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LOCALI) co Il ua? d - - î x ’ A Mata = SÌ | | ii > ie nOi) e 5 Il Ù t MEMORIE DELLA ACCADEMIA DELLE SCIENZE DELL'ISTITUTO DI BOLOGNA (4 Si; CERIFIQUARI TOMO Il. VA? An TIPI GAMBERINI E PARMEGGIANI RICERCELHE INTORNO AD ALCUNI PRODOTTI CHE SI RISCONTRANO NELL’ URINA DI UN CANE AVVELENATO COLL’ ACIDO ARSENIOSO MEMORIA DEL PROF. FRANCESCO SELMI ( Letta nella Sessione delli 18 Novembre 1880 ) Fino dall'anno scorso aveva divisato di intraprendere uno studio metodico e compiuto sui diversi prodotti che si formano nell’ avvelenamento arsenicale, argo- mento su cui la Tossicologìa non possiede verun dato d’ onde desumere, in che modo i composti dell’arsenico, introdotti nell'economia animale, agiscano alterandone profondamente i principii immediati tanto da conseguirne quegli effetti formidabili di gravissime malattie, o lente od acute, ai quali suole succedere la morte, se la cura medica non giunge a provvedervi in tempo. Di tale mio pensiero tenni anzi discorso in lettera privata al Prof. Antonio Raffaele di Napoli, che ne accennò nella sua Dissertazione sulla Putrefazione. (1) Varie cagioni m° impedirono che potessi tosto adempiere al mio divisamento, tra cui in principal modo la scarsezza dei mezzi del mio Laboratorio e 1’ angustia grandissima del locale, e forse non avrei neppure incominciato una parte del la- voro se la gentilezza del mio Ch.mo Collega il Prof. Cav. Luigi Vella non si fosse prestata a sottoporre a lento veneficio arsenicale un cane di grossa taglia, sommi- nistrandomi poi l’ urina che ne venne raccogliendo di giorno in giorno, e se il il mio primo Assistente Sig. Dott. Stroppa non si fosse dedicato con amore assiduo ad aiutarmi nel conducimento di tutte le diverse operazioni, che furono lunghe e fastidiose. È mio debito di rendere grazie all’ uno e altro, e di quì loro significare la mia riconoscenza. Il cane a cui venne somministrata l anidride arseniosa era uno di quelli che sono noti comunemente col nome di cani da pastore; l anidride fu convertita in arsenito di sodio e fattane soluzione in acqua colla proporzione di gr. 0,005 (1) La Putrefazione in rapporto colla Medicina legale. Pag. 144. — Napoli, Enrico Detken 1879. RA n dell’ anidride per ogni centimetro cubo, che il Prof. Vella incominciò ad ammi- nistrare nelle dosi che saranno indicate a luogo debito. L’ avvelenamento inco- minciò il 20 del Marzo e continuò fino al 15 di Aprile, dacchè avendo osservato che l’animale, quantunque sofferente, pure non accennava a morire, specialmente interrompendo di periodo in periodo la propinazione del tossico, si trovò opportuno di continuare innanzi per questa via affine di avere una quantità considerevole dell’ umore urinoso, con cui farne lo studio, e conoscere se i prodotti che ne risulterebbero andassero mutando o fossero di natura uniforme durante un tempo sì protratto a lungo. Fu pure messo in disparte il pensiero di far morire l’animale in ultimo, dandogli da tranghiottire una dose generosa della sostanza arse- nicale, poichè mantenendolo in vita, avrebbesi potuto esaminare le urine a distanze predeterminate di giorni, collo scopo di indagare fino a che punto sarebbe per cessare l’ eliminazione dell’ arsenico: vedi Documento A. Per le ricerche da istituire, le urine trasmesse al Laboratorio furono divise in quattro periodi, mescolando insieme quelle di ciascun periodo, non sembrando con- veniente di farne l’analisi volta per volta, nel giusto sospetto che, procedendo troppo frazionatamente, non si avrebbero ottenute quantità tali dei prodotti cercati da potersi sottoporre tanto alle reazioni chimiche quanto alle prove fisiologiche, delle quali prove il lodato Prof. Vella colla sua nota cortesìa assunse l'impegno. Il processo operativo non fu diverso da quello che adottai per le ricerche sulle urine degli avvelenati con fosforo, perchè mi aveva condotto a buoni risultati, ed anche perchè il confronto tra i prodotti conseguiti coi due diversi av- velenamenti non sarebbe stato disutile affatto. Urina del primo Periodo. Chiamo urina del Periodo primo quella che fu emessa poco dopo l’ ammini- strazione dell’ arsenico; misurava 500 c. c. Possedeva il colore naturale delle urine normali, la reazione acida ed era priva di albumina. Le si aggiunse latte di barita fino a che si manifestò del precipitato, indi un volume di alcole di 99°, uguale a quello del liquido urinoso. Si lasciò deporre il precipitato, si feltrò la parte liquida, si raccolse su feltro il composto baritico, che poi si lavò con alcool di 66°, e fu messo in disparte per esaminarlo più tardi, segnandolo con A. Il feltrato venne distillato in corrente di acido carbonico, che finiva di gor- gogliare nell’ acido nitrico tiepido, e questo fu evaporato fino a secco con un cristallino di cloruro di sodio, distruggendo l’ acido ossalico che si era ingenerato tra l'acido nitrico e il vapore di alcole trasportato dall’ anidride carbonica, e con- tinuando a calcinare ed ossidare finchè il residuo rimase scolorito. Scioltolo nel- l'acido nitrico fu diviso in due parti, la prima delle quali fu rievaporata e poi esplorata con nitrato d’argento ammoniacale per cercarvi l’ acido arsenico, di cui Ea gene non vi si riscontrò neppure una traccia, mentre la seconda coll’ aggiunta di alcune goccie di molibdato di ammonio, fornì un coloramento cedrino immediato a cui susseguì un sedimento lievissimo dello stesso colore. Avendo fatta questa operazione a freddo, era da dedurne che il residuo men- tovato contenesse del fosforo; se non che la reazione alquanto scarsa e il sospetto che il reattivo, per la sua grande squisitezza, indicasse anche l'acido arsenico a temperatura comune, mi lasciarono nell’ incertezza. Per ischiarire il dubbio, presa la prima porzione della soluzione nitrica, in cui nulla aveva svelato il nitrato di argento ammoniacale, vi aggiunsi acido solforico ad eliminare l’ acido nitrico, scaldai fino a cessazione dei vapori nitrici, indi vi versai un poco di acqua per diluire l’ acido solforico rimasto fisso, poscia dell’ acido solforoso affine di distruggere i prodotti nitrici, dopo di che espulso l' acido solfo- roso eccedente, introdussi il liquido nell’ apparecchio di Marsh, col quale non ottenni indizio di arsenico, neppure continuando lo sviluppo dell’ idrogeno per un ora e mezzo. L’ apparecchio di Marsh era stato disposto conforme a quelle modificazioni che furono descritte nella mia Memoria letta alla R. Accademia dei Lincei nella tor- nata del 5 Gennaio 1879 (Vol. III. delle Memorie, Serie III., Roma Tipi del Sal- vucci 1879), con cui si riesce a svelare quantità minime del metalloide, cioè fino ad oltre ‘/, di milligr. Apparve adunque dall’ esposto, che nell’ avvelenamento dell’ arsenico avviene sviluppo di un prodotto fosforato volatile; fatto che riceve conferma da quanto verrò narrando in appresso. Il distillato alcolico possedeva reazione alcalina; fu inacidito con acido clori- drico e ridistillato in corrente di anidride carbonica, che in fine gorgogliava nel- l'acido nitrico tiepido; da questo, evaporato poi ed ossidato ecc., ebbi un residuo incoloro, che ridisciolsi in altro acido nitrico, e divisi tale soluzione in due parti.” Una, dopo rievaporata, e sciolta in poc acqua, fu sperimentata col nitrato d’ argento ammoniacale, senza che si rendesse palese neppure una traccia di acido arsenico; l’ altra col reattivo molibdico mi diede un tenue sedimento di colore cedrino. Avanti di esaminare il residuo acquoso rimasto nella storta, volli cercare se l’ alcole ridistillato racchiudesse arsenico. Ne presi due terzi; ossidai l’ alcole coi vapori rutilanti, lo evaporai in bagno maria fino a secco, ripresi il residuo con acido solforoso, n’ espulsi l’ eccedenza scaldando, e indi saturai di acido solfidrico, lasciando il liquido in campanella chiusa, a 35°, per una notte intera. Si era formato sedimento di solfo che raccolsi su feltrino, trattai con acido nitrico ecc. e provai nell’ apparecchio di Marsh, senza che ne ottenessi neppure indizio apprezzabile di anello. Passando all’ esame del residuo acquoso ricavato dalla ridistillazione, dirò che evaporandolo a blanda temperatura, fornì del solo cloridrato d’ ammonio, come mi ani gini accertai trattandolo con alcole assoluto, evaporando il liquido alcolico, ripigliando il residuo con alcole ed etere, e indagando se nel veicolo alcolico-etereo fosse. ri- masta in soluzione qualche base diversa dall’ammoniaca, cosa che non fu. Quando fu fatta la prima distillazione dell’ alcole, rimase nella storta il liquido urinoso che fu trattato con barita, dacchè colla medesima precipitava. Tale preci- pitato (B) fu raccolto su feltro, lavato ecc. e tenuto pure in disparte per esami- narlo più tardi. Il liquido fu concentrato a sciloppo, con che cristallizzò dell’ urea; ripreso con alcole assoluto, rimase indisciolta molta urea insieme con materie coloranti ecc. L’alcole feltrando scolò dal feltro limpido e di un giallo arancio. Venne ricupe- rato per distillazione, con che rimase una nuova quantità di urea, che fu preci- pitata con acido ossalico; l acqua madre alcalizzata con latte di calce fu sottoposta ad esaurimento, prima con etere poi col cloroformio. Siccome nulla ottenni degno di ricordo, perciò passo ad accennare che feci anche una ricerca per riconoscere se mai nell’ urea comune fosse contenuta un arseniurea. A tale effetto separai dal- l’ ossalato l urea col carbonato di calcio, la convertii in nitrato, che purificar con carbone animale, indi decomposi con acido nitrico e solforico, versando in ultimo (previe le solite operazioni) il liquido solforico nell’ apparecchio di Marsh. Non si formò anello arsenicale, che invece ottenni abbondantissimo da quel complesso di materie differenti che l’ alcole assoluto aveva lasciate indisciolte, quando trattai con esso il liquido urinoso concentrato. Rimanevano da esaminare i due precipitati baritici A e 5, che erano già stati lavati accuratamente prima con alcole e poscia con acqua. Il precipitato A fu stemperato in acido solforico diluito, separando per feltra- zione il solfato di bario che si formò. Siccome conteneva materia organica, la di- strussi con acido nitrico, vi aggiunsi altro acido solforico e poi acido solforoso ece., indi provai coll’ apparecchio di Marsh, d’ onde ebbi un piccolo anello arsenicale. Il precipitato B, trattato in egual modo diede pure un anellino maggiore del precedente. Dunque risulta da quanto fu osservato sull’ urina del primo periodo che vi erano contenuti : 1° Un prodotto volatile fosforato in lievissima quantità, nè acido nè alcalino. 2° Che vi sussisteva dell’ ammoniaca e non vi fu riscontrata veruna base or- ganica, nè volatile, nè fissa. 3° Che l' arsenico vi era in istato tale da ingenerare scarsamente un composto insolubile colla barita. 4° Che per l'opposto ve n'era in proporzione maggiore nello stato di un pro- dotto che precipitò colla barita, solo allorquando fu separato 1’ alcole per distil- lazione, EDI" (0 Urina del secondo Periodo. L’ urina che chiamo del secondo periodo fu raccolta nei giorni 22, 23, 24, 25 e 26 del Marzo; si ragguagliava in totale a 2500 c. c. Per ogni volta che fu portata in Laboratorio venne esplorata, tanto per la reazione sulle carte colorate, quanto per l albumina; si dimostrò costantemente acida, nè diede quasi mai con- trassegni di albumina. Per ogni volta fu precipitata con barita fino a forte alca- linità, indi versatovi un volume di alcole assoluto. Separato e lavato su feltro il precipitato baritico A', il liquido urinoso alcoolico insieme col lavacro, fu distillato in corrente di acido carbonico coll’ acido nitrico in fine e tiepido, il quale, per cercare se conteneva arsenico, evaporai, trattai con qualche goccia di acido solforico, indi con acido solforoso, e poscia (scacciata l’ ecce- denza di questo) diluii con acido cloridrico concentrato, in cui introdussi una corrente di acido solfidrico. Chiusi la campanella con tappo, la tenni per più ore a circa 35°, nè mai vidi od ingiallimento sensibile o formazione del più che menomo pre- cipitato del giallo del solfuro d’ arsenico. Non avendovi riscontrato l arsenico, con- centrali e ridussi a secco la soluzione cloridrica, vi versai dell’ acido nitrico con un granellino di cloruro di sodio, evaporai di nuovo, sciolsi il residuo nell’ acido nitrico, che sperimentai col reattivo molibdico, il quale v indusse nell’ istante un coloramento cedrino a cui susseguì un lieve precipitato dello stesso colore. Avevo operato con metà dell’ acido nitrico in cui aveva gorgogliata l anidride carbonica durante la distillazione; sulla metà rimanente ripetei le operazioni colla massima diligenza ed ugualmente ottenni i contrassegni del fosforo, mentre man- carono quelli dell’ arsenico. L’alcole distillato possedeva reazione alcalina sensibile; la tolsi con acido clo- ridrico fino a indizio- di acidità e lo ridistillai in corrente di acido carbonico con acido nitrico tiepido in. ultimo; da questo, come nei casi precedenti, venne fuori la reazione del fosforo, ma non quella dell’ arsenico. Il residuo acquoso, da cui l alcole si era separato distillando, era perfettamente scolorito e torbidiccio. Evaporato a secco, lasciò un residuo cristallino e bianco, il quale ripreso con alcole assoluto gli cedette un sale alquanto deliquescente, che in soluzione acquosa precipitò coll’ acido iodidrico iodurato in gocciole brune, le quali a poco a poco cristallizzarono in laminette del detto colore accoppiate per lo più a due a due. Col tannino non apparve precipitato, ma col tempo s' intorbidò alquanto. Col cloruro di platino, precipitato immediato in bei cristalli a croce. Col cloruro d’ oro, verun precipitato immediato; col tempo cristalli in lunghe lamine di un giallo pallido. Col bicloruro di mercurio, verun precipitato. Coll’ acido picrico, nulla in principio; dopo un’ ora lunghi aghetti rari che par- tendo dalla periferia si protendevano fino quasi all’ estremo opposto. TORO Col reattivo di Nessler precipitato rosso di mattoni con isviluppo di odore acuto di pesce fracido. Il cloridrato messo ad evaporare formò cristalli a croce ed in belle arborescenze felciformi. Con una parte del cloridrato tentai una prima prova sulla rana; in essa si manifestò dopo 5 minuti la dilatazione della pupilla, cui tosto susseguirono con- vulsioni tetaniche, ed altri fenomeni che sono descritti nel Documento B per una seconda esperienza fatta con la stessa e della quale si occupò il Prof. Vella. È da notare fin d’ ora che questa arsina si comportò chimicamente e fisiologicamente come quella di cui parlai in altra Memoria, e che ricavai da uno stomaco di maiale messo a putrefare con arsenico. Volendo accertarmi se la base volatile e venefica fosse o no un’ arsina, per non sciupare troppa sostanza, cercai l’ arsenico nella rana avvelenata e già morta, che a quest effetto fu tagliata in pezzetti e trattata due volte a caldo con acqua inacidita dall’ acido solforico. Evaporata l’ acqua acida, dopo aggiuntovi acido ni- trico in abbondanza, ripreso il residuo con acido nitrico e solforico, e seguitando fino a distruzione della materia organica, poscia estinguendo con acido solforoso i vapori nitrici che potessero essere rimasti nell’ acido solforico, procedetti alla prova nell’ apparecchio di Marsh, in cui ottenni un bel anellino arsenicale. Ciò compiuto, passai ad esaminare il liquido urinoso rimasto dalla distillazione dell’ alcole; conteneva urea in copia con altre materie. Con acqua di barita diede un precipitato di colore giallognolo sporco (B'), di lavacro difficile, per cui do- vetti lasciare il liquido a sedimentare, decantare la parte chiara, ristemperare in acqua, raccogliere la materia indisciolta su feltro, rilavarla ecc. Il feltrato, dibattuto con etere gli cedette una materia colorante giallastra e dell’ urea. Evaporando l’ etere, l’ urea cristallizzò e ne rimase un’ acqua madre, la quale, evaporata e ripresa con etere, nulla fornì che meriti di essere ricordato. Il precipitato baritico A4' fornì un anello arsenicale assai maggiore di quello che avessi ottenuto dal precipitato corrispondente del primo periodo; sul precipi- tato B' non operai. Dalle ultime acque madri del liquido urinoso dopo la precipitazione colla ba- rita, gli esaurimenti coll’ alcole e coll etere, la evaporazione a secco e la distru- zione della materia organica, ebbi un grosso anello di arsenico. Dunque medicate le indagini istituite sulle urine dei cinque giorni susseguenti al tre primi sl ricavarono : 1° Un prodotto volatile fosforato ; 2° Dell’ arsenico contenuto nel primo precipitato baritico ; 3° Un'arsina volatile e venefica con fenomeni tetanici ; 4° Un residuo estrattivo ch’ era molto ricco di arsenico. L’arsenico del primo precipitato baritico era accresciuto in modo ragguarde- vole. sli (OR Urina del terzo Periodo. Fu raccolta nei giorni 27, 28, 29, 30 e 31 di Marzo, e nell’ 1 e 3 dell’Aprile. Esaminata ciascuna urina giorno per giorno, non vi riscontrai nè albumina nè glucosio. Era del colore naturale, limpida, con qualche poco di sedimento al fondo, di reazione acida, ed esalante un odore agliaceo speciale. In totale misurava 2460 c. c. L’urina fu trattata con latte di barite e con un volume di alcole assoluto; e il precipitato baritico A" lavato con alcole di 60 centesimali fu messo a parte. La corrente di acido carbonico che attraversò l apparecchio durante la distil- lazione del liquido urinoso-alcolico, trasportò nell’ acido nitrico, oltre a vapore di alcole, una piccola quantità di un principio volatile fosforato e non arsenicale, come era avvenuto per l urina antecedente, poichè dal detto acido nitrico, diviso in due parti, la seconda in doppio volume della prima, ottenni, dopo evaporazione e distruzione dell’ acido ossalico formatosi dall’ alcole, una traccia di precipitato cedrino col reattivo molibdico, mentre nulla si manifestò procedendo sulla seconda porzione, (dopo i necessari trattamenti) mediante l apparecchio di Marsh. L’alcole distillato era alcalimo; saturato con acido cloridrico, lo ridistillai nella corrente di acido carbonico, coll’ acido nitrico posto in fine, dal quale non risul- tarono poi contrassegni nè di fosforo nè di arsenico. Reputai conveniente di esaminare l’ alcole ridistillato, saturandolo con una cor- rente regolare e lenta di vapori nitrosi, e poscia versandolo in apparecchio distil- latorio affine di separare la parte alcolica dal residuo fisso prodotto per ossida- zione; residuo che divisi in due porzioni, una delle quali di volume doppio di quello dell’ altra. La parte minore fu sottoposta alle operazioni convenienti per la ricerca del fosforo, che di fatto vi riscontrai in tale proporzione che il reattivo molibdico in- giallì subito la soluzione nitrica, con successivo sedimento di cristallini granulari cedrini; mentre la porzione maggiore trattata pure in modo da distruggere la ma- teria organica, e da ridurla in istato da esplorarla coll’ apparecchio di Marsh, ivi versata non altro fornì che un piccolo anellino di arsenico corrispondente ad !4,, di milligr. all'incirca. Procedendo alla disamina del residuo acquoso rimasto quando si ridistillò l'al- cole e che doveva contenere il cloridrato delle basi volatili, dirò che ne estrassi molto sale ammoniaco, da cui con alcole misto ad etere ottenni un cloridrato un po’ gialliccio, che esalava odore spiacevolissimo di pesce fracido, con un non so che di repugnante all’ olfato, che volendo fiutarlo per un po’ di tempo si provava come una specie di vertigine. Messo sotto campana con idrato di sodio cristallizzò in forme somiglianti a ferro di lancia; i cristalli non erano deliquescenti, ed anzi si potevano bagnare con acqua senza che immediatamente si sciogliessero, per cui li potei purificare da quel poco di materia colorante ond’ erano imbrattati. TOMO II. 2 ant ag Fattane una soluzione acquosa, coi reattivi si comportò come segue: Tannino. Intorbidamento in bianco che andò crescendo. Tetracloruro di platino. Precipitato immediato di un giallo pallido ia cristallini a croci od a stelle, ciascun raggio delle quali componevasi di ottaedrini uno in- serito nell’ altro. Cloruro d’oro. Intorbidamento; col tempo si deposero cristalli gialli e minuti, agglomerati svariamente e la cui forma non potè bene essere apprezzata. Bicloruro di mercurio. Intorbidamento che crebbe col tempo, poscia formazione di laminette a croce, ciascuna delle quali di forma ovoide molto allungata, con altre sottili e ramificate. Acido picrico. Intorbidamento, e in appresso cristalli minuti di un giallo cedrino. Ioduro di bismuto e potassio. Lieve intorbidamento gialliccio nel primo istante; indi a poco a poco apparve un precipitato scarso di un bellissimo rosso vivo. Acido iodidrico iodurato. Precipitato bruno immediato in gocciole che non cri- stallizzarono. Reattivo di Nessler. Precipitato rossiccio, che tosto sbiadì con forte sviluppo d’ odore di pesce fracirlo. Il cloridrato cristallizzò in forme somiglianti a ferro di lancia. Preso un poco del cloridrato lo ossidai con acido nitrico, a cui aggiunsi del- l'acido solforico, poi acido solforoso ‘ecc. per sperimentarlo nell’ apparecchio di Marsh. Ne risultò un anellino arsenicale si minimo da sembrare credibile, che de- rivasse da un poco di arsina del secondo periodo, la quale fosse commista col- l’altra base volatile, che venne ingenerandosi continuando i avvelenamento, e che però fu riscontrata nell’ orina. Anche questa base fu sperimentata sulla rana dal Prof. Vella: produsse effetti venefici, ma diversi da quelli che risultarono dall’ ar- sina del secondo Periodo: vedi Documento C. Il liquido urinoso rimasto dal primo distillato alcoolico, trattato con latte di barita, diede un precipitato che diciamo 2B'' e che fu separato per feltrazione. Siccome il detto liquido conteneva barita in eccesso, lo saturai con acido carbo- nico, con che si decolorò in parte, avendo il carbonato di barite formatosi tratto seco nel precipitare una parte della materia colorante; frattanto lo evaporai e mi fornì una quantità considerevole di urea. Separata l’ acqua madre, convertii in os- salato l’ urea che vi era rimasta in soluzione, lavai l ossalato con soluzione con- centrata di acido ossalico, lo decolorai con carbone animale e lo decomposi con carbonato calcare. Ne ebbi libera l’ urea che rimase nel liquido, da cui per con- centrazione a blanda temperatura cristallizzò; messa a sgocciolare l’acqua madre e riconcentrata diede nuova urea; ridotta in ultimo a piccolo volume, ne presi una frazione per ossidarla con acido nitrico affine di distruggere la materia organica e di cercare se vi fosse dell’ arsenico, come difatto vi riscontrai, avendone ottenuto un bel anellino. Rinato il sospetto che l’ arsenico derivasse da un’ urea arsenicale, presi l’acqua madre rimasta, che era la quantità maggiore, la precipitai con acido Tnt cigni ETA IA REA) 1 nitrico, raccolsi il nitrato di urea, lo lavai con acido nitrico e in fine lo decom- posi con acido solforico e nitrico, conducendo le operazioni in modo, da avere un liquido solforico sperimentabile all’’apparecchio di Marsh; fatta la prova non si presentò nemmeno una traccia di arsenico. La prima acqua madre da cui era stata precipitata l’ urea in istato di ossalato, messa a concentrare, indi decantata dall’ ossalato, fu alcalizzata con latte di barita e poi dibattuta, dapprima con etere e in appresso con benzina a riconoscere se avesse fornito qualche alcaloido, ma non ne estrassi che principii resinosi e materie co- loranti. Rimanevano da sperimentare i precipitati baritici A' e B'; decomposi l uno e l’altro con acido solforico diluito, evaporai le soluzioni rispettive, distrussi nei residui la materia organica con aggiunte successive di acido nitrico ece, indi li esperimentai nell’ apparecchio di Marsh : dall’ uno e dall’ altro si formò l'anello arsenicale, di cui, quello del precipitato A'' fu copioso, mentre fu piccolo quello del precipitato 5". Dunque dalle ricerche dell’ urina del terzo periodo risultò: 1° Che vi sussisteva un prodotto neutro volatile e fosforato ed uno anche arsenicale, ma questo in tenuissima quantità, e che fu riscontrato soltanto nell’ al- cole ridistillato ; 2° Che vi sussisteva pure una base volatile, la quale fu convertita in clori- drato ben cristallizzabile e non deliquescente, quasi non arsenicale e che produsse effetti venefici; 3° Che era contenuto arsenico nelle acque madri, da cui fu separata l’ urea e d’onde erano stati precipitati colla barita gli acidi formanti composti insolubili con essa; 4° Che l’arsenico era contenuto ancora nei due precipitati baritici e più ab- bondantemente in quello che si ottenne trattando primamente 1’ urina colla barita e 1’ alcole. Urina del quarto Periodo. G Le urine del quarto periodo furono raccolte interrottamente dal 4 Aprile al 15 detto; risultarono in totale di 4928 ce. c. Col progredire dell’avvelenamento, fattosi oramai cronico, l animale pochissime ne emetteva, e quelle raccolte contenevano albumina specialmente nei primi giorni, ma che venne scemando di mano in mano finchè scomparve del tutto. Quando fu- rono portate ancor fresche al Laboratorio, 1nanifestavano reazione acida: se un po’ stantìe si dimostravano alcaline. Tutte esalavano un puzzo agliaceo sgradevole e che talvolta riusciva insopportabile. Per riconoscere se tale odore provenisse da un composto volatile arsenicale, feci per due volte l’esperienza che segue. api Presi in uno dei giorni suindicati un volume dell’ urina corrispondente a circa 14 litro; prima di trattarla colla barita e coll’ alcole, la versai in una bottiglia a due gole, per una delle quali entrava un afflusso di anidride carbonica, mentre per l altra usciva il gas, dopo avere gorgogliato nell’ urina, e andava a gorgogliare nell’ acido nitrico tiepido contenuto in un palloncino, fra il quale e la boccia aveva intrapposto un altro palloncino. La boccia era immersa in bagno maria, la cui temperatura fu mantenuta presso all’ ebollizione. L’ operazione durò 6 ore di con- tinuo. Sottoposi in appresso l'acido nitrico alle debite prove per verificare coll’ appa- recchio di Marsh se avesse fornito dell’arsenico, ma non ne diede neppure una traccia. Quando smontai l apparecchio notai che in sul fondo della boccia a due gole si era formato un sedimento. Lo raccolsi su feltro, lo lavai, lo trattai con acido solforico e acido nitrico ecc. per distruggere la materia organica e lo sperimentai nell’ apparecchio di Marsh, con che n’ ebbi un anello arsenicale. La seconda esperienza ripetuta sopra l’ urina di una dei giorni successivi non diede ugualmente verun prodotto volatile arsenicale, e a differenza di quella della prima non formò posatura durante lo scaldamento e il gorgogliare dell’ acido car- bonico. Dunque l odore agliaceo dell’ urina arsenicale non derivava da un principio volatile contenente dell arsenico. Natomi il sospetto che vi fosse in contraccambio un principio fosforato ne feci anche la prova, senza che ve ne riscontrassi con- trassegno: avrei dovuto cercarvi il solfo e l’ avrei fatto, se avessi avuto un soprav- vanzo di materia. Non importerebbe di accennare che per ogni ricevimento dell’ umore urinoso gli aggiunsi del latte di barita e un volume di alcole assoluto, ma ad ogni modo è meglio non tacerlo: ne ottenni al solito un precipitato baritico A'', che raccolsi su feltro, lo lavai e lo misi a parte; distillai susseguentemente il liquido alcolico in corrente di acido carbonico col solito acido nitrico in fine, evaporai questo a secco, distrussi con altro acido nitrico il residuo carbonoso, e operai al solito fino ad istituire la prova per l’arsenico che eseguii distruggendo i prodotti nitrici col- l'acido solforoso, di cui espulsi l’ eccedente, per diluire il residuo con acido clori- drico concentrato, che saturai di acido solfidrico. Tenni il recipiente in luogo tiepido per 24 ore, feltrai l'acido per feltrino di carta berzeliana purificata, affine di raccogliere quel poco di precipitato bian- chiccio (di solfo) che si era deposto ; lo ossidai con acido nitrico e solforico, ne tolsi i prodotti nitrosi con acido solforoso ecc. e lo sperimentai nell’apparecchio di Marsh, senza che punto vi trovassi di arsenico. Nel liquido acidissimo, ch'era stato feltrato, cercai il fosforo; lo evaporai a secco, vi aggiunsi dell’ acido nitrico e un granellino di cloruro di sodio, evaporai di nuovo a secco; poscia vi versai dell’ altro acido nitrico e del reattivo molibdico, e ne ottenni un immediato ingiallimento, a cui successe la posatura di un preci- pitato cedrino. Anche in questo caso adunque per la distillazione del liquido urinoso-alcolico la corrente dell’ acido carbonico aveva trasportato con sè un prodotto volatile fo- sforato e non arsenicale. L’ alcole distillato possedeva reazione alcalina; lo inacidii al solito con acido cloridrico, lo ridistillai in corrente di acido carbonico, con acido nitrico in ultimo, dal quale, colle operazioui opportune, potei svelare il fosforo ma non l’ arsenico. Affine di sempre più accertare che tra i prodotti volatili neutri ne sussisteva uno fosforato in cambio di uno arsenicale, presi tutto l’ alcole ridistillato che si rag- guagliava a quattro litri e mezzo all’ incirca, lo saturai con una corrente lenta e regolare di vapori nitrosi, ricuperai l'alcole per la massima parte in apparec- chio distillatorio, aggiunsi al residuo qualche centigr. di carbonato di sodio, eva- porai a secchezza, distrussi con nuovo acido nitrico la materia carbonosa ch’ era in tenue quantità ed in appresso scomposi con acido solforico il nitrato che vi potesse sussistere, adoperai ancora l acido solforoso nelle debite maniere, ri- dussi il residuo in soluzione cloridrica in cui feci gorgoghare dell’ acido solfidrico, tenendo poi il recipiente chiuso, in luogo caldo per 24 ore. Null’ altro si depose che un lievissimo sedimento bianco, talmente esiguo e scolorito da escludere qual- sivoglia sospetto di solfuro di arsenico commistovi. Feltrai l’ acido, lo evaporai, ripresi il residuo con acido nitrico, in cui il mo- libdato di ammonio produsse un precipitato copioso di .fosfomolibdato. Con tale esperienza venni sempre più confermato che nelle urine arsenicali si riscontra un prodotto volatile fosforato e neutro e non già un prodotto della stessa indole chimica e contenente arsenico. Passando al residuo acquoso ottenuto dalla ridistillazione dell’ alcole, ne sa- turai l alcalmità con acido cloridrico, lo evaporai a blanda temperatura fino ad un dato punto di concentrazione, indi lo posi a disseccare sotto campana con soda caustica. Ne rimase un residuo salino, lievemente colorato di giallo, e che esalava odore di pesce fracido. Tolsi in gran parte il sale ammoniaco che vi era mescolato col solito espediente dell’ alcole assoluto: la soluzione alcolica lasciò per evaporazione spontanea un residuo un po’ colorato, in cui il detto odore era assai più palese. Siccome era colorito, tentai di decolorarlo con carbone animale, dopo di averlo sciolto nell’ alcole; nel che riuscii fino ad un certo punto. Lo posi in appresso ad evaporare a blanda temperatura, esaurii il nuovo residuo con alcole a cui aveva aggiunto alcuni volumi di etere, ed evaporai pure la soluzione alcoolico-eterea. N’ ebbi un prodotto salino che misi sotto campana con idrato di sodio acciò si disseccasse; e con ciò rimase coll’ aspetto di una materia vischiosa, in cui nuo- tava qualche raro e piccolissimo cristallino, ma che stando a lungo sotto la cam- pana nell atmosfera disseccante finì per cristallizzare in lunghi aghi sottili e sco- loriti. Le sue reazioni furono: EROTIC Acido tannico; non precipitò. Cloruro di platino; non precipitò immediatamente, col tempo depose cristalli ottaedrici, a cui ne susseguirono altri che si formarono più lentamente ed avevano l'aspetto di tavole rombiche, per lo più unite insieme a due o tre con disposi- zioni diverse. Acido iodidrico iodurato ; precipitato bruno; in breve apparvero alla superficie laminette di un grigio di acciaio. Portando in allora il vetro sotto il microscopio, sì riconosce che tali laminette constano di magnifici cristalli a foglie, per lo più verdi per trasparenza, ma anche di un rosso rubino e di un azzurro più o meno chiaro. Talvolta una delle foglie si divideva in tre rami, ciascuno colorato di- versamente e tal’ altra sull’estremo delle foglie verdi si scorgevano impiantati bottoncini rossi come frutti. Cloruro d’ oro; precipitato immediato cristallino di un bel giallo di limoni. I cristalli molto minuti, visti con ingrandimento di 600 diametri, apparivano come frantumi di ottaedri e di prismi a base rombica. Bicloruro di mercurio; verun precipitato, nè col tempo si formano cristalli. Acido picrico; intorbidamento immediato; col tempo si formano cristalli aghi- formi magnificamente ramificati. Ioduro di potassio e bismuto; precipitato di un rosso di minio che si con- serva tale. Reattivo del Nessler ; forte sviluppo di odore di pesce fracido disgustoso, e pre- cipitato giallo rossiccio che tosto sbiadisce. Consegnatone 20 milligr. al Prof. Vella, questi lo sperimentò sopra una rana, e non ne ottenne sintomi di veneficio. Il residuo urinoso da cui era stato già tolto l’alcole per distillazione, come avvertii in addietro, diede con latte di barita un nuovo precipitato B'''. Lo feltrai per separare il precipitato, lo concentrai blandemente a sciloppo e ne precipitai l’urea coll’acido ossalico; l’ossalato trasse con sè della materia colorante, onde lo lavai con alcole assoluto, unendo il lavacro coll’ acqua madre dello stesso os- salato. Sciolsi l’ossalato a caldo in acqua, lo decolorai con carbone animale, lo de- composi con carbonato di calcio, indi concentrata la soluzione di urea ottenutane, essa cristallizzò per la massima parte. Quella che rimase nella sua propria acqua madre, convertita in nitrato per averla pura, decomposta con acido nitrico in ec- cedenza e a caldo ecc. non fornì neppure un lontano indizio di arsenico. Rimaneva da fare qualche ricerca sull’ acqua madre dell’ ossalato ch’ era stata tenuta in disparte. La concentrai per farne cristallizzare dell’ altro ossalato, ne al- calizzai la parte liquida con latte di barita e poi la dibattei con uguale volume di etere per due volte. L’'etere apparve colorato di un giallo di ambra. Evapo- rato spontaneamente lasciò un residuo di odore aromatico, che l’acqua sciolse in parte; la soluzione era poco colorata, di sapore pungente e non inazzurriva il tor- nasole, sebbene contenesse manifestamente un alcaloido. Difatto : RESO rl 13 GIA Col tannino precipitò in bianco che a poco a poco dileguò. Col cloruro di platino non diede precipitato, se non che depose col tempo mi- nuti cristallini in laminette rettangolari, per lo più oblunghe, ed associate a stella od a croce. Col cloruro d’oro s' intorbidò immediatamente con riduzione successiva e for- mazione di qualche tavoletta esagonale. Col bicloruro di mercurio 8 intorbidò pure nell'istante, indi diede cristalli in belle ramificazioni di lunghi e sottili filamenti scolorati. Coll’ acido picrico s intorbidò ugualmente e similmente cristallizzò in laminette quadrangolari disposte ad arborizzazioni in maniera bellissima. Coll’ioduro di bismuto e potassio precipitò in giallo pallido che indi scomparve per cui la gocciola divenne perfettamente limpida. Coll’acido tiodidrico iodurato fornì gocciole brune che non cristallizzarono. Una parte dell’ estratto etereo ridisciolto in acqua fu ossidata per esperimen- tarla nell’apparecchio di Marsh. e non ebbi contrassegni di arsenico. Sperimentai nello stesso modo la parte resinosa che l’acqua non aveva disciolto : essa mostrò di non essere arsenicale. Finalmente operando sui precipitati baritici A'' e B'", vi trovai arsenico in ab- bondanza. Nell urina del IV Periodo riscontrai adunque di prodotti anomali: 1° Il prodotto fosforato volatile, che era apparso ugualmente nelle urine dei Periodi We IN: | 2° Una base volatile, avente l’ odore di pesce fracido, non venefica, od al- meno di lieve azione perniciosa sulle rane; 3° Una seconda base fissa non arsenicale. 4° Dei composti arsenicali nei precipitati baritici. Avendo in appresso di dieci in dieci giorni, dopo essere cessata l’amministra- zione dell'acido arsenioso, cercato l’ arsenico nell’ urina del detto cane, il metalloido fu trovato, sempre scemando, fino al quarantesimo giorno; nell urina raccolta nella decina susseguente, non fu più riscontrato in quantità apprezzabile all’appa- recchio di Marsh. URLO e CONSIDERAZIONI SULLE COSE ESPOSTE Vari fatti che mi paiono notevolissimi emersero dalle indagini qui descritte e sono : 1° La formazione di un’ arsina volatile e tetanica, trovata nell’ urina del se- condo periodo, mentre quella del primo periodo conteneva la sola ammoniaca tra le basi volatili ; 2° Il sostituirsi all’ arsina, nel periodo terzo, di una nuova base volatile non arsenicale e meno venefica; 3° Il sostituirsi pure nel periodo quarto di una terza base volatile a quella del periodo antecedente, priva di azione perniciosa; 4° Il manifestarsi costante di un prodotto fosforato vol atile e neutro, incomin- ciando dal primo periodo fino al quarto, colla mancanza contemporanea di qual- che altro prodotto somigliante che fosse arsenicale. Tra le varie riflessioni che si offrono alla mente circa ai prodotti indicati, una delle principali è quella dell’ apparire dell’ arsina volatile del secondo periodo, quando i sintomi dell’ avvelenamento erano già palesi senza che si scorgessero nel cane fenomeni neppure iniziali di tetano. E siccome deve la stessa ingenerarsi nell’ uomo avvelenato per modo somigliante, e non si vide mai in verun caso di attossicazione per arsenico che si sviluppas- sero tali fenomeni, sorge la domanda, per quale cagione abbiano da mancare. Alla quale domanda posso tuttavia rispondere fin d’ ora, rammentando un fatto verifi- cato da me e dal Prof. Vella nell’ occasione di una perizia tossicologica. Cercando in certi visceri affidatimi se vi sussisteva qualche corpo venefico, vi riscontrai l’arsenico e la stricnina, della quale il medico curante non era venuto in sospetto prestando assistenza all’ avvelenato, dacchè non aveva osservato il più che remoto contrassegno che ne accennasse la propinazione. Considerando come ciò essere poteva, nacque l’ idea in me e nel mio Collega, che se la morte non era stata preceduta dai sintomi stricnici, ciò dovesse imputarsi ad una controazione dell’ ar- senico, onde per ischiarire il quesito si istituirono varie esperienze con mescolanze del cloridrato dell’ alcaloido e di acido arsenico, dalle quali emerse che iniettando nelle rane una soluzione mista, preparata in certe proporzioni, dell’ uno e dell’ al- tro, la rana periva in breve quasi che il solo arsenico le fosse stato iniettato sotto la pelle. Il simile deve succedere dell’ arsina tetanica quando si forma nel vivo ed è accompagnata dal tossico onde piglia nascimento, dimodochè poteva atten- dermi da esperienze apposite, che iniettandola con acido arsenico non avrebbe pro- dotto indizi del tetano. Ci a Le esperienze furono eseguite dal mio primo assistente Dott. Strorpa su rane uguali per quanto fu possibile per grossezza e vivacità, in una delle quali venne intro- dotta nel modo consueto una soluzione di 15 milligrammi dell’ arsina cloridrata ; nella seconda una soluzione di altrettanto di arseriato di soda; nella terza una so- luzione di 15 milligr. per ciascuno di ambedue i sali. La prima morì dopo aver sofferte violenti convulsioni tetaniche; la seconda coi contrassegni soliti dell’ avvelenamento arsenicale; la terza a un dipresso come la seconda, tranne che cessò di vivere più sollecitamente. Chiarito il perchè della deficenza del tetano negli avvelenamenti arsenicali, quand’ anche si debba presupporre già formata l arsina, dirò passando ad altro, che importantissimo mi sembra il fatto dell’apparire delle basi arsenicate dopo pochi giorni dall’ amministrazione dell’ arsenico, cioè allorquando è credibile che accumulatosi in alcuni organi incominciasse ad aggredirne i componenti eccitando la formazione di prodotti anomali all economia animale, mentre poi se- guitandone l amministrazione con riprendere le dosi miti ed aumentandole a grado a grado, cessano le basi arsenicali, e vengono sostituite da altre, non contenenti arsenico, dapprima venefiche e poscia innocue o di lieve azione fisiologica. Se poniamo a fronte le basi accennate colle dosi dell’ arsenico propinato du- rante l’ intera esperienza sul cane, troviamo : Pel primo periodo (dose 2 centigrammi nel primo giorno, e 3 }4 centigr. nel secondo giorno: urina dell’ uno e dell'altro): la sola ammoniaca. Pel secondo periodo (dose 4 centigr. portata a 15 centigr. nelle 24 ore; urina dei cinque giorni successivi al due primi): ammoniaca ed arsina tetanica. Pel terzo periodo (dose da 5 centigr. a 12 %4 centigr.; urina di giorni sette, dopo tre di interruzione): ammoniaca e base volatile non arsenicale, meno venefica dell’ arsina. Pel quarto periodo (dose ricominciata da 5 centigr. e compiuta successivamente fino a 30 centigr.; urina di dodici giorni): ammoniaca ed un’ altra base volatile non arsenicale e non venefica. Col precedere adunque dell’ avvelenamento, coll’ accumularsi dell’ arsenico negli umori ed elementi istologici, coll aumentarne a tratti la propinazione, l’ animale giunse sempre più a sopportarne una quantità considerevole eliminando per le urine prodotti, in taluni dei quali andò scemando la proprietà deleteria, mutando pur anco di caratteri chimici ed anche di composizione. Da ciò si ha la chiave con cui intendere in qual maniera si stabilisca la singolare tolleranza negli arse- niofaghi, che col prendere quotidianamente un pezzettino di arsenico bianco, circa un centigrammo. vivono in buona salute, s’ impinguano alquanto, acquistano anzi una certa alacrità per le salite ripide ed il camminare faticoso. È uno dei noti casi della abituabilità degli esseri organizzati all’addattarsi non solo pel nuovo ambiente in cui siano trasportati, ma ben’ anco ad un alimento inconsueto, con- formandosi alle condizioni insolite a cui sono costretti di sottostare. Talvolta l’ in- TOMO II. 4 3 RR) gresso di materie, eterogenee al loro stato normale, ne cangia l’ aspetto e perfino la specie, come avviene nel regno vegetale della salsola soda, che trapiantata in terra ferma o coltivata in terriccio da orto si svolge rigogliosissima, e come per la viola tricolor, la quale vegetando in terreno zincifero muta specie o varietà. Della abituabilità sappiamo anche quanto diventano comportabili certi medica- menti eroici, allorchè se ne continua la somministrazione di giorno in giorno, tanto da arrivarsi ad un punto di tolleranza da sembrare incredibile. Mediante la stessa, gli operai nelle fabbriche di dinamite si assuefanno al ma- neggio della nitroglicerina senza più patirne molestia, mentre in sul principio ne soffrono fortemente. Volendo renderci ragione di tali strane abitudini, d’ onde le non meno strane tolleranze, ci faremo ad esaminare ciò che deve accadere allorquando sì incomincia a trasmettere nell’ essere organizzato, una data materia eterogenea, non assimilabile e d’ indole deleteria. Il semplice fatto che un qualche cosa di estraneo, quindi di eliminabile al più presto possibile, venga trasfuso negli umori, non può che arrecare disturbo; peggio se la materia sia tale da aggredire taluno dei componenti degli umori e degli ele- menti molli e solidi, distruggendoli od alterandoli gravemente; peggio ancora se oltre al turbamento arrecato allo stato costitutivo od istologico del medesimi, 1’ azione aggrediente proceda più innanzi, come sarebbe ad ingenerare prodotti venefici di deassimilazione, a sottrarre I ossigeno dai globuli sanguigni, a disordinare le con- dizioni regolari del sistema nerveo, dacchè le conseguenze saranno più disastrose, rendendosi palesi con malattie pericolosissime fino da provenirne inevitabilmente la morte. Ma qualora la materia eterogenea venefica sia propinata in quantità tenui, se- guitando con dosi crescenti a seconda della tolleranza, gli sconci gravissimi sl pos- sono evitare; ed acciò l’ assuefazione torni possibile, fa duopo ammettere un’ ipo- tesi, o meglio una congettura, la quale credo si possa esprimere nei termini seguenti. —- Allorquando la materia eterogenea scorre per gli umori e induce qualche gua- sto in taluni dei componenti, non può che conseguirne il disordine nell’ intreccio costitutivo tra gl’ ingredienti e la forma degli elementi istologici. Per reazione che ne succede, l’attività organatrice, tende ad espellerne 1° inco- modo intruso, ma se questo sia ridato di continuo ed entro certi limiti, ne avverrà che si determini un modus vivendi, un particolare equilibrio tra di esso e le fun- zioni di riparazione, di guisa che nelle assimilazioni, mentre i principi immediati si vanno ingenerando, lo facciano con modificazioni tali da risultare più difficil- mente distruggibili. Devono adunque pigliare nascimento composti inconsueti all’ organismo nor- male, qualche volta accettando, tra i loro elementi primitivi, uno di quelli della stessa materia eterogenea, ma tali nel loro nuovo sussistere, ehe l’ equilibrio straor- dinario stabilitosi, divenga permanente, purchè permangano intatte le peculiari condizioni dalle quali appunto ne fu determinata la formazione. — PR: CA Nel primo affrontarsi della materia eterogenea, i principit immediati che ap- partengono allo stato normale, devono cedere più prontamente e profondamente all’ azione distruttiva; in appresso gli stessi principi, modificati, devono resistervi con più vigore, essendone di alquanto mutata la natura. Da ciò si comprende, come dal cane avvelenato si ottenessero prodotti di eli- minazione, nel secondo periodo, corrispondenti ad uno sfacelo grave di qualche principio immediato, tra cui risultava la sostituzione dell’ arsenico all’ azoto, e come ne’ periodi seguenti il tossico abbattendosi nei principi immediati della nuova ri- produzione, li aggredisse con attacco più mitigato, onde in cambio delle arsine si trovassero poi basi non arsenicate, coll’ effetto di più, di una successiva diminu- zione di potenza venefica nelle medesime. Cessata la somministrazione, vedemmo che per 40 giorni, l’ arsenico seguitò ad essere eliminato; la qual cosa vuol dire, che tra i principi immediati formati colla cooperazione del medesimo, vi erano certamente di quelli che lo contenevano, e di costituzione siffatta da non piegarsi troppo presto alla deassimilazione. Forse dalla repugnanza ad essere deassimilati che hanno i principit immediati in tale sta- to deriva l’uso benefico dei medicamenti arsenicali che contribuiscono, tanto ad un migliore nutrimento nelle persone emaciate (dacchè il processo deassimilativo vi diviene meno preponderante sull’ assimilativo) quanto ad impedire o rallentare la putrefazione nel vivo provocata dai microrganismi (1). Il lavorìo di quella formazione anomala deve compiersi a grado, ma con energia crescente a norma dell’ aumentare la sostanza che vi opera, soffermandosi però e cessando se la dose che si va introducendo venga ad oltrepassare i confini del comportabile, cioè quando per influenza della massa aggredisca con troppa violenza chimica gl’ ingredienti degli umori, ed i componenti istologici, o per altre cause da non potersi nè indovinare nè dimostrare. Comunque sia, se tolgasi il concetto dell’ abituabilità nella maniera qui dichia- rata, parmi che male si saprebbe in qual modo renderci ragione dei fatti da me osservati e di altri molti di cui gli autori tennero conto nei loro Trattati. Neppure senza l’abituabilità si potrebbe chiarire quel curioso fenomeno che si manifesta negli arseniofagi, i quali se interrompono l’ uso dell’ arsenico, soggiaciono ai sintomi dell avvelenamento lento, da cui si rifanno, ripigliandone tosto la dose consueta. L’ arsenico dunque è antidoto a sè stesso, il che sembrerebbe un para- dosso, qualora non si supponga quella specie di equilibrio di cui parlammo in addietro, al rompersi del quale, in conseguenza dell’ improvviso mancare del corpo eterogeneo, le funzioni di assimilazione riprendano l’ andamento naturale, per cui (1) Schmidt e Stuerzwage studiando l’ influenza principale dell’ acido arsenioso sull’ organismo, verificarono che fa diminuire notevolmente il logorìo dei tessuti e degli organi, con che i feno- meni organici della vita si compiono, senza produrre nei corpi quelle trasformazioni, alterazioni, secrezioni ed escrazioni tanto frequenti quanto sarebbero nelle condizioni abituali pel compimento delle medesime funzioni. EE 7/60 i principii immediati ritornino alla composizione primitiva, mentre si disfaranno gli anormali, i cui prodotti, arsenicali in parte, trapassando negli umori per via di eliminazione agiranno deleteriamente come farebbe una dose tenue del tossico nei primordi della propinazione. Se in allora vien ripreso l’ arsenico, l’ equilibrio naturale che stava riordinandosi sarà risospinto a mutarsi nell’ artificiale, cioè in quello che deve sussistere in presenza deli’ arsenico, d’ onde la formazione rinno- vata delle sostanze resistenti e il dileguarsi dei sintomi del veneficio. Si conoscono fatti relativi all’ azione deli’ arsenico assorbito dal di fuori, i qua- li paiono contradittorii, e questi sono, che in alcuni casi, essendo stato applicato sulla cute in proporzioni ragguardevoli, produsse soltanto un’ azione locale non grave, ed operò internamente contribuendo ad una nutrizione più efficace; mentre in altri avvelenò ed uccise. Kopp sperimentando su di sè l’ acido in soluzione ed in cristalli, bagnandone le mani, per alcune settimane di continuo, non altro ne soffrì che il gonfiare del- la palma e dei diti e poi del braccio con qualche ulceretta di facile guarigione ed un poco di febbre, conservando tuttavia I appetito a tal punto che crebbe di 10 Chilog. del suo peso precedente: altri invece, tra cui operai di fabbriche nelie quali si respira un’ aria contenente particelle arsenicali, ed altri pure am- malati di tumori cancrenosi, su che si applicò in larga dose il liquido del Fowler, rimasero avvelenati, senza che valesse cura per salvarli. Ad ischiarire effetti sì oppo- sti devesi notare: che nell’ uomo sano, robusto e ben nutrito l’ assorbimento avve- nendo per via della cute non escoriata, e col passaggio in umori normali, non può introdursi in quantità cospicua e con potenza distruttiva troppo profonda; mentre in persone deboli o malaticcie che lo respirano e lo ricevono in forma di polvi- scolo sul corpo intiero; ed in infermi di tumori in cui s' intromette sciolto nel pus o in altri liquidi putridi, la quantità assorbita dev’ essere maggiore ed, oltre a ciò, reagendo con materie in decomposizione, deve indurre la formazione di taluno di quei composti arsenicali od anche non arsenicali, che sono venefici. Che l ar- senico in liquidi sani debba tornare meno distruttivo e quindi meno pernicioso sì può argomentare da quanto venne osservato da me. Nella putrefazione arsenicale di uno stomaco di maiale, già alterato alquanto e che poi aveva condito con aci- do arsenioso, s° ingenerò l’ arsina tetanica ; dagli albumi freschi, invece, in cui ave- va sciolto del detto acido, ebbi decomposizione lieve collo sviluppo del composto fosforato volatile e di ammoniaca soltanto, ma senza che pigliassero nascimento basi arsenicali o di quella natura, che appaiono costantemente nel processo di pu- trefazione. Tra i resultati che notai meritevoli di riflessione in sul principio delle consi- derazioni presenti, è pur quello dello sviluppo di un principio fosforato volatile riscontrato nelle urine arsenicali. Quando l’ebbi dimostrato con esperienze ripetute mi nacque il sospetto, che derivasse da fosforo organico sostituito dall’ arsenico nelle reazioni tra questo ed i principii immediati, particolarmente gli albuminoidi, ne ie che sono i soli i quali contengono il fosforo non per intero in istato di acido fo- sforico semplice o di acido fosforico sostituito. Fu una congettura che poscia mi avvidi non sostenibile, dacchè il detto principio fosforato s’ ingenera quasi costan- temente in tutti gli sdoppiamenti putrefattivi delle materie animali. Lo trovai nei cervelli putrefatti e ve lo trovarono i miei allievi Dott. Cesare Stroppa ed Achille Tornani come da loro ricerche recentissime; lo trovai nella putrefazione della carne muscolare; in quella degli albumi e dei tuorli d’ ovo; nell’ albumina fresca messa a putrefare con acido arsenioso; nelle urine di alcune malattie, nelle quali o si deve ammettere un processo putrefattivo nel vivente, ovvero una scomposizione profonda, comunque suscitata, degli albuminoidi. Ciò sembrami avvalorare la conformità di comportamento tra l’ arsenico e gli agenti di putrefazione; conformità resa più certa da un’ altra osservazione, da quella che l’ arsina ricavata dall’ urina del cane risultò pei caratteri fisici, chimici e fisiologici, identica con quella che ottenni da uno stomaco di maiale messo a putrefare con arsenico. Nè devesi fare meraviglia se veggasi l’ arsenico operare come un fermento, dac- chè abbiamo nella chimica organica fatti congeneri in cui un reattivo minerale opera quelle mutazioni che si hanno coi fermenti solubili: per esempio l acido cloridrico diluito peptonizza la fibrina come fa il sugo gastrico; gli acidi diluiti sdoppiano i glucosidi, saccarificano l’ amido ecc. come fanno l emulsina, la dia- stasla ecc. Anche il fosforo quando avvelena procede non diverso dall’ arsenico, dando na- scimento al prodotto fosforato volatile e neutro ed a basi organiche, parecchie delle quali sono fosforate. Ma un’altra analogìa tra l’arsenico ed i fermenti putrefattivi o microbi emerge dal coincidere della tolleranza nel vivo, quando si propina il primo a gradi, cogli effetti dell’inoculazione dei secondi, che riesce quasi innocua dopo la prima ma- lattia, tanto da potersi indurre che inoculando anche l'arsenico e dopo ammini- strandolo si dovrebbero ottenere contrassegni assai più miti di azione tossica. Avendo lette le bellissime indagini del Pasteur sul cholera dei polli, dirò che tra le due ipotesi ardite con cui s' ingegna di spiegare 1 efficacia preservativa del- l’inoculazione dei microbi colerici; una di esse mi era parsa adatta per ispiegare i varî fenomeni per l’ avvelenamento graduato dell’ arsenico e la tolleranza che ne succede; se non che ponderandovi più a lungo conobbi di non poterla accet- tare nè pel caso mio e neppure per quello a cui il celebre scienziato francese la volle applicare. Verificato il modo incontestabile, che inoculato il microbo nel pollo, questo si salva dalla malattia, egli suppose ciò avvenire, o perchè il paras- sita distrugga negli umori una sostanza di cui si alimenta, non più riproducibile naturalmente onde viene a mancargli una delle condizioni necessarie al suo sus- sistere e moltiplicarsi, o perchè ingeneri durante l’azione sua decomponente un qualche prodotto che gli torni micidiale. Ma la prima supposizione si appoggia ad un’altra ipotesi non troppo credi- co bile, cioè che la natura non sia più capace di formare nuovamente quella tale sostanza dopo che scomparve; fenomeno il quale contraddice a quanto ci è noto intorno alle riproduzioni degli elementi plasmatici, e che perciò non possiamo ammettere neppure come probabile. In ordine alla seconda ipotesi non sapremmo renderci ragione, come mai il prodotto derivante dal microbo, e che gli sarebbe deleterio essendo anomalo nella compage organica, non debba venire eliminato in breve. Piuttosto parrebbe più accettevole ’ induzione, che il microbo si trasmuti nell’ organismo in un essere diverso, il quale possa moltiplicarsi, nutrendosi assi- duamente della mentovata sostanza di agevole distruzione senza aggredirne altre più stabili, e senza ingenerarne prodotti d’indole tossica, i quali fu provato es- sere ingenerati dal microbo primitivo. Di fatto il Pasteur estrasse dai polli colerici una materia che provoca una sonnolenza profonda, uno tra i sintomi princi- pali della malattia, ma che non riesce venefica; e ciò perchè espulsa per elimina- zione o scomposta per ossidazione, non viene rinnovata nè si accumula mancando la causa della sua riproduzione (1). Ma su questo argomento non intendo di continuare il discorso; avrò occasione di riprenderlo in altra Memoria, per cui facendo ritorno al mio tema favorito della tossicologia, avvertirò, che nelle cure dell’ avvelenamento arsenicale importe- rebbe cercare il mezzo terapeutico con cui impedire o rallentare la prima azione dell’ arsenico nel periodo in cui dà origine ad arsine o ad altre basi venefiche, come importa al tossicologo nelle ricerche sui visceri e liquidi tratti dal cadavere, l’ investigare se le arsine vi sussistano formate, e rammentare nella ricerca degli alcaloidi, che se ne può riscontrare degli arsenicati. Uno studio, spinto più innan- zi, potrebbe anche far conoscere quale il tempo strettamente neccessario per la ge- nesi delle arsine, e da ciò ritrarne un dato utile per arguirne se la propinazio- ne dell’ arsenico fu recente od incominciò da qualche giorno. Ma non si potrà giungere a tanto, finchè non si associno alle investîgazioni sulle urine quelle sui visceri dell’ animale avvelenato. (1) Giudico che il sussistere tra gli albuminoidi negli animali di una sostanza di più facile decomponibilità, sia cosa da non mettere in dubbio, desumendolo dal complesso di tutte le ri- cerche che istituii sulle putrefazioni, nonchè da altre osservazioni. Spero anche di poter giungere ad estrarla. RO li (Documento A) A questo cane di grossa mole e robusto, chiuso in una gabbia di legno a doppio fondo, uno de’ quali di zinco onde raccogliere le urine a misura che ve- nivano emesse si cominciò col 20 Marzo 1880 a somministrare giornalmente I acido arsenioso sciolto nell acqua a dose crescente, e cioè da 1 centigrammo sera e mattina, fino a 30 nelle 24 ore, ora mescolato col latte, ora col brodo di carne, od anche inzuppandone il pane che gli si dava a mangiare. ‘4, tanto nel mattino quanto nella sera, val a dire il 26 marzo, l’ animale non diede segno di sofferenza alcuna. In quel giorno fu sorpreso da vomiti e diarrea e rifiutò ogni sorta di cibo. Lasciato in riposo due giorni si rimise interamente. Il 29 Marzo si ripigliò l’ arsenico e così grado grado con alternative di sem- plice malessere o di ben chiari fenomeni di avvelenamento si arrivò al 15 aprile in cui la dose dal tossico essendo portata a 30 centigr. aveva prodotto infrenabili vomiti e diarrea, prostrazione estrema di forze, impotenza a reggersi in piedi da sembrare paralizzato ed altri sintomi gravi da far temere della vita. Finchè non sì giunse alla dose di 7 centigr. e Pur tuttavia sospeso il veleno, il cane andò lentamente riavendosi affatto, tan- to che dopo quattro mesi dal cominciato esperimento si rimaneva nelle migliori condizioni di salute. Pror. VELLA. (Documento Db) Esperienza fisiologica coll’ arsina volatile, ricavata dall’ urina (II. Periodo) di un cane avvelenato coll’ acido arsenioso. Il cloridrato era nella dose di 15 milligr.: l esperienza venne eseguita sopra una rana piuttosto piccola ma vivace ed ebbe principio alle ore 12 ©. Si cominciò col fissare l’ animale per le estremità sopra un’ assicella; quindi gli si mise allo scoperto il cuore che pulsava 72 volte per minuto. I movimenti di deglutizione dai quali si suole misurare i moti respiratorii erano 60. All 1 pomerid. viene iniettata sotto la pelle delle coscie mediante una sottile pipetta di vetro tutta la soluzione della dose indicata del cloridrato. Dopo 5 minuti : Battiti cardiaci 40. Movimenti respiratori 44. ue Oi Il cuore è di un bel rosso vermiglio e batte ritmicamente: i movimenti respi- ratori invece sono alquanto irregolari. La pupilla è un pò più ampia; si nota qua e là qualche movimento fibrillare, in ispecie alle estremità, e una certa iperstesia a tutta la superficie cutanea. La cornea pure è estremamente sensibile. Dopo 16 minuti, entra in contrazioni tetaniche in forma di opistotono che du- rano 3 minuti primi. Da questo istante cessa qualsiasi movimento respiratorio. Durante l’ accesso il cuore è fermo in diastole e presenta un color rosso cupo quasi piceo. Cessato l accesso, il cuore ripiglia grado a grado i suoi moti, ma conserva il color scuro sopra notato. Le contrazioni del ventricolo sono lente, e cominciano dalla base per terminare verso la punta con un moto vermicolare. La diastole è più lunga della sistole. La pupilla torna del diametro normale. Le convulsioni tetaniche si ripetono spontanee ma si possono anche ridestare arti- ficialmente. Basta a questo effetto vellicare la superficie cutanea con un frustolo di carta: e anche solo toccando l assicella, su cui è infitta la rana. Questa mor- bosa ipereccitazione dura pochissimo, e lascia luogo a una perfetta insensibilità; cosicchè la rana non avvertì neanche lo strappo di qualche falange delle dita. La rana è morta alle 2, 15'. Alle 4 toccando direttamente il cuore colla pin- zetta, non se ne ridestano i moti, ogni eccitabilità cardiaca è dunque spenta tre ore dopo l’ iniezione. Il risultato di questa esperienza mi fa concludere essere la sostanza dotata di proprietà molto venefiche, ed agire alla guisa degli stricnacei. Aggiungo poi che 1’ azione di esso alcaloide è molto simile a quella di un’ ar- sina (cloridrato della base volatile) formatasi in uno stomaco di maiale salato colla anidride arseniosa, che venne esaminata dal Collega Prof. Ciaccio il 19 Novem- bre 1878. (Vedi Memoria del Prof. Selmi. 1880. Sopra due arsine formatesi nello stomaco di maiale salato coll’ anidride arseniosa, pag. 30, 31, 32.) Pror. VELLA. (Documento €C) Esperienza fisiologica con una hase volatile estratta dall’ urina (III. Periodo) di un cane avvelenato con arsenico. Il cloridrato di questa base volatile era in proporzione di 30 milligr. Sciolti in acqua, la soluzione fu tutta quanta iniettata sotto la cute della coscia di una rana di media grandezza, alla quale era stato preventivamente e come al solito scoperto il cuore e mantenuta fissa sopra una assicella con quattro spilli. Prima dell’ iniezione i battiti cardiaci erano. . . 65 per minuto. I movimenti respiratori . . TO) ci Dopo 10 minuti le pulsazioni du cuore scendono a 50 È Lesrespirazioni in N. di 5 Re i: La cute si offre alquanto arrossata nel luogo dell’ iniezione. Pupilla normale. Sensibilità perfetta. ; Dopo 20 minuti. Nessun’ altra sensibile variazione nel numero dei battiti cardiaci e dei movi- menti respiratori, questi ultimi per altro offrono minore ampiezza. Il cuore fin qui rimasto inalterato, si mostra ora, più piccolo e più scuro. La pupilla perde la sua forma triangolare assumendo quella circolare e si allarga più dell’ ordinario. La sensibilità persiste tanto alla cornea quanto alla pelle, ma è alquanto attutita in quest’ ultima. Passati altri 10 minuti: Si nota che i battiti cardiaci sono divenuti sempre più lenti e si son fatti irregolari. Questa irregolarità dipende da ciò che il cuore si ferma spesso in dia- stole e quando il ventricolo riprende la sistole non si vuota completamente. I mo- vimenti respiratori durante questo breve tempo sono andati man mano rallentan- dosi fino a cessare del tutto. Gradatamente vien meno pure la sensibilità tattile. In qualunque maniera eccitata la rana non esegue alcun movimento. Trascorsa appena 1 ora dall’ iniezione ogni manifestazione di vita si compendia in pochi moti cardiaci che si sono fatti irregolarissimi. Le pause in diastole durano fino a 40 secondi, nel qual tempo si scorgono sulla faccia anteriore (rispetto alla rana adagiata sul dorso) del ventricolo alcuni movimenti fibrillari appena percet- tibili. Di questi movimenti fibrillari se ne manifestano qua e là in varie parti del corpo, ma spontaneamente. La forte pressione della cute fra le branche di una pinzetta come il taglio brusco delle estremità digitali non valgono a risvegliarne dei somighanti. Dopo di 30%: La rana rimane perfettamente immobile, come prima, agli eccitamenti mecca- nici. Dessa è morta, e come fosse stata avvelenata da un alcaloide cardio-plegico, (la digitalima, l’ aconitma ad esempio). Pror. VELLA. (Documento D) Esperienza fisiologica con altra base volatile estratta dall’ urina (IV. Periodo) del cane avvelenato con acido arsenioso. Il cloridrato di questa base in proporzione di 30 milligr. venne sciolto in 10 goccie d’ acqua stillata e iniettato sotto la pelle di una rana. Durante i primi 10 minuti di notevole non ci fu altro che un leggiero aumento del diametro pu- pillare, ed una sensibile diminuzione tanto delle pulsazioni cardiache, che dei mo- vimenti respiratori. .Le pulsazioni cardiache prima della iniezione erano 70 per minuto, scesero tosto a 54. TOMO II. 4 o I moti respiratori che prima erano 102 si ridussero a 52 per minuto. In se- guito la pupilla tornò alle normali dimensioni, la sensibilità tattile così alla pelle, come alla cornea sì mantenne perfettissima. Trascorse 2 ore, nulla offrendo di abnorme ed essendosi alquanto rialzati i battiti cardiaci, fu liberata dall’ assicella sulla quale stava fissata mediante spilli, e fu riposta sotto una campana di vetro, dove si mise a saltellare con vivacità. Per altro il mattino seguente anche questa rana si trovò morta, sicuramente a cagione dell’ alta temperatura dell’ ambiente, e dall’ avere il cuore scoperto e fuori del torace, non per effetto di un alcaloide venefico. DI UN PROENCEFALO UMANO SINGOLARE PER ALCUNE PARTI SOPRANNUMERARIE SEMBIANTI A DERMOCIMACHE MEMORIA DEL PROF. LUIGI CALORI (Letta nella Sessione del 18 Novembre 1880) Fra i Proencefali umani che io conosco per veduta o per lettura, nessuno mi è parso più degno dell’attenzione del Teratologo quanto il presente a cagione di una singulare appendice etmo-frontale che accompagna il tumore della Proence- falia e che insiem con altra parte, come vedremo, fa ch’ ei rassembri un dermo- cima (1) 0 mostro doppio per inclusione sottocutanea. È desso un feto maschio a termine, nato d’una contadina di Renazzo terzipara, la quale non seppe incolpar di nulla questo suo parto mostruoso; il quale feto è ben conformato della persona, salvo che alla testa (Fig. 1°) che è piccola, assimetrica, ed ha il cranio schiac- ciato, triangolare con la base del triangolo all’ occipite, e rado di capelli. Il tu- more a è un voluminoso corpo pagonazzo, concavo-convesso, trilobato, il quale sorge dalla parte media della fronte, dal lembo anteriore della lamina orizzontale dell’ etmoide, ed a sinistra dal naso osseo in sul confine del cartilagineo, e piega a destra arcuando e discendendo sulla guancia rispondente alla volta della spalla del medesimo lato, la quale egli attingeva, ed alla quale era applicato, innanzi che io dirizzassi il collo e sollevassi la testa del feto, come vedi nella citata Fi- gura, ed eziandio il tumore scostandolo alquanto dal volto per metterne in vista la faccia concava e l’ appendice etmo-frontale b. Esso tumore è poi più lungo che grosso, misurando il suo diametro longitudinale 105 millim., ed il trasversale mag- giore, che è alla base di lui medesimo, 32. I suoi lobi sono distinti per due solchi della sua convessità, il superiore dei quali è superficiale, profondo l’ inferiore, ed (1) Da Seppa, pelle e xvpx feto, prodotto della generazione. Vedi Isid. Geoffroy Saint Hilaire, Histoire des anomalie de 1’ organisation. Tom. Troisieme — Paris 1836, pag. 291 e 298. Nota I. Lo RI essi lobi sono ineguali di grandezza, di consistenza e di tinta. Il primo o supe- riore 1, è il maggiore, e costituisce la base o parte più grossa del tumore: il se- condo 2, è mezzano di grandezza come anche di sito: questi due lobi sono ben sodi e resistenti, e tinti più in cupo del terzo 3, che è quasi del color della pelle e termina il tumore, ed è più piccolo e men teso degli altri due e più cedevole, anzi flaccido. Ha nella parte inferiore una leggier concavità, la quale altro non è che l'impronta della pressione da lui fatta poggiando sulla spalla destra. Accosto al lato inferiore o concavo del tumore ed anteriormente apparisce l’ap- pendice sopradetta b, divisata da lui per un color bianco ombreggiato di rosso qual’ è l’incarnato della pelle, nè molto in ciò si differenzia dal lobo 3. La sua forma ricorda quella di un dito mignolo semiflesso, ed è breve, non essendone la lunghezza che 31 millim. Offre due solchi che la distinguono in tre parti, l ul- tima delle quali porta la fossetta c, corrispondente al principio di un solchetto scolpito nel suo ossicolo interiore (Fig. 2°), ma nulla comunicante con esso, e termina al lobo 3, che sembra come appeso e pertinente all’ appendice. Aderisce poi alla faccia concava del tumore, e n° è confusa colla base, cominciando dalla porzione nasale del frontale e dall’ etmoide a destra: ondechè mi è parso che me- glio di ogni altro epiteto le si addicesse quello con il quale l’ ho contrassegnata, vale a dire di etmo-frontale. L’ Anatomia mi ha mostrato nel tumore e nell’ appendice descritta quanto segue. Primieramente sono amendue vestiti della pelle che comprendeli in un sacco co- mune, con questo che quella che copre l appendice, è grossa e normale, ma quella che avvolge il tumore, è sottilissima e semi-trasparente, e soppannata dalla mem- brana della sinimensi fronto-frontale e dalla dura madre soprammodo assottigliate e terminate a fondo cieco in corrispondenza della distinzione del lobo medio dal piccolo, cotal che questo lobo non comunicava con gli altri due. La dura madre in fine manda qualche processo sottilissimo, fra’ quali il più ragguardevole corri- sponde al solco distinguente il lobo maggiore dal mezzano. Spogli questi due lobi del loro vestimento non apparisce già il cervello, ma molto sangue rappreso ed anche stratificato, riempiente quasi per intero il lobo 2, e molto meno abbondante nel lobo 1: tolto il quale sangue, cade sotto gli occhi un cervello vescicolare, leggiermente increspato, a pareti sottili, entro il quale si trovano de’ plessi coroidei enormi nuotanti in uno siero alquanto torbo. Esso cer- vello poi era piccolo, occupando poco più della base del tumore, o il primo lobo 1, siccome quello che appena attingeva la cavità del lobo 2, ed insinuavasi con pochissima parte di sè in quella del cranio strettissima, essendo la porzione esistente della volta caduta sulla base. Il tumore dunque del Proencefalo non è una semplice ernia o sventramento cerebrale anteriore, ma un’ ernia o sventra- mento accompagnato da un'enorme ematoma. All’ ultimo nel piccolo lobo 3 aveva una sostanza molle semifluida, traente al gialliccio, alquanto untuosa, che osser- vata al microscopio appariva composta di molte molecole vescicolari o granellini RE "0: VD minutissimi, la maggior parte di grasso, e di cellule nucleate globulari pur gra- nulose. La sua interna superficie era vestita da una membrana liscia somigliabile ad una sierosa. Ho detto di sopra che l’ appendice etmo-frontale b è coperta da pelle normale. Ciò vuolsi intendere semplicemente in riguardo alla sua parte libera, non essendo l’aderente coperta che da tessuto fibroso. Sotto la pelle ha del tessuto connettivo e del grasso, nel quale tessuto serpeggiano molti esili vasellini distesi da sangue e un qualche ramuscello nervoso. Un fascettino vascolo-nervoso tiene il solchetto del secondo e terzo pezzo osseo dell’ appendice, il quale fascettino termina spanden- dosi nel lobo 3 del tumore. Non ho d’uopo dire che questi piccoli vasi e nervi sono propagini del nervo frontale della prima branca del quinto paio e de’ vasi oftalmici e forse anche angolari del lato destro particolarmente. Le particolarità delle ossa in attenenza col tumore e coll’ appendice veggonsi ritratte nelle Fig. 2* e 3°. Il cranio così piccolo e depresso, com’ è stato detto di sopra, e quasi senza cavità, è largamente aperto nella regione della fronte fino al parietale, e del pari la faccia rispetto al naso osseo. L’ apertura è periforme col fondo in alto e posteriormente, e con la stretta estremità che è troncata, an- teriormente ed inferiormente, ed ha il suo diametro longitudinale di 40 millim. ed il trasversale, nella parte media, di altrettanto. Confina inferiormente col naso car- tilagineo che è piccolo, schiacciato, colla narice sinistra più aripia del doppio della destra (Fig. 1°). Le due metà e, d, Fig. 2° e 3°, della porzione frontale dell’ osso frontale, atrofiche e molto assimetriche sono non solo disgiunte, ma fra loro eziandio allontanate ed arrovesciate all’ esterno, massimamente a destra, e for- mano la maggior parte dell’ orlo dell’ apertura sopradetta, completato superiormente dalla porzioncella g del margine coronale dei parietali, non articolato per intero con il corrispondente delle due metà della porzione frontale del frontale, i quali parietali sono essi altresì atrofici ed assimetrici e piani, e fra loro articolati per armonia, e sì prossimi alla interna superficie della base craniense da non esserne in certi punti, a sinistra in ‘ispecie, separati che dalla dura meninge. Notabile è l'orlo in discorso alla porzione nasale della metà destra del frontale, la quale por- zione si conforma nel processo f, f, che si prolunga all’ esterno, ed è incurvato a concavità inferiore, e ritrae da quel processo laterale del calcagno, che appellano sustentaculum, ed è armonicamente articolato col primo ossetto dell’ appendice con la sua faccia superiore, ed inferiormente col margine interno od anteriore del na- sale che gli corrisponde. Anteriormente ed inferiormente poi l’ orlo medesimo è formato nella parte media dal margine anteriore della lamina orizzontale i del- l'etmoide già cartilaginea, priva dell apofisi cristagalli, e poverissima de?’ forellini dati all’ uscita de’ filamenti dei nervi olfattorî; e lateralmente dal margine interno dell'osso nasale sinistro, il quale e in una col destro seguendo il disgiungimento e l'allontanamento reciproco delle due metà del frontale, con le quali si articolano per armonia, sonosi allontanati fra loro per modo da lasciare uno spazio di 12 Li It millim. Anche le apofisi nasali de’ mascellari superiori connesse co’ nasali si sono, com’ era necessario, proporzionatamente allontanate. Finalmente non sarà superfluo notare che le fosse nasali, tratto la capacità che è minore a destra, nulla hanno di manchevole nelle loro pareti osteo-cartilaginee. L’ appendice etmo-frontale ha uno scheletro composto di tre pezzi ossei fra loro uniti mediante tessuto cartilagineo. Il primo p è una lamina ossea concavo-con- vessa applicata alla faccia superiore del processo o sustentaculum f, f, della por- zione nasale della metà destra del frontale, col quale processo è, come addietro si disse, articolata per armonia, ed è altresì articolata colla lamina orizzontale del- l’etmoide, la metò destra della quale ascende per aggiugnerla. Il secondo q è a mo’ di cilindretto breve e sottile formante un’istmo fra gli altri due p, r, de’ quali è molto più piccolo: rassembra il corpo o diafisi di un osso lungo, ed offre un solchetto vascolo-nervoso, continuo con quello del terzo r: è in parte sostenuto dal processo f, f. Il terzo ed ultimo r, somiglia una borsetta o cucurbita schiacciata con il collo tronco articolato col pezzo q. Ha il suo solchetto vascolo-nervoso, che è assal più lungo e profondo, e non è nella sua parte media, ma di lato. Questi due ultimi pezzi a differenza del primo sono un po’ mobili. Esposta l’ anatomia del tumore e dell’ appendice che lo accompagna, nasce in- contanente il desiderio di conoscere e sapere che cosa valga. Lasciando da parte s' ella sia una formazione ossea morbosa della dura meninge, od una vegetazione ossea pur morbosa delle ossa craniensi che le corrispondono, non mostrandone sì luna come Vl altra alcun sembiante; chè la detta formazione ossea morbosa non è mai di ossetti articolati fra loro per sincondrosi, e la detta vegetazione ossea morbosa per giunta fa sempre un tutto continuo colla tavola ossea interna, donde muove; mi farò senza brigarmi d'altro a ricercare s' ella sia una per- tinenza delle ossa con le quali è connessa, o se ne sia indipendente, e si abbia a tenere per una parte soprannumeraria. E innanzi tratto ch’ella sia parte del frontale, e specialmente della sua metà destra, non saprei concepire, primieramente perchè la forma, soprattutto dei due ultimi suoi pezzi ossei, non è quella delle ossa piane del cranio; chè tale dovrebbe pur essere qualora fossero parti del fron- tale. La bontà di questo argomento ci sì fa più che mai manifesta ponendo mente a quanto accade nella volta craniense di feti affetti da enorme idrocefalo. Essendo per la distensione del liquido interiore distratta l’ ossificazione della membrana di essa volta, già fuor misura distesa, avviene che i germi ossei che ne formano le ossa, dispartansi, e non solo si raddoppino, ma e si triplichino e crescano anche a maggior numero; i quali per quanto ingrossino e indurino, siccome non di rado avviene, conservano sempre la forma delle ossa piane alle quali appartengono. In secondo luogo se fossero parti del frontale, dovrebbero trovarsi anzi a’ lati del tumore che inferiormente, fatta considerazione che le due metà del frontale sono state spinte lateralmente, e sonosi all’ esterno arrovesciate col lembo unito alla mem- brana della loro sinimensi media, nella quale membrana, continuata ch’ ella siasi Besso nelle pareti del tumore, proseguendo l’ ossificazione, è naturale che questa avesse ad operarsi procedendo, come suole, dallo esterno allo interno, e per conseguente a’ lati di quello, e particolarmente al destro. In terzo luogo volendo pur conside- rare questi tre pezzi ossei come parti del frontale, a quali essi riferirebbonsi? Forse al wormiano della fontanella anteriore? Forse a quello della porzion nasale del frontale? Non certamente al primo, poichè dovrebbero tenere la parte superiore media dell’ orlo dell’ apertura ossea dell’ ernia o sventramento cerebrale: quanto al secondo, potrebbe credersi che il primo pezzo p lo ritraesse, quantunque possa avere un’ altra interpretazione; ma gli altri due q, r quali ne rappresenterebbero ? Nessuna. Ma passiamo a vedere se i tre pezzi ossei discorsi anzi che al frontale, appartenessero allo scheletro dell'apparecchio olfattorio, e specialmente all’ etmoide. Intorno a che io non ho che a ricordare avere cotesto scheletro tutte le parti os- see e cartilaginee solite a comporlo. L’etmoide però manca, come si notò, dell’ apo- fisi eristagalli; e alcun potrebbe pensare che se non altro, il primo pezzo osseo dell’ appendice fosse quest’ apofisi, molto più ch’ ella ha un proprio germe d’ ossi- ficazione. Ma il detto pezzo osseo non ne ha la forma: secondamente l’ apofisi cri- stagalli è ancora cartilaginea o quasi affatto cartilaginea nel feto a termine: ter- zamente ella sorge dalla linea media della lamina cribrosa anteriormente, ed al- l’ultimo è continua colla lamina perpendicolare, intanto che quel primo pezzo sì trova all'angolo anteriore destro della lamina cribrosa sopradetta. Pare dunque che l’appendice etmo-frontale non sia una pertinenza del frontale nè dell’ etmoide, e così essendo non rimane che ad averla per una parte soprannumeraria. E innanzi che io mi ponga a congetturare di cul ella sia, stimo acconcio di ricordare 1 tre modi d’ intendere e spiegare la genesi delle parti soprannumerarie. Uno di questi modi sta nel recarne la cagione ad un lussereggiamento o soverchia efficacia della virtù formativa, onde da una parte ne germoglia un’altra o più altre (multiplicazione gemmipara), o vero una parte si fende in due o più parti crescenti a mo’ di rampolli (multiplicazione scissipara). Altro modo è posto nell’ u- nirsi ed incorporarsi di due germi contenuti in un tuorlo, svolgentisi in due em- brioni o feti coaliti, ma sì fattamente che uno rimanga piccolissimo e manco del maggior numero delle sue parti, o non mostrandone talvolta che una sola, anche informe, attaccata all’ altro feto. Il terzo modo è, quando una parte primordial- mente doppia, o multiplice, ma semplice nel suo stato perfetto, rimane doppia, 0 multiplice per tutta la vita. Egli è evidente che quest ultimo modo nulla si confà al caso nostro. Restano dunque solo gli altri due, de’ quali il secondo per la grande sproporzione che pare tra causa ed effetto, e per non intendersi così di leggieri come tante parti di un embrione s’' abbiano a distruggere, ne fa alieni dal valer- cene a spiegare la produzione dell’ appendice. Ben proporzionata e meglio all’ uopo è la prima e di questa mi gioverò per la detta spiegazione. Guardando l’ appendice sorge a prima giunta nell’ animo ch’ ella sia un naso soprannumerario destro fatto a similitudine di tromba, come talvolta accade. Ma RE dle a qualificarla così, è mestiero d’ una cavità o cieca, o vero comunicante coll’ orale, colla faringea e per questa coll’ albero o canale aereo o colle vie respiratorie; ca- vità soppannata da una membrana mucosa o fibro-mucosa traente fili da’ nervi ol- fattorì, od almeno avente alcuna relazione con quelli. Neppur una di queste par- ticolarità offre l appendice etmo-frontale; ed infatti è dessa, come vedemmo, tutta solida, compresa nell’ involucro stesso del tumore proencefalico, in nessuna atte- nenza con le fosse nasali e colle altre cavità e nervi sopradetti; ma sì con quel tumore e specialmente col suo lobo più piccolo. Dunque non saprebbesi, nè po- trebbesi giudicare un naso soprannumerario, venuto per lussereggiante vegetazione dell’ ordinario, o rampollato per rigoglio da questo. Ma se non può aversi in conto di un naso soprannumerario, ond’ ella sarà soprannumero o donde rampollo ? Con- siderando che 1 appendice è articolata coll’ etmoide, il quale per sito ed origine appartiene al cranio primordiale di Jacobson, considerando che le articolazioni si fanno per legge tra parti congeneri, 10 son di credere ch’ essa appendice sia un rampollo germogliato dall’ estremità etmoidale di quel cranio, tratto per soverchio di virtù vegetante o formativa a generare un altro sè stesso. E siccome il detto cranio primordiale non è che la base craniense primitiva, così anche il suo ram- pollo germogliato da quella estremità, e siccome in quello si formano le parti fon- damentali di tre zone o vertebre craniensi, così pure in quello; ed in ciò abbiamo il perchè nell’ appendice ha uno scheletro formato da una colonnetta di tre pezzi ossei fra loro uniti per sincondrosi. Ed articolandosi il primo di questi pezzi colla porzione nasale della metà destra del frontale, non è niente infirmata 1 analogia ; anzi avvalorata, essendo di norma che l’estremità etmoidale del cranio primitivo si articoli con la porzione nasale del frontale. Ha dunque l’ appendice la signifi- cazione di una base craniense, o per dire più esatto, di un rudimento di una base craniense, certamente imperfetta ed informe, e che così non ne apparirebbe senza la disamina e le considerazioni esposte. E per tale definendosi 1’ appendice, sarà forse chi posto mente alla sua importanza non ne accetterà questa genesi, ma la vorrà avere per una reliquia di un’ altro embrione coalito. Contro a che io non ripeterò le ragioni recate in mezzo superiormente, ma noterò che osservazioni ed esperienze pur recentissime a tutti conte fanno credere potersi da’ primi lineamenti di un embrione solo formare per Scissiparìa o per Gemmiparìa non che semplici parti soprannumerarie, ma, come avea presentito G. F. Meckel per certe mostruo- sità doppie, eziandio mostri doppi. Lo che posto l’ appendice, benchè non avanzo di un embrione coalito scomparso, ma germoglio di un cranio primitivo solo, e rudimento della parte fondamentale di un cranio novello, vale a costituire dupli- cità mostruosa parassitica, la quale si perfeziona vieppiù coll’ aggiunta del terzo lobo, non potendo questo appartenere che al parassito per essere affatto separato e dall’ ematoma, e dall’ ernia cerebrale, e contenendo una sostanza somiglievole a quella di certi anidei e parassiti semplici od unitari, co’ quali 1’ appendice e ’1 detto lobo per la forma e per la struttura s’ accostano. Per la qual cosa il Proencefalo SOC) depone l’ aspetto, con il quale appariva, di mostro semplice, pigliando quello di doppio, e di doppio parassitico, essendosi egli stesso generato il parassito. Ma e quale famiglia di così fatti mostri apparterrà egli? No certo agli Eterotipici, non a’ Polignati, non a’ Polimeli, quantunque si abbiano esempi di membri soprannu- merari attaccati all’ occipite, non agli Eteralichi, imperocchè per imperfetta che sia la parte costituente il parassito, è dessa così formata da subito riconoscersi, facendone fede 1’ Epicomo. Apparterrà egli agli Endocima? Ei pare che con questa famiglia abbia veramente sua parentela, ritraendo molto dalla varietà dermocimaca o de mostri doppi per inclusione sottocutanea. Spesso incontra che in tali mostri le parti costituenti il parassito, specialmente ossee, sieno assai deformi e difficilis- sime a definirsi, anzi indefinibili. E già si è veduto nel nostro la fatica di signi- ficarle. Sempre un tumore più o meno voluminoso, ma ordinariamente grande, come la testa di un feto a termine, ce lo rappresenta, e sempre il tumore è co- perto della pelle del feto principale, e pieno e disteso da liquido, e soppannato da una membrana simile alle sierose. E nel nostro altresì ha un tumore formato dal piccolo lobo 3, ma a comparazione piccolissimo, forse per deviamento d’ umore, avvenuto in forza del contiguo ematoma, e contenente esso pure una sostanza se non fluida, semifluida, nella quale sono sospese molte cellule granulose, che cere- derebbonsi formar quasi un tessuto a sostanza infracellulare liquida, non altrimenti che in parassiti unitarî o semplici accade tuttavia d’ osservare. Le quali differenze non sono sostanziali, nè tolgono l'analogia, essendone testimonio e prova convin- centissima questi ultimi mostri: finalmente il detto lobo, già coperto dalla pelle del feto principale, è soppannato anch'esso da una membrana avente aspetto di sierosa. E siccome gli Endocima non hanno vasi e nervi di proprio, ma li accat- tano dal feto principale, a spese del quale si nutrono e vivono, egualmente, come vedemmo, il nostro. Ma Vl analogia sembra interrompersi a cagione della sede del parassito, della mostruosità del feto principale, e della vitabilità. E rispetto alla sede, i dermocima hanno in costume di formarsi nella parte inferiore del tronco, talvolta affetta da spina bifida in attenenza con essi, quantunque in qualche raro caso sì siano trovati nella regione epigastrica; ec tengano talora la regione glutea, talora la perineale e la scrotale, talora la pubica. E pare che loro non sia dato poter avere nascimento altrove; poichè non sono avuti per autentici gli esempi addotti dagli autori di dermocima stanziati nel collo, o dietro una parotide o nel- l’orbita. Se non che a me pare che la mancanza d’ autenticità riguardi l’ esattezza delle osservazioni appena accennate e non illustrate dall’ anatomia anzi che dalla possibilità d’albergar essi ne’ luoghi divisati e in altri. Altrimenti sarebbe un por limiti non consentiti dalla ragione, nè da quanto veggiamo in altri mostri doppi parassitici, i quali, benchè prediliggano certe parti, non però costantemente vi sì attengono. Laonde io credo che se i dermocima sorgono di preferenza dalla parte inferiore del tronco, non sia tolto ch’ essi non debbano poter sorgere eziandio dal- l'estremità opposta o cefalica del medesimo, vale a dire dalla testa come il nostro, TOMO II. a) oli Ai e che questa mutata sede non sia grave obbiezione od impedimento a considerarlo tale. E nulla ciò contraddicendo, l'analogia non è punto alterata; e siccome ha talvolta spina bifida concomitante il parassito e corrispondente con esso, così nel nostro caso ha pure spina bifida della parte anteriore o vertebra frontale della testa, la quale spina bifida è in rapporto immediato col parassito. E quest’ anno- tazione non è senza importanza; imperocchè fra le parti divise pare si svolga una nuova potenza formatrice efficacissima, facendone testimonio, p. es. nelle Lucertole, le lussazioni delle vertebre caudali, o delle due metà che le compongono, dal vano delle quali lussazioni semmano o rampollano code soprannumerarie (1). L’ analogìa non ricevendo dunque offesa dalla insolita sede del parassito, potremo noi pronun- ziare altrettanto rispetto la mostruosità del feto principale? Tutti sanno non essere questo mai mostruoso. Tuttavolta egli non va senza vizi, talor anche ragguarde- voli, di conformazione, almeno nella parte occupata dal parassito; ed in questa parte nel caso nostro risiede la mostruosità (Proencefalìa) del feto principale. Questa circostanza attenua alquanto la difficoltà in cui offende l'analogia, ma non vale a spianarla; chè al conseguimento di ciò sarebbe mestiero provare che l appendice etmo-frontale e ’i piccolo lobo annessole, costituenti o rappresentanti il dermocima, movendo dal cranio primordiale di Jacobson, e spingendosi anteriormente tra le due metà del frontale avessero con esso loro tratto fuori di cavità il cervello, e fossero così stato cagione della mostruosità del feto principale. Ma presti non ne sono gli argomenti che convincano aver potuto l appendice in un col suo piccolo lobo operare questo effetto: anzi la grande estensione dell’ apertura erniaria, con- finata superiormente dalla regione parietale, sembra contraddirlo, poichè accagio- nandone l’ appendice, ? opera sua avrebbe dovuto restringersi alla porzione nasale del frontale, o di poco superarla ascendendo; senza che per le cose recate in mezzo superiormente l appendice in luogo di aver promossa l apertura anzidetta e l’ernia o sventramento cerebrale, pare che quella, o l allontanamento delle due metà del frontale, abbia favorito il germogliar dell’appendice dal cranio primordiale. Ma checchè sia, l’analogìa è per questo punto se non affatto interrotta, sommamente difficultata. Finalmente quanto alla vitabilità, sembrerebbe che Il analogìa ripigliasse vigore, essendo che sonovi esempi di Proencefali nati vivi e vissuti anche qualche tempo da far credere non fosse a cotal genere di mostri assolutamente tolto l’ es- sere vitabili, come agli Endocima. Ma chi entrasse in così fatta estimazione, ca- drebbe in falso; chè un feto può nascere vivo, e vivere alcun tempo, ma non es- sere vitabile, non avendo sufficienza o capacità nella sua organizzazione al durar della vita. E questa sufficienza o capacità, concessa agli Endocima, è negata ai Proencefali, non già perchè i visceri degli altri due ventri abbiano difetti incom- patibili colla vita; chè nel nostro tranne la molta atrofia delle glandule surrenali, (1) Vedi Memorie dell’ Accademia delle Scienze dell'Istituto di Bologna. Serie I, Tom. IX, pag. 350 e segg. — Tom. X, pag. 357 e segg. Mo e la picciolezza dei testicoli, non ancora discesi nello scroto, nulla avea d’ anor- male in quelli; ma per la mostruosità o la Proencefalia in sè, la quale vedemmo con quanta offesa fosse del cervello sventrato nel nostro e si aggiunga anche delle parti nel cranio rimaste, come il cervelletto, che era piccolissimo, non essendoci di normale che la midolla allungata e i nervi craniensi, dagli olfattorî in fuori, i quali erano gracilissimi e manchi, e ridotti a destra ad alcuni esili filuzzi. Queste differenze tutto che di momento non leggieri, sono però inefficaci a far venir meno l’ essenza o il vero carattere degli Endocima o mostri doppi per in- elusione, siccome quello che sta nella formazione di un feto o di alcune parti di un feto, talora irreconoscibili, dentro un altro ‘feto, il quale in ogni caso per la sua conformazione è a tutti indubitabilmente tale. Ognuno ben vede che questo carattere rimane integro nel nostro mostro, ed integra per esso e per altre parti- colarità sopraddivisate la somiglianza e l accostamento di lui con un Dermocima. E così definito, certamente è una eccezione; ma in fisica animale le eccezioni ognor sono accanto alle leggi. Se la Teratologìa non ha fin qua registrati esempi di En- docimia accompagnati da mostruosità del feto principale e da mancanza di vita- bilità, non vuol dire che non se ne possano avere; e sarebbe troppo pretendere che ia natura non dovesse poterne procreare. Il mostro descritto depone, se non me ne sono ingannato, il contrario: onde qualora siane trovata buona la suesposta interpretazione, ed occorrano altri mostri consimili, avrà fra i mostri Endocima una importante distinzione che ne costringerà a distribuirli in due ordini, in quelli cioè nei quali il feto principale non è mostruoso, ed ha tutta la capacità per vi- vere od è vitabile, ed in quelli nei quali ha mostruosità e punto vitabilità nel feto principale. SPIEGAZIONE DELLA TAVOLA Fig. 1° — Testa con porzione di tronco di un Proencefalo umano singolare per l'aggiunta di nuove parti sembianti a quelle di un Dermocima. Veduta anteriore. Fig. 2° — Veduta anteriore del teschio osseo del mostro medesimo. Fig. 3* — Il medesimo teschio ritratto dal vertice. Queste tre figure rappresentano le parti di grandezza naturale, ed in tutte le medesime lettere indicano i medesimi oggetti. a, Tumore della Proencefalìa distinto per due solchi in tre lobi contrassegnati coi numeri progressivo 1, 2, 3 — b, appendice etmo-frontale divisa per due solchi od articoli in tre parti, l'ultima delle quali porta la fossetta c — d, e, le due metà del frontale allontanate e arrovesciate lateralmente, formanti la massima parte dell’ orlo dell’ apertura erniaria — f, f, pro- cesso della porzione nasale della metà destra del frontale, il quale processo sostiene 1 due primi pezzi ossei p, q, dell’ appendice etmo-frontale — 8, &, piccola porzione del lembo anteriore dei parietali chiudente superior- mente l'apertura erniaria — h, sfenoide anteriore — i, lamina orizzontale dell’ etmoide — k, lamina perpendicolare del medesimo — 1, m, ossa na- sali allontanate, la sinistra delle quali in una col lembo anteriore della la- mina orizzontale dell’etmoide compie anteriormente ed inferiormente l'orlo dell'apertura suddetta — n, 0, processi nasali de’ mascellari superiori — P, primo pezzo osseo dell’appendice etmo-frontale — q, secondo pezzo, o pezzo intermedio della medesima — r, il suo terzo pezzo. | Mem Ser. 45 Tom Il. L.Calori-Proencefalo accompagnato da parti _ _ soprannumerarie sembianti a dermocimache. C Betti dis.” Lik.G.Wenk LI MODI L ha At (e i Ni TORNANDO L i j î i 100 : i s i î a Î Care h n A VALSO n = 7 î ù } x Ù Î î Ù ì 2 Ì . I 1 Tnt Ò & Ù ENTTORINO AL CANALE SOPRACONDILOIDEO DELL’OMERO NELL’ UOMO NOTA DEL PROF. LUIGI CALORI (Letta nella Sess. del 18 Nov. 1880) Tutti sanno che nel lato ulnare della parte inferiore dell ’omero dei mammi- feri ha un foro o canale descritto in prima da Volcher Coiter discorrendo delle analogie, o vero delle differenze tra le ossa umane e quelle delle scimie special- mente codate (1), il qual canale fu poi detto da Josephi canale sopracondiloideo (2), dato al passaggio o dell'arteria omerale, o della cubitale di solito accompagnata dalle sue vene e dal nervo mediano. Alcun che di simile è talvolta occorso anche nell'uomo, e a Federico Tiedemann avanti tutti, il quale ne diede contezza nella sua stupenda Opera sulle arterie del corpo umano escita in luce nel 1822. L’ano- malìa consisteva in un processo ch'egli denominò escrescentia ossis humeri insolita, dall’ apice della quale partiva un piatto legamento aponeurotico che faceva parte del legamento intermuscolare interno, e che terminava al condilo interno od al- l epitroclea, formando in un coll escrescenza detta e 1 osso donde questa sorgeva, un foro o canale osteo-fibroso, pel quale transitava 1’ arteria interossea col nervo mediano. Dalla escrescenza moveva una porzione anomala o soprannumeraria del muscolo pronatore rotondo. e tra le due porzioni a studio allontanate scorgevansi l’ arteria ed il nervo discendere nell’ avambraccio (3). Nel Supplemento poi alla (1) Externarum et internarum partium Tabulae atque anatomicae exercitationes observationes- que variae ecc. Norimbergae 1573. Fol. pag. 68. Eccone le parole. (Humerus) in caudata (idest simia) differt ab humano juxta inferius caput, quo cum cubito articulatur: hac enim in regione reflectitur ab exteriori parte introrsum, atque in illa flexura canaliculum acquirit ex opposito latere pervium. (2) Wilh. Josephi Anatomie d. Siugethiere. Mit. 5 Kupfertafeln B. d. I. Gottingen 1787, 8 pag. 318, Tab. I. z. v. (3) Tabulae arter. corp. hum. Carlsruhae 1822. Tab. XV, Fig. 3, N. 12. "— 88 — detta Opera pubblicato nel 1846, reca due altri esempi dell’ anomalìa, uno preso dall’ omero destro di un uomo, nel canale sopracondiloideo di cui non più l'arteria interossea, ma l’omerale, e ’1 nervo mediano decorrono nell’ avambraccio. Il secondo esemplare è offerto dall’ omero sinistro di una donna spoglio delle parti molli, nel quale il processo è triangolare e fatto ad uncino ripiegato verso I angolo omerale interno. Nell uomo sopradetto questo processo sembra convertito in vero canale. Finalmente nell’ angolo radiale od esterno dell’omero della donna s' avvisa una prominenza che direbbesi formare un processo sopracondiloideo esterno o radiale, o meglio una cresta come indizio od inizio di cotal processo, la cui esistenza è stata messa fuor di dubbio da Wenzel Gruber, il quale poi a distinzione ha chia- mato l'altro processo sopracondiloideo interno, o brachio-cubitale (1). Nell intervallo corso fra le due pubblicazioni dello Tiedemann altri anatomici hanno osservata e descritta l’anomalìa, ed essi sono A. G. Otto (2), R. Knox (83), Wilbrand (4), R. Quain (5), e dopo il 1846 Struthers (6), Barchow (7), Gruber (8), Turner (9) e Giacomini (10). Di tutti i noverati anatomici superiore nella trattazione di questo soggetto è stato senza fallo Wenzel Gruber, il quale lo ha illustrato non solamente nell'uomo, (1) Supplem. ad Tab. art. corp. hum. Heidelbergae 1846. Tab. 47, Fig. I, 6-2. d. Explic. pag. 66-69 — Wenzeli Gruber Monographie des canalis supracondyloideus humeri und der processus supracondyloidei humeri et femoris der S:iugethiere und des Menschen in Tome huit. des Mmém. presentdes à lAcad. imper. des Sciences de St. Petersburg 1859. — Henle ha chiamato il pro- cesso sopracondiloideo interno dell’omero processo mediale (medio) pel sito e forse per distinguerlo da una prominenza dell’angolo interno dell’omero significata da Gruber per un’esostosi, e detta - da lui falso processo sopracondiloideo interno, il quale potrebbe esser preso per un terzo pro- cesso normale, il vero interno. Quando si ammettessero i tre processi, pare che fossero denominati meglio così: il medialis di Henle processo sopratrocleare (Processus epitrochlearis), l'interno so- pracondiloideo ulnare (Processus epicondyloideus ulnaris, s. internus), e l'esterno processo sopra- condiloideo radiale (Processus epicondyloideus radialis, s. externus). (2) De rarioribus quibusdam sceleti humani cum animalium sceleto analogiis. Vratislaviae 1889, pag. 27-28, Tab. I, Fig. X-XI. (3) On the occasional presence of a supracondyloid. Process in the human humerus. Edimburg medical und surgical Journ. Vol. LVI, 1841, pag. 125. (4) Ueber processus supracondyloideus ossis humeri et femoris. Giessen 1843, pag. 6, Fig. 3, d. (5) The anatomy of the arteries of the Human Body ecc. London 1844. 8. — Plate 87 in Fogl. pag. 223-260. PI. 36, Fig. 3. c +. — Jones Quain Elem. of Anat. — By R. Quain and W. Sharpey edit. 5. London 1848, Vol. I, pag. 529. (6) A peculiarity of the humerus und humeral artery. Monthly Journ. Oct. 1848. (7) Ueber processus supracondyloidei am oberarmbein und oberschenkelbein des Menschen. Anatomiche Abhandlungen. Breslau 1851. 4. pag. 7. (8) Monographie cit., e Neue Anomalien als Beitrige zur physiologischen, chirurgischen, und pathologischen anatomie. Berlin 1849, pag. 8-12. — Abhandlungen aus der menschlichen und vergleichenden Anatomie. St. Petersburg u. Leipseg 1852. VIII Abha. 1, pag. 132-135. (9) Transact of the royal Soc. of Edinburg, Vol. XXIV, P. I, pag. 175. (10) Della prematura divisione dell’ arteria del braccio. Torino 1874, pag. 51, Tav. V, Fig. 10, I. MER: 0) pe ma eziandio nei Mammiferi da questi cominciando e salendo a quello (1); e sì am- piamente e dottamente che non saprebbesi desiderare di più. Onde sarà per av- ventura reputato un voler portar l’acqua, come dicono, all’ Oceano il farsi novel- lamente a scriverne. E per verità sono stato lungamente in forse, se dovessi por mano a ciò. Ma la mia titubanza è stata vinta alla perfine da queste considera- zioni, cioè che in Italia l’ anomalìa, a quanto ne so, non è stata osservata che una volta sola (2), laddove in altre regioni, p. e. in Germania, in Inghilterra, in Russia, molto maggior numero di volte, come ne fanno testimonio i precitati autori quasi tutti di quelle contrade: la quale differenza qualora non dipenda da incuria, fa credere essere l’anomalìia appo noi rarissima, e sembrerebbe che fosse così; poichè avendone io, fa omai mezzo secolo, notizia per lo studio dell Opera sopracitata del Tiedemann, ed avendola cercata in prima per commessione del mio illustre Pre- decessore e Maestro Prof. Francesco Mondini di sempre cara ed onorata ricordanza, e non avendone di poi ne trentasei anni che leggo d’ Anatomia descrittiva e to- pografica, intermessa, ma continuata fin qua la ricerca, solo addì 9 Maggio 1880 mi si è parata davanti, e sì che in così lungo spazio di tempo non ho per tal bisogna esplorato piccolo numero di cadaveri, ma grandissimo, e posso senza ve- runa tema di errare dire una cinquantina ogni anno. Laonde mi è parso mettesse conto descriverla, avendola dopo sì lungo tempo per ventura incontrata, e credo ne sarei stato redarguito se avessi lasciato di farlo. Ho trovato l anomalìa da tutt'e due i lati in un uomo cinquantenne musco- loso e d’alta statura, siccome quella che era di 178 centimetri, cessato ai vivi per brevissima malattia nello Spedale della Vita. A destra (Fig. 1°) il canale è for- mato dal processo sopracondiloideo a, da un capo anomalo o soprannumerario e del muscolo pronatore rotondo, capo nascente da quello, e da una lamina o tela aponeurotica d, che dall’ apice del processo e dal margine interno del capo auzi- detto, di cui non è, a dir vero, che un’ aponeurosi di origine, va, passando sopra il fascio vascolo-nervoso che percorre il canale, al condilo interno b, ed al lega- mento intermuscolare c del medesimo lato. Il processo sopracondiloideo a ricorda l’apofisi cristagalli dell’ etmoide, e sorge dalla faccia anteriore della porzione trian- golare della diafisi dell omero tra il margine interno del muscolo brachiale an- terlore, che gli è esternamente a contatto, ed il legamento intermuscolare interno c, da cui dista 16 millim. È 41 millim. più alto di quella linea trasversale che suol condursi dall’ uno all altro condilo per limitare superiormente la regione del cu- bito sì nella faccia interna od anteriore come nella posteriore od esterna; e sporge o risalta circa 11 mill. Ha la sua maggior grossezza di 6 in 7 mill., e ne misura 14 (1) Vedi la Monografia succit. di Gruber pag. 60 alla 68 dove per cotal fatto sono passate in rivista le Simie, le Prosimie, i Cheiropteri, i Carnivori, i Marsupiali, i Multungoli, i Solidungoli, i Ruminanti, i Ghiri, gli Sdentati, i Pinnipedi ed i Cetacei, siccome forniti del foro o canale so- pracondiloideo. (2) Vedi Giacomini Op. cit. pag. cit. = Yap di lunghezza nella base, e 8 nell’apice. Da questo e dalla tela aponeurotica d muove, come fu detto, il capo anomalo o soprannumerario e, chiamato comunemente dagli anatomici fascio accessorio. Ma qui quel capo e non ha certamente aspetto di un fascio, ma di un grosso muscolo emulante, se non soverchiante, il pronatore ro- tondo £, g, di qualità che la denominazione di fascio, se molte volte consente col fatto, essendo quel capo più piccolo del muscolo cui si aggiugne, nulla conviene col presente: il perchè io non ho adoperata la detta denominazione. Alcuno po- trebbe credere che il capo anomalo o soprannumerario per la sua molta grossezza e per la sua distinzione costituisse la duplicità del muscolo pronatore rotondo. Ma chi credesse così, non si apporrebbe, stando la duplicità nella divisione del mu- scolo in due dal principio alla fine, e questa divisione altro non è che un rima- nere continuo disgiunti i suoi due capi, superiore od omerale, ed inferiore od ul- nare, descritti in prima da Cowper, nascente quello dal condilo interno dell’ omero, questo dall’ ulna e dal legamento laterale interno dell’ articolazione omero-cubi- tale (1), tra’ quali due capi ha un solco che accoglie il nervo mediano discendente nell’avambraccio. Se non che l Albino tiene che il capo inferiore non si appre- senti che qualche volta, scrivendo che ad eum (Scilicet pronatorem radti teretem) ac- cedit aliquando portio quaedam orta ab ulna juxta posteriorem partem superficiei inae- qualis quae excipit finem brachialis interni ecc. (2); ben è chiaro che questa porzione è il capo inferiore che viene dall’ulna e dal legamento sopradetto. Io, a dir vero, ho per le più volte trovati i due capi, cotal che la mancanza dell’inferiore è, se- condo me, anomalìa e la presenza conformazione normale. G. F. Meckel parlando della duplicità del muscolo pronatore rotondo ne reca l’ osservazione a Brugnone, e la segnala per analogìa con le Simie (3). Ho consultato la Memoria di questo Illustre Anatomico intitolata Observations Myologiques; ed ecco quanto ne scrive: » Le pronateur rond a aussi trés souvent une portion charnue accessoire, qui nait apo- neurotique de langle posterieur du cubitus près de V insertion inférieur du brachial in- terne, d’où je lai vue s implanter charnue quelquefois dans le bord posterieur du méme pronateur ; d’ autres fois, et notamment en 1785 dans le radius au dessous des deux tendons, qui quelquefois terminent, comme dans ce suget, l extrémité imférieure de ce méme pronateur. (4) , Le prime osservazioni consegnate a questo paragrafo, che è il VII di quella Memoria, non ci danno veramente la duplicità del muscolo, ma la sua ordinaria disposizione esagerata, la quale non è che via a duplicità, essen- (I) Cowper Myot. ann. 1724. Cap. XXXI. Tab. LIV, Fig. 143. Pronator radii rotundus. Pag. 182. A Its first Original from the internal extuberance of the os humeri. — B The second from the Ulna ece. (2) Historia musculorum hom., pag. 478. (3) Manuale di Anat. gener. descrit. e Patol. del corpo umano. Versione italiana con note di Gian. Battista Caimi. Tomo secondo, pag. 410. Milano 1825. (4) Mèm. de l’Acad. des Sciences, Litterature et Beaux arts de Turin. I. Partie. Turin, an XII, pag. 164. OR 0 done evidentemente il fascio accessorio di Brugnone il capo inferiore suddiscorso. Solo l’ultima osservazione ne ritrae la duplicità, anzi la triplicità pei due tendini, nei quali è divisa l estremità inferiore del pronatore in discorso, già notati innanzi dall Albino (1). E che Brugnone l'avesse piuttosto in conto di triplicità, ci è chiaro e provato da quanto scrive nel $ IX in cui, dato ch’ egli ha alle Simie tre supi- natori e tre pronatori da ciascun lato, soggiugne: 0» vot par là que les varietés que Jai remarquées dans ces muscles de D homme (VII, VIII) 5 approchent de la confor- mation naturelle des singes , (2). Tornando al capo anomalo o soprannumerario e Fig. cit., e considerando il normale pronatore rotondo, è manifesto che non si tratta punto di duplicità, ma di triplicità: la quale però non è la medesima della descritta nell’ ultima osserva- zione di Brugnone surriferita; imperocchè non avviene per la scissione del tendine inferiore, ma per esservi tre capi, avendosi così un muscolo pronatore rotondo tricipite. In fatti egli presenta in f quel suo capo che dicemmo superiore od ome- rale, unito intimamente col suo tendine, ed in parte con la sua porzione carnea al muscolo grande palmare o radiale interno: in g il capo che dicemmo inferiore od ulnare separato dal precedente mediante una lunga e profonda fenditura per la quale passa il nervo mediano: in e finalmente il terzo capo che è l’anomalo o sopran- numerario, il quale alla metà circa del pronatore rotondo normale, composto già da que due primi f, g, insieme uniti, aggiugnesi; e formatosi un robusto corpo muscolare, questo con un tendine indiviso s' attacca e ferma a’soliti punti del radio. E qui ha luogo naturalmente il domandare se alla produzione di un pronatore rotondo tricipite sia ognor richiesta l’esistenza del processo sopracondiloideo descritto, e se essendovi questo processo, abbia sempre a nascere da lui un capo soprannumerario di esso pronatore. Alla prima domanda rispondo non essere necessaria la presenza del processo, acciò che vi abbia il terzo capo. Io ho veduto in due cadaveri di uomini muscolosi, nei quali non aveva certo il processo sopracondiloideo, aggiu- gnersi al capo superiore del pronatore rotondo un altro capo insolito, il quale na- sceva dal legamento intermuscolare interno ad un’ altezza variabile da due a quattro centimetri sopra il condilo interno dell’ omero, e che rimaneva distinto fin verso la metà inferiore del muscolo principale cui univasi. Il detto capo poteva dirsi tutto muscoloso, facendo da tendine d° origine il legamento intermuscolare interno donde partiva, e la sua terminazione essendo nelle carni di quello. In uno di quei ca- daveri occorreva da amendue i lati presso a poco della medesima grandezza; nel- l’altro solo a sinistra. Aveva forma prismatica e la sua larghezza variava da 10 a 12 millim. Era poi in tutti e tre i casi accolto nella parte inferiore del solco bicipitale interno, e copriva i vasi omerali sanguigni e’l nervo mediano. Anche nel braccio destro di un cadavere muliebre ho trovato questo capo soprannume- (1) Op. cit. pag. cit. (2) Op. cit. pag. 164. TOMO II. 6 de forti rario del pronatore rotondo; ma era una porzione di un terzo capo anomalo del muscolo bicipite brachiale, il quale capo moveva dall’ omero subito sotto 1’ attacco inferiore del muscolo coraco-brachiale, e discendendo semplice pel tratto di tre dita trasverse dividevasi poi in due fasci di presso che eguale grossezza, uno de’ quali si aggiugneva al bicipite, l’altro discendeva a canto di lui nel solco bicipi- tale interno passando sopra il fascio vascolo-nervoso brachiale, e terminava unen- dosi al capo superiore del pronatore rotondo (1). Quanto alla seconda domanda, non posso con osservazioni mie proprie rispondere. Ma sappiamo da Turner (2) che dal processo sopracondiloideo non sempre nasce un capo soprannumerario del rotondo pronatore, ma invece un fascio pertinente al muscolo brachiale anteriore. Quest’ anomalia va talvolta di conserva coll’ esistenza del capo soprannumerario nascente dal processo, e questa consociazione delle due anomalìe si trova nel lato sinistro Fig. 2*. Quel fascio i muove dalla faccia esterna e dal margine inferiore del processo sopracondiloideo a, discende distinto per certo tratto lunghesso il mar- gine interno del brachiale anteriore h, cui si unisce, intanto che dall’ apice del processo a, e dal legamento intermuscolare interno c viene il capo soprannume- rario e, formante la parete anteriore ed interna del canale sopracondiloideo. Il capo soprannumerario e poi è grossissimo, e rimane separato fino al terzo inferiore del pronatore rotondo normale, ed esso è che forma il tendine di attacco al radio, al quale tendine sono, per così dire, abbarbicati i fascetti carnei di quello; ond’ è che da questo lato il carattere di principale molto meglio che dall’ altro in lui si manifesta. Il canale sopracondiloideo sinistro è percorso dall'arteria omerale s accompagnata dalle sue vene e dal nervo mediano 17 »: le quali parti poco sotto la metà della regione brachiale si scostano dal solco bicipitale interno e discendendo l abban- donano per condursi al canale. A destra Fig. 1° in un coll’ anomalia del canale ne hanno due altre, arteriosa l una, nervea l’ altra. L’ arteriosa consiste nel divi- dersi che fa inferiormente l arteria ascellare m, prossima ad uscire del cavo del- l’ascella, in due grossi rami, uno brachio-radiale u, u, e l’altro brachio-ulnare x. Il brachio-radiale, men grosso, discende nel solco bicipitale interno, dà due rami al muscolo bicipite, passa sotto l’ espansione aponeurotica del di lui tendine, e de- corre sul capo soprannumerario e al lato esterno dell’avambraccio come arteria radiale. La ricorrente radiale non è data da esso lui, ma dall’interossea. Subito sotto la sua origine il ramo brachio-radiale descritto è abbracciato da un’ ansa nervosa, la quale costituisce l'anomalia pocanzi contrassegnata con lo stesso aggiunto. Quest’ ansa è a simile di quella delle due radici del nervo mediano, ed è formata dal ramo 15 somministrato dal nervo muscolo-cutaneo 14 innanzi che perfori il co- (1) Chi amasse conoscere le anomalie del m. pronatore rotondo fin qua descritte non ha che a consultare l’ Handbuch der Muskellehre des Menschen von Dr I. Henle ecc. Braunschweig 1871, pag. 202-205. (2) Op. cit. pag. 175. lia raco-brachiale; il quale ramo 15 discende lungo il lato esterno dell’arteria ascellare, ed appena uscito dell’ascella congiugnesi ad angolo acuto col nervo mediano 16, che gli è accosto, e che chiude l’ ansa internamente. Questa disposizione nervosa da certi forse non si vorrà avere per straordinaria od anomala, stante che incontra che i due nervi particolarmente nella parte inferiore del braccio, si anastomizzano, sia che il mediano porga uno o più ramuscelli al muscolo-cutaneo, sia che questo ne porga a quello, o vero che l’uno con l' altro insieme se ne scambi più o men numero, anche tra loro anastomizzati a plesso. Io non negherò certamente questi ramuscelli anastomotici fra i due nervi, ma la loro presenza è, secondo le mie osservazioni, molto meno frequente della loro mancanza: onde io seguo quegli ana- tomici che li segnalano per cosa insolita, e pongono che il mediano nel braccio non dia nè riceva ordinariamente di tali rami, e così 11 muscolo-cutaneo. Senza che il ramo 15, discendente a formar ansa col mediano 16, esce dal muscolo-cutaneo innan- zi che perfori il coraco-brachiale, ed è grosso, e tale che vuole aversi per una terza radice del mediano. E che questo nervo possa avere tre radici, non è nuovo per verun conto; anzi Cruveilhier dice che « Il n'est pas rare de trouver pour le median, une 3.° racine interne , (1). Se non che nel caso nostro essa è esteriore, e cotale radice mi occorse pur altra volta, e la ritrassi e descrissi chiamandola radice lunga, chè così era per lo appunto rispetto alle altre due normali più in alto locate (2). L’ansa poi che formava unendosi col tronco discendente da queste due radici, non abbracciava verun’ arteria, nessuna non avendone da abbracciare, nè posta, quanto al sito, in condizione da poternela essere, essendo necessario ch’ella sia esterna, secondo che giù dimostra la citata Fig. 1°. Non mi fermerò a dire della impor- tanza chirurgica dell’ anomalìa nervosa descritta, essendo per sè evidentissima. L’ altro ramo, o ramo brachio-ulnare x dell’ arteria ascellare, già più grosso del brachio-radiale, discende anch’ esso lungo il solco bicipitale interno al lato interno e posteriore dell’ altro, e giunto presso il terzo inferiore del braccio l’ abbandona andando verso il legamento intermuscolare interno, ed al canale sopracondiloideo cui trapassa colle sue vene satelliti, e col nervo mediano. Subito dopo la sua ori- gine il ramo brachio-ulnare manda l’omerale profonda, o grande collaterale, di poi due rami al muscolo brachiale anteriore, e finalmente nel canale sopracondi- loideo la collaterale ulnare. Il nervo mediano, già divenuto più grosso al di sotto della terza radice sopradetta o dell’ ansa abbracciante il ramo brachio-radiale, come si vede in 17, 17 », trovavasi dapprima sopra il ramo brachio-ulnare, poi al suo lato interno, a questo continuamente applicato fino al canale sopracondiloideo, entro il quale cominciava a scostarsene andando più internamente. Non è certamente nuovo che l'alta origine delle grosse arterie dell’ avambraccio vada di conserva coll anomalìa del canale sopracondiloideo. Già vedemmo le ar- 1) Anatomie descriptive, Tome quatriéme. Paris 1852, pag. 519. Nota. q pag (2) Memorie dell’ Accad. delle Scienze dell’Istituto di Bologna. Serie III, Tom. VIII, pag. 445 e Fig. I. = RES. Lor terie ulnare e l’interossea nate molto in alto dalla brachiale, o dall’ ascellare, es- serne compagne, e percorrerlo. Quest’ ultima contingenza non può avere effetto per la radiale, essendo che qualora nasca ella anche dal lato interno della brachiale molto sopra il solito luogo, ha in costume di recarsi esternamente, e sfuggire per ciò il canale percorso dall’una o dall’ altra di quelle due arterie, o vero dalla brachiale. Non intendo già dire con ciò che quelle arterie sempre il percorrano; che anzi pur talvolta lo cansano; e Gruber già l ha notato, non transitando poi il canale che il nervo mediano solo solo, di qualità che in tale passaggio pare più costante questo nervo; e per verità non si è, che io sappia, finora mai trovato che esso non accompagnasse quelle arterie ogni volta che passassero per quello. Finalmente rispetto all’ anomalìa arteriosa descritta non istarò a dire com'ella possa essere interpretata, secondo G. F. Meckel, per una mancanza, e non per una du- plicità della brachiale, essendo più naturale significare le due arterie nelle quali risolvesi e termina l’ascellare, come radiale ed ulnare, le quali però nel braccio prendono e adempiono la vece e l’uffizio della mancante: non istarò a dire come ella aumenti il numero de’ fatti che contraddicono l’ asserzione di F. Tiedemann che l'alta origine di quelle arterie spesseggi più nelle persone di bassa statura, e conforme volle Hebenstreith, più a sinistra che a destra: imperocchè son’ elleno tutte cose fuori dell’ argomento prefissomi, e come tali, non voglionsi qui da me ragionare. Onde le ommetto e faccio punto, bastandomi di avere illustrati i due esempi occorsimi di canale sopracondiloideo dell’ omero nell’ uomo; di aver mo- strato come in essi l’esistenza del canale va di conserva con un muscolo rotondo pronatore tricipite; d'avere segnalato all’ ultimo per anomalìa di grande momento riguardo la Chirurgìa pratica la terza origine o radice esterna del nervo mediano, e l’ansa ch'ella forma con questo, abbracciante il principio dell’anomala arteria traente dall’ascellare, denominata superiormente arteria o ramo brachio-radiale. oideo L Calori-Canale sopracon {Karin dif a Mem Ser. 4 a) = A Lit.G.Wen ] SPIEGAZIONE DELLA TAVOLA Fig. 1° — Rappresenta il braccio destro di un uomo adulto con metà dell’avam- braccio, dove s avvisa il processo ed il canale sopracondiloideo dell’omero, percorso dall’ arteria brachio-ulnare e dal nervo mediano; più il muscolo rotondo pronatore che è tricipite; la divisione dell’ arteria ascellare in ramo od arteria brachio-radiale ed in ramo od arteria brachio-ulnare ; infine una terza radice esterna del nervo mediano, la quale forma con questo un’ ansa abbracciante il principio del ramo od arteria brachio-radiale. Fig. 2° — Processo e canale sopracondiloideo dell’omero sinistro del medesimo individuo, pel quale canale passa l'arteria brachiale col nervo mediano, e muscolo pronatore rotondo tricipite. Queste due Figure ritraggono gli oggetti ridotti alla metà della naturale gran- dezza, e in amendue sono dessi indicati dalle medesime lettere. a, Processo sopracondiloideo. b, Condilo interno dell’ omero. c, Legamento intermuscolare interno. d, Lamina aponeurotica che dal processo sopracondiloideo e dal capo anomalo e del muscolo pronatore rotondo va al legamento intermuscolare ed al condilo interno dell’ omero, la quale lamina forma la parete anteriore del suddetto canale. e, Capo soprannumerario del muscolo pronatore rotondo. f, Capo superiore del medesimo. g, Capo inferiore dello stesso. h, Porzione inferiore del muscolo brachiale anteriore sinistro. 1, Fascio muscolare che nasce dalla faccia esterna del processo sopracondiloideo del braccio sinistro, e che va al muscolo brachiale anteriore del medesimo lato. 1, Ingresso al canale sopracondiloideo, e questo stesso canale. m, Arteria ascellare. n, Un ramo toracico. IA Grosso e breve tronco movente dall’ ascellare, il quale è ceppo dell’ arteria sottoscapolare p, e della circonflessa interna q, dell’ omero. 2 Circonflessa esterna dell’ omero, o piccola. s, Porzione inferiore dell’ arteria brachiale sinistra. t, Divisione dell’ arteria ascellare destra nel ramo od arteria brachio-radiale e nel ramo od arteria brachio-ulnare. u, u, Arteria brachio-radiale, la quale porge i rami v, v, al bicipite brachiale. Arteria brachio-ulnare. Y, Due rami dati dalla brachio-ulnare al muscolo brachiale anteriore. z, Arteria omerale profonda o grande collaterale, che offre il suo ramo super- DO Ho 00 U 0 + > ficiale in & ed il profondo in 1. Ramo interosseo. E Ramo cubitale, od arteria cubitale od ulnare a sinistra. 4, Arteria radiale sinistra. Arteria ricorrente radiale. , Nervo circonflesso. , Nervo radiale. , Tronco tagliato, dal quale procedeva la piccola porzione 9 del nervo cutaneo medio, o interno grande, e che si divide nel grosso ramo 10, che è il nervo cubitale, e nel ramo 11, che è la radice interna del nervo mediano. 9, La detta porzione del nervo cutaneo interno grande. 10, i 12, 13, 10, Nervo cubitale. Radice interna del nervo mediano. Altro tronco donde muove il nervo cutaneo esterno o muscolo-cutaneo e la radice esterna del nervo mediano. Radice esterna del nervo mediano, la quale si unisce colla interna 11, for- mando un’ansa che abbraccia l’ arteria ascellare m. Nervo muscolo-cutaneo o cutaneo esterno. Terza radice, la quale è esterna, data dal nervo muscolo-cutaneo al me- diano con il quale essa unendosi forma un’ ansa abbracciante l'arteria brachio-radiale u. Tronco del mediano al di sopra della terza radice, il quale naturalmente è men grosso che al di sotto. Tronco del mediano al di sotto della terza radice, e 17 * il medesimo tronco avanti che passi nel canale sopracondiloideo. Il medesimo tronco al di sotto del canale predetto, insinuantesi discendendo tra il capo superiore f, e l inferiore g, del muscolo rotondo pronatore. DEI TERATOMI SACRALI MEMORIA DEL KPROF.MCESARE TARUEET (Letta nella seduta del 25 novembre 1880) Osservazione. — Nel giorno 12 Giugno 1877 ci veniva mandato da Mercato Saraceno (Prov. di Forlì) un pezzo patologico, accompagnato dalla seguente lettera seritta dal pregiato Dott. Paolucci. » Il pezzo anatomico apparteneva ad una bambina nata da due giorni da madre dotata di robusta costituzione; la quale assicurava d’aver avuti molti disturbi nella gravidanza ed una forma singolare di ventre; cose non mai accadute in otto gravidanze antecedenti, per cui essa era stata in una certa apprensione. Av- vertiva inoltre, che, secondo i suoi calcoli, il parto aveva anticipato 15 o 20 giorni mancando altrettanti giorni al compimento dei nove mesì di gravidanza. , » Il tumore non era affatto peduncolato, ed aderiva con una parte della sua superficie rotonda alla regione sacrale e cocigea. L’ orificio anale era pervio, lasciava uscire il meconio, e si vedeva spostato anteriormente per opera de] tumore incirca per due centimetri, volgendo alquanto a sinistra. Al tatto si av- vertiva un corpo solido, simile nella forma a quella dell'osso occipitale. Si sen- tivano pure altri punti resistenti che avevano una certa elasticità da paragonarsi alla sostanza cartilaginea. In alcune appendici carnose che s' elevavano alla super- ficie del tumore, stringendo colle dita, si aveva l impressione di ossa lunghe. Del resto il tumore era molle, fluttuante e discretamente teso. Per questi caratteri si stimò con molta probabilità trattarsi d’ una inclusione fetale. , » Fu asportato il tumore mediante legatura, previa infissione di spilli in croce. S ebbe pochissima emorragia e solo un arteria dava sangue. Ma non avendosi a- vuta l’ avvertenza di portare un secondo laccio per impedire lo svuotamento del tumore, dopo l’ escisione escirono con forza circa (‘00 grammi di liquido sieroso, CLARE leggermente colorato in rosso, ed il tumore perdette circa un quinto del suo volume; il quale al presente è anche maggiormente ridotto, dopo la sua immer- sione per 15 giorni in una soluzione d’ acido fenico. , ». Dopo l’ operazione non s' ebbe nessun fenomeno morboso d’origine nervosa. La bambina continuò ad evacuare il meconio e le urine, e prese anche alcun poco di latte dalla nutrice. Nulladimeno dopo quattro giorni morì La necroscopia non fu fatta. ,, Il tumore, dopo essere stato tre anni e mezzo nell’ alcool, ha assunto la forma allungata, misurando nel diametro longitudinale 15 cent. nel trasversale 8, nella circonferenza maggiore 25 centim., corrispondente nel mezzo della sua lunghezza. La superficie è ricoperta dalla pelle, a tratti rugosa, ed in altri liscia ed assotti- gliata, eccettochè da un lato verso una delle estremità, la quale considerando la lettera precedente, giudicheremo per l’ estremità superiore (immaginando l au- x tossita veduto di fronte), ove la superficie è cruenta, di figura elittica, lunga 4 centimetri. La superficie del tumore presenta in oltre all’ estremità superiore una cisti, in gran parte sollevata dal medesimo, grande quanto un piccolo pomo, con pareti assottigliate. Sotto alla cisti dal lato sinistro, sporge un bottone carnoso, roton- deggiante, grande come una lazzeruola, e più in basso havvi un infossamento cu- taneo trasversale, che abbraccia la metà anteriore del tumore e ne distingue il terzo superiore dagli altri due. Anche dal lato posteriore havvi un altro infossa- mento, parimente incompleto, che distingue invece il terzo inferiore. Subito sotto a questo secondo infossamento, alquanto a sinistra sporge un secondo bottone carnoso, alquanto più grosso e consistente del precedente (V. tav. I° fig. 1. 0). Ad onta del lungo tempo in cui è rimasto immerso nell’alcool, il tumore si con- serva tuttavia pastoso e cedevole in alcune parti, decisamente molle in altre, e dal lato posteriore ed inferiore presenta alcune chiazze dure ed irregolari. Ta- gliato longitudinalmente dal lato posteriore (V. tav. I° fig. 1.) offre internamente un aspetto cavernoso, essendo dotato di vacui rotondeggianti, di tutte le dimen- sioni principiando da quelli capaci d’ un grano di fava e giungendo, in un solo caso, alla capacità d’un grosso pomo ; questo grande vano si trova nel terzo in- feriore del tumore (V. fig. 1. 4). Tutti questi vacui sono separati da tessuto car- noso lasso, tinto ancora dall’ acido fenico, eccetto una piccola zona, in cui il tes- suto è rosso scuro; e tanto in un luogo quanto nell’altro si vede traversato da al- cuni cordoni fibrosi. In qualche luogo i vacui hanno una parete propria, relati vamente grossa, e si sollevano dalla superficie del taglio a guisa di cisti; ma la parete non ha una uniforme grossezza, nè la cavità è regolare, presentando varie anfrattuosità ; le quali però non si trovano nella cisti situata all’ estremità supe- riore del tumore, ove la parete è abbastanza sottile ed uniforme (V. fig. 1. d). La cute si stacca con facilità dalla massa carnosa; la qual cosa però non può farsi dal lato posteriore-inferiore in corrispondenza alle chiazze dure ed irregolari ni AA già ricordate, poichè tanto il tessuto cellulare sottocutaneo, quanto il tessuto car- noso sottoposto aderiscano strettamente alle medesime. Queste poi, separate con qualche difficoltà dalle parti sovrapposte, apparvero costituite da 12 ossetti, in gran parte allo stadio cartilagineo; i quali erano ricoperti dal periostio, e con- giunti fra loro da tessuto fibroso. Niuno di essi ha la grandezza e la figura delle ossa fetali, e neppure permette d’indurre 1 omologia con quelle; tuttavolta non può negarsi che essi presentano il tipo delle ossa in via di formazione, poichè alcuni ricordano remotamente le vertebre, ed altre le ossa lunghe con le rispettive epifisi (V. fig. 2). Oltre a queste 12 ossa se ne trovano altre due irregolarissime, un poco più in alto e disgiunte dalle precedenti. Finalmente vicino al bottone car- noso si rinviene una strana figura formata da alcuni pezzi cartilaginei, in parte disposti in serie, in parte allargati, ripiegati, pertugiati, dando luogo ad un vano (fio. 3). Esaminando col microscopio la sostanza carnosa del tumore e principiando dalle pareti cistiche, libere dalle parti vicine, si vede, in un taglio trasversale, che il lato interno di queste pareti è tapezzato da epitelio stratificato, a cellule piut- tosto piccole, e che dal medesimo lato si sollevano alcune papille, di diversa ‘ grossezza, ora semplici, ora ramificate, senza distribuzione regolare, ricoperte gene- ralmente da epitelio (V. fig. 4. a, @). Tutto il rimanente della parete è formato da tessuto connettivo fibrillare, ricco di corpuscoli, in parte degenerati, il quale contiene tre strati distinti fra loro. Il più prossimo alla superficie interna è fatto di pacchetti adiposi fra loro disgiunti, in cui il grasso è scomparso ed i residui si vedono coagulati entro le cellule (V. fig. 4. 9, g). Il secondo strato è costituito da fasci musculari striati, tagliati generalmente per traverso {V. m, m); ed il terzo è parimenti costituito da fasci muscolari paralleli al taglio, alcuni del quali sono separati da tessuto connettivo interposto (V. ww’ m'). Trovansi finalmente ar- terie e vene, di calibro notevole, situate a diverse altezze della parete (V. ar, 0). Osservando poscia tagli fatti nel tessuto, in cui le lacune non hanno pareti proprie, si vede che lo stroma è formato da tessuto connettivo in tutti i gradi di sviluppo, principiando dallo stato di cellule embrionali fino ad assumere la disposizione areolare, o fibrillare (V. fig. 5). Esso poi dà ricetto a tubi glando- lari con epitelio non uniformemente cilindrico, i quali sono fra loro di diverso calibro e forma, da non potersi paragonare ad alcun tipo fisiologico (V. fig. 5. I; 9). Sì vedono inoltre numerose lacune, di tutte le grandezze, tapezzate da epi- telio pavimentoso stratificato ; senza cellule di transizione con quelle del tessuto connettivo circostante (V. /, 2). Si trovano ancora con qualche frequenza, esami- nando più tagli, isole di cartilagine jalina (V. 6); molto più. di rado fasci muscolari striati; finalmente si osservano arterie e vene di notevole calibro (V. 4, v. Lo stesso connettivo e le stesse lacune formano i bottoni carnei, superiormente av- vertiti, colla sola differenza, che sono infiltrati di sangue; la qual cosa poi si ripete ancora in quelle porzioni del tumore che furono vedute di color rosso. TOMO II. tl doge Se ora raccogliamo in breve quanto abbiamo veduto, possiamo ammettere che il tumore è formato esternamente dalla cute, la quale era in continuità con quella del neonato; che internamente è costituito da una massa di tessuto connettivo, a tutti 1 grali di sviluppo; che verso l'esterno di questa massa vi sono ossa e cartila- lagini, senza tipo specifico; e che internamente vi sono: 1° cisti con pareti distinte, fornite di papille, di grasso, e di muscoli striati disposti simmetricamente; 2° la- cune di diversa grandezza, senza pareti distinte, tapezzate da epitelio pavimentoso ; 3° frequenti isole cartilaginee; 4° rari fasci muscolari erratici; 5° arterie e vene abbastanza frequenti e grosse. Volendo ora cercare la natura di questo tumore, di cui conosciamo i compo- nenti, dovremmo avanti tutto paragonare coi singoli generi di neoplasmi tanto acquisiti, quanto congeniti; ma senza esporre questo lungo esame comparativo, troppo ovvio agli anatomici, possiamo tosto concludere che esso non somiglia ad alcuno dei medesimi, poichè in ciascun genere vi sono bensì ora gli uni, ora gli altri elementi, ma giammai si trovano tutti associati assieme, colla forma e colla disposizione rinvenuta nel nostro tumore; laonde sarebbe d’uopo introdurre un nuovo genere di neoproduzione, che si distinguesse dagli altri e per ln sede, e per il grado elevato di composizione, e per la disposizione e forma dei tessuti. Ma, anche ricorrendo a questo partito, niuna luce verrebbe data all’ origine, per- chè nella regione posteriore del sacro e del cocige non havvi alcun tessuto, la di cui vegetazione spieghi prodotti così diversi, come li abbiamo rinvenuti. Se invece confrontiamo i componenti del tumore con quelli che compongono un feto immaturo, tosto riconosciamo che i tessuti sono comuni ad ambidue, colla differenza che nel primo mancano gli elementi nervosi ed il parenchima specifico di molti organi. Questo difetto però non attenua l’analogia che cerchiamo fra una cosa e l’ altra, essendo noto che negli acefali, milacefali, ed anidei (forme diverse di degradazione fetale) si riscontra una scala discendente d’ organizzazione fino al punto che il prodotto del concepimento non è rappresentato che da tessuto con- nettivo vascolarizzato, ricoperto dalla cute. Ora il nostro tumore non raggiungendo questo grado massimo di semplicità, può essere paragonato rispetto ai componenti ad un feto, la di cui organizzazione si sia arrestata nello sviluppo. L’ analogia poi diventa più manifesta se rammentiamo che nel tumore havvi un tessuto molto elevato nella scala organica, qual’ è il muscolare, e che si trova in tal copia, come niuno ha mai rinvenuta fra quei pochissimi osservatori, che affermarono d’ aver scoperte fibre muscolari striate di nuova formazione, sicchè non rimane altra induzione che d’ attribuirle ad un embrione deformato. Contro il nostro argo mento alcuno potrebbe opporre che le fibre fossero somministrate dai glutei, o dall’ elevatore dell’ ano del portatore, ma questa ipotesi può facil- mente venire elimi nata ricordando che i fasci muscolari non sono già sottocutanei, ma fanno parte integrante della massa del tumore, ora correndo erratici nel tessuto connettivo, ora formando un doppio strato nelle pareti delle cisti. tre Questa induzione trova ancora un nuovo sostegno nelle cartilagini e nelle ossa rinvenute, le quali, quantunque non ripetano esattamente le forme fetali, rappre- sentano molto meno le forme di condromi ed osteomi, anzi somigliano grande- mente al tipo delle vere ossa, senza essere eguali nella forma ad alcuna di esse. Ora noi sappiamo che le neoplasie patologiche conservano la struttura del tessuto materno senza mantenere nè la forma speciale, nè il tipo generale; dove che le ossa fetali possono nel loro sviluppo deviare dalla loro figura, come numerosi casi di teratologia dimostrano, sicchè noi non dubitiamo che le nostre ossa appartenessero ad un germe. Altrettanto deve dirsi delle cisti con pareti proprie, perchè queste non sono fatte di puro tessuto connettivo, ma sono fornite di papille, d’ uno strato di pac- chetti adiposi, di due strati muscolari, i quali sono disposti come negli organi tubulari, dando quindi l’immagine d’una parete fisiologica, non mai rinvenuta nei neoplasmi. Egli è vero d'altronde che cotesta parete non è uguale nè al- l’ intestinale, nè all’ esofagea, nè alla vescicale ecc., ma è anche vero che in altri esempi di parasiti sacrali si sono trovati fra organi che avevano conser- vato il tipo fetale altri che si erano molto allontanati dal medesimo (1); sicchè è molto verosimile che le nostre cisti a pareti distinte non siano che organi de- formati. Assai più disputabile è l origine del tessuto connettivo lacunare, che forma la gran massa del tumore, (tessuto generalmente chiamato sarcoma cistico), perchè esso per una parte costituisce una varietà dei tessuti congiuntivali, e per l'altra trovasi frequentemente quale modificazione del tessuto connettivo nei mostri acardiaci. Ma se consideriamo che questo tessuto è compagno costante nei teratomi del sacro (2), ove niuno ha mai rinvenuto un sarcoma cistico acquisito, ricaviamo un argomento che ci fa inclinare a credere che cotesto tessuto non sia che il connet- tivo embrionale grandemente alterato. Nel nostro caso la probabilità di tale origine si fa molto maggiore, perchè osservando le lacune contenute nel tessuto, si vede per una parte che esse sono tapezzate da un epitelio stratificato, distinto dal connettivo circostante, e per l’altra che esse variano grandemente nella capacità fino al punto d°’ offrire i caratteri di tubuli glandolari. Ora essendo ben dimostrata la proclività delle glandole di tra- smutarsi in lacune od in cisti, stimiamo che altrettanto sia accaduto nel nostro tumore. Ma se si trattasse d’ un neoplasma acquisito nel luogo d’ origine dovreb- bero preesistere le glandole, mentre nella regione posteriore del sacro e del co- cige non vi sono siffatti organi, laonde si è condotti ad ammettere che coteste glandole abbiano un’ origine embrionale, e che per le condizioni del circolo si siano convertite in lacune. (1) Vedi in fine Nota 1. (2) Ibid. “dg Considerazioni storiche sui teratomi del sacro. — Siamo debitori agli ostetrici, se ora sappiamo che la regione sacrale è un luogo d’ elezione per certi tumori con caratteri assai variabili, però diversi da quelli dell’idromeningocele spinale, e dei neoplasmi acqui- siti. Tale cognizione, sebbene assai facile, tardò lungo tempo ad arricchire il patrimo- nio della scienza, perchè le osservazioni, che dovevano generarla, furono da prima molto rare, pubblicate in tempi a noi abbastanza vicini, ed in luoghi fra loro lontani. Il primo ostetrico a nostra cognizione (1), che recò un caso di questo genere fu il francese Filippo Peu (2), il quale, sul finire del secolo XVII, assistè una sposa per un parto assai difficile in causa d’ un grosso tumore all’ estremità della spina, che conteneva da un lato acqua, dall altro sostanza sebacea. Dopo 37 anni (1731) Gemmil in Scozia (3) vide un neonato che aveva un enorme tumore pen- dente dall’ estremità del tronco, diviso internamente da tanti sepimenti, che sepa- ravano l’acqua contenuta, per cui lo paragonò ad un cedro. Ma due osserva- zioni assai più singolari comparvero a Londra nel 1748 (4). Una appartenente al chirurgo Wills, e comunicata all’ Accademia dal celebre Huxham, rivela Ja presenza di resti fetali manifesti entro il tumore; ed una seconda riferita da un anonimo, risguardante un tumore, sulla cui superficie sporgevano una mano ed un piede e nell’ interno non vi erano che alcune ossa. Nella seconda metà del secolo scorso furono pubblicati alcuni fatti analoghi anche in Germania. Lieschin® (5) descrisse un fanciullo con tumore sacrale da cui pendeva una intera gamba, ben sviluppata come le altre due. Wagner riferì intorno al tumore sacrale d’una bambina, sul quale nasceva un braccio, che finiva con due dita. Lòffler rappresentò un tumore sulla cui superficie s1 vede l’ imma- gine del naso e d’un occhio (6). Nella Svizzera Buxtorf sezionò un tumore senza (1) Alcuni hanno attribuita la prima osservazione di tumore sacrale a Cornelio Stalpart van der Wiel medico in Aja: ma leggendo la descrizione alquanto inesatta e guardando la figura data dall’ autore si rimane disposti a credere che si trattasse piuttosto di spina bifida. Vedi Observat. rarior. Amsterdam 1682; Leidae 1687, 1727, p. 368. (2) Peru Fiipro — Pratique des accouchemens. Paris 1694, p. 469. Ciò che faceva la difficoltà al parto d’ una donna, incinta da sette mesi, era un tumore ro- tondo, due volte più grosso della testa del fanciullo, situato all’estremità della spina e che oc- cupava l’ osso sacro ed il cocige. La maggior parte della materia, di cui era composto, rassomi- gliava a quella delle lupie; il resto era acqua, che l’autore fece scolar fuori dall’apertura del tumore o della pelle che lo ricopriva. Dopo di che esso ebbe maggior facilità per terminare la sua operazione. (8) GeMMIL GIovANNI, chirurgo ad Irvin (Scozia) — Med. Essais and Observat. by a Society in Edimburg. Vol. V. P. I, 1739 p. 488. - Trad. frane. Paris 1743, p. 562. (4) Queste ed altre osservazioni di teratomi sacrali si trovano riassunte e disposte cronologi- camente nella Nota I posta in fine. (5) LiescHIna Ch. Fr. — Tripes Heitersbacensis. Tubingae 1755 con tav. Quest’ opuscolo, che Braune non è riuscito a procurarsi, essendo da noi posseduto, ci permette di dare tradotto il passo più importante. Vedi Nota I Oss. 3°. (6) LOFFLER — Stark's Neues Archiv fiir die Geburtshilfe ete. Bd. 1, Heft 2, s. 145, 1797. Quest’ Oss. è riportata da Braune (Die Doppelbildungen 1862. N. 65), colle seguenti parole: Nel 4 Maggio 1878 fu partorito in Woronzou in Russia un fanciullo con un grosso tumore sacrale, il quale aveva la grossezza della testa, era peduncolato, e raggiungeva i popliti del fan Cao tracce fetali e lo trovò composto di cisti (1); altrettanto rinvenne Saxtorph in Danimarca (2); finalmente Guyon in Francia confermò con un nuovo esempio l’ osservazione di Wills, avendo trovato entro il neoplasma frammenti delle ossa della testa, della pelvi e delle coscie d’ un feto, non che altre ossa informi (Vedi Nota 1, Oss. 5). _ Nel presente secolo le osservazioni si moltiplicarono e si perfezionarono da rilevare nuove varietà nella composizione del prodotto. E fra le varietà più im- portanti ricorderemo che Fattori e Schaumann (Nota I, Oss. 9 e 17) trovarono ognuno tracce evidenti dei due feti rinchiusi in un neonato. Ma avanti che i fatti fossero numerosi e descritti con accuratezza, Meckel nel 1812 (3) s' accorse che i già noti appartenevano alla teratologia. E per spiegare come questi tumori congeniti prediligano il sacro, immaginò che la estremità inferiore della colonna vertebrale e della midolla abbiano una tendenza vegetativa, analoga a quella dell’ estremità cefalica; senza però determinare, e molto meno spiegare, le diverse qualità di contenuto vedute fino al suo tempo. Questo compito per vero era assai difficile e non si poteva ad un tratto man- dare ad effetto. Per esordire si principiò a raccogliere ed a prendere in esame i tumori, che avevano caratteri comuni molto evidenti, lasciando in disparte gli altri, e la scelta cadde su quelli che contenevano ossa fetali. Siccome poi erano cognite produzioni eguali in altre regioni del corpo, così si poterono stu- diare tutte in modo generale e permisero di stabilire un nuovo tipo teratolo- gico, che Fattori chiamò feti gravidi, Capadose feti entro feti (4), Huntt intrafeta- zione (5), Lachaise duplicità per inclusione (6), recentemente Ahlfeld /eratoma (7). ciullo. Molestando il tumore per il suo peso e per la sua grossezza, fu tolto mediante la legatura, nulladimeno avvenne una emorragia non lieve da due arterie che furono tamponate. Il fanciullo guarì. Ahlfeld riporta la figura data dall'autore (Missbildungen 1880, p. 55; A#as Taf. VII, Fig. I), in cui si vede un’ appendice ed una fessura, e dice che l’ appendice fu giudicata per un naso, e la fessura per un occhio. Alla quale interpretazione Ahlfeld deve prestare intera fede, ponendo egli il caso fra gli esempi di feratoma, dopochè Wernher l'aveva collocato fra gli igromi cistici. (1) Buxrorr Giovanni — Acta helvetica Tom. VII, p. 108. Bernae 1769. Un fanciullo neonato aveva un sacco carnoso, straordinario per la grandezza, attaccato me- diante uno stretto peduncolo alle ultime vertebre lombari, formato da una grossa e robusta pelle, contenente una libbra e mezzo di linfa. Nel posto dell’osso sacro si trovarono sei idatidi, grosse come una nocciuola. ; (2) SaxrorpA MATTEO celebre ostetrico —— Collectanea societatis medicae havniensis. Havniae 1775. Tom. II, n. 4, p. 25. — MECHEL Patholog. Anat. Bd. 1, s. 371. Trovò fra le coscie d’una femmina neonata un sacco enorme, coperto dalla cute, che spingeva in avanti l’ orificio dell’ano, ed in dietro il cocige a guisa di coda. Il tumore conteneva quattro libre di liquido ed una gran quantità di piccole idatidi. (3) MeckeL J. F. — Handbuch der pathologischen Anatomie. Bd. I, S. 373. (4) Capapose ABRAMO — Diss. de foetu intra foetum. Leydae 1818. (5) Huntt — Medic. repository de New-York. Tom. VI, octobr. 1820. (6) Lacnaise — De la duplicité monstruese par inclusion. Paris 1823. (7) AnLrELD F. — Die Missbildungen des Menschen. Leipzig 1880, S. 53. Mesi E qui noteremo che fra i varii risultati di questo studio, vi fu pur anche quello, di sapere che un certo numero di tumori all’ estremità del tronco non erano altra cosa che feti gemelli rimasti imperfetti, viventi allo stato di parassiti. I fatti però per compiere la storia del parasitismo erano da prima assai scarsi, ed insufficienti, per cui gli anatomici, che ebbero nuove osservazioni d’aggiungere, s'accinsero a rifare ogni volta la monografia. Uno dei primi fu Ollivier nel 1827 (1), che raccolse 16 casi d’inclusione fetale, di cui 6 nella regione sacrale, e rilevò che questi erano gli unici esempi di parassiti sotto la cute dell’ autossita. Nel 1831 Himly rinnovò l opera con un numero maggiore di esempi (2); difatto riportò 35 osservazioni, di cui 10 all estremità inferiore del tronco, ed aggiunse altri cinque casi che chiameremo dubbi, perchè il contenuto del tumore non era caratteristico. Nel 1837 Isidoro Geoffroy Saint-Hilaire (3) tornò sull’ argomento senza osservazioni personali e riconfermò la proposizione di Ollivier che le inclu- sioni sottocutanee hanno sede nella parte inferiore del tronco; avvertì però che si conoscevano due eccezioni alla regola. In quanto a tutti gli altri tumori del sacro, senza residui fetali, essi erano considerati in generale come mneoplasmi, uguali, anche rispetto all’ origine, agli acquisiti e niuno si era occupato a stabilirne le specie (4). Quando nel 1843 Wer- nher (5) prese ad esaminare il gruppo più comune dei medesimi, che in allora contava 15 casì, e riconobbe in essi il carattere cistico , senza preoccuparsi della complicazione sarcomatosa. Riconobbe pur anche che cotesta forma non aveva per sede soltanto il sacro, ma ben anche il collo, la nuca, e l’ ascella, e negò che sl trovasse congenitamente in altre regioni. La cifra data da Wernher fu in breve accresciuta per opera di Veling (6) e di Gilles (7), ma le cognizioni ri- spetto all’ origine di questi tumori semplici, e tanto più di quelli combinati con residui fetali, rimasero quali erano in antecedenza, cioè in istato negativo. E poi rimanevano da determinare altre forme diverse dalle precedenti, quali sono 1 fi- bromi, i lipomi, i cancri, più o meno combinati col sarcoma cistico. Mentre s° accrescevano le osservazioni di neoplasmi sacrali, aumentavano pur anche quelle di inclusioni fetali nella stessa regione (Geller) (8), sicchè rima- (1) OLLIVIER D’ ANGERS — Archives géner. de Med. Tom. XV, p. 355 e 539. Paris 1827. (2) HrmLy E. A., privato docente a Gottinga — Geschichte des foetus in foetu. Hannover 1831. (3) Isin. GEoFFRoy SAINT-HtLAIRE — Des anomalies. Tom. III. Paris 1837. Bruxelles 1838, p. 212. (4) Ammon F. A. — Die angeborenen chirurg-Krankhtn. Berlin 1840. Distingue i tumori sacrali in ernze, idrorachite, intrafetazione, ed in neoplasmi. (5) WERNHER ApoLFo — Die angeborenen Kysten-Hygroma. Giessen 1843. (6) VeLING M. A. — Essai sur les tumeurs enkystée inférieures du tronc foetale. Strasburg 1846. Riportò un caso operato felicemente da Stolz di cisto-sarcoma in Strasburgo. (7) GiLLes Giuseppe — De Hygromatis cisticis congenitis. Bonnae 1852. Descrisse due nuovi casi d’ igroma del collo ed uno del sacro. (8) GELLER GuaLiELMo — Descriptio tumoris coccygei foetus rudimenta continentis. Bonnae 1856. Raccoglie 4 nuovi casi dalla letteratura e ne aggiunge un quinto operato nella Clibica di Bonn. cd Ge neva sempre più evidente che quella era una sede oltremodo favorevole allo svi- luppo dei tumori e questa circostanza risvegliò il bisogno di esaminare non una specie sola, ma tutte le forme che sì riscontrano nel luogo medesimo. Questo bi- sogno fu soddisfatto da Lotabeck nel 1858 (1), che prevalendosi dei progressi compiuti dalla microscopia dette tutta l’importanza alla struttura dei neoplasmi e con questa base si credè in diritto di distinguere i tumori in grassosî, cartilaginei, ossei, vascolari, cisto-fibrosi e cellulari. Tale ordinamento andò soggetto di buon ora a diverse censure, perchè Lotzbeck trascurò il contenuto entro i vacui dello stroma; indicò come semplici i tumori cartilaginei ed ossei, dove che sono sempre compo- sti, chiamò inadeguatamente cellulari i neoplasmi maligni, ed aggiunse inopportu- namente i tumori vascolari, i quali possono verificarsi nella cute, ma niuno li vide come neoplasma semplice in rapporto col sacro o col cocige. A questi difetti se ne aggiunge un altro, e questo fù che Lotzbeck non recò alcuna luce sull’ origine dei tumori, se si toglie una notizia negativa e cioè che essi sono indipendenti dallo sviluppo e dalle malattie della midolla spinale e della colonna vertebrale. Ma tale difetto era comune a tutti i Teratologi, i quali tutto al più credevano, se non per i parassiti, almeno per ineoplasmi che all'estremità del tronco vi fosse una condizione favorevole al loro sviluppo. Mentre perdurava tanta oscurità parve finalmente trovata nel 1860 da Luschka (2) la condizione favore- vole per un certo numero di casi. Questo celebre anatomico scoperse una glandola fra le due inserzioni tendinee dell’ elevatore dell’ ano col cocige, la quale è formata da follicoli chiusi, innervata dal simpatico e nutrita da un ramo terminale dell’arteria sacrale media, e tale sco- perta conduceva facilmente a supporre che i tumori in corrispondenza al punto suddetto derivassero dalla medesima glandola. Questa ipotesi divenne tanto più verosimile dopo che Heschl (3) ebbe descritto un caso d’ipertrofia della glandola scoperta da poco tempo, e dopo che fu ricordata l'osservazione già fatta da Wit- tich (4), d’ un tumore che spingeva indietro l’ estremità del cocige, accompagnato dall’ ingrossamento dei gangli inferiori del simpatico, i quali inviavano rami al tumore e che questo non permise all’ autore di rintracciare la glandola suddetta. Ma chi dette tanta importanza a questo caso non notò che il tumore conteneva un pezzo d’osso piatto ed inoltre una sostanza simile al carcinoma midollare, la quale non essendo stata esaminata al microscopio poteva invece essere nervosa. Quantunque questa nuova ipotesi mancasse di prove sufficienti, tuttavolta ebbe (1) LorzBEcx C. — Die angebornen Geschwilste der hinteren Kreuzbeingegend. Minchen 1858. (2) Luscaga HuserT — Virchow?s Archiv. Bd. XVIZI, s. 106, 1860. — Der Hirnanhang und die Steissdrisse des Menschen. Berlin 1861. (3) HescHL — Oesterr. Zeîtschrift fir prakt. Heilkunde 1860 N. 14. — Vedi Braune pag. 52, Oss. 16. (4) Wirrica und WosLeeMmtta — Monatsschr. fir Geburiskunde I855, s, 161. — Vedi Braune p. 51, Oss. 15. — Nota II in fine. Oss. 7. Ae lieta accoglienza da Forster (1), da Virchow (2) e da Braune (3), in guisa che l’ultimo non ebbe difficoltà, classificando i neoplasmi, sopra 95 casi, raccolti in molta parte negli archivi scientifici, di trovarne sette degni d’essere collocati come esempi di degenerazione della glandola cocigea. Questo favore però fu di breve durata, perchè lo stesso Virchow (4) riconobbe che più spesso cotesti tumori non sono altro che cisto-sarcomi con o senza residui fetali, 1 quali con maggiore pro- babilità rappresentano in ogni caso veri deratomi, la di cui origime è ben diversa. A questa obbiezione l’Ahlfeld poi (5) ne aggiunse un’altra: che la parte posteriore dell’ ipofisi, analoga alla glandola sacrale, ed assai meglio nutrita di questa, non offre tumori di volume considerevole, dove che i cistosarcomi sacrali sono sempre enormi, e non mostrano forme di transizione fra la glandola ed il tumore. E se avviene la scomparsa della glandola, ciò non prova che essa abbia dato luogo al neoplasma, potendo per la sua piccolezza essere sfuggita alle ricerche, o distrutta : alla pressione del tumore. Ila questo cambiamento d’ idee intorno al cisto-sarcoma non avvenne repentino per opera d’un solo, ma fu preparato di lunga mano coll’ aiuto di molti, i quali ora recarono un nuovo contingente di fatti, ora suggerirono alcune felici idee, od invece ipotesi inadeguate, ed ora con maggior profitto trattarono l'argomento in tutta la sua ampiezza, facendo capitale dell’opera dei predecessori. E fra gli ultimi vanno ricordati il Férster che nel 1861 introdusse nuove ed ingegnose vedute (Op. cit.); il Paul, che nel 1862 raccolse 28 casì per rinvenire i caratteri diagnostici dell’inclusione fetale, della spina bifida, degl’igromi, e per fornire la storia clinica d’ognuno di questi tumori (6); ed il Braune, che nel medesimo anno pubblicò il lavoro più importante venuto sinora in luce, poichè mediante il corredo di 1836 osservazioni, potè meglio d’ ogni altro distinguere le varie specie di tumori e di- scutere la loro origine (Op. cit.) Le memorie pubblicate successivamente di Molk (7), di Freyer Moritz (8), di Liitkemiiller (9) e di varii altri offrono piuttosto il carat- (1) Forster A. — Die Missbildungen. Jena 1861, s. 28. (2) WircHow R. — Monatsschrift. fiir Geburtskunde. Vol. XIX, p. 407. Tumore formato da cisti tapezzate da epidermide, da fibre muscolari striate, da porzioni cartilaginee e da alveoli (Vedi Braune Oss. 12, p. 49). L’ autore stimò i due ultimi tessuti somi- glianti a quello della ipofisi, dei reni succenturiati ed analogo a quello della glandula di Lu- schka. (3) Braune GuaLiELMo — Die Doppelbildungen und angebornen Geschwilste der Kreuzbeinge- gend. Leipzig 1862, s. 47. (4) Vircuow — Jahresbericht fiir 13869, Bd. I, s. 165. (5) AnrreLp F. — Die Missbildungen des Menschen. Leipzig 1880, s. 55. (6) PauL CosrantIino — Archiv. gen. de Med. Ser. III, Tom. XIX, p. 641; Tom. XX, p. 45, 194, 273. Paris 1862. Fra i 26 casi raccolti solo 10 avevano reliquie fetali. (7) MoLk ALFREDO — Des tumeurs congenitales de l’estremite inferieure du trone. Strasbourg 1868. (8) Frevrr MortIz — Wirchow's Archiv. Bd. 58, s. 509. Berlin 1873. (9) LùrkeMmiLLER Giovanni — Oesterr. Med. Jahrbiicher. Heft. I, 1375. nu Brea tere di critica e di riduzione che di originalità; la qual cosa per vero era un bisogno dopo le molte cose dette. Rispetto alle inclusioni fetali (teratomi sacrali), Forster mostrò la loro corre- lazione coi parassiti liberi all’ estremità inferiore del tronco e coi pigopaghi; non differendo i primi dai secondi se non nella maggiore precocità con cui si è arre- stato il feto gemello, ed i due primi dai terzi, se non perchè questi offrono uno sviluppo completo parallelo, mentre in origine per tutti tre i casi i germi hanno la stessa posizione reciproca. Fornì inoltre una buona descrizione generale di cia- schedun gruppo, avvertendo che i parassiti sotto-cutanei non sono liberi, (come i feti entro gli involucri), ma in gran parte aderenti ad una neoplasia formatasi all’ intorno. Braune riprese l opera di Forster e riunì 37 osservazioni di tumori sottocutanei con parassiti, da cui ricavò che alcuni contenevano le estremità fetali, le quali potevano in qualche caso farsi esteriori, che altri racchiudevano porzioni intestinali, che in un terzo gruppo i tumori ricettavano ossa della testa e del tronco ; e pose altri quattro casi fra gli incerti, perchè i tumori contenevano ossa ed altri tessuti che non offrivano la forma fetale. Ma se Braune voleva annoverare tutte le specie di contenuto doveva aggiun- gere i casi, in cui sì è rinvenuta sostanza cerebrale, i quali oggi ammontano a quattro (vedi Naudin, Wedemeyer, Virchow, Moritz Freyer) (1), senza contare i casi dubbi (Wills, Gruber, Forster, De Soyre) (2). Così poteva distinguere i tu- mori, in cui gli organi fetali, più spesso membra, si presentano all’ esterno, mentre nell’ interno non havvi alcuna traccia; così i tumori con frammenti ossei sotto la cute, come nel caso nostro, dai tumori in cui gli organi fetali si trovano soltanto all’interno. Ma tutte coteste divisioni noi le stimiamo superflue, poichè egli è molto raro che vi sia una cosa sola; generalmente si rinvengono più tessuti così varia- mente combinati, che sfuggono a qualunque regola; e poichè si danno tumori sacrali, in cui gli organi fetali sono tanto interni quanto esterni, come nel caso di Puehstein, ove le tibie erano comprese dal sarcoma, ed i rispettivi piedi sporgevano alla superficie (vedi Oss. 38, Nota I in fine); oppure all’esterno havvi un organo e nell'interno un altro (Depaul, vedi Oss. 43, Nota I in fine). Nelle osservazioni alquanto antiche, appartenenti a Kubitz, Fattori, Ollivier, Gruber, etc. (3), si trova talvolta indicato fra i componenti il tumore un tessuto ora analogo ed ora eguale alla placenta. Questo reperto non è più stato ve- rificato dopo l’ uso del microscopio, ciò che conduce a sospettare che si confon- dessero porzioni di sarcoma intrise di sangue coi cotiledoni placentari. Ma ora non havvi più luogo a dubbio, dopochè Ercolani (4) ha preso di nuovo in esame il (1) Vedi Nota I in fine, Oss. 10, 11, 30, 45. (2) Vedi Nota I, Oss. 2 — Nota II, Oss. 2, 12, 19. (3) Vedi Nota I, Oss. 8, 9, 12; Nota II, Oss. 2. (4) Ercorani G&G. B. — Della placenta nei mostri per inclusione — Mem. dell’Accad. delle Scienze di Bologna, Ser. III, Tom. V, p. 596, 597, 1874. TOMO Ils 3 dota iltigi une preparato di Fattori ed ha veduto che il preteso tessuto placentare conteneva isole cartilaginee, fasci muscolari e connettivi. I teratomi sacrali si stimavano in passato quali fenomeni molto rari, poichè Braune colla maggiore diligenza non era riescito a raccogliere in tutti gli archivi della Scienza oltre 37 esempi. Noi però prevalendoci delle osservazioni tanto po- steriori, quanto d’ alcune sfuggite all’ Autore, siamo riusciti a sommarne 48, senza tener calcolo di alcune altre, ommesse per mancanza di sufficienti notizie (1). Ora cotesta cifra, già abbastanza rilevante, messa a riscontro col numero dei teratomi delle altre sedi, e più specialmente con quelli della cavità della bocca, mostra che la regione sacro-cocigea è la più esposta alle inclusioni sotto cutanee (2). Se poi rimarranno totalmente risolte due questioni, che ora esporremo, allora la cifra sud- detta si raddoppia ed il prestigio della rarità scema grandemente. Oltre i 48 casi, in cui i tumori possedevano frammenti di tessuti e d’ organi fetali; ne abbiamo riuniti altri 26 (3) compreso il nostro, che contenevano por- zioni d’ ossa informi, ora miste a cartilagini, ora a muscoli striati, ora a peli, ora a sostanza simile alla nervosa; e queste parti erano sempre involte da tessuto con- nettivo più o meno sarcomatoso, e più o meno ricco di cisti e di grasso. In quanto al valore di questo secondo gruppo di fatti, alcuni come Holm, Vrolik e recentemente Woss e Raffa lo stimarono di natura eguale al gruppo precedente; dove che altri, come Forster e Braune lo esclusero dal novero dei tumori paras- sitari perchè quei tessuti mancavano della forma caratteristica; laonde posero i tu- mori del secondo gruppo o fra i casi dubbi, o meglio fra i neoplasmi: ed ecco sorta la prima questione sovra annunziata. Per risolvere tale questione non abbiamo argomenti diretti; se però si consi- dera che anche nei tumori, ove le ossa e le cartilagini hanno una forma tipica, se ne trovano altre deformi, si ha la prova che non sempre il germe rinchiuso ed in istato di parassita raggiunge lo sviluppo caratteristico nelle sue parti. Ora quest’ accidente, come accade parzialmente, nulla osta che possa accadere total- mente, sicchè ci sembra abbastanza razionale l’ opinione di considerare anche i tumori in discorso per zeratomi. Ma havvi un'altra circostanza che conduce alla stessa illazione, e cioè che la forma e la disposizione di tali ossa e cartilagini è assai diversa da quanto si rinviene negli osteomi e nei condromi e basta vedere la loro figura come nella nostra osservazione, per persuadersi che esse assomigliano assai più alle (1) Abbiamo ommessa l’ osservazione di Kòmm in Gratz (in Ammon, Angeb. chir. Krankheiten — Berlin 1840, p. 47) avendola giustamente Braune (p. 40) collocata fra i casi dubbi. Abbiamo pure tacciuto d’un caso di Simbold (Jihresb. fiir Kinderheilk. Bd. XIV, 1879), ed un altro di Klebs (Gaz. Ebdom. 1867, p. 283) non avendo alcuna notizia intorno ai medesimi; ed altrettanto abbiamo fatto d’ una osservazione d’ Ahlfeld, perchè il tumore non fu sezionato. Di questo caso però terremo parola discorrendo dei caratteri nel vivente. (2) Dal lavoro recente d’ Ahlfeld (op. cit.) risulta che i casi finora descritti d’ epignate am- montano a 40. (3) Vedi Nota II, in fine della Memoria. REN o gr ossa fetali che alle produzioni patologiche. Egli è però vero che tale somiglianza e dissomiglianza non può esser definita con parole. Ammessa questa induzione sarà anche permesso di stimare per sostanza cere- brale quella che ne ha soltanto l’ aspetto ogni qual volta si trovi associata ad ossa informi, perchè tutti sanno con quanta rapidità il cervello si alteri e si ram- mollisca nei feti e nei neonati da non poterne riconoscere l’ intima struttura. Ma quando mancano nel tumore le ossa e non si rinviene, come indizio, che la sud- detta sostanza, allora noi crediamo la diagnosi temeraria. Fortunatamente però questi casi non sembrano accadere, essendovi sempre qualche altro elemento che serve di guida per giudicare con miglior fondamento. La sostanza muscolare può anche trovarsi in tumori sacrali, in cui mancano le ossa e le cartilagini ed allora nasce la domanda se la sua presenza sia un carat- tere sufficiente per ammettere un teratoma, oppure si debba stimare un compo- nente del neoplasma, o invece un prolungamento sul tumore del muscolo eleva- tore dell’ ano, o dei glutei del portatore. In quanto all’ ultima ipotesi noi la stimia- mo ammissibile ogni qual volta i muscoli siano sotto-cutanei e non entro il tu- more, come verificò Holm (v. nota II, oss. 5°), sapendo che il tumore sacrale ingrossandosi sposta i muscoli suddetti. Ma quando sono interni come nel caso, fra gli altri, di Sangalli (v. nota III, oss. 33°), in cui i lacerti muscolari percorrevano in vario senso ed in numero rilevante il connettivo costituente il tumore, allora noi siamo persuasi che si tratti di parasitismo: niun fibroma avventizio con 0 senza cisti ha mai presentato un fatto eguale. La nostra osservazione poi ci persuade maggiormente trattarsi di teratoma avendo veduto i fasci muscolari dispo- sti simmetricamente in un tessuto come nel canale alimentare. Nei casi finalmente, in cui mancano tutti questi elementi, comprese le ossa, ed invece la superficie cutanea del tumore ricorda la forma d’alcune parti della testa, allora la questione diventa assai più difficile da risolvere. Noi abbiamo già riportata loss. di Loòffler del 1797 (v. p. 52 nota 6), in cui il tumore era formato da un igroma e la cute che lo ricopriva aveva le tracce del naso e d’ un occhio. Ora ricorderemo che Osiander nel 1818 vide un tumore, che aveva la forma della testa d’ un fanciullo e non conteneva che molteplici cisti (1). E che il chirurgo piemontese Gariazzo descrisse un tumore che figurava una testa con capelli e sopra- cigli, formato probabilmente nell’ interno da sarcoma cistico (2). La maggiore dif- (1) OsranpER F. B. — Handbuch der Entbindungskunst. Bd. I, 3, p. 757. Tuùbingen 1818. Un feto con tumore sacrale si ruppe nell’ atto del parto, e lasciò sortire molto siero san- guinolento. Quattro settimane dopo l’ accaduto, l’autore trovò il fanciullo anche vivente, ma molto debole, coltumore suddetto, che aveva la grandezza e la forma della testa di fanciullo, guar- nita di capelli e in un punto rassomigliava ad un occhio chiuso. Il contenuto era fatto di cellette membranose, simili a quelle che si rinvengono nella degenerazione d’ovaia. L’ autore escise il tumore ed ottenne la guarigione. Non vi era spina bifida. (2) GaRrIAZZo AMmapEO, chirurgo di Biella. — Mem. della R. Accad. delle Scienze di Torino. Tom. XXV, p. LXXXIX, Torino 1820. Lt AR ficoltà per giudicare questi fatti non deriva tanto dalla nostra ignoranza per inten- dere come solo la cute conservi le traccie della testa e non il resto del tumore, quanto dal sapere se gli autori suddetti si sono contentati di remote analogie, oppure rinvennero somiglianze evidenti; poichè in quest’ultimo caso possediamo l'osservazione di Chabelard (1), che dimostra come il tumore non possa essere altro che la testa d’un feto, ed allora la differenza coi casi suddetti consisterebbe nella degenerazione del contenuto. Ma la difficoltà si può meglio superare sciogliendo la seconda que- stione, che abbiamo annunciata. Forster aveva avvertito che le reliquie fetali sono involte da tessuto connettivo più o meno grassoso, contenente cisti in diverso numero (fibromi cistici), oppure sono involte da un vero cisto-sarcoma. Ricordava pur anche che tali varietà di tessuto comprendono talora ossa, cartilagini, muscoli senza tipo fetale, e finalmente che le medesime varietà costituiscono altre volte da sole tutta la massa del tumore. L’ avvertenza di Férster è stata pienamente confermata, come risulta dalle osser- vazioni riportate tanto per i casi evidenti di teratomi, quanto per gli altri in cui le forme sono indeterminate come nel caso nostro; ora aggiungiamo che anche la terza proposizione è esatta avendo raccolti 28 esempi più o meno certi di cisto- sarcomi (20 già registrati da Braune ed 8 da noi negli archivi scientifici) e 6 casi di fibromi cistici, in cui non si rinvennero nè tessuti, nè organi attribuibili a parti fetali (2), senza contare altre osservazioni, fatte dagli ostetrici, che mancano di dati sufficienti per stabilire neppure approssimativamente la natura dei tumori (3). Forster non ha solo richiamata l’ attenzione sui cisto-sarcomi e sue varietà in casi di parasitismo, o senza questa circostanza, ma ha ancora tentata una spiega- zione sull’ origine dei medesimi (p. 28). Riflettendo appunto che i cisto-sarcomi si sviluppano ove hanno sede i parassiti, non giunge a credere che quelli siano una metamorfosi retrograda di questi ultimi, ma piuttosto stima i primi per un neoplasma occasionato dalla presenza dei secondi, risvegliando la forza vegetativa nel connet- tivo della regione sacrale e cocigea e forse talvolta nella glandola cocigea. Per spiegare poi i casi, in cui il: cisto-sarcoma è privo di resti fetali immagina che questi preesistessero, esercitassero la loro azione occasionale e che poscia scom- Tumore piriforme alla regione lombare?d’ un bambino, più lungo e più grosso del medesimo, formato daî comuni integumenti, pieno d’ umor acquoso e rossiccio. L’ estremità rotonda del tumore era pelosa, e quasi figurava una testa con capelli e sopracigli. Ma apertolo non si trovò nulla che riferire si potesse ad un feto, e neppure quel tumore aveva comunicazione alcuna con la colonna vertebrale. (1) CHABELARD, chirurgo a Tours — Histoîre de l’ Accad. royal des Sc. 1746, Tom. XXVII, p. 46. Vide attaccata all’ ultima vertebra dorsale d’ un fanciullo, d’ altronde sano, una testa para- sitica, col collo lungo due dita trasverse e col volto rivolto alla terra. Il portatore morì pochi momenti dopo la nascita. Chabelard non potè ottenere dai genitori il permesso di sezionarlo. (2) Vedi Nota III, in fine. (3) Vedi Nota IV, in fine. — 61 — ) parissero, desumendolo da molte osservazioni, in cui abbonda il neoplasma e rare sono le reliquie del parassita. Che il cisto-sarcoma appartenga ai neoplasmi fu pure creduto da Braune (s. 108), ma non concesse che avesse origine dal connettivo sotto-cutaneo, poichè nel caso che il tumore abbia sede all’ esterno del sacro e cresca notevolmente, in luogo di espandersi sotto la cute, viene limitato dai margini dei glutei, e la cute s’assottiglia e si esulcera. D'altra parte il Braune considerando il cisto-sarcoma per un neoplasma e sapendo che altre forme assai diverse si trovano nella medesima regione, non può riconoscere per tutte il connettivo come matrice; sicchè è inclinato a credere che i neoplasmi abbiano origine da più tessuti, quali sono: l estremità inferiore del sacco meningeo, l’ estremità ossea e cartilaginea della colonna vertebrale e la glandola cocigea. Concede però che si danno tumori che non si possono collegare con niuno degli organi suddetti. Ma abbiamo già veduto che in luogo di possedere una sufficiente dimostrazione sull’ origine dei teratomi dalla glandula del Luschka si hanno invece argomenti sfavorevoli (p. 55); e fra poco rileveremo, esaminando i rari casi, in cui era com- plicata la spina bifida, che essi non autorizzano a credere il cisto-sarcoma essere un effetto della degenerazione della dura madre sacrale. Altrettanto deve dirsi in quanto all’ origine dei tumori dalle ossa e dalle cartilagini del cocige e del sacro; poichè è bensì vero che Enrico Miiller scoperse nel 1857 (1) la persistenza della corda dorsale nelle parti che rimangono lungo tempo cartilaginee, come il cocige, la apo- fisi odontoide e la base del cranio all’ epoca della nascita del feto ed anche più tardi, e che Virchow nel medesimo anno spiegò appunto i tumori gelatinosi che hanno sede nel clivo, attribuendoli alla circostanza che questa parte rimane lungo tempo cartilaginea (2); ma nella regione sacro-cocigea, come confessa lo stesso Braune, non si sono mai trovati tumori della stessa natura, sicchè manca l’argo- mento d’ analogia; come manca, per ammettere l’ origine dalle ossa, la compar- tecipazione delle medesime, la quale si osserva in caso di neoplasma. Riescendo improbabile che i cisto-sarcomi abbiano origine dagli organi della regione sacrale dell’ autossita e considerando d’ altra parte che i medesimi si tro- vano ancora fra le varietà dell’ epignate, il quale ha sede nella cavità della bocca, si venne 2 poco a poco nell’ opinione che i medesimi non fossero altro che il pro- dotto di degenerazione dei parassiti medesimi; la quale opinione acquistò tanto maggior valore, quando Ahlfeld ricordò che la stessa struttura si trova talvolta nell’ acardiaco amorfo, il quale non trae alcun tessuto dalle parti vicine; e noi aggiungeremo che si trova non di rado nel tessuto sotto-cutaneo degli acefal. Ed in tutti questi casi sì può rinvenire la spiegazione della trasformazione cistica, prendendo in considerazione il disturbo circolatorio che subisce l’ acardiaco tanto (1) MiuLLeR Enrico — Zertschrift fiir rationelle Medicin. Ser. III, Bd. II. Heidelberg 1857. (2) Vircnow R. — Untersuchungen tiber die Entwickelung der Schédelgrundes. Berlin 1857. PIRA libero quanto parassita; il quale in luogo d’ avere un sistema circolatorio proprio ed equamente distribuito dal centro alla periferia, riceve il sangue dal gemello, o dall’ autossita ed in questo caso la corrente và da uno o pochi punti della peri- feria del tumore verso il centro senza equa distribuzione, ciò che spiega la stasi, le frequenti imbibizioni del parenchima, che furono confuse col tessuto placentare, e così si spiegano i trasudamenti sierosi che trasformano il connettivo embrionale in mol- teplici lacune, oppure la trasformazione delle glandole in cisti, come nel caso nostro. Ora che abbiamo riconosciuto che i teratomi sacrali sono costituiti da un tes- suto cisto-sarcomatoso semplice, od associato da porzioni fetali, o da tessuti speci- fici senza forma fetale, possiamo riassumere i caratteri esteriori dei medesimi, tanto in istato di morte quanto di vita, cercare i rapporti coll’ autossita, stabilire il sesso di questi, ed interpretare l origine dei tumori. In quanto alla forma esteriore del tumore, questa generalmante è piriforme, con un peduncolo più spesso breve, e col volume mai minore della testa dell’au- tossita, sicchè il tumore discende oltre i popliti, fino talvolta ai piedi del mede- simo. Questi poi fornisce la pelle che avvolge il tumore stesso, la quale ora è liscia ed a tratti assottigliata, ora bernoccoluta (Himly v. Nota I, Oss. 15), ora solcata in guisa che il tumore si mostra polilobato ( Virchow, Luschka, Hesselbach, Taruffi) (1), o soltanto bilobato, la qual cosa accade in due modi, o mediante un solco trasversale, per cui un lobo è superiore e l’altro inferiore, o mediante un solco perpendicolare ed allora un lobo è a destra l’altro a sinistra (Naudin, Lotbeck, Alessandrini, Paul, Rizzoli etc. (2). In un solo caso fu veduto un lobo pendente, attaccato mediante un filo fibroso al tumore (Luschka v. Nota I, Oss. 34). Altre volte la divisione del tumore è soltanto intima, prodotta dalla pre- senza di due grandi sacchi distinti (Mayer e Dickson) (3). Quando il tumore è bilobato, un lobo suol contenere una gran cisti, e l’ altro il teratoma, ma questo fatto non è costante, come sembra ammettere Ahlfeld, poichè nel caso di Pacini ambidue i lobi contenevano resti del parassita (4). Finalmente dalla superficie sono stati veduti in parecchi casì sporgere membri fetali, ed assai di rado traccie sulla medesima della testa e della faccia. In un autossita vivo, Preuss (5) nel 1869 rinvenne un singolare fenomeno nel tumore sacrale che risvegliò una interessante discussione alla Società medica di Berlino. Esso vide una fanciulla con un tumore bilobato, di cui un lobo era tra- sparente e l’altro conteneva parti solide, ed in questo applicando la mano avvertì un movimento, che si ripeteva 40 volte per minuto, non ritmico, ora più forte (1) Vedi Nota I, Oss. 30, 34, 40, e la presente Mem. a pag. 47. (2) Vedi Nota I, Oss. 10, 32, 35, 41, 47. (3) Vedi Nota I, Oss. 13, 23. (4) Vedi Nota I. Oss. 21. (5) PREUSS, medico in Dirschau (Prussia) — Dubot’s und Reichert s Archiv fur Anatomie 1869, cus, YO) = ed ora più debole, che non aveva nulla di comune coi movimenti del sistema va- scolare, e dei muscoli addominali della fanciulla. D’ altra parte offrendo analogia col moto d’ un feto anche rinchiuso nelle membrane dell’ ovo, e sembrandogli che avesse luogo nelle parti solide suddette, opinò trattarsi d’ un parassita sacrale ab- bastanza sviluppato, capace di movimenti attivi, e pronosticò che in caso di rot- tura del sacco potesse qualche suo membro diventare libero, come accadde nel caso riferito da Pitha (v. Nota I, Oss. 22), in cui scolato accidentalmente lo siero comparve all’esterno un arto mostruoso. Virchow (1) esaminando il fanciullo verificò i movimenti nel tumore, e consi- derando la rapidità colla quale alcuni si effettuavano ritenne verosimile che i mu- scoli s' inserissero a parti solide, come ossa e cartilagini, per cui gli parve proba- bile l'ipotesi di Preuss; mentre altri movimenti s effettuavano come oscillazioni convulsive che ricordavano i moti peristaltici. Langenbeck (2) invece, dopo avere esclusa l’ ernia dell’ incisura ischiatica, considerando che i movimenti accadevano con regolari contrazioni, che attraversavano il tumore in diverse direzioni, trovò più verosimile che si trattasse di fibre somministrate dai glutei dell’autossita, poichè impugnando il tumore ed allontanandolo dalle parti sottoposte i movimenti s'affie- volivano. Più tardi Ahlfeld descrisse un nuovo caso e lo interpretò nel modo medesimo (3), e poscia Sangalli (4) vide un tumore sacrale parimenti dotato di movimenti che paragonò al guizzo dei pesci; ed avuta la fortuna di esaminarne un pezzo, trovò adipe, cisti e striscie muscolari, giacenti entro il tumore, (che giudicò per un neo- plasma), ma non ebbe l opportunità di studiare il tessuto sotto-cutaneo, laonde questa osservazione non risolve la questione pendente. Tuttavolta la presunzione è a favore dell'avviso di Langenbeck, poichè in molte autopsie si è veduto che fasci dell’ elevatore dell'ano s' estendevano sul tumore, qualunque fosse la natura del medesimo. Da molte osservazioni si rileva che il punto più costante dell’ inserzione del teratoma è il cocige; e che da questo punto il tumore s’ estende in basso spin- gendo in avanti il perineo ed il retto, e nello stesso tempo s' innalza più o meno posteriormente sul sacro, fino al limite dei muscoli glutei, il qual limite però non è così costante come ha stabilito Braune, essendovi vari esempi comprovanti l’inva- sione ora da un lato, ora d’ambidue della regione delle natiche (v. Nota I, Oss. 12, 17, (1) VircHow — Berlin Klin. Wochenschrift. N. 19 und 23, 1869. (2) LANGENBECK — Ibid. N. 23. (3) AdLFELD FR. — Arehw. fiir Gynekologie von Crede. Bd. VIII, Helft. 2°. Berlin 1875. Vedi Nota V, in fine. (4) SancaLLi Giac. Prof. a Pavia — Rendiconto del R. Instit. Lombardo. Ser. II, Vol. IX, p. 374, Milano 1876. IpbEM. — La Scienza e la pratica dell’ anatomia patologica, p. 158, Oss. 100. Milano 1875. Vedi Nota III, Oss. 32. inca (GM se 32, 35, 47). Non di rado invece il teratoma vegeta al davanti del cocige, penetra fra l’ intestino retto ed il sacro, talvolta fino al promontorio, ed in qualche raro caso sino alla cresta iliaca (v. J. D., Nota I, Oss. 1), spingendo all'infuori il cocige ed accogliendo tanto i nervi che escono dai fori sacrali quanto l'arteria sacrale media. Questa per nutrire il parassita talora cresce di calibro, come nel caso di Mayer (v. Nota I, Oss. 13), in cui assomigliava all’ iliaca comune, e può associarsi alle arterie spinali posteriori; oppure la nutrizione viene fornita dai rami dell’ arteria glutea superiore ed inferiore. Vi sono ancora rari esempi di parassiti e di tumori cisto-fibrosi aderenti alle vertebre lombari (v. Chabelard Nota III, Oss. 35). Il teratoma suole aderire direttamente al periostio del cocige e dell’ ultima ver- tebra sacrale, oppure mediante un peduncolo legamentoso, che contiene i vasi ed i nervi discendenti dal sacro e perfino il cocige medesimo. Talvolta le inserzioni sono due, una al cocige ed una al sacro; in qualche caso il legamento è ossificato (Schuk, v. Nota I, Oss. 26), in altri è un osso del parassita che aderisce strettamente al sacro (Jacob, Porta, Geller, v. Nota I, Oss. 14, 24, 27); in tutte le altre parti, in cui s'estende il tumore le aderenze sono lasse e cedevoli. Finalmente il teratoma può essere in rapporto con una spina bifida sacrale, o con un’ ernia della dura madre. Ma in- torno a quest'argomento è opportuno entrare in alcuni particolari. Noi siamo avanti tutto grati a Braune per averci rammentata questa compli- cazione, importante tanto in patologia quanto in chirurgia, raccogliendo 12 Osser- vazioni in parte proprie ed in parte altrui, alle quali ne aggiungeremo altre tre fatte posteriormente da Sangalli e da Schreiber. Non tutte però giovano alla scienza, perchè le descrizioni date da Johnson, da Quadrat, da Hessebach e da Schreiber (1), non stabiliscono esattamente i rapporti del tumore collo. speco vertebrale. Invece le osservazioni d’ Himly, di Lotbech e di Middeldorpf (2), dimostrano che il tumore può aderire alla dura madre spinale, mancando alcuni archi vertebrali, senza che le meningi e la midolla siano spostati. Questa interpretazione però non è da tutti accolta, alcuni stimando piuttosto che il tumore sia una produzione sarcomatosa o fibrosa della dura madre stessa. Ma per sostenere questa tesi mancano le prove sufficienti, niuno avendo dimostrata la continuità istologica fra una cosa e l’altra, ed un fatto riferito dal Sangalli (3) ci conduce piuttosto ad ammettere una semplice aderenza, non avendo esso trovata alcuna alterazione nella dura madre, ed avendo riscontrate pari aderenze del tu- more coi legamenti vertebrali. Alcuno però potrebbe opporre al nostro modo di vedere: che se la presenza d’ un teratoma può impedire la chiusura degli archi vertebrali e saldarsi con la dura madre, questo fatto dovrebbe accadere con più frequenza, perchè la congiunzione dei germi è sempre primitiva. Per rispondere a (1) ArzoL Joanson — Zransact. of the puthol. society of London. Vol. VIII, p. 16, 1857. In Braune p. 45, Oss. 4. (2) Vedi Nota I, Oss. 15. — Nota VI, Oss. 2, 3. (3) Vedi Nota III, Oss. 83. cli questa obbiezione ci basta ricordare che l'originaria aderenza del tumore coll’au- tossita avviene generalmente all’ estremità del cocige, di rado sul sacro e tanto più di rado sulle vertebre lombari. Fra le 12 osservazioni raccolte ve ne sono quattro, appartenenti ad Heineken, Braune, e Virchow (1), che risguardano ernie della dura madre le quali si erano fatta strada per l’ apertura risultante dalla mancanza d’ alcuni archi sacrali, ec- cetto nel caso di Braune, in cui l’ernia era uscita per il MHiatus sacralis. Cotesti sacchi poi giungevano fino al centro del sarcoma ed aderivano con alcuni sepi- menti al medesimo; fatta eccezione del caso di Virchow, in cui la dura madre andava alla circonferenza del tumore. Per intendere questi fatti a nostro avviso non si possono fare che due ipotesi, o che una causa interna allo speco verte- brale, come l’ idrorachite, abbia spinto in fuori la dura madre, o che il tumore abbia stirato in basso la stessa meninge. Se il tumore fosse acquisito si potrebbe ammettere che il peso del teratoma avesse tratto infuori l’ involucro spinale, ma essendo congenito, Ì’ azione del peso deve ben essere leggiera mercè la posizione del feto ed il liquore dell’ amnion: d’ al- tronde non si potrebbe intendere come il sacco erniario giunga al centro del tumore e non rimanga alla superficie interna del medesimo. Per tale motivo siamo incli- nati ad ammettere che l’ ernia sia una complicazione del teratoma dovuta ad idrorachite. E tale supposto trova un appoggio favorevole nelle osservazioni di Lopes Garcia e del nostro antico assistente Severi (2), i quali rilevarono che i sacchi fatti dalla dura madre e nascosti nel tumore non erano che il prodotto dell’ idro- rachite. Che poi questo sacco sia una complicazione sembra lo provi il fatto di Schreiber (3) (almeno dal sunto della Memoria fatto in Francia); poichè esso trovò il tumore fibro-lipomatoso disgiunto dal sacco idrorachitico. Assai più difficile è il render ragione dell’ osservazione di un anonimo tedesco e d’ una seconda di Braune (V. Nota VI, Oss. 7, 8), poichè non si tratta di spostamento della dura madre, ma invece di distruzione d’ una porzione della medesima con penetrazione del tumore entro lo speco vertebrale. Noi possiamo intendere come questi fatti abbiano potuto indurre Braune ad ammettere che il tumore si sia originato per degenerazione della dura madre e poi si sia fatto este- riore, stimando i cisto-sarcoma per neoplasmi; ma avvertiamo che l’ Anonimo non parla di cisto-sarcoma maligno, ma di lipoma il quale non suol mai distruggere la matrice su cui si forma; laonde la dottrina è fondata sull’ unica osserva- zione dell’ autore ; la quale certamente basterebbe, se non avessimo tutti gli altri casi di cisto-sarcomi senza tale penetrazione, pei quali si deve ricorrere invece alla degenerazione d’ un parassita. Ora ammessa questa origine costante, non si (1) Vedi Nota VI, Oss. 4, 5. 6. — Nota I, Oss. 30. (2) Lopes Garcia — Vedi Nota I, Oss. 29. — SevERI Dow; vedi MacarI Nota II, Oss. 20. (3) ScareiseR — Vedi Nota VI, Oss. 9. TOMO II. 9 us Sele tr può derogare dalla medesima, perchè il prodotto degenerativo del germe ha in- vaso in un caso lo speco vertebrale. Egli è bensì vero che anche con questa teoria non spieghiamo le condizioni che hanno favorita la penetrazione, ma non abbiamo neppure il bisogno d’attribuire, per questa, una diversa origine dagli altri casi di parassitismo. Isidoro Geoffroy Saint-Hilaire (1) esaminando complessivamente il sesso dei mostri doppi per induzione, senza differenza di sede, aveva tratte due conclusioni: una che il sesso del parassita è generalmente il medesimo di quello dell’autossita; e la seconda che nella specie umana la metà incirca dei casi appartiene al sesso maschile. Burdach (2) confermò ad esuberanza questa seconda proposizione avendo trovato il rapporto fra 1 maschi e le femmine di 34:14. Più tardi Paul (3) ripeteva quanto aveva detto Isidoro G. Saint-Hilaire applicandolo ai casi di in- clusioni nella regione sacrale (4) e niuno ricordò che il fatto da loro annunziato non era in armonia con quanto si sapeva intorno ai mostri doppi simmetrici, cioè la notevole prevaleuza del sesso femminino. Più tardi Holmes (5) invertì la stessa proposizione e disse che quasi tutti i casi pubblicati di tumori sacrali, o di feti aderenti alla stessa regione appartengono a femmine. Nè noi nè altri possono verificare se il sesso del parassita sia eguale a quello dell’ autossita, ma crediamo che se il medesimo fosse riconoscibile sarebbe non solo generalmente ma costantemente uguale. Possiamo bensì cercare nel maggior numero delle osservazioni raccolte, quale è il sesso dell’ autossita ed ecco i risultati. MASCHI FEMMINE contenenti parti fetali tipiche 22 26 Fanciulli con Teratomi 6, È a atipiche 5 iz costituiti da un cisto-sarcoma 161 Dal: 38 59 (6) Da queste cifre si può ricavare che il rapporto fra i due sessi, stabilito dagli autori suddetti, almeno per le inclusioni in discorso non era esatto, mentre il no- stro ricavato da un numero molto maggiore di casì è assai più in armonia con quello che da molti è stato ottenuto nei mostri doppi. E qui dobbiamo notare (1) Isin. Grorrroy Sannt-HiLAtre — Des anomalies ete. Tom. III. Bruxelles 1838, p. 221. (2) Burpaca C. F. — Trattato di Fisiologia. Trad. Ital. Tom. I, p. 317. Venezia 1841. (3) PauL — Archiv. gén. de Med. Paris 1862, Vol. II, p. 287. (4) Is. GrorrrRoy Saint-HiLatre — Des anomalies. Tom. III. Bruxelles 1838, p. 221. (5) Homes T. — Therapeutique des maladies chirurgicales des enfants. Trad. Franc. Paris 1870, p. 2, Nota III Oss. 27. (6) Queste cifre non corrispondono al numero dei casi riferiti, perchè in alcuni di essi non si rileva il sesso. r—T——_—_—tmt___—=zeozxktr_Prr-tr—_ | sE. che Molk (1) avendo sommati insieme i tumori parassitari ed i meoplasmi, di cui noi non abbiamo tenuto discorso, ha ottenuta una proporzione più note- vole della nostra a favore delle femmine (maschi 15, femmine 44). Questo risul- tato però ha un valore assai mediocre considerando la piccolezza delle cifre. Quivi non è il luogo per esporre tutte le dottrine immaginate onde spiegare i mostri parassiti in generale, ma soltanto per riferire quelle ipotesi che furono tentate col fine d’intendere l’origine dei teratomi sacrali. Il primo che s'avvide che le dottri- ne generali non bastavano pel caso speciale fu H. Meckel (2), il quale per sup- plire al loro difetto ammise che da prima due embrioni si saldino fra loro col- l'osso sacro (pigopago), ma in luogo di svilupparsi parallelamente uno .di essi si atrofizza. E ciò accade quando i due funicoli ombellicali accidentalmente s'attorci- gliano in guisa che uno dei medesimi rimane inceppato nella circolazione da non bastare alla nutrizione del proprio embrione, per cui questi s° impiccolisce, ma non si distrugge completamente, giovandosi del circolo suppletorio fornitogli dal- l’ autossita. Tale ipotesi non ebbe fortuna, poichè non spiega come per l’ appunto un solo funicolo venga ristretto, nè come il gemello atrofizzato venga incluso sotto la cute dell’ autossita. Schultze (3) per riparare a coteste censure immaginò che la causa occasionale dell’ atrofia accada precedentemente alla formazione del funicolo, e sia prodotta dal difetto relativo del vitello d’ un embrione, per cui la nutrizione del medesimo diventa insufficiente ; e mentre uno rimpiccolisce l'altro cresce al punto che colla sua estremità caudale sorpassa ed aderisce ai residui del primo. Nel 1860 Schwarz (4) modificò la dottrina di Schultze trovando troppo arbi- traria l’ ipotesi del difetto nella vescicola ombellicale, e bastando applicare la teoria di Claudius introdotta per gli acefalî per rendere ragione dell’ atrofia d’ un gemello. Esso ricorda che il parassita possede vasi propri in communicazione coll’ arteria sacrale media del gemello, ma , quando il sangue scorre per due centri, la sua direzione nei vasi anastomotici viene determinata dalla pressione maggiore, e così il primo riceve il sangue dal secondo. Questo circolo invertito è però insufficiente, accadendo l’ arresto di sviluppo dal lato ove la pressione sanguigna era più debole e la scomparsa dell’ apparato centrale , e quindi tutte le altre conseguenze, in parte rappresentate da metamorfosi retrograda ed in parte dagli arresti di sviluppo. Questa nuova dottrina, esposta sommariamente, ha ricevuta l'approvazione di Braune, e noi lungi dal contraddirla aggiungiamo che essa può servire non solo a spie- (1) MoLx ALF. — De tumeurs congenitales de Vl’ extremite inferieure du tronc. Strasbourg IS68, pil. (2) H. MEcKEL in BrAUNE. — Op. cit. p. 5. Ci duole di non conoscere la Memoria originale. (3) ScauLTzE Max. — Virchow’s Archiv. Bd. VII, s. 497. 1855. (4) Scawarz — Beitrag zur Geschichte des foetus in foetu. Marburg. 1869. Ie cogeni gare il secondo momento del processo cioè l’ atrofia, ma può rendere ragione anche del primo, cioè dell’ aderenza fra i frutti, ammettendo che l’ area vascolare d’ un germe toccando dal lato inferiore l’ area del secondo germe nel punto corri- spondente si siano anastomizzate ed abbiano determinata la fusione degli embrioni e poi sia accaduto quanto dice Schwarz. Finora non è stata tentata alcuna ipotesi per spiegare l’ immunità degli animali dai teratomi sacrali. —— T—@ To <-&T_=———— SPIEGAZIONE DELLE FIGURE Fig. 1°. Teratoma tagliato verticalmente, rappresentato metà del vero, in cui vi sono molti vani ed alcune cisti, una delle quali sporge dalla sommità 5. Nel terzo inferiore del tumore havvi una gran cavità a, e sul lato destro il bot- tone carnoso inferiore c. Fig. 2*. 12 pezzetti ossei, rappresentati colla loro grandezza naturale, congiunti mediante tessuto fibroso. Fig. 3*. Vari pezzi cartilaginei congiunti fra loro, in parte disposti in serie, ed in parte costituenti un guscio pertugiato. Fig. 4°. Taglio trasversale della parete di una cisti, situata entro il tumore, i di cui contorni sono rappresentati ad un ingrandimento di 70 diametri, e gli ele- menti anatomici ad un ingrandimento di 280 diam. Dalla superficie interna della parete sporgono papille irregolari, le quali, come pure la superficie sud- detta, sono ricoperte da epitelio pavimentoso stratificato a, a, a. Il rimanente della parete è fatto di tessuto connettivo lasso, ricco di esili fibrille, che con- tiene pacchetti adiposi, disgiunti fra loro 9, g; fasci di muscoli striati, tagliati per trasverso m, m, e fibre muscolari longitudinali #m', m'; vasi arteriosi e ve- nosi, ora vuoti, ora pieni di residui sanguigni 4 7, %. Fig. 5*. Taglio d’ una porzione del parenchima del tumore, veduto ad un ingran- dimento di 70 diametri, cogli elementi rappresentati ad un ingrandimento di 280. In questo taglio si riconosce che il parenchima è formato da tessuto connettivo in tutti 1 gradi di sviluppo; il quale contiene tubi col tipo glandolare g, 9; lacune di diversa grandezza, tapezzate da epitelio stratificato /, /; isole carti- laginee c; ed arterie e vene a, ». Ki , pi È 4 LIT AREÀ tsutà AR: Me alla NOTA I Teratomi sacrali con organi fetali. Oss. 1° — J. D. — Gentleman’s Magazine Vol. XVIII, London, Decemb. 1748, pag. 535. — Himuy — Geschichte etc. pag. 40. Fu partorita una fanciulla a Bemister in Inghilterra, dall’ estremità del tronco della quale pendeva un tumore fino ai piedi, fluttuante, ricoperto dalla pelle assottigliata. Sulla superficie del tumore sporgeva una mano con cinque dita ed un pollice, ed un piede con cinque dita. Dopo alcuni giorni il tumore si ruppe e si potè vedere il contenuto, il quale era formato da una massa carnosa, che rimontava nella pelvi, fino a metà della cresta iliaca. Nell’interno di questa massa si sentivano delle ossa. Accadde poscia il distacco e lo svuotamento del contenuto, lo che permise la guarigione della parte e dopo due mesi fu veduta la fanciulla in buona salute. Oss. 2° — HuxHam Giovanni, celebre clinico — (L’osser. appartiene ad ALEX. WILLS) Pilos. transact. Tom. 45, pag. 325, N. 487. London 1748. Fanciullo dal cui sacro e dai glutei pendeva un tumore, grande come un ventricolo di pe- cora, coperto dalla pelle del fanciullo, la quale era quì assai più ricca di vasi. Il tumore era molle e fluttuante, eccetto che nel mezzo ove era duro. Mediante una puntura, Wills estrasse dal me- desimo oltre due litri d’un umore rosso-pallido senza odore; poscia la ferita si cangrenò ed il fanciullo morì dopo 15 giorni di vita. Esaminato attentamente l'interno del tumore, l’autore trovò alcune articolazioni cartilaginee, e qualche cosa che somigliava alla coda d’ una pecora, in continuazione colla punta del cocige; questa coda era lunga due pollici, inviluppata da sostanza carnosa, e coperta da un tessuto grassoso; trovò pure la testa d’un embrione, contenente una sostanza simile al cervello, fornita di bocca, della lingua ad un lato della faccia, e d’ un orecchio, senza però che si distinguessero gli occhi ed il naso. Oss. 3* — LiescHIinG CHRISTOPH. FRIDERICUS — Tripes Heitersbacensis, cujus primam considera- tionem historico-dogmaticam. Tubingae 1755, con Tavole. $ 34 — « Le due figure aggiunte rappresentano l’arto inferiore soprannumerario di questo indi- viduo, che aveva tre arti inferiori: la prima lo rappresenta dalla parte posteriore, la seconda dalla anteriore. Per la quantità, questo terzo arto è quasi uguale ad uno ordinario, nè per la figura è MIRO GRISO da esso dissomigliante. Al disopra havvi un considerevole tumore ab, avente una solcatura nel mezzo della parete superiore ed un rudimento di natiche. Quanto alla posizione la parte poste- riore, Fig. 1° a, si distende fino alla spina, e la parte anteriore, Fig. 2° a, fino alla regione inguinale ed iliaca. Non vi si sente tessuto muscoloso, od almeno esso non è considerevole, ed appajono solo gli integumenti comuni, uguali da ogni parte e solcati da molti vasi. Il tumore è qua e là assai molle al tatto, e così mobile che ad ogni successiva respirazione corrisponde una mutazione del medesimo, ed all’ atto del pianto si gonfia nel massimo grado. Il terzo arto è attaccato in mezzo a questo tumore, ma è mobile. Nella parte posteriore del femore v’ è una depressione, e nella an- teriore una protuberanza, sollevata a modo di verruca. La fanciulla non può distendere, per la re- sistenza delle parti molli contratte, la parte inferiore dell’arto, che è retratta verso il femore. L'articolazione per altro è mobile. L’ estremità del piede ha un dito slo, il grosso; ed al posto delle altre dita ha un lobo carnoso sospeso. Tutte le altre parti sono nella loro costituzione affatto normali. » Oss. 4° — WaGNER' Ss. — Frankische Sammlung BA. II, pag. 343; Bd. V, pag. 195. Nùrinbg. 1757-00. — MEckEL. — Pathol. Anat. Bd. II, pag. 64. Una fanciulla che visse fino all’età di un % anno aveva al perineo un grosso tumore, che spingeva in avanti l’ano. Nella parte superiore del tumore sporgeva un braccio, che finiva con due dita e nella parte inferiore sporgevano due eminenze vegetanti. All’autopsia si riconobbe che il braccio soprannumerario (meno la mano) aveva tutte le ossa, ma molto deformate, e che era privo di muscoli. Il tumore fu estratto facilmente dalla cavità pelvica, non avendo solide aderenze, e con- teneva alcune masse cartilaginose ed ossee, fra cui vi erano alcune cavità riempite di gelatina. Oss. 5° — Guyon (Chirurgo a Carpentras) — Mem. de l’Acad. de Paris Ann. 1771. Hist. p. 88. M. De LassonE fece la comunicazione all’Accademia, Feto a termine nato-morto, dai lombi del quale discendeva un tumore, contenente una testa, le ossa della pelvi, un osso della coscia ed altre ossa informi; le ben conformate avevano le dimen- sioni di quelle dei feti di 4 mesi. Oss. 6° — Simmons — Med. facts and observ. London 1800, Vol. VIII, pag. 1-15. — Med. Chir. transact. London 1841, Ser. II, Vol. 24, pag. 237. Una fanciulla aveva un tumore all'estremità della colonna vertebrale, grande quanto il suo corpo. Al tatto si distinguevano in esso ossa simili a quelle della pelvi, ed all’ esterno si vedevano due piccoli piedi. In seguito all’ulcerazione del tumore il fanciullo morì nel secondo anno di vita. Il tumore era congiunto colla punta del cocige e possedeva arterie e nervi che venivano dal tronco dell’autossita; il quale aveva la cavità ventrale completamente separata dal primo. Il con- tenuto del tumore era formato da ossa pelviche, dall’intestino, da grasso, da due tibie, da una mano deforme, da un piede, e da ossa senza tipo. Oss. 7° — wWorLFart K. — Asclepeion (Allgem. Med. Chirurg. Wochenblatt). Berlin 1811, N. 47, p. 745. Nacque a termine un fanciullo in Hanau con un tumore voluminoso al perineo, che aveva spinto in avanti l’ano ed in dietro il cocige. Il tumore era ovunque fluttuante eccetto in un punto ove era molto duro. Nell’interno del tumore si trovò un sacco contenente un corpo carnoso rico- perto dalla pelle e di peli, composto di muscoli, cartilagini, ossa, legamenti, ed in cui distinguevasi una testa incompletamente sviluppata. Questa testa era ricoperta da sostanza appicaticcia e ca- seosa, nuotava in un liquido giallastro e torbido ed era congiunta solo in un punto col suo in- volucro, mediante vasi e tessuto connettivo legamentoso. Oss. 8% — Kusitz — Prochasca: Med. Jahrb. des bsterreich. Staates. Wien 1514. Bd. II, p. 83. Una fanciulla nata nel 1796 in Ungheria aveva all’ estremità del tronco un tumore ovoide, il STR —- quale rassomigliava ad un sacco da piedi formato dalla cute, in cui erano nascosti due arti in- feriori. Nella sua superficie anteriore sotto il pube eravi la vulva e dietro questa l’ano. Esso con- teneva cinque libbre d’acqua, che scolarono durante il parto. Esaminandolo uscì fuori una massa fornita d’innumerevoli cisti e ricoperta da un sottile strato simile alla placenta, il quale si tro- vava nel fondo del sacco, ed in cui non esisteva alcun frammento delle mani e dei piedi, seb- bene vi fossero veri pezzi d'’ osso. Oss. 9* — FattorI Santo Prof. d’Anatomia in Pavia — Di feti che racchiudono feti. Pavia 1815 in foglio, con 4 bellissime tavole. Nel territorio Modenese una contadina andò a marito di 31 anni, dopo 5 mesi restò gravida ed a termine partorì una bambina che all’età d’un mese morì. In capo ad un anno dal 1° parto la sposa restò nuovamente gravida e nel settimo mese aborti il feto, di cui parleremo, senza verun accidente. La donna durante questa gravidanza non soffrì difetto d’ appetito, nè vomiti, nè difficoltà di re- spiro, nè dolori di capo etc., solamente le dolevano i lombi e le si gonfiavano le gambe e i piedi; non ebbe passioni d’ animo, non fu turbata da sonni funesti, non faticò violentemente e non fu percossa. Il feto abortito presentava una grossa borsa che dal tronco pendeva fra le coscie, che aveva spinto l’ano all’innanzi avvicinandolo alle parti sessuali femminili; in oltre il ventre era un po tumido. Fatta una breve incisione al bassoventre e sulla borsa pendente, ed avendo rin- venuto in ambedue i luoghi rudimenti fetali, sospese allora l’autore le indagini per compiere un esame più attento e più comodo in Pavia ove trasportò il feto; ed in seguito pubblicò fede- lissime figure colla relativa spiegazione, ma senza accompagnarle dell’opportuna descrizione; perchè le tavole, secondo il medesimo, meglio del discorso danno a vedere le singolarità di questo mostro. Dalle Tavole e dalla relativa spiegazione si rileva che nella parte inferiore dell’addome eravi un sacco chiuso, composto di due membrane facilmente separabili, piegato alquanto a destra ed ivi aderente al peritoneo ed all’uretere destro del feto; l’ estremità inferiore dell’ uretere era scom- parsa e non rimaneva vestigio del suo aprirsi in vescica. Il rene del medesimo lato era enorme in grossezza e conteneva del pus. Il sacco aderiva in oltre alla faccia posteriore dell'utero e alle trombe faloppiane, parti tutte che erano state tratte in alto per l’aumentarsi del sacco medesimo. Entro di esso eravi una massa formata da lobi placentari, connessa mediante fimbrie all’amnion, dalla quale massa partivano due vasi, che si perdevano entro un piccolo sacco membranoso, sti- mato pel peritoneo, aderente alla massa placentaria. Nella cavità di questo secondo sacco eravi un globo che fu sospettato il fegato, in cui penetrava uno dei due vasi, e perciò ritenuto per la vena ombellicale. In essa cavità trovavasi pure un’ ansa intestinale cieca all’ estremità, aderente al peritoneo e fornita d’ un sottile mesenterio. Esternamente al sacco peritoneale ed a destra del medesimo si vedeva un corpo molle, allungato, informe, ricoperto da un tessuto simile alla cute, racchiudente piccoli corpiccioli ossei. Verso la sommità di questo corpo esciva un piede fornito d’un sol dito, ed alla estremità opposta sporgeva la porzione inferiore d’ una gamba, col pro- prio piede fornito di cinque dita e queste con indizio di unghie. Esaminata poscia la borsa pendente fra le gambe l’autore trovò le pareti somiglianti al sacco superiore, entro le quali era parimenti contenuta nina massa placentare, dal cui lato destro spor- geva un corpo sferico coperto dalla cute, il quale superiormente emetteva un prolungamento che innalzandosi presentava a destra un’ appendice, con andamento irregolare, contenente un nucleo osseo e terminando con quattro informi digitazioni (nella Figura risulta l’aspetto d’un piede). Lo stesso prolungamento emetteva a sinistra due gambe coi rispettivi piedi. Sotto la massa placen- tare eravi una lunga porzione d’intestino, con due appendici fra loro anastomizzate, ed altre parti molli ed ossee, i di cui caratteri rimanevano dubbi. Oss. 10° — NauDIN — Journal gen. de Med. Paris 1816. Tom. 55, pag. 342. Fu estratto con difficoltà dall’utero materno un fanciullo di 7 mesi e mezzo, che morì pochi istanti dopo. Esso aveva all’estremità inferiore del tronco un tumore, lungo sette pollici con una circonferenza di tredici. Questo era diviso in due metà mediante una linea circolare: la metà su- TOMO I. 10 EL gii ate periore, ricoperta dalla pelle, era situata posteriormente all’orificio dell’ano; la metà inferiore era inviluppata da una sottile membrana cellulare e presentava anteriormente una massa carnosa. Dal lato sinistro del tumore sporgeva un piede ed una mano ben conformati e più in basso si trovava un secondo piede fornito di tre dita, ed inoltre tre dita della mano. Le ossa apparte- nenti alle estremità erano ancora allo stato cartilagineo. Il tumore nasceva dalla piccola pelvi, aveva oltrepassato il perineo e la pelle che lo ricopriva. Conteneva inoltre vasi, fibre muscolari, e cartilagini. Oss. 11° — WEDEMEYER — Journ. fr Chirurg. und Augenheilkunde, Tom. IX, pag. 114 — Vedi Bullett. des Sc. Med, de Férussac. Paris 1827, Tom. XII, pag. 6. Feto maschio di 7 mesi, nato-morto, con un tumore in corrispondenza del perineo, che conte- neva un tessuto, paragonato dall’autore alla placenta; il quale mediante vasi e filamenti si con- giungeva con un secondo feto di 4 o 5 mesi. Questo feto mostrava un alto grado di putrefa- zione, tuttavia erano riconoscibili la testa, la faccia, il cervello. Inoltre fu trovato nel tumore un osso sacro, vertebre, rudimenti viscerali, giacenti in una massa carnosa, macerata. Il tumore non comunicava nè col canal vertebrale, nè colla cavità addominale del primo feto; questi poi aveva atresia dell’ano, e l’intestino retto chiuso a cul di sacco. Oss. 12° — OLIVIER ET CAPURON — Archives gen. de Medicine 1827. Tom. XV, p. 548. Obs. 14. Una fanciulla, morta poco dopo la nascita, aveva all’estremità inferiore del tronco un tumore ovoide, grande come la testa del feto, ricoperto dalla pelle sottile e lacerata nel momento della nascita. Il tumore s’ estendeva a tutta la parte posteriore della pelvi ed era separato dalla ca- vità pelvica mediante un lasso strato cellulo-fibroso. Invece aderiva tenacemente al cocige per mezzo d’un fascio fibroso, entro il quale scorrevano arterie notevoli, fra cui l’ arteria sacrale media. Non fu trovato alcun nervo. La massa del tumore era rosso-bruna, senza tessitura, rico- perta da una membrana sierosa. Essa conteneva molti frammenti di cartilagini e d’ osso, di cui uno assomigliava all’ etmoide ed un altro ad una falange. Si trovò in oltre un intestino crasso rudimentale, delle cisti, ed una massa che fu creduta placentale. Oss. 13* — MarER — Grafe’s und Walters s Journal 1827. Bd. X, pag. 88. Un fanciullo gemello, figlio di madre sana, aveva un tumore al sacro, il quale si lacerò nel travaglio del parto lasciando fluire siero sanguinolento, in seguito di che il feto morì in breve. Il tumore era lungo 7 pollici e mezzo, largo 5 e prendeva origine fra l’ano ed il sacro. Esso era diviso in due compartimenti: l’ uno inferiore formato dalla cisti, che s’era aperta e poscia avviz- zita; l’altro superiore contenente una massa, che aveva l’ aspetto di sarcoma. Un nervo molto sot- tile partiva dalla coda di cavallo e penetrava in questo compartimento, il quale conteneva inoltre degl’intestini col loro mesenterio, cellule ganglionari, nervi, vasi ed ossa ricoperte dal periostio, molto simili alle vertebre. Il tumore s’innalzava nella cavità pelvica fra il sacro e l’intestino retto; e l’arteria sacrale media molto ingrossata penetrava immediatamente nel tumore. Oss. 14° — Jaco Arturo — Dublin Hospital reports. Tom. IV, pag. 571. 1827. Un giovane aveva fino dalla nascita un tumore grosso quanto un pugno, congiunto fortemente all’ estremità inferiore dell’ osso sacro. Dal lato superiore della convessità eravi un'apertura della larghezza d’un dito, da cui usciva un corpo in parte resistente. Il giovane fu operato con buon successo. Questo corpo era simile al dito grosso del piede. Le connessioni ossee col corpo materno furono tolte mediante l’ operazione. Oss. 15° — Himuy — Beitrige zur Anatomie und Physiologie. Lieferung II, pag. 53. Han- nover 1831. Una fanciulla dell'età di 25 settimane fu portata all’Ospitale di Gottinga in causa d’un tu- more sacrale, che cresceva rapidamente ed aveva raggiunto il volume della testa d’un feto. Questo MI, tumore era bernocoluto, ricoperto dalla pelle bluastra e lucente; trasparente inferiormente, solido superiormente. Fatta una puntura nella parte più declive uscì un liquido trasparente come l’acqua. ma la cavità tornò a poco a poco a riempirsi. Le punture furono replicate più volte, ciò che ri- svegliò un processo suppurativo che estinse l’ inferma. All’autopsia si trovò un tumore piriforme della grossezza d’un ovo di piccione, che, penetrando per l’incisura ischiatica destra, aveva spostato in avanti l’utero, di lato il retto e giungeva fino alla divisione dell’ aorta in iliache primitive: questo tumore aderiva mediante lasso tessuto connettivo alle parti vicine. Aperto il tumore esterno si trovò spina bifida nelle due ultime vertebre lombari e nelle sa- crali, senza che fosse scoperta la midolla spinale, la quale però mancava della coda equina. Il canale vertebrale finiva con un anello cartilagineo, a cui s’inseriva una membrana fibrosa, che serviva d’inviluppo al tumore suddetto. E questo era formato da numerose cisti di diversa gran- dezza, in una delle quali eravi un dente molare senza radici, eccetto che in una parte, in cui il tumore aveva l’aspetto sarcomatoso con focolai suppurativi, e con frammenti ossei senza forma determinata. Dallo stesso anello cartilagineo partiva un piccolo tumore che penetrava a destra nella piccola pelvi, e conteneva resti fetali, che avevano grande analogia colle ossa della testa. Oss. 16° — CHarveT Prof. a Grenoble — Sur la monstruosité par inclusion chez les animaux. Archiv. gén. de méd. Ser. III, T. III, p. 265. Paris 1838. Una neonata (specie umana) aveva un tumore sacrale voluminoso, alquanto a destra, ricoperto dalla pelle, formato da tessuto spugnoso, vascolare, in cui erano collocati una mano (sinistra), un’ omoplata, porzioni della pelvi, ed alcuni frammenti cartilaginei. Vi erano inoltre due cisti sie- rose, una delle quali era prodotta da un prolungamento peritoneale dell’ autossita. Oss. 17° — ScHAUMANN — Dissert. inauguralis de foetu in foetu. Berolini 1839. Una femmina matura, nata morta, aveva il corpo gonfio per ascite e per la presenza d’un gran sacco dietro il peritoneo contenente un feto. Questo sacco era in rapporto mediante cisti con un tumore che aveva sede nella natica destra e s’ estendeva al perineo, il quale conteneva un secondo feto, meglio sviluppato del precedente; il tumore si congiungeva mediante un osso alla quarta vertebra sacrale e mediante un legamento alla quinta vertebra dell’ autossita. Non si trovò comunicazione fra il tumore e l'arteria sacrale media. Oss. 18° — FLEISCHMANN F. L. — Der foetus im foetus. Norimbergue 1841, pag. 25. Una fanciulla aveva all’estremità della colonna vertebrale un tumore in gran parte solido, non dissimile al tronco d’un parassita, da cui sporgevano libere le estremità. Nelle ricerche ul- teriori si trovò inoltre un sacco, contenente gl’intestini tenui con meconio, i quali non comunica- vano coll’intestino dell’autossita, il di cui involucro sembrava un processo del mesoretto. Oltre di ciò il tumore conteneva tre cisti, (una delle quali era piena d’ una sostanza simile alla stea- tomatosa) e si inalzava fra il retto ed il sacro nella cavità pelvica. Esso era nutrito dai rami dell’ arteria ischiatica, ed innervato dal gluteo inferiore. Comprimendo il tumore nella regione sacrale il fanciullo s’ agitava, e divenne anche convul- sionario quando un chirurgo tentò la legatura, per cui dovè desistere. Il fanciullo morì di 9 giorni. Braune (l. cit. p. 28) ritiene che ad onta del silenzio dell’autore vi fosse una connessione fra il tumore ed il canale spinale e che una delle cisti rammentate fosse un sacco idrorachitico. Oss. 19° — Orto — Ueberzihliger Finger von Steisse eines Midchens. — Monstrorum sexcent. descriptio anatom. Breslau 1841, n. 415. Una fanciulla di tre mesi, già robusta e ben formata, principiò a dolersi giacendo sul sacro. Otto osservava nell’ osso cocigeo sotto 1’ orificio dell’ano un dito sopranumerario il quale non giaceva precisamente sulla linea mediana ma alquanto a destra e diretto in guisa come se la ie We fanciulla volesse grattarsi l’ano o la vulva. Esso nasceva da un tumore rotondo (lipomatoso); e la pelle che copriva il dito formava mediante una piega, un margine libero alla sua base, a guisa d’un prepuzio. Il dito era lungo 1%", formato di tre falangi, aveva un’ unghia ed era movibile soltanto passivamente. Dal lato sinistro della base del dito si apriva un canale che separava muco, ed in cui sì poteva penetrare con una sottile sonda. Il dito fu poscia col tumore estirpato dal Dott. Rothe; il quale trovò il canale già ricordato che andava verso l’interno ed apparentemente verso l’intestino crasso. Il dito era senza muscoli e tendini, e la prima falange mostrava il suo attacco fibroso che aveva avuto col cocige. Il residuo del canale si mostrava tapezzato da una mucosa ed il tumore era formato da pretto grasso. Oss. 20° — Buizarp — Med. Chir. transact. London 1841, Vol. XXIV, p. 235. Una fanciulla di due anni aveva un tumore congenito al sacro, che giungeva quasi fino ai piedi. Non riscontrandosi alcuna comunicazione colla cavità addominale e col canal spinale, la fanciulla fu operata, ma il chirurgo rimase sorpreso nell’ eseguire l’ estirpazione d’incidere un intestino pieno di meconio, e temette d’aver tagliato il retto. La fanciulla guarì di prima intenzione: morì poi a 13 anni. i Il tumore aveva la lunghezza di sette pollici, la maggior circonferenza di undici. La pelle che lo ricopriva era divisa profondamente mediante fessure, fra le quali talvolta assumeva la forma di dita. Il pezzo intestinale aveva la lunghezza di 3 pollici e mezzo, fornito del processo vermi- forme, e somigliava all’intestino crasso. Il tessuto cellulare formava la parte principale del tumore. Oltre di ciò fu trovato un osso senza forma determinata. Il tumore è conservato nel Museo del R. Collegio dei Chirurghi di Londra. Oss. 21° — Pacini Luci di Lucca — Ragguaglio intorno ad un mosiro umano. Annal. univ. di Med. V. 106, p. 457. Milano 1843 (con figura). Nel ducato di Lucca una donna di 38 anni, madre di due figli, partorì nel 1843 una bambina mostruosa, che morì poco dopo la nascita. Questa bambina era in generale ben conformata, ma presentava un addome convesso per la presenza nell'interno d’un tumore bernocoluto, che si estendeva alla regione epigastrica, e dal perineo pendevano due prominenze in forma di due na- tiche, l'una superiore l’ altra inferiore. Dalla prima di queste prominenze vedevasi nascere un membro addominale cortissimo, composto di coscia, di gamba e di piede; dalla seconda non sor- geva alcuna appendice analoga, ma comprimendola sentivasi nella profondità un corpo duro da far prevedere che ivi fosse nascosto l’ arto, e dove avrebbe dovuto sorgere si vedeva in quella vece un cordoncino lungo sei linee diviso in tre parti fra sè articolate, che non contenevano nè cartilagine, nè osso. Dal lato sinistro di queste prominenze erano attaccati parimenti al perineo i residui d’ un corpo frangiato, lacerato dalla levatrice che conteneva sangue. Inciso l'addome ed il tumore contenuto, l’A. trovò questo formato esternamente da una parete cistica, costituita da tre strati: uno esterno sieroso, che ritenne peritoneale, uno medio con fibre che andavano in ogni direzione, che giudicò muscolare, ed uno interno bianco-roseo che sospettò mucoso. Questa cisti conteneva tanti lobi e lobuli, in numero maggiore di venti, simili ai cotile- doni della placenta dei ruminanti, fra i quali si vedevano tante piccole cisti piene d’ umor giallo limpidissimo. Questi lobi aderivano per soffice tessuto cellulare alla faccia posteriore della cisti; e questa nasceva dalla faccia anteriore dell’osso sacro a cui aderiva. Tagliando poi il pube si accorse che la suddetta cisti si prolungava restringendosi a guisa di collo lungo la pelvi fino al perineo e che conteneva un osso coxale. Passò poscia a sezionare il tumore esteriore superiore attaccato al perineo col relativo arto e rinvenne un ileo, un femore, una tibia senza fibola, un calcagno ed un astragalo irregolarissimo, mentre le altre ossa del piede erano cartilaginee e ru- dimentali; notò inoltre che tutte queste parti erano unite per vincoli legamentosi, ricoperte dal periostio e dalla cute, ma mancavano di muscoli, di vasi e di nervi. Notomizzato l’altro tumore esteriore, verificò che conteneva nascosti il femore e la tibia senza fibola, però queste ossa, rico- perte dal periostio, mancavano fra loro di vincolo e di muscoli che le ricoprissero, ma invece erano circondate da molto adipe. Per compiere il membro inoltre mancava l’ osso coxale ed il piede. rr ——rr_—rP_r_r ">; sio Per spiegare cotesta forma di parasitismo l’autore trova probabile la supposizione che sia av- ‘venuta la compenetrazione di due germi, che l’incluso sia rimasto dentro qualche tempo la cisti fetale rinvenuta nell’addome del feto ceppo, da cui espulso, sarà indi sceso nel perineo per il prolungamento cistico tuttora esistente nella pelvi, in cui fu rinvenuto un ileo; tuttavolta non sa rendersi ragione del modo con cui il parassita poteva nutrirsi non essendo stato rinvenuto il fu- nicolo, nè come possa essere stato cacciato fuori dalla cisti. Oss. 22° — PirHa — Prager Vierteljahrsschrift 1850, s. 74. — AmMon — Die angeborenen chi- rurgischen Krankhe:ten des Menschen. Berlin 1840, s. 139, Taf. 34, f. 2. Anna Przenosyl di Boemia nacque con un piccolo tumore sul sacro, che poscia crebbe e nel terzo anno di vita si ruppe ed apparve un moncone di gamba deforme. Dopo 17 anni Pitha am- putò l’arto sopranumerario, che era formato da una sostanza grassosa con molti vasi, da una tibia, e da due peroni. Oss. 23* — Dicgson — led. Times und Gazette 1850, p. 81. — Gaz. Lombarda. S. 3, t. 1, p. 308. Femmina a termine con tumore sacrale diviso in due sacchi: uno contiene siero, l’altro un braccio con le sue articolazioni, una mano con quattro dita, un piede, un’altra mano mal con- formata, un arto inferiore, molte circonvoluzioni intestinali, tutto ciò mescolato senza ordine. Oss. 24° — Porta Prof. Lust — Caso singolere di vertebre sopranumerarie articolate coll’osso sacro. Mem. dell’ Istituto Lombardo 1852, V. III, p. 429 (con due tavole). Una giovine contadina di 21 anni fra il cocige, l’orificio dell’ano e le tuberosità ischiatiche presentava un tumore emisferico fin dalla nascita, che aveva raggiunto l’altezza di sette pollici e la circonferenza di 20. Questo tumore era coperto dalla pelle e composto di due parti: primie- ramente da un gran osso mobile, di forma triangolare, coll’apice sporgente ed inoltre da tessuto molle che aveva i caratteri del lipoma. Considerando la grande mobilità dell’osso anomalo e la mancanza di fenomeni che indicassero un rapporto colla coda equina, o cogli organi della pelvi; l’autore praticò l’ escisione del tumore, disarticolando l’osso suddetto dai suoi attacchi. Passati cinque giorni dall’ operazione senza par- ticolari accidenti, la giovane improvvisamente fu assalita da pleurite destra, di cui rimase vittima in ottava giornata. L'esame anatomico del tumore, mostrò che era desso costituito da un osso principale, avvi- luppato da una massa di grasso, il quale osso aveva la forma d’ una gran vertebra triangolare, con un anello gigantesco, terminato da una lunga apofisi spinosa, il di cui corpo però era irre- golare e formato di due pezzi fusi insieme. Questa vertebra si congiungeva non simetricamente col sacro, ma mediante una branca anulare, in cui erano scolpite due faccette, rivestite di car- tilagine, che s’articolavano cogli orli appianati della doccia sacrale vicino alla punta e tenute in posto da fasci legamentosi. Nel tumore si scoprirono in mezzo all’adipe tre altre ossa minori, irregolari, le quali parevano una ripetizione dei processi formanti la base dell’osso maggiore, e tutte queste ossa stavano unite fra loro mediante fasci legamentosi. Lo scheletro della giovane era normale; nella pelvi però l’ osso innominato sinistro appariva alquanto più piccolo del destro, dove chè il diametro antero-posteriore dello stretto inferiore cre- sceva 12 linee; l’osso sacro aveva la lunghezza di 5 pollici, era quasi retto e composto di sei pezzi, mentre il cocige si mostrava atrofico e formato di due soli pezzi, articolati fra loro lateralmente. Considerando che in tutto lo scheletro soltanto il cocige era piccolo ed atrofico e che la ca- tena degli ossi anomali si articolava poco sopra al cocige, l’autore è condotto ad ammettere che il sacro nella sua punta si biforcava terminando con due cocigi: uno minore, in due pezzi, al sito naturale, l’altro colossale di 4 pezzi distaccati e deformi al di dietro del primo, come spuntano denti e dita sopranumerarie accanto alle normali. Oss. 25* — LaucieR — Archiv. genér. de Med., Ser. V, Tom. 5, p. 750. Paris 1855. = 28), Fanciulla di 11 mesi con tumore peduncolato aderente alla regione sacrale. Il tumore fu esciso con esito felice; esaminatolo si trovò costituito da tessuto lipomatoso e, vicino al luogo d’inserzio- ne, da molte cisti, grandi come una nocciola, aderenti fra loro, contenenti sostanza simile a quella delle lupie (cellule epiteliali, e grasso), una delle quali offriva ancora dei peli. Il tumore conte- neva infine frammenti ossei rappresentanti porzioni di vertebre, col relativo arco costale, ed una testa assai deforme. > Oss. 26° — Scuua Frz. — Wiener medie. Wochenschr. 1855, N. 51. Una fanciulla avendo un tumore, che dall’ ultima vertebra lombare s’estendeva fino all’ ano, e che s’accresceva notabilmente, fu operata all’ età di 9 anni. Sulla superficie del tumore eravi un’ ulcera, da cui sporgeva un corpo simile ad una lingua, il quale più tardi si vide formato da tessuto connettivo ricoperto da uno strato epiteliale, privo di muscoli. L'inserzione del tumore era fatta da un grosso cordone fibroso che s’ attaccava nel mezzo del sacro e da un legamento osseo, grosso come un dito, che penetrava ad angolo retto nello speco sacrale. La ferita guarì dopo sei mesi. Nell’interno del tumore giacevano pezzi d’intestino con villi manifesti, di cui uno spor- geva dall’ ulcera sù ricordata; oltre di ciò vi erano nervi senza alcun ordine, ossa senza forma, grasso e tessuto connettivo. Oss. 27° — GELLER G. — Descriptio tumoris cocygei foetus rudimenta continentis, qui în clinico chirurgico Bonnensi feliciter est extirpatus. Bonnae 1856. — WEBER C. 0., Virchow’s Archiv. Bd. VI, s. 520. Berlin 1853. Un fanciullo portava sulla superficie esterna del sacro un tumore grande quanto un arancio, ricoperto dalla pelle, che aveva su d’un lato due dita, provedute d’unghie. Il tumore cresceva e la pelle principiò a mortificarsi, sicchè Wutzer, otto settimane dopo la nascita del fanciullo, in- traprese l'estirpazione del tumore medesimo. Nel compiere l'operazione tagliò un osso su cui pog- giavano le dita, e di cui una metà era collegata col sacro, mediante una articolazione, e questa non fu tolta; nulladimeno la guarigione avvenne dopo cinque settimane. Il tumore aveva i carat- teri d’ un lipoma contenente resti fetali ed una cisti contenente paralbumina. Oss. 28* — JoseraA — Jahresbericht der schlesischen Gesellschaft fir vaterlind. Cultur 1857, p. 151. — Braune W. Die doppelbildungen 1862, s. 26. Un figlio d’un mercante di Breslavia, dell’età di 17 anni, aveva un tumore nella regione sa- crale e cocigea, soffriva d’incontinenza delle feci e delle urine, ed aveva una nutrizione insuffi- ciente agli arti inferiori con senso di stanchezza ai piedi. Il tumore era appianato lungo e largo 12 cent. e grosso 6, ricoperto dalla pelle, con una cicatrice in alto. Esso non aveva confini di- stinti, era di consistenza soda, e col tatto s’ avvertiva profondamente un osso. L’infermo raccon- tava che il tumore nei primi tempi si era ulcerato ed aveva espulso frammenti ossei e cartilaginei. Middeldorpf fece la diagnosi di Criptodidimo e si decise per l’operazione, in seguito della quale vide che l'estremità superiore dell’osso era circondata da grasso e collegata col processo spurio superiore dell’osso sacro, mediante un breve cordone di tessuto connettivo. Dopo cinque settimane l’ammalato era guarito. Il tumore era formato da tessuto lipomatoso, che senza limiti si continuava col vicino pani- colo adiposo. L’osso giaceva libero, aveva la normale tessitura col relativo periostio, e somigliava alla clavicola destra d’un ragazzo di 3 anni e mezzo, di cui l'estremità acromiale era collegata col sacro mediante il cordone tendineo suddetto, e l’ estremità sternale giaceva libera nel tessuto grassoso. Oss. 29° — Garcia Lopes — E? Siglo mèd. Febr. 1857, p. 163. Un fanciullo ben conformato aveva al sacro un tumore peduncolato e fluttuante, ricoperto dalla pelle, il quale conteneva un corpo mobile, solido, doloroso al tatto. Ritenuto per una cisti fu legato: il peduncolo si avvizzì ed una parte del tumore si mortificò; lo che dette luogo, alcuni giorni dopo, alla perdita del fluido sieroso contenuto, ed alla caduta del tumore. Questo conteneva eo inoltre un feto incompleto, rinchiuso in una membrana simile ad una sierosa, il quale era costi- tuito dalla regione pubica e glutea, dagli organi sessuali e dalle due estremità inferiori, formate completamente. Nulla fu trovato della metà superiore del feto. L’operazione era riuscita innocua e prometteva una rapida guarigione, quando 10 giorni dopo, la madre del fanciullo avvertì che l’urina usciva dalla ferita; 1’ A. riscontrò invece un fluido chiaro, senza odore che usciva a goccie, la di cui quantità s’accresceva colle grida e cogli sforzi del fan- ciullo medesimo. La sondatura per entrare nello speco vertebrale riescì difficile e fu solo permesso l’adoperare un crine di cavallo, il quale per due volte dovette subito esser levato, perchè produceva eclampsia. Dopo varii tentativi per obliterare il canale, esso apparentemente si chiuse, ma il fluido si raccolse sotto alla pelle e si formò un tumore grosso come una noce, che poscia si ruppe. La compressione principiò a rendere il fanciullo inquieto e suscitò tremori mortali, in guisa che la salute peggiorò rapidamente ed il fanciullo morì dopo sei settimane dall’ operazione. L’ autopsia non fu fatta; ma niuno dubitò trattarsi di spina bifida complicata con un teratoma. Oss. 30° — VircHow R. — Monatsschrift fur Geburtshilfe. Bd. IX, s. 259. Berlin 1857. Nacque morta una fanciulla con un tumore all’ estremità inferiore della colonna vertebrale. Questo tumore ricoperto dalla pelle era grosso quanto la testa d’ un fanciullo di due anni, ed aveva spinto in avanti l’ano e la vulva. Un peduncolo l’inseriva all’ estremità inferiore del sacro, le di cui vertebre superiori erano chiuse, dove che le inferiori presentavano una larga apertura, che dava passaggio alla dura madre, la quale si continuava nella circonferenza del tumore. Anche alcuni fili nervosi della coda equina e specialmente il filo terminale andavano sulla superficie del medesimo. La massa del tumore si componeva di diversi elementi. Da una parte si trova- vano numerose cisti, dall’ altra una sostanza midollare bitorzollata, somigliante alla superficie del cervello d’un fanciullo neonato, in cui non si trovarono nè fasci nervosi, nè gangli; per contrario un tessuto in cui erano disposti nuclei e cellule di diversa grandezza, simili a quelli che si trovano negli strati superficiali della sostanza grigia del cervelletto. Si trovarono pure frammenti cartilaginei ed ossei disseminati nel tumore; i quali ultimi, non contenevano come al solito, midolla rossa, ma una massa fibrosa, analoga a quella che si osserva nell’ossificazione precoce del periostio. In altre parti del tumore vi erano piccole cisti, piene d’ un liquido chiaro, alcune delle quali avevano pareti grosse, vasi sanguigni, macchie biancastre e peli nella superficie interna. Oss. 31° — VircHow R. — Monatsschrift fiir Geburtskunde. Bd. IX, s. 262. Berlin 1857. Un fanciullo nato-morto, aveva nella regione sacrale un tumore lobato, grande quanto una testa di feto, che conteneva anse intestinali ed un piede. Il tumore era aderente all’estremità del cocige, dal lato superficiale conteneva il piede suddetto con due dita grosse, e nell’interno le anse intestinali, le quali erano cieche, simili all’intestino crasso e senza comunicazione con quelle del fanciullo. Il tumore è conservato nel Museo Patologico di Berlino. Virchow ricorda un altro caso analogo, in cui nei glutei trovò un anello pelvico accessorio con muscoli. Oss. 32° — LorzBecx C. — Die angebornen Geschwulste der hinteren Kreuzbeingegend. Min chen 1858, p. 34. Una fanciulla di 6 mesi aveva un tumore sacrale, il quale, ad onta che avesse suppurato, di- veniva sempre più grosso, per cui fu portato alla Clinica di Bruns. Il tumore si estendeva dal- l'apertura anale fino alla quarta vertebra sacrale e lateralmente sulle natiche. Esso era distinto in due parti: una piana e soda giaceva sul sacro, l’altra grossa come una mela bdorsdorfer for- mava una sporgenza rotonda, ricoperta dalla pelle, fortemente iniettata : la prima parte era quasi normale, la seconda fluttuante, però non si modificava colla pressione. Decisa l’operazione, fu tagliata la pelle e vennero estratte cisti gelatinose, ma alcune rimasero per la loro tenace adesione colla porzione profonda del tumore, la quale alla sua volta così fortemente aderiva al sacro, che per licia estirparla sì staccò una parte del secondo sotto forma d’ uno strato cartilagineo. Grave fu l’emor- ragia e l'abbattimento successivo, e sei giorni dopo l’operazione sopraggiunsero delle convulsioni, che si ripeterono. Ma tutto fu superato ed avvenne la guarigione. La parte del tumore, che era stata tolta insieme ad uno strato dell’osso sacro aveva i carat- teri d’un fibroide con pezzi cartilaginei in connessione fra loro, contenente piccole cisti tapezzate da.epitelio piatto ed alcune con epitelio cilindrico fornite di glandele e riempite d’una sostanza analoga al meconio. Fra le cisti giaceva un piccolo omero colla epifisi e periostio ricco di vasi. Oss. 33° — RemeR MicHAEL — Wiener medie. Wochenschr. 1858. N. 31, 32, 33. Un feto presentava un tumore peduncolato al cocige d'una lunghezza considerevole, il quale conteneva le seguenti porzioni fetali: la vescica cefalica, senza cartilagini ed ossa e senza esca- vazioni ed eminenze per gli organi dei sensi, solo la regione nasale era marcata da un piccolo rialzo della grossezza d’una lente. Il collo, l’ organo della fonazione, le estremità superiori man- cavano completamente. Il petto e la cavità addominale non contenevano visceri. Il cordone om- bellicale era rappresentato da una semplice membrana; niuna traccia della placenta. In luogo delle estremità inferiori, non si riscontrava che una vescicola liscia e fusiforme, che si continuava col tronco ed aveva alla sua estremità opposta un piede deformato. Il tumore cresceva di giorno in giorno, mentre il fanciullo deperiva; fu posta una legatura attorno al peduncolo, che venne rinserrata maggiormente ogni giorno. Il tumore ben presto di- venne bleu e cadde dopo cinque giorni. La piaga guari dopo 15 giorni. Oss. 34° — LuscHKa — Virchow' s Archiv. Berlin I858. Bd. XIII, s. 3. Un fanciullo di sesso mascolino, nato-morto a termine della gravidanza, portava un enorme tumore lobato all’ estremità inferiore della colonna vertebrale, al quale era appeso un secondo tumore assai più piccolo, mediante una corda fibrosa. Il tumore aveva spinto anteriormente l’ ano, posteriormente non oltrepassava il cocige; era ricoperto dalla pelle assottigliata e trasparente e da tessuto connettivo sotto-cutaneo ricco di vasi. Praticata una puntura nella parte inferiore del medesimo scolò un mezzo litro di liquido chiaro, giallo pallido, contenente acqua, albumina e cloruro di sodio. Questo liquido aveva sede in due cisti tapezzate da epitelio imperfetto, le quali mostravano d’essere il risultato di più cisti fuse fra loro. Denudato il tumore si vide che esso penetrava nella cavità della pelvi, ove conteneva un gran numero di cisti, ed occupava lo spazio fra il retto ed il sacro. Fra le cisti vi erano numerosi nodi formati da cellule fusiformi. Nel peduncolo del secondo tumore eravi una arteria assai voluminosa che penetrava fino al centro, ove si riscontrava un osso simile ad un sacro ed una porzione intestinale. Non eravi al- cuna comunicazione fra il primo tumore ed il canale vertebrale. Oss. 35° — ALESSANDRINI ANTONIO Prof. in Bologna d’Anatomia comparata — Descrizione dei preparati più interessanti d’ Anatomia Patologica. Memorie della Accademia di Bologna, Tom. X. Bologna 1859, p. 16. Al Prof. Paolini fu portato un bambino nato da 36 ore che aveva nelle natiche due corpi sferici alquanto appianati, coperti dalla pelle, nel mezzo dei quali corpi si osservavano manifeste traccie di un funicolo ombellicale rudimentario, e che la levatrice aveva legato e tagliato secondo le regole. Il corpo occupante la natica sinistra sembrava aderente alle ossa della pelvi ed esplo- rato permetteva di distinguere alcune coste sotto la pelle: quello della destra natica era più voluminoso, quasi per intero libero, aderendo mediante corto peduncolo e presentava nella sua curvatura superiore un dito regolarmente conformato. Questo secondo tumore fu esciso da un chirurgo ed esaminato da Alessandrini, il quale lo trovò ricoperto dalla pelle e formato da co- piosa pinguedine; verso però il peduncolo e per tutta l’ estensione di questa eravi una propor- zionata serie di pezzetti osseo-cartilaginei di forma cilindrica, eccetto l’ultimo o primo, che era il più piccolo di tutti ed aveva la forma piramidale, come si vede in un dito naturale. I due o | n pezzi che seguivano erano eguali, ma lunghi il doppio delle falangi d’un neonato. Anche il 4.° pezzo era più del doppio di un metacarpo. Il quinto poi non offriva forma regolare nè potevasi paragonare ad alcun osso normale. Oss. 36° — RicHarpson — Med. Times. July 1859, p. 5. Un tumore ovale congenito era fissato all’ osso sacro d’ un fanciullo; e conteneva ossa col pe- riostio senza forma determinata ed una tibia; tessuto denso e rosso simile ai muscoli, non che molto grasso, in cui scorrevano più vasi e nervi. Dalla parte superiore del tumore sporgeva una piccola estremità, la quale sosteneva due falangi ed un’unghia. Il contorno esteriore era simile ad una mucosa. Il tumore fu asportato felicemente mediante una legatura. Oss. 37° — ScHwarz — Marburger Festpro ramm zum Rectoratwechsel. Marburg 1560. Una fanciulla aveva dietro l’orificio dell’ano un tumore rotondo con peduncolo, fluttuante e trasparente nella sua parte inferiore, e contenente corpi solidi nella parte superiore. La pelle era ovungue normale, salvo in un punto, in cui presentava un’apertura fistolosa. Il tumore fu preso da cangrena ed esciso 48 ore dopo la nascita della fanciulla. L’ esame del tumore dette per risul- tato una cisti nella parte inferiore contenente rudimenti d’una testa, anse intestinali col mesen- terio e peritoneo; la mucosa era tapezzata d’epitelio cilindrico, ma senza villi. Del resto il tu- more conteneva molto grasso e tessuto connettivo senza vasi e nervi. Oss. 38° — PuEHSTEIN — Preussische Medicinal Zeitung 1861. N. 17, p. 134. Vide un fanciullo di 4 anni, il quale aveva oltre un difetto nei genitali, un sarcoma al perineo ed una massa carnosa sul lato destro inferiore del sacro, che conteneva due tibie, da cui liberi sporgevano i piedi colle piante rivolte in basso. Oss. 39° — BraunE W. — Die Doppelbildungen. Leipzig 1862, p. 38. Obs. n. 51. Vide nel Museo di Berlino un tumore, che apparteneva ad un fanciullo giunto a termine. Il tumore era situato al perineo e spingeva in avanti l’ ano, posteriormente era limitato dai mu- scoli delle natiche. Nell’ interno del tumore si vedevano in un luogo delle masse gialle fibrose, della grossezza d’ una noce, presentando l’ aspetto di un sarcoma incapsulato da una membrana sottile, fibrosa. In altri luoghi vi erano cisti fluttuanti e masse villose e fibrose in cui giacevano più ossa senza connessione fra loro. Le ossa erano tubulate e somiglianti a quelle dell’avambraccio. Oss. 40° — HesseLBacH — In Braune. Die Doppelbildungen, 1862, p. 21, Oss. 17. Un piccolo fanciullo aveva un tumore lobato, grosso quanto un pugno, nella regione sacrale. Dalla superficie del tumore sporgevano due piedi rudimentali. La struttura del medesimo era molto variata, poichè numerose cisti erano disseminate in un tessuto di consistenza assai molle, la cui grossezza giungeva fino al volume d’ una nocciola, con contenuto fluido e con pareti liscie. In altri luoghi la massa del tumore era più resistente. Oltre di ciò eravi un osso lungo non svi- luppato. Non fu trovata spina bifida, ma aperto lo speco vertebrale, facilmente con una sonda sottile si usciva dallo speco in corrispondenza della quarta vertebra sacrale e si penetrava nel tumore. Oss. 41° — PauL ConsrantIin — Archiv. gen. de Med. Ser. V, Tom. 19, p. 649, 1862. Obs. I. — Questa osservazione fu presentata alla Soc. anatom. di Parigi dal Dott. Chedevergue. Fu compito artificialmente il parto d’ una fanciulla già morta in causa dell’ ostacolo che re- cava un tumore distinto in due ed aderente alle natiche mediante un largo peduncolo. Ciasche- duna metà del tumore era grande quanto la testa d’un feto a termine, ed ambedue erano con- giunte e ricoperte dalla pelle che formava un solco fra esse. Il peduncolo s’inseriva nella regione compresa fra la parte inferiore dei lombi ed il perineo. TOMO II. Tal PEMSTRI 2)” psc La metà sinistra era piena di liquido, offriva all’interno una cavità sierosa perfettamente chiusa. Dal lato interno si vedeva aderente al setto che divideva le due metà un corpo ovale appianato, rosso e tomentoso, analogo ai cotiledoni della placenta, e formato in gran parte da vasi riuniti da tessnto fibrillare. La metà destra conteneva meno liquido, essendo questo raccolto in una cisti più piccola, la quale comunicava col canale sacrale per un foro largo un dito. Conteneva inoltre una sostanza grassosa e corpi rotondi di volume ineguale. Il maggiore dei quali era grosso come una noce, ricoperto dalla pelle, fornita di peli corti e gracili e conteneva un liquido gelatinoso; gli altri corpi avevano i caratteri di cisti. Questa metà del tumore conteneva ancora numerose porzioni informi di carti- lagini, ed un tratto d’ intestino lungo 10 cent., grosso come una penna da scrivere, biforcato verso una estremità, colle tre estremità cieche; finalmente conteneva una piccola massa quadrata, for- mata da fibre striate trasversalmente. Oss. 42° — SENFILEBEN — New Sydenham Society’s biennal Retrospect. 1867, p. 226 — HoumEs — Malad. des enfants, trad. fran. p. 25. Obs. IX. il fanciullo aveva due giorni di vita ed offriva un tumore perineale peduncolato, che pene- trava nella piccola pelvi nella direzione del sacro, ed era formato principalmente di grasso e di tessuto cellulare. Dalla sommità del medesimo sporgeva una mano rudimentale. Il chirurgo disse- cando il tumore dalie parti vicine penetrò nella cavità peritoneale ed una porzione dell’ intestino tenue dell’autossita fece ernia. Nuiladimeno tutto andò bene e la guarigione fu completa. Oss. 48° — DepauL Prof. d’ Ostetricia a Parigi — Gaz. des hopitaux. Paris 1869, p. 306. Una bambina appena nata presentava un tumore ovolare pendente fra le gambe, impiantato alla punta del cocige mediante un peduncolo, grosso come l'estremità. del pollice e lungo due cent. Questo tumore fu esciso con esito felice; esso aveva una circonferenza nella direzione del peduncolo alla base di 30 cent. e nella direzione del diametro trasverso di 26, pesava 470 grammi; dal lato opposto al peduncolo presentava dei capelli molto lunghi e numerosi, in mezzo ai quali eravi una depr essione ed un rialzo che somigliavano al rudimento d’un orecchio. Sopra uno dei due margini laterali del tumore si trovava una piccola apertura, di cui i margini erano rossi e solcati, ed in cui penetrava uno specillo per 6 cent. e che somigliava all’ano. Sopra un’altra faccia si osservava un cordone allo stato rudimentale, (mancano i particolari). Il tumore.era composto esternamente dalla pelle trasparente, che avvolgeva uno strato di grasso grosso 4 o 5 cent. in alcuni tratti molto edematoso. Più profondamente eravi il condotto supe- riormente avvertito, che finiva nel centro del tumore e che aveva i caratteri fisici d’ un intestino molto ristretto. Dal centro del tumore partiva un muscolo striato, molto voluminoso, che andava al peduncolo e nel medesimo senso od inversamente correva un vaso. Nel centro infine eranvi delle ossa deformi e piatte, e delle cartilagini, assai confuse colle prime, fra cui due ossa lunghe, munite d’ una testa incrostata di cartilagine. Oss. 44° — Bònm F. — Zur Casuistik der foetalen Inclusionen und Steissbein Geschwiilste. Berl. klin. Wochenschr, N. 5. — Jahresbericht 1872, V. I, p. 235. Il tumore sacrale osservato da Bé6hm per la sede ha molta somiglianza con quello descritto da Kuhnemaim. Anche in questo caso mediante i ripetuti esami fatti pel retto si poteva rilevare che la neo-formazione occupava prevalentemente la superficie anteriore dell’ osso sacro, che aveva la consistenza molle, e solamente in alcuni luoghi più resistente. Ogni comunicazione del tumore col canale sacrale poteva essere esclusa con certezza. Per le premure dei genitori Béihm si decise all’estirpazione, che fu eseguita come si opera per la cistotomia. Nel corso dell’operazione protru- sero posteriormente al ramo discendente sinistro dell’ischio una porzione di anse intestinali, che tosto furono riconosciute appartenenti ad un feto incluso alterato. 11 cocige fu amputato. Il fanciullo morì. Il tumore pesava 336 grammi, si riconosceva composto di tre lobi: uno destro, uno sinistro ed uno mediano quasi perpendicolare ai due primi. Il destro presentava l’immagine di un cisto- n sarcoma. Nel sinistro erano collocate le suddette anse intestinali col mesenterio, contenenti me- conio, una estremità dell’ intestino sboccava nel lobo mediano, nella cui cavità si trovava rinchiuso un antibraccio completamente sviluppato con 5 dita. Alla descrizione sono unite le figure del tumore. Oss. 45° — Moritz FreveR — Virchow°s Archiv. Bd. 58, p. 509. Berlin. 18/3. Venne estratta dall’utero materno una fanciulla, che aveva aderente al cocige un tumore, di cui il maggior diametro trasversale era di 6 pollici e mezzo. Esso conteneva ossa piatte, da somi- gliare a quelle della volta del cranio, ed un osso lungo % di pollice senza forma determinata, due porzioni intestinali, una sostanza simile alla cerebrale; molte cisti semplici, di cui una era tapez- zata da una mucosa. mM Oss. 46° — Broca PauL — Gazette des Hovitaux 3 Juin 1876. Descrive un tumore grande quanto un piccolo pugno situato nella regione sacro-cocigea esterna d’una giovinetta di 16 anni, che asportò col bistori, non potendo stabilire i iimiti precisi del tu- more e durante l'operazione fu obbligato di legare l’arteria sacrale media, molto ingrossata, che nutriva il tumore. Il tumore era composto di molte piccole cisti contenenti elementi anatomici diversi: p. es. rinvenne un vero tessuto mucoso con epitelio vibrattile, chericordava la mucosa delle vie aeree. Altrove trovò un osso ed alcune porzioni di cartilagini che costituivano le traccie della parete toracica. Non vi era alcuna apparenza di tessuto nervoso. Oss. 47° — RizzoLi Francesco Clinico chirurgico di Bologna — Mostruosità per inclusione alla regione sacro-cocigea. Memorie dell’ Istituto di Bologna. Ser. III, Tom. VII, 1877, p. 365, con Fig. intercalate. Nacque un bambino piuttosto gracile, con ernia ombellicale ed un tumore che pendeva dalla regione sacro-cocigea, in parte dalla natica destra e maggiormente dalla sinistra. Questo tumore era ricoperto dalla cute, diviso in due lobi di diversa grandezza da una depressione cutanea; l’ altezza in corrispondenza del solco era di 5 cent., la maggiore circonferenza di 26 cent.; la consistenza variava grandemente essendovi puùti duri, molli e fluttuanti, la pressione sembrava che recasse dolore. Nella parte inferiore del ioho destro (minore) la cute per 2 cent. era morti ficata e comunicava mediante un piccolo foro in una cisti che si era svuotata. Quando il bam- bino vagiva il tumore rimaneva del medesimo volume. L’ autore legò il peduncolo del tumore in prossimità del sacro e poscia escise il tumore sotto la legatura, ciò che fece scoprire una cavità in quest’ ultimo, da cui sortiva una piccola quantità d’umore bianchiccio, ed anche il sacro era bifido, in guisa che potevasi insinuare l’indice entro il canale sacrale. Più tardi cadde il laccio e la ferita in 30° giornata era pressochè rimarginata, però quando il bambino vagiva la cute sporgeva alquanto in corrispondenza della spina bifida e sfuggiva da un forellino rimasto nella cicatrice, una goccia d’ umore. Questo forellino corrispon- deva al margine sinistro del sacro, pel quale con uno specillo diretto dal basso all’alto si pene- trava nel canal sacrale; tale forellino poi si chiuse dopo lungo tempo mediante l’ applicazione del nitrato d’ argento. L’esame del tumore fu fatto dal Prof. Ercolani. Il lobo maggiore era formato in gran parte di tessuto connettivo e di grasso, e conteneva un corpicciolo cartilagineo di forma triangolare. Il lobo minore comprendeva tre cisti. Una che comunicava all’esterno mediante la parte mortificata, la quale sulla sua superficie interna presentava alcune villosità isolate, o a gruppi, identiche ai villi intestinali, e in un punto un follicolo solitario, per cui questa cisti fu ritenuta la rappresen- tante d’una porzione del tubo intestinale. La seconda cisti era tapezzata da una mucosa, in cui sì riconoscevano glandole coi caratteri delle pepsiniche e delle mucose, quali si rinvengono nello stomaco umano; oltre di ciò possedeva uno strato muscolare. La terza cisti era internamente ri- coperta da un derma delicato, provvista da glandole sudoripare e da corpuscoli del Pacini, e con- SI (SOLI A teneva un dito ben conformato, composto di tre falangi e d’un osso del carpo. Nel tessuto con- nettivo circostante alle cisti eravi un nocciuolo di sostanza ossea, alquanto grosso, di forma tri- euspidale, senza tracce muscolari. Oss. 48° — Simmonos M. — Ein parasitischer Steissewilling. Virchow ’s Archiv. Berlin 1880. Bd. LXXXII Zweites Heft. S. 374 (con tav.). Il 24 Maggio si presentò alla clinica dell’ Esmarck in Kiel, una donna con un bambino, il quale aveva un tumore nel dorso, che dalla nascita era andato lentamente crescendo. Essa aveva avuto altri due bambini bene sviluppati, e la gravidanza e il parto dell’ultimo erano decorsi nor- malmente. Nella sua famiglia non erano mai nati mostri. Al dorso del bambino, di robusta costituzione, si attacca con larga base, estendendosi dalla parte inferiore delle vertebre toraciche fino al sacro, un tumore emisferico molto prominente, che termina verso sinistra in un prolungamento libero. La periferia alla base del tumore mi- sura 25 centim., l’ altezza 5 centim., la lunghezza del prolungamento 10 centim. Tutto il tumore viene rivestito da un prolungamento della cute dorsale, che a sinistra si continua liscia, laddove a destra forma sopra e sotto una piega profonda 2 centim. Nel lato sinistro del tumore poco al dissopra dell’ inserzione del prolungamento, si riscontra un piccolo scroto e un pene. Quest’ ultimo possede un glande ben conformato, tuttavia è impervio. Invece osservasi al dissopra della sua radice un’ apertura per cui possono introdursi fine sonde ad 1 centim. di profondità. Nello seroto stanno due piccoli testicoli. Sul terzo inferiore del tumore riscontrasi un infossamento trasversale della pelle, lungo 2 centim., e sotto a questo una fossetta imbutiforme, che potrebbe corrispondere all’ano. Il tumore è molto molle e fluttuante nella porzione superiore. Nella parte inferiore sentesi una lamina ossea grande un tallero, cui si attacca un prolungamento osseo pendente dal tumore. Questo prolungamento consta di un cilindro largo un dito, alquanto appiattito e lussato lateralmente, al quale aderisce un piede accorciato. Il piede si divide in due dita fornite di unghia, al minore si congiunge di lato una falange ungueata, al più grande un piccolo zaffo cutaneo. Una mobilità passiva del prolungamento è possibile in sufficiente estensione, una attiva sembra mancare. Poichè il canale vertebrale del bambino non era chiuso al dissopra del tumore, venne supposta una comunicazione della parte superiore fluttuante di questo col canale vertebrale. Il contenuto del liquido, vuotatosi colla puntura, confermò tale sospetto, per cui il Sig. Esmarch, consigliere segreto, si persuase di non intraprendere l’estirpazione totale del feratoma e si limitò all’ ampu- tazione del prolungamento in un col terzo inferiore del tumore. L'operazione riescì felice; parecchi vasi arteriosi vennero facilmente allacciati, sicchè la emorragia fu insignificante. Narcotici e pre- parati carbolici non vennero adoperati. Subito dopo l’ estirpazione non si manifestò alcun sintomo spiacevole. D’improvviso al terzo giorno il bambino si fece soporoso e dopo poche ore morì. La sezione non dette veruna spiega- zione sufficiente di un tal fatto. Atelettasia parziale nei polmoni, echimosi pleurali, i piccoli bronchi, mostrarono un mediocre catarro; mancarono infiltrazioni lobulari. L’anemia negli organi non era straordinaria. Il cervello e la midolla spinale nulla offrirono di abnorme. La connessione del tumore col bambino si fa prima per un prolungamento della fascia dorsale profonda, poscia mediante fibre della dura madre che sporgono dalla fessura vertebrale. Il tumore principale contiene due cavità, i cui limiti dall’esterno non sono riconoscibili. La cavità che sta al tutto prossima alla colonna vertebrale è accasciata; essa vien limitata all’intorno dalla dura madre, e solo da un lato dalla midolla lombare del bambino, ricoperta dalla pia madre straordi- nariamente allargata. Questo è il sacco idrorachitico punto. La seconda cavità, più larga, situata verso l’esterno (fig. 2, d), è più grande. Essa è limitata verso l'interno dal sacco della dura me- ninge e giace sulla lamina ossea accennata. Dopo aver tolta la parete connettivale di questo sacco, che riposava sopra un grosso cuscinetto adiposo, si riscontra un sacco a parete sottile rivestito all’interno da epitelio, e contenente eleganti anse intestinali. Rappresentano queste un tubo lungo 50 centim. a fondo cieco, il quale è attaccato alla parete posteriore del sacco mediante nervi, vasi Ugg e glandole linfatiche che scorrono per il mesenterio. L’estremità più ristretta dell'intestino è vuota, l’altra più larga contiene una poltiglia bianca costituita da frammenti di cellule degene- rate. I singoli strati della parete intestinale sono riconoscibili al microscopio, il rivestimento epi- teliale dei villi è ben conservato. Nel tessuto grassoso contornante questa cavità sì osservano a sinistra in basso due corpi ovali della grandezza di un mezzo pisello, i quali microscopicamente fan vedere un invoglio di con- nettivo fisso ricco di vasi e, internamente a questo, numerosi tubi contorti ricoperti da epitelio, reperto questo corrispondente in tutto a quello comunicato dal Luschka in un caso simile (1). Il Luschka lasciò indeciso nel suo caso se trattavasi di testicoli o di reni. Finalmente si riscontra nella regione dei genitali esterni del Pigopago, un sacco grande quanto una fava, rivestito da epitelio, considerata come la vescica urinaria, da cui nasce l’uretra che si apre al dissopra del pene. I nervi del tumore originano direttamente dai nervi sacrali. Le arterie si anastomizzano ripe- tutamente con quelle del bambino. Una iniezione di esse non fu possibile, a cagione dell’ abla- zione del tumore per l’ operazione. Fibre muscolari trasversalmente striate mancano nel tumore cutaneo ; invece eleganti muscoli e tendini si spandono fra le varie parti dello scheletro. La lamina ossea situata nel sacco peritoneale corrisponde all’ileo sinistro. Vi si discerne la cresta iliaca, la spina anteriore superiore, la limea arcuata esterna, la tuberosità dell’ osso ischio, e l’ incisura ischiatica. Attraverso quest’ ultima passa il nervo cutaneo dell’ estremità. Un nastro sufficientemente robusto, sotto a cui scorrono i vasi cutanei rispettivi, corrisponde per la sua po- sizione al legamento del Poupart. Congiunto per masse cartilaginee coll’osso sinistro dell’anca riscon- trasi un osso di forma irregolare grosso come una fava, il quale ben potrebbe corrispondere all’osso iliaco destro impiccolito. Il femore è corto e piatto. L’articolazione coxo-femorale è stata rovinata per l'operazione. La tibia è lunga, arcuata in forma di S. Mancano la rotula ed il perone. Le ossa del tarso sono rappresentate da cartilagini, di cui una ha molta somiglianza col calcagno. Le dita del piede poss ggono tre falangi. Il mignolo ne ha lateralmente una quarta. NOTA II Tumori contenenti ossa e cartilagini senza forma tipica. Oss. 1° —- OLIivier E MARTIN — Archives gener. de med. Tom. XV. p. 556. Paris 1827. Un neonato maschio che presentava al perineo un tumore grosso due volte la propria testa, ri- coperto dalla pelle, dopo cinque giorni morì. Olivier esaminando il tumore rimase sorpreso « di tro- vare nel suo interno l’insieme di quasi tutti i tessuti organici del corpo umano, confusi in al- cuni punti, distinti in altri ». Nel centro vi erano ossa di forma irregolare, posteriormente una sostanza simile al pancreas, in avanti ed in basso una sostanza simile al fegato; in diversi luoghi del grasso, altrove delle glandole conglobate, dei fasci muscolari, delle maglie membranose, nume- rosi vasi ed infine molte cisti idatiformi contenenti un fluido analogo al bianco d’ovo. Oss. 2° — GRUBER — Neue Zeitschrift fir Geburtskunde 1842. Bd. XII, s. 128. Fu estratta una fanciulla con un tumore sacrale, grande come la testa del feto, che pendeva fra l’orificio anale e l'estremità inferiore del sacro. L’ estirpazione del tumore ebbe per conse- guenza la morte della fanciulla dopo otto settimane. (1) Virchow’s Archiv. Bd. XIII. S. 141. SEIUR L'esame anatomico mostrò il cocige entro il peduncolo del tumore, il quale, sebbene non ac- curatamente esaminato, mostrò una sostanza che partecipava dei caratteri cerebrali e grassosi. Oltre di ciò conteneva masse simili alla placenta, frammenti calcificati e cisti. Oss. 3° — Orro — Monstrorum sexcent descriptio. Vratislaviae 1841, p. 330, n. 594. Femmina settimestre con un tumore pendente dal sacro e dal cocige, più grosso della testa. Sotto la cute assottigliata del medesimo eravi un grosso sacco chiuso, che racchiudeva tre cisti. La cisti superiore era attaccata mediante connettivo al lato anteriore del cocige e del sacro; era essa in parte calcificata, conteneva un umore simile all’albumina, tolto il quale si videro aderenti al guscio pezzi ossei, grasso, ciocche di capelli e due denti, i quali erano chiusi in un proprio sacco e formati dalla corona e dalla polpa. Le altre due cisti contenevano linfa. Oss. 4° — EmMERICH — Archiv. fiir physiologische Heilkunde 1847, p. 487. Tumore sacrale in una giovane di 20 anni operato felicemente. Esso pesava 5 libbre e 4, era ricoperto dalla pelle, formato da grasso e da cisti, piene d’ una massa simile alla feccia di birra. Oltre di ciò conteneva peli, tessuto fibroso rosso-pallido, ossa senza tipo, di cui due erano con- giunte fra loro mediante legamenti e direttamente coll’osso sacro. Oss. 5® — Honm in Vrolik — Tabulac ad illustrandam embryogenesin. Amstelodami 1849. Tab. C. Una neonata aveva nella parte inferiore della pelvi un tumore cocigeo rasente all’ano, molto mobile, ricoperto dalla cute. Dopo un anno di vita la fanciulla morì. Il tumore era congiunto al cocige ed alla parte inferiore dell’ osso sacro mediante un funi- colo aponeurotico, e sopra il medesimo erano disperse le fibre muscolari molto allungate del mu- scolo elevatore dell’ano. L’intestino retto discendeva sulla sua superficie. Il tumore riceveva al- cune vene dalla pelvi del fanciullo; era composto principalmente da una tela adiposa, da fibre muscolari striate, vicino alle quali vi erano delle protuberanze cartilaginee ed un nucleo osseo. Queste parti furono giudicate dall’autore per imperfetti primordi d’un secondo feto. Oss. 6° — Scorri GiBERTO milanese — Appendice fetale contenente avanzi di feto. Gaz. Med. di Lombardia. Milano 1850, Ser. 3°, T. I, p. 353. Un neonato (secondo genito) di buona conformazione presentava lo scroto diviso in due, ed una appendice pendente dalla natica destra. Questa appendice era lunga pollici 4 14, alquanto più larga, e grossa 2 pollici. La sua figura era periforme, appianata dall’ innanzi all’ indietro; divisa anteriormente da un solco poco profondo in due lobi di diversa grandezza; la sua consistenza molle, pastosa; il peduncolo si mostrava breve, duro e resistente. La cute non ricopriva comple- tamente l’appendice, come pure la natica corrispondente, rimanendo scoperta una superficie rossa, irregolare e solcata. L’A. escise tale appendice e la cicatrizzazione fu tarda per il contatto dell’ urina. Il tumore pesava 12 once milanesi, esso inferiormente conteneva una massa gelatinosa giallognola, risa- lendo si trovava pinguedine, fibre legamentose, muscoletti e vasi diretti in vari sensi, finalmente vari pezzi informi osseo-cartilaginei, insieme riuniti da fasci legamentosi ed una vescichetta tra- sparente contenente liquido albuminoso, abbracciata incompletamente da una scattola cartilaginea, in cui nuotava un nastrino d’ apparenza nervosa, lungo due linee e largo mezza linea, che terminava ad ambedue le estremità con un sottilissimo filamento. Macerate le ossa, esse non pre- sentarono forme che permettessero d’essere determinate. Fra queste non ve ne erano che due che avessero la figura cilindrica. Oss. 7° -— Wirtica E WonLeemuta — Monatsschr. fiir Geburtskunde 1855, p. 161. Fu estratta dal corpo della madre una bambina morta di 7 mesi, la quale aveva un tumore sacrale che discendeva fin sotto il ginocchio. Le parti costituenti il tumore erano assai diverse. Alcune erano formate da cisti sierose e colloidi. Eravi in oltre un bitorzolo molto grosso, che e 87 sporgeva da un foro ovale, il quale era molto molle, costituito da un carcinoma midollare (?) e contenente un pezzo d’osso piano a guisa della squama del temporale, dalla cui superficie con- cava partivano cordoni molli e duri, che attraversavano il bitorzolo. Porzioni ossificate si trovavano ancora nella parte del tumore che penetrava entro la pelvi, fra il retto ed il sacro. Il tumore era intimamente congiunto col lato interno del cocige, arcuato esternamente. Lateralmente alla por- zione pelvica giacevano i due cordoni del simpatico, i di cui gangli, straordinariamente sviluppati, inviavano alcuni filamenti alla superficie del tumore. La nutrizione del tumore era in parte for- nita dall’ arteria sacrale media ed in parte dai rami dell’arteria glutea ed ischiatica. Oss. 8° — BrAK — Descriplio lumoris, qui in foetu esl repertus. Diss. inauguralis, Marburg 1857. Una fanciulla, che morì dopo un quarto d’ora dalla nascita, in seguito ad un parto laborioso, aveva un tumore che spingeva in avanti l’ano, sporgeva esternamente dalla cavità pelvica e riem- piva la cavità ventrale, alterando le vertebre sacrali e dislocando il cocige. L'autore attribuì l’ori- gine del tumore all’ estremità inferiore del sacro. Il tumore era formato da masse fibrose, da pezzi ossei, e da cisti con epitelio vibrattile. Oss. 9° — PitHA — Infelligenz-bla!t. Minchen 1857, N. 18, p. 220. Una fanciulla d’un anno e mezzo aveva un tumore sacrale grande come la sua testa, che con- tinuava a crescere. Essa fu operata e dopo 25 ore morì. La sezione mostrò che l’intestino retto era strettamente congiunto al tumore e che il perio- stio del sacro andava direttamente al medesimo, mentre la colonna vertebrale era normale. Il tumore era formato da una capsula fibrosa, dura, abbastanza ricca di vasi, grossa da due o tre linee che conteneva un lipoma fibroso, attraversato qua e là da cordoni fibrosi e piccole cisti con pareti grassose, comunicanti fra loro. Nel mezzo del tumore si trovarono pezzetti d’ossa e di cartilagini senza forma determinata, rinchiusi da tessuto fibroso. Oss. 10* — Srrassmany — Monatsschr. f. Geburtskunde 1861. Bd. 18, H. I, p. 1. — in Braune Op. cit. p. 59, Oss. 38. Fanciullo, che morì 8 ore dopo la nascita, con tumore sacrale; il quale mostrava alla super- ficie del taglio una sostanza midollare, grigio-rossa, ricca di vasi, con cisti più o meno grandi, traversata da cordoni fibrosi. Nel mezzo eranvi cartilagini jaline, per lo più sotto forma di nodi rotondi; molte parti calcificate, compreso il contenuto delle cisti. Non eravi tessuto osseo. La massa midollare era formata da corpuscoli, molto refrangenti alla luce ed omogenei, in cui non si di- stingueva nè il nucleo, nè la membrana. In alcuni luoghi il tessuto connettivo aveva la disposizione alveolare, ove erano contenuti tali corpuscoli. Oss. 11° — GiraLpes — Bulletin de la Soc. de Chirurgie 27 mars 1861. Un fanciullo aveva un tumore congenito alla natica destra, limitato in alto a livello dell’ an- golo sacro-vertebrale, in basso al solco interposto alle natiche, il quale si arrestava recisamente alla linea mediana. Il tumore aveva il diametro verticale di 15 cent., l’ orizzontale di 11; era diviso quasi completamente verso la parte media da un solco trasversale e profondo. L’autore trovò molti ostacoli a distaccare il tumore, per cui l’ operazione fu lunga e laboriosa; il fanciullo morì di pneumonia. La porzione superiore del tumore era avviluppata ed interseccata da tessuto fibroso, conteneva cisti piene di materia grassosa molto bianca, o di sostanza colloide, conteneva inoltre del grasso libero, entro cui erano nascosti dei pezzi ossei ricoperti dal periostio. La parte infe- riore del tumore conteneva tessuto fibroso, grasso, e tre cisti piene di sostanza sebacea con molti peli. Oss. 12° — FòRrstER A. — Wiirzburger Verhandlungen Bd. X, s. 42. Venne al mondo una femmina di otto mesi, che morì dopo sette settimane, la quale aveva PRESRAIi (0) SI ES un tumore sacrale sottocutaneo, che era lungo 5 pollici e 6 linee, grosso 4 poll. e 9 linee; e spor- geva in basso, avanti ed indietro, in guisa che il feto sembrava gli stesse a cavallo. L’ orificio dell’ ano ed il perineo erano spinti in avanti. La sostanza del tumore era molle e carnosa e giungeva al terzo inferiore dell’ osso sacro, senza mostrare alcuna connessione col canale vertebrale. Al taglio si aveva 1’ aspetto d’un cisto- sarcoma. Le cisti erano piene di sangue e communicavano fra loro, in causa dell’ atrofia da pres- sione prodotta dall’involucro generale. In una parte del tumore vi era una sostanza simile alla midolla cerebrale, in cui però non si poterono dimostrare con sicurezza gli elementi cerebrali. Nelle cisti più grosse sporgevano all’interno masse semplici peduncolate o racemose, le quali spingevano all’esterno la membrana cistica, ed erano formate da molle tessuto, che imprigionava piccole cisti. Nel tumore si rinvennero ancora pezzetti cartilaginei, grossi come un nucleo di cerasa. Oss. 13° — V. SieBolp — in Braune Op. cit. p. 64 Oss. 58. Morì un fanciullo appena nato in Danzica nel 1838, che aveva all’ estremità del sacro un tumore grosso come un ovo di gallina, colla superficie ineguale, il quale sporgeva posteriormente ed in basso. Esso conteneva cisti colloidi molto piccole, separate fra loro da cartilagini ed ossa. Resti fetali non furono riconosciuti con precisione. Oss. 14° — RupoLpHi — Museo di Berlino N. 6012 — in Braune Op. cit. p. 53, Oss. 20. Feto maturo con tumore pendente dal cocige, contenente pezzi ossei, cartilaginei, idatidi, ed una sostanza molle. Oss. 15° — Baum in Gottingen — in Braune Op. cit. p. 64, Oss. 58. Morì un fanciullo poco dopo la nascita, che aveva alla estremità del sacro un tumore grosso come un ovo di gallina, con superficie ineguale. Esso sporgeva in basso e posteriormente; conte- neva molte cisti colloidi, le quali erano separate da cartilagini e da ossa. Resti fetali non fu- rono trovati. Oss. 16° — BraunE W. — Monatsschrift fiir Geburtskunde Bd. XXIV, s. 1, fig 1. Berlin 1864. Femmina che aveva un grosso tumore al perineo, che rimontava nel gran bacino. Il cocige inviava un legamento fibroso nel tumore ove si perdeva. Nella parte superiore di questo vi erano due cisti tapezzate d’ epitelio pavimentoso, che comprimevano l’uretra ed il retto. Nel rimanente la composizione era assai variata, poichè si trovavano punti sarcomatosi, carcinomatosi, condro- matosi, lipomatosi e cistici con contenuto variato. Nel centro del tumore eravi una cavità che conteneva un umore untuoso e masse cartilaginee ed ossee. Il tumore era nutrito dalla sacrale media e da alcuni rami della glutea e della ischiatica; ed era penetrato dagli ultimi fili del gran simpatico. Nel lato sinistro non si giunse a trovare gli ultimi gangli sacrali, ed in basso il ganglio cocigeo era adossato al tumore ed inviava rami nell’interno. L'autore attribuisce l’ origine del neoplasma alla glandola sacrale. Oss. 17° — Voss — Medfoedt tumor sacralis. Nordiskt. medic. Archiv Bd. II, N. 27 (Jahreshe- richt 1870 V. 1. p. 299). Il tumore sacrale (della circonferenza di 19 4") era ricoperto dalla cute normale, che facil- mente si isolava, dal pannicolo adiposo, in alto e posteriormente ancora da ambedue i glutei mag- giori. Esso aderiva alla superficie anteriore del cocige e alla parte più inferiore del sacro, s’ in- troduceva nel bacino, ove si poteva facilmente sceverare dal retto. La maggior parte del tumore formava una cisti ripiena di siero rossiccio (1250 centimetri cubici); in alto conteneva alcune pic- cole cisti colloidi ed una massa adiposa (della grandezza di un mezzo uovo) con due ossa lunghe irregolari. PRE pos Oss. 18° — IDEM — Behrend's journal fir Kinaerkrankheiten 1859, p. 144 — in Braune Op. cit. p. 58, Oss. 37. Descrive un tumore cocigeo in una bambina, il quale mediante la macerazione lasciò ricono- scere molte piccole ossa, ma dalla descrizione stessa non si può indurre con sicurezza la natura degli altri componenti il tumore. Oss. 19° — DE Sorre, Capo della Clinica ostetrica di Parigi — Archives de Tocologie. Marz 1874, p. 156. Oss. I. Nacque una femmina di sette mesi, che aveva attaccato alla regione cocigea un tumore grosso due volte un cranio. Questo tumore era ricoperto dalla pelle, aveva spinto in avanti l’ ano, sem- brava indipendente dal sacro e dal cocige. Staccata facilmente la pelle, il tumore si presentava come una massa rossa, fibrosa, molle e lacerabile. Questa massa formava pur essa un involucro leggermente aderente ad un tumore interno, costituito da una sostanza bernocoluta, che aveva l'aspetto della cerebrale, in via di disorganizzazione, in cui scorrevano vene di diverso calibro. Il tumore aderiva all’ aponeurosi cocigea. e rimontava dal lato destro, formando un lobo del va- lume d’ una noce, fino all’ articolazione sacro-iliaca. L’ esame microscopico della massa rossa, chiamata membrana d’inviluppo, mostrò una trama connettiva, fornita di capillari con lacune cistiche di diversa grandezza, di fasci muscolari striati diretti in diverso senso, di molte cellule embrioplastiche, e finalmente d’ un piccolo nodo osseo ricoperto di cartilagine. L’ esame della sostanza che aveva l’ aspetto cerebrale, trovò una ricca rete di capillari a maglie sovrapposte, contenenti una polpa d’ aspetto encefaloide. In questa polpa si riconoscevano cellule rotonde nucleate, di cui alcune più grandi, ora granulose, ora polinucleate ed inoltre granulazioni libere, goccioline grassose, ed elementi pallidi irregolari senza nucleo. Oss. 20* — Macari Ostetrico a Modena — Clinica ostetrica 1874-75. Opusc. Modena 1875, p. 31, con Tav. in 8°. Nacque una femmina con l’aiuto dell’ ostetrico, la quale presentava un tumore oblungo, ap- pianato col diametro maggiore di 21 cent. e colla circonferenza di 47 cent., solcato da grosse vene sinuose. Questo tumore con larga base aderiva allo spazio compreso fra l’ano e la regione sacro-cocigea ed in alcuni punti era duro, in altri cedevole e fluttuante. Perforato ove era meno resistente lasciò escire 48 grammi di siero sanguinolento, contenente albumina, molte cellule epi- teliali, ora isolate, ora riunite, corpuscoli bianchi e di pus. Esaminato il tumore dal Dott. Severi trovò nell'ampia cisti, cui era stato estratto il liquido, un canale largo come una penna d’oca, lungo 4 cent. comunicante colla coda equina. L'esame microscopico rinvenne isole cartilaginee circondate da tessuto fibroso; tubuli glandolari di varia dimensione, ora isolati, ora riuniti a gruppi ed in ambidue i casi circondati da connettivo, ricco di cellule e di sostanza intercellulare. I tu- buli erano limitati da una membranella anista, che sosteneva cellule epiteliali cilindriche, che riempivano cotesti tubuli. In altre parti del tumore i corpuscoli connettivi erano fusiformi con grosso nucleo e sottili appendici, ora disposti a fasci ed ora irregolari. In quanto alla propor- zione fra i tre tessuti, era in maggior copia il glandolare, poi il cartilagineo, ultimo il connet- tivo giovane per cui fece diagnosi d’ adeno-condroma. Oss. 21° — LirxemiuLLER GIovAanNI — Oesterr. Med. Jahrbicher Heft. I, 1875. — Jahresberichi. fur 1875, Bd I, p. 358, colonna 2°. L’autore rende conto di quattro casi risguardanti tumori sacrali congeniti. 1° caso. Fanciullo di 14 giorni, che aveva un tumore lungo cent. 5 % e largo 4, il quale pe- netrava fra il retto ed il cocige. La parte consistente del tumore era formata da tessuto fibroso, da fasci muscolari, striati trasversalmente, a diversi gradi di sviluppo, d’alcune parti a forma di penello, da tessuto grassoso, da un pezzo d’osso grosso alcuni mill. con canaletti d’Avers, da cor- puscoli ossei, arterie, vene, capillari e da vasi sanguigni riconoscibili mediante cellule connettive poste concentricamente. Mancavano nervi e cartilagini. La parte cedevole era formata da cisti, TOMO Il. 12 i 90 — tapezzate da epitelio ora piatto, ora cilindrico ed ora vibrattile, da follicoli con peli, da glandole sebacee e sudoripare, le quali cose mancavano in una cisti con parete sottile posta superficial- mente. Oss. 22° — IpEM — 2° caso. Fanciullo operato coll’embriotomia in causa dell’ostacolo al parto recato dal tumore, il quale aveva il maggior diametro di 13 cent. e si spingeva fra il retto ed il cocige del fanciullo suddetto. Le parti dure del tumore erano tessuto connettivo, muscoli, cartila- gini ialine, grosse come i semi di canapa, ossa, vasi. Il maggior numero delle cisti aveva il volume d’un pisello. e conteneva epitelio ora piatto, ora cilindrico, ed ora vibrattrile; pigmento granu- loso e cristallino. Oss. 20° — IDEM — 83° caso. Fanciullo più adulto del precedente, lungo cent. 22 14, con tu- more posto fra il cocige, il retto ed i trocanteri, il quale aveva una circonferenza alla sua base di 12 cent.; nella maggior grossezza la circonferenza trasversale era di 18 cent. Il reperto interno fu identico al precedente. Oss. 24° — IDEM — 4° caso. Il fanciullo era lungo cent. 18 %. Il tumore aveva una circon- ferenza minore del precedente di 4 cent., nel rimanente era uguale al terzo ed al quarto. Oss. 25° — RAFFA ARTURO, medico-chirurgo assistente in Padova — De? tumori misti congeniti della regione sacro-cocigea. Opusc. Padova 1877 in 8° con tavola. — Gazz. delle Provincie Venete. Padova 1877. N. 3 e 4. Una sposa di 32 anni, nella sua quinta gravidanza, notò fino dai primi mesi uno straordi- nario sviluppo di ventre e durante la medesima sofferse vari incommodi: dolori all’ipogastrio ed ai lombi, edema agli arti inferiori, impossibilità del decubito sul lato sinistro. Il parto procedette per il vertice, ma il feto arrivato colla sua pelvi all'apertura vulvare non potè più avanzare e morì, sicchè fu necessario l’aiuto della mano dell’ autore per compiere l'estrazione. Poscia fu espulsa naturalmente la placenta. Il feto era una femmina a termine, lunga 48 cent., la quale presentava fra le coscie un tu- more sferico, aderente all’ultimo tratto della colonna vertebrale, ricoperto dalla cute. La vulva, il perineo e l’ano, erano spostati in avanti. Questo tumore era lungo 15 cent. ed aveva una circon- ferenza di 43 cent. Era generalmente elastico, in alcuni punti fluttuante, in altri resistente. Ta- gliato lasciava distinguere una parte periferica più resistente, lobata, rosso-cupa, con punti ossei ed una parte centrale molle, analoga al cervello rammollito, di colore ora biancastro, ora roseo. Queste due porzioni erano separate da un sepimento ed ambidue contenevano cisti di varia gran- dezza, contenenti ora sostanza colloide, ora siero sanguinolento. Questo tumore aderiva all’ ul- timo tratto del sacro e a tutto il cocige mediante tessuto connettivo. L'esame microscopico rinvenne nella parte centrale del tumore, molta sostanza intercellulare amorfa contenente cellule connettive a tuttii gradi di sviluppo. Nella parte periferica eravi tes- suto fibrillare, tessuto osteoide ed osseo; le cisti di diversa grandezza erano tapezzate da uno strato semplice d’epitelio pavimentoso. Non eravi traccia di tessuto nerveo e muscolare. Oss. 26° — ScarEIBER — Deutsche Zeitschr. fiir Chir. BA. XI, p. 344, 1879. — Revue des Sc. Med. Tom. XVI, p. 59, 1880. Un fanciullo di quattro mesi aveva un tumore sacrale, grande come la testa del portatore. Questo tumore era generalmente fluttuante, ed alla sua base permetteva di riconoscere una la- cuna nella serie delle apofisi spinose. All’ estirpazione si trovò un peduncolo penetrante in una apertura dell’arco posteriore dell’ ultima lombare, della dimensione quasi d'un pezzo da cinque franchi. Nella parete del tumore fu trovato un frammento osseo, sostanza cartilaginea e muscoli striati; nell'interno furono scoperte fibre nervose. Il fanciullo morì e l’ autopsia non fu fatta. PO 0 NOTA III Casi di cisto-sarcomi senza traccie fetali, raccolti da Braune. Oss. 1° — HEINEKEN — /m Himly-Geschichte des foetus in foetus, ISTANZA Doe: . . .in Braune p. 45, Oss. 5° Oss. 2° — Quanrat — Oesterr. mica desio 1841, S, i, 601. i » E Oss. 3° — MIDDELDORPH —. . 7 » 46, » 8 Oss. 4° — LorzBECK — Die n ‘Geschioiilste. 1888, S. 18. 7 » ARES O Oss. 5° — Busca — Gemeinsame deutsche Zertschrift fior Geburts- kunde. 1829. Bd. IV, p. 1. . . » SA I Oss. 6° — Orto — Monstrorum sexcent. descript. 1841, D. 399. N. 589, » lub 0025 ss — Idem = Mid pi329! No1590 10 LS » 54, » 26 Ira È CID, 51) RR » oso 27 Miss 9 —Mdem?— Ibid p:330) IN 592 e a » Spam i 28 Oss. 10° — Idem — Ibid. p. 330. N. 593. . . . » SERTST ENZO Oss. 11° — SranLey — Med. Chir. Transactions. Tondo 1841, Vol. NEXVO + pii23 199101 i Da cempaB » 56, 032 Oss. 12° — LEHMKANN — Deutsche Klinik. 1852. N. 18. Me » 62, » 49 Oss. 13° — ScHawarTtz — Rheische Jahrbucher von Harless. 1832. Bd. VILTHe ftp. INI LA » 63, ao Oss. 14° — Scampr — IMeckel®s Pathol. Brian Bd. TA; S. 372 atta » Cormtt59 Waste — BRAUNE):— Lg e a Sa » 41, » ì Cer. LE Po Jin a LI e A A TO Aaa a e » AD TO, Te. IC ATTERRA e i i » Asa ssa) (0) 8 IS SA e a pe e BE » 48,» 1 Tese I° — TIE Se 0A TT A e » Bse ali Car Se — in e e e e o Ie » o eil) Osservazioni da aggiungersi ai casi precedenti. Oss. 21° — Mazzoni G. B. Prof. di Chirurgia in Firenze — Observation Anatomo-pathologique. Brochure in 49, Florence 1810, avec planche. Considerando che la lingua francese si era aumentata in estensione dopo le gloriose conquiste di Napoleone il Grande, l’ autore si determinò di adottare questa lingua per descrivere una fan- ciulla, che era venuta al mondo con un tumore, che s’estendeva dalla faccia convessa del sacro fino ai calcagni, e che aveva spinto l’ano in avanti vicino alla vulva. La levatrice avendo av- vertito che il tumore conteneva un fluido, l’ autore fece due incisioni al medesimo, dalle quali sortì una quantità d’umore linfatico quasi limpido, ma dopo 48 ore la fanciulla morì di convulsioni. Il tumore era di color naturale, pesava più d’ un chilogramma; era ricoperto da un prolun- gamento della pelle dorsale, senza che la colonna vertebrale vi prendesse alcuna parte. Nella parte interna vi era una sostanza rossastra, grande quanto un ovo di piccione, che conteneva delle idatidi con adipe. Questa fanciulla non aveva che un rene, situato sulle ultime vertebre lombari. Tutti gli altri visceri non avevano alcuna cosa di notevole. L'autore non riconobbe nel tumore che un eccesso di sviluppo degli integumenti del dorso, e spiegò la morte per l’azione dell’ aria sulle diramazioni nervose, per cui si risvegliarono le convulsioni. RENEE (0 3) Perri Oss. 22° — MANNISKE G. AL. — Diss. monstri humani rarioris descriptionem continens. Je- nae 1881. 1° caso. Dall’estremità inferiore della pelvi d’un maschio neonato aveva origine un tumore, che discendeva fino ai piedi e si elevava nell’addome fino all’ombellico di dietro agl’intestini. Esso aveva l’aspetto d’ un fungo midollare con numerose cisti, che avevano la grandezza d’un pisello fino a quella d’una noce, e contenevano un umore di color fosco. Oss. 23° — IpeM — 2° caso. Feto maturo con tumore analogo al precedente, ma che non ri- montava così in alto nell’addome. In ambidue i casi mancavano le capsule soprarenali e ritenne che i tumori fossero una de- generazione delle medesime. Oss. 24° — CAMPANA ANDREA, socio ordinario dell'Ateneo Veneto — Caso particolare ostetrico che richiese l’ invenzione di un nuovo strumento chirurgico. Esercitazioni scientif. lett. dell'Ateneo di Venezia. Venezia 1838. Vol. II, p. 183. Feto nato a termine da una donna robusta, che prima avea avuto 6 gravidanze ed altrettanti parti felici di bambini perfettamente sani. In quest’ultima gravidanza però aveva sofferto un peso molesto al basso ventre, il quale si era reso voluminosissimo, ed una gonfiezza agli arti infe- riori da impedire i movimenti. Il parto fu assai laborioso, essendosi presentata prima una mano in vagina, per cui dovette farsi il rivolgimento, dopo il quale non essendo riuscito che di otte- nere l'uscita delle gambe e coscie fino ai trocanteri, si riconobbe che la difficoltà dipendeva da un corpo sferico assai grande, che era del tutto unito alla parte inferiore del dorso del bambino. L’autore quindi passò alla sezione di questo tumore, con istrumento da lui prima adoperato come tonsillotomo, poscia colla mano lo distaccò dal fondo dell'utero ove aderiva colla parte fetale della placenta, la quale poi estrasse artificialmente. Il bambino era bene sviluppato, ed appena venuto alla luce dava ancor segno di vita. Il tumore separato pesava libbre 8, la sua adesione al feto era di 1 piede di circonferenza ed estendevasi colla sua base dalla destra alla sinistra eresta superiore degli ilei e dalla punta del cocige all’apofisi spinosa della seconda vertebra lom- bare: la pelle che lo copriva era simile a quella del bambino, ed il contenuto suo un ammasso di idatidi, mescolate a grasso ed intrecciate da vari filamenti fibrosi. La donna per le manovre subite non patì alcuna sinistra conseguenza. o Basie Oss. 25° — VERGA A. — Rendiconto dell’ Ospedale Maggiore di Milano. Anno 1856-57, p. 19. Una bambina nata a termine da nove giorni presentava un tumore attaccato alle natiche, al sacro ed al perineo. Questo tumore aveva la forma quasi sferica, del volume d’ una testa di feto, era bernocoluto, pastoso, di colore pavonazzo ; il medesimo si mortificò nelle parti più prominenti senza che aumentasse di volume, e dopo parecchi mesi la bambina morì di tabe. Il tumore si componeva di tre masse fornite d’involucri propri e facilmente separabili, le quali contenevano molte vescichette trasparenti di varia grandezza, piene d'umore albuminoso, che veniva coagulato coll’ acido acetico. Oss. 26° — Cacori Luci — Sopra un voluminoso lumore congenito esteso dalla pelvi ai piedi. Memorie dell'Istituto di Bologna. T. 9, p. 187. An. 1858. Feto femmineo, quadrimestre, giudicando dalle forme esteriori, la madre invece lo riteneva otti mestre. Esso presentava un voluminoso tumore che pendeva dallo stretto inferiore della piccola pelvi, ricoperto dalla pelle, sulla di cui faccia anteriore e superiore vedevasi la vulva e l’ano. Il tumore era abbastanza mobile nella sua origine, uniformemente molle ed elastico ad un tempo. Sezionato il feto l’autore riconobbe che il medesimo entro la pelvi raggiungeva il terzo superiore del sacro, senza aderirvi, così pure era sciolto dal retto e dalle altre parti che lo circondavano. La struttura del tumore si presentava lobata, ed ogni lobo era formato da strati concentrici, molli, omogenei, giallastri, compressibili, separanti umore. L'analisi microscopica dimostrò la presenza di globuli rossi del sangue, di fibrina coagulata, di molecole grassose, di cristalli di colesterina e di emato- ECC (0 0) freni globulina, per cui era da annoverarsi il tumore fra i fibrinosi di Velpeau, conseguenza d'uno stravaso accaduto a riprese entro la pelvi, per cui non si poteva confondere con altri originati o dalle natiche, o dal sacro (spina bifida), o dal pube. Oss. 27° — Homes F. — British Medical Journal, 23 March 1867. — Malad. chirurg. des enfants. Obs. VIII Una fanciulla di tre anni aveva un tumore grande quanto una testa di fanciullo alla natica destra. Esso non aveva peduncolo e sembrava penetrare nel foro sacro-ischiatico allargato. Nul- ladimeno la fanciulla fu operata e guarì. La dissezione del tumore dimostrò che questo era formato da una cisti, con pareti grosse, piena d’un liquido cremoso e contenente nel punto d’attacco alla pelvi, una grossa massa, la quale per la forma e per il volume offriva qualche somiglianza col cordone ombellicale e conte- neva molte cisti secondarie. L'operazione dimostrò che il tumore s’interponeva fra il retto ed il sacro e s’inseriva con un peduncolo nell’ultimo. Sebbene si denudasse per 4 pollici la parte posteriore del retto, tutta- volta accadde la guarigione. Oss. 28° — KuBNEMANN Vicror — En Fall von Sacralgeschwulst bei einem todtgeborenen wei- blichen Foetus. Inaugural Diss. Berlin. (Jahresbericht 1872. V. I, p. 285). Nella Policlinica ostetrica di Berlino, nacque un feto di sesso femminino, di 6 a 7 mesi, il quale aveva un tumore sacrale assai interessante, specialmente perchè potevasi ammettere la pos- sibilità che il medesimo avesse avuto origine dalla glandula cocigea del Luschka. La circonferenza del tumore nella linea mediana misurava 23 cent., nella direzione trasver- sale 28 cent. Esso non aveva comunicazione col canale spinale. La parte più grossa del tumore era soprapposta alla superficie anteriore dell’osso sacro, e questo rimaneva deviato in modo si- gnificante a destra e all’esterno. Il tumore poi si continuava in alto appoggiandosi alla colonna vertebrale fino al diaframma, in forma di un cordone; microscopicamente il medesimo offriva in generale una struttura sarcomatosa, in alcuni luoghi un tessuto fibroso molto sviluppato ; in altri il sarcoma presentava cellule rotonde pronunziatissime. Fibromi e cisto-fibromi senza tracce fetali. Oss. 29° — MELCHIORI GIOVANNI — Di un tumore congenito della pelvi. Gaz. Méd. Milano 1845, p. 50-51. Feto di sesso femminile nato a termine spontaneamente, il 24 Luglio 1843, da una donna. di 22 anni, primipara, che al quarto mese circa di gravidanza era caduta dall’altezza di 8 braccia sul suolo, riportando una commozione generale. Tale bambina alla nascita era bene sviluppata eccetto che presentava un tumore preternaturale alle natiche, elastico alla pressione e ridu- cibile in parte entro la pelvi. L'apertura anale mostravasi regolare e rialzata sulla parte ante- riore del tumore nella linea mediana. I tegumenti di quella regione erano sani come nel resto del corpo, e al di sotto di essi distinguevansi i confini del tumore, dati al di dietro e lateral mente dalle ossa dell’apertura della pelvi: il sacro finiva troncato, ed un ossicino isolato, posto trasversalmente, si sentiva aderente al tumore istesso. La placenta assai voluminosa si dovette estrarre dopo 5 ore in causa di metrorragia: il puerperio però fu regolarissimo. All’ autopsia della bambina, che morì dopo 23 giorni, in seguito a diarrea, si riscontrò che la pelvi era tutta occupata da un tumore saccato, di cui una parte usciva dalla sua apertura inferiore, formato da una cisti a doppia membrana: l’ esterna fibrosa compatta, l’interna sottile, sierosa, che vestiva tutto il cavo, il quale conteneva un umore limpido, sieroso ed una sostanza organizzata simile, secondo l’A., a fibrina. Il tumore suddetto era isolato e solo aderiva mediante tessuto cellulare all'estremità inferiore del sacro, senza avere rapporti, nè comunicazione collo speco vertebrale: il cocige, distaccato, aderiva al tumore medesimo. I ge Oss. 30° — Ginger — Journal v. Walther und Ammon, neu Folge 1847, Bd. VII, p. 56}. — Braune, Op. cit. p. 563. Un mercante dell'età di 20 anni aveva dalla nascita un tumore rotondo con una piccola base fra il processo spinoso della quinta vertebra lombare e la prima sacrale. Esso era coperto dalla cute, non mostrava alcuna fluttuazione, ed era resistente al tatto. L’ammalato soffriva inoltre d’una paralisi al muscolo acceleratore delle urine. L’escissione del tumore liberò il paziente anche dall’incommodo vescicale. Il tessuto del tumore era fibroso, conteneva due fili nervosi, ed era nutrito da una grossa arteria. Oss. 31° — Knopr — Deulsche Klinik 1853. N. 42 — in Braune, Op. cit. p. 62, Oss. 48. Una neonata aveva un tumore sacrale, il cui accrescimento ad un tratto divenne così ra- pido, che in breve giunse a livello dei ginocchi, s'infiammò, si ruppe e cadde in suppurazione. La fanciulla morì dell’ età di un anno e mezzo. Il tumore aveva spinto anteriormente l’ano e po- steriormente il cocige da risultarne la distanza di cinque pollici. Esso era formato da denso tes- suto fibroso, in cui giacevano diverse grosse cisti, di cui una era cresciuta nell’ escavazione retro uterina. Nell’interno vi erano focolai suppurativi. Niuna connessione col canal midollare. Oss. 32° — BaRrTscHER — Monatsschrift fir Geburtskunde 1861. Bd. XVII, 2, p. 121. — Braune, Op. cit. p. 59, Oss. 39. Nacque un fanciullo vigoroso con un. grosso tumore sacrale, il quale principiava dalla sin- condrosi sacro-iliaca destra, copriva le prime false vertebre dell’ osso sacro, fino sopra il Hiatus sacralis e s’ estendeva in basso sul cocige abbassando la regione anale e discendeva fino alla diafisi dei femori. Il tumore pesava sei once (peso vecchio), era ricoperto dalla pelle, da tessuto connettivo e da una membrana albuginea simile a quella del testicolo. Dall’ alto fino in basso si mostrava diviso da un tessuto fibroso, compatto, nel cui mezzo sì trovò una cisti, vestita da una membrana col- l’aspetto cartilagineo e contenente incirca due once di fluido sieroso torbido. Lo strato esterno della massa fibrosa era irregolare, e l’ interno aveva una disposizione concentrica, il cui centro formava una piccola cisti, e ciaschedun nodo aveva ancora la durezza e l’aspetto cartilagineo, da simulare un condroma, dove che si trattava soltanto di masse fibrose. Oss. 33° — SancaLLi Giacomo Prof. a Pavia — La scienza e la pratica dell’ Anatomia patologica, p. 158, Oss. 100. Milano 1876, con Fig. Una bambina di 25 giorni, nata nel 1876, aveva nella regione sacrale un grossissimo tumore lungo 44 cent., che era sede di movimenti spontanei ed istantanei, simili ad un guizzo. Questo tumore mediante un solco longitudinale era diviso in due grandi lobi, non perfettamente eguali: il sinistro era molle, apparentemente fluttuante, liscio alla superficie cutanea; il destro per la più parte duro e nodoso alla superficie. Il tumore si esulcerò nella parte superiore, e per il foro stillava un umore mucoso, filamentoso. La bambina dopo tre mesi fu presa da vomito e diarrea, e questa l’esaurì di forze, (ciò che fu accompagnato dalla diminuzione in intensità dei movimenti del tumore), e poscia la tolse di vita dopo 109 giorni dalla nascita. Coll’esame anatomico si trovò nel lobo sinistro del tumore cisti di varia grandezza, contenenti umore colloide, annidate nel tessuto connettivo lasso; nel lobo destro si trovò connettivo a diversi stadi di sviluppo, fino ad apparire sotto forma di nodi simili ai fibrosi dell’utero ; eravi in oltre del grasso, e numerosi lacerti muscolari alquanto lunghi che penetravano nel tessuto adiposo e con- nettivo, i quali probabilmente si trovavano anche nel lobo sinistro. La massa del tumore, mediante un colletto del proprio tessuto, aderiva al cocige. La colonna vertebrale era perfetta. Non fu esaminato se fasci muscolari si riscontrassero anche sotto la cute del tumore. Oss. 34° — IpeM — Idem, p. 159, Oss. 101. = go = Moriva un bambino dopo 24 giorni di vita, il quale aveva un tumore voluminoso, lobulare, che aderiva alle vertebre lombari, per un breve colletto della circonferenza di 13 cent. Questo tumore era ricoperto dalla cute e tagliato perpendicolarmente, presentava un tessuto rossigno variegato disposto a maglie e ad areole, simili a quelle d'una spugna ordinaria, contenenti siero. Il tessuto aderiva (l’autore dice, fraeva origine) alla dura madre ed all’apparato legamentoso corri- spondente alle vertebre lombari, a cui mancava la porzione anulare. La dura madre nel limite del tumore non offriva che un lieve grado d’iniezione e d’ ingrossamento. Nella pia madre, nella coda equina e nei nervi spinali non eravi alcuna alterazione. Il tessuto rossigno era formato da tessuto connettivo disposto a fasci flessuosi e lunghi. Oss. 35° — ScareIsER — Deutsche Zeitschr. fir Chir. Bd. XI, p. 344, 1879. — Revue des Sc. med. Tom. XVI, p. 58. Giugno 1880. Un fanciullo di mesi 21 aveva un tumore che s’estendeva dalla regione lombare all’ano, il quale al momento della nascita aveva il volume d’un ovo. La pelle che lo ricopriva, in un punto era affetta da elefantiasi. Durante l’ estirpazione si trovò un voluminoso peduncolo, con cui il tumore aderiva al sacro, il quale fu tagliato senza poter scuoprire se comunicava col canale rachidiano. Il tumore era formato da tessuto fibroso, di consistenza più o meno compatta, e da una cisti sie- rosa del volume d’un ovo. Il fanciullo morì rapidamente, e non venne praticata l’ autopsia. NOTA IV Osservazioni, in cui la descrizione anatomica è insufficiente per stabilire la natura del tumore. Oss. 1° — SLEvoGr in Osiander F. B. — Grundriss der Entbindungskunst — Gottingen 1802, Thubail} 800757. Oss. 2° — CorNELIANI CarLo, chirurgo nell’ Ospedale di Novi — Annal. univ. dî Med. Tom. XXI, p. 313. Oss. I., Milano 1822. Oss. 3° — VannonI PIETRO, Clinico a Firenze — Gazz. med. toscana. Firenze 1851, p. 220. Oss. 4° — DE ReNsIS E Ciccone — Zrstituzioni chirurgiche. Napoli (edizione 3°) 1853. Vol VI, p. 288. Nota. Oss. 5° — SNELL Nassausche jahrbucher 1853, p. 244. — Braune, Op. cit. p. 57. Oss. 33. Oss. 6° — ScHuH FR. — Pathologie der Pseudo-plasmen. — Wien 1854 — Braune, Op. cit. p. 62. Oss. 47. 0)ss. 7° — PanraLeo M., Prof. a Palermo — Rendiconto della Clinica ostetrica redatto da Ma- rio Piazza — Palermo 1856, p. 30. Oss. 8° — ATHOL JOHNSON — Transact. of the pathol. Society of London 1857, Vol. VIII, p. 16. ligne Oss. 9° — WerTtHEM — Monatsschr. fiir Geburtskunde I857. Bd. IX, p. 127. — Braune, Op. cit. p. 69, Oss. 54. Oss. 10° — ELsisser — Weirttemberg Correspondeneblatt 1858. Bd. 28, N.I — Braune, Op. cit. p. 60, Oss. 41. Oss. 11° — Brirter — Zettschrift fiir Wunddarete 1860, p. 250 — Braune, Op. cit. p. 61, Oss. 46. Oss. 12° — DePAUL E RoBIN — Gaz. med. de Paris 1865, p. 687. Oss. 13° — PanraLeo — Rendiconto ecc. — Palermo 1874, p. 80. Oss. 14° — MauranER — Arch. fur physiol. Heilkunde Bd. XI, p. 141. — Braune, Op. cit. p. 61, Oss. 44. 3 BrAUNE aggiunge altri 5 casi (Op. cit. p. 8, Oss. 91-95) in cui rimane il dubbio, se si tratti di tumori congeniti od acquisiti. NOTA V Teratoma contrattile. AHnLFELD F. — Ein Zweite Schliewener Kind, cin neuer Fall von unabhcingigen Bewegungen in cinem angeborenen Sacraltumor. Archiv. fiir Gynàkol. Bd VIII, I875. Una bambina nacque a termine, colla posizione della testa ben sviluppata, da una madre che aveva già partorito tre figli sani. All’estremità del cocige di questa neonata si trova un tumore bilobato. La parte superiore della grandezza di un mezzo ovo di pollo, ricoperta dalla cute nor- male, sembra contenere solamente del liquido. La parte inferiore divisa dalla superiore per un leggiero solco, ha la cute di colore rosso ed è fornita di lanugine molto sviluppata. Essa presenta una forma irregolarmente bernocoluta, e risulta formata in parte da tessuto compatto, in parte da cavità cistiche, in cui non si possono scoprire forme determinate, appartenenti ad un secondo feto. Questo secondo tumore ha sede al perineo, e si congiunge col cocige mediante due cordoni posti l’uno vicino all’ altro. Un centimetro e mezzo al disotto dell’ ano si trova una piccola pro- minenza acuminata, intensamente arrossata, facilmente compressibile, che può essere respinta al- l’interno per un piccolo e sodo anello. All’intorno di questa rilevatezza si trovano lunghi peli, in grande abbondanza. Ventitrè giorni dopo il parto Ahlfeld ha misurato i due tumori. L’estre- mità inferiore del tumore è lontana dal punto più elevato dell’ inserzione 14,8 cent.; la circonfe- renza trasversale del tumore inferiore 21,5 cent.; la massima circonferenza del tumore intero 33 cent. Il tumore in questi 23 giorni è aumentato di volume e gli spazi cistici si sono fatti tesi, e più specialmente il tumore superiore; in cui si percepiscono movimenti manifesti, che provengono dal solco e cioè da un punto non lontano dall’ inserzione del tumore inferiore al cocige. Questi movimenti si ripetono ora regolarmente ora no; frequentemente si avvertono scosse ritmiche, le quali si continuano per lo più in forma di ondulazioni nella superficie del tumore, specialmente dell’ infe- riore. Nel tumore superiore il movimento sembra solamente continuato, mentre nell’inferiore alle volte i movimenti si effettuano ancora in un altro luogo all'infuori di quello superiormente detto. I movimenti non sono in nessun rapporto colla respirazione e la contrazione cardiaca. Il tumore non 2 er pare abbia alcun rapporto col canale del midollo spinale. L'esame rettale fa sentire la superficie interna del sacro libera. La connessione intima del tumore col feto sembra effettuarsi al cocige. Nella placenta la vescichetta ombellicale è straordinariamente piccola, completamente rotonda, a cui si attacca soltanto un filo del dotto onfalo-enterico lungo circa un cent. Il diametro della vescichetta ombellicale è 1,5 mill. La bambina morì dell’età di due anni e mezzo (1877) per difterite. Alcune settimane avanti i movimenti principiarono a rallentarsi, da non essere riconoscibili che ad un occhio esercitato. La sezione dimostrò l’esistenza di fasci muscolari striati trasversalmente, situati sotto ed entro il tessuto grassoso sotto-cutaneo. Eccetto una porzione intestinale non si trovò alcun altro organo fetale con forme determinate. i La descrizione completa del tumore si trova nell’Archiv. fiir Gyndkologie. Bd. XII, s. 473. NOTA VI Teratomi in rapporto col canal vertebrale. Oss. 1° — Quaprar — Oesterr. med. Wochenschrift 1841. N. 26, p. 601. Fanciulla con tumore sacrale, diviso in due parti; aveva la grandezza di due noci, era ber- noculuto, duro, ricoperto dalla pelle, non cresceva mediante le grida della fanciulla. Questa prin- cipiò a farsi inquieta, ad avere il singulto, e nella quinta settimana morì sotto una convulsione. L’autopsia mostrò che il tumore era costituito da cisti e da masse glandolari formate da pro- lungamenti della dura madre. Non eravi spina bifida. Oss. 2° — LorzBEcx — Die angebornen Geschwiilste etc. Minchen 1858, p. 18. Una bambina di 12 anni, aveva congenita una piccola gonfiezza nella regione sacrale, la quale andava crescendo senza disturbare le funzion’, ed aveva raggiunta la grossezza d’una mela. Me- diante l’operazione si vide che il tumore si era iormato in un solco, che penetrava nel canal spinale mancando gli archi vertebrali, per cui fu tolto parzialmente. L’ emorragia fu piccola. Dopo 10 giorni la fanciulla morì di convulsioni. La sezione mostrò una fessura negli archi sacrali ed in quella dell’ ultima vertebra lombare. Sulla dura madre giacevano aderenti i resti del tumore. La midolla era normale, come pure la superficie interna della dura madre. Il tumore presentava in alto grado 1 caratteri del tessuto conettivo reticolato, nei cui spazî giacevano masse connettive molli, senza forma. Oss. 3° — MippELDORPF — Comunicazione fatta a Braune. Op. cit. p. 46, Oss. 8. Fanciulla di 8 mesi con un tumore sacrale a larga base, grosso come un pugno, lipomatoso. Niun fenomeno alla pressione. Fu ammessa la possibilità d’ una spina bifida sottoposta, per cui fu tolto cautamente con un coltello l'abbondante grasso, poscia fu aperta una cisti sierosa. Nella profondità però era sensibile la fluttuazione. L'operazione fu compiuta senza aprire il canal spi- nale. La morte avvenne in seguito a meningite spinale, dopo due giorni. Oss. 4° — HEINEKEN — Hmcy, Geschichte des foetus in foetu. Hannover 1831, s. 77. Una fanciulla nata in Brema nel 1809 aveva un tumore sacrale simile ad uno scroto, flut- tuante, che cresceva rapidamente. Inciso escì un fluido ricco d’albumina, e più corpi analoghi ai testicoli. Dopo due giorni la fanciulla morì di convulsioni. L’autopsia rinvenne nel tumore una cisti formata da un processo della dura madre uscito dal Hiatus, mentre non eravi spina bifida, TOMO II, 13 NEI (1) >) ppt e nei corpi simili ai testicoli, sostanza sarcomatosa. Il tumore era inoltre in rapporto con una cisti situata nella piccola pelvi sotto la divisione dell’ aorta. Oss. 5° — BraunE — Op. cit. p. 41, Oss. 1. Preparato del Museo di Meckel in Halle. Un fanciullo maturo bene sviluppato, ha all’ estremità del tronco un tumore ovale, con un peduncolo fibroso, largo un cent., che si inserisce all’ ultima vertebra sacrale, ove sì continua col periostio, contiene il cocige cartilagineo, e discende per formare lo strato fibroso sotto-cutaneo del tumore. Nel centro del quale si trova una cavità irregolare capace di contenere un mezzo ovo, formata da una membrana liscia internamente, la quale si continua in alto direttamente nella dura madre dello speco vertebrale, passando di dietro al cocige e penetrando per il Hiatus sacralis, senza che vi sia spina bifida. La midolla spinale discende nella cavità centrale coi suoi fili terminali. Il tumore è formato da tessuto connettivo ricco di nuclei, traversato da membrane fibrose, che sono in connessione col sacco centrale. Spremendolo esce fra i setti una pulte granosa, conte- nente molto grasso e piccole cellette. Oss. 6. — IDEM — Op. cit. p. 43, Oss. 3. Preparato della Collezione anatomica di Berlino. Una femmina settimestre, con tumore sacrale cisto-sarcomatoso periforme, all’ autopsia mostrò il sacro involto dal peduncolo, e nel mezzo del tumore un sacco fibroso formato dall’ernia della dura madre spinale, da cui partivano sepimenti fibrosi contenenti molteplici cisti. Il peduncolo canaliforme si continuava colla dura madre spinale e conteneva fili della midolla spinale. Gli archi vertebrali del sacro erano aperti posteriormente. Oss. 7° — N. N. — Jahrbucher fir Kinderkeilkunde. Wien 1859. Bd. II. Un feto di 10 mesi venne al mondo con un ascesso grande come un tallero sul sacro, sotto al quale eravi una tumefazione e da un lato un tumore grassoso. L’ascesso guarì tosto, il tu- more crebbe, e più tardi si suscitarono movimenti convulsivi nell’estremità destra. Fu fatta una incisione nel tumore e comparvero masse grassose, tolte le quali, e levata una specie di capsula, si mostrò un’ apertura che conduceva nel canal sacrale, per la quale potè l’ anonimo introdurre un dito e sentire una sostanza molle, che giudicò in connessione colle meningi, poichè era spinta fuori dagli urli del fanciullo. Accadde la guarigione di prima intenzione e le convulsioni svanirono. Oss. 8° — BRAUNE — Op. cit. p. 42, Oss. 2. Preparato della Collezione anatomica nell’ Accademia di Dresda. Fanciulla che aveva un tumore sacrale grande come la testa, formato da un cisto-sarcoma, di cui alcune cisti contenevano vegetazioni papillari. Gli ultimi archi sacrali mancavano, i superiori cerano sottili ed il primo cartilagineo; per tale apertura penetrava (l’autore dice sporgeva in basso) un zaffo sarcomatoso nel canal spinale dilatato, e si estendeva in alto per cent. 4 %, finendo a clava. Questo zaffo comprimeva dal lato anteriore la midolla, dal posteriore la dura madre, la quale in basso si vedeva tagliata. Oss. 9. — ScHaREIBER — Deutsche Zeitschr. fiir Chir. BA. XI, p. 344, 1879 — Revue des Sc. med. ‘tom. XVI, p. 59, 1880. Fanciullo di 10 mesi con un tumore grande come la testa di un feto, che copriva la metà si- nistra del sacro e la natica del medesimo lato. Al di sotto ed al di fuori eravi un altro piccolo iumore d’apparenza mucosa, peduncolato, irregolarmente bernocoluto, in cui un condotto fistoloso dava uscita a del pus. Fu esciso e si trovò formato da tessuto fibroso reticolato, invaso da grasso; nella sua superficie interna vi erano papille e glandole molto sviluppate con epitelio cilindrico. Più tardi fu tentata l’estirpazione anche del gran tumore, ma sopravvenne una abbondante emor- ragia, che obbligò a legare in massa il peduncolo ed a tagliare sotto la legatura. Questo tumore era costituito da un sacco idrorachitico, di cui la parete interna non aveva che pochi fili nervosi. S’incontrò ancora una seconda cisti che sembrava derivare dall’ ischio e che fu parimenti levata, le di cui pareti erano semplicemente fibrose. All’autopsia si riconobbe che la cresta del sacro era divisa a destra, di cui mancava la metà sinistra della faccia posteriore, la quale era sostituita da grasso. in mezzo al quale si trovava il peduncolo del sacco che penetrava nel canale rachi- diano. ———>c>ct>©=————- Rici i MemSer 4° Tom Il | CRT i A.Baraldini dis° (Bettin. dis’ in pietra Lit.G-Wenk SULLE SCARICHE INTERNE CONDENSATORI ELETTRICI RICERCHE del Prof. EMILIO VILLARI (IV. MEMORIA) (Letta nella Sessione dell’ 11 Novembre 1880) Quando (1) una batteria di bottiglie di Leyda fortemente carica, sì scarichi per mezzo di uno dei miei termometri eccitatori, in modo che la scintilla eccitatrice unica si formi nel suo interno e faccia così sentire poco strepito, riesce cosa assai facile di avvertire un rumore sordo, e come un fonfo, prodursi nella batteria. E se si fanno le osservazioni nel buio, le bottiglie ai bordi delle loro armature si vedranno, nell’ istante della scarica, vivamente illuminate da sprazzi di luce violacea, fitti ed arborescenti, che si distendono sul lembo verniciato del vetro. Codesti fenomeni crescono in modo assai rapido col crescere delle cariche dei condensatori adoperati. Dall’altro canto se si studia il calore svolto dalla scintilla eccitatrice si scorge, che esso cresce rapidissimamente con le cariche fino ad un certo limite, coincidente presso a poco col manifestarsi del tonfo, e poscia cresce assai più lentamente (2): sul quale limite, forse ha molta influenza la natura delle bottiglie, come dirò in una prossima occasione. Questi ed altri fatti consimili, da me più volte notati, mi fecero credere che scaricando un condensatore fortemente carico dovesse, oltre la scarica ordinaria, (1) Di parte di questo lavoro fu dato un cenno in una Nota inserita nei R-C del R. I. Lom- bardo, 29 Luglio 1880. (2) In una breve Nota « Villari, Rendiconto d. A. d. S. di Bologna, Pag. 143 (1879-80) » io ho detto che il colore svolto dalla scintilla eccitatrice d’un condensatore è proporzionale, in media, al quadrato delle cariche, nei limiti delle mie esperienze. Nel lavoro completo, che pubbli- cherò fra poco, su questo soggetto tratterò estesamente una tale quistione ed indicherò esatta- mente i limiti nei quali detta legge si riscontra. — 102 -- generarsene una nello stesso condensatore, con produzione non solo di luce ma eziandio di colore. Per verificare tale supposizione costruii una specie di gros- so termometro a gasse TT" (Fig. I.) formato da un’ampia canna di vetro contenente una bottiglia di Leyda 8, lunga 50 em. larga 10 cm.; ricoperta per due terzi di stagnola ed il resto accuratamente rivestito di vernice a gomma- lacca e spirito. Le aperture della canna son chiuse da ghiere di ottone stuccate diligentemente con mastice, così da tener l’aria. La inferiore delle quali 7"' (1) (stando la canna verticale) sostiene la bottiglia, appoggia sopra un panchetto iso- lante PP ed è unita ad una bottiglia elettrometrica E, che serve a misurare le cariche comunicate alla bottiglia del termometro. La ghiera superiore 7° porta nel centro saldato un lungo tubo di ottone #, che con lun dei capi penetra nella bottiglia e con tre forti molle d’ottone ad esso saldato preme e comunica con l’armatura interna di quella. Il capo esterno e superiore # è unito, con un tubo di gomma # ad un cannello di vetro #v; immerso con l’ estremità libera nel vaso di vetro v contenente alcool, del quale una lunga colonna penetra nel cannello, e coi suoi movimenti manifesta le variazioni di volume dell’ aria contenuta nel termometro a gasse. I movimenti dell’ indice si osservano, ad occhio nudo se estesi, e se piccoli sì guardano con un cannocchiale: ed essi si misurano su di una scala divisa in millimetri ed addossata al cannello. Finalmente allo stesso tubo # è sal- data l asta di rame ww' terminata a palline, che serve a caricare e scaricare facil- mente la bottiglia. Con codesto apparecchio eseguii alcune misure nel modo seguente. Caricavo fortemente con una macchina Holtz la bottiglia 5, poscia la scaricavo con l’ ecci- tatore ee' ed osservavo col cannocchiale 1’ indice nel cannello #’v; il quale indice nel momento della scarica s° abbassava, dinotando una dilatazione dell’ aria nel termo- metro, che pareva generata da riscaldamento. Temendo però che un simile effetto potesse esser prodotto da scintille scattanti fra le armature della bottiglia e le altre parti metalliche con cui quelle erano in contatto, cercai di impedire assolutamente la formazione di tali supposte scintille nell'interno del termometro. Per la qual cosa masticiai da prima la bottiglia B all’ orlo interiore 7°" della canna, così che l’ar- matura esterna della bottiglia rimaneva in parte fuori della canna, ed appoggiava direttamente sul piatto metallico 7) il quale comunicava poi con la bottiglia elettro- metrica E. Ad evitar poi le scintille che scattar petessero fra il conduttore Bt e l armatura interna, forzai energicamente le tre molle d’ ottone, unite al detto conduttore e le facevo con gran forza premere contro l armatura: in alcuni casi inoltre, come dirò più ampiamente in seguito, riempivo per due terzi la botti- glia di mercurio, il quale faceva d’ armatura interna, ed immergevo in esso un tubo di rame amalgamato che serviva da asticella della bottiglia. La scarica ester- (1) In questa prima disposizione dell’ apparecchio la ghiera 7" formava il fondo del termo- metro, nell’ interno del quale era contenuta la bottiglia B: in segnito l’ apparato fu modificato nel modo indicato nella figura 1. — 103 — na sì eccitava per mezzo dello scaricatore ee’, adoperandolo nel modo indicato nella figura. Con l'apparato così modificato ripetei le esperienze dette di sopra ed i risul- tati furono affatto simili a quelli già indicati. E qui, per mostrare l andamento del fenomeno, trascrivo nello specchio seguente i risultati di alcune esperienze eseguite con la bottiglia ad armature di stagnola: (1) ed essi sono le medie di 5 o più misure fatte per ciascuna condizione di esperienza. TABELLA I SPOSTAMENTO DELL’ INDICE CARICHE Istantaneo Residuo MEDIE DI (6) (0) 1 0,0 0,0 0,0 | 2 incerto 0,0 0,0 6) 0,5 0,0 0,45 1 1,6 0,35 1,50 5 3,9 1,0 circa 185) 5) 3,1 (1) 0,8 circa 4 1,4 0,2 >» 9 0,4 0,0 2 incerto 0,0 1 0,0 0,0 (1) Questa seconda serie fu eseguita dopo avere introdotto nel cannello termometrico una colonna d’alcool circa tripla di quella adoperata nel caso precedente e perciò gli spostamenti prodotti furono più piccoli. La tabella precedente è disposta in modo che si comprende facilmente; ed i numeri trascritti indicano, che al momento della scarica 1 aria del termometro su- bisce una dilatazione, per cui l’ indice di esso si abbassa : la quale impercettibile per le piccole cariche, cresce rapidamente col crescere di queste. Si scorge inoltre che detta dilatazione rapidamente sparisce, e qualche volta una parte o residua (co- lonna III) si dilegua lentamente. Coteste dilatazioni sembrano essere prodotte dal calore svolto nella bottiglia, e generato da quelle scintille che si veggono nel buio a mo’ di arborescenze guizzare dai bordi liberi delle armature e correr su per le superficie verniciate del vetro. Le quali scintille riscaldando, forse, l aria ed il vetro son la cagione che parte della dilatazione sparisce rapidamente e parte lentamente: e concordamente alle dilatazioni, esse sono brevi, esili e poco luminose quando la carica della bottiglia è piccola; e crescono poi in modo regolare e rapidissimo al (1) Le esperienze fatte con la bottiglia ad armatura interna di mercurio, saranno esposte in seguito ed a parte; perciò le ricerche si intendono eseguite con le bottiglie ad armature di sta- snole quando non sia specificato che s’ adoperò quella a mercurio. — 104 — crescere delle cariche, mostrando così che la scarica interna cresce col crescer di quelle. (1) Queste osservazioni parmi dimostrino chiaro, come già avevo supposto, che scaricando una bottiglia in opportune condizioni, oltre la scarica ordinaria se ne produca un’altra nel suo interno; per distinguere le quali chiamerò scarica esterna la prima e scarica interna la seconda. Dopo ciò provai diversi modi a fine di aumentare la scarica interna; e la maniera più facile per raggiungere questo scopo si fu quella di sperimentare, come si è detto, con cariche a potenziali molto elevati: nel qual caso la scarica interna s' accresce, e come è naturale, a detrimento del calore svolto della esterna. Ed invero, oltre il fatto accennato in principio di questo scritto, aggiungerò ancora come in al- cuni casì studiati da me, il calore svolto dalla scintilla eccitatrice esterna cresce assai più rapidamente del potenziale d’ una carica costante; però appena cominciano vigorose le scariche interne l'aumento termico ha luogo presso a poco in proporzione del semplice potenziale. Da tutto ciò si comprende di leggieri che a voler stabilire le leggi delle scariche esterne bisogna sperimentare con bottiglie bene isolanti e debol- mente caricate; perchè solo in tal caso, come si rileva dallo specchio I, la scarica interna è trascurabile. (2) Una seconda maniera per aumentare la scarica interna mi venne suggerita dall’ influenza grande, che ha la forma dell’ eccitatore sulla produzione della scin- tilla. A me, e forse a molti altri fisici ancora, è occorso di notare che quando si scarica una batteria, avvicinando la palla dell’ eccitatore a quella della batteria, sì produce una scintilla poco rumorosa; ed invece essa riesce assai più energica e più lunga se la pallina dell’ eccitatore s' avvicina ad un’ asticella, o meglio ad un filo unito all’ armatura interna. Oltre di che ho sempre notato, nelle mie espe- rienze termiche, che quando la scintilla scatta fra palline di 10 o 12" il calore che produce è molto minore di quello che genera la scintilla che scatta fra punte. Questi fatti mi fecero supporre che analoga influenza dovesse avere la forma degli (i) Il Siemens W. (Fortschritte der Physik B. 20 s. 442) ha osservato con 180 termoelementi, di ferro ed argentana, masticiati fra due lastre di vetro formanti condensatore, che il galvano- metro a specchio a quelle riunito mostrava una corrente corrispondente al loro riscaldamento, quando il condensatore si caricava e scaricava più volte di seguito: e la deviazione cessava sol- tanto dopo più ore. Le mie esperienze si riferiscono a fenomeni d’ una natura affatto diversa: essi si manifestano solo al momento delle scariche, e sono prodotti da quella parte della bottiglia prossima ai bordi delle sue ‘armature. Ed invero cotai fenomeni si osservarono ancora e presso a poco con eguale intensità adoperando una bottiglia la cui armatura esterna era pressochè tutta fuori del termometro, e l’ interna ne era separata da un disco di sughero, posto ad un centimetro o due sotto il bordo superiore dell’armatura interna medesima, e masticiatovi diligentemente così da tenere l’aria. Credo però, che anche le dilatazioni termometriche osservate da me sieno prodotte da riscaldamento; e perciò nel corso di questo scritto parlerò indistintamente di calore o di dila- tazioni termometriche. (2) Questa quistione ed un’altra ancora relativa alla natura delle bottiglie sarà trattata con maggiore ampiezza in una mia Memoria di prossima pubblicazione. — 105 — elettrodi sul valore della scarica interna; e perciò provai a scaricare la bottiglia B ora avvicinando alla pallina n la e' dell’eccitatore, ed ora invece avvicinandovi l estremo e' terminato a punta; e le varie misure eseguite in condizioni perfetta- mente eguali mi mostrarono sempre, che nel primo modo si verifica una scarica interna circa doppia di quella che ha luogo nella seconda maniera. Fra i molti valori ottenuti do i seguenti che confermano quanto ho detto; ed essi sono i ri- sultati medi di 5 o 6 misure per ciascun caso. TABELLA II i CARICHE CALORE SCARICA ESTERNA | Messo in evidenza questa influenza speciale delle palline, di aumentare cioè la scarica interna, volli osservare se la si poteva accrescere viemaggiormente facendo alla scarica esterna produrre due scintille, entrambi fra palline. Perciò riunii l arma- tura interna della bottiglia ad una delle palline dello spinterometro, grosse 15,5 e quindi avvicinavo l’eccitatore comunicante con l'armatura esterna all'altra pallina dello spinterometro stesso: e così si producevano due scintille esterne. In tal modo operando, e variando anche la lunghezza della scintilla nello spinterometro fra 3' e 6"”", ottenni con tre cariche impartite alla bottiglia i seguenti dati medi di 5 o 6 misure ciascuno. 1,4 Fra pallina e punta DUI » due palline 1,2 » pallina e punta 2,3 » due palline uao o NIDI Lunghezza della scintilla Calore nello spinterometro delia scarica interna I numeri dello specchio precedente mostrano che l'influenza delle due scintille esterna, ad aumentare la scarica interna, è piccola ed anche non del tutto sicura: perciò io mi limitai, per semplicità, nello studiare le scariche interne, di far pro- durre una sola scintilla alla scarica esterna. Intorno alle dimensioni delle palline, dirò che avendo sperimentato con la pal- TOMO II. 14 — 106 — lina della bottiglia di 16"" e con quella dell’ eccitatore, la quale fu successiva- mente di 19 e di 24”", ho osservato che era maggiore la scarica interna quando si adoperò la pallina di 24"". Quindi ho unita alla bottiglia una pallina di 52"®, ed all’eccitatore una di 62"", ed avendo fra esse prodotto la scarica ho ottenuto dei risultati poco o punto diversi dai precedenti. Laonde pare che sia utile ado- perare palline non molto piccole, per accrescere la scarica interna; ed essere poi inutile lo adoperarne delle molto grandi. Questi confronti furono fatti con una bottiglia ad armatura interna di mercurio, la quale era più bassa dell’ esterna dio Raggi? Circa alla forma della punta, dirò che è bene che essa sia acuminata ed allungata, giacchè avendo sperimentato con una bottiglia ad armatura di stagnola, (in cui 1’ in- terna era 5 o 6 cm. più alta dell’ esterna), trovai che la differenza della scarica inter- na era assai piccola tanto se si scaricava la bottiglia fra due palline di 16!" e 19", quanto se la si scaricava fra una palline di 16"® e la punta dell’eccitatore, la quale era a cono assai ottuso, delle dimensioni e forme della fig. 2. La diversa intensità della scarica interna pel variare della forma degli elettrodi, oltre all’ essere dimostrata dal calore, viene altresì resa manifesta dai fenomeni lu- minosi, che si scorgono nelle bottiglie all'istante della loro scarica. Infatti tanto io che il mio assistente, ing. Bracchi, abbiamo osservato che le scintille, le quali guizzano dai bordi delle armature sono sensibilmente più lunghe e vigorose quando la scarica esterna si produce fra palline, che quando ha luogo fra una pallina ed una punta. Ed a me parve, che nel primo caso le scintille interne fossero di lun- ghezza circa doppia che nel secondo. Questi ed altri fatti ancora, che verrò esponendo, parmi mostrino che la bot- tiglia nel momento della scarica non può considerarsi del tutto come inerte e pas- siva, ed invece essa mostra una certa somiglianza con la pila; essendochè in questa come in quella l energia elettrica, al momento della scarica o produzione della corrente, si manifesta parte nell’ elettromotore, bottiglia o pila, e parte nel circuito esterno o congiuntivo. E la partizione della scarica fra l'interno e l'esterno della bottiglia od elettromotore dipende, sia dalla sua natura, sia da quella del circuito esteriore; imperocchè variando (come si è visto) la forma degli elettrodi e variando (come si vedrà) la natura del circuito e la condizione delle bottiglie, varia altresì il rapporto fra l'energia delle due scariche interna ed esterna: laonde io feci ancora diversi tentativi per accrescere il valore delle scariche interne. Ed in prima sperimentai con due bottiglie scintillanti (le cui armature esterne erano fatte con quadratini di stagnola di circa 2 cm. di lato e posti a qualche millimetro di distanza fra loro) le quali disposte nei consueti termometri, mostra- rono i soliti fenomeni delle scariche interne. Con una di esse il riscaldamento parve più cospicuo del consueto, giacchè si produssero le seguenti dilatazioni: — 107 — CARICHE CALORE 5 3,8 media di 5 misure. 5) 6 la bottiglia si perforò internamente al termometro. Queste esperienze non poterono essere ripetute essendosi rotta la bottiglia. La seconda bottiglia resistette meglio alle prove, essendomi limitato a 4 cariche solamente, e così potei fare un confronto più esatto fra la bottiglia scintillante e la stessa bottiglia rivestita di nuovo esternamente con una stagnola continua e non interrotta. I dati seguenti sono le medie di più misure eseguite con questa bottiglia preparata nei due modi indicati. TABELLA III CALORE NELLA BOTTIGLIA Ii CARICHE Scintillante Non Scintillante Questi numeri mostrano una lieve diversità fra le scariche interne delle due bottiglie, ma non una vera e cospicua prevalenza del calore svolto dalla bottiglia scintillante su quella ordinaria, come sar:bbesi per avventura potuto supporre. E la interpretazione di questo fatto, in apparenza singolare, ricavasi dalle apparenze luminose che si osservano nelle due bottiglie. Così, tanto io che il mio assistente abbiamo osservato, che mentre in una bottiglia ordinaria, caricata con 3 unità elettrometriche, le scintille ai bordi liberi delle armature erano di 2 a 3 centime- tri di lunghezza , grosse e vivaci: e quelle d’ una bottiglia scintillante, per carica eguale, erano appena di circa 1 cm. di lunghezza, pallide, esili e quasi come capelli (secondo P espressione del mio assistente). Laonde può dirsi che se il calore delle molte scintille, che al momento della scarica si producono nell’ armatura interrotta d'una bottiglia scintillante, non è maggiore di quello che si svolge in una bot- tiglia ordinaria, ciò è dovuto alla sensibilissima diminuzione che soffrono nella loro estensione le scintille sui bordi superiori e liberi di quelle. Talmentechè può dirsi, che le scintille nelle interruzioni dell'armatura son prodotte a scapito di quelle che nascono ai bordi liberi di essa. Dato adunque una determinata carica, un certo circuito ed una data natura di bottiglia, non si riesce ad accrescerne la scarica in- terna con l’accrescere il numero delle scintille, imperocchè con esso pare che decresca il loro vigore. -— 108 — Le esperienze riportate in principio della Pag. 107 mostrano inoltre un fenomeno importante. Da esse si rileva come il calore interno che era inferiore a 4°, divenne 6° al momento che la bottiglia, nell’ istante della scarica, fu perforata in un punto che trovavasi internamente al termometro. Il quale aumento di calore, io credo debba attribuirsi a ciò, che col perforamento della bottiglia gran parte della scarica ha luogo attraverso il foro in essa prodotto. Tale spiegazione viene convalidata dal fatto che un’altra bottiglia, che produceva con la scarica interna 4° a 5° di calore nel caso ordinario, ne produsse soli 2 al momento che si*perforò in un punto fuori del ter- mometro. I quali fenomeni hanno analogia con altri ancora studiati da me e che esporrò più tardi. Un secondo tentativo per accrescere la scarica interna lo feci, variando l’ am- piezza dell’ armatura interna delle bottiglie, affine di aumentare possibilmente sulle loro pareti la lunghezza delle scintille (1). Perciò eseguii le misure con due bot- tiglie ad armature esterne eguali: in una però l’ armatura interna si estendeva ad eguale altezza della esterna ed in un’ altra per oltre 7 cm. di più. Queste bottiglie apparecchiate al modo consueto dettero i seguenti risultati medi di più misure : TABELLA IV BOTTIGLIA AD ARMATURE EGUALI DISUGUALI CARICHE Calore Calore I valori precedenti relativi al riscaldamento interno delle due bottiglie mo- strano evidentemente che il calore in entrambi generato, per determinate quantità di elettricità, è indipendente dall’ ampiezza delle armature, salvo piccola differenza. Queste misure però essendo state eseguite con bottiglie e termometri diversi non mi parvero meritevoli di piena fiducia ed atte a risolvere la quistione. Per la qual cosa volli più accuratamente e completamente riprovare codesta influenza: e perciò sperimentai con una sola bottiglia di vetro verde sottile, e che conservava bene le cariche. Essa esternamente, per due terzi, era coperta di stagnola, e fu successivamente rivestita internamente con stagnola avente diverse altezze: il che facilmente potei praticare, avendo alla canna termometrica T7"' masticiato in 7° (1) Quì è bene ricordare come l'illustre Prof. Rossetti ottenne delle lunghe scintille scari- cando un condensatore incompleto, fatto d’una lastra di vetro ricoperto su una sola sua faccia di stagnola, l’altra essendo naturalmente rivestita più o meno d’umidità. Veggasi la Memoria sulla forma di queste scintille nel Nuovo Cimento. Vol. VII ed VIII, Pag. 33 (1872). — 109 — una ghiera d’ottone a vite, la quale s° apriva agevolmente e permetteva di modi- ficare variamente l'armatura interna della bottiglia. I risultati medi di 5 o più misure sono i seguenti : TABELLA V CARICHE CALORE ALTEZZA DELLE ARMATURE 4 1,06 Armatura interna 7 cm. più alta dell’esterna. 4 1,05 Armatura interna eguale all’ esterna. | 4 4,0 Armatura interna 8 cm. più bassa dell’ esterna. | 4,7 (1) Idem idem Idem | 3 2,1 idem Idem Idem | (1) Le esperienza con questa bottiglia non poterono prolungarsi giacchè essa alla terza misura (con l'armatura interna 8 cm. più bassa dell’esterna e con 4 cariche)si perforò: ma siccome avevo preve- ! duto il caso così sperimentai dapprima e più volte con 3 sole cariche, 6 trovai in media cho il ca- | lore prodotto in questo caso fu di 2,1 cioè il doppio di quello svolto nella stessa bottiglia ad arma- ture eguali e caricata con 4 unità. i I dati precedenti mostrano con ogni certezza, che per una data altezza di ar- matura esterna: 1° La scarica interna della bottiglia è presso a poco costante ed invariabile, sia quando l’ armatura interna è più estesa, sia quando è di eguale altezza della esterna ; 2° La scarica interna invece è quasi più del quadruplo di quella che sì veri- fica nei casi precedenti, quando l'armatura interna è sensibilmente più piccola (8 cm. più bassa) dell’ esterna. La spiegazione, di questo modo singolare di agire dell’ armatura interna diver- samente ampia, parmi possa essere la seguente. Quando detta armatura si scorcia così da divenire sensibilmente più bassa e più piccola dell’ esterna, il condensa- tore notevolmente diminuisce d’estensione, il potenziale in esso (a parità di carica) aumenta e con esso deve aumentare la scarica interna; la quale viene di certo agevolata dall’estensione maggiore dell'armatura esterna, che quasi eccita la scarica interna ad estendersi dal bordo dell'una a quello dell'altra stagnola: perciò in tale bottiglia si svolge più calore che in quella nella quale le armature sono eguali. Che il potenziale sia realmente aumentato nel caso precedentemente contemplato, oltre che dalla diminuita estensione dell'armatura, viene dimostrato chiaramente dal fatto, che la bottiglia ad armatura interna piccola fu perforata con le 4 cariche, che benissimo aveva sostenute prima, e quando l’ armatura interna era più estesa. Quando poi la stagnola interna s’ estende fino alla stessa altezza dell’esterna, allora il potenziale decresce e con esso la scarica interna: e tale ultima diminuzione tanto più facilmente ha luogo, inquantochè le armature essendo eguali non vi è alcuna tendenza al diffondersi della scarica sulla superficie della bottiglia. In — 110 — questo caso adunque il calore che si produce, deve essere ed è in effetti minore di quello svolto nel caso precedente. Finalmente quando l’armatura interna s' estende più dell’ altra, il potenziale seguita a decrescere e con essa dovrebbe altresì decrescere la scarica interna. Però la stessa maggiore estensione della stagnola facilita dall’ altro canto la scarica, essendochè essa viene quasi eccitata ad estendersi sul vetro interposto fra i due bordi liberi delle due armature. Le due influenze sono adunque opposte e possono, dentro certi limiti compensarsi, o l'una ecceder l’altra; e perciò potrà accadere che la bottiglia ad armatura interna più estesa dell’esterna produca una quantità di calore eguale, maggiore o forse minore di quella che produce la bottiglia ad armature eguali. Il primo caso si verificò con la bottiglia, detta di sopra, (vedi 1° e 2* esperienza nella Tabella V) ad armatura interna più estesa dell’esterna; ed il secondo si è manifestato con una bottiglia ad armatura interna di mercurio, co- me dirò in seguito. Che poi la ineguale estensione delle due stagnole sulle bot- tiglie agevoli la produzione delle scariche interne, può anche rilevarsi dal fatto, che quando si carica una di codeste bottiglie, si manifestano spesso delle scariche parziali sulla sua superficie, accompagnate da luce e calore; ed il fenomeno è assai più distinto quando l’ armatura interna è più piccola dell’ esterna. Invece un tal fenomeno manca, a parità di condizioni, con la bottiglia ad armature eguali. Questa interpretazione viene inoltre confermata dai fenomeni luminosi che si manifestano nelle bottiglie. Quando la loro armatura interna è più piccola dell’esterna, al momento della scarica una viva luce quasi continua s' espande dal bordo del- l’armatura interna a quello dell esterna. Quando le armature sono eguali le scin- tille che dai bordi si sollevano sono fitte, vivaci, brevi, e regolarmente crescono con le cariche. Invece nel caso dell’ armatura interna più estesa nol osserviamo che i sprazzi di luce fra i bordi delle due armature crescono rapidamente, così da estendersi subito dall’ uno all’altro: e quindi aumentano poi più lentamente. Esse sono vivaci e di luce bianca in basso, violetta in alto ove si ramificano. È da avvertirsi però che queste scintille, nel caso dell’ armatura interna più estesa, sono più rade (nelle mie esperienze erano forse ad un centimetro di distanza l una dall'altra) di quelle che si osservano nelle bottiglie ordinarie, nelle quali sono assai fitte ed a 3 o 4 millimetri di distanza fra loro: perciò quelle abbenchè più lunghe pure producono lo stesso calore di queste. Dopo aver variamente modificato le condizioni delle bottiglie, variai ancora quelle del circuito esteriore: e perciò studiai la forma degli estremi degli elet- trodi, la. quale produsse quella serie di fenomeni già descritti in principio di questa Memoria. Poscia modificai la resistenza del circuito esterno, interponendo nell’arco scaricatore una colonna d’acqua che variai in lunghezza da 4 a 28 M. (1); (1) L'acqua adoperata era di fonte, e riempiva dei tubi di vetro verniciati esternamente, ri- piegati in forma di U, lunghi ciascuno circa 4 M., e 0,005 di vano interno. _ —rrr@_Éeu en annua — lll — ed osservai che allora il calore della scarica interna decresceva a mano a mano che la resistenza esteriore aumentava, in maniera che quando questa era formata da una certa lunghezza di colonna d’acqua, il calore della scarica interna dive- niva insensibile, non muovendo punto l’ indice termometrico. In quanto ai fenomeni luminosi, che si osservano nelle bottiglie dirò come osservai, che col crescere della resistenza esterna le scintille interne diminuivano di numero, di vivacità e di estensione sin quasi a divenire invisibili. E per me- glio studiarle adoperai una bottiglia ad armatura interna più alta dell’ esterna: e vidi che col crescere della resistenza esterna, le scintille si riducevano ad una o due soltanto, ed apparivano più sottili e meno luminose dell’ ordinario. Quando si adoperano bottiglie ad armatura interna di mercurio la scarica in- terna par che si accresca. Così avendone adoperata una nella quale l armatura in- terna di mercurio era di circa 10 cm. più bassa della esterna, trovai che in essa la scarica interna era assai vigorosa e certamente superiore a quella che s1 verifica in bottiglie simili, ad armatura di stagnola. Quì in seguito sono riportati i risultati di due serie di esperienze, e ciascun valore di esse serie corrisponde alla media di 5 o 6 misure: TABELLA VI Bottiglia ad armatura interna di mercurio. DEVIAZIONE DELL'INDICE CARICHE Istantanee Residuo OSSERVAZIONI Cc 5) 10,6 9,5 Scarica esterna fra palline 4 8 3,7 3 4,5 2,6 2 2,3 1,9 l 0,15 0,0 | Il 0,4 0,0 2 2,0 1,0 3 4,0 TESTA 4 Uol 4,0 6) 10,3 9,3 Questi numeri mostrano che la scarica interna in questa bottiglia è 2 0 3 volte superiore a quella ottenuta nei casi analoghi precedenti. Tuttavia per assi- curarmi meglio del fatto, ed avendo considerazione alla grande influenza che eser- cita l’ ampiezza delle armature, rifeci due serie di esperienze di confronto. Nella prima adoperai uno stesso termometro ed una medesima bottiglia, una volta con l'armatura interna di mercurio ed una seconda con l’ armatura interna di stagnola, — 112 — le quali erano della stessa altezza fra loro, ma circa 9 cm. più basse della esterna. Le misure furono più volte ripetute, la carica fu costantemente di 3 unità, la sca- rica si eccitò fra palline di 19 e 24"" ed i risultati medi sono i seguenti: CALORE 4,6 Bottiglia ad armatura interna di mercurio. DU » » » stagnola. In una seconda serie poi adoperai del pari una stessa bottiglia ed un mede- simo termometro; e per esser sicuro di nulla variare, sperimentai prima con la bot- tiglia ad armatura interna di stagnola 7 cm. più bassa dell’ esterna: quindi versai pel tubo # del mercurio nella bottiglia, fino all'altezza alla quale giungeva la sta- gnola interna e poscia per un centimetro ancora, ed i risultati medi di 5 o più misure, eseguite in modo perfettamente simili sono quì sotto registrati : TABELLA VII CARICHE CALORE ò 3,1 Armatura interna di stagnola 7 cm. più bassa dell’ esterna. 3 6,05 CA » di mercurio 7 cm. più bassa dell’ esterna. 3 5,4 » » di mercurio 6 cm. più bassa dell’ esterna. Queste varie misure mostrano con tutta evidenza, che il calore della scarica in- terna d’ una bottiglia a mercurio è superiore sensibilmente a quello svolto da una bottiglia eguale ad armature di stagnola. Si osserva altresì nell’ ultimo quadro, che col crescere dell’ estensione dell’ armatura interna a mercurio decresce la sca- rica interna. Quest’ ultima osservazione mi spinse a studiare l’ effetto dell’ estensione dell’ar- matura di mercurio sulla scarica interna: e perciò adoperai uno stesso apparecchio, e nella bottiglia che ne faceva parte versavo diversa quantità di mercurio, quindi sperimentai al modo consueto, ed i risultati medi di più misure sono i seguenti: CALORE 3,8 Armatura interna 5 o 6 cm. più bassa dell’esterna. 1,4 » » eguale all’ altezza dell’ esterna. 2,8 » » 5 cm. più alta dell’ esterna. Questi dati mostrano che il calore massimo si ha quando l’ armatura interna è più piccola; il che concorda con ciò che precedentemente si è detto, parlando delle bottiglie con stagnola. Nel caso che l'armatura interna di mercurio sia più alta della esterna, il calore svolto è maggiore di quello che si produce con bottiglia ad armature eguali: il quale fatto fu preveduto e discusso quando si parlò dell’influenza dell’esten- sione delle armature di stagnola (1). E finalmente pare altre sì che anche ad armature (1) Vedi pag. 110. — 113 — eguali l’effetto termico della bottiglia a mercurio sia superiore a quello delle bot- tiglie ordinarie. Pure per dimostrare ciò con sicurezza, misurai il calorico svolto da una stessa bottiglia prima, ad armatura interna di stagnola e poscia di mercurio, aventi sempre la stessa altezza della esterna, ed ottenni i dati medî seguenti, relativi ad una carica costante di 3 unità elettrometriche. CALORE 04 Armatura interna di stagnola. 1,47 » » di mercurio. Laonde si rileva, che a parità di condizioni, l'armatura interna di mercurio pro- duce sempre nelle bottiglie una scarica maggiore che non faccia l'armatura interna di stagnola (1). A completare da ultimo lo studio delle bottiglie con mercurio, mi parve utile di osservare ancora l’ influenza che aveva la forma degli elettrodi nel promuover la scarica esterna; e ripetuto le solite esperienze osservai, come di consueto, che quella è assai più cospicua, quando la scintilla esterna si produce fra palline, che quando la si eccita fra punta e pallina. I dati seguenti medi di più misure, che si riferiscono ad una bottiglia ad armatura interna di mercurio, di circa 10 cm. più bassa dell’ esterna confermano questo fatto: CARICHE CALORE 5) 10,5 Scarica esterna eccitata fra palline 16 e 24”. 5) 5,2 » » » » 16% e punta aguzza. In quanto ai fenomeni luminosi che si manifestano con la bottiglia ad arma- tura interna di mercurio, dirò che essi presentano analogia completa con quelli osservati nelle bottiglie ad armatura interna di stagnola. Dopo di aver dimostrato l’ esistenza di codeste scariche interne delle bottiglie è necessario di cercarne la spiegazione; la quale parmi possa essere la seguente. Quando si carica un condensatore qualunque, come un quadro di Franklin, sappiamo che le due armature prendono opposte elettricità, s’ influiscono recipro- camente e danno luogo alla condensazione elettrica ed alla carica dell'apparecchio. Codeste elettricità inoltre, io credo che debbano altresì agire per influenza sulla zona di vetro che le circonda, ed operarvi in modo da indurre su ciascuna delle facce una zona neutra intorno a ciascuna armatura, e quindi un’ altra zona carica d’ elettricità opposta a quella della corrispondente armatura. Al momento della scarica, l elettricità della zona elettrizzata, con parte di quella dell’ armatura si neutralizza; le scintille corrono sulle zone neutre del vetro e la scarica interna si produce. (1) Su queste dilatazioni termometriche ottenute con la bottiglia ripiena di mercurio, può forse influire la diminuita massa d’aria del termometro, imperocchè le dilatazioni in questo caso diventano più rapide e perciò le perdite di calore meno sensibili. TOMO II. 15 — 114 — Per dimostrare l’esistenza di questi stati elettrici dei condensatori io mi son servito di quadri di Franklin con armature sia circolari, sia rettangolari, sia anche di altra forma; ed il vetro di essi, alcune volte era verniciato altre volte terso e secco. Caricavo debolmente questi quadri, affinchè scariche superficiali non si pro- ducessero, e poscia sostenuti in posizione quasi verticale vi soffiavo sulle due fac- ce, con un mantice, la nota miscela di solfo e minio in polvere. E con tale arti- fizio subito si formavano delle figure elettriche assai distinte, bellissime ed istrut- tive. Una delle armature si ricopriva, per es. di solfo, ed era circondata e come incorniciata da una zona di vetro affatto priva di polvere; la quale poi a sua volta rimaneva chiusa e inviluppata da un alira zona ricoperta da polvere di minio. Dal che si conclude, che l armatura in discorso era carica d°’ elettricità positiva, che la prima zona del vetro era allo stato naturale e che la seconda era carica di elettricità negativa. Le figure ed i fenomeni sono analoghi sull’ altra faccia, salvo che gli stati elettrici che vi sì riscontrano sono opposti a quelli più sopra indicati. Se si carica il quadro vigorosamente, allora sulla superficie del vetro si for- mano delle scintille che accusano delle scariche parziali, che complicano oltre modo lo stato elettrico delle superficie del vetro; per lo chè con le note polveri vi si formano delle figure elettriche assai complesse e spesse volte delle arborescenze assai eleganti che indicano il luogo ove si produssero le scintille. Nè meno com- plesso ed intricato è lo stato elettrico del quadro dopo che lo si è scaricato nel modo ordinario; inquantochè il vetro riman carico in modo irregolare; e conser- va questo stato per molte ore e non può adoperarsi, per riottener le figure, prima che non sia del tutto ritornato allo stato naturale. Le bottiglie si devon comportare come i quadri di Franklin; ed avendone ado- perate due con bordo rivestito di cera-lacca, chiuse con tappi di sughero, ed aven- dole caricate con opposte elettricità vidi, soffiandovi le polveri, che 1 armatura esterna dell’ una si ricopriva di solfo; mentre che la parte superiore del vetro, il tappo e l’asticella si coprivano di minio; nell altra bottiglia il minio ricopri- va la stagnola ed il solfo rivestiva il vetro verniciato; e rimaneva fra l armatura e la regione elettrizzata, la zona neutra ordinaria. Noterò che sull’armatura comu- nicante col suolo poca polvere si raccoglieva. Nè voglio mancare di dire che con questi studi, ripetuti e variati su condensatori di diverse specie di vetro, e coperti da differenti vernici, si potrà forse ricavare qualche utile cognizione intorno alla varia natura dei coibenti, che sì adoperano nella costruzione dei condensatori, ed anche intorno al modo diverso d’agire e diffondersi delle due elettricità sui coibenti, come dirò nell’appendice posta in fine di questo scritto. Forse la formazione di queste zone elettrizzate non è un fenomeno tanto sem- plice come s' è detto in principio, giacchè io credo che a produrle concorrono con- temporaneamente entrambi le armature. Ciascuno di esse infatti produce sulla cor- — 115 — rispondente faccia di vetro la rispettiva zona elettrizzata; la quale poi influisce sull’ altra faccia ed insieme all’ altra armatura dà luogo ad uno stato elettrico opposto. Così si potrebbero forse paragonare, in questo caso, le due armature ai poli di una calamita a ferro di cavallo, la zona neutra alla regione di contatto fra essi poli e l’ ancora, e questa sarebbe, nel caso del condensatore, rappren- sentata dalla zona di vetro carica sulle due sue facce d'’ elettricità opposta a quel- la delle due armature. Queste zone poi spesso sono più o meno modificate dalla conducibilità elettrica propria del coibente, forse diversa per le due elettricità per cui si osserva come una specie di espansione del fluido delle armature sul vetro che le circonda, resa anche più energica da punte che possono riscontrarsi sui bordi delle arma- ture istesse; ed in genere non è difficile che il fenomeno varii più o meno per moltissime cagioni e specialmente se si opera con quadri ad armature ineguali, come si dirà qui in seguito. Per eseguire gli studi su codesti condensatori ho costruito dei quadri con a:- mature di forma circolare di diverso diametro ed appiccicate sulle due facce della lastra, così che i loro centri si trovavano sopra la stessa normale alla lastra me- desima. Sperimentando con questi quadri alla maniera consueta si scorge, quando la differenza delle armature non sia molto grande, che la zona neutra che circonda la piccola armatura si estende dal suo bordo a quello della grande, ed in corrispondenza del bordo di questa si manifesta la zona elettrizzata. Quando la differenza dei diametri cresce, la zona neutra si estende ancora, ed io ne ho con un quadro ottenuta una di 4,5 cm. di larghezza, essendo una delle armature di 10 e l’altra di 19 cm.: ed in tal caso anche la zona elettrizzata sul vetro apparisce generalmente più ampia ed estesa. Al di là poi dell’ armatura maggiore e sulla faccia corrispondente del vetro si forma la consueta zona neutra e quindi quella d’opposta elettricità di essa armatura. I Da tutto ciò si comprende come le scintille, nei condensatori ad armature ine- guali, possono accrescersi in alcuni casi e perciò produrre delle scariche interne più energiche: sulle quali influiscono e potentemente, come si disse, la diversità del potenziale che un condensatore acquista per una data carica, quando si fa variare la grandezza di una delle due armature: ed 1 fenomeni debbono allora riuscire più complessi. Un fenomeno degno di nota osservai con questi condensatori ad armature ineguali, ed è quello dell’ inversione della carica. Così avendone caricato uno, le cui armature avevano i diametri di 10 e 19 cm. osservai che la piccola armatura s'era rico- perta di minio e perciò era negativa: intorno ad essa ed a circa 4, 5 cm. dal bordo vi era irregolarmente la zona ricoperta di solfo. Quindi scaricai il quadro, ne ri- pulii la faccia coperta dalla piccola armatura, vi soffiai di nuovo il consueto mi- scuglio, ed osservai che essa armatura si ricoprì di solfo, ossia essa aveva acqui- stata carica positiva e per conseguenza opposta alla primitiva. La piccola arma- — 116 — 3 tura era circondata da una breve zona neutra e poscia seguiva una zona ne- gativa netta, regolarissima, finamente dentellata, coperta completamente di minio e situata fra i bordi delle due armature. La inversione della carica adunque av- venuta nell’ armatura, dopo la scarica corgevasi chiaramente; e tanto più inqnanto che l'armatura opposta, non essendo in alcun modo stata toccata nella seconda parte dell'esperienza, rimaneva sempre coperta di solfo come lo era avanti la sca- rica: così che entrambe le armature erano coperte di solfo. Le figure elettriche pel fatto delle inversioni possono essere più o meno svariate e complesse a seconda delle circostanze ; ed io ne ho ottenuto delle singolarissime ed assai belle, alcune delle quali descriverò a parte infine di questa Memoria. In quanto poi alla natura di queste scintille interne dirò che esse mi sembrano potersi forse considerare come una specie di scintille eccitatrici, sui generis, che prendono vita e calorico a spesa della vera e propria scintilla eccitatrice esterna, percui questa perde di energia col crescere di quelle. Ed è quindi alla loro for- mazione ed al loro rapido incremento, che debbonsi ascrivere buona parte delle irregolarità che si manifestano nel calore svolto dalla scintilla eccitatrice esterna, quando si sperimenti con cariche a potenziali molto elevati. Ed ora, prima di metter termine a questo mio scritto parmi utile, per aiutar la memoria del lettore, di dare il seguente Riassunto: Quando si scarica una batteria fortemente carica, si produce in essa un rumore sordo, caratteristico e come un #onfo; il vetro delle bottiglie ai bordi delle armature s'illumina vivamente, ed in esse si svolge calore: infatti avendo introdotta una di codeste bottiglie in un appropriato termometro ad aria, osservai che questa si dilatava nel momento della scarica. Dal che risulta che oltre la ordinaria scarica esterna della bottiglia se ne verifica un’ altra nel suo interno, che per distinguerla ho chiamata scarica énter- na: ed essa ha luogo lungo le pareti del condensatore, non ricoperte dalle rispet- tive armature, e si rileva dalla luce e dal calorico che si svolgono nella bot- tiglia al momento della scarica sua. Talmentechè l'elettricità d’ un condensatore, nel momento della scarica, si neutralizza parte all’interno e parte all’ esterno di esso. E misurando la scarica interna dalle dilatazioni termometriche che produce si perviene alle seguerti conclusioni: 1° Il calore svolto dalla scarica interna è trascurabile o nullo con le deboli cariche, però oltre un dato limite si appalesa e cresce rapidissimamente con le ca- riche istesse, a scapito, naturalmente, di quello che si svolge con la scintilla ecci- tatrice esterna: un primo mezzo adunque per accrescere codesto calore o scariche interne è quello di sperimentare con bottiglie cariche ad elevatissimo potenziale; 2° La scarica interna inoltre cresce in modo assai sensibile se si eccita l'esterna facendo scattare la scintilla fra due palline di 20 a 30"" di diametro, e diminuisce invece, fin circa alla metà, se la si eccita fra una punta ed una delle indicate palline. rr e 3 = _—r————_——_——_@ — 17 L’inverso si verifica pel calore dovuto alla scintilla eccitatrice esterna; 3° La scarica interna cresce per una data carica, se si diminuisce l'armatura interna della bottiglia. Essa scarica decresce con l’ aumentare di detta armatura fino a che raggiunge l’estensione dell'armatura esterna, da indi in là rimane presso a poco indipendente dalla sua ampiezza, nei limiti delle mie esperienze. La cagione di questi fenomeni è complessa : essi dipendono in parte dal variare che fa il potenziale della carica con l'estensione dell'armatura, ed in parte ancora dall'influenza che esercita la diversa ampiezza delle due armature sul numero ed energia delle scintille interne ; 4° La scarica interna è la stessa sia adoperando una bottiglia ordinaria sia adoperandone una scintillante; 5° La scarica interna, decresce fino a zero quando si accresce molto la resi- stenza del circuito esteriore; 6° La scarica interna, a parità di condizioni è forse più energica quando s'ado- pera una bottiglia ad armatura interna di mercurio. In tutto il resto questa bottiglia sì comporta come una ordinaria ad armature di stagnola. Tutte queste conclusioni ricavate dalle dilatazioni termometriche vengono pie- namente riconfermate dai fenomeni luminosi, che sì manifestano nelle bottiglie: es- sendochè la vivacità ed estensione delle scintille interne corrispondono esattamente e sempre all’ intensità delle dilatazioni termometriche ; 7° Queste scariche interne son dovute, io credo, a che ciascuna armatura induce o risveglia nel coibente che le circonda una zona carica di elettricità opposta alla propria, la quale è separata dall’ armatura corrispondente da un’ altra zona di vetro allo stato naturale. Al momento della scarica parte dell’ elettricità dell’ ar- matura e della zona elettrizzata si neutralizzano con produzione di scintille e calore, e quindi della scarica interna; 8° Tali zone elettrizzate sono rese manifeste da elegantissime figure elettriche che si producono soffiando su dei quadri di Franklin di vetro verniciato, o meglio di ebanite, o sulle bottiglie di Leyda il noto mescuglio di solfo e minio ; 9° Quando i quadri sono ad armature ineguali, la zona neutra dalla par- te dell’ armatura piccola, non che la zona elettrizzata, aumentano d’ estensione, e perciò nel momento della scarica le scintille su di codesti condensatori debbono allungarsi rinvigorirsi ed aumentare la scarica interna, in alcuni casì almeno ; 10° Con questo metodo studiando dei quadri di vetro ad armature ineguali o meglio dei quadri di ebanite ad armature ineguali od eguali, ho osservato che dopo avere scaricato codesti quadri, nel modo ordinario, le armature, mostra- vansi cariche d’elettricità opposta a quella che avevano originariamente. E forse questo metodo di ricerche, più ampiamente modificato ed esteso potrà dare delle ulteriori ed utili indicazioni sulla stessa inversione delle cariche, sulla natura dei coibenti e vernici che si adoperano nei condensatori, sul vario modo di espandersi delle due elettricità sui coibenti ecc. ecc.; intorno alle quali cose darò forse in appresso più ampie indicazioni: ed intanto qui in seguito mi limiterò ad aggiungere il risultato di alcune ulteriori mie osservazioni. (ASPRE NIDEGCEE Maniera per ottenere le figure elettriche e dichiarazioni di alcune di esse. Per ottenere le figure elettriche sui condensatori può adoperarsene uno qua- lunque di quelli già noti; pure riescono più comodi i quadri di Franklin, nei quali si possono facilmente produrre e studiare le figure su entrambi le facce. In essi è bene che le armature sieno circolari e tagliate assai diligente- mente, essendochè ogni angolo o punta nel loro contorno suol dare uscita al- l'elettricità , e le figure poi vengono alterate più o meno profondamente. Esse sì producono soffiando sul quadro carico e tenuto verticalmente la nota mestura di minio e solfo in polvere. Per queste esperienze bisogna caricare fortemente il quadro, ma è altresì in- dispensabile ili evitare che esso si scarichi totalmente od anche parzialmente per quelle scintille elettriche, che con cariche energiche sogliono prodursi sulla superficie dei coibenti: imperocchè per esse le figure che si ottengono dopo sono generalmente complesse ed intricate. A regolare adunque le cariche disponevo il quadro orizzontale, riunivo l armatura inferiore, tenuta isolata, con la bottiglia elet- trometrica ed avvicinavo alla superiore il conduttore della macchina Holtz. Per caricare le bottiglie operavo in modo analogo. I condensatori quando si adoperano devono essere perfettamente allo stato neutro; e quando hanno servito ad una prova è necessario (dopo che si sono scaricati nel modo consueto) che sieno trascorse molte ore, ed anche una intiera giornata prima di adoperarli per una seconda esperienza. Nè vale a scaricarli completamente l’ uso consueto della fiamma (1). Le superficie del coibente devono (1) Non so chi pel primo abbia notato la singolare proprietà della fiamma nell’ accelerare la scarica dei condensatori; tuttavia non parmi senza interesse di fare avvertire come essa proprietà era conosciuta dagli Accademici del Cimento. E qui mi piace riportare il passo caratteristico con cui essi ne parlano (*): « La fiamma « (dall’Ambra) ».... non solo non si lascia tirare per « sè, ma se l’Ambra dopo strofinata le rigiri punto d’attorno spegne la virtù sua, onde vi bi- « sogna nuovo strofinamento per farla tirare. E se dopo ch’ ella ha tirato un minuzzolo si « torna ad accostare alla medesima fiamma, questa subito glielo fa lasciare. « 11 caldo che viene dalle braci accese non è così nemico alla virtù dell’ Ambra, anzi talora ei vale ad eccitargliela senza altro strofinamento. Vero è che col solo fomento del semplice « calore muove assai languida, ma aggiuntovi lo strofinamento diviene più vigorosa (**). » À (*) Saggi di Naturali esperienze fatte nell'Accademia del Cimonto. 31 edizione fiorentina, p. 145. Firenze 1841. ("*) Quest” ultima osservazione mostra che i celebri Accademici avevano già notato che il riscaldamento favorisce 1’ elettrizzarsi dei coibenti parchè (dicono i moderni) li dissecca. — 119 — essere ben terse, ed io ho trovato pratica utilissima quella di lavare i quadri a grand’ acqua, asciugarli e quindi seccarli al fuoco. Nelle mie esperienze ho adoperato quadri a lastra di vetro o di ebanite e bottiglie di Leyda. I quadri di vetro debbono avere la superficie di questo accuratamente rico- perta di vernice a gomma-lacca sciolta nell’ alcool assoluto. Non tutti i vetri rie- scono egualmente bene per queste prove. Eccellenti ho trovate alcune lastre di vetro temperate, speditemi dal Ducretet, ed altre di vetro ordinario da finestre. Non è raro però imbattersi in alcune lastre che male si prestano a codeste in- dagini. Lo stesso è a dirsi, ed in modo più accentuato dei quadri di ebanite. Meglio, riescono quelli, fra gli adoperati da me, fatti con lastre lucide e speculari. Tutta- via se ne riscontrano alcune nelle quali su una o su entrambi le facce, le figure si producono irregolarissime o sformate affatto, disvelando così delle proprietà superficiali in codeste lastre, che altrimenti sarebbero rimaste occulte. Mi è parso inoltre utile ad ottenere delle figure estese su questi quadri, di caricarli lentamente e per due a tre o più minuti di seguito. Ed in questo caso ho notato che sebbene al quadro s' impartisca grande quantità di elettricità, pure la bottiglia elettrometrica ad esso unita pruduce una sola, e rarissime volte due scin- tille; quasi pare che la condensazione in essi quadri sia estremamente piccola. I quadri di vetro in circostanze eguali caricano la bottiglia elettrometrica in qualche secondo. Di questa proprietà della ebanite mi propongo fare uno studio più ac- curato. Le figure che si ottengono sui quadri, sia di vetro che di ebanite, sono simili nei tratti principali, salvo l’ ampiezza ed estensione loro, che si mostra maggiore in questi che in quelli. Codeste figure sono labilissime e quasi direi fugaci; pure si possono rendere un po’ più persistenti ricoprendole, per mezzo d’ un polverizzatore, d’un legge- rissimo strato di vernice diluita di gomma-lacca ed alcool assoluto. Però con tale operazione perdono parte della vivacità dei loro colori. E da ultimo a meglio osservarle o fotografarle è pratica utile pulire il quadro su di una faccia e so- prapporlo ad un foglio bianco. Ciò premesso veniamo a dire di qualch’ una di dette figure : La fig. 3 Tav. II è l’immagine di quella ottenuta su un quadro di vetro grosso 1 85, con armature circolari eguali e di 165®" di diametro. In essa figura il disco centrale rappresenta l’ armatura che fu caricata per influenza; essa era ricoperta di minio e perciò aveva carica negativa. La zona circostante chiara corrisponde alla zona neutra; essendochè essa nel quadro era rimasta affatto priva di polveri. Poscia segue nella figura una seconda zona concentrica, più esterna ed oscura che lentamente sfumandosi svanisce. Essa sul quadro era ricoperta di solfo e per- ciò era carica di elettricità positiva, ossia opposta alla carica dell’ armatura corri- spondente. — 120 — Sulla faccia opposta a quella direttamente caricata, l'armatura aveva elettricità positiva ed era ricoperta da solfo; quindi v'era la zona neutra e poi la nega- tiva ricoperta di minio disposto a modo di frangia sul bordo rivolto all’armatura. È a dirsi però che le figure riescono in generale più belle, e più facilmente si ottengono sulla faccia indotta, specialmente se l'armatura che vi corrisponde ricevè carica negativa. Tuttavia ripetendo le prove s’ottengono figure distinte su ambedue le facce, in ispecie se si adoperano lastre opportunamente scelte. E altresì figure assai nette si ottengono sulle due facce interne di due vetri posti paralleli, ed a piccola distanza fra loro e ricoperti sulle facce esterne da armature, così da for- mare un quadro di Franklin. Se si produce la scarica con l’ eccitatore, oltre la neutralizzazione della carica delle armature ne segue la distruzione più o meno completa di quella delle zone elettrizzate ; e le figure che 8’ ottengono poi sono più o meno complesse ed in- tricate. Spesso sul quadro allora si formano sottili zone concentriche gialle e rosse, separate da linee neutre corrispondenti; ed altre volte invece si scorgono ramificazioni appena visibili ma pur nettissime, ricoperte di solfo o minio, o del- l uno e dell’ altro, le quali accennano alla distruzione di stati elettrici preesistenti. Le bottiglie di Leyda si comportano in modo perfettamente analogo : ed a- vendone adoperate due (alte 50 c. e larghe 13) che caricai vigorosamente, vidi sopra una delle loro metà esterne apparire, con l’ uso delle polveri, la consueta zona neutra e quella positiva; ed esse erano ampie e nettissime. Sull’altra metà, avendo soffiato le polveri dopo la scarica, si produssero pallidissime ma nette ramificazioni (coi tronchi verso l’ armature) gialle con pochissimo minio interposto, nel mentre che le zone primitive erano affatto scomparse. Quando la bottiglia od i quadri si caricano eccessivamente, allora delle scintille si formano e corrono sulle superficie del vetro scaricando in parte I apparato, ol anche totalmente, se riescono a cavalcare il bordo del coibente. In codesti casi le figure più sopra descritte, quasi più non si riscontrano, ed invece si formano delle arborescenze spesso disposte con simmetria e che sono come le orme rimaste dalle scintille. In cotal guisa possono ottenersi delle apparenze vaghissime. La fig. 4 è l’immagine di un quadro di ebanite grosso 2", ad armature circolari eguali e di 155" di diametro. Il disco centrale rappresenta l’ armatura che fu direttamente caricata di elettricità positiva e che perciò era ricoperta di solfo, che s° estendeva ampiamente sull’ebanite e mostrava in modo assai cospicuo quella nota attitudine della elettricità positiva a diffondersi sui coibenti in ramifi- cazioni più o meno estese. Ed io sopra un quadro simile ho ottenuto delle arbo- rescenze ricoperte di solfo lunghe circa 15"". Nella stessa fig. 4 si vede inoltre una vasta zona oscura che circonda il disco centrale ; la quale rappresenta la zona neutra dell’ ebanite, che a sua volta è in- viluppata da un’ altra zona assai più vasta e diffusa, disegnata in chiaro nella fi- gura, la quale nel quadro era ricoperta da minio e per ciò rispondeva alla zona ne- ei, gen gativa. Codesta zona è finamente dentellata o frangiata nel suo bordo interno, e parecchie di cotai dentellature sono formate da sottili filamenti di fiori di solfo circonda‘i da delicate zone neutre, inviluppate, dall’ ampia regione ricoperta dal minio. Talmente che può dirsi che elle accennano quasi ad una specie di proie- zione di elettricità positiva nella zona negativa. Nel qual fenomeno il movimento dell’ aria provocato dalla carica potrebbe forse avere grande influenza. Sull’ altra faccia di questo quadro si ottennero sempre e costantemente delle figure assai imperfette: ed invece in altri s' ottenevano le figure contemporanea- mente su entrambi le facce, ed in alcuni casì d’ una regolarità e nettezza straor- dinaria. Sempre però si osserva che la carica positiva si diffonde in sottili e spesso lunghe ramificazioni e la positiva in modo più uniforme e continuo. Nei quadri di vetro si osservano simili diffusioni, ma in limiti assai più ristretti. Intorno alle figure del Lichtemberg già il Bezold ha eseguite lunghe ed impor- tanti ricerche, i risultati delie quali trovansi in varie memorie riportate negli Annali di Poggendorff. Egli, fra le altre cose nota, che le figure positive sono di forme più costanti e caratteristiche delle negative; le quali ultime possono variare così da so- migliare alcune volte alle positive. Egli adoperava dei quadri che il Rossetti chiama incompleti, cioè rivestiti di una sola armatura, e scaricava, mercè un ferro di calza, nel centro della faccia nuda una bottiglia di Leyda. Anch'io ho eseguito analoghe esperienze adoperando 2 o 3 bottiglie fortemente caricate, e le figure che ottenni, soffiando sul vetro il solito mescuglio, mentre erano quasi costanti per le cariche positive variarono molto per le negative, appunto come fu notato dal Bezold (1). Intorno ad esse inoltre mi è occorso d’osservare che lungo le grosse ramificazioni delle figure positive, secondo la loro linea mediana, vi si scorge come la nervatura principale d’una foglia, una specie di grosso cordone in rilievo, formato da un ringrosso di polvere di solfo. Esso par che segni la via tenuta dalle varie e grosse ramificazioni della scintilla positiva sul vetro. Le figure negative invece presentano analoghe nervature mediane, però esse spic- cano perchè affatto prive di polvere di minio; sono come in incavo e raffigurano delle vere e proprie linee neutre, intorno alle quali 8° ammassa il minio da ambe le parti. Quasi parrebbe che ciascun ramo della figura negativa sia stato pro- dotto da due scintille parallele ed a piccola distanza fra loro. Ed in oltre, in generale le figure negative sogliono essere limitate da curve dolci e poco risentite ; mentre le positive son, quasi direi, delle figure più dure e taglienti. La fig. 5 rappresenta quella ottenuta con un quadro di vetro grosso 1"%",4 e ad armature ineguali. Nel centro vi è la piccola armatura (100"") caricata diret- tamente e ricoperta di solfo; quindi segue la zona neutra e poi quella oscura, (1) Bezotp — Vedi fra le altre sue memorie Untersuchungen iber elektrische Stoubfiguren. Pogg. Ann. B. 140 s. 145. 1870. TOMO II, 16 — 122 — negativa, ricoperta di minio disposto in filamenti, e rispondente al bordo della grande armatura posteriore di 200". Vedesi inoltre a sinistra ed in basso una specie di arborescenza, che dal bordo della piccola armatura si estende nella zona negativa. Tale arborescenza ricoperta . da solfo indica la via percorsa da una scintilla superficiale, che balenò durante la carica del quadro, e neutralizzò parte dell’ elettricità positiva dell’ armatura con parte di quella della zona negativa circostante: ed inoltre al di là dell’ arbore- scenza scorgonsi ancora quei soliti filamenti che nel quadro erano fatti da parti- celle di solfo (1). La fig. 6* mostra un quadro ad armature ineguali, nel quale si è invertito lo stato elettrico dopo la scarica. La metà destra (stato del quadro dopo la carica) ha l armatura piccola (che fu direttamente caricata) ricoperta di solfo, quindi la zona neutra e poi la negativa rossa ed estesa. La metà sinistra, fu ripulita con pannolino e cospersa di polvere dopo avere scaricato il quadro; ed essa mostrava l’armatura ricoperta di minio ossia ‘ negativa, specialmente ai bordi: quindi una sottile e netta zona neutra e poscia una ricoperta di solfo, perciò positiva, che invadeva parte dell’ antica zona negativa, la cui elettricità fu distrutta insieme a quella dell’ armatura rimasta invertita. Questi fenomeni di inversione si producono anche, e meglio, senza ripulire il quadro, purchè s’' abbia cura di soffiarvi le polveri solo dopo averlo scaricato. Però è da avvertirsi che ad ottenerli netti e distinti bisogna sempre scaricare il quadro anche della sua carica residua altrimenti spesso sul vetro, compreso fra i bordi delle armature, si manifesta contemporaneamente una zona positiva ed una negativa. Figure simili, ma rovesciate, s’ ottengono se l armatura piccola si carica di elettricità opposta alla precedente : o se si carica la grande armatura : sulla quale però è a dirsi che non sempre si manifestano i fenomeni dell’ inversione delle cariche. Coi quadri di ebanite i fenomeni e le figure sono analoghe ed anche assai ben distinte; che anzi con questi la inversione delle armature si produce assai più facil- mente che con quelli di vetro. Non posso terminar questo scritto senza ricordare che il Poggendorff fin dal 1867 studiò il fenomeno delle frangie luminose (Lichtfransen) o scintille, che si producono ai bordi delle armature di un condensatore nel momento della loro scarica; ed egli notò che esse si allungano quando una delle armature eccede l’altra. Aggiunge poi che le osservazioni elettroscopiche gli mostrarono che dopo la scarica il vetro aveva l’ elettricità analoga a quella dell’ armatura corrispondente, quasi l'elettricità, dice egli, rifluisse da quella sul vetro (2). (1) Da questi e da altri simili quadri fu staccata l'armatura grande posteriore, e quindi fu- rono posti sopra un fondo bianco per meglio riprodurli con la fotografia e la eliotipia. (2) Fortschritte der Physik Bd. XXIII S. 467. i — 123 — Quest’ osservazione del Poggendorff, relativa alla carica del vetro, risulta in parte confermata dalle figure elettriche più sopra descritte. Però sul vetro tra la zona elettrizzata e l'armatura vi è sempre, dopo la scarica del quadro, una zona neutra: e qualche volta si trovano zone, o regioni di cariche opposte, come si è detto quì sopra. Lit.GWenk. E.Villari-Scariche Interne. GBettini inc. v —_— fu tal Jubibtiv titti siti teliozonto gl Li = MI GIALARALMAI MAGALGI RALAAANI RARUIZAI ERANAANI SA SIMANI MAIALI: LILRAZETZIANIA LI (IN dis. .Samuelli Mem.Ser 4° Tom.I[. ;i L Tav.Il Eliotipia Martelli Roma Ù n Do SR [ | i Tav.Ill E liotipia Martelli Roma GUARIGIONE STABILE E PERFETTA DUNST ASCESSO DRL POLMONE FATTOST ESTERNO OTTENUTA COLLO SVOTAMENTO SUSSEGUITO DAL DRENAGGIO E DALL'INTERNA CAUSTICAZIONE MEMORIA del Dott. Cav. FERDINANDO VERARDINI (Letta nella Sessione del 2 Dicembre 1880). Se è vero, ed io l’ho per verissimo, che la Clinica in genere sia la scienza dei particolari, e se pur è vero che vieppiù questi s'allontanano dalla comune, offerendo circostanze speciali degne di rimarco e quindi meritevoli perciò appunto d’una considerazione maggiore, (massimamente alloraquando se n’ ebbero risultati favorevoli e quasi insperati) per queste valevoli ragioni adunque m’ è caro il ritenere fino da ora, o Signori, che farete buona accoglienza alla Storia clinica che V’ offro a sdebitarmi di qualche guisa, in questo nuovo anno accademico, dell’ obbligo che m'incombe e che pur tanto m' onora. Il giorno 8 Marzo di quest’ anno che omai declina, fu accolto come dozzi- nante nello Spedale Maggiore il contadino Luigi Fantini, d’ anni 36, ammogliato, nato a Toledo ed ora abitante alla Pieve del Pino nelle possidenze del nobile mio cliente Ill.mo Sig. Marchese Benedetto Ratta, e fu collocato nella Sezione me- dica da me diretta al letto N. 27. Quest’ uomo è di statura più che media, largo di spalle, a scheletro robusto e regolare; non ebbe mai malattie di rilevanza e condusse vita laboriosa sì, ma non istentata o grama. Una quindicina di giorni avanti di entrare nello Stabilimento avvertì il Fantini un insolito malessere, dolentezza generale alle membra, qualche colpo di tosse e per essa una dolia che si rese a mano a mano più e più molesta lateralmente al costato di destra; dolia che lo costrinse ad allettarsi e mandare pel medico tanto addivenne cruciante. — 126 — Furono applicate sanguisughe, sottostette per vario tempo a cure diverse, ma le cose assumendo una cattiva piega l’infermo fu trasportato in città e posto, come dissi, nel mio compartimento. Aveva febbre, 38.8 del centigrado; pelle arida, forte dispnea, 40 respirazioni al minuto, centoventi pulsazioni; tosse secca ed assai persistente. La percussione faceva sentire un suono matto che cominciava sullo spazio della sesta colla settima costa tanto anteriormente, quanto posteriormente e si prolungava in basso oltre l’ arcata costale anche per essere abbassato e sporgente per circa due dita tra- sverse il fegato, il di cui margine acuto ben si discerneva col palpamento. Percosso il sinistro lato dava suono normale. Mediante l’ ascoltazione si udivano a destra rantoli a piccole ed a grosse bolle tanto in alto, quanto lateralmente verso il manubrio dello sterno, e laddove co- minciava la mutezza si notava un lieve rumore di soffregamento. Dal sinistro lato, anteriormente, la respirazione era esagerata e nulla più. Di dietro, a destra, s' avvertivano rantoli sparsi ed assai meno intensi; in vicinanza però del margine interno della scapola era ben distinto un rumore di soffio bron- chiale; l orecchio poggiato poi verso la base del torace, percepiva lo stesso rumore di soffregamento notato dalla parte anteriore. A sinistra il respiro era come anteriormente, vale a dire un po’ rumoroso. Una particolarità però mi interessa di far bene rilevare o quella che poggiando l’orecchio oppure lo stetoscopio sulla mammella destra un po’ in basso e di lato, precisamente fra il quarto e quinto spazio intercostale, alla distanza di tre in quattro centimetri circa dal margine destro delle sterno, i rantoli si avvertivano più intensi, riuniti, e quasi vitrei e quivi la percussione dava un suono maggior- mente ottuso. Determinata questa circostanza, seguo a dire che il Fantini aveva assoluta aposizia e per lo contrario sete ardente e che non poteva estinguere se bene spesso cercasse 0 con acqua pura o con una decozione orzata di raggiungere questo de- siderato fine. La lingua era arida, ristretta, screpolata, con panie nerastra alla sua super- ficie dorsale. Basso ventre ratratto anzi che no, indolente però al palpamento. Scarseggia- vano le orine ed il corpo era alquanto stittico. Dall insieme di tutti questi contrassegni morbosi diagnosticai che il Fantini era ammalato, e da qualche tempo, di pleurite; la quale aveva dato luogo ad un non molto abbondante essudato dal destro lato del petto, verso la base, e che per irradiazione morbosa era pure compresa d’ infiammazione una porzione del lobo medio ed anteriore del parenchima polmonare. In relazione a questa diagnosi ordinai polveri del Dovver con scilla e bi-car- bonato di soda, e feci amministrare per bevanda ordinaria una bottiglia d’ acqua Wichy. Sul petto e proprio alla base e sulla linea ascellare di destra, passati che — 127 — furono alcuni giorni, avvalorai la cura interna coll’ applicazione d’un largo vesci- cante che molto suppurò ed apportò non lieve alleviamento di male. La temperatura per una ventina di giorni oscillò fra i 39 ed i 38.5 e qualche volta discese ai 37.6 del centigrado; la dispnea però dopo circa una settimana a grado a grado scomparve, finchè il respiro si rese regolare; non così avvenne della tosse, la quale si mantenne per un tempo molto maggiore, sempre molesta quantunque non più così secca e talvolta l’ escreato si mostrò copioso e proprio color ruggine, appiccaticcio e denso, com’ è del pneumonico ; indi si rese più scorrevole, meno traente al color oliva ed in fin fine lo si vide semplicemente catarrale. Sempre migliorando, giungemmo al giorno ventesimo sesto del Marzo e, tranne qualche modificazione di poco conto nella cura interna secondo peculiari acci- dentalità, tutto s° andava riordinando e mi faceva sperare che la guarigione riu- scisse prestamente completa. La mutezza alla base del torace erasi ridotta al solo lato posteriore, ed ante- riormente il margine del fegato quasi più non sconfinava; l’ascoltazione sul davanti e massimamente nel punto ov’ eranvi gli indizii della localizzata pneumo- nite, facevansi appena udire alcuni rantoli, che posteriormente erano scomparsi, nè ivi più rendevasi manifesto il soffio bronchiale già notato ; la temperatura ascel- lare era discesa a 37, appena, appena; l'appetito era eccellente e la terza dieta non pareva sufficiente all’ ammalato. Non so però a quale cagione dovessi attribuire una recrudescenza di male, sebbene vi fossero alcuni indizi d’ abuso nel cibarsi; fatto è che il 28 Marzo il termometro segnò 38 e 4; che la lingua addivenne nuovamente impaniata; s’in- crudì la tosse, ed il respiro mostrossi alquanto affannoso. Qualche lieve orripila- zione disturbò l’ infermo, e l ascoltazione dal lato anteriore destro del torace tornò a far sentire dei rantoli umidi, circoscritti però soltanto a quella parte di polmone che dissi presa da processo infiammatorio localizzato. Calomelano e Jalappa in dose purgativa, un grammo di sorta; dieta; indi una soluzione di bisolfato di chinina, continuata per tre o quattro giorni, posero di bel nuovo il mio infermo su buona via e nel finire del mese ed ai primi del successivo, tutto tornò nelle favorevoli condizioni di prima. L’ essudamento però non era affatto scomparso posteriormente e sotto forti inspirazioni l’ orecchio percepiva, ascoltando il petto dell’ infermo nella località più volte annotata, qualche rantolo profondo; dalla percussione eseguita con molta diligenza e regolarità, si ricavava un suono pur lì non del tutto chiaro e fisio- logico. Consigliai quindi il mio infermo di pazientare ancora e di non abbandonare lo Stabilimento come dichiarava di voler fare, mentre non era ancora bene assi- curata la sua guarigione e necessitava sottostesse tuttavia a cure ulteriori, prose- guendo intanto nell’ uso delle polveri del Dovver con tannino ed una piccola dose di chinina che da ultimo aveagli prescritto. — 128 — Ma i miei consigli tornarono a vuoto; chè, il Fantini preso dal desio di tor- nare in seno della propria famiglia, accresciuta di un figlivolo che non aveva ancor visto per essersene sua moglie sgravata nel tempo ch’ era costì, e smanioso di respirare l’aria pura de’ suoi monti, il 3 d’ Aprile si congedò da me, grato dei beneficii ricevuti e promettente di non iscostarsi dalle fattegli prescrizioni, le quali avrebbe rese manifeste anche al suo Medico di casa. Per qualche spazio di tempo non ebbi notizia del mio infermo, e solo sui primi di Giugno seppi di lui che era aggravatissimo per febbre, per tosse, per addoloramento al petto e molestato particolarmente da dispnea, e per tutto ciò in via di generale consumazione. Fui dolente, non meravigliato nel ricevere queste tristi novelle e solo mi con- fortava la speranza che pur le cose non fossero tali e quali mi s' indicavano, e quindi che forse il povero colono non fosse del tutto ed irremisibilmente spacciato. Fatto è che per gentilezza del sudianzi nominato Signor Marchese, potetti non solo esaminare l’ infermo, ma persuaderlo a prontamente far ritorno nello Sta- bilimento ; in quanto che, sebbene temibilissimo e grave oltre maniera vedessi lo stato suo, pur tuttavolta non sembravami che la Scienza e l’ Arte avessero per anco pronunciata su lui l'ultima parola d’abbandono assoluto. La mattina quindi delli 18 Giugno il Fantini fu adagiato sopra comoda let- tiga e trasportato senza inconvenienti entro lo Spedale e collocato nella mia Sala medica al letto N. 2. Seguo ora, Signori, e come ho fatto fin qui, la semplice e nuda narrativa del caso, il quale, a mia mente almeno, parmi non abbisogni d’ abbellimenti e di fronzoli a comparirvi innanzi, per essere di tale e tanta intrinseca importanza da chiamare su di lui lo studio e l’ attenzione anche proprio tal quale si è e come fedelmente a Voi lo ricordo, in questo suo ultimo e più grave e specialissimo periodo. Era il Fantini molto denutrito; parlava lentamente ed a voce fioca; aveva febbre a 39 %,; dispnoico a modo da contarsi le respirazioni per minuto fino a 46; pulsazioni 85; esaminato il petto dell’infermo, la cosa che primamente chia- mava l’ attenzione era una tumidezza quasi uniformemente rossastra, a sfumatura dal centro verso la periferia, in rispondenza della mammella destra, un po’ in basso ed in vicinanza dello sterno ; tumidezza che in dimensioni ragguagliava la testa d’ un feto a termine. Era poco mobile, elastica però; non pulsante, ed alla pressione o palpandola, non s induceva dolore all’ infermo ; la mano su di essa posata s innalzava e si abbassava in correlazione alle respirazioni. Diligentemente e con precauzione postovi sopra lo stetoscopio, ossivero l’orec- chio nudo, sentivansi soltanto molto marcati i rumori respiratori e non aveasi sensazione alcuna di soffio o di altro. Nell alto del petto s' udivano bensì dei sibili bronchiali,. ma di poca entità ; il | — 129 — posteriormente si avvertivano alcuni rantoli e rispondentemente alla tumidezza si notava un leggero soffio velato ed i rumori respiratorii quivi non erano ben distinti. Dal torace sinistro la respirazione era un po’ aspra ed esagerata e non riscon- travansi cose altre rimarchevoli. La percussione a destra, attorno alla tumidezza, era ottusa; a tergo, dava ri- suonanza normale e così dalla parte sinistra del petto sia davanti sia di dietro eseguita. Interrogato l’ infermo sul come e sul quando era apparsa la descritta tumidezza, ci disse che una settimana o poco più, dopo il suo ritorno in famiglia, e molestato da tosse che si era resa ognora più pertinace, s' accorse di una lieve rilevatezza, la. quale aveva sua sede sotto la mammella destra, formatasi dietro un violento ac- cesso di essa; rilevatezza che andò crescendo di molto. Ricordava però che un tal giorno dopo avere sotto un impeto di tosse sputato una notevole quantità di mar- cia, il gonfiore erasi d’ assai diminuito e che in seguito non avendo più sputato marcia in quella quantità come allora, la gonfiezza andò aumentando fino a rag- giungere le attuali proporzioni. Affermò che ad onta della continua stazione in letto, delle medicine appresta- tegli, nella sera aveva sempre aumento di febbre; perdurava ostinata la tosse quasi tutta l’ intera notte; aveva perduto l’ appetito ed a grado a grado erasi ridotto nelle attuali miserevolissime condizioni. Il genuino racconto dello infermo, confermato dall’ottimo amico e collega il Dott. Cesare Cresti (il quale si trovava presente e che bene spesso aveva visitato il Fan- tini e caritatevolmente confortato di consigli) e l’ avere anzi esso stesso aggiunto che varie volte aveva osservato la non lieve copia di marcia commista allo sputo ed anche pochi dì innanzi che fosse trasportato in città, tutto ciò mi confermò nell’ idea che aveva già concepita nella mia mente intorno la condizione patologica del caso gravissimo che aveva sott’ occhi; laonde, collegando l'attualità con ciò ch’ era preceduto due mesi prima, ossia alloraquando l’ ebbi il Fantini in cura per la prima volta in questo istesso Nosocomio, e pur quanto avvenne nel tempo che rimase in seno di sua famiglia, vi trovai, se il mio giudicio non erra, il nesso ri- cercato e necessario pel diagnostico. E per fermo, ricordando che il Fantini era stato preso da pleurite essudativa, che aveva inoltre offerto contrassegni particolari fisici e clinici indicativi una lo- calizzata pneumonite al costato anteriore di destra e proprio alla regione mam- maria un po inferiormente e di lato; riflettendo che l infermo volle abbandonare lo Spedale quantunque non del tutto guarito, perchè esistevano dati di non com- pleta risoluzione della pneumonite fattasi lenta; avvisando che il processo pneu- monico al ritorno dell’infermo in famiglia, in ispecie per lo strapazzo del lungo viaggio fatto sopra incomodo biroccio, s'era per certo incrudito e pur sempre svolgen- dosì poteva esser pervenuto a distruggere parte del parenchima stesso e perciò essersi formata non piccola quantità di marcia. La quale raccoltasi fra il tessuto polmo- TOMO II. 17 uz 130 Sia nare, aveva prodotto uno ascesso purulento; il quale aumentando via via per ac- crescimento di materiali, dapprima tentò un’ uscita in alto penetrando nei condotti bronchiali di destra, siccome rimaneva provato per le molte marcie sputate e per la qualità dell’ escreato che anche di presente il Fantini espurgava qualora ren- devasi più ostinata la tosse. Non essendo però quella via stata sufficiente a svotare la raccolta, e conti- nuando a secernersi essudati purulenti, questi prodotti patologici fecero ressa in basso e per aderenze che senza dubbio avean dovuto nascere fra le lamine pleu- rali, cominciarono ad insinuarsi fra il tessuto unitivo e muscolare, ed a poco a poco spingendosi infuori del petto avevano formato un vasto tumore della forma e delle dimensioni descritte, e com’ebbi in altra circostanza a notare, se bene senza con- fronto assai meno grave della presente, e che Vi comunicai nella Seduta delli 17 Dicembre 1874; comunicazione resa indi pubblica nel successivo anno (1). Questo tumore adunque lo caratterizzai quale un vasto ascesso del polmone resosi esterno, presa la parola ascesso nella sua vera definizione o quella di raccolta di marcia in una cavità accidentale la di cui formazione è dovuta appunto al prodursi di questo liquido nel mezzo dei tessuti; donde la distinzione dell’ascesso dagli spandimenti purulenti delle cavità normali del corpo. Il vero ascesso, aggiun- gerò ancora, che ha sede fra i tessuti ed in organi parenchimatosi e che direttamente deriva dalla suppurazione d’ un tessuto infiammato e si forma nel luogo medesimo dell’ infiammazione. Escludeva poi la causalità sua da una pleurite purulenta, specialmente consi- derata la qualità degli sputi color ruggine proprii dei pneumonici ed osservati nel primo periodo del male e nel momento della sua maggiore acutezza, i quali addimo- stravano essere stato compreso da infiammazione il parenchima polmonare ; infiam- mazione che si rese poi lenta; consideravo il quasi innavvertito addoloramento di questa parte ammalata, contrariamente a quanto era accaduto nella pregressa pleurite essudativa, che si limitò inferiormente e posteriormente dopo avvenuto lo spandimento che ritenni di natura siero-fibrinoso, non avendo provocato que’ brividi intensi che adduce il purulento e per essersi dissipato in tempo breve: alla quale pleurite essudativa susseguì l’ attacco infiammatorio parziale del. polmone il quale diede manifesti segni della propria esistenza nel modo sopra esposto. Così escludeva pure una cisti suppurata, un tumore per congestione, avuto ri- guardo all’ andamento della malattia ed alla tempra e robustezza dell’ individuo, e fatto calcolo della buona natura della marcia che il Fantini vomitò, e considerati gli sputi che a quando a quando anche al presente emetteva dalla bocca. Per la massima gravità del caso adunque era urgente di prendere un pronto, efficace e decisivo partito, e mi pareva quello d’ aprire largamente il tumore me- desimo ; il quale lasciava vedere allo esterno delle chiazze e delle righe brunastre (1) Vedi, Bullettino delle Scienze Mediche pag. 116, del 1875. — 131 — ed un po lucenti, addimostrative l incipiente alteramento dei tessuti pel forte sti- ramento a cui erano di continuo e progredientemente sottoposti. Pregai quindi il distinto collega Stig. Dott. Luigi Medini, Chirurgo Primario dello Spedale, ad esaminare diligentemente esso pure l’ infermo per devenire all'atto operatorio che mi sembrava, come ho detto, indispensabile, se non altro ad alle- viare, fosse pure per poco, il lungo suo ed affannoso patire. Verificata l’ urgenza, anche in vista d’ una possibile febbre infettiva per assor- bimento di marcie, l esperto e dotto Chirurgo praticò secondo la direzione delle coste un'incisione di più che otto centimetri in corrispondenza della settima costa; dalla quale incisione scaturì in copia marcia di buona qualità, inodora e cremosa, locchè addusse pronto sollievo al paziente. Svotato l’ ascesso ed insinuato dal basso in alto e colle dovute cautele l’indice, colla mira di veder pure di trovare l’ apertura che per le ragioni dianzi indicate doveva certo esistere, al fine di porre in comunicazione il contenuto dell’ ascesso nel cavo toracico, si riescì a scuoprire una piccola scabrezza ossea ma di nessuna importanza nel margine inferiore della quarta costola, dovuta solo alla maggiore pressione del liquido in quel posto speciale; la quale però ci fu guida a rinvenire poco più sopra il punto vero dal quale proprio fuori erano venute per lo passato le materie che s' erano fatta una via pe bronchi ed erano uscite ed in parte tut- tavia uscivano dalla bocca. Accertatici sulla giustezza del fatto diagnostico, cominciammo a praticare delle lavature e delle iniezioni con acqua fenicata e pensammo al modo di mantenere uno scolo aperto e libero agli umori che sarebbersi ancora separati dallo interno della cavità, per giovarcene al fine di introdurre sostanze detersive. Ad ottener ciò adottammo il metodo, che pel primo propose ed attuò nell'uomo il Chassaignac, ossia del drenaggio fatto con una cannula di cautchouc della lun- ghezza di circa 12 centimetri che insinuammo fino al punto superiore accennato, lasciandone inferiormente una piccola porzione allo esterno pel facile svotamento delle materie medesime. Indi cuoprimmo il tutto con filaccie bene imbevute con acqua fenicata e fermammo la medicatura con adattata fascia circolare ed in ma- niera che l'apparecchio non potess’ essere minimamente rimosso. Internamente, essendo da qualche tempo l ammalato sottoposto alla cura del- l’acqua seconda di calce mista col latte, credetti continuarne l’ uso, e feci som- ministrare brodi sostanziosi e nulla più. Passati due giorni dall'ingresso del Fantini nello Scedale e dalla fattagli spac- catura dell’ ascesso polmonare, scomparve subitamente la febbre (37,3 la sera, 36 il mattino) e così la dispnea, e solo radamente aveva qualche lieve colpo di tosse; laonde l' ammalato si rincuorò a confortevoli speranze di riacquistare intero il bene della perduta salute. Due volte ogni giorno il mio diligentissimo Assistente Sig. Dott. Elo Galiani, medicava l’ operato e sempre notossi che si manteneva di buona qualità ed in — 132 — discreta copia il liquido purulento che secernevasi dal cavo interno, a conferma sicura che la dianzi notata lieve scabrezza ossea non aveva avuta parte veruna alla formazione dei materiali purulenti, e le irrigazioni fenicate quantunque arre- cassero, a tutta prima un po’ di bruciore, poco stante l ammalato si sentiva assai meglio e respirava con tutta libertà e ad aperti polmoni siccom’ egli suolevasi esprimere. Aumentai la quantità del cibo, feci apprestare buon vino di Chianti, e trascorse che furono una quindicina di giornate m'avvidi che la ferita esterna era quasi del tutto cicatrizzata e non rimaneva pervio che un forame rotondo attraversato dal condotto di cautchouc, della lunghezza però sempre di circa dodici centimetri, che quasi tutto s'internava nel petto. Mera riuscito di ottenere molto, ma non era tutto quanto desiderava per aver proprio un completo trionfo; occorreva impertanto trovar modo d’ obbliterare af- fatto il cavo e di far chiudere, senza che nascessero inconvenienti, la fistola tora- cica; allora, soltanto allora avrei potuto affermare d’ essere riuscito ad aggiungere alla Storia Clinica un fatto veramente singolare e degno di ricordo. Corsemi dapprima alla mente di tentare una contro-apertura lateralmente oppure anche dalla parte posteriore del torace massime valutando, come dissi, la lunghezza. del tramite che si portava molto in alto e volgeva alquanto di lato. Reputai d’attenermi però innanzi tratto ad un mezzo meno pericoloso o quello proposto in ispecie dall illustre Baccell? (ora Ministro in Roma per la Pubblica Istruzione ) consistente nelle iniezioni caustiche fatte con soluzione di Nitrato d’ argento. Per fermo, nella sua classica Memoria intorno l’empiema vero, il Clinico romano porta innanzi vari buoni risultamenti ottenuti per esso metodo; si trattava però di raccolte di pus sussecutive a pleuriti (Empiema); mentre nel caso mio il pus era stato conseguenza d’ uno snaturamento «li porzione del parenchima polmonare per infiammazione localizzata del parenchima medesimo; (Vomica). In ogni ipotesi però, valutando le belle disamine del chiarissimo Baccelli e le deduzioni che seppe trarne, stimai opportuno tentare l esperimento. Di vero, così egli s' esprime alla pagina 41.° del suo ricordato lavoro, pubblicato in Roma nell’anno 1868; — e poichè la intemperanza della piogenica (ammessa allora da- gli anatomo-patologi) anzichè smettere per l’ eduzione del fluido purulento, la sua irritazione secretoria o formativa, l’accrescerebbe, siccome l’esperienza e la ragione fisio-patologica apertamente dimostrano, è forza modificarla profondamente ed ecco i due canoni terapeutici dell’empiema: puntura del torace: cauterizzazione della superficie essudante. — Alla prima indicazione aveva io già provveduto invece che colla puntura, fran- camente aprendo il tumore, non temendo per la natura del male alcuna sinistra conseguenza dall’ introduzione dell’ aria, dalla quale, per ineidenze dichiaro, non averne avuto giammai in altre speciali circostanze osservato danno; preferii poi una larga incisione fondato nelle ragioni sopra discorse. —.133 — Non mi rimaneva quindi che di mettere in opera la cauterizzazione interna fatta con soluzione ben satura di Nitrato d’argento. Intrapresi adunque questa cura incominciando dapprima con cinquanta cen- tigrammi di Nitrato d’argento cristallizzato in centocinquanta d’acqua distillata introdotta per entro il cavo, giovandomi d’una sciringa elastica del Nélaton e mantenendo la soluzione in contatto delle pareti circa dieci minuti, impedendo Y uscita del liquido collo stringere l’ estremità esterna della cannnula medesima. La sensazione che massimamente per la prima volta se ne ebbe l infermo fu alquanto penosa e diceva di sentire come una fiammella che lo abbrucciasse in- ternamente, indi avvertì un senso vertiginoso al capo precursore di un deliquio. Fatto tosto uscire il liquido e sovvenuto debitamente il paziente e praticate irri- gazioni d’ acqua tepida mediante la cannula stessa, subito ne trasse ristoro ed indi a non molto tranquillamente s° addormentò. L'indomani i materiali separatisi, e che imbrattavano la medicatura, furono un po’ più densi e copiosi che per lo addietro; trascorsi però alquanti giorni e con- tinuatosi per intanto sempre varie volte al giorno le lavature e le irrigazioni fe- nicate, le cose ripresero migliore andamento e le marcie si resero di nuovo scarse e di buona qualità. Ricorsi allora ad una seconda iniezione caustica con doppia quantità di Nitrato; e di otto in otto giorni mi regolai medesimamente, aumentando però sempre di cinquanta centigrammi la dose del Nitrato in una proporzione di Acqua stillata di poco superiore alla già adoperata. Alla sesta iniezione il cavo era presso che obbliterato ed appena potevasi man- tenere in posto nell’ apertura un cannello di drenaggio lungo tre centimetri. In queste favorevoli condizioni credetti di poter togliere del tutto il drenaggio e cuoprire con cerotto adesivo il piccolo pertugio esterno. Se non che male me n’incolse; di vero, nel successivo giorno l’ammalato fu compreso da febbre, 39:3, e da qualche brivido ; immediatamente con uno specillo riapersi la fistola e colle dovute cautele introdussi di nuovo il tubetto di drenaggio ed a mie spese riconfermai veri i dettami de’ miei illustri colleghi, il Baccelli (op. cit.) ed il Brugnoti (sulla cangrena polmonare; Memorie dell’ Accademia T. 7° anno 1876) i quali ne’ loro lavori scien- tifici affermarono assennatamente che uno de’ momenti più difficili in questo genere di mali, si è di precisare il quando si debba abbandonare il drenaggio, consi- gliando che il meglio si è di alquanto temporeggiare. Superata anche questa fase e ricondotto il mio infermo nel più confortativo stato, gli permisi di tornare presso la sua famiglia, ingiungendogli però di prati- care sempre ogni giorno lavature interne con acqua fenicata alla dose prescrittagli, e di lasciarsi vedere, una volta per settimana, al fine di regolarlo pel suo meglio. La nutrizione era buona, florido il suo aspetto, camminava liberamente, nulla, affatto nulla risentendo di molestie; l’ appetito era eccellente, tutte le sue funzioni si eseguivano fisiologicamente, laonde il 31 Agosto lo congedai. La settimana appresso il Fantini puntualmente venne a me e medicatolo veri- — 134 — ficai che tutto procedeva bene, se non che la fistola era tuttavia presso a poco come dianzi. Feci una settima iniezione caustica (tre Grammi di Nitrato in Gr. 150 d’acqua) susseguita dalle solite lavande e medesimamente mi regolai la settimana appresso. Se non che dopo tre giorni dall’ ottava medicatura caustica, improvvisamente si presentò il Fantini impaurito perchè non aveva più potuto introdurre la piccola can- nula e gli pareva che il pertugio esterno fosse del tutto chiuso, laonde temeva guai. Ed era chiuso realmente il pertugio e tale sì mantenne e si mantiene sempre, e l’infermo è ridonato al più perfetto stato di sanità. Risuonanza fisiologica in tutto l’ ambito toracico, regolari le sue dimensioni; respiro per ogni dove normale; non ebbe più mai tosse; lavora ne’ campi come per lo addietro faceva ed è allegro e contento. E Voi, Signori, lo vedrete tale e quale Ve l’ho descritto, se, come spero, l’illu- stre nostro Preside permetterà che Ve lo presenti a comprova sicura di quanto ho avuto l'onore d’ esporvi ed a rafferma che il fatto è classico per l Arte e per la Scienza, in quanto che, se male non m’'appongo, ci addimostra le cose seguenti, colle quali riepilogo e chiudo la presente comunicazione e sono: (1) 1.° che un'infiammazione localizzata del parenchima polmonare fu causa della formazione di marcie le quali, rimaste chiuse nel petto, formarono un ascesso del polmone, ch'è per sè medesimo molto raro, e che esse marcie tentarono pri- mamente d’aprirsi una via d’ uscita pe’ bronchi, ma che non essendo stata baste- vole la piccola via a svotarle s' insinuarono a poco a poco in basso fra i tessuti, fino a formare allo esterno una assai considerabile tumidezza : 2.° che aprendo largamente questo focolaio marcioso non ne vennero conse- guenze dannevoli, ma di tal guisa lo si poté meglio esplorare e determinarsi alla scelta del mezzo curativo più conveniente: 3.° rimane indi comprovata l’ utilità del tubo a drenaggio, delle lavature e delle iniezioni fenicate fatte mediante il medesimo tubo, per distruggere i germi produttori della febbre; la quale cessò affatto subito dopo eseguita 1’ apertura; donde se ne può anche trarre un argomento di valido appoggio pe sostenitori della ne- cessità d’ aprire ad ogni patto i focolai purulenti che sono cagione dello sviluppo della febbre istessa e n’ avemmo un esempio provativo anche dal fatto narrato: 4.° che pur resta accertato il beneficio che apporta l iniezione caustica fatta con dose elevata e gradatamente accresciuta del Nitrato d’argento ; mentre per essa si pervenne a rimpiccolire e chiudere perfettamente il cavo dell’ascesso e tut- tavia il rimasto seno fistoloso in forza dell’infiammazione adesiva da essa sviluppato: 5.° finalmente risulta che deve aversi molta oculatezza a scegliere il mo- mento opportuno di levare del tutto il drenaggio, anche se la separazione del pus sia minima; mentre è sempre minor danno che il pertugio resti aperto, di quello che si chiuda anzi ora; riflettendo che l organismo provvede a sè medesimo e che bisogna rispettare, in questi casi specialmente, anche la sua lenta evoluzione. (1) Introdotto il Fantini nella Sala di riunione fu specialmente esaminato dai chiarissimi col- leghi Professori Pietro Loreta, Cesare Taruffi e Cesare Belluzzi, i quali confermarono l’ottenuta perfetta guarigione, SOPRA ALCUNI CASI D' EFFLUSSO DI LIQUIDI PiiiRi NAST COON UN TCA NUDI MEMORIA DEL PROF. CESARE RAZZABONI (Letta nell’ Adunanza ordinaria delli 9 Dicembre 1880) 1° — Nella ordinaria teoria degli efflussi dei liquidi da piccole luci scolpite in pareti sottili si dimostra che la velocità nei vari punti della luce si può in- tendere ad ogni istante dovuta al carico sul centro della luce, e ciò tanto che la luce sia libera o regurgitata, quanto che il carico sia costante o variabile. Questo principio, che è la più semplice espressione di cotal forma di movimento, serve di base alla risoluzione delle questioni che si attengono agli efflussi, ed in questa memoria ce ne serviamo per la trattazione di due casi, che si riscontrano frequen- temente, e che dal lato teorico si manifestano non privi di qualche importanza. 2° — Il primo di questi casi è quello in cui due recipienti prismatici e ver- ticali comunicanti per mezzo di una luce, e contenenti un liquido a differente livello danno luogo all’ efflusso del liquido per mezzo di un’ altra luce del 2° re- cipiente, colla circostanza che la prima luce rimanga regurgitata per tutto il moto: nel 2° caso invece la prima luce è sempre libera. Per calcolare questo movimento sieno m ed m' le sezioni orizzontali dei due vasi . la luce di comunicazione . quella di efflusso a . la carica nel 1° vaso sul centro di @ a'.... la carica nel 2° vaso sul centro di 0' h . la distanza verticale dei centri delle due luci x .... la carica nel 1° vaso alla fine del tempo # riferita al centro di @ x'.... la carica nel 2° vaso alla fine del tempo # riferita al centro di o' — 136 — il volume di liquido che sortirà dal primo vaso nell'istante d# successivo al tem- po # potendosi esprimere con @dt|/ 2g(h+x—') oppure con — mdx, e quello che resterà nel secondo con j/2g {@y/h+x—x — 0'y/2' } dt oppure con m'da', le equazioni del moto per conseguenza saranno adt/2g /h+a—q =— mdx (1) pb V29 | a/ht+a—e — 0'/a' | di= m'da' Queste equazioni, tosto chè siensi ottenute relazioni separate fra le due cariche x ed x' ed il tempo #, serviranno a risolvere completamente il problema. Poichè da esse si potrà avere la differenza h+x—x' dai livelli a qualunque tempo, e così si potranno pure conoscere il volume di liquido che nel tempo # sortirà dal primo vaso, quello che nel medesimo tempo si fermerà nel secondo e sortirà per la luce o'. Tutto adunque si riduce alla ricerca delle relazioni finite fra le due ca- riche x ed x col tempo #. A tal fine eliminando nelle (1) il dt si avrà mda m'da' (2) — _r_ ——_—___i tt o/l+a—a na o/h+a—e-0'/a ora sì faccia (3) h+a—a' = x'2° e dopo facili operazioni si avrà dalla (2) la seguente da' 2m(0z—0')ede (4) pala x m(e+1)02—0') + me mm dalla quale, le variabili essendo separate e le funzioni essendo razionali, si potrà avere x' in funzione di 2, e per mezzo della (3) x' espresso per x, onde poi colla (1) si arriverà alle cercate relazioni di queste variabili col tempo. 3° — Il caso più comune è quando il primo recipiente sia inesausto, giacchè allora x essendo costante ed eguale ad 4 la prima delle (1) va a zero, per cui il moto rimane rappresentato dalla sola equazione (5) V29g fo/h+a—e — o'/a' } di= m'da' che non contiene che le sole variabili x' e #. Da essa intanto si deduce — 137 — FoeS Do ode /h+a—a' odi /a — V2gloh+rate)—0°2 0°(h+ta—2')— a'? x | Pongasi ora per la prima funzione y/h+a—x' = u? e per la seconda VAI e si avrà ’ 2m auidu o'e°de E n n A O roy = f V29 |a'*h+a)— (0°+0'°\u° a *%+a)—(0°+0'°)2° di cui l'integrale fra i limiti a' ed x' rispetto alla variabile x' sarà oa /h+a., o' /h+ta+uy/0°+0® |a ouezior e, ie === dn 2/0°+0? Cod /htaT—uy/o'+0' +0) alta +s/0+0 \ oyph+a—zy/0°+0° x e quindi sostituendo per u e 2 le funzioni in x' si avrà loj/h+ta—a —/h+ats}+o' {fa ya }—! | | | oo /h+ta., 0 /h+a+y/h+a—a' /0°+0'"? ie === O | ———r6E——_TT—-- mMMI—_———_—ri 2/0°+0'? 0) Vh+a—y/h+ta—a' /0°+0'"° Ì o/l+a+/a' /0°+0'? o/h+aT—y/a' /0°'+a0'? ' 2 eZ (0°+0 °°) / 2g | o /h+ta — /h+ta—e /o'+0'° o/l+ta+/h+a—t /0°+9'"° | o/h+at— {x /o°'+a0° o/h+ta+ ya /0°+0" Questa formola darà # per x', cioè il tempo che il livello impiegherà a passare dalla carica iniziale a' alla x’, ma il problema reciproco non potrà per di lei mezzo essere algebricamente risoluto, stantechè la x’ si trova contemporaneamente im- plicata in funzioni algebriche e trascendenti. TOMO II. 18 — 138 — 4° — Per fare un’ analisi della (6) gioverà osservare che dopo un certo tempo il livello nel 2° vaso arriverà ad uno stato permanente sotto una carica costante Ò, il di cui valore si avrà dalla (5) nella quale de' = 0, ed x = è e quindi dalla oy/h+a--d =0' /d da cui 0° (h4-a) (7) SEO OO la quale mostra che il livello permanente nel 2° vaso si stabilirà più depresso di quello del primo, e tanto più quanto più piccolo sarà il valor numerico del rap- 2 orto A P oî+0"? Se o=0' sarà 1 cioè il livello permanente sarà indipendente dall’ ampiezza delle luci, e cadrà nel punto di mezzo della distanza verticale del livello del primo recipiente del centro di o'. Se @' è piccolissima rispetto ad @ in allora sarà prossimamente (9) òo=l+a cioè il livello permanente nel 2° recipiente si stabilirà all’altezza di quello del primo. Se pol viceversa è @ piccolissima in confronto di @' allora È (10) d= (h+a) (11) e ciò vorrà dire che il livello permanente si stabilirà ad una distanza piccola da r RAMO î o O a, è tanto più piccola quanto minore sarà il rapperto — . )) 5° — Ciò premesso si introduca nella (6) l’altezza del livello permanente ed essa si trasformerà nella — 139 — \of{/hwa—a — /h+a-s |+o' {/a Va}, __ 00 o/dè+oyh+a—a _, /d+/a' em cd a o'/d — a/h+taT—a x Vi Va | o'/d+oy/h+ta—ea È V/d+y/x 2m (0°+0'*)/2g X (11) t= x | In questa osserveremo che i limiti della variazione della x' essendo compresi fra a' e è sarà generalmente << ed essendo o h+aT—-òd 3 h>-aT-a >h+at—-òd. Ora essendo per la (7) ? 12 12 O +0 (09) o) h+ta= —;— così h+taT-d=-—-d o) o) e quindi h PERI TURNI +a—7T >TF° : Ia pò dalle quali si deducono o' fd -o/h+a—z <0 o'/ò-@o/h+a+a' <0 ne viene quindi che tutta la funzione contenuta sotto il vincolo logaritmico fin- chè x' resta compresa fra a' ed d sarà positiva. Quando si faccia 2 '=a' si trova #= 0, come deve essere. Ponendo poi x' = è in allora essendo — 140 — LA hra-s=d sarà o/h+at—e = /d o) e quindì la funzione sotto il logaritmo diverrà zero, ed il logaritmo =—c0. Questo risultato concorda colla circostanza, che in questo caso cessa la continuità della funzione. 6° — Seo=0' e quindi per la (8) d=I%+ a) la (11) diventa | Vh+a—a — /h+a-z + /a' — Na — I a e e AI (12) t=== 2 Vi —/h+ta—a' Vd— Va Oy 29 Nd — Vreaza o Vida VI + Vh+a—a È Vd+y/a' | e se nel 2° recipiente si intende chiusa la @' in allora nella (11) si farà 0'=0, e sì ricaverà x | X 2m' RENI ATE RE = |Vh+a—-a' —y/h+ta—a' | (13) da che è la nota formola dell’ efflusso in due vasi prismatici e verticali comunicanti per via di una luce, quando il primo dei vasi è inesausto. 7. Suppongasi infine che le due luci © ed @' abbiano i loro centri allo stesso livello, in allora sarà A = 0, e per la (7) il livello permanente si stabilirà all’ al- tezza = Fx? la (11) diverrà ORA AZeasto-0on Va — Na }— 2m' Del log 2. Vi +0 i x VOEArAÌ LE X © +9'7)/29 2 o/d-oypa—a V/d—-yVa a/ò od Via | | o/d+o/a-g Vd+y | (14) t= Xx \ — 141 — . ’ cago. so (03 . 6 e nel caso di @= @' e quindi di d = o questa riducesi alla | Va_a — ar +/a' — e — \ n di, Vdi+va-a Vd+y/a' ° st] == === =_= VETIZINIZIENZI | (Ami Av | 8° — Queste sono le risultanze principali del movimento composto del liquido nei due vasi, quando la luce © di comunicazione rimane sommersa per tutta la durata dell’ efflusso. Ora passiamo allo studio del caso in cui la luce @ al prin- cipio dell’ efflusso sia libera, e che l acqua da esso defluente si versi nel 2° re- cipiente da cui esce come nel caso precedente per la @' ad un livello più basso. Le formole del moto in questo caso, ritenute le denominazioni precedenti saranno | o dty/2gr =— mdx V2gio/a—0' /x | di=m'd' (16) le quali analogamente alle (1) serviranno a trovare delle relazioni separate fra le cariche variabili x ed x' ed il tempo, e daranno luogo a quistioni analoghe a quelle nel caso precedente trattate. 9° — Eliminando nelle (16) il tempo si avrà mda m'da' = + 3° , ==0 oyx opa—09 ya Per separare le variabili e rendere questa formula razionale, facciasi a' = 22°, e sì otterrà (17) (18) da Le VEIL = x È MQ Mm 2° , (01) Mm il denominatore della funzione = potendosi porre sotto la forma \ mo' | ml ma? ) z | 2m'@ Foiano — 1422 — la precedente equazione conduce a due integrali differenti, secondochè ro VE — | Am @% > ed i risultamenti corrispondenti a quelle due combinazioni ora passiamo a deter- minare. 19 MO 10° — Caso 1° quando ing 0 Ponendo mO' do m mio! È pes ce nm ima | l’ integrale della (18) fra i limiti a ed « rispetto alla x, ed a' ed ' rispetto alla x' sarà a w | CAD i i Sei ni (19) loeeei====agg— 7 = tag Tanga e servirà a stabilire la relazione finita fra le due cariche x ed x' a qualunque tempo. Ma poichè queste due variabili trovansi implicate in funzioni trascendenti diverse, così, meno qualche caso particolare di cui in appresso, generalmente quelle variabili non si potranno avere risolute algebricamente in funzione l’una dall’altra. In ogni modo poichè l'integrale della 1° delle (16) è fra i soliti limiti # ed & (20) pa ESA, e quindi Mm così ponendo nella (19) per x questa funzione del tempo si avrà una relazione fra x' e t, che se non darà algebricamente x' per t lo si potrà avere con qual- cuno dei metodi d’ approssimazione che si usano in simili casi. — 143 — 11° — Ponendo nella (19) 2'=%, cioè eguale alla differenza di livello fra le due luci @ ed @' si avrà il corrispondente valore di x nel primo vaso. In pari tempo le (16) faranno conoscere, quando ne siano possibili le integrazioni, il tempo che i due livelli avranno impiegato a raggiungere queste due posizioni speciali. Dopo di che, se il moto proseguirà, le sue circostanze non dipenderanno dalle (16) e (19) ma sibbene da quelle del problema che è stato trattato nel $ 2° e suc- cessivi. 12° — Se nella (19) si suppone a=0@', ed m=wm' si ha Il 1 e quindi Se poi @' è piccolissima rispetto ad © di guisa che si possa trascurare p in allora q= VA Rea e la (19) diviene Mm % _ + sl x x m' log — X — =) & Tri m o m onde il qual valore sostituito nella (20) darà (22) va |. Mm m 2m? . te 13° — Passiamo ora all’altro caso in cui => 1;in allora l'integrale della LU 4m @ — 144 — (18) esteso per rispetto alle due variabili x ed x' ai soliti limiti dopo di avere posto I MA O gg a mo 4m *@? m' Di (23) mo' e Mr I ma TE {args n è sarà DI 2p x Ped a \ pd x "i Le (24) AZ i di I \ mele Di —_— +9 % « e questa avrà il medesimo ufficio del precedente caso rappresentato colla (19). 14° — Per vedere in qualche condizione particolare quali risultamenti si possono avere sotto forma più semplice osserveremo che i valori particolari da attribuirsi ad m,m',@, ed 0' non possono essere qualsivogliono, ma sibbene legati alla con- tor o' mo. : ay È “Ma: : dizione che — > 2 Vv se o in altri termini che i radicali compresi nella (23) Tn) m sieno reali; quindi non potrà essere m=m', e simultaneamente @0==0'; come pure non potrà essere @' piccolissima rispetto ad a, e neppure p=9g=°0. Verificandosi queste ed altre analoghe condizioni si deve ricorrere alla formola del caso trattato ASL Egli è poi ehiaro che colla (24) si potrà avere x per x' ed inversamente, e poscia colla (16) x ed x' tutte e due in funzione del tempo. 15° — Supponiamo ora @=0@', ed m grandissima rispetto ad »', in allora il secondo termine sotto al radicale delle (23) si potrà trascurare rispetto al primo, e si avrà p=0, q=—2, e dietro ciò la (24) darà aq = come dev’ essere, giacchè questo caso corrisponde a quello precedentemente trattato in cul l’efflusso diviene permanente. 3 Ponendo ora m = 3mwm', ed 0 = 7 o' si ha p=— 1, qg=— 3, e la (24) posta la quantità costante — 145 — o. Vi: si trasforma nella 2dka—3x' —x 2 T lka—(c' +32) +32) | per mezzo della quale e delle (16) si avranno le funzioni che legano « ed #' con t. Finalmente facendo m=m', ed o'=20 si ha dalle (23) p=g=—1, e p—-9g=0, onde la (24) cade in difetto; ma ricorrendo alla equazione differenziale (18) si ha allora dx 2ede a EI di cui l’ integrale sarà da cui si deduce \/a—-yea}=/a' —/a; e siccome dalla prima delle (16) si ricava integrando così per la precedente si avrà 2m 029 IZIETZA le quali due ultime risolvono completamente il problema. 16° — Ai risultati precedenti si poteva pervenire colla integrazione immediata TOMO II. 19 — 146 — delle (16) nel seguente modo. Dalla prima di queste formole si sarebbe trovato a VE: 2m con che la seconda avrebbe presa la forma e __90° Mr RE ONT @ pAzi i dii—'midr; ponendo in questa Va = (, 3 mi u si arriverebbe alla relazione 2dt SI 2udu j__2m Va O) V 29 __glo'îm — 40°m') o V 29 4m' 16mm'* la quale a seconda che conduce a formole eguali a quelle, che si otterebbero qualora nelle (19) e (24) alla y/x fosse sostituito il valore su riportato di questo radicale in funzione del tempo. Non crediamo di difonderci ulteriormente giacchè i processi analitici sareb- bero identici a quelli che superiormente abbiamo esposti. > — — —— “Mu AZIONE DEL BIOSSIDO DI AZOTO SOPRA UNA SOLUZIONE DI PERMANGANATO DI POTASSIO MEMORIA pic LieENG ASI EDO RC AWVAZZATL (Letta nella Sessione del 30 Dicembre 1880) Occupato a rintracciare il grado relativo di purezza del biossido di azoto pre- parato coi metodi in uso ed in particolar modo con quello che trae profitto dal- l’azione del nitrato di potassio sopra una soluzione fortemente acida di cloruro ferroso, non tardai ad accorgermi che la soluzione acquosa di protosolfato di ferro non è a giudicarsi quale mezzo di assorbimento abbastanza pronto ed esatto per separare questo gas da piccole quantità di alte sostanze gassose e sopra tutto di protossido di azoto e di azoto, i quali sono i principii più frequenti delle impurità del biossido che si ottiene dall’ acido nitrico al contatto di certi corpi atti ad eser- citare su questo una determinata e speciale azione riducente. Non credo opportuno di fermare l'attenzione dell’Accademia sopra alcuni tentativi infruttuosi che io feci colla speranza di trovare una sostanza che potesse servire all’ uopo e meglio del solfato ferroso, prima che mi venisse in pensiero di provare la reazione del biossido di azoto sopra uno sciolto di permanganato di potassio. In un lungo tubo di vetro graduato chiuso ad una delle estremità e pieno di mercurio introdussi 250° di biossido di azoto che io aveva preparato riscaldando insieme gradatamente, entro palloncino di vetro, del mercurio con un miscuglio a volumi eguati di acido nitrico fumante e di acqua distillata. Col mezzo di una pipetta feci poscia arrivare alla sommità del mercurio rimasto nel tubo 10° di una soluzione acquosa concentrata e calda di permanganato di potassio. Dando allora al tubo lievi movimenti dall'alto al basso ho potuto constatare che n Il biossido di azoto è assorbito completamente e rapidamente da una soluzione acquosa di permanganato di potassio. , Io fui sollecito di confermare questo fatto con numerosi esperimenti dai quali risultava ben manifesto che nelle accennate condizioni nel tubo rimaneva una — 148 — quantità di gas non assorbito (azoto o protossido di azoto) non mai superiore ad 1° sopra 100° del biossido sperimentato. I prodotti della reazione che avviene fra il biossido di azoto e il permanganato di potassio sono nitrato di potassio e idrato di perossido di manganese. E valsero a pro- varlo i seguenti esperimenti. Presi 4” di permanganato puro diseccato a 100°: sciolsi la sostanza in acqua distillata privata di ossigene colla ebollizione: introdussi la soluzione in un reci- piente di piccola capacità, e feci passare attraverso ad essa una corrente di bios- sido di azoto ben lavato sino a che scomparve il coloramento roseo caratteristico dello sciolto salino. Scacciato l’ eccesso di biossido rimasto nell’ apparecchio con una corrente di anidride carbonica, aprii il recipiente e raccolsi subito sopra un feltro il precipitato di idrato di manganese, che lavai a più riprese con acqua bollente. Sottoposi il liquido feltrato all’ evaporazione sino ad ottenere un residuo solido che riscaldai ad una temperatura sufficiente per fonderlo, ma non tanto elevata da promuovere la decomposizione del nitrato di potassio. Questa fusione ha per effet- to di decomporre delle piccole quantità di nitrato di manganese che si riscontra- no nel residuo dell’ evaporazione, quando specialmente non si sia avuta la massi- ma cura di espellere dall’ apparecchio tutto l'ossigene e quindi di impedire la formazione di piccole quantità di acido nitrico libero. Procedendo coi debiti modi sono riescito a ricavare da detto residuo una quantità di nitrato di potassio cor- rispondente a quella del metallo esistente in 4”- di permanganato ed eguale a quella che mi fornì altrettanto permanganato trattato a caldo con acido nitri- co fumante. Il residuo che si ottiene evaporando sotto 100° contiene traccie ap- pena sensibili di nitriti. Il precipitato che si separa nella reazione del biossido di azoto col permanga- nato di potassio si presenta in forma di fiocchi bruni misti a piccole pagliette lu- centi visibili in parte ad occhio nudo. Diseccato a bassa temperatura o a 100° dà una polvere coll’ apparenza del caffè sottilmente macinato. Esso è un idrato di perossido di manganese: di fatti a caldo si scioglie con certa facilità im eccesso di acido solforico concentrato convertendosi fra 100° e 200° in solfato manganico viola con sviluppo copioso di ossigene molto sensibilmente ozonizzato e allo stato di polvere verde insolubile, ad una temperatura più elevata. Ad un certo punto lo svolgimento di ossigene cessa per ricominciare ad una temperatura prossima all ebollizione. Mantenendo questa temperatura il precipitato verde scompare, il liquido ritorna viola e trasparente, e finalmente diviene quasi incoloro in seguito alla produzione del solfato manganoso che in parte si deposita cristallizzato col raffreddamento. Questo idrato è intaccato appena dall’ acido nitrico fumante anche bollente che lo converte in nitrato manganoso: Intorno a ciò interessa far notare che la parte non sciolta conserva il colore e tutti i caratteri del primitivo idrato, mentre che l’ idrato di sesquiossido in analoghe condizioni si converte in idrato di perossido della formola 4Mn°0, H°O che ha colore bruno-nero. di acido solforico concentrato, e aprendo la chia- — 149 — In processo di tempo l’ acido nitrico diluito produce le medesime trasformazioni. Ad una temperatura inferiore al color rosso scuro questo idrato perde non solo l’acqua ma una parte dell’ ossigene, come accade del composto analogo che Ber- thier ha ottenuto facendo passare una corrente di cloro in eccesso attraverso del carbonato manganoso sospeso nell’ acqua. Di ciò mi sono fatto sicuro col determi- nare la quantità di ossigene somministrata da pesi eguali di idrato, in un caso calcinato sotto il calor rosso scuro e nell'altro semplicemente diseccato a 100°. Col mezzo dell'acido solforico bollente da gr. 0,6 di sostanza calcinata ho rica- vato 22° di meno di ossigene, in confronto al gas ottenuto dalla quantità equi- valente di idrato seccato a 100°. L’ idrato nel perdere l’acqua di combinazione assume un colore più scuro. A dissipare però ogni dubbio sul grado di ossidazione e di purezza dell’ idrato in discorso rimaneva a determinare colla massima cura,o il volume dell’ ossigene che si poteva ricavare da un dato peso dalla sostanza scaldato con acido solfo- rico concentrato, o la quantità di cloro che poteva svolgere in condizioni analoghe al contatto dell’ acido cloridrico. Io ho preferito il primo processo coll’ avvertenza di diseccare prima l’ idrato, a 100° all'intento di rendere la sostanza meno sensi- bile all’azione dell'acido solforico, e in conseguenza più scarsa la produzione di ossigene ozonizzato. Ecco in qual modo fu condotto l esperimento. Introdussi gr. 1,5 di idrato secco a 100° in un palloncino di vetro Fig. 1.* di 140°. di capacità: chiusi il recipiente con un tappo portante due tubi di vetro, uno verticale ad imbuto munito di chiavetta, l’altro conduttore avente il ramo discendente lungo cir- ca 70 centimetri e l estremità ricurva immersa in un bagno a mercurio. Feci passare per mez- zo del tubo ad imbuto una corrente di anidri- de carbonica nel palloncino a fine di scacciare tutta l aria. Chiusi allora la chiavetta e sovrap- posi all estremità ricurva del tubo conduttore una campana con mercurio avente però alla parte superiore alcuni centimetri cubici di solu- zione concentrata di idrato potassico. Versai nel- la bolla, che faceva ufficio di imbuto, 70°° circa vetta lo forzai a discendere nel palloncino sof- fiando con forza entro la bolla a mezzo di un tubo ad essa applicato, coll’ avvertenza di la- sciare sempre piena la parte del tubo posta sotto la chiavetta. La estremità inferiore del tubo ad imbuto non deve mai giungere tanto basso da toccare il liquido contenuto nel palloncino. Scaldai quindi il recipiente — 150 — gradatamente e lo mantenni a lungo ad una temperatura prossima all’ ebollizione dell’ acido solforico finchè fu sciolto tutto l’ idrato, cessato lo svolgimento di ossi- gene, non che scomparsa la colorazione violacea intensa del solfato manganico, il quale dopo la sua conversione in sale al minimo lascia una soluzione leggiermente giallastra. A questo punto introdussi acqua distillata priva di gas nell’imbuto e colle debite cautele la feci cadere a goccia a goccia sul liquido del palloncino ancora caldo sino a raddoppiare il volume della soluzione. Quì giova bene avver- tire che l'operazione non presenta il minimo pericolo allorchè si eviti, mediante scosse frequentemente comunicate al palloncino, che si formi alla superficie del- l'acido solforico quasi bollente uno strato galleggiante di acqua, la quale incorpo- randosi poi tutto in una volta coll’ acido sottostante porterebbe uno sviluppo vio- lentissimo di vapor d’ acqua, tale da compromettere la resistenza dell’ apparecchio o da far passare del solfato manganoso nella campana contenente l’ idrato potas- sico. Il qual ultimo inconveniente darebbe luogo alla produzione di idrato manga- noso, pronto a trasformarsi in idrato manganico a spese di una parte dell’ ossigene raccolto. Portai finalmente il liquido del palloncino all’ ebollizione, affinchè il vapor d’ acqua spingesse tutto l ossigene sotto la campana capovolta sul mercurio. Avendo eseguito molte volte questo esperimento sempre con esito felicissimo, venni nella persuasione dell’ utilità che questo modo di procedere può arrecare nell’ assaggio delle varietà di biossido di manganese messe in commercio. Volendo ben precisare la quantità di supposto biossido sul quale operai, presi un peso di polvere eguale a quello che aveva introdotta nel palloncino e la tra- sformai a temperatura elevatissima in ossido salino di manganese. Come mezzo di riscaldamento mi valsi del cannello ferruminatorio a mantice; con che la materia assumeva ben presto il colore rossastro caratteristico dell’ ossido salino: sospesi il riscaldamento solo quando la bilancia non indicava più diminuzione «i peso dopo successive e ripetute calcinazioni. Ora da gr. 1,5 di idrato secco a 100° ottenni gr. 1,1336 di ossido rosso di manganese, corrispondente a gr. 1,292 di puro biossido. Questa quantità di bios- sido può fornire gr. 0,2376 di ossigene, ossia 165° di ossigene a 0° e alla pres- sione di 760”” di mercurio. Io invece ne ho ottenuti 154 alla pressione di 760" a 19° di temperatura e saturi di vapore. Fatte le debite correzioni questi 154°" si riducono a 141 secchi, a 0° e alla pressione ordinaria. Qualora il precipitato prodotto dal biossido di azoto nella soluzione di perman- ganato fosse idrato di sesquiossido, la quantità di sostanza sottomessa all’ azione dell’ acido solforico avrebbe fornito al massimo 82°*,77 di ossigene alle condizioni normali. Parecchie cause possono concorrere a rendere più scarsa la quantità di ossi- gene. In primo luogo il gas che si svolge fra 100 e 150° da codesto idrato è sen- sibilmente ozonizzato: secondariamente non è facile procacciarsi del permanganato di potassio al grado massimo di purezza: aggiungasi la difficoltà di esportare dal- — 151 — l’idrato precipitato anche con prolungati lavamenti tutto il nitrato di potassio: non meno difficile riesce ottenere questo precipitato affatto scevro di materie or- ganiche, sia per il contatto del feltro come per l’acqua che conviene adoperare in gran copia nella soluzione e nei lavamenti: infine si deve mettere in conside- razione l’ assorbimento di acqua che accade durante la pesata dell’ ossido salino. Le quali cause tutte insieme danno ragione sufficiente della differenza di 24°" che esiste fra il volume dell’ ossigene ottenuto e quello che indica la teoria. In ogni modo la differenza che passa fra 82°" e 141 è tale da escludere ogni dubbio che il precipitato sia idrato di sesquiossido. Aggiungerò inoltre che teoricamente non è ammissibile che nella reazione che succede fra il permanganato di potassio e il biossido di azoto, possa prodursi ni- trato di potassio e idrato di sesquiossido senza svolgimento di ossigene, come fa- rebbe supporre la seguente equazione immaginaria (2420 + 2KMn0* = 2KAz0* + Mn°0° + 0). Se ciò accadesse l’ ossigene reso libero entrerebbe in combinazione con una parte del biossido convertendolo in perossido che l’acqua assorbe per formare acido ni- troso e nitrico; onde la quantità di biossido che verrebbe assorbita da gr. 7,085 di permanganato di potassio non sarebbe 1 litro, come si prova sperimentalmente, ma 1 litro e mezzo. Per cui dall'insieme delle sue proprietà resta stabilito che il precipitato in questione non è altro che idrato di perossido di manganese. Per completare lo studio di questo composto sono proceduto al diseccamento di una abbondante quantità a 100° durante 10 ore in corrente di aria secca. Da gr. 1,162 di idrato in tal maniera condizionato ho espulso al color rosso scuro gr. 0,078 di acqua che fu trattenuta in apposito tubo con cloruro di calcio. Calcinai la sostanza completamente disidratata entro crogiuolo di platino a fine di convertirla in ossido salino di manganese, ricavandone gr. 0,981 corrispondente a gr. 1,1211 di biossido. Con questi dati si giunge a stabilire che l idrato secco a 100° ha per formola grezza 3Mn0O°.H°0. Infatti 1,1211:0,078 ::87(Mn0*) : x x = 6,05 6,05 X 3 = 18,15 numero che corrisponde quasi esattamente al peso molecolare dell’ acqua. — 152 — Ripetuto l’ esperimento con gr. 1,5 e gr. 1,9 di idrato ho avuto il medesimo risultato. Questo idrato ha la stessa formola di quello ottenuto dal Rammelsberg col- l evaporare una soluzione di bromato manganoso, ma differisce da quello pei ca- ratteri esterni e massimamente rispetto al colore. Una volta provato che i prodotti della reazione del biossido di azoto col per- manganato di potassio sono nitrato di potassio e idrato di perossido, è facile in- durne che essa può essere rappresentata dall’equazione seguente (1) Az0 + KMn0* = KAz0° + Mn0° oppure (100°) 3420 + 3KMn0* + H°0 = 3KA20* + 3Mn0*.H°0 . Che l'equazione (1) esprima con esattezza il fatto che accade nella reazione del gas biossido col permanganato io l’ ho confermato col seguente concludentissimo esperimento. Ho riempito un pallone di vetro Fig. 2* di 2 litri circa di capacità con biossido di azoto, notando la temperatura. Chiusi poscia il recipiente con un i DBA attraversato da un tubo ad imbuto munito di chiavetta di vetro. Tolta l acqua rimasta nell’imbuto, ho versato in esso in più volte una soluzione calda di gr. 7,085 di permanganato puro sciolto in oo mezzo litro di acqua privata completamente di ossigene; quan- tità di permanganato che secondo l’ equazione (1) occorre per as- sorbire 1 litro di biossido di azoto, ossia gr. 1,344. Aprendo colle debite avvertenze la chiavetta, la soluzione di permanganato cade entro il pallone, non che l’acqua calda privata di ossigene che fa d’uopo aggiungere a più riprese nell’'imbuto a fine di far discen- dere ogni traccia di permanganato; e si agita il pallone. Col riposo non tarda a depositarsi l’ idrato di manganese e il liquido sovra- stante resta scolorato al termine della reazione. Ciò raggiunto la- scio cadere altr’ acqua dall’imbuto sino a che alla temperatura ordinaria non ne possa più discendere, procurando che in que- sto momento la temperatura del pallone sia eguale alla tem- peratura notata al principio dell’ esperimento. Tolto il tappo ho misurato il volume del gas rimasto, che vien dato dalla quantità di acqua che occorre per riempire il pallone. Fatte le debite correzioni, ho trovato che gr. 7,085 di permanganato assorbono 998° di biossido di azoto (0° e 760" di pressione) invece di 1000 come indica l’ equazione (1). Con che resta confermata l’ esattezza dell’ equazione medesima rispetto al rapporto ponderale dei corpi reagenti. L'azione del biossido di azoto sul permanganato di potassio meritava adunque — 153 — di essere fatto oggetto di uno studio accurato sia nell'interesse scientifico, quanto per le applicazioni che questo fenomeno può ricevere in ispecie all'analisi dei mi- scugli gassosi. Non esito in fatti ad sifcifnine che la chimica acquista così un mezzo di as- sorbimento del biossido di azoto molto più efficace della soluzione di solfato fer- roso, giacchè bastano pochi centimetri cubici di soluzione di permanganato con- centrata e calda per assorbire un grande volume di quel gas in processo di pochi secondi. Il chimico riesce in questo modo a separare le minime quantità di azoto e di protossido di azoto mescolati al biossido con una esattezza molto maggiore di quella che si può conseguire coll’ uso di una soluzione satura di solfato ferroso : colla quale fa d’uopo operare ad una temperatura poco superiore all’ordinaria, agitare a lungo e impiegare un volume maggiore di liquido coll’ inconveniente di sciogliere quantità di azoto e di protossido non trascurabili nelle analisi che ri- chiedono grande esattezza. In proposito ho creduto opportuno di fare alcune esperienze intorno al potere assorbente del solfato ferroso, dalle quali m'è risultato che 10°° di soluzione di solfato ferroso satura a 25° assorbono al massimo da 115 a 118°° di biossido di azoto saturo di vapore e dopo 15 minuti circa di forte agitazione. In coteste espe- rienze impiegai un lungo tubo di vetro graduato in cui introduceva sulla vasca a mercurio 250°° di biossido di azoto saturo di vapor d’ acqua. In riguardo sempre ai vantaggi che può fornire il nuovo mezzo di assorbi- mento del biossido di azoto, torna utile sapere che la soluzione di permanganato non soffre alterazione al contatto del protossido di azoto e dell’ anidride carbonica, nello spazio almeno di 24 ore. Al medesimo intento giova pur dire che la soluzione di permanganato con forte eccesso di idrato potassico assorbe totalmente il biossido di azoto con inver- dimento. Colla soluzione di permanganato ho potuto altresì confermare che il biossido di azoto ottenuto dall’ acido nitrico a mezzo del mercurio è più puro di quello che si svolge dal medesimo acido ridotto col rame: che il biossido che si estrae fa- cendo bollire una soluzione cloridrica di cloruro ferroso in presenza del nitrato di potassio è quasi puro. Infatti da gr. 0,3 di nitrato di potassio purissimo ho otte- nuto quale media di molte esperienze 64°°,76 di biossido a 0° e 760” di pres- sione invece di 66 come indica la teoria. Di più ho avuto un residuo di 0°°*,9 di gas non assorbito dal permanganato e necessariamente formato di azoto o di protossido di azoto. L'uno e l’altro trasformandosi in biossido acquisterebbero un volume doppio del proprio. Di guisa che aggiungendo 0°°,9 a 64,76 si ha un volume quasi esattamente eguale a quello che si ricaverebbe da gr. 0,3 di nitrato, quando tutto l azoto assumesse la forma di biossido. Operando in condizioni analoghe ho potuto farmi sicuro che il biossido che si produce sostituendo il cloruro rameoso al cloruro ferroso lascia un residuo no- TOMO Il. 20 — 154 — tevolissimo di gas non assorbito dal permanganato e che detto residuo cresce quando si aumenta il cloruro rameoso. Difatti da gr. 0,3 di nitrato di potassio trattati al- l'ebollizione con 2 gr. di cloruro rameoso sciolti in 40°" di acido cloridrico, ho ottenuto 64° di biossido umido e a 24°, con 2° di gas non assorbito dal per- manganato. Dalla stessa quantità di nitrato ho ricavato 58°" di gas a 24° e umido, con un residuo di 3° di gas non assorbito, impiegando 4 gr. di cloruro rameoso. Invece impiegando il cloruro ferroso ottenni 72°" di gas a 24° e saturo di vapore. In ogni modo si vede che anche aggiungendo al volume totale un volume eguale al gas residuo non si arriva al volume di biossido corrispondente a quello del nitrato sottomesso all’azione del cloruro rameoso, come si verifica rispetto al clo- ruro ferroso. i Però la reazione principale fra il nitrato di potassio e la soluzione cloridrica bollente di cloruro rameoso corrisponde alla seguente equazione 3C0u*CI? + 2KA=0% + 8HCI = 4H°0 + 2KCI1+ 6CuC? + 2420 . Da quanto ho detto emerge che il cloruro rameoso non può sostituire con vantaggio il cloruro ferroso nella determinazione dei nitrati in presenza ancora di materie organiche. Non sarà superfluo aggiungere che facendo bollire una soluzione cloridrica di cloruro stannoso con nitrato di potassio non si ricava nulla o quasi nulla di bios- sido di azoto e che si raggiunge un risultato incerto, variabile e complesso impie- gando una soluzione cloridrica di acido arsenioso. Per queste esperienze m'ha servito stupendamente l'apparecchio rappresentato nella Fig. 1° e che io trovo ancora comodissimo per la determinazione dei nitrati nelle materie fertilizzanti. Nel qual caso l'espulsione dell’aria dall’apparecchio si consegue introducendo il nitrato sciolto con poc’ acqua nel palloncino prima di adattarvi il tappo coi due tubi e portando poscia il liquido a rapida ebollizione. Ben si comprende che la parte del tubo ad imbuto inferiore alla chiavetta deve essere riempita di acqua prima di chiudere il recipiente. Nella bolla si introduce la soluzione cloridrica quasi bollente di cloruro ferroso che si fa subito discendere aprendo la chiavetta coi debiti riguardi. Con questa avvertenza e in ragione della struttura stessa dell’ apparecchio viene ad essere evitato il pericolo dell’ assorbi- mento, non potendo il mercurio salire nel tubo conduttore ad un’ altezza verticale superiore ai 40 o 50 centimetri. In conseguenza l'operazione non richiede tutta la sorveglianza e l’ avvedutezza che dimanda l’uso dei nuovi e ingegnosi apparecchi adottati da Schloesing, i quali però offrono un vantaggio indiscutibile nel caso, non molto frequente, che occorra di dover praticare molti e ripetuti assaggi. Non debbo tralasciare di far osservare che coll’ apparecchio da me proposto si toglie la causa del piccolo errore proveniente dall’ azione che il biossido di azoto esercita sulle congiunture fatte coi tubi di gomma elastica e che il gas raccolto resta in — 155 — contatto soltanto con quella poca quantità di liquido che passa sotto la campana durante l’ ebollizione, onde riesce esatta la determinazione del suo volume. Si viene poi a compensare presso che esattamente la causa di errore dipendente da quella piccolissima parte di azoto del nitrato, che si svolge sotto forma semplice o di protossido di azoto, quando si aggiunga 1°" circa sopra 100° di gas rac- colto. L’azione del biossido di azoto sul permanganato offre ancora un mezzo facile e pronto per procacciarsi dell’ idrato di biossido di manganese che svolge facil- mente ossigene ogonizzato al contatto dell'acido solforico concentrato ad una tem- peratura di 100° o poco superiore ai cento gradi, onde può essere utilizzato con profitto nelle esperienze di ossidazione di molti corpi, in ispecie organici. Io ho trascorso rapidamente nell’ indicare le ultime esperienze perciò che era mio speciale intendimento di far rilevare l’importanza delle applicazioni del feno- meno che porgeva argomento principale alla presente memoria. Stimo tuttavia che possa tornare profittevole il continuare le esperienze intraprese e più acconcio di esporre a lavoro compiuto e colle più minute particolarità i risultati degli espe- rimenti brevemente accennati e di quelli che mi sarei proposto di rintracciare. DELL'USO DELLE COORDINATE OBLIQUANGOLE NELLA DETERMINAZIONE DELL ELLISSOIDE D'INERZIA MEMORIA DEL PEROE. E. P. RUFFINI (Letta nella Sess. ordin. del 16 Dicembre 1880) Allorquando un corpo è riferito a un sistema di tre piani yz, 2%, xy coordi- nati in un punto O dello spazio, la determinazione dei momenti d'inerzia del corpo relativi a qualsivoglia asse dato dipende dai sei integrali A) SAM, fy°AMI, (LAM, Sy:AM, S22AM, fwy dI, nei quali dM rappresenta la molecola del corpo di cui x,y, sono le coordinate. È già stato osservato che in molti casi il calcolo di questi integrali presenta dif- ficoltà grandissime e qualche volta invincibili se si deve far uso di coordinate or- togonali, e che queste difficoltà svanirebbero se si avesse piena libertà di scelta nella direzione degli assi coordinati. Perciò valenti geometri per diverse vie si studiarono di giungere alla determinazione dei momenti d’ inerzia facendo uso di coordinate obliquangole: ma non tutti riuscirono a sgombrare quelle loro vie da formule complicate e calcoli prolissi o a sfuggire certe oscurità che possono far traviare e condurre a risultamenti erronei i meno esperti. Non tutti, dissi, perchè nè calcoli laboriosi nè pericolose oscurità s'incontrano nella splendida ed elegante Memoria , Dell’'uso delle. coordinate obliquangole nella determinazione de’ momenti d'inerzia del Chelini (*): nella quale dopo avere ricordato un importante lavoro del Binet sui momenti d'inerzia, determina un particolare ellissoide analogo all’ ellis- soide del Poinsot, e sulle proprietà di quello fondando la sua teoria giunge ad ottenere con un metodo semplice e diretto tutte le formole del Binet e alcuni altri risultamenti importanti relativi alle proprietà degli assi principali. (°) Memorie dell’Accademia delle Scienze dell’ Istituto di Bologna. Ser. II°. T. V. a. 1865. — 158 — La opportunità di ricorrere a coordinate obliquangole si presenta principal- mente quando è manifesto che se si dessero agli assi coordinati certe determinate direzioni, 1 tre integrali SyzdM, fexdM, fayd M riuscirebbero nulli; e in tal caso una via diretta e piana conduce all’ equazione dell’ ellissoide del Poinsot. In questo scritto mi propongo di indicare tal via. Dopo avere richiamato l’ellissoide del Chelini, dalle formule semplicissime onde l' illu- stre geometra trasse l equazione del suo ellissoide derivo altre formule semplici del pari, dalle quali, nel caso particolare preaccennato, si può dedurre immedia- tamente un’ equazione dell’ ellissoide del Poinsot in coordinate normali agli assi, che poi con facilità si trasforma nell’ equazione dell’ ellissoide medesimo in coordi- dinate cartesiane. Dimostro che quei tre assi non hanno le direzioni di tre dia- metri conjugati dell’ ellissoide se non quando sono assi principali d'inerzia: però. se una delle dimensioni del corpo fosse nulla, vale a dire, se il corpo si riducesse a un’area piana e per conseguenza l’ ellissoide a una ellisse, allora i due assi per esempio Ox, 0y nel piano dell’area rispetto ai quali l’ integrale /xydM è nullo, hanno la direzione di due diametri conjugati dell’ ellisse. Alcuni esempi posti in fine dichiarano e confermano i teoremi prestabiliti. GL Sieno tre assi 0x, 0y, Oz coordinati in 0. Una retta (v) condotta per O abbia la direzione /mn, siano cioè /, m, n i suoi coseni direttori: sarà la + my + naz =0 l'equazione di un piano (V) per l’ origine O perpendicolare alla retta (0), e k=lr + my + nz sarà la distanza di un punto qualunque M (x, y, 2) dello spazio dal piano (V). La distanza % del medesimo punto dalla retta (0) è data dalla formula h° = OM? — k® = a? + 2 Zy2 cos(ye) — (lx + my + ne)? :: ove la £ indica che si deve fare la somma dei termini che si ottengono colla permutazione circolare delle x, y, nelle espressioni cui essa è applicata. Suppongasi un corpo riferito ai tre assi 0x, Oy, Oz e si rappresenti con dM la molecola o elemento del corpo nel punto M. I momenti d’inerzia P e I del DIRE) 0 corpo relativi al piano (V) e alla retta (v) si potranno esprimere con Pf di ; Ii=hfdM. Pongasi DANA MMI AM CAM, AN dMReR — eri = frydM: sviluppando il valore di P si ottiene P== Al° + Bm° + Cnî +2 A'mn +2 Bnl +2 C'm. Sulla retta (v) prendasi un segmento arbitrario 0Ov= 0 e sieno x, r, z le proie- zioni di questo segmento sugli assi Oz, 0y, Oz, onde Pv° = Ax° + Br° + C2° +2 A'2+2Bzx+2C'xv. Essendo arbitraria la grandezza del segmento , si assuma Po e l’ equazione precedente diventa (C) Ax° + Br? + 02° +2 A'yz+2Bzx+2Cxr=1l: equazione in coordinate-projezioni di un ellissoide. È questo l’ ellissoide del Chelini, espressione analitica della seguente proposizione: , In un dato sistema di punti , materiali s intendano condotti per un punto arbitrario O tutti i possibili piani s (VY) e sull’asse (v) di ciascun piano s intenda misurato un raggio v il cui » quadrato sia proporzionale al valore inverso del momento d'inerzia relativo al , piano (V): tutti questi raggi v termineranno alla superficie di un ellissoide , avente il centro nel punto 0 ,. (*) Confrontando quest’ ellissoide (C), in cui i valori inversi dei quadrati dei raggi vettori sono proporzionali ai momenti d’ inerzia P, coll’ ellissoide d'inerzia relativo al punto 0, in cui i valori inversi dei quadrati dei raggi vettori sono proporzio- nali ai momenti d'inerzia /, si scorge che fra i due ellissoidi è questa relazione, (*) CHELINI — l. c. pag. 150. — 160 — che la somma dei valori inversi dei quadrati di due raggi vettori uno dell'uno e l’altro dell’ altro ellissoide con direzione comune è costante, se il coefficiente di proporzionalità sia nei due ellissoidi il medesimo; perchè la somma P+I=A+B+C+2 A cos(yz) +2 B' cos(e2) +2C'cos(ry) è quantità costante. Siano lmn, lm'n', l'm'n' le direzioni di tre nuovi assi 0É, 07, 05 coordi- nati in 0 e È, 7, 6 le coordinate cartesiane, ossia le coordinate-componenti del punto M riferito ai nuovi assi: onde x=l&+M+l0%, ramé+mpn+m'6, a=né+nNn+n6: sostituendo nell’ equazione (C) sì ottiene un’ equazione dell’ ellissoide Cheliniano per mezzo delle coordinate £É, 7, £ della forma (0) al? + bip° + cb +2anbl+26bt6E+2cEpn=1 ed è penpr AAA e=s 2", e LL. I coefficienti a, d, c sono dunque i momenti d'inerzia relativi ai piani per- pendicolari agli assi 0É, 07, 06 e a', b', c' sono i momenti complessi d’ inerzia relativi al sistema dei tre piani medesimi: infatti le distanze %' e %'" del punto M(x, y, 2) dai piani perpendicolari agli assi 07 e 05 sono date dalle formule bal'r+tmy+na, k'al'r+m'y+n'2 ed è perciò 17,1? RSA Ù ' Di) rr ri Cee 1 dP' A dP' o dP' " Ilk'AM=/(xr+my+n'a)l'r+m'y+n JaM=3(! mo i n — 161 — $ IL Suppongasi che gli assi 0$, 07, 0É sieno perpendicolari ai piani y2, 2%, 27, sieno cioè gli assi polari di questi piani, e che per conseguenza gli assi Ox, 0y, Oz diventino gli assi polari dei piani 76, £E, É7: onde i=lcosi(&0)h Mi ni==10È x» éeos(É)g UE m' = c0s(77), n° =40%, r=7c08(7Y), HI—[0} mae*05, NEN—lcosi(C2) MAM —eosi(62)): dai —PAlcosg En) a' = A' cos (279) cos (Ce), b= Bcos° (74), b' = B'cos(62) cos(Ez), es16leosta(62) c'= C' cos(éx) cos (74): le quantità a, 5, c e @', d', c' diventano i momenti d'inerzia e i momenti com- plessi d'inerzia relativi al sistema dei tre piani y2, 27, cy. Similmente se si rappresentino con x,, x,; z, le coordinate-projezioni del punto M riferito agli assi 0É, 07, 05 e si ponga A, =/E4M, B, =/n°4M, ©, =/C%4M, AME DANCE CANNA si avranno formule analoghe alle precedenti, e sarà (C)' Ax, +Bp,+Cz,/+24,vz,+2B,;2>x,+2C/xp,=1 l'equazione dell’ellissoide Cheliniano in coordinate-projezioni sugli assi OE, 077, 08; e (C)' ae + by? +c8°+2a;/y2+2b/er+2c,/ay=1 l equazione dell’ellissoide medesimo in coordinate-componenti sugli assi Or, 0y, 0e, nella quale a,, 6,, €,, @,, 6, €,, rappresentano i tre momenti d’ inerzia e i tre momenti complessi d’ inerzia relativi al sistema dei piani coordinati 76, GE, É7, e sl avrà XTLricosl (Co) vii==y'cos'(42), AAC) dino) A cos) 080). Dicono) Ri Bilcori o) c, = Cicos* (Ce), CON 08 (TE) cosi(y7) TOMO II. 2l — 162 — Si avverta inoltre che le distanze del punto M dai piani y2, 27, xy sono eguali alle projezioni del raggio vettore OM sugli assi 0É, 07, 06 rispettivamente e se ne dedurranno immediatamente le formule a=-/xdMx bi= fa j4M e/oa: a.=;fa,z,do 0 fe UM AI: e analogamente au ea bad. Cop ZRdMÈE S Ù at zaiMe baNzxAM Ci = ESAMI. Dal principio che la projezione sopra qualsivoglia asse del raggio vettore OM è eguale alla somma algebrica delle projezioni sopra il medesimo asse delle sue coor- dinate-componenti, derivano pure immediatamente le formule x=% + y cos(+y) +2 cos (22), x,=É+7cos(E7) +0 cos(CÈ), Y=Y+2 6; onde i b a T eo T po AU ri, El sen: Si riguardi il prisma PQRS come la differenza dei due prismi triangolari PQU, RSU. Nel prisma PQU il volume e 1’ integrale /y°dM relativo al piano ex (prec. 2°.) SONO Nel prisma £SÙU il volume e l integrale /y°dM relativo al piano stesso 24 sono similmente Se ne deduce immediatamente 1 do, M(a°+b?°) : ed è poi ar — = — 173 — Se si suppone a=bdb=gq il trapezio diviene parallelogrammo e i valori A, B, C diventano identici con quelli trovati nel precedente 1° 4): e se si suppone invece 6=0 il trapezio sì cangia in un triangolo e i valori corrispondenti 4, B, C con- cordano con quelli trovati nel precedente 2.° 8 VII. Suppongasi che 1’ altezza del prisma si annulli, cioè il prisma si riduca a una | . . A . . . . | figura piana. Allora il volume M del prisma si identifica coll’ area Q della base | e le formule generali del precedente $ VI. diventano: | P p IO =9isen (cy) fS) deri — 2isen (e) f S (idea — ip 0 0 | + Xo + ro | A=2 sen (cy) f (edi : sen ©) SL (Idee e ’ ellissoide centrale si riduce ad una ellisse riferita a due diametri conjugati la | di cui equazione è (Br? + Ay°) sen° (ey) = 1 Applicando ai casi particolari considerati nello stesso $ VI. si ottengono imme- diatamente le ellissi centrali delle seguenti figure: \ 1°. a) Parallelogrammo riferito a due assi paralleli ai suoi lati p e 9g: 1 SA OLO DTA D Q(qdx° + p°y°) sen° (ey) = 1 | 6) Parallelogrammo riferito alle sue diagonali p, q: 1 99 2 21 Q(g°c* + p°y°)sen° (cy) = 1. 2°. Triangolo riferito a una delle sue mediane p e a un asse parallelo al lato 9g bisecato dalla mediana p: ili Q (i DÒ +£ y) sensi) — 174 — 3°. Trapezio riferito alla retta p che biseca le sue basi parallele a e d e a un asse parallelo a queste basi : 1 GPZ) 1 591 A 2 ab SIR < di o; o ia A ox Li 7 1 psn: À UG Jr: t lattato acne! iù ioni APT Stino ‘daria vatrralicla ua Po ui n) a TISGLO) pen | Citra RA vo AATTES, ) Li pe ‘bd onivrai aetbgeli Stai. sugli. n doi nn Cn ona BIO Merda. Ci ci si È dici E pnt iii FP BRACT it BRA alfie TRONTO lol Bh 080: POTE Dee erat Aeree Male pesto fac] Stay” (ta PE BE 4 ie tirrenia ada a ter. at ar ERot ti prrar LMR ALI io vath dtt sh long d ) i + TREPSO AU uffa MUTI Ti “Tasto ME TATTO n gi . : a . A La ) gs; i ar % ì i Pte. Li ae FURENIRE O cv AOC 00 LD; SARI, SI de; Ma Ce: Ii pF It) FIDI sto vite, d È n i : ERE ZIA EL a i RE STI ATTIVO FOSEVT PER RTOTOOZEE: PELIO È Î P [ Pag 7 \ hi ve A 4 11 x 7 n (9 di ATE: RARO ME RI * DA ss void ar : " î G n VOLI EE Lt x } Mirto IR I da DIO EVO n È PS D) i 3 Sy. ; i spe Y ii de CORNI Di FA REPGUI A. 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Ordinaria del 13 Gennaio 1881) Da qualche tempo alcuni autorevoli personaggi andavano e dubbî e lagnanze e critiche movendo sulle indicazioni le quali dal nostro Osservatorio venivano pub- blicate intorno alla Umidità Relativa dell’ aria atmosferica; la quale Umidità ha pure valore assai specialmente sopra la vita degli animali e dei vegetali, come ben ragiona il Robinet parlando dell Influenza dei Fenomeni Atmosferici su certi animali (Annuaire Metétorologique de la France pour 1850: pag. 226). Anche per ultimo 1° illustre Comm. Prof. Tacchini, Direttore dell’ Osservatorio del famoso Padre Secchi, e Direttore Generale della R. Meteorologia Italiana, mi veniva scrivendo non troppo favorevole ma giusto ed amichevolmente sopra coteste nostre indica- zioni umidometriche o psicrometriche. Allora insieme al Collega Cav. Prof. Palagi Alessandro e coll’ Assistente Prof. Carlo Ing. Fronzi desiderammo finalmente, con certo non indifferente sacrifizio no- stro, dedicarci a fare da noi soli tutte le Osservazioni Meteoriche. Ciò risoluto affine di conoscere o di almeno indagare le cagioni delle discre- panze che fra le nostre e le altrui Osservazioni Psicrometriche apparivano, ci po- nemmo innanzi tutto ad investigare le fondamenta del Psicrometro d’ August quale tipo generale per cotali osservazioni. E siccome ci lasciò scritto il Regnawlt che il processo scientifico del ritrovamento d’ August non fu giammai pubblicato in al- cuna raccolta francese (molto meno poi italiana) prima di lui (V. études sur V Hy- grométrie-Annales de Chimie et de Physique. Troisième Série, Tome XV, pag. 201); e siccome dalla Direzione Generale della R. Meteorologia Italiana a noi furono assegnate le Tavole Psicrometriche calcolate dall’ Haeghens e ampliate dall’ Ing. Gio. Prof. Morosini e da altri italiani, così imprendemmo senz’ altro cercare, a ponderare le spiegazioni che vedemmo poste nella Prefazione di queste Tavole, TOMO II. 26 — 202 — intorno alle quali lo stesso celebratissimo fisico Prof. G. Cantoni Gl quale prima del Tacchini era stato eletto a Direttore della R. Meteorologia Italiana) seriveva per le stampe (V. Tavole ad uso della Meteorologia. Ediz. 2*. Roma, Stamperia Reale 1875). » Questa raccolta di Tavole ha per iscopo di agevolare ai Meteorologisti i cal- coli relativi alle varie riduzioni da applicarsi ai dati d’ osservazione per renderli paragonabili fra loro. Esse in parte furono tolte dagli Annuaîires Méttorologiques de la France e da un’ analoga raccolta di Guyot ed in parte furono calcolate di nuovo dal Prof. Morosini e da altri. , Dopo alcune indagini ci accorgemmo che le Tavole Psicrometriche dell’ Haeghens, estese dal Morosini e da altri non erano conformi alle formole che questi per la formazione delle stesse porgevano, e per conseguenza pensammo che questi serit- tori o avevano con altre formole calcolato oppure supposto che le spiegazioni là collocate appartenessero agli stessi autori, non avrebbero già di nuovo calcolato le Tavole di Haeghens ma che soltanto dovevano averle con semplici interpolazioni ampliate. Comunque andasse la bisogna, io desiderai da prima per giovare pure a quegli Osservatori 1 quali agognano le ragioni delle cose possedere, seguendo il detto mantovano Felix qui potuit rerum cognoscere causas desiderai, dico, che riuscisse modificata o rettificata la spiegazione, messa innanzi alle Tavole suddette (pag. 39). La spiegazione che ivi si dà, abbandonate nella fine ad una Nota le formole algebriche, suona con volgare linguaggio nella seguente maniera. Indicate le temperature, date dall’ osservazione, dei due termometri di un Psi- crometro di August con appositi simboli algebrici e cioè la temperatura del ter- mometro così detto asciutto e quella del termometro così detto bagnato; indicata analogamente la pressione barometrica ossia atmosferica espressa in millimetri di mercurio, come pure indicata la forza espansiva massima o come dicesi la tensione massima del vapore acqueo quando cioè l aria ne fosse satura, alla temperatura del termometro bagnato e la effettiva forza espansiva del vapore acqueo, diffuso nell’ aria (naturalmente alla temperatura del termometro asciutto) vengono poste tre Relazioni fra le suddette quantità. Per mezzo della prima relazione si ricava giustamente il valore della tensione del vapore acqueo diffuso nell'aria quando la temperatura del termometro bagnato è maggiore di quella del ghiaccio fondentesi o come dicesi, maggiore di 0°; e per mezzo della seconda relazione si deduce il valore della medesima tensione quando la temperatura del termometro bagnato è inferiore di 0°. Quanto alla terza relazione che porge la Umidità, corrispondente alla tensione del vapore acqueo diffuso nell'aria, e Relativa all’ Umidità Assoluta, — 203 — corrispondente alla massima tensione del vapore acqueo, si ha da notare che se- condo gli elementi indicati il Morosini o chiunque altri che ha posto mano a ri- portare le formole degl’ inventori ha introdotto in quest’ ultima relazione la ten- sione massima del vapore acqueo alla temperatura del termometro bagnato, forse scambiandola con quella alla temperatura del termometro asciutto. Certa cosa è che se il lettore stesse solamente a quanto poscia mi venne dato di trovare scritto dall’ Haeghens nell Annuario Meteorologico Francese pel 1849 alla pag. 111 non che alla pag. 215 ed anche a quanto ne vien posto innanzi agli occhi semplicemente dallo stesso Haeghens nell Annuario Meteorologico pel 1850 alla pag. 79, a cui hanno attinto il Morosini cogli altri de’ quali parla il Cantoni, questi forse potrebbe comprendere come gli estensori delle Tavole Psicro- metriche siano stati indotti a tenere per esatto l'insieme delle tre mal riportate relazioni. L’ Haeghens, il quale è un raccoglitore più che altro, alla pag. 79 suddetta dell’ Annuario Meteorologico pel 1850, riporta le due prime relazioni, trovate dap- prima da August e modificate poscia da fegnault e trascritte dal Morosini e rive- dute dal Cantoni, senza forse tener conto delle eterogeneità che rispetto alle tem- perature diverse dei due termometri psicrometrici esiste fra la tensione del vapore acqueo (diffuso nell’ aria) alla temperatura del termometro asciutto e la tensione massima del vapore acqueo alla temperatura dei termometro bagnato; il che ben avvertito non avrebbe forse tratto in errore nè il Morosini nè il Cantoni nè altri a porre la loro terza relazione, la quale insieme colie prime due non può sus- sistere. Se non che se a discolparne gli autori nostri notammo che l’ Haeghens non dice esplicitamente che fra le indicate quantità eterogenee sotto all’ aspetto delle temperature esista una determinata relazione metrica, è a dirsi per altro che dalla formazione delle Tavole dell’ Haeghens (Annuaire Metéorologique pour 1849; pag. 111) o veramente dalla Ricostruzione di queste, si sarebbe potuto di leggieri discoprire la eterogeneità delle quantità che fan parte delle due prime relazioni, ì una per le temperature del termometro bagnato sopra lo zero e l’altra per le temperature sotto lo zero ed insieme la omogeneità delle due tensioni che costituiscono la terza relazione; il che ci ha fatto persuasi, come di sopra dicemmo, che dai nostri autori queste Tavole non siano state calcolate di nuovo ma soltanto con semplici inter- polazioni, senza dubbio utilmente, estese. Se d’ altronde chi avesse posto mente a quanto MHaeghens finalmente dice alla pag. 81 dello stesso Annuario Meteorologico pel 1850 e cioè alla proposizione , L' Umidità Relativa è il rappporto che esiste fra la tensione del vapore acqueo contenuto nell'aria e la tensione massima che avrebbe luogo se quest’ aria fosse completamente satura , avrebbe facilmente compreso trattarsi in questo caso del paragone di due tensioni del vapore acqueo sotto la stessa temperatura dell’aria che ne tocca il Psicrometro, — 204 — e non più di due tensioni, l’ una corrispondente alla temperatura del termometro asciutto e l’altra corrispondente alla temperatura del termometro bagnato alla fine dell’ osservazione, tensioni costituenti, come si disse, le prime due relazioni. La qual cosa veniva ancora avvertita dalla stessa relazione, riportata dall’ Hueghens con simboli algebrici ben differenti da quelli adoperati in ciascuna delle due sud- dette prime relazioni. A questa medesima conseguenza, per chi avesse desiderato un’ ampia e sicura spiegazione divulgare, potevasi pervenire ricorrendo alla estesissima Memoria Ori- ginale del FRegnault, immagine fedele di quella d’ August, negli Annales de Chimie et de Physique de la France. Troisième Série. Tome 15. Pag. 201. Imprendo in 2° luogo a dire di qualche nostra indagine e proposta sulla deter- minazione della Umidità Relativa per mezzo del Psicrometro d’ August. Allorchè furono tacciate le Osservazioni Meteorologiche del R.° Osservatorio di Bologna lasciate forse, come giustamente il Zucchini ci andava scrivendo, in mani od inesperte o poco curanti; ed allorchè noi, Palagi, Fronzi ed io come dissi, ci risolvemmo di farle ogni giorno, tutte quante, per molte volte, ci facemmo accorti a primo aspetto che la Mussolina, umettata o propriamente da umettarsi, di cui fanno uso generalmente gli Osservatori psicrometrici nel coprire il bulbo del ter- mometro, così detto bagnato, vuoi per la densità o spessore della tela, vuoi per la qualità di questa, vuoi per l’acqua impura, vuoi per gl’ incrostamenti successivi che avvenivano sulla medesima, il termometro nostro prima dell’ osservazione an- dava segnando una temperatura, sempre inferiore a quella del termometro asciutto, talvolta la differenza ascendendo fino a tre gradi centigradi. La qual cosa fu sicura cagione di non piccola alterazione nelle indicazioni della umidità; e per dare pure un cenno di queste alterazioni mi piace riportare alcuni casi coi dati relativi delle Tavole Psicrometriche dell’ Haeghens. Supponiamo di avere osservato Termometro Asciutto + 10°; + 12°; + 14°;...... g. cent. 5 ‘Bagnato ==" 802, io ed allora le umidità relative e corrispondenti verrebbero indicate (V. Tav. Psic. Haeghens-Morosini) Umidità Relative...... TA 8a rai CELESTI: laddove se invece per errore del termometro bagnato si avesse: ‘Termometro Asciutto + 10°; + 12°; + 14; ...... g. cent. x Bagnato + bi + 71; + 9;...... » per le umidità relative si avrebbero Umidità Relative..... 39; 43; 47;..... centesimi I I — 205 — È indicando con wn0 l'umidità che si avrebbe se l aria atmosferica fosse satura di vapore acqueo alla temperatura sua naturale all’ atto della osservazione. Pertanto come anche ebbe ad avvertire meravigliandosi assai il Cav. Prof. Raffaele Zampa, cotesta grave alterazione del termometro bagnato, indipendente dall abbassamento di temperatura prodotto dall’ evaporazione dell’acqua di cui viene umettata la tela di mussolina del termometro stesso, faceva sì che le Umi- dità Relative, le quali pei giornali venivano divulgate e per tutti gli altri fogli che il nostro Osservatorio deve ogni giorno inviare a varî stabilimenti, assai pic- cole apparivano a fronte di quelle che si andavano pubblicando da tanti altri in circostanze atmosferiche anche meno umide delle nostre. Ad evitare quest’ errore e per ottenere la massima possibile approssimazione al vero anche per ogni altra cura d’ osservazione mi diedi a sottoporre a svariati esperimenti il Psicrometro d’ August e vidi che non solo la mussolina per quanto leggiera e fina si fosse, come prescrivono il più de’ Meteorologisti, e come lo stesso Tacchini per iscritto mi assicurava, ma altresì tutti questi tessuti sotto con- dizioni eguali porgevano differenti indicazioni di termometrico decrescimento. Allora pensai di andare cercando un tessuto di sì fatta struttura che coprendo l’intero bulbo (parte principale del termometro rispetto all’azione del calorico sul mércurio del termometro stesso) prima dell’osservazione ossia prima che venisse bagnato il tessuto conservasse la medesima temperatura, la quale dall’ altro termometro (asciutto) fosse indicata. La ragione, che mi persuase e convinse a dover coprire il bulbo del ter- mometro (bagnato) con un sì fatto tessuto, consiste in ciò che dopo la scoperta di Gay-Lussac della relazione fra l evaporazione di un liquido e il raffreddamento del corpo, bagnato da questo liquido (Annales de Chimie et de Physique. Tome 21. Première Série. Pag. 82), alla quale scoperta si pensa da alcuni doversi l’origine del Psicrometro di August, fa d’ uopo necessariamente procurare che il raffredda- mento prodotto sull'intero mercurio del termometro bagnato derivi sensibilmente dalla sola evaporazione dell’ acqua, umettante il bulbo del termometro; il quale effetto non accaderebbe se il tessuto che copre tutto il bulbo del termometro non tenesse prima dell’ osservazione il termometro da umettarsi alla medesima tempe- ratura del termometro asciutto. E qui puramente per la scelta dei termometri- psicrometrici affinchè il mercurio del bulbo od il bulbo stesso riguardar si possa veramente senza errore sensibile come l’ intero mercurio ed anzi come l’ intero termometro, certo non è da dirsi che si ha a fare il termometro avente il bulbo di una certa estensione di forma sferica od anche per gli usi pratici meglio di forma cilindrica più facile a coprirsi, senza tenere per norma assoluta la regola empiricamente seguìta dal Deleros (Annuaires Météorologiques. 1850. Deuxième partie. Pag. 7) di costruire il bulbo del termometro a forma di sfera di circa un 4° millimetri di diametro. Ritornando al tessuto per isceglierlo di tale qualità che prima dell’ umettazione non alterasse lo stato di temperatura del termometro bagnato o veramente del — 206 — termometro da umettarsi, di guisa che la temperatura di questo con pari passo di quella dell’ altro termometro (asciutto) procedesse mai sempre, faceva d’ uopo in- dagare un tessuto il quale nè troppo calorico assorbisse nè troppo lo riflettesse, assimilandosi alla natura del bulbo termometrico o finalmente fosse di tale natura e di tali interstizi dotato da assimilarsi fisicamente allo stato termico del termo- metro e fosse capace di tenere specialmente fra i suoi interstizi (da non confon- dersi coi pori fisicamente parlando) un cotale velo di strato di acqua da potere dopo 3 o 4 minuti primi ottenere uno stato di abbassamento stazionario di tem- peratura, affinchè, equilibrandosi l’effetto del calorico atmosferico con l'effetto del raffreddamento prodotto dall’ evaporazione non restasse che un abbassamento od un decrescimento di temperatura dovuto al solo raffreddamento d’ evaporazione; il che a bulbo scoperto non si giunge ad ottenere. Ora nelle varie esperienze, su questi tessuti eseguite, trovai o mi venne dato di vedere che una certa qualità di tessuto detta Velata Bianca conservava o per meglio asserire ha conservato da varî mesi la temperatura del termometro, coperto prima dell’ umettazione, identica a quella dell’ altro termometro (asciutto), e ciò potei fare e a ciò potei riuscire, coll’ assistenza del Palagi e del Fronzi. E soltanto mi ha fatto non poco di meraviglia l’ avere avvertito nel rileggere le opere ac- cennate come il Delros, non seguìto poi da altri per quanto mi è noto, benchè lodato dallo stesso Haeghens (Annuaires Meéttorologiques pour 1849. Pag. 217) senza dare ragione alcuna, ma sempre empiricamente operando abbia lasciato scritto alla pag. 7, superiormente indicata, il seguente brano : » Il mio psicrometro è stato da me stesso costruito con due termometri (cen- tigradi) scelti con tutta la cura possibile, i cui bulbi hanno un po’ meno di 4 millimetri di diametro. All’ istante dell’osservazione io bagno il bulbo rivestito di garza (specie di velata, se non pari alla suddetta Velata Bianca, per altro alquanto somigliante se non per qualità, almeno per gl’ interstizi) con un pennello di tasso carico di acqua pura alla temperatura dell’ aria ambiente..... Due o tre minuti (primi) bastano perchè il termometro giunga a segnare la temperatura attuale dell’ evaporazione..... Io ho preso il partito di costruire questo psicrometro, il perchè tutti quelli che io ho avuto occasione di vedere erano assai difettosi e dovevano dare inesattissimi risultamenti , (1). Ad ottenere il più che possibil sia un’ esatta indicazione della Umidità Relatwa sono necessarie altre avvertenze. (1) Testo: Mon psychromètre a été construit par moi méme avec deux thermomètres centigra- des choisis avec soin, dont les boules ont un peu moins de quatre millimètres de diamètre. Au moment de l’ observation je mouille la boule revètue de garze avec un princeau de blaireau, chargé d’eau pure à la température de l’ air ambiant et deux ou trois minutes sufficient pour que ce thermomètre arrive à signaler la température actuelle de 1’ évaporation...... J'ai pris le parti de construire ce psychromètre, car tous ceux que j ai eu l’ occasion de voir étaient fort difecteux et devaient donner des résultats trés-inexacts. — 207 — Siccome ad agevolare la evaporazione dell’ acqua, umettante il bulbo del ter- mometro (bagnato), si tiene se non assolutamente necessario, almeno sommamente utile per risparmio di tempo, l’applicare al Psicrometro di August un ventilatore, il quale per altro di natura sua produce una variazione nella temperatura del termometro indipendentemente da quella prodotta o che sarebbe prodotta dalla sola evaporazione, e siccome questa alterazione si ha a tenere generata non solo sul termometro asciutto ma ancora sul termometro bagnato, così per questo fatto come se non avvenisse al termometro bagnato, i Meteorologisti prescrivono che prima dell’ umettazione si noti il grado di temperatura segnato dal termometro costantemente asciutto senza tenere a calcolo il decrescimento di temperatura che generalmente avviene sopra il medesimo dall’ aria agitatrice pel ventilatore. Ma per ciò che io ho detto, io non mi vi posso adattare, persuaso che l’ effetto del ventilatore sul termometro asciutto veniva prodotto sul termometro bagnato ed è per questo che prima e dopo l'osservazione segnati i gradi di temperatura del termometro asciutto, si dovrà applicare la loro differenza alla temperatura stazio- naria del termometro bagnato, positiva se si tratta di decrescimento, negativa in caso contrario. E dirò di più che avendo osservato che l'alterazione di temperatura prodotta nel termometro asciutto, non coperto dalla velata, è alquanto differente da quella alterazione prodotta nello stesso termometro asciutto quando venga coperto il suo bulbo dalla medesima velata, forse a cagione della diversità di natura delle su- perficie o d' altro, ho creduto cosa ben fatta il coprire il bulbo stesso del termo- metro da umettarsi, ponendo d'altronde in tal guisa nelle identiche condizioni i due termometri. Nè qui starò a notare ancora che non si deve coprire il bulbo del termometro con due o più strati di velata, il perchè ciò altera lo stato di temperatura dei termometri innanzi dell’ osservazione, ossia il bulbo così ricoperto non riuscirebbe più assimilabile al termometro asciutto ed a sè medesimo nel suo stato primitivo. In 3.° luogo è a dirsi del precetto dei Meteorologisti che pone doversi adope- rare soltanto acqua pura ad umettare il termometro. Rispetto a ciò noi abbiamo sperimentato tanto coll’ acqua distillata quanto coll’ acqua attinta ad ogni osserva- zione dal pozzo dell’ Osservatorio, e finalmente con quest’ultima passata per un filtro comune; e senza dubbio, allorchè sì ponga in opera una velata priva di ogni sostanza eterogenea che coll’ usarne di troppo va dall’ acqua impura acqui- stando, i risultamenti sono sempre sensibilmente gli stessi, qualunque delle accen- nate acque si adoperi. E come conseguenza dirò che quando si faccia uso di acque, comuni bensì ma abbastanza pure, bisogna mutare di quando in quando la velata, la quale col tempo e più coll’ uso va come sì disse incrostandosi delle sostanze insolubili ed anche delle solubili che si trovano nelle acque, il che come più volte si accennò, altera lo stato termico del termometro bagnato. — 208 — In 4.° luogo abbiamo rivolta la mente alla prescrizione che la temperatura dell’acqua umettante sia eguale a quella dell’ aria in cui è situato il Psicrometro in osservazione. : Innanzi tutto è da avvertire che se l’acqua, umettante il bulbo del termome- tro, conservasse in tutto il tempo dell’ osservazione la temperatura, indicata dal termometro asciutto, pari a quella dell’ altro termometro prima dell’ osservazione o al principio di essa osservazione, allora questa temperatura invariabile dell’ acqua umettante altererebbe l’ evaporazione in modo che l’ abbassamento di temperatura riuscirebbe diverso da quello che si otterrebbe se la temperatura dell’acqua umettante seguisse, come dovrebbe, il corso di quella del termometro bagnato. E questa è forse la ragione per la quale i Meteorologisti, empirici quasi sempre, vanno di- cendo (V. les Annuaires Météorologiques de la France pour 1849 et 1850) che i Psicrometri a getto costante di acqua sul bulbo del termometro e i Psicrometri coi bulbi immersi nell’ acqua non sono da adoperarsi od almeno da non preferirsi al Psicrometri a bulbo ricoperto ed a ventilatore. D'altronde è cosa difficile assai per non dire impossibile l’ avere l’acqua alla temperatura dell’ aria circondante il Psicrometro in qualsiasi recipiente, sia di vetro o di qualunque altra materia, sia di grandi o di picciole dimensioni, posta il più che si possa vicinissimo al Psicrometro, isolato od appoggiato su legno o su qual- sivoglia altra sostanza, come noi tutti le molte volte abbiamo voluto esperimentare, e ciò con qualche ardimento contro al principio dell’ Equilibrio mobile termico del Prewost; ed è perciò che necessaria cosa sarebbe il procurarnela (il che è anche non troppo agevole se con esattezza operare si dovesse). Pur tuttavia se ella fosse una assoluta necessità, assolutamente sarebbe neces- sario l’ assoggettarvisi; ma per quante volte abbiamo sperimentato con acque a temperature diversissime, umettanti il bulbo del nostro termometro psicrometrico, ci siamo fatti certi e sicuri e cioè persuasi e convinti che il sottile velo acqueo che resta aderente alla velata in due o tre minuti (primi) o più ancora secondo la temperatura della stessa acqua umettante che si adopera acquista mai sempre la medesima temperatura decrescente e talvolta crescente del termometro bagnato fino a tanto che siasi raggiunto lo stato stazionario termico come superiormente si è detto. E tanto più che alla perfine l’ acqua umettante posta in un recipiente di piccola dimensione e di cristallo sottilissimo pari presso a poco a quello del termometro e sopra un sostegno di legno vicino al Psicrometro differisce poco colla sua temperatura da quella dell’aria che circonda il Psicrometro, quantunque noi più per bramosia che per altro bisogno della scienza abbiamo usato talvolta p. e. di un’ acqua umettante, ora di + 10 gradi, ora di + 30 gradi (centigradi) quando il termometro asciutto segnava + 20 gradi (centigradi), ed abbiamo sem- pre veduto che in pochi minuti (primi) (un 5 o 6 minuti), la temperatura del velo d’ acqua, umettante il medesimo bulbo termometrico ricoperto del solito nostro tessuto, acquistava lo stato termico del termometro bagnato ed offeriva alla — 209 — fine la stessa indicazione che veniva data coll’ acqua avente la temperatura del- l’ aria circostante. In ultimo rispetto alle temperature del termometro bagnato sotto lo zero non ci è dato per ora a cagione delle poche esperienze invernali se non che accennare come noi fin qui abbiamo procurato di tenere l’ acqua umettante in istato liquido con una parte aliquota di alcool, notando bene che con questo l’ evaporazione riesce maggiore di quella che si otterrebbe se si usasse acqua pura, ed io già sto facendo esperienze per conoscere le correzioni da farsi in tal caso, se non che or- dinariamente per le temperature di poco inferiori a quella del ghiaccio fondentesi conserviamo l’ acqua con una temperatura di pochi gradi superiore a quella del ghiaccio fondentesi. E ciò sempre perchè l evaporazione produca sensibilmente od in una maniera la meno inesatta che possibil sia un abbassamento di temperatura indipendente dalle cause superiormente accennate, alle quali altrimenti si avrebbe ad aggiungere anche quella del congelamento dell’ acqua umettante. TOMO II 2 — 210 — NO Pr sulle Formole Hiaeghens e Morosini intorno alla Umidità Rielativa per bene usarnele direttamente. 1° Le formole del Morosini sono le seguenti (Pag. 39. Tavole ad uso della Meteorologia. Roma 1875. 2* Ediz.) 0,480 (6 — £ (1) Ela )3 SRG e perdi 0 0480 (4 —% (2) ee le A PARE persa, (3) u= 100 — ove, dice il Morosini, t e # sono le temperature dei due termometri, asciutto e bagnato; e la tensione massima alla temperatura #; e' la tensione del vapore acqueo diffuso nell'aria; d la pressione barometrica espressa in millimetri di mer- curio a 0°, ed uv la Umidità Relativa, relativa cioè a quella corrispondente alla tensione massima e che si riguarda quale Umidità Assoluta, come si disse nella Memoria. 2° Le formole dell’ Haeghens e piuttosto di August modificate dal Regnault sono le seguenti (Pag. 79 e 81. Annuaire Météorologique pour 1850) FIATO: 0,480 (t — #) nia: (4) dee pei t > 0,480 (£—£), 689 =? per ii =<0 (5) r=f — 100 (6) 0) ori Lio E. oveè fe ==; lima gvoniinai = @, mentre Y è la tensione massima del vapore acqueo alla temperatura # del termo- metro asciutto, ed e è quella del vapore acqueo alla temperatura del termometro bagnato. 3° Per usare poi direttamente di queste formole (4), (5), (6), osservate le tem- perature £ e # e la pressione barometrica è = % ridotta a 0°, ed avuto il valore di f" dalla tavola delle tensioni massime del Regnault (Pag. 150. Annuaire Mé- téorologique 1849) oppure (Pag. 90. Tavole ad uso della Meteorologia) si ha il valore di x = /f tensione del vapore acqueo diffuso nell’ aria alla temperatura #; e poscia avuto il valore di Y, tensione massima del vapore acqueo alla tempe- ratura # sempre del termometro asciutto dalle Tavole suddette del Regnault si de- duce dall’ ultima relazione (6) la vera Umidità Relativa w. ra Lal dali Femmizcent mi termiti “ deri a ta ai” TUTI CIVANO pmi Ù Apro Law: la destare h DI UN NUOVO ISTRUMENTO PER PRENDERE ESTRARRE E TRITURARE I CALCOLI DELLA VESCICA ORINARIA MEMORIA DEL PROF. PIETRO LORETA (Letta nella Sess. Ord. del 27 Gennaio 1881). Col lavoro che ho l’onore di presentarvi, o chiarissimi Signori, io Vi prego «li prestarmi la vostra attenzione sopra un argomento di chirurgia, la cui impor- tanza evidentemente si rileva dalla lunga ed interessantissima storia che lo risguarda. Alludo a un ferro che vorrei facesse parte dell’ apparecchio istrumentale della Li- totomia, così chiamata dagli antichi con nome improprio ; la quale più acconcia- mente fra noi si appella Cistotomia. Sul tema stesso pubblicai già un’ altro scritto nella Rwista Clinica di Bologna l'anno 1869. Allora scrissi intorno a un Cistotomo nuovo, inteso a rendere sicuro o di facile esecuzione, il taglio della regione profonda del perineo. E sullo stesso tema, insieme a un ingegno che trovai per estrarre l’ uncino del. Graeff, nei casi disgraziati di cateterismo esofageo, io V’intrattenni, Accademici prestantis- simi, l anno 1876: e così feci, perchè mi piacque che quel Cistotomo, il quale aveva già incontrato il favore dei migliori clinici d’Italia (e l uso del quale tut- tora si diffonde in guisa, che 1 clinici di Rio-Janeiro se ne giovano pur essi), così feci, dissi, perchè mi piacque che quel Cistotomo fosse avvantaggiato dal batte- simo della vostra approvazione. Favorito dalle lodi che Voi mi tributaste, mi dedicai tosto a nuovi studi; il frutto dei quali oggi Vi comunico, intorno a quel tempo della Cistotomia che conduce il chirurgo alla ricerca del calcolo, per eseguirne la presa e la estrazione. Lo scopo di questo mio lavoro sarebbe il perfezionare completamente l’ apparecchio della Cistotomia perineale: concedetemi la frase che può sembrare una vera mil- lanteria. Col nuovo ferro, avente forma di cucchiaia, e che con questo nome può forse chiamarsi, sarebbe mio intendimento che il chirurgo possedesse un mezzo si- — 214 — curo per prendere subito la pietra ed estrarla, senza romperla, nei casi semplici; e che potesse inoltre triturarla ed asportarne tosto i frammenti, nei casi compli- cati dal volume eccessivo del calcolo : intendo alludere a quegli esempi, nei quali è necessario di ricorrere al metodo misto, ossia alla litotrissia perineale. Che se per avventura, con questa cucchiaia, avessi raggiunto l’ intento nella guisa stessa che mi occorse col Cistotomo, non esiterei nell’ affermare che da quì in poi ogni chirurgo potrebbe eseguire l operazione della pietra col mio apparecchio, senza timore d’ incontrare complicazioni di sorte alcuna, e colla certezza di ottenerne un favorevole successo. Intanto a tormi di dosso la taccia di millantatore, che a qualcuno piacesse di affibbiarmi, debbo annunziarvi, o Signori, che moltissimi esperimenti da me ese- guiti nel cadavere, siccome le prove fatte nel vivo, corrisposero esattamente alle mie aspirazioni. E quando Voi foste per confermare il mio avviso, intorno alla si- curezza, alla facilità e alla efficacia con cui si agisce con questo nuovo strumento, trovereste eziandio che l’ istrumento stesso avanza di pregio tutti quelli che sono registrati nella storia della cistotomia e della litoclastia perineale. Nella operazione della pietra due parti importantissime si hanno a considerare: obbietto della prima è di aprire una via artificiale per l uscita del calcolo; e di questa parte, permettete che lo ripeta, ne trattai in altro lavoro con grandissima soddisfazione mia, pel giudizio che Voi stessi ne portaste. La seconda parte della operazione mira ad introdurre nella vescica orinaria quegli strumenti che sono più acconci a passare facilmente pel taglio perineale, a fare sicura presa della pietra e ad estrarla intera; siccome mira alla introduzione ed al maneggio di ferri, i quali debbono stringere e rompere il calcolo, ed estrarne i frammenti, quando il volume di questo sia sproporzionato alle dimensioni che si possono dare al taglio profondo del perineo. Ora, sendochè le norme prescritte per ottenere tanti effetti risguardano varìî e numerosi maneggi, difficilissimi tutti, così il chirurgo in questo tempo dell’ atto operatorio deve agire con molta destrezza e con moltissima pru- denza: egli ha mestieri, insomma, nell’ operare, di quella abilità che deriva sol- tanto da lunghissima esperienza. Per la qual cosa, coloro che vivono lontano dai centri esercitando nelle condotte, non diventano mai esperti; e nemmeno col sa- crificio dei loro infermi: e i clinici stessi i più reputati, non possono salire in fama di eccellenti litotomisti, se non dopo avere maltrattati parecchi pietranti; se è vero, come è verissimo, che le difficoltà nel maneggio di questi strumenti si vincono coll’ uso prolungato dei medesimi; e se è vero altresì, che questi ferri stessi, oltre ad essere numerosi e svariati di forma e di struttura, sono anche per giunta im- perfetti. Che se un ferro avesse tali qualità nella sua forma, e nella sua struttura, da essere maneggevole pure ai principianti (così come fu detto quasi in tono compas- sionevole del mio Cistotomo), a me sembra che proprio quel ferro sarebbe idoneo al vero scopo. Imperocchè, come già dissi, renderebbe pronta, facile e sicura la — 215 — presa e la estrazione della pietra, e servirebbe mirabilmente eziandio quando fosse indicata la litotripsia perineale. Frattanto per dimostrare l’ utilità che dall’ uso del mio strumento può ridon- dare alla pratica della cistotomia e della Iitotritosi perineale, oltre le prove fatte nel cadavere e nel vivente, giova indagare come nel maneggiarlo si sfuggano tutti i pericoli e tutte le difficoltà che si trovano, servendosi delle tanaglie comuni li- todrassiche, e dei frangipietra fino quì conosciuti. Nel che fare, non Vi pensate, o Signori, che io voglia riassumere tutta la storia che appartiene agli apparecchi strumentali della cistotomia e della litotrissia. Il lavoro non sarebbe acconcio a questa sede prediletta delle scienze, dove Voi, chiari per tanta e tanta varia dot- trina, vi adunaste per ascoltarmi. Il paragone dell’ istrumento che sottopongo al vostro esame colle tanaglie e coi litotritori del ricco armamentario chirurgico, altro non proverebbe che, la nuova cucchiaia è totalmente diversa da quanti mai ferri furono a tal’ uopo inventati, modificati, e messi in uso. Non dirò adunque degli strumenti di Celso, nè di quelli che passarono per le mani di Paolo di Egina, di Giovanni de Fomanis, di Frate Giacomo, del Cheselden, del Lecat, di Frate Cosimo, dell’ Havckins, dello Scarpa, dell’ Abernethy, del Viqu d’ Azir, del Pallucci, del Bronfield, del Monro, del Desault, del Dupuytren, del Vidal e del Vaccà Berlinghieri. Un solo cenno sui processi operatori, e sulle modificazioni fatte dell’apparecchio istrumentale, condurrebbe a trattare l’ argomento con tanta diffusione, da comporne un volume. E non toccherò nemmeno di volo dei processi, dei metodi operatori e degli strumenti innumerabili della litotrissia. Per mettere in rilievo i punti principali di questa storia, bisognerebbe incominciare da A/bucasis e da Benedetto Santorio, eppoi seguirne le traccie sulle opere di Yabrizio Idano, di A. Pareo, dell’ Alghisi, del- lAmussat, del Leroy d’' Etiolles e del Civiale. Chi mettesse mano a cosiffatto pazien- tissimo lavoro, parimenti apprenderebbe che fra tutti gli strumenti che furono consigliati pel taglio perineale, per la litotrissia e pel metodo misto, non ve ne ha alcuno che somigli alla cucchiaia da me proposta. La quale è affatto originale per la forma, per la struttura, e pel congegno particolare con cui si mette in movimento, e si adopera. Il litolabo che il Leroy d'Etiolles fece conoscere l’anno 1822, e quello del Lu- kens, coltellinaio di Filadelfia, potrebbero a prima giunta sembrare somiglianti al mio, qualora non si sapesse che i detti strumenti debbono introdursi nella vescica facendoli passare per l uretra; e quando si ignorasse che a comporli entrano due anse fatte colle molle da orologio; e finalmente che le anse si aprono e si chiu- dono facendole uscire ed entrare in una guaina o sciringa metallica. Se si considerino i molteplici effetti che mi sono prefisso di raggiungere colla nuova cucchiaia, tosto si comprende come nessun altro ferro, che abbia ufficio speciale e scopo determinato, possa a questa rassomigliare. I principali vantaggi che derivano dall’ uso della cucchiaia sono immediati, e — 216 — consistono nel rimuovere i pericoli e le difficoltà cui espongono le tanaglie nella seconda parte della operazione, allora quando si cerca la pietra, quando si prende, e quando si vuole estrarla. Sanno purtroppo i chirurghi, e dalla loro esperienza e dai resoconti clinici, come sia lunga e penosa la ricerca del calcolo, e quanto pericolo si corra di stringere tra le morse della tanaglia qualche piega della mu- cosa che tapezza la vescica orinaria, in ispecie in que’ malati che hanno calcoli di piccolo volume. E non v'è chi ignori altresì le deplorabili complicazioni che sus- seguono all uscire della pietra, tanto se questa regga alla presa della tanaglia, quanto se si rompa essendo fragile di sua natura. La superficie rugosa e scabra dei calcoli duri nel passare contunde e lacera i tessuti: da ciò la incontinenza di orina, che tosto avviene, non che le emorragie immediate per lacerazione di vasi, e le consecutive al distacco dell’ escara; imperocchè la necrosi della superficie del taglio è la conseguenza inevitabile di cosiffatto manuale operatorio. Rispetto alle pietre friabili, esse si schiacciano, si rompono e sì riducono in frammenti minutis- simi tra le cucchiaie della tanaglia. Gli autori, che scrissero di simile materia, con- sacrarono tutti un capitolo speciale a questo tempo interessantissimo della cistoto- mia, raccomandando tutte le precauzioni, e tutta la possibile destrezza, affine di evitare un così grave accidente: il quale, oltrecchè compromettere l’ esito imme- diato dell'atto operativo, può esporre a grande rischio la vita dell’ infermo. Sul proposito delle pietre friabili, è opportuno il ricordare la pratica del laccio, consigliata da Mariano Santo, per impedire che la mano del chirurgo stringesse troppo i manichi della tanaglia. Per la qual cosa, dopo l'avviso di Mariano, fu- rono costruite e modificate moltissime tanaglie; di guisa che tra i ferri se ne tro- vano parecchie i cui manichi, dopo aver presa la pietra, si fermano con un tra- mezzo metallico, per non triturarla. Di recente fu pure introdotta nell’ armamen- tario la tanaglia detta a cremallier del Charriére, della quale molti si lodano perchè, fornita di una sbarra o punto di arresto fra le branche, serve benissimo a limi- tare la compressione che potrebbe fare il chirurgo qualora stringesse di soverchio, ovvero quando la pietra fosse fragile. La nuova cucchiaia, oltrecchè rende agevole la ricerca del calcolo, pronta la presa e sicura la estrazione, può anche servire efficacemente a triturare la pietra, se, per essere troppo grossa, obblighi di ricorrere al metodo misto, o all’ uso dei ferri litodrassici per la via del taglio perineale. E i vantaggi, pei quali questo istrumento è preferibile ad ogni altro frangipietra, sono, a mio avviso, la facilità della sua introduzione e la sicurezza colla quale si può muovere, e farlo scorrere tra le pareti della vescica, distesa già da grosso calcolo, e il calcolo stesso; là dove, per l angustia dello spazio, i litoclasti, finora conosciuti, non possono ma- neggiarsi e spesse volte nemmeno essere introdotti. Per conoscere quali ostacoli necessariamente si oppongano all’ ingresso dei ferri nella vescica e alla presa delle pietre voluminose, basta dare un'occhiata alle tanaglie ed ai migliori litoclasti che da A. Parco fino a noi furono messi a far parte del- — 217 — l’armamentario chirurgico : tosto si notano le sproporzioni tra il volume dei lito- clasti e la capacità e la cedevolezza della vescica orinaria; e sorprende il pen- siero che questa, distesa e riempiuta da una grossa pietra, debba ricevere e con- tenere cosiffatti istrumenti. Alla vista di questi ferri, sì comprende la gravezza dei pericoli derivanti dal loro maneggio; e tanto più se si consideri la tessitura ana- tomica della vescica orinaria, e si conosca la speciale sua distendibilità nello stato sano; e come daltronde diventi poco cedevole nelle condizioni patologiche alle quali è ridotta dalla presenza dei corpi estranei. Per le difficoltà sovraccennate e per questi pericoli, con molta ragione Ma- riano Santo e il suo maestro Giovanni de Romanis biasimavano l esercizio della li- totripsi, sebbene fosse già stata chiaramente consigliata e raccomandata da Celso : e la biasimavano perchè la dicevano fatale al malato, e di grave responsabilità pel chirurgo, stantechè lo strumento di cui allora si servivano era troppo volu- minoso. Il frangipietra di ZYanco di qualche guisa ricorda forse la grandezza e le forme dei litoclasti usati nell'epoca di Mariano Santo: e dico forse, perchè apparisce chiaro come il Franco abbia attinte dal Mariano molte ed utili cogni- zioni. È una robusta tanaglia che ha i manichi tortuosi, ad ottenere mag- giore effetto dalla potenza impegnata a mettere in movimento le morse, la quale può benissimo schiacciare e rompere una grossa pietra: a raggiungere però lo scopo, è giuocoforza ammettere che le dimensioni delle morse non incontrino verun ostacolo nel passare attraverso il taglio perineale, cosicchè non producansi lacerazioni di tessuto, e non ne susseguano le emorragie, le infiltrazioni orinose, le canerene e le incontinenze di orina. È forza ammettere eziandio che le morse di cosiffatta tanaglia possano internarsi fra il grosso calcolo e il basso fondo della vescica, di dove, aperte e allontanate una dall’ altra, poscia scorrano in alto, af- finchè il calcolo si trovi contenuto nel seno formato dalle medesime e vi rimanga compresso. Che se la capacità del seno non è proporzionata alla grossezza della pietra, o le morse non si spostano più dal fondo della vescica, ovvero abbrancano soltanto una piccola porzione della pietra; e allora, se il chirurgo avvicina i ma- nichi e stringe le morse, queste sdrucciolano sul calcolo e lo spingono indietro, cagionando la contusione, o la violenta distensione e talvolta infine una vera la- cerazione della vescica. Si ritenne forse che la presa sfuggisse non per le ragioni addotte, bensì per difetto di forza: per la qual cosa al frangipietra di Franco si aggiunse la tanaglia di A. Pareo affine di rendere più sicura la presa. A tale scopo la tanaglia del Pareo è munita di una vite di richiamo nelle estremità dei manichi, la quale è data a stringere fortemente le morse della tanaglia, e a mettere anche in azione cinque denti robusti a punte acute, sporgenti dalla superficie interna delle cucchiaie, e disposti in modo che si alternano quando le morse sono avvi- cinate. TOMO II. 28 — adige Dopo le riflessioni fatte intorno alla tanaglia di Yanco, è strana cosa il notare come le modificazioni apportate dal Pureo col suo litoclasto, significassero, intanto, che il volume e la robustezza della tanaglia del suo predecessore non erano suffi- cienti a vincere la resistenza opposta dai grossi calcoli della vescica. E non andò guari che all’ istrumento del Pareo toccò la sorte che aveva incon- trata quello di Franco: imperocchè venne il tempo della tanaglia di Frate Cosimo avente grossezza maggiore, e armata di sei chiodi nella superficie interna delle cucchiaie, disposti im modo che quelli di un lato s incontrassero esattamente con quelli dell’ altro lato, supponendosi così che la pietra si rompesse più facil- mente nell'atto che si stringono le morse. E comecchè questa tanaglia non incontrasse favorevole giudizio, volle quel Frate stesso che se ne fabbricasse un’ al- tra simile alla prima, e prescrisse che l’intero strumento avesse la lunghezza di diecisette pollici, comprese le cucchiaie, le quali dassole ne misuravano quattro: la grossezza delle branche di quattro linee, mentre le cuechiaie erano grosse cinque linee e larghe sette. La caratteristica veramente speciale del secondo frangipietra di Irate Cosimo consiste nella articolazione delle branche : la quale, allora per la prima volta, fu fatta in guisa che permettesse d’ introdurre una dopo Y altra le bran- che dell’ istrumento, sì che potesse poscia articolarsi; e cioè prima di procedere alla rottura del calcolo, e alla estrazione dei frammenti. Con questo ferro si fa presa sul calcolo, non sì tosto sia compiuta l'applicazione e l articolazione dell’ istra- mento, nella stessa maniera che si agisce col forcipe degli ostetrici. Di quale uti- lità sia per essere l’ introduzione successiva delle branche in simili congiunture, si comprende ricordando | anatomia topografica del perineo, e le dimensioni che sono prescritte pel taglio prostatico affinchè i ferri passino entrando, e la pietra con essi ne possano uscire. Si comprende, dissi, e può dimostrarsi cogli esperimenti nel cadavere, come il passaggio della seconda branca non si eseguisca senza pro- durre estese lacerazioni, per essere la via angusta ed obbligata a rapporti immu- tabili dalla presenza della branca che è stata precedentemente applicata. Il frangipietra dell’ Heistero ha pure la forma della tanaglia; anch’ esso ha i chiodi robusti nella faccia interna delle cucchiaie, e ne ha cinque alternati, tre da una parte e due dall’ altra. Differisce dai litodrassici sopraccennati in ciò, che i suoi manichi terminano ad uncino ottuso: la qual cosa permette al clururgo di esercitare moltissima forza traente , contro la resistenza opposta dai tessuti all’ uscire dei calcoli grossi. Inoltre la forbice dell’ Heistero, ha una molla tra i manichi, la quale mantiene le morse allontanate quando l' istrumento è fuori d'azione. Quella molla dovrebbe favorire la dilatazione del taglio, ed age- volare l'ingresso delle morse nella vescica e veramente non è possibile di pene- trare collo strumento chiuso nella vescica ormaria, qualora questa contenga una pietra molto voluminosa. E che di pietre assai voluminose e dure occorrano talvolta, lo attestano eviden- temente la forma, la solidità e la grandezza che piacque al 72204 di dare alla — 219 — sua tanaglia. Nella quale si trovano riuniti e insieme combinati gli ingegni che qualificano tanto il frangipietra di A. Parco, per la vite di richiamo applicata al manico, quanto quello di Frate Cosimo, pel modo speciale con cui è articolato. Il Lier nel 1872 fabbricò un frangipietra a forbice, per commissione ricevuta dal Dolbeau. Per ottenere grandi effetti colla forza comunicata, non dalla vite di richiamo, ma dalle mani del chirurgo, il Lier, oltre una cresta longitudinale dentata di cui fornì la faccia interna delle morse, diede la lunghezza di trentotto centimetri alle branche dell istrumento. E non pago di ciò costruì alcuni pezzi da aggiungersi per allungarne le branche, tutte le volte che la pietra resistesse alla potenza del ferro. Credo inutile il dare le misure esatte delle parti che compongono i vari fran- gipietra di cui ho parlato. Uno sguardo agli strumenti, quali si vedono nell appa- recchio del metodo misto, e tosto sì giudicano madornali. Ciò che importa considerare, parmi si riferisca alla opportunità di eseguire o no la operazione, quando i malati hanno ingombra la vescica da calcoli tanto grossi. Le difficoltà che si provano sempre nell’ applicazione di questi ferri grossolani, e gli accidenti immediati che ne derivano, seppure si riesca di porli in sito, costituiscono, a mio credere, le pre- cise ed assolute controindicazioni. Per la qual cosa il chirurgo, memore dei pre- cetti fisio-patologici relativi all’ influenza delle grandi lesioni traumatiche della vescica sull organismo, abbandonerà alla sua sorte inevitabile il malato, il quale altrimenti morrebbe fra gli spasimi cagionati dall’ atto operatorio e dalle sue gravi conseguenze. Si muore di calcolo nella vescica, come si muore di cancro della vescica, o di quello del fegato, o dell’omento. In tali frangenti il memento mori dispensa dal mettere mano ai ferri, senza che la statistica e il decoro della pro- fessione vi perdano per questo; imperocchè al numero minore delle grandi opera- zioni si contrappone un corrispondente ribasso nella cifra dei morti di martirio. Cogli strumenti suddescritti i chirurgi intendevano di rompere la pietra se- guendo le leggi di un solo meccanismo, ossia sviluppando la forza in guisa tale che questa agisse soltanto sopra due lati opposti del calcolo, mercè le morse delle tanaglie. Però altri ferri si enumerano, il cui modo di agire è più complesso: im- perocchè, oltre la pressione fatta dalle cucchiaie, la pietra è anche sottoposta all’ azione di un cuneo o di un perforatore, la cui forza centrifuga contri- buisce moltissimo a spezzarla. Prima di YYanco, nessuno aveva pensato mai di penetrare nella spessezza dei calcoli, e proprio nel loro centro, con quella specie di punteruolo del quale Guy de Chauliac si serviva per estrarre i proiettili incu- neati nelle ossa. Anche il Lecat consigliava di rompere le grosse pietre col perfo- ratore, perchè già sapeva che colla semplice pressione rade volte si raggiungeva l intento. Dopo il Lecat le modificazioni e le aggiunte apportate agli strumenti di litoclastia si moltiplicarono tanto, che il metodo misto prese voga: e per le ope- razioni e pei nuovi ritrovamenti ne andarono onoratissimi i nomi del Civiale, del Begin, del Guersan, del Nélaton; e in Italia il nome del Porta, quello del Malagodi e quello di G. B. Fabbri. —- 220 — E questi onori e queste fatiche si avvicendavano e si diffondevano, sebbene il Dechamps avesse condannata la litotritosi perineale fino al punto da posporla al taglio ipogastrico. Non è poi a tacere come la sentenza del Dechamps incontrasse il favore dei chirurgi del suo tempo, perchè in quell’ epoca stessa fiorendo le sco- perte sulla meccanica della litotrissia, accadde che tra i fautori della cistotomia e quelli della litotripsia si risvegliassero tali suscettività e tante, che gli uni non volevano conoscere alcun bene nella litotrissia, e gli altri tutto rimproveravano alla cistotomia. E siccome da cosiffatta contesa ne seguì che la litotrissia fosse tolta dal- l’altare e cacciata nella polvere, proprio nel momento in cui la si voleva imporre quale metodo esclusivo, perchè i suoi ferri (belli e ingegnosi invero) espongono a gravissime complicazioni immediate e remote, così avvenne anche del metodo misto, attesa la imperfezione del suo apparecchio istrumentale. E per verità, incominciando a dire del litoclasto del Malagodi, il solo tra quelli di cui mi resta a parlare che non abbia il perforatore, è facile il dimo- strare come non offra risorse operative, per avere la forma e la struttura eguali a quelle dei litotritori che si adoperano nelle vie naturali. Oltrecchè si riesce assai difficilmente ad introdurre i litotritori comuni in vescica, facendoli pas- sare per il taglio perineale, v è anche da aggiungere che si incontrano maggiori difficoltà nel maneggiarli, qualora siasi ottenuto di farli penetrare. Per prendere la pietra, allorchè si eseguisce la litotrissia dalle vie naturali, occorre avvallare il basso fondo della vescica colla branca femmina dell’ istrumento acciocchè il cal- colo, ubbidendo alle leggi di gravità si metta a contatto del litotritore : si ottiene di abbassare il fondo della vescica orinaria, elevando l asta dell’ istrumento verso la parete anteriore dell’ addome, fino a condurla quasi nella perpendicolare sul pube. Ora un tal movimento non si può mai eseguire col litotritore che è stato introdotto nella vescica per taglio perineale. E se il Malagodi ha creduto di ripa- rare all’ inconveniente, facendo costruire il suo litoclasto in guisa, che le branche potessero applicarsi una dopo ’l altra, ha poi incontrata una nuova e non meno grave difficoltà di applicazione nell’ ostacolo che oppongono gli angoli del taglio; i quali non permettono il passaggio della branca maschio, perchè questa deve scor- rere lungo una linea retta, alla quale è obbligata dalla scanalatura della branca femmina. E la direzione in cui si perviene alla vescica, partendo dalla base del perineo, è tanto curva che in alto e profondamente il ferro che vi passa trovasi quasi parallelo alla faccia posteriore della sinfisi del pube. Chi poi volesse intro- durre chiuso il frangipietra del Malagodi, come si usa di fare coi litotritori co- muni, incontrerebbe minori difficoltà nel passaggio, ma grandissime nel momento di aprirlo, e nel muoverlo. Feci notare che al Franco si doveva l’ aggiunta del perforatore alla tanaglia frangipietra; ora aggiungo che il Nélaton proponendo il suo forcipe litotritore non fece che consigliare uno strumento in cui si notano, combinati insieme, 1 congegni del forcipe di rate Cosimo, e il perforatore di varco. Si applica — 21 — il frangipietra del Nélaton introducendo le branche una dopo l’altra; le quali poscia si articolano facendo nel tempo stesso la presa del calcolo j quindi si aggiunge e si adatta sopra una delle branche il perforatore, per metterlo in azione. Il Porta, il celebre clinico di Pavia, modificò ingegnosamente l’ istrumento del Nélaton. Egli volle che la ghiera che serve di sostegno al perforatore si mo- vesse sopra un perno perchè la pietra fosse bucata in varie direzioni, e così ce- desse più facilmente all’ azione della tanaglia. Anche il Civiale volle associare nel suo litoclasto il doppio meccanismo dello schiacciamento e della perforazione. Però si era accorto che i ferri troppo grossi, compresa la sua pinzetta a tre branche, non erano punto efficaci. Immaginò quindi una tanaglia sottile avente le cucchiaie incurvate ad uncino, perchè servis- sero come mezzi di presa potente e di sicura estrazione, tutte le volte che il vo- lume della pietra lo permetteva: che se questa non potesse uscire, consigliò di aggiungere alla tanaglia un congegno il quale fermasse i manichi dell’ istrumento, e in pari tempo fosse il punto di appoggio del perforatore. Così il Civiale, con un solo ferro, si propose di soddisfare a tutte le indicazioni: estrarre la pietra nei casi semplici; farne sicura presa e romperla nei complicati. Ma la forza che biso- gna esercitare nel maneggio di cosiffatto istrumento fu di ostacolo al favore e alla diffusione di cui ripromettevasi il suo Autore stesso. Nella storia della litoclastia perineale, un posto eminente davvero lo tiene G. B. Fabbri, col frangipietra curvo-retto che propose e fece costruire l anno 1852. L’istrumento del Fabbri si scosta alquanto, per le sue qualità particolari, da tutti quelti di cui ho tenuto finora parola, e da tanti altri che sarebbe lungo lo enu- merare, i quali ingombrano l armamentario di chirurgia. Come il Malagodi, il Habbri rinunciò all’ idea dei frangipietra a branche opposte, mobili come le leve di primo genere. Si accorse I eletto ingegno, che la introduzione di quegli istrumenti comunque fossero articolati, era difficile e pericolosa: si avvide eziandio che al maneggio dei medesimi, una volta che fossero stati introdotti nella vescica, s' infrapponevano gli ostacoli derivanti call’ angustia dello spazio tra il calcolo e la vescica stessa; notò finalmente che la grossezza delle tanaglie era eccessiva, e sempre sproporzionata alla capacità e alla tessitura anatomica dell’ uro-cisti. Quindi propose un istrumento che, per la forma e per le dimensioni, non differisse di troppo da quelli che comunemente si usano nelle malattie delle vie orinarie. Il frangipietra curvo-retto del Fabbri si compone infatti di una lunga can- nula, la cui estremità vescicale s'incurva a modo di una sciringa. La porzione curva dell’ istrumento invece di essere cilindrica come la sua parte retta, è incavata da una doccia, ed è rivolta colla sua concavità alla porzione rettilinea dell istrumento stesso, formando un seno il quale offre alla pietra un ampio spazio, dentro cui facilmente può essere contenuta. Introdotto colla porzione curvilinea nella vescica, facendolo scorrere tra il calcolo e la parete di questa, quel ferro si —-. 222 — può muovere in guisa da impegnare la pietra nella sua concavità, qualora non sia riuscito di farvela entrare nel momento stesso della sua applicazione. Allora, mediante l apparecchio alla Charriére che trovasi nel manico, si spingono innanzi due aste applicate ai lati del manico stesso, e con queste si comprime e si fissa la pietra. Poscia con un perforatore che passa nel centro dell'asta, terminato da un lato a punte triangolari piramidali, e dall’ altro dentellato a modo da potersi muovere col roc- chetto e terminato con un bottone su cui il martello percuota, il calcolo si rom- pe. Le regole che governano 1’ applicazione di questo frangipietra non diversificano punto dalle norme che sono prescritte per introdurre nella vescica i litotritori del- l’ Heurtelong, passando pel taglio perineale. Col suo istrumento, il Habbri mise un riparo agli ostacoli della introduzione e compose le differenze che dividevano i fautori del taglio ipogastrico da quelli del metodo misto; i quali aspettavano con ansietà un frangipietra che sedasse il tumulto suscitato dalle tanaglie. Nel 1872 Yl istrumento del Fabbri fu imitato in Francia dai fabbricatori Robert e Collin per commissione ricevuta dal Maisenneuve, il quale n° ebbe a confermare l’ efficacia pel modo di applicarlo, e pel modo di agire. Ed è pari- menti questo frangipietra stesso che fece dire al Néafon che “ l istrumento del » Fabbri di Bologna rendeva inutile il suo forcipe a tanaglia ,: e le parole av- valorò col fatto perchè dovendo egli operare un infermo col metodo misto, si fece costruire listrumento, e se ne giovò con grandissima sua soddisfazione. Riuscirei di molestia a’ miei uditori se tutta volessi tessere la storia dell’ arma- mentario inserviente al metodo misto; tanto più che non ricaverei alcun vantaggio pel tema in discorso. Bastano quindi i cenni dati per dimostrare che i chirurgi altro non ebbero di mira se non la robustezza dei ferri, per ottenere gli effetti più rilevanti: e molti preferirono le tanaglie, quale mezzo di presa fortissimo e sicuro; pochi raccomandarono gli strumenti curvo-retti allo scopo di renderne fa- cile l’ applicazione. Dalle cose esposte, o Signori, chiare appariscono le ragioni che mi mossero a immaginare lo strumento che sottopongo al vostro giudizio ; e rilevansi eziandio le norme che mi guidarono nel dirigere la sua costruzione, perchè nel maneggiarlo rispondesse al mio intendimento. Cercai che avesse tal forma da rendere agevole la sua introduzione nella vescica; mi occupai moltissimo dei congegni che dove- vano mettere in movimento le varie parti di cui si compone, affine di raggiun- gere i principali effetti ai quali è preposto, ossia la presa del calcolo pronta, facile e sicura, senza lesione della vescica orinaria. Volli ancora che l istrumento potesse servire a due indicazioni: a quella di estrarre il calcolo intero, allorchè i diametri di questo sono proporzionati alle dimensioni del taglio e della cucchiaia. Che se la pietra fosse tanto voluminosa da non passare, nè da essere totalmente contenuta nella cavità del ferro, trovai modo che, per la sua struttura, potesse convertirsi, da mezzo di presa e di estrazione, in robustissimo frangipietra, per procedere collo stesso istrumento alla litotrissia perineale, ed all’ estrazione immediata dei frammenti che ne risultano. — 223 — Ora passo a descrivere brevemente, e nel modo il più chiaro che mi sarà dato il ferro, che bramerei venisse adottato dai litotomisti. È una cucchiaia (tav. 1° fig. 1°) sostenuta da un’ asta (a), o fusto cilindrico e robusto, il quale termina col manico (m), eguale a quello della chiave del Garen- geot; di facile presa e di più facile maneggio. Nel cilindro che costituisce 1’ asta della cucchiaia è soprapposta o fermata una impugnatura (5), metà della quale è di avorio e metà di ebano (fig. 6° a, e): e siccome anche le due faccie del manico sono diverse, perchè una è bianca e l’altra nera (tav. 1° fig. 1* d', fig. 6° n), così accade che, quando la cucchiaia è in riposo, tutte le parti dell’ impugnatura e del manico rivestite di avorio sono rivolte in alto, quelle coperte di ebano guar- dano in basso (tav. 1° fig. 5°). Il fusto o l’asta cilindrica dell’istrumento è composto di due pezzi, uno dei quali è contenuto nell’ altro (tav. 2° fig. 1° e 2°), e somigliano alle branche dei comumi litotritori: di queste branche ve ne ha dunque una con- centrica (fig. 2°) che si può muovere con moto rotatorio mediante il manico (dise- gnato a fig. 6°), la quale ricorda la branca maschio; ve n’ è una excentrica (fig. 1°) che resta ferma mentre l’ altra gira intorno, e la quale rappresenta la branca femmina dei litotritori. La prima di queste due branche si continua e termina dal lato opposto al manico (estremità vescicale dell’ istrumento) in una cucchiaia (fig. 2° c); la seconda invece finisce con un padiglione (fig. 1* p), nel quale vedonsi due forami perchè due viti vi fissano una cucchiaia (fig. 3°) che deve fare corpo comune colla branca stessa. La forma di queste due cucchiaie è ugua- le, e quasi eguale ne è la grandezza : esse stanno soprapposte luna all’ altra quando l’istrumento è aperto e fermo; e le cucchiaie stesse si allontanano più o meno completamente allorchè vi sì comunica il moto. La cucchiaia superiore che si con- tinua alla branca maschio, ossia la branca concentrica nella quale è fermato il manico (fig. 6°), è quella appunto che si mette in movimento, ogni volta che si faccia girare da sinistra a destra il manico suddetto. La cucchiaia inferiore, quella fermata colle viti alla branca femmina, è tenuta immobile dalla mano sinistra che stringe l impugnatura, mentre colla destra applicata sul manico il chirurgo fa muovere la branca maschio e con essa la cucchiaia superiore. Fra 1’ una e l'altra di queste due cucchiaie, se Î istrumento è aperto, rimane uno spazio, che è capace di contenere due altre cucchiaie o valvole eguali per forma e per dimensioni (tav. 2° fig. 4* e 5°). Queste però non sono fornite di manico, ma invece termi- nano con un breve tallone (fig. 4° e 5° #, #), che di poco sormonta l’ estremità vescicale dell’ asta o fusto cilindrico dell’ istrumento. Le estremità acuminate delle quattro cucchiaie sono riunite insieme da una vite in guisa, che la vite stessa serve di perno ai movimenti circolari che debbono eseguire (tav. 1° fig. 1° 2° e 5* v, v, v). Nel tallone delle due cucchiaie intermedie sono incise alcune fessure tra- sversali della medesima lunghezza; e nella seconda se ne vede una (tav. 2° fig. 5* f), nella terza due (fig. 4° f, f): queste fessure servono a far sì che tre punte metalliche rilevate, le quali sporgono dal tallone della prima, della seconda e della — 224 — quarta cucchiaia (fig. 2* 3° e 5° p, p, p) possano scorrere ed a loro volta impun- tarsi contro le estremità di quelle fessure, in guisa che, quando la branca maschio gira intorno, come se fosse una ruota dentata, quei dentelli, così piantati in luoghi diversi, s incontrano con le fessure corrispondenti, e vi scorrono dentro in tempo successivo, e successivamente intoppano nelle estremità di ciascuna fessura a modo, che le valve o cucchiaie intermedie, una dopo l’altra, si spostano. E prima a muoversi delle due è la seconda, contando dall’ alto al basso, o dalla superficie concava alla convessa, trascinata dal dente che sporge dal tallone della cuechiaia continua alla branca maschio; indi si sviluppa la terza, perchè il dentello spor- gente dal tallone della seconda cucchiaia urta contro la estremità della fessura. incisa nel tallone della terza. Accade per cosiffatto congegno quel fenomeno stesso che i meccanici chiamano il prodotto dell’ ingranaggio : movendo il manico del- listrumento da sinistra a destra, quasichè girasse una ruota dentata, si muove la cucchiaia dipendente dalla branca maschio, ossia la più superficiale. Appena questa ha perduto ogni suo rapporto di superficie colla faccia concava della seconda cuc- chiaia, la seconda pure è messa in movimento, perchè il dente rotante della branca maschio intoppa nella estremità sinistra della incisura trasversale del suo tallone. L’istrumento è disegnato a questo grado di sviluppo nella tavola 1° a figura 5°, dove si vede che la parte bianca del manico è rivolta verso la linea che congiunge l’avorio e 1 ebano della impugnatura, e che l indice si è fermato sul secondo segno scolpito nella ghiera. Compiuto il giro che scopre tutta la superficie convessa della seconda cucchiaia, il dente che sporge dal tal- lone della medesima conduce seco la terza cucchiaia, e 1 obbliga a perdere i rapporti di superficie che ha colla quarta, ossia con quella che, mercè le due viti, forma un fusto continuo colla branca femmina dell’ istrumento : la quale branca rimane immobile perchè tenuta ferma dalla mano sinistra del chirurgo che sostiene l’impugnatura. In siffatta guisa, compiuto lo sviluppo delle tre prime valvole, si nota che lo strumento è tramutato, di una cucchiaia aperta composta di quattro strati (tav. 1° fig. 2° d), in una cavità chiusa (tav. 1° fig. 6° c), perchè quelle tre prime cucchiaie perdendo i loro rapporti di superficie e cambiandoli cogli altri di margine, circoscrivono a mo’ di valvole uno spazio dovunque limitato da pareti metalliche. E questo spazio e queste pareti, qualora l istrumento sia stato intro- dotto in precedenza nella vescica del pietrante, costituiscono una vescica metallica concentrica alla vescica orinaria. È da notare che la branca maschio, o la concentrica, è incavata da un canale aperto tanto nella estremità vescicale, quanto nel lato che corrisponde al manico (tav. 2° fig. 2° a, a). Per questo canale il chirurgo può introdurre il perforatore a trivella o a punte piramidali (tav. 1° fig. 3°) affine di rompere la pietra quando sia voluminosa e sia parzialmente contenuta nella cavità dell’ istrumento. Per la cannula stessa passa una abbondantissima corrente d’ acqua la quale, oltrecchè sposta e conduce all’ esterno i frammenti, pulisce ancora il ferro che vuolsi aprire e chiudere, tenendolo dentro la cavità della vescica orinaria. — 225 — Finalmente debbo aggiungere che non solo l’ avorio e l’ ebano, sovrapposti alla impugnatura dell’ asta, indicano al chirurgo le norme con cui debbe svilup- pare l’istrumento nel maneggiarlo, ma che vi è anche una ghiera graduata nella estremità esterna della branca femmina (tav. 1* fig. 1°, 5%, e 6° g,g,ge tav. 2° fig. 1°, g), nella quale un’ indice fissato nella branca maschio (tav. 2° fig. 2* 4, segna il numero delle valvole sviluppate e la quantità dello sviluppo di ognuna; cosicchè il chirurgo, senza vederlo, può conoscere con precisione se lo strumento sia chiuso, aperto ed a qual grado aperto. Siccome poi l avorio del manico corri- sponde alla superficie concava della cucchiaia e l’ ebano alla superficie convessa quando l’istrumento è aperto, così l operatore ha una guida che lo dirige, e che rende sicuro ed efficace il suo maneggio; quindi egli conosce quale delle due faccie e quale dei due margini della cucchiaia si trovi in rapporto colla pietra, e col basso fondo della vescica orinaria. La cucchiaia sebbene abbia una struttura alquanto complicata, pure si scom- pone in breve e facilmente, levando col cacciavite, che fa parte del manico del perforatore (tav. 1? fig. 4* c), le due viti che fermano il tallone della quarta valvola alla branca femmina; e levando ’ altra vite che unisce tutte le valvole alifapice (fav. 1°, fio. ila 2° 5° 6% 2, ved. Dopo il cenno dato sulla struttura, aggiungo alcune parole intorno al modo di usare l’istrumento in discorso. Il quale, come si vede e dai disegni e da tutti i ferri di litoclastia con cui si voglia paragonare, presenta forma e grandezza assai favorevoli al passaggio pel taglio perineale e alla sua introduzione nella vescica; e molto più favorevoli ancora di quelle proprie alle tanaglie comunemente usate per eseguire l’ estrazione della pietra nella cistotomia. E in vero, quando l’ istru- mento è aperto, e le quattro valvole sono perfettamente sovrapposte le une alle altre, ha una forma che si presta bene a passare pel taglio e ad essere introdotto, purchè i margini delle cucchiaie sì mettano in rapporto cogli angoli della incisione : le faccie delle cucchiaie stesse debbono invece applicarsi contro i margini del taglio, avendo cura che la superficie concava sia rivolta al margine sinistro o alla co- scia sinistra dell’infermo. La fig. 2° della tav. 1% dimostra che la grossezza della cucchiaja, aperto che sia l' istrumento, è circa di un centimetro, mentre le comuni tanaglie, dell'apparecchio di cistotomia possono arrivare fino a due centimetri. Anche la superficie delle tanaglie ha forma e larghezza meno favorevole della cucchiaja : la quale essendo conica penetra più facilmente, e, del pari con molta facilità, dilata a poco a poco le labbra della ferita, meglio di qualunque altro dilatatore. Anzi que- sta cucchiaia sostituisce a meraviglia l’ azione dei dilatatori e quella delle piccole tanaglie, consigliate dai clinici quando il dito non abbia preparata una divulsione bastevole al passaggio dei ferri da presa. Qualora poi anche con questo istrumento s'inceontrasse una forte resistenza, il chirurgo non deve perciò ritirarlo, e ricorrere alle tanagliette e ai dilatatori suddetti; non importa cambiare i ferri: basta girare alcun poco e lentamente da sinistra a destra il manico ossia la branca maschio, TOMO Il. 29 — 226 — perchè la cucchiaja superiore, che obbedisce ai moti rotatori di questa branca, sporga alquanto col suo margine sinistro dai margini corrispondenti delle cucchiaje sottoposte, e per tal modo producesi tanta dilatazione, quanta occorre per intro- durre senza sforzo alcuno 1’ istrumento nella vescica. Penetrata che sia la cucchiaia si dispone in modo che l’avorio della impugna- tura guardi in alto; così l'operatore sa di tenere la concavità delle valvole rivolta in su, mentre la superficie convessa delle medesime guarda in basso, ed è in rap- porto col basso fondo della vescica orinaria. Allora si eseguiscono quegli stessi movimenti che sono prescritti per le comuni tanaglie nell’ atto che si cerca la pietra: si tasta qua e Jà, e, toccato il calcolo, si possono eseguire vari maneggi per farne la presa, perchè sono tutti di sicuro effetto. Si può dunque portare lo strumento alla destra dell’ operatore tra il lato sinistro della vescica e il calcolo; poi, tenendo la cucchiaia colla convessità rivolta alla sinistra del malato e la concavità verso la destra, sicchè il margine dal quale sviluppansi le valvole tocchi il basso fondo della vescica, si mette in movimento il manico dalla sinistra alla destra dell’ ope- ratore, avvertendo di mantenerle elevate perchè il fondo della vescica si abbassi. Compiuto il giro, il chirurgo si accorge dell’ effetto ottenuto guardando ai rapporti che hanno preso il manico colla impugnatura e l'indice colla ghiera. Impugna- tura e ghiera che rimangono ferme perchè tenute dalla mano sinistra, mentre coll’ altra mano si fa girare il manico verso la coscia sinistra dell’ infermo. Così mosso l istrumento e così lasciato, se il calcolo abbia volume proporzio- nato alla sua capacità, è convertito in un astuccio levigato, di forma olivare stan- techè le valvole, scorrendo luna sull altra, hanno rasentato il basso fondo della vescica, avvallandolo, e poscia sì sono innalzate successivamente, finchè il margine della prima sì è messo a contatto col margine della quarta. È rarissimo il caso che, nell’ eseguire cosiffatto movimento, il chirurgo non si accorga, o col tatto o con l’ udito, di avere fatta la presa del calcolo : il quale, pel modo particolare con cui la prima valvola si sviluppa fa un capitombolo so- nante dentro la cavità, così bruscamente preparatagii dallo strumento. Imperocchè nell’ atto che la detta valvola si muove, radendo e avvallando col suo margine con- vesso il fondo della vescica, la pietra rotola pel piano inclinato ed è costretta di penetrare, come se vi cadesse, dentro la doccia risultante dallo sviluppo della prima cucchiaia. La quale, non sì tosto abbia compiuto il suo giro, e converte la doccia nella cavità chiusa, e impedisce alla pietra di poterne uscire. Gli esperimenti che ho fatti in larga scala nel cadavere, e quelli che ha ri- petuto il mio egregio supplente, il Dott. Iticcardo Minelli, espertissimo del manuale di medicina operatoria, mi autorizzano a dare per vere, costanti ed efficaci le ri- sultanze di un tale maneggio. Anche le prove eseguite negli infermi corrisposero esattamente alle mie aspettative: che anzi dimostrarono un pregio novello della cucchiaia prima ignorato. Mi occorse di operare non ha molto il signore Davide Campos, di 50 anni, nel quale io avea fatta diagnosi di pietra libera ron molto e — "n e — — 227 — grossa. Ebbene, non fu senza meraviglia e mia grandissima soddisfazione, quando, all’ aprire dell’ istrumento, ebbi a trovare due pietre invece di una, come aveva dato a credere il cateterismo esploratore, ripetuto parecchie volte e con ogni dili- genza. E purtroppo quanti operati rimangono pietranti perchè le indagini fatte du- rante l’ operazione, dopo estratto un primo calcolo, andarono fallite! Dissi che il tatto e l’ udito avvertono 1’ ingresso della pietra nella cavità della cucchiaia ; la qual cosa accade perchè la valvola che fa corpo comune colla branca femmina trasmette distintamente la sensazione tattile alla mano sinistra che regge l impugnatura. L’ orecchio poi, alla sua volta, avverte manifesto quel suono par- ticolare, a tutti noto, determinato dal tocco degli strumenti metallici colla pietra contenuta nella vescica orinaria : quel suono che serve di segno obbiettivo alla diagnosi diretta di calcolo vescicale. Compiuto il maneggio sopra descritto, e chiusa completamente la cavità che ri- sulta dal totale sviluppo delle quattro valvole, prima di eseguire i moti rotatori combinati alla forza dolce, graduata, traente diretta alla estrazione della pietra, il chirurgo, ad assicurarsi della presa, fa una specillazione diagnostica col perfora- tore, introducendolo nel canale delle branche: e si accorge della presa efficace, se una porzione dell’ asta sporge dalla imboccatura del canale; che se la prova andò a vuoto, l’ asta del perforatore sarà penetrata tutta, per occupare tanto la cavità delle cucchiaie, quanto quella della branca maschio (tav. 1° fig. 6°). Dal grado poi della sporgenza che fa l’asta stessa, si conosce inoltre il volume preciso della pietra e, nel procedere nelle manualità, si eseguisce tosto l’ estrazione, eccetto il caso che la cucchiaia non sia perfettamente chiusa, chè allora, si ricorre al per- foratore, si stritola il calcolo, e se ne estraggono i frammenti. E qui giova notare che talvolta occorre che la cucchiaia non possa chiudersi sebbene la pietra non sia sproporzionata in volume alla capacità dell’ istrumento. Il che deriva dai rapporti sfavorevoli in cui si mette il diametro maggiore della pietra coll’ asse maggiore della doccia formata dallo sviluppo della prima valvola; imperocchè quello cade nella perpendicolare di questo. Allora prima di proseguire, per non accingersi inutilmente alla triturazione, è cosa prudente il verificare se lo sviluppo incompleto delle cucchiaie dipenda veramente dalla massa totale del calcolo : e ciò si ottiene rallentando la presa, col girare alcun poco a sinistra la branca maschio; per tal modo i margini della prima e della quarta valvola si allontanano, e la pietra acquista una certa mobilità. Allora, scuotendo il ferro, o anche introducendo il perforatore e specillando con dolcezza, si riesce a far sì che il calcolo muti posizione, e si collochi in modo che il suo volume e la sua forma si adattino con esattezza alla capacità dell’ istrumento. Un’ altra maniera da seguire nel maneggio della cucchiaia, per fare pronta- mente la presa della pietra, è di soprapporre alla pietra stessa il ferro colla con- cavità delle valvole in basso, poscia, comunicando al manico tal movimento che determini rapidamente lo sviluppo delle cucchiaie, accade che la pietra rimane tutta compresa nella cavità dell’ istrumento. — 228 — Ed è pure facilissima e sicura la presa, usando di un terzo processo, qualora si appoggi al fondo della vescica il margine delle cucchiaie opposto a quello pel quale le valvole si sviluppano ; ossia collocando lo strumento di coltello tra la pa- rete destra della vescica e il calcolo. Così disposte le cose, si sviluppino con moto brusco le valve fino a chiudere completamente la cavità, e il calcolo vi rimane imprigionato. Dalla descrizione testè data, dei tre processi cui deve attenersi il chirurgo se vuole prendere la pietra, emerge che, qualunque sia il rapporto di contatto della cucchiaia col calcolo, purchè quella sia mossa in giro colla superficie concava ri- volta a questo, la presa non può mancare. Comunque avvenga la presa quando il calcolo è circondato da cosiffatte pareti, per essere sottratto alla nociva pressione che la mano del più esperto chirurgo potrebbe fare onde vincere la resistenza che oppongono i tessuti, passa intero, tratto da poche forze, graduate e dirette in modo rotatorio, nella guisa stessa che si maneggia col forcipe e colle tanaglie comuni da presa. E passa facilmente per- chè la superficie convessa e levigata delle cucchiaie tutte, non che la forma oli- vare dalle medesime rappresentata, si prestano mirabilmente a dilatare i margini del taglio, e a sdrucciolare sui vari tessuti, di cui que’ margini sono composti, senza che sì producano contusioni e lacerazioni di sorte alcuna. Queste le risultanze nel maneggiare la cucchiaia, quando il volume della pietra è in relazione colla capacità del ferro. Il quale quand’ anche non faccia presa nella prima volta, purchè sì eseguisca un movimento rotatorio dalla sinistra alla destra dell’ infermo, non tarderà a raccogliere la pietra e a farla cadere nella doccia formata dallo sviluppo della prima cucchiaia. I risultati poi di un cotale maneggio sono pregevolissimi quando il chirurgo s' imbatta nei calcoli friabili. Questi calcoli passando pel taglio tratti dalle tanaglie si rompono sempre; imperocchè venendo compressi dalla contrazione dei tessuti in quelle loro porzioni che sporgono dalle morse, obbligano la mano del chirurgo a stringere di soverchio i manichi della tanaglia. La quale complicazione rende lun- ghissimo e doloroso l’ atto operatorio, e predispone a tante e così gravi conseguenze che il chirurgo è costretto di modificare la prognosi, e di fausta o riservata che l’ aveva giudicata, deve pronunciarne un’ altra assolutamente letale. Invece colla cucchiaia tutte le pietre friabili si estraggono intatte, gli attriti che si svolgessero essendo sostenuti dalle pareti metalliche dell’ istrumento. Ora debbo aggiungere alcune riflessioni intorno all’ azione della cucchiaia sui grossi calcoli, notando come questa in simili congiunture produca gli effetti di un potente frangipietra. Sia il calcolo voluminoso tanto, da essere parzialmente con- tenuto nella cavità dell istrumento : ebbene, il chirurgo se ne accorge subito per- chè un ostacolo s° intromette al completo sviluppo delle cucchiaie. Il manico che fa muovere la branca maschio non potrà compiere tutto il giro, e quindi la sua’ parte vestita di ebano non corrisponderà all’ avorio della impugnatura: 1 indice, — 229 — alla sua volta, segnerà il numero delle valvole sviluppate, fermandosi sopra l una o l’ altra delle divisioni scolpite nella ghiera. In cosiffatte congiunture, qualunque sia lo sviluppo dato all’ istrumento, il chirurgo lo manterrà qual’ è premendo colla mano sinistra sul manico, e obbligando così la pietra a rimanere presa e stretta dalle valvole sviluppate : allora colla mano destra s' introduce il perforatore nel canale della branca maschio fino a toccare la pietra, indi sì agisce, perforandola, con tanti giri, quanti occorrono a produrne lo spezzamento. Rotta la pietra, si ritira il perforatore e si serrano le cucchiaie : poi colle norme solite si fa uscire l istrumento dalla vescica, estraendo quella porzione del calcolo che sarà contenuta nella sua cavità. Dopo, si aprono le cucchiaie, si introduce di nuovo l’ istrumento nella vescica, e, nel successivo maneggio, si procede variamente, secondocchè i frammenti possono essere subito raccolti ed estratti, ovvero presi e triturati prima di farli uscire. i Qui giunto, soffrite che io enumeri e consideri di nuovo tutte le precauzioni che si debbono usare, non che le difficoltà che si hanno a vincere nel maneggiare le tanaglie comuni, sia che si faccia la presa del calcolo, siccome quando lo si voglia estrarre ; e apprenderete una verità, purtroppo dolorosa a dirsi; ed è, che la fal- lacia dell’ esito di molte cistotomie e litotritosi perineali è occasionata dalla imper- fezione di questi ferri. Inutile il dire del precetto lasciato dai Maestri di introdurre l’ indice della mano sinistra nel taglio, per dilatarne i margini, e così preparare il passaggio della tanaglia ; è anche ozioso aggiungere che, qualora l incisione sia riuscita pic- cola, e il dito non basti a dilatarla, occorre di servirsi delle piccole tanaglie o del dilatatore per distendere i margini, e passare poscia col dito, e infine colle tana- glie da presa. Coll’ istrumento da me proposto, non importa ricorrere a tali prov- vedimenti: imperocchè oltre che la cucchiaia è più sottile delle tanaglie da presa, ha forma conica e, presentata che sia colla superficie delle valvole parallele ai margini del taglio, agisce come dilatatore nel momento stesso che penetra nella vescica. Ciò che più monta, e che merita di essere considerato, volendo fare una critica fondata nel confronto delle tanaglie colla cucchiaia, è il modo di maneg- giare le tanaglie da presa e l’ accortezza da osservarsi, onde sfuggire gli accidenti gravissimi che dalle qualità dello strumento possono derivare. Introdotta la tana- glia nella vescica, sentita la pietra ed allontanate le morse, ecco i precetti che ne governano il maneggio. Si debbono ruotare lentamente le cucchiaie in guisa, che una di queste scorra sul basso fondo della vescica, e lo abbassi tanto, che la pietra vada a situarsi nella cavità della cucchiaia ; si avvicinano poscia i manichi; e tal- volta succede, così agendo, che la presa sia fatta. Accade però, più di sovente, che il calcolo non entri fra le morse, e che si abbiano a ripetere i movimenti di ro- tazione, per cercarlo, parecchie volte. Talora la pietra entra subito tra le cucchiaie, ma tosto sfugge alla presa, perchè nello stringere delle branche è spinta lontano, essendo parzialmente compressa dalle medesime. La qual cosa avviene facilmente — 230 — se la pietra è piccola, stantecchè col muoversi delle cucchiaie l’orina si agita, e con questa il calcolo, che per essere leggiero e spostabilissimo non può mai affer- rarsi. E non sono rari gli esempi nei quali i chirurgi sospesero i tentativi della estrazione, nella speranza, o di riuscire un altro giorno, o che quella pietruzza passi pel taglio spinta dall’ orina e dalle contrazioni della vescica. Queste sono le difficoltà che s’ incontrano volendo prendere il calcolo colle ta- naglie : ottenuta. poi la presa, e assicurato che sia fra le cucchiaie, prima di ese- guire i movimenti che ne preparano l’ uscita, incombe al chirurgo di verificare se una colonna o una piega della mucosa sia stata stretta per caso insieme alla pietra dalle morse della tanaglia. Perciò l operatore muove in varie direzioni e lentamente l’ istrumento per conoscere se sia o no libero, ed osserva se questi mo- vimenti cagionin» dolore all’ infermo : e se il risultato della prova è negativo, pro- cede con lentezza e molta prudenza eseguendo i movimenti prescritti per la estra- zione. Colla cucchiaia non accade mai che la mucosa penetri fra le valvole, per- chè queste sono strettamente avvicinate le une alle altre ; lo spazio poi compreso fra il margine della prima e della quarta, a ferro sviluppato, è tanto largo che non può stringere una piega della mucosa quand’ anche vi si introduca. Un altro accidente, che si oppone spesse volte alla estrazione, sì verifica se la pietra è presa nel suo diametro maggiore; per cui le cucchiaje, di troppo allon- tanate, non passano più pel taglio, nè possono uscire dalla vescica. Allora è me- stieri di lasciare quella presa, e di tornare da capo coi maneggi di prima, nella lusinga di afferrare la pietra in quelle delle sue dimensioni, che sono più favo- revoli e proporzionate alla cedevolezza del perineo. Nella cavità della cucchiaja invece 1 calcoli si assestano facilmente, e quindi i tessuti, oltrecchè non soffrono attrito, cedono il posto all’istrumento in guisa, che il chirurgo non ha d’uopo di forza traente, attesa la forma olivare e la superficie levigata di quell’ astuccio. Su tale proposito debbo anzi notare che mi preoccupava alquanto il diametro di 4 centimetri dato alla cucchiaja maggiore, delle tre o quattro graduate di cui occorre fornire l’ apparecchio. E ne era preoccupato, sebbene a scegliere quella misura fossi incoraggiato dalla memoria dei calcoli da me cavati di 4 centimetri e mezzo, comprese le cucchiaje della tanaglia (e uno di questi nell'agosto p. p. lo estrassi al sig. Raffaele Forni di Bologna), senza che, tranne del primo e del secondo settenario, ne sia mai seguita la incontinenza d’orina a rendere incompleto l'esito remoto della operazione. Io temeva tuttavia di provare non poca resistenza nel ritirare dalla vescica la cucchiaja chiusa. Invece non fu così: chè, come nel momento della presa, così in quello dell’ estrazione i colleghi presenti ammirarono la sollecitudine colla quale fu involontariamente eseguito. Mi assistevano il dottor Achille Ceccarelli, uomo dotto, valente operatore ed espertissimo litotomista, gli egregi dottori Alfonso Fabbri, Riccardo Minelli, Alfonso Poggi, Giacomo Martim e Settimio Bonandi. Involontariamente, dissi, perchè mentre mi disponeva a farè una dolce forza traente, non ebbi appena appoggiato il ferro contro il collo della ve- — 231 — scica che uscì fuori sdrucciolando, come se fosse stato cacciato da una contrazione della vescica stessa. Era facile il prevedere quale sarebbe stato il vantaggio che dovevamo aspettarci dal modo quasi spontaneo, con cui la cucchiaia usciva dalla vescica. E il frutto non tardò invero a palesarsij; perocchè tanto il sig. Davide Campos, come un fanciullo di trenta mesi, che operai due giorni dopo al prelo- dato sig. Campos, non perdettero involontariamente mai una sola goccia d’orina dalla ferita; la quale perciò guariva in entrambi nel breve tempo di sette giorni. Dai calcoli friabili nuove complicazioni hanno a deplorare i chirurghi; e tanto gravi, che non solo fallisce l’ esito immediato dell’ atto operatorio, ma spesse volte quello pure della cura consecutiva. Per quanto sia dolce la pressione che fa la mano sui manichi della tanaglia, onde assicurarne la presa, pure la resistenza op- posta dal collo della vescica e la contrattura degli strati muscolari producono sempre lo stritolamento di questa varietà di concrezioni. Perciò i frammenti si estraggono in parte soltanto, introducendo più volte la tanaglia; la maggior parte rimane dentro la vescica e qua e là sparsa fra i tessuti cruentati. Anche i profani lamentano l'esito delle ferite complicate dalla presenza dei corpi estranei, in ispe- cie poi se siano malconcie da prolungate irritazioni. La nuova cucchiaja premu- nisce a meraviglia contro l’ infausto avvenimento. Quand’ anche non sia friabile, accade spesso che alla tanaglia sfugga la presa, e che la pietra rimanga incastrata nel tramite della ferita, perchè i margini del taglio invece di dilatarsi o lacerarsi, si contraggono su quella parte della pietra che sporge dalla tanaglia. Contro la quale complicazione è precetto di respingere la pietra nella vescica, e poscia di ritentare la presa e la estrazione. A favore della cucchiaja ricordo le impressioni prodotte sui colleghi nell'atto che la estrassi, operando giorni sono il sig. Davide Campos di Ancona. à Da ultimo se la pietra è alquanto grossa, il primo ostacolo che comunemente s'incontra è quello d’introdurre la tanaglia colle morse avvicinate: che se si ar- rivi ad introdurla, è difficile e pericoloso aprirla ; e, aperta, rare volte è dato di trovare coi margini delle cucchiaje un diametro del calcolo che sia proporzionato all'apertura dell’ istrumento, perocchè non si possono eseguire quei moti rotatori che debbono preparare le condizioni necessarie alla presa efficace. La cucchiaia, da me proposta, penetra bene e scorre benissimo fra una grossa pietra e le pareti della vescica distesa dalla stessa pietra. Pel modo speciale con cui si sviluppa non abbisogna che di piccolo spazio onde essere maneggiata, quindi, e non arreca lesioni materiali alla vescica, ed assicura tale presa che si può met- tere mano al metodo misto, e senza rischio procedere colla trivella. E che pel metodo misto la stessa cucchiaja sia preferibile ai litodrassici da me citati (i mi- gliori dell’armamentario) agevolmente si deduce confrontandone il volume, la forma e la maniera di maneggiarli. Come delle tanaglie, così delle cucchiaje occorre averne di varie grandezze, per adattarle al volume dei calcoli e all’età dei malati: che se nell’apparecchio — 232 — istrumentale della cistotomia si numerano cinque o sei gradazioni di quelle, di queste bastano tre grandezze. Servendosi della cucchiaja, non è necessaria l’ os- servanza dei precetti relativi alla dottrina dei raggi prostatici. L’ esperimento cli- nico dimostra che il collo della vescica, e il tessuto della prostata sono cedevoli e si dilatano moltissimo, purchè il corpo passante abbia forma conica e sia levi- gato. L'azione del mio cistotomo, che non incide più a fondo di quattro milli- metri, ha convinto gli increduli di tale verità. E per fermo, se io avessi sostenuto, quando era studente, che un calcolo del diametro di quattro centimetri può passare pel taglio prostatico, eseguendo il metodo mediano, ossia dopo avere inciso il raggio inferiore della prostata; se avessi detto che pei calcoli maggiori di due centimetri non importa ricorrere nè al metodo lateralizzato, nè a quelli bilaterale e quadrilaterale, aggiungendo che dei coltelli a due lame del Dupuytren e a quattro lame del Vidal si può fare a meno, e che il taglio mediano doveva adottarsi come metodo esclusivo, o non sarei stato ammesso agli esami, o non sarei stato approvato. Eppure è così: nel sig. Campos e in tanti e tanti esempi, ho notato che, sebbene l'incisione del coltello nascosto non si approfondi più di quattro millimetri nella direzione del raggio inferiore, pure il tessuto della prostata si di- stende in guisa, che i calcoli passano, senza rischio di gravi accidenti, benchè misurino quattro centimetri. L° osservazione stessa non isfuggì certamente a tutti quelli che si servirono del mio coltello, operando la cistotomia perineale: tra i quali, per non dire di tutti, mi piace di nominare il valentissimo Ceccarelli di Rimini che lo adoperò quarantanove volte, il Sarti di Faenza, il Gulli di Fermo, il Zotti di Sinigallia, il Bonora di Urbino, il Minelli di Bologna, che lo adottarono come cistotomo di uso esclusivo. Fondandomi su tali osservazioni, feci quindi costruire tre soli numeri della mia. cucchiaja, e la maggiore la volli di quattro centimetri e tre millimetri, di tre e tre la mediana e la piccola di due centimetri e tre millimetri. Per quegli infermi poi nei quali i calcoli sono tanto grossi, quanto quelli che ispirarono l idea dei forcipi a branche disgiunte colla vite di richiamo nel ma- nico, la cucchiaja non potrebbe servire. Vi vorrebbero le valvole troppo larghe, ovvero in tanto numero che sarebbe difficile di metterle in movimento. Credo però che si possa raggiungere con efficacia lo scopo modificando il frangi- pietra curvo-retto del Fubbri, e facendolo costruire in modo analogo al mio istru- mento. Conservare cioè la parte curva, rispetto alla grandezza, alla forma e alla capacità del suo seno, purchè fosse costruita con quattro bandellette sovrapposte, le quali si sviluppassero come le valvole della mia cucchiaja; e cambiare la parte retta, o l’ asta, sostituendovi le branche del mio istrumento. Questo litoclasto ho già commesso, e si sta costruendo dal bravo fabbricatore di ferri chirurgici Enrico Ber- gamini, il diligente esecutore della cucchiaja, di cui vi ho tenuto discorso. In tal guisa modificato l’ istrumento del Fabbri, diventerebbe un litodrassico potente ed efficace; imperocchè alla facilità d' introdurlo e di applicarlo, i veri — 233 — | 1208 icona 1 li altri. si acciuncerebì ; llo di pregi che lo distinguono altamente sugli altri, si aggiungerebbe pur quello di dare alla pietra un punto di appoggio tanto esteso e così forte, che questa non ©) d potrebbe più resistere all’ azione del perforatore, della trivella e del martello. Io sono di credere che l istrumento stesso, coadiuvato della proprietà ond’è fornita la cucchiaja nel raccogliere i frammenti, apporterebbe grandissimo beneficio alle operazioni del metodo misto. Ma del frangipietra curvo-retto del {bb così modificato, e della cuechiaia da me proposta, a Voi spetta, omai, Signori Accademici, il giudicare. | DI | i TOMO 1I. 30 OIRTEA TORO Tom.IL. a Mem Ser. 4 PLoreta.Tav.I TT, vvenr. (o>>—_____—————_—_ \U y CIANI n ai AI ATL i spl % ORE ga | Ren), jar Il ' o i È | v 4 ci i Fig. Fig. Fio. Fig. Fig. Fig. Fig. Fig. Fig. ©) SPIEGAZIONE DELLE TAVOLE PavolaWl — Cercaria chlorotica. Baer e Diesing. — Sporocisti sacciforme della detta. — Cercaria brunnea. Diesing. — Piccolissima Sporocisti della detta, generante però Cercarie nel suo ia- terno. — Cercaria brunnea varietas. Diesing. — Giovanissima Sporocisti della detta. — Sporocisti della detta riproducentisi per scissione. — Idem di forma piriforme con Cercarie nel suo interno. — La detta varietà di Cercaria brunnea veduta a forte ingrandimento per mostrare, come non adoperando un unico ingrandimento per tutte queste forme, la Cere. brunnea var. si potrebbe facilmente confondere con altre specie e più specialmente colla Cerc. microcotyla rappresentata alla Fig. 11, all ingrand. di 80, come lo sono le altre in questa Tavola. 10. — Porzione anteriore della Sporocisti tubulosa della Cere. microcotyla Nob. dall’ apertura terminale all’ estremità: esce con difficoltà una Cercaria. 11. — La detta Cercaria adulta. 27 — La stessa incistidata nel piede del Planorbis corneus. Nell'interno della cisti si vede anche il dardo staccatosi dal poro buccale. 13. — La stessa tolta dalla cisti. 14. — La stessa rappresentata alla Fig. 11, dopo avere vissuto un giorno nell intestimo del Mus musculus al quale furono fatte mangiare le dette Cercarie. 15. —- Idem dopo 2 giorni. Idem. 16. — Redia della Cercaria Limnei obscuri. Nob. TOMO II. 49 — 330 — Fig. 17. — La Cercaria predetta. Fig. 18. — Due individui l’ uno giovane, a sinistra, I’ altro adulto della Cercaria vesciculosa. Diesing. Fig. 19. — Sporocisti sacciforme della predetta. Fig. 20. — Tre individui della Cercaria triloba. De Filippi, veduti sotto diversi aspetti. Fig. 21. — Segmento di Sporocisti tubulosa della detta. Fig. 22. — Una Cerc. triloba tolta dalla cisti in una Paludina achatina. Fig. 23. — Cercaria cristata. La Valette. Fig. 24. — La stessa con coda deforme perchè trasformata in Sporocisti. Fig. 25. — Diverse fasi di sviluppo progressivo di una gemma di Cere. cristata uscita dalla coda fertile predetta. Fig. 26. — Una delle predette gemme che si sviluppa direttamente in Sporocisti, senza passare per la forma di Cercaria. Fig. 27. — Redia della Cercaria tripunctata. Nob. Fig. 23. — La predetta Cercaria. Fig. 29. — Giovane Sporocisti della Cercaria gibba. De Filippi in processo di scissione. Fig. 30. — Sporocisti tubulosa adulta della detta. Fig. 31. — La detta Cerc. adulta. Fig.'32. — Giovane Sporocisti della Cercaria armata. Siebold. Fig. 33. — Segmento di Sporocisti tubuliforme adulta della detta. Fig. 34-37. — Quattro individui di forma e di mole nel corpo alquanto diversa di Cercaria armata, tolti da diverse specie di molluschi acquatici. Fig. 38. — Porzione di coda della Cercaria bucephalus. Nob. trasformatasi in Spo- rocisti e molto cresciuta di mole dopo che si distaccò dal corpo. Fig. 39. — La detta Cercaria con code sterili. Fig. 40. — La stessa colle code fertili, una delle quali si trasforma in Sporocisti per gemmazione endogena, e nell altra si sviluppano delle gemme per proliferazione esogena. Fig. 41. — Porzione dell’ estremità posteriore del corpo di un altro individuo della detta specie di Cercaria, dalla quale si è distaccata una coda trasformatasi in Sporocisti: vicino al luogo dove la coda si staccò e si formò un grup- po di gemme, ne sono rappresentate alcune di queste staccatesi e in via di accrescimento. Fig. 42. — Fasi di sviluppo progressivo di una delle dette gemme per diventare Cercaria bucephalus. Fig. 43. — La Cercaria ocellata. La Valette. La Sporocisti tubuliforme di questa specie di Cercaria invasa da un tetracotile è rappresentata nella Tav. 2, ICT Fig. 44. — La stessa Cercaria veduta a forte ingrandimento, per far vedere i quattro sacchi contenuti nell’ interno del suo corpo. —Er—— tt — 331 — 45. — Sporocisti tubulosa e ramosa della Cercaria dell Ilelix caribasianella. Nob. 46. — La detta Cercaria adulta. 47. — Fasi di sviluppo della detta, tolte dall’ interno della Sporocisti. 48. — Giovane Sporocisti proliferante dell’ Helix maculosa. 49. — La stessa adulta, ramosa e nodosa. La Cercaria per i suoi caratteri non si distingue da quelle dell’ Helix carthusianella. 50. — Redia a lungo intestino della Cercaria echinata. Sieboid. 51. — Idem a corto intestino. 52 e 53. — Forme piccole e grandi con coda liscia o frangiata, della Cer- caria echinata tolte dal corpo di diversi molluschi. 54-58. — Processo di scissione nelle Redie della Cercaria echinata. 54. — Giovane Redia a corto intestino, idem: tanto nel corpo dell’adulta come in questa giovanissima è unita per un peduncolo alla sua estremità cau- dale: la gemma che non contiene che gemme non può dirsi se di Redie o di Cercarie. 55. — Estremità del corpo di una delle dette Redie ma adulta con due grosse gemme di Redie in scissione che non contengono che gemme come nella precedente. 56. — Estremità del corpo di un altro individuo della predetta Redia, nel corpo della quale come nella gemma attaccata con un lungo peduncolo alla estremità posteriore del suo corpo, le gemme contenute hanno le forme di giovanissime Redie. 57. — Un cordone formato da giovani Redie della detta specie di Cercaria, che si riproducono per scissione. 58. — Due delle predette adulte e a lungo intestino, nelle quali il processo di scissione è quasi completo, ognuna delle quali contiene Cercarie echi- nate già formate e appartenenti alle forme le più grandi. Tavola II! 1. — Cercaria echinata incistidata. Dal cuore della Paludina vivipara. 2. — La stessa tolta dalla cisti. 3. — La stessa sviluppatasi colle forme del Distoma echinatum, nell’ inte- stino del Mus musculus. 4. — Il Distoma echinatum ottenuto nell intestino dell’ Anas domestica colla somministrazione delle Cisti della Cere. echinata. (Fig. 1.) 5. — Redia a lungo intestino della Cerc. echinata con cercarie libere e in- cistidate nel suo interno. 6. — Larva di Distoma trovata nel cuore della Paludina vivipara commista alle cisti di Cercaria echinata. Distoma tarda? Steenstrup. Fig. Mio. — 332 — 7. — Hem trovata nel fegato della stessa specie di Paludina. Distoma paci- fica? Steenstrup. 8. — Idem idem. Distoma luteum. Baer. 9. — Uovo di Amphistoma subelavatum, veduto all ingrandimento di 300 dia- metri per vedere l’ embrione cigliato che contiene e che ha le forme di una giovane Redia. 10. — Larva di Distoma incistidata nel testicolo dell’ Helix carthusianella. 11. — Altra larva di Distoma non incistidata nel testicolo dell’ Helix cartlu- sianella. 12. — Altra larva di Distoma incistidata, dal testicolo dell Helix carthusia- nella: l intestino è rudimentario. 13. — Altra larva di Distoma a lungo intestino, libera, dal testicolo dell’ Helix carthusianella. 14. — Una delle predette dopo avere soggiornato per 10 ore nello stomaco del Tropidonoton natrix. 15. — Le stesse tolte dall’ intestino del Tropidonoton e dopo che furono por- tate nello stomaco della Rana temporaria, in via di sviluppo per diven- tare il Dist. allostomum che ordinariamente non si trova che nello sto- maco dei Tropidonoton natrix. 16. — Tetracotile trovato libero nel fegato del Planorbis corneus e che lascia vedere tutte e quattro le ventose. 17. — Lo stesso col corpo contratto, e che presenta una forte incavazione nella parte del corpo che corrisponde alle ventose. 18. — Sporocisti di Cercaria ocellata. La Valette, invasa da un Tetracotile, alcune porzioni della Sporocisti alterate e ridotte ad una specie di cor- done, forse per precedente lacerazione delle sue pareti determinata dal- l accrescimento delle gemme della Cercaria e dei Tetracotili. 19. — Sviluppo del Tetracotile dopo avere soggiornato per 20 ore nell’ inte- stino della Fringilla domestica. 20. — Idem dopo 48 ore nell’ intestino dell’ anitra. 21. — Metamorfosi completa del Tetracotile in Holostomum erraticum dopo avere soggiornato tre o quattro giorni nell’ intestino dell’ amitra. 22. — Idem dopo cinque giorni. Tavola Jil. 1. — Una delle larve di Distomi agami, che in grandissimo numero e di forme variate, si trovano lungo tutto l’ ambito intestinale del Tropidonoton natrix e che presentano tutte il carattere comune di contenere nella ca- rità escretoria di forma triloba, tre distinti ammassi di sostanza granulosa calcare. — 333 — Fig. 2-5. — Fasi di sviluppo del Distoma signatum. Duj. nell’ intestino del Trop. natrix. 2. Mancanza dei granuli calcari nella cavità escretoria ed esistenza nell’ interno di un apparecchio digerente. 3. Si mantengono i fatti predetti, aumenta la mole del corpo coll allungarsi dell’ animale. 4. Idem e comparsa degli aculei nella pelle della parte anteriore del corpo. 5. Il Dist. signatum. Duj. completamente sviluppato, individuo piccolo, rap- presentato all’ ingrandimento di 40 volte. Fig. 6. — Larva destinata a restare agama nel pulmone del Trop. natrix. Fig. 7. — Individuo giovane del Dist. naja. Rud., il lungo intestino arriva fino all’ estremità allungata del corpo, nella quale si è iniziato lo sviluppo dei testicoli. Ingrand. 40 volte. i Fig. 8. Piccolo individuo completamente sviluppato della predetta specie di Distoma rappresentato allo stesso ingrandimento di 40 volte, l’ intestino non oltre- passa più che la porzione anteriore e più larga del corpo (collo degli elmintologi). Fig. 9-12. — Fasi di sviluppo del Dist. mentulatum. Rud. nell’ intestino del Tropid. natrix. Il tessuto speciale e caratteristico del parenchima del suo corpo che si osserva nella larva giovanissima Fig. 9 si mantiene ancora (Fig. 10 e 11) quando il corpo si è non poco allungato e nel suo interno si è svi- luppato il tubo digerente, il quale manca nella fase di sviluppo rappre- sentata colla Fig. 10. 12. Piccolo individuo del Dist. mentulatum. R. adulto ingrandito solo 40 volte. Fig. 13-15. — Sviluppo del detto Distoma, dopo averne importate le larve tolte dall’ intestino del Tropidonoton in quello della Rana temporaria. 15. Le larve rappresentate Fig. 9 dopo avere soggiornato un giorno nell’ inte- stino della rana. 14. Forme esteriori del corpo assunte dalle dette larve, dopo due giorni: questa fase di sviluppo nell’ intestino della rana, corrisponde alla fase rappre- sentata alla Fig. 11 nell’ intestino del Tropidonoton. 15. Forme assunte dal Dist. mentulatum. R. che completò le fasi del suo svi- luppo nell’ intestino della rana. Io. 16-19. — Forme diverse di larve di Distomi agami che abitano, ma non si sviluppano nell’ intestino delle rane. Fig. 20-24. — Forme diverse di larve di Distomi, che si sviluppano solo incom- pletamente nell’ intestino delle rane. 20. In questa forma si è sviluppato il solo apparecchio maschile, 3 testicoli ed il pene. 21. Idem il solo pene, l’ apparecchio escretorio è molto sviluppato. — 334 — 22. Idem si ha lo sviluppo rudimentario delle uova e del pene. 23. Idem idem e dei testicoli. 24. Idem idem delle uova e dei soli testicoli. Fig. 25. — Forma nana del Dist. endolobum. Duj. Fig. 26. — Forma ordinaria del detto Distoma a soli 40. Fig. 27. — Altra forma del predetto, piccola e con grosso pene. Fig. 28-51. — Forme del Dist. clavigerum. Rul. 28. Idem Forma agama e nana a lungo intestino. 29. Forma Idem piccola con incompleto sviluppo degli organi generativi. 30. Il detto a lungo intestino completamente sviluppato a soli 40. 31. Idem a corto intestino. Idem. Fig. 352. — Forma nana del Dist. retusum. Duj. Fig. 33. — Forma di Distoma a completo sviluppo ottenuta coil importazione nell’ intestino del Tropidonoton natrix, delle larve dei Distomi che vivono erratiche nell’ intestino della rana. Ingrandimento a soli 40. + AVARSIIA >» ru bi A i di LARE . per TI if iI @ cu (897) ne î een nta i (SU i i srl ; I | | I I | . Pi iene init rin iti pon 50 E A tn, GB Ercolani-Tav.I À Tom.IL a Mem Ser. 4° NI Sane Egna 4 css Ù RTTA = ire ET Mem Ser 4*Tom.Il. (.Bettini dis° E = È G.B Ercolani -TavII Ven Ser. 4*Tom.Il. Tom.Il a Mem. Ser 4 C.Bettim dis _ ST e na Ser.48 Tom.Il Mem = SULLA COESISTENZA DI UN’ ECCESSIVA DIVISIONE DEL FEGATO E DI QUALCHE DITO SOPRANNUMERARIO NECERIMANIO*NEI PIEDI NOTA DEL PROF. LUIGI CALORI (Sessione Ord. del 3 Marzo 1881) To non so se gli Anatomici abbiano mai notata od attesa nell’ uomo la coesi- stenza di queste due anomalie, cioè l’ eccessiva divisione del fegato e 1’ aumento di numero nelle dita o delle mani o dei piedi. Questo so bene che l’ anatomia comparativa degli animali dimostra un certo rapporto tra lo stato del fegato e quello degli arti, e specialmente della loro parte estrema; e per verità essendovi tra questi e l’ apparecchio digerente una convenienza o corrispondenza che vogliam dire, ed essendo il fegato, come ogniun sa, parte di tale apparecchio, pare quanto a ragione, abbia esso pure a participarne, quantunque non sia a dissimulare averci non poche eccezioni, secondo che suole già accadere rispetto a’ dettati della Filo- sofia anatomica (1). Dal che informato, mi è sorto nell’ animo il concetto che la so- pradetta coesistenza in suo significato importasse altrettanto, di qualità che quelle anomalie che sembrerebbero a prima giunta disparate e lontane, non solo si av- vicinano, ma eziandio si accoppiano contraendo tal quale affinità o parentela fra loro. Per la qual cosa essendomi capitati innanzi tre esempi di simultanea esistenza delle prefate anomalie del fegato e delle dita, ho creduto doverle comprendere ed abbracciare in una, e così unite come per naturale ragione, descriverle. (1) Già l’Haller notò che non in tutti gli animali quadrupedì a piedi divisi, ma solo in una gran parte di essi, plerisque, il fegato è del pari diviso, o vero multifido o multilobo, e dal novero ch’ ei ne fa, ed è novero assai lungo, apparisce esser’ eglino tutti mammiferi. Elem. Physiol corp. hum. Tom. sext. Bernae 1764 Lib. XXIII Sect. I, pag. 462. — Traesi il medesimo dall’ articolo di G. Cuvier sul fegato : dalla lettura del quale articolo poi ricavansi gli esempi della conve- nienza non solo tra i piedi divisi ed il fegato multilobo 0 composto, ma ancora tra il fegato sem- plice od unilobo o povero di lobi e i piedi o nulla o poco divisi, e gii esempi altresì delle ecce- zioni. Legons d’anat. compar. Tom. deuxiéme, Bruxelles 1838 pag. 351 e segg. — 336 — Avrà intorno a venticinque anni da che ne feci la prima osservazione, e fu sul cadavere di una povera ballerina morta nello Spedale del Ricovero di mendi- cità. E me ne fu mandato il cadavere, perchè singolarizzavasi dagli altri per la duplicità del pollice di ciascun piede, e perchè ne facessi 1’ anatomia. La detta du- plicità s° appresentava per una larghezza eccessiva di quel dito, fornito a destra di una grande unghia trasversalmente ovale con la più larga estremità all’ interno, ed a sinistra di due unghie, l esterna delle quali era un po’ più piccola, lateral- mente unite, e sol distinte per un leggier solco longitudinale. A destra il pollice doppio era alquanto più corto che a sinistra, ed amendue erano perfettamente mobili nell’ articolazione metatarso-falangea, ma di mobilità oltre dire oscura, anzi immobili nell’articolazione delle falansi fra loro. Nella regione plantare offrivano un enorne polpastrello. La pelle ond’ erano vestiti, era normale, ed aveva sotto di sè in corrispondenza del polpastrello un’ abbondante quantità di pinguedine. Ai lati di ciascun pollice correvano vasi sanguigni e nervi digitali, come se fossero di pollici semplici, salvo però che erano più grossi: senza che nel mezzo circa della loro regione dorsale appariva un ramo arterioso accompagnato dalle sue vene, il quale veniva da’ rami plantari passando nel dorso per un foro interfalangeo, e questo foro a destra era presso l'estremità delle falangi ungueali, a sinistra presso l’ articolazione delle falangi metatarsee colle precedenti. L’ estensor proprio del pollice sulla base del metatarso dividevasi in tre tendini, due laterali minori ed uno medio maggiore. I laterali terminavano sull’ estremità posteriore della fa- lange metatarsea, l esterno però prima unendosi col tendine dato dal muscolo estensor corto comune delle dita al pollice. Il medio allargavasi in una tela poneurotica più grossa a’ lati che nel mezzo, la quale correva in avanti sulla faccia dorsale di ciascun pollice dileguandosi all’ ultimo sulle falangi. Non tacerò che a sinistra gli ingrossamenti laterali di quell aponeurosi avevano meglio aspetto di due tendini uniti per una membrana intermedia molto sottile: la qual cosa sembrava avere una certa convenienza con l’ esser quivi più regolari le falangi. Il muscolo flessor lungo proprio del pollice dopo avere somministrato il fascetto tendineo al flessor lungo comune delle dita, dividevasi in due tendini i quali cor- revano in due solchi del flessor corto proprio del medesimo dito, e andavano alle falangi ungueali. Molto robusto era il detto corto flessore, e così l’adduttore e l’abdut- tore. Quanto all’ ossatura (Fig. 1*-2*-3*) il metatarso del pollice era più grosso che di costume, massime nella sua testa, ed era fornito di tre solchi corrispondenti agli ossetti sesamoidei che erano quattro, uno interno, uno esterno e due medii posti l’uno al davanti dell’ altro, e l anteriore era più piccolo. Questa moltiplicità e di- sposizione de’ sesamoidei conveniva sì colla duplicità del pollice, sì collo stato dei muscoli flessori proprii del medesimo addietro descritta. Col sesamoidco esterno del pari e colla testa del metatarso aveva poi rapporto di connessione un lega- mento che partiva dall’ apice di un processo piramidale sorto dal lato interno della base del secondo metatarso, il quale processo era più voluminoso a destra che a si- — 337 — nistra, ed in rapporto coll’ arteria dorsale del piede, la quale passava tra lui ed iI primo interosseo dorsale o plantare che dir si voglia con Theile. Per lo che mi è parso che il processo e ’1 suo legamento altro non siano che un rudimento di meta- tarso del secondo pollice, intercalato fra il primo e secondo metatarso e conferrumina- to con questo. Quanto alle dita, quelle dei due pollici destri sono unite fra loro per una specie di sutura armonica angolosa, manifestissima nella regione dorsale ; la quale sutura presso al suo termine anteriore presenta un foro che passa fuor fuora, e del quale è già stato detto. Le falangi del pollice interno destro osservate dalla regione dorsale sono indistinte, ed unite e incorporate in un osso triangolare, curvo nella base del triangolo che è interna, mozzo nell’ apice applicato contro la metà posteriore del lato interno della falange ungueale del pollice esterno destro. Os- servato quest’ osso nella regione plantare, offre una doccia molto profonda che conteneva il ramo esterno del tendine del muscolo flessore lungo proprio del pol- lice. Le falangi del pollice esterno destro sono anch’ esse deformi, ma separate, obliqua la metatarsea dallo interno all’esterno, la ungueale dallo esterno allo in- terno, formanti un seno angoloso concavo, nel quale si alloga, per così dire, l'osso falangeo del pollice interno. Diritti sono i due pollici sinistri, e le loro falangi non hanno eguale grandezza, essendo maggiori quelle del pollice interno. Le loro fa- langi metatarsee sono lateralmente unite in un osso nel quale avvisasi la duplicità, per una linea longitudinale presso che media che li distingue, e che anteriormente offre un foro che passa da banda a banda. Le falangi ungueali sono separate, e come le metatarsee, maggiore è l interna della esteriore, ed essa è altresì anchilosata. AI ultimo in questi due piedi le anomalie di eccesso non sono limitate a’ pollici, ma estendonsi tuttavia alle ultime dita, poichè dal lato interno della estremità an- teriore del metatarso del quinto dito nasce un processo piramidale a destra, quasi a mo’ di cresta a sinistra, il quale va dallo avanti allo indietro alla volta del tarso, e verso la metà di esso metatarso degenera in un legamento che termina alla base di quello. A differenza dell’ altro che simigliai a un rudimento di meta- tarso di un pollice, il detto processo o cresta tiene la regione plantare de’ piedi. In quella che io faceva la esposta anatomia, il dissettore apriva l’ addome, e levatone fuori la porzione sottodiaframmatica dell’ apparecchio digerente, metteva in vista l apparecchio genitale per la lezione. Andato io a guardare la pre- parazione fatta, posto casualmente l’ occhio sopra i visceri estratti, scorsi nel fe- gato alcuna cosa d’ insolito non già nel colore e nel volume, e come poscia ve- rificai, nel peso e nella consistenza, ma quanto a’suoi lobi (Fig. 4-5). In fatti man- cava quasi per intero il lobo quadrato, come quello che era ridotto ad un pic- colissimo lobetto, cotal che la cistifellea era libera ed unita al fegato per un lega- mento a mo’di mesenterio. In oltre il lobo destro del fegato era distinto come in due, uno posteriore o superiore, l altro inferiore od anteriore mediante una fos- sa trasversale che partivasi dal margine destro di quello, e comprendeva la metà circa della larghezza della faccia concava di detto lobo situata a destra della ci- TOMO II. 45 333 — stifellea, e nella faccia convessa la fossa era più lunga estendendosi fino alla in- cisura ombellicale, ed appariva tutta membranosa. Considerando questa fossa tra- sversale nacquemi il sospetto ch’ essa non fosse congenita, ma avventizia, prodot- ta da compressione fatta dalle costole a cagione dell’ imbusto. Ma esaminato su- bito il torace, che era anche intatto, non trovai spostamento di veruna costola allo interno, che potesse aver fatta impressione sul fegato: onde parvene esclu- sa sì fatta cagione. Del resto non è certo nuova la parziale o totale divisione congenita del lobo destro, anche nell’ uomo, secondo che hanno asserito non po- chi anatomici. Il lobulo dello Spigelio è per un leggier solco obliquo distinto in due, uno inferiore più piccolo finitimo alla fessura trasversale o porta del fegato, l’altro superiore maggiore costeggiante il solco della vena cava ascendente, e degenerante nella coda, la quale discende e limita da prima Y estremità» destra della prefata fessura, poi va a terminare nell’ angolo sinistro del margine infe- riore della porzione superiore del lobo destro, il quale angolo forma un’ eminen- za separata dalla porzione inferiore da un solco arcuato, continuo a sinistra con la fessura trasversale o porta del viscere. Se ad alcuno potesse rimanere qualche dubbio che l’ anomala divisione descritta fosse congenita, nessun dubbio può esserci, rispetto questo particolare, intorno al secondo esempio che mi faccio ora a divisarne. Questo secondo esempio raccolsi io, nove anni fa, da un feto maschio a termine, affetto da labbro leporino sinistro accompagnato da gola lupina, e sexdigitato d’ amendue le mani. Il lobo destro del suo fegato era per un’ incisura o taglio longitudinale situato a destra della fossa contenente la cistifellea, e lungo quanto essa, diviso in due (Fig. 9), cioè nel quadrato accresciuto della fossa detta e di un’ altra porzioncella altresì pertinente al lobo destro, ed essendo molto estesa l incisura ombellicale accadeva che esso lobo quadrato rappresentasse come una penisola. L’ orlo destro della incisura era costituito da un lobetto gracile separato per una piccola incisura del margine acuto del lobo destro residuo, e distinto da questo per un solco non molto pro- fondo, irregolare per due tubercoli destri. Nella faccia concava del lobo sinistro di questo fegato avea verso il suo margine sinistro una incisura semilunare super- ficiale, ed il lobo era molto voluminoso come già suol essere nei neonati (1). Il dito soprannumerario si trovava al lato cubitale di ciascuna mano. (Fig. 8). Era un mignolo più corto dell’ ordinario, ma esso altresì formato di tre falangi. Ambidue i mignoli erano articolati con un solo metacarpo manifestamente com- posto di due uniti lateralmente, ed incorporati in un osso unico che rassembra un trapezio ; il quale osso nella estremità digitale ha due teste separate per una leggier incisura, e nella estremità carpea una faccia articolare, di un terzo circa più estesa trasversalmente di quella di un quinto metacarpo ordinario, alla quale faccia corrispondeva una proporzionata estensione del carpo, dell’ uncinato in ispe- (1) Non vo’ lasciare che in questo feto lo stomaco era conformato a similitudine del colon trasverso che eragli sottoposto : analogia animale, e nomatamente coi Semnopitechi. — 339 — cie. Quanto alla muscolatura, 1’ estensor comune delle dita non somministrava ve- run tendine al mignolo più breve, ma ad ambidue i mignoli apparteneva il ten- dine dell’ estensor proprio del mignolo, il quale tendine partito in due andava con uno, che era il più sottile, ad unirsi al tendine dato dall’ estensor comune al mi- gnolo più lungo, e con l’ altro che era il più grosso, al mignolo più breve. Il flessore superficiale comune delle dita, o perforato, non dava verun tendine al mignolo più breve, ma erane il difetto sopperito da un particolar flessore, il qua- le nasceva dal legamento trasverso del carpo con brevi fibre tendinee, alle quali succedeva un ventre che somigliava per forma un lombricale, ma era più grosso. Sulla prima falange il suo tendine d’ inserzione fendevasi lasciando passare un tendinetto dato all’ ultima falange di questo mignolo dal flessor profondo comune delle dita: dopo di che s’ inseriva nella seconda falange. Come il flessor profon- do anzidetto aveva cinque tendini, così eravi un muscolo lombricale di più, il quale apparteneva al mignolo più breve. I tre muscoli della eminenza ipothenar, più grandi che di costume, appartenevano al mignolo più piccolo: pel quale fatto io ho dubitato se quello che veniva da me chiamato mignolo più lungo, non potes- se essere un secondo anulare; ma posto mente alla disposizione ed al numero degli interossei che non diversificava dal consueto, quel mignolo riesciva veramente tale. All ultimo il mignolo più breve era provveduto di rami nervei dal cubitale. Non avendo iniettati i vasi sanguigni, e non avendo potuto seguirli a dovere, ommet- to le osservazioni imperfette che io ne ho fatto. Il terzo esempio di eccessiva divisione del fegato coll’ accompagnamento di un dito suprannumerario mi'si è offerto il 16 Febbraio p. p. in quella che io nella scuola dimostrava i rapporti topografici dello stomaco con le parti e visceri vicini. Il soggetto dell’ osservazione è un fanciullo tredicenne impubere perito nello Spedale della Vita per ferite al capo, e fratture degli arti superiori, essendo caduto e pericolato sotto una macchina in moto. Rimuovendo di qua e di là i visceri, mi fui accorto nel trattare il fegato che la superficie convessa del suo lobo sinistro (Fig. 7) era solcata da due solchi profondi, uno nella direzione del diametro maggiore del viscere, il quale solco trovavasi al terzo superiore circa della detta faccia ed era alquanto angoloso nel punto di unione con 1’ altro solco che assecondava il minor diametro del fegato istesso discendendo al lato sinistro dell’ attacco del legamento falciforme, alla distanza d’ intorno a due centimetri da questo legamento, e terminando al terzo inferiore del lobo cui apparteneva. I due solchi uniti rendevano presso a poco l immagine di una T. L’ asta trasversale della T era più lunga della longitudinale, e cominciava da un’ incisura del margine sinistro del lobo, e finiva al lato sinistro del solco longitudinale sinistro, o del lobulo Spige- liano. Nella faccia concava dalla incisura prefata moveva un soleo che terminava in corrispondenza del solchetto biforcato. Dalla descritta porzione o lobetto distinto del lobo sinistro veniva il legamento laterale o triangolare sinistro (1). Finalmente (1) Questa porzione o lobetto ricordava quello che chiamano caput Repatis caesum posticum, s. supertus, s. laevum degli Aruspici. — 340 — al margine acuto del lobo destro avea un solco nella direzione del diametro maggiore od asse del fegato, il quale solco cominciava dal lato destro del lobo qua- drato e fatto il tragitto di 85 millim., dileguavasi nella faccia concava del lobo pres- so il suo margine destro. Questo solco divideva una sottile porzione di sostanza epatica conformata in ispecie di cresta o di aletta, alla quale aderiva il fondo del- la cistifellea. Tale cresta era come un rudimento di lobulo novello (1). Non appena avea finita la lezione avverti gli assistenti, Dott. Luigi Monti e Dott. Onorato Matteotti, che il fegato era anomalamente diviso, e domandai del ca- davere, dal quale avevano tratta la porzione sottodiaframmatica dell’ apparecchio digerente, dicendo loro, che due altre volte che aveva incontrata quell’eccessiva di- visione, l’ aveva veduta accompagnata da aumentato numero delle dita o nelle mani o nei piedi, e che io voleva vedere se anche questa terza volta ci fosse una così fatta unione. E mostratomi da loro incontanente il cadavere, guardai subito alle dita, e grande fu e l’ allegrezza mia e la loro meraviglia in trovare che il piede destro era sexdigitato. L’ anomalia era nel quinto dito (Fig. 6°), il quale era molto largo e nella estremità anteriore doppio e munito di due unghie separate. Questo dito era in parte soprapposto al quarto massimamente con la sua divisione interna. Toltane la pelle non sì trovarono anomali che il tendine del flessor lungo comune delle dita, e quello dell’ estensore pur lungo comune delle dita, essendo che il tendine dato dal primo al mignolo al davanti della testa del quinto meta- tarso sl divideva in due, uno per ciascun dito. Similmente comportavasi il tendine del lungo estensor comune delle dita, pertinente al quinto. Mancava poi il tendine che il flessor breve comune delle dita manda al quinto, e non ne aveva che tre per le seconde falangi delle tre dita di mezzo. I muscoli del quinto dito nulla offrivano d’ anormale: ma i suoi rami nervosi, da quello in fuori dato dal safeno posteriore od esterno, si duplicavano, e così i vasi sanguigni. Quanto alle ossa, le falangi metatarsee erano unite ed incorporate in una: la seconda falange del quinto dito era anchilosata colla prima, e non era mobile che l ungueale: la seconda e la terza falange del sesto dito erano altresì anchilosate insieme. Ben è chiaro che queste anchilosi consentivano colla mancanza del tendine dato dal flessor breve comune delle dita al quinto. Tali i tre esempi di eccessiva divisione del fegato con dita soprannumerarie nelle mani o nei piedi. Se questo accoppiamento valga quanto un rapporto tra quella e queste, pare, secondo ciò che ho detto da principio, debba essere. Se poi questo rapporto sia necessario, o in altri termini se la detta divisione vada sempre di conserva con l aumento di numero nelle dita, io non so dire, essendo la solu- zione del quesito di tutta pertinenza delle future osservazioni. (1) Potrebbe quasi dirsi un rudimento di caput Repatis caesum anticum, s. inferius, s. dex- terum degli Aruspici. S' aggiunga che in questo fanciullo aveva un diverticolo iliaco molto rag- guardevole. SPIEGAZIONE DELLA TAVOLA Fig. 1° — Piede destro di una ballerina ritratto dalla regione dorsale, singolare per duplicità del pollice. Fig. 2° —- L’anomalia del pollice predetto veduta dalla regione plantare. Fig. 3° — Piede sinistro della medesima ballerina pur esso singolare per duplicità del pollice. — Queste tre figure ritraggono gli oggetti alla metà del vero. Fig. 4° — Fegato della ballerina anormale per eccessiva divisione, rappresentato dalla faccia concava. Fig. 5° — Il medesimo fegato mostrato dalla faccia convessa. — Queste due fi- gure rappresentano gli oggetti ridotti a un quarto del vero. Fig. 6° — Piede destro di un fanciullo impubere, presentante un mignolo sopran- numerario, ridotto alla metà dal vero. Fig. 7° — Il fegato del predetto fanciullo, ridotto a un terzo del vero. Fig. 8° — Mano sinistra con porzione di avambraccio di un feto a termine, sex- digitata nel lato ulnare, veduta dalla regione dorsale. Grandezza naturale. Fig. 9° — Fegato del feto medesimo, ridotto alla metà del vero. Anomalie delle ossa. 1, metatarso del pollice, molto largo e grosso nella estremità anteriore o testa. 2, appendice o processo piramidale procedente dalla base del secondo osso del metatarso. 3, sua porzione legamentosa che si unisce alla testa del metatarso del pollice ed al sesamoideo esterno. 5, sesamoidei esterno ed interno del detto metatarso. 6, 7, sesamoidei medii del metatarso medesimo, uno de’ quali è posteriore e l’ altro anteriore. 8, metatarso del quinto dito, che in 8 + presenta un processo o cresta po- steriormente diretta alla quale succede il legamento 9. 9, il detto legamento che va a terminare al lato interno della base del quinto metatarso. — 342 — 10, 11, pollice interno destro, le falangi del quale sono anchilosate. 12, 13, pollice esterno destro, le falangi del quale sono articolate per armonia. 14, unione delle ossa dei due pollici, la quale si effettua per sutura armonica, e foro come di coniugazione tra le falangi ungueali anteriormente. 15, 16, le prime falangi dei due pollici sinistri, longitudinalmente tra loro unite ed incorporate. i 17, foro come di coniugazione, situato presso l’ estremità anteriore della linea di unione delle prime falangi sopradette. 18, 19, seconde falangi dei pollici sinistri: la 18 è anchilosata. 20, 21, prime falangi del quinto e sesto dito del piede destro del fanciullo tredicenne, lateralmente unite ed incorporate in un osso o falange sola. 22, seconda falange del quinto dito anchilosata colla prima. 23, terza falange del medesimo dito, la quale è mobile nella sua articolazione colla seconda. 24, 25, seconda e terza falange del sesto dito anchilosate fra loro. 26, i due metacarpi del quinto e sesto dito della mano sinistra del feto a ter- mine sopradetto uniti in un osso o metacarpo solo. 27, sesto dito o dito soprannumerario. 28, quinto dito normale. Anomalie dei fegati. A, lobo destro del fegato anormalmente solcato o diviso. B, lobo sinistro del medesimo anormalmente solcato Fig. 7. C, lobo quadrato od eminenza porta anteriore, che nel fegato della Fig. 4%-5* è quasi ridotto a niente, ed in quello della Fig. 9* con una porzioncella del lobo destro è quasi affatto separato e costituisce come una penisola. D, lobulo dello $pigelio od eminenza porta posteriore, la quale nel fegato ri- tratto dalla Fig. 4° ha un solco obliquo divisante l’ eminenza papillare dalla caudata che è maggiore e lunga, discendente ad un tubercolo della faccia concava del lobo destro, prossimo alla fossa trasversa a, e divisato dal detto lobo da un solchetto arcuato. a, incisura e fossa trasversalmente diretta del lobo destro del fegato Fig. 4°-5?, la quale fossa nella faccia convessa apparisce tutta membranosa, e la membrana è di tessuto connettivo fibroso vestito dal peritoneo continuo col legamento &° che fa come da mesenterio della cistifellea: nella faccia concava, questa fossa nella sua porzione sinistra vien meno. b, c, due lobi o porzioni nelle quali rimane distinto per quella fossa il lobo destro. d, incisura del lobo destro del fegato, Fig. 9°, la quale incisura è situata a destra della cistifellea, ed è quasi tanto lunga che questa, onde il lobo. — 343 — rimane quasi distinto in porzione maggiore b°, ed in minore c° incorpo- rata col lobo quadrato. e, solchetto della porzione maggiore b*, parallelo alla incisura d, nè molto lon- tano dal margine destro di essa, il quale solchetto ne distingue la por- zioncella f, quasi rudimento di un piccolo lobulo allungato. f, questo rudimento. S, g, incisura del lobo destro del fegato, la quale muove dal lato destro del lobo quadrato, Fig. 7°, e correndo lungo il margine acuto ne separa una sottil porzioncella di sostanza epatica, che ha sembianza di cresta od aletta che termina nella faccia concava, e che potrebbe considerarsi come un conato alla formazione di un lobetto soprannumerario. h, h, la detta cresta od aletta aderentissima al fondo sporgente della cisti- fellea. i, E, l, incisura e solco quasi a similitudine di T, scolpito nella faccia con- vessa del lobo sinistro, ed esteso fino al lato sinistro del solco longitu- dinale sinistro, il quale solco distingue nella parte superiore perfettamen- te il lobulo m, e nella inferiore le porzioni n, 0. m, lobulo formato di quasi il terzo superiore del lobo sinistro, lobulo esteso fino al solco longitudinale sinistro. O, porzione destra, soleo in forma di T. * solco a mo’ di mezza luna della faccia concava del lobo sinistro verso il n, porzione sinistra, del lobo sinistro, distinte per l’asta longitudinale del suo margine del lato medesimo. Particolarità Normali dei fegati. p', p°, incisura o solco longitudinale sinistro del fegato. q', q°, solco longitudinale destro, o fossa della cistifellea e solco della vena cava ascendente. r, r, solco trasverso o porta od hilo del fegato. s, legamento rotondo, e vena ombelicale s°. s°, condotto venoso di Aranzio. t, vena cava ascendente. u, legamento sospensorio. u?, u?, legamento coronario. v!, v?, legamenti laterali o triangolari, destro e sinistro. x, legamento epato-duodenale. y, arteria epatica. z, vena porta epatica. &, cistifellea. 0, condotto cistico. 8, condotto epatico. Y; coledoco. ì i (07 Ni Api A. e ui và a 6 Sgt i cet: 03 RMEITE, CRVIPRE SD Ù i, DI ANO > sel È / s : i > È, $ : & tu u de ià ta D pa; 1, rus 1. 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Ord. del 29 Gennaio 1881) Alcuni anni or sono ebbi 1 onore di presentare a questa illustre Accademia alcuni studî e ricerche intorno alle abnormità dei movimenti del cuore occasionate da alterata innervazione, e specialmente nella Sessione delli 25 Aprile 1872, pren- dendo in considerazione la deficienza di forza nello eseguirsi della funzione car- diaca mi sembrò di potere distinguere la insufficienza dell’ atto sistolico da quella dell’ atto diastolico, e considerato il cuore nel concetto di una pompa premente e di pompa aspirante, appoggiato sui fatti e sugli argomenti tutti raccolti dai fisio- logi per sostenere la dottrina professata fino da Galeno dell’ attività della diastole cardiaca, ful portato ad ammettere una certa indipendenza della diastole dalla sistole, e questi due atti generati da due diverse attività nerveo-muscolari; e per conseguenza dover essere possibile un’ aberazione anche in uno soltanto di questi atti. Che se i patologi ed i clinici avevano accettato il concetto dell’ asistolia bene studiata ed addimostrata dal Beau, io ritenni di avere, oltre gli argomenti d’ in- duzione, fatti clinici per mostrare in alcuni casi essere prevalente e rilevante la deficienza delle attività diastoliche e che chiamai Adiastolia; mi studiai pure di darne il quadro sintomatologico, di descrivere ed interpretare i segni di questo stato morboso e segnarne le differenze con altri stati analoghi e specialmente col- l asistolia; indagai pure se agenti terapeutici avessero spiegato maggiore possanza su l uno o sull altro di questi stati morbosi, e dall’ esperienza clinica fui portato ad annunziare, risultarmi che la digitale e succedanei in date dosi ha virtù di rendere energica e forte la sistole del cuore; la caffeina ed i tetanici hanno quella di rafforzare la diastole cardiaca. Questa teorica dell’ Adiastolia procurai di meglio addimostrare con alcune istorie TOMO II. 44 — 346 — di casi pratici, e colla sua applicazione allo studio della cianosi ed anche della cianosi del colera (1). In progresso di tempo e nell’ esercizio clinico molte volte mi sono incontrato in fatti morbosi d' inceppata circolazione con stasi periferica e cianosi, senza gon- fiezza delle vene di grosso calibro e delle jugulari, con pochi edemi, secrezione urinaria non sopressa, mancante il secondo suono del cuore, sintomi che mi indi- cavano la deficienza della forza aspirante del cuore, una diastole insufficiente, quello stato morboso che ho chiamato Adiastolia. E se fu amministrata la digitale ne conseguì danno rilevante ; utilità ed anche bene insperato lo si ebbe dalla caffeina e dai tetanici. Fatti e risultamenti clinici che mi hanno confermato la dottrina e le conclusioni che esposi in quella mia Memona. Fra i diversi fatti patologici che ho studiato e raccolto sotto questo punto di vista mi è accaduto di osservarne, non è molto, uno assai speciale che mi è sem- brato meritevole d’ essere esposto innanzi a quest’ illustre Consesso; ed essere tale da darmi occasione a tornare sullo studio del fenomeno da me definito col nome di Adiastolia, e mostrare ancora l' utilità che il medico pratico può ritrarre dallo stabilire se la deficienza della forza cardiaca sia negli atti sistolici e di pressione, o se negli atti diastolici o di aspirazione. Il fatto pratico cui alludo e che intendo ora esporre, è un caso di avvelena- mento per nitro-benzina; la storia clinica del quale potrà servire ancora. ad accre- scere il materiale bisognevole per bene intendere, e chiarire il modo di agire di quel veleno, trovandosi ancora avvolto da molta oscurità questo argomento di tossicologia. Incomincio dalla esposizione del fatto clinico. La mattina della vigilia del Natale certo N. N. volendo apprestare alla fa- miglia un grazioso liquore alcoolico pensò di fabbricarsi in casa ed economica- mente il Mareschino di Zara, o meglio dirò il Rosolio di mandorle amare; esce di casa va a comprare l’ alcool, lo zucchero, e poi compra ancora presso una Dro- gheria un boccettino della così detta Essenza di mandorle amare, boccettini che si tengono pronti e che assai imprudentemente si danno al primo che li richiede per due o tre soldi. Quei boccettini non contengono veramente essenza di man- dorle amare, ma bensì quell’ essenza che comparve all Esposizione di Parigi del 1851 sotto il nome di Essenza di Mirbane, e che non è altro che benzina sciolta in acido nitrico concentrato e poi mescolata all’ acqua e che oggi è conosciuta col nome di Nitro-benzina (C,H,N0,). Come già vi è noto, essa è di un giallo chia- ro, di aspetto oleoso, di odore assai intenso di mandorle amare, anche di più di quello proprio della stessa essenza di mandorle amare, alla quale si tentò e si tenta ancora di surrogare. (1) La Forza Aspirante del cuore e l’attività della diastole cardiaca considerate nello stato morboso, ed in ispecie deli’ Adiastolia. Stadi — V. Memorie dell’Accademia delle Scienze dell’ Isti- tuto di Bologna. Ser. 3. T. IL pag. 225. i n uu memo — — 347 — Il N. N. tornato a casa con quegli ingredienti si accinge a fare il suo com- posto; e da prima aggiunge acqua piovana all’ alcool per ridurlo al grado voluto, poi mette lo zucchero e da ultimo aggiunge il contenuto del boccettino di Essenza, mescola alla meglio, assaggia il fabbricato composto e ne è soddisfatto, lo distri- buisce in diverse fiaschette e zucchettine da servire e per le Feste seguenti e per regalo a qualche amico o parente. Fatta questa distribuzione, nel vaso in cui era stato fatto il composto ne rimanevano pochi cucchiaj, e questo residuo venne ver sato in un bicchiere; il fabbricante anche questo assaggia e rimane sorpreso dal trovare in esso anche più intenso l’ odore ed il sapore dell’ essenza aromatica; gli sembra che sia anche più squisito del primo assaggiato ed invita la moglie con premure a bere quel poco rimasto. Questa acconsente, ma nel trangugiarlo è col- pita dalla sensazione di un sapore assai amaro alla gola sentito profondamente, non che di forte raschio e bruciore come quello di una scottatura. Tale molesta sensa- zione non è allora duratura, la donna non se ne risente più oltre, anzi esce di casa, traversa la strada e va presso una famiglia amica che sta lì presso. La Maria Vighi che è questa donna, soggetto della presente istoria, ha 45 anni, è nata a Rocca Corneta, ora è domiciliata a Bologna, non ha avuto malattie di entità, presenta l aspetto linfatico e clorotico in lieve grado. Essa sì intrat- tenne per circa due ore nella casa ove era andata, e tranne di qualche sensazione fugace di vampe di calore e di alcuni momenti di malessere, null’ altro avvertì che potesse indicarle la catastrofe che le sovrastava. Essa rimase meravigliata ve- nendo interrogata se sentivasi male, e dallo spavento in cui vide quelli che le erano d’ attorno, i quali affrettandola a tornarsene a casa le dissero apertamente che aveva la fisonomia alterata e le labbra grosse e nere. La Maria si ridusse senza molestie a casa, ma appena arrivatavi fu colta da vertigine, ebbe nausea e vomito e perdette affatto la coscienza, e soltanto dopo tre giorni riebbe 1° intelli- genza, non avendo affatto e per nulla avvertito tutto quanto avvenne intorno ad essa in questo tempo. La famiglia di Lei spaventatasi ben con ragione corse a cercare aiuto medico e non trovandolo al momento si rivolse all Ospedale Maggiore che immediatamente accolse l inferma, la quale venne collocata nella 1.* Sezione Medica al letto N. 313. Il sig. Dott. Guido Bendandi medico assistente di guardia la vide tosto e le ap- prestò le più intelligenti e premurose cure. L’inferma si presentava colla faccia alquanto gonfia, era fortemente cianotica, le labbra, la bocca, le congiuntive li- vide, gli occhi spalancati e rossi, le pupille dilatate, un sudor freddo le inumi- diva la pelle, tremava tutta, si dibatteva senza poter profferire parola, aveva con- tratture muscolari in ispecie trisma e quindi non era possibile farle deglutire al- cunchè; per la qual cosa fu soccorsa subito facendole inspirare od odorare aceto, cloruro di calce ed anche ammoniaca. Essendo poi riusciti ad aprirle la bocca fu introdotta fino allo stomaco la sonda esofagea e questo venne lavato ripetutamente e poscia per questa via s' introdussero mistura cordiale, cognac, bevanda albumi- — 343 — nosa. Venne ancora amministrato un emetico nella sera (tartaro emetico ed ipe- cacuana), il quale non produsse effetto e solamente nel giorno seguente vomitò quattro volte dopo la iniezione sottocutanea di un centigr. di pilocarpina; le ma- terie vomitate avevano un odore fortissimo di essenza di mandorle amare, come pure odore penetrantissimo aveva l’aria espirata e lo conservarono a lungo le biancherie state a contatto delle materie vomitate e dell’alito della paziente. Io non vidi l’inferma che soltanto la mattina del giorno 26, cioè 45 ore dopo l ingestione del veleno, in causa che il giovane pro-assistente che fungeva le veci dell’ assistente in permesso, ignaro delle pratiche di regolamento e d’ uso, mancò di farmene avvisato. L'impressione che mi fece questa inferma fu eguale alla vista di un coleroso in istato algido-cianotico, con una di quelle cianosi così intense e speciali che soltanto vidi in pochi colerosi nella grave epidemia dell’anno 1855: fra alcune sfumature di un giallo pallido e grigio campeggiava una tinta livida azzurrognola, la malata era assopita, rispondeva appena a qualche energica do- manda e senza mostrare di bene intendere; le pupille erano alquanto dilatate, i polsi abbastanza bene sostenuti, anche il calore era normale, segnando gr. 37 al termometro c., la respirazione essa pure alquanto frequente soltanto, ma non affan- nosa; il ventre non dolente al tatto, l’ inferma assai difficilmente prestavasi a deglu- tire qualche gocciola delle pozioni eccitanti che le venivano presentate. L’ esame del battito del cuore mi fece rilevare 1 seguenti fatti : l’ impulso cardiaco era aumentato di forza, il battito era energico e vibrato, bene marcato il primo tono; invece man- cava affatto il secondo suono ; e questo fatto venne pure assai bene verificato dall’'as- sistente e dal sig. Dott. Giuseppe Ravaglia incaricato dell’ insegnamento della Medicina Legale in questa R. Uuiversità, il quale era accorso ad osservare e stu- diare questo caso di veneficio. La cianosi era estesa a tutto il corpo ed in ispecie alle dita delle mani; le jugulari non erano gonfie, anzi affatto non si vedevano, l'urina emessa era alquanto scarsa bensì ma non mancava, limpida e di colore giallo pallido, non aveva odore di nitro-benzina; non ne fu raccolta in copia suf- ficiente per poter fare indagini chimiche speciali. La cianosi così intensa coi caratteri che ho descritto, la mancanza del secondo suono del cuore, lo scorgere le vene jugulari affatto vuote di sangue, il persistere in proporzioni abbastanza normali la secrezione dell'urina (avuto riguardo alla scarsa quantità di liquido bevuto dalla paziente), mi condussero a riconoscere in questi segni i dati indicanti la deficienza della forza diastolica del cuore ed a ve- dere quale conseguenza dell'azione del tossico preso quel fatto morboso che ho chiamato Adiastolia. E quindi dietro gli studî fatti ed esposti in quella mia Me- moria da prima citata, m' affrettai tosto a prescrivere all’ inferma l uso della caf- feina, che ordinai alla dose di centigr. 60 divisi in sei prese da amministrarsene una ogni 3, o 4 ore, aggiungendo ancora qualche sorso di buon infuso di caffè di levante torrefatto. Nella giornata non si osservò alcun cambiamento, nella notte l inferma fu molto tranquilla e nel seguente mattino trovossi assai sollevata. Alla _cesontna — 349 — mia visita, circa le ore 10 antim., riscontrai un notevole cambiamento, i sintomi alleviati così da restarne meravigliati: la cianosi era in gran parte scomparsa, era svanita la stasi capillare che si vedeva tanto manifesta alle labbra, al naso, alle estremità; l’ intelligenza si era bene rischiarata, la donna dava precise nozioni del- lo stato suo e degli antecedenti anteriori allo sviluppo del male, e fra le altre cose faceva rimarcare il raschio e bruciore che provava alla gola ed al palato come avvertì quando trangugiò l’ultimo avanzo del rosolio. Il rilevante cambiamento che richiamò in ispecial modo la mia attenzione si osservò al cuore: l impulso era più moderato, minore la frequenza dei battiti, e poi si era interamente ripri- stinato il secondo suono del cuore, invece di un solo suono, come era nel giorno innanzi, i due suoni erano non solamente assai distinti, ma staccati l’ uno dal- l'altro così bene e anche di più di quello che si osserva normalmente. L'’ alito continuava pure ad avere l’ odore penetrante di mandorle amare. Si proseguì nel- l’amministrazione della caffeina per quattro giorni e tutti i sintomi gradatamente si dissiparono e dopo altri sei giorni di semplice cura aspettativa e di convalescenza la Vighi dichiarata guarita se ne ritornò a casa senza soffrire fin quì di quelle successioni morbose, in ispecie di flussione catarrale degli organi digestivi, come fu notato in altri avvelenamenti per nitro-benzina. Che la nitro-benzina non sia una sostanza innocua di profumeria o di pasticeria, come passava all’ Esposizione di Parigi del 1851, ma una sostanza assai venefica, non abbisognava di questo fatto per essere conosciuto ; la letteratura medica ne regi- stra digià non pochi casi di veneficio, ed il Boehm nel suo Trattato degli avvelenamenti li fa ascendere a 42 con un terzo e più di mortalità (1). Diffatti è provato che basta poca quantità per produrre anche la morte. Aè 1’ osservò per due dramme (2), Treulich con un ditale pieno (3), Bahrdt con venti goccie (4) e Leteby con 8-9 goccie (5). Nel caso, soggetto di questa istoria, non è possibile assegnarne la quan- tità Ingolata. L’ essere stata aggiunta l’ essenza di Mirbane dopo che l’ alcool era stato allungato coll’ acqua e collo zucchero deve essere stata la circostanza che ha reso difficile la dissoluzione ed il mescolamento della nitro-benzina nell’ alcool, giacchè come è noto questa, che assai bene si mescola agli oli ed agli alcoolici, non si mescola all’ acqua. Il disgraziato avvenimento accade adunque per l’ ignoranza dell’ inesperto preparatore che non meseolò la nitro-benzina all’ alcool prima di al- lungarlo coll’ acqua. Un primo sintomo meritevole di considerazione è quell’ alito con fortissimo odore di mandorle amare, il quale odore è assai più penetrante di quello dell’ acido cia- nidrico a quanto viene riferito, e a quanto ben ricordo d’ avere io stesso osservato (1) In Ziemssen. Patologia e Terapia Medica Speciale. Vol. XV. Sez. II. Cap. II. p. 164. Napoli. (2) Husemann nel Jahresh. di Virch. e Hirsch. ( (4) Arch. f. phys. Heilkunde 1871. (5) Med. Chir. Review. 1863. — 350 — molti anni or sono in un militare svizzero, già farmacista, morto per suicidio. Que- st odore così penetrante dell’ aria espirata indica la via per la quale esce la so- stanza tossica, cioè le vie pulmonali ; la nitro-benzina non esce per le vie che ten- gono tante altre sostanze venefiche, cioè quella delle secrezioni, giacchè con cer- tezza mai è stata trovata la nitro-benzina negli umori di secrezione ; ma soltanto nell’ orina si rinvenne qualche volta dell’ acido picronitrico, come riferisce il Can- tani (1). Intorno poi all’ assorbimento della nitro-benzina sembra che manchiamo di studi precisi, in ispecie per sapere se si assorbi in istato liquido o di vapore; se in forma gasosa o liquida penetri nel torrente della circolazione. Inoltre, entrata nel circolo sanguigno, agisce alterando il sangue, o per la sua azione diretta sui centri ner- vosi ? Fu opinione di Letheby (2) che la nitro-benzina venga nel sangue ridotta in ani- lina e che questa divenisse poi nel corpo, ossidandosi, una sostanza colorante violet- ta, e tale sospetto sarebbe venuto dall’ osservare un colore cianotico della pelle tutto particolare e con una tinta alquanto turchiniccia. Ma gli esperimenti di Schuchard (3), di Bergmann (4), e di Sonnenkalb (5) mettono fuori dubbio e provano che la nitro-benzina e l anilina alterano l’ attività cerebrale e midollare come altre sostanze narcotiche; la nitro-benzina, dice Boehm, nei suoi effetti si manifesta come un veleno narcotico che spiega la sua azione sugli organi del sistema nervoso ce- rebrale. Inoltre furono riconosciute erronee le osservazioni che dettero origine a quella ipotesi, cioè la mancanza di coagulazione del sangue e le particolari alte- razioni dei corpuscoli rossi. Gli studi e le ricerche di molti autori fatti allo scopo di confermare l ipotesi di Letheby non hanno portato ad alcun risultato positivo. Ma dato ancora che la nitro-benzima e Ì anilima portimo alterazione ai globuli rossi del sangue, o dirò in genere alla erasi del sangue, tale alterazione può essa spiegare interamente quella cianosi che si vede alle estremità ed ove si rileva e si constata apertamente la stasi sanguigna delle vene capillari e delle piccole vene ? Questa stasi per certo non è prodotta da ostacolo alle maggiori vene, od al cuore, le vene jugulari in ispecie sono vuote ed avizzite ; a richiamare verso il cuore quel sangue dalla periferia manca la forza della pompa aspirante del cuore istesso, manca l'atto diastolico, l’ ascoltazione non vi ha fatto sentire che un solo tono cardiaco, vi ha adunque quello stato morboso che ho chiamato Adiastolia. Parecchi osservatori hanno notato che nell’ avvelenamento da nitro-benzina vi ha battito energico di cuore, pulsazione forte delle carotidi e delle temporali; nel caso da me osservato notai già che erano assai forti ed esagerati i battiti del cuore,, CS! Manuale di Materia Medica. V. I, p. 815. Milano. ) ) Op. cit. (3) Virch. Arch. Bd. XX. (4) Prag. Vierteliahr. 1865 IV. (5) Anilin und Anilinfarben. Leipzig. 1861. — 351 — specialmente l impulso si eseguiva con molta energia; l azione sistolica adunque, è da concludersi, si trova accresciuta, aumentata; si trova in uno stato opposto dell’ azione diastolica. Ora questo stato di alterazione del movimento del cuore potrà chiamarsi come hanno fatto alcuni scrittori paralisi cardiaca e dichiarare che l’ azione della nitro- . benzina si spiega a paralizzare il cuore? La distinzione adunque della lesa fun- zione cardiaca nell’ atto sistolico da quella dell’ atto diastolico mi sembra, se non m' inganno, della massima importanza non solamente per intendere i fatti patolo- gici, ma eziandio per le applicazioni terapeutiche. Io non mi fermerò a considerare da quale specie di alterata innervazione pro- vengano gli aberrati movimenti cardiaci : altra volta ebbi già campo di dichiarare che causa immediata ne deve essere una nevrosi della vita organica, la quale se tal- volta può essere idiopatica, cioè dei nervi cardiaci, vaghi o simpatici, il più spes- so è sintomatica di affezione cerebrale, o spinale, o di malattia organica di cuore o delle fibre muscolari del miocardo, essendochè cervello, midollo spinale, nervi e fibre muscolari servono alla innervazione ed ai movimenti del cuore. In quella mia Memoria più volte citata tentai di abordare 1’ argomento della terapia che conviene a quei due stati morbosi fermandomi sopra due rimedi assai raccomandati nelle malattie del cuore, la digitale e la caffeina, e mostrando che se vi sono casi dove la digitale è dichiarata controindicata e nociva, altri molti ove la caffeina non apporta vantaggi ma danni, egli è perchè quella rinforza i moti sistolici, questa i moti diastolici. La cianosi osservata nella storia dell avvelenamento che ho riportata, era una di quelle cianosi che fino Giuseppe Franch ed il Bouchut chiamarono encefaliche prodotte in alcune nevrosi da morbi cerebrali e ancora per sostanze venefiche che agiscono sull’ apparato cerebro-spinale. Era adunque uno di quei fatti dove la caf- feina era indicata per rialzare le attività diastoliche cioè la forza aspirante del cuore; e la caffeina amministrata spiegò ben tosto la sua azione e corrispose prontissimamente alle mie speranze. Se la terapeutica dell’ avvelenamento da nitro-benzina fino ad ora non consiste che nei mezzi che sono diretti ad allontanare il veleno esistente nello stomaco, i vomitivi, la pompa gastrica, non conoscendosi alcun metodo specifico che le serva da contravveleno, nella cura sintomatica a mio avviso potrà avere il primo posto la caffeina, il caffè, i medicamenti tetanici, ma specialmente io ritengo la caffeina, debba essere il rimedio principalissimo in questo avvelenamento. PERICOLI DELL'APPLICAZIONE DELE'UNCINO. OSTETRICO ALL'INGUINE DEL FETO NEL PARTO PER LE NATICHE MEMORIA DEL PROF. fEsaRE BELLUZZI / (Letta nella Sess. Ord. del 3 Febbraio 1881) Quantunque la presentazione del feto per le natiche nel venire alla luce sia collocata fra le naturali, la mortalità però che si verifica nei feti è molto maggiore di quella pel vertice. Se osserviamo le statistiche apprendiamo che mentre in que- st ultima non suole oltrepassare il 5 per cento , in quella delle natiche secondo il Dubois è del 9, dovendosi notare inoltre che l’ostetrico francese non considerò forse che i morti nel nascere e non i nati asfittici, i quali non si riebbero. Secondo M. Lachapelle è del 14, e del 22 secondo il Bell; proporzione che si accosta a quella che l egregio Signor Dott. Inverardi trovò essersi verificata nella Cli- nica ostetrica di Torino sopra 314 parti per l’ estremità pelvina e cioè del 22: 6 nel feti nati a termine, aggiungendo molto saggiamente che nelle primipare la proporzione è maggiore che nelle altre (1). Il Braun scrive che nelle presentazio- ni pelviche periscono durante il parto 11 per cento di bambini, e 18 per cento muoiono dopo i primi giorni della nascita. Il Pastorello sopra 80 parti di tal fatta, avrebbe osservato una mortalità anche maggiore. Essendo io alla direzione ostetrica della nostra Maternità, mi credo in debito di esporre la mortalità dei parti per le natiche in essa avvenuti; il numero è piccolo, ma invece sono notati dei medesimi i necessari dettagli, per non attri- buire alla presentazione una mortalità che si deve ad altre cause. Le quali detra- zioni nelle statistiche comprendenti grandi cifre non so se sieno sempre fatte colla necessaria esattezza. Nella medesima adunque sopra 1720 parti, se ne sono verificati 43 per le na- tiche, non calcolando 18 aborti, distinti nel seguente modo : nel 7° mese N. 7, nell’ 8° mese 16, nel 9° mese 20 dei quali ultimi, 13 propriamente a termine. Non parlando dei settimestri (perchè in essi la presentazione non è a considerarsi la causa precipua della morte) si hanno (1) Il parto podalico, studiato nella Clinica ostetrica Torinese. Torino, Tip. Roux e Favale 1878. TOMO II. 45 — 354 — sopra i 16 parti ottimestri 14 terminati spontaneamente e 2 coll’ arte; fra i primi, 5 vennero espulsi morti ed uno fra gli ultimi. Male argomenterebbe però chi attribuisse queste sei morti alla presentazione, giacchè avvennero prima del parto, anzi quasi tutti quei feti erano maceri per effetto di sifilide. Nel 9° mese ne nacquero 20; 7 nel 9° mese non finito, dei quali, 5 nacque- ro spontaneamente e 2 con parto artificiale. Del 5, uno nacque morto, ed uno nato asfittico morì 10 ore dopo la nascita; i due operati nacquero vivi. Fra i 13 nati veramente a termine, 7 nacquero spontaneamente e 6 mediante l’ aiuto oste- trico; uno fra i 7 era premorto al travaglio ed uno fra i 6 venne estratto morto, ma vi era anche angustia pelvica e spasmo uterino. Dalla quale piccola statistica risulta che sopra 20 parti per le natiche avve- nuti nel nono mese, non sempre init, l’ arte intervenne otto volte, (porporzione assai rilevante) e si ebbero tre morti, due delle quali solamente attribuibili alla presentazione. Si ebbe quindi la mortalità del 10 per cento circa. Se esaminiamo le difficoltà ed i pericoli che incontra il feto nel venire in tal modo alla luce, prima ancora che il funicolo ombellicale sia esposto a dannose compressioni, prima che il capo soffermato entro il bacino aggiunga altri danni alla vita del feto, quante volte non vediamo le natiche stesse incontrare difficoltà od impossibilità ad essere espulse ? Le quali possono derivare anche dalla sola dololezza delle contrazioni uterine (così frequente ad osservarsi in tale presenta- zione) più poi se ecceda il volume del feto, o sia angusta la pelvi. Dovendosi terminare artificialmente il parto per le natiche non vale sempre il precetto dato nei trattati di ostetricia che cioè: o le natiche in tali casi sono alte e si vanno ad afferrare le membra inferiori e si estraggono, per lasciare possibilmen- te il resto dell’ espulsione delle natiche alla natura, o sono accessibili e si uncinano gli inguini colle dita e si fanno uscire le natiche stesse; poichè fintanto che desse sono alte, si può avere speranza che vengano abbassate dalle contrazioni uterine, nè possono sempre prevedersi con sicurezza le difficoltà che saranno per incon- trare in progresso del travaglio, e prevedendole ancora può darsi che la dilata- zione della bocca dell’ utero (la quale in questi casi suol procedere lentamente) non consenta di agire; e quando poi l’ apertura uterina permetterebbe alla nostra mano di penetrarvi, che le natiche siano talmente avanzate e fisse nell’ escavazione da non poter più ottenere il disimpegno e I’ estrazione delle membra inferiori del feto, e tuttavia non si trovino abbastanza basse per poter colle nostre dita un- cinare gli inguini con tale efficaccia, da poter così far discendere e disimpegnare la pelvi fetale. L’ esperienza addimostra che anche giungendo a circondare un in- guine non solo coll indice di una mano, ma con quello altresì dell’ altra, o po- tendo uncinare contemporaneamente ambo gl’ inguini, spesso non si riesce nell’ in- tento, e si è costretti, non convenendo la segala o riuscita insufficiente, di ricorrere all applicazione di qualche strumento, col quale poter fare trazioni più valide. Ma quali sono questi strumenti ? Il più comune e che sembrerebbe dover riescire per — 355 — la sua forma e semplicità, si è I uncino ottuso. Anzi l uncino ottuso col quale termina uno dei manichi di molti forcipi sarebbe destinato anche a questo scopo. Se i pratici però che hanno usato l uncino in tali circostanze, volessero fare palesi le disgrazie loro occorse coll’ uso di tale stromento , fra le quali la più frequente si è la frattura del femore, nascerebbe verso il medesimo una giusta diffi- denza. Io non porterò che poche citazioni in proposito prese da trattati ostetrici. Hl Morisani ad es. (1) dice che Y uncino nel caso in discorso va usato con lievi trazioni e molta prudenza e aggiunge che il Jacquemier e Tarnier osservarono le- sioni serie indotte dal medesimo. Naegele e Grenser (2) temono l’uso dell uncino all’ inguine del feto nel parto per le natiche, non solo per la frattura che può in- durre nel femore, ma altresì per le possibili ‘contusioni; per cui danno il pre- cetto di sollevarlo un poco ad ogni trazione. Schroeder dice (3) che coll uncino all’ inguine si può esercitare una forza molto più grande che colle dita, ma che il suo uso non è senza pericolo............. e più oltre aggiunge , ma in tutti i modi l’uso dell’uncino curvo è sempre dannoso al feto. Il Joulin (4) ammette che può fratturare il femore, e non lo scusa per altro, che il forcipe proposto da alcuni per le natiche sarebbe altrettanto e più pericoloso. Io non adoperai l’uncino che una sol volta, molti anni sono, su di un feto già morto nel lungo travaglio, il qual fatto riporto brevemente. La sera del 10 Luglio 1868 alle ore 10 pom. venni chiamato presso la sig. C. P. abitante in Via Borgo Paglia, ora delle Belle Arti, in travaglio fino dal mattino del suo secon- do parto, perchè il feto presentavasi per le natiche e non vi era ormai più spe- ranza venisse espulso spontaneamente. I dolori si erano fatti spasmodici e sotto di essi le natiche, che erano poco discese nell’ escavazione, non si abbassavano ; il feto, molto voluminoso, presentavasi in 1.* posizione, essendo gli arti inferiori rialzati e distesi contro il suo piano anteriore. Il doppio battito assai indebolito trovavasi naturalmente a sinistra, ma al disotto della linea ombellicale (5). Feci dapprima un salasso e usai del laudano, per calmare lo spasmo uterino, e più tardi non essendosi abbassate per nulla le natiche stesse, mi decisi di ultimare il parto ar- tificialmente nell’ interesse della donna, che era essai sofferente pel lungo trava- glio, non del feto, del quale non si udiva più il doppio battito. Tentai se era possibile giungere ai piedi per condurli in vagina, ma risorge- vano contrazioni spasmodiche dell'utero, le quali non permettevano alla mia mano (1) Manuale delle operazioni ostetriche. Napoli 1878 p. 56. (2) Traité prat. de l’art des Accouchements. Paris 1869. p. 321. (3) Manuel d’Accouchements trad. par le D. Charpentier. Paris 1875 p. 293. (4) Traité comp. d’ Accouchements. Paris 1867. p. 1032. (5) In questo caso il dato dell’ ascoltazione circa la diagnosi della presentazione avrebbe tratto in inganno. Ed in vero l’ area cardiaca fetale invece di trovarsi al dissopra od almeno al livello della linea ombellicale, si rinvenne coll’ ascoltazione immediata e mediata al dissotto della cicatrice stessa, la quale era precisamente ad eguale distanza fra 1° orlo superiore del pube ed il fondo dell’ utero. — 356 — di inoltrarsi fino ad afferrarli; uncinai col mio dito linguine che trovavasi ante- riormente, ma non riescendo con esso a far discendere le natiche per nulla, usai l’un- cino ottuso del forcipe collocato sull’ inguine anteriore, che era il sinistro e così le natiche stesse furono abbassate. Quantunque però io facessi le trazioni nella dovuta direzione e con cautela. pure sentii uno scroscio, che mi indicava essersi fratturato il femore. Uscito il feto verificai infatti che il femore, sul quale aveva agito l’uncino, era fratturato nel suo terzo superiore. Questo caso mi fece cono- scere, fortunatamente senza danno del feto essendo premorto all’ operazione, che la frattura del femore pel fatto dell’ uncino all’ inguine, è più facile ad avvenire di quello si creda comunemente, e d’ allora in poi non lo adoperai più in simili circostanze. Tali fratture secondo me avvengono specialmente quando si debbono fare le trazioni in senso alquanto obbliquo all’ asse del femore del feto, e venga adope- rato l’ uncino del forcipe, perchè meno addatto, dell’ apposito uncino per l ingui- ne; quello infatti per la sua grossezza può scostare di troppo il femore dal ba- cino fetale e dippiù la sua curva è più addatta a circondare il collo del feto di quello che l’ inguine. Ma non solo può avvenire come dissi, la frattura del femore per l’ uso dell’un- cino all inguine nel parto podalico artificiale, ma possono altresì aver luogo lesioni ai vasi dell’ alto della coscia e allo scroto del feto e perfino la frattura della branca orizzontale del pube. Una gravissima lesione di tal genere ebbi ad osservare di recente in un feto, la quale passo ad esporre e diede occasione principale al presente mio scritto. Il 25 Ottobre 1878 fu recata all’ Ospizio Esposti della nostra città una bambina nata 2 giorni prima, sviluppata alquanto più dell’ ordinario, pesando Grammi 3540, la quale presentava nella piega dell’ inguine sinistro, a livello del ramo orizzontale del pube, una piaghetta imbutiforme, profonda, con odore fetidissimo ed alla ra- dice della coscia corrispondente una echimosi marcata. La medesima mostrava pure gonfiezza notevole e colore livido a tutta la natica di quel lato ed ai ge- nitali esterni: il gonfiore si estendeva alla coscia, ove era anche aumentata la temperatura. Le cose esposte erano sufficienti per ritenere essersi trattato di parto per le natiche e della applicazione di un uncino poco ottuso all’ inguine, ma una prova ulteriore si aveva applicando la coscia nominata sul ventre, poichè la echimosi della radice della medesima corrispondeva alla ferita dell’ inguine perfettamente. Ciò mi venne poi anche accertato dalla levatrice che assistè quel parto, dalla quale seppi inoltre le seguenti circostanze del fatto, che stimo utile di notare. La donna che partorì quella bambina era una giovane di 20 anni circa, pri- mipara, si noti bene, e ritenuta ben conformata. Il travaglio fu lungo ; la levatrice infatti fu chiamata la sera del 22 Ottobre nelle ore 10, dopo che la giovane aveva avuto dolori fin dalla notte antecedente, e quantunque da poco, erano uscite le — 357 — acque, trovò la dilatazione della bocca dell’ utero poco inoltrata e s' accorse in se- guito che si presentavano le natiche. Nel mattino dopo chiamò il medico condotto, il quale invitò altro medico di un vicino Castello e questi ne condusse un terzo nella sera, il quale operò l’ estrazione del feto applicando all’ inguine l uncino del forcipe. La stessa levatrice aggiunse che estratto il feto vivente e scoperta la ferita all’ inguine furono fatte fomentazioni, finchè nel secondo giorno dalla nascita, ella stessa lo recò all’ Ospizio. E qui prima di procedere oltre non lascierò di notare, che in questo caso si verificarono due fatti sfavorevoli al parto podalico e cioè primiparità della madre e sviluppo grande del feto, il quale se pesava Grammi 3540 nel terzo giorno dopo la nascita, anche senza calcolare l influenza della lesione patita, all’ epoca del parto, come è noto, doveva pesare dippiù. Mercè le medicature fenicate istituite, migliorò l’ aspetto esterno della piaga, ma dalla medesima usciva molta quantità di pus; dalla mobilità poi della branca orizzontale del pube e dallo scricchiolio era manifesto esservi frattura della branca orizzontale stessa. In seguito la bambina deperendo ognor più, cessò di vivere il 30 Novembre, dopo 38 giorni dalla nascita. La dissezione della pelvi fetale, che ho l’ onore di presentarvi e che va conservata nell’ alcool nel Museo della Maternità, venne fatta dal Vice assistente Signor Dott. Giovanni Berti, che ne redasse esatta descrizione, dalla quale riporto il più importante. , Persisteva 1’ echimosi alla radice della coscia sinistra, sulla quale facendo un’ incisione a tutta spessezza della cute, si rinvenne il tessuto sottoposto tuttora bianco. Contro la detta macchia nella parete addomi- nale è l’ apertura di un tramite, che traversando dall’ alto al basso e da destra a sinistra tutte le parti molli, immette in una cavità, che si trova nella regione pubica della pelvi. Cotesto cavo aperto in due punti della sua parete superiore, incomincia subito all'infuori della sinfisi del pube e giunge fino alla eminenza ileo-pettinea. La sua parete posteriore è in parte fatta da tessuti molli, in parte da osso di nuova formazione; l’ anteriore, l’inferiore e l interna sono del tutto di osso spugnoso, neoprodotto; l’ esterna è data dalla parete interna dell’ aceta- bolo ingrossata, scabrosa, spinta un po’ infuori. Tutt assieme adunque al posto della branca orizzontale del pube abbiamo una bozza vuota ossea, che per buona parte viene a restringere il foro otturatorio. Ho detto che il cavo era aperto in due punti della sua porzione superiore; delle aperture una, l’interna, è la più grande, quella che comunicava col tramite già descritto; l’ altra è più piccola, e fatta ad arte asportando le parti molli. Da queste aperture è raggiungibile un sequestro molto mobile, tagliato a sbieco, la cui forma ricorda abbastanza bene quella della porzione orizzontale del pube. Ma la neoproduzione ossea non si è limitata alla regione pubica, nel modo descritto finora; se ne vedono ben anche traccie evidenti nell’ ileo vicino; ed invero sulla sua faccia interna è facilmente discernibile una lamina spugnosa cresciutavi a ridosso estendentesi da quasi tutto il margine iliaco anteriore alla sinfisi destra del sacro, mentre poi nella faccia esterna, al di sopra della cavità cotiloidea, può riscontrarsi, sebbene in minor grado, una simile cosa ,. -— 358 — | Ma non finisce quì l'interesse offerto da questa pelvi; è da notarsi infatti come in seguito alla lesione nata nella branca orizzontale sinistra del pube, abbia as- sunto la forma obbliqua-ovale del Naegele. Oltre la pressione esercitata dall’ un- cino del forcipe, il quale non solo offese la branca orizzontale sinistra, ma la com- presse in dentro, spostando la sinfisi e l’altra metà pelvica, continuò a renderla vieppiù obbliqua il peso stesso dell’ arto addossatovi. In questa pelvi si vedono i caratteri principali della obbliquità naegheliana, cioè la evidente differenza in ampiezza delle due metà, e la deviazione della sin- fisi del pube dalla linea mediana. E se la bambina fosse sopravvissuta si sareb- bero aggiunti probabilmente altri caratteri, come la sinostosi della sinfisi sacro- iliaca dal lato ristretto. Il suo diametro obbliquo sinistro è di millimetri 30, mentre il destro è di mil- limetri 38 e nel distretto inferiore la tuberosità ischiatica sinistra si trova avvici- nata al coccige più dell’ altra, e tutto il margine sinistro del sacro più avvicinato alla branca discendente dell’ ischio. Fig. 1.2 — Contorno del distretto Fig. 2.8 — Contorno del distretto superiore cdi una pelvi obliqua-ovale superiore della pelvi fetale obli- adulta, descritta dal Fabbri. Il lato atrofico è il destro, ma è stato quo-cva'e, descritta nella pre- invertito, perchè così serve meglio al confronto colla Fig. 1.8 sento Memoria. Vedi Fabbri Memorie dell’ Accademia dello Scienze di Bolozna an. 1879. — 359 — La pelvi che ho descritta e la storia del fatto cui si riferisce, se 10 non erro, non sono solamente interessanti nel rapporto ostetrico, confermando i pericoli del- l’uncino applicato all’ inguine del feto nel parto aggrippino artificiale, ma anche riguardo all’ etiologia della obliquità ovale della pelvi; intorno al quale argo- mento si occupò con tanto amore e sapere una illustrazione di questa Accade- mia, l Illustre Professore Giambattista Fabbri. E come fui lieto nel 1858, un anno dopo che Egli ebbe illustrata la pelvi obbliqua-ovale di Camerino (della quale fece fare un fac-simile in cera per la nostra Università, che non ne possedeva alcun esemplare) di aver potuto offrirle una di siffatte pelvi presa dal cadavere di una donna, nella quale trovavasi per di più la lussazione iliaca congenita di ambedue i femori, che le porse occasione di approfondire l'argomento, così mi gode l animo oggi, che questa pelvi fetale, venga in appoggio della sua teoria, circa la causa della obbliquità naegheliana. Il Fabbri, com’ è noto, non era soddisfatto delle teorie messe innanzi dagli ostetrici fino a’ suoi giorni. , La teoria dell’ anomalia di sviluppo del Naegele, » Egli diceva giustamente, non spiega nulla; quella del Martin della osteite del » sacro e dell’ileo dà solamente ragione della sinostosi e delle atrofie; quella pro- » fessata dall’ Hubert dell’ atrofia del sacro e dell’ ileo, può solamente spiegare , la diminuita ampiezza d’ una metà del catino, ma non lo spostamento della sin- » fisi del pube nel modo che è proprio del catino di Naegele; l’ autocrazia del » sacro nel sistema pelvico del Gavaret è poco sostenibile, perchè nella rachitide, » Ove desso sporge in avanti, le alterazioni che ne derivano, sono per lo più sim- » metriche (1), mentre le cause meccaniche, aggiungeva, sono le sole che pos- » sono dar ragione di tutti i fatti che si riscontrano nel bacino naegheliano. , La pelvi che io vi ho presentata resa obliqua-ovale da una lesione di continuo, avvenuta nella branca orizzontale del pube sinistro, viene grandemente in appoggio alla teoria del Fabbri; al qual fatto, posso aggiungerne un altro ancora di molto valore. Veniva accolta il 2 settembre 1879 nella Maternità di Bologna col N. P. 77 una donna di 30 anni, nativa di montagna ove aveva dimorato fino al 1876, in- cinta nel settimo mese, affetta da grave zoppicamento, per corarto destro, in se- guito del quale il femore di quel lato si era saldato nell’ acetabolo ad angolo molto risentito, cosicchè per camminare doveva inclinare notevolmente il tronco a destra, e toccare il suolo solamente colle dita del piede, mettendo sempre avanti il piede medesimo, senza potere alternare il passo coll’ altro. Nata, a suo detto, da genitori sani, fruì buona salute fino ai 12 anni, nella quale epoca fu còlta improvvisamente durante il mese di Febbraio da reumatismo articolare, che infierì specialmente all’ articolazione coxo-femorale destra e la tenne in letto per ben tre mesi. È da notarsi che in letto conservò sempre il decubito (1) Rend. delle Sess. dell’ Accad. delle Scienze di Bologna. Anno accad. 1859-60, e Memorie dell’ accad. stessa, anno 1861. T. 2 p. 82. — 360 — sul fianco malato, come il meno doloroso, coll’ arto molto flesso sul bacino. Quan- do potè alzarsi, per molti mesi stette seduta sopra una seggiola, colla quale poi si muoveva alquanto. In seguito adoperò una gruccia applicata all’ ascella del lato infermo poggiando la punta del piede destro al suolo, e dopo quattro o cinque anni le fu sufficiente un bastone. Esaminando il bacino di questa donna, essendo in piedi e reggendosi pure colle braccia ad un corpo solido, come alla Fig. 3.* tratta dalla sua fotografia, offre una doppia inclinazione in avanti ed a destra, l’ innominato sinistro si vede più alto e in addietro più arcuato e sporgente, il destro più raddrizzato e meno convesso, e la tuberosità ischiatica di questo lato molto più bassa, (1) più sottile ed i \ È i è 2 “x aguzza, la gamba destra è naturalmente meno nutrita, Questa donna avrebbe avuta una pelvi originariamente ampia, come lo mostrano l’ ispezione delle sue forme e specialmente la circonferenza pelvica che è di Cent. 94, ed il diametro retto ester- no del distretto superiore, che è di Cent. 19, 3 (pol. 7, 2). L’ esplorazione inter- (1) Fra le pelvi obblique ovali illustrate dal Fabbri, vi è quella del Museo di Firenze, la quale offre consimile rilevante dislivello fra le due metà. V. Memorie citate Ser. 3. T. 3. p. 97. — 361 — na poi, trova bensì la branca orizzontale destra del pube alquanto spinta in den- tro, ma non giunge a toccare la parete posteriore del catino e riscontra spazio sufficiente al passaggio di un feto a termine. Esaminata particolarmente la distan- za delle spine ischiatiche (misura tanto valutata dal Fabbri) si trovano bensì a diverso livello, ma abbastanza lontane fra di loro (1). Per cui stimai che questa pelvi si potesse assomigliare a quella della donna del Gissen, menzionata del Nae- gele, che ebbe parti naturali felici (2) e quindi non necessario interrompere il corso naturale dell’ attuale gravidanza, quantunque nella prima avvenuta nel 1876 fosse provocato il parto nell’ ottavo mese, pel timore della grave assimetria. Infatti dichiaratosi il soppraparto il 6 Novembre, alle ore 4 ant., dopo 6 ore la dilatazione della bocca dell’ utero era completa. A questo punto si ruppero spontaneamente le membrane e dopo mezz’ ora si ebbe l’ uscita di un feto a ter- mine, vivo, del peso ordinario di Grammi 2, 948. A parto così felice seguì pure un puerperio felice e la donna allatta ancora. Nella medesima non vi fu una forza meccanica che agisse ad un tratto come nel feto, del quale vi ho tessuto la storia, e come nella donna, alla quale appar- tenne la pelvi del Museo di Camerino illustrata dal Fabbri; non mancarono però cause che agissero lentamente e continuatamente. Infatti a 12 anni quando i vari pezzi dell’ osso innominato non sono ancora saldati fra loro per mezzo di sostanza ossea, quando i legamenti fra dessi innominati ed il sacro sono ancora delicati, fu costretta a giacere per 3 lunghi mesi sempre sull’ innominato destro, e quando alzatasi dal letto fece uso di una stampella sola, continuarono cause capaci di ulteriormente deformare la sua pelvi. Dal fin qui detto credo poter concludere : 1. L’ uso dell’ uncino portato all’ inguine del feto nel parto agrippino artifi- ciale è assai pericoloso e quindi non vanno trascurate le cautele suggerite dai maestri dell’ arte nell’ usarlo (3). 2. Oltre le contusioni o ferite alle parti molli sulle quali viene applicato, vi è a temere la frattura del femore, la frattura della branca orizzontale del pube, come quella che vi ho descritto. 3. I due fatti da me riferiti di pelvi oblique-ovali, rese tali da cause mecca- niche, confortano la teoria del Fabbri, circa 1 etiologia della obbliquità naeghe- liana della pelvi. (1) Avrei voluto praticare la pelvimetria del Naegele, ma la donna non vi si prestò, e sic- come il suo carattere è alquanto alterato dopo avere patito altra volta di alienazione mentale, non credetti di insistere, tanto più che non era necessaria. (2) Di una pelvi obliqua-ovale esistente nel museo anatomico di Camerino — Fabbri Memc- rie dell’ Accad. delle Scienze dell’ Istituto di Bologna. T. 8 p. 87. (anno 1857) (3) Essendosi occupato dell’ applicazione di altri strumenti nel parto artificiale per le natiche in sostituzione dell’ uncino, probabilmente ne tratterò in altra memoria. TOMO II. 46 EP gg: MESI se a sad penne pi: nà 1184 di ) due: Mingiivonai la Il NUOVI: STUDI SULLA: POLIGANESI NEI MINERALI MEMORIA DEL T ROF. porsi PomBice: (Letta nella Sessione Ordinaria del 23 Dicembre 1880). PAER'TKL IL. Sommario. — Riassunto della parte I. — Due nuovi fenomeni di cangiamento nello stato fisico dei solidi: 1° liquefazione prodotta in un cilindro d’acciaio, a freddo, da un disco che vi gira dappresso senza toccarlo. Cenno descrittivo della macchina di Reese detta a « disco fon- dente ». Obbiezioni alle idee espresse sul fenomeno della fusione apparente, a freddo; spiegazione basata sulla induzione magnetica fra il disco e il cilindro rapidamente giranti in presenza l’uno dell’altro, proposta invece di quella che farebbe derivare il fenomeno dall’aria proiettata dal disco sul cilindro; 2° riscaldamento sopra 100° cent. di pezzi di ghiaccio senza fusione rapida, ma con evaporazione sensibile, ottenuta in uno spazio ad aria molto rarefatta. Esperienze del Carnelley sul passaggio dei solidi allo stato liquido, in ordine alle pressioni del mezzo gassoso nel quale si trovano. — Continuazione della rassegna degli stati fisici complessi della materia inorganica. — Allotropie. — Isomerie. — Solidità poligenica nei cristalli e nelle masse cristalline. Nel lavoro intitolato — Nuovi studi sulla poligenesi nei minerali — che nel de- corso anno accademico ebbi l’ onore di presentarvi, illustri Colleghi, dopo di aver cercato di distinguere gli stadi di viecrescente sintesi molecolare, i quali condu- cono la materia inorganica ponderabile dalla condizione di gas perfetto alla com- plessa modalità delle particelle fisiche elementari di cristallizzazione, proposi la spiegazione di alquanti fenomeni fisici sui quali mancavano idee chiare ed esatte; posi in confronto le condensazioni istantanee e le rapidissime cristallizzazioni colle esplosioni quali generalmente si conoscono; richiamai la vostra attenzione sulle sferoedrie delle sostanze cristalline, che reputo significanti assai nella storia dei cambiamenti di stato fisico per solidificazione reale; avverti la grande opportu- nità, direi anzi la necessità, d’ introdurre nella teoria della grandine, per farla vera e completa, il dato delle polarità cristallogeniche , trascurato fin ad oggi in — 364 — modo inconcepibile (1); ed essendosi prodotto, mentre studiavo questi argomenti, il fenomeno sconosciuto, improvviso, sorprendente della cristallizzazione delle nevi a forma di grandi corolle di fiori, e di gruppi di lamine piane, diafane, in vario modo intrecciate fra loro, ne diedi un cenno descrittivo, ne proposi la teoria, e ne trassi nuovi elementi in appoggio alle idee che sostengo. Presento, oggi, la parte seconda di quello stesso lavoro. Vi proseguo la enumerazione degli stati fisici di ordine progressivamente sin- tetico, che nella prima parte giunse all’ ottavo della serie; a quello cioè delle ALLO- trRoPIE e delle IsomERIE, considerate come stati speciali della effettiva e reale solidità. Anche in tale occasione posso sperare di trovar la mia tesi in alto grado fa- vorita da nuovi inaspettati fatti, 1 quali appena sieno rigorosamente accertati da- ranno nuova luce alla teoria della liquefazione dei solidi. Di questi fatti non pos- siedo ancora la completa certezza, conoscendoli per quanto se ne leggeva nel The Engineer di Londra, dell 8 Ottobre 1880; nella Révue Industrielle, del 10 Novembre 1880; e nel Les Mondes di Parigi, Tomo LIMI, del 14 Settembre 1880; tuttavai ne farò cenno aspettando le ulteriori informazioni che sto ricercando, ed i risultati di alcune prove appositamente instituite. Ecco di che cosa di tratta: il Signor Reese di Pittsboure ha trovato che se un disco di acciaio dolce è disposto alla minima distanza di un cilindro, pure di acciaio, ambedue ruotando nel medesimo senso, essendo paralleli i loro assi di rota- zione, il disco taglia il cilindro senza toccarlo; lo taglia liquefacendovi quella ar- milla trasversale che corrisponde al prolungamento del proprio piano; il prodotto di liquefazione dell’ acciaio, così ottenuto, può riceversi sulla mano, 20 essendo caldissimo. Il Sig. Th. Carnelley di Sheffield, studiando le condizioni necessarie all’ esistenza della materia allo stato liquido, è giunto a stabilire sperimentalmente questa legge: per la trasformazione di un solido in liquido occorre che la pressione ambiente non scenda al di sotto di un certo valore, che Egli propone di chiamare — la pressione critica della sostanza. Se questa pressione critica non vi è, il corpo solido non può esser fuso, ossia liquefatto; può bensì evaporarsi. E come verificazione sperimen- tale di questa legge, il Carnelley annunzia di aver potuto scaldar fortemente alcuni strati sottili, e talune laminette di ghiaccio, dopo di aver ridotta la pressione del mezzo ambiente, bene al di sotto della pressione critica. Alla fine della esperienza il tubo di vetro, alle cui pareti aderiva il ghiaccio, era scottante ! (1) Ritengo probabilissimo che le polarità cristallogeniche eccitate dallo stato elettrico delle nubi nei prismetti di acqua congelata, e che pur acquistano tensioni attrattive fortissime, come nelle soluzioni supersature e nelle masse superfuse, sieno la principalissima causa determinante delle attrazioni sferoedriche di quei prismetti intorno a un centro comune. — Quelle energie di orientazioni centripete presiedendo con intensità paragonabili a quelle delle soluzioni supersature all’ origine dei nuclei iniziali, sui quali vengono repentinamente ad addossarsi altri prismi, ed altri adunamenti cristallini, sempre secondo il tipo sferoedrico, sviluppandone la forma giobosa, e la struttura raggiata, non possono in ogni modo escludersi da una qualsiasi teoria fisica sulla pro- duzione della grandine. — 365 — Accennati così i due fatti cui feci allusione, trascriverò una parte degli ar- ticoli che nei citati periodici ne danno l’ annunzio e che per ogni buona ragione debbo ammettere veridici e genuini; tanto più trattandosi di due cose affatto di- stinte, di applicazioni e di sperienze praticate da diverse persone, una delle quali alla direzione di uno Stabilimento metallurgico, l’altra avente cattedra di Fisica al Firt College di Sheffield, in Inghilterra. — Proporrò poscia quelle spiegazioni che mi pare derivino naturalmente e semplicemente dalle idee sui cambiamenti di stato fisico della materia sulle quali insisto. Essendo lontanissime le officine dove agisce il così detto pIsco ronpenTE del Reese, e non conoscendo fin ora le minute particolarità dell’ apparecchio per l’ intenso riscaldamento di un pezzo di ghiaccio che deve mantenersi in gran parte solido, sopra 100°, sto procurando, con i limitatissimi mezzi meccanici quì dispo- qibili, d’ assicurarmi almeno dell’ intervento di talune azioni fisiche dalle quali io credo che direttamente derivi il fenomeno della fusione a freddo e senza contatti, che non mi è dato di riprodurre integralmente. Frattanto, rivolgo alla teoria che adotto sullo stato solido della materia, le dimande che formulo così: È egli am- missibile che l’acqua, congelatasi a 0°, possa restar solida sopra 100° di tempe- ratura? Si può concepir possibile la liquefazione di una massa solida (vale a dire cristallina), senza innalzarne la temperatura al grado rispettivo di fusione termica ? Ovvero: può egli sussistere il fatto di un’ azione a distanza fra due masse metal- liche (di ferro, nel caso speciale), animate da rapidissima rotazione e nel medesimo senso, bastevole perchè una di esse (in forma di disco) operi un disgregamento molecolare nell’ altra (in forma di sbarra cilindrica) producendovi senza toccarla una appareute fusione? Così ponendo ambedue le quistioni mi trovo esonerato dall’ obbligo di subor- dinarne la spiegazione al rigoroso esame delle disposizioni pratiche stabilite nel- l'uno e nell’ altro processo; ed ottengo altresì il vantaggio che l’ accertamento di uno qualunque dei fatti di cui è parola basta a dare alla mia tesi una efficacis- sima conferma. — I due fenomeni sono indubbiamente affatto diversi pel modo col quale si producono, per la materia che vi è passiva, per gli effetti che ne pro- vengono, pel fine cui essi sono diretti; ma hanno a comune, come condizione es- senziale, il passaggio di stato fisico di un corpo, dalla solidità alla liquidità. — Ab- benchè si abbia in un caso dell’acciaio liquefatto a temperature inferiori a quella del punto di fusione; nell’altro abbiasi del ghiaccio solido e caldo, tali condizioni in apparenza opposte ed antagonistiche derivano da una ragione unica; possono dunque spiegarsi partendo da un solo e identico principio. Sul disco fondente di Reese ecco come s esprime il periodico The-Engineer, di Londra, vol. L. (n. 1293), 8 Ottobre 1880 : » Giorno per giorno un qualche nuovo fatto compensa quel poco o nulla che — 366 — conosciamo concernente alla fisica molecolare. — Mentre eravamo meravigliati dalle scoperte di Crookes udivamo parlare di un quarto stato della materia; ed il telefono, poscia il microfono ci appresero che molto ancora eravi da imparare sulle azioni interne delle particelle o molecole delle sostanze più rigide in apparenza. Noi ci azzardiamo a credere che l’ azione del pIsvo FonpeNnTE debba destare mag- giore meraviglia che il microfono stesso. Infatti, se non conoscessimo per evidenza, cosa affatto degna di fiducia che il disco è attualmente in uso in parecchie ferriere e officine; che non è uno strumento da laboratorio, ma un’ utile macchina, saremmo immediatamente disposti a rifiutare tutte le informazioni relative, come totalmente false. , (Quì il redattore cita l'incisione che rappresenta la macchina del disco fon- dente, quale funziona negli Stati-Uniti; incisione intercalata nel testo del gior- nale). » La macchina è impiegata per tagliare sbarre cilindriche di acciaio. A_ prima vista può parere rassomigliante ad una semplice sega circolare; ma la sua azione nulla tiene a comune con quella della sega. Si sa benissimo che un disco di ferro dolce preparato per ruotare con grandissima velocità potrà tagliare un grosso pezzo di acciaio, se l’acciaio sia portato in contatto coll’ orlo; ma del disco di Reese è detto: fonde, attraverso, una sbarra d’ acciaio senza toccarla. La macchina consiste di un disco di acciaio dolce, con %4, di pollice (millimetri 4,75) di spes- sore e 42 pollici (m. 1,066) in diametro e facendo 2300 giri per minuto, il che dà una velocità tangenziale alla periferia di 7700 metri per minuto. La sbarra da essere tagliata deve essere rotonda (cilindrica), ed è posta nella chioe- ciola in fronte del disco; è acconciata in modo da fare 200 giri al minuto nella stessa direzione del disco; vale a dire 1’ orlo del disco e la superficie della sbarra si muovono in opposte direzioni. Così accomodato, il disco essendo vicino ad un cilindro di acciaio di 1,%4 di pollice (circa 4 centimetri), di diametro, può fon- derlo, senza toccarlo, in due a dieci secondi. , » Portando questa straordinaria notizia davanti ai nostri lettori è conveniente che noi li persuadiamo della certezza sulla quale la nostra relazione è basata. » Apprenilemmo da una pubblicazione americana, /l manifatturiero americano, che il disco fondente di Reese era applicato in certi stabilimenti di Pittsbourg ; e vi sì parlava vagamente di questo disco come di un apparato per tagliare l’ac-. cialo a freddo con una corrente di aria. » Subito serivemmo al Sig. Reese di Diamont-Street di Pittsbourg; e noi ab- biamo ricevuto da lui una lettera, Ia quale acclude l informazione che noi po- niamo davanti ai nostri lettori. n Bisogna osservare che il disco ha soltanto %4, di pollice di spessore (milli- metri 4,75), mentre la scanalatura fusa nella sbarra è larga %, di pollice (circa 8 millimetri), lasciando }/, di pollice (millimetri 1,58) di giuoco da ogni parte,, ed {4 di pollice (oltre 3 millimetri) di spazio davanti all’ orlo del disco. — 367 — s Noi abbiamo (scrive il Sig. Reese) accomodato 1’ asse del disco sui centri, e ci siamo convinti che non aveva luogo nessun moto laterale, e che lo spazio di aria esisteva. Gli orli tagliati non mostrano alcun segno di essere stati toccati dal disco ; il resultato della fusione è metallo, e il metallo fuso può essere maneggiato colla mano nuda mentre scorre giù, senza avvertire la benchè minima sensazione di caldo. Le estremità della sbarra sulla quale si opera diventano calde; il disco 7- mane perfettamente freddo. Deve avvertirsi che i fenomeni che abbiamo descritti 5% avverano soltanto quando la sbarra da tagliarsi è preparata tornita, o cilindrica; se la sbarra non è tornita il disco taglia la sua strada attraverso ad essa come farebbe una sega circolare, a freddo; ma il risultato del taglio non è metallico; bensì os- sido di ferro. L'uso del disco fondente è perciò limitato a sbarre d’acciaio rotonde e di diametro limitato. È molto difficile spiegare i fenomeni in questione con qual- sivoglia ipotesi che si fondi sulle nostre attuali cognizioni della fisica molecolare. Che una sbarra di acciaio tornito e girante vicino all’ orlo di un disco rotante con una fortissima velocità debba fondersi senza che vi sia un contatto fra loro due è un fatto meraviglioso che può eccitare l’ acutezza di menti ingegnose per una soluzione nel tempo avvenire. , Il Reese cerca di spiegare la fusione attribuendola alla trasformazione in ca- lore dell’ energia meccanica accumulata dal disco nell'aria scorrente dal suo orlo. — Ecco le sue proprie parole: , Il disco è circondato da un’ atmosfera di aria ad una pressione di 15 libbre per ogni pollice quadrato. Quest’ aria per virtù del movimento del disco è sospinta nella direzione dei raggi e proiettata dalla peri- feria. La temperatura essendo la misura della velocità molecolare come il peso è la misura della materia, ne segue che la velocità aumentata, acquistata dall’ aria allontanandosi dal disco, indicherà un grande aumento di calorico. » Una parte di questo è tratto fuori dal disco il quale si mantiene così freddo, il rimanente è tratto fuori dall'atmosfera. L’ aumento del calore non è sensibile essendo latente, o nascosto per la condizione dilatata delle molecole. Quando l’aria è spinta via dalla periferia del disco, essa (o una porzione di essa) tende a seguire il disco come la nostra atmosfera segue la terra, la sbarra di metallo impedendo lo scorrere dell’aria attorno al disco. L’ urto condensa 1’ aria, ritarda la sua velo- cità, manifesta il calore nascosto e la fusione ha luogo. n» Al momento che la fusione ha luogo, la velocità molecolare del metallo è così improvvisamente aumentata ed è così grande, che non possiede un calorico sensibile a confronto dell’ atmosfera, essendo latente (occluded) ogni equilibrio (ba- lance). E non potendo alcun calorico latente manifestarsi eccetto che con una ri- duzione. della velocità molecolare, il metallo è perciò apparentemente freddo quan- tunque in uno stato di liquefazione. , — Conclude il Sig. Reese: , Più espe- rienze io faccio e viepiù fortemente resto impressionato da questo, che gli agenti fisici imponderabili sono i principali fattori di ogni fenomeno fisico e chimico che — 368 — noi osserviamo e che i fenomeni fisici dovrebbero essere più seriamente studiati. , (1) Il redattore del The Engineer cerca di schiarire siffatta spiegazione nel disco fondente. Egli dice: , Il Sig. Reese è un metallurgista di qualche levatura ma è difficile di ricavarne i concetti del passo che noi abbiamo citato. Crediamo che risulteranno più intelligibili ricordando che se immaginiamo proiettata dal disco una pioggia costante di particelle di materia solida contro una superficie, è chiaro che questa superficie dovrà crescere presto di temperatura; per la stessa ragione che un filo metallico diventa caldo quando è martellato; e ricordando pure che le molecole di un gas sono capaci di sostenere 1 ufficio di quelle particelle. Ma allorquando siamo giunti a questo, ci troviamo a faccia con un problema che il Sig. Reese non ha cercato di risolvere. » Perchè dovrebbe essere essenziale che la sbarra da tagliarsi debba essere ro- tonda e che essa debba girare nella stessa direzione del disco? Quì appare non esservi alcuna connessione fra il girare della sbarra e la sua fusione. — Noi per ora non tenteremo di offrire alcuna spiegazione della causa del fenomeno, perchè nol non possediamo ancora un sufficiente numero di fatti. » La spiegazione che a prima vista si presenta è che la fusione di una por- zione della sbarra è stabilita dapprima dal disco che vien in contatto con essa, e che l’ acciaio così fuso è abbruciato dall'aria corrente e che infatti la sbarra è bru- ciata attraverso. » Si sa bene che una piccola sbarra di ferro come un chiodo di ferro può, se riscaldata al rosso (chiaro brillante) essere portata al color bianco col soffiare sopra di essa con un doppio mantice da fabbro ferraio. Ma se la sbarra fosse bruciata attraverso, il risultato del taglio sarebbe ossido di ferro, mentre che essa è, come dice il Sig. Reese, ferro od acciaio metallico. Ma quando la sbarra da tagliarsi, non gira, allora il risultato è ossido di ferro. » Per il momento noi lasciamo il soggetto nelle mani dei nostri lettori, aggiun- gendo soltanto che non abbiamo nessun motivo per dubitare della verità delle in- formazioni del Sig. Reese. , In definitiva, il Reese suppone dovuta la fusione al trasformarsi della energia meccanica accumulata dal disco nell’ aria scorrente dal suo orlo. — Egli considera il disco circondato da un’ atmosfera aerea colla pressione di 15 libbre per pollice (1) Son persuasissimo anch'io, quanto 1’ A. dell’ articolo che « #roppo poco conosciamo con- cernente la fisica molecolare »; ma non esito nel far dipendere tale deplorabile condizione dal non aver peranco voluto i fisici concedere allo stato cristallino, alle polarità molecolari, orien- tatrici, ed al loro intervento nei progressivi cambiamenti di stato della materia inorganica, quella larghissima parte che ad esse compete, e che da diciotto anni tentai di mettere in luce. Quando nei gabinetti fisici, negli studi speciali e nei trattati si porteranno le energie orientatrici cristal- logeniche al livello della gravità, del calore, della luce, dell’elettricità e del magnetismo, si avranno formule più esatte delle leggi naturali e più facili interpretazioni di fatti finora inesplicabili. — 369 — quadrato; ed ammette che in virtù della rotazione del disco medesimo quell’ atmosfe- ra sia spinta nella direzione dei raggi e proiettata dalla periferia, ossia dall’ orlo. Io rifiuto la spiegazione così concepita. All azione arbitrariamente esagerata di un soffio d’aria sia pur potentissimo, proiettato da una lamina circolare girante, sostituisco una influenza molecolare fra le due masse metalliche, che dotate di struttura cristallina analoga, sono animate da rapido movimento, essendo fra loro vicinissime, e ruotando con diversa misura ed in senso inverso, nei loro punti di massimo avvicinamento. Io trovo molto giusta 1 obbiezione che il redattore dell articolo descrittivo adduce contro l’ ipotesi del Reese; vale a dire la inesplicabile necessità che la sbarra da tagliarsi e il disco fondente ruotino nel medesimo senso. Nulla di più spontaneo che il domandarsi: qual connessione avvi fra il girar verso destra o verso sinistra della sbarra e la sua fusione? Ma su di ciò giova riflettere che mentre nessuna connessione può intendersi fra quelli elementi del fatto allorchè si adotta l’ ipotesi che la proiezione dell’ aria valga a fondere a freddo una spranga di ferro, può la condizione del convergere delle loro masse periferiche ai punti di una massima vicinanza, e nella ipotesi di una influenza per induzione, concepirsi favorevolissima, o piuttosto indispensabile, ad un tale effetto. Tornerò sopra questo argomento. Osservo inoltre, che l’idea di una proiezione di aria, operata dal lembo del disco sulla sbarra, nella direzione dei raggi, e capace di fondere il metallo di questa è inammissibile per molti riguardi; se si vuol tener conto della velocità di que- st’ aria, bisogna prima spiegare perchè non si fondano i proiettili che in luogo di scivolar sull’ aria con velocità minore di otto chilometri per minuto la incontrano con velocità iniziale che può essere di oltre 40 chilometri per minuto, e che la resistenza dell’aria, più di ogni altra causa, tende a rallentare progressivamente. Gli antichi proiettili erano di piombo, o di leghe fusibilissime; e questi si ammrolliscono appena, e si riscaldano, mentre urtano in un bersaglio resistente. Potrebbe notarsi che le aeroliti giungono sulla terra recando sulla loro su- perficie la prova di sofferta fusione parziale; ma può altresì rispondersi in pro- posito che le masse meteoriche animate da velocità planetaria per traiettorie di immense, incalcolabili lunghezze, giungono nell’ atmosfera terrestre con tutti i loro atomi da lungo tempo assoggettati a quel moto rapidissimo, perciò colle loro masse predisposte intensamente agli effetti di improvvise e rapidamente crescenti resi- stenze; donde un fenomeno subitaneo, inevitabile di disequilibrio alle superficie, e di disfacimento delle molecole cristalline più esterne; quindi la conseguente loro liquefazione e vaporizzazione durante il tragitto nell'atmosfera, e la diminuzione notevole della loro iniziale velocità. Questa considerazione non esclude che la proiezione violenta di un gas sopra di un solido, o ciò che vale lo stesso, quella di un solido attraverso di un gas, TOMO II. 47 — 370 — non possano produrre un effetto fisico di molta intensità ; questo effetto si fa per altro sempre sensibile come aumento di temperatura. Ora nella macchina del disco fondente, mentre di poco riscaldasi la sbarra lateralmente all’ area di fusione, perchè ivi ha luogo veramente una qualche proiezione dei veli di aria che il disco deve trascinar seco, invece dove producesi l’ effetto massimo della apparente fu- sione, il metallo resta presso chè freddo. D'altra parte se facciasi girare velocemente un gran disco esponendo alle la- mine di aria che trae seco e proietta un piccolo mulinello di latta, o di carta si trova che esse valgono appena a farlo girare se la distanza superi 5 o 6 centi- metri; si riconosce inoltre che le molecole d’ aria a contatto della superficie del disco le quali tenderebbero per forza centrifuga a percorrere questa superficie se- condo una linea di spirale logaritmica, vengono effettivamente proiettate per la massima parte secondo direzioni divergenti ad angolo acuto dalla superficie stessa ; le quali direzioni sono le risultanti della forza centrifuga e della resistenza oppo- sta dell’ atmosfera ambiente. Ne segue che appunto nel prolungamento del piano del disco, dove l’ aria dovrebbe essere sospinta colla massima energia, essa tro- vasi rarefatta per una ragione inerente al modo di efflusso; e che perciò, la qua- lunque azione che a tale efflusso vogliasi attribuire diverrà sensibile soltanto la- teralmente al piano del disco. Inoltre nel caso pratico da me sperimentato, di un disco di 40 cent. di diametro, animato da una velocità costante di 600 giri per minuto, con una velocità dunque alla circonferenza di circa 753 metri per mi- auto mentre avevasi una discreta proiezione di aria, per essersene appositamente favorite le condizioni, questa proiezione ricevuta sopra un sensibilissimo termo- scopio ad aria, produceva nell’intervallo di circa due secondi la discesa dell'indice, accusando abbassamento di temperatura, mentre nel locale avevasi la temperatura di 10° cent.; ricevuta invece sopra un termometro centigrado a mercurio produsse abbassamento di due gradi e mezzo, nel tempo di 10 minuti, restando poi perma- nente la indicazione. I bulbi, sia del termoscopio che del termometro, distavano dal lembo del disco girante di circa uno o due millimetri. Deve esservi certamente una grande differenza di effetto quando al mio disco di 40 centimetri se ne sostituisce uno di metri 1,30; quando, in altri termini si sostituisca una velocità periferica di rotazione di 7,700 metri ad una di 753 nella unità di tempo; ma tal differenza resterà sempre bene al di sotto degli effetti che voglionsi derivare dalle due diverse velocità quando essi sieno, pel disco minore e meno rapido la semplice dilatazione dell’aria di un sensibile termoscopio; e per il disco maggiore e più veloce, nientemeno che la fusione progressiva di un cir- colo trasversale in un cilindro di acciaio. Ed invero, nell’ esperienza preparatoria che feci non chiedevo alla rotazione del mio disco la fusione di una massa metal- lica, fosse pure lega di Darcet ; ma soltanto un’ azione sensibile, di qualunque segno, sopra un termoscopio, devoluto alla proiezione dell’ aria, ed a minima distanza. Se inoltre vogliasi tener calcolo del calorico latente che il Reese suppone acqui- —- 371 — stato dalle molecole d’ aria per aumento di velocità nel loro proprio moto gio- verà di riflettere che la proiezione che si compie di quelle stesse molecole, rap- presentando appunto l’ effetto della velocità aumentata rende superflua ogni altra ricerca della trasformazione di forza viva in calore. Il lavoro interno, che chia- mavasi calorico latente, non ha ragione di sussistere. In ogni caso, se la velocità delle molecole non si risolvesse tutta in moto di traslazione, e si trasformasse per via di urti, parzialmente in calore, dovrebbe sussistere un aumento sensibile nella temperatura dell’aria proiettata; o dovrebbe riscaldarsi il metallo del disco; ma questo è contradetto dalla esperienza. Ovvero, dovrebbe prodursi — trattan- dosi di un massa gassosa libera — una correspettiva rarefazione. Dunque, le molecole di aria acquistando pel contatto del disco girante, sia pure colla pressione di 1,033 chilogrammi per centimetro quadrato, un dato grado di velocità questa risolvesi prevalentemente in moto di traslazione anzichè in calorico latente, ossia lavoro intermolecolare; dunque, soltanto l’urto di quelle particelle proiettate contro un ostacolo, e la trasformazione in calore del moto arrestato potrì generare un effetto termico proporzionato; potrà riscaldare una massa, vale a dire trasmettere alle molecole di questa il moto che esse perdono; non già compiere un lavoro interno di disgregamento della struttura cristallina, che nell’ acciaio esige un altissimo coefficiente nelle energie dalle quali viene normalmente prodotto. Chiudo queste considerazioni sulla ipotesi che 1’ aria proiettata dia luogo alla fusione dell’ acciaio, richiamando quella circostanza già notata, e molto significante, sebbene accessoria al modo di agire del disco fondente. Nella relazione fattane dal Reese vien detto, e l’ A. insiste molto in proposito, che se la sbarra da tagliarsi per via di fusione a freddo è prismatica anzi che esser cilindrica; se perciò l’orlo del disco l’urta mentre gira e la va intaccando per poi segarla con vero attrito, come farebbe una sega ordinaria, il prodotto disgregato che ne deriva è ossido di ferro, invece di essere acciaio inalterato. Anche questa circostanza, se il fenomeno di disgregamento o fusione derivasse dall’ urto dell’ aria proiettata, sarebbe inesplicabile perchè qualunque fosse la forma iniziale della sbarra da segarsi, non cesserebbe di sussistere il contatto di aria sem- pre rinnuovata colle molecole del ferro rese libere dalla liquidità acquistata, e dalla forza centrifuga che le disperde. Attribuendo invece quel disgregamento ad una energìa d’ induzione si trova una grandissima differenza fra il prodotto di questa induzione, e quello di un at- trito reale e violentissimo. — Il metallo si disgrega in ambedue i casi; peraltro, ora in istato di globuli sferoedrici, multipli o complessi, colle loro polarità neu- tralizzate nel rinnuovato e conseguito equilibrio, tratti nell’ aria proiettata senza notevole aumento di temperatura, per brevi istanti, e senza alcuna qualità piro- forica — e questo è il caso della loro produzione per influenza di correnti magne- tiche indotte; ovvero disgregasi in forma di polverìo staccato sul cilindro dal vio- lento attrito dell’ orlo del disco; quindi sommamente diviso, attenuato, piroforico, -— 372 — con sviluppo di alto calore, e in tale stato invaso da una corrente di aria; e questo secondo caso riferiscesi al taglio di una sbarra prismatica segata per via di attrito e contatto dal disco medesimo. Così, anche la notevole particolarità del prodursi in qualche caso dell’ ossidazione del ferro, che nell’ ordinaria funzione del disco non si produce, trova facile e plausibile esplicazione. In conclusione, l aria non può ritenersi come la diretta autrice del singolare fenomeno di disgregamento riferendoci alle sue qualità di fluido gassoso elastico nell'atto di locali condensazioni e proiezioni; essa è troppo fredda, troppo elastica, l'acciaio è troppo refrattario e conduttore del calorico; come fluido riscaldato lo- calmente, l aria è troppo dilatabile per non perdere, rarefacendosi, ogni attitudine termodinamica, e l'acciaio è troppo denso e tenace. Se l’aria veramente agisce nel- l apparato del Reese, credo che agisca in altro e semplicissimo modo, che sto per precisare nei seguenti periodi. La spiegazione che propongo per il disgregamento a freddo dell’ acciaio, ope- rato da un disco ruotante, a distanza, emerge dai dati seguenti : 1° Il metallo della sbarra cilindrica che si disgrega, possiede la struttura cristallina. La sua massa è fisicamente solida perchè le polarità dinamiche delle sue particelle generarono gli aggruppamenti molecolari inerenti al tipo poliedrico proprio della sua sostanza ; 2° Questo tipo PoLIEDRICO può essere trasformato in quello sreRoEDRICO, affine allo stato di liquidità, ogniqualvolta una influenza attiva sulle polarità molecolari trasformi il modo di equilibrio di queste, nei singoli aggruppamenti (v. Parte L.); 3° Lo stato poliedrico di struttura, e quello sferoedrico, essendo differenti af- fatto di tipo, ossia imcompatibili, il prodursi dell'uno presso dell’ altro deve con- durre al parziale o progressivo disgregamento della massa che vi è soggetta; 4° Le trasformazioni di tale ordine, rientrano nella serie delle isomerie e dei polimorfismi; si realizzarono bene spesso mercè lievissime azioni, sia di con- tatto, sia di distanza; ma fin quì limitate al calore, alla luce, alla elettricità, ed agendo sopra metalloidi, o sopra composti salini; 5° Fra le azioni a distanza, generatrici di fenomeni molecolari, e che tra- sformano, per induzione, colle orientazioni delle polarità lo stato dinamico delle molecole, tiene il più alto grado il magnetismo, purchè si tratti di corpi condut- tori, percorsi da correnti; o di masse ferree, nelle quali sussista, o sia realizzabile lo stato magneto-polare delle particelle componenti ; 6° Il rapido movimento, di una massa, cui sono partecipi tutte le molecole che la compongono, predispone queste ai rapidi disequilibri, di calore e di movi- mento, alle disgregazioni subitanee, ogniqualvolta una resistenza, o una influenza potente intervengano a trasformare quel movimento. Questo può concepirsi tanto per l’intiera massa, come nel caso di un proiettile che urta il bersaglio, quanto — 373 — nelle porzioni di questa che fossero più direttamente influenzate. Se la massa non si disgrega, si riscalda; ma se non si riscalda, sì disgrega; ovvero, cangia la propria intima struttura (1). In seguito a tali considerazioni io suppongo che il taglio operato a distanza, dal disco di acciaio o di ferro battuto sulla sbarra cilindrica d’ acciaio, avvenga perchè le particelle di quest’ ultima passano dallo stato di aggregazione poliedrica a quello di disgregazione sferoedrica sotto l influenza del movimento, e dello stato magnetico, delle due masse ferree ambedue ruotanti a minima distanza fra loro. Il passaggio sarebbe aiutato dalla forza centrifuga che proietta le particelle di- sgregate; e dalla condensazione dell’ aria nei punti di vicinanza massima. La rotazione del disco e del cilindro deve essere nel medesimo senso, sia per produrre la detta condensazione, sia, sopratutto perchè la induzione magnetica generi, nelle particelle della sbarra, direzioni istantaneamente mutabili di correnti, e interruzioni correspettive; le quali, producendo il disequilibrio delle preesistenti polarità conducono alla trasformazione progressiva della struttura. Ruotando nella stessa direzione i due piani circolari, del disco e della parte nella sbarra cilindrica che deve essere tagliata, in ogni momento o tempuscolo essi s' incontrano nelle loro regioni di massima vicinanza colle rispettive particelle fisiche animate da spostamenti di direzione contraria; ossia di segno diverso; quindi nella condizione più favorevole alle reciproche ed efficaci influenze delle loro po- larità. — Come nel caso della calamitazione delle spranghe di ferro, per frega- mento, dove richiedesi lo spostarsi del polo contricante da quello dello stesso segno a quello di segno contrario. Sarei stato dubbioso nel riferire l’ influenza capace di sostituire l'equilibrio sfe- roedrico al poliedrico nell’ acciaio della sbarra che vien tagliata senza contatto col disco, al Magnetismo, piuttosto chè al Calore o ad altra maniera di energia fisica, se il fenomeno della disgregazione non si producesse a freddo, se ambedue le masse in presenza non fossero di ferro; se fra le attrazioni cristallogeniche e il magnetismo polare non esistessero le grandi analogie e le molteplici correlazioni, che scoperte e studiate dal Faraday, dal Pliicker, dal Knoblauch, dal Moigno, dal Weber, dal Becquerel e da altri, si comprendono nella denominazione complessiva di AZIONI MAGNETO-CRISTALLICHE; e se, infine, non avessi direttamente accertata l’ in- duzione per parte del mio disco girante sopra un ago calamitato, con particolarità interessanti a conoscersi. — (V. descrizione a parte di esperienze in corso ecc.). È noto che il Faraday credette per qualche tempo distinta dalle altre forze naturali la forza magneto-cristallica, imperocchè parevagli che essa non generasse (1) S' intende che il riscaldamento può essere accompagnato da disgregamento parziale; e così questo, ovvero il cambiamento della intima struttura, può essere associato ad un aumento sen- sibile di temperatura. — 374 — attrazioni nè ripulsioni; ma orientazioni soltanto, nelle masse influenzate da un corpo magnetico. — Il rimanere latenti queste azioni a distanza risulta cosa natu- ralissima ogni qualvolta esse si definiscano così: — azioni parzialmente (?) mo- dificatrici, in un cristallo 0 in una massa cristallizzata, delle polarità cristallogeniche in polarità magnetiche temporarie, per via d’ induzione —. Mi si permetta di discutere brevemente l’ applicazione di questi dati, al caso di cui sì tratta. L’ acciaio è un composto strutturalmente cristallino. Dunque la massa ne è costituita dai gruppi molecolari inerenti al tipo geometrico dei suoi possibili cri- stalli. La struttura cristallina dell’ acciaio (come di ogni altra sostanza), deriva non già dall’ esclusivo avvicinamento ed uniforme, delle molecole liquide del me- tallo fuso; bensì da un lavoro molecolare direttamente subordinato alle polarità at- trattive cristallogeniche di quella sostanza metallica. — Il definitivo comporsi di quei gruppi, per via di questo lavoro, ossia dell'immediato effetto di tali polarità nel- l’ acciaio, come in ogni sostanza non organizzata e di definita composizione; è la SOLIDIFICAZIONE REALE. Ciò ammesso, che cosa dovrà farsi per render liquido 1 acciaio o un solido qualunque? Null altro che disfare è gruppi molecolari della conseguita solidità. — In altri termini, si dovrà trasformare la natura e gli effetti delle polarità che ri- dussero le molecole ad aggregarsi intorno a tanti punti d’ equilibrio quanti sono i nodi equidistanti di assettamento a tre dimensioni dei reticoli piani di struttura. Tale intento si consegue praticamente per l acciaio scaldandolo da 1300° a 1400° di calore; ma nessuna ragion fisica vieta di concepire altri processi; impe- rocchè son già molte le sostanze cristalline note, fusibili per due vie distinte; l’ag- giunta di una quantità data di calore, vale a dive la quantità di moto degli elementi che vanno facendosi liberi; e I intervento di un solvente alla temperatura ordinaria. (1) Nulla di più semplice che il bandir per sempre dalla scienza delle azioni mo- lecolari per i cangiamenti di stato fisico, ciò che di singolare simulano taluni fe- nomeni; e ciò che di paradossale implicano talune frasi, quelle ad es., della per- manente liquidità delle sostanze vitree, resinose, colloidali, ancorchè divenute durissime; della solidità fisica di certe masse superfuse, di certe soluzioni supersature, mentre restano ancora scorrevoli; la lquidità del vapore prossimo alla istantanea sua con- densazione, ancorchè colle apparenze di un gas, e via dicendo. — Basta di sosti- tuire alle volgari idee sui cambiamenti di stato fisico, alle comuni e purtroppo (1) A questo proposito mi giova di ricordare che nell’atto stesso in cui il bismuto, fuso dopo un progressivo raffreddamento si solidifica, ridiventa in parte liquefatto, per il disequilibrio ter- mico che in quell’atto si produce, in ragione del mutamento strutturale, e la piromorfite fusa, nel momento in cui, dopo di essersi gradatamente raffreddata cristallizza, diviene incandescente; questi due fatti bastando a darci idea del grado di intensità cui giunge il lavoro interno diretto nelle masse cristalline a far cangiare lo stato di aggregazione e orientazione delle singole parti celle componenti. — 375 — vecchie, scomplete definizioni, le idee, i vocaboli e le frasi che sgorgano limpida- mente da tutte le esperienze note di fisica molecolare, ogni qualvolta al criterio delle solidificazioni e della solidità che ne deriva, si associ quello di un assetta- mento poliedrico, cristallino. — Basta, in conclusione, chiamar solido, non tutto ciò che per esser duro oppone resistenze, che per aver forma sua propria, alla tem- peratura ordinaria non esige un recipiente; ma soltanto ciò che ad un dato grado di temperie, e sotto correspettive pressioni, conseguì una speciale struttura di massa; e che pel trasformarsi dell’ assettamento molecolare della sua liquidità preesistente, passò ad un diverso e più complesso assettamento; basta chiamar liquido un corpo che per quanto si sia irrigidito, indurato e fatto resistente, conserva nella propria massa la strutturale omogeneità che aveva quando era scorrevole per più elevata temperatura, e che in null’ altro diversifica dalla propria materia fusa se non nel- l'aumento di densità, e nel grado termometrico, d’ altronde variabilissimo, della temperatura cui scese. In quest’ ordine d’ idee, accertato lo stato magnetico del disco ruotante, rico- nosciuta probabilissima un’ azione induttrice fra le sue particelle e quelle del ci- lindro di acciaio che vi ruota a minima distanza, sorge spontaneo il concetto di correnti circolari, direttamente indotte nelle molecole superficiali dell’ armilla del cilindro le quali rapidamente si spostano davanti a quelle periferiche del disco. D’ altronde sussiste evidentemente il fatto di un conduttore che rapidamente si sposta in presenza di una massa ferrea magnetica, col quale si coordina il pro- dursi di correnti indotte. Nell assieme delle due masse ruotanti è certo che il campo d’ induzione ma- gnetica non è circoscritto dalla superficie del cilindro nè dall’ orlo del disco, trat- tandosi appunto d’ induzione, ossia di azioni @ distanza. In conseguenza della ro- tazione di ambedue le masse di acciaio, e nel medesimo senso, ciascuna molecola, sede di correnti indotte, istantanee, alla superficie dell’ armilla che va disgregan- dosi, è soggetta al rapidissimo invertirsi del senso di rotazione delle correnti istesse, le quali risultano, rispetto a quelle delle molecole periferiche del disco, dirette al- ternativamente nel medesimo senso, ed in senso contrario. Nell esperienza del disco di Arago, il disco ruotante di rame, trae seco, nello stesso senso di rotazione, secondo la legge di Lenz l'ago calamitato, sui poli opposti del quale agiscono le correnti d’ induzione generate dal movimento rotatorio. Prima delle scoperte del Faraday, era altrettanto impossibile spiegare questo fenomeno, quanto sarebbe impossibile d' interpretare quello della apparente fusione a freddo dell’ acciaio, operata a distanza, se non si ricorresse ad azioni a distanza capaci di produrre vibrazioni molecolari, e mutamenti di struttura. Forse sarà cosa difficilissima il calcolare gli elementi di questo fatto singolare, cui rendono complicatissimo i movimenti simultanei del disco e del cilindro; le differenze delle loro masse, delle loro forme, delle loro dimensioni e delle loro ve- locità; e così, l’applicarvi le leggi che 1egolano il generarsi, l interrompersi e il — 376 — variare di direzione, o di segno, delle correnti circolari indotte a seconda del suc- cedersi rapido di correnti induttrici convergenti o divergenti rispetto ai circuiti delle prime. A me sarebbe impossibile. Mi sembra peraltro che i soli fatti speri- «mentali che si coordinano ai fenomeni della induzione, segnatamente offerti dalle calamite in presenza del ferro dolce, quindi dagli apparati magneto-elettrici, ca- paci di effetti intensissimi fisici, chimici, fisiologici ecc., ed i fatti altresì delle azioni magneto-cristalliche valgano a persuadere che le molecole del cilindro d’ acciaio debbono, per l influenza di quelle del disco, assumere moti vibratori assai intensi; tanto più per la rotazione nel medesimo senso delle due masse, quale appunto si genera, per analoghe condizioni, nel disco di rame, dell’ esperienza di Arago. Quei moti vibratori che sopratutto saranno eccitati dall’ istantaneo invertirsi delle correnti d’ induzione nelle singole molecole, non possono a meno di generare una trasformazione, o nello stato termico, o nell’ assettamento molecolare; alla quale trasformazione si aggiungeranno gli effetti di analoghi passaggi nelle mole- cole ad essa contigue. Qualunque sia il grado di questo lavoro molecolare, intimo, e continuo finchè le rotazioni perdurano, esso si compie nell’ acciaio; dunque in una sostanza me- tallica, magnetica, cristallina; tale da poter cangiare intensamente la propria strut- tura anche per lievi, purchè prolungate, vibrazioni molecolari, trasmesse da attriti o da urti molto concitati. Alludo ai fatti notissimi di cristallizzazione, di sfaldatura ecc., nelle verghe d'acciaio, già fimamente granulare o fibroso, ed al divenire ma- gnetiche le barre, pure d’ acciaio, se martellate, confricate, fatte vibrare, o sem- plicemente mantenute nel piano del meridiano magnetico. Parmi dunque ragionevole il ravvisare nel cangiamento di struttura fisica il portato definitivo di quel lavoro. — Ricordo che la intensità degli effetti delle cor- renti indotte può superare considerevolmente le intensità realizzabili dalle inducenti; e conchiudo che il più comune e il più semplice fra i mutamenti strutturali di una massa cristallina consiste nel passaggio dall’ uno all altro dei due tipi morfo- logici dei complessi cristallizzati, il tipo PoLIEDRICO e il tipo sFEROEDRICO. Io sempre più mi persuado della importanza che ci offre la correlazione fra questi due tipi, fin ora affatto ignorata o trascurata; sempre più mi compiaccio di averla segnalata come un caso speciale e significantissimo di isomeria strutturale, come una modalità di polimorfismo. Una vera fusione per induzione magnetica sarebbe difficile a concepirsi; ma il cangiamento strutturale per invertimento dello stato delle polarità molecolari nell’ equilibrio cristallino di una massa fortemente dotata di magnetismo è cosa facilissima, non solo, ma logica ad ammettersi. La generalità della sferoedria ci addita il modo col quale quel mutamento può realizzarsi. Annulla perciò la difficoltà di un’ apposita supposizione, priva di base; — 3701 — e ci presenta, pur anco, il risultato del mutamento avvenuto quale può meglio ri- chiedersi vicino alla modalità scorrevole del corpi liquidi, senza la necessità di una contemporanea manifestazione della temperatura altissima di fusione. La grande diversità di tipo che sussiste fra la struttura sferoedrica e la polie- drica basta a far comprendere la disgregazione delle masse che assumono in parte la prima mentre vi perdura in parte la seconda; come se fra luna e l'altra in- tervenissero quelle ripulsioni che sussistono fra i liquidi e le superficie che non vi si bagnano, in ordine ai fenomeni della capillarità. Spero, adunque, di essermi almeno avvicinato alla spiegazione giusta del singo- larissimo fenomeno che, per molti riguardi, possiamo credere regolarmente prodotto nelle macchine del Reese, dette — A DISCO FONDENTE —. Avvertenza — Circa un mese e mezzo dopo la lettura di questa Memoria, pervennero le ulte- riori seguenti notizie : Il Sig. Reese scrive al Direttore dell’ Engineer, in data 12 Novembre 1880: « Signore: par- lando del disco fondente dite che le rivoluzioni sono 230 con una velocità angolare di 2500 piedi; invece dovrebbesi lesgere che il disco compie 2300 rivoluzioni il che dà una velocità periferica di 25000 piedi al minuto........ La rotazione della sbarra assicura un punto costante di vicinanza del metallo al disco; e colla fusione di questo punto il metallo fuso può sfuggire. » Nel giornale La Nature del 12 febbraio 1881, un’altra lettera dello stesso Reese, aggiunge queste particolarità : allorquando il metallo fuso sfugge sotto forma di scintille d’una bian- chezza splendente, si può porre la mano in mezzo a questa corrente di metallo fuso senza scot- tarsi; una carta non vi si abbrucia. — Oltre alle piccole goccie di metallo fuso che cadono a terra, un certo numero di esse è proiettato in tutte le direzioni; le scintille che percorrono più di 5 piedi di tratto si scaldano rapidamente e scottano come ferro rovente. Dice il Reese di essere stato condotto alla invenzione del suo Disco, dalle parole del Faraday « la temperatura è la misura della velocità molecolare come il peso è la misura della materia ». Pare evidente che invece di tradurre « scintille » dovevasi tradurre globetti, o scagliette, 0 «sprazzi o particelle brillanti; imperocchè il vocabolo scintilla quì piglia il significato di particella fatta incandescente e portata al color bianco; ciò che implica altissima temperatura e ossidazione rapida, quasi completa. Frattanto, la « bianchezza splendente », non si può attribuire al color bianco delle vere scintille, senza dar luogo ad una contradizione inammissibile, trattandosi di cor- puscoli metallici poco caldi e 720 ossidati; deve piuttosto riferirsi allo stato non ossidato, e perciò lucente e di colore argentino, che l'acciaio e la ghisa, in masse cristalline, sogliono presentare. TOMO II. 48 Nel fascicolo del 5 Settembre decorso, (Tomo LIII) del periodico scientifico Les Mondes, alla cronaca di Fisica, avvi una nota sulle condizioni necessarie all’'esi- stenza della materia allo stato liquido, e sull'esistenza del ghiaccio ad alte temperature, tratta da un lavoro del Sig. Thomas Carnelley, professore nel Firth-College di Sheffield. — Eccone il sunto : » Numerose esperienze, operate in questi ultimi tempi, sul punto d’ebullizione delle sostanze a bassa pressione, hanno condotto alle due conclusioni seguenti sopra le condizioni necessarie all’ esistenza di una sostanza allo stato liquido : 1° Per la trasformazione di un gas in liquido, la temperatura deve essere inferiore ad un certo valore (la temperatura critica della sostanza, come la chiama Andrews); altrimenti, qualunque sia la pressione, il gas non può essere liquefatto. 2° Per la trasformazione di un solido in liquido, la pressione deve essere superiore ad un certo valore, che proponesi di chiamare la pressione critica della sostanza; altrimenti qualunque sia la temperatura il solido non può essere fuso. » Se ammettiamo esatta quest’ ultima legge, ne risulta che qualora la tempe- ratura necessaria sia raggiunta, il liquefarsi della sostanza non dipenderà che dalla pressione ambiente; se dunque, con qualche artifizio, si perviene a mantenere al disotto della pressione critica la pressione della sostanza, il calore accrescendosi non fonderà mai il corpo, ma lo farà passare direttamente dallo stato solido allo stato aeriforme; si avrà sublimazione senza fusione intermediaria. » Di tali conclusioni, fu riconosciuta l'esattezza ottenendo del ghiaccio allo stato solido a temperature alquanto superiori al punto ordinario di fusione; anzi, in qualche caso, a temperatura abbastanza elevata perchè non si potesse toccare colle dita senza scottarsi. — Questo completo successo fu realizzato più volte e con grande facilità ; e ripetutamente portato il ghiaccio assai al disopra del punto or- dinario di ebullizione si vide che non faceva che sublimarsi, trasformandosi in vapore. — Si ottennero questi risultati mantenendo la pressione barometrica am- biente al disotto di 4"",6, vale a dire la tensione del vapore d’acqua al punto di congelamento dell’acqua stessa. Altre sostanze presentano questi stessi fenomeni; la più curiosa è il cloruro di mercurio pel quale basta abbassare la pressione a 42 centimetri. Se sì ristabilisce la pressione, la sostanza sì liquefà subito. , — 379 — Queste esperienze sul ghiaccio esigono alcuni dettagli di manipolazione che l'au- tore promette di descrivere, e che difatti si trovano, con apposite figure, nel fasci- colo 589, del 10 Febbraio 1881 del periodico inglese , Nature ,. Io non insisterò per dimostrare che se i fenomeni della evaporazione e della sublimazione vengano considerati dal mio punto di vista, le frasi , è calore non fonderà il corpo, ma lo farà passare direttamente dallo stato solido all’ aeriforme; — si avrà sublimazione senza fusione intermedia , risultano assolutamente inesatte e con- tradditorie; esse sono purtroppo inerenti al linguaggio dettato dalle vecchie e tra- dizionali idee. Noterò solamente che qualora si consideri il vapore di un corpo siccome la rarefazione pura e semplice del suo stato di liquidità; e la sublimazione come il ripristinamento degli assettamenti cristallini per parte delle particelle di liquidità inerenti alla costituzione reale del vapore della sostanza cristallizzabile che si volatilizza, non vi è più ragione alcuna di ammettere quei salti dallo stato solido al gassoso, dal gassoso al solido e cristallino, che sono adottati dietro mere ap- parenze e superficiali giudizi, che nessun dato positivo di fisica sperimentale dimo- stra, e che ripugnano ad ogni logico concetto sulla vera ragione dei diversi stati della materia. Osserverò piuttosto che la solidità permanente dell’ acqua a temperature supe- riori a quella di 0°, è un fatto continuamente realizzato, sebbene accertato dalla scienza in un’ epoca relativamente vicina, in tutti gli innumerevoli composti idra- tati, come sali di diversi radicali, e di tipo diverso, sopratutto nei silicati minerali. L'acqua di cristallizzazione vi è allo stato di solidità fisico-molecolare. Ora, quei sali, quei silicati, possono scaldarsi talvolta fino oltre 100°, senza che st disidratino; vale a dire, senza che le particelle cristalline dell’ acqua, che ivi è solida perchè cristallizzata, e corrisponde fisicamente al ghiaccio, si scindano per fu- sione nelle particelle di liquidità, donde gli elementi cristallini, primordiali si com- pongono. — Dunque le attrazioni molecolari e le polarità cristallogeniche, che presiedono all’ assettamento ad all’ equilibrio delle particelle nei cristalli idratati, vincono sull’ effetto dell’ aumento di calore, che senza di esse scinderebbe gli ag- gruppamenti cristallini, e liquefarebbe l’ acqua solida, coordinata alla cristallizza- zione del corpo che si riscalda; ciò che del resto avviene se la temperatura si in- nalzi maggiormente, o se si scelgano per tali prove di dissociazioni, sali idratati meno stabili. Inoltre coordinerò alle idee già svolte sullo stato fisico di solidità il significato esatto della parola amraccio. Questo vocabolo volgarmente si usa per indicare lo stato solido dell’ acqua, prodotto dall’ abbassarsi a 0°, o sotto 0°, della temperatura. — Ed è generale la persuasione che il freddo producendo il ghiaccio, questo non possa formarsi se quello non interviene. — 380 — Realmente, il ghiaccio, meglio che dirsi acqua raffreddata a 0°, o sotto 0°, è acqua cristallizzata. E siccome una sostanza può cristallizzare per diverse cause, o azioni orientatrici delle sue particelle, così deve ravvisarsi nel raffreddamento una di tali cause; non già l unica ed esclusiva. L'influenza, infatti, delle attività cristallogeniche nelle particelle di sale che cristallizzando s’ idratano è appunto un’ altra di tali cause; è un modo speciale del solidificarsi dell acqua insieme alle stesse particelle saline, a temperature per lo più superiori alla temperatura ordinaria. Le proprietà ottiche di birifrazione che ci presenta l’acqua raffreddata da 4° a 0°, insegnano che lo stato suo cristallino comincia a 4° sopra zero. La facile superfusione, che tiene scorrevole l’ acqua ben sotto 0°, facendola parere ancor fisi- camente liquida, pronta a solidificarsi ad un tratto se un corpuscolo di gelo vi cada, dimostra sempre più che il congelamento è uno stato speciale di assettamento molecolare; che è il massimo portato delle polarità orientatrici delle sue particelle; che l abbassamento di temperatura favorisce tali condizioni; ma ci fa ravvisare, nel tempo stesso, la piena possibilità che altre azioni fisiche valgano a far preva- lere le polarità cristallogeniche, a eccitare le orientazioni efficaci dell’ assettamento molecolare. — In definitiva, tutto riducesi a trasformare in moto dominante di vibra- zione cristallogenica, lo stato dinamico delle particelle di una massa liquida che ne sia capace. È notissimo che un volume di acqua liquida ermeticamente chiuso in una cavità che esso riempie del tutto, non può congelarvisi, ancorchè raffred- dato ben sotto 0°. — Questo avviene perchè la pressione impedisce la dilatazione indispensabile pel congelamento, ossia per la cristallizzazione. Ebbene; l’esperienza del Carnelley ci offre lo stesso fatto, mutati i segni; l’acqua liquida, stretta in uno spazio troppo angusto, non si gela sotto 0°; l’acqua solida, in un mezzo troppo rarefatto, non sì liquefà in massa, sopra 0°. Ovvero; nella superfusione l’acqua si mantiene scorrevole a molti gradi sotto 0°. Nell esperienza suddetta, di — supercongelamento —, si. mantiene rigida a molti gradi sopra 0°. — I fenomeni si corrispondono. D'altra parte, nella relazione dell’ esperienza del Carnelley si dice che parte del ghiaccio, a temperature superiori a 100°, sî cangia in vapore. — Dunque si li quefà sulle superficie direttamente riscaldate. Inoltre sì rarefà rapidamente; dunque sottrae del calore anche alla massa donde le sue particelle si dipartono; ed ecco che il pezzo di ghiaccio non si liquefà; conserva la propria rigidezza; entra in uno stato molto analogo allo stato sferoidale. In questo, astrazion fatta dalla forma globulare che è una conseguenza meccanica della mobilità e della coesione in ogni massa liquida, e che perciò non ha importanza nella teoria del fenomeno, si ha un liquido che in un mezzo caldissimo si evapora rapidamente ma soltanto alla sua superficie, mentre ne diviene viepiù fredda la massa; nell’ esperienza del Car- nelley si ha un solido, che in uno spazio assai caldo si evapora rapidamente, ma soltanto alle superficie, restandone solida la massa. — 381 — Se nell’ esperienza del Boutigny l evaporazione rapida è ottenuta mercè un forte calore circumambiente alla goccia liquida; la quale poi, dalla forza elastica del vapore generatosi è sollevata e tenuta sospesa, nell’ esperienza del Carnelley si aggiunge, invece, al riscaldamento la rarefazione dello spazio dove sta il solido. Nel primo caso la liquidità sussiste già nella massa attiva; nel secondo caso, si produce gradatamente; ma appena prodottasi nelle singole molecole, queste si slan- ciano nello spazio quasi vuoto che le attornia; ciò che è inevitabile in quelle con- dizioni di temperatura e di pressione. È perciò molto probabile allorquando il ghiaccio caldo del Sig. Carnelley si trae dall’ ambiente rarefatto dove lo si è scaldato, dove soltanto poteva restarne solida in gran parte la massa, che questa repentinamente si liquefaccia, con una forma in certo senso esplosiva, ossia paragonabile all’istantaneo ridursi in vapore delle sfere liquide sopra-riscaldate appena tolte all’ atmosfera di vapore che avvi- luppandole le sottraeva al contatto colle pareti calde del recipiente. Concludendo, se il riscaldamento del ghiaccio ne operasse la fusione per sem- plice dilatazione della massa, l esperienza del Carnelley non sarebbe concepibile. — Diminuendo la pressione del mezzo che avvolge la massa di ghiaccio, si agevole- rebbe quell’ effetto. Invece, ravvisando nell’ azione del calore la trasformazione in moto termico di dilatazione dello stato d’equilibrio indotto dalle polarità cristal- logeniche inerenti al ghiaccio, se il Carnelley trova che si richiede eziandio un certo grado critico di pressione, in ciò non apparisce veruna anomalia; la cosa è perfettamente naturale, ed altrettanto lo è lo scaldamento dell’acqua gelata, quando sia fatta minima la pressione circumambiente. Nulla dunque di più naturale del concepire stabilita un’ azione d’ influenza molecolare fra le due masse ruotanti, l una in presenza dell’ altra. —— Questa in- fiuenza, se per le precedenti considerazioni, può concepirsi bastevole, in teoria, a produrre una vera ed assoluta fusione, difficilmente può ammettersi effettuabile in una macchina; ma nella spiegazione da me proposta del fenomeno in questione, la detta influenza, anzichè distruggere il regolare assettamento delle particelle di solidità, come nelle fusioni ignee, nelle vetrificazioni, o nelle dissoluzioni dei corpi cristallini solubili, si limita @ mutare quell’ assettamento; a trasformare lo stato po- liedrico delle particelle della sbarra, in uno stato sferoedrico. — Non sottrae dalla massa solida gli elementi della sua reale solidità; bensì gli conduce a quella sem- plice e tanto caratteristica modalità di polimorfismo che è la sferoedria molecolare, la quale collega colla globularità dei suoi individui morfologici, e colla disposi- zione raggiata cristallina delle loro masse, ciò che è veramente liquido con ciò che deve dirsi effettivamente solidificato. Rispetto ad una qualunque delle tante sostanze note, cristallizzabili, ed ezian- dio suscettibili di sferoedria, la modalità sferoedrica e quella dei regolari e uni- — 382 — tari cristalli posson dirsi due stati isomeri o polimorfi della sostanza che si con- sidera. — Ora tutti sappiamo che certi composti cristallini dotati di isomeria passano dall’ uno all’ altro stato per lievi azioni meccaniche, per miti variazioni di tem- perie, per attriti tenuissimi, per la semplice azione della luce. — Un cristallo lim- pido di solfo monoclino può divenire opaco e cadere in polvere pel solo avvici- narsi ad esso del tepore di una mano. — Ebbene; questa polvere, sta a quel cristal- lo come i globuli vitrei del vetro temperato che sl disfa, stanno alla massa dura che li produsse, o per meglio dire al tipo poliedrico che la tempra indusse nelle sue particelle di silicati a tipo pirossenico; vi sta infine come i globetti del così detto acciaio fuso del Reese stanno alla massa cristallina della sbarra che si disgrega. I mutamenti, cotanto facili in generale, di isomeria, o di polimorfismo, sono fatti pienamente paragonabili a questo disfacimento di massa metallica senza con- siderevole squilibrio termico, ma per effetto di vibrazioni molecolari, che di diverso ritmo nelle due masse in presenza, modificano 1’ equilibrio strutturale, e ne invertono il tipo per l invertirsi delle polarità nei singoli elementi vibranti. Inoltre, se, accogliendo la legge del Carnelley, e il risultato delle di Lui esperien- ze, ammettiamo necessario un grado di pressione perchè le liquefazioni avvengano, riconosceremo utile altresì un grado di pressione per mutamenti strutturali dello stesso ordine; implicitamente per il sostituirsi dello stato sferoedrico al poledrico; ma quando il disco di Reese agisce, la pressione non manca; la troviamo pro- dotta dall’imcontro e dall’urto delle lamine d’aria che dal disco e dal cilindro sono simultaneamente tratte ad incontrarsi. L’ urto avviene appunto perchè cilindro e disco girano nel medesimo senso ; ciò che spiega la correlazione fra la direzione voluta nei movimenti di quella macchina, e gli effetti che ne derivano. Sotto tale aspetto, ma unico, io vedo giusto di attribuire all’ aria che inter- viene nel campo del fenomeno una cospicua partecipazione al fenomeno stesso. Non come gas proiettato freddo, che fonde l acciaio a freddo; non come magaz- zino di un calorico latente che si vorrebbe far funzionare in guise inopinate, ine- splicabili in seguito alla avvenuta proiezione e traslazione delle sue molecole ; bensì come mezzo di trasmissione di moti vibratorii, al cui ritmo, alla cui inten- sità essa diviene fino ad un certo grado partecipe. Ritengo inoltre che il momento più interessante del fenomeno sia quello in cui esso deve incominciare. Nelle ordinarie fusioni avviene talvolta di trovar refrattaria una sostanza già pervenuta al grado termometrico della sua fusione, come se fosse passata ad uno stato di sopra-solidità. Basta il contatto con una massa già fusa per determinare la liquefazione voluta; donde 1° uso dei fondenti nelle officine metallurgiche e in- dustriali. In certo modo all’ effetto della temperatura elevata aggiungesi Il azione di un solvente, le cui particelle già entrate nello stato che debbon conseguire le e SI sa | — 383 — altre e contigue decidono le nuove orientazioni delle polarità di queste, mercè l’ influenza delle proprie polarità. Altrettanto può supporsi che avvenga nell’ apparato del Reese, per la trasfor- mazione d’equilibrio che vi disgrega progressivamente l’acciaio. Proseguirò adesso a svolgere l argomento degli stati fisici della materia pon- derabile, che si connettono ai fenomeni molecolari della cristallizzazione, riferen- domi ancora agli studi teorici e sperimentali che alcuni scienziati vanno tuttodì esercitando e facendo conoscere con nuove ed interessanti pubblicazioni. Stati speciali della reale solidità in un dato corpo cristallino Allotropia — Isomeria Rappresentano le differenze fra i modi di assettamento e fra le energie di moto vibratorio atomico, delle molecole chimiche, condensate in masse sensibili, o gas- sose, o liquide o solide. — Tali differenze possono essere di diversa indole, e in- durre separatamente, o complessivamente le allotropie e isomerie. Possono riferirsi difatti alla quantità numerica delle individualità molecolari, concorrenti in ciascun singolo adunamento; ovvero al differente modo di dispo- sizione, di una quantità data e costante di molecole ; ovvero al diverso grado d’ intensità vibratoria molecolare, come lavoro interno, ecc. Polimorfismo Se le molecole sono costituite da atomi eguali si ha Vl AMotropia; se da com- binazioni di atomi diversi, l Isomeria. Se i diversi modi di aggruppamento, possibili per un dato sistema di molecole, sempre di costante natura chimica, si manifestano con cambiamento di tipo geo- metrico si ha il polimorfismo. Noi non possiamo che trasformare ; non creare, non distruggere, nè materia, nè forza. — Perciò possiamo ottenere le allotropie dei corpi semplici, (ossia delle condensazioni di quantità razionali di sostanza vibrante eterea, in atomi, ciascuno dei quali ha le sue proprietà termodinamiche caratteristiche), perchè tali allotropie non sono che trasformazioni di moto calorifico in moto attrattivo o di intima strut- tura; quindi, trasformazioni di cui l’ etere non solo è suscettibile, ma che sono la suprema ragione dei fenomeni universali. — Ma non possiamo scindere quegli atomi in quanto chè, per farlo, dovremmo impiegare una forza fuori dell’ etere, — 384 — che li generò in principio, al cessare dello stato caotico : forza di cui non solo non disponiamo, ma della quale non possiamo farci nemmeno 1’ idea. Subordinato come esso è nelle sostanze cristalline, al pari che negli esseri or- ganici suscettibili di metamorfosi (stati di larva, di crisalide, di individuo perfet- to, a modo di esempio), allo stato termico; e caratterizzato quindi, oltre che dal- le differenze di forma geometrica, da quelle ancora di calorico specifico, o di co- stituzione, il polimorfismo consiste certamente in un differente modo di assetta- mento molecolare, delle molecole chimiche, cioè nei rispettivi aggruppamenti po- liedrici. Ora, appunto per tale condizione, risiede nel polimorfismo dei composti defi- niti, inorganici, uno dei più mirabili, dei più importanti fatti della fisica genera- le; talmente che oserei di predire che mercè di esso, e per esso soltanto, si otter- ranno alfine le più giuste e semplici interpretazioni dei fenomeni ancora misterio- si tanto dei corpi cristallizzati, quanto di quelli che innumerevoli si riscontrano nella compage dei tessuti organici, e che spettano alle loro funzioni, alle loro tra- sformazioni. Uno dei più eminenti chimici viventi, il Berthelot, cui la termochimica deve una sì vasta, splendida, e preziosa collezione di fatti, di dati numerici, di risulta- ti sperimentali, formulò recentemente alquante conclusioni, desunte da nuove ri- cerche sulla formazione termica dei composti isomeri (1). È prezzo dell’ opera il trascriverle. L’ illustre Autore esordisce con queste parole nel suo egregio lavoro: , È una quistione di alta importanza quella dei cambiamenti molecolari che si compiono nella trasformazione reciproca dei corpi isomeri. Il segno e la gran- dezza del lavoro eseguito in tale trasformazione, sono misurati mercè le quantità di calore sviluppate od assorbite, al momento del suo effettuarsi ,. Il Berthelot stabilisce sperimentalmente questa legge , Allorquando un com- posto di secondo ordine, suscettibile cioè di scindersi in due generatori più sem- plici, si cambia in un composto writario isomero, avvi svolgimento di calore ,. Infatti il nuovo assettamento molecolare divenendo più stabile, ne consegue ridot- to il lavoro meccanico interno, e colla trasformazione in calore, della quota di questo che sl rese eccedente. Implicitamente si avverte, in questa legge, che uno stesso sistema meccanico di atomi, — donde un dato composto chimico definito —, può sussistere sia come dualità di sistemi parziali di atomi, generatori; sia, come sistema unico. (1) Bullet. de Chimie T. XXVIII. N. 12. 1877. — 385 — Ora, questo coincide con uno dei casi più frequenti dell’ associazione moleco- lare, o poligenica, cui si possono perfettamente riferire le seguenti conclusioni, pure del Berthelot circa l’ isomeria dei quattro acidi tartrici, pEXTROGIRO; LEVOGIRO; INATTIVO per compensazione; InaTTIVO in modo assoluto. 1.° L’ unione cristallina dei due primi stati dell’ acido tartrico (C* HS 0"), donde l A. paratartrico (C° H°0!)?, inattivo per compensazione, svolge 4,41 calorie; ossia, 2,205 per ciascuna molecola. Se ne deduce che i due acidi sono entrati, molecola a molecola, in un reci- proco equilibrio, oloedrico 0 isotropico, strutturalmente, nel quale vengono compen- sate e neutralizzate le attitudini emiedriche proprie di ciascuno dei due acidi, e rispettivamente inverse. Il calore svolto e misurato, rappresenta la trasformazione del lavoro interno, che venne reso eccedente pel nuovo equilibrio, più stabile, di assettamento. 2.° La mescolanza dei due acidi allo stato di dissoluzione, non produce che uno svolgimento affatto insignificante di calore, purchè l acido paratartrico riman- ga disciolto. Ciò che dimostra che l azione generatrice dell’ acido paratartrico, s? dispone, ma non si compie fra le molecole libere, in istato liquido o di dissoluzio- ne, essa può compiersi soltanto fra le particelle di solidità cristallogenica ; e que- ste vanno producendosi, in modo dissimulato dalle apparenze di liquidità perdure- vole, quando le soluzioni divengono sopra-sature. Vale a dire, quando, mercè le realizzatesi orientazioni cristallogeniche, sono già costituiti quei sistemi poliedrici, cui non resta per essere cristalli propriamente detti, solidi, misurabili, e ponde- rabili, che una più diretta e immediata adesione delle loro già predisposte parti- celle poliedriche. Il miscuglio delle due soluzioni degli acidi tartrici otticamente inversi, equi- vale, per identità fisica e chimica, alla dissoluzione dell’ A. paratartrico. 3.° Il calore trasformato in lavoro interno molecolare quando si disciolgano nell’ acqua i detti acidi tartrici, è eguale pei due, dextrogiro e levogiro; differen- te per l’ acido racemico, e per l A. assolutamente inattivo. Questa conclusione è molto interessante in questo genere di ricerche, ed è di- mostrata dalle seguenti cifre: A. tartrico dextrogiro . . . assorbe 3, 275 ALATI ICOMIEVOCILOMEO RR O; O) e A. tartrico assolut. inattivo —,, 5,240 AVER GLICOMIrACEMICONTO N O ZO le quali chiaramente confermano: che lo stato fisico dextrogiro e levogiro, dello stesso acido tartrico C,î H,° 0,!° — consiste semplicemente in un’ inversione del moto rotatorio delle stesse molecole, concorrenti colla stessa quantità, e nella stes- TOMO II. 49 — 386 — sa maniera di assettamento geometrico, a comporre li stessi solidi geometrici, la cui emiedria di faccie, è il naturale portato dell’ emiedria dinamica-strutturale. Invece, che lo stato fisico degli altri due acidi, racemico, e inattivo assoluto, dipende da una diversa maniera di assettamento molecolare, con diversa stabilità nel rispettivo equilibrio; equilibrio di due inverse condizioni nell’ A. racemico; di un unica condizione strutturale, nell’ altro. Finalmente, per ciò che riguarda la differenza strutturale dei corpi isomeri, dotati della stessa funzione chimica, che l’ Autore sperimentò traendone esempi dai gruppi degli Alcoli, delle Aldeidi, degli acidi grassi e dei loro sali, dei cloruri e bromuri acidi, e degli acidi sulfo-coniugati, si può a priori concepire il risultato importantissimo formulato dal Berthelot, che cioè: La formazione di questi corpî isomeri, per mezzo dei loro elementi, svolge quantità di calore pressochè identiche. — La loro reciproca metamorfosi svolge quantità minime di calore. — Le stesse correlazioni sussistono nella formazione dei loro derivati isomerici. IL SEGUITO NELLA II ED ULTIMA PARTE DELLA PRESENTE MEMORIA ENTE armtèt_m INÎ Î DI UNA NUOVA SPECIE DI TENIA DEL GALLO DOMESTICO CLENTA BOTRIOPLITI) E DI UN NUOVO CISTICERCO DELLE LUMACHELLE TERRESTRI (CYSTICERCUS BOTRIOPLITIS NOTA DEL PROFESSORE fran freTrO PIANA (Presentata il #5 Gennaio 188! e letta nella Sessione Ord. 17 Marzo successivo) Per la maggior parte dei vermi tenioidi, come per molte altre sorta di elminti, si ignora completamente la fase larvale o di verme cistico. Egli è solo di poche specie di tenie dei carnivori e degli omnivori che sì conosce l'intero ciclo delle fasi del loro sviluppo, mentre per tutte le tenie degli erbivori e degli uccelli domina ancora la più grande oscurità. Pure per spiegare la presenza di queste tenie nel canale intestinale di animali, che non cibandosi di carni non dovrebbero essere esposti ad ingerire vermi cistici o larve di tenia, sì ricorre ad ipotesi più o meno probabili. Così per le tenie degli erbivori sì ammette dal Cobbold, che alcuni parassiti della pelle degli erbivori stessi possano ingoiare ova di tenia tro- vantisi nelle feci che accidentalmente imbrattano il corpo di questi animali; e che gli stessi parassiti offrano le condizioni per lo sviluppo di queste ova in cisticerchi. Gli erbivori leccandosi il corpo, introdurebbero nel tubo digerente in un con questi parassiti 1 germi delle tenie. Questa ipotesi viene confortata da quanto è stato osservato per la tenia cucumerina del cane, le cui uova danno sviluppo ad un piccolissimo cisticerco nel pidocchio del cane stesso (Trichodectes canis Gerr.) Inoltre 1’ essersi trovati in alcuni scarafaggi (Tenebrio molitor Fabr. e Geostruper stercoralis Fabr.) consimili cisticerchi fa pure sospettare che gli insetti, venendo accidentalmente ingoiati col foraggio possano portare le larve dei vermi tenioidi nell’ intestino degli erbivori. — Il Leuckart (Die Menschlichen Parasiten, Leipzig und Heidelberg 1863) ammette ancora che alcune specie di tenia degli uccelli possano provenire da cisticerchi che si trovano nei molluschi. Secondo lui il cisti- cerco che si ritrova nel pulmone dei lumaconi (Arion empiricorum Fér.) darebbe origine ad una tenia in qualche uccello acquatico. E siccome tanto i cisticerchi — 358 — degli insetti, quanto questo dell’ Arion differiscono dagli altri cisticerchi special- mente per non presentare un corpo vescicolare rigonfio da raccolta acquosa, egli ha fatto una categoria speciale di vermi cistici che denomina Cisticercoidi. — Il Mégnin, in questi ultimi anni ha esposta e propugnata una nuova teoria (Nouvelles observations sur le développement et les métamorphoses des Ténias des Mammi- feres — Journal d’ Anatomie et Physiologie de Ch. Robin. Paris 1879). Secondo il Mégnin una tenia inerme di un erbivoro proviene da un verme cistico che si è sviluppato nell’ animale stesso. Quindi gli stessi vermi cistici, che trasportati nel tubo intestinale di un carnivoro producono le tenie armate, emigrando nell’ interno del canale intestinale dell'animale stesso in cui si sono da prima sviluppati, pro- ducono tenie inermi. Perciò, secondo il Mégnin, dalle teste di cisti di Echinocoeco del cavallo deriverebbe la tenia perfogliata del cavallo stesso e la tenia Echinococco del cane; e dal cisticerco pisiforme del coniglio, la tenia’ pettinata del coniglio stesso e la tenia serrata del cane. Questa teoria se per un lato riesce molto sedu- cente, potendo in parte spiegare il numero molto maggiore di specie di tenie di quello dei vermi cistici conosciuti (1), per altro lato si fonda sopra fatti insufficienti, per essere accettata come dimostrata. Per quanto ho ora esposto parmi debba riuscire di qualche interesse una specie di tenia da me trovata nelle galline e un cisticerco di piccole lumachelle terrestri ; poichè quest’ ultimo, per particolari e spiccatissimi caratteri della testa, sembrami possa ragionevolmente ritenersi come la larva della suddetta specie di tenia. 1’ intestino delle galline, che è abitato da questa specie di tenia, ordinariamente presenta alla sua superficie esterna tante piccole rilevatezze simili a tubercoli del diametro di mezzo millimetro a un millimetro, di colore giallo grigio. Aperto que- sto Intestino, si trovano attaccate alla sua mucosa, corrispondentemente alle dette rilevatezze delle tenie. Queste tenie sono filiformi nella loro parte anteriore e al- quanto allargate nella posteriore; hanno una lunghezza molto variabile che ho trovato giungere fino a mm. 200: la loro larghezza giunge fino a mm. 3. — La mucosa intestinale, dove queste tenie si trovano aderenti, presentasi sempre più o meno ispessita. — Non senza qualche difficoltà si riesce a distaccare intere queste tenie dall’ intestino, perchè si trovano molto profondamente impiantate colla loro testa nella mucosa e talvolta anche nella sottostante muscolare, e fissate da masse di essudato concreto (Fig. 7). La testa di questa tenia (Fig. 1, A) è alquanto rigonfia, ha un diametro tra- sversale di mm. 0,35 ed è munita di una proboscide retrattile. Questa proboscide presentasi di forma emisferica e coronata di una fila di uncini. I quattro botri hanno forma orbicolare; dimensioni mediocri e si trovano posti a distanze uguali (1) Circa 330 sono le specie descritte di tenie e non più di 30 quelle dei vermi cistici conosciute. — 389 — fra di loro, verso la parte anteriore della testa. Il loro labbro è quernito di una grande quantità di uncini disposti in 7 od 8 ordini concentrici. Il collo è sottile e lunghissimo: solo alla distanza di 10 millimetri circa dalla testa comincia a pre- sentare delle solcature trasversali che indicano abbastanza chiaramente la forma- zione degli articoli. Nell’ interno tanto della testa quanto del collo si notano dei corpuscoli splendenti di forma ovoide (corpuscoli calcarî); e quattro canaletti lon- gitudinali anastomizzati a due a due in vicinanza alla base della proboscide. (Biol: .B). Comprimendo il vetrino copri-oggetti di un preparato della testa di questa tenia, ebbi il distacco tanto degli uncini della proboscide quanto di quelli dei botri; e così potei esaminarli isolati e meglio rilevarne le particolarità di forma. — Gli uncini dei botri (Fig. 3) si distinguono per non avere tutti una grandezza uguale, e per avere la parte inferiore, con cui aderiscono al labbro dei botri, tumida, mentre la parte analoga di quelli della proboscide è alquanto assottigliata. (Fig. 2). AIl esame microscopico degli anelli o articoli che compongono il corpo di questa tenia, senza l’ impiego di reagenti non si riesce che a rilevare la loro forma esteriore e la presenza dei due canali longitudinali. Gli articoli hanno forma di trapezio col lato maggiore vòlto verso la parte posteriore della tenia e sono pro- gressivamente più grandi: ad eccezione dell’ ultimo che è molto più piccolo del penultimo ed ha forma rotondeggiante (Fig. 4 c.). I canali longitudinali sono molto ampî e verso l’ estremità posteriore del corpo della tenia si fanno varicosi e in corrispondenza alle congiunzioni degli articoli comunicano fra di loro mercè un canale trasversale (Fig. 4 d. c.). Sembra che al dilatarsi sempre più dei canali trasversali sia dovuto il distacco degli articoli o proglottidi mature. Mediante il trattamento della porzione posteriore del corpo di una di queste tenie con una soluzione di potassa caustica sì riesce a scorgere gli organi genitali contenuti in ogni singola proglottide (Fig. 5°). Le aperture esterne di questi orga- ni si trovano tutte da uno stesso lato e sono situate alquanto sotto alla parte me- diana di uno dei due margini laterali di ciascuna proglottide. Il pene è situato immediatamente sopra al canal vaginale. Esso è breve, piriforme, ed è contenuto in una guaina molto spessa. L’ovaia è composta di molte piccole cisti piene di ovuli, e riempie pressochè totalmente le proglottidi. Per quanto io abbia consultato il Systema Helminthum del Diesing (Vindobon. 1850-51) e il Compendium der Helminthologie del Linstow (Hannover 1878) ed altre opere ancora, non ho potuto rilevare che questa specie di tenia sia mai stata da altri descritta. Di fatti, senza entrare in altri particolari, fra tutte le tenie co- nosciute solo nella Proglottidina del Darvaine, (la quale abita pure l intestino delle galline) è stata osservata un’ armatura attorno ai botri, ma formata da una semplice fila di piccoli Spinoli. Per altri caratteri poi questa tenia Proglottidina non può in alcun modo confrontarsi con quella ora descritta (veggasi l appendice in fine del presente lavoro). Nell’ Ornitojatria dei professori Rivolta e Delprato — 390 — (Pisa 1880) si vede rappresentato a figura 5* della tavola I la testa di una tenia che aveva determinato dei piccoli noduli simili a tubercoli nell’ intestino di un pollo. Ma in questa testa non sono stati disegnati gli uncini della proboscide e dei botri; nè viene indicata la loro presenza nella dichiarazione della figura. Il fatto anatomico caratteristico della specie di tenia ora descritta consiste adunque nell’ avere essa i botri armati di uncini senza alcun confronto più nu- merosi della tenia proglottidina Davaine. E perciò parmi molto conveniente il de- nominarla come mi venne cortesemente suggerito dall’ amico prof. Raffaello Zampa tenia Botrioplite perchè òmAitnc, oplites, vale appunto armato. To aveva già condotte a termine queste osservazioni allorchè, trovandomi ancora assistente presso la Scuola Veterinaria di Bologna, il Sig. Prof. Ercolani mi diede delle lumachelle terrestri appartenenti al genere Helix (Helix carthusianella, Helix maculosa) perchè ricercassi alcune cercarie che egli vi aveva precedentemente sco- perte. Per sollecitare questa ricerca strittolai molte di queste lumachelle entro un mortaio, diluii con acqua la poltiglia che ne risultò ed esaminai il liquido estratto dal fondo del recipiente. In uno dei preparati microscopici fatti con questo liquido mi si presentò una vescichetta di forma ovoide riempita di sferule splendenti. Per chiarirmi della natura di questa vescichetta compressi cogli aghi il vetrino copri- oggetti. Allora potei con mia sorpresa verificare che nel centro della vescichetta si trovava lo scolice di un cisticerco (Fig. 8 A) che aveva i botri armati di uncini nello stesso modo della tenia Botrioplite. In un altro preparato che eseguîi collo stesso liquido nel giorno successivo trovai una consimile vescichetta. Avendo sot- toposta quest’ ultima vescichetta all’ azione dell’ acido acetico potei meglio convin- cermi della sua natura : di fatti tutte le sferule splendenti, essendo esse costituite da sali calcari, vennero distrutte dall’ acido e così la testa di cisticerco contenuta nella vescichetta stessa si poteva chiaramente scorgere (Fig. 8, B). Questa testa si mostrava costituita di minutissime cellule ellittiche; aveva la proboscide retratta e coronata di una fila di uncini, simili per forma a quelli della proboscide della tenia Botrio- plite ma molto più piccoli. I quattro botri erano di forma orbicolare, posti ad uguali distanze fra di loro, verso la parte anteriore della testa, ed erano guerniti di uncini aventi la stessa forma e disposizione di quelli dei botri della detta spe- cie di tenia, quantunque però fossero essi pure più piccoli. — Inferiormente la testa aderiva, con un breve e sottile peduncolo, al fondo di una specie di borsa, formata da un’ esile membranella, nella quale essa testa era contenuta. Questa borsa in corrispondenza alla parte anteriore della testa si restringeva a guisa di collo e poscia si continuava colla parete della vescichetta. — Questa parete mostravasi chiaramente formata da tre tonache: una esterna» pallida e delicata; un’altra media molto rifrangente la luce e tenace; e una interna molto sottile. Quest ultima tonaca per l azione dell’ acido acetico si era distaccata dalla media e ritirata verso il centro della cavità della vescichetta. — Il diametro longitudinale (l — 391 — del corpo vescicolare del cisticerco era di mm. 0,280; il trasversale di mm. 0,210; e il diametro della testa di mm. 0,120. — Per quanto ripetessi poscia le indagini sopra altre di queste lumachelle non riescii più a trovare altri cisticerchi. Il cisticerco ora descritto è il solo che sia stato scoperto nei Gasteropodi del genere Helix. Nei Molluschi ne sono stati osservati altri due, uno dal Siebold nel Arion empiricorum Fer.; l'altro dal Gegenbaur in un Pteropode del genere Ti- demannia. Differisce poi essenzialmente dal cisticerco dell’ Arion per la forma ed armatura dei botri e della proboscide. Di fatti il cisticerco dell’ Arion ha la pro- boscide ed i botri di forma ellittica ed inermi. Perciò mi tengo autorizzato di dare anche a questo cisticerco delle lumachelle la denominazione di cisticerco Botrioplite. Che questo cisticerco rappresenti proprio la larva della tenia Botrioplite parmi molto probabile, non solo pei caratteri della testa, ma ancora perchè la sua sede nelle lumachelle spiega assai facilmente come possa pervenire nell’ intestino delle galline. — Le galline ingerirebbero lumachelle infestate da cisticerchi pascolando nei campi, poichè queste lumachelle si trovano assai frequentemente sopra le foglie delle erbe. Le lumachelle poi introdurrebbero le ova della tenia mangiando erbe imbrattate di feci di gallina contenenti ova della tenia stessa, od anche semplice- mente cosperse di uova della tenia. AIEPREINIDICE Espongo in questa appendice una succinta descrizione delle specie di tenie già note nelle galline, affinchè si possa agevolmente confrontare con esse la nuova specie da me osservata. Tenia Echinobotrida (Tania echinobothrida Mienin). — Aveva già consegnata la presente nota quando trovai nell’ interessante memoria del Mégnin, intitolata “ De la caducité des crochets et du scolex lui-méme chez les ténias , (Journal de l A- natomie et de la Physiologie N. 1°, Paris 1881), la descrizione della sopra nomi- nata specie di tenia, che presenta analogia colla botrioplite inquantochè essa pure ha i botri riccamente guerniti di uncini. Questi uncini però sono molto più sem- plici potendo venire rassomigliati nella forma alle spina delle rose. Essa è lunga da mm. 50 a 100, larga da mm. 1 a 2. Testa cubica, piccola, larga da mm. 0,25 a 0,30, portante quattro grandi ventose che occupano intera- mente ciascuna delle faccie laterali, e guernite in tutto il circuito di uno spesso cercine coperto da 7 ranghi di uncini, quelli dei ranghi mediani più grandi; faccia superiore scavata da un infundibulo la cui parete è qguernita in corrispondenza alla metà — 392 -— della sua altezza di un doppio rango di piccolissimi uncini in numero di un centinaio. Collo nullo, avendo i primi anelli la stessa larghezza della testa colla quale immediatamente si continuano. Primi anelli sottilissimi, 50 volte più larghi che spessi, i seguenti di più in più grandi, col margine posteriore sottile, scavato e che oltrepassa l’anteriore dell'anello seguente. Orifizii genitali irregolarmente alterni, non situati sopra tubercolo prominente. Pene lungo mm. 0,015 e largo mm. 0,10 con superficie cospersa di minutissime spine quasi impercettibili. Ova sferiche del diametro di mm. 0,09, con due inviluppi, l esterno rugoso e poco diafano ; queste uova sono riunite in nu- mero di 6 a 7 dentro un sacco comune a pareti spesse. Tenia Infundibuliforme (Tenia infundibuliformis Gorze). — Questa tenia è la più comunemente conosciuta nelle galline e si trova anche in altri uccelli. Essa misura in lunghezza fino a mm. 300 e in larghezza fino a mm. 3. La sua testa è quasi globosa con botri rivolti anteriormente, con proboscide cilindrica, oblunga e armata. Il collo è brevissimo; gli articoli superiori brevissimi ed i rimanenti foggiati ad infondibulo. Le aperture genitali marginali alternate irregolarmente. Il Mégnin, nella citata memoria, dice che anche questa specie di tenia possiede i botri guerniti di uncini come la sua tenia Echinobotrida. Tenia Martello (Tenia Malleus Gorze). — Anche questa tenia è comune a di- verse specie di uccelli e fu trovata da Molin e dal Creplin nelle galline. Essa DA di mm. ammi 4. misura in lunghezza da mm. 40 a 200 ed in larghezza da La sua testa è piccolissima con proboscide corta munita di 12 uncini; i botri ri- stretti; collo corto — Il corpo di questa specie di tenia presenta, nella sua parte anteriore, una dilatazione trasversale formata da anelli compressi e poco distinti. Tenia Cesticillo (Tenia Cesticillus Morin). — Il Molin descrisse questa specie nel suo “ Prodromus faune helminthologice Venete , (Sitzungber. d. k. Akd. XXX pag. 139 e Denkschift d. 6. Akd. XIX, Wien 1861) e la denominò Cesti- cillus dalla forma del capo che rassomiglia a quell’ involto di panni che serve a portar canestri. Secondo lo stesso Molin, la proboscide di questa tenia è ap- pena prominente ed inerme. I botri sono piccoli, orbicolari e situati anterior- mente. I primi articoli, che continuano direttamente colla testa, sono larghi quant’ essa ; gli ultimi sono più grandi. Le aperture genitali si trovano irregolar- mente sull’ uno o sull’ altro margine laterale degli articoli. La lunghezza comples- siva del corpo è da mm. 9a mm. 45 e la sua larghezza da mm. 1 a mm. 2. Alcune volte io trovai, unitamente alla Tenia Botrioplite, un’ altra tenia che parvemi riferibile a questa specie. Le ricerche però che feci sulla struttura della sua testa non combinano totalmente con quelle del Molin. La proboscide era bensì poco prominente, ma ciò dipendeva dal fatto che essa trovavasi retratta. Premendo — 393 — il vetrino coprioggetti del preparato, questa proboscide si faceva molto sporgente, voluminosa e mostrava una strozzatura in prossimità della sua base, e una co- rona di minutissimi uncini in corrispondenza alla detta strozzatura. Tenia Tetragona (Tenia tetragona Morin). — Unitamente alla tenia Cesticillo il Molin descrive un’ altra nuova specie che denomina Tetragona per la forma della testa. Questa testa è piccola ed ha una proboscide conica, ottusa, inerme e retrattile in un alveolo ; i botri sono piccoli e situati ai quattro angoli. Il collo è breve; i primi articoli sono brevissimi, gli altri quasi quadrati ed imbricati. Le aperture ge- nitali si trovano all’ apice di una papilla sul margine degli anelli. La lunghezza. di questa tenia e da mm. 12 a 90 e la larghezza di mm. 2. Tenia Proglottidina (Yenia Proglottidina Davame) — Questa piccolissima tenia sì trova rappresentata a Fig. 7° nel, Traité des Entozoaires ,, del Davaine (Paris 1878) e descritta succintamente nella , Revision der Cerphalocotylen , del Diesing (Sit- zungsberichte d. k. Akad XLIX Wien 1864). Essa non giunge alla lunghezza di mm. 1. La sua testa è globosa e presenta nella sua parte anteriore un infundi- bulo alla cui periferia sono disposti in duplice fila 80 piccoli spinoli. I botri sono di forma orbicolare e guerniti essi pure di spinoli ma disposti in una semplice fila. La serie degli articoli continua immediatamente colla testa e consta di tre o quattro sole proglottidi. Gli organi genitali si veggono solo nelle ultime due pro- glottidi, nella cui parte superiore si aprono, in una da un lato, nell altra dal- l’altro. Ultimamente io ho avuto Ì opportunità di esaminare individui di questa tenia, i quali avevano i botri guerniti di uncini disposti in tre ordini concentrici. Questi uncini inoltre, quantunque piccolissimi, presentavano bene distinte le tre parti come quelli della tenia Botrioplite : cioè una parte libera, acuminata e rivolta all’esterno; un’ altra pure libera ma con estremo rotondato; ed in fine la parte con cui erano aderenti all orifizio dei botri. Tutti gli altri caratteri della tenia coincidevano per- fettamente colla descrizione superiormente esposta. Unitamente a questa tenia rinvenni molte proglottidi libere assai più grandi dell’ intero corpo della tenia, con movimenti attivissimi e che erano piene di uova. La lunghezza di queste proglottidi era di mm. 3 e la larghezza di mm. 1 }4 circa. — Non essendo riuscito a trovare altra specie di tenia da cui queste proglottidi potessero derivare sono costretto ad ammettere, che esse appartenessero alla tenia Proglottidina, e che si fossero sviluppate maggiormente dopo essersi rese libere. Tenia Cuneata (Tenia cuneata Linsrow). — Debbo alla squisita cortesia del Chiarissimo Sig. Dott. Linstow se mi è possibile fare qualche cenno anche di questa specie di tenia, poichè non potei consultare direttamente il Trochel’s Archif dove si trova descritta (anno 1872 pag. 56-57). Essa è lunga mm. 2 e larga mm. 1; e perciò si avvicina molto, in piccolezza, alla tenia Proglottidina ora descritta. La TOMO II. 50 Sy IO testa è alquanto rigonfia, con botri di forma ellittica molto allungata, e una pro- boscide oblunga e guernita di 12 uncini di forma graziosissima aventi una lun- ghezza di mm. 0,032. Il corpo, per l allargarsi sempre più degli articoli verso la sua parte posteriore, presenta forma di cuneo. Gli articoli sono quasi sempre in numero di 12; e dal sesto al decimo si trovano forniti di un piccolissimo pene, il quale misura soltanto mm. 0,01 in lunghezza; e si trova situato alternativamente da uno o dall'altro lato nella parte anteriore del margine degli articoli stessi, il quale in corrispondenza è alquanto sporgente. Nell’ ultimo articolo soltanto sì tro- vano uova mature. nonnina DIET DITTA Dre enzo POESIA Si = (©) E a Mem Ser 4 G.P Piana dis? dal vero Lit.GWenk GP Piana Ri Mem. Ser 4 Tom I 58 GP. Piana SPIEGAZIONE DELLE FIGURE Fig. 1° A — Testa di tenia Botrioplite trovata infissa nella mucosa intestinale di una gallina (ingrandimento di 100 diametri). Fig. 1° B — Testa di una vecchia tenia Botrioplite trovata libera nel canale inte- stimale di una gallma. La proboscide è retratta nell'interno della testa ed ba perduto molti degli uncini della sua armatura. I botri hanno forma oblunga ma però conservano intatta la loro armatura. Fig. 2° — Uncini della proboscide di tenia Botrioplite (ingrandimento di diame- tri 800). Fig. 3° — Uncini dei botri di tenia Botrioplite (ingrandimento di diametri 800). Fio. 4° — a, Testa. b, e, articoli uniti in catena della tenia Botrioplite (ingrandimento di diame- tri 30). Fig. 5® — a, d, c, Porzioni della tenia Botrioplite trattate colla soluzione di potassa caustica per mostrare gli organi genitali (ingrandimento di diametri 30). Fig. 6° —- Ovo di tenia Botrioplite trovato nelle feci di una gallina che non al- bergava che questa specie di tenia (ingrandimento di diametri 800). Fig. 7° — Sezione trasversale delle pareti dell’ intestino di gallina con tenie Bo- triopliti infisse nella mucosa (ingrandimento di diametri 40). 4, @, a, mucosa intestinale. b, b, b, muscolare. SP, Sp, sierosa peritoneale. t, t, t, porzioni anteriori di tenie. e, massa di essudato prodotta dall irritazione di una testa di tenia nel luogo della sua infissione. Fig. 8° A — Cisticerco Botrioplite delle piccole lumachelle terrestri del genere Helix (ingrandimento di diametri 350). Fig. 8° B — Altro Cisticerco Botrioplite trattato coll’ acido acetico (ingrandimento ì di diametri 350). UN ANFIBOLO SENZA MAGNESIA BRE RGERINEESSSI STENTA) MEMORIA DEL DOTT. PANTALEONE LUCCHETTI (Letta nella Sessione Grdinaria del i7 Febbraio 1881). Attendendo ad uno studio petrografico destinato ad illustrare le roccie emersive della provincia bergamasca (1) di cui, spero, sarà data relazione fra qualche mese, ebbi a portare particolare attenzione, e dal punto di vista più specialmente mineralogico, ad alcuni fra i costituenti di quelle roccie, fra questi mi si pre- sentarono due casi, che oso chiamare di notevole importanza; riguardo il primo, l’anfibolo che si presenta nel porfido, noto agli studiosi di litologia dell’ accennata provincia, sotto il nome di porfido anfibolico; ed il secondo il felspato che entra a costituente del porfido, ivi pur detto : quarzifero di Monte Altino. Di questo secondo caso, che verrebbe ad offrire un felspato nuovo per l Italia, dirò in altro lavoro destinato appunto ad illustrare alcuni minerali nuovi per il nostro paese. Mi limito qui adunque all’ esposizione del primo. A scanso di ripetizioni, non entro qui nella particolare descrizione dell’ accen- nato porfido arfibolico, e neppure riproduco la tavola rappresentante una sua se- zione da microscopio, dovendo e descrizione ed illustrazione, già figurare nel pro- messo studio petrografico, e d’ altronde le sarebbero queste particolarità che poco importerebbero a questo punto. L'essenziale ad osservarsi, si è che nella massa, che presenta evidente una più che incipiente caolinizzazione, trovasi diffuso il minerale, verde erba scuro, che. a primo aspetto, per il suo facies, vien fatto di chiamare anfibolo, e più partico- (1) Lavoro che in concorso del Prof. Polli di Milano, verrà pubblicato quest’ anno, negli Atti della Società italiana di Scienze Naturali. TOMO II. 50* — 398 — larmente di quella varietà, dal più dei mineralisti denotata sotto il nome di orne- blenda. i La specificazione di anfibolico, concordemente attribuita al porfido in discorso, e di cui presento un esemplare, sta già a dimostrare, che il facies per sè solo non lascia dubbio sulla natura del minerale che vi si riscontra. Quei cristalli bacillari schiacciati, verde-scuri, giù macroscopicamente striati pel lungo, e che, come si può riscontrare, si presentano, alla luce ordinaria sotto al microscopio, di struttura granulare in qualche punto, ma per la maggior parte, para!lello-fibrosa o fibroso- raggiata, quei cristalli, dico, si presentano subito in modo da dare la massima per- suasione sull’ esattezza della loro denominazione anfibolica. Che se il facies e la struttura macro e microscopica, ancora non bastassero, la natura anfibolica del minerale, viene in evidenza dal suo comportamento fisico, dall’ avere cioè due piani di sfaldatura ad angolo di 124° e dall’ essere dicroico alla luce polarizzata, variando fra il verde chiaro ed il bleu cupo; qualità queste che si accettano come le decisive per distinguere l anfibolo da ogni altro minerale. Dovrebbe adunque, queste che presento, essere un minerale magnesiano per eccellenza. Difatti è del 16 % circa il tenore in magnesia del buon numero degli anfiboli, di cui dà l analisi il Rammelsberg, del 18 % per quelli numerosi (circa una trentina) di cui dà l’analisi il Dana, con un minimum del 9% pel Rammel- sberg e del 10% pel Dana, quando si faccia astrazione, pel momento, di due casi, sui trentaquattro di cui produce le analisi. Ecco ora la composizione centesimale dell’ anfibolo da me studiato : I. Saggio II. Saggio Media Silices a. in del cal 37,800 35,750 36,775 22,892 * 22,892 22,892 Ossido ferroso. 15,966 14,463 Ossido *ferrico i mi 15,560 Calce . Magnesia . Soda . Potassa . Perdita . Ossido di manganese . traccie 4,912 0,984 3,998 0,417 "* 1,017 100,000 100,513 AMINA MERE 14,420 15,840 15,130 traccie 5,144 0,928 3,998 0,417 0,253 100,000 * Questo dato è Ian media di tre determinazioni pressochè concordanti. ** Gli alcali furono doterminati una sola volta per mancanza di materiale. — 399 — L’analisi fu condotta col metodo ordinario, e la dosatara dell’ ossido ferroso fu fatta col metodo di riduzione del permanganato potassico, usando soluzione ac- curatamente titolata all’ occasione stessa di queste ricerche. L’anfibolo in discorso non contiene adunque neppure l 1 % di magnesia, e certo avrei sospettato dei miei risultati se non fosse che il fatto negativo per sua natura non si spiega colle possibili impurità, od imperfezione di isolamento, della cui esatezza, per altro, ho potuto perfettamente garantirmi, in quanto chè per la tendenza della roccia a cadere in isfacelo, e per le dimensioni abbastanza sensibili dei cristalli di anfibolo, non è che questione di pazienza, quella di prepararsi un sufficiente e nitido campione per l analisi chimica. A confortare poi i risultati delle mie ricerche, posso riferire i due casi, cui sopra aliusi, fra quelli citati dal Dana; di un anfibolo cioè del Westmanland, in cui la magnesia raggiunge appena il 2 14 % ed una varietà detta Arfvedsonite, in cui la magnesia figura solo per 0,5 %; nonchè l’ Arfvedsonite studiata dal Rammelsberg e l’ altra ultimamente studiata dal Doelter il cui tenore in magnesia si aggira intorno all’ 1 % (1). Sono adunque in grado di presentare uno dei casi rarissimi, e nuovo per I’ Italia, di una varietà di anfibolo quasi totalmente sfornita di magnesia. Ed a proposito di varietà, trattandosi di discuterne una per l anfibolo in discorso, io non rimango in dubbio sulla natura sua, affine all’ Arfredsonite, poichè, malgrado la forte dif- ferenza nel tenore dell’ allumina (le tre di cui si riportarono in nota le analisi non (1) r Î I. Anfibolo II. Arfvedsonite | III. Arfvedsonite | IV. Arfvedsonite! Klaproth Kobell Rammelsberg Beelier ST RO 42,00 49,27 51,22 BIO) | i Sesquiossido di ferro . ) 14,58 23,75 25,15 fps 4 (30,00 Ossido, ferroso... . 23,00 7,50 5,55 ATlommina #8 E a 12,00 2,00 traccia 0,64 Ossido di manganese . 0,25 0,62 el 0,54 Cale a 11,00 1,50 2,08 2A Masnesiae L000 2,25 0,40 0,90 1,45 = = a = Sodate at orti 8,60 10,58 10,11 IPMPotassa Stati eni SATA 0,68 0,94 | (8,25 99,63 | 9829 | 100,99 I. Dana — A System of mineralogy, Vol. II. Pag. 174. Ji., III. e IV. — Ueber die Chemische Zusammensetzaug des Arf«edsonits und verwandter Mineralien, i C. Doelter; nel Zeitschrift fir Krys. und Min. von Groth 18579, Vol. IV. — 400 — arrivando, rispetto all’ allumina che al 2 %), i suoi caratteri fisici secondari, cor- rispondono molto bene a quelli dati per questa varietà dai diversi autori, e cioè: la lucentezza vitrea con tendenza alla resinoide, la ricchezza in protossido di ferro (20 © circa), e la colorazione nera o verde cupo (1); ma differisce poi dalla Arfvedsonite, per un carattere abbastanza saliente, quale è quello della fusibilità; l Arfvedsonite, è facilissimamente fusibile in vetro nero e magnetico, il mio anfi- bolo invece non è per nulla fusibile, ed anche questo è in relazione colla diffe- renza di composizione, l’ Arfvedsonite propriamente detta trova il suo fondente nel 10 % di soda di cui va fornita, il mio anfibolo è refrattario per la deficienza degli alcali e la sostituzione coll’ allumina, nonchè per una sensibile differenza in meno nella silice. Il peso specifico del minerale avuto riguardo alla circostanza che non riesce di avere questo anfibolo che in piccole quantità e in minutissimi frammenti, lo de- terminai col metodo ultimamente indicato dal Thoulet per questi casi, metodo che esperimentai delicatissimo, e di cui dò le particolarità in nota (2); ne ebbiil va- lore di 3,075 peso specifico che vale perfettamente a confermare la natura anfi- bolica del minerale, (il peso specifico dei diversi anfiboli variando di fatti fra 2,9 e 3,4), ma che pure lo scosta alquanto dall’ Arfvedsonite poichè questa ha appunto i] peso specifico massimo per gli anfiboli, cioè 3,4 (3) — combinerebbe invece (1) Dana — A Sistem of mineralogy, Vol. II., Pag. 172. (2) V. THouLEt — Sur un nouvean procédé pour prendre la densité de mineraux en fragments trés-petits. Bulletin de la Société Mineralogique de France. Vol. II, Fasc. 7°; 1879. 11 metodo consiste nell’ applicazione della formola pi I IEEE i P+pT— AV dove: p= peso dei frammentini di minerale usati per la determinazione (caso mio p = gr. 0,033). 4 = densità di una sotuzione di ioduri potassico e mercurico ove il minerale, accollato a ci- lindretto di cera con nocciolo felspatico, rimane perfettamente in equilibrio (caso mio A = 1,998). P = peso del cilindretto di cera a nocciolo felspatico (caso mio P = 0,417). V= volume dell’ accennato cilindretto dopo che se ne sono staccati con cura i pezzettini di minerale, e che si calcola mediante il dato v=i di cui P è noto e D si stabilisce sperimen- talmente col determinare la densità della soluzione degli accennati ioduri quando il cilindretto-za- vorra, dopo staccato il minerale, vi rimane in equilibrio, (caso mio D= 1,340 e quindi V = C.C. 0,512): N. B. — Nelle determinazioni di 4 e di D vuolsi tener calcolo delle solite correzioni; prima poi di diluire le soluzioni per ottenere gli accennati equilibri devesi provvedere, ricorrendo ad una pompa o ad una macchina pneumatica, al totale sviluppo delle bollicine d’aria che sempre: aderiscono al cilindretto in quistione. (3) KoseLL — Journal fùr praktische Chemie. Vol. XII, Pag. 3. Lipsia. Erpmann, MARCHAND E PLantaMourR — L. c., Vol. XXIV, Pag. 300. — 401 — quasi esattamente col peso specifico della Carinthina (3,127) che è pure un anfi- bolo in cui la basi sono prevalentemente 1 allumina ed il ferro. Oltre queste differenze di fusibilità e di peso specifico (1), basta riscontrare i risultati d’ analisi di questo amfibolo con quelli, riportati, delle Arfvedsoniti stu- diate da altri, per convincersi sempre più che esso anfibolo merita come nuovo. minerale, di essere ben distinto dall’ Arfvedsonite, a stabilire il quale fatto propongo di chiamarlo col nome speciale di Lergamaschite. (1) Pour les silicates surtout la détermination de la densité est un des meilleurs moyens de reconnaissance. Pisani — Sur un nouvel appareil è densité. Boll. de la Soc. Mineral. de France, 1878, Fasc. 3°. (Metodo, del resto, poco pratico a mio parere). | TOMO II. 51 A e E RO II ata. ri € i DEPRI OTTO Ù ST x PESI] Î LI G di ; î tao Ri I gh (i } i È i ] N =ett: ti LEE ALI i ONDA ! 5 po ( PRI ETaAIO { Ò 291 È i i i vi Ra PAOLINI hi 19M ; ih pi x ‘4 I ì x ì M Ù Lu i ere é î LE ; 4 4 Ù cà î Ù : À 4 P1 L3 Y U ‘n Tr: i b;19 7 ? ; i n La tal } i i i Ì ni n È Pal ta ‘ È 5) E ue È SI i Si ' 7 L GRUPPO. NATURALE IN' MINERALCGI ED IL DIMORFISMO IN ACCORDO COLLA LEGGE DEL MITSCHERLICH MEMORIA DEL DOTT. PANTALEONE LUCCHETTI (Letta nella Sess. Crd. del 17 Fehb. 1881) Il fatto da me ultimamente presentato di un amfibolo senza magnesia nonchè i casi consimili, certamente non scarsi in mineralogia (e che neppure occorre che richiami) mettono evidentemente in dubbio la esistenza dei gruppi naturali, o, per lo meno, dimostrando la poca ragione di essere per quelli in oggi ricono- sciuti, invogliano a discuterli, onde trarne altri di basi veramente sicure. So bene che ormai nelle scienze biologiche, non solo è proclamata 1 artificia- lità di ogni divisione tassonomica, dal regno al genere ineclusivamente, ma ben anco che vi domina molto scetticismo per rispetto alla specée, gruppo questo che sempre sì disse naturale. Ed infatti il Prof. Mantegazza potè perfino asserire , essere la specie nulla altro che uno dei tanti pilastrini immaginati dalla mente umana per facilitarsi la percorrenza nel vasto campo di natura (1) ,. Certo io mi guarderò bene dall’ emettere in proposito un’ opinione qualunque, ma il fatto che in mineralogia, non sono più le leggi biologiche, ma quelle fisiche che dominano, le leggi cioè che non hanno nulla da vedere colla evoluzione darwinistica (che dà tanto pensiero ai biologi e temporaneità. alle loro leggi) questo fatto, dico, mi porta già una certa convinzione, che il gruppo naturale in mineralogia debba esistere, e mi dispone a discuterlo per rintracciarne i limiti. Il gruppo in oggi sostenuto dai più come naturale in mineralogia è quello «che si accenna col nome di specie. Richiamo la migliore definizione che, a mio (1) Grazioli — Viaggio di cireumnavigazione della pirofregata Magenta. Introduzione di Paolo Mantegazza. — 404 — parc e, sia stata data di essa, e cioè: , essere la specie l'insieme dei corpi na- turali inorganici in cui alla parità di comportamento fisico (forma cristallina eguale) si associa la costanza della chimica composizione , (1), per far subito osservare, poggiandomi però ad un concetto che svolgerò meglio in appresso, come il ca- rattere della costante composizione, sia di una importanza troppo limitata, e quindi di sua natura troppo frastagliatore per poter essere riconosciuto come carattere immancabile del modo di essere della materia in natura, sia pure entro un nu- mero abbastanza ristretto di casi; — il fatto poi che le anomalie, od ibridismi di alcuni autori, a giudicare strettamente e con questo modo di vedere, supera di gran lunga quello delle specie che riesce di stabilire, viene perfettamente in ap- poggio del mio parere, che cioè la specie, tal quale oggi si intende, non esiste neppure in mineralogia. D'altra parte entro subito a dire come a base del gruppo naturale in cui ho fede debba mettersi non già la composizione chimica costante, ma bensì la costitu- zione chimica conforme; la costanza cioè di struttura molecolare. Infatti i chimici non solo (2) ma anche i fisici, e perfino i cristallografi più astratti (3), sono d’ accordo nel dichiarare : che la causa prima di ogni fisico comportamento risiede nella struttura molecolare; nella bella legge del Mitscherlich io infatti non so vedere altro che la più perfetta espressione di questo parere. Il Mitscherlich dice: , I corpi che hanno la molecola costituita da egual numero di atomi (non importa la loro natura) sono isomorfi ,; ed oggi che con tanta ra- gione si sintetizza nel concetto cristallino, tutte le fisiche attitudini dei corpi, oggi, dico, può questa legge tradursi così: corpî che hanno la molecola costituita da equal numero di atomi isovalenti, sono dotati delle stesse fisiche proprietà (4). (1) Bomsicci — Corso di mineralogia. Seconda ediz. vol. I. pag. 337. (2) WurTtz — Teoria atomica, versione italiana edita Dumolard. p. 54. « Lo stesso Mitscher- lich nella sua prima memoria ebbe a riconoscere che la concordanza di proprietà, in combina- zione di composizione analoga ed aventi la stessa forma, difficilmente si può attribuire alla identità di cristallizzazione, ma se ne doveva cercare la spiegazione in una causa prima e pro- fonda, che tiene sotto la sua dipendenza, da una parte il fatto della combinazione secondo gli stessi volumi (o atomi) e dall’ altra, la rassomiglianza dei cristalli. » WurIz — l. c. pag. 55. « Una costituzione atomica simile, determina non solo l’analogia delle proprietà chimiche, ma altresì la somiglianza delle forme fisiche. » (3) Dr. LEONHARD SoANcKE — Entwickelung einer theorie der Krystallstruktur. pag. 4 «..... es nun auch keinem Zweifel unterliegt, dass die Strucktur wesentlich durch die stoffliche, d. h. che- mische Beschaffenheit bedingt ist ....... » (.... oggi non può dubitarsi che la struttura cristallina ‘di un corpo non sia essenzialmente condizionata dalla sua costituzione chimica .....) Vedasi inol- tre a pag. 206. (4) È evidente che 1° espressione proprietà fisiche è qui adoperata in un senso assai ristretto, e, precisamente, si riferisce ad un ordine di proprietà per così dire primarze (sia ottiche, o ter- miche, o magnetiche od elettriche) senza che, per lo stato attuale della scienza, se ne possa per ora dare una più esatta definizione. Infatti: (WyrRouBorr — Sur les propriétés optiques des mé- langes isomorphes. - Bullettin de la Soc. Mineralogique de France. 1879. vol. II. fasc. 4.) .... des tous ces 6léments optiques (l'indice de réfraction, le sens de la double réfraction, la dispersion, — 405 — E se tanta correlazione esiste fra la struttura chimica ed il fisico comporta- mento, dov'è se non in essa struttura che potremo sperare di trovare il fulcro di una somma di caratteri concordi, immancabili, base cioè di un gruppo che vera- mente meriti nome di naturale? Il gruppo naturale che vengo così a riconoscere, e che ha per base la costi- tuzione molecolare, si presenta già per sè stesso tanto esfeso, ed include troppo spontaneamente il concetto delle varianti (in relazione alla diversa natura chimica degli atomi che in egual numero e nello stesso modo si riuniscono) perchè non risulti subito ad evidenza come gli torni perfettamente il nome di tipo. Qui non posso nascondere la grave difficoltà a cui andrei incontro, quando definissi il tipo: l'insieme dei corpi minerali di eguale struttura molecolare ; poichè vista l’attuale incertezza della scienza riguardo alla struttura molecolare dei corpi dimorfi, la mia definizione non approderebbe a nulla di pratico ; nè io certamente vorrò proporre di riunire in un solo tipo le due modalità di un corpo dimorfo, poichè questo gruppo, che conterrebbe corpi di così diverse attitudini fisiche ces- serebbe di essere naturale. Non mi resta che attendere allo sviluppo di un concetto, ad una interpreta- zione cioè del dimorfismo, la quale per essere un progresso nell’ interpretazione molecolare dei corpi, non solo darà alla costituzione molecolare stessa la evidenza della sua importanza, ma ben anco la dimostrerà opportuna per una pratica ap- plicazione. Fisici e chimici, VY ho già accennato, ammettono da una parte che il dimorfismo di un corpo ripeta la sua ragione di essere da un diverso assettamento degli atomi nella molecola, ma dali’ altra, riconoscono essere esso dimorfismo la più grave ob- biezione alla legge del Mitscherlich, e si riparano nell’ isomorfismo chimico. Io sono convinto di poter togliere alla accennata legge questa grave ob- biezione, e ricondurre quindi l unissono fra ? isomorfismo chimico e V isomorfismo fisico. Si è sempre detto, lo torno a ripetere, e da chiunque si sia occupato di strut- tura molecolare, che il dimorfismo ripete la sua causa prima in una diversa di- stribuzione degli atomi nella molecola; — ma io credo che nessuno siasi provato di ottenere questa diversa distribuzione, e dico anche solo schematicamente ; poichè, ne sarebbe subito emerso il fatto, che, qualunque tentativo si faccia, la distribu- zione degli atomi nella molecola riesce sempre la stessa. Nel caso del calcare p. es., a meno di non saturare le valenze del calcio di- et l’orientation du plan des axes) le dernier seul a, au point de vue qui nous occupe (l’ iso- morphisme optique), une valeur absolument constante....... Je ne dis pas que ces diverses pro- priétés doivent ètre définitivement exlues de la conception de l’isomorphisme optique, je dis seulement qu’ elles sont secondaires....... V. anche Duret — Sur les propriétés optiques de mélanges des sels isomorphes. - Boll. Soc. Min. de France 1880 vol. III. fasc. 7. pag. 181. — 406 — rettamente col carbonio, cosa che nessun chimico potrebbe accettare, sempre sì ottiene : cioè i tre atomi di ossigeno distribuiti intorno al carbonio, e di essi, due legati al calcio ed uno opposto legato al carbonio con ambo le valenze. Ossia: nella molecola così ammessa non è possibile alcuna variante nella orientazione degli atomi. Fra i diversi modi con cui rimane ad interpretarsi la cosa, uno ne esiste, sem- plicissimo, spontaneo, e perfettamente appoggiato da ogni altro fatto fisico o chi- mico che vi abbia attinenza. Un atomo di calcio, entri nel calcare non già satu- rando le due valenze del residuo di una stessa molecola di acido carbonico, ma due valenze prese in due distinti residui, e noi otterremo la seguente struttura molecolare : Che, se alla calcite, p. es. attribuiremo la prima forma di struttura molecolare, rimarrà quest’ altra per l’ Aragonite, o viceversa. Cioè: la Calcite e V Aragonite sono sostanze polimere. E dando a questo caso tutta la dovuta interpretazione, si ha: che il fatto del Dimorfismo, o meglio del Polimorfismo, non è che un fatto di Polimeria. Ammessa per la calcite la formula — 407 — ne vengono evidenti le formule analoghe : (0) (0) I I (0) (0) VP 7 (0) (0) O 0) VIA SA Mg fe per la Giobertite o carbonato di Magnesia naturale, per la Siderose o carbonato ferroso naturale e così via via per tutti i corpi isomorfi colla calcite. Ne conseguono invece le altre formule (0) | Il C ZEN TAN O O O O S Sr Sr Ba Ba = 2 N g/: (0) (0) O O NA DURA rispettivamente per la stronzianite, la Witherite ed ogni altro carbonato isomorfo coll’ Aragonite. Ora cioè siamo in grado di fissare bene questa idea: quando diciamo : Calce carbonata, si accenna a tutt’ altro che ad una sola sostanza, (che ad un solo com- posto chimico), ma se ne accennan parecchie, e precisamente due (Calcite, Aragonite), le quali sono fra loro chimicamente assai più differenti che non lo sieno la caleite, la Giobertite, e la siderose da una parte: l Aragonite, la Witherite e la stronzianite dal- V altra; poichè la struttura molecolare è ben più importante della specializzata natura degli atomi. Fra Calcite e Aragonite corre cioè non già una differenza specifica (nel senso in uso della parola), ma una differenza di struttura chimica, ossia di tipo. Ed anche questa conclusione va generalizzata ed espressa così: Le due forme dimor- fiche, 0 meglio, le n forme polimorforimiche di identica composizione chinvica centesi- male (1), sono altrettanti termini che appartengono a tipi diversi. Ho qui accennato al polimorfismo, infatti, aggiungo subito, come sia colla stessa meccanica precedentemente usata che mi rendo ragione del trimorfismo, e di ogni altro maggior termine nella serie di corpi differenti nella forma cristallina, ma col- (1) Ormai crederei di essere molto inesatto dicendo, cogli altri, di uno stesso corpo. — 408 — legati dalla composizione chimica centesimale ; — cioè non saranno più due mo- lecole primitive, ma saranno tre, o quattro, o più che si collegano a far sistema. Il biossido di Titanio che si dubita trimorfo (Rutilo, Brookite ed Ottaedrite), sarebbe il caso più concreto per illustrare questo modo di interpretazione. Noto come non sia certo mia intenzione di sostenere che se il rutilo si scrive Ti 0°, debbasi poi scrivere 2 7% 0° la Brookite e 3 Ti 0° l’ Ottaedrite, od inversa- mente; e neppure che, se si scrive CO? Ca per la calcite, debbasi poi scrivere 2 C0? Ca per l aragonite e 3 C'O° Ca per la virtuale terza forma della calce car- bonata ecc. ecc., ma asserisco che si debbano scrivere Ti 0°, n Ti 0°, m Ti 0° e CO? Ca, n CO? Ca, m CO? Ca, ove n» ed m stanno ad indicare : numeri interi di di- verso valore e non minori di due. Ma io voglio dimostrare come questa mia interpretazione sia consona alle ve- dute della scienza, necessaria, ed opportuna. 1°. Quanto alle vedute della scienza, mi basti accennare, come la chimica organica sia piena di casi in cui la polimeria è il solo modo di rendersi ragione dei corpi più disparati per comportamento fisico-chimico ; il fatto degli acidi cia- nico e cianurico, valga come esempio fra tutti (1). Ma v' ha di più, in chimica vi è già un ordine di fatti di cui ci rendiamo ragione in modo perfettamente analogo , cioè colla polimeria. — Accenno all’ al- lotronismo ; in che differisce 1’ ozono dall’ ossigeno ?, dall’ essere la molecola costi- tuita da tre atomi invece che da due. Cioè: tre molecole di ossigeno, date le cir- costanze di ozonizzazione, si riassumono in due molecole di ozono (come risulta dall’ annesso diagramma in cui i tratti di filo fino collegano i sei atomi in tre molecole di Ossigeno ed i tratti di filo grosso in due di Ozono). O O O-0 darf mede Ed io vorrei domandare cos’ è il dimorfismo, (od in genere il polimorfismo) se non la più bella, la più completa e la più sicura delle manifestazioni allotropiche ! Nè certo mi mette in forse l idea di estendere l’ allotropismo ai corpi composti, sia | (1) N ARON doni C— 0H | N NOA I] NEA C | OH OH Acido cianico Acido cianurico — 409 — perchè non e’ è anzi ragione di restringerlo ai semplici, sia perchè anche in ciò, già ho l appoggio dei chimici (1). A questo punto devo osservare che colla interpretazione che dò al polimorfi- smo, rispetto ai corpi composti, sempre ed immancabilmente si cade nella poli- meria ; e che se questa polimeria non è indispensabile pei corpi semplici, vi è però sempre molto probabile (2), ed ancora poi vi è indispensabile l ammettere che : un diverso numero di atomi entri a formare le molecole delle rispettive forme (3); ed è quest’ ultima anzi l espressione del fatto, che, anche più della polimeria, mi preme di affermare. 2° Ho detto che questo modo di interpretazione del dimorfismo è necessario e lo provo: Sia richiamando, come mancherebbe di esso dimorfismo una spiega- zione qualunque che si riferisse alla struttura chimica, quando si volesse mantenere inalterato il numero degli atomi nella molecola — sia notando come solo con questa interpretazione ritorni al grado di vero splendore la bella ed importantissima legge del Mitscherlich —; quell’ illustre scienziato — causa la minor pienezza dei tempi — trasse sgomento per la sua legge dal dimorfismo da lui scoperto (4), mentre vi si nasconde appunto la più splendida riprova ! Il Mitscherlich, formulò così la sua legge: “ i corpi che hanno la molecola costituita dall’ egual numero di atomi (non importa la natura), sono isomorfi; — e si spaventò che lo stesso corpo (diceva lui e troppe volte ripetono i moderni) s presentasse poi in due forme cristalline distinte. E non potè scorgere, (non sapendosi allora concepire i corpi specie in minera- logia, che rispetto alla composizione centesimale) che quel corpo, che era nella sua mente, in fatto non era che la sintesi di due che cristallizzano in due forme differenti, appunto perchè le loro molecole sono costituite da un diverso numero di atomi. Rivoltane così in conferma la più grave obbiezione, nol possiamo dare a questa legge la più completa espressione, restituirle il suo lustro primitivo, e congratularci con chi, per robustezza di ingegno potè serbar fede alla sua legge, anche attra- verso alle più salienti difticoltà. La legge del Mitscherlich sussiste adunque intatta, poichè i fatti di dimorfismo non (1) G. MoxseLIsE — La chimica moderna Vol. II, pag. 253. «..... abbiamo quindi corpi ele- mentari allotropici, e corpi composti allotropici ». (2) La polimeria essendo indispensabile pei composti, ne viene per analogia, che i corpi sem-- plici pure vi si uniformino. — oltre il fosforo, e gli altri elementi di cui è provato il diverso peso molecolare alle diverse temperature, non danno forse altrettanti casi di polimeria? — Il solo ossigeno rimarrebbe come eccezione a spiegarsi. (3) Sempre basandosi sul fatto che se il numero degli atomi nella molecola non varia neppure: riesce di variare la struttura molecolare. (4) Wurz — L. c. pag. 54. ( bo TOMO II. — 410 — sono che fatti di polimeria. E questo lo asserisco tanto più volentieri inquantochè mai come oggi si giunse a dubitare della legge del Mitscherlich (1). Stabilito questo rimane evidente che il carattere necessario da darsi al mio gruppo naturale, o tipo, sarà la costituzione molecolare, essendo essa, che vera- mente riassume ogni proprietà fisica e chimica. La determinazione poi di questa costituzione, appunto pel suo doppio modo di manifestarsi, dovrà essere fatta dall’ opera cumulativa del fisico e del chimico, è questa anzi una necessità imprescendibile nello stato attuale della scienza chimica, voglio dire nella sua incapacità, per ora, di pronunziarsi in argomento di polimeria minerale, (specialmente per quanto riguarda i corpi allo stato solido), mentre in- vece, per quel che dissi, al fisico riescirà sempre sommamente facile lo stabilire se due corpi stanno fra loro come isomeri o come polimeri. Ne viene che la definizione pratica del mio tipo sarà : L’ insieme dei corpi natu- rali inorganici isomorfi e di natura chimica analoga. Nello stabilire così il tipo noi troviamo di avere introdotto nella classificazione minerale, quello stesso principio che, divenuto massima direttiva nella classificazione di chimica organica, valse a renderla tanto razionale ; quello stesso principio cioè che fece sciogliere i gruppi: carburi, alcool, aldeidi, chetoni, acidi organici, eteri, eteri composti ecc, ecc., per fare i tipi: Metilico, Etilico, Propilico....... Benzilico, Cianico ecc. ecc. j 0, per particolareggiare anche di più l esempio, quell’ esatto principio, che fece trovare più affini fra di loro il Metano o gas delle paludi, l’al- cool pirolegnoso o Metilico, l Acido formico e via dicendo, che non: il Metano e l Etano, V Acido formico e 1 acido acetico, Y Alcool Metilico o pirolegnoso, e 1° al- cool etilico o spirito di vino ecc. ecc. Difatti im una di queste nuove serie non entrano che corpi di eguale struttura molecolare, e si potrebbe ben anco dire : a molecola di egual numero di atomi, quando, come ben si può fare, si interpretino quali atomi i residui dell’ Acqua, dell’Ammoniaca, dello Acido Nitrico....... che, permutandosi, determinano appunto in chimica organica, tutte quante le diverse modalità di una stessa serie o #ipo che dirsi voglia. E noto ancora come in mineralogia, ove non sono già le leggi biologiche che governano la materia, ma quelle fisico-chimiche (riassunte appunto dalla struttura molecolare) in mineralogia, dico i principî tassonomici direttivi debbono attingersi non alle scienze biologiche ma alla chimica. (1) G. Wyrrouporr — Contributions è I étude de 1° isomorphisme chimique géométrique et optique. Bulletin de la Société Mineralogique de France, 1879, Vol. II, N. 6, pag. 170. «......... ce qui reduwit la loi que Mitscherlich avait cru générale è une série de lois particuliéres dont il faut déterminer le caractère et les limites ». E nel Vol. III, N. 3, 1880, dello stesso giornale, lo stesso autore dice: « De tous ces faits il ressort pour moi la convinetion que la loi de Mitschetlich n'est, dans son état actuel, qu’ une premiére approximation, c’ est-à-dire une hypotèse destinée à ètre remplacie un jour par une formule positive ». — dll — A mio parere è infondata la massima che la Mineralogia, la Botanica, e la Zoologia debbono avere gli identici principî tassonomici, pel semplice motivo che tutte trattano dei corpi in natura ! Il tipo adunque di cui io invoco la istituzione e che basa sulla struttura mole- colare, ossia sulla somma dei caratteri fisico-chimici, non solo merita di essere ri- conosciuto come il gruppo mineralogico naturale, ma ci dà modo di introdurre, in Mineralogia, un principio tassonomico veramente razionale. Ed anche ci metterà in grado di intendere la natura assai più di quello che oggi ci sia dato di fare. Ed in vero riconosciuta la stretta affinità delle molecole, che (qualunque. sia la natura chimica dei loro atomi) sieno egualmente costituite, noi troveremo na- turalissimo che nello stesso tipo entrino i corpi più vari per chimica composizione, e ci meraviglieremo anzi, quando ci accadrà di trovarne di natura affatto identica! Vale a dire desisteremo dali’ assurdo in cui siamo nel pretendere che nel gran crogiuolo di natura avvenga quella purezza di reazione qualitativa, che troppe volte neppure ci vien fatto di raggiungere nel crogiuolo del chimico. Voglio dire che troveremo, finalmente, naturale la pluralità dei così detti ibridi, e po- tremo convincerci come la specie quale oggi si intende non esca dal novero dei fatti eccezionali, e non sia che uno dei molti momenti di natura. E come natura ha rimesso al caso, ossia ad un cumulo di circostanze affatto secondarie, la formazione delle modalità di un tipo, così noi introducendo un’altra volta entro i limiti del tipo la convenzione, saremo in grado di interpretarlo anche nei suoi modi più particolari di essere; e fra gli altri corpi intenderemo benissimo anche un anfibolo senza magnesia, quale presentai ultimamente; e senza ledere i principi generali della scienza, istituendo nel tipo le varietà, acquisteremo la libertà di consacrare con un nuovo nome, anche un fatto mineralogico che solo si distin- gua per località o per scala di sviluppo. «A questo punto presento le conclusioni del mio lavoro : 1° Il fatto del dimorfismo ed in genere del polimorfismo, si interpreta perfet- tamente come un fatto di polimeria. 2° La legge del Mitscherlich, per conseguenza, acquista un significato ben maggiore ed assoluto di quanto abbia avuto fin ora. Il dimorfismo, cioè, non ne è più la più grave obbiezione, ma ne è anzi una conseguenza necessaria. 3° La costituzione molecolare risponde perfettamente al concetto di tipo, come gruppo naturale in mineralogia. Essa collima inoltre coi fatti fisico-chimici che la rendono di pratica applicazione per uso tassonomico. 4° Il #po adunque è il gruppo più naturale in mineralogia, ed è anche il più opportuno per i bisogni pratici della scienza. — 412 — 5° La specie mineralogica, quale oggi si intende, non ha vera base scienti- fica, non presenta la natura che ne’ suoi momenti eccezionali, ed attraversa troppo spesso i fatti mineralogici. — Essa non va quindi riconosciuta. La comunicazione di qualche nuovo fatto sperimentale comprovante il concetto della polimeria come spiegazione del polimorfismo, nonchè di uno schema di ri- partizione del regno minerale i» tipi, secondo la definizione che oggi ne ho data, formerà argomento di una successiva comunicazione. ii AVANZI DI SQUALODONTE NELLA MOLLASSA MARNOSA MIOCENICA DEL BOLOGNESE CENNI DEL PROF. GIOVANNI CAPELLINI (Sessione ordinaria del 28 Aprile 1881). Fra i fossili più notevoli raccolti in questi ultimi anni nel territorio bolognese, sono certamente da annoverare alcuni avanzi di un cetodonte che, fin da princi- pio, accennerò doversi riferire al genere .Squalodon. Nel 1878 il signor Dott. Angelo Manzoni intento a ricercare echinodermi nella mollassa marnosa dei dintorni di Iano, ebbe la buona fortuna di trovare i pochi ma preziosi avanzi che in parte sono rappresentati nella annessa tavola e che mi propongo di illustrare con la presente Nota. Il signor dott. Manzoni sapendo quanto io mi interessassi dello studio dei ce- tacei fossili, non solo ebbe il gentile pensiero di informarmi della sua scoperta, ma non esitò di mettere altresì a mia disposizione i frammenti ossei da lui sco- perti, perchè ne potessi arricchire la collezione paleontologica bolognese. Gli esemplari di mollassa con resti di squalodonte raccolti dall’ egregio natu- ralista, provenendo dalla recente escavazione di alcune fosse per viti, si poteva presumere di trovarvi ancora altri avanzi dello stesso animale; con tale intendi- mento, senza perder tempo, mi recai a visitare la località anche per rendermi esatto conto del giacimento. Dal Sasso dirigendosi a S. Leone, o come altri dicono a S. Leo, in vicinanza di questa località si trovano marne arenacee compatte mioceniche identiche a quelle di S. Luca e di Paderno tanto per i caratteri litologici quanto per i fossili che vi sono annidati. Queste marne presso S. Leone a circa 200 m. sul mare sono in strati distintamente inclinati verso nord e vi si osservano amigdale e grossi noc- cioli di vera mollassa, i quali spesso sì coordinano in guisa da simulare quasi delle vere intercalazioni in mezzo alla marna arenacea o mollassa marnosa tenera. Proseguendo verso Iano giunti al podere detto Bizzollo, di proprietà del signor Luigi Minelli, in vicinanza di esso si trova un altro podere del curato di Iano e fu precisamente in questo secondo che all’ altezza di m. 365 sul livello del mare i! — 4dl4i — vennero cavati i massi di mollassa marnosa coi resti di squalodonte ai quali di- sgraziatamente nulla più trovai da aggiungere. Poichè i dintorni di S. Leone e di Iano sono relativamente ricchi di fossili delle marne compatte e mollasse marnose mioceniche, anche nei massi dai quali provenivano le ossa delle quali si tratta, potei notare avanzi di Atuia Aturi, Solenomya Doderleini, Spatangus Paretii, Lucina sp. ed altri fra î più comuni e più caratteristici fossili miocenici; sicchè sulla determinazione cronologica del gia- cimento non potea restare alcun dubbio. Accennato come il genere Squalodonte oggi figuri nella lista dei vertebrati fos- sili bolognesi, prima di far conoscere gli scarsi avanzi che finora ne possediamo, credo opportuno di ricordare in quali altre località italiane già sì trovarono resti di questi interessanti cetodonti. Sebbene nell’ ottobre del 1859 il signor Prof. R. Molin sia stato il primo ad annunziare la presenza nei terreni terziari italiani di resti di animali affini agli squalodonti, riferendo al genere Packyodon (oggi sinonimo del genere Squalodon) alcuni molari che nell’ aprile di quello stesso anno, il Prof. Tommaso Catullo aveva trovato nell’ arenaria di Libano presso Belluno (1); pure come altra volta ebbi ad accennare, fino dal 1850 il Prof. O. G. Costa aveva figurato e descritto denti di Squalodonte raccolti nei dintorni di Lecce in Terra d’ Otranto. Il prof. Costa attribuendo i denti di Squalodon a un nuovo genere di pesce che indicò col nome di Ahytisodon, lo collocò fra i generi di incerta sede e soltanto. parecchi anni dopo, avendo visto nel museo di Torino un modello di dente di Squalodon, ne riconobbe i rapporti con quelli pei quali aveva fondato il nuovo genere Fhytisodon (2) e nella Paleontologia del regno di Napoli lo indicò senz’ altro come sinonimo del genere Squalodon di Grateloup e vi riferì gli esemplari raccolti nella pietra leccese. Nel 1868 il prof. Suess descrisse un dente di Squalodonte trovato a S. Miniato in Toscana e opinò che potesse appartenere a specie diversa da quelle già note, come infatti riconobbe il Brandt il quale nel suo lavoro sui cetacei fossili e sub- fossili di Europa pubblicato nel 1873 lo indicò col nome di Squalodon Suessi (3). Nello stesso anno 1873 e nella stessa opera il prof. Brandt fece pur conoscere i resti molto interessanti di un nuovo Squalodonte trovato negli strati inferiori del (1) Molin prof. R. — Sulle reliquie d’un Packyodon dissotterrate a Libano due ore a Nord- Est di Belluno in mezzo all’arenaria grigia. Sizungsber. K. K. Alkad. Wien B. XXXV. Wien 1859. Molin prof. R. — Un altro cenno sulla dentatura del Packyodon Catulli. Sitzungsber. B. XXXVIII. Wien 1860. (2) Costa O. G. — Paleontologia del regno di Napoli, Parte II presentata nell’ adunanza del 25 agosto 1850. Tomo VII. Napoli 1851. Costa 0. G. — Paleontologia delle provincie napoletane. Appendice I. pag. 82. Napoli 1863. (3) Brandt — Untersuchungen ueber die fossilen und subfossilen Cetaceen Europas, Mem. de l° Acad. des sciences de S. Petersbourg. Ser. VII. Vol. XX. pag. 330. S. Petersbourg 1873. °° VVILTIIIIZZ — 415 — miocene medio di Aqui in Piemonte e dei quali il prof. Gastaldi gli aveva comu- nicato 1 disegni. Fu con quei resti che il prof. Brandt facendo rilevare i caratteri pei quali lo squalodonte di Aqui differiva dagli altri fino allora conosciuti, costituì la specie Squalodon Gastaldii (1). Se si eccettua che i denti trovati a Lecce e figurati dal Costa furono esaminati dal prof. Gervais nel 1871 e da esso ricordati come veramente riferibili al genere Squalodon, ciò. che lo stesso Costa aveva riconosciuto fino dal 1865, dopo il lavoro di Suess e prima di quello di Brandt si avrebbe soltanto da notare che un altro dente trovato nella collezione Costa e da esso descritto e figurato nel 1865 come dente di coccodrillo, sezionato e studiato dal prof. Guiscardi nel 1872 da esso veniva registrato come probabilmente di Squalodon (2). Nel 1876 comparve l interessante Memoria con la quale il valente ed erudito paleontologo Barone Achille De Zigno fece conoscere nuovi resti di uno squalo- donte scoperti due anni prima nell’'arenaria miocenica del Bellunese. Il Barone De Zigno narra che quel rimarchevole esemplare fu scoperto nel 1874 dal Signor A. Guernieri zelante raccoglitore di fossili del Bellunese e che ad esso fu comunicato, per studio, dal Signor Conte Carlo Avogadro degli Azzoni che ne è il fortunato possessore; e nota che dopo le prime scoperte del Catullo nei dintorni di Belluno era stato trovato altro frammento di mascella di Squalo- donte che dal Signor Trinker fu donata all’ I. R. Istituto geologico di Vienna. Quell’ esemplare, del quale nella collezione dei vertebrati fossili del museo bolo- gnese possediamo un bellissimo modello, è una mascella superiore con 14 denti e senza dubbio si può ritenere come il più completo che finora sia stato trovato in Italia. Il Barone de Zigno ritenendo di non doverlo distinguere dalla specie alla quale furono riferiti i resti illustrati dal Molin lo indica, senz’ altro, col nome di Squalodon Catulli (3). In una Memoria che ebbi l onore di presentare a questa Accademia nel marzo 1878, illustrando alcuni fossili della pietra leccese ebbi a far conoscere altri avanzi di squalodonte raccolti dal Cav. U. Botti negli strati più profondi della pietra lec- cese, ricca di glauconia, e nella quale fra gli altri fossili riconobbi abbondante il Pecten Koehni che il Fuchs aveva illustrato fra i molluschi delle marne di Malta e trovai pure un bello esemplare del Pecten Felderi, fino allora conosciuto soltanto fra i fossili del calcare di Leitha nel Bacino di Vienna (4). (1) Brandt — Mem. cit. pag. 326; Tav. 32 fig. 1-23 (2) Guiscardi Prof. G. — Annotazioni paleontologiche. Att della It. Accnd. delle Scienze fisi- che e matematiche. Vol. V. Napoli 1872. (3) De Zigno B.ne A. — Annotazioni paleontologiche sopra i resti di uno squalodonte sco- perti nell’arenaria miocenica del Bellunese. Mem. del KR. Ist.. Veneto di Scienze, Lettere ed Arti. Vol. XX. Venezia 1876. (4) Capellini G. — Della pietra leccese e di alcuni suoi fossili. Mem. dell’ Accad. delle Scienze dell’ Istit. dî Bologna. Serie III Tom. IX. Bologna 1878. — 416 — In ordine cronologico a questo punto trova suo posto la scoperta degli avanzi di squalodonte nel Bolognese, che oggi credo opportuno di far conoscere, indicando altresì a quale fra le specie già note verosimilmente sono da attribuirsi. AVANZI DELLO SQUALODONTE DELLA MOLLASSA MARNOSA DI IANO Squalodon Gastaldii, Brdt? Il frammento principale, sebbene non del tutto il più importante, è quello che vedesi rappresentato in grandezza naturale nella figura 1° della annessa tavola. Esso consiste in una porzione di cranio che mediante lungo e paziente lavoro potei riescire a liberare dalla roccia nella quale era sepolto per la parte infe- riore interna, sebbene le ossa aderissero così fattamente alla pietra che più volte dubitai di non poter riuscire nel mio intento. La parte meglio conservata e più caratteristica che si nota in questo esemplare è il frontale destro assai bene con- servato e sul quale si vede chiaramente come si stende, ricoprendolo in grandis- sima parte, una porzione del mascellare destro. La porzione orbitaria e la faccia inferiore liberate dalla roccia sono perfettamente conservate. Un frammento osseo che nella fig. 1° è disegnato in posto, come fu trovato, sembra essere una piccola porzione del giugale che nei delfinoidi in generale è esilissimo. Posteriormente l'esem- plare termina ove il frontale avrebbe dovuto mettersi in rapporto e congiungersi col temporale e coll’ occipitale coll’ intermezzo del parietale. Nel lato anteriore vi ha un principio del rostro e vi si scorge ancora un piccolo avanzo degli inter- mascellari e dei palatini? Le figure 2° e 3° rappresentano i resti dell’ apparato auditivo sinistro parimenti in grandezza naturale. Nella fig. 2* questo apparato, considerato nella sua posizione naturale, è visto per il lato superiore interno e sebbene molto danneggiato si può apprezzare la forma della cassa timpanica nella sua parte posteriore e la forte depressione che presenta sotto al margine columellare esattamente come si osserva nello Squalodon Grateloupi del museo di Lione. Alla rocca poco manca per essere completa, ma quantunque nei cetodonti sia . unita alla cassa timpanica per sutura armonica, a motivo della estrema fragilità. delle ossa e per la difficoltà di liberarle dalla roccia durissima incassante e che. ne riempie tutti gli interstizi, non ho azzardato di separare le due parti, le quali del resto sono denudate quanto occorre per rendersi conto esatto della loro forma. Nella citata figura vedesi la parte esterna del vestibolo perfettamente conservata . -— dll — e con le diverse fossette messe allo scoperto. Ben distinta è 1 apofisi posteriore o temporo-occipitale piramidata, ma essendo fortemente aderente al temporale non ho azzardato di tentare di separarla, anche perchè 1 esemplare è molto fratturato. L’' apofisi anteriore manca come manca la parte della cassa auditiva corrispondente all ingresso della tromba eustachiana. La fig. 3° rappresenta lo stesso apparato visto per la faccia posteriore e per essa è facile di rendersi conto della forma schiacciata della cassa timpanica e dei rapporti della apofisi posteriore dell’ osso petroso o rocca con il temporale e l' oc- cipitale, sicchè altra volta proposi di chiamare questa apofisi temporo-occipitale piuttostochè apofisi mastoidea come è detta in generale dai cetologi. Nelle figure 4°, 5° è rappresentato l’ unico dente che trovai sepolto nella roccia dalla quale liberai la porzione principale del cranio; esso ci presenta la forma lanceolata caratteristica dei denti anteriori dei squalodonti, il suo margine non è crenulato ma neppure tagliente, lo smalto della corona presenta lmeette longitu- dinali come si osserva nei denti anteriori di parecchie specie di questi animali. ] . . ; 4 5a i Le . 4 canini; 2, premolari tutti La dentizione dei squalodonti essendo %4 incisivi; semplici e ‘4 molari posteriori con margine crenulato, sarebbe difficile, per non dire francamente impossibile di precisare il posto da assegnare, in serie, al piccolo esemplare di Iano fra gli otto denti anteriori dell’ animale, sebbene i cetologi ri- conoscano che quasi ciascun dente presenta qualche piccola differenza caratteristica. Bisogna confessare che di questi delfinoidi sì conosce ancora poco, non avendo per ora trovato in copia resti abbastanza completi per poterne studiare tutte le piccole differenze scheletriche. Anche sotto questo punto di vista importa moltissimo di attirare 1’ attenzione dei naturalisti e specialmente dei raccoglitori di fossili sulle località ove essendo già stati trovati avanzi di questi xifioidi vi hanno maggiori probabilità di poterne trovare altri di grande interesse per la paleontologia. Nella figura 5° lo stesso dente è rappresentato dal lato posteriore perchè meglio se ne possa apprezzare la figura cultriforme; manca una porzione della radice c la fragilità dell’ esemplare non mi permise di staccarlo completamente dalla roccia La figura 6° offre, in grandezza naturale, il corpo di una piccola vertebra sepolta in parte e immedesimata con la roccia in modo da essere riescito inutile ogni tentativo di liberarnela. Malgrado che non abbia potuto apprezzare esattamente la lunghezza di questa vertebra, mancante inoltre delle sue apofisi, ritengo che essa sia una delle prime dorsali, forse la seconda o la terza. Un frammento di costa non figurata, lungo nove centimetri e largo venticinque millimetri, sembra sia da riferirsi ad una delle prime coste sternali. Finalmente nella figura 7° è rappresentata una falange la quale per la forma e per le dimensioni sembra doversi riferire alla terza o quarta falange dell’ indice ovvero del dito medio, almeno per quanto ho potuto dedurre dai confronti istituiti con le diverse ossa omologhe di delfinoidi viventi e fossili. TOMO II. 53 — 418 — Sebbene i descritti avanzi dello squalodonte di Iano siano insufficienti per indicare con precisione a quale specie debbansi riferire, ciononostante per un com- plesso di considerazioni e sopratutto per le dimensioni dell'unico dente trovato ho azzardato di accennare, dubitativamente, che si tratti dello Squalodon Gastaldii. Non avendo veduti i resti di Squalodonte trovati nelle cave di calcare di Scicli al sud di Modica in Sicilia e donati al museo di Storia naturale di Firenze, ove sa- ranno studiati dal Dott. Major, non posso per ora istituire con essi alcun confronto. Le notizie intorno allo Squalodonte di Sicilia saranno accolte con interesse dai naturalisti, non soltanto per la importanza che potranno avere per la paleontologia e per i rapporti dei terreni terziari dell’isola con quelli del continente; quanto ancora perchè Agostino Scilla, pittore Messinese, fu il primo che figurò avanzi di animali di quest’ ordine. Il frammento di mascella coi tre denti caratteristici (1) fu trovato nell’ isola di Malta in un terreno che litologicamente e cronologicamente corrisponde alla pietra leccese, si conserva nel museo di Cambridge e quasi due secoli dopo la scoperta fu illustrato prima dal Blainville e poscia dall’ Agassiz il quale lo riferì al genere Phocodon e in onore dello Scilla lo chiamò Phocodon Scillae (2). I resti figurati da Scilla, seguendo la più recente opinione espressa dal Ger- vais (3) in conformità di quanto già aveva notato il Brandt, sono da ritenersi essi pure nel vero genere Squalodon e il genere Phocodon più non esisterebbe; quindi Malta sarebbe la località la più meridionale in cui si trovarono avanzi di Squa- lodon nell’ emisfero settentrionale. E quì, senza entrare in particolari, dirò che, a proposito della distribuzione geo- grafica dei generi Zeuglodon e Squalodon, molto interessanti sono le considerazioni con le quali il B."° A. de Zigno termina la sua bella memoria già più volte citata. Secondo il dotto paleontologo il genere Squalodon, per ora, sarebbe stato segna- lato nei due emisferi a distanza eguale dall'equatore, cioè a 36° di latitudine meri- dionale, e ritenendo pliocenici i resti di squalodonte trovati in Belgio e in Inghilterra, arriverebbe alla conclusione che nel nostro emisfero questi cetodonti verso la fine dell’ epoca terziaria si spinsero fino al 52° di latitudine settentrionale, ammettendo così una progressione verso nord. Disgraziatamente di questi singolari animali non essendosi finora scoperto alcun rappresentante nella fauna attuale, intorno alle loro abitudini e alle stazioni che prediligono regna maggiore incertezza che non per altri animali coi quali pare abbiano vissuto nell’ epoca terziaria, poichè insieme ne troviamo gli avanzi scheletrici. Il Van Beneden opina che i Zeuglogonti fossero animali carnivori a stazione littorale e che gli Squalodonti fossero carnivori a stazione pelagica. I resti di Squa- (1) Scilla Agostino — La Vana speculazione disingannata dal senso, pag. 123. Tav. H fig. I. Napoli 1870. (2) Agassiz — Repertorium de Valentin p. 236. 1845. (3) Gervais et Van Beneden — Ostéographie des Cetacés fossiles et vivants, pag. 520. — 419 — lodonte trovati a Iano in depositi di mare profondo confermerebbero queste vedute: ma d’ altra parte poichè sappiamo che sovente le ossa di Squalodonte si trovano con quelle dei Sirenoidi i quali sono erbivori a stazione littorale, il de Zigno giu- stamente opina doversi ammettere che anche gli Squalodonti abitassero talvolta lungo i littorali, nei golfi e presso le foci dei grandi fiumi come in altra circo- stanza ebbi occasione di dimostrare per i Felsinoteril. SPIEGAZIONE DELLA TAVOLA Squalodon Gastaldii. Fig. 1° — Porzione di cranio nella quale è ben conservato il frontale destro. » 2° — Apparato auditivo sinistro. s 5° — Lo stesso visto posteriormente. | , 4, 5* — Dente semplice anteriore. | | s 6° — Vertebra dorsale. | | > ® — Falange. | N. B. — Tutte le figure sono in grandezza naturale. Lit. G. Wenk. n Bologna LU Net Ie rare putin G.Capellini — Squalodon. Tom.IL. a Mem. Serie 4 SQUALODON GASTALDII SULLE MURE DEL CORPO NEI BOLOGNESI RICERCHE ANTROPOMETRICHE del Dott. GIUSEPPE PELI CON UN'APPENDICE STORICA SULL'ANTROPOMETRIA del Professor CESARE TARUFFI (Sess. Ord. del 10 Marzo 1881). Un argomento che ha destato particolare interesse in ogni tempo per gli artisti imitatori della natura, ma che finora, può dirsi, non fu per anco indagato dagli anatomici in modo veramente proficuo, si è quello che riguarda la nozione ed i rapporti delle misure del corpo umano. E invero se gli scultori ed i pittori sentirono mai sempre il bisogno di cono- scere le proporzioni nel corpo dell’uomo per ritrarlo nella forma più perfetta e rappresentarlo in tutte le dimensioni, i cultori dell’Anatomia invece non furono stimolati da veruna cagione ad intraprendere la medesima opera per raggiungere il vero nelle sue varie manifestazioni, salvo nella rara contingenza di stature alte o basse fuori dell’ ordinario, di nuove razze esotiche, e di ricerche medico-legali. Ora però che l Antropologia è sorta coi suoi numerosi e difficili problemi, ha chiesto alla scienza anatomica di rilevare le misure tanto generali quanto parziali del corpo, al fine di avere con precisione le differenze delle diverse razze e anzi delle genti varie di uno stesso regno. A tale quesito l’ Anatomia già in parte ha risposto fornendo le misure della regione più cospicua quale si è la testa, le quali prese tanto nei popoli viventi ed estinti d’ Europa, quanto altresì in quelli d’ altri paesi ancor poco noti. Ed a questo proposito sono da ricordare le memorie assai importanti pubblicate dall’ illu- stre Calori, fra cui quella in ispecie che comprende la descrizione di cento teschi d’ individui adulti bolognesi (1). Ma per ciò che si riferisce alle dimensioni del corpo nelle nazioni Europee, la scienza suddetta non ha per anche soddisfatto adeguatamente il suo debito, e fra gli studi che deve compiere havvi tuttora l antropometria degli Italiani. (1) Catori L. — Del tipo brachicefalo negli Italiani odierni. Mem. dell'Istituto di Bologna 1868, Tom. VIII. pag. 205. — 422 — Egli è pertanto coll’intendimento d’ovviare in qualche modo a cotesta lacuna, che da oltre due anni, per incarico del Chiar.° Prof. Taruffi, io mi sono impegnato di ricercare, il più giustamente che fosse possibile, la reale lunghezza, non che i rap- porti delle varie parti del corpo nell’ uomo e nella donna, procurando nello stesso tempo di seguire le regole più consentanee alle esigenze della moderna antropologia. Tali misure sono andato prendendo in cadaveri d’ individui adulti d’ ambo i sessi, in numero di sessanta sia dei maschi, sia delle femmine, che servir dovevano agli esercizit d’ Anatomia Patologica nella R. Università di Bologna, escludendo da quelli i soli mal conformati per alterazioni nello scheletro (1). Ottemperato così a tal uopo, presento ora, quale tenue contributo all’ Etno- grafia Italiana, cotesto mio studio, il quale avendo io compito sulla stessa popola- zione da cui il sullodato Calori ritrasse la sua craniometria, può considerarsi come una modesta appendice a quel pregevolissimo lavoro. Io poi avrei desiderato di corredare il mio scritto con molti raffronti, ma se si toglie il paragone della statura, su cui abbondano i dati rispetto a molti popoli, per tutte le altre dimensioni del corpo, non potei che apprendere ben poche notizie e non sempre conformi al fine propostomi, giovandomi dell’opera del Quetelet sui Belgi (2), del piccolo saggio fatto dal Sappey sui Parigini (3), e, per alcune di- mensioni, delle misure assunte dal Gould nei soldati al servizio dell’ America del Nord (4). La prima ricerca, siccome più rilevante, si è stata quella relativa alla statura, e ad essa ho adempito mettendo il cadavere in posizione orizzontale, e con un nastro metrico, di provata esattezza, pigliando la distanza fra la sommità del capo (a capegli tagliati) e la pianta del piede, di cui, per maggior precisione, stabiliva il piano adoperando squadri a pezzi mobili e tenendo la testa sempre in guisa, che il piano delle orbite fosse proprio in direzione dell’ orizzonte. Dal piano del vertice suddetto segnava poscia l intervallo alla sinfisi pubica e all’ origine degli organi genitali, affine di verificare quale di questi due punti sia quello che più si approssima alla metà della totale lunghezza del corpo. Per l altezza della testa ho fissato il detto piano superiore e quello del mento; il piano del vertice e la linea sopraorbitale (5) per quella del cranio, onde il resto, (1) Quantunque i risultamenti craniometrici ed antropometrici permettano di considerare come bastante una serie di sole 20 osservazioni omogenee (V. Broca P. — Instructions generales pour les recherches antropologiques à faire sur le vivant — Paris 1879; pag. 188), pure per maggior sicu- rezza, ho triplicato questo numero in entrambi i sessi. (2) QuereLET Ad. — PXysique sociale ou Essai sur le developpement des facultes de V homme — Bruxelles 1869. — Ipem. Antropometrie. Bruxelles 1871. (3) Sapper Ph. C. — Traité d’ Anatomie descriptive — Paris 18:60: Tom. I. pag. 21-28. (4) Gouup B. — Antropological Statistic of American Soldiers — New-York 1869. (5) Questa linea ho preferito non perchè sia più razionale d’ogni altra, ma pel motivo che essa è più adottata in genere dagli antropologi, e può quindi somministrare dati confrontabili con quelli di altri osservatori. — 423 — ossia l estensione da tale linea sopraorbitale al piano del mento, indicavami senz’ al- tro la lunghezza della faccia. Il tronco ho misurato in ogni caso con isquadri orizzontali, attenendomi al sistema più facile ed anche più in uso, vale a dire a quello del Gould (1), il quale parte dalla settima vertebra cervicale e arriva al piano delle tuberosità ischia- tiche. La sommità dell’omero e l'estremo del dito medio mì servirono per la totale lun- ghezza dell'arto superiore, il quale misurava poscia ne’ suoi precipui segmenti, mo- vendo pel braccio dal capo dell’ omero e arrivando alla piegatura del cubito, per l’avambraccio da quest’ ultima all’ apice dell’ apofisi stiloide del radio, e per la mano dal piano della prefata sporgenza all’ estremità del dito medio. Rispetto agli arti inferiori, la lunghezza complessiva venne determinata dall’ apice del trocantere e dal piano della pianta del piede: il tratto dal trocantere mede- simo alla linea articolare del ginocchio, ossia alla leggiera depressione che si riscontra col palpamento ad un dito trasverso circa al dissopra della testa del perone (bene avvertibile, perocchè sopra e sotto questa fossetta la resistenza si fa ossea), seenavami la lunghezza propria della coscia, laddove quella della gamba estendevasi fra il piano di cotesta linea articolare e l’ estremo del malleolo interno. Da tale punto prolungando la fettuccia alla pianta del piede, aveva l’ altezza appros- simativa di questo, quale almeno si può conseguire adoprando sul cadavere o nel vivente, in cui non è dato discernere la base del malleolo che corrisponde nello scheletro al limite superiore dell’ astragalo. La lunghezza del piede poscia io assumeva per due piani, di cui l'uno rispon- dente alla faccia posteriore del calcagno, l’ altro all’ estremità del dito grosso. Nelle dimensioni trasversali del corpo si comprendono, superiormente, il diame- tro biacromiale, cioè 1’ intervallo fra il margine esterno dei due acromion, il bio- merale ovvero quello fra il piano esterno della testa degli omeri; e, alla parte infe- riore del tronco, il bisiliaco ossia la distanza dei due punti più lontani delle creste iliache, e il bitrocanterico corrispondente a quella fra il margine esterno di ambo 1 trocanteri, misure tutte che venni pigliando facendo uso di un compasso di spes- sezza del Mathieu, con aggiunta d’ una lamina metallica trasversale ed egualmente graduata, ogniqualvolta il diametro da misurare eccedesse quella dell’ istrumento. Tutti 1 punti estremi di ciascuna misura surriferiti ( points de repère dei Fran- cesì) corrispondono agli indicati anche ultimamente dal Broca (2), eccetto quello che limita il braccio dall’ avambraccio, pel quale V Autore citato presceglie la pro- minenza dell’ epicondilo. A questa ho invece anteposto la piegatura del cubito, perchè (come altrove notai (3)), la medesima sovrasta precisamente alla linea arti- (1) Gounp B. Op. cit. (2) Broca P. — Instructions generales pour les recherches antropologiques à faire sur le vivant — Paris 1879 p. 118. (3) PeLI G. — Lussazione complicata dell’ estremo superiore del radio. Bologna 1879 p. 6. — 424 — colare, dove che 1’ epicondilo vi è 15 millim. al dissopra (1), e inoltre per man- tenere l uniformità di metodo con quanto si pratica pei due grandi segmenti del- l’ arto inferiore. Seguendo tali norme, ho poi raccolto le cifre ottenute dalle misure d’ ogni cada- vere, colle quali sono riuscito a comporre per le dimensioni del corpo in ambo i sessi due tabelle (V. Tab. I. II in fine), e a dedurre da queste altre due più semplici, in cui si rilevano le medie aritmetiche o soggettive (ossia quelle che si desumono dal numero delle osservazioni preso come divisore della somma totale delle misure stabilite) (2), e di più le dimensioni massime e minime di cadauna regione (diabp LUXE: Per ovviare poi alle censure di recente mosse contro l uso di tali medie (3), dopo che le medesime eransi ritenute la base più sicura dell’ antropologia (4), ho pure compilato altre due tabelle (V e VI), in cui le misure tutte son disposte in serie progressive. Nelle quali tabelle vengono eziandio denotate le medie ottenute col metodo anzidetto (5) a cui si attribuisce il merito , di scoprire, non solo il modo di distribuzione dei valori individuali lungo una determinata scala di grandezze, ma di permettere altresì di paragonare fra loro due serie diverse , (6); e 8 aggiunge che , il confronto seriale pone in luce caratteristiche differenziali dei gruppi d’ indi- vidui, quando però questi sieno costituiti secondo tutte le norme del metodo stati- stico, cioè con omogeneità e comparabilità di dati ,, (7) il che non può aversi certo dalla media aritmetica, alla quale si obbietta appunto la instabilità dei caratteri. Venendo in fine ai risultamenti degli esami fatti con questi due metodi ecco quanto sl ricava per ogni dimensione : N. 1° STATURA Uomini Donne Media aritmetica MSI L(ONISATA I LOIChO) » delle serie Ma 00. LT (1) Broca P. — Op. cit. pag. 123. (2) BeRTILLON — Arf. Moyenne, dans le Dictionnaire encyclopedique des sciences medicales sous la direction de Dechambre, riassunto nell’ Archiv. per 1’ Antropologia ed Etnologia. Firenze 1879, Vol. IX, Fasc. I. pag. 155. (5) MorseLLI E. — Sul peso del cranio e della mandiboa in rapporto col sesso. Archivio per l’Antrop. Firenze 1875. Anno V. Fasc. 2° pag. 149-199. Le Box — Recherches anatomiques et mathéematiques sur les lois de variations du volume du cerveau ecc. Revue d’Antrop. de P. Broca. Serie II. Fasc. I. Paris 1879. pag. 27-104. MorseLLI — Critica e riforma del Metodo in Antropologia, fondate sulle leggi statistiche e biologiche dei valori seriali e sull’'esperimento. Roma 1880. (4) Broca P. — Op. cit. pag. 28. (5) Il metodo per serie consiste nell’ordinare le misure assunte procedendo dalle più piccole: alle più grandi: quella d’esse che indica il massimo di frequenza, ne esprime la media. (6) (7) MorsELLI — Critica e riforma ecc. — 425 — Da tali cifre di leggieri si desume che la statura è più elevata secondo la media per serie (3 millim. negli uomini, 26 nelle donne), di quello che colla media aritmetica. Se i dati medesimi comparar si vogliano a quelli che posseggonsi mercè le ricerche sinora istituite dai viaggiatori su un gran numero di popolazioni, per le quali la statura dell'uman genere può valutarsi 1600 (1), se ne inferirà ben tosto che nei Bolognesi l’ altezza totale, in media aritmetica, è superiore a questa cifra senza però raggiungere l alta statura; mentre per la donna, pure di Bologna, la statura rimane al novero delle piccole, non toccando metri 1,588, che è la media altezza muliebre ammessa dal Topinard (2). Rapportando gli stessi dati all altezza totale media dei Belgi (m. 1,686) offer- taci dal Quetelet (3), notasi in questi una differenza di 11 mill. in meno rispetto ai Bolognesi, e di mill. 31 in più al contrario nelle donne Belghe (m. 1,580) su quelle di Bologna. Ai Parigini (alti in media aritmetica m. 1,692) (4) sono superiori i Bolognesi di 5 mill., laddove le nostre donne stanno al disotto delle Parigine mill. 40. Che se per rendere più prossimo al caso nostro il paragone, approfittiamo delle numerose relazioni sulle Leve, presentate dal Generale Torre al Ministero della Guerra (5) e da queste ricaviamo l'altezza totale dei Bolognesi ventenni, secondo la disposizione per serie, (Vedi Tabella VII) scorgeremo come il più dei mi- surati (dalla Leva dell’anno 1843 sino a quella del 1858) abbia la statura tra 1,620 e m. 1,700 ovvero in media 1"660: il che mostra un divario in meno di 4 cen- (1) Torinarp P. — L’ Antropologie. Paris 1877, pag. 323. IpeM. — Etude sur la taille. Revue d’Antrop. Paris. 1876. Tom. V. N. 1, pag. 84. (2) Op. cit. — Quest’ Autore che, per quanto io mi sappia, si è occupato della statura nel modo. il più esteso, dichiara invero esplicitamente che, nove volte su dieci, è l’uomo solo che si misura, e sopra tale criterio fonda la sua divisione delle stature in: 1° quelle al dissopra della media (da m. 1,659 inclusivamente a m. 1,700). 2° al dissotto della media (da m. 1,600 a metri 1,650 inclusivo). 3° in stature alte (quelle che oltrepassano m. 1,700). 4° in basse (quelle che non raggiungono m. 1,600). A ciò Egli arroge, che un’ altra distinzione la quale si facesse per la donna, dovendo avere per forza un diverso punto di partenza, non varrebbe che a confondere, ma che dietro suoi cal- coli, basta elevare di dodici centimetri la media della statura femminile per rendersi conto ben- tosto del gruppo mascolino ove sarebbe essa da classificare. (3) QuETELET Ap. — Antropometrie. Paris 1871, pag. 418. (4) Sapper — Op. cit. pag. 21-23. (5) Torre Gen. Fen. — Relazione delle Leve sui giovani nati dal 1843 al 1858. Torino 1865. Firenze-Roma 1860-1880. V. anche: LomBroso C. — Sulla statura degli Italiani in rapporto al- l Antropologia e all’ Igiene. Archivio per l’ Antrop. ed Etnologia. Firenze 1873. Vol. III, fasc. 3° e 4°, pag. 373. Per tale studio l'A. si è giovato, oltre delle classiche memorie del general Torre suddetto, dei bei lavori del Cortese, del Commisetti, Baroffio, Sormanni, Fiori, Morpurgo, Franchini, e dei rapporti inediti che spiegano le cause di esenzione in ciascuna Provincia, spedite dai Prefetti al Ministero della Guerra. TOMO II. D4 — 426 — timetri nell’ altezza dei giovani rispetto a quella degli adulti (m. 1,700), e quanto per conseguenza siano imperfette le statistiche rilevate da soggetti che non hanno ancora finito di svilupparsi. Molto più efficace tornerà il raffronto che ora può farsi intorno al sesso mu- liebre, coi Materiali per l Etnologia Italiana raccolti dal Dott. Raseri (1), i quali dimostrano come nelle donne (dai 20 ai 60 anni) la statura diversifichi secondo che appartengono all’ Italia settentrionale o alla meridionale : e invero, da 1678 misure assunte nella prima si è ottenuto una media per serie di 1531 mill.; e da 2012 tolte nella seconda risultarono mill. 1521 in media, onde si hanno 44 mill. in più nelle Bolognesi sulle donne dell’ alta Italia già adulte. DO ATESTA Uomini Donno Media aritmetica DO mo_207 n delle serie mm 9215 mn 900 Questo reperto fa vedere anzitutto come nella disposizione per serie quì le cifre sieno inferiori a quelle della media aritmetica, tanto nei maschi (9 mill.), quanto nelle femmine (mill. 7); oltracciò se dall una parte la media aritmetica sopra data induce a ritenere non retto il principio, ammesso come canone dagli artisti in genere, che il capo sia un ottavo della totale altezza del corpo (per- ciocchè questa, giusta le accennate osservazioni, non riesce che sette volte e mezza irca la lunghezza di quello in ambo i sessi), dall’ altra invece, per la disposizione in serie, la testa si avvicina assai più all ottavo, anzichè al settimo della statura, e conferma quindi il canone predetto. La inedia aritmetica medesima si accorda con quella degli adulti Parigini, in cui l’ altezza totale del corpo equivale a 7 %4 volte la dimensione del capo (2), e di poco scostasi da quella dei Belgi, la cui statura contiene sette volte e ®., la testa, e nelle donne soltanto 7 volte e !4. in media (3). 7 100 3° CRANIO Uomini Donne Media aritmetica mm 74 mm 79 » delle serie COD ma 74,5 Intorno a questa e ad alcune altre delle dimensioni seguenti, non si possono tener confronti, per la deficienza in cui siamo dei relativi dati in altri popoli (4). (1) Raserr — Mauteriali per V Etnologia Italiana. Archivio per l’ Antropologia. Firenze 18/9, Vol. IX. Fasc. 3° pag. 259. (2) Sappey PH. C. — Op. cit. pag. 24-25. (3) QuETELET Ab. — Op. cit. pag. 418. (4) Le ricerche del Quetelet quì non si prestano perchè certe dimensioni non sono state tolte, 0 lo furono da punti diversi dai comunemente prescritti; neppure ci è concesso valerci delle altre — 427 — Solo può trarsi dalla media per serie un aumento, sebbene lievissimo, rispetto all’ aritmetica in entrambi i sessi (mill. 1,5 nell'uomo, mill. 2,5 nella donna). 4° Faccia Uomini Donne Media aritmetica mina led9 pri delle serie n ADI Lt I13}9) » La disposizione per serie, in questa misura, fa scemare la media nei maschi (di 7 mill.), laddove l’ accresce nelle femmine (di mill. 3). 5° Tronco Uomiri Donne Media aritmetica DOO ma 608 » delle serie 00205 OOO Le disparità in tali medie sono assai lievi: diffatti nel maschio le cifre tratte dalle serie aumentano di 2,5 mill. nella femmina invece diminuiscono di mill. 0,5. Per raffrontare questi risultamenti con quelli dal Gould conseguiti sull’ esercito d'America, devesi determinare il rapporto della detta media subbiettiva colla sta- tura ridotta a mille, ed allora si avranno 11 millesimi in più nei Bolognesi, es- sendo la proporzione istessa negli Americani di 378 :1000 (1). Tale differenza rafferma quanto già rese noto il Prof. Taruffi (2), che cioè il tronco è relativa- mente di maggiore lunghezza negli individui di bassa statura e nei nani, in cui raggiunge in media la proporzione di 403 (l'altezza totale essendo rappresentata da 1000), ed è all’ opposto più corto in quelli di alta statura e nei giganti, la cui media segna soltanto 372. Il seguente specchio comparativo avvalora da ultimo un’ interessante osserva- zione dedotta non ha guari dal Topinard (3), il quale dalle proprie misure di 108 scheletri d’ Europei (78 uomini e 30 donne), concluse che il tronco dell’ uomo costituisce un terzo dell’ altezza del corpo 0 poco più in media, e che la donna, a condizioni pari, presenta il tronco più lungo di quello dell’uomo: del Sappey, non avendo egli contrassegnato molte delle sue misure dietro limiti precisi (ad esem- pio quella della faccia, cui esso non accenna se dalla radice del naso o dalla linea sopraorbitale, come pure riguardo al tronco, se dalla settima vertebra cervicale al piano delle tuberosità ischia- tiche, o dalla linea biacromiale al piano istesso), nè sempre dietro limiti esatti, di cui sono prova i termini da lui prescelti, come confini della coscia (dal mezzo della piega della inguine a metà della rotula). (1) Goup B. —- Op. cit. (2) TarurFI C. — Della Microsomia. Bologna 1878. IpeMm. — Della Macrosomia. Milano 1879. (3) Topiwarp P. — Sur les canons anthropometriques. Revue d’Antrop. Paris 1880 T. III, p. 593. — 428 — STATURA TRONCO RAPPORTO ( 78 Europei L65000 00, MASCHI | 60RBoloome sta li69T0 0: | 6610 L00880 30 Europee To43 FI 008 01 FEMMINE i M60EBoloomest eo 49 COSO 0 590005 6° ARTO SUPERIORE Uomini Donne Media aritmetica su TL mm 698 s delle serie DaLTTo mm 675 Secondo la disposizione per serie hannosi 4 mill. in più della media aritmetica nell’ uomo, mill. 23 in meno al contrario nella donna. 7° Braccio Uomini Donne Media aritmetica DO) nu::19/09 » delle serie RORSZO RO 245 Le cifre si eguagliano in ambo le medie relativamente al maschio, acquistano disposte per serie, mill. 10,5 nella femmina. 8° AVAMBRACCIO Uomini Donne Media aritmetica MOMOAA SUODATAT » delle serie Noto do LICORZANTO, Per questa regione evvi 1 solo mill. in favore della media per serie nell’ uomo, e se ne perdono 7 sulla media aritmetica nella donna. 9° Mano È Uomini Donne Media aritmetica RA 08 NS]RO » delle serie 20 95 Nella disposizione per serie i numeri diminuiscono tanto in un sesso (3 mill.), quanto nell’ altro (mill. 4). Dalla grandezza della mano nei Belgi (mill. 190 in media nell’ uomo, e 177 mill. nella donna) che il Quetelet riporta senza però significare da quali punti -— 429 — siasi dipartito (1), si avrebbe una differenza di mill. 18 in più nei Bolognesi e di 12 mill. in più pure nelle donne di Bologna sulle Belghe. La media della mano nei Parigini (2) è del pari inferiore a quella dei Bolo- gnesi (di mill. 11 nei maschi, di 13 nelle femmine). 10° ARTO INFERIORE Uomini Donne Media aritmetica nm 869 TOO » delle serie mu 840 mu 1800 Qui le cifre, disposte per serie, decrescono sensibilmente negli uomini (di 29 mill.), laddove si elevano (di 8 mill.) nelle donne. In questo caso il confronto della nostra media aritmetica con quella dei Belgi è permesso, avendo il Quetelet ado- perati i medesimi termini da noi prescelti, cioè la distanza dal suolo al trocantere. E dal paragone emergono 7 mill. in meno negli uomini bolognesi, e 9 mill. pari- menti in meno nelle donne di Bologna. 11° Coscia Uomini Donne Media aritmetica MAE ZOO) s delle serie DE 450 tn 9:90) La media per serie prevale di 16 mill. nei maschi su quella aritmetica, e x questa invece è superiore all’ altra nelle femmine di mill. 10. 12° Gama Uomini : Donne Media aritmetica DO) CSO s delle serie a 3600 ne SIÀO Nella disposizione in serie le cifre sono inferiori nell’ uomo di 9 mill., ed eguali alla media aritmetica nella donna. 13° PrepE (Altezza) Uomini Donne Media aritmetica ANCO DIGI » delle serie AIR 194 ULSS Tanto nell’ un sesso (3 mill.), quanto nell’ altro (mill. 4), la media delle serie è minore della subbiettiva. (1) QuetELET AD. — Op. cit. pag. 418. (2) SappeY Pa. C. — Op. cit. pag. 26. — 430 — Alla media altezza del piede nei Belgi (1), quella dei Bolognesi resta al dis- sotto di mill. 18 negli uomini, e di 17 nelle donne; dell’ omonima nei Parigini (2), all’ inverso, è più elevata di mill. 11 nei primi, e di 12 mill. nelle altre. 14° Piepe (dunghezza) Uomini © Donne Media aritmetica OO DO) » delle serie ta) 20) In questo segmento il numero pure scema nella media per serie (di 2 mill. nei maschi, di 5 nelle femmine). I Belgi avendo il piede lungo in media aritmetica 264 mill., superano quello dei Bolognesi di mill. 14, e le loro donne (mill. 237) oltrepassano le nostre di solo 7 mill. 15° LINEA BIACROMIALE Uomini Donne Media aritmetica ASX OX) moto, » delle serie UO ezio La differenza, per la disposizione in serie, si è di mill. 10, 5 in più nei ma- schi, e di 1 mill. in meno nelle femmine. Tale diametro si scosta assai da quello dei Belgi, in cui l’ intervallo delle apo- fisi acromiali vien fissato in mill. 394 nell’ uomo, e in 348 mill. nella donna, con una preponderanza di 94 mill. quindi sui maschi bolognesi, e di mill. 69 sulle nostre donne. Il divario sì attenua rispetto ai Parigini, essendo solo di 21 mill. in più sui Bolognesi, e si inverte nelle donne, giacchè hannosi 18 mill. in favore di quelle di Bologna. 16° LINEA BIOMERALE Uomini Donne Media aritmetica LEONI DOO n. “delle serie 99075 mm 340,5 La media delle serie dà, per gli uomiri, un aumento (3, 5 mill.), una diminu- zione invece per le donne (2,5 mill.). Nei Parigini la media è di un solo millimetro più alta di quella dei Bolo- gnesi, e di 9 sull’ omonima delle nostre donne. ( 1) QuetELET Ap. — Op. cit. pag. 418. (2) Sapper Pu. C. — Op. cit. pag. 26. — 431 — 17° LINEA BISILIACA : Uomini Donne Media aritmetica mu DG DI n delle see 2:00 OOO Disposte in serie, le cifre crescono (4 mill.) nella media pei maschi, e vengon meno nelle femmine ({4 mill.). Se alla linea bisiliaca si giudica equivalente il diametro delle anche, preso dal Quetelet sui Belgi (1), devonsi ascrivere allora 58 mill. in più ai Bolognesi, e mill. 64 in più pure alle donne di Bologna su quelle del Belgio. Il rapporto è analogo nei Parigini, essendo inferiori essi di 7 mill. ai nostri uomini e di 9 nel sesso muliebre. 18° LINEA BITROCANTERICA Uomini Donne Media aritmetica DO) TO) n delle serie nn_330,5 mn 330,5 In ambo i sessi emerge una media più elevata nella disposizione per serie {di mill. 2,5 nei maschi, di } nelle femmine.) Confrontando tale diametro bitrocanterico con quello dei Belgi, si hanno in più 3 mill. nei Bolognesi, e 1 mill. pure in più nelle nostre donne sulle Belghe. 19° DISTANZA DAL VERTICE ALLA SINFISI PUBICA Uomini Donne Media aritmetica OT A 4: » delle serie NSD UTO, Nella media per serie il numero ingrandisce, tanto nei maschi (28, 5 mill.), quanto nelle femmine (mill. 11, 5). 20° DisrANZA DAL VERTICE ALL’ ORIGINE DEGLI ORGANI GENITALI Uomini Donne Media aritmetica n 904 LESTONTA » delle ‘serie ti 800,0 Oa Anche per questa estensione le cifre guadagnano nella media delle serie (mill. 21, 5 nell uomo, 18 mill. nella donna.) (1) QuereLET Ap. — Op. cit. pag. 418. — 432 — Ora le due ultime medie aritmetiche (N. 19°-20°) dimostrano che in generale, siccome nei Belgi (1) e nei Parigini (2), la metà del corpo negli adulti Bolognesi si accosta più all’ origine degli organi genitali, di quello che alla sinfisi pubica, laddove l’ opposto si osserva nel sesso femminile. Finalmente riassumeremo le medie suddette nel seguente quadro, aggiungendovi le differenze per ciascun sesso. U©OMMESNT DONTINEI Media Media Differenza Differenza aritmetica delle serie aritmetica delle serie STAVA Re Se Mill. 1697 1700 + 3 1549 1575 + 26 MOSTO: RIO » 224 215 — 9 207 200 — 7 CHIMICI » 74 15,5 + 1,5 uz 74,9 + 2,5 MACCIANt Le » 149 142 — 7 1195) 138 + 3 TRONCO! » 660 662,5 + 2,9 608 607,5 — 0,5 ATIONSUPer ore seo TATO ID + 4 698 675 — 23 BIACCIOLTO A » 320 320 — 292 302,5 + 10,5 A valmbraccio Se » 244 245 + 1 DIL 210 > Manoni ae » 208 205 — 8 189 185 al Arto inferiore . . .. » 869 840 — 29 792 800 + 8 Coscia e Le » 434 450 + 16 400 390 — O Cima e » 369 360 — 9 340 340 —- Piede (altezza). . .. » 66 63 — 3 62 58 — 4 » (lunghezza)... » 252 250 — 2 230 225 — 5 Linea biacromiale . . » 300 310,5 + 10,5 29 2718 — l >Il fbiomeralef nh» 387 390,5 + 3,9 342 340,5 — 1, SREMDISIMaca ae 294 298 + 4 301 300,5 — 0,5 » bitrocanterica. » 328 330,5 + 2,9 329 330,5 + 1,5 Distanza dal vertice alla sinfisi pubica. » 827 855,5 + 28,5 744 155,0 + 11,5 Distanza dal vertice è agli organi genitali » 864 885,5 + 21,5 807 825 | + 18 Passando ora alla comparazione delle misure tra 1 due sessi (V. Tab. III, IV, V, VI), tosto si riconosce come naturalmente nell’ uomo le dimensioni in genere predominino su quelle della donna, due sole escluse, quelle che spettano alla linea bisiliaca e alla bitrocanterica, il che convalida il fatto già imparato dall’ Anatomia, che cioè, di tutte le parti, il solo bacino muliebre supera in larghezza, quello del maschio. Le differenze numeriche deducibili dal paragone suddetto, vieppiù ancora lo comprovano (V. Tab. VIII. (1) QueTELET AD. — Op. cit. pag. 418. Nei Belgi il Quetelet veramente non ha misurato che l'intervallo dal suolo alla sinfisi pubica, ma facendo il calcolo della distanza da quest’ultima alla sommità del capo, si rileva che la sinfisi stessa nel maschio allontanasi di 11 millim. dalla metà dell’ altezza totale, ciò che rafferma il sopraesposto. (2) SappEr Pu. C. — Op. cit. pag. 22-24. — 433 — Per cercare poi la proporzione che havvi tra le dimensioni di ogni regione colla statura tanto nel maschio, quanto nella femmina e indagare le differenze che offre tale rapporto secondo il sesso, ho composto altre due tavole (N. IX e X), in una delle quali il quesito viene sciolto direttamente con due dati fra loro diver- si, mediante cioè le medie aritmetiche e quelle per serie; nella seconda tabella il problema è risolto nel modo istesso, colla sola variazione che l'altezza totale è ri- dotta a 1000. Ora dai calcoli istituiti sulle medie aritmetiche (sia o no la statura eguagliata a mille) risulta che I’ uomo, rispetto alla propria statura, ha meno sviluppati della donna, la testa, il cranio, il tronco, gli arti inferiori, la coscia, la gamba, la linea biacromiale, la bisiliaca, la bitrocanterica, e la distanza dal ver- tice agli organi genitali: lo che equivale a dire che, nel maschio, il maggior nu- mero delle parti è relativamente di minor lunghezza, di quello che sia nella fem- mina. Per contrario in quest’ ultima sono meno sviluppate, rispetto all’ altezza to- tale, la faccia, gli arti superiori, la mano, la linea biacromiale e la distanza dal vertice alla sinfisi pubica. Solo in due segmenti, il braccio e il piede m lunghezza, il rapporto colla statura è uguale in ambo i sessi. Nella Tab. IX ho aggiunto poi la proporzione delle diverse parti del corpo fra loro, procedendo dalle minori alle maggiori col metodo medesimo. Se però facciamo la stessa ricerca, non più prevalendoci delle medie aritme- tiche, bensì di quelle ricavate per serie (V. Tab. X), allora i risultamenti non si accordano più cogli anzidetti, ma vediamo che la testa, il cranio, l arto superio- re, l avambraccio, la mano, l arto inferiore, la gamba, la linea biacromiale, la bisiliaca, la bitrocanterica e la distanza dalla sommità del corpo alla sinfisi pubi- ca differiscono ora in più od ora in meno, però leggiermente; dovechè Ila faccia il tronco, il braccio, la coscia, il piede in lunghezza, la linea biacromiale e lo spazio dal vertice agli organi genitali, che in media aritmetica, come si è ac- cennato, riescono inferiori nell’ uomo riguardo alla donna, colla media per seric al contrario divengono preponderanti nel primo. La proporzione poi si eguaglia in ambo i sessi, unicamente rispetto all’ altezza del piede. Un’ ultima osservazione mi resta, ed è la seguente: se la tabella in cui sono riportate le medie aritmetiche e quelle per serie delle dimensioni del corpo in ambo i sessi (pag. 424), (non ragguagliate alla statura), confrontasi coll’ altra che mostra il rapporto delle varie parti del corpo colla statura ridotta a 1000 (Tab. X), si hanno risultamenti diversi, e questo devesi al fatto che quando le misure si riducono a mille, la differenza tra la media aritmetica e la media per serie, di- pende dalla differenza di due frazioni aventi per numeratori le misure di un organo, e per denominatori le misure della statura tanto nella media aritmetica, quanto nella media per serie. DIL (DI TOMO II. — 434 — ELENCO DELLE TABELLE ALLEGATE TABELLA I. — Misure della lunghezza totale e dei singoli segmenti di sessanta cadaveri d’ uomini adulti bolognesi. Idem II. — Misure della lunghezza totale e dei singoli segmenti di sessanta ca- daveri di donne adulte bolognesi. Idem III — Misure massime, medie e minime dei sessanta cadaveri degli uomini suddetti. Idem IV. — Misure massime, medie e minime dei sessanta cadaveri delle donne suddette. Idem V. — Disposizione per serie di tutte le misure, in ambo i sessi. Idem VI. — Riassunto della Tabella precedente. Idem VII. — Statura dei bolognesi ventenni misurati nelle Leve dei nati dall'anno 1843 al 1858. (Dalle Relazioni del Gen. Torre). Idem VIII. — Differenza delie dimensioni, in ambo i sessi, fra le medie aritmetiche e quelle per serie. Idem IX. — Proporzione delle varie parti del corpo colla statura e fra loro nei cadaveri medesimi. Idem X. — Proporzione delle varie parti del corpo colla statura = 1000. | TABELLA averi di donne adulte bolognesi. PZ È & Metà del corpo = S = Ò & Ss S 2 D S 1 2 = E SUL dl 5 |eg ceiete 1a cia ET sella 2 o | E EC 06 i | SS ca E = wa 2 = 3 n= 215 ® d ° Ts ao sce | S E 9 cd 2 | 2 Ise .E ba SUGINETE ailce\e|lalo/jigsla|ia o t=; Sh Mico = [Gli re Pe i a a A, I A A) DI I Pe SAGA 03748 0550 1233712400) 127211286410821 794 | 840 3 32 87 | 882 | 443 | 378 | 61 | 220 | 263 |-285 | 324 | 348 USAI & Gi S9R|iS50R|A 2536500602224 2851340) | 315337 100.823 3 A l65 | 735 | 342 | 340| 53 | 205| 247 | 302 | 270 | 289 C10N 057 È | Go | 198 | 884 | 438 | 381 | 65 | 243 | 283 | 345 | 360 | 366 803 | 860 2 70 l67 | 740] 385 | 305 | 50 | 228 | 269 | 320 | 288 | 290 765 | 818 6 E 184 | 805 | 390 | 361 | 54 | 240 | 246 | 303 | 297 | 320 699 | 746 DIR 169 M0S0 3190 8148 N51 2068/2697 h3301250%|1285 10018735 8 60 lo3 | 940 | 455 | 413 | 72 | 271 04025) 355092 803 | 83 9 177 760 | 380 | 325 || 60. | 225 | 285 | 342 | 273 | 294 704 | 744 TABELLA I. TABELLA IL. Misure di sessanta cadaveri d’uomini adulti bolognesi. Misure di sessanta cadaveri di donne adulte bolognesi 2 2 D ne = "Td Metà del corpo alli 5 E ‘= 4 S s E È hi 5 ‘ 5 2 3 a Metà del corpo = a .2 Si È = E = tai Sos pse S = ‘= , Si LA ° N 340 5 S|E|sf|£|3|82| |a $ 5 $ S sia SIE 9 a © @ ° 5 ,2 5 E Pi x Zizzi 2 Ea] 25 © ° & a ss 3 3 LE im Ra È E 5 $ Fi 9 S £ S S È = ‘9 È 3) 3 Ge 5 S -3 S 2 E IC] ‘2 S 3 E} S E 5 = a a È = 2E = = CE Sie SE 5) 2 | = È > ps Ò CETO 8 | E E ES s E ni % d | o Shea a s HS S E |Gjlùue|dslo ò DS zicd| o E |O| e_|< ca < = » 903 827 720 | » » agli organi genitali . . » 950 804 750 | | TABELLA IV. | dA Massima i Minima | | SIA ee 0 MIE 1670 1549 553 Tea & ch CRT 250 207 179 Canoa ie, Ne 91 712 49 Fasceaze 0068. ARRE 152 155 114 ie ee ee n e ia E 695 608 520 IERFMOBISUPERIOREMSMM I 0 e 784 698 606 BEACCIO RR nh. E» 341 292 250 INSWAMMPFAGCIO MERE a Sa, ala E e È 251 ZATI 185 MERO DI, 5a SE VA E 210 189 165 | PEKOR AMT CRIOFE ME 0 n 940 802 708 | CISSE SIE 0 METRES o 443 401 335 | AAA E n o 415 339 270 | Eicdeg(altezza eee To 62 50 DI (LUNCNEZA RE 203) 230 205 IiimeaxbiacrommalelB Hel n 326 279 240 Sl biomeralem@@ge ni e © 1 400 342 Dm DI DISINA CA e n e 363 301 260 DEN IDICROCAIMERICA NINNA n n 392 329 280 Distanza dal vertice alla sinfisi pubica. . . >» 855 T44 616 » » agli organi genitali . . » 900 807 657 TABELLA V. Iisposizione per serie. Numero progressivo (n DD UT Ha 03 Www Millim. » Statura 1450 1465 1579 1588 1605 1610 1617 1625 1630 16-41 1645 16533 1654 1660 1663 1664 1672 1676 1680 1686 1690 1694 1695 1700 1705 1706 1710 1712 1715 1718 1720 1725 1732 1735 1736 1740 1745 1746 1750 _- Im99 OOMEENFE Num. Numero per serie progr. ssivo 0 HI W NINE TYHWHHrEHr (©, | DN Dt WH LI 0 I 30 N°} 0 °° COS \ (n (ep) \ 51: Millim. » » » » » » » » » Statura 1763 1768 1770 TS 1780 1800 1805 1815 1820 1850 Millim. » » » » » » » » » Num.° per serie pull _u ERO. Pi (ROL ATTIZAN) a (1 “n o) tà: MITE “oi ai {pine Lera sane 1 Sal ; pi | Rig °° apnee MEV ey ira uso” ù Dro eg Vavesiiniepia BCE - (N) Secure Taspenca V. Disposizione per serie. | UOMINI | Numero Num.° Numero Num.° | progressivo Statura Testa per serie progressivo Statura Cranio per serie 37. Millim. 1641 23. Millim. 1680. Millim. 71 1 Bic » 1705 ERRE 24 » 1705 » 719 1 39» 1725 Millim. 290 ti o eso 40 » 1746 26 » 1672 > » a) 3 MS. degl >» 232 1 TM) 42 » 1617 | 3 993 3) 28 » 1588 » 74 1 3 » 1773 i » 29 » 1450 ) 44 » 1694) x a 3 >» 1630 15 ASI ao ea 5 e To da È AS Tono SM io i) 7 » 1705 DR 33 » 1705 uri a 9 n 4 » ID) 4 \ | 48 » 1770 54 » 1815 49 » 1815 35) » 1645 | 50 » 1690 dE » 1725 » 76 3 51 » ez Sa » TS) 2 » 1735 ) » 240 5 38 » 1579) o, 9 5 » Doo \ 0 » 1610 | » 77 2 (D) » [ ) » 3TO | = So isio > © 240 1 MM 5° do > (O gl 56 » 1702 S 245 5 42 » 1680 » 79 Il slo 1768 | ca z 495 1605 » 0 1 58 » 1695 » 292 1 44 » IA 59 » 1740 » 258 1 45 » 1750 » 85 60 » 1820 » 261 ÌÌ 46 » 1768 47 » T702) a | de Sio, 6 i | 49 1664 so Cranio 50 x 1695 | » 87 2 Il » LEA 51 » 1694 } s 9 S 1653 | Millim. 49 Z 59 5 1740 | » 88 2 3 » 1763 » 55 Il 53 » rigo » 89 Il 4 » 1718 » 58 1 54 » 1690 | : 90 9 5» 1465) Si oz X 6 » 1710 » » 60 È 56 » 1641 » 91 1 Tei, A 93 1 8 » 1800 » 61 l 58 » 1617 » 94 1 9 PIET 050. 59 » 1755 È io >»- MO | ue 3 COES i o 0 2 ll » 1736 12 » 1654 | Di > dm 2 Di > 6,6 Ragcia 15 » 1686 » 65 3 1 » 1579. 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Statura 1768 ) Millim. 2 1815 1820 1617 1641 1695 1672 1690 1740 1780 1705 1715 1686 1750 1680 1773 1770 1706 1705 1732 1736 1710 1850 1800 — -—— o >_> —— e (lunghezza) Piede (altezza) 50 . 55 + Millim. » » » » » Piede 7 58 60 61 UOMINI Num.° per serie au _ WNW l°EHETW-HWH W W% HH YH w Numero progressivo 23 24 25 26 CI 28 29 30 sl 32 33 d4 35 Dn DD Oh WWW Millim. Statura 1653 1672 ) 1725 1750 | 1579 1695 1706 1735 1745 1746 1768 1815 1625 1705 1725 1712 1740 1610 1630 1660 1686 1705 1710 1720 1732 1770 1702 1680 1750 1820 1695 1710 1736 1735 } 1800 1820 1715 1830 1654 1710 1736 1654 1660 1579 1690 1610 Millim. » » Linea biacromiale Millim. » Piede (altezza) 63 64 . 70 240 268 213 276 278 219 280 Num. per serie |l 1 3 (| DO pe. & eta LI vati NET fac ati LA “A dr & CH [a UN sE kh ‘ av È Airis. LEM i - cotti o Lo X sd n air all o pini il Secue TaseLcra V. Disposizione per serie. | U©ODIMEENEE | Numero Linea Num.° Numero Linea Num. progressivo Statura biacromiale per serie progressivo Statura biacromiale per serie | 9 WMillim. 1630 ge. 59 Millim. 1740} n: o, 0) Millim. 280 . . 2 de n 3000 12 Ml è» 1695 e a 13 » 1641 » 283 . 1 ; h 14 » 1750 » 284 . Il Linea biomerale 15 » 1686 a 985 9 AE 1654 Millim. 293 . 1 16 » 1745 i D » 1630 » 340 . 1 I07 » 1605 3 » 1732 » 30 1 18 » 1645 9 4 » 1650 » 35920 Il o Too © 80 È in di 20 » 1732 Gdo 1654 DICO 1 21 » 1663 » 288 . 1 7 » 1702 » 302 1 29. 1750 » 289. 1 Tio 1641 PS 1 9 ep 1625 ) 1) QU 1660 >» 365. I 24 » iene. è” 292. - TO > 1588 20. » 1588 x 12930 1 il 1710 SER 3 26» 1617 ES 1735 DIO 1664 | vizo 8 eo, TRS 372 I 28 » 1694 14 » 1690 375 9 Most > (1465 au) 52960... fl 15» 1695 >, dora SS 1720 Tot 1686 E: der Ti > 300 2 no i 32 » 1450 18 » 1605 » DIC) MARSI 0) | | 383 » 1690 » SO 008 19 » 1695 » ED I7((O INGRESSI) | 34 » 1830 20 » 1450 380 9 35» a cu -- 9 2 5 1768) PA e 36» 1705 Si 2280» Son 389 salle, © urlo HM I04 E e] 2200 ey Mg80n, + oss ca RIO 1680 ) 294» 1705 ei, 05. 3 SU ei » 383 2 (0 1780 |) 20000 6940 a 5 uu 1718 Sn SA Se, SI ROS 2 MORDE 1695 ) 23/0000, 1617 ) 43 » 1746 | di SURE 29 » 1625 » 385 3 44 » 1763 » Selen al 30 » 1710 45 1663 3 1465 46 “> 1755 pi SI, 1745 Za Mr > e 315 . . 4 Sai roi 8390 4 48.» 1773 suna, 1750 49) (ey 1800 “SI 1 E MS 1645 DO Sr eo 1785 si 7 1 3600, 653 » 2 Sl 1706 3 319 1 SH 1579 5 1705 IM320) 1 3, 1664 » 392 3 53 » TEIL2 » 925 1 39 » 1820 54 » 1770 » 326 1 40 » 1672 393 3 55 » 1680 » 330 1 41 » 1705 È 2 < 5 ds 1715 } È 42. » 1663 ) x SI +» delgi > (990 2 De 00. 2 5 » 1676 » 350 1 44 » 1830 » 395 . 1 È ma ptt siro hi È ii L; 4 di; th II VII Aaa * li v nia è a i Sa = Ta, REZZATO ; i 3 pr oi Da 3 diet x è i [4 PA, L f È pia n Fi i. 100, SANA, GORI CO ti ‘ doi i (8° ì È BIL, PICRtRA ti È K Nu bi o ; SAT ‘ARR Ù LHr) i i ti Ke p [ 1 È È \ j A E LI - È PIE) Hi a | é y $ ‘ « dI x : i Vaart È DI i 4 } [SI Ù È Ga ù * È in i 9 5 È; fio wi È ; (9, RO } bi i i; i ; } » p È 1 | LIS Le | d i 1 È j ' ‘ LA pie î £% P 4 Ho. RUBANO & I SIRIANO e 5 i 1 APRI Ca) i fi FADO À î N RICE ti, a, ® î di Ù i ; i (SIVE &' Î € : xd 4 dvd a Di DI È po (Be i Pr Ì ter si DT 4 Ew#A, \ ui LA n » P DO i * { Secure TageLca V. Disposizione per serie. Numero 45 46 10 progressivo Millim. IUIOINIODNPE Linea Num. Numero Statura biomerale per serio progressivo E ili, 0) O ce 1735 » 402 . 1 33 » 1712 » 408} © 1 34 » 1720 35 » ui 2 Jonio, 1800 » 408. 1 SI » 1770 » AO 1 38 » 1680 È 39 » 1630 - JI, 1740 » 416 Il 41 » 1706 42 » 1715 » 420 Ò 43 » 1810 44 » 1676 » 434 1 45 » 1815 » 445 ;Ì 46 » 47 » 48 » L DEI 49 » Linea bisiliaca 50 a 1654 Millim. 230 . 1 51 » = DI dn AIR a 1695 » 263 . 1 54 » 1664 » ZIONE 1 55 » 1610 » OZ, 1 56 » 1653 » ZIA 1 57 » 1700 » DIE 1 58 » 1680 59 » Mi: » 260 3 60 » 1750 1660 » 250 1 1579 » 282 1 1710 è 0 e 2 Mi; = Miu..:l:: 1641 » 287 1 4 » 1645 » 290 1 5 » 1450 } 6 » 1686 “i 292 2 7} » 1605 \ 8 » 1720 » 293 3 9 » 1732 | 10 » 1780 » 294 1 ll » 1465 12 » 1702 13 » 1750 . » 205 5 14 » 1763 \ 15 » 1820 16 » Statura 1690 1710 1815 1736 1740 1672 1695 1746 1625 1663 195 1785. 1800 1770 1654 1665 1705 1706 1745 1617 1630 1768 1755 1680 1676 1718 1830 1715 1725 1588 1654 1694 1695 1650 1610 1710 1750 1570 1705 1780 1712 1645 1660 17535 1700 1720 Millim. 296 . 299 . 300. | | | | » Linea bisiliaca 501 SU 303 Num. per serie 2 1 72 DD HS un ol Linea bitrocanterica Millim. 249 . » Pri DI CP DI fidi i “vaio ig doro > de ir TOI I TIPINETE ARIDO “apparte nt i Re e arr a Fia rg - È à i J e cò Ad rear ei A RA EE Sn VIRA 9 re tai Kuiper ia " Mati ì i; jet. (00 poni y resine ALSSUO triti E: dr b: a dia AT id SRI ET 0 i DIRI dA PObparA gni, È ARE È 1 mag { | i x 044 7 ud = Wi È Pet " si Y 6; fici MAL: a RA lr È | a a pr Pr = > RR Ò f « \ (ALI 4 ì si * 7 di cn + | 32 Segue TaseLLa V. Disposizione per serie. U@INEENTE | Numero Linea Num.° Numero Distanza dal vertice Num.® progressivo Statura bitrocanterica per serio progressivo Statura alla sinfisi pubica per serio | Milia 328 Mili 816 3 Millim. 1579. Millim. 740 1 18 » 1605 | 317 5) 4 » 1700 » 751 1 Toni 1630 RO, Dia DRS 650 i I 20 » 1702 » 3208 1 6 » 1710 » TI l 21 » 1820 » 321 1 7 » 1588 ) 22 » 1653 » I2500: 1 8 » 1625 780 7 2300». . 1664 più 32008. 1 O yi 164 I È A... 1450 | 3% di O AMSA, 25 » 1672 > ra no ll » 1746 » 783 Il 26» 17501) 355 î RT, 4 ] Di. 0 SO 3 - A IRR NIGZO » 785 1 28%» 1630 | 20 : Aa 1610 » 792 ] » 9202 sur 29 » 1705 15 » 1653 » 795 Il 30 » 1663 ) 16 » 1680 » 800 1 Sl » 1710 » SRO leg » 1605 5 > ie ie Ve i > 802 2 33 » 1680 330 5) 19 » 1654 » 805 Il 34 SEME POR o) 5; 20M > 1690) > 00310 ] 09 » 1690 21 » 1660 È ; e na, 34 3 SI e gl) >. SE 2 Su » 1773 25) » 170 » 813 ] 38 » 1695 » SSN 24 » 1641 » 815 1 39 » 1654 è 396 5) 20 » 1680 » 824 Il 0 LEO ee 2000 ro DN 83 1 41 » 1676 ) ZII » 1695 » 893 Il 42 » 1706 » SII 3 3 » IOYZO 43 » 1746 2 » 1686 MELE, SA,» 1617 Do A 4 AS 1625 n "i & See 1735 46 » 1663 » 340 1 32 » 1663 ) 47 » 1465 3) » 1706 » 856 3 48 » 1641 » 342 9) 54 » 1718 49 » ]WW55 19) » 773 » 841 1 50 » 1830 » 944 1 36 » 1750 » 842 Ti 5I » 1736 945 5 DI » 1676 » 843 1 52300 > 1810 Xi 2 Ss, 1705 » 844 1 53 » avaro) » ZARE 1 Sf » 1750 » 846 1 SO 00, > SLI. 1 10) 1745 85 5 Do is Ss ni3500 1 AN, 1815} si 30 ve 56, >» 1745 » 3520 1 dI) 1725 è ox 9 DIL » ino » 356 . 1 43 c, 1732 | » S55 2 58 » 1725 » or 1 44 « 1694 59 » 1735 » 359 . 1 45 « 1695 860 4 600% >». 1588 » 367 1 AGM 8 o 4T » 1815 48 » lai2 Re î Distanza dal vertice 4‘ » 1796 3; 862 2 alla sinfisi pubica 50 >» 1702 N 864 1 1 » 1465 Millim. 720 . 1 51 » 1720 » 865 1 2) » 1450 » ZITI 0a 1 52 » 1755 » 870 1 vel rtl sli mi $ ae P tp N & (i L. nat respinte i e ai ica pz RA Liv] Tp Ì È I Bots |goni i A ; VE i 2 Tesi Li <- “80 RE Mi. pt @ "EI è a A AA cia &> i siate SH «sr, Siialit Secure TaseLLa V. Disposizione per serie. Il UOMEBNT | Numero Distanza dial vertice Num.® Numero Distanza dal vertice Num. | | | progressivo Statura alia sinfisi pubica per serio progressivo Statura ai genitali per serie | | 53 Millim. 1810 Millim. 875 . Il 25. Millim. 1706 Millim. 859 . Ta | 54 » 1770 » 878 ll 26 » 1672 » 862 . ti 55 » 1780 » 880 1 27 » 1690 » sone 1 56» 1755 sa 3 2° Ge » 866 1 || DIE » 1820 3 S 200005 1735 SIRISSOTATO 1 | 5 » 1800 » 895 I 30 » 1695 » 868 . 1 i 59 » 1740 » 900 1 Dil » 1718 » 869 . Il | 600» 1830 3909 1 32». 05 Si 0 1 33 » 1763 » SI | DL » 1663 » SIA RIONI il Distanza dal vertice 35 » 1686 » Sor. 1 | al genitali 30000, 1705 » STORE. OT i; 1 » 1450 Millim. 750 1 ST » 1725 » 880 . Il | 2 » 1465 » 12; 1 38 » l'745 » SS]. Il Si 1679 ve rai. 1 990 6 RSe Dl Î Se (>. 700 SITO 1 40; >il SÒ % Ss 7 il 5 » 1650 » 806. 1 41 » 1750 » 887 . 1 il 6 » 1645 » SIOE 1 42 » 1695 » 893 1 TI » 1710 » SUA Ì 45 » 1736 895 9 St 1664 » 813 1 4&D. > 1768 ) dui Si 9 » 1588 » 814 1 45 » 1694 » 896 . Tlmazi 10 » 1746 » 815 Il 46 » 1702 » 898 . ti Jil » 1654 » 820 1 21 » 1720 ) J022 » 1610 ì 830 È 48 » 1780 » 900 3 13 » 1630 ) % SS # 49 » i810 i 14 » 1625 50 » 1715 » ERI Îi 15 » 1653 » 10392) MN Sr 5I » 1712) 905 | let. >. 1654 2 MSI De SS) S | 17 » 1605 » SSA Il 99 » 173% RE 5) 18 » 1680 » SID, 1 54 » 1755 % SE: fl don > J617 » 836 I 15 RES 1 Dì 5 N00, 1641 Selena 1 Sole lione 5 DI » 1710 » 847 1 57 » 1820 » 924 1 22 » 1663 » 848 JI late, » 1740 » 942 Je: 23 » 1680 » 850 1 59 » 183 » 946 1 | 24 » 1660 » 854 i 60 » 1800 » 950 1 Î ì | | | | | ® \ È > IENA ni < RIE N 7 si Ve CRUI È - "o i imeglio si DI a d ; LI 3 } di fio È; A Ù Pa. 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TDOINENHI Numero Num.° Numero Num.° progressivo Statura per serie progressivo Statura per serio |l 1 Millim. 1353 Il 51 2 » 1410 1 52 \ Millim. 1620 3 3 » 1425 1 53 4 » 1444 1 54 » 1625 Il 5 » 1446 1 55 » 1632 1 6 » 1456 1 56 » 1634 1 Ti » 1470 Il t5)7] » 1642 1 $ » 1474 1 58 » 1644 1 9 » 1480 1 59 » 1654 1 10 » 1487 1 60 » 1670 1 i » 1492 1 Ji N 1495 1 115) » 1497 1 Id Testa 15 » 1500 3 l » 1642 Millim. 179 . 1 16 |) 2 » 1510 » TS o 1 {7} » 1510 1 05) » 1654 » 188. l 19j > 1520 AR, 20 » 1525 1 6 » 1446 » 194 . 1 Il » 1526 ;I IT; » 1444 | 22 » 1530 Il 8 » 1480 » JOSE 3 HW. 1585 1 i 570) 24 » 1536 Il 10 » 1410 » 196 . 1 ZI TE 11 » 1558 Most > lot o Re oo 1) IRE ro > ù 28 » 1550 3 14 » 1610 29 ( i A 30 » 1559; ]l 16 » 1497 3 » 155 Ti 525 32 sa i gi 33. » 060 2 19 ‘ 1585 34 » Js6s 1 20 » 1526 | 339) » 1565 1 DIL » 1545 » 203 3 ao 1 2 010) SI » 1573 1 23 » 1536 } È 38 > 1555 1 CA el 2 = 25 » 545 40 3 Lo 2 26 » ud Î 41 » 1583 I 27 » 1600 > » 205 5 42 » 1585 ll 28 » 1620 i; » 1590 Il 29 » 1620 » 1592 1 30 » 1595 ; B O BE 30). 1 AR i e 2 46 » 1595 Il 32 » 1487 » 207 1 35 » 1600 1 33 » 1644 » 209 1 34 » 1358 OM IO 2 25 Ze >» 210 3 50 » 1612 I 36 » 1550 e sie air ta ie pri TETI di OT $ cent vr tare BEE | sparata MOTO crap i lp ta ip i i ir tIEK è £ * Li s d si eq pi Ba Si ELL: RERRRSB Secure TaseLLa V. Bisposizione per serie. | DONNE Numero Num.°® Numero Num.® progressivo Statura Testa per serie progressivo Statura Cranio per serie | 7 11]; BE DI 11]; 345 Lod A) e LI 5 25 1525 3: Poi PARE oo Aia sa i 0 PES 1520 SR AM DI A 1580 i SE mE n > 1470 IS 1590 LS RE 1492 SO 4 DI MS 1560 44 » 1550 | 30 » 1565 U 73 { Al. > 1560 Seo 1580 i A, 5 1583 3 ODI 3 I OOARNDININO 3900, 1600 4T » 1632 » Da 33 » 1456 A 1500 ) 34 1487 > o e) 49 » 1575 » DOOR DIO) » 1575 50 » 1612 ( 36 » 1550 Sil» » 1425 STEZZANO SIT (IN 1550 » 75 3 QI, 1500 ) 3 1612 CT - RA] 5 » > 1555 ) ADI 1560 » Vodo 1 55 » 1625 l > QQ es 1536 56» 1634 È AOME 1620 » 180 3 ua > 1580 » SIVE] 15 1625 58 » 1495 |) 44 » 1545 = 9 ei, 230. .08 a n 19 2 60. » 1620) i a 0 AI 4 » 1470 5 e s Cai 49 » 1425 » 82 1 Le 5 » LR) 1 » 1474 Millim. 47 . 1 SINO, 1500 > 83 3 PIZIAO » 49 . 1 5200 SI N09) TIC 1320 » 54 1 53» 1520 » 85 1 Ce 1610 > 55. 1 SS 1526 } RA È agra IA CÈ SN » 86 Z 5) » 1570 » SO 1 DI » 1583 } Gia > ras » 5Z05 1 50. a ela00). 97 3) TOTO * SS] Ge 2 1246 K oa > 1594 » 62 1 60. » 1495 » (O PORRO NI i > 1410 } 63 È TIZAMIESS Iosd| > 2 Si 13 » 1444 St TRN 1563 o i 5» 1610 i 65. 4 1 Millim. 1446 Millim. 114 1 16 » 1632 ) 2 » 1526 » 117 1 Uwe > 1535 » 66 1 So 1642 » 120 1 IT O ZV 1595 ) (OS 1536 2, >» RM 69 2 ug Io SRTOG 3 iene LI 0) rca ri in Larini NA n —_— x = N = ° © no fi ui » Ù sd ha î Hi: : ‘ i i ; dA 15 î it LOI 7 : ì % } l x È toi Î ato ! tà) : i % Ì 5 î io } pai LA bi Ù dl ti NI LS F Mer Î evi viE NO ( 6 LUO) î Vi: [ i 4 È È ; - * è ' Î X Al ì | RA VI % [on 4 Y ì E i 4 H t ì ER 0 n VO ] DI | Ù "R 5 Li Secure TaseLLa V. n Numero 9 10 Hul 12 13 turu or oro 0 1 Ct wo progressiv (0) Millim. Statura 1620 Millim. 1525 1585 1590 1634 1474 1560 1595 1610 1594 1560 1612 1625 15759 1500 Disposizione per serie. » » » » » » » Faccia 127 1280 129 140 DONNE! Num.° Numero per serie progressivo Il 59. Millim. 60 » d 3 1 » BS 2 » i O) » 4 » 3 5 » 6 » 7 » 3 8 » 9 » 1 log» 11 » 12 » 13 » i 14 » 15 » 16 » 17 » 18 » 19 » i 20 » 21 » 1 29 » 23 » 3 24 » DIS » 26 » 3 27 » 28 » 29 » 30 » 31 » o 32 » 99 » I4 » 9 35 » A 36 » 9 37 » a 38 » 1 39 » 40 » 3 41 » 42 » ] ) » 1 44 » Statura 1580 ) 1652 | 1353 1446 1573 1520 1575 1444 1590 1407 | 1565 1500 1480 1500 ) 1545 1610 $ 1583 1519 1526 1545 1580 1550 1487 1563 1612 1456. 1495 1525 1594 1425 1592 1410 11704 \ 1553 ( 1620 | 1536 1535 1520 ) 1600 | 1560 1474 1610 | 1550 1492 1670 1580 Millim. Millim. 5£ » » Faccia 152... 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Numero Piede Num.° Numero Piede Num. progressivo Statura (lunghezza) per serie {| progressivo Statura (altezza) per serio 37 Willim. 1585 Millim. 233 . 1 23 WMillim. 1535 38» 1526 DAS 1550 39» 1555 Î SIN, 1553 4» 1600) ‘» 285. 5 26° 1560 AN © > 1620 QI, 1565 60 10 go > 1634 4 » 1570 È i 43 » 1536 2 » 1583 Mi 6 I O 30 5° 1605 45. » 1500 35 1610 46. » 1530 3200. 1610 Al » © 1590 » 240 SI 1625 » 61 1 48» 1632 SAN, 1530 49. » 1675 I 1590 » 62 Belli 50 » 1510 d 242 1 36 » 1654 51 pa il53, ST » 1550 » 65 1 ge >< 2 RR 64 I DI 1580 » 244 1 30005, 1446 Sdi. 1520 è DE 9 ZON 1480 55» 1560f$ ” 9 41 » 1545 58 1620 » 250 1 4 1580 65 2 57 » 1594} “ho 3 i ie > A SS >» ed > De RS O 500° 1654 855, 1 Ao 1632 60 » 1670 » 271 1 AGRO, 1644 4AT » 1510 » 68. 1 48005, 1495 Piede (altezza) > x o Zi N ddlo Di 1563 > AURA TERI: i » 1492 | 54» 1536 È 71 1 5 » 1425 » 5I 1 55» 1620 sl A Gi >» 1500 na A 56 >» 1670 è (5 È do > dg > “o Si Sil (3520 Ris 1456 TA Ls SSA 1573 RE db ia > sa È On > lo 4 lO» 1500 GORI, 1620 i o È io 1500 13» 1580 va 14 1 1600 » DD 4 Linea biacromiala 5 1620 Wo 5 1580 dll 24000, I 16 » 1545 » 57 1 2 » 1446 » 245 l W db 1526 » 58 1 So 1500 » 246 1 8 >» 1520 » 59. 1 di 1456 » 247 1 lo» 1353 (RES 1353 pi 248 1 2005 1487 È 60 4 GS 1497 » 250 i 2 » 1497 i ino 1495 » 255 Î 22 » 1525 8 » 1585 » DIST 1 “i n 1) L) A » st ù Lat: i A » i È i i c IRIRIh 4 DE P, 5 z ì i ha f È p ] i PI ca v di ta n si i di . ni î i S; s È ti si - ni i“ Neg esere SA into iene davero ee SET arizignià Direi PA rà. ara RI } PRA GORI CRE oO: Ù sia E oo e "25 RIO x» SUR I t}/c >: GIP \ -. 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Millim. 46 » 47 » 48 » 49 » 50 » 5I » 52 » 03 » DA » 55 » 56 » DI » 58 » 59 » 60 » Il » 2 » 3 » 4 » 5 » 6 » TI » 8 » 9 » 10 » ul » 12 » 15 » 14 » 15 » 16 » JE7 » 18 » 19 » 20 » DIL » 27, » 23 » 24 » 25 » 26 » 27 » 28 » 29 » 30 » Statura 1558 1525 1563 1600 1480 1492 1550 1594 1595 1474 1654 1612 1610 1590 1634 1632 1425 1520 1446 1526 1456 1497 1500 1545 1487 1358 1500 1525 1550 1573 1642 1474 1580 1470 ) 1585 1620 1560 1545 1634 1595 1620 1480 495 1500 1558 —_ 1575 | — — — — — — = Linea hiomerale Millim. 362 . » 363 » 364 » 370 » 372 » SS » 3715) » 380 » 382 » 393 » 400 Linea hisiliaca Millim. 200 » 205 » 2600 » 270 » 272 » 210) » 275 » 278 » 280 » 283 » 285 » 286 » 288 » 289 » 290 » 292 » 293 » 295 » 296 » 297 » 300 DONNE! Num.® Numero per serie progressivo 1 31 Millim. 5) 32 » bi 33 » 1 S4 » 35 » 36 » 5) 37 » 38 » 5) » 1 40 » il 41 » 1 42 » 1 49 » 1 44 » 1 45 » Ì 46 » 47 » 48 » 49 » 50 » 1 5I » ì bQ: » 5 53 » 54 » 510) » 3 56 » DI » 1 58 » 1 59 » 9 60 » ] 2 1 1 » 1 2 » Il 3 » 4 » ) 5 » 6 » 1 Ti » 5) S » o 9 » ll 10 » 1 11 » li 2 » ] 3 » ] 14 » 5 15 » w 16 » Statura 1580 1600 1590 1444 1510 | 1563 | 1610 1594 1620 1550 1565 1654 1535 1555 | 1560 1536 1583 1550 1570 1520 1610 1625 1632 1592 1410 1530 1612 1670 1644 1492 1545 1425 1456 1353 } 1470 4 » Linea bitrocanterica Linea bisiliaca Millim. 300 302 303 504 305 Millim. 280 » 23011. 289. 290 292 293 294 300 305 308 309 35 Num.° per serie 2 1 1 2 Il 2 DD (GOLA O) Adua WErrrHrHWH WD n MW NWI W lE w ta POTE o Ltd # A sa) ia Ties "putiso. (1 La Ch% < Ot i Mi... noi n > i : a si Ù avant: pietà 0 TI” LATI, Ur B6vti, ] bee. 1 ù til x ds IN ip. 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Numero Linea Num.° Numero Distanza dal vertice Num.° | progressivo Statura hitrocanterica per serie progressivo Statura ai genitali per serie || 17 Millim. 1634 Millim. 315 . . 1 3 Millim. 1353} xellim. 744 3 18 » 1497 D 316 5 4 » 14837 | j Maio TORNI 1620 I US 1500 » 746 1 20» 1500 (CAME 1444 0 ei N 1525 390 7 7 NE 1487 SOTA I] DIS 1560 A sand 8a > 1480 » Mo i 23» 1610 DIS 1510 SOLO I AM 1580 DA ESD I OSS 1520 ) o 1632 SI 13908 1 ME 1530 180 ; Zoft 1550 Do È Ri 180 î TO SMS o a SIMMESRC0) 23° IM De LS 1 TA os 1525 SRO 1 29 » 1550 » 328 Il 15 » 1474 ) 20 » 1575 vnn329 1 le > 1573 a MOON 8 Vs 1474 SM330 I mi 1592 S2 » 999) E ; 18 » 1410 » 199 Il 33 A Ò I ld > 19 1 Ze 1410 » | 396 I DES 1446 Sol. 1588 S CS I 2 N 1500 » SO0RCA 13 36 » 1536 » BOSTON 22 » 1526 37 » 1590 » 339 1 23 » 535 A, c ZO e: : E » È 02 . è 2 38 » 1503 ) 24 » 1545 30, | Og 20 Dn 40 » 1580)» 340 5 265 1550 DAS o Hi 159% \ on 04 È al 1600 23 1670! 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Millim. 1594 Millim. 755 ll B4 » 1560 | 845 9 26 » 1520 » 756 l SERI) ; I TE) e a SI Sf o 162007 © > UNMS S58 1 CIR oz0 0 e 0 Vee + i DI » 1644 » 860 1 29 » 1495 } 58 » 1595 » 863 ll 30 » 1570 > » OO 3 59 » 1610 » 870 Il sl » IST 60 » 1634 » 900 1 32 » 1446 » TI pali 33 » 1470 » Tee S4 » 1526 » 766 ] Distanza dal vertice 35 » 1586 » 767 l alla sinfisi pubica 9 IZ 36 » 1565 | 1 » 1456 Millim. 616 Il SI » TESS » 7710 3 | 20. 1:00) ».020,699 1 99) | 3 » 1425 » 700 1 39 » 1492 » MONTI 4 » 1487 » 704 1 40 » 1545 > Mao: | 15) » 1444 » 705 Jl 4l » 1550 | cani 353, > 10 l 42» 15604 TI » 1480 » 730 1 d » 1585 » SOR s » 1560 » Tai nds vai dt » 1610 \ Ì 9 » 1510 45 » 1642 i Jo > 15925 SE SR A GUN > 16201) Ì E pe IE » 182 2 {dl II » 1590 | 47 » 1625 ) x 12 » 1580 » 739 1 48 » 1654 » 783 DENSI 13 » 1497 » 740 1 49 » 1555 » 784 lea 14 » 1530 » "145 1 50 > 1600 7189 1 Ì 15 » 1474 » 746 1 51 » 1550 » 790 Te. 16 » 1592 » 749 . ll 52 » l553 » ‘192 Rei 1 b7; » 1535 750 9 553 » 1580 » 794 1 18 » 1545 ai DARA 632 » 802 l 19 » 1500 20 » 1520 21 » 1563 Ag » 1410 23 » 1550 24 » 1573 56 » 1644 > » ENO o) DT > 1670 ) 1595 » 810 $ 1620 » 830 60 » 1634 » 855 % nd SI x I DI W do fd i) Mi -J (©) | I wo (Dl Ne) » —_w- -_o ___ Oni (Co xv put pd © ped DE fi arde ilo 901] ci LI do: i i po) IVARLO Li 6) di de ; pedone o iii una _ bh ri I È Ali da pipi iran A A FT Rd LN . 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ARI, Pi 4 14 $i su Pi î 5 î K DI mi É i (H Li | I { È: ( ji % Pa ba : pai big # : È 4 9 pi i i j £4 i, #4 sed 0) di " À L? mb de dl DI Pmi e LAFI f i è Migr st: 11 È 7 Tyne x E e » - a e ca i #.. a: i VH È X i AFRO SIA in ? i ALÌ È i hi 7 Î 9 ’ ) i x 4 x i CS TABELLA VEL Riassunto delle serie. | OMSENTE Statura Arto superiore Da mill. 1450 a mill. 1500 Ne 2 Da mill. 605 a mill. 640 Ne Ci » TSOONMI: » 1550 » — » 640 » 670 » — | » 1550 » 1600 » 2 » 670 » 700 Ri | » 1600 » 1650 S| » 700 » 730 SINO): | » 1650 » 1700 » 19 » 730 » 760 » 13 » 1700 » 1750 » 19 » 760 » 790 D25 » 1750 » 1800 DI » 790 » 820 » Il » ] 800 » 1830 » 4 | > 820 » 8896 » 5 | DS 99 * DE J Da mill. 189 | a mill. 200 | N. 2 Di ul REN 1 » 200 » 210 » 9 $ 250 pi 210 00] = » 270 » 290 33 » 210 » 220 » 18 È Da » 290 S 5310 Di IZ » 220 » 230 | SIN 310 56, = » 230 » 240 » 14 È Si Ù = nun » 240) » 250 » 5 “ 330 G = 50 > 14 = 250 > 26 1 S 93 » 350 » ID > 3 1 Avambraccio Cranio Da mill. 210 a mill. 220 Ne2 Da mill. 49 a mill. 55 N. 3 » 220 » 230 (i » 55 » 60 » 4 » 230 » 240 » 13 » 60 » 70 dl » 240 » 250 SEZ » 70 » sO Sen] » 250 » 260 SI » 80 » 90 DEI » 260 » 270 » DI » 9 0 » 95 » 5 » 270 » 280 >» ] a » 280 » 296 Dalai Faccia Mano I Da mill. ISS a mill. 138 N. 3 Da mill. 165 a mill. 170 TNA i >» 138 » 145 So - 170 180 eri: » I] » 150 » 9 : Ù da 5 E » 180 » 190 ZI » 150 » 155 da 2 È 155 - » 190 » 200 > 13 » (DID) » Il 60 » 8 » 20 0 » 9) 1 0 > 9 1 » 160 » 165 9 S SE SR E = S » 210 » 220 » 15! » 165 » Il 10) » DI 5 220) S 226 3 8 i Tronco Arto inferiore Da mill. 575 a mill. 600 INN Da mill. 695 mill 735 ING » 600 » 625 5 » 735 » 780 DIR » 625 » 650 DIE » 780 » 820 » 6 | » 650 » 675 pi 19) » 820 » 860 SOIA]: | » 675 » 700 UE > 860 » 900 | 316 » 700 » 725 SI » 900 » 940 » l14l LA 725 > 742 o S 940 > 973 S| 2 Di >, dee dee î P | ee & « | DE # ME (CRT La di BR PENN i a “ W% en * î i “Mio Mi i Li LES. &, dh | pivonndimava. ae ibn] } dre 2" RE eni I wa (inc È {{ IIS LS ; i ‘ T PARI ®, I csam VED. a radi 1a Hat E CRI 7 sua vr | - auoinoini oFrA " : Ki gi eo e Ge i + (| (OR LARE i D-. i IÀ î Ù a si, MESI. lio net LIRE UE. sat AT fee ICI “i i ori tt PES (1415 Li MOTO , ai x Thor #03 di Di | De BRE UE Secue Tasecca VI. Riassunto delle serie. Coscia Linea hiomerale Da mill ‘338 a mill. 360 N 2 Da mill. 293 a mill. 320 NE. ll » 360 » 380 » — » 320 » 350 > 24 » 380 » 400 >, 19 » 350 » 380 » 18|l » 400 » 420 » 13 » 380 » 400 » 25 | » 420 » 440 » 15 » 400 » 420 > 12. » 440 » 460 » 18 » 420 » 445 » 2 | » 460 » 480 i 9 i ui Linea bisiliaca ampa Da mill. 280 a mill. 250 ING | Da mill. . 297 a mill. 310 NU » 250 > 270 > IRA | » 510 » 330 » — » 270 » 290 RIA: | » 330 » 350 >» 10 ) 290 » 305 wi 090 » 350 » 370 » 20 » 305 N 320 x» #8 | » 370 » 390 » 18 » 320 » 345 » 3 | » 390 » 410 DIO » 410 » 425 >» 4 Linea bitrocanterica | Piede (altezza i | a) Da mill. 249 | a mill 260 | N. 1| G » DI di Da mill. 50 | a mill. 55 N. 2 : a < i ca » 55 » 60 Ni 2 È = a » 300 » 320 > dl » 60 » 65 » 20 9 9a | = » 320 » 340 » 26 » 65 » t1 0 >» 1 4 > 3 40 N 360 > 1 » 70 » i (0) » 10 > 360 » 367 > 1 | » 75 » 80 » 2 i Piede (lunghezza) Dal vertice alla sinfisi pubica Da mill. 215 | a mil. 220 | N. 1 se © Si » 220 » 230 ST > io » ] > £| S 230 N 240 IO) » 780 » 810 » 101 = 240 S 250 Sd » 810 » 840 > 14|l | » 250 » 260 Sr » 840 » 870 >» 18.| | SI 260 S 270 > 10 » 870 » 903 > Sl | » 270 » 280 DAI: | Dal vertice agli organi genitali : 9 S | | Linea biacromiale i en, i | Da mill. 750 a mill. 780 INENS i Da mill. 240 a mill. 260 INEOIOÌ » 780 » 810 DITO » 260 » 280 SO, » 810 » 840 NIE » 280 » 300 SZ » 840 » 870 » 13 | » 300 » 320 S 021 » 870 » 900 Sal Dale 320 » 340 » 5 » 900 » 930 SÙ 8 | 3 » 340 » 360 > 3 » 930 » 950 SaS Secue TaseLca VI. Riassunto delle serie. | Da | Da Da » a mill. Da mill. 1353 1410 1450 1500 1550 1600 1650 179 520 545 570 595 620 645 670 Statura a mill. 1410 » » » » » » Cranio a mill. » Faccia a mill. > Tronco a mill. » 1450 1500 1550 1600 1650 1670 185 55 Da Da Da mill. » » » » » » mill. mill. 606 630 660 690 720 750 730 250 185 195 205 215 225 235 245 165 170 150 190 200 205 655 700 740 780 820 860 900 a mill. Braccio a mill. Arto superiore 650 660 690 720 750 780 734 265 Avambraccio a mill. Mano a mill. 195 205 215 225 235 245 251 170 150 190 200 205 210 Arto inferiore a mill. 700 740 780 820 860 200 940 | uf vi I ‘ ù; È dd E pa ila cri ci imil a DI Ù VENE CA "7 OPLAAMISINITR 15 if PS “% y (6; I Li È Lisa tì Pi ai I Ren ‘3 ù 5 CRI Re; E DO i ì ET 5 08 H a t Mir i) RO agli i bi ‘i 4 \ Ù Ì i \ si fi RI ; ; gini È "3 \ ti GME se ts di dt (TE E E na TE i OA ce È È 461 Ts & A DI Ò ° 3 La Vi é ” «a Cab t A RT n) — = n oscena pi î { 4 di (AI n d t ” E 'csl 7 Ì "A bi 500 gite RE; Ù PELA i 3 ve \ % i; F, E] ® È i î ; i d i i î È d : È : == i i i , i) È i d 7 È È Ù A il vai È il y 4 2 } ij Di . H È I Ù i , È; f di À ‘ È ù È ‘ ; f î DI f - î i ì big 9 È È a coin i Î fis] i % DI {Mw LI - SIE è È PA} x ° E î f $ c 4 bi; ; î v tI $ Pi 4 VR4 i 1 Di © È ten SS 2 3 N Secue TaseLLa VI. Ktiassunto delle serie. ! T)ODINFNFHI Coscia Linea biomerale Dafmilli. <335 a mill. ‘340 N. 2 Da mill. 272 a mill. 290 NAZ » 540 » 360 » 4 » 290 » 5310 > 6] » 360 » 380 SL » 310 » 330 >» 10 » 380 » 400 > 20 » 330 » 350 » 20 | » 400 » 420 di IZ » 350 » 370 >» 15 » 420 » 440 > 3 » 370 » 390 DA) » 440 » 455 te » 390 » 400 ea Gamba Linea bisiliaca Da mill. 270 a mill. 290 NeW] Da mill. 250 a mill. 270 INSERTO » 290 » 310 VII A » 270 » 290 >» 16 5 310 » 380 SOS » 290 » 310 > 19] » 330 » 350 » 30 » 510 » 330 SOG » 350 » 370 o ant) 2 330 2 350 DAI < 370 x 390 MT » 350 » 363 DITO » 390 » 413 » 1 Linea bitrocanterica Piede (altezza ( Da imila2so a mill. 300 N. 10 | DI 39 9 Da mill 50 | amill 55 | N. 15 pen SII mi I » 55 » 60 Dan, 3 7 3 x 3 ALE 2 60 x 65 do » 340 » 360 DI. c 65 si 70 SI 7 300 > 380 209. s 7) £ 5 RIME » 380 » 592 Sul Pigiel (insheza) Dal vertice alla sinfisi pubica D #1 Cc Da mil. 208 OSTANA IE Da mill. 616 a mill. 680 ING Fà « 409 OT INVIO > url 5 5 ao 0 o a a Sergio a ge » 220 » 290 » 18 RI 740 N 770 >» (25) » 230 » 240 DI 15 » 770 » 800 > 15 | » 240 > 250 DI 9 sai OST oa v05 ! e » 260 » ZIA » Jl | Lia fiaeraniale Dal vertice agli organi genitali Da mill. 657 a mill. 700 N70 | Da mill. 240 a mill. 255 INGERSZ » 700 » 750 I » 255 » 270 >» 13 » 750 » 780 zi 1605 » 270 » 285 >» 20 » 780 » 810 » 19: » 285 » 300 >» 18 » 810 » 840 > 200 » 300 » 515 » 1 » 840 » 870 » 7 i » 315 » 326 DI » 880 | » 900 VAN] ice dee circa ie ioni SEA rn) Pic ma LA I TT EAT TAO EI eg ep opentiii n È m “ x P. . puidua ialimie pito ganinav lai CSA : we. 1% pi sa È n ii soneinnuerttà ;I Il e A } de no, “ pr ® 1% | a 3 r DI Ù $ li DUI CI la / #33.) 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(lunghezza) . » 202 230 sa 2 250 225 | Linea biacromiale . > 301 279 Fe izo 310,5 | 278 ie ibiomerale= > 387 342 #45 390,5 540,5 > pisinaca to => 294 301 ii 298 300,5 i » bitrocanterica » 328 329 n | 330,5 330,5 Distanza dal vertice | alla sinfisi pubica » 827 744 + 83 855,5 199,5 i Distanza dal vertice agli organi eeni- tane o» 864 807 + 57 885,5 825,5 Differenza EEZZZZEZEZEZEZNE + ll a e DOLO (Oli (DI hd D S 60,5 ; i dc Csi DE VIRA PIZZI RIE RSI î simona È veline O profe ib sinora Di (1 È È a DO] { be, LP i i É el e nie e e ir mr DT LEVA ANTI I ini Se n 1 I aio ca a TA \ î cpugdai dinsa, ela0 tal) ù ‘randtliglon ii ia pato SA; sì; fue! dd santa $e tf f sunto. | veto PE YA bber t I de e na uc +3 x bi dt PAS NB 9 13 ii È a i WIETA DIN CARITA _ RIA IE: mit ali ina | omit Lo -— [49 LOTO CR O I à ‘ Ù bt RS OI E )OT 7 ° e ° LC V lar i TP ANN To | Mo RI (ezo]Te) opord je omodsr | OTUCAO & e ) À «& la) 01, 2 e Sa « e ° ° ° (vzz ZO} V) opord Te « 3) 001, CHEN; SI MAT EEST SERE E UU] « «SI <= VE rai = OTeiOUIOIQ « « / € 4 19 Hi $E / e une ig € E PA SACRE SIOE UTRETIE Re DA aa < see (ezzote) opord Te < coi)” 001,” CONE nà n requres elle 7 RASTA NI? 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Siatura 1697 1697 1697 1697 1697 1697 1697 1697 1697 1697 1697 1697 1697 169° 1691 dal 169 dal 169 1697 1697 1000 1000 TON 209 479 O) DO Ha Differenza w dor a ti e e e eee gl (!<::<]J/J‘ 58 TABELLA X. Proporzione delle varie parti del corpo colla statura = 1000. 4TT © i Differenza _—==-——+- _T_r—_—_———————rP——_P_r_____o on | UOMINI DONNE UOMINI DONNE Statura Testa Rapporto 1697 i (924 1000] 132 oz) sO sa Tono) 06) ce 1 17000) 82 Sn Vodo 8 I 1575 : 200 BA 1000) g 327 Cranio io so 76 38 I000 Ro 2a o ds 42 5 A 46 39 N00 e To 3 N00 8 19 EEE 0 ONE Faccia 1697 = 149) i 0000: 185 1549 i 155 :: 1000 = 87 SCSI 1700) 42 i 10001: 84 oo e 168 se 100 87 Tronco 1697 : 661 :: 1000 : 389 TOA O CA CO SEI 000392 = 1700: 662,5 i: 1000 : 389 1575: 607,5 :: 1000 : 385 Arîo superiore 1697 : 772 :: 1000 : 455 1549) : 698. :: 1000: 451 TRAA: 1700 : 775 i: 1000: 455 1575 : 675 i: 1000: 4283 Braccio 1697 = 820 :: 1000 : 189 1549 : 292 :: 1000: 188 | + 1 1700: 320 :: 1000 : 188 1575 : 802,5 :: 1000 : 192 Avambracoio 1697 = (244 i: 1000: 144 J49 a 27 000) O + k 1700 : 245 2 1000) 144 TSTORERZIO, :: 1000 : 133 Mano 1697 : 208 :: 1000 : 123 15498900022 Spa) 1700 : 205 ta 1000: 120 1575 : 185 :: 1000 : 117 Arto inferiore 1697 : S69 :: 1000 : 512 1549 : 802 :: 1000 : 518 CERA 1700 : 840 :: 1000 : 494 1575 : S00 «* 1000 : 508 Coscia IGO B 4 se I000 5 260 1549: 401 n: 1000)» 259 SR 1700 : 450 :: 1000 : 265 1575 : 390 :: 1000 : 248 Gamba 1697» 369 n: 1000: 217 1549) : 339: 1000, : 219 = 2 1700 : 360 1000: 212 1575: 340 :: 1000 : 216 Piede (altezza) IG A 66 93 1000 e 59 1549 1: 62 :: 1000 : 40 — Il 1700 : 63 i 1000: 37 1575 : 58 :: 1000 : 36 Piede (lunghezza) Meer Ss 252 pa dl) 2 088 1549 : 220 :: 1000 : 148 — 1700 : 250 i: 1000 : 147 oo e 1229) :: 1000 : 143 Linea biacromiale 6078 O CO 0 ORE 1549: 279 i: 1000; 180 =. 8) 17700: 3105. i: 1000, : 182 1575 : 278 :: 1000 : 176 Linea biomerale o ED 23 000228 1549: 342) a: 1000) © 221 + 7 1700: 3905 i: 1000) : 229 1575 : 340,5 :: 1000 i 216 Linea bisiliaca 1697 = 0294 i 1000: 173 1549 : 801 :: 1000 : 194 — 21 1700: 298 :: 1000 : 175 1575 : 300,5 :: 1000 : 191 Linea bitrooanterioa 1697 828: 1000): 193 1549: 329 :: 1000 : 212 — 19 1700 : 330,5 :: 1000 : 194 1575 : 330,5 :: 1000 : 209 Distanza dal vertice alla sinfisi pubioa 1697 : 827 :: 1000 : 487 1549: 744 1: 1000 : 480 + 7 1700 : 855,5 i: 1000 : 503 1575: 7555 :: 1000 : 479 Distanza dal vertice agli organi genitali 1697 : 864 :: 1000 : 509 1549 : 807 :: 1000 : 521 — 12 1700 : 885,5 :: 1000 : 521 1575: 825 1: 1000 : 524 Tria ica ES dé n TM È 10. ERO ai 3: nda spia. CENNI STORICI SULL’AN'TROPOMETRIA DEL Proressor CESARE TARUFFI Due anni or sono volendo descrivere uno scheletro gigantesco del mio Museo, con particolarità interessanti, incontrai non lieve difficoltà per confrontarlo cogli scheletri ordinari, non trovando studi sufficienti fatti in proposito ; laonde fui obbligato, per supplire a sì grave difetto, di invitare il mio Assistente Dott. Peli a misurare tutti i cadaveri, che dovevano servire agli esercizi anatomici; e con i dati raccolti potei mandare a compimento il mio lavoro (1). Ma fin d’ allora mi mosse il desiderio di sapere se realmente la scienza anato- mica era così povera di studi antropometrici come mi era sembrato; ed a questo fine feci ripetute ricerche, le quali, se non hanno fruttato 1’ intera soluzione del quesito che m° era proposto, hanno però dissotterrate alcune notizie che potranno giovare a chi si troverà in condizioni più favorevoli per compiere la storia di questo argomento. Queste notizie sono poi sufticienti a dimostrare la necessità di distimguere gli scrittori d’ antropometria in due classi: una delle quali comprenda gli artisti che si proposero di determinare in modo generale le proporzioni del corpo umano ben conformato, qualunque fosse la sua statura; e la seconda classe raccolga i naturalisti che si proposero di stabilire avanti tutto le misure reali secondo le dimensioni del corpo e secondo le età, per iscuoprire poscia le leggi dello sviluppo e le loro varie- tà secondo le razze umane. Non seguendo questa divisione si giunge al corol- lario che i molteplici studi fatti dall’ antichità fino ad ora hanno giovato ben poco alla scienza, dovechè quelli eseguiti con quest’ indirizzo sono molto scarsi e recenti. 1° Gli artisti però non raggiunsero con sollecitudine la loro meta, ma impiega- rono secoli avanti di copiare la natura nelle sue forme più perfette: di fatto osservando le sculture delle Indie e dell’ Egitto si scorge di leggieri che le pro- porzioni date al corpo umano non erano esatte, quantunque per una certa uni- (1) Tarurri C. — Scheletro con prosopocctasia e tredici vertebre dorsali. Mem. dell’ Accad. delle Sc. di Bologna 1879, Tom. X. p. 63. — 436 — formità nei tipi possa indursi che venivano seguite alcune norme. Queste norme invece divennero assai corrette per opera dei Greci, che le applicarono con quell’arte delicatissima, che fu per lungo tempo un loro privilegio. Nè havvi poi bisogno d’ induzione per ammettere che gli scultori si servirono dei risultati delle misure prese sull’ uomo, poichè a tutti è noto che Policleto scrisse un trattato sulle pro- porzioni del corpo, che andò perduto, e fece una statua, chiamata Doriforo (por- tatore di spiedo) che servì lungo tempo di canone; sebbene non rari siano i casì di trasgressioni al medesimo. Venendo all’ Italia troviamo Vitruvio (1) che al tempo d’ Augusto discor- rendo intorno quest’ argomento lasciò scritto , 4 volto che comprende lo spazio fra il mento e la sommità della fronte, ove havvi la radice dei capelli è la decima parte del corpo , e poco dopo; , < capo dal mento alla sommità del vertice è la parte ottava del corpo ,. Il traduttore italiano poi dell’opera di Vitruvio, pubblicata nel XVI secolo, aggiunse una tavola, in cui rappresenta un uomo diviso da tante linee nelle proporzioni suddette. Da questo passo si scorge che per gliartefici di quel tempo la maggior preoccupazione era il rapporto della testa colla statura, ma in quanto alle dimensioni delle altre membra essi seguivano le proprie vedute. Nel rinascimento delle lettere e delle arti il canone Vitruviano non fu da tutti adottato ; e volendo riformarlo, ne sorsero norme alquanto diverse fra loro, in causa della differenza dei tipi presi a misurare. Un esempio fu dato da Leon Battista Alberti (2), esimio scrittore e ristauratore dell’architettura, il quale ammise che la faccia fosse 14 della statura (4), e la testa incirca ! ($4,). Questo celebre autore insegnò in oltre un processo di sua invenzione per stabilire le proporzioni del corpo; e lo rappresentò con una tavola. Esso adoperava uno strumento che chiamò definitore, composto di tre parti, cioè d’un orizzonte che poneva sul smci- pite d’ una statua o d’ un modello, poi d’ una Zinda che discendeva dall estremità dell’ orizzonte sino in terra ed era tenuta tesa da un piombo. Questa linda veniva poi distinta in sei parti eguali chiamati piedi (variabili secondo la statura) e ciaschedun piede suddiviso in 10 gradi, e con questo conge- gno stabilì le proporzioni di tutto il corpo. Leonardo da Vinci (3) invece stette saldo al canone di Vitruvio, come risulta dai suoi dipinti e da una figura che lasciò disegnata, e che si vede divisa da otto linee; sotto la quale scrisse: , £ che è capo, cioè dalla sommità dell'uomo al disotto del mento sia V ottava parte di tutto il corpo ,. Fra queste due scuole sorse nel XVI secolo un letterato ben noto, il Firenzuola (4) (1) Lucio Vitruvio PoLLIoNE — De Architectura — Como 1521, in fol. Lib. III carta 49. (2) ALBERTI LEONBATTISTA (1404-1482) — De pictura — Basilea 1540 — Opere, trad. Ital. di Cosimo Bartoli. Venezia 1565-68 — Nuova ediz. Bologna 1782 — Della statua, p. 323. (3) LeowAaRDO DA Vinci, nato vicino a Pontremoli (1452-1519) — Trattato della Pittura — Parigi 1561 — Bologna 1786, cap. 167, pag. 45-49. (4) AcnoLo FrrenzuoLa fiorentino — Delle bellezze delle donne Firenze 1548. Giusti in 8° — Prose; Firenze 1552 p. 862. — 437 — che manifestò due nuove idee, forse non sue. Esso diceva: Risolversi la statura, ovrero la forma dell'uomo in un quadro, perciocchè tanto è lungo luomo distendendo le braccia in croce, quanto dall infima parte delle piante alla sommità del capo, che rolgarmente si chiama cocuzzolo: la qual figura vorrebbe essere per lunghezza almeno nove teste, cioè nove volte quanto è dalla più bassa parte del mento alla sommità del capo. Esso inoltre pubblicò il metodo per misurare la testa, ma in luogo di pi- gliare per termine inferiore il mento, come sembra abbia fatto stabilendo la pro- porzione suddetta, rappresentò una figura con una linea orizzontale sul sincipite proiettata in avanti ed una seconda che partiva dal fine della gola e poscia misu- rava la distanza fra queste. Non sappiamo se altri abbia ripetuta questa misura tanto incostante. Sap- piamo bensì che il canone esposto del Firenzuola ebbe molti seguaci, la qual cosa ci venne attestata dal Vasari (1) con queste parole: , costumasi per molti artefici fare la figura di move teste, la quale viene partita in otto teste tutta, eccetto la gola, il collo, e l altezza del piede, che con questi torna nove; perchè due sono gli stinchi (tibie), due dalle ginoccha ar membri genitali e tre il torso fino alla fontanella della gola ed un altra dal mento all’ ultimo della fronte, ed una ne fanno la gola e quella parte che è dal dorso del piede alla pianta, che sono nove. Le braccia vengono appiccate alle spalle, e dalla fontanella (iugolo) all'appicatura delle mani sono tre teste, ed allargandosi l uomo con le braccia apre appunto tanto quanto egli è alto. Mentre in Italia seguivasi liberamente ora una regola ora l'altra, un celebre pittore di Norimberga, Alberto Durero (2) volle verificare le cose dette, e misurò un contadino ben conformato del suo paese, dal quale ricavò che la testa è un settimo della statura, laddove la faccia è un decimo, lo che permette di dedurre che nel suo contadino il sincipite fosse molto elevato. Ed ecco l’ origine d’un nuovo tipo, che ebbe proseliti, da aggiungersi ai precedenti. Ma tutti questi canoni così diversi fra loro, in luogo di porre in serie dubbiezze gli artefici, giovarono invece grandemente all’ arte; la qual cosa ci viene spiegata dal celebre scrittore fiorentino di Belle arti, il Baldinucci (3), colle seguenti parole : St formano figure di pittura e scultura tanto di maschi, quanto di femmine, di proporzione di sette, di otto, e di nove teste, ed alcune volte di dieci e più, come si dirà appresso ; (la misura della testa incomincia dalla parte più bassa del mento, e termina sino alla sommità della fronte). La prima di sette teste è proporzione d’ uomini imperfetti e di corpo e membra rusticali e goffe. (1) VasarI GiorGlo — La vita dei più eccellenti pittori Firenze 1550 — Ediz. 2.* Firenze Giusti 1568, Introduzione, p. 33. (2) ALB. Durero — De symmetria; Norimbergae 1534, carta 6 retro — Venetia 1519, traduz. di G. P. Gallucci Saludiano. (3) Barvinvcoci Fiippo — Lettera intorno al modo di dar proporzione alle figure in Pittura e Scultura, scritta a Firenze il 1.° Decembre 1689, e diretta a Mons. Lorenzo Salviati. Questa lettera è stata pubblicata per la prima volta a Livorno nel 1802. — 438 — La seconda di otto è alquanto miglior proporzione, ma non arriva al più bello. La terza, che forma la figura d' altezza di nove teste, è quella della quale si sono serviti per ordinario è più eccellenti artefici. La proporzione di dieci, e alcune volte di più teste, bene spesso deve usarsi prin- cipalmente in scultura, quando le figure devano vedersi ad una altezza molto grande. Queste notizie dateci dal Baldinucci ci spiegano come gli artisti italiani più non si preoccupassero della questione del canone possedendo già quanto abbisognavano per la loro nobilissima arte, difatto nei vari trattati d’ Anatomia pittorica che sono venuti in luce sino ad oggi (1) non si trova parola delle proporzioni del corpo umano, eccetto in quello d’ un certo Squarquerillo, che, fornendo cattive tavole anatomiche, dette anche proporzioni inusitate senza una parola di giustificazione (2). Fra gli stranieri, vari altri artisti, dopo il Durero, si sono occupati del mede- simo argomento, e questi in gran parte sono stati ricordati dal più dotto scultore del nostro secolo, Goffredo Schadow (3), direttore dell Accademia di belle arti in Berlino, il quale stabilì che la testa è nella proporzione di 7,30 colla statura. In quanto agli artisti francesi, i loro studi sì trovano compendiati in un bell’Art. del De- chambre sopra l anatomia delle belle arti (4). Ricorderemo soltanto un certo Sil- bermann (5) che nel 1850 ritenne di fare. un servigio agli artefici dando in misura metrica la distanza dal suolo di ciascheduna regione del corpo in un uomo alto 1",60, e non pensò che gli artefici hanno invece bisogno della proporzione fra una parte e l altra qualunque sia la statura. (1) Moro Gracomo — Anatomia ridotta all’ uso dei pittori e scultori. Venezia 1879 in fol. GENGA B. — Anatomia per uso del disegno. Roma 1691. LeLLi ErcoLe Modellatore anatomico di Bologna dal 1747 al 1766 — Anatomia esterna (5 tavole) per uso dei pittori e scultori, con la denotazione delle parti tratta dui mano- scritti del medesimo. Bologna senza data (verso la tine del secolo scorso). CALDANI F. — Le/flessioni sull’ uso dell'anatomia nella pittura. Venezia 1803. RusEIS D' Upine — Traite d’anatomie à Vusage des peintres : suivi des Portraits. Paris 1829. SABATTINI (@. — Z'avole anatomiche per i pittori, scultori ed altri. Bologna 1841. (2) SquanquerILLo CosrantIino — Trattato di anatomia pittorica. Roma 1841 in fol. L’autore dà tre tavole in cui stabilisce le proporzioni del corpo. Nella tav. 1.* rappresenta. la figura d’uomo in cui la testa è sette volte e mezzo la lunghezza totale. Dà inoltre la figura d’una donna in cui la testa è nove volte la lunghezza del corpo. Nella tavola n. 58 fornisce di bel nuovo le proporzioni di un uomo il quale misura sette teste e mezzo e divide la testa in cinque parti e rappresenta la grande apertura delle braccia eguale alla altezza. Nella tavola, numero 59 fornisce le misure d’ una donna che misura in lunghezza 7 teste e %, la qual cosa non corrisponde colla prima figura. Finalmente nella tav. 60 dà la misura d’una fanciulla, di cui l'altezza corrisponde a 4 teste e tre quarti. (5) ScHapow G. — Polyclit: oder von den Maassen der Menschen nach dem Geschlechte, Alter, etc. Berlin 1834. (4) DECHAMBRE — Enciclopedie des Sec. med.; Paris 1806. Art. Anatomie etc. (5) SILBERMANN M. I. T. — Comptes rendus de Vl’ Accad. Tom. 42, p. 454,495. Noi non sappiamo le qualità di quest’ autore, perchè i periodici francesi non aggiungono mai nè il nome, nè la patria, nè le cariche degli autori, come se gli attributi dei loro scrittori doves- sero essere noti a tutt’ Europa. — 439 — 2° Passando ora ai naturalisti, le ricerche storiche a loro riguardo sono assai più difficili, poichè i loro lavori sull’ antropometria sono molto rari, dispersi in diverse miscellanee ed in parte dimenticati; laonde noi non siamo riesciti a rac- cogliere che un numero molto ristretto di notizie, nulla sapendo di ciò che è stato fatto in Inghilterra e ben poco di quanto è venuto in luce in Germania e nei paesi del nord. Per quanto a noi risulta, possiamo rilevare che anche gli scienziati incorsero per lungo tempo negli stessi errori in cui caddero gli artefici, cioè di pigliare per estremi di ciascheduna misura dei punti variabili, come l origine dei capelli, di ridurre le misure a numeri proporzionali senza frazioni, e di credere che l' u- manità sia foggiata in guisa da dare un tipo unico. E per un certo tempo com- misero un errore più grave, cioè quello di preoccuparsi soltanto dei rapporti delle parti fra loro qualunque fosse la lunghezza del totale, in luogo d’ ottenere le mi- sure reali di ciascheduna parte, sicchè giunsero alle stesse conseguenze disparate che abbiamo rilevate antecedentemente; con questa differenza però che gli artefici non deturparono i loro lavori ad onta delle sensibili varietà nelle proporzioni, dove che gli scienziati non raggiunsero la verità, unico fine delle loro ricerche. Il fisico più antico che a nostra cognizione rivolse il pensiero a tale quesito fu Cardano nel 1550 in Milano, il quale disse -—- totius longitudinis a capillorum ortu ad pollicis digiti pedis catremum, facies pars decima est (1). E così esso intro- dusse un nuovo termine, cioè quello di pigliare per confine inferiore 1’ estremità del piede, cosa che non ebbe imitatori, non essendo sorretta da argomenti per mostrare che questo metodo era più esatto degli altri. Uno studio più particolareggiato fu fatto parimenti in Milano, quasi contempo- raneamente alla pubblicazione dell’ opera di Cardano, da un pittore versato di cose anatomiche di nome Girolamo Figino, ed il risultato del suo studio ci è stato trasmesso da Venusti (2) con queste parole — Dal nascimento de’ capelli infino sotto il mento, è la decima parte della lunghezza dell'uomo. Di sotto il mento alla sommità del capo è l ottava. Dalla sommità del petto alla cima del capo è la sesta. Dalla cima del petto al nascimento dei capelli è la settima. Dalle poppe alla cima del capo è la quarta. La maggiore larghezza delle spalle è la quarta. Dal gomito alla punta della mano è la quarta. Dal gonvito al principio della» spalla è V ottava. Tutta la mano è la decima, il piede è la settima. Dal piè al ginocchio è la quarta. IT membro virile nasce dal mezzo del corpo umano. Tanta è la lunghezza dai piedi alla cima del capo, quanta è la distanza dalla sommità dei più lunghi diti dell'una mano alla cima di quelli del- l altra, tenendosi però le braccia distese. Oltre queste misure 1’ autore ne fornisce altre di minor conto. (1) Carpano G. — De subtilitate. Liber XI; Norimbergae 1550 — Opera omnia Tom. III, p. 555 Lugduni 1566. (2) Venusti ANT. Mar. — Intorno alla generazione; Venezia 1562, Cap. 98 p. 107. Add Un risultato diverso fu pubblicato dal bolognese Ambrosini nel 1642, ma non sappiamo se sia frutto delle sue osservazioni, oppure di quelle d’ Aldrovandi (1). Qualunque sia l'origine, esso afferma che la nona parte del corpo non è già la testa, ma solo la faccia e poi saggiamente aggiunge: — mon neghiamo che si possano vovare uomini, cui la natura abbia dato un corpo di maggiore 0 minor misura; poichè taluno ha il corpo lungo 10 volte la faccia e tali altri hanno una statura che contiene la faccia 8 volte e di rado 7 soltanto. — Questa è la prima volta che viene ricono- sciuta la varietà nelle proporzioni e nello stesso tempo la prevalenza d’ una misura sopra le altre, la quale deve essere stata presa sopra molte persone, poichè collima esattamente colla realtà; non così possiamo dire rispetto al caso d’ uomini lunghi sette faccie. Dodici anni dopo (1654) fu fatto uno studio minuto delle proporzioni umane in Padova da un allievo di quella Università, di nome Giovanni Sigismondo El- sholt (2) che lo dedicò al suo Sovrano Guglielmo marchese di Brandeburgo col titolo di Anthropometria (3). In questo studio l’autore non si occupa di stabilire la statura, però racconta come cosa nota che i settentrionali sono per lo più grandi e belli, coì capelli tendenti al biondo o al rosso, dovechè i meridionali hanno la statura più piccola, crespo il capillizio e tendente al nero; ìî popoli intermedii poi sono mediocri; e racconta inoltre che la statura comune degli europei viene definita in sei piedi geometrici, e chi la eccede s? dice lungo, e chi non la raggiunge si dice breve (p. 25). Il metodo per stabilire Ie proporzioni dell’ uomo Elsholt lo prese in gran parte dall’ Alberti (senza nominarlo), poichè divideva come questi il corpo in sei parti, ma in luogo di frazionare il piede in 10 gradi, lo divise in 12. Modificò pur anche l istrumento misuratore nel modo seguente : esso sì serviva d’ un’ asta in- trodotta in uno zoccolo a base; quest asta era lunga quanto l’uomo, che divideva col compasso nelle frazioni suddette, ed all’ estremità superiore della medesima univa ad angolo retto un’ altra asta simile che toccava il vertice dell’ uomo; poscia. con una riga da scrivano che chiamò REGOLO (smussata ad una estremità ed ap- plicabile ad angolo retto in qualunque punto dell’ asta verticale) stabiliva la distanza dal vertice di certi punti del corpo da esso preferiti. Con questo metodo rinvenne che ove è segnato il primo piede, o la 12° oncia, ivi corrisponde l unione del capo col collo; che ove è segnata la 20° oncia corri- sponde ai precordi; la 28* all’ombellico; la 36* alle pudende; il quarto piede alla. porzione più gracile del femore; ed il sesto piede al calcagno. L'autore inoltre (1) Aprovanpi ULisse — De monstrorum historia. Barthol. Ambrosinus lubore et studio volumen. composwit; Bononiae 1642 in fol. (2) ErsHoLr G.S. — Anthropometria ; Patavii 1654 in 16° — Ed. 2° Stadae 1672 in 16° con 9 tav. (3) Il chiarissimo QUETELET (Antropom. Bruxelles 1871. p. 78) si può rassicurare che esso ha. azzardato ben poco introducendo il vocabolo antropometria, il quale era già stato trovato da lungo. tempo. — 44l — pigliò in considerazione la larghezza e la circonferenza delle parti adoperando il filo ed il compasso (1). Se ora ci facciamo la domanda come questo lavoro, il più completo venuto fin allora in luce, sia stato dimenticato insieme agli altri, crediamo di trovare la risposta nel lavoro medesimo, perchè l autore non fu felice nella scelta dei punti da misurare, avendo preferiti luoghi mal circoscritti, e perchè non ripetè i suoi calcoli in un buon numero d' individui. Dopo questa laboriosa dissertazione, ma di poco profitto, troviamo una lacuna d’un secolo, in cui niuno scienziato, a nostra cognizione, si occupò del quesito in discorso, quando nel 1755 venne in luce una memoria importante scritta da Giu- seppe Sue Prof. d’ Anatomia a Parigi (2), la quale aveva per fine, non di stabilire la proporzione fra le singole membra, qualunque fosse la statura, ma di determinare la lunghezza reale dell'intero scheletro e di ciaschedun osso che lo compone, nelle di- verse età, principiando da un feto di 6 settimane: innovazione questa di gran momento, che metteva l’ antropometria sulla retta strada per giovare alla scienza dell’ uomo. Ma, come accade sempre, i primi tentativi, anche con buon indirizzo, sono incerti e difettosi: così avvenne al nostro anatomico, il quale in luogo di pigliare gli sche- letri quali sì presentavano e di valutare le differenze che si rinvengono coil’ uomo vivente “ scielse con tutta l attenzione possibile soggetti ben conformati e di cui la statura non sembrasse nè molto grande, nè molto piccola secondo l'età. , E in conseguenza di questo metodo cadde nell’ arbitrario, poichè per tipo degli uomini oltre ai 25 anni, preferì gli scheletri alti 1,787 mill., cioè 95 mill. di più della media dei Parigini (3); e sui medesimi scheletri poi misurò le singole ossa, la qual cosa non fece sempre con esattezza, avendo data una dimensione invero- simile della colonna vertebrale. Non fu poi capace dalle sue cifre di ricavare alcuna legge sullo sviluppo. Nel 1770 Swediaur (4) descrisse i preparati anatomici del Museo di Vienna e fornì le misure degli scheletri ed il peso di ciaschedun osso. Ma, non possedendo noi questo lavoro, non possiamo dire con quali norme esso abbia proceduto, sap- piamo soltanto che i suoi dati metrici non furono da alcuno presi in considerazione e neppure da Bonn (5) quando descrisse lo scheletro della sua giovine gigantessa, (1) La dissertazione d’ ELsHoLT essendo divenuta abbastanza rara, noi stimammo oppurtuno di tradurre il suo E/encus antrhopometrus e di porlo in appendice al lavoro sulla Muacrosomia che pubblicammo negli Annali universali di Med. Vol. 247. Milano 1879. (2) Sur Giuseppe — Sur les proportions du squeleite de V homme. Mém. de i Accad. R. des Sciences. Tom. II, p. 572. Paris. 1755. Questo titolo non corrisponde alla Memoria, perchè l’autore non ha ricavato alcun rapporto proporzionale fra un osso e l’ altro. (3) Sapper — Zraité d’ Anatomie. Tom. I. p. 297. Paris 1876. (4) Swepraur F. X. — Descriptio preparatorum anatom. et instr. chirurg. quae possidet facultas med. Vindobonae — Vienna 1770. (5) Bown ANDREA — Descriptio Thesaurii ossium morbosorum Hoviani (di Giacomo Hovius). Amsterdam 1783, p. 154, prep. 462 — Lipsiae 1784. TOMO II. 56 — 442 — alta 2198 mill., senza instituire ragguegli. Questo celebre chirurgo danese diede per il primo una completa descrizione antropometrica, e se peccò fu in esuberanza, ricavando misure superflue e di difficile raffronto. Ma questa descrizione non giovò che a far conoscere le proporzioni in un caso eccezionale. Avanti però la fine del secolo, l'inglese White (1) mostrò l’ importanza del- l antropometria applicandola alla comparazione fra una razza e l’altra della specie umana e fra questa e le scimie; e, prendendo in esame successivamente ciaschedun organo, e ciaschedun carattere, dimostrò più o meno esattamente che le razze umane formano una scala, in cui i negri occupano il grado inferiore, e fanno transizione alle scimie antropomorfe. Ma ove l'osservazione fu più corretta sì è in- torno all’ avambraccio, poichè avendo misurati 9 scheletri d’ Europa, uno d'un Negro; 12 Europei viventi, e 50 negri viventi, non che alcune scimie, ne dedusse che le scimie hanno l’avambraccio più lungo dell’ uomo, e che il negro tiene in posto intermedio. Se questi risultati provano che White fu il primo a trar profitto dali’ antropometria, rendendola comparata, non provano però che esso sia il fondatore dell'indagine anatomica fatta sopra uno o più individui della stessa razza, poichè tant’ altri prima di lui, come già abbiamo notato, avevano misurati uomini e scheletri. Sebbene il White avesse mostrato che lo stabilire le misure del corpo in luogo d'essere uno studio sterile è invece un mezzo efficacissimo per scuoprire le differenze di razze, tuttavolta questo studio ebbe rari seguaci, avendo i naturalisti rivolte le loro indagini ad una parte sola del corpo umano, cioè alla testa, sperando che essa bastasse a risolvere i problemi più elementari d’ antropologia. Chi fece il primo passo in questa via circoscritta fu Daubenton nel 1764, noto collaboratore di Buffon (2). confrontando la direzione del foro occipitale dell'uomo con quello degli animali e serie animale si dirige progressivamente dal lato posteriore fino all’ estremità del cranio, in guisa che prolungando l’ asse del foro, esso giunge al muso dell’ animale. Di più misurò la varia inclinazione di questo foro. Questo primo passo diretto a studiare il cranio, fu superato da un altro molto maggiore, fatto dall’ olandese Camper nel 1770 (3), il quale insegnò a misurare il wrognatismo e 1 ortognatismo delle razze mediante il suo angolo facciale: troppo pad [(6]©) noto agli antropologi, così che non vi è bisogno di descriverlo. Ma esagerate furono e speranze che si nutrirono sull’ efficacia di quest’ angolo nelle ricerche etniche, pol- (1) Wrire M. — itegular gradation in Man. London 1799. Non possedendo questa Mem. abbiamo tratte le notizie sopra riferite da Topinard. (2) DauseNTon — Differences dans la situation du trou occipital dans Vl homme et les animaua. Mém. de l’Acad. des Sc. Paris. 1768. La Mem. fu letta nel 1764. (3) Camper Pierro — Diss. sur les differences que presentent les traits du visage chez les hommes de differents pays et de differents ciges ete. Amsterdam 1791 — Paris 1792. Questa disser. fu letta all'Accademia di pittura d’Amsterdam nel 1770, e pubblicata dopo la morte dell’autore. — 443 — chè, come dice Blumenbach (1) va riconosciuto che esso è miglior mezzo per distin- guere le varietà degli animali, di quello che per distinguere le razze umane fra loro. Nulladimeno tutti riconoscono in questo scienziato il vero iniziatore della craniometria. Quindici anni dopo il potente ingegno di Blumenbach (2) esaminando la pro- pria e ricca supellettile anatomica raccolta per ogni dove, pensò di poter scio- gliere la questione delle razze senza ricorrere nè alla craniometria, nè alla antro- pometria, bastandogli l’ esame oculare delie varietà dei crani e più specialmente della fronte e dei zigomi. E questo esame oculare lo compieva mediante la 70rm0a verticale, cioè guardando i crani dall alto al basso e così riconosceva la forma della volta, la varia sporgenza dei zigomatici e delle ossa nasali ecc. Nè qui s' arresta- vano i suoi confronti valutando ancora il color della pelle, la disposizione dei ca- pelli, la forma delle labbra, del naso, degli occhi. E tutte queste ricerche le chiamò antropologiche, adoperando nel senso fisico un vocabolo che fino dal 1533 era stato applicato alle qualità morali ed istintive dell’uomo da un certo Capella segretario del Duca di Milano, per dimostrare qual sia maggiore o la dignità dell’uomo, o quella della femmina, o la loro miseria (3), e poscia il vocabolo fu adoperato da molti altri nel medesimo senso (4). La rivoluzione francese e le guerre successive interruppero gli studi antropo- logici per molti anni, ed in luogo di questi sorse per opera di Gall (5) una speciosa dottrina, chiamata frenologia, la quale per un certo tempo preocupò i fi- siologi e gli anatomici o dette occasione di ricorrere alla craniometria. Diffatto Parchappe nel 1836 (6), per togliere le incertezze intorno alla nuova dottrina, pensò di misurare in ciascheduna testa due diametri e tre curve e poscia sommare i 5 mumeri e così credette d’ apprezzare le variazioni delle singole teste. Ma co- testo metodo di conteggio fu più tardi censurato da Broca perchè esagerava le variazioni (7). Anche Sandifort nel 1838 (8) rimise in onore le misure, abbandonate da Biu- menbach, per descrivere la sua raccolta di crani, ma ebbe il difetto di non se- guire un metodo uniforme. Ma chi possiede tutto il merito d’aver ringiovanita la craniometria è Retzius (9), che nel 1842 illustrò la sua collezione di crani del (1) BLumenBaca J. F. Prof. a Gottinga — Decas I collectionis craniorum. Gottingae 1789 p. 8. (2) BLumenBaca Jo. FR. — De generis humani varietate natura. Gottingae 1795 in 8° — Ipem. — Decas collectionis suae cramiorum diversarum gentium. Gottingae dal 1789 al 1828 in £°. (3) CapeLLa GaLLEAZZo — L’Anthropologia Libr. ILL, Venetia Aldus 1533 in 8°. (4) Chi desidera avere l’indicazione dei molti scrittori che hanno trattato poscia dell’antro- pologia morale, vegga nell’Enciclopedia di Torino Ediz. 5° l’Art. Antropologia. (5) GALL et SPurzHEIM — Anatonvie et physiologie du systeme nerveua. Paris 1809. (6) PAarcHAPPE — Ltecherches sur l enceéphale. Mém. Paris 1836, p. 15. (7) Broca — Bullett. de la Soc. d’ Anthropol. 1861. T. II, p. 174. (8) SanpiFort GERARD — T'abulae craniorum diversarum nationum. Lugduni Batavorum 1838-39. (9) ReTzIos — Formes cràniennes des habitans du Nord. Stokholm 1842. Muller s. Archiw 1345. - Annales des Sc. naturel. 1846. — 444 — Nord. Esso misurava cinque crani di ciaschedun popolo, pigliando il diametro lon- gitudinale ed il trasverso, poscia la circonferenza orizzontale. E per ciascheduna misura applicava il metodo usato nelle statistiche (1), ricavava cioè la media, col qual mezzo poteva paragonare i vari gruppi di crani e stabilire fra le altre cose le razze brachicefale e dolicocefale. Non prolungheremo il racconto intorno ai vari tentativi fatti dopo per perfe- zionare l esame del cranio, perchè giù Topinard (2) ha iniziata la storia del- l Antropologia, in cui gli studi fatti sulla testa tengono il primo posto. Ed è solo desiderabile che esso la mandi a compimento, avendo tutte le condizioni favo- revoli per riescire felicemente nel suo lavoro. Avanti però d’ abbandonare questo argomento vogliamo ricordare un progetto dimenticato, il quale conteneva una buona idea, che meritava d'essere presa in considerazione dagli antropologi. Questo progetto fu manifestato nel 1842 dal Prof. Gualandi, direttore del Manicomio di Bologna (3) in quale se ne giovò per lo studio dei dementi. Non avendo grande fiducia nelle misure esterne del cranio, i} Gualandi pre- ferì di praticarle dal lato interno; ed a questo fine segava verticalmente dal- l'avanti all’ indietro i teschi e poi in uno dei due emicrani cercava il centro del piano sacirtaLe. Per stabilirlo toglieva la mandibola inferiore all’ emicranio e poneva questo verticalmente sopra un piano; poscia l’ inquadrava mediante tre linee: una orizzontale tangente il sincipite, protratta in avanti ed in dietro para- lella al piano; una seconda verticale, tangente l’arco alveolare; ed una terza, paralella alla seconda, tangente all’ occipite. In tal guisa al limite del piano sagit- tale, si aveva un paralellogrammo, dagli angoli opposti del quale tirava due dia- conali, e nel punto d’intersecazione di questi aveva il centro desiderato. Intorno a questo processo la cosa principale d’ avvertire si è che Il autore non otteneva già il centro della cavità cranica, ma il centro del paralellogamma, il quale è situato molto più in basso ed anteriormente che non sia l altro centro. Questo difetto per sè stesso non sarebbe d'un gran momento, perchè la cosa più importante è d’avere un punto fisso riperibile con sicurezza. Ma se si pensa che il punto ottenuto dall'autore non varia solo per le differenze di forma del cranio, ma molto più per le differenze della faccia, cioè per I angolo di Camper, allora il centro cercato perde gran parte della sua importanza e diventa un termine inesatto. (1) L’instituzione della statistica è attribuita a Francesco Quesnay (Physiocratic 1768) che l’applicò alla mortalità ricavandone le medie. Il Balbo più tardi proponeva che fosse applicata ai casi clinici per verificare la bontà delle dottrine correnti (Saggi d’aritmetica politica. Mém. de l’Acad. des Sc. Turin 1798). Fra quelli di questo secolo che la raccomandarono nelle scienze mediche havvi Broca (Du degré d' utilité de la statistique. Moniteur des hopitaux N. 10, 13 jan- vier 1857). (2) Topimarp PauL — Gazette med. de Paris 1877. Feuilleton. (3) GuaLanpI Domenico — Di un caso singolare di demenza e dell’ uso d’un nuovo craniometro. Rendiconto dell’ Istituto di Bologna 1841-42. - De stultitia etc. Memorie dell'Istituto di Bologna Serie XI. Tom. II, p. 487 1850, con 8 tavole. — 445 — Stabilito nel modo suddetto questo punto centrale, per passare poscia alle misure l autore si servì d’un istrumento, analogo al Teodolite geodetico, il quale è formato di due circoli metallici, del diametro di 7 cent.; ciascheduno di questi è diviso in 360 gradi, ed uno è congiunto all’ altro perpendicolarmente in guisa che ambidue hanno un centro comune, il quale va collocato nel punto centrale precedentemente rinvenuto (1). Nel circolo verticale rispetto alla posizione naturale del cranio, havvi nella direzione del diametro una stretta lista metallica, mobile sopra il proprio asse, la quale a metà della sua lunghezza offre un pertugio per cui passa uno specillo graduato, che si piega in qualunque direzione del piano sagittale, cioè contro il margine segato dell’ emicranio, e siccome rasenta il circolo perpendicolare, che è graduato, così l’ autore poteva determinare la direzione di ciaschedun raggio. Ritenendo però superfluo il misurare tanti raggi quanti sono i gradi, il Gua- landi ne fissò il numero a 58, sedici cioè sul piano di sezione o piano sagittale e 21 per ciaschedun semicranio dal centro verso destra e dal centro verso sinistra, stabilendone le inclinazioni di gradi 22 !4, di gradi 45, di gradi 67 %4 e di gradi 90 pel solo retto mediano. Queste inclinazioni erano composte, cioè nei due sensi, relativi ai due piani ortogonali dei due circoli. Con questi due dati uniti all’ altro dalla distanza o raggio dal pertugio (o centro del sistema) alla parete del cranio, otteneva in tal guisa la posizione esatta del punto cranico rispetto ai due piani ortogonali costanti. Così adoperando ne risultava l'inconveniente di ca- dere sopra punti anonimi, non caratterizzati anatomicamente, per cui le misure prese non riescivano intelligibili al lettore e neppure rappresentabili. Difatto 1’ au- tore ha disegnato il suo strumento nell’ atto soltanto che piglia le distanze dal centro alla periferia del piano sagittale. Egli è veramente superfluo l’indicare tutte le difficoltà pratiche per applicare il metodo del Gualandi, essendo troppo ovvio il rilevarle. Basta soltanto il ricor- dare che sarebbe indispensabile raccogliere un numero straordinario di raggi per poter stabilire Ja forma interna di ciaschedun teschio ed altrettanto difficile di fare i confronti precisi di ciascheduna misura fra i diversi crani. Ma se questo metodo non corrisponle al fine, non si deve però negare che esso si propone un mezzo assai utile, cioè di conoscere la forma e la capacità craniense nelle diverse regioni. Egli è vero che col sistema dell’ autore non si può distinguere che la parte anteriore dalla posteriore, ma è sempre un vantaggio sopra quanto si fa attualmente, poichè ora non riusciamo a stabilire se non la capacità totale. Noi abbiamo piena fede che quando pel cranio aggiungeremo ai diametri ed agli archi la capacità delle principali regioni, ottenuta con un metodo facile, avremo fatto il maggior progresso in craniometria, essendo noto che le misure esteriori non giovano per eonoscere le differenze di volume delle singole parti (1) Questo istrumento va ancora fissato ai margini dell’emicranio, mediante due aste opposte, che partono dall’ esterno del circolo perpendicolare ed oltrepassano i margini suddetti. — 446 — del cervello, mentre alla scienza preme grandemente di scuoprire il rapporto di cotesto volume coi fenomeni psicologici e cogli istinti. Tornando all’Antropometria, essa subì durante la rivoluzione francese la sorte stessa della figlia primogenita, la craniometria, e rimase negletta fino al 1817, quando Federico Bird (1), sotto gli auspici di J. F. Mekel, pubblicò una tesi di Laurea, con cui voleva dare non solo le dimensioni degli adulti, ma anche degli uomini in ogni età, aggiungendo i casi in cui le regioni del corpo, hanno misure grandemente diverse dalle ordinarie. Ma esaminando questa tesi si ha la prova come anche le cose apparentemente più facili, siano invece assai difficili, affinchè tornino utili. Questo giovane autore in luogo d’ esaminare da sè stesso la testa degli adulti, si affidò in quanto alla lunghezza alle misure di Sue (mem. cit.) e di Gordon (2), sebbene discrepanti fra loro, perchè il primo stabiliva l altezza di 257 mill. ed il secondo di 247. Ed in quanto alla circonferenza si rimetteva ad una singolare statistica fatta nei magazzini militari d’ Edimburgo e di Londra, ove si distribui- vano i berretti ai soldati (3). Questa statistica ricavata da 200 uomini offre il no- tevole pregio che tutte le misure ottenute sono disposte in serie progressive, ed a ciascheduna misura corrisponde il numero relativo dei soldati, in guisa che tosto si riconosce la grandezza della testa più frequente o più rara ed i gradi inter- medi; noi poi crediamo che questo sia il primo esempio di statistica antropome- trica esposta per serie. Bird evitò ancora di misurare il collo, dichiarando che esso presenta troppe differenze ; fermò piuttosto la sua attenzione al torace, del quale esso stesso mi- surò la circonferenza e la lunghezza, pigliando per norma lo sterno. E queste indagini egli ha ripetute in più età, principiando da un mese di vita fino al trenta anni; ma non appare che esso abbia rifatta 1’ operazione in più di due o tre individui in ciascuna età. Pigliò inoltre la lunghezza della clavicola, dell'addome, del femore, della tibia insieme al piede, dell’omero, e del radio insieme alla mano in tutti 1 suddetti individui, senza indicare i punti estremi di niuna di queste misure, eccetto che per l'addome. Ed ecco una grave omissione, che rende il suo lavoro inutile, non essendo suscettibile di raffronti colle dimensioni prese da altri. Esso stesso poi si astenne dal cavare qualche corollario dalle sue cifre, mentre avrebbe potuto farlo almeno rispetto ai gradi progressivi di sviluppo. Non è raro il caso di vedere applicata una cognizione avanti che questa sia ben stabilita e precisa, e cotesto caso accadde anche rispetto all’ antropometria per opera di Orfila. Questo medico legista immaginò nel 1832 di potere stabilire l'identità d’ un uomo, quando per una parte si sapesse la statura del defunto e per l altra si possedesse un osso degli arti o del tronco ; e nel 1836 (4) fornì la (1) Brrp Frip — De dimensionibus corporis humani. Diss. Halae 1817. (2) Gorpon — System of human anatomy. Edimburg 1815. 1 (4) OrriLa — Medicina legale. Parigi 1832. Ediz. 3°. Parigi 1886. La statistica fu pubblicata nel Medical and physic. Journal by Fortherhill and J. Want. — 4471 — misura di 51 cadaveri comprendendo uomini dai 18 ai 70 anni, a cui framischiò sette donne, e tutti pose in serie ottenendo l'altezza minima di 1"43 e la massima di 1"86. Ora con questo specchio credeva che si potessero risolvere 1 casi contingenti predetti. Questo concetto, in astratto molto lodevole, piacque al Prof. di Pisa, Marcacci (1), il quale nell’anno 1850 lo portò alle ultime conseguenze, sostenendo che per stabilire l identità bastava possedere la clavicola, o lo sterno, od una mano. Per persuadersi dei pericoli di sì fatta dottrina basta porre lo sguardo sopra uno specchio antropometrico per vedere a quali distanze dalla normale può giungere la lunghezza delle singole ossa rispetto alla medesima statura. Seguendo la cronologia degli scrittori ora dobbiamo tener discorso del più in- defesso promotore dell’antropometria, il quale presentò nella sua vita il fenomeno singolare di fraporre alla contemplazione degli astri e delle meteore, lo studio fisico dell’ uomo. Questo astronomo fu il Quetelet di Bruxelles, che pubblicò la sua Fisica sociale nel 1835 (2) e le sue Lettere sulla teoria delle probabilità nel 1345 ove rilevò l’importanza della misura del corpo umano per svelare le leggi del- l’ accrescimento e delle sue ‘varietà. Ma l’opera in cui sviluppò maggiormente questo argomento fu messa in luce nel 1871 (3). In questo lavoro ’ autore si propose di stabilire le leggi fisiche della specie umana, quindi studiò da prima quelle dell’ individuo, da cui trasse la proporzione media dell’ uomo e delle sue principali parti, pigliando per base la statura dei Beloi e paragonandola con quella degl’ Indiani, dei Chinesi, e dei Cafri. Poscia si preocupò di nuovo dell’accrescimento individuale e generale, che gli sembrò suscet- tibile d’ essere subordinato ed espresso sotto formole matematiche. E non mancò di cercare ancora le leggi del peso, della forza del corpo, delle inspirazioni e delle pulsazioni. Finalmente esso chiuse la sua opera mostrando l'avvenire del- l’ antropometria quando sarà applicata a misurare le forze intellettuali, i rapporti del matrimonio, dell’ alienazione mentale, e della criminalità. Noi saremmo tratti troppo lungi dal nostro assunto se prendessimo in esame tutti 1 corollari che ha ricavati l’ autore dai suoi studi, potendo fare ognuno questo lavoro, perchè il libro è comunissimo. Ricorderemo soltanto che esso diffuse più d'ogni altro l’amore all’ antropologia ed alle ricerche sussidiarie di questa scienza, sicchè il Quetelet si può considerare il promotore più benemerito della medesima. Ma l'essere esso matematico e non anatomico fece sì che i suoi dati statistici hanno perduta una gran parte della loro importanza, perchè non basati sopra ricerche abbastanza efficaci al fine: difatto in molti specchi non è indicato il numero degli individui da cui furono tratte le medie (grande essendo la differenza secondo il numero degli uomini misurati); in molte ed importanti misure non sono precisati (1) Marcaccr Giosuk — Delle più notabili proporzioni delle parti componenti lo scheletro umano. Tesi di concorso. Pisa 1850. (2) Quest'opera è stata tradotta in Italiano nella raccolta d’ Economia politica di Boccardo Vol. If, Torino 1878, sull’edizione 2° francese del 1869. (3) QUETELET Ap. — Anthropometrie ou mesure des differentes facultes de l homme Bruxelles 1871. — 448 — i punti estremi, di cui si è giovato, tranne il caso della statura, e dell’altezza della testa: invece sono indicate misure di niuna o poca importanza, come quelle che hanno per termine l’ombellico, i capezzoli, gli angoli della bocca, degli occhi, e delle narici. E per ultimo negli specchi intorno le dimensioni dei soldati Belgi non è detta la loro età, dopo che egli stesso scoperse che la statura aumenta anche oltre i 25 anni. | Nel frattanto che il Quetelet ampliava i suoi lavori d’ Antropologia, il celebre fisiologo di Dresda, Carus (1) volle suggerire agli scultori un nuovo canone o mo- dulo, il quale stabilisse con maggiore sicurezza, le proporzioni del corpo umano, di quello che non facesse la testa o la faccia. E questo nuovo modulo fu la colonna vertebrale fetale, non tanto perchè essa è il primo organo a comparire nell’ovo, sotto forma di doccia primitiva, ma perchè le prime 24 vertebre d’ un neonato hanno }4 della lunghezza delle medesime vertebre dell’ adulto; e sono contenute 9 !4 volte nella statura totale. Per misurare poi tutte le altre parti si serviva del suo mo- dulo diviso in 24 minuti. In quanto al merito di questa nuova veduta noi non possiamo che lodarla essendo essa in armonia coi progressi della embriologia. Ma l’ antropometria scientifica in luogo di preocuparsi delle leggi del bello artistico, applicabili ad ogni dimensione, cerca avanti tutto le misure reali, sicchè per questo rispetto l’ idea di Carus non fu d’alcun profitto. Non dobbiamo però tacere che il suo modulo è l organo meno mutabile nella specie umana, qualunque sia la statura come noi rilevammo nei giganti e nei pigmei (2) e come poscia Topinard dimo- strò negli scheletri d’ ogni altezza (3). Due anni dopo il lavoro del Carus il Prof. Zeising principiò a pubblicare le sue memorie d’ antropometria (4), ma noi non parleremo che dell’ ultima, essendo l’unica che abbiamo potuto esaminare (5). Questa memoria è veramente sorpren- dente per la pazientissima fatica con cui è stata elaborata; e ben pochi si senti- ranno in forza d’ imitare l autore, il quale volendo pur esso trovare la legge delle proporzioni del corpo tanto allo stato di neonato quanto in quello d’ adulto, non che nei periodi di passaggio fra uno stato e l altro tentò una nuova via per raggiungerla. Quantunque lo Zeising lo taccia, moltissimi tentativi deve aver fatto avanti di aver potuto formulare la sua, non diremo regola, ma ingegnosissima teoria, la quale consiste nel dividere in due parti 0. Di quì si conclude che le espressioni = de no) per e>0 MWe= A wet cu) VWi=MAe I) per FI) W=— due“J, (nu) \ rappresentano i più semplici tipi di funzioni associate, ove si escludano, come si è detto, le masse concentrate sull’ asse di simmetria. I due precedenti valori di V, per 2 > 0 e per #z<0, coincidono fra loro al limite comune 2 = 0. Non è così delle loro derivate rispetto a 2, fra le quali ha luogo la relazione (3) — (5) = — 2nAI.,(Mu) . 020 /a o dei fe Da ciò e da altre considerazioni note, sulle quali non è quì necessario di insistere, si conchiude che la funzione V, definita dalle formole precedenti, è la funzione potenziale d’ uno strato di densità ni a(= >, o(MU) , disteso sul piano 2a = 0. Si può osservare che, per tale strato, la quantità di materia compresa entro il cerchio di raggio x è data da 21 fl udu = ni 1 fut o(nu)du 0 0 = — Aut, (nu) (in virtù dell’ equazione differenziale delle funzioni J, DI sul, (nu)} + nul;(nu) = 0). TOMO II, 59 — 466 — La suddetta quantità equivale dunque a — W._-_,, oppure a VW sia aEhe rientra in un teorema noto di Kircunorr (*). Da ciò che precede si ricava senz'altro, in base a note considerazioni, che le due funzioni (.©) VW= feT=JI(us)P()ds , (c.©) | We ufer= o US)P(Sds , 0 nelle quali i segni superiori valgono per la regione 2 > 0 e gli inferiori per 2 < 0, sono le funzioni associate relative ad uno strato di densità @), n) = 5 SI UMPAI (0) disteso sul piano 2 = 0, e che la quantità di materia compresa, in tale distribu- zione, entro il cerchio di raggio wu è rappresentata da — W._-,,- La precedente formola (2), rende nota la densità variabile dello strato per mezzo della funzione $, che entra nell’ espressione di V e che differenzia le varie distribuzioni possibili. Se si potesse, reciprocamente, esprimere la funzione @ per mezzo della densità, si avrebbe, nelle formole (2), la rappresentazione delle fun- zioni associate relative a qualunque distribuzione di materia, sul piano 2 = 0, della quale fosse nota la legge di variazione della densità. Ora si può giungere ad ottenere l’ espressione di 9. per mezzo di 4, senza uscire dalla teoria del potenziale, nel modo seguente. Allorchè si tratta di sistemi di masse arbitrariamente distribuite nello spazio, la funzione potenziale elementare è quella che procede da una massa concentrata in un punto: ogni altra funzione potenziale è, o si può considerare, come un aggregato di tali funzioni elementari. Ma quando si tratta di sistemi simmetrici intorno ad un asse, e quando tale simmetria viene rappresentata analiticamente dalla riduzione degli elementi determinativi di un punto nello spazio a due soli, cioè alle coor- dinate « e 2 (o ad altre equivalenti), la funzione potenziale elementare, dovendo (*) Zur Theorie des Condensators, nei Monatsberichte dell’ Accademia di Berlino, 1877. — 467 — anch'essa dipendere da queste due sole coordinate, non può più essere quella del punto materiale (escludendo sempre le distribuzioni lungo l’ asse di simmetria), ma diventa quella del più semplice sistema simmetrico di punti materiali, diventa, cioè, quella della circonferenza omogenea avente per asse l’ asse di simmetria. Importa dunque ottenere anzitutto l’ espressione di questa funzione potenziale elementare. Si conoscono già molte forme diverse di tale funzione (*), ma non sembra ancor nota, od almeno esplicitamente avvertita, quella che rientra nel tipo (2) e che è di essenziale importanza per lo scopo delle presenti ricerche (**). Essa si ottiene molto agevolmente partendo dalla nota serie di C. NeumaNnN JV £° + y° — 2xycos) = IMI) + 2 » J(€)I (4) cosno , 1 la quale dà in particolare 27 21ISDI 14) = fIV# + y° — 2xycos0)d0 . 0 Se in questa formola si pone x = us, y = as e se, dopo averne moltiplicati i due membri per e#“ ds (secondo che è 2 > 0 oppure 2 < 0), s' integra fra 0 ed co, si ottiene 27 (o) 27 fer" J,(uS)J (as)ds = d0 fe==3, (sy/a° + u? — 2aucos0) ds , 0 0 0 ossia, per un noto teorema di Lipscritz, 33 Pi: do lidi z2<.,..\\...l rf I ) a / Va’ Ia ut +-— 2} — 2aucosì 0 0 (*) Veggasi la mia Nota Sull’attrazione d’un anello circolare od ellittico (Atti della R. Acca- demia dei Lincei, 1880), la già citata Memoria sull’ Attrazione degli ellissoidi e la Nota Sulle funzioni cilindriche (Atti della R. Accademia di Torino, I881). (*) La formola data da KircHHorr nella Memoria Ueber den inducirten Magnetismus eines unbegrenzien Cylinders (nel t. 48 del Giornale di CRELLE) e ridimostrata da HEerxE nella Memoria Die FovrIER-BesseLsche Function (t. 69 del medesimo Giornale) è simile ma non identica a quella di cui quì si parla, ed è soggetta ad una restrizione che non s’ applica a questa. — 168 — Ora il secondo membro di quest’ ultima equazione rappresenta visibilmente la funzione potenziale della circonferenza omogenea di raggio a e di densità lineare —, a situata nel piano 2 = 0, col centro nel punto x = 0. Dunque, riducendo ad 1 la densità e denotando con v la funzione potenziale di questa circonferenza e con w la funzione associata, si ha D'= 2ra fe== o(US)I (48)ds , (8) i | v= ua 2rau fe== Jy (us)J,(as)ds 0 La prima di queste formole rientra esattamente nel tipo (2) e soggiace alla stessa regola per ciò che spetta ai segni. La seconda risulta giustificata @ priori dal confronto delle precedenti espressioni (3) colle formole generali (2). La funzione P_ ha dunque, per la funzione potenziale elementare, la forma P(s) = 2raJ (as) , epperò dalla formola (2), si può concludere a priorî che 1’ integrale P. J(18)I,(US)SAS 0 dev’ essere nullo per tutti i valori di « diversi da @ ed infinito per x = « (la qual seconda parte è evidente per sè stessa). Questo risultato trova la sua conferma in molte formole note, a cagion d’ esempio in un elegante teorema di Sonne (*), dal quale risulta che l integrale fi. J(48)I (05)J (c8)sds 0 è nullo ogni volta che con tre segmenti rettilinei di grandezza @, 0, c non si può costruire un triangolo. (*) Recherches sur les fonctions cylindriques ete., nel t. 16 dei Mathematische Annalen, p. 46. — 469 — Conoscendosi ora la funzione potenziale elementare sotto la forma (2), è facile determinare il significato generale della funzione @. Infatti se, come precedente- mente, si chiamano V, W le funzioni potenziali d’ una distribuzione simmetrica piana, di densità variabile /(w), si ha manifestamente v= feud - W= fehtada , 0 0 (Si potrebbe supporre, più generalmente, che tale distribuzione non occupasse che una parte del piano e = 0, cioè un cerchio, od una corona circolare, o più corone circolari, nel qual caso i due precedenti integrali non dovrebbero estendersi che alle porzioni del raggio indefinito a che cadono entro il cerchio od entro le corone circolari. Ma è più comodo estendere l’ integrazione da 0 ad 00, intendendo che la funzione 7(a) abbia valori diversi da zero soltanto nelle dette porzioni del raggio a. Quest’ osservazione deve ripetersi per altri casi analoghi.) Ora le due precedenti espressioni, in virtù delle formole (3), possono essere scritte così : l=07 a es J(uS)ds D J,(as)h(a)ada , 0 0 9 Wa= == zu fer=I/ (ds fI(AMAadd 3 —- e —_ (0) 0 talchè, ponendo Ì esse si convertono in quelle date dalle formole (2). Confrontando quest’ ultima equazione colla (2), si scorge che hanno luogo le due relazioni reciproche | | | 00 21 fI (Meda = Fd ; | | | | | c° | | | Pu = 27 fI (Mds È I (4) an hai) = RE f JI(US)P()sds , 0 — 470 — la prima delle quali serve ad esprimere la funzione @ per mezzo della densità 7% e la seconda serve ad esprimere la densità % per mezzo della funzione g@. Dalla combinazione di queste due relazioni emerge il teorema importante Pu = SI (us)sds VRACDEIONI ; che è del tutto analogo a quello di Fourier e che è stato scoperto da HanKkEL (*). Questo teorema è valido anche quando la funzione è discontinua. Per esempio, se sl tratta d’ un disco di raggio « e se si applica il teorema in discorso alla den- sità 4, scrivendo mo = fI,(us)sds SIMO , | 0 0 la funzione /(u) riesce = 0 per u> a. 84. Veniamo ora alla determinazione della funzione potenziale V per mezzo dei valori che essa prende sul piano 2 = 0. Quando questi valori sono dati per tutti i punti del piano, tale determinazione riesce semplicissima. Sia infatti Vu) la funzione che rappresenta, da x = 0 ad «= co, la succes- sione dei valori prescritti alla funzione potenziale. La prima delle formole (2) dà, pertizi—=#0: fi J,(us)P(s ds = Viu) equazione che si può scrivere così (o.©) bid) DI Viude= ga J (15) si sds . 0 (*) Veggasi la Memoria postuma Die FouRIER schen Leihen und Integrale fiir Cylinderfunktio- nen (nel t. 8 dei Math. Ann.) HANKEL deduce, a posteriori, le equazioni reciproche (4) dal suo teorema, il quale del resto vale per le funzioni cilindriche d’ ogni ordine. — 4011. —- Ora quest’ equazione ha la stessa forma della seconda equazione (4), colla sosti- tuzione di = Vu) , se al posto di Mu, PA. Quindi la prima equazione (4) dà, colle stesse sostituzioni 2 peo = /I,U9 Vs (6) ossia da = 5/11 VO tdi (0) La cercata funzione potenziale è dunque data, (2), insieme colla sua funzione as- sociata, da | VE Sf SEI {II (SO) Va)stdsdt , È O ( | We uf fe==I,'(s)T,(st) V(Astdsdt . o. 0 hi Quando la materia è distribuita soltanto sopra il disco di raggio @, la prima equazione (4), che in tal caso diventa (5) PU) = 27 fI (USI ss , (0) insegna ancora a determinare la funzione potenziale per mezzo della densità. Ma se, invece della densità, è dato il valore della funzione potenziale nei soli punti — 4722 — del disco (ciò che pur basta ad individuarla), la determinazione di @ è meno fa- cile, poichè questa funzione deve soddisfare alle due equazioni simultanee I Ji J(us)P(s)ds = Vu) , Seoul (5), È È \ no J,Us)P(s)sds = 0 , perito i | | la seconda delle quali esprime (4) che la densità % è nulla nei punti del pia- | no z= 0 che sono esterni al disco. Ora questo nuovo problema viene appunto risoluto direttamente dalla formola (1), che ho richiamata al principio e che fa conoscere la. densità della distribuzione per mezzo dei soli valori che la funzione potenziale prende nei punti del disco; | giacchè, nota che sia la densità, la funzione @ resta determinata dall’ equazione (5) | e le equazioni (2) fanno conoscere V e W. Si può anzi dare alla funzione P_ una | forma semplicissima, che agevola grandemente l’ applicazione del processo ora | indicato. ; 8 5. Sostituendo dapprima nell’ equazione (5) il valore di % dato dalla formola (1),, si ha dM(r Ps = — SI,09 1 ) CHA, (0) ossia PO) =IU+ sfICAMOI , dove M ha il valore (1),. Introducendo in quest ultima formola il valore (1) di M() si ha o POtdi P(s) —M+ sf, ca ; (0) Vo — 473 — ossia, per il teorema di Diricuter, Jhi Ae Ds=M+ fra fr Ma l' integrale t I; (rs)dr fE=R) equivalente a |a — fr, sen 0)d0 , ha il valore () cos st — Il 4 st 7 si ha dunque Pd =M+ f(coss — 1) PM, 0 ossia finalmente, per le equazioni (1),, (1),, (47 (6) P(s) uc COSSt dA 0 (*) Veggasi la mia Nota Intorno ad un teorema di ApeL, negli Atti del R. Istituto Lom- bardo (1880). TOMO II. 60 — 474 — Tale è I espressione che ci proponevamo di stabilire, ed alla quale si possono dare altre forme. Così, eseguendo un’ integrazione per parti, si ha subito la seguente (6), P(s) == M cos as + s fr sen st. di , (0) ed un'altra se ne ottiene supponendo derivabile la funzione V(w). Infatti, se per un momento si pone nell’ equazione (1), Y/u° — s° = 7, si ha U 5 Fu) = fue — r°)dr , 0 donde u T F'(U) _ V(0) a af — r*)dr 4 2 Vu? Zi 0 ossia, rimettendo per , il suo valore, V'(s)ds IT INZ0N (0) IA Ta 0 Sostituendo nell’ equazione (6) questo valore della derivata di Y si ha a t V'(Ndr (6), COLE 2V(0) ne 2 f tc0ss al È TT s IT to — r° 0 0 Prima di procedere più oltre è bene verificare che la funzione (6) soddisfa effettivamente alle due equazioni (5),, cioè che si ha fi J.(us)ds L Ha(cosstlat = Mu) peru"w equivale alla sua volta a quest’ altra P'(0)dt (10) 777 SI =M USA Ora è facile dimostrare che la funzione Y definita dall’ equazione (1),, soddisfa a quest’ ultima equazione. Infatti scrivendo # in luogo di « nell’ equazione (1),, indi moltiplicando per ed integrando fra 0 ed «, si ha u t tdi tdt Vis) s ds ari Kr VA A (*) H. Weser, Veber die BesseLschen Functionen und ihre Anwendung auf die Theorie der elektrischen Stròme (t. 75 del Giornale di BorcHarDT). Veggasi anche la Nota in fine della pre- sente Memoria. TO = ‘ossia n s. tdt piu — t? — fina for=fa PAS ‘ossia finalmente U U iva DI ATTESE ZANE (0) V(s)sds . Quest’ equazione sussiste, come la (1), di cui è conseguenza, per tutti i valori di udau=0 ad u=a (poichè la Vu) è data in questo intervallo) epperò, derivando rispetto ad w, se ne deduce u Ft)tdt da mA) ia U - 0 Ora se si eseguisce la derivazione indicata nel primo membro, come si è fatto dianzi per passare dall’ equazione (6) alla (6),, e se si osserva che dalla defini- zione (1), risulta /(0) = 0, si vede subito che quest’ ultima equazione coincide colla (7),; e con ciò la prima delle equazioni (7) è verificata (*). Si può osservare che se, in questa stessa prima equazione (7), sì suppo- nesse 4% > 4, sl otterrebbe invece della relazione (7), la seguente F'(t)dt (CO). Sr TE? = Mo, CAZIONE cosicchè la formola t È ° V(s) s ds i SA E > pito — s° (*) Circa l'equivalenza e la reciprocità delle equazioni (1)a e (7) veggasi la citata mia Nota Intorno ad un teorema di ABEL. - 477 — fa conoscere i valori che la funzione potenziale prende sul piano del disco, ester- namente al disco stesso, per mezzo di quelli ch’ essa prende all’ interno. Passando ora alla seconda delle equazioni (7), si osservi che la formola M)=5 SIP , dalla quale essa venne ricavata colla sostituzione del valore (6), può scriversi così 2ruh(« = di o n fI,(15)$0) ds | i 0 Ora l anzidetta sostituzione dà SITA ds = f1,us) ds fe‘ cos st. dt 0 0 (0) = fred fI,1a) cos st. ds ; 0 0 ma si ha (veggasi la Nota in fine) Î 1 | J (us) cosst.ds =» pera 0 | SI (118) c08 8. ds = i (1 — — i -ageper gl, Up, 7 to u° quindi (©. ©) a fi J,(us)P) ds = if live ea per «> @ , U 0 0 À IL È Il É È fr.60 ds fr (dt + fa — Ve] EF (t) dt p o (0) U O La ZIO MOR, “ VA TT ad U peri cast e per conseguenza | 2ruhu=0 , UT RR | d (CFUtdi | 2rru h (u) SS >? de , (4) < A è La prima di queste equazioni verifica la proprietà espressa dalla seconda delle equazioni (7). Dall altra si deduce fi REA P'(Mtdt mcuhudu= Mu= fl —==== pt — u° 3 U (24 risultato che s' accorda perfettamente colla formola (1). In tal modo è completamente verificata 1’ esattezza della soluzione (6) ed è al tempo stesso direttamente dimostrata la formola (1). Così questa formola, che era stata assunta come punto di partenza, è ora stabilita indipendentemente dalle con- siderazioni della precedente Memoria. 8 6. Facciamo alcune applicazioni della formola (6). La più semplice di tutte è quella relativa alla distribuzione in equilibrio sul disco. Ponendo infatti V(u) = V(0), si ha subito da una qualunque delle for- — 479 — mole (6), (6),, (6), (e nel modo più diretto dall’ ultima) 2IV(0))sen'as e s P(s) ’ cosicchè la funzione potenziale e la funzione associata relative alla distribuzione di potenziale costante V(0) sul disco di raggio a sono date da IM), ds 2 Ve= 2100 (ev (0 sem as = 3 (*) 0 VI W==E 210 (331/00) sen 48 de 7 Tr s 0 La densità di questa distribuzione è data da h()i= 103 È, o(us) sen as. ds , 0 e poichè d’ altronde, per V(s) = V(0), l’ equazione (1), dà Ka) 2 uV(0) lia (0) , e quindi la (1) Mu) = ne la — u* , così dall’ equazione (1), si ricava il valore della densità sotto la forma ordinaria V(0) 1 EE 10) Lrad y/ a pass u? ’ UNO (*) WEBER, Memoria citata. — 480 — La coincidenza di questo col precedente valore di /(u) per « < @, e 1 annullarsi di quest ultimo per v > 4, sono proprietà che riproducono un teorema già invo- cato nel $ 5. Il paragone dei precedenti valori di V e di W con quelli che già si conoscono sotto altre forme condurrebbe ad altri teoremi dello stesso genere, benchè meno semplici. Poniamo, per secondo esempio, Vizi DZ ipotesi che corrisponde al caso del disco indotto da una massa — 1 collocata nel punto « = 0, °= € (la costante c si suppone positiva). In questo caso si ha (1), Au ci pena NI HMo)= Le == — Àrc cos ===; , TINec+u — (°+s°) © pet + u° 0 epperò (6) a 2c f cos st. di TT REST La funzione potenziale e.la funzione associata, per la distribuzione indotta, sono. quindi date dalle formole 2c cos st. dt Vi= Sii) see TT SCSI co+ (0) 0 Lo a cos st. dt \ W ila Da (A #4, (18) ds GIS ; 0 0 Invertendo l ordine delle integrazioni, esse diventano effettuabili. Del resto io ho. — 481 — già dato altrove, sotto altra forma, l’ espressione in termini finiti di queste due funzioni V e W (*). Perlai=:<0' sì ha, comerè noto, pg= e, Gi epperò (e.®) I 1 i —(ct2)s ) ds ir {m Ty—tm—é@— V fi J,(us)ds = 7g | ; È Aiat=ie ME "fee code > Vu + (10) S \ 0 talchè la funzione potenziale coincide (salvo nel segno) con quella del punto indu- cente o con quella del punto immagine (rispetto al piano e = 0), secondo che il punto potenziato (u, 2) è situato da opposta parte o da egual parte del punto inducente rispetto al suddetto piano. Poniamo finalmente, per fare un’ applicazione di carattere più generale, Vei= SITUA dSh3 UBI 0 il che equivale a considerare l induzione prodotta sul disco da una distribuzione simmetrica, del resto qualunque, esistente sul piano e = e > 0. In questo caso si ha t (e.©) 92 rdr Ora Va dEEI Se ds 0 0 (e°) t 2 J (rs) rdr SL —cs ay(s)ds RICO, A : - fe (5) ds di Ver 0 0 (*) Veggasi la Nota Intorno ad alcune questioni di elettrostatica, negli Atti del R. Istituto Lom- bardo, 1877. Il processo ivi adoperato è sostanzialmente analogo al presente, se non che la solu- zione era stata allora dedotta, in un modo più indiretto, da un teorema del prof. Dixi. TOMO II. 61 — 482 — Ma si ha pure (#) e n SERIE = 1 facts 0) sen 040 =" 2 ptio—? 0 0 epperò 2 ds Hit —_ — CS dl (3) 2) Da (5) sen st — ; 0 donde (E - e°%a)(s) cos st. ds ; 0 e finalmente (6) Ps) = 2 1 st. u fesso cos rt. dr. 0 (o) Quando @ è quantità finita si può ricavare di quì 09 dg=t ferygm) +84 a, 0 1 = isen (= s)@ +1 fe (1) peg dr o 0 (*) Nota citata Intorno ad un teorema di Abdel. ’ — 483 —- Quando invece « = co, in virtù del teorema di Fovrir, si ha da= YA , epperò n= J eF6=08 J,(us))(s) ds 0 (e.°) o Meu DI eF(0s J o (uS)P(s) ds 0 x talche per 2 < 0 I’ azione del piano indotto è eguale e contraria a quella del- l inducente e per e > 0 è eguale a quella dell’ immagine dell’ inducente. Sa Passiamo ad altre applicazioni delle formole trovate. Se nella prima equazione (4) si pone o) EE=01 Per Wist=d20 hs) = 0 per s>U si trova 2a EE) u Quindi le formole | V=270 ner J (us) J (45) da 3 (©) (8) | i uu ds | (= Era 2ran fes=I,(1s) J (as) = 0 (*) WEBER, Memoria citata. — 484 — rappresentano la funzione potenziale e la funzione associata d’un disco omogeneo, di raggio a e di densità 1. Determinando la densità colla seconda delle equa- zioni (4), si trova he)i=la Di J,(us)I (as) ds , 0 epperò si può concludere a priori che l’ integrale SI) J (as) ds 0 1 i 3 3 L dev'essere eguale ad —=, oppure a 0, secondo che v è minore o maggiore di @ (*). a Dalle equazioni (8) si può subito ricavare quella funzione potenziale di doppio strato che si deve considerare come elementare rispetto alle distribuzioni (doppie) simmetriche intorno ad un asse, cioè la funzione potenziale elettromagnetica della corrente circolare. Suppongasi infatti che il disco, invece d’ essere nel piano 2 = 0, sia nel piano parallelo e = $. La sua funzione potenziale, in questa nuova po- sizione, è Ve=2ra fees J (us) J (45) - ; 0 dove il segno superiore corrisponde a e > $ e l’inferiore a 2 < $. Derivando quest’ espressione rispetto a $ e facendo nel risultato $ = 0, si ottiene (°.©) sera Ti J(us)J (as) ds . 0 Ora così operando si ottiene appunto (giusta la nota teoria d’ Ampìrk) l’ espres- sione della funzione potenziale elettromagnetica della corrente circolare di raggio @ e d'’intensità 7, nel piano # = 0. Designando dunque con » tale funzione e con w (*) Quest’importante teorema fu già stabilito direttamente da H. WEBER, nella Memoria citata, e successivamente generalizzato da SonINE, nell’ altra Memoria pure citata (pag. 39). Per u= i] calcolo diretto mostra che l’ integrale ha il valore medio CA a. È noto inoltre che la quantità VAT, TT) VW 47 rappresenta il momento magnetico del doppio strato di potenziale V nel punto «: dunque questo momento, il quale è naturalmente nullo al di fuori del cerchio occupato dalle correnti, è eguale a g(v) nell'interno di questo cerchio, e si hanno così le due relazioni reciproche | pu) = 2ru sl J(uS) g(8) s ds ci) È | gu) = ar Sta (5) ds 0 (nella prima delle quali si suppone g(s) diverso da zero soltanto nella regione oc- cupata dalle correnti). Queste due relazioni fanno riscontro alle (4). Per solo motivo di brevità ho quì ricavato il valore del momento magnetico dal teorema di Hanket. Esso avrebbe potuto essere stabilito direttamente, con semplici considerazioni desunte dalla teoria del potenziale elettromagnetico : tali considera- zioni, accennate giù da W. TrHÙoxson, sono state da me esposte altrove (*). SUSE Scrivasi nell’ espressione (3) di v, come precedentemente in quella (8) di YV, 2 — £ in luogo di e, portando così la circonferenza di raggio a, cui la funzione v si riferisce, dal piano e = 0 al piano e = £. Designando con +; il risultato di tale sostituzione quando 2 > É e con v' quando 2 < $, è chiaro che le tre espressioni c ve dé perz>c, fecat + fox at per c>ea>—_- €, e So db per — Cc > 2 — C (*) Veggasi la Nota Sulla teoria matematica dei solenoidi, nel Nuovo Cimento, 1872, la Cine- matica dei fluidi (Memorie dell’ Accademia di Bologna, 1871-74) e la Nota Intorno ad alcuni punti della teoria del potenziale (ibid., 1878). — 488 — rappresentano la funzione potenziale d’ una superficie cilindrica di rotazione, avente per asse l’ asse delle 2, terminata alle due circonferenze di raggio a nei piani = = € es=—c, e di densità 7. Eseguendo le integrazioni sì trova V= ina fer J,(us)J;(as) senh cs a : (2° = (12) 3 Va za f(1 — e” cosh 25) J, (us) J,(48) Do Mr) 0 espressioni delle quali la prima si riferisce all’ ipotesi = > € quando si prende il segno superiore ed all’ ipotesi = < — c quando si prende il segno inferiore, mentre la seconda si riferisce all’ ipotesi c > <> — e. Le corrispondenti funzioni associate sono le =t=tdrray da JI, (us) J,(45) senh cs È ; (409) \ o | wW'= iran f(ee senh es — 25) J, (us) J;/45) i ) (2°f= esterni alla superficie cilindrica, cioè per v 2 a. La massa totale della superficie cilindrica è == 47ac. Se quindi si divide la funzione potenziale per 274, si ottiene l’ analoga funzione d’ una massa 2c distri- buita uniformemente sulla stessa superficie. Se, dopo aver fatto ciò, si pone a = 0, si trova 9 ds 9 r = 2 ne Vi 24/erJE(us)isenb es Ta ZOD=M 0 ae 2 fa — e cosh 25) J, (Ss) S 3 A < 7 (0) e queste formole rappresentano la funzione potenziale d’ una retta omogenea di densità 7, compresa fra i punti e = — c e == -+c dell’ asse 2. Se la massa totale della retta omogenea fosse 7, si avrebbe 09 de senh cs Vi= miles (us)Mds €8 0 e, facendo tendere c a zero, (1) [o.©) 1 Vamfe”s J(ussds = ——=== ; sf o(t15) VAT (4) sì ottiene così la funzione potenziale d’ una massa # concentrata nel punto u=e=0 (che si poteva del resto dedurre anche più direttamente dall’ espressione (3) di %, dividendo per 274 e facendo a = 0). Coll’ aiuto di questa formola si può ottenere la funzione potenziale di qualunque distribuzione lineare sull’ asse, senza ricorrere alle fufizioni cilindriche di seconda specie. — 491 — 89. Moltiplicando i secondi membri delle equazioni (12) per (ada ed integrando fra 0 ed a, si trova rispettivamente 47 la: J,(us) senh cs i sl J(as) k(a)ada , 0 (0) 47 f (1 — e cosh 25) J,(uS) i, f. J,(as) k(a)ada , ‘o (0) cosicchè, ponendo (13) VS) = 42 fJ, (09) k(a)ada , 0 si ottiene nelle formole V= o J,(s) X(s) senh cs È 3 FS (9), ì | VW il — e" cosh 25) J,(uS) Y(8) È ; FRI 0 l espressione della funzione potenziale d’ un cilindro di rotazione, terminato ai piani 2: = + c, di densità variabile colla distanza dall’ asse secondo una legge qualunque. La corrispondente funzione associata è espressa dalle formole mM = uil cs È ; A Ti 0 (13), Wa= u fee senh 28 — 25) J, (US) X(5) E DRMNO SAC: 0 — 492 — nella seconda delle quali non si devono considerare che i valori di « > @, perchè per v a), = 42 [kKaada= y(0)2. 0 Il valore di W' si può dunque scrivere anche così: UO” fee I, (us) y(as) senh es li + y(0)2 . (o) — 493 — Dall’ equazione (13) si deduce, pel teorema di HaAxxet, (13), k(s) = 2 fas XY(Aada . Conviene però osservare che, se la funzione y si prendesse ad arbitrio, la den- sità %& risulterebbe diversa da zero per tutti i valori di wu, cioè non si avrebbe più un cilindro di raggio finito. 8 10. Riprendiamo la formola (6) e sostituiamola direttamente nella prima (*) delle espressioni (2). Considerando per semplicità la sola regione 2 > 0, si trova a= fe p(us) ds di F'(t) cos st. dt , 0 0 ossia v=fro di fs, 009 cos st. ds . 0 0 Ora si ha (e.°) Je J,(us) cos st. ds 0 (*) Si ottengono risultati analoghi anche operando sull’ espressione di MW: ma essendo essi meno semplici, preferisco lasciarne la deduzione al lettore, tanto più ch’ essi possono ricavarsi in varii modi dalle formole quì stabilite per V. — 494 — (°.©) | 1 o =} fe J(us) ds + Ila J,(us) ds , 0 quindi :(supponemlo per ora 2 > 0) (e.®) 1 1 1 1 —=J,(us). cos st..dseegee==“$;it;à ag E fi o(15) IGEA AREE | (0) dove i due radicali devono essere presi in modo che, per «= 0, si riducano rispettivamente a 2 + è ed a e — tt (vedi la Nota in fine). Si ottiene così (4) pali P'(t) dt apra F'(t) dt _ 2)y/we+G+if 2)y/uw+(— i! 0 0 espressione che presenta una singolare analogia colla funzione potenziale d’ una. massa M = Ha) distribuita sul segmento dell’ asse 2 fra : = — a e ez=+a, ri Laga : 3 y colla densità lineare > F' (?) nei punti 2 =: £ f, funzione che sarebbe rappre- sentata da I Pt) di 1 P'(t) dt silio __r_e i zo {wi 2)y/u+(e+0° 2) |/u+(e— 1) 0 (0) La formola (14) di V mette in immediata evidenza la sussistenza dell’ equa- zione di Laprace, le proprietà all’ infinito, la continuità della funzione e delle sue derivate al di fuori del piano e = 0. Rispetto ai punti di questo piano è da os- servare che la detta formola (14), benchè dedotta nell’ ipotesi di 2 > 0, è valida. anche per 2 = 0. Ciò è manifesto per il caso di « > @, e si dimostra, nel caso di wa. Ora questi valori di V s' accordano perfettamente con quelli delle forme! (1),, (7), del $ 5. Si può osservare inoltre che, essendo V la parte reale dell’ espressione Ft) di Sri ui + (+ dt)! la derivata di V rispetto a 2, per z = 0, si può considerare come la parte reale dell’ espressione id (Pd u du ui — t° —— E° | Ora per « > « la parte reale di quest’ espressione è evidentemente zero. Per x @ cioè che la V definita dall’ equazione (14) è la funzione potenziale d’ un disco di raggi. la cui densità variabile /(u) è precisamente quella (1), che corrisponde . ai valori (‘), che la medesima funzione potenziale è obbligata a prendere nei punti del disco. Questi risultati, mentre verificano la nuova espressione (14), porgono al tempo stesso una terza dimostrazione delle formole riportate nel $ 1. Come esempio semplicissimo d’ applicazione della formola (14) si può notare il caso della distribuzione in equilibrio di potenziale 1, per la quale ($ 6) si ha 5 DIA ‘Ag ’ e quindi 1 dt a),y/u+ (+ di) e quello della distribuzione indotta dal punto « = 0, 2 = c, per la quale ($ 6) si ha Arc cos Iò) == a|D peer” —_— ___ Pr? r_rrrT°—°r__rrr=""="—=FTr_r__ __ — 497 — e quindi c di TI (+) + (4 i) — 4 VE Si può anche mettere sotto la forma (14) la funzione potenziale elementare , osservando che per questa si ha Hd) = 4 a Are sen È : ma riesce più interessante un’ altra trasformazione di 2, che si ottiene nel modo seguente. Essendo 3 | Siusi - fra (us sen 0)d0 , ! | la prima formola (3) può scriversi così Tn | z loro) | Di= ta fo fe Jas) cos (us sen 0)ds , I 0 0 donde, procedendo nel modo che s'è fatto al principîo di questo $, si deduce TU x 2 2 e ea db SRD y/a° + (2 + iu sen 0)? a” + (e — iu sen 0)" (4) 0 o più semplicemente T d@ DS =.2 SZ z=-<“‘©°à*È-=<@“’‘@’ Se i o "fa + (2 + du cos 0)° | 5 TOMO II. 653 og Il radicale è, al solito, determinato dalla condizione di ridursi = 2 + iv cos @ peiiai 10: Di quì, integrando rispetto ad a da 0 ad a. si ricava T (15) V=2fd0/a°+(+ cos 0) — 2x2, G espressione molto notevole, per la sua semplicità, della funzione potenziale d’ un disco omogeneo di raggio a e di densità 1, sulla quale si possono direttamente verificare (usando qualche opportuno artifizio) tutte le proprietà caratteristiche di tal funzione. Ordinariamente l’ espressione di questa funzione si deduce da quella della funzione potenziale d’ un disco ellittico omogeneo, introducendo l'ipotesi del- l'eguaglianza degli assi. Il Signor Heme ha già osservato (#) che la formola così ottenuta si può dimostrare con una considerazione diretta, molto semplice ed ele- gante. Ma questa formola ha pur sempre lo stesso carattere di quella del disco ellittico e, in particolare, le coordinate normali « e # del punto potenziato non vi figurano che indirettamente, e coll’ intervento d’ un' equazione di 2° grado. Invece l’ espressione (15),, che sarebbe interessante di stabilire direttamente, è formata senz’ altro colle coordinate w e 2. Da quest’ espressione (15), si può dedurre facilmente, sotto forma d’ integrale semplice, la funzione potenziale d’ un cilindro omogeneo di rotazione (terminato a due sezioni normali): ma l espressione che così si ottiene, e che non credo ne- cessario di trascrivere, esigerebbe, per essere ridotta di comoda applicazione, uno studio accurato che in questo momento non posso intraprendere. (*) Das Potential cines homogenen Kreises, Giornale di BorcgARDI, t. 76. N initial elia ai bit ate e nine Mec; pren PrO SA Credo opportuno di aggiungere, per comodo del lettore, la dimostrazione diretta di una formola che comprende, come casi particolari, alcune relazioni di cui ho 7 ) fatto uso nei $$ precedenti. Pongasi | fe J_(us) cos st. ds == P, , | 0 | > | fe J,(us) sen st.ds= Q, , | D | | donde (e.0) P,+ 10,= d fr J (us) ds . 0 Le quantità 2, « e # si suppongono reali e positive. Dalla formola fondamentale (o.®) | giu così — J o(US) + 2 D i J (us) cos n0 Pd si deduce \ favo 6 — jz—_il—iu 008) (8 — (it) ei —it_iu cos Q | I (Usenet (o.©) +2 » t* cos nd. J (us) eis | r il — 500 — donde, integrando rispetto ad s fra 0 ed 00, (o.®) 1 ca —————r——_,ja= P ] 2 ; (P ; 7 (©) e— it — u così An colata î (P, + 0,) cos n0 1 SÌ ponga ora 3) e 6 2z—it—-—tincos0 = 1T— 2acos0+a°' donde È 1+aî ù z—u= Gui iu = B' ossia 9 Cia 4 ee iu iu Osservando che, per u=-0, si deve avere (5) AZ = : Tad si riconosce che i valori di a e 8, per v qualunque, sono mu Vu +(— ib +2— dt’ 2 Vu +e +e it 8= dove il radicale deve prendersi in modo che, per « ==: 0, si riduca a 2 — , cioè in modo che, ponendo (c) Vu +(e— 0° =Z4—iT, — 501 — si abbia Ora dall’ equazione (c) si ricava u° 42° —— = Z—-T, A I/A4 AP cioè CALI 2° ZITTA — Tu +e tf, e però i valori convenienti di Z e 7° sono E Di ina ica ——“ i ii T VADA ici 6) EA ia (u? TENGANO 1) _ EEE nrrR:EE:EE--TI-rrr—__________cl 2 dove tanto il radicale esterno quanto l’ interno devono prendersi positivamente, cioè in valore assoluto. Si osservi ora che dall’ equazione u +e = T° risulta (+Z° ++ T) = +219° +22° +Z+ 11 e quindi, per essere le quantità 2, 4 Z, T tutte positive (+Z°+(+T) >, a meno che non sia 2 = 0, T=0, cioè AA WU, E VEDE Escludendo per ora questo caso, si ha dunque (5)', (c) MILAZIIA, e però i due fattori del secondo membro dell’ equazione identica il en e a possono essere sviluppati in serie procedenti secondo le potenze crescenti di a. Moltiplicando fra loro le due serie che così si ottengono, si ha subito Bb lo) 3 _— doti 40080 + 2a cos 2056240 1- 2acos0+ a” eo 228 “ Ma dalla relazione l+a si ricava (5)' e 2 i ——_____—__—tt re Si deren CREO quindi (0) 1 1 = ue.) 1 Paragonando quest’ equazione colla (a), si ottiene, per n = 0, 1, 2, 3,....%, a” 1 ( n 10.) yu? a (e a it)? ? — 503 — epperò si ha finalmente (5) 1 5 ° aerea ri è ovvero (A) p+io= | ere nensl > o Ve+G— il z dove (c) Vu+(—d&°=Z—iT. Separando la parte reale dall’ immaginaria nel secondo membro dell’ equa- zione (d) si ottengono così i cercati valori di Pero Questi valori non sono soggetti ad alcuna eccezione finchè 2 è maggiore di zero. Per e = 0 essi si mantengono indubbiamente validi finchè £ è più grande di u; ma se si osserva che la convergenza degli integrali P, e Q, dipende dal modo di comportarsi all'infinito delle funzioni sotto il segno, e che, per la forma cui tende J, all infinito, queste funzioni sono (all infinito) formate simmetrica- mente con £ e con v, si riconosce subito che, anche nel caso di # < «, la for- mola (d) si mantiene valida quando 2 tende a zero. Il solo caso di eccezione è quello di 2 = 0, t==" «, nel quale tanto gli integrali P,, Q, quanto il secondo membro della detta formola perdono ogni significato. Rertzi=0, n. I la formola (dA) dà i 1 eee pi : 1 zz ela Nel caso particolare di 2 = 0 si ha z=|/: Mod (°—t)+3@—t#), Ta VR Mod (u? — t°) — DÌ (u° — t°) (*) Cfr. Herve,*Handbuch der Kugelfunctionen (2° ed.) p. 243. e quindi SANARE TAO So 98 4 08; T=yt-u, Sedi >... Si hanno quindi le formole 1 SI cos st. ds = ASI i | to) Si p(us) sen st.ds= 0 , 0 tZu Il Si ;(us) cos st. ds = "a 0 t Ì SL sen st. ds = As ar : | 0 fi (us) cos st. ds = 0 , 0 JI Sei p(us) sen st. ds = 7 map 0 bh 2 t.d 2 1 ;(5) cos st. ds = = ( TESA == 0 SY (us) sen st. do =:0%, (0) er, fra le quali sono comprese quelle di cui si è fatto uso nel $ 5. — 505 — Nel caso di n qualunque le formole che risultano dalla decomposizione del secondo membro dell’ equazione (4) non hanno una forma molto semplice : si può tuttavia osservare che per 2 = 0 e # > « quell’ equazione prende la forma sem-- plicissima in rapaggiler. 1) +-+ iQ, = 77737373555 OZEOZII ’ pi to u° T) la quale permette di concludere immediatamente eo, — 0 b) I ESE Qn= <= men ’ VAR — u U (ESE ee DE Eni IE cS;T/ Pro le ? Ni — “ Qon+1 i rn —_L_ ROOT XFTRTLI — no TONO II. 64 ALCUNE PROPRIETÀ DELLE FORME GEOMETRICA FONDAMENTALI COLLINARI DI SECONDA E DI TERZA SPECIE AVENTI ELEMENTI UNITI Memoria DeL Pror. PIETRO BOSCHI (Letta ne!la Seduta delli 7 Aprile 1881). Nelle forme fondamentali proiettive di prima specie si dimostrano le seguenti proprietà : 1° in due punteggiate proiettive, non sovrapposte, aventi un punto unito le rette, che uniscono coppie di punti corrispondenti, concorrono in um punto, centro di prospettiva delle due punteggiate ; 2° in due fasci di raggi proiettivi, non concentrici, situati in uno stesso piano ed aventi un raggio unito, le intersezioni delle coppie di raggi corrispondenti si trovano sopra una retta, asse di prospettiva dei due fasci; 3° in due fasci di raggi proiettivi concentrici, situati in piani differenti ed aventi un raggio unito, i piani, che contengono raggi corrispondenti, si segano in una retta, asse di prospettiva dei due fasci ; 4° in due fasci di piani collineari, non aventi lo stesso asse e che abbiano un piano unito, le coppie di piani corrispondenti sì segano in rette situate in uno stesso piano, piano di prospettiva dei due fasci. Scopo del presente lavoro è lo studio delle proprietà, delle quali godono due forme geometriche fondamentali collineari di seconda e terza specie, le quali ab- biano alcuni elementi umiti. Essendo il principio di dualità applicabile in queste ricerche, per esser breve ho svolto le medesime sotto un solo aspetto, accontentandomi però di enunciare i teoremi dedotti ed i loro correlativi. Sieno 7, x due piani punteggiati collineari, non sovrapposti, aventi un punto unito A. Due punteggiate /, /" corrispondenti passanti per A sono prospettive e sia L il loro centro di prospettiva ; sia pure 3 il centro di prospettiva di altre due pun- — 508 — teggiate corrispondenti m, m' passanti per A. Sieno B, C,.. punti di ); B', C'.. i loro corrispondenti di /'; P, Q.. punti di wm; P', Q..i corrispondenti di w'; E,E' altri due punti corrispondenti qualunque dei due piani. Dal punto L proiettiamo il piano punteggiato 7 = (A, B, C, P, Q, E..) sul piano / m e dinotiamo con E" la proiezione di un punto qualunque £; noi otterremo un nuovo piano punteg- giato x'' = (A, B' C, P., Q, E'..) prospettivo e però collineare a 7 e quindi pure a 7. Proiettiamo ora il piano 7°" da M sul piano ' ed indichiamo con E'' la proiezione di un punto qualunque £'"; avremo un piano punteggiato a" = (A, Bi, C,P,Q,E"..) prospettivo a 7° e quindi collineare a 7'. Ma questi due piani collineari 7’ e ', avendo i quattro punti B', C', P, Q' uniti, tre qualunque dei quali non situati in linea retta, sono identici e perciò un punto qualunque £"' di 7° dovrà coincidere col suo corrispondente E' di 7'. I raggi EE’, E'E" ossia E'E' avendo un punto comune giacciono in un piano e passando quei raggi rispettivamente per L e M, le due rette LM, EF" giacciono in un tal piano e però s' incontrano in un punto N; dunque le rette che uniscono punti corrispondenti dei due piani collineari 7, 7° debbono sempre incontrare la retta, che unisce i centri di prospettiva di due coppie di rette corrispondenti qua- lunque uscenti dal punto unito. Dico ora che il punto N è il centro di prospet- tiva delle due punteggiate corrispondendo AE, AF'. Difatti sieno # #" due punti corrispondenti delle medesime; corrispondendo ad Y, AE in 7' rispettivamente F', AF i due triangoli EE"FE', FF'F' sono prospettivi, poichè le rette EF, E'F', E'F' concorrono in A e però i lati corrispondenti si segheranno sopra una retta, che evidentemente è la LM. Abbiamo adunque i teoremi seguenti: Trorema (@). Due piani punteggiati Tsorsma (). Due stelle collineari P. P', collineari 7, 7', non sovrapposti, non concentriche, aventi un piano unito aventi un punto unito A godono del- a godono della proprietà che le rette la proprietà che le rette, le quali d’ intersezione dei piani corrispondenti uniscono punti corrispondenti s' ap- s' appoggiano tutte sopra una retta p, la poggiano tutte sopra una retta p, la quale è anche l'inviluppo dei piani di quale è anche il luogo dei centri di prospettiva dei fasci di piani corrispon- prospettiva delle punteggiate corri- denti, aventi gli assi nel piano unito. spondenti -uscenti dal punto unito. Indichiamo la intersezione dei piani 7, ' con w' oppure con v secondo che essa viene considerata come appartenente al piano 7', ovvero a sr e sieno w, v le rette corrispondenti alla medesima considerata nei detti due modi. I punti U, V centri di prospettiva delle coppie di rette corrispondenti «, w' e ©, v' uscenti da A si tro- veranno sulla retta p; un piano qualunque per essa intersecherà la « = v nel punto E' = S ed i piani 7, ' secondo le rette SU, £'V. Dico ora che queste «di asse p sega i detti due piani se- — 509 — due rette sono corrispondenti; infatti al punto £' di «' il corrispondente È giace sulla v e sulla R'U ed il corrispondente di S giace sulla e sulla SV. Conducendo adunque per p due piani, essi intersecheranno 7 secondo due rette passanti per U e 7' secondo due altre rette a quelle corrispondenti passanti per Ve però i punti U e V sono punti corrispondenti dei due piani. Laonde abbiamo i seguenti teoremi: Trorema (0). La retta p, luogo dei Trorema (0). La retta p, inviluppo dei centri di prospettiva delle infinite coppie di punteggiate corrispondenti piani di prospettiva delle infinite coppie di fasci di piani corrispondenti aventi gli uscenti dal punto unito dei due piani assi nel piano unito di due stelle colli- collineari, incontra questi in due pun- neari, determina coi centri di essa due ti corrispondenti ed il fascio di piani piani corrispondenti e la punteggiata p viene proiettata dai detti due centri se- condo due fasci di raggi corrispon- condo due fasci di raggi corrispondenti. denti. I fasci di raggi corrispondenti uscenti dal punto unito A dei due piani colli- neari 7, 3' essendo proiettivi e concentrici, non prospettivi (non essendo la retta TT raggio unito) inviluppano un cono di seconda classe tangente ai piani 7, a rispettivamente lungo le rette x e v corrispondenti alla intersezione dei medesimi considerata come retta appartenente al secondo o al primo piano. Ogni retta quindi che unisce due punti corrispondenti, giacendo in un piano tangente al cono, è ad esso tangente; la retta p è pure tangente al cono, siccome quella che unisce due punti corrispondenti, le tracce della p sui piani 7, s'. Perciò noi otterremo due forme fondamentali di seconda specie collineari, non sovrapposte, avendo un ele- mento unito, costruendo, quando sl tratti di due piani collineari 7 e ' si tratti di due stelle collineari P e P' aventi un punto unito 4, un cono di seconda classe avente il vertice in A tangente ai due piani e al piano Ap. Un piano qualunque 4 tangente al cono intersecherà i due piani 7, s' secondo rette corrispondenti ed una retta in tal piano passante per il punto Ap intersecherà i medesimi piani in punti corrispondenti. Supponiamo ora i due piani collineari 7, a' aventi un piano unito a, una linea di secondo ordine giacente nel piano passante per i due centri delle stelle e per il punto ap. Un punto qualunque L della conica proiettato dai due centri P, P' darà due raggi corrispondenti ed una retta per L giacente nel piano Lp verrà proiettata dai due centri se- condo piani corrispondenti. non sovrapposti ed aventi due punti uniti A e B. Per essere A un punto unito, le rette, che uniscono punti — 510 — corrispondenti, debbono incontrare una retta p, luogo dei centri di prospettiva delle punteggiate corrispondenti, prospettive uscenti da 4 e tale retta p dovrà inoltre passare per 5, giacchè essendo questo un punto unito, si deve considerare come centro delle due punteggiate prospettive coincidenti nella intersezione dei due piani. Analogamente tutte le rette, che uniscono punti corrispondenti, do- vranno pure appoggiarsi ad una retta 9, luogo dei centri di prospettiva delle punteggiate corrispondenti uscenti da 2, e tale g dovrà passare per A. Ogni piano condotto per p interseca i piani 7, ' secondo due rette corrispondenti e lo stesso dicasi per ogni piano condotto per 9, e perciò l’ intersezione di due piani passanti luno per p, l’altro per q incontrerà i piani 7, 7 in punti corrispondenti. ) ? Supposto che i due piani collineari abbiano solamente due punti uniti, dico ) che le due rette p e 9g non potranno incontrarsi; giacchè se questo accadesse tutte le rette condotte dal punto pg, potendosi considerare come intersezioni di 1 due piani passanti l’ uno per p, l’altro per g, incontrerebbero i piani 7, x in punti corrispondenti, e i due piani sarebbero prospettivi e tutti i punti della retta tz' sarebbero uniti. Abbiamo adunque i seguenti teoremi: gq S) Teorema (€). Se due piani collineari T, t° non sovrapposti, hanno due punti uniti A e 5, esistono due rette p e q non giacenti in un piano, la prima passante per B, la seconda per-A e che conten- gono 1 centri di prospettiva, la prima delle punteggiate corrispondenti uscenti da A, la seconda delle punteggiate cor- rispondenti uscenti da 5. Tutte le rette che uniscono punti corrispondenti deb- bono appoggiarsi alle due rette p e q e ciascun fascio di piani di assi p, Q determina sui piani 7, 7' fasci di raggi corrispondenti. Trorewa (#4). Se due piani collineari T e 1 non sovrapposti hanno più di due punti uniti, per cui tutti 1 punti della retta 77' sono uniti, i due piani saranno prospettivi. Trorema (€). Se due stelle collineari P, P_non concentriche, hanno due piani uniti a e 8, esistono due rette p, g non giacenti in un piano, la prima situata nel piano 8, la seconda nel piano a, per la prima delle quali passano i piani di prospettiva dei fasci di piani corri- spondenti aventi gli assi nel piano 4, e per la seconda quelli dei fasci di piani corrispondenti aventi gli assi nel piano 8. Tutte le rette, intersezioni di piani corrispondenti, debbono appog- giarsi alle due rette p e q e ciascuna delle punteggiate p e g viene proiettata da Pe P' mediante fasci di raggi cor- rispondenti. Trorema (4). Se due stelle collineari P e P' non concentriche hanno più di due piani uniti, per cul tutti 1 piani condotti per la retta PP' sono uniti, le due stelle saranno prospettive. — bll — Prendiamo ora ad esame due piani 7, ' collineari sovrapposti e sieno L, L' due punti corrispondenti dei medesimi; il raggio LL' sarà o non sarà raggio unito. Supponiamo dapprima che LL' sia raggio unito; i fasci di raggi corrispon- denti aventi i centri in L e L' saranno prospettivi e le intersezioni dei raggi corrispondenti saranno situati sopra una retta «, la quale dovrà passare per i punti uniti dei due piani non posti sul raggio unito LL'. Alla retta %, conside- rata come appartenente al piano 7, corrisponderà nel piano 7' un’ altra retta w', e ad un punto B di «, intersezione dei raggi corrispondenti LB, L'B, corrispon- derà un punto B' di «' situato sul raggio L'B; e perciò le punteggiate w, w' saranno due punteggiate prospettive e quindi avranno o tutti i punti uniti, op- pure un solo, il punto «x. Nel primo caso, cioè quando tutti i punti di « sono uniti, il punto d’ incontro di LL' con « essendo un punto unito, si troverà sulla LL' un altro punto unito S; tutte le rette condotte da S saranno unite, conte- nendo due punti uniti, il punto S ed il punto del loro incontro colla «, e tutte le rette corrispondenti si segheranno sulla « e i due piani collineari sovrapposti sono detti omologici. Nel secondo caso quando le due punteggiate prospettive v e v' hanno un solo punto unito, il punto uu, i due piani collineari hanno questo punto unito ed il raggio LL' unito, sul quale potranno o no esservi due punti uniti. Supponiamo ora che nei due piani collineari sovrapposti non sia il raggio LL' unito; i fasci di raggi corrispondenti di centri L e L' proiettivi generano una co- nica £, luogo delle intersezioni delle coppie di raggi corrispondenti, obbligata a passare per L e 1 e per tutti i punti uniti dei due piani. Considerando la conica X come appartenente al piano 7, ammetterà una conica corrispondente X' in 7°, passante per L' corrispondente di Le per tutti i punti uniti dei due piani. Quindi i punti uniti dei due piani saranno i punti comuni alle due coniche X e 2', ec- cettuato il punto ZL e però tali punti uniti saranno o tre punti reali, oppure uri solo reale e gli altri due immaginari coniugati, situati però sempre sopra una retta reale, la quale sarà un raggio unito dei due piani. Trorema (€). Due stelle collineari vrapposti, non identici, hanno sempre concentriche, non identiche, hanno sem- Teorema (€). Due piani collineari so- un punto unito ed una retta unita. Que- pre un piano unito ed una retta unita. sta retta unita può avere dac punti uniti reali ed in questo caso i due piani hanno tre punti e tre rette unite, vertici e lati di un triangolo unito; se poi uno dei lati di questo triangolo avesse tutti i punti uniti, i due piani sarebbero omo- logici. Per questa retta unita possono condursi due piani uniti ed in questo caso le due stelle hanno tre piani e tre rette unite, facce e costole di un triedro unito; se poi tutti i piani passanti per una di queste costole fossero uniti, le due stelle sarebbero omologiche. — 512 — Sia 4 un punto unito di due piani 7 e 7' collineari sovrapposti ed / un raggio unito non passante per A. Due rette corrispondenti condotte per A sono due pun- teggiate prospettive ed incontrano il raggio unito in due punti M, M' corrispon- denti e perciò il centro di prospettiva di quelle è situato sulla retta 7; i fasci di raggi corrispondenti di centri M, M' proiettivi, avendo il raggio MM' unito, saran- no prospettivi e l asse di prospettiva sarà una retta passante per il punto unito. Queste proprietà danno un mezzo facile per costruire due piani collineari sovrap- posti, quando fra i dati si conosca un punto unito, oppure un raggio unito. Da quanto ora si è detto è pure agevole comprendere le proprietà, di cui godranno due piani collineari sovrapposti aventi i vertici e quindi i lati di un triangolo uniti. Laonde abbiamo i seguenti teoremi : Trorema (7°). In due stelle collineari Trorema (7). In due piani collineari concentriche, non omologiche, aventi un sovrapposti non omologici aventi un punto unito, 1 centri di prospettiva delle infinite coppie di punteggiate corrispon- denti passanti per il punto unito sì tro- vano sopra una retta, la quale è un piano unito, i piani di prospettiva delle infinite coppie di piani corrispondenti aventi gli assi nel piano unito, passano per una retta, la quale è un raggio unito. Le infinite coppie di raggi cor- rispondenti passanti per il raggio unito inviluppano una retta posta nel piano raggio unito. Le infinite coppie di rette corrispondenti condotte per due punti corrispondenti del raggio unito si segano sopra una retta passante per il punto unito. unito. Passiamo infine a considerare due spazi collineari 2, 2' aventi un punto unito A. Sieno 2, l'; m, m'; n, n'; p, p' coppie di rette corrispondenti uscenti da A e L, M, N, Pi loro centri di prospettiva. Se tutte queste coppie di rette corri- spondenti fossero unite, su ciascuna di esse, oltre il punto A, vi sarebbe un altro punto unito, il quale dovrebbe coincidere col centro di prospettiva delle due pun- tesgiate proiettive sovrapposte e però sarebbero i punti L, M, N, P uniti. Dico ora che questi punti giaceranno tutti in un piano, supposti non identici i due spazi collineari. Difatti una retta condotta da 4, essendo unita, incontra il piano LMN, che è pure unito, in un punto unito e quindi se sopra quella retta vi fosse un altro punto unito, i due spazi sarebbero evidentemente identici. Dunque: Trorema (9). Se due spazi collinear] hanno un piano unito a, se tutte le rette e quindi punti del piano @ sono uniti, vi è anche un punto P, centro di una stella di piani e raggi uniti; in tal caso i due spazi sono detti omologi; a è il piano, P il centro dell’ omologìa. TrorenA (9). Se due spazi collineari hanno un punto unito A, se tutti i raggi, e quindi piani, della stella A sono uniti, vi è anche un piano 7 luogo di punti e rette unite; in tal caso i due spazi sono detti omologici; A è il centro, x è il piano d’ omologìa. — 513 — Ritenendo le stesse denominazioni e supponendo i due spazi non omologici e che quindi non sieno tutte le rette e piani passanti per A uniti, nè vi sia per A un piano luogo di punti e rette unite, io dico che tutti i punti L, M, N, P giac- ciono in un piano, il quale è unito, ma non luogo di punti e rette unite. Infatti la retta LM, che unisce due di quei punti, è il luogo dei centri di prospettiva delle punteggiate corrispondenti passanti per A situate nei piani corrispondenti Im, l'm'; analogamente dicasi della NP rispetto ai due piani corrispondenti np, wp". La retta d’ inserzione dei piani 2, np ha per corrispondente la retta d’ interse- zione dei piani corrispondenti /'m', 'p' e queste due rette corrispondenti, passando per A, devono avere il loro centro di prospettiva tanto su LM, come su NP. Dun- que le rette che congiungono i punti L, M, N, P due a due s incontrano e però i detti punti dovranno giacere in un piano, non potendo coincidere, poichè in tal caso i due spazi collineari sarebbero omologici. Questo piano, luogo dei punti L, M, N, Pè un piano unito, giacchè due rette corrispondenti uscenti da A lo incontrano in punti corrispondenti; e due rette corrispondenti di questo piano sono assi di due fasci di piani prospettivi ed il loro piano di prospettiva passa per A. Concludiamo quindi: Trorema (7). Se due spazi collineari, non omologici, hanno un punto unito, vi è anche un piano unito luogo dei centri di prospettiva delle punteggiate corrispon- denti uscenti dal punto unito; i piani corrispondenti passanti per due rette corri- spondenti poste nel piano unito si segano in un piano passante per il punto unito. Siccome in questo piano unito vi è certamente un altro punto unito e retta unita, la quale può contenere due punti uniti oppure nessuno, così avremo in questi casi da ripetere più volte il teorema precedente, quanti sono i punti uniti. ——Li e if TOMO II. (©p) («bd da CC, i tà liali vi: SURE, 1 LI sO, x s + ‘ CR I { RE vane: A ; a s3 Dr 4 ni Dì i Ù 7 ” Li Il hi N È Ì (1 i mM Pa LI DO NUOVO METODO PER AVERE IL SUCCO ENTERICO PURO E STABILIRNE LE PROPRIETÀ FISIOLOGICHE MEMORIA Del Prof. LUIGI VELLA (Letta nell’ Adunanza del 5 Maggio 1881). Dappoichè 1’ alto onore mi venne impartito di essere chiamato in seno di questa inclita Accademia, sentii come al debito della riconoscenza altro per me sì aggiu- gnesse quello, cioè, di presentarvi alcun saggio di que’ lavori che più specialmente a quella Scienza s' attengono che de’ miei studi forma 1’ oggetto. La Memoria che oggi mi pregio di sottoporre al vostro senno ed alla vostra dottrina riguarda il succo entericoj; argomento che già da parecchi fisiologi fu studiato e discusso, sicchè troppo lunga sarebbe l’ enumerazione degli sperimenta- tori che dal secolo scorso a tutt’ oggi se ne occuparono. Pur tuttavia persuaso del multum restat, multumque restabit, neque ulli post mille seecula precludetur occasio aliquid adjiciendi, pensai di tenere l'invito che fa lo Schiff appunto in un suo lavoro sul potere digerente del succo enterico, cioè, prima di concludere essere necessario aspettare ancora nuovi fatti, ben sapendo come provando e riprovando qualche maggior luce di vero si ottenga. Frutto delle mie osservazioni e delle mie indagini si fu: 1° di avere immaginato un nuovo metodo o processo operativo per isolare un’ ansa intestmale dalla quale raccoyliere succo enterico; 2° di avere inventato un modo di cucitura dell'intestino reciso applicabile per avventura all’ umana Chirurgia, e che rende agevole, e si può dire, assicura negli animali l isolamento di un’ ansa intestinale, operazione assai difficile e per anco da taluni creduta impossibile ; 3° di avere riconosciuto (ed essermene giovato) che la Pilocarpina accresce d’assai l attività degli organi secretori per avere del succo enterico puro ed in ab- bondanza. — 516 — E così potei, se non m' inganno, nonchè confermare le risultanze ottenute da altri sulle proprietà del succo enterico, aggiugnere ancora nuovi fatti ai già cono- sciuti, e fra gli altri che l ansa intestinale isolata da due anni e più, non si atro- fizza (come fu detto e ripetuto) nel suo elemento essenziale e cioè nelle glandole del Lieberkhun. Questo il risultato sintetico del mio lavoro: ora l’ esplicazione della via per cui vi pervenni e che agli illustri Scienziati, che mi sono colleghi, sarà forse dato di vieppiù rischiarare. Ha sempre tormentato i fisiologi il desiderio di trovare un mezzo che valesse a raccogliere il succo enterico separatamente dagli altri umori che si secernono e versano nell’ intestino gracile. Il primo che faccia cenno di una secrezione propria dell’ intestino è Haller, il quale spargendo del sale sulla mucosa del tenue di una donna viva, affetta, credo, da fistola, vide, egli dice, immensam vim humoris exhalantis per intestinum secerni (1). Haller stesso riferisce che sotto l’ impressione dei primi freddi gli avveniva di perdere per secesso in poco d’ ora fino 40 oncie di liquido acquoso che pei carat- teri fisici che offriva, non poteva essere dato nè dal pancreas, nè dal fegato. Leuret e Lassaigne ripeterono l’ esperimento di Haller; aprendo l'intestmo in un antmale vivente, detergendone la mucosa e versandovi sopra un po’ d’ acqua acidulata, ne videro tosto gemere a goccia a goccia un liquido limpidissimo che è il succo intestinale. Gli stessi Leuret e Lassaigne facevano ingoiare a degli ani- mali delle spugne avvolte in tela sottile, poscia sacrificati, raccoglievano le spugne trovate nel tenue e toltone l'involucro premevano il liquido di cui erano imbe- ‘vute. Ma questo non rappresentava per fermo il succo enterico puro non potendo a meno di esservi commisto muco, bile, succo pancreatico, gastrico e saliva, Frerichs per il primo nei cani e nei gatti immagina di comprendere tra due legature un’‘ansa d’intestino lunga da 10 a 20 centimetri. Vuotata questa, e pulita con ripetute lavature, l’introluce di nuovo nel ventre. Passate alcune ore (4 a 6) estrae il liquido che si è raccolto in quest’ ansa (2). Colin invece della legatura applica nell’ intestino tenue due compressori a vite alla distanza di due metri l uno dall’ altro dopo aver vuotato l’ intestino stesso per quanto è possibile premendolo leggiermente dall’ avanti all’ indietro fra le dita, e questo lo fa in un cavallo che si trovi in piena digestione. Rimesso 1’ intestino in cavità e cucita la ferita, dopo un ora rinviene da 80 a 120 grammi di liquido nell'ansa chiusa dai compressori (3). Ma questo liquido, come nel caso precedente di Frerichs, è per massima parte costituito da un abnorme trasudamento sieroso, contenendo eziandio alcune particelle degli altri liquidi precedentemente versati nel- i intestino, e che la pressione esterna delle dita non vale certo a rimuovere in (1) Element. physiolog. Tom VII, pag. 37. (2) FRERICA8 — Die Verdauung Wagner ’s Handwòrterbuch der Physiologie. Tom. III, pag. 852. (3) Coin — Traité de physiologie comparée des animaux domestiques. Paris 1856. — 511 — totalità. E a conferma di ciò basti ricordare le recenti osservazioni del Dottor A. Moreau, colle quali ha dimostrato la presenza in un’ ansa d’ intestino allacciata in due punti, di una sostanza albuminoide, il cloruro di sodio in abbondanza, solfati, fosfato di calce, e sali di potassio e in grande proporzione urèa, sostanze tutte che si trovano nel siero del sangue (1). Bidder, Schmidt e Zander formarono un ano artificiale nei cani, legando dapprima il condotto pancreatico, e facendo uscir fuori la bile per mezzo di una fistola cistica (2). Quest’ operazione però oltrecchè soprammodo indaginosa e di grave pericolo per l’ animale, non chiude il varco del piloro. Pensarono allora questi fisiologi di legare addirittura il tenue al disotto del duodeno; se non che adoperando tale un processo siamo costretti a lamentare, in parte almeno, gli inconvenienti avvertiti in quello di Frerichs, cioè la produzione d’ un trasudamento morboso. Schiff studiò l azione digerente del succo enterico e duodenale per mezzo di una fistola laterale a cui innestava una cannula, di forma particolare, alla maniera che si pratica per le fistole stomacali (3). Il Prof. Vizioli di Napoli osservò le modificazioni che subiscono gli alimenti nell intestino attraverso una fistola del tenue, fatto convenientemente aderire alle pareti addominali, metodo che lo Schiff qualifica di poco rigoroso, sebbene i ri- sultati che ottenne siano stati confermati più tardi dalle ricerche instituite nell’ in- testino gracile di un uomo, nel quale una ferita aveva lasciato un ano contro na- tura. In questo caso per fortunata combinazione il processo di riparazione aveva ridotto le parti ferite di tal guisa che le materie scolanti dalla porzione superiore dell’ intestino non potevano imboccare l apertura inferiore (4). Una fistola somigliante era stata osservata in una donna e descritta sin dal 1858 dal Busch (5), ma egli non ne trasse partito per intraprendere studi fisiolo- gici, e soltanto con sano criterio pratico se ne giovò per provvedere alla nutri- zione assai decaduta dell’ inferma, introducendo nella porzione inferiore dell’ inte- stino le sostanze alimentari. __Il Prof. Ciaccio dopo l importantissima scoperta fatta nel 1868 da Wittich che i fermenti digestivi sono solubili nella glicerina, e soluti in essa conservano per assal tempo inalterata l’ attività loro, potè esaminare separatamente le proprietà fisiologiche delle glandole del Brunner e di quelle di Lieberkiihn, ponendo in infu- sione nella glicerina anidra di Price perfettamente neutra, per 10 giorni e talvolta anche di più, dei pezzi di mucosa della prima porzione del duodeno e del diginuo appena estratti da un grosso cane sacrificato in piena digestione sei ore dopo avergli (1) Comptes rendus de l’Académie des Sciences. Tom. LXVI, pag. 554. (2) Bipper E ScamipT — Die Verdauungssifte und der Stoffwechsel, pag. 231. (3) ZANDER — De succo enterico. Diss. inaug. Dorpart 1857. (4) MorGAGNI 1867. (5) Archiv. fir Pathologische Anatomie und Physiologie. 1858. Tom. XIV, pag. 149. — 518 — legato il piloro, il condotto pancreatico e l’ esofago, il quale ultimo aveva aperto poi longitudinalmente al disopra della legatura per dar libera uscita alla saliva. Questo metodo è certamente ingegnoso e preferibile agli altri, e il Ciaccio se ne valse con assai profitto della scienza {1). Il primo che abbia suggerito ed attuato un mezzo per ottenere nei bruti il succo intestinale veramente puro si fu il Thiry (1864). Egli isola con due colpi di forbice una porzione d’ intestino tenue, mantenendovi intatto ed aderente il suo mesenterio ; ne chiude un’ estremità a fondo cieco che lascia fluttuante nell’ ad- dome, e fissa l’altra ai margini della parete addominale. I capi poi dell’ intestino, di mezzo ai quali fu tolta V ansa, li riunisce con punti di sutura facendo comba- ciare insieme le due superficie sierose (Vedi Fig. II-V). Fra i pochi processi finora proposti, scriveva il prof. Lussana, questo ci par- rebbe il più scevro da equivoci; ma, soggiunge, semprecchè si tratti di fistole dn corso dopo il ristabilimento dell’ animale. La qual cosa ei la ritiene impossibile, giacchè a lui morirono in un giorno o due i diversi cani così operati ad onta di tutte le cautele usate nel praticare l’ operazione e nel curare l’animale operato (2). Io non indagherò se veramente tutte le cautele siano sempre state messe in opera dal valente fisiologo di Padova ; il fatto sta che il processo del Thiry riuscì varie volte nei cani tanto al suo inventore, quanto al Ludwig e allo Schiff, il quale ultimo lo modificò alcun poco nel far sì che 1 apertura fistolare riuscisse più larga, onde potervi fissare una cannula per la quale introdurre facilmente un piccolo sacchettino di tela colla materia alimentare, ed osservarvi a piacere il co- lore della mucosa intestinale (3). Ricordati i vari metodi seguiti dagli sperimentatori per lo studio del succo enterico, mi faccio ora a descrivere quello da me immaginato e che, parmi, rag- giunga, per quanto sia possibile, quella perfezione non ottenuta da’ miei prede- CESSOri. Processo operatorio. Sdraiato sul dorso e assicurato per le estremità sopra un apposito lettuccio di legno un cane di grossa mole, e preferibilmente da pastore, perchè questa razza è quella che più resiste agli effetti del traumatismo, gli si radono con diligenza e per larga estensione i peli all’ addome, e si lava e deterge la parte con acqua e sapone, o con acqua fenicata. (1) Esperienze fisiologiche comparative intorno all’azione del succo brunniano, e di quello delle glandule del Lieberkiùhn. Archivio per la Zoologia, l’Anatomia e la Fisiologia. Serie II, Vol. II, 1870 Bologna. (2) Lussana — Manuale pratico di Fisiologia. 1866, pag. 295. (3) Scurr — Nuove ricerche sul potere digerente del succo enterico. Firenze 1867. — 519 — Ciò fatto si procede alla narcotizzazione dell’ animale, che io ottengo mediante l iniezione in una vena, per solito la safena, di una certa quantità di laudano del Sydenhnam, che varia da 6 a 12 grammi secondo 1°’ età e la mole dell’ animale medesimo. Adopero il laudano a preferenza dell’ Etere o del Cloroformio perchè meno pericoloso e di effetto più certo, più pronto e più duraturo. L’ ingresso di questa sostanza straniera nell’ alveo circolatorio, determina una pronta reazione. L'animale si dimena e si agita ed emette urine e feccie in gran quantità. L’ emissione delle feccie però, si è notato avvenire solamente allora che la dose del laudano è grande e tale da produrre una completa narcosi; quindi la fuori uscita degli escrementi alle volte liquidi e in forma di vera diarrea, può servire di criterio per giudicare il grado di narcotismo necessario per il buon esito dell’ operazione. In generale se il cane è grosso e robusto, occorrono non meno di 10 o 12 grammi, i quali benchè introdotti d’ un tratto nel sangue non abbiamo visto mai produrre fenomeni di avvelenamento, ma soltanto la invocata narcosi. Questa dose addormenta d’ un subito l’animale e lo rende perfettamente immobile durante tutto l’ atto operatorio, il quale vien condotto nella maniera seguente : Con un bisturì panciuto si pratica un’ incisione delle pareti addominali lungo la linea alba dell’ estensione di 10 a 12 centimetri; un assistente afferra subito con due uncini da una parte e dall’ altra i margini della ferita, e li solleva per evitare lo sventramento, mentre l operatore coll’ indice della mano destra penetra nel cavo peritoneale, va in traccia del tenue e ne estrae un buon tratto. Determinata la lunghezza che si vuol dare all’ ansa, che può essere di 30 a 50 od anche più centimetri, questa si isola con due tagli netti di forbice, e la si ri- versa sopra il fianco destro dell'animale avvolta in pannolini puliti e caldi dopo averne legati gli estremi con un filo per impedire che il contenuto durante le manovre operatorie esca e penetri nella cavità addominale, o lordi quelle parti d’intestimo che ne furono tratte fuori. À questo punto si passa a ristabilire la con- tinuità dell’ intestino, dal quale fu tolta l’ansa, mediante una doppia sutura a filzetta e a soprammano o a cavalletto come volgarmente si dice. Prima di passare i punti adopero un mio particolare spediente, secondo me, molto efficace e che ora dirò in che consista. s È si i Si sa che nelle ferite dell’ intestino, la tonaca muscolare e la mucosa si rove- selano allo esterno formando un grosso labbro sui margini delle ferite stesse. Allorchè nei cani l intestino è completamente reciso per traverso, la musco- lare molto spessa coperta dalla mucosa forma invece come un cercine, il quale si vede disegnato nella Fig. IV, lett. V. Ora io abrado con le forbici tutto attorno la mucosa che riveste questo cercine, costituendo due superficie sanguinanti, le quali messe a contatto più facilmente si cementeranno e cicatrizzeranno, senza dar luogo nel lume dell’ intestino a quel rialzo o sperone che si forma immancabil- mente quando in luogo di far combaciare le due superficie sotto-mucose, come io faccio, si accostano invece le tonache peritoneali. (Vedi, per maggior chiarezza, figura schematica VIII). — 520 — Il genere di sutura da me adoperato credo pure che meriti di essere descritto perchè in pratica non mi fallì pur una volta. Abrasa, come ho detto, la mucosa in giro all’ estremità del moncone superiore ed inferiore dell’ intestino (v. Fig. IV, V e VII) a pochi millimetri dal margine libero di uno di questi monconi, là dove s’ inserisce il mesenterio, passo un ago infilato dall’ esterno all’ interno, e dal- l’ interno all’ esterno invece nell’ altro moncone; poi intromesso nuovamente l'ago a distanza di qualche millimetro dall’ esterno all’ interno nel secondo moncone lo faccio passare dall’ interno all’ esterno del primo, e così di seguito finchè lago non giunga nel punto dove fu introdotto la prima volta, vale a dire, e lo ripeto, nel punto d’ inserzione del mesenterio dei due monconi. Allora, quasi a rinforzo e complemento della prima, eseguo una seconda sutura a cavalletto tutto attorno dell’ orlo che è risultato dal ravvicinamento dei due monconi (Fig. V e VII). Così ristabilita la continuità dell’ intestino, lo detergo con ogni cura e con esso il mesenterio, e 1’ omento se per caso come è facile, si fosse affacciato, e ri- metto il tutto in cavità insieme all’ ansa isolata, della quale un assistente trattiene fuori solo gli estremi assicurati nel modo indicato, ciascuno ad un filo, e che ora debbono venire fissati, ad una certa distanza l uno dall’ altro, alle pareti addomi- nali. Per ottenere ciò si fan passare diversi punti attraverso le pareti stesse, e alle tuniche dell’ intestino tanto in corrispondenza dell’ angolo superiore quanto dell’ in- feriore, badando che il cercine mucoso resti fuori come nella Fig. IV, lett. d e. A questo scopo è necessario di staccare per piccolo tratto (un centimetro o poco più) il mesenterio nei due estremi dell’ ansa allacciandone i vasi. La nutrizione di questi estremi quantunque privi del loro mesenterio non è compromessa, essendo essi destinati a contrarre aderenze tra i margini della ferita addominale. Finalmente si compie la sutura delle pareti addominali cucendone prima la superficie ricoperta dal peritoneo, che si fa combaciare, poi i muscoli e la cute. Qualche volta per facilitare il fissamento e l'adesione degli estremi dell’ ansa iso- lata, nei due opposti punti, invece di fare un lungo taglio preliminare delle pareti addominali, ne praticai due, l ultimo de’ quali solo dopo fissato il capo ce- falico dell’ansa, destinandolo a ricevere il capo caudale e dandogli quell’ estensione che richiede il passaggio di quest ultimo, e cioè di due centimetri all’ incirca, cui si fa pervenire tirando il filo al quale è assicurato con un paio di pinzette ricurve passate sotto le pareti addominali. Questa modificazione per altro non è da prefe- rirsi all incisione unica e più estesa, perchè non scevra di inconvenienti, ed io l'ho abbandonata dopo che la necroscopia di un cane morto in seguito a tale ope- razione, mi fece vedere che nella causa mortis doveva annoverarsi la strozzatura di una porzione dell’ ansa isolata attraverso il mesenterio di un ansa vicina. Le precauzioni da aversi in così difficile e delicata operazione non sono mai soverchie e fa d’ uopo sopratutto avvertire di non torcere o stirare troppo brusca- mente i vasi, specie le arterie e i nervi, che tra le duplicature del mesenterio vanno all’ ansa isolata, onde non disturbare in alcuna guisa la libera circolazione — 21 — sanguigna, e assicurare la nutrizione dell'ansa separata dal resto del canale in- testinale. Dieciotto sono i cani che dal 6 Novembre 1867 ad oggi io ho operati di fistola intestinale. Di questi non ne sono morti che sei e notisi due soli fra gli ultimi nove. Ebbi adunque il 66 % di guarigioni e la statistica sarebbe ancora più fortunata se avessi sempre potuto operare in condizioni favorevoli. Infatti dei tre cani che mi morirono di entero-peritonite, dopo 48. ore dall’ operazione, due vi furono assoggettati in tempo d'inverno, e il freddo per sè solo, ci ha condotto a morte molti altri animali che avevano subìto minori lesioni. D’ al- tronde due di questi, il secondo ed il terzo, erano cani da caccia, razza assai de- licata e da tutti riconosciuta poco acconcia per le vivisezioni. La morte di un quarto si deve ad imponente emorragia determinatasi dai vasi del mesenterio ta- gliato, sei giorni dopo l’ operazione e quando già 1’ animale pareva bene avviato alla guarigione. Il quinto lo perdemmo per febbre d’ infezione consecutiva a can- crena dei margini della ferita addominale, determinata senza dubbio dall’ azione irritante delle urine. Per la qualcosa dovendo da ora innanzi praticare la fistola, mi varrò sempre di cagne, nelle quali il mitto si compie in maniera che le urine, anche quando l’ animale si trovi adagiato, non vanno ad imbrattare la superficie dell'addome ; come ho verificato nell’ultimo esperimento. La cagna era guarita in tre giorni e in undici l’estesa ferita delle pareti addomivali interamente rimarginata. Finalmente il sesto cane morì senza dubbio perchè nelle prime 48 ore che segui- rono l’ atto operativo, per incuria dell’inserviente, gli fu porto, e in abbondanza, cibo solido, che mangiò avidamente. Perdippiù alla necroscopia si riconobbe la strozzatura dell’ ansa passata attraverso il mesenterio, come fu dianzi accennato. Dopo questo fatto io soglio prescrivere che durante i primi giorni i cani così operati si alimentino con solo latte od altre sostanze liquide. La dieta solida (carne e pane) faccio amministrare soltanto quando e la gaiezza dell’ animale e il tempo trascorso mi inducono a credere che 1 unione dell’ intestino sia completa e stabile. Finita l operazione, il cane, che di solito, se la narcosi non è ancora molto profonda, può reggersi in piedi e camminare, si adagia e resta fermo ed immobile in uno stato di semi-narcotismo per parecchie ore. In questo frattempo anche le intestina, che all’ entrare del laudano in circolo si commuovono ed espellono le feccie (liberandosi di un materiale che in qualche maniera potrebbe essere loro nocivo) partecipano della calma di tutto l organismo, e così non vien disturbato fin da principio il lavorìo di riparazione che deve verificarsi nei due punti di congiungimento delle anse intestinali ricucite. I dodici cani guariti, tre de’ quali conservo ancora in vita, (l uno, cane da Pastore operato il 21 Febbraio e cioè da 2 anni e due mesi e mezzo, l’altro Levriero bastardo dal 3 Febbraio 1880, 15 mesi e l’ ultimo, da soli 29 giorni) in una set- timana o poco più si riebbero completamente degli effetti di un atto operatorio co- tanto grave. Taluni anzi il giorno susseguente all’ operazione si mostravano vispi ed_allegri come se nulla fosse stato fatto sul loro corpo. TOMO II. 66 — 522 — Fra i casi bene riusciti ve ne ha uno, nel quale le varie complicazioni insorte durante 1’ operazione, mai avrebbero fatto supporre un esito felice. Anzitutto s° ebbe dall’ apertura addominale uscita del duodeno e di parte del pancreas, poi emorragia dai vasi del mesenterio; e, mentre questa si frenava, delle materie fecali si fecero strada attraverso la cucitura dei due capi dell’ intestino reciso, che era stata eseguita im molta fretta a cagione dello sventramento. Da ciò la necessità di nuovi punti e di nuove lavande; da ciò la necessità di tenere allo scoperto per lungo tempo l' intestino, che fu rimesso in cavità tutto congestionato, un po’ per l’ effetto meccanico di tali manovre, un po’ perchè restava strozzato tra i labbri della ferita alquanto ristretta. Eppure sei giorni appresso l’ animale si po- teva dire ristabilito. i Tutto ciò, parmi, riesca sempre più a conferma della superiorità del metodo da me adoperato, il quale oltre ad offrire d’ ora in avanti ai Fisiologi il destro di ripetere e completare gli studi intorno al succo enterico, presenta, secondo me, un interesse d’ ordine tutt’ affatto chirurgico. Voglio alludere alla possibilità di ren- dere più agevole l’ enterorrafia coll’ abrasione della mucosa siccome io pratico, e mettere riparo nell’ uomo a guasti anche estesi dell’ intestino, asportando senz'altro la parte malata. Fin da quando la prima volta riuscii a stabilire felicemente la fistola intestinale nel cane, e che sì presto e solidamente osservai riunirsi i capi dell’ intestmo reciso, mi venne in mente di proporre tale asportazione nell uomo in quei casi che il tubo intestinale per un tratto più o meno lungo a cagione di ferite, o di cancrena in seguito ad ernia strozzata, o per qualsiasi altro motivo, fosse irremediabilmente compromesso. Ma non feci di pubblica ragione la mia proposta, quantunque fossi riuscito più volte a sottrarre dall’ intero intestino porzioni più o meno lunghe per isolarle e stabilire la fistola, ed anche una volta in un grosso cane da pastore avessi potuto togliere a dirittura un considerevole pezzo d’intestino che rappresentava il quarto della totale sua lunghezza. Peraltro il Ch.mo Prof. e amico G. B. Ercolani in una dotta lettera all’ illustre Prof. Rizzoli in data 18 Ottobre 1879 ne fa menzione (1), ag- giungendo come questo mio nuovo metodo fosse posto in pratica e con successo nel cavallo anche dagli egregi assistenti della Scuola Veterinaria di Bologna, Sigg. Dottori Piana e Bosi. Oggi ho la grata compiacenza di leggere come il Koeberlé nella Seduta del 15 Gennaio 1881 comunicasse all’ Accademia di Medicina di Parigi un caso di rese- zione di due metri d' intestino gracile segiuta da guarigione. Anche nell’ uomo adunque si può asportare una porzione d’ intestino tenue malato, ristabilire la continuità del canale, ricucendo con adatta sutura i due capi che sono stati recisi. Il detto quindi d’ Ippocrate , si quid intestinorum gracilum (1) Vedi Memorie dell’Accademia delle Scienze dell’ Istituto di Bologna. Fasc. I, 1880. — 523 — discindatur, non coalescit , non sta più; ed era già stato smentito da parecchi casi di guarigione spontanea avvenuti in intestino scisso e raccorciato per eliminazione, spontanea o procurata, di anse strozzate e cancrenate dentro al canale inguinale. Per tacere d’ altri citerò quello descritto dal Ch.mo Mery nelle Mémoires de P Academie Royale des Sciences de Paris l’anno 1701. Si tratta di un’ ernia can- grenata che richiese la resezione di 5 a 6 piedi d’ intestino gracile. M. Morand per ilentico motivo nel 1735 asportò 4 dita d’ intestino (1). Ma la riunione dci capi vicini, come scrive il Morand stesso, è più dovuta alla natura che all’ arte: egli anzi per mezzo di figure si studia di far comprendere il processo che la na- tura tiene per ristabilire la continuità del canale. I soccorsi che gli antichi chirurghi mettevano in opera in simili circostanze si limitavano al ravvicinamento dei due monconi, e al fissarli mediante legature o cuciture del mesenterio alle pareti addominali, per impedire lo scolo delle feci nel cavo peritoneale. Una vera sutura dei margini dei monconi stessi che permettesse una cicatrice immediata, che io mi sappia, non fu mai fatta, se per tale non si voglia prendere l’ unico punto con cui Ramdhore, primo chirurgo del Duca di Brunswick (1727), teneva fissi i due capi d’ intestino di una donna, da cul aveva tolto un’ ansa lunga 2 piedi e che poi aveva introdotti l un dentro l’ altro. Però l idea di riunire i capi dell intestino mediante una completa cucitura si ebbe sin d’allora; e Moebius, che riferisce il processo di Ramdahore, dice di averla tentata in un cane, a cui aveva asportato due pollici d’ intestino, e nel quale non potè immettere l’ un capo nell’ altro come Ramdhore praticò nell'uomo, perchè ? inte- stino nel cane è troppo ristretto. I punti dati e non so in che maniera, non impe- dirono agli alimenti di scolare nel ventre, e il cane morì. Il Morand dice che i fluidi e i gas che si ritrovano nell intestino, tenendo le pareti del medesimo più o meno distese, sono la cagione che toglie ai due mar- gini di rimanere a mutuo contatto per quel tanto che è necessario a stabilirsi la cicatrice, e che perciò bisogna non abbandonare l intestino riunito nel cavo ad- dominale, come fece Moebius, ma fissarlo ai margini dell’ anello inguinale o di ana piaga qualunque dell’ addome, dove i prodotti dell’ infiammazione fomrano un in- volucro protettore che rende più facile l adesione e impedisce il versamento dei materiali della digestione nella cavità del ventre. Lo stesso Koeberlé sopra citato, scrive che la sutura completa dei due mar- gini dell’ intestino e la suecessiva riunione immediata della piaga addominale espone a maggiori pericoli, che la formazione di un ano contro natura, o la sutura in- completa dell’ imtestino combinata con un ano artificiale (2). I risultati felicissimi del resto ottenuti nei cani col mio metodo di sutura (non ostante l avviso dell’ illustre professore di Strasburgo) m’ incoraggiano ad invitare (1) Accadémie des Sciences de France, 1735, pag. 249. Sur la reunion des deux bouts d’un in- testin, une certaine portion du canal étant detruite. Par M. Morand. (2) KoeseRLÉé — Memoria citata. Parigi 1881. — 524 — i chirurgi a volerlo tentare nell'uomo: perchè anche ammesso che i capi del- l intestino, come nei casi degli antichi autori sopra citati, possano spontaneamente riunirsi a livello della piaga addominale e ristabilirne così la continuità, pure il pericolo che resti un ano contro natura, con tutti i disagi che necessariamente lo accompagnano, dovrebbe, secondo me, bastare per rendere la sutura immediata preferibile alla mediata. Trovato il modo di isolare un’ ansa intestinale che secernesse del succo proprio e lo rendesse al di fuori non commisto ad altri umori, rimaneva la difficoltà di trattenerlo entro l ansa insieme alle materie sulle quali lo si voleva esperimentare, oppure di estrarlo in quantità sufficiente da istituire fuori dell’ animale delle vere digestioni artificiali. Io non so in che maniera il Thiry riuscisse ad averne 4 grammi da un tratto d’intestino dell'estensione di 30 centimetri quadrati, in guisa di poterne trarre la conseguenza che per l’intero intestino di un cane la quantità sia di 360 grammi. So bensì che dopo molte prove, alla perfine sono pervenuto a trovare uno spediente semplicissimo, che soddisfa in specie al secondo scopo indicato e che descriverò più sotto. Essendomi fallito il tentativo di fissare con adatta legatura agli estremi od aper- tura dell’ ansa isolata due cannule d’ argento da potersi aprire e chiudere a vo- lontà, perchè 1’ animale se le strappava sempre coi denti, immaginai di tenerle in sito la mercè di una fasciatura circolare, una specie di imbusto di cuoio, che si poteva allargare e restrimgere a seconda della mole dell’ animale. Ma anche questo mezzo non mi corrispose. Pensai allora di introdurre per uno degli estremi del- l ansa le sostanze che volevo esaminare o mediante una siringa, se liquide; o con uno specillo (elastico, per seguire la curvatura dell’intestino, senza lederlo) se solide, e poi facendole uscire dopo un certo tempo dall’ estremità opposta per mezzo di iniezione di acqua distillata. Introdussi anche nell’ ansa mediante una sonda elastica dei sacchetti di velata contenenti fibrina, albumina cotta, carne eec. I due estremi opposti di questi sac- chettini portavano un filo che usciva per le due differenti aperture dell’ ansa e veniva fissato da una parte e dall’ altra alla cute dell’ addome. Allo scopo poi di esaminare le proprietà del succo enterico fuori dell’ organismo, mentre l’ animale si trovava a un dato periodo della digestione, per un’ apertura dell’ ansa inietta acqua distillata calda e ne raccolsi il contenuto che usciva dal- l’altra. Finalmente sapendo come la /ilocarpina nel mentre aumentava straordinaria- mente la secrezione della saliva, delle lacrime, del sudore (1), dell’ orina, del sueco panereatico, produceva talvolta la diarrea, e pensando che questa diarrea si do- vesse a un aumento di secrezione del succo enterico, somministrai questo alcaloide (1) Fatto che io pure ho verificato nel cane stesso all’ ascella, all’ inguine, o nella pelle inter- digitale detergendola prima per bene con pannolini o lavaggi con acqua e sapone e poscia pro- sciugandola. — 525 — del Jaborandi a’ miei cani forniti di fistola. Il risultato superò la mia aspettazione, fu, sto per dire, splendido. L’' uso della Pilocarpina tanto iniettata direttamente nelle vene, quanto introdotta sotto la cute per mezzo di una siringa di Pravaz mi offerse il destro non solo di ripetere in migliori condizioni le prove surriferite, ma, ciò che più monta, di poter raccogliere del succo enterico purissimo in quan- tità più che sufficiente a compiere le digestioni artificiali. Secrezione del succo enterico e sue proprietà fisiche e fisiologiche. All apertura dell’ ansa intestinale di un cane posto sotto azione della Pilocar- pina si è osservato la mucosa da rosea diventar di color rosso vivo, turgida; e uscir fuori dapprima fiocchi di muco addensato, alcuna volta lunghi 2 fino a 4 e più centimetri, tinti in giallo carico, insieme a detritus epiteliale ed a liquido dello stesso colore. Dippoi comincia a fluire goccia a goccia e anche a getti un umore acqueo lesgermente opalino, che a poco a poco sì fa limpidissimo e incoloro, for- temente alcalino forse pel carbonato di soda, la presenza del quale viene dimo- strata coll’aggiungere poche goccie d’ acido cloridrico che producono sviluppo di gas. Esposto al calore di una lampada a spirito previa aggiunta di una goccia di acido nitrico sì ottiene un precipitato. Durante l’ azione della Pilocarpina in 35 minuti sì sono raccolti in una cassolina di porcellana posta sotto 1 apertura inferiore della fistola 14 c.c. di succo enterico, e nello spazio di un’ ora circa n° ebbi altri 18 grammi, e forse più se ne potrebbe ragunare protraendo la du- rata dell’ esperimento, ‘e, notisi, da un tratto d’ intestino non lungo più di 50 centimetri. Il succo enterico si è a noi offerto sempre alcalino. Non sarebbe quindi il caso di trattenerci a confutare 1’ opinione del Leven che lo ritiene decisamente acido (1) opinione d’ altronde ampiamente discussa e negata dal mio assistente Dott. Ravaglia nella sua tesi di Laurea (2). A testimoniare per altro a questo giovane egregio la mia gratitudine per l’ efficace, intelligentissima opera da esso prestatami nei molti anni in cui mi sono occupato di questo tema, mi compiaccio di riassumere i prin- cipali suoi ragionamenti ed esperienze all’ uopo istituite. Il Leven nella sopracitata Memoria scriveva che i fisiologi trovano il succo in- testinale alcalino, perchè nelle esperienze che eseguiscono fanno versare nell’ inte- stino insieme con quello, gli elementi fortemente alcalini del sangue; 1 alcalinità quindi non: è che un prodotto artificiale, non è che Vl effetto di quella specie di tortura a cui fu sottoposto l’ intestino. Ma il Ravaglia pur convenendo che il succo enterico ottenuto in ispecie coi metodi di Frerichs, di Bidder, Schmidt e Colin sia commisto a un trasudato mor- (1) LEven — Du Suc intestinal ecc. Académie de Médécine de Paris, 13 Octobre 1874. (2) RavagLia — Nota critica intorno all’ opinione che il succo enterico sia acido. — 526 — boso, che ne alteri la naturale composizione, non crede che per questo Ia sua rea- zione sia cangiata perchè altrimenti non si saprebbe comprendere come la mucosa gastrica, comungue tormentata ed irritata, dia sempre un secreto acido. D'altronde posto in infusione l' intestimo tenue alla maniera che consiglia il Leven, cioè alla determinata temperatura di 35 centigr. dopo averlo ben lavato con una corrente d’acqua e ridotto in minuzzoli, il Ravaglia non ne potè mai ricavare un liquido a reazione acida neanche in capo a parecchie ore, mentre il Leven lo dice già acidissimo dopo cinque minuti. Egli quindi ritiene che l acidità riscontrata dal Leven, checchè egli sostenga in contrario, debba provenire dal succo gastrico di- sceso dallo stomaco, o dal tramutamento entro l’ intestino stesso dello zuccaro in acido lattico o butirrico. E che verosimilmente provenga dallo stomaco, lo deduce dal fatto che le semplici lavature anche ripetute dell’ intestino, non valgono spesso a rimuovere quell’intonaco vischioso, denso che sta aderente alla mucosa del tenue, e che massime nelle sue prime porzioni, anche quando l animale è a digiuno offre reazione acida. Aperto infatti pel suo lungo il tubo intestinale di un cane subito dopo averlo sacrificato colla sezione del Bulbo rachidiano, potè osservare come il liquido che spalmava le sue pareti fosse acidissimo nel duodeno, e tale acidità scemasse man mano che si discendeva nel tenue, fino a diventare perfettamente neutro in prossimità del crasso. L’ opposto avrebbe dovuto accadere, secondo l' opi- nione del Leven, cioè l acidità, invece di scemare e scomparire nelle ultime por- zioni del tenue, crescere vieppiù aggiungendosi all’ acidità propria dello stomaco o da esso proveniente, quella che egli attribuisce al succo enterico. E si noti che l’ acidità era manifesta dove la bile colorava la superficie mucosa vale dire lungo tutto il duodeno e un po’ più sotto; e quindi non va attribuita alla bile stessa la reazione riscontrata nelle parti più inferiori, come non la si deve al succo pan- creatico perchè questo liquido pure si versa nel duodeno, dove eserciterebbe ogni suo potere. Non contento di ciò il Ravaglia, dopo di avere accennato al modo con cui Thiry ed io riuscimmo ad ottenere liquido intestinale puro e senza che l’animale nell’ atto della secrezione sia sottoposto a patimento di sorta, liquido che si offerse sempre di marcata reazione alcalima, fa ricorso ad uno sperimento molto conelu- dente, e che Bernard imaginò e instituì per il primo, al fine di determinare se l acido del succo gastrico era un prodotto delle glandole peptiche. Siccome il prussiato di potassa e il lattato di ferro combinandosi in un mezzo acido danno luogo ad una intensissima colorazione di azzurro carico (bleu di Prussia) iniettate queste due sostanze nelle vene di un eane e così portate in circolo, tin- geranno appunto in bleu quelle parti che naturalmete contengono dell’ acido. Con questo mezzo Bernard dimostrò che soltanto 1° estremità dei condotti glandulari delle peptiche, cioè quella parte che è rivestita di epitelio cilindrico rimaneva co- lorata, e concluse che quivi precisamente scaturisce l'acidità del succo gastrico. Ora se il succo enterico fosse acido, come il prodotto delle glandole peptiche si dovrebbero — 527 — colorare quelle del Lieberkiihn; anzi queste in modo più palese perchè non solo lo sbocco ma tutta la loro superficie interna è tapezzata da epitelio cilindrico. Il che l’ esame microscopico non rivelò mai al Ravaglia per l unica ragione che il succo enterico non è acido. Ai caratteri testè riferiti della secrezione fluida, trasparente, enterica, aggiungerò che mi è accaduto di osservare talvolta come si associ una discreta quantità di muco densissimo, da sembrare per la sua trasparenza umor vitreo, di reazione appena alcalina. In un esperimento fatto coll’assistenza dell’egregio Dott. Ignazio Buldrini, che quì ricordo con affetto e grato animo il 16 Luglio 1878 in un cane « digiuno da 18 ore, fu tale la secrezione e uscita del muco di color giallognolo, da una delle aperture dell’ ansa isclata, da convincerci proprio de visu che realmente in queste condi- zioni almeno la secrezione mucosa sia unica od al certo prevalente su quella del succo enterico. Le due secrezioni adunque di succo intestinale e di muco esistono distinte € non sono veramente gialle che allora quando hanno per alcun tempo soggiornato nell’ interno dell’ intestino. Potrebbe da taluno dubitarsi che il succo enterico raccolto in abbondanza men- tre l animale si trova sotto l'azione eccitatrice della Pilocarpina non sia in condi- zioni fisiologiche. Questo dubbio si è pure affacciato alla mia mente, ma ho fede di averlo con una decisiva esperienza interamente dileguato. È noto ai fisiologi che il succo pancreatico è I umore il più alterabile dell’ e- conomia; orbene per accertarmi se la Pilocarpina turbi in qualche modo le sue proprietà fisiche e fisiologiche, 11 24 Marzo ultimo alle ore 11 ant. in una grossa cagna che aveva mangiato da tre ore circa carne e pane in abbondanza, e bevuto a sa- zietà dell'acqua, ho praticato la fistola pancreatica col ben noto processo del Bernard. Lasciatala poscia alquanto in riposo, iniettai nella vena safena 2 centi- grammi di Cloridrato di Pilocarpina sciolto in 2 c.c. d’ acqua distillata. Immediatamente vidi fluire in abbondanza lagrime, gli occhi iniettarsi di sangue e dalla bocca colare saliva in copia, vischiosa, alcalina. Dopo 20 minuti dall introduzione della Filocarpina nel sangue si raccoglie dalla vescichetta di gomma elastica in cui s' immette il tubo d’argento introdotto nel con- dotto Wirsungiano 1 c.c. di succo panereatico. Dopo 35 minuti altri 6 c.c. e in altri 15 minuti 4 c.c., e così successivamente in 5 ore circa, un totale di 49 grammi. Questo era incoloro, trasparente, vischiosissimo, senza odore particolare, insipido e posto sulla lingua dava la sensazione tattile di una forte soluzione di gomma. Esposto al calore, o trattato cogli acidi azotico, solforico, o coll’ alcool, coagula pron- tamente in massa come se fosse albume d’ uova. Devìa a sinistra la luce polariz- zata. Ha reazione alcalina ben distinta. Mescolato nella proporzione di 2 c.c. sopra 1 c.c. d'olio d'oliva e agitato per bene si ottiene senz’ altro un’ emulsione completa, persistente. A questa azione emulsiva, immediata, alcalina, succede grado —- 528 — a grado la neutralizzazione e a capo di cinque ore l’ acidificazione del miscuglio, vale a dire lo sdoppiamento dell’ olio in acido oleico e glicerina. Cimentato colla fecola cotta idratata, se ne ha la riduzione quasi istantanea in zuccaro d'uva. Lo zuccaro di canna si converte in glucosio con reazione legger- mente acida da alcalina che era. Infine posti 25 grammi di succo pancreatico con un grammo di albume d’ovo coagulato in massa eppoi spappolato colle dita in un provino a bagno maria tra i 38° e 40° lo disciolgono completamente e il miscuglio si offre limpidissimo, senza alcun deposito. Dopo 60 ore di digestione, filtrato e convenientemente trattato coi reagenti ordinari si ricava la prova che la conversione in peptone dell’ albumina è piena ed intera. Il succo pancreatico adunque in copia da noi ottenuto coll’aiuto della Pilocarpina era in condizioni fisiologiche. Questo fatto mi conforta nell’ opi- nione che medesimamente avvenga per il succo enterico. Esperienze. Le molte sperienze da me fatte, che per ragione di brevità e per non ripetermi inutilmente non posso tutte riferire, si potrebbero dividere in due serie. In una verrebbero comprese quelle fatte col succo enterico ottenuto dalla fistola diretta- mente, o con iniezione di acqua. Nella seconda le altre in cui si raccolse il succo enterico mentre l animale si trovava sotto l’ azione eccitatrice della Pilocarpina o del suo cloridrato. Ne esporrò alcune soltanto dell'una e dell’ altra serie. Sulla fecola. Fecola cotta messa in un provino di vetro con succo enterico; agitato per bene il miscuglio e trattato poco dopo col reattivo cupro-potassico (del Bar- reswil o del Léevental) non dà segni di riduzione dei sali di rame, mentre la ri- duzione comincia a farsi palese se si ritenta dopo 20 o 30 minuti che questa so- stanza è stata trattenuta dentro l’ansa intestinale, o posta a bagno maria alla temperatura di + 38° a 40° centigr. in un recipiente che contenga succo ente- rico. Evidentissima poi riesce se il miscuglio è mantenuto nelle accennate condi- zioni più a lungo ancora. Questo fatto spiegherebbe per avventura le opposte sen- tenze degli sperimentatori, alcuni de’ quali negano, altri concedono al succo ente- rico la facoltà saccarificante ? Io ne sono convinto, e mi pare che questa lentezza nel trasformare la fecola in glucosio, diversamente da quel che operano il succo pancreatico e la saliva, stia in relazione col tempo relativamente lunghissimo che le sostanze alimentari impiegano a percorrere l’ intero tubo intestinale. \ Zuccaro di canna. Lo zuccaro di canna è quasi istantaneamente trasformato in glucosio dal succo intestinale. Questo fatto era stato già da me osservato prima ancora che l'illustre Bernard, che pure lo constatò, ne desse pubblica notizia. — 529 — Sui grassi. Il succo enterico mescolato coi grassi ne opera tosto una vera emulsione che. è palese anche a freddo e quando il succo enterico sia stato diluito con l acqua dell’ iniezione occorsa a far uscire dall’ ansa ciò che vi è contenuto. Alcune goecie d’olio poste a contatto di un cent. cub. di succo enterico sono prontamente emulsionate e mantenendo alla temperatura di 38° o 40° la reazione del miscuglio si conserva alcalina, poi diventa neutra e in capo a dodici ore e talvolta prima ancora, si fa acida. Esaminato il miscuglio dopo 2 giorni si ritrovò persistente l’ acidità del miscuglio che spontaneamente si era diviso in una parte liquida ed in una specie di materia solidificata galleggiante. Questo potere emulsivo dei grassi è più generalmente accordato al succo enterico, che lo sdoppiamento dei medesimi. Il Colin glielo nega nel modo più assoluto nelle seguenti parole: , Il opere » (il succo enterico) une espèce d’ émulsion des matiers grasses, sans toutefois leur s donner une réaction acide ., (1). Le mie esperienze sono in aperta contraddizione alla sentenza del fisiologo francese. Albuminoidi. La trasformazione degli albuminoidi per virtù del succo enterico è per me in- discutibile. Queste in breve le esperienze che me lo dimostrarono. Una piccola quantità di fibrina di sangue idratata introdotta nell’ ansa inte- stinale isolata di un cane non sottoposto all’ azione della Pilocarpina, dentro un sacchettino di velata e nella suindicata maniera dei due fili agli estremi op- posti dei sacchettini assicurati alla cute dell'addome, dopo 24 ore era interamente scomparsa. i In altro esperimento 50 centigr. di fibrina di sangue di bue messi in 10 c.c. di succo enterico e mantenuti a bagno maria a 39°, trascorse 24 ore sono per due terzi disciolti e il liquido rivela traccie di peptoni. In capo poi a 50 ore la fibrina è disciolta interamente e la presenza dei peptoni è marcatissima. Due cubetti di albumina coagulata del peso complessivo di 45 centigr. racchiusi dentro un altro sacchettino e portati nell'interno dell’ansa : dopo 24 ore si tro- vano rammolliti e scemati di volume, e dopo 48 ore il sacchettino è vuoto. Dell’ albumina coagulata in fiocchi e messa in tubi d’ assaggio che contenevano succo enterico estratto dall’ ansa isolata mediante iniezione d’ acqua distillata tiepida, dopo 25 ore sì mostra disaggregata e ridotta in fine granulazioni che precipitano in fondo al recipiente. Aggiuntovi cinque cent. cub. di succo enterico senz’ acqua e messo a bagno maria a 38° e spesso agitato si discioglie completamente il pre- cipitato e a capo di 58 ore, coi soliti mezzi si riconosce la trasformazione del- l albumina in peptoni. (1) Coin — Physiologie comparée ecc., Tom. I, pag. 651 TOMO II. 67 — 530 — Manifeste del pari sono le reazioni sopra le acceanate sostanze col succo ent:- rico ricavato in copia dietro l’ amministrazione della Pilocarpina. Ecco i risultati di alcune sopra gli i Albuminoidi (carne). 5 Aprile 1881. — Dopo l'iniezione sotto la cute dell’ inguine del cane operato il 3 Febbraio 1880 di 2 centigr. di Cloridrato di Pilocarpina sciolta in 2 c.c. d’ acqua distillata, si sono introdotti alle 12,51 pom. nell’ ansa fistolare, 35 centigr. di carne cruda alla profondità di centimetri 10. Quindi sì sono iniettati nell’ ansa stessa 10 grammi d’ acqua distillata. Alle 4 *% messo a terra l’animale il pezzetto di carne esce spontamente dalla fistola, evidentemente diminuito di volume. Asciugato e pesato si trova ridotto a 27 centigr. Si rimette con 10 c.c. di succo enterico raccolto dall’ansa medesima a bagno maria alla temperatura di 39° a 40° e vi si mantiene 72 ore, in seguito alle quali il miscuglio si rende trasparente. Non coagula più al calore di 106°. Non dà pre- cipitato cogli acidi cloridrico e azotico. Con quest’ ultimo e alcune goccie di am- moniaca assume un color ranciato. Coll acido acetico non dà alcun precipitato, neppure col solo prussiato di potassa, ma con entrambi sì. T Aprile alle 12,30. — Si introducono mediante una sonda elastica nella fistola del cane operato il 21 Febbraio 1879, e dopo l'iniezione sotto la cute di 2 centigr. di Pilocarpina sciolti in 3 c.c. d’acqua distillata, 50 centigr. di albumina coagulata eppoi spappolata colle dita. Alle 5 per mezzo di una stantuffata d’ acqua sì estrae il contenuto dell’ ansa. Filtrata e riscaldata una parte del miscuglio s' inalba. Aggiuntevi poche goccie d’ acido acetico tosto ritorna trasparente. Messa la rimanenza a bagno maria e alla solita temperatura di 39° a 40° dopo 60 ore circa la conversione dell’ albumina in peptone è ampiamente dimostrata con tutte le reazioni caratteristiche e a più riprese. Caseina. Prima di esporre le esperienze fatte con questa sostanza, è necessario che io faccia noto come nel succo enterico abbia riconosciuto una proprietà non prima da altri indicata. Il succo enterico precipita la cascma dal latte in modo istantaneo, benchè come abbiamo notato fortemente alcalino. Mescolando infatti del succo en- terico col latte, questo tosto si coagula in fiocchi e in guisa anche più manifesto quando si renda trasparente il miscuglio aggiungendovi dell’acqua. Che se poi si introduce nell’ ansa intestinale isolata per una delle sue aperture, si vede uscir dall’opposta il latte rappreso; meglio anche se ne venga prolungato il contatto, chiu- dendo per poco colle dita le due aperture dell’ ansa stessa. Il succo enterico adunque è fornito della proprietà di precipitare la caseina dal latte, come la pepsina, colla differenza peraltro che questa dev’ essere in soluzione —. 531 — acidula, mentre il succo enterico produce tale un fatto sebbene alcalino. Questa la ragione, a mio avviso, del vantaggio che si ottiene nell’ alimentazione artificiale con clisteri di latte, dappoichè anche nell’ intestino vi è I’ elemento necessario per la modificazione preliminare (1) alla digestione della caseina, cioè per la sua coagu- lazione (2). Esperimento 11 Aprile. — Nel cane che servì all’ esperienza precedente, si fa la solita iniezione sotto-cutanea all’ inguine di 2 centigr. di Pilocarpina sciolti in 2 c.c. d’acqua. Poco dopo si ha salivazione abbondante e lacrime. Applicata all’apertura inferiore dell’ ansa una cassolina di porcellana si raccolgono in meno di 10 minuti 4 centigr. di succo enterico. In questo frattempo l’ animale prova forti borborigmi e posto in libertà per agevolargli l’ emissione dell’ orina di cui aveva piena la vescica, espelle con essa feci diarroiche a più riprese ed è colto da vomito. Notisi che si è fatta l’ iniezione della Pilocarpina subito dopo che l animale aveva mangiato zuppa di latte, il che fa credere che sia miglior partito di operare alcune ore dopo il pasto, come s'era fatto sempre e si fece di poi. Lasciato riposare alquanto l’ animale lo si rimette sul tavolo delle operazioni e si dà mano a raccogliere altro succo che fluisce ancora goccia a goccia limpido e alcalino. Si aggiungono altri 10 c.c. ai 4 dapprima ottenuti e si uniscono, agi- tandone per bene il miscuglio, con un decigramma di caseina preparata di fresco, dal latte con acido acetico, resa neutra mediante la lavatura coll’ acqua e prosciu- (1) Questa coagulazione preliminare della caseina faceva dire a J. J. Rousseau on marnge du lait, et on diyère du fromage. (2) Mi si potrà osservare che i liquidi introdotti per l’ ano non possono arrivare fino al tenue trattenuti come sono ne) crasso dalla valvola ileo-cecale; ma anche nel crasso ci sono delle glan- dole secretorie del succo enterico in grande abbondanza. Infatti da uno stupendo esemplare mi croscopico datomi a studiare dall’ esimio amico prof. Ciaccio, la struttura del crasso nel cane ri- sulta composta : i i 1° dalla mucosa propriamente detta, costituita di glandole di Lieberkiihn disposte a perpen- dicolo l'una vicina all’altra talmente che pare la mucosa essere al postutto fatta dalle suddette glandole. Il tessuto che separa e insieme unisce le glandole di Lieberckilhn è in poca quantità secondo tutte le apparenze di natura adenoide (tessuto connettivo, reticolato degli istologi mo- derni); Ciascuna glandola d’ ordinario è fatta di un tubo semplice il quale all’ estremo suo cieco as- sal di rado e per breve tratto, appare sì partisca in due. I villi mancano del tutto. 2° dopo la mucosa viene quello strato muscolare che è proprio di essa (muscolare propria) il quale strato si compone di due ordini di fibre, fibro-cellule muscolari, l'interno circolare, l’ e- sterno longitudinale; 3° del tessuto connettivo sotto mucoso, che forma uno strato anzichè no grosso, per dove cor- rono vasi sanguigni, nervi, linfatici, e nel quale a distanza irregolare si osserva impiantato qual- che follicolo solitario; ciascuno di questi follicoli pare, che sia separato da tessuto connettivo sotto mucoso, mediante un suclo di connettivo più denso che fa l’ ufficio d’ involucro ; 4° della muscolare propria dell’intestino, la quale è fatta di due strati di fibro cellule mu- scolari, l'interno circolare più grosso, 1’ esterno longitudinale un poco meno; 5° della sierosa. — 532 — gata. Dopo 56 ore di bagno maria da 38° a 40° si filtra il miscuglio che del resto non è torbido affatto e sl espone frazionato : 1° all’ ebullizione sopra i 100°, nessun precipitato ; 2° trattato coll acido acetico nulla, anche se portato alla bollitura ; 3° coll’ acido nitrico, nessuna precipitazione ; ingiallisee, e coll’ammoniaca as- sume il color di arancio ; 4° col bicloruro di mercurio, precipitato bianco abbondante ; col reattivo del Millon, precipitato bianco, invece del giallo come negli albu- minoidi non trasformati, che esposto al calore si fa rosso di pesca, poi rosso carico; IO 6° col prussiato giallo di potassa, nessuna precipitazione ; aggiuntovi qualche goccia d’ acido acetico, precipitato abbondante; 7° coll’ acido tannico, inalba. d Ho già accennato a qualche discrepanza che regna tra i fisiologi intorno alle proprietà del succo enterico. Per tacere di altri basterà quì ancora ricordare come Ludwig e Thiry dalle osservazioni fatte sui cani felicemente operati col metodo di quest’ ultimo, siano venuti alle seguenti conclusioni. Il succo enterico non possiede per sè stesso la proprietà : a) di emulsionare i corpi oleosi ; b) di trasformare l amido in zuccaro; c) di disciogliere la caseina, l albumina e la carne, ma bensì una certa quantità di fibrina solida. Le quali conclusioni essendo appoggiate sopra un metodo sperimentale serio, sono state ammesse come esatte da molti autori moderni e fra gli altri dal Kiihne. Schiff, di poco variando, come si è detto, la maniera di sperimentare del Thiry, ha ottenuto dei risultati molto incerti, perchè non costanti. Così a volta avrebbe veduto : 1° piccoli pezzi di albumina, di caseina fresca, di fibrina, di sostanza mu- scolare, cotta o cruda essere ben disciolti nella fistola; 2° l’amido trasformarsi vapidamente in zuccaro, e il potere diastatico parere poco inferiore a quello della secrezione pancreatica ; 3° il secreto normale emulsionare un poco le sostanze grasse. Altra volta invece non gli riuscì di ottenere la digestione della caseina, o questa avvenne incompleta. Finalmente gli occorse di non avere trasformazione della salda d’ amido, e di ottenere invece lo scioglimento della legumina, e lentamente della fibrina. Così la carne cruda, che talora discioglievasi completamente, tal’ altra la vide rammollirsi soltanto. E fu allora che l'illustre Fisiologo non potendo offrire conclusioni nette e precise, dichiarò, come dissi sin da principio , essere meglio aspettare ancora » dei nuovi fatti per spiegare la causa delle irregolarità ,. Non male adunque si apponeva chi scrisse , intorno al succo enterico essersi | — 533 — , avuto fin quì più presto opinioni che dimostrazioni ,. E il motivo, secondo me, stà riposto nel modo di condurre lo esperimento. Abbiamo veduto infatti come per osservare una completa trasformazione delle varie sostanze alimentari sia necessario che esse rimangano a contatto con una sufficiente quantità di succo enterico per un tempo più o meno lungo. Ora può darsi benissimo che tale indicazione non abbiano osservato i summentovati sperimentatori, e perciò talora o sempre sia loro sfuggita qualcuna delle sue proprietà fisiologiche. Posso io lusingarmi di averle tutte intravedute? Spero di sì: ad ogni modo sono persuaso di aver trovato la via che scioglierà ogni questione e permetterà di dir presto l’ ultima parola sulla virtù digerente del succo enterico. Intanto prima di chiudere mi restano due punti da trattare. Il modo intimo di agire del succo enterico sulla fibra carnea, e i fenomeni che avvengono a lungo andare nell’ ansa intestinale isolata per la fistola. Per entrambi questi punti le mie osservazioni parmi siano assai concludenti. Esaminato al microscopio il deposito che stava in fondo al recipiente dell’ esperimento del 5 Aprile sulla carne in digestione da alcune ore, si ri- conobbe che, mentre il tessuto connettivo e il perimisio del muscolo sono ancora intatti, e nuotano nel miscuglio ammassi di esso e di fibre elastiche, la fibra carnea è in via di scioglimento. In alcune di queste è notabile una specie di corrosione periferica, intatta rimanendo la parte di mezzo colle striature caratteristiche della fibra muscolare volontaria. E sopratutto mi colpisce la presenza di una vera guaina ola interamente vuota, spiegazzata di tessuto connettivo con qualche fibra elastica, g priva di fibra carnosa. La digestione pertanto della carne dal succo enterico si fa in modo opposto a quello del succo gastrico il quale fin dal primo atto della digestione gonfia e distacca il tessuto connettivo ed il perimisio, lasciando integra la fibra carnea, tal- mente che il celebre Bernard aveva creduto che l azione del succo gastrico si li- mitasse a questa operazione preparatoria, simile a quella dei liquidi acidulati, e che la parte muscolare fosse poi dal succo pancreatico disciolta e digerita. La qual cosa per altro non è; infatti protraendo l’azione del succo gastrico dopo il connettivo, attacca la fibra carnea. Rispetto al succo enterico convien dire che esso operi nell’ identica maniera del succo pancreatico. AI secondo punto dianzi indicato risponda il seguente specchietto, e 1’ esame delle Fig. IX e X. Ansa continua col resto deli’ intastino Ansa isolata Lume delle anse intestinali . . . î 3 più ristretto. Erre eg, si i più grosse. alle n. n da più raccorciati. Strato delle glandole del Lieberkiihm si si della medesima grossezza. Muscolare propria della mucosa. . 7 F più grossa. Strato delle fibre muscolari . . . 8 a della medesima grossezza. demrdelie*trasverse Padre 7 la È 7 meno grosso. n delle fibre longitudinali . . 2 i più grosso. — 534 — Come risulta lo strato glandulare nelle due anse si mantenne inalterato. Dunque vera atrofia non si può dire che esista. Del resto se vera atrofia fosse avvenuta nelle porzioni d’intestino delle anse iso- late, non avrei potuto dalle medesime ottenere la quantità talvolta notabilissima di succo enterico, segnatamente coll’ uso della Pilocarpina, avente proprietà digestive così manifeste. Debbo per altro notare che appena le condizioni degli animali da me operati lo permettevano, per solito cominciava le iniezioni giornaliere di. latte o di brodo nell’ ansa stessa, ed in alcuni le ho proseguite per mesi e anni vale a dire durante il tempo che furono conservati in vita. In questa che servì al pre- parato microscopico le iniezioni da più di tre mesi erano state sospese. Ed ora venendo a riassumere quanto è stato sin quì ampiamente esposto, parmi sì possa concludere : 1° che il metodo da me seguìto per praticare la fistola intestinale è quello che meglio di qualunque altro serve allo scopo di ottenere succo enterico puro; 2° che la riuscita del medesimo è dovuta al genere di cucitura colla quale ristabilisco la continuità dell'intestino, da cui fu tolta l’ansa, nonchè alla narco- tizzazione profonda dell’ animale per mezzo del Laudano iniettato nelle vene, la quale narcotizzazione sospendendo per un certo tempo i movimenti dell’ intestino, ne favorisce la riunione ; 3° che l uso della Pilocarpina induce una maggior secrezione di succo ente- rico e permette di poterne raccogliere in quantità sufficiente a istituire vere dige- stioni artificiali; 4° che il succo enterico ottenuto in seguito all’ amministrazione della Pilo- carpina non è in alcuna guisa alterato, come si può dedurre dal fatto che gli esperimenti eseguiti col medesimo, non differiscono sostanzialmente da quelli che eseguii prima di usare la Pilocarpina; come pure, e in specie dal fatto che il succo pancreatico, benchè facilmente alterabile, che si ricava dietro l’uso di questo alealoide, conserva tutte quante le proprietà fisiologiche che gli vengono concor- demente attribuite ; 5° che il succo enterico possiede la speciale proprietà di coagulare la caseina del latte, benchè alcalino; 6° che senza alcun dubbio opera la trasformazione della fecola in destrina, ed in zuccaro d’ uva, e dello zuccaro di canna in glucosio; che emulsiona e sdoppia i grassi, e finalmente digerisce gli albuminoidi peptonizzandoli ; 7° che la sua azione sopra le differenti specie di alimenti, quantunque, e segnatamente per alcuni di essi, più lenta, non è meno sicura e completa di quella che rispettivamente compiono la saliva, il succo pancreatico e il succo gastrico; — 535 — 8° che nei cani opera sulla carne non alla maniera del succo gastrico, scio- gliendo l’ involucro connettivo della fibra carnea, per poi a sua volta digerire anche questa, bensì (e in ciò somiglia al succo pancreatico) disaggregando e sciogliendo prima la carne, e lasciando intatto il perimisio, che per altro più tardi viene esso pure digerito : 9° che l’ ansa dell’ intestino isolata, che si ritiene atrofizzarsi, offre invece inalterato lo strato glandolare, elemento essenziale perla secrezione enterica, men- tre gli altri strati rimangono o del tutto immutati, o con leggiere modificazioni compensate da maggiore sviluppo in altri punti. si pae ra La & Re TREAT È rele e Ù t MOR) vi i DICHIARAZIONE DELLE FIGURE A Fig. I. — Metodo per raccogliere succo enterico secondo Colin. C Ansa del tenue isolata mediante i due compressori A, 5. Fig. II. — Fistola intestinale secondo Thiry. a, a Parete addominale. c, c Ansa intestinale staccata dal resto dell’ intestino tenue, chiusa mediante sutura nell’estremo 0, e fissata nella parete addominale coll’estremo «. i, s, s Intestino con la cicatrice circolare ©, risultante dalla riunione dei mon- coni cefalico e caudale dopo l escissione dell’ ansa. m, im Mesenterio co’ suoi vasi. Fig. III. — Fistola con la modificazione Vella. a Parete addominale. c, c, c Ansa intestinale staccata dal resto dell’intestino tenue e fissata alla pa- rete addominale colle due estremità aperte d, e. i, s Intestino con la cicatrice circolare v risultante dalla riunione delle due superficie sotto-mucose dei monconi cefalico e caudale dopo tolta 1 ansa. c, m Mesenterio coi suoi vasi. Fig. IV. — i Moncone cefalico. s Moncone caudale dell’ intestino, di mezzo al quale è stata tolta l’ansa da iso- larsi. v Mucosa estroflessa. v Mucosa escisa con la forbice. Fig. V. — <, s Monconi d’ intestino come sopra. a Filo che ha incominciato la sutura a filzetta. b Ago destinato a continuare la seconda sutura a cavalletio. Fig. VI — » Solco cicatrizio interno corrispondente al punto di riunione dei due estremi di mezzo ai quali fu tolta l’ ansa da isolarsi. Fig. VII. Schematica — Rappresenta la posizione delle tonache dell'intestino. m Cercine esterno formato dalla peritoneale e dalla muscolare, e il luogo dove fu abrasa la mucosa. a Cavità dell’ intestino. b Tonaca peritoneale. c Tonaca muscolare. TOMO II. 68 —- 538 — d Mucosa. s Luogo ove l'intestino fu reciso. Fig. IX. e X. — Le lettere hanno la medesima significazione nelle due figure. V Villi. G, L Glandole di Lieberkiihn. M, P Muscolare propria della mucosa. F, T Fibre circolari della medesima tagliata per traverso. F, L Fibre longitudinali. T, S Tessuto connettivo sotto-mucoso. S Vaso Sanguigno. £, M, C Fibre muscolari circolari tagliate di traverso. I, M, L Fibre muscolari longitudinali. Le due figure furono ricavate coll’ aiuto del prisma del Govi da esemplari mi- croscopici di anse intestinali indurite nell’ alcool e di poi i tagli fatti, colorati col carmino e chiusi nel balsamo del Canadà.. L'ingrandimento delte figure è il medesimo H : tubo del microscopio niente allungato. Lit. 0. Wenk. Tele=zlavidi (Bettini dis‘inpietra Tom. IL a G.Ravagli a dis‘dalvero Mem Ser 4 = : - = EH 5 3 = "© ea ij RI = i = o cà wai — = (I) a E ci . S + S © "a nm S E 5 g 3 si = ES Lit. GWenk IL Vella-Tav. IH m C.Bettini inc. ITER Di A Ie Mem Ser 4% Tom IT. ® Gregori dis° A : À b - eZ ii E ZI - IA z m e snc - di ta, oa e =r—t6m6——_—m_————P—TT@-=&@r——_—_——__1@tm@t@1@@t1@.—@———@@t@’@—@—@"@ _____t__—__—_—_______t-m___t_T#= += - * += * * - }+=-à==* * = <=*=-# = = 2 --. - === —— = ESTIAPAZIONE DI UN' MICA INTRAUTERINO PER MEZZO DELL’ANSA GALVANOCAUSTICA NOTA DEL DOTT. ERCOLE-FEDERICO FABBRI (Letta nella Seduta del 3 Marzo 1881). IMustri Accademici ! Il principale argomento sul quale verserà il presente mio discorso, è di indole al tutto pratica, avendo io in animo di esporvi, la storia di un tumore miomatoso, chiuso dentro il corpo dell’ utero, e aderente al suo fondo, tumore, che io giunsi ad estirpare per mezzo dell’ ansa galvanocaustica. Un argomento così umile, non sarebbe certo proporzionato alla dignità del- l'Accademia, usa a questioni scientifiche di alto rilievo; ma tuttavia, mi fo avimo a trattarlo, sperando che le difficoltà del caso, e alcuni nuovi artifizi chirurgici, da me all uopo usati, valgano a renderlo meno indegno della Vostra benevola indulgenza. La contessa Elisa P. di Montalto, signora robusta e di circa 34 anni, è il sog- getto di questa storia. Mestruata per la prima volta a 12 anni, continuò ad esserlo per cinque mesi regolarmente; quindi per altri 10 mesi le mancò affatto il tributo mensile. Alla fine di questo tempo, insorse, quasi mestruazione vicaria, un’ abbondevolissima ri- norragia per ben tre sere, la quale cessò dopo un piccolo salasso fatto al destro braccio; e il giorno appresso apparve regolare mestruazione, che più mai non mancò, e fu per più di due anni regolarissima. Nel principio del sedicesimo anno, la me- struazione, fu due o tre volte non poco dolorosa, e se ne accagionarono forti di- spiacenze patite dalla signora, durante il mestruo. — A 16 anni e mezzo, andò a — 540 — marito, e nel primo anno di matrimonio, non ebbe che insignificanti disturbi del- Y apparecchio generativo. Ma dopo quel primo anno, cominciò ad avere qualche gemitìo sanguigno ogni qual volta giacesse col marito, e le mestruazioni divennero abbondanti e dolorose non poco. — Queste dismenorree e menorragie, si fecero ogni volta più gravi, e si aggiunse uno scolo sieroso, che da prima, precedeva e seguiva di pochi giorni le mestruazioni, ma da sei anni, era divenuto continuo, e sì copioso, da obbligare la signora a cingere sempre il riparo. —. Da tre anni, le ‘mestruazioni sì ripetevano ogni 15 giorni, e raggiugevano, pel dolore, il grado di violenti coliche uterine; e duravano otto o dieci giorni, sì che la infelice signora, ne rimaneva libera solo per pochi dì, e la sua vita era così divenuta penosissima e oltremodo compassionevole. Invano eransi tentate molte e varie cure, per veder modo di far scemare sangue e dolori. La segale, mentre accresceva le doglie, eccitando e ringagliardendo le contrazioni, non moderava l’ emorragia, anzi facevala crescere. Fra i sedativi poi, solo il cloralio dato per clistere in dose di due grammi, erasi mostrato efficace a moderare le coliche mestruali. Nell Agosto del 1878 il ch.mo prof. Murri, visitando la nostra inferma, faceva diagnosi di mioma intrauterino, e la consigliava a venire in Bologna per sottoporsi a cura chirurgica. Sul finire dell’ autunno, essa quì si recava, e il prof. Murri ebbe la gentilezza di condurmi a lei e di cedermene la cura. La signora trovavasi allora, sul principio di un periodo mestruale, e per questo, subito nella prima visita, mi fu agevole confermare la diagnosi già fatta dal Murri. Difatto, notai alla regione bassa dell’ imo ventre un tumore mediano, leggermente inclinato a destra, mobile, che in forma di largo ovoide regolare e liscio, col mas- simo diametro longitudinale di circa 15 centimetri, si estendeva dall’ ombelico fino entro la pelvi. La sua consistenza era traente al molliccio, ma nel palparlo, fa- cevasi duro, e in pari tempo, la signora provava una doglia, il che mostrava chiaramente, che il tumore era vestito di involucro contrattile. Introdotto 1’ indice in vagina, col palpamento bimanuale mi fu agevole conoscere che il tumore altro non era che l utero ingrossato, ma quel che più monta sentii il collo disfatto, l orificio esterno aperto, del diametro di due centimetri, e sentii far leggiera spor- genza nel suo vano un tumore liscio e alquanto molle; e potei alcun poco, fra esso e il margine dell’ orifizio, insinuare in giro l apice del dito. Cessata la me- struazione, che fu al solito copiosissima e dolorosissima, il tumore rapidamente e notevolmente diminuì di volume, sì che non si elevava più che 8 centimetri al disopra del pube, e l’orifizio uterino si chiuse e il collo si ricompose, sì che non si poteva più toccare col dito il tumore ritiratosi al disopra del collo. I sintomi fin quì esposti e la lunga durata della malattia chiaro dimostravano che trattavasi di tumore entro il corpo dell’ utero e di natura benigna, cioè di un mioma. Rimaneva poi indeciso, se l’ essere apparso il tumore all’ orifizio esterno durante la mestruazione, denotasse una tendenza alla graduata e lenta escita — 541 — di tutto il tumore dall’ utero (come accade quando il tumore, è fornito di un pe- duncolo che cede allungandosi) o se invece si trattasse di uno di quei tumori fi- brosi, che essendo sessili, e tali conservandosi, non vengono mai espulsi, e solo tratto tratto, e sempre nello stesso grado, si affacciano all’ orifizio esterno; tumori che da O. Larcher furon detti fibromi intrauterini ad apparizioni intermittenti (1). Per compire la diagnosi, era necessario inoltre indagare, se il mioma era pian- tato nella superficie interna dell’ utero con vasta o stretta base, ed a quale parte di questa superficie esso era aderente. — Non potendo neppure in quei periodi nei quali il collo era disfatto, e l utero aperto, eseguire così fatto esame col dito, era d’ uopo farlo colla sonda uterina. Più volte tentai di introdurre la sonda ute- rina comune quando il collo era ristretto, e sempre essa impuntava in ostacoli insormontabili poco più oltre l’ orifizio interno. Tentai la prova sul finire di una mestruazione, quando il collo e l’orifizio esterno erano dilatati, e fui poco più for- tunato, perchè a stento, e con movimenti di va e vieni e leggermente rotatori, potei insinuarla alquanto lungo le faccie postero-laterali, nè potei da quelle regioni condurla in giro attorno al tumore. Tentando di insinuarla direttamente ai lati, 0 lungo la faccia anteriore, ogni tentativo era vano. Jo sospettai allora, che le difficoltà che si presentavano a fare procedere la sonda, fossero dipendenti dalla rigidezza della sonda medesima, e provai, ma in- vano, una sonda elastica. Finalmente, per le ragioni che fra poco dirò, feci co- strurmi una sonda, la cui estremità fosse foggiata a spatola alquanto grossa e ot- tusa, a modo dell’ apice di un dito schiacciato. Con questa sonda, io raggiunsi per- fettamente il mio intento: e di fatto, io potei insinuarla con agevolezza tanto lungo la parete posteriore, che lungo le pareti laterali e I anteriore, e così potei assicu- rarmi che il tumore era libero in giro lungo tutta la sua lunghezza, e aderente perciò al fondo dell’ utero. Era quindi stabilito che il tumore poteva essere estir- pato; non però agevole al certo mi appariva l'estirpazione di questo tumore, con- siderato il caso in sè stesso. E di vero, se è sempre indaginosa l'estirpazione di polipi fibrosi aderenti al corpo dell'utero quando anche in gran parte sporgano dall’utero, e quando anche si possano introdurre quattro dita in vagina per dominare il tu- more e dirigere gli strumenti verso il peduncolo, indaginosissima e penosissima doveva riescire in questo caso nel quale il tumore grosso circa come un uovo d’ oca e aderente al fondo dell’ utero era tutto nascosto entro questo viscere, e la vulva e la vagina di donna che non aveva mai partorito a grande stento avreb- bero pututo permettere l introduzione di due dita. Queste difficoltà, mi fecero pren- dere il partito di attendere, per vedere se il tumore in processo di tempo, si fa- cesse procidente in vagina in totalità, o almeno nella sua massima parte, nel qual ‘caso, grande porzione della sua superficie avrebbe potuto essere dominata dal dito e si sarebbero potuti guidare gli strumenti con sicurezza e qualche facilità verso (1) — Traité élementaire de Chirurgie gynecologique par le dott. A. Leblond. Paris 1878. ia — 542 — il punto di inserzione del tumore (1). — Ad agevolare questa escita del tumore, feci due profonde incisioni laterali al muso di tinca, le quali, benchè cicatrizzan- dosi non rimanessero in tutta la loro profondità beanti, tuttavia contribuirono a mantenere stabilmente e sensibilmente più aperto l’orifizio uterino; e per sollecitare l utero alla espulsione desiderata del tumore, mi decisi di amministrare metodica- mente della segale cornuta. In questa guisa scorsero aleuni mesi, e devo confessarlo, senza vantaggio di sorta; poichè si ripeterono con eguale intensità e frequenza le dismenorree e le menorragie; e il tumore, ad ogni periodo mestruale, continuò ad affacciarsi attra- verso il collo e l orifizio esterno, ma sempre al medesimo grado; e cessato il detto. periodo, tornò pur sempre il tumore a ritirarsi entro la cavità del corpo. Il ripe- tersi del qual fatto sempre identico, chiaro mostrava che il tumore era sessile, o: munito di cortissimo peduncolo, che non lasciavasi distendere od allungare (2). Vedendo allora, riuscite vane queste mie cure, e lo stato della Signora richie- ddendo soccorso più a lungo non indugiato, mì decisi all’ estirpazione del tumore. I mezzi che mi sì paravano innanzi, per giungere a questo scopo, erano: la torsione, come suole usarsi per piccoli polipi mucosi, lo schiacciamento per mezzo dell’ écraseur o del serra-nodi, la recisione per mezzo dell’ ansa galvanocaustica. L’ impossibilità più volte mentovata, di dominare il tumore col dito, e lungo questo, guidare in alto gli strumenti fin verso il peduncolo del tumore, mi pareva dovesse rendere estremamente difficile per non dire impossibile l uso degli stru- menti ad ansa. Mi decisi dunque di tentare la torsione del peduncolo, la quale da poco era stata decantata dall’ Enger, anche pel caso di miomi poliposi di sufficiente grossezza (3). A tal uopo, imitando 1 Enger, mi feci costruire una tanaglia somigliantissima a quella che si usa dai chirurghi per estrarre la pietra, munita però di un apparecchio a punti di arresto. Per introdurre questo strumento era però d’ uopo avere il collo uterino disfatto, e l’orifizio dilatato; sarebbe dunque stato necessario eseguire il tentativo di opera- zione, sul finire di una mestruazione, come sembra corrivo a concedere il dott. Leblond (4). Confesso però, che questo momento non mi pareva il più opportuno: (1) I ginecologi sono in genere concordi nel riconoscere queste difficoltà; mi contenterò di ci- tare lo Sehròder che così si esprime: « Quando il polipo è ancor chiuso nell’ utero, e non lo si può raggiungere che dilatando il collo uterino, è difficile e pericoloso l’estirparlo benchè esso sia piccolo. Non si proceda dunque all’ estirpazione che quando gravi sintomi lo impongano; altri- menti si aspetti finchè natura ed arte abbiano fatto discendere il polipo in vagina ». Handbuch der Krankh. der weibl. Geschlechtsors. Leipzig. 1874, p. 251. (2) Durante le mestruazioni io sospendeva i uso della segale perchè mi era persuaso che real- mente essa rendeva più grave la perdita sanguigna; il qual fatto dipendeva senza dubbio da ciò che la punta del tumore, affacciandosi all’orifizio esterno, rimaneva priva della pressione che sul resto del tumore esercitavano le pareti uterine, e quindi, durante le contrazioni ad essa punta. gran copia di sangue era spinta dal resto del tumore. (3) ErunceR — Archiv. fir Gynakologie, B. 14, p. 171. (4) Opera citata. — 543 — «e di fatto, in questo periodo il tumore solea, come ho già detto, aumentare rilevan- temente di volume, e accrescere così le difficoltà; ma quello che più monta, questo periodo va congiunto a grande flussione sanguigna dell’ utero e dei suoi annessi, e senza fallo è perciò stesso il periodo nel quale più facilmente avvengono emor- ragie uterine dalla lacerazione della mucosa e dai vasi del peduncolo resi beanti per lo strappamento; e per la flussione sanguigna è il periodo nel quale più facil- mente avvengono infiammazioni degli organi generativi. Per questo mi decisi di operare fra un periodo mestruale e l’ altro; e per avere la desiderata dilatazione del collo e dell’ orifizio esterno, pensai di eccitare le contrazioni uterine, per mezzo di uno zaffo elastico vaginale, come suolsi usare per eccitare il parto prema- turo. Questo artifizio mi riescì a meraviglia; e ottenuta così la dilatazione e la discesa del tumore come durante la mestruazione, applicai la tanaglia, introducendone le due branche separatamente una a destra, l altra a sinistra del tumore; e articolandole potei fare buona presa nel tumore stesso. Im- primendo allora all’ istrumento, un moto di rotazione verso destra, mentre un assistente fissava all esterno l’ utero, perchè non rotasse insieme col tumore, mi accorsi che quest ultimo cedeva ai movimenti di rotazione, seguiva cioè lo stru- mento nel movimento rotatorio; ma fattogli fare poco più di un mezzo cerchio, la malata venne presa da tale malessere, da tale profondo abbattimento nella fiso- nomia e nei polsi, da mostrarsi in preda ad un imcipiente esaurimento nervoso. Mi arrestai adunque, e lasciati scorrere alcuni minuti di riposo, tentai di nuovo la torsione; ma anche questa seconda volta si ripetevano gli stessi fenomeni di indicibile malessere, e di abbattimento gravissimo, di guisa che mi fu d’uopo desi- stere dall’ impresa. L’ ammalata rimessa supina in letto, e confortata con qualche mistura eccitante, si riebbe in poco d’ ora, e nessun accidente funesto ne seguì. Lasciato che passasse il nuovo periodo mestruale, e di nuovo ottenuto col- lo zaffo vaginale, la dilatazione del collo, mi accinsi ad altro tentativo. In quei dì, io aveva lette (1) le importanti storie di estirpazioni di miomi intrauterini operate dal chiar. Morisani per mezzo della pinzetta del Rizzoli, da lui alquanto modificata per poterne con agevolezza introdurre nell’ utero una branca alla volta, e per potere col suo apice più allungato e più curvo, raggiungere il fondo dell’ utero. fo avevo allora pregato il Morisani di inviarmi questo strumento, e avutolo dalla squisita gentilezza di lui, ne feci la prova. — Introdussi con certa facilità una dopo l’altra le due branche dello strumento e le articolai; ma per quanto spin- gessi l apice della pinzetta in alto, non mi fu mai dato di far presa sul pedun- colo del tumore. Anche questo tentativo erami dunque fallito. Non mi rimane- vano perciò a tentare che gli strumenti ad ansa. Quanto all’ écraseur, uno strumento così massiccio e che, sebbene munito del porta-ansa di Sîms, ha pur bisogno di essere guidato dalle dita alquanto in alto (1) Annali di Ostetricia. etc. Vol. 1° pag. 449 e 520. — 544 — verso il peduncolo, non poteva neppur pensarsi di applicarlo colle angustie del caso nostro più volte discorse; ma anche non tenendo conto di queste particolari difficoltà, confesso che applicandolo nel caso di polipi sessili io temerei troppo il difetto gravissimo che pur gli è proprio di attrarre talvolta e schiacciare parte del tessuto dal quale nasce il tumore; temerei cioè che mi si ripetesse il funesto caso del Tillaux il quale, estirpando un fibroma coll’éeraseur, fece nell’utero una lacerazione penetrante nell’ addome, e perdè la malata di per:tonite (1). Rimaneva dunque da tentare il serranodi armato di sottile filo di ferro rincotto. Anche questo pareami a tutta prima dovesse urtare contro difficoltà insormon- tabili, atteso la specialità del caso, ma stretto dalla necessità pensai ad un espe- diente abbastanza facile, che mi riuscì appieno e che descriverò fra poco parlando dell’ansa galvanocaustica. Con questo espediente, mi fu dato di applicare l’ansa di filo al punto d’ inserzione del tumore, e presa a stringere l’ ansa giunsi a un grado rilevantissimo di costrizione, che io conobbi dalla lunghezza delle gambe dell’ansa, che a poco a poco io era riuscito a trar fuori dell’ apertura inferiore del serra-nodi. Procedendo allora più oltre, per produrre la lenta sezione del peduncolo, a un tratto udil uno scroscio che mi rese certo della rottura del filo; e di fatto, ritirato senza difficoltà lo strumento, trovai rotta la brevissima ansa che sporgeva dal suo apice. Armato di nuovo il serra-nodi, lo riapplicai e di nuovo lo stesso accidente mi intervenne; e sì noti che io aveva in questi tentativi usato di un eccellente filo di ferro rincotto, che mi si era mostrato capacissimo di resistere a fortissima tensione. Questo doppio tentativo, quantunque fallito, era tuttavia di qualche inte- resse diagnostico; poichè mostrava, che la base d’ inserzione era, o sottilissima, o riducibile assai per mezzo della costrizione, ma che conteneva in sè un sottile cordone di tessuto fibroso, resistentissimo alla costrizione ; inoltre, il tentativo fatto col serra-nodi mi aveva se non altro persuaso della possibilità dell’applicazione di una sottile ansa alla base del tumore; io poteva dunque essere persuaso di riuscire ad applicare anche l ansa galvanocaustica, unico mezzo che ancor restavami a tentare. Però parvemi necessaria una leggiera modificazione all’ ordinario port ansa gal- vanocaustico: difatti, mentre la corrente arroventa l ansa di platino, è facile per- suadersi che le spranghette di rame, vuote, che servono da porta-ansa, acquistano. all’apice loro un’ altissimo grado di temperatura, capacissimo di produrre un’ ab- bruciatura nei tessuti che toccano. — Per ovviare a questo inconveniente, feci coprire tutta la parte metallica del porta-ansa, con un astuccio di avorio; ma fatto questo, ed eseguendo alcune prove, mi accorsi che l’ apice del porta-ansa, benche ricoperto di avorio, acquistava tuttavia una temperatura abbastanza alta per non esserne indifferente il tocco; aggiunsi perciò a questo apice un involucro di tela a più strati; e così disposte le cose provai che ancor quando l ansa era incandescente e la tela umettata, si poteva toccare senza rilevante incomodo l'apice. dello strumento. (1) Annales di Gynaekolog. II, pag. 461, e III, pag. 70. — 545 — Lasciati allora scorrere alcuni giorni, per concedere il necessario riposo all’ in- ferma, cercai nuovamente di ottenere collo zaffo la dilatazione del collo uterino; ma in molte ore non ottenni che si destassero così energiche contrazioni da pro- durre la dilatazione al grado voluto. Allora, imitando sempre gli artifizi che sì usano per l’ eccitamento del parto prematuro, introdussi nell’ utero, una grossa candeletta elastica, colla quale ottenni di eccitare valide contrazioni, che produssero la dilatazione del collo e l apertura dell’ orifizio esterno, fino al diametro di un buon soldo; i margini dell’ orifizio erano inoltre divenuti molli e cedevoli. Ciò fatto, ecco come riuscii a portare l’ ansa intorno al punto di inserzione del tumore. — Armai il porta-ansa, di una lunghissima ansa di platino, ed ebbi cura di notare di quanto sporgessero le estremità delle gambe dell’ ansa dal manico dello strumento allorquando l ansa era raccorciata al massimo. Fatto allora sporgere dall’ apice dello strumento 1 ansa per una rilevante lunghezza, maggiore di più del doppio del diametro longitudinale del tumore, e ripiegata l ansa sulla faccia anteriore dello strumento, spalmai l’ apice di questo e l’'ansa con un po’ di sapone fenicato: (non usai di olio o glicerina per timore che queste due sostanze molto conduttrici del calorico, potessero durante l incandescenza dell’ansa pro- durre qualche inconveniente). Ciò fatto insinuai lo strumento lungo la faccia po- steriore dell’ utero fino al suo fondo (fig. 1% @); l ansa coll’apice del suo seno, rimaneva presso l osculo vaginale. Allora, con una spatolina a forca curva sul piatto, fattami a bella posta costruire (fig. 2° a, 0), feci presa sull’ apice dell’ ansa e ripiegando questa in alto, insimuai la forchetta, e con essa l apice dell’ ansa lungo la parete anteriore dell'utero fino al suo fondo (fig. 1° e). Il centro delle due parti laterali dell’ ansa, rimaneva tuttavia fuori dell’ orifizio uterino. Fissati così ai due punti opposti della base del tumore, due punti opposti dell’ansa, strin- gendo l’ansa, dovevano necessariamente le due parti laterali di essa (fig. 1° /, f) portarsi verso l’ alto fino alla base del tumore. Se nonchè, poteva benissimo acca- dere, che le due parti laterali dell’ ansa salissero senza abbracciare il tumore, sci- volando cioè ambedue lungo una sola parete laterale dell’ utero. Era dunque d’uopo accertarsi che queste parti dell’ ansa, che ancora rimanevano fuori dell’ ori- fizio, nel salire in alto andassero una a destra, l’ altra a sinistra del tumore; e questo ottenni mediante una seconda forchetta a spattola curva sul margine (fig. 3° a, b,) colla quale le spinsi appunto alquanto in alto nell’utero, l una a destra l altra a smistra del tumore, mentre un assistente manteneva fisso contro il fondo dell’ utero il portansa e la forchetta anteriore. Così disposte le cose, fa- cendo agire l’ apparecchio costrittore, abbracciai il peduncolo del tumore. Stretta l’ansa in modo da essere sicuro che più non scivolasse in basso, tolsi la forchetta anteriore, e costretto il peduncolo fino al grado a cui il primo esperimento col serra-nodi mi aveva dimostrato potersi giungere senza violenza, applicai i reofori, e cominciai la sezione galvanocaustica, procedendo lentamente, come è insegnato perchè vengano bene combuste le superficie di sezione. In quattro minuti, potei TOMO II. 69 — 546 — giungere alla perfetta costrizione dell ansa, e traendo lo strumento, mi accorsi che esso cedeva e lo estrassi. Il tumore era quindi già reciso. Afferrai allora il segmento Inferiore di esso, con una pinzetta Musexx per estrarlo, ma l' estrazione mi riescì oltremodo difficile. Rotando lo strumento, e con esso il tumore, quante volte io voleva sopra sè stesso e colla massima facilità, io conobbi che questo era perfettamente libero da ogni aderenza coll’ utero, ma le trazioni riescivano affatto inani perchè il volume del tumore era sproporzionato all’ orifizio uterino. Dopo vari inutili tentativi, era sul punto di abbandonarne l espulsione alla natura, la quale per mezzo delle contrazioni uterine, avrebbe certamente operata la graduata necessaria dilatazione dell’ orifizio; ma tentando di nuovo, e con movimenti di pen- dolo alquanto a lungo protratti, riuscii ad ottenere sufficiente dilatazione dell’ ori- fizio, e a un tratto, fatta varcare la bocca dell’ utero alla parte. più grossa del tumore, sentil cessare ogni resistenza, e compli l’ estrazione. L'ammalata non ebbe per l operazione, che insignificantissime sofferenze, e non patì per l’incandescenza dell’ ansa, che un leggiero senso di calore. Compiuta 1° ope- razione, feci un’ iniezione intrauterina con una soluzione fenicata al 4 per 100; e continuando poi per 10 o 12 giorni con rigorosa cura antisettica, della quale dirò brevemente fra poco, quindi con semplici lozioni fenicate, la operata, senza presentare il minimo moto febbrile, senza che la temperatura salisse mai al disopra di 37° e 54, si alzava di letto al 15° giorno. Nei primi dì esciva dai genitali, qualehe po di liquido sieroso sanguinolento, quindi an umore bianco gialliccio; e questo pure era cessato alcuni giorni prima che l ammalata sì alzasse. Un mese e mezzo dopo l'operazione, la signora si riduceva in patria. Di là essa più voite mi ha dato sue notizie e ne ebbi ancora lo scorso Dicembre, cioè a dire un anno e qualche mese dopo l'operazione; e queste notizie confermano la sua perfetta gua- rigione: lo scolo sieroso, che prima era continuo, è affatto cessato ; le mestruazioni sono piuttosto scarse, non sono più dolorose, e tratto tratto, specialmente nei primi mesi dopo l’ operazione, sono mancate; di guisa che la signora può dirsi proprio ritornata da morte a vita, come già suole accadere dopo simili operazioni. Ma la guarigione della signora, è egli a sperare che sia stabile ? Io lo credo, perchè il suo tumore, che presento all'Accademia, fu trovato essere un vero mioma semplice e perchè, sebbene sessile, fa estirpato completamente. Un solo timore po- trebbe rimanere ed eccolo: Quando io ebbi nel modo deseritto ottenuta la dilata- zione e il rammollimento del collo, esplorando col dito per guidare lo strumento lungo la faccia posteriore del tumore, mi accorsi che nell’ alto della parete poste- more del collo uterino, si sentiva un piccolo mioma intramurale. Ora è egli a . temersi che tolto il maggior tumore, questo piccolo cresca alla sua volta ? Io spe- rerei di no, perchè se desso avuta avesse la tendenza a crescere, avrebbe potuto fario anche durante la presenza del maggior tumore, che chiuso nella cavità del corpo, non premeva sul piccolo mioma del collo che tratto tratto e per poco, du- rante il periodo mestruale. L’ essere poi state così perfette le funzioni dell’ utero — 5471 — durante i 16 mesi scorsi dopo l'operazione, mi conferma in questa speranza. Che se per mala ventura, venisse il momento in cui questo piccolo mioma, cessata l'inerzia, crescesse a maggior volume, la sua posizione presso Il orifizio esterno dell’ utero, ne renderebbe agevole l’ estirpazione. Il tumore estirpato, che Vi presento, è ora alquanto rimpiccolito pel lungo soggiorno nell’ alcool, ma pur tattavia si mostra ancora grande come un uovo di anitra. Nella sua faccia posteriore è bozzuto; il suo apice acuminato era rivolto in basso, e l’ estremo più grosso rivolto al fondo dell’ utero. La membrana mucosa aderentissima riveste tutto il tumore, meno i due terzi anteriori del suo estremo superiore, ove notasi un’ area discoide del diametro di circa 4 centimetri nella quale il tessuto fibroso-muscolare è a nudo. La superficie di quest'area è lesger- mente scabra, alquanto rosolata, e nel suo centro sporge alcun poco un cordoncino fibroso-resistente del diametro di circa un mezzo centimetro reciso dall’ ansa galya- nocaustica. In tutta la descritta area il tumore aderiva certo all’utero per tessuto connettivo molle e cedevole, e solo nel centro di quest’ area un cordone di tessuto uterino si insinuava nella sostanza del tumore. La figura 1° mostra in modo sche- matico questi rapporti: in a e d vedesi la mucosa abbandonare il tumore e rove- sciarsi sulla faccia interna dell’ utero ; vedesi la superficie «0 spoglia di mucosa aderire all’ utero lassamente, fuorchè in c dove il tessuto proprio dell’ utero in forma di cordone, entra e si perde rel tumore. Queste particolarità dell’ inserzione del tumore spiegano come un’ ansa di filo potesse essere stretta rilevantissimamente attorno alla base del tumore. E di vero l’ ansa nello stringersi poteva, per la cedevolezza della mucosa reflessa e del floscio tessuto connettivo summentovato, insinuarsi senza ledere la continuità dei tessuti fra la base del tumore e l’ utero fino al cordone fibroso centrale che opponeva insuperabile resistenza alla semplice costrizione. Ora mi permetta l Accademia di fare qualche parola intorno al modo di son- dare 1 utero nel caso di tumori, e intorno al fatto dell’ apparizione intermittente di certi miomi intrauterini. Quando, usata invano la sonda comune, sospettai che cessa non riescisse per la sua rigidità, lo aveva in animo di usare l’ artifizio insegnato dal Sims. Questo illu- stre ginecologo, quando si tratta di sondare un utero che contenga un mioma, e di introdurre la sonda per la via più difficile, cioè fra la parete anteriore ed il tu- more, consiglia di prendere una sonda flessibile, un catetere elastico da uomo, di introdurlo, munito del suo stiletto, fino alquanto sopra ’ orifizio uterino interno, di fermarsi a quel punto, tenere fermo lo stiletto con una mano, e coll’ altra spin- gere avanti il catetere. Operando in tal guisa, egli dice che la sonda, privata dello stiletto, e resa perciò flessibile, si insinua con agevolezza fra la parete anteriore dell’u- tero e il tumore, secondando all'uopo, i vari accidenti della superficie del tumore. Yo a dir vero, non ho grande fiducia in questo artificio del Sims; e difatto, per poco — 548 — che si consideri la cosa, chiaro apparisce che la sonda flessibile, qualora trovi qualche intoppo a procedere in alto, può piegarsi e stendersi in senso trasversale entro la cavità dell’ utero, di guisa che si possa farla penetrare nell’utero stesso per lungo tratto, senza che tuttavia essa proceda verso il fondo dell'utero. Se ciò avviene, il Chirurgo è indotto a credere che la sonda sia salita assai in alto, men- tre si è arrestata a piccola altezza, e si è distesa in senso trasversale nel cavo dell’ utero. Per evitare questo inconveniente, e pur tuttavia usare di una sonda iflessibile, mi feci fare una sonda di lamina d'acciaio, stretta, molleggiante e mu- nita all'apice di un bottoncino schiacciato. Con questa, speravo di potere togliere di mezzo gli ostacoli dipendenti dalla rigidità della sonda, e di non incorrere nel «difetto poc’ anzi mentovato, che può avere la sonda elastica usata nel modo pro- posto dal Sims. Però nell’ atto pratico le mie speranze furono deluse, e vidi che questa sonda elastica molleggiante, trovava ancora maggior difficoltà a insinuarsi, che non ne trovava la sonda comune rigida. Ed esplorando in uno dei periodi nel quale il collo era disfatto, e l’ utero aperto, mi accorsi che era più facile in qualche punto insinuare alquanto oltre l’ apice del dito, di quello che fare pro- cedere la suddetta sonda. Sospettai allora che le difficoltà che la sondatura pre- sentava, dipendessero da ciò che l'apice piuttosto esile delle sonde si infossasse alquanto nella superficie dell’ utero o del tumore, e fosse così impedito nella sua ascensione. Mi feci perciò costruire siccome dissi, una sonda a spatola, di placfom, che è questa che Vi presento (Fig. 4°). II suo apice ha appunto la forma dell’ estremo di un dito, fuorchè ne è molto più schiacciato, e visto di fronte, mostra la larghezza di un centimetro, e di coltello si mostra leggermente olivare, e nella sua maggior grossezza è di circa 4 millimetri. Lo stelo, alquanto schiacciato pur esso, è curvo sul piatto, e la curva può con un po’ di sforzo, essere aumentata o diminuita prima dell’ introduzione della sonda per adattarla al caso. Per introdurre con agevolezza questa sonda, lungo la faccia anteriore di un tumore, è d’ uopo introdurla colla concavità in avanti, fino all’ orifizio interno, 0 fino al tumore se il collo è disfatto, quindi procedere abbassando il manico, e dol- cemente tirando in avanti tutto lo strumento, per iscostare viemmeglio la parete uterina dal tumore. Venendo ora all’ apparizione intermittente di certi tumori intrauterini, ripeto che questo fatto clinico è giù noto, ma non so che siagli stata data l’ importanza semejotica che esso avrebbe a mio avviso. — Ben considerando la cosa, parmi che esso fatto dimostri, che il tumore che lo presenta è libero in quasi tutta la sua lunghezza da aderenze colle pareti uterine, ed è inserito nell’ alto dell’ utero. E di vero, perchè il tumore, durante la colica uterina mestruale, cioè durante le contrazioni uterine, possa discendere, aprire il collo e mostrarsi all’ orifizio esterno è d’uopo che esso strisci per lungo tratto sulle pareti uterine. — Potrebbe forse sospettarsi che il tumore appaia all’ orifizio esterno, perciò che ingrossando a dismi- — 549 — sura nel periodo mestruale, non trovi più posto nella cavità del corpo uterino, e sia quindi costretto ad occupare anche quella del collo; ma questa supposizione, è contradetta dal fatto che moltissimi tumori intrauterini si ingrossano rilevantemente durante la mestruazione. e pur tuttavia continuano a rimaner innicchiati nel corpo uterino, che proporzionatamente si distende; ed è chiaramente contradetta dal fatto che io riescii, eccitando semplicemente le contrazioni uterine, ad ottenere l'ap- parizione del tumore in un periodo in cui esso avea il minimo grado di sua gros- sezza. To credo adunaue che il meccanismo dell’ apparizione, sia quello di una inci- piente espulsione del tumore, e sia eguale a quello che ha luogo nel parto per la formazione della borsa delle acque: un ritirarsi del segmento inferiore del corpo del- l'utero e di tutto il collo verso il fondo, strisciando sul tumore come sull’ uovo. Se nel caso del parto la decidua ha troppo forti aderenze coll’ utero, la dilatazione del collo e dell’ orifizio esterno procede assai lentamente, non potendo 1’ uovo di- scendere nel collo, che mano mano che si sciolgono quelle anormali aderenze, e talora si ottiene più rapida dilatazione e la rapida formazione della borsa delle acque distaecando col dito l uovo dal segmento inferiore dell'utero ; ovvero spon- taneamente avviene il più rapido procedere del parto, perciò che, rottosi ìl corio contro l’ orifizio, il sacco dell’’amnio (che come è noto facilissimamente si stacca dal corio) striscia esso solo in basso e forma da solo la borsa delle acque. Nel qual caso poi, esaminando le secondine espulse, sì vede 1’ amnio largamente di- staccato dal corio. Se così è, se vale il paragone, stimo di non andare errato, considerando l ap- parizione intermittente di certi miomi, per opera delle contrazioni uterine, come segno, che in buon tratto della loro lunghezza, sono privi di aderenze colla parete uterina, e che sono inseriti verso l’ alto dell’ utero. Ora in fine dirò brevemente delle cure antisettiche da me seguite. I chirurghi, sono omai persuasi, che quasi tutti gli accidenti consecutivi alle ferite dipendano da infezione della ferita stessa, sicchè, non solo la setticoemia e la pioemia ma eziandio gli accidenti locali: risipole, flebiti, linfangioiti, flemmoni, si hanno per ma- lattie d’ indole per lo più infettiva; e perfino la così detta febbre traumatica che succede talvolta alle ferite fu dal Bi/lroth dimostrata di natura infettiva. Se da questa persuasione mossi i chirurghi si adoperano a tutto potere per impedire che durante o dopo un'operazione cruenta le artificiali ferite vengano inquinate da materia infettante, a più forte ragione debbono cercar questo i ginecologi, i quali, quando operano dentro la vagina, e molto più, quando operano entro l utero, producono ferite, che per la loro giacitura, si trovano nelle condizioni di quelle ferite profonde, anfrattuose che sono tanto temute dai chirurghi, come quelle che una volta inquinate da materia infettiva, assai difficilmente ne possono essere de- terse. Intimamente persuaso di questo, io seguii in tutti gli atti della operazione narrata, il metodo esattamente antisettico come soglio seguirlo sempre. A disinfet- — 550 — tare gli strumenti, fui solito di immergerli per alcune ore prima dell’ operazione in una soluzione alcoolica di acido fenico, o anche solo nell’ alcool puro a 36; al quale scopo, posseggo una cassetta di rame, il cui coperchio per un semplice ma efficace congegno, chiude ermeticamente, per evitare 1’ inutile evaporazione del li- quido: la cassetta è grande quanto basta per potere contenere anche i lunghi stru- menti che si usano in ostetricia. Curai la disinfezione delle mie mani, e di quelle dell’ assistente con lavatura fatta con sapone fenicato; spalmai gli strumenti, con olio o con glicerina fenicata, o in qualche caso speciale, con sapone fenicato, sic- come dissi. — Ad ogni operazione, feci precedere esatta disinfezione della vulva, della vagina, per mezzo di soluzione acquosa fenicata al 3 o 4 per 100; e dopo l'operazione, come pure, dopo i tentativi falliti, feci immediatamente un’ iniezione antisettica intrauterina. Quanto alle cure antisettiche durante il periodo di cicatrizzazione, i ginecologi, e gli ostetrici sono in condizioni alquanto meno fauste di quelle nelle quali tro- ansi d’ordinario i chirurghi. Questi difatto, colle loro medicature applicate imme- diatamente sulla ferita, colle loro fasciature, che possono lasciare in posto talora molti giorni, impediscono con agevolezza l infezione consecutiva della ferita; e ancor quando la ferita sia profonda e anfrattuosa, possono (dopo averla per quanto è concesso disinfettata) chiuderne l'apertura esterna ermeticamente, e semplicizzare così in molti casi, la lesione profonda, togliendone la grave complicanza, che con- siste nel suo comunicare coll’ esterno. I ginecologi invece, e gli ostetrici hanno da curare ferite nel profondo di un canale; e mentre debbono cercare d’ impedire l infezione della ferita, debbono in pari tempo lasciare libera 1’ escita ai liquidi che sgorgano dall’ utero. Per questo, la comune degli ostetrici e dei ginecologi, si contenta di usare, come medicatura antisettica, d’iniezioni vaginali, tratto tratto ripetute; o in qualche gravissimo caso, temendo Il inefficacia di questa intermittente medicatura, si persuase taluno di dovere seguire il metodo dell’ irrigazione permanente. Ma questo, come di leggieri si comprende, è di applicazione assai difficile e incomodissima per la donna, mentre l irrigazione intermittente, non può in nessun modo considerarsi come atta ad impedire, che in qualche momento germi infettanti si imsinuino fino alla piaga. Mosso da queste considerazioni, io m' indussi or sono più di tre anni, ad usare nelle puerpere e nelle mie operate ginecologiche, di una medicatura al davanti della vulva, fatta a modo di valvola, che mentre impediva la penetrazione delle sostanze infettanti, permettesse lo scolo dei liquidi fuori della vagina. Questa semplicissima medicatura, non era nei primi casi, che una pezzuola a più doppi, intrisa di soluzione fenicata al 3 per 100, che doveva mutarsi assai di spesso, cioè prima che venisse a disseccarsi, o ad impregnarsi troppo dei liquidi fuor usciti. Un panno ordinario, come quello che serve a raccogliere i mestrui, manteneva la. compressa applicata alla vulva. Ma in seguito, perchè non fosse necessario il cam- biare la compressa troppo di sovente, le sostituii una falda di bambagia, e ricoprii — 551 — questa di un pezzo di tela impermeabile, per rendere meno pronta l evaporazione dell’ acqua e dell’ acido fenico, e soprattutto per impedire che il panno di sostegno, assorbisse la soluzione fenicata, onde è impregnata la bambagia. Questa medica- tura però avveniva talora che si spostasse nei movimenti della donna, e special- _ mente durante il sonno ; e a questo difetto provvidi affidando l’ ovatta e la tela impermeabile a un grosso uncinello pendente sul monte di venere da un nastro, ond’ io cinsi la donna (Fig. 5°). L'idea di coprire la vulva con una pezzuola fenicata è così semplice e natu- rale, che non poteva non sorgere nella mente di altri ancora: e difatti, molti mesi or sono, parlando col Dott. Sarti? distinto Chirurgo Primario di Faenza, seppi che egli già da qualche tempo usava questa medicatura, e ad essa attribuiva l' avere potuto mantenere sanissime alcune donne che avevano partorito nell’ Ospedale, e vi erano rimaste come puerpere, in sale assai poco igieniche, in mezzo a molte malate chirurgiche, fra le quali alcune affette da carcinoma uterino: e non ha guari, leggendo la bella memoria sulla febbre puerperale, del Dott. J. A. Dolerss, stampata nel 1880 (1), vidi in essa consigliato 1 uso della compressa fenicata alla vulva. Confortato perciò anche dall’ esperienza altrui, con maggior persuasione, raccomando questa pratica coi leggieri perfezionamenti da me indottivi. Io ho in animo di fare oggetto di un’ altra mia nota, i risultamenti da me ottenuti usando il rigoroso metodo antisettico da me descritto come cura preventiva dell’ infezione in ginecologia e in ostetricia e cominciandola talvolta durante il parto. Per ora, mi contenterò di assicurare che quei risultamenti sono oltremodo soddisfacentissimi, non solo quanto alla generale infezione, ma eziandio, per ciò che si riferisce agli accidenti locali, mancando perfino nelle puerpere anche affette da contusioni e lacerazioni ai genitali esterni, le tumefazioni di questi, così penose per sè stesse e per la ritenzione d’ urina che non di rado cagionano. Ma a proposito di queste locali alterazioni, debbo confessare che la medicatura locale da me descritta, mentre giova ad impedire gli ordinarii accidenti locali, e a curarli efficacemente quando fossero già insorti, non mi si è mostrata pronta : guarire la così detta difterite vulvare delle puerpere che si appalesa per placche lardacee di un bianco lattato, circondate da tumidezza e rossore e che danno senso di cocente dolore ; anzi in un caso che io aveva trattato fin da principio, colla medicatura locale permanente, non ostante questa, alla 3* giornata insorse lieve febbre, e notai, sul grande labbro destro, rosso tumido e dolente, una placca difterica. Alcuni ostetrici, sogliono cauterizzare queste placche, con certa energia, ed io pure per l’addietro aveva seguito questo metodo, ma senza prò ed anzi credo con qualche danno, perchè la cauterizzazione si estende facilmente a qualche altro punto dell'ambito vulvare, massime se si usano liquidi caustici, e non è raro ve- (1) La Zièvre puerperale et les organismes inferieures etc., par le Doct. J. Amédée Doleris. Paris 1880. — 552 — dere il dì dopo, le muove lesioni coperte di essudato difterico. Invece mi si è mo- strato utilissimo 1’ alcool a 36°. Imbevendone un po’ di bambagia, applicando questa sulle placche, lasciandovela per un paio d’ ore, e all’ uopo, rinnovandola una o due volte, si ottiene la pronta cessazione della tumidezza e del rossore col- laterale, e la placca non più infettante, in breve si stacca nè più riappare (1). Mantenendomi fermo nel proposito di non dilungarmi per ora in particolari, non voglio però ommettere di accennare a un fatto dimostratomi dall’ osservazione termometrica istituita sulle mie puerpere e che è importante, come prova della po- tenza del metodo antisettico, e interessante ancora per la conoscenza della fisiolo- gia puerperale. Nella discussione che intorno all’ uso dell’ acido fenico in gineco- logia ebbe luogo nel 53° Congresso dei Naturalisti tedeschi (Danzica, Settembre 1880) il Dott. Grimewaldt di Pietroburgo, sostenne, che a stabilire irrefragabilmente l utilità della: cura antisettica coll’ acido fenico nel puerperio, era d’ uopo dimo- strare non solo che la mortalità delle puerpere è diminuita in confronto di quella delle antiche statistiche, ma che è aumentato il numero dei puerperii afebbrili. Perciò consiglia il Grimewaldt di comporre statistiche con questo intendimento, stabilendo, come temperatura normale del puerperio quella di circa 38°. La per- suasione, che nel puerperio la temperatura regolare, sia superiore a quella della donna sana non puerpera, è, può dirsi, generale. — Winckel, che è fra i più moderati, ammette che i limiti della temperatura nella puerpera sana siano 37° 2' e 38° 2° (2), ma v’ ha chi considera come limite superiore, fino i 40°. Quanto a me, le esatte osservazioni fatte sulle puerpere sottoposte alla cura an- tisettica rigorosa, mi hanno mostrato che nella puerpera perfettamente sana, la temperatura assai di rado sale a 37° 1, e non molto raramente, è al disotto di trentasette, cosichè io credo, che una numerosa statistica, stabilirà forse 37°! di temperatura, come media del puerperio regolare. Conecelusioni. 1°) I miomi intrauterini ad apparizione intermittente, sono probabilmente sempre liberi da aderenze in tutta la loro lunghezza, e aderenti verso il fondo dell’ utero. 2°) Per sondare l utero che contenga un tumore, giova usare di una sonda il cui apice sia foggiato a spatola. (1) Non occorre che io aggiunga che questa pronta guarigione si osserverà sclo quando la difterite vulvare è primitiva, non quando è sintomatica di difterite della vagina o dell’utero. In questo caso le piaghe vulvari vengono sempre di nuovo infette dai lochi e sempre quindi riap- pare la difterite vulvare. Anche in questo caso però credo che la cura più efficace sarebbe l’al- cool injettato in conveniente diluzione entro la vagina e l’ utero. (2) Die Pathologie und Therapie des Wochenbetts. Berlin 1878 pag. 0. — 553 — 3°) Per estirpare i miomi ad apparizione intermittente, ed operarli fuori del- l epoca mestruale, giova farli apparire all’ orifizio esterno immediatamente prima dell’ atto operativo, eccitando le contrazioni uterine col zaffo elastico vaginale e, occorrendo, anche colla candelletta elastica, introdotta nell’ utero. 4°) Facendo uso degli strumenti e del metodo da me adoperati, è agevole portare un’ ansa galvanocaustica alla base di un mioma ancorchè inserito al fondo dell’ utero; e quindi ora parmi che la galvanocaustica sia da preferirsi a tutti gli altri metodi: cioè a quelli che recidono contundendo, (1) alla torsione che potrà giovare solo quando le aderenze sieno lasse, e finalmente al tagliente, che da ta- luno si usa quando si domini bene colle dita il peduncolo (2). 5°) Per seguire un efficace metodo antisettico, dopo le operazioni ginecolo- LI giche, è utile non contentarsi delle iniezioni fenicate, e fare uso di compresse fe- nicate sulla vulva. 6°) Per lo stesso fine, è utile usare delle suddette compresse nel puerperio, e in qualche caso durante il parto. 7°) Il topico migliore nella difterite puerperale è forse Il alcool. UNA NUOVA PUNTA GALVANOCAUSTICA Finito così di svolgere l argomento della mia Memoria, mi permetto di pre- sentare una punta galvanocaustica da me ideata e già felicemente usata per guarire tumori erettili che non potevano essere estirpati. L’ ordinaria punta galvanocaustica è tutt’ altro che sottile, essendo composta di un’ ansa di platino piegata ad angolo acuto. La punta invece da me ideata, può essere sottile quanto si voglia, essendo composta di un ago di oro sottile quanto si desidera, nella cui cruna è infilata a tutta forza una brevissima ansa galvanocaustica di platino. L’ estremo che rap- presenta la cruna dell'ago, è alquanto grosso per provvedere alla robustezza del- Y apparecchio, e perchè il calore dell’ ansa infocata, si propaghi più facilmente all’ ago, il quale deve essere di oro purissimo, perchè non ne avvenga l ossida- zione quando l ago cessa di essere infocato. (1) Ai pericoli che già dissi propri di sì fatti metodi aggiungerò il tetano: una donna nella quale il Chiarissimo Boeckel aveva estirpato per mezzo del fil di ferro un mioma aderente al labbro posteriore, morì di tetano. (Gazette med. de Strassbourg, 1 Juin 1875.) (2) Checchè si dica, V emorragia grave è pur possibile, quando si recida il peduncolo col ta- gliente. Io stesso ne osservai una gravissima in una mia operata, e non giunsi a frenarla che col ferro rovente. TOMO II. i 70 SPIEGAZIONE DELLA TAVOLA Figura 1° — È figura schematica che rappresenta la metà sinistra dell’ utero e di un mioma poliposo aderente al fondo dell’ utero, e mostra in sito gli strumenti che servirono ad estirparlo. — In a e d vedesi la membrana mucosa che riveste il tumore abbandonare questo e rovesciarsi sulla parete posteriore e sull’ anteriore dell’ utero. La superficie «b del tumore aderisce al fondo dell’ utero per un tessuto connettivo floscio e cedevole, fatta eccezione dal centro di questa superficie, nel quale vedesi il tessuto proprio dell’ utero in forma di un cordoncino c insinuarsi e perdersi nel tessuto del tumore. Lungo la parete posteriore dell’ utero vedesi insinuato il portansa galvano- Figura Figura Figura Figura caustico d, dall’ apice del quale discende l ansa di platino, il cui mezzo è stato afferrato e insinuato lungo la parete anteriore dell’ utero dalla for- chettina e. In /f' veggonsi sporgere ancora dall’ orifizio ‘uterino le due gambe dell’ ansa, che saliranno in alto allo stringersi dell’ ansa. In g vedesi un piccolo fibroma intra-murale della parete posteriore del collo. 2° — Forchettina curva sul piatto (già rappresentata nella Fig. 1°) vista di coltello in @ e di fronte in d. 3° — Forchettina curva sul margine, che servì a spingere l una a destra, V altra a sinistra del tumore le due parti dell’ ansa rappresentate in ff' nella Fig. 1°. In @ vedesi questa forchetta di fronte, in d di fianco. 4° — Sonda uterina a spatola veduta in @ di fronte, in d di fianco (V. la pag. 548). 5* — Uncinello che deve pendere sul monte di venere per tenere ferme al davanti della vulva la bambagia fenicata e la tela cerata sovrappo- stale (V. la pag 551). E-F. Fabbri. | Mem. Ser 4 Tom.IL. rosaria RSI 2 | il ra a Lit.G.We \ al Bettim dis ® * LE OMBRE ELETTRICHE MEMORIA DEL PROFESSORE AUGUSTO RIGHI (Letta nella Sess. Ord. delli 12 Maggio 1881) I. Introduzione. È noto che la scarica elettrica nei gas rarefatti si compone di due parti che hanno apparenze e proprietà distinte, la scarica positiva e la negativa, separate dallo spazio oscuro. Crescendo la rarefazione, gli strati in numero variabile dei quali consta la scarica positiva, si ritirano verso l’ elettrodo dal quale nascono, mentre invece i due strati dei quali consta la luce negativa si estendono più rapidamente. Ad un certo punto essi quindi raggiungono gli strati positivi, e lo spazio oscuro è annullato. Infine con rarefazione anche maggiore la luce negativa invade gli strati positivi, come ha recentemente dimostrato il Goldstein (1). La luce negativa, nei gas estremamente rarefatti, produce fenomeni speciali (fluorescenze, ombre ecc.), brillantemente mostrati dal Crookes (2), mentre a sua insaputa erano già stati descritti in gran parte da Hittorf (3). Goldstein (4) ha poi dimostrato che questi stessi fenomeni sl producono anche colla luce negativa che si produce lungi dagli elettrodi, lèù dove il tubo abbia un restringimento, o sia diviso in due capacità da una lastra portante uno o più piccoli fori. Ogni foro sì comporta come un elettrodo negativo rivolto nella dire- zione del vero elettrodo positivo del tubo; e perciò il fenomeno è identico a quello che mostrai accadere quando la scarica d’una batteria percorre tubi di vetro (1) Phil. Magazine, september 1880. (2) On radiant matter; conferenza fatta all’ Associazione Brittanica in Sheffield il 22 agosto 1879. (3) Pogg. Ann. 186 (1869). (4) L. c. — 556 — pieni d’acqua ed aventi appunto piccoli fori o restringimenti in sezione (1). In tali condizioni appariscono dalle due parti del foro i fenomeni luminosi carat- teristici delle due elettricità. I fenomeni di fluorescenza e quindi di proiezione di ombre sono prodotti dal secondo strato negativo, al quale il Crookes dà il nome di spazio oscuro, quantun- que spesso sia assai luminoso e benchè tale denominazione appartenga già ad altra cosa. Di queste ombre, che sembrano rivelare una propagazione rettilinea nella scarica uscente dall’ elettrodo negativo, dobbiamo quì in ispecial modo occu- parci. D'ordinario le si ottengono col noto tubo di Crookes, nel quale mentre l' elet- trodo negativo è puntiforme, il positivo è costituito da una croce d'alluminio. L'ombra della croce spicca nettissima in mezzo alla fluorescenza del vetro, e si presta facilmente a studiare le deviazioni elettrodinamiche od elettromagnetich e della scarica negativa. Per render conto di tali fenomeni ideò il Crookes la nota teoria della materia radiante, nella quale il trasporto dell’ elettricità negativa avverrebbe per mezzo delle molecole del gas elettrizzate e respinte dall’ elettrodo negativo. Evidentemente non è necessario ammettere che il gas estremamente rarefatto costituisca un quarto stato della materia, ed allora l'ipotesi di Crookes poco diversifica in fondo dalla teoria della scarica per convezione (2). Altri (3) supposero che i fenomeni di fluo- rescenza sieno dovuti a particelle staccate violentemente dall’ elettrodo stesso, e da esso respinte. Che le particelle luminose si muovano colla velocità della scarica, è cosa contraddetta dall’ osservazione di E. Wiedemann (4), secondo la quale non si osserva spostamento nelle righe dello spettro del gas, come invece vorrebbe il principio di Dòppler, dirigendo lo strumento ora nella direzione in cui si muovono le particelle ora in direzione opposta. Quindi le particelle splendenti in causa della scarica non hanno la velocità della scarica ; e perciò questa in massima parte deve effettuarsi in altro modo. E. Wiedemann (5) rende conto in un modo ingegnosissimo della produzione di luce nel gas attraversato dalla scarica, mentre il gas medesimo si conserva rela- tivamente freddo, nell’ ipotesi che l’ elettricità consista nell’ etere che forma atmo- sfera intorno ad’ ogni molecola d'un corpo qualunque. Esso suppone cioè che la luce sia prodotta da oscillazioni delle atmosfere d’ etere delle molecole gassose, originate queste oscillazioni dal prodursi e dal cessare ad ogni scarica della pola- rizzazione prodotta dagli elettrodi nelle molecole stesse. (1) R. Accademia dei Lincei 1876; Il N. Cimento 3* serie t: 1 pag. 234 (1877). (2) Wiedemann Galv. t. 3 pag. 298. (3) Puluj — Beib: 1880 n. 11 pag. 812; Gintl — Beib: 1880 n. 6 pag. 488. ( (5 1 2) ) 4) Wied. Ann. 1880 n. 6. ) L — 557 — Ma quand’ anche la convezione di particelle elettrizzate non costituisca la sca- rica, pure può accompagnarla e produrre i noti fenomeni di fluorescenza, mecca- nici ecc. I fatti esposti nel presente lavoro non aspirano a dimostrare che questa convezione di particelle elettrizzate sia veramente la causa dei fenomeni in di- scorso; quei fatti mostrano soltanto che una tal convezione è possibile anche alle ordinarie pressioni, e che può produrre fenomeni di ombre in tutto analoghi a quelli che si osservano nei gas estremamente rarefatti. Trovo ben fatto esporre la serie di idee che mi condusse ai risultati che esporrò più oltre. Immaginiamo un elettrodo metallico circondato da un gas estremamente rarefatto. Se all’ elettrodo giunge dell’ elettricità negativa da una sorgente qualunque, esso attrarrà le molecole del gas, e dopo averle caricate le respingerà vivamente. Se le molecole del gas non possedessero in precedenza la velocità termica di trasla- zione, esse sarebbero respinte secondo le linee di forza del campo elettrico. Invece realmente seguiranno linee più o meno differenti da quelle, secondo che la loro velocità termica è più o meno grande. Dall’ insieme dei fenomeni pare potersi dedurre che la velocità impressa dalla ripulsione elettrica superi di molto la velo- cità termica; quindi le molecole dovranno seguire sensibilmente le linee di forza. E quì non si dovrà trascurare di tener conto, che sulla forma di queste linee non influisce solo l’ elettricità dell’ elettrodo, ma anche quella delle pareti del tubo in cui ha luogo il movimento delle molecole gassose, come pure quella delle mole- cole stesse. Essendo il gas molto rarefatto, e perciò grande assai il medio cam- mino libero delle molecole, ed oltre a questo essendo esse lanciate sensibilmente secondo le linee di forza, accadrà che potranno attraversare in massima parte senz’ urti reciproci, la distanza che separa Ì’ elettrodo dalle pareti, e scaricandosi su queste generarvi la fluorescenza. Un corpo qualunque posto sul cammino delle molecole elettrizzate, ne arresterà una parte e così si formerà l ombra di esso corpo. Una delle obbiezioni mosse a questa spiegazione, è che la distanza alla quale può prodursi la fluorescenza può divenire assai maggiore del medio cammino delle molecole gazose fra due urti consecutivi. Anzi Spottiswoode e Moulton (1) otten- nero il fenomeno a 50"" di distanza operando alla pressione di 6"", alla quale l'escursione media delle molecole è certo piccolissima. Parmi però che l’ escur- sione media calcolata nella ipotesi delle molecole che si muovono indifferentemente in ogni direzione, non possa valere quando invece esse sì muovono in gran parte secondo un sistema di linee di forza. Senza voler sostenere, come ho già avvertito, che questa sia la giusta spiega- zione dei fenomeni prodotti dalla scarica negativa nei gas rarefatti, cerchiamo di (1) Phil. Trans. 1879. — 558 — renderci conto di quanto dovrà accadere se invece che in un gas di piccolissima densità, si operi all’ ordinaria pressione dell’ atmosfera. Anche in questo caso le molecole saranno dapprima attratte dall’ elettrodo elettrizzato, e dopo essersi su di esso caricate saranno respinte. Se le, molecole del gas non possedessero la velocità di traslazione termica, sia quando sono attratte che quando sono respinte, si muoverebbero secondo le linee di forza. In realtà percorreranno linee tanto più o tanto meno diverse da quelle, quanto più grande o più piccolo è il rapporto fra le velocità termiche e quelle impresse per azione elettrica. Sulla grandezza di queste ultime non abbiamo nessun dato; ma pare debbano considerarsi come di molto maggiori. Quindi le molecole respinte dal corpo elet- trizzato, seguiranno quasi esattamente le linee di forza. Ma ora che la pressione è grande, gli urti reciproci saranno frequenti. Ciò non toglie che tutte le mole- cole elettrizzate non continuino a muoversi sensibilmente secondo le linee di forza. Consideriamo infatti una molecola che parte dall’ elettrodo carica di elettricità. Non appena incontri una molecola scarica, cede a questa seconda molecola una parte della sua elettricità, per cui mentre la prima continuerà ad essere respinta dal- l'elettrodo e perciò ad allontanarsene seguendo approssimativamente una linea di forza, anche la seconda molecola sarà respinta vivamente dall’ elettrodo e se ne allontanerà da esso sensibilmente pure secondo una linea di forza. Lo stesso ac- cadrà di una terza, di una quarta ecc. molecola urtata dalle prime. Dunque ad onta dell’ essere piccolissimo il medio cammino libero delle mole- cole, o in altre parole ad onta dei loro urti reciproci, le molecole elettrizzate respinte dall’ elettrodo elettrizzato seguiranno all’ incirca le linee di forza. Una lastra coibente esposta a ricevere quelle molecole, ne resterà elettrizzata; e se fra il corpo elettrizzato e la lastra si interponga un corpo qualunque che arresti sul loro cammino una parte delle molecole, si formerà sulla lastra un’ ombra del corpo, costituita da una regione in cui la lastra coibente rimane scarica. Il mezzo che spontaneamente si presenta per rendere visibile I ombra, è quello delle pol- veri di Lichtemberg, e appunto l’ adottai dapprima. In seguito mi fu dato valermi di altri mezzi. La condizione necessaria onde le molecole gazose respinte dal corpo elettriz- zato, seguano sensibilmente le linee di forza, è che la velocità ad esse impresse per azioni elettriche sieno assai grandi. Sarà bene dunque che la densità elettrica alla superficie del corpo elettrizzato sia grande essa pure. Perciò quasi sempre feci uso di una punta acuta. In generale le linee di forza non sono rette divergenti, e perciò l'ombra non ha le dimensioni e la forma dell’ ombra geometrica. Il più delle volte, la diver- genza delie linee di forza diminuisce a partire dalla punta, per cui l'ombra ha — 559 — dimensioni minori dell’ ombra ottica che si produrrebbe se alla punta elettrizzata venisse sostituito un punto luminoso. In tal modo fui condotto a disporre l’ apparecchio che sto per descrivere, € ad effettuare le esperienze che dopo passerò a narrare. II. Ombre elettriche alla pressione ordinaria. Apparecchio. AB (fig. 1) è un asta verticale di ferro sostenuta da uno zoccolo pesante. Su di essa possono fissarsi a diverse altezze tre bracci d’ ebonite, il primo dei quali sostiene un’ asta d’ ottone P avente all’ estremo superiore una pallina ed all’ inferiore una punta; il secondo porta il corpo € destinato a produrre l'ombra e che in generale era nelle mie esperienze una specie di fiore o di croce tagliata in una lastra d’ottone ed a spigoli smussati, rappresentata in dimensioni vere nella fi. 2; il terzo infine in forma di pinzetta, e mobile nel senso della sua lunghezza serve a reggere un disco D o una lastra di altra forma. Kao0le Ombre su dischi coibenti. Sia D (fig. 1) un disco d' ottone, e vi sì sovrapponga un disco d’ ebonite. Caricata una bottiglia di Leida (per esempio quella comunis- sima tronco-conica ad armature mobili), in modo che possa dare una scintilla di 1 a 2 cent. di lunghezza, se ne ponga l'armatura esterna in comunicazione con D, poi col bottone comunicante coll’ interna si tocchi } asta P. Proiettando e——- na — 560 — subito dopo sulla ebonite senza staccarla dal disco d’ ottone D, il noto miscuglio di minio e solfo per mezzo di un soffietto, vedesi delinearsi una immagine della croce C. Se per esempio l armatura posta in comunicazione con P era la positiva, sul- l’ ebonite apparisce l’ ombra della croce in color rosso, formata cioè dal minio, cir- condata da una regione neutra priva di polvere e quindi da una estesa regione gialla di solfo (fig. 3). L’ elettricità positiva indicata dallo solfo è evidentemente prodotta dalle molecole d’ aria respinte dalla punta e che si scaricano sul di- sco; il minio poi aderisce nell’ ombra in causa della carica negativa che ebbe il disco D, e che certamente in parte rimase dopo la scarica nella faccia inferiore dell’ ebonite, come è fa- cile provare, o forse anche in causa d’ elettri- cità negativa formatasi per influenza. Se la pun- ta P riceve l' elettricità negativa, si ha Y ombra gialla ed il fondo rosso. Il più delle volte il fondo riempie tutta la lastra; ma se questa è assai grande rispetto alla sua distanza dalla punta, la polvere che forma il fondo è limitata esternamente da una linea circolare. L'ombra così ottenuta ha una forma sempre più tozza di quella della croce che la genera, in causa del non essere rettilinee le linee di forza del sistema. Va- riando le distanze fra la punta, la croce ed i dischi, è facile formarsi un concetto della forma di queste linee. Le suddette distanze possono essere svariatissime; si ottiene nettamente l ombra anche se fra la punta e la croce v'è una distanza di dodici o più centimetri, e fra la croce ed il disco, di tre o più. Durante la scarica, la croce, sia essa conduttrice ed isolata oppure coibente, si elettrizza. L’ influenza della carica che essa acquista sarà studiata più oltre. Allontanando fra loro il disco d’ ebonite e quello d’ ottone, varia naturalmente la forma delle linee di forza, le quali tendono a divenire rettilinee. Fissando in D solo un disco d’ ebonite, e mettendone uno d’ ottone ad esso parallelo e assai più in basso, comunicante coll’ armatura esterna della bottiglia, l ombra che si ottiene è naturalmente meno nettamente delineata, scarseggia o manca la polvere rossa (se la punta è positiva) nella regione d’ ombra, ma l’ ombra stessa ha una forma che più si accosta all’ombra geometrica. — 561 — Varia pure la forma delle linee di forze, se invece di far uso d’ un disco me- tallico centrato colle altre parti dell’ apparecchio, oppure d'una lastra metallica moltissimo larga in ogni senso, si adopera una piccola lastra di forma assai diversa dalla circolare. Così per esempio applicando al disotto del disco d’ ebonite una striscia conduttrice rettangolare ed assai allungata, in posto del disco d’ ottone dapprima adoperato, l’ ombra risulta deformata nel modo indicato dalla fig. 4, nella quale le linee a tratti rappresentano parte del contorno della lastra me- tallica. Per dar idea della precisione che può raggiungersi nella formazione di queste om- bre, dirò che è facile ottenere l’ immagine di corpi assai piccoli o di piccoli forellini B& (di 1°" per esempio) praticati in una la- stra, o in infine di un pezzo d’una ordi- naria rete metallica. Se tra la punta e la croce s° interpone una lastra d’ ebonite, l'ombra non cessa di formarsi, ma diviene irregolare e confusa. Evidentemente in tal caso l'emissione di molecole d’ aria elettrizzate avviene da una certa por- zione della faccia inferiore della lastra d’ ebonite, in causa del caricarsi che fa la parte corrispondente della faccia superiore per azione della punta. Alterazioni di- verse si hanno pure sostituendo alla punta, una pallina o conduttori d’ altra forma; ma riservo ad altro tempo il farne uno studio particolareggiato. Im tutte le esperienze finora descritte è di sommo interesse il non far uso che di lastre coibenti perfettamente scaricate e secche. Ombre su lastre cenduttrici. Il metodo ora descritto non può valere evidente- mente a delineare le ombre su lastre conduttrici. Serve invece il metodo seguente. Si mette in comunicazione stabile con uno dei conduttori d’ una macchina d’ Holtz e col suolo la superficie conduttrice D (fig. 1), e la punta P sì mette in comunicazione coll’ altro conduttore. Mentre la macchina agisce, si proietta con un soffietto sulla superficie D una polvere semiconduttrice od isolante, per esempio di licopodio, e in poco tempo vedesi la polvere aderire alla lastra, lasciando però libera o quasi la regione d’ ombra. È facile comprendere come ciò accade, se D è una lastra d’ ottone o di altro conduttore la quale per essere ossidata o verniciata, sia ricoperta d’ un lieve strato coibente o semiconduttore. Questo strato, investito dalle molecole d’ aria elettrizzate emesse dalla punta, conserva un po’ di elettricità, in virtù della quale il licopodio resta aderente, mentre ciò non succede nelle parti riparate dalla croce. Se poi la lastra conduttrice non possiede il velo semiconduttore, continuando a proiettare la TOMO II. 17 — 562 — polvere, l ombra finisce coll’ apparire ancora come prima. È un velo di licopodio aderente alla lastra che in tal caso fa l’ ufficio del velo d’ ossidazione o di vernice. È facile quindi ottenere la formazione dell'ombra sopra una lastra metallica ben tersa, ed anche sulla superficie dell’ acqua o del mercurio puro. Un terzo metodo d’ ottenere le ombre, che come il secondo, serve quando si voglia operare sopra lastre conduttrici, è il seguente, che parmi notevole sia pel modo curioso in cui V ombra si forma, che per la facilità e comodità pratica che esso presenta. Si sparge sul disco conduttore D (fig. 1) uno strato uniforme e sottile d’ una polvere conduttrice qualunque, per esempio limatura finissima di zinco, minio o polvere di vetro (che per l' umidità di cui è rivestita agisce come fosse conduttrice); poi si mettono in comunicazione stabile il disco e la punta P, coi conduttori della macchina d’ Holtz in azione. Immediatamente le particelle di polvere sono respinte vivamente dal disco; ma mentre quelle corrispondenti alla regione d’ ombra abban- donano in breve la lastra, le altre invece non fanno che saltellare a piccola al- tezza dal disco, giacchè sono investite dall’ aria elettrizzata respinta dalla punta, che comunica loro una carica omonima. La polvere non appena allontanata dal disco deve quindi ricadere attratta. Arrestando la macchina rimane l ombra della croce delineata nettamente, poichè l ombra stessa è costituita dalla regione del disco privata di polvere (fig. 5). Anche in questo modo si ottengono nettamente le ombre di piccoli oggetti, rete metallica ecc. La figura riesce benissimo se anche al disco Fig. 5. metallico sia sovrapposta una carta od un car- toncino. Formata la figura, può rendersi stabile facendovi cadere sopra una nebbia di soluzione di gelatina, o di vernice di gomma lacca, ado- perando un ordinario polverizzatore per liquidi. Se poi la carta è quadrettata, cioè porta un si- stema di linee che la dividono in tanti quadrati per esempio di 1" di lato, è facile copiare sopra un’ altra simile carta, il contorno della figura ottenuta. Azione fotografica dell'aria elettrizzata. Se sotto la punta e la croce e sulla lastra metallica, si pone una lastra di vetro collodionato e sensibilizzato come per ottenere una negativa fotografica ordinaria, dopo un tempo sufficiente d’ azione della mac- china, sì ottiene coll ordinario sviluppo (p. es. al solfato di ferro) un’ immagine dell'ombra della croce, accompagnata spesso da una seconda immagine eviden- temente prodotta dalla luce emessa dalla. punta. Quest’ ultima immagine è 4 — 563 — per forma e dimensione la vera ombra geometrica, mentre l’altra prodotta per azione elettrica è come al solito più piccola e di forme più tozze. Occorre un tempo variabile fra cinque e dieci minuti primi (1), durante il quale agisca la macchina, onde ottenere l’ombra elettrica in modo distinto. Come le molecole d’ aria elettrizzate possano agire sullo strato sensibile, non saprei con certezza indicare. Forse le scariche elettriche che hanno luogo fra le molecole d’aria e la lastra danno luogo ad un debole sviluppo di luce od almeno di raggi ultra-violetti, che producono l’ azione foto-chimica. III. Ombre prodotte dai corpi elettrizzati. Ombra di bastoni elettrizzati. Con qualunque dei metodi descritti si ottengano le ombre, si riesce facilmente a mostrare l'influenza sulla forma di queste, di una carica comunicata al corpo che proietta l ombra. Supponiamo che a questo uso si adoperi un bastone coibente cilindrico paral- lelo al disco che riceve l'ombra. Se esso è privo di elettricità, l ombra è limitata da due rette parallele fra loro ed alle generatrici del cilindro. Se al contrario strofinando il bastone, gli si comunica una carica omonima a quella della punta l ombra si allarga e risulta limitata, non più da rette parallele, ma bensì da due curve che rassomigliano ai due rami d’ una iperbole. Se infine il bastone possiede carica opposta a quella della punta, l ombra diviene sottile, restando però più larga nel mezzo che verso gli estremi della lastra, onde acquista una forma di fuso. Non mi fermo alla spiegazione di que- pia sti fatti, che per sè stessa è troppo ovvia. Ombra della croce elettrizzata. In luogo del bastone, può adoperarsi una lastra di forma qualunque, per esempio come la fig. 2, sia coibente, sia conduttrice ed iso- lata. Se l ombra si ottiene col terzo dei metodi descritti più sopra, è bene caricare la croce col metterla in comunicazione con uno dei conduttori della macchina, riser- vando però un intervallo a scintilla. La fig. 6 mostra il contorno delle ombre ot- tenute da una croce in 4 carica omonimamente alla punta, in B carica opposta- mente ed in C' scarica. (1) Per ragioni indipendenti dalla mia volontà non potei far uso di preparati fotografici più sensibili, come lastre preparate al gelatino-bromuro d’argento, che giù avevo in pronto. — 564 — Con una croce isolata, essa finisce sempre col caricarsi alcun poco della stessa elettricità della punta, come ho notato più addietro. Ciò produrrà un allargamento dell’ ombra. Croce in comunicazione col suolo. Il porre in comunicazione col suolo la eroce impedisce che essa si carichi, non di meno essa si elettrizzerà per influenza ora di elettricità omonima a quella della punta, ora di elettricità contraria, secondo che è assai prossima al disco od alla punta (supposto che il disco non sia in co- municazione col suolo). L'ombra sarà nel primo caso più grande, nel secondo più piccola, di quella che si avrebbe colla croce isolata. Ciò si verifica facilmente colle esperienze. IV. Spostamenti e deformazioni delle ombre per azioni elettrostatiche. Azione d'un corpo elettrizzato. Le molecole d’aria elettrizzate emesse dalla punta, sono influenzate da un corpo elettrizzato che loro si presenti e che secondo il segno della sua carica può o attrarle o respingerle, facendole così deviare più o meno dal loro cammino. In altre parole un corpo elettrizzato che si avvicini alla punta, cangia la forma delle linee di forze del sistema totale, e quindi cangia il cammino delle molecole elettrizzate. Per rendere evidente questo fenomeno bisogna produrre l’ ombra dapprima nel modo ordinario, poi dopo avere accostato all’ apparecchio un bastone strofinato, ponendolo sia più basso sia più alto della croce, e lateralmente. Onde poter con- frontare la forma e posizione dell’ ombra nei due casi si può ricorrere al metodo della carta a quadretti onde copiare in uno stesso foglio le due figure ; oppure si può fissare col polverizzatore la prima figura, e dopo aver collocato al posto di prima il foglio di carta, formare la seconda adoperando una polvere conduttrice di colore diverso. O infine, adoperando una lastra coibente per ricevere l’ ombra, si può dopo la formazione della prima figura proiettare il miscuglio di minio e solfo in quantità appena sufficiente a delineare l ombra ; e poi fatta la seconda scarica proiettare di nuovo il miscuglio, con che restano impresse in pari tempo le due figure. In qualunque modo si operi, si trova sempre un notevole spostamento dell'ombra, accompagnato da deformazione di questa, che rende evidente l’ azione attrattiva o — 565 — ripulsiva del bastone elettrizzato sulle molecole emesse dalla punta. Così la fig. 7 mostra in Al’ ombra ordinaria ed in B l ombra respinta da un bastone elettrizzato con segno eguale a quello della punta. Quando il bastone è collocato convenien- temente, può darsi che sulla lastra, oltre che l ombra della croce, si formi anche quella del bastone. Un lieve spostamento dell'ombra si osserva Fig. 7. anche con un bastone non strofinato. Esso è do- vuto principalmente ad elettricità acquistata dal bastone per la sua vicinanza ai conduttori elet- trizzati, e presumibilmente anche al polarizzarsi di esso per influenza. Se si opera col terzo dei metodi insegnati ricevendo le ombre sopra una lastra metallica o sopra una carta, torna comodo agire sull aria elettrizzata che è respinta dalla punta, non già con un bastone coibente strofinato, ma con un conduttore isolato che si carica. Per caricare il conduttore, lo si mette in comunicazione con uno dei conduttori della macchina, riservando però lungo la comunicazione una interruzione ove scocchino delle scintille. Anche un conduttore in comunicazione col suolo produce un effetto analogo, in virtù dell’ elettricità che vi si sviluppa per influenza. Produzione simultanea di due ombre. Si dispongano sopra una stessa lastra coi- bente o conduttrice D, (fig. 8) destinata a ricevere le ombre, due croci eguali C,C, e due punte verticali e parallele P, P, (Naturalmente se D è coibente sotto di essa si colloca una lastra conduttrice, e poi si opera col primo metodo). Se P, e P, si fanno comunicare in- sieme e con una delle armature d’ una bottiglia carica, mentre il disco metallico D comunica coll’ altra armatura (primo metodo), oppure se P, e P, si mettono in comunicazione stabile con uno dei con- duttori della macchina d’ Holtz in azione, e D coll altro conduttore (secondo e terzo metodo), si ottengono due correnti simulta- nee di molecole d’aria elettrizzate, che partono dalle due punte, e che producono — st — ECTS — 566 — le due ombre di C, e C,. Queste due ombre sono più lontane fra loro che non quelle che si ottengono facendo agire separatamente le punte P, e P,, e deformate inoltre in modo da rendere ben manifesta la ripulsione reciproca delle due correnti. Il confronto fra le ombre ottenute separatamente e quelle ottenute in pari tempo, si fa come è indicato nel paragrafo precedente. Ma per semplificare l’ esperienza si può delineare solo l’ ombra per esempio di C,, prima quando P, non agisce e poi quando entrambe le punte sono in azione. Si può studiare l’ influenza reciproca di due correnti di molecole d’ aria che abbiano elettricità di segno diverso, lasciando D affatto isolato e facendo giungere le due elettricità contrarie della bottiglia (primo metodo) o della macchina (secondo e terzo metodo), alle due punte P, e P,. Così facendo le ombre simultanee di C, e C, sono più vicine fra loro che quelle che le due punte producono agendo separatamente. Resta così resa manifesta l’ attrazione reciproca dei due sistemi di molecole elettrizzate emesse dalle due punte. Naturalmente per la buona riescita di questa esperienza conviene aver cura di non porre troppo vicine le due punte P, e P,, onde i due getti d’aria non abbiano a confondersi, nè troppo lontani onde non risulti troppo piccola la loro azione reciproca; così pure devonsi avere altre avvertenze, che non enumero per brevità, ma che il lettore perspicace potrà senza fatica indovinare. L'esperienza descritta, con due punte recanti elettricità dello stesso nome, ne richiama una analoga del Crookes. Anche nella esperienza del Crookes, due sistemi di molecole elettrizzate emesse da due elettrodi negativi vicini, collocati in un gas assai rarefatto, sì respingono reciprocamente, mentre è noto che due correnti vol- talche parallele e di egual direzione si attraggono. Domalip invece ha ottenuta una visibile attrazione, non però adoperando due elettrodi negativi in un tubo a gas rarefatto. ma toccando esternamente il tubo in due punti vicini fra loro (1). La divergenza di risultati può forse spiegarsi colla diversa velocità assoluta delle molecole elettrizzate. Partendo dalla teoria di Maxwell, J. Thomson (2) ha tro- vato infatti, che due sfere elettrizzate che si muovono parallelamente con egual velocità, si respingono o si attraggono, secondo che la loro velocità è minore o maggiore di c j/3, essendo e la velocità della luce. Nota — Accennerò per ultimo ad alcune esperienze che mio malgrado non ho potuto finora condurre a termine, attinenti al presente lavoro. Alcune riguardano l'influenza della pressione dell’ aria sulla formazione delle ombre. Il fondo d’ una campana di vetro in cui può farsi il vuoto, è metallico e (1) Phil. Mag. february 1881. (2) Phil. Mag. april 1881. — 567 — coperto d’ una carta a quadretti aspersa di polvere finissima di zinco. Una croce ed una punta compiono un apparecchio semplicissimo, col quale si potranno otte- nere le ombre a pressioni diverse. Altre esperienze riguardano l’ effetto che si produce con una punta ad alta tempe- ratura. Essa viene formata da un filo di platino riscaldato più o meno dalla corrente di una pila, e piegato in forma di angolo assai acuto, oppure da una fiammella a gas capovolta. Osservai, che non appena il filo di platino è posto in comuni- cazione colla macchina in azione, esso si raffredda alquanto, ed anzi se prima era rovente può raffreddarsi sino a divenire oscuro; effetto dovuto evidentemente al calore sottratto al filo dalle molecole d’ aria respinte. In altro tempo studierò le ombre formate da una punta calda. Per ora dirò solo che presentando una lastra d’ ebonite ad una punta calda che rechi elettricità negativa, la proiezione della polvere fa apparire di fronte alla punta un cerchio privo di elettrizzazione cir- condato da una regione rossa (di minio) il qual cerchio è di diametro tanto mag- giore, quanto più calda è la punta. Altre esperienze appena iniziate, dovevano servire a studiare Il’ effetto di una corrente d’ aria diretta sulle molecole respinte dalla punta. Infine feci alcune prove preliminari, onde riscontrare se le molecole emesse dalla punta elettrizzata, sono deviate da una potente elettrocalamita, nello stesso modo che lo sono nei tubi a gas molto rarefatto ; ciò che costituirebbe un feno- meno reciproco a quello ben noto di Rowland, in cui un corpo elettrizzato in rotazione agisce sopra un ago calamitato, come una corrente chiusa. Le prime prove fatte diedero risultato negativo ; ma il fenomeno forse sl otterrà con appa- recchi migliori. >> ——@& ÎI 4 ie i i i È ipo la dla SPOSTAMENTI E DEFORMAZIONI DELLE SCINTILLE NELL ARIA PER AZIONI ELETTROSTATICHE | INIOERVA del Professore AUGUSTO RIGHI (Letta nella Sess. Ord. delli 12 Maggio 1881) La formazione della scarica fra due conduttori comunicanti colle armature di un condensatore carico, dipende sopratutto dalla densità elettrica sui conduttori stessi, cosichè a parità di condizioni avviene la “scarica con minor differenza di | potenziale, se si aumenta la densità alla superficie degli elettrodi (1). Così per | esempio fra palline di piccolo diametro si hanno, a parità di potenziale, più lun- ghe scintille che fra grosse sfere; accostando alle palline una lastra non isolata, per l’accrescimento di densità elettrica sulle palline dovute all’ influenza, si anticipa la scarica; se si mette una delle due palline (e quindi la corrispondente arma- | tura del condensatore) in comunicazione col suolo, la differenza di potenziale ri- | chiesta per la scarica diviene minore,-in causa dell’ aumentata densità sulla pal- | lina rimasta isolata ed esposta all'influenza dei corpi circostanti ecc. Oltre che coll’ uso dell’ Elettrometro descritto nella citata Memoria, dimostrai questi ed altri fatti analoghi adoperando un semplicissimo apparecchio differenziale, | nel quale alla scarica si offrono due vie diverse. Per esempio può la scarica effet- tuarsi da una piccola pallina ad una grossa sfera o da una grossa sfera ad una | pallina, ed è facile disporre le due distanze esplosive in guisa che la scarica av- venga sempre ove comunica col suolo la sfera di maggior diametro; ciò che di- | mostra che l’effetto del rimanere isolato uno dei due elettrodi è maggiore, come | è naturale, quando sia quello di diametro minore. | Quando poi gli elettrodi sieno di diametro diverso ed entrambi isolati, è noto da lungo tempo che la scarica avviene più o meno facilmente (ossia richiede minore o maggiore differenza di potenziale), secondo che la sfera di diametro | e | (1) Sulle scariche elettriche — Prima Memoria; Atti dell’ Acc. delle Scienze di Bologna 1876. | — N. Cimento, serie 2° t. XVI pas. 89 e 97. TOMO II. 02, — 570 — minore rechi la elettricità positiva o la negativa; e nel lavoro citato mostrai come ora avvenga la scarica ove l'elettrodo che ha curvatura minore è positivo, ora quando è negativo, secondo la distanza esplosiva, e secondo che nell’ arco di sca- rica vi è o no un'altra scintilla più o meno lunga. Infine, quando la scarica debba formarsi fra palline di egual diametro ma di natura diversa, si hanno fenomeni simili a quelli che si ottengono con palline di diverso diametro e della stessa natura. Il complesso de’ fenomeni mostra che la formazione della scarica dipende so- pratutto, come la lenta dispersione, dalla densità elettrica sugli elettrodi. Si è quindi condotti ad ammettere che mentre la batteria si carica e si aumenta grado a grado il potenziale sugli elettrodi, avvenga una convezione elettrica, ossia un trasporto di elettricità dall’ uno all’altro elettrodo per mezzo delle molecole dell’aria. Ogni mo- lecola d’aria attratta da un elettrodo, vi si carica, quindi è respinta ed attratta dall’ altro elettrodo e così di seguito. Questa specie di danza elettrica effettuata dalle molecole d’ aria andrà accelerandosi al crescere della carica, e cesserà d’un tratto quando avviene la scarica esplosiva. Ma siccome negli incontri reciproci delle molecole d’aria diversamente cariche si sviluppa calore e quindi avviene dilatazione, così la scarica esplosiva avverrà tanto più facilmente, quanto mag- giore è la densità sugli elettrodi, poichè allora la convezione operata dall’ aria è maggiore, e sopratutto dovrà formarsi ove con maggior intensità si effettua la convezione elettrica che la precede. Ora, nello stesso modo che un conduttore elettrizzato devìa più o meno dal loro cammino le molecole d’aria emesse da una punta elettrizzata (1), esso dovrà più o meno deviare quelle emesse dagli elettrodi prima della scarica esplosiva, ed anzi le molecole emesse dall’ elettrodo positivo devieranno in un senso, e quelle emesse dal negativo in senso contrario. Se gli elettrodi sono in identiche condizioni quanto alla forma, dimensione e valore assoluto del potenziale, la scintilla, che come ho avvertito segue il cammino della convezione che la precede, non sarà che poco deviata e deformata per la presenza del corpo elettrizzato. Ma se invece la den- sità elettrica è assai più grande sull’ elettrodo A che su 5, le molecole d’aria respinte da 4 saranno più numerose e più cariche, e quindi esse saranno assai più deviate dal corpo elettrizzato, che non quelle respinte da B; perciò la scin- tilla che si forma nell’ istante della scarica, risulterà alquanto spostata. Essa sarà. cioè attratta o respinta dal corpo elettrizzato, secondo che l’ elettrodo su cui prima della scarica la densità è maggiore ha carica opposta od omonima a quella del corpo deviante. In altre parole una scintilla dovrà spostarsi per effetto dell’ acco- starvi un corpo elettrizzato, come farebbe un corpo carico della stessa elettricità di quello dei due elettrodi su cui la densità è maggiore. Così per esempio se la scarica si produce fra due palline eguali, una A isolata, (1) Vedi Memoria precedente: Le ombre elettriche. — 5I1 — V altra B comunicante col suolo, la scintilla sarà attratta da un corpo carico posi- tivamente e respinta da uno carico negativamente, se A è negativo, mentre che se A è positivo avverrà l'opposto. Insomma la scintilla si comporterà come un corpo avente la stessa elettricità della pallina isolata. Così pure se la scarica avviene -fra palline entrambe isolate e di diametro di- verso, siccome la densità elettrica è maggiore su quella più piccola, la scintilla si comporterà come un corpo dotato dalla stessa elettricità dell’ elettrodo più piccolo. Le esperienze istituite a conferma di quanto precede, riescirono nettamente con- cordi alla previsione. La scintilla che quando non è troppo lunga, è pressochè ret- tilinea, acquista invece una forma assai incurvata od anche angolosa dalla parte verso cui è spinta, ed invece di avere i suoi estremi nei punti più vicini fra loro dei due elettrodi, parte da punti posti lateralmente, dalla parte verso cui è attratta o respinta, ciò che naturalmente implica una maggior lunghezza di essa. Ma lo spostamento e la deformazione della scintilla divengono oltremodo marcati, se la scarica è rallentata coll’ introdurre nell’ arco di scarica una colonna d’acqua di- stillata, tale che invece di aversi una scintilla ordinaria, cioè del primo tipo (1), se ne abbia una gialla, cioè del secondo tipo. In questo caso gli effetti sono vera- mente sorprendenti, ed anzi la scintilla si allarga moltissimo, quasi direi si diffonde verso la parte ove è sospinta dall’ azione del corpo elettrizzato. Il mezzo più semplice di verificare gli spostamenti delle scintille, è quello di accostare al luogo ove devono formarsi, un bastone coibente strofinato. Ma accade facilmente che così facendo si abbia ripulsione anche quando dovrebbe aversi l’at- trazione. Ciò accade nel modo seguente. Supponiamo che per essere positivo 1’ elet- trodo su cui è maggiore la densità elettrica (che nel caso di palline eguali sarà l’ elettrodo isolato), la scintilla debba essere attratta da un bastone d’ ebonite stro- finato. Accadrà che prima della scarica le particelle d’aria positive che 1’ elettrodo in discorso respinge abbondantemente, investiranno il bastone, e dopo poco non solo l’ avranno scaricato della sua elettricità negativa, ma anche 1 avranno reso positivo. Ciò si può constatare accostando allora il bastone ad un elettroscopio. La scintilla sarà dunque respinta anzichè attratta. È necessario quindi non accostare il bastone strofinato che un istante brevissimo prima della scarica, cosa a cui si riesce dopo un po’ di pratica, quando si presta attenzione al ritmo col quale si succedono le scariche, mantenendo in azione continua la macchina. Un altro mezzo assai semplice è quello di far uso di un conduttore comuni- cante con uno dei due elettrodi. Ma per procedere regolarmente nelle esperienze, meglio è operare nel modo seguente. (1) Sulle scariche elettiche — Seconda Memoria. Atti della R. Accademia dei Lincei 1876; N. Cimento 3° serie p. 1 pag. 234 (1877). — 572 — Due palline o meglio due dischi paralleli 4, B, sono posti in comunicazione coi conduttori d’ una piccola macchina d’ Holtz munita del conduttore diametrale, onde non sia soggetta alle inversioni, e mantenuta in continua azione. La distanza fra A e B deve essere tan- to grande, che non possa aver luogo nes- suna scarica fra di essì, e neppure che pos- sano aver luogo scariche fra Ae B ed i conduttori C e Ddi cui fra poco dirò 1’ uso, e che nemmeno sl formino fra 1 vari con- duttori dei fiocchi di dispersione. In tali condizioni la macchina non fa che restitui- re ai dischi l’ elettricità che vanno perdendo per dispersione, e li mantiene a potenziali costanti sensibilmente eguali e di opposto segno. Due aste verticali C e D terminate da palline, comunicano colle due armature d’ una batteria, che è caricata da una seconda macchina d’ Holtz. La scarica che si formerà fra C e D sarà così esposta all’ influenza dei due dischi, e sarà spostata in un senso o nell’ altro secondo i casi. Per non fare una lunga enumerazione delle esperienze eseguite, mi limiterò a citarne alcune. Supponiamo che A sia + e B —, e che C e D sieno due palline identiche, di cui C sia + e D —. Se inoltre C comunica col suolo e D è isolata, la scin- tilla segue il cammino d incurvandosi verso A. Essa si comporta come un corpo negativo, ed appunto in tal caso è negativo l’ elettrodo isolato D. Se A e B non fossero elettrizzati, la scintilla si formerebbe in a e sarebbe rettilinea se la distanza CD è piccola. Collocando in £ all’ altezza di C un’ altra pallina comunicante con €, si riesce a far sì che la scarica si formi fra D ed E, quantunque DE sia maggiore di DC. Mettendo D in comunicazione col suolo ed isolando la pallina positiva C, la scintilla si piega dalla parte opposta, cioè verso B. Supponiamo ora che mentre C' è una pallina di 16"" di diametro, D sia di diametro maggiore, per esempio 42"", e che entrambi gli elettrodi sieno isolati. La scintilla si piega in questo caso verso 5, se la piccola pallina è positiva, e verso A se è negativa, comesse invece della pallina più grande D, se. ne avesse una eguale a C ma in comunicazione col suolo. Il fenomeno diviene quindi più accentuato se la pallina più grossa D vien posta in comunicazione col suolo. Invece gli spostamenti diventano minori mettendo in comunicazione col suolo la pallina più piccola. Diffatti nel primo caso sì au- menta ancora più la densità sulla pallina piccola in confronto di quella della grande; nel secondo caso invece si rende minore la differenza. — 573 — Le esperienze ora descritte dipendono dalla maggior densità elettrica che acqui- sta una pallina isolata, in confronto di una comunicante col suolo, oppure di una piccola in confronto d’ una maggiore. Ma i fatti riassunti in principio di questo scritto indicano, che a parità di condizioni le due elettricità sono cedute con di- versa facilità alle molecole d'’ aria, d’ onde i noti fenomeni delle valvole elettriche, come pure elettrodi di natura diversa disperdono diversamente la loro carica. An- che in questi casi le esperienze mostrano il relativo spostamento della scintilla per effetto dei due dischi A e B. Così per esempio con palline Ce Didi 16"" di dia- metro in condizioni assolutamente identiche, e a distanza di circa 20"", si osserva un piccolo spostamento verso A, ciò che indica che è più abbondante l'emissione di molecole d’ aria negative dell’ elettrodo negativo prima della scarica, che quella di molecole positive dall’ elettrodo positivo. Siccome qui l’ effetto è piccolo, qualche volta (specialmente quando nel circuito sono introdotte delle colonne di acqua), la scarica assume una forma di S o talvolta di O, che indicano spostamenti oppo- sti delle due estremità della scarica. Perchè 1’ identità fra le due palline sia completa, se nel circuito s introduce una forte resistenza, questa deve consistere in due identiche colonne d’ acqua inter- poste rispettivamente fra ciascun elettrodo e l’ armatura del condensatore colla quale è in comunicazione. il o NETTE ni RR 4 È N, tri dt pa z } Che # puri È } È “ x + ; È al Ù È ae ie li Ti e i di b è Vi dr IE i : z n o È ri ì, 2) 41 % a ASBI RUE À =" tr ti piso & { : I do i a toro) I > h : i; pi Y È : £ i > Ì ® } ’ hi If i Ù è , Il . Ù x Y = ì x W = T & Ù I DI ALCUNE CURIOSE: CONFORMAZIONI DELLA SCINTILLA: NELL ARLA NOTA Dir pPROBGBRFAUGUSTO RIG (Letta nella Sess. Ord. delli 12 Maggio 1881) Se alla scarica d’un condensatore sì offrono due vie da percorrere, è rarissimo il caso di riuscire ad ottenere la biforcazione della scarica con due scintille simul- tanee. Così per esempio se due palline identiche @ e 3 comunicano mediante fili eguali coll’ armatura interna del condensatore, e sono poste di fronte ad un largo disco comunicante coll’ armatura esterna, è difficilissimo anche cercando di rendere le distanze dalle palline al disco perfettamente eguali, di ottenere due scintille simultanee. Ma se fra ciascuna delle palline @ e è e l’ armatura interna del con- densatore si interpone un tubo contenente acqua distillata, di dimensioni tali da rendere gialla la scintilla (1), diviene agevol cosa l’ ottenere le due scintille simul- tanee. Così disposte le cose, e senza variare la distanza delle palline dal disco, si diminuisca la distanza che le separa ’ una dall’ altra. Allora vedesi al momento della scarica una scintilla che va da una delle palline, per esempio @, al disco, ed un’altra scintilla che va da d ad @, oppure parte da è per innestarsi alla scintilla che va da a al disco in un suo punto intermedio, per cui la scarica assume la forma seguente: Ta =————_ EEN disco d Per spiegare questa forma singolare della scintilla, conviene considerare che la scarica per effetto delle colonne d’ acqua è rallentata: Per cui, mentre al prin- cipio della scarica si ha la scintilla ad, ben tosto si forma la scintilla che va da (1) Vedi la 2° Memoria Sulle scariche elettriche; Atti dell’ Accademia dei Lincei 1876 e N. Ci- mento 3* serie t. I. pag. 234. — 576 — b ad a, o da d alla scintilla «d, perchè è rimane ancor carico, e la scintilla ad in virtù del riscaldamento che produce nell’ aria, offre un cammino di poca resi- stenza. Si riesce pure ad ottenere una scintilla in forma d’ Y, sostituendo al disco una terza pallina c, e disponendo le tre palline così : Disponendo invece le tre palline sopra una stessa verticale, si hanno due scin- tille simultanee «0 e ac come nella figura seguente : La scintilla «0 si spiega come prima, ma ad ogni modo riesce assai curioso il vedere una scarica fra le due palline « e 8 che comunicano con una stessa arma- tura del condensatore. —_——__TEMASIATO___- SOPRA. IL DISTRIBUIMENTO E TERMINAZIONE DELLE FIBRE NERVEE NELLA CORNEA E SOPRA L'INTERNA CONSTRUTTURA DEL LORO CILINDRO DELL'ASSE NUOVE INVESTIGAZIONI MICROSCOPICHE del Prof. G. V. CIACCIO (Lette nella XVI Sessione ordinaria del 10 Marzo 1881) Ancorachè molto si sia scritto e da molti circa alla maniera onde sono distri- buite e si terminano le fibre nervee nella cornea, non che prima, ma dipoi che il Cohneihm ebbe trovato nel cloruro d’ oro il misto chimico più valente in render quelle visibili insino alle ultime loro diramazioni; nondimeno, anche oggigiorno, varie e tra loro discordanti sono le opinioni degl’ investigatori specialmente sopra la vera terminazione di esse fibre nervee così nella propria sostanza della cornea, come nel suo epitelio. E di vero, quanto alla sostanza propria della cornea, ci sono alcuni (1) che vogliono che la più parte delle fibrille (Axenfibrillen de’ mo- derni Istologi tedeschi), che per quella si veggono correre, finiscano nelle cellule corneali; dove che altri (2) credono per certo che non vi terminino in altra guisa che in una spessa rete a piccole maglie quadrate o rettangole. E, tra coloro che sono nella prima opinione, alcuni (3) avvisano che non solamente ciascuna fibrilla, ma talvolta anco tutto un piccolo fascio di fibrille, s' incorporino sì fattamente co’ prolungamenti delle cellule della cornea, ch’ egli non è possibile dire, dove la so- stanza compositiva delle une si termini, e dove il protoplasma degli altri s' inizi: alcuni altri (4), in contraria sentenza tratti, affermano che le fibrille predette, (1) KirnE — Untersuchungen iilber das Protoplasma und die Contractilitàt. Leipzig 1864. Izquierpo — Beitriige zur Kenntniss der Endigung der sensiblen Nerven. Strassburg 1879. (2) Durante — Sulla terminazione de’ nervi nella cornea. Ricerche fatte nel Laboratorio di Anatomia normale della R. Università di Roma nell’anno 1872 e pubblicate dal Prof. F. Todaro. Roma 1873, p. 81-87. CaLeBRUN MERCURE — Osservazioni sulla terminazione de’ nervi nella cornea. Giornale dell’ Ac- cademia di medicina. Torino 1875. (3) Il KiEnE e l’IzquiERDO soprammentovati. (4) Lipxany — Ueber die Endigungen der Nerven im eigentlichen Gewebe und im hintern Epi- thel der Hornhaut des Frosches. Wircow's Archiv. XLVII Bd. p. 218. TOMO II. 13 — 5798 — poichè si sono indentrate nelle cellule della cornea, o per la via de’ loro prolun- gamenti, o per una parte qualunque del loro corpo, raggiungano ora il nucleo, ora il nucleolo, ed ivi senz’ altro finiscano un poco rigonfie nell’ estremità loro: altri (1) infine pensano che nella cornea di certi animali almeno, com’ a dire in quella de’ cani, le fibrille nervose han termine in alcune particolari piastrette che sono attaccate alle pareti di quei vani, deve le cellule della cornea son contenute. Nè minori, nè meno diverse e contrarie sono poi le opinioni intorno al modo come le fibrille nervose finiscono nell’ epitelio; imperocchè alcuni (2) asseverano finirvi esse con estremità bottonata o non; altri (3; in una reticella delicatissima ; altri (4) in alcune cassulette di peculiare tessitura; altri (5) in particolari corpuscoli non dissimiglianti nell’ ufficio da quelli tattivi; altri (6) in piccole cellule in forma di pera: ed ancora vi sono stati di quelli (7) che fanno terminare 1’ estremità delle dette fibrille alla superficie dell’ epitelio, talchè, essendo esse allo scoperto, sono bagnate e tocche da quell’umore che di continuo irriga l’ occhio. Onde in tante e così fatte dubbiezze a me è paruto cosa nè soperchia nè inutile riferire, con quella fedeltà che io posso maggiore, tutto ciò che sopra tale materia di più certo o di più vero mi hanno mostrato non poche osservazioni che in questo e negli anni passati ho fatto intorno a’ nervi della cornea di diversi animali. La quale ho sempre, per la ricerca de’ nervi, condizionata in due modi. L’ uno è quello del Ranvier già ben noto; l’altro è quello che da assai anni adopero, e consiste in ciò. Da un animale, subito morto o poco poi, si taglia via la cornea, e nettatala bene con un morbido pennello, s' immerge in una soluzione di cloruro di oro o di cloruro di oro e di potassio all’ 1 per cento, e vi si lascia stare da 15 a 40 minuti, secondo la minore o maggiore grossezza sua. Dipoi, tenendola sempre con le mollette, o tutte di osso o con sole le punte, si lava in acqua distillata, e quindi nuovamente s immerge in una soluzione acquosa di nitrato di argento all 1 per mille, agitan- dovela dentro per alcuni secondi. Si rilava in acqua distillata, e appresso in suffi- ciente quantità di questa resa acidula con qualche goccia di acido acetico (50 gr. di acqua stillata, e 15 centigrammi d’acido acetico ristretto) si lascia dimorare un (1) Lavpowstkr — Das Saugadersystem und die Nerven der cornea. Mx. Schultze’s Archiv. VITI Bd. p. 598. (2) KoLLigER — Ueber die Nervenendigungen in der Hornhaut. Wiureburger naturwissenschaft Zeitschr. VI BA. 1866. (3) KLEIN — On the peripheral Distribution of non medullated Nerve-fibres. Quartely Journal of inicros. Sc. Octob. 1871, p. 405. (4) Inzani — Ricerche anatomiche sulle terminazioni nervose. Parma 1869. (5) Tnanmorrer — Beitrige zur Histologie und Physiologie der Hornhaut. Wirchow's Archiv. LXIII Bd. 1875. (6) DirLEvsen — Ueber die Endigung der Gefùhlsnerven in der Hornhaut. Nord. med. Arch. XS Na to, 1878: (7) Cornneni — Ueber die Endigungen der sensiblen Nerven in der Hornhaut. Centralblatt fiir die med. Wissenschaft. Nr. 26, 1866 e Wirchows Arch. fir path. Anat. XXXVIII Bd, 1867. — 579 — giorno allo scuro, e due altri alla luce del sole. Il qual tempo il più delle volte basta, onde i nervi sì coloriscano e facciano visibili. E, de’ due sopraddetti modi di condizionare la cornea, a me quasi sempre è riuscito meglio il secondo, che il primo; perchè con esso ho osservato rendersi manifesti e chiari non che i grossi rami de’ nervi, ma le ultime fibrille, le quali, ch° è più, si tingono di un colore più intenso, e talvolta differente da quello, onde si tingono le cellule della cornea. E soggiungo che le cornee le più adatte all’ investigazione de’ nervi, secondo mia esperienza, sono quelle che, dietro il trattamento col cloruro d’oro, abbiano pi- gliato un colore, non già violato, ma azzurrognolo. Che la cornea, dalla retina in fuori, sia tra le parti costitutive dell'occhio la più doviziosamente fornita di nervi, 10 non credo sia da dubitarne: quello però ond’ io assai dubito si è che tutta questa gran quantità di nervi abbiano un solo e medesimo ufficio ; perchè, se ciò fosse, la sensibilità della cornea, che certamente è grande, dovrebbe essere grandissima, e sì squisita, ch’ ella non potrebbe, non che altro, sostenere senza dolore l’ ordinario toccamento dell’ aria. E perciò io estimo, che sola una parte di questi nervi è sensibile; laddove gli altri tengono sotto di sè e reggono gl’ intimi movimenti nutritivi della cornea e ne mantengono inalterata la trasparenza. E de’ nervi sensibili forse alcuni non sono atti ad esser passionati che dalla sola luce, la quale, se non di continuo, assai spesso la cornea trapassa (1). I nervi della cornea, come ognun sa, sono diramazioni de’ nervi ciliari, eccetto alcuni pochi rami che le vengono dal plesso nervoso profondo di quella parte della congiuntiva che veste il davanti del globo dell’ occhio. Ed essi, primachè nella cornea s’ addentrino, formano alla sua circonferenza un plesso, che, dal luogo ch’ei tiene, a me pare potersi con ragione chiamare plesso nervoso circonferenziale della cornea. Il quale consta di fasci di differenti grandezze : i maggiori hanno forma di nastro e sono composti di fibre nervose midollari rinserrate in una manifestis- sima guaina nucleata, la quale, com’ io avviso, altro non è che la così detta guaina dell’ Henle : i minori sono pressochè ritondi, e dal loro esame microscopico che ho fatto in alcuni esemplari di cornea colorata dal cloruro d’ oro non ho potuto pie- namente chiarirmi se essi siano in tutto composti di fibre pallide, o vero insieme con loro ci sia alcuna fibra nervosa midollare. Questo plesso circonferenziale a me (1) Nella cornea v ha due specie di sensibilità, l’ una tattiva ch'è imperfetta, l’altra dolorifica ch’ è molto grande. Ma, oltre a queste due sensibilità che sono ammesse dall’ universale de’ fisio— logi, io credo per fermo che ce ne sia un’altra al tutto speciale, cioè quella alla luce. E siccome le due prime si tiran costantemente dietro certi movimenti riflessi che si manifestano e neile pal pebre con quel che nella lingua nostra si dice comunemente ammiccare o batter delle palpebre, e nella glandula lagrimale con l’augumento della separazione delle lagrime; così la terza si tira pur dietro certi altri movimenti riflessi di natura interiore, i quali a noi non si fan palesi che per l’effetto loro, ch’ è la nutrizione del tessuto della cornea, e il mantenimento della sua tra- sparenza durante la vita. Onde, siccom’io avviso, nella cornea ci sono quattro sorte di fibre ner- vose, cioè tre ad azione centripeta, e una ad azione centrifuga, la quale ultima corrisponde ai così detti nervi trofici degli autori. — 580 — non è incontrato di vederlo distintamente, che nel calderugio e nella rana, nella quale esso apparisce fatto di tre parti o suoli (1). L'esterno o anteriore si com- pone di fascetti nervosi rotondi, i quali hanno un andamento più o meno tortuoso, ‘e nascono da’ grossi fasci del suolo medio ; e, come pare, ciascun fascetto consta «di sole fibre pallide. Il suolo medio è formato di fasci di fibre nervose midollari, grossi e assai schiacciati, e forniti ciascuno di una distimguibilissima guaina nu- ‘cleata. L’ interno o posteriore poi consiste di minutissimi fascettini di fibre pallide, la maggior parte de’ quali vanno diritti, e qua e là s' inflettono in angolo retto o a modo di ginocchio, e si dividono e uniscono insieme, formando così delle maglie piccole e di diverse forme, ma per lo più rettangole o quadrate. E vuolsi notare che queste tre parti o suoli, onde nella rana è composto il plesso circonferenziale, si trovano eziandio in quell’altro che i fasci nervosi formano dentro la cornea, e del quale diremo più sotto. Fatto questo primo plesso, che ne’ diversi animali è più o meno manifesto e compiuto, i fasci nervosi, in forma di tronchi e tronconcelli, passano oltre e si addentrano nella cornea dalle varie parti della sua circonferenza; e nell’ adden- trarvisi ch’ ei fanno, ora si tengono più dappresso alla faccia di dietro di essa cornea (uccelli, lucertole, tartarughe terrestri, rane, tritoni), ora a quella d’ avanti (conigli, topi, ratti, pipistrelli). E poichè eglino vi si sono addentrati, le fibre loro componenti, se già non l’ avevano fatto avanti, sl svestono, quale prima e quale poi, la loro guaina midollare (2); talmentechè, a piccola distanza dal margine della cornea, tutti i fasci nervosi che la corrono non sono composti che di fibre pallide. E di questi fasci solamente i maggiori con le loro diramazioni arrivano fino al mezzo della cornea, perchè i minori, dopo camminato ancora essi diraman- dosi per un certo spazio, a quelli si congiungono. Ond’ è che tanto gli uni quanto gli altri con l’ unirsi insieme e scambiare le loro fibre formano un plesso, il quale, siccome è origine a tutti quegli altri che sono nella cornea, io chiamo plesso ori- ginario o principale. Il quale si distende per quanto ha di largo la cornea, e varia sì nella sede come nella disposizione, secondo gli animali. Perocchè in alcuni, come (1) La cornea di rana, nella quale il plesso nervoso circonferenziale appariva manifestamente composto di tre parti o suoli, come di sopra è detto, era stata trattata, secondo la maniera del Ranvier, prima col succo di limone, poi col cloruro d’oro e di potassio, e poi in luogo di fare avvenire la riduzione di esso cloruro nell’ acqua distillata resa acidula con qualche goccia di acido acetico, fu fatta avvenire nello stesso succo di limone. Questa modificazione da me portata al metodo del Ranvier ha fatto buona riuscita solamente nella cornea della rana, i cui nervi si co- loriscono tutti da’ maggiori a’ menomissimi in azzurro, ma non in quella de’ mammiferi e degli uccelli. (2) La distanza che c’è dal margine della cornea al punto, dove le fibre nervose, internate che si sono nella cornea, lasciano la guaina midollare e diventano pallide, varia secondo gli animali. Così io ho trovato la predetta distanza nel ratto essere da 125 a 400 p; nel gallo da 312 a 375 p; nel verdone da 100 a 129 p.; nel verzellino da 110 a 122 #; nel calderagio da 100 a 180 p.; nella lucertola da 80 a 125 »; nella rana da 140 a 170 p. — 581 — le lucertole, le tartarughe terrestri, le botte, le rane, i tritoni, è situato quasi a mezzo lo spesso della cornea, e le maglie ch’ egli forma, oltre all’ esser poche e per lo più grandi, sono qua e là incompiute : in altri, come gli uccelli, occupa buona parte della metà anteriore della cornea, e le sue maglie non solamente sono di differenti forme e grandezze, ma sono allogate in diversi piani: in altri, come i conigli, i topi, i ratti, i pipistrelli, giace assai vicino alla faccia anteriore della cornea, e per la più o meno regolarità delle sue maglie, e per essere pressochè tutto situato in un medesimo piano, apparisce al guardarlo ingrandito dal micro- scopio come un galantissimo graticolato steso sopra tutta la cornea (Fig. 1% e 3°). Oltre a ciò è da notare, che tutti i fasci che compongono il detto plesso sono fatti di fibrille provenienti da’ cilindri dell’ asse delle fibre nervose midollari, le quali fibrille, là ove i fasci si biforcano, e ne’ grossi nodi del plesso, sì veggono sovente disciolte l una dall’ altra e attraversarsi scambievolmente (Fig. 2°). Ed ancora cia- scun fascio è fornito di una sottilissima guaina con qua e là de’ nuclei, la quale è prolungazione di quella che vedemmo circondare i tronchi e tronconcelli nervosi che dal plesso circonferenziale passano dentro la cornea. E così fatti nuclei della guaina, che si osservano talvolta nella lunghezza de’ fasci di una certa mole, e talvolta da uno a tre in alcuni de’ nodi del plesso originario, han dato cagione a non pochi anatomici di considerarli siccome appartenenti a cellule nervose, che, a creder loro, dimorano ne’ nodi del plesso. Ma questo è falso, perchè cotesti nuclei, che sono d’ ordinario oblunghi e senza nucleolo, e più o meno piatti, e talvolta relativamente assai grandi, come nel tritone, non hanno veruna somiglianza con quelli delle cellule nervose; e se talvolta attorno ad essi si trova della sostanza granosa, questa non è che il prodotto del disfacimento delle fibrille nervose cagio- . nato dalle materie chimiche poste in opera per far quelle visibili. Dal plesso nervoso originario o principale si spiccano sempre una gran quan- tità di fasci o rami di diverse grandezze, parte de’ quali si recano verso la super- ficie anteriore della cornea, e parte si fermano nella sua propria sostanza. E di questi ultimi rami, che sono senza dubbio in minor numero de’ primi, alcuni si veggono nel cammino loro dividersi e suddividersi, e appresso, risoluti in fibrille, andare a formare certe piccole reti circoscritte, o pure terminarsi con estremità libera; altri poi, parimente dividendosi e suddividendosi, vanno a comporre plessi più o meno estesi, i quali talvolta giacciono e sotto e sopra al plesso originario, talvolta solamente sotto, e talvolta solamente sopra. Della prima qualità di rami nervosi, cioè di quelli che finiscono in piccole reti circoscritte o liberamente, se ne ravvisano parecchi in ispezie nella cornea degli uccelli; della seconda, cioè di quelli che formano plessi più o meno estesi, se ne trovano nella cornea delle rane, delle lucertole, de’ topi, de’ ratti. Così nelle rane ci ha due di questi plessi, che potrebbero giustamente chiamarsi secondarii, 1’ uno sotto al plesso principale, che quasi rasenta la membrana del Descemet, ed è formato da ramuscoli o fibre ton- deggianti, che in grandissima parte hanno un andamento tortuoso: l’ altro sopra, — 582 — che occupa diversi piani, ed è similmente formato da fibre tondeggianti, le più delle quali camminano più o meno lungamente diritte, e appresso, nel passare da una lamina della cornea all altra, si piegano o in angolo retto o a modo di gi- noechio. E si avverta, che le fibre o ramuscoli ch’ entrano nella composizione de’ due plessi predetti, i più vengono dal piesso principale, e pochi solamente dalla circonferenza della cornea. Nelle lucertole non si trova che un solo finissimo plesso sopra al principale, il quale è fatto di fibre sottili oltre modo, che in parte vanno diritte e in parte tortuose. Nei topi v'è subito sopra al plesso principale un altro plesso molto esteso, il quale si compone di minute fibrette varicose, che camminano per lo più tortuosamente, e si spartiscono, e s' intraversano e anco si congiungono insieme (Fig. 5°); il quale plesso a me non è avvenuto di vederlo nel ratto, nel quale, in luogo suo, se ne vede un'altro sotto al predetto plesso principale, pres- sochè egualmente disposto, ma molto meno esteso (Fi. 4°). L’ altra ragione di rami nervosi che partono dal plesso principale, siccome poco davanti è detto, s’ indirizzano verso la superficie anteriore della cornea; e questi son detti rami o fibre perforanti, perchè perforano la membranella limitante ante- riore, la quale, per vero dire, in certuni animali è così sottile e poco differenziata dal tessuto proprio della cornea, e perciò poco discernibile da questo ne’ tagli per- pendicolari, che alcuni senza più ve l hanno negata. E sebbene qui di sopra io abbia detto, che i rami chiamati perforanti nascono dal plesso principale, pure ve ne ha di parecchi che vengono direttamente dal plesso circonferenziale. Ma sia qualunque l origin loro, certa cosa è ch° essi non solo nelle cornee de’ differenti animali, ma eziandio in una medesima cornea si differenziano assai tra loro e nella lunghezza e nella grossezza: e in quanto alla lunghezza ei si può dire in gene- rale, ch’ ella è tanto maggiore, quanto più addentro nella cornea il plesso princi- pale è situato. Ond’ è che ne’ topi, ne’ ratti e ne’ pipistrelli i rami perforanti sono assai meno lunghi di quello che non sono nelle botte, nelle rane e ne’ tritoni (Fig. 2° e 3° rp). Senza che i predetti rami perforanti, qualora sieno di una certa lunghezza, siccome è negli uccelli, egli è raro che, avanti che trapassino la mem- branella limitante anteriore, non si bipartiscano o tripartiscano, e i ramettini che allora ne nascono, o trapassano tutti la detta membranella limitante, o vero qual- cuno di essi sì ferma dentro della cornea e vi finisce, o in uno de’ due modi già mentovati, o si aggiunge ad alcuno di que’ rami che vanno a formare il plesso originario o principale. E quest’ ultimo caso si osserva specialmente in que’ rami perforanti, che direttamente procedono dal plesso circonferenziale. Poscia che i rami perforanti han trapassato la membranella che limita anteriormente la cornea, e son pervenuti sotto all’ epitelio, ciascuno di essi si spartisce, secondo la grossezza sua, in una ciocca più o meno grande di fibrille, o in tre fino a otto ramicelli, i quali ancor essi, via facendo, si disciolgono in fibrille. E di qui due differenti maniere di plesso subepiteliale, l’ una ch’ è particolare a non pochi mammiferi, 1’ altra alla generalità degli uccelli e a qualcuno di quelli ancora. La prima è fatta di fibrille — 583 — e di piccolissimi fascettini di fibrille (Fig. 6°), le quali vanno parallelamente alla superficie della cornea, e le une vicino alle altre, e a luogo a luogo si dividono e congiungono tra loro, e se non tutte, la maggior parte s indirizzano con cammino più o meno curvo dalla circonferenza della cornea verso il suo mezzo; e sì fatta disposizione delle fibrille è talmente spiccata ne’ topi e ne’ ratti e forse anche ne’ pipistrelli, che riguardando col microscopio il plesso subepiteliale della lor cornea tutto insieme, esso fa una non lontana similitudine con un vortice, il cui centro però non corrisponde a quello della cornea (Fig. 1° e 7°) (1). L’ altra maniera di plesso subepiteliale consiste di fibrille sottilissime, che risultano dal disciogliersi che fanno i ramucelli, in cui si spartisce ciascuno ramo perforante non appena è pervenuto alla superficie della membranella limitante anteriore della cornea. Le quali fibrille camminano parte diritte e parte più o meno tortuose, e si dividono assal spesso sotto differenti angoli, e si uniscono l’ una con ’ altra, e s° interse- cano per ogni verso, e talvolta parecchie di loro s incontrano in un medesimo punto (Fig. 8* e 9°). E perciò un tale plesso, quando è rimirato intero con attento occhio, apparisce come se fatto fosse di una moltitudine di piccolissime stelluzze, collocate qua e lè a disuguale distanza 1 una dall’ altra, i raggi di ciascuna delle quali, dopo essersi divisi reiterate volte, attraversano e si congiungono co’ raggi provenienti dalle altre stelluzze attorno. Ma o dell’ una o dell’ altra maniera che sia il plesso subepiteliale, egli è ormai fuori dubitazione, che la vera sua sede è tra la membranella limitante anteriore della cornea e 1’ epitelio, sebbene esso sia più a questo che a quella aderente, siccome appieno lo dimostra il fatto, che to- gliendo da una qualsivoglia cornea bene colorata col cloruro d’ oro tutto l’ epitelio, frequentissimamente avviene che del detto plesso altro non vi rimanga che qui e là una qualche menoma particella (2). Dal plesso subepiteliale sempre si levano su una infinità di piccole fibrille, che, quali diritte e quali più o meno oblique, s' internano nell’ epitelio (Fig. 10°, 13% e 14°). }l di queste fibrille che sono dentro l’epitelio, certe son più sottili, e certe altre meno; e quasi tutte dietro l’ opera- zione del cloruro d’ oro pigliano tale sembianza come se elleno fossero composte (1) Questa particolarità di essere il plesso nervoso subepiteliale conformato a vortice nella cornea de’ topi e de’ ratti, io la vidi in sul finire dell’anno 1871, e mi credetti ch'io fossi il primo a vederla. Ma poi venni a sapere, com’ essa, alcun tempo avanti a me, era stata osservata e ap- presso descritta in una piccola Nota (Arch. per la Zool. Anat. e Fisiolog. Ser. II, Vol. III, 1872) dal chiaro collega ed amico, il Prof. Richiardi dell’ Università di Pisa. Al quale io intendo qui di rendere le più care e più colme grazie per l’ amichevole liberalità con cui ha voluto mettere tra le mie mani e a mio speciale uso e vantaggio due stupendi esemplari microscopici del Mus decu- manus, dall uno de’ quali fu ritratta la figura ch’ è la 1° tra quelle che questo mio scritto accom- pagnano. (2) Poichè, com’ è detto di sopra, nel plesso subepiteliale c’ entrano e fibrille che si dividono e congiungono insieme e fascettini di fibrille, e quelle sono in assai maggior numero di questi; pertanto io credo ch’esso tenga più della natura della rete, che del plesso nervoso; se vero è, come affermano gli odierni Istologi, che nel plesso non ci ha che solo addossamento di fibrille, e nella rete vera unione dell’ una fibrilla con l’altra. — 584 — di minutissimi globetti posti l’ uno dopo l’ altro (Fig. 11°). E le fibrille da prima. camminano tra le cellule cilindriche del suolo profondo dell’ epitelio, e dipoi per- venute che sono a quelle del suolo medio (1), là d’ ordinario cominciano a divi- dersi e altresì a unirsi luna con l’altra; e alcune a trascorrere di traverso tra le cellule del detto suolo ; talmentechè è quivi appunto ch’ esse formano una deli- catissima reticella con magliette di diverse fogge, la quale qua e colà è disconti- nuata. E di questa reticella vengono poi suso altre fibrille, che arrivate al di sotto delle cellule più superficiali del suolo esterno dell’ epitelio, le quali sono assai schiacciate e così unite l una con l’altra che formano una sottilissima membra- nella, senza più passare oltre, ivi han termine, o facendo un piccolo arco, o vero talvolta con un piccolo bottoncello in cima. Ma cotesti plessi e reti, che, come si è veduto, i nervi formano ne’ vari luoghi della cornea, in che modo sono eglino da riguardare ? Sono delle unità o delle pluralità? O con altro dire e più chiaro: È ciascuno di cotesti plessi e reti una cosa sì avviluppata e inestricabile da non vi si poter distinguere alcuna parte componente ; o vero è un congiunto di parti effettivamente distinte l’ una dal- l’altra, tanto in rispetto all’ anatomia, quanto fin rispetto alla fisiologia? Questa quistione, che a me non pare di piccola importanza, non è stata, ch’ io sappia, messa avanti da niuno di quelli che infin’ ora hanno scritto de’ nervi della cornea; i quali si sono tutti ristretti a minutamente descrivere come i detti plessi e reti erano intessuti, e il numero loro, e dove ciascuno avea sede, e se veramente eran tutti da dire plessi o non: particolarità queste, che all’Istologo importa assai di saperle, ma poco al fisiologo, al quale quello che importa più si è, che siagli risoluta in modo sicuro la quistione ch’ io di sopra ho posta. La quale io non credo che si possa risolvere per altra via, che ponendo mente non già all’ avvi- luppatissima tessitura di ciascheduno de’ detti plessi e reti, ma al numero de’ fasci o rami de’ nervi che entrano a comporli. I quali rami, quantunque che con i loro reiterati partimenti appariscano in ogni plesso e rete tramescolati e intralciati in maravigliosa guisa; tuttavia certo è che ciascuno di essi conserva sempre la sua propria individualità anatomica e fisiologica. E di qui necessariamente conseguita, che ciascun plesso e rete della cornea è fatto di tante parti distinte e contigue, quanti sono i rami nervosi che partecipano nella sua formazione. E in oltre tutte (1) Osservando attentamente la cornea de’ topi e de’ piccoli uccelli, sia fresca nella camera umida, sia colorata col cloruro d’oro, mi è accaduto di vedere alcune cellule tra quelle del suolo interno e medio dell’epitelio, che si distinguevano subito dalle altre per avere il nucleo non solo più grande, ma fatto di piccoli e corti fili, o bastoncini, se così piace chiamarli. E coteste cellule i0 per me le credo essere in sul punto del moltiplicare, il quale, come l’ embriogenia mostra, si inizia con sì fatta modificazione del nucleo, a cuì poi tien tosto dietro la divisione di esso. Nè, siccome io avviso, in tutte le cellule con nucleo avviene altrimenti la moltiplicazione loro. E da questo, che io dico, ei si può inferire che il carico di rifare l’epitelio corneale delle continue per- dite ch’ egli patisce durante la vita, non l’hanno solamente le cellule del suolo profondo, ma anche in parte quelle più interne del suolo medio. — 585 — le singole parti correlative di questi vari plessi e reti dipendono e si continuano l'una all'altra. E, per chiarir meglio cotale pensiero, dico, esemplificando, che: ogni singula parte del plesso originario o principale della cornea è congiunta e continuata mediante uno de’ così detti rami perforanti con un’ altra parte corri- spondente del plesso subepiteliale; e questa, alla volta sua, mediante un numero più o meno di fibrille con un’ altra parte corrispondente della delicatissima reti- cella che è dentro l'epitelio; dalla quale poi si spiccano alcune sottili fibrille che vanno a finire con estremo libero subito sotto alle cellule più esterne dell’ epitelio. Laonde io credo che la cornea, in quanto si appartiene alla distribuzione de’ suoi nervi e alla sensibilità che questi le forniscono, sia da scompartire in tante pic- cole regioni, o province o dipartimenti che li vogliam chiamare, quanti sono i tronchi e tronconcelli de’ nervi che in essa s' indentrano. Fino a qui io non ho fatto che descrivere il generale distribuimento de’ nervi della cornea, quale me 1 hanno mostrato un numero non piccolo di accurate 0s- servazioni che a tempi interpolati ho fatte sopra la cornea di differenti animali convenientemente colorata dal cloruro d’ oro. Ora resta a vedere, e questo è l im- portanza, dove e come questi nervi si terminano. E primamente quanto al dove, una quistione subito ci si para dinanzi ed è: se tutte le fibre nervose che s in- ternano nella cornea s' incamminano ed hanno il termine loro nell’ epitelio, o pure ve n’ ha una parte che si fermano dentro di quella. Alla quale quistione si può rispondere, che certamente una parte delle fibre nervose si deono rimanere dentro la sostanza propria della cornea, perchè i rami così detti perforanti, che rinchiu- dono in sè quasi tutte le fibre nervose che dalla sostanza della cornea si recano verso la superficie anteriore d’ essa e quindi nell’ epitelio, non sono proporzionati a’ fasci o rami di diverse grandezze che compongono il plesso nervoso originario o principale della cornea, da cui se non tutti, la maggior parte di essi rami per- foranti prendono origine; essendo quelli sempre in minor numero che questi. E questa disproporzione tra il numero degli uni e quello degli altri si può agevol- mente vedere nella cornea de’ piccoli animali, e massime in quella degli uccelli di piccola taglia, come dire il verdone, il passero, il calderugio; la quale cornea, al- lorchè si osserva tutta intera e per la faccia davanti, dopo averla colorata col cloruro d’ oro e spogliata del suo epitelio, mostra a un tempo e il plesso princi- pale e i rami perforanti, e quindi, in paragonandoli insieme, potrà chiunque per- suadersi della verità di quello ch'io dico. E però, quanto al dove, io non credo che sia da dubitare, che una parte delle fibre nervose che vanno alla cornea ter- mini dentro alla sua propria sostanza, e un’ altra parte termini in quell’ epitelio che tutta la riveste nel davanti. Circa poi al come, o modo, ei fa bisogno distin- guere e considerare quello per lo quale le fibre nervee si terminano nella propria sostanza della cornea, e quello per lo quale si terminano nell’ epitelio. E per ciò che si spetta al primo modo, io dico che, secondo che io ho potuto osservare, nella sostanza propria della cornea le fibre nervee vi han termine in due maniere. L'una TOMO II. 74 — 586 — è ini plesso e rete, l altra con estremità libera. La terminazione in plesso e rete io non credo che alcuno la possa mettere in dubbio, perchè dentro della cornea, oltre al plesso originario o principale, ci ha di parecchi altri plessi e reti, che de- rivano dal reiterato partimento di rami dati nella massima parte da quello, ed i quali plessi e reti certo sono da aversi per finali. E sebbene noi alle volte vediamo da alcuno de’ predetti plessi e reti spiccarsi delle fibrille, che, dopo un cammino più o meno lungo e tortuoso o vero diritto, vanno a finire con estremità libera; tuttavia ciò non è, a mio giudicio, ragione valevole a doverceli non far conside- rare come finali, perchè le dette fibrille non sono il tutto, ma una parte piccolis- sima di quelle che entrano nella formazione del plesso o della rete. Anzi aggiungo, che nel medesimo plesso principale, che generalmente non è tenuto per finale, ci sono parecchie fibrille, che passano da un ramo nell’ altro, e verisimilmente non finiscono che in ansa. Onde a me pare cosa al tutto lontana dal vero il dire, come fanno alcuni, che dentro della cornea non ci sieno nè plessi nè reti finali, sola- mente perchè da essi si veggono alle volte partire fibrille nervose, che poi vanno a terminare liberamente. L' altra maniera di terminare delle fibre nervose nella sostanza propria della cornea è, come fu detto di sopra, con estremo libero, la quale avviene a un tempo tanto tra o per entro le laminette fibrose della cornea, quanto nelle sue cellule. E si fatta terminazione nervosa io 1’ ho veduta manife- stissima non pure nella cornea di alcuno di que’ mammiferi, come il coniglio, le cellule della quale sono piatte e quasi membranose, ma in quella degli uccelli, dove le dette cellule fanno una certa similitudine co’ corpuscoli ossei (1). E quello ch’ io ho veduto, l’ ho rappresentato con quella maggiore fedeltà ch’ io ho potuto nelle figure 15* fino alla 19°. Le quali figure attentamente guardando, sl vede come alcune fibrille nervose, che hanno il nascimento loro in uno o 1° altro de’ rami costitutivi del plesso principale, poichè hanno camminato per un certo spazio per entro la cornea, talora serpeggiando e talora diritti, si spartiscono una o più volte e sotto angoli talvolta acuti e talvolta retti, ed in fine entrano in connessione con le cellule della cornea, il più di sovente per la via di qualcuno de’ loro pro- lungamenti, ma talvolta anco per una parte qualunque della superficie del loro corpo; o pure finiscono tra il tessuto fibroso della cornea un pochetto ingrossate nella punta a modo di piccolissima clava. E si vede ancora, che questa tale con- nessione delle fibrille nervose con le cellule della cornea non consiste nello immede- simarsi la sostanza delle une con la sostanza delle altre, come vogliono tutti coloro, (1) Negli uccelli, massime in quei piccoli, io ho osservato, che le cellule della cornea, comechè si assomiglino a’ corpuscoli ossei, tuttavia sono di due maniere; le une derdroclone le altre orto- clone (Fucus — Wirchow”s Archiv., LXVI Bd, p. 401-447. Berlin 1866). Le prime si trovano presso alle due facce della cornea, dove sono anzi che no fitte: le seconde per contrario si trovano nel mezzo della cornea, dove sono rade. Ond’ è, che pel modo come la predetta doppia maniera di cellule è compartita nella cornea degli uccelli, essa, al mio credere, è meglio atta, che quella di altri animali, all’investigamento delle terminazioni intracorneali delle fibre nervose. ———-.-c——r— — 198 che finora l’ hanno ammessa, ma consiste bene in un certo reciproco toccamento o contatto; imperocchè le fibrille nervose, qui nella cornea, come altrove, manten- gono sempre la individualità loro organica. E se alle volte l’ osservazione di alcuni esemplari microscopici di cornea trattata col cloruro d’ oro pare clie dimostri co- testo immedesimarsi che qui io impugno; ciò è una fallace apparenza che proviene dalla disorbitante operazione del cloruro d’ oro, il quale ha colorato di troppo e del medesimo colore tanto le fibrille nervose, quanto le cellule della cornea in- sieme co’ loro prolungamenti; talehè ogni distinzione tra loro non è più possibile. Nondimeno di questa ragione di fibrille terminanti con estremo libero io confesso che, anco nelle cornee le meglio colorite dal cloruro d’ oro, non m'è accaduto di rinvenirne che poche e dopo lungo e penoso ricercamento. E però io mi faccio a credere che verisimilmente ciascuno ordine delle ceilule e lamine fibrose della cornea non ne abbia che sole alcune e in determinati luoghi dell’ estension sua. Quanto al modo poi onde le fibrille nervose si terminano nell’ epitelio, le osservazioni mie m’ inducono a tener per certo, ch’ esso è doppio, cioè in rete e con estremità libera. Perchè la più parte di quelle fibrille, che si sollevano dal plesso subepite- liale e addentransi nell’ epitelio, avanti che vadano a finire con estremità talvolta bottonata, si dividono reiterate volte e congiungonsi scambievolmente insieme; per modo che esse formano un intrecciamento a guisa di rete, il quale risiede alla parte media dell'epitelio, ed è qua e là i o. E così tatte estremità bottonate o non delle (fibrille si trovano sempre sotto a quelle grandi cellule piatte e squamose che formano la parte più esterna dell’ epitelio anteriore della cornea: le quali cellule tutte insieme sono da riguardare come una tenuissima membranetta cellulare che serve a riparare dalle offese esteriori le estremità predette (Fig. 12°). Onde, come bene sel sanno gli oculisti, quando accade che la detta membranella per una qualche cagione esulcerativa o si si disfaccia, la cornea si rende così sensibile e sde- gnosa, che gl infermi non possono senza grave pena e dolore tollerare, non che altro, la luce ordinaria. In niuna altra parte animale ei si vede con tanta evidenza, come nella cornea, che il cilindro dell’ asse, che, come ognun sa, è il costituente più essenziale della fibra nervosa, è naturalmente composto di fibrille. Ma oltre a questo, che oramai, come di cosa pienamente dimostrata, niuno degli odierni Istologi di grido più du- bita, l attenta osservazione de’ nervi della cornea ne mostra con non minore evi- denza, che le dette fibrille effettivamente si dividono e ch’ esse nell’ intima tessi- tura loro si assomigliano alle fibrille muscolari. E quanto al dividersi delle fibrille vi è due ragioni che lo provano indubitatamente. La prima è, che ove i tronchi e tronconcelli de’ nervi che s’ internano nella cornea si prendano tutti insieme e si paragonino a’ differenti rami e plessi e reti a cui danno origine, si trova che la mole di questi avanza di gran lunga la mole di quelli. Il che non si può intendere, se non ammettendo che le fibrille de’ varii cilindri dell’ asse, nel cammino che i nervi fanno per entro la cornea, si dividono replicate volte, e così aumentano e di nu- — 588 — mero e di massa. L'altra ragione è, che se ciò che pare un dividersi di una fibrilla, non fosse veramente tale, ma solo un separarsi di due fibrille ch’ erano applicate insieme, in questo caso ciascuna delle fibrille nate da quella originaria dovrebbe esser men grossa, e tutte due insieme dovrebbero agguagliare la grossezza di quella. Ma ciò non è, perchè talvolta ognuna delle due fibrille, comunque da per sè sia minore dell’ originaria, nondimeno tutte a due insieme quella superano nella mole; e talvolta la fibrilla originaria è tanto grossa quanto una delle due, a cui ella ha dato nascimento. E che questo ch’ io dico sia verissimo, chiunque se ne potrà cer- tificare osservando diligentissimamente non pure alcuna di quelle sottili fibrille che trascorrono solitarie per la sostanza della cornea, ma anche quelle ch’ entrano nella composizione del plesso subepiteliale e della reticella che ha sede nell’ cpitelio. La quale cosa mi fa forza a credere, che quello immenso numero di fibrille che si veggono nella cornea, ed anche in altre parti esterne del corpo, nascano ciascuna nel proprio sito e dipoi si congiungano insieme; o pure, come pare più conforme al vero e il dimostrano le recenti investigazioni intorno l’ originamento de’ nervi, l'una fibrilla rampolla dall'altra, non altrimenti che nelle piante, per via di gemme. Onde quel che noi comunemente diciamo biforcarsi di una fibrilla nervosa primi- tiva non è in verità che un aggiugnimento di due fibrille all'estremità di un’altra: e oltracciò tutte quelle intrecciature di fibrille nervose che sono e dentro e sotto all’ epitelio e nella medesima sostanza della cornea dovrebbero, anzi che plessi, chiamarsi reti nervose, e il nome di plesso si dovrebbe dare solamente a quello ch’ è manifestamente composto di fasci di fibrille. L’ altra cosa, ch’ io dissi di sopra, ci davano a vedere i nervi della cornea, quando sono attentamente osservati, è la composizione interna delle fibrille che intessono il cilindro dell’ asse. E dico in prima, che ciascuna di queste fibrille non è fatta di una sostanza sola, ma di due sostanze differenti. L’ una è conformata a minutissimi granelli rotondi, o globetti, disposti lincalmente e pochissimo distanti tra loro: l’ altra è uniforme nella vista, da DES 1 3) e serve a collegare Î un globetto all altro (Fig. 20° e 21°). La prima si lascia con facilità colorare in rosso al carminio, in tanè al nitrato d’ argento, in bruno al- l'acido osmico, e in violetto più o meno carico al cloruro d’ oro: l’ altra o non si colora affatto o pochissimo e assai malagevolmente. E queste due sostanze sono appunto quelle che, in una certa guisa disponendosi, danno luogo a quelle stri- scette trasversali, onde si vede alle volte listato il cilindro dell’ asse, allorchè si è fatto sopra esso operare il nitrato di argento; le quali striscette trasversali han fatto credere ad alcuni, che il detto cilindro dell’ asse sia composto di una molti- tudine di piccoli dischetti sovrapposti l uno all’ altro. Ma questo non è vero, pe- rocchè, ove alcuna di dette striscette si guardi con attento occhio e ingrandita assai dal microscopio, si vede ch’ ella non è che un aggregamento di quei globetti che, come io dissi dianzi, naturalmente compongono il cilindro dell’ asse (Fig. 22°). Ed ancora è da notare, che questi globetti sono di natura loro mollicci e assai alterabili, e con facilità parecchi di loro si possono spostare e incorporarsi insieme, cordiera i ari — 589 — e cagionar così que' rigonfiamenti fusati e quelle pallottoline che non rado si osservano nella lunghezza delle fibrille nervose della cornea e di altre parti del corpo ancora, allora che elleno sono specialmente operate dal cloruro d’ oro. E si fatta apparenza, piuttosto che naturale, è tenuta da’ più come un effetto d’ altera- zione che interviene dopo morte nelle fibrille nervose, o dell’ operar proprio del cloruro d’ oro. E, per intenderla, han presupposto che ciascuna fibrilla consiste di un sottilissimo filamento, anzi che no tegnente, e rivestito esternamente di una particolare materia oleosa, la quale, per cagione del cloruro d’ oro, non solo si colorisce in violetto or più or meno pendente al bruno, ma si scinde in menomis- sime particelle, che poi, aggregandosi insieme, formano gocciole di differenti gran- dezze e fogge. Ma cotesta presupposizione non mi pare che si tenga molto a mar- tello con quello che la esperienza dimostra; perchè i grani o globetti che com- pongono le fibrille del cilindro dell’ asse si lasciano, non che dal cloruro d’ oro, agevolmente colorare dal carminio; laddove le vere materie oleose col carminio per niente si coloriscono. Nè qui io voglio lasciare indietro il ricordare, come la sopradetta interna construttura del cilindro dell’ asse io 1 aveva riconosciuta fin dal 1867, osservando accuratamente, e dopo averle colorate col carminio, quelle sottilissime fibre nervose che serpeggiano tra le pareti del canale degli alimenti della sanguisuga e tra la cellulare sottostante alla pelle dell’ addomine del tri- tone (1). E soggiungo che ne ho ancora appresso di me i relativi esemplari micro- scopici, i quali, comechè fatti quattordici anni addietro, pur nondimeno mostrano chiaramente ciò che di sopra io affermo. Pertanto io credo, che, pel modo com’ è internamente construtto, il cilindro dell’ asse si assomigli alla fibra muscolare striata; perchè sì l uno come l’altra sono fatti di fibrille, e ciascuna fibrilla di particelle collesate insieme mediante una particolare sostanza intermedia. E se vi ha diffe- renza tra loro (lasciando stare la composizione chimica, che nel cilindro dell’ asse s' ignora quale ella veramente sia), essa si trova nella diversa forma delle predette particelle, le quali nella fibrilla del cilindro dell’ asse sono rotonde, e in quella muscolare sono prismatiche. E, se io non sono errato, cotale intessimento interiore del cilindro dell’ asse ben conviene con l’ ufficio cui egli è deputato; il quale, come ciascun sa, è quello di trasmettere le impressioni ricevute nell’ estremità sue. Ma cotesto trasmettere le impressioni non è in effetto che una particolare maniera di movimento, siccome è anco una particolare maniera di movimento la contra- zione muscolare. Onde la somiglianza di struttura che c’ è tra la fibrilla del ci- lindro dell’ asse e quella de’ muscoli striati. Essendo io oramai venuto al fine di questo mio scritto, io credo che sia assai profittevole il ridurre, siccome altre volte io ho già fatto, le cose principali in esso discorse sotto forma di alcuni corollarii, che son questi che seguono. (1) Craccro — Intorno alla minuta fabbrica della pelle della Rana esculenta. Giornale di Scienze naturali ed economiche. Vol. II. Palermo 1867. Nella nota seconda. — 590 — 1° I nervi, onde la cornea è sì doviziosamente fornita, non sono di una qualità sola, nè deputati tutti al medesimo ufficio; perciocchè parte sono sensitivi, e parte hanno sotto di sè e regolano la nutrizione del tessuto proprio della cornea e ne mantengono durante la vita inalterata la trasparenza. E tra quelli sensitivi verisimilmente ve n’ ha parecchi che non sono atti ad esser passionati che dalla sola luce, la quale, se non di continuo, assai spesso la cornea trapassa. 2° I nervi destinati per la cornea, avanti che vi si addentrino, formano alla circonferenza sua un plesso, ora più ora meno compiuto e manifesto; il quale in grandissima parte è composto di fibre nervose midollari, e in parte di fibre senza midolla. Questo plesso, dal luogo che tiene, potrebbe esser denominato Plesso ner- voso circonferenziale. 3° Da questo plesso circonferenziale si spiccano rami, o tronchi e troncon- celli nervosi che gli vogliam chiamare, variabili in numero e grandezza ne? diffe- renti animali; i quali tronchi e tronconcelli, entrati che sono nella cornea, comin- ciano a dividersi e suddividersi assaissime volte, e, permutandosi le proprie fibre e congiungendosi insieme, danno nascimento a un altro plesso, che si stende per quanto ha di largo la cornea. Il quale plesso, che io chiamo Plesso nervoso origi- nario o principale, ci è sempre, ed è situato ora assai presso alla faccia anteriore della cornea (conigli, topi, ratti, pipistrelli), ora quasi al mezzo della grossezza sua (lucertole, tartarughe terrestri, rane, tritoni)j ed ora tiene la più parte della metà anteriore della cornea (uccelli). 4° Insieme col plesso principale ci sono per entro la cornea altri plessi, in tutto o in parte originati e dependenti da quello. Questi si addomandano plessi secondarii o d’ aggiunta, e stanno talvolta sopra, e talvolta sotto a quello princi- pale. Nella rana il plesso secondario ch’ è di sotto al principale giace quasi rasente alla membrana del Descemet; nel topo poi quello, ch'è di sopra al plesso princi- pale, è sì vicino alla faccia anteriore della cornea, che alcuni, come l Hoyer, l'hanno detto Plesso sottobasale. 5° Dal plesso principale si staccano un gran numero di piccoli rami, e tal- volta insieme con essi anche delle fibrille, i quali rami, che comunemente son detti rami perforanti, come giungono sotto l epitelio, si risolvono ciascuno in una ciocca di fibrille, le quali tutte insieme creano un plesso, o rete che sia, più o meno fitto e differentemente disposto ne’ differenti animali. Questo plesso, che con ragione va chiamato Plesso subepiteliale, ne’ topi, ne’ ratti, e forse anche ne’ pipistrelli, è confi- gurato a vortice, il cui centro non risponde punto al centro della cornea. 6° Dal plesso subepiteliale si partono a luogo a luogo delle fibrille, le quali s' internano nell’ epitelio, e ivi in parte si dividono e uniscono insieme, formando una sottilissima reticella, verisimilmente qua e là discontinuata, (plesso o rete in- traepiteliale de’ moderni anatomisti), e dipoi passano oltre e vanno a terminare, ora un poco rigonfiate nella punta a guisa di bottoncello, ora no, sotto alle cellule più esterne dell’ epitelio ; le quali tutte insieme unite formano come una sottilissima Ì\ — 591 — membranella, che assicura dalle offese esteriori le estremità finali delle fibrille pre- dette. 7° I varii plessi e reti, che i nervi della cornea formano con lo scambio e unione delle loro fibre, non sono da tenere come tante unità separate, ma come tante pluralità; perchè ognuno di questi plessi e reti si compone di tante parti, quanti sono i rami de’ nervi ch’ entrano a costituirlo: anzi, quel ch’ è più, tutte le parti correlative di questi diversi plessi e reti dipendono e si continuano l’ una all’ altra. E però i nervi nel loro distribuirsi per la cornea formano tante regioni distinte, sì anatomicamente, come fisiologicamente, quanti sono i tronchi e troncon- celli nervosi che in quella vanno. 8° Le fibre nervee, tanto nella sostanza propria della cornea, quanto nel suo epitelio, finiscono sempre in due modi, cioè in plesso e rete, e con estremità libera. E tale terminazione con estremità libera, dentro della cornea, avviene non pure nelle sue cellule ramose, ma eziandio nell’ interno e tra le sue lamine fibrose. 9° Il cilindro dell’ asse delle fibre nervee, che si distribuiscono nella cornea, è composto, così com’ è la fibra muscolare striata, di fibrille, e ciascuna fibrilla di minute particelle e di una particolare sostanza intermedia che le tiene collegate linearmente: le quali particelle nella fibrilla del cilindro dell’ asse sono ritonde, in quella muscolare sono prismatiche (1). Dal Laboratorio di Anatomia e Fisiologia comparative della R. Università di Bologna, alli 8 di Marzo 1881. (1) Poco tempo appresso ch'io aveva letto questo mio scritto alla nostra Accademia delle Scienze, nella tornata ordinaria de’ 10 di marzo, mi avvenne di leggere le stupende Lezioni intorno la cornea fatte al Collegio di Francia dall’illustre mio amico Prof. Ranvier, correndo l’anno sco- lastico 1878 e 1879, e pubblicate quest’ anno dal Baillier. In queste lezioni egli discorre, con quella dottrina e acume e stringente critica che gli son proprie, tutto ciò che si attiene alla notomia minuta e alla fisiologia della cornea. E io confesso sinceramente, che m’accuora assai 1’ esser discorde da lui massime circa al modo con cui le fibrille de’ nervi si terminano nell’ interno della cornea. DICHIARAZIONE DELLE FIGURE Prima che io venga a dichiarare le figure che accompagnano questo mio scritto, io credo dover fare avvertite due cose. L’una è, che tutte le figure, quanto a’ din- torni e alle particolarità loro di maggior momento, furono disegnate con l aiuto della camera lucida del Govi: Y altra, ch’ elleno furono ricavate da cornee ch’erano state colorite col cloruro di oro, salvo che le ultime tre figure, delle quali. la 20° e 21° io ritrassi da alcune altre cornee tinte in rosso nell’ usual modo col carminio, e la 22* da un esemplare microscopico di midolla spinale preparata col nitrato d’ argento secondo la maniera del Grandry. Fig. 1° — Una parte del plesso nervoso originario o principale e dell’ altro sube- piteliale della cornea di un ratto (Mus decumanus Pall.). E dando uno sguardo a questa figura, si vede chiaro, quanto nel mentovato piccolo mammifero il plesso subepiteliale sia fitto e serrato, e come i piccoli fascetti. di fibrille e le singole fibrille, ond’ egli è composto, hanno un certo andare vorticoso assai bizzarro. Hartnack *% tubo del microscopio niente allungato x 80. Fig. 2° — Una piccola parte del plesso nervoso originario o principale della cornea di un altro ratto (Mus rattus L.). /n fascetti o rami nervosi che compongono il detto plesso, ciascuno de’ quali è fatto, oltre di una sottilissima invoglia, di fibrille e di una particolare sostanza che le tiene collegate insieme. rp rami perforanti, i quali presto si disciolgono nelle fibrille che vanno a intessere il plesso subepiteliale. 7 singole fibrille, che alcune escono per diretto da’ fascetti e altre da’ nodi del plesso principale, e insieme con quelle che procedono da’ rami perforanti constituiscono il sopraddetto plesso subepiteliale. Hart- nack % tubo del microscopio niente allungato x 310. Fig. 3* — Una parte del plesso nervoso principale della cornea di un pipistrello (Vespertilio murinus Schreb.), il quale plesso si rassomiglia molto a quello della cornea del genere Mus L. nnn nodi del plesso. rp rami perforanti. Hart- 5 k Vi Si nack 34 tubo del microscopio niente allungato x 310. Fig. 4° — Una piccolissima parte di quel sottile plesso nervoso, che nella cornea del ratto si osserva alle volte sottostare al plesso principale. Alcune delle fibre TOMO II. (o — 594 — di questo plesso si veggono talora profondarsi più o meno nella sostanza della cornea, e dopo un cammino serpiginoso e lungo, e dopo aver dintornato e passato or di sopra or di sotto a parecchie cellule di quella, andare a con- giungersi con altre fibre, o vero involarsi a un tratto dalla veduta. Hart- nack *4 tubo del microscopio niente allungato x 310. Fig. 5" — Una piccola parte di quell’ altro delicatissimo plesso nervoso che nella cornea del topo casalingo (Mus musculus L.) si vede immediatamente star sopra al plesso principale. Questo plesso, che dall’ Hoyer venne chiamato col nome di Plesso sottobasale, si compone di sottili fibre varicose, e ben si differenzia da quello subepiteliale sì per la sua postura, come per l andamento tortuoso e intralciato delle sue fibre. Hartnack % tubo del microscopio niente allungato X 310. Fig. 6° — Una parte del plesso subepiteliale della cornea di un topo casalingo. Il quale plesso, come qui vedesi chiaramente, si compone e di fibrille che si uniscono l una con l altra, e di menomissimi fascetti di fibrille. Hartnack ®4 tubo del microscopio niente allungato x 230. Fig. 7° — La cornea intera di un altro topo casalingo, spogliata del suo epitelio, e veduta pel dinanzi. Scorgevesi manifestamente la disposizione a vortice delle fibre e fibrille che compongono il plesso subepiteliale, e di più, come il centro di cotesto vortice non risponde a quello della cornea. Hartnack %4 tubo del microscopio niente allungato X 21. Fig. 8° — Una piccola parte del plesso nervoso subepiteliale della cornea di una tortora domestica (Turtur auritus Bp) coperto delle cellule cilindriche, che for- mano il suolo interno dell’ epitelio che veste anteriormente la cornea. 7p ramo perforante. es estremità di esso. f fibrille in cui si risolve. Hartnack 34 tubo del microscopio niente allungato Xx 310. Fig. 9° — Un ramo nervoso perforante, tutto isolato, e appartenente alla cornea della sopraddetta tortora. Questo ramo perforante, giunto ch’ è alla superficie della membranella limitante anteriore, ringrossa un poco nell’ estremo suo, e dipoi sciogliesi in ramuscoli, e questi in fibrille, le quali col reiterato dividersi e congiungersi e attraversarsi a vicenda vanno a costituire la corrispondente lor parte del plesso subepiteliale. Hartnack %4 tubo del microscopio mente al- lungato Xx 310. Fig. 10° — Parte di un taglio sottilissimo perpendicolare della cornea di un ratto. spe sostanza propria della cornea. e epitelio. pse plesso subepiteliale. Y fibrille che si spiccano dal plesso subepiteliale, s° addentrano nell’ epitelio e vanno a finire di sotto alle cellule più esterne di esso, le quali cellule tutte insieme fanno come una copertura di protezione alle estremità di esse fibrille. /ie fibrille intracpiteliali tagliate di trasverso. Hartnack *4 tubo del microscopio niente allungato x 310. 11° — Un brandello di epitelio staccato mediante gentile raschiamento dalla cornea di un topo casalingo. E in questo brandello vi si osservano alquante Fig. (©) — 595 — fibrille nervose, alcune delle quali si dividono e uniscono insieme, altre no. Hartnack 34 tubo del microscopio niente allungato X 310. Fig. 12° — Un altro brandello delle cellule più esterne dell’ epitelio della cornea di un topo casalingo, tra e sotto le quali non si scorge veruna fibrilla ner- vosa, ma solamente parecchi granellini neri, che di certo sono effetto dell’ ope- rare e della riduzione del cloruro d’ oro. Hartnack 4 tubo del microscopio niente allungato Xx 230. Fig. 13* Parte di un sottilissimo taglio perpendicolare della cornea di un Sassero nostrano (Passer Italiae Vieill.). spc sostanza propria della cornea. 2/4 membrana limitante anteriore. e epitelio. xp ramo perforante. es estremità di esso, che, a cagione dell’ esservisi deposte alcune particelle del cloruro di oro ridotto, ap- parisce rigonfia in guisa di campanella. (Capsuletta nervosa dell’ Inzani. Cor- puscolo tattivo corneale del Thanhoffer. Celiula terminale del Ditlevsen). f fibrille, in cui, all’ estremità sua, il ramo perforante si risolve, le quali s’ internano nell’ epitelio. Hartnack °4 tubo del microscopio niente allungato x 310. Fig. 14° — Parte di un altro taglio sottilissimo perpendicolare della cornea di una tortora domestica. spc sostanza propria della cornea. m/a membrana limitante anteriore. e epitelio. rp ramo perforante. es estremità di esso, la quale apparisce dimorare in avvallamento imbutiforme della mentovata membrana limitante. f fibrille che nate dal ramo perforante si addentrano nell’ epitelio. Hartnack ° tubo del microscopio niente allungato X 310. Fig. 15° — Parte di un sottile taglio della cornea di un coniglio albino (Lepus cuniculus L.), parallelo alla superficie di essa cornea. c cellule fisse della cornea, che nel coniglio, così come nel topo, ratto, pipistrello, sono piatte e quasi mem- branose. fi piccolo pezzo di un fascettino nervoso, che apparisce fatto all’ in-. tutto di fibrille varicose. f fibrilla che si spicca dal detto fascettino, la quale, dopo aver camminato per un qualche spazio serpeggiando, si partisce in due altre, l una più corta, che finisce dentro al corpo di una cellula corneale, l altra un poco più lunga che va a finire in uno de’ prolungamenti della me- gato X 230. Fig. 16° — Alcuni di quei rami o fascetti nervosi che compongono il plesso prin- cipale della cornea della tortora domestica. Da uno di questi rami si vede na- scere una sottile fibretta, che nel suo cammino si divide ed entra in connes- sione con quattro cellule fisse della cornea suddetta. Hartnack % tubo del mi- croscopio niente allungato Xx 310. Fig. 17° — Una fibretta nervosa della cornea di un verdone (Ligurinus chloris Briss.), la quale, camminando per la sostanza propria di quella, dividesi sotto angoli retti in altre minori, delle quali sole due qui si osservano finire in due differenti cellule della cornea. Hartnack % tubo del microscopio niente allun- gato X 310. — 596 — Fig. 18° —- Un rametto nervoso della cornea di un altro verdone, da una delle cui diramazioni si parte una minuta fibretta, che, dopo brevissimo cammino, si divide ad angolo retto in due altre, delle quali Y una termina distintamente in uno de’ prolungamenti di una cellula fissa; l altra con estremo libero un pochetto rigonfio a modo di piccolissima clava termina dentro o tra le lamine della cornea. Hartnack ° tubo del microscopio niente allungato x 310. Fig. 19* — Alcuni fasci o rami nervosi, onde si compone il plesso principale della cornea del verzellino (Serinus hortulanus Koch). fn fasci nervosi. »p rami per- foranti, i quali nell estremità loro appariscono un poco ringrossati. ff fibrille, di cuì una si termina in uno de’ prolungamenti di una cellula fissa della cornea, l altra in uno de’ prolungamenti di un’ altra cellula. Hartnack 34 tubo del microscopio niente allungato x 310. Fig. 20° — Due fascetti nervosi della cornea di una rana (Rana esculenta L.). Questi due fascetti appariscono manifestamente composti di fibrille, e. ciascuna fibrilla di minutissimi granelli rotondi, o globetti che li vogliam dire, i quali si colorano in rosso col carminio, e sono separati tra loro mediante una so- stanza, che da esso carminio non è punto colorata. Hartnack %4 tubo del mi- croscopio niente allungato Xx 310. Fig. 21% — Alcune sottilissime fibre nervose pallide appartenenti al tessuto con- nettivo soccutaneo dell’ addomine di un tritone (Triton cristatus Laur.). Così fatte fibre mostrano qua e là nella lunghezza loro certi grandi rigonfiamenti nucleari, e, medesimamente che quelle della cornea, appaiono formate di due sostanze differenti, l'una che si lascia agevolmente colorare al carminio, ed è configurata a granelli rotondi, l’ altra che non si colora punto, ed ha aspetto uniforme. Hartnack °4 tubo del microscopio niente allungato x 310. Fig. 22* — Un piccol pezzetto del cilindro dell’ asse di una fibra nervosa midol- lare, appartenente alla midolla spinale di un cane (Canis familiaris L.). 9g mi- nutissimi globetti colorati in tanè per opera del nitrato di argento, e dissemi- nati per entro una sostanza albiccia. gr 1 medesimi globetti raccoltisi in sottili righe trasversali, le quali sono separate tra loro da una sostanza parimente albiccia. Hartnack %, tubo del microscopio niente allungato Xx 410. Mem.Ser4. Tom.Il. RISE e) TIA al Siae Pio P° Gregori disdalvero e litografo. X310 Lit. Barigazzi Bologna Ciaccio Tav.I tp X310 LOI VU 4 iizizi fi ein SEG MN EEERENZO DINE VT ttt mein no rurvee rm Pio P° Gregori disdalvero e litografe. Mem.Ser 4.Tomll. pisa Ciaccio Tav.I Lira PRI LIE RI > Lit. Barigazzi Bahr PioP! Gregori dis dalvero e \itografo. Di | GRA n giga Mem.Ser4.Toml! Pio P‘ Gregori dis. dal vero elitografo. FOREST rina Pa eten Cia) Ciaccio Tav.Il Lit Barigazzi Bologna dal vero el Togr I i Mem.Ser4.TomJII Fig.ll Fiy.18. Barigazzi Bologna DI UNA INVERSIONE SPLANCNICA GENERALE NELL'UOMO ACCOMPAGNATA DA ALCUNI NOTABILI DEL CAPO CON ESSO LEI CONVENIENTI E DA ESTRANEE ANOMALIE MEMORIA DEL PROFESSORE LUIGI CALORI (Letta nella Sessione del 17 Novembre 1881) Quantaunque la inversa situazione dei visceri toracici e addominali sia un fatto ben conosciuto per molte ed accurate osservazioni che ne possiede la scienza, non- dimeno io ho stimato pregio dell’ opera non lasciarne un novello ‘esempio occor- somi nel Maggio del 1881, sì a conferma del già saputo e conto di quella inver- sione, come ad illustrazione di certi notabili del capo con esso lei convenienti, non mai che io sappia osservati nella medesima, non che di estranee anomalie pur esse non mai che io sappia trovate in sua compagnia. Di che fecemi facoltà 1’ esimio Collega Prof. Augusto Murri, il quale verificata ch’ ebbe la diagnosi del morbo che rapì l'individuo che la presentava, e fu un vizio cardiaco consistente in una insufficienza della valvula mitrale e delle semilunari aortiche con ateromasia diffusa, susseguito all’ ultimo da infiammazione acuta del lobo superiore del polmone sinistro, me ne cedette il cadavere, acciocchè compiessi l’ incominciata anatomia, ond’ io glie ne so grado e grazia assaissimo. Già egli aveva diagnosticato quest’ inversione splanenica generale con piena certezza; e ciò non dico, perchè tale diagnosi sia cosa nuova appo noi; chè già fin dai 1842 un mio carissimo e dottissimo Collega ed amico, il Dott. Ulisse Breventani, ahi troppo presto rapito alla scienza ed all’ umanità! diagnosticava mercè l’ ascoltazione e la percussione delle quali era maestro, in Andrea Bernardi di Bologna, giovane ventiduenne, un’ inversione dei visceri toracici e addominali; e menavalo alla nostra Società Medico-chirurgica, ove nella seduta del 25 Maggio di quell’anno i Medici che erano presenti, si ebbero le prove della veracità di quella diagnosi, la quale fu certamente una delle prime che conti la Storia della Medicina (1). E di due altre ho contezza, ma inedite, dovute all’ Illustre Collega ed amico Prof. Comm. Giovanni Brugnoli, una fatta sopra la Sig. Geltrude Zambonini, Bolognese, d’ anni ventinove, la quale nel 1865 (era allora tredicenne) soggiaceva per la seconda volta a fiera colica stercoracea ed ostinato vomito di materie fecali scoloratissime, d’ apparenza quasi gipsea, che la mise in grave peri- (1) Bullettino delle Scienze Mediche S. 3. V. 2. pag. 62. Bologna 1842. — 598 — colo della vita, e che a prima giunta si ebbe qualche sospetto avere alcuna parte, forse non piccola, nella produzione del morbo alcun che di anomalo, che costrin- gesse gli intestini, legato probabilmente coll’ inversione di quelli, ma che di poi conobbesi dipendere da labe epatica, avendomi quella Signora detto avere avuto in quella una tinta giallognola, ed espulsi molto tempo dopo anche piccoli calcoli biliari. Il medico curante Ecc.mo Sig. Dott. Nicolò Marchesini volle un consulto el consulente fu il Brugnoli, il quale esplorando l'addome della piccola inferma, fu maravigliato in sentire una piena ottusità nell’ ipocondrio sinistro, estesa anche a gran parte della regione epigastrica, e quasi come chiarezza di suono nel destro ed entrato in pensiero di quel che era, posto la mano e di poi lo stetoscopio sul petto nella regione cardiaca, e non sentendo quivi battere il cuore, ma sentendolo battere a destra, di che la paziente si era molto innanzi accorta, compiuti alcuni altri esami, ed escluso uno spostamento avveniticcio di quello, pronunziò esservi inversione splanenica completa. Il quale giudizio fu poi trovato conforme a verità dall’ altro nostro Chiarissimo Collega Prof. Comm. Luigi Concato, chiamato esso altresì a consulto, ed appresso anche da me stesso. Guarita, di diecinove anni si maritò all’ Ecc.mo Sig. Dott. Ermete Dozza; e poco dopo nove mesi partorì felice- mente una bambina ben conformata, salvo che nelle gambe, le quali erano un po curve; e tutto che robusta e d’ apparenza sanissima, moriva nondimeno di sei anni e mezzo per acuta meningite, che fece sospettare poter essere da tubercolosi: la quale bambina, esplorata più volte dal Marchesini, non diè verun segno che indicasse avere ereditata l’ anomalia dalla madre. Ebbe poi una grave peritonite ed un’ artrite circoscritta all’ articolazione radio-carpea sinistra; le quali malattie superate, ha poi infino ad oggi goduto di ottima salute. Avrà intorno ad otto mesi, quando io la viddi per la prima volta insieme col sullodato Sig. Dott. Marchesini. Trovai in esso lei una Signora d’ aggradevole aspetto, brunetta anzi che no, mez- zana di statura, ben tagliata delle membra, piena di brio e d’ intelligenza. Esami- nandola rimasi convinto della inversione dei visceri toracici e addominali, e potei sentire il battito dell’ aorta a destra, ma non potei riconoscere alcuna inclinazione laterale della colonna nella regione dorsale, la quale inclinazione doveva forse essere minima, e nulla certamente appariva allo esterno. E domandandole s' ella, fosse manritta o mancina, risposemi manritta; chè colla manca non sapeva, nè avrebbe potuto lavorare: nondimeno sonando ella il piano-forte dicevami che le sì stancava più presto la mano destra che la sinistra, nella quale affermava avere più forza, benchè ella mi mostrasse nella articolazione radio-carpea corrispondente alcuna offesa ne’ movimenti lasciatale dall’ artrite. Finalmente chiestole, dormendo o riposando, su qual lato abitualmente giacesse, risposemi sul sinistro, non potendo sul destro per una certa molestia ond’ era tosto soprappresa, e per il battito del cuore, che la costringevano a voltarsi sul sinistro. Non ho d’ uopo dire che que- st abituale giacitura sul lato sinistro è corrispondente colla inversione, e può essere posta fra i segni, non però essenziali, della medesima. L’ altra diagnosi fu fatta — 599 — dal Bragnoli nel Dicembre del 1875 sopra Carlo Nanetti bolognese, d’ anni 52, di mestiere falegname, accolto nello spedale della Vita per tubercolosi polmonale, .e quivi morto il 6 Febbraio 1876. Fino ad un anno e mezzo innanzi la morte il Nanetti aveva goduto di ottima salute, quando si allettò per istringimento uretrale, di cui guarì mediante l’ uretrotomia. Ma non tardarono molto a manifestarsi i sintomi della malattia che lo tolse di vita. Sollecito il Brugnoli dell’ aumento del Museo di Anatomia Patologica di quest’ Università, subito morto il Nanetti, ne mandò il cadavere integro al Direttore di quel Museo, il Chiarissimo Prof. Cav. esare Taruffi, acciocchè ne facesse l’ anatomia, e conservasse il bello esemplare d’ inversione splancnica generale che eragli occorso, a profitto della studiosa gio- ventù e a decoro del Museo; e’1 Taruffi, non sordo certamente allo invito del Collega, ne ha pienamente soddisfatto il voto, ed è già quella inversione viscerale da cinque anni esposta in quel Museo alla pubblica vista, bellamente conservata in ispirito, e ritratta eziandio in plastica. E qui non vo’ lasciar di ricordare altre te, fatte su donne, una dall’ Ecc.mo Sig. Dott. Cav. Emilio Valsuani medico primario specialista presso Y Ospedale Maggiore di Milano, tre di tali diagnosi, già edi il quale ne pubblicava la storia in forma di lettera diretta al Sapolini nel Feb- braio del 1869 (1); 1’ altra nel 1871 dal Chiarissimo Prof. Lodovico Brunetti sopra una ragazza sana e robusta, certa Maria Tonson di Antonio ed Angela Simonatto, nativa di Casalserugo, villa poco distante da Padova (2); e la terza dal Chiaris- simo Prof. Francesco Orsi che 1’ osservò nello spedale di Pavia e ne diede una storia accuratissima in sul finire del Gennaio 1876 (3). Forse qualche altro caso se ne sarà diagnosticato in Italia, ma non mi è a notizia. Io poi mi sono dilun- gato con questa digressione commemorandone gli a me cogniti, non già per dimo- strare essere cosa omai comune la diagnosi d’ inversione splanenica generale; chè questo non è stato certo mio intendimento, ma perchè nel novero che troviamo in certi libri stranieri, de’ Medici che conobbero la mentovata inversione durante la vita di coloro che la offerirono, non leggesi aleun nome italiano ; e sì che se non altro quella del Breventani non è tanto recente che non abbia avuto il tempo ne- cessario da ovunque pervenire. Il soggetto della inversione splanenica diagnosticata dal Murri fa certo Giuseppe Gamberini di Marano, parocchia distante cinque miglia da Bologna, uomo sessan- tenne, di statura maggiore dell’ ordinaria, siccome queilo che dal vertice alla pianta dei piedi misurava centosettantasette centimetri, ed era muscoloso e robusto, e faceva il cuoco. Era brachicefalo (4), ed aveva testa mezzana di grandezza, collo grosso (1) Annali universali di Medicina ecc. Vol. CCVII. Fasc. 620. Febbraio 1869, pag. 225 e segg. (2) Due casi di trasposizione laterale completa di tutti i visceri nell’ uomo ecc. Memoria letta all’ Accademia di Scienze, lettere ed arti di Padova nella seduta del 14 Maggio 1871. Padova 1872. Il primo caso che fu pure in una donna, pare non fosse conosciuto che per l’ autopsia. (3) Gazzetta Medica Italiana Lombardia. Vol. XXXVI. S. VII T. III N. 5. 29 Gennaio 1876. (4) L'indice cefalico del cranio macerato è di 80,57, essendo lungo 175 millim. ed avente il diametro trasverso maggiore di 14. — 600 — che appariva un po’ corto, torace ampio, e tuttoche aperto per la dissezione fat- tane nella Camera Mortuaria dello Spedale della Clinica, sensibilmente più a sini- stra che a destra; addome pur grande, largo massime nella zona superiore, meno nelle sottostanti all’ ombellico, soprattutto nella regione pelvica, notabile per stret- tezza ed altezza, ond' era squisitamente maschile. Mentula grande e ragguardevole, scroto più depresso a sinistra che a destra, e così il relativo testicolo che sentivasi qualcosa più grosso: particolarità di non lieve momento, essendo che nella inver- sione splanenica suol essere il contrario, e la maggiore depressione destra è con- iderata da taluno come un segno diagnostico di quella. Ma vi erano due exrnie inguinali dell ileo, una da ciascun lato, e la sinistra era più voluminosa della destra, e pare che da questo dipendesse l’ essere più basso e un po’ più grosso il testicolo sinistro. Ed essendo la sinistra più voluminosa, ne si para naturalmente davanti la congettura che il corrispondente canale inguinale fosse già innanzi che avvenisse l’ ernia, più largo, e ciò starebbe colla inversione, imperocchè è consa- puto che normalmente il canale inguinale destro è in ambi sessi più largo del sinistro: quindi la molto maggiore frequenza delle ernie inguinali a destra. Quanto agli arti, il superiore destro era sei millim. più lungo del sinistro e di un minimo più grosso; e già il Gamberini era esclusivamente manritto. E dicevami | assistente della Clinica Medica, l' Ecc.mo Sig. Dott. Raimondo Feletti, che i muscoli del torace di quel lato erano più grossi e robusti che nell’ altro, o nel sinistro, e che nondimeno la sonorità della fossa sottoclavicolare destra alla percussione non era punto scemata o venuta meno, ma sì quella del lato sinistro, ove la muscolatura era meno ragguardevole, e ciò, ben inteso, innanzi che sopravvenisse l infiamma- zione del lobo superiore del polmone corrispondente. La quale differenza se con- traddice l’ opinione dei Gerhardt che quell’ ipofonesi dipenda al postutto dal maggior volume fisiologico dei muscoli di quel lato, consente a pieno colla inversione viscerale, e ne porge un novello segno per diagnosticarla. Inversa è la disposizione negli arti inferiori; chè il sinistro è più nutrito e grosso, specialmente nella gamba, che il destro, ed è quasi un centimetro più lungo. Il che non doveva certo pro- durre una claudicazione sensibile, poichè non fu da veruno, nè dal Gamberini avvertita. La brevità dipendeva più dalla tibia che dal femore, essendo quella men lunga sette millimetri e questo poco più di due che non a simistra. Non è infrequente trovare una tale differenza negli scheletri, però a vario grado, e di ©) rado eccedente la divisata; nè è infrequente, osservando di dietro le persone che camminano, scorgere un minimo che di lontana claudicazione. L’ inversione splanenica nel Gamberini è manifesta in tutti gli apparecchi rm- chiusi nel torace e nell’ addome. E cominciando dall’ apparecchio digerente, la inversione comincia ad apparire nell’ esofago, il quale con la sua porzione cervi- cale sporge alquanto a destra della trachea, onde il solco»esofageo-tracheale è da questo lato : con la sua porzione toracica discende dietro il bronco destro, al quale è unito per un cospicuo muscolo bronco-esofageo, poi seguita a discendere lungo D — 601 — il lato sinistro dell’ aorta, poi vi passa sopra obliquamente attraversandola, e va a destra, dove finalmente incontra il forame esofageo del diaframma, esso altresì trasposto, ed entrato per questo nell’ addome va con la sua porzione addominale a congiungersi con lo stomaco. — Questo disteso da aria apparisce voluminoso ed ha il cardias ed il cieco fondo a destra, l antro pilorico ed il piloro a sinistra. — Il duodeno discende descrivendo una curva da sinistra a destra, ed ha la sua concavità da questo lato, la sua convessità dall’ altro, e transita a destra nel di- giuno. — Questo intestino e l’ ileo hanno conveniente e proporzionata lunghezza ripiegata ad anse o giri, nella regione ombellicale quasi spiroidi, e discendono da destra a sinistra. Le anse dell’ ileo contenute ne’ sacchi erniarii erano contratte e molto lunga era quella che occupava il sacco sinistro. Il fine dell’ ileo ascende dalla fossa retto-vescicale alla regione iliaca sinistra, ove s° inoscula nel principio del crasso quivi situato. — Il detto principio, o il cieco, è normalmente voluminoso, ma ha un’ appendice vermiforme piuttosto breve, siccome quella che non eccede la lunghezza di cinquantacinque millimetri. — Dal cieco muove il colon circon- dante l’ intestino tenue, o meglio il digiuno e l’'ileo, il quale colon dapprima ascende per la regione epicolica sinistra, e giunto all’ ipocondrio sinistro va sotto lo stomaco trasversalmente al destro per discendere lungo la regione epicolica destra e nella fossa iliaca di questo lato, ove forma il sigma colico. — Il retto comincia alla sinfisi sacro-iliaca destra, volge a sinistra, e discende davanti il sacro ed il coccige all’ ano. — Il fegato anzi che no voluminoso e simile a noce mo- scata, è situato nell’ ipocondrio sinistro, si estende nella regione epigastrica, ed attinge l’ipocondrio destro. Il suo lobo maggiore è quello particolarmente che tiene quell’ ipocondrio, e il solco longitudinale che lo limita e che contiene ante- riormente la cistifellea, posteriormente la vena cava ascendente, non può più chiamarsi destro, ma sinistro, dovendosi chiamare destro l’altro solco longitudinale percorso dal legamento rotondo e dal condotto Aranziano obliterato, e limitante il lobo minore situato a destra, cotal che il lobo quadrato ed il lobulo Spigeliano sono a sinistra di questo solco, e a destra dell’ altro : il solco trasverso o porta del fegato guarda a destra. — La milza di mediocre grossezza trovasi nell’ ipo- condrio destro presso il cieco fondo dello stomaco, che pur vedemmo in questo ipocondrio. — Il pancreas di normale grandezza ha la sua testa a sinistra, com- presa dalla concavità del duodeno rivolta a destra, ed il suo apice da questo lato, contermino alla milza. — Il peritoneo con le duplicature, i legamenti e mesenterii pertinenti a visceri divisati addattavasi alla loro inversione, nè offeriva, come nel caso descritto da Gruber, un mesenterio comune all intestino tenue (digiuno ed ileo) e ad una gran parte del crasso (cieco, colon ascendente e trasverso) (1): (1) Vedi « Ueber das Vorkommen eines Mesenterium commune fiir das Jejuno-Ileum und die gròssere Anfangshilfte des Dickdarmes bei seitlicher Transposition der Viscera aller Rumpfhéhlen » în « Archiv fir Anat., Physiol. ecc. von Dr. Carl Bogislaus Reichert. Leipzig 1865 » pag. 558 e seg. LE RXIIVE TOMO II. 16 — 602 — non era però affatto esente da anomalie; chè il mesenterio dell’ appendice vermi- forme offriva molte appendici piene di grasso simili a quelle del cieco da cui di- pendeva, ed eravi un piccolo epiploon od omento insolito appartenente a quella porzione dell’ ultima ansa dell’ ileo che dalla cavità della piccola pelvi ascende al cieco, il quale piccolo omento poteva meritamente chiamarsi omentulum iliacum. (1) Moveva esso dalla convessità della detta porzione per una lunghezza di poco più di otto centimetri, ed era alto quarantadue in quarantatre millimetri. Conteneva uno strato di pinguedine, nè era reticolato. Confinava col cieco, e specialmente col mesenterio dell’appendice vermiforme, dal quale era separato per una profonda incisura. L'apparecchio uropoetico mostrava esso altresì di essere trasposto, poichè il rene destro era più alto del sinistro, e la vescica orinaria inclinava leggiermente a si- nistra. — Quanto alle parti genitali, notai già che i testicoli sembravano formare un’ eccezione, ma mostrai com’ ella fosse apparente, e ne addussi le ragioni. Ag- giugnerò che le vene dei testicoli sono turgide di sangue, e che il plesso pampi- niforme sinistro le ha più dilatate del destro: lo che conviene col maggior volume dell’ ernia inguinale sinistra. Altro notabile da non tacersi finalmente è, che la vaginale propria è più estesa dell’ ordinario, prolungandosi essa molto in alto presso l'anello inguinale esterno, restringendosi a mano a mano che ascende, e erminando all’ ultimo in un cieco fondo direi quasi acuminato, cotal che questa vaginale rassembra un sacco piriforme, e ritrae di qualche guisa le ampolle del pericardio alle grosse arterie sorgenti dal cuore. La detta disposizione della vagi- nale è più ragguardevole a destra, nel quale lato la vaginale medesima ascende più in alto. Parmi che tale anomalia s' abbia a recare al non essersi tutto obli- terato il processo vaginale, avendone la chiusura valicato poco più di quella por- zione che percorre il canale inguinale. Dei vasi e di alcun altro particolare dei visceri e parti discorse dirò toccando del sistema vascolare. Passando ai visceri del torace, si trova che il polmone trilobato, più grosso e più corto, tiene il lato sinistro, il bilobato, più lungo e sottile, il lato destro. Il bronco primario più corto e largo e meno discendente o quasi orizzontale appar- tiene al polmone sinistro; il bronco primario, più lango e più stretto, e più di- scendente in obliqua direzione, al polmone destro. Questo è in rapporto con la porzione toracica dell’ esofago, coll’ arco aortico che lo comprende, ed ha il ramo corrispondente dell’arteria polmonale, il quale in parte lo copre e gli è superiore: quello ha al davanti di sè la vena cava discendente, ed è abbracciato dalla vena azygos, ed ha il ramo corrispondente dell'arteria polmonale, il quale in basso presso l’ hilo appena lo copre e gli è inferiore: onde interissima è Y inversione dei due polmoni. — Nulla di notabile alla trachea ed alla glandula tiroide, la quale è di mediocre volume, e manca del corno medio o processo piramidale. — Vuolsi (0) Abeieilavanie —- 603 — rotare la direzione del mediastino anteriore, la quale non è più da destra a sini- stra, ma da sinistra a destra, e similmente la sua cavità estesa da questo lato, e quindi conveniente con la trasposizione del cuore e del pericardio ch’ essa conteneva. Il cuore occupa un’ area alquanto maggiore dell’ ordinaria, per essere alquanto dilatato, ed a scanso di ripetizioni aggiugnerò qui anche preso da degenerazione grassosa, come suole nelle insufficienze valvolari mentovate di sopra, e discende obliquamente da sinistra a destra tenendo con la maggior parte di sè questo lato. Infatti nella parte sinistra di quell’ area sta il seno delle vene cave e la metà su- periore del ventricolo polmonale semplicemente, laddove la metà inferiore di questo ventricolo, il ventricolo aortico ed il seno delle vene polmonali stanno nella parte destra dell’area medesima, supposto già che questa, non importerebbe dire, sia divisa per una linea verticale rasente il margine sinistro dello sterno. L’ apice del viscere poi corrisponde all estremità anteriore della sesta e settima costola vera destra, e la base, già dietro il corpo dello sterno, allo spazio della quarta e quinta cartilagine costale non più destra, ma sinistra. Quanto a’ suoi solchi, ben s° intende che i longitudinali ne debbono, come in realtà, seguire la direzione. Il pericardio s accomoda all’ inversione dell’ organo da lui avvolto. Il ventricolo polmonale, qui sinistro, ha pareti convenienti e sempre meno grosse di quelle dell’ aortico, qui destro, che le ha grosse più del doppio. Al forame venoso di quello ha una val- vula tricuspide; al venoso di questo bicuspide. — L'arteria polmonale, sorta dal ventricolo omonimo, ascende obliquamente a destra, ed ha da questo lato 1° ap- pendice auricolare del seno delle vene polmonali, a sinistra 1 aorta, ch’ ella in parte copre, e l’ appendice auricolare del seno delle vene cave. Alla concavità dell'arco aortico dividesi ne’ due rami destro e sinistro: questo, più lungo, va dietro la porzione ascendente dell’ aorta al polmone sinistro e tripartito entra pel suo hilo; quello, più breve, entra bipartito nel polmone destro: da questo lato ancora trovasi il legamento Botalliano. L’arteria aorta, sorta dal ventricolo aortico o destro, non è così coperta, come suole, nella sua origine dal tronco dell’ arteria polmonale, alla sinistra di cui ella apparisce e ascende. La sua porzione ascendente offre nel lato convesso quella prominenza che forma il quarto seno, o seno massimo di Valsalva, più sporgente del solito, e confina a sinistra coll’ appendice auricolare del seno delle cave e con la cava discendente, ed ha dietro sè, come vedemmo, il ramo sinistro dell’ arteria polmonale, e le due vene del medesimo nome. L’ arco aortico va da sinistra a destra davanti l’ estremità inferiore della trachea, ed in parte anche davanti il bronco sinistro, e tocca con la sua convessità la vena innominata destra: abbraccia infine con la sua concavità il bronco destro ed il ramo corrispondente dell’ arte- ria polmonale. L’ aorta discendente toracica e addominale tiensi al lato destro fino alla divisione nelle iliache primitive, la sinistra delle quali è naturalmente più lunga. L’ aorta ascendente, 1’ arco e la porzione discendente toracica sono dilatate, ed hanno maggiore ateromasia. — 604 — Le arterie che muovono dall’ aorta, son’ elleno altresì inversamente situate. E primieramente l’ arteria coronaria destra del cuore, già situata da principio tra l'arteria polmonale e l appendice auricolare del seno delle vene omonime, è quella che va a formare il ramo discendente anteriore, il quale all’ apice del cuore sì anastomizza col discendente posteriore formato dall’ arteria coronaria sinistra, che da principio si trova tra l’ aorta e l appendice auricolare del seno delle cave, e che incede a sinistra nel solco circolare, e raggiugne la faccia posteriore o piana del viscere fino al solco posteriore, cui percorre come ramo discendente. Il ramo cir- conflesso o posteriore non è dato da questa coronaria, ma dalla destra. Vengono appresso le arterie nascenti dalla convessità dell’ arco aortico, e prima s' offre l innominata, la quale è lunga trentacinque millimetri, e conviene con l’essere il collo piuttosto corto, come si è detto di sopra. Ella ascende obliqua- mente a sinistra, e presso l articolazione sterno-clavicolare di questo lato si divide in carotide primitiva sinistra ed in succlavia sinistra. Quella è più superficiale e corta della destra, ed ascende verticale, ed è alquanto più grossa, avendo un diametro, preso esternamente, di quasi un centimetro, laddove la destra l’ ha poco più di otto millimetri (1). Le quali differenze consentono colla inversione, non esclusa la grossezza, avendo già notato il Theile essere d’ordinario un po’ più grossa la de- stra (2). Anche la carotide interna sinistra è più grossa (3), e misurata alla base del cervello offre nella bocca un diametro di sei millimetri, intanto che misurata nella bocca altresì la destra, semplicemente di quattro millimetri. Tale differenza parmi atta e valevole ad ispiegare un fenomeno indicatomi dal Murri, cioè che comprimendo egli la carotide primitiva sinistra produceva sintomi d’ anemia cere- brale. Le arterie cerebrali anteriori o callose sono, a propriamente parlare, date dalla carotide cerebrale sinistra, essendo che la destra non mette che un esilissimo ramo anastomotico. Infatti dalla prima, o sinistra muove un grosso ramo anteriore, il quale giunto alla grande fessura cerebrale si divide in due, uno per la faccia interna di ciascun emisfero : il destro poi poco dopo la sua origine riceve l’ esi- lissimo ramuscello anastomotico anzidetto. La comunicante posteriore è più grossa a sinistra che a destra, di qualità che la carotide interna destra è ridotta a ben poco più della Silviana, la quale è un po’ più grossa che a sinistra. Non è certa- mente cosa nuova che la carotide sinistra somministri le due arterie cerebrali an- teriori; chè Haller già pronunciò chiaramente esser dessa la produttrice di quel- le (4): la quale sentenza non è però conforme alle mie osservazioni; avendo di solito veduto ciascuna delle cerebrali anteriori nascere dalla carotide interna del suo lato, com’ egli rappresenta nella Tab. I. in 0, ©. La succlavia sinistra è più superficiale e corta della destra e più grossa che 1 Bio 2a vale 2) Encyclop. Anat. Tom. III Paris 1843 pag. 409. 3) io Slavo 4) Icon. Anat. 1754, Fasc. VIL p. 6. O ( ( ( ( — 605 — questa di un millimetro, avendo essa un diametro di dodici. Non passa tra gli scaleni, ma corre al davanti dello scaleno anteriore all’ ascella. Altra volta mi è occorsa quest’ anomalia, ed era a destra. Sarebbe assai bello ricercare, se in gra- zia della situazione più superficiale della succlavia di questo lato, l’ anomalia fosse più frequente a destra che a sinistra. Parrà poi contradditorio essere la succlavia sinistra alcun che più grossa dell’ altra, considerato che l’ estremità superiore de- stra era qualche cosa più lunga e più nutrita. Ma cessa ogni apparenza di con- traddizione, essendo che la tiroidea inferiore sinistra era molto grossa ed unica, ed empieva così l’ uffizio della destra che mancava al postutto, ed essendo che 1’ ar- teria bronchiale sinistra di ragguardevole grossezza era data dalla costo-cervicale del medesimo lato ; la quale arteria bronchiale non si limitava però al bronco sinistro, ma estendevasi con un sottile ramuscello anche al destro , cotal che era dessa quel tronco bronchiale comune che normalmente suol nascere dal principio dell’ aorta discendente toracica, o dalla prima intercostale aortica destra. L’ arteria vertebrale sinistra era meno grossa della destra, massimamente alla parte superiore del collo e dentro il cranio, ov’ ella aveva un diametro di due millim. semplice- mente, intanto che la destra l’ aveva pur colà entro di quattro (1). Nota Theile che questa vertebrale è più di frequente inferiore di grossezza che la sinistra, e reca a M. G. Weber l avere già fatta innanzi questa osservazione (2). E così es- sendo, ben è chiaro che le vertebrali partecipano, al par delle carotidi, dell’ ano- malia dell’ inversione, non altrimenti che con questa a pieno consente l’ origine di quel tronco comune delle bronchiali dall’ arteria costo-cervicale sinistra. Delle spinali anteriori non trovasi che la destra, la quale è di ragguardevole grossezza, compensando la sinistra che manca. Non vi è in oltre che una sola arteria po- sterior inferiore del cervelletto, la quale è data dalla vertebrale destra, e che con la sua grossezza e per la sua distribuzione supplisce essa altresì al diffetto della sinistra. La basilare è formata per la massima parte dalla vertebrale destra, ed aperta longitudinalmente mostra ad otto millim. di distanza dall’ anastomosi delle due vertebrali che la compongono, quel legamento che appellano da G. Davis, il quale è verticale, piatto, robusto, largo poco più di un millim. e mezzo, attaccato alla parete superiore ed inferiore di essa, il quale legamento non tiene già il mezzo del canale, ma è situato al terzo sinistro di questo, ed è un residuo delle pareti l’ una all’ altra lateralmente applicate delle due vertebrali insieme unite e confuse in un canale solo: residuo convincente quanto meno la vertebrale sinistra qui contribuisca alla forimazione della basilare. Da questa poi muovono le due ar- terie inferiori anteriori del cervelletto, ciascuna delle quali ha una presso che si- mile grossezza, e ciascuna somministrava la corrispondente acustica interna. Anche le arterie superiori del cervelletto non si differenziavano per grossezza: non così (1)gBig, 32 TLaySME (2) Encyclop. Anat. Tom. cit. pag. 458. — 606 — le cerebrali profonde: chè la simistra era alquanto meno grossa della destra. Quanto alla carotide e succlavia destre io non ho altro da aggiugnere ch’ esse nascono direttamente dalla convessità dell’ arco aortico come se fossero carotide e succla- via sinistre. De’ rami dell’ aorta discendente toracica non ho notabili a dire, se non è che il tronco comune delle bronchiali riscorso non nasce più da lei, nè dalla prima intercostale ch’ ella gitta a destra. Rispetto ai rami dell’ aorta discendente addo- minale, la celiaca è molto voluminosa, e partesi al lato sinistro del cardia in tre rami conformi. La coronaria stomatica superiore è destra e non muove direttamente dal tronco celiaco, ma da un grossissimo ramo, sorto dalla parte superiore di quel tronco ; il quale ramo ha un diametro di sei millimetri, ed è lungo venti, e rap- presenta il ceppo comune ad esso lei e ad una bronchiale destra anomala (1). La detta coronaria ha un diametro di quasi tre millimetri e la bronchiale anomala ritiene da principio il diametro del ceppo. Questa bronchiale passa pel forame eso- fageo del diaframma nella cavità mediastinica posteriore ascendendo dapprima dietro l esofago, poi al suo lato destro alla volta dell’ hilo del polmone destro nel quale penetra tripartita. Ella è lunga da novanta millimetri, e mantiene il sopra- detto diametro fino alla metà circa del suo corso ascendente; poi comincia tutto intorno a dilatarsi, e tanto che al punto di sua divisione ha un diametro di quasi dieci millimetri. Questa dilatazione ritrae della varice aneurismatica od aneurisma cisoide, col quale vuolsi somigliare. I tre rami bronchiali poi penetrano dentro il lobo inferiore del polmone destro, e sono molto grossi: il superiore ha un dia- metro di otto millimetri, il medio di cinque e l’ inferiore di sette, e questi due si arrestano al lobo mentovato. La bronchiale descritta non è accompagnata da vene, e per la sua presenza il ramo destro dell’ arteria polmonale non è punto scemato di grossezza. Io non ho tentato sottili iniezioni ne’ vasi polmonali, nè in questa bronchiale per vedere se le materie iniettate passassero da quelli a questa e per converso, essendo che i polmoni oltre essere morbosi erano altresì tagliati: ma commerci anastomotici dovevano esserci, considerato che le fine iniezioni me ne hanno più volte dato prova. L’ anomalia poi non è nuova, ma certamente rarissima ; e primo ad osservarla fu il Naugears in un fanciullo di sette anni (2), ed appresso trovolla in un fanciullo di quattro 1° Heyfelder (3), e dopo non è stata che io sappia più veduta, di qualità che la mia osservazione ne costituirebbe il terzo esempio. Ma tra questo e quelli occorrono certe differenze che non voglionsi pre- termettere. Lasciando da parte stare quella dell’ età, la bronchiale anomala di quei due fanciulli non proveniva dalla celiaca, o da un ceppo sorto da questa, comune alla coronaria stomatica superiore, ma direttamente dall’ aorta addominale in vici- (Debie.s 2a veg: (2) Journ. de médec. et chirur. de Corvisart et Boyer. An. X. 1802. III 453. (3) Nov. Act. Acad. Leop. Carol. 1842. T. XIX, P. 2. p.(851. Tav. I. XIV. Fig. 1° — 607 — nanza del tronco celiaco, e somministrava la diaframmatica inferiore destra. Pene- trata nel torace pel forame esofageo del diaframma si divideva in due rami che andavano uno al destro e l altro al sinistro polmone, così che ell’ era un tronco comune alle bronchiali inferiori. Noi vedemmo già nel nostro appartener essa al polmone destro semplicemente, non avere origine diretta dall’ aorta e nulla dispen- sare al diaframma, ma nascere da un ceppo comune alla coronaria stomatica supe- riore, uscito dal tronco celiaco. La quale origine e distribuzione considerando potreb- besi chiamare arteria stomatico-bronchiale, analoga a quella descritta dal Cuvier nella Sirena lacertina, in cui la carotide comune dà un ramo che va a consumarsi nel polmone e nello stomaco (1), laddove in quei due primi esempi direbbesi più tosto arteria diaframmatico-bronchiale. Finalmente potrebbesi domandare se queste arterie bronchiali anomale costituiscono veramente un’ analogia coi vasi polmonali secondarî degli Ofidi, coi quali vasi facilmente confonderebbonsi. Intorno a che importa considerare che ne’ rettili non è distinzione di vasi bronchiali e polmonali, ma i vasi che vanno ai polmoni, sono e polmonali e bronchiali ad un tempo, e che quei vasi polmonali secondari degli Ofidi sono piccole arterie e vene numerose le quali in nulla diversificano dai vasi polmonali principali. Dunque quelle arterie bronchiali anomale non ritraggono che in parte questi vasi polmonali secondari. Nulla ho da aggiugnere rispetto agli altri rami della celiaca, non essendo che inversi. Similmente la mesenterica superiore per la origine, e per la direzione, le quali sono altresì inverse nella inferiore. -— La renale destra fin dalla sua origine si divide in due, la superiore delle quali è più grossa. Non ho d’ wopo notare che la renale destra è più corta della sinistra. Le due vene cave sono situate a sinistra, e rispetto i rami della inferiore, la vena iliaca primitiva destra è alquanto più lunga dell’ altra. La vena spermatica o testicolare sinistra mette foce nella cava prefata. La vena renale sinistra è natu- ralmente più breve della destra. — Le vene che compongono il tronco della vena porta, cioè la vena splenica ed il tronco della vena meseraica maggiore sono a destra. Del pari a destra è il tronco della meseraica minore che mette capo nella splenica. Il tronco della vena porta è a sinistra, ed alla fessura trasversa del fegato si divide come di solito, in due rami, il sinistro de’ quali è il più grosso e corto, e va al maggiore lobo del viscere, il destro men grosso e più lungo va al minor lobo del medesimo, e riceve Ì attacco del legamento rotondo e di quello altresì dell’ obliterato condotto venoso d’ Aranzio, il quale lo unisce alla cava inferiore ricevente le vene sopraepatiche, e prossima ad entrare il torace per il forame qua- drato scolpito nel lobo sinistro del centro frenico. Quanto alla cava superiore o discendente, le due vene innominate che uniscousi a comporla, sono inverse, cioè l innominata destra è del doppio più lunga che la sinistra, ed incede quasi oriz- zontalmente da destra a sinistra al di sopra della convessità dell’ arco aortico al (1) Legons d’Anat. comp. Tom. troisième. Bruxelles 1840, pag. 221. — 608 — davanti delle grosse arterie che nascono da essa, laddove la sinistra discende quasi verticale lungo il lato sinistro dell’ arteria innominata, e mostrasi come un prolun- gamento della cava superiore. Si comporta non altrimenti che se fosse destra, intanto che l’ altra si comporta come se fosse sinistra. Le vene jugulari interne che una colle succlavie le formano, non offrono eguale grossezza; chè la sinistra è più grossa ed ha un diametro di undici millim., ma appena di dieci la destra. Il golfo che da lei si nomina, è più ampio in quella, ed ha quasi quattordici mil- limetri di diametro, dove nella destra è di un millim. minore di quello del tronco: nel bulbo inferiore di questa poi non aggiugne gli undici miliim., ma in quella sorpassa d’ alcun che i dodici. Io ho voluto vedere se nei seni della dura madre avesse qualche cosa che convenisse con le divisate differenze di capacità del pari e colla inversione viscerale; ed ho scorto che questa convenienza non manca, impe- rocchè il seno trasverso o laterale sinistro è più capace del destro (1). Egli è consaputo essere nello stato normale più ampio di solito il seno laterale destro che il sinistro. È opinione che questa maggiore ampiezza sia un effetto dell’ abitudine che hanno quasi tutti di preferir dormendo la giacitura sul lato destro. Di questo particolare io non ho potuto sapere nulla rispetto al Gamberini; chè in Clinica per la infer- mità era costretto a starsi continuamente seduto. Vedemmo però che la Signora Dozza giaceva abitualmente sul lato sinistro. Forse anche il Gamberini osservava da sano questa giacitura; e così essendo sarebbe comprovata quell’ opinione ; ma io credo che la maggior larghezza del seno laterale destro sia piuttosto da natura, essendomi occorsa in un neonato di pochi giorni, il quale certamente giaceva supino. A sinistra il detto seno ha nella sua porzione occipitale od orizzontale il maggior diametro verticale di sei millim., e a destra ne anche di cinque: nella sua porzione temporale, o sigmoide, a sinistra di nove, a destra di poco più di sei. Il seno longitudinale superiore si apre semplicemente nel seno trasverso o laterale sini- stro (2), la quale anomalia quando avvenga, mostrasi nello stato ordinario a destra. La vena vertebrale sinistra è alquanto più grossa contrariamente a quanto vedemmo nell’ arteria del medesimo nome, la quale ci apparve più sottile da questo lato che nel destro. Nulla ho da notare rispetto alle succlavie ed alle jugulari esterne. Non importa dire che la innominata destra riceve le mammarie e le tiroidee infe- riori, ma non è perciò sensibilmente più grossa della sinistra, la quale è compen- sata del difetto con l’ avere nel caso nostro maggiore copia del sangue refluo dal cervello. Finalmente l’ azygos è a sinistra e l’ emiazygos a destra, la quale ascen- dendo passa dietro 1’ aorta discendente toracica per andare a congiugnersi con quella; ma innanzi quest’ unione riceve una grossa vena, che è un tronco comune delle intercostali superiori sinistre, l emiazygos superiore, la quale suole mettere foce nell’ azygos. Questa infine abbraccia il bronco primario sinistro, e mette capo nella cava superiore situata, come fu detto, da questo lato. (0): 4Tav..T. (2) Fig. 4° Tav. I. — 609 — Anche il condotto toracico posteriore o grande giace al lato sinistro dell'aorta anzidetta, tra quest’ arteria e l’ azygos, ed ascendendo attraversa obliquamente la faccia posteriore dell’ esofago, poi prosegue ad ascendere lungo il lato destro di questo canale, e dell’ aorta toracica discendente, ed infine alla parte superiore del petto ed alla base del collo monta tra l’ esofago medesimo e la succlavia destra, radendo il lato sinistro di quest’ arteria, e va a sboccare nella vena succlavia destra presso il lato esterno della foce della vena jugulare interna. Rispetto al sistema nervoso, scorgonsi in certe parti di esso lui segni non dubbi d’ inversione. E primamente nel cervello, il quale diremo innanzi tratto essere assimetrico, piccolo, non pesante più di 1162 grammi, più voluminoso nell’ emi- sfero cerebrale destro, ed altresì nel destro del cervelletto, ove la differenza anche meglio apparisce (1). Il peso della metà destra dell’ encefalo è più di tre grammi che quello della sinistra. Quando questo vantaggio di volume e peso avvenga, suol essere a sinistra. De’ nervi cerebrali 10 non noterò se non cosa già saputa, cioè che il nervo pneumogastrico destro si comporta come fosse sinistro, e questo come fosse quello particolarmente nelle porzioni toracica e addominale. Ed infatti il primo o il destro discende tra la carotide primitiva e la succlavia; poi sull’ arco aortico, cui abbraccia col nervo laringeo inferiore o ricorrente, il quale ascende pel solco esofageo-tracheale ; poi dietro al bronco destro, somministrando i rami per il plesso polmonale corrispondente; poi sul lato anteriore dell’ esofago, ed entrato l addome va quasi per intero a consumarsi nello stomaco, laddove il sinistro trovasi tra la succlavia e la vena innominata, ed abbraccia la prima col nervo laringeo inferiore, poi discende dietro il bronco sinistro, lasciando i rami che vanno a formare il plesso polmonale di questo lato, e proseguendo a discendere passa dietro l’ esofago, e giunto nell addome va quasi subito al plesso solare. — Ed a proposito di questo plesso non si vuol lasciare che il ganglio semilunare sinistro era più grosso del destro, il quale normalmente suol essere più grosso di quello. Ulteriori osservazioni non ho avuto agio di fare sul nervo grande simpatico, salvo che a sinistra non mi si è offerto il piccolo nervo splancnico divisato dal grande. Finalmente i nervi frenici partecipavano essi altresì della inversione sì per i rapporti come pel sito e la lunghezza, essendo che il destro era più posteriore e lungo, e tagliava verticalmente discendendo 1’ arco dell’ aorta, e passava tra le carni del diaframma per aggiugnere la faccia addominale di esso, intanto che a sinistra costeggiava la vena cava discendente, e valicava al lato esterno o sinistro di questa vena il forame quadrato per ritrovare la detta faccia del diaframma, ove comportavasi come destro. Portando l esame sugli apparecchi degli organi dei sensi situati nella testa, io non ho veramente trovato traccia d’ inversione che in quello dell’ organo della vista, ove il sacco lagrimale destro era più stretto del sacco lagrimale sinistro. Egli (1) Fig. 52° Tav. IL TOMO II. AA — 610 — è consaputo essere di solito il contrario: al che viene recata la maggiore frequenza delle ostruzioni e delle fistole lagrimali a sinistra. — Il setto nasale è quasi dritto, non avendo che una leggier curva inferiore a destra, dove sporge altresì una forte cresta ossea: le quali cose, come ognuno intende di per sè, non valgono punto da argomenti che accennino ad inversione, considerato che l’ incurvamento di super- ficie del setto medesimo non è sempre, ma solo più frequente a sinistra che a destra. Terminerò queste annotazioni esponendo quanto ho osservato nello scheletro. Il teschio ha un grado notevole di assimetria, e nella regione facciale offre la doccia corrispondente al sacco lagrimale destro più stretta della sinistra : lo che consente con quanto fu detto superiormente intorno al sacco predetto. Nella faccia esterna della base craniense il forame lacero anteriore, il carotico e ’1 jugulare sono meno larghi a destra che a sinistra (1); le quali particolarità convengono con l’ essere la carotide e la jugulare interna sinistre più grosse che le destre, come già notammo. Nella faccia interna della base occorrono pure le medesime particolarità, ed una lar- ghezza un po’ maggiore delle tre fosse a destra. La spina crociata dell’ osso occi- pitale inclina con il suo ramo superiore a sinistra, la quale inclinazione comincia nella regione parietale, o per dire più esattamente, nella doccia di questa regione, data al seno longitudinale superiore, come quello. La doccia poi del mentovato ramo mette direttamente in quella del seno laterale sinistro, la quale doccia è più larga che dall’ altro lato. Nella colonna vertebrale (2) è da considerare l’ inclinazione o curva laterale del dorso, la quale è doppia, ed in questo nostro caso anche un aumentato numero delle vertebre nella regione lombare. Cheselden trovò e delineò una inclinazione o curva (3), la quale, come ognun sa, occorre in corrispondenza della quarta, quinta e sesta vertebra della regione dorsale, ed ha la sua concavità a sinistra, la convessità a destra. Haller l’attribuiva a strictura vestium, ed anche a malattia (4). Sabatier (5), seguito da Cruveilhier (6) e da Sappey (7), alla situazione dell’ aorta a sinistra. Saverio Bichat (8) e Béclard (9), e molti altri all’ uso che facciamo di preferenza dell’ arto superiore destro, o in altri termini all’ essere, generalmente parlando, manvitti. I fautori di quest’ opinione recano in mezzo che nei mancini (1) Fig 6 S0Tav.Mll (2) Fig. 0Lav3 LE (3) Osteographia or the anat. of the Bones by Willam Cheselden. London 1733. Tav. XXI. (4) Elem. Physiol. Tomus tertius. Lausannae 1761, pag. 1 — e Op. anat. argum. minor. Tom. II. Acced. opus. pathol. Lausannae 1768, pag. 291 e seg. Obser. XIII. Curvitas spinae dorsi. (5) Trattato completo d’anat. descrit. tradotto in Italiano ecc. terza edizione. Venezia 1798. Tom. I. pag. 155. (6) Anat. descript. trois. édit. Tom. prem. Paris 1851, pag. 91. (7) Traité d’ anat. descrip. Tom. prem. Paris 1876, pag. 301. (8) Sur la vie et la mort, ediz. dell’anno VII, pag. 17. (9) Bulletin de la Societé philomatique 1817, pag. 19 e segg. — 611 — la direzione della curva è inversa, cioè che la concavità è a destra e la convessità a sinistra; che in quelli che pel mestiere sommettono ad un più forte e continuato esercizio il braccio destro, maggiore è quella curva. Ma i seguaci dell’ opinione del Sabatier adducono che essendo trasposta l’ aorta nella inversione splanenica, la curva è altresì invertita, e che 1’ essere la sua concavità dal lato dell’ arteria ed essere in istretto rapporto con questa, è conforme al fatto generale che ogni volta che un’arteria costeggia un’osso, questo si deprime, ed anche talvolta s’ incava, lungo il corso di quella. Non è mancato infine chi abbia voluto recare questa curva laterale all’ attitudine del feto nell’ utero, ma fra numerosi scheletri di feti umani che conservo nel Museo Anatomico alle mie cure affidato, non ve ne ha alcuno che ne mostri il più piccolo indizio. Ecco quanto presenta la colonna vertebrale del Gamberini. Nella regione dorsale ha essa due curve od inclinazioni laterali manifestissime, una a convessità destra, la quale convessità non valica la quarta vertebra dorsale : la concavità è a sinistra e questa comincia subito alla seconda vertebra dorsale e termina alla decima. L’ altra curva si manifesta per una concavità a.destra, la quale comincia alla quarta vertebra dorsale e discende giù giù dileguandosi insensibilmente alia duo- decima. Questa curva corrisponde senza dubbio all’ aorta trasportata a destra, ed è, se ben veggo, da esso lei prodotta. Sarebbe mai che la prima fosse quella che provenisse dalla predominante azione del braccio destro ? Se così fosse, ben è chiaro che non più uno, ma due fatti si avrebbero al postutto distinti; nè quelle due opinioni si travaglierebbero intorno al fatto medesimo, ma quella del Sabatier sopra uno e quella del Bichat sopr’ altro, nè potrebb’ essere la menoma contrarietà fra loro. Ma pare che sì il Bichat come il Sabatier intendano l inclinazione o curva laterale che io ho detto corrispondere all’ aorta: nel quale caso volendo pur seguire un’ opinione sulla genesi di quella, il fatto mi conduce a dare la prefe- renza alla opinione del Sabatier; imperocchè essendo 1’ aorta trasportata a destra, tutto che il Gamberini fosse manritto, nondimeno la concavità della curva laterale medesima era pur situata nel lato destro, come già in altri casi d’ inversione splanenica generale. Finalmente in questa colonna non apparivano le altre incli- nazioni o curve laterali, una al collo e l’altra alla regione lombare descritte in prima da Sabatier, il quale cercò di dimostrare esser’elleno necessarie all’equilibrio della dorsale. Detto di questa colonna quel tanto che riguarda l'inversione, discenderò al- l'anomalia ch’ essa presenta nel numero delle vertebre; alla quale trattazione non sarà inutile premettere la lunghezza della medesima. La quale lunghezza a colonna fresca era dal lembo superiore del segmento anteriore dell’ atlante all’ apice del coccige in linea retta 770 millim., e seguendone le curve delle varie regioni 828, così ripartiti: 138 al collo, 270 alla regione dorsale, 250 alla lombare e 170 alla sacro-coccigea. Neila regione cervicale si contano le solite sette vertebre, la seconda e la terza delle quali sono anchilosate non solo nel corpo, ma eziandio negli archi, — 612 — nei processi spinosi e negli articolari corrispondenti. Esili sono i processi spinosi della quinta e sesta vertebra cervicale, ed il foro vascolare della base de’ processi trasversi è nelle sei superiori destre, ed in ispecie nell’atlante, più stretto che nelle sinistre. La regione dorsale ha pur essa il numero ordinario di vertebre, le quali sostengono dodici paia di costole. I processi spinosi delle quattro superiori sono molto robusti, orizzontali, lunghi, lateralmente compressi, e i due superiori, mas- sime poi il primo, bitubercolati nell’ apice, e questi quattro processi una con quello della prominente, formano una notabile sporgenza. Il quinto comincia ad inclinare inferiormente. Devia il sesto a destra ed il settimo a sinistra. — Nella regione lombare trovansi sei vertebre che hanno il corpo molto robusto, largo superior- mente ed inferiormente, ed a’ lati forte scanalato, massime le inferiori, poichè le due superiori, e sopratutto Ia prima, non troppo s allontanano nella forma, dal- l ultima dorsale, la quale ha già fattezze somiglievoli alle lombari, colle quali confonderebbesi, se nol vietasse la faccetta per I articolazione costo-vertebrale. Il corpo della sesta vertebra lombare non è così largo come i due che gli stanno di sopra, e ritiene il carattere della quinta. normale, siccome quello che è più basso delle altre nella regione posteriore. La prima vertebra lombare ha da ciascun lato un processo costale mobilmente articolato col suo corpo presso la sincondrosi dorso-lombare. Gli altri processi trasversi sono saldati a’ corpi vertebrali rispettivi, e quello della quinta è gracile e corto; ma quello della sesta grosso e piegato superior- mente. I processi trasversi accessoril sono poco o punto manifesti. I processi spinosi delle cinque lombari superiori sono crestati, orizzontali, robustissimi: quello della sesta è più piccolo, non più crestato, e somiglia il processo spinoso dell’ ultima dorsale, o della prima sacra, ma è più grande. — Il sacro è composto di cinque false vertebre ed il coccige di quattro, o più esattamente di quattro rudimenti vertebrali come d’ ordinario. -— Non è questo il solo esempio che siami occorso d’ aumentato numero delle vertebre lombari; chè pur altro da lunga pezza ne tengo tratto da un uomo d’ alta statura, e di mezzana età, il quale esempio l’ avete davanti: è desso simile al precedente, salvo che il processo costale che nel primo trovammo mobilmente articolato, qui è unito per sinostosi con il corpo della prima lombare a similitudine dei processi trasversi delle altre vertebre sottoposte. In questa colonna oltre le inclinazioni laterali toraciche, manifestissima è pur la lombare segnalata da Sabatier, e le vertebre sono un pò più gracili e snelle e congiunte similmente pei loro naturali legamenti. Questi due esempi una con quello, non è guari, illua- strato dall’ esimio Collega Prof. Cesare Taruffi (1) sono 1 soli che io conosco per veduta nell’ uomo, di aumentato numero delle vertebre; ma altri ne ho osservati nelle Scimie, i quali brevemente indicherò. In questo Museo di Anatomia Compa- rativa trovasi una bella collezione di scheletri di Scimie, tra’ quali ne hanno tre (1) Scheletro con Prosopoectasia e tredici vertebre dorsali nelle Mem. dell’Accad. delle Scienze dell’ Istituto di Bologna. Serie III. Tom. X. pag. 63 e segg. — 613 — di duplicati, uno pertinente alle Scimie senza coda, gli altri due alle caudate. E primieramente vi ha un doppio scheletro del Macachus Innuus. In tutti e due trovansi sette vertebre cervicali, ma in uno tredici vertebre dorsali, nell’ altro dodici, in entrambi sette lombari, tre sacre : tre coccigee? Secondariamente sonovi due scheletri del Cinocephalus Babuinus. In entrambi sette cervicali: in uno dodici dorsali, sei lombari, quattro sacre, undici caudali: nell’ altro undici dorsali, otto lombari, tre sacre, dieciotto coccigee : terzamente hannovi due scheletri del Cebus Apella, nei quali le vertebre cervicali sono come ne’ precedenti, sette: in uno quattordici vertebre dorsali, cinque lombari, tre sacre : nell'altro tredici vertebre dorsali, sette lombari, tre sacre ; in questo le coccigee sono ventitre, in quello ne mancano alcune, ma forse il numero era simile. Prendasi il meno o il più per tipo, si avrà nel primo caso aumento, nel secondo diminuzione. Anche nella Tavola del numero delle vertebre nei mammiferi data da G. Cuvier (1) si può trarre un altro esempio consimile ai precedenti dal Macki a fronte bianca. Non è notato il numero delle vertebre cervicali, ma è a credere che fossero sette, e dico che è a credere, poichè nello scheletro dell’ Hylobates Sindactylus del suddetto Museo si trovano otto ver- tebre cervicali; ma sono ben notate le vertebre di tutte le altre regioni, e dodici in ciascheduno al dorso, ed in uno sette ai lombi, tre al sacro e ventisette alla coda, nell’ altro otto ai lombi, tre al sacro, e ventinove alla coda. I quali tutti esempi e soprattutto î tratti dall’ uomo sembrano dimostrare un vero aumento di numero nelle vertebre, ed in particolare in quelle delle regioni lombare e dorsale, poichè non vi ha diminuzione nelle vertebre delle regioni vicine, nè eziandio delle altre della colonna, sì che possa credersi che quell’'aumento sia una compensazione. Ben è vero che ponendo mente che il numero massimo delle vertebre coccigee, quando il sacro finisce alla ventinovesima vertebra, è, secondo E. Rosenberg, di sei (2), potrebbe congetturarsi che la prima coccigea si conformasse o trasformasse in ultima sacra, che la prima sacra in ultima lombare, e via via di questo passo la prima lombare in tredicesima dorsale, quando sianvi tredici paia di costole, e non essendovene che dodici, la prima dorsale in ottava cervicale. Il che riceverebbe conforto dall avere il Vesalio trovato il sacro ne’ Cimiterj} ordinariamente composto di sei vertebre (3), e d’ averlo pur veduto così talvolta composto Ed. Sandifort (4), e Simone Alberto di sette (5), e l’ essere in qualche caso la prima vertebra del (1) Legons d’Anat. Comp. Tom. prem. pag. 70-71. Bruxelles 1836. (2) Embryologie par Albert Kéolliker ecc. Paris 1879, pag. 419. (3) De corporis humani fabbrica ecc. Lib. I Cap. XVIII. (4) Observationes Anatomico-pathologicae. Lugduni Batavorum 1777. Lib. III Cap. X. pag. 13%; e Thesaurus dissertationum ecc. Lugduni Batav. 1778. Vol. III pag. 177. (5) Historia plaerar. part. hum. corp. ecc. Witerbergae 1602. pag. 136. Pare dalla figura, che S. Alberto ha aggiunta, che l’ultima sacra appartenga al coccige, il quale sarebbe composto di cinque rudimenti vertebrali come qualche rara volta accade di vedere, sopratutto, dicono, nella donna. Sappey però Op. cit. Tom. 1. pag. 206 è d’avviso contrario e dà per ordinario il numero cinque nell’ adulto e confermalo con due figure, le 98-99. Io non potrei sottoscrivermi a quest’as- — 614 — sacro conformata da un lato come l' ultima lombare, ovvero 1’ ultima lombare con- formata da un lato come la prima sacra (1); alla quale poi da quel lato medesimo è unita per sinostosi, e ciò che è più frequente, così conformata ed unita da amendue i lati; e da altri fatti consimili dimostranti che le vertebre di una regione vicine ad altra della colonna partecipano d’ alcuna qualità delle vertebre di que- st ultima regione, non passandosi dalla forma delle ume a quella delle altre repen- tinamente, ma per gradi. Se non che ad accettare il sopradetto procedimento, con- verrebbe porre fuor d’ ogni dubbio che le singole regioni della colonna dividen- dosi in parti, o in altri termini segmentandosi, non potessero in questa divisione 0 segmentazione avere un più od un meno. Senza che come per esso spiegherebbesi la reale diminuzione delle vertebre ?_ Io mi penso ricorrendo ad una formazione difettiva nel numero delle vertebre coccigee o della regione che ne offre la dimi- nuzione. Faremo poi considerazione che quel numero embrionale delle vertebre coccigee è il massimo: lo che include potervene essere naturalmente un minore; che la riduzione di esso in meno ed a quattro, che è il numero normale, non si fa per trasformazioni ascendenti, ma per atrofia o scomparsa delle ultime, scomparendo il tubere coccigeo, o per una loro unione o confusione in una, della quale unione potrebbe esibire una prova l ultimo pezzo coccigeo pure della colonna del Gamberini, il quale pezzo esaminando pare veramente composto di due, uno supe- riore maggiore, l altro inferiore minore uniti ed incorporati in uno (2); e che fi- nalmente non si tratta di mettere a paro il numero embrionale delle vertebre della colonna col definitivo o normale o tipico che voglia chiamarsi, nell'adulto, nè di spiegare come in questo avvengane un aumento, ma si tratta di comparare quel numero definitivo o normale o tipico col numero anomalo. Ora quello essendo di trentatre e questo di trentaquattro, viene che effettivamente il numero delle ver- tebre in que’ due esempi e negli altri recati in mezzo sia veramente aumentato. Con che non voglio si creda misconoscere io il fatto dell’ essere spesso apparente il numero aumentato o diminuito delle vertebre di questa o quella regione della colonna, e non accetti le compensazioni; chè per contrario le accolgo come ben approvate se non per osservazioni che io abbia fatte sull’ uomo, sì per le fatte serzione; imperocchè il nucleo osseo che si forma nella cartilagine del quinto rudimento verte- brale del coccige, quando abbia luogo, si unisce ed incorpora col quarto molto innanzi che l’ossi- ficazione in generale sia compiuta, di qualità che assai presto il coccige non consta che di quattro di quel aiar spesso ancora non tutti separati: donde l’apparir esso composto di un minor numero p. es. di tre, secondo che pone il Portal, (Anat. med. Tom. prem. pag. 349. Paris 1803); ovvero formare un osso solo, unendosi tutti insieme essi rudimenti: della quale anomalia tra i varî esempi che posseggo, ne ha uno pertinente ad una donna di circa quarant'anni, in cui il coccige è saldato anche al sacro: la quale ultima evenienza non è Intreguente contro il parere dell’ Lo il quale a quasi per impossibile, ed è cosa, secondo ch’ ei dice, inaudita. Vedi Lehrbuch der anatomie des menschen ecc. Wien 1881, pag. 327. (1) Vedi Albino Annot. Acad. Lib. IV. Cap. XI. pag. 54 e seg. Leidae 1754. Vedi anche Ed. Sandifort Op. cit. pag. cit. pio 60bTavie lE — 615 — sulle Scimie, e le ho per frequentissime, tanto che sono inclinato a considerarle col Topinard un fatto generale a rispetto dell'aumento o diminuzione reale o senza compensazione, ch’ egli ha in conto di eccezione (1). E compensazione io ammetto sol quando essendo eguale il numero delle vertebre in due colonne, ineguale è la ripartizione di quelle nelle varie regioni di queste. Chiarirò il mio concetto con questo esempio. Il Chimpanzée e 1’ Hylobates Sindactylus sopradetto hanno ciascuno trentaquattro vertebre. Il primo ne ha sette al collo, quattordici al dorso, quattro ai lombi, quattro al sacro e cinque al coccige. Il secondo ne ha otto al collo e l ottava porta da ciascun lato un lungo processo costale o costola cervicale : tre- dici al dorso sostenenti tredici paja di costole : quattro ai lombi: cinque al sacro e quattro al coccige. Prendendo per tipo la ripartizione vertebrale del Chimpanzée, egli è manifesto che il diminuito numero delle vertebre dorsali è compensato dal numero accresciuto delle cervicali, e il diminuito delle vertebre coccigee dall’ au- mento delle sacre ; o in altri termini l aumento avviene per la diminuzione delle vertebre nella regione sottoposta. Frequentissimo il numero sette delle vertebre lombari compensa la riduzione a tre solamente delle vertebre sacre, e ne sommi- nistrano esempi l Innuus ecaudatus, il Macachus Innuus, il Cercopitecus ruber ed thiops, il Semnopitecus, l’Aigula, il Macachus aureus, il Callitrix sciura, l’ Hapale Iacchus e molte altre Scimie che sarebbe troppo lungo commemorare, e che vo- lentieri lascio, non avendo avuto modo di verificarne l’ esattezza del numero. Nei due scheletri del Cinocephalus Babuinus vedemmo al dorso, ai lombi, al sacro va- riato il numero delle vertebre, ma eguale esso numero collettivamente preso, e quindi argomento di compensazione, e in uno trovammo undici vertebre al dorso, otto ai lombi, tre al sacro, in tutto ventidue, nell’ altro dodici al dorso, sei ai lombi, e quattro al sacro, in tutto pure ventidue. La compensazione è evidente per sè, nè abbisogna di ulteriori parole. In forza di questi esempi e di molti altri che potrebbero trarsi dagli autori, chi metterà in dubbio le compensazioni ? Anzi chi non le accoglierà anche latissimamente ? Ed accettandole pure di tal guisa, non segue che si debba dar bando all aumento, o diminuzione reale delle vertebre come ha fatto, non è molto, il Regaglia (2). Io per me tengo col Tabarrani che sì l’ aumento o diminuzione reale recata a Realdo Colombo, sì l’ aumento o dimi- nuzione apparente, o dirò così, compensatoria, recata a Gabriele Faloppio, siano amendue opinioni vere, amendue fatti indubitati (3) con questo che la prima sarà contingenza più tosto rara, la seconda frequentissima. Un’ altra anomalia osservata nello scheletro del Gamberini è che a sinistra vi (1) Revue d’ Antropologie. Des anomalies de la colonne verteb. chez l’ homme. Tom. VI. Paris 1877, pag. 577. (2) Archivio per l’Antropologia ecc. Volume X, Fascicolo 3. Casi di anomalie numeriche delle vertebre ecc. Firenze 1880. (3) Pietro Tabarrani. Lettere Anatomiche negli Atti dell’ Accad. delle Scienze ecc. in Siena, appen. al Tom. III. 1767. pag. 37. -— 616 — sono otto costole sternali (1) tutto che le vertebre dorsali siano semplicemente dodici, e pur dodici le paia di costole. Ben s' intende che le asternali da questo lato sono semplicemente quattro. L' estremità sternale dell’ ottava cartilagine costale si articola e colla estremità inferiore del corpo dello sterno e colla superiore del processo mucronato o xifoideo, già osseo nella sua metà superiore. Questo fatto dell’ articolarsi la cartilagine dell’ ottava costola con .lo sterno senz’ aumentato numero delle costole e delle vertebre dorsali, è stato in prima osservato dal Luschka e confermato da altri; ma, se ben ho compreso, pare che 1’ articolazione non fosse con il corpo dello sterno, ma solo con la cartilagine ensiforme (2). Ma comunque sia, questo fatto costituisce pure un’ analogia con le Scimie. În fatti nell’ Innuus ecaudatus e nel Macachus Innuus, ne’ quali sono dodici costole, otto sono sternali e quattro asternali: similmente nel Cercopithecus ruber e nel Cercopithecus Ethiops, nell’ Aigula, nel Callitrix Sciura, nell Innuus Menestrinus, nel Cinocephalus Ba- buinus ecc. Noterò ad ultimo che quasi tutte le cartilagini costali presso la loro articolazione collo sterno erano nella parte anteriore coperte da una sottile falda ossea, la quale ricordava presso a poco la forma di un’ unghia, e costituiva un primo rudimento della loro ossificazione. Riepilogando le cose fin qui discorse, dico : 1° Che Il’ esempio descritto d’ inversione dei visceri e delle parti contenute nel torace e nell’ addome è tipico, siccome quello che offre quelle parti e quei visceri perfettamente trasposti od inversi : pel quale rispetto egli non ha altro pregio fuor quello di aver confermato quanto più o meno generalmente hanno presentato molti altri casi ; 2° Che la cagione qualsiasi produttrice della inversione non ha in esso ristretta la sua azione ai visceri ed alle parti toraciche e addominali sopradette, ma estesa eziandio al collo ed alla testa. E quanto al primo è già stato notato deviare l’eso- fago a destra ed essere da questo lato il solco esofageo-tracheale. Aggiungo che contrariamente a quel che suole in istato normale accadere, la carotide primitiva s'nistra è più grossa e superficiale della destra, e del pari più grossa è la vena jugulare interna che 1 accompagna; che l’ arteria vertebrale sinistra è meno grossa e per converso la vena omonima. Quanto alla testa, provano, se mal non sonmi apposto, l azione della causa dell’ inversione su di lei, l essere la carotide interna sinistra più grossa della destra (corrispondente già a quella un canale carotico più ampio); l’ essere altresì più ampio il forame jugulare sinistro, e così il golfo o bulbo superiore della corrispondente vena jugulare interna : I° essere più largo il seno trasverso o laterale sinistro della dura meninge, e lo scaricarsi in questo, e (Rio lavo (2) Die Halbgelenke des Menschlichen Kérpers. Berlin 1855. — 617 — con questo solo comunicare il seno longitudinale superiore (avvertendo non con- sentir io che la maggior larghezza di quel seno laterale dipenda, come è opinione, almeno in tutto, dal giacere che noi facciamo di preferenza sul fianco destro, tro- vata avendola pur essa a destra in un neonato, il quale certamente non giaceva che supino): l’ essere un po’ più grossa la metà destra del cervello e del cervel- letto, ed in fine l’ essere più stretti a destra il sacco lagrimale ed il solco corri- spondente ; 3° Che l esempio offertoci dal Gamberini oltre essere notabile per sì tanta estensione dell’ inversione, notabile è eziandio per anomalie a quanto parmi, indi- pendenti dalla inversione medesima. Non già che sia nuovo che di sì fatte ano- malie l’ accompagnino ; chè gli autori ne notano parecchie, come la comunicazione dell'esofago colla trachea, la mancanza della milza e del pancreas; un mesenterio comune al digiuno-ileo, ed alla prima metà circa del crasso; i reni situati nella pelvi ed uniti, 0 l’esistenza di un rene solo, il sinistro; ambidue i polmoni bilobati; od uno, il destro, unilobato; ampia comunicazione fra i due atri venosi del cuore ; due vene cave superiori o discendenti; la vena cava ascendente non mettere foce nel seno venoso del cuore, ma nella cava discendente, e comprendere in sè l’azygos cui simula: e le vene epatiche insieme colla vena ombellicale formare un tronco che passa pel forame quadrato del diaframma e sbocca nel seno venoso anzidetto : due vene lienali; due condotti arteriosi o Botalliani. Ma quelle che ho incontrate nel Gamberini, hanno certa novità, non essendomi a contezza che siano state da altri vedute nella inversione, e sono, come già vedemmo, il piccolo omento od epiploon iliaco (omentulum iliacum); il non passare l arteria succlavia sinistra tra gli sca- leni, ma davanti lo scaleno anteriore; l’ esistenza di un’ arteria bronchiale anomala molto grossa ed avente una dilatazione o varice aneurismatica: arteria proveniente da un ceppo comune alla coronaria stomatica superiore, sorto dal tronco della celiaca, e pertinent’ essa al solo polmone destro : la quale anomalia non era mai stata osservata nell adulto, ma solo con qualche differenza in due fanciulli: l' esi- stenza di trentaquattro vertebre, essendo 1’ aumento d’ una neila regione lombare ed infine il trovarsi otto costole sternali a sinistra, essendone pur normale, cioè di dodici, il loro numero in amendue i lati. TOMO Il. 78 SPIEGAZIONE DELLE TAVOLE Tavola I. Fig. 1.2 — Questa figura è data a dimostrare una specie di piccolo omento od epiploon iliaco. Riduzione a poco più di un terzo del vero. a, ultima ansa dell’ intestino ileo. Db, cieco. C, appendice vermiforme. d, colon ascendente quasi per intero. e, porzione di mesenterio. f, mesenterio dell appendice vermiforme carico di appendici epiploiche. g, piccolo epiploon od omento (omentulum iliacum) della suddetta ansa del- l’ ileo. Fig. 2.2 — Questa figura è data a dimostrare principalmente una arteria bron- chiale anomala pertinente al polmone situato a destra. Grandezza circa quasi un terzo della vera. a, estremità inferiore della faringe. b, Db, esofago. C, stomaco. d, duodeno. e, principio dell’ intestino digiuno. f, fegato. S, pancreas. h, milza. i, trachea. I, bronco del lato sinistro. 1, polmone del lato destro o bilobato. m, polmone del lato sinistro, o trilobato. n, glandula tiroide. o, diaframma che in p mostra il forame esofageo. — 619 — p, questo forame. G, estremità posteriore dell’ arco aortico. T, arteria innominata. s, carotide primitiva del lato sinistro un po’ più grossa di quella del lato destro. t, arteria succlavia del lato sinistro un po’ più grossa di quella del destro. u, carotide primitiva del lato destro. V, arteria succlavia sinistra. x, aorta discendente toracica tagliata. y, tronco dell’ arteria celiaca tagliata alla sua origine dall’ aorta discendente addominale levata in un colla porzione inferiore della toracica. Z, arteria splenica. &, arteria epatica. 1, tronco sorto dalla parte superiore e destra della celiaca, il quale tronco si divide nella coronaria stomatica superiore 2, e nella bronchiale anomala 3. 2, la detta coronaria. 3, la detta bronchiale, la quale passa pel forame esofageo del diaframma dietro all’ esofago penetrando nella cavità posteriore del mediastino, e va al lato interno del polmone destro verso l’ hilo, e tra. via si dilata formando nel punto specialmente del suo sbrancarsi una specie di varice aneurismatica. 4, questa varice od aneurisma cirsoide. 5, ramo inferiore ) nascenti dalla detta varice, il più grosso dei quali è il supe- 6, ramo medio riore e il più sottile è il medio : questi rami diramansi nel 7, ramo superiore polmone corrispondente, e solo il superiore entra per l’ hilo. 8, arteria mesenterica superiore tagliata. 9, 10, vene jugulari interne, la sinistra 9 delle quali è un po’ più grossa. 11, 12, vene sucelavie. 13, 14, vena azygos ed emiazygos, la quale si unisce col tronchetto « un po’ più grosso di lei, il quale è una vena comune delle intercostali supe- riori sinistre, od emiazygos superiore solita a mettere foce nell’ azygos. 15, vena cava ascendente. 16, vena meseraica maggiore. 17, vena splenica, la quale riceve 18, la vena meseraica minore, e la 19, vena coronaria stomatica superiore. L’ arteria bronchiale anomala non ha vena satellite. 20, tronco della vena porta. 21, condotto toracico posteriore o yrande, che in 22 va a mettere capo nella vena succlavia del destro lato. Fig. 3.° — Anomalie delle arterie della base del cervello. Grandezza alla metà del vero. Fig. — 620 — A, B, emisfero destro del cervello e del cervelletto di maggiore grandezza che quelli G, D, del lato sinistro. a, arteria carotide cerebrale sinistra molto più grossa della destra a. b, arteria callosa o cerebrale anteriore sinistra grossissima a rispetto della destra 6, ridotta ad un sottilissimo ramo che si anastomizza con la vera callosa o cerebrale anteriore destra y, data dall’ arteria b anzidetta. c, ramo calloso o cerebrale anteriore sinistro grosso quanto il destro 7. d, arteria retrograda o comunicante posteriore sinistra più grossa che la destra d. e, arteria coroidea anteriore sinistra: e la medesima arteria a destra. f, arteria Silviana o trasversa o cerebrale media sinistra d’alcun che più sot- tile della destra £. 9, arteria vertebrale sinistra sottilissima e non aggiugnente che la metà della grossezza della destra 7. S, arteria spinale anteriore destra di ragguardevole grossezza: la sinistra manca. t, arteria posteriore inferiore, od inferiore grande del cervelletto, la quale è molto grossa e compensa la destra che manca. 1, arteria basilare. mM, arteria inferiore anteriore sinistra del cervelletto, e x la medesima arteria a destra. n, ramuscelli del ponte del Varolio a sinistra, e 4 i medesimi a destra. O, arteria superiore sinistra del cervelletto, e u destra, amendue d’ eguale grossezza. p, arteria cerebrale profonda sinistra un po’ meno grossa della destra ». 4.° — Dimostra come il sacco della dura madre cerebrale è più capace nella sua metà destra, e come il seno longitudinale superiore s° immette tutto nel seno laterale o trasverso sinistro più ampio e breve del destro nulla comunicante col seno longitudinale anzidetto. Grandezza alla metà del vero. A, B, porzione destra del sacco della dura madre cerebrale, contenente 1’ emi- sfero destro del cervello e del cervelletto, la quale porzione è veduta dalla regione posteriore. C, D, porzione sinistra del sacco medesimo pur veduta posteriormente, la: quale contiene l’ emisfero sinistro del cervello e del cervelletto. a, seno longitudinale superiore della dura madre aperto nel tratto posteriore e discendente b, D. a 33 PA = lat ‘al anicte 11 1 br del d 4 "È 1 C, seno trasverso o laterale sinistro più ampio e breve del destro, aperto im gran parte della sua porzione trasversale. d, seno laterale o trasverso destro più stretto del precedente ed egualmente aperto. Halo Mem Ser 4° Tom Il. rd ct rrseezannoo LitGWenk G Bettmi dis” Mem Ser. 4* Tom IT. GC. Bettim dis° LCalori-T'avIT Lit.6.Wenk — 621 — Tavola II. Fig. 5.° — Base del cranio veduta allo esterno, data a particolarmente dimostrare Li come i forami jugulare e carotico sinistri sono notabilmente più ampi dei . destri. Grandezza alla metà del vero. ì a, forame jugulare sinistro molto ampio a rispetto del destro. b, questo forame. GC, forame carotico sinistro più ampio che non è il destro. d, questo forame. Fig. 6.+ — Colonna vertebrale con porzione di costole veduta dalla faccia ante- | riore, e ridotta ad un terzo della naturale grandezza. Questa colonna è singolare per le curve laterali della sua porzione dorsale, e per avere sei vertebre lombari. a, le sette vertebre cervicali. da b a b, le dodici vertebre dorsali sostenenti le ventiquattro costole tagliate via in gran parte, le destre delle quali sono indicate da c a Cc, e le sinistre da d a d. da e ad e, inclinazione o curva laterale a concavità sinistra, ed avente supe- riormente una convessità a destra, la quale inclinazione comincia alla parte inferiore della seconda vertebra dorsale, e termina alla decima. Dipend’ella dall azione prevalente del braccio destro ? da f a f, inclinazione o curva laterale a concavità destra, la quale inclinazione comincia dalla quarta vertebra dorsale, e termina insensibilmente alla duo- | decima. o, vertebre lombari al numero di sei. h, osso sacro composto di cinque false vertebre unite fra loro per sinostosi. i, coccige formato, come di solito, da quattro rudimenti vertebrali, l’ ultimo | dei quali offre il tubercolo 1 un po’ inclinato a destra, il quale sembra un quinto rudimento vertebrale atrofizzato ed incorporato col quarto. Fig. 7.° Pettorina veduta dalla parte anteriore, dimostrante come a destra si trovino otto costole sternali, benchè il numero di queste non sia aumentato. Ridu- zione ad un terzo della naturale grandezza. a, manubrio O Db, Db, corpo > dello sterno. C, d, processo ensiforme } La porzione c del processo ensiforme è ossea, la d cartilaginea. e, forame del processo detto. | — 622 — da f a g, le cartilagini delle otto costole sternali sinistre articolate con lo sterno, l’ ultima delle quali o l’ ottava si articola, come fosse settima, e col corpo dello sterno e con la porzione ossea del processo muceronato. da h ad i, le cartilagini costali delle sette costole sternali destre, l’ ultima delle quali, come l’ottava sinistra, si articola secondo il costume e col corpo dello sterno e col processo mucronato. ; 1, cartilagine costale della prima costola asternale o vertebrale destra, la quale cartilagine si unisce alla settima sternale, laddove a sinistra si articola, come fu notato, con lo sterno. k, porzioncella della cartilagine costale della nona costola sinistra unita con l’ ottava sovrapposta. mm, una delle laminette o squamette ossee, quasi a modo di unghie, le quali coprono l’ estremità sternale di quasi tutte le cartilagini costali, e che tal- volta sono saldate al corpo dello sterno. Rappresentano esse il primo rudi- mento dell’ ossificazione di quelle cartilagini. Solo queste particolarità ho stimato dover dimostrare per figure, essendo che le altre riguardanti il sito inverso dei visceri toracici e addominali sono a tutti notissime e rappresentate anche da qualche autore che abbia illustrato alcun caso d’ inversione splancnica. Del resto le preparazioni che io ho recate davanti a Voi, Colleghi prestantissimi, ve ne fanno testimonio, ed a tutti faranno, qualora vogliano visitare la sala delle anomalie da me fondata in questa Università, come novello Museo, al quale ho già consegnate quelle preparazioni. ® 9 ea dp © SULL'ALTA DIVISIONE DEL NERVO GRANDE ISCHIATICO GONSIDERATA COME DIFFERENZA NAZIONALE E SULLE VARIETÀ DEI MUSCOLO PIRIFORME NOTA DEL PROFESSORE LUIGI CALORI (Letta nella Sessione del 17 Novembre 1881) Leggesi seritto da G. F. Meckel che il Rosenmuller trasse dalla varia altezza in cui s' opera la divisione del nervo grande ischiatico in peroneo e tibiale poste- riore, una differenza nazionale posta in ciò che ne’ popoli settentrionali di Europa si farebb’ ella molto in alto, laddove ne’ meridionali molto in basso, cioè nella fossa poplitea. Cotesta differenza non pare consentita dall’ Illustre relatore, poichè riferita ch’ ei l’ ha, soggiugne non averla punto osservata (1). La quale annotazione non conforta certamente ad accoglierla: ond’ io l’ aveva rigettata, tanto più che non trovavane fatta menzione nelle Opere d’ Anatomia pur recenti, almeno in quelle che io conosco; e sì che differenza così fatta non era per la sua importanza da doversi trascurare, qualora ella fosse veramente; ma solo era toccato dell’ alta di- visione del nervo piuttosto come d’ anomalia che di altro. Se non che risovveni- vami avere il Walter dimostrato il grande nervo ischiatico quasi dalla origine sua entro la pelvi, od appena fuor di questa, già diviso nei rami tibiale posteriore e peroneo ch’ egli chiama maggiore e minore (2), ed il Fischer averlo pure rappre- sentato diviso in alto, cioè presso la metà circa della regione posteriore della coscia (3); e questi due celebri Neurologi erano settentrionali e facevano loro ana- tomie in Germania, e rappresentavano, quanto alla divisione in discorso, il caso ordinario. E più svolgendo l Anatomia sistematica dell’ Henle, e specialmente il (1) Manuale d’ Anat. gener. descrit. e patol. del corpo umano. Versione italiana con note di G. Batta Caimi. Milano 1825. Tomo terzo, pag. 512. — Meckel cita il Fasc. II. del « Neue Journal der Erfindungen in der Natur-und Arzneywissenschaft, pag. 100 » il quale giornale non mi è venuto di poter consultare. (2) Joannis Gottlieb Walter. Tabulae nervorum thoracis et abdominis. Berolini 1783. Fol.° Tab 1° Eig. I° N. 391, 392 (3) Descriptio Anat. nerv. lumb. sacr. et extrem. infer. Auct. Johan. Leonhardo Fischer. Lipsiae 1791. Fol.° Tab. IV. Fig. II. N. 91, 197, 198. — 624 — Trattato dei nervi, escito in luce nel 1879, mi avveniva ad una figura che è la 305 di questo Trattato, dimostrante il nervo grande ischiatico, nella quale esso nervo subito fuori della pelvi apparisce diviso in peroneo e tibiale posteriore, ai quali due rami pur ivi medesimo sono applicate le lettere che li indicano. I detti rami discendono l uno accanto all’ altro paralleli verso la metà della coscia, dove si allontanano andando l'uno al lato esterno del ginocchio, l’altro alla parte media del poplite. E' non vi ha dubbio che la citata figura non ritragga, secondo l’Henle, le condizioni ordinarie del nervo,:e quanto al nostro particolare, il luogo in cui suole effettuarsi la sua divisione, poichè non ve ne ha alcun’ altra che la dimostri, e poichè egli la conferma nel testo scrivendo che “ ordinariamente il nervo alla età del femore là dove il capo lungo del muscolo bicipite crurale lo incrocia, si divide nei rami terminali peroneo e tibiale, e che spesso fin dal principio è in essi distinto (1) ,. Tutti sanno che l’ Henle è, come furono il Walter e il Fischer, anatomico in Germania, e precisamente a Gottinga, ed è naturale il pensare ch'egli altresì abbia descritto il nervo grande ischiatico al luogo della sua divisione in peroneo e tibiale posteriore conforme si appresenta di solito negli uomini di quella regione; e posto che sia così, è chiaro che questa descrizione e in uno quella dei due sullodati Neurologi tornano a conforto e prova dell’ asserzione del Rosen- muller, e ne riconvincono della contraria, dando se non altro ad intendere essere nei popoli settentrionali di Europa più frequente che nei meriggiani della .mede- sima regione l’alta divisione del nervo grande ischiatico ne’ due rami sopradetti. Di che darebbe una prova il Valentin, ammettendo che ella spesso avvenga nel passare che fa il nervo fra la tuberosità ischiatica e ’1 gran trocantere (2). E il Valentin esso altresì è anatomico settentrionale. Ma altri anatomici tedeschi contemporanei, e nomatamente Hyrtl (3), Luschka (4), Rudinger (5) ecc. pongono, e dimostrano eziandio con figure, dividersi il nervo grande ischiatico in peroneo e tibiale poste- riore là dove i muscoli flessori della gamba si allontanano fra loro, o vero alla parte superiore della regione poplitea, aggiugnendo poter ciò accadere talora più in alto ed all’ uscita del nervo dalla pelvi, e dentro altresì di questa, conforme già scrissero, e scrivono generalmente, gli anatomici dell’ altre nazioni. La quale con- traddizione ne tiene soprammodo perplessi, e ne risveglia il desiderio di novelle osser- vazioni che confermino o smentiscano a pieno la sentenza del Rosenmuller. Appo noi l alta divisione del nervo grande ischiatico non è per fermo il fatto (1) Vedi Handbuch der Nervenlehre des Menschen in sistematischen Anatomie ecc. von Dr. J. Henle ecc. Braunschweig 1879, pag. 583. (2) Encyclop. Anat. Tom. IV. Paris 1843, pag. 555. (3) Leherbuch der Anatomie des menschen ecc. Wien 1881, pag. 937 e segg. (4) Die Anat. des menschen. Zweiter Band. Zweite abtheilung das Becken. Tibingen 1864 pag. 37 e segg. Fig. 4, pag. 33. — Vedi anche Dritter band. Erste abtheilung die Glieder. Tibingen 1865. pag. 474 e segg. (5) Die Anat. des peripherischen nervensystems ecc. Stuttgart 1870. Tafel XIII. Fig. 11. N. 10-19-20. — 625 — ordinario; poichè in cinquanta cadaveri, trentasei dei quali erano mascolini, e quat- tordici muliebri, non l ho trovata che tredici volte, quattro in questi e nove in quelli, e tratto due, uno di uomo e l’altro di donna, da un lato solo quando destro, quando sinistro. Di qui è manifesto che non potrebbesi dire generalmente collo Swan che “ le nerf sciatique forme quelquefois un tronc unique, quelquefois est divisé par l interposition du muscle pyramidal , e che “ quelquefois la division a lieu dans le bassin (1) , imperocchè così dicendo sembrerebbe che non ci fosse veruna norma; ma ella ci è; chè per le più volte la divisione ha effetto o all’en- trare del nervo nella fossa poplitea, o vero alla parte superiore di questa fossa, e talvolta alla parte media della medesima; o finalmente alcun poco sopra quell’ in- gresso, e più breve, generalmente in basso. Scrive G. F. Meckel avere l'anomalia riscontro con lo stato normale del grande nervo ischiatico nei mammiferi (2). È dessa poi varia di grado; imperocchè la divisione ora avviene dentro la pelvi, ora fuori ad una distanza più o meno grande dalla uscita del nervo, o lungi più o meno dal suo luogo consueto. Qualora sia intrapelvica, uno dei rami, ed è il peroneo, suol passare tra le carni del muscolo piriforme, il quale si fende o 8 indoppia per concedergli quel passaggio. Questa duplicità fu in prima notata dal Winslow, il quale lasciò scritto: “ Il y a quelquefois deux pyriformes, separée l un de l’autre par le nerf sciatique (3) ,. La quale osservazione è stata confermata da una moltitudine di anatomici, fra’ quali non voglionsi pretermettere l Hiidenbrand citato da S. T. Soemmerring (4), il Portal (5), il Meckel (6), il Boyer (7), il Cru- veilhier (8), il Blandin (9), il Theile (10), il Luschka (11), l Henle (12) ecc. Non è però a credere che ogni volta che il nervo esce della pelvi diviso o doppio, il ramo 0 tronco peroneo esca per una divisione del muscolo piriforme; chè può acca- ‘dere che si conduca fuori di quella insieme col tibiale posteriore passando tra il lembo inferiore del detto muscolo ed il gemello superiore, tutto che nel muscolo piriforme non manchi segno di divisione o di duplicità, come dimostra la Fig. 1.°. Senza che non è solo del ramo peroneo l’ uscire per una divisione o fenditura di questo muscolo, ma e del tibiale posteriore 3 Fig. 4.°, nel qual caso doppia n’ è (1) Neurologie ecc. traduit de l’anglais par E. Chassaignac. Paris 1880, pag. 125. La figura però ch’ei ne dà, ed è la prima della Tav. 25, lo dimostra conformato in un tronco unico che si divide al poplite; la quale disposizione è l’ ordinaria. (2) Opeit. dc: (:) Exposition anatomique. Tom. 4. Paris 1775, pag. 45. (4) De corporis humani fabbrica Trajecti ad Moenum. 1796. Tom. tertius, pag. 283. (5) Anat. medic. Tom. sec. Paris 1803, pag. 338. (6)KOp5leit. lc. (7) Anat. descrit. traduzione italiana con note. Firenze 1835. Volume primo, pag. 288. (8) Anat. descript. trois. édit. Paris 1854. Tom. deuxième, pag. 343. (9) Anat. descript. Tom. prem. Paris 1888, pag. 505. (10) Encyclop. Anat. Tom. IIl. Paris 1843, pag. 275 e segg. (LI)EOp:lertA Lo: (12) Vedi in Syst. Anat. cit. l’ Handbuch der Muskellehre. 1871, pag. 266 TOMO II. 19 D top) D (0/e) (die) — 626 — la divisione o la fenditura. E finalmente dalle parole surriportate del Winslow s' argomenta potere il nervo grande ischiatico uscire tutto intero o indiviso tra i due muscoli piriformi (1); il quale fatto non mi è mai caduto di osservare. Non di meno il Blandin l ha posto fuor di dubbio, ed ha scritto che “ dans l' inter- valle des deux faisceaux s' insinue le nerf sciatique tout entier, ou l’ un de ses faisceaux seulement (2) ,. Uscendo diviso o doppio il nervo grande ischiatico dalla pelvi, i due rami o tronchi, peroneo 2, e tibiale posteriore 3, possono scambiarsi alcuni filamenti de- cussantisi, ed unirsi pel lato col quale si corrispondono Fig. 2.*, comprendendo ed abbracciando la porzione inferiore del muscolo piriforme inferiore, tuttavolta che il peroneo esca per la divisione già più volte menzionata, per poi discendere sepa- rati lungo la regione posteriore della coscia e raggiugnere la gamba; o vero i detti due rami o tronchi 2, 3 possono unirsi in uno principale, il vero nervo ischiatico grande 1 (Fig. 4.°, 5.*, 6.%), il quale disceso al poplite partesi novella- mente nel rami sopradetti: di che già il Theile ne ha descritto un esempio (3), ed a me sono occorsi i ritratti dalle tre citate figure. All'ultimo non lascierò, quan- tunque sia cosa ben saputa agli anatomici, che in esso tronco principale o rimane traccia della primitiva separazione consistente in un solco longitudinale, e i due rami sono debolmente uniti mediante un lasso tessuto connettivo Fig. 8.8, o vero ogni traccia n’ è ita in dileguo, e i due rami sono intimamente uniti per un tessuto connettivo stipato e stretto (Fig. 4.°, 5.°, 6.°). Per la qual cosa non è esatto porre il primo caso come regola generale conforme ha fatto 1° Haller citando in appoggio di sua sentenza l’ Eustachio, il Vieussens ed il Winslow (4), non essendo 1’ altro meno infrequente. Nell’ uno però e nell’ altro dei due casi non è malagevole dis- giugnere i due rami dal basso all’ alto fino alla loro uscita dalla pelvi, e spesso ancora fin dentro questa senza veruna lesione di fascetti nervosi. Tale disgiunzione non è certo in dipendenza necessaria dell’ uscir doppio il nervo dalla pelvi; impe- rocchè anche quando esca semplice o conformato in un tronco unico, ottiensi pur senza fatica egualmente; ma sì del non scambiarsi i due rami o tronchi filamenti nervosi. Vengo ora alle varietà od anomalie del muscolo piriforme. Esse possono divi- dersi in anomalie di eccesso e di difetto, in divisioni di parti ch’ esser dovrebbero normalmente unite, ed in abnormi coalizioni. Nota G. F. Meckel che il muscolo in (1) Ciò dico a mo’ di congettura, poichè il Winslow a pag. 583 e segg. del Tom. cit. descri- vendo l’ischiatico non fa punto motto di questa contingenza. (2) O p-XcitNle. (3) Op. cit. pag. 276. (4) Elem. Physiol. corp. hum. Lib. X. Cerebrum et nervi, $ XXXIX. Ischiaticus. Eccone le parole: « Praeter minores ad natium carnes ramos, praeterque surculum ad partes genitales et ultimum intestinum et ad perinaeum datum alium, finditur in duos ramos qui cellulosa tela laxa conjuncti, uniti ad pedes tendunt, et in poplite demum separantur ». Così presso a poco anche il Soemmerring Op. cit. Tom. quartus, pag. 307, 328-529. — 627 — discorso “ existe ordinairement chez l homme (1) ,. Nelle quali parole ben è chiaro essere compreso ed implicito potere talvolta il muscolo naturalmente mancare: la quale mancanza costituirebbe un’ analogia animale, poichè egli stesso non l’ ha trovato nel Babbuino, nel Coaita, nel Maiale e nell’Orso, e secondo G. Cuvier, non vi sarebbe nel cavallo e nel pipistrello (2). Ma in questo mammifero volatore sen troverebbe I analogo in un muscoletto lungo e sottile esteso dalla parte inferiore dell’ ischio e dalla prima vertebra caudale al femore, e nel detto pachiderma sarebbe, secondo Meckel, confuso col muscolo gluteo medio (3) chiamato dagli Ippotomisti che ne seguono il parere, muscolo gluteo grande. Senza che se questo illustre ana- tomico non l’ha scorto nel Maiale e nell’ Orso, la ragione n’ è che nel primo altresì è intimamente unito al detto gluteo, rappresentandone un’ appendice trian- golare, come già è notato nell’ Anatomia Comparativa degli animali domestici (4); e finalmente rispetto al secondo, dice egli stesso essere nell’ Orso il piriforme confuso col muscolo gluteo piccolo (5). Io nell’ uomo l ho sempre rinvenuto, ma nel 1864 n° è stata, come riferisce l Henle, comprovata la mancanza dal Wood (6). Io non saprei dire, se questa debba aversi per vera od apparente, ciò è dire s° ella con- sistesse nell’ essere il piriforme confuso col muscolo gluteo medio, o col gluteo piccolo, o vero parte con uno di questi muscoli, e parte col gemello superiore e l otturatore interno, essendo che per quanto mi abbia cercato, non mi è venuto poter consultare il giornale cui il Wood ne ha consegnata la descrizione. Segue la piccolezza del piriforme, la quale costituirebbe un’ analogia coi rumi- nanti (7), ed essa, stando alle mie osservazioni, è quando apparente, quando vera. È vera qualora manchi una delle porzioni od origini del muscolo, e non siane compensata la mancanza da un volume maggiore dell’ altre. E qui è acconcio toccare delle dette porzioni, che Albino scrisse essere da principio tre o quattro, nascenti una tra il terzo e’1 quarto forame del sacro, l altra tra il secondo ed il terzo, la terza dalla seconda vertebra sacra subito sopra il forame della seconda, ed è molto sottile e spesso manca: la quarta dall’ osso ileo presso la sinfisi sacro-iliaca, od anche da questa (8); e secondo il Theile, dalla spina iliaca posteriore inferiore, dai legamenti sacro-ischiatici (9), dal sacro-tuberoso in (1) Traité géner. d’Anat. comp. traduit de l’allemand par Jourdan. Tom. VI. Paris 1829-30, pag. 362. (2) Legons d’Anat. comp. Tom. prem. Bruxelles 1836, pag. 174. (3) Anat. comp. Tom. cit. pag. cit. (4) C. F. Gurlts Handbuch der vergleichenden Anatomie der Haus-Stiugethiere neu bearbeitet von A. T. Leisering und Mueller fiinfte auflage ecc. Berlin 1873, pag. 323. (5) Ibid. (6) Vedi nella System. Anat. cit. l’Handbuch der Muskellehre des menschen. Braunschwig 1871, pag. 267. (7) Vedi. J. F. Meckel Anat. comp. Tom. cit. pag. 361. (8) Tabulae sceleti et musculorum corp. hum. Londini 1749. Tab. XXI. Fig. VI-VII. — Vedi pure Historia musculorum hom. Leid. Batav. 1734, pag. 524-525. (9) Op. cit. pag. 275. — 623 — ispecie (1), dal lembo anteriore del quale superiormente muove talvolta una piccola espansione aponeurotica continua col tenuissimo velo di connettivo che fa da perimisio esterno al muscolo. Certamente se manca una delle sopradette porzioni, come quella che nasce dall’ ileo, od una o due di quelle che provengono dal sacro, come non di rado avviene, il muscolo è realmente piccolo, salvo che non abbiavi, secondo che già notai, una compensazione. La piccolezza poi n’ è apparente, alloraquando una gran parte di piriforme si unisce o al muscolo gluteo medio, od al piceolo sì intimamente da non poterla separare, producendo nel primo caso quell’ appa- rente mancanza di esso lui nel cavallo indicata di sopra: mancanza tanto più appa- rente in quanto che il Cuvier fa pur nascere il gluteo medio di quel pachiderma anche dal sacro (2). Ed aggiugnendo il Meckel esservi tra il piccolo gluteo ed i gemelli un muscolo di forma quadrata esteso dal mezzo dell’ ileo alla faccia interna del gran trocantere (3), potrebbe credersi che tale muscolo tenesse luogo della piccola porzione del piriforme rimasta distinta. Ma se il sito di esso giova questa congettura, l avversa la origine sua dalla parte media della faccia esterna dell’ ileo ; la quale origine parmi convenga piuttosto con quella, in parte, del muscolo gluteo piccolo dell’ uomo; essendo che spesso incontra che la porzione © Fig. 1.*, 3.%, 8.8, di questo muscolo sia per un profondo solco separata dall’ altra bj e mi è avviso ch’ essa porzione € ritragga il muscolo di forma quadrata descritto dal Meckel. Ma qualunque sia il conto che voglia farsi di questa congettura, poco importa, nulla dal suo accoglimento o rifiuto detraendosi alla prova dell’ essere la piccolezza del muscolo piriforme in questi casì un’ apparenza, e del conseguitar essa da una abnorme coalizione od unione di gran parte di lui ad uno dei due glutei prefati. E poichè il discorso è caduto naturalmente sulla coalizione od unione abnorme del piriforme coi muscoli gluteo medio e piccolo, stimo opportuno di qui aggiu- gnere a scanso di ripetizioni quel tanto che è richiesto al compimento illustrativo di quest'anomalia. Pare che tutto il muscolo si unisca talvolta col gluteo medio; poichè Soemmerring scrive che “ nonnunquam cum muscolo gluteo medio indisso- lubili fere nexu est conjunctus (4) ,, e Cruveilhier che “ il est quelquefois inti- mement uni (5) , al gluteo medesimo. La brevità onde ci è significata da questi due illustri anatomici l’ anomalia ed il silenzio assoluto intorno alle sue concomi- tanze, non permettono di confonderla con la ritratta dalla Fig. 6.8. Nondimeno quantunque una piccola porzione del piriforme sia distinta, non è tolto però di considerarla come parte anch’ essa del muscolo gluteo medio, stante che il suo tendine d’ inserzione è unito inestricabilmente col tendine comune al detto gluteo ed alla maggior porzione del piriforme in una con quello congiunta. Non può f (1) Op. cit. Tom. deuxième, pag. 343. (2): Op. cit. Tom..cit. pag. 74 (3) Anat. comp. Tom. cit. pag. 361. (4) Op. cit. Tom. tertius, pag. 283. (5) Op. cit. Tom. cit. pag. 343. — 629 — dirsi altrettanto della unione col muscolo gluteo piccolo, imperocchè la porzione di piriforme rimasta distinta non ha veruna connessione con quello, ed o s° inse- risce separatamente nel grande trocantere Fig. 4.8, o si unisce col suo tendine d’in- serzione a quello del muscolo gemello superiore e dell’ otturatore interno Fig. 5.?. Questa parziale unione del piriforme col gluteo piccolo ricorda la particolare coa- lizione dei due muscoli segnalata da Meckel nell’ Orso. Le abnormi coalizioni descritte ingeneranti un’ apparenza di piccolezza nel mu- scolo piriforme non sono certo frequenti. In cinquanta cadaveri la coalizione od unione col muscolo gluteo medio non mi è occorsa che una volta sola tal quale si vede nella Fig. 6.8, e mi è occorsa da ciascun lato nel cadavere di un uomo molto muscoloso. In uno stesso numero di cadaveri ho trovata 1’ unione col muscolo gluteo piccolo due volte da un lato solo, in una donna a sinistra Fig. 5.*, ed in un uomo a destra. Ma se queste abnormi unioni sono rare, o vero rara è la pic- colezza del piriforme prodotta da esse, non così la prodotta dalla mancanza di qualche porzione del muscolo. Nei cinquanta cadaveri suddetti ho veduto mancare la porzione sacra superiore cinque volte, tre da un lato solo, e due da entrambi, e questa mancanza andava per lo più di conserva con quella della porzione iliaca; ed in altri due cadaveri ho vedute queste due porzioni esilissime. In tutti questi casi il forame circoscritto dall’ incisura ischiatica maggiore e dal margine supe- riore del piriforme era più ampio del costume Fig. 8.*, e questa circostanza era favorevole alla formazione dell’ernia ischiatica, cui però nessuno di quei cadaveri ebbe presentata. Le quali osservazioni sembranmi meglio confermative dell’asserto dell’Albino, il quale pose spesso accadere la mancanza della porzione sacra supe- riore (1), come già riferii di sopra, che di quello del Soemmerring (2) e del Theile (3) dicendo essi che talvolta, e non spesso, avviene tale mancanza. Sempre in quel numero di cadaveri una volta sola ed a sinistra non solo mancava la porzione sacra superiore, ma e la media era molto piccola, cotal che il sopradetto forame era più ampio che nei nove casi discorsi superiormente, ed era diviso in due dalla porzione ischiatica distintissima d. Fig. 7.?. , Le anomalie di eccesso del muscolo piriforme consistono nell’ apparir’ egli mul- tiplice, e questa multiplicità risolvesi in una divisione permanente o continua delle sue porzioni più o meno estesa. Addietro scrissi aver il Winslow trovato doppio il muscolo piriforme, e questa duplicità conviene con quanto nota il Cuvier nel Kangeroos (4), ed è quindi analogia animale. Tale duplicità poi è perfetta od im- perfetta : perfetta allora quando dalla origine alla inserzione rimangono affatto divisi i due muscoli; imperfetta allora quando i due ventri muscolari disgiunti si uniscono ad un comune tendine d’ inserzione, o in altri termini il piriforme non (3) Op: cit. c. (2) Op. cit. Tom. tertius, pag. cit. ()£Op-iextsWlife: (4) Op. cit. Tom. cit. p. c. — 630 — è veramente doppio, ma apparisce biventre o digastrico. Questa varietà è più fre- quente della prima, avendola io ne’ cinquanta cadaveri sopradetti incontrata nove volte, laddove l’ altra semplicemente quattro, e in amendue i casi sempre da un lato solo. Fra i due ventri, o i due muscoli può passare la radice o fascio minore del nervo grande ischiatico, cioè il nervo peroneo, o non, secondo che già fu signi- ficato parlando dell’ alta divisione dell’ ischiatico medesimo. Dei due esempi che ho delineati di duplicità perfetta, quello della Fig. 8.* offre i due piriformi piut- tosto gracili, ed il superiore d*, che è maggiore, è formato dalle due porzioni sacre superiori, l’ inferiore e*, che è minore, dalla porzione sacra inferiore: questo col suo tendine termina unendosi a quello del gemello superiore o dell’ otturatore interno; quello col suo tendine s° appicca al solito punto del gran trocantere. L'altro esempio dimostrato dalla Fig. 3.° non ha certo i due piriformi gracili, ma grossi e robusti, onde la duplicità è qui non apparentemente, ma realmente anomalia di eccesso. I due muscoli poi sono soprapposti, ed il superficiale o posteriore d* nasce dalla spina inferior-posteriore dell’ ileo, dal legamento sacro-tuberoso, e dal sacro in corrispondenza dell’ origine superiore ed in parte della media da quest’ osso: il muscolo dapprima alquanto stretto si allarga andando verso la sua inserzione, la quale è al tendine del muscolo otturatore interno ed è molto estesa, e per un solco divisa in due parti, la maggiore delle quali è interna e distaccata e solle- vata per mettere in vista il secondo piriforme che il superficiale copriva; il quale secondo piriforme e* viene dal sacro in corrispondenza delle porzioni sacra media ed inferiore e dal mentovato legamento sacro-ischiatico, e va col suo tendine ad attaccarsi alla parte superiore della cavità digitale del grande trocantere. A così fatti esempi vuolsi aggiugnere quello della Fig. 5.*, nonostante 1’ essere il piriforme superiore cl? intimamente unito col muscolo gluteo piccolo. L'inferiore e, separato interamente dal superiore d' si attacca col suo tendine a quello del muscolo ottu- ratore interno. Poche parole spenderò intorno alla duplicità imperfetta, potendo abbondevol- mente sopperire alla brevità le figure 1.%, 2.%, 7.°. Nelle due prime l’ anomalia è presso che simile, e in tutt’ a due il ventre superiore d. è più piccolo. Nella 7.* il detto ventre d è piccolissimo, e rassembra un nastro carnoso procedente dalla sinfisi sacro-iliaca, e dalla spina posterior-inferiore dell’ ileo, il quale nastro va ad abbarbicarsi con le sue fibre carnee al tendine del ventre maggiore. La duplicità perfetta ed imperfetta si possono accoppiare insieme; dal quale accoppiamento segue la triplicità del muscolo piriforme rappresentata nella Fig. 4.°. Quest’ anomalia nel numero di cadaveri più volte mentovato non mi si è offerta che una volta sola, e semplicemente a destra. Il piriforme superiore d° è formato dalla porzione sacra superiore, da quella che muove dalla sinfisi sacro-iliaca, e dalla spina posterior-inferiore dell’ ileo. Il suo ventre non è molto grande, ed è per un leggier solco distinto dal gluteo piccolo cui aderisce, ed il suo tendine è intima- mente unito a quello del gluteo detto, non avendovi alcuna traccia che ne indichi — 631 — una distinzione. Il piriforme inferiore e’, costituito dalle due porzioni inferiori nascenti dal sacro e dalle fibre che muovono dai legamenti sacro-ischiatici, è diga- strico, o biventre, ed ha il ventre superiore abbracciato dalle due radici 2, 3, del nervo grande ischiatico, o vero dai rami peroneo e tibiale che si uniscono per comporlo. Il tendine comune ai due ventri va con quello dell’ otturatore interno ad inserirsi nel grande trocantere. Chi ben guarda, vede che questa triplicità del piriforme è più presto apparente che vera, e che è meglio una duplicità perfetta che una triplicità, diventando il piriforme inferiore imperfettamente doppio. L'ano- malia poi anzi che di eccesso, direbbesi composta, consistente cioè in una divisione di parti ch’ esser dovrebbero normalmente unite, ed in una coalizione di altre ch’ esser dovrebbero normalmente disgiunte, non lasciando però cosa che potrebbe farla considerare di eccesso, ed è che nessuna di quelle parti è gracile o piccola, ma tutte sono ragguardevoli e quasi pari di grandezza. Pare che il piriforme triventre osservato dall’ Hallet ritraesse la descritta disposizione (1). E qui pongo fine a questa Nota, dalla quale sì trae : 1.° che appo noi l'alta divisione del nervo grande ischiatico non è’1 fatto comune: la qual cosa comproverebbe l’asserzione del Rosenmuller che nei popoli meridionali d’ Europa quella divisione avvenga generalmente in basso ; 2.° che necessiterebbero novelle osservazioni fatte sui popoli settentrionali di Europa, date a confermare o smentire l altra asserzione pure del Rosenmuller, essere lor propria o comune l' alta divisione del nervo medesimo; 3.° che le varietà del muscolo piriforme sono di difetto o di eccesso, e ch’esse in gran parte risolvonsi o in disgiunzioni di parti che dovrebbero essere normal- mente congiunte, o in coalizioni di parti che dovrebbero essere normalmente disunite; 4.° che esse costituiscono analogie animali aumentando il numero delle prove, già per sè grandissimo e ridondante, di un piano generale nella organizzazione animale, sussistendo però sempre le individualità o i tipi speciali che la compon- gono, pei quali il vario si appalesa nell’ uno; 5.° che le riscorse varietà vanno spesso, e non sempre, di conserva coll’uscir doppio della pelvi il nervo grande ischiatico, o vero con la divisione intrapelvica di esso, non essendovi tra questa e quelle rapporti essenziali. (1) Handbuch der Muskellehre ecc. von J. Henle cit. pag. 267. Bieplca SPIEGAZIONE DELLA TAVOLA — Grande nervo ischiatico uscente doppio dalla pelvi, cioè diviso in pe- roneo e tibiale posteriore senza passare per le carni del muscolo piriforme, il quale è nondimeno biventre. — Nervo grande ischiatico uscente doppio della pelvi, o diviso in peroneo e tibiale posteriore, il primo de’ quali passa per la divisione del muscolo piriforme che è biventre. — Nervo grande ischiatico uscente doppio della pelvi come nella figura precedente, e muscolo piriforme del pari biventre. -— Nervo grande ischiatico uscente doppio della pelvi, ed uscito, formante un tronco solo per la unione dei due rami peroneo e tibiale, i quali poi tornano a separarsi al poplite. Muscolo piriforme perfettamente doppio, il superiore dei quali si unisce al gluteo piccolo, e l’ inferiore è biventre. Fra questi due ventri esce il cordone interno o tibiale posteriore, e fra i due piriformi il cordone esterno o peroneo. Fig. 5.2 —— Nervo grande ischiatico uscente doppio della pelvi tra due piriformi perfettamente disgiunti, il superiore dei quali è in intima unione col gluteo piccolo. I due cordoni nervei si congiungono in uno al di dietro del ten- dine dell’ otturatorio interno, come nella figura precedente. Fig. 6.4 — Nervo grande ischiatico uscente doppio della pelvi e comportantesi come nelle altre due figure 4., 5.°. Muscolo piriforme diviso in due por- zioni, maggiore superiore intimamente unita col muscolo gluteo medio, minore inferiore separata da quella per un solco limitato alla porzione carnea. Fig. 7.8 — Nervo grande ischiatico uscente semplice della pelvi come d’ordinario, t.GWenk JE e i ara Misery, x; an “ Tom Il. a (Bettini dis. Mem Ser 4 — 633 — e muscolo piriforme diviso in due porzioni o ventri, uno superiore minore, l’altro inferiore maggiore. Fig. 8.8 — Nervo grande ischiatico uscente doppio della pelvi, ma longitudinal- mente solcato sì che mostra d’ essere composto dei due cordoni o rami peroneo e tibiale posteriore. Perfetta duplicità del muscolo piriforme. Queste otto figure ritraggono gli oggetti ridotti ad un quarto della naturale grandezza, e in tutte le stesse lettere o numeri indicano i particolari medesimi. 1, tronco del nervo grande ischiatico. 2, 3, le sue due radici o cordoni che con la loro unione compongono il tronco di esso nervo qualor esce semplice della pelvi, e che sono l’esterno 2 il nervo peroneo, e l interno 3 il nervo tibiale posteriore. Tutti gli altri rami che escono della pelvi per il forame ischiatico grande si sono trascurati, come altresì quelli del nervo grande ischiatico uscito di cavità. a, muscolo gluteo medio. b, muscolo gluteo piccolo, il quale talvolta offre la porzione € affatto separata per un profondo solco Fig. 1.9, 3.%, 8.° d, e, muscolo piriforme biventre, il di cui ventre superiore d è piccolo, l' in- feriore e molto grande Fig. 1.2, 2.%, 3.2, TA. d*, e#, muscolo piriforme perfettamente doppio : un d’ essi è posteriore mag- giore d*, e copre l'anteriore alquanto minore e* Fig. 3.*. Nella Fig. 8.° i due muscoli sono uno superiore maggiore d*, l’altro inferiore minore eT. d°, e?, duplicità perfetta del muscolo piriforme: un piriforme d° è minore e superiore ed unito intimamente, massime col suo tendine, al muscolo gluteo piccolo b; l'inferiore maggiore e', è biventre Fig. 4.°. dì, e?, duplicità perfetta del piriforme: il superiore d* è intimamente unito al gluteo medio Fig. 5.2. d', e', muscolo piriforme intimamente unito con la maggior parte di sè d* al muscolo gluteo medio a, e con la minore e' distinto da quella per un leggier solco. f, 9, gemelli. h, otturatore interno. 1, quadrato crurale. Tutti gli altri muscoli si sono trascurati. TOMO II 80 cati. Renga gi cani 1 od “rlag ‘lione CO ieern i i pi à vi I ide. ATE store Vai sa dois PU aondide arededtaà lab sata ar Bioggio sorte ‘ian Canagne d cip a enorg. slovene al g i iti Get Ta ia hoy SA Hi sanata MITA i de anita Rol veni ‘elio LOL Lu calice dafirage tento #4 uestotne ‘i Linicg bopfi alicizag. ps Da sl CART IA: e TO NITTI pit ah al fue Al aan Rogi ion i 65% N fat ULTERIORI STUDI CLINICO-ESPERIMENTALI SULL AZIONE DEPRIMENTE VASALE DELL'IPECACUANA SOMMINISTRATA AD ALTA DOSE NELLE PNEUMONITI FRANCHE MEMORIA del Dott. Cav. FERDINANDO VERARDINI (Letta nella Sessione Ordinaria del 1° Dicembre 1881) PROFTIMEEDO E nella Clinica ove fa capo e s’ incarna ogni ramo dello scibile medico, che sarebbe non ad altro destinato se non ad una dotta ma sterile curiosità, quantunque volte non tornasse in vantaggio della salute degli uomini. GuIpo BACCELLI. Signori Senza meno è a Vostra cognizione che io l’ anno scorso, con una Nota preven- tiva comunicai a questa Medico-chirurgica Società, alcuni miei studi intorno 1’ azione deprimente vasale dell’ Ipecacuana somministrata ad alte dosi contro le Pneumoniti gravi, ma franche, le quali pur troppo da mesì e mesi predominano, invadendo in ispeciale maniera le classi povere e le operaie; ed in quella circostanza dichiarai pure l’ utile ch’ io ne trassi e nel por termine al mio dire addimostrai la necessità di ripetere le prove, di approfondirle, a dedurne sempre più convincenti conclusioni. Il mio comunicato fu poco stante reso di pubblico diritto nel Bullettino nostro delle Scienze Mediche, pagina 161 e seguenti dell’ anno 1880, ed ebbe, se bene non abbastanza completo, la buona ventura d’ essere accolto cortesemente dal gior- nalismo scientifico e pratico, e l’ onore di menzione in Opere di polso, e di pro- curarmi l’ approvazione, a me carissima, d’ eminenti Colleghi, i quali m’ incitarono a continuare oltre nella tracciata via. (1) (1) Vedi il Giornale la Salute di Genova N. 28, pag. 219 del 1880 — L’ Indipendente di Torino, 5 Agosto 1880 — Gli Annali Universali di Chimica applicata alla Medicina, Milano 1880. — Nozioni fondamentali di Materia Medica e di Terapia del Prof. Nicola Tamburrini pag. 579, Napoli 1881. — 636 — Per tutto questo e per adempiere adunque a quanto promisi nella citata Nota, (pagina 164) proseguo oggi innanzi a Voi, illustri Colleghi, e m' addentro vieppiù nelle intraprese disamine, cercando d’ addimostrare, e spererei in modo persuasivo, mercè altro buon novero di storie cliniche e la mercè di nuovi e replicati e va- riati esperimenti sopra animali vivi, li buoni effetti che continuo ad avere dall’ Ipe- cacuana contro le molte Pneumoniti le quali ho curate, e più particolarmente nelle mie Sale ospitaliere. Dirò in appresso delle esperimentazioni eseguite e così pure della ragione che reputo la più probabile a spiegare il perchè la radice Brasiliana, apprestata in larghe dosi, sia tollerata anzi non arrechi molestia di sorta agli infermi, ampliando e confermando le da me accennate proprietà terapeutiche; le quali erano state pure scorte, in via generica, dal Pecholier e dal Peter. (1) i I quali colle loro investigazioni esperimentali, quantanque ad altro fine miras- sero, m’ invogliarono e mi spinsero a ripeterle, ad estenderle e per quanto era da me, a procurar modo di chiarire l’azione terapeutica dell’ Ipecacuana nell’ Uomo ; riflettendo ch’ era ed è tuttavia anche oggi stesso poco conosciuta, non molto ap- profondita e variamente interpretata; di qualità che m’ era lecito sperare le mie nuove fatiche fossero di qualche guisa per riuscire, e me lo auguro, proficue alla teorica ed alla pratica Medicina. Nel mio precedente studio, riportai sei storie cliniche, riassunte tra le più im- portanti che m’ erano occorse nell’ andato anno dall’ in allora mio diligentissimo Assistente Sig. Dott. Elio Galliani, a cui rinnovo le più affettuose azioni di grazie; attualmente ne riproduco altre e pur esse rilevantissime che traggo da’ casi più gravi in cui m' avvenni e che curai del medesimo modo, sia nell’ ultimo scorcio del passato anno, sia durante il presente, compilate dal solerte Assistente che gli succedette, Sig. Dott. Fidenzio Gallerani, non che alcune dal Sig. Dott. Antonio Cornia, il quale di presente condivide meco le cure ospitaliere nella medesima qualità. Mi avvalsi di questi cari giovani per dar loro un attestato di stima ed in pari tempo per raffermare praticamente ciò che posi in astratto e a mo’ di un desiderio fruttuoso, in altro mio scritto, o quello sull’ Atrofia giallo-acuta del fegato ch’ ebbe l'onore d’ essere pubblicato fra le Memorie di questo Istituto delle Scienze, nel Tomo IV, Serie II, dell’ anno 1868 e cioè: — che coloro i quali si designano al filantropico ed alto ministero di Medici Assistenti, debbono abituarsi a notare i fatti clinici, i più rilevanti almeno, e concorrere utilmente a somministrare ai Pri- marii del materiali, che coordinati pol ad un dato fine, possano valere ad illu- strare argomenti varil e gravi, a beneficio dell’ Arte e della Scienza. Chè, gli Ospedali non debbono essere soltanto un tempio di carità, nè solo una Scuola di morale e scientifica educazione, sibbene ancora un perenne esercizio pratico, il quale non deve rimanersi privato e dei risultamenti suoi deve approdarsene la pubblica Istruzione. (1) Vedi la mia citata Nota, massime per ciò che riguarda la parte storica ed antica della Ipecacuana usata contro le Pneumoniti. — 637 — Le dianzi ricordate cose tutte formano il materiale dell’ odierno mio discorso, che divido in due parti; nella prima esporrò succintamente e solo per quel tanto che a mio credere può valere a chiarire lo studiato argomento, quindici storie cliniche di Pneumoniti franche ; nella seconda dettagliatamente verrò dicendo le esperienze ed il modo ed il come furono eseguite sopra animali viventi; da ultimo renderò manifeste le conseguenze che seppi ricavarne onde meglio raggiungere il fine a cui guardo, o quello: di persuadere i Colleghi intorno gli effetti salutari che arreca l’ Ipecacuana contro le Pneumoniti, ad alte dosi apprestata ed a tenore delle individuali condizioni morbose e della entità loro. PARTE PRIMA STORIA I. Pleuro-Pneumonite acuta del lato destro. Trigari Giulio, d’ anni 27, nativo di S. Egidio, di professione canepino sortì da’ suoi robusti genitori una forte e vigorosa natura. Per fermo, se si eccettui qualche leggiera indisposizione, godette sempre flori- dissima la salute, quantunque non fosse mai stato troppo parco nei piaceri sessuali e nell’ uso del vino, da abusarne anzi di questo assai di sovente fino all’ ebbrezza. Il 20 Gennaio 1881, mentre stava per rincasare, dopo sostenuto un faticoso lavoro, avvertì un'insolita fiacchezza alle gambe; la testa eragli pesante e provava un senso d’orripilazione per tutto il corpo. Al fine di scacciare cotesta spiacevole sensazione, entrò in un’ osteria e bevette in copia vino generoso colla speranza di liberarsene tosto ; ma non ne fu nulla di ciò. Chè i brividi s'° accrebbero e inoltre cominciò ad avvertire al destro ipocondrio un molesto addoloramento, laonde gli fu mestieri d’ abbandonare Il’ osteria e di sollecitamente allettarsi. Scorse tre ore, al freddo subentrò un intenso calore e più tenace si rese il mal di punta, che ognora più molesto rendevasi per sopraggiunta tosse. Chiamato un Medico, questi gli ordinò dodici mignatte al luogo dolente ed internamente una decozione d’ orzo; dal sanguisugio n’ ebbe 1 infermo qualche lieve miglioramento ma di brevissima durata. S' accrebbe la febbre. addivenne più molesta la tosse, grande era 1’ agitazione e pur si manifestò un deliramento che costrinse i parenti a fare in modo che l’ ammalato fosse accolto nello Spedale; ciò ebbe luogo il 23 dello stesso mese. Appena entratovi, si notò che esso aveva febbre 39,4; che non preferiva alcun decubito ; che presentava un colore itterico marcato specialmente alla congiuntiva bulbare ; le orine erano color vino Malaga ; pronunciava l infermo parole scon- nesse, tentava fuggire dal letto, per cui s' ordinò ad un infermiere di guardarlo attentamente. AIl esame obbiettivo si verificò che il torace destro era quasi affatto immobile; la percussione ivi ne traeva un suono timpanitico nella fossa sotto-clavicolare destra, donde procedendo in basso, notavasi marcata ipofonesi; il fremito vocale tattile mc — 639 — era aumentato ; sentivasi un leggero soffio bronchiale in rispondenza della papilla mammaria e broncofonia. A sinistra nulla di notevole all'infuori d’ avvertirsi il respiro un po’ aspro. Posteriormente e ne’ due terzi inferiori del torace destro, oltre una ottusità completa che si manifestava eseguendo regolarmente la percussione, si udivano poi, ascoltando immediatamente l’ infermo, numerosi e distinti rantoli crepitanti piccoli e sonori nel primo tempo della respirazione, dipendenti, com’ è ben noto, dallo allontanarsi delle pareti degli alveoli, attorniate e lubricate che sono da essudamento più or meno appiccaticcio. L’ escreato dello infermo era scarso, in parte color ruggine, o giallo-cupo, non aereato ed aderente alla sputacchiera così da poterla capovolgere senza che si staccasse dal suo fondo. Era evidente che si trattava in questo caso di Pleuro-Pneumonite acuta che occupava gran parte del polmone tanto anteriormente, quanto posteriormente fino alla base che poggiava sul fegato e lo premeva ed a modo da farlo un po’ spor- gere dall’ arcata costale. A non tediarvi inutilmente, Signori, con una dettagliata descrizione dell’ intero corso di questa malattia. addotto il metodo che già tenni nella mia Nota preventiva, e trascrivo cumulativamente il Sommario, e come me 1’ ebbi dall’ elogiato mio Assistente e così ad un dipresso egualmente mi regolerò per le altre istorie cliniche che succedono alla presente. Sommario TEMPERATURA Pul- ||Respira- sazioni zioni MATTINA SERA 23 Gennaio 1881 — 39,4 100 40 24 2 39 39,8 100 44 | 25 È 39 39,4 100 49 26 n 39,4 40 90 56 IT s 39 40 90 40 28 Ù 38,8 40 90 | 29 " SSA D:90S 80 492 30 A 38 39,9 70 40 SI 3} 37,6 38,4 68 42 1 Febbraio 1881 36,7 37,4 68 36 2 1 OI 37,4 68 32 3 n. 36,5 DIN 60 24 4 h 36,3 DI 60 20 5 pà 36 DUI 60 20 — 640 — Nella sera delli 23 Gennaio fu amministrata 1’ Ipecacuana in infuso alla dose ordinaria o quella di centigrammi 60 in cento grammi d’ acqua; all’ aggravarsi de’ fenomeni morbosi fu portata la dose a grammi 2, in cento d’ acqua e grammi 40 di sciroppo di gomma ; così fino al giorno 2 Febbraio, in cui all infuso furono sostituite polveri del Dower,.unitamente a bi-carbonato di soda e ripetute fino al 7 Febbraio; nel qual giorno si sospese ogni medicamento e si concesse all’ infermo un vitto abbondante e nutritivo ed il giorno 19 uscì dallo Spedale in pieno as- setto di salute. Noto tuttavia che nella prima settimana s° apprestò all’ infermo vino di Chianti nella quantità di gramuni 200 da consumarsi nel corso della giornata (1). STORIA II Pneumonite acuta del lato sinistro. Menzani Camillo di Bologna, lavandajo, durante il corso de’ suoi 54 anni di vita, non ebbe a soffrire alcuna grave malattia ad eccezione d’ una Pleurite dal lato destro all’ età di 26 anni, la quale superò felicemente in una ventina di giorni. Ne raccontò che il 6 del mese di Gennaio 81, essendo uscito per non so qual bisogno dal luogo ove lavorava e nel quale la temperatura era alta, fu preso così all’ aperto improvvisamente da un acutissimo dolore puntorio al torace sinistro, sotto subito alla papilla mammaria, insieme ad intenso brivido di freddo che gli perdurò per ben due ore. i Messosi a letto, al freddo sottentrò forte calore, a cui si aggiunse una penosa sensazione nei moti respiratorii. Questo stato durò tutta la notte ed il successivo giorno, nel quale incominciò a manifestarsi tosse insistente con scarso escreato bian- chiccio e talvolta verdognolo e peggiorarono le sue condizioni. Mandato pel Medico questi lo consigliò a cercar ricovero in uno Spedale; fatte le pratiche d’ uso venne accolto il giorno undici successivo, e precisamente cor- rendo la quinta giornata di sua infermità. AIl esame obbiettivo ecco in succinto quanto principalmente ne venne dato di riscontrare. (1) A non ripetermi pongo qui la dichiarazione che gli infusi d’ Ipecacuana somministrati agli infermi entro lo Spedale furono con tutta esattezza e coscienziosamente preparati dall’ egregio e diligentissimo Sig. Enrico Castagnoli. farmacista dello Stabilimento e addetto alla mia Sezione Medica. Adoperò Ipecacuana della qualità più eletta ed in ciò fu coadiuvato dal chiarissimo chimico-farmacista Sig. Pietro Facci che ora pur troppo ha abbandonato il suo intelligente ser- vizio per acciacchi relativi alla sua mal ferma salute. Gli infusi poi che servirono per le esperimentazioni praticate sugli animali vivi, furono eseguiti dall’ egregio amico e distintissimo chimico-farmacista, Sig. Paolo Medri, istitore della rinomata ed antica Farmacia da S. Nicolò degli Albàri. — 641 — Anteriormente, al torace sinistro sotto la clavicola, percepivasi un suono nor- male alla percussione; procedendo in basso però facevasi alquanto timpanico; a destra nulla di notevole. All’ ascoltazione in tutto il torace sinistro e prevalente- mente in basso, la respirazione era indeterminata; a destra alquanto accentuata. Posteriormente alla regione scapolare sinistra, il suono di percussione era ipo- fonetico; all’ ascoltazione udivasi soffio bronchiale ed all’ angolo inferiore della sca- pola rantoli piccoli e crepitanti. L’ escreato era scarso, appicatticcio, poco aereato, rugginoso. Sommario TEMPERATURA Pul- Respira- "a [| sazioni | zioni MATTINA SERA 11 Gennaio 1881 38,7 SON 88 26 12 Ù 38 SIONI 80 24 TS s 30,4 33,6 80 24 14 a 36,5 37,4 76 20 15 ; 36 37 70 20 16 = | 36 37 Gi Appena entrato fu somministrato al paziente un infuso di Grammi due d’ Ipe- cacuana; la quale dose fu mantenuta così fino al giorno 16 Gennaio senza che il malato desse segno alcuno d’ intolleranza. In questo tempo cominciandosi a manifestare indizii della risoluzione del pro- cesso morboso, si apprestarono polveri del Dower e Bi-carbonato di Soda per alcuni giorni — Poscia l ammalato abbandonò lo Spedale perfettamente guarito. STORIA III Pneumonite franca del lato sinistro. Raffaele Calderani di Malalbergo, d’ anni 56, pilarino, nacque da genitori al- quanto cagionevoli di salute. Nella sua infanzia andò soggetto a varie malattie proprie di quell’età; giunto alla pubertà non ebbe più a soffrire alcun grave malore sicchè, a suo dire, era poi pervenuto al momento presente godendo d’ una salute di ferro, quantunque avesse menata la vita molto laboriosamente e non scevra da privazioni. L’ attuale infermità datava dal 27 Dicembre 1880. Di fatto, essendosi la mat- TOMO II. 81 lido tina di questo giorno esposto a corpo sudato e mal riparato alla temperatura esterna molto bassa, provò un’ assai disaggradevole sensazione e come, mi servo delle sue parole, se gli buttassero acqua fredda giù per le spalle. Seguitò nulladimeno ad accudire alle sue faccende; nella sera però fu preso da smania, da insolito calore a tutto il corpo, da un imperioso bisogno di frequente- mente respirare accompagnato a senso d’ oppressione al petto. Credendo si trattasse di semplice raffreddore sì fece preparare delle bibite calde colla mira di promuo- vere il sudore. Più tardi s' aggiunse la tosse e si rese anche più intensa la febbre. Prevedendo guai, cercò d’ essere accolto in uno Stabilimento ed il 7 Gennaio 1881 fu ricevuto in questo Maggiore Spedale. L’ammalato aveva febbre, dispnea grave; preferiva di giacere sul lato destro; il torace, di questo lato, era più mobile del sinistro ove anche una leggera pres- sione della mano provocava disturbo ed anche dolore se continuata. Il fremito vocale tattile era diminuito d’ assai a sinistra, ed alla percussione si notava ipo- fonesi, massime in rispondenza del lobo anteriore. All’ ascoltazione poi s'avvertiva abolito il murmure respiratorio e sostituito da un lontano soffio bronchiale. Di dietro ed in basso eravi completa ottusità e sì sentivano piccoli e numerosi rantoli sonori; gli sputi erano pneumonici. Sommario TEMPERATURA Pul- ||Respira- sazioni zioni MATTINA SERA 7 Gennaio 1881 39,0 40,2 96 32 8 È 38 39,5 94 28 9 di DÒ SIG 80 24 10 E, 37,9 38,2 82 26 IhiL D SIT ul 18 20 12 5 36,5 DI 78 20 IS pi 36 SI 70 20 14 s DIÙ DIL 10 18 15 >) SI DI 68 | 20 Il giorno 7 fu somministrato un infuso di Grammi 4 d’ Ipecacuana in cento d’acqua, con Grammi 40 di Sciroppo di Gomma, che si continuò fino al giorno 14 e non provocò all'infermo alcun segno d’intolleranza, anzi un grande sollievo per la facilità che gli addusse nell’ espettorazione; la quale prima era scarsa e difficile. Dopo, si ricorse alle polverine solite (Dower e bi-carbonato di Soda) fino al giorno 22; ed al 27 Gennaio uscì l infermo dall’ Ospedale contento e del tut- to risanato. — 643 — STORIA IV. Pneumonite acuta del lato destro. Giovanni Badiali, di Castel S. Pietro, ora abitante in Bologna, conta 21 anni ‘d’età ed esercita il mestiere di falegname. Nacque da sani e robusti genitori e non fu giammai ammalato. Narra che sul finire di Novembre 1880 essendosi recato come d’ uso alla sua bottega, provò un malessere ed una spossatezza insolita, accompagnata da lieve cefaléa. Pressato onde ponesse termine a certo lavoro, fece violenza a sè stesso. Verso sera però fu còlto da brividi intensi e prolungati, insieme ad un addoloramento puntorio al costato destro, per cui fu costretto di riparare a casa e porsi di subito in letto. A tarda notte subentrò al freddo un intenso calore, sete violentissima, tosse secca ed insistente, che gli esacerbava il male di punta in modo straziante. Passò così varii giorni, fino a che dietro sua domanda fu accolto nello Spedale. L'esame obbiettivo diede il seguente risultato; meno mobile il torace destro negli atti respiratori di quello nol fosse il sinistro; murmure vescicolare abolito nei due terzi inferiori dallo stesso lato; respirazione alquanto aspra a sinistra. Mercè la percussione rilevavasi un suono leggermente timpanitico nella fossa sotto-clavi- colare destra, ed ipofonetico procedendo iu basso; a sinistra suono normale. Posteriormente alla regione sotto-scapolare destra soffio bronchiale molto pro- nunciato; alquanto più in basso udivansi rantoli crepitanti piccoli e numerosi. Sommario TEMPERATURA Pul- | Respira- sazioni zioni | MATTINA SERA 4 Dicembre 1880 | — DELD — Pi 5 Ù 38.4 39,5 108 O 6 n 38 38,2 80 36 | NRE A 37,8 38,1 76 so 8 i 38 38,1 76 24 (AO Li 3 37,4 70 20 | 10 i 37 37 70 20 11 È 36,5 36,8 68 20 Il giorno cinque Dicembre furono somministrati al paziente grammi 4 d’ Ipe- cacuana in infuso di grammi 100, coll’ aggiunta solita dei grammi 40 di sciroppo — 644 — di gomma; ciò fino a tutto il giorno nove. Seguitone un sollecito miglioramento, allora l’ infuso fu diminuito di due grammi ed anche in queste migliorate condi- zioni l’ infuso era tollerato come dianzi. Si sostituirono poscia le ordinarie cartine di Dower e bi-carbonato di soda fino al giorno 18 Dicembre ed il malato uscì dallo Spedale il 26 detto mese assai bene ristabilito in salute. STORIA V. Pneumonite acuta del lato sinistro. Giuseppe Landi, di Bertalia, bracciante, nacque pur esso da sanissimi genitori, raggiunse l’ età d’ anni 28 senza soffrire il benchè minimo disturbo, se si eccettui il morbillo che lo incolse bambino e che felicemente superò. È uomo laboriosis- simo, che condusse sempre una vita regolata sotto di ogni rapporto. Quantunque di condizione povera, mercè la sobrietà sua, aveva potuto nutrirsi con vitto sano e sufficiente. Durante la notte del Natale 1880, si destò con senso d’ oppressione al petto, cefaléa, tinnito d’ orecchie, intensa sete; fenomeni che a tutta prima attribuì al vino bevuto in maggior copia e fuori della sua abitudine. Continuando però questa condizione di cose anche il giorno successivo, in allora mandò pel Medico, il quale gli prescrisse una bevanda e nulla più. Non ottenendone però quel giovamento che se ne era ripromesso, ma invece aggravamento nelle sue sofferenze, massime per tosse sopraggiunta con escreato appiccatticcio e rossastro e più delirio gaio, fu trasportato il 31 Dicembre nello Spedale. Esaminatolo, ecco in succinto ciò che principalmente si riscontrò. Alla percussione del lato sinistro del torace il suono era pressochè normale ; alla ascoltazione sentivasi il respiro bronchiale dalla quarta costola in giù; destra nulla di notevole. Posteriormente, fremito vocale tattile alquanto aumentato e soffio bronchiale manifesto. Per tutto il corpo, ma più nel petto, nel dorso ed ai lombi si vedeva una eruzione di migliare bianca e molto confluente ; sputi color susina, ed anche ros- sastri, poco aereati ed appicaticci. — 645 — Sommario | TEMPERATURA Pul- |Respira- o sazioni | zioni MATTINA SERA 1 Gennaio 1881 39 DI 108 46 2 n 39 39,2 108 46 3 fi 39,4 40 110 46 4 i 38,2 37,6 100 40 5 A 37 37,6 84 32 6 L 36,8 302 80 26 7 E 36,6 36,8 70 24 8 È 36,6 37 68 20 9 È 36,6 37 64 20 Il 1 Gennaio 1881, fu apprestato il solito infuso d’ Ipecacuana alla dose di grammi 4 di questa radice. Il giorno tre fu portata la dose a grammi 6 ed il giorno cinque a grammi 8 e così per altri due giorni. Manifestatosi collasso di . forze, e qualche po’ di vomito, fu sospeso l’ infuso e somministrato vino generoso. L’ otto di Gennaio si ricorse alle solite polverine; ed il 22 corrente mese l’ infer- mo abbandonò lo Spedale affatto guarito. STORTANEVIE Pneumonite acuta destra. IL’ undici Gennaio 1881 fu portato allo Spedale certo Pietro Nannetti d’anni 23 del contado di Bologna. Era in settima giornata d’ una Pneumonite franca ed estesa ai due lobi superiori del polmone destro. Aveva 108 pulsazioni, 46 respirazioni ed il termometro se- gnava 39,4. Furono subito somministrate 4 gramme di radice d’ Ipecacuana in infuso senza che si manifestasse segno alcuno d’ intolleranza, anzi con alleviamento di sofferenze per parte dell’ ammalato. Il quale, il giorno 13 aveva solo 90 pulsazioni e 40 respirazioni ed il termometro era disceso a 36 e cinque linee. Dopo altri otto giorni la Pneumonite era perfettamente risolta sicchè all’ infuso vennero sostituite le solite polverine ed il 26 dello stesso mese il Nannetti lasciò l Ospedale completamente ristabilito in salute. — 646 — STORIA VII. Pneumonite acuta, destra. Entrò 1 Ospedale Maggiore il giorno 18 Febbraio 1881, Carlo Drogi di Monte- renzo. Era quarantenne e da 4 giorni compreso da febbre, dolore puntorio al costato destro e da due giorni emetteva con tosse un escreato tinto in rosso aranciato. L'esame obbiettivo diede a conoscere marcata ipofonesi in rispondenza del lobo superiore del polmone destro e udivansi numerosi rantoli crepitanti ascoltandogli il petto. La sera del suo ingresso il termometro segnava 40,1; aveva 120 pulsazioni, 48 respirazioni al minuto primo. Gli si somministrò un grammo di bi-solfato di Chinina sciolto in 100 d’acqua stillata ma senza risultato alcuno. Il mattino seguente, anche per essersi mostrata maggiore difficoltà nel respirare, gli feci apprestare un infuso d’ Ipecacuana a 4 gramme e nella solita quantìtà di liquido ; trascorsi che furono due giorni da questa cura l infermo migliorò sen- sibilmente. Il termometro discese a 38,4 la sera, 38 il mattino, e le respirazioni da 48 si ridussero a 36. Passate altre tre giornate l’ infermo era sfebbrato, ed il dieci Marzo successivo perfettamente risanato. STORIA VIII Pneumonite acuta, destra. Fu accolto nel mio compartimento il giorno 9 Maggio 1881 Federico Zocca, d’ anni 29, Facchino del contado di Bologna. Quattro giorni prima del suo ingresso nello Stabilimento, trovandosi a corpo sudato, fu incolto da un forte acquazzone; per non essersi avuto le opportune cau- tele, il successivo dì lo Zocca risentì un acuto dolore sotto la papilla mammaria destra, indi freddo, cefaléa ed un malessere generale che via via s’ accrebbe, mas- sime per incomoda dispnea e per tosse insistente sviluppatasi. Al nostro esame ecco principalmente ciò che avemmo ad osservare. La metà destra del torace era quasi immobile negli atti respiratorii; il fremito pettorale tattile era aumentato ; coll’ascoltazione si avvertivano numerosi rantoli crepitanti. Posteriormente poi su la regione scapolare, percepivasi un deciso soffio bron- chiale. A. sinistra nulla di tutto ciò, ma invece udivasi un respiro alquanto aspro. Contavansi 84 pulsazioni al minuto primo, trenta respirazioni ed il termometro centigrado segnò la sera del giorno 10, gradi 39 e sette decimi. — 647 — Gli si apprestarono 4 grammi di radice d’ Ipecacuana nel consueto infuso e nelle medesime proporzioni ; infuso che fu perfettamente bene tollerato, ed arrecò con sollecitudine diminuzione di febbre e non poco sollievo all’ammalato. Il quale, pochi giorni appresso aveva solo 72 pulsazioni, 24 respirazioni ed il termometro non sorpassava li 38 gradi. Ciò nulladimeno ’ infusione fu ripetuta ancora per altri quattro giorni, durante i quali il malato cominciò a separare abbondante escreato che da rossiccio e rugginoso ch’ era s andò facendo a mano a mano meno abbon- dante e divenne biancastro. Scomparendo poi gradatamente «1 segni fisici riscontrati sul torace destro e non rimanendo che qualche rantolo a medie bolle, e l’ ammalato verificandosi senza febbre, fu sospeso l infuso e sostituitevi le solite polverine di Dower e di bi-carbo- nato di Soda che vennero pur esse abbandonate dopo sei altri giorni trascorsi e fu conceduto un vitto abbondante e nutritivo. Il ventisette dello stesso mese di Maggio lo Zocca faceva ritorno in seno della sua famiglia del tutto guarito. STORIA IX. Pneumonite cruposa, doppia. Il giorno medesimo in cui fu accolto nello Spedale l infermo Zocca di cui or sopra ho fatto cenno, fu pure ammesso nella mia Sala medica certo Antonio Bli- siga, suo collega di professione, dell’ età d’ anni 45 ben noto per la sua forza erculea e perchè pubblicamente potè una sera atterrare il famoso lottatore Barto- letti; donde una superiorità sopra gli altri suoi compagni s' era anche mag- giormente confermata per questo fatto. Interrogato intorno la sua malattia, narrò che il giorno quattro del corrente mese dopo avere scaricato molti pesanti sacchi di grano, s° era poscia esposto così trafelato da sudore all aria aperta e fresca che spirava in quel dì, donde poco stante una spiacevole sensazione di freddo, e la sera stessa la comparsa d’ un dolore acuto e puntorio dal sinistro lato del petto. La notte si sviluppò molta febbre, con ansia, cefaléa, tosse secca, ed il seguente giorno separò dalla bocca un escreato bianco ed appiccaticcio misto a striature rossastre. Chiamato un pratico questi gli suggerì d’ entrare subito in uno Spedale perchè ammalato di Pneumonite; di fatto, dopo le pratiche necessarie ottenne d'essere am- messo il giorno dianzi indicato. Dall esame obbiettivo risultò che il Blisiga era compreso da Pneumonite sini- stra estesa in presso che tutto quel polmone e più che era attacato da infiamma- zione anche il lobo mediano destro. — 648 — Fu prescritto indilatamente il solito infuso alla dose però di otto grammi d’ Ipe- cacuana, a dieta rigorosa e gli si apprestò un po’ di vino atteso anche l' abitu- dine che aveva di berne molto. Si contavano 100 pulsazioni alle radiali, e respirava 50 volte per minuto primo; il termometro sotto l’ ascella segnava 39.4 ed avea forte ambascia; sputi rugginosi. L’ infuso fu tolleratissimo ed il giorno appresso si rese più facile lo sputo e l’ammalato trovavasi d’assai sollevato. Mi compiaccio di notare che quattro giorni dopo d’ essere stato sottoposto a questa cura il termometro non mostrava che 37,6 linee e trentotto gradi la sera; le respirazioni 8° erano ridotte a quaranta e 80 le pulsazioni. Fu seguitato l’ infuso fino al giorno 15 in cui non ascoltandosi sul torace che qualche rantolo di ritorno, a grandi e medie bolle sparse qua e la, ed espetto- rando facilmente un abbondante esereato mucoso, furono somministrate le consuete polverine di Dower e bi-carbonato di Soda, si aumentò il vitto e la quantità del vino. Così fino al giorno venti, ed il 29 venne licenziato dallo Spedale in perfetto stato di salute, e tutt’ ora sì mantiene sano e vigoroso. Risultato veramente portentoso e che se il mio giudicio non erra, mostra l’ efficacia arrecata in questo gravissimo caso dalla somministrazione dell’ infuso della corteccia Brasiliana a larghe dosi amministrata. STORIA X. Pneumonite posteriore destra. Questa e le altre quattro istorie, o meglio riassunti storico-clinici con cui chiudo la 1° parte della presente Memoria, mi furono offerti dall’ attuale or mo destina- tomi ad Assistente, e che già nominai, Sig. Dott. Antonio Cornia; il quale per le sue elette qualità non può a meno di non riescir eccellente nelle Medico-chirur- giche discipline; laonde desiderai che rompesse la sua prima lancia in un non molto difficile torneamento e sotto il mio qualsiasi tirocinio. Gaetano Tarozzi di 52 anni, nativo di Pontecchio, risiede ora a S. Ruffillo. Eccet- tuato qualche lieve incomodo, che però non mai lo costrinse al letto, giunse al suo 51° anno d’età; in questo torno fu per la prima volta compreso da una Pneumonite che durò lungamente e che in fine poi si risolse appieno. Sul finire dell’ Agosto di quest’ anno all’ improvviso risentì un pungente addoloramento alla metà destra del torace, seguito da orripilazioni indi da intensa febbre. Passati così due giorni di malattia fu trasportato allo Spedale. All'esame obbiettivo ecco in succinto le cose che meritano d’ essere riportate ed in relazione all’ argomento mio. — 649 — Predilige l infermo il decubito supino; ha lo scheletro conformato regolarmente; scarso l adipe; sottile i muscoli; sollevabile in larghe pieghe la pelle, la quale offre un colorito molto pallido tendente al gialliccio ; aumentato sensibilmente il numero dei respiri e dei polsi. Ispezionato il torace non presenta a sinistra differenze notevoli; dalla parte di destra è più manifesto il fremito vocale. La percussione svela differenza di suono nelle due metà del torace; a sinistra v' ha suono polmonare, ed a destra, massime posteriormente ed in rispondenza del lobo medio è ottuso. 1° ascoltazione ta udire una respirazione aspra ed a destra un manifestissimo soffio bronchiale. L’'infermo ha tosse con escreato vischioso, commisto a sangue di colore rosso- verdognolo. Gli altri visceri non offrono innormalità. Dall’ esposto impertanto era facile giudicare che il Tarozzi era ammalato di Pneumonite destra e posteriore. Sommario — Il malato entrò nell’ Ospedale la sera del 28 Agosto con una tempe- ratura a 38,7 Centig.; il mattino del 29, era di soli 38 e la sera 38,5. Il giorno 30, nella mattina 38, nella sera 39; il 31 Agosto 37 e 4, e la sera 38. — Dopo, e cioè fino ai 15 di Settembre, non vi fu più febbre e l’ammalato uscì guarito in tal giorno, dallo Stabilimento. La cura consistette in infuso di Ipecacuana alla dose di 2 grammi nella solita quantità di liquido, e vino cordiale. Il 4 Settembre si lasciò l’ infuso e si sommi- nistrarono le solite polverine di Dower e di Bi-carbonato di Soda. STORIA XI. Bronco-Pneumonite destra. Andrea Negroni, d’ anni 70, Bolognese, fino ai 37 anni non patì che a quando a quando dolori al capo ch’ ei dice però essere stati molto intensi. Sui 40 fu preso da congestione cerebrale e ne guarì in forza di bene adattata cura e di generose sottrazioni di sangue; fino ai 70 fruì poi di eccellente salute. Sul finire dell’ Agosto p. p. fu d'improvviso colto da freddo indi da febbre; sviluppossi tosse, dispnea ed increscevole insonnio; per ciò tutto chiese ed ottenne il 27 dello stesso mese d’ essere accolto nello Stabilimento. Il Negroni è di statura piuttosto bassa, però ben conformato di corpo ed ha masse muscolari discretamente sviluppate, massime fatto calcolo alla sua avvanzata età. Il colorito della sua pelle è bianco-pallido, e pel grado di dispnea di cui soffre è costretto di stare quasi semi-seduto in letto; il polso è frequente e pieno ; si nota il fremito vocale rinforzato a destra. Alla percussione si avverte a sinistra il suono, come suol dirsi, quasi di coscia. Odonsi rantoli diffusi a varie bolle in tutto il petto, ed a destra e nella parte ottusa verificasi un soffio pronunciatissimo. Febbre alta 39°. TOMO II. 82 — 650 — Lo sputo è abbondante, commisto a sangue e vedesi colore oliva cupo. Per questo insieme massimamente si fa diagnosi di catarro bronchiale acuto diffuso e Pneumonite circoscritta a destra. Sommario — Ingresso allo Spedale la sera del 27 Agosto; temperatura 39,5; il successivo giorno 38 la mattina, 39,4 la sera; il 29, la mattina 37,7; la sera 38; il 30 lo stesso; egualmente il giorno 31; 1 Settembre ed il 2 ed il 3 solo segnava il termometro i gradi 37. Poscia non ebbe più febbre affatto, ed il 15 Settembre uscì guarito dallo Spedale. I polsi, durante il tempo ch’ ebbe febbre, oscillarono fra gli 80 ed i 90 impulsi arteriosi; le respirazioni fra le 35 e le 40 al minuto primo. La cura consistette nell’Infuso d’ Ipecacuana a quattro grammi nella consueta proporzione di liquido; ed il 29 Agosto si somministrarono 150 grammi di vino da consumare nella giornata. Il 5 Settembre si apprestarono le solite polveri di Dower e Bi-carbonato di soda. STORIA XII. Pneumonite destra. Geremia Paderni ha 48 anni, nacque a Budrio ed ora dimora in Bologna ove esercita il mestiere di mediatore od agente d° affari. A 13 anni fu preso da puntura dal lato destro e da tosse, e fu per circa due mesi obbligato al letto; guarì benissimo e stette sano fino ai 18 anni, in cui per essersi recato in luoghi di malaria ebbe febbri che furono domate in 20 giorni in forza dell’ uso interno della chinina. A 26 anni, dopo un forte spavento fu preso da convulsioni, pare, a quanto almeno dice l’ infermo, a forma epilettica, le quali si presentarono dapprima ogni due giorni, poi più radamente; però si anda- rono replicando fino ai 47 anni; indi più mai si presentarono. La malattia attuale la contrasse in forza di uno strapazzo fatto per una lunga camminata a piedi; racconta l’ infermo che fu preso da intensa sete, da freddo seguito da calore, poscia da dolore puntorio al destro torace a cui conseguì tosse e persistente. Presentendo di essere stato soprafatto da malattia grave, chiese ed ot- tenne di entrare nello Spedale. All’ esame obbiettivo si notò che questo uomo è alto di statura, con masse muscolari bene sviluppate; scheletro conformato regolarmente; agli arti inferiori sì osservano molte varici nodose e diramate alquanto. Il malato tiene il decubito supino; colla percussione eseguita sul petto, che è largo e ben conformato, si avverte ipofonesi a destra, massime posteriormente ed in basso. L’ascoltazione fa udire rantoli piccoli a destra in rispondenza dell’ ottusità, poi — 651 — manifesto soffio bronchiale. Lo sputo è abbondantissimo, vischioso, frammisto a sangue. Frequente il polso ed il numero dei respiri. Del resto null’ altro degno di particolare ricordo. Si diagnosticò trattarsi di franca Pneumonite dal lato destro del petto. Sommario — Il malato entrò nello Spedale la mattina del 28 Agosto u. s. Aveva febbre a 38,8, e 39,5 la sera; il giorno 29, 38,6 la mattina, 40,4 la sera; il 30, avea 38,6 la mattina, 39 la sera; il 31 la stessa temperatura, e medesi- mamente per altri due successivi giorni. Il 4 settembre la temperatura si ridusse a 37: il mattino, 37,6 la sera e così fino al giorno 6 Settembre ; poscia la febbre più non comparve. Fu curato prima con due, poscia con quattro grammi d’ Ipecacuana nel solito infuso e cessato il periodo febbrile, colla polvere del Dower e Bi-carbonato di soda; vino pol e dieta ristorativa a mano a mano che lo stato dell’infermo lo esigeva; di tal guisa pienamente si riebbe dalla grave Pneumonite franca che lo aveva incolto e, pur esso, in breve termine. E dico pensatamente pur esso al fine di stabilir bene una speciale particolarità della cura, e siccome emerge con- siderandosi le ricordate istorie cliniche, o quella che per gli effetti indotti nella circolazione polmonare e per la quasi ischermia che si produce nel polmone istesso, mediante l alta dose della corteccia Brasiliana apprestata in infuso, si abbrevia il ciclo consueto di tali infermità per loro medesime non lunghe ma frequente- mente letali, e col metodo da me adottato in queste oramai due annate, ho la compiacenza di potere anche oggi riconfermare innanzi a Voi, o Signori, che gli esiti mi tornarono felicissimi e non ebbi che una ben lieve mortalità, siccome ri- sulta dalle Statistiche generali, compilate dai vari miei Assistenti, depositate nel- l’ Archivio di cotesta Amministrazione centrale degli Ospedali. STORIA XIII. Pneumonite cruposa, destra. Adelaide Simoni, d’ anni 37, bolognese, di professione fruttivendola, visse sempre in floridissime condizioni di salute. Fu menstruata a sedici anni e da quella volta. fino ad ora i suoi tributi mensili furono sempre regolari e normali per qualità e quantità. A 17 anni s' unì in matrimonio con un uomo sano e robusto il quale la rese madre di otto figliuoli, partoriti tutti felicemente ed allattatili senza che mai avesse a sofferire cosa alcuna. Il giorno 8 del mese di Settembre, ultimo scorso (1881), la Simoni fu sor- presa da intensa cefalea, da tosse secca e da generale malessere ; ella però trascurò questi incomodi di salute fino al giorno diciasette in cui dopo il pranzo fu assalita da febbre, preceduta da intenso brivido di freddo, e da sete ardente. Il giorno — 652 — dopo si manteneva sempre alta la febbre, più fu molestata da tosse con escreato sanguigno ed un acuto dolore alla metà destra inferiore del costato non le dava requie di sorta; sicchè non potendo mantenersi in casa propria, domandò e subito ottenne d’ essere accolta nell’ Ospedale nostro Maggiore. All’ esame obbiettivo si verificò che l’ ammalata è di media statura, ben con- formata e con isviluppo muscolare pronunciato e simmetrico. Viso regolare, arros- sato alquanto ai pomeli; narici divaricate per l’ affanno intenso che ha nel respi- rare; labbra asciutte, lingua rossa e secca; gonfie le jugulari. Il ventre è molto voluminoso e sì osserva ch’ è incinta e si viene in conoscenza che la gravidanza ha oltrepassato il sesto mese ; il decubito preferito dall’ inferma è il semi-eretto, e ciò per poter respirare un po’ meno difficilmente ; polsi frequentissimi j; cute di tutto il corpo assai calda; sputo appicaticcio, con molta copia di sangue commistovi ed a colorito olivastro scuro, per la più parte. L’ inferma accusa specialmente d’ essere tormentata da un forte addoloramento alla metà destra del torace. L’ esame del petto, che abbisognò compiere con molta cautela e non agevolmente, ci chiarì che a destra in basso e posteriormente eravi alla percussione estesa ipofonesi, ed in questa stessa zona l’ ascoltazione faceva udire molti rantoli a piccole bolle ed un accentuatissimo soffio bronchiale. Il cuore era abbastanza valido ed aveva aumentato d’ assai il numero de’ suoi battiti ;. non offriva però innormahtà. Il resto dell’ esame obbiettivo nulla mostrò degno di nota. Dall insieme quindi di tutto lo esposto era evidente la diagnosi di Pneumonite destra franca e grave, in donna incinta oltre il sesto mese, locchè rendeva sempre più temibile lo stato dell’ inferma. Sormario —- L’ ammalata adunque entrò nell’ Ospedale la sera del 18 Set- tembre 1881, e presentava la temperatura ascellare a gradi centigradi 39,3; la mattina successiva era 38,3 e 39 la sera; il giorno 20, 28,4, la sera 39; 38 la mattina del 21, 38,5 la sera; il 22, s' abbassò a 37,3, la sera tornò a 39; il 23, 38,3, la sera 39; 37 la mattina del giorno 24, e pure 37 la sera; 36 la mattina del 25, e 37 la sera. Dal 25 in poi non ebbe più febbre. La cura prodigata fu la seguente: dal giorno 19 fino al giorno 25 fu dato un infuso di 6 grammi d’ Ipecacuana, con 40 grammi di sciroppo di gomma, in 100 srammi d’acqua, decotto d’ orzo per bevanda. Cessata la febbre si sommini- strano le solite cartine di Dower e bi-carbonato di soda; fu nutrita con brodo buono e confortata con vino. L’ Ipecacuana benchè ad alta dose somministrata (notando che ne’ primi giorni l’ infuso si rinnovava anche la sera nel tardi), ciò nullameno non produsse inco- modo di sorta, ma sollievo marcatissimo e pronto. La Simoni lasciò lo Spedale ringraziando cordialmente ed in pieno assetto di salute il 3 Ottobre ultimo scorso. STORIA XIV. Bronco-Pneumonite fibrinosa. Enrico Franceschi, bolognese, d’ anni 24, fornaio di professione, ebbe morto suo padre da una Pneumonite che lo incolse in mezzo alla più florida salute e nella sua piena virilità; sua madre vive tuttora ed è e fu sempre il ritratto della salute. Ha tre fratelli ed una sorella, tutti perfettamente sani. Esso pure non patì giammai malattie di sorta, tranne qualche effimera procuratasi pel suo mestiere. Il giorno 14 di Novembre, corrente mese, fu sorpreso per via da intenso freddo seguito da forte calore febbrile; indi insorse un molestissimo dolore al sinistro torace, accompagnato da tosse con escreato sanguigno. Il successivo giorno 15 fu accolto subitamente nello Spedale Maggiore e collocato nel letto al N. 3. Esame ospiertivo — Il malato tiene il decubito supino, col capo leggermente sollevato dai guanciali. Il giovane è conformato regolarmente; ha scheletro robustissimo ed offre le masse muscolari assai bene sviluppate. Il volto è acceso; affannosa la respirazione ; polso frequente e pieno. Accusa forte dolore al costato sinistro; ha tosse e l’ escreato vedesi sanguigno. Il petto, ch° è largo e ben fatto, percosso regolarmente, fa ri- levare nel davanti dal lato sinistro un suono appena ipofonetico in alto; di dietro è assolutamente muto per ogni dove ; il polmone destro sia davanti sia percosso di dietro dà il suono polmonare. L’ascoltazione in tutto- l'ambito toracico, fa sentire rantoli crepitanti ed anche mucosi a bolle varie, ed a sinistra posteriormente un suono bronchiale molto manifesto. Il cuore, benchè accellerato nei suoi movimenti, era validissimo. Il resto dell’ esame fu negativo. Per questo insieme si diagnosticò essere il Franceschi ammalato per grave bronco-pneumonite fibrinosa sinistra. Sommario — La mattina del giorno quindici offriva la temperatura di 38,4; 112 pulsazioni e 56 respirazioni. Per essere intollerabile il dolore al costato sinistro si ricorse ad un sanguisugio che sollevò alquanto il paziente. La sera dello stesso giorno la temperatura ascese a 39,4; la mattina del 16 aveva 38,7, la sera 37,8; 38 la mattina del diciasette, 38 la sera; la mattina del diciotto 37,6, la sera 37. Da questo giorno il massimo di temperatura fu di 37,2. Notasi che in ragione della temperatura diminuirono le pulsazioni e le respirazioni. Oltre le sanguisughe applicate sul torace sinistro, fu curato l infermo subitamente con altissima dose di Ipecacuana in infuso, (grammi 8 in 100 grammi d’acqua e grammi 40 di sciroppo di gomma) e ciò dal giorno quindici fino al giorno dicianove; nel quale l’infuso fu diminuito di grammi due d’ Ipecacuana, ed il successivo ridotto ad un solo grammo. Il 22 Novembre furono apprestate in luogo dell’ infuso le solite polverine di bi-carbonato di soda e Dower. Il giorno 27 fu sospesa ogni — 654 — cura, e somministrato regolarmente un vitto sano e sostanzioso. Sui primi del Dicembre tornò il Franceschi in seno della sua famiglia pienamente ristabilito in salute. i STORIA XV. Pneumonite cruposa sinistra. Pongo da ultimo anche il riassunto d’ una cura fatta nella mia pratica privata. e la preferisco ad alcune altre che avrei potuto descrivere, unicamente perchè di tutte la più grave e perchè la dose dell’ Ipecacuana apprestata fu tra le più elevate, e perchè in fine ognuno si persuada che li risultati che si ottengono coscienzio- samente ne’ pubblici Ospedali, si ripetono tali e quali anche nelle case particolari. Nel Marzo di quest’ anno, che oramai è al suo termine, fui chiamato presso la Signora Argia Schvarz, Bolognese, abitante in Via Roma N. 2, la quale da circa ventiquattr’ ore s° era posta giù con febbre, forte dispnea e con un senso penoso gravativo alla base del costato sinistro. Aveva febbre a 41 centigrado ed una smania indescrivibile. Accuratamente esaminatala, trovai che la percussione tanto anteriormente, quanto posteriormente praticata, mi dava ipofonesi cominciando dalla quinta costola fino in fondo al torace di sinistra. L’ ascoltazione mi faceva udire anteriormente rantoli crepitanti e dalla parte di dietro un fortissimo soffio bronchiale. Dal lato destro s' udiva soltanto una respirazione alquanto esagerata e nulla più. Non aveva tosse, nè l ebbe mai in tutto il corso della sua malattia; poco espettorava, ma que’ pochi sputi che potei vedere erano colore oliva, e vi si no- tavano alcuni strati di sangue commisto a muco denso e punto punto aereato. Era evidente trattarsi di Pneumonite genuina reumatica, procuratasi dalla Si- gnorina per essere stata esposta per lungo tempo alla finestra, non bene coperta, a corpo molto sudato e dopo avere eseguite fatiche fuori del consueto in alcune faccende domestiche a cui non era abituata. Immediatamente ricorsi all’ Ipecacuana, apprestata in infuso a caldo ed alla dose di grammi 8 in cento d’ acqua e coll’ aggiunta di grammi 40 di sciroppo di gomma, da prendersi a cucchiaiate di due in due ore. L’infuso fu preparato dall’abilissimo chimico-farmacista, già nominato Sig. Medri nella sua farmacia da S. Nicolò degli Albari, e fu tolleratissimo sempre pel tempo di otto giorni consecutivi che si replicò. La sera la febbre aveva d’ alcun poco ceduto, e nei successivi primi otto giorni oscillò il termometro fra i 38,5 e 39,8; poscia si ridusse nel secondo sette- nario a 37,8 il mattino, 38,2 la sera; nel decimoquinto giorno di malattia sì rese l’ inferma apirettica, in breve tempo entrò in convalescenza ed a mano a — 655 — mano riacquistò intera la primitiva sua salute, che in lei era stata sempre nel corso de’ suoi ventidue anni di vita, floridissima. Noto che nel secondo settenario cominciai a diminuire la dose dell’ Ipecacuana di 2 grammi ogni due giorni, e poscia vi sostituii le solite polverine di Dower e bi-carbonato di soda; feci apprestare buon vino ed, apiretica che fu la Signorina, ricorsi ad un adattato vitto, sano e nutritivo, indi la consigliai a recarsi a respi- rare aria libera e pura in una sua villa a poca distanza dalla Città. Anche questa storia concisamente così esposta, l’ ho narrata per far risaltare la tolleranza dell’ Ipecacuana e confermare l’ utilità per essa arrecata, senza che menomamente sconcertasse, e come valesse a vincere in breve tempo una gravissima Pneumonite la quale fin dalle prime s'era presentata con imponente veemenza e tale da avere posto in serio pericolo l’esistenza dell’ammalata che ne era stata malau- guratamente presa. Ora scendo senz’ altro aggiungere alla esposizione delle eseguite prove esperi- mentali sopra animali vivi, le quali formano la seconda parte di questa mia comunicazione. Eco e Di d PARTE SECONDA Il 5 Aprile dell’ anno corrente nel Gabinetto dell’ illustre Prof. Giuseppe Ciaccio, (in quest anno Accademico, nostro Presidente) incominciai le esperimentazioni sulle Rane e dichiaro che furono sempre regolate dall’ egregio collega Sig. Dott. Ago- stino Rossi, sostituto ch’ è alla Cattedra d’ Anatomia comparata, il quale vi pose attorno tutta quella accuratezza e diligenza di cui lo sapete capace; laonde mi compiaccio di addimostrargli pure nella presente circostanza con queste parole di lode anche la mia più sentita ed indelebile gratitudine. Esperimento Il — Prese due grosse Rane ed assicuratele supine sopra di un’ as- sicella, ad una d'esse s’ introdusse sotto la pelle d’ una coscia, mediante la sciringa di Pravaz, un grammo d’infuso acquoso d’Ipecacuana nella proporzione d’ un grammo e mezzo d’ Ipecacuana in due grammi d’ acqua, ed erano le ore dodici meridiane e 28 minuti; alle dodici e 40 ad altra Rana medesimamente s° iniettò un Grammo d’ infuso, ma alcoolico, d’ Ipecacuana, indi si sopravvegghiarono en- trambe a vederne le conseguenze. Alle ore due pom. successive, la prima Rana mostrossi alquanto flaccida; messa sul dorso, liberatala ben inteso dai lacci, a stento si rimetteva nella posizione naturale. La seconda Rana era morta dopo avere addimostrato di soffrire per forti convellimenti e contratture agli arti, a guisa dei fenomeni che si manifestano nel- l’ ebbrezza. Non potendo giovarci di questa Rana e volendo pure stabilire una maniera esatta e sicura di confronto intorno lo stato macroscopico della Rana sottoposta all’ iniezione coll’ Ipecacuana, ci servimmo d’ altra vivace e sanissima, alla quale aprimmo regolarmente il corpo, e medesimamente sparammo la prima già iniettata. Ebbene, ad occhio nudo e subitamente vedemmo ch’ esisteva una notabile dif- ferenza, in quanto che li polmoni della Rana iniettata coll’ infuso acquoso d’ Ipe- cacuana erano sbiaditi, e molto, ma molto meno vascolarizzati di quell’ altra non sottoposta all injezione. Esperimento 2. — Il giorno 11 Aprile alle ore 11 ant. presa una Rana di media grandezza e postala nella stessa posizione delle altre di cui or sopra di- — 657 — cemmo, vi si iniettò sotto la pelle tutto il contenuto d’ un tubetto della Sciringa Pravaz, ch’ era infuso acquoso d’Ipecacuana nella medesima dianzi dichiarata pro- porzione. Trascorsa un’ ora che fu, l’ animale lo si vide alquanto depresso ed i muscoli suoi offrivano una notevole flaccidezza; 1 addome era avvalato. Messone allo scoperto il sinistro polmone, si notò in modo evidente ch’ era scarso di sangue in confronto dell’ omologo d’ una Rana allo stato normale. Ri- posto il polmone stesso e chiusa la ferita esterna con punti, sì conservò la Rana ch'era sta iniettata. Il 13 successivo Aprile alle ore due pom. si sacrificò quest’ ani- male ad esaminarne di nuovo il polmone, e rimase evidentemente manifesto che tuttavia sì manteneva in istato di minore vascolarizzazione a confronto d’ una Rana sana, stata pur essa contemporaneamente aperta. Esperimento 3. — Nel riprendere il sei Giugno le nostre esperienze, comunicai al collega Sig. Dott. Rossi che avendo io nel frattempo avuto occasione di scrivere a Siena al chiarissimo Sig. Prof. Giovanni Bufalini, la qualità de’ miei studi cli- nico-esperimentali colla corteccia Brasiliana e pegli espressigli intendimenti, Egli ebbe la non comune cortesia di replicare le prove sopra alquante Rane, ed in data del 15 Maggio mi rispondeva così: — Ho ripetuto le sue esperienze sulla Rane ed ho verificato quant’ Ella mi ha esposto nella sua pregevole Nota. — Mi sollecitava indi seguitamente in essa Lettera a ripetere gli esami, curariz- zando però prima le Rane per immobilizzarle ad esaminarne meglio gli effetti prodotti dall’ infuso d’ Ipecacuana, e studiarli sia nella piccola, sia nella grande circolazione. Approvò l’ egregio Dott. Rossi questo modo d’ esame ed appunto quel giorno medesimo alle ore dodici meridiane e dieci minuti, dopo avere nel modo consueto collocata ed assicurata una Rana, vi introdusse sotto la pelle d’una coscia due goccie d’ una soluzione di curaro, nella proporzione d’ uno per mille; soluzione ch'era stata fatta con ottimo curaro portato dall’ America dal nostro Prof. Hran- cesco Magni, ed eseguita dall abilissimo Sig. Dott. Cesare Stroppa, Assistente del- l'illustre Francesco Selmi (la di cui quasi improvvisa morte, tanto ci commosse e ci addolora) e composta era stato proprio sotto la sua istessa sapientissima direzione. Disposta medesimamente altra Rana e di eguale dimensione, pur ad essa e nello stesso posto dell'altra s' iniettarono due goccie della or detta soluzione curarica. Alla prima Rana trascorsa che fu una mezz’ ora, si praticò l’ iniezione solita per quantità e qualità d’ infuso acquoso d’ Ipecacuana, introducendo però lo schiz- zetto di Pravaz entro il suo sacco dorsale, colla vista d’esaminare appunto gli effetti che sarebbero per accadere nella grande circolazione indagando accurata- mente il mesenterio di questo batrace. Per fermo, alle due pom. esso mostrossi molto abbattuto; collocatolo sul dorso ci rimaneva. L’ altra Rana invece a cui non era stata iniettata l’ infusione d’ Ipe- TOMO II. 83 — 655 — cacuana si mostrava molto vivace, così che persistendo in queste condizioni si pensò d’iniettarvi di nuovo nel dorso altre tre goccie di soluzione curatica. Dopo mezz’ ora circa, cioè alle 2 e 40 minuti, addivenne immobile sull’apparecchio ed avvertimmo che risentivasi più del taglio dei muscoli addominali che della pelle, e che sulle prime la circolazione era molto più lenta in confronto di quella della Rana sottoposta anche all’ iniezione coll’ infuso d’Ipecacuana; poscia (alle ore tre pom.) si fece più attiva ed in prosieguo non potemmo rilevare notevoli differenze nella circolazione del mesenterio delle due Rane istesse. È certo però, e questo ben deve essere notato, che il mesenterio della Rana trattato anche coll’ Ipecacuana era molto iperemico. Ulteriori esperimentazioni eseguite sopra altre Rane, trattate del medesimo modo confermarono quanto s era veduto ed annotato, vale a dire : ischemia polmonare ed iperemia mesenterica nelle Rane trattate anche coll’ iniezione dell’ Ipecacuana ; nel mentre che nelle Rane le quali non furono soggette all’ azione di questo infuso s' osservò il fatto precisamente in senso del tutto inverso. Ricordo ancora che ogni Rana sottoposta ad esame fu curarizzata sempre con due goccie di soluzione all’ uno per mille, meno quella di cui ho qui sopra fatta menzione che resistette alle prime due goccie e s° immobilizzò soltanto dopo l’ inie- zione di altre tre. A raffermare poi queste osservazioni riferisco ulteriori esami praticati nel modo seguente. Esperimento 4. — Il 21 Luglio alle ore 10 %, ant. a due Rane di grossezza mediocre s' iniettarono sotto la pelle d’ una coscia due goccie della soluzione cura- rica, ed alle ore 11 }, ant. dieci goccie d’ infuso d’ Ipecacuana furono introdotte ad una di esse entro il sacco dorsale. Dopo mezz’ ora fu posto allo scoperto il mesenterio di questa Rana (che si prestava spontanea a giacere sul dorso per essere in istato di collapsus), e si vide arrestata la circolazione nei capillari, ch’ erano anche quasi esangui; nelle vene poi e nelle arterie s° osservava semplicemente un movimento di va e vieni, per essere invece i vasi istessi rigonfi. Alle ore 12 meridiane nella rana curarizzata, ma che non fu sottomessa al- l'iniezione dell’ infuso d’ Ipecacuana, la circolazione dei grossi vasi si vedeva in principio abbastanza spedita, ma dopo pochi minuti si arrestò; nei capillari poi non iscorreva sangue ed i più sottili erano vuoti. Trascorsa un’ ora, nella Rana curarizzata e ch’ aveva sofferta ancora l’ iniezione dell’ Ipecacuana, si vedevano i vasi grossi tuttavia turgidi di sangue e quasi immo- bili; i mezzani mostravano puramente un moto oscillatorio; nei capillari, il circolo era arrestato. Nella Rana poi ch'era stata curarizzata e non sottoposta all’ iniezione dell’ in- fuso d’ Ipecacuana, i grossi vasi avevano una circolazione spedita, ma vuoti erano 1 capillari. — 659 — Esperimento 5. — Il 21 Luglio ci riunimmo per l'ultima volta coll’ amico Rossi allo scopo d’ esaminare li polmoni d’ una Rana coll’ apparecchio di Holmgren, dopo averla curarizzata ed introdotto nel suo sacco dorsale dieci goccie del solito infuso d’ Ipecacuana; questo eseguimmo alle ore dodici meridiane e minuti 10. Ad un’ ora pomer. ed un quarto, messo allo scoperto il polmone sinistro della Rana, lo si vide pallido e vi si osservarono appariscenti i soli vasi più grossi. Alle ore due pom. posto allo scoperto il polmone pur sinistro di altra Rana curarizzata, ma non sottoposta all’ azione dell’ Ipecacuana, restava bellamente appariscente, e ciò anche ad occhio nudo, la grande differenza tra Y uno e 1’ altro, in quanto che era quest’ ultimo polmone alquanto e senza confronto più e più vascolarizzato. Queste particolarità rimangono pure ed indiscutibilmente comprovate dalle espe- rimentazioni fatte nel Gabinetto del Ch.mo Prof. Luigi Vella e come passo a dichia- rare, premettendo che prima di eseguirle ne aveva tenuto parola col lodato Sig. Dott. Rossi, che vi aveva aderito, pensando Esso con me che più venivano ripetuti gli esami e da persone autorevoli e diverse, più acquistavano in pregio le conclu- sioni ricavatene, massime se uniformi tra loro. Adesso adunque delle cose esaminate e fatte nel Gabinetto dell’ amico e collega esimio, il Vella, il quale caramente ringrazio e che compiemmo appunto il nove Aprile corrente anno. Esperimento 6. — Alle ore 11 ant. poste due Rane supine ed assicuratele pur queste convenientemente sopra assicelle, vi si misero allo scoperto 1 polmoni sinistri mediante una ferita praticata alle pareti addominali. I polmoni si vedevano in entrambe distesi e rossi per elegante vascolarizzazione. In una di queste Rane, ch’ era alquanto più grossa dell’ altra, s’ iniettò sotto la pelle un grammo della solita infusione d’ Ipecacuana e preparata dallo stesso chimico-farmacista Sig. Paolo Medri, già onorevoimente ricordato. Passati quattro minuti, in questa Rana osservammo che la vascolarizzazione del suo polmone erasi fatta assai minore che nel polmone dell’ altra Rana, e questo stato continuò per 45 minuti di esame verificato dai presenti ch’ erano il collega Sig. Dott. Iavaglia, Assistente al Vella, il Sig. Doni e lo stesso inserviente del Ga- binetto. Dopo due ore la vascolarizzazione era sempre evidentemente maggiore nella Rana non iniettata, e dopo cinque s’ interruppe lo esperimento per essere le Rane sommamente spossate. Annoto però che lo stringimento dei vasi polmonali nella Rana a cui fu iniettata l Ipecacuana era sempre notevolissimo e la differenza rima- neva a prima vista dichiarata anche da chi ignaro dello stato delle cose gli si presentavano i polmoni messi allo scoperto nelle due Rane. Esperimento 7. — Il successivo giorno, prese altre due Rane e ripetuto il me- desimo esperimento, rimase confermato e comprovato che dopo trascorsi pochi minuti — 660 — dall’ iniezione coll infuso d’ Ipecacuana il polmone del batrace iniettato cominciò non solo ad impallidire, offrendo un colore appena roseo, ma i suoi vasi, alcuni dei quali erano innanzi assai bene pronunciati, si videro assottigliarsi per un con- tenuto minore di sangue. Il polmone della Rana non iniettato si manteneva invece sempre, ed anche passate molte ore, bellissimo, ben colorito, carico di sangue e faceva in vista un contrasto veramente ammirabile. Laonde feci stima che a prova irrefutabile del fatto, sarebbe stato ottimo con- siglio di far tuttavia copiare li due polmoni (e per vero lo furono dall’ abilissimo disegnatore Sig. Collini) quantunque già possedessi due polmoni estratti dal corpo a due povere Rane e li conservassi fra due vetrini preparatimi dal cortesissimo Sig. Dott. Fossi. Eccovi impertanto, Signori, ed il disegno eseguito dal Collini, ed eccovi pure i vetrini che ho detto contenere i polmoni naturali delle Rane; uno de’ quali (N. 1) ve- drete sbiadito, l’altro, (N. 2) quantunque siano passati varii mesi, conservare una pro- nunciata vascolarizzazione. Il primo apparteneva, come ben lo dedurrete, alla Rana sottoposta all’ azione curarica ed a quella pure coll’ infuso acquoso d’ Ipecacuana ; il secondo alla Rana solamente curarizzata. A maggior diffusione del fatto qui ne pongo i relativi disegni. Da ultimo a rendere ognora più provata l azione deprimente vasale dell’ Ipe- cacuana, comunico il risultato d’ esperimentazioni recentemente eseguite sopra un altro ordine di animali col medesimo nostro illustre Fisiologo, coadiuvato dal suo espertissimo e giù lodato Assistente. Esperimento 8. — Il giorno due del corr. mese di Novembre, per mezzo di una sonda esofagea fu introdotto ad un grosso coniglio un infuso di Radice d’ Ipe- cacuana alla dose di quattro grammi in cinquanta d’ acqua. Era riscaldato alla temperatura di trentotto del centigrado. Circa due ore dopo fu sacrificato in un attimo l animale colla puntura del bulbo, indi immediatamente se ne aprì il torace e se ne misero a nudo li suoi polmoni; i quali osservaronsi alquanto scoloriti, con- frontati con quelli d’ altro coniglio dello stesso peso , contemporaneamente ucciso e nello stesso prontissimo modo, ed al quale coniglio non era stato sommini- strato infuso di sorta. I polmoni erano in questo colorati, turgidi di sangue come lo sono in istato normale sempre; di tal guisa anche la nuova prova esperimentale — 661 — confermò pienamente le precedentemente praticate sopra le Rane. Noto pure che anche il successivo giorno li polmoni sia dell’ uno, sia dell’ altro conigiito mante- nevano le dichiarate differenze, siccome fu reso manifesto a coloro ch’ ebbero campo di esaminarli nell’ istesso Gabinetto di Fisiologia di questa Università. Raggruppando adunque insieme una buona volta le studiate cose, parmi si possa e dalle ulteriori istorie cliniche e dalle nuove e varie e ripetute esperimen- tazioni eseguite sugli animali, dedurne con buon fondamento di ragione che : ! Ipecacuana esercita per lo appunto un’ azione depressiva vasale e porta l’ische- mia polmonare, confermativamente al dichiarato nella mia Nota preventiva. Nella quale, aggiungo qui tuttavia, non potei allora se non ricordare le poche prove esperimentali fatte col Vella medesimamente, in due cani ch’ erano in per- fetto stato di salute. Vedemmo che messa in comunicazione col chimografo di Fich una delle arterie carotidi (di ciascuno dei due grossi cani preferiti per l espe- rimentazione) la leva scrivente dell’ istrumento segnava 68 millimetri; somministrato poscia l’ infuso caldo d’ Ipecacuana, scorse che furono quattr’ore, abbassarsi a 56, e dopo un’altra ora raggiungere appena 52 millimetri, siccome rilevasi dai trac- ciati che pure ho l’ onore di presentarvi e che desidero facciano anche parte di questi miei continuativi studi, a maggior complemento della disaminata materia (1). ANI n mE n Mn AM gg Mar MAU MV MNM .68.an mr. VU Ni RA È NA Marg MAN Vga! MAMMA [..56 Mm. AMM MANINA è ANNA of.52 MM. Per tutto l’ esposto sarei impertanto di credere che l'alta dose dell’ Ipecacuana determini temporaneamente una particolare modificazione nel modo d’ agire del gran (1) Vedi l’ Opera pregevolissima del Prof. Gr@an?, intitolata « Manual de Physique médicale » Paris 1869. — 662 — simpatico e così nei vaso-motori, o vaso-costrittori, i quali in gran parte si trovano nei suoi rami ma le di cui origini però è oggi saputo essere nei centri nervosi (1). Da ciò un rallentamento nel circolo fra cuore e polmoni e la risultantene ane- mia di questi ultimi; oppostamente al processo patologico che nasce nella Pneu- monite crupale, ossia: di produrre un essudamento dei costituenti il sangue, do- vuto al subitaneo aumento della pressione sanguigna (2). Diminuendosi impertanto ’° afflusso del sangue nei polmoni (iperemia dei capil- lari che precede, accompagna e sussegue 1 infiammazione) ne deve indubbiamente derivare ancora un rallentamento nella secrezione degli essudati, donde minore vio- lenza per manco di materiali nel processo flogistico. Questi criterii patologici mi sembrano giusti e ragionevoli, e trovano poi un poderoso appoggio anche negli studi esperimentali or mo eseguiti dall’ esimio collega Prof. Achille De-Giovanni, Clinico Medico in Padova, e resi noti mediante un suo lavoro corredato di tavole, ch’ è in parte uscito in luce nella Gaz. Med. Italiana delle Provincie Venete, N. 50, 51, Dicembre 1881, che intitolò “ Osservazioni relative al processo infiammatorio , e che non credo del tutto terminato. L'alta dose adunque dell’ Ipecacuana viene come a produrre un’ azione anti- flogistica, supposta dal Pécholier, ma ch'io raffermo e credo in modo degno di seria considerazione, in virtù delle non poche esperimentazioni eseguite e pe’ splen- didi risultati clinici che m' ebbi in buon numero a vedere ogni qual volta me ne avvalsi contro le Pneumoniti. È per questo, se ben veggo e ragiono, che giova 1’ Ipecacuana e non già come dichiara il Prof. Arnaldo Cantani nella sua Materia Medica alla pag. 883, perchè produce vomito. , L' atto meccanico del vomito (Ei dice) fa pur risentire l appa- recchio della circolazione per l' aumento violento della pressione che produce nei vasi delle grandi cavità, specialmente nell’ aorta e nel cuore, in seguito a che re- stano eccessivamente piene le grandi vene dell’ addome e del torace ed il sangue si accumula alla periferia ecc. , i Mai no; dai fatti occorsimi è rimasto chiarito tutto il contrario e cioè che l’alta dose della Ipecacuana, e per motivo che tra breve scendo a dichiarare, non isvi- luppa il vomito, e tanto meno avvelena come afferma lo stesso Prof. Cantani alla (1) Vedi nell’ Opera di H. Beawnis, Parigi 1881, alla pagina 1267, intitolata « Nouveaux é16- ments de Physiologie humaine ecc. » Vedi ancora la Rivista sperimentale di Freniatria e Medi- cina Legale, diretta dal Dott. Augusto Tamburini, Anno IV, fasc. II e III; Reggio Emilia del 1878, pag. 391 ecc. (2) In via di studio pongo che alcuni Fisiologi attribuiscono la depressione arteriosa nel punto centrale del pneumo-gastrico. Primo tra questi il Cyor, il quale nel 1866 fece delle esperienze in proposito sui conigli e scoprì un nervo, chiamato poscia dal suo nome, che nasce da due radici del laringeo superiore e del pneumo-gastrico e va al ganglio cervicale inferiore. L’ eccitamento gel termine centrale di questo nervo, produce una diminuzione di pressione nel sistema arterioso ed una diminuzione di frequenza nel polso. Il nervo depressore, secondo Cyor, agisce diretta- mente sui centri vaso-motori e non per l'intermediario del cuore. (Vedi Beaunis, Op. cit. pag. 1272). — 663 — pagina 884, Op. citata, nè uccide per collasso; ma arreca invece pronto ed efficace giovamento per gli effetti che apporta sui centri nervosi e sul vaso-motori. I pregevolissimi lavori del Griesinger, proseguiti ed ampliati dal Guttman ed Eulenburg, quelli del Koster ecc. ed in Italia precipuamente le disamine del ricordato egregio De-Giovanni, quelli del Fod, del Brigidi, del Colomiatti, dello Stefanini, del Morselli, per tacer d’altri illustri connazionali, intorno la patologia del gran simpa- tico ed al modo d’ agire de’ nervi vaso-motori, mi fanno sperare che possa trovare appoggio la mia credenza qui dianzi posta e meritare considerazione massime perchè sorretta dalla Fisiologia. Laonde intesa la cosa sotto di quest’ aspetto parmi rimanga fors’ anco rischia- rato il perchè V Ipecacuana non può che assai difficilmente determinare la sua azione emetica apprestata che sia ad elevate dosi, come quasi sempre e bene di sovente si verifica, data nelle ordinarie, alloraquando cioè i nervi agiscono fisiolo- gicamente, od in condizioni diverse dalle supposte ed espresse da me. Si tranquillizzino adunque i Colleghi, e, ben volentieri il ripeto, non temano di- sordini dall’ uso dell’ Ipecacuana apprestata ad alte dosi, regolate però queste con avvedutezza e secondo le condizioni in cui si trovano gli infermi, e si persuadano di ciò fondati nei fatti climici succintamente narrati, trascelti fra i molti che m' oc- corsero nello Spedale ed alla vista di tutti, e ricordino che anche nella mia pratica privata ho tenuto e tengo, contro le Pneumoniti franche, lo stesso metodo curativo e con esito molto soddisfacente. Chiudo poi finalmente il mio odierno discorso avvertendo che rimane ancora uno studio a farsi, o quello di conoscere e di appurare se l’ azione deprimente vasale che ho riconosciuta nell’ Ipecacuana, dipenda da tutti i principii di cui essa consta, oppure se dal suo alcaloide, cioè dall’ emetina. Prendo però intanto data oggi stesso di questa particolarità, mentre ho fondato motivo di ritenere che forse troppo valore si è accordato in genere ai principii costitutivi, od agli alcaloidi delle sostanze medicamentose; in quanto che esistono fatti i quali ne scemano e ne modificano l'importanza, e che fin qui, per quanto è a mia cognizione, non so che siano stati bastantemente indagati. Per fermo, ed in appoggio della mia avvertenza mi valgo ad esempio dei differenti risultati che si ottengono somministrando l’ oppio in natura, piuttosto che i molti suoi derivati, e viceversa ; e così relativamente alle Solanacee ed ai loro alcaloidi. Ma di ciò in altro momento e con quell’ estensione, quello amore e quello studio che merita il soggetto appena appena da me presentemente accennato. SRI Lar MENTI RLTIOTOT w ENFLORNEO AD UN NUOVO GRUPPO DI MOSTRI APPARTENENTE AL GENERE DICEPHALUS DIBEACHIUS (H6rster) MEMORIA DEL PROFESSORE CESARE TARUFFI (Letta nella Sessione Ordinaria del 15 Dicembre 1881) Non è raro il caso di trovare ricordate nella storia delle scienze notizie le quali, ancorchè capaci di guidare a nuove ed utili cognizioni, rimasero lungo tempo neglette o non apprezzate convenientemente dai trattatisti, fintantochè, offrendosi ulteriori fatti, questi condussero a disseppellire i precedenti e tanto gli uni quanto gli altri vennero poi collocati nel posto che loro competeva. Questo caso si è verificato più volte in Teratologia ed ora ne recheremo un esempio. Abbastanza comuni sono le storie di quei dicefali che hanno due braccia, un sol tronco e due gambe, i quali furono estesamente descritti nel 1815 da Meckel (1), senza per altro assegnar loro un nome particolare (2); e fra i caratteri che questo esimio anatomico attribuì ai medesimi fuvvi quello della colonna vertebrale quasi sempre totalmente doppia. Questa proposizione fu modificata nel 1837 da Isidoro Geoffroy Saint-Hilaire (3) dicendo che le due colonne sono molto ravvicinate in- feriormente (posteriormente negli animali) e più spesso riunite alla regione sacrale, ed aggiungendo altrove che le medesime dopo aver formato un sacro doppio si separano di nuovo nel maggior numero dei casi e così risultano animali a due code e uomini con due coccigi distinti. Senza discutere se l'unione dei sacri con duplicità del coccige avvenga nel maggior numero dei casi, non havvi dubbio che l'autore francese pose i germi d’ una distinzione di grande importanza, indicando che le colonne vertebrali quando (1) MecxEL J. F. — De duplicitate monstrosa. Halae 1815, p. 79. (2) Questi mostri erano già stati chiamati da Haller bicipiti dbipedi; poscia furono detti da Breschet diplocefali; da Gurlt dicefali bicolli; da Lauth derodidymi; da Forster dicefali dibrachi. (3) Is. G. Sarnt-HiAtrRe — Des anomalies. Tom. II, p. 126 Nota. Bruxelles 1838. TOMO II. 84 — 666 — sono divaricate anteriormente (animali dicefali) non sempre convergono e si fondono posteriormente, ma (dopo essersi ravvicinate o fuse) talvolta si separano anche da questo lato. Egli per altro mostrò di non apprezzare a sufficienza quanto aveva annunziato, ponendo la sua avvertenza in nota al testo, non corredandola delle necessarie prove e non traendo quelle illazioni tassonomiche e scientifiche che ne risultavano. Il rapporto fra le due colonne vertebrali nei dicefali fu poscia descritto da Forster (1), e la descrizione da lui data riescì molto più ampia di quella del suo antecessore, poichè ammise che le due colonne talvolta sono completamente distinte e i due sacri rimangono divisi da un rudimento posteriore d’ una seconda pelvi; talvolta per contrario esse si toccano e aderiscono fra loro; talvolta si fondono posteriormente in modo che il sacro diventa unico ; talvolta finalmente si uniscono, ma più in alto a gradi diversi. Tralasciò per altro il Forster il caso avvertito da I. G. Saint-Hilaire ed anzi l’ escluse implicitamente ponendo senza alcuna riserva 1 dicefali fra 1 mostri che hanno gli assi divergenti dal lato anteriore e conver- genti dal posteriore (ferata-catadidyma) ed attribuendo la loro origine ad un’ area germinativa unica posteriormente, biforcata anteriormente. La teratologia comparata già possedeva alcuni fatti che dimostravano quanto la dottrina di Forster fosse insufficiente per comprendere tutti i dicefali con due braccia; ma niuno sorgeva ad emendarla, allorchè Dareste nel 1863 (2), ignorando cotesti fatti, vide un pulcino con due becchi, tre occhi, e la colonna vertebrale biforcata inferiormente, in guisa che ogni sacro possedeva la propria pelvi, e da ciò concluse che si danno diprosopî (genere affine ai dicefali) semplici nella regione media e doppi posteriormente. Alla stessa conclusione giunse Panum nel 1878 (3) avendo raccolti 15 fatti nei mammiferi, analoghi a quello di Dareste ; con questa differenza per altro che Panum non comprese soltanto i casi in cui le due spine si unificavano nella parte media, ma anche quelli in cui le spine si ravvicinavano e si saldavano in luoghi diversi senza fondersi insieme, mentre le estremità rimanevano divise. Esso per altro lasciò incompiuta la sua opera, preoccupato solo di stabilire 1 diversi rap- porti delle spine nei mostri doppi; quindi non distinse i casi da lui stesso riferiti secondo il genere teratologico cui appartenevano, non stabilì una nomenclatura adatta a indicarli e non mostrò fino a qual grado si potesse ammettere la dupli- cità posteriore col ravvicinamento centrale degli assi. Volendo noi colmare queste lacune, abbiamo passati in rassegna tutti i fatti giunti a nostra cognizione, che presentavano ravvicinamento mediano delle colon- ne vertebrali ed abbiamo facilmente trovato che buon numero di essi appartiene (1) ForstER Ave. — Die Missbildungen des Menschen. Jena 1861, s. 23 — Handbuch der allge- meinen pathologische Anatomie. Bd. I, s. 99. Leipzig 1865. (2) DARESTE O. — Comptes rendus, T. 57, p. 695. Paris 1863. (3) Panum P. L. — Virchow's Archiv. Bd. 72, s. 165. Berlin 1878. — 667 — al genere diprosopus ed il rimanente al genere dicephalus. Abbiamo rilevato inoltre che il carattere estrinseco più importante per distinguere il secondo genere rispetto al rapporto fra le due colonne vertebrali è la presenza d’ un solo o di due coc- cigi, quindi proponiamo d’ammettere due specie di diceplhalus: chiamando la prima monurus e la seconda diurus. Più accurate indagini abbiamo dovuto fare per stabilire i gradi di duplicità posteriore; ed i risultati di questo studio essendo già stati altrove notificati per ciò che riguarda il diprosopus diurus (1), non ci rimane ora che comunicare quanto abbiamo ricavato dai casi di dicephalus diurus; la qual cosa facciamo tanto più volontieri, avendo avuta occasione d’ esaminarne un esempio nella pecora, mercè la gentilezza del Prof. Ercolani che ci ha favorito il preparato. I fatti risguardanti il dicephalus diurus non sono molti, nè sempre esposti in modo da non lasciare qualche dubbio, tuttavolta (tenendosi conto delle osservazioni compiute sui mammiferi) sono suscettibili di ordimamento. Ed affinchè il termine di confronto sia riconoscibile anche estrinsecamente, abbiamo seguito l’uso di rica- varlo dal numero delle gambe, laonde proponiamo di distinguere il presente gruppo di mostri in tre specie 1. diurus dipus; 2. diurus tripus; 3. diurus tetrapus. I. Dicephalus diurus dipus. — Il patrimonio scientifico appartenente a questa specie è molto povero non conoscendosi fin qui che tre osservazioni. Due sono di Guelt (2) e risguardano due vitelli, ognuno dei quali aveva due teste, quattro arti e due code; nei medesimi furono anche trovati i processi trasversi dei due sacri congiunti fra loro. Recentemente poi nel Museo di Greiswald (Pomerania) Panum vide (3) un agnello che aveva gli stessi caratteri estrinseci, ma non potè stabilire il rapporto fra le due colonne vertebrali. A questi tre fatti ora ne aggiungeremo un quarto, appar- tenente al Museo d’ Anatomia patologica-comparata di Bologna, segnato col nu- mero 2364 (Vedi tavola) e raccolto nel 1866 dal Prof. Ercolani (4). Osservazione — Scheletro d’un agnello neonato, il quale offre due teschi com- pleti e disgiunti, due colonne vertebrali in parte riunite, e quattro arti normali: due anteriori e due posteriori. La porzione cervicale di ciascheduna colonna dista dall’ altra due centimetri in corrispondenza dell’ ultima vertebra, ed esagera gran- demente la propria curva per continuarsi colle vertebre dorsali, le quali sono in numero di 14 (5) ed offrono una notevole cifosi con seno superiore fino alla ottava (1) Tarurri C. — Storia della Teratologia Vol. II, p. 284. Bologna 1882. (2) GurLr E. F. — Ueber thierische Missgeburten. Berlin 1877, s. 43; Art. 21. (3) Panum — Virchow’s Archiv. Bd. 72 s. 192, b. 1878. (4) Il Museo d’ Anatomia patologica comparata non possede soltanto lo scheletro del vitello ma ancora il suo apparecchio digerente ed i visceri toracici; fra 1 quali vi sono due cuori; uno grande e ben conformato, ed un altro piccolo formato da un ventricolo unico in comunicazione con due seni venosi e con un sol tronco arterioso. (5) Fra le ultime vertebre dorsali non si riscontra alcuna differenza, laonde non può dirsi quale sia la soprannumeraria. L’ eccesso del loro numero non viene compensato da una diminu- zione nè delle vertebre lombari nè delle sacrali. Gl’ ilei come al solito s’ articolano colla prima sacrale ed il sacro è composto di quattro vertebre. — 663 — vertebra; poscia le due colonne descrivono un arco colla convessità in alto. Nel loro percorso esse si mostrano convergenti fino alla regione del sacro, ove le tre prime vertebre sono saldate lateralmente fra loro e tornano a dividersi in cor- rispondenza della quarta sacrale sì da risultare una distanza di 6 mill. incirca fra le caudali. Vedi Tavola. In seguito al ravvicinamento delle due colonne e della loro cifosi si sono ve- rificati i seguenti effetti. Le colonne in luogo di conservare i soliti rapporti hanno per un quarto di sfera rotato all esterno sul proprio asse, principiando dalla prima vertebra dorsale e finendo alle caudali, colla tendenza per altro di ritornare nella propria posizione dal lato posteriore; quindi i processi spinosi per questo lungo tratto sono portati all’esterno e le due serie dei processi articolari sono rivolti: uno superiormente per modo che simula la fila dei processi spinosi, benchè non posto sulla linea mediana, e l’altro quasi inferiormente. Per la stessa cagione anche le coste, che s’ articolano col lato esterno delle due colonne, nascono inferiormente. Esse in numero di quattordici da ogni parte (otto sternali e sei spurie), corrispondentemente al numero delle vertebre, formano im ampio torace, fornito di sterno, situato sotto le due colonne. Le coste invece del lato interno sono incomplete ed hanno diversa direzione. Le prime otto coste interne di ambidue i lati sono fuse insieme e rivolte infe- riormente ed internamente al torace ; le più lunghe d’una parte si congiungono colle eguali dell'altra parte mediante le loro estremità, in guisa da formare uno sprone lungo quattro centimetri, diretto verso il manubrio dello sterno, da cui è discosto per tre centimetri. Le altre sei coste sono rudimentali (lunghe in media un cent.) rivolte in alto e dirette anteriormente, ognuna delle quali è congiunta colla sua estremità a quella che le sta di lato, in guisa da risultarne un arco a sesto acuto, piegato all’avanti, che congiunge le vertebre paralelle, di cui la sommità assume 1’ aspetto d’ una spina mediana. Questa forma d’ arco si trova ancora fra le vertebre lom- bari (sei da ogni parte), colla differenza che è costituita solo dai processi trasversi, i quali poi nelle vertebre sacrali fanno un semplice rialzo. La duplicità posteriore nei dicefali non si trova soltanto nei mammiferi, ma ben anche negli uccelli, avendo il Reichert (1) scoperto in un uovo d'oca, incubato per tre giorni, un embrione con due estremità cefaliche e due caudali, mentre semplice era il canale midollare e parimenti semplici erano due protovertebre dorso- ventrali. Questo fatto conferma dunque l’altro di Dareste ricordato superiormente, dal quale differisce solo perchè in luogo di due faccie vi erano due teste, e dimo- stra che non solo possono saldarsi insieme per un certo tratto le due colonne, ma che eziandio i due solchi primitivi si possono unificare per una certa estensione mediana. Passando ora a cercare se anche nei dicefali della specie umana accade un (1) ReIicHERT C. B. — Archiv. fiir Anat. und Physiol. 1864, s. 144, Taf. XVII. — 669 — simile rapporto fra le due colonne, non troviamo alcun ostacolo a riconoscere che quei casì in cui i due sacri sono congiunti, mentre i due coccigi si mostrano separati, sono eguali al casi dei mammiferi, superiormente ricordati, e prossimi ai pochi altri veduti negli uccelli, quantunque la cosa riesca meno evidente per la mancanza delle due code. Esempi di sì fatta duplicità nell’ uomo sono stati descritti da Meckel (1), da Neubeck (2) e da pochi altri; e noi pure possediamo uno scheletro preparato dal Prof. Alessandrini ove si vede altrettanto (3). In questo poi vi sono gli archi di congiunzione fra le vertebre dorsali paralelle formati dai rudimenti costali interni e rivolti posteriormente, non anteriormente come abbiamo veduto nella pecora. I dice- fali umani dunque sono pur essi suscettibili della distinzione in monurus ed in diurus. L’indurre peraltro nell uomo dai segni esteriori i caratteri interni non va sempre immune da errore, potendosi confondere una specie coll’ altra. Oltre di ciò Forster ha recato un esempio di dicefalo, in cui non- ostante la presenza di due gambe e di due coccigi, le due spine non erano a contatto (dichordus proximus), ma allonta- nate fra loro (Qichordus distans) in guisa da permettere lo sviluppo dal lato poste- riore di un secondo petto, come neghi sternopaghi, e lo sviluppo iniziale di due ilei fra i due sacri nel medesimo lato. Ora questo fatto è una eccezione alla regola e sfugge all’ ordinamento prestabilito ; laonde obbligherà, associandovisi altri casi, d’ instituire una sotto-divisione pei dicefali diuri con due gambe. 2. Dicephalus diurus tripus. — Negli archivi della Scienza si trovano ricordati alcuni dicefali umani aventi due braccia e tre gambe, una delle quali mediana e per lo più incompleta; quindi estrinsecamente appartengono a questa specie. La presenza per altro d'una terza gamba non è un carattere così sicuro come potrebbe supporsi, perchè la colonna vertebrale in luogo d’essere doppia o biforcata anterior- mente e posteriormente può essere semplice posteriormente e possedere alla regione sacrale un membro parassitico; nel qual caso si ha un mostro con indizi di tri- plicità. Nulladimeno, quando manchi la necroscopia, si può presumere che il di- cefalo appartenga ai diuri; essendo molto più probabile l' estendersi della duplicità cefalica lungo tutta la corda dorsale sì da permettere lo sviluppo degli ilei inter- namente ai due sacri, che non l’ associarsi di un parassita ad un feto già doppio. Il primo esempio d’un dicefalo con due braccia e tre gambe fu concisamente indicato da Benivieni nel 1507 (4), senza far motto dello stato interno; poscia 1) MEcKEL J. F. — De duplicitate monstrosa. Halae 1815, p. 76. 2) NEUBECK H. — De dicephalo dibrachio. Halis 1865, cum 3 tab. 3) Dicephalus dipus. Preparaz. del Museo d’ Anat. patologica umana. N. 1307. Il Prof. Ales- lrini ne dette un cenno nei Rendiconti dell’Accademia di Bologna. 1857-1858, p. 40. 4) BeNIviENI ANTONIO — De abditis ac mirandis morborum et sanationum causis lib. Flo- rentiae 1507. — Cap. III. « Vidi due fanciulli gemelli, che dalle spalle fino alle piante dei piedi erano uniti insieme, fuorchè nel capo, essendovene uno a sinistra ed uno a destra: dove si con- giungevano mancava il braccio. Una coscia, una gamba e un piede erano comuni; ma ai lati del corpo si distinguevano queste parti intere e non disgiunte ». san — 670 — giungiamo fino al secolo scorso per trovare un mostro simile al precedente, sezionato da un chirurgo francese di cognome Gabon (1). Questi racconta che la terza gamba usciva dalla natica sinistra, si mostrava composta di due insieme fuse, ed aveva alcune dita somiglianti a quelle di una mano. Le due colonne discendevano disgiunte e ciascheduna possedeva i propri ilei, i quali formavano una sola cavità pelvica; colla differenza per altro che gli ischi ed i pubi mancavano dal lato posteriore, ciò che spiega lo stato composto della terza gamba. In questo caso tuttavia, in luogo d’aversi un esempio del dichordus prorimus, sembra trattarsi piuttosto d’ un dichordus distans analogo a quello di Forster, l’autore affermando la presenza delle coste e dello sterno anche dal lato posteriore. In questo secolo possediamo rispetto all’ uomo altre due osservazioni non cor- redate dell’ esame anatomico. La prima, molto singolare, appartiene ad Isidoro G. Saint-Hilaire (2). Questi racconta che alcuni anni avanti il 1837 nacque in Parigi un fanciullo che dal lato posteriore della pelvi aveva un terzo membro inferiore, assai imperfetto, ed anteriormente un pene assai grosso e largo, con due uretre paralelle fra loro distanti tre linee a livello dei due orifici. La seconda osserva- zione fu riferita in modo molto sommario da un certo Vicentini (3); dalla quale non s'impara se non che un dicefalo con due braccia e due gambe aveva all’ estre- mità del tronco un’ appendice lunga quattro cent., contenente tre pezzi cartilaginei articolati e simulante una coda. Passando a raccogliere le osservazioni fatte sugli animali sembra molto proba- bile che alla presente specie appartenesse la pecora veduta da Montalbani (4), che ave- va due teste, due code e cinque gambe, di cui la quinta nasceva dal dorso; e tale probabilità risulta dalla presenza delle due code, le quali accennano o all'esistenza di due spine, o allo sdoppiamento d’ una sola, semplice nella porzione mediana. Ma il fondamento più sicuro per ammettere questa specie è posto in una osservazione di D' Alton fatta nel 1853 sopra uno scheletro di pecora del Museo anatomico di Meckel in Halle (5). In questo preparato si vedono non solo due teste, due colli, due arti anteriori e tre posteriori, ma ben anche si nota l’ andamento delle due colonne vertebrali; le quali convergono con la porzione cervicale, si congiungono insieme col loro lato interno per tutta la regione dorsale e poscia si divaricano di nuovo nella regione lombo-sacrale. Il che permette, come al solito, lo svolgimento completo dei due ilei inferiori coi rispettivi arti, e nello stesso tempo la comparsa d'altri due ilei dal lato superiore, ma solo in misura da formare una grande cavità cotiloidea posta sulla (1) GaBoy — Mém. de l’Acad. de Paris. Ann. 1745. Hist. p. 29, 41. (2) Isin. G. SAmt-HivAtE — Des anomalies. Bruxelles 1838, Tom. III, p. 129. Nota. (3) VicentINI Firanpro — Giornale abruzzese di med. e chir. Chieti 1870. Vol. I. p. 168. (4) AmBROSINI in Aldrovandi — Monstrorum historia. Bononiae 1642. p. 436, Cap. II. (5) D’' ALton Ep. — De monstris quibus extremitates superfluae suspensae sunt. Halis 1853, p. 48, n. 24. — 671 — linea mediana. Questa cavità s’ articola con un arto, costituito da un grosso femore, da una tibia voluminosa e da due tarsi colle relative estremità. L'importanza di questo fatto fu riconosciuta dallo stesso D’ Alton, che disse non conoscerne alcun altro analogo, ma egli stesso confessò di non saperlo classi- ficare. Più tardi Braune (1) lo pose fra i casì di arti pelvici soprannumerari senza considerare la speciale disposizione degli assi, che lo rendeva singolare; ommissione riparata finalmente da Panum (2); senonchè questi lo frappose ai diprosopi che avevano la stessa disposizione spinale e non ai dicefali, laonde era opportuno il se- pararlo e trovargli il suo posto naturale. 3. Bicephalus diurus tetrapus. — Per ammettere quest’ ultima specie abbiamo trovato un’ osservazione risguardante un agnello corredata della necroscopia e tre fatti veduti nella specie umana, i quali, sebbene siano privi della prova anatomica, non abbiamo difficoltà di considerare appartenenti al presente gruppo di mostri. In- fatti rimanendo dalle singole descrizioni esclusa l asimetria fra le due pelvi e fra l’ inserzione dei 2 femori, non rimane altra cosa da supporre se non che le due colonne vertebrali dopo essersi ravvicinate nella regione toracica, si siano allonta- nate nella porzione lombo-sacrale, in guisa, che ogni colonna possedesse tutte le ossa della propria pelvi, ed ogni pelvi i rispettivi arti. Il primo esempio nella specie umana fu accennato dal Dott. Scavone nel 1822 (3). Esso raccontava che una sposa di 26 anni, già madre due volte, mise in luce un fanciullo con due teste, due braccia e quattro gambe, il quale morì dopo un’ ora. Questo fanciullo aveva ancora un’ altra particolarità di grande importanza; secondo l’autore era maschio da un lato, femmina dall’altro, laonde anche per tale riguardo fu gran danno che non fosse sezionato. Un altro caso fu riferito dal Dott. Bonini (4), il quale descrive un feto a ter- mine avente due teste, due colli, un torace molto ampio e fornito di sole due brac- cia. Esso tornava a dividersi sotto l ombellico ed i due addomi si allontanavano in guisa da potersi distinguere il sesso femminino nel lato anteriore-inferiore di ciascheduna pelvi. Ogni pelvi poi aveva due arti ben conformati. Questo caso non sfuggì ad Isidoro G. Saint-Hilaire (5), anzi egli s'avvide che poteva diventare il tipo d’ un nuovo genere, ma si trattenne dal farlo, mancando la dissezione del mostro. Tale prudenza nel caso nostro può dirsi eccessiva, poichè era evidente il divaricamento posteriore delle colonne vertebrali. (1) Braune Wir. — Die Doppelbildungen. Leipzig 1862, S. 129, N. 2, Taf. 16, 17. (2) Panunx — Mem. cit. Bd. 72, S. 196, p. (3) Scavone F. — Feto settimestre bicorporeo, nato in S. Filippo d’ Agira (Prov. di Catania) nel 1822. Giornale di Sc. Lett. ed Arti per la Sicilia. Tom. iV, p. 240, con fig. (4) BoxixIi ANGELO, chirurgo in Cremona — Annali univ. di Medicina. Milano 1834, Tom. LXXI, pag. 257. (5) I. G. Sarnt-HrcAtRE — Des anomalies. Tom. III, p. 76, Nota 2°. Ediz. di Bruxelles. — 672 — Finalmente Goubaux (1) ha veduto un fatto eguale al precedente, e non tro- vando fra i nomi usati alcuno che gli convenisse, propose di chiamarlo derodimo- toradelfo. Ma difficilmente il lettore con questo titolo può farsi un concetto della mostruosità; poichè I. G. Saint-Hilaire col vocalo derodimo comprendeva i feti con due gambe, e con quello di #oradel/fo quelli che hanno una sola testa, ed invece il mostro di Goubaux aveva due teste, due braccia e quattro gambe; era d’ uopo pertanto istituire una nuova specie, con un nome più conveniente. | L’ osservazione fatta sopra un agnello appartiene al Dottor Eudes Deslong- champs (2). L’ animale aveva due teste separate, due gambe anteriori situate come nei feti semplici, quattro posteriori e due code. Le due colonne vertebrali nella metà anteriore erano distanti 3 cent. e riunite mediante le coste, poscia facevano sul proprio asse un quarto di rivoluzione e s' allontanavano in guisa che le due pelvi essendo libere permettevano lo sviluppo indipendente dei quattro membri posteriori. Per tale circostanza l’ autore riconosce che il caso presente non può es- sere annoverato fra gli ectopaghi di I. G. Saimt-Hilaire. Teratogenesi. -— La duplicità anteriore e posteriore dei mostri doppi fu sempre rilevata dai teratologi nei toracopaghi e nei pigopaghi; ma nei dicefali e nei dipro- sopi con due braccia non fu avvertita che recentemente come abbiamo annunziato. E prima di questo tempo D’ Alton (3) considerava gli ultimi due generi come conseguenza della speciale posizione delle due note primitive, cioè dall'essersi queste sviluppate divergendo più o meno con le estremità cefaliche e convergendo con le caudali sì da descrivere la lettera V. Questa dottrina fu accolta generalmente ed è conservata tuttora dai trattatisti. Ma lo stesso d’ Alton nel 1853, avendo descritto la pecora a tre gambe supe- riormente ricordata, s° avvide che la medesima dottrina era insufficiente al caso e ricorse per spiegare l’origine di esso ad una osservazione di Thomson. Questo auto- re (4) aveva veduti in un uovo di gallina, incubato per 18 ore, due embrioni colla forma di due archi, che si accostavano colle convessità )(; e da tale fatto D'Alton desunse che tale diposizione nei solchi primitivi era stata probabilmente la cagione della forma speciale della sua pecora, potendone facilmente risultare che le due corde dorsali si saldassero nella porzione mediana (@ichordus in medio coniunctus) pur mantenendosi lontane colle estremità. La nuova figura data da Thomson che accresce il numero dei rapporti fra le due note primitive, non fu presa in considerazione dai teratologi; eccetto Panum, (1) Gousaux M. A. — Comptes rendus. Tom. LXIX, p. 102. Paris 1869. (2) Eupes DesLonecHAMPs — Gazette méd. de Paris 1851, p. 121. (3) D’ ALton E. — De monstrorum duplicium origine etc. Halis 1848. (4) ALLEN THomson — London and Edinburgh Monthly Journal. July 1844. La figura è ripro- dotta nella « Cyclopaedia of Anatomie by R. Todd ». Vol. IV, part. II, p. 975. Art. Teratology. — 673 — che nel 1878 la richiamò in vita per applicarla ai casi veduti; se non che, non potendo con quella dar la ragione di tutti, la trasmutò nelle quattro varietà se- guenti. Intorno a queste noi non abbiamo altra considerazione da fare se non che alla lor volta esse pure non provvedono a tutti i casi, poichè p. es. nel dicephalus diurus da noi descritto (vedi Tavola) le due spine convergono fino al sacro, poscia la quarta vertebra d’ un lato si disgiunge da quella dell’ altro e per ultimo le due code pro- cedono paralellamente separate, laonde la figura delle due note primitive va accre- sciuta di nuove varietà. TOMO II. S5 a È Ta ati nt had) e ot 4903 PRATO SERA n n n eì“ i iGG w ii iìù)ùll)]G]lllG@G5©hl”!Gaee=e=e Jo CTarul Tom I a Mem Ser 4 Lat (fhWenk C.Bettimi dis? Ss UILIAIE ANOMALIE DELLE VENE AZICOS ED BMIAZIGOS INOUDAS DEL PROFESSORE CESARE TARUFFI (Letta nella Sessione del 15 Dicembre 1881). Fra i preparati anatomici raccolti durante gli anni 1880 e 1881 (1) havvene uno che merita speciale ricordo per la sua rarità e per averci data occasione di rinvenire alcune osservazioni, prossime al caso nostro, fatte dagli anatomici dei secoli scorsi e lasciate in dimenticanza dai contemporanei. Il giorno 7 Dicembre 1880 uno studente sezionando il cadavere d’ una donna alta 1610 mill., dell’ apparente età di ottanta anni, rinvenne una estesa colite ulce- rativa con ascessi metastatici al fegato, un antico focolaio emorragico nella circon- voluzione frontale ascendente del lato sinistro ed una grossa vena piena di sangue che traversava obbliquamente da sinistra a destra sulle vertebre dorsali. Avvisato di questo insolito reperto facilmente riconobbi la natura dell’ anomalia, ma era troppo tardi per studiarla in tutti i suoi rapporti, laonde bisognò contentarsi di quanto era tuttora permesso d’ osservare. La vena emiazigos aveva la solita origine ed il solito corso, ma giunta in cor- rispondenza della nona vertebra dorsale cominciava ad obliquare verso destra e montando dietro 1’ aorta e l’ esofago giungeva sul bronco destro, e lo cavalcava per sboccare tosto nella vena cava discendente (destra) dal lato posteriore. Lungo tutto il tragitto cresceva di calibro sì da emulare, ove metteva foce, una subcla- via (v. Tavola). Poco dopo che l emiazigos principiava ad obliquare, riceveva al di dietro dell’ aorta una vena, grossa quanto una penna da scrivere, che dal lato destro del corpo delle vertebre dorsali andava al sinistro; questa non era che l’ azigos, la quale in luogo di continuare il suo corso ascendente si versava nel luogo anzidetto nell’ emiazigos. Non rinvenimmo poi alcuna vena che surrogasse il tratto mancante (1) L’elenco dei preparati è posto in appendice alla presente nota. — 676 — dell’ azigos e non potemmo riconoscere ove sboccassero le vene intercostali supe- riori tanto ‘del lato sinistro quanto del lato destro. Per stabilire la frequenza o la rarità di questa anomalia passeremo in rassegna le osservazioni fatte a tale proposito intorno alle due azigos; ommettendo per altro quelle risguardanti l emiazigos in rapporto con una seconda vena cava posta a sinistra, perchè siffatta importante circostanza non si verificava nel caso nostro. La prima osservazione relativa ad una anomalia della vena emiazigos venne fatta in Roma dal Prof. Panaroli (1); egli per altro si limitò a notificare nel 1652 che nella parte sinistra del torace vi era una seconda azigos eguale alla destra. Alquanto meno conciso fu poscia Blasio di Kopenaghen (2), che nel 1677 riferì un caso simile al precedente ed aggiunse che 1 emiazigos sboccava a sinistra della cava discendente, dandone una rozza figura, in cui le due vene procedevano pa- ralelle lungo tutto il loro corso, lo che è inverisimile. La duplicità dell’ azigos fu certamente veduta da altri, da noi ignorati, poichè Lancisi avvertiva con una sua lettera diretta a Morgagni nel 1717 (3), che quando il volgo degli anatomici annunziava un fatto di tal genere non si doveva intendere che l emiazigos sbocchi nella vena cava ogni volta, ma più spesso nella subcla- via, come egli stesso aveva veduto più di dieci volte nel cadavere di donne col torace lungo. Ma qui nasce il dubbio se l anatomico romano col nome di subclavia com- prendesse anche la vena brachio-cefalica, perchè Guattani (4) confermando con una nuova osservazione quanto aveva detto il suo predecessore diede una figura, in cui l’'emiazigos si versava nella vena innominata sinistra, che esso chiama sub- clavia, ed altrettanto fece il Mascagni in una sua tavola (5); dove che per una parte niun altro vide l’ emiazigos versarsi nella vera subclavia e per l altra due volte essa vena fu osservata dal Cerutti (6) scaricarsi nella brachio-cefalica sinistra ed una terza volta da Wistar (7) in caso di mancanza della cava ascendente. (1) PanaroLIi DomeNIco — Jatrologismorum seu medicinalium observationum pentecostae quinque. Romae 1652. Pentec. III, Obs. 19, pag. 151. (2) BLasio GERARDO — Observationes medicae rariores — Amstelodami 1677, Pars III, Obs. 3, p. 53, Tab. 7, fig. 2. (3) Lancisi G. Maria — V. Morgagni adversaria anatomica quinta — Venetiis 1762, p. 173. — De vena sine pari. (4) GuattANI CARLO — Mém. de l’ Acad. R. des Sciences Paris. 1760. Mém. p. 512. La Tavola porta il n. XVIII, in luogo del n. XVII, ed è quindi fuori di posto. (5) Mascagni PaoLo — Vasorum lymphaticorum historia — Senis 1787, p. 105. Nella Tav. XIX, al n. 1 si vedono le due vene brachio-cefaliche tagliate, dall’ autore chiamate venae subelaviae resectae; ed al n. 20 si vede l’emiazigos prolungarsi in alto fino a livello dell’azigos; ambedue sono tagliate alla sommità. Ora l’autore dice rispetto all’ emiazigos: Tronco venoso che raccoglie rami intercostali superiori del lato sinistro, il quale frequentemente si trova e che confluisce nella subelavia del medesimo lato. (6) Cerutti F. P. L. — Beschreibung der pathol. Prip. zu Leipzig 1819, s. 164. Questo autore chiama la vena brachio-cefalica jugulare comune. (7) Wisrar — Syst. of Anatom. 1811-1814. Vol. II, p. 401. — 677 — Nello stesso dubbio si cade leggendo una osservazione fatta nel declinare del secolo scorso da Wrisberg (1) e confermata da Meckel (2). Ma questo illustre anatomico in un altro luogo della medesima opera (3) toglie qualunque incertezza insegnando che la vena innominata porta ordinariamente il nome di subclavia, laonde queste due osservazioni e tutte le precedenti si debbono considerare come esempi dell’ emiazigos che giunge a scaricarsi nella brachio-cefalica sinistra. Del come poi questo fatto sia tanto frequente lo stesso Meckel (4) tentò dare la spiegazione, riconoscendo che già preesistono le condizioni favorevoli al medesimo e basta soltanto che la vena intercostale superiore sinistra s' ingrossi e si faccia continua coll emiazigos affinchè risulti 1 anomalia in discorso. Una spiegazione più adeguata fu poscia fornita dall’ embriologia, avendo questa insegnato l emiazigos rappresentare una parte della vena cardinale simistra e (allorchè questa rimane totalmente pervia ed in continuazione col dotto di Cuvier del medesimo lato) allora lemiazigos prolungarsi e scaricarsi nella brachio-cefalica sinistra. L’ osservazione di Wrisberg, confermata da Meckel, offre poi una speciale im- portanza, notando una particolarità, prima non avvertita, e cioè che l’azigos, dopo aver salito come al solito sul lato destro del torace, in circa sulla quarta vertebra dorsale emigrava nel lato sinistro e metteva foce nell’ emiazigos, la quale come abbiamo indicato, andava alla brachio-cefalica sinistra. E poco dopo Valentin (5) vide un fatto anche più straordinario : il maggior numero delle vene intercostali del lato destro scorrere trasversalmente sulla colonna vertebrale e andare diretta- mente a rinforzare l emiazigos, essendo l azigos brevissima. Tornando alle anomalie di sbocco dell’ emiazigos dobbiamo ricordare che Wilde (6) nel secolo scorso trovò questa vena che entro il torace montava da sinistra a destra e metteva foce nell’azigos, vicino al punto ove si scarica nella cava discendente. Rammenteremo inoltre un fatto anche più importante descritto da Sandifort (7), il quale vide l emiazigos seguire il cammino suddetto e scari- carsi nella cava discendente, in tal guisa rimanendo confermata 1 osservazione già ricordata da Blasio. Questo fatto per altro deve considerarsi rarissimo, non essendo più stato da alcuno veduto, se si eccettua Dorsch (8) che lo rinvenne in (1) Wrissera Eng — De vena azyga duplici Obs. III. —- Novi commentari Soc. R. Scientiarum Gottingensis 1777 p. 28. Nelia tavola annessa si vedono le vene brachio-cefaliche L. M. indicate come subclavie. (2) MecgeL J. F. — Handbuch der menschlichen Anatomie Tom. III Halle 1817 — Trad. ital. Tom. III, p. 281, nota 2. Milano 1826. (3) IpeM — Ibidem. p. 275. (4) ipeum — Handbuch der pathologischen Anatomie. Bd. II, Abtheilung 2°, s. 127. ( ) 6) Sanprrort Ep. — Observat. anatom. pathol. Lugduni Batavorum 1781 Libr. IV, cap. 8°, p. 97. 7) Wilpe — Commentar. Petropolitan. Vol. XII, p. 318, 1740. S) Dorsca — Bayer Aerzt]. Intelligenzblatt 1858. N.20 — V. Krause, Handbuch der Anatomie von Henle Bd. III, s. 405 —- Braunschweig 1876. USI — 678 — un caso di mancanza della cava ascendente. L’ emiazigos si originava mediante la confluenza delle vene anonime iliache, saliva a sinistra dell’ aorta addominale, nel suo corso riceveva tutti 1 rami della cava inferiore e le intercostali, e sboccava nel lato sinistro della vena cava superiore. Le vene epatiche scolavano nell’atrio destro. L’ autore dopo aver fornita una descrizione insufficiente, conclude che l’ emiazigos aveva assunti i caratteri dell’ azigos. Ricorderemo per ultimo che Theile (1) notò l’ emiazigos pressochè mancante, in guisa che i rami venosi del lato sinistro, od almeno i mediani, andavano distinti a destra nell azigos e già prima Breschet (2) aveva veduto che tutte le vene intercostali sinistre sboccavano nella vena azigos. Passando ora in rassegna le anomalie dell’ azigos, ometteremo di ripetere che essa può sboccare nell’ emiazigos ; noteremo invece come Soemmering (3) ammet- tesse la possibilità che sboccasse nella vena cava inferiore, ma niuno finora ha mai verificato questo fatto. Assai meglio dimostrata è 1’ immissione dell’ azigos nell’ atrio destro del cuore: anomalia già annunziata da Cheselden (4) e riveduta da Breschet (5) in una giovinetta di 12 anni. È d’ uopo per altro togliere come ulteriore prova 1’ osservazione di Le Cat (6), risguardante un giovane cignale in cui l andamento dell’ azigos si mostrava ordinariamente assai diverso da quello nell'uomo, come vedremo più avanti. Invece che più breve, l’azigos può essere più lunga del solito; e già Wri- sberg (7) e Meckel (8) la videro sboccare nella vena brachio-cefalica destra. Otto (9) osservò forse anch'egli la stessa cosa quando annunziò che l’azigos met- teva nella subelavia, poichè perdurò lungo tempo l’ uso di comprendere in essa la brachio-cefalica. Questa anomalia è stata considerata da Krause (10) come la conse- guenza della lunghezza insolita del dotto corrispondente del Cuvier, e i diversi gradi di brevità dell’azigos furono interpretati l effetto della mancanza del me- desimo dotto. La vena azigos ha offerto ancora alcuni cambiamenti di rapporto, non nel luogo ove mette foce, ma lungo il suo corso. Wrisberg (11) trovò che la medesima aveva formato un solco nel lobo destro superiore del polmone in un fanciullo di due anni, e Bouchaud (12) in altro bambino della stessa età rinvenne l’azigos che ) TaeILE F. G. — Encyclopédie anatomique Tom. III, p. 632. Trad. franc. Paris 1843. ) BrescHer — Recherches anatom. sur le système veineux. Paris 1829. ) SoEMMERING — Angaben, Gesasslehre 1792, s. 406, 409. — V. Theile. Op. cit. p. 632. ) CarseLnpven Wir. — Philosophical transactions. Vol. XXVIII. p, 282 London 1713. ) BrescHet — Recherches anat. sur le système veineux. Paris 1829. ) LE Car DE Roien — Histoire de l’ Acad. des Sc. Paris 1738, Histoire p. 44. ) Wrispera — Mem. cit. Obs. I, p. 136. ) MeckeL J. F. — Handbuch der Anatomie Tom. IH. Trad. italiana, p. 281. (9) Orto — Patholog. Anat. 1830, s. 348. (10) Krause — Ved. Henle. Handbuch der Anatomie Bd. III s. 407. (11) WrIspera — Mem. cit. p. 22. (12) BoucHaun — Bulletins de la Soc. anat. Paris 1862, p. 160. COIN SS SETENTÀZS 00 I > CT5> DID — 679 — scorreva in una piega della pleura, a guisa d’un mesenterio, e s approfondava nel lobo polmonare corrispondente; la piega poi aveva una direzione sagittale sulla parte costale. In ambidue i casì l’azigos si scaricava nella cava discendente. Il cambiamento di rapporto più straordinario, a cui s’ associava la mancanza dell’ emiazigos, è stato veduto da Wagner (1). Questi trovò nel cadavere d’ una donna l’ azigos, più grossa del solito e situata sulla linea mediana della colonna vertebrale : essa riceveva da ambidue i lati le lombari superiori e le dieci inter- costali inferiori e sboccava nella cava discendente. Il medesimo fatto fu pur veduto da Cruveilhier (2), ma con una variante; eravi parimenti l azigos sulla linea mediana, per altro si biforcava inferiormente in due branche eguali, ed ognuna di queste riceveva le tre ultime vene intercostali, dove che tutte le altre andavano direttamente al tronco della grande azigos. Avendo compiuta l enumerazione delle principali anomalie, di cui abbiamo trovato ricordo, possiamo ora confrontare con queste il nostro caso per stabilire l importanza del medesimo. Ed il primo risultato di questo contronto è che l’immissione dell’ emiazigos nella cava discendente era già stata notata, ma solo due volte: da Blasio e da Sandifort; pertanto fino a prova contraria, considereremo la nostra osservazione come la terza. Un altro risultato del confronto è che lo sbocco dell’ azigos lungo il corso del- l’ emiazigos, quantunque esso pure sia stato prima osservato, non è certo frequente, non essendo stato veduto che da Wrisberg e da Meckel. Ma niun caso abbiamo rinvenuto in cui si presentassero ad un tempo le due anomalie, sicchè per questo riguardo la nostra osservazione può dirsi nuova, e dimostra maggiormente come il processo di riduzione delle due vene cardinali nelle due azigos sia grandemente variabile. Ci rimane per ultimo di ricercare se uno stato eguale a quello da noi rinve- nuto costituisca lo stato fisiologico di qualche Mammifero, ed affinchè ognuno possa ripetere questa ricerca anche per le altre anomalie riferiremo le notizie date da Owen (3) sulla condizione delle vene cardinali nei Rettili e nei Mammiferi, e preferiamo questo trattatista essendo meno conciso degli altri. Egli premette il risultato generale delle sue ricerche stabilendo che il sangue venoso proveniente dagli spazi intercostali od intervetebrali del lato sinistro nella serie ascendente dei mammiferi, si trasporta sempre in maggior copia dalla vena cardinale sinistra alla destra mediante l aumento progressivo dei vasi anastomotici fra le due vene; per cui accade negli animali superiori l’obliterazione del condotto sinistro di Cuvier e nell'uomo la differenza di lunghezza e di simmetria fra le due vene suddette in guisa che la destra fu chiamata azigos, e la sinistra emiazigos. ta] (1) WacxeR R. Heusinger's Zeitschrift fiùr die organische Physik. Tom. II, p. 341; 1833. (2) CruvenLBIER J. — Traité d’ Anatomie Edit. 3°, Tom. II[, p. 108, Paris 1852. (3) Owen RicHaRD — On the Anatomie of the Vertebrates. Vol. III, p. 551, London 1868: — 680 — I fatti che Owen adduce in prova della sua tesì sono i seguenti. Nei Sauri le vene cardinali persistono per un lungo tratto e s' uniscono alle brachio-jugulari per scaricarsi nei condotti di Cuvier. Nei Monotremi ognuno dei due condotti di Cuvier riceve la vena azigos del rispettivo lato; ed ambidue sono riuniti dal canale tra- sversale caratteristico dei Mammiferi, che diventa negli uomini la vena innominata. Anche nei Marsupiali le due vene azigos conservano la loro primitiva separazione e simmetria: difatto l’ azigos destra passa sul bronco destro per congiungersi col condotto corrispondente di Cuvier, e altrettanto fa l’azigos sinistra nel rispettivo lato. Nel Porcospino ed in altri Lissencefali (1), la vena azigos sinistra comunica col condotto venoso sinistro ed è più larga dell’ azigos destra. Una opposta pro- porzione prevale nei Leporidi ed in alcuni altri roditori, come negli Scoiattoli, in cui l azigos sinistra è piccola o mancante. Nei Cetacei la vena cardinale sinistra ed il corrispondente condotto venoso sono ridotti ad un largo seno coronario. Il riconoscimento poi dell’ azigos destra rimane assai difficile per l estensione del plesso venoso nel dorso della cavità toraco-addominale. Negli Ungulati l’ azigos sinistra coesiste con il dotto di Cuvier, superstite solo dal lato destro. In quanto al maiale, non trovando sufficiente chiarezza nè armonia fra gli scrittori, abbiamo noi stessi esaminato un individuo giovane ed abbiamo rinvenuto che l azigos destra sale fino alla quinta vertebra dorsale e tosto passa trasversalmente sotto 1’ aorta. Giunta a sinistra, monta obliquamente sull’ aorta e va a sboccare insieme colle due vene polmonari destre nel seno cardiaco destro (2). Nella Corinna Antilope (Dorcas) Hunter osservò due vene azigos, di cui la sinistra era più larga dell’ altra. Nel Bue Owen dice che si trova l azigos destra, ma non indica lo stato dell’ azigos sinistra. Nel Cavallo la destra è assai grossa ricevendo il sangue da ciaschedun spazio intercostale sinistro. i Nel Dromedario e nel Tapiro la vena obliqua dal lato posteriore dell’orecchietta sinistra è larga e rappresenta gli avanzi dell azigos sinistra. Nel Rinoceronte il condotto destro di Cuvier riceve l azigos destra, o meglio comune, ricevendo le vene intercostali d’ ambidue i lati ; essa aderisce alla parte superiore dell’orecchietta destra e sbocca due pollici più in alto nel condotto suddetto, avendo un mezzo pollice di diametro. La vena azigos sinistra che è formata dall’ unione di poche vene intercostali del medesimo lato termina nella vena subclavia sinistra, la quale riceve separatamente la vena vertebrale sinistra del collo. (1) Col nome di LisseNcEFALI Owen indica quei mammiferi che hanno gli emisferi cerebrali lisci e congiunti mediante il corpo calloso (Op. cit. Vol. II, p. 270). (2) Rispetto ai Ruminanti Gurlt (Handbuch der vergleichenden Anatomie Berlin. Bd. I, 1822, 1843, 1860, p. 318) ha insegnato che in essi l’ azigos destra manca ed è solo compensata in parte dall’ emiazigos, accogliendo questa le vene intercostali sinistre dalla quarta in poi e le destre dalla sesta in avanti. Essa parimenti scorre sopra l’ aorta, monta sull’ orecchietta sinistra e termina nell’ atrio destro insieme colla vena coronaria. Le prime cinque vene intercostali destre formano un proprio tronco che si versa nella vena cava anteriore, ed in questo tronco nel maiale vanno ancora le tre prime intercostali sinistre. a = =) ES a Mem Ser. 4 Lat.G.Wenk C Bettini dis” — 681 — Nei Carnivori, nei Quadrumani e nei Bimani il sangue della testa e dei membri pettorali e degli spazi intercostali va per un solo condotto venoso nell’orecchietta. Le vene intercostali sinistre »s° uniscono per formare 1’ emiazigos, la quale s' unisce colla destra od azigos principale. A queste notizie date da Owen sullo stato normale delle vene cardinali nei Mammiferi dobbiamo aggiungere la osservazione fatta da Le Cat (i) risguardante una anomalia. Esso nel sezionare un giovane cignale trovò che la vena azigos era biforcata verso la base del cuore, inviava un ramo nell’orecchietta sinistra e l’altro nell’ orecchietta destra. Se per ultimo poniamo a riscontro le anomalie osservate nell'uomo colla diversa disposizione che le vene in discorso presentavano nei mammiferi non può negarsi che fra i due stati vi siano molte analogie, e ciò è assai facile a rilevare quando per es. le due vene cardinali si mantengano intere durante la vita umana e sboccano nelle brachio-cefaliche; ma quando, come nel caso nostro, la emiazigos va a sca- ricarsi nella cava discendente destra, allora l analogia diventa assai remota, poichè nel maiale la vena azigos. va bensì da sinistra a destra, ma si versa nell’orecchietta destra. Ogni somiglianza poi scompare ricordando che nella nostra osservazione l’ azigos metteva foce nell’ emiazigos. SPIEGAZIONE DELLA FIGURA a d — Aorta discendente. a s — Azigos sinistra. a d — Azigos destra. è d — Vena cava discendente. (1) LE Car de Rouen — Histoire de l’ Acad. des Sc. de Paris pour 1738, p. 45. TOMO II. 86 O Preparati raccolti negli anni 1880 e 1881 Num. del catalogo (Serie II.) __r———————————_—_Èni 1 2 “1à3/I1® Ipertrofia congenita del secondo dito del piede destro. Idem rappresentato in cera. Ipertrofia congenita del primo, secondo e terzo dito del piede sinistro. Idem. Tre preparati in gesso. 1° piede destro normale. 2° piede sinistro con ipertrofia delle tre dita. 3° piede sini- stro dopo l’ operazione. Calcolo di colesterina del condotto ci- stico. Atrofia dei reni, per nefrite interstiziale delle piramidi. Necrosi primitiva della cartilagine ti- roide. Periostite iperplastica dell’omero sinistro con punti ossificati. Fegato poli-lobato da profondi solchi. . Adenoma cistico della mammella. . . . . Ascesso incapsulato in una tonsilla . . . Adenoma del muso di tinca Cranio semi-microcefalico Microcardia Di n ronoro dl DL ‘a)feMie/grelNie Meno VE e sieo te. eve Cela ielgie nie OTONOMOnNO toro tO tO Wormiano di forma allungata nella fon- tanella anteriore. Foro circolare dell’ occipite, nel lato de- stro della porzione squamosa. Clinocefali per ernia occipitale Taenia solium. Taenia mediocanellata. Mioma calcificato dell’ovaia sinistra, pre- sentante un volume superiore a una testa d’ adulto. Disarticolato dal Dott. Giuseppe Ruggi in una bambina di 12 anni. Disarticolato dal Dott. Giuseppe Ruggi in una bambina di 2 anni. Appartenente ad una bambina di 4 anni, che non dette alcun segno di lesione funzionale dei reni. In una donna di 63 anni. In una donna di 73 anni. In una donna di 32 anni. In un giovane di 19 anni, morto per tu- bercolosi acuta. Operato dal Dott. E. F. Fabbri in una donna vergine di anni 30 amenorroica. Di una ragazza di anni 19, alta m. 1,360. Appartenente alla stessa persona. In una donna di 30 anni, fornita di suf= ficiente intelligenza, Cranio d’ adulto dolicocefalo. Causato da craniotabe. Bambino di 6 anni. Due teschi ci neonati. —————aj;É;.1 _rnTrTrrP- Num. del catalogo (Serie II.) 22 23 24 25 26 27 34 do 36 37 38 39 40 41 42 43 44 — 683 — Fegato con solchi profondi nel lobo de- stro in direzioni diverse. Idem rappresentato in cera. Placenta e chorion doppi simulanti una placenta ed un chorion unico. Placenta unica per due gemelli con cho- rion unico. Cistite in una donna con ulcera perforante alla sommità della vescica. Fegato di un dromedario. Sarcoma parvi-cellulare del centro ovale destro del Vieussens. Acefalo abrachio. Estrofia vescicale con ano ombellicale. . INGOIO CICORIA Idem rappresentato in gesso. Osteoma voluminoso della diploe nel fron- tale destro (a secco con un modello in gesso). Sternopago. MTeratoma i delisA CIO ERRE e DITO. TORO I TSI NONO Ovo anserino doppio eschiogproencetalicori. 0 eee Amehilostomtduodenalit Me ne Atrofia muscolare per infiltrazione gras- sosa interstiziale della gamba sinistra. Anchilosi fibrosa dell’ articolazione del ginocchio sinistro. Iperplasia sclerotica della vaginale del testicolo destro. Iperplasia della vaginale del testicolo obliterante la cavità. Carcinoma cistico dell’ ovaia ....... Cistifellea con calcolo nello sbocco del condotto cistico. In una donna di 82 anni. Caso illustrato dal Dott. Mazzotti. — Ri vista Clinica di Bologna 1881. Fasc. X, p. 999. In un demente di anni 54. In un feto di sesso femminino. lilustrato dal Dott. Monti. — Mem. del- l’Acc. delle Sc. di Bologna. Serie IV, Tomo I. 1880, p. 713. In una donna che visse fino ai 70 anni con integrità delle facoltà mentali. Illustrato dal Prof. Tarufti. — Mem. del- l’Accad. delle Scienze di Bologna. Se- rie IV, Tomo II, 1881. p. 47. Illustrato dal Prof. Calori. — Memorie dell’ Accad. delle Scienze di Bologna. Serie-I, Tom VI, 1855, p. 171. Illustrato dal Prof. Calori. — Memorie dell’ Accad. delle Scienze di Bologna. Serie IV, Tomo II, 1881, p. 27. Appartenenti ad un operaio del Gottardo, morto per anemia. Rinvenuta in un cadavere che serviva agli esercizi d’ Anatomia umana. In una donna di 34 anni. In un uomo di 64 anni. Operata dal Dott. Medini in un uomo di 65 anni. In una donna di 39 anni. Num, del catalogo (Serie II.) 45 46 47 48 49 50 ol 52 dd od DÒ — 684 — Rene ldestroRCONTASCESSIUP Cancroldel“collo dell'utero RA Paracefalo.‘acardiaco= ne ee Glio-sarcoma cistico del lobo sinistro del cervelletto. Macrocefalla CO Fleboliti dei legamenti larghi. . ..... Placenta sifilitica. Sarcoma endoteliale della dura madre. Essudato fibrinoso bronchiale in forma di zaffi arborescenti. Cancro alveolare incipiente del muso di tinca. Idem rappresentato in cera. vw In un uomo di 82 anni, senza alcun’altra lesione primitiva. Operato dal Dott. Peruzzi. — Raccogl. medico di Forlì 1881, N. 5, 6, p. 129. Illustrato dal Prof. Taruffi. Vedi la sua Storia della Teratologia. Vol. II. Bo- logna 1882, p. 154. Appartenenti ad un bambino di amni 11. In una donna di 75 anni. Sputato da un giovane tormentato da tosse violenta. Esportato colla galvanocaustica dal Prof. E. F. Fabbri ad una donna di 30 anni che soffriva di metrorragie. F. Selmi — icerche intorno alcuni prodotti che si riscontrano nelle urine di un cane avvelenato coll’arsenico . Pag. L. Calori — Di un Proencefalo umano singolare per alcune parti sopran- numerarie sembianti a Dermocimache; con Tavola ; Idem. — Intorno al Canale Sopracondiloideo dell’'Omero dell’uomo; con Ta- vola. ARMA o C. Taruffi — Dei A, Sua ‘ali; con Tavola SR e dA E. Villari — Ricerche sulle scariche interne dei Condensatori Elettrici; con tre Tavole ROTTO 5 F. Verardini — Guarigione stabile e perfetta di un vasto Ascesso del Polmone fattosi esterno, collo svuotamento susseguito dal drenaggio e dal- l interna causticazione . SCONO: s C. Razzaboni — Sopra alcuni casi d' Efusso di Liquidi per vasi comu- micanti . DIR ASI STO IRR INOIRRO I, ciGNVRBIIT 00_ BRLCSMORE OR 1 RE O, > F. P. Ruffini — Dell’uso delle coordinate obliquangole nella determinazione dell’ Ellissoide d’ Inerzia. È G. Capellini — Il Macigno di i e le i 1) “ Globigeri ine dele INDICE ? Apennino bolognese; con tre Tavole Idem. — Calcari a Bivalvi di Monte Cavallo, dun € n Pet Jet P. nino bolognese aa] et Saporetti — £aicerche sull’umidità relativa dell'Aria i CA +» Loreta — Di un nuovo istrumento per prendere estrarre e triturare i calcoli della vescica orinaria, con due tavole Idem — Intorno allo stiramento dei nervi PARTO : Gian B. Ercolani — Dell adattamento della specie I nuove ricerche sulla Storia Genetica dei Trematodi, con tre tavole 101 125 135 157 175 195 201 213 235 239 — 686 — L. Calori — Sulla coesistenza di una eccessiva divisione del Fegato, e di qualche dito sopranumerario nelle mani o nei piedi, con tavola . . . G. Brugnoli — Dell Adiastolia in un avvelenamento da nitro-Benzina . C. Belluzzi — Pericoli dell’applicazione dell_’Uncino Ostetrico all'inguine del {cioline/NpartoNperaleMnavchetco nigi RE CI L. Bombicci — Nuovi Studi sulla Poligenesi neî Minerali. . .. . Gian P. Piana — Di una nuova specie di Tenia del Gallo domestico (Tenia Botrioplitis), e di un nuovo Cisticerco delle Lumachelle terrestri (GysticerncuslBotrto phi) AconMa Vo CISM O RR P. Lucchetti — Un Anfibolo senza magnesia (Berg n SIOE idem — Il Gruppo naturale in Mineralogia, ed il Dimorfismo in accordo cola WleggcvdelaMitscherbelta ci le ORI O A G. Capellini — Avanzi di Squalodonte nella Mollassa Marnosa Miocenica del Bolognese, CONEtUVO (AN AMI IRON RI a G. Peli — Sulle misure del Corpo nei DIO ricerche antropometriche, CON DICCU VADEME N Cono LMR AIA IV I C. Taruffi — Cenni storici nella Antropometria . .. . 0.0... A. Cavazzi — Nuovo metodo per separare l’Iodio dal Cloro e dal Bromo, ed osservazioni sul processo di Vortmann per separare il Bromo dal Cloro . Beltrami — Sulla teoria delle Funzioni Potenziali Simmetriche . . Boschi — Alcune Proprietà delle forme geometriche fondumentali col- lineari di seconda e terza specie aventi elementi uniti . . . . . L. Vella — Nuovo metodo per avere il Succo Enterico puro, e stabilirne le PROPENSIONE MCO URI E. F. Fabbri — Estrpazione di un Mioma intrauterino per mezzo del- LAnsaWtgolvanoca stico OOO ARaiehi Ve onore A NN CRE Idem — Spostamenti e deformazioni delle scintille nell'aria per azioni elettrostatiche Se AA ISAIA CSI SIRIO Idem — Di alcune curiose conformazioni della scintilla nell'aria . . . G. V. Ciaccio — Sopra il distribuimento e terminazione delle fibre nervee nella Cornea, e sopra l'interna construttura del loro cilindro dell asse; CON:12 POUOMO: n NA MIEI ITS RI EN O N L. Calori — Di una inversione splancnica generale nell'uomo accompa- gnata da alcuni notabili del capo con esso lei convenienti e da estranee ANOMANE "CONI BOVO BAI RICO ORARIO, I Pag. 335 b)) 403 413 597 — 687 — L. Calori — Sull’alta divisione del nervo grande Ischiatico considerata come differenza nazionale, e sulle varietà del muscolo piriforme ; con AVO PR A Pao 623 F. Verardini — Ulteriori studi Clinico-sperimentali sull'azione deprimente vasale dell’ Ipecacuana somministrata ad alta dose nelle pneumonite franche , 635 G. Taruffi — Intorno ad un nuovo gruppo di mostri appartenente al genere Wiccphalus®Dibrachusl(Eoerstern):rcon Tavola, iI. (665 Idem — Sulle anomalie delle vene azigos ed emiazigos; con Tavola. . . , 675 dio LIE 23 £ Weta 1a) : 9 pa SFP CS ecc e N (ci 7 ati sa - CC CL 7 Cà aio dC C < CC E IRE G ea LE. CEE CEE E CCL <