare che il liquido suaccennato risultante dall’ ossidazione dell’ urea con la poltiglia di spinaci conteneva, tenendo conto della correzione per l ammoniaca del liquido cam- pione, gr. 1,001, quantità che corrisponde a gr. 1,766 di urea; dalla media delle due determinazioni su riportate la quantità di urea ossidata sarebbe di gr. 1,86. La guanidina fu adoperata allo stato di nitrato nella quantità corrispondente a gr. 2 di base libera. L’ esperienza, perfettamente analoga alla precedente, durò dal 22 gennaio al 27 febbraio. Per dosare la guanidina rimasta inalterata si cercò di precipitarla allo stato di picrato. In questo modo bisogna tener conto di molte cor- rezioni ; tultavia facendo le relative prove di confronto i risultati riescono abbastanza attendibili. La decima parte delt’ estratto acquoso ottenuto dalla poltiglia venne trat tata con una soluzione satura a freddo di acido picrico, e dopo due giorni si raccolse il picrato di guanidina, che venne seccato nel vuoto e pesato. Con le debite corre- zioni (1) la quantità di picrato era di gr. 0,692 corrispondenti a gr. 0,14 di base libera e quindi a gr. 1,4 in tutto Y estratto in confronto dei 2 gr. impiegati. EUGENOLO. — In questa esperienza si impiegarono gr. 2 di sostanza ; la poltiglia venne lasciata in un matraccio chiuso alla lampada pieno di ossigeno dal 19 febbraio al 30 marzo, e poi distillata in corrente di vapore acqueo. Il liquido raccolto fu quindi esaurito con etere. Per svaporamento degli estratti eterei, seccati con solfato sodico anidro, si ebbero gr. 1,66 di eugenolo in confronto di 2 gr. adoperati. L’ eugenolo, C,H,(0H)(0CH,)(C,H,), che è un allilguaiacolo, ha pure all’ ossi- dazione un contegno analogo al guaiacolo, perchè anche quest’ ultimo, all’ opposto della (1) La prova di confronto venne fatta nel seguente modo: si impiegarono gr. 0,4135 di nitrato di guanidina corrispondenti a gr. 0,2 di base, sciolti in 200 e. ce. di un liquido ottenuto da una poltiglia lasciata in corrente di ossigeno. Per trattamento con una soluzione acquosa satura a freddo di acido picrico, si ottennero gr. 0,6722 di sale; a questi vanno aggiunti gr. 0,0468 per la solubilità in 300 e. e. di filtrato. In totale si ebbero quindi ge. 0,719 corrispondenti a gr. 0,147 di guanidina in confronto di gr. 0, 2 di base impiegati; di questa differenza fu tenuto conto nella determinazione sopra deseritta come coefficiente di correzione. La solubilità del picrato in 100 parti del liquido impiegato risultò, a 16°, di gr. 0,0156. NRE 7 pirocatechina, che viene quasi del tutto distrutta, resiste alquanto all’ ossidazione : in una esperienza fatta l’ anno scorso da 2 gr. ne furono ritrovati gr. 1,2 (1). VANILLINA. —— L’ esperienza venne eseguita con gr. 2 di sostanza e lasciando il miscuglio in un matraccio chiuso alla lampada pieno di ossigeno dal 10 febbraio al 14 marzo. Con la poltiglia si preparò un estratto acquoso, e sopra una metà si deter- minò la vanillina rimasta inalterata col metodo di Tiemann e Haarmann (2). Il liquido venne per questo esaurito con etere, e le soluzioni eteree dibattute con bisolfito sodico; le soluzioni bisolfitiche, estratte ancora una volta con etere, furono scomposte per riscaldamento con acido solforico, e quindi esaurite con etere. Per svaporamento delle soluzioni eteree si ebbero gr. 0,125 di vanillina corrispondenti a gr. 0,25 in tutto l’ estratto in confronto dei 2 gr. adoperati. AC00L BENZILICO. — Per questa prova la poltiglia con gr. 2 dell’ alcool ed un poco di toluolo venne lasciata in un matraccio pieno di ossigeno e chiuso alla lam- pada dal 20 dicembre al 25 gennaio. Il miscuglio fu quindi distillato in corrente di vapore: nel liquido raccolto dosammo l’ alcool benzilico, applicando al nostro caso il metodo proposto da Gascard per la determinazione dei pesi molecolari degli alcooli e dei fenoli (3). Per far questo il distillato venne esaurito con etere, e la soluzione eterea, concentrata, riscaldata a 100° per un giorno con gr. 6 di anidride benzoica in un piccolo pallone chiuso alla fiamma. Al liquido si aggiunsero quindi 20 c. c. di etere, 5 c. c. di acqua, due goccie di fenolftaleina e 17,1 c. c. di una soluzione N di potassa fino ad avere la colorazione rossa del miscuglio. Si preparò poi a parte una soluzione di gr. 6 di anidride benzoica, 20 c. c. di etere, 5 c. c. di acqua e due goccie di fenolftaleina, e per. aver in questa il cambiamento di colore si dovettero aggiungere 1,2 c. c. di soluzione N di potassa. Da questi dati si deduce la quantità dell’ alcool benzilico con la formula; 1000; M== CRI Nn in cui M. è il peso molocolare dell’ alcool benzilico cioè 109, N il numero dei c. c. impiegati nella prima titolazione, cioè 17,1, ed 7 il numero dei c. c. adoperati nella seconda. Si ha quindi p ossia la quantità di alcool benzilico cercato : 15,9 X 109 1000 ARI 1 = per cui esso è rimasto quasi del tutto inalterato. (1) Mem. XIII. Serie VII, Tomo VIII, pag. 78 (1920-1921). (2) B. 8, 1118. (3) Journal. Pharm. Chim. (6). 24, 97 (1906). Riassunto e conclusioni. I risultati ottenuti nelle esperienze descritte in questo capitolo sono riassunti nella seguente tabella : | SOSTANZE | INTRODOTTE RITROVATE SAVI | FACCIA OSMIILI CO ARA VR SS CRU CSR Di da e gr. 0,36 | Agi cimoninmaieo. o 0h ee » | » 0,58 ARIMA: e A A Sri 2 | gr. 0,55 AGG ea I ANA) | » 1,48 | | Metrlacer an A eee NR pito; | » 1.94 Acido salicilico . FT 2 gr. 1,18 Aalializio di mele e e te ei > ur299 | » 2-04 Salicilato di metile (in presenza di (03) | DIES | » 1,76 | | AGGO NEGRI | Ve | » 1,44 ACI dOPILROCARPONI CORRERE AREA E | gr. 1,06 | | i Acido dimetilpirroldicavbonico. . . . | RZ » 0,61 Acido sttalicor ol aereo e n] SRI | DIDERTE Acido tetraidroftalico. ./././.0.0 | Dr | » 1,23 Aaa ast ea Da E (a Poi | gr. 0,55 a-naftilamina È | du » 0,04 Piridina OTIS gr. 1,78 CIMONa ORARIE SRO ERDOTE > È | >» 0,78 L LIDO È SISEF rt | | Urea gui | ge. 0,14 GUIA A Re e » 2 » 1,40 n — — — = | 339 | a Pirocatechima mi see gr 2 gr. 0,01 GUALLCOl0 a RR Na | VE 120 BUSGENO OR RE A IE, RIO DIES » 1,66 At er I a le E gu 2 gr. 0,25 - ANCO OMPENZI CO SER OE DI gr. 1, 61 Si 0 ES Dalle cifre su esposte risulta che per alcune coppie di sostanze si verificano quelle tipiche relazioni che sono state messe in rilievo nella Memoria precedente (1). Si vede che l’ acido dimetilurico, C_H,0,N, (CH,),, che rispetto all’ acido urico, C.H,0,N,, sì mostra un poco più nocivo per le piantine dei fagioli, è un poco più resistente di quest’ ultimo ; analogamente |’ anilina, C,H,. NH,, l acetanilide, C,H.NH . COCH. 5 32 la metilacetanilide, C,H,N (CH,) COUH,, stanno in scala per la crescente velenosità a e cui corrisponde una crescente resistenza agli enzimi degli spinaci; similmente si com- portano |’ acido salicilico, C,H,(0H) COOH, il suo etere metilico, C,H, (07) 000 . CH,, e l’ acido m-cresilico, CH, (CA,) (OH) COOH : anche in questi casi il composto meno ossidabile è quello più velenoso. Per azione degli enzimi degli spinaci il salicilato di metile subisce una parziale idrolisi, che in presenza di ossigeno è assai meno pro- nunciata che in presenza di anidride carbonica: differenze di contegno analoghe a questa furono riscontrate altre volte. Il confronto dell’ ossidabilità dell’ acido carbopirrolico, C,H, (COOH) NH, con quella dell’ acido dimetilpirroldicarbonico, C,(CZ,), (COOH), NH, non sta in contrasto col loro contegno rispetto alle piantine di fagioli, perchè ambedue sono innocui, ma dimo- stra che il composto dimetilato, in questo caso, è più ossidabile della sostanza fonda- mentale. Si vede però, come è stato accennato nella precedente Memoria, che i eruppi metilici (CH,) (ed etilici, C,7.), quando non servono all’ eterificazione, ma costituiscono delle catene laterali, possono avere un’altra funzione nelle piante. Nella stessa Memoria era stato dimostrato che in alcuni casi i prodotti idrogenati sono più tossici di quelli fondamentali; il contegno dell’ acido. ftalico, C,H,(COOH),, e del tetraidroftalico, C;H,(COOH),, del primo, prova come il composto più ossidabile sia più velenoso dell’ altro : in rispetto agli enzimi, da cui risulta che il secondo è meno resistente questo caso si tratta di relazioni assai diverse da quelle ralative all’ influenza dei radicali. Così pure risultò che 1’ azione dei nuclei condensati si manifesta con una maggiore velenosità di questi ultimi rispetto a quelli semplici; ed anche quì, come appare dalla tabella, si vede che 1° anilina, C,H, : NH,, è meno ossibabile della nafti- lamina, Co: NH,, e la piridina, C,H,N, meno della chinolina, C,H,N; anche in questo caso la differenza di contegno deve dipendere da altre cause di quelle relative all’ eterificazione. Comparando il contegno dell’ urea, CO(VZ,),, con quello della guanidina, C (VA) 2) (NH.),, rispetto all’ azione ossidante degli enzimi degli spinaci, risulta che la prima è assai più alterabile della seconda in accordo con la maggiore velenosità della guanidina; non vogliamo peraltro affermare che in questo caso si tratti di relazioni così evidenti come quelle determinate dai radicali; 1 ulteriore esame ha poi dimo- strato che l’ urea subisce largamente l’ idrolisi, ciò che non avviene per la guanidina. L’eugenolo, C,H,(0H4)(0CH,)(C,H.), per la sua resistenza agli enzimi ossidanti starebbe in serie con il guaiacolo, CH, (0H)(0CH,), e con la pirocatechina, G;4#, (04), (1) Mem. XIII, Serie VII, omo VIII, pag. 72-73 (1920-1921). SE ma anche qui non conviene lasciarsi trasportare troppo dalle analogie. La innocua vanillina,” C,4,(0H)(0CH),(CHO), viene quasi completamente distrutta; 1 alcool ben- zilico, CH, - CH,OH, è invece molto resistente. Dai fatti qui riassunti risulta dunque, come era da prevedersi, e come era stato messo in rilievo nella Memoria precedente, che 1° azione chimica delle sostanze orga- niche sulle piante mon è determinata soltanto dall’ eterificazione dei gruppi ossidrilici, amminici, ed imminici, ma che è legata anche ad altre differenze di costituzione; in questi casi non è necessario che i prodotti più venefici siano anche i più resistenti all’ ossidazione, e la ricerca delle cause della loro azione sulle piante rimane riserbata a studi ulteriori. INR Come seguito alle esperienze descritte nel precedente capitolo abbiamo creduto utile ricercare il contegno di alcuni glircosidi e delle rispettive sostanze in essi conte- nute rispetto agli enzimi ossidanti delle piante. Abbiamo incominciato con il lauroce- raso (Prunus Laurocerasus) che, come è noto, contiene due glucosidi, la laurocerasina e la prulaurasina (1), i quali si scompongono appena vengono in contatto con |’ en- zima che separatamente le,foglie stesse contengono, tanto che se queste vengono rese in poltiglia si ottengono, distillando in corrente di vapore acqueo, |’ acido cianidrico e la benzaldeide. Se invece le foglie sono state previamente scottate, viene reso inat- tivo l’ enzima, e dalle foglie per distillazione in corrente di vapore acqueo, non si ottengono i predetti composti (2). Noi abbiamo però tenuto in un matraccio pieno di ossigeno le foglie scottate e quelle non scottate facendo poi le determinazioni di con- fronto con foglie appena raccolte, e quindi non esposte all’ ossidazione. A complemento di queste prove abbiamo esperimentato | amigdalina impiegando in questo caso come enzima ossidante la poltiglia di spinaci; sempre con la poltiglia di spinaci abbiamo poi comparato 1° ossidabilità della salicina con quella della saligenina, ed infine abbiamo creduto opportuno di esaminare, rispetto all’ azione degli enzimi della poltiglia di spinaci, il contegno del tannino e del pirogallolo. EsPERIENZE CON LE FOGLIE DI LAUROCERASO. — Una prima prova fu fatta con mezzo Kg. di foglie tenute in un matraccio chinso alla lampada e pieno di ossigeno, dal 22 ottobre all’ 8 novembre. La poltiglia venne quindi distillata in corrente di vapore acqueo; sulla decima parte del liquido si determinò | acido cianidrico con una soluzione N/, di nitrato di argento, (indicatore il cromato potassico) impiegan- done 34,5 c. c. equivalenti a gr. 0,093 di acido cianidrico, e corrispondenti quindi a gr. 1,86 in un Kg. di foglie. La benzaldeide venne dosata sulla quinta parte del distillato allo stato di fenilidrazone ; ottenendo di questo gr. 1,504, corrispondenti a gr. 0,813 di benzaldéide, e quindi a gr. 8,13 in un Kg. di foglie. (1) C. Wehmer. Die Pflanzenstoffe : 303 (1911). (2) C. Ravenna. R. A. L. XXI} IF 355 (1912). ì — 11 — Nella prova di confronto si ebbero con altre foglie, per un Kg., gr. 1,72 di acido cianidrico e gr. 7,16 di benzaldeide. In un’ altra esperienza le foglie, nella quantità di mezzo Kg., vennero immerse, senza triturarle, a poche per volta per qualche minuto nell’ acqua bollente allo scopo di rendere inattivi gli enzimi che potevano determinare la scissione dei lucosidi in esse contenuti; furono quindi triturate ed introdotte in un matraccio. Il tutto si lasciò in autoclave a vapore fluente per mezz’ ora, ed il matraccio riempito d’ ossigeno, ope- rando asetticamente, venne chiuso alla lampada. La poltiglia fu lasciata in queste condizioni dal 16 dicembre al 7 gennaio. Per distillazione non si ebbero peraltro tracce nè di acido cianidrico nè di benzaldeide..Alla poltiglia si aggiunse quindi un po’ di emulsina, e dopo averla lasciata per 36 ore in ambiente di anidride carbonica, fu distillata in corrente di vapore acqueo. Facendo le determinazioni nel modo già indicato, nella decima parte del distillato si trovarono essere contenuti gr. 0,0426 di acido cianidrico, ed in una quinta parte, gr. 0,386 di benzaldeide corrispondenti rispet- tivamente a gr. 0,85 ed a gr. 3,86 in un Kg. di foglie. Nella prova di confronto per un Kg. di foglie si trovarono gr. I,38 di acido cia- nidrico, e gr. 5,99 di benzaldeide. AMIGDALINA. — L’ esperienza con l’ amigdalina, gr. 2, fu fatta tenendo la sostanza a contatto con la poltiglia di spinaci in un matraccio pieno di ossigeno e chiuso alla lampada, con le norme ora indicate, dal 7 febbraio all’ 8 marzo. La poltiglia venne quindi distillata in corrente di vapore acqueo; e sul liquido raccolto si dosarono l’ acido . cianidrico e la benzaldeide come nelle esperienze precedenti. Si trovarono in totale gr. 0,04 di acido cianidrico e gr. 0,143 di benzaldeide iu confronto, rispet- tivamente, di gr. 0,105 e di gr. 0,415 contenuti nei due grammi di amigdalina, Cso H0,N (+) 3H,0 (1), impiegati. Alla poltiglia rimasta indietro dalla distillazione fu aggiunta | emulsina, e dopo averla lasciata per due giorni in ambiembe di anidride carbonica, fu distillata in corrente di vapore acqueo; nel distillato non si trovarono tracce nè di acido cianidrico nè di benzaldeide. SALICINA, SALIGENINA. La quantità di salicina, CH 0, (2), fu di gr. 4,61 cor- rispondenti a gr. 2 di saligenina, che con la poltiglia di spinaci ed un poco di toluolo si lasciarono in corrente di ossigeno, dal 27 dicembre al 29 gennaio. Venne quindi preparato 1’ estratto acquoso ed in esso per estrazione con etere non fu trovata la minima traccia di saligenina, nè di acido salicilico. Al liquido fu aggiunta 1° emulsina, ed anche dopo questo trattamento non si ebbe nell’ estratto etereo nè la reazione della saligenina, nè quella dell’ acido salicilico. Per vedere se nell’ esperienza anche il glucosio della salicina fosse stato ossidato, abbiamo fatta la titolazione col liquore di Fehling. L’ ottava parte dell’ estratto acquoso venne defecata con acetato basico di piombo e carbonato sodico; il filtrato concentrato (1) Beilstein. III, 569 (1897). (2) Beilstein. III. 608 (1897). e titolato col reattivo di Fehling dimostrò un potere riduttore corrispondente ad un contenuto di gr. 0,0237 di glucosio, pari a gr. 0,19 in tutto l'estratto. Queste prove indicano dunque che il glucoside era scomparso completamente, e che anche il glucosio contenuto nella poltiglia era stato ossidato : difatti in una prova di controllo fatta alcuni anni or sono, da una poltiglia testimone erano stati ottenuti gr. 1,58 di glucosio (1). L’ esperienza con la saligenina venne eseguita tenendo in corrente di ossigeno gr. 2 di sostanza sciolti in mezzo litro di acqua con mezzo Kg. di spinaci ridotti in pol- tiglia e con un poco di toluolo dal 21 ottobre all’ 8 dicembre. Si preparò quindi il solito estratto acquoso e da metà di esso, col metodo altre volte descritto (2), si ottenne la saligenina rimasta inalterata, che purificata dall’ acqua bollente e seccata nel vuoto pesava gr. 0,34, corrispondenti a gr. 0,68 in tutto |’ estratto, in confronto di 2 gr. adoperati. La prova fatta per l’ acido salicilico eventualmente formatosi, non dette che minime tracce. l'ANNINO, PIROGALLOLO. — Per l’ esperienza col fanzizo si lasciò in corrente di ossigeno dal I dicembre al 5 gennaio un miscuglio di mezzo Kg. di spinaci ridotti in poltiglia, di una soluzione di gr. 2 di tannino in mezzo litro di acqua, e di un poco di toluolo. Nella ventesima parte dell' estratto acquoso, preparato come al solito, si determinò il tannino col metodo già altre volte impiegato (3). Se ne trovarono gr. 0,046 corrispondenti a gr. 0,92 in tutto I estratto in confronto di due gr. di tannino adoperati. Contemporaneamente a questa abbiamo fatta una prova analoga in presenza di anidride carbonica per accertare se il tannino venisse parzialmente precipitato dalle proteine contenute negli. spinaci : si trovarono gr. I,83 di tannino inalterati su due grammi adoperati, per cui si vede che le proteine degli spinaci non precipitano il tannino e che però le su riferite esperienze non hanno bisogno di correzioni. Riassunto e conclusioni. I risultati ottenuti nelle esperienze descritte in questo capitolo» sono riassunti nelle tabelle - seguenti : FOGLIE DI LAUROCERASO re SOSTA NATALIZI bolli acido cianidrico °/o Benzaldeide %y | Non scottate . gr. 1,86 gt. 8,13 Estimo nua RESO LUTSRLOG, LA 0e MEG pae: | DIALZAIO Scontatet® fsbello, Lore GUI LANIER 0 gr. 0,85 gr. 3,86 L'ESHIMOMACAE ER e A I SA TE d 138 » 5,99 (1) Mem. X. Serie VII, omo V, pag. 33 (1917-1918). (2) Mem. IX. Serie VII, Tomo IV, Pag. 78 (1916-1917). (3) Mem. XIII. Serie VII, Tomo VIII, pag. 70 (1920-1921). ARS TE SOSTANZE INTRODOTTE SOSTANZE TROVATE Amigdalina. . : gr. 2 (Grafici Aric a (0,105 Acido cianidrico gr, 0,04 Benzaldeide gr. 0, 143 Benzaldeide ARE ORALE ni a se Si Di Saligenina : distrutta Acido salicilico: nessuna reazione Saligenina . .. . >» 2 Saligenina gr. 0, 68 Acido salicilico : tracce TEmmaimos ed a TEMDIDO i e oo Prova di confronto in pre- senza di CO, gr. 1,83 Pirogallolo . » 2 Riealdo ss e 0008 Dai risultati ora esposti appare dunque che i glucosidi vengono dagli enzimi vege- tali assai meglio ossidati delle relative sostanze aromatiche in essi contenute : così nelle foglie di lauroceraso non scottate, e però contenenti 1 emulsina attiva, si ritro- varono tutti interi i componenti del nitrile mandelico, cioè 1 acido cianidrico e la benzaldeide ; nelle foglie invece previamente scottate nelle quali 1° enzima è reso inattivo, il glucoside, che non venne idrolizzato, è ridotto a circa la metà come risulta dall’ acido cianidrico e dalla benzaldeide trovati. Da queste esperienze risulta inoltre che mentre per immersione delle foglie di lauroceraso per qualche minuto nell’ acqua bollente 1° emulsina viene resa inattiva, gli enzimi ossidanti, che pure deb- bono essere presenti in esse, rimangono efficaci. A complemento di queste esperienze abbiamo studiato il contegno dell’ amigdalina rispetto agli enzimi ossidanti della pol- tiglia di spinaci, dimostrando che questa viene del pari largamente ossidata. Similmente mentre la saligenina, come risultava da precedenti esperienze, viene in gran parte ossidata, in modo peraltro che ne rimane circa un terzo, la salicina invece nelle medesime condizioni è del tutto distrufta. Non è facile rendersi ragione di questo singolare contegno per cui 1’ ossidazione del glucosio catalizza per così dire quella del composto aromatico ad esso combinato, e prima di tentare di spiegare il fenomeno converrà fare ulteriori ricerche su altri glucosidi. Si comprende invece che rispetto all’ ossidabilismo pirogallolo, il tannino si mostri più resistente. ‘ IE Nella Memoria precedente (1) era stato messo in rilievo che se le sostanze fon- damentali sono del tutto innocue e normalmente contenute nelle piantine, anche i loro (1) Mem. XIII. Serie VII, V'omo VIII, pag. 72 (1920-1921). RR ri GO OOSNI derivati non esercitano alcuna azione venefica; così, per esempio, era stato trovato che i tre acidi cresilici sono dannosi perchè 1° acido salicilico non è del tutto innocuo, mentre invece |’ acido dimetilpiroldicarbonico lo è come il pirrolearbonico, perchè il nucleo pirrolico non è estraneo alle piante; ed a conferma di ciò il solfato potassico ed il metilsolfato potassico, il glucosio ed il metilglucoside, non esercitano alcuna azione. Dalle precedenti esperienze due fatti potevano apparire non concordanti con Ja suddetta spiegazione : la xantina (1) e l’ ammoniaca (2) erano state considerate innocue malgrado la velenosità della teobromina, della caffeina, e delle amine. Ripetendo quest’anno più largamente le prove abbiamo veduto che la xantina e 1 ammoniaca non sono del tutto indifferenti per le piantine di fagioli. XANTINA, TEOBROMINA, CAFFEINA. —- Le prime due sostanze vennero sommini- strate allo .stato di sale potassico, e la caffeina allo stato libero in soluzioni a con- centrazioni corrispondenti a lea di base. Il trattamento delle piantine cresciute sul cotone idrofilo in germinatori di ferro zincato, si incominciò dopo un periodo germi- nativo dall’ 11 al 24 giugno. In un germinatoio a parte si coltivarono le piantine testimoni. La /eobromina e la caffeina determinarono gli stessi fenomeni osservati nelle precedenti esperienze; anche le prove dell’ amido sulle foglie portarono ai risultati già altre volte ottenuti (3). La wantina sembrò esercitare dapprima un’ azione benefica sulle piantine, perchè queste crebbero più rigogliose di quelle testimoni; ben presto peraltro lo sviluppo rimase ostacolato e le piantine restarono indietro rispetto a questi ultimi ; molte emi- (1) Le prove con la xantina erano state fatte allora con una quantità insufficiente di sostanza, in modo che l’ inaffiamento delle piantine venne interrotto prima che la base avesse potuto far sentire la sua azione. Per l’esperienza di quest’ anno abbiamo preparato una maggiore quantità di xantina col metodo di Sundwig per riscaldamento di acido urico con glicerina ed acido ossalico (H. 1911-1912; 76, 486). (2) Nelle esperienze fatte allora col tartarato e col fosfato ammonico (Mem. XI. pag. 7, erano state osservate alcune sofferenze attribuite peraltro alla reazione alcalina del liquido che impregnava il cotone idrofilo, Invece quest’ anno abbiamo osservato che i sali ammonici a luugo andare non sono innocui e producono uno sviluppo limitato, ed una colorazione più cupa delle foglie rispetio ai testimoni. (3) Mem. XI, pag. 16-17; Mem. XII, pag. 24-25. In quest’ultima Memoria a pag. 37, a pro- posito della reazione dell’amido sulle foglie delle piantine trattate con teobromina è stata espressa la supposizione che il persistere dell’amido durante la notte nelle foglie, dipenda probabilmente piut- tosto da una più copiosa produzione, che da un insufficente riassorbimento. Il Prof. Peglion à richia- mato gentilmente la nostra attenzione su due pubblicazioni che trattano di una malattia delle patate che si manifesta con 1’ arrotolamento nelle foglie (Blattrollkrankheit), di F. Esmareh e di F. W. Neger, comparse nella Zeitschrift fin PAlanzenkrankheiten (Vol. II, pag. I e 27 (1919)) che, essendo un giornale di patologia vegetale non era a nostra disposizione, nè avremmo pensato di consultare. In queste due pubblicazioni gli autori hanno dimostrato con esperienze assai persuasive che la detta malattia della patata sta in relazione con un incompleto svuotamento dell’ amido dalle foglie durante la notte, per cui i tuberi non possono svilupparsi e rimangono assai inferiori alla grandezza normale. Ora questo fenomeno ricorda molto da vicino quello determinato dalla teobromina, ed in grado minore dalla caffeina, ed anche in parte dalla xantina, per cui non è improbabile che 1’ azione tossica di questi corpi non provochi una maggiore produzione di amido, ma piuttosto ne impedisca la migrazione. PI Io sero le prime e le seconde foglie composte, ma in genere non emisero cirri; le foglie presentavano. la stessa grandezza, ma una forma più fanceolata di quelle delle pian- tine testimoni. Per prolungata azione della base si manifestò una tendenza ad ingial- lire. Facendo le prove con l’ jodio sulle foglie nelle varie fasi dell’ esperienza sì notò che | amido si accumula intorno alle nervature tanto nella parte insolata che in quella coperta. Le piantine trattate con la caffeina, con la teobromina, e con la xantina, e quelle testimoni si andarono seccando gradatamente e vennero gettate, le due prime rispet- tivamente il 15 ed il 27 luglio, le due ultime il 31 luglio. ETERI COMPOSTI. -— Per confermare con un maggior numero di fatti che gli eteri composti sono più dannosi dei rispettivi sali potassici sulle piantine di fagioli, abbiamo aggiunto alle esperienze degli anni scorsi col salicilato di metile, coi tartarati di metile e di etile, in confronto con il salicilato (1) e con il tartarato potassico (2), quelle con |’ ossalato ed il succinato dietilico in comparazione con |’ ossalato ed il succinato di potassio. I semi furono messi a germinare sul cotone idrofilo in germinatoi di vetro l’ 11 giugno, ed il 22 giugno si incominciò il trattamento delle piantine con le soluzioni dei suddetti composti alla concentrazione dell’ 1 SA In un germinatoio a parte le piantine furono lasciate crescere normalmente per il confronto. Dopo circa una settimana quelle trattate con i due sali potassici dimostravano uno sviluppo meno rigoglioso dei testimoni, e tale differenza era più marcata nelle piantine inaffiate con 1’ ossalato potassico. I due eteri ebbero un’ azione più accentuata poichè lo sviluppo delle pian- tine era più limitato, mancava in esse la tendenza ad emettere cirri, e le foglie pre- sentavano qualche segno di sofferenza; anche qui l azione maggiore si notava per l’ossalato dietilico. Il 31 agosto le piantine furono gettate perchè dissecate. Il contegno nelle piantine di fagioli degli: eteri degli acidi ossalico e succinico corrisponde dunque alla regola dei metili; con questa esperienza venne inoltre ricon- fermato che l’ acido ossalico ed i suoi eteri sono più velenosi dei corrispondenti deri- vati dell’ acido succinico (3). ALCOOLI MONOVALENTI. — (Gli alcooli prescelti furono il metilico, 1° etilico, il propilico, 1’ isopropilico, 1’ isobutilico, 1’ isoamilico, che vennero somministrati alle piantine coltivate sul cotone idrofilo in germinatoi di vetro, in soluzioni all’ 1%, dopo un periodo germinativo dal 9 al 20 maggio ; le piante di un germinatoio servi- rono da testimoni, Si può dire che gli alcooli abbiano un’ azione che ricorda quella delle amine per quanto riguarda lo sviluppo delle piantine, senza peraltro presentare quei fenomeni che sono caratteristici per gli alcaloidi in genere. Difatti. dopo circa 20 giorni si (1) Mem. XI, Serie VII, Tomo VI, pag. 9 (1918-1919). (2) Mem. XII, pag. 21. (3) Mem. XII, pag. 21. Se ia( ra poteva notare che quelle tratate con 1° alcool metilico crescevano quasi normali, mentre quelle inaffiate con | alcool etilico avevano uno sviluppo meno rigoglioso. Gli alcooli propilico ed isopropilico ebbero uguale azione, ma meno dannosa, dell’ etilico. L° alcool isobutilico si mostrò più tossico di tutti gli alcoli adoperati, poichè le piantine ebbero uno sviluppo ancora più limitato di quelle trattate con | alcool etilico. L° alcool isoamilico manifestò un’ azione analoga, ma in misura minore. Le esperienze vennero troncate il 20 giugno sebbene le piantine fossero ancora rigogliose. Anche per gli alcoli, come per le amine (1), | azione diminuisce col crescere del numero degli atomi di carbonio nella catena normale, ad eccezione dell’ alcool metilico che, come la metilamina, si dimostrò il meno dannoso. La maggiore tossicità degli alcooli isobutilico ed isoamilico dipende probabilmente, come nel caso dell’ isoami- lamina in confronto con | amilamina normale, dalla presenza del metile in catena laterale nel radicale alcoolico. ALDEIDI. — Per l’ esperienza furono impiegati le aldeidi formica, acetica, pro- pionica allo stato di composti »bisolfitici in soluzioni alle concentrazioni corrispondenti al1%, di aldeide. L’ inaffiamento delle piantine, coltivate sul cotone in germinatoi di vetro, con dette soluzioni, incominciò dopo un periodo germinativo dall’ 11 al 18 giugno ; le piante di un germinatoio servirono da testimoni. In confronto ai campioni, quelle trattate con la formaldeide in una prima fase dell’ esperienza ebbero uno svi- luppo più rigoglioso; alla prova dell’ amido non mostrarono peraltro nulla di anor- male. Più avanti le piantine restarono indietro rispetto ai testimoni, e le foglie pre- sentavano una colorazione più cupa della normale. L’ azione tossica maggiore si ebbe anche quì col secondo termine della serie, 1° a/deide acetica, poichè le piantine ebbero uno sviluppo più lento e più limitato dei testimoni; le foglie presentavano fin da principio una colorazione più cupa della normale. L’ aldeide propionica si mostrò meno dannosa dell’ etilica, peraltro le piantine furono meno rigogliose dei testimoni ; anche quì le foglie avevano la solita colorazione più intensa. Il 18 luglio le piante furono gettate perchè in via di disseccamento. Se si confrontano le esperienze ora descritte con quelle degli anni scorsi relative agli effetti osservati con le amine e con gli acidi grassi (2) si nota che vi è una decrescente efficacia nell’ ordine delle seguenti formule : CH,NH; CH, - OH CHO COOH | | | | COHEN A Gre pe Galla 1 Cadint 01 amine alcooli aldeidi acidi per cui gli acidi sarebbero i meno tossici e le amine le più velenose. Con questi risultati sembrerebbe stare in accordo la resistenza di queste serie di composti all’ os- (1) Mem. XII, pag. 19. (2) Mem. XIII, pag. 65. 77 e sidazione enzimatica, perchè si sa che le amine e gli alcooli non si ossidano con la poltiglia di spinaci, mentre sembra che gli acidi superiori siano ricondotti ad infe- riori; le relative esperienze furono fatte sin’ ora con l’ acido butirrico e con 1’ iso- butirrico (1), e vanno estese ad altri termini; è da aspettarsi che le aldeidi in que- ste condizioni siano più resistenti dei rispettivi acidi ciò che bisognerà provare con l’ esperienza diretta (2). CaAETONI. — A differenza delle aldeidi sembra che i chetoni non esercitano alcuna azione sulle piantine di fagioli, almeno per quelli che furono impiegati: l’ acetone, il metiletilchetone, il cicloesanone e 1° o-metilcicloesanone. Questi, in soluzione all’ 1%, furono somministrati alle piantine, cresciute sul cotone idrofilo in germinatoi di vetro, dopo un periodo germinativo dal 4 al 14 giugno. Le piantine che ricevettero i diversi trattamenti non dimostrarono differenze apprezzabili rispetto ai testimoni ; soltanto quelle trattate col cicloesanone ebbero uno sviluppo meno completo. Il 31 luglio 1° espe- rienza dovette essere abbandonata perchè le piante erano disseccate. OSsIACIDI. — L'esperienza fu fatta per comparare |’ azione di alcuni ossiacidi con i rispettivi acidi non ossidrilati : quelli prescelti furono il glicolico, |’ etilidenlattico, in comparazione con l’ acelico ed il propionico, impiegando i rispettivi sali potassici / 00° La semina venne effettuata il 30 maggio in germinatoi di ferro zincato, e 1° 8 in soluzioni all’ 1 0, giugno si iniziò il trattamento delle piantine con le dette soluzioni. Anche in questa esperienza non si notarono nei diversi soggetti differenze apprezzabili. Il 9 luglio le piantine furono gettate perchè in via di disseccamento. ACIDI A DOPPIO LEGAME. — Queste prove furono eseguite per comparare l’ azione degli acidi a doppio legame con quella dei corrispondenti acidi saturi. Si adoperarono a talè scopo l’ acido oleico in confronto col stearico; gli acidi fumarico e maleico col succinico, si impiegarono come al solito le soluzioni all’ | VAI dei rispettivi sali potassici. L’ inaffiamento delle piantine cresciute in germinatoi di ferro zincato si incominciò dopo un periodo germinativo dal 1 all’ 11 giugno. Mentre |’ acido stearico, come era da prevedersi per 1° analogo contegno dell’ acido palmitico (3), non ebbe alcuna azione, | acido oleico produsse nelle piantine uno svi- luppo più limitato ed una colorazione più cupa delle foglie, e più tardi una maggiore tendenza al dissecameuto. Il 25 luglio i due gruppi di piantine furono gettati. Un effetto analogo dimostrarono gli acidi fumarico e maleico, e segnatamente il primo, in confronto con l° acido succinico, che come si sapeva non è dannoso. Le piante trattate con | acido fumarico furono gettate il 16 luglio, e quelle con Il’ acido maleico e succinico il 25 luglio, perchè erano giunte al disseccamento. i (1) Mem. XIII, pag. 65. . (2) Per l’aldeide acetica venne fatta una prova dalla quale risulterebbe che essa viene poco o punto intaccata per azione degli enzimi degli spinaci (Mem. X, pag. 85). (3) Mem. XIII, p. 59. i Serie VII. Tomo IX. 1921-1922. 8 SER (E In buon accordo con queste esperienze potrebbero stare alcuni fatti osservati l’anno scorso relativi all’ influenza dell’ idrogenazione sull’ effetto dei composti aromatici sulle piantine. Era stato visto a questo proposito che per esempio |’ acido tetraidrofialico e la teraidrochiuolina (1) sono più dannosi dei relativi composti non idrogenati; ove si rifletta che in‘questi casi il derivato tetraidrogenato contiene due doppi legami che in certo modo mancano all’ acido ftalico ed alla chinolina, la comparazione può essere sostenibile. Peraltro bisogna ricordare che la piridina è molto più dannosa della pipe- ridina e che questa azione si accentua nei loro derivati. Come si vede la questione non è ancora bene risolta e ci vorranno altre esperienze per condurla ad un fine. Abbiamo avuto più volte occasione di notare che le diverse varietà del fagiolo comune hanno un contegno un poco diverso rispetto alle sostanze da noi impiegate. Queste differenze si manifestano segnatamente con una maggiore o minore resistenza che può rendere alle volte tardive ed incerte le manifestazioni da osservarsi. Pur- iroppo è assai difficile a giudicare dall’ aspetto dei semi del modo di comportarsi delle piantine, ed è massime difficile prevedere se esse sono rampicanti, ciò che per diverse ragioni può riuscire incomodo ed inopportuno. Per cercare di evitare in seguito questi inconvenienti abbiamo voluto comparare il contegno rispetto all’azione ben nota e caratteristica della nicotina, di alcune qualità di fagioli, ed abbiamo trovato che anzitutto sono da eliminarsi quelli rampicanti e che i migliori sono quelli dai semi rossi. A questo proposito vogliamo far notare che con certi fagioli nani dai semi bianchi e molto resistenti all’ azione dei veleni, abbiamo osservato con la nicotina che le foglie semplici invece di cadere prima dell’ apparire di quelle composte; per- mangono duranie tutto il periodo della vegetazione, per cui le piantine presentano le prime foglie ornamentalmente macchiate e le seconde caratterisiicamente albicate. (1) Mem. XIII, pag. 58. IE ao lle nai Ron, i Di i Val x Lab DE = Figura 1 - Piantine testimoni. » » » SPIEGAZIONE DELLA 2 - Piantine innaffiate 3 - Piantine innaffiate 4 - Piantine innaffiate TAVOLA con xantina. con teobromina. con caffeina. Fig. 2 MODELLI ELETTRICI PER LO STUDIO DEL MOTO DELLE ACQUE FILTRANTI MEMORIA DEL Prof. UMBERTO PUPPINI letta nella Sessione del 28 Maggio 1922. l. - Un ammasso poroso contenente acqua in movimento risulta meccanicamente definito quando si faccia corrispondere in ogni momento ai punti dello spazio occupato dal sistema filtrante la funzione scalare a un sol valore che chiamiamo « carico pie- zometrico », somma della quota % di altezza del punto generico di coordinante «, y, = rispetto a un piano orizzontale di riferimento con l'altezza che in colonna d’acqua misura la pressione nell’intorno del punto (#, y, 2), altezza uguale alla pressione p divisa per ; 5 3 fe DERE) PR È ud il peso specifico & dell’acqua. Tale funzione $È = A + — è da ritenersi dipendente so- lamente da «, y, z, e non dalla variabile tempo, quando si considerino regimi perma- nenti di moto, cioè non varianti col passare del tempo. Ammessa, come la natura fisica del fatto della filtrazione richiede, la continuità e la derivabilità della funzione È, possiamo considerare la funzione I con la cl quale intendiamo in un punto generico (@, y, 3) la derivata del carico piezometrico eseguita normalmente alla superficie di ugual carico piezometrico che passa pel punto (2, y, #) (cioè nella direzione del moto di filtrazione nel punto (@, w, )) e in senso contrario al moto di filtrazione. Questa funzione, che si chiama « pendenza motrice », è da riguardarsi come un vettore, le cui componenti lungo gli assi coordinati sono JA d d ego 1° La portata che attraversa una piccola zona di superficie di ugual carico nell’ in- torno del punto (2, y, 2) ragguagliata ad unità di area, cioè la portata g per unità di superficie di ugual carico nell’ intorno del punto (x, 7, 5), è proporzionata, a sensi della legge sperimentale approssimata Darcy-Ritter, alla pendenza motrice, secondo un coefficiente scalare 4 di proporzionalità che chiamiamo coefficiente di filtrazione. Si ha, cioè, gui = —Uu —, con & funzione di &, y, 2 se il mezzo non sia omo- Serie VII. Tomo IX. 1921-1922. Chi CREO £ be) DI lirezione e lo stesso senso di i, e di componenti dI dC dl — IL ne qj= q-= À YA dg 4 Pag eneo. Anche g sarà pertanto un vettore, avente, essendo 4 scalare e positiva, la stessa ( Gdr == TU Il fatto, asseverato dall’ esperienza, della quasi assoluta incompressibilltà dell’acqua conferisce al vettore 9g carattere solenoidale ; si ha perciò dd, | ddy dI dr Du dy ar dz == (0) ‘2. - Si consideri ora un mezzo elettrico conduitore, per esempio un elettrolita, contenuto fra pareti coibenti. Nell’ elettrolita siano immersi degli elettrodi metallici, eventualmente a contatto colle pareti. E sugli elettrodi siano mantenuti dall’ esterno determinati valori di potenziale elettrico. Se tali valori di potenziali non sono tutti uguali fra di loro, l’ elettrolita diventa sede di un campo di corrente elettrica e in ogni punto di esso elettrolita assume un valore la funzione scalare « potenziale elet- trico ». Tale funzione sarà in generale dipendente dalle coordinate del punto generico e dal tempo. Essa dipenderà solamente dalle coordinate del punto, e non dal tempo, quando i potenziali mantenuti dall’ esterno sugli elettrodi siano costanti nel tempo e inoltre si provveda a che il flusso di corrente entro l’elettrolita non ne alteri la costi- tuzione e il grado di concentrazione. Chiamata É£ questa funzione « potenziale elettrico » e ammessane Ja continuità e la derivabilità, consideriamo la funzione a derivata del potenziale eseguita (0747 normalmente alla superficie equipotenziale pel punto generico (@, y, 3) e in senso con- trario al senso della corrente elettrica in esso punto. Questa funzione, caduta di poten- ziale per unità di lunghezza di linea di corrente, è da riguardarsi come un vettore, le dÙ dG dî cui componenti lungo gli assi coordinati sono — —, — —, dae dy da L’ intensità di corrente (quantità di elettricità passante nell’ unità di tempo) attraverso una piccola zona di superficie equipotenziale nell’ intorno del punto (2, y, =) raggua- gliata ad unità di area della zona, cioè |’ intensità g per unità di superficie equipo- tenziale nell’ intorno del punto (#, y, 3), è proporzionale alla caduta di potenziale per unità di lunghezza di linea di corrente, secondo un coefficiente scalare 4 di proporzio- nalità, che si chiama conduttività specifica dell’ elettrolita e che è costante con (2, y, 3) dî o è f co a se l’ elettrolita è omogeneo. La funzione q = lu sara pertanto un vettore propor- dn do. 1 zionale a — —, di componenti dn | dl dl dl Gg= TU nio === ="% 2-Z=—U_— Lao ida? dy e dy CÈ L da) Io ce vettore che soddisfa alla condizione di solenoidalità nel caso di permanenza del regime, e anche in caso di non permanenza, dato il piccolissimo valore della capacità elettro- statica del mezzo. 3. - Tutto ciò premesso, ben si vede che i due campi, quello di un sistema. fil- trante e quello di un sistema elettrolitico (o in genere di un mezzo che possegga con- ducibilità elettrica) hanno la medesima struttura geometrica, e quindi devono rispondere, anche nei singoli casi, alle stesse leogi formali. 4. - Così, ad esempio, si supponga un tubo a pareti impermeabili pieno di materiale filtrante e comunicante con due serbatoi presentanti nel loro pelo di acqua un disli- vello H. La portata @ del tubo è data in regime permanente da (1) Qe= roi TH) s in cui dL è l'elemento di lunghezza dell’asse del tubo, Q |’ area della sezione trasver- salo e w è il coefficiente di filtrazione, Q e u eventualmente variabili da sezione a sezione. L’ integrale al denominatore della (1) è esteso a tutta la lunghezza del tubo fra il serbatoio alimentatore e il serbatoio alimentato. Similmente si pensi un tubo a pareti coibenti pieno di una soluzione elettrolitica e chiuso alle due estremità da due pareti conduttrici mantenute dall’ esterno a una differenza costante 4 di potenziale. La intensità @ della corrente continua che sì sta- bilisce entro il tubo è data dalla stessa formula (1), nella quale si intenda per w la conduttività specifica dell’ elettrolita. 5. - Si consideri, per fare un altro esempio, un recipiente cilindrico di altezza « ad asse verticale e a sezione retta in forma di corona circolare di raggio esterno È e interno 7, recipiente delimitato da un coperchio e da un fondo orizzontali imper- meabili, mentre le due pareti cilindriche (I° interna e l’ esterna) siano permeabili all’acqua. Lo spazio compreso fra il coperchio, il fondo e le due pareti cilindriche sia pieno di un materiale filtrante omogeneo di coefficiente di permeabilità u. Attraverso alla parete cilindrica permeabile esterna il materiale filtrante sia alimentato di acqua. e esso alla sua volia attraverso alla parete permeabile interna alimenti di acqua il vano cilindrico (pozzo) centrale, e sia 4 il dislivello fra la quota piezometrica di alimen- tazione e quella di erogazione. In regime permanente la portata di tale filtro è data da A 2TuaH (2) onto 109, DO dove 7 è il rapporto fra circonterenza e diametro. Ebbene : se si pensa una struttura geometricamente fatta come la sopra descriita, nella quale fondo e coperchio siano pareti coibenti, al materiale permeabile all’acqua 2g pria sia sostituita una soluzione elettrolitica o in genere un mezzo conduttore omogeneo e alle pareti permeabili cilindriche siano sostituite due pareti conduttrici. mantenute a una differenza costante di potenziale 4, |’ intensità della corrente che fa capo al con- duttore cilindrico centrale è data dalla formula (2), in cui w rappresenti la conduttività specifica dell’ elettrolita o in genere del mezzo conduttore. 6. - Per le masse di acqua filtrante in pressione fu dimostrato un principio di reciprocità fra portate e quote piezometriche che si può enunciare dicendo: « Dato un « ammasso poroso imbevuto di acqua, di forma e di estensione qualunque, delimitato « in parte da superficie impermeabili, in parte da superficie permeabili comunicanti « con masse libere di acqua da cui l’ ammasso assorba acqua o a cui ne fornisca, se « si considerano due diversi sistemi di quote piezometriche « (IBRA ED Correo IC) < (0, & .. ), (0, 4... dI), « si ha la relazione n n» (3) OOO « cioè la somma dei prodotti delle portate di un sistema per le quote piezometriche « dell’altro è uguale alla somma dei prodotti delle portate di questo secondo sistema « per le quote piezometriche del primo ». Tale principio fu dedotto facendo solamente appello alla natura dei due vettori « pendenza motrice » e « portata » e alla legge di proporzionalità che li collega, = ut. Essendo la medesima la natura dei due vettori « caduta di potenziale per unità di lunghezza di corrente » e « intensità di corrente per unità di superficie equipotenziale » e la medesima la legge che li collega, qg = ui, deve essere valida in un campo elet- trolitico una legge di reciprocità formalmente identica a quella espressa dalla (3). Cioè avremo : « Data una soluzione elettrolitica (o in genere un mezzo che possegga conducibiltà « elettrica) delimitata in parte da superficie coibenti, in parte da » superficie condut- « trici, se si considerano due diversi sistemi di valori del potenziale su tali 7 super- « ficie e i due corrispondenti sistemi di intensità totali di correnti entranti e uscenti « per le superficie, sì ritrova che la somma dei prodotti delle intensità di corrente di < un sistema per i potenziali dell’altro è uguale alla somma dei prodotti delle intensità « di corrente di questo secondo sistema per i potenziali del primo ». Risulta così dimostrato per un mezzo elettrolitico (o in genere per uno spazio a tre dimensioni occupato da un mezzo non coibente) quello stesso principio di reciprocità che il Donati dimostrò nel 1899 riferendosi a una rete di fili conduttori. ER QUNi ie 7. - Ogni corollario che si trae dalla (3) nel caso delle acque filtranti deve trovare l suo riscontro nel campo dei mezzi elettrici conduttori. Così, in particolare, alla proprietà che si enuncia. colle parole « la depressione mi « piezometrica che una portata unitaria uscente da un punto di una massa di acqua « filtrante in pressione genera su un altro punto della massa è uguale alla depressione « che una portata unitaria uscente da questo secondo punto genera sul primo », fa riscontro la seguente proprietà: « la caduta di potenziale che una intensità unitaria « di corrente derivata da un punto di un liquido elettrolitico genera in un altro punto « del liquido è uguale alla caduta di potenziale che una intensità unitaria di corrente « derivata da questo secondo punto genera sul primo », Questa proprietà è stata da me recentemente verificata con un dispositivo. speri- mentale combinato in collaborazione con |’ ingegnere Vittorio Gori. 8. - Riconosciuta la formale identità fra un sistema filtrante in pressione e una soluzione elettrolitica 0 in genere un mezzo conduttore, ne segue che ad eventuali casì di moto di acque filtranti pei quali sia troppo arduo lo studio analitico, 0 troppo costoso il diretto studio sperimentale, possono portare luce esperienze eseguite sopra modelli elettrici, e in particolare sopra modelli elettrolitici, per operare su mezzi di scarsa con- ducibilità e perciò sotto certi riguardi di più facile sperimentazione. Dato un sistema filtrante omogeneo in pressione comunicante coll’ esterno per due superficie, una alimentatrice, l’altra assorbente, fra le quali sussista un dislivello piezo- metrico H, la portata @ (valore comune di alimentazione e di erogazione) in regime permanente è data da (4) 2 dove R è una funzione soltanto delle dimensioni e della forma del sistema filtrante. Supposto costruito un sistema elettrolitico identico al sistema filtrante per dimen- sioni, forma e collocamento delle superficie conduttrici elettricamente in comunicazione coll’ esterno, vale per questo sistema la formula (4), nella quale 4 rappresenti la dif- ferenza di potenziale fra le due superficie di entrata e di uscita della corrente, @ |’ in- tensità di essa corrente, — la resistenza elettrica del sistema in rapporto al collocamento u delle superficie conduttrici, w la conduttività specifica dell’ elettrolita. Ricavate a mezzo di esperienze, che possono eseguirsi col ponte di Wheatstone, le quantità — e u, se u cl ne deduce la £, la quale ha lo stesso valore nel caso elettrolitico, come nel caso di 2 moto delle acque filtranti. Se il modello eiettrolitico con cui si opera non ha le stesse dimensioni della strut- tura filtrante, ma, mantenendosi simile a questa, ha dimensioni lineari 7 volte più piccole, allora il valore della funzione £ ricavato sperimentalmente pel modello elet- irolitico è 7 volte più grande del valore corrispondente alla struttura filtrante : il valore sl Yor di R del caso elettrolitico deve pertanto essere diviso per # perchè si ottenga il valore di R conveniente al caso di filtrazione. lutto ciò, bene inteso, purchè siano le stesse le unità di lunghezza cui si riferiscono il coefficiente di permeabilità pel caso idraulico e la conduttività specifica pel caso elettrico. Se invece l’unità di lunghezza cui si rife- risce la conduttività specifica fosse # volte più piccola di quella cui si riferisce il coefficiente di permeabilità, il valore di # dedotto nel caso elettrico doyrebbe essere moltiplicato per # perchè si ottenga il valore di corrispondente al caso idraulico. Se la conduttività specifica fosse, ad esempio, riferita al centimetro e il coefficiente di permeabilità al metro, ma poi il modello elettrolitico fosse in iscala di uno a cento rispetto al caso idraulico, allora il valore numerico di & dedotto pel caso elettrico risulterebbe lo stesso da assumersi pel caso idraulico. LE CONDIZIONI DELL'AGRICOLTURA NEL MONTENEGRO AL PRINCIPIO DEL SECOLO 677 MEMORIA DET Prof. ANTONIO BALDACCI letta nella Sessione del 7 Maggio 1922. Il Montenegro si può paragonare sotto l’aspetto geologico e agrario al nostro Abruzzo. Tra il nostro Abruzzo.e la regione costituita dal Montenegro e dall’ Albania setten- tentrionale si notano, infatti, singolari analogie nel terreno, nell’ uomo, nel clima ; le relazioni fitogeografiche fra quei paesi sono intime. Quindi, sotto 1’ aspetto agrario, non vi può essere divergenza fra il Montenegro e |’ Italia centrale perchè si tratta di due paesi che hanno una fisionomia unica di ambiente. Il territorio del Montenegro si divide agrariamente in due zone, ossia : a) Zona occidentale o di altopiano, (adriatica o carsica o delle « doline ») caratterizzata dalle terre calcaree e brulle e dall’ estrema povertà di sorgenti e di corsi d’ acqua con deficienza di /wmnus, ma con ricchezza di terra rossa, scarsezza di formazioni forestali ‘e notevole sviluppo di macchie specialmente nelle « doline » ; b) Zona orientale o interna, alpestre, a terre scistose, ricche di sorgenti e di corsi d’ acqua, con abbondanza di Aumus e ricchezza di foreste. Queste note sono in gran parte del mio povero fratello Annibale (11 aprile 1880 — | 10 dicembre 1921). Egli le andò facendo nel Montenegro durante le nostre ultime campagne scientifiche del 1898, 1900, 1901, 1902 e 1903 e quelle che egli intraprese più tardi per proprio conto; esse sono ancora oggi di buona attualità, benchè siano passati circa quindici anni da quando vennero da lui ordi- nate e la guerra abbia cambiato faccia alle cose. Col desiderio che le fatiche del mio defunto fratello vedano la luce in questo momento grave per il Montenegro, per dimostrare il grande affetto che egli sentiva per il popolo di quel paese e per la sua giusta causa e nella speranza di portare un contributo alla soluzione dei problemi del dopoguerra della sventurata nazione montenegrina, non indugio oltre a dare alle stampe queste note cui fanno continuazione le « Osservazioni preliminari sulla Viticoltura monte- negrina » pubblicate da Annibale nel 1905 nel Bollettino Ufficiale del Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio. Mio fratello aveva pure cominciato a considerare i principali problemi zootecnici del Montenegro ed era un fervente apostolo dei caseifici nell'alta montagna. Egli stava finanziando l’ industria ittica del lago di Scutari che si sarebbe dovuta affidare d’ accordo col Governo di Cettigne a grandi intraprenditori italiani, quando venne colpito dalla malattia (1909) che doveva poi portarlo alla tomba. Aveva cominciato parimenti a studiare la soluzione delle bonifiche montenegrine in rap- porto alla questione della regolarizzazione della Bojana e del lago di Scutari in generale e sperava Serie VII. Tomo IX. 1921-1922. 9 Nell’ una e nell’ altra zona, ma assai più nella prima, si riscontrano frequenti i polje e le doline. I polje, come è noto, sono ampi bacini di antichi laghi prosciu- gatisi nell’ epoca quaternaria e colmati con terre rosse, fertilissime, o con argille. Le doline sono vallecole della stessa origine geologica dei polje, ma più ridotte e più numerose e diffuse ovunque dalla zona costiera alle montagne più alte. Queste formazioni costituiscono la base delle risorse agrarie in tutti i paesi del tipo carsico, fra i quali il Montenegro occupa uno dei posti più importanti. Senza i polje e le doline \ intera sua zona occidentale sarebbe avvolta nello squallore. Il Montenegro, ancora lungi dall’ essere un paese agricolo nel significato della parola, ha fatto, però, notevoli progressi in ogni ramo dal tempo della guerra che condusse al trattato di Berlino, allorchè cominciò ad aprirsi la via tanto agognata verso il mare e la civiltà. A queste aspirazioni concorsero, oltre alla volontà del Principe e del suo Governo, i bisogni intrinseci della popolazione in continuo aumento e quelli che si andavano formando per riflesso specialmente coi rivieraschi dalmati e coll’ Europa. Non v è dubbio che le condizioni politiche e sociali del Principato hanno enormemente migliorato in quest’ ultimo ventennio, dopo il trattato di Berlino, in confronto di quello che erano fino al principio della seconda metà del secolo scorso. Il Governo ha contribuito, provvedendo all’ organizzazione dei servizi pubblici, alla costruzione di strade, all’ amministrazione della giustizia, alla pubblicazione di un Codice moderno e via dicendo; venne anche istituito un Dipartimento per l’ Agricoltura che potrà fare opera assai proficua per il paese se la direzione verrà affidata a uomini competenti nell’ agricoltura, nella silvicoltura, nella zootecnia, nelle miniere. Il montenegrino è innanzi tutto pastore e poi agricoltore. Le abitudini patriarcali della tribù resistono al tempo e mentre non vorrebbero più essere che un ricordo lontano in coloro che vivono nei centri principali o sono emigrati, è indubbio che nell’ interno del paese, 1° antico pleme, ossia la trib o la fratellanza, ha le stesse radici di una volta e vive con le stesse consuetudini e gli stessi costumi degli avi lontani. Così che la pastorizia non può tramutarsi di punto in bianco nell’ agricoltura; questa è, * con ciò di poter favorire un principio di sana emigrazione nostra verso il Montenegro e l’ Albania settentrionale. Beninteso, a scanso di equivoci, molto si è venuto migliorando nel ventennio pre- sente. D’ altra parte, questo studio si riferisce al Montenegro fissato dal trattato di Berlino (1878) e non a quello attuale, che venne definito dal trattato di Bucarest (1913), nel quale la riechezza del suolo ha un’ importanza enormemente maggiore, specialmente sotto l’ aspetto forestale, minerario ed idrico. Mettendo la mia firma alle note di mio fratello su « Le condizioni dell’ agricoltura nel Mon- tenegro al principio del secolo », esprimo anche una volta la gratitudine senza limite che porterò sempre al mio compagno instancabile di lavoro su per le montagne del Montenegro, dell’ Albania e di Creta nei tempi belli della nostra vita. L’ illustre Prof. Francesco Todaro, di cui Annibale fu discepolo beneamato e che avevo pre- gato di rivedere le bozze dello studio in stampa, così si esprimeva in lett.: « In busta raccomandata Le invio le bozze che ho letto con vera devozione di amico, avendo sempre davanti gli occhi la imma- gine tanto cara e buona del suo Annibale. In tutto il lavoro ho visto — ammirato e commosso — la concezione robusta e la lucidissima esposizione ». — 87 — bi perciò, ben lungi dal presentare un qualsiasi sicuro movimento in avanti e molti anni saranno quindi ancora necessari prima che il progresso agrario giunga a conquistare tutte le campagne del Montenegro. Si può nondimeno sperare in bene quando nel Mon- tenegro sarà entrato e si sarà diffuso quell’ orgoglio agrario che la Serbia ha «saputo alimentare nel suo paese con la sua democrazia : invero, data la razza molto forte del Montenegro, è lecito sperare in buone previsioni. Certo, per arrivare a questo, bisogna che il montenegrino possa abbandonare le sue preoccupazioni militari, abbassandosi al livello della terra e prendere l’ aratro e la zappa in cambio delle armi; il Governo ha da volere questa trasformazione utile, anzi necessaria, dimostrando che 1 ordine che viene dall’ alto deve venire rispettato. Noi non vorremmo alcun cambiamento profondo nel popolo del Montenegro, ma poichè |’ amiamo e desideriamo il suo benessere eco- nomico, non possiamo transigere con la nostra opinione col convincimento che 1° evo- luzione graduale ne assicurerà la sua esistenza. Pastorizia e bestiame. La pastorizia costituisce la prima e più grande risorsa del paese e la maggior parte della popolazione, se si eccettua quella dei centri principali, dedica ancora all’ allevamento del bestiame quasi tutte le sue attività. Si può dire che ogni famiglia ha lo spirito dell’ allevamento, e ognuna, infatti, alleva greggi più o meno numerose di pecore e capre; più ristrettamente si dedica ai bovini, agli equini e ai maiali perchè questi richiedono maggiori cure che la popolazione non è ancora abituata a soppor- tare. In sostanza, il bestiame è relativamente abbondante. Una vecchia statistica com- parsa verso il 1895, dava 240 mila bovi e vacche, 10 mila cavalli, muli e asini ; 30 mila porci; 940 mila pecore e capre; 80 mila alveari. Le pecore appartengono a un tipo sorto verosimilmente sopra il fondo della razza siriaca, molto frequente nei paesi balcanici; esse sono buone galattogene e ricche di vello. Nelle montagne dei Vasojevici e nella regione di Kolashin si trova una razza per molti caratteri analoga alla « Blak faced » della Scozia. In generale, però, si tratta sempre di animali semiselvatici di media taglia, a prezzi oscillanti, secondo le stagioni e le condizioni sanitarie. Gli ovini costituiscono nel Montenegro il primo e più importante mezzo di guadagno e se ne esporta un numero rilevante in Francia; i compratori vanno a caricare interi bastimenti di mon- toni a Antivari quando si sia incettato il numero voluto di queste bestie che sono destinate principalmente al mercato di Parigi. Il secondo paese di esportazione degli ovini dal Montenegro è |’ Italia e le Puglie fanno nctevoli acquisti per conto loro. Per l’Austria, Cattaro e le Bocche fanno un consumo di parecchie migliaia di ovini all’ anno. I mercati principali degli ovini montenegrini sono Nikshic, Kolashin e Podgoritza. ‘Njegush è un centro di raccoglimento per preparare la famosa carne affumicata cono- sciuta col nome di castradina. I caprini non hanno nè razze, nè varietà speciali; essi appartengono al tipo comune dell’ Europa centrale ‘ed hanno dimensioni e peso medio. È FIERA Ta I bovini si riportano al tipo frumentino della steppa, che è quello più diffuso in tutta la penisola balcanica. Nel N. E. del Principato, dove la ricchezza dei pascoli e delle acque può far paragonare il paese a uno dei cantoni più ridenti della Svizzera, il tipe primitivo, in seguito a incroci, sembra aver dato origine a una razza uguale a quella del Pintzgauer, principalmente per i caratteri del mantello rosso-bruno con striscie bianche nel dorso che si estendono fino sui lombi. La statura dei bovini montenegrini oscilla fra m. 1,20 e m. 0,85; il peso varia da Kg. 300 (il massimo dei buoi grandi sopra i quattro anni) a Kg. 180 (manzi) e a 140 (vacche); il tipo montanaro dei Vasojevici è alquanto più sviluppato per le migliori condizioni di pascolo e di ambiente ‘in confronto al resto del Montenegro. I prezzi dei bovini variano secondo le annate; un bue di 300 Kg. può costare 125-150 franchi. Nelle famiglie un paio di buoi e anche un bue solo rappresenta un capitale. Il mercato principale dei bovini è Nikshic. Il cavallo del Montenegro appartiene a un tipo locale, incrociato col tipo albanese (albano-siriaco) 0 coi « ponies » della Dalmazia. Le sue dimensioni sono piuttosto piccole (m. 1,35 - m. 1,45), ma le attitudini che ha per il lavoro sono eccezionali. Il prezzo medio di un cavallo buono oscilla intorno a 100-125 franchi. Gli asini e i muli sono parimenti diffusi nel paese: fra i primi vanno ricordati quelli di Zubtzi nel Primorije; fra i secondi sono classici i muli della Katunska e principalmente quelli di Njegush. Il loro prezzo, proporzionato al prezzo dei cavalli, è assai conveniente. Il mercato principale degli equini è Podgoritza dove convengono anche gli acquisti diretti in Italia che si fanno nella Vecchia Serbia e che transitano per il Montenegro per la via di Gusinje e Rikavatz. Il maiale è quello comune, piccolo, di macchia e fornisce ottima carne della quale si fa nel Montenegro abbastanza largo consumo nei centri e nelle solennità. Il commercio degli animali domestici va continuamente rifiorendo nel Montenegro. La produzione si è notevolmente sviluppata in questi ultimi tempi e l’ esportazione, che aumenta sempre più, è fonte di guadagni e di benessere per tutto il paese. In vista degli affari, il Principato non dovrebbe indugiare a intensificare 1’ allevamento in ogni parte dove asso sia possibile, pensando sopratutto all’ allevamento bovino, equino e suino, con mezzi razionali e sicuri, formando una società nazionale per 1° al levamento e impiantando stazioni di monta nella Zeta, nel Lim, nella Bojana, nel piano di Nikshic e dove l° opportunità si presenti e gli affari si possone sviluppare per il bene del popolo. i Da parte sua, 1’ Italia dovrebbe estendere sempre più l’ importazione di bestiame dal Montenegro; il nostro paese può diventare il principale compratore degli animali domestici del Montenegro, non essendo ora superato che dalla Francia per gli ovini, e ciò pure in determinate annate, quando il mercato francese è scarso o il consumo si prevede grande. L’ Italia, particolarmente con Roma, ha bisogno sensibile di montoni de eg Ei e di ovini in genere e potrebbe con vantaggio proprio e del Montenegro prendere il posto della Francia in questo commercio. I piccoli cavalli illirici sono di moda in Italia. Quelli che si acquistano come montenegrini, provengono dalla Vecchia Serbia o dall’ Albania e di montenegrino hanno solo il nome e il transito per il Principato dalla frontiera turca a Podgoritza, Njegush e Grahovo, donde scendono a Cattaro e Risano per essere imbarcati per 1’ Italia. Questi cavalli rappresentano generalmente gli scarti rifiutati dagli incettatori austriaci e greci; nonostante nelle nostre fiere della Capitanata, del Friuli, della valle del Po, dove vengono in numerose mandre, si comprano a prezzi bassissimi individui, ì quali, pure, con i loro difetti e la piccola statura, sono adattissimi per il piccolo commercio. Ciò torna bensì a danno della riputazione dei cavalli illirici e special- mente dei montenegrini che difficilmente figurano in queste nostre fiere, perchè I Au- stria li incetta quasi nella totalità per i bisogni dell’ esercito, ma siccome è noto che fra i cavalli del versante dell’ Adriatico si trovano i tipi più belli dell’ Europa meridionale ottenuti con 1’ incrocio arabo, il Montenegro avrebbe il modo di dare all’ Italia magnifici prodotti soltanto che o per opera di Governo o per opera di alle- vatori, sì pensasse ad aumentare la produzione equina nel paese. IL’ allevamento del bestiame si fa sempre con sistemi empirici. Finora, il monte- negrino non ha mai avuto lo scopo di migliorare la razza, ma di accrescere il numero degli individui con la minore spesa possibile d’ accordo coll’ indifferenza patriarcale che governa tutte le sue abitudini all’ infuori di quella delle armi. Libertà in cam- pagna e pochissime cure in casa costituiscono il fondamento dell’ allevamento del bestiame nel Montenegro. La transumanza è la principale occupazione del pastore ed ha rapporti con la più lontana antichità, essendosi tramandate di generazione in generazione tutte le con- suetudini per l’ alpeggio. I montenegrini della regione Nord-orientale sono i più attaccati all’ alpeggio, e ciò perchè possiedono interi gruppi di montagne ricche che apparten- gono da tempi remoti alle loro fratellanze. In generale, i villaggi che si dedicano alla transumanza, passano metà dell’ anno, da ottobre a marzo, nella loro sede stabile, e l’altra metà, ossia quella adatta per l’ alpeggio, nelle capanne (katuni) a sede temporanea. Le capanne di montagna sorgono in luoghi determinati dove si trovi |’ acqua e 1 pascoli siano abbondanti. Si può dire che ogni villaggio del Montenegro Nord-orientale ha sulle alte montagne un altro villaggio per 1’ alpeggio. Si tratta di villaggi formati di capanne di varia forma e grandezza, per lo più costruite con muri a secco e rico- perte di tavole ricavate con metodi primitivi da grossi tronchi di faggio e di abete. Le capanne a planimetria rettangolare hanno le pareti formate con tavoloni, invece che con muri a secco; ma il tipo più frequente è quello coi muri a secco dell’ altezza di m. 1,50. Queste due forme di abitazione temporanea sono comuni nei Kuci, in una parte dei Piperi, nel Moracko Gradishte, nei Rovtzi, in Piva, nei Jezera e altrove. Nei Vasojevici, nel distretto di Kolashin ed altrove le capanne sono fatte a cono e ricoperte CORE Ta fp fer aet con fasci di paglia di segale. Le greggi sono trattenute presso ogni capanna in recinti speciali difesi da siepi di rami. Tanto in montagna quanto nei villaggi la mungitura si fa due volte al giorno, ossia al mattino, innanzi di andare al pascolo, e la sera, al ritorno dal pascolo. Quasi tutto il latte viene adoperato per la fabbricazione del formaggio; poco se ne adopera per avere panna € formaggio acido per il consumo della famiglia. La preparazione del formaggio si fa col seguente procedimento. Si mescola a pia- cimento latte di pecora, di capra e di vacca, e si filtra, poi si mette in recipienti cilindrici di metallo o di legno con una certa quantità di caglio. Il latte coagulato ‘ si lascia in quiete fino al giorno dopo, quando la parte solida viene isolata e messa in forti sacchetti di tela dove viene passata per farne uscire il siero che vi fosse rimasto. Alcuni giorni dopo questo formaggio si toglie dai sacchetti di tela e si mette in otri di pelle, oppure in tinozze, munite di coperchio mobile, badando di eom- primerlo fortemente. La panna viene ottenuta con gli stessi metodi in uso da noi. Nelle vicinanze dei centri principali si prepara anche qualche po’ di burro, che si ottiene dalla miscela delle diverse qualità di latte; esso è poco gradevole all’ olfatto specialmente per l’ odore caratteristico che emana dal latte degli ovini. Quando i pastori ritornano dalle montagne, il formaggio viene venduto sui mercati del Montenegro e della Dalmazia. Nella Katunska e principalmente a Njegush e nei villaggi vicini si va svilup- pando come da noi l’ industria del formaggio e già si ottengono tipi discreti che incontrano il gusto dei consumatori meridionali, la qual cosa dà a sperare che in seguito possa svegliarsi anche nel Montenegro la vera industria casearia, come hanno fatto la Bulgaria e la Serbia, e ciò con | impianto di molti caseifici nelle regioni più proprie. Queste regioni sono: a) l’ alto paese dei Drobnjatzi (Zabljak); 0) la Sinjavina; c) la Lukavitza; d) zarine sotto il Kom; e) il paese dei Vasojevici; 7) quello di Kolashin. L’ industria del formaggio trasformerà da cima a fondo | economia della montagna montenegrina e perciò occorrono coraggio e iniziativa e sopratutto fiducia nella circolazione e nell’ impiego del denaro, togliendolo all’ usura e al risparmio sterile. Un grande cespite di guadagno della pastorizia è dato dalla lana. La tosatura degli ovini si fa una volta all’ anno, in due epoche differenti, secondo le condizioni climatiche in rapporto a quelle topografiche del paese. Le pecore ariane danno in media Kg. 1-1,50 di lana, quelle « Blak-faced » arrivano fino a Kg. 2 per indi- viduo. Il prezzo medio della lana varia da L. 1,20 a L. 2,10 loka (Kg. 1,500) secondo la stagione e la qualità della lana; la lana di agnello può arrivare fino a L. 2,70 l’ oka. Essa si esporta quasi tutta a Trieste donde entra liberamente in Italia come quella austriaca e ungherese, evitando in tal modo la proibizione sanitaria italiana. SE], aio Prati. Il montenegrino non conosce ancora i prati artificiali. Soltanto nella Zeta, nella Katunska, nella Tzermnitza, nel Primorije si è introdotta qua e là la coltivazione del- l’ erba medica, ma in proporzioni minime. Nella Zeta, che si può dire la Toscana del Montenegro, si vedono anche piccoli appezzamenti a lupinella. Il prodotto di queste due leguminose è tuttavia scadente e scarso a cagione del terreno fortemente argil- loso che non conosce concime. Quindi i prati sono nel Montenegro quasi tutti naturali. Nella zona di altopiano si ha un solo raccolto di foraggio che viene fatto alla fine di maggio ; nelle mon- tagne, questo stesso raccolto si fa in giugno o in luglio e anche più tardi, a seconda dell’ altitudine. Il raccolto nelle annate favorevoli varia da 15 a 20 quintali di fieno per ettaro, ma si può calcolare in una media di 12-14 quintali. Questo prodotto non ha prezzo, servendo tutto ai proprietari per i bisogni delle loro greggi, specialmente d’ inverno. I foraggi montenegrini hanno un valore alimentare molto elevato perchè costituiti prevalentemente di graminacee, leguminose e labiate. Specialmente i prati del Nord e del Nord-Est non hanno nulla da invidiare ai migliori delle nostre Alpi ed anche i pascoli della parte pìù arida del Montenegro, presentando tutti i caratteri dei pascoli simili più ricchi dell’ Europa meridionale, sono ottimi. Appena falciato, il foraggio viene seccato come da noi, poscia abbicato in masse cilindriche nella parte inferiore e coniche nella parte superiore, indi si copre con un grosso strato di grandi erbe secche per ripararlo dalle acque piovane e dalle nevi, le quali danneggerebbero il prodotto se penetrassero nel cumulo. Durante 1’ inverno, il foraggio viene somministrato al bestiame insieme al vinciglio ricavato dalla quercia e dal frassino. Nonostante la ricchezza di fieno, non sono rare le annate in cui il montenegrino è costretto a comperare foraggio in Albania, non essendovi tornaconto, dalle alte montagne dell’ interno, a favorire le provincie più povere, come, per esempio, quella occidentale di altopiano. Il fieno acquistato viene da Durazzo e dal Zadrima per la via del lago di Scutari. Foreste. Le foreste dell’ alta montagna del Montenegro stabilito nei confini del trattato di Berlino (1878) rappresentano un patrimonio veramente notevole. Certo, esse sono andate perdendo per il disboscamento irrazionale e inconsulto in voga per fare posto alle colture di segale e di patate, i cui prodotti, discreti nei primi anni (finchè, cioè, vi sia sufficiente provvista di Aumus), diventano gradatamente così scarsi da costrin- gere all’ abbandono della coltivazione per utilizzare i prodotti del pascolo che vengono a formarsi. Le provincie del Primorije, della "zermnitza, della Katunska, Rijecka, Lije- IGOR sanska, Zeta e in generale di tutto il vecchio Montenegro hanno poche aree forestali nel vero senso della parola, essendo ormai ridotte a quelle del Lovcen, Verhsuta, Rumija, Garac, della Bijelagora, dell’ Orien dove esistevano a memoria d’ uomo grandi boschi di faggio, quercia, frassino commisti a conifere. La vicinanza dei centri come Cettigne, Danilovgrad, Cattaro, Risano e via dicendo è stata la morte di quei boschi, sì che, tra pochi anni, anche le aree oggi coperte diventeranno nude e scopriranno la roccia come nel resto del paese. Il Montenegro del 1878 può distinguersi sotto 1 aspetto forestale in due grandi zone: una marittima e di altopiano assai povera di boschi; l’altra interna e alpestre, vestita di magnifiche foreste anche vergini e sfruttabili con grande vantaggio quando si avranno le strade necessarie. Si hanno quindi nel paese piccoli boschi cedui, a capitozza bassa e alta, diffusi nella prima zona che corrisponde al vecchio Montenegro, come era prima del trattato di Berlino e foresle propriamente dette di conifere e di cupulifere nella regione che si innalza a oriente della Zeta e continua a Nord nella provincia di Nikshic (Nikshicka Zupa) sino alla Piva e ai Jezera, in tutta la regione dominata dal Durmitor, dal Moracko Gradishte, dal Kom, dalla Bijelasitza, dal Zijovo ed è delimitata dal pro- fondo « canon » della lara e dalla valle del Lim, Questa zona forma la parte centrale della grande area forestale della Balcania occidentale, che ha i due estremi nella Bosnia e nell’ Albania. i Nel Montenegro non si è ancora pensato seriamente allo sfruttamento delle foreste perchè non fu mai possibile conciliare le pretese dello Stato, dei comuni o dei pri- vati cui le foreste appartengono, con le esigenze del capitale. Il Montenegro possiede con.queste foreste tesori di valore incalcolabile. Ma sta il fatto che le foreste monte- negrine rappresentano una ricchezza non calcolata e lo Stato non sa ancora oggi il valore di. ciò che costituirà una parte ragguardevole del suo avvenire economico. Bisogna sperare, però, che un giorno siano possibili gli affari perchè mentre in alto si hanno grandi estensioni di aghiformi e faggete, nella regione di altopiano alli- gna la quercia con noci, sorbi, peri, castagni, frassini e via dicendo in abbondanza notevole. Le specie a foglie persistenti sono in minor numero di quelle a foglie cadu- che, alle quali, perciò, e specialmente alla quercia, resta il primo posto nel valore di sfruttamento. Frutticoltura e arboricoltura. La coltivazione delle piante da frutto è trascurata nella maggior parte del paese, mentre nei Vasojevici dà luogo ad una vera industria. Quella tribù, in confronto delle altre del Montenegro, è assai esperta nell’ arte della coltivazione delle piante frutti- fere, la quale è tenuta in onore presso tutte le popolazioni finitime e affini del san- giaccato di Novi Bazar, della Serbia e dell’ alta Albania verso la Metoja. Nei distretti dei Vasojevici, della Moraca, di Kolashin si coltivano su scala abba- stanza vasta peri, meli e susini per distillarne il prodotto. Le frutta che non vengono Pes) NSOE a vendute sui mercati per uso alimentare servono alla distillazione dell’ acquavite o « raki » o « slivovitza » principalmente per consumo locale, come è regola, del resto, in tutta la sezione danubiana della penisola balcanica e particolarmente nella Serbia e nella Bosnia. Le migliori « raki » del Montenegro sono quelle di susine dei Vasoje- vici e di visciole del Primorije. Impianti di frutteti moderni mancano completamente. Le piante fruttifere si met- tono un po’ dappertutto negli orti, nelle vigne, intorno: alle case; assai meno nei campi. In generale si usa innestare piante selvatiche, lasciandole nello stesso luogo dove sono nate; il pero, il melo e il ciliegio selvatici sono le specie più indicate per 1° innesto. L’ innesto è conosciuto un po’ dappertutto, ma in taluni luoghi non si usa. Fra i sistemi più noti, si praticano quelli a spacco e a corona; in qualche caso raro sì usa l’ innesto a occhio. Il Primorije, la Tzermnitza, la Rijecka nahija sono i territori dove l’ innesto è tenuto in onore e viene anche fatto più razionalmente. La potatura, verde o secca, non si fa nelle piante ad alto fusto; nelle piante basse si usa la potatura verde durante la prima decade di giugno e quella secca nel- l’ inverno durante le belle giornate. a) Ulivo. Durante il dominio di Venezia vennero promulgate talune le®gi che resero obbligatorie in alcuni paesi, principalmente presso le città di una certa importanza commerciale e militare, le coltivazioni di piante speciali, fra le quali l’ ulivo teneva il primo posto. Ciò spiega la diffusione che ha questa pianta nei paesi costieri dell’ Adriatico orientale e dell’ Jonio, come a Prevesa, Vallona, Parga, Cruja nell’ Albania, a Dulci- gno e ad Antivari nel Montenegro e in tutta la Dalmazia e la Grecia. Oltre la metà degli ulivi colà esistenti risalgono al tempo della Serenissima. Nel Primorije montenegrino, 1° ulivo è molto diffuso nella zona di Antivari e Dul- cigno, presso le due città, sopra un raggio di 4 chilometri, fino agli ultimi lembi delle colline. Questa pianta non venne mai coltivata nei terreni alluvionali che for- mano la pianura di Antivari, ad eccezione di qualche albero isolato che tuttavia resiste in ottime condizioni. La legge veneta non ebbe effetto oltre la cerchia virtuale dei dintorni delle città; al di Jà del territorio cittadino, l° ulivo diviene scarso e non si incontra che a mac- chie isolate presso quei villaegi che imitarono le città per questa coltura. L’ ulivo non venne piantato in filari che assai di rado. Gli alberi risultano, perciò, così vicini gli uni agli altri che le loro folte, robuste e non mai potate chiome si intrecciano insieme con grave danno della produzione. La zappatura e la concimazione del terreno dell’ uliveto sono operazioni completa- mente o quasi trascurate, come la potatura. Con la coltura più attenta Antivari e Dulci- gno potrebbero dare una produzione di olio quadrupla di quella che danno attualmente. Finora il montenegrino non ha adottato sistemi razionali nè per la raccolta delle olive, nè per l’ estrazione dell’ olio. Appena le olive cominciano a maturare e quindi a cadere dall’ albero, vengono raccolte. Data la lentezza con la quale si procede in Serie VII. Tomo IX. 1921-1922, 10 o — questa operazione, una notevole quantità del frutto va perduta o deperisce, e perciò, mescolandosi insieme le olive buone e le cattive si ottiene olio di qualità mediocre, quando non è cattiva. Il raccolto si protrae qualche volta fino alla metà di aprile, ma di ordinario si arresta in marzo. Quando 1° inverno è rigido si ha la credenza che la mosca olearia, così diffusa e dannosa anche nel Montenegro, lasci appena qualche traccia della sua esistenza ; certo è che nelle annate in cui l’ inverno fu secco e freddo, si ebbero pro- dotti abbondanti. I calcoli recenti portano a più di 50 mila gli ulivi coltivati nel Primorije mon- tenegrino, tra Antivari e Dulcigno; questi ulivi danno, secondo statistiche accreditate, non meno di 5-6 mila quintali di olio. Anche nella zermnitza, nella Rijecka nahija, nella Lijesanska, nella Zeta, nei Bijelopavlici si trova un certo numero di ulivi, ma non si è mai pensato di farne una coltivazione seria perchè i venti freddi, forti e asciutti che spirano durante |’ inverno, specialmente nella Zeta e nei Bijelopavlici, sono di grave nocumento allo sviluppo della pianta. Tuttavia, nelle conche riparate della zona mediterranea interna, l’ ulivo: può resistere assai bene ed è perciò consi- gliabile favorirne la coltura. A questo riguardo possono essere istruttivi i tentativi della Lijesanska, dei villaggi intorno a Danilovgrad, sulla destra e sulla sinistra della Zeta e di tutti i distretti su ricordati, compresi i Kuci meridionali. b) Vite (1). La vite è distribuita, press’ a poco, nelle stesse regioni dell’ ulivo, ma sporadica- mente si trova anche in molte località fuori della zona mediterranea e ad altezze sensibili, come a Njegush. La coltura di questa pianta va progredendo ogni anno, pur mantenendosi in gene- rale piuttosto primitiva ; il sistema più in uso di allevamento è quello ad alberello ; vengono dopo le colture alla Guyot e al Parà. Il popolo montenegrino comprenderà un giorno i vantaggi che può arrecare la coltura della vite non solo per il vino così utile all’ uomo, ma per lo sviluppo che con la viticoltura potrà prendere 1’ agricoltura in genere nel suo paese, il quale, come prima fase nella sua evoluzione, non può sperare che di -ricavare dalla terra i migliori risul- tati possibili. Sono specialmente le popolazioni della Tzermnitza, del Primorije e della Zeta quelle che debbono risolutamente darsi alla viticultura per concorrere con le altre risorse dell’ agricoltura a fare ricco il paese. c) Susino. Gli alberi di susino nei Vasojevici sono piantati in generale alla distanza di 6 metri l’ uno dall’ altro in buche di un metro cubo e concimati talvolta con letame (1) Annibale Baldacci: Osservazioni preliminari sulla Viticoltura montenegrina, in Bollet- tino Ufficiale del Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio, 1905. Per non fare inutili ripe- tizioni, si rimanda il lettore a questo studio per quanto riguarda la vite. TEA DI , pecorino. È raro lo scasso per filari. Le piante vengono poi allevate a mezzo fusto e danno prodotti huoni ogni due anni. Di mano in mano che il frutto, maturando, viene sbattuto o cade dall’ albero, è raccolto e messo in grandi recipienti della forma e dimensione di tini comuni, che si mantengono sempre coperti. Dopo un certo tempo, cioè quando il vaso è pieno, si pro- cede alla distillazione mediante i lambicchi primitivi ancora in uso in ogni parte del paese. Il prodotto della distillazione viene portato in appositi bacini e poscia travasato nelle botti. L’ acquavite ricavata da queste distillazioni arriva fino a 44% di alcool e passa in commercio senza ulteriori trattamenti. Essa costituisce la famosa « raki ». La produzione dell’ acquavite nelle annate in cui il prodotto è abbondante, si può calcolare per tutto il paese di 4-5 mila ettolitri. Essa viene consumata dalla popola- zione locale. L’ acquavite è il vino della montagna, dell’ uso comune, delle solennità. Il prezzo medio dell’ acquavite di susina oscilla intorno a 150 franchi il quintale, d) Melo. Il melo si trova allo stato selvatico abbastanza diffuso nel Montenegro dalla zona marittima alla montana. Vi è tendenza all’ innesto. Allo stato coltivato, esso si trova abbondante nella zona orientale e i Vasojevici hanno una predilezione per questo albero come per il susino. Invero, comincia in quella regione la zona dove si inten- sificano le colture dei frutti e che specialmente per il melo e il susino non hanno nulla da invidiare a quelle della Metoja e della Serbia. Nel Montenegro non si hanno che le varietà comuni del melo, ossia quelle ad albero, tanto dolci che acidule. Il raccolfo del frutto si fa sbattendo i rami. Il pro- dotto si vende come frutta o viene destinato alla fabbricazione del sidro. e) Pero. Questo frutto è coltivato in quasi tutto il Montenegro e particolarmente in grande quantità nei Vasojevici, nel Moracko Gradishte e nel distretto di Kolashin. Il sistema di coltivazione più in uso è quello ad alto fusto. Le varietà nane di pero non sono ancora conosciute. Nel Primorije si usano molto gli innesti sul Pirus amygdaliformnis e altre specie selvatiche. Nel pero non si eseguisce nè la potatura verde, nè quella secca. Ogni due anni si ha un prodotto abbondante destinato per la metà alla distillazione; il resto che non si consuma in famiglia, viene venduto come frutta sui principali mercati. La rac- colta del frutto si fa sbattendo i rami. f) Ciliegio. Questo albero, di cui si conoscono nel Montenegro soltanto le qualità comuni, è tenuto quasi allo stato selvatico nei boschi e lungo le strade, innestato sui Mahaleb; più scarsamente si vede coltivato nei campi. Il frutto viene spesso raccolto sbattendo i rami, e da ciò si può comprendere in quale stato debbano trovarsi le ciliegie sui mercati di vendita. Si comprende altresì come questo metodo barbarico di raccolta Sat O gore debba forzatamente condurre alla produzione biennale, in quanto che una grande quan- tità di ramoscelli e brachiblasti che portano le gemme fiorali, viene seriamente dan- neggiata durante la raccolta. Le varietà più comuni sono la ciliegia mora, la dura- cina, la visciola, la marasca; rara è la corniola. L’ epoca di maturazione di queste varietà si protrae dal giugno molto inoltrato alla terza decade di agosto. 4g) Mandorlo. E l’ albero che si vede più frequentemente nel Primorije dove va prendendo un certo sviluppo, essendo facile la sua coltivazione. Le varietà più comuni, dolci, danno un prodotto sempre notevole che si consuma nel paese. h) Pesco. Il pesco è comune nel vecchio Montenegro come nella Zeta e nel Primorije, Se ne hanno moltissime varietà che sarebbe qui inutile classificare. Vi sono varietà precoci che portano a maturazione il frutto alla fine di maggio e nella prima decade di giu- gno e altre che maturano durante il resto dell’ estate fino alla fine di settembre. Queste ultime sono varietà a frutti molto dolci e abbastanza grossi. Anche nel Montenegro, benchè il clima sia in generale assai asciutto, il pesco va soggetto alla gommosi ed è di vita breve. i) Pico. Tra gli alberi da frutta più prediletti per il loro prodotto ricercato e che trova facile smercio sui mercati, è il fico. Non vi è famiglia che abbia casa e' terreno nella zona mediterranea del Montenegro e specialmente nel Primorije, la quale non coltivi il fico. Di questa specie sono sconosciute, peraltro, come di tutte le precedenti, le varietà moderne, avendosi soltanto quella a grandi alberi e a grandi foglie. Sono, quindi, in numero ristretto eziandìo le varietà dei frutti che si ricavano in paese. La fruttificazione ha principio in giugno e termina in ottobre. Dal fico sì distilla anche 1° acquavite clie nelle raccolte favorevoli arriva a dare una media di 44-45 % di alcool. 1) Gelso. Il gelso è tenuto in grande considerazione, non tanto per |’ allevamento del baco oggi assai in disuso, quanto per il suo frutto dal quale si ottiene una pregiata acquavite che si estrae col tipo dei lambicchi per le susine. Im generale le varietà montenegrine interessano per la bellezza degli alberi e quantità dei frutti che arrivano a dare, più che per lo sviluppo e forza nutritiva delle foglie. Le varietà a frutti neri sono indi- cate come rustiche in confronto delle bianche e resistono meglio nelle condizioni meno favorevoli di clima e di terreno. I giovani gelsi non vengono sfrondati finchè non abbiano raggiunto il sesto anno di età. î La coltura dei gelsi si fa intorno alle case o per alberi isolati o per gruppi; si usano anche piantare presso le sorgenti, qua e là lungo le vie, all’ entrata dei villaggi. Ca Rizzo m) Melograno. Il melograno è spontaneo nel Primorije, nella Tzermnitza, nella Zeta, nella Rijecka, nella Lijesanska, nei Bijelopavlici, nei Kuci e altrove, ma la varietà più rinomata è quella del Primorije che dà frutti eccellenti e assai grossi, da 8-10-12 cm. di dia- metro, anche quando le piante vivono in terreno incolto. Le giovani piante di melo- grano si piantano in piccole buche appena sufficienti a contenere le radici. Molte volte si allevano nel terreno nel quale sono nate spontaneamente. n) Nocciuolo. Quest’ alberello è rappresentato da due specie, ossia dall’avellana comune (Corylus Avellana) e dalla colurna (Corylus Colurna), la quale è piuttosto rara in confronto della prima. Il territorio dei Vasojevici e dell’ alta Moracia ha le più belle varietà di avellana che arrìvano a dare un frutto anche di 1 A cm. di diametro. o) Noce. Si fa la coltivazione del noce un po’ dappertutto, dalla zona mediterranea calda a quella submontana, ma non è così frequente come sarebbe desiderabile. Il noce si coltiva per il frutto e meno per il legno. Altri alberi da frutta che s’ incontrano qua e là nel Montenegro sono ] il cotogno, il sorbo, il nespolo, il lazzeruolo, il castagno. Si può fare il voto che col 9 albicocco, clima meridionale del Primorije e col substrato calcareo che caratterizza 1° intera regione marittima tra Antivari e Dulcigno, la frutticoltura possa prendere il più largo sviluppo, come è avvenuto nei Vasojevici, a beneficio della popolazione, potendo il Primorije dare le frutta più prelibate e primaticcie di qualsiasi altra parte dell’ A- driatico. Coltivazione delle piante erbacee. La mancanza di una guida anche rudimentale nella successione delle diverse colture è la causa prima del disagio economico agrario del paese. Im alcune parti non si può rintracciare o ricostruire rotazione di sorta. In altre vige il maggese primitivo, in altre ancora, e precisamente nelle zone più evolute, è in uso una rotazione senza regola che viene ogni anno più impoverendo gli splendidi e fertili terreni dei polje delle doline. A ciò si devono aggiungere i metodi irrazionali di concimazione dovuti più all’ igno- ranza che alla mancanza di capitali. Di leggeri si comprende con questa premessa poco lusinghiera che se non verrà posto dal Governo un argine al sistema usuale di cose, fra pochi anni il Montenegro potrà venirsi a trovare in condizioni molto tristi di vita agricola, dovute all’ esaurimento completo del terreno agrario per le coltivazioni inten sive che si fanno in talune località, onde alimentare la popolazione in aumento e sempre più esigente. Le due rotazioni più razionali che si riscontrano specialmente nel Primorije e nei Bijelopavlici sono le seguenti : 1° anno . . . granturco. 1° anno . . . patate o granturco. DOD US o LIA, CM AEM SIONO: DE Do RD O i III, ADI oto e CARINO AM Orzo gORaVEeng) OO A POSOE DO RT POSO) Quando si hanno i mezzi di farlo, si concima, ma unicamente a base di stallatico, oppure colla stabbiatura degli ovini. Non si conoscono i concimi chimici sebbene si possa prevedere che fra qualche anno, specialmente se lo Stato prenderà qualche ini- ziativa, sarannol argamente usati in ogni parte. È sperabile che i giacimenti di fosforiti della Zeta sui quali il Governo non si è mai chiaramente pronunciato, sebbene si sappia che i risultati delle analisi ordinate all’ estero sono favorevoli, vengano sfruttati in un giorno non Jontano. La popolazione in ogni modo sente che si devono abbandonare i vecchi sistemi per non trovarsi in difficoltà amare, quasi irreparabili e ad ogni modo sempre dannose. L’ agricoltura che si è finora mantenuta abbastanza prospera, vuole appoggiarsi ai criteri dei nuovi tempi e cogli avvicendamenti e coi concimi esige 1 introduzione di strumenti agricoli moderni, il prosciugamento di terreni dove le necessità si impon- gono (come nel bacino del lago di Scutari e nella pianura della Bojana), |’ irrigazione del suolo, le associazioni agricole e via dicendo. Sopratutto pretende che pur rispet- tando la vecchia zappa montenegrina tanto pratica nei terreni sciolti, sia allontanato per sempre l’ aratro arcaico a chiodo che rimane una provocazione e un insulto per ì tempi nuovi. A) Cereali. a) Mais. Il mais è il cereale che si coltiva più di qualunque altro, tranne nei paesi molto alti, dove per difetto di calore non potrebbe aversi prodotto maturo nemmeno con ie varietà a ciclo vegetativo più breve. Questa pianta raggiunge peraltro nel Montenegro notevoli altezze sopra il livello del mare a Poprat nei Zatrijebac (8-900 m.), nella valle della Verusha (7-800 m.), a Strapce (1000 m.), Jevici da 400 a 1000 m., nel piano di Kolashin (900 m.), sotto il Lovcen 1100 m.), nella Bijelagora (1100 m.) e via dicendo, però sempre sotto i 1200 metri, trovandosi quasi in ogni parte dei Vaso- le altezze massime in vicinanza del mare e sotto 1’ influenza più diretta dei venti di N. e di N. O. È da osservarsi, comunque, che nelle alte località queste coltivazioni di mais, le quali non possono appartenere che a varietà quarantine, vanno spesso soggette a brinate tardive e quindi a danni gravissimi che talvolta determinano perdita dell’ intero prodotto. La maggior parte della popolazione si nutre quasi esclusivamente di mais all’ in- fuori che nei: distretti più meridionali del paese e perciò il montenegrino coltiva questa pianta con cura sufficiente. CI La lavorazinne del terreno si fa, quando è possibile, durante 1° inverno, o, altri- menti, al principio della primavera. In generale, come alle altre colture, il montenegrino non somministra al mais che pochissimo letame ovino o stallatico. Le regioni che concimano di più sono la ‘lzermnitza, il Primorije, la Zeta e il resto che costituisce il vecchio Montenegro sotto l’° influenza del mare. ; i Il tempo della semina varia secondo la giacitura e 1’ esposizione dei terreni. Nella pianura di Podgoritza, ad Antivari, a Dulcigno, a Vir Bazar, nella Rijecka nahija, nella Lijesanska, la semina si fa alla fine di marzo o ai primi di aprile; nei Vaso- jevici, negli alti Kuci, nei Drobnjatzi, nella Katunska e nei Piperi si semina verso la prima e anche nella seconda decade di maggio. Molte volte, specialmente dove il clima è favorevole, appena raccolto il grano si lavora il terreno con i piccoli aratri a chiodo e si semina il mais che produce più o meno, a seconda delle pioggie e dello stato di fertilità del terreno. La semina si fa a spaglio.. Appena le piantine hanno raggiunto un’ altezza di 10-15 cm. sì procede a una prima sarchiatura e a un primo diradamento ; all’ altezza di 40-50 cm. si fa una seconda sarchiatura con rincalzatura e un nuovo diradamento ; a 80-90 cm. e anche a 1 metro si fa una forte rincalzatura e, se occorre, un terzo diradamento. Non si usano la cimatura e la sfogliatura, essendo diffusa la giusta opinione che il foraggio ricavabile con queste operazioni non può compensare: la forte diminuzione del prodotto in chicchi cui esse darebbero luogo. Nei paesi della regione mediterranea, appena gli steli sono convenientemente secchi, vengono estirpati ed abbicati; dopo un mese si procede al distacco delle spiche, di cui le più belle si conservano per la semina della stagione susseguente, mentre le altre vengono sgranellate. Nei paesi alti, le spiche si raccolgono appena sono discre- tamente mature, il che avviene alla seconda decade di settembre; indi si mettono in capanne fatte con reticolati di rami di quercia, di salici e di faggio, in modo che l’aria possa circolare e si compia l’° essiccamento. Gli steli e le foglie secche vengono adoperati come alimento per il bestiame durante l’ inverno. La sgranellatura si fa con bastoni. Diverse sono le varietà di mais che si coltivano nel Montenegro. Quelle più in uso sono la quarantina, la cinquantina, la spagnola, la bianca, la rossa, la nera e poche altre, tutte nostrane. Le varietà americane non sono ancora entrate nel Monte- negro, ma difficilmente potranno riuscire se si eccettua la pianura di Zoga). Il prodotto è assai variabile date le forti siccità che si verificano troppo di so- vente e dati i terreni che hanno poca attitudine a mantenersi freschi. Negli anni buoni si può arrivare a fare 18-20 ettolitri per ettaro e in qualche caso anche di più; nelle annate scadenti, il raccolto può scendere a 4-5 ettolitri per ettaro e quindi A) la coltivazione è passiva. Il danno della siccità è veramente grave. Per fortuna nella maggior parte dei Vasojevici, in qualche parte degli alti Kuci, nella Piva, nei Drobnjatzi il mais ha molto meno a temere che altrove dal fiagello della siccità per la irriga- zione possibile in quelle regioni ricche di acque. Per questo, la produzione media aggirasi colà intorno ai 14 ettolitri. Talvolta, però, all’ estate breve e asciutto, suc- cede con rapido passaggio un forte abbassamento di temperatura e così, in causa dell’ umidità ambiente, si viene a ritardare la maturazione della pianta, la quale avviz- zisee e muore. Non è raro il caso che il mais seminato nei paesi più alti della regione non riesca a maturare per il freddo troppo precoce che lo fa gelare. Il consumo della produzione locale si fa in paese anche nelle annate più favorite a 7-8 corone il quintale; negli anni di carestia, che corrispondono alle annate secche, se ne importano quantità proporzionate ai bisogni dalla Russia, dalla Romania e dal- l'Albania centrale, pagandosi allora 12-14 corone il quintale. I parassiti che danneggiano di più il mais nel Montenegro sono le solite Ustilago Maydis e U. Racliana. 6) Frumento. Il frumento si coltiva generalmente senza concime nelle stesse regioni del mais, ma in superficie di gran lunga minore perchè il grano entra per parte assai piccola nella alimentazione della popolazione rurale montenegrina, fornendo prodotto di con- sumo quasi esclusivo delle città principali. Nel Montenegro sono molte le famiglie che non mangiano il pane di frumento più di due o tre volte all’ anno. è Il terreno per il grano viene lavorato subito dopo il raccolto del mais e nelle alte regioni se ne fa la semina tosto che sia possibile, mentre nella zona inferiore si aspetta la seconda decade di ottobre o la prima di novembre, oppure si protrae addi- rittura alla primavera. Nel Montenegro non vi sono le superstizioni come in Italia dove lo spirito imitativo porta a fare tutti nello stesso giorno la medesima cosa; i popoli dei Balcani sono aiutati dal loro Dio che deve sempre fare i conti con la teoria dell’ ozio, la quale si protrae a scadenza dall’ oggi al domani per mesi e mesi anche nelle pratiche agrarie più importanti. La coltivazione del grano si fa molto empiricamente perchè si trascura la prepa- razione appropriata del terreno e i semi non vengono sottoposti ad alcun trattamento anticrittogamico e non sì concima, nè si erpica. Appena il frumento è seccato convenientemente, sì miete al piede e si lega in piccoli manipoli, i quali dopo essere stati al sole un giorno o due, vengono abbicati in mezzo agli stessi campi. Si procede poscia alla battitura alla distanza di un mese, mediante bastoni o cavalli e si separano i granelli con |’ antico metodo della paleg- giatura contro vento. Diverse sono le qualità di frumento che si coltivano nel Montenegro ; secondo alcuni le più diffuse somigliano alla nostra Cologna e alla romana. Il grano si coltiva dalla regione marittima fino a 1000 m. circa di altitudine dove lascia definitivamente il posto alla segale; ma la regione più produttiva è senza dubbio quella mediterranea. — 101 — Nelle doline e dove non si coltiva il tabacco o il mais, si mette il terreno a grano che riesce discretamente. In generale si ottengono 8-9 ettolitri di sranelli per ettaro. Il piano della Tzermnitza, quello di Njegush, quello di Nikshic sono rinomati per 1 loro grani teneri, ma anche nella Zeta e nei Bijelopavlici si ottiene una notevole quantità di questo cereale ricco di glutine. Non si fa esportazione di frumento dal Montenegro che nelle annate più favorevoli e le poche. centinaia di quintali che escono dal paese: vanno nelle Bocche di Cattaro. Invece l’ importazione di farine è normale nel paese ogni anno specialmente dall’ Italia. Il prezzo del grano è il comune dei nostri mercati. ce) d) Orzo e Avena. L’ orzo e l’ avena vengolo coltivati in quantità minore del mais e del grano e la coltivazione va proporzionatamente diminuendo dalla regione marittima a quella mon- tana. Nonostante, questi cereali si riscontrano più di frequente nel N. e nel N. E. del paese. Il loro prodotto è di consumo locale, come alimento della popolazione e dei cavalli soggetti a lavori pesanti. In qualche parte del paese queste due piante si ado- perano come foraggio. Il prodotto di orzo e di avena che si ricava per ogni ettaro non supera in media i 10 ettolitri. Le principali varietà di orzo coltivate nel Montenegro sono quelle d’ inverno e di autunno, oltre l’ orzo di primavera (un orzo a sei file); quelle dell’ avena sono 1’ avena bianca aristata (la più diffusa), la mutica e la rossa (rare). L° avena può arrivare fino a 1300 m. sopra il livello del mare, ma l’orzo si arresta molto più in basso. Anche per questi due cereali si tengono i prezzi dei nostri mercati, specialmente dei mercati delle Puglie e di quelli di Cattaro e Ragusa. e) Segale. La segale è il cereale che si coltiva maggiormente nei terreni diboscati da poco da 1200 a 1600 metri e anche più, sopra il livello del mare, in tutto il Montenegro, ma in modo prevalente nella regione del N. e del N. E. Ad altezze oscillanti intorno a 1200 m. è comune anche nella sezione occidentale del paese, dove, per la povertà del terreno, non potrebbe allignare altro cereale. Per esempio, a Njegush e territorio sotto il Lovcen (900-1300 m. circa), la segale è abbondantemente coltivata e riesce benissimo. Diverse sono le varietà in uso, ma le due preferite sono quelle a granelli lunghi 8 mm. e grossi 2 mm. e l’altra a cariossidi un po’ più grosse e meno lunghe. Nè l’ una, nè l’altra danno prodotti eccezionali, tenendosi sulla media di 10-12 ettolitri per ettaro. Una semplice zappatura è I’ unica operazione che si usa fare per la segale dalla semina al raccolto. La segale entra in gran parte nell’ alimentazione quotidiana del montanaro e il pane di segale pura o mista al grano è molto diffuso nelle famiglie che non si cibano soltanto di mais. Serie VII. Tomo IX. 1921-1922. ll — 102 — Il consumo è tutto locale, a ‘differenza dell’ avena é dell’ orzo di cui una piccola quantità viene esportata nelle annate di abbondanza nella Dalmazia meridionale come alimento per il bestiame. Il grano, 1’ orzo, l’ avena e la segale vanno talvolta soggetti alle crittogame comuni, come la ruggine e il carbone, che recano loro gravi danni. Gli insetti che danneggiano questi cereali sono principalmente il zabro e l’ elaterio, ma fortunatamente la stagione poco umida, che è la normale nel Montenegro, è di grande ostacolo alla diffusione insetti. f) Grano saraceno. Questa pianta si coltiva in discreta quantità nelle regioni alte del paese. Il prodotto viene adoperato per fare una specie di pane nero che i pastori appetiscono volontieri. Cresce nei terreni sabbiosi e leegieri come negli argillosi e forti. In 30-40 giorni il grano saraceno compie il proprio ciclo vegetativo ed è anche per questo che esso si presenta come una pianta utile nella montagna. Il sorgo e il panico formano soltanto di rado colture di un certo reddito. B) Piante tessili. a) Lino. Questa specie è abbastanza largamente coltivata nella zona inferiore e in parti- colare nel Primorije, nella Tzermnitza, nella Zeta e nei Bijelopavlici, ma si trova diffusa anche nelle regioni alte e il lino di Andrijevitza e della valle del Lim appartiene alle più belle varietà primaverili. Tuttavia, esso non dà in alcuna parte quel prodotto rimune- rativo che dovrebbe in cambio del lavoro profondo e della concimazione che richiede. Il lino arriva in media a 60-80 cm. di altezza, raggiungendo talvolta anche 1 metro. Il prodotto viene consumato nel paese. d) Canapa. La canapa era sconosciuta fino a circa venti o venticinque anni or sono e perciò non si trova menzionata negli elenchi del Pantocsek, del Pancic e del Szyszy- lowicz. Essa venne segnalata la prima volta dal botanico Antonio Baldacci nei Drobnjatzi dove egli la vide nel 1891 allo stato di una semplice erba, con cauli di 20-30 cm. di altezza, e proveniva da semi portati dalla Serbia. Da quel tempo a oggi, la canapa è andata diffondendosi qua e là, ma sempre in estensioni assai limitate, talvolta di pochi metri quadrati, quanto, per lo più, basta ai bisogni limitati della famiglia. Nei Vasojevici e nei Drobnjatzi, essa è tuttavia più frequente che altrove, sia per le ‘condizioni del suolo, sia per i rapporti molto frequenti che le popolazioni dei distretti del N. e del N. E. hanno con la Serbia, dove ia canapa si coltiva in grande. Per questa pianta non si fanno nè i lavori profondi, nè la conveniente concima- zione in uso da noi. Il sovescio è sconosciuto anche in servizio della canapa. La canapa viene tagliata in generale dalla seconda alla terza decade di agosto: si lascia seccare e quindi si lega in sottili manipoli. La macerazione si fa come nel- l° alto Veneto, stendendo i manipolìi sui prati dove si formi abbondante rugiada, nelle vicinanze dei torrenti o dei fiumi, e capovolgendoli 8-10-12 volte alla distanza di 1 o 2 giorni, — 103 — C) Piante da tubero. c) Patata. Il mais occupa per estensione di coltura e produzione il primo posto nell’ agri- coltura montenegrina e la patata viene ad esso immediatamente dopo. I suoì tuberi sono assai apprezzati, per la qual cosa, specialmente nelle monta- gne, la coltivazione della patata va continuamente aumentando e il terreno è per un buon terzo destinato a questa pianta. i Si ritiene che i primi tuberi siano stati introdotti dalla Russia subito dopo 1’ ul- tima guerra dei tre anni (1876-78); certo è che da quel tempo la patata è andata prendendo sempre più largo sviluppo nel Montenegro e oggi essa viene coltivata in ogni distretto. Si coltivano diverse varietà, ossia : 1) varietà a tubero cilindrico, lungo 6-17.cm. con un diametro di 6-8 cm. ; 2) varietà a tubero lungo 10-12 cm., di forma cilindrica schiacciata con il diametro di 5-6 cm.; 8) varietà a tubero sferoidale che talvolta raggiunge i 10 cm. di diametro. Queste sono varietà a corteccia rossiccia, di grande reddito, tra le quali non è infre- quente trovare tuberi di oltre mezzo chilogramma di peso. Le prime due varietà sono generalmente pastose e la cottura dei tuberi si compie in due ore senza che si rompano; l’ altra varietà è farinosa, di più facile cottura, ma si rompe facilmente. Il terreno migliore per la coltura della patata è quello sciolto e ricco, principal- mente costituito dalla terra rossa delle dolize. Il modo più comune di piantare i tuberi è quello a buche, tenendo da buca a buca una distanza di 50-60 cm. In ogni buca si mette un solo tubero di media grossezza. Nelle annate scarse si usa piantare tuberi tagliati, non pregiudicandosi che per poco l esito del raccolto. Il taglio del tubero viene rivolto in alto, mentre le gemme combaciano in basso col terreno; così si ricopre la buca. Quando si concima, si usa una piccola quantità di letame ovino. Nella zona della segale, la patata ha uno sviluppo rigoglioso e dà prodotti sempre buoni. La piantagione si fa da marzo a maggio, secondo l’ altitudine. Allorchè i polloni raggiungono 10 cm. di altezza, si fa una prima sarchiatura e un’ altra si fa in seguito, finchè si rincalzano le piante dopo due settimane. Siccome, poi, la parte erbacea non raggiunge un grande sviluppo, riesce più facile agli agri- coltori di fare una seconda rincalzatura dopo una quindicina di giorni dalla prima e questa rappresenta l’ ultima operazione fino al raccolto. La raccolta dei tuberi si fa in generale quando la parte erbacea sta per seccare ; talvolta si anticipa a seconda del bisogno, I tuberi vengono conservati sopra strati di paglia e coperti in luoghi asciutti e con poca luce perchè si possano mantenere più a lungo. Il prodotto non è ancora molto elevato, potendosi calcolare in media da 130 a 140 quintali di tuberi per ettaro. Indubbiamente sarà possibile aumentarlo con la conci- Serie VII. Tomo IX. 1921-1922, MS —.104 — mazione, i lavori più attenti e continui, 1° impiego di varietà più tuberogene, ossia che diano maggior numero di tuberi benchè più piccoli di quelli delle razze attuali. Il consumo molto diffuso della patata non permette esportazione di questo prodotto nel senso della parola; qualche piccola quantità si consuma a Cattaro e a Ragusa mentre. alcune centinaia di quintali giungono fino a Trieste. La patata montenegrina è andata. anche a Scutari e in altri luoghi dell’ Albania superiore, dove, essendo stata apprezzata, le popolazioni Malissore hanno cominciato a coltivarla con gli stessi sistemi in uso nel Montenegro, ; Nelle annate umide e ‘piovose e particolarmente nei luoghi . protetti dai boschi contro i venti, }a dove : si forma molta rugiada, la patata viene invasa dalla Phy- tophtora infestans che danneggia fortemente il raccolto. Nella pianura di Podgoritza e in altre parti, la patata soffre fortemente per la siccità, oppure per i venti forti che spirano ‘incerte ‘annate. I venti sembrano però avere nelle montagne un’ in- fluenza benefica contro. la. Phytophtora, la quale si presenta allora più di rado che nelle pianure. D) Tabacco. La coltivazione del tabacco si. è andata diffondendo rapidamente dopo l’ istituzione del Monopolio che assicura ai ‘coltivatori lo smercio del prodotto. Trattasi, quindi, di una industria ormai assicurata, essendo sicuro da. una parte il prodotto dei coltivatori e dall’ altra il favore dei fumatori, ossia trovandosi perfettamente d’ accordo produ- zione e consumo. VUE Per il suo ciclo vegetativo breve, il tabacco può vivere sotto le più svariate con- dizioni di clima e lo si trova, ‘infatti, dalla spiaggia del mare fino a oltre 1000 metri «di altezza, come a Poprat, nella Nikshicka Zupa, nella valle di Shirokar, ma! l’ utilizzazione industriale non si ha che nei ricchi terreni di dolina delle parti inferiori. La specializzazione dei tipi non si era mai fatta nel Montenegro innanzi |) attua- zione del Monopolio e nessuno si era mai interessato di creare una produzione nazio nale, nè rispetto ai bisogni interni, nè in rapporto all’ esportazione ; tuttavia, anche oggi, si continua, a coltivare il tipo introdotto la prima ‘volta, due secoli fa, dall’ Er- zovovina ‘e dal. distretto : di Scutari. Si tratta del comune tipo detto di Erzegovina a foglie molto grandi che gli austriaci sono riusciti a rimpiccolire con incroci di varietà: selezionate di Macedonia a. foglie: piccole e fini, di color giallo d° oro, dotate di. pro- fumo ‘gradevolissimo. Il Monopolio ha già ‘fatto abbastanza su questa via e molto potrà ancora fare. : i ì Il tabacco si coltiva attualmente nella-pianura della Zeta e in ‘quella di Nikshie, nella. Lijesanska, Tzermnitza; Rijecka nahija, nel Primorije, in Krajna, ma le migliori qualità sono quelle della.Zeta (principalmente dei villaggi intorno a Podgoritza, come. Momshici e Dajbabà) e della Krajna. ; ‘In generale si. va ora sviluppando il metodo. di coltivazione italiana che yiene segnato dai coltivatori leccesiì, i quali si trovano a disposizione del Monopolio. — 105 — Questo. metodo consiste nell’ usufruire delle nostre varietà ‘industriali già ottenute nel | Leccese che si adattino meglio alle condizioni speciali dell’ ambiente: sono le varietà ‘uscite dagli incroci che nel Leccese fanno’ onore all’ Amministrazione italiana, la quale ha saputo arrivare al risultato con ‘una lunga serie di studi e di esperimenti. Le varietà attualmente coltivate sono quindi: a) 1° Erzegovina con le sottovarietà Scutari, Krajna, Lijeshkopolje, Zeta, Spuz ; 0) la Macedonia con le principali varietà del Leccese. La produzione del tabacco nel Montenegro è di circa 2000 quintali all’ anno. Il prodotto contiene il 2-3 %, di nicotina. «Non si coltiva nel Montenegro alcuna varietà di tabacco a foglie scure per sigari, E) Cucurbitacee. Le cucurbitacee sono coltivate maggiormente nella pianura della Zeta, molto meno nel territorio di Antivari e Dulcigno e in qualche altro luogo. In questa parte del Montenegro predominano i cocomeri o le angurie, i poponi e i cetrioli. Nel resto del paese la comune zucca si trova abbastanza diffusa. Nelle annate favorevoli la produzione di queste piante è tanto grande che i frutti si vendono a prezzi bassissimi, come, del resto, accade anche nel prossimo vilayet di Scutari, dove poponi e cocomeri si ottengono in quantità enorme, specialmente nel Zadrima. Il terreno per queste piante si prepara con lavori abbastanza profondi (circa 40 cm.). Ai primi tepori della primavera si fanno buche di 35 cm. alla distanza di 1 «metro (a quinconce) le une dalle altre .e concimate con letame ovino. Verso .l’ ultima decade di marzo o la prima di ‘aprile si fa la semina alla profondità di 3-4 cm., avendo cura di ricoprire con terra finissima. Appena le giovani piante sono alte una diecina di centimetri si pratica una leg- giera zappatura, indi si rincalzano leggermente. La scerbatura si fa per due o tre .volte. Nella prima fase di sviluppo della pianta si mozzano i germogli (castratura) allo scopo di accrescere la ramificazione e questa operazione viene fatta dalla metà di maggio alla metà di giugno, nella quale epoca cessano tutti i lavori. Le varietà di cocomero e di popone coltivate nel Montenegro sono diverse. Per i primi si hanno: 1) la sferica; bruna, col seme nero, come quella tipica di Romagna, che nelle annate buone supera anche il diametro di 40 cm.; 2) la.sferoide ; gialla chiara, con semi rossicci, linee sottili e verdi, che si intersecano a guisa di maglie e raggiunge la grossezza della precedente; 3) la cilindrica; bruna col seme bruno che raggiunge la lunghezza di 30-40 cm. con 20 di diametro. La prima e la seconda di queste varietà sono più dolci e granulose e più appetitose e perciò vengono più fre- quentemente coltivate. I . Per i poponi si ricordano le seguenti quattro varietà : 1) la. cilindrica ovale; verde chiara, liscia, coperta di una rete color. mattone a maglie lunghe, com seme lungo 1 cm. per i di larghezza e con la polpa verdognola biancastra ; 2) la cilin- — 106 — drica ovale gialla, col seme color giallo un po’ più piccolo del precedente e la polpa di colore giallo carico; 3) una varietà a spigoli molto marcati con corteccia di colore giallo, polpa gialla, seme giallo e lungo 8 mm.; 4) una varietà a spigoli appena marcati con corteccia verde giallognola, seme bianco e lungo quasi 1 cm. La prima varietà è coltivata su vasta scala, mentre le altre tre si vedono rispettivamente meno. Ad ogni modo sono le due prime varietà che tengono il mercato, essendo le migliori e più grandi, specialmente la cilindrica ovale che riesce a superare anche il diametro di ZOOM Sembra che i primi semi di queste cucurbitacee siano stati introdotti dai Turchi dall’ Asia Minore e particolarmente da Smirne, dove la famiglia vanta una coltivazione estesa. La zucca e il cetriolo non presentano colture speciali. Del cetriolo si fa un con- sumo assai grande in tutta la zona inferiore. F) Leguminose. ‘ Queste ‘piante vengono poco coltivate ad eccezione del fagiuolo di cui si fa un largo uso. Le varietà più divulgate di esso sono: 1) la bianca nana a seme di colore uniforme, lungo 6-8 mm., la quale dà prodotti abbondanti e ricercati; 2) la gialla; 8) la grigia; 4) l’ americana, oltre alcune altre rampicanti. In generale si usa seminare il fagiuolo in buche, in mezzo ai campi di mais e più di rado in appezzamenti separati. Certo, il fagiuolo soffre enormemente la siccità e. perciò non sono rare le annate in cui il prodotto è nullo; per questo la sua coltiva- zione non può prendere lo sviluppo che la popolazione si sentirebbe inclinata a darle. La fava si coltiva raramente per foraggio e quasi unicamente per avere alimento per l’ inverno; ma si tratta di quantità limitate. La varietà in uso è la comune nostrana, a legumi cilindrici, lunghi 8-10 cm. e contenenti 4-5 semi di media gros- sezza, talvolta compressi o appiattiti. In vicinanza del mare, a Cettigne e a Njegush, si coltiva anche per il consumo allo stato fresco la fava da orto a legumi corti, larghi, rigonfiati con seme grosso e dolce e a scorza tenera. I ceci si coltivano un po’ dappertutto, ma sono più frequenti nel Primorije, nella Zeta e nei Bijelopavlici e vanno prendendo interesse con le due varietà principali dei nostri paesi, ossia cece di colore caffè scuro e cece bianco. La fagiolina, il lupino, il pisello, la lenticchia sono oggetto di colture limitate. Apicoltura. Questa parte tanto simpatica dell’ agricoltura viene esercitata da pochi e con metodi primitivi. Le arnie sono talvolta formate con semplici casse di un metro di altezza per 50 cm. di lunghezza e larghezza. Il miele viene estratto nell’ autunno di ogni anno affumicando per turno le arnie e adoperato per fabbricare del vino come si — 107 — usa non di rado in Levante. Il miele migliore è quello della zona inferiore e special- mente ‘del Primorije. Bachicoltura. Nonostante lo sviluppo che la bachicoltura aveva preso nel vicino vilayet di Scu- tari, dove si vantava una delle qualità migliori di bozzoli del mondo, il Montenegro non sentì mai quel benefico influsso. Perciò, l’ allevamento dei bachi è sconosciuto alla maggior partie del paese, mentre potrebbe dar luogo ad un’ industria assai pro- mettente. Bisognerebbe che la Scuola pratica di Bachicoltura testè impiantata a Dani- lovgrad potesse dare quei frutti che si aspettano. Condizioni economiche e sociali. A causa dello stato di vassallaggio imposto dall’ Austria, per quanto in modo apparente, le finanze del Montenegro non ebbero mai alcuna importanza, dovendo sempre subire la volontà dei governanti di Vienna. Agrariamente parlando, dei tre fattori della produzione del suolo, ossia terra, capitale e lavoro, il secondo, che più interessa, fa maggiormente difetto. In questi ultimi tempi, però, si è avuto un risveglio agricolo notevole relativa- mente al paese che non aveva mai sentito l° influsso benefico di alcun tempo, e ciò per opera specialmente delle Banche e Casse di Risparmio sorte a Nikshic, Cettigne, Podgoritza e Antivari, del Monopolio dei Tabacchi e della Compagnia di Antivari di trasporti sulla linea ferrata a scartamento fra Antivari e Vir Bazar, sul lago di Scutari e sulla Bojana. Il Monopolio dei Tabacchi, in particolare con gli anticipi culturali che concede ai coltivatori, è venuto a mano a mano diffondendo 1’ idea dell’ importanza del. capi- tale nell’ esercizio dell’ industria agraria. Un primo passo verso la redenzione econo- mica del paese è stato indubbiamente fatto e certamente verrà poco per volta com- pletato quando il porto di Antivari, il quale è in costruzione, potrà, usufruendo della ferrovia, delle nuove strade e dei servizi del lago, sostituire Cattaro nel commercio di esportazione e di importazione, sottraendo così il Montenegro al giogo austriaco. A tutto ciò va aggiunta la maggiore istruzione della nuova generazione montene- grina, l’ opera dei coltivatori italiani addetti ai Campi sperimentali dei tabacchi del Monopolio sparsi per le principali zone agricole del paese. Questi campi sperimentali in numero di otto (Nikshic, Danilovgrad, Spuz, Krushevac, Farmak, Drushic, Virbazar, Dulcigno) coltivano, col tabacco, anche le principali piante utili e rappresentano, perciò, tanti piccoli centri pratici a beneficio della popolazione che non ha mai avuto alcuna istruzione agraria. Pur non funzionando che da pochi anni, essi hanno già assicu- rato la coltivazione del pomodoro su piccola scala industriale e di altri ortaggi finora poco conosciuti nel paese. Un turco di Podgritza, in seguito alle contravvenzioni patite, MII non avendo potuto coltivare tabacco nella sua proprietà, domandò consiglio ai colti- vatori italiani e utilizzò un quarto di ettaro di terreno a pomidoro ottenendone un lautissimo guadagno. Il Montenegro, così, non è più tributario della Dalmazia e dell’ Italia per gli ortaggi ; oggi nelle doline della Katunska, come nelle vallecole del Primorije si vedono cap- pucci, sedani, melanzane, finocchi anche sotto varietà distinte che attestano come il Montenegro, se avesse avuto direzione, potrebbe già dare eccellenti risultati eziandio come . paese di produzione di ortaggi e di frutta. Il Governo deve cercare di redimere |’ agricoltura dalla pastorizia da cui dipende. La Direzione dell’ Agricoltura annessa al Ministero. dell’ Interno deve studiare tutte le questioni che riguardano lo sfruttamento del suolo e far funzionare un meccanismo statale atto a dare al Montenegro il posto che ‘gli compete. Invero il Governo ‘comincia a muoversi. Esso ha fatto comprare aratri e stru- menti agricoli vari che mette a. disposizione dei volonterosi. Ha stabilito anche un Giardino sperimentale a Daniloygrad nel quale si fanno colture sperimentali di ortaggi e frutti e dove si istruiscono praticamente i giovani che intendono dedicarsi all’ agri- coltura, alla viticoltura e alla frutticoltura. .Il Governo fa esperimenti di piantagioni arboree nelle zone incolte, come a Pod- goritza, nella Zeta, nel Lijeskopolje e altrove; ha decretato ordinanze speciali contro i. colpevoli degli incendi delle foreste; pensa a leggi speciali con le quali provve- dere al rimboschimento e promuovere le colture speciali che faceva la Repubblica di Venezia. A Nikshic si sta sperimentando il castagno. Nella zona incolta lungo la Moracia, a Podgoritza,, è in via di formazione un campo sperimentale e un parco pubblico ‘col lavoro dei carcerati, Le numerose scuole elementari ora esistenti, le scuole superiori di Cettigne, i gio- vani montenegrini che studiano all’ estero concorreranno non poco al progresso del- l'agricoltura e quindi al benessere del paese. Certo, il cammino da compiere è lungo e arduo e dovrà superare gli ostacoli creati dagli usi antiquati e dallo spirito non sempre favorevole che ha la popolazione contro ogni tentativo di innovazione nel paese. Sarebbe da augurarsi che ì giovani, i quali studiano all’ estero, percorressero gli studi agrari o tecnici, e non quelli classici e la carriera delle armi. I° indole della popolazione, specialmente nei centri più abitati, si è notevolmente modificata, ed anche nei luoghi più remotì gli emigranti che fanno ritorno in patria e quelli che. mantengano contatto con 1° estero per ragioni di affari, vanno gradata- mente raddolcendo la psicologia. della popolazione, così che, oggi, l° uomo co- mincia a lasciare le greggi per pensare alla terra e all’ industria che ne deriva, quanto alle arti e ai mestieri, mentre, fino a pochi anni or sono, il montenegrino non pensava che. alle armi, mettendo queste in connubio col pungolo. Non si sono ancora fatti ché i primi passi su questa via, ma si arriverà a fare molto di più, se sì vorrà. Qualche cosa si va concretando anche con le bonifiche e i. miglioramenti dei ter- reni in genere. C'è un risveglio, o, per lo meno, il desiderio di correggere il male — 109 — esistente. Nelle zone incolte del Lijeskopolje con un lavoro veramente colossale per il Montenegro di sistemazione e redenzione per la coltura, vengono pian piano assogget- tandosi le zone meno ingrate. La zona di Antivari ha pure migliorato immensamente. La regione pantanosa che era ‘intorno a Dulcigno è scomparsa e sono incominciati i lavori per la bonifica del lago. di Zogaj. Anche la roccia va sentendo 1’ influenza dei tempi nuovi. Gli impianti viticoli di Duleigno, le terrazze della Tzermnitza sono esempi istruttivi. A Njegush il terreno col- tivato oggi fra le rupi è il triplo di quello. che era dieci anni fa, Altrettanto si può dire per Grahovo. Condizioni giuridiche della proprietà. Qualche cenno su questo interessante argomento si trova nel « Codice dei Beni » compilato ad uso del Montenegro dall’ antico ministro Bogishic, In detto Codice è sta- bilito che gli stranieri non possono fare acquisti di immobili nel Montenegro, preci- samente come ordina la legge della Montagna Albanese. È considerato il caso di inter- dizione soltanto per gli alienati e gli scemi, Rigorosamente parlando, condizioni giuridiche della proprietà come si intendono in Italia, non esistono nel Montenegro. Le leggi montenegrine sono basate quasi unicamente sulla buona fede e sul carattere pubblico che i montenegrini danno a ogni loro azione, mentre le nostre sono fondate sulla prova. In caso di morte, la ripartizione è fatta a base di testamento e, in mancanza di questo, ai termini di legge. I beni immobili si ripartiscono in parti eguali fra gli eredi maschi; alle femmine spettava una dote (legittima) che, secondo la vecchia legge, era variabile da un minimo di 200 a un massimo di 600 corone. Per quella legge, in mancanza di maschi © di maschi maggiorenni, veniva nominato un tutore. Non esistevano diritti di successione da pagare al Governo. Tutto sommato, il passaggio di proprietà nel Montenegro è cosa molto spiccia e pratica e mai intralciata dalle formalità interminabili che si: esigono da noi. La proprietà nel Montenegro è molto divisa. Sono poche le famiglie che non pos- segsano almeno una piccola superficie di terreno. Un tempo, le leggi montenegrine stabilivano un limite nella proprietà rurale, per ovviare agli inconvenienti dei lati- fondi; questo magnifico concetto democratico antichissimo, che sopravvive fra le tribù albanesi del Nord, si è andato modificando nella forma e un poco anche nella sostanza. Però, il montenegrino, mentre è libero di acquistare terreni per una esten- sione indeterminata, deve pagare multe fortissime quando abbandona ‘un determi- nato terreno che prima fosse a coltura. Ciò, nell’ ipotesi di acquisti forti (che non avvengono) sarebbe irrimediabile, perchè difficilmente si troverebbero.le braccia per lavorare il vecchio e il nuovo terreno. Finchè, peraltro, il capitale si manterrà scarso nel. paese, nulla! si. modificherà dell’ ‘antico sistema della divisione del terreno ; la questione della mancanza o penuria di capitale, resta la più assillante.:In sostanza, nel Montenegro non vi è ora esempio di grande proprietà; la piccola proprietà, con TO == qualche caso di quella media, è la sola dominante. Ciò nasce, del resto, anche dal sistema tradizionale delle tribù, per sè stesse piccole, in cui è diviso il Montenegro, dalla conformazione topografica, dalla natura del terreno che non può dare grandi estensioni coltivabili ed anche a causa delle vicende politiche che turbarono per lunghi secoli il paese e lo distrassero dalle cure pacifiche, mai resistenti a un lungo e benefico periodo di tempo, per quello della guerra intermittente. La proprietà rurale ebbe ad ogni modo il suo assetto più preciso, sebbene non assicurato dal catasto (il catasto manca nel Montenegro) dall’ epoca della guerra che condusse al trattato di Berlino, alle ultime persecuzioni turche, quando il Governo montenegrino assegnò nel primo caso terreni a chi, non avendone, se ne era reso meri- tevole in guerra, ‘e nel secondo caso fornì di piccoli appezzamenti i perseguitati che dal Sangiaccato venivano a cercare salvezza nel Principato. Sulle. proprietà non esistono confini legali come da noi e sono tuttavia rari i casi in cui succedano contestazioni, perchè la proprietà è generalmente piccola, e gli abi- tanti conoscono molto bene i loro terreni, onde possono sempre fare testimonianza. Nel Montenegro non esistendo catasto di sorta, si ha soltanto una qualificazione catastale rudimentale in base alla quale venivano pagate le tasse, che erano le seguenti : Per ogni rallo (m° 1700) di terreno coltivato, corone 1,60 annue « « « prativo « 0,40. » Le altre tasse che gravavano direttamente sulla proprietà rurale, erano : Ogni capo ovino... . . . . . pagava una tassa annua di corone 0,20 » d DOVIIO 5 0 oe » » » » == » Dl EGUIMO 400 060 » » » » l,— » DEMO » » » » 0,40 Dt QI, dI Aa e » » » 0,30 >» olivo che dà frutto . » » » » 0,08 » litro di vino prodotto.» » » » 0.015 » DIA CQUIVI CARANO » » » 0,06 In maggio ogni montenegrino era tenuto a presentarsi al capitano distrettuale al quale doveva delerminare quanto possiede. | L'avvenire economico del Montenegro. Fino alla. guerra balcanica del 1913, la situazione economica del Montenegro era molto difficile. Le cause principali di questa situazione erano: 1) la speciale attitu- dine del montenegrino per le armi e per la guerra e quindi; 2) l’ incuria di mettere rie SA — lll — in coltura il terreno, 3) la mancanza di mezzi per lo sfruttamento del suolo e la diffidenza della popolazione a ricorrere al capitale straniero; 4) la mancanza assoluta di comunicazioni con i paesi confinanti fuorchè con Cattaro e il mare; 5) 1 insuffi- cienza del terreno coltivabile. Nel 1913 il Montenegro aveva circa 150 mila ralli (25 mila ettari) di terreno atto a coltura, esclusi i prati. Nel paese si trovavano allora 45 mila famiglie con una media di cinque persone (circa 225 mila abitanti. in tutto), le quali, perciò, pos- sedevano in media, ciascuna, mezzo ettaro di terreno lavorativo. E evidente che questa piccola superficie di terreno non era sufficiente neppure per il solo pane, a prescindere dal resto dei bisogni di una famiglia anche semplice e primitiva, come in generale è la famiglia montenegrina. Ed è per questo che il Mon- tenegro era costretto in passato a importare cereali in maggiore o minore quantità, secondo le annate, in rapporto alle siccità e alle carestie. Col trattato di Bucarest, il Montenegro venne posto in grado di risolvere suffi- cientemente i bisogni economici. 1l terreno acquistato in seguito alle guerre balcaniche è molto fertile. La Metoja che venne assegnata al Montenegro, è considerata una delle regioni più ricche della Balcania. Così è della regione del lago di Scutari. In com- plesso la zona annessa al Montenegro col trattato di Bucarest non ha meno di 45 mila ettari di terreno fertilissimo che era stato coltivato soltanto in proporizioni minime e che potrà, perciò, togliere ogni ragione di disagio nel paese. La difficoltà della situazione economica del Montenegro dipendeva anche dall’ im - possibilità, per mancanza di capitali e di comunicazioni, dello sfruttamento delle foreste, miniere e forze idriche. Dopo le guerre balcaniche, le ricchezze forestali del paese ammontano a qualche miliardo e mentre nel vecchio Montenegro appartengono ai pri- vati, ai comuni e allo Stato, nella zona conquistata sono quasi tutte dello Stato. Si calcola approssimativamente che il Montenegro possegga da 100 a 200 milioni di m? di legname. Riguardo alle miniere mancano ancora notizie di qualche credito ; è certo, però, che nelle provincie annesse col trattato di Bucarest non manca alcun minerale utile della regione balcanica e specialmente della Serbia: carbon fossile, ferro, argento, petrolio e via dicendo. Le acque sono un grande patrimonio del paese. Non esiste nel Montenegro alcun corso d’ acqua di montagna che non si potrebbe utilizzare, e per questo il paese può competere per le acque con i più ricchi del mondo. Disgraziatamente, per queste sue ricchezze, il Montenegro è oggi barbaramente occupato dallo straniero in servizio di capitali cosmopoliti e non sarà, quindi, che con la restaurazione della sua vecchia libertà che potrà sfruttare i tesori del proprio suolo assai ricco, unicamente per il suo popolo semplice e buono, -- 112 — Parole dette dinanzi al feretro di ANNIBALE BALDACCI dal Maggiore Alfredo Donadeo Il mistero della morte ancora una volta ci passa davanti gli occhi attoniti e le coscienze con- turbate. I volti che circondano questo sacro feretro rivelano tuiti un’ angoscia muta. Muta, si, signori, è l'angoscia, perchè essa non ragiona, non calcola, né specula, ma si fissa nella tremenda oscurità della voragine del mistero impenetrabile‘ E se l'angoscia talvolta parla. le sue parole sono urla, fremiti, lamenti, invocazioni. Lasciate. perciò. che il mio dolore sconfinato prorompa in queste monche manifestazioni; lasciate che la mia parola sconnessa e tremante interpreti tutto lo spasimo dell’ animo nostro. Chi è colui che all’abbraccio del mistero ha piegato oggi il suo corpo? È il fratello di amici nostri, e perciò nostro amico anche lui, anche se non tutti lo conoscemmo e lo amammo in vita. Qui ci sono gli amici viventi che piangono, ci sono i fratelli che piangono, e noi sen- tiamo che questo morto è pur nostro, che lo amammo e lo amiamo! La sua bell’anima, oggi illuminata dalla riconoscenza generosa riservata ai giusti ed agli onesti, vede che la sua dipartita dal mondo ha lasciato una larga via di rimpianto, ha moltiplicato gli ammiratori. Ed invero sta avvenendo ciò che accade a tutti eli spiriti buoni e grandi e a tutte le anime elette: la riconoscenza postuma. Annibale Baldacci fu grande e buono ed altrettanto infelice. Sembra che la felicità. così come volgarmente viene concepita, sia la compagna dei mediocri. Annibale Baldacci non la ebbe per compagna. Troppo grande fu la sua anima, troppo sviluppati i suoi sensi, troppo vasta la sua esperienza per ritenere perfetto ed accettabile il mondo così com’ è. Agrario e scopritore e cono- scitore di molti de’ più profondi segreti della natura, egli si era dato con tutta l’anima agli studi, cui si sentiva trasportato fino dall’ infanzia ed é forse questo sforzo costante di anima inna- morata della scienza, che ebbe a dargli quel senso di sconfinata vertigine, il quale lo trasse verso un morbo che doveva lentamente ucciderlo. Non è qui il luogo ed il momento di penetrare intimamente nel dramma di quella vita e di questa morte. Solo Dio sa ed ha visto giorno per giorno, in ben tredici lunghi anni, la tre- menda lotta di un’ anima; solo Dio sa di quali luci e di quali ombre, di quali fiamme e di quali geli, di quali silenzi e di quali clamori si sia intessuta la vita di quest'uomo che ora giace inerte fra noi, ma ingigantito dalla srandezza perfetta e pura dello spirito. Annibale Baldacci non è oggi che spirito. La materia è muta. Ma che cosa è la materia. se non la manifestazione dello spirito? Quindi. o Annibale, tu rivivi nella materia, rivivi attraverso la tua Creatura e la tua Consorte che sono gli anelli di congiunzione dell’ immortalità umana. Chi sa quante volte, nelle tue contemplazioni naturalistiche, hai scoperto e adorato questa erande immortalità degli esseri! L'albero che moriva. non moriva: la zolla ghiacciata conteneva il calore della fecondazione; il fiore disfatto era la vita dei frutti. E tu, albero schiantato dal fulmine della morte, vivi. E tu. materia gelida, mandi calore di bontà. E tu. fiore scomparso. hai lasciato magmifici frutti: è tuoi cari e i tuoi insegnamenti. Noi piangiamo sulla tua bara più per la nostra impotenza e per la nostra piccolezza di fronte al mistero. che per il mistero stesso, dietro il quale intravediamo una luce non fatta per i nostri occhi, un calore non fatto per i nostri sensi. Di questa luce e di questo calore, Annibale. vivo, portò nell’ anima il riflesso perenne. La Sua bontà, la Sua generosità, il Suo valore scientifico costituiscono una collana di fulgide perle. Degli affetti domestici siano testimoni l’ amata ed infelice Consorte. il Figlio e i famigliari tutti. Dell’amore per la Patria i suoi sentimenti a tutti espressi e il suo costante sforzo di onorare l’Italia nel campo scientifico. Dell’ amore suo verso 1° umanità, chiamo a testimoni i bellissimi studi inediti sul Montenegro. L'anima buona di Lui si rivolgeva specialmente a — 113 — quella piccola eroica Nazione della quale andava scoprendo le immense energie, e della quale forse intravedeva la sciagura. A. tal proposito mi è doveroso ricordare che Annibale Baldacci, in compagnia del fratello Antonio, fece ben cinque campagne nel Montenegro e nell’Albania e una nell’ isola di Creta. In quelle occasioni studiò con appassionato amore i vari problemi della Nazione montenesrina dal punto di vista dell’ agricoltura, dell’ industria. del commercio, della zootecnia, dello sfruttamento dei legnami e delle forze idrauliche. Egli intuiva che 1’ Italia nostra avrebbe avuto da trarre immensi vantaggi dalla floridezza di un Montenegro col quale, attra- verso lo stretto mare Adriatico, si sarebbero potuti allacciare preziosi scambi di materie e di ricchezze. E già si stavano finanziando cospicue imprese a tal uopo, quando il fiero morbo doveva paralizzare tanta attività e privare le grandi iniziative della più alta mente direttiva, del più ardente calore di amore per il successo. Chiude gli occhi mortali Annibale Baldacci mentre uno scempio senza nome si fa di quel Popolo di cui Egli aveva intraveduto 1 avvenire splendido. Un ignoto dolore immenso per questa tragedia sta chiuso in questo feretro e ne prorompe. L'anima grande di Annibale Baldacci ci esalti e ci guidi. La morte non esiste. Tu, Anni- bale, sei fra noi come prima e più di prima! Possa ancora tu raggiungere i tuoi ideali, che sono i nostri, per la grandezza della Patria e per quelle Montagne Nere che furono sempre nel tuo bel cuore e nella tua mente serena. == Serie VII. Tomo IX. 1921-1922. 12 PAOM Aa ae AMGtE MIRATO IST He Some nt sr i cur i supino stria pig Dl: MERITI ZE AN OSIO PRTRS SETA ATTI RI CANTOA MIETNI IRE b:} Aprite EENE PILE LRANTE DEE SETE DATO e HI LIL LIMITA ARICCIA: PER VERORRIE TIT ingl ah (PIU LEA A vi pe Lori De quit psi si ui) nr si colti ron TSR ge bat dr Miti uso vt salt bin Uh TTT Rio PIE: Mu "eg etti Dt ai FD TE, Dado Do TACITO DEVI IRE. ORE i In "erge, FINIRE E RI TE tini 06 tasto) Ut di ® di o LI ST ma VA (0 y dh MEDE LT aa s0e di Rien AZIONE DEGLI RLEMENTI RADIOATTIVI SUL CUORE TO MEMORIA DEI. è Prof. LODOVICO BECCARI letta nella Sessione del 28 Maggio 1922. In questi ultimi anni lo studio delle azioni biologiche dei corpi radioattivi si è esteso dagli organismi inferiori alle funzioni più complesse degli organismi superiori. Dobbiamo specialmente a Zwaardemaker (1) una ricca serie di lavori intorno all’ azione dei corpi radioattivi sul cuore. Questo A. ha anzi emesso una completa teoria relativa all’ azione di queste sostanze nel provocare |’ attività automatica dei cuore, secondo la quale questa loro proprietà è una funzione del potere radioattivo stesso. Nonostante le critiche e i dubbi sollevati dalle idee dello Zwaardemaker, bisogna convenire che molti fatti rendono degno di attenzione e di studio tale argomento. La base principale della ipotesi di Zwaar+ demaker è data dal fatto che il Potassio, elemento necessario all’ attività automatica del cuore, ed elemento radioattivo, può essere surrogato non solo dal Rubidio (come già aveva dimostrato il Ringer) pure radioattivo, ma da tutti gli elementi radioattivi sco- perti in questi ultimi anni. Ed è tale la persuasione dello Zwaardemaker, che la radioat- tività sia la ragione della particolare azione di questi elementi sul cuore, che egli non esita ad ammettere che anche il Cesio sia radioattivo, quantunque ‘finora le ricerche dei fisici non ‘abbiano potuto scoprire in esso questa supposta attività. Poichè io mi sono già occupato dell’azione degli elementi X, Rb e Cs sul cuore, (2) ho seguito con ‘mollo interesse questo nuovo indirizzo di ricerche, ed ho ripreso lo studio della questione. I miei precedenti risultati, ottenuti sperimentando direttamente 1° azione dei cloruri ‘di questi elementi sul cuore in sito e sottoposto alla legatura del seno, mi avevano portato alla conclusione che mentre il: XC/ e il RD0/ agiscono come stimoli diretti dell attività automatica ‘del centro atrio-ventricolare in riposo, invece tale proprietà non si manifesta (1) Lo Zwaardemakerv ha pubblicato di recente un. articolo riassuntivo dei suoi studi, che con- tiene tutta la bibliografia dell’ argomento in Ergebn. d. Physiol. Bd. 19, 1921, S. 826. (2) V. Archivio di Scienze Biologiche, Vol. I, 1920. Pag. 22. Serie VII. Tomo IX. 1921-1922. 195 CEMIBAE nel loro omologo, il CsC/; e questo mio, risultato starebbe in perfetta armonia con la pro- prietà radioattiva degli elementi del gruppo, la quale è stata dimostrata sicuramente per il K e il 725, ma non è riconosciuta ancora nel Cs. Ma questo mio risultato starebbe poi in contraddizione da un lato con le ipotesi di Zwaardemaker e dall’altro col fatto già riscontrato da Ringer, e confermato di recente anche da Feenstra, de Lind van Wyngaarden e Jolles nel laboratorio di Utrecht, che il Cs può sostituire il X nel liquido di circolazione artificiale del Ringer allo stesso modo del Rd. 5 Io ho voluto riprendere in esame la questione col metodo della circolazione artificiale nel cuoresisolato di rana, e devo dire che io pure ho potuto confermare il fatto, che i tre elementi del gruppo del potassio possono vicendevolmente sostituirsi nel liquido di circo- lazione per mantenere la normale funzione del cuore. Sostituendo alla soluzione di Ringer quella di puro cloruro sodico (isotonica) si ha in breve l’arresio delle contrazioni cardiache. Se a quest’ ultima si sostituisce la soluzione sodica con aggiunta del solo cloruro di calcio nelle proporzioni del Ringer stesso (cioè: liquido di Ringer senza potassio) le contrazioni riprendono tosto regolari, energiche, frequenti. Ma persistendo nella circolazione con quest’ ultimo liquido, allora si manifestano i caratteristici fenomeni già descritti da Ringer per l'assenza del X, cioè rallentamento del ritro, poi tendenza alla contrattura, irregolarità e pause, che spesso si terminano con un arresto definitivo delle contrazioni. Se a tale punto si aggiunge al liquido circolante una traccia di XCI, ricostituendo così ll liquido normale di Ringer, tosto l’ attività cardiaca si ristabilisce regolarissima, con la frequenza e il ritmo primitivo, Sostituendo in una esperienza condotla nello stesso modo il ABC al KC! si ha il mede- simo risultato: la frequenza, 1’ energia e la regolarità delle contrazioni si ristabiliscono con identica prontenzza. Che tale effetto sia veramente determinato dalla presenza del R5, si dimostra. col fatto che arrestando la circolazione del liquido, ben presto riappariscono le alterazioni, che chiameremo per brevità da Ca, e l arresto del cuore. Sostituendo poi al cloruro di potassio il ©sC7, si ottiene il medesimo effetto; la dose impiegata è press’ a poco eguale a quella dei due altri elementi del gruppo e l° azione eccitomotrice del Cs non si distingue quasi affatto da quella del X e del 0 sia per la prontezza che per ‘1’ intensità. Anche per il Cesio, 1’ azione specifica dell’ elemento viene dimostrata dal fatto che, sospesa la circolazione, |’ attività cardiaca decresce di nuovo fino all’ arresto, Come si vede, in rapporto all’ azione del Cesio esisterebbe netta contraddizione fra i risultati: ottenuti col metodo della. sostituzione del X nel liquido circolante e quelli da me osservati precedentemente studiando ‘|’ azione diretta degli elementi di questo eruppo sul cuore in arresto diastolico per legatura del seno. D'altra parte ambedue i risultati sono indubitabili perchè dimostrati da numerose e ripetute esperienze. Credo però che fra i due fenomeni esistono intime differenze nel meccanismo di azione, che potrebbero dare ragione dell’ apparente condraddizione. Nel caso del cuore intatto, sul quale si faccia agire la es TA di di reo SLITT ì per £ ® RA Sn VR RT } Li : — 117 — soluzione isotonica dei tre elementi del gruppo, si tratta evidentemente di una pura e diretta azione stimolatrice dei centri eccitomotori atrio-ventricolari, che, per le condizioni dell’ esperimento, sono in stato di perfetta integrità funzionale e, direi quasi, in uno stato di eccitabilità latente. Nel caso invece di un cuore, attraverso il quale circoli una solu- zione sodico-calcica priva dell’ altro elemento indispensabile al normale svolgersi dell’ atti- vità automatica, il potassio, non si tratta soltanto di mancanza dello stimolo ma bensì di una profonda alterazione dell’ equilibrio dei componenti minerali, che regolano lo svolgersi normale del metabolismo proprio degli elementi funzionanti, ed in tal caso è possibile che un elemento come il €s, avente notevolissime affinità chimiche col X, possa sostituire questo nel liquido circolante. Ma per ritornare alla questione oggi dominante, cioè all’ influenza della radioattività, devo aggiungere che, pure ammirando la novità e l’attrattiva delle ipotesi dello Zwaar- demaker, io pure trovo dubbi e contraddizioni nei fatti che l'A. pone a base delle sue induzioni. Già altri, fra cui il Loeb (1), hanno sollevato obbiezioni a tali idee. Recente- mente pure Libbrecht (2) ha esaminato la questione del potassio e le ipotesi di Zwaar- demaker schierandosi contro di lui. Egli riporta una sua osservazione fatta col torio che, come quelle che io comunico sull’ uranio, dimostra bensì un certo effetto sul cuore arrestato con la sottrazione del X, ma l’attività così provocata (dopo un’ ora di circola- zione) non somiglia affatto a quella dovuta al K o ai suoi omologhi. Anche questà Autori notano che l’ argomento più serio contro l interpretazione di Zwaardemaker è il fatto che il Cesio può sostituire in questa azione eccito-motrice il X nel liquido circolante, mentre tale elemento non è radioattivo, o se lo ò, come vorrebbe predire lo stesso Zwaarde- maker, ciò sarebbe in grado infinitamente minore del X e del 5. Io ho esaminato, col metodo della circolazione artificiale di soluzione sodio-calcica pura, l’effetto. dell’ aggiunta di un sale di uranio, l’ acetato di uranile. I risultati furono i seguenti : Mi sono servito di una soluzione titolata di acetato di uranile in soluzione isotonica di NaCl, in modo di potere aggiungere al liquido circolante quantità calcolate di ele- mento. L’ esperienza venne condotta come per gli elementi del gruppo del K, cioè facendo prima circolare soluzione pura di MNaC?, poi soluzione sodio-calcica fino a che si stabi- lissero le alterazioni funzionali caratteristiche e ben note, non essendo necessario atten- dere l’ arresto completo del cuore per riconoscere un’ azione stimolatrice degli elementi successivamenle aggiunti. A tale punto venne sostituita una soluzione sodio-calcica iden- tica. contenente quantità progressivamente maggiori di uranio: da 0,001 a 0,005, 0,050, 0,100, 0,300 per 1000. Per nessuna di tali dosi si è osservato un effetto eccitomotore paragonabile a quello del X e suoi omologhi. I gruppi tipici di contrazioni da Ca si sono conservati, anzi sono diminuiti fino ad aversi un arresto della attività ventricolare; sono invece comparse pic- (1) V. Journ. of gen, physiol. Vol. 3, 1920, pag. 229 e 237. (2) V. Archives intern. de Physiol. Vol. 15, 1920, Pag. 446. — 118 — cole contrazioni atrio-ventricolari lente, piuttosto rare e assai irregolari che durarono per alcuni minuti e corrisposero alle minori dosi di uranio (da 0,001 a 0,005 per 1000) poi si dileguarono. Aumentando la dose non si manifestarono più contrazioni ventricolari mentre il seno seguilava a pulsare col ritmo pressochè normale. Dopo la massima dose, di 0,300 per 1000, si osservò un gruppo di contrazioni ventri- colari con contrattura iniziale, le quali facendosi mano mano più piccole ed irregolari si dileguarono; contemporaneamente però il ritmo del seno si fece più lento finchè si ebbe pure arresto del seno stesso. Per vedere se l’ azione tossica dell’ uranio potesse dileguarsi, venne fatta nuovamente circolare soluzione di Ringer; dopo alcuni minuti il seno riprese a pulsare regolarmente e dopo un tempo più lungo anche il ventricolo riprese a funzio- nare col ritmo normale sebbene con minore energia. Come si vede, tale risultato, pure essendo positivo, è assai simile a quello ottenuto da Libbrecht col torio. Ed è importante osservare che anche i tracciati di Zwaarde- maker e dei suoi scolari non differiscono da questo tipo, assai lontano da quello rego- lare ottenuto col X e coi suoi omologhi. Di guisa che, se è fuori di dubbio che gli ele- menti radioattivi (diversi dal X e 5) possono provocare una attività ritmica del cuore arrestato per la sottrazione del X, tale effetto si scosta moltissimo da quello dovuto alll’ elemento fisiologico (K) e ai suoi omologhi, sia per il tempo necessario a che 1° effetto si produca (che può essere da qualche minuto ad un’ ora) sia per la irregolarità delle contrazioni e il ritmo loro molto più lento ed ineguale. Senza entrare per ora in un esame ulteriore e più minuto della questione, credo che l’ ipotesi interpretativa di Zwaardemaker, che l’ effetto del X e delle altre sostanze radioattive sia essenzialmente una manifestazione della radioattività, urti contro forti obbiezioni, di cui le principali sono le seguenti : a) Differenza sostanziale nel tipo dell’ attività cardiaca provocata dal X e suoi omo- loghi da un lato, e di quella dovuta agli altri elementi radioattivi. b) Tempo necessario perchè si manifestino i fenomeni di attività automatica del cuore in arresto; il quale tempo è minimo per il X e suoi omologhi (sovente ]° effetto è istantaneo), mentre è assai più lungo (fino ad un’ ora e più) per gli altri corpi radioattivi. c) Contegno dell’elemento Cesio, che non è radioattivo (o debolissimamente) mentre presenta una analogia strettissima col X e il XD nel costituire un liquido circolatorio pel cuore atto a mantenerne la normale attività. A questo punto io mi chiedo se, accettando i dati di fatto dell’ esperienza, non vi sia qualche altra ipotesi, più prudente ma più consona con le risultanze obbiettive e con altri fatti già noti, la quale ci permetta di interpretare i fenomeni eccitomotori dovuti agli elementi radioattivi del gruppo studiato dallo Zwaardemaker. \ Se teniamo conto dei fenomeni già noti, che la radioattività provoca nei protoplasmi, credo non sia improbabile la seguente interpretazione. I corpi radioattivi provocano nei tessuti viventi processi più rapidi ed energici di disintegrazione. Ora durante questi processi vengono a liberarsi, in certo numero, atomi di — 119 — potassio, i quali entrano nella costituzione dei protoplasmi, e passano allo stato di ione e perciò divengono capaci di esercitare sul. cuore quelle azioni eccitomotrici, che sono appunto dovute al A-ione circolante col liquido di Ringer, e che può essere sostituito dagli ioni RD e Cs per la grandissima affinità chimica che lega fra loro questi elementi omologhi. Con questa ipotesi si accorda anzitutto il fatto, per me capitale, che occorre sempre un tempo assai lungo affinchè le sostanze radioattive rivelino la loro azione eccitomotrice, e che elle cellule in genere, e nel tessuto muscolare in ispecie, esiste una notevole quan- tità di potassio in combinazioni complesse, in associazioni protoplasmatiche, nelle quali questo elemento non funziona come ione libero, ma dalle quali proviene, durante i processi del metabolisimo regressivo, gran parte del potassio allo stato di sale minerale dissociabile, che circola nei liquidi dell’ organismo e che troviamo poi nei prodotti di eliminazione. Istituto di Fisiologia della R. Università di Bologna Diretto dal Prof. Sen. P. Albertoni. VEgie NEI V Mi b- } e 6 mne 2h) i MB rt) MITRA Pea rs è [COLLEGAMENTI DELLE STAZIONE TN GRLERIMENSCRA es MEMORIA II. DEL Prof. FRANCESCO CAVANI letta nella Sessione del 7 Maggio 1922. Questa breve nota non è che una continuazione, un complemento di quella presentata nello scorso anno sullo stesso argomento ed è diretta ad illustrare maggiormente, nella teoria e nella pratica, il metodo di collegamento delle stazioni nei rilevamenti di celeri- mensura, che suole chiamarsi « collegamento misto coi punti di collegamento in linea ». Tale metodo è stato usato per la prima volta, come già accennai nella precedente mia nota, dagli Operatori del nuovo catasto italiano, così da potersi dire che da Essi è stato ideato. Ben pochi fra coloro che applicano la Celerimensura nel rilevamento del terreno, lo conoscono e lo usano. Il Baggi più di tutti nell’ottimo suo trattato (1) di Geometria pratica, ne fa cenno presentandolo come un caso particolare del metodo di collegamento coi punti fuori linea e facendo rilevare specialmente il vantaggio di un minore errore nella determinazione della distanza fra le due stazioni. Dei tre elementi di un collegamento il più importante sotto un certo aspetto e che presenta maggiori difficoltà di determinazione è quello della distanza, di cui si occupa questa nota. Segue quello dell’ orientamento che non presenta difficoltà e non obbliga in generale a procedimenti speciali; viene ultimo quello della determinazione delle dif- ferenze di livello che ha importanza molto minore, poichè le operazioni altimetriche in Celerimensnra non presentano grande precisione ne mai tale da confrontare con quella che si ha cogli istrumenti a visuale obbligata alla direzione orizzontale. Due stazioni successive conviene siano fra loro alla maggiore distanza possibile per le ragioni esposte nella precedente nota. Questa condizione non può ottenersi diretta- mente colla stadia col rapporto diastimometrico normale di 1:50. Conviene inoltre che le distanze che si misurano superino di poco i 100 metri. (1) Baggi ing. Vittorio — Trattato elementare completo di Geometria pratica - ‘l'opografia parte II" - ‘l'orino, Unione tipografico editrice 1895-1898. Serie VII. Tomo IX. 1921-1922. 13 Si rimedia a ciò dividendo le distanze che superino, di regola, i 100 metri in due parti ciascuna delle quali differisca’ di poco dal limite dei 100 metri con quel punto o quei punti che dal Porro stesso, ideatore della Celerimensura, furono chiamati punti di collecamento. Questi punti si dicono in linea se si trovano sul piano verticale determinato dalle due stazioni, o come suol dirsi comunemente sulla retta che unisce le stazioni stesse. A collegare le due stazioni basterebbe uno solo di tali punti; se ne prendono due per le riprove necessarie nei vari elementi del colleamento. Giova poi ricordare che i due punti di collegamento in linea servono a dare una veri- ficazione tanto della distanza fra le due stazioni, come della loro differenza di livello, ma, non dell’orientamento dell’ una rispetto all’ altra, ossia degli azimut reciproci delle sta- zioni stesse. Per avere una riprova negli azimut sarebbe necessario prendere un 3° punto di collegamento fuori linea, come già esposi nella precedente mia nota. Ad evitare ciò usano gli operatori di rileegere più volte gli angoli azimutali a diversi intervalli e S specialmente poi in ogni stazione quando si è ultimato il rilevamento da fare in essa. Lo schema di un collegamento di due stazioni A e B coi punti di collegamento C@, €, in linea è il seguente : A. Ga Us, B. Si determinano colla stadia le distanze AC,, AC,; BC,, BC, per mezzo dei numeri generatori dei punti C, e ©, rilevati nelle due stazioni e, se è necessario, si riducono tali distanze all’ orizzonte. Si misura colle canne la piccola distanza €, 0, e si hanno le verificazioni seguenti : CORSIA IONEA AERA ) BOBO III AE I) AC+.BC,= AC+ BC,...... (3) La distanza €, €, conviene sia molto piccola, e non superiore ai 4 o 5 metri, per essere sicuri della sua esatta misurazione, per ottenere maggiore celerità di lavoro e per avere verificazioni più rigorose. Misurata accuratamente, in generale colle canne metriche, ed almeno due volte, si può supporre affetta da un errore nullo praticamente o così piccolo da potersi sempre trascurare. Infatti 1’ errore medio. determinato colla nota formola ove & errore di posa di una canna sì può ritenere di m. 0,001, riesce inferiore a m. 0,002. — 123 — Le distanze dei punti di collegamento €, e ©, da quelli di stazione A e B sono affette da errori proporzionali alle distanze stesse perchè misurate colla stadia. Tali distanze si ricavano dalla nota formola —_ 2 MI MESICOSIDAA I. (4) ove X è il coefficiente diastimometrico, S la parte di stadia compresa fra i fili del micrometro e @ l'angolo d’ inclinazione della linea di collimazione del cannocchiale all’ orizzonte. Colla solita teoria di determinare gli errori in D differenziando la (4) rispetto alle variabili S e @ e supponendo di stimare sulla stadia in centimetri, come fa il Iadanza (1) il decimo di una divisione a 100 metri di distanza, si ottiene 1° errore medio My in D, distanza misurata col cannocchiale anallattico ad anallattismo centrale e ad angolo diastimometrico costante, dato da Mp= + 07,07. Così l’errore medio nella determinazione delle differenze (1) e (2) sarebbe a 100 metri di distanza : I rilevamenti catastali per la formazione del nuovo catasto italiano, geometrico particellare a base di misura e di stima, eseguiti in gran parte colla Celerimensura, danno una messe quanto mai copiosa di dati ed elementi per fare studi su questo metodo di rilevamento e quindi sulla misurazione delle distanze colla stadia e sui col- legamenti delle stazioni in generale ed in particolare su quello di cui ora si tratta. Esaminando alcuni dati desunti da tali rilevamenti, che per brevità riduco a 5 soli collegamenti, si hanno i risultati delle prime 5 righe dello specchio seguente, mentre di quelli della 6% riga dirò più avanti. AC AC, Differenze BC, — BG, Differenze colonne 4 e 3 i colonne 9 e 10 AG AE dalla qullo valori Dl E, dalla | cella valori stadia | Misura i stadia | Misura È diretta | assoluti | p. % È diretta | assoluti | p. % 1 2 3 4 5) 6 7 8 9 | 10 ll 12 m. m. m. m, m. m. m. m, m. m. m. m. 119,45 | 123,45 | 4,00 4,13. | — 0,13| —0,10| 130,98| 126,73| 4,25 LIS EV I009) 106,56 | 109,56 | 3,00 | 2,95 |-+0,05| +0,05| 138,39| 185,84| 3,05 | 2,95 | +0,10| 40,07! 93,77 | 96,20] 2,43 | 2,50 | —0,07| — 0,07] 92,97| 90,46| 2,51 | 2,50 | 40,01] +-0,01 | 98,50 | 100,82 | 2,32 | 2,40 | — 0,08| —0,08| 62,13] 59,69| 2,4 78,17 | 80,80) 2,63 | 2,60 | 4+-0,03| +0,04| 81,00] 78,33] 2,67 | 2,60 | +0,07| + 0,09 59,01 | 58,54 | 3,53 3,50. | +0,03| 40,05] 72,53] 69,04| 3,49 3,50 | —0,01| — 0,01 | (1) Iadanza Nicodemo — Geometria pratica. - ‘l’orino, Vincenzo Bona 1909. — 124 — Da questo specchio risulta che le verificazioni (1) e (2) sono sempre soddisfatte, ossia le differenze AC, — AC, delle distanze dei punti di collegamento da ciascuna delle due stazioni confrontate colle e BC, — BC, ottenute dalle misurazioni fatte colla stadia misure dirette delle differenze stesse, danno errori percentuali per ciascuna stazione inferiori all’ errore medio M sopra determinato colla formola (6) all’ infuori di un solo caso in cui si eguagliano. Se poi dall’ insieme di tali differenze che sono in numero di 10 si determina l’er- rore medio si ha che non arriva a 2 Mae, Le distanze zenitali, che hanno molta infiuenza nelle misure colla stadia, per le varie collimazioni degli esempi citati sono sempre state comprese fra 88°,30' e 115°,80". Da altri numerosi collegamenti coi punti in linea esaminati in registri catastali di rilevamento celerimetrico, si ottengono risultati eguali. Con questo procedimento di verificazione delle misure di distanze fatte colla stadia, l’operatore si assicura subito sul terreno di non avere errato nelle misure stesse, ed è questo un grande vantaggio. l’ale metodo sarebbe da suggerirsi nella pratica anche indipendentemente dai collegamenti fra le stazioni. Rimane la verificazione n.° (3) che è di maggiore importanza, sebbene si possa ritenere che sarà soddisfatta, soddisfatte le prime. Per i 5 collegamenti considerati si hanno nella (3) i risultati seguenti : Distanze 250",43; 250”, 18 — Differenze: assolute 0",25; p.% 0,10 RR eo o > » 07,05; » 0,02 » 186", 74; 186°,66 — » » 07, 085005 083 0 > 3 Wo 12 eo os » IONE oo » » 00008, La media degli errori p. VA arriva solo a 0°,056 e nei valori definitivi delle di- stanze dati dalla media aritmetica di due determinazioni si ha un errore medio p. % che si riduce a meno di 0,04. Esaminando ora una serie di esperienze fatte su questo metodo di collegamento si deducono risultanze che corrispondono pienamente alle precedenti. In terreno conveniente si sono fissati due punti di stazione A e B e fra essi in linea due punti di collegamento €, e C,. La distanza AB misurata, lungo una funi cella tesa sul terreno, con due canne triplometriche esattamente campionate, 10 volte nei due sensi risultò di m. 127,60 # 0°,0023. La distanza €, €, di m. 3,50 fu pure misurata colle stesse regole e con errore medio trascurabile. Le due stazioni A e B coi punti di collegamento furono rilevate con un tacheometro — 125 — e con una stadia esattamente campionata, ripetendo 10 volte tutte le misurazioni e sì ebbero i risultati esposti nell’ ultima riga del primo specchio precedentemente riportato. Nelle singole misurazioni si ebbero i risultati seguenti : AC,= mM. 55,01 2 0,006 — ACETO ZORO BE =D 108 2 UD = i 0900018 AO, = dl, = 04555 = VIE EE EREEZIEZIIO AC, de BO Rio =40009 ERACE e — miro R04028 Sono soddisfatte pienamente le verificazioni (1) e (2) e così la (3) con un errore p.% di appena 0,03. Altre 10 esperienze consimili fatte cambiando i due punti di collegamento diedero risultati analoghi. Il confronto dei valori della AB dati dalla stadia e dalla misura diretta dimostra l'esattezza delle esperienze fatte (1) avendosi errori medi di quell’ ordine di grandezza che deve corrispondere ai due metodi di misurazione adoperati. Le esperienze confermano i risultati desunti dai rilevamenti catastali e la bontà e convenienza del metodo di collegamento che si è qui esposto. Un’ ultima osservazione merita di essere fatta e riguarda le tolleranze che si con- cedono comunemente nei rilevamenti celerimetrici e specialmente in quelli catastali. Come è noto fra eli errori medi M e le tolleranze £ si ammette la relazione t=3M e quindi le tolleranze che risulterebbero dagli studi fatti sarebbero al massimo del 0,20 p.% non tenendo qui conto delle varie specie di errori regolari ed irregolari che non consentirebbero una, tolleranza semplicemente percentuale. Le tolleranze concesse nei rilevamenti catastali sono sensibilmente superiori e ba- sterà citare quelle del nuovo catasto italiano che nelle misure fatte colla stadia per le poligonazioni arrivano al 0,30% salendo al 0,35 per misure di distanze nei punti di rilievo superiori ai m. 150 ed al 0,40% per distanza inferiori a m. 150. I , /o È Tutto lo studio fatto in questa e nella precedente nota sul metodo di collegamento delle stazioni di rilievo coi punti di collegamento in linea da usarsi in Celerimensura, dimostra teoricamente e praticamente 1’ utilità del metodo stesso, |’ opportunità di stu- diarlo e farlo conoscere nei suoi particolari e nelle sue applicazioni, non chè la conve- nienza di adoperarlo nella pratica a preferenza di altri metodi consimili. (1) Debbo ringraziare |’ Ing. Umberto Lodi Assistente alla Scuola di Applicazione per gli In- gegneri e la gentile Sig.na Ing. -Cesarina Poggi Assistente onoraria alla Scuola stessa del valido aiuto che gni hanno dato nelle esperienze sul terreno. Serie VII. Tomo IX. 1921-1922. 14 SA o i 0 dl pela OL Ma. Ù va SALE AA n MIO iu di) ri si HSE #_HRI pa is Qua Seolo DI, “ ug (i a) DER Lr) d DESTI iù 5 di di Tavira ci il ja NERI ata bi ti | atiazni ti gala PSE ju Pal ju di x n° me: tia Du o i Rei o ì, cd veri on dieta Ù Mea RE È na 4 ) db RTRT ta È t Ag # INTE, &, a Da È ASTI regi BOH ira : TEN EDEGE (hisini — Za determinazione di quota mediante le proiezioni bicentrali (CONgogio une) Mei: Amaduzzi — Sulle scariche globulari (con 7 figure) Cavazzi — Considerazioni sul calorico specifico dei gas perfetti. Martinotti — /vancesco Dal Pozzo e la sua critica di Vesalio (con una ficura) . Guarducci — Sulla funzione della Geodesia nel passato e nel presente Burgatti — Dell’azione delle stelle swi perieli dei pianeti e delle comete Ciamician e A. Galizzi — Sul contegno di alcune sostanze organiche nei vegetali. XV Memoria (con una tavola). Puppini — Modelli elettrici per lo studio del moto delle acque filtranti. Baldacci — Le condizioni dell’ Agricoltura nel Montenegro al principio del secolo . Beccari — Azzone degli elementi radioattivi sul cuore . Cavani — / collegamenti delle stazioni in Celerimensura FINITO DI STAMPARE DICEMBRE 1922. Pag. » » » » » » » 9 IH dani : ECONO Vada podi Tax RI RIGINICA NI n: FRE TAIA cia ty î DA Di LR og AA pete ns dh f i; topi Lug ano Du mo DI ott là, er ds DI Tech DI» ) - È 80 | Pu SE Se n 00 ssi Leg: TP _2% )" d_ er x as \u bd È ell 7 RO, ad —» DE: Ss N, “= = DIARA Aid = Dl < la to] Ù Ip SÌ ) AI 35 DA 5 wu — ua be re NZ fi n e ,) Y ) vo )) 23, a JM 2) 5, )») VARY )) ”» »). WD), D) » Ò No A he N° Si a CRY v> PIPPO D_j» Tp >), MPI REI: >>» DIAZ) vI. 2» 1 ND ON MI 4 DID bam DD IM: 4 PID) DV - Td. d 1) p > DID) DL )UD)à D_SI4 0 e), ve So pr. >D.s $;3- dr» È DD MOI I). PPT > ld kx - sod N dd - SoStSSUUIZoE GSS qs d \ f ty; LA Li Dgr ATL 4 deg Sb - AA NQ i i w @ AO Na \ N No de » LI >» II td d PD, Di RD) \)Db )) DIVA » "wi > DI I 3 \_de AA \ ® S ly de @ O 4 \ \ ® DA w No I° >, So < N, he Nu Di Ed ° = ly N bd e —_ Ne we ue ese Su N: vgevv È 25 x, n e \ ly LI} “ & si i di È w gue SN Y PA I A ae L° tw od Na E di o, wu! sI= e, A IS 3 N A GS 5 (e e N lena > bi N ASS di 3 Ng > AIA uu hc Xx-s S uu I 4 a NOI] Nd N ” e] (Ls ei dI n “ NS bla vuoso dv DAI DI Tx cu ba SH a No "uo 3 w y ‘ n. Sx È a f N> (99 \w_\y _ ai NC S_- w VIAN _ v co AMA A a PRAGA di Vea | O A SIN NAST À IN bd do w {NF N è ug | STR FARAI \ Si i l AT ) >» © )) » CÀ Ss) È pr I; bd Db | 3 VI pe= = 5 w, wr bh Deh ASA Yg LL Aa hu: tg) DS n AS DV wuyttta << LAY SW Ue fer, >= AN, = IR pis À Lg R è. 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