i È ‘NT GM K de@ i° (T Td « “ n CA To I | €. Ce. >- ft TC ha Ra TC ua € « iu ad MA SC a @ A GRA TC € MO (O EMI. CT QI st: BE LOT € ue Ce ar =" v 7 E aa € ‘PT ai © x ‘€ € di (6 a <& > Cl i è i 4 Tao Rf LI ? ‘ix € i È u ct (Li i SARA LA T.€ € a dk ( Gu i € i 6 (Ci Pa &@ e dC 44 (ac € Ma (€ TC GMUAX dll «USI Ca « n € ie «© LO <<‘ dim € » « Ua lac «Cl (€. ( TI Tu & pa SL ì ei €. > = ET ‘4 TCOMare L < (6% aqC_gi. ( VOM , dei a Ca ! L det ci Cee ù Tao w n EMO son À È Ie sai MEMORIE DELLA fi ACCADEMIA DELLE SCIENZE DELL'ISTITUTO DI BOLOGNA SERIE QUARTA 7°, S U TOMO X. BOLOGNA TIPI GAMBERINI E PARMEGGIANI 1889 PA DA; ANNO ACCADEMICO 1888-89 MEMBRI DELLA R. ACCADEMIA DELLE SCIENZE VI = ACCADEMICI UFFICIALI PRESIDENTE Ruffini Ing. Dott. Ferdinando Paolo Cav. $.; Uffiz. &; Professore ordinario di Meccanica razionale e Membro del Consiglio Accademico della R. Università di Bologna; Incaricato di Statica grafica nella R. Scuola d’Applicazione per gli Ingegneri in Bologna; Professore emerito della R. Università di Modena; Membro del Collegio degli Esaminatori pei Licei e Ginnasii del Regno; Socio corrispon- dente del R. Istituto Veneto di scienze, lettere ed arti. VICE-PRESIDENTE Brugnoli Dott. Giovanni Cav. &; Comm. $; Comm. dell Ordine Serbo del Tokowo; Professore ordinario di Patologia speciale medica e Preside della Facoltà Medica nella R. Università di Bologna; Vice-Presidente del Consiglio Sanitario Provinciale di Bologna. SEGRETARIO Cocconi Dott. Girolamo Uffiz. £.; Comm. &; Membro del Consiglio Superiore di pubblica Istruzione; Professore ordinario d’ Igiene e Materia Medica, Incari- cato dell’ insegnamento della Ezoognosia, e Direttore della R. Scuola Superiore di Medicina Veterinaria di Bologna; Membro del Consiglio Accademico della R. Università di Bologna; Professore emerito della R. Università di Parma; Membro della Commissione per la Farmacopea ufficiale; già Membro del Con- siglio Superiore di Sanità del Regno. VICE-SEGRETARIO Saporetti Dott. Antonio Cav. i; Professore ordinario di Astronomia e Direttore dell’ Osservatorio Astronomico della R. Università di Bologna. AMMINISTRATORE GRAZIOSO Brugnoli Prof. Giovanni, predetto. ACCADEMICI PENSIONATI 0 BENEDETTINI —-- ——=>r8re== SEZIONE PRIMA Scienze Fisiche e Matematiche. Beltrami Dott. Eugenio Cav. &; Comm. i; Cav. &; già Membro del Con- siglio Superiore di pubblica Istruzione; Professore ordinario di Fisica matematica e di Meccanica Superiore nella R. Università di Pavia; Professore emerito delle R. Università di Bologna e di Pisa; Membro effettivo del KR. Istituto Lombardo; Socio corrispondente della R. Società di Napoli e della R. Accademia delle scienze di Torino; Socio nazionale della R. Accademia dei Lincei; Uno dei XL della Società Italiana delle scienze. : Donati Dott. Luigi Cav. &; Professore ordinario. di Fisica matematica nella R. Università di Bologna, e di Fisica tecnica nella R. Scuola d’Applicazione per gl Ingegneri. Razzaboni Ing. Dott. Cesare Comm. &; Grande Uffiz. &; Professore ordinario d’ Idraulica e Direttore della R. Scuola d’ Applicazione per gl Ingegneri in Bologna; Professore emerito della R. Università di Modena; Membro della Com- missione conservatrice de’ monumenti ed oggetti d’arte e di antichità in Modena; Membro della Giunta superiore del Catasto e Direttore dei lavori catastali per le Provincie di Modena e di Reggio Emilia; Socio corrispondente del R. Istituto Veneto di scienze, lettere ed arti; Socio nazionale della R. Accademia dei Lincei; ex Deputato al Parlamento. Riccardi Ing. Dott. Pietro Uffiz. &; Comm. &; Professore ordinario di Geo- metria pratica nella R. Scuola d’Applicazione per gl’ Ingegneri in Bologna (a riposo); Professore emerito nella R. Università di Modena; Membro della Depu- tazione di Storia patria per le. Provincie Modenesi. Righi Dott. Augusto Cav. &; Professore ordinario di Fisica nella R. Università di Padova; Socio corrispondente della R. Accademia delle scienze di Torino, e del R. Istituto Veneto di scienze, lettere ed arti. Ruffini Prof. Ferdinando Paolo Presidente, predetto. Saporetti Prof. Antonio Vice-Segretario, predetto. PIET IAT Villari Dott. Emilio Cav. #; Professore ordinario di Fisica nella R. Università di Bologna; Socio corrispondente della R. Accademia dei Lincei, della R. Società di Napoli, del KR. Istituto Lombardo di scienze e lettere, e della R. Accademia delle scienze di Torino; Uno dei XL della Società Italiana dello scienze. SEZIONE SECONDA Scienze Naturali. Bombicci Porta Dott. Luigi Cav. &; Comm. #; Professore ordinario di Mine- ralogia nella R. Università di Bologna; Incaricato di Mineralogia e Geologia applicate nella R. Scuola d’Applicazione per gl Ingegneri; Deputato Provinciale di Bologna; Socio corrispondente del R. Istituto Veneto di scienze, lettere ed arti. Capellini Dott. Giovanni Comm. «; Comm. i; Cav. &; Comm. con placca dell'Ordine dell'Aquila Rossa di Prussia; Grande Uffiz. dell'O. della Corona di Romania; Comm. di 1* classe dell'O. del Leone di Zaehringen (Baden); Gr. Uffiz. dell'O. di S. Marino; Comm. dell'O. di Danebrog di Danimarca; Comm. dell'O. del Salvatore di Grecia; Comm. dell’ O. della Stella Polare di Svezia; Comm. dell’ O. del merito scientifico di S. Giacomo della Spada di Portogallo; Cav. dell'O. della Concezione di Portogallo; Cav. dell'O. della Rosa del Brasile; Cav. della Legion d’ onore di Francia; Uffiziale dell'O. ottomano del Medijdié; Decorato delle Palme dell’ Istruzione pubblica di Francia; Medaglia d’oro dei Benemeriti di Romania; Dottore in Leggi, honoris caussa, della Università di Edinburgh; Professore ordinario di Geologia e Membro del Consiglio Accademico della R. Università di Bologna; Dottore aggregato della classe di scienze fisiche nella R. Università di Genova; Presidente del R. Comitato Geologico Italiano ; Socio corrispondente del R. Istituto Veneto di scienze, lettere ed arti, della R. Accademia delle scienze di Torino, e della R. Società di Napoli; Presidente della R. Accademia Valdarnese del Poggio in Montevarchi; Socio nazionale della R. Accademia dei Lincei; Uno dei XL della Società Italiana delle scienze. Cavazzi Dott. Alfredo Assistente al Laboratorio di Chimica inorganica ed Inca- ricato dell’ insegnamento di Chimica inorganica nella R. Università, e di Chimica Docimastica nella R. Scuola d’Applicazione per gli Ingegneri in Bologna. Ciaccio Dott. Giuseppe Vincenzo Cav. &; Comm. ; Preside della Facoltà di scienze Matematiche, Fisiche e Naturali, e Professore ordinario di Anatomia e Fisiologia comparata e d’ Istologia normale nella R. Università di Bologna. Cocconi Prof. Girolamo Segretario, predetto. pae Santagata Dott. Domenico Cav. #; Professore ordinario di Chimica inorga- nica nella R. Università di Bologna (a riposo). Trinchese Dott. Salvatore Cav. &; Comm. #; Membro del Consiglio Supe- riore e della Giunta di pubblica Istruzione; Professore ordinario di Anatomia comparata e Rettore della R. Università di Napoli; Dottore aggregato della classe di scienze fisiche nella R. Università di Genova; Socio ordinario residente della R. Società di Napoli; Socio nazionale della R. Accademia dei Lincei; Uno dei XL della Società Italiana delle scienze. SEZIONE TERZA Medicina e Chirurgia. Albertoni Dott. Pietro Cav. &; Professore ordinario di Fisiologia sperimentale nella R. Università di Bologna; Socio corrispondente nazionale della R. Aeca- demia dei Lincei. Brugnoli Prof. Giovanni Vice-Presidente e Amministratore grazioso, predetto. Calori Dott. Luigi Comm. &; Comm. #; Professore ordinario di Anatomia umana e Membro del Consiglio Accademico della R. Università di Bologna; Membro della Commissione pei testi di Lingua; Socio corrispondente del R. Isti- tuto Lombardo di scienze e lettere. Gotti Dott. Alfredo Cav. &; Professore ordinario di Chirurgia e di Clinica Medica e Chirurgica Veterinaria, e Incaricato dell’Ostetricia Veterinaria e della Podologia nella Scuola Superiore di Medicina Veterinaria della R. Università di Bologna; Membro del Consiglio Sanitario Provinciale di Bologna. Loreta Conte Dott. Pietro Comm. #j Professore ordinario di Medicina Operatoria e di Clinica Chirurgica nella R. Università di Bologna; Consigliere del Muni- cipio di Bologna; Socio corrispondente del R. Istituto Veneto di scienze, lettere ed arti; Deputato al Parlamento. Taruffi Dott. Cesare Cav. i; Professore ordinario di Anatomia Patologica nella R. Umversità di Bologna; Socio corrispondente del R. Istituto Lombardo di scienze e lettere. Tizzoni Dott. Guido Cav. &; Professore ordinario di Patolcgia generale nella R. Università di Bologna; Membro del Consiglio Sanitario Provinciale di Bologna. alia a. Verardini Dott. Ferdinando Cav. $; Medico primario dell'Ospedale Maggiore di Bologna; R. Conservatore del vaccino per le Provincie dell Emilia, delle Marche e dell'Umbria; già Membro del Consiglio Sanitario Provinciale di Bologna. ACCADEMICI ONORARI 0 NON PENSIONATI — FZIVISIAPRS SEZIONE PRIMA Scienze Fisiche e Matematiche. Colognesi Dott. Alfonso Professore titolare di Matematica nel R. Liceo Galvani di Bologna. Cremona Ing. Luigi Comm. é; Comm. #; Consigliere e Cav. &; Senatore del Regno; Vice-Presidente del Consiglio Superiore di pubblica Istruzione; Professore ordinario di Matematiche superiori e Incaricato della Geometria analittica nella R. Università di Roma; Direttore della R. Scuola d’Applicazione per gl’ Inge- gneri in Roma; Direttore della Scuola di Magistero in scienze e Membro del Consiglio Accademico della R. Università di Roma; Professore emerito della R. Università di Bologna; Membro effettivo del R. Istituto Lombardo; Socio ordinario non residente della R. Società di Napoli; Socio corrispondente nazionale della R. Accademia delle scienze di Torino; Socio nazionale della R. Accademia dei Lincei; Uno dei XL della Società Italiana delle scienze; Membro straniero della Società R. di Londra. D’ Arcais Ing. Francesco Professore ordinario di Calcolo infinitesimale e Libero insegnante di Analisi superiore nella R. Università di Padova. Fais Ing. Antonio Uffiz. #; Professore ordinario di Calcolo infinitesimale, Incaricato del Disegno d’ornato e di Architettura elementare, e Membro del Consiglio Accademico nella R. Università di Cagliari; Professore titolare di Ma- tematica nel KR. Liceo Dettori di Cagliari. Filopanti Ing. Quirico Professore onorario della R. Università di Bologna; Con- sigliere del Municipio di Bologna; Deputato al Parlamento. Gualandi Ing. Francesco. Pincherle Ing. Salvatore Professore ordinario di Algebra e Geometria analittica nella R. Università di Bologna. LS Sacchetti Ing. Gualtiero Cav. &; Deputato al Parlamento; Rappresentante il Consorzio Universitario nel Consiglio direttivo della R. Scuola d’Applicazione per gl’ Ingegneri in Bologna; Assessore Municipale e Presidente del Consiglio Pro- vinciale di Bologna. SEZIONE SECONDA Scienze Naturali. Bertoloni Prof. Antonio Cav. &. Biagi Dott. Don Clodoveo. Delpino Federicc Uffiz. &; Professore ordinario di Botanica, Direttore del- l'Orto Botanico e Direttore della Scuola di Magistero in scienze nella R. Uni- versità di Bologna; Socio corrispondente della R. Accademia delle scienze di Torino. Giacomelli Prof. Enrico. Gibelli Dott. Giuseppe Cav. x; Professore ordinario di Botanica, Direttore dell’ Orto Botanico e Membro residente della R. Accademia delle scienze di Torino; Socio corrispondente del R. Istituto Lombardo; Socio corrispondente nazionale della R. Accademia dei Lincei. Morini Dott. Fausto Professore straordinario di Botanica nella R. Università di Sassari; Libero insegnante con effetti legali di Botanica nella R. Università di Bologna. SEZIONE TERZA Medicina e Chirurgia. Colucci Dott. Vincenzo Professore straordinario di Patologia generale e di Anatomia patologica nell’ Istituto Veterinario della R. Università di Parma; Libero insegnante con effetti legali delle stesse Materie nella R. Università di Bologna. D’Ajutolo Dott. Giovanni Assistente alla Cattedra di Anatomia patologica nella R. Università di Bologna. Fabbri Dott. Ercole Federico Professore ordinario di Ostetricia e di Clinica Ostetrica, Dottrine delle malattie delle donne e dei bambini, nella R. Università di Modena. SAI 0) Gamberini Dott. Pietro Cav. #; Uffiz. #&; Professore straordinario di Dermo- patologia e Clinica dermopatica, di Sifilopatologia e Clinica sifilopatica nella R. Università di Bologna. Gualandi Dott. Giovanni. Massarenti Dott. Carlo Cav. &; Professore straordinario di Ostetricia, di Cli- nica Ostetrica e Pediatria nella R. Università di Bologna. Murri Dott. Augusto Cav. &; Cav. &; Membro del Consiglio Superiore di pub- blica Istruzione; Professore ordinario di Clinica Medica e Rettore della R. Uni- versità di Bologna; Professore onorario della Libera Università di Camerino. Vitali Dott. Dioscoride Professore ordinario di Chimica Farmaceutica, Direttore della Scuola di Farmacia e Membro del Consiglio Accademico della R. Università di Bologna; Membro della Commissione per la Farmacopea ufticiale del Regno: Presidente dell’ Associazione generale de’ Farmacisti italiani. ACCADEMICI AGGREGATI —_—_ of ——__s SEZIONE PRIMA Scienze Fisiche e Matematiche. Benetti Ing. Jacopo Uffiz. £; Comm. #; Professore ordinario di Macchine agri- cole, idrauliche e termiche, e Incaricato dell’insegnamento sul Materiale mobile delle strade ferrate nella R. Scuola d’Applicazione per gl’ Ingegneri in Bologna. SEZIONE TERZA Medicina e Chirurgia. Mazzotti Dott. Luigi Medico primario dell’ Ospedale Maggiore di Bologna. DO TOMO X, BASE, TCS ACCADEMICI CORRISPONDENTI NAZIONALI SEZIONE PRIMA Scienze Fisiche e Matematiche. Battaglini Ins. Giuseppe Uffiz. #4; Comm. #; Cav. &; Professore ordinario di Calcolo differenziale ed integrale nella R. Università di Napoli; Socio nazio- nale della R. Accademia dei Lincei; Socio corrispondente della R. Accademia delle scienze di Torino; Presidente della Classe di scienze fisiche e matematiche della R. Società di Napoli; Uno dei XL della Società Italiana delle scienze. Betti Ing. Enrico Comm. «; Grande Uffiz. &; Cav. &; Comm. della Stella polare di Svezia; Senatore del Regno; Membro del Consiglio Superiore di pub- blica Istruzione; Professore ordinario di Fisica matematica; Imearicato di Astro- nomia e Meccanica celeste, e Membro del Consiglio Accademico nella R. Università di Pisa; Direttore degli studî nella R. Scuola normale Superiore di Pisa; Socio corrispondente della R. Società di Napoli; Membro della R. Accademia delle scienze di Torino; Socio corrispondente del R. Istituto Lombardo e del R. Istituto Veneto di scienze, lettere ed arti; Socio nazionale della R. Accademia dei Lincei; Uno dei XL della Società Italiana delle scienze. Blaserna Dott. Pietro Uffiz. $; Comm. $; Cav. è; Membro del Consiglio Superiore e della Giunta di pubblica Istruzione; Professore ordinario di Fisica sperimentale e Preside della Facoltà di scienze Fisiche, Matematiche e Naturali nella R. Università di Roma; Vice-Presidente della Società geografica italiana; Socio corrispondente del R. Istituto Veneto di scienze, lettere ed arti, e della R. Accademia delle scienze di Torino; Segretario della R. Accademia dei Lincei per la classe di scienze Fisiche, Matematiche e Naturali; Uno dei XL della So- cietà Italiana delle scienze. Boncompagni S. E. Don Baldassarre dei Principi di Piombino; Socio corri- spondente del R. Istituto Veneto di scienze, lettere ed arti, e della R. Accademia delle scienze di Torino; Socio residente dell’Accademia Pontificia de’ Nuovi Lincei. Brioschi Ing. Francesco Grande Uffiz. &; Gr. Uffiz. &; Cav. &; Comm. del- l'Ordine del Cristo di Portogallo; Senatore del Regno; Membro del Consiglio Superiore e della Giunta di pubblica Istruzione; Professore ordinario d’ Idraulica e Direttore del R. Istituto tecnico Superiore di Milano; Professore emerito della tiri SE R. Università di Pavia; Membro effettivo del R. Istituto Lombardo; Socio ordi- nario non residente della R. Società di Napoli; Membro della R. Accademia delle scienze di Torino; Presidente della R. Accademia dei Lincei; Uno dei XL della Società Italiana delle scienze; Membro corrispondente dell’ Istituto di Francia. Casorati Dott. Felice Uffiz. £&; Comm. $&; Cav. &: Professore ordinario di Calcolo differenziale ed integrale e di Analisi superiore nella R. Università di Pavia; Socio corrispondente delle RR. Accademie delle scienze di Torino e di Palermo; Membro effettivo del R. Istituto Lombardo; Socio nazionale della R. Accademia dei Lincei; Uno dei XL della Società Italiana delle scienze. Denza Padre Francesco Comm. $; Direttore dell’ Osservatorio Meteorologico del R. Collegio Carlo Alberto in Moncalieri; Socio corrispondente del R. Istituto Veneto di scienze, lettere ed arti. De Rossi Prof. Michele Stefano Comm. dell'Ordine di S. Gregorio Magno. Felici Dott. Riccardo Cav. $.; Comm. &; Cav. &; Professore ordinario di Fisica sperimentale e Membro del Consiglio Accademico della R. Università di Pisa: Membro del Consiglio direttivo della R. Scuola normale superiore di Pisa; Socio corrispondente del R. Istituto Veneto di scienze, lettere ed arti, e della R. Ac- cademia delle scienze di Torino; Socio nazionale della R. Accademia dei Lincei; Uno dei XL della Società Italiana delle scienze. Negri Barone Cristoforo Grande Uffiz. &; Gr. Uffiz. &; Inviato straordinario e Ministro plenipotenziario a riposo; 1° Presidente fondatore della Società geo- grafica italiana; Consultore legale del Ministero per gli affari esteri; Socio corri- spondente del R. Istituto Veneto di scienze, lettere ed arti, e della R. Accademia delle scienze di Torino. Palmieri Dott. Luigi Grande Uffiz. &; Gr. Uffiz. &; Cav. &; Senatore del Regno; Professore ordinarig di Fisica terrestre e meteorologica, e Direttore dell’ Osservatorio meteorologico Vesuviano nella R. Università di Napoli; Vice- Presidente dell’Accademia Pontoniana di Napoli; Socio residente della R. Società di Napoli; Segretario dell’ Istituto d’incoraggiamento alle Scienze naturali di Napoli; Socio corrispondente del R. Istituto Veneto di scienze, lettere ed arti, e della R. Accademia dei Lincei; Uno dei XL della Società Italiana delle scienze. Respighi Dott. Lorenzo Cav. &; Comm. &; Professore ordinario di Astronomia nella R. Università di Roma, e Direttore dell’Osservatorio Astronomico del Cam- pidoglio ; Professore onorario della R. Università di Bologna; Socio corrispondente MRS |17 ZA del R. Istituto Veneto di scienze, lettere ed arti; Socio nazionale della R. Acca- demia dei Lincei; Uno dei XL della Società Italiana delle scienze, e Ammini- stratore della Società. Schiaparelli Ing. Prof. Giovanni Comm. &4; Grande Uffiz. &; Cav. &; Comm. dell'Ordine di S. Stanislao di Russia; Senatore del Regno; già Membro del Consi- glio Superiore di pubblica Istruzione; 1° Astronomo e Direttore dell’ Osservatorio Astronomico di Brera; Membro effettivo del R. Istituto Lombardo; Socio corri- spondente dell’ I. Accademia di Vienna; Socio corrispondente della R. Società di Napoli; Membro della R. Accademia delle scienze di Torino; Socio nazionale della R. Accademia dei Lincei; Uno dei XL della Società Italiana delle scienze. $Siacci Ing. Francesco Cav. #.; Comm. ; Luogotenente Colonello nell’Arma di Artiglieria; Professore ordinario di Meccanica superiore nella R. Università di Torino, e Professore di matematiche applicate alla Scuola d’Applicazione delle armi di Artiglieria e Genio; Rappresentante il Ministero della guerra nel Con- siglio di Amministrazione della R. Scuola d’Applicazione per gl’ Ingegneri di Torino; Membro della R. Accadeniia delle scienze di Torino; Socio corrispon- dente del R. Istituto Lombardo, e della R. Accademia dei Lincei; Uno dei XL della Società Italiana delle scienze; Deputato al Parlamento Nazionale. Tacchini Ing. Prof. Pietro Comm. gi; Direttore dell’ Ufficio centrale di Meteo- rologia e dell’ Osservatorio del Collegio Romano; Consigliere della Società geo- grafica italiana; Socio corrispondente della R. Accademia dei Lincei, della R. Accademia delle scienze di Torino, e del R. Istituto Veneto di scienze, lettere ed arti. SEZIONE SECONDA Scienze Naturali. Bellardi Luigi Uffiz. $; Uffiz. &; Cav. dell Ordine del Cristo di Portogallo; già Professore titolare di Storia Naturale nel R. Liceo Gioberti; già Conservatore delle collezioni paleontologiche nel Museo di Geologia, ed Assistente al Museo di Mineralogia nella R. Università di Torino; Socio ordinario della R. Accademia delle scienze di Torino. Cannizzaro Stanislao Comm. &; Comm. $&; Cav. &; Vice-Presidente del Senato del Regno; Membro del Consiglio Superiore di pubblica Istruzione; Pro- fessore di Chimica generale, Direttore dell’ Istituto Chimico e Membro del Con- siglio Accademico nella R. Università di Roma; Incaricato della Chimica docima- stica nella R. Scuola d’Applicazione per gl Ingegneri in Roma; Socio ordinario non residente della R. Accademia delle scienze di Torino e deila R. Società di Napoli; Socio corrispondente del KR. Istituto Veneto di scienze, lettere ed arti, e del R. Istituto Lombardo di scienze e lettere; Socio nazionale della R. Acca- demia dei Lincei; Uno dei XL della Società Italiana delle scienze. Cossa Nob. Dott. Alfonso Comm. #; Comm. $; Comm. dell'Ordine d’ Isabella la Cattolica di Spagna; Professore ordinario di Chimica docimastica, e Direttore della R. Scuola d’Applicazione per gl’ Ingegneri in Torino; Incaricato della Chi- mica applicata ai prodotti minerali nel R. Museo Industriale Italiano; Membro del R. Comitato Geologico Italiano; Socio corrispondente del R. Istituto Lombardo e del R. Istituto Veneto di scienze, lettere ed arti; Socio ordinario non residente dell’ Istituto d’incoraggiamento alle scienze naturali di Napoli; Presidente della R. Accademia di Agricoltura di Torino; Membro della R. Accademia delle scienze di Torino; Socio nazionale della R. Accademia dei Lincei; Uno dei XL della Società Italiana delle scienze. Costa Achille Comm. &; Uffiz. &; Professore ordinario di. Zoologia nella R. Università di Napoli; Socio ordinario residente della R. Società di Napoli; Segre- tario della Società Italiana delle scienze detta dei XL. De Zigno Barone Achille Comm. &; Comm. #; Cav. dell'Ordine della Corona ferrea d'Austria; Cav. dell'Ordine della Concezione di Portogallo; Uffiziale del- l'Accademia di Francia; decorato della Croce di S. Lodovico pel Merito civile; Membro del R. Comitato geologico Italiano; Socio ordinario non residente della R. Società di Napoli; Socio corrispondente della R. Accademia delle scienze di Torino; Membro del R. Istituto Veneto di scienze, lettere ed arti; Corrispondente nazionale della R. Accademia dei Lincei; Uno dei XL della Società Italiana delle scienze. Omboni Giovanni Cav. #; Professore ordinario di Geologia, Direttore della Scuola di Farmacia e Membro del Consiglio Accademico della R. Università di Padova; Incaricato della Mineralogia e Geologia applicata ai materiali di costru- zione nella R. Scuola d’Applicazione per gl’ Ingegneri in Padova; Membro del R. Istituto Veneto di scienze, lettere ed arti; Socio corrispondente della R. So- cietà di Napoli. Passerini Dott. Giovanni Cav. $; Comm. &; Membro del Consiglio Superiore di pubblica Istruzione; Professore ordinario di Botanica, Direttore della Scuola di Farmacia, Incaricato della Direzione del R. Istituto Veterinario, e Membro del Consiglio Accademico della R. Università di Parma; Membro della Com- missione Reale consultiva per combattere la Filossera; Socio nazionale della R. Accademia dei Lincei. csi Pavesi Dott. Pietro Cav. &; Uffiz. &; Comm. dell’ Ordine austriaco di Fran- cesco Giuseppe; Professore ordinario di Zoologia nella R. Università di Pavia; Membro effettivo del R. Istituto Lombardo; Membro della Società geografica italiana. Scacchi Arcangelo Comm. &; Grande Uffiz. &; Cav. &; Senatore del Regno; Professore ordinario di Mineralogia, Direttore della Scuola di Farmacia, Direttore della Scuola di magistero in Scienze, e Membro del Consiglio Accademico della R. Università di Napoli; Membro del Consiglio d’amministrazione della R. Scuola d’Applicazione per gl’ Ingegneri in Napoli; Membro del R. Comitato geologico Italiano; Socio corrispondente della R. Accademia delle scienze di Torino, del R. Istituto Lombardo e del R. Istituto Veneto di scienze, lettere ed arti; Socio nazionale della R. Accademia dei Lincei; Presidente del R. Istituto d’ incorag- giamento alle scienze naturali di Napoli; Segretario della R. Accademia delle scienze fisiche e matematiche di Napoli; Presidente della Società Italiana delle scienze detta dei XL. Stoppani Abate Antonio Cav. &; Uffiz. &; Cav. &; Direttore del Museo Civico di Storia naturale di. Milano; Professore ordinario di Geologia e di Geografia fisica, e Membro del Consiglio Direttivo del R. Istituto Tecnico Superiore di Milano; Accademico corrispondente della Crusca; Membro del R. Comitato geo- logico Italiano; Membro effettivo del R. Istituto Lombardo; Socio corrispondente della R. Società di Napoli e della R. Accademia delle scienze di Torino; Socio nazionale della R. Accademia dei Lincei; Uno dei XL della Società Italiana delle scienze. Striiver Dott. Giovanni Comm. $#; già Membro del Consiglio Superiore di pubblica Istruzione; Professore ordinario di Mineralogia nella R. Università di Roma; Socio nazionale della R. Accademia dei Lincei; Socio corrispondente delia R. Accademia delle scienze di Torino. SEZIONE TERZA Medicina e Chirurgia. Baccelli Dott. Guido Gran Cordone #$; Gran Cordone #; Cav. &; Cav. del- l'Ordine di S. Gregorio Magno; Comm. dell'O. scient. di Federico di Prussia; Professore Ordinario di Clinica Medica nella R. Università di Roma; Presidente del Consiglio Superiore di Sanità del Regno; Vice-Presidente della Camera dei Deputati; ex Ministro della Pubblica Istruzione; Membro onorario straniero del- l'Accademia R. di Medicina del Belgio. uf Bottini Dott. Enrico Comm. $#; Professore ordinario di Clinica Chirurgica e Medicina operatoria (in aspettativa); Deputato al Parlamento Nazionale. Corradi Dott. Alfonso Comm. #4; Comm. #; già Membro del Consiglio Supe- riore di pubblica Istruzione; Professore ordinario di Terapeutica generale, Materia Medica e Farmacologia sperimentale nella R. Università di Pavia; Membro del Consiglio Superiore di Sanità e della Commissione per la Farmacopea ufficiale del Regno; Presidente del R. Istituto Lombardo di scienze e lettere; Presidente della R. Società italiana d’ Agienes: Membro onorario straniero dell’Accademia R. di Medicina del Belgio. Giacomini Dott. Carlo Cav. £&; Cav. #&; Professore ordinario di Anatomia umana descrittiva, topografica e di Istologia nella R. Università di Torino; Membro della R. Accademia di Medicina di Torino. Moleschott Dott. Jacopo Comm. &; Grande Uffiz. #; Comm. dell'Ordine di Casa Mecklemburg; Cav. del Leone Neerlandese; Senatore del Regno; già Membro del Consiglio Superiore di pubblica Istruzione; Professore ordinario di Fisiologia nella R. Università di Roma; Professore onorario della Facoltà Medico-Chirurgica di Torino; Presidente della Commissione per la compilazione della Farmacopea ufficiale del Regno; Membro della R. Accademia delle scienze di Torino; Socio corrispondente del R. Istituto Lombardo e del R. Istituto Veneto di scienze, lettere ed arti; Membro del Consiglio Superiore di Sanità del Regno. Nicolucci Dott. Giustiniano Uffiz. &; Professore ordinario di Antropologia nella R. Università di Napoli; Ispettore onorario degli scavi e monumenti di antichità della Provincia di Caserta; Socio residente della R. Società di Napoli; Socio corrispondente del R. Istituto Veneto di scienze, lettere ed arti; Uno dei XL della Società Italiana delle scienze. Paladino Dott. Giovanni Cav. &; Preside della Facoltà di scienze naturali, e Professore ordinario di Fisiologia e Istologia generale nella R. Università di Na- poli; Professore ordinario di Zoologia, Anatomia generale e speciale e di Fisio- logia sperimentale nella R. Scuola Superiore di Medicina Veterinaria di Napoli. Palasciano Dott. Ferdinando Comm. #; Senatore del Regno; Professore ono- rario della R. Università di Napoli; Membro onorario straniero dell’Accademia reale di Medicina del Belgio. Rivolta Sebastiano Cav. &; Professore ordinario di Patologia generale ed Ana- tomia patologica Veterinaria nella R. Scuola Superiore di Medicina Veterinaria della Università di Pisa. s-Bfigipia. Sangalli Dott. Giacomo Cav. é&; Comm. &; Professore ordinario di Anatomia Patologica e Preside della Facoltà di Medicina e Chirurgia della R. Università di Pavia; Membro effettivo del R. Istituto Lombardo di scienze e lettere. ACCADEMICI CORRISPONDENTI ESTERI area SEZIONE PRIMA Scienze Fisiche e Matematiche. Airy Sir Giorgio Biddell Cav. dell'Ordine di Prussia powr le mérite; Membro della Società R. di Londra; Socio straniero della R. Accademia dei Lincei, e della Società Italiana dei XL - Greenwich (Londra). Boltzmann Dott. Lodovico Prof. di Fisica nell’ Università di Graz; Membro dell’I. Accademia delle scienze di Vienna. Darboux Prof. Gastone Membro dell’ Istituto di Francia - Parigi. Fizeau Prof. Armando Ippolito Membro straniero della Società R. di Londra, e della R. Accademia dei Lincei - Parigi. Helmholtz (von) Ermanno Luigi Ferdinande Consigliere di Stato; Socio corrispondente dell’ Istituto di Francia; Membro onorario dell’ I. Accademia delle scienze di Vienna; Membro onorario straniero dell’ Accademia R. di Medicina del Belgio; Membro straniero della Società R. di Londra; Socio straniero della R. Accademia dei Lincei, della R. Accademia delle scienze di Torino, della R. Società di Napoli, e della Società Italiana dei XL; Professore di Fisica nell’ Uni- versità di Berlino. Hermite Prof. Carlo Gran Croce della Legion d’ Onore; Membro dell’ Istituto di Francia; Membro onorario dell’I. Accademia delle scienze di Vienna; Socio straniero della R. Accademia dei Lincei, della Società Italiana dei XL, della R. Società di Napoli, della R. Accademia delle scienze di Torino, e della Società R. di Londra - Parigi. Hirn Prof. Gustavo Adolfo - Colmar. sig Joule Dott. James Prescott Socio straniero della R. Accademia delle scienze di Torino, e Membro della Società R. di Londra - Sale near Manchester. Kronecker Prof. Leopoldo Socio straniero della R. Accademia dei Lincei; Membro straniero della Società R. di Londra - Berlino. Lipschitz Prof. Rodolfo - Bonn. Neumann Prof. Carlo - Leipzig. Neumann Francesco Ernesto Membro onorario dell’ I. Accademia delle scienze di Vienna; Membro straniero della Società R. di Londra, e della R. Ac- cademia dei Lincei; Professore nell’ Università di Kònigsderg. . Reye Prof. Teodoro Rettore dell’ Università di Strassburg. Soret Prof. Luigi Socio straniero della R. Accademia dei Lincei - Ginevra. Tchebitchef Prof. Pafnutij Socio straniero della R. Accademia dei Lincei; Membro straniero della Società R. di Londra - S. Pietroburgo. Thomson Sir Guglielmo Professore di Filosofia naturale nell’ Università di Glasgow; Comm. della Legion d'Onore di Francia; Cav. dell'O. di Prussia powr le mérite; Membro della Società R. di Londra; Membro onorario dell’ I. Acca- demia delle scienze di Vienna; Socio straniero dell’ Istituto di Francia, della R. Accademia dei Lincei, della R. Accademia delle scienze di Torino, e della Società Italiana dei XL. Weber Dott. Guglielmo Eduardo Consigliere privato; Professore di Fisica e Direttore dell’ Istituto Fisico di Gottinga; Membro onorario dell’ I. Accademia delle scienze di Vienna; Membro straniero della Società R. di Londra, e della R. Accademia delle scienze di Torino. Weierstrass Dott. Carlo Professore di Matematica nell’ Università di Berlino ; Membro straniero dell’ I. Accademia delle scienze di Vienna, della Società R. di Londra, e della R. Accademia delle scienze di Torino. Wiedemann Gustavo Membro straniero della Società R. di Londra, e della R. Accademia delle scienze di Torino; Professore nell’ Università di Lipsia. Yule Colonello Enrico Membro della Società Geografica italiana - Londra. TOMO X. 3 = 18 — SEZIONE SECONDA Scienze Naturali. Blanchard Prof. Carlo Emilio Membro dell’ Istituto di Francia - Parigi. Bunsen Dott. Roberto Guglielmo Consigliere aulico, Professore di Chimica e Direttore dell’ Istituto chimico nell’ Università di Heidelberg; Membro onorario dell I. Accademia delle scienze di Vienna; Membro straniero della Società R. di Londra, della R. Accademia dei Lincei, della R. Società di Napoli, della R. Accademia delle scienze di Torino, e della Società Italiana dei XL. Daubrée Gabriele Augusto Direttore della Scuola Nazionale delle Miniere; Membro dell’ Istituto di Francia; Membro straniero della Società R. di Londra, della R. Accademia dei Lincei e della R. Accademia delle scienze di Torino - Parigi. De Candolle Alfonso Membro straniero della Società R. di Londra, della R. Accademia delle scienze di Torino, e della R. Accademia dei Lincei; Professore di Botanica a Ginevra. Flower Prof. Guglielmo Enrico Membro della Società R. di Londra; Diret- tore del dipartimento di Storia naturale al British Museum - Londra. Gaudry Prof. Alberto - Parigi. Mebert Prof. Edmondo Membro dell’ Istituto di Francia - Purigi. Hofmann Dott. Guglielmo Augusto Uffiz. £; Comm. $#; Uffiz. della Legion d’ Onore, dell'Ordine austriaco di Francesco Giuseppe e della Rosa del Brasile; Dottore onorario dell’ Università di Bologna; Professore di Chimica nell’ Univer- sità di Berlino; Membro della R. Accademia delle scienze di Berlino; Corri- spondente straniero dell’I. Accademia delle scienze di Vienna, dell’Accad. I. di S. Pietroburgo, dell’ Istituto di Francia, della R. Accademia dei Lincei, e della R. Accademia delle scienze di Torino; Membro straniero della Società Reale di Londra. Hooker Sir Giuseppe Dalton Membro della Società R. di Londra; Socio stra- niero della R. Accademia dei Lincei, e della R. Accademia delle scienze di Torino; Direttore dei Royal Kew Gardens - Londra. O; Le Owen Sir Riccardo Cav. dell'Ordine di Prussia pour le mérite; Membro onorario dell’I. Accademia delle scienze di Vienna; Membro della Società R. di Londra; Socio straniero della R. Accademia dei Lincei, della Società Italiana dei XL, della R. Accademia delle scienze di Torino, e della R. Società di Napoli; Pro- fessore e Direttore delle Collezioni di Storia naturale al British Museum - Londra. Pauthier G. P. Guglielmo - Parigi. Philippi Rodolfo Armando Socio Corrispondente della R. Accademia delle scienze di Torino - Santiago del Chili. Quatrefages de Breau Prof. Giovanni Luigi Armando Membro del- l’Istituto di Francia: Membro straniero della Società R. di Londra - Parigi. Regel S. E. Dott. Edoardo Consigliere di Stato attuale; Direttore del Giardino Imperiale di Botanica a S. Pietroburgo. Renard Dott. Carlo Consigliere privato; Presidente dell’ I. Società dei natura- listi di Mosca. Schrauf Dott. Alberto Professore di Mineralogia nell’ Università di Vienna; Membro corrispondente nazionale dell’ I. Accademia delle scienze di Vienna. Sclater Filippo Lutley Socio corrispondente della R. Accademia delle scienze di Torino; Segretario della Società Zoologica di Londra. Steenstrup Prof. Gio. Japetus Smith Membro straniero della Società R. di Londra, e della R. Accademia dei Lincei - Copenaghen. Van Beneden Prof. Pietro Giuseppe Membro straniero della Società R. di Londra; Membro onorario Belga dell’Accademia Reale di Medicina del Belgio - Lovanio. SEZIONE TERZA Medicina e Chirurgia. Beale Dott. Lionello Smith Professore di Medicina pratica e già di Fisiologia e d’Anatomia Patologica nel King's College di Londra; Corrispondente straniero dell’Accademia R. di Medicina del Belgio; Membro della Società R. di Londra. Bergh Prof. Rodolfo Medico primario nell’Ospedale di Copenaghen. LP Billroth Dott. Teodoro Consigliere Aulico, Professore di Chirurgia e di Clinica chirurgica nell’ Università di Vienna; Membro dell’ I. Accademia delle scienze di Vienna; Membro onorario straniero dell’Accademia R. di Medicina del Belgio : Dottore della R. Università di Bologna. > Braun de Fernwald Cav. Prof. Carlo - Vienna. Charcot Prof. J. M. Membro dell’ Istituto di Francia; Membro onorario straniero dell’Accademia KR. di Medicina del Belgio - Parigi. Gruber Dott. Venceslao Professore emerito dell’Accademia Medica di S. Pietro- burgo, Consigliere privato; Membro onorario straniero dell’ Accademia R. di Medicina del Belgio - .S. Pietroburgo. @urlt Dott. E. F. Professore di Chirurgia all’ Università di BerZno. Holmes Prof. T. - Londra. Hyrtl Dott. Giuseppe Consigliere aulico e Professore emerito di Anatomia nel- l Università di Vienna; Membro dell’ I. Accademia delle scienze di Vienna - Perchtoldsdorf, Siidbahn (Austria). Janssens Dott. Eugenio Membro titolare dell’ Accademia R. di Medicina del Belgio; Ispettore Capo del servizio d’ Igiene della città di Bruxelles. XKoch Prof. Roberto Consigliere intimo Medico; Corrispondente straniero dell’ Ac- cademia R. di Medicina del Belgio, e della R. Accademia delle scienze di Torino - Berlino. Kéollicker Prof. Alberto Membro straniero della Società R. di Londra - Wireburg. Leyden Prof. E. - Berlino. Martin Dott. Edoardo - Berlino. Pasteur Prof. Luigi Membro dell’ Istituto di Francia e dell’Accademia Francese; Membro onorario straniero dell’Accademia R. di Medicina del Belgio; Membro straniero della Società R. di Londra; Corrispondente straniero dell’ I. Accademia delle scienze di Vienna - Parigi. Ranvier Prof. Luigi Corrispondente straniero dell’Accademia R. di Medicina del Belgio - Parigi. BE gta Retzius Prof. Gustavo - Stoccolma. Robin Prof. Carlo - Parigi. Schiff Prof. Maurizio Cav. #4; Membro onorario straniero dell’Accademia R. di Medicina del Belgio - Ginevra. Virchow Prof. Rodolfo Membro straniero della Società R. di Londra; Membro onorario straniero dell’Accademia R. di Medicina del Belgio - Berlino. ACCADEMICI DEFUNTI NELL'ANNO 1888-89 Rath (von) Prof. Gherardo di Bonn, Accademico corrispondente straniero, morto a Coblenz il 23 Aprile 1888. Sobrero Comm. Prof. Ascanio, Accademico corrispondente nazionale, morto il 26 Maggio 1888. Bellonci Prof. Dott. Giuseppe, Accademico onorario, morto il 1° Luglio 1888. Tommasi Comm. Prof. Salvatore, Accademico corrispondente nazionale, morto il 13 Luglio 1888. Clausius Prof. Rodolfo Giulio E. di Bonn, Accademico corrispondente stra- niero, morto a Bonn il 24 Agosto 1888. Palagi Cav. Dott. Alessandro, Accademico benedettino, morto il 19 Gen- naio 1889. Rossi Dott. Agostino, Accademico onorario, morto il 22 Gennaio 1889. Meneghini Comm. Prof. Giuseppe, Accademico corrispondente nazionale, morto il 29 Gennaio 1889. Chevreul Prof. Michele Eugenio, Accademico corrispondente estero, ‘morto a Parigi il 9 Aprile 1889. (nen ico; Sa | i ca i Ù dae Mar sd su da ui Ma cri fi nu na ì I "i %o usa A i MINI Mira sig gra e wo seg (» rad indios Lirio al i IREAI aes di j Mita ctr MITTITTO da ioh sg ai fi bdo pren + A Mie } fear DR STIA Liz} ca e abali prive ie edit - SUL PRIMO UOVO DI AEPYORNIS MAXIMUS ARRIVATO IN ITALIA MEMORIA del Prof. GIOVANNI CAPELILINI (Letta nella Sessione del 24 Marzo 1889). Primo uovo di Aepyornis arrivato in Italia nel 1388 Il dottore Eliseo Pélagaud di Lione venuto in Italia nell’ estate del 1879 per » fare meco alcune escursioni geologiche nei dintorni di Spezia e in Toscana, poco dopo si recava in Palestina e in Siria; e, trascorso quasi un anno dopo che ci eravamo congedati, rendendomi conto di quel suo interessante viaggio, mi annun- ziava la sua prossima partenza per l’ Isola Borbone, Maurizio e Madagascar, ag- giungendo che se qualche oggetto avessi desiderato che egli mi procurasse da quei lontani paesi, avrei potuto scrivergliene a Saint Denis all'Isola Borbone. È facile di immaginare che io non tardava a cogliere la bella opportunità per raccomandare al gentile amico di raccogliere rocce e fossili e sopratutto di procurarmi possibilmente qualche avanzo dell’ Aepyornis, di cui il museo di Bo- logna possedeva soltanto imperfetti modelli delle uova e delle poche ossa illustrate da Geoffroy Saint-Hilaire, Milne Edwards, Grandidier e Bianconi. La prima lettera che mi giunse da quella lontana regione porta la data del 1° dicembre 1880, e in essa l’ erudito naturalista, dopo avermi esposto per quali diffi- coltà di tempo e di stagione non avrebbe potuto recarsi a Madagascar prima del- l'aprile, mi assicura che avrebbe tenuto conto del mio desiderio di possedere qualche avanzo dell’ uccello gigantesco. RE Je tacherai de vous y recueillir des fossiles, surtout de l’ Aepyornss, » Mais on me dit ici que les débris de cet animal sont devenus extraordinaire- » ment rares et recherchés. Peut-étre sera-t-il bien difficile d’ en trouver. , LEON La lettera contiene interessanti notizie sulla costituzione geologica dell’ Isola Borbone e, supponendo che mi sarebbe giunta alla fine dell’ anno (giunse il 26 dicembre), mi porge auguri per l anno nuovo in cui dovevasi riunire in Bologna il II Congresso geologico internazionale. Pensai allora di invitare il dott. Pélagaud a recarsi a Bologna per prender parte al grande convegno internazionale dei geologi e lo pregai di contri- buire alla esposizione che avrebbe avuto luogo in quella circostanza, mandando una piccola raccolta di rocce di Borbone e delle isole Seychelles, insistendo an- cora per le ricerche di resti di Aepyornis. Nel giugno del 1881 riceveva da Lione una lettera con la quale mi informava che la piccola collezione di rocce era già pronta e mi sarebbe giunta in tem- po debito per il Congresso; riguardo poi ai fossili desiderati, ecco quanto con essa mi partecipava. «“ À Madagascar j" ai joué de malheur. J avais réussi è découvrir pour vous » un oeuf et un demi squelette è peu près d’ Aepyornis. Je l’expédiais è la Réu- » nion par un bateau è voiles et le brigand ne fait-il pas naufrage è Fort-Dau- » phin où il s' est perdu corps et bien!.... J' en ai été désespéré, parceque » ces fossiles sont très-rares et d’ un grand prix et qu’ on n’ est jamais certain » Si on pourra réussir à s' en procurer d’ autres. J° y ferai neanmoins tous mes » efforts. , Il Pélagaud ammogliatosi a Borbone si era recato allora in Europa per rego- lare suoi particolari interessi, ma doveva tornare presto in quell’isola per fissarvi la sua dimora, almeno per parecchi anni; le mie speranze per l uovo di Aepyorniîs non erano quindi fallite. Approfittando della circostanza del Congresso, cui il mio amico prese parte insieme colla sua gentilissima sposa, rinnovai la mia preghiera ed egli ratificò la sua promessa: “ Sitòt è Bourbon, je m' éfforcerai de vous en- » Voyer, comme je vous l’ ai promis, un oeuf d’ Aepyornis. , Il 6 febbraio 1882 imbarcato a bordo del Nata diretto a Borbone, mi seri- veva ancora da Napoli: “ Vous savez combien les oeufs d’ Aepyornis sont rares. On n’ en a jamais n trouvé que dans les alluvions d’ une certaine rivière de la còte ouest de Ma- » dagascar. Malgré cela, j ai recu par le dernier courier l’ assurance è peu près » Certaine que je pourrai vous en envoyer un dans quelques mois et, sachant » combien vous y tenez, je n’ épargnerai rien pour vous faire ce plaisir le plus » tòt possible, soyez-en bien persuadé. , Una mia lettera del 31 dicembre di quell’ anno sviata dall’ ufficio postale fu spedita a io de Janeiro e dal Brasile respinta a Parigi, di là fu mandata a Bor- — ppi bone ove giunse soltanto il 7 di aprile del 1883; così dopo un lungo silenzio ebbi ancora notizie delle ricerche per l’ uovo desiderato : » - - - . Je n° ai certes pas oublié ma promesse de vous envoyer un oeuf d’ Ae- » pyornis, mais c’ est extrèmement rare et difficile è trouver. J ai fait, il y a six mois un voyage à Mozambique, les Comores et Madagascar. J ai vainement battu le pays, je me suis adressé à tous les capitaines de navires qui vont sur la còte ouest de Madagascar où se trouvent ces oeufs, è tous le traîtants qui sont pour la plupart des eréoles d’ ici, j ai mis des annonces dans les jour- naux; tout cela en vain. J° espérais pourtant bien vous faire la surprise de vous en offrir un, en souvenir de nos bonnes journées de la Spezia et en té- moignage de l’ affection profonde que j’ éprouve pour votre beau pays; mais je suis obligé d’ attendre un hazard heureux qui m° en mette un sous la main, » Ce hazard va peut étre se présenter. Avant hier, un capitaine de navire qui arrive de la còte sud-ovest de Madagascar et qui navigue pour le compte d’ un armateur de mes amis, me dit qu’ il en a vu un entre les mains d’ un chef Malgache et qu’ il pourra peut étre se le procurer è son prochain voya- ge. Il craint seulement que ce chef n’ en demande un prix assez élevé, car il sait que les officiers anglais en cherchent partout et en offrent couramment cent » » 5 Lime Ao RR Te e one Io non poteva autorizzare il mio amico a fare concorrenza a coloro che aves- sero offerto due mila cinquecento lire, e forse più ‘ancora, per un uovo d'’ Ae- pyornis, ma pur fidando nella a me ben nota abilità sua sperai che col tempo e con la pazienza sarei riescito nel mio intento ; frattanto con lettera del gennaio 1884 il Pélagaud mi avvisava che era riescito a scoprire un superbo esemplare del famoso uovo, che però il vecchio prete che ne era il fortunato possessore non pareva disposto a privarsene per alcun prezzo. Trascorsi quasi quattro anni, la seguente lettera con la data del 21 ottobre 1887 mi recava ancora buone notizie per l’ uovo lungamente desiderato. « Saint André — ile Bourbon. “ Mon cher Ami “ Voilà bien longtemps que je n° ai regu de vos nouvelles et que je ne vous » &i pas donné des nòtres. Vous avez pu me croire mort. Ne vous imaginez pas, » cependant que je vous aie oublié; mais j avais honte de n’ avoir pu encore (1) Lettera Pélagaud da Saint Paul 21 aprile 1883 giunta a Bologna il 12 maggio. TOMO X. 4 RT, vous trouver l oeuf d’ Aepyornis que vous désivez et je m° étais dit que, je ne pouvais décemment vous écrire que lorsque j° en aurais enfin découvert un. » La guerre de Madagascar est d’ abord venue rompre toutes nos relations avec la grande île. Puis quand on a repris les comunications, le gisement s' est trouvé perdu. Vous savez que tous ces oeufs ont été trouvés dans un marais. On sondait patiemment le sable avec une lance et lorsqu' on rencontrait un corps dur il fallait plonger, creuser sous l eau la vase avec les mains et reti- rer l’ oeuf au grand danger d’ étre dévoré par les caimans qui désolent ces parages. Il y avait fort peu de Malgasches qui osaient essayer et, pendant la guerre, ils ont disparu. Après je n’ ai pu trouver personne qui voulùt recom- mencer. On a bien sondé le marais pendant des mois, mais on disait toujours qu’ on ne trouvait rien; je crois que ce’ était pour ne pas plonger par crainte des Caimans. » Il y en avait bien ici è Bourbon un on deux chez des particuliers; mais lun d’ eux s' étant vendu aux enchères après décès avait été payé 200 livres sterling je crois par un anglais de passage et les detenteurs de l’ autre avaient, en consequence, des pretentions inabordables. Enfin après de longues recherches, j ai reussi è mettre la main sur un de ces oeufs rarissimes. Je l ai acquis pour vous et mon intention était de vous l’ offrir en souvenir de nos bonnes relations. Il a è peu près 31 centimètres de hauteur et 69 de circonférence. C'est un échantillon intacte. » Seulement une difficulté s' élève. L' oeuf susdit est è Tuléar, sur la còte ouest de Madagascar et la douane Malgasche ne veut pas le laisser sortir sans payer un pot de vin colossal. On s° est monté la téte è ce sujet, on s° est ima- giné que cet oeuf avait une valeur absurde et ces sauvages demandent une somme riaicule. Je vais continuer è parlamenter avec eux, mais il foudra bien, peu ou beaucoup, passer sous leurs fourches caudines. . . ....... n Alla interessante lettera mi affrettai a rispondere, accennando come avrei po- tuto assai limitatamente contribuire per possedere quella rarità paleontologica; ri- cordava benissimo di aver visto a Londra nel 1863 un uovo di Aepyornis piut- tosto bello, pel quale il Tennant negoziante di oggetti di storia naturale ne chie- deva già allora cento sterline e non avendo più inteso parlare di altri esemplari interi arrivati in Europa, mi pareva di aver già ottenuto moltissimo essendo rie- scito a interessare in nuove ricerche un naturalista intelligente e dotato di tenace volontà. Il 3 febbraio dello scorso anno, mentre io mi trovava ingolfato in un pelago di miserie e doveva pensare a vincere grandi difficoltà per condurre a buon termine le grandi feste dell’ ottavo centenario dello Studio di Bologna, ebbi il piacere di ricevere la seguente lettera partita dall’ Isola Borbone con la data 12 gennaio 1888: » » dei “ Mon cher Ami “ Enfin je puis vous envoyer, pour vos étrennes, ce rarissima avis, cet Oeuf d’ Aepyornis que je cherche de tous cotés pour vous depuis sept ans, sans par- venir è mettre la main dessus. Il vient d’ arriver ici et repartira par le pa- quebot des Messageries Maritimes qui vous portera cette lettre. Vous l’ aurez donc peu de jours après elle. Je Ì° ai fait bien emballer dans du coton de Ma- dagascar et enfermer dans une caisse solide. J espère bien qu’ il ne lui arri- vera pas d’ accidents. Il vient des environs de Nos-Vey còte sud-ovest de la grande terre. Vous savez comme on les découvre. Des chercheurs sondent è coup de lance (sagaie) la vase des deltas de certaines rivières marécageuses jusqu’ è ce qu’ on rencontre un corps dur. Ordinairement, ce n° est qu’ un caillou. Il faut plonger néammoins creuser sous l’ eau et se rendre compte de ce que e’ est. Comme ces rivières sont infestées de caimans, le plus souvent le chercheur est mangé ; c’ est ce qui dégoute les autres et qui fait qu’ on n’ en peut plus trouver de tout. En outre naturellement le gisement s° épuise. Le votre est très probablement le dernier qu’ on trouvera on du moins l’ un des derniers. Aussi faites-vous en.bien honneur. Je ne voudvais pas avoir l air de trop vanter ce que je vous donne, mais il m' a fallu sept ans de recherches pour vous procurer un de ces fossiles. Je pense bien que quand... .... REI VOUS IL EIMPOLLEFEZ AVECIEVO US. He a o NO Trascorsi quasi due mesi, senza avere ulteriori notizie intorno alla famosa cassa che doveva essere partita da Saint-Denis fino dai primi giorni del gennaio, comin- ciava grandemente a dubitare che anche il Pélagaud avesse voluto procurarmi una emozione e un disinganno dippiù da aggiungere alla non piccola serie che doveva registrarne nel memorabile 1888. Se non che, mentre attendeva paziente- mente, il giorno 2 di marzo mi giungeva altra lettera del mio buon amico e in essa inclusa la bolletta di spedizione del sospirato fossile, a mezzo delle Messaggerie marittime. n La lettera rende conto della mancata spedizione del gennaio. “ Le Désert, 10 février 1888. « Mon cher Ami “J ai dù vous causer une bien grande déception par le dernier courrier. » Un ceyelone a passé près de nous, lors de son départ la mer était énorme, on ne répondait pas de l embarquement des colis et je n’ ai pas cru pouvoir y risquer l’ ceuf. Be 0: (E » Il part aujourd' hui et vous arrivera par Marseille peu après cette lettre. Je lai fait mettre sous double emballage dans du coton de Madagascar. Vous pi » trouverez ci joint les pièces relatives à cette expedition. . .......... i s Je pense que vous serez content de ce bel échantillon. Presentez nos hom- , mages à madame Capellini et croyez moi toujours. Votre tout affectionné PÉLAGAUD. |, Nella prima quindicina di marzo, pochi giorni dopo l’ arrivo della lettera, mi giunse la sospirata cassa col bellissimo uovo, il primo arrivato in Italia e per ora anche il solo; per la sua straordinaria conservazione, lo trovai assai superiore a quelli che ebbi più volte ad ammirare nelle collezioni dei musei di Storia natu- rale al Giardino delle piante di Parigi e nel museo britannico di Londra ora a Kensington. Ed ora, prima di descrivere il rarissimo fossile, per far conoscere quanto ho avuto da notare con particolare interesse, giudico opportuno di passare rapida- nente in rivista tutto quanto già è stato pubblicato intorno ai resti del colossale uccello di Madagascar. Inoltre poichè nella bibliografia sull’ Aepyornis occupano un posto notevole parecchie memorie lette a questa Accademia dal fu nostro ope- rosissimo collega prof. Giuseppe Bianconi, gioverà altresì accennare come le sue opiniopi sulla natura di quell’ uccello, diverse da quelle di tutti gli altri natura- isti e fondate principalmente sullo studio delle ossa, sieno state dimostrate erronee anche mediante accurati studî sulla struttura microscopica delle uova. Intorno alle uova e altri resti di Aepyornis finora conosciuti. Le più antiche notizie intorno ad uova gigantesche trovate a Madagascar furono raccolte da Giulio Verreaux il quale, durante il suo lungo soggiorno al Capo di Buona Speranza, ne ebbe un disegno di grandezza naturale dal signor Sganzin che si era trattenuto per qualche tempo nella grande isola. Sganzin rac- contò al signor Verreaux di aver veduto parecchie di tali uova, uno segato per metà, altro attraversato da un bastone secondo l’ asse maggiore per servire a schiacciare il riso; ma il disegno e le relative note del Verreaux essendo andate perdute pel naufragio della nave che trasportava le preziose raccolte che quel naturalista aveva per tanti anni accumulate nell’ Africa australe, per assai tempo non si pensò a fare altre ricerche in proposito. COMMA Nel 1834 Goudot avendo raccolto a Madagascar frammenti di gusci d’ uova, Paolo Gervais ne fece menzione nel Dizionario delle scienze naturali parlando dello struzzo e ritenne che gli esemplari interi dovessero essere grandi come le uova dell'ordinario struzzo; si potè quindi sospettare che a Madagascar esistessero o avessero esistito uccelli giganteschi. Nel 1848 Dumarèle negoziante francese raccontò al chirurgo Joliff che a Port-Léven all’ estremità N-0 dell’ isola di Madagascar aveva visto un uovo gigan- tesco col guscio grosso quanto un dollaro di Spagna e che conteneva 13 bottiglie ordinarie di liquido, ossia circa otto o nove litri; gli indigeni, che di quel guscio d’ uovo si servivano a guisa di vaso ricusarono, di venderlo (1). Erano trascorsi appena due anni quando il signor Abadie capitano di un bastimento mercantile, trovandosi sulla costa S-O di Madagascar vidde nelle mani di un Malgascio un uovo gigantesco forato a una delle estremità per servire a usi domestici. L’ interesse di Abadie per quel raro oggetto lo condusse a scoprirne un secondo esemplare intero nel letto di un torrente in seguito ad una frana; poco dopo se ne scoprì un terzo esemplare pure intero, e alcune ossa furono trovate con esso in una alluvione recente e riconosciute subfossili. Le tre uova e le ossa raccolte da Abadie furono spedite a Parivi, due sole però giunsero intatte e dell’ uovo arrivato in frammenti si vedono oggi gli avanzi restaurati nella collezione paleontologica del Museo di Storia naturale del Giardino delle Piante. Intorno a questi avanzi Isidoro Geoffroy Saint-Hilaire fece la sua prima comu- nicazione all’ Accademia delle Scienze nella seduta del 27 gennaio 1851, eccitando l interesse e la curiosità di tutti i naturalisti. Fin da principio Geoffroy Saint- Hilaire fece notare che, mentre uno degli esemplari presentava la forma decisa- mente ovoide, ossia con le estremità inegualmente rigonfie, 1’ altro invece era di forma elissoide (un elissoide di rivoluzione); notò la grossezza del guscio di mm. 3 e ne accennò i rapporti del volume con quelli delle uova degli struzionidi, della gallina e dell’ uccello mosca. Nel 1853 o 1854 altre uova ed altri avanzi scheletrici furono raccolti da Delamarre, dal capitano Armange e da Coquerel; ma anche questi essendo abba- stanza incompleti, non valsero per risolvere i dubbi che nel frattempo erano insorti intorno alle affinità zoologiche dell’ uccello che, dalle uova, si doveva giudicare gigantesco e al quale il Geoffroy Saint-Hilaire aveva imposto il nome di Aepyornis MAXIMUS. Geoffroy Saint-Hilaire fino dal 1851 aveva, senza esitazione, dichiarato che I Aepyornis doveva essere un brevipenne, ma il Duvernoy avendo mosso il dubbio che dalla forma compressa del tarso-metatarso si potesse avere indizio di un (1) SrRIcKLAND — Supplementary notices regarding the Dodo and its Kindred (Annals and Magazine of natural history. 2° Ser. 1849, T. IV, p. 3395. PSR I () MEET uccello nuotatore, il 30 ottobre del 1854 il Valenciennes, in seguito a studi comparativi sempre sulle stesse ossa, tarso-metatarso, presentava all’Accademia di Francia una nota nella quale arrivava alla conclusione che l’ Aepyornis fosse un palmipede di tipo intermedio tra l’ Alca e 1° Aptenodytes (1). Il 13 dicembre 1860 assisteva alla Sessione ordinaria della Accademia delle Scienze dell’ Istituto di Bologna, quando l’ erudito matematico dottor Domenico Piani che ne era Segretario perpetuo, leggendo sopra alcuni passi di Dante, di Marco Polo e di Guido Guinicelli, indotto a dubitare che il gigantesco Ruch descritto da Marco Polo nel capitolo sul Madagascar non fosse un uccello favoloso ma potesse avere rapporti o potesse anche identificarsi con l’ Aepyornis marimus, pre- gava i naturalisti di risolvere il suo dubbio (2). La preghiera del Piani veniva immediatamente accolta dal prof. Giuseppe Bianconi che si impegnava a rispondere in una prossima sessione. Nel Museo di zoologia della Università vi erano fin d’ allora i modelli delle uova e delle ossa di Aepyornis illustrate da Geoffroy Saint-Hilaire ed il prof. Bianconi nella Sessione dell’ Accademia dell’ 11 gennaio 1861, rispondendo al Piani con una prima interessante Memoria, dopo un esame accurato del racconto di Marco Polo, in seguito a confronti, critiche e commenti e dopo avere comparato il modello del tarso-metatarso dell’ Aepyornis con l’ osso analogo di alcuni rapaci diurni, segnatamente dell’ Aquila, del Condor e del Giapeto, congetturava che sì potesse riferire a un Rapace corridore analogo al Falco serpentarius di cui però non aveva esemplari da confrontare. Il Bianconi concludeva: “ è giustificato il sospetto che Marco Polo abbia » toccato la verità, anche là ove disse, che il Ruch è un gigantesco uccello y di rapina ,, e prometteva di fare nuovi studi e nuove osservazioni in pro- posito (3). E il bravo naturalista, tenne la parola che, per più anni e fino al 1878, con altre nove Memorie intrattenne l’ Accademia su quello stesso argomento, rispon- dendo alle obbiezioni che gli venivano fatte da Milne Edwards, da Grandidier e da altri; avvalorando le sue considerazioni con argomentazione così stringata da indurre non pochi nella persuasione che la ragione fosse dalla parte sua, che l’ Aepyornis e l uccello Ruch di Marco Polo fossero da ritenersi come identici, (1) GrorFrRoy SAalnt-Hrnatre Is. — Note sur des fragments d’oenfs d’ Epyornis adressés au Museum d’ histoire naturelle par MM. Belamarre, Armange et Charles Coquerel — Comptes rendus des Séances de l’ Academie des Sciences, T. XXXIX, p. 833 — Duvernoy p. 336 — Valenciennes p. 837 — 830 oct. Paris 1854. (2) Prani Dox. — Sopra alcuni passi di Dante, di Marco Polo e di Guido Guinicelli — Reso- conto dell’ Accademia delle Scienze dell’ Istituto di Bologna, Anno 1860, p. 24. (3) Branconi G. — Dello Epyornis maximus menzionato da Murco Polo e da Fra Mauro — Memorie dell’ Accademia delle Scienze dell’ Istituto di Bologna, Tomo XlI, pagina 61. Bolo- gna 1862. cd e che si trattasse di un immenso avvoltoio e che i suoi più intimi rapporti si aves- sero a riconoscere col Condor (1). Mentre il Bianconi si affaticava per sostenere che l’ Aepyornis era un avvoltoio e che, con molta probabilità, era il fuck, foce 0 Rue ricordato da Marco Polo, Alfredo Grandidier pubblicava nuove osservazioni sul giacimento delle uova di Aepyornis (2), e le ossa dello stesso uccello da esso raccolte a Amboulitsate in un suo primo viaggio a Madagascar nel 1868 studiate accuratamente in unione col valente ornittologo Alfonso Milne Edwards fornivano ai naturalisti francesi argo- menti importantissimi per combattere il nostro zoologo che aveva avuto a sua disposizione soltanto modelli di gesso e disegni comunicatigli dallo stesso Milne Edwards. Non starò qui a ricordare partitamente tutti gli argomenti messi in campo dal Grandidier e dal Milne Edwards per confutare la opinione del Bianconi, mediante una più minuta ispezione delle ossa dell’ Aepyornis e una più esatta interpreta- zione dei caratteri che essì presentano ; non si può a meno però di ricordare che essi ebbero a notare nel metatarso dell’ Aepyornis la mancanza della fossetta destinata al pollice d’ onde conclusero che esso aveva tre sole dita anteriori, e quindi mancando del pollice in nessun modo si poteva pensare a riferirlo ai Rapaci, pei quali questo dito è essenziale e caratteristico. Dopo tutto, i due naturalisti conclusero che l’ Aepyornis in realtà spettava a una forma ornitologica distinta dai Dinornis, dall’ Apterye e dagli altri stru- zionidi, forse da costituire una famiglia a parte, essendo già stati ricono- sciuti avanzi riferibili a tre specie distinte, Aepyornis maximus, Aepyornis medius, (1) Branconi G. — Degli Scritti di Marco Polo e dell’ uccello Ruc da lui menzionato — Me- morie dell’ Accademia delle Scienze dell’ Istituto di Bologna, Vol. IT, Serie 22. Bologna 1862. — Studî sul tarso-metatarso degli uccelli ed in particolare su quello dell’ Epyornis maximus — Mem. cit. Vol. IIl, Ser. 2°. Bologna 1808. — Degli Scritti di Marco Polo e dell’ uccello Ruc da lui menzionato. Memoria seconda — Mem. cit. T. VII, Ser. 2°. Bologna 1868. — Delle affinità ornitologiche dell’ Aepyornis — Memoria cit. Tomo IX, Serie 2%, pagina 521. Bologna 1870. — Ulteriori osservazioni intorno al femore di Aepyornis — Mem. cit. T. II, Ser. 3°, p. 167. Bologna 1872. — Ulteriori osservazioni sulla tibia e sul tarso-metatarso dell’ Aepyornis — Mem. cit. T. II, Ser. 3°, p. 173. Bologna 1872. — Osservazioni addizionali intorno alla brevità del femore dell’Aepyornis — Mem. cit. T. IV, Ser. 3°, p. 415. Bologna 1874. — Intorno a due vertebre di Aepyornis — Memoria citata Tomo IV, Serie 3°, pagina 427. Bologna 1874. — Intorno ad alcuni giganteschi avanzi di uccelli riferibili probabilmente all’ Aepyornis o Ruck — Mem. cit. T. IX, Ser. 3°, p. 259. Bologna 1879. (2) GranpinieR ALFRED — Observations sur le gisement des oeufs de 1’ Epyornis — Comptes rendus hebdom. des Sciences de l’Acad. des Sciences, T. LXV, p. 476. Paris 1867. «doppo. Aepyornis modestus , quest’ ultimo di dimensioni poco maggiori di una grande Otarda (1). Un anno dopo la pubblicazione del classico lavoro di Alfonso Milne Edwards e Alfredo Grandidier, precisamente nel gennaio 1874 il Bianconi replicava con la Memoria: Intorno a due vertebre di Aepyornis e con minuto studio comparativo dei caratteri della vertebra cervicale e della vertebra dorsale illustrate dai naturalisti francesi intendeva di confermare che 1’ Aepyornis non fosse stato un brevipenne. Tornando quindi nel campo delle tradizioni riferisce alcuni passi relativi a penne e artigli colossali menzionati dall’ Aldrovandi, da Bartolomeo Anglico e da altri, e termina la sua ultima Memoria del 16 maggio 1878: Intorno ad alcuni gigan- teschi avanzi di uccelli riferibili probabilmente all’'Aepyornis o Ruck, dichiarando di non sapersi spogliare “ nè della convinzione che l’ Aepyornis sia stato un immenso » Vulturide, nè della persuasione che si debba o tosto o tardi riescire a scoprire » ne Musei di Europa qualche vaso fatto coll’ ugna, o qualche turcasso fatto colle » grandi penne di quel grandissimo uccello. , Mentre Milne Edwards e Bianconi si occupavano delle ossa di Aepyornis rae- colte da Grandidier, il dott. Nathusius progrediva alacremente nelle sue dotte e importantissime investigazioni intorno alla struttura microscopica del guscio delle uova degli uccelli (2), e nel 1870 in una Memoria sulla struttura del guscio delle uova dei Dinornis della Nuova Zelanda, già accenna i rapporti dell’ uovo dell’ Aepyormnis con quello degli struzionidi. Da quelle prime ricerche del Nathusius già si ricava che il guscio dell’ uovo dell’ Aepyornis della grossezza di mm. 3,6 offre un bel esempio della struttura caratteristica delle uova degli struzionidi e si avvicina assai a quella che si osserva nello Struthio camelus più che a quella che si riscontra nelle uova dei Dinornis. Il Nathusius, avendo già fatto confronti con le uova di Apterye e di pa- recchi altri uccelli, afferma che tra l'uovo dell’ Aepyornis e quello dell’ Apterye vi hanno notevoli differenze in quanto riguarda la struttura microscopica e che l’ uovo dell’ Apferyr sotto questo punto di vista si allontana dal tipo struzionide più ancora di quello dell’ Otarda col quale presenta qualche analogia (3). E l’anno seguente con un lavoro molto accurato sul guscio delle uova di Aepyornis, Dinornis e Apterye rende conto particolareggiato delle sue osservazioni (1) Mine Epwarps ALPH. et GranpIDIER ALFR. — Nouvelles observations sur les caractères zoologiques et les affinités naturelles de l’ Aepyornis de Madagascar — V. Recherches sur la faune ornithologique éteinte des Iles Mascareignes et de Madagascar, p. 65. Paris 1866 à 1873. Dawson RowLEY G. — On the egg of Epyornis, the Colossal bird of Madagascar — Proceedings of the Zoolog. Society of London, p. 892. London 1867. {2) NarHusius W. v. — Ueber die Hullen, welche den Dotter ues Vogeleies umgeben — Zeitschrift fur Wissenschafiliche zoologie v. C. T. a Siebold und A. Kélliker B. 18, p. 225. Leipzig 1868. — Nachtràge zu der Arbeit: Ueber die Mullen ete. — Zeitschrift ete. B. 19, p. 322. Leipzig 1869. (3) Natausius W. v. — Ueber die Structur der Moa eischalen aus Neu-Seeland und die be- deutung der Eischalen structur fiîr die Systematik — Zeitschrift f. wissen. B. 20, p. 128. Leipzig 1870. MEN" pena e dal dottor v. Pelzeln essendo stato informato della controversia tra il Bianconi e Alfonso Milne Edwards pensò di fare confronti anche con le uova dei rapaci, se- gnatamente dei generi Vultur, Condor, Aquila. Dopo avere accennato i rapporti e le differenze che si riscontrano quando si confrontano tra loro i gusci delle uova di questi rapaci, sopratutto dal punto di vista della struttura microscopica, conclude che la struttura dell’ uovo del Condor presenta caratteri intermedii tra quella delle uova degli Avvoltoi e quella delle uova delle Aquile, che in nessuna guisa e sotto nessun aspetto vi si possono trovare rapporti con la struttura caratteristica dell’ Aepyornis. Le sezioni micro- scopiche tangenziali e le radiali o trasversali permettono di rendersi conto esat- tissimo della forma delle mamille terminali interne, della caratteristica forma strut- turale triangolare che si rivela nelle sezioni tangenziali dei gusci delle uova degli struzionidi, come pure della maniera di ramificarsi dei canali porosi dall’ interno verso l’ esterno. Mentre, per questo complesso di caratteri, non è possibile alcun ravvicinamento tra la struttura del guscio delle uova degli struzionidi e quella degli avvoltoi, delle aquile e del Condor, si verifica invece che vi hanno rapporti strettissimi tra l’ Aepyornis e lo Struzzo; che peraltro tenendo conto della maniera con la quale si ramificano i canali porosi e per le cavità angolose negli strati più esterni dell’ uovo dell’ Aepyornis si hanno criterii per ammettere la necessità di distinguere genericamente quell’ uccello come già era stato fatto in seguito all’ esame macro- scopico non solo delle uova ma eziandio di alcune ossa importanti e abbastanza ben conservate (1). In una Memoria relativamente recente, perchè pubblicata soltanto nel 1886, il Nathusius, a. proposito dello Struthiolithus chersonensis, riferendosi a tutti gli studî fatti precedentemente e quasi riepilogando le conclusioni che ne aveva tratte, dichiara che, basandosi sulla struttura microscopica delle uova degli struzionidi viventi e fossili sì possono distinguere i seguenti gruppi. 1°. Struthio, col quale lo Struthiolithus chersonensis ha tanta affinità da doverlo distimguere soltanto specificamente. 2°. Rea, cui si raggruppano alcuni Dinornis. 3°. Aepyornis, che non ha analoghi tra i viventi. — Solamente un frammento di uovo proveniente dalla Nuova Zelanda e portato dalla Spedizione della Novara, mentre si mostra meravigliosamente diverso da quelli di tutti i /inornis cono- sciuti, offre qualche rapporto con 1’ uovo dell’ Aepyornis. 4°. Dromaeus e Casuarius, che s° accordano completamente per la struttura dei (1) NarHusius W. v. — Ueber die Eischalen von Aepyornis, Dinornis, Apteryx und einigen Crypturiden — Zeitschrift fiur Wissenschaftliche Zoologie v. Th. Siebold a. U. Kélliker. B. 21. Leipzig 1871. TOMO X. 5 Sii gusci delle uova rispettive, e pei quali non si conosce ancora alcuna forma fos- sile (1). Se dal fin qui csposto chiaro apparisce non essere più possibile di contestare i rapporti dell’ Aepyornis con gli struzionidi, se per le più recenti notizie del Nathusius intorno alla struttura microscopica del guscio delle uova sappiamo che alla Nuova Zelanda deve essere vissuto un uccello molto affine all’ Aepyornis ma diverso notevolmente da tutti i Dinornis finora conosciuti, restano sempre incerte le specie che si vorrebbero distinguere di questo singolare uccello, basate sulle dimensioni delle uova e sulle poche ossa che finora sono state raccolte. A mio avviso tali di- stinzioni conviene pure di accennarle, ma forse sono in parte almeno premature. Dell’ uovo di Aepyornis dei dintorni di Nos-Vey e di quanto vi fu trovato dentro. Dalla lettera del dottore Pélagaud relativa alla spedizione del famoso uovo del quale ho l’ onore di intrattenere l’ Accademia, si rileva che esso fu trovato nei dintorni di Nos-Vey sulla costa S-O della grande isola, e di là fu trasportato a Tuléar o Tolia ove la dogana Malgascia rilasciò il permesso di esportazione, mediante un dazio piuttosto rilevante imposto capricciosamente, esagerando il valore dell’ oggetto tassato; da Tolia fu trasportato all’ isola Borbone ove fu imbarcato direttamente per Genova, via Marsiglia. Nos-Vey o Nosy-Vey è un isoletta che si trova a circa 25 miglia al sud di Tolia, a non molta distanza dalla Baia di Sant’ Agostino nella quale mette foce il fiume o Fano Anolahy il più importante fra quanti se ne trovano tra il Capo S. Vincenzo e il Capo S. Maria che è la regione classica per i resti di Aepyornis. La indicazione “ dintorni di Nos-Vey, , mentre in realtà l’ uovo si trovava nella grande isola, e il trasporto a Tuléar o Tolia che ne fu abbastanza costoso, mi inducono a sospettare che esso sia stato scoperto in una delle paludi tanto abbon- danti in quella regione, in dipendenza del fiume Anolahy e più specialmente lungo il littorale tra la Baia Sant’ Agostino e il Capo Santa Maria, probabilmente di faccia alla piccola isola di Nos-Vey. La perfetta conservazione dell’ esemplare, prova ad evidenza che esso fu estratto con ogni diligenza dal sedimento in cui sì trovava sepolto e che con ogni maggior cura fu sempre trasportato e custodito. Nessuna traccia di logorazione meccanica, come ho notato in taluni frammenti di gusci raccolti nelle dune sabbiose, nessuna inerostazione, nessuna lesione o anche semplice graffiatura; per cui può dirsì che (1) Narnusius W. v. — Ueber das fossile Ei von Struthiolithus chersonensis, Brdt. — Zoolo- gischer Anzeiger herausgegeben v. prof. J. Victor Carus. IX Jahrgang. 1886, N. 213-240, p. 47. Leipzig 1886. DO SAR + nulla lascia da desiderare sotto questo punto di vista, ed è facile di persuadersi che non debba essere troppo antica la scomparsa dell’ animale che lo aveva de- posto, probabilmente in mezzo alle sabbie stesse dalle quali fu estratto (1). Delle uove di Aepyornis fu scritto che si trovavano in alluvioni moderne e che gli esemplari raccolti erano stati scoperti per frane prodotte da piogge ecce- zionali, o per essere rimaste allo scoperto nel letto dei torrenti. Quando Alfredo Grandidier nel 1868 fece conoscere i resti scheletrici di Aepyornis trovati a Amboulitsate in terreno paludoso insieme agli avanzi di circa cinquanta ippopotami (ZHippopotamus Lemerlei) e resti di testuggini terrestri e d’ acqua dol- ce, nulla aggiunse a ciò che si sapeva intorno alle uova dell’ uccello gigantesco ed io devo confessare che, prima delle notizie avute dal Pélagaud, non aveva mai avuto sentore del singolare e forse più importante giacimento attuale delle uova e altri resti dell’ Aepyornis. Sta però il fatto; e anche 1 ingegnere Cortese che nella prima metà del 1887 fece un interessante viaggio a Madagascar studiandone più particolarmente la parte settentrionale e centrale, accennando alla parte più meridionale dell’ isola, cioè l’ Antanosy, l’ Antandroy e il Tanala che dice essere regione paludosa, poco esplorata e pericolosa per febbri micidiali, aggiunge che negli stagni o meglio nel fango di alcune paludi di quella regione si trovano i gusci delle uova di Aepyornis (2), confermando così quanto me ne aveva scritto il Pélagaud. Come poi si abbia ad interpretare questo strano giacimento, mentre il grande uccello di Madagascar, non diversamente dall’ ordinario struzzo doveva deporre le sue uova sulla terra emersa in regioni sabbiose, sotterrandole anzi nelle sabbie stesse per agevolarne la incubazione, parmi che apparisca facilmente dalle notizie che si hanno intorno alle vicende geologiche alle quali è andata soggetta la co- sta sud-ovest dell’ isola in tempi relativamente recentissimi. La formazione di cordoni littorali, per opera principalmente delle correnti ma- rine, dà luogo a un regime speciale dei numerosi fiumi e al facile impaludamento delle regioni prossime alla loro foce; se a questo si aggiunge un leggero movi- mento di abbassamento che sembra constatato sulla costa occidentale, mentre la costa orientale si sollevava anche in tempi geologici abbastanza recenti, si capisce come porzioni di deserti sabbiosi, forse già in parte depressi, abbiano potuto fa- cilmente essere invasi dalle acque e cangiarsi in stagni e paludi ove formicolano 1 coccodrilli. E forse questa invasione delle acque già cominciava mentre vivevano ancora gli Aepyornis e, probabilmente, a questa causa perturbatrice si deve attribuire la non compiuta incubazione per la quale uova che certamente erano state fecon- date non si svilupparono e i loro gusci si trovano ora perfettamente interi. (1) È opinione accreditata da Grandidier che l’ Aepyornis vivesse ancora al principio dell’ Era nostra. (2) CortESE E. — Appunti geologici sull’isola di Madagascar. Boll. del R. Comitato geol. d’Italia. Vol. XIX, pag. 119. Roma 1888. — Sei mesi al Madagascar. Note di viaggio e ricordi. Estratto dal Boll. Soc. geografica italiana. Vol. IX, X, XI, pag. 125. Roma 1888. pubo ia Il Prof. Owen, già nel 1852, emise l’ opinione che le uova intere di Aepyornis le quali si ammirano nei musei, si avessero da riguardare come uova abortite per mancanza di calore sufficiente, non già perchè non fossero state fecondate (1); ‘questa opinione sarò in ‘grado di avvalorare grandemente con ciò che farò cono- scere intorno all’ esemplare del quale già in parte ho fatto la storia. Ho già ricordato che le due uova di Aepyornis delle quali si ebbero i primi gusci interi in Europa differivano tra loro per la grandezza e per la forma, es- sendo il maggiore di forma decisamente ovoide ossia con le due metà inegual- mente rigonfie ed il minore da considerarsi come un ellissoide di rivoluzione, os- .sia identicamente rigonfiato ai due poli. Il nostro esemplare spetta al tipo ellissoide ed è un poco più piccolo di quello illustrato da Geoffroy Saint-Hilaire nel 1851. Di questo stesso tipo nel Museo bri- tannico di Storia naturale a Londra (Kensington) vi ha pure un esemplare che, per le sue dimensioni, supera tutti quelli che fino ad ora si conoscono. Alla cor- tesia del collega Dott. Enrico Woodward, conservatore della Sezione geologica di quell’ impareggiabile Museo, devo le esatte misure del bellissimo fossile che più volte ebbi ad ammirare e che nello scorso anno potei esaminare accuratamente; all’ egregio amico devo pure particolari ringraziamenti per un piccolo frammento di guscio col quale ho potuto fare preparazioni microscopiche per studiarne tutte le particolarità di struttura già note per essere state stupendamente illustrate dal Dott. Nathusius. Le misure dell'uovo trovato a Nos-Vey, ora a Bologna, quelle degli esemplari di forma ellissoide del Museo di Parigi raccolte nel 1850 e 1853 e quelle dei testè menzionati esemplari del Museo britannico, sono riassunte nel seguente spec- chietto, pel quale riescirà più agevole di fare opportuni relativi apprezzamenti. | Istituto Museo di Storia naturale Museo britannico geologico È 20h è | di Bologna di Parigi a Kensington | Data dell’arrivoia Europa 1888 1854 | 1854 1851 2 ? il Diametro maggiore... .| m. 0,300 m. 0,300 | m. 0.334 m. 0,320 m. 0,286 m. 0,341 | | Diametro minore... .. » 0,220 » 0,229 » 0,238 » 0,230 » 0.211 >» 0,242 | | Circonferenza maggiore.| » 0,810 » 0,895 » 0,925 » 0,840 » 0,774 » 0.921 | | Circonferenza minore . .| » 0,682 » 0,715 » 0,753 » 0,720 » 0,668 » 0,768 | Volume mc. 0,007602 "| me.0,009906 | me. 0,008887 mc.0,010456 | (1) Owen — R. Notes on the Eggs and Young of the Apteryx, and on the Casts of the Eggs and certain Bones of Aepyornis (Isid. Geoff.) recently trasmitted to the zoological Society of Lon- don. Proceedings of the Zoological Society of London. P. XX, p. 9, 13. London 1853. ET 317 n La capacità dell’ uovo del museo di Parigi del 1851 essendo stata calcolata in litri otto e tre quarti, quella del più grande uovo del museo britannico è stata da me valutata approssimativamente in litri dieci; mentre la capacità ap- prossimativa dell’ uovo, ora nell’ Istituto geologico di Bologna, resulta eguale a poco meno di sette litri e cioè: me. 0,006942372. E poichè il volume dell’ uovo ellissoide del museo di Parigi del 1851 fu calcolato eguale a 148 uova di gallina e 50000 uova di uccello mosca, quello del nostro esemplare che è un poco mi- nore, come si rileva dalla precedente tabella comparativa, resulterebbe equivalente a 115 uova di gallina e 38370 uova di uccello mosca. Il signor Armange di Nantes nel 1854 avendo portato in Francia quattro stu- pendi esemplari di uova di Aepyornis, due di essi furono da Geoffroy Saint-Hilaire presentati all’ Accademia delle Scienze nella seduta del 5 marzo 1855 e sono ap- punto quelli dei quali ho riferito le misure nello specchietto comparativo; intorno ad un terzo esemplare lo stesso naturalista richiamava un anno dopo l’ attenzione dei colleghi per farne apprezzare le caratteristiche della superficie. Il valentis- simo professore, giudicando da quanto si poteva rilevare dai due primi esem- plari illustrati nel 1851, era indotto a ritenere che i gusci delle uova del- I Aepyornis fossero rugosi e granulosi come quelli del Casuario; pure dubi- tando ancora non volle allora pronunziare la sua opinione in proposito, e fu sag- gio consiglio perchè, coi frammenti di gusci avuti dal Delamarre nel 1854 e meglio ancora con l’ esemplare donato dal signor Armange nel 1856, potè dimo- strare che il guscio era liscio, benchè vi esistano piccole strie e solchi lineari di- retti nel senso dell’ asse principale, analogamente ai piccoli punti scavati delle uova pure liscie dello struzzo (1). Intorno a quello esemplare devo aggiungere di aver notato che esso è perfettamente ben conservato e di forma più allungata di quanti altri ne ho veduti; il suo colore è biancastro, come lo è pure uno dei due esemplari scoperti nel 1850 e precisamente quello che ad uno dei poli ha un foro di circa due centimetri di diametro pel quale se ne può anche apprez- zare la grossezza. Esaminando accuratamente il nostro esemplare, meglio se coll’ aiuto di una lente, si rileva facilmente che mentre nella regione equatoriale la conservazione degli strati più esterni del guscio da luogo a una superficie liscia sulla quale si scorgono i piccoli pori allineati nel senso dell’ asse principale, verso i poli si ri- conosce essere avvenuta una corrosione parziale più o meno profonda in corri- spondenza degli sbocchi dei canali che si mostrano crateriformi e danno luogo a rugosità e fossette abbastanza rilevanti. Il colore generale dell’ uovo è grigio chiaro, con chiazze più o meno scure, secondo le alterazioni sofferte per il lungo soggiorno in fango sabbioso con resti (1) Grorrroy Salnr-HicAIRE Is. — Sur un oeuf d’Epyornis recemment arrivé en France. Comptes rendus de l’ Acad. des Sc., T. XLII, pag. 315. Paris 1856. organici in decomposizione. È la tinta che direi quasi caratteristica della maggior parte delle ossa che si trovano insieme ai resti dell’ industria umana in antiche stazioni lacustri, ed anche in alcune torbiere e nelle terramare, notevolmente di- versa da quella delle ossa che si trovano nelle caverne o in altri depositi terre- stri; per questo differisce notevolmente dagli esemplari dei musei di Parigi e di Londra. Desiderando di rendermi conto dei materiali che, muovendo l'uovo, si rilevava che dovevano trovarsi nell’ interno di esso in discreta quantità sotto forma sab- biosa, deliberai di praticare nella regione equatoriale un foro di un millimetro di diametro per potere estrarre e analizzare quanto vi sì conteneva. Pesato l’ uovo nell’ aprile 1888, due mesi dopo che era arrivato a Bo- logna, e nuovamente nel dicembre, non ebbi a notare alcuna differenza e trovai il peso dell’ uovo intero eguale a grammi 1705,5; quindi eseguii la perforazione e ne estrassi abbondante materiale finamente sabbioso, ma essendomi accertato che ne restava di più grossolano che non potevasi avere per mezzo di quella pic- colissima apertura, pensai d’ ingrandirla segando un piccolo tassello di altri due millimetri circa e così l’ uovo potè essere vuotato completamente. I materiali estratti e raccolti con ogni diligenza pesavano grammi 103,5 e il guscio vuoto e mancante del piccolo tassello pesa ancora grammi 1521,5, d’ onde se ne deduce che il piccolo tassello e la piccola porzione polverizzata dal trapano pesavano complessivamente cinque decigrammi; quindi : Guscio Vuoto Reati erano Ro nie 3t5 Perdita di porzione del guscio , 0,5 Materiali estratti 0... Totale gr. 1705,5 La piccola apertura mi ha permesso di misurare la grossezza del guscio che ho trovata di circa tre millimetri e mezzo (millim. 3,6) ciò che corrisponde, ap- prossimativamente, anche con la grossezza dei frammenti di guscio che si trovano nei musei di Londra e di Parigi. Per la stessa apertura ho potuto anche misu- rare il diametro equatoriale interno ed ho così avuta la riprova della esattezza della misura del minor diametro esterno dell’ ellissoide. Passando ora ad esaminare quanto ho trovato nell’ interno, anzitutto farò no- tare che per il piccolo foro di un millimetro di diametro già mi era riescito di avere gr. 179,5 del totale dei materiali che vi si contenevano; quindi per l’ aper- tura ingrandita ottenni altri 4 grammi di materiali più grossolani, ma per nulla diversi da quelli che già aveva ricavato sotto forma di sabbia più o meno gros- solana. L'esame microscopico della polvere finissima e della porzione granulare e DEB IAS più o meno concrezionaria, rivela la presenza di scheggine e grani silicei fram- misti a un abbondante materiale di minerale grummoso in cui non manca l’ ele- mento calcareo, come è facile di accertarsi trattandolo con acido idroclorico. Nel materiale grossolano esaminato con l’ aiuto di una lente già si scorgevano piccoli frammenti indubitatamente ossei; per l’ apertura ingrandita ottenni fram- menti che non permettevano più di dubitare della loro natura: taluni sono evi- dentemente avanzi di piccole coste, di apofisi di vertebre; senza che si possa av- venturare nulla di più particolareggiato al riguardo. Il Prof. Emery, cui conse- gnai alcuni di quei frammenti per tentarne una preparazione microscopica, riescì perfettamente a mettere in evidenza i così detti corpuscoli ossei, o lacune ramose, ed anzi mi favorì anche un eccellente disegno ottenuto col mezzo della camera oscura. Con un processo analogo a quello col quale si preparano le sezioni dei fora- miniferi e delle rocce molto tenere e porose, sono riescito in seguito a preparare una sezione sottile di un piccolo frammento di costa che permette di apprezzare benissimo la minuta struttura dell’ osso. Gli avanzi di ossa trovati nell’ interno dell’ uovo raccolto a Nos-Vey, provano ad evidenza che questo esemplare era stato fecondato e che per un certo tempo la incubazione procedè regolarmente, tanto che dell’ embrione già si erano costi- tuite parti scheletriche importanti. Cause perturbatrici determinarono la interru- zione della incubazione e quindi la morte del pulcino; ma non è possibile di determinare esattamente quale stadio di sviluppo avesse già raggiunto, non es- sendo rimaste di esso fuorchè misere traccie. Per la interrotta incubazione il gu- seio d’ uovo di Aepyornis che ho la fortuna di possedere potè conservarsi intero, e il fatto da me constatato conferma egregiamente quanto aveva pensato 1’ Owen a proposito delle prime uova intere di Aepyornis trovate a Madagascar e ora nel Museo di Storia naturale di Parigi. Il materiale in forma di minuta sabbia e di concrezioni granulari, talune delle quali raggiungono due millimetri di diametro, si deve riguardare come prodotto dal concorso di elementi diversi parzialmente endogeni, ed altri penetrati nell’ uovo in parte sciolti in parte meccanicamente. La decomposizione della sostanza orga- nica deve aver dato luogo a reazioni e favorito combinazioni alle quali contri- buiva 1 acqua dello stagno in cui l’ uovo restò sepolto per molte centinaia d’ anni. A questa ultima causa si deve evidentemente attribuire la notevole quantità di materiale argilloso e la polvere quarzosa i cui elementi costituirono i nuclei delle piccole concrezioni con cemento di carbonato di calce di cui per altro le acque dello stagno dovevano essere poverissime non avendosi traccia di esterna inero- stazione. È da presumere che la decomposizione dei resti organici nelle acque dello stagno abbia favorito la leggera parziale erosione per la quale gli sbocchi esterni dei canali si resero così evidenti e in parte si fusero per formare le fossette allungate già sopra accennate. SUA E parimente si può ritenere che la abbondante penetrazione di materiale ar- gilloso sabbioso, mediante l’acqua dello stagno, sì sia effettuata quando una parte degli sbocchi esterni dei canali e i canali stessi che attraversano il guscio già si erano ingranditi per modo da potervi penetrare facilmente le piccole particelle di quarzo delle quali se ne trovano talune rimaste impegnate nei canali stessi. Una analisi chimica del materiale estratto sotto forma di minuta sabbia ese- guita dal Dott. Ferratini, sotto la direzione del Prof. Cavazzi, ha dato i seguenti resultati : Materiale disseccato a 160°. . ........ gr. 2,000 Materiea volatili port tit assliscane ce asa i0 469 Silice libera e in forma di silicati... ... , 0,935 NCIKOMCIEPONICOMCO EE VA e O OSSITORICHTI COR AO) I e ONE Ostco di Mimbo (RO) eee 0298 Ossido Calco l(C0O RETE OssidoRdigMagmesio f(M00) e ateo 301038 Totale gr. 1,903 Sostanze mongdosate®egperdita,e e eee 0097 Totale gr. 2,000 Presenza di una quantità notevole di fosfati — pochissimo di solfati — traece di nitrati — tracce di cloruri — assenza di fluoruri. Esaminando con una forte lente le fossette nelle quali sboccano i canali verso l'uno dei poli, trovai che talune di esse erano ripiene di minutissima sabbia ocra- cea e notai qualche grano maggiore di quarzo fortemente colorato in bruno ; pensai, quindi, che in quel nuovo materiale io poteva avere un mezzo sicuro per riconoscere la natura delle sabbie del deposito in cui l’ uovo era rimasto lunga- mente sotterrato. Estratta con ogni diligenza la minuta sabbia e sottoposta all’ esame microsco- pico potei accertarmi che si trattava di grani quarzosi ricchissimi di inclusioni gassose e solide, come si nota in generale pei famosi quarzi di Madagascar e come ho verificato per le sabbie candide di Imanbane, sulla costa di Mozambico quasi di faccia a Nos-Vey, raccolte e spedite al museo di storia naturale di Bologna or sono parecchi anni dal Cav. Carlo Fornasini che si rese benemerito special- mente per i preziosi oggetti del quali arricchì le collezioni zoologiche. Nella piccola quantità di sabbia che ho potuto raccogliere ed esaminare, non mi è riescito di scorgere grani o cristallini di zircone dei quali invece ve ne sono IMA molti nelle sabbie nere, prevalentemente costituite da ferro titanato, raccolte pure a Inanbane dallo stesso Fornasini. Scuotendo l’ uovo sopra un foglio di carta, prima di farne la trapanazione, raccolsi altresì una piccola quantità di polvere finissima (due o tre decigrammi) la quale sottoposta al microscopio si mostra identica al materiale più fino trovato nell’ interno; quindi è presumibile che, almeno in parte, si tratti di polvere va- gliata attraverso i canali ingranditi come ho avuto occasione di ricordare e par- zialmente si abbia da considerare come materiale che non era riescito a penetrare nell’ interno ma che ha però la più stretta analogia con quello che ivi si era accumulato. Per assicurarmi che queste supposizioni non fossero mal fondate pensai di sondare parecchi dei canali e delle fossette più appariscenti, giovandomi di setole e fili metallici sottilissimi e potei verificare che non soltanto si passa facilmente attraverso il guscio ma che in non pochi casi si ha la scomparsa dei pilastri che separavano i canali contigui, per cui ciò che sulla superficie del guscio apparisce come un leggero so!co od una fossettina esilissima allineata nel senso dei meri- diani, in realtà corrisponde sovente ad una fessurina per la quale l’ acqua limac- ciosa avrà potuto penetrare con grande facilità dall’ esterno, come oggi ne poteva anche escire la parte più fina del sedimento che per via chimico-meccanica vi sì era costituito in quantità abbastanza notevole. Completate così le notizie intorno al primo uovo di Aepyornis arrivato in Italia, credo opportuno di riassumere brevemente quanto fino ad oggi ci è noto riguardo ai rarissimi avanzi dell’ uccello gigantesco di Madagascar. L’ uccello colossale, di cui i Malgasci non conservano alcuna tradizione, visse principalmente sulla costa sud-ovest della grande isola; benchè ne siano stati tro- vati avanzi anche nelle piccole isole vicine. Le uova di straordinaria grandezza portate in Europa dal capitano Abadie verso la fine del 1850 furono i primi re- sti che studiati da Geoffroy Saint-Hilaire vennero senz’ altro riferiti a un uccello colossale spettante a un nuovo genere di struzionidi pel quale propose il nome di Aepyornis. Nel 1854 e 1857 essendo state trovate altre uova e alcune ossa indubbiamente riferibili allo stesso animale, si cominciò a dubitare se l’ Aepyornis era da rite- nersi veramente tra gli struzionidi, ovvero se non fosse stato possibile di scorgere nella forma delle ossa del tarso-metatarso taluni caratteri da sospettare che fosse stato un uccello acquatico, affine al Pinguino e all’ Alca. Il Prof. Bianconi dal 1861 al 1878 cercò di dimostrare che l Aepyornis si doveva identificare con l’ uccello Ruch di cui parla Marco Polo e in seguito a studî comparativi fatti coi modelli delle ossa, specialmente Ja tibia e il tarso-me- tatarso, ritenne che fosse un avvoltoio. Nathusius studiando la struttura del guscio delle uova dell’ Aepyornis confer- mò che era uno struzionide affine, più che ad altri tra i tipi viventi, allo Struthio TOMO X. 6 Se YI LE camelus; più recentemente notò che un frammento di uovo proveniente dalla Nuova Zelanda, diverso dalle uova di tutti i Dinornis fino ad ora conosciuti, ave- va anche maggiori rapporti con quello dell’ Aepyornis. L'uovo donatomi dal Dott. E. Pélagaud, il primo e per ora il solo arrivato in Italia, fu trovato in una palude nelle vicinanze di Nos-Vey ; l asse maggiore misura centimetri trenta e l’ asse minore centimetri ventidue; la sua capacità è valutata in poco meno di sette litri ed il suo volume si può ritenere eguale a 115 uova di gallina e 38370 uova di uccello mosca. Dall’ esame dei materiali contenuti in questo esemplare integro e assai bene conservato, estratti mediante una piccola apertura lunga un centimetro e larga appena due millimetri, risulta che l’ uovo era stato fecondato, che era già bene avviata la incubazione e l’ embrione sviluppato sufficientemente quando, per cir- costanze particolari, la incubazione fu interrotta e avvenne la morte del pulcino. Gli avanzi di ossa trovate insieme a una notevole quantità di sabbia più o meno fina e di argilla penetrata meccanicamente coll’ acqua attraverso i canali o porosità del guscio ampliati per sofferta logorazione chimica, attestano il fatto della avvenuta incubazione e del lungo soggiorno in seno a melma sabbiosa. Non è improbabile che alla invasione delle acque sia da attribuirsi anche la interrotta incubazione dell’ uovo che dovette essere deposto all’ asciutto e probabilmente na- scosto sotto la sabbia per proteggerne e agevolarne lo sviluppo. È assai probabile che, studiando altre uova trovate intere, la esplorazione e l’ esame di tutto quanto si troverà nell’ interno di esse dia luogo ad importanti scoperte e fors’ anco fornisca nuovi elementi per viemeglio apprezzare i caratteri generici del massimo uccello sulle cui affinità coi diversi tipi di struzionidi sussi- ste tuttavia una qualche incertezza. APPLICAZIONE DI NUOVI CRITERI PER LA CLASSIFICAZIONE DELLE PIANTE SECONDA MEMORIA del Prof. FEDERICO DELPINO (Letta nella Sessione ordinaria del 10 Marzo 1889). $ S. Classificazione delle gimnosperme. Loro unità di origine. Nei gruppi di piante da classificarsi più elevato è il grado della composizione organica, più crescono le difficoltà d’una buona classificazione. Ciò è comprovato dai pteridofiti la cui retta classificazione offre difficoltà maggiori di quella dei briofiti, dalle gimnosperme assai più dei pteridofiti difficili a classificarsi, e final- mente dalle angiosperme che presentano difficoltà presso a poco insormontabili. Per ciò che concerne la classificazione delle gimnosperme, malgrado che si siano applicati a tale argomento moltissimi autori, fra i quali parecchi dotati di robusto ingegno e di estesa dottrina, ciò non ostante i quadri di classificazione fin qui proposti sono ben lungi da essere soddisfacenti ed offrono più di un lato alla critica. Da molti è stata disconosciuta la unità iniziale e fondamentale delle gimno- sperme. È bensì vero che tutti oggidì concordano nel far provenire le forme gimnospermiche dai pteridofiti, ma con evoluzione polifiletica, anzichè monofiletica. Per esempio alcuni fanno provenire le cicadee da un tipo affine alle rizocarpee, le conifere da un tipo affine alle licopodiacee, le gnetacee da qualche altro tipo pteridofitico. Secondo il mio parere questa teoria polifiletica è contraria al vero. Il tipo delle gimnosperme è unitario per eccellenza, ed ogni retta induzione porta ad ammettere per esso una rigorosa unità d’ origine. Questa unità d’origine è attestata dalla somma dei principali caratteri così morfologici che biologici. Affatto omologhi sono i fillomi maschili delle gimnosperme ai fillomi micro- SEL sporangici delle felci eterosporee. È inevitabile la conclusione che le gimnosperme derivano da una forma pteridofitica eterosporangica. Omologhi sono i sacchi pollinici delle gimnosperme ai microsporangi di felci pachisporangiate; omologa la loro imposizione (ipofilla) a quella delle felci ipospo- rangiate. Il polline equivale a microspore. La costituzione pluricellulare del polline è un residuale protallo. La diafisi negl’ individui femminili di Cycas è un fenomeno identico alla diafisi delle filicine. Nè meno saglienti sono le omologie che hanno i fillomi femminei delle gimno- sperme coi fillomi macrosporangici dei pteridofiti. Queste concordanze per verità rivelano che le forme archetipe delle gimnosperme dovevano essere pteridofiti iposporangiati, pachisporangiati, diafitici, eterosporei. Ma la unità di origine è anche meglio rivelata dai seguenti caratteri. In tutte le gimnosperme gli ovuli, qualunque sia la loro imposizione o epifilla o ascellare o assile, hanno una quasi assoluta identità di caratteri così strutturali che funzionali. Identica è nelle cicadee, nelle conifere, nelle gnetacee la struttura dell’integumento, della nocella, del sacco embiionale, dei corpuscolij; identico l ap- parato d’'impollinazione, e il processo del passaggio del polline a traverso di un tubo micropilare mediante il sussidio d'una goccia d’acqua; identico il processo della fecondazione e della embriogenesi. Consideriamo soltanto il curioso apparecchio d’impollinazione, correlato a tre agenti esterni che sono il vento, un liquido collettore del polline e la forza di ‘gravità (1). Se fosse vera la teoria polifiletica, se alcune gimnosperme fossero de- rivate per ipotesi da marattiacee, altre dalle licopodiacee, altre da altre, come mai sarebbesi in tutte potuto realizzare un apparecchio tanto strano, che non ha la ‘ menoma analogia cogli apparecchi fecondativi dei pteridofiti? Questi sono i motivi principali, per i quali noi non alberghiamo dubbio veruno sulla rigorosa unità di origine delle gimnosperme tutte quante; conclusione di sommo rilievo e fondamentale per una retta classificazione delle medesime. (1) Si possono vedere i nostri studi: « U/ferzori osservazioni sulla dicogamia nel regno vegetale », parte II, pubblicati nel volume XIII degli Atftî della Società di scienze naturali in Milano, 1870. Abbiamo notato la costante direzione geotropica dei micropili ovulari nelle conifere; per cui il | polline, essendo in dette piante più leggero dell’acqua, ascende dentro il tubo micropilare fino al vertice della nocella. In seguito abbiamo osservato che nel genere EpRedra i tubi micropilari sono rigorosamente uranoscopici, per il che il polline deve discendere. Ed infatti, con singolare adat- tamento, il polline delle efedre ha un peso specifico maggiore di quello delle conifere. SRI I $ 9. Divisione delle gimnosperme in quattro famiglie. Quasi tutti gli autori sono d’accordo nel distribuire le gimnosperme attuali (non tenendo conto cioè di quelle forme che si trovano allo stato fossile) nelle tre famiglie delle cicadee, delle conifere, delle gnetacee. Non è possibile muovere eccezione contro la circoscrizione delle cicadee e delle gnetacee; tanto chiari sono i loro caratteri essenziali e differenziali. La circoscrizione invece della famiglia delle conifere è molto questionabile e principalmente su due punti. Alcuni autori credettero conveniente di separare dalle conifere le tassinee. L’axospermia delle tassinee è senza dubbio, come vedremo, un carattere d'alta importaaza così morfologica che biologica; ma se questa nota vale a fare delle tassinee una ben circoscritta sottofamiglia o tribù nella famiglia delie comifere, non è a parer nostro un motivo sufficiente a sceverarla da quella e a costituirla in famiglia propria. Ostano a questa separazione le podocarpee, le quali mostrano i più evidenti caratteri di affinità e di rassomiglianza colle tassinee. Per contro pressochè tutti gli autori, e fra i più recenti ed autorevoli anno- veriamo Van Tiegueyx e Eicucer, incorsero nell’ errore gravissimo di amalgamare colle tassinee il genere Giry9ko, il quale non solo vuol essere escluso da quelle, ma eziandio dalla famiglia delle conifere. La causa di tale errore consiste nell’avere male interpretato la natura morfologica del peduncolo biovulato o pauciovulato dei fiori femminei di Gingko; il quale peduncolo venne da qua-i tutti considerato come una ramificazione femminea ebratteata; e se realmente così stesse la cosa, tal genere verrebbe ad essere axospermico, e quindi collocabile fra le conifere axospermiche. Ma detto peduncolo non è che una produzione placentaria, analoga affatto alle squame ovulifere delie abietinee; per il che alle abietinee piuttosto che alle tassinee vorrebbe essere avvicinato il genere Gingko. Meglio è però, per conside- razioni che riferiremo infra, farne un tipo di famiglia a parte, cioè delle salisburiee. Concludendo, nelle gimnosperme attualmente viventi noi contempliamo non più e non meno di quattro famiglie, che sono cicadee, salisburiee, conifere, gnetacee; e i loro rispettivi vincoli filogenetici sono espressi nel seguente schema, le cui ragioni andremo mano a mano svolgendo. Cycas Zamiee Salisburiee Gnetacee Conifere ner 4/ $ 10. Natura morfologica delle squame ovulifere delle abietinee e di altre conifere. Prima di procedere alla razionale classificazione delle forme gimnospermiche è necessario innanzi tutto risolvere definitivamente un problema morfologico che diede luogo a una controversia delle più prolurgate e dibattute. Qual’ è la vera natura morfologica della squama ovulifera delle abietinee e cupressinee ? Pare superfluo il passare in rivista la copiosa letteratura su tale argomento. Ci limiteremo ad esporre le opinioni di alcuni recenti autori più accreditati, e le conclusioni nostre. La sovraccennata squama ovulifera è costantemente ascellare a una emergenza bratteiforme (carpidio degli autori), libera da questa come nelle abietinee, o saldata interamente con questa come nelle cupressinee. La contingenza che siffatta squama ovulifera è costantemente situata all’ascella d’un organo fogliare ha condotto parecchi botanici a due diverse interpretazioni, erronee tanto l’una quanto l’ altra. I più, con ParLatorE, SPERCK, STrAssBURGER ed altri, supposero che questa squama fosse un ramo metamorfico, un fillocladio. Ma questa interpretazione è dichiarata erronea dalla regola fin qui senza eccezione, che gli ovuli non nascono direttamente sovra organi assili o rameali. Altri. fra cui Ueo Mont, Fiuirro Van Treonev, ALessanpro Braux, STENZEL ecc. supposero che la squama in questione fosse o una o due o più foglie, congenita- mente connate e spettanti a un asse abortivo, iniziato all’ ascella della rispettiva brattea, e prontamente defunto. Questa seconda interpretazione rende omaggio al principio generale che gli ovuli possono nascere soltanto sopra un organo fogliare, e inoltre parve confermata dall’acuta osservazione fatta da Vawn Trecnex e Mont, che cioè nei fasci fibrosole- gnosi di queste squame gli elementi liberiani o floemici rispondono alla pagina (geometricamente) superiore, e gli elementi legnosi rispondono alla inferiore, inver- samente cioè della posizione solita. Ma vi è una terza congettura che ci sembra di gran lunga più razionale delle due precedenti; anzi, per dir come la pensiamo, è l’unica interpretazione che sia d'accordo con quello che osservammo e con tutti i dati della morfologia comparata. Si collochi a paragone un cono femmineo di Zamia e un cono di pino. La perfetta omologia d’entrambe le fruttificazioni s' impone da sè medesima; è di tutta evidenza. Ora senza dubbio il cono di Zamia ha un asse solo; è rigorosamente monotalamico. Ma se ciò è, come mai il cono di pino, a quello perfettamente omologo, avrà due ordini di assi e sarà politalamico, come richiedono le due ipotesi sopra citate? SA È inevitabile la conclusione che nelle conifere il corpo ovulifero ascellare e l'organo fogliare ascellante non sono morfologicamente due organi, ma due parti © regioni di un organo unico, cioè del carpidio. Colpito da quest'induzione, nel 1869 e nel 1870, ho stabilito alcune indagini in proposito, e seguitando il corso dei fasci fibrosolegnosi, trovai ch' effettivamente detto corpo ovulifero colla rispettiva brattea verso la base è un organo unico, come è attestato dai suddetti fasci che formano un circolo chiuso. Alquanto diverso è nei diversi generi coniferi lo sviluppo e il destino di questi fasci fibrosolegnosi. Nel genere Pinus un fascio soltanto si avvia alla brattea ascel- lante e ne forma il nervo medio, naturalmente essendo inferiore il suo floema, superiore il suo xilema. Gli altri fasci del circolo legnoso dapprima sono disposti in cilindro inferiormente aperto; poi questo cilindro a poco a poco si apre a guisa di ventaglio, si va complanando e costituisce la nervatura del corpo ovulifero. Naturalmente in questi fasci complanati il floema riesce superiore e lo xilema infe- riore, come già rilevarono Van Tieeuex e Ugo Mont. Nel genere Cupressus tre fasci inferiori si avviano alla brattea; gli altri più numerosi si avviano al corpo ovulilero; ma invece di complanarsi si vanno dispo- nendo a ferro di cavallo. Nel genere Cunninghamia abbiamo ancora lo stesso fenomeno, ma con inver- sione nella potenza dei fasci fibrosolegnosi, dei quali vanno molti e potenti alla brattea, e pochi e deboli al corpo ovulifero (1). Insomma questa squama ovulifera tanto controversa non è nè un fillocladio nè un complesso di foglie; ma è semplicemente un corpo placentario risultante dalla fusione dei due placentarii del carpidio (staccati però dalla parte mediana del car- pidio, e concresciuti in un corpo unico) (2). Più recentemente il prof. Ercuuer (Ueder die eesbliche Bliithen der Comiferen, nel Rendiconto mensile della R. Accademia delle scienze di Berlino, novembre, 1881) alla tesì di Van Tieenen e Mony ha fatto succedere una tesi assai più corretta e che quasi combina colla nostra. In questo scritto, che è uno dei più notevoli e profondi che siano stati fin qui pubblicati sull’ argomento, EicuLer anch’ esso mette (1) Queste osservazioni facemmo negli anni 1868-1869 indipendentemente da quelle fatte e pub- blicate verso la stessa epoca da Van TieGHEM. La concordanza delle nostre colle sue osservazioni è quasi totale; ma ben diversa n'è la interpretazione. FIcALER che più recentemente (nel 1881) ha pubblicato numerose analoghe osservazioni espone che nella Cunninghamia i fasci che vanno agli ovuli sono una diramazione dei fasci della brattea. Ma, se non vedemmo male, anche qui, alla base del carpidio, i fasci fanno un anello chiuso; laonde i pochi e deboli fasci che vanno agli ovuli dovrebbero derivare direttamente dall’ asse. (2) Fin dal 1868 abbiamo dichiarato questo corpo essere una placenta. « Adunque la squama delle conifere mi parrebbe un organo placentario ovulifero che, più tardi si cambia in una grossa scaglia legnosa per lo scopo di difendere i semi ». (Ulteriori osservazioni e considerazioni sulla dicogamia nel regno vegetale, parte I, $ 1, negli Atti della Società di scienze naturali in Milano, 1868-1869). Questo nostro cenno passò inosservato e non venne discusso da alcuno. in sicuro la unicità dell’ organo ovulifero nelle conifere, malgrado lo sdoppiamento che talvolta subisce nel senso tangenziale. Quando tale sdoppiamento è pronunciato in modo da terminare in una emergenza (Araucaria, Cunninghamia ecc.), questa è dichiarata da EicaLer per una formazione ligulare, analoga per avventura alle ligule solite a svilupparsi in alcuni fillomi vegetativi e florali delle angiosperme, e sovratutto alla formazione ligulare del genere Zsoetes. Ma le placente non potreb- bero per niun conto essere assimilate alla ligula fogliare delle graminacee e maran- tacee, alla ligula dei petali di Lychnis e Saponaria (quanto all’eserescenza liguliforme nel genere Isoetes, il paragone regge, ma tale escrescenza è impropriamente assimilata alle ligule colle quali ha nulla che fare). Laonde ci troviamo d’accordo con Ercnrer nel punto importantissimo di ritenere come organo semplice ed uno il carpidio delle abietinee, cupressine, araucariee ece., e sentiamo diversamente da lui in altro punto pure importantissimo, considerando come una placenta, non come una ligula, la emergenza ovulifera del carpidio stesso. Abbiamo pertanto motivo di credere definitivamente risoluta la questione pro- postaci in questo paragrafo, e questa risoluzione ci rende possibile la estensione di una teorica generale del carpidio. $ 11. Teoria generale del carpidio. Lo studio del carpidio è il più importante fra quanti ne presenta la morfologia comparata delle piante superiori. Seguire le origini del carpidio, la sua iniziazione, i suoi sviluppi e le sue modificazioni equivale a seguire la evoluzione storica delle piante superiori medesime, e a rilevarne la classificazione in gruppi veramente naturali. La divisione primaria delle quali in gimnosperme ed angiosperme, ora accettata da tutti, riposa appunto sopra un carattere dei carpidii (per verità non morfologico ma semplicemente biologico), essendo aperti i carpidii delle gimnosperme, accar- tocciati quelli delle angiosperme. Ma nelle gimnosperme non soltanto è dato dal carpidio il carattere tassonomico primario: anche divisioni di secondo e terzo ordine sono fondate sopra profonde modificazioni del carpidio stesso. È quindi manifesta la necessità di uno studio approfondito di quest’ organo e delle sue diverse parti, se si vuol riuscire ad una soddisfacente classificazione delle gimnosperme. E se le numerose classificazioni fin qui proposte peccano quando per uno quando per altro lato, ciò è dovuto perchè gli autori di esse non avevano un concetto assolutamente esatto e completo di quest’ importante organo. Esporremo quindi la teoria del carpidio. Dapprima elucideremo lo schema del carpidio, delle sue diverse parti e delle sue principali modificazioni, e sarà uno MER a studio aprioristico. Di poi faremo seguire uno studio @ posteriori, ricercando nei pteridofiti le forme procarpidiali, nelle gimnosperme le forme archicarpidiali e isterocarpidiali. Il carpidio è un filloma; un organo pertanto identico, quanto alla genesi e alla natura, a un filloma puramente vegetativo. È un filloma metamorfico, perchè ha lasciato in parte o in tutto la funzione vegetativa e i caratteri morfologici inerenti a cotal funzione. Ha assunto invece la funzicne femminea che è quella di produrre ovuli, assumendo perciò caratteri morfologici congruenti alla novella funzione. La funzione femminea in genere si compone di due principali funzioni; cioè della funzione ootoca ed ootrofa, intesa a produrre ed a nutrire gli ovuli; e della funzione oostega, intesa ad albergarli ed a proteggerli. I caratteri del carpidio no- velli, quelli cioè che non si riscontrano in un filloma puramente vegetativo, dipen- dono appunto dall’ esercizio di queste due funzioni. In obbedienza alla legge della divisione del lavoro, la lamina del carpidio sì è divisa in due regioni, di cui l'una è doppia, l'altra semplice; si è divisa cioè in tre parti o porzioni; due laterali o marginali destinate al'a funzione ootoca ed ootrofa; una mediana destinata alla funzione oostega. Le due regioni laterali si chiamano placente: il loro insieme costituisce il corpo placentario. Possono essere disgiunte (nelle cicadee), oppure congiunte quella di destra con quella di sinistra, in un dato carpidio, e fuse in un unico corpo pla- centario (nelle salisburiee, nelle conifere, nelle leguminose fra le angiosperme ecc.). In molte altre angiosperme ove due o più carpidii formano il pistillo, la placenta di destra d’ un carpidio concresce colla placenta di sinistra del carpidio vicino in un placentario, e così si formano altrettanti placentarii quanti carpidii (placentazione parietale o septale). In altre angiosperme pol ove i carpidii hanno i margini molto introflessi, tutte le placente sì fondono in un placentario unico che occupa l’ asse del pistillo (placentazione assile ed ultrassile). Adunque il carpidio è un organo laminare idealmente tripartibile, e tripartito in realtà, anche quando la sua lamina sia intiera. Tripartito idealmente sotto l'aspetto delle fanzioni; tripartito realmente, quando vi ha uno sviluppo competente di fasci fibrosolegnosi, un fascio dei quali costituisce il nervo medio del carpidio, e due fasci laterali che si avviano l’uno alla placenta di destra, l’altro a quella di sinistra. In conclusione lo schema di un carpidio è molto semplice. È un filloma tri- nervio. Gli ovuli sono esclusivamente affissi alle regioni (margini del carpidio) percorse dai due nervi laterali (placentarii). Questa costituzione tripartibile e irinervia del carpidio si riscontra anche in tutte quelle piante sia gimnosperme che angiosperme, i cui fillomi vegetativi hanno nervatura semplice (uninervii, penninervii). Delle gimnosperme possiamo citare ad esempio tutte le abietinee e cupressinee; delle angiosperme molte specie appartenenti alle più svariate famiglie (Erica, Prunus, ecc.). TONO X. Ti I fasci laterali possono vincere in potenza il nervo mediano medesimo. Ciò anzi spesso accade e ben se ne intende la ragione; perocchè, se sotto l’ aspetto morfologico il nervo mediano dovrebbe avere sempre sugli altri il sopravvento, sotto l’aspetto fisiologico invece conviene sovente che siano più potenti i nervi laterali, dovendo dare passaggio a grande copia di nutrizione per alimentare gli ovuli e i semi. La lamina del carpidio, sebbene idealmente tripartibile, più sovente rimane indivisa, e allora gli ovuli e i semi sono affissi ai margini di questa lamina indi- visa. È questo il caso di gran lunga più generale. Lo denominiamo plurospermia. Sono pleurosperme le cicadee e la grandissima maggioranza delle angiosperme. Ma con ciò non è detto che la lamina carpidiale abbia ad essere sempre intiera e indivisa. Si dà anche il caso che sia profondamente tripartita; cosicchè il segmento me- diano (oostego) è libero perfettamente dai due segmenti laterali (ootochi ed ootrofi). Quando questo caso ha luogo, i segmenti laterali conerescono insieme in un corpo unico, cioè in un placentario che di necessità riesce contrapposto e sovrapposto al segmento mediano del carpidio. Questo caso, solennissimo carattere delle salisburiee, delle abietinee, delle cupres- sinee, delle araucariee e delle podocarpee, lo denominiamo col vocabolo antispermia. Se i carpidii, profondamente tripartiti, sono cinque in un verticillo, accade, per necessità di posizione e d’ incremento, che le parti mediane dei carpidii concre- scano aderenti in guisa da formare una parete ovariana apparentemente unitaria, e i dieci segmenti laterali, spinti in dentro, crescano coaliti in un corpo placentario unico, disgiunto affatto dalla parete ovariana. È questo il caso che si verifica în alcune angiosperme (primulacce, plumbaginee), e che è stato denominato placen- tazione centrale. Adunque anche le angiosperme offrono esempi di antispermia. Paragonate alle dimensioni e alla massa della porzione mediana del carpidio, diverse nelle diverse specie possono essere le dimensioni e la massa della regione placentaria. Per regola generale si può ammettere che la potenza o prepotenza del corpo placentario è proporzionale al numero .degli ovuli. Se gli ovuli prodotti sono pochi e talvolta ridotti ad uno, le placente o ì corpi placentari sogliono essere esili. Citiamo ad esempio, nelle gimnosperme, le cicadee, le araucarie, le podo- carpee; e nelle angiosperme, le ranuncolacee, le leguminose, le gigliacee ecc. Se gli ovuli per contro sono numerosissimi, le placente sogliono essere assai grosse ed ampie. Citiamo ad esempio il cipresso, e, nelle angiosperme, le orchidee, le orobanchee, le scrofulariacee, le ninfeacee, citinee ecc. Questa regola soffre qualche eccezione (Pinus, Biota, Iuniperus). Meditando sui fenomeni della pleurospermia e dell’antispermia, s' intuisce la leese morfologica, giusta la quale non si dà ovulo senza carpidio; e, qualunque siano le apparenze, dato un ovulo, la base in cui è impiantato è un punto pla- centario. SARO Ma vi sono ovuli che sembrano essere la diretta terminazione dell’ asse. Non si vede la placenta, tanto meno il carpidio. È questo un caso nuovo, ben diverso, quanto alle apparenze, dai precedenti, e che noi denominiamo azospermia. ‘Sono axospermi i generi delle tassinee (Torreya, Taxus, Cephalotarus) e delle gnetacee. Noi però non dobbiamo rimanerci alle apparenze. Ecco la spiegazione teorica di quest’ apparente anomalia. La nostra teoria meccanica, della fillotassi, fondata sullo sperimento della pila sferotattica o elicotetraedrica, fornisce i dati per la risoluzione del problema. Ogni filloma si compone di due parti, una fillopodiale ed una emergente: la fillopodiale non esce dal perimetro dell’ asse, anzi l’asse non è che il risultato della fusione dei fillopodii; la emergente è quella che fornisce i picciuoli e le lamine fogliari. Ora può darsi il caso che un determinato numero di fillomi non sviluppino altro che la regione fillopodiale, e allora si ha l'apparenza di un ramo afillo (infiorescenze delle cracifere, di aleune borraginee ecc.). Ciò premesso supponiamo che un carpidio, ultimo filloma prodotto dal punto vegetativo dell’asse femmineo, non abbia sviluppato nessuna emergenza e che sul suo vertice fillopodiale abbia prodotto un ovulo, quest ovulo, atteso la impercet- tibile piccolezza del puuto vegetativo (gittato d'altronde da banda) dovrà sembrare la diretta terminazione dell’ asse. Ma è una falsa apparenza, e la base dell’ovulo sarà una placenta poco o punto emersa. EicnLer che pure è andato avanti a tutti nella interpretazione morfologica dei fiori femminei delle conifere, non ha però dato una spiegazione completa e soddi- sfacente di tutti i casi d’ ovulazione nelle gimnosperme. Esso ha bensì notato nei diversi generi la diversa imposizione degli ovuli. Distinse ovuli epifilli (cicadee, araucarie ecc.), ovuli ascellari (cipressi ecc.), finalmente ovuli assili e terminali (tassinee e gncetacec). Tali sono i fatti, ma i fatti vogliono essere interpretati, e ad ErcmLer si può imputare di non aver data la richiesta interpretazione, mostrando così di credere alla possibile esistenza di ovuli ascellari e di ovuli assili. La posi- zione degli ovuli sarebbe quindi un fenomeno ezlege. Per me son ben lungi dal credere questo. Non credo alla possibilità nè di ovuli ascellari nè di ovuli assili. Per me gli ovuli sono costantemente una epigenesi delle foglie; e ove essi sono impiantati, quello spazio è da ritenersi in ogni caso per regione fogliare, anzi per regione placentaria, poniamo che questa regione possa essere talvolta alquanto spostata, e veramente in modo da occupare l’ ascella delle squame come nei cipressi, oppure il vertice d’ un asse come nelle tassinee e gnetacee. Contro la natura assile degli ovuli di Taxus è non ha guari insorto CeLaKovski (Zur Kvitil der Ansichten von der Fruchtschuppe der Abietineen, 1882), dicendo: «“ Kein Ovulum ohne Carpell, folglich muss cine der obersten Hiillschuppen das Fruchtblatj sein ,. Anche noi siamo convinti che non si dà ovulo senza il carpidio; ma non conveniamo che sia sempre vero che la brattea suprema ossia più vicina all’ovulo — {oa debba essere considerata come il suo carpidio, perchè può darsi il caso che la emergenza carpidiale abbia soggiaciuto a un aborto totale, rimanendo soltanto alla base dell’ovulo un breve tessuto placentario (11 quale eventualmente, come appunto mel tasso, può escrescere in arillo o secondo integumento attorno al seme). Tale è una teorica generale del carpidio delle piante superiori, quale può essere schematizzata a priori. Ora spetta a noi di avvalorarla con una esposizione a poste- riori; esponendo cioè la storia del carpidio dalle sue prime origini fino alle sue ultime manifestazioni. Il carpidio è una forma organica che appartiene alle piante superiori soltanto, ma i suoi veri inizii 0 più precisamente la sua preparazione sono da ricercarsi nei pteridofiti. Se è vero che l’ovulo equivale a uno sporangio (macrosporangio), sarà vero altresì che il filloma ovulifero delle piante superiori deve essere equivalente ed omologo al filloma sporangifero dei pteridofiti. E la regione sporangifera di questi fillomi equivarrà alla regione placentaria dei .carpidii. Ora che cosa osserviamo nei diversi generi delle filicinee ? Nelle foglie di queste piante si concretano medesimamente due funzioni, civè la funzione vegetativa e la funzione sporangifera. La solita legge della divisione del lavoro ha per effetto di equiparare le sorta degli organi a quelle delle funzioni. Dalla completa fusione di lavoro alla completa sua divisione intervengono tutti gl'imaginabili gradi di transizione. Così nelle filicine si danno specie dove tutte le foglie esercitano promiscuamente le due funzioni. Queste specie naturalmente sono isofille. Altre specie, dimorfofille, presentano due sorta di foglie, le une dedicate a funzione vegetativa, l altre a funzione sporificante (B/echnum spicant p. es.). Questa seconda sorta di foglia è già. notevolmente metamorfizzata, ma non tanto che non appariscano caratteri simili a quelli delle foglie vegetative, quali per es. quelli relativi alla incisione del con- torno ecc. Cosifatte foglie sono una evidente preparazione del carpidio. Finalmente ‘#1 danno specie trimorfofille che producono foglie vegetative, foglie sporificanti e foglie miste (Osmunda regalis ecc.). Nella seconda e terza maniera di foglie possiamo constatare diversi gradi di preparazione del carpidio. Fra le diverse forme fogliari delle felci, non poche se ne riscontrano (come già abbiamo notato parlando della classificazione dei pteridofitì), dove la lamina fogliare è suscett'va di dividersi in tre regioni, una mediana vegetativa (sterile), e due laterali sporificanti (fertili). Se la lamina sia pennilobata, caso frequentissimo, o pinnata, le pinne o i lobi supremi e mediani sono sterili, fertili invece gl’ inferiori ed esteriori. Ecco una forma fogliare affatto omologa al carpidio. E tanto è vero ciò che i carpidii del genere Cycas offrono precisamente cotal composizione. Adunque il fenomeno che abbiamo nominato 2posporangismo nelle felci, è identico a quello nelle piante superiori denominato plwurosperzia. Ma se le pinne inferiori od esterne di una felce, quelle che sono a destra con gina quelle che sono a sinistra, concrescono insieme in un corpo unico sporangifero, questo corpo verrà ad essere sovrapposto alla regione mediana della foglia, e si avrà quel fenomeno che denominammo antisporangismo e che è tanto caratteristico nelle ofioglosse e nelle marsiliacee. Anche qui è evidente che si tratta d’ un fenomeno identico a quello che presso le piante supcriori abbiamo denominato antispermia. Queste osservazioni e speculazioni sono di estremo interesse per la filogenetica ordinazione delle piante superiori. Infatti nella stessa maniera che le felci antisporangiate derivano senza dubbio da una forma iposporangiata e non viceversa, così le piante autispermiche derivano da una forma pleurospermica e non viceversa. Resta a dire delle forme axospermiche. Considerando che l’ axospermia proviene dall’ aborto di tutta quanta la emergenza carpidiale, salvo un ovulo e una ristretta base placentaria in cui siede l’ ovulo stesso, egli è chiaro che questo fenomeno può effettuarsi tanto in una stirpe antispermica che pleurospermica. Così a priori noi possiamo stabilire questa ordinazione schematica: Forme pleurospermiche I | Forme antispermiche Forme axo-(anti)spermiche Forme axo-(pleuro)spermiche A questo schema a priori corrisponde l ottima classificazione a posteriori delle gimnosperme. Non abbiamo infatti che a sostituire nelle sue caselle i nomi delle singole famiglie e tribù, come si vede nel seguente quadro: Cicadee I | Salisburiee Conifere carpidiate Tassinee Gnetacee $ 12. Fondazione della famiglia delle salisburice. Trovo questa famiglia contemplata soltanto da botanici paleontologi fra cui citiamo Graxp' Eury e Saporta. E furono verisimilmente a ciò indotti meno da speculazioni di morfologia comparata che da numerose assai divergenti forme vigenti in remotissime epoche geologiche, ed aventi maggiore o minore affinità coll’odierna unica rappresentante della famiglia, cioè colla Gingko biloba L. (Salisburya adian- thifolia Sm.). I sistematici per contro li trovo tutti d’ accordo nel collocare la Gingko fra le tassinee (per es. Expuiczer, ParLatore, Bexriam e Hooker, EicuLer. Così pure fanno i trattatisti (Sacus, Van Treauen, WARMING ecc.). e RU L’amalgamazione del genere Gingko colle tassinee ci sembra un grave errore. Si comprende come in questo errore siano incorsi tutti quei botanici che il peduncolo ovulifero della Gingko considerarono come una ramificazione; ma non comprendo come vi sian pure incorso Van Tieauex , il quale considera detto peduncolo come un carpello, o per meglio dire come un corpo omologo (e lo è infatti) alla squama ovulifera delle abietinee. Ora noi brevemente esporremo le ragioni che comandano di elevare in famiglia propria le salisburiee, ben distinta da tutte le altre famiglie gimnospermiche e tanto più dalle tassinee, colle quali nulla ha che fare, manifestando invece, oltre la impronta di una grande antichità, una meno remota affinità colle cicadee. E in primo luogo, memori dell’ aforismo linneano — habitus occulte consu- lendus est — consideriamo il portamento di una pianta di Giryko. Niente di più repugnante ail’ abito delle tassinee, abbastanza monotono in tutti tre i generi della tribù (Tarus, Torreya, Cephalotarus), e.che si ripete nella realmente affine tribù delle podocarpee. Per contro i brachiblasti di Gingko sono una vera riproduzione in miniatura d’una pianta di Cycas, di cui ripetono i principali caratteri, anche nella omologa successione di foglie squamiformi e di foglie sviluppate, nella soppressione degli internodii, nel ricco sviluppo della lamina fogliare, nelle dimensioni e nella natura drupacea del seme ecc. Lo sviluppo dei fasci fibrosi nelle singole foglie di Gingko è ben più potente che in qualsiasi tassinea. È soltanto comparabile a quello delle cicadee. Sopratutto la ricca nervatura dicotomica ricorda assai quella delle pinne di non poche cicadee fossili (Sphenozamites, Noeggerathir ecc.), nonchè di molte filicinee. Questo è un carattere che indica grande antichità. La prefogliazione convoluta o accartocciata delle foglie di Gingkto è una esatta traduzione della prefogliazione circinale delle Cycas (e delle felci). Infatti in una foglia o fogliolina protratta in largo anzichè in lungo la circinazione si trasforma necessariamente in convoluzione, come accade per esempio anche nelle pinne di Encephalartos horridus. Zuccarisi, nella sua classica Memoria “ Beitrige zur Mor- phologie der Coniferen , (nelle Memorie dell’ Accademia delle scienze di Monaco), ha insistito su questa omologia delle foglie di Gangko con quelle delle cicadee. Tanto i brachiblasti femminili di Gingko quanto le piante femminili di Cycas, quanto infine tutte le filicinee, offrono il fenomeno di una perpetua diafisi. La produzione dei carpidii non arresta punto l’ ulteriore allungamento dell’ asse, e con ciò nun è possibile la formazione di coni e di altri consimili fiori a incremento definito. Sotto quest’ aspetto i generi Cycas e Gingko sono in opposizione a tutte le restanti piante così gimnosperme che angiosperme. Dopo ciò è impossibile il non accordare un grande valore a questo carattere differenziale massimo e di prim’ ordine che è la diafisi. E se si riflette che tutte le filicine sono pur esse diafitiche, sì concluderà anche sulla grande antichità dei due generi Cycas e Gingho. Ciò essendo, RE, -15 pe come mai quest’ ultimo genere potrà essere conglobato colle tassinee, che fra tutte le conifere sono le forme più inaccessibili alla diafisi? E infatti come potrebbe la diafisi effettuarsi in piante, le quali appunto per essere assospermiche, disvelano il massimo esaurimento dei coni vegetativi negli assi florali? Per contro meno restii alla diafisi sono i coni delle abietinee e delle tassodiee, e per quanto in essi sia un caso teratologico, questo easo verificasi spesso, ed è frequentissimo sopra tutto in alcuni individui di Criptomeria japonica e di Larix europaea. Questa facilità alla diafisi è pure indizio della grande antichità delle abietinee e tassodiee. Dal contrario si dee arguire il contrario quanto alie tassinee e alle gnetacee (1). Ma ancora non abbiamo toccato d’un carattere differenziale massimo che sce- vera il genere Gingko, da tutti quanti i generi fanerogamici, non escluso il genere Cycas medesimo. La porzione mediana del carpidio di Girgko, quella cioè che alla sua ascella produce il corpo placentario antispermico, perseverando completamente nell’ ovigi- naria funzione vegetativa, non differisce per nulla dalle solite foglie vegetative, di cui conserva tutti 1 caratteri, compreso quello delle dimensioni. Questa porzione mediana del carpidio non è distinguibile da una foglia ordinaria. Nel genere Cyeas abbiamo bensì qualche cosa che rassomiglia questa contin- genza; poichè infatti il carpidio, ovulifero alla base, è surmontato da una regione pianatifida che ripete i caratteri di forma delle foglie vegetative, ma questa regione più non adempie funzione vegetativa, ed è grandemente ridotta nelle sue dimensioni. Laddove nel genere Gingko cessa ogni differenza tra la porzione mediana del carpidio e la foglia ordinaria. Ecco un altro carattere che è certo indizio della più alta antichità. E per ritrovarlo nella sua prima comparsa bisogna risalire alle ofioglossee e alle marsi- liacee, dove la differenza tra le foglie sterili e le foglie fertili (antisporangiche) è precisamente identica a quella che passa tra le foglie vegetative e le foglie fertili (antispermiche) di Girgko. E se si riflette che anche pel lembo bi-quadripartito, per i fascii furcinervii, per la diafisi ece. i due generi Marsilia e Gingko combinano non poco, quasi si sarebbe tentati a concludere che le gimnosperme antispermiche siano una postuma evoluzione di un tipo filicino non molto distante dalle narsiliacee. Ma già abbiamo esposto più poderosi argomenti che convalidano la teoria di una rigorosa unità d'origine per tutte le gimnosperme, riuscendo invero più ragionevole di assumere che le gimnosperme antispermiche siansi evolute da uno stipite pleurospermico affine al genere Cycas. (1) Anche nei fiori delle angiosperme dicotiledoni si presenta talvolta la diafisi, ma con tutti i contrassegni di una profonda mostruosità; non ostante anche in esse tal fenomeno deve essere considerato come la risurrezione d'un carattere atavico arretratissimo, il quale ricorda appunto la costituzione normale degl’individui femminei di Cycas e di Gergko. —= Nor Dalle cose fin qui dette sembra giustificata la necessità di elevare la Gingko a tipo d'una famiglia speciale di gimnosperme, da interporsi nel sistema fra le cicadee e le conifere. $ 18. Singolarità del genere Sciadopitys. Questo genere monotipo offre nella sua regione vegetativa un fenomeno a dirittura unico per cui è singolarizzato fra tutte le fanerogame. La sua eterofillia è un enigma la cui risoluzione è di capitale importanza per la classificazione delle conifere. La pianticella germinante sviluppa dapprima, sopra un asse a internodii pro- nunziati foglie primordiali in forma di aghi uninervii; più in alto questi aghi, gradatamente riducendosi nelle dimensioni, si vanno trasmutando in squame desti- tuite di funzione vegetativa. La pianta, quando è adulta, di foglie primordiali più non produce altra forma se non questa di squame, e non potrebbe soddisfare alla funzione clorofillacea, se verso la sommità dei ramilli o getti annotini, all’ ascella di ciascuna squama non producesse un corpo aghiforme verde. Fin qui questa eterofillia ha una singolare rassomiglianza con quella ben nota che è propria del genere Pinus. Anche nei pini le foglie primordiali aghiformi hanno lo stesso destino. Nella pianta adulta sono convertite in squame inette alla funzione clorofillofora. Se non che all’ascella di ognuna di cotali squame è prodotto un brachiblasto 2-3-5 filli, coll’apice vegetativo prontamente defunto, e inoltre munito alla base di una guaina di fillomi ramentacei. A queste foglie o aghi di seconda generazione è devoluta tutta la funzione clorofillacea. Si presenta spontaneamente Ja congettura che l’unico ago ascellare di Sciado- pîtys possa equivalere a un brachiblasto di pino. Vedremo in seguito quel che vi può essere di vero in siffatta congettura. Intanto giova insistere sopra una notevole differenza che si riscontra mettendo a fronte, in piante adulte, un getto annotino di .Sciadopitys, con un getto annotino di Pinus. Presso quest’ultimo tutti gl’internodii sono quasi egualmente sviluppati, e cia- scuna squama è fertile alla sua ascella, vale a dire produce un brachiblasto con 2-3-5 aghi. Invece presso un getto annotino di Sciadopîtys gl’internodii verso la base, verso il mezzo, verso l’alto sono tutti bene sviluppati con forse una dozzina di squame in quinconce: ma queste squame sono sterili, nulla producono alla loro ascella. Nell’ apice poi del getto si formano circa 15-20 squame in quattro o cinque circonvoluzioni quineunciali con soppressione totale delle distanze internodali, e ciascuna di queste squame sviluppa un grosso e lungo ago all’ascella. E siccome SE O questi aghi durano parecchi anni così una ramificazione di Sciadopitys veste un curioso aspetto di verticilli o di ombrelli d’ aghi, infilati su ciascun asse. Spiegheremo poi il profondo significato d’ una tal differenza. Uso Monr pubblicò non ha guari un importan*issimo studio sull'argomento (1). Egli scoperse che l’ago di Sciadopitys è percorso dalla sua base fino all’estremo apice da due fasci fibrosi paralleli. Di più scoperse che in ciascuno di essi gli elementi del floema sono rivolti verso ila pagina superiore e quelli dello xilema verso la pagina inferiore. Adunque secondo Mont l'ago di Sciadopitys è un corpo risultante dall'unione longitudinale e laterale di due aghi, la cui pagina morfologicamente inferiore è geometricamente superiore e viceversa. Riflettendo su questa contingenza e su quella della posizione ascellare di così- fatto corpo, venne alla conclusione che i due fillomi di cui si compone debbono essere nati sopra un asse non sviluppato, precisamente come la coppia d’ aghi dei brachiblasti del sottogenere Pinaster. Monr concluse altresì che la squama ascellante e l'ago geminato ascellare di Sciadopitys sia un corpo omologo a un carpidio del cono di Pinus, la squama ascellante corrispondendo alla brattea e l’ago al corpo ovulifero. Due corpi omologhi ad un terzo sono di necessità omologhi pure tra di loro. Quindi, secondo le conclusioni di Mont, l’ago di Sciadopitys, il brachiblasto di Pinus, il corpo ovulifero delle abietinee sono forme omologhe. Ma noi crediamo aver messo fuori dubbio che il corpo ovulifero delle abietinee, nonchè essere un brachiblasto cioè un organismo, non è neanco un organo intiero, ma soltanto il margine destro e sinistro d’ un organo (del carpidio). Laonde le conclusioni di Uso Men implicano contraddizione. L’ago di Scia- dopitys o è omologo a un brachiblasto di pino e allora non può essere omologo al corpo ovulifero delle abietinee. Oppure è omologo a questo corpo ovulifero e aliora non può essere omologo a un brachiblasto di pino. Ecco un enigma la cui soluzione è capitale per la classificazione. Poichè se detto ago è omologo a un brachiblasto di pino, lo Sciadopitys è un genere di poca importanza morfologica, da riporsi a canto del sottogenere Pinaster. Ma ben altra è la sua posizione ed importanza, quando fosse provata la omologia del suo ago col corpo ovulifero delle abietinse. Supponiamo dapprima che il genere Sciadopîtys sia una stirpe provenuta dal sottogenere Pinaster, differenziata e caratterizzata dall’ abolizione della guaina sca- riosa in ogni brachiblasto e dalla coalescenza dei due aghi in uno. Riflettendo che il sottogenere Pinaster è una evoluzione del sottogenere Taeda, che il sottogenere Tacda è a sua volta una evoluzione dei sottogeneri Strobus e Cembra; riflettendo (1) Morphologische Betrachtung der Bliitter von Sciadopitys, nella Botanische Zeitung, N 1, 2 del 1871. TOMO X. 8 DSS poi che tutti questi sottogeneri combinano mirabilmente in tutti i principali caratteri dei loro coni e dei loro carpidii, per più forte ragione il genere Sciadopitys dovrebbe negli stessi caratteri combinare. Ma è tutt’ altro. Il cono e la squama ovulifera di Sciadopitys ha tutt’ altri caratteri, ed è tale che, come vedremo, riunisce quasi in potenza tutti i caratteri dei coni e dei carpidii delle abietinee, delle tassodiee e delle araucariee. Ora è tempo di rimettere in campo la differenza che nel getto annotino di Sciadopitys gli aghi sono agglomerati soltanto al vertice. Se fossero omologhi ai brachiblasti di pino dovrebbe trovarsene uno all’ ascella di tutte le squame, e non in quella delle squame del vertice soltanto. Questa localizzazione ‘conferma che l'ago di Sciadopitys unitamente alla squama ascellante è omologo a un carpidio antispermico e non a un brachiblasto. E ne deriva la conclusione ben singolare e ben importante che il vertice d'ogni getto annotino di Sciadopitys rappresenta un cono retrogredito da una forma nor- male ovulifera a una forma d'asse vegetativo. In sostanza i corpi placentarii di siffatti coni avrebbero subìto una curiosa metamorfosi regressiva, abbandonando la funzione ovulifera, e usurpando alle foglie vere (ridotte a squame sterili) la loro funzione clorofilliana e la loro forma di aghi. Questa veduta teorica spiega tutti i fatti, e nello stesso tempo mette in piena luce la eccezionale importanza ed antichità del tipo Sciadopitys che si rivela come una delle forme archetipe delle conifere, perpetuatasi per sorte fino al dì d’oggi. L’ antichità sua è provata non tanto da questo fenomeno di metamorfosi regres- siva (perocchè è di natura da potersi attuare eventualmente anche negli ultimi annelli di un dato lignaggio), quanto da un fenomeno concomitante, cioè dal fenomeno della diafisi. Infatti i coni metamorfici vegetativi di Sciadopitys sono diafitici allo stesso titolo che è diafitica una pianta di Cycas, dove a più circonvoluzioni di foglie sterili succede un certo numero di circonvoluzioni di foglie fertili (carpidii), a queste succedono di nuovo foglie sterili e così via discorrendo. È chiaro che precisamente la stessa cosa avviene nello Sciadopîtys, il quale disvela così, insieme all’impronta di una grande antichità, innegabili e strette attinenze al generi Cycas e Gingko. E la teoria contempla gli antenati del genere Sciadopitys, 1 quali, prima che fosse avvenuta la differenziazione de’ suoì coni e delle sue squame attuali, dovevano essere costituiti da ramificazioni diafitiche, ove a foglie vegetative (aventi la forma delle foglie primordiali nelle attuali pianticelle nascenti) succedevano foglie fertili producenti all’ ascella un ago ovulifero (concor- danza col genere Gingto). In seguito sarebbe cessata parzialmente in alcuni getti la diafisi, sì sarebbero questi metamorfizzati in coni, e nei rimanenti getti, conser- vandosi la diafisi, i corpi placentarii avrebbero mutato la funzione ovulifera colla funzione vegetativa (1). (1) Questa veduta teorica, superficialmente considerata, potrà sembrare, più che ardita, para- Migi40 BE Il genere Sciadopitys, considerato come una forma prototipica, rivela molteplici rapporti di affinità colle abietinee, collo tassodiee e colle araucariee. Per la organizzazione dei coni, per la struttura del carpidio, per la semiaderenza della brattea col placentario ovulifero, questo genere ben si può ritenere intermedio tra le abietinee e le tassodiee. I suoi stami somigliano assai quelli di Picea. Per la direzione antitropa degli ovuli e per la loro ubicazione somiglia non poco i generi Cunninghamia e Sequoia. È simile a quest’ ultimo anche per il numero degli ovuli e per lo spessore del corpo placentario. Adunque la sua posizione è di essere a capo delle tre serie in cui sì è venuta svolgendo nel tempo e nello spazio Ja famiglia delle conifere, e ciò viene anco a convalidare la teoria che abbiamo esposto intorno alla natura morfologica dei suoi aghi. $ 14. Circoscrizione e dipendenza della tribù delle Araucariee. Molti autori sono propensi a ritenere le araucarie come le forme più antiche delle conifere. Dobbiamo considerare se questa opinione regge di fronte alle dedu- zioni della morfologia comparata e della dottrina filogenetica. Pare confortata questa opinione dal numero grande di sacchi pollinici che hanno gli stami d’araucaria, per cui meno differiscono dagli stami d’ una zamiea. Ma la importanza d’un carattere basata meramente sul numero potrebbe essere impugnata. Meglio è stabilire il confronto tra un carpidio di Araucaria e uno di Zamia. Se i carpidii d’Araucaria fossero pleurospermi, la prevalente antichità delle arau- cariee sulle altre conifere sarebbe bella e dimostrata. La sottigliezza notevole e l’appianamento dei carpidii stessi potrebbe far credere che in realtà siano pleuro- spermi. Veramente hanno un sol seme e ne dovrebbero aver due come le zamiee, uno per parte. Ma si potrebbe allegare il possibile aborto d’un ovulo. Veramente l’unico ovulo dovrebb' essere situato all'uno dei lati e invece occupa la parte mediana del carpidio. Ma si potrebbe allegare una spostazione per causa meccanica. Le ragioni perentorie che escludono la pleurospermia nei coni d’ Araucaria sono due. Una è data dalla presenza di una ligula emergente dalla faccia interna del carpidio sovrastante all’ ovulo. Ora cosa è questa ligula se non l'apice per l’ ap- punto d’un corpo placentario antispermico? L'altra ragione è data dall affinità col genere Cunninghamia, il cui carpidio. triovulato non può essere certamente pleurospermico, sia perchè produce tre ovuli e non due, sia perchè un evidente benchè tenue corpo antispermico, in relazione dossastica. Ma essa spiega mirabilmente tutti i fatti, e pone tutte le conifere sotto la dipendenza di una forma primordiale che poco doveva differire dall’attual genere Sciadopitys. ai tre ovuli anatrepi da esso pendenti, viene a terminare in una ligula frangiata assai larga e con un accenno alla tripartizione. Resta il genere Dammara il cui carpidio larghissimo ha un minimo spessore, a segno tale che non si potè formare nessuna emergenza ligulare al di sopra del- unico ovulo prodotto. Ma la stretta affinità del genere Dammara col genere Araucaria impone che, ammessa l’antispermia per l'uno, venga ammessa anche per l'altro. Perciò le araucariee sono dichiarate antispermiche. Quand’ è così convien paragonare il tipo delle araucariee cogli altri tipi anti- spermici, cioè Gingko, Sciadopitys, abietinee, tassodiee, per constatare se possa avere titoli a una maggiore antichità. Il tipo Araucaria vedesi cadere senz’ altro dinanzi ai generi Gingko e Sciadopitys, essendo in esso totalmente abolito il carattere primordiale della diafisi negli assi femminei. Le abietinee, tipo regolarissimo, dispermo al pari delle zamiee, disvelano un carattere antico, non solo nella regolare semplicità del loro sviluppo, ma eziandio nella libertà della porzione mediana del carpidio dall’ antispermica sua porzione. Molto cedono per questo riguardo alle abietinee le araucariee. Le tassodiee, tipo pure regolarissimo e completo, nei loro conì polispermi e pachicarpi quasi riproducendo la struttura di quelli di Sciadopitys, mostrano esse pure di appartenere a un tipo assai antico. Le araucarice invece, almeno quanto ai due generi Araucaria e Dammara, offe- wrebbero indizio d’ evoluzione alquanto posteriore nella estrema riduzione ed esiguità del corpo placentario antispermico e nel carattere della loro inflessibile monospermia. Dei tre generi araucariei per antichità parrebbe dover procedere il genere Cunninghamia perchè trispermo e ad ovuli liberi. Il genere Dammara poi ad un carattere antico (libertà dell’ ovulo) congiunge un carattere postumo (abolizione della ligula). Viceversa il genere Araucaria al carattere antico della presenza della ligula congiunge il carattere postumo dell'aderenza ovulare. Sono così da ritenersi per forme collaterali scaturite da un tipo anteriore ligulato e liberovulato, forse non molto dissimile dal genere Cunninghamia. La morfologia comparata pertanto in unione alla dottrina filogenetica assegne- rebbe alle araucariee una evoluzione posteriore alla comparsa non soltanto delle cicadee, ma eziandio delle salisburiee, delle abietinee, delle tassodiee. Ove questo discordi più o meno colle conclusioni oggidì adottate in paleontologia, veggano i geologi se e come sia possibile fare armonizzare i trovati paleontologici coi dati della morfologia comparata. Resta ora aperta un’ altra questione. Tra le abietinee e le tassodiee quali sono da aversi per tipi più affini alle araucariee, in guisa da giustificare la teoria della origine di quest’ ultime? Il genere Cunninghamia nella organizzazione dei coni mostra molta rassomiglianza col genere .Sequoia; laonde è plausibile la ipotesi che A 5 TS le araucariee siano una discendenza delle tassodiee, per quanto non giudichiamo trascurabile un’ altra ipotesi, giusta cui il tipo Cunninghamia sarebbe direttamente deducibile da una forma affine al genere Sciadopitys, per altro fornita di stami plurisacculati. $ 15. Circoscrizione e dipendenza delle podocarpee. Le podocarpee costituiscono un gruppo assai naturale di conifere. I generi che vi comprendiamo sono: Stachycarpus, Podocarpus, PhyUocladus, Microcachrys (e Sazxe- gothea), Dacrydium (e Pherosphaera). Tutti i loro caratteri venzono a confermare che. essi sono una discendenza delle abietinee, per altro molto alterata da riduzione e da depauperazione nelle parti e nei caratteri dei carpidii. I carpidii trovansi ancora riuniti in un asse limitato di figura conoide nei generi Microcachrys e PhyUocladus. Questa forma è già alquanto disciolta nel Dacrydium Franklinii, ove le cinque o sei foglie estreme di ogni asse femmineo si distinguono per essere fertili ed ovulifere. Ma l'estrema fogiia soltanto è fertile in altri Dacrydium. Nello Stackycarpus abbiamo un certo numero di carpidii ordinati sopra un asse sottile a internodii prolungati, a modo di una spiga lassiflora. Nell’ affinissimo Podocarpus abbiamo abbreviazione di cosìfatta spiga im un corpo fruttifero polposo, costituito da varii fillomi incrassati, fertile essendo l’ estremo o tutt’ al più due. Nei carpidii di tutti i generi è sempre avvertibile il doppio sviluppo e della porzione mediana del carpidio, e della porzione antispermica, la quale sovente escresce intorno all’ unico seme in forma di arillo o di cupula (PlyUocladus, Da- erydium, Microcachrys). L’ ovulo è sempre unico. I carpidii delle podocarpee sono inflessibilmente mo- nospermi. L’ ovulo è ascellare o basilare nel solo PlyMocladus. In tutti gli altri generi emerge più o meno altamente dalla squama antispermica, anzi nei generi Micro- cachrys, Stachycarpus, Podocarpus emerge dalla sommità d’ essa squama. Più o meno obliquo e subevetto nelle diverse specie di Dacrydium, eretto nel solo PhyMocladus, è anatropo in tutti i restanti generi. L’ ovulo è libero d’ ogni aderenza colla squama nei generi PhyMocladus, Da- erydium, Microcachrys; è completamente aderente nel genere Podocarpus, e semi- aderente nello Stackycarpus. Il corpo antispermico è libero dalla porzione media del carpidio nel genere Phyllocladus, semiaderente nello Stachycarpus e in molte specie di Podocarpus; è completamente aderente nel Podocarpus dacrydivides, e, salva la emergenza cupu- liforme o arilloide, nei generi Microcachrys e Dacrydium. siti In base a siffatta rete di caratteri e supponendo che le podocarpee siano una discendenza delle abietinee, le loro forme potrebbero essere ordinate come segue: Stachycarpus I Podocarpus | Phyllocladus | Microcachrys | Dacrydium Che poi le podocarpee siano una stirpe diramatasi dalle abietinee è provato quasi con certezza dai loro stami che hanno struttura e caratteri affatto identici con quelli delle abietinee. Constano infatti di due sacchi pollinici aderenti al fila- mento e terminanti in un connettivo squamiforme trigono ; carattere che oltre al- l essere comune colle abietinee si ritrova ancora nel capostipite .Sciadopitys. Inol- tre nella maggior parte delle podocarpee le cellule polliniche sono munite dei due palloncini tanto caratteristici del polline nei generi Abies e Pinus. $ 16. Ordinazione delle tassinee e loro dipendenza. Gli ovuli nelle tassinee, soppressa essendo totalmente la regione mediana del carpidio, sembrano la diretta terminazione di un asse femmineo monospermo. Se nel Dacrydium cupressinum oppure nel D. Colensoi si sopprime colla imaginazione la emergenza del carpidio e si raddrizza un poco l’ ovulo, ne vien fuori un fiore di Taxus, e di più con egual ragione cupulato. Il corpo antispermico evidentemente più non è rappresentato se non che da un breve pavimento di tessuto, su cui siede l’ unico ovulo prodotto. Abbiamo così in confronto del prototipo Sciadopitys la massima depauperazione ; cioè 1° sterilizzazione di tutte le brattee del cono, eccetto una ossia la terminale ; 2° aborto completo della regione emergenziale di questa brattea; 3° aborto di tutti gli ovuli eccetto uno. Esiste nei generi Torreya e Taxus la tendenza a produrre un cono, perchè l’asse femmineo al di sotto dell’ unico ovulo produce 4 brattee (Zorreya), o 6 (Taxus), le quali rimangono esilissime e sterili. Nel genere Cephalotazus abortiscono completamente anche queste brattee, e gli assi femminei (pure uniovulati) sono nudi. Queste contingenze, espresse nella chiave tassonomica che qui proponiamo, { diafitica bratteati...... Torreya completi, in spiga Ovuli sovra dicasii semplici | definita ebratteati . ..... Cephalotarus dimidiati, terminali, bratteati. . ... RE TA Taxus seculo i giustificano appieno la ordinazione filogenetica che segue : Torreya | | Taxus Cephalotaxus Quanto poi ad assegnare gli ascendenti alle tassinee, siamo in un bivio. Pe- rocchè se badiamo ai caratteri della evoluzione le tassinee mostrano i più stretti rapporti colle podocarpee e segnatamente col genere Dacrydium ; affinità confer- mata dall’ abito dei rami vegetativi e delle foglie, sorprendentemente simili a quelle delle podocarpee. Ma se badiamo ai caratteri maschili gli stami, lungi dall’ essere rigorosamente bisacculati, hanno 3-4 fino a 7 sacchi pollinici. Di più questi sacchi in luogo di essere aderenti al filamento sono perfettamente liberi e pendoli. Adunque sotto l'aspetto degli organi maschili, le tassinee dovrebbero essere un’ appendice delle araucariee. Quale delle due ipotesi risponde al vero? Forse in seguito si presenteranno altri criterii. Per ora ci sembra più verosimile la prima; per cui provvisoriamente l’adotteremo, considerando le tassinee come un’ appendice delle podocarpee. $ 17. Ordinazione delle cupressinee. È loro carattere di avere carpidii di notevole spessore, risultanti da una quasi completa aderenza della porzione mediana col corpo antispermico; tipicamente polispermi, ma in alcune forme con varia depauperazione oligospermi fino ad essere monospermi; ad ovuli quando pendoli, quando eretti, quando ascellari, quando sovrascellari (estrascellari nel genere Juniperus per causa di pressione); riuniti costantemente in coni legnosi, più raramente drupacei. Le cupressinee comprendono due tribù poco differenziate 1’ una dall’ altra, cioè le tassodiee (con diritto di progenitura, conceduta dalla quasi totale identificazione dei loro coni con quelli di Sciadopîtys), e le cupressee, secondogenite. È notoria la distinzione loro mediante la fillotassi, che tanto nelle foglie vegetative quanto nelle sessuali è spirale nelle tassodiee, verticillare nelle cupressee. I generi delle tassodiee possono essere ristretti a quattro cioè Sequoia, Taxodium, Cryptomeria, Arthrotazis, e anche queste poche forme generiche sono tanto affini tra di loro che manca ogni appiglio a congetturare il loro reciproco grado di parentela, per cui provvisoriamente possiamo averle in conto di collaterali. Anche i numerosi generi delle cupressee ammesse dagli autori sono suscettivi di essere ridotti a poche forme generiche, quali sarebbero le seguenti: Jumiperus, Cupressus, Actinostrobus, Thuja (1). (1) Nel genere Actinostrobus conglobiamo i generi Callitris, Frenela, Fitzroya ed altri; nel SI Di questi generi quello che merita il titolo di primogenito sarebbe lo SJuniperus. Infatti nelle sue tre diverse forme sottogeneriche adombra la eterofillia sviluppatasi in tutto il gruppo. Così nel sottogenere Oxycedrus le foglie sono tutte aghiformi; nel genere Sabina i rami sono tutti eterofilli, producendo in diversi tratti foglie squamiformi (cipressine) e foglie aghiformi (ossicedrine); nel sottogenere Phoenicia le foglie sono tutte di tipo cipressino. È notevole ancora il fenomeno che piante di Cupressus e di Thuja nella loro prima età sviluppano foglie di tipo ossicedrino, e in seguito le foglie squamiformi loro caratteristiche. Notando poi che gli actinostrobi non sono altro che cipressi a coni depauperati, e le tuje cipressi a rami compressi, pare giustificata per le cupressee la seguente formula filogenetica. Oxycedrus | Sabina | Phoenicia Cupressus I uil Actinostrobus Thuja $ 18. Ordinazione delle abietinee. In questo naturalissimo gruppo di piante consideriamo soltanto il genere Abies (colle sue diverse sezioni), il genere Larix (congiobandovi i generi Pseudolarix e Cedrus), e il genere Pinus (colle sue diverse sezioni). Ponendo a germinare una pianta del sottogenere Pinaster si rileva un fenomeno singolare. La pianta nei primi anni di vegetazione non svolge che foglie di tipo abietino; in seguito, all’ ascella di foglie rudimentarie squamiformi, svolge esclusi- vamente le caratteristiche coppie di aghi sovra brachiblasti con cono di vegetazione defunto. Considerando poi che nel genere Abies non si danno brachiblasti, e che nel genere Larix i brachiblasti sono polifilli ed hanno l'apice vegetativo dormente bensì ma non defunto; considerando che i brachiblasti di Pinus hanno invece l’apice vegetativo defunto dopo aver prodotto 5 foglie o aghi nei sottogeneri .Strobus e Cembra, 3 nel sottogenere Taeda, 2 nel sottogenere Pinaster; facendo tutte queste genere Thuja, i generi Biota, Thujopsis e Libocedrus; nel genere Cupressus il genere Chamae- cyparis. Zu a considerazioni, resta giustificata la seguente formula filogenetica, che rappresenta la evoluzione delle abietinee. Abies | Larix Ì Strobus | Cembra ] Taeda ] Pinaster, $ 19. Importanza delle cicadee nella storia naturale e nella classificazione. Sotto ogni riguardo morfologico e biologico le cicadee e fra le cicadee il genere Cycas rappresentano le forme prototipiche delle gimnosperme. Già abbiamo qua e colà nelle precedenti pagine accennate le ragioni d’ ordine morfologico che asse- gnano in anzianità il primo posto al genere Cycas: 1° perchè pleurospermico nei fillomi femminili, e multisacculato (iposporangico e pachisporangico) nella pagina inferiore dei fillomi maschili; 2° perchè diafitico (almeno negl’individui femminili), e perchè ne’ suoi carpidii conserva ancora i caratteri di forma delle foglie vege- tative; 3° perchè i suoi ovuli manifestamente sono impiantati sovra pinne fogliari rudimentali. A queste sì aggiungono anche ragioni biologiche, e principalmente perchè nella esecuzione della staurogamia è un genere improntato alla più schietta e primigenia diecia anemofila. Tale antichissima famiglia, rappresentata oggidì da poche forme sporadiche, disseminate in varie regioni della terra, si compone del genere Cycas e della tribù delle zamiee. Queste hanno evidenti ‘caratteri di formazione posteriore. È cessata la diafisi negl individui femminei, comparendo in suo luogo la forma di cono, tanto generalizzata poi nelle conifere. I carpidi sono più profondamente metamorfici ed elaborati. La loro porzione mediana, foggiata a clava e indivisa, ha perduto ogni esterna rassomiglianza coi fillomi vegetativi. La originaria polispermia è ridotta a costante dispermia. Gli otto o nove generi che dagli autori sono riconosciuti alle zamiee sono tanto affini tra loro che fin qui mi sfuggirono dati su cui fondare la teorica rappresen- tazione dei loro gradi di parentela. Cosiechè provvisoriamente li consideriamo come forme collaterali. E infatti caratteri antichi di diverso ordine e significato sono distribuiti sporadicamente ora nell’ uno ora nell’ altro genere di zamiee, senza essere preferentemente coadunati in alcuno. Così il genere Stangeria ha pinne penninervie, dove dal nervo primario partono verso i margini sottili nervi secondarii più volte TOMO X. 9 dicotomici, con segnalata reminiscenza delle pinne o delle frondi in molti generi di filicine.-Il genere Bowenia ha foglie bipinnate di altri generi di felci. Il genere Dioon ha ciascun ovulo insidente sopra una pinna evoluta ancora più che nello stesso genere Cycas, e inoltre possiede uno sviluppo notevole fogliiforme della por- zione terminale del carpidio. Nell Encephalartos villosus le pinne fogliari laciniato- dentate nel modo come decrescono verso la base delle foglie riproducono l’abito degli Aspidium e di non poche altre felci ecc. Ora è da toccare la questione che si riferisce all’ascendenza e alla discendenza delle cicadee considerate in blocco. Abbiamo già messo in evidenza che l archetipo pteridofitico da cui dovette pigliare il punto di partenza il lignaggio delle cicadee doveva essere una felce iposporangiata, pachisporangiata, sorosporangiata, diafitica e finalmente eterosporea. Delle forme di felci pervenute fino a’ giorni nostri le quali riuniscano i cinque caratteri succitati non ve ne ha nessuna; ma vi sono le marattiacee che riuniscono i primi quattro caratteri. Si deve concludere da ciò che l’ archetipo pteridofitico delle cicadee oggidì più non esiste, e che doveva avere molta affinità colle marat- tiacee, salvo l’ aggiunta di due caratteri nuovi cioè l’ eterosporismo e la diecia. E:caLer propenderebbe invece a considerarle come la stirpe d’ una rizocarpea; ma le rizocarpee o sono tricosporangiate (salviniacee) o antisporangiate (marsiliacee); caratteri che entrambi ripugnano alla costituzione delle cicadee. Questo quanto all’ascendenza del genere Cycas. Quanto agli altri gradi di parentela, noi siamo propensi ad ammettere tre serie o lignaggi; due discendenti, cioè zamiee, angiosperme; e una collaterale, cioè salisburiee. In questa nostra teorica il genere Sciadopitys sarebbe una emanazione delle salisburiee, e la famiglia delle gnetacee sarebbe una depauperata, miserrima, axo- spermica stirpe declinata da qualcheduna fra le innumerevoli forme pleurospermiche che non lasciarono traccia di sè e che è giuocoforza ammettere per colmare la grande lacuna che esiste tra il genere Cycas e le angiosperme prototipiche. Quanto alla discendenza, poco impugnabile, delle zamiee già abbiamo tenuto discorso. Restano a riempiere le lacune che esistinono: 1° trai generi Cycas e Gingko; 2° tra i generi Gingko e Sciadopitys; 3° tra il genere Cycas e le angiosperme. Delle gnetacee parleremo nel successivo paragrafo. La collateralità del genere Cycas col genere Gingko non potendo essere desunta da forme viventi bisogna ricorrere a forme fossili. Fortunatamente abbiamo impronte a bastanza sicure delle foglie femminee pinnate, a pinne late e furcinervie del genere Noeggerathia. Da questa primissima cicadea si può teoricamente dedurre con tutta facilità tanto il carpidio di Cycas quanto il carpidio di Girgko. Una foglia femminea di Noeggerathia, appena diversa dalle vegetative, imita sorprendentemente i caratteri di alcune felci. Essa è pinnata. Le pinne inferiori hanno un grande numero di ovuli sparsi nella pagina inferiore; le pinne superiori sono vegetative. RA 7, na Così si manifestano le tre regioni d’un carpidio normale, cioè una mediana e superiore sterile, e due laterali inferiori che sono la somma delle pinne fertili di destra e sinistra. Data una foglia femminea di Noeggerathia, se a forza di riduzioni continuate di generazione in generazione, le pinne fertili vengano a rendersi rudimentarie e monosperme, ecco ipso facto formato il carpidio di Cycas. E se le pinne fertili di destra e sinistra di una Noeggerathia vengono a con- crescere in un corpo antifillo, mediante un fenomeno che, essendosi ripetuto più volte nei pteridofiti (marsiliacee, ofioglossee) e nelle angiosperme (primulacee, juglandee, lorantacee ecc.), disvela una grande tendenza a riprodursi, ecco épso facto preparato il corpo antispermico del genere Gingto. Adunque è nel genere Noeggerathia che noi ritroviamo la primigenia unità di tutte quante le forme gimnospermiche. Ma per colmare le lacune esistenti tra i generi Gingko e Sciadopîtys, o tra il genere Cycas e le angiosperme, io non ho potuto fin qui nè tra le viventi nè tra le forme fossili riscontrarne alcuna, su cui si possa basare qualche fondata induzione. Che le angiosperme però siano molto affini al genere Cycas io lo desumo dal fatto che i loro carpidii normali sono pluriovulati e pleurospermici, e somigliano perciò a un carpidio di Cycas poco meno di quelli di una zamiea. $ 20. Ordinazione e dipendenza delle gnetacee. I caratteri florali delle gnetacee sono tanto strani, da parer quasi irreducibili alle leggi morfologiche che governano la struttura florale in tutte le altre fane- rogame. La morfologia comparata dei fiori delle gnetacee si presenta come un còmpito assai difficile e suscettivo di varia interpretazione. Per procedere con miglior metodo in questa bisogna, occorre pigliare ad esame la forma florale più complicata, ten- tando poi di ridurre ad essa tutte le altre forme più semplificate. Tale forma è senza dubbio il fiore ermafroditico di Welwitschia (ermafroditico morfologicamente non fisiologicamente, perchè in atto è soltanto maschile). Utilizzeremo i dati contenuti nel classico studio di J. D. Hooxrr (On Welwitschia, nelle Trans. of the linn. Soc., Vol. XXIV). Detti fiori ermafroditi si trovano ciascuno all’ ascella di una brattea, e le brattee sono ordinate in coni assai vistosi e forniti. Ma questi coni evidentemente polita- lamici non possono essere omologhi ai coni delle zamiee e delle conifere, i quali sono monotalamici. Ogni asse fiorente porta due bratteole opposte connate, poi un perigonio costituito da due sepali connati, alternanti colle bratteole. Segue un androceo esamero, con stami connati basalmente in una coppa monadelfica. Il centro del fiore è occupato da un ovulo sormontato da un tubo micropilare, I’ uno e l' altro inutili perchè non abboniscono il seme, ma sono prezioso indizio di eredità. Con questo fiore ermafroditico confrontiamo il fiore femmineo di Welwitschia. Esso pure è ascellare a una brattea di cono. Per altro manca di bratteole e di perigonio; al centro vi è un ovulo fecondabile, sormontato da un tubo pertugiato micropilare. Quest’ ovulo mostra con ciò di essere omologo cogli ovuli di tutte le altre gimnosperme. Di più quest ovulo è fasciato di un secondo integumento che a maturità si espande lateralmente in due ale. Lo denomineremo integumento oostego per distin- guerlo dall’ integumento micropilare. Paragoniamo ora una infiorescenza femminea di Ephedra. Essa è per lo più biflora (dicasio semplice). All’asse primario spettano due o tre verticilli di brattee oppositifogliari, connate alla base. Il verticillo supremo forma ai due fiori una specie di orciuolo, che poi a maturità diventa polposo, commestibile. I fiori sono affatto ebratteolati. Nasce ciascuno all’ ascella delle due brattee supreme. Consta d’ un ovulo avviluppato da doppio integumento, micropilare l’ uno, oostego l’altro. Abbiamo adunque completa omologia coi fiori femminei di Wel- witschia. Alquanto più difficile è il districare la omologia coì fiori femminili di Gnetum. Qui l’ovulo sembra avere tre integumenti. Ma l'intimo, fornito essendo di lungo e pertugiato micropilo si rivela per l’ integumento micropilare. Quello che è imme- diatamente applicato ad esso, secondo il mio avviso sarebbe omologo al tegumento oostego; il terzo non sarebbe che un orciuolo costituito da due brattee lateralmente adnate. Qual’ è la vera natura morfologica del tegumento oostego? Alcuni lo hanno ritenuto come un ovario; per costoro i fiori delle gnetacee sarebbero pistilli mono- spermi. Altri lo hanno ritenuto come un corpo omologo alla squama ovulifera delle abietinee. Altri potrebbe con meno inverosimiglianza assimilarlo ad una escrescenza arilloide. Ma a noi sembra che si possa fare una quarta ipotesi; cioè che questo corpo sia l’equivalente d’un urceolo androceale decapitato, affatto analogo a quello che si osserva nei fiori femminili di wscus. Forse è questa la migliore ipotesi. In tal guisa i fiori delle gnetacee tanto maschili che femminili sarebbero improntati allo ermafroditismo, 0, come dicesi, unisessuali per aborto. Più facile riesce di riconoscere la omologia nei fiori maschili. Presso il genere Ephedra nel centro d’un perigonio utricoliforme bilabiato sorge una colonna monadelfica, costituita o da due o da sei o da otto filamenti, ciascuno dei quali all'apice porta un’ antera bisacculata; così il numero dei sacchi pollinici va da 4 a 16, secondo le specie. Affatto identici nella struttura ai fiori distemoni di Ephedra sono i fiori maschili di Gnetum, se non che il perigonio è tubuloso, e i due sacchi pollinici di ogni artera sono confluenti in una loggia unica reniforme. MR tt L’androceo monadelfico di questi due generi è una evidente contrazione in colonna monadelfica dell’ urceolo esandro di Welwitschia. Ed è un manifesto errore in cui caddero ErcaLer ed altri nel ritenere lo stipite monadelfico come un asse, mentre non è che una mera fusione di filamenti. Anzi ragioni d’ omologia impon- gono che al centro di questa colonna debba supporsi l’aborto completo di un ovulo, omologo a quello che scorgesi sviluppato nei fiori maschili di Welwitschia. Di questi caratteri differenziali rende ragione la seguente chiave tassonomica. Floribus masculis ovulatis; staminibus in urceolum cònnatis, antheris trisacculatis . Welwitschia 2-8 bisacculatis; sacculis disjunetis. Ephedra 2 bisacculatis; sacculis in unum con- fuentibuse: tte i e oi Gnetumi Floribus masculis exovulatis; staminibus in $ columnam coalitis, antheris . . . . . STEMMI a » in cui @(y) si mantiene positiva fra i limiti d'integrazione, mediante un’ espres- » sione della forma 2, A,y(4,) ata A,)(a ) rsa A,M(4,) » la massima approssimazione si raggiunge qualora, sviluppata 1’ espressione b a » in frazione continua e detta P,(©) la ridotta n°”, si prendono per a, le radici d(2) » di Q,(2), — supposte distinte, — e per A, il valore Pa) |, ' Q, (a) * Tali metodi si riferiscono, come si è detto, al calcolo numerico degl’ integrali. Ma si può chiedere se essi siano anche applicabili alle espressioni che, pure in forma d° integrali definiti, contengono parametri variabili: se cioè questi metodi, convenientemente estesi, siano atti a formare espressioni che rappresentino, con una certa approssimazione, determinate funzioni e se quindi essi possano darci le soluzioni approssimate di problemi funzionali di cui quelle funzioni sarebbero le soluzioni esatte. L’ oggetto di questa Memoria è appunto di dare una risposta affer- mativa a tali domande, illustrandole con alcune applicazioni alla risoluzione appros- simata di varî problemi funzionali, quali inversione di integrali definiti e soluzione di equazioni differenziali ed alle differenze. L'idea di questa estensione del metodo delle quadrature meccaniche di Gauss alla rappresentazione approssimata di funzioni, mi è stata suggerita da una que- stione elegantemente risoluta dall’ Hermite. In una sua lettera del 9 febbraio u. s., il chiarissimo geometra si degnava gentilmente di comunicarmi come, date due serie di potenze JOIA, PI) SA sì potessero facilmente determinare le 2x costanti G, G',... e 9; g';... in modo da RIE 0 ESS avere l’ eguaglianza Fa) = Gf(92) + G'f(g'o) +, esatta fino ai termini in x??—! inclusivamente. Studiandomi di generalizzare questo problema dell’ Hermite, sono giunto ai risultati che ho 1 onore di presentare in questa breve Memoria. 1. Richiamo di un’espressione approssimata per gl’integrali definiti. Abbiasi una funzione analitica y(y) definita da una serie di potenze convergente entro un cerchio di centro 0 e di raggio 7 nel piano della variabile complessa y : Yg) = Zeg', ed una funzione @(y) dei punti di una linea 4, finita ed atta all’ integrazione lungo questa linea. Si sviluppi in frazione continua l’ integrale d Py)dy ey (A) P(2) e sia dA) la n°“ ridotta. Suppongo, come avviene ordinariamente, che i succes- z sivi quozienti incompleti siano lineari, e per conseguenza che @(2) sia di grado n: le sue radici, supposte semplici, siano @,, 4,,... a, e sia Q'(2) la sua derivata. Posto _ P(0p) EAT (410284) si ha, come è noto, l’ espressione approssimata n) Ab) per l’ integrale ) VEDO (2) Se la linea 4 cade tutta entro il cerchio 7, e se vi cadono pure i punti See A, ; 43). Op, l espressione (1) si sviluppa nella forma nn Ze(Aa, +44, +-- 4,07), v=0 la (2) nella forma 5 \y'dy : ZA Ji P(y)y'dy (A) ambedue queste serie convergono assolutamente, e, come è noto, esse coincidono nei loro 2 primi termini. Fissato n, sia M una quantità positiva maggiore del massimo valore assoluto della @(y) lungo la linea d’ integrazione e maggiore anche della massima fra le A4y; sia 7, un numero positivo maggiore del massimo modulo dei punti 4,, 4,,... @ e dei punti della linea 4, ma minore di 7; si prenda poi r, tale che sia n P_SASG e sia M' il massimo valore assoluto di (y) entro il cerchio r,. L’ errore com- messo sostituendo la (1) alla (2) è evidentemente minore di 2n—-1 o Ù 2 (n+ nat'(£) I niio Ma in questa espressione dell’ errore, le quantità M ed 7, dipendono da #; perciò l’ espressione approssimata (1) non offre vantaggio se non quando si sappia calcolare un valore assintotico di quelle quantità. Ciò presenta in generale grandi difficoltà, che si sanno superare in parte mediante l’ applicazione di formole opportune ('), specialmente quando i limiti d’ integrazione e la funzione $(Y) sono reali e questa conserva sempre lo stesso segno fra i limiti d’ integrazione. Quando lo studio del resto permette di decidere che esso si annulla al crescere di », dirò che la for- mola (1) dà un’ approssimazione effettiva: si potrà dire che l’ approssimazione è formale qualora ciò non possa asserirsi. 2. Estensione al caso che 1’ integrale contenga un parametro. Sup- poniamo che nella funzione « considerata al $ precedente entri un parametro x di cui essa sia pure funzione analitica: indicheremo perciò la funzione con (7, y). Fissato nel piano y il cerchio di centro 0 e di raggio 7, si potrà determinare nel (') V. p. es. il metodo del Markoff nell’ opera del Possé: « Quelques applications des fractions continues algébriques » cap. IV. St. Petersbourg, 1886. ; zi Se piano x un campo C tale che per ogni x contenuto in esso la (7, y) si mantenga regolare per |y| < ». L’ integrale (3) i / Pipe, dy (A) rappresenta allora una funzione analitica (x) di cui si ha, per il $ precedente, l’ espressione formalmente approssimata (4) 2 Apy(c, op) ; p=l o le A,, a, essendo definite come dianzi e perciò indipendenti dalla x. pr Ap Per il modo in cui si è definito il campo C, si ha per x interno a C e per ly)<, lo sviluppo (5) io] onde Aa) Zicp()h, con ca f Py)y'dy . v=0 ni (2) Ora sviluppando nell’ espressione (4) le (x, ay) secondo la (5), ferma sempre l’ ipotesi che tutta la 4 e le a, cadano entro il cerchio r, sì ha Alea) = Ip p=l dove, per le proprietà delle A, EEA per Pi= 012,20 = I Sostituendo dunque alla (3) la sua espressione approssimata (4), si ottiene lo sviluppo della funzione F(x) in serie di funzioni date p,(x), esatto fino al 2n”° termine inclusivamente. i 5. Problema inverso. Nel $ precedente abbiamo dato un’espressione appros- simata dell’ integrale definito (x), date le funzioni $(y) e W(x, y). Si può ora proporsi il problema inverso, cioè date le funzioni F(x) e W(x,y), porre la prima, nel modo più approssimato possibile, sotto forma di una somma di » termini A Se, Uy) - TOMO X. 1l RR 11: MSI Qualora si sappia risolvere rispetto a P(y) Y equazione (6) J Py, y)dy = Fl), (2) (inversione di un integrale definito), basta sviluppare PM)Ay AA (2) in frazione continua e, sotto le solite restrizioni, prenderne la ridotta n° scomposta in frazioni semplici 2 A di a: p=1%— Up questa ci dà le A, e le a, che rispondono alla questione, ed il problema è deter- minato poichè queste 27 quantità devono rendere uguali i primi 2» termini c,p,(£), da v=0 a v=2n— 1, nella (x) e nella espressione (4). La difficoltà consiste nell’ inversione d’ integrale espressa dalla (6), cioè nella determinazione della funzione @(y). Al nostro scopo basta però una determinazione approssimata della F(y): a questa si può giungere con diversi metodi, dei quali ne indicherò due. Ecco qual’ è il primo: Si supponga dapprima che (x, y) sia razionale intera e del grado 2n — 1 in 2; saranno pure razionali intere e di grado non superiore a 2n —1 tutte le p,(x) e la Fx), e si potranno in generale, ed in un sol modo, determinare le costanti %, atte a verificare l’ eguaglianza: Fa) = hp) + hp) ++ hen1Pana(£) . Sviluppando poi la h 4 D2n1 2 GEA gen in frazione continua, e determinando la 7° ridotta, questa ci farà conoscere nel solito modo i poli ay ed i residui A, tali che sia Agi, + Agi, +-+ 4,0',= h, (( = 0,1,2,..2a—1)} talchè la differenza FA) — 3 dub, &) cher in avanti. Lo stesso metodo si può anche ma non contiene le p,(x) che dalla 2n applicare se la funzione data F(@), la y(, y) e le p,(x) in luogo di essere poli- nomî, sono serie di potenze di 7, qualora sia convenuto di trascurare le potenze di x a partire dalla 2n”°. Il problema dell’ Hermite accennato nell’ introduzione e che ha suggerito il presente lavoro, si ottiene come caso particolare facendo (x,y) =/f(2y). 4. Altro metodo. Il seguente metodo è valido invece quando della fun- zione y(x,y) si conosce la funzione reciproca ‘Y(y, 2) quale 1° ho definita in lavori precedenti, (') cioè tale che sia Ra () Srna, din= (2) Supponiamo che questa espressione valga per un campo Cl di valori di x conte- nente il punto « = co, per modo che (x) si possa scrivere (esattamente fino al termine in 27°" inclusive) A A li()= 1 + 2_ poet st i, x— Q, Li=t05 L_- 4, Ne risulterà, per la (7), la seguente espressione formalmente approssimata di @(y) : Py) = ZA Yan, 2) ® Se il campo ©, invece del punto x = co, contiene il punto «= 0, si può scrivere F(x) sotto una forma approssimata analoga, e si giunge al medesimo risultato. Appuicazione. La funzione (x,y) sia razionale in x ed y, della forma __ GE,9) Y(®, y)= He, y) ’ e la linea 4 sia chiusa. Indico con C un campo di valori di x tali che per cia- scuno di essi, tutte le radici corrispondenti dell’ equazione (supposta irriducibile) (8) H(x,y)=0 cadano entro il campo chiuso da 4. In tal caso, indicando con Z(x,c) l’ integrale (') Acta Mathematica, T. X. — Rendiconti del R. Istituto Lombardo, maggio 1887. e abeliano normale di seconda specie definito dall’ equazione algebrica (8) ed avente e per parametro, € ricavando da essa 2 = 2(y) si ha ('), per x entro C: H, (2(9), Y) W(y, =, Y) G(2(4), 7) e quindi la soluzione formalmente approssimata di G(1,9) (y)dy = F(£ gi Ha,y 99 i # Hy (9) = DI A4,4Z(0 P(y) er (dp 3) G(14), 4) 5. Applicazione alla continuazione analitica di una funzione. Sia data la funzione analitica f(x) regolare in un intorno di rx =%c0 e nulla nel punto x = co stesso, e perciò rappresentata fuori di un cerchio di centro 0 e di - CRAL scad raggio 7 da una serie di potenze di — : x (9) fO=I 3h: Questa funzione si può anche sviluppare in serie di potenze di € — %,; essendo %, un punto qualunque del piano, e questo secondo sviluppo è convergente fuori di un cerchio di centro x, e di raggio per lo meno eguale ad ER+|z,|, e se la nuova serie è (10) 1=% > v=o (e a) ° si ottengono senza difficoltà le relazioni fra le a, e le d,. Si trova infatti con un calcolo molto semplice : / = 2% b=a — 4% [AZ cel appli ireland 5 ps Asa D 2 DI VIS Va 4, DVAyY=1 Wt 9 ay? Lo ra (= Vasta Ù (') Nota citata dei Rendiconti del R. Istituto Lombardo. A pag. 3, linea 23 di quella Nota, invece di P, leggi @, . cioè il sistema dj; — 9; 9;-- (— 1)°,,... non è altro che un sistema di polinomî di Appell (') formati coi coefficienti 4,;} — @,, @,; — 4, ;-..-, cioè (secondo l’ espres- sione dell’ Appell) aventi per funzione generatrice sita nl Ciò che importa di notare, si è che nella espressione di è, non entrano che i coefficienti @,, 4, ;--. 0, ma non quelli di indice superiore a v. Da ciò scaturisce l’ osservazione seguente: Sviluppiamo la serie (9) in frazione continua, e supponiamo che si presenti il caso normale in cui tutti i quozienti incompleti sono di primo grado. Si sa allora È TC) le : SOLI a 3 che la ridotta n° de) sviluppata in serle di potenze di SÙ) coincide colla serie (9) fino al 2»”° termine inclusivamente. Analogamente, se si sviluppa la serie (10) in P'(2) Q'(€) luppata in serie di potenze negative z — 2, coincide nei 2x primi termini colla (10); Pe) P'(x) ae en dellane= 2) Q (2) dalle relazioni (11). Si ottiene così il seguente risultato : Se due serie frazione continua e se ne prende la ridotta n", questa, indicata con e svi- e quindi i 2n primi coefficienti della saranno legati fra loro a ) SESTA A nta Vice b) g'tl (x TOI sono la continuazione analitica l’ una dell’ altra, ed una qualunque delle due serie si svolge in frazione continua, la ridotta »”° sviluppata tanto in serie di potenze negative di z quanto di « — z,; coincide fino al 2° termine inclusivamente colle serie date. 6. Applicazione alle equazioni differenziali lineari. Sia un’ equazione differenziale lineare di ordine #m non omogenea (12) DIO +) +-+ p,(0) i = Pa) dove F(x) è una funzione regolare per r = co e le p,(2), p(2);... p,.(7} sono pure regolari per # = co od hanno al più un polo dell’ ordine indicato dall’ indice. Si avrà allora per questa equazione un integrale ed uno solo regolare per x = 00, (') Annales Scientifiques de l’ École Normale Supérieure, S. II. T. IX, 1880. a (eee i cui coefficienti si potranno calcolare di mano in mano col metodo dei coefficienti indeterminati. Per riconoscere a quali equazioni ricorrenti conduce questo metodo, poniamo : di, 1) x 1 ;&, AA A) © MZ P{e) —- DI 0 scorgiamo allora facilmente che nell’ equazione che determina %, figurano le %, e le a;,v solo fino all’ indice n e non con indici superiori. Ne risulta che se si svi- luppano le pa), ED ne “i ed (x) in frazioni continue e si indicano rispet- tivamente con r;(v), r(£),... 7,(@) ed R(2) le loro ridotte n°", se quindi si sosti- tuiscono nell’ equazione (12) al posto di p,(2), p;(@),... p_(®), F() rispettivamente le 7,0), r,(0),. €"7,,(1), Ea), si otterrà un’ equazione approssimata la cui soluzione coinciderà nei 2n primi termini del suo sviluppo in serie di potenze di — coll’ in- 0; tegrale particolare della (12) regolare per x = co. Si potrà dire così di avere ottenuto un integrale approssimato dell’ equazione (12), il quale si potrà alla sua volta ridurre in frazione continua ed avrà, col medesimo grado di approssima- zione — e colle solite restrizioni — la forma (13) >, e. p=1% — Un la quale forma conviene, per il $ 5, a rappresentare, nell’ ordine di idee di quel $, anche la continuazione analitica di esso integrale. Limitandoci al caso in cui le p,(x) hanno un numero finito di termini, molti- plichiamo tutta l’ equazione per la massima potenza negativa di x che figura in essi, e per e*dx, infine integriamo lungo un contorno chiuso che sia tutto com- preso nel campo di convergenza della serie di potenze negative di « (14) (IDE Sa Veniamo così ad ottenere un’ equazione differenziale lineare a coefficienti razio- nali interi, il cui secondo membro è la funzione trascendente intera Vv 12000 DI GE quest’ equazione si suole chiamare la trasformata di Laplace della (12). Alla forma Sage approssimata dell’ integrale della equazione (12) corrisponde, per 1’ integrale del- l equazione trasformata, la forma approssimata assai semplice x» A ID eu o=)1 che sviluppata per le potenze di 2, coincide nei 2n primi termini coll’ integrale esatto. f. Applicazione alle equazioni alle differenze. Supposto sempre che i coefficienti p;(x) della equazione (12) si riducano a contenere un numero finito di termini, applichiamo a questa equazione la trasformazione di Eulero, facendo cor- rispondere ad f(x) una funzione (2) mediante la (16) da) = n fade . Si può supporre senza restrizione essenziale che la serie (14) converga fuori di un cerchio di raggio minore dell’ unità e che siano pure minori dell’ unità in valore assoluto le quantità indicate dianzi con ay, e semplificare allora la trasfor- mazione precedente facendo a= 1. La trasformata del secondo membro F() dell’ equazione (12) prende così la forma sula v=z0 +) valida per tutti i valori di 2 la cui parte reale è positiva. Dalla (16) segue de—1= ff@ea--de 1 ed integrando per parti ep + ff db l dove C è una costante; donde risulta che il primo membro della (12) si trasforma in una espressione lineare alle differenze finite in @(2), a coefficienti razionali in 2 di grado eguale al più ad #, più un polinomio razionale intero in e di grado non maggiore di m. Colla medesima trasformazione, l’ integrale dell’ equazione primitiva (12), sotto uo Sg — la forma approssimata (13), si muta in un’ espressione della forma (o.©) agile P,(€) af: tI) Ti 1 AGI Ay o per l'ipotesi fatta che le a, sono minori dell’ unità in valore assoluto: 1 z+1% (17) de X ApF(1,z+1,2+2,4), il dove F(a, 8,y,%) è la nota serie di Gauss. Questa espressione è un’ integrale approssimato della equazione alle differenze, trasformata della (12) mediante la trasformazione (16); talchè possiamo enunciare il seguente risultato : Sia data un’ equazione alle differenze finite lineare a coefficienti razionali interi del grado m ed il cui secondo membro sia formato da un polinomio razionale intero di grado inferiore ad wm, più una espressione della forma prelati Z+-V Questa equazione ammette un’ integrale di questa stessa forma, i cui coefficienti sì determinano con una equazione ricorrente formata precisamente nelle stesso modo di quella che si è ottenuta a $ 6 applicando il metodo dei coefficienti indeterminati all’ equazione differenziale (12). Ne risulta che l'integrale approssimato della equa- zione alle differenze, preso sotto la forma (17) dove le A4,.a, hanno il solito significato, e sviluppato poi in serie della forma 2 —— , coincide coll’ integrale Z2H4-D effettivo nei suoi 2 primi termini. RICERCHE ANATOMICHE SULLA FORESTIA MIRABILIS (Tr) MEMORIA DEL PROF. SALVATORE TRINCHESE (Letta nella Sessione 7 Aprile 1889). Il genere Forestia fu da me fondato nel 1881 e brevemente descritto nei ren- diconti della R. Accademia delle scienze fisiche e matematiche di Napoli (1). La mia descrizione destò nei zoologi non poca meraviglia pel contrasto singolare che vi si annunziava tra i caratteri esterni e gl’ interni di questo mollusco. Infatti, mentre la Forestia somiglia per la forma generale del corpo, e specialmente per la disposizione delle papille dorsali, alle Aeolididae ; differisce da queste moltissimo per la forma della sua radula, per la struttura della sua glandula ermafrodi- siaca, e per altri caratteri interni dei quali farò menzione nel corso della presente memoria. Per quel che riguarda i caratteri esterni, è da notare che la Forestia somiglia alle Aeolididae per la presenza dei tentacoli e per la forma cilindrica dei rino- fori; mentre differisce da quelle per la mancanza del sacco cnidoforo nelle papille dorsali. Per quello che ho esposto di sopra, parmi evidente che la Forestia è il rap- presentante di una nuova famiglia di Nudibranchi che propongo di chiamare: delle Forestiadae. Il genere Forestia è rappresentato da una sola specie che ho denominato: Forestia mirabilis. Sei individui di questa specie furono trovati dal personale della stazione zoologica il 1 Maggio 1881, nelle acque che bagnano il palazzo di Donna Anna, alla profondità di un metro, sopra un mattone. Il signor Salvatore Lo Bianco me li rimise gentilmente per istudiarli. La lunghezza degl’individui sinora pescati varia da 3 a 10 millimetri. Il corpo è allungato come quello delle Aeolididae e si termina posteriormente con una coda breve ed arrotondata. La testa è piuttosto piccola e porta due tentacoli TOMO I. 12 = Moe a sezione circolare, di color bianco trasparente nei loro tre quarti inferiori; bianco opaco nel quarto superiore, per la presenza di molte cellule glandulari mucipare. I rinofori sono affatto lisci: ordinariamente un poco più lunghi dei tentacoli, coi quali hanno comune il colore e la struttura. Una volta ho trovato quelli e questi di eguale lunghezza. Le papille dorsali hanno sezione trasversa circolare e sono munite nel lato interno del loro terzo inferiore di un’ eminenza conica formata di cellule mesoder- miche; sono disposte in gruppi ai due lati del dorso; ogni gruppo è formato di una sola serie trasversale; il numero dei gruppi varia da 8 a 10 per lato. Nel più giovine individuo avente 8 gruppi, i primi 7 sono formati di due papille; mentre l’ ultimo è rappresentato da una sola di queste. Negl’ individui più grossi aventi 10 gruppi, ciascuno di questi consta di 3 ovvero 4 papille: eccettuato il penultimo che è formato di 2, e l’ ultimo che è rappresentato da una sola. L’ apice di questi organi è gremito di punti bianchi, prodotti da cellule glandulari muci- pare dell’ ectoderma. Il lobo epatico papillare è alquanto bernoccoluto , ma non ramificato. Ha il colore della terra d'ombra tendente al verdognolo; talvolta è verde scuro, tal altra volta è nero. La struttura delle papille apparisce diversa secondo il liquido nel quale sì è ucciso l’ animale. Negli individui uccisi coll’ aleool debole, l’ ectoderma di questi organi è ridotto ad uno strato sottilissimo di cellule laminari aggrinzite (fig. 14, 15, @); mentre il mesoderma si mostra formato di grosse cellule poliedriche disposte a mo’ d’ epitelio alla faccia interna dell’ ectoderma (fig. 14, 15, 5). Queste cellule (fig. 13, 20) hanno un diametro massimo di 0°”, 04, un nucleo rotondo chiaro del diametro di 0,02, contenente granulazioni grossolane ed un nucleolo sferico del diametro di 0°", 01, spesso aderente alla parete nucleare. Queste cellule hanno una grande somiglianza con giovani uova. Negl' individui uccisi nella soluzione di acido osmico 1 per 100, l’' ectoderma delle papille è uno strato di grosse cellule cilindriche aventi una parete propria, sulla cui faccia interna si stende uno strato di protoplasma finamente granuloso. Il loro nucleo è piccolo. Hanno una lunghezza di 0", 025 ed up diametro di 0", 02. In mezzo a queste cellule si vedono le glandulette unicellulari muci- pare piriformi, col loro contenuto fortemente annerito: queste glandulette abbon- dano specialmente all’ apice delle papille, ove formano come una calotta di punti bianco-opachi nell’ animale vivente. Il mesoderma è formato di cellule di forma irregolare (fig. 18), munite di numerosi prolungamenti, alcuni semplici, altri rami- ficati; la qual cosa fa supporre che esse siano semoventi. Il loro corpo è omoge- neo, ha un colore bruno tendente al verde bottiglia; mentre i prolungamenti che da esso emanano sono incolori. Hanno un nucleo deformato e rimpiccolito. Le cellule dell’ endoderma subiscono meno l’ influenza di questi reagenti, poichè uecise coll’ uno o coll’ altro di essi, serbano sempre la stessa forma e struttura. Sono emisferiche (fig. 15, e) e si applicano colla loro faccia piana al mesoderma. SSA 1]: SO Hanno un diametro di circa 0", 045. Il loro protoplasma ha l’aspetto di una spugna (fig. 12): è diviso da tramezzi di protoplasma granuloso in tanti alveoli il cui diametro varia da 0", 005 a 0", 01: in uno di questi è contenuto un. piccolo nucleo sferico del diametro di 0"", 005. Nella cavità epatica (fig. 15, d) è contenuta una massa granulosa scura, nella quale sono immersi dei corpuscoli sferici od ovoidi, il cui diametro varia da 0", 02 a 0"”, 06. Questi corpuscoli sono formati di una sostanza fondamentale che si colora fortemente col carminio ed è sparsa di fine granulazioni. Accanto a questi, si trovano altri corpuscoli sferici, aventi un diametro di circa 0"",04 e composti di due sostanze: una periferica o corticale, a strati concentrici, che non si colora o si colora debolmente col carminio ; l’ altra centrale, omogenea, che si colora inten- samente: la prima ha una spessezza di 0,01; la seconda ha un diametro dig#0n2-102: All’ apice delle papille, ove nelle Aeolididae trovasi il sacco cenidoforo, nelle Forestie si riscontra una piccola lacuna sanguigna posta tra l ectoderma e il mesoderma (fig. 14, d). In alcuni tratti della parete papillare (fig. 15, a, @) lo strato dell’ ectoderma e quello del mesoderma sono interrotti per la mancanza di due o tre cellule. Trovasi ivi una lacuna sanguigna, separata dall’ ambiente esterno pel solo ecto- derma. x Il piede è piuttosto largo ; ha un solco profondo nel suo margine anteriore, i cui angoli si prolungano in forma di tentacoli. Lascia trasparire come striscie verdognole i condotti epatici e come vezzi di bianche perle i lobi della glandula ermafrodisiaca. Nella spessezza del piede scorre, dai due lati, una grossa lacuna sanguigna. L’ orifizio buccale è, come nelle Aeolididae e famiglie affini, triangolare. Il tubo orale è piuttosto lungo, come si può vedere facilmente nelle sezioni longi- tudinali della testa. Il bulbo faringeo è limitato lateralmente e inferiormente da due mascelle trasparentissime, d'un colore giallo d’ ambra, le quali facilmente si rompono quando si tenta di isolarle. (fig. 2). Il loro corpo si restringe gradatamente dalla testa verso il margine posteriore: è lungo circa 9", 53; largo, alla testa, 0!"", 30; al margine posteriore 0°", 15. Il processo mascellare differisce da quello delle Aeolididae per il suo margine posteriore diritto. Il margine superiore di questo processo è lungo 0°", 35; il margine inferiore o masticatorio 0"",28. Questo margine è perfettamente liscio. La lingua riempie circa la metà della cavità del bulbo faringeo. Le sue masse laterali sono robuste e divise, in avanti, in due masse secondarie: una esterna più piccola e aderente alla faccia interna della mascella corrispondente; ed una interna. Nella regione posteriore della lingua, le due masse secondarie si fondono in una sola. ER.) E La rotella, abbastanza spessa nel suo margine aderente, si va gradatamente assottigliando verso il suo margine libero, sul quale si stende una radula molto singolare (fig. 3), consistente in una verghetta chitinosa munita di piccoli denti simili a quelli di una sega da legnaiuolo. Questi denti non hanno nulla di comune con quelli della radula degli altri molluschi, poichè sono affatto immobili e si continuano colla sostanza della verghetta sottostante come i denti della sega colla sua lamina. La lunghezza della verghetta, in un individuo di mezzana grandezza, era di 0°", 61; dei quali 0"",39 fuori la guaina radulare e 0", 22 dentro. L'altezza massima era di 0"",02. La polpa della radula era lunga 0°”, 11, larga 0"" 04 e altrettanto alta. Era formata di cellule rotonde con protoplasma chiaro, contenenti un piccolo nucleo sferico. L' estremità anteriore della verghetta porta una piccola spirale (4) con tre o quattro denti, simili agli aculei delle rose. Sopra questa spirale v'è un breve tratto (a) della verghetta privo di denti. I più piccoli denti si trovano nelle regione anteriore (fig. 8) della verghetta, i più grossi nella regione mediana (fig. 6, 7). L’esofago e lo stomaco hanno la forma e la struttura di quelli delle Aeoli- didae. L’ intestino termina in una corta papilla anale situata a destra del peri- cardio, tra il secondo e il terzo gruppo di papille. Dalla estremità posteriore dello stomaco parte un condotto epatico principale posteriore, il quale scorre lungo il dorso dell’ animale sino alla base della coda: ha il colore della terra d’ ombra tendente al verdognolo; talvolta è nero. Questo condotto emette dai due lati tanti condotti secondari trasversarli, quanti sono i gruppi di papille. Da questi condotti sì staccano i lobi epatici che penetrano nelle papille. Dalla estremità anteriore dello stomaco partono due condotti epatici principali anteriori (uno a destra, l’altro a sinistra), da ciascuno dei quali hanno origine i tronchi trasversali che scorrono sotto i due primi gruppi di papille. Il pericardio è ampio ed occupa lo spazio compreso tra il secondo ed il terzo gruppo papillare. Il cuore è come nelle Aeolididae e batte 100 volte al minuto primo. Sopra il condotto epatico principale posteriore, un poco a destra della linea mediana del dorso, si stende la grande vena dorsale, ialina e trasparente, la quale si continua colla sacca pericardiaca. Attraverso questa vena si vedono dei punti bianchi, formati da gruppi di grosse cellule renali, ciascuna delle quali contiene una concrezione rotonda, di sostanza escretoria, il cui diametro varia da 0°", 015 a on", 02 (fig. 17). Queste cellule si trovano sotto la vena dorsale ed anche ai lati di questa, nel mesoderma che sta immediatamente sotto l’ epitelio del dorso. Non mi è riescito di vedere nè lo schizzetto renale, nè il poro dello stesso nome. La glandula ermafrodisiaca è formata di sette od otto lobi messi in fila longitudinale ai due lati del dorso; ogni lobo corrisponde ad uno spazio inter- OSIO papillare, ed è formato di sei o sette lobuli o acini sferoidali, disposti a mezza luna, colla concavità rivolta in fuori. Questi lobuli contengono soltanto uova in diversi stadi di formazione, cioè: alcuni in istato di protova, altri in istato di deutova. All’ esterno e nella parte concava di ogni lobo, trovasi una vasta cavità piena di spermatoblasti e di spermatozoidi in diversi gradi di sviluppo. Il condotto ermafrodisiaco e gli altri condotti dell’ apparecchio genitale, fanno dei complicati avvolgimenti intorno alle glandule dell’ albume e del nidamento pochissimo sviluppate. Il pene (fig. 1) è conico, inerme e coperto di epitelio con lunghi cigli vi- bratili; altri cigli più lunghi si trovano nel canal deferente e sporgono fuori del- l’ orifizio esterno del pene. Il nidamento (fig. 9, 10) è un cordoncino lungo circa tre centimetri, spesso appena mezzo millimetro ed affatto incoloro. Le uova sono ovoidi ed hanno un diametro massimo di 0"", 16. L’ albume è omogeneo ed incoloro. Il vitello è sferico e contiene grossi granuli di lecitina; è bianco-opaco ed ha un diametro di 0", 085. Si formano due vessicole diret- trici unite tra loro da un breve filamento, ai due lati del quale vi è un punto intermeaio. Il diametro di queste vessicole è di 0”, 009. La larva è priva di occhi e munita di una conchiglia senza sculture. Il sistema nervoso è molto accentrato (fig. 16); tutte le commissure sono molto brevi. I gangli cerebro-viscerali sono ovoidì e non presentano la menoma traccia di divisione tra la loro porzione cerebrale e la viscerale. I gangli pedali sono rotondi, il loro volume è circa la metà di quello dei gangli cerebro-viscerali. I gangli ottici sono aderenti agli occhi, i quali sono sessili e molto bene sviluppati; hanno un diametro di 0"", 08. Le otocisti sono più piccole degli occhi e contengono un solo otolito. Il diametro dell’ otocisti è di 0!"", 04; quello dell’ otolito, di 0!®, 01. I gangli buccali e i gastro-esofagei, come nelle Acolididae. c 2, __—=> == __ Fig. 1° — Pene allo stato vivente. Zeiss %/£. Fig. 2* — Mascella sinistra. Zeiss ?/pp. Fig. 3* — Radula. Zeiss ?/. Fig. 4* — Conchiglia di una larva. Zeiss %/pp. Fig. 5° —. Larva vivente. Zeiss %/p. Fig. 6° — Porzione posteriore della radula. Zeiss 34. Fig. 7* — Porzione mediana della radula. Zeiss 3/p. Fig. 8° — Porzione anteriore della radula. Zeiss 3/5. Fig. 9* — Nidamento in grandezza naturale. Fig. 10° — Come in figura 9°. Fig. 11° — Otocisti contenenti un otolito %/x. Fig. 12° — Cellula entodermica di una papilla appartenente ad un individuo ucciso nell’ alcool debole. Zeiss 3/5. Fig. 13° — Cellula del mesoderma preparata e veduta come è detto in figura 12. Fig. 14° — Sezione longitudinale di una papilla dorsale appartenente ad un in- SPIEGAZIONE DELLA TAVOLA dividuo ucciso nell’ alcool debole. Zeiss %/pp. Fig. 15° — Sezione trasversale di una papilla, come in figura 14°. Fig. 16° — Sistema nervoso centrale. Zeiss 14. Fig. 17* — Due concrezioni renali. Zeiss 3/p. Fig. 18° — Cellula del mesoderma trattata colla soluzione di acido osmico. Zeiss %/g.. Fig. 19° — Due cellule dell’ ectoderma trattata colla soluzione di acido osmico. Fig. 20% — Cellula del mesoderma come in figura 12?. Fig. 21° — Sezione longitudinale di una papilla trattata coll’acido osmico. Vi si vedono le cellule glandulari mucipare dell’apice fortemente annerite. Zeiss %/pp- Napoli . SilbAsSerino 9 N i d » x Ù * Ni bol r pd = x F "i G x Di Six: g È z +e . v Li - Li x È 7 2 x rg» 3 v = Sa e Ta L. 2 ‘ola n3 ALCUNE OSSERVAZIONI SUL CIANURO DI MERCURIO E SULLA SUA RICERCA CHIMICO-TOSSICOLOGICA DEL Prof. DIOSCORIDE VITALI ( Letta nella Sessione del 28 Aprile 1889 ). Questo composto cianico, quando purissimo, non è decomposto dagli acidi deboli o diluti. Lontani dal credere, come venne poi dimostrato, che allorquando si trova mescolato, come nel caso delle ricerche tossicologiche, a materie animali, potesse subire decomposizione e svolgere .acido cianidrico per opera di detti acidi, i Tossicologi immaginarono metodi di ricerca speciali per questo composto, più o meno perfetti. Noi li passeremo innanzi tutto in rapida rassegna. Alcuni di questi metodi propongonsi di isolare il cianuro mercurico dai visceri cadaverici per poi riconoscerlo a’ suoi caratteri fisico-chimici. Tali sono quelli dell’ Orfila (1), e del Barfoed (2), coi quali si mira ad estrarre quel veleno col- l’ etere in cui esso è solubile; e l’altro del Sonneschein (3), che esaurisce le materie sospette con alcool. Ma oltre che l’ estrazione del cianuro con questi solventi è possibile solo, allorchè la quantità non ne è, come di solito, piccola, il suo riconoscimento a mezzo delle reazioni riesce poi difficile per le sostanze estranee da quei veicoli disciolte ed alle quali esso necessariamente deve trovarsi mescolato. Il Dragendorff (4), fa bollire il materiale di ricerca con acqua e ri- conosce il cianuro nel residuo dell’ evaporazione della soluzione acquosa, trasfor- mandolo in cianogeno, in paracianogeno e mercurio, riconoscimento, che per le (1) Traité de Toxicologie. 5m® édiction. Paris, 1852, pag. 733-709. (2) Fr. Juc. Otto ’s Anleitung zur Ausmittelung. der Gift. 6° auflage, 1884, S. 37. (3) SonnEscHEIN — Die Gerichtliche Chemie. — TH. CHANDELON — Traité de Toxicologie, Liege, 1838, p. 8. (4) DrageNDORFF — Die Gerichtliche, chemische Ermittelung von Giften, 3te auflage. Gottingea, 1888, S. 66. sostanze animali, da cui è quel composto accompagnato, riesce difficilissimo. Tutti questi metodi non sono inoltre conciliabili colla ricerca contemporanea di altri veleni, alcuni dei quali sono anch’ essi esportati da quei solventi, o alterati per i trattamenti, a cui sono sottoposti i materiali di ricerca. Altri cerca di riconoscere il cianuro mercurico nell’ acqua, in cui si son fatti bollire i visceri cadaverici. Così opera il Devergie (1), che riconosce quel compo- sto nel liquido, decolorato con carbone animale, al precipitato bianco di cianuro d’ argento che, secondo quell’ Autore, vi produce il nitrato di questo metallo. Ma supposto anche che il cianuro di mercurio precipitasse, ciò che non è, il cianuro argentico, come poi si potrebbe riconoscere in questo il cianogeno, quando as- sieme alle piccolissime quantità di esso non possono a meno di trovarsi mescolate sostanze albuminoidi, cloruro d’ argento, tacendo poi che cianuro d’ argento si forma invece coll’ acido cianidrico e cogli altri cianuri diversi dal mercurico? Nè esente da diffetti è il metodo del Chapuis (2), il quale tratta i liquidi sospetti con solfuro di ammonio per riconoscere nel precipitato il mercurio, e nel liquido filtrato 1’ acido cianidrico per mezzo della reazione del solfocianato in cui trasformasi. Tardieu e Roussin (3), partendo dal fatto che il cianuro di mer- curio non è per sè stesso decomponibile, ma lo è con facilità dall’ idrogene na- scente, che ne muta il cianogeno in acido cianidrico, introduce i materiali sospetti insieme a ferro metallico puro e ad acido cloridrico diluito in matraccio, lascia svolgere l’ idrogeno per un quarto d’ ora e nel filtrato riconosce l’ acido cianidrico alla reazione del bleu di Prussia. Trattandosi di liquidi animali, spesso putrefatti e colorati, è difficile che questa reazione possa ottenersi con sufficiente nettezza. Si ha inoltre un altro inconvenien- te, ed è che mentre l’ idrogene, svolgendosi, muta il cianogeno del cianuro in acido prussico, l’ eccesso del medesimo, sortendo dal liquido, trascina con sè parte dell’ acido prodottosi. La quantità di acido trasportata è in ragione del tempo che dura la reazione fra il ferro e l’ acido cloridrico. Il Gaultier ed il Rabuteau (4), non fanno distinzione fra cianuro di mercurio e gli altri cianuri decomponibili dagli acidi deboli; e però propongono di distillare ì visceri e liquidi cadaverici con acido cloridrico. Poichè, come vedremo, dal cianuro di niercurio mescolato ai liquidi dell’ animale economica, si può in realtà ottenere libero acido prussico col mezzo degli acidi diluiti, perciò gli autori senza saperne la ragione, raggiun- gono in parte il fine; però a questo metodo si potrà sempre muovere l’ appunto d’ intralciare la ricerca ulteriore di altre sostanze venefiche, le quali, come ad (1) Marenco — Annali di Chimica e Farmacologia. Vol. 5°, Serie IV, 1887, pag. 176. (2) Precis de Toxicologie, 1889, pag. 372. (3) TarpDIEU et Roussin — Etude Medico-legale et Clinique sur l’ empoisonnement. Paris, 1867, pag. 1403. (4) Rapureau — Elements de Toxicologie. Paris, 1873, pag. 78. esempio certi alcaloidi e glucosidi, soffrono decomposizione per l’ azione protratta specialmente a caldo degli acidi minerali. Il Taylor (1), a proposito della ricerca tossicologica del cianuro mercurico, si limita a dire che “ il mercurio si scopre in questo sale con facilità, mediante la sua deposizione sul rame, e, l’ acido cia- nidrico, mediante la distillazione con altro acido ,. Il Wormely (2) ed il Mohr (8) non parlano punto della ricerca di questo composto cianico, e Woodman e Tidy (4) dicon soltanto, che distillato con acido cloridrico svolge acido cianidrico, mentre il liquido residuo della distillazione, col gas solfidrico dà precipitato nero. Uno dei metodi più razionali, nella supposizione che il cianuro di mercurio nei visceri cadaverici non possa venir decomposto dagli acidi deboli, è quello del Selmi (5). Questo tossicologo distilla a 40°-45°, sotto corrente di acido carbonico, i visceri prima acidulati cou acido tartarico, e poi neutralizzati con carbonato di calcio, di recente precipitato, allo scopo di fissare gli acidi, ferro e ferricianidrico che per avventura potessero trovarsi presenti e che anch’ essi al calore possono svolgere acido prussico: quindi satura di gaz solfidrico il miscuglio organico e distilla di nuovo, sempre a bassa temperatura; ottenendosi in questa seconda di- stillazione nuovo acido cianidrico, esso, a mente del Selmi, deve ‘attribuirsi cianuro di mercurio. Questo metodo offre il vantaggio di non intralciare le ulte- riori ricerche e di rendere immediatamente libero tutto l’ acido cianidrico di questo composto. Con alcune modificazioni, di cui farò cenno più avanti, si può ovviare a qualche inconveniente inerente al medesimo. Ma gli accennati metodi sono fondati sul principio, non assolutamente vero, che, il cianuro di mercurio per essere riconosciuto abbisogni o di essere isolato dai visceri cadaverici o decomposto in acido cianidrico con mezzi speciali. È noto da tempo come quel composto venefico abbia la proprietà di unirsi ai cloruri al- calini formando delle combinazioni, da cui gli acidi deboli svolgono acido ciani- drico, ed alle quali è attribuita la formola generale 2 HyCy®, MeCh.Il Geuther (6), fondandosi sulla facile loro decomposizione col mezzo degli acidi deboli e sul metodo, con cui si possono ottenere, sciogliendo il cloruro di mercurio nelle so- luzioni di cianuro doppio mercurico-potassico, sodico-potassico ecc., preferisce con- siderare questi composti come combinazioni di un doppio cianuro con un sale di mercurio. (1) TaxLor — On poison in relation to medical Jurisprudence and medicine. London, 1859, pag. 476. (2) WormeLyx — Micro-chemistry of poison. Neu Jork, 1869. (3) T. Motr — Toxicologie chimique. Paris 1876. (4) Woopxan e Tipr — A handy book of forensic medicine and toxicology. London, 1877, ag. 216. "i (5) Selmi — Della ricerca dell’ acido cianidrico, di quella del cianuro di mercurio, ecc. Bolo- gna, Tip. Gamberini e Parmeggiani. 1878, Enciclopedia Chimica, Vol, X, pag. 611. (6) GeutHER — Ann. Chim. Pharm. T. CVI, p. 241. TOMO X. 13 L. Marenco (1), per spiegare questa facile loro decomposizione per mezzo degli acidi deboli, non ammette che quando si mescolano soluzioni di cianuro di mer- curio con altre di un cloruro alcalino, si formino questi doppi composti; ma che fra quelle sostanze reagenti avvenga doppia decomposizione parziale, per cui si produce cloruro mercurico e cianuro alcalino, mentre rimangono in parte inde- composti il cianuro mercurico ed il cloruro alcalino. Ma, eliminando col mezzo degli acidi il cianuro di potassio, la decomposizione fra quei due sali procede oltre sino a divenir totale, quando, man mano che si forma, il cianuro alcalino si decompone. Ammettendo per vera questa interpretazione, ne consegue che ver- sando in una soluzione contenente cianuro di mercurio e cloruro sodico della potassa caustica, si dovrebbe avere precipitato giallo di ossido di mercurio: ‘ciò non accade realmente, quando le soluzioni sono neutre e dilute: ma quando siano acide e concentrinsi al calore, allora la precipitazione dell’ ossido giallo col mezzo della potassa, ha luogo, perchè il cianuro potassico formatosi, venendo decomposto dall’ acido, la trasformazione del cianuro di mercurio in cloruro va sempre progredendo al punto da divenir completa. Comunque sia sta di fatto che il cianuro di mercurio in presenza dei cloruri alcalini e degli acidi anche deboli, svolge acido cianidrico. — Ciò ha dimostrato il Plagge (2), aggiungendo alle soluzioni di cianuro di mercurio del cloruro di sodio e acido solforico diluto o acido ossalico o tartarico e distillando: nel prodotto della distillazione trovò acido cianidrico. Nessuno prima dell’ Otto (3) aveva tenuto calcolo di questo fatto importante nelle ricerche del cianuro di mercurio nei visceri e liquidi cadaverici, nei quali il cloruro di sodio non fa mai difetto; fatto il quale per lo meno dimostra, come d’ ora innanzi non sì potrà più in dette ricerche far distinzione fra acido prussico del cianuro di mercurio e quello degli altri cianuri decomponibili dagli acidi deboli. Ed è su questo medesimo fatto che anche il Marenco (4) giustamente richiama l attenzione dei Tossicologi. Ma, se è vero che il cianuro di mercurio quando siano presenti i cloruri alcalini e gli acidi deboli svolge acido cianidrico, ciò per altro fa con lentezza, per modo che, per svolgerlo totalmente è necessario il protrarre a lungo la distillazione e quasi a secchezza, il che se non può arrecare grave inconveniente, allorchè si tratti della sola ricerca di quel composto cianico, altrettanto non può dirsi, quando si operi nelle condizioni di una ricerca generale dei veleni, in cui il protratto calore e la concentrazione dei liquidi in presenza di acidi liberi, può nuocere alla medesima. Del resto il lento e graduale sviluppo dell’ acido cianidrico dal cianuro di mercurio in presenza di cloruri alcalini e di (1) Annali di Chimica e farmacologia, 1887. Vol. 6° Serie IV, pag. 179. (2) Orro — Luogo citato, pag. 30 (3) Orto — Luogo citato. (4) Luogo citato. Dego acidi deboli, discende come logica conseguenza dalla spiegazione che il Marenco stesso dà del fenomeno e che noi riportammo. Infatti lo sviluppo dell’ acido ciani- drico non può essere che lento e successivo, nell’ ipotesi che fra il cianuro di mercurio e il cloruro alcalino avvenga parziale la doppia decomposizione e che questa non possa progredire, se prima il cianuro alcalino, che man mano si forma non venga eliminato. Ciò d’ altronde venne da me confermato con una semplice espe- rienza. Ho sciolto gram. 0,10 di cloruro di sodio in gram. 200 d’ acqua (rapporto approssimativo in cui questo sale si trova nello siero sanguigno) (1), e ho ag- giunto gram. 0,25 di cianuro di mercurio, quantità approssimativamente necessaria per la completa doppia decomposizione; acidulato il liquido con gram. 0,50 di acido tartarico, ho infine distillato a bagno maria a temperatura fra 50° e 60°. Trovai naturalmente acido cianidrico nello stillato, ma avendo avuto cura di rimettere nella storta man mano acqua per mantenere sempre il primitivo volume del liquido, il passaggio dell'acido cianidrico continuò per diversi giorni e cessò solo quando la distillazione fu continuata quasi a secchezza. Lo stesso Otto riconosce implicitamente questo fatto, poichè per la ricerca dell’ acido cianidrico nel cianuro di mercurio, dopo aver aggiunto cloruro di sodio e acido ossalico, prescrive di distillare a fuoco nudo o a bagno di paraffina: mentre secondo il Plagge la distillazione dovrebbe essere condotta ad ebollizione vivace. Ma un altro fatto di non minore importanza per l’ argomento che ci occupa fu osservato per la prima volta dal Marenco (2) ed è lo sviluppo di acido ciani- drico, quando le soluzioni di cianuro di mercurio vengono mescolate ad albumina d’ ovo od a sangue, liquidi, che, com’ è noto, hanno reazione alcalina. Anche a proposito di questo sviluppo, che realmente ha luogo e pur esso viene a dimostrare l inutilità di metodi speciali per il semplice riconoscimento dell’ acido prussico del cianuro di mercurio, è da ripetersi che è lento e progressivo ed abbisogna di una distillazione protratta a lungo e quasi a secco, perchè riesca completo. Nel mentre eseguivo queste esperienze ho fatto qualche osservazione che credo non affatto inutile per la storia di questo strano cianuro che ci occupa. Ho osservato infatti che mentre i sali di mercurio e, segnatamente il bicloruro, pro- ducono abbondante precipitato nelle soluzioni di albumina, queste invece non sono neanche intorbidate dal cianuro. A quanto sembra, questo composto si comporta per rispetto all’ albumina come con molti altri sali, per esempio, il nitrato d’ ar- gento, il fosfato di sodio, i carbonati alcalini, il joduro di potassio, i quali preci- pitano gli altri sali mercurici, ma non il cianuro: forse questo forma coll’ albu- mina doppia combinazione solubile come fa cogli anzidetti composti salini. Se nella soluzione mista di cianuro di mercurio e di albumina, si versi soluzione di potassa caustica, il liquido si mantiene limpido anche se il cianuro vi si trovi in forte (1) Hopre SEYLER. ALBERTONI e Sterani' — Manuale di Fisiologia umana — Vallardi pag. 158. (2) Luogo citato Rea i — 100 — proporzione. Quando invece, dopo avere con sublimato corrosivo precipitata l’ albu- mina, si aggiunga potassa caustica, questa scioglie il precipitato e solo si ha formazione di ossido giallo di mercurio, allorchè il cloruro mercurico trovasi in eccesso : il quale ossido scompare per altro per aggiunta di nuova albumina. Che il cianuro di mercurio, sebbene non appaia, reagisca coll’ albumina, vien dimo- strato dal fatto che, aggiungendo alla soluzione mista di albumina e di cianuro di mercurio alcool assoluto in forte eccesso, ottiensi un precipitato albuminoideo che, non ostante sia lavato con alcool, finchè questo più non reagisca col nitrato d’argento e coll’ acido solfidrico, pure annerisce notevolmente l’ ultimo reattivo. Questo precipitato sottoposto a distillazione insieme ad acqua non svolge acido cianidrico, solamente imbruna, come non ne svolge quando lo si distilli insieme ad acqua e a cianuro di mercurio: il che starebbe a dimostrare che i principi albuminoidi per sè soli non avrebbero potere riduttore sul cianuro di mercurio. Se invece si scaldi questo precipitato con cianuro di mercurio e potassa caustica, e raffreddato il miscuglio, si aggiunga acido tartarico e si distilli, hassi abbon- dante sviluppo di acido prussico. Questo fatto potrebbesi spiegare ammettendo che per l’azione dell’ alcali sul solfo del principio albuminoide, si formi solfuro alcalino, il quale reagendo col cianuro di mercurio, produrrebbe solfuro di questo metallo, causa dell’ annerimento, e cianuro alcalino, dal quale 1’ acido tartarico svolgerebbe poi acido prussico. Ma il fenomeno potrebbe ricevere altra spiegazione. Si potrebbe ammettere che la sostanza albuminoide in presenza dell’ alcali e per l'azione del calore acquisti il potere di ridurre il cianuro, rendendo libero mer- curio e acido cianidrico, il quale si combinerebbe poi coll’ alcali stesso. Ed invero una soluzione di albumina resa appena acida e scaldata con cianuro di mercurio non annerisce più. Che l’ annerimento delle soluzioni non acide di albumina quando vengano scaldate e il successivo svolgimento di cianuro d’idrogene per l’ aggiunta di un acido sia dovuto piuttosto a fatto di riduzione, anzi che a formazione di solfuro alcalino prima, e di solfuro di mercurio e cianuro alcalino poi, può dedursi da ciò, che dette soluzioni di albumina non anneriseono per nulla quando si facciano bollire con bicloruro di mercurio: il che dovrebbe pur accadere quando si formasse solfuro alcalino, mentre il non annerire di questo composto mercu- riale può attribuirsi all’ essere esso meno riducibile del cianuro. }} che da ridu- zione possano ripetersi questi fatti, deducesi anche da ciò, che mentre altri composti in soluzioni neutre non anneriscono le soluzioni di cianuro di mercurio, nè svolgono poi cogli acidi acido cianidrico, ciò fanno invece quando sia presente un alcali; così comportansi il glucosio, lo zucchero di latte, le gomme, l'urina e gli acidi tartarico, citrico, gallico ed il pirogallolo. È strano per altro che gli acidi ossalico e formico, riduttori energici, si dimostrino inattivi verso il cianuro di mercurio anche in soluzioni alcaline. Il più forte riduttore di questo composto metallico è l'acido ipofosforoso che a freddo e da solo istantaneamente lo riduce con svolgi- mento di acido idrocianico: anche l’ acido fosforoso lo riduce da solo, ma a caldo; — 101 — il che costituisce un nuovo carattere distintivo fra questi due prodotti di ossidazione intermedia del fosforo. Anche questo metalloide esercita potere riduttore sul cianuro di mercurio con svolgimento di acido prussico; ma la riduzione è lenta anche quando lo si impieghi in soluzione alcoolica. Il protocloruro di stagno vi esercita pronta azione riduttrice; si hanno mercurio e acido cianidrico liberi e bicloruro di stagno e ossido stannico. Ma se dal cianuro di mercurio purissimo, non si può svolgere con acidi deboli il cianuro d’ idrogene, come da molti altri cianuri, si può per altro dimostrarne la natura cianica con alcune reazioni, che ha con questi in comune. Così colla potassa caustica, col solfato ferroso-ferrico ed un acido diluito si può con facilità trasformarlo in ferrocianuro ferrico (bleu di Prussia); si può da esso, come dagli altri cianuri, ottenere la reazione di Carey Lea, ossia la sua trasformazione in isopurpurato alcalino, di color rosso bruno; finalmente si può esso pure trasfor- mare in solfocianuro alcalino e quindi in solfocianuro ferrico di color rosso sangue (reazione del Liebig); solo che per il cianuro di mercurio dopo aver aggiunto quantità sufficiente di solfuro d’ ammonio, fa d’ uopo filtrare il liquido per sepa- rarne il solfuro di mercurio, procedendo per il resto come per gli altri cianuri. Ciò è in opposizione coll’ asserto del Chapnis (1) il quale afferma “ que le cyanure n de mercure ne donne ni les reactiones de l’ acide cyanhydrique, ni celle des » sels de mercure ,. Il sapere che queste reazioni si possono ottenere direttamente dal cianuro di mercurio può tornar utile in quei casi, per altro sempre rari, in cui la quantità di quel veleno fosse tale da poterlo isolare dai visceri cadaverici. Venendo ora all’ applicazione dei fatti su riferiti alla ricerca chimico-tossico- logica del cianuro di mercurio, dopo l’ osservazione del Plagge confermata dal- l’ Otto, dal Marenco e da me, che cioè, quel composto in presenza di cloruri alcalini e di acidi anche deboli svolge acido cianidrico, e dopo l’altro non meno importante fatto, scoperto dal Marenco, che l’ acido prussico si rende libero dal medesimo in presenza di albumina e di sangue, liquidi a reazione alcalina, dopo tutto questo, discende logica la conseguenza che per isolare l’ acido stesso dal detto composto di mercurio, non occorre un metodo speciale, ma basta distillare i visceri con acido tartarico ed ossalico. Ed appunto questa è una delle conclusioni, a cui arriva il Marenco: e noi pure l’ accetteremmo, se non ci fosse occorso di osservare, come abbiamo accennato, che nelle indicate condizioni, lo sviluppo dell’ acido cianidrico è troppo lento e che per isolarlo in totalità si rende necessario il protrarre a lungo e quasi a secchezza i miscugli organici. Ora, se lo spingere la distillazione quasi a secchezza o il condurla alla temperatura dell’ ebollizione, come vorrebbero l’ Otto ed il Plagge, non può recare altro incon- veniente, quando si tratti della sola ricerca del cianuro di mercurio, che di pro- curare una soluzione di acido cianidrico molto diluta, altrettanto non può dirsi, (1) Luogo citato. — 102 — ‘allorchè debba istituirsi una ricerca generale dei veleni, dei quali aleuni, come già si disse, sono alterabili per elevato e protratto calore. Si danno inoltre dei casi, in cui la quantità del cianuro di mercurio può essere tanto piccola da non poter- ‘sene riconoscere l’ acido cianidrico, se non quando, liberandosi tutto ad un tratto, lo si possa poi avere concentrato in poco liquido. È per questo che io credo non solo util cosa, ma necessaria, allorchè trattisi di coordinare la ricerca del cianuro. di mercurio con quella generale degli altri veleni, il ricorrere ad un metodo, pel quale si possa istantaneamente aversi libero nei materiali di ricerca, l’ acido ciani- drico. Fra tutti i metodi proposti, io son d’ avviso debbasi preferire quello del prof. Selmi, quando, gli si apportino alcune modificazioni atte a migliorarlo. Come già dissi, il Selmi decompone il cianuro di mercurio coll’ acido solfidrico, saturando il miscuglio organico con una corrente di questo gaz. Il Selmi stesso aveva già osservato, come operando in sì fatta maniera, se, come di solito, sì trovi nei visceri dell’ alcool, che aggiungesi per conservarli, si formino del mer- captano ed altri prodotti solforati, che possono arrecare qualche inconveniente ; e per questo egli consiglia, prima, di trattare il miscuglio con acido solfidrico, di distillare nel vuoto, al fine di separare tutto 1 alcool. Ma in questa distillazione può avvenire che piccola porzione di acido cianidrico resa libera dal cianuro, per l’azione delle sostanze albuminoidi, passi coll’ alcool e vada perduto. Può inoltre accadere, che saturando il miscuglio organico di gaz solfidrico, le bolle eccedenti di questo gas, sortendo dal medesimo, trasportino, come fanno gli altri corpi gazosi, dell’ acido cianidrico, che sfugge così alle ricerche. Saturato di gas solfidrico il miscuglio, egli lo distilla a temperatura fra 40° e 45°, e sotto corrente di anidride carbonica, raccogliendo circa 20 c. c. di liquido se acquoso, circa 40 c. c. se alcoolico. Ma l'anidride carbonica, se giova, escludendo la presenza dell’ aria, che po- trebbe nuocere per l’ ulteriore ricerca di qualche sostanza facilmente ossidabile, può arrecare qualche perdita di acido cianidrico, che dalle sue soluzioni, come dissi, è trasportato dai gas. Onde evitare gli accennati inconvenienti, ecco in qual modo procedo. Innanzi tutto rendo acido il miscuglio, se pur non l’ era, con acido tartarico; poi lo neu- tralizzo con carbonato di calcio precipitato di recente per fissare l’ acido solfocia- nico, che l’ acido tartarico può rendere libero dal solfocianuro alcalino che in piccola quantità rinviensi nell’ organismo ùmano, e il quale intralcierebbe uno ‘dei mezzi di riconoscimento dell’ acido prussico. Il carbonato di calcio neutralizza anche gli acidi ferro e ferricianidrico, che essi pure accidentalmente, potrebbero essere nei materiali di ricerca, resì liberi dall’ acido tartarico, dai rispettivi ferro e ferricianuri. Non è per altro indispensabile la neutralizzazione di questi acidi, perchè anche liberi non possono recare. pregiudizio, quando si segua il metodo da me proposto. Aggiungo in seguito, agitando, acqua solfidrica, finchè il liquido, cimentato con cartina all’ acetato di piombo, mostri di contenerne un lieve eccesso: — 103 — chiudo con tappo il matraccio ed abbandono a sè, in luogo fresco e per venti- «quattro ore, il miscuglio, avendo l’ avvertenza di agitarlo di tanto in tanto. Tra- scorso questo tempo esploro col reattivo piombico, se esso contenga ancora acido solfidrico libero, e, se non ne contiene, verso di nuovo, agitando, acqua solfidrica, fino a che il miscuglio annerisca sensibilmente la carta reattiva. Allora, metto in comunicazione il matraccio coll’ apparecchio a svolgimento di gas idrogeno, del quale dirò fra poco, vi faccio gorgogliare una corrente di questo gas puro, il quale trasporta con sè l’ acido cianidrico insieme al poco gas solfidrico contenuto nel miscuglio: faccio passare il miscuglio gazoso in soluzione di nitrato di bismuto nell’ acido nitrico diluito, che lo libera dal gas solfidrico: ed infine in piccolo volume di soluzione allungata di potassa caustica, che fissa l’ acido cianidrico, e riconosco questo veleno nella soluzione di potassa alle sue reazioni caratteristiche. Fra i vantaggi di questo metodo di separazione si ha quello di evitare: 1° l'eccesso di acido solfidrico, che nucce specialmente, quando nei visceri si trovi alcvol: 2° la presenza dell’ aria ed il calore della distillazione, che possono essere causa di alte- razione di alcune sostanze venefiche che in una analisi tossicologica generale debbono essere ricercate. Come accennai sì deve neutralizzare il materiale di ricerca con carbonato di calcio, perchè come ho provato coll’ esperienza, mentre il gas idro- gene non ha influenza alcuna sugli acidi ferro e ferricianidrico liberi, trasporta invece con facilità l’ acido solfocianico. Infatti il gas idrogene, che abbia attra- versato una soluzione anche allungata di acido solfocianico, quando si faccia gorgogliare in poca acqua ammoniacale, svolge vapori densi e bianchi simili a quelli che formansi fra i gas cloridrico ed ammoniaco, ed il liquido ammoniacale reso leggermente acido si tinge in rosso sangue col percloruro di ferro. L’ idro- gene sposta con facilità l’ acido cianidrico, anche allorquando si trovi in picco- lissime quantità nei miscugli organici acquosi non solo, ma anche allorchè si trovi presente alcool. Altro vantaggio di questo metodo si è, che, per fissare l’ acido cianidrico, impiegandosi un volume di soluzione di potassa, che può essere piccolissimo, si può avere quest’ acido condensato in volume parimenti piccolo; il che facilita il suo riconoscimento col mezzo delle reazioni caratteristiche; e torna di utilità grandissima, allorchè trattasi di constatare quantità minime di questo terribile veleno. Per fissare il piccolo eccesso di acido solfidrico, acciò non nuoca alle successive operazioni, impiego il nitrato di bismuto sul quale, come sull’ idrato di quel metallo, non ha azione alcuna l’ acido cianidrico che con esso non forma cianuro. L’ apparecchio, di cui faccio uso, è formato di un gazogeno Kipp, nel quale svolgo idrogeno con zinco ed acido solforico diluito al '/,, purissimi. Questo ap- parecchio, che deve essere munito di chiavetta, pongo in comunicazione con pic- cola bottiglia contenente soluzione di permanganato di potassio, resa acida con acido solforico; questa serve per liberare il gas da qualche piccola impurità, che — 104 — potrebbe contenere, quando lo zinco e l acido solforico impiegati non fossero purissimi: collego questa bottiglia col pallone, in cui trovansi i visceri e liquidi cadaverici trattati prima con acido tartarico, quindi con carbonato di calcio, ed infine con acqua solfidrica. Il tubo di sviluppo, che parte dalla bottiglia conte- nente la soluzione di permanganato di potassio, deve pescare fino al fondo del pallone. Questo mediante tubo a doppia squadra sì congiunge con altra botti- glietta contenente la soluzione bismutica, dalla quale si diparte un tubo pure a doppia squadra, il cui estremo pesca in una bottiglietta od in un bicchiere a calice contenente piccolo volume di soluzione allungata di potassa caustica. Il passaggio dell’ idrogeno a traverso il miscuglio deve durare fino a che una cartina Schòn- bein, presentata all’ estremo dell’ ultimo tubo di sviluppo, più non si colori in azzurro. Come già fu detto, si fa gorgogliare 1’ idrogeno in piccolo volume di soluzione alcalina sia per fissare l’ acido cianidrico, sia per ottenere in modo distinto le reazioni più caratteristiche di questo veleno. Ma innanzi di fissarlo sulla potassa, si può constatarne la presenza nel gas idrogene stesso: 1.° Col reattivo Schonbein. Quantunque la colorazione in azzurro di questo reattivo non sia caratteristica per l’ acido cianidrico, perchè altre sostanze ossidanti come il cloro, il bromo, i vapori nitrosi, che anch’ essi possono essere trasportati dall’ idrogene, producono la medesima colorazione sulla resina di guaiaco, che è uno dei componenti di quel reattivo, pure acquisterà grande valore, se il gas si faccia prima passare in alcune goccie di sola tintura di guaiaco: se questa si colorasse in azzurro, ciò sarebbe indizio che insieme all’ idrogene trovasi qualcuna di quelle sostanze ossidanti, nel qual caso detto reattivo non potrebbe più avere valore per la ricerca dell’ acido cianidrico. Ma, qualora la colorazione non si manifestasse che dopo avere aggiunto alla tintura di guaiaco, rimasta sino allora inalterata, una piccolissima quantità di solfato di rame nella proporzione prescritta dal Schòn- bein per la composizione del suo reattivo, allora la colorazione azzurra dovrebbe: attribuirsi ad acido cianidrico. 2.° Facendo per alcuni istanti gorgogliare l’ idrogene in alcune goccie di acqua, tenente in sospensione quantità estremamente piccola di calomelano ottenuto per precipitazione, il quale acquisterà prontamente colore cinereo per piccola che sia la proporzione di acido cianidrico commista all’ idrogeno. 3.2 Altra prova di questo veleno si avrà, se il gas idrogeno fatto gorgogliare entro poche goccie di soluzione di nitrato d’ argento, vi produrrà intorbidamento o precipitato bianco, che tale si mantenga anche alla luce, poco solubile nell’ am- moniaca, solubilissimo nei cianuri alcalini e solubile nell’ acido nitrico concentrato e bollente. Se la quantità di acido cianidrico trasportato dall’ idrogeno è sensibile, si ha percipitato amorfo; quando per lo contrario sia tenuissima, il liquido intor- bida e dopo breve riposo depone cristallini formati de aghetti o piccolissimi prismi microscopici. Tre sono le reazioni veramente caratteristiche dell’ acido cianidrico, e consistono — 105 — nella sua trasformazione: 1° in nitroprussiato alcalino, riconoscibile coi solfuri solu- bili (reazione Vortmann); 2° in ferrocianuro potassico, riconoscibile coi sali ferrici : 3° in solfocianuro alcalino, parimenti riconoscibile con questi sali (reazione Liebig). Ed ecco ora come conviene operare per ottenerle in modo certo e sensibile. dalla soluzione potassica. Per ottenere la prima di dette reazioni prendesi qualche c.c. di quella soluzione, si aggiungono alcune goccie di soluzione di nitrito po- tassico, ed altrettante di soluzione di percloruro di ferro, e tanto acido solforico allungato quanto basta per far volgere il colore bruno del liquido al giallo: indi si scalda; infine, dopo raffreddamento, si aggiunge ammoniaca in quantità suffi-. ciente per precipitare il ferro aggiunto in eccesso e si filtra: il filtrato prenderà tinta violetta, per aggiunta di traccia di solfuro ammonico. Per quanto riguarda la trasformazione dell’ acido cianidrico in ferrocianuro potassico, e poi in ferrocianuro ferrico, diverse sono le modalità per effettuarla. Il Selmi consiglia di aggiungere allo sciolto alcalino nuova potassa, sì che questa si trovi in forte eccesso; indi versato in tubo d’ assaggio vi fa stillare qualche goccia di soluzione di solfato ferroso, agitando fortemente per due o tre volte: chiuso con tappo il tubo l’ abbandona a sè per mezz’ ora, dibattendo nell’ intervallo qualche volta: filtra, lava il filtro col contenuto, ed al filtrato aggiunge acido cloridrico diluito con tre o quattro volumi di acqua fino a reazione acida, poi qualche goccia di uno sciolto allungato di cloruro ferrico fino a che l’ inazzurrimento che si pro- duce vada crescendo: lascia di nuovo in riposo perchè il ferrocianuro ferrico formatosi si deponga, e sul liquido limpido ed incoloro soprastante versa una goccia di soluzione di solfato ferroso; se il liquido torna colorarsi in azzurro, ciò è prova che una parte del ferrocianuro di potassio si è, per l’ azione dell’ ossido ferrico, convertita in ferricianuro. Con esperienza di confronto ho potuto dimo-. strare che operando convenientemente, oltre ad ottenersi la reazione in modo più sensibile ed in più breve tempo, si evita la trasformazione del ferrocianuro in. ferricianuro. A questo fine, a parte della soluzione potassica aggiungo una goccia della soluzione di solfato ferroso, per modo da ottenere un intorbidamento sen- sibile e colorazione verde scura: dibatto fortemente per un istante, poi aggiungo subito una piccola goccia di soluzione allungata di pereloruro di ferro, ed acido solforico diluito, fino a reazione acida. Così operando appare subito la colorazione azzurra più o meno intensa a seconda della quantità dell’ acido prussico conte- nuta nel liquido alcalino, e si ottiene nettamente la reazione anche da soluzioni allungatissime di cianuro potassico, nelle quali non si rende manifesta, operando nel modo. indicato dal Selmi. Ma la maniera di rendere ancor più squisita detta reazione in liquidi che contengono traccie di acido cianidrico altrimenti irreperi- bili. si è quella di evaporare a secchezza alcune goccie di soluzione potassica in cui, anche per pochi minuti, ha gorgogliato l’ idrogeno, fatto prima passare entro i miscugli animali contenenti minime proporzioni di acido prussico : di aggiungervi una o due goccie di soluzione di solfato ferroso, facendole scorrere col mezzo di uno TOMO X. 14 — 106 — specillo di vetro sulle pareti della capsuletta, ed infine di aggiungere una goccia o due di acido cloridrico diluito. Si ha così vivacissima colorazione azzurra, e poi depo- sito quasi immediato di polviscolo di eguale colore, per quanto piccola possa essere la quantità di acido cianidrico contenuta nella soluzione potassica sottoposta al- l esperimento. Io ho ottenuto in modo brillante la reazione anche da una goccia di soluzione potassica contenente traccia di acido prussico: e quindi io non posso che raccomandare questo modo di effettuare la reazione fondata sulla formazione del bleu di Prussia. Nulla dirò della terza reazione basata sulla trasformazione dell’ acido cianidrico in solfocianuro, che riesce sempre bella e sensibile quando si operi secondo le norme suggerite dal Liebig, e quando non si dimentichi la precauzione, prima di aggiungere il sale ferrico, di rendere debolmente acido con acido cloridrico il residuo dell’ evaporazione della soluzione potassica, alla quale sì è aggiunto il solfuro di ammonio. Farò piuttosto qualche osservazione, che non credo inutile, sul modo di effettuare la reazione del Carey Lea, consistente nello scaldare la soluzione potassica di acido cianidrico con soluzione satura a freddo di acido trinitrofenico: nel qual caso formasi isopurpurato potassico, che colora il liquido in rosso sangue. Ho osservato che questa colorazione ottiensi abbastanza sensibile scaldando per qualche tempo una semplice soluzione di potassa con detto acido, il che può produrre grave equivoco: ho pure osservato che ciò non accade quando alla soluzione di potassa si sostituisca l’ acqua di calce, colla quale ottiensi egual- mente la colorazione rossa, solo però quando sia presente acido prussico. Ecco come opero per togliere ogni equivoco e rendere più sensibile questa reazione. Innanzi tutto faccio per breve tempo gorgogliare il gas idrogene, che ha attra- versato i visceri contenenti acido prussico, in circa 10 c.c. di acqua di calce: preparo d’ altra parte una soluzione satura a freddo di acido picrico nell’ acqua stessa di calce: concentro a lieve calore 10 c. e. di questa fino a riduzione di circa 1 c, c.; intanto si osserva che essa non assume color rosso anche quando si faccia bollire, come fa la soluzione potassica dello stesso acido. Mentre evapora la soluzione picrica, si fa altrettanto coll’ acqua di calce, in cui ha gorgogliato il gas idrogeno e quando questa è ridotta a poche goccie, e mentre sta ancora evaporando, vi versa la soluzione concentrata e calda di acido picrico, si svolge subito viva la colorazione rosso-sanguigna, che si fa più manifesta continuando a scaldare. Il metodo descritto di estrazione dell’ acido cianidrico si può evidentemente applicare tanto a quei casi in cui esso fu propinato allo stato di cianuro di mer- curio, quanto allo stato libero o di cianuri decomponibili dagli acidi deboli ; solo che in questi ultimi casi sarebbe affatto inutile ricorrere all’ acido solfidrico. Se questo metodo vale per l’ estrazione dell’ acido cianidrico dal cianuro di mercurio, esso non può assicurarci, per le ragioni già esposte, che questo acido provenga assolutamente da questo composto cianico. Solo potrà aversene la certezza ricer- cando il metallo nei visceri cadaverici, dai quali si separò l’ acido prussico. La — 107 — soluzione potassica, in cui fu fatto gorgogliare il gas idrogene fino a che più non inazzurriva la cartina Schònbein, può servire anche alla determinazione quantitativa di quel veleno in essa disciolto, applicando a parte di essa, i metodi dosimetrici del Liebig, del Buignet, o quello di Fordos e Gelis. Nè collo stesso metodo e collo stesso apparecchio è impedita la ricerca di altri veleni volatili trasportabili dal- l’ idrogeno, una volta esclusa la presenza dell’ acido cianidrico col reattivo Schòn- bein. Così per esempio, si può dimostrare la presenza dei cloroformio nell’ idrogeno che ha attraversato i visceri, accendendo quest’ ultimo ed intercettandone la fiam- ma con reticella di ottone, che a questa fa acquistare colorazione verde azzurra, brillantissima, ed operando per il resto come ho indicato in un lavoro prece- dente (1). Altrettanto dicasi del solfuro di carbonio, nel qual caso la fiamma dell’ idrogeno diviene azzurra, dà anidride solforosa, e, spaccata con lastre di porcellana, sulle quali siansi fatte evaporare e disseccare in posti distinti goccie di soluzioni me- talliche diverse, produce colorazioni varie dovute a solfuri metallici di varia tinta a seconda delle soluzioni metalliche impiegate. Facendo poi gorgogliare per alcun tempo l’ idrogeno in soluzione alcoolica di potassa si ottiene un liquido che con- terrà xantato o etildisolfocarbonato di potassio, il quale con molibdato d’ am- monio ed un acido diluto, si trasforma poi in xantato di molibdeno di color rosso vinoso (2), e così dicasi di altri veleni volatili, la cui presenza può essere meglio dimostrata col metodo descritto. Do termine, col far osservare che con questo metodo stesso, si può, durante il corso di una lezione, dimostrare in un miscuglio organico la presenza e le principali reazioni dell’ acido cianidrico. (1) Gazzetta Chimica degli Italiani, 1881, Vol. XI, pag. 489. (2) Giornale di Farmacia e di Chimica, T. XXXII, 1883, pag. 106, I VM; | - safe fi sia diiiorab ae ai di Li Riina geni sarai PPTTI pito SIONI: I TITSTS PRIA stia. sian tossina Gay aniodistio@ scritta e bi rato fa ciagh EDI Baj dra GIUTONT vd na cpp vetta: pun obicgalsa SPO st icnacobo dari Gracia alia T-0/SPRRTTTUATO SIVORI trio ini ‘colesp 0% PIETTORETLI delncg ia 44 asa Hitel nio rastitia cbr kmesrie po trae e PI I sitio HAI «gia dote sibilo Mat ca ccinteg sand vito Esa sitoroni si vanti dona i A iano banana vaviibobagi Seri; i ESISTITO ee: IL0, cigni teri È papittgt). Nappo): Gbrebroa ieri sazA 307 EST Alpiorolvae edizione Minor. aeterl armani sti cara STATI utili as ngi Lou stag i fa, #09] predy dritta sr ue w LAI RITI a Ana n n ® Mat Fat ine osrrtos “Hari aim Str samedi pena sh ava bor o pallina feet ner di DIRI tari n PR piloti data cure ata Rae ti prati < tear PORTA, fr Lothar inoiuicicatatvavie olaeartci Mendel ici ts) RARA NI pn owtabilns it caso EDM an. ar er filnoliiaai Pe i 5 AS I dai Po) Nasa climi e nidi ini LA "P abit ici ctriore Lib). "O GURETT NE LR NAM ne Miei: dia nadia Picone IRA ‘aprir fetve 8: MAE; Siti svi ia MORE CI X PI $ ‘ Punt rane Bea VATI { PESA Wi 7 ODE P=-» 16 MalVace e MA. » con plausibile approssimazione >» 32 ‘Sterculiacee . . . . . » minimo » 6 Tiliacee . BP TE SCR » » MIT NE ca EE 15 Malpighiacee . .. . . » con plausibile approssimazione » 72 Balsaminee . ..... » minimo » 9 Zantossilee. . . . . . » » MRO » 4 Simarubee . . ,... » su base insufficiente » 3 Passifloracee . . . . . » con plausibile approssimazione — » 217 Cucurbitacee . . . . con dubbia approssimazione » 64 Turneracee . con grande approssimazione » 59 Samidacee . ... 0. » con qualche approssimazione . » 30 Moringeeti 0 i » probabile Mese 3 Marcegraviacee. . . . . » » 6 24 CAGtAC ee AR RIN. » DIOR NI N 3 Leguminose - Papilionacee » probabile MEA » 168 » - Cesalpinee . » con grande approssimazione » 122 » - Mimosee. . » con plausibile approssimazione » 663 -Rosacee - Rosee. . . . » TIMIDI AO I RO 2 » - Amigdalee . . » approssimativo. » 40 » - Crisobolanee. . » » » 38 Combretacee . . .. . » » REI INR » 49 Vochisiacee . . . ... . » con grande approssimazione » 25 Caprifogliacee . . . . . » con sufficiente approssimazione — » 20 Rubiacee . » 1 Composte. IRE TR » 2 Ebenacee. . Computo minimo » 60 0 /CaCe EE E IS » approssimativo » 50 in generi DO Hi 19 H+ IN 0 MU INDNN no (a) DI 9 9 PI DI HI Db 19 OH QI DI > dad I O I DI — 125 — Riporto specie 1818 in generi 156 Bignoniacee. . . . . . Computo di dubbia approssimazione . . >» 342 » 25 Pedalinee . ..... » DESMMESALBO N 13 » 6 «Convolvulacee . . . . . » IDIDIMONNANA TI IIS YI 9 » 4 Verbenacee . . .... » » SAMIR TR, RI SARA 44 » 4 Scrofulariacee. . . . . » CSALLOL RA Ra or 5 » 1 Poligonacee. . . .. . » IMITA 6 » 2 Euforbiacee. . . . . . » con plausibile approssimazione — » 482 » 52 Salicinee. . . ... . » MIRINO E IE O INA 21 » 2 Orchidee. . . .... » » ORE ARA aa et 10 » 5 Liliacee . . ..... » approssimativo . . . ...° » 12 » 1 Asparaginee. . . . . . » DIM LO O O 1 » 1 Smilacee. ..... 0... » approssimativo . .. ......° >» 95 » 5 Dioscoreacee . . . . . » IO TMITAO |: III DO 3 » 1 IEMOdORACe MEI E e ale 1 » 1 Idee I COMPuto MINIMO RM 4 » 1 Musacee. ...... » approssimativo. . . . ... >» sl » 3 MUTE SO e A ia e ARSA FA A > 4 » 1 CIRO TAR E RR E dl RI 1 » 1 \Ecidiomicetiaza sor) i LR TIR Latina Sii » 2 » 1 Totale specie 2904 in generi 273 Appreziazione del nostro computo. — Per quanto il nostro computo porti l’in- gente cifra di circa 2900 specie fornite di nettarii estranuziali, pure questo numero è ancora da ritenersi al di sotto del vero. Infatti gli articoli del computo stesso sl possono dividere in due categorie, in quelli che espongono una cifra calcolata per approssimazione e in quelli che espongono una cifra minima. Ora, come accade per tutte le approssimazioni, se vi hanno errori o per difetto o per eccesso, gli uni compensano gli altri, e si ha un risultato fiducievole. Non così per gli arti- coli che espongono una cifra minima, la quale in complesso, per essere più pros- sima al vero, vorrebbe essere moltiplicata un certo numero di volte. Ora gli articoli a calcolo minimo importano il numero complessivo di 187 specie; cifra la quale può essere quintuplicata; il che porterebbe 1’ aumento di 148 specie. Pertanto il numero assoluto delle specie munite di nettarii mirmecofili non dovrebbe molto distare dalla cifra di 3650, restando presso a poco immutato il numero dei generi, o tutto al più aumentato a 290 o a 300. In ultima analisi la funzione adescativa mirmecofila sarebbesi attuata in 3650 specie, distribuite in 300 generi, appartenenti a 50 famiglie diverse. Dodici anni or sono, nella nostra prima pubblicazione (Rapporti tra insetti e tra nettarii estranuziali) davamo l'elenco delle specie fornite di nettarii estranuziali ; il quale si estendeva ad appena una ottantina di specie, distribuite in una ventina di generi, appartenenti a 13 famiglie, tutte dicotiledoni. Esternavamo allora la congettura che “ ulteriori ricerche potrebbero ben decuplare tal numero ,. Il risultato, come si vede, superò di gran lunga la nostra aspettazione e le nostre previsioni; perchè, in breve volgere di tempo, la cifra di 80 venne aumentata ad — 126 — oltre 3600; e a vece della prevista decuplazione abliamo constatato un numero 45 volte maggiore. E il Dott. Kerner (Die Schutemittel der Bliithen etc., Vienna, 1876, p. 62) ester- nava una congettura ancora più difettosa, dicendo: die Zahl dieser PAanzen scheint allerdings nicht gross; wenigstens sind bisher nicht gerade viele derartige Folle bekannt geworden; es wéire aber immerhin mbglich, dass sich bei weiteren Untersuchungen noch so manche Pflanzenart wird ermitteln lassen, welche aus eigenen Driisen im Berciche der Laubbliitter Nectar ausscheidet ,. È notevole che nel gruppo delle Gimnosperme, almeno per quanto fin qui si conosce, non esistono nettarii estranuziali; e nemmeno esistono nettarii nuziali, col- leteri, peli glandolosi. Questa mancanza è un indizio di grande antichità; è un fenomeno dimostrante che allorquando sl costituivano i tipi gimnospermici o non esistevano ancora gli animalcoli a cui dette categorie d’ organi si riferiscono, 0, se esistevano, il tempo non era ancora bastato a concretare e fissare detti rapporti. Locchè è tanto più notevole in quanto che nelle Felci, le quali giusta i dati della morfologia comparata debbono essere comparse prima delle Gimnosperme, taluni di siffatti rapporti esistono (nettarii estranuziali, peli glandolosi). Ma è verisimile che siffatti caratteri siano stati acquisiti dalle Felci a seguito di posteriori accomo- damenti. Tutt'al più si potrebbe concludere che il tipo delle Felci sia molto più plastico e variabile di quello delle Gimnosperme (1). Quanto ai nettarii spermogoniali degli Ecidiomiceti, designati alle mosche, e, forse in alcuni casì, secondo Rarzay, alle formiche, sono certamente caratteri rela- tivamente recenti; già detti funghi non potevano preesistere alle ospitatrici piante (dicotiledoni, graminacee, ciperacee ecc.). Calcolo delle specie a mettarii estranuziali nei singoli gruppi naturali delle piante angiosperme. — Questo calcolo fornirebbe dati assai interessanti, se fosse possibile una soddisfacente e completa classificazione delle angiosperme in gruppi veramente naturali, e se questi gruppi si potesse subordinarli gli uni agli altri, giusta 1’ ordine della loro comparsa nel tempo e nello spazio. Ma questo, allo stato delle cognizioni attuali, fin qui non è possibile, e temiamo che non lo sarà mai. Provvisoriamente proponiamo i seguenti gruppi, notando a ciascuno le rilevate specie mirmecofile. Coripetale policicliche (Ranuncolacee, Sarraceniacee, Capparidee). — Specie mir- mecofile 27. Questo parrebbe il gruppo rispondente a una maggiore antichità ; almeno sotto il rapporto dell’ architettonica florale è quello che avvicina di più le forme archetipe (Cicadee). (1) È singolare che gli unici rapporti esistenti tra le gimnosperme e il Regno animale si rife- riscono alla disseminazione di drupe o bacche mediante gli uccelli (Zuniperus, Podocarpus, Taxus, Ephedra). I frutti commestibili, pendoli e certamente analoghi di Gingko e di Cephalotarus, non si saprebbe a quale categoria di animali siano designati, e tanto meno i semi grossi e colorati di Cycas. — 127 — Coripetale parietali (Moringee, Bixacee, Samidacee, Turneracee, Passifloracee, Cu- curbitacee, (?) Salicinee). — Questo gruppo evidentemente si attacca al precedente, mediante molte specie policieliche a placentazione parietale, per es. mediante le Capparidee, Resedacee, ecc. In questo gruppo la produzione delle specie mirmeco- file è salita alla considerevole cifra di 404. Coripetale euferbicidee (Euforbiacee, Malvacee, Sterculiacee, Tiliacee, Balsaminee, Zantossilee, Simarubee, Maregraviacee). — L’Euforbiacee a mio avviso stanno a capo di un numero grande di famiglie svariatissime; le quali così vengono a costi- tuire un gruppo in apparenza assai eterogeneo, il quale per altro troverebbe la sua unità appunto nell’ Euforbiacee stesse. In questo gruppo così costituito le specie mirmecofile ascendono a 647. Coripeiale ciclospermee (Cactacee, Poligonacee). — Le Cactacee affinissime alle Portulacacee, queste alle Mesembriantemee, alle Cariofillee, alle Paronichiee, queste alle Amarantacee, alle Poligonacee ecc. formano un gruppo che ci sembra natu- ralissimo, e che è molto affine al precedente. In questo gruppo la funzione mirme- cofila è pochissimo sviluppata, realizzatasi in 9 specie appartenenti a due famiglie. Goripetaie perigine (Mimosee, Papilionacee, Cesalpinee, Crisobalanee, Amigdalee, Rosee). -- Gruppo a bastanza naturale, anch’ esso, a quanto pare, collegato colle Euforbioidee. Specie mirmecofile 1033. La funzione scorgesi sviluppatissima. Coripetale epigine (Combretacee, Vochisiacee). — Specie mirmecofile 74. Dette due famiglie in un colle affinissime Oenoteracee, e fors' anco colle Filadelfacee, colle Mirtacee, colle Melastomacee e Litrariacee formano un gruppo a nostro parere assai naturale, ma che è difficile rannodare a qualcuno dei gruppi precedenti. Gamepetaie epigine (Caprifogliacee, Composte). — Specie mirmecofile 22. Appar- tengono a questo gruppo anche le Campanulacee, Lobeliacee, Stilidiee, Goodenoviee, Caliceree, Dipsacee, Valerianacee, ma non contano specie formicarie. Gamopetale contorta. — Questo gruppo naturalissimo è costituito dalle Rubiacee, Tasminee, Genzianacee, Loganiacee, Apocinee ed Asclepiadee. È straordinario. lo sviluppo dei collofori, ma i nettarit estranuziali mancano. Non vi è che una sola specie mirmecofila (Hamelia). Corolliflore polistemoni (Ebenacee). — Specie mirmecofile 60. Oltre le Ebenacee, questo gruppo assai naturale è costituito dalle Stiracacee, Sapotacee, Mirsinee e Primulacee. La fanzione formicaria pare ben poco sviluppata. Corotliflore genuine (Oleacee, Verbenacee, Bignoniacee, Pedalinee, Convolvulacee, Serofulariacee). — Pare questo, insieme con altre affini famiglie, un gruppo assai naturale. La funzione mirmecofila vi è assai sviluppata, annoverandovisi 463 specie fornite di nettarii estranuziali. Monocotiledoni (Orchidee, Liliacce, Asparaginee, Smilacce, Dioscoreacee, Emodo- racee, Ividee, Musacee, Palme). — Le monocotiledoni formano, a mio avviso, un gruppo inscindibile ed unico, il quale non ha nessuna affinità coi gruppi prece- denti, salvo che col primo, cioè colle Coripetale policicliche. Specie mirmecofile 161. — 128 — Le famiglie più segnalate per esaltazione della funzione mirmecofila sono le Passifloracee nel secondo gruppo, le Euforbiacee nel terzo, le Mimosee nel quinto, le Bignoniacee nel decimo. Le specie principi sono il Ficinus communis, le specie del genere Catalpa, la Tecoma radicans e T. glandiflora, il Clerodendron fragrans. I generi più ricchi di specie mirmecofile sono i seguenti, cioè: Turnera, Passiflora, Croton, Cassia, Acacia, Inga. B. SPECIE CHE APPRESTANO NIDI E DOMICILII ALLE FORMICHE. 1° Specie di sviluppo orientale. Miristicacee . . . .COmputo minimo. . . . . Specie lin generi 1 Euforbiaceer nai e ent 4 » 2 Verbenaceest i eee 1 » 1 ANTON Sa AR i ME st e e e i 4 » 1 RUDIACCEORS' SIENA, VAGLIO DT ISO, ORO I 49 4 2, » JÌ Monimiace i e I MON Totale specie 61 in generi 10 2° Specie di sviluppo occidentale. Melastomacee . . .COmputo fiducievole . . . Specie 31 in generi 5 Poligonacee . . . . » » nt pere AO e 2 » Il Artocarpee . . . . » approssimativo . . >» 20 » 1 MIMOSCO RIOT RO ITA E 1 » 1 Palme Computo minimo, 1 » 1 Totale specie 65 in generi 9 Il mirabile in questo raffronto sta nella quasi assoluta coincidenza nel numero delle famiglie, in quello dei generi e in quello delle specie tra le mirmecodi orien- tali e le occidentali; e tanto più degno di nota in quanto che la identica funzione con pari potenza si è svolta e incarnata in famiglie che sono di affinità dispara- tissima. Come puossi rendere ragione di questo fatto se non ammettendo che iden- tiche o almeno sommamente analoghe condizioni di tempo e di luogo hanno, nell’ una e nell'altra parte del globo, suscitato indipendentemente identica natura ed eguale misura di rapporti? Naturale spiegazione invero; per altro molto istruttiva. — 129 — CAPITOLO II Comparazione dei due modi in cui si è sfogata la funzione mirmecofila nelle piante. I rapporti di mutua beneficenza che si sono venuti lentamente costituendo nel tempo e nello spazio, per via di consecutivi accomodamenti tra animali ed animali, tra animali e piante, sono simiglianti a contratti bilaterali, fondati sulla massima do ut des. Nel caso delle specie mirmecofile, la pianta lavora per la formica in due modi o somministrandole un alimento zuccherino, o fornendole comodità di alloggio, e la formica lavora per la pianta difendendola dai suoi nemici. Dei due modi in cui si è sfogata la funzione mirmecofila, qual’ è quello che spiega maggior efficacia ? Senza dubbio il secondo. Per verità la formica si adira e combatte se viene disturbata nel possesso dei nettarii e contro qualsiasi nemico. Ma quest’ira e questa pugna non sono spinte agli estremi, perchè non è caso di vita e di morte per la formica stessa; e infatti se disturbata per lungo tempo e soverchiamente, finisce con andarsene e non muore per questo; e infatti credo che non si dia una sola specie di formica, la cui vita sia necessariamente collegata alla esistenza di nettarii estranuziali. Le cose vanno ben diversamente quando le piante offrono alloggio e nido alle formiche; perchè allora queste se le piante sono dan- neggiate da qualsiasi nemico, combattono, non per l'alimento, ma pro aris et focis; combattono per la vita e per la morte. Infatti espellete da un fusto di Triplaris, da un tubero di Myrmecodia, le formiche, nate e ricoverate in siffatti domicilii chi sa da quante generazioni innanzi, che sorte può essere la loro? Non possono inva- dere nuovi fusti di Triplaris, nuovi tuberi di Myrmecodia, perchè già occupati da altre formiche; corrono incontro a una distruzione quasi certa. Quindi la estrema furia delle formiche annidiate nelle piante, se vengono disturbate da estranei; furia ed energica difesa attestata da tanti viaggiatori e naturalisti (v. sopra, a proposito delle specie di Endocarpum, Triplaris, Cecropia e Acacia cornigera). Il disturbare le formiche nei loro nidi germinantes, non equivale al disturbarle nelle loro nidiate terranee. Tutti sappiamo che se si distrugge o demolisce un for- micaio, le formiche si adirano, ma non perseguitano l’ offensore; sono preoccupate da maggior cura; dalla cura cioè di porre in salvo le uova e le larve, ben sapendo che non avranno nessuna difficoltà a trovare un altro posto. Ma non è così se la pianta in cui annidano, corre pericolo; perchè la loro vita e quella della pianta ospitaliera sono solidali. Alcuni non si fanno un giusto concetto di siffatta solidarietà. In questo caso la protezione delle formiche non è opera puramente inconscia ed istintiva; ma è, ne siamo persuasi, opera intelligente e sistematica di animali avvedutissimi, che in TOMO X. LT — 130 — fatto d'intelligenza sociale superano tutti gli altri insetti, e avvicinano, forse più di qualunque altro, la natura umana. Laonde non è fuor del verisimile che le formiche delle 7riplaris per es. facciano metodiche perlustrazioni per tutto il corpo della pianta abitata, nello scopo di ripulirla da qualunque animale nocivo che in- contrano, anco se questi non possa fornire ad esse nessun cibo. Non è da poco tempo che osserviamo il diportarsi delle formiche nel proteg- gere e difendere gli afidi, le cocciniglie e le cicadelline. Ne abbiamo ammirato la sollecitudine e la vigilanza veramente materna nel difendere quei loro armenti dalla svariata quantità di animali che continuamente insidiano alla loro vita (icneumonidi, piccole vespe dell’ ordine dei fossori, coccinelle, sirfi ecc.) Valga per tutte una osservazione che facemmo a Vallombrosa e che merita di essere qui riferita. In una foglia d’un alberetto d’ acero stava una formica a guardia d’una diecina d’afidi, e contro essa a poca distanza una coccinella. I due nemici erano a fronte da assai tempo, e pareva che riflettessero sul da farsi. Finalmente la coc- cinella si mosse, si fece animo e ghermì colle mandibole un afide. Appena la for- mica si accorse di questo, assalì con gran furia la coccinella, e tentò di morderla da tutte le parti: vana fatica perchè la coccinella è ottimamente corazzata in ogni punto del suo corpo. Quando alfine la formica si accorse della inutilità dei suoi sforzi, pensò a nuova maniera d’ offesa. Salì sopra il corsaletto della coccinella ; incurvò l'addome e schizzò un liquido (verisimilmente acido formico) nella bocca della coccinella. Non è a dire l'effetto che questo sprizzo causò sulla povera coc- cinella, la quale si volse a precipitosa fuga e non solo lasciò la foglia, non solo discese dal relativo ramo, ma si avviò per il tronco e abbandonò l’ alberetto. Al- lora pensai meco stesso; questa coccinella non è inverisimile che perisca pel fatto della ricevuta offesa; ma nel caso che non perisca e si ricuperi ancora, egli è certo che non ghermirà mai più un afide in sua vita, se vede in qualche vicinanza una formica. Quanto siam venuti fin qui dicendo mostra che la custodia delle formiche deve essere di gran lunga più efficace per quelle piante che somministrano alloggio alle formiche anzichè per quelle che loro forniscono soltanto un alimento zucche- rino, quantunque come è noto, gratissimo ad esse e ricercatissimo. Così essendo come si spiega che il fenomeno delle piante ospitatrici è senza comparazione meno frequente di quello delle piante a nettarii estranuziali ? Come sì spiega che queste ultime ascendono alla cifra di circa 3600, mentre quelle che offrono alloggio alle formiche toccano appena il numero di 126? Rispondere adeguatamente a tale quesito non si potrà prima che siano fatte molte osservazioni in proposito nelle regioni intertropicali della terra. Non ostante sì può anticipare che in molti casi il richiamo delle formiche sulle piante me- diante i nettarii estranuziali è una sufficiente difesa, la quale facilmente si con- segue, e con poco dispendio per parte delle piante. La natura vegetale è d'una avarizia grande tutta volta che si tratta di elargire sostanze azotate (proteiniche), — 131 — ed è per contro assai liberale quando si tratta di spendere sostanze idrocarboniche quali sarebbero lo zucchero e la pectosa; come è provato dalla profusione in cui questi principii si trovano accumulati nei frutti commestibili. CAPITOLO III Genesi degli organi formicarii. Genesi dei nettarii estranuziali. — Questa genesi essendo stata iniziata e com- piuta una moltitudine di secoli innanzi al nostro, anzi in un’epoca geologica an- teriore all’ attuale, non potrebbe essere investigata ed intuita se non che alla dub- bia luce delle teorie e delle ipotesi. Le quali teorie ed ipotesi acquisterebbero un certo valore e verisimiglianza, quando attualmente esistesse una famiglia di piante, nei cui diversi membri si potessero osservare gli organi stessi in diversi gradi di formazione. Ora, almeno a quanto sappiamo, una tale famiglia fin qui non si co- nosce. Esistono bensì parecchi gruppi di piante, nelle cui diverse specie possono essere assai istruttivamento studiati diversi gradi di elaborazione dei nettarii. Ma elaborazione non è formazione e il problema resta irresoluto. Veggasi per esempio nel gruppo delle Sambucee. Mettendo a confronto le tre specie nostrane di Sum- bucus (8. Ebulus, S. nigra, S. racemosa) si ha una bellissima scala graduata nella elaborazione dei nettarii stipulari e stipellari. Ma il vero processo genetico e for- mativo del tessuto secernente è incognito tanto nell’ infimo grado d’ elaborazione (S. Ebulus), quanto nel supremo (/S. racemosa). In una moltitudine di specie appartenenti alle famiglie più disparate (Passiflora incarnata, diversi Prunus, Populus ecc.) abbiamo indubitabili e bellissime transi- zioni tra i collofori e ìi nettari. Queste transizioni nulla spiegano. I collofori sono. metamorfosi di nettarii oppure, in dette piante, i nettarii sono metamorfosi di col- lofori? Quesito poco solubile, e anche se fosse sciolto a nulla varrebbe. Infatti se i nettarii sono metamorfosi di collofori, in tal caso occorrerebbe sapere la genesi dei collofori e nulla se ne sa; e se i collofori sono metamorfosi di nettarii, resta sempre a spiegarsi la genesi di questi ultimi. Il Dott. Ep. Beccari (Malesia Vol. II, fase. I-II, pagg. 29-31) ha proposto al riguardo la seguente ipotesi. Esistono in certi tessuti delle piante, sovente rigon- fiati, accumulazioni di zucchero. Molti insetti sono avidi di questa sostanza. In principio se la saranno procurata violentemente con morsicature e con asporta- zioni di tessuto ; in seguito, in causa della selezione, la produzione zuccherina può essere andata aumentando, e la trasudazione delle parti ripetutamente ferite, essersi resa ereditaria, dando origine all’ accumulamento del néttare in organi speciali. La teoria parrebbe plausibile ; ma vi ostano numerose osservazioni, segnata- mente quelle che si riferiscono ai molti casi di aree mellifere, ben circoscritte nello — 132 — ‘spazio, ma con tessuto superficiale poco o punto mutato, quelle aree mellifere in- somma che noi abbiamo considerato come nettarii primitivi o primigenii. Ricor- diamo i nettarii delle brattee involucrali di Centaurea montana, del margine apicale dei sepali di Paeonia officinalis, delle stipole e stipelle di Dolichos e Lablab, delle guaine fogliari di Epidendron elongatum ecc. ecc. Questi nettarii primitivi, stabili ed ereditarii come ogni altro nettario, non sono certo derivati da lesioni di tessuto pra- ticate per un seguito di generazioni quanto si voglia lungo. Tutto al più si può ammettere l’ influenza di uno stimolo, ripetuto per una serie incalcolabile di gene- razioni, dovuto a titillazione di tessuto, non a lesione. Come sarà poi applicabile l'ipotesi beccariana al singolare fenomeno della base fogliare mellifera nello HeZanthus giganteus? Questa tra tutte le nostre osservazioni reputiamo la più importante. Ivi non solo manca ogni menoma modificazione di tessuto, ma, quel che è più strano, manca ogni area melliflua definita e circo- scritta. Si vede sgorgare il néttare qua e colà senza la menoma ragione assegna- bile. Eppure questo néttare adempie perfettamente alla sua funzione, poichè ri- chiama una quantità grande di formiche. Ma dato anche la succitata ipotesi fosse valida a spiegare questi casi sempli- cissimi e primitivi di nettarii, non vedo come possa dare ragione di quei nettarii crateriformi che sono tanto mirabilmente elaborati. Una lesione di tessuto prodotta in un dato punto per un lungo seguito di generazioni, dovrebbe causare atrofie e deformazioni piuttosto che mirabili elaborazioni organiche. Preveggo l’ obiezione : se non sarà asportazione di tessuto, sarà una semplice puntura. Egli è vero che le punture in alcuni casi producono ipertrofie, e anzi ‘danno luogo a formazione di tricomi; ma questi tricomi sono semplicissimi, e sono più che altro produzioni patologiche. Certi acari per esempio mediante punture in punti vaghi e indeterminati producono la erinosi (caso patologico) e mediante pun- ture in punti rigorosamente localizzati producono borsette o altri domicilii acariani (caso non patologico). Ma cosìfatte formazioni meritano piuttosto il nome di defor- mazioni; nè sembra che possano essere rese stabili ed ereditarie, e per verità ci è parso di aver osservato che non si formino se si escludono gli acari. In conclusione le genesi dei nettarii così nuziali che estranuziali, sebbene siano organi tanto semplici, ci sembra fin qui affatto inesplicata. Forse noi, per errore specolativo, ricerchiamo cause estrinseche, quando le cause invece sono verisimilmente intrinseche. Per avere ragione della genesi di questi e di altri organi che stupendamente rispondono a rapporti tra piante ed animali (nettarii, masse polliniche con codetta e retinacolo, apparati florali che incarcerano moscherini, uncini che servono alla disseminazione ecc.) pare che altra via non resti se non che ricorrere ai seguenti principii naturali. 1.° Il tessuto dei vegetali è indefinitamente plastico. 2.° Nell’ infinito lasso del tempo ogni forma possibile - (per non dire ogni forma pensabile) può quandochessia escir fuori; adunque può uscir fuori anche quella degli organi ed apparati sovraccennati. 3.° Delle forme — 133 — prodotte sono immediatamente fissate e perpetuate quelle che rispondono a grandi utilità della esistenza specifica. Tale è il concetto generale che ci siamo formato intorno alla coneretazione degli organi di vita esterna presso le piante. La genesi dei quali è tutt’ affatto dovuta a un principio intrinseco, plasmatore ed autonomo ; la fissazione invece è dovuta a due principii, uno estrinseco ed utilitario, dato dalle contingenze del mondo ambiente, l’altro intrinseco dato dalla facoltà della perpetuazione ereditaria. Connesso col problema della genesi dei nettarii estranuziali si presenta un altro quesito pur di difficile soluzione. Perchè nella natura vegetabile non è stata generalizzata la produzione dei nettarii semplici, a tessuto immutato ? Anzi perchè questi nettarii costituiscono un fenomeno poco frequente, laddove frequentissimi sono i nettarii di complicata or- ganizzazione ? Se la funzione poteva sfogarsi con semplice emanazione nettarea da piccole aree melliflue di tessuto poco o punto mutato, che bisogno ci era di lavo- rare e perfezionare organi speciali ? Confesso che a tali domande non ho potuto trovare ancora una risposta che soddisfaccia sotto tutti i punti di vista. Richiamano le formiche i nettarii lavorati forse meglio dei semplici ? Non po- trei asseverar ciò perchè i nettarii di Paeonia, di Centaurea montana, di Helianthus giganteus, di Epidendron vidi visitati con grande avidità da numerose formiche. I nettarii elaborati producono una secrezione più densa, più nutritiva, più ricca di zucchero? Neanco potrei asseverare ciò, perchè dalle brattee involucrali della Centaurea montana ho veduto emanata e concentrata una densa melassa, e e dai sepali di Paeonia officinalis vidi emanare un liquido tanto zuccherino da pro- durre cristalli di zucchero candito. La secrezione nettarea è diuturna soltanto presso i nettarii lavorati, e non può essere che fugacissima presso i nettarii semplici? Può esserci del vero in questa proposizione. Certo in nessun nettario semplice giammai la durata della secrezione è comparabile a quella di taluni nettarii lavorati, la quale può estendersi a 6, 8 più mesi (nel Prunus Laurocerasus è suscettiva di estendersi ad un anno intiero). Presso i nettarii semplici la secrezione dura poco tempo; forse non più di due giorni presso l’ Helianthus giganteus, 4 o 5 giorni in quelli di Paeonia, Centaurea, Epidendron ecc. Bisogna aver presente per altro che talvolta la durata della secre- zione è brevissima anche in parecchi esempi di nettarii lavorati (nettarii calicini di Calonyction ecc.). Genesi dei tuberi di Myrmecodia e di HyAnophytum. È una gran controversia in proposito tra Beccari e Treus. Beccari assume che il bulbo ipocotileo di queste rubiacee, quantunque cominci a iniziarsi spontaneamente, pure nè esso nè le pian- ticine possono svilupparsi, se non soccorre la perforazione e lo stimolo prodotto dalle formiche, mentre Treu crede che lo sviluppo così del tubero che delle pianticine avvenga egualmente senza l'intervento delle formiche. Ma la opinione agri del primo ci sembra più giusta. Basta il riflettere che le gallerie in esso bulbo sono opera probabilmente delle formiche, e che senza queste gallerie non vedesi che significato esso possa avere (veggasi in proposito: Malesia vol. II, fase. III p. 189 e segg.; nonchè gli Ann. du Jard. bot. de Buitenzorg, vol. III. 1883. (1). Genesi dei fusti cavi di Triplaris, Cecropia ecc. Verisimilmente cosìfatte cavità, poichè se ne trovano di simili in una quantità di piante non formicarie (ombrel- lifere, graminacee ecc.), sono indipendenti dall’ azione di qualsiasi stimolo ; non si tratta probabilmente che di cavità utilizzate dalle formiche, che vi si stabiliscono. Genesi delle spine di Acacia cornigera. A proposito delle grosse e cave spine di questa specie si possono formare due opinioni. O si tratta di un carattere che si è presentato una prima volta, e che venne in seguito fissato e perpetuato in ra- gione della utilità da esso prestata fornendo domicilio alle formiche, oppure si è formato e sviluppato sotto il rinnovato stimolo delle morsicature delle formiche. Noi ci accostiamo alla prima opinione. Bert invece crede (1. c. pag. 220 e segg. che sia necessaria la perforazione e la escavazione delle formiche affinchè le spine acquistino un regolare sviluppo, e dice che avendosi procurato da semi alcune piantine in luogo ove non furono esplorate da formiche, “ the thorns turned yel- low and dried up into dead but persistent prickles ,. Ma gli esemplari coltivati nei nostri orti botanici mostrano uno sviluppo apparentemente normale di dette spine, benchè le stesse non siano toccate da formiche. Di più in un esemplare coltivato a Bologna ho avuto la sorte di trovare fra cento spine intatte, una per- forata nel mezzo precisamente come indica Bert di quelle che sono abitate da una specie di Crematogaster. Or bene questa spina, rientrata così nella condizione na- tiva, in dimensioni e figura rassomigliava totalmente alle altre. Beccari (1. c. p. 53) accede all’ opinione di Bert, fondandosi sopra un esemplare secco proveniente dal Messico, le cui spine sono alquanto più rigonfie di quelle dei nostri esemplari col- tivati, ed hanno una curvatura diversa. Ma queste differenze potrebbero accen- nare ad una varietà o ad una specie diversa. BeLr ritiene poi che le spine siano naturalmente ripiene e farcite di tessuto midollare, e che la cavità loro e la comunicazione tra una spina e l’altra sia dovuta ad escavazione delle formiche. Locchè non si verifica punto nei nostri esemplari coltivati, perocchè le coppie di spine sono naturalmente cave e comunicanti. Ma potrebbe darsi che nei luoghi nativi le formiche dilatino maggiormente le preesistenti cavità mediante corrosione interna delle pareti. Genesi nei fruttini delle formiche. Fin qui ne sono stati osservati due soli esempi; cioè i fruttini apicilari delle foglioline di Acacia cornigera, investigati da Belt (1. c.), i quali sono corpuscoli omologhi alle glandole perifilliche che in altre piante si (1) Ed è ciò tanto vero che l’ Hydnophythum normale, vivente in eguali condizioni di vita. epifitica, non è punto mirmecofilo, e conseguentemente manca del tubero ipocotileo. — 135 — sviluppano più frequentemente in collofori, più raramente in nettarii; inoltre i corpuscoli che si svolgono sui pulvinuli fogliari di Cecropia, investigati da Fritz MiirLer. Ma chi sa quanti altri casi di consimili fruttini si troveranno in altre specie viventi nelle regioni intertropicali della terra! Per esempio io credo che tali pur siano certi corpuscoli che ho trovato svilupparsi nelle foglie di Cassia Apoucouita, non sapendo veramente quale altra significazione possano avere. Brc- cari (1. c. p. 34) intorno alla genesi dei corpuscoli di cui si parla ha esternato la seguente opinione. “ Le glandole perifilliche di molte piante possono essere state prodotte dagli insetti in causa delle ripetute amputazioni delle sporgenze e callo- sità marginali secernenti umori mucilaginosi. “ I food-bodies , dell’ Acacia corni- gera mi pare che potrebbero aver avuto questa origine. , La opinione che ci siamo formata diverge ben poco da quella espressa dal Beccari. Per noi sono metamorfosi di nettarii, ed ecco su che ci fondiamo. Potremmo estendere un elenco numeroso di casi, dove i nettarii si veggono rosicchiati nel vertice (/Asparagus, Cassia, Sam- bucus, ecc. ecc.). Non ho potuto constatare giammai de visu quali siano gl’ insetti che producono questo guasto; è molto probabile però che siano le formiche stesse che impazienti di attendere la naturale emissione del néttare, divorino le cellule zuccherose dei nettarii medesimi, massime di quelli invecchiati, nei quali infatti ho osservato quasi esclusivamente detto guasto. Da questo fatto, ripetuto per un lunghissimo seguito di generazioni, è facile che possa derivarne una definitiva me- tamorfosi di nettarii in fruttini formicarii. Già i sopra citati nettarii corrosi nel vertice, posto che si verifichi che la corrosione avvenga per parte delle formiche, sono da aversi in conto di fruttini formicarii belli e iniziati. CAPITOLO IV. Genesi della funzione mirmecofila nel tempo. Non tutte le questioni che si riferiscono a siffatta genesi sono suscettibili di una soddisfacente e compiuta risoluzione. In quale più o meno remota epoca geologica vennero iniziati i singolari rap- porti di mutua beneficenza, sia quelli più estesi dei nettarii estranuziali, sia quelli più stretti dei nidi formicarum germinantes ? Se si riflette che le formiche, considerate in genere, sia per essere una stirpe carnivora, sia per avere l'abitudine di scavare nel terreno i loro usuali domicilii, non sono necessariamente legate alla esistenza di piante specializzate a loro van- taggio, ne segue che gli adattamenti formicarii devono essere posteriori o poco o molto alla prima comparsa delle formiche. Questo a priori è confermato dai documenti paleontologici. Infatti gl insetti, in alcune forme prototipiche (grilli, scarabei), sebbene, esistessero già nell’ epoca car- — 136 — bonifera, e fors anco nelle anteriori epoche devoniana e siluriana, la prima com- parsa delle formiche non pare aver avuto luogo prima dell’epoca giurassica. Adunque siamo preparati a non riscontrare nessuna specie formicaria tra le piante dell’ epoche precedenti alla giurassica e tra quelle dell epoca giurassica me- desima. E infatti le piante in discorso, appartenenti esclusivamente alle grandi classi dei tallofiti, briofiti, pteridofiti e gimnosperme, sono mancanti eziandio nelle loro forme odierne (salvo insignificanti eccezioni), di qualsiasi adattamento formicario, od antiformicario, di qualsivoglia organo mirmecofilo o mirmecofobo. L’ unica eccezione è data da poche felci (Pterîis aquilina e possibilmente da alcune specie di Asplenium), le quali sono provviste di nettarii estranuziali. Ma il numero ristretto di questi pteridofiti formicarii, e lo appartenere essi a due forme generiche (Pteris, Asplenium) che hanno attinto un grande sviluppo nell’ epoche moderne, induce la facile congettura che sia qui il caso di adattamenti recenti, di gran lunga posteriori alla prima comparsa dei tipi generici stessi. È ben degno di considerazione il fenomeno che in tutti i rappresentanti delia classe gimnospermica non vi è il menomo accenno di organi formicarii, nè allet- tatori nè fugatori di formiche ; due categorie di organi, i quali, massimamente gli ultimi (mirmecofobi) sono per contro frequentissimi nelle angiosperme (1). Da ciò ne consegue che gli adattamenti simbiotici di cui è parola non poterono in ogni caso iniziarsi salvochè in epoca successiva a quella in cui comparvero le prime angiosperme. Disgraziatamente l epoca in cui primamente comparvero le angiosperme è fin qui, a parer nostro, una grande incognita. Per verità i geologi si trovano sufficientemente d’ accordo tra loro nel consi- derare l’ epoca cretacea come il tempo in cui prima comparvéro le angiosperme. Ma le conclusioni loro, sebbene appoggiate a ritrovamenti fossili, cadono sotto la inesorabile condanna del critero morfologico. Conciossiachè le angiosperme della creta in tutti i loro tipi non discordano menomamente nè dai tipi terziarii, nè dai tipi quaternarii, nè finalmente dalla vegetazione attuale. L’ unica differenza consiste nella localizzazione diversa dei singoli tipi generici e specifici; la quale differenza poi è palesemente dovuta al raffreddamento terrestre. Non solo noi non conosciamo le forme di transizione dai tipi gimnospermici agli angiospermici, ma non conosciamo neanche nessun tipo dicotiledone, che, sotto il punto di vista morfologico, possa essere considerato come primordiale. Si direbbe che dalle epoche permiana, triasica, giurassica alla epoca della creta. dovette intercedere un tempo smisuratamente lungo che non ha lasciato traccia alcuna, e che dovette esistere una vastissima regione, ove esisteva la flora di tran- (1) Notoriamente organi mirmecofobi sono i peli glandolosi visciflui, agglutinanti, idroflui, quali si osservano in un numero grandissimo di specie dicotiledoni. — 137 — sizione, inabissatasi poi sotto l’ acqua del mare. Forse la risoluzione di questo grande problema geologico dorme nel profondo degli oceani antartici. Comunque sia egli è certo che i tipi cretacei sono morfologicamente identici ai tipi attuali; e che, sotto l’ aspetto della vegetazione, i tempi geologici vogliono essere divisi in due epoche soltanto, in quella della vegetazione antica, costituita esclusivamente da crittogame e gimnosperme, e in quella della vegetazione moderna, composta da angiosperme e da residui crittogamici e gimnospermici. Ciò premesso, nello stato delle cognizioni attuali, si presenta insolubile il quesito intorno al tempo della prima manifestazione della funzione mirmecofila. La quale, per quel che si può arguire, era già fin dall’ epoca cretacea sviluppata forse in grado non minore che nella successiva epoca terziaria e nella nostra. $ 1. Piante dell epoca cretacea appartenenti a generi, ove la maggior parte delle specie sono provvedute oggidì di nettarit estranuziali. a) Dagli studi di Hrer sugli strati cretacei della Groenlandia. Strati (urgoniani) di Come. Benchè siano soltanto 6 le angiosperme ritrovatevi, una di queste è probabilmente formicaria, cioè la Populus primaeva Heer. È sin- golare che questa forma (prototipica per ridere! del resto come tutte le specie cretacee) è estremamente affine alla Populus Berggreni Heer della Creta Superiore, la quale a sua volta è affinissima alla terziaria Populus mutabilis Ung., la quale a sua volta è affinissima alla Populus cuphratica dell’ attualità. Strati (cenomoniani) di Atane. Delle 106 specie di angiosperme ivi trovate, ap- partengono, a generi formicarii 2 Smilax, 2 20 OSGIRE, e alcune Cassia, vale a dire con proporzione di circa 5 %. Strati (senoniani) di Patoot. Contano 74 specie angiospermiche, di cui tre pos- sibilmente formicarie cioè 2 Diospyros e 1 Cassia. Si ha presso a poco la stessa proporzione del 5 %,. 6) Dagli studii di LesquerrREvx sui terreni cretacei dell’ America del nord. Strati (cenomaniani) del gruppo Dacota. Ne vennero estratte ben 162 specie an- giospermiche. Fra cui appartengono a generi fomicarii 4 Populus, 3 Diospyros, 1 Grewiopsis, 1 Prunus. Anche qui abbiamo la proporzione di circa il 5 %. Strati (senoniani) di Laramie. Delle circa 195 specie angiospermiche ritrovatevi, appartengono a generi formicarii le seguenti; cioè 6 Populus, 2 Diospyros, 1 Ma- creightia ; 1 Zanthoxylon, 1 Ailanthus, 1 Amygdalus, 1 Cassia, 1 Acacia ; in tutto 14 specie. La proporzione è all'incirca del 7%. c) Dagli studi di VeLenovsgy sulla Creta boemica. Ai pochi generi formicarii, già menzionati, se ne aggiungono tre altri, con quattro specie (Terminalia rectinervis, Inga latifolia, Bignonia salesiaca, B. cordata). Finalmente Dawson nella Creta canadense segnala due specie di Viburnum (di cui sono mirmecofile le forme affini al V. Opulus). TOMO X. 18 — 138 — In conclusione negli strati assegnati dai geologi all’ epoca cretacea sono rap- presentati ben 15 generi, i quali nell’ attualità contengono specie formicarie, cioè Smilax, Populus, Diospyros, Macreightia, Terminalia, Viburnum, Grewiopsis, Zanthoxylon, Ailanthus, Cassia, Acacia, Inga, Prunus, Amygdalus, Bignonia. Laonde è facile ar- gomentare quanto dovesse già in quei tempi antichissimi essere sviluppata la fun- zione formicaria. $ 2. Piante presumibilmente formicarie degli strati attribuiti all’’eoceno. Riferiamo ad esempio il risultato degli studii di ErrinenavseNn sulle argille di Londra. Si tratta all incirca di 140 angiosperme, distribuite in 61 generi e in 39 famiglie. Le specie che appartengono a generi mirmecofili sono le 7 che seguono ; cioè, Smilax pristina, Diospyros eocenica, D. Pleadum, Prunus prisca, P. Druidum, Amyg- dalus eocenica, A. Sporadum. Anche qui la proporzione ascende al 5%. $ 3. Piante presumibilmente formicarie tolte a strati attribuiti in complesso all’eocene e al miocene. Riportiamo ad esempio il risultato degli studi di LesquerRREUX sui de- positi di lignite dell'America settentrionale. Le specie angiospermiche ivi ritrovate ammontano a circa 250 : fra cui presumibilmente mirmecofile sono 1 Smilax, 10 Populus, 1 Viburnum, 4 Diospyros, 3 Grewiopsis, 1 Zanthoxylon, 1 Cassia, 1 Acacia, in tutto 22 specie. La proporzione, qui del 9°, è alquanto maggiore della solita ; ma con aumento insignificante perchè dovuto alle 10 specie del genere Populus. $ 4. Piante presumibilmente mirmecofile da strati attribuiti al mviocene. Riferiamo ad esempio gli studi di ExeeLmARDT sugli strati miocenici di Kundraditz in Boe- mia. Ne vennero estratte circa 260 specie angiospermiche, appartenenti a 130 generi in 60 famiglie. Qui adduciamo le specie appartenenti a generi in mag- giore o minor grado mirmecofili. Smilax reticulata, Populus mutabilis, P. latior, Vi- burnum atlanticum, Tecoma Basellii, Diospyros paradisiaca, D. palacogea, D. brachy- sepala, Grewia crenata, Tetrapteris vetusta, Zanthoxylon serratum, Terminalia rado- bojana, Melastomites tococoides, Cassia phaseolites, C. Berenices, C. hyperborea, C. lignitum, C. ambigua, C. cordifolia, C. Zephyri, C. pseudoglandulosa, Inga Icari, Acacia microphylla, A. parschlughiana, A. Sotzkiana, Prunus olympica. La proporzione non è più la solita poichè ascende al 10°; ma si riferisce ad aumento di specie, non ad aumento di generi. Gli esempi addotti sono sufficienti per addimostrare come la funzione mirme- cofila mediante nettarii estranuziali fosse già sviluppata forse non meno che nel- l epoca attuale in quegli antichi tempi ove si deposero gli strati cretacei, eocenici e miocenici. Che se le specie mirmecofile mioceniche sembrano alquanto più nu- merose di quelle degli antecedenti periodi, forse è dovuto al miglior stato di con- servazione delle impronte, per cui fu possibile distinguere un maggior numero di forme specifiche. Resta ad ogni modo assodato il fatto che i generi mirmecofili sono a dirittura gli stessi così nei depositi cretacei che nei terziarii, e che tutti codesti generi si ritrovano nella flora attuale. — 139 — Egli è vero che a questa conclusione si giunge per via di congettura e di analogia ; congetturando cioè che le specie terziarie e cretacee dei generi attual- mente mirmecofili, fossero esse pure di già mirmecofile. Meglio sarebbe se nelle impronte delle loro foglie si riuscisse a constatare la presenza di nettarii estranuziali. Herr e LesquerREUx poterono per altro segnalarli nella terziaria Populus glandulifera, come raccolgo da TreLEASsE. Ho potuto poi rilevare un esempio molto istruttivo negli “ Studii sulla flora fossile del Senigagliese, di MassaLongo e ScarageLti, 1859 ,. In quest’ opera nella figura 15 della tav. VIII e nella fig. 23 della tay. XXXVIII, sono disegnate due foglie ovali a margine intierissimo, picciuolate, munite alla base della lamina di due appendici o globose o convesse, le quali sono senz’ alcun dubbio due organi formicarii. Non si può per la natura dell’ impronta accertare se siano globose o semplicemente convesse; ma o l una o l’altra forma sono; e, se sono globose si tratta senza dubbio di due borsicine designate a prestar domicilio alle formiche ; se invece sono concavo-convesse si tratta allora senza contestazione di due nettarii estranuziali, melliflui nella parte concava, cioè in di sotto. Massatongo, lo scopritore di questa importante fillite, la costituisce in genere proprio che denomina PlysophyUum, da annoverarsi alle melastomacee, e in tutta vicinanza del genere attuale Calophysa (e anche dei generi Tococa, Myrmidone, Majeta ecc.). Ciò vuol dire che Massaronao considera gli accennati due organi come omologhi alle borsicine mirmecofile dei citati generi attuali melastomacei. Ma forse Massaronao è incorso in errore. Osservando la figura delle foglie, so- vratutto considerando la nervatura, la forma orbicolare delle appendici e il loro distacco dal lembo, nasce il sospetto che si tratti invece non di una melastomacea, ma di una passifloracea. E invero vi sono delle specie di Modzeea, che hanno foglie e appendici affatto somiglianti. Ma anche in quest’ alternativa si tratterrebbe di organi formicarii, cioè di cospicui e sviluppatissimi nettarii estranuziali. Altra pas- sifloracea del resto (Passiflora Hauchecornei) sarebbe stata trovata nelle ligniti mio- ceniche presso Trotka in Sassonia (V. Acta Acad. Leopold. a. 1881). Nè queste sembrano le uniche impronte fossili di organi formicarii. Non ab- biamo potuto consultare l’opera di ExcrLmARDT sul miocene di Kundraditz in Boemia; per altro da una recensione ricaviamo che fra le specie determinate dall’ autore figura una Melastomites tococoides ; la qual determinazione indica la impronta o di borsicine mirmecofile tococoidi, o di nettarii estranuziali modeccoidi. È a vedere se non si tratti della stessa specie osservata dal Massaronao nel miocene di Sinigallia. Da tutto quello che precede siamo autorizzati a concludere : 1° che nulla si sa intorno all’ epoca della prima manifestazione della funzione formicaria ; 2° che fin dall’ epoca cretacea cosifatta funzione era già pronunziata forse non meno che nel- l’ epoca attuale; 3° che nell’ epoca terziaria questa funzione doveva essere pure esaltatissima in proporzione anche della gran copia di formiche allora esistenti, e di cui si hanno nell’ ambra tanto numerose spoglie. — 140 — CAPITOLO V. Sviluppo della funzione mirmecofila nelle diverse regioni della terra. $ 1. Preliminari fitogeografici. Le regioni geografiche proposte nella recente opera di Grisesaca (Die Vegetation der Erde) malgrado il generale favore incontrato, non ci sembrano il miglior schema nè il miglior quadro ove allogare gl’ infiniti dati, fatti e fenomeni, di cui consta il patrimonio della fitogeografia. Seguendo un diverso ordine d'’ idee si può forse riuscire a una divisione più naturale della terra in regioni e sotto-regioni geografiche. Ed è ciò che abbiamo procurato di fare in uno studio inedito, che forse avremo occasione di pubblicare più tardi. Intanto qui riferiremo il risultato del nostro studio, che tutto si riduce nell’ annesso quadro fitogeografico ; del quale ci serviremo per risolvere il quesito propostoci intorno al vario sviluppo della funzione formicaria nei diversi luoghi della terra. In tal quadro sono esposte 18 regioni fitogeografiche principali cioè: artico- alpina, sibirico-europea, mediterranea, indo-cinese, mongolo-cinese, missurilauren- ziana, californica, centramericana, afro-indiana, australiana, capense, patagonico- platense, chilense, antartico-alpina, polinesica, mascarena, oligonesica, macaronesica, e 18 sotto-regioni. — 141 — glaciale o polare ......0...00% fredda citra artica calda, orientale fredda \ ultra temperata calda. ( citra.... | occidentale ultra. .... occidentale. ..... terrestre 3 (o) intertropicale o torrida continentale orientale ....... ultra. ... cd orientale CItratagetiote temperata citra. .. antartica occidentale ultra. . . glaciale o polare . .........- pacifica, artico-antartica. ...... TIME ul are MN oco unica indica, antartica. ....0..000% antartica ....00600% atlantica ALL CAMS e eni . artico-alpina. sibirico-europea. mediterranea. mongolocinese. indochinese. missurilaurenziana. californica. centramericana . . . afro-indiana..... australiana. ..... capense. patagonico-platense. 0 chilense. antartico-alpina. polinesica. nanni oligonesica. macaronesica. caribea. guianense. columbica. peruviana. boliviana. brasiliana. paraguaiana. africana. arabica. indiana. meganesica. papuasica. nord-australe. sud est-australe, esperaustrale. uruguaiana. platense. patagonica. — 142 — $ 2. Elementi statistici. — Divideremo fra le designate regioni le principali famiglie e i principali generi mirmecofili studiati in questo lavoro. Veramente non è questo che un computo approssimativo; per altro essendo fatto sovra larga base, i suoi dati sembreranno meritevoli di fiducia. Alla regione centramericana spetta la ingente cifra di 653 specie mirmecofile. Notevoli sovra tutto sono gli eudemismi mirmecofili, equivalenti per estensione a famiglie (vochisiacee, cactacee, maregraviacee); a generi (Pedilanthus, Turnera); ® sottogeneri (Cynophalla, sezione del genere Capparis); poi famiglie e generi, anche altrove copiosi di specie mirmecofile (132 Croton, 35 bignoniacee, 44 malpighiacee, 137 acacie pennifogliate, 77 Inga, 20 Dolichos ecc.). La regione afro-indiana, benchè per estensione di territorio superi più del doppio la regione antecedente, presenta la cifra proporzionale di 310 specie. La funzione mirmecofila è qui più che dimezzata. Come endemismi mirmecofili più significativi riferiremo 7 pedalinee, 18 Modecca, T Erythrina, 3 Moringa, 4 Smea- thmannia. Fra le famiglie e i generi più numerosi citeremo 29 cucurbitacee, 19 Cassia, 47 acacie pennifogliate, 20 balsaminacee, 54 Croton, 37 Grewia. La regione mascarena, piccolissima in estensione, è singolarmente ricca di piante mirmecofile. Ne abbiamo notato ben 53, fra cui sono notevoli gli endemismi seguenti, cioè 5 Deidamia e 4 turneracee. Vi sono poi 28 Croton, 5 Modecca ecc. Fatta ragione del territorio, questa regione supera la precedente, e ben si merita il 2° posto. Non molto ricca di specie mirmecofile, se si pon mente alla sua vastità, è l’ Australia, notata per la cifra di 61. L’endemismo più importante è dato da 32 acacie fillodiate. I generi più numerosi sono 11 acacie pennifogliate, 6 Croton, 3 Disemma. La vasta regione missurilaurenziana è rappresentata dalla cifra di 42 specie mirmecofile. Non è molto se consideriamo la sua vastità, ma è molto se conside- riamo la rigidità de’ suoi inverni. Notevole è l’endemismo di 8 Sarracenia. Fra i generi più riechi abbiamo 9 Populus, 7 Cassia, 6 Prunus, 3 Viburnum. La regione mongolocinese, che quasi la pareggia per estensione, offre un nu- mero di specie mirmecofile alquanto minore. Ne abbiamo notate 31. Fra gli ende- mismi più notevoli abbiamo 1 Adlanthus, 2 Scolopia, 2 Polygonum. Mancano affatto generi ricchi di specie mirmecofile. La regione sibiricoeuropea, di notevole estensione, non presenta più di circa 35 specie mirmecofile. Gli endemismi più notevoli sono 2 Melampyrum e 20 Vicia. Di altri generi più segnalati non abbiamo che 3 Populus, 3 Prunus e 3 Sambucus. La piccola regione mediterranea è rappresentata dalla cifra 14. D’ endemismi mirmecofili presenterebbe 3 PhyMirea, 1 Smilar e poche altre specie. La regione californica è poverissima di specie mirmecofile. Appena abbiamo potuto notare 1 Passiflora, 1 Erythrina e 8 Cassia. La regione macaronesica ha 3 specie, cioè 1 Picconia, 1 Sambucus, 1 Phyllirea. Non bisogna perdere di vista la piccolezza della sua area. — 143 — Alla regione oligonesica noi non abbiamo potuto assegnare nessuna specie mirmecofilaj ma senza dubbio più per mancanza di documenti che per altro, giacchè la flora sua si può dire oggidì quasi del tutto scomparsa, per essere stata distrutta dalle capre. Nella regione polinesica abbiamo trovato 16 specie, fra cui più notevoli sono 6 Croton, 4 Disemma e 3 Bignoniacee. Nella regione patagonicoplatense notammo 17 specie mirmecofile 10 Croton, 4 passifloracee, 1 Cassia, 1 Miihlenbeckia e 1 Sambucus. Assai povera è la regione chilense, di cui notammo 1 Cassia e 1 Passiflora. $ 3. Conclusioni. — A primo sguardo s' impone la conclusione che la esalta- zione della funzione mirmecofila è proporzionale alla temperatura. E ciò senza dubbio è dovuto alla circostanza che il freddo, nel mentre ostacola la vita delle piante, ostacola ancora più la esistenza delle formiche. Questa verità traluce anche quando si faccia ragione dell’ esorbitante numero di specie vegetali stanziate nelle regioni calde. Per esempio le 50 specie mirme- cofile delle regioni sibirico-europea e mediterranea rispetto alle 5000 specie della rispettiva flora raggiungono appena 1°, mentre il 2° e più è raggiunto dalle 650 specie mirmecofile dell’ America centrale rispetto ad una flora calcolata a ben 30,000 specie. Ammesso- questo primo fatto risulta per altro un singolare depauperamento di specie mirmecofile per altre regioni e sopra tutto per la Californica, che n° è sfor- nita quasi del tutto. E anche l’ Australia, il Capo, il Chilì ne hanno una propor- zione assai scarsa. Le cause di questa deficienza sono difficilmente assegnabili. Non abbiamo trovato specie mirmecofile nelle regioni articoalpina ed antartico- alpina; ma non deve credersi che manchi assolutamente tale funzione nelle regioni fredde, almeno in quei luoghi ove pur vivono alcune specie di formiche. E qui dobbiamo considerare il sorprendente esempio di nettarii estranuziali bene svilup- pati ed efficaci in piante termofughe. Dobbiamo citare il genere Melampyrum, la Centaurea montana, varie specie di Populus, Sambucus e Viburnum. Un Polygonum di Sachalien, comunicatoci dal Dott. Beccari, lo abbiamo trovato nettarifero in assai più alto grado dell’ affinissimo P. cuspidatum. Queste piante sono senza dubbio endemismi di paesi freddi benchè per verità non glaciali. Se poi confrontiamo le 487 specie mirmecofile dell’ emisfero orientale colle 721 specie dell emisfero occidentale, troviamo quasi il doppio a vantaggio di que- st’ ultimo; strana differenza di cui sfuggono le ragioni, e tanto più strana in quanto che il territorio orientale ha presso a poco una estensione doppia dell’ oc- ‘cidentale. Infine giova confrontare la mirmecofilia dell’emisfero artico con quella del- l’ emisfero antartico. Sommando le specie mirmecofile delle regioni sibiricoeuropea, mediterranea, mongolocinese, missurilaurenziana, californica, si ha per le regioni artiche la cifra di 132 specie; e sommando quelle delle regioni Capense, Austra- — 144 — ‘ liana, Patagonicoplatense, Chilense, si ha per le regioni antartiche la cifra di 116 specie. Il quantitativo dell’ una e delle altre concorda sufficientemente. CAPITOLO VI. Formiche ed altri insetti osservati sovra le piante formicarie. Sarebbe interessante il compilare una esatta statistica delle varie specie di formiche, osservate in funzione di proteggere le piante, così quelle che accorrono ai nettarii estranuziali, come quelle, non di rado specificamente assegnate, che vivono in domicili apprestati dalle piante. Ma fin qui non si hanno che materiali troppo scarsi. Le specie che nella Liguria, nella Toscana, nell’ Emilia si trovano più frequen- tamente sovra i nettarii estranuziali sono il Camponotus pubescens ed una Myrmica; ma anche si riscontrano un cinque o sei altre specie, di minore e di minima sta- tura, che non ho potuto determinare. Sovente le specie si danno il cambio, oggi una, domani un’ altra. Se la produzione mellea è straordinariamente copiosa si è quasi sicuri di tro- varvi il Camponotus pubescens. Ma quando la produzione mellea comincia a scar- seggiare, il Camponotus se ne va, e subentrano altre formiche di minore statura. Dopo le formiche i visitatori più frequenti dei nettarii estranuziali sono le vespe (Vespa germanica, Polistes gallica). Osservai il concorso di queste sui nettarii perisepali di Paeonia, sul nettario soprovariano di Zris Xyphium, sui nettarii peri- fillici di Fosa Banksiae, sui nettarii di Tecoma radicans e T. grandiflora, finalmente su quelli di Ricinus communis e di alcune Cassia. La utilità delle vespe nello stabilirsi sulle piante fornite di nettarii non può essere messa in dubbio. Anche quest’ insetti e per le punture che danno, e perchè assalgono e distruggono molti bachi, prestano valida protezione alle piante. Ma la loro azione è da reputarsi ben inferiore a quella delle formiche; tanto più che sono scacciate con grande furia ed accanimento dalle formiche stesse. Laonde le loro visite non possono essere stabili, continuate, efficaci, salvochè in quelle piante, ove, per una o per altra ragione, siano assenti le formiche. Alcuni hanno asseverato che i nettarii estranuziali siano visitati in grande copia dalle api. Ora in tanti anni che noi osserviamo i nettarii estranuziali, due sole volte ci venne fatto di scorgere le api, una volta sulla Tecoma radicans, e un' altra volta sui nettarii di Ricinus. Di più ho rilevato che in un caso e nell'altro si stancavano ben presto dal proseguire le loro esplorazioni, perchè cacciate ad ogni istante dalle formiche, delle quali hanno un grande aborrimento. Nelle piante ove la funzione mellea è esaltatissima (p. es. nella Tecoma radi- cans, T. grandiflora, Ricinus communis), se il numero delle formiche non è, in dato — 145 — tempo e luogo, proporzionale alla ingente quantità di nettarii, allora vi accorrono numerose e svariate specie d’ altri insetti, p. es. varie specie di grosse e piccole mosche, parecchie specie di crisidi e sopratutto d’ icneumonidi. La visita delle crisidi e segnatamente degl’ icneumonidi, può riuscire di singo- lare vantaggio alla pianta visitata essendo nemici accaniti di molti bachi, di afidi e simili nemici delle piante. Per contro non vedesi utilità che provenir possa da visita di mosche. Mentre crisidi, ieneumonidi, vespe ed api mostrano grande timore delle formiche, alcune mosche disvelano più coraggio, e una specie ne osservai, che usava un’ astu- zia singolare visitando i nettarii di Tecoma radicans. Prima di posarsi sopra un punto custodito da una formica, piombava con tutto il peso del suo corpo sovr' essa, e la faceva ruzzolare a terra, e poi godeva della provvigione mellea dei nettarii privati da quell’ importuna custodia. Oltre quest’ insetti vi ho trovato anche qualche volta delle coccinelle. E queste sono pure utili alle piante, perchè distruggono gli afidi. Guar. TreLeise (The foliar glands of Populus nella Botamical Gazzette, del novem- bre 1881), sui nettarii estranuziali di Populus tremuloides ha osservato l’ accorso di 5 specie di formiche (Y. exsectoides, F. fusca, Crematogaster lineolata e Dorymyrmer pyromicus); di 2 apidi (Augochlora pura, Ialictus sp.), di tre icneumonidi e di una coccinella (bipunctata). Un microgaster lambiva dapprima i nettarii fogliari, poscia sceglieva corpi appropriati di afidi ivi presso stanziati (Chattophorus populicola), per deporvi sue uova, mostrando così la utilità delle su2 visite. Lo stesso autore (Nectar, its nature, occurrence and uses) nota l’ accorso di svariati insetti nelle glandole calicinali e fogliari di Gossypium. Oltre una molti- tudine di formiche, vi sorprese altresi di nottetempo l’ accorso di due lepidotteri (Aletia argillacea ed Heliotis armigera); i quali, dopo avere usufruito del nettare, depo- nevano loro uova sulle piante. Ma l’ autore presenziò più volte che i bachi usciti da dette uova venivano uccisi dalie formiche e anche dalle vespe accorse ai nettaril. Caro Darwin segnala pure l’accorso di parecchie specie di apidi. Ma senza dubbio è questa una contingenza eccezionale, connessa con una temporanea assenza delle formiche; perchè, se formiche vi sono, certo non può aver luogo la visita di api, perchè fuggono non appena scorgono le formiche. Dobbiamo quindi concludere che i nettarii estranuziali sono designati alle sole formiche, e che soltanto in qualche raro caso all’ opera difensiva delle formiche è sostituita quella di alcuni icneumonidi e di alcune vespe. Le visite di tutti gli altri insetti sono da ritenersi per affatto accidentali e insignificanti. Bologna, Marzo 1886. TOMO X. 19 — 146 — AVVERTENZA Dalla presentazione e lettura di questa Memoria, che fu il 18 Aprile 1886, alla rispettiva stampa che non potè essere completata prima d’ ora, intercorse lo spazio di oltre un triennio. In questo non breve intervallo di tempo, la novità ed importanza dell’ argo- mento, fece sì che venne pubblicata una quantità di memorie, note e relazioni sulle piante mirmecofile; pubblicazioni tutte delle quali non abbiamo voluto tener conto, per non introdurre nessuna alterazione nè variazione nel iesto primitivo del nostro lavoro. Con questa avvertenza intendiamo precorrere ogni apparente incongruenza ed ogni equivoco; e per meglio raggiungere un tale scopo noi facciamo seguire qui l'elenco delle citate memorie, posteriori alla pubblicazione della prima parte del nostro lavoro. 1886. Dott. E. Hur. Ameisen als Pflanzenschutz. Contiene studii sulle seguenti piante mirmeco- diate, cioè: Grammatophyllum speciosum . . GROGaRo Chelonanthera speciosa . .... |) 1886. Dott. E. Beccari. Malesia. Vol. II, fasc. IV. Contiene osservazioni sulle seguenti piante. Nepenthes bicalcarata. Stipite degli ascidii cavo, mirmecodiato. Bachycentra (11 specie melastomacee). Hanno ingrossamenti radicali, cavi e mirmecodiati. Acrostichum scandens. ..... ; i i s SEE i, 5 felci munite di nettarii estranuziali. Polypodium nectariferum. . . . Lecanopteris deparioides . Polypodium sinuosum . ..... Rizoma cavo mirmecodiato. P. quercifolium ......... ) Kibara formicarum. ....... ca ; È 3 (4 OSO mM Monimiacee papuasiche mirmecodiate. Korthalsia angustifolia ..... ROSLE È di KSFlagellarIS MRO Go Cono gres ggirmecodiate. Calamus amplectens. Segmenti basilari di fronda, mirmecodiati. Cordia nodosa, miranda, hispidissima, Gerascanthus ed altre specie, munite d’internodii mir- mecodiati. Schomburgkia tibicinis, orchidea in cui i pseudobulbi, invecchiando, diventano cavi e mir- mecodiati. — 147 — 1887. F. O. Bower, On Humboldtia laurifolia as a myrmecophilous plant; studii sopra una cesal- piniacea indiana, a rami mirmecodiati. 1887. Dott. E. Hu, Myrmecophile und Myrmecophobe Pflanzen. Riferisce sugli adattamenti mir- mecodiati di T'uchia guianensis, di Humboltia laurifolia e di un’ orchidea indeterminata. 1887. AxeL N. Luxpsrrow. Pflanzenphysiologische Studien. Il. Die Anpassungen der Pflanzen an Thiere. Contiene alcune interessanti, osservazioni sui nettarii estranuziali di Ielampyrum, di Populus tremula e di parecchie specie di Vicia. 1887. Leop. Kny. Die Ameisen im Dienste des Gartenbaues. Suggerisce alcuni mezzi artificiali per adescare le formiche sugli alberi. 1888. Mez. Morphologische Studien iiber die Familie der Lauraceen. Contiene notizia del mirme- codiato P/eurothyrium Poeppigii. > 1888. A. F. U. ScHimper. Die Wechselbezichungen zwischen Pflanzen und Ameisen in tropischen Amerika. Riferisce sovra varie specie mirmecodiate di Cecropia, Acacia, Cordia e Cassia. 1888. K. ScaUManNn. Emige neuen Ameisenpflanzen. Contiene notizie interessanti di alcune nuove specie mirmecodiate (Duroya hirsuta, D. petiolaris, D. saccifera, Cuviera physinoides, Pleurothyrium macranthum, e di alcune melastomacee. 1888. M. TreuB. Nowvelles recherches sur le Myrmecodia de Java. L'autore mantiene contro BeccarI che i tuberi delle mirmecodie si formano senza l’azione delle formiche. 1888. Lupwic. F. Ueder cin abweichendes Verhalten der Urena lobatu ecc. Contiene alcune osser- vazioni sui nettarii di Urena e di Hibiscus. 1888. Dott. Rica. von. WETTSTEIN, Ueder die Compostten.... mit Zuckerabscheidenden Hiillschuppen. Gl’involucri delle calatidi di Centaurea montana che a me e al Sig. MATTEI si sono mostrati, negli Appennini, ricchi di miele e mirmecofili in grado insigne, WETISTEIN li trovò anettarii negli esemplari austriaci. Per contro rivela nettariferi in Austria gl’in- volucri calatidiani di Zurinea mollis, Serratula Lycopifolia, S. centauroides, e finalmente della Centaurea alpina. 1889. Carc. ErrIca CoRRENS, Zur Anatomie und Entwickelungsgeschichte der extranuptialen Necta- rien von Dioscorca. È uno studio interessante sulla singolare struttura dei nettarii fogliari delle Dioscorencee. Bologna, 15 Aprile 1889. FINE LAI "ae FRA gia Ra ti ntegtomatatni aolidonn'an DE A siano pn ampi intro. si SIRIA ATI in ui MIST 16 piosda perdo salatini ati sinti si «rada gna ‘spenta DA asi rari nin snoda siti Soli nani TO i > dlairroo® saga beik \ È Mi à alzi ri Dir I, i A VIII moro MON DICE ui eos ber dvattag pope nn sins sv bro LR ivi sai INTORNO AD UN CASO ADIIE LLCERAZIONE GASTRICA PRGFORANTE NEL CAVALLO MEMORIA DEL PROFESSOR VINCENZO COLUCCI (Letta nella Sessione del 28 Aprile 1889) Piuttosto frequente ad osservarsi nella specie umana / ulcera gastrica perforante, altrimenti designata col nome di ulcera semplice 0 rotonda dello stomaco, che in media, secondo le statistiche delle autossie fatte in vari ospedali, la si riscontrò cinque volte in cento cadaveri, rarissimamente venne essa osservata negli animali domestici. Da 84 anni, che il Balle (1) per primo studiò questa speciale alterazione dello stomaco nell'uomo, i caratteri anatomo-patologici della quale erano già stati de- scritti dal Morgagni (2), e 25 anni dopo il Cruveilhier ne fece uno studio più ac- curato (3), ritornandovi poscia nel 1856 (4), non si trova essersi fatto parola nei trattati di Patologia e Anatomia patologica veterinaria. Il Gurlt (5) e il Ro (6) accennano ad erosioni emorragiche della mucosa ga- strica del cane, e di quella del quarto ventricolo o queglio del bue, nelle quali, benchè vi siano perdite limitate e superficiali della mucosa, pure non si è mai veduta una vera perforazione della parete gastrica, come accade nell’ uomo nella metà circa dei casì ben accertati di ulcera semplice. Casi di ulcerazione cronica, o perforante, o rotonda che vogliasi dire, nel ca- (1) Anatomie des Krankh. Baues 1805. (2) Delle Sedi e delle Cause delle Malattie - Trad. Maggesi. Vol. 7°. Lett. 29. Milano, 1825. (3) Anatomie pathologique du corps humain - 1830. (4) Archives generales de Medicine. ‘ (5) Lehrbuch der path. Anatomie der Haussagethiere. Berlin, 1831-32. (6) Pathologie et Therapeutique des Animaux domestiques - Paris 1863. — 150 — vallo non ne ho potuto trovare riferiti, per quanto abbia cercato e nei trattati di patologia veterinaria e nei vari giornali di cui ho potuto disporre. Solo recentemente dal Martin (1) vien descritto un caso ben accertato di ulcera gastrica perforante nel cane, da lui osservato nella Clinica di Monaco. L'animale fin dalla prima visita fu curato per catarro gastrico, ma la cura a nulla valse, giacchè l’animale andò sempre dimagrardo e dopo 20 giorni esso moriva. Alla necroscopia, oltre le lesioni di una bronco-pneumonite diffusa, si trovò nel cavo addominale un liquido nero rossastro ; nello stomaco un contenuto di colore oscuro viscido e gelatinoso, la cui mucosa mostrava varie perdite di sostanza, e nella por- zione pilorica, era tumefatta, liscia e succulenta. Le ulcerazioni erano grandi come un grano di canepa, ma nella parte più stretta ‘verso il piloro vi era un’ ulcera grande come una mandorla, con margini rilevati ed infiltrati di sangue, e la super- ficie esterna dello stomaco alquanto imbevuta di sangue. Nell’ intestino tenue trovavasi un contenuto molto bruno, e la sua mucosa era rammollita ed ulcerata ; nel resto dell'intestino il contenuto era poltiglioso, parte di color verde parte nero, e verso la fine di esso feci normali. L'A. non accenna affatto all’ eziologia e pato- genesi di questa lesione da lui osservata nel cane. Nell’ Annuario veterinario di Berlino, (2) è riferito un secondo caso di ulcera perforante, nel quarto ventricolo di una bovina, osservato e descritto da Kohl/hepp. La vacca era stata ammalata, e sospettavasi per avvelenamento arsenicale, e morì al quarto giorno. L'analisi del sangue diede risultato negativo. Alla necroscopia, sì trovò enfisema sottocutaneo, e nel cavo addominale materie alimentari miste a sangue, essudato gialliccio in vicinanza all’abomaso e sulla posteriore superficie del diaframma; per questo essudato P abomaso aderiva al fegato ed alla milza, tolta la quale aderenza si trovò nella sua parete un piccolo foro comunicante con un’ ulcera interna di 5 centimetri, imbutiforme e a margine liscio e tagliente. L’A. crede, che l’enfisema sottocutaneo sia dovuto ai gas sortiti dallo stomaco ed insi- nuatisi nel connettivo sub-peritoneale, donde erano giunti sotto la cute, e che poscia avvenne la perforazione dell'aderenza e finalmente la morte, parte per l’ emorra- gia, parte per la peritonite in seguito della perforazione. Questo, per quanto io so, è lo stato attuale delle conoscenze circa 1’ ulcera perforante dello stomaco dei nostri animali domestici, al certo molto scarse; quindi ho creduto bene di descrivere un caso importante, sì perchè osservato nel caval- lo, come per le lesioni anatomo-istologiche, le quali potranno contribuire in qual- che maniera alla patogenesi di tale processo morboso. (1) Magengeschwir beim Hund - Miinch. Jahresbericht. S. 49. 1884-85. (2) Jahresbericht iber die Leistungen auf dem Gebiete der Veterinir-Medicin von Ellenber- ger und Schutz. Sechster Jahrgang. Berlin, 1887. — 151 — JU Dal Dott. Arcade Guareschi, Medico-veterinario a Mezzano inferiore, nella Pro- vincia di Parma, mi veniva portato, nel 16 di giugno dell’anno scorso, lo stomaco di una cavalla di anni 12, morta nella mattina del giorno precedente, per ma- lattia che egli non fu chiamato a curare. Conosceva però che quest’ animale era da tempo affetta da bolsaggine al punto che, dopo una corsa di circa un centinaio di metri, veniva presa da dispnea fortissima ed impossibilitata a procedere, si fer- mava, e dopo un breve riposo, se obbligata, poteva camminare pian piano. Il pro- prietario, circa i fatti avvenuti prima della morte, gli disse: che nel giorno 14 non presentava gravi fenomeni morbosi, il respiro era più affannoso del solito, l’ ani- male non mangiava e pareva avesse dolori addominali; però, avvezzo a vedere la sua cavalla presa frequentemente da gravi accessi di dispnea, non gli parve necessario di ricorrere al Veterinario, ed alla mattina seguente la trovò morta, se- condo lui, da un'ora circa. Alla necroscopia i fatti principali osservati furono: nella cavità dell'addome, liquido misto ad alimento, le lesioni comuni della peritonite settica, il fegato di colore rosso-scuro per stasi sanguigna e una lacerazione dello stomaco in vici- nanza del piloro. Fra la parete gastrica e i visceri vicini non si notò alcuna ade- renza, nè io ebbi a riscontrare alterazione della sierosa ali’ intorno della perfora- zione, tranne scarsissime, sottili e lunghe briglie fibrose sul sacco sinistro. Del resto un’aderenza della faccia inferiore e posteriore dello stomaco parmi impossibile, considerando la mobilità sua, maggiore in questa parte, e quella dell’ intestino con cui trovasi a contatto. Nel cavo toracico il polmone presentava le alterazioni della pneumonite interstiziale disseminata, a chiazze di 2-4 centimetri ed anche più grandi, di forma rotondeggiante e più o meno irregolare; in questi punti il pa- renchima strideva sotto il taglio. Il cuore era aumentato di volume, il miocardo di colore rosso dilavato e floscio, il ventricolo sinistro e l’orecchietta corrispon- dente dilatati. Non fu fatto attento esame degli ostii e delle valvole, nè dello stato delle arterie, e quindi non si sa a qual causa potere attribuire tale dilatazione. Ciò è tutto quanto mi venne riferito dal Dott. Guareschi intorno al presente caso di perforazione gastrica nel cavallo. Lo stomaco, verso il piloro e nella sua faccia inferiore, presentava una aper- tura irregolare assai, in media larga centimetri 8, i bordi della quale, molto as- sottigliati e sfrangiati, erano costituiti dalla sola tunica muscolare, perchè la sie- rosa, tutt’ attorno distaccata da quella, formava come un sacco con una apertura più piccola e più irregolare ancora di quella esistente nella prima. Per questi ca- ratteri era impossibile dall'esterno giudicare della vera natura della lesione, e tutto al più potevasi credere ad una lacerazione per processo degenerativo. Aperto per — 152 — intero il viscere ebbi a notare che dai margini della perforazione, per 6-9 centi- metri in dentro, la muscolare era denudata dalla mucosa, e questa parte di essa così scoperta aveva la forma di un triangolo, che comprendeva la parte perforata, ed era contenuto tutto nel sacco pilorico; il suo lato maggiore, di centimetri 20, era diretto da sinistra a destra incrociando in certo modo, ma molto obliquamente, la grande curvatura dello stomaco, e gli altri due, di centimetri 16, si univano, alquanto incurvati, in alto verso il cardias. Devo però far notare che la tunica mu- scolare (la quale ai margini dell’ apertura, ov’ era molto assottigliata, ed anche per certa estensione presentava i fasci muscolari molto bene distinti, quasi fosse stata messa in macerazione in qualche liquido dissolvente acido) alla periferia di detto triangolo era ancora rivestita da un sottile strato di connettivo sotto-mucoso, al quale seguiva in continuazione la mucosa molto assottigliata dapprima, e poi della grossezza quasi normale. La mucosa, che limitava la parte denudata dal lato sini- stro verso il cardias, era di color nero per una estensione in media di 3 X_ 7 centimetri, e presentava quasi gli stessi caratteri della mucosa affetta da rammol- limento bruno ; al di là del lato destro del triangolo essa era anche rammollita ed atrofica, e nel suo limite superiore di colore rosso scuro. Nel rimanente la mu- cosa della parete superiore era di colore rosso grigiastro dilavato e presentava, specialmente verso le parti rammollite, varie infossature poco profonde, imbuti- formi, la cui massima larghezza, alla superficie, era di millimetri 5-8, ed appa- rivano, salvo che con orlo non rigonfiato € un po’ più grandi, come lesioni pro- dotte da larve di estro che da non molto tempo avessero abbandonato lo stomaco. Di queste infossature, in numero minore e meno profonde, se ne trovavano anche più lontano fin quasi a 5 centimetri dal limite della porzione pilorica, mentre la mucosa del sacco sinistro non presentava lesioni apprezzabili, e solo ebbi in essa a notare una certa, direi, pastosità passandovi sopra e premendo leggermente col dito, invece di quella normale semi-elasticità che la fa essere più rigida della mu- cosa del sacco destro. Esaminati a fresco col microscopio piccoli brandelli della muscolare del bordo della parte lacerata non potei riconoscere le fibre muscolari, essendo esse ridotte ad una massa omogenea, sparsa di minutissime scure granulazioni, e coperta da numerosissimi bacteri e bacilli di varia grandezza, semplici ed articolati, alcuni formanti vere catenule (streptobacteri). Pezzetti di stomaco, presi dalle varie parti alterate ed anche da quelle ove la mucosa era apparentemente sana, vennero induriti e conservati in alcool, e poscia eseguitene delle preparazioni microscopiche, dello esame delle quali esporrò ora in breve come risultato, i fatti istologici più rilevanti, procedendo dai punti meno lesi a quelli ulcerati fino al margine della perforazione. Delle tre membrane costitutive della parete gastrica, quella che, al di qua del luogo ov’ era avvenuta la perforazione, si mostrava più alterata era la mucosa. Al microscopio essa, nella parte apparentemente sana, non mostrava altro di anor- — 153 — male che una lievissima infiltrazione di leucociti nel connettivo interglandolare a livello dei condotti escretori; l’epitelio cilindrico mancava alla superficie e per una certa estensione anche nei suddetti condotti. Questa mancanza parmi fino ad un certo punto, poterla attribuire all’azione digerente spiegata dal succo gastrico nel tempo trascorso dalla morte della cavalla alla conservazione dello stomaco in al- cool, quantunque fosse stato accuratamente vuotato dell'alimento che in esso an- cora contenevasi. Nci tagli microscopici eseguiti in vicinanza delle ulcere e in quelli in cui que- ste eranvi comprese, la mucosa ad esse circostante presentava delle alterazioni che meritano essere descritte. Il connettivo interglandolare, e propriamente quello frapposto ai condotti escretori, era infiltrato di giovani elementi cellulari fino alla superficie della mucosa, dove per la caduta, fino ad una certa profondità, dell’ e- pitelio cilindrico dei condotti escretori, figurava come tanti villi connettivali che in realtà non erano, poichè una tale apparenza si aveva nei tagli piuttosto sottili e perfettamente paralleli allo sbocco delle glandole, mentre nei tagli alquanto obliqui si vedeva chiaramente la continuità del connettivo interglandolare, la cui infiltrazione cellulare era più marcata dove lo strato di esso tagliato perpendico- larmente era più grosso. Non vi era quindi nulla di neoformato e al fondo delle infossature si vedeva ancora una piccola quantità residua dell’ epitelio, i cui ele- menti avendo proliferato erano divenuti più numerosi, più piccoli e sferici, non rivestivano come normalmente la interna superficie del condotto, ma ne riempivano il lume. Più in basso, tutte le cellule pepsiniche, le più profonde come pure quelle superficiali che nel tubo glandolare fanno immediatamente seguito agli elementi cilindrici, ora mutati, del condotto escretore, non mostravano alcuna alterazione, solo che molte di esse erano distaccate dalla membrana propria fig. 6° cp; ed in non poco numero erano quelle in cui notavasi una diminuzione di quei granuli molto rifrangenti, per la quale ora esse apparivano più trasparenti e come fossero di una diversa costituzione. I follicoli glandulari non erano mutati, nè per forma nè per volume ; il con- nettivo interposto, al contrario di quello che limita i condotti escretori, non infil- trato di cellule embrionali, di cui qualcuna appena si vedeva fra gli elementi connettivi; ma numerose si osservavano nel tessuto interglandulare, pel quale pas- sano le vene derivanti dalla rete capillare superficiale, e continuavano infiltrando attorno ad esse il connettivo posto fra il fondo delle glandole e la membrana mu- scolare della mucosa, fig. 2°, 3° ‘pv. Nel connettivo sottomucoso propriamente detto non si vede altro che la trombosi di parecchie piccole arterie fino a quelle aventi un lume di mm. 0,03 fig. 8°, ed in quelle di maggior volume contenevansi delle masse di cellule piatte fusiformi, e l’intima era ingrossata e denudata del suo en- dotelio fig. 7*. Attorno alle vene eravi una lieve infiltrazione cellulare, che, mol- to più scarsa, esisteva pure nella avventizia di qualche ramo arterioso. Le alterazioni della mucosa erano più gravi a misura che si avvicinava ai punti TOMO X. 20 — 154 — ulcerati. L’ infiltrazione cellulare, sempre limitata alle parti suddette, diveniva più forte, per cui i condotti escretori delle glandole col loro epitelio non erano più riconoscibili; e per il completo ostacolo al circolo capillare locale vedevansi pic- cole porzioni necrobiotiche, di forma semilunare, più o meno estese dalla superficie verso la profondità della mucosa, fig. 1° pn. In esse distinguevansi ancora le fibre connettive ed elastiche, ma gli elementi cellulari erano in gran parte scomparsi; e l’atrofia, a grado diverso, di quelli che trovavansi vicino al limite fra le parti morte e le vive, indicava chiaramente che il processo necrobiotico progressivamente invadeva le parti più profonde del tessuto, coadiuvato certamente dall’ azione di- gerente del succo gastrico. Per l’ aumento progressivo dell’ infiltrazione cellulare che nei luoghi ulcerati aveva invaso ancora il connettivo esistente fra le porzioni me- die, o secernenti delle glandule, queste mostravano le loro cellule pepsiniche atro- fiche più o meno, secondo il grado maggiore o minore della compressione patita. Il nucleo di esse era rimpicciolito e il protoplasma meno granuloso e più traspa- rente, fino a distinguersi con una certa difficoltà, per essere ridotto ad un sottile rivestimento perinucleare ; ed allora le cellule, per la poca imbibizione del nucleo colle comuni sostanze coloranti, accennavano alla loro prossima morte. Nelle glan- dole mucose, dal loro sbocco nella superficie dello stomaco fino al fondo, si tro- vavano gli stessi fatti osservati nel condotto escretore delle glandule pepsiniche. A misura che il processo ulcerativo progrediva, dopo la caduta o digestione della parte necrobiotica alla superficie dell’ ulcera, si notava un disgregamento gra- nulare degli clementi infiltrati, ed il rammollimento del connettivo, le cui fibrille venivano scostate da una sostanza omogenea, nella quale vedevansi i corpuscoli connettivi diventare sempre più atrofici, fino a ridursi come granuli di sostanza albuminoide, fortemente imbevuti dal carminio o da altra sostanza che si fosse adoperata per tingere le preparazioni. In mezzo a questi fasci connettivali così al- terati, era possibile in alcuni punti, nella profondità della mucosa dove il processo ulcerativo non era per anco giunto, riconoscere la presenza di capillari e di qual- che ramoscello arterioso. Nella fig. 6* è ritratto uno di tali punti dove esistono tutti questi fatti, e si vede pure come le cellule pepsiniche sonosi distaccate dalla membrana propria e, divenute libere, si atrofizzano o disgregansi. In corrispon- denza dei punti ulcerati, nel connettivo sottostante alle glandule, ho trovato co- stantemente la trombosi delle piccole arterie. Per tale processo, che aveva prodotto qua e là ulcere limitate nella mucosa, questa in vicinanza dell’ avvenuta perforazione delle pareti dello stomaco, sì vedeva sempre più assottigliata fino a scomparire del tutto e lasciare la tonaca muscolare scoperta. Nelle preparazioni microscopiche eseguite in varie parti della stessa, ri- levavansi le medesime lesioni, e sempre più gravi a misura che la mucosa dive- niva atrofica, come si vede nella fig. 3°, che ritrae una sezione eseguita nel luogo ove la mucosa erasi per metà assottigliata. In questa parte si osservano diversi fatti: 1.° Nel connettivo interglandulare formante i sepimenti maggiori in cui de- — 155 — correvano le vene, esiste infiltrazione di elementi cellulari estesa dalla superficie esterna dello stomaco al fondo delle glandule, dove la si vede continuare lungo i rami della rete venosa nel connettivo ivi esistente, e questa infiltrazione manca fra le glandule intermedie, fig. 2° e 3° ‘pv. Nel connettivo sotto mucoso si vede un maggior numero di rami arteriosi occlusi da trombo, vt. 2.° Nei punti più alterati i singoli territorii glandulari sono meglio distinti per l'ingrandimento dei sepi- menti connettivi determinato da quella speciale sostanza omogenea, la quale ora sostituisce la forte infiltrazione cellulare da cui erano stati totalmente invasi, fig. 6° sc. 3.° Le cellule embrionali infiltrate sono scomparse restandovi numerose gra- nulazioni, più stipate immediatamente attorno alle vene che appaiono come piccoli cordoni di tessuto fibroso. 4.° Gli elementi connettivi son tutti atrofizzati, e vi si rilevano chiaramente poche fibre elastiche, anch’ esse in gran parte distrutte. 5.° Le vene più grosse formanti la rete sotto mucosa sono ancora pervie, ma ma- nifeste alterazioni dell’intima ne rendono scabroso ed irregolare il lume; e degli elementi che infiltravano l’ avventizia e il connettivo circostante ve ne è uno scar- sissimo numero in via di disfacimento e di atrofia. 6.° In mezzo al connettivo alterato della mucosa si scorgono delle cellule pepsiniche isolate, o a ranghi di- scontinui, atrofiche, il cui nucleo è ancora tinto dal carminio, ma non si può ri- conoscere più la membrana propria glandulare. Queste cellule pepsiniche non si trovano in tutte le parti, ma solo in talune località. Dalle sezioni orizzontali della mucosa, nei punti in cui questa è meno alterata, si rileva un fatto notevole, che cioè il disgregamento degli elementi infiltrati, e 1’ a- trofia delle cellule del connettivo sono pronunziatissimi immediatamente al di fuori della membrana propria delle glanlule, e meno rilevanti verso il mezzo del sepi- mento congiuntivo interglandulare fig. 6°. Ciò proverebbe che il succo gastrico, secreto dalle parti ancora sane della mucosa, sia penetrato nel lume delle glandule alterate, e di qui, attraverso la membrana propria, certamente alterandola, nel connettivo interposto, dove produsse i suddetti guasti negli elementi cellulari e nella sostanza connettiva. Infatti, io credo, che se così non fosse, la distruzione degli elementi della mucosa dovrebbe progredire dalla superficie verso le parti profonde e gradatamente verificarsi la loro eliminazione ; ed invece pare ciò non sia, poichè nei punti in cui l’ulcerazione è progredita fino al terzo od alla metà dell’ altezza della mucosa, nel resto di questa non si trova che la trama connettiva divenuta quasi omogenea e contenente i residui cellulari, e il grado di sua alte- razione è lo stesso tanto alla superficie che nelle parti profonde. La penetrazione del succo gastrico nelle glandule, credo che non sia avvenuta prima della distru- zione degli elementi cellulari già descritti, contenuti nei condotti escretori delle glandule e derivati da proliferazione del loro epitelio, i quali elementi, al pari dei numerosi leucociti infiltrati, opporrebbero come un argine all’azione del succo ga- strico, finchè, essi stessi digeriti, quello avesse trovato libero passaggio fra le cel- lule pepsiniche, le quali sono affatto passive in tal processo morboso, e poscia intaccate le varie parti del tessuto circostante. — 156 — Procedendo coll’ esame microscopico allo studio dell’ ultima parte più alterata della parete gastrica, si osserva il fatto costante della obliterazione delle arterie per trombo ; la mucosa è rappresentata da uno strato ancora più assottigliato di tessuto, o meglio di sostanza omogenea infiltrata di elementi cellulari giovani, atrofici in maggior numero, e non vi si possono più riconoscere i residui glandu- lari, nè la disposizione de’ tramezzi connettivi fig. 4° 7m; e più lontano ancora, ogni residuo di mucosa è scomparso e la membrana muscolare sottoglandulare pur essa atrofizzata non esiste più, ugualmente che la tunica muscolare propria dello stomaco, restandovi la sola sierosa rammoilita della quale sono riconoscibili solo poche fibre elastiche. Fsaminati i rami più cospicui delle arterie gastriche, vi trovai le lesioni del- l’endoarterite: caduta dell’ endotelio, ed ingrossamento dell intima da mm. 0,03 — 0,05; oltre a ciò la media atrofica, cosichè in un’ arteria avente un lume di mm. 0,5, essa era grossa mm. 0,08 fig. 7° e 9°. III Questo non è il solo caso di ulcerazione gastrica verificato dal Dott. Guareschi nel cavallo, ma ebbe ad osservarne altri quattro, ne’ quali, fra ì sintomi uno trovò costante, che perciò crede egli di poter ritenere come patognomonico, e pel quale ha potuto diagnosticare questa malattia nell'ultimo caso occorsogli. È il vomito o o la salivazione che egli ha trovato costantemente. La salivazione, la vide avve- nire in tutti e quattro i casi, in due de’ quali continuò, sempre più forte, fino al termine della vita dell'animale, e negli altri due fu seguita dal vomito. Nei primi due, in uno de’ quali ha potuto fare la diagnosi della malattia, l’ ulcera esisteva nel fondo del sacco sinistro dello stomaco, e negli altri trovossi interessare la mu- cosa del sacco destro anteriormente e tutto attorno per 5-10 centimetri all’ aper- tura del cardias, estesa ancora in uno di essi per 10 centimetri alla mucosa del- l’ esofago. Circa le cause non può stabilire alcun che di certo. Mi parve interessante, appunto perchè alquanto strana, la storia di questa malattia in un piccolo cavallo e che perciò non credo inutile di riferire brevemente, come puro e semplice fatto. Questo animale fu ad un tratto preso da convulsioni con abolizione della vista. Le convulsioni si ripeterono, ma più raramente e men forti ne’ giorni consecutivi, e il cavallo non mangiava quasi più ; dopo cinque giorni incominciò a migliorare, l'appetito ritornò, ma non la vista; difatti messo al lavoro trascinava il veicolo fuori di strada. Di nuovo, dopo sette giorni, tornò la inappetenza, mangiava po- chissimo, ne venne abbondante salivazione, e vero vomito dopo un certo tempo dall’ ingestione dell’ alimento che rigettava semidigerito. Dopo altri quattro giorni di questo stato l’animale morì. — 157 — È nello stomaco di questo cavallo che il processo ulcerativo si era esteso alla mucosa esofagea. Il veterinario non essendo provveduto dei mezzi necessari per aprire la cavità cranica non potè esaminare l’ encefalo, nel quale con tutta pro- babilità si sarebbero trovate lesioni, forse sufficienti a dar ragione del complesso sintomatico e della lesione gastrica. IV: La causa più frequente, a cui furono finora attribuite le perforazioni della pa- rete dello stomaco del cavallo, è stata la presenza in esso di numerose larve di estro, le quali, mercè i due forti uncini di cui è armata la loro bocca possono produrre delle depressioni e perdite di sostanza, penetrando così fino alla tonaca muscolare, ed intaccata anche questa, perforarla e così pure la sierosa, di talchè ne avviene la sortita di esse larve e dell'alimento nella cavità addominale, peri- tonite e morte. Per tali lesioni si ebbero alle volte gravi e mortali emorragie, quando le larve avevano prodotto, o immediatamente o mediatamente, una discon- tinuità nella parete di un ramo cospicuo delle arterie dello stomaco. A questo concetto etiologico e patogenetico il Numann (1) opponeva, che la perforazione dello stomaco per la presenza delle larve non avveniva se non quando vi fosse coesistito uno stato patologico delle membrane gastriche. Questa opinione non venne generalmente accettata, ma il 107 scrive (2) che le soluzioni di con- tinuo determinate dalle larve di estro nella mucosa gastrica non si estendono che sino alla muscolare e raramente sino alla sierosa, e che la perforazione totale non avviene se non in casì rarissimi e probabilmente allora soltanto che le membrane dello stomaco sono în istato patologico. Fra i cinque casi di gastrica ulcerazione dal Dott. Guareschi osservati, e da lui stesso verbalmente riferitimi, di questo solo ho potuto fare un accurato studio istologico, e raccogliere pure i dati anatomici relativi agli organi della stessa ca- valla, de’ quali hanno per me molto interesse, la dilatazione della sezione sinistra del cuore e le lesioni flogistiche croniche del pulmone, le quali hanno avuto il loro esatto riscontro nella grave alterazione funzionale respiratoria durante la vita dell’ animale, non che la stasi sanguigna nel fegato. Riassumo ora i fatti patolo- gici riscontrati anatomicamente ed istologicamente nello stomaco, che furono: le lesioni flogistiche della mucosa gastrica, ben marcate nei luoghi ove a grado di- verso era ulcerata, e appena apprezzabili nel resto di essa dove le ulcere non esistevano ; la trombosi di piccole arterie gastriche corrispondenti ai luoghi ulcerati, (1) Genus oestrus. Groeningen, 1839. (2) Manuel de Pathologie et therapeutique. Trad. frane. Paris, 1869. — 158 — ed estesa a molti rami esistenti in vicinanza dell'avvenuta perforazione, endoarte- rite e desquamazione endoteliale anche dei rami arteriosi cospicui, embolie multiple nelle arterie più piccole cagionate dall’ endotelio distaccato ed emorragia nella mu- cosa in vicinanza al luogo perforato. Di tutti questi fatti, ciascuno per sè isolatamente è sufficiente a dar ragione dell’ ulcera e della perforazione dello stomaco di cui mi sto occupando, quando vogliasi riferire ad una delle varie dottrine ammesse per spiegare la patogenesi di questo processo morboso. La prima fra queste, che è la flogistica, proposta dal Cruveilhier, e poscia sostenuta da altri e più recentemente dal Gaillard (1) e dal Verardini (2), non è al certo di minore importanza delle altre, perchè le osserva- zioni cliniche ed anatomo-istologiche ne danno piena ragione, ed il reperto miero- scopico nel mio caso viene in appoggio di tale patogenica interpretazione. L’ ab- bondante infiltramento cellulare del connettivo, come la proliferazione dell’ epitelio cilindrico, che riveste il condotto escretore delle glandule, non puossi ripetere, a mio modo di vedere, che da un processo flogistico locale. Per la trombosi osservata nelle arterie che ramificansi nelle località ulcerate, non posso in alcuna maniera dare meno accoglienza alla dottrina sostenuta dal Virchow, che la causa principale dell’ ulcera rotonda dello stomaco risieda nel di- sturbo circolatorio locale determinato da trombosi od embolia delle arterie gastriche. Nè a me pare che, volendo accettare la teoria flogistica, si possa escludere questa altra coll’ammettere che per l’ulcerazione si abbia avuto stasi nelle arterie e for- mazione del trombo. E ciò per varie ragioni: 1° che i capillari esistenti nel con- nettivo interglandulare li ho trovati vuoti; 2° che non tutti i rami arteriosi cor- rispondenti all’ ulcera erano trombosati; 3° che in questi, come mm altri rami al- quanto discosti dai punti ulcerati, presentavansi le lesioni iniziali dell’ endoarterite, la quale in alcuni di calibro maggiore era di grado più avanzato, e 4° finalmente che l’endotelio distaccatosi dalla superficie interna delle arterie e portato in cir- colo aveva determinato multiple embolie. Le emorragie poi avvenute, come dimostrava il rammollimento bruno della mucosa, in due luoghi vicini alla parte dove esisteva la massima ulcerazione da cui venne perforata la parete gastrica, oltrechè confermare l’importanza della trombosi e dell’ embolia, m’ inducono ad assegnare una parte, al certo non indif- ferente, all’ altra dottrina dell’ ostacolo al deflusso venoso nella vena porta, cagio- nato in questa cavalla dalla dilatazione del cuore e dalle lesioni esistenti nel pol- mone e dimostrata dalla stasi esistente nel fegato. Non parmi però, accettando tutte e tre queste dottrine come valevoli a spie- gare la patogenesi dell’ulcera gastrica nelle varie condizioni costituzionali ed etio- (1) Essai sur le pathogenie de l’ulcéro simple de l’estomac. These de Paris, 1882. (2) Sulla Patogenia dell’ulcero semplice o rotondo dello stomaco. Memorie della R. Accade- mia delle Scienze dell’Istituto di Bologna. Serie IV. Tomo V. — 159 — logiche, di doverlo fare in questo mio caso in modo esclusivo per una di tali dot- trine; imperocchè in esso i fatti anatomici riscontrati sono di natura diversa, e per conseguenza richieggono una interpretazione patogenica diversa; che se pure li voles- sì aggruppare per ravvicinarli fra loro, sì da essere riguardati sotto un solo punto di vista, non potrei a meno di arrestarmi ad ammettere immediatamente due or- dini di cause, uno cioè di disturbi circolatorii ed uno di stimoli flogistici. Non debbo in ultimo trascurare un altro fattore etiologico, a buon dritto rite- nuto dal maggior numero dei patologi come il più importante forse nella produ- zione dell’ ulcera, voglio dire l’azione del succo gastrico sulla mucosa dello sto- maco, quando in essa pel rallentamento o per la cessazione del circolo sanguigno locale, si diminuisca il grado di alcalinità necessario a neutralizzare 1 acidità del succo gastrico. Dalla considerazione critica dell’ esistenza di questi tre fattori etiologici e del loro valore per la produzione dell’ulcera perforante, che mi ha dato argomento per la presente Memoria, tenterò di dedurne la patogenesi. I°. Disturbi circolatori — Questi disturbi nella circolazione sanguigna dello stomaco sono immediatamente avvenuti per la trombosi ed embolia delle arterie gastriche : la prima avveratasi ne’ rami il diametro de’ quali era di mm. 0,44-1, per la pregressa endoarterite e caduta dell’endotelio, e la seconda nei rami più piccoli, pel soffermarsi in essi dell’endotelio, da quelli e anche dai più grossi di- staccatosi e portato in circolo. La causa di questa endoarterite non la sì può ricercare in un processo infet- tivo occorso qualche tempo prima della morte, nulla essendo stato avvertito pre- cedentemente dal veterinario, e neanco nella possibile setticemia per la peritonite, causa della morte dell'animale, per la quale non potevansi in così breve tempo produrre quelle lesioni così avanzate dell’intima, oltrechè la ricerca microscopica del bacillo settico ne’ vasi è stata negativa; non in una propagazione di processo flogistico locale, poichè nessun fatto ne mostrava la esistenza, nè per l’ulcerazione della mucosa, come sopra ho detto. Rimane da discutere come momento etiologico possibile di questa endoarterite, la lesione trovata nel cuore, cioè l'apparente iper- trofia con dilatazione del ventricolo ed orecchietta sinistra. Di questa alterazione cardiaca non credo doverne io ora ricercare la ragione, e vedere se essa sia stata la causa della do/saggine? e dei forti accessi di dispnea da cui veniva preso l’ani- male, e discutere sull’ esistenza, come parmi probabile, d’ insufficienze val- volari, o di stenosi dell’ostio aortico, o di altra alterazione delle grosse arterie, poichè nulla ho potuto sapere di preciso; ma non debbo trascurarne il rapporto che credo potersi stabilire fra essa e l’ endoarterite osservata nei rami più cospicui delle arterie gastriche, e con tutta probabilità esistita anche nelle altre arterie. In- fatti a me non pare impossibile che per la dilatazione del sinistro ventricclo, con alterazione degenerativa del miocardo, siasi non poco rallentato il corso del sangue — 160 — nel campo della grande circolazione, e che per conseguenza la nutrizione, oltrechè dei vari tessuti, anche delle pareti arteriose siasi molto affievolita, come lo dimo- stra l’assottigliamento della tunica muscolare delle arterie gastriche. La caduta del- l’ endotelio troverebbe la sua ragione in parte nello stesso fatto, e in parte nel- l’ingrossamento iperplastico dell’ intima, al quale vi concorsero certamente i glo- buli bianchi emigrati dai capillari dei vasa vasorum pel rallentato circolo, come ebbe pure ad osservare il Koster (1). i II°. Azione del succo gastrico come stimolo flogistico — Essendo rallentato il circolo per la debolezza sistolica del cuore dilatato, una tal condizione deve essere stata certamente più grave in quei territorii vascolari dipendenti dalle diramazioni arteriose gastriche con atrofia della loro media membrana ed ingrossamento iper- plastico dell’intima, per cui la circolazione era ivi ancor più affievolita, e cessata o quasi nelle sezioni in cui distribuisconsi le piccole arterie embolizzate. Nè è a dirsi che per le ricchissime anastomosi esistenti, mercè la rete capillare donde ori- ginansi le vene gastriche, una compensazione circolatoria nello stomaco può av- venire nel più facile modo; chè, se ciò è possibile nello stato normale dei vasi, è molto difficile invece quando, come in questo caso, esistonvi di tali lesioni nelle loro pareti, da indurre un ostacolo meccanico al circolo locale, coadiuvato dalla debolezza dell'impulso cardiaco, e per cui una compensazione, se non impossibile, al certo è molto deficiente ed incompiuta. Questo stato circolatorio così localizzato, parmi abbastanza sufficiente per predisporre quelle parti, ove esso esiste, a risen- tire l’azione del succo gastrico, la quale, seppure sia stata tale da diyerire l’epitelio della superficie della mucosa, non credo che a principio abbia potuto intaccare quelle delle glandule (come del resto rilevasi dallo esame delle varie parti della mucosa meno alterata e nei dintorni dei punti ulcerati), ma bensì che vi abbia indotto uno stimolo anormale, una vera irritazione flogistica in quegli elementi la cui resistenza era al certo diminuita per la scarsa nutrizione; e non a loro sol- tanto essa siasi limitata, ma ancora estesa ai vasi sanguigni, di talchè si potè stabilire un processo flogistico che io non esito a chiamare specifico, onde ne venne una abbondante essudazione ricca di cellule bianche del sangue, la cui facile ed abbondante emigrazione fu favorita dalla preesistente alterazione vasale per la len- tezza circolatoria. Infatti questa emigrazione, ed accumulo ne’ luoghi ove il pro- cesso ulcerativo è ancora iniziale si trova essere avvenuti nelle porzioni più su- perficiali delle glandule, e a misura che quello si avanza si estendono verso la profondità della mucosa, e più abbondantemente attorno alle vene, dalla loro ori- gine fin là dove sboccano nella rete sottoglandulare. (1) Die Pathogenese der Endarteritis. Amsterdam, 1874. + 1608 — III°. Necrosi e disgregazione molecolare — L'azione del succo gastrico pare siasi spiegata in principio solo sugli elementi cellulari infiltrati alla superficie della mucosa, ai quali appunto era mancata la nutrizione per essere più discosti dai capillari in cui era ancora possibile il passaggio del sangue. Tale azione, che man mano si estendeva pure agli elementi connettivi della mucosa, produceva poscia la loro disgregazione molecolare, mentre che nelle cellule di rivestimento dei tubi escretori delle glandole pepto-gastriche e delle glandole mucose si stabilì un pro- cesso di proliferazione, il cui prodotto di piccoli elementi rotondi, che riempiva il vano dei tubi, a poco a poco andò soggetto alla stessa disgregazione molecolare, divenendo così una massa dapprima granulosa e poi amorfa, confusa con quella proveniente dal disfacimento degli elementi infiltrati. Quando il rammollimento della sostanza connettiva giunse a tale da rendersi possibile il distacco o la dige- stione di essa, allora incominciarono le infossature ulcerative della mucosa, men- trechè il processo estendevasi alle parti più profonde. L’autodigestione dello stomaco generalmente si ritiene dovuta alla diminuita o cessata alcalinità della mucosa per il rallentamento o la sospensione circo- latoria. A me pare troppo esclusiva ed assoluta tal maniera di intendere un fatto che nello stato normale non avviene, e che si verifica quando la circo- lazione del sangue nella mucosa gastrica è molto affievolita o cessata affatto, e in modo specialmente costante quando una parte di essa viene in qualsiasi maniera sottratta al processo nutritivo come più di frequente si verifica nelle erosioni emorragiche. La nutrizione è un fatto complesso; e quando nel processo nutritivo alterato vuolsi cercare la ragione di un fatto patologico, io credo che sia necessario, per giun- gere ad una esatta interpretazione patogenica, istituire un esame analitico il più possibilmente rigoroso dei vari elementi che lo costituiscono. Posto ciò, se è vero che gli elementi istologici della mucosa gastrica, al pari di tutti quelli degli altri tessuti dell'organismo, harno bisogno di trovarsi in un mezzo alcalino per nutrirsi e compiere la loro specifica funzione, è vero altresì che, per la normale nutri- zione, tutti gli elementi anatomici posseggono una resistenza specifica, sia innata sia acquisita, agli stimoli costanti dell'ambiente nel quale quelli si trovano, ciò che si osserva specialmente negli epitelii. È questa specifica resistenza, secondo io credo, la vera ragione per cui alcuni tessuti resistono all’azione di certe cause che per altri sarebbero nocive; ma se tale resistenza diminuisce, o cessa, quei tessuti entrano in una predisposizione morbosa per la quale facilmente restano of- fesi da quegli stessi stimoli la cui azione non risentivano nel loro stato normale di nutrizione. Ora lo stato di alcalinità della mucosa gastrica, che si considera mantenuto dalla attiva circolazione locale, se è un fattore coadiuvante la resistenza organica de’ suoi tessuti, non lo si può per tanto considerare come l’unica causa di essa. Si ritiene da vari fisiologi, che l'acido idroclorico del succo gastrico sia un se- TOMO X. ° 22 — 162 — creto delle cellule di rivestimento, o delomorfe, delle glandule pepsiniche ; e ciò per la ragione della mancanza di acido nella porzione pilorica dello stomaco dove tali cellule mancano, e della reazione acida nell'interno delle glandole in cui esse cellule esistono. Questo fatto, in varie prove sperimentali istituite, a me non è riescito di verificare coi mezzi di cui posso disporre, ma non per questo voglio dubitarne, avuto riguardo alla indiscutibile competenza dei fisiologi, abili esperimentatori, che l’ enunciarono. Ciò non pertanto io credo che la dottrina per la patogenesi dell’ ulcera rotonda, poggiata sulla diminuita alcalinità della mucosa, cioè che il rallentamento circolatorio in essa non sia più sufficiente a neutralizzare l’ azione del succo gastrico acido che la imbeve, e per conse- guenza venga da questo digerita, non credo, dico, che possa reggere ad una cri- tica rigorosa. Dato e non concesso, che una parte dell’ acido del succo gastrico sia prodotta dalle cellule delomorfe, essa verrebbe, man mano che si segrega, neutralizzata dal- l’ essudazione alcalina del sangue circolante, al pari dell’ altro acido che dalla superficie gastrica imbeve la mucosa. Ed allora, io domando, a che questa secre- zione acida per uno scopo tanto diretto al compimento della digestione, se alla sua origine viene neutralizzata? E se pure questa neutralizzazione si volesse, po- tendolo, in qualsiasi modo limitare o negare, come si spiega la innocuità del- l'acido verso gli elementi istologici coi quali esso viene a contatto? Prevedo la risposta: che l’ acido dev’ essere associato alla pepsina, prodotta dalle cellule adelomorfe, per digerire le sostanze albuminoidi. E che? Forse l’ acido segue altra via che quella che si trova nell’ interno delle glandule a pepsina, o in che modo si dimostra che la sua combinazione con questa, per acquistare la potenza digerente, avvenga solo alla superficie della mucosa? Ma anche ciò ammesso, rimane sempre da trovar la ragione per cui l’ epitelio della superficie gastrica cogli elementi sottostanti, trovandosi indiscutibilmente im- bevuti di succo gastrico, pure non vengono digeriti. Secondo Inzani e Lussana (1), appoggiati alle loro esperienze, l’ epitelio ver- rebbe rammollito e gonfiato dall’ acido gastrico, e man mano rapidamente sostituito da altro epitelio riprodotto. A questa continua riproduzione essi attribuirono il potere di proteggere la mucosa dall’ azione del succo gastrico, la quale riprodu- zione cessando per qualsiasi trauma o per flogosi, la mucosa viene attaccata e digerita come tutte le sostanze albuminoidi. È importante il notare che 1’ acido gastrico, per gli autori, si forma alla superficie dello stomaco per sdoppiamento di sali esistenti nel sangue, la cui base si combina coll’ acido carbonico. Ciò vien confermato da varii moderni fisiologi (2), senza poter stabilire in qual luogo (1) Annali Universali di Medicina. Vol. 46 — Milano 1862. (2) ALBERTONI e STEFANI. Manuale di Fisiologia. BruyLANPs. Chimie phisiologique. Louvain 1887. — 163 — avvenga la formazione dell’ acido cloridrico. Pare però, ritenendo che probabilmente lo sdoppiamento si faccia dall’ acido lattico, e questo proviene dagli alimenti, la formazione dell’ acido cloridrico avvenga al di fuori della mucosa o alla superficie di essa, dove incontrando la pepsina le si unisce chimicamente e si ha la formazione del succo gastrico. A me pare quindi che, nella patogenesi dell’ ulcera gastrica semplice, non debbasi al certo negligere questo elemento della cessata alcalinità della mucosa, che anch’io ritengo molto importante; ma non ad esso solo, dopo il disturbo circolatorio, si possa attribuire tutta la potenza efficiente l’ ulcerazione. Se così fosse non troverei veruna ragione per spiegarmi la proliferazione del- l’ epitelio cilindrico che riveste il condotto escretore delle glandule peptogastriche e le glandule mucose, e neppure l’ abbondante infiltrazione locale di leucociti simile a quella che si osserva in tutte le flogosi specifiche, e per la quale inclinerei a considerare l’ ulcera gastrica come un processo specifico. Queste considerazioni trovano una conferma nell’ opinione di Numann circa le perforazioni dello stomaco per la presenza di larve di estro, ed in pari tempo la giustificano. Egli infatti credette che la perforazione delle pareti gastriche, non di raro osservata nel cavallo ed attribuita alle lesioni che le larve di estro vi producevano infiggendovisi, non si verificasse se non in que’ casi in cui le mem- brane dello stomaco fossero modificate o rammollite per uno stato patologico pre- cedente. Dalle osservazioni riferite si rileva che anche poche larve bastarono a produrre delle perforazioni, e quattro o cinque di esse sì trovarono avere ciascuna praticato un foro interessante tutte le membrane dello stomaco. Non mancano i casi riportati di estese perforazioni per lesioni molto vicine fra loro, prodotte da numerose larve. Per queste non vi è, a parer mio, ragione di ricercarne la causa fuori delle gravi lesioni determinate dall’ infissione delle larve, per cui certamente dovette alterarsi la circolazione locale; e quindi aggiunta l’ azione del succo gastrico, che produsse la disgregazione di quelle parti mal nutrite, e mortificate per la con- pressione che le larve vi esercitavano, il processo distruttivo si estese più rapida- mente alle altre due membrane dello stomaco, le quali così vennero perforate. Non credo poi potersi la perforazione attribuire alla sola presenza delle larve, quando queste vi erano in poco numero e non vicine fra loro. Osservando le lesioni esistenti sulla parete gastrica, in quei casi in cui pochi di questi parassiti vi si trovano infissi, si rileva bensì la localizzata distruzione della mucosa, onde risulta l’ infossatura nella quale sta nascosta la testa della larva, ma il limite di quella, al fondo e lateralmente, è formato da un grosso strato di tessuto fibroso giovane con larghe lacune e buon numero di elementi cellulari. Nei pochi vasi sanguigni di questo tessuto, come negli altri rami delle arterie gastriche vicine, non si osser- vano alterazioni, ed è quindi lecito indurre, che disturbi circolatorii tali da pro- durre una condizione patologica delle membrane dello stomaco non vi esistessero. Qui non è il caso di invocare 1’ alcalinità della mucosa, tanto forte da neutra- — 164 — lizzare l acidità del succo gastrico, per rendersi ragione della resistenza del tessuto cicatrizio giovane all’ azione digerente di quello, essendo in esso molto ‘scarso il numero de’ vasi sanguigni; nè credo che si possa tirare in campo la resistenza maggiore dei fasci di tessuto fibroso, poichè faccio subito notare che questi fasci non sono molto grossi, e nelle lacune da essi limitate vi si conten- gono in buon numero delle giovani cellule, le quali, come quelle infiltranti la mucosa nel processo di ulcerazione, dovrebbero per l’azione del succo gastrico, «subire la disgregazione molecolare ed essere digerite, il che non avviene; ed in- vece dopo il distacco delle larve, questo tessuto si condensa e forma una vera cicatrice di tessuto fibroso compatto. Anche nei luoghi ove tre o quattro larve sono infisse una molto vicina all’ altra si trovano le stesse lesioni, più estese, ma istologicamente identiche. i Parmi adunque che il Numann non a torto si dichiarava convinto, che non esistendovi condizioni patologiche nelle membrane dello stomaco, non avvenisse la loro perforazione per le lesioni prodotte dalle larve di estro; e credo che il ram- mollimento della parete gastrica da lui notato nei casi di perforazione, fosse real- mente dovuto ad un disturbo circolatorio, cagionato da circostanze che non si possono determinare ma che debbonsi ammettere come esistenti. L’ opinione del Numann non meritava, io credo, di essere rigettata, ma al più essere accolta con riserva; e dovevasi prendere in seria considerazione la prova da lui addotta, che nei casi osservati di perforazione dello stomaco, in cui vi si trovavano delle larve di estro, vi era pure rammollimento della parete del viscere. Il Numann osservava e scriveva nel 1839, quando ancora ammettevasi il ram- mollimento patologico della mucosa gastrica (gastromalacia), il quale quantunque da valenti patologi era negato, considerandolo come un fenomeno cadaverico, pure da molti altri era ammesso, come lo fu da Cruveilhier e Rokitanstki, i quali distin- sero un rammollimento patologico ed uno cadaverico. Il Numann ammetteva il fatto, ed io non posso dire per quali ragioni e con quan- ta convinzione lo facesse, ma solo perchè egli non credeva possibile la perforazione per larve di estro senza uno stato patologico precedente. Se le osservazioni pubbli- cate dal Virchow, nel 1857, sulla trombosi ed embolia delle arterie gastriche, fos- sero esistite venti anni prima, il Numana avrebbe forse sostenuta la sua opinione con prove positive; ma non gli facevano certo difetto le prove negative: quanti cavalli infatti albergano nel loro stomaco larve di estro, ed in numero grandissimo, senza che perforazione avvenga in questo viscere? Non sarebbe quindi destituito di ogni fondamento, anzi ragionevole, lo ammettere che la potenza etiologica delle lesioni cagionate da larve di estro abbia un valore puramente occasionale, come lo hanno le erosioni emorragiche per la produzione dell’ ulcera perforante in uno stomaco predisposto, in cui cioè, la circolazione indebolita, o localmente interrotta per qualsiasi cagione, abbia determinato nella mucosa uno stato patologico. Concludendo adunque, a me pare che le osservazioni del Nunann possano — 165 — accettarsi come vere, poichè quantunque generalmente ritenuto come cadaverico il rammollimento della mucosa gastrica, pure dato un disturbo circolatorio che «produca un rallentamento nel corso del sangue (Sfezner per esempio in î4 dei casi di ulcera gastrica ha trovato affezioni vasali), od una discrasia (clorosi o ‘anemia, ammesse come cause disponenti), la nutrizione tanto dell’ epitelio, che degli altri elementi istologici e dei vasi della mucosa diviene deficiente, e la resistenza loro all’ azione del succo gastrico di tanto diminuita, che alla più piccola lesione, chimica o traumatica, che nello stato normale della mucosa viene ordinariamente riparata da rapida cicatrizzazione, si stabilisce questo specifico processo ulcerativo che può arrestarsi alla sola mucosa, o estendersi alle altre membrane e determi- narne la perforazione. Non credo infine inutile lo esporre alcune riflessioni circa le condizioni anato- miche circolatorie della mucosa gastrica, per la loro importanza o meno nella produzione in essa dello stato anemico o di emorragie. Le opposizioni fatte alla teoria di Virchow sono molto importanti, ma non tali da escluderla del tutto dalla patogenesi dell’ ulcera. La prima di esse è appog- giata al fatto, che in molti casì di ulcera perforante non si è riscontrata trombosi od embolia delle arterie gastriche; e la seconda, che per le ricchissime anastomosi fra i vasi sanguigni nella mucosa dello stomaco, posta anche 1° embolia di alcuni rami, la compensazione circolatoria locale avviene prontamente, e 1’ ulcerazione non si verifica, eccetto forse il caso di multiple embolie, o della trombosi di un ramo cospicuo. La prima obbiezione è troppo assoluta, imperocchè essa dovrebbe colpire solo l’ esclusivismo dell’ importanza etiologica della trombosi, e non voler menomare quel tanto che ad essa giustamente, e più che ad ogni altra causa anche esclusiva- mente considerata, spetta nella patogenesi «dell’ ulcera gastrica, e ciò perchè la si è riscontrata in tanti casi ed in questo bene accertato nel cavallo, e perchè anche gli esperimenti di Panum e di Cohnheim valgono a comprovarlo. La seconda obbiezione è molto più grave, circa alla produzione di emorragie per trombosi od embolia dei rami arteriosi gastrici, e vedo anch'io che la teoria venosa di £okitanski potrebbe credersi avere a questo riguardo maggiore impor- tanza, ritenendo come causa immediata delle erosioni emorragiche la stasi venosa. Parmi però non inutile di ricordare qui quanto venne da Kò0/Kker (1) inse- gnato circa la disposizione anatomica vascolare della mucosa dello stomaco, che cioè, le arterie gastriche appena arrivate nel connettivo sottomucoso si dividono in maniera da inviare nella mucosa rami sottilissimi, i quali si risolvono in capil- lari che verticalmente si elevano in gran numero fra le glandole formando attorno a queste delle reti, e poi si uniscono a costituire una rete superficiale nelle cui (1) Elements d’ Iistologie humaine. Paris 1856. — 166 — maglie sono compresi gli orificî di sbocco delle glandole stesse. Da questa rete na- scono con multiple radici le vene che, più larghe e più lontane fra loro che le arterie, percorrono, senza ricevere altri rami, la mucosa e sboccano ad angolo retto in una rete venosa orizzontale esistente nel connettivo sottoglandolare. Questa dispo- sizione permette di spiegare come lo stomaco può essere la sede di una secrezione abbondante (pei capillari profondi) e di un attivo assorbimento (per la rete su- perficiale). | Tal fatto anatomico non è, siccome io credo, senza importanza speciale ancora nei disturbi circolatori per occlusione qualsiasi delle arterie gastriche. Ammesso, perchè a me sembra non solo possibile, ma vera la induzione del Kéò/ker, che per tal disposizione e maniera di sbocco delle radici venose nella rete sottoglandu- lare si possa spiegare l’ assorbimento dello stomaco contemporaneo alla secrezione del succo gastrico, parmi che per la stessa ragione si spieghi l’ assorbimento, senza bisogno di secrezione gastrica, di quei liquidi, che senza precedente elabora- zione digestiva passano immutati nel sangue. Credo inoltre che per tale assorbi- mento non vi sia necessario un acceleramento di circolo nelle arterie della mucosa, giacchè l’ assorbimento della rete capillare superficiale si fa molto attivo e facile, esercitando il circolo della rete venosa sottoglandolare, che si compie quasi indi- pendentemente dall’ impulso trasmesso dalle arterie della mucosa, una certa aspi- razione nelle vene verticali di essa. A questo stesso fatto, io credo debba attribuirsi in parte, tenendo il debito conto della influenza nervosa, la cessazione della secrezione gastrica nello stato di vacuità del ventricolo, in cui il circolo della ‘mucosa è meno attivo, ma sufficiente per la nutrizione degli elementi anatomici, il quale aumentando nel tempo della digestione (iperemia funzionale ) somministra il materiale per la secrezione del succo gastrico. E Data ora una embolia non molto estesa delle piccole arterie dello strato glan- dolare, si capisce come alla compensazione circolatoria vi concorra. oltrechè le molteplici anastomosi, anche l’ aspirazione che la circolazione nella rete venosa orizzontale esercita sulle vene verticali; ed in tal modo si spiega meglio il fatto, che allacciando uno o due rami arteriosi, non si verifichi alterazione alcuna capace di dar luogo all’ ulcera. Invece quando molti rami restano occlusi per embolia, le parti da essi irrorate divengono relativamente anemiche, la nutrizione loro si fa deficiente, l’epitelio cade, i vasi si alterano, il circolo si rallenta ancora e quindi essudazione con abbondante emigrazione e necrobiosi. Quando la lesione vascolare (endoarterite, ateromasia, atrofia ecc.) interessa le grosse arterie gastriche o i loro rami principali sottomucosi, allora o per l’ o- stacolo meccanico, o per cessata contrattilità vascolare, il circolo nella rete venosa orizzontale è rallentato, ed ostacolato il deflusso delle vene verticali, per cui stasi in queste e nei capillari, e quindi abbondante essudazione corpuscolare, ecc. Sono ancora possibili per tale condizione le erosioni emorragiche, e meglio an- cora se vi si aggiungono lesioni del cuore che ne indeboliscano l’ impulso, come — 167 — è precisamente occorso nel caso di questa cavalla, o per ostacolo nel circolo della vena porta. Questi fatti mostrano la verità della teoria venosa del Rokitanski, la quale d’ altronde, mi par chiaro, si collega con quella della trombosi ed embolia, di cui puossi considerare come una conseguenza, quando la stasi non dipenda da un ostacolo venoso immediato nel circolo della porta o più in là fino al cuore destro. Io spero che l’ esame analitico-critico che ho fatto delle diverse teorie più accettate per l’ interpretazione patogenica dell’ ulcera gastrica non sia inutile, ma contribuisca a provare che ciascuna di esse, fondata sopra uno o più fatti clinici od anatomici, abbia la sua reale importanza; ma da sola non basti a spiegare il modo di formarsi dell’ ulcera, imperocchè i fatti che concorrono a predisporre la mucosa ed a determinare tale processo sono multipli e di natura diversa. Fra essi quello che è principale e che deve essere considerato come causa disponente, senza escludere il catarro cronico, è il disturbo circolatorio, il quale si stabilisce per fatti locali (endoarteriti, ateromasie) o come dipendente da lesioni del cuore, discrasie ecc., e l’azione del succo gastrico come causa determinativa costante. A questa conclusione sono giunti varii dei moderni patologi, di cui alcuni, per voler troppo generalizzare o spiegar troppo, hanno escluso o messo in seconda linea certi fatti che in date circostanze sono di capitale importanza. Di questi non credo dovermene più oltre occupare, non essendo mio scopo lo studio critico di dottrine patologiche, ma solo l’ esposizione di quanto poteva richiedersi allo intendimento del fatto da me osservato, di che parmi averne detto abbastanza e passo quindi senz’ altro a concludere: 1. Che nel caso di perforazione gastrica del cavallo, da me studiato, è ben accertata l’esistenza di processo ulcerativo semplice, e che tal caso nella località ove viveva l’animale affetto non è isolato, ma ben altri quattro furono osservati, e sempre colla conferma dell’ esame anatomico. Di uno di essi il veterinario ha potuto fare la diagnosi clinica, poggiandosi sopra un sintoma costante in tutti i casi osservati, la salivazione abbondante seguita da vomito. È notevole pure il fatto di questo numero di casi osservati dallo stesso veterinario nella medesima località, poichè ciò verrebbe in conferma di quanto è stato notato circa la fre- quenza dell’ ulcera perforante dell’ uomo varia secondo i paesi, e potrebbe portare qualche lume intorno alla etiologia molto oscura di tal processo morboso. 2. Che la cavalla morta di peritonite settica in seguito alla perforazione gastrica, era da tempo affetta da grave dispnea, che si trovò essere dipesa da pneumonite interstiziale cronica con dilatazione del cuore, più notevole nelle cavità sinistre di esso. 3. Che le lesioni principali trovate nello stomaco furono: piccole ulcerazioni multiple nella mucosa del sacco destro, una delle quali abbastanza estesa che produsse la perforazione delle sue pareti; lievissime alterazioni flogistiche nella mucosa interposta alle varie ulcerazioni e molto più pronunziate nei luoghi dove — 168 — era appena iniziato il processo ulcerativo, o anche progredito; proliferazione atro- fica dell'epitelio cilindrico delle glandole gastriche, il cui prodotto, come gli elementi cellulari infiltrati, aveva prontamente subìto la necrobiosi per deficienza di nutri- zione, e finalmente il disgregamento molecolare per l’ azione del succo gastrico. 4. Che per tali alterazioni credo di potere caratterizzare questo processo ulcerativo come specifico, ed attribuirlo a due ordini di cause, le une predispo- nenti, cioè la trombosi e l’ embolia delle arterie gastriche, dipendenti a loro volta dal rallentamento circolatorio per le lesioni cardiaco-pulmonari suddette, donde difetto di nutrizione e diminuita resistenza organica dei tessuti della mucosa, e quindi predisposizione a subire l’ azione del succo gastrico che è la causa deter- minante. Questo avrebbe agito da prima irritando i tessuti, onde flogistica essuda- zione e proliferazione atrofica dell’ epitelio, e poscia disgregando e digerendo il prodotto infiammatorio e gli elementi necrobiotici. 5. Che delle varie teorie, proposte per l’interpretazione patogenica dell’ ulcera rotonda dello stomaco, non posso accettarne alcuna esclusivamente pel caso da me osservato; il quale, per le varie lesioni esistenti e la stretta loro relazione, le giu- stifica tutte senza dare la preminenza ad alcuna, quantunque dimostri vera e più importante quella di Virchow appoggiata suila trombosi ed embolia delle arterie gastriche, che furono la prima e principale causa dell’ ulcera perforante in questa cavalla. SPIEGAZIONE DELLA TAVOLA Fig. 1° — Rappresenta una porzione della mucosa gastrica in sezione verticale, con parziale mortificazione alla sua superficie. Ing. 100. gp. glandule pepsiniche. ipg. infiltrazione di leucociti attorno alle glandole dello stomaco, estesa circa fino al loro terzo esterno. ep. epitelio del condotto escretore delle glandole, proliferato. pn. punti necrotici della superficie della mucosa, nei quali si vedono dei re- sidui di elementi cellulari atrofici. Fig. 2° — Sezione verticale della parete gastrica con piccola ulcera rotonda nella mucosa. Ing. 25 v. s. sierosa peritoneale. me. tunica muscolare propria dello stomaco. csm. tessuto connettivo sottomucoso con Jievissima infiltrazione cellulare. vt. vasi arteriosi trombosati. % mi. membrana muscolare della mucosa, o interna. csg. tessuto connettivo sotto-glandulare, nel quale pure trovansi vasi arteriosi trombosati. gp. glandule pepsiniche. ipv. infiltrazione cellulare attorno alle vene verticali della mucosa. ipg. infiltrazione cellulare attorno al condotto eseretore delle glandole vicino alla superficie della mucosa. u, ulcera, al fondo della quale vi si vede del detritus, residuo di elementi disgregati. Fig. 3° — Taglio verticale della parete gastrica, in vicinanza del luogo perforato, dove la mucosa era ridotta al terzo quasi della sua grossezza. Ing. 25 v. Le lettere corrispondenti a quelle della fig. 2*, servono ad indicare le stesse parti. ga. glandule gastriche atrofizzate ed in parte distrutte. A destra della figura si nota l’infiltramento cellulare, ch’ è attorno alle vene TOMO X. 22° — 170 — verticali, estendersi lungo il loro tragitto fino al connettivo sotto-glan- dolare, ed a sinistra gli elementi infiltrati si vedono in gran parte distrutti. Fig. 4° — Taglio verticale della parete gastrica nel margine della parte perforata. Ing. 25 v. Le lettere corrispondono, per l’ indicazione, a quelle delle figure 2 e 3. Si vede l’atrofia progressiva della mucosa e della tunica muscolare propria, da destra a sinistra. vt. ramo cospicuo arterioso della sierosa, trombosato. rm. residuo della mucosa che, diminuendo nella sua grossezza, a poco a poco scompare. Fig. 5° — Taglio trasverso di glandula pepsinica, con atrofia e disgregamento granulare delle sue cellule. Ing. 450. v. Fig. 6° — Sezione orizzontale della mucosa al fondo dell’ ulcera. Ing. 320. sc. sepimenti connettivi interglandolari ingrossati per sostanza omogenea, pro- veniente da degenerazione di elementi cellulari infiltrati. Si vedono alcuni di questi atrofici, e granuli albuminoidi sparsi. c. capillari sanguigni. a. arteria con atrofia della parete. cp. cellule pepsiniche distaccate ed atrofiche. mp. membrana propria delle glandule a pepsina. Fig. 7° — Sezione trasversale di una arteria gastrica con iperplasia dell’ intima per endarterite, e nel suo interno molte cellule endoteliche distaccate. Ing. 135 v. Fig. 8" — Sezione trasversale di un ramo di arteria gastrica con intima iperpla- stica e trombo in via di organizzazione. Ing. 325 v. Fig. 9* — Sezione obbliqua di un ramo arterioso ‘gastrico con atrofia della mem- brana media ed iperplasia dell’ intima. Ingr. 80 v. tP25, SILA ta mcg a CO i aci Idini, lit. A.Bara V. Colucci, dis. V. Colucci CONTRE BUZEONEE! ALLA BIOLOGIA DELL’ USTILAGO ORNITHOGALI (SCHMIDT et KUNZE) WINTER IVIRERINIE © EVITA: DEL PROFESSOR GIROLAMO COCCONI (Letta nella Sessione del 24 Marzo 1889.) È noto che le Ustilaginee sono parassiti obbligati, dovendo percorrere tutto intero il ciclo del loro sviluppo come tali, e che appariscono poi come saprofiti facoltativi, perchè nello stadio immediatamente successivo alla sporificazione (cioè nella germinazione), possono vivere rigogliosamente sopra sostanze organiche tolte al dominio della vita. È appunto questo saprofitismo facoltativo, che ha un’ importanza massima in Agricoltura, perchè razionalmente spiega la grande diffusione di talune malattie dette carbonose, nelle piante della grande coltivazione. Gl’ innumerevoli elementi, sporidiali, che si formano dalla germinazione delle spore delle Ustilaginee sulle sostanze organiche morte, trasportati dai venti, si depositano sulle foglie o sui cauli di giovani pianticelle; oppure, mescolati al terreno, potendo direttamente germinare sulla radicina di piante germoglianti, possono penetrare e diffondersi nei tessuti vegetali e sviluppare più tardi, in determinate regioni delle piante in- fette, la sporificazione. L'indagine del procedimento, col quale si esplica la vita saprofitica delle Ustilaginee, costituisce uno degli argomenti meritevoli di maggiore attenzione per la Biologia di detti piccoli funghi; ed è tanto più importante per le numerose sue applicazioni all’ Agricoltura. Per questi motivi non sarà privo d'interesse il presente studio intorno alle fasi germinative, non ancora cognite, dell’ Ustilago Ornithogali (Schmidt et Kunze) Winter, vivente sulle foglie della Gagea arvensis L. Gli esemplari furono raccolti a Ceretolo (piccolo villaggio della prima zona collina Bolognese), in fioritura normale (N.° I.°) i — 172 — Sui caratteri differenziali di detto fungillo, non è a notarsi fuorchè gli acervoli “sono globulosi od ovoidali e misurano in diametro circa mm. 1. Negli sperimenti di coltura si fece uso prima della sola acqua comune e poi di diverse soluzioni nutritive, le quali consistevano principalmente in decotti fil- trati di foglie della stessa Gagea arvensis. I. Esperimenti di cultura nell’ acqua comune. — Dopo alcune ore, dacchè le spore si trovavano in questo mezzo, si rigonfiavano notevolmente e presto cominciavano a manifestare in un punto del loro episporio una piccola fenditura, la quale si rendeva sempre più appariscente, di modo che da essa in ultimo fa- ceva protuberanza una sorta di tenuissima papilla (N.° II.° fig. 2) incolora, che continuamente si allungava (fig. 3) fino a diventare un vero tubetto germinativo (fig. 4 e 5). Questa formazione consta di una membrana esilissima, continuazione diretta dell’ endosporio, e di un plasma senza colore, molto denso, finamente granelloso, omogeneo, ricco di sostanze albuminoidi e molto rifrangente la luce. Tale materia si colora in un bel giallo-bruno colla tintura di jodo. Progredendo lo sviluppo dell’ otricello germinativo allungato (II.° fig. 4 e 5) il plasma tendeva a raccogliersi nella porzione terminale di esso, e la parte in- feriore, per un tratto più o meno lungo, si divideva in molti segmenti regolari; poscia si verificava una ramificazione poco sviluppata. Non fu possibile osservare un ulteriore sviluppo, se non in pochissimi casi, cioè nei tubetti più grossi, dove al loro apice emergeva un principio di sporificazione (fig. 6 e 7). Gli sporidii così prodotti si presentavano costantemente ovoidali (fig. 8) e mai in essi potè os- ‘servarsi la germinazione. Tutte queste fasi evolutive si compiono nel termine di circa 3 o 4 giorni al massimo, trascorso il quale tempo le funzioni germinative restano inoperose e stazionarie al punto di sviluppo a cui sono pervenute; qualora si abbandonas- sero a sè stesse per un tempo più lungo il plasma si depaupera maggiormente, le sostanze albuminoidi diminuiscono, e con questa metamorfosi regressiva procede di pari passo lo sviluppo di bollicine oleose. In alcuni casi però parecchi segmenti (fig. 9) si differenziavano singolarmente dagli altri, nel senso che la loro parete s’' ingrossava in modo appariscente, ed il plasma acquistava colorazione gialliccia. Si avrebbero così formazioni, fino ad un certo punto, fisiologicamente omoioghe od equivalenti alle clamidospore delle Mucorinee, od alle gemme dezl’'ifi miceliali di parecchi Ascomiceti. II. Esperimenti di cultura nelle soluzioni nutritive. — In questi mezzi la germinazione aveva luogo più sollecitamente, che nell’ acqua semplice, e già in seconda giornata si ebbe un incipiente sviluppo dei tubetti germinativi. Questi otricelli (N.° III. fig. 10) in generale si mostravano notevolmente ingrossati; il plasma ricchissimo di sostanze albominoidi presentava qualche vacuolo. Giunti gli — 1783 — otricelli alla lunghezza di 5 o 6 volte il diametro delle spore e mantenendosi ordi- nariamente semplici od indivisi, entravano in una ricca sporidificazione (fig. 11 e 12), per la quale tanto all’ apice quanto ai lati si generavano numerosi conidii ovato- ellittici e concatenati. Frequentemente restavano attaccate ad ogni tubetto parec- chie colonie di questi sporidii, che pervenute ad un certo punto di ramificazione, si disgregavano, e i loro elementi si difondevuno nel liquido circostante. Qui gli sporidii manifestavano un ricco processo di gemmazione (fig. 14) per cui di nuovo si concretavano colonie gemmulari; ed infine tutta, o quasi tutta la gocciola di coltura veniva invasa da questi elementi conidiali, fatto ben riconoscibile ad occhio nudo dall’ intorbidamento bianchiccio che si osservava nella gocciola. Se il liquido di cultura viene di continuo rinnovato coll’ aggiunta di nuovo liquido rutritivo recente, la germinazione continua rigogliosa e può quindi prolun- garsi indefinitivamente la successione delle generazioni di conidii. Ma se il liquido viene abbandonato a sè stesso, il processo gemmulare va grado grado diminuendo, fino a scomparire interamente, ed in suo luogo avviene una lieve tendenza negli sporidil ad emettere tubetti germinativi (fig. 15). Da ultimo anche questa, che può dirsi ultima manifestazione della vita vegetativa, cessa e gli elementi rimangono atoni ed merti nel liquido. E parrebbe che questi fossero esclusivamente destinati alla vita quiescente, se non si presentasse un nuovo fenomeno, il quale ha un’ importanza specialissima nella vita saprofitica delle Ustilaginee — cioè Ja copulazione fra gii sporidii. Fra due elementi conidiali contigui (fig. 16) si osserva che l’ uno manda verso l’ altro un esile otricello, fino al punto di toccarsi, e nella superficie di contatto le mem- brane vengono disciolte e riassorbite. In questo modo si stabilisce la comunica- zione fra i due conidii e per conseguenza fra i due plasmi. Il risultato di quest’ anastomosi è grandemente interessante; giacchè mentre l’ elemento isolato a cui non è riuscito di trovare un compagno col quale riu- nirsi, si dimostra affatto incapace di germinare, perchè abbandonato alla sua sola vitalità già quasi esaurita, invece gli altri dall’ accoppiamento, ossia dalla fusione col plasma dell’ elemento contiguo, traggono vigore ed energia necessaria per riprendere la vita attiva. Lo sviluppo adunque in essi si risveglia in virtù di questa novella fase; e da uno (fig. 16, a), in casi più rari da amendue i conidii congiunti, si produce un tubetto più o meno lungo, il quale, se il liquido di coltura viene rinnovato, entra in un energico processo di gemmulazione, che si estrinseca press’ a poco coi fatti precedentemente osservati e descritti. Non è il caso di avventurarsi nell’ ardua quistione, se queste formazioni deb- bano o no considerarsi come aventi natura sessuata; la discussione è ancora aperta ed amendue le interpretazioni contano una valorosa schiera di Micologi. De-Bary, Biisgen ed altri ammettono la sessualità, che viene recisamente negata da Brefeld e da Van Tieghem e da altri. Mi limiterò soltanto a mettere in rilievo 1’ interes- — 1714 — santissimo fatto della benefica influenza della detta anastomosi, servendo essa ad imprimere l'impulso all’ ulteriore evoluzione dei conidii già caduti in istato di le- targia o d'inerzia pel progressivo esaurimento del substrato nutritivo. In conclusione abbiamo sotto mano tanti simplasti, i quali si costituiscono nella maggior parte degli sporidii. Si hanno soltanto simplasti, perchè la congiunzione dei plasmi ha luogo senza alcuna contrazione della sostanza plasmatica, collegata naturalmente colla emissione di una parte del succo cellulare. Mentre è regola generalissima che l’ anastomosi avvenga fra due soli elementi conidiali, qualche volta si riscontra che al pajo di sporidii congiunti, se ne unisca un terzo, e questo nuovo fatto contribuisce ad accrescere la forza e l'efficacia germinativa. Devesi poi avvertire che anche fra i primitivi tubetti (fig. 17), sebbene piut- tosto di raro, si possono rilevare delle anastomosi. In concomitanza alla cessazione della funzione della sporidificazione, negli otricelli germinativi sviluppati diretta- mente dalle spore, il plasma si segmenta in parecchi articoli (fig. 13); ed è in questo periodo che si riscontra l’ anastomosi fra due tubetti vicini, nel modo press a poco uguale a quello dianzi osservato fra gli sporidii. Il risultato di que- sto fenomeno sì è lo sviluppo di un filamento miceliale, ordinariamente indiviso, il quale proviene da uno o da entrambi gli elementi dell’ anastomosi. Infine conviene notare che in casì rarissimi, verificossi la congiunzione fra uno sporidio ed un segmento del promicelio ; il risultato fu, che detto sporidio costan- temente sviluppossi in un ifo micelial: sempre sterile, il quale dopo avere raggiunta una discreta lunghezza, rendevasi stazionario nell’ accrescimento. È noto che molte sono le Ustilaginee, in cui si verifica l’ anastomosi a paja del plasma contenuto negli sporidii, o nei segmenti del promicelio, ma tutte le ricerche fatte portereb- bero a concludere, che in nessuna specie riscontransi entrambi i modi di accop- piamento, cioè fra gli sporidii e fra i segmenti promiceliali. Per completare lo studio dei fatti germinativi caratteristici dell’ Ustilago Orni- thogali, resta a dire, che gli sporidii, sviluppati dalle spore poste nell'acqua co- mune, trasportati nelle soluzioni nutritive, sì manifestano suscettibili di uno svi- luppo rigoglioso j di rado emettono immediatamente dei filamenti, ma prima entrano in una energica gemmulazione, la quale è affatto identica a quella dei conidii direttamente sviluppati nelle soluzioni nutritive, per cui presenta rilevantissime analogie con quanto osservasi negl’ifi di alcune forme filamentose Mucedinee, Demazie e Micronemee, e più ancora nella proliferazione gemmulare di aleune Mu- corinee (la così detta hefeartige Sprossung dei Tedeschi). Per avere un chiaro concetto del significato morfologico e biologico di questi molteplici e svariati fatti germinativi descritti, necessita la comparazione con fatti omonimi, riscontrati specialmente dal Brefeld nelle altre Ustilaginee. — 175 — E prendiamo anzitutto in considerazione l’importantissima fase della copulazione fra gli sporidii ed i segmenti del promicelio. Riguardiamo dapprima la germinazione delle spore nell'acqua semplice. Nelle Ustilaginee in cui avviene questa particolarità (ed è specialmente in quelle in cui il ciclo evolutivo è completamente noto), possiamo distinguere due forme di fusione: quella fra gli sporidii, e quella fra gli articoli del tubetto ger- minato dalla spora, sia questo un promicelio, oppure un filamento od allungamento illimitato. Rapporto alla prima, l’ anastomosi osservasi davanti o dopo il distacco degli sporidii, e seguendo l'ulteriore sviluppo del pari così formato, si ha in al- cuni casi la formazione di un esile otricello germinativo, che costituisce il primo rudimento del micelio ; in altri un conidio secondario portato da un filamento più o meno lungo. Quando il promicelio forma sporidii all’ apice e lateralmente, ed anche, sebbene con minore frequenza, nei casi in cui forma un verticillo di questi alla propria estremità, osservansi spesse volte conidii (aderenti o no al promicelio) liberi, cioè non anastomizzati, i quali sviluppausi nell’ istesso modo di quelli appajati. In alcune specie di Entyloma ad es. notasi non di rado, che non avviene fusione fra tutti i conidii del verticillo, o fra il maggior numero di questi; e quando il numero dei conidii è impari, uno resta libero, mentre gli altri copulano a due. Questa man- canza di anastomosi, che fino a un certo punto, potrebbe intendersi per una in- dividuale eccezione, in molte Ustilaginee, mostrasi in modo predominante e spesso costantemente, e mai osservasi fusione ad es. nell’ Entyloma Magnusti, nell’ Ustilago Vaillantii e U. longissima, nel Tolyposporium Cocconii ecc. ed anche nell’ Ustilago Maydis, quantunque questa sia completamente nota nella sua biografia. — Si ag- giunga che non di rado al paio di sporidii sì anastomizza uno sporidio rimasto libero (TiWletia sp., Ustilago Tragoponis). Rapporto alla copulazione fra due articoli del tubetto germinato dalle spore, abbiamo diverse modalità: 1° fra due segmenti dello stesso tubetto sovrapposti immediatamente l’ uno all’altro; 2° fra due segmenti dello stesso filamento, sepa rati da uno o più articoli di questo; 3° fra due segmenti spettanti a due tubetti germinativi distinti. In questi due ultimi casi, la congiunzione avviene mediante aggettature più o meno lunghe a seconda della distanza che separa i due articoli. In alcune specie tale iusione accade solo di rado, ed in altre (p. es. nel Sorospo- rium Saponarie) non si presenta mai. Venendo ora alla germinazione delle spore delle Ustilaginee nelle soluzioni nu- tritive, si nota che, iu una prima serie di specie (Ti/letia sp., Entyloma) le spore non germinano, oppure danno origine a forme rudimentali che presto muojono ; una seconda serie (es. Ustilago Maydis, U. Vaillantii, ecc.) percorre il proprio stato di vita saprofitica sotto forme alquanto complicate, ed i conidii rimangono sempre — 176 — liberi; una terza serie infine (Ustilago Betonice, U. longissima, Tolyposporium Coc- conii) la fusione si osserva solamente quando il substrato incomincia ad esaurirsi. Infine conviene notare, che molte volte si riscontra un marcatissimo antago- nismo fra le culture nell'acqua e quelle fatte nelle soluzioni nutritive. Nelle specie di Tilletia, Entyloma, Tubercinia, ecc. l anastomosi mostrasi esclusivamente nel- l’acqua semplice ; trasportati i conidii primarii nei liquidi nutritivi, ciascun d’essi dà origine, senza alcun fenomeno di fusione, ad un rigoglioso sviluppo miceliale con nuovi conidii, uguali a quelli secondari della germinazione nell’ acqua. Pari- menti cessa la fusione fra gli articoli dei tubetti germinativi prodotti nell’ acqua, quando questi tubetti si trasportano nelle soluzioni nutritive (es. Ustilago Carbo e specie germinanti in modo affine). Per lo contrario, parecchie specie (es. Ustilago Betonicce, U. longissima, Tolyposporium Cocconii, ecc.) non mostrano mai la fusione fra i loro conidii formatisi nell'acqua. Poste invece a coltivare le loro spore nelle soluzioni nutritive, l’anastomosi sì osserva sempre, quando esse sono esaurite. Da questa breve rassegna dei principali fatti anatomo-fisiologici relativi all’ ana- stomosi fra i prodotti della germinazione delle spore di Ustilaginee, si può spe- cialmente concludere, tenendo conto delie relative particolarità osservate nell’ Usti- stilago Ornithogali, che anche in questa specie si verifica il fatto generale di dette anastomosi, cioè che il processo della fusione si stabilisce solo quando il substrato nutritivo volge all’ esaurimento. E così rimane dimostrata anche una volta la verità della tesi sostenuta dal Brefeld (1), che la presenza o la mancanza dell’ anastomosi stanno in essenzialissima dipendenza col valore nutritivo del substrato. Occorre premettere ora un rapidissimo sguardo alle particolarità della germo- gliazione delle Ustilaginee, in ispeciale rapporto col genere Ustilago, al fine di potersi orientare intorno all’ intelligenza dei fenomeni riscontrati nell’ Ustilago Ornithogali. Nei generi TMetia, Entyloma, Tubercinia, Urocystis, e Doassansia dalle spore si forma un promicelio, il quale all'apice sviluppa un verticillo di sporidii. Nel ge- nere Ustilago i tubetti germinativi talvolta sono filamentosi, sterili o fertili, ma più spesso costituiscono un promicelio e generano quindi sporidii all’ apice e lateral- mente ; in alcuni casi essi sono ridotti alla proporzione degli sporidii. Nel genere Schizonella le spore sviluppano un promicelio septato, che genera sporidii all’ apice e lateralmente. Nel genere .Sorosporium i tubetti germinativi sono filamentosi, o semplici, o ramificati, ma sterili. Nel genere Tolyposporium il tubetto talora è ri- dotto alle dimensioni di uno sporidio, il quale per gemmazione apicale si ripro+ (1) 0. BreFELD — Botanische Untersuchung diber Hefenpilze. V Heft, die Brandpilze, I, mit 13 Taf. Leipzio, 1883. — 177 — duce indefinitamente; ma in generale esso assume le proporzioni di un otricello di variabile lunghezza da ultimo septato, di cui ciascun segmento forma sporidii. Nel genere Thecaphora i filamenti sono eretti e formano all’ apice un lungo sporidio o conidio fusiforme ed aereo, dal quale nasce un micelio con nuovi conidii organizzantisi a due, od in numero maggiore, sopra piccoli ifi fruttiferi. Infine nel genere Schroteria il promicelio forma al suo apice ora una catenella di sporidii, ora un verticillo di questi. Restringendoci ora allo studio dei fatti più importanti, trovati dal Brefeld (1) sulla germinazione delle spore nel genere Ustilago, risulta che a 5 si possono ri- durre i tipi di gemmazione in questo genere : 1.° Le spore germinano piccoli tubetti, che nella continuata nutrizione in culture artificiali sviluppano conidii, i quali per gemmazione diretta ripetentesi per un numero grande di generazioni, danno luogo a colonie geremulari (Ustilago Carbo, U. antherarum, U. Maydis, U. Betonica, U. Scabiose, U. cruenta, U. Reiliana, U. Ischemi, U. receptaculorum, U. Kiihniana, U. Cardui ed U. flosculosorum). 2.° I conidii del tubetto emesso dalla spora non si riproducono per gemma- zione diretta, ma nelle soluzioni nutritive sviluppansi sempre in nuovi tubetti eguali al primo (Ustilago longissima, U. grandis, U. bromivora, U. Vaillantii). 3.° L’otricello primitivo è ridotto ad un semplice sporidio proliferante un numero infinito di sporidii ( Ustilago olivacea). 4.° Il tubetto delle spore forma pochi sporidii ed in questi notasi una scarsa gemmazione, seguita tosto dallo sviluppo di filamenti o micelii con conidii aerei (Ustilago destruens). 5.° Le spore formano filamenti sterili (Ustilago Crameri, U. Labenhorstiana, U. hypodytes ed U. neglecta). Da questo prospetto risulta che i fatti germinativi dell’ Ustilago Ornithogali vanno più specialmente riferiti al 1° tipo stabilito da Brefeld, perchè nelle soluzioni nu- tritive si costituiscono costantemente tubetti, i quali per un ricco processo gem- mulare formano conidii, 11 più delle volte insieme congiunti in colonie semplici o ramificate ; questi sporidii poi si riproducono indefinitivamente per gemmazione nel substrato nutritivo. Procedendo ora al riepilogo dei molteplici e svariati fatti germinativi descritti, nonchè delle precedenti considerazioni, si possono formulare le seguenti proposi- zioni generali : 1.° Nell’ acqua comune le spore formano tubetti germinativi, i quali si al- (1) O. BREFELD — Op. cit TOMO X. 23 — 178 — lungano d’ordinario considerevolmente, per poi dividersi in tanti segmenti, mentre il loro plasma migra e si raccoglie nella porzione terminale. In alcuni casi riscon- trasi una tenue sporidificazione al loro apice. Non poche volte si può osservare il fatto, biologicamente importante, della metamorfosi di alcuni segmenti ifici pieni di plasma, in elementi con molta probabilità fisiologicamente o biologicamente equivalenti alle clamidospore delle Mucorinee, ovvero alle gemme delle forme mi- celiali filamentose degli Ascomiceti. 2.° Nella germinazione delle spore in soluzioni nutritive prendono origine piccoli otricelli germinativi, anzi veri promicelii, i quali, raggiunta una piccola lunghezza, entrano tanto all'apice quanto ai lati in una ricca proliferazione gem- mulare, per cui si determinano sporidii ovato-ellittici, disposti a catenella. Questi conidii, diffusi nel liquido circostante, manifestano un processo di gemmazione molto energico. Col progredire dell’ esaurimento del substrato nutritivo, gli sporidii passano ad uno stato d’ inerzia, dopo avere però germogliato rudimentali forma- zioni filamentose. 3.° In una fase successiva ha principio l'interessante fatto dell’ anastomosi in generale fra due, di rado fra tre sporidii. Si osserva eziandio l’ anastomosi fra due segmenti spettanti a promiceli distinti. In seguito a questa fusione dei plasmi, si ridesta l’attività germinativa, ed uno, e raramente amendue gli elementi, svi- luppa un tubetto di variabile lunghezza; se però il substrato viene rinnovato si riproduce direttamente il processo di gemmazione. 4.° Il fatto dell’anastomosi è in direttissima dipendenza coll’ esaurimento nu- tritivo del substrato. 5.° Le diverse modalità descritte nella germinazione dell’ Ustilago Ornithogali si possono benissimo riferire al 1° tipo di germinazione del genere Ustilago, sta- bilito dal Brefeld. Fig. Fig. Fig. Fig. Fig. Fig. Fig. — 179 —- SPIEGAZIONE DELLA TAVOLA Tutte le figure sono state tolte da preparati ingranditi 540 volte e disegnate colla camera lucida di Abbé-Zeiss. JÈ Individuo di Gagea arvensis affetto da Ustilago Ornithogali. Le chiazze nere segnate sulle foglie indicano gli acervoli del detto fungillo. II. Germinazione delle spore dell’ Ustilago Ornithogali ne//" acqua comune. — Alcune spore dell’ U. Ornithogali. -— Incipiente germinazione delle spore; dalla fenditura dell’ episporio erompe una papilla, che è il primo indizio dell’ otricello germinativo. — Germinazione alquanto più inoltrata. e 5* — Tubetto germinativo giunto al massimo dello sviluppo, il plasma è migrato nella parte terminale del tubetto; la parte inferiore è segmen- tata a regolari distanze, ed è priva di contenuto protoplasmatico. e 7° — Tubetti germinativi con iscarsa sporidificazione apicale; nella Fig. 7° si ha la disposizione a catenella. — Alcuni sporidii isolati. — Tratto di un tubetto germinativo molto invecchiato, il quale nei punti a, b, c presenta segmenti omologhi alle clamidospore delle Mucorinee e quindi gemmiformi. È ; Fig. Fig. Fig. Fig. Fig. Fig. Fig. Fig. — 180 — III. Germinazione delle spore nelle soluzioni nutritive. 10° — Promicelio poco sviluppato. 11° — Promicelio bene evoluto ; al suo apice ed ai lati notasi la sporidifi- cazione. 12* -- Sporidificazione più inoltrata. 13° — Promicelio invecchiato e septato regolarmente. 14* — Sporidii in una energica gemmazione. 15° — Sporidii sviluppanti esili filamenti germinativi. 16° — Anastomosi fra due sporidii : nel paio « uno degli sporidii ha svilup- pato un filamento. 17° — Anastomosi fra due segmenti di promicelii ; il segmento a ha pro- dotto un esile ifo. Mem.SerIV. Vol. X. Cocconi — Germinazione delle spore dell'Ustilago Ormthogali. I o ds II n°: E. Contolî , inc. lit:G. Wenk e. Figli:—Bologna SULLA. SPERMATOGENESI NET MAMMIFERI MEMORIA del Dott. CARLO FERRARI (Letta nella Sessione del 28 Aprile 1889). Nello stato attuale delle nostre conoscenze di istologia e di embriologia, il problema della spermatogenesi può essere studiato da vari punti di vista; a seconda che si vogliono istituire ricerche o sulla derivazione embrionale degli elementi cellulari del testicolo già sviluppato, o si vogliono seguire questi ultimi nelle loro successive fasi evolutive sino alla trasformazione in spermatozoi. Ma quest’ ultimo problema, di cui io intendo parlare nel mio presente lavoro, è molto complesso, e ci offre allo studio varî quesiti che possono essere così espressi, in poche parole: 1) da quali cellule del testicolo hanno origine gli spermatozoi? 2) quali parti della cellula sono impegnate in questa trasformazione ? 3) come e per quali gradi avviene questa trasformazione ? 4) quali parti della cellula corrispondono alle diverse parti dello sperma- tozoide? La risposta alla prima domanda è intimamente collegata, anzi subordinata, al concetto della struttura anatomica dei tubuli seminiferi. E le questioni che si sono agitate su questo argomento sino dai primi osservatori, e che tengono ancora tanto divisi gli istologi moderni, riguardano principalmente la fina anatomia del testicolo in rapporto alla produzione dei nemaspermi. Su gli altri punti vi è meno conte- stazione. Le mie ricerche riguardano principalmente la struttura anatomica del tubulo, e sono state fatte in modo sistematico sul cane; ne ho fatte pure sul topo. — 182 — TECNICA Piccoli pezzettini di testicolo freschissimo venivano messi nel liquido fissatore. Ho sperimentate tutte le soluzioni le più reputate, per attenermi poi a quella che mi avesse dato i migliori risultati. Buoni preparati si ottengono fissando nel liquido di Kleinenberg, di Carnoy, sublimato corrosivo in soluzione acquosa satura, in una miscela cromo-acetica (acido cromico 1 ° p. 25, acido acetico ce. 50; acqua p. 25) molto raccomandata da Ziegler (Die Technik der histologischen Untersu- chung). Meno adatti sono il liquido di Miiller e l’ alcool. A_ gran pezza mi- gliore di tutti i suddetti liquidi è la miscela di Flemming, e con questo ho fissato la maggior parte del materiale impiegato nelle mie ricerche. Pezzi piccolissimi venivano nessi in una quantità piuttosto abbondante di liquido di Flemming, e dopo 3-4 giorni lavati per 48 ore sotto un filo d’acqua. Durante la fissazione e la lavatura tenevo i pezzi all'oscuro. Successivamente i pezzetti venivano trattati come segue: alcool comune ed acqua in parti eguali; alcool comune; alcool asso- luto; cloroformio sopra il quale era versato dell’ aleool assoluto, cosichè i pezzi galleggiavano nel cloroformio ed erano ricoperti dall’ alcool; quando toccavano il fondo sostituivo nuovo cloroformio senza alcool; poi per qualche tempo li tenevo in cloroformio nel quale era sciolta della paraffina a saturazione, infine passavo 1 pezzi nella paraffina sciolta, tenendo la temperatura fra i 45 e 50 gradi. Le sezioni venivano fissate sul porta-oggetti colla miscela di Meyer (albume e glicerina in parti eguali), colorate collo saffranina di Pfitzner e montate in balsamo. Il metodo di Podwyssozki, eccellente per vedere le figure cariocinetiche, non l’ ho trovato buono ed applicabile con utilità, nel mio caso dove mi interessava di vedere i rapporti reciproci delle diverse parti e non i nuclei soli. Una buorissima colorazione si ha trattando prima il preparato colla ematossilina di Flemming (o di Delafield) poi con una soluzione acquosa 1 °) di nigrosina. A questo modo sì colora assai bene il protoplasma. Una elezione speciale per la cromatina l’ha il carmino di Cuccati (Zeitschrift f. Mik. Anat. Bd. IV, p. 50, Jhg. 1887) a cui si faccia seguire l’azione della saffranina. Con quest’ ultima colorazione non si vede affatto il pro- toplasma delle cellule di Sertoli; spiccano benissimo i nuclei. Ho preferito il metodo di inelusione in parafina a quello dell’ inclusione in celloidina, perchè le sezioni riescono più sottili, e ne è più facile il successivo trat- tamento. Le figure cariocinetiche e le cellule vengono perfettamente conservate nella loro integrità. — 183 — OSSERVAZIONI Il tubulo seminifero di un cane adulto nel quale sia in pieno vigore la sper- matogesi, è formato da questi parti: a) da una membrana connettivale con cellule più o meno grandi interposte negli interstizi delle fibrille ; 6) da cellule di varia forma, disposte in più strati e che ne costituiscono la parte attiva; c) da spermatozoidi variamente disposti, ed in diversi periodi di sviluppo. Le cellule della membrana appariscono più o meno grandi a seconda che si presentano di fronte o di lato. L'ufficio suo evidentemente è quello di contenere e sorreggere il parenchima del testicolo, vale a dire quelle cellule che sono disposte a più strati internamente alla medesima. Il parenchima dunque è quello che merita una descrizione particolareggiata. Successivamente ne discuterò le diverse interpre- tazioni, procedendo così di pari passo nell’ esporre le diverse opinioni emesse dai varî autori, e nel farne la eritica. a) Immediatamente a contatto della parete, troviamo delle cellule a nucleo pallido, vescicolare, con membrana assai bene distinta, nucleolo grosso e molto rifrangente e intensamente colorabile, dal quale partono rari e sottilissimi filamenti di cromatina che lo ricongiungono alla membrana nucleare (in tutte le figure a). È un vero nucleo allo stato di riposo. La sua forma per lo più è triangolare, col- l’apice smusso rivolto al centro del canalicolo; talvolta è rotondeggiante, tal’ altra elittico, e allora col suo asse maggiore è parallelo o verticale alla parete del cana- licolo. Questi nuclei sono circondati da una quantità piuttosto scarsa di protoplasma finamente granuloso, e che non si colora affatto. Detto protoplasma nella maggior parte dei casi è abbondantissimo nella parte che corrisponde al lume del canali- colo. Queste sono le cellule descritte per la prima volta da Sertoli (Morgagni, 1865, p. 31) nel testicolo dell’uomo: egli le chiamò cellule ramificate, cellule epiteliali, cellule fisse (Torino, 1871; Archiv. de Biologie, 1886). Alcuni autori a ragione le hanno dato il nome di cellule di Sertoli dal suo scopritore. Così v. Ebner nel suo ultimo lavoro (Archiv. f. mik. Anat., Bd. XXXI, p. 260) le chiama cellule di Sertoli; nel suo primo lavoro (Untersuchungen iiber den Bau ecc. Leipzig, 1871) le disse cellule del reticolo germinale; La Valette (Archiv. f. mith. Anat. Bd. 15, 25, 27, 28) le chiamò spermatogoni, credendoli i corrispondenti di certi elementi che si trovano bene evidenti negli anfibi; Benda le nomina Fusszellen (Archiv. f. mik. Anat. Bd. XXX, p. 97); Balbiani, cellules gpitèliales (Legons sur la géné- ration des vertébrès, 1875); Renson, cellules de soutien (Archiv. de Biologie di — 184 — van Beneden, 1882); Swaen-Masquelin, cellules folliculeuses (Archiv. de Biologie di van Beneden, 1883); Griinhagen, Tragezellen (Lehrb. d. Physiologie, 7 Auf, 1886); Herbert Brown, supporting cells (Quart. Journal mic. s., 1885); Merkel, Stutzellen in parte (Reichert Du Bois Reymond ’s, Archiv., 1871, p. 1 a 644); Klein, :iussere Samenzellen in parte, essendo l’ altra parte costituita dalle rimanenti cellule dello strato periferico (Centralbl. f. d. med. Wiss., 1880 e 1885); Biondi, cellule staminali in parte, giacchè come vedremo in seguito, le altre cellule staminali sono quelle dello strato parietale che non hanno ancora dato luogo a spermatozoi (Ar- chivio per le scienze mediche. Vol. X, fase. 2°, 1886); io le chiamerò cellule di Sertoli. 5) Interposte abbastanza regolarmente alle cellule di Sertoli se ne trovano delle altre a nucleo piuttosto piccolo rotondeggiante, che si colora intensamente con membrana nucleare poco distinta e senza nucleolo. Sono in numero di 1-3 al- ternate colle cellule di Sertoli. Corrispondono alle cellule germinali di Sertoli, Renson (1. c.) e Brazzola (R. Accademia delle Scienze dell’ Istituto di Bologna, Serie IV, T. VIII, p. 680, Anno 1888): alle cellule dello strato parietale di V. Ebner (1. c.) agli ovules màles inertes di Swaen-Masquelin: Stammzellen di Benda (1. c.); iussere Samenzellen di Klein in parte, poichè la rimanente è data dalle cellule di Sertoli. La Valette (1. c.) diede il nome di Follikelzellen; Biondi di cellule staminali. Il Benda oltre alle cellule di Sertoli (Fusszellen) ed a quelle or ora descritte che egli chiama Stammzellen, ne distingue un’ altra varietà e gli dà il nome di Ersatzmutterzellen che sarebbero uno stadio più evoluto delle sue Stammzellen. Il Brazzola (1. c.) d’ accordo con Benda, nello strato parietale distingue cellule di Sertoli, cellule germinali (Stammzellen di Benda) e cellule preparatorie (Ersatz- mutterzellen). Io non ho potuto fare una distinzione così netta fra le cellule dello strato parietale, come hanno fatto Benda e Brazzola. Si potrebbero fare altre divi- sioni, e sì potrebbero distinguere altri tipi di cellule se si volesse tener conto delle lievi differenze di forma che presentano gli elementi dello strato parietale. Klein pure dice (Centralblatt f. d. med. Wiss. Jhg. 1880) che si trovano tutte le forme di passaggio fra le cellule di Sertoli e le rimanenti dello strato parietale. Questo fatto io l’ ho riscontrato specialmente nei testicoli nei quali era poco attiva la spermatogenesi. c) Il secondo ordine di cellule è costituito da elementi a nucleo molto grosso, con reticolo assai evidente, intensamente colorabile colla saffranina col carminio ece. con membrana nucleare poco evidente, abbastanza distinta la membrana della cellula, e scarsa quantità di protoplasma. Sono disposte in vari strati, da 1-3 nelle diverse sezioni del tubulo. Corrispondono alle cellule seminali di Sertoli, agli sper- matociti di La Valette St. George, alle cellules seminiféres di Renson, ovules màles actifs di Swaen-Masquelin, cellule madri di Biondi, Mutterzellen di Benda; innere Samenzellen di Klein, cellule di Henle per v. Ebner. — 185 — d) Segue da ultimo il terzo strato di cellule disposte in parecchie serie at- torno al lume del canalicolo. Quasi sempre esse sono disposte a colonne rag- giate rispetto al canalicolo seminifero; disposizione che ho riscontrato solo rare volte per le altre cellule degli strati prima descritti. Queste cellule hanno il nucleo molto più piccolo di quelle dianzi descritte; pallido, povero di cromatina, con membrana nucleare assai bene distinta, protoplasma piuttosto abbondante: onde la cellula è di poco più piccola delle precedenti. La mem- brana cellulare è molto evidente. Anche queste cellule hanno avuto nomi diversi dai vari autori che sì sono occupati di questo argomento. Così Merkel (1. c.) le chiamò helle Hodenzellen; Sertoli e Renson nematoblasti; per La Valette costi- tuiscono l’altra parte degli spermatociti o spermatidi; Klein le disse spermatoblasti ; Biondi cellule figlie; Benda Samenzellen; V. Ebner nel suo ultimo lavoro (l. c.) cellale di Kéolliker. Però tutte queste varie denominazioni imposte dagli autori alle differenti cellule del testicolo sono informate al concetto che ognuno di essi aveva della spermato- genesi. Ma in un argomento che è tuttora soggetto di vivissime discussioni, e sul quale regnano ancora opinioni le più disparate, ho creduto bene di adottare una nomenclatura indifferente, per così dire. E cioè credo opportuno di dare il nome alle cellule secondo criteri indipendenti dal concetto che ognuno può farsi della. spermatogenesi. Quindi chiamerò cellule di Sertoli, cellule dello strato parietale, cellule di Henle, cellule di K&lliker quelle descritte rispettivamente sotto le lettere a, b, c, d. Alle cellule di Henle do pure il nome di cellule madri, ed a quelle di Kolliker di cellule figlie ; giacchè tutti ammettono che queste derivino da quelle. Le cellule figlie, come ho detto sopra, hanno un piccolo nucleo, rotondeggiante, povero di cromatina, con membrana nucleare bene evidente, molto protoplasma, e membrana cellulare pure distinta (Fig. I, a). Il primo cambiamento che esse su- biscono consiste in ciò che il nucleo è spinto in un angoio della cellula e preci- samente verso quella parte che guarda la parete del canalicolo (Fig. I, 6). Suc- cessivamente il nucleo cambia di forma, non è più rotondeggiante, ma leggermente triangolare colla base rivolta alla periferia (Fig. I, y). Questa base è rappresentata da una linea molto più intensamente colorata di tutto il resto, e risalta assai bene sul fondo pallido della rimanente parte del nucleo e del protoplasma. Contempo- raneamente la membrana diventa molto meno visibile e a poco a poco scompare. La linea di cromatina, della quale abbiamo parlato, aumenta di volume, e si dispone verticalmente alla parete del canalicolo come un raggio (Fig. I, d). Se allora la membrana nucleare è ancora conservata si ha la figura disegnata in d, cioè con nucleo elittico od ovale. Nel caso contrario il cumulo di cromatina si trova in mezzo ad una massa di protoplasma data dalla rimanente sostanza della cellula. Ad ogni modo questo è uno stadio più avanzato della trasformazione delle cellule di Kélliker e si riscontra più di frequente che l’ altro (Fix. I, e). Progredendo TOMO X. 24 — 186 — ancora la trasformazione si vede che la cromatina assume una forma più allungata triangolare, affilata : ad essa è unita una certa quantità di protoplasma che si allarga a ventaglio, mano mano che se ne allontana (Fig. I, 2). Questa si asso- tiglia gradatamente e diventa la coda dello spermatozoide. La reazione microchi- mica ci assicura che la testa dello spermatozoide è il prodotto dell’ addensamento della cromatina del nucleo; e che la sostanza cromatica non prende parte alla formazione della coda e del pezzo intermedio. Se a formare queste due ultime parti contribuisca o il protoplasma della cellula o la parte acromatica del nucleo, od ambedue non mi fu dato di rivelarlo. Il Flemming in un suo recente lavoro (Archiv. f. mik. Anat. Bd. XXX, Heft 1, Jhg. 1888) sullo sviluppo dei nema- spermi nella salamandra maculosa sostiene che la testa dello spermatozoo è formata esclusivamente dalla cromatina. Le diverse fasi sopra descritte in cui si presentano le cellule di Kélliker, par- lano già di per sè abbastanza chiaramente per ammettere che gli spermatozoi de- rivino da una loro trasformazione. Per quanto mi è noto, solo il Sanfelice dà un significato affatto diverso alle cellule di Kòlliker, ed attribuisce agli spermatozoidi un’ altra origine. In uno dei suoi lavori (Spermatogenesi nei vertebrati. Boll. d. Soc. dei nat., Napoli. Anno II, fase. I, 1888) il Sanfelice sostiene che le cellule di Kolliker non si trasformano in spermatozoi ma il loro protoplasma si disfa, e ne risulta così la parte liquida dello sperma, che servirebbe a nutrire gli sper- matozoidi e ne favorirebbe la espulsione. Egli fonda le sue conclusioni sopra questi due fatti: che cioè le cellule di Kélliker sono molto povere di cromatina, epperciò, egli dice, non possono originare spermatozoidi che si colorano intensamente. A questo si può obbiettare che la cromatina di un nucleo non deve rimanere sempre nella stessa quantità; ma questa cambia in tutte le cellule coll’ attivarsi della loro funzione ; dunque ciò è possibile anche per le cellule di Kolliker, le quali di fatto diventano più ricche di cromatina nel progredire nella loro evoluzione. Un altro argomento è la disposizione irregolare della sostanza cromatica, alla periferia del nucleo. Egli per questo si crede autorizzato a considerare le cellule di Kélliker come elementi in via di regressione, e di disfacimento. Però è da osservare che la cromatina nei nuclei in via di disfacimento non è disposta così regolarmente alla periferia come in questo caso, ma invece si notano dei cumuli irregolari e diver- samente disposti. i Ma anche l esame delle sezioni del tubulo seminifero conduce ad ammettere che gli spermatozoidi derivano da una trasformazione delle cellule di Ko6lliker. Diffatto là dove le cellule di Kolliker costituiscono uno strato molto grosso, gli spermatozoi sono scarsissimi o mancano affatto; e quelli che vi sono, si trovano nel centro del canalicolo e completamente sviluppati, e quindi sono da ritenere prodotti da una generazione precedente di cellule o trasportati là da qualche altro punto (Fig. II). Invece quando in un tubulo seminifero vi sono molti spermatozoi, le cellule figlie sono assai più scarse di numero (Fig. III). Quelle che mancano — 187 — sono già trasformate, o in via di trasformazione. Anzi talvolta le cellule figlie mancano affatto, ed al loro posto se ne trovano di quelle già evolute o già tra- sformate in spermatozoi, a diretto contatto colle cellule di Henle. (Fig. V). Tal- volta queste cellule figlie non costituiscono uno strato uniforme in cui gli elementi sono dappertutto egualmente distribuiti; ma in corrispondenza delle cellule di Sertoli esse sostituiscono completamente le cellule di Henle (Fig. IV), Questa speciale di- sposizione è un argomento per sostenere che le cellule di Henle diventano cellule di Kélliker prima di trasformarsi in spermatozoi. Ma una tale disposizione si in- contra piuttosto di rado, per cui è duopo credere che una tale fase venga percorsa molto rapidamente. Così pure si incontra non troppo frequentemente la disposizione che mostra la Fig. V, vale a dire le cellule di Kolliker o spermatoblasti o spermatozoi a diretto contatto colle cellule di Henle, e senza alcun rapporto colle cellule di Sertoli. (E qui debbo notare che io uso la parola spermatoblasto non nel significato di v. Ebner; ma volendo con essa denotare la disposizione speciale a gruppi delle cellule di Kélliker trasformate in elementi ovoidali; indipendentemente dal loro rapporto colle cellule di Sertoli). In questo caso si nota una piccola striscia proto- plasmatica in corrispondenza della cellula di Sertoli tra le cellule di Henle. Generalmente quando le cellule figlie si sono trasformate in spermatoblasti, fra questi e la parete del canalicolo non si interpongono più le cellule di Henle, ma bensì una massa di protoplasma che li riunisce alle cellule di Sertoli (Fig. VD. Ne risulta una figura arborescente con un piede o nucleo (nucleo della cellula di Sertoli), una massa protoplasmatica o corpo, che si spinge tra le cellule di Henle, e verso il lume del canalicolo ; ed una parte superiore o testa formata da sperma- toblasti. In uno stadio più avanzato invece degli spermatoblasti si trovano gli spermatozoi. E questo è il caso più comune (Fig. VII). Inoltre io ho costantemente osservato che la formazione del protoplasma della cellula di Sertoli, e dello sper- matoblasto nel senso di v. Ebner, ha luogo solo dopo la disposizione a gruppi delle cellule figlie. Cosichè si trovano talvolta dei gruppi di nuclei ovoidali senza massa protoplasmatica che li accompagni e li ricongiunga alla cellula di Sertoli ; giammai si rinviene il caso inverso. Il corpo della cellula di Sertoli diventa più sottile mano mano che si allunga, cioè col progredire degli spermatozoi dalla peri- feria verso il centro. Tanto che si riduce ad una linea sottile fra le cellule di Henle, quando queste hanno espulso gli spermatozoi passivamente col loro accresci- mento (Fig. VIII). La stessa osservazione valga per gli spermatoblasti (Fig. VI). Da parecchi istologi moderni, Benda, Swaen-Masquelin, Griinhagen, Renson (11. cc.) è stata notata una particolarità nel protoplasma della cellula di Sertoli ; alla quale essi hanno dato moltissima importanza, e che anzi ne ha fornito uno degli argomenti più validi per sostenere la loro teoria. Il Benda in modo speciale, nel suo lavoro (Archiv. f. mik. Anat. Bd. XXX, pag. 97), l ha propugnata con molto calore, Il fatto di cui è parola è questo, che nella massima parte delle cellule — 188 — di Sertoli, nel protoplasma in vicinanza del nucleo si vedono delle linee alquanto più scure della rimanente sostanza, le quali si dirigono verso il lume del canalicolo, e fanno capo agli spermatozoi. Il Benda e gli altri autori sopra citati ammettono che abbia luogo una specie di copulazione fra le cellule di Sertoli e le cellule rotonde, in grazia della quale gli spermatozoi si svilupperebbero completamente e diventerebbero atti alla fecondazione. Solo dopo avvenuta questa copulazione essi verrebbero espulsi dal canalicolo. Le linee scure che si vedono nel protoplasma della cellula di Sertoli servirebbero da laccinie per attirare nel proprio seno gli spermatozoi. Avvenuta la copulazione questi verrebbero espulsi per la compressione delle cellule vicine. Inoltre con questa ipotesi essi spiegano come spesse volte gli spermatoblasti sono situati al centro del canalicolo, e come spesse volte gli sper- matozoi che derivano da trasformazione degli spermatoblasti, non siano molto di- scosti dalla cellula di Sertoli. Gli spermatoblasti che si trovano al centro del ca- nalicolo vengono attirati da queste laccinie vicino al nucleo della cellula di Sertoli e là si maturano, poi vengono espulsi come spermatozoidi completamente sviluppati. Ma questa copulazione che venne immaginata per spiegare l’ ufficio della cellula di Sertoli, e certi rapporti degli elementi cellulari fra di loro, è basata su deboli argomenti, ed è suscettibile di molte obbiezioni, onde La Valette St. George (Archiv. f. mik. Anat. Bd. XXXIII, p. 430) esprime il suo parere chiamandola una Phan- tasiegebilde degii autori che l’ hanno escogitata. Invece io credo di spiegarmi in modo più semplice tutti questi fenomeni, senza incorrere nelle obbiezioni che si possono fare, e che farò in seguito, all’ ipotesi della copulazione. Cominciamo dall’ esaminare partitamente i diversi aspetti sotto cui ci sì pre- sentano le varie sezioni dei tubuli seminiferi. Così p. e. nella Fig. V, possiamo supporre che gli spermatoblasti siano una trasformazione delle cellule di Kélliker in una sezione di canalicolo come quella che ci è rappresentata dalla Fig. II; dove le cellule di Henle non sono ancora modificate e si interpongono tra le cellule figlie e le cellule di Sertoli. Ma possiamo anche immaginare che gli sper- matoblasti i quali formavano un sol corpo colle cellule di Sertoli (Fig. VI) siano stati spinti verso il canalicolo per l’ accrescimento delle cellule vicine o prima o dopo essersi trasformate in spermatozoi. Ma allora si ritrova sempre fra le cellule di Henle un sottilissimo filamento (il così detto protoplasma della cellula di Sertoli compresso dalle cellule vicine) che segna la via da essi percorsa. Quando gli spermatozoi occupano tutta una colonna in corrispondenza di una cellula di Sertoli, arrivando quasi a toccarla, (Fig. VII) allora è facile immaginare che gli spermatoblasti si siano trasformati in sito da un tratto di canalicolo che gi presenta come la Fig. VI. Senza ricorrere all’ ipotesi di filamenti retrattili che sì suppongono nel protoplasma della cellula di Sertoli, e che abbiano 1’ ufficio di attirare gli spermatozoi in seno a questa cellula. È vero però che una siffatta di- sposizione degli spermatoblasti non è tanto frequente, mentre la è molto per gli spermatozoi. Ma questo si spiega benissimo sapendo che la fase percorsa dagli — 189 — spermatoblasti è piuttosto rapida e di passaggio, mentre gli spermatozoi restano in posto per lungo tempo, onde assai più spesso si incontrano spermatozoi che sper- matoblasti. L’ allontanamento degli spermatozoi e spermatoblasti dalla periferia, succede in modo tanto più rapido quanto più attivamente si riproducono le cellule madri, perchè sono appunto queste che li espellono. E diffatto là dove le cellule di Henle sono in cariocinesi, o formano uno strato di tre o quattro serie e quindi la divi- sione ha già avuto luogo, il corpo della cellula di Sertoli è ridotto ad un pedun- colo piuttosto sottile, e gli spermatozoi e spermatoblasti si trovano verso il centro del canalicolo (Fig. VIII). Vi è però una differenza notevole nella disposizione dei fasci di spermatozoi tra il topo ed il cane. In questo gli spermatozoi non arrivano mai sino contro la cellula di Sertoli, ma vi restano sempre ad una certa distanza. Nel topo si osserva il caso contrario. Inoltre nel cane le cellule di Henle formano 2-3-4 strati: nel topo 1-2. Le cellule di Kolliker sono più numerose nel topo che nel cane. Se adunque nel topo la produzione dei nemaspermi è attivissima, poche cellule di Henle e molte di Kélliker, bisogna ammettere: o che le cellule di Henle si ripro- ducono con molta rapidità e si trasformino presto in cellule di Kolliker, oppure che sono molto attive queste ultime. Il Brazzola però {R. Acc. d. Scienze dell’ Isti- tuto di Bologna, Serie IV, Tomo IX, p. 93) non ha visto fenomeni cariocinetici nelle cellule figlie; ed io pure sono d’accordo con: lui. Laonde concludo che le cellule di Henle nel topo hanno una evoluzione rapidissima, più che nel cane. Ed ora vengo a parlare delle linee che si riscontrano nel protoplama della cellula di Sertoli. Quando gli spermatozoi occupano un raggio intero del canalicolo in corrispondenza della cellula di Sertoli, ed arrivano sin contro a questa (Fig. VII), sono ravvolti da una massa abbondante di protoplasma, finamente granuloso, e che non offre alcuna stria. Invece quando gli spermatozoi o gli spermatoblasti si sono allontanati dalla cellula di Sertoli (Fig. VIII), le linee scure si mostrano assai manifeste. Esse diventano ancora più appariscenti, quando gli spermatozoi sono maggiormente spinti al centro del canalicolo, ed il corpo della cellula di Sertoli è più assotigliato. Esiste dunque un rapporto fra la presenza di queste strie e la posizione che occupano gli spermatozoi. Ho già detto come secondo il Benda e gli altri che la pensano come lui, queste limeette funzionano da laccinie che attirano in seno al protoplasma della cellula di Sertoli gli spermatozoi, ai quali esse fanno capo. Ma con questa supposizione del Benda non si spiega come le strie mancano quando gli spermatozoi arrivano sin contro le cellule di Sertoli (Fig. VII) cioè quando secondo lui, essi sono stati attirati in mezzo al protoplasma di queste cellule. E tanto meno si comprende come deb- bano ricomparire col nuovo allontanarsi degli spermatozoi. Come si vede l'ipotesi della copulazione formulata dal Benda, non ci spiega certi dati di fatto, che ogni ipotesi per essere accettabile non deve lasciare insoluti. — 190 — Invece io credo con Biondi (1. c.) che l'apparire di queste righe sia stretta- mente collegato all’ allontanarsi degli spermatozoi dalla periferia, tanto che ne sarebbero essi la causa produttrice. Mentre gli spermatozoi vengono spinti verso il centro del canalicolo, il protoplasma delle cellule di Sertoli ne ritiene l’orma del loro passaggio, ed ogni spermatozoide vi lascia la propria. Onde non se ne vedrà alcuna traccia prima che gli spermatozoidi si muovano dal posto nel quale furono originati. E diffatto esse mancano in quei tratti di canalicolo nei quali gli sperma- tozoi arrivano sipo in vicinanza delle cellule di Sertoli (Fig. VII), perchè allora non sono ancora stati spostati. Parimente riesce facile intendere, come ad ogni sper- matozoo arrivi una di queste linee. A questo modo io mi rendo ragione delle striature del protoplasma della cel- lula di Sertoli, in rapporto alla posizione occupata dai nemaspermi. E mi spiego pure, come non abbia luogo un movimento degli spermatozoi verso la periferia, per mezzo di laccinie protoplasmatiche retrattili; ma come invece essi percorrano, passivamente s'intende, il cammino inverso. E Finora ho parlato di cellule di Sertoli, sempre supponendole elementi essen- zialmente differenti dagli altri onde risulta composto il tubulo seminifero, e dotati di una funzionalità tutta speciale. Sopra il significato da attribuire a questa cellula, gli autori che la distinguono dalle altre, non sono d'accordo. Secondo il Benda, Swaen-Masquelin, Griinhagen, Balbiani e H. Brown per gli invertebrati anch'esse prenderebbero una parte attiva nella produzione dei nemaspermi. Il Sertoli, Merkel, Renson (1. c.), Legge (R. Accad. med. di Roma, 1886), Lalaunie (Compts rendus, 1885), Bellonci (R. Accad. d. Scienze dell'Istituto di Bologna, 1886) e v. Ebner nel suo ultimo lavoro (1. c.), ammettono che gli spermatozoidi derivino dalle cellule rotonde, e che la cellula di Sertoli o cellule epiteliali servano a nutrire e a soste- nere le cellule rotonde e gli spermatozoi che ne derivano. A questi autori debbo aggiungere il Brazzola (1. c.) ed il Bergonzini (Rassegna delle scienze mediche, 1888) i quali nei loro recenti lavori ammettono pure che nel testicolo dei mam- miferi vi siano due specie di cellule. Ma mentre Brazzola ammette nella cellula di Sertoli un nucleo situato alla periferia del canalicolo, ed un protoplasma che si spinge fra le cellule rotonde e si dirige verso il lume del canalicolo, Bergonzini crede che il protoplasma sia un prodotto artificiale, e che esista solo il nucleo essenzialmente diverso dalle altre cellule rotonde. Però egli non si pronuncia sulla sua significazione fisiologica. Secondo altri a capo dei quali era Ebner col suo primo lavoro (Leipzig, 1871, Untersuch. iiber d. Bau ecc.), ed a cui si unirono Rivolta (Giornale di Anat. Fis. Pat. degli animali, 1872), Neuman (Centralbl. f. med. Wiss., 1872), Mihalkovics, e La Valette St. George (Arch. f. mith. Anat. 1. c. e specialmente Bd. XV, Jhg. — 191 — 1878) gli spermatozoidi avrebbero origine dalle cellule di Sertoli, e le cellule rotonde si comporterebbero passivamente. Gli spermatoblasti di v. Ebner non me- ritano più che di essere nominati, perchè l’autore stesso ha radicalmente modificato le sue opinioni. Ora v. Ebner col nome di spermatoblasti vuol designare quella speciale figura che risulta dall’ unione della cellula di Sertoli colle cellule rotonde in via di trasformazione. Affatto singolare è l'opinione di La Valette. Egli distingue cellule follicolari e spermatogonie. Le cellule follicolari sono quelle che io con v. Ebner chiamo dello strato parietaie ossia le cellule germinative di Sertoli. Secondo La Valette sarebbe l’ omologo delle cellule epiteliali del follicolo di Graaf, e non prenderebbero parte alla formazione dei nemaspermi. Le spermatogonie invece sono i nuclei delle cellule di Sertoli, stanno sempre accollati alla parete, e corrispon- derebbero agli ovuli primordiali dell'ovaio. Per successive divisioni dello sperma- togonio si formano gli spermatociti (cellule di Henle) e da questi gli sperma- tidi (cellule di Kélliker) da cui hanno origine gli spermatozoi. Quando gruppi di spermatociti restano uniti con uno spermatogonio si hanno le spermatogemme. Come ognun vede, le opinioni di questa classe d’ autori sono precisamente con- trarie a quelle della prima, benchè gli uni e gli altri ammettano due specie di cellule. Diversi autori invece ammettono una sola specie di cellule, le quali tutte pren- derebbero parte alla spermatogenesi. I primi sostenitori di questa ipotesi furono Kolliker (Zeitschrift f. Wiss. Zoologie Jhg. 1856), Wagner (Miiller’s Archiv. Jhg. 1836), Balbiani pei vertebrati (Legons sur la génération des vertébrés, 1875) Schtifer, Widersperg, Klein e Biondi in modo speciale. Klein (Centralblatt. f. d. med. Wiss., 1880 e 85) chiama con nome solo (#ussere Samenzellen) le cellule dello strato parietale, ed i nuclei delle cellule di Sertoli. Per lui le cellule di Sertoli e le cellule rotonde, non sono che fasi diverse di una stessa cellula. Tutte hanno origine da quella per successive trasformazioni, diven- tando più ricche di sostanza cromatica. Biondi (Archivio per le scienze mediche, vol. X, fasc. 2°, anno 1886) indica con un appellativo solo, cellule staminali, le cellule di Sertoli e le cellule rotonde dello strato parietale. Per lui le cellule di Sertoli non sarebbero altro che cellule rotonde nelle quali la sostanza cromatica si è trasformata in spermatozoi, e non è rimasto che il guscio, per così dire, ossia la membrana. Le cellule rotonde si trasformano in spermatozoi per colonna; onde al fine si ha una colonna di cellule sostituita interamente da una colonna di spermatozoi. Quasi sempre questi arrivano, secondo Biondi, colla loro testa sino contro la parete del canalicolo; il che per verità non è fatto comune ma eccezione: quasi sempre vi è interposta una cellula di Sertoli. Egli distingue diverse fasi che qui sarebbe troppo lungo il riferire; nella terza fase p. es. ammette che nel topo le cellule madri -si trasformano diret- tamente in spermatozoi, cosa che non mi è mai accaduto di osservare; anzi il fatto che si trovano anche nel topo dei tratti di canalicolo in cui le cellule di 192 — Kolliker sono a diretto contatto colle cellule di Sertoli (Fig. IV) parle” molto elo- quentemente contro questa supposizione. Da questa breve rassegna delle diverse opinioni degli autori, appare chiaro che lo stato della spermatogenesi fatto unicamente su testicoli in piena attività ha dato luogo alle più diverse interpretazioni. Anzi per ciò che riguarda la struttura ana- tomica, non si è ancora d’ accordo nel determinare quante specie di cellule entrino a costituire il parenchima del tubulo. Per questo io ho esaminato dei testicoli di cane adulto nel quale non vi era affatto spermatogenesi. Le osservazioni fatte con queste metodo di ricerche mi sem- bravano già a priori abbastanza interessanti, in quanto che le cellule produttrici degli spermatozoi, erano messe da natura in condizioni specialissime, cioè in stato di completo riposo. Così pure le cellule di Sertoii che si mostrano sotto un aspetto tanto differente negli animali con grande produzione di spermatozoi, dovevano subire profonde modificazioni se in qualche modo contribuiscono alla spermato- genesi. Giacchè in tal caso anche per esse vien meno la funzione alla quale sono destinate. La Fig. IX rappresenta appunto la sezione trasversale di uno di questi testicoli; è fissato in liquido di Flemming e colorato colla saffranina. È notevolissimo il contrasto fra questa figura e quelle che rappresentano testicoli in attività. Non vi sono più diversi strati da distinguere, nè varie forme cellulari da sceverare le une dalle altre. Vi si nota una sola serie di cellule, disposte l'una accanto all’ altra, attorno la parete del canalicolo. Hanno il nucleo molto seolorato, con nueleolo evidentissimo e membrana nucleare pure molto bene manifesta. Qualche rara volta si hanno due nucleoli. Insomma questi nuclei hanno tutti i caratteri degli elementi allo stato di riposo. Il lume del canalicolo è riempito da masse di una sostanza protoplasmatica, che si partono a mo’ di raggi verso il centro. Non sono in istretto rapporto colle cellule, e non si colorano affatto colle sostanze coloranti le più energiche. Sono da ritenere come residui delle cellule degli strati interni, necrosate e degenerate perchè è venuta meno la loro funzione. In una parola si è condotti a credere che nuclei aventi i caratteri morfologici delle cellule di Sertoli del testi- colo attivo, hanno sostituite le cellule rotonde nel testicolo in riposo. Per caratteri morfologici non è possibile de:erminare quali elementi erano cellule di Sertoli nel testicolo attivo, e quali hanno sostituite le cellule rotonde nel testicolo in riposo. Di più anche il protoplasma o corpo della cellula di Sertoli, se pur esisteva, è ora scomparso del tutto. Adunque le cellule di Sertoli, e le cellule rotonde allo stato di riposo, sono due elementi che vogliono essere identificati, non essendo più possibile fra loro alcuna distinzione. Perciò io ritengo le cellule di Sertoli elementi rotondi allo stato di riposo, quindi con poca cromatina, nucleolo e membrana nu- — 193 — cleare bene visibile. La loro forma varia leggermente a seconda della compressione esercitata su di esse dagli elementi rotondi, attivi. Non si può ammettere che questi nuclei singolari del testicolo in riposo, deri- vino dalle cellule di Sertoli, e rimpiazzino così le cellule rotonde; perchè l’idea della quiete completa di un organo contrasta colla supposizione che molti dei suoi elementi siano attivi; poi perchè l’ osservazione di tutti gli istologi, ci obbliga a ritenere l’ elemento di Sertoli, come una cellula allo stato di completo e perpetuo riposo. Solo Sanfelice (Boll. d. Soc. d. Nat. in Napoli. Anno I, fase. 1°, 1888 - Intorno alla cariocinesi delle cellule germinali) vi ha descritto delle speciali figure cariocinetiche acromatiche che nessun altro ha potuto vedere. Si potrebbe pensare da taluno che le cellule rotonde allo stato di riposo si confondessero colle cellule di Sertoli, ma ne siano però essenzialmente differenti. Ma se ciò fosse le cellule di Sertoli dovrebbero distinguersi a colpo d'occhio per la forma leggermente trian- golare, mentre le altre sono perfettamente rotonde. Inoltre dovrebbe sempre appa- rire manifesto il suo protoplasma arborescente; a meno che non se ne ammetta solo il piede, e si riguardi il protoplasma come un prodotto artificiale (Bergonzini, I. c.). Poi nelle cellule rotonde è abbastanza manifesta la membrana cellulare, specialmente se si colora il preparato fissato in liquido di Flemming o in sublimato, coll’ ematossilina poi colla nigrossina al 1 °. Invece nelle cellule di Sertoli non vi è traccia di membrana cellulare. Ma tutti gli elementi rappresentati nella figura IX sono privi di membrana cellulare ed hanno scarsissimo protoplasma: e ciò vuol dire che le cellule rotonde nel passare allo stato di riposo perdono la membrana e il protoplasma, e ci appariscono come cellule di Sertoli. Chi poi ammette che nel testicolo attivo vi siano due differenti specie di cellule e che le une si possono trasformare nelle altre, questi è in contradizione con sè stesso. Se una cellula in certe speciali condizioni può assumere diverse forme, fra loro differenti quanto si voglia, non si può parlare di specie diverse di cellule, ma solo di stadi differenti di sviluppo. Così le cellule dello strato parietale, le cellule di Henle e di Kolliker, benchè siano elementi di forma assai differente, pure dobbiamo ritenerli modificazioni o stadi diversi di una stessa cellula. Le mo- dificazioni che valgono a caratterizzare le varie specie di cellule, avvengono per quel che ci è noto solo nella vita embrionale. Forse pel testicolo si potrebbe fare una eccezione in quanto che fino ad una certa età, anche nelia vita extrauterina, a quest organo non incombe alcuna funzione. Si può dire in certo modo, che per esso la vita embrionale dura più a lungo. Io non ho potuto fare delle ricerche sugli animali nei quali il testicolo non avesse raggiunto ancora il suo sviluppo. Merkel (Reichert u. Du Bois-Reymond ’s Archiv. Jhg. 1871, p. 644) dice che nel topo e nel cane le cellule di sostegno si rinvengono solo nel periodo della frega: e non le ha mai osservate o nel periodo di riposo, o nei piccoli non atti ancora alla fecondazione. Ma quando il testicolo entra di nuovo in funzione allora, egli dice, ha luogo la trasformazione di una parte delle cellule rotonde in cellule di sostegno. TOMO X. 25 — 194 — Ho detto poc’ anzi come non sia giusto il concetto di due specie di cellule che si trasformino l una nell’ altra. Ma poi il Merkel è stato condotto a questa conclu- sione dal fatto che nel testicolo in riposo non si vede il protoplasma delle cellule di Sertoli come nel testicolo attivo. E non presentandosi più al suo occhio quella fisura arborescente che egli aveva descritto come cellula di sostegno, concluse che l elemento di Sertoli non esisteva più. Però dalla mancanza del protoplasma in questa cellula si può arguire ben poco, perchè anche nel testicolo attivo manca prima che gli elementi rotondi comincino a trasformarsi in spermatozoi (Fig. II); eppure nessuno può mettere in dubbio che esista il nucleo. Se dal nucleo vogliamo attingere il criterio per stabilire quali specie di cellule siano presenti nel testicolo che non funziona, dobbiamo dire che vi si trovano solo dei nuclei perfettamente identici a quelli delle cellule di Sertoli. Ho adotto sopra alcune ragioni in base alle quali si può molto ragionevolmente ritenere che le cellule di Sertoli siano cellule rotonde allo stato di riposo, e il suo protoplasma un prodotto artificiale. Qui ag- giungo un’altra osservazione. La Fig. X, rappresenta la sezione di un tubulo nel quale erano in grandissima attività le cellule dello strato parietale. Ebbene, come si vede, qui mancano quasi affatto le cellule di Sertoli. Questo fatto mostra pure assai chiaramente che esiste un rapporto fra l’ attività del testicolo e la presenza delle cellule di Sertoli. Biondi (1. c., e Breslauer trtzlicher Zeitschrift, N. 6, Jhg. 1887) dice che negli animali che non sono ancora giunti a maturità non si riscontrano differenze ap- prezzabili fra le diverse specie di cellule. Brazzola (Mem. d. R. Acc. d. se. del- l’Istit. di Bologna. Serie IV, tomo IX, pag. 92) parla di una piccola cavia nella quale non vi era spermatogenesi, ma bensì era attivissima la cariocinesi: ne dà una figura designata colla camera lucida, e non vi nota nessuna cellula di Sertoli. Questo fatto è in accordo con quello che io ho rilevato nel testicolo di cane adulto ed ho riprodotto nella Fig. X. Da queste considerazioni ed osservazioni risulta che nel testicolo in assoluto riposo si trova una sola specie di cellule, tutte in riposo, ed aventi tutti i caratteri della cellula di Sertoli. Nel testicolo in cui non v'è produzione di spermatozoo, ma dove gli elementi sono attivi, non vi sono le cellule di Sertoli. Per ciò, lo ripeto, io credo che le cellule di Sertoli non siano altro che cellule roionde allo stato di riposo. Ora debbo aggiungere qualche cosa sulle cellule di Sertoli e precisamente sul loro protoplasma. Dissi già come alcuni autori riguardino le cellule di Sertoli come elementi destinati a sorreggeréè ed a nutrire le cellule rotonde e gli spermatozoi. Sul modo e sui particolari di questa funzione si è pronunciato in modo speciale v. Ebner nel suo ultimo lavoro (1. c.). Egli crede che le granulazioni adipose che si trovano nel lume del canalicolo, abbiano origine dal disfacimento del protoplasma delle cellule di Kélliker che si trasformano in spermatoblasti. Il protoplasma della cel- lula di Sertoli raccoglierebbe queste goccie di grasso, le farebbe passare attraverso — 195 — il proprio corpo, che retraendosi le porterebbe alla periferia dove sarebbero assorbite dal nucleo. A questo modo egli spiega il fatto che queste granulazioni si trovano ora nel lume del canalicolo, ora nel protoplasma della cellula di Sertoli, ora alla periferia del tabulo fra i nuclei dello strato parietale e della cellula di Sertoli. Però v. Ebner non adduce nessuna prova in favore di questa sua opinione, talchè si potrebbe credere con eguale ragione, che le granulazioni adipose si producessero alla periferia del canalicolo in seguito a processi regressivi che hanno luogo nelle cellule dello strato parietale; poi vengono espulse assieme agli spermatozoi per la compressione delle cellule rotonde. Pel cane almeno, non si può menar buona la interpretazione di v. Ebner perchè le goccioline di grasso si trovano solo nel centro del canalicolo ed in gran numero; rarissime volte alla periferia; nel qual caso sono estremamente piccole. Onde nel cane l’unica sorgente delle granulazioni in discorso, è il protoplasma delle cellule di Kélliker; pel topo non posso dire se sia totalmente giusta l opinione di v. Ebner, se cioè queste sranulazioni abbiano l'origine che egli le ha assegnato, e si comportino nel modo sopra descritto. Un fatto per verità-molto singolare merita la nostra attenzione. Quasi costante- mente alla base degli spermatozoidi raccolti in fascio si trova una cellula di Sertoli, anzi sono collocati nel protoplama di questa. Traducendo in parole questo fatto io dico che le cellule rotonde in corrispondenza della cellula di Sertoli si traformano più rapidamente che quelle delle altre colonne. In favore di questa supposizione parla anche l’altro fatto al quale ho sopra accennato e che rappresento nella Fig. IV; che cioè in corrispondenza delle cellule di Sertoli la trasformazione di cellule di Henle in cellule di Kolliker avviene prima che negli altri posti. Quindi è che le cellule di questa colonna avendo cominciato prima delle altre a svilup- parsi e ad originare altre cellule, ritornano prima delle altre in riposo avendo esaurito la loro attività. Onde le cellule di Sertoli sono da considerare lo stipite di tutta la colonna corrispondente, allo stato di riposo. La trasformazione delle cellule in spermatozoi avviene dal centro alla periferia e mai in direzione contraria; diffatto esse formano sempre uno strato non inter- rotto da spermatozoi, cosa che dovrebbe succedere se la trasformazione avvenisse saltuariamente. La comparsa del protoplasma delle cellule di Sertoli è in uno strettissimo rap- porto, colla scomparsa delle cellule di Henle, e colla comparsa del fascio di sper- matozoi. Io mi spiego questo fatto ammettendo che il protoplasma delle cellule di Henle trasformate, costituisca quella massa finamente granulosa, ribelle alla colo- razione nella quale stanno impigliati gli spermatozoi. Una sostanza che ha gli stessi caratteri chimici e microscopici di questa, si trova al centro del canalicolo, in quei punti nei quali si trovano spermatozoi, in rapporto colle cellule di Koélliker, ma non ancora riuniti in gruppo. In questo caso nessuno può pensare che si tratti del protoplasma della cellula di Sertoli, ma bensì di quello delle cellule di Kéolliker trasformate. Coll’acerescimento delle cellule di Henle, lo spazio lasciato libero dagli spermatozoi espulsi viene di nuovo occupato. — 196 — Riguardo all’ ulteriore destinazione delle cellule di Sertoli dopo | espulsione degli spermatozoi, io non mi posso pronunciare. Può darsi che rientrino in attività come farebbero pensare certe forme di cellule dello strato parietale che Benda ha chiamato Stammzellen, e come crede Klein (1. c.), ma si può anche supporre che degenerino. Compiendosi la spermatogenesi alternativamente nelle diverse co- lonne, si ha una produzione continua di spermatozoi, ma disposti in fasci che si alternano colle cellule rotonde; e al piede degli spermatozoi le cellule di Sertoli o cellule rotonde in riposo. Epperciò le cellule di Sertoli nel significato del loro scopritore, gli spermatoblasti di v. Ebner (Leipzig, 1871), i Samenbildnerbiindel di Benda (1. c.), le Spermatogemme di La Valette, i Samenzihren di Landois (Lehr- buch der Phisiologie, VI Aufl., pag. 989), e i Samenstànder di Griinhagen (I. c.), non sono elementi speciali, indipendenti, ma risultano dalla riunione di parecchi elementi della stessa specie in diverse fasi di sviluppo. Secondo Prénant (Journal international mensuel d’ anat. e phys. di W. Krause, T. IV, fase. 9°, pag. 370, anno 1887) il protoplasma della cellula di Sertoli farebbe parte di un vasto sistema reticolato entro le cui maglie stanno raccolte le cellule seminifere. Esso non sarebbe un protoplasma nel vero senso della parola, ma una massa protoplasmatica amorfa. — 197 — CONCLUSIONI Dalle cose finora discorse io concludo : 1° Gli spermatozoi hanno origine dalle cellule di Kolliker che si trasformano prima in spermatoblasti. 2° Le cellule di Henle si trasformano in cellule di Kélliker prima di diven- tare spermatozoi. 3° La sola cromatina prende parte alla formazione della testa dello sperma- tozoo; essa però non entra a formare le altre parti. 4° Le cellule di Sertoli quali furono descritte da questo autore e gli elementi analoghi degli altri istologi, sono figure complesse, non semplici elementi cellulari. 5° Il nucleo della cellula di Sertoli è il nucleo in riposo di una cellula rotonda. 6° Nel canalicolo dei mammiferi (cane e topo) adulti esiste una sola specie di cellule, e tutte prendono parte successivamente alla formazione dei nemaspermi. Rendo grazie al mio illustre maestro Prof. Pietro Albertoni che mi accolse gen- tilmente nel suo Laboratorio, e mi fu di aiuto nella compilazione di questo lavoro. — 198 — SPIEGAZIONE DELLE FIGURE Per tutte le figure valgono i seguenti simboli : a, Cellula di Sertoli. b, Cellula dello strato parietale. c, Cellula di Henle. d, Cellula di Kélliker. e, Spermatozoi o spermatoblasti. I rapporti dei diversi elementi sono rigorosamente conservati, perchè i nuclei sono stati disegnati colla camera lucida Abbé-Zeiss Ob. F. Ox 2. I contorni delle cellule sono alquanto schematici. Fig. 1° — Diverse fasi attraversate dalla cellula di Kélliker per trasformarsi in spermatozoo. Fig. 2° — Tratto di canalicolo in cui non vi è ancora spermatogenesi. Fig. 3° — La spermatogenesi è cominciata al centro e si continua mano mano verso la periferia. Fig. 4° — Le cellule di Henle sono sostituite dalle cellule di Kélliker in corri- spondenza della cellula di Sertoli. Fig. 5° — La spermatogenesi comincia prima in corrispondenza della cellula di Sertoli, che altrove. Fig. 6° — Spermatoblasti in rapporto di continuità colla cellula di Sertoli, ma già allontanati per buon tratto dalla periferia del tubulo. Fig. 7® — Spermatozoi in fascio, che arrivano quasi contro la cellula di Sertoli. La massa di protoplasma che li ravvolge non appare striata ma finamente granulosa. Mem.Ser. IV. Vol. X. C. Ferrari — Spermatogenesi . A) Di (9) \o GU è d/ 0) ci n mM Dati \sei SS en SIN = Gea, SES 95 $ o) (O © 7 - SUE \ DI) il ei. i CO n 6. ferrari, dis.dal vero. E.Conkolt, lik. lit 6.Wenk e Figli— Bologna : | di i Da : Ni IO HTS Ù ' — 199 — Fig. 8* — Fascio di spermatozoi espulso quasi del tutto dal canalicolo ma colle- gato ancora colla cellula di Sertoli. Qui il protoplasma mostra delle strie lon- gitudinali. Fig. 9* — Tubulo seminifero di un cane adulto nel quale non vi è spermatogenesi. Fig. 10° — Tubulo seminifero, dove la cariocinesi è attivissima nello strato parie- tale, e sono scarsissime le cellule di Sertoli. - dé rà BISI, di 03 i nr à I hi cata di, spinto N fi sian li li Le di Ri suligai Di sisi» ve È È aa sati cesti poemi RTCEROIEZEI SOPRA UNA NUOVA GIMNOASCEA NOTA DEL PROF. FAUSTO MORINI (Letta nella Seduta del 28 Aprile 1889). In un lavoro pubblicato lo scorso anno (1), parlando dell’ evoluzione filoge- netica degli Ascomiceti, io esprimeva una congettura, del resto appoggiata da un numero grandissimo di fatti, che le Gimnoascee rappresentino lo stipite comune di tutta la complicatissima e numerosissima progenie degli Ascomiceti. Dalle Gimnoa- scee, si sarebbero evoluti tre rami, ossia le Exoascee, le Pezizee e le Perisporiacee; il primo ramo sarebbe rimasto senza discendenti modificati, il secondo avrebbe dato origine ai rimanenti Discomiceti fino a tutte le Isteriacee, il terzo infine, avrebbe prodotto le Tuberacee, le Sferiacee e tutti i Pirenomiceti. Però in questa evoluzione genealogica, accennata per sommi capi in detto lavoro, molti punti incerti restano, pei quali le affinità od i rapporti di consanguineità di determinati gruppi fra loro, più o meno ci sfuggono. Ed infatti quali sono gli antenati immediati delle Pezizee? quali i discendenti delle Ascobolee e delle Patel- lariee? quali le forme stipiti dei Licheni? quale infine è stata la successione genea- logica della stirpe da cui si è concretata la ramificazione, le cui forme ultimamente evolutesi sono rappresentate dalle Tuberacee ? Di queste principalissime questioni relative alla filogenesi degli Ascomiceti, l’ultima è quella che più direttamente si rapporta collo studio che è oggetto del presente lavoro. Ed infatti, il fungillo di cui siamo per esporre le singole fasi evolutive, sotto detto punto di vista ci si presenta di particolare importanza, perchè migliora ed in parte completa i rapporti genealogici di una forma coll’ altra, ap- partenenti alle forme stipiti della diramazione, la cui più elevata espressione mor- (1) Sulla forma ascofora del Penicillium candidum (Malpighia, Anno Iî, Fasc. V e VI. Mes- sina, 1888). TOMO X. 26 — ‘9020— fologica è rappresentata dalle Tuberacee; ed in pari tempo diffonde una luce vivissima intorno all’ oscurissimo quesito della filogenesi di detta diramazione. Nelle vicinanze di Sassari, mi avvenne di incontrare sopra un lasso intreccio miceliale giallo-brunastro (Ozonium e forse l O. stuposum Pers.) insidente su legno marcio, un fungillo, la cui caratteristica morfologica puossi ridurre alle seguenti note fondamentali. Si hanno tanti minuti corpuscoli globulosi (Fig. 1 e 2), colorati in giallo-pallido, del diametro di '4 ad '4 di millim., insieme aggregati in vario numero, oppure isolati, ed aventi la superficie lievemente scabra. Sottoposte al microscopio alcune sezioni di detti corpuscoli, scorgesi subito in questi una netta differenziazione nell’apparato involgente ed in quello ascigero (Fig. 3). Il primo mostra un tenue spessore, e consta di ife colorate in giallo-bruno carico, colla membrana molto inspessita: queste ife (Fig. 4) sono segmentate a brevi inter- valli, in corrispondenza ai setti non solu si mostrano rigonfiate, ma altresì presentano quella speciale anastomosi fra articoli contigui dello stesso filamento, sì comune massime nel micelio di determinate forme fungine e conosciuta sotto il nome di collegazione fibulare (Schwallenverbindung dei botanici tedeschi). Le medesime ife cor- ticanti, sono molteplicemente ramificate ed in un modo peculiarissimo, per cui da un breve tratto dell’ifa partono tre o quattro rami, talora quasi a stella; esse poi sono molteplicemente fra loro intrecciate, in maniera però da formare uno stroma molto lasso. In alcuni punti l'apparato corticante è talmente sottile, lasso e lacunoso, che sotto di esso ponnosi osservare tratti talora alquanto estesi dell'apparato ascigero. Alla superficie di ogni corpo fruttifero, numerosi rami delle ife avvolgenti più esterne, si rizzano sotto forma di tante corte setole acuminate, rigide, le quali evi- dentemente rinforzano la funzione difensiva o protettiva dell’ apparato involsente rispetto a quello ascigero (Fig. 2, 3, 4). Quest’ ultimo appare già nelle sezioni trasverse dei corpuscoli in esame (Fig. 2), come una massa incolora, occupante tutta la cavità limitata dalla parete dianzi de- scritta, e costituita (Fig. 5 e 6) da numerosissime ife esilissime, septate, incolore, in- trecciate insieme e ramificate; le ultime diramazioni, in generale molto corte, si trasfor- mano direttamente in aschi globulosi, del diametro di w 15-18, i quali all’ epoca della maturità assumono una colorazione lievemente lateolo-verdognola. Le Ascospore sono 8 per ogni asco e sì mostrano fra loro conglobate, incolore, ialine, globose e minutissime; misurano in diametro circa u 4-6. La disseminazione delle ascospore si verifica sotto due contingenze: la mem- brana degli aschi si gelatinifica e si liquefà, per cui le spore sono messe in libertà, pur restando qualche tempo ancora insieme unite come lo erano dentro l’ asco. Lo strato corticante poi si lacera in uno od in più punti, e più specialmente in seguito al gonfiarsi della sporificazione interna per assorbimento d’acqua. E così le spore possono espandersi nel contiguo substrato. — 203 — Relativamente allo sviluppo di questo fungillo, ecco quanto potei osservare di più importante. Le fasi iniziali si manifestano colla evoluzione dalle ife miceliali di tante cel- lule cilindriche allungate, indivise, riccamente provviste di plasma, con nucleo. Tali cellule, si erigono verticalmente sul substrato, mentre ad ognuna di esse si addossa un ramuscolo filamentoso, quasi altrettanto lungo. Ciascuna coppia di questi elementi, costituisce il primitivo fondamento morfologico di un corpo fruttifero; il primo elemento corrisponderebbe all Archicarpo, Ascogonio o Carpogonio, V altro al Pollinodio od Anteridio. Non mi venne dato in niun caso di osservare un’ anasto- mosì fra dette due cellule; certamente però fra i plasmi di queste avrà luogo una trasfusione diosmotica. Notisi poi che in alcuni casi osservai parecchi filamenti ad- dossati all’ Archicarpo. Col progredire dello sviluppo, dalle ife contigue a quelle che hanno germo- gliato l Archicarpo ed il Pollinodio, si costituiscono numerose diramazioni esili che avvolvono completamente ciascuna coppia di elementi. Di maniera chè a questo stadio si hanno tanti glomeruli, formati da un lasso intreccio di ife, colorate in un luteolo pallidissimo; le loro dimensioni oscillano fra 4 34 e 50, ed in essi sono ancora bene visibili per trasparenza l’ Archicarpo ed il Pollinodio. In una fase evolutiva più avanzata, trattando detti giovani corpi fruttiferi cal metodo del Kihlman o con quello dell’ Oltmanns, si può mettere in evidenza nel mezzo della giovane fruttificazione, un complesso globuloso di ife sottilissime, ie quali sono più o meno ramificate; queste ife costituiscono quelle che in progresso di tempo svilupperanno gli aschi. Sebbene ripetessi le ricerche ed in molti modi, non mi venne mai dato di osser- vare la diretta germogliazione delle ife ascogene da uno (con tutta probabilità l'Archegonio) o da entrambi gli elementi primitivi. Innanzi che sì costituiscano gli aschi, già si scorgono bene evolute alla saper- ficie del corpo fruttifero, numerose setole ifiche, corte ed acuminate, le quali però sono molto pallidamente colorate in giallo. Negli ultimi stadi di evoluzione, le porzioni terminali delle ife ascogene si ri- gonfiano, assumono forma globosa e si separano dalla rimanente parte dell’ ifo, mediante un setto trasverso. Entro questi aschi, si formano 8 spore, le quali restano insieme conglobate; ad un forte ingrandimento si rileva alla periferia del cumulo delle ascospore ed addossato alla faccia interna della parete uno strato di plasma, il quale manifesta con molta evidenza le reazioni dell’ epiplasma del de-Bary, per cui in esso sono dimostrabili traccie evidenti di glicogeno. Infine il corpo fruttifero acquista la definitiva colorazione nell’ apparato invol- gente e tutti quei caratteri che abbiamo dianzi esposti. Dagli esperimenti di coltura intrapresi, potei rilevare che le ascospore germi- navano con molta facilità, e che la loro germogliazione mostravasi in due forme principali, collegate del resto con molta evidenza alla qualità del substrato. — 204 — Nelle soluzioni acquose zuccherine, le spore si rigonfiano dopo poche ore e si dispongono ad un ricco processo gemmulare, pel quale si costituiscono proli- ferazioni gemmulari, sotto forma di colonie semplici o ramificate. In un paio di giorni si osserva che tutta la gocciola di cultura è intorbidata, sì rigogliosa è la formazione delle cellule figlie. Se poi le ascospore vengono disseminate su liquidi nutritivi diversi, provenienti da decotti di foglie, di fimo, ece., allora i fenomeni della germogliazione sono molto diversi: qua e là si ha una disposizione legge- rissima al processo di gemmazione, ma nella grande maggioranza delle volte si ha la formazione da ciascuna spora di un tubetto germinativo, il quale poi si ramifica più o meno rilevantemente, ed infine si costituisce un micelio molto tenue, dal quale si elevano esili e non lunghi ramuscoli ramificati secondo il tipo monopo- diale, i quali lateralmente formano alla sommità delle diramazioni secondarie, spore ‘isolate ed ovoidali, incolore, come lo è anche il micelio. Dalla germinazione di questi gonidi non potei osservare che la riproduzione di micelit con nuovi gonidi. In generale, il fungillo impiega a percorrere i suoi diversi stadi di vita (relati- vamente allo stato ascoforo) dai primi inizi delle formazioni ascogene all'ultima fase di sviluppo dei periteci, da 11 a 15 giorni, qualora però il substrato abbia un ‘sufficiente valore nutritivo. La forma gonidiale sì sviluppa benissimo in due giorni. Ora, dallo studio di questo interessante fungillo, scaturiscono diverse importanti questioni. Anzitutto può ritenersi che la descritta forma ascofora sia la forma per- fetta dell indicato Ozonium, come lascierebbe supporre la costante presenza del- l’accennato Ascomicete su questa semplice forma miceliale? Poscia rimane ad in- terpretare morfologicamente e biologicamente il completo cielo evolutivo della specie in questione; il che necessariamente conduce ai rapporti di parentela o di affinità del fungo in parola. Riguardo al primo punto, le ricerche da me fatte portano ad una risposta assolutamente negativa, ad escludere cioè i rapporti genetici fra 1 O. stuposum e la-nostra specie: prescindendo altresì dal fatto che tali forme miceliali, secondo recenti ricerche, appartengono al ciclo evolutivo di forme appartenenti a gruppi molto distanti dagli Ascomiceti. 3 La seconda questione è meritevolissima di attirare tutta la nostra attenzione. È indubitato che il nostro fungillo presenta notevolissimi punti di parentela ‘colle Gimnoascee propriamente dette e colle Perisporiacee inferiori, aventi mag- giori rapporti con dette Gimnoascee ; anzi, all’ infuori di queste forme della serie ‘ascomicetica, non sarebbero possibili altri punti di contatto. La specie in questione entra dunque nella categoria di quelle Gimnoascee, nelle ‘quali notasi il fatto che gli aschi tendono ad una irregolare aggregazione, cioè ad associarsi in gomitoli, accompagnati ed avvolti da un intreccio di ife corticanti, come appunto si riscontra nei gen. Gymnoascus e Ctenomyces: il primo presenta maggiori — 205 — affinità col nostro fungillo, per cui è ad esso che lo riferiamo. Ma nello stesso tempo si hanno notevoli rapporti di consanguineità cogli sclerozi ascogeni dei Pericil/Qium ed Aspergillus e cogli Eurotium. Queste affinità diffondono nuova luce sulle omologie tra l’ apparato corticante ed ascigero delle ultime forine e quelli delle suddette Gi- mnoascee ; anzi, partendo dalle forme infime e cioè dai gen. Eremascus, Ascotricha, Ascodesmis, Endomyces, Gymnoascus, Ctenomyces e nel tempo stesso considerando i caratteri del nostro fungillo, noi possiamo scorgere la via che più probabilmente è stata percorsa nell’ evoluzione filogenetica degli Ascomiceti: d’ altra parte, tutte le fasi vitali dei Gymmnoascus e Cteno:mijces sono perfettamente omologhe con quelle dei periteci dei gen. Penicillium, Aspergillus e Sterigmatocystis. E se noi supponiamo che l’ apparato involgente dei gruppi di aschi, molto lasso e lacunoso nei Gymnoa- scus alquanto più stipato nei Cfenomyces e nel nostro fungillo, si condensi in modo da dare origine ad un pseudoparenchima, la forma ascofora così prodottasi, non sarà nei suoi tratti essenziali completamente identica a quella delle tre Mucedinee precedenti ? Tenendo poi anche conto dei fatti morfologici e biologici inerenti alle Onygenee, emerge che il fungo in questione ci si presenta importantissimo per iscorgere 1 suc- cessivi stadi di sviluppo di quella diramazione, la cui più elevata espressione mor- fologica è rappresentata dalle Tuberacee. Prescindendo dal fenomeno che il gen. Eremascus costituirebbe, secondo una ipotesi molto probabile, la più semplice forma degli Ascomiceti, la forma stipite di tutta questa vastissima classe, i Gymmnoascus ed i Cfenomyces conducono con una serie di transizioni molto evidenti alle Perisporiacee provviste di sclerozi ascogeni, e questo passaggio è egregiamente dimostrato dal fungillo che è l’ oggetto del pre- sente lavoro. Anzi, questo nuovo anello transitorio, facilita maggiormente la colle- gazione di queste forme colle Tuberacee, specialmente poi con quelle che presen- tano una sola lacuna sporifera (gen. Cephalotheca). Ascritta la forma in questione al gen. Gymnoascus, le poche specie in questo contenute, appaiono per importanti caratteri molto diverse da essa, per cui questa appare evidentemente una nuova specie. — Ma nel procedere ora alla definizione di detto fungillo, proponiamo ai Micologi che questo ricordi e conservi nella scienza il nome di un insigne cultore degli studi letterari, del nostro carissimo amico il Prof. D. AnceLo Zurri, al quale gli studi filologici non impediscono di volgere con amore la mente alle botaniche discipline. Noi saremmo sommamente lieti se, in tal modo, ci sarà eziandio data l’ occasione di dimostrargli il nostro vivissimo affetto e la nostra imperitura riccnoscenza ! Gymnoascus Zuffianus. Perithecia globulosa luteo-pallida, circiter ‘-',, mm.; numerosis sîtulis iphicis su- perficie corum emergentibus, acuminatis et rigidis. Iphis ascogenis exilissimis, septatis, — 206 — incoloris, quaritm ultima ramuscola transformantur in ascos globulosos, diam. u 15-18; ascosporis octonis, conglobatis, incoloris, hyalinis, sphaeroidalibus, u 4-6 diam. In Ozonio (0. stuposum Pers. ?) insidentia. Messa così in rilievo l importanza filogenetica della nostra specie nell’ evolu- zione filogenetica degli Asconiceti cleistocarpici nei quali gli aschi si sviluppano senz’ ordine entro |’ apparato involgente, e si mostrano disposti in un’augregazione irregolare, si può trarre da ciò argomento onde volgere uno sguardo alla generale evoluzione di tutta la Classe degli Ascomiceti (1). La morfologia comparata sussidiata dalla biologia, dimostra che dalle Gi- mnoascee sì sarebbero distaccati tre rami, uno avrebbe prodotto le Exoascee, l’altro (mediante i gen. Ascodesmis ed Ascothricha) le Pezizee, ed il 3° le Peri- sporiacee. Le Exoascee sarebbero rimaste senza discendenti motlificati; le Pezizee avrebbero prodotto il ramo semplice delle Elvellee, il ramo delle Ascobolee ed i Discolicheni. Le Pafellariacee indubbiamente si rannodano alle Ascobolee, e da esse sono direttamente discese le Facidiee e le Stictee ; queste ultime costi- tuiscono una diramazione semplice, mentre le prime si continuano nelle Isteriee. È interessante e ricca di gradazioni bellissime la diramazione che ha la propria radice nelle Ascobolee per poi terminare dopo un percorso più o meno fles- suoso nelle Isteriee : le Patellariee si possono interpretare come Ascobolee in cui l execipulo si è indurito ed ha acquistato consistenza cornea, mentre però la fruttificazione ascofora si mantiene evidentemente discocarpica; nelle Facidiee i periteci tendono a perdere quest’ultimo carattere, infatti la loro deiscenza com- piesi per sollevamento della parte superiore della parete, la quale si lacera in generale sotto forma di valve. Proseguendo poi nella progressiva evoluzione di questo gruppo, si perviene a quelle forme nelle quali i periteci sono deiscenti per una lunga fessura longitudinale, occupante tutta la lunghezza del peritecio. Importante sarebbe procedere alla constatazione della genesi dei Licheni (Asco- licheni in senso ristretto). Nel nostro citato lavoro (2) sostenemmo che dalle Pezizee fosse emerso il gruppo dei Discolicheni e da questi quello dei Pirenomiceti. Ora però, confortati da un numero grandissimo di fatti, propendiamo ad ammettere che i Licheni non già costituiscano una unica diramazione a parte che si è avanzata nella propria costituzione in armonia ad una speciale essenza e natura biologica, ma che invece siano formati da tanti gruppi di forme, le quali ora sì possono rannodare (1) Già in un precedente lavoro (Sulla forma ascofora del Penicillium candidum; Messina 1888), abbiamo esposte alcune nostre idee intorno alla evoluzione filogenetica dei principali gruppi che entrano nella giurisdizione degli Ascomiceti; ora crediamo importante ritornare brevemente sopra tale questione, tanto più che in qualche punto sentiamo il bisogno di alquanto modificare o di completare parzialmente i rapporti di affinità sostenuti in detto lavoro. (2) Lav. cit., pag. 10. — 207 — ai Discomiceti, ai Pirenomiceti, agl’ Imenomiceti od ai Gasteromiceti; ed infatti in questi ordini, troviamo spessissimo gli equivalenti morfologici tanto dei Disco — che dei Pirenolicheni e dei Basidiolicheni. Ritornando alle diramazioni primarie distaccatesi dalle Gimnoascee, in una terza direzione di sviluppo infine si giunge, dopo un percorso lungo ed involuto, alle forme di Perisporiacee che presentano con sufficiente chiarezza un ordinamento ime- niale nello strato ascigero. E così qualora alla sommità dei periteci si verifichi la costituzione di un ostiolo, noi ci troviamo già nella giurisdizione dei Pirenomiceti, Dalle Sferiacee sembrano essersi distaccati come rami collaterali le Ipocreacee, le Lofiostomacee e le Dotideacee; queste ultime, secondo ogni probabilità si sarebbero distaccate dalle Sferiacee a periteci composti stromatici. I Pirenolicheni, mediante determinati gruppi, indubbiamente si rannodano a determinate forme di Sferiacee. Premettendo poi, riguardo all’ evoluzione delle Tuberacee, che sono molto in- teressanti le analogie reperibili nell’ organizzazione dei gen. Hydnocystis, Hydnotria e Genea coi Discomiceti tipici e specialmente colle Pezizee, possiamo raffigurare nella seguente maniera lo sviluppo degli Ascomiceti. Eremascus? | Gimnoascee | | | | Exvascee Pezizee Perisporiacee | I | | | | | Elvellee Ascobolee Discolicheni Tuberacee Sferiacee Patellariee | | Î | Ipocreacee Lofiostomacee —Dotideacee ’Pirenolicheni | | Facidiee Stictee Isteriee Non ci nascondiamo però che alcune di queste connessioni genetiche non possono andare esenti da critica, e quindi hanno un assoluto carattere di provvisorietà. La ragione ne è manifesta: fra alcuni determinati gruppi troppe sono le forme estinte, oppure a noi ancora ignote, per cui troppo profonde sono le lacune che quelli separano ed in conseguenza in essi la parentela è molto dubbia. Un fatto importante emerge dalle precedenti considerazioni, ed è la parte prin- cipale che hanno i Gimnoasci e le Perisporiacee nella storia degli Ascomiceti. Riassumendo ora le diverse fasi vitali del fungillo già studiato, si hanno le seguenti conclusioni. — 208 — 1° Lo sviluppo della specie in discorso, incomincia colla formazione di tante coppie o paia di elementi, dei quali puossi congetturare che uno sia il Carpogonio od Archicarpo, l altro l’ Anteridio o Pollinodio. Solamente in casi rari si hanno diversi Anteridi per ogni Archicarpo. 2° Attorno a ciascun paio si costituisce un lasso intreccio di ife; ed in una fase più avanzata, si scorge nel mezzo del peritecio una massa incelora formata da numerose ife esilissime insieme intrecciate, che altro non sono che le ife ascogene. Però non fu possibile direttamente osservare la formazione di queste ife dall’ Av- chicarpo. 3° Nello stato adulto, il fungo componesi di una massa di aschi incolori, globulosi ed 8 spori, avvolti da un sottile e lasso contesto ifico : all’ ultima matu- rità degli aschi, le ife ascogene sono pressochè scomparse. Le spore si presentano globulose ed incolore. 4° AI ciclo evolutivo di questo fungo si riferisce una forma gonidiale, la quale si costituisce dal micelio germinato dalle ascospore. SPIEGAZIONE DELLA TAVOLA Fig. 1° — Il fungo in grandezza naturale. Fig. 2° — Un peritecio mediocremente ingrandito, visto dalla superficie, @ ife setulose. X 120. Fig. 3° — Sezione trasversa di un peritecio ; « ife setulose, d intréccio corticante, c ife ascogene cogli aschi alla sommità delle diramazioni secondarie. X 120. Fig. 4° — Stato corticante ad un forte ingrandimento ; a ife setulose. X 520. Fig. 5*® — Alcune ife ascogene, cogli aschi. X 360. Fig. 6° — Alcuni aschi ed alcune ascospore molto ingrandite. Xx 520. Mem. Ser. IV. Vol. X F. Morini— Ricerche sopra una nuova Gjmnoascea. F.Morini , dis E.Contoli , inc. © lit G.Wenk e Figli Bologna. uh, Di dle UL DELLA URETERITR CRONICA CISTICA MEMORIA DEL DOTT. GIOVANNI D'AJUTOLO (Letta nella Seduta del 7 Aprile 1889). Le osservazioni di ureterite cronica cistica pubblicate finora (1), quantunque in numero ancor piccolo, pure ci offrono un concetto abbastanza esatto di questa particolare forma morbosa. Ed invero noi sappiamo, che l’ureterite cronica è af- fezione piuttosto rara, che colpisce a preferenza gl individui d’ età avanzata e di sesso maschile ed è caratterizzata da una iperplasia flogistica della mucosa con sviluppo di cisti aventi un contenuto vario, ora sieroso, ora mucoso, ora colloide, e talvolta perfino purulento. Essa ha luogo ordinariamente in un lato solo, e più spesso in una parte dell’ uretere che non in tutta 1’ estensione del medesimo, e le cisti vi sono sparse od aggruppate, della grandezza d'un grano di papavero a quello d’ una lente, ed associate frequentemente a produzioni papillari della mucosa e solo di rado a vegetazioni epiteliali della mucosa stessa. La ureterite cistica inoltre va quasi sempre unita con nefrite cronica parimente cistica o con idronefrosi, e non è raro il caso di vederla coesistere con una produzione cistica del trigono vescicale. In quest’ ultimo trentennio s'è molto discusso sulla patogenesi di dette cisti, (1) Morgagni G. B. — Delle sedi e cause delle malattie anatomicamente investigate. Trad. Mag- gesi. Vol. III, lett. 42, $ 11, c Vol. X, lett. 44, $ 15. Ne descrive due casi. Lurren — Ueber ein Fall von Ureteritis chronica cystica poliposa. Virchow ”s Arch. Bd. 66, pag. 159. Berlin 1876. Eesrein W. — Zur Lehre von den kronischen Katarrhen der Schleimhaut der Harnwege und der Cystenbilduag in derselben. Arch. f. Klin. Med. Bd. XXXI, S. 65, 1979. Riporta un caso. HamBurGER Ap. — Zur Histologie des Nierenbeckens und des Harnleiters. Arch. f. mikrose. Anatomie. Bd. 17, S. 14. Bonn 1880. Ne riferisce uno. CHIARI ..... — Wiener med. Jahresb., pag. 16, 1881. Ho tolto la citazione dal Limbeck. Limpecg R. — Zur Kenntniss des Epitheleysten der Harnblase und der Ureteren. Zeitsch. f. Heilkunde. VIII Bd. S. 55. Prag 1887. Due casi. TOMO X. Dal — 210 — ma le opinioni degli autori non sono peranco concordi. Il Virchow (1), il Litten, V Hamburger ed il Chiari infatti le considerano come cisti da ritenzione e ne ripon- gono l'origine tanto nelle cripte, che avanzano in mezzo alle pliche neoformate della mucosa in seguito all infiammazione cronica, quanto in follicoli glandolari. L’ Ebstein al contrario le crede prodotte dalla degenerazione grassa con successiva fluidificazione di certi accumuli di cellule rotonde, che egli ha veduto nelle pro- duzioni papillari della mucosa; onde, per lui, non sarebbero che altrettante cisti da rammollimento, secondo il concetto del FindAeisch (2), capaci di acquistare col tempo perfino una membrana limitante distaccabile ed un epitelio. Il Limbeck final- mente le fa derivare, sia dalle cripte suddette, sia da zaffi epiteliali, che si appro- fondano nella mucosa. Donde si rileva, che mentre quasi tutti gli osservatori s° ac- cordano nel far derivare una parte delle cisti dalle cripte della mucosa, discordano poi considerevolmente nello stabilire l’ origine della parte rimanente. Circa la causa della ureterite cistica, nulla di positivo è stato detto finora. Ebstein, vedendo che nel caso suo l’ affezione coesisteva con una tubercolosi gene- rale cronica, ha sospettato un certo nesso tra le due cose ed ha concluso che, per accertarsene, converrebbe fare degli esperimenti, inoculando il contenuto degli ureteri così affetti, per vedere se l’ alterazione in discorso non fosse che un primo stadio — stadio incompleto — del processo tubercolare. Però se si consideri, che la tubercolosi generale cronica è malattia frequente, mentre l’ altra è rara, si sarà facilmente indotti a dubitare molto dell’ efficacia di un tale esperimento. E per la stessa ragione non può essere invocata come causa della ureterite cistica la presenza di concrezioni uriche, che talvolta si osserva in simili casi, essendo che questo fatto non è punto raro, mentre è-rara assai l’ ureterite cistica. Stando così le cose, di leggeri si comprende come ogni nuovo caso debba esser messo a profitto per risolvere il duplice problema. Ed io per contribuirvi in certo modo, ho pensato di descriverne. uno, che osservai nel Gennaio 1887 (3). Ecco il fatto: Una donna di 80 anni muore nell’ Ospedale Maggiore di Bologna con sintomi (1) VircHow R. — Die krankhaften Geschwiilste. Bd. I, S. 247-48. Berlin 1863. (2) RinprLeiscH — Lehrbuch der path. Gewebelehre. III Auflage, $ 79, S. 62. Leipzig 1873. (5) In questo Museo Anatomo-patologico, al N. 1333 del Catalogo, si vede un bell’esemplare flell’alterazione in parola, che io ho fatto disegnare nella Fig. 1° della Tavola annessa a questo lavoro. Esso consta del rene e della metà superiore dell’uretere corrispondente. Il rene è piccolo, raggrinzato, colle due sostanze poco ben distinte ed in alcuni luoghi così atrofiche da avanzarne appena un sottilissimo strato. I calici sono ristretti; la pelvi e l’uretere, un po’ dilatati, offrono nella loro mucosa numerose cisti ripiene di muco e del volume di un grano di miglio a quello di un acino di pepe. Dette cisti si veggono inoltre dove sparse dove aggruppate fra loro, percui avan- zano spesso degli spazii intermedii, che ne sono perfettamente liberi. Benchè dati da cinque lustri, pure il pezzo mostrasi abbastanza ben conservato. L’unica notizia, che si trova in Archivio è, che fu donato dal compianto Prof. Concato nel 1863. — 211 — di bronchite cronica diffusa e se ne trasporta il cadavere all’ Istituto anatomo-pato- logico. Alla sezione vi riscontro innanzi tutto la bronchite cronica; vi trovo pure stenosi da endocardite lenta tanto dell’ orificio atrio-ventricolare destro quanto del- l’orificio dell’ arteria polmonare e dell’ aorta; ma ciò che soprammodo mi colpisce, è una particolare alterazione del rene e dell’ uretere del lato sinistro, che passo tosto a descrivere. Il rene aderisce strettamente alla capsula cellulo-adiposa ed è ridotto circa alla metà del suo ordinario volume. Ha forma ovale, colla maggiore sua estremità rivolta in alto, e mediante un solco trasversale alquanto profondo si mostra diviso in due parti, una superiore più grossa, ed una inferiore più piccola, fornite ciascuna d’un proprio uretere. La parte superiore esternamente è grigia, irregolare, disse- minata di piccole cisti e molto resistente al tatto. Internamente è pallida, colle due sostanze poco ben distinte ed occupate qua e là ora da piccole cisti ed ora da cordoncini fibrosi più o meno ben manifesti. Le cisti sono in parte sierose ed in parte colloidi. La pelvi e l’uretere corrispondenti sani. La parte inferiore del rene invece è floscia come sacca vuota, e per dilatazione dei calici e per atrofia della sua massa appare convertita in una specie di ci- stoma comunicante ampiamente colla pelvi e coll’ uretere proprio (idronefrosi par- ziale). Le due sostanze del rene sono completamente atrofiche e la parete della sacca è ridotta a tale, che in alcuni punti misura appena lo spessore di due millimetri. La pelvi e l’uretere generalmente mostransi dilatati, e solo fa eccezione l’ estremità vescicale dell’ uretere stesso, dove si osserva un restringimento a valvola che per- mette appena il passaggio ad una setola assai sottile; essi inoltre contengono un umore grigio-torbido. Le pareti loro sono inspessite; la mucosa, di colore grigia- stro-scuro, offre nel 3° medio dell’ uretere numerose cisti, della grandezza di un grano di miglio a quello di una lenticchia, in parte sporgenti: sulla mucosa ed in parte sepolte nella medesima; esse si presentano isolate od a gruppi e contengono una sostanza ora mucosa ed ora sierosa torbida. Vicino alle cisti più grandi, e talora anche in puuti lontani da esse, sì veggono pure qua e là delle rilevatezze papilliformi della mucosa: spessissimo poi la mucosa stessa mostra alla sua su- perficie pliche più o meno estese. Il rene destro è piccolo ed ha tutti i caratteri d’una nefrite cronica allo stadio atrofico. La pelvi e l’ uretere sani. Aperta la vescica urinaria, si trova vuota, con pareti grosse e conformate leg- giermente a colonne. La mucosa, generalmente pallida, presentasi nel trigono grigio-scura per stasi venosa e vi offre numerose cisti, della grandezza di un grano di miglio a quello di un acino di canepa ed a contenuto mucoso, di rado sieroso. Dette cisti in maggior numero veggonsi raccolte nella parte sinistra del trigono e più propriamente vicino allo sbocco di quell’ uretere, che abbiam visto affetto da infiammazione cronica cistica. — 212 — Volendo rendermi conto delle alterazioni testè descritte, io tolgo allora dei piccoli pezzi tanto dal rene sinistro e dai suoi ureteri quanto dal trigono vesci- cale e li pongo, prima nel liquido del Miller, poscia in alcool a diversi gradi di concentrazione e da ultimo in celloidina per poterne poi fare l’ esame microscopico. Fatte delle sezioni molto sottili e coloratele convenientemente, osservo innanzi tutto che la parte superiore del rene sinistro è notevolmente alterata. Nei tubuli uriniferi invero l’ epitelio solo rare volte è in istato normale; ordinariamente invece esso è in preda a rigonfiamento torbido od a completa degenerazione granulo- grassosa, donde poi deriva un aumento nel volume dei tubuli medesimi. Se il pro- cesso degenerativo data da più lungo tempo ed il detritus granuloso degli epitelii è in parte riassorbito, i tubuli allora mostransi col lume ristretto e con le pareti avvizzite, il qual fatto notasi là pure, ove i tubuli hanno subìto una compressio- ne dall’esterno. In altri punti i tubuli appaiono evidentemente dilatati da liquido sieroso (cisti sierose), ed in altri finalmente presentano l’epitelio proliferato ed in preda a successiva degenerazione colloide, ciò che spiega la formazione di quelle cisti colloidee descritte di sopra. Il rigonfiamento torbido e la degenerazione granulo-grassosa notata nei tubuli uriniferi si riscontra pure non di rado nelle capsule del Bowmann, le quali perciò si mostrano alquanto dilatate. Altre volte l epitelio della capsula è completamente scomparso, e siccome questo fatto coincide col rimpicciolimento del glomerulo e coll’ inspessimento del connettivo pericapsulare, così è da ritenere che siasi atro- fizzato per compressione. Oltre al rimpiccolimento notato, i glomeruli mostransi pure qua e là deformati; in pochi luoghi soltanto sono ben conservati, colle loro anse vasali turgide di sangue. Il connettivo interstiziale e dell’ albuginea a tratti mostrasi anch’ esso alterato. Generalmente è inspessito e costituito da soli fasci di fibre molto stipati fra loro; altre volte invece esso è ricco di nuclei, il che dimostra la sua attività proliferante. — Quanto ai vasi, le arterie hanno il lume ristretto e le pareti notevolmente in- grossate, sia per inspessimento del tessuto conettivo sia per proliferazione dell’ in- tima. Nulla di particolare offrono le vene. I capillari sanguigni appaiono spes- sissimo turgidi di sangue e solo qua e là circondati da piccole emorragie. All’ esame microscopico l’ uretere di questa porzione superiore del rene sinistro non presenta alcuna alterazione. Ma dove il rene ha subìto la maggiore alterazione nutritiva, è precisamente nella sua porzione inferiore, che abbiamo veduto in preda ad idrone!rosi. Quivi di fatto non si trova più traccia di sostanza glandolare: non si osservano più tu- buli, non più glomeruli, ma soltanto fasci di connettivo fibroso più o meno addensati fra loro, nei quali scorrono vasi sanguigni in iscarso numero ed a pareti ingros- sate. Cosicchè si ha un’atrofia renale di massimo grado. Quanto poi alla pelvi ed all’uretere corrispondenti a questa porzione inferiore del rene sinistro, le sezioni microscopiche ci dimostrano che la mucosa soprattutto — 213 — è inspessita ed all’ inspessimento non prende parte alcuna l’ epitelio, essendo esso o sfaldato o di spessore normale. L’inspessimento invece è dovuto allo sviluppo notevole del tessuto connettivo, e siccome questo vegeta dove più dove meno, così accade che, dove è esuberante, esso dà luogo alle pliche od alle rilevatezze papil- lari, che vi abbiamo riscontrate. Nelle pliche esso è prevalentemente fibrillare (Fig. 3%, pi), invece nelle rilevatezze (Fig. 4°, ») si mostra ricco di nuclei, ora rotondeggianti, ora fusiformi, ma sempre disseminati; percui nen s'incontrano giammai quegli accumuli di cellule rotonde, ehe sono stati descritti da Ebstein. Vicino a queste rilevatezze, e più di sovente nel mezzo delle pieghe della mucosa, non di rado si osservano delle insenature a decorso sinuoso ed in direzione obli- qua, le quali rivestite come sono di epitelio, mentiscono l’ aspetto di altrettante glandule. Esse rappresentano le cosiddette cripte della mucosa e si distinguono dalle vere glandole: 1° perchè non hanno, come queste, un contorno regolare, ma sinuoso; 2° perchè l’ epitelio delle cripte è simile a quello che tappezza tutto 1’ ure- tere, mentre quello delle glandole è per la maggior parte poliedrico; 3° perchè le cripte hanno un lume più o meno ampio, mentre le glandole, che trovansi nel- l’ uretere, sono ordinariamente ripiene di cellule. Un confronto tra le due cose si può agevolmente fare, qualora p. es. si paragonino fra loro la cripta cr della Fig. 2* ed i follicoli glandolari f, 9g della Fig. 4*, da me rinvenuti in una sezione microscopica del 3° inferiore dell’ uretere. — Circa le cripte egli è pur da notare, che quando il loro sbocco si va occludendo per vegetazione del connettivo am- biente, il lume loro si dilata, pur conservando il contorno più o meno irrego- lare, ed allora a poco a poco si vanno trasformando in cisti d'un tipo tutto spe- ciale, come tosto dirò. Se passiamo in rassegna le sezioni microscopiche delle cisti dell’ uretere, facil- mente rileveremo che queste sono foggiate su di un doppio tipo molto ben di- stinto. Alcune di esse infatti (e sono quelle precisamente, cui ho accennato testè) si riconoscono molto agevolmente pel loro contorno irregolare e sinuoso, pel contenuto sieroso o siero-mucoso e per l’ epitelio simile a quello di tutto l uretere. Le altre invece hanno forma regolare rotondeggiante, contenuto mucoso ed epitelio per la maggior parte poliedrico, allo stesso modo dei follicoli glandolari, dai quali sem- brano indubbiamente derivate. Dette cisti differiscono inoltre per ciò, che mentre nella forma rotondeggiante gli strati più esterni dell’ epitelio si mostrano sempre bene conservati, essi invece si trovano più o meno completamente degenerati nelle cisti a contorno sinuoso. Nel resto dell’ uretere, oltre ai follicoli mucosi rinvenuti nel 3° inferiore di esso e superiormente ricordati, si vede pure a quando a quando un qualche piccolo focolaio infiammatorio costituito da cellule linfoidi, da corpuscoli rossi e da fibrina. Il connettivo degli strati più esterni dell’ uretere mostrasi pure inspessito: i vasi dappertutto sono più o meno turgidi di sangue. - Da ultimo, esaminando le sezioni microscopiche del trigono vescieale, si rileva — 214 — chiaramente che le cisti, che vi abbiamo riscontrate, provengono per la massima parte dalle glandole mucose ivi esistenti. Ed invero in molte sezioni, e talvolta perfino in una sezione sola, si osserva, che daccosto a glandole in istato perfetta- mente normale, ve ne sono altre ingrandite e ripiene di cellule epiteliali con de- generazione mucosa nella parte più centrale ed altre ancora che sono considere- volmente dilatate, col lume di sbocco chiuso, piene di muco e sporgenti sulla super- ficie, come le vere cisti mucose. Talvolta vicino a queste cisti si nota un qualche sollevamento dell’ epitelio della mucosa a guisa di vescicola, che costituisce quella specie di cisti sierose, che vi abbiamo veduto nell’ esame macroscopico. Da quanto si è detto finora chiaro risulta, che in questo come negli altri casì l’ ureterite cronica cistica era associata ad un’ alterazione consimile tanto del rene quanto del trigono vescicale, colla particolarità d’ una idronefrosi parziale non mai osservata in simili incontri. Ma ciò che maggiormente m° ha spinto a pub- blicare questo caso, è stata la evidente dimostrazione, che esso m'ha offerto della maniera diversa di origine delle cisti dell’ uretere, e dalle cripte e dalle glandole della mucosa; il che è poi una piena conferma dell’ opinione di coloro, che so- stengono la formazione deuterogena delle cisti. — Che se poi Vl Ebstein, il Lambeck ed altri non hanno potuto trovar glandole in ureteri normali, ciò non vuol dire che non vi siano, ed in fatti noi sappiamo che Il Hamburger le ha ben riscon- trate nell’ uretere d’ un giustiziato, ov’ erano a tratti, e isolate e a gruppi, in per- fetto accordo colla disposizione ordinaria che assumono le cisti. — Quanto poi all'importanza delle cripte nella genesi delle cisti, essa omai non può essere più discussa, essendo stata riconosciuta da quasi tutti gli osservatori. Ciò che invece tuttora rimane discutibile, e che anzi affatto ignoriamo (1), è la causa della ureterite cistica; e disgraziatamente neppure da questo caso possiamo trarre alcun lume in proposito. L'unico fatto che esso ci ha presentato sul riguardo, è la stenosi dell’ estremo inferiore dell’ uretere, donde la idronefrosi; ma certamente non possiamo invocarla come causa dell’ ureterite, essendo ben noto che essa si ve- rifica non di rado e spesso senza l’ ureterite cistica, come pure che questa può aver luogo senza di quella. D'altra parte colla stenosi dell’ uretere non possiamo spie- garci quella. produzione cistica, che abbiam notato nel trigono vescicale e che deve avere avuto una cagione comune coll’ ureterite, essendosi presentata più cospicua (1) Ho letto recentemente nella Semaine Medicale de Paris del maggio di quest’ anno, a pag. 183, che il Dott. Eve aveva presentato alla Società Reale di Londra gli ureteri di una donna di 56 anni, morta in seguito di ematurie ripetute. La porzione superiore degli ureteri era occupata da una gran quantità di cisti milîari a contenuto lattiginoso, e sulle sezioni trasver- sali degli ureteri si trovarono cisti numerose contenenti psorospermi ed un liquido colloide — 215 — presso lo sbocco dell’ uretere malato. Donde consegue che dobbiamo rimandare allo studio di nuove osservazioni la soluzione di quest’ importante problema scientifico, che è l’etiologia della ureterite cistica cronica. SPIEGAZIONE DELLE FIGURE Fig. 1° — Uretere con cisti. Ad nat. Fig. 2° — Sezione trasversale dell’ uretere ingrandita 40 volte. c, cisti, la cui parete verso il lume dell’ uretere si è raggrinzata nell’ alcool. d, porzione centrale del contenuto degenerata. p, strato cellulare periferico. cr, cripta glandoliforme. Fig. 3° — Sezione longitudinale dell’ uretere ingrandita 40 volte. c, cisti rotondeggiante con contorno regolare. e e' \ cisti a contorno irregolare. vi e pi, piega della mucosa. Fig. 4* — Sezione longitudinale dell’ uretere (nel suo 3°, inferiore) ingrandita 40 volte. 9, follicolo glandolare con apertura ben manifesta verso il lume dell’ uretere. *, altro follicolo, un po’ più grande del precedente e senza che sia manifesta la sua comunicazione col lume dell’ uretere. r, rilevatezza dovuta ad ipertrofia ‘dello strato connettivo della mucosa senza accumuli di cellule rotonde. Nidi "Sa v'era ai Malizia bo da nile Ti vento mette; pote avi are ritmi 0 fipiene sati milite priori arrivai tig penptari va MCCAIN sd UST pr: soliti Mletitte, 40 Angioni I dali tia agiva mata mag Mito eunirg e nad 2 ni Beige nie i Die til ib 3 ob ig me Sa ser rasmitii obi mmnlito. | i n i AA he cenni TANARO ata tr fi È - esi Lul 9 wir sin n Neo: SERA: SRL apr bpastaz det Qui DI na: proseliti da mb’ + “leve e dalai Zu ar UM ZU dipl. CSIVPUNTÌ dr calar vlre perde ini Mer ati, pate aponrai Ae CURL ore dirai: Bon I Monia, Craig tue Momenti de dia dtt ja LARE, bl ; Sie fperoen tn ever disptiistoto, è «dor ani AA s» È pit lb Marienntaitolia mirto IE Me ppi hi dire fiat Lo «3% di E gs pesi 5 de: PM I NSNE 4 tratt. SARI VIEALE - Presintabt aa Nona gres, no i e Ae AEREA tre (E Ragni Dl Aizia Tigotaite. al me > ER art he” dn gran 'aabiaso RE ci aa n fp sa SR Vili ee lai Dl iure sioeiserionità pa C. D'Ajutolo. Mem Ser IV Vol X Fig. di fui ga lit. G.Wenk e Figli —Bologna. Pio P° Gregori dis. dal nat. ed in pietra. SULLE FORZE ELEMENTARI ELETTROMAGNETICHE ED ELETTRODINAMICHE INACIAZI] INS OI DEL PROFESSOR AUGUSTO RIGHI (Letta nella Sessione delli 10 Novembre 1889) Introduzione. 1. Il Sig. Stefan (') diede una formola per rappresentare l’azione che un ele- mento di corrente ds esercita a distanza sopra un altro elemento ds', la quale, ammesso che questa azione si riduca ad una forza applicata a ds', ed ammessa la legge dell’inversa del quadrato della distanza, possiede la massima generalità, giacchè dando opportuni valori alle quattro costanti che essa contiene, si può .de- durne o la formola ben nota d’ Ampère, o quella di Grassmann, o molte altre capaci di rappresentare bene i fenomeni, adoperandole per calcolare le azioni fra circuiti chiusi. Per stabilire quella formola lo Stefan ammette, come di solito : 1° che l’azione che si esercita fra due circuiti non sia che la risultante delle azioni elementari che si esercitano fra i loro singoli elementi infinitesimi ; 2° che l’azione elementare sia proporzionale all’ intensità delle correnti che percorrono i due elementi e alle loro lunghezze, e che quindi cambi solo di segno quando s' inverte la corrente in uno degli elementi ; 3° che l’azione fra i due elementi possa essere surrogata da quelle delle componenti degli elementi stessi, secondo tre divezioni ortogonali. Come si vede, queste supposizioni sono precisamente quelle dalle quali partì Ampère, esclusa quella, che lo Stefan trova giustamente non abbastanza giustifi- cata a priori, che l’azione fra i due elementi debba essere diretta secondo la retta che li congiunge. Lo Stefan ammette poi che le azioni elementari sieno in ragione inversa dei quadrati delle distanze, onde le formole dieno direttamente risultati concordanti colle esperienze. ® (1) Wien. Ber. 29 Apr. 1869. — Wied. Elek. b. 4, p. 1035 u. figde. TOMO X. 28 SRO, Indicando con x y # le coordinate dell’ elemento ds percorso dalla corrente 4, con x' y' 2' i' le quantità analoghe per l’ elemento ds', con e l'angolo dei due elementi nello spazio, e con 7 la loro distanza, l espressione cui giunge lo Stefan, e che rappresenta la componente secondo l’asse delle x della forza che / elemento ds esercita sull’elemento ds', è la seguente : ali 2° ( Vi (, da' o rv] dx fi ds ds' Tr ds ds i ds' ds ni ad SE ii dsds' fm Sostituendo ad x ed x' prima y ed y' poi 2 e 2' si hanno le espressioni per le componenti secondo gli altri due assi. Le quantità 7, », p, g, sono quattro costanti. Si giunge all’ espressione precedente dopo una serie di trasformazioni. Più di- rettamente si arriva all’ espressione seguente, che gli equivale : X-x DISC) ' ti 10 ds ds C—-X Ì (1) —— (a-b—c-d)cos0@ cos 0" —— + beose +ecoso'cosa +d così cosa |. SI r Po nella quale a, 5, c, d sono altre costanti, legate alle 22, », p, 9 dalle relazioni : a—-b-c-d=—3m, a—-b-c+2d=3n, a—-b+2e-d=— 3p, a+2b—c—-d =39, 9 è l'angolo dell elemento ds colla retta x che congiunge i due elementi, 0' quello dell’ elemento ds’ colla retta medesima, a, 8, y, a' B' y' gli angoli degli elementi ds, ds' cogli assi ('). Volendo introdurre in luogo di 0,0',&, gli angoli che fanno i due elementi cogli assi, si adoprerebbero le note relazioni : r così = (x'—x) cosa + (y'—y) cos 8 + (e'—2) cos y,, r cos 0'= (e'—2) cos a'+ (Y —y) cos B'+ (2'—) cos y, cos £ = cos 4 cos 4'+ cos 8 cos B'+ cus y cos 7". Farò uso in quel che segue dell’ ultima espressione (1), dalla quale cambiando x,2',a,0' in y,Y 60,0", ed in 2,2,y;y°, si hanno quelle per le altre due com- ponenti. La prima espressione della componente secondo x sarebbe da preferirsi quando si volesse riconoscere quali termini si annullino coll’ iutegrazione, allorchè uno od entrambi i circuiti agenti sieno chiusi. Dimostra poi lo Stefan che deve essere soddisfatta questa condizione : : P == q ossia -Ba+b+ceT_-2d=0. (') Maxwell nel 2.° cap. della parte 4.% del suo trattato, dà una formola analoga a quella di Stefan, ma ammette fin dal principio eguali fra loro le forze elementari, cui qui si riferiscono le costanti c e d. — 219 — La scelta dell’ unità di misura per le intensità delle correnti, fornisce natural- mente un’altra relazione fra le quattro costanti. Adottando l’unità assoluta elet- trodinamica, deve essere In quel che segue adotterò invece l’ unità elettromagnetica, per cui si avrà q G & ) P p=a=I ossia : a+2bT—cT—d=—3. Avendosi così due relazioni fra le quattro costanti, due sole di esse restano arbitrarie. Se, per esempio, si suppone c=d=0, si ha d= — 2, a=1, e la formola generale di Stefan si trasforma in quella di Ampère. Ponendo invece a=d=0, si ha pure c=1, 5=—1,esi trova un'azione elementare che corrisponde perfettamente a quella che propose Grassmann ('). Infatti, secondo Grassmann l’azione di un elemento ds sopra un altro ds' è proporzionale alla componente trasversale ds sen 0 dell’ elemento ds, ed alla proiezione dell’ ele- mento ds' sul piano r.ds, ed è contenuta in questo piano perpendicolarmente alla detta proiezione. Ora, è facile mostrare che dando ad a, d,c,d, rispettivamente i valori 0, —1, 1,0, la forza che per opera di ds agisce sopra ds' soddisfa a quelle condizioni. Dando a due delle costanti altri valori qualunque, si ottengono altre leggi elementari speciali, che tutte conducono agli stessi risultati, come quelle di Am- père e di Grassmann, applicate che sieno ai casi realizzabili sperimentalmente. Lo Stefan dimostra poi che in nessun modo l’esperienza può condurre a tro- vare altre relazioni fra le quattro costanti @,6,c,d, di modo che due di queste rimangono arbitrarie, e non vi è ragione di adottare una formola piuttosto che un’altra, per esempio quella d’ Ampère piuttosto che quella di Grassmann, per rappresentare l’azione fra due elementi di corrente. Diffatti lo Stefan dimostra che, nè l’azione di un circuito chiuso sopra una porzione mobile d’un altro circuito, nè le azioni fra circuiti e calamite, nè l’azione di un circuito chiuso su una por- zione di esso; possono condurre a nuove relazioni fra le quattro costanti. Nel corso di questa Memoria mi propongo di esaminare a quali condizioni de- vono soddisfare le quattro costanti, affinchè si verifichi la nota equivalenza fra un piccolo circuito chiuso ed una piccola calamita perpendicolare al suo piano, anche nel caso dell’azione che il piccolo circuito o la piccola calamita subiscono da un elemento di corrente. (') Wied. Elek. b. 3, S. 93. — 1920 — Si sa che un clemento magnetico di momento u agisce sopra un polo magne- tico oppure sopra un circuito, esattamente come un piccolo circuito chinso ad esso normale, che racchiuda un’area s e percorso da una corrente d’intensità 4 (in misura elettromagnetica) tale che sia st=u. Ora, si è unanimi nel ritenere che questa identità di azione provenga da identità di origine dei fenomeni ma- gnetici ed elettrodinamici, e cioè si ammette generalmente che ciò che si chiama un elemento magnetico non sia nulla di diverso da ciò che si chiama una piccola corrente chiusa. Ammessa questa identità, diviene logico il preferire, fra le varie formole elet- trodinamiche, quella colla quale l’ identità suddetta risulta in ogni caso verificata, e colla quale particolarmente risulta identica l’ azione che un elemento di corrente esercita sull’ elemento magnetico u, e sul piccolo circuito d’ area s percorso dalla u corrente # =. Imponendo come condizione questa identità di azione, si giunge G a determinare in pari tempo le quattro costanti che entrano nella formola di Stefan. 2. In questa Introduzione darò un ragguaglio sommario del modo nel quale ho proceduto. Prima di tutto, per avere la maggior possibile generalità, invece di assumere la nota formola di Laplace, onde esprimere l’azione fra un elercento di corrente ed un polo magnetico, stabilisco, con un procedimento analogo a quello di Stefan, una legge d’azione più generale nella quale si contengono tre costanti. E precisamente, dicendo ds l’ elemento di corrente, è la corrente che lo per- corre, m l'intensità del polo magnetico, » la reciproca distanza, c l'angolo di ds con r, e, f, 9, tre costanti, l’azione dell’ elemento di corrente sopra il polo può considerarsi come risultante: 1° di una forza mids cos È e ——————————_ì r? diretta secondo » e ripulsiva; 2° di una forza mids sen 0 pUETTnI diretta perpendicolarmente al piano formato da » con ds; 3° di una forza mids sen o Gi. perpendicolare alle due prime. Assumendo come positiva l intensità del polo nord (cioè che si dirige, quando è mobile, verso il nord), la seconda forza è diretta verso la sinistra di un osser- vatore che, collocato lungo la componente trasversale ds sen o dell’ elemento ds, im modo che la corrente lo percorra dai piedi alla testa, sia rivolto verso il polo. — 221 — La terza forza ha la direzione stessa della suddetta componente trasversale ds sen 0. Ma per introdurre nei calcoli l’azione dell’ elemento sul polo, torna comodo l’avere le componenti della forza totale secondo una terna qualunque di assi. Di- cendo x y 2 le coordinate dell'elemento, x' y' 2' quelle del polo, ed a 8 y gli an- goli di ds cogli assi, la componente secondo l'asse delle x è : U L rai ra) r cos y + g cos a. 2 | (e—-9) 7 8980 ST cos 6 + f Calcolando con questa formola generale (e colle analoghe espressioni delle com- ponenti secondo y e 2) l’azione d'una corrente rettilinea indefinita sopra un polo magnetico, o sopra un elemento magnetico, o sopra una piccola calamita (vedi $ 4, 5 e 6), si ottiene un risultato che si accorda coll’ esperienza a patto che si supponga e+g= 0. Adottando poi l’unità elettromagnetica per la misura della corrente, deve aversi: f= 1. La forza elementare i non è altro che la forza elementare di La- place, la sola di cui si tenga conto ordinariamente. La risultante poi fra le altre due forze elementari, in virtù della relazione e+g9=0, non è altro che una forza che ha una direzione simmetrica a quella di ds rispetto alla congiungente r. È una tal forza che si può liberamente aggiungere a quella di Laplace, senza che i risultati cui si giunge cessino di accordarsi coll’ esperienza di Biot e Savart. Quest’ accordo poi ha luogo tanto se la forza totale esercitata dall’ elemento di corrente sul polo, si suppone applicata a quest’ ultimo, quanto se si suppone ap- plicata all’ elemento di corrente. Espressioni analoghe alla precedente si hanno per l’azione di un polo m sopra un elemento di corrente ds'. Anzi se indichiamo con e' f' g' tre costanti, con x y & le coordinate del polo, con x' y' 2' quelle dell’ elemento, con 7 la loro distanza, con 0' l'angolo di ds' con 7, e con a' 8'y' gli angoli di ds' cogli assi, la com- ponente secondo l’asse delle x è : mi ds' ( de 7? (e'—g9') ni ' i) R_-& RE ' 7 cos B+f I c08y'+ g' cosa È (A ] ® coso — ri % S immagini ora un elemento magnetico di momento « e si conduca pel suo punto di mezzo un piano perpendicolare al suo asse. In questo piano venga quindi tracciata una linea chiusa che avvolga l’ elemento, e che contenga un’area picco- lissima, per esempio una circonferenza di raggio , il cui centro coincida col centro dell’elemento magnetico. Se si immagina che quella circonferenza sia per- corsa da una corrente i in opportuna direzione, il piccolo circuito sarà equivalente all’ elemento magnetico, qualora si abbia 7p°.i=w. Ciò posto, si possono calcolare, colla formola generale già stabilita, le compo- = pppao nenti secondo tre assi ortogonali dell’azione dell’ elemento magnetico 4 (ossia dei due poli eguali e contrari che lo costituiscono) sopra un elemento di corrente qua- lunque ds'. Poscia si possono calcolare le componenti, secondo i medesimi assi, dell’azione esercitata sullo stesso elemento ds', dal piccolo circuito circolare, ado- perando la formola generale di Stefan. Eguagliando quelle componenti, si avranno tre equazioni in cui entreranno: 1° le tre costanti e' f'g'; 2° le quattro costanti a, b,c,d; 3° gli angoli che stabiliscono la posizione relativa dell’ elemento ma- gnetico u e dell’ elemento di corrente ds'. Dovendo ‘essere verificate quelle tre equazioni per qualsiasi relativa posizione di w e di ds', si potranno attribuire ai suddetti angoli valori speciali, e così si ottengono varie relazioni fra le costanti, non tutte distinte fra loro, e che si riducono alle seguenti : EI-_108 78107 a+bT-d=— f, a+c—d=f, a cui si può aggiungere la f'= 1 che proviene dalla scelta dell’unità per la mi- sura delle correnti. Le due prime indicano che devesi addottare la formola di Laplace per l’azione di un polo sopra un elemento di corrente. Le altre due sommate danno : 2a+b+c—2d=0, mentre moltiplicando la prima per 2 e sottraendovi la seconda, si ha a+2b—cec-d=—3. Cioè, la terza e quarta delle relazioni trovate equivalgono a quelle già stabi- lite da Stefan fra le sue quattro costanti. Dunque, ammettendo l'identità d'azione fra l’ elemento magnetico w ed il pic- colo circuito circolare d’area 7°, sopra un elemento di corrente, si determinano bensì le costanti e' f'g', ma fra le costanti a ded di Stefan non si ottiene nessuna nuova relazione, e due di esse rimangono ancora arbitrarie. Succede altrimenti considerando l’azione d’un elemento di corrente ds sopra l'elemento magnetico 4, e sul piccolo circuito circolare che gli è equivalente in quanto all’azione che elemento magnetico e circuito esercitano sull’ elemento di corrente. L'azione di ds sui due poli + m e — mr che costituiscono u può però cal- colarsi, adoperando le formole generali che contengono le tre costanti e fg, in due modi, e cioè o supponendo, come si suole, che l’azione di ds sopra ciascun polo dell’ elemento w sia applicata a ds, oppure supponendo la stessa azione ap- plicata al polo. Nell un caso e nell'altro torna comodo risolvere l’azione totale in tre forze dirette secondo i tre assi coordinati, ed applicate al punto di mezzo dall’ ele- ROIO mento magnetico, ed in tre coppie aventi i loro assi paralleli alle stesse tre dire- zioni. Le tre forze sono naturalmente le stesse nei due casi; ma per i momenti delle tre coppie si ottengono coi due metodi espressioni differenti. D'altra parte si può calcolare, colla formola di Stefan, l’ azione dell’ elemento ds sul piccolo circuito circolare. Si ottengono ancora tre forze applicate al centro del circuito, che coincide col centro dell’ elemento magnetico, e dirette secondo gli assi, e tre coppie aventi gli assi nelle direzioni dei tre assi coordinati. Pel principio ammesso, si dovranno eguagliare queste sei espressioni, alle sei corrispondenti ottenute calcolando l’ azione dell’ elemento ds sull’ elemento magne- tico u. Ma siccome quest’ ultima azione si è calcolata con due metodi diversi, così si dovrà fare un duplice confronto. Si considerino dapprima i risultati che si ottengono supponendo l’azione d’un elemento di corrente sopra un polo. applicata all elemento. Si arriva alle seguenti relazioni. 1° dall’ eguagliare le forze : e=0 g=0, a c4+d=f, d4b e fi; 2° dall’eguagliare le coppie : CIO MI ig diede = pedi 06 ZA Mie 106 alle quali si deve aggiungere f= 1. Per cui si ha: a=1, db =— 2, c=0, 5=0. Si giunge cioè alla formola di Laplace, per l’azione d’un elemento di corrente sopra un polo, e alla formola d’Ampére, per l’azione d’un elemento di corrente sopra un altro elemento di corrente. È così che si arriva ad una completa determinazione delle quattro co- stanti di Stefan. Se, invece, si calcola l’azione dell’ elemento di corrente sull’ elemento magne- tico nell'ipotesi che l’azione d’ un elemento di corrente sopra un polo sia una forza applicata al polo, il risultato è diverso. Coll’ eguagliare le forze si ha come prima e=0, g==0, a—c+4d=1, a+bT—-c=—1; ma eguagliando le coppie si ottiene e=0, g=0, a=0, b=—1, c=1, d=0. Questi ultimi valori delle costanti di Stefan conducono precisamente alla formola di Grassmann; ma essi sono incompatibili colle relazioni fornite dall’eguagliare le forze, giacchè invece di aversi a—c+d=1, a+bT—-ec=t—- 1, coi quattro valori di a, d, c, d, scritti or ora si ha a-c+d=—1, a+bT—c=—2. Durque, se si ammette che l’azione d’ un elemento di corrente sopra un polo — 224 — sia una forza applicata al polo, non è possibile trovare un sistema di valori per le costanti a ded tale, che sia verificata l'identità d’ azione d’ un elemento di cor- rente ds sull’ elemento magnetico u e sul piccolo circuito d’area 70° che deve essergli equivalente. E precisamente, mentre per rendere identici i valori delle tre coppie bisognerebbe ammettere la formola di Grassmann, per rendere identici quelli delle tre forze bisognerebbe ammettere un’ altra formola, per esempio quella di Ampère. In conclusione, la completa identità fra un elemento magnetico ed un piccolo circuito ad esso perpendicolare, rispetto ad un elemento di corrente, nell’ ipotesi che l’azione d'un elemento sopra un altro si riduca ad una forza a questo appli- cata, non può essere verificata che : 1° Assumendo la formola di Laplace per rappresentare l’azione fra un ele- mento di corrente ed un polo. 2° Supponendo che la forza di Laplace sia applicata all’ elemento di corrente. 3° Ammettendo la formola di Ampère per l’azione fra due elementi di corrente. Ecco dunque che senza supporre a priori che la forza fra due elementi di corrente debba essere diretta secondo la retta che li congiunge, e debba obbedire al principio dell’azione e reazione, si trova che la forza stessa ha tali caratteri, assumendo come fatto sperimentale l'identità fra un elemento magnetico ed un piccolo circuito chiuso ad esso perpendicolare. Ammesso questo fatto nella sua generalità, sì è condotti ad accettare la for- mola di Ampère e a non accettare quelle teorie le quali conducono ad azioni fra elementi di corrente, diverse da quelle di Ampère. O reciprocamente, per ammettere una formola elementare diversa da quella di Ampère, bisognerà adattarsi ad ammettere, che mentre è identica l’azione sopra un elemento di corrente ds, dell’ elemento magnetico wu e del piccolo cir- cuito d’area 7° ad esso perpendicolare, l’azione di ds sopra & sia poi diversa dall'azione di ds sul piccolo circuito. Era nota la necessità di considerare l’azione d'un elemento ds sopra un polo m, come applicata all’ elemento. Ma alcuni nondimeno considerarono qualche volta l’azione d'un elemento di corrente sopra un polo, come applicata al polo, in quistioni relative alle rotazioni elettromagnetiche ed all’ induzione unipolare. D’onde risultati non sempre accettabili. Ciò che è esposto nella presente Memoria costituisce in fondo un metodo per stabilire le formole fondamentali dell’elettromagnetismo e dell’ elettrodinamica, che conduce ad una determinazione completa dalle forze elementari cercate, presup- posto sempre, nel caso degli elementi di corrente, che fra questi non si producano coppie. Si può anzi generalizzare anche più la ricerca, facendo a meno di sup- porre da principio che le forze elementari sieno in ragione inversa di 7°. In altre TLUEDIAEE i a : sia parole, si può nella formola di Stefan serivere A, B, C, D, al posto di 78? ; o. Pei i — 225 — e considerare A, B, C, D come funzioni incognite di 7. Così facendo si arriva an- cora al risultato qui esposto, e cioè, per far sì che un elemento magnetico si comporti sempre come un piccolo circuito ad esso perpendicolare, bisogna pren- 1 — 2 i i È dere A=G: = pri, G=1)=W0 egregia ot accettare la formola di Ampère e quella di Laplace, quest’ ultima colla condizione di supporre le forze elementari sempre applicate all’ elemento di corrente. Reso conto così del contenuto di questo scritto, non mi resta che esporre il più concisamente possibile i facili calcoli che giustificano le asserzioni messe avanti in questa Introduzione. I. Formole generali che esprimono l’azione a distanza fra un elemento di corrente ed un polo magnetico. 3. Sia ds (Fig. 1°) l'elemento di corrente ed m il polo, r la loro distanza, o l’angolo compreso fra ds ed r. L'elemento ds potrà surrogarsi colle sue compo- nenti ds coso e ds sen 0, e l’azione di ds su m sarà la risultante di quelle esercitate dalle due componenti. L'elemento longitudinale (cioè diretto secondo 7) ds coso non può agire su m che con una forza diretta secondo 7. Infatti, se sì fa girare il sistema formato da ds coso ed m intorno alla retta Am, esso non muta affatto, e la forza non deve cambiare. Ritenendo che questa forza, che diremo È, sia propor- zionale alla lunghezza «ds coso dell’ elemento, all’ in- tensità é della corrente che lo percorre, ed all’ inten- sità 2 del polo, come pure sia in ragione inversa di r°, si avrà: m i ds cos O E=e-, x essendo e una costante ('). (') Per stabilire quali sono le forze possibili fra due elementi di corrente, si è ricorso, segna- tamente da Korteweg, alla ragione di simmetria, con un principio esposto in questo modo: la forza che agisce fra due elementi, che sieno collocati come le immagini (date da uno specchio) di due altri, non è altro che l’immagine della forza che agisce fra questi ultimi elementi. È facile persuadersi che questo principio cessa di essere attendibile nel caso dell’azione fra un polo ed un elemento di corrente, a meno che non si convenga di considerare l’immagine di un polo, come un polo di nome contrario. Così facendo non resta possibile che la forza n. Siccome però il sup- porre invertito il polo mi sembra un artificio non abbastanza giustificato, così ho mantenuto le forze È e $. Se poi al Lettore piacesse supporre fin d’ora È ed % eguali a zero, può farlo, senza che con questo resti alterato il risultato finale. TOMO X, 29 -— 226 — L'elemento trasversale (cioè perpendicolare ad 7) ds seno può agire su m con una forza perpendicolare ad 7, ma inclinata di un angolo qualunque sul piano r. ds. Infatti, se si confronta il sistema formato da ds seno ed mm, con un altro, che sia quello che si ottiene facendo girare il primo di 180° intorno ad Am, si vede che questi due sistemi differiscono solo per la direzione della corrente nell’ elemento. Ora, anche la forza non avrà fatto che invertirsi colla rotazione di 180° intorno ad Am, per cui essa soddisfa alla condizione di cambiar solo di segno coll’ inver- tirsi della corrente nell’ elemento. Questa forza trasversale si potrà surrogare con due altre, l'una nel piano r.ds e l’altra perpendicolare a questo piano, e cioè con due forze dirette secondo gli assi 2 ed y, se, come indica la Fig. 1°, si prende una terna di assi tale, che quello delle x sia parallelo ad r, ed il piano «2 sia parallelo al piano r.ds. Dicendo f, g due nuove costanti, e chiamando % $ le due componenti secondo y e 2, avremo per le tre componenti dell’azione totale di ds su m: mi ds c08 È &= @ D) 8 mi ds sen 0 (2). o==} Ero Liri m 1 ds sen O RES Va E ? Si è posto il segno — nel valore della forza perpendicolare al piano r.ds, perchè la consideriamo diretta in senso opposto ad 0y, e cioè in modo, che essendo w positivo (polo nord), la forza 7, supposta applicata ad 7, tenda a spostarlo verso la sinistra di un osservatore posto lungo l’ elemento ds sen 0. Analogamente, l’azione di un polo w (Fig. 2°) sopra un elemento di corrente ds', avrà per com- ponenti secondo i tre assi (presi in modo che quello delle x sia parallelo ad 7, ed il piano zz parallelo al piano r.ds'): q/ LÀ r , mt ds cos o È = e 2 r , mi ds' sen 0' (8) Rea , mi'ds' sen o' = I Ta dicendo o' l’angolo di ds' col prolungamento di r. Lao Se per maggiore generalità riferiamo la posizione dell’ elemento e del polo ad una terna di assi ortogonali qualunque, sì potranno facilmente calcolare, con una trasformazione di coordinate, le componenti É 7 $ secondo i nuovi assi, tanto del- l’azione dell’ elemento sul polo, come di quella del polo sull’ elemento. Nel primo caso, chiamando xy le coordinate di ds, x' y' 2' quelle di m, a 8 y gli angoli di ds cogli assi, ed osservando che il coseno dell'angolo che Oy (che è perpen- dicolare tanto a ds quanto ad 7) fa col nuovo asse delle x è: 2'— 2 cos yy CS, 7. seno (dg sen Gi e quello dell'angolo che 02 fa col nuovo asse delle x è: cosa € — xcosd sen O (P sen O 4 mentre gli altri coseni si ottengono da questi con permutazioni circolari, si ha per le componenti È 7 $ dell’azione di ds su m secondo i nuovi assi: m i z'— Tenia (4) E== ® coso — f È 2° cong + STI " cosy +g cosa. Si possono ottenere 7 e È con permutazioni circolari di xy 2, x' y' 2', a B y. L’angolo o è dato poi da: rcoso = (e — x) cosa + (Y— y) cos 8 + (e'— 2) cos y, ed r è dato da: r=(e'— 2) + (4 y° + (e'— 2). Analogamente, se rispetto a tre assi ortogonali qualunque, 2 y2 sono le coor- dinate di un polo #w, x'y'2' quelle d'un elemento ds', a' 8'y' gli angoli che la direzione di questo fa cogli assi, c' l’angolo che ds' fa colla retta 7 che va dal polo all’ elemento, le componenti É 7 dell’azione del polo # sull’ elemento ds' saranno date da: mi CL (E) E (Ca È cos 0' ne n dI I cosy'+g' cosa’ e da altre due formole analoghe, nelle quali » ha la stessa espressione precedente, e o' è dato da rcoso'= (e — 2) cos a'+ (y'— y) cos B'+ (2'— e) cos y'. -— 228 — Alla formola (4) può darsi anche un altro aspetto. Siccome si ha identicamente: e-axdr _ dro r. 0 INo (= x FOOD METTE ) e siccome — = 054, e derivando rispetto ad s il valore di » si ricava dr n Ù , ” =—(e'—x)cosa—(y—y)cos8 —('— 2) cosy=—rcos0, sì può scrivere ancora: a'—- 2 1 ld/ax—-x 3 coso=— cosa +:—-(-—-- |, 7 7 } La (4) diviene dunque cos ad (4') E=mids|+9)5 +-+ seni) °cosg+-f 2 cosyi. Sotto questa forma l’espressione di É ha per suo secondo termine un differen- ziale esatto; e siccome non è possibile ridurre nello stesso modo gli altri termini, ne viene per conseguenza che applicando questa espressione al calcolo della forza che esercita sul polo un circuito chiuso, mentre il secondo termine coll’ integrazione va a zero, restano gli altri, e perciò le costanti f ed (e-+ g). Dunque neppure per un circuito chiuso i risultati che danno la formola (4) e quella di Laplace sono identici. Lo stesso accade se si calcola il momento rispetto ad un asse dell’ azione esercitata da un circuito chiuso sopra un polo, purchè si ammetta che la forza elementare sia applicata al polo. Infatti il momento rispetto all’ asse x della forza elementare di ds sul polo m, sarà £y' — 72', ed anche in tal caso il coefficiente di e — g si annulla coll’ integrazione, se è chiuso il circuito di cui ds è 1’ elemento. Se invece si suppone, come vedremo doversi fare, la forza elementare applicata all'elemento ds, allora il momento elementare rispetto all’asse x diviene îy — 72, il termine che ha per coefficiente (e — g) cessa di essere un differenziale esatto rispetto ad s, ed il valore del momento dovuto all'intero circuito chiuso potrà contenere non solo (e +9) ed 7, ma anche (e— g). Trattando analogamente la formola (5) si mostra, che calcolando la forza do- vuta all’azione d’un polo sopra un circuito chiuso, (e'— g') sparisce dal risultato, e restano le due costanti /' ed (e'+g9'), e che calcolando il momento rispetto ad un asse qualunque, e supponendo le forze elementari applicate agli elementi di corrente, restano nel risultato le tre costanti. — 229 — Il. Azione d’ una corrente rettilinea indefinita sopra un polo, o sopra una calamita. 4. Applichiamo ora le formole generali (2) oppure (4), al calcolo dell’ azione d’ una corrente rettilinea indefinita sopra un polo, onde vedere a quali condizioni quest’ azione coincide con quella che risulta dall’ esperienza di Biot e di Savart. Prendiamo (Fig. 3*) la perpendicolare Om, abbassata dal polo m sulla corrente, come asse delle x, e la corrente stessa come asse delle 2. Sia d la distanza Om, ds'un elemento di cor- rente, 7 la sua distanza da m, w l'angolo di r con d, che prenderemo come variabile indi- pendente, ed s=dtg la distanza da O a ds. Si dovrà porre nella (4) e analoghe: = 0, g=s0 e=0e% GeV RAI TT di a=p=g5, ve O, ra r=d°+d° i ven = rcoso = —d-tg qp. Si avrà dunque E=— (@— 9) sen cos y dip, n= —S"* c08 spdy, c=le—9) A sen pap +g" "i ap; e chiamando X, Y, Z, le componenti dell’ azione totale della corrente: mi 2 SSR. ESE ria mi PIL (6) v=-s(cospap=—ryti, =s | est pydp+t 9g ife dr: — 230 — Basta dunque che sia c+g=0 perchè tutto si riduca alla forza Y, che sola esiste conformemente alle esperienze, e che sia f= 1, onde l'intensità della cor- rente sia misurata in unità elettromagnetiche. L'azione elementare rappresentata dalla (4) e analoghe, nelle quali si supponga e+g=0, è dunque la più generale possibile, compatibilmente coi dati sperimen- tali. Per e=g=0, essa si trasforma in quella che è espressa dalla formola di Laplace, e vedremo più oltre che deve essere appunto e=g= 0, onde si verifichi completamente l'equivalenza fra elemento magnetico e piccolo circuito chiuso. Se nelle (2) si suppone e+g= 0, e si compongono le due forze elementari € e &, esse danno una forza parallela al piano «2 (Fig. 1°), ed inclinata su r di un angolo @ì dato da g=ij=— to. Questa forza, che si può aggiungere a quella di Laplace senza alterare il risultato che dà applicata alla corrente rettilinea di Biot e Savart, ha dunque una direzione : 3 : È : mids simmetrica a quella di ds rispetto ad ». La sua intensità è e meri ed e può essere qualunque. Nei capitoli III e IV, saranno adoperate le formole (2), (3), (4), (5) lasciando e, g ed e’, g' (per le quali ultime si possono fare ragionamenti analoghi a quelli qui esposti per e e g) indeterminate, e per altra via si arriverà a stabilire i valori di queste costanti. 5. Veramente, nell'esperienza di Biot e Savart, relativa all’azione di una cor- rente rettilinea indefinita, questa agisce non sopra un polo magnetico, ma sopra un ago calamitato, posto a distanza dalla corrente assai grande relativamente alle sue dimensioni, sospeso ad un filo e diretto perpendicolarmente alla corrente, e ciò che si misura è la coppia che agisce sull’ ago. È bene dunque calcolare colle formole generali {2) o (4) la coppia prodotta dall’ azione della corrente sopra una calamita mobile intorno al suo centro. Consideriamo dapprima un semplice elemento magnetico, cioè un sistema di due poli, d’ intensità +m e — m, ad una piccolissima distanza 2/ uno dall’ altro. Sia O (Fig. 4°) il punto di mezzo di questa distanza, e prendiamo la retta CO perpen- dicolare alla corrente CA come asse delle x, e la retta Oz parallela alla corrente come asse delle 2. Sieno a6y gli angoli che la retta M,M, che unisce i due poli fa cogli assi, e supponiamo che la massa + m siain Me la—m in M,. Poniamo CO=d, e consideriamo dapprima l’azione d’un elemento ds, posto in A, sui due poli, dai quali dista (dileAMS— AME —3 — 231 — Chiamando &, 2,6, le componenti della forza dovuta all’azione di ds su M,, per averne il valore basterà porre nelle (4) Zcos a, Zcos 8, cos y rispettivamente in posto di 2‘, y, ‘5 — d,0, s (dicendo s la distanza CA) in posto di x,y,2; dopo aver posto 0, 0, 1 in luogo di cos a, cos 8, cos y. Si avrà così: E, =mids)(e— glcosa + d(cosy —s)_-,+/l 0088 |, \ 1 ZIUTO) da il 1 (7) m=mids)(e—g)lcos8(lc0sy —s) —-—/lcosa+d)_,!, \ 1 di i t,=mids'(e—g)lcosy — s) sn iii; 1 1 essendo 7,°=d°+s°+/°+ 24, e ponendo g=d cosa — s cos y. Non occorre scrivere anche i valori delle componenti È, 7, î, della forza pro- dotta da ds su M,, giacchè questi si possono dedurre da quelli di £, 7,6, cam- biando segno ad 7 e ad 7, e scrivendo 7, in posto di r,, essendo poi re =d°+s°+/°— 2g. Le due forze elementari, di cui &,7,é, e É, #6, sono le componenti, si possono supporre applicate, sia entrambe all'elemento ds, sia rispettivamente ai due poli dell’ elemento magnetico. Supponendole trasportate in 0, esse daranno luogo ad una forza unica di componenti, È, + È,, 7, +7; £,+6,, e ad una coppia, le cui componenti avranno espressioni diverse, a seconda dell'ipotesi che si fa sul punto d’ applicazione delle forze elementari. Se queste si suppongono applicate ai poli, le componenti della coppia saranno rispettivamente secondo i tre assi: \ — (2, — 23) cosy + (6, — E) cos8, (8) « — ($, — E) cosa + (E, — E) lcosy, — (E, — E) lcos8B+(2,— N) lcos a. Se invece si suppongono le forze elementari applicate all’ elemento di corrente, le componenti della coppia saranno ordinatamente: (8') "ani (2, ate VE (E, yo COL sta (È, “n Ch ar (2, te N)d Infine, l’azione dell’ intero circuito sull’ elemento magnetico consisterà in una forza di componenti XYZ applicata in 0, ed in una coppia di componenti M,M,M, secondo i tre assi. Le componenti XYZ si otterranno integrando rispetto ad sda —co a +co le espressioni È, + é,, 7,+7,, &, +6; mentre le com- ponenti M, M,M. della coppia si otterranno integrando in modo simile o le espres- sioni (8) o le (8'). Si vede dunque che per agevolare il calcolo è bene formare prima i valori di &, + £,, &, — é, ecc. RR Ora si ha: 1 1 E, +E,=mids C—y)l cosacosy ==) | È ù 1 + (e—g(dc0sy — cosa) (1, + a)+/10088(- +5) È Pa (Pa rt, Ts (? ma siccome si suppone / piccolissimo di fronte a d, si potranno trascurare le po- 0 si ; ; tenze di - superiori alla prima. Ora si trova che d si sì riduce a PPT: PACI 1 ans @ E ed x 1 S. si riduca ___ = + —L_ o I 7 Chao, =—9 per conseguenza si ha, ponendo 0A =d°+s°=7°, e u=2ml; . 1 1 1) E, +E,=uids dle—g)dsg=+(e—g)(dcosy —scosa)--+£cos8-(. Similmente : aa 1 1 1) VIPYSE PIANI Tea 35443 (’ Lt, +6, =uids api 1 1 —4e—g)s°az3—2Me—g)scosyz—299=!. Analogamente si calcolano le differenze È, — È, ...; ma siccome queste devono essere introdotte nelle (8) ove ricevono / come fattore, così si potranno nei loro valori trascurare a dirittura i termini in /. Si ha quindi E,—E,=—2mids(e—g)sdL 3) ni— n= — 2m defi, t,—-b,= 2mids[e-9s > -+9- al Le integrazioni da eseguirsi per ottenere i cercati valori delle componenti sono to) assai semplici e abbastanza note. Molte si semplificano ponendo s=dtgW, e sì ha anche il vantaggio che ai limiti infiniti sì sostituiscono così i limiti — S. CEE A riduzioni fatte, i valori di XY Z che si ottengono integrando È, + È, ...., sono i seguenti: ui WIR) (C+ ui x=9y cos 8, YV=2f° cosa, E at osa. 2 d° — 233 — Per avere le componenti della coppia, bisogna introdurre nelle (8) e (8') i valori già scritti di £É, + &,.... È, — é,.... ed integrarle. I risultati che si otten- gono dalle (8) e (8') non diversificano che per un segno. Per cui si possono scrivere insieme nel modo seguente: M=29 cosp + SIT El 008, M=— EVE L ora,, M=—2fZcosa. Il segno superiore nella parentesi contenuta nel valore di M, vale, se si ammette che la forza elementare d’un elemento di corrente sopra un polo, sia applicata al polo, mentre il segno inferiore vale nell'ipotesi contraria. Se si suppone ora l'elemento magnetico collocato lungo la retta OC, converrà fare nelle formole precedenti a=0, 6=7y= z , e si avrà per le componenti della coppia: (o __(e+92 ui FARC ME_20P Li nino visito) lip: Questo caso teorico ci porge una prima approssimazione al caso pratico del- l’esperienza di Biot e Savart, giacchè l’ elemento magnetico considerato sta a rap- presentare la piccola calamita sospesa. Siccome l’esperienza indica l’ esistenza della sola coppia M., così si vede che deve essere e+-g=0, come si era trovato prima. 6. Ma possiamo accostarci di più alla realtà, pur valendoci ancora delle formole trovate, col- l’artificio seguente. Sieno due elementi magnetici M,M,, M/'M;' (Fig. 5°) aventi entrambi il centro in O, SME OMM asl angoli di direzione della retta 0M,', a 8" y' quelli di 0M,'". Supponiamo che in M,', M,' sieno i poli + m ed in M,', M," i poli — m. L'azione complessiva della cor- rente AC sui due elementi darà una coppia di componenti: (e Tg) 2mi Ma all COS yV+ l'' cos Y”) = (l'cos8'+0''cos 0"), v 2, 2 ; ” "r M EE cogatioi cosa ), Yy 92 d ;2mi M=—2f 7 (l'eosa' + l'' cos a). Le quattro masse magnetiche poste in M,' M,' M,' M,' possono considerarsi come TOMO X. 30 » — 234 — formanti due elementi magnetici M, M,", M,'M,', simmetrici rispetto al punto 0; poniamo M,' M,''=M,'M/=2l e chiamiamo 48 y gli angoli di M,'"M/ ,; cogli . 2 » LU ULI Q ' . assi. Se x' è l’ascissa di M, ed x" quella di M.'", si avrà e quindi l'eosa' + l'' cosa' = 2lcos a. Similmente per gli altri coseni. Per cui chiamando w = 2w#/ il momento magne- tico di ciascuno dei due elementi M, M,'", M,' M., si ha: eg) 2ui e+-g)t 2 (et9) SIE (+9) cata = osa, M=-—2fB'cosa. PIT) M,=2} d COSYy + 9 Ù fa 9 Si vede che i due elementi simmetrici rispetto al punto 0 si comportano come se fossero entrambi collocati col loro punto di mezzo nel punto 0. Aggiungiamo ora ai due elementi magnetici considerati, altri due pure di mo- mento 4, simmetrici ai primi per rapporto all’ asse delle x, supponendo che in questo caso ad un polo dei primi sia simmetrico un polo omonimo nei secondi. Le componenti della coppia, agente sui due nuovi elementi, differiranno da quelle scritte or ora solo per il cambiamento di segno di cos 8 e di cos y. Per cui le com- ponenti della coppia dovuta all’azione della corrente sui quattro elementi saranno: ___(+9a (4ucosa): PES (41 cos a) è na 2 d tia d E Se finalmente consideriamo un sistema di elementi magnetici tale, che quattro a quattro sieno nelle condizioni di simmetria di quelli ora considerati, e se chia- miamo -M il momento magnetico del sistema valutato secondo Or, le componenti della coppia prodotta dalla corrente saranno : (+9) +g9)x Mi n=0, ue DIA, M=—-2 si Un tal sistema rappresenta molto da vicino una calamita ordinaria, di forma simmetrica e di cui O sia il centro di figura, gli elementi magnetici del sistema stando a rappresentarne le singole molecole. In una tal calamita si può ammettere infatti che gli assi polari delle molecole formino linee simmetriche rispetto al piano equatoriale, e due a due simmetriche fra loro rispetto all'asse. Ad un dato ele- mento magnetico della calamita ne corrisponde uno ad esso simmetrico rispetto all’ asse, e a questi due ne corrispondono altri due, simmetrici ai due primi ri- spetto al piano equatoriale ; o ciò che torna lo stesso, ai due primi elementi ne corrispondono due altri simmetrici per rapporto al centro. — 235 — Siccome dall’esperienza di Biot e Savart resta confermato il valore di M_ e si trova M,= 0, così bisogna ammettere, anche in questo caso più generale, che sia e+g=0. Ammesso e+g= 0 la formola (4) conduce dunque a risultati conformi al- l’esperienza. E si noti, che i valori di M, ed M. restano gli stessi tanto se sì suppone la forza elettromagnetica elementare applicata all’ elemento di corrente, quanto se la si suppone applicata al polo; per cui resta anche arbitrario il punto d'applicazione della forza elementare ('). In modo simile si potrebbe dimostrare che onde l’azione di un polo sopra una corrente rettilinea indefinita si riduca ad una forza normale alla corrente, oppure onde l’azione di una piccola calamita diretta perpendicolarmente alla corrente non produca coppia ad asse perpendicolare alla corrente, basta supporre nella (5) e+g=0, e che bisogna porre f'=1 onde l’unità di misura per la corrente sia l’unità assoluta elettromagnetica. Le cose esposte in questo capitolo non hanno altro scopo che quello di mo- strare, che onde le formole (4) e (5) si accordino coll’ esperienza, non è necessario supporre nulle separatamente le costanti e, g,e,9°, nè stabilire qual sia il punto d’applicazione delle forze elementari. Il lettore potrebbe dunque far astrazione da questo capitolo, senza perdere di vista il soggetto principale di questo scritto. Il. Azioni di un elemento magnetico e di un piccolo circuito ad esso perpendicolare e concentrico, sopra un elemento di corrente. 7. In questo capitolo sì metteranno a confronto i risultati che si ottengono calcolando l’azione d’ un elemento magnetico di momento « sopra un elemento di corrente ds', per mezzo delle formole (5), e calcolando, colle formole (1) di Stefan, l’azione, sullo stesso elemento di corrente, di un piccolo circuito chiuso percorso da una corrente ? e che racchiude un’area u:i, collocato intorno all'elemento magne- tico in un piano ad esso perpendicolare. Per rendere più semplici le formole assumerò assi di riferimento speciali, e pre- cisamente prenderò il centro O (Fig. 6°) (1) Si potrebbe dimostrare che i valori di 24, ed M. non mutano affatto anche se si ammette che la forza prodotta da un elemento di correrite sopra un polo, non sia applicata nè al polo nè all'elemento, ma bensì -in- quel punto della. retta che li congiunge, che divide il loro intervallo in un rapporto dato qualunque, positivo o negativo. — 236 — dell’ elemento magnetico M,.M, come origine delle coordinate, la retta O0A=7 che lo congiunge al punto di mezzo A dell'elemento ds' come asse delle x, ed il piano formato dall’ elemento magnetico e dalla retta 7, come piano 2. Sieno wm e — m le masse magnetiche in M, ed M,, è la corrente in ds’, x, r, le distanze dai due poli all’ elemento di corrente, 2/ la distanza fra i poli, u=2#! il mo- mento magnetico dell’ elemento, 4 l'angolo M,04; ed infine a'8'y' gli angoli di ds' cogli assi. Le componenti É, 7,6, dell’azione di M, su ds' si otterranuo dalle (5) met- tendo 7, in posto di 7, e supponendovi v—_ilicost 0) 0 eo —ilcen A e — ru zi0p e per conseguenza r,coso=(r—lcos 4)cosa'—/cosy sen A, ed vr, =r°+1°— 2rlcosì. La componente secondo x sarà dunque : n ' \ ' ' ' ' ' 1 E,=mi ds (eg) (r—lcos4) (rcosa' —/cosa'cos4 —/cosy'sen 4) —, r, 7 ; 1 Ra +$"lcos B'senZ +9 cosa -=|- i RANE La componente $, secondo x dell’azione di M, su ds' si ottiene cambiando segno ad m e ad / nell'espressione precedente; la componente @, dell’azione del- l’intero elemento magnetico sarà P,=t,+É,. Ponendo r,° = r°+/°+27/cos 4, il valore di 9, è dunque : “ LU ' 02) I] I r x 1 1 == mids' (e'—g)(r°cos a'+ l°cosa'cos° A+ l*cosy'sen A cos 4) (= _ Di i 2 5 ) 3 1 1 ; il 1 +} Leos sen (+ 1.) +4 cos a (- = \ r, Ur Po Pa to | ” — (e'— g')(2r/ cos a'cos + 7 cos y'sen 4) (= Tia 1 Ma rammentando che / si suppone assai piccolo in confronto di 7, e che per- ciò si possono trascurare le potenze di — superiori alla prima, sì trova che 3 Tani 1 nlcos 4 po sl riduce a FATTE Fi ed 1 nleosÀ (re :d 5 sl riduce a dai ’ 2 RrT 13237 nt onde il valore di P, diviene : Sa) i' ds' x 3 - [2 e'(cosa'cosA —(e'—g')cosy'sen 4 +/f'cos8'sen 7]. Analogamente: UST 3 i; Î (9) < p,= |—2/'cos y'cos 4 —f'cosa'sen 4 + 2g9'c0s 8'cos4], DEI, = ca [— (e'—g')cosa'senA + 2f'cos 8'cos4 + 2g'cos y'cos 7] (*). 13 8. S'immagini ora condotto per 0 un piano perpendicolare ad M, M,, ed in questo piano tracciata una linea chiusa intorno al punto O, che si considererà come un circuito chiuso percorso da una corrente è, tale che il prodotto di è per l’area, che si suppone piccolissima, racchiusa dalla linea stessa, sia eguale a u. Essendo M, un polo nord, si dovrà supporre la corrente in direzione tale, che vista da M, abbia la di- rezione opposta a quella nella quale gli indici d’un orologio percorrono il loro quadrante. Calcoliamo colla formola (1) di Stefan, le componenti P,P,P, della forza esercitata dal piccolo circuito chiuso, clie suppor- remo circolare e concentrico all’ele- mento magnetico, sull’elemento ds'. Sia yOe' (Fig. 7°) il piano per- pendicolare all'elemento magnetico ; O' perpendicolare ad 0M,x', la sua intersezione col piano x2. Sia FG la tangente in un punto £ alla cir- conferenza, di raggio f percorsa dalla corrente ?,@ l'angolo che OB fa con 02, angolo che prenderemo come variabile indipendente. L’elemento di corrente ds = pdo che trovasi in B, ha per coordinate : ax=—CD=— BCsenA=— pcososenA, y=0C=pseno, a= BD= BCcos4 = pcosocosà. () Invece degli angoli «’, }',y{, si potrebbero introdurre, l’angolo 9' che ds' fa con r, e l’an- golo w che il piano rds' fa col piano formato da r coll’asse dell’elemento magnetico. Basterebbe porre coso = cos 0', cos f'= sen f'senw, cosy' = sen0'cosw. Ciò potrebbe farsi anche nelle for- mole (10) e (11), e renderebbe facile lo scrivere le espressioni delle componenti secondo una terna di assi qualunque. — 238 — Quanto ai coseni degli angoli che la sua direzione fa cogli assi, possiamo fa- cilmente determinarli nel modo seguente. Le equazioni della retta FG riferita agli assi x'y2' sono: e=0, ysen@+%cos0=p, e per passare agli assi x y 2 si hanno le note relazioni, che pel caso attuale sono : x =xcos4 +— sen), 2'=2zcos4— sen}; dunque le due equazioni di YG rispetto agli assi 2 y 2 sono: xcos4 + 1 Da questo punto in avanti il calcolo da farsi differisce assai da quello fatto nel $ 8. Infatti nel caso d’ allora tutte le forze da comporre erano applicate allo stesso punto A (Fig. 7°). Qui invece sono applicate ai vari punti del circuito cir- colare. Bisognerà dunque trasportarle tutte in A (Fig. 9°) e comporre le forze stesse, e le coppie che nascono dal loro trasporto, ossia calcolare le tre componenti PP, P. della forza totale, parallele ai tre assi, e le tre componenti #2, m,m_ della coppia totale, prese secondo tre direzioni parallele ai tre assi. Le forze 9, P, P. si otterranno integrando È 7 È rispetto ad @ da 0 a 27, o meglio integrando È+E,m+n', +0", rispetto ad ©, da 0 a x. Per avere poi m, m,m, biso- — 245 — gnerà sommare i momenti delle forze È 7 È rispetto a tre rette parallele ai tre assi e condotte pel punto A, e per tutti gli elementi del circuito. Calcoliamo prima le p. Perciò formiamo i valori di È + &. 7 +7, 6+0. Il valore di È + é' è il seguente, e si ottiene aggiungendo al valore di È scritto più sopra, ciò che se ne ottiene cambiando segno ad @: E+-È' =27 pdwids (@—b—c— d)prcos 8 sen Zsen°o(r— peososen4) \ 9) + beosB cosa(r— p cosa sen 7) 1 + dp cos sen A sen? 0-3 1 sii rt, rt, ma essendo piccolissima l’area 7°, si potranno tenere entro la parentesi solo i termini che non contengono p o lo contengono alla prima potenza, per cui si ha Ide np coso sen À (osservando che — si riduce ad P : r n frana | —b-c)p cost senAsen®0+ br cos 8 coso +2bp cos B sen cos }- , 27 pd@ids| ina DEI, Similmente : p+N' = di SI c+d)pcosasenAsen°@—bp cos y cos 4 sen" @ Da + dr cosa coso +dp cos y cos 4 cos? @ . ae Pe (6p cos 8 cos A cos? — dp cos 8 cos 4 sen? 0). Integrando rispetto ad © da 0 a 7 e riducendo si ha: A; +d—c)cosfBsenA, | P,= | p,= L'E la—e+ d) cosa sen A— (b— d) cos y cos 4], = EP! __q)cos8 cosA. Passiamo ora al calcolo di m, m,m,. I momenti rispetto a tre assi, passanti per A e paralleli agli assi coordinati, della forza che produce ds sull’ elemento posto in B, sono ordinatamente: C-AC—-N-BD=6pseno— pp coso cosà, $.-BD+&-CD=ÉpcosocosA4+ÉpcosasenA, —n:CD- E AC=—pnpcososenA4—Epseno. — 246 — Analogamente, quelli relativi alla forza dovuta all’azione di ds su B', saranno: — D'pseno —N'pcosocosì, E pcosocos4+l'pcososenA, — np pcososen 7 + È psen o; per cui i momenti, secondo direzioni parallele agli assi e condotte per A, relativi al complesso dell’ azione di ds sopra B e B', saranno ordinatamente : ((—l')psena—(M+7')pcos@cos7, (É + È) p coso cos 4 +(£+(l')pcososenA, — (2+7')pcososen A —(EÉ— È')pseno. Basterà integrare rispetto ad @ da 0 a 7 queste tre espressioni, per avere m,m,m,. Abbiamo già scritti i valori di $ + $'...j ma siccome nelle ultime espres- sioni essi devono ricevere f come fattore, si potranno trascurare adesso entro le parentesi anche i termini in f e scrivere: , 27 pd@id. beosBcoso, N+7n = 2 Pt 1 eosg1coso, CAP 2% pd@ids p+ e = PPIIÙ Inoltre si ha, collo stesso grado di approssimazione : 3 go 27 so t-t= (a cosa sen 7 — deos y cos 7) sen @, d A pira Nezi ad Mettendo questi valori nelle espressioni dei momenti, si ottiene: 20 p°do ids r? 2i p°doids rÈ [(ccosysenA—dcosacosA)sen?o —deosacosA cos a], bcosB cos4cos'@, 21 p°doids 3 SEAN TS [—dcosasenAcos®@ —(acosasen A — deos y cos À) sen 0]. r Ed integrando rispetto ad @ da 0 a x: CIRO m, = EL! (0.008 y sen 4 — 2d cos a cos A), N DIO (16) m,= TP * 008 8 008 4, i Tp°ids | . = = —[-(@+9)cosasen 7 +bcosy cos 4]. 12. Si posseggono ora le formole necessarie per raggiungere lo scopo in vista, — 247 — che è quello d’indagare a quali condizioni devono soddisfare, o quali valori devono avere, le costanti a bed efg, onde sieno in tutto eguali le forze e le coppie che agiscono, per opera d’ un elemento di corrente ds, o sopra un elemento magne- tico u, 0 sopra un piccolo circuito circolare di raggio f, concentrico, e col suo piano perpendicolare all’ elemento magnetico, percorso da una corrente è' tale che sia 7p° è =u. E siccome le azioni di ds sull’elemento magnetico furono calcolate in due maniere, prenderò prima le formole (12) e (13) calcolate nell’ ipotesi che l’azione d’ un elemento di corrente sopra un polo sia applicata al polo, e le egua- glierò alle (15) e (16) testè trovate. Si avrà, eguagliando le forze: ‘ —2ecosacosÀ + (e—g)cosy sen A—fcosBsenA=(a+8—c)cosBsenA, cn | 2fcos y cos 4 +fcosasen 4— 2g cos cosà = (a—c+d)cosasenA —(b—d)cosy cos7, (e—g)cos a sen A —2fcos8 cos 4 — 29 cosycosA=(b—d)cos 8 cosà, ed eguagliando le coppie: fcosysenA —g cos senA=ccosysen A —2dcosacos), (18) | ecosasenA4—fcosB cos4—gcosy cos 71=dcosB cos 4, —fcosy cos4 +9 cos8 cos A4=—(a+d)cosasenA+bcosycosÀ. Queste sei equazioni devono valere per tutti i valori di a 8 y e 4, affinchè sieno identiche le azioni esercitate dall’ elemento ds sull’ elemento magnetico e sul circuito circolare. Perciò sì può in esse supporre, come nel $ 9, successivamente uno dei tre angoli a 8 7 eguale a zero e gli altri due eguali a 3? mentre a 4 si può dare ora il valore 0 ora il valore —. Con queste diverse ipotesi le sei equazioni danno i seguenti risultati: T ( —2e=0 0=—-2d Per a=0, B=yY=35: )X=0 si ha dalle LU 0=0 e dalle (18) 0=0. OZ0 0=0 0=0 O=0 i ee B=r=3: = » » f=za—c+d » » ei=0 e-g=0 O0=—(a+4d) iu de ne vio = = _ME0 » » — 29= » » Sri pl - 2f=b—d g=0 —f =a+b—c i_g=0 T T » =, 0,X}=3 » » 0=0 » » 0=0 Mina z | 0=0 0—0 È 0=0 | 0=0 » a=3=3: Fa a=0 » » 2f=- (bd) » » anni —29g=0 —f=b e-g=0 (ib = » a==3, vi==05 )=3 » » 0=0 » » i OZ=0 Gi 0=0 00 — 248 — Le tre ultime equazioni d’ ogni gruppo, e cioè quelle dell’ ultima colonna, che si deducono eguagliando le coppie (153) alle (16), si riducono, essendo f= 1, a: (eee (Ie — 0 Cioè, l'eguaglianza delle coppie (13) e (16) richiede che si addotti la formola di Laplace per l’ azione d’ un elemento di corrente sopra un polo, e la formola di Grassmann per l’azione d’ un elemento di corrente sopra un altro elemento. Le tre prime equazioni d’ogni gruppo, cioè quelle che provengono dall’ egua- gliare le forze (12) e (15), danno: e=0, g=0, a—c+d=1, b-d=—2, a+bT—-cec=-1. Anche qui si vede dunque la necessità di adottare la formola di Laplace. Ma in quanto ai valori delle costanti di Stefan, ecco ciò che si ricava. Le tre relazioni fra queste costanti, si riducono in realtà a due, perchè una qualunque di esse può dedursi dalle altre, per esempio a a—c+d=1, b-d=—-2, e subito si vede che i valori a=0, b=—1, ce=1,d=0, non soddisfano a queste equazioni. Dunque non esiste nessun sistema di valori per le costanti a de d tale, da rendere in pari tempo eguali le componenti della forza e quelle della coppia, dovute all’ azione d’un elemento ds o sopra un elemento magnetico, 0 sopra il piccolo circuito che gli è equivalente nell’ azione inversa ($ 9). Le due relazioni a—-c+d=1, 01—d=—2 unite alla prima di quelle sta- bilite da Stefan, e cioè 2a +@4+e — 24=0 (la seconda potendosi dedurre da esse), danno a=1, b=e — 2, c=d. Questi valori additano una legge più ge- nerale di quella d’ Ampère, giacchè questa se ne deduce facendo c = 0. Dunque per rendere identiche tanto le forze (12) e (15) che le coppie (13) e (16), biso- gnerebbe ammettere la formola di Grassmann quando si calcolano le componenti della coppia prodotta dall’ elemento di corrente sul piccolo circuito, ed ammettere invece una formola diversa, per esempio quella di Ampère, quando si calcolano le componenti della forza. Bisogna dunque escludere l'ipotesi, che l'azione d’un elemento di corrente sopra un polo, sia una forza applicata al polo. Passando ora al confronto analogo a quello che si è fatto ora, ma assumendo l’ ipotesi che l’azione di un elemento di corrente sopra un polo magnetico sia una forza applicata all’ elemento, osserverò, che siccome le tre componenti della forza hanno le stesse espressioni (12) e 15, così l’eguagliarle conduce ancora alle equa- zioni (17), e per conseguenza a: e=0, g=0, a—-c+d=1, b-d=—-2, — 249 — e già si è visto che queste ultime due sono soddisfatte prendendo quei valori delle costanti a dc d che danno la formola d’ Ampère. Eguagliando le coppie (16) a quelle che si hanno in questo caso per l’azione dell’ elemento di corrente sull’ elemento magnetico, e cioè alle (14), si ha: O=ccosysen 4 —2dcosacosà, (19) ( (e—-g)cosasenA—2fcosBcosA4—2gcosycosA4=bcos B cos4, —2fcosycos4 —fcosasenA+2gc088cos4 = —(a+d)cosasenA+bcosycosA4. Dando anche in queste equazioni i soliti gruppi di valori agli angoli ay 4, si hanno i risultati seguenti. Perde —0N8—=y ==, 0'—0Mel(19)}danno 0=0 Gi 0=10 00 T TT » a=0, B=Y=3,;}=5 » » e—-g=0 ni 2 2 i f==a+4d ( 0E=0 a: ) > @=%=T=0A=0 » » — 2f =b 5 (_ 29=0 O0=0 È o » a= = pe=0dA=g » » 0=10. 7,3 z \ o=o0 O0=0 == ORO — 2g=0 Db _@=b=T0 » » E Ji 0/=tc T T » a=B=5s,v= 0 X=5= » » 0=0 P 2741 2 | O0=0 Se ne deduce, con f=1: o=0 9e=00 = EVO i quali valori additano la formola di Laplace e quella d’Ampère. E siccome le rela- zioni (17) dedotte dall’ eguagliare le componenti della forza, sono soddisfatte dagli stessi valori delle costanti, così sì può dire che l’azione d’un elemento di corrente sopra l’ elemento magnetico diviene identica a quella sopra il piccolo circuito, se si ammettono le formole di Laplace e di Ampère, e se si ritiene la forza elementare di Laplace applicata all’ elemento di corrente. Conclusione. 13. Prima di riassumere i risultati finali raggiunti è importante il far vedere, che questi stessi risultati si potevano ottenere anche senza ammettere collo Stefan sin dal principio, che le forze fra due elementi di corrente collocati nelle posizioni fondamentali (cioè o posti lungo una stessa retta, o paralleli fra loro e perpen- la) TOMO X. 32 — 250 — dicolari alla retta che li congiunge, oppure uno lungo la congiungente e l’ altro perpendicolare alla medesima) sieno in ragione inversa del quadrato della distanza fra i due elementi. Si poteva cioè partire da una formola più generale della (1) bolero Lig. 78 72? r2? r2? e considerando 4, B, C, D come funzioni incognite di 7. La componente secondo l’asse delle x della forza esercitata dall’ elemento ds sull’ elemento ds', è allora : che si può scrivere ponendo in questa A, 5, C, D in luogo di (1') id dsds'Y(A-B-C-D)cos@cos@' —"+Boose + Ccosll'cosa+ Deos@cosa'| È facile vedere in qual modo restano modificati i valori (10) delle componenti PP, P. della forza prodotta dal piccolo circuito circolare (Fig. 7°) sull’elemento ds', ed i valori (15) e (16) delle componenti P.P,P. della forza e delle compo- nenti m, m, m, della coppia, che l elemento ds (Fig. 9°) produce sul piccolo circuito circolare. Esaminiamo, per esempio, come si modifica il valore di $, delle (10). Indichiamo con A, B, C, D, ciò che divengono le funzioni ABC D quando vi si pone 7, al posto di ». La componente secondo la direzione x della forza che producono i due elementi pd posti in B e B' (Fig. 7°) sull’ elemento ds', assume questa espressione, in luogo di quella che trovasi in principio della pag. 239: 2i pdoti ds' a, — B,_C,+D,) E ni pcos'sen sen°@(r + p cososen 4) 1 + B, 1 cos B'coso(r+ p coso sen A) — C,— p così sen 7 sen*0| 3 1 FI Volendosi conservare solo i termini che entro la grande parentesi non conten- 5 3 1 3pcososen). gono f o lo contengono alla prima potenza, si potrà porre 3 2° gal = 1 __ peososen4 ° sull posto di nè) ed - - in posto di Si 1 Inoltre : dA dB A,Z4+5p cososenÀ, B,=B+-— pcososenA, ete. V 3 Sostituendo nell’ espressione precedente, e trascurando entro la grande parentesi le potenze di f superiori alla prima, si ha: 2i pda i ds' \ òB = \ —(A_B-D)p cos 8' sen 7 sen°@ + Br cos B' coso += rpcost sen 4 cos°@ — 251 — Integrando rispetto ad @ fra i limiti 0 e 7 sì ha: . 2 g,=- te (4_ BO, —D) cos 8'sen 4. Analogamente : 3 AO (10°) og, L'E [(4- o-°,_ D)cosa'snA—(B—0)cosy c0s4]. Tr . 2 LU Sla C) cos B'cos 7. pa Queste sono le formole che si trovano in luogo delle (10). Quelle che si otten- gono in luogo delle (15) e (16) sono le seguenti : preneise ) Tg eni Ser 0 )cos8sen A, . 2 (I «22 C_ D_D,)cosasenZ — (B— D) cos y cos], — ‘rete g_ D) cos 8 cosà ; \ m,=îrp°ids(CcosysenA —2DcosacosA), (16') è m,=trp'idsBcosBcosÀ, | m.=Trp'ids[— (A+ D)cosasen + Bcosy cos 4]. Le relazioni che si trovano eguagliando i valori (10') ai valori (9), e cioè le condizioni necessarie onde l’azione del piccolo circuito circolare sull’ elemento ds‘ sia identica a quella dell’ elemento magnetico 4, sano queste : ò 1 dB = e — pe, dB, port pi gi 3. Le ultime tre (di cui una qualunque è conseguenza delle altre due) sono sod- disfatte con L —2 A=3,B= = CORRA D=0, cioè assumendo la formola d’ Ampère, come pure con Il 1 FAI=:05 BET (a) D=0 (formola di Grassmann) e con altri sistemi di valori per A,B,C,D. Le relazioni che si trovano eguagliando le (15') e (16') alle (12) e (14), e cioè le condizioni onde l’ azione dell'elemento ds sul piccolo circuito circolare, sia iden- tica a quella dello stesso elemento, sull’ elemento magnetico vu (ammesso che la \ — 2592 — forza d'un elemento di corrente sopra un polo sia applicata all’ elemento), sono per ciò che riguarda le funzioni A BICE dB dD 1 2 IEP =_= =p=3 === = 1-B val C al D iris B--D rt 1 2 C=0, D=0, A =: B=—h; ; 1 — 2 ; ; ossia A=-; B= —-. C=0, D=0, che definiscono la formola d’ Ampère. In r Ces questo caso si ha una completa determinazione delle quattro funzioni ABC D. Infine coll’eguagliare le (15') e (16') alle (12) e (13), e cioè cercando le condizioni d'identità nella ipotesi che la forza d’un elemento di corrente sopra un polo sia ap- plicata al polo, si hanno, invece delle quattro ultime espressioni seritte, le seguenti: — 1 1 ’ (si === D=0, che definiscono la formola di Grassmann, ma PP che sono incompatibili colle relazioni trovate eguagliando le (15') alle (12). Si arriva dunque, colla formola (1'), allo stesso risultato finale trovato nei precedenti capitoli partendo dalla formola (1) di Stefan. 14. Si operi dunque colla formola (1) o coll’ altra (1°) più generale data nel precedente paragrafo, la conclusione che si può trarre dalla ricerca fatta è questa, e cioè che, mentre tanto la formola di Ampère che quella di Grassmann, ed altre ancora, possono soddisfare alla condizione che sia identica l’azione d’ un elemento magnetico e di un piccolo circuito chiuso ad esso perpendicolare, sopra un elemento di corrente, non v'è che una sola maniera per far sì che le azioni dell’ elemen'o di corrente sopra l’ elemento magnetico e sopra il piccolo circuito, sieno identiche, ed è 1° di assumere la formola di Laplace per esprimere l’azione d’un elemento di corrente sopra un polo magnetico, 2° ammettere che quest’ azione sia applicata all’ elemento di corrente, e 3° assumere la formola d’Am- père per esprimere l’azione d’un elemento di corrente sopra un altro. Le formole elettrodinamiche diverse da quelle di Ampère, come per esempio quella di Grassmann, sono quindi inconciliabili colla identità ammessa fra un ele- mento magnetico ed un piccolo circuito chiuso ad esso perpendicolare. Naturalmente è bensì vero che l’esperienza non può constatare direttamente questa identità, ma solo quella che esiste fra una piccola calamita ed un piccolo circuito chiuso, di fronte ad un’altra calamita o ad un altro circuito. Ma se, come tutto porta a credere, la piccola calamita consiste effettivamente in un sistema di correnti elettriche, l'identità deve logicamente supporsi verificata anche nel caso dell’ azione di un elemento di corrente, benchè questo possa non avere un’ esi- stenza reale. Ad ogni modo adesso è certo, che l’assumere una formola elementare elettro- dinamica diversa da quella di Ampère, come pure l’ammettere quelle teorie elet- — 253 — trodinamiche, le quali conducono ad espressioni diverse da quella di Ampère per l’azione fra due elementi di corrente, implica questo, che l’azione esercitata da un elemento di corrente sopra un elemento magnetico sia diversa da quella esercitata dallo stesso elemento di corrente sopra un piccolo circuito chiuso, perpendicolare all’ elemento magnetico, e percorso da una corrente d’intensità tale da essere equi- valente all’ elemento magnetico nell’ azione sull’ elemento di corrente; e ciò ripu- gna, in causa dell'identità di natura ammessa fra i fenomeni elettrodinamici ed i fenomeni magnetici. Resterebbe però ad esaminare ciò che accade se si ammette che un elemento di corrente possa, agendo sopra un altro, produrre su questo anche una coppia. Dopo la pubblicazione della memoria di Stefan, il Sig. Max Margules (') mostrò potersi ammettere, che la componente trasversale dell’ elemento ds agisca sulla longitudinale di ds' con una forza applicata in un punto, posto bensì sulla retta 7, ma che non coincide col centro di ds', e così si dica per l’azione della com- ponente longitudinale di ds sulla trasversale di ds'. Trasportando le forze nel centro di ds' nascono allora due coppie. Poscia, in un modo più completo già additato da G. Wiedemann (°), il Sig. Korteweg, (°) seguìto poi dal Lorentz ('), indagò quale coppia può in generale produrre un elemento ds sopra un altro ds', ed ag- giunse così alle coppie considerate da Margules, quella che può ammettersi come azione fra due elementi diretti perpendicolarmente fra loro e perpendicolari alla retta che li congiunge, coppia che il Margules non aveva presa in considerazione. Per avere la generalità più grande possibile, bisognerebbe dunque ammettere, che non solo un elemento di corrente agendo sopra un altro produce una forza, ma anche una coppia, e forse sarebbe interessante il vedere a quali condizioni un elemento magnetico può ancora comportarsi sotto ogni rapporto in modo identico ad un piccolo circuito chiuso ad esso perpendicolare. Puo darsi che in seguito completi la ricerca in questo senso. Ciò che intanto ho qui è esposto, potrà servire all'uopo di guida e di aiuto. Aggiunta. Durante la stampa di questo lavoro ho intrapresa la ricerca generale di cui è fatto cenno nelle ultime linee, e cioè ho determinato quali sieno la formola elet- tromagnetica e la formola elettrodinamica più generali, che soddisfino alla condi- zione, che un piccolo circuito circolare si comporti in ogni caso come un elemento (*) Wien. Sitzb. 17 october 1878. (3) Wied. Galv. 2, $ 54. — Wied. Elek. Bd. p: 1035. (3) Beibl. 1880 p. 686. (‘) Beibl. 1980 p. 692. — 254 — magnetico diretto perpendicolarmente al suo piano, ammettendo l’ esistenza anche di coppie, e senza presupporre che le azioni elementari sieno in ragione inversa di 7°, ma solo ammettendo che si annullino per 7 = co. Per l’azione d’un elemento di corrente sopra un polo si riconosce, che essa può considerarsi costituita da una forza e da una coppia. La componente della forza secondo l’asse delle x ha un'espressione, che si può scrivere prendendo la (4) del $ 3 e mettendovi E, 7, G al posto di 3; Li Li essendo £, F, G, funzioni inco- gnite di 7. La componente della coppia può poi dedursi, cambiando 7, G in I, L, e facendo E= 0, essendo /, L altre funzioni di r. Per l’azione d’un polo sopra un elemento di corrente si hanno formole simili, che contengono altre cinque funzioni di 7, E" F' G' I' L', al posto di quelle desi- gnate colle stesse lettere senz’ apice nel caso precedente. “e con queste formole generali si calcolano le azioni di un elemento magnetico sopra un elemento di corrente © viceversa, e si considera quali sono le forze e le coppie possibili in tali casì per ragione di simmetria, si trova che £, G, I, E',G',IT, devono essere zero, per cui le formole possono semplificarsi. Ma si può continuare nella ricerca facendo a meno di introdurre questa semplificazione, senza che i risultati sieno modificati. D'altra parte, l’azione più generale possibile di un elemento di corrente ds sopra un altro ds' consiste in una forza applicata al centro di ds' ed in una coppia. La componente secondo x della forza ha l’ espressione (1') del $ 13, che contiene quattro funzioni incognite di r, A, B, C, D. La componente secondo x della coppia ha per espressione: id dsds'‘(N—Q) cos9(“— ° coso'— I I cosy 3 +(Q—P) cos@' di. cn 2 cos 8)+ Q(cos y cos 8'— cos 8 cos v)!; nella quale N, P, Q, sono tre nuove funzioni incognite di 7, rispettivamente corri- spondenti a quelle designate con — (7), (H#), — (D) dal Wiedemann (Elek. Bd. IV, p. 1035). Dando espressioni opportune alle sette funzioni incognite, si deducono da queste formole generali, come ha mostrato Korteweg (1. c.), tutte le formole elettrodinamiche elementari proposte, e cioè quella di Ampère, quella di Grassmann, la formola potenziale di Helmbholtz ete. Con queste formole generali ho calcolato le azioni d’ un elemento di corrente sopra un piccolo circuito circolare, e viceversa; per ciascuno dei due casì si otten- gono sei formole che danno le tre componenti della forza e le tre della coppia secondo gli assi, e che contengono le sette funzioni incognite .14, B, CCD, NP, 0. Quindi, confrontando queste formole con quelle corrispondenti che valgono quando — 255 — al circuito circolare si sostituisce l’ elemento magnetico, ho determinato le con- dizioni necessarie onde si verifichi l ammessa identità. Queste condizioni sono le seguenti : do 1° Per ciò che riguarda le formole elettromagnetiche : h h lef=l=l=@=l=Wt, dele ha CS CS La forza F', applicata al polo e perpendicolare al piano passante per il polo e per l'elemento di corrente, e la coppia L', il cui asse giace nel suddetto piano i : ; : h 5 perpendicolarmente alla retta 7, si compongono in un’ unica forza + applicata 7 2 all’ elemento di corrente. Queste condizioni stabiliscono quindi la necessità di adot- tare la formola di Laplace, supponendo che la forza sia applicata all’ elemento di corrente anche nel caso dell’azione di un elemento di corrente sopra un polo: h indica una costante, che diverrà eguale ad 1 quando si adotti l’unità elettro- magnetica per la misura dell’ intensità delle correnti. 2° Per ciò che riguarda la formola elettrodinamica, non si giunge a deter- minare tutte sette le funzioni incognite, ma sei in funzione dell’ ultima, e si ha: d° ò epatiti pe 2. ame NE E=0 C A = = _— Snai . dr °° dr” dr? Queste relazioni determinano una legge d’ azione ponderomotrice fra elementi di corrente, che obbedisce al principio dell’eguaglianza fra lazione e la reazione, e che diviene identica a quella d’Ampère qualora si supponga Q= 0. Applicata al calcolo dell’ azione fra due circuiti chiusi, o a quella di un circuito chiuso sopra uno aperto, o viceversa, conduce agli stessi risultati che quella d’Ampère, giacchè i termini che contengono @ spariscono coll’ integrazione. Si riconosce poi che alle precedenti relazioni non soddisfano, nè la formola di Grassmann, nè la formola potenziale di Helmholtz, nè qualunque altra che ammetta l esistenza di un potenziale fra gli elementi di corrente, nè le formole speciali proposte per l’azione fra un elemento senza estremità di corrente ed uno dotato di estremità di corrente; per cui la sola formola d’Ampère, o quella più generale de- finita. più sopra, sono conciliabili coll’ identità delle azioni d’un elemento di corrente sopra un elemento magnetico e sopra un piccolo circuito chiuso, e delle azioni di questi su quello. Il volere adottare una formola che non soddisfi alle sei relazioni trovate, im- plica adunque che un elemento di corrente agisca in modo diverso sopra un ele- mento magnetico e sopra un piccolo circuito chiuso ad esso perpendicolare, il che non è logico, dal momento che si crede che un elemento magnetico sia nulla di diverso da una piccola corrente chiusa. — 256 — In tutto ciò non ho dovuto distinguere elementi con estremità di corrente da elementi senza estremità di corrente. D'altronde l’ elemento posto di fronte al pic- colo circuito circolare è un elemento qualunque, ed il circuito chiuso può a volontà considerarsi come formato da elementi con o senza estremità di corrente. L'esposizione di questa ricerca generale farà oggetto d’ una nuova Memoria. Siccome però questa, per varie circostanze, non potrà apparire forse che fra tempo non breve, così ho creduto opportuno aggiungere questo cenno alla presente Me- moria, nell'atto di correggerne le ultime bozze. ALCUNE RICERCHE SULLE INOCULAZIONI INTRAVENOSE DI VIRUS RABICO NEGLI OVINI MEMORIA DE ws BLELEDO OE (Letta nella Sessione delli 28 Aprile 1889). Il Professor V. Galtier di Lione, che fino dal 1880 si era occupato dello studio sperimentale della rabbia in diversi animali domestici, nonchè nella cavia e nel coniglio, aveva, operando sugli ovini, fatta una osservazione assai importante che a tutta prima poco curata dallo stesso Pasteur, fu poi recentemente confermata dal Nocard e da Roux. Probabilmente allo scopo di far svolgere più presto la rabbia negli ovini, il Prof. Galtier ricorse alla iniezione diretta nel sangue delle pecore della bava rac- colta da cani rabbiosi, ma contrariamente alla sua aspettativa e a quanto avviene non poche volte nel coniglio e nella cavia, in quelli non solo in un tempo prossimo o più tardi non si sviluppò la rabbia, ma neppure presentarono disturbi generali apprezzabili. i In altre ricerche, condotte a termine più tardi, potè convincersi che le pecore che ebbero la injezione nel sangue di bava rabica di cane, resistettero alle inocu- lazioni della stessa bava fatte sotto la pelle; mostrando così di avere acquistato una immunità contro la rabbia. Questi fatti importanti furono comunicati dal Prof. Galtier nell’ agosto 1881, all'Accademia delle Scienze di Parigi (1). Dopo un intervallo di parecchi anni queste ricerche sperimentali furono riprese e nel 1888 presentava all’ Accademia stessa una sua nota (2) che riassumeva tutte (1) Comptes rendus de 1’ Acad. des Sciences, 1 agosto 1881. (2) Nouvelles expériences sur l’inoculation antirabique en vue de préserver les animaux her- bivores de la rage a la suite des morsures des chiens enragés. Note comuniqué è l’ Acad. des Sciences de Paris, le 16 avril 1888. TOMO X. 39 — 258 — le più importanti osservazioni da lui fatte e dimostrava che coll’ injezione intra- venosa di virus rabico era giunto a dotare le pecore di una completa resistenza al virus stesso, inoculato direttamente sotto la pelle di regioni diverse del corpo. In questa nota il fatto dell’ immunità conferito coll’ injezione intravenosa, ac- cennato solo come probabile nella comunicazione del 1881, veniva qui annunziato come certo. Altre comunicazioni sullo stesso argomento pubblicava nello scorso anno nel Giornale della Scuola Veterinaria di Lione (1). Poscia nel luglio dello scorso anno Nocard e Roux pubblicarono negli Annales de l’Institut Pasteur, una interessante memoria sulla cosidetta vaccinazione dei ru- minanti contro la rabbia colle injezioni intravenose di virus rabico, nella quale, seguendo un metodo sperimentale rigoroso, vengono avvalorate le osservazioni fatte pel primo dal Prof. Galtier fino dal 1881. Le ricerche di Nocard e Roux furono incominciate nel 1884 e man mano vennero estese ad un notevole numero di animali ruminanti (2). Senza conoscere i fatti comunicati dal Prof. Galtier all’ Accademia delle Scienze di Parigi nel 1881, verso la fine del 1887 occupandomi io pure dello studio spe- rimentale della rabbia negli animali domestici, mi venne fatto di inoculare nella vena jugulare di una pecora e di un somaro una certa quantità di emulsione di bulbo cerebrale di un cane morto di rabbia furiosa, senzacchè in questi due ani- mali si svolgesse la rabbia e dopo trascorsi più di due mesi, occorsomi di avere disponibile altro materiale nervoso di cane morto di rabbia, ripetei l’ inoculazione intravenosa in ambedue gli animali, usandone una quantità notevole, non trascu- rando però questa volta di praticare collo stesso materiale rabico una injezione sotto durale in due conigli. (1) De l’inoculation antirabique en vue de préserver les animaux herbivores de la rage è la suite de morsures des chiens enragés. Conservabilité du virus rabique. Journal de Med. Vét. e Zoot., Lyon 1888, p. 59. — Nouvelles expériences tendant à démontrer l’efficacité des injections intraveineuses de virus rabique en vue de préserver de la rage. Journal de Med. Vét. e Zoot., Lyon 1888, p. 617. (2) Espériences sur la vaccination des ruminants contre la rage par injections intraveineuses de virus rabique. Annales de 1’ Inst. Pasteur 1888, p. 341. — 259 — Ma inutilmente, poichè mentre nei conigli si svolgeva la rabbia successivamente fra il 18° ed il 21° giorno dopo l’ innesto, nè la pecora, nè il somaro presentarono mai sintoma alcuno di apprezzabile malessere. Trascorso qualche tempo, dopo questo secondo risultato negativo, a me pure venne il pensiero di sperimentare se questi due animali avevano acquistata la immunità contro la malattia e attendevo una occasione favorevole per poter raccogliere virus rabico di cane. In questo mentre mi venne fatto di leggere nel fascicolo di luglio degli Annales de 1’ Institut Pasteur la memoria di Nocard e Roux sulla cosidetta vaccinazione dei ruminanti contro la rabbia mediante le injezioni intravenose. Allora mi interessai di ripetere pur io, nei limiti concessemi dagli scarsi mezzi di cui potevo disporre, alcune delle ricerche sulla immunità conferita alle pecore col metodo delle injezioni intravenose del Galtier. È appunto la relazione degli esperimenti eseguiti e dei risultati ottenuti che forma il soggetto di questa breve memoria. 1° Prova. — Il 10 Giugno 1888 muore in Clinica di rabbia un cane bracco del Sig. N. N. Raccolgo una piccola porzione di bulbo cerebrale e di midollo spi- nale e preparo con acqua sterilizzata una emulsione allungata che viene passata attraverso tela. Ne injetto lentamente nella jugulare di una robusta pecora un centimetro cubo e nella jugulare di un asino vecchio ma robusto, quattro cent. c. Non insorge alcun disturbo immediato. Il giorno dopo la pecora presentava un aumento di temperatura al retto di quasi un grado, ma non dava a vedere nessun segno di malessere. Nel somaro la temperatura si era mantenuta normale. Il 16 luglio viene portato in Clinica, proveniente dal Comune di Anzola del- l Emilia, un giovine gatto che ha morsicato una donna ed un bambino. Il gatto è indubbiamente affetto da rabbia. Muore nelle prime ore del mattino successivo. Preparo emulsione col bulbo cerebrale e midollo spinale e pratico una inoculazione sotto durale ad un cane volpino di mezzana statura. Li 29 luglio il cane presenta i primi segni di malessere, poscia insorge irre- quietezza e nei giorni successivi la rabbia furiosa. Muore il mattino del 2 agosto. Allestita emulsione col materiale nervoso rabico di questo cane, ne inoculo lenta- mente due centimetri cubi nella jugulare della pecora e sei centimetri cubi in quella del somaro. Nessuno dei due animali se ne risente. Il somaro è stato tenuto in osservazione fino alla prima quindicina di gennaio 1889 e non ha mai presentato segno alcuno di malessere. — 260 — 2° Prova. — Il 17 settembre muore in Clinica una cagnetta mops del Sig. Capitano V. di rabbia muta. Alla sezione cadaverica trovo lo stomaco disteso da quantità di foglie; intenso catarro gastrointestinale con infiltrazioni ematiche nello spessore della mucosa ga- strica e in parecchi punti di quelle dello intestino tenue. Milza ingrossata e a su- perficie irregolare, reni fortemente congestionati, vescica vuota d’ urina, polmoni normali, meninge cerebrale con forte injezione venosa ecc. ecc. Raccolto il virus rabico nel solito modo, inoculo due goccie dell’ emulsione ottenuta nella camera anteriore dell’ occhio destro della pecora anzidetta. Due goccie nell’ occhio di un grosso coniglio grigio scuro e faccio una injezione sotto durale ad un altro coniglio grigio chiaro. Il 17 settembre cioè 10 giorni dopo, la pecora mostrasi molto indisposta e cozza furiosamente e muore di rabbia alle 914 ant. del giorno successivo. Il coniglio inoculato all’ occhio muore di rabbia nella notte del 19 al 20 settembre. Quello inoculato sotto la dura madre il 22 settembre. La emulsione preparata col bulbo della pecora, il 18 settembre viene inoculata nell’ occhio, nella quantità di due goccie, ad una cagnetta di razza comuue, vecchia e di una goccia nell’ occhio di un robusto coniglio. Il coniglio moriva di rabbia paralitica il 27 settembre. Nella cagnetta i primi sintomi di rabbia si manifestarono il 28 detto con irre- quietezza e tendenza a mordere; poscia insorsero fatti paretici che progredirono lentamente, conducendola a morte il mattino del 3 ottobre. s° Prova. — 20 settembre. Quattro pecore robuste e sane ricevono ciascuna nella jugulare una injezione di due cent. cubi di una emulsione filtrata, preparata col materiale nervoso di un coniglio morto di rabbia di primo passaggio dal cane (cagnetta mops del Capitano V.) Due goccie della stessa emulsione vengono inoculate nella camera anteriore dell’ occhio sinistro di un coniglio, il quale presenta i primi sintomi della rabbia paralitica il 1 ottobre e ne muore il 6 dello stesso. Le 4 pecore non risentono alcun nocumento dell’ injezione intravenosa. 4° Prova. — 22 settembre. Un grosso montone robusto e giovine riceve nella vena jugulare 3 cent. cubi di emulsione filtrata, stata allestita col bulbo cerebrale e midollo spinale di un coniglio morto di rabbia di primo passaggio dal cane (inoculato sotto la dura madre col virus rabico della cagnetta mops del Capitano V.) Due goccie della stessa emulsione sono inoculate nell’ occhio sinistro di un coniglio che si ammala il 6 ottobre e muore di rabbia il giorno 8 detto. Il montone non presentò segno alcuno degno di fermare l’ attenzione il giorno dell’ injezione intravenosa, il successivo però era triste e rifiutò l’ alimento. Ma si riebbe rapidamente. — 261 — 5° Prova. 25 ottobre. Inoculo una goccia di emulsione di virus rabico di 5° passaggio da cane a cane, nell’ occhio di una delle quattro pecore che ebbero la injezione intravenosa di virus il 20 settembre (3° prova.) Il mattino del 6 novembre ad un tratto si sviluppò in essa la rabbia furiosa e ne moriva la sera del giorno seguente. 6° Prova. nella prova precedente, preparo emulsione e ripeto la injezione intravenosa in due altre pecore di quelle che ebbero la injezione il 20 settembre. Una di queste pecore ha la lana nera, l’ altra bianca. Ne faccio penetrare len- tamente nella jugulare tre cent. cubi per ognuna. La pecora a lana bianca muore pochi minuti dopo. 8 novembre. Col bulbo cerebrale della pecora morta di rabbia La sezione cadaverica fatta subito, mi fece ritenere che la morte era avvenuta in seguito ad embolia cerebrale. L’ altra pecora a lana nera mostrossi un poco triste e con respirazione frequente per pochi minuti, poi si riebbe completamente. Ritengo che questo disguido fosse da attribuirsi all’ avere usata una emulsione di sostanza nervosa un po’ troppo concentrata, poichè la injezione nella jugulare fu eseguita con molta lentezza. 7° Prova. — 2 dicembre. La pecora a lana nera della precedente prova che ebbe cioè due injezioni intravenose successive di virus rabico, riceve nella camera anteriore dell’ occhio sinistro una goccia di emulsione fatta con bulbo cerebrale di coniglio morto di rabbia di quarto passaggio. Il mattino del 14 dicembre trovo la pecora molto eccitata e che quasi di con- tinuo cozza facendo di tratto in tratto una specie di grugnito. Muore di rabbia furiosa nelle ore pomeridiane del giorno dopo. 8° Prova. — ll novembre. L'ultima delle quattro pecore della prova terza, che il 20 settembre ricevette un’ injezione intravenosa di due cent. cubi di emul- sione rabica, la inoculo sotto la pelle del collo in vicinauza alla testa con 15 goccie di virus rabico di quinto passaggio da cane a cane. Una goccia della stessa emulsione viene inoculata nella camera anteriore del- l'occhio di un coniglio che muore di rabbia il 2. dicembre. La pecora si mantenne perfettamente sana. Li 8 febbraio, ottantanove giorni dopo inoculo nella camera anteriore dell’ occhio sinistro di questa stessa pecora una goccia di emulsione di bulbo cerebrale di cane rabbioso avuto dal Municipio di Praduro e Sasso e che aveva morsicato parecchie persone ed altri cani. — 262 — Subito dopo una goccia della stessa emulsione la inoculo nell’ occhio di un grosso coniglio che muore di rabbia il 24 marzo. La pecora è stata tenuta in osservazione fino a tutto maggio e non ha mai presentato alcun segno di malessere. 9° Prova. 11 novembre. Il grosso montone che ebbe la injezione intravenosa il 22 settembre (prova 4°) riceve 50 giorni dopo, una injezione sotto la pelle della faccia interna della coscia di un centimetro cubo di emulsione di bulbo cerebrale di cane rabbioso di quinto passaggio. Una goccia della stessa emulsione è inoculata all’ occhio di un coniglio che muore di rabbia il 2 dicembre. Il montone mostrossi indifferente all’ injezione sottocutanea. Il 21 dicembre, cioè 40 giorni dopo, questo stesso montone riceve nella camera anteriore dell’ occhio destro una goccia di virus rabico di ottavo passaggio da cane a cane. La stessa quantità di virus è inoculata nell’ occhio sinistro di un cane volpino che presenta i primi sintomi di rabbia il 28 dicembre e ne muore il 1 gennaio 1889. Il montone è stato tenuto in osservazione fino a tutto giugno e non ha mai presentato alcun sintoma sospetto. 10° Prova. — 22 febbraio 1889. Con virus rabico di 8° passaggio da cane a cane, preparato nel modo solito, inoculo sotto la pelle del dorso dodici cobaje usandone due goccie per ognuna. Una grossa cobaja è inoculata all’ occhio con una goccia dello stesso virus. Quindi sotto la pelle del dorso in vicinanza alla spalla inoculo cinque conigli usandone 4 goccie per ognuno ed un sesto coniglio è invculato con una goccia nel globo oculare destro. Una cobaja muore di rabbia il 4 marzo, tre ne muoiono il 6, una il giorno 7, quattro il 10, una il 14 detto. In tutto di 12 cobaje inoculate al dorso ne muoiono 10 ossia 84 %. La cobaja inoculata all’ occhio muore di rabbia il 9 detto. Dei cinque conigli inoculati ‘pure al dorso, muoiono di rabbia due, l’ uno il 15 marzo, l’altro il 21 detto cioè il 40 %. Il coniglio inoculato all’ occhio muore di rabbia il 12 detto. — 263 — Prove con virus rabico fisso. Il 6 marzo 1889 ricevo dal Signor Dottor Barattieri di Milano, al quale ne avevo fatto richiesta, pezzetti di apparecchio nervoso centrale di un coniglio morto di rabbia di (123° passaggio.) Preparo emulsione e inoculo all’ occhio due conigli usandone due goccie per ognuno. Il 14 presentano la rabbia paralitica, il giorno dopo sono moribondi. Muoiono l uno nella notte, 1’ altro nel mattino del 16 detto. Separato con ogni cura il cervello e midollo spinale del coniglio morto per ultimo faccio una emulsione con circa 20 grammi fra bulbo e midollo spinale e 60 gr. d’acqua sterilizzata e filtro attraverso tela fina, poscia avendo disponibili tre pecore nuove che da alcuni giorni avevo tenute in osservazione e rilevata la temperatura rettale eseguisco su queste la 11* Prova. 16 marzo. Le tre pecore anzidette marcate in fronte coi nu- meri 1, 2; 3, ricevono la injezione di 3 cent. cubi di virus rabico fisso per ognuna nella vena jugulare. | i Un coniglio riceve nell’ occhio una goccia di virus e il 24 successivo presenta la paralisi rabica e muore il giorno dopo. Le tre peeore non presentano disturbo alcuno, sono svelte e mangiano come prima dell’ esperimento. Però la temperatura rettale dopo l’ injezione intravenosa presenta per alcuni giorni degli aumenti sensibili quantunque irregolari come si rileva dal seguente specchietto : 16 marzo - prima dell’ injezione . . . . Pecora 1° - 38°,8; Pecora 2* - 38°,8; Pecora 3° - 38°, 7. DD alla sera dopo l’injezione. » 39°,8 » 39°, 9 » 40°. 7 MILLION SI » 39°, 6 » 40° » 40°. » » SCIAMANO » 39°, 2 » 399,2 » 39°, 8. 18. >» MALtINORSESE RN » 39° » 39° » 40°. DIMMI Orani » 39°, 6 » 40°, 2 » 40°. 19 5 nto D RGLAtE eo ARetato » 39°, 2 » 389,6 » 40°. » » SOLAR » 38°,8 » 39°, 6 » 399,8. L00N0» MELO O 16 oto oro orlo » 38°, 6 » 39°, 2 » 39°, 8. >» as ORIO II ISVOTOI VIIAROTOI DA » 39°, 6 » 399,8 » 39°. 2» DILLON MES SOT » 39°, 2 » 39° » 40°. dD: (Dd EOLO A I » 39%, 8 » 39°, 4 » 40°. 220» MALUINOFAA NA » 39°, 2 » 38°, 6 » 39°, 8. Dei AOLARI IE II » DIO » 39°, 4 » 40°. Dt, MALLIMONI allen » 39°,4 » 39°, 2 » 39°, 6. Daf SOLMNUE Sla e O IRTOTO Daci 39° » 38°,6 » 39%, 2. 24 » MALTNORE Re » 38° » SEA? » 39°,3. » » FORD: oo also ica » 380,4 » 38°, 6 » 389,5. — 264 — 12° Prova. — 14 aprile. Il Municipio di Marzabotto invia alla Scuola il ca- davere di un cane stato ucciso con un colpo di fucile perchè rabbioso. Aveva morsicato altri cani e un ragazzetto alla faccia. Preparo virus rabico nel solito modo e ne inoculo una goccia nella camera an- teriore dell’ occhio di ciascuna delle tre pecore della prova precedente. Poscia è pure inoculato con una goccia dello stesso virus all’ occhio un robusto coniglio, che il 26 Aprile comincia ad avere i primi sintomi della rabbia paralitica e ne muore il mattino del 29 detto. Il giorno 28 rilevo che una delle pecore, quella segnata col N° 2 alla fronte, è triste e mangia con svogliatezza. Il giorno dopo è eccitata, cozza le compagne. Viene separata dalle altre. Insorge la paralisi agli arti posteriori e muore nella notte del 3 al 4 maggio. Il 30 aprile la pecora segnata col N° 3 presenta i primi sintomi rabidi i quali si aggravano a poco a poco. Il giorno 3 maggio è furiosa e muore nella notte. La pecora segnata col N° 1 non presentò segno alcuno di malessere quantunque sia stata tenuta in osservazione fino a tutto luglio. 13* Prova. —- 21 aprile. Muore in Clinica per rabbia furiosa un cane le- priere di alta statura del Sig. N. N. Preparo virus con 20 grammi circa di bulbo cerebrale e midollo spinale e 80 gr. d’ acqua sterilizzata, filtro nel solito modo e conservo a bassa temperatura. Alle ore 7 pomeridiane inoculo un centimetro e mezzo di questa emulsione virulenta per ognuna sotto la pelle della parotide di due pecore nuove segnate in fronte una colla lettera A e l’ altra colla lettera B. Una goccia di virus viene pure injettato nell’ occhio di un coniglio. Li 22 detto alle ore 7 antimeridiane e cioè dopo 12 ore injetto nella jugulare della pecora segnata A tre cent. cubi della stessa emulsione rabica e alle ore 5 pom. e cioè dopo 22 ore dall’ injezione alla regione della parotide, pratico la stessa ope- razione alla pecora segnata B usando due cent. cubi di virus. Il coniglio presenta i primi sintomi della rabbia paralitica il 5 maggio e ne muore la sera dell’ 8. ° Le due pecore non presentarono alcun segno di malessere quantunque le abbia tenute in osservazione fino a tutto luglio. 14* Prova. — Il 23 giugno muore per rabbia un cagnetto volpino stato consegnato alla Scuola due giorni prima. Preparo virus con circa 20 grammi di materiale nervoso e 80 grammi d’ acqua sterilizzata. Alle ore 9 ant. inoculo due grammi di questa emulsione virulenta profonda- mente nei muscoli della coscia di una pecora di alta statura, robusta e giovine ed — 265 — una goccia nell’ occhio di un coniglio. La emulsione rimasta la conservo a bassa temperatura. Il giorno dopo verso le ore 11 ant. e cioè più di 24 ore dopo la injezione intramuscolare alla coscia, la pecora riceve una injezione alla jugulare di due cent. cubi della stessa emulsione rabica. Il 14 luglio il coniglio comincia a presentare, i primi sintomi della paralisi rabica, muore nelle ore pomeridiane del 16 detto. La pecora non presenta a tutt’ oggi (24 agosto) alcun segno di malessere. In conclusione le osservazioni raccolte in queste due serie d’ esperimenti dimo- strano che : » La injezione intravenosa di virus rabico comune o di virus rabico fisso negli ovini non dà luogo per sè stessa allo sviluppo della rabbia. » Quando l’ injezione intravenosa è eseguita lentamente e che la emulsione di sostanza nervosa usata non sia troppo densa, non si determinano disturbi nella circolazione sanguigna. » Gli ovini che ricevettero injezioni intravenose di virus rabico ordinario cosi- detto di strada o di 4° e 6° passaggio da cane a cane non hanno resistito all’ ino- culazione criterio endoculare di una goccia di virus rabico ordinario. » Invece altri ovini che ebbero pure injezione intravenosa di virus rabico di strada o di 4° e 6° passaggio da cane a cane, hanno resistito all’ inoculazione cri- terio sottocutanea eseguita con notevoli quantità di virus. » Questi stessi ovini sottoposti, dopo un tempo piuttosto lungo (fra i 40 e i 90 giorni) ad una inoculazione endoculare con due goccie di virus rabico di strada o di ottavo passaggio da cane a cane, mostrarono di avere acquistata una grande resistenza, poichè non se ne risentirono in alcun modo. n Le cavie ed i conigli sottoposti ad inoculazioni sottocutanee di virus rabico di ottavo passaggio da cane a cane, muoiono di rabbia nella proporzione, le prime circa del 80 per %, i conigli di circa il 40 per %. » Gli ovini che ebbero injezione intravenosa di virus rabico fisso di coniglio (125° passaggio), per la maggior parte non hanno resistito all’ inoculazione criterio endoculare di una goccia di virus rabico ordinario. » Infine le injezioni intravenose di virus rabico cosidetto di strada eseguite dodici, ventidue o ventiquattro ore dacchè gli ovini erano stati inoculati profonda- mente sotto la pelle della regione parotidea con notevole quantità dello stesso virus rabico, impedirono in tutti lo sviluppo della rabbia. , TOMO X. 34 tb Pio dedi Ù Ita (29 i Lig Pi Li SÙ ire i: dan, i bu its ite Pea (op per “bid 1 Mina pot Soana upol: 0 ra Gicp Gale feed IT so coloro use ‘2 tI sidro 3 vinta asili, AIA vert nodi. ivano: bla 2 pin lo Le È i artisti ; tt gio, da ‘ den zii Mtpuli naar on 4 iris À ghi nta La: vr i s'e ogrcl ib Di psn na SIC, run LATO i | ‘Mai è "A Ming, inaida DIAL cata nie fe È druta DE ar Lo i gi te it i la uw., si è IR ida @ Ù RIHIC, Ly dA. LIA ilazae 1 fot el UL hi va iN; sun A ipgrtann para STOUT su I'TICEITIRI osi o 10 Piliuoldiva: sant ionta tgho anta) artigo anda î Lab sarobito Kja NIETO OST TOOTI dol spl pp versa | Cisspeia Reato dre a at Alan Merci sia pro i a Mi a dubita fn fica pi arpa uns? «tag; scala; sBivalitod fto edi ta PORTA stia portanti EE spa TRE Pit Mib tuali: e Stiro sile” are Prev iicarrattno ne: java a A da Mary RCHORE aule tan iti vario re ssi; ‘iasrinoni ch ai Tgrantanani des. sla celati RSA Salusigii F Paini BRIGA pid como one scavo E ae Lu: s i A ao LIETA Filiale pia “pigra IC hi une Hona Mito Artio fi rus, mani e 1 pre VEE SIE an vati SSM8; pienza da È ar nti Flea ui sei dr so. set pr siii iis ILLUSTRAZIONE AL TEOREMA DEL MENABREA INEÉ©A DEL PROF. LUIGI DONATI (Letta nella Sessione ordinaria del 28 Aprile 1889). In una Nota precedente “ Sul lavoro di deformazione dei sistemi elastici , pre- sentata a quest'Accademia (*) ebbi a toccare fra altro della quistione del minèmo del lavoro cui sì riferisce il teorema del MrexaBREA, in relazione coi principi gene- rali della teoria dell’ elasticità. Ritornerò qui brevemente su tale quistione aggiun- gendo alcune osservazioni allo scopo di viemmeglio mettere in luce il significato e la portata del teorema stesso. Prendendo come stato di riferimento lo stato S, di equilibrio spontaneo (senza azione di forze esterne) del corpo o sistema che si considera, indicherò con a, b, Cc, vi VA) h, X, Ve, 4 Y(=Z), X(= Zi)» X(= YO 2) due sistemi di 6 funzioni dei punti dello spazio connesso 7 occupato dal corpo, che si corrispondano giusta la legge potenziale: di guisa che denotando con ee Pla, b, Cf 9 h) la forma quadratica che, nell’ ipotesi che le a, d,... X esprimano delle componenti di deformazione, rappresenta il potenziale di elasticità, le funzioni della 2° linea si deducano da essa per derivazione, cioè de de de z (1) dg Vee (e= P(a, d,... h)) (*) Memorie dell’ Accademia, Serie IV, Tomo IX. — 268 — e reciprocamente de (1') CET) b h= 3 (ec i@260 MZ) __ de pisi i 5X dove B'(X,, Y,;... X,) denota la forma quadratica reciproca. E porrò ancora ) E a ROTA OZ VOZNOZI — —? ara) —_£ I — Do i H— es para (2) ima dy d2 Li dx dy DZ da dy nio X=Xa+X6+Xy, Y,=Ya+Y,B6+Yy, 4,7=Za+46+4y di cui le tre prime si riferiscono ai punti interni, e le altre ai punti della super- ficie, essendo a, 8, y i coseni di direzione della normale n. Nell'ipotesi predetta che si tratti di un reale stato di deformazione, al sistema (a, b,... h) risponde un sistema (,v, w) di componenti di spostamenti, per modo che essendo x, y, 2 le coordinate dei punti nello stato $,, esista uno stato S del corpo connesso in cui +, Y+®v, 2+w sieno le coordinate degli stessi punti materiali, e È du dv Ù dw f dv DE dw dw je du du agg dv GA== — — = = — _ = — _ = — = ) da” dy' dz? peer dy de’ dalle quali eliminando «, v, w si hanno le 6 equazioni cui devono soddisfare le a, b,... h per costituire un sistema congruente, cioè per poter rappresentare le com- ponenti di una deformazione possibile del corpo connesso. Allora le funzioni coniu- gate X_, Y,,-.. X, dedotte colle (1) rappresentano le componenti della tensione nei punti considerati; ed anche per queste funzioni si hanno corrispondentemente 6 equazioni di congruenza (cui devono soddisfare per poter rappresentare effettivamente le componenti di tensione nei punti di un corpo deformato) che si deducono da quelle relative alle a, d,... X_ per sostituzione mediante le (1'). — Le #) G, H e le X,, Y,1 4, definite dalle (2) rappresentano in tal caso ciò che chiamai elaterà in- terni e superficiali, cioè le forze o reazioni elastiche che nascono dalla deformazione e che nella condizione di equilibrio sono uguali e contrarie alle forze esterne: e vi ha corrispondenza univoca fra i detti elaterii e gli spostamenti, di guisa che dati gli uni, gli altri risultano pienamente determinati. Qui si vuole intendere in generale che le a, b,... & e le X,, Y,;--- X, possano essere qualunque, non escludendo cioè i sistemi di valori non congruenti; e solo si suppone sempre la mutua corrispondenza espressa dalle (1) e (1'), in virtù della quale dato arbitrariamente il sistema (a, d,... 2), ne risulta determinato il sistema (X,, Y,,.- X,); e reciprocamente. Notiamo però che se per un punto (&, y, 2) si — 269 — considera un intorno o porzione elementare del corpo che si riguardi come isolata e indipendente dal resto, si può sempre intendere che le a, d,... X_ arbitrariamente date in quel punto rappresentino le componenti di una deformazione della parti- cella considerata, e le X,, Y,,... X, dedotte colla (1), le componenti della corri- spondente tensione, e reciprocamente. Perciò daremo in generale ai sistemi coniugati (a, b,... A) e (X,, Y,,.--X,) il nome di deformazioni e tensioni rispettivamente, ed alle F, G, H; X,, Y,,Z, il nome di elaterii. E così pure daremo in generale il nome di lavoro di deformazione all’ integrale o=fear (=9(,0,.)=P(X,,Y,,-3) sebbene nel caso che manchi la congruenza esso non rappresenti un reale incre- mento d'energia dovuto alla deformazione del corpo connesso, ma semplicemente una somma computata idealmente pei diversi elementi considerati come indipen- denti. In tal caso ® va riguardato come funzione (funzione di campo) delle defor- mazioni o delle tensioni, mentre nel caso di congruenza esso può anche considerarsi come funzione degli spostamenti o degli elaterii. Indicherò poi con da, db,.. dh e TX, d Y,,... dX, delle variazioni corrispondenti dei valori coniugati a, b,... &k e X,, Y,,-- X,; e con dF, dG,... DX, de, ID le conseguenti variazioni di F, G,... X,;--. ©, Per de, in base alle (1), (1') si ha la doppia espressione (@) = de=tda+-=Xda+Y9D+-+Xdh, (=90b,.-1) Ù de 7 r (4) “cia OX: a0X L00Y,+-.410X (PX, VE) da cui corrispondentemente si ha per dd = - fdede (5) do — - f(x, da Mii rd, (5) d®=f(adX + dY, +-+ 10X)dr. Nel caso particolare di sistemi congruenti, sostituendo in queste per le a, b,... 4; da, db,... dh i loro valori in base alle (3) e quindi applicando il noto processo di trasformazione, si ottengono le altre (6) dd — — f(EdU + GIv+ Hdw)dt — f(x du + Y,0v+Zdw)do, (6') dd= —fudr+ vG+vdH)dr— |U0X, +10 Y_,+v0dZ)do . — 270 — Più propriamente, per passare dalla (5) alla (6) si richiede in realtà solo la con- gruenza del sistema di variazioni (da, db,... dh), che implica l’esistenza del sistema (du, dv, dw); sebbene in tal caso sarà ovviamente da supporre anche la congruenza dei valori primitivi (4, b,... 4) per partire da uno stato di deformazione possibile. Per passare dalla (5') alla (6') invece si richiede solo la congruenza dei valori primitivi (a, b,... 1); e le variazioni (da, db,... Oh), cui corrispondono le (9X,, dY,,... dX.), si possono supporre qualunque. Introducendo anche qui la segnatura abbreviata già usata e spiegata nell’altra Nota, le stesse espressioni prendono la forma più comoda (6) dd = — Z[7du], (6') fot [ud]. Ciò posto, prendiamo ora a considerare uno stato S di deformazione possibile definito dai valori congruenti (a, d,... 4), (X,, Y,,.- X,), e che potremo riguardare come stato di equilibrio del corpo soggetto all’azione di forze esterne (X) uguali e contrarie in tutti i punti agli elaterii (7). Se si considerano dapprima delle variazioni pure congruenti (0a, dd,... dA), (0X,, dY,,.-- 0X,), rispondenti a degli spostamenti virtuali dei puniti del corpo connesso, sarà applicabile l’ equazione generale d’ equilibrio data dal principio di Lagrange la quale posta l’ esistenza di un potenziale P delle forze esterne, talchè 2[Xdu]= —0@P, viene come fu detto l’ altra volta a significare un minimo (pel caso di equilibrio stabile) della somma ® + P, ossia dell’ energia potenziale com- plessiva costituita dall’ energia di deformazione più l’ energia del sistema delle forze esterne. Per il lavoro ® preso a sè, è quistione di un minimo relativo; ed è a questo che sono ora dirette le nostre considerazioni. Apparisce dall’ ultima equazione che si avrà un minimo di ® subordinato alla condizione 2 [Xdu]= 0: che è quanto dire che ® sarà un minimo nello stato £ rispetto a tutti gli stati vicini S' (di deformazione possibile) tali che il passaggio da S a S' importi un lavoro nullo per parte delle forze esterne. Allo stesso risultato si giunge considerando direttamente l'espressione (6) della variazione prima di ® (la variazione seconda è sempre positiva, come fu dimo- strato nella 1.* Nota), che ci indica un minimo subordinato alla condizione 2[zdu]= 0, che ponendo per gli elaterii le forze esterne (X=— 7) si riduce alla precedente. Partendo invece dalla (6') si ha la condizione 2 |[ud7]= 0, che riferita alle — 271 — forze esterne (OX = — d7) diviene 2 [u®X]= 0. — Finchè si resta, come ora si è supposto, nel campo di variazioni congruenti, questa seconda forma della condi- zione del minimo è equivalente all’ altra, poichè si ha 2[yd«]= 2 [ud]. Ma essa ha questo di proprio che la (6‘) da cui dipende sussiste, come si è detto, anche per variazioni non congruenti: il che ci porta a guardare la quistione del minimo sotto un punto di vista più generale ed astratto. Se infatti partendo ancora come sopra dallo stato S, si considera un sistema Cad (00M OSIO nimo di ® subordinato alla condizione ® [ud7]= 0: la quale si presenta così gene- ralizzata ed applicabile a variazioni qualunque, a differenza dell’altra 2 [7du]= 0, che contenendo le (du) è applicabile solo a variazioni congruenti. Onde si conclude all’ esistenza di un minimo relativo del lavoro di deforma- zione ® nello stato S di equilibrio, e ciò sotto due punti di vista differenti, cioè: 1) In senso ordinario e ristretto, limitandosi alla considerazione di variazioni congruenti ossia di deformazioni possibili del corpo o sistema connesso preso nel suo insieme. In questo caso la condizione cui è subordinato il minimo si traduce di variazioni qualunque ( Dl; si avrà ancora giusta la (6') un mi- nell’ equazione (17) — Z[mdu]=0 ovvero Z[Xdu|=0, oppure nell’ altra (7) Z[udy]=0 ovvero X[ud.X]=0. Il lavoro ® sta allora a rappresentare veramente l’ energia del sistema (contata a partire dello stato .S, di equilibrio spontaneo), e può riguardarsi come funzione sia degli spostamenti («), sia degli elaterii (7) o delle forze esterne (X), al che corri- spondono le due forme (7), (7°) dell'equazione di condizione, le quali del resto sono in questo caso equivalenti. 2) In senso più generale ed astratto, riferendosi a variazioni qualunque con- gruenti o no. In tal caso la condizione si presenta solo nella forma (7'), ed il lavoro ® deve intendersi definito semplicemente da fear (e= (a, b,.. 1) =P(X,Y,,--X)); onde la variazione dd = f Cedt non significa variazione dell’ energia realmente posseduta dal corpo connesso, ma una semplice somma di termini relativi agli ele- menti staccati. Tuttavia nelle applicazioni si potrà dare alla cosa un carattere più concreto, immaginando il sistema convenientemente diviso in un certo numero determinato di parti e considerando delle variazioni corrispondenti a deformazioni possibili di ciascuna presa separatamente: con che ® verrà a rappresentare la somma delle energie di deformazione possedute dalle singole parti riguardate come indipendenti. — 272 — In ciò che precede rientra il teorema del MenaBREA, che si suole enunciare dicendo che “ è lavoro sviluppato nella deformazione di un sistema elastico sotto V'azione di date forze esterne è un minimo , ovvero “ al lavoro di deformazione è un minimo nello stato di equilibrio compatibilmente coi valori delle forze esterne ,. Ma qui per chiarezza convien distinguere se le forze esterne, sotto cui il sistema si trova deformato ed equilibrato, s’ intendono date in #utti i punti sia dell’ interno che della superficie (ritenendo dato il valore zero dove non è applicata alcuna forza); ovvero se le dette forze non sono realmente assegnate che in parte, mentre in alcuni punti il loro valore non è dato direttamente, ma si hanno invece altri dati o condizioni, o, come si dice, dei legami imposti al sistema. Nell’ un caso è evidente anzitutto che non può esser quistione di minimo inteso alla prima maniera. Poichè per la corrispondenza univoca esistente fra gli sposta- menti e gli elaterii, ogni sistema di variazioni (0) a partire dallo stato di equi- librio porta necessariamente qualche variazione degli elaterii; onde supponendo dati questi in tutti i punti (o ciò che è lo stesso, date le forze esterne), non è possibile nessuna variazione congruente conciliabile con quei valori; e però non avrebbe senso il dire che il lavoro è un minimo compatibilmente coi valori dati. — Riferendoci alla seconda maniera invece, possiamo ben immaginare dei sistemi di camtazioni ( O Yo OATNOMII0N degli elaterii, tali cioè che si abbia pei punti interni ) compatibili coi dati valori delle forze esterne o Ax) __ I@X) _, AOL) = x > 000 PROT_0P e pei punti della superficie ODIO NI IRIOX OX COSTE MOZZO ossia in generale dg = 0 in tutti i punti. Per questi sistemi la condizione (7') risulterà senz’ altro soddisfatta: onde il teorema in discorso si presenta come appli- cazione particolare del minimo subordinato alla detta condizione. Nell’ altro caso invece, mercè l’indeterminatezza delle forze in alcuni punti (resistenze dei legami), sono possibili anche delle variazioni congruenti conciliabili coi valori dati negli altri punti (forze attive). — Distinguendo le forze date o attive (X) dalle resistenze (X°), la (7') può scriversi 2 [udX]+Z[wX']=0, ovvero, ponendo per quanto sì è detto che le d_X sieno tutte nulle, DI [OX] —i0E — 273 — e questa, per una proprietà. caratteristica delle resistenze sviluppate dai legami (supposti invariabili) che fu rilevata nell'altra Nota, risulta verificata per qualunque sistema di variazioni congruenti. Onde si conclude che lo sviluppo delle resi- stenze (X') avviene in modo da rendere il lavoro ® un minimo: la qual condi- zione può servire in generale a determinarne il valore. Si vede adunque che si hanno due distinte proposizioni di minimo — l'una cioè riferibile a variazioni non congruenti che lascino invariate le forze in tutti i punti, e l’altra, per sistemi soggetti a legami invariabili, riferibile a variazioni congruenti che lascino invariate le forze nei punti liberi -—- che ambedue si possono considerare riunite nel teorema del MenABREA. Fermiamoci ora più particolarmente sul significato della prima delle due pro- posizioni nominate. Notando che le espressioni (5'), (6') della variazione 0D = /dedr si riferiscono al caso che e sia espresso per le tensioni, si vede come la detta proposizione serve a caratterizzare lo stato interno di tensione (e indirettamente, per la supposta legge di corrispondenza, lo stato di deformazione) di un corpo soggetto all’ azione di date forze esterne (X) con questo, che il sistema (X,, Y,,... X,) renda un mi- nimo fed (e=P(X,, Y,;,.- X,)). E siccome il sistema in discorso, come quello che risponde al reale stato di equilibrio, è congruente, ed è il solo sistema con- gruente conciliabile coi dati valori degli elaterii (7 = — X), si vede altresì che la proprietà del minimo si presenta come caratteristica della condizione di con- gruenza. — Più direttamente ciò viene espresso dal seguente teorema: Fra tutti i sistemi immaginabili (X,, Y,,....X,) pei quali le (7) ossia le F,G,H,X,,-.. Y definite dalle (2) conservano uno stesso valore, il sistema che rende minimo l integrale fear (@=97,;- A) è quello che sta a rappresentare uno stato possibile di tensione del corpo deformato, quello cioè per cui il sistema (a, b,... h) corrispondente in base alla legge potenziale se- condo le (1') rappresenta il sistema di componenti di una deformazione possibile. Per dimostrarlo si osservi che dovendo per la condizione posta ogni sistema di variazioni (0X,, 0 Y,;. OX) verificare le equazioni òF=0, dG=0, dH=0; dX,=0, dY,=0, dZ,=0, se indichiamo con 4, u, v delle funzioni indeterminate delle coordinate, varrà per il sistema in discorso l’ equazione Soa +f(4d1+ udG + vd Mar + f(AdX, + dI, + vdZ)d0=0, TOMO X. 35 — 274 — ovvero (1'), (2) Sad +11, +-+ 10x)dr + È ca .30X) I) Ie dy DE A0X,0+dX,6+dX.y)) + (POLI ATI) dt + +u(0Y,a)+dY,B+dYy))dr=0 (02, ddZ,) 202) \+20Z,0 + dZ,6 +dZ.y) 6 e ea la quale trasformando i due ultimi integrali col solito processo e poi raccogliendo, si riduce facilmente alla forma ; e questa dovendo verificarsi qualunque sieno le dX,, 0Y,,... OX, nei diversi punti del corpo, dà luogo al sisterza di 6 equazioni [-V]ox+[- =] Oasi PG 3] dx, de = 0, A I dy . dx che devono sussistere per tutto il corpo. Ora queste hanno la stessa forma delle (3) da cui non differiscono che per esservi le 4, ,v al posto delle ,v,w; e così fanno vedere senz’ altro che le a, d,... # rappresentano, come si era enunciato, le componenti di una deformazione possibile; che è poi quella che terrebbe equilibrio al sistema di forze esterne rappresentate dai valori delle F, G, H, X,,... presi con segno cangiato. Onde si ha che ogni sistema (X,, Y,,.. X,) che per dati valori degli elaterii rende un minimo l’espressione del lavoro di deformazione, corrisponde ad uno stato possibile di tensione del corpo deformato, ossia ad un possibile stato di equi- librio. La qual proposizione si presenta come la reciproca di quella che abbiamo presa ad esaminare, e serve a rilevarne il significato. Se poi si tiene conto anche dell’ altra proposizione relativa alle forze indeter- minate o resistenze nei sistemi vincolati, si vede che la stessa tendenza al minimo del lavoro di deformazione che regola lo stato interno di tensione a senso della proposizione precedente, regola anche il modo con cui si distribuisce ed equilibra LI lo sforzo del sistema contro i legami fra cui è costretto. STORIA DI UN PROENCEFALO UMANO NOTABILE PER LE PARTI CEFALICHE EXTRA ED INTRACRANIENSI E PEL TESCHIO OSSEO RECITATA DAL PROF. LUIGI CALORI nella Seduta del 17 Novembre 1889. Sono già nove anni passati da che io trassi materia di ragionare davanti questo dotto Consesso da un Proencefalo umano singolare per certe parti soprannumerarie sembianti a dermocimiche, o vero a mostruosità per inclusione cutanea (1). Fin d'allora io aveva in pronto l’ anatomia di un altro Proencefalo avuto nel 1844 dalla squisita gentilezza del Dott. Yann di buona memoria, la quale anatomia fui vietato di aggiugnere all’ anatomia di quello per non legare le importantissime anomalie ch’ essa presentavami, con le parti soprannumerarie divisate. Ma lasciata ire la detta congiuntura, mancando della opportunità per coglierla, stornato da altri argomenti che l'un l’altro da poi si succedettero, quasi dimentico di quel- l'anatomia, essa è giaciuta fin qui inedita; e inedita sarebbe tuttavia, se certi particolari di lei non me l'avessero tornata alla mente, sicchè avendola riveduta, e trovatala non iscaduta della importanza che parevami avesse quando la feci, rinnovatala in alcuni punti, l’ offro oggi come penso di quest’ anno Accademico. Il lodato Dott. Yann presentandomi il Proencefalo l’accompagnava con queste notizie. Il feto mostruoso a termine, che le invio, è della Beverara contado di Bologna, e l’ha partorito senza soccorso dell’arte, però privo di vita, una donna trentenne, madre di altri tre figli tuttora vivi, ben conformati e sani, essi altresì partoriti a termine felicemente. Ne’ primi mesi di quest’ ultima gravidanza cadd’ ella sulle natiche a pian terreno senza che ne riportasse danno manifesto. La madre di lei, vecchia settantenne, mi ha detto che un’altra sua figlia nacque con una tumidezza situata a sinistra della sede tenuta dalla grande fontanella, la quale tumi- dezza alquanto gonfiava, vagendo la bambina o stridendo, e compressa, ella pure (1) Memorie dell’Accademia delle Scienze dell'Istituto di Bologna. Serie IV, Tomo I. pag. 27. — 276 — si quetava, e pareva si addormentasse. Il medico che la visitò, le fece una leggiera fasciatura, ma la bambina in capo a due mesi morì. Se quella tumidezza fu un encefalocele, come le divisate apparenze sembrano persuadere, e come io credo, si avrebbe un esempio di encefalocele congenito ereditario. Come il feto era stato espulso felicemente, così le secondine, le quali nessuna aderenza mostravano avessero avuto con la testa di esso lui; ed il funicolo ombel- licale era crasso e di normale lunghezza. La sua corporatura e peso erano da feto perfetto. Aveva tinta alquanto cianotica, il testicolo destro solo nello seroto, il sinistro all’ anello inguinale esterno. Mende nel tronco e negli arti non ci erano, salvo che nei piedi, tutti a due vari. Collo grosso, brevissimo, sorreggente un teschio piccolo, orrendamente deforme, come infossato tra le spalle (Tav. I, Fig. 1°-2?). Il cranio, già coperto di capelli, è ben poco elevato, atrofico per la grande atrofia della regione parietale e frontale. La regione occipitale a, è, è normalmente estesa, ma piatta in gran parte ed ascendente fino alla tuberosità occipitale esterna, come meglio vedremo nel cranio spoglio delle parti molli ed isolato. Al davanti della regione parietale, o meglio dalla parte media della regione frontale, che è molto bassa, o dalla fontanella anteriore muove il voluminoso tumore d, periforme, od ovale, rosso fosco nell’apice, largo nella base posta contro la fronte poco sopra il naso, e cadente su questo e sulle orbite. Era poi molle, elastico, oscuramente flut- tuante. Tastandolo alla base era niente poter sentire il forame dond’ era uscito il cervello. Il diametro longitudinale di esso lui è di 69 millim., il trasversale mas- simo di 45: la sua maggiore circonferenza di 210 millim. Sollevando il tumore (Fig. 1°) si vede subito che l’ atrofia parieto-frontale si estende alla faccia, la quale è molto obliqua e sporgente, o vero prognata, come meglio apparisce dal teschio osseo (Fig. 7°, Tav. II), e le più notabili per atrofia e defformità sono le regioni oculari, nasale e mascellari superiori. Le regioni oculari e, e, Fig. 1°, Tav. I sono infossate come in chi furono estirpati i bulbi, che mancano veramente, e così le palpebre, ed i sopraciglij; il naso 9, è oltre dire schiacciato, e come sepolto in una fossa lateralmente circoscritta dalle guancie molto paffute, di sorte che guardando la faccia di profilo, esso naso non apparisce (Tav. cit., Fig. 2*). Il labbro superiore 4, A, Fig. 1°, Tav. I, è largamente aperto nella parte media, e questo labbro leporino medio va congiunto ad una gola lupina enorme. Avanti di pormi all’'anatomia del tumore suddetto, anzi del teschio mostruoso, ho aperto il torace e l'addome per vederne lo stato dei visceri, che ho trovato normali, eccetto che le capsule surrenali erano soprammodo piccole, e le vene tutte turgide di sangue. Fattomi poi subito al tumore ed alle parti nel cranio contenute, tagliando tutto intorno il sacco del primo, e levando la parete superiore e posteriore del secondo, come nella Fig. 3°, Tav. II, metteva in vista la struttura di esso sacco, non che le parti ch’ esso capiva, e quelle eziandio che capiva il cranio. La struttura del sacco era quale suol essere negli encefaloceli della volta craniense. La dura madre è costituivane la membrana interna, cui succedeva un tessuto connettivo — 277 — lasso, poi la membrana c, producimento del pericranio: all’ ultimo il comune inte- gumento a, nudo di capelli, molto sottile all'apice del tumore, il quale integumento aveva sotto sè il pannicolo adiposo solo nei due terzi posteriori. Entro il sacco stanno il corpo tondeggiante x, la grande vescica 0, 0, la vena o seno venoso 2, e la porzione anteriore de’ corpi p, p, situati a cavalieri del forame erniario, e chiudenti questo forame. Il corpo » consta di sangue rappreso, chiuso in una cisti membranacea, tinta di sanguigno, colore trapelato e passato fino alla pelle del- l'apice del tumore. La grande vescica 0, 0, è il cervello anteriore uscito di sede pel forame erniario della fontanella anteriore, già vestito della pia meninge e del- l’aracnoidea, il quale cervello per un feto a termine è piccolissimo, riuscendo ap- pena la terza parte della mole ch’ egli avrebbe dovuto avere, ed equiparandosi a quella che è del cervello pertinente ad un feto di quattro in cinque mesi. Il quale cervello 0, 0, veduto dalla faccia superiore od anteriore lo ricorda veramente; non così dalla faccia inferiore o posteriore (Fig. 4°, Tav. II), ove si mostra tondeggiante, globoso, e ritraente meglio della semplice vescica. Nella faccia superiore od ante- riore (Fig. 3° cit.) offre un solco longitudinale assai poco profondo, situato non nel mezzo, ma a sinistra, il quale lo divide in due come emisferi, uno destro mag- giore, l’altro sinistro minore, e nel quale era contenuta la vena che vedi tagliata in 7, compresa in una piega della dura madre. Tolto il velamento dell’ aracnoidea e della pia meninge ai detti emisferi, apparivano bene alcuni indizi di solchi e di circonvoluzioni; ed esaminatone le sostanze, ond’erano composti, le trovava alquanto più sode che non sogliono essere ne?’ feti, sicchè eravi tendenza alla. sclerosi, ma il colore loro era normale. Tagliando circolarmente questi emisferi spicciò fuori un umore sieroso citrino, medriocremente albuminoso, e la cavità che contenevalo, costituiva un ventricolo comune ad entrambi. Le pareti di questo ventricolo avevano superiormente la grossezza di 12 millim., la quale però era minore in corrispondenza del solco longitudinale sopradetto, inferiormente di poco più della metà. Questo ventricolo poi era tutto chiuso, ciò è a dire senza comunicazione con altre cavità, non essendo questo cervello anteriore continuo con le altre parti cefaliche, ma af- fatto separatone, interposti essendovi tra queste ed essolui i corpi p, p. Entro quel ventricolo non vi erano nè corpi striati, nè talami ottici o cervello intermedio, ma si aveva solo la sua cavità, semplice, non troppo ampia, liscia, ripetente la forma degli emisferi. Finalmente i corpi p, p; sono giallognoli, sodi, fibrinosi, i quali approfondandosi aumentano di volume degenerando in una massa irregolare 9, 4; Fig. 4°, di un colore più carico come ranciata, sottoposta parte alla vescica 0, 0, parte entro il cranio. Questi corpi hanno avuto la medesima origine del corpo globoso #, ma sono più antichi e degenerati. Dentro il cranio al di dietro della massa 9, 9g, apparisce il corpo globoso #, Fig. 4°, cavo a cavità lineare longitudinale nel mezzo, le pareti della quale cavità sono lateralmente grosse formate di sostanza cerebrale, internamente sottili, quasi membranose. Questo corpo 7, rappresenta i talami ottici o. cervello intermedio — 278 — sciolto da ogni continuità con la vescica cerebrale anteriore 0, 0, da lui per così dire divelta, e privato di tutte le parti con esso lui attinenti, e da esso lui deri- vanti, eccetto la glandula pineale movente dalla parte media della sua faccia supe- riore. Qui questa glandula non è in forma di pigna, ma di rotonda ed ampia vescica membranosa idropica y, Fig. 3°, frapposta ai corpi p, p, ed al cervelletto v, , la quale vescica, giova notare, elevavasi premendo contro la parte media della regione parietale, ond’era coperta, e producendo quegli effetti che sogliono le idropi ce- rebrali sulle sinimensi. La cavità della vescica y comunicava già con la lineare del corpo 7, e non era anormale se non per la soverchia ampiezza; chè primor- dialmente la glandula pineale è cava, e della cavità può occorrerne un vestigio anche a svilpppo perfetto, il quale vestigio è chiamato ventriculus conarii. Lo stato delle parti descritte indica certamente una formazione difettiva, un difetto di sviluppo, e quanto alla glandula pineale, anche morbosità. Questa circo- stanza con lo stato di esso lei sembra mostrarne una corrispondenza 0 rapporto con la mancanza degli occhi notata di sopra. Così fatto rapporto parrà molto strano, ma la sua stranezza vien meno quando si considera l’ origine e la significazione della glandula pineale medesima. È dessa da principio un processo cavo della parte superiore della vescichetta cerebrale anteriore a somiglianza delle due vescichette oculari primarie, le quali originano da’ lati di quella vescichetta. Ma appresso quando ha luogo la distinzione di esso lei in cervello anteriore ed in cervello in- termedio, tanto la glandula pineale, quanto le vescichette oculari divengono perti- nenze esclusive del cervello intermedio, e tali rimangono per tutto il corso della vita. Nel caso nostro le vescichette oculari o non si sono formate, o sono scomparse, ed è rimasto solo il processo pineale impedito nella sua organizzazione dall’ idrope, la quale già si notò poterne essere causa della distruzione. Tale la corrispondenza o rapporto tra questo e quelle. Ma se questo rapporto fosse semplicemente così, sarebbe da mettersi più che mai in contestazione. Se non che la significazione di esso lei lo sorregge. Questa significazione non è già quella che la dice un organo epiteliale enigmatico destinato a scomparire, ma ben tutt’ altro. L’anno 1882 Rabl Ruckhardt investigando il cervello ne’ pesci si diede a credere che la glandula pineale potesse essere il rudimento di un terzo occhio. Questa congettura è divenuta un fatto indubitato per la scoperta del Dott. W. B. Spencer, al quale felicemente sortì di trovare cotesto terzo occhio denominato pineale o parietale perfettamente formato nell’ Hatteria punctata, che è una specie di Saurio che vive presentemente nella novella Olanda od Australia, ove eziandio tuttora vivono 1 Ornitorinco ed il Cangru, strani animali dell’epoca terziaria. L’ anatomia comparata dunque ci ha data la vera interpretazione della glandula pineale, e messa fuor di dubbio la cor- rispondenza o rapporto tra esso lei e gli organi visivi. Al di sotto della glandula pineale y ha il cervello medio che è piccolo, non quadrigemino, ma bigemino; e al di dietro del cervello intermedio il corpo s, formato dai peduncoli cerebrali, essi altresì piccoli, uniti e confusi insieme, sì che — 279 — manca la sostanza perforata media, come tante altre parti della base. Il cervel- letto v, x, è voluminoso, posteriormente piatto, spostato, portato in alto ed ante- riormente sotto l'angolo lambdoideo e la parte posteriore della regione parietale, in contatto con la glandula pineale che le sta davanti: il quale spostamento non ha incontrato ostacolo per non esserci il tentorio, il quale non era più richiesto per essere il cervello uscito di cavità, nè più in rapporto con esso. Finalmente nulla ho a dire della protuberanza anulare #, e della midolla allungata «, Fig. 4°, Tav. II, essendo queste parti normali. Le membrane avvolgenti le parti cefaliche intracraniensi descritte sono, non sarebbe duopo dirlo, quelle stesse del cervello anteriore 0, 0, con le quali sono continue, non soffrendo discontinuità per la inter- posizione del corpo fibrinoso sopradescritto. La dura madre non forma il tentorio, ed ha appena un rudimento della piccola falce: manca il diaframma dell’ ipofisi o glandula pituitaria in un con questa. Al davanti poi del luogo ch’essa avrebbe dovuto occupare, la dura madre leggiermente si avalla, e così avvallata si pro- lunga fino al frontale, ed al segmento inferiore f, Fig. 5* del forame erniario, senza che vi habbia una distinzione di fosse media ed anteriore della base cra- niense. Trovasi poi in‘essa dura madre il seno trasverso, il cerebelloso posteriore, il circolare del grande foro occipitale, e gli altri seni o vene della base sono molto sottili, e poco apparenti, tranne i cavernosi. La pia madre presenta nel quarto ventricolo, solo veramente esistente, un bel plesso coroideo. Questo ventricolo me- diante l’ acquedotto del Silvio comunica con la cavità lineare del cercello intermedio come di costume. Quanto alle arterie non vi è che una carotide cerebrale, ed è la sinistra 2, Fig. 4°-5*, Tav. II. Hannovi due vertebrali, la destra 7, Fig. 4*, Tav. cit., e la sinistra 2, e queste due arterie non si uniscono, secondo che sogliono, per formare la basilare, la quale poi è una semplice continuazione della vertebrale sinistra 2. La vertebrale destra 7 si limita a spargere rami alla midolla allungata, alla spi- nale, al cervelletto ed al plesso coroideo prefato. Rispetto ai nervi cerebrali, mancano le quattro prime paja (Fig. 4*-5°, Tav. II), e questa mancanza conviene con quella degli organi dell’ olfatto, e della vista. Questa mancanza è patentissima contemplando la base del cranio, velato dalla dura madre (Fig. 5°) non che la faccia del Proencefalo e 1’ osteologia del teschio. In luogo degli occhi o bulbi oculari ha un tessuto connettivo carico di pinguedine, nel quale si disperdono i nervi abducenti, gli unici che fra i nervi motori dei bulbi anzidetti ci siano. Questi nervi abducenti poi sono molto sottili, e nel loro corso anteriore ingraciliscono vieppiù, colpiti già da atrofia. Questa circostanza in un colla pinguedine tenente luogo dei bulbi oculari pare ne faccia abilità di pen- sare, che detti bulbi da principio ci fossero, e che di poi siano scomparsi per metamorfosi adiposa. Pare anche ci fosse l'apparecchio lagrimale, poichè occorrono le ossa costituenti la doccia del sacco lagrimale e del canal nasale, e quest’esso. Finalmente non vuolsi lasciare, che i trigemelli sono un po’ piccoli. — 280 — Facendoci ora all’ osteologia del teschio, ed osservando particolarmente le Fig. 6°-7°, Tav. II, ne si para subito davanti ciò che non ci hanno permesso di ben vedere le Fig. 3*-5*, Tav. II, cioè il forame erniario a. Questo forame è situato nella parte media della sinimensi coronale, o fronte-parietale, precisamente nel luogo della fontanella anteriore, qui discesa molto in basso per la grande atrofia de’ frontali c, c. La sua forma è elissoide, ed il suo diametro trasversale misura 15 millim., il verticale 13 in 14, ed a proporzione del tumore ernioso, e special- mente della sua base, è desso piccolissimo, siccome ne convince il confronto delle Fig. 1%-2°-3*, Tav. I-II con le Fig. 6°-7°, citate di sopra. Da sì fatta sproporzione pare sia lecito inferire che la vescichetta cerebrale anteriore, uscita di cavità per tempissimo, forse quando essa divisavasi in cervello anteriore ed in cervello inter- medio, abbia pur fuori del cranio continuato a crescere fino alla grandezza quasi del cervello di un feto quinquemestre, ovvero non accettando questo egresso così precoce, e come a dire embrionale, per la opinione che gli encefaloceli congeniti non avvengono che alla metà circa della gravidanza, sia uscita a poco a poco: la quale lentezza, secondo che ognun vede, pare nel caso nostro non troppo ammis- sibile. La sede poi del forame favorisce l’ opinione di coloro, che vogliono farsi gli encefaloceli congeniti nelle sinimensi e nelle fontanelle, siccome parti del cranio più cedevoli; ed è stato tempo, certamente non troppo remoto da questo, che fu tenuto essere il forame erniario l’effetto di uno sviluppo diffettivo, ponen- dosi che la volta del cranio fosse ne’ primordj longitudinalmente aperta, e che la parte longitudinale media di quest’ apertura fosse l’ultima a chiudersi, e rima- nendone imperfetta la chiusura in un punto, quivi il forame donde protubera ed esce la parte corrispondente di cervello a formar ernia, di qualità che fu posto non poter essere gli encefaloceli congeniti che sulla linea media della volta craniense. Tanta è l’erroneità di questa ipotesi che sarebbe un perder tempo fermarsi a confutarla. D’ altra parte gli argomenti contrarj sono a tutti cono- sciuti. Mi limiterò a dire, che forami erniari ed encefaloceli congeniti, occorrono pure nelle sinimensi e fontanelle laterali; che certi naturali spiragli del cranio, quali il forame embrionale o fetale del corpo dello sfenoide, la fessura sfenor- bitale, alcuno de’ forellini della lamina cribrosa dell’ etmoide possono diventare forami erniari; che questi forami possono accidentalmente avvenire nelle ossa già bel e formate, p. es., ne’ parietali, ne’ frontali lungi dalle sinimensi e dalle fonta- nelle per una forza premente o propulsiva continuata del cervello, o meglio di una sua parte, la quale forza tutti sanno essere sempre mai richiesta alla pro- duzione dell’ ernia. E per verità possono aversi forami accidentali nella volta cra- niense senza ernie cerebrali, e possono aversene altresì de’ straordinarii, a mio credere, normali senza tali ernie. Alludo qui al forame o forami della regione frontale del cranio di quella varietà gallinacea chiamata da Lin., Phasianus Gallus cristatus (Gallus cristatus Brisson), conosciuta comunemente sotto la denominazione di galline Padovane, singolare per avere il “ caput cirro exornatum , secondo = 9080 la frase dell’Aldrovandi (1), cioè a dire di un bel ciuffo o cresta di piume foltis- “ erista verticali plumosa densissima , secondo la frase del Blumenbach (2). E poichè il discorso è caduto sopra questa curiosa conformazione craniense, voglio per via di digressione parlarne alquanto a disteso, massime rispetto le cagioni e significazione di quello o quei forami. Dico dunque che il cranio della detta varietà gallinacea veduto in profilo (Fig. 13*, Tav. II) si mostra conformato a sella per una doccia o depressione tra- sima, sversale e corrispondente ad una cresta interna e, Fig. 15*-16*, che trovasi pure nel cranio della gallina comune e di altri uccelli; la quale doccia e cresta e lo distinguono in due bolle o vesciche c, d, ampiamente comunicanti fra loro, ma non sì che inferiormente interposta non siavi una celletta che nasce dal dividersi che fa inferiormente in due branche la cresta discendendo (Fig. 15°), la quale celletta accoglie il lobo ottico o cervello medio. Delle quali bolle o vesciche una è posteriore minore d, data al cervelletto, l’altra anteriore maggiore c, quasi del doppio più grande, sì che parve un altro cranio al Borelli (3), contenente un cer- vello voluminoso “ praeter morem luxurians , così qualificato da Pallas (4), molto sporgente in alto ed in avanti g, Fig. 16°, Tav. II ed a vario grado assimetrico. Il forame o forami sopradetti f, f°, f?, Fig. 14° (5) corrispondono alla parte ante- riore di essa grande bolla o vescica e del cervello g, e sono otturati da mem- brana, ma certi tra loro, e sono i più piccoli, ed anche certi esilissimi in alto solitari, da vasellinìi sanguigni che si fanno strada per essi. La membrana otturante poi è un residuo del cranio membranoso, internamente soppannata dalla dura madre, esternamente coperta dal pericranio, e la vescica nella sua volta insiem con quelli dal grosso strato o cuscinetto in guisa di callottola bd, costituita da grasso e da nu- merosi follicoli assai stivati appartenenti alle piume della cresta, delle quali sono organo generatore, e perciò limitato ad essa grande vescica, mancando affatto sotto la pelle che copre la doccia e la bolla o vescica minore suddivisate, ad amendue le quali parti lassamente aderisce a differenza di quella che appartiene al detto (1) Ornitologiae, hoc est de avibus pars altera. Lib. XIV, pag. 310-11, sumptibus Bibliothecae an. 1696. Descrive e dimostra due varietà gallinacee a capo cirrato o crestato, una ad arti poste- riori lunghi, l’altra a cortissimi detta da contadini veneti Pepule, forse corruzione di Pumiliones che viene tanto a dire quanto nanae. Solo della prima è tenuto proposito in questa digressione. (2) De anomalis et vitiosis quibusdam nisus formativi aberrationibus Commentatio recitata D. XI Jul. MDCCCXI, pag. 19, in Comm. soc. Reg. Gotting. rec. Vol. II, ead. an. MDCCCXI-XITI. (3) Petri Borelli, Hist. et Observ. medico-physic. Centuriae IV, Francofurti 1670, cent. 2, p. 157. Eccone le parole: « Servo.... cranium gallinae cui quasi aliud caput informe adhaeret ». (4) Spicileg. Zool. Tom. I, Fasc. IV, pag. 20 e seg. (5) Ho detto forame o forami, ben s'intende, perchè variabili di numero, essendovene quando uno largo otturato da membrana, quando due di forma ovale, come osservò Alietti Protomedico a Venezia (vedi Ed. Sandifort, Museum anat. acad. Lugd. Bat. 1793, Tom. I, pag. 306), ed essen- dovene finalmente quando uno piuttosto grande con a'lati de’ forami piccoli che danno all'osso l'aspetto di cariato. Questa varietà è la più comune, ed è quella che ho rappresentata. TOMO X. 36 — 282 — ‘cuscinetto, o meglio di quest’ esso aderente al pericranio. Il grasso poi è misto coi follicoli del descritto cuscinetto, ed è più copioso ai due estremi che alla parte media. Alcun potrebbe credere che il cuscinetto una e la foltezza della cresta fossero date a difesa delle imperfette e sottili pareti della vescica anteriore (1), ma esse pareti non sono sempre così sottili come nella Fig. 15°, Tav. II, chè esse hanno talvolta non poca grossezza (2), salvo che intorno al forame, secondo che si vede nella Fig. 16%, Tav. cit., la quale contingenza non si confà troppo con quella in- terpretazione. Senza che la vescica craniense anteriore può essere poco dilatata ed elevata, e non avere alcun forame frontale o sincipitale, ed esservi una bella cresta, formata però di penne più lunghe, ma meno fitte e senza quel cuscinetto, e ciò ho veduto in un gallo crestato adulto. Già Blumenbach aveva notato che dell’ano- mala conformazione descritta “ tenuia saltem rudimenta eaque nonnisi perraro in gallis observantur , (3), e Dareste scrive: “ Il est fort remarcable que cette ano- malie n’ appartenait d’ abord qu’ a un seul sexe, le sexe femelle; aujourd’ hui ap- partient aux deux sexe , (4). L'eccezione presentata dal gallo suddetto è dessa altresì un’ anomalia da contrassegnarsi con l'epiteto di atavica, stante che l ano- mala conformazione del teschio della razza gallinacea crestata fu da prima acci- dentale, poi ereditaria, come già hanno posto i due sullodati Autori, di qualità che l'eccezione non è che un ritorno del cranio e del cervello alle condizioni loro avanti la prima comparsa dell’ anomalia. Ma tornando alla considerazione di quei forami otturati, non è duopo notare, essendo chiaro e manifesto per sè, che da essi non protubera, e molto meno esce una parte di cervello a formare ernia, nè possono aversi in conto di forami erniarii; ma voglionsi considerare quali residui di una grande fontanella impediti dall’ ossificarsi per la forte pressione e distensione del cervello anteriore troppo voluminoso e sporgente, sviluppantesi e crescente con molto maggior forza nutritiva che la volta soprappostagli, onde a diffettiva ossificazione sono essi forami a recarsi. A diffetto pure d’ ossificazione pare che l’ Hagenbach altresì l’attribuisca, aggiugnendo però che quella conformazione di eranio costituisce uno stato affine all’ Emicefalia (5), ma in questa il cervello è a nudo, mancando la volta craniense (6), laddove nella gallina crestata il cervello non è a nudo, ma (1) Si potrebbe dire altrettanto dei peli, anche fitti, onde può andar fornito il tegumento che copre la spina bifida nascosta (obtecta). Così il maggiore sviluppo del dermatoscheletro compen- serebbe il diffettivo del neuroscheletro. (2) Tale grossezza è molto notabile; chè più per lei che per l'ampiezza della vescica craniense anteriore pare si possa collocare con Alessandrini l’anomalia fra le iperostosi (Novi Acad. scient. Comment. Inst. Bonon. Tom. V, pag. 58). (3) Op. cit., pag. 19. i (4) Recherches sur la production artificielle des monstruositès. Paris 1877, pag. 98. (5) Vedi in Muller’s Archiv. Berlin 1839, pag. 311. — Ed. Hagenbach, Untersuchungen iber den Hirn und Schidelbau der sogenanten Hollenhiùhner, pag. 324. (6) Potrebbe non essere a nudo, ma coperto dalle meningi e dalla pelle, nel quale caso si tratterebbe di un’ernia; lo che non si confarebbe per nulla con la conformazione del cranio e del cervello della gallina crestata. — 283 — coperto della detta volta, e così è non solo nell'adulto, ma e nel pulcino, ov’ egli è coperto dal cranio membranoso. Ben è vero che possono trovarsi de’ pulcini della gallina crestata encefalocelici, ma sono eccezioni. Spring (1) poi e Dareste (2) hanno quei forami per erniarii, dicendo il primo, che nell’ ultima metà della vita embrionale il pulcino della detta gallina offre un encefalocele frontale, il sacco del quale è formato dalla membrana della fontanella frontale, o dalla porzione corri- spondente del cranio membranoso, dalla dura madre e dall’ aracnoide parietale; che dentro il sacco ha dello siero ed una porzione de’ lobi anteriori del cervello; e che più tardi, sol dopo che il pulcino è fuori del guseio, cominciano .a comparire nella membrana della fontanella delle piccole isolette ossee che si vanno riunendo lasciando tra loro dei vani, nè mai estendendosi a tutta quanta la membrana: donde i forami della porzione anteriore della vescica craniense anteriore e l'aspetto cariato da lei offerto. Per Dareste in fine hanno a considerarsi quali residui del forame craniense di una Proencefalia ereditaria delle galline polone chiamate a torto pado- vane, essendo elleno originarie di Polonia, secondo ch’ ei dice (3). Ma si può obbiet- tare essersi presa la vescica craniense anteriore o la parte anteriore di lei per un sacco erniario o per una membrana di questo, intanto che essa è data a contenere naturalmente il cervello; che non è vero che habbiavi la detta effusione sierosa in quella età del pulcino, la quale effusione sarebbe un’idrope meningea che com- primerebbe la porzione anteriore dei lobi anteriori del cervello, i quali per la compressione di prominenti che sono, diverebbero schiacciati, e si avrebbe così in luogo di una sporgenza o prominenza erniosa una depressione. All'ultimo a volerla qualificare un’ ernia. proencefalica converebbe che il cervello od una porzione di esso lui fosse fuori del cranio, ma nel pulcino, non altrimenti che nell’ adulto, il cervello è dentro il cranio, membranoso che sia od osseo. Laonde io mi confermo nell’ opinione che quei forami della vescica anteriore craniense ossea otturati da membrana sono da difettiva ossificazione causata dalla forza premente e distendente di un cervello anteriore soprammodo voluminoso. E qui alcuno per avventura domanderà se l’ eccedente volume del cervello (1) Monographie de la hernie du cerveau, pag. 50 e seg. In Mém. de l’Acad. Royale de Mè- decine de Belgique. Tom. troisieme. Bruxelles 1854. (2) Op. cit. pag. 28-254 e seg. (3) Nota Dareste (Op. cit., pag. 155-57) che la Proencefalia in questa razza gallinacea « è la fin du siècle dernier appartenait en propre au sexe màle, tandis qu’aujoursd’ hui elle existe dans les deux sexe ». Per lui Proencefalia e anomala conformazione craniense e cerebrale di essa razza suonano il medesimo; onde sarebbevi contraddizione con l’aver egli innanzi posto che l’anomalia fu da principio della sola femina. Converrebbe dire che fu in prima del maschio, poi della femina da esso maschio trasmessale. — lo poi non le chiamerei polone, ma asiatiche, venendo elleno dal Pegù (India inglese), dalla Persia, da Rodi, ecc., e potrebbero chiamarsi anche egiziache, capensi, trovandosi eziandio in Egitto ed al Capo di Buona Speranza. — Vimont le dice comuni in Nor- mandia, e si aggiunga di altri luoghi della Francia. —- Ed. Hagenbach bha fatto le sue osservazioni sulle galline inglesi di questa razza, il gallo delle quali ha gambe più lunghe che nel nostro. — 284 — anteriore è da una massa maggiore di polpa cerebrale, o vero se è da idrocefalo interno o ventricolare, stante che i principali autori che hanno scritto sulla divisata conformazione craniense e sul cervello delle galline crestate, quali sono Stobeo (1), Pallas (2), Blumenbach (3), Vimont (4), Hagenbach (5), Spring (6) ecc. le quali- ficano per stupide, quasi dementi, deboli, vacillanti, vertiginose, epilettiche, di vita breve, terminanti apopletiche. Blumenbach però nota, che non semper così, e così è veramente, avendole io trovate belle e grandi, robuste, sane, molto dimestiche, e facili a lasciarsi prendere, golose, e molto ovifiche, così che vengono nel veneto preferite. Quelli che ne hanno esaminato il cervello, come Blumenbach (7) ed Hagenbach (8), non parlano punto di idrocefalo interno, ed io altresì che ne ho fatto anatomia, non l’ ho punto rinvenuto. In un caso osservato da Alessandrini avea la detta idrope, ma non era congenita, bensì acquisita, ed egli ci fa sapere che la giovane gallina che la presentava, era innanzi il morbo sana e vispa (9). Par dunque che habbiasi ad escludere l’ idrocefalo interno quale cagione dell’ ecce- dente volume del cervello anteriore. Blumenbach a spiegare la particolare conformazione del cranio e del cervello ha avuto ricorso ad una strettura o costrizione trasversale operata dalla pelle in corrispondenza della depressione che distingue le due vesciche o bolle craniensi (10), ma la pelle mal potrebbe fare da strettoja, siccome quella che trovammo debole e lassamente aderente in quel punto. Non dissimile è l'ipotesi del Dareste, acca- gionandone una compressione dell’ amnio sulla regione anteriore del cranio (11): ma tale compressione è lungi dall’ essere comprovata, od è molto dubbia. Non dirò delle aderenze del tuorlo e dell’amnio alla testa del: pulcino, ammesse pure dal Dareste (12), ed avanti lui da Stefano Geoffroy Saint-Hilaire (13), non però no- tate da A. G. Otto nella descrizione di un caso di ernia sincipitale con idrocefalo (1) Hilaei Stobaei, Observatio de exostosi mira in cranio Gallinae cristatae negli Act. litterar. et scientiar. Sueciae an. 1730, pag. 53. (2) Op. cit., l. c. (3) Op. cit., l. c. (4) Traité de Phrenologie ecc. Bruxelles 1836, pag. 150. (5) Op. cit., l. c. (6) Op. cit., l. c. (7) Op. cit., pag. 19. Tab. I, Fig. 1°. (8) Op. cit. Tafel XVI, Fig. 53-72; Taf. XVII, Fig. 10%-11*%-15° ecc. (9) Catalogo degli oggetti e preparati più interessanti del Gabinetto di anatomia comparata ecc. Bologna 1854, pag. 527-28 ecc. Ne fa un mostro da lui chiamato Megalocephalus frontalis. — Di sì fatta conformazione craniense aveva già innanzi parlato collocandola fra le iperostosi (Vedi pag. 282, Nota 2°). (10) Op. cit., pag. 19. (11) Op. cit., pag. 256. (12) Op. cit, pag. 113. Planche XI, Fig. 11°-12°. (13) Archives generales de Médecine, an. 1827, pag. 392. — 285 — osservata in un pulcino appena uscito del guscio, perchè non dovevano esserci (1), e che non trovansi nel pulcino della gallina crestata. Merita appena di essere ricor- data l’ opinione del Pallas che vedevane la cagione in un ibridismo, cioè nell’ac- coppiamento del Numida Meleagris con la femmina del Phasianus gallus, o gallina comune (2). Nè questa nè quello hanno la descritta conformazione di cranio e di cervello, e 1 genitori non possono trasmettere quel che non hanno, nei generati. Blumenbach ha vittoriosamente combattuta questa ipotesi (3), onde io men passo. E qui sia fine a questa digressione, la quale verrà forse imputata di soverchia lun- ghezza, ma non però di sconvenienza con il principale argomento di questo seritto. Pensando nel caso nostro alla formazione del forame erniario, tre congetture od ipotesi mi si sono parate davanti alla mente. Facendo considerazione che nella fontanella anteriore come nelle altre e nelle sinimensi in generale, la membrana che le costituisce, è molto vascolosa, e che non pochi vasellini sanguigni la tra- passano da banda a banda, ho pensato che avesse potuto accadere lo stesso che nella parete addominale anteriore, cioè che alcuno di quei forellini per una forza premente e distendente dallo interno allo esterno si fosse dilatato, e a detrimento della membrana della fontanella stabilito il forame erniario ampliatosi per il pas- saggio del cervello spinto fuori di cavità. Una seconda congettura è, che per la detta forza la membrana della fontanella menomata grandemente nella nutrizione si fosse oltremodo assotigliata e perforata, e l'uscita del cervello avesse allargato il forame. Una terza congettura è, che per una violenza esteriore siasi rotta la membrana della fontanella anteriore, e la rottura sia divenuta il forame erniario. Tale conget- tura ha suo fondamento prima di tutto nella caduta che fece sulle natiche la madre ne’ primi tempi della gestazione; l’urto della quale caduta sarebbesi per contraccolpo prepagato all’ embrione, nel quale forse per disposizione ereditaria, essendo che una sorella della madre pare che nascesse con forse un encefalocele della sinimensi coronale o fronte-parietale, fosse avvenuta la soluzione di continuità della mento- vata fontanella, od il forame erniario. In secondo luogo all'ammissione di una causa violenta o traumatica vien in appoggio il corpo fibrinoso p, p, 9, 9, Fig. 3°%-48, Tav. II, il quale fu certamente uno stravaso sanguigno, di cui si è dileguata la parte cruorosa per assorbimento, rimanendo la fibrinosa a completa separazione del cervello anteriore ectopico dal cervello intermedio. In terzo luogo è pure argo- mento che sembra soccorrere la congettura indicata quella separazione. Se non (1) Sexcentorum monstrorum descriptio anatomica. Vratislaviae 1841, pag. 49, N. LXXVII. (2) Acta Acad. scient. Petrop. Tom. IV, Part. sec. 1784, pag. 69. Mém. sur les variations des animaux. Prem. partie. Leggesi a pag. 97: « La Poulé a grosse huppe, par exemple, tient peut etre son crane renflé de la Pintade, dont cet espece imite assez ordinairement la moucheture ». Veramente io le ho vedute di un nero cangiante, in qualche punto bianche, di rado ;picchiettate, talvolta bianche. — Aldrovandi, Op. cit., pag. 311, dice il maschio ornato di cinque colori: nigro, scilicet, albo, viridi, rubro et luteo. Non è così nella Faraona. (3) Op. cit., pag. 20. — 286 — che contro queste ragioni stanno il potersi la separazione recare a strozzamento per la strettezza del forame ernario; che conseguentemente ad essa sia avvenuto lo stravaso sanguigno, e all’ ultimo che posta la rottura della fontanella, non sa- rebbe spiegabile l'essere rimasta illesa la dura madre sì intimamente unita alla membrana di quella. Ma delle cagioni del forame erniario sia detto abbastanza. Passiamo al teschio osseo. Questo è piccolissimo, ed il cranio anzi che essere ovale od elittico, ritrae, veduto superiormente (norma verticalis) del rombo, ma rombo irregolare, avendo gli angoli anteriore e posteriore ottusi e come troncati, ed osservandolo di profilo (norma lateralis), sembra un quadrilungo. Esso cranio poi invece di essere depresso, ed esserne la volta per così dire caduta sulla base, secondo che generalmente si trova, quando il cervello è uscito di cavità, è alto e globoso, e la regione facciale è molto obliqua e prognata, nè posta sotto, ma davanti il cranio non altrimenti che negli animali bruti. La quale particolarità dipende dall’ enorme atrofia della regione o vertebra frontale, la quale per giunta è, come vedremo, menomata di molte delle parti che la costituiscono; onde il cranio riesce molto scarso anterior- mente, mettendo subito in vista tale scarsezza una linea che salga verticalmente dai meati uditivi esterni alla volta, per la quale linea è mostrato ad occhio essere meno la porzione di cranio che le rimane davanti, quantunque a questa appartenga più della metà anteriore dei parietali. Un altro notabile non meno importante è che quantunque il cervello sia fuori del cranio, questo conserva tuttavia nella volta ben larghe le sinimensi, ma è consaputo che in questi casi le sinimensi scompajono, e l'unione delle ossa si fa o per sutura armonica, o per sinostosi. Lo che pure mostrò il Proencefalo con parti soprannumerarie dermocimiche ricordato da prin- cipio, e dimostra altresì il cranio di un Notencefalo, che io ho qui aggiunto non tanto per questo notabile e per l’altro dell’ oltragrande depressione della volta, quanto per un terzo notabile riguardante la regione nasale, e soprattutto le ossa del medesimo nome, come apparirà più avanti. La durata di quelle sinimensi, tutto che il cervello sia uscito di cavità, ha veramente faccia di eccezione, e sembra sfatare l’ opinione che pone venir meno le sinimensi e le suture quando il cervello è molto avanzato nel suo incremento, e rispetto all’ ultime, ha finito di crescere. E certamente nel caso nostro le sinimensi non avrebbero dovuto più esserci, poichè il cervello aveva traslocata la sua sede fuori del cranio, e fuori del eranio cresceva, di guisa che la vertebra craniense frontale non avendolo più a contenere era ridotta quasi a niente, e la vertebra parietale di molto impicciolita. Ma vi sono due cir- costanze, che ne danno ad intendere, perchè le sinimensi sono rimaste; e queste circostanze sono l’enorme volume della glandula pineale idropica, e lo spostamento del cervelletto salito ad alto sotto la parte posteriore della regione parietale. En- trambe queste parti intracraniensi erano suscettibili anco di crescere, l’ ultimo nor- malmente, l’ altra anormalmente, e per ciò le sinimensi corrispondenti ad esse sonosi non solo perpetuate, ma eziandio conservate larghe, come l’interparietale ne’ suoi — 287 — due terzi posteriori, la lambdoidea ecc. (Fig. 6°-7%, Tav. II); e pare che la minore larghezza inferiore ed anteriore della prima convalidi la supposizione, stante che la detta minor larghezza corrisponde ai corpi fibrinosi p, p, i quali non avevano per avventura onde poter crescere, ma avevano per loro natura onde atrofizzarsi e distruggersi. La ragione dunque della perpetuità delle divisate sinimensi è 1’ es- ser’ elleno in relazione particolarmente col cervelletto e con la glandula pineale, e non col cervello anteriore uscito di cavità e divelto dal cervello intermedio rimas'o dentro il cranio; il quale cervello anteriore poi avendo il suo principale rapporto con la vertebra craniense anteriore o frontale, ed avendo al postutto per- duto tale rapporto, è avvenuto che la detta vertebra si è per la massima parte distrutta, non restandone che gli archi (crura) divenuti piccolissimi, non più uniti per simimensi, ma per armonia, specie di sutura che suol precedere l’ unione per sinostosi. I quali archi e, c, Fig. 6°-72-9*, Tav. II, sono, come è ben manifesto, i due fron- tali, o le due metà del frontale fuor misura atrofiche, ed appena divisibili in porzioni frontale ed orbitale. La prima è assai bassa, e stretta, non convessa, ma piatta certo per la pressione del tumore erniario, e soprammodo obliqua, e così irregolare nella forma che non saprebbesi a quale figura somigliarla. Il margine od arco sopra- orbitale la limita dalla porzione orbitale, ed è più esteso nella sinistra che nella destra, e in entrambe manca l’ incisura o forame soprorbitale. Esteriormente ter- mina nel processo zigomatico, internamente offre tutto che esilissimo, il processo onde si articola coll’unguis, e si continua nella porzione nasale, che è molto stretta, ed apparisce per ciò lunga, divisa dalla sutura armonica sopradetta in due, una robusta e grossa pertinente al frontale destro ed articolantesi con le apofisi nasali dei mascellari superiori, l’altra molto sottile e puntuta, pertinente al frontale sinistro, esclusa da quest’articolazione per la sua brevità; nè vi ha tra loro il più che me- nomo vestigio d’ incisura. Il margine superiore o coronale degli archi o porzioni fron- tali c, c, non descrive mica più un semicerchio, secondo che suole, ma rassembra un cinque coricato, un po’ più grande nel frontale destro. La sua metà esterna discende obliquamente dall’ interno all’ esterno alla grande ala dello sfenoide, unita per sini- mensi, più larga a destra che a sinistra, con la metà esterna del margine anteriore od inferiore del parietale corrispondente; la sua metà interna è arcuata e tagliente, unita ad angolo acuto colla precedente, più lunga nel frontale sinistro, e spinta oltre la linea media a detrimento di quella del destro, ma solamente nella parte superiore, di qualità che la sutura armonica, per cui sono connesse le due porzioni frontali, si fa obliqua da destra a sinistra; onde avviene che la porzione nasale destra riesce più grande, come già notammo, della sinistra. Le descritte porzioni arcuate del margine coronale insieme unite compongono un semicerchio, od arco semilunare, il quale forma il segmento inferiore. del forame erniario, il quale segmento è come a dire fisso, tolto alle due porzioni arcuate di ampliarsi per non essere i due frontali fra loro articolati per sinimensi. I due margini sopraorbitale — 288 — e coronale descritti determinano le superficie della porzione frontale, l’ esterna delle quali è un po’ più estesa nella porzione sinistra che nella destra, e più in corri- spondenza della sinimensi fronte-parietale o coronale che in corrispondenza del segmento inferiore del forame erniario, dov'essa è strettissima, particolarmente nella sinistra. Nessuna bozza occorre, ed esteriormente di ciascuna ha la linea seabra semicircolare, che muove dal processo zigomatico, e forma il principio della linea semicircolare che determina superiormente il piano o la fossa temporale, e al di dietro di quella linea la piccola porzione data a completare anteriormente la detta fossa. La superficie posteriore della porzione frontale non offre veruna di quelle particolarità che in essa scorgonsi nelle condizioni normali, ed è strettissima e lievemente concava al di sotto del segmento inferiore del forame erniario. Una linea verticale discende dall'angolo del menzionato segmento, data a distinguere una incisura arcuata sottoposta al segmento medesimo, e la porzione orbitale, di cui appena occorre un rudimento articolato semplicemente con le grandi ale dello sfenoide mî, m°, Fig. 9°; chè le piccole 0, 0, e l’etmoide g, 7, oltremodo atrofiche e molto adimate diventano ossa della faccia, di qualità che nella base del cranio in corrispondenza della fossa anteriore ha un’ampia apertura pf in forma di cucur- bita, più estesa e larga a sinistra, chiusa lateralmente ed inferiormente dalle grandi ale e dal corpo n dello sfenoide anteriore, sopra la quale è tesa la dura madre (Fig. 5°); il fondo della quale apertura è formato dai processi orbitali dei mascel- lari superiori e da una lamina ossea loro interposta di cui appresso. I parietali d, d, Fig. 6*-7*, sono oltre dire atrofici e duri, più stretti anteriormente che posterior- mente, rovesciati o discesi per così dire in avanti ed in basso per l’ enorme atrofia della porzione frontale de’ frontali, ed uniti fra loro per una sinimensi più larga supericrmente e posteriormente al contrario di quanto suol essere in istato normale (Fig. 6°-7°): lo che già conviene con quanto fu notato rispetto la glandula pineale ed il cervelletto. Con la metà interna del loro margine anteriore e con la porzione men larga della sinimensi sopradetta essi circoscrivono superiormente il forame erniario costituendone il segmento superiore, forame poi chiuso lateralmente dalle sinimensi coronali o fronte-parietali. Nel cranio fetale le bozze parietali sono molto prominenti, e ad esse corrisponde il diametro trasverso maggiore del cranio mede- simo. Nel Proencefalo le dette bozze non sono troppo elevate, nè segnano la mag- giore larghezza del cranio, ma questa trovasi in corrispondenza dell'angolo posterior inferiore de’ parietali, od alla fontanella laterale posteriore. Quivi misurasi quel diametro trasversale maggiore, il quale è di 52 millim., laddove quello tra le bozze non è che di 39. Come i frontali ed i parietali sono deformi per grande atrofia, non così l’occipi- tale, il quale, tutto che sia piccolo, massime nella porzione lambdoidea g, Fig. 7°-8à, non l'è pero tanto quanto quelli, ma è deforme in questa porzione per aver essa assunto la simiglianza di un sette di cifera (Fig. 7°); imperocchè la parte di esso lei, che rimane al di sotto della tuberosità occipitale esterna, è ascendente e piatta — 289 — come se fosse stata compressa dallo indietro in avanti, intanto che la parte posta al di sopra di quella tuberosità piega anteriormente formando un angolo quasi retto in corrispondenza della tuberosità medesima. Per tal modo avviene quella somiglianza con un sette di cifera poc'anzi indicata. Questa compressione dallo indietro in avanti accoppiata alla compressione dallo avanti allo indietro operata dal tumore erniario rendono il diametro antero-posteriore del cranio assai breve; e per verità tale diametro misurato dal di sotto del segmento inferiore del forame erniario alla tuberosità occipitale esterna riesce di 49 millim. solamente: senza che le due compressioni agenti in contraria direzione hanno prodotto un altro effetto, quello di elevare la volta craniense, di depressa che avrebbe dovuto essere; eleva- mento il quale pur vedemmo dipendere tuttavia dalle parti cefaliche contenute. Onde che il diametro verticale del cranio misurato dal lembo anteriore del grande forame occipitale alla parte più larga della sinimensi interparietale è di 41 millim. laddove nel cranio depresso, che ho qui delineato, del Notencefalo, non è che di 30 millim., essendo in esso il punto più elevato del cranio la parte media della sutura coronale. La direzione ascendente della porzione lambdoidea al di sotto della tuberosità occipitale esterna è seguita in parte dalle porzioni condiloidee &, &, Fig. 7°-9*; infine la porzione basilare /, Fig. 8°9*, è normale, ed articolata per sincondrosi stretta internamente (Fig. 9°), molto meno esternamente (Fig. 8°), con il corpo dello sfenoide posteriore. Questo sfenoide (Fig. $°-9*, Tav. II) partecipa della picciolezza delle altre ossa e compone coi parietali la vertebra media del cranio, o sfenoidale assai poco estesa a rispetto dello stato normale di esso lei, e proporzionatamente meno della occi- pitale or descritta. Il suo corpo m, Fig. 9°, è molto stretto, e dovrebbe essere normalmente cubico, ma qui anteriormente ingracilisce e prende aspetto di cuneo n, sotto l’apice del quale si adima allargandosi e terminardo come in due processi od alette laterali 0, 0, articolate con l'osso q facente parte del piano inferiore o pavimento della cavità orbitale unica. Tale porzione di corpo una colle alette 0, 0, è senza dubbio un vestigio o residuo dello sfenoide anteriore oltremodo atrofizzato e adimato, come già fu detto, privo delle connessioni con le porzioni orbitali dei frontali che trovammo già quasi nulle, e quindi non più dato alla composizione di una volta o lacunar orbitale, nè delle fessure sfeno-orbitali, parti al postutto mancanti, come altresì i forami ottici. Esso corpo m poi ha il suo clivus ben svi- luppato, i processi clinoidei nulli e del pari la fossetta pituitaria, in luogo della quale occorre una linea media leggiermente rilevata che dal margine superiore del clivus va ad una piccola cresta avente un solchetto antero-posteriore nel mezzo, posta alla base del cuneo sopradetto; ai lati della quale linea veggonsi due piani inclinati, un po’ concavi, terminanti nelle doccette cavernose, così che quivi la faccia superiore del corpo dello sfenoide posteriore presenta un piccolo promontorio angoloso. La faccia inferiore del corpo m, Fig. 8°, è in gran parte nascosta dalla estremità superiore delle alette interne de’ processi pterigoidei p, p, venuta l’ una TOMO IX. 37 — 290 — ‘posteriormente in contatto coll’altra; nè ha il così detto rostro sfenoidale, mancanza conveniente con quella del vomere. Da’ lati del corpo muovono le grandi ale m?, mî°, Fig. 9°, unite con esso lui per sinostosi, laddove nel feto a termine l’ unione è per sincondrosi. La sinostosi però non è a tal grado da aver messa in dileguo qualunque traccia della primitiva disgiunzione, essendovi un leggiero superficialis- simo solco corrispondente alla radice delle grandi ale; solco meglio impresso a sinistra che a destra, e che tien luogo di un forellino che talvolta si trova al di fuori della estremità interna della fessura sfeno-orbitale, e che altro non è che un residuo della primitiva disgiunzione sopradetta. Esse grandi ale poi sono poco espanse esternamente, ma si prolungano in alto ed in avanti convergendo ed arcuando assai più che non sogliono, seguendo così la strettezza sunnotata delle ossa frontali e della parte anteriore de’ parietali, e circoscrivendo col loro margine interno arcuato la fossa media della base del cranio, la quale fossa è piccolissima. Final- mente l’ angolo sfenoidale è di 145°. Ultimo alla rassegna viene il temporale (Fig. 7°, 8°, 9*), il quale è piccolo anzi che no, soprattutto nella porzione squamosa s, s, cui è già saldato, come nel feto a termine, l'anello, o quadrante timpanico s°, s°, Fig. 8°. Il quale anello è stret- tissimo a destra, e saldato altresì, particolarmente a sinistra, con la porzione pe- trosa s5, s*. La porzione petrosa destra apparisce, massime inferiormente, più piccola, o meglio più stretta della sinistra, e manca del forame carotico, e del canale del medesimo nome, anomalia conveniente con la mancanza della carotide interna destra. Le porzioni mastoidee s*, s*, sono proporzionatamente le meglio sviluppate. Quanto alla faccia, ho già notato superiormente, come lo sfencide anteriore e l’etmoide (Fig. 9°), soprammodo atrofizzati e adimati hanno cessato di essere ossa craniensi, e sono diventate ossa della faccia; ho notato eziandio come le ossa della mascella superiore (Fig. 6°, Tav. II) partecipano dell’ atrofia fronto-parietale, e che la mascella superiore y, y, è molto stretta ed obliqua, cosiechè l'angolo facciale non è che di 50°. Essa è largamente aperta nel processo alveolare pel difetto del- l intermascellare, la quale apertura si prolunga ed estende a tutto il palato osseo (Fig. 8°), confondendosi le fosse nasali con la cavità della bocca, come già è con- tinuo e confuso il forame periforme del naso con la detta apertura. La faccia anteriore di essi mascellari è piatta, schiacciata, e fornita di forami sottorbitali di varia larghezza; moltiplicità di forami non troppo rara. Le apofisi montanti o nasali sono altresì schiacciate, e non presentano più una faccia laterale esterna ed una interna, ma una anteriore e l’altra posteriore. Esse poi sulla linea media sono articolate insieme per sutura armonica, essendo le ossa nasali che normalmente vi sono interposte, ridotte quasi a niente, escluse dall’articolazione colle porzioni nasali dei frontali strettissime, articolazione detta costante da G. F. Meckel (1), e spinte (1) Anat. compar. Tom. trois., II Partie. Paris 1829, pag. 285. Eccone le parole: «Il n’y a que leur articulation avec le coronal qui soit tout a fait constante ». — 291 — in basso subito sotto la sutura armonica divisata, e rappresentate dall’ ossicino periforme è, Fig. 6°, solcato di un leggier solco longitudinale nel mezzo, indizio della sua primitiva duplicità, cotal che vi ha un catarinismo portato al massimo grado congiunto a spostamento. Io aveva pensato che tale catarinismo con sposta- mento fosse un carattere del teschio osseo di questo Proencefalo, ed a prima giunta anche della Proencefalia, ma non apponevami; conciossiachè nel Proencefalo a parti soprannumerarie dermocimiche eranvi amendue le ossa nasali abbastanza sviluppate e distinte. Se non che si aveva ragione di credere che in esso così fossero per lo estendersi che faceva l’ ampia apertura erniaria tra queste ossa, le quali non venivano dilungate dai frontali, nè presse inferiormente, e spostate dalle apofisi montanti dei mascellari superiori allontanate fra loro. Se tale circostanza poteva spiegare l’ eccezione, quel carattere come di Proencefalo veniva però meno, essendo che la descritta anomalia delle ossa nasali occorrevami tal quale nel teschio osseo di un Notencefalo, come si vede in d, Fig. 11°, Tav. II. Pare che essa sia se non carattere, almeno effetto della strettezza della parte inferiore della regione frontale, non misurando nel Proencefalo il diametro frontale inferiore che 28 millim. e nel Notencefalo che 39; ed essendo in entrambi strettissima la porzione nasale dei frontali, od effetto di quest’ essa, o vero se non effetto, sì certamente convenienza con la brevità di quello e la molta strettezza di questi: onde essendo portate a contatto le apofisi montanti dei mascellari superiori, veniva occupato il posto dei nasali, per giunta spostati come vedemmo, ed impediti nel loro sviluppo, e perduta la connessione coi frontali, conservanti quella con le dette apofisi, di qualità che la connessione costante dei nasali non sarebbe, come pose G. F. Meckel, coi frontali, ma con le apofisi nasali dei mascellari superiori. Non vuolsi tuttavia lasciar di notare essere questa connessione dei nasali col frontale un fatto generale che il catarinismo certo non contraria, se però non sia accompagnato da spostamento, come ne fanno fede le scimie, e, secondo che dicesi, gli Ottentoti, ed altresì un antico cranio aborigine di America, che fa parte della mia collezione craniologica, e che voglio qui illustrare. Questo cranio (Fig. 12*, Tav. II) è brachicefalo; ha bella e larga fronte con sutura fronto-frontale ben aperta, con glabella ed incisura nasale larghe. Quanto a’ nasali, è molto notabile, essendoci catarinismo, esser’ eglino due, differentissimi però di estensione, uno sinistro piccolo, triangolare, incastrato tra il destro e l’ apofisi montante del mascellare superiore sinistro, non aggiugnente col- l'apice del triangolo la porzion nasale del frontale sinistro, nè quindi articolato con essa; l’altro nasale, cioè il destro, è molto più grande, e largo, massime supe- riormente, articolato con la porzione nasale di entrambi i frontali, e con amendue le apofisi montanti dei mascellari superiori, di qualità che esso contiene una gran parte e tutta la superiore del nasale sinistro con lui confusa ed unita senza traccia alcuna della primitiva divisione, non essendo il nasale sinistro che un frammento di quest’ esso. Ma abbastanza del catarinismo, e torniamo ai mascellari superiori. Il processo o faccia orbitale dei quali non è certamente molto estesa, e forma in — 292 — un col rudimento di sfenoide anteriore e specialmente coi processi d’ Ingrassias 0, 0, coi rudimenti di etmoide g, 7, e coi lagrimali y il piano inferiore o pavimento di un’ orbita unica, alla composizione del quale nulla, per quanto ho potuto scorgere, contribuisce l'estremità superiore delle porzioni ascendenti dei palatini a, a, Fig. 8°, le quali convergono l’ una verso l’altra, e con quella estremità venute a contatto fra loro si articolano. La parete esterna di quest’ orbita unica è costituita dalle grandi ale dello sfenoide e dai zigomatici 68, 8, Fig. 7°, ma la parete ossea supe- riore che è, come vedemmo, quasi nulla, è costituita dalla dura madre (Fig. 5°), tolta la quale rimane la grande apertura , Fig. 9*, in guisa di cucurbita descritta di sopra. Detta orbita poi, che per quella volta membranosa perde ogni comuni cazione con la cavità del cranio (Fig. 5°), si apre solo nella faccia mediante due aperture distinte o, 0, Fig. 6°, la destra delle quali è ovale e piccola a rispetto della sinistra che è un terzo di più in ampiezza, ed anzi che ovale, è elittica. La parete interna de’ mascellari superiori chiude esternamente le fosse nasali, divise da un setto cartilagineo medio, che è la lamina perpendicolare dell’ etmoide, la quale è la sola parte esistente del setto nasale, mancando il vomere. A’ lati occor- rono i turbinati, e solo gli inferiori sono ben sviluppati. Nulla vi ha di organo olfattorio, e le fosse suddette non potrebbero qui servire che da vie respiratorie in un con la cavità orale, con la quale largamente comupicano. All’ esterno in fine de’ mascellari superiori veggonsi i jugali 8, 8, Fig. 6°, piatti e schiacciati a somiglianza de’ mascellari medesimi, i quali jugali non guardano con la loro esterna superficie lateralmente, ma affatto anteriormente, ed appariscono larghi e sporgenti, massime dove piegano prolungandosi alle apofisi jugali delle ossa temporali, con le quali apofisi formano un ponte molto arcuato e prominente; la quale confor- mazione conviene col paffuto della faccia notato da principio nel Proencefalo. La mascella inferiore 7, 7, Fig. 6*-7°-8°, può dirsi normale, ed apparisce più lunga e prominente dell’ ordinario pel confronto della mascella superiore soprapposta, Fig. 7*, la quale è veramente corta sì per l’ atrofia, come per l’andar senza l’osso incisivo, od intermascellare. Terminata anche l’ osteologia del teschio, alcuno per avventura aspetterà che io mi faccia alle cagioni di questo caso di Proencefalia e della Proencefalia in generale, ma avendone già parlato trattando particolarmente della genesi del forame erniario, non che della singolare conformazione craniense e cerebrale delle galline crestate, non vorrò qui ripetere quanto ne dissi in quelle trattazioni. Tornerà piut- tosto meglio recare insomma le varie cose ragionate in questa storia, e quelle massimamente che sembranmi avere maggiore importanza. Son’ elleno: 1° L’aversi in questo caso di Proencefalia probabilmente dell’ ereditario; poichè pare che una sorella della madre del mostro nascesse affetta da encefalocele della sinimensi coronale al lato sinistro della fontanella anteriore. 2° L’avere se non prodotta, giovata almeno nella sua produzione l’ ernia cerebrale, una causa meccanica o traumatica, posta nella caduta che la madre — 293 — ne’ primi mesi della gestazione fece a pian terreno sulle natiche, quantunque appa- rentemente non ne riportasse ella verun danno. La quale circostanza è tanto più notabile in quanto che si può nel feto presupporre una predisposizione ereditaria. 3° Il poter ricevere conforto l'ammissione dell'intervento della causa prefata dallo stato del cervello anteriore tutto fuori del cranio entro il sacco erniario, siccome quello che è affatto separato e come divelto dal cervello intermedio, inter- posto all’ uno e all’altro un corpo fibrinoso irregolare residuo di uno stravaso sanguigno. 4° Non dissimularsi però che tale disgiunzione poter essere avvenuta per una strettura o costrizione operata dal forame ernario, strettissimo a rispetto della mole di quel cervello, emulante quella del cervello di un feto quinquemestre; se non che tale costrizione avrebbe per avventura occasionata una mortificazione e distru- zione del cervello ernioso, nè avrebbe per avventura spiegato il suddetto stravaso. 5° Quantunque il cervello anteriore sia tutto quanto uscito di cavità, non esser però la volta del cranio depressa e per così dire caduta sulla base, ma elevata e globosa con le sue sinimensi ben larghe, non essendo scomparsa che la fronto- frontale sostituita da una sutura armonica precorritrice della sinostosi. Solamente il cranio non avendo più a contenere quel cervello riesce molto piccolo. 6° Potersi desumere una spiegazione di questo stato della volta craniense da quello delle parti contenute, ed in ispecie del cervelletto e della glandula pineale, essendo il primo voluminoso, spostato, ed elevatosi sotto l'angolo lambdoideo e la parte posteriore della regione parietale, e la seconda conformata a mo’ di ampia vescica idropica salita pure a contatto di questa regione, le quali due parti pre- mendo dall'interno allo esterno, e distendendo la sipimensi interparietale l’ hanno non solo mantenuta, ma resa più larga nei due terzi posteriori contrariamente a quanto suol essere, poichè quella cagione non agiva che sopra quei due terzi; non potendo il corpo fibrinoso posto a cavalieri del forame erniario distenderne il terzo anteriore situato subito sopra il forame per essere stretto entro questo e non allar- garsi che alla base del tumore erniario e del cranio. 7° L'essere la glandula pineale una vescica semplicemente membranosa idro- pica dar luogo a credere che l’idrope ne habbia impedita, o vero distrutta 1’ orga- nizzazione. In questa ultima ipotesi si fa manifesto un rapporto o convenienza tra questa glandula ed i bulbi oculari surrogati da tessuto connettivo pinguedinoso, essendo che essa glandula, che muove, come le vescichette oculari, dal cervello intermedio, riceve per l’ anatomia comparativa l’interpretazione o significazione di un terzo occhio, l’ occhio pineale o parietale. 8° La molta strettezza del forame erniario, certamente sproporzionata alla molta grandezza relativa del cervello anteriore ernioso, fa presupporre che questo sia uscito di cavità per tempissimo, quando era piccolo, e sia da poi cresciuto fuori del cranio. Se non che alcuno potrebbe per avventura anche congetturare, che fosse uscito a poco a poco, e così non fosse stato d’ uopo di un ampio forame; — 294 — la quale congettura escluderebbe l’ intervento di una causa violenta alla produ- zione di questo caso di Proencefalia. ; 9° Non potersi convenire con lo Spring, nè col Dareste che la particolare conformazione craniense e cerebrale del Phasianus Gallus cristatus Lin. (Gallus cristatus Brisson) sia un encefalocele od una Proencefalia ereditaria divenuta carat- tere di razza; imperocchè a costituire un’ ernia esterna sono indispensabili queste due condizioni, una che il viscere sia o tutto o in parte fuori della cavità in cui era contenuto, altra che non sia a nudo, chè sarebbe uno sventramento, ma in un sacco coperto dalla pelle, sacco formato dalle membrane sopannanti la cavità, e comunicante con essa. Ma nella razza gallinacea in discorso il cervello è tutto dentro il cranio, e quindi non ernioso. Senza che non potersi quella conformazione neppur dire con Ed. Hagenbach uno stato affine alla Emicefalia, non mancando la volta del cranio, sì nel pulcino, come negli individui adulti della razza medesima. 10° Non potersi dunque i forami, o forame della regione frontale del cranio di questa razza gallinacea, già otturati da membrana, aversi in conto di erniarii, ma doversi considerare come residui di una grande fontanella anteriore, più larga del consueto, resasi permanente, o duratura per tutta la vita in forza della pres- sione e distensione di un cervello assai voluminoso “ praeter morem luxurians , conforme disse Pallas, e nulla idropico. 11° Ad ispiegare la particolare conformazione del cranio e il grande cer- vello, certamente non troppo proporzionato. al cervelletto che riesce piccolo. non consentire col vero la costrizione o strettura trasversale imaginata dal Blumenbach, operata dalla pelle sul punto della volta craniense, ove essa volta presenta la depressione trasversale che la distingue in due bolle o vesciche, anteriore maggiore, posteriore minore, essendo che ivi la pelle è molto lassa e mobile, tale pur man- tenendosi su tutta la bolla minore, e perciò non poter fare da strettoja. Essere piuttosto a credere che avrebbe potuto adempiere sì fatto uffizio la pelle che copre la bolla o vescica maggiore per essere aderente, ma non al cranio, sì al grosso strato, o cuscinetto di follicoli a grasso commisti appartenente alla cresta piumosa, essa altresì aderente al pericranio, ma non tanto da riuscire strettoja; che se così riuscisse, ne sarebbe l’ azione stringente o costringente fuori di posto. Poter credersi che il detto cuscinetto una e la detta cresta siano dati a difesa del punto debole della bolla o vescica maggiore, venendo così ad essere compensato dal lussureg- giante sviluppo del dermato-scheletro la debolezza od imperfezione del neuro- scheletro; ma a ciò star contro una eccezione, potendo talvolta mancare la confor- mazione craniense e cerebrale della razza gallinacea crestata, ed esserci la cresta formata però di penne meno fitte, ma più lunghe senza quel cuscinetto, come mi ha mostrato un bel gallo crestato adulto. 12° Alla predetta spiegazione neppur giovare l'ipotesi del Dareste, il quale pone venir prodotta la Proencefalia da una compressione dell’ amnio sulla regione anteriore del cranio; ma doversi ben convenire essere tale compressione molto pro- SENO Aree blematica, e da un altro canto non dovere nel caso nostro essere nella regione anteriore, ma nel terzo posteriore della volta craniense, essendo quivi la depres- sione trasversale che la divisa nelle due bolle o vesciche prefate. E neppur giovare le aderenze del tuorlo e dell’amnio alla testa del pulcino della gallina crestata, le quali normalmente non si trovano in esso: ed in fine nulla altresì giovare l’ipotesi del Pallas che ponevane la cagione in un ibridismo, cioè nell’ accoppia- mento del Numida Meleagris con la gallina comune, stante che questa e quello non hanno niente di simile nel loro cranio, ed i genitori non possono trasmettere quel che non hanno, nei generati. 13° Essere il teschio osseo del Proencefalo atrofico e deforme, ma quel che è più degradato, conciossiache la faccia e precisamente la mascella superiore par- tecipando dell’ atrofia del cranio è anzi chè sotto, davanti il cranio medesimo, come negli animali bruti, il quale prognatismo è tanto, che l’angolo facciale non misura che 50°; e ciò per la grande atrofia della vertebra craniense anteriore o frontale venuta in gran parte meno. 14° Essere la detta vertebra frontale strettissima, e tanto nella porzione nasale da non più ammettere la connessione con le ossa omonime di molto allontanate e spinte in basso per l’anormale adduzione ed unione delle apofisi montanti dei mascellari superiori, fra la estremità inferiore della quale anormale unione sonosi poi esse collocate sotto forma di un ossicino piccolissimo, presentante un solchetto medio longitudinale, indizio della loro primitiva duplicità. Sì fatto stato delle ossa nasali rappresentano certamente il massimo grado di catarinismo con spostamento. 15° Tale catarinismo con spostamento non essere che di questo Proencefalo, poichè in altri non occorre; senza che potersi trovare in altri Exencefali, e pre- sentarlo il teschio osseo di un Notencefalo recato in mezzo a confronto; il quale offre nella regione anteriore del cranio, e nella mascella superiore quelle stesse condizioni, osservate nelle medesime parti del teschio osseo del Proencefalo. 16° Il detto catarinismo con spostamento andare di conserva con atrofia e spostamento dell’ etmoide e dello sfenoide anteriore, con la. mancanza delle cavità orbitali, essendoci però due aperture del medesimo nome, ed infine con una grande imperfezione delle fosse nasali comunicanti ampiamente con la cavità della bocca, secondo che hanno frequentemente presentato altri Exencefali. — 296 — SPIEGAZIONE DELLE TAVOLE Tavola I. Fig. 1° — Testa con porzione di tronco di un Proencefalo umano rappresentato di faccia. Il tumore dell’encefalocele è alquanto sollevato affinchè appari- scano le regioni oculari. Fig. 2° —. La testa medesima con porzione di tronco ritratta di profilo con il tumore dell’ encefalocele in posizione naturale. Queste due Figure ritrag- gono la mostruosità grande al naturale. In amendue poi le medesime lettere indicano gli oggetti medesimi. a, bd, regione occipitale. b, c, regione parietale. d, tumore dell’ encefalocele. e, e, regioni oculari. Sf, fossa nel cui fondo giace il naso. 9, naso. h, i, labbro leporino medio, o vero le due metà del labbro superiore fesso, di molto allontanate fra loro. k, lingua. Tavola II. Fig. 3* — Il tumore dell’ encefalocele ed il cranio aperti nella regione-superiore per mettere in vista le parti in esso loro contenute. Fig. 4° — Le parti anzidette tratte fuori di sito, vedute dalla regione inferiore o dalla base. Fig. 5° — Superficie interna della base del cranio coperta dalla dura madre e nervi cerebrali esistenti. Queste tre Figure presentano, come quelle della prima Tavola, gli oggetti di naturale grandezza, ed in tutte le medesime lettere indicano i medesimi oggetti. 3 — 297 — a, comune integumento del sacco dell’ encefalocele, sopannato nei due terz posteriori dal pannicolo adiposo. Î 5, il medesimo integumento col detto pannicolo, corrispondente al cranio. c, pericranio prolungato sotto il tegumento e pannicolo del sacco detto. d, d, e, e, ossa del cranio. 7, segmento inferiore o frontale del forame erniario. 9; grande foro occipitale posteriormente aperto per essere stata levata la por- zione lambdoidea. h, dura madre vestiente la superficie interna della base del cranio. î, dura madre del sacco erniario già continua in / con la dura madre craniense. m, vena tagliata boccheggiante, la quale presenta il seno longitudinale superiore asportato. n, grumo di sangue. 0, 0, vescica cerebrale anteriore, o degli emisferi cerebrali uscita di cavità. P, p, due corpi fibrinosi posti a cavalieri del forame erniario f, continuantisi inferiormente con la massa irregolare 9, 9. r, corpo globoso corrispondente al cervello intermedio. s, altro corpo globoso più piccolo corrispondente ai peduncoli cerebrali. t, ponte del Varolio. u, midolla allungata. v, x, cervelletto. Y, glandula pineale assai voluminosa, e idropica. 2, carotide cerebrale sinistra, unica esistente. 1, vertebrale destra. 2, vertebrale sinistra che sola compone la basilare, non unendosi ad esso lei la destra. 3, nervo trifacciale o trigemello. 4, nervo oculo-motore esterno. 5, nervo facciale, o comunicante della faccia. 6, nervo acustico. 7, nervo glosso-faringeo. 8, nervo vago o pneumo-gastrico. 9, nervo accessorio del Willis. 10, nervo grande ipoglosso. Per non moltiplicare troppo le cifere i nervi cerebrali nella Fig. 4* sono stati contrassegnati con numeri solo a destra, e nella 5° solo a sinistra. Nella Fig. 4 non apparisce l’ accessorio del Willis per essersi strappato nel levare di sito il cervello. Per la stessa ragione si è cmmesso di apporre cifere ai rami delle arterie ver- tebrali, e della basilare. TOMO X. 38 — 298 — Fig. 6° — Teschio osseo del Proencefalo ritratto di faccia. Fig. 7° — Profilo del teschio medesimo. Fig. 8° — Il medesimo teschio rappresentato dalla regione inferiore. Fic. 9° — Faccia interna della base del cranio del Proencefalo. Fig. 10° — Profilo del teschio osseo di un Notencefalo ottimestre feminino, accom- pagnato da Celosomia. Fig. 11° — Il medesimo teschio ritratto dalla faccia anteriore. Queste due Figure sono state aggiunte per confronti. Tutte queste Figure osteologiche ritraggono gli oggetti di grandezza naturale ed in tutte le medesime lettere indicano le parti medesime. a, forame erniario corrispondente alla fontanella anteriore. b, segmento inferiore del medesimo forame, Fig. 9°. c, c, frontali. d, d, parietali. e, sinimensi interparietale. Y, f; sinimensi fronto-parietale. 9g, porzione lambdoidea dell’ occipite. 9°, cartilagine chiudente posteriormente il grande forame occipitale, e prolun- gantesi tra la porzione lambdoidea e le condiloidee. h, sinimensi occipito-parietale. î, fontanella posteriore o piccola. k, k, porzioni condiloidee. I, porzione basilare. m, corpo dello sfenoide posteriore. mî, m?, grandi ale. n, forse il corpo dello sfenoide anteriore. o, 0, rudimenti dei processi dello Ingrassias. P, P, processi pterigoidei. q, 1, etmoide, cioè q lamina orizzontale, in cui scorgesi un qualche forellino; lamina già completamente ossificata, nè più divisibile in due metà laterali: 7, os planum avente una giacitura presso che orizzontale. S} S} porzioni squamose dei temporali. s?, sì, anelli o quadranti timpanici. s5, $$, porzioni petrose. s*, sf, porzioni mastoidee. t, sinimensi temporo-parietale. “, sinimensi occipito-mastoidea. v, sinimensi parieto-mastoidea. x, sinimensi sfeno-fronto-parietale. — 299 — Y, y, ossa mascellari superiori, prive dell’ intermascellare. a, a, ossa palatine. 8, 8, ossa jugali o zigomatiche. Y; unguis. d, osso nasale piccolissimo ed unico, spostato. €, €, turbinati inferiori. 6, sepimento nasale tutto cartilagineo. 7, ”, mascella inferiore. 0, grande forame occipitale. t, t, forami condiloidei posteriori. %, forami condiloidei anteriori. A, forami jugulari. L, forame carotideo sinistro, unico esistente. v, forame lacero anteriore esistente solo a sinistra. E, È, meati uditivi interni. o, 0, forami ovali. T, x, forami rotondi. P, larga apertura circoscritta dalle grandi ale dello sfenoide, dai rudimenti di sfenoide anteriore e dai frontali, la quale apertura conduce al pavimento di una cavità orbitale unica, priva di volta ossea, e sboccante nella faccia per le due aperture orbitali 0, 0, la destra delle quali è di un terzo più piccola della sinistra. Fig. 12° — Veduta anteriore di un antico cranio americano aborigine ridotto ad un terzo della naturale grandezza e privo della mandibola, nel quale cranio ha la sutura fronto-frontale ben aperta e catarinismo con sembianza di due ossi nasali disgiunti, differentissimi di estensione e connessione, il sinistro dei quali è piccolo, triangolare, col vertice in alto, non aggiu- gnente il frontale e solo articolato con il destro, e con l’ apofisi montante del mascellare superiore sinistro, l’altro, o il destro, è molto grande arti- colato con l’apofisi montante di entrambi i mascellari superiori, e con entrambi i frontali; donde s' argomenta che il nasale sinistro non è che un frammento di questo nasale, frammento staccatosi dal restante, incor- porato nel destro. Fig. 13* — Cranio di una gallina Padovana ritratto in profilo a dimostrarne la conformazione a sella. Lato destro. Fig. 14° — Il medesimo cranio veduto di prospetto, mostrante i forami della re- gione frontale. Fig. 15° — Metà sinistra della cavità del cranio di una gallina Padovana, data a mostrare le tre celle ond’è distinta, non che la grossezza specialmente della parte superiore delle pareti delle due bolle o vesciche craniensi. Fig. 16° -— Sezione verticale antero-posteriore media del teschio semplicemente — 300 — spiumato di una gallina Padovana adulta, con la quale sezione si è messo in vista lo stato del comune integumento della volta craniense, il grosso strato dei follicoli pertinenti alle piume della cresta piumosa, le due bolle o vesciche del cranio una e la loro distinzione, il forame principale della vescica anteriore otturato da membrana, la grossezza delle pareti ossee, ed il cervello. Lato destro. Queste quattro Figure ritraggono gli oggetti grandi al vero, ed in tutte le medesime lettere indicano le parti medesime. da a ad a pelle che copre la volta del cranio. b, numerosi follicoli costituenti l'organo formatore della cresta piumosa, circo- scritto alla bolla o vescica anteriore del cranio da lui compresa a mo? di berretta. Ai follicoli di quello è commisto del grasso più abbondante ne’ due estremi che nel mezzo. c, la detta bolla, data al cervello. -d, bolla o vescica posteriore minore data al cervelletto. La grossezza delle pareti delle due bolle o vesciche varia secondo gli individui. Paragona le due ultime Figure, cioè la 15° e la 16%. e, depressione esteriore e cresta interna interposta alle due bolle o vesciche, la quale discendendo si divide in due rami circoscriventi una cella che cor- risponde al lobo ottico o cervello medio. f; forame principale o maggiore scolpito nella parte superiore della regione frontale. F°, ff; forami secondari o minori costeggianti ed anche attornianti il maggiore. g, cervello molto voluminoso a rispetto di quello di una gallina comune. Non si sono apposte lettere alle altre parti, siccome quelle che non fanno al fatto. ——__-T—eAXrSsI___ UE hi n Mem. SerlV. Vol. X. Riti E. Contolt. Ik. L Calon= day | lit 6.Wenk e Figli— Bologna. Mem. Ser IV Volk E.Contoli dis.dal vero e in pietra. Lala =). lit.6.Wenk e Figli — Bologna. TS RIN©D ALLE PIASTRE NERVOSE FINALI NE TENDINI DE VERTEBRATI NUOVE INVESTIGAZIONI MICROSCOPICHE Fip o EV SMIEMVMSITASSCIO (Lette nella Sessione del 24 Novembre 1889) Io riferisco quello che ho veduto, non movendomi allo scrivere altri che 1’ amor del vero. RepI, Opuscoli di Storia naturale, pag. 34. — Firenze. Felice Le Monnier, 1858. Come lo dice il titolo che è a capo di questo scritto, le presenti mie investi- gazioni si restringono a quel particolar modo di terminare de’ nervi ne’ tendini, che io in due note anticipate, venute in luce l una nell’ 88, l’ altra nell’ 89, chiamai col nome di piastre tendinee con terminazione cespugliata de’ nervi ad anella o a spirale. Le quali piastre io ho trovato in tutti quei vertebrati, i cui tendini ho potuto investigare, trattone i tendini degli Anfibj anuri (Ile, Rane, Rospi), ne’ quali la terminazione de’ nervi, secondo l’ osservato da me, sì fa in tal guisa da convenirle il nome di cespo nervoso finale. Come bene il sanno coloro che non lasciano di tener dietro a’ continui avanzamenti della Notomia minuta, intorno a’ nervi de’ tendini e al modo con cui vi terminano, hanno di questi nostri tempi scritto parecchi, cioè il Sachs nel 75 (1), il Rollett nel 76 (2), il Gemt nel 77 (3), il Golgi nell’ 80 (4), il Marchi nell’ 82 (5), il Cattaneo nell’ 87 (6) il Kerschner (1) Sacns, Die Nerven der Sehnen. Archiv f. Anat. Phys. und Wissenschaft. Medicin. 1875, N. 4, s. 402-416. (2) RoLLertt, Ueber einen Nervenplexus und Nervenendigungen in einer Sehne. Sitzungsberi- chte d. K. Akad. d. Wissensch. Wien 1876. Bd. LXXIII, Abth. III, s. 34-52. (3) Gewr, Ein Beitrag zur der Lehre von den Nervenendigungen in Bindegewebe. Dissert. Kiel 1887. (4) GoLei, Sui Nervi de’ tendini dell’ uomo e di altri vertebrati e di un nuovo Organo nervoso terminale muscolo-tendineo. Mem. R. Accad. Sc. Torino, Serie II, Tom. XXXII, 1880. (5) MarcHi, Sugli Organi terminali nervosi ne’ tendini de’ Muscoli motori del bulbo ocnlare. Archivio per le Scienze Mediche, Vol. V, N. 15, pag. 273-282. 1882. (6) CarranEO, Sugli organi nervosi terminali muscolo-tendinei in condizioni normali e sul loro — 302 — (7) e il Panzini nell’ 88 (8), il Kolliker nell’ 89 (9), de’ quali solamente il Sachs, il Rollett, e il Golgi han trovato particolari modi di terminazione nervosa ne’ tendini di quelli animali che hanno ricerco ; laddove gli altri con le osserva- zioni loro non hanno fatto che o confermare o chiarire o aggiugnervi un qualche particolare di più o meno importanza. E tra costoro parmi da spezialmente com- mendare, se io ben giudico, il Cattaneo, lo scritto del quale, da me diligentemente letto, mi ha soddisfatto sì per le cose che contiene, sì ancora per l’ ordine e una certa chiarezza con cui le dice; pregi che tu indarno cerchi oggigiorno in quelle tante scritture che in Italia e fuori si pubblicano intorno a’ vari subbietti della Notomia sottile. Le quali cose, come per introduzione a questo mio scritto, discorso brevemente, io passo a riferire ora quello che ho osservato circa alle piastre ner- vose finali de’ tendini nelle cinque classi de’ Vertebrati. Delle piastre nervose finali ne’ tendini dell’ uomo e de’ mammiferi. Oltre all’ uomo, i Mammiferi, ne’ cui tendini condizionati dal cloruro doppio d’ oro e potassio o dal cloruro d’ oro semplice talora alla maniera del Lòwit e tal’ altra del Fischer io ho ricercato le piastre nervose finali, sono stati tra i Chei- rotteri il pipistrello murino ; tra i Roditori le cavie, 1 ratti; tra i Ruminanti il bue; tra i Pachidermi il porco. E dico in prima che nell’ espansione tendinea di quei muscoli che muovono il globo visivo dell’ uomo, e particolarmente in quella del retto superiore, io ho trovate le piastre nervose finali aver sede ora ne’ grup- petti tendinei primarit che intessono la detta espansione, ora in quei particolari tendinetti della figura di fuso che dal Golgi, primo osservatore, oggigiorno giu- stamente sì intitolano. Al contrario ne’ Mammiferi, ne’ medesimi tendini medesi- mamente condizionati, a me non è succeduto di trovare della doppia sede testè modo di comportarsi in seguito al taglio delle radici nervose, e de’ Nervi spinali. Mem. R. Accad. Torino, Serie II, Tom. XXXVIII, 1887. (7) KERSCENER, Beitrag zur Kenntniss der sensiblen Endorgane. Anat. Anzeiger. N. 10, s. 288- 296. 15 April 1888. (8) Panzini, Delle terminazioni de’ Nervi sui tendini ne’ Vertebrati. Bollettino della Società de’ Naturalisti in Napoli. Serie I, Vol. il. Tornata 22 Aprile, pag. 135-160. 1838. (9) KòLLIKER, Demonstration mikroskopischer Priparate. Sitzungsberichte der Wilrzburger Physik. medic. Gesellschaft 1889, e Handbuch der Gewebelehre. Sechste Auflage. Erster Band. 1889. — 303 — detta che sola quella negli organi muscolo-tendinei del Golgi (1). Le note de’ quali, per essere state noverate e minutamente descritte dal prelodato Golgi, dal Marchi, e dal Cattaneo, io lasciole indietro, e mi fermerò a soli tre particolari, de’ quali non trovo alcuna menzione negli scritti loro, o perchè non li videro, o perchè non vi abbadarono. L’ uno di questi particolari è, che talvolta nella espansione tendinea di alcuno de’ muscoli moventi il bulbo dell’ occhio dell’ uomo accade d’ imbatterci a qualche organo del Golgi, i due estremi del quale si vedono pa- rimente risolversi in parecchi fascetti tendinei primitivi, che sono appunto quelli, ond’ è naturalmente composto il detto organo (Fig. 5): l’ altro particolare è, che alcuna volta si vede due organi muscolo-tendinei di figura pressochè cilindrica, ciascuno con la sua propria piastra nervosa, congiunti insieme per tutta la loro lunghezza, e legati fermamente a poca distanza dallo estremo loro di sotto da una striscetta di tessuto connettivo o elastico che li abbraccia e strozza (Fig. 27): il terzo particolare infine è, che alcun’ altra volta una o due fibre di quelle che si attaccano all’ estremo di sopra dell’ organo muscolo-tendineo si prolungano digra- dando in esso, ora fin presso l’ orlo della piastra nervosa, ora fin sotto al mezzo di essa. (Fig. 30). Ma o l’una o l’altra che sia la sede delle piastre nervose finali de’ ten- dini, elleno il più delle volte, se non sempre, hanno il principio loro da una sola fibra nervea midollare, la quale è rinchiusa in una o più guaine perineuriche dependenti da quelle che rinvolgono il fascetto nervoso originario della fibra. La quale fibra nel suo cammino iteratamente si ramifica, e insieme con essa le sue guaine, le quali nelle terze ramificazioni di quella sovente si riducono a una sola, che comunemente è chiamata guaina dell Henle; e di queste ramificazioni non di rado ciascuna mette in una piastra nervosa, dove talvolta la fibra non appena s' indentra che lascia tutte le sue invoglie, ma talvolta, pur mantenendole, ella seguita per un qualche spazio a ramificarsi, e poi i suoi rami divenuti meri cilin- dri dell’ asse vanno, con lo spartirsi a brevi intervalli e con lo incesparsi insieme, a formare la parte veramente finale della piastra nervosa. (Fig. 17 e 20). (1) Tra i Mammiferi, cosa certo assai notabile e singolare mi pare ciò che a me è venuto fatto di osservare ne? pipistrelli, cioè a dire, che ne’ lunghi e sottili tendini dell’ estremità loro d’ avanti la terminazione de’ nervi (come pel metodo dell’ oro pienamente si dimostra) si fa co- me ne’ Rettili, incircoscritta, dentro alla sostanza del tendine (Fig. 12); laddove ne’ tendini del- l’ estremità loro di dietro, e particolarmente in quel tendine che risponde a quello che nell’ uomo dicesi tendine d’ Achille, si fa come ne’ Mammiferi e negli Uccelli, circoscritta, dentro agli or- gani muscolo-tendinei del Golgi, che sono ivi non molto grossi, ma molto lunghi (Fig. 15). E però i Pipistrelli, per la sede della terminazione de’ nervi ne’ tendini, convengono sì co’ Mammi- feri e gli Uccelli come co’ Rettili, dovechè per le fattezze di essa terminazione convengono più con questi che con quelli. E soggiungo ancora che questa mia osservazione contraddice all’ opi- nione del Golgi e del Cattaneo, i quali vogliono che gli organi muscolo-tendinei siano un perfe- zionamento delle terminazioni libere de’ nervi a modo d’ intricato cespuglio osservate dal Sachs e dal medesimo Golgi ne’ tendini della lucertola, resultando, secondo loro, quelli dall’ addensarsi del tessuto tendineo attorno a un certo numero di terminazioni rervose incircoscritte. — 304 — Quando le piastre nervose de’ tendini dell’ uomo e de’ mammiferi, convenien- ‘temente ingrandite dal microscopio, si guardano di fronte con attenzione, subito si vede che le spesse ramificazioni} de? cilindri dell’ asse, che le ordiscono, mostrano a luogo a luogo nella lunghezza loro certi ingrossamenti di figura e grandezza varii (Fig. 23 e 30), i quali, comechè i più li abbiano per nuclei, pure non sono che adunamenti di una di quelle due sostanze onde naturalmente son composti i cilindri dell’ asse; e vedesi ancora che non poche di esse ramificazioni sono piatte con uno o più risalti di trasverso, o risalti d’ impronta, che li vogliam chiamare (Fig. 4, 27, rnd); e che tutte quante esse ramificazioni non riposano sopra, nè sono circon- date da alcuna materia granosa con de’ nuclei impiantativi dentro, nè ordinate in un sol piano, ma in due o tre, le une sopra le altre ; per modo che elleno s° intersecano a vicenda non una, ma più volte in diversi luoghi, e forse alcune tra esse si congiungono anco insieme. E da questo sovrapporsi e intersecarsi delle ramifica- zioni de’ cilindri dell’ asse che accade sempre nelle piastre nervose de’ tendini, io eredo che sia stato tratto in inganno il Golgi e molti altri con lui nell’ aver per rete ciò che veramente è una sovrapposizione cespugliata e un intersecamento di cilindri dell’ asse. E di quì è che non bastando il solo riguardare di fronte le dette piastre nervose per avere a pieno contezza del dove e come sono in esse veramente ordinati gli ultimi rami de’ cilindri dell’ asse, è di necessità venire al tagliamento loro sia di lungo sia di traverso mediante il microtomo : il quale ta- gliamento mostra chiaro come da prima i detti rami corrono per il tessuto con- nettivo rado che lega insieme i gruppetti tendinei primarii, e poi indentratisi in essi, e seguitando a ramificarsi a modo cespugliato, ciascun ramuscolo avvolge in guisa di spira o di anella in più parti della loro lunghezza uno o parecchi di quei fascettini di tessuto connettivo fibrillare denso (Fig. 18, 24, 28, îcaf), onde, come di sopra è detto, ciascun gruppetto tendineo primario è composto (1). Quantunque la sede ordinaria delle piastre nervose ne’ tendini dell’ uomo e de mammiferi sia ora dentro il tessuto proprio del tendine e ora negli organi così detti del Golgi, tuttavia nell’ espansione tendinea del retto superiore del- l uomo a me una volta è incontrato di vedere una simigliante piastra sopra una piccola arteria. La quale piastra in un cotal sito parendomi cosa considerabile e (1) Nell’ uomo, assai presso alla superficie del tendine tanto del muscolo pronatore rotondo quanto dell’ adduttore del pollice, quasi al medesimo piano in cui si trova quella seconda ma- niera di organi nervosi terminali discoperti dal Golgi, ame è succeduto in uno esemplare micro- scopico dell’ un tendine e in un altro dell’ altro di osservare insieme con i predetti organi certe singolarissime intrecciature nervose, talvolta di figura irregolare, e talvolta anzi lunghe che no, e ove più e ove meno strette, fatte al tutto dallo iterato ramificarsi del cilindro dell’ asse di una o due fibre nervose midollari che si spiccavano dal medesimo fascetto nervoso, che dava le fibre agli organi soprammentovati (Fig. 9). Ma, secondo io credo, cotali intrecciature di meri cilindri dell’ asse spessamente varicosi anzi che a’ tendini appartengono a quelle piccole arterie che cor- rere si veggono per essi, perciocchè, a quel che pare, elle risiedono in quel tessuto connettivo rado che in abbondanza e alla larga le dette arterie avvolge. — 305 — singolare io l’ ho fatta fedelmente disegnare insieme con due tagli obliqui di essa. (Fig. 10, 11). Dai quali tagli si scorge chiaro, come le ramificazioni de’ cilindri dell’ asse, che formano la piastra, s' insinuano tra la tunica media e | interna dell’ arteria, e quivi disponendosi circolarmente pare che finiscano. Se da altri in altre parti del corpo dell’ uomo e de’ mammiferi sia stato mai osservato una qual- che cosa di somigliante io per me confesso di ignorarlo. Nel parlare delle fibre nervose midollari che vanno alle piastre finali de’ ten- dini, io lasciai appensatamente indietro una particolarità che alle volte in quelle s' incontra, per parlarne appresso in luogo più proprio. Ne parlo adunque ora e dico che la detta particolarità sono quegl’ ingrossamenti in figura di fuso che le guaine perineuriche mostrano talvolta in certi luoghi della lunghezza delle fibre nervee midollari. E questi ingrossamenti furono la prima volta veduti dal Golgi nelle fibre nervose de’ tendini dell’ uomo, il quale per averli sempre trovati là ove le dette fibre incrociavano una qualche arteria, li tenne come una iperplasia della guaina dell’ Henle, causata dal battito incessante dell’ arteria. Appresso li vide il Marchi nelle fibre nervee de’ tendini de’ muscoli oculari del porco, ma non trovandoli in alcuna attinenza con delle arterie li ebbe per una particolar maniera di corpi ovoidei, nel cui interno alle volte vide due a quattro cilindri dell’ asse nati dal disciogliersi che fa la fibra nervea midollare, mentre che passa per lo mezzo de’ detti corpi, ma, a parer mio, con manifestissimo errore, perchè la fibra nervea durante questo suo passaggio non pare che lasci mai la guaina midollare e divenga mero cilindro dell’ asse. Laonde io credo che siffatti ingros- samenti, o corpi ovoidei, come al Marchi è piaciuto senza bisogno chiamarli, tut- tal più si possono assomigliare a quei corpuscoli del Pacini del mesenterio del gatto, in cui la fibra nervea, anzichè terminarvisi, vi passa solo pel mezzo a fine di condursi ad un altro corpuscolo che vien subito dopo, ed ivi metter ter- mine. E credo altresì che tutti e due questi osservatori abbiano errato nell’ aver voluto generaleggiare una semplice particolarità anatomica da loro veduta; perchè se è vero, come afferma il Golgi, che talvolta le guaine perineuriche, che rinchiu- dono la fibra nervea midollare, si veggono cresciute in guisa di fuso là per ap- punto ov’ ella incrocia un’ arteria; non è però men vero, come ha osservato il Marchi, che alcun’ altra volta cotesto accrescimento fusato delle guaine perineu- riche si osserva nella lunghezza di una fibra nervea che non incrocia alcuna ar- teria. E quanto a me aggiungo che di tali ingrossamenti io pure ne ho veduti non solo nelle fibre nervee de’ tendini de’ muscoli oculari dell’ uomo e del porco, ma eziandio in quelle di alcuni tendini dell’ estremità posteriori de’ topi e ratti, nelle quali talvolta ne ho visto insino a tre poco discosti Y un dall’ altro, e con questo di particolare che in quelli dell’ uomo la fibra nervea midollare contenuta dentrovi, non che essere ridotta a schietto cilindro dell’ asse, come asserisce di avere osservato il Marchi, era per contrario in uno (Fig. 1, 779) manifestamente ingrossata a modo di fuso, e in un altro anche un poco serpeggiante. (Fig. 1, TOMO X. X 39 — 306 — ifgs). Quanto poi alla cagione di cotali ingrossamenti io aderisco al Kerschner, il quale li vuole prodotti da un’ azione meccanica di adattamento non diversa da quella, donde nasce il notevole allargamento del nervo tibiale posteriore nel solco osseo. Come si sa, il Golgi, oltre de’ suoi organi nervosi terminali muscolo-tendinei, ha trovato ne’ tendini di certi muscoli delle estremità superiori ed inferiori del- l’uomo un’ altra maniera di corpuscoli, che egli dice essere o gomitoli o clave 0 diverse forme di corpuscoli Paciniani. E stando alle figure che ne ha dato, a me pare che i più grandi veramente somigliano ai corpuscoli Pacinici, dai quali però principalmente si differiscono perchè nella clava loro interna la fibra nervosa in luogo di terminarsi, come negli ordinari corpuscoli del Pacini, in un piccolo bot- toncello talvolta nucleato, si termina con l avvolgersi più voite in sè medesima: i più piccoli, allo incontro, sono al tutto simiglianti a quei piccolissimi corpuscoli dell’ Herbst da me trovati, è alcuni anni, nelle papille della lingua de’ pappagalli. Ancora io di cotali corpuscoli ne ho trovato alcuni in quella tela fibrosa che ne’ ratti veste i muscoli della gamba simiglianti ai grandi corpuscoli dell’ Herbst, da’ quali per altro si divisano sì per la poca regolarità delle loro cassule invol- venti e sì per la mancanza di quelle due righe di nuclei che una per banda d’ ordinario stanno lungo la clava interna. (Fig. 25, 26, A, B.. II. Delle piastre nervose finali ne’ tendini degli uccelli. [<>] Degli uccelli io ho massimamente investigato, e con evento molto soddisfa- cente, le piastre nervose finali ne’ piccoli tendini de’ muscoli delle ali del passero, dello storno, e della rondine, i quali furono da me, simigliantemente che quelli de mammiferi, condizionati col cloruro d’ oro e potassio alla maniera del Lowit e del Fischer. Ne’ tendini poi de’ muscoli motori del bulbo oculare e della terza palpebra sì nel pollo come nel tacchino le mie investigazioni riuscirono sempre negative. Ne' tendini degli uccelli, secondo le mie osservazioni, le piastre nervose finali risiedono negli organi muscolo-tendinei del Golgi, non essendo a me incontrato di vedere altra sede che questa. E tali organi li ho trovati sempre nel contermine del muscolo col tendine, e per lo più situati tra le fibre muscolari, pressissimo alla loro attaccatura sul tendine, a svilupparli dalle quali ci è stato sempre mestieri dell’ aiuto degli aghi. La figura loro ordinaria è quella di fuso (Fig. 32), rara essendo quella di cilindro. Degli estremi l’ uno è muscolare, l’ altro tendineo; quello raro è vederio bipartito, questo frequentissimamente vedesi non che bipartito, ma tal- — 307 — volta anche tripartito o quadripartito. All’ estremo muscolare talvolta si attacca una sola fibra, ma più di sovente parecchie (1). La grandezza degli organi del Golgi negli uccelli io l’ ho veduta variare notabilmente non solo ne’ tendini delle diverse specie di uccelli, ma ne’ differenti tendini della medesima specie, ed an- che nello stesso tendine. Della struttura loro poco è a dire, essendo essi fatti sem- pre o di uno o più gruppetti tendinei primarii, il numero de’ quali si può desu- mere dal numero delle fibre muscolari che si attaccano a quell’ estremo del grup- petto che risponde al muscolo. Ma, non ostante ciò, pare che abbiano una pro- pria individualità, forse a cagione di quella speciale guaina connettiva e di quel loro rivestimento endoteliale che li fa alquanto rilevare dal piano degli altri grup- petti tendinei, e colorare un poco più intensamente dal cloruro d’ oro. In: cia- scuno organo muscolo-tendineo degli uccelli una più di sovente è la fibra nervea midollare che vi si conduce, circondata di una sola guaina perineurica, o guaina dell’ Henie, che la vogliam chiamare. La quale guaina, allo indentrarsi della fibra o per fianco o per uno degli estremi nell’ organo, s° immedesima nella prenomi- nata invoglia endotelica, se pure non è essa quella che, come vogliono il Ker- schner e il Kolliker, direttamente la formi. La fibra, talvolta poco prima di in- ternarsi nell’ organo, si partisce in due primi rami, de’ quali ciascuno poi sepa- ratamente vi s’ introduce, indirizzandosi l’ uno a l uno degli estremi, e l’ altro a l’altro; ma talvolta la partizione ne’ due rami primarii avviene dopo entratavi; i quali due rami primarii, che sono di natura midollare, poichè a lor volta si sono divisi e suddivisi, lasciano chi prima e chi poi la midolla, e divenuti meri cilindri dell’ asse cominciano a reiteratamente dividersi a brevi distanze, e vanno così a formare la piastra nervosa finale. La quale, quando viene guardata di fac- cia, apparisce disposta in due o tre piani, e come fatta di una moltitudine di piccoli pezzi di cilindri dell’ asse variamente foggiati e aggruppati a mucchi. (Fi. 32). I tagli trasversi poi degli organi muscolo-tendinei, che contengono que- ste piastre nervose, mostrano evidentemente, che i cilindri dell’ asse onde sono ordite le piastre, da prima camminano fra i gruppetti tendinei, e poi s' introdu- cono nell’ interno di essi abbracciando uno o più di quei fascetti di tessuto con- nettivo fibrillare onde son composti i detti gruppetti. (Fig. 33, a de). Di nuclei e di sostanza granosa non se ne scerne. Oltre di che insieme cogli organi mu- (1) Ne’ tendini del Supinatore lungo e del Radiale interno di una donna assai oltre negli anni, trattati col cloruro d’ oro e potassio alla maniera del Fischer, a me è incontrato di osservare degli organi muscolo-tendinei del Golgi sì grandi, che erano visibili ad occhio nudo. Tali organi aveano di lungo da 2 a 3 mm., e di largo da ‘{, a %4 di mm.; ed apparivano composti di pa- recchi gruppetti tendinei primarii variamente grossi, e forniti di un gran numero di capillari sanguigni che vi si ramificavano sopra. Oltre di che le fibre nervee midollari che vi si recavano erano due o tre, e finivano in una implicata piastra nervosa, fatta di parecchi pezzi, altri più grandi e altri meno; e verisimilmente nell’ uno de’ loro estremi si attaccavano oltre a 15 fibre muscolari striate. — 308 —- scolo-tendinei del Golgi ne’ tendini delle ali degli uccelli si trovano un certo nu- mero di grandi corpuscoli dell’ Herbst, i quali han sede nel perimisio interno, e per lo più sono nascosti dalle fibre muscolari non altrimenti che i predetti organi. Tu: Delle piastre nervose finali ne’ tendini de’ rettili. Della classe de’ rettili io ho solamente potuto investigare le piastre nervose ne’ piccoli tendini de’ muscoletti interspinosi del Coluber natrix tra gli Ofidi, e nel tendine del gastrocnemio della Lacerta agilis tra i Sauri squamosi. I quali ten- dini furono come di solito da me fatti operare dal cloruro d’ oro e potassio ora alla maniera del Léwit, ora del Fischer, ed ora del Breme». E la prima cosa che ne’ rettili da notare è che appunto con essi cominciano quelle classi de’ ver- tebrati dove ne’ tendini cessano di vedersi i particolari organi del Golgi, e conse- guentemente di necessità è che le dette piastre nervose abbiano ad aver la lor sede in que’ gruppetti tendinei sì primarii come secondarii che compongono i ten- dini. Ne’ tendini de?’ rettili le piastre nervose d’ ordinario sono a gruppi lun- ghesso le fibre nervee midollari che per quelli corrono ramificandosi (Fig. 34 e 37) e per lo più in ciascuna piastra ci va una sola fibra, la cui guaina del- Y Henle cessa non appena che la fibra s indentra nella piastra. E poichè vi si è indentrata, ella talvolta lascia di presente la guaina midollare, e tal- volta la mantiene per un piccolo spazio, e di poi fattasi pallida comincia reite- rate volte a ramificarsi e va co’ suoi infiniti rami a formare la parte veramente finale della piastra nervosa. La quale, allorchè è osservata di faccia col miero- scopio armato di ottime lenti o a immersione omogenea o apocromatiche, appari- sce come fatta di una confusa intrecciatura di sottilissime fibre, quali filamentose e quali nastriformi, e tutta quanta tempestata di risalti di diverse fogge e gran- dezze, che sono dal cloruro d’ oro sempre più intensamente colorate delle fibre che li portano (Fig. 38); le quali fibre non pare che siano ordinate se non in un doppio piano. E ove le piastre sieno tagliate sottilmeute a traverso o di lungo col microtomo del Thoma perfezionato dall’ Joung, si vede che le fibre, onde quelle s' intessono, presso al loro termine s’ insinuano dentro i gruppetti tendinei primarii, e così come ne’ mammiferi e negli uccelli, cingono ciascuna spiralmente o a maniera anellosa uno o più di quei fascettini di tessuto connettivo fibrillare denso, onde naturalmente essi gruppetti tendinei sono composti. (Fig. 36, 40). E quì da ultimo non mi pare da tacere, che delle due figure delle piastre nervose de’ ten- dini della lucertola che han dato il Sachs e il Golgi, quella del Sachs, che rappresenta — 309 — la piastra in maniera di un intricato cespuglio di sottilissime fibre, che s’ intrecciano a modo di micelio, è assai meno lontana dal vero che quella del Golgi, che rap- presenta la detta piastra come un reticellino di fibre avente a’ suoi nodi diverse forme di nuclei. IVA Delle piastre nervose finali ne’ tendini degli anfibj. In nessuna altra classe de’ vertebrati io ho tanto penato a vedere le piastre nervose finali de’ tendini quanto in questa degli anfibj. Perciocchè ne’ tendini loro il cloruro d’ oro o semplice o doppio adoperato secondo i noti metodi del Lòwit, del Fischer, del Ranvier, del Bremer, del Ciaccio, e del Golgi non riesce punto bene, tingendo esso forte e medesimamente in violetto sì i nervi e il ter- mine loro come la sostanza del tendine. Onde mi fu di mestiere per via di assai prove e riprove trovarne un altro che quelli colorasse distintamente, e questa poco o niente. Il qual metodo mi pare di averlo trovato nel fare operare i tendini prima dal cloruro d’ oro e poi dall’ acido osmico nel modo che segue. Levato che si è a una rana vivente o morta di poco, o ila o rospo quel tendine che investigar si vuole, subito s° immerga in una soluzione di acido idroclorico al- l'io 0 meglio di acido acetico all '4,,, e vi si lasci stare, finchè non sia dive- nuto tutto trasparente : poi si levi via e metta in una soluzione di cloruro dop- 1000 ? ciò pigli una leggiera tintura di giallo: poi si porti in una nuova e anzi che no abbondante soluzione di acido acetico ancora all’ }4,;; scuro, e due o tre ore al sole, e quando si vede il tendine aver preso un poco di color violetto, tosto si tolga e ponga per un altro giorno in una soluzione lunga di acido osmico all’ !,0: e finalmente trattanelo, si conservi, per osservarlo al bisogno col microscopio, nella glicerina del Price resa acidula con dell’ acido ace- tico o formico alla ragione di gram. 0,5 per 100. Condizionando, nel modo che detto è, il tendine, le fibre nervee midollari che vi si ramificano, appariscono co- lorate in violetto oscuro, e l’ ultimo loro termine in violetto tirante ora al rosso e ora all’ azzurro: la sostanza propria del tendine apparisce tinta ora leggermente in flavo, e ora in pagonazzo chiaro, e le cellule di esso di colore quasi come nero, pio d’ oro e potassio parimente all’ ! e vì sì faccia dimorare 5 minuti, ac- e si lasci un giorno allo ritirate in sè, e rimpiccolite. Degli Anfibj io ho investigato solo il tendine del muscolo sterno radiale nei tre anuri comunissimi in quel di Bologna, cioè nelle Ile, nelle Rane, e nei Rospi, ed io mi sono limitato a questo solo tendine, sì perchè egli, per avere un ner- vetto suo proprio che si ramifica alla sua metà di sotto, è tra gli altri tendini il più adatto all’ investigamento dell’ ultimo termine delle fibre nervee, e sì perchè — 310 — sopra esso esclusivamente ha fatto le sue osservazioni quel grande ed oculatissimo Istologo, che è il Rollett. Il quale, oltre a un plesso di fibre nervee midollari, vi ha trovato una maniera singolarissima di terminazione nervosa, la quale a lui è paruto di doverla chiamare Nervenscholle, forse per una qualche somiglianza che ella potesse avere con alcuno di quei pezzi di terra spiccata ne’ campi lavorati comunemente detti zolle o ghiove, o forse, come è più probabile, con ciò che in italiano addomandasi sfoglia, a cagione della sottigliezza della suddetta termina- zione. Ma sia questo come si vuole, il Rollett in ciascuna di queste zolle o sfo- glie nervose distingue due parti, l’ una che si continua immediate alle fibre ner- vee midollari, ed è fatta delle ultime loro divisioni, ognuna delle quali consiste il più delle volte in un cortissimo segmento interanulare del Ranvier, finiente ora un poco appuntato ed ora assottigliato in un sottilissimo e corto filamento; 1’ al- tra per contrario è situata tra le dette ultime divisioni, ed apparisce fatta talvolta di piccole cellette piatte con nucleo rotondo, e talvolta di grani ordinati in linee ondose, e separate da spazi della stessa figura: delle quali due apparenze egli tiene questa seconda come non naturale e causata dal metodo di preparazione posto in opera. Se io mi sono disteso nel riferire alquanto particolarmente queste osservazioni del Rollett, io 1’ ho fatto, perchè quasi tutti coloro che infino a ora si sono messi alla ricerca della terminazione de’ nervi ne’ tendini se ne passano leggermente, stimandole siccome assai lontane dal vero; il che è certissimamente falso, perchè il Rollett ha esattamente descritto e figurato nè più nè meno che quello che si poteva vedere nel tendine dello sterno radiale della rana condizionato dalle solu- zioni lunghe di acido nitrico ed osmico. E di questo mi son fatto persuaso, rifa- cendo io sotto le medesime condizioni le osservazioni di lui, le quali d’ altra parte mi hanno però indubbiamente dimostrato com’ egli abbia preso per ultima termi- nazione de’ nervi ciò che è il primo cominciamento di essa: la quale ultima ter- minazione, sì come io credo, non può essere fatta manifesta con evidenza nè dal- l'acido nitrico nè dall’ acido osmico nè da tutti e due insieme, ma sì bene con- dizionando il tendine come avanti detto è. E quello che îo mediante un sì fatto con- dizionamento ho visto, il verrò dicendo brevemente qui appresso. E in prima dico che il nervetto, il quale si conduce al tendine prenominato, vi entra (siccome già osservarono il Sachs e il Rollett) un poco discosto da quel capo di esso che sì attacca al radio, e costantemente si accompagna con un grosso capillare sanguigno che lo segue nelle sue principali diramazioni (Fig. 41); e talvolta, sebbene assai di rado, una qualche sua ansa finale vedesi arrivare fin dentro alcuno grande cespo ner- voso. E tale nervetto vedesi variare in grossezza, secondo che l’ animale è più o meno grande; ed esso da prima cammina tra il tendine e la sua invoglia di tes- suto connettivo rado, e poi, come comincia a ramificarsi, i rami che ne nascono s' internano nel tendine, e col vicendevole scambiarsi delle fibre danno origine a un plesso, il quale però non è tanto esteso, nè così spesso come il Rollett lo fi- — 311 — gura. (Fig. 41, pfnm). Le singole fibre di questo plesso che d’ ordinario portano con sè una sola guaina perineurica vanno una o pìù insieme a terminarsi in una particolarissima piastra nervosa, che io, riguardando al suo ordito, nomino cespo ‘nervoso finale ; il qual nome a me pare da preferire a quello di penello nervoso datole dal Sachs e all altro di zolla o sfoglia nervosa applicatole dal Rollett. E sì fatti cespi nervosi nel tendine soprammentovato si trovano sparsi senza ordine ve- runo per la metà inferiore di esso, e stanno tutti a differente profondità situati nell’ interno del tendine. Sono di diverse grandezze, essendo alcuni piccoli, altri maggioretti, ed altri maggiori; e questi cespi maggiori, quando sono colorati dal cloruro d’ oro, appariscono come piccole macchiettine oscure, visibili all’ occhio nudo o semplicemente armato di una ordinaria lente. E questa diversità di gran- dezza a me pare che provenga non pure dalla grandezza dell’ animale, ma an- cora più dal numero degli ultimi partimenti delle fibre nervee midollari che vanno al cespo. Considerati nella loro positura naturale, che sempre è tra i gruppetti primarii del tendine, i cespi nervosi si mostrano oblunghi (Fig. 41, cnf), e un poco più grossi nel mezzo che agli estremi, e composti di un ammassamento ce- spugliato di sottili fibre minutamente varicose (Fig. 42, 43, f@), delle quali il più (come assai manifesto il dicono i tagli di lungo e trasversi (Fig. 43, 44, 44)) sì ad- dentrano ne’ gruppetti tendinei primarii, senza però avvolgerne in modo anelloso i componenti, ma corrono per lungo tra essì, e, via facendo, sì spartono e intersecano a vicenda, e verisimilmente finiscono ad estremo sciolto. Pertanto io penso che erri il Gemt, e con lui insieme il Golgi, quando affermano che la terminazione de’ nervi ne’ tendini della rana somigli perfettamente a quella de’ nervi ne’ tendini della lu- certola, perchè dall’ una all’ altra mi pare che ci sia un gran divario. E penso ancora che erri il Kerschner, il quale dice gli organi muscolo-tendinei del Golgi essere una modificazione delle zolle o sfoglie nervose del Rollett. NÉ Delle piastre nervose finali ne’ tendini de’ pesci. De’ nervi e terminazione loro ne’ tendini de’ pesci il solo che finora ne abbia fatto ricerca è il Panzini, il quale li ha investigato nell’ Ippocampo e nella Tor- pedine. E nel primo egli afferma le fibre nervee midollari terminarsi in schietti cilindri dell’ asse, ora ramosi, ora non, con de’ piccoli nuclei nella loro lunghezza o sessili o peziolati : nella seconda, al contrario, asserisce che finiscono in piastre di due maniere, l una semplice che nomina piastra a corimbo, V altra implicata che tienla, per rispetto alla grandezza e fattezza e circonscrizione sua, come un vero corpuscolo nervoso terminale. E queste due maniere di piastre neurotendinee — 312 — della torpedine ei le assomiglia a quelle due maniere di piastre motrici da me trovate, anni sono, ne’ muscoli del pesce prenominato. Ma di queste osservazioni del Panzini a me rineresce di non potere dare qnel giudizio che a esse si richie- derebbe, sì perchè io non ho avuto la fortuna di osservare a un conveniente in- grandimento gli esemplari microscopici sopra cui quelle furono fatte, e sì perchè le figure che egli ha dato spezialmente delle suddette piastre della torpedine sono tali e sì fatte che non è possibile, se pur si guardino il più attentamente che sì voglia, cavarne alcun lume circa all interna loro orditura. Ondechè io, senz’ al- tro favellarne, dirò che tra i pesci io ho investigato le piastre nervose finali ne’ ten- dini della coda e delle pinne della Razza, della Tinca, e del Carassio volgare, i quali tendini furono da me condizionati col cloruro d’ oro semplice o doppio alla maniera o del Loewit o del Fischer. E in tutti essi, conforme io ho osservato, le fibre nervee midollari che vi si distribuiscono terminano più e meno profonda- mente dentro il tessuto tendineo in particolari piastre, che talvolta sono semplici e talvolta composte. Le semplici io le ho trovate nel Carassio, le composte nella Tinca e nella Razza. Quelle constano di tutto un pezzo, più o meno grande; queste di più pezzi che per ordinario sono tanti quanti i rami in cui si partisce la fibra nervea midollare che lor dà origine. Ma sia semplice o composta, la pia- stra nervosa finale de’ tendini de’ pesci è sempre ordita di meri cilindri dell’ asse in foggia di pezzetti di nastro, terminati ai loro estremi da una linea rilevata o risalto d’ impronta, che dal cloruro d’ oro apparisce colorita sempre più intensa- mente che il resto. E tali pezzetti di nastro talvolta sono nella piastra sì spessa- mente ammucchiati (Fig. 46, 48), che è malagevole coglierne la figura, ma talaltra sono congiunti insieme per modo da formare striscioline intercise a luogo a luogo da risalti lineari d’ impronta, le quali striscioline sono generalmente disposte in due piani, e ordinate alquanto regolatamente l una dopo l’ altra secondo la lun- ghezza della piastra nervosa ch’ elle compongono. (Fig. 50). E come si fa chiaro massimamente per i sottili tagli microtomici trasversi delle dette piastre, cia- scuno di questi pezzetti di nastro risponde a una voluta di cilindro dell’ asse che circonda, secondo che il pezzetto è più o meno lungo, o uno o più di quei fascettini fibrillari di tessuto connettivo denso, onde i gruppetti primarii di ogni tendine e tela fibrosa sono composti. (Fig. 47, 49, 51). VAS Della natura ed ufficio delle piastre nervose finali ne’ tendini de’ vertebrati. Che le piastre nervose finali che sono ne’ tendini de’ vertebrati siano di na- tura sensiva, ci ha, siccome io estimo, due maniere di fatti che ’1 provano, gli uni che ne fornisce la Notomia minuta, gli altri la Fisiologia sperimentale. I fatti — 313 — della prima maniera son questi: che le fibre nervee midollari che mettono ter- mine nelle piastre nervose de’ tendini sovente si vedono nascere dal medesimo fa- scetto nervoso donde nascono quelle fibre che si conducono a finire in alcune speciali forme di corpuscoli del Pacini: che alcuno di sì fatti corpuscoli alle volte vedesi impiantato (come il Cattaneo ebbe già ad osservare ne’ tendini dell’ uomo) dentro agli organi muscolo-tendinei del Golgi. Ma, a considerarli bene, cotesta maniera di fatti non hanno veramente valore probativo, ma di semplice probabi- lità. I fatti poi della seconda maniera sono: la niuna alterazione delle piastre nervose de’ tendini, e il disfarsi più e meno compiuto di quelle de’ muscoli dopo il taglio della radice anteriore de’ nervi spinali : il disfacimento di tutte e due le sorta di piastre nervose dopo il taglio del nervo misto: e in fine il disfarsi delle sole piastre nervose de’ tendini che conseguita al taglio della radice posteriore de’ nervi spinali, quando esso taglio si fa non avanti, ma dopo il ganglio. Ma se per le cose sopraddette ei non pare che ci sia oggigiorno a dubitare della natura sensiva delle piastre nervose de’ tendini; quanto poi al possibile ufficio loro tut- t è ancora incerto a cagione della mancanza di osservazioni ed esperienze sicure in proposito. E tale incertezza noi la possiamo bene inferire da’ dispareri de’ No- tomisti e de’ Medici circa al detto ufficio. Infatti il Sachs vuole che le piastre nervose finali de’ tendini abbiano per ufficio di regolare il distendersi di essi ten- dini nella contrazione de’ corrispettivi muscoli. Il Golgi, al contrario, appoggian- dosi sommamente sopra le esperienze del Burkhardt, tiene i suoi organi terminali muscolo-tendinei come stromenti di speciale riverbero nervoso da’ tendini a’ corri- spondenti muscoli. Nella quale opinione egli è ancora d’ accordo con l’ Erb, col Westphal, con lo Schultze e col Fuebringer; abbenchè la detta opinione fosse stata, quattordici anni or sono, fortemente impugnata dal Rollett, il quale in fa- cendo passare una corrente elettrica d’ induzione pel tendine dello sterno radiale della rana non vide mai manifestarsi alcuno moto riflesso nè nel muscolo corri- spondente nè in altri muscoli. E da ultimo il Cattaneo afferma gli organi mu- scolo-tendinei del Golgi esser sede del senso muscolare; ma, se il giudizio non mi erri molto, tale affermazione non pare sia sin qui sostentata in alcuna guisa nè dalla Notomia minuta nè dalla Notomia patologica nè dalla Patologia speri- mentale. Onde che credo che in tanta incertezza e tra tante opinioni contrad- dittorie possa anche a me esser lecito di mettere avanti una mia opinione, la quale è questa: che probabilmente le piastre nervose finali de’ tendini sieno deputate a proporzionare il quanto della distensione e resistenza del tendine al quanto di contrazione del corrispondente muscolo. E questa mia opinione vien francheggiata, siccome io credo, dal fatto che le predette piastre nervose finali non si trovano indifferentemente in tutt’ i tendini, ma solo e costantemente in al- cuni di loro, î più attuosi ed efficaci, ragione come quello così detto d’ Achille o gastrocnemio nell’ uomo e ne’ mammiferi, e quello dello Sterno radiale negli An- fibi anuri. TOMO X. j 40 — 314 — Conchiusione. Considerato adunque tutte le cose discorse ne’ precedenti capitoli, a me non pare di dover conchiudere altrimenti questo seritto se non con quelli medesimi corollarii (salvo una qualche correzione o giunta) che io in forma di una seconda nota anticipata lessi il 29 Aprile di quest’ anno alla nostra R. Accademia delle Scienze. I quali corollari sono questi : 1° In tutte e cinque le classi de’ vertebrati ci ha de’ tendini e delle espan- sioni tendinee, che sono più o meno forniti di nervi, i quali finiscono in partico- lari piastre, che dal luogo e modo con cui gli ultimi termini de’ nervi vi sono disposti, ei pare aversi a chiamare piastre tendinee con terminazione cespugliata de nervi a spirale o ad anella, ad eccezione però degli Anfibj anuri, in cui la pia- stra nervosa finale, a quel che sembra, è ordita a cespo. 2° Così fatte piastre han sede talora in certi tendinetti di figura fusata, e talora in uno o più gruppetti tendinei primarii. E tutte e due queste sedi tal- volta accade di trovarle tanto nel medesimo tendine quanto nella medesima espan- sione tendinea. _ 3° I piccoli tendini con entrovi le piastre nervose finali furono dal Golgi, che primo scuoprilli, chiamati organi muscolo-tendinei; ma poco propriamente, se- condo me, tra perchè ei non sempre danno a vedere all’ uno de’ loro estremi al- cuno attaccamento di fibre muscolari striate, e perchè non pare che ei per altro si divisino dagli altri gruppetti tendinei sì primari come secondarii che per quella patticolare invoglia fibrosa e insieme endotelica che esternamente li veste. 4° Ma a ben intendere che sono in realtà cotesti organi muscolo-tendinei del Golgi, è quì mestiere ridursi a memoria, come ciò che si chiama volgarmente tendine di un muscolo altro non è che un aggregamento di piccoli tendinetti, cia- scuno de’ quali origina o dà attacco ad una o più fibre muscolari, e consiste, se- condo che egli è semplice o composto, ora di un solo gruppetto di fascettini di tessuto connettivo fibrillare denso, ed ora di due o più uniti insieme. E vedesi alcuna volta due gruppetti tendinei primarii, semplici nella loro origine, dopo breve cammino, unirsi insieme e formarne uno composto o secondario; e al- cun’ altra volta un gruppetto tendineo secondario, poco lungi dalla sua origine, disciogliersi nei gruppetti tendinei primarii che il componevano. Gli organi mu- scolo-tendinei del Golgi adunque sono, secondo la più o meno grossezza loro, o gruppetti tendinei secondarii o gruppetti tendinei primarii, addensati un cotal poco e vestiti allo esterno di endotelio, ma più di sovente quelli che questi. 5° Le fibre nervose che vanno agli organi muscolo-tendinei del Golgi sono sempre midollari; e una o due in numero, e di rado più. Ma o due o più di due — 315 — che siano, elleno spessissimo provengono dallo iterato partimento di una sola fi- bra e rade volte da due distinte fibre di un fascetto nervoso. Queste fibre midol- lari hanno sempre con sè una o più guaine perineuriche, in cui stanno rinser- rate, le quali guaine sono una dependenza di quelle che rinserrano il fascetto nervoso originario; e le fibre si addentrano ne’ predetti organi talvolta per 1’ uno de’ loro estremi e talvolta per fianco. E nell’ addentrarvisi, lasciano se non tutte buona parte delle loro guaine, le quali si uniscono e immedesimano in quella onde di natura sono guarniti essi organi muscolo-tendinei. Per contrario la guaina dello Schwann e quella midollare si continuano in su le fibre, sin tanto che el- leno divenute meri cilindri dell’ asse non s' internino ne’ gruppetti tendinei pri- marii, dove reiteratamente ramificandosi a modo cespugliato, ogni ramuscolo di cilindro dell’ asse nato da cotal ramificarsi si termina verisimilmente con estremo sciolto, e o un poco ingrossato o vero assottigliato in punta, dopo essersi forse qua e colà unito a’ ramuscoli circostanti, e dopo aver abbracciato spiralmente in più parti della loro lunghezza uno o nello stesso tempo parecchi di quei fascet- tini di tessuto connettivo fibrillare denso, onde, come di sopra è detto, ciascuno gruppetto tendineo primario è composto. E nota che questi cilindri dell’ asse spes- samente e cespugliatamente ramosi, addimostrano nella loro lunghezza a luogo a luogo ingrossamenti di diverse fogge e grandezze, i quali da quasi tutti coloro che fin qui hanno investigato e scritto intorno la terminazione de’ nervi ne’ ten- dini sono stati presi per veri nuclei, ma erroneamente, al mio credere, perchè essi non sono che adunamenti di una di quelle due sostanze onde secondo il Ran- vier (Legons sur le cornée, pag. 373, Paris 1881) e Ciaccio (Sopra il distribui- mento e terminazione delle fibre nervee della cornea ecc. Mem. Acc. Sc. Bologna 1881, Serie IV, T. II, pag. 588-89) i cilindri dell’ asse delle fibre nervee sono composti. E nota ancora che questa composizione de’ cilindri dell’ asse di due sostanze differenti è, oltre il cloruro d’ oro, eziandio dimostrata dall’ azzurro di metilene adoperato secondo le norme date dall’ Arnstein, e che probabilmente i celebratissimi neurococchi del ch.° Prof. Trinchese e i palloncini dell’ ottimo e va- loroso Dott. Cuccati hanno una origine e formazione non diverse da quelle qui assegnate ai predetti ingrossamenti. 6° A differenza delle piastre nervose motrici, quelle proprie ai tendini non pare abbiano nuclei nè sostanza granosa, e consistono non d’ altro che di spesse e cespugliate ramificazioni di meri cilindri dell’ asse, le quali ramificazioni sono quasi sempre ordinate in due o tre piani nell’ interno de’ tendini, e non mai allo esterno loro. E queste mie affermazioni sono appieno dimostrate vere dai tagli sottilissimi microtomici tanto per lungo che a traverso di parecchi organi muscolo- tendinei del Golgi e di alcune di quelle altre piastre nervose finali che han sede o nella sostanza propria de’ tendini o nell’ espansione tendinea di quei muscoli che muovono il globo visivo dell’ uomo, condizionati dal cloruro d’ oro sia sem- plice sia doppio, e debitamente coloriti dal carminio del Cuccati. — 316 — 7° Le piastre nervose finali de’ tendini de’ vertebrati, da quelle in fuori de- gli Anfibj anuri che, come già si disse, sono ordite a cespo, quando sono osser- vate in piano, hanno tutte più e meno le stesse fattezze; e però è credibile che in esse l’ ordinamento interno de’ cilindri dell’ asse, che ne forma l’ essenziale e il vero tutto, sia sempre mai il medesimo. 8° E per fine è cosa oramai certa tutte le dette piastre essere di natura sensiva; ma circa poi al vero loro ufficio, mancando l’ osservazioni e l’ esperienze sicure in proposito, tutto è ancora incerto. Da’ Ronchi Bresciani a di 30 di settembre 1889. SPIEGAZIONE DELLE FIGURE AVVERTENZA Io voglio e debbo di due cose fare avvertito qualunque legge queste mie Investigazioni, l’ una, che gli esemplari microscopici su cui elle si fondano furono fatti la più parte sotto la mia guida dall’ esperta mano del Dott. Vittorio Maz- zoni, Settore nel mio Laboratorio di Notomia comparativa e Istologia, 1’ altra, che tutte quante le figure, che quelle illustrano, rappresentano fedelmente quello che dicono gli esemplari prenominati, e da essi furono cavate con l’ ajuto della nuova grande camera chiara dell''Abbé Zeiss dal mio Assistente disegnatore Signor Pio Gregori, il quale in fatto di disegni microscopici è senza dubbio il primo e il migliore che oggidì abbia 1’ Italia. Significazione delle lettere adoperate a spiegare le singole figure delle Tavole. ac Ansa capillare. afgp Accrescimento fusato delle guaine perineuriche. af re Anelli finali delle ultime ramificazioni de’ cilindri dell’ asse. asca Andatura spirale delle medesime ramificazioni. bf Bottoncelli finali. — 317 — ca Cilindri dell’ asse. cli Clava interna. cn f Cespo nervoso finale. cs Capillare sanguigno. ct Corpuscoli o cellule tendinee. fav Fibrille varicose dal cilindro dell’ asse, o fibrille assiali dei Tedeschi. favt Fibrille assiali varicose tagliate di trasverso. f ms Fibra o fibre muscolari striate. fn m Fibra o fibre nervee midollari. Ffnmt La medesima o le medesime tagliate di trasverso. f n p Fibra nervosa pallida. f pt Fascetti fibrillari primitivi del tendine. 9g H Guaina dell’ Henle. gî Guaine involventi. gp Guaine perineuriche. gtp Gruppetti tendinei primaril. icaf Intreccio cespugliato e anelloso delle ramificazioni finali de’ cilindri del- l’asse. ieo0g Invoglia esterna dell’ organo muscolo-tendineo del Golgi. if g Ingrossamento fusato della fibra nervosa midollare conchiusa dall’ accresci- mento parimente fusato delle guaine perineuriche. if gs Ingrossamento fusato e un poco serpeggiante della stessa fibra. ilca Ingrossamenti di diverse grandezze e figure che si osservano nella lunghezza delle ramificazioni de’ cilindri dell’ asse. N Nervetto. pfav Plesso o intreccio di fibrille assiali varicose. pfnm Plesso o intreccio di fibre nervose midollari. rcat Ramo o rami di cilindro dell’ asse tagliati per trasverso. »fnc Ramificazioni finali nastriformi de’ cilindri dell’ asse. rfcf Ramificazioni finali filamentose de’ medesimi. rf nm Ramificazioni della fibra nervea midollare. rn Risalti nervosi d’ impronta. rsca Ramificazioni serpeggianti de’ cilindri dell’ asse. sa Sarcolemma che si continua all’ invoglia fibrosa dell’ organo muscolo-tendineo del Golgi. sti È Segmento interanulare del Ranvier. s È Strozzatura del Ranvier. ste Striscetta di tessuto connettivo o elastico che cinge e strozza il tendine o il gruppetto tendineo sì primario come secondario. te-tm Tunica esterna e media dell’ arteria. tf m Termine della fibra nervea midollare. — 318 — vs Vaso sanguigno. Fig. 1° — Uomo (Homo sapiens Lin.). Espansione tendinea del muscolo retto superiore del globo visivo. Grande piastra nervosa finale, composta di parecchi pezzi, i quali sono tanti, quanti sono i rami in cui si partisce successivamente la fibra che quella origina e forma. (Cloruro d’ oro e potassio. — Metodo Loewit. — Carminio Cuccati. — Glicerina acidula). Koristka *4 Canna del microscopio in tutto scorciata. X 165. Fig. 2° — Uno de’ pezzi, segnato dalla lettera A, della precedente piastra ner- vosa veduto a un ingrandimento molto maggiore. Koristka *4. Canna del microscopio in tutto scorciata. X 450. Fig. 3* — Uomo. Medesima espansione tendinea. abede Cinque tagli mierotomici di varii pezzi di alcune piastre nervose fi- nali, de’ quali quattro sono trasversi, e solo uno in parte longitudinale e in parte trasverso. (Cloruro d' oro e potassio. — Metodo Loewit. — Inchiu- sione in parafina. — Olio di Garofani. -— Balsamo del Canadà). Koristka %4: Canna del microscopio in tutto scorciata. X 600. Fig. 4° — Uomo. Medesima espansione tendinea. Un organo terminale muscolo-tendineo, o, a dir meglio, un tendine fusato del Golgi con dentrovi una piastra nervosa finale, che occupa quasi tutta la lunghezza del tendine. (Cloruro d’ oro e potassio. — Metodo Loewit. — Glicerina acidula). Koristka % Canna del microscopio in tutto scorciata. X 600. Fig. 5" — Uomo. Espansione tendinea del muscolo retto esterno. Un altro tendine fusato del Golgi parimente con piastra nervosa finale den- trovi, e con ambo gli estremi che si risolvono in parecchi fascetti tendinei primitivi, i quali sono appunto quelli ond’ è naturalmente composto esso tendine fusato. (Cloruro d’ oro e potassio. — Metodo Fischer. — Glicerina acidula). Koristka 1. Canna del microscopio in tutto scorciata. X_T0. Fig. 6° — Uomo. Tendine così detto d’ Achille. - Organo terminale muscolo-tendineo con piastra nervosa finale dentrovi. (Mede- simo preparamento). Koristka '4. Canna del microscopio in tutto scorciata. X 210. Fig. 7° — Uomo. Tendine del muscolo pronatore rotondo. Taglio microtomico longitudinale di parte di una piastra nervosa finale resi- dente in un organo muscolo-tendineo del Golgi. (Cloruro d’ oro e potas- sio. — Metodo Fischer. — Inchiusione in parafina. — Olio di garofani. — Balsamo del Canadà). Koritska !4. Canna del microscopio in tutto scorciata. X 270. Fig. 8° — Uomo. Medesimo tendine. — 319 — abe Tre altri tagli microtomici trasversi di due differenti organi muscolo- tendinei del Golgi con parte di una piastra nervosa finale dentrovi. (Me- desimo preparamento). Koristka 14 Canna del microscopio in tutto scorciata. X 270. Fig. 9* — Uomo. Superficie del medesimo tendine. Singolarissima intrecciatura nervosa, originata e fatta dalla reiterata e succes- siva ramificazione de’ cilindri dell’ asse di due principali fibre nervose mi- dollari. (Cloruro d’ oro e potassio. — Metodo Loewit. — Glicerina acidula). Koritska '4. Canna del microscopio in tutto scorciata. X 270. Fig. 10° — Uomo. Espansione tendinea del muscolo retto superiore del bulbo dell’ occhio. Piastra nervosa finale giacente sopra una di quelle piccole arterie che si ve- dono correre per la detta espansione. (Cloruro d’ oro e potassio. — Me- todo Loewit. — Carminio Cuccati. — Glicerina acidula). Koristka ?4 Canna del microscopio in tutto scorciata. X. 450. Fig. 11° — ab Due tagli microtomici alquanto obliqui della precedente piastra nervosa, dallo attento esame de’ quali si vede come le successive ramificazioni del cilindro dell’ asse della fibra nervea midollare onde quella è intessuta, s° in- sinuano tra la tunica media e l interna della piccola arteria, e quivi dispo- nendosi circolarmente pare finiscano. (Medesimo preparamento. — Inchiusione in parafina. — Olio di garofani. — Balsamo del Canadà). Koristka *< Canna del microscopio in tutto scorciata. X 450. Fig. 12° — Pipistrello nostrano (Vespertilio murinus Schreder). Tendini delle estre- mità davanti. Piastra nervosa finale, composta di parecchi pezzi; l’ aspetto e configurazione della quale somiglia a quella de’ Rettili. {Cloruro d' oro e potassio. — Metodo Fischer. — Glicerina acidula). Koristka %. Canna del microscopio in tutto scorciata. X 230. Fig. 13° — «6 Due pezzi della piastra nervosa precedente ingranditi molto di più. Koristka 34 Canna del microscopio in tutto scorciata. X 450. Fig. 14* — Pipistrello. Gli stessi tendini. ab Due tagli microtomici trasversi di due pezzi diversi di una piastra ner- vosa finale. (Medesimo preparamento. — Inchiusione in parafina. — Olio di garofani. — Balsamo del Canadà). Koristka ‘4. Canna del microscopio in tutto scorciata. X 600. Fig. 15° — Pipistrello. Tendinme delle estremità di dietro, rispondente a quello così detto d’ Achille nell’ uomo. Un organo terminale muscolo-tendineo del Golgi con piastra nervosa dentrovi. (Cloruro d’ oro e potassio. — Metodo Fischer. — Glicerina acidula). Koristka 4. Canna del microscopio in tutto scorciata. X_ 110. — 320 — Fig. 16° — Ratto albino (Mus rattus Lin.). Tendine del gastrocnemio. Altro organo terminale muscolo-tendineo del Golgi con piastra nervosa den- trovi. (Cloruro d’ oro. — Metodo Loewit alquanto modificato. — Glicerina acidula). Koristka $, Canna del microscopio in tutto scorciata. X 140. Fig. 17° — Ratto albino. Medesimo tendine. Un altro organo terminale muscolo-tendineo del Golgi, di figura quasi cilin- drica, e parimente con piastra nervosa finale dentrovi. (Medesimo prepa- ramento). Koristka °4. Canna del microscopio in tutto scorciata. X 320. Fig. 18° — Ratto albino. Medesimo tendine. Taglio microtomico trasverso di un organo muscolo-tendineo del Golgi, distinto in tre scompartimenti, e con piastra nervea finale, cespugliata e anellosa dentro a ciascuno. (Medesimo preparamento. — Inchiusione in gomma. — Glicerina acidula). Koristka */im. omo. Canna del microscopio in tutto scorciata. X 580. Fig. 19° — Topo delle chiaviche o decumano (Mus decumanus Pallas). Tendine del gastrocnemio. Tre organi terminali muscolo-tendinei del Golgi, ciascuno con propria piastra nervosa dentrovi, le quali tre piastre son date da una sola fibra nervea midollare che nel suo cammino si tripartisce. (Medesimo preparamento). Koristka *%. Canna del microscopio in iutto scorciata. X 140. Fig. 20° — Topo decumano. Medesimo tendine. Altro organo terminale muscolo-tendineo del Golgi, di figura quasi cilindrica, e parimente con piastra nervosa dentrovi. (Medesimo preparamento). Koristka % Canna del microscopio in tutto scorciata. X 140. Fig. 21° — Topo decumano. Medesimo tendine. Taglio microtomico trasverso di un organo muscolo-tendineo del Golgi con pia- stra nervosa finale dentrovi. (Medesimo preparamento. — Inchiusione in parafina. — Olio di garofani. — Balsamo del Canadà). Koristka “4. Canna del microscopio in tutto scorciata. X 600. Fig. 22° — Cavia (Cavia cobaya Schreber). Tendine del gastrocnemio. Un organo terminale muscolo-tendineo del Golgi, in figura di cilindro, e pie- gato ad arco, con entro una piastra nervosa finale, la quale, anche a guar- darla in faccia, mostra l’ orditura sua cespugliata e anellosa. (Cloruro d’ oro. — Metodo Loewit alquanto modificato. —- Glicerina acidula). Koristka °4,;m. onox. Canna del microscopio in tutto scorciata. X 580. Fig. 23* — Cavia. Medesimo tendine. Taglio microtomico per lungo di due organi terminali muscolo-tendinei del Golgi, congiunti insieme e immedesimati in un sol tutto, dove la disposi- zione ad anella dell’ ultimo termine de’ cilindri dell’ asse delle fibre nervee — 321 — che ci vanno è manifestissima. (Medesimo preparamento. — Inchiusione in gomma. — Glicerina acidula). Koristka *. Canna del microscopio in tutto scorciata. Xx 600. Fig. 24° — Cavia. Medesimo tendine. Taglio mierotomico trasverso di un altro organo terminale muscolo-tendineo del Golgi, distinto in tre scompartimenti, in ciascuno de’ quali si vede una parte della piastra nervosa finale, ordita manifestamente in forma cespu- gliata e anellosa. (Medesimo preparamento). Koristka *4. Canna del microscopio in tutto scorciata. Xx 600. /g° Fig. 25° — Ratto albino. Tela fibrosa che veste ìî muscoli della gamba. Due corpuscoli nervosi finali, somiglianti per certi rispetti a quei del Pacini. (Cloruro d’oro. — Metodo Loewit alquanto modificato. — Glicerina acidula). Koristka 54. Canna del microscopio in tutto scorciata. X 230. Fig. 26° — ad Gli stessi due corpuscoli via più ingranditi. Koristka *4. Canna del microscopio in tutto scorciata. X 600. Fig. 27° — Bue (Bos taurus Lin.). Espansione tendinea di uno de’ muscoli mo- tori dell’ occhio. Due organi muscolo-tendinei del Golgi strettamente congiunti insieme, e stroz- zati verso l’ estremo loro di sotto da una striscetta di tessuto connettivo o elastico, e ciascuno con la sua propria piastra nervosa finale; le quali due piastre, comechè vedute di faccia, appariscono manifestamente ordite in guisa cespugliata e insieme anellosa. (Medesimo preparamento). Koristka ‘4. Canna del microscopio in tutto scorciata. X 600. Fig. 28% — Bue. Medesima espansione tendinea. Taglio mierotomico trasverso di un organo muscolo-tendineo del Golgi, dove la disposizione cespugliata e anellosa delle ultime ramificazioni del cilindro del- l’ asse che compongono la piastra nervosa è patentissima. (Medesimo pre- paramento). Koristka ‘4. Canna del micrascopio in tutto scorciata. YX 600. Fio. 29° -— Porco (Sus scrofa Lin.). Espansione tendinea di uno de’ muscoli mo- (©) tori dell’ occhio. Due organi muscolo-tendinei del Golgi, contigui tra loro, l’ uno con piastra nervosa finale, l’ altro con sola una piccola parte di essa. E si noti come delle due fibre nervose midollari, che si conducono ai detti organi, quella che non ha avuto parte alla formazione della piastra nervosa, subito che vien fuori da essi, dà a vedere un notabile accrescimento fusato delle sue guaine perineuriche. (Medesimo preparamento). Koristka 4. Canna del microscopio in tutto scorciata. X 150. Fig. 30° — Porco. Medesima espansione tendinea. Un altro organo muscolo-tendineo del Golgi, ancora esso con piastra nervosa entrovi, e con una fibra muscolare striata che si distende digradando fin TOMO X. È 41 — 322 — là ove giace la piastra nervosa finale. (Medesimo preparamento). Koristka %4. Canna del microscopio in tutto scorciata. X_ 320. Fig. 31° — Porco. Espansione tendinea di un altro muscolo motore dell’ occhio. abe Tagli microtomici di tre differenti organi muscolo-tendinei del Golgi, in due de’ quali è visibile la disposizione cespugliata e anellosa degli ultimi rami del cilindro dell’ asse, e in uno anche quella a spirale. (Medesimo preparamento. — Inchiusione in parafina. — Olio di garofani. — Balsa- mo del Canadà). Koristka *. Canna del microscopio in tutto scorciata. X 600. Fig. 32° — Passero (Passer Italiae Viei/)). Tendini de’ muscoli delle ali. Due organi muscolo-tendinei del Golgi, l’ uno e 1’ altro con ampia piastra nervosa, strettamente congiunti nel loro mezzo, e disgiunti in ambo i loro estremi. (Cloruro d’ oro e potassio. — Metodo Loewit. — Glicerina acidula). Koristka °4. Canna del microscopio in tutto scorciata. X 320. Fig. 33% — Passero. Tendini degli stessi muscoli. a be Tre tagli microtomici di tre diversi organi muscolo-tendinei del Golgi, due scempi e uno doppio, ne’ quali tutti e tre è manifesta la disposizione cespugliata e anellosa dell ultimo termine de’ cilindri dell’ asse. (Medesimo preparamento. — Inchiusione in parafina. — Olio di garofani. — Balsa- . mo del Canadà). Koristka %. Canna del microscopio in tutto scorciata. X 600. Fig. 34° — Biscia d’ acqua (Coluber natrix Lin.). Tendini de’ muscoletti inter- spinosi. Piastra nervosa finale composta di parecchi pezzi. (Cloruro d’ oro. — Metodo Fischer. — Glicerina acidula). Koristka ‘44. Canna del microscopio in tutto scorciata. X 140. Fig. 95° — @ Uno de’ pezzi della piastra nervosa precedente via più ingrandito. Koristka %. Canna del microscopio in tutto scorciata. X 600. Fig. 36° — Biscia d’ acqua. Medesimi tendini. abcd Tagli microtomici trasversi di una piastra nervosa consimile. Vi si vede bene l’ orditura anellosa e cespugliata delle ramificazioni ultime de’ cilindri dell’ asse che compongono la piastra. (Medesimo preparamento. — Inchiu- sione in parafina. — Olio di garofani. — Balsamo del Canadà). Koristka %. Canna del microscopio in tutto scorciata. X 600. Fig. 37° — Lucertola (Lacerta agilis Lin.). Tendine del gastrocnemio. Fibra nervosa midollare, con alcune guaine perineuriche, ia quale, poco di lungi dal contermine del muscolo col tendine, corre serpeggiando, e, via facendo, sì divide in parecchi rami, ciascuno de’ quali si termina in una distinta piastretta mervosa. (Cloruro d’ oro. — Metodo Loewit. — Car- minio Cuccati. — Glicerina acidula). Koristka 34. Caana del microscopio in tutto scorciata. x 145. — 323 — Fig. 38° — Le due piastrette, segnate da a d, della figura precedente, osservate a un ingrandimento di gran lunga maggiore. Zeiss Apocrom. x” Canna del microscopio in tutto scorciata. X 550. Fig. 39° — Lucertola. Medesimo tendine. Due di quei gruppetti tendinei primarii che compongono il predetto tendine del gastrocnemio, l’ uno con dentrovi una piastretta nervosa finale, 1’ altro senza. (Medesimo preparamento). Koristka *. Canna del microscopio in tutto scorciata. X 600. Fig. 40% — Lucertola. a b Due tagli microtomici di due differenti pezzi di una piastra nervosa. An- che qui vi si osserva la disposizione cespugliata e anellosa delle ultime ramificazioni de’ cilindri dell’ asse. (Medesimo preparamento. — Inchiusione in parafina. — Olio di garofani. — Balsamo del Canadà). Koristka °4. Canna del microscopio in tutto scorciata. X 600. Fig. 41° — Rana mangereccia (Rana esculenta Lin.). Tendine del muscolo sterno radiale. Metà inferiore. Questa figura mostra il luogo, donde il nervetto, accompagnato da un capil- lare sanguigno anzi che no grosso, e da alcuni fascetti di tessuto connettivo rado, si addentra e distribuisce alla metà inferiore del predetto tendine; e mostra ancora il plesso che formano le fibre midollari compositive del ner- vetto, e quattro di quei particolari cespi in cui elle finiscono. (Cloruro d’ oro e potassio. — Acido osmico. — Metodo Ciaccio. — Glicerina aci- dula). Koristka '4. Canna del microscopio in tutto scorciata. X_ 25. Fig. 42° — Rana mangereccia. Metà inferiore del medesimo tendine. Un piccolo cespo nervoso finale, osservato ad un maggiore ingrandimento. Vi si vede manifesto le ultime divisioni delle fibre nervee midollari terminarsi in una infinità di fibrille assiali varicose. (Medesimo preparamento). Zeiss 4. Canna del microscopio in tutto scorciata. X 340. Fig. 43° — Rana mangereccia. Metà inferiore del medesimo tendine. Taglio mierotomico per lungo di un altro consimile cespo nervoso finale. Vi si osserva una certa quantità di fibrille assiali varicose, che correndo di lungo tra i fascetti primitivi fibrillari compositivi del tendine formano massima- mente esso cespo. (Medesimo preparamento. — Inchiusione in gomma. — Glicerina acidula). Koristka ‘4. Canna del microscopio in tutto scorciata. X 600. Fig. 44° — Rana mangereccia. Metà inferiore del medesimo tendine. Taglio microtomico trasverso di un altro grande cespo nervoso finale. L’ ap- parenza cespugliata delle fibrille compositive del cespo è evidentisima. (Medesimo preparamento). Zeiss #4. Canna del microscopio in tutto scorciata. X 80. — 324 — Fig. 45° — Rana mangereccia. Metà inferiore del medesimo tendine. Taglio microtomico trasverso di un altro consimile, ma meno grande cespo nervoso, veduto a un molto maggiore ingrandimento. (Medesimo prepara- mento). Koristka 5. Canna del microscopio in tutto scorciata. X 600. Fig. 46° — Razza (Raja marginata Lac.). Tendini de’ muscoli della coda. Piastra nervosa composta di parecchi pezzi. (Cloruro d’ oro. — Metodo Fi- scher. — Glicerina acidula). Koristka %. Canna del microscopio in tutto scorciata. X 210. Fig. 47% — Razza. Medesimi tendini. Taglio microtomico trasverso di una consimile piastra nervosa. Vi si vede ma- nifesta l orditura cespugliata e anellosa de’ cilindri dell’ asse che compon- gono essa piastra. (Medesimo preparamento. — Inchiusione in parafina. — Olio di garofani. — Balsamo del Canadà). Koristka %4. Canna del microscopio in tutto scorciata. X 600. Fig. 48° — Tinca (Tinca vulgaris Cuvîer). Tendini de’ muscoli moventi le pinne pettorali. Piastra nervosa composta di parecchi pezzi. (Cloruro d’ oro e potassio. — Me- todo Loewit. — Glicerina acidula). Koristka *4. Canna del microscopio in tutto scorciata. X 310. Fig. 49° — Tinca. Medesimi tendini. Taglio microtomico trasverso di alcuni tra i pezzi compositivi di una piastra nervosa. Vi sì vede anche la disposizione cespugliata e anellosa de’ rami ultimi de’ cilindri dell’ asse. (Medesimo preparamento. — Inchiusione in parafina. — Olio di garofani. — Balsamo del Canadà). Koristka 44. Canna del microscopio in tutto scorciata. X 600. Fig. 50% — Carassio comune (Carassius vulgaris N7/ss). Tendini de’ muscoli della coda. Grande piastra nervosa fatta di un sol pezzo. (Cloruro d’ oro e potassio. — Metodo Fischer. — Glicerina acidula). Koristka %. Canna del microscopio in tutto scorciata. Xx 600. Fig. 51° — Carassio comune. Medesimi tendini. Taglio microtomico trasverso di parte di una piastra nervosa. Ancora qui è visibile l’ orditura anellosa e alquanto cespugliata delle ramificazioni finali de’ cilindri dell’ asse. (Medesimo preparamento. — Inchiusione in parafina. — Olio di garofani. — Balsamo del Canadà). Koristka *4. Canna del microscopio in tutto scorciata. X 600. Col) ZIE, SV] na Mem. Ser.IV Vol X GV. Ciaccio — Tav] lit 6. Wenk e Figli-Bologna Pio PO Gregori, dis. dal nat ed'in pietra ” MAO COR n DO Mem.SerIV. Vol X GV. Ciaccio —Tav Il al ta ni ta ca rar Figa rsca X 450 Pio P® Gregori dis. dal nat ed in pietra Mem. SerlV Vol X. n \ 7 \ | | P. DITE in n 79 I LITÀ ® 3, i A fs, 9 7 SID i { Pio P? Gregori, dis dai nat ed in pietra GV. Giaccio— Tav. Ill. litG.Wenk e Figli- Bologna Mem. Ser IV Vol X. al G.V. Ciaccio — Tav.IV. i i lit G.Wenk e Figli — Bologna. Pio P9 Gregori) dis. dal naked. in pretra Î ‘enk e Fig gi ‘0 P°G Mem. Ser IV Vol. X regori, dis. dal nat. ed in pietra UG. Wenk e Figli— Bologna Mem. Ser IV Vol. X G.V. Ciaccio — Tav.VI ch Fig.41 x 25 ° lit 6. Wenk e Figli — Bologna Pio P° Gregori, dis. dal nat. ed în pietra È y y CASO D EYPOGNATHUS ANTISTROPHUS IN UN VITELLO OSSERVAZIONE DEL PROFESSORE CESARE TARUFFI (Letta nella Sessione del 1° Dicembre 1889) Nel 1884 ebbi occasione (1) di raccogliere le sparse e rare osservazioni (fatte più spesso nei mammiferi superiori che nell’ uomo) di mascellari inferiori con una o due branche sopranumerarie e m’ avvidi del bisogno di dare un nuovo ordina- mento alle varie specie di questo genere di deformità (Pleo-hypognathus) onde com- prendere fatti che non trovavano un posto conveniente nelle classificazioni prece- denti. Per provvedere a tale bisogno distinsi avanti tutto i casi in cui le branche accessorie erano due, da quelli in cui ve ne era una sola, e poscia divisi ognuno di questi gruppi in tante specie quanti erano i modi con cui le branche acces- sorie si mostravano in rapporto colle normali, ed ottenni la seguente distribuzione. I. Tetra-hypognathus. Mandibola inferiore con due branche accessorie. A) HyPognatHus AnmtIsTROPHUS. — Le due branche accessorie hanno una di- rezione opposta a quella delle normali e l’ estremità anteriore delle prime si uni- sce colla estremità omonima delle seconde. B) HyPowrsoewatBUs. — Le due branche accessorie hanno la stessa direzione delle normali e sono disposte in modo che l’ estremità anteriore della branca si- nistra parassitaria si congiunge con la branca destra del portatore e la, branca destra colla sinistra. (1) Storia della Teratologia. Tom. III, pag. 107 e 515. Bologna 1884-86. — 326 — C) HyPoGNATHUS DIPLEURUS. — Le due branche accessorie hanno la stessa di- rezione delle normali, e sono situate lateralmente ed all’ esterno delle medesime. D) HyPoanarHus monopLeuRUS. — Le due branche accessorie formano una mandibola completa, situata da un lato di quella dell’ autossita. JI. Tri-hypognathus. Manaibola inferiore con una branca accessoria. Avendo ora acquistato un bell’ esemplare di Pleo-hypognathus in un vitello posso confermare una specie che fu veduta tre volte soltanto negli animali (due volte da Srerano Grorrroy SAarnr-Hirare, ed una da JaeGeR) e posso rilevare che quando le branche accessorie vanno in direzione opposta alle normali (ypogna- thus antistrophus) probabilmente il processo non è sempre eguale, non potendo ammettersi che le branche accessorie durante il periodo embrionale abbiano ogni volta la direzione suddetta, ma che talora la medesima sia secondaria ad. una flessione delle branche stesse. Osservazione. -—- Un beccaio di Bologna portava in mostra un vitello con una deformità cospicua al mascellare inferiore che gl’ impediva la suzione, sicchè gli si doveva iniettare del latte in bocca per mantenerlo vivo, ed al dire dello stesso beccaio l’ animale mostrava gl’ indizii d’ un doppio sesso. Ad onta però delle cure, il vitello giunto al 65° giorno di vita (che corrispondeva alla fine del febbraio 1889) morì in Milano ed io ricevei la testa in Bologna il 6 marzo seguente. La testa del vitello offriva all’ esterno due anomalie: una consisteva in una terza narice, posta immediatamente sopra all’ orlo superiore della pinna nasale — 327 — destra, la quale era un poco più ampia della sinistra. La narice sopranumeraria sporgeva a guisa d’ un capezzolo mammario, colla differenza che nel centro aveva una apertura rotonda manifesta, che conduceva in un canale cieco, lungo 7 mil- limetri. La seconda anomalia, assai più singolare, era data da un grosso corpo solido che sporgeva in avanti e nasceva sotto la lingua, per un tratto bifida. Questo corpo era lungo 12 centim., non mobile, di figura lanceolata, convesso superior- mente, concavo inferiormente, colla estremità anteriore a forma di punta roton- deggiante, piegata in basso. La superficie convessa di questo corpo a metà della sua lunghezza misurava trasversalmente 8 centim. ed era coperta per tutta la sua estensione da una membrana fibrosa liscia di color roseo, assai aderente al corpo sottoposto. La superficie concava misurava trasversalmente 7 centim. ed era coperta da una mucosa rossa, da cui sorgevano uniformemente piccole papille coniche, che si mostravano pigmentate verso la base. Tale mucosa si faceva continua col labbro inferiore della testa, ed il labbro offriva la particolarità di descrivere un arco concavo esternamente in luogo d’ un arco convesso. I due margini laterali del corpo so- lido, alla distanza di 4 centim. dalla punta presentavano ognuno una fila di denti, formata da 6 molari, i quali si dirigevano lateralmente ed alquanto in basso. Aprendo la bocca si vedeva nascere dalla faringe una lingua unica, ampia, pig- mentata irregolarmente, nel resto rosea con fine papille. Dal lato anteriore essa diventava liscia, pallida e si continuava col tessuto fibroso che copriva il corpo sporgente, mentre ai lati si prolungava costituendo la porzione anteriore di due lingue strette, pigmentate e dirette lateralmente al corpo suddetto. Sotto l’ apice di ciascheduna lingua ed ai lati della base del corpo sporgente (alla distanza di 6 centim. e mezzo dall’ ultimo dente molare) si riconosceva la parte anteriore di una mandibola assai stretta (diametro 3 centim.) diretta oriz- zontalmente e lateralmente rispetto al diametro antero-posteriore della testa, for- nita di denti incisivi più o meno sormontati fra loro; con questa differenza che la mascella situata a destra ne conteneva sei e quella a sinistra otto. La mucosa d’ ambedue queste mandibole si continuava colla membrana fibrosa che cuopriva il corpo sporgente. Denudata la testa dalle parti molli non rinvenni altra anomalia nello schele- tro che la duplicità manifesta del mascellare inferiore, disposta in modo singola- rissimo. Il mascellare suddetto si mostra semplice dal lato posteriore essendo for- nito di due sole branche. Queste colla loro porzione ascendente s° articolano nel modo solito colle cavità glenoidi ed hanno ognuna, nella loro porzione orizzontale, 6 denti molari ed un canino, i quali sono diretti obliquamente all’ esterno, men- tre i margini inferiori delle due branche si dirigono all’ interno, in modo che in corrispondenza del 1° molare essi distano fra ioro un solo centimetro. — 328 — Le due branche stesse, che possiamo considerare proprie del vitello, subiscono anteriormente, ove mancano i denti, una maggior torsione in guisa che la loro superficie interna si fa superiore e quasi orizzontale e ad un tempo le branche 8° abbassano e si divaricano; poscia colla loro estremità incisiva si curvano late- ralmente ed all’ esterno per formare la metà posteriore dei due menti laterali sud- detti e sono provvisti della metà dei denti di ciaschedun mento. Denudato il corpo solido (già descritto esteriormente) ap- parisce formato di sostanza ossea con due superficie: una su- periore convessa ed una inferiore concava e con due margini. La superficie convessa misura nella sua lunghezza 13 centi- metri (cioè dalla punta esterna al margine interno della base), è liscia, meno che nel terzo anteriore della linea mediana ove si solleva una cresta, distinta in due parti laterali da un leg- gerissimo solco. Questo solco però si fa più manifesto verso la punta dell’ osso, mentre la cresta si dilegua (Fig.2,c), ed anzi ai lati del solco si vedono due depressioni, nel mezzo delle quali vi sono due pertugi a fondo cieco, simmetrici, di forma elittica, cogli orli staccati dal fondo. Nella superficie concava poi si nota parimenti una eresta Fig. 2. sulla linea mediana, più notevole della precedente, che parte dalla punta e procede all’ indietro per 2 centim. e mezzo e presenta due cuspidi dirette in basso: una anteriore e minore, l’ altra posteriore, ove declina la cresta, più lunga. I margini poi, oltre ai 6 molari suricordati, hanno in ciaschedun lato ante- riormente un alveolo vuoto, più piccolo degli altri, e dal lato posteriore ove fini- scono i denti, i margini convergono alquanto fra loro in guisa che l’ osso presenta solo la larghezza di 5 centim. e mezzo, e poscia i margini si piegano all’ esterno formando un angolo retto in ambidue i lati, in seguito all’ allargamento poste- riore dell’ osso stesso da simulare una base. Questa base offre una larghezza (dal- l’ uno all’ altro orlo esterno) di 7 centim. con due margini laterali che completano i due menti e sostengono l’ altra metà dei denti incisivi. (Fig. 2, w, m). La natura di quest’ osso sopranumerario si desume facilmente dai suddetti caratteri, poichè basta notare che esso possiede sui margini una fila di molari, disgiunta mediante un lun- go intervallo dall’ arco degl’ incisivi, che queste parti hanno la struttura normale, e che esso possiede nella sua superficie convessa un ieg- Fig. 3. gier soleo mediano, per riconoscere che l’osso stesso è formato da due branche mascellari accessorie insieme fuse. Avverto però che la fusione non accadde colla superficie interna delle branche, ma col margine — 329 — inferiore; lo che si desume dal vedere i margini dentari volti all’ esterno (e non superiormente) e dalla presenza di due ampie superficie nell’ osso: una superiore e l’altra inferiore, in luogo d’ essere una esterna e l’altra interna in ciascheduna branca. Se poi si considera che i denti molari di detto osso sono situati al davanti degl’ incisivi e diretti obliquamente in basso, mentre gl’ incisivi non hanno inver- tita la direzione; che la superficie convessa dell’ osso è coperta da un tessuto fi- broso e che la superficie concava lo è da una mucosa, si deve indurre che il ter- zo posteriore e medio delle due branche accessorie si siano rovesciati anterior- mente, ruotando ad un tempo per un quarto di circolo sul proprio asse, in guisa che il margine alveolare divenne esterno e l’ inferiore divenne interno, da pre- starsi alla fusione col vicino. In quanto al terzo anteriore delle branche, divenuto posteriore, esso non subì un eguale rovesciamento, ma solo uno spostamento late- rale da favorire la congiunzione del lato interno della sua estremità incisiva con il lato eguale della branca normale. Ammesse tali induzioni si può concludere, non solo che il corpo osseo è costi- tuito da due branche accessorie, ma che la forma assunta è il prodotto della fles- sione (non versione) e della torsione della parte posteriore delle branche stesse divenuta anteriore, e si possono stimare i due fori posti nella superficie convessa di detto osso quali rappresentanti i due fori normali dei mascellari interni. Non con la stessa facilità si possono spiegare le creste rinvenute nelle due superficie. Se si considera però la congiunzione delle estremità incisive delle branche ac- cessorie colle estremità eguali delle branche normali nasce spontanea l’ idea, che le due prime non rappresentino altrimenti una mandibola parassitaria situata in ori- gine fra le normali, ma invece che una branca normale ed una accessoria formino naturalmente e non accidentalmente la sinfisi mentale da un lato come dall’ altro; sicchè si tratti in origine di due mascellari inferiori paralleli, diretti dall’ indietro all’ avanti, di cui le branche interne libere (senza articolazione glenoide corrispon- dente) si piegarono poscia anteriormente da simulare due branche sopranumerarie e tale rovesciamento spiega come le due sinfisi siano divenute laterali. Dalla descrizione di questo caso rimane giustificato il titolo che le abbiamo imposto di Aypognathus antistrophus, poichè vedemmo che realmente vi erano due branche mandibolari che avevano in gran parte una direzione invertita, ma in quanto ad intendere il modo con cui accadde la inversione ci siamo grandemente allontanati dalla teoria che altra volta adottammo per spiegare i due casi di Srr- rano Grorrroy Sarmt-Hiname e quello di Jareer. Allora accogliemmo l’ opinione che si trattasse d’ una mandibola parassitaria originariamente diretta in senso in- verso e che questa fosse il residuo d’ un secondo embrione (scomparso in tutto il resto) situato di fronte all’ autossita, ed accogliemmo tale opinione vedendo dalla fisura le branche orizzontali parassitarie non ruotate sopra sè stesse e quindi i TOMO X. ; 42 — 330 — denti molari diretti in alto, mentre le estremità incisive si piegavano in basso per l’ incontro colle estremità normali, oppure vedemmo che le parassitarie s’° in- sinuavano fra 1’ estremità anteriore di queste. E tanto più accogliemmo tale opi- nione leggendo che alcune ossa aderivano alle apofisi condiloidee della mandibola parassitaria. Ora queste circostanze mancando nel caso attuale, anzi essendovi in- dizii affatto opposti, abbiamo aggiunta una seconda ipotesi, che conduce ad am- mettere che la stessa forma teratologica possa accadere in due modi diversi. CASO DI TRICUSPIDE EMBRIONALE TEN RUEN FERANCITUERO DIE 2A ININEE OSSERVAZIONE DELSIRROERGESARESTARUEEI (CON TAVOLA) etta nella Sessione de icembre 9 Lett lla Sessi del 1° Dicembre 188 Quando nel 1875 descrivemmo i vari modi con cui il cuore umano si defor- ma durante la vita intrauterina, riportammo due casi di anomalia della tricuspide assai singolari, poichè in luogo delle cuspidi vi era un velamento continuo con una apertura del lato del setto interventricolare. Questi casi appartenenti ad Essren ed a Srerren (1), furono giudicati da Ravcaruss (2) come i soli esempi descritti d’ insufficienza congenita della tricuspide. Recentemente MarxsEN (3) ha aggiunto un terzo caso analogo ai precedenti, che attribuisce ad endocardite, ed oggi noi pos- siamo illustrarne un quarto, mercè la cortesia del pregiatissimo Dott. ALBERICO Testi, Medico primario a Faenza, che ci ha donato un bellissimo esemplare colle seguenti notizie cliniche. Osservazione. — Zoli Francesco, d’ anni 12, orfano di padre, aveva la madre vivente e sana. Egli fino dai suoi primi anni sofferse di dispnea e di tosse osti- nata. All’ età di 10 anni ebbe per ben quattro volte una copiosa emoptoe che sollevò temporariamente l’ infermo dai travagli dispnoici. Egli ebbe sempre un color cianotico al viso, e tale colorito aumentava ed appariva ancora alle mani ed ai piedi in seguito alla corsa e a qualunque altra fatica. Le sofferenze poi s° aggra- vavano all’ inverno, aggiungendosi ancora dolore precordiale, cefalea e generale (1) Tarurri C. Sulle malattie congenite e sulle anomalie del cuore. Bologna 1875, pag. 253, Osserv. 89; pag. 236, Osserv. 94. (2) Raucaruss C. in GeruARDT. Malattie dei bambini. Trad. ital. Vol. IV, Parte I, pag. 86. Na- poli 1884. (3) Marxsen Troporo. Ein seltener Fall von Anomalie der Tricuspidalis. Inaug. Diss. Kiel 1886. — 332 — spossatezza; e le cose nel 1:887 giunsero al grado che i parenti ricorsero all’ Ospe- dale (di Faenza) ove lo trasportarono il 3 dicembre. Dopo 7 giorni di riposo, essendo scemati i disturbi, fu esaminato 1’ infermo. Egli aveva lo scheletro ben conformato, scarsa la nutrizione generale ed un co- lorito violaceo alle labbra, alle gote, al naso ed alle orecchie. Nel triangolo infe- riore del collo, dal lato sinistro, si notavano due vene turgidissime con oscilla- zioni isocrone all’ urto del cuore. Il torace presentava una notevole sporgenza a sinistra, col suo culmine in corrispondenza della terza costa. Sul quinto intervallo costale, linea emiclaveare, si vedeva un rientramento sistolieo notevolissimo, e più in basso, nel sesto intervallo, una diffusa oscillazione dovuta all’ urto della punta del cuore che si estendeva molto all’ interno ed in alto, ed all’ esterno raggiun- geva l’ ascellare anteriore. Rientramenti meno evidenti si osservavano nel primo e secondo intervallo costale fra le linee parasternale e l’ emiclaveare. Colla mano si avvertiva l’ urto del cuore oltre di un centimetro dalla linea ascellare anteriore; esso era diffuso a buona parte della regione cardiaca, se- gnatamente nella sua porzione inferiore sinistra. L’ urto era abbastanza valido, ma non sempre unico, poichè talora alla regione inferiore dello sterno si perce- piva un primo impulso molto più forte del secondo, il quale era invece assai debole (bigeminismo) ed ambidue si sentivano nella regione inferiore dello sterno. Sotto un maggior impulso della circolazione si avvertiva un leggier fremito sistolico in corrispondenza della quarta e quinta costa nella linea emiclaveare; mentre l impulso era debole all’ epigastrio e mancante al jugulare. I battiti delle carotidi e delle radiali erano isocroni con quelli del cuore. All’ ascoltazione si udiva un rumore al primo tempo su tutta 1’ area cardiaca col massimo d’ intensità variabile che accompagnava un tono distinto ; al secondo tempo s° udiva un tono impuro spesso sdoppiato. Colla percussione si fissarono i seguenti limiti : Limite superiore sinistro . . . centim. 9 » inferiore A s 13 bi Li destro s + Negli organi del respiro non si udì che un certo grado d’ ipofonesi nella fossa sopraclavicolare destra ed ivi stesso un soffio vescicolare debole. Si udì inoltre qualche rantolo russante per il resto dell’ ambito toracico, e rantoli poco sonori verso le basi del pulmone. Il malato dimorò circa 4 mesi nell’ Ospedale, ove avrebbe ottenuto un miglio- ramento nelle sue sofferenze, se questo non fosse stato interotto più volte da ac- cessi dispnoici, che sopravvenivano allorchè 1’ infermo si esponeva al freddo o faceva qualche sforzo. Tornato a casa il 27 marzo 1888 passò l’ estate meglio — 333 — del consueto; ma poi, senza cause cognite, si aggravò repentinamente e fu por- tato di nuovo all’ Ospedale agonizzante, ove dopo poche ore morì. Il cuore del ragazzo ci fu inviato gentilmente in Bologna dal sullodato Me- dico. Esaminatolo, trovammo che esso era notevolmente ingrandito da superare quello d’ un adulto, e specialmente nel suo lato destro, poichè aveva la lunghezza dall’ origine dell’ aorta fino all’ apice di 145 centim. e la larghezza (presa sotto il solco circolare) di 11 centim., mentre la lunghezza normale, secondo FéRSTER, è a questa età di centim. 7,5 e la larghezza di 8 centimetri. Il seno destro era dilatato col maggior diametro di 5 centim. e coi muscoli pettinati ipertrofici. Nella fossa ovale apparivano due fori distinti da una fettuccia membranosa rappresentante la valvola, la quale nasceva dal contorno posteriore ed inferiore della fossa (ove era larga 5 millim.) ed andava, restringendosi, alla parte anteriore dell’ istmo di Vieussen ove si saldava; in guisa da risultarne un foro superiore del diametro di 4 millim. ed un secondo inferiore più grande, del diametro di 6 millimetri. Il ventricolo destro appariva assai più grande del sinistro, colle pareti molto assottigliate, coll’ orificio dell’ arteria pulmonare alquanto allargato (V. Tav. p) e coll’ orificio atrio-ventricolare molto più ampliato del precedente senza però pre- sentare alcuna alterazione. Dai due terzi anteriori di questo orificio nasceva una membrana velamentosa, trasparente, simile ai veli delle valvole, la quale discendeva verso l’ apice cardiaco ove si continuava con l’ endocardo e lungo il suo percorso seguiva la curva della parete ventricolare e si manteneva ad essa vicina, essendo in vari punti attaccata alle trabeccole muscolari più sporgenti, i di cui fili ten- dinosi si spandevano ed aderivano sulla stessa. membrana velamentosa in guisa che questa presentava alla superficie una disposizione reticolata senza simmetria. (Vegtavtsisti): La stessa membrana in corrispondenza del margine esterno del ventricolo ed alquanto posteriormente si continuava coll’ endocardo ove questo diveniva più spesso. Invece dal lato interno, verso il setto interventricolare, essa s’ arrestava formando un arco diretto dall’ alto in basso, rafforzato da fasci muscolari mani- festi. Le due estremità dell’ arco s' inserivano a propagini del grosso muscolo ano- nimo che limita all’ esterno ed inferiormente 1’ infundibulo, e che in questo caso concorreva coll’ arco suddetto a formare un orificio elittico (V. Tav. 0), il quale era l’ unico sbocco del sacco. valvolare entro il ventricolo. L' estremità superiore dell’ arco si congiungeva nello stesso punto e colla stessa forma con cui accade l’ unione normale della cuspide interna col detto muscolo, meno che i filamenti tendinei in luogo d’ inserirsi all’ estremità si spandevano sulla membrana vela- mentosa ed il maggior diametro dell’ orificio elittico era pressochè parallelo al setto ventricolare e misurava 4 centim. e mezzo. — 334 — Tale lunghezza dell’ orificio anomalo si collegava alla circostanza che il mu- scolo anonimo discendeva assai in basso in guisa che l’ infundibulo era convertito in una lunga fossa. Se poi si considera che l’ inserzione superiore dell’ arco rap- presenta esattamente l’ inserzione della cuspide interna, si può supporre che I’ e- stremità inferiore (sebbene manchi d’ un proprio muscolo papillare) rappresenti la punta od almeno il lato interno della cuspide anteriore con una inserzione ano- mala, e che l’ intero arco non sia che il margine che corre normalmente fra le due cuspidi. La membrana velamentosa per ultimo non s’ arrestava ove s° inse- riva inferiormente l’ arco, ma si prolungava in basso per confondersi coll’ endo- cardo, nello stesso modo che vedemmo dal lato esterno. Dal terzo posteriore dell’ orificio atrio-ventricolare non discendeva distinto al- cun velo membranoso, ma si notava in luogo di esso l’ endocardo liscio ed assai inspessito (lo che meglio si riconosceva ove erano praticati dei tagli), e l’ inspes- simento giungeva sino dove lo stesso endocardo si continuava ai margini colla membrana velamentosa suddetta. Esso poi aderiva strettamente alla parete poste- riore del ventricolo, la quale era priva di trabeccole. Per tale disposizione risul- tava un gran sacco che occupava incirca per tre quarti il ventricolo, che era for- mato per un terzo dalla parete posteriore del medesimo e per due terzi dalla mem- brana velamentosa, e che comunicava col lato interno del ventricolo mediante il gran forame elittico sopradetto. Il seno sinistro e l’ orificio atrio-ventricolare colla rispettiva valvola mitrale non offrivano nulla di notevole. Il ventricolo corrispondente si mostrava dilatato, ma assai meno del destro e parimenti senza ipertrofia delle pareti. L’ orificio aor- tico era relativamente ristretto ed il condotto arterioso obliterato. Sul finire della parete convessa dell’ arco aortico sì vedeva esternamente una placca giallastra col maggior diametro di 15 millim. di natura calcare. Niuna notizia intorno agli al- tri visceri. Consiperazioni. — Volendo cercare la ragione della forma e dell’ estensione assunta dalla tricuspidale, esaminammo da prima se l endocardite cronica ammessa da Ravcaruss e da Marx8EN poteva riconoscersi nel nostro caso, ma non trovando alcuna reliquia della medesima nella membrana velamentosa dovemmo rivolgerci altrove e precisamente all’ embriologia, la quale assai spesso rischiara le anomalie congenite: difatto mediante la medesima possiamo facilmente indurre che la mem- brana stessa discendente dall’ orificio atrio-ventricolare non è che gran parte della tricuspide rimasta allo stato embrionale; ed in prova di tale induzione ci basta riportare le parole di Herrwie (1), sebbene non troppo chiare. (1) Herrw@ Oscar. Lehrbuch der Entwicklungsgeschichte etc. Jena 1888, s. 416. — Vedi le figure date da GeGENBAUR, Traité d’ Anatomie humaine. (Trad. frane.) Paris 1889, pag. 746. — 335 — “I due orifici atrio-ventricolari (in un embrione umano di 5 settimane) sono circondati da strette listerelle sporgenti nei ventricoli e formate da endotelio di rivestimento e da sostanza connettiva gelatinosa. Queste sporgenze membranose, paragonabili, secondo Graensave, alle valvole semilunari, non sono da prima at- taccate ai muscoli papillari ed ai filamenti tendinosi e contribuiscono solo in pie- cola parte alla formazione dei veli valvolari, i quali in gran parte prendono ori- gine dalla parete ventricolare. , “ La parete suddetta è da prima assai grossa e formata interamente da tra- becole muscolari (disposizione permanente nei pesci e negli anfibi), le quali negli animali superiori e nell’ uomo subiscono la seguente metamorfosi. Dal lato esterno le trabecole s° ingrossano e gli spazi cavi interposti quasi interamente scompaiono, sicchè la parete si fa compatta. Dal lato interno in parte le trabecole carnose si conservano e sporgono alquanto nella cavità, mentre quelle dirette verso il seno si trasformano in valvole atrio-ventricolari, in corde tendinee ed in muscoli pa- pillari. Le valvole quindi da prima muscolari si trasmutano a poco a poco in membrane tendinee, poichè le trabecole diventano cordoni connettivi, ed i margini (superiori) delle membrane vengono fissati alle listerelle sporgenti già raggrinzate che costituiscono il cercine valvolare. Alla superficie inferiore delle membrane si applicano ancora per un certo tempo le trabecole muscolari, e più tardi trasfor- mandosi sì separano in due sezioni: 1* in corde tendinee dal lato delle valvole atrio-ventricolari ; 2° in muscoli papillari dal lato della parete ventricolare. , “ Le valvole atrio-ventricolari derivano quindi in gran parte dalla parete ven- tricolare con disposizione spugnosa, e lo spazio all’ interno delle valvole (conside- rando il ventricolo in diastole) è in parte lo spazio ventricolare primitivo, mentre lo spazio sottoposto, che s' estende sotto la membrana valvolare risulta dalle la- cune della parete spugnosa, che (atrofizzandosi) ingrandiscono la rimanente cavità preesistente. , Accogliendo come esatte le notizie suddette intorno alle valvole atrio-ventrico- lari, egli è facile riconoscere che la nostra membrana velamentosa discendendo assai in basso nel ventricolo senza essere fornita di cuspidi ed esternamente ade- rendo a trabecole sporgenti non può essere altro che la membrana embrionale for- nita dalle trabecole stesse, e che si è conservata tale per non avere subìta una involuzione nella parte inferiore, la quale permettesse per una parte la distinzione in cuspidi e per l’ altra lo svincolarsi delle corde tendinee (nel loro percorso dalle cuspidi ai muscoli papillari) della membrana stessa ; sicchè per questo rispetto ab- biamo un raro esempio d’ arresto di sviluppo della parte anteriore ed interna della tricuspide. Non è altrettanto facile decidere la origine dell’ aspetto assunto dalla parte posteriore e superiore della parete ventricolare, poichè, come già avvertimmo, ivi mancava la valvola, ed invece trovammo inspessito e liscio l’ endocardo, facendo difetto sotto il medesimo la forma manifesta di trabecole muscolari. Questo inspes- — 336 — simento potrebbe far supporre che fusse dato dal coalito della valvola colla parete sottoposta, ma non si riconosceva alcun altro segno infiammatorio che suole ac- compagnare i coaliti. Si può spiegare invece l inspessimento ammettendo che la membrana fibrosa non siasi per anche svincolata dai muscoli sottoposti per mancanza della meta- morfosi retrograda dei medesimi. Ma stando all’ embriogenesi sovra esposta, noi dovremmo trovare uno strato trabecolare notevole, il quale invece manca nel no- stro caso. Questa difficoltà d’ altronde non ha per anche un gran valore, poichè niuno ha detto se la parete posteriore del ventricolo destro presenta nell’ embrione lo stesso sviluppo trabecolare lo stesso processo d’ involuzione dei muscoli superfi- ciali così rapido ed esteso come nel rimanente della cavità. Avendo poi esaminati parecchi cuori di feti maturi siamo inclinati a dubitare della pretesa uniformità embriogenica, avendo trovato che il velo in discorso di poco si poteva sollevare dalla parete posteriore per la brevità dei fili tendinei che andavano alla cuspide corrispondente e, per il poco sviluppo dei muscoli papillari, siechè per ora non si può escludere che la mancanza di detta valvola, non sia altro che il mancato distacco della medesima per difetto d’ involuzione dei mu- scoli sottoposti. Rimane un’ altra ricerca e cioè quale disturbo funzionale derivasse nel nostro caso in seguito alla deformità descritta della tricuspide. Ravcaruss ha già risposto che debbono risultare gli effetti dell’ insufficienza, ma non spiegò il meccanismo della medesima. Noi dobbiamo accettare la stessa opinione, ma non nel senso che i veli valvolari rimangano aperti col loro margine inferiore, sicchè il sangue ven- tricolare refluisca nella sistole entro il seno, ma invece che il sangue raccolto en- tro il sacco valvolare (posto entro il ventricolo) in gran parte refluisca nel seno, poichè non abbiamo ragione di negare che il gran foro elittico si chiudesse nella sistole avendo veduto che era esso formato da un lato dall’ orlo dell’ arco mem- branoso rinforzato da grossi fasci muscolari e dall’ altro dal muscolo anonimo del cono. Se però l’ orificio valvolare poteva chiudersi nella sistole, non ne risulta che il sacco dovesse vuotarsi completamente durante la diastole entro il ventricolo, avendo già annunziato che esso occupava incirca per tre quarti la cavità ventri- colare, sicchè è assai probabile che una gran parte del sangue rimanesse nel medesimo e che sotto l’ azione della sistole fosse in gran parte sospinto per il largo orificio atrio-ventricolare nel seno corrispondente. Si può poi intendere co- me per molti anni questo disordine della circolazione non recasse la morte ri- cordando che il seno ovale offriva due aperture, laonde il sangue esuberante del seno destro poteva in parte passare nel sinistro e compensare in certo modo il disordine. Mem. Ser IV. Vol X. CRU E.Gontoli, It. It 6 Wenk e Figli — Bologna. DELLE CURVE PIANE ALGEBRICHE CHE HANNO POTENZA IN RISPETTO A OGNI PUNTO DEL LORO PIANO OVVERO IN RISPETTO AD ALCUNI DEI LORO PROPRII PUNTI IMEd} VE DAI DEL Prof. FERDINANDO PAOLO RUFFINI (Letta nell'adunanza delli 15 Dicembre 1889). Una curva piana algebrica (C”) dell'ordine w riferita a due assi delle x e delle y coordinati ortogonalmente in un punto qualsivoglia del suo piano sia rap- presentata dall’ equazione 1) Vi) 0 a termini intieri e razionali con coefficienti reali, e per membro supremo dell’ equa- zione s' intenda la somma de’ suoi termini di grado #w rispetto alle variabili, somma che può essere rappresentata col simbolo pain 2) Zali Y ” aa D) y pre MZ 0 o Per un punto qualsivoglia o polo 0(,, y,) del piano conducasi una retta (p) che formi coll’asse delle x l’ angolo © e pongasi per brevità al—lcosi0i0i— sento]: la retta (p) intersecherà la curva (C”) in 2 punti, e se x e y sono le coordinate particolari di uno di questi punti a distanza f del polo O sarà 3) t=a,+0p, Yy=Y+Bp : si indichino con f,; 5; 2, le distanze dal polo 0 degli m punti comuni alla retta e alla curva e si faccia il prodotto 4) Te e Pim? si domanda a quali condizioni debba soddisfare la curva perchè il prodotto 7 TOMO X. i 43 — 338 — riesca indipendente dalla direzione della retta (p) e quindi costante per tutte le rette che escono da un medesimo polo 0, e varii soltanto col variare delle coordi- nate 2, e y, del polo. Per esprimere che una curva ha la proprietà ora definita si dirà che essa la potenza in rispetto ai punti del suo piano, intendendo per potenza della curva in un dato punto il valore che acquista il prodotto 7 quando si prende per polo quel dato punto. Se il polo 0(,, Yo) è un punto della curva, la retta (p) incontra la curva stessa in altri m —1 punti, e se si indichino con p,, f,**;,,--, le loro di- stanze dal polo O e si ponga 4,) Si (PP) si può chiedere a quali condizioni debba soddisfare la curva perchè il prodotto 7, riesca in uno o più de’ suoi punti indipendente dalla direzione della retta (p). Le curve dotate di questa proprietà hanno potenza in rispetto a uno 0 più dei loro proprii punti, cioè in rispetto a que’ loro punti nei quali il valore del pro- dotto 7, riesce costante, intendendo per potenza della curva in ognuno di tali punti il valore, in generale diverso da punto a punto, che vi si ottiene per 7,. Alla prima questione è risposto nel primo, alla seconda nel secondo capitolo qui appresso. I. Si eliminino dall’'equazione (i) le variabili 2 e y per mezzo delle (3) e sì ot- terrà per equazione risultante 1 If! 1a VENOM MR E dr dY dy 1 df df }, Sii. — a+ 8 95 +17 (È 507, 0 P i nella quale, secondo la solita convenzione, gli indici di potenza (1), (2),..., (22), che sono alla testa delle parentesi, applicati ai simboli di derivazione parziale espri- mono l’ordine della derivata, e applicati alle a e 6 il grado della potenza di queste quantità, e lo zero al piede delle parentesi vuol dire che fatte le operazioni indicate dall’ indice superiore si deve nel risultamento sostituire le 7, e Y, alle e y. Le distanze f,, ?33--: ?,, sono le m radici dell’equazione (5), ond’ è == VACA b) Yo) Zi i 1.2 em \dx dy 6) T= — 339 — il prodotto 7 riuscirebbe nulio nel punto (x,,%,) indipendentemente dai valori di a e 8 se fosse f(x,,y))=0, vale a dire se il polo O appartenesse alla curva, e ciò è d'altronde manifesto; escluso che sia questo caso, affinchè il prodotto riesca indipendente dalla direzione della retta (p) dovrà il denominatore della fra- zione che ne rappresenta il valore essere indipendente da @ e perciò si dovrà Ù (LE +e) 0: avere identicamente da \ de dy ed è questa la condizione cui deve soddisfare la funzione f(x,y) perchè la curva (C°") abbia potenza in rispetto ai punti del proprio piano. Essendo e 1a ] “= — Sialgrnadi 1.2. LI dy É 8 ed essendo — 8 e + a le derivate rispetto alla variabile @ delle quantità a e 8 rispettivamente, la precedente condizione si risolve nella ] df df (0) mar fr 333 rai =—IZ(Mm_-r+1)a,_, —(+1)4,,,)@4 9105 e questa sarà soddisfatta per identità se fra 1 coefficienti dell’ espressione (2) sarà la relazione 7) (m_—r-+1)a,_,—- (r41)a,-,=0 qualunque sia il numero intiero 7 e coll’avvertenza che si debbono ritenere nulli i coefficienti a che in quest’ ultima formola ricevessero un indice o negativo o su- periore a mm. Sia in primo luogo m= 2% numero pari. La condizione (7) richiede sia per ciascuno dei valori 1,2,...,2% della 7 1.) (QX —r+1)a,_,—(r+1)a,_,=0: col porre successivamente r = 0, 2, 4,... 2% si ottiene a =—a,=a. = =2k— Us =@=% =2k—- 1, e ciò prova che debbono essere nulli tutti i coefficienti a, dei termini che nella espressione (2) occupano posto pari ; e col porre successivamente 7” = 1,3, 5,...,(24—1) sì ottiene k kt_1l kt_-2 droni e AZANO la condizione (7,) sarà dunque adempita se si avrà in generale kts+1 ki) (k_-s+1) a) IALIA IE = TIE 4; - Per questi valori dei coefficienti 4, è 1 (V 1.2.-m\dr \ Ò Ur) o 2.k a+ 8) = dp (4 if 4a i x 4) == f(£,,4) 4 -e il membro supremo dell’ equazione (1) ha la forma ala +y); onde: ogni curva piana algebrica rappresentata da un’ equazione che ha il suo membro supremo della forma a,(x°+y°)" ha potenza in rispetto ai punti del proprio piano, e la potenza 1 della curva in un punto qualsivoglia (x, y;) è espressa dalla formola (A). È evidente che le curve che hanno potenza in rispetto ai punti del loro piano sono tutte curve cicliche, e se si chiamano curve cicliche s"° dell'ordine » quelle rappresentate da un equazione il di cui membro supremo sia della forma. (a+ y°) Pol, Y) nella quale @,_ ,,(2,9) rappresenta un polinomio algebrico, razionale, intiero, omo- geneo e del grado n—2s rispetto alle variabili 2 e y, si potrà conchiudere che le curve piane algebriche d’ordine pari 2% hanno potenza in rispetto ai punti del loro piano se sono curve cicliche k"°. Nella ipotesi che la curva (C”) abbia potenza in rispetto ai punti del suo piano, è luogo dei punti nei quali la curva ha una data potenza O" è la curva omo- tetica colla data rappresentata dall’ equazione FE Yo) =". Si sa ad es. che la potenza in rispetto al punto (x,;%,) del circolo rappresen- tato dell'equazione (a— a) +(y—-y) — r°=0 nella quale x, e y, sono le coordinate del centro del circolo è espressa da 2 f pv N° 2 (a + YU TY in accordo colla formola (A), ed è ben chiaro che il luogo dei punti nei quali il circolo ha una potenza costante C° è la circoferenza (et) + (yy) — = C°. — 341 — Una curva del 4° ordine che ha potenza in rispetto ai punti del suo piano si incontra nella questione seguente. Sia data l'equazione k) lr+ my +n=0 di una conica (4%) dotata di centro e riferita ai suoi assi. L'equazione di una co- nica conjugata colla (#) in rispetto a un punto (a, 8) del suo piano (polo del con- tatto) è (*) 3) la’ + mB°+ n)(la° + my°+ n) — 2lar + mBy+n°=0: e se si riguardano le a e 8 come parametri arbitrarii, l'equazione rappresenta la serie doppiamente infinita delle coniche che oltre la stessa (4) sono a questa conica conjugate. Il luogo dei poli del contatto di quelle coniche, in numero semplice- mente infinito, le quali essendo conjugate colla (X) hanno i loro centri in una conica data C%) ax 4-2ha,y, + by, +2fe,+29y,+e=0, è una linea del 4° ordine (**). Infatti le coordinate (x,, y,) del centro della co- nica (%*) sono Ina 2n8 ET > = |,== — n , È la + mB°— n° Yi la* + mB° — n e se mediante queste formule si eliminano le coordinate x, e y,, dalla precedente equazione (C°) si ottiene l’ equazione del luogo cercato 04) cla°+mB°— n) 4n(fa+g6)(la°+ mB°—n)+ 4n°(aa°+2na8B + 6b8°)= 0, rappresentante una linea del 4° ordine. Suppongasi ora che la conica data (%) sia un circolo: si potrà porre /=m= 1 e l'equazione (C*) cangiate le a e 8 nelle x e y rispettivamente diventa c(a°+y°— n) — 4n(fe + gy)(e°+y°— n) + 4n°(ae°+ May + by°) =" 0: il membro supremo di quest’ equazione è c(e° + y°), perciò la curva rappresentata ha potenza in rispetto ai punti del suo piano : quindi è luogo dei poli del contatto delle coniche che essendo conjugate con uno stesso circolo hanno i loro centri in una conica data è una curva del 4° ordine che ha po- tenza in vispetto ai punti del proprio piano. (") Cfr. — Di alcune proprietà delle coniche conjugate — nel T. IX della S. IV (p. 503) di que- ste Memorie. (IL 9 EL — 342 — Se si prescrive che la conica (0°) passi pel centro della conica (%), riuscirà c=0 e la linea (C*) si risolve nella retta all’ infinito e nella cubica (*) (CO) (fa+g0)(lx°+mB°— n) — n(aa° + 2haB+ 6b8°)=0 e se inoltre la (X) è un circolo, l'equazione (C°) mutate le a e 8 nelle x e y prende la forma CHO) (fx + gy)(a° + y°— n) — n(ax°— 2hay + by°)=0, e rappresenta una cubica ciclica. Delle cubiche cicliche sarà detto nel Capitolo II°. Sia in secondo luogo m = 2k +1 numero dispari. Per la (7) dovrà essere 1,) (2k— n)a — (+ 1)a,.,=0, Niara d e ponendo, come si è fatto sopra, successivamente 7= 0, 2, 4, ... sì troverà ÙU=gG=gqI=9= Spa dovranno, cioè, essere nulli tutti i coefficienti 4, che nella espressione (2) occupano posto pari: se poi nella (7,) sì pone successivamente Spore aan St risulta dovrebbero perciò essere nulli anche i coefficienti a, che nell’ espressione (2) occu- pano posto impari. Si conchiuda dunque che una curva d’ ordine dispari non ha po- tenza in rispetto ai punti del suo piano. Ciò, ben inteso, non tenendo conto della potenza nulla che ogni curva ha in ognuno de suoi punti. II. Il polo (2,; y,) sia un punto della curva (C”) rappresentata dall’ equazione (1): sì tratta ora di determinare le condizioni cui deve soddisfare la curva perchè il prodotto (4,) Ti PP Pad riesca indipendente dalla direzione della retta (p). Essendo per ipotesi H©go Yo) == 0, l'equazione (5) divisa per f diventa df la 5(£ ); ! (È df la m—d (54 +38 Medio 2 a+ ATE LT 2em cl È si; 8) IT i ] df df 5, — [a+ 1.2 i ne Il prodotto 7, sarebbe nullo nei punti multipli della curva, le coordinate dei quali adempiono le condizioni 5 0, (7) 0: facendo astrazione da questi punti singolari che una curva può avere, affinchè il prodotto 7, riesca indipendente dalla direzione della retta (p) qualunque sia. il punto (x, %,) della curva che si voglia prendere per polo, dovendo riuscire nulla la derivata di 7, rispetto a ©, si avrebbe per condizione df df Ì A) È df Di —(La+ Di d (Va 3) a LA if eli (0) (7° vo.) de in x + 6 o da \dx +06 ù ovvero dl (è df i Au df i li le (E do way i D ( df df e (la df o (2) A pr SL OSSEI —|=0, la(La n 07 og AGUZA e perchè l'equazione sia soddisfatta per identità df a TÀ di di mal +4 ip) sn — 0} df df l_ (a+s59 mo condizione che non può riuscire adempita per identità senza che si annullino tutti i coefficienti a, dell'espressione (2). Ciò dimostra che una curva piana algebrica non onde si deduce può aver potenza in rispetto a tutti i suoi punti. — 344 — Può nondimeno una curva aver potenza in rispetto ad alcuni de’ suoi punti. ci è 0 Pongasi quando si assegnino a 2, € Y, Valori che soddisfacciano l’ equazione ‘ 9) af — a, ATETA, AT La,=0 Miti, ni il denominatore della frazione che forma il 2.° membro dell’ equazione (8) è divi- sibile pel numeratore della frazione medesima e dà per quoziente 10) ba" 7'!+b,a"T7°b+b,a"T?8°+..= dba" TT!Bra=0,1,;(m_-1). ove è 11) batt ila mentre il membro supremo dell'equazione della curva (C”) prende la forma df - A I pinrT_i,j. TESE A id J) e Ji il prodotto 7, è ailora espresso da 12) 1 ) 51 Dog io] b e la condizione necessaria e sufficiente affinchè questo prodotto riesca indipendente dalla direzione della retta (p) diventa d iortti »6b meri vr 0 : do È Si è veduto precedentemente che questa eguaglianza può aver luogo per identità sol quando: 1"° sia nm —/7=2% numero pari e per conseguenza la curva (0°) d'ordine dispari; 2° sieno fra i coefficienti d, le relazioni indicate dalle formole (a) in riguardo ai coefficienti @,, sia cioè kt—s+1 S b) db 0), dx = o(s_a) * 2s41 dovranno dunque queste condizioni essere adempite e dovranno inoltre essere con- que q Ì ciliabili colla (9). Ammesso che la curva (C”) sia d'ordine dispari m = 2% +1, l’ equazione (9) — 345 — prende la forma (Go 454 Trani a,)}” a (a, -,4 "a Or LETERA ste (a,4 FEE) CÒ) =0: la prima delle condizioni (5) scritta per disteso è (11) 1 df 2541 (Ga) i (404,4 a a,,)A"° + (a, 4 TRE ORE VARA ua + (4,4 FER do) = Up, e se si pone successivamente s=0,1,2,--,Z- si ottengono le condizioni seguenti che debbono essere adempite simultaneamente b=aAÀ—-a,=0, b=af —a,=0,- == Ag _4 — dg, _,=0, bo, 4, Ag, 3 — 4, =0: b AZ la prima delle condizioni (0) è dunque conciliabile colla (9), e con quest'ultima è conciliabile anche la seconda delle (5), poichè quando è adempita la prima, 1’ equa- zione (9) è soddisfatta per identità e quindi indipendentemente dai valori dei coef- ficienti d,, con indice pari. Per la formola (11) è 1 se (ta) e dalla seconda delle equazioni (0) si trae 1 Kk—-1)-(—s+1) 0) 1.2.5 50) dr/ 1 1 (af+0°l'a= 4; (6), e quindi »b olii ro). il membro supremo dell’ equazione (1) diventa (12) 1 df ? | 2 2\k 14) (©) c[(4) =+(£ se (+ yY°) dx/, e la formola (13) si riduce alla 1 /df Aa dani La formola (14) dimostra che nell’ equazione (1) di una curva che ha potenza. TOMO X. 44 — 346 — in rispetto a uno o più de’ suoi punti non possono mancare amendue î termini an Eh 1 QMb1, 15) A, RO) 2 se li contiene amendue, riuscirà (4 ,) LO STESSA (È) di (= As 41 dY Di se poi ne contenesse uno solo, il valore del prodotto 7, sarebbe dato dal primo o dal secondo membro dell'equazione (16) secondo che dei due coefficienti a, e 03,4, fosse il primo o il secondo diverso dallo zero mentre nell’ altro membro dovrà riuscir nullo anche il numeratore. (d)e + (d), 30) è l'equazione di una retta che ha la direzione della tangente la curva nel polo (1,1%) ed è anche diretta, come dimostra la forma che ha il membro supremo (14) L'equazione dell’ equazione della curva, al solo punto reale a distanza infinita della curva stessa, ed è per conseguenza l'equazione di una retta parallela al solo assintoto reale della curva: si può dunque assumere a polo (x,,%,) ogni punto della curva nel quale la tangente sia parallela all’assintoto reale : onde: ogni curva piana algebrica d'ordine impari 2k+- 1 se è curva ciclica k"° ha potenza in rispetto a quei suoi punti nei quali la tangente ha la direzione dell''assintoto reale della curva stessa, e la potenza della curva in ciascuno di tali punti è data dalla formula (A)). Raccogliendo i risultamenti di questo e del precedente capitolo si può conchiu- dere: fra le curve piane algebriche rappresentate da equazioni con coefficienti reali, quelle soltanto che sono d’ordine pari 2lk e curve cicliche k"° hanno potenza in rispetto ai punti del loro piano, e quelle soltanto che sono d'ordine dispari 2k +1 e curve cicliche k"° hanno potenza in rispetto ad uno o più dei loro punti e questi sono i punti del contatto della curva con ciascuna delle tangenti parallele all’assintoto reale della curva stessa. Per esempio si supponga dato un fascio di circoli in un piano e che a cia- scun circolo del fascio sieno state condotte le tangenti da uno stesso polo 0 a di- stanza finita preso ad arbitrio nel piano : il luogo dei punti di contatto dei raggi uscenti dal polo 0 coi circoli del fascio è una cubica della quale si trova facil- mente l’ equazione. Pongasi l’ origine delle coordinate ortogonali x e y in quel punto A della retta luogo dei centri dei circoli del fascio che è proiezione orto- gonale del polo O e prendasi la stessa retta per asse delle x; sieno % l’ ordinata del polo 0, a e #d l’ascissa e le ordinate dei due punti P, e P, della base del fascio che non sono a distanza infinita, e x, l’ascissa del centro di uno qualunque — 347 —- dei circoli del fascio : l'equazione di questo circolo è (a) +y°=(a,— a+, e quella di una tangente condotta al circolo dal polo 0 è (a_-x)X+yY_-4M=0; le coordinate del punto di contatto dovranno soddisfare le due equazioni (e—-a)f+v°=(e,— a)+0°, a—-a)x +yy—M=0, e eliminando da queste la x, si ottiene l'equazione del luogo cercato 17) (e — 2a)(e° + y°) + (a°+b°*— 2hy)a + 2ahy= 0, rappresentante una cubica ciclica che passa per l'origine delle coordinate, pel polo 0, pei due punti P, e P,, e ha per assintoti le rette ar—2a=0, r+(y-h=0, ax—- {(y-hA=0. I due assintoti immaginari hanno comune il punto reale O che appartiene alla curva, l’assintoto reale incontra pure la curva nel punto a) a=2a, y=——-— che è il polo reciproco del polo O in rispetto a ognuno dei circoli del fascio. Le coordinate dei punti nei quali la cubica ha la tangente parallela all’ assin- toto reale debbono soddisfare 1’ equazione Of a—@ 18) Sgr rea ire rg dra ele se per mezzo di questa si elimina la y dalla (17) risulta 19) (e — 2a)fa?+ (af + be — 2a)r — ha — @°= 0, che colla precedente (18) determina è quattro punti in rispetto ai quali la cubica ha potenza. Sì ponga 20) (e — 2a)er =u, ovv. ut aî= (ea — a); e sarà per la (19) n= i {— (a°4&+ 0° — h°) EV (af +0b*— h°)° + 4a*h ): — 348 — sì può anche porre 21) (a+ b° — N°) + 4a*h*= (a+ b°— h* + 2a?)f, ove a è necessariamente quantità positiva, e rappresentare le due radici dell’equa- zione precedente con u=o,u=—(0°+0°T—h+a?), così si ottengono le quattro radici dell’ equazione (19) sotto le forme semplici. ED 2 ASTA 2 2 Do a=0+y/a°+a?, r,=a—y/a°+ a a,-=a+y/h—bT-a?, a,=a—-y/hT—b+a0î: le due prime saranno sempre reali, le altre due possono essere reali o immagi- ginarie; e saranno immaginarie se i due punti P, e P, sieno reali distinti, sa- ranno invece reali se i punti P, e P, coincidano in un solo punto ovvero sieno immaginari. Che le due prime radici sieno sempre reali è manifesto; quanto alle altre due si osservi che essendo (a+ b°— h°+ 2a?) = (a+ b° — h°)° + 4a°a* + 4da©b° — h° + a°), per la condizione (21) non può riuscire a? > ’° se 5 è quantità reale nè a°> h°+ 5° se dè è quantità immaginaria e che sarà a°= 4° se è Bb=0; per conseguenza le radici x, e x, sono immaginarie se 5° > 0, sono reali e diverse se 5°< 0, sono reali eguali se d°= 0. In generale i punti della cubica in rispetto ai quali la curva ha potenza determinati dalle formule (22) e (18) formano due paia di punti e i punti di ciascun paio sono equidistanti della retta P, P, ovvero e=< (È). Quando è d quantità reale diversa dallo zero, i due punti P, e P, sono reali distinti, la cubica non ha punto doppio e non è bipartita, e ha potenza in ri- spetto a due soltanto de’ suoi punti: quando è B=0 i due punti P, e P, coin- cidono in uno stesso punto (rc =, y= 0) nel quale la cubica ha un punto dop- pio ; il sistema delle due tangenti in questo punto è rappresentato dall’ equazione 3 a h Va (3) +25(_)_1=0, (£) I quattro punti in rispetto ai quali la cubica ha potenza sono sopra due rette che pas- sano pel polo O e vi si intersecano ortogonalmente; ognuno dei quattro punti è il centro delle altezze del triangolo che ha per vertici gli altri tre. Questi teoremi sono dovuti al sig. prof. RETALI al quale io aveva comunicati i risultamenti sopra riferiti: essi conducono a una costruzione dei quattro punti che è semplicissima e indipendente dalla costruzione della cubica. È notevole che i punti in rispetto ai quali una cubica ciclica ha potenza sono per l’appunto i centri dei quattro circoli focali della cubica stessa. (V. SALMON — A treatise on the higher plane curves — 2.3 ed. Dublin, 1873, p. 239). — 349 — la quale fa vedere che le due tangenti sono reali e ortogonali; le quattro radici (22) diventano s=at+tya'+h°, a, =a—/a'+h?. x,=ax,=a: la potenza della cubica risulta nulla, come deve essere, in rispetto al suo punto doppio ed è reale in rispetto ad altri due dei suoi punti: quando finalmente è b°<0 i punti P, e P, sono immaginarii, la cubica è bipartita e ha potenza reale in rispetto a quattro de’ suoi punti. Suppongasi che il polo O sia un punto dell'asse delle x o linea luogo dei centri dei circoli del fascio : la cubica allora è disposta simmetricamente da una parte e dall'altra della linea ora detta; si ha 30 ta =10); l'equazione della curva riducesi alla 23) (e — 2a)(e° + y°) + (af + b9)er =0 dalla quale deriva df S ( (a° + 0) Sl *_i ol — 2a)er + a+ = 2((e- 2) — TA > L4-y + 2(e alt + a°+ d ( ) EsonE e le quattro radici (22) si riducono alle 24) a,=2a, a,=0, e,=a+y/— bd, a=a—-y/— bd. Alla prima soluzione corrisponde il punto reale a distanza infinita della cubica nel quale essa ha un flesso : infatti il polo (a) reciproco del polo O in rispetto ai punti del fascio, punto comune alla cubica e all’ assintoto reale, nella ipotesi A—= 0 va a distanza infinita a coincidere col punto di contatto della cubica coll’assintoto ; la cubica ha dunque uno de’ suoi flessi nel suo punto reale all'infinito, e in ri- spetto a questo punto si può ammettere che essa abbia potenza, e la potenza sa- rebbe l'infinito (005). La seconda soluzione dà il polo 0 (*) qualunque sia la è e per le formule (18) (*) Questa proprietà del polo O quando esso appartiene alla retta luogo dei centri dei circoli del fascio, fu già avvertita dal Sig. Dott. ARNALDO ANDREASI nella tesi da lui sostenuta innanzi la facoltà di scienze fisiche, matematiche e naturali della R.® Università di Bologna addì 3 luglio 1889 per ottenere la laurea in scienze matematiche. — 350 — e (A,) essendo a,= 1 si ha (6°> 0) = 0, M= 0, n=) a+, CASO) ce=0,y,=0, r,=(2) =a°— bd, 0 df (9) RE 0, Y,= 0, IT = Le soluzioni 3% e 4* se d è quantità reale diversa dallo zero danno punti im- maginarii della cubica, se invece è d immaginaria si hanno le soluzioni reali ò a=a4+0, y,=90, a,=(%) = 2ba + bd), dr/0 of GM yS 007 =(2) = 2ba — bd); 4 Ù Y4 U i dr, È ? quando poi fosse = 0, alle due ultime radici (24) corrisponderebbe il punto doppio della cubica nel quale la potenza della curva è manifestamente nulla; ri- sulta infatti per db = 0 Y Lg =X%,= 0, Y=Y,= 0, r,=(2) — 0 0 SULL' ELETTRICITA DI CONTATTO IN DIVERSI GA" INTRErVIE EIA DEL PROFESSOR AUGUSTO RIGHI (Letta nella Sessione del 17 Novembre 1889). I. Metodo adoperato. Nel corso delle mie ricerche sui fenomeni elettrici che sono prodotti dalle più rifrangibili delle radiazioni ultraviolette, ho notato che questi fenomeni forniscono un mezzo assai semplice per misurare la differenza di potenziale fra due metalli. Basta infatti che i due metalli sieno vicinissimi e vengano illuminati nelle parti avvicinate per mezzo delle radiazioni ultraviolette, affinchè, se il potenziale. di uno dei metalli è mantenuto costante, quello dell’ altro subisca una variazione eguale alla originaria differenza di potenziale fra i due metalli. Affinchè sia possibile illuminare quelle parti dei due metalli che sono a piccola distanza reciproca, uno d’ essi può essere scelto sotto forma di rete o di lastra finamente traforata, mentre l altro, di forma piana, viene collocato in posizione parallela al primo e a distanza assai piccola. È necessario che questa condizione di distanza piccolissima sia adempiuta, giac- chè solo in tal caso la deviazione elettrometrica che si osserva nell’ istrumento comunicante con uno dei metalli (l’altro essendo in communicazione col suolo), dà la misura della differenza di potenziale cercata. Se la distanza cresce, di modo che la capacità del condensatore costituito dai due metalli divenga piccola, quello dei due che è più intensamente illuminato acquista un potenziale maggiore, rima- nendo con carica positiva. Un’ altra condizione, deve essere soddisfatta oltre quella della piccolissima di- stanza; ed è che il gas nel quale si opera non sia a pressioni molto inferiori a (1) Un sommario dei risultati esposti in questa Memoria, fu dato nei Rend. della R. Acc. dei Lincei, 16 Giugno 1889, — 352 — quella dell’ atmosfera. Infatti, appunto cercando di fare misure di elettricità di contatto entro gas rarefatti, ho trovato, che con forti rarefazioni la densità elettrica positiva, che per effetto delle radiazioni si forma sopra un metallo illuminato, cresce rapidamente, tanto che, mentre questa carica positiva non altera in modo sensibile le misure nei gas ad alte pressioni, essa le modifica profondamente nei gas molto rarefatti, quand’ anche i due metalli adempiano il meglio possibile alla condizione di formare un condensatore ad armature vicinissime. Questi speciali fenomeni nei gas molto rarefatti sono descritti nella mia 3° Memoria sui fenomeni elettrici delle radiazioni (1). Escluso dunque il caso del gas rarefatto, il metodo indicato per misurare le differenze di potenziale di contatto non potrebbe essere più semplice. Una rete metallica verticale comunica col suolo. Una lastra d’ altro metallo (in generale in forma di disco) è parallela e vicinissima e comunica con un paio di quadranti d’un sensibile elettrometro, di cui l’altro paio comunica col suolo. Fatto un istante comunicare col suolo il disco, onde stabilire lo zero della scala, lo sì illumina attraverso la rete con raggi ultravioletti intensi, quali quelli forniti dalla mia lam- pada elettrica a zinco. Subito si ha una deviazione che misura la cercata differenza di potenziale. Come si vede non occorre, come negli altri metodi, adempiere a nessuna altra condizione di posizione relativa o di forma dei metalli, nè si devono con essi eseguire metodici movimenti. Sopratutto è facile poi l’ eseguire rapidamente successive misure, variando dal- luna all’ altra le condizioni o la natura del mezzo nel quale sono immersi i metalli. Fu appunto in vista di studiare l’ influenza della natura del gas, che intra- presi le misure delle quali rendo conto in questo scritto, colla lusinga, non realizzata completamente, di giungere a qualche indizio intorno alla eterna questione del- l’elettricità di contatto, e cioè intorno alla parte che prende il mezzo ambiente in questi fenomeni. L’ elettrometro a quadranti, del modello Mascart, aveva l ago caricato da 100 coppie rame acqua zinco e poteva misurare il millesimo del Volta. Un commuta- tore permetteva di metterlo ad intervalli in relazione con una coppia campione, onde valutare la sua sensibilità, e poter esprimere le misure in unità pratiche. Per operare nell’ aria rarefatta, od in gas differenti dall'aria, i metalli erano chiusi in una campana robusta, da principio di vetro, sostituita poi da una di metallo, avente una finestra chiusa da un grosso quarzo, pel quale possono passare senza grande perdita le radiazioni attive. Le misure eseguite riguardano il carbone di storta ed i principali metalli usuali. Il mezzo ambiente fu l’aria, secca od umida, l’ anidride carbonica, l’ idrogeno, l’aria carica di vapori ammoniacali, ed il gas illuminante. La maggior difficoltà che si presenta nelle ricerche sull’ elettricità di contatto, (1) Atti del R. Ist. Veneto t. VII, serie VI pag. 42. — N. Cimento, settembre 1889. — 353 — proviene dalla enorme influenza che esercita sui risultati la pulitura dei metalli. Per avvicinarsi il più possibile ad una condizione costante, bisogna pulire for- temente con carta smerigliata i metalli un istante prima delle esperienze, e queste devono non durare troppo, specialmente coi metalli più ossidabili. Anche così facendo è veramente un caso fortuito, se puliti per due volte e il più perfetta- mente possibile i metalli, e misuratane ciascuna volta la differenza di potenziale, si ottengono due numeri poco differenti fra loro. Per cui mi sembra non si possa accordare molta fiducia a misure fatte con metalli immersi in diversi gas, ma a lunghi intervalli. Per indagare dunque l’ influenza del gas ambiente, ho tenuti fermi i metalli, ed ho cambia'o alternativamente le condizioni del mezzo. Per esempio, una volta che la campana è piena d’aria secca, faccio una misura, poi sposto l’aria con una corrente d’ idrogeno secco (che attraversa diversi tubi che lo depurano e lo diseccano prima di giungere nella campana), che in pochi minuti si sostituisce all'aria, poi faccio un’ altra misura. Indi faccio entrare di nuovo l’aria, misuro ancora, e così di seguito. Con queste alternative sì ha anche modo di riconoscere se i metalli si modificano lentamente col tempo, per ossidazione o altro. In ciascuna di queste serie di misure i risultati che si ottengono sono fra loro comparabili; ma non lo sono in generale quelli ottenuti in serie diverse se fra queste trascorse un tempo non breve, o se i metalli vennero puliti a nuovo. II. Esperienze nell’ aria ordinaria, secca od umida, nell’ aria rarefatta, e nell’ anidride carbonica. In queste varie esperienze ho sempre confrontato la differenza di potenziale fra due metalli posti nell’ aria secca, con quella che hanno nell'aria umida o in un altro gas. Senza riportare i risultati numerici, dirò, che non ho riscontrato nessuna in- fluenza certa dello stato igrometrico sulla differenza di potenziale di metalli, sia sperimentando con una reticella di platino e con diversi dischi (diametro 6°) di rame, carbone di storta, ferro, bismuto, nichel, zinco, stagno, sia con una reticella di zinco, accoppiata agli stessi dischi. Un risultato pur negativo parmi si possa dedurre dalle misure fatte nell’ ani- dride carbonica secca, i cui risultati sono esposti nella tavola seguente. TOMO X. 2 45 — 354 — —— — rie... EI sE I Rete Nell'aria Nell’ anidride Dintorni Ven di zinco e disco di secca carbonica nell’ aria secca Carbone . . ...{ — 1,09 Volta i — 1,09 Volta | — 1,09 Volta | IRENE lol olo 0,99.» 0,93» 0.93, Pato ORARIA: TOM Ta JR B SIAULO RIS 0,80. » 0828005 0,81 » RECRONE Te nei te Ori 057758005 0720105 INFICIMA oi toto 0,84» 0,85. » 0,85. >» SITA: OR 0,43.» 0,48. >» 0,43.» Benchè lievi variazioni si abbiano col disco di ferro, o con quello di bismuto, pure queste sono troppo piccole perchè si possa dar loro qualche importanza. Inoltre queste piccole variazioni non si presentarono in modo costante, allorchè le misure furono ripetute. Per le esperienze in aria più o meno rarefatta adoperaìi una macchina pneu- matica di Deleuil che poteva rarefare l’ aria solo sino a circa un centimetro di mercurio, ed in seguito una pompa a mercurio; ma anche colla sola macchina a cilindro ottenni i risultati seguenti. Con rete di zinco e disco di platino, rame, bismuto ecc. la differenza di potenziale resta sensibilmente costante, se la pressione dell’ aria viene diminuita di pochi centimetri; con ulteriore rarefazione, la detta differenza sembra variare in modo sensibile, ed anzi crescere al diminuire della pressione. Però queste varia- zioni avvengono con un certo ritardo, giacchè variata la pressione e fatta una misura, sì ha un risultato in generale diverso ripetendo questa dopo qualche mi- nuto. Con rete di platino e dischi di metalli più ossidabili, si hanno risultati opposti, e cioè la differenza di potenziale sembra diminuire quando l’aria ambiente viene alquanto rarefatta. Le variazioni constatate non sono dunque che apparenti, e si debbono alla carica positiva che si forma sul disco, per azione dei raggi ultravioletti, la quale cresce colla rarefazione, specialmente poi quando questa è portata all’ estremo con una pompa a mercurio. Non si può dunque concludere nulla da tali esperienze all’ infuori di questo, che non si hanno prove che la rarefazione dell’aria influisca sulla differenza di potenziale. Un' esperienza fatta con un apparecchio speciale, stà a provare che, almeno pei metalli in essa adoperati, la differenza di potenziale resta sensibilmente la stessa — 355 — dalla pressione ordinaria alla pressione di un decimo di millimetro. Questo appa- recchio, che ho descritto anche altrove (1), consiste in un recipiente contenente un disco di zinco sospeso verticalmente, ed una rete d’ ottone, i quali possono ricevere le radiazioni attraverso un disco di quarzo. Un tal recipiente, che comunica colla pompa a mercurio per mezzo d’ un grosso tubo di gomma, è mobile intorno ad un asse orizzontale, il chè permette di portarlo in due posizioni diverse, ben determinate da solidi arresti. In una la rete è verticale e vicinissima al disco; nell’ altra è inclinata e lontana dal disco, il quale resta sempre verticale, perchè sospeso a guisa d’ nun pendolo. La rete comunica col suolo ed il disco col- lelettrometro. Se, posto l'apparecchio in una delle sue due posizioni fissate, si mette per un istante il disco in comunicazione col suolo, poi si porta l’ apparecchio, nell’ altra posizione, si ottiene una deviazione elettrometrica, la quale è proporzio- nale alla differenza di potenziale fra i due metalli. Orbene, variando la pressione dell’ aria entro i limiti indicati, non ottenni sen- sibili variazioni nelle deviazioni elettrometriche. Dunque almeno pel caso dello zinco coll’ ottone, la differenza di potenziale non dipende sensibilmente dalla pres- sione dell’aria in cui sono immersi. In complesso adunque i risultati ottenuti e nell’ aria rarefatta è nell’ aria umida e nell’ anidride carbonica sono risultati negativi, e cioè non indicano in modo certo una influenza del mezzo sull’ elettricità di contatto. Le esperienze che mì restano a descrivere, forniscono invece risultati opposti a questi, e cioè stabiliscono l’esistenza di notevoli variazioni nella differenza di potenziale, allorchè certi gas sono sostituiti all’ aria. III. Esperienze nell’ idrogeno, nel gas illuminante e nell’ ammoniaca. p geno, & La esperienze comparative fra l’aria secca e l’ idrogeno puro e secco sono state le più numerose. Avendo riconosciuto fino dalle prime prove, che con alcuni metalli si hanno nell’ idrogeno risultati assai diversi che nell’ aria, cosa che a quanto pare era finora sfuggita agli altri sperimentatori, dovetti moltiplicare le misure onde acquistare la certezza più completa che errore non vi era dalla parte mia. Nella tabella seguente riporto i valori delle differenze di potenziale ottenute in una prima serie di misure. (1) III Memoria — Sui fenomeni elettrici provocati dalle radiazioni. Atti del R. Ist. Veneto, t. VII, serie VI pag. 42. — 356 — Rete di platino e disco di Nell’idrogeno Nell'aria 9 ar Rame ge ri 07 ae na volta 025 Volta ZAN CORIO RM 0 I 4 10;89 > + 0,66. » (EBISTOU LO RE e a E OO7En + 0,05.» RELLO REI A N ER SOI — 0/09 ©> | NICHCIMREOO RO COSI SFIZIO + 0,39. > + 0,26 » ' Palladio (lamina sottile applicata ad un disco) — 065 » + 0,24 » Le notevoli variazioni così ottenute nella forza elettromotrice di contatto fra la rete di platino ed uno dei metalli indicati, po*‘rebbero essere attribuite sia ad una influenza diretta del mezzo ambiente, sia a modificazioni subìte, al mutarsi di questo, dalla rete di platino o dai dischi o insieme da questi e da quella. Ma osservando attentamente i valori ottenuti si riconosce, che quasi per tutti i metalli le variazioni sono nello stesso senso. È dunque probabile che le variazioni della forza elettromotrice di contatto si debbano a modificazione della superficie del platino, ciò che è molto verosimile, per la nota proprietà che ha questo metallo di assorbire abbondantemente l’ idrogeno. Però, la variazione di f. e. ottenuta col disco di nichel, pur essendo nello stesso senso che col rame o collo zinco, ha un valore minore, mentre che quella ottenuta colla lamina di palladio è addirittura di senso opposto. Ma ciò si spiega bene ammettendo che anche il nichel ed il palladio si modifichino superficialmente nell’idrogeno, 1’ uno meno e l’altro più ancora che non la rete di platino. Tutto ciò resta confermato dalle misure riportate nella seguente tabella. — 357 — (RMEMERE Lo A Nell'aria Nell’ idrogeno | Ancora nell'aria Carbone . . . .| — 1,08 Volta | — 1,08 Volta Riempi gigio OTIS 0,67.» STA OI OM ORTA 0,46. » 0,46 » | IRA, o Ei 0,97 » OlO76rMe» | lizineo (d mio sar 0,04! » 004 » SERRATO ar TEl205 0,60 » |-— 1,06 Volta] Palladio Rie 0,86 » 0,56. » | ucnelt ki. suo QE200, assi QUE EICETONI co 0,67 » 0,61. » 0,64.» Si vede diffatti che con carbone, bismuto, rame, stagno e zinco, accoppiati alla rete di zinco, non si ottennero variazioni sensibili di f. e. sostituendo l’ idro- geno all'aria, il che prova che questi metalli non si modificano sensibilmente, a meno che non si vogliano ammettere in essi modificazioni che sempre si compen- sino, ciò che è assai inverosimile. Invece coi quattro ultimi metalli si ha dimi- nuzione di f. e. abbastanza sensibile col ferro, alquanto maggiore col nichel, gran- dissima col platino e col palladio. È dunque a ritenersi che questi metalli, rive- stendosi d’ un velo d’ idrogeno aderente o formando coll’ idrogeno una lega, si comportano poi come se fossero trasformati in un metallo più ossidabile. Trattandosi quì più d’ esperienze qualitative, che di misure rigorose, non credei necessario di prendere delle precauzioni minute per liberare dall’ idrogeno assorbito in precedenza i metalli adoperati. Perciò non bisogna credere che le diverse varia- zioni di f. e. constatate, dieno un’ idea rigorosa della modificazione relativa, che la superficie dei diversi metalli subisce allorchè sono portati in una atmosfera d’ idrogeno. Questa osservazione deve valere particolarmente pel confronto fra le modifica- zioni presentate dal palladio e dal platino. Per quest’ ultimo poi può anche influire la forma sotto la quale viene posto in esperienza, e cioè o come lamina piana o come fina reticella. Si vede infine dalla tavola precedente, che sostituendo nuovamente l’aria all’ idro- geno, la f. e. di contatto tende a riprendere, ma in generale non riprende, il primitivo valore, ciò che indica una lentezza più o meno grande per l' idrogeno ad abbandonare i metalli che se ne erano impossessati. Per avere idea del diverso andamento relativo del fenomeno pei vari metalli, — 358 — ho fatto delle misure ad intervalli di tempo noti, contati a partire dall’ istante in cui l'idrogeno entra nella campana e comincia a sostituirsi all’ aria, e dall’ istante in cui l’aria si sostituisce d’ un tratto all’ idrogeno col sollevare momentaneamente la campana. Ecco i risultati. | Jtete di zinco e disco) di | | I n e —___ocozì po I Platino Palladio Nichel I Nell'aria libera. . . . . . . .|— 1,28 Volta | — 0,89 Volta | — 0,67 Volta | Nell’ idrogeno, dopo 30 secondi . . 090105 070065 0,66. » | » 1 minuto . . 0,81 » 0,62» 0.65.» 0,49 (0X(5) GN 0,48 0,49 Aria libera, dopo 30 secondi. . . IZ 5 0,51» 0,51. » » 2 MINUt e 0,68 DL TI o 0,68 » » ID UTOREE 1,14 » lo DO SIM » » TRAIL de IRE 0,54» 050 » » DIARI 0,61» 0,61.» » > Nb ao 1,18 OM v » Do I AO Sc 0,64» ———— _—_—_———— ——————————@ v NAT) (n) v v Xv v v Y Si riconosce da questi risultati, come sia più pronto il platino ad assorbire o a perdere l'idrogeno, che non lo sieno il palladio e specialmente il nichel. Se si volessero fare quindi delle determinazioni rigorose, sarebbe necessario prendere le debite precauzioni onde evitare in ogni misura l’ influenza dell'idrogeno rimasto sui metalli per esperienze precedenti. Alcune esperienze eseguite col gas illuminante, hanno dato risultati degni di nota, in quanto che delle variazioni di f. e. di contatto si ottengono anche con altri metalli. Queste variazioni indicano modificazioni transitorie o permanenti delle superficie metalliche, spiegabili colla natura chimica complessa del gas adoperato. Il platino si modifica nello stesso senso come nell’ idrogeno. Ecco i risultati avuti col gas illuminante. Non ho creduto utile l’ estendere le misure con questo gas. — 359 — Rete Lara Gas Aria libera di zinco e disco di (misura dopo 5‘) (dopo 1') (dopo 15') Carbone . . . .{ — 1,16 Volta | — 1,13 Volta | — 1,13 Volta | — 1,14 Volta Platino Nei N ZE: 1,15. » 073.» 1001965 1,06 » RAMO olo TO 0,75. » 0,64» 0,71. » di platino e disco di (misura dopo 5') (dopo l') (doponlog) Carbone . . . .{|— 0,25 Volta | — 0,40 Volta | — 0,34 Volta | — 0,30 Volta | Ramefget E I0 — 0,07. » 0-00 + 0,08. » KRerROEEgRe 0,51» SONS 052) 1naRe» 0,26» Zinco . 0,93.» 0,66. » 0,82» 0,89. » Rete Aria Gas Aria libera | Nic eIMMISME i OLIO 0,12. » | 0520» OA Darò per ultimo i risultati avuti introducendo nella campana contenente i metalli studiati una corrente d’aria, che gorgogliava attraverso una soluzione d’ ammoniaca. di o di Aria libera RA ei (Gopo10,) | | Bismuto . . . .| — 0,83 Volta [| — 1,12 Volta | — 0,98 Volta | — 0,86 Volta | Riaifao e Ho ego TEDcE oli MAGO LE SII 0,52.» 0,95. » 0,83. » 0,68 » Eerrogie- ns! 0,65. » 0,91. » 0,78. » 0,68. » Nich'ell'fmest act 0,73. » 0,91. » | 0,82.» 0,73. » Le variazioni di f. e. quì osservate sono di senso contrario di quelle date dall’ idrogeno e dal gas illuminante; ma non essendo noto se esista un metallo il quale non subisca variazione alcuna, al quale accoppiare poi uno ad uno gli altri onde indagare le modificazioni superficiali di questi, l'interpretazione di questi risultati rimane assai incompleta. Si può dire soltanto, che i metalli si modificano — 360 — alla superficie, e che questa modificazione sembra essere, non già dovuta ad un'a- zione chimica, giacchè non è permanente, ma piuttosto ad una condensazione del gas alla superficie dei metalli. Qualche indizio sulla modificazione subìta da ciascun metallo, si ha con speciali artifici. Per esempio, nell’ esperienza fatta col disco di stagno (vedi l’ ultima tavola), si ebbe 0,68 V. di f. e., dopo che da 10 minuti i metalli erano nell’ aria libera. Avendo allora pulita a nuovo la rete di zinco con carta vetrata, e rifatta la mi- sura, si ebbe ancora 0,68 V. Pulito quindi colla carta il disco di stagno, si ottenne dopo 0,50 V. Ora la f. e. originaria era 0,52 V. Se dunque dopo 10 minuti d’ esposizione all’ aria libera, si aveva ancora 0,61 V. ciò si doveva ad una modi- ficazione subìta dal disco di stagno, modificazione che, se non era permanente, almeno spariva assai lentamente. IV. Conclusioni. Dalle esperienze quì narrate, alle quali per varie circostanze non potei dare maggior sviluppo, si deduce, che al mutare del gas ambiente la î. e. di contatto non cambia sensibilmente, eccettuati quei casi nei quali si ha ragione di credere che il gas ambiente venga assorbito dai metalli, modificando la natura della loro superficie. Benchè non si possa nulla concludere in modo assoluto, che serva a chiarire la causa prima dei fenomeni di contatto, tuttavia questi risultati sembre- rebbero più favorevoli all’ opinione di quelli che ammettono che il gas ambiente non intervenga generalmente nella produzione del fenomeno, che non all’ opinione di quelli che attribuiscono al gas una parte essenziale nel determinare delle diffe- renze di potenziale fra i conduttori comunicanti in essi immersi. Tuttavia si è ancor lontani dall’ avere motivi seri per preferire l’ una o l’ altra delle due opinioni. SULL'ENDOCATDITE VEGKTANTE ULCEROSA NEL PORCO MEMORIA PROFESSORE VINCENZO COLUCCI (letta nella Sessione del 15 dicembre 1889). Dell endocardite nelle sue varie forme se n’ è tanto scritto, specialmente in patologia umana, che voler dire ancora di essa, riguardandola sotto l’ aspetto clinico ed anatomo-patologico, parrebbe veramente opera superflua, quando almeno non si abbiano a riferire fatti tali che modifichino in qualche parte, non dico le con- clusioni cliniche, ma i risultati delle ricerche anatomiche ed istologiche, i quali oramai ritengonsi come bene accertati, e portino qualche lume nell’ abbastanza intricata questione etiologica. Intorno alla quale, per quanto siasi osservato, speri- mentato e con ragionamenti più o meno sodi e rigorosi dedotto, vi restano ancora lacune, al certo non insignificanti, a colmar le quali non valsero finora, quale ultimo tentativo, le scoperte microbiologiche, che per quanto siano seducenti, e fuor d’ ogni dubbio abbiano assodato molte questioni su varie malattie infettive, pure per alcune fra queste e per l’ endocardite vegetante ed ulcerosa, hanno lasciato molti dubbi che, per quanto io mi sappia, sussistono ancora in medicina umana. Che dire poi delle conoscenze in proposito dei cultori la veterinaria, poche re- lativamente essendo le osservazioni raccolte sulle malattie cardiache, e difficilis- simo il potere stabilire per ciascuna d’ esse i dati etiologici? Per la verità però non è a tacersi, che anche in questo ramo della medicina siasi progredito e non poco, trovandosi riferito un buon numero di casi osservati d’ endocardite, e per quanto io abbia potuto appurare ne scrissero negli ultimi anni: ohne (1), £Lo- (1) A. Endocarditis valvolaris fibrosa der Mitralkleppen und Semilunarkleppen der aorta bei einem Pferde. Sachs Ber. 25 Iahrg. S. 35. B. Endocarditis verrucosa acuta und Myocarditis acuta bei einem Pferde. Ebendas S. 44. TOMO X. 46 — 362 — bouam (1), Trasbot (2), Gotti (3), Kowalewski (4), Kirillow (5), Schutz (6), Wosten- dick (1), Mathis (8), Burke (9), Ebingen (10), Beniamin (11), Schofer (12); oltre parecchie monografie che videro la luce in epoca anteriore, fin da] 1834, e quello ancora che trovasi detto nei trattati di patologia veterinaria, i quali e le mono- grafie stimo inutile di citare, perchè riportati dal mio Maestro Prof. Gotti nel citato suo pregevolissimo lavoro. Di questi osservatori quasi tutti diressero la loro attenzione (ciò che del resto è quel che si può e devesi fare per la veterinaria pratica) alla forma clinica che, per l’esistenza dell’ endocardite, ebbe a manifestarsi in ciascuna specie animale, e rispetto alle lesioni anatomiche riscontrate, nulla di nuovo ebbero a notare di più di quanto è comunemente conosciuto circa l’ endocardite acuta, semplice ed ulcerosa, e la cronica o verrucosa. Il Trasbot ed il Mathis si occuparono più parti- colarmente di questa malattia, e buon numero di casi è stato da essi riferito: dal primo osservati di preferenza nel cavallo, e dal secondo nel cane, nei quali ebbero a studiare gli effetti derivati tanto dal disturbo circolatorio immediato per l’ in- sufficienza valvolare mitrale e delle sigmoidi aortiche (induramento bruno del pol- mone), quanto dai processi embolici semplicemente meccanici (zoppicature), o flogistici (ascessi multipli). La storia di endocardite reumatica acuta, osservata da Gotti nella vacca, è completa e assai circostanziata specialmente sotto l’ aspetto clinico, i dati semiotici essendo di una chiarezza e precisione, rare a trovarsi nelle storie pubblicate di en- (1) Endocardite valvulaire consécutive a un refroidissement. Recuezl! de Med. Vet. Vol. 58. (2) A. Observations sur l’ endocardite du cheval. Archives véterinaires. Tome 3° Paris 1878. B. Endocardite aigue chez un cheval. Archiv. veterin. e Bulletin 23 Nov. 1882. C. Neue Beitrige zur Lehre von der Endocarditis der Pferde. JaRresbericht. iiber die Veterinàr. Berlin, 1883. (3) Contributo alla casuistica dell’ endocardite negli animali domestici. « La Veterinaria » anno 2° n. 3. (4) Pericarditis et Endocarditis rheumatica bei Kàlbern. Arch. fiir Veterinirkund 1882. (5) Geschwirige Endocarditis im rechten Herzen einer Kuh. /bid. (6) A. Endocarditis chronica valvularis et tricuspidalis bei einem Pferde. Lerl. Arch. VIII. S. 139. . B. Endocarditis chronica und Thrombose an der Mitral und Tricuspidal Kleppen bei Rindern. Ebendas. S. 140. (7) Endocarditis chronica valvularis mitralis bei einem Schwein. Preuss. Mittheil. S. 53. Iahr. 1883. (3) Ein Fall von Endocarditis ulcerosa beim Hunde. Iahresbericht iber die Veter. Medicin. Berlin 1883. (9) Cases of Endocarditis. Ure veter. Journal 1384. Jahresbericht ilber die Vet. Medie. Ber- lin 1884. (10) Endocarditis acuta bei einer Kuh. Berliner Arch. S. 295. (11) Endocardite (cheval) Bulletin 1880. (12) Endocarditis chronica mit Thrombose bei einem Pferde. Berlin. Arch. ISS7. -- 363 — docardite nei nostri animali domestici; nè meno interessante è la descrizione del- l’altro caso riferito di endocardite cronica nel cavallo. L'endocardite reumatica osservata dal Roth di Greifswald in un giovane majale, morto all’ ottavo giorno di malattia, è molto interessante, avendo egli osservato le lesioni caratteristiche della forma vegetante, estese tanto al ventricolo sinistro, che al destro del cuore, ma molto più gravi sulla valvola tricuspide e sulle semilu- nari aortiche. Non accenna ad esistenza di ulcere, tranne di una lieve infossatura nel ventricolo sinistro corrispondente ad un focolaio emorragico interessante tutta la spessezza del miocardio. Tra gli altri sintomi, si notò un rossore diffuso mani- festatosi al sesto giorno di malattia. Per quanto riguarda l’ eziologia, quasi tutti riferiscono le endocarditi a raffred- damenti del corpo in sudore, a bagnature con acqua fredda, e per lo più si è osservata consecutiva a poliartrite reumatica. Sono piuttosto rari i casi di endocardite riferibili a processi infettivi, quali la pioemia, il tifo, l’ afta epizootica, ecc. II. Da quanto ho sopra detto, credo che risulti chiaro non esser mia intenzione di fare ora la storia dell’ endocardite, volendo invece riferire soltanto un caso osservato in un majale di mesi 18, razza seminglese, di pelo bianco. Quest’ osservazione di endocardite reumatica vegetante nel porco, oltre ad offrire un contributo alla casuistica (non essendo frequenti ad osservarsi in questa specie animale casi ben netti di flogosi endocardica), mi è sembrata pure interessante per il risultato dell’ indagine istologica che ho fatta, il quale se non in maniera generale, almeno per questo caso permette di potere stabilire qualche dato per l’interpretazione patogenica del processo flogistico iperplastico e dell’ ulcerativo in particolare, additandone il fattore etiologico e l’importanza sua. Mi farò quindi senz’ altro ad esporre, più brevemente che potrò, quanto ebbi ad osservare diret- tamente nell’animale negli ultimi giorni di vita, e dopo la morte, e tutto quello che mi è riescito raccogliere sullo stato suo nel tempo di malattia che precedette la mia visita. Nel giorno 18 Luglio di quest’ anno, trovandomi in villeggiatura, fui in sul- l imbrunire chiamato d’ urgenza da certo Rosatti Pietro, per visitare un majale gravemente infermo. Mi recai sul posto, e intanto si fe’ notte e piovigginava. Il contadino obbligò a venir fuori dal porcile l’animale, che potei appena molto super- ficialmente visitare, stante la sua irrequietezza e la scarsa luce di una candela. Il grave stato morboso, secondo riferivami il proprietario, consisteva nella man- canza d’ appetito, durante cinque giorni, ed avendogli io fatto osservare che — 364 — avrebbe potuto aspettare di chiamarmi il giorno vegnente, aggiunse ch’ era stato costretto di farlo, perchè il majale nelle ore pomeridiane di quel giorno aveva manifestato una alterazione di respiro, per cui poscia era divenuto affannoso. Trovai le inucose pallide, temperatura al tatto alquanto accresciuta e un po ineguale alla superficie del corpo; per mancanza d' ajuto e di commodità non mi riescì fare l’ esame del torace, e solo colla palpazione trovai una notevole forza e frequenza delle pulsazioni cardiache, mentre quelle dell’ arteria femorale erano piccole, deboli e quasi filiformi. La defecazione mancava da tre giorni. Non rilevai grave alterazione di respiro, la quale del resto, anche esistendo, non potevasi riconoscere stante l’ irrequietezza e l’ agitazione dell’ animale, e le condizioni più che sfavorevoli, di luogo e di tempo, per un accurato esame clinico. Chiesto degli antecedenti, mi si disse, che un mese prima aveva avuto febbre e macchie rosso-oscure alla pelle, le quali scomparvero a capo d’ otto giorni, e che in seguito l’ animale non mangiò più coll’ appetito di prima. Non potendo fare altro per spingere più oltre le mie indagini in quella sera, e per conseguenza senza stabilire diagnosi alcuna; nel semplice sospetto che una malattia febbrile, probabilmente infettiva, avesse lasciato come residuo uno stato di anemia, che veniva fino a un certo punto provato dalle pulsazioni deboli e piccole dell’ arteria, non corrispondenti a quelle forti del cuore, e dal pallore delle mucose, preserissi, per soddisfare alle esigenze del padrone, un rimedio comune amaro-aromatico (infuso di cime d’ assenzio che trovavasi in vicinanza della casa colonica) allo scopo di ridestare l’ appetito, e del buono alimento. Raccomandai poi al contadino d’ avvertirmi la dimane dello stato dell’ animale, per sapere se era il caso di tornare a visitarlo. Nel giorno seguente non venne alcuno a cercarmi, ed al terzo giorno andai da me per sapere ch’ erasi fatto. Mi fu detto che gli era stata somministrata una metà del medicamento prescritto, ma che non avea voluto mangiar nulla, e. per forza gli sì era fatto bere un litro e mezzo circa di siero di latte. Obbligato l’ animale a venire fuori della sua stalla, notai subito delle maechie rosso-scure alla pelle del dorso, delle spalle, del collo, della testa, e più grandi e numerose alle orecchie e specialmente alla sinistra, la cui metà verso la punta n'era coperta affatto e di color rosso-nero intenso. Macchie più scarse e più piccole e di un rosso scuro meno carico esistevano pure agli arti posteriori. Le mucose apparenti erano cianotiche. Il respiro assai alterato, corto e frequente, e accompa- gnato da gemiti; le pulsazioni cardiache .da 100-110 al minuto e meno forti di quel che fossero due giorni prima, il grugnito rauco, debole e semebondo. Questi fatti m° indussero nel sospetto dell’esistenza di una lesione al cuore, e mercè l'esame plessimetrico e stetoscopico, rilevai quanto segue. Il tono sistolico alla punta, e più in alto ed in addietro era sostituito da un soffio, ma verso il mezzo dell’ aja cardiaca, anteriormente, si avvertiva in modo distinto; il secondo tuno era alquanto indebolito ma netto. Il volume del cuore non mi parve aumentato. La compressione della parete toracica non svegliava dolore, e percossa da ambo — 365 — i lati, si otteneva in basso un suono vuoto che facevasi un po’ chiaro dal mezzo del torace in alto. Coll’ ascoltazione si avvertiva nella regione superiore, molto manifesto, un soffio bronchiale, il quale esisteva eziandio, ma meno forte, nella regione mediana, dove rilevavansi pure rantoli umidi, che erano più numerosi e piccoli nella regione inferiore. Il rumore vescicolare si sentiva più o meno inde- bolito in qualche punto verso le parti posteriori del polmone, e scomparso nel resto. Temperatura 40° 5. Feci diagnosi di endocardite ed edema polmonare. Prognosi infausta, per cui il proprietario decise di tralasciare qualunque cura e di far macellare al più presto l animale. Desideroso di rintracciare la causa di questa endocardite, volli ancora ritornare sull’anamnesi, che cercai stabilire nel modo più accurato possibile; ed ecco quanto ho potuto sapere. Ventinove giorni prima, cioè il 19 di Giugno, il majale mangiò alla mattina e se. ne andò a girare pei campi; a mezzogiorno ritornato a casa non volle prender cibo; alla sera manifestaronsi alla pelle delle parti posteriori del corpo, macchie rosso-violacee grandi da un soldo ad una moneta da 5 franchi; di tali macchie, ma assai più scarse esistevano pure alle parti anteriori, e vi era febbre. Alla mattina vegnente apparvero assai più numerose al petto ed alle spalle, coprivano tutta l’ orecchia sinistra e la base soltanto della destra; a mezzo giorno gli si gonfiarono gli arti posteriori in corrispondenza dell’ articolazione tibio-tarso- metatarsica, e da qui la gonfiezza, verso sera, si estese in basso. Il porco emetteva continui gemiti stando coricato, e gridi quando lo si obbligava a rialzarsi, il che faceva con molto stento, ed eragli affatto impossibile il camminare. Le macchie alla. pelle durarono per otto giorni, incominciarono quindi a divenire pallide, e scomparvero dopo altri, due giorni; la febbre gradatamente diminuiva. In tutto questo tempo gli si somministrò del siero di latte con poca quantità di farina di frumento, che il più delle volte non volle prendere; ma al 19 giorno incominciò a beverlo, e poi a mangiare qualche poco di polenta. La gonfiezza alle gambe durò per quindici giorni, e poi anche essa scomparve rapidamente; ma non per- tanto l’animale camminava con assai difficoltà, e manifestava dolore quando lo si sforzava a muoversi. L' appetito andò sempre aumentandosi fino al 25° giorno, quando si notò una sensibile diminuzione, e poi la cessazione assoluta col mani- festarsi un aumento della temperatura. In questo stato continuò fino al giorno che fui chiamato a visitarlo. i Raccolte queste notizie mi parve di potere affermare che trattavasi d’ una en- docardite reumatica, e persistei nella prognosi emessa, approvando che il majale fosse ucciso, e colla prevenzione al proprietario che io desideravo osservare il cadavere. Malgrado ciò, il giorno seguente, l’ animale fu trasportato, senza darmi avviso, al macello, distante circa 5 chilometri, e macellato alle ore 8 p. m. Il Veterinario Ispettore, a cui era stata riferita la diagnosi da me fatta, avendo esaminato il cuore e trovate le lesioni dell’ endocardite valvolare, me ]o mandò, unitamente al polmone e ad un pe:zo di milza, che ricevetti il giorno appresso alle ore 6 pomeridiane. — 366 — Ecco ciò che ho trovato. Il pericardio che, alquanto ingrossato ed opaco, aderiva in molti punti a tutta le superficie del cuore per forti e ricche produ- zioni villose, dissecate queste, fu tolto e restò a nudo il cuore, la cui esterna sierosa era ingrossata (circa 2 millimetri) per essudato e iperplasia flogistica. Da esso in vari punti, e specialmente nella sezione sinistra del cuore, si spiccavano le villosità che, fissate al pericardio, vi stabilivano le dette aderenze, più intime verso l’ estremità inferiore del cuore e sulle orecchiette, e meno assai nel mezzo d’ esso. Essudato liquido non ne trovai, poichè le aderenze non erano saccate per potervi restare del liquido anche dopo spaccato il cuore, e della esistenza o meno di esso nulla mi fu dato sapere in proposito, poichè nell’ atto di scannare l’ ani- male fu, come di solito, ferito il cuore. Se debbo però argomentare dall’ esame clinico fatto, onde non mì risultò tanto accresciuta l’ aia del cuore, nè oscurata la tonalità sua derivante dalle parti ancora sane, credo che, pur esistendovi del- l’essudato liquido, esso fosse in piccola copia. Il cuore, dopo ravvicinate il più esattamente possibile le sue parti divise, sì per l essudato esterno organizzato come per lieve ingrossamento del miocardio, proporzionatamente più rilevante nella parete del ventricolo destro, mi parve un po’ ipertrofico, così giudicando specialmente dal rapporto fra il diametro trasverso e il longitudinale dell’ organo, il primo essendo maggiore del normale. Il muscolo cardiaco, tranne la lieve ipertrofia, non presentava verun’ altra alterazione anatomica apparente. L’endocardio delle cavità destre era quasi normale, quello del ventricolo e dell’ orecchietta sinistra era un po’ ingrossato, opaco e la sua superficie meno liscia e lucente del normale per tutta la estensione parietale di queste cavità; ma rilevanti alterazioni trovavansi sulla valvola mitrale e sulle corde tendinee di essa. Queste alterazioni interessavano tutta intera la valvola, e consistevano in produ- zioni verrucose sviluppatesi sulla sua faccia superiore o auricolare e sul rivesti- mento sieroso delle corde notevolmente ingrossato; erano più scarse, e piccole come grani di miglio all’ origine muscolare dei tendini e gradatamente ingros- santisi verso 1 lembi delle valvole, sulle quali erano molto più grandi, somiglianti al cavolfiore, ed una fra esse raggiungeva il volume d’ una avellana, di talchè l’ostio auricolo-ventricolare era assai ristretto. La rugosa superficie loro appariva di colore grigiastro sporco per deposito fibrinoso ivi formatosi; nessun punto ulcerato, nè escavazione di sorta esistevano sulle verruche o nell’ endocardio pa- rietale. Alla base d’ una delle sigmoidi aortiche e sulla sua faccia ventricolare si tro- vava una di queste produzioni verrucose, della grandezza e forma d’ un granello di frumento, a fianco della quale una rilevatezza bene spiccata, piana ed ovale, larga circa 6 millimetri quadrati ed alta un millimetro, faciente corpo coll’ endo- eardio, di cui era alquanto più rossa. Il polmone era di color rosso-bluastro, edematoso, con limitate epatizzazioni e porzioni selerotiche. Inciso, colò molto liquido sanguinolento misto ad aria. Non vi erano tracce di pregressa pleurite. — 367 — La milza mostravasi un po’ turgida, rosso-oscura, e nel suo parenchima nè emorragie nè punti suppurati. Il fegato, come mi riferì il Veterinario, era più voluminoso del normale e di «colore rosso-oscuro. i I reni anche essi congestionati, ma senza emorragie o ascessi di sorta. Nessuna lesione fu riscontrata negli altri visceri. Essendo l’ ora tarda e non potendo fare osservazioni microscopiche a fresco, anche perchè erano passate circa 24 ore dall’ uccisione del majale, e la stagione calda, conservai i pezzi patologici nel liquido di Mw/er, e alcune delle vegetazioni valvolari e pezzettini di polmone e di milza in alcool assoluto, per procedere in seguito allo studio microscopico. II. Le sezioni perpendicoiari delle verruche mostrano esser esse costituite da neo- formazione connettiva sviluppata sulla faccia superiore della valvola mitrale, ed originatasi dal connettivo lamellare sotto endoteliale fig. 1% e 2%. La superficie di tale neoplasia presenta papille di grandezza e forma diverse, p, distinte e riunite da coagulo fibrinoso, mf, formante uno strato omogeneo quasi jalino, all’ esterno, e disposto a rete, ad alveoli ed anche in masse granose profondamente, fra le basi delle papille. Questa disposizione della fibrina è dessa che dà l’ aspetto di cavolfiore alle verruche. In vari preparati, di cui uno è ritratto nella fig. 1°, si vedono alcune papille del connettivo prolungarsi fra la massa fibrinosa, venire al- l’ esterno, sormontarla e ricuoprirla in parte, ps. Ciò è spiegabile per la pressione che il coagulo fibrinoso esercitava al fondo, e lateralmente fra le basi delle papille vicine, donde ostacolo allo sviluppo del connettivo, il quale per conseguenza si fece preva- lentemente nella direzione longitudinale delle papille, onde queste si accrebbero in lunghezza tanto da sorpassare la superficie. Così pure s' intende il trovare non di rado delle isole di fibrina comprese nella neoformazione connettivale, mi. Questa neoplasia, percorsa alla sua base da molti vasi sanguigni, è ricca di cellule ed infiltrata di leucociti verso la parte media a livello della base delle papille, da potersi quasi considerare come un tessuto di granulazione, fig. 1.% 2.° il; ma gli elementi infiltrati vanno gradatamente diminuendo verso |’ estremità libera di quelle, e profondamente vicino al tessuto proprio della valvola, dove gli elementi connettivi da rotondi divengono ovali ed anche fusiformi, fra i quali abbonda la sostanza intercellulare jalina che man mano diventa fibrillare. Il con- nettivo neoformato trovasi non solo sulla faccia superiore o auricolare della valvola, ma ancora sulla superficie inferiore, dov’ è assai meno sviluppato, di natura fibro- areolare, non villoso e non ricoverto da fibrina, ma limitato da endotelio, n. — 368 — L’ endocardio che riveste le corde tendinee, è pure esso ingrossato per una simile neoplasia, fig. 3.* e 4.* ci, la quale in varii punti della loro lunghezza forma delle piccole verruche ricoperte da fibrina, come le altre esistenti sulle valvole fig. 4.* mf. Non dissimile è la struttura della piccola verruca che trovasi alla base della sigmoide aortica, e della placca vicina che non mostra rilievi pa- pillari, e la sua superficie ondulata è limitata da endotelio. È notevole il fatto dell’ esistenza di piccole ma numerose infiltrazioni emor- ragiche nel tessuto connettivo neoformato, specialmente vicino alla base delle papille, dove fra il tessuto e la fibrina sovrapposta trovansi inoltre delle piccole raccolte purulente, che indicano il principio del processo ulcerativo; fig. 4.7 r p. Il connettivo intermuscolare del miocardo, al disotto della placca, fino alla profondità di mm. 0,5-2, è ingrossato e leggermente. infiltrato di leucociti, e le fibre muscolari rispettivamente atrofiche. Fin quì nulla di diverso da quanto venne da molti anatomici osservato nel- l’endocardite acuta vegetante dell’ uomo e di alcuni animali domestici, nè asso- lutamente nuovo quel che ora dirò circa l esistenza di numerosi microbi, osservati nelle masse fibrinose esistenti tanto alla superficie, che profondamente fra le pa- pille del connettivo neoformato. Le sezioni delle verruche conservate in alcool, tinte col metodo di Gram, e poi colla soluzione acquosa di eosina, mostrano che la fibrina che si trova alla superficie della neoplasia non forma un unico strato, e uniforme per disposizione e per qualità. Infatti lo strato più esterno è jalino e di aspetto quasi vitreo, al quale siegue la fibrina sottoposta e compresa fra le papille, ch’ è fibrillare o retico- lata e contenente globuli bianchi, i quali raccolti in masse più o meno cospicue, for- mano i suddetti cumuli di pus, dove non tardano a subire la degenerazione caseosa. Oltre a questi due stati, la fibrina si trova ancora in masse omogenee più o meno grandi, quasi sempre al disotto ed in diretta continuazione dello strato jalino superficiale e profondamente limitate o dalla fibrina reticolata, seguendo quasi una fase media della modificazione di questa nella jalina, o dal tessuto della vegetazione verrucosa. Di queste modalità della fibrina ho ereduto bene circostanziarne le apparenze che si rilevano coll osservazione microscopica, per le quali, associate alle parti- colari reazioni che si ottengono con alcune sostanze coloranti, si può fino a un certo punto stabilire i rapporti in cui esse stanno colla presenza dei microbi. L’ cosina, nella doppia colorazione, tanto coll’ ematossilina di BoRemer, quanto col metodo di Gram, tinge in rosso lo strato jalino, in rosa le masse omogenee - e in roseo sbiadito l’altra fibrina. Col Zitio-picrocarminio lo strato jalino si tinge in giallo roseo, le masse omogenee in rosso amaranto, e 1 altra fibrina in giallo. L’azzuro di anilina dà una gradazione di tinta, dal più al meno, dallo strato — 369 — jJalino alla fibrina omogenea e reticolata; mentrechè il violetto di genziana, col metodo di Gram, non tinge affatto lo strato jalino, nè l altra fibrina, bensì la sostanza fibrinosa omogenea che sta in vicinanza delle colonie di bacilli. Quest’ulti- ma reazione, osservata più volte e in varii punti delle sezioni del tessuto morboso, m' induce ad ammettere che la fibrina, prima di venire invasa dai microbi patisca. una speciale modificazione chimica o molecolare, forse rammollimento, per cui di- viene il substrato adatto allo sviluppo e moltiplicazione di tali microrganismi. Questa speciale modificazione della fibrina trova in certa maniera il suo riscontro in ciò che comunemente si osserva negli esperimenti di colture microbiche, voglio dire la proprietà, che hanno molte specie di microrganismi, di fluidificare, nella loro moltiplicazione, la gelatina sulla quale essi sono stati disseminati. Dalle numerose prove ed osservazioni fatte, mi è risultato costantemente che la fibrina, prima di essere invasa dai bacilli, in questo caso osservati, debba subire la suddetta mo- dificazione; la quale pare avvenga per la semplice presenza delle spore che in essa si disseminano, e prima del loro sviluppo in bacilli, il quale poi si fa molto rapidamente. Ciò è evidentemente dimostrato dal fatto che nella fibrina, che tro- vasi dapprima depositata sulle verruche più giovani, e che perciò è in piccola quantità e la di cui metamorfosi omogenea si vede appena iniziata, trovansi scarse sporule e nessun bacillo. Quando poi colonie di bacilli sonosi già sviluppate nel suo strato superficiale, divenuto perciò jalino, la fibrina a questo sottoposta, da granulosa o fibrillare diviene omogenea in più larga estensione, e non sempre vi sì trovano le sporule; il che farebbe credere, che una sostanza chimica o fermento speciale, prodottosi in maggior quantità per sdoppiamento operato dallo sviluppo dei bacilli, agisca suila fibrina circostante modificandola in maniera da renderla un terreno adatto all’ ulteriore e più rapido sviluppo di questi microrganismi. I bacilli osservati in questo caso di endocardite vegetante sono di varia lun- ghezza u 1,5 —3 — 4,5 ed anche più, e molto sottili u 0,1 — 0,6: si trovano commisti a moltissime sporule di u 0,5 — 0,7, specialmente nelle masse di fibrina più profonde, e rassomigliano molto a quelli della setticemia del topo. Si tingono benissimo in azzurro col metodo di Gram nelle sezioni tanto di pezzi conservati in alcool, quanto di quelli tenuti prima in liquido di Miller e poscia in alcool; ma trattandole con debole soluzione di eosina, la loro tinta sbiadisce, fino a scomparire affatto se se ne prolunga l’ immersione. Ciò che più importa notare è l’ ubicazione di tali microbi. Essi si trovano numerosissimi e accumulati nella parte profonda dello strato jalino superficiale, ch’ è occupata da essi in totalità fig. 1-5, e di là si estendono invadendo tutta la sostanza omogenea che si trova come stratificata, o in forma di circoli nelle masse di fibrina reticolata o granulosa. Si diffondono, e trovansi sparsi ed isolati nelle vicinanze del primo focolaio di loro sviluppo, ma a misura che la fibrina si modifica divenendo omogenea ed acquistando la proprietà di tingersi col violetto di genziana, si moltiplicano abbondantemente, formando in varî punti altri focolai TOMO X. 47 — 370 — che appaiono come zooglee di varia grandezza, e confluendo, formano delle masse considerevoli, fig. 1.* 4.* e 5.° D. È a notarsi ancora che di tali hacilli e sporule non uno mi è riescito trovarne nel tessuto da cui risultano formate le vegeta- zioni verrucose: essi si riscontrano esclusivamente nella fibrina. Quest’ osservazione ho potuto fare, come dissi sopra, in modo più netto e sicuro nelle corde tendinee della valvola mitrale, dove s’ inizia lo sviluppo delle verruche, e là specialmente dove queste sono piccole assai, e vi s' incomincia a depositare la fibrina negli spazi vuoti esistenti fra le papille che incominciano a sporgere dalla loro super- ficie, fig. 4. Qui, nella fibrina depositata a strati, vedonsi delle masse oblunghe orizzontali di aspetto omogeneo, che sembra provengano dalla fusione delle fibrille e nelle quali trovansi dei micrococchi che a poco a poco convertonsi in bacilli, e questi a loro volta, sporigerando, ne accrescono il numero, e così fino alla for- mazione di molte masse zoogleiche. Alla superficie del nuovo tessuto dove non si è depositata fibrina, fig. 3.* e 4.% o, se vi è, che non abbia preso Y aspetto omogeneo, non sì vedono nè bacilli nè spore, neppure una, per quanto si guardi con buono e forte obbiettivo, e l’ osservazione si ripeta in varî punti, e in pre- parati diversi. Questo fatto mostra chiaramente che l’ arrivo e sviluppo dei germi di tali microrganismi alla superficie delle verruche sia avvenuto dopo la deposizione della fibrina, quando cioè il processo neoformativo determinato dall’ endocardite reumatica era di già avanzato. Dal trovarsi poi che le neoformazioni endocardiche sui tendini della valvola sono di grado diverso, e che al depositarsi della fibrina ed alla sua metamorfosi jalina è seguito costantemente lo sviluppo in essa dei bacilli, si deduce che ha dovuto esservi una successiva e continuata disseminazione locale di germi, molti dei quali sono stati certamente trascinati dalla corrente sanguigna attraverso i varì organi e tessuti. Di questi io non ho potuto esaminare che il polmone, la milza, e i gangli linfatici peri-bronchiali e cardiaci, e non ho trovato microbi di sorta, e neppur nel polmone ve n° erano tali da rassomigliarsi a quelli delle vegetazioni endocardiche; negativo del pari è stato l esame dell’ essudato esistente sui due foglietti pericardici. Con probabilità avrei potuto riscontrarli nei reni e nel fegato; ma come ho detto, malgrado il desiderio da me espresso al proprietario, non ho potuto avere altro del cadavere. Questo sospetto, specialmente pei reni, ha la sua ragione nel fatto che essi furono trovati congesti e forse, at- tentamente esaminandoli, avrebbersi potuto vedere altre alterazioni (piccoli infarti embolici, ecc.) quantunque sulle verruche non vi esistessero apparenti discontinuità o pseudo-ulcerazioni, da poter credere sicuramente a distacco avvenuto di fram- menti fibrinosi e conseguenti embolie multiple. — 371 — NO Di fronte ai fatti clinici osservati in questo caso di endocardite, e al risultato delle ricerche anamnestiche sullo stato dell’ animale anteriormente al tempo in cui fui chiamato per visitarlo, non vi era, secondo io allora pensai, dubbio alcuno sull’ esistenza di una endocardite, e questi con tutta probabilità attribuibile a causa reumatica, considerando le artriti degli arti posteriori. Compiuto l’ esame istologico delle lesioni riscontrate nella sierosa delle cavità sinistre del cuore, nei due foglietti pericardici, nel polmone, nella milza e nelle glandole linfatiche peribronchiali e cardiache, confesso che mi è riuscito in prin- cipio difficile e poi impossibile, per l’ esistenza dei bacilli suddescritti e per la loro morfologia e ubicazione così nettamente limitata, lo accettare il concetto etiologico e patogenetico, che questa forma di endocardite vegetante, o verrucosa, o granulosa sia in ogni caso di natura infettiva, come volentieri da non pochi si è creduto dopo le osservazioni di Koster (1) e K/ebs specialmente (2) e che la produzione connettivale sia dovuta alla presenza costante di microbi speciali, de- scritti dal K/ebs come monadine, e da non pochi, ancora oggi, ritenuti come causa di malattie reumatiche. Il Klebs infatti trovò nel tessuto delle vegetazioni endocarditiche tali micrococe- chi; ma le osservazioni che il Wissokovitsch, in otto casi di endocardite granulosa, ebbe agio di fare con risultato negativo circa 1’ esistenza di microbi, e il mio caso attuale in cui i bacilli e le sporule li ho trovati dappertutto limitati nelle masse fibrinose, mi autorizzano a dubitare (sebbene alcuni casi di endocardite ve- getante possano essere stati determinati da microcchi speciali, come quello osservato da Colomiatti (3) e altro del Barte (4) ), che tutte le volte che questa forma di endocardite si riscontra, sia essa dovuta a microbi. Riguardo al fatto poi affermato dal K/ebs dell’esistenza di micrococchi nel tessuto di vegetazione, crederei che dessa potrebbe trovare spiegazione per la speciale maniera in cui si dispone ed accresce la neoformazione connettivale ge- neratasi dall’ endocardio. Invero, acerescendosi le papille vi rimane fra 1 una e l’altra uno spazio vuoto, il quale, a misura ch’ esse s’ ingrossano, va sempre più restringendosi quasi fino a divenire impercettibile verso la loro base, ma che nondimeno viene occupato dalla fibrina che man mano vi si deposita, e nella quale immigrano i germi dei microbi e si moltiplicano abbondantemente tanto da (1) Virchows Archiv. 1878. (2) Archiv. fir experimentelle Pathologie 1878. (3) Un nuovo caso di endocardite acquisita acuta ecc. Giorn. della R. Accad. di Medic. di Torino 1883. (4) Endocardite veget. infect. de la valv.- mitr. ecc. Bulletin Soc. med. des hopitaux 1886. — 372 — non potersi riconoscere la preesistenza della fibrina, la quale inoltre per la par- ticolare modificazione jalina, pur restandovi qualche traccia, non può che con molta difficoltà essere distinta dalla sostanza intercellulare del tessuto di vegetazione, purchè non si faccia uso di sostanze coloranti atte a scoprirla, e che non tingano contemporaneamente anche i microbi, pel quale scopo riesce molto utile 1’ cosina. Ora nei tagli delle verruche che vanno a colpire obbliquamente la direzione delle papille si vedono isolati nel mezzo del tessuto di granulazione tali spazi occupati da microbi, fig. 1.* mi, e si può credere che questi siansi sviluppati fra gli ele- menti connettivali, e a loro si attribuisce per conseguenza lo aver cagionato l endocardite. Qui debbo ricordare che quanti, nelle endocarditi vegetanti ulcerose, ebbero a riscontrare bacilli, streptococchi ecc., li trovarono sempre nella fibrina, e solo da pochi furono veduti nel tessuto di nuova formazione. Per queste ragioni, e più specialmente pel fatto di avere osservato ripetutamente, nei preparati microscopici eseguiti sezionando diverse parti più o meno alterate della valvola mitrale non che dei tendini di essa, che nella neoformazione connettivale, quantunque discretamente progredita, fig. 2.° 3.* e 4.°, non si trova un solo bacillo o micrococco, e che solo si vedono quando, per l’ ineguaglianza della superficie endocardica, la fibriva si deposita nei vani fra le papille che incominciano a divenire alquanto rilevate, per tutto ciò, ripeto, propenderei a dubitare dell’ origine costantemente infettiva dell’ endocardite vegetante, ed a rigettare, con Orth, Y opi- nione di varî patologi che la propugnano. L’ altro fatto di qualche importanza e che viene, secondo io credo, a rischia- rare la patogenesi dell’ endocardite ulcerosa, si è, come ho sopra detto per le verruche valvolari, il trovarsi, anche in quelle che incominciano a svilupparsi sulle corde tendinee, al disotto dello strato fibrinoso jalino superficiale e fra esso e il limite esterno del tessuto delle vegetazioni endocardiche, accumuli di globuli purulenti, di cui molti disfatti e ridotti in detritus che si distacca e disperdesi in gran parte nei preparati microscopici. Questi accumuli, fig. 1.° e 4.8. non credo siano globuli bianchi inclusi nella fibrina nel tempo in cui si è depositata alla superficie della vegetazione connettivale, ma bensì pervenuti, come chiaro appa- risce per emigrazione attraverso il connettivo neoformato, i quali determinando la fusione della fibrina ivi esistente abbiano formato quei piccoli ascessi. Se, come vedesi nella fig. 4.°, sì fosse distaccato, esfogliandosi o in altra guisa, lo strato superficiale di fibrina, il contenuto di detti ascessolini sarebbe stato messo a nudo, donde ulcere di sordido aspetto; quindi, in questo caso, con tutta probabilità, la- sciando ancora in vita l animale, avrebbersi potuto dopo la morte trovare ancora le ulcere sulle verruche, con multiple embolie in varî organi, ed aversi cosi mag- gior ragione di caratterizzare questa endocardite come vegetante-ulcerosa. Ciò non essendo accaduto, parmi nondimeno potersi, per l’ osservazione microscopica di tali raccolte purulente, ammettere la natura ulcerosa, e qui realmente vedere l'importanza etiologica del bacillo settico riscontrato. — 373 — Gli esperimenti di Rosenbdach (1), il quale praticando, per la via delle carotidi e delle jugulari, lesioni sulle valvole cardiache con istrumento perfettamente aset- tico, non vi determinava sviluppo alcuno di endocardite, ed in vece se lo strumento era inquinato di germi settici ne avveniva esfoliazione dell’ endotelio, formazione di ulcere ed anche delle vegetazioni ricoperte da colonie di bacteri, pare mostrino fondata l’ opinione che I endocardite ulcerosa non possa aver luogo, se germi di microrganismi patogeni non vi giungano col sangue circolante, e per circostanze del tutto proprie alle valvole (anfrattuosità, sfregamento, ecc.) vi si soffermino e moltiplichino, determinandovi le lesioni caratteristiche. È a questi esperimenti che il K/ebs faceva appello in sostegno della sua opinione sull’ origine microbica di tutte le endocarditi settiche e reumatiche; ed è pure a notarsi che queste due forme secondo lui possono presentare delle complicazioni di tubercolosi o di altre infezioni esistenti nell’ organismo, pel depositarsi dei relativi germi sull’ endocardio, ed inoltre che le trombosi cardiache per marasmo, e le lesioni valvolari di vecchia data possono essere invase da varie specie microbiche, quando processi infettivi vengono a svilupparsi nell’ organismo. L’ incontestata autorità dell’ illustre patologo obbliga ad accogliere e meditare una simile affermazione, e ritenerla come una guida per interpretare i varî casi in cul riscontransi anatomicamente i fatti suaccenati; per me attualmente essa è di grande importanza. Invero nella lesione ora studiata nell’ endocardio del majale, è chiaro trovarsi tutto quanto è necessario per ascriverla alla categoria delle en- docarditi reumatiche complicate da una secondaria infezione, che a me pare doversi, nel caso attuale, riferire alle settiche. La forma clinica presentata dall’ animale nel primo manifestarsi della malattia giustifica l’ origine reumatica dell’ endocardite; il sopraggiungere di nuova febbre dopo 25 giorni, quando era nel periodo della convalescenza, dovrebbe essere stata la manifestazione delle conseguenze per la infezione settica sopravvenuta come complicazione dell’ endocardite reumatica. Così semplicemente considerati i fatti clinici ed anatomici, parrebbe veramente potersi acquietare in tale giudizio; ma non credo doversi trascurare due circostanze circa il luogo e il tempo dell’ alterazione settica, e la mancanza assoluta della monade reumatica nel tessuto delle vegetazioni endocardiche. Rispetto a questa mancanza parmi non dovere ulteriormente insistere per dimostrare l’ origine non microbica delle lesioni osservate nel cuore; mi fermerò invece a considerare l’im- portanza della presenza del bacillo settico qual causa possibile dell’ ulcerazione, per cui l’ endocardite in quistione avrebbe certamente assunto il doppio qualifi- cativo di vegetante-ulcerosa anche macroscopicamente considerata, come la è fuor di ogni dubbio per l’ osservazione microscopica. (1) Ueber artificielle Herzlappenfehler. Archiv. fur experimentelle Pathologie. Bd. IX, Heft 1 et 2. 1878. È — 374 — E prima di tutto, il tempo da quando tali germi siansi depositati sul coagulo fibrinoso ed abbiano progredito nella loro moltiplicazione. Osservando le incipienti alterazioni neoplastiche sui tendini valvolari, si nota subito la notevole differenza che esiste fra le parti libere delle loro superficie e quelle su cui trovasi depo- sitata la fibrina, formando uno strato compatto e jalino, al quale è sovrapposto uno più sottile, meno denso e fibrillare; ed inoltre che al disotto del primo esistono spazi piccoli occupati da cumuli di corpuscoli purulenti, a cui fa seguito il tessuto connettivo nettamente distinto, mentre nel rimanente nulla di questo si osserva. Nei preparati tinti col metodo di Gram, la fibrina già divenuta jalina è piena zeppa di bacilli, i quali o non esistono affatto nello strato superficiale fi- brillare o in piccolissimo numero e solo in forma di micrococchi, come si trovano pure scarsissimi nelle prime tracce di fibrina che si è depositata alla libera su- perficie del connettivo neoformato. Questi fatti stanno, secondo me, a provare che l’ infezione locale è stata successiva a misura che le condizioni opportune allo sviluppo e moltiplicazione dei germi settici (deposizione di fibrina, e sua modifi- cazione) si verificavano. Nello stadio in cui io ebbi ad osservare le lesioni endocardiche, la diversità di numero e di diffusione dei microbi, che fanno ammettere di necessità la ripe- tuta infezione locale, possono spiegarsi per una disseminazione dalle parti infette sulla fibrina coagulata, o per una successiva deposizione di germi esistenti nel sangue. Nell’ un modo o nell’ altro che sin avvenuta io non voglio discutere, per non entrare nella quistione tanto dibattuta della esistenza di germi patogeni nel sangue allo stato normale. È precisamente ad evitare questo scoglio (tantoppiù che io non osservai l’ animale prima della recidiva febbrile, e quando lo vidi non mostrava nè gonfiezza delle articolazioni, nè lesioni traumatiche esterne) che dovendo pure ammettere la penetrazione dei germi settici riscontrati sulle ve- getazioni endocardiche, mi arresterò alla supposizione che essi siano penetrati dall’ intestino nel sangue, appoggiandomi all’ opinione del Juccoud circa 1’ origine delle cause dell’ endocardite ulcerosa primitiva (1), ed alle osservazioni di Neffer e Martha che hanno trovata l’ endocardite ulcerosa complicare la litiasi biliare, il cancro del fegato e della testa del pancreas (2). Propendo poi a credere che la penetrazione, l’ arrivo e lo sviluppo di tali germi sulle vegetazioni endocardiche siano avvenuti prima dei quattro giorni antecedenti alla mia visita, di quando cioè si manifestò la febbre con cessazione dello appetito, considerando le estese e profonde modificazioni del coagulo fibrinoso, per le quali probabilmente entrarono in circolo materiali degenerati e bacilli, e da essi fu svegliata la febbre. Potrebbesi anche supporre essere avvenuta la penetrazione dei germi settici (1) Legons de clinique médicale. Tome 3.° Paris 1887. (2) De l’ endocardite vegetante ulcereuse dans les affections des voies biliares. Archiv. de phy- siolog. 1886. — 375 — per la via polmonare; ma l’ esame bacteriologico negativo me ne ha fatto dubi- tare. Eziandio la febbre potrebbe credersi conseguenza delle lesioni nel polmone riscontrate, quantunque esse, più edematose che flogistiche, e le parziali e loca- lizzate cirrosi trovino la loro ragione nell’ ostacolo grave circolatorio per la stenosi dell’ ostio auricolo-ventricolare sinistro. Come ognun vede è questa una condizione molto intricata da potersi risolvere in modo anche probabile, e quindi a me basta di avere accennato a queste ipotesi appena possibili. Con maggiore certezza però io credo potersi dimostrare la potenza patogene- tica ulcerativa di tali microbi, e i fatti microscopicamente raccolti dai pezzi pato- logici, tanto dal lato delle istologiche alterazioni che della sede dei bacilli, sono, se mal non mi appongo, sufficienti a ciò fare. Risulterà ancora chiaramente quanto sia necessario nello studio anatomico e particolarmente istologico di un organo ammalato, il ricercare con minuto e paziente esame i diversi gradi, dai più leggeri ai più avanzati, della lesione da cui è affetto, essendo questo il solo modo di poterne intendere la genesi e lo sviluppo, quando specialmente non si possiede che un solo esemplare, come nel mio caso, e che non si possono istituire opportune ed accurate esperienze. L’ esistenza di ascessi alle base delle papille, e mancanza all’ apice loro, in- dicano chiaramente che l’ulcerazione delle neoproduzioni endocarditiche è attri- buibile ad un processo infettivo secondario, indipendente affatto dalla condizione reumatica che a quelle diede origine, e di natura settica, il quale, dove vi ha abbondanza di vasi sanguigni, ha determinato tale accorrimento di leucociti da dar luogo ad ascessi, che per degenerazione caseosa si sarebbero trasformati in ulcere sordide, e dove i vasi mancano o vi sono in numero esiguo, a morti- ficazione del tessuto. Questa endocardite vegetante, adunque, è divenuta ulcerosa per l’ azione infettiva locale spiegata da un bacillo che forse potrebbe essere simile, se non uguale a quello osservato da Frénkel e Langer (1) in un caso di endocardite ulcerosa dell’ uomo, e che inoculato produsse infezione nel sorcio, nel coniglio e nella cobaja, appunto perchè, come ho detto, è molto simigliante al bacillo della setticemia del topo. Dall’ affermazione di Weichselbaum (2) che Y° endocardite ulcerosa, riconoscendo molte cause come hanno pur fatto notare Ort e Wissokowitsch (3), non possa essere generata che da certe forme microbiche, sarei autorizzato concludere che il bacillo da me trovato, e creduto abile a produrre ulcerazione, può riferirsi ad una di quelle forme, quantunque l’ A. abbia trovato più spesso lo Staphylococcus piogenus associato qualche volta allo Sf. aureus e St. albus. A dive il vero però io non tengo ad attribuire la potenza ulcerativa a questa piuttosto che a quella (1) Untersuchungen iiber die Etiologie der Endocarditis. Centralblatt fiur Klin. Med. N. 84 1886. (2) Zur Aetiologie der acuten Endocarditis. Wien 1885. (8) Beitrige zur Lehre von den acuten Endocarditis. Centralblatt fur die med. Wissensch. 1885. — 376 — forma di microbi, poichè non ci veggo specificità alcuna, e poter così introdurre altra distinzione, sotto il rapporto etiologico, dell’ endocardite acuta, oltre quella già ammessa dal Klebs, e quasi generalmente accettata, di E. reumatica e settica. Mi basta il potere stabilire che in questo caso di endocardite reumatica, primi- tivamente vegetante o papillare, nel porco, si ebbe un’ ulcerazione, secondaria ad infezione locale determinata da un bacillo settico. Riferendomi poi alle numerose osservazioni fatte da altri, dalle quali risulta la molteplice varietà dei microbi trovati, e riscontrati mercè esperimenti quali tante cause di endocardite ulcerosa, credo potersi con sicurezza affermare, con- venendo con Weichselbaum ed altri, essere molteplice il numero delle malattie infettive colle quali può complicarsi 1’ endocardite ulcerosa. Se non che a me pare che la potenza specifica dei microbi, ritenuti come causa diretta e primitiva di endocardite, non si possa accettare per la forma reumatica di questa malattia, come affermarono il Klebs e il Koster, e si debba invece, come ho sopra detto, ammettere che una secondaria infezione locale determini il processo ulcerativo nelle vegetazioni papillari primitivamente sviluppatesi. Valutando gli esperimenti di Rosendach e di Wissokowitsch, dai quali risulta che l’ endocardite non si può artificialmente produrre coll’ injezione per le carotidi o per le jugulari di colture di microbi, senza una precedente lesione valvolare praticata mercè una sonda introdotta per le stesse vie; tenendo ancora presenti le osservazioni di Netter (1) per le quali ha concluso, circa lo sviluppo naturale del- l’ endocardite vegetante ulcerosa consecutiva a pneumonite e determinata dallo pneumococco, che questo cioè si ferma ed attecchisce sulle valvole del cuore negl’ individui indeboliti da precedenti malattie febbrili, ed in quelli che hanno una lesione cardiaca anteriore, non mi parrebbe, dico, di poter così senz’ altro attribuire lo sviluppo dell’ endocardite solo all’ influenza etiologica di tanta varietà di microbi. Invece crederei di potere affermare che, nel maggior numero dei casi, la preesi- sistenza di lesioni dell’ endocardio, le quali danno luogo a produzioni neoplastiche, di cui gli elementi siano dotati di poca resistenza per condizioni locali di difettosa nutrizione (poca vascolarità delle vegetazioni), o a prodotti morbosi di altra natura; o la deposizione di fibrina, la quale può avvenire per marasmo senza precedenti lesioni dell’ endocardio, offrano le condizioni fisico-meccaniche pel soffermarsi dei microbi e un terreno opportuno pel loro ulteriore sviluppo, donde il processo ulcerativo. Non contraddico con ciò alla possibile produzione dell’ endocardite ulcerosa primitiva, sapendo da quanto riferisce l’ HaMlopeau (2) che al Ribbert è riuscito di produrla sperimentalmente senza precedente lesione dell’ endocardio, e che il Jaccoud ha potuto verificare essersi la malattia in due individui sviluppata primitivamente. Ma se si pensa alle tante circostanze che possono venire a com- (1) De l’ endocardite vegetante ulcéreuse d’ origine pneumonique. Arch. de phys. 1886. (2) Pathologie générale. Paris 1887. — 377 — plicare un esperimento pel quale s' injettano sostanze estranee nel sangue, non che alla gran difficoltà di diagnosticare le lievi affezioni endocardiche che non interessano le valvole, e alle svariate condizioni etiologiche, il più delle volte non rilevabili, che dan luogo a lesioni in seguito a cui si sviluppano gravi endocarditi, sì può benissimo sospettare come nell’ un caso e nell’ altro possano esservi preesistite, o state create alterazioni facili a prodursi su di una membrana così delicata, le qua. per quanto piccole e direi quasi incalcolabili, posson pure determinarvi una predisposizione locale sufficiente per l’ attecchimento e sviluppo di microrganismi che debbonsi in ogni modo ritenere causa del processo ulcerativo. Stabilita così la reale importanza del bacillo settico per la produzione secondaria dell’ ulcera nell’ endocardite reumatica vegetante, e ciò in seguito all’ interpre- tazione patogenetica dei vari fatti clinici ed anatomici bene accertati, dovrei ora dire qualche poco sulla eziologia e patogenesi della neoplasia endocarditica dopo avere esclusa, o per lo meno messa in dubbio la sua origine infettiva o microbica. Ognun sa quant’ è oscuro e scabroso un tale argomento; e-le risultanze con- traddittorie alle quali sono arrivati coloro che lo trattarono, sono sufficienti a darne ragione e a persuadere che uno studio sperimentale, ben diretto e scrupolosamente eseguito, potrà forse essere l’ unico mezzo per giungere a qualche nozione positiva. Non credo però inutile una breve riflessione in proposito. Non solo io, ma anche il Roth ebbe ad osservare, come uno dei sintomi più salienti della poliartrite reumatica del porco, sia un rossore diffuso alla pelle (porpora reumatica) dovuto indubbiamente ad emorragia. Coll’ osservazione microscopica io ho inoltre trovato infiltrazioni emorragiche nel tessuto fibroso della valvola mitrale, più estese alla base delle verruche, là dove esistevano in maggior quantità i vasi sanguigni. La peliosi o porpora reumatica osservata frequentemente nell’ uomo, e lo speciale andamento delle forme cliniche in cui essa fu trovata, parvero a molti essere ragioni sufficienti per ammettere senz’ altro la natura infettiva delle affezioni reumatiche, contraddette vigorosamente da altri clinici e patologi. A questo riguardo mi par bene accennare a quanto affermò l’ Hayem (1), in seguito di molte osservazioni sul sangue di febbricitanti, e cioè, che la febbre reumatica è accompagnata da un aumento di fibrina nel sangue. L’ Orion (2) pure ascrisse la porpora emorragica a quel gruppo che riconosce la sua origine esclu- siva nelle alterazioni dei vasi e specialmente dei capillari, trattandosi di multiple embolie, o paralisi. o eccitazioni vaso-motorie ecc., e concluse che la porpora vascolare si riferisce in una mariera particolare alla diatesi reumatica. (1) Du diagnostic du Rhumatisme au moyen de l’ examen du Sang. Soc. med. des hopitaux 1886. (2) Des lesions des arteres dans la purpura hemoragique rhumatismale et des rapports de purpura avec le rhumatisme. Thése de Paris 1877. Revue des Sciences Medic. Tom. XVI Paris 1880. TOMO X. 48 — 378 — Questi fatti verrebbero in certo modo ad appoggiare la teoria chimica, o di- scrasica e la nervosa vaso-motoria per la patogenesi del reumatismo. Ho istituito all’ uopo alcune ricerche sperimentali, di cui, ottenendo qualche risultato soddi- sfacente, renderò conto a questa Illustre Accademia. Intanto, tacendomi per ora sulle cause presunte e sul loro modo di agire per lo sviluppo dell’ endocardite reumatica dirò, in breve conclusione, che l’ ulcerazione in questo caso è stata secondaria e determinata da un bacillo settico. Rispetto poi all’ origine o provenienza di questo microrganismo, nulla posso affermare di certo; e per questo come per l’ efficienza patogenetica ulcerativa dei diversi microbi da altri osservatori riscontrati, chiudo questo mio scritto con una generale affermazione del Jaccoud, la quale rischiara alquanto l intricata quistione etiologica dell’ endo- cardite ulcerosa; e cioè, che allato aî microbi patogeni specifici vi ha luogo ad am- mettere dei microbi patogeni indifferenti, la di cui azione nociva si traduce nell'uomo — e negli animali — con effetti dissimili, variabili a seconda delle organiche predispo- sizioni, di maniera che a ciascuno di questi microbi corrispondono molte malattie distinte. I ORE SPIEGAZIONE DELLE TAVOLE Fig. 1.° Sezione perpendicolare di verruca endocarditica, sviluppatasi sulla faccia auricolare della valvola mitrale. Ing. 15 v. n, Neoplasia connettiva sviluppata per proliferazione degli elementi del tessuto endocardico sulla faccia ventricolare della valvola. v, Tessuto proprio della valvola. up, Neoplasia papillare connettiva sulla faccia auricolare della valvola percorsa alla sua base da numerosi vasi sanguigni. il, Infiltrazione abbondante di leucociti. p, Papille della neoplasia connettiva. rp, Raccolte purulente alla base delle papille. mf, Masse fibrinose infarcite di numerosissimi bacilli. mi, Masse fibrinose incluse nel connettivo neoformato, contenenti bacilli, ps, Estremità di una papilla connettivale che ha sorpassato le masse fibrinose. b, Bacilli settici. Fig. 2.° Sezione perpendicolare di verruca endocarditica a superficie quasi piana. Tinp3.0%v: Le lettere indicano le stesse parti che ecenella figura prdente. tn, Strato superficiale del tessuto connettivo neoformato , necrotico e in parte distaccato. Fig. 3.* Sezione trasversa di due sottili corde tendinee della valvola mitrale con ingrossamento endocardico, onde n’ è avvenuto il loro saldamento in basso. Ingr. 30 v. ct, Corde tendinee. ei, Endocardio ingrossato. mf, Massa fibrinosa depositata nello spazio rimasto fra Ile due corde ingros- sate, e saldate come quelle della fig. precedente. Ingr. 45 v. Fig. 4.° Sezione trasversa di due corde tendinee ingrossate e saldate fra loro come quelle della figura precedente. Ingr. 45 v. Le lettere indicano le stesse parti. rp, Raccolte purulente sotto-fibrinose. Fig. 5.° Sezione trasversa di tendine della valvola mitrale. Mostra ad un ingran- dimento di 380 v. una piccola parte dell’ endocardio ingrossato e coperto da masse fibrinose disseminate di bacilli. Kino i j LA) > a È i S = o i pinne RI Lelio. ) p i : i n ir À n SL ERI dl îi dl POI si | loi i.,% do QUE 4 Ù LI ig i . 1 iL Mei ‘o rs AA I È TRCoa TEA IE DI VENA SERE INI DINÈ o A PR Ni mi Li a EA} \f Pa I but di ki MAZILI LI AR 473 n } cà L'EURO = È p s n I E Ca Peri o 4 È FARE ai liu padri ; , y (i? de A tarn. BISIRI MIRI I ] CET ty prat. ali [| UR la 1% î MEDA) i Ù CGA 24 RIA ie RED FIAT Mi uh vi&ioniuza i È < i SS RAI TIZI spesa i Ò 7 9 - ì prrhia POLANAES (PARE CIASd o MERI DEI FIATO VI: lati Wi # ian pat a 1 A : a AA NOBIS dossi fina di seal silrig Mo Dad 1 frtalogeià i b 9 i Labaa 0) l'atiei ( pi } x MCT HLA 4 k f SPIA Thi | Ù C 2h, Pla £494* ta. SUE di n DI MEOLO tai gi J - = 4 f pied prat a Va > ì È LO) bi f i É 7 Ùl î \ f LU 7 "BERT Ì ì bi y ] iv = 1i41t6s: hi tg I° t Ma *% RRogentià Sans al ISS i f x Mitzacp Bepi ATI È Yi È si | 7 spa Ai dini i i Ò sir pagt al | $ N I 1171 ) A 9) 5 6) N; dr 7 no r È } o STR È, { S x (ENNIO: Mi diri i e ra er) GH mi Pat vada wi PR (AT, è USE, ì Mt) $ pt Patt I PROda An Has I FLUTC IVES i pe ia $ Si - È 69. Li Lutti trugi ti al'‘'ogaziagi ineratontia. RIA hepal ert tti DI ENTRA ( | 3 ì Lia, dara - t Di} sede otel velentas Attofi elisa 1h Gabeoveni sii li: È MICA NE: IO RR RIONE RIDE odiati. Pa ; i Mad ih'asgitiripaui nedbtlutà ssa ab A SÌ ì n < Dl si ha Ù : A C- 2 ) ì n N / ” Î Ò =, x T "ui : n Na? (VI Mem. Ser IV Vol X. V. Colucci, dis? dal vero — A. Baraldini, lit. ai VW Colucoi. Fig. 9. RNA nigi gi lit.G. Wenk e Figli Bologna. 5) TE i di ul nr, METODO TERZO PER ISCOPRIRE PIÙ SPEDITAMENTE CHE COGLI ALTRI METODI E CON MINORE SPESA GL'ISTANTI DEL NASCERE E DEL TRAMONTARE DELLA LUNA A BOLOGNA E CON UN’ UNICA GRANDE TAVOLA MEMORIA del Prof. Cav. ANTONIO SAPORETTI (Letta nella 2% Sessione, il 24 Novembre 1889). Senza dire se fu opportuna cosa il togliere agli astronomi della ora Regia Università i mezzi per formare e per dare alla stampa le Effemeridi Celesti, come a Londra, a Berlino, a Parigi ed in tanti altri luoghi dei due mondi, egli è cosa certa che quei mezzi non erano sufficienti alla formazione di tali Effemeridi, se si desidera che elle riescano, se non migliori e di maggior mole di quelle delle altre nazioni, almeno alla pari. Nè qui è a dirsi se necessario sia od almeno utile od opportuno che si stabilisca dalla nazione dove debba sorgere un grande Osservatorio, ove sia dato di eseguire tutto quanto e più, che altri grandi Osservatorî fanno o tentano. Dovendo noi stare, (e ciò accadde fin dal 1844 in cui ebbero fine le pubbli- cazioni delle felsinee celesti effemeridi), dovendo noi stare nelle condizioni, in cui il tempo e gli uomini ridussero il nostro Osservatorio Astronomico e Meteorologico, io mi diedi fin dal 1877, in cui fui mosso a contemplare l’ empireo cielo, a far sì che le operazioni di mente e di mano sì mostrassero brevi e chiare. Ora dirò come nel 1879 analizzando quanto veniva eseguito dagli astronomi pratici o teorici, che furono i Caturegli, i Ceschi, i Piani in questo nostro Osser- vatorio, diedi alle stampe, cioè lessi al 18 Dicembre 1879 nella nostra Regia Accademia delle Scienze, una prima Memoria sul nascere e tramontare della Luna. Se non che questa Memoria si riferiva a quei casi in cui gli astronomi bramano od hanno necessità di ottenere il più che sia possibile la massima approssimazione al vero. Ed in questa Memoria trattai la quistione con l’aiuto di tutte e tre le Effemeridi Celesti suddette, di Londra, di Berlino, di Parigi, o piuttosto mostrando come ora con l'una ora con l’altra si giungesse più 0 meno rapidamente al fine proposto. — 382 — Nel 1883 al 20 gennaio lessi in questa R. Accademia un’ altra Memoria sul nascere e tramontare della Luna, esponendo un Metodo Speciale per ottenere speditamente gl’ istanti del nascere e tramontare della Luna, ma solamente per Bologna. Sollecitato ad estendere questo mio metodo anche ai vari luoghi almeno di tutta l’Italia, lessi nel 1885 al 13 dicembre un'altra Memoria su questo argo- mento. In tutti e due questi metodi io feci uso soltanto dele Effemeridi Celesti di Berlino, il perchè secondo le ricerche e le indagini, che in questi anni mi fu dato di fare, a me parve che solamente le Effemeridi di Berlino fossero opportune per ottenere speditamente gl’istanti del nascere e del tramontare della Luna. Da vario tempo io andava meco medesimo pensando, se pure si trovasse modo di giovarmi piuttosto delle Effemeridi Celesti di Parigi, di poco costo a fronte delle Effemeridi di Berlino, purchè giungessi ad ottenere gl’istanti del nascere e del tramontare della Luna vuoi per Bologna, vuoi pei vari luoghi d’ Italia, con mag- giore od almeno pari rapidità. A questo fine mi diedi con un po’ di pazienza a paragonare i molteplici risultamenti delle Effemeridi Bolognesi del Manfredi, del Caturegli e degli altri astronomi bolognesi con quelle di Parigi, ma quasi mi impediva di muovere il passo l’ Aureo Numero di Metone, il quale con secolari osservazioni s° accorse che i moti della Luna variano da 19 in 19 anni giuliani o veramente ad ‘ogni periodo di 6939 giorni e 18 ore (medie) si rinnovellano. Nullameno io intrapresi questa qualsiasi fatica fin dal 1887 ed osservando che le Effemeridi Celesti di un luogo (Bologna) differiscono da quelle di un altro (Parigi) per due elementi e cioè per le così dette Ascensioni Rette e Declinazioni, come chi dicesse per gli allontanamenti o ravvicinamenti che subisce la Luna rispetto al suo modo apparente attorno all’ asse del Mondo e rispetto al suo acco- starsi o discostarsi dal Polo, impresi a formare le 19 tavole con questi due argo- menti, prendendo a percorrere le due Effemeridi, di Bologna e di Parigi, pel periodo di 19 anni, dal 1824 al 1843, periodo unico di osservazioni, paragonabili fra Bologna e Parigi. Ma pur troppo la buona volontà fece sosta, chè dopo di avere ottenute alcune tavole a forma parabolica, mi accorsi che queste assai differivano dall’ uno all’altro anno di guisa tale da abbattere qualsiasi volontà, dovendosi non solo paragonare i fatti per ciascun giorno dei 19 annui, ma sistemare poi le 19 tavole paraboliche, il che era impossibile con un solo periodo di 19 anni. Abbandonai adunque una tale indagine servendomene soltanto per la formazione delle tavole del nascere e del tramontare della Luna per l’anno 1889. Ora nell’ anno 1889 stesso, sia perchè la mente al desiderio di quella meta correva, sia perchè io pure desiderava di dare un Metodo, fondato sulle Effemeridi Celesti Parigine prima del 17 novembre, in cui potessi leggere in questa nostra R. Accademia qualche cosa che di nuovo apparisse, così meco medesimo ragionai. — 383 — Se rispetto a Parigi ed a Bologna la Luna in un qualsiasi giorno si trovasse nelle stesse condizioni di tempo del nascere e del tramontare, in cui in un altro qualsiasi giorno si trovava, anche ben diverso del periodo superiormente accennato dal 1824 al 1843, certa cosa a me sembrava che dalle Effemeridi Parigine degli anni avvenire si dovessero con una abbastanza grande approssimazione ricavare gl’ istanti del nascere e del tramontare della Luna, almeno per Bologna, chè rispetto ai vari paesi d’Italia per ora non posi mente. E qui pure il periodo di Metone mi teneva alquanto incerto e dubbioso. Datomi all’ opera mi accorsi che non era necessario di fare il paragone dei tempi per ogni giorno dei 19 anni, ma che fatto un tale paragone per un certo numero di giorni, ogni altro paragone coincideva con uno di questi. In tale maniera mi venne dato di formare la tavola qui unita, e di cui insegno qui appresso l’ uso, uso che io ritengo essere il più breve e chiaro e facile da eseguirsi da qualsiasi, sufficientemente istruito nell’ Astronomia Teorica e Pratica. SPIEGAZIONE 1. Consideriamo il giorno p. e. del 30 luglio 1840: si trova alla pag. 41 della Connaissance des Temps per questo giorno sull’ orizzonte dell’ Osservatorio Parigino, Il nascere della Luna a tempo medio di Parigi a 6°°.19", mattina vale a dire a 6 ore e 19 minuti dopo la mezzanotte del 29 al 30; Il passaggio al meridiano (Superiore) di Parigi a 1°°.34", sera od anche a 1309.3945 dopo la suddetta mezzanotte; Il tramonto a 8°2.29%, sera del 30 — 384 — o veramente a 200,99 dopo la stessa suddetta mezzanotte. Da qui le differenze fra il passaggio ed il nascere e fra il tramonto ed il passaggio medesimo e cioè Diff.* 1°.... Passag. — Nascere = 7°°.15P Diff.* 2°.... Tram. — Passag. = 6°°.55" indicandole con Differenza Prima e Differenza Seconda per usare convenientemente della Tavola Unica, qui unita. Eutrisi adunque nella suddetta Tavola e si trova nella parte pel Nascere coi due argomenti Diff e Diff 123 il numero.... + T®.... e pel Tramonto coi due medesimi argomenti dm è .. da cui si deduce Il Nascere della Luna per l’ Osservatorio di Bologna a tempo medio a il numero.... — 6e°.19" + 7° = 6°°26", mattina del 30 luglio 1840, od anche a J:802:268 a tempo medio astronomico del giorno 29; Il Tramonto della Luna per Bologna è a tempo medio, come sopra a gr°29% — 8% — 8%°,21%, sera del 30, — 385 — oppure a 20°°.21% del 30 a tempo medio astronomico. Osservando le- Effemeridi Celesti Bolognesi del 1840 si vede essere Il Nascere della Luna a 18°°925®” del 29 a tempo medio astronomico di Bologna; Il Tramonto della Luna a 8°%°.22”, sera del 30. x Si vede pertanto che minima è la differenza fra i risultamenti, dati dalle Effemeridi Celesti Bolognesi, e quelli ricavati con questo mio metodo, non raggiun- gendo questa differenza appena ad un minuto primo. 2. Per un secondo caso si prenda a considerare il giorno 9 marzo 1838 e si legge nella pag. 39 dell’ anno 1838 delle Effemeridi Celesti della Connaissance des Temps, i Il nascere della Luna a tempo medio di Parigi a 399 sera delti9:: Il passaggio della Luna a TEAl9e e sera/tdelt9rre Il tramonto della Luna a 18:21 sera ‘del 9 o piuttosto a CE matteo. Da questi dati si ricava Diff.* 1°.... Passag. — Nascere = 7®°.20" Dif.e98... Tram! i —Passap.i=170020, TOMO X. 49 — 386 — Da qui entrando nella Tavola suddetta si trova pel Nascere La correzione + 8" e pel Tramonto La correzione — 8". Da queste correzioni si ricava per Bologna a tempo medio Il nascere della Luna a SUORE Me sera i del09 e Il tramonto della Luna a 180e,9]1m — gn — 18.132 sera del 9 0) 0 a 6°°.13", mattina del 10. Osservando finalmente le Effemeridi Celesti dell’ anno 1838 si vede essere stato calcolato Il nascere a.... 4°°.7%, sera del 9 e Il tramonto a.... 18®°.14", sera del 9. quasi del tutte identicamente ai ricavati con questo terzo metodo, usando sempli- ‘cemente le Effemeridi Celesti della Connaissance des Temps oppure anche il semplice » Annuaire publié par le bureau des Longitudes.... Paris ,. ECCONE LA REGOLA Per ciascun giorno dell’anno si scrivano in colonne verticali, tanto il Nascere che il Passaggio ed il Tramonto della Luna; si formino le differenze 1°, fra cioè il tempo del Passaggio ed il nascere e le differenze 2° cioè fra il Tramonto ed il Passaggio. Con queste differenze si entri nella tavola qui unita e con esse si deter- — 387 — minano le correzioni. Con queste correzioni, applicata la prima all’ istante del Nascere, ed applicata la seconda all’ istante del Tramonto della Luna a tempo medio di Parigi, come ben si è veduto, si dedurrà rapidamente tanto il nascere che il tramonto della Luna a Bologna e a tempo medio di Bologna. Per ridurre a tempo medio di Roma fa d’'uopo aggiungere 4".32° a tutti i risultati, essendo il meridiano di Bologna da quello di Roma distante di 4".32°, ed essendo Bologna all’ Ovest di Roma. e’ toda E O DS nE (ua 9A Saga n è (3 dar ( ” FA pate 0% Tomb ul $ > big dle > saio TERRI n lic nnnoi [E Tn (fo |sa10|+50]55/0] 3 [ra|1s|20|2a]90|go|k0|#5150|55|0 | [10[15|20|ea]s0|55[40|#5|50/Di | | |30{950 e #5|50|55| 0.| 5. |10}15|20]25]50}: Ga|t0, 6 al : E Ì T pr] aj(SIE [IC Ra i i 2121/2028 /2520] I Pi fi adi Ju julia ae di Na EDEL NALI (pe: | x Ci 9 FI La 2: Ja Dil est Li | pi]? (|__| 126|25]25[24|24|23|28 I Ri 3; Hi |_[C.|_|_[26[e5|25|2+/24]2g|eal2al! AID pa lisinzionI CES 2 si dario: RAEE 2i Ria E 55 Ile. DAI Leloa 1|20 | Î [oa Ì 21|20]20) | | | Coal 20|20/19|1% | 5 | Folco , LSRT | 2 VRAVCAVIDI TI 5 |lolls|20 ICE 1o|te|bto| | |_po[_|C 80 I Ti n) Ma MIL FcRE | is | NICE J | | AU ZIE î pl | 55|_| in | i 3 E ] _|ao| Injto|10 E ni p | | dI Li|ro|tajio le | ee Ha ti|io]io|9|9 | | i Li IERI dl = - ì dò TO rv] 6 J 1 DIDO VS ES MICI (DIE I 4 SO I] 35|40 rolts|zo JE | | so] | 6) [11] | JE LAI EA I 10 | JDIDE | Ho |C IE 20 25 21] Go Ali 95 3 i|ijo|a i 2|\2| | Kjo| oo 5: 2i| 1 LL |O 00.1 ij n|o|o|t{1|2 rjo mio |o|tre a o|ga|to[#s|s0|aa| 0] 5 [to|1s o|o rjojo|r|i|2 CRE scià] oli o|1|t|2|2 1 Toi ali +]ija]2 de i i in î H 021 i |20|21 Lo|ed 20|21 20|21 [_ [to [ei NE j t |es|26]ez|28 Ps|26|27|28 [25|26|23|20|. pi 10 Si20 Lo|1a]zo|25]80|35|t0|t5]50] n SULLA TRASFORMAZIONE DEI PIRROLI NELLE DIOSSIME DEI y-DICHETONI CORRISPONDENTI MEMORIA DI GIACOMO CIAMICIAN e CARLO UMBERTO ZANETTI (Letta nella Seduta del 12 Gennaio 1890). In questi ultimi anni è stata largamente studiata una reazione, che può dirsi caratteristica per i dichetoni, che contengono i due gruppi carbonilici in posizione y. Tutte queste sostanze, che si possono rappresentare con la formola generale : EÈ'-CO-CHT—CH— CO. E", Br RR” in cui £', E", E" ed E" rappresentano diversi radicali organici monovalenti, ven- gono trasformate, più o meno facilmente, dall’ ammoniaca, dalle ammine primarie e da altri composti amidati in derivati del pirrolo. — La reazione può essere rap- presentata in generale dalla seguente equazione : he R' R" .CH— C0 IR o=@ Î + NH,R'=2H,0+ Î > SR E"“.CH — CO RC RB* RR" e si può spiegare, ammettendo che il composto dichetonico, agendo sull’ ammoniaca — 390 — o sopra i suoi derivati primari, prenda la forma desmotropica ossidrilica : È DICA CIOH | R".C= C.0H R” e dia poi per eliminazione di due molecole d’ acqua il derivato pirrolico. Questa interpretazione è forse più probabile dell altra, secondo la quale il dichetone da- rebbe per addizione il composto : È R°.CH—C.0H > NR, R".CHT— C-0H RR” il quale poi per spontanea disidratazione si trasformerebbe ugualmente nel pirrolo corrispondente. Noi citeremo qui come esempio, per ragioni che emergeranno in seguito, la trasformazione dell’acetonilacetone, in aa'-dimetilpirrolo per azione dell’ ammoniaca alcoolica. La reazione si compie facilmente nel modo indicato dalla seguente uguaglianza : CH, CH, CH, — CO CHET; | + NH,=2H,0+ | SAVI CH, — CO CH=C CH, CI, Applicando questa reazione ai diversi y-dichteoni ‘ed impiegando i più svariati composti amidati, sì è ottenuta una serie di derivati pirrolici, senza però potere arrivare, con questo modo di sintesi, direttamente al pirrolo, perchè il dichetone — 391 — corrispondente, che non è altro che l’ aldeide succinica, da cui si dovrebbe partire : H CH,— 00 AI H non è ancora conosciuto. A questo punto stavano le cose quando, l’ anno scorso, incominciammo lo studio di una singolare sostanza, che Ciamician e Dennstedt aveano ottenuto molti anni or sono, bollendo il pirrolo con una soluzione alcoolica, alcalina di idrossilammina. Questo composto, bianco, cristallino, fusibile a 173°, ha la formola empirica : C,H,N,0,, che è quella della diossima dell’ aldeide succinica. La sua formazione può rappre- sentarsi con la seguente equazione : C,B,NH +2NH,0H= NH, + C,H,N,0,, 2 perchè realmente durante il processo si svolge ammoniaca. Cercando di dare una spiegazione a questa strana metamorfosi, ci sembrò subito degna d’ essere sottoposta a prove sperimentali la supposizione, che la pirrolidros- silammina (così venne chiamato, in via provvisoria, il composto in questione) potesse essere realmente la diossima dell’ aldeide succinica. La reazione sarebbe in tale caso da rappresentarsi nel seguente modo : fra il pirrolo e 1’ idrossilammina seguirebbe, in una prima fase del processo, una doppia decomposizione, con for- mazione d’ ammoniaca e di un composto, probabilmente instabile : H CH= CH NH,0H CH=CH-N- OH | > NH+ = NH, + | CH=—CH NH,0H CH=CH-N-0H, H — 392 — il quale passerebbe subito alla forma desmotropica stabile : CH, — CH: N- 0H | i CH, — CH:N-0H, dando origine alla diossima dell’ aldeide succinica, finora non conosciuta. Come ognuno vede, tale reazione è in certo modo opposta a quella della am- moniaca sui dichetoni, e presenta da questo lato un notevole interesse. Noi cer- cammo perciò di determinare la costituzione della pirrolidrossilammina e fummo assai lieti di trovare, fino dalle prime esperienze, che i fatti s° accordavano con le nostre previsioni. Riducendo la pirrolidrossilammina col metodo di Ladenburg, cioè con sodio metallico in soluzione di alcool assoluto, si ottiene un’ alcaloide perfettamente iden- tico alla fetrametilendiammina, preparata per la prima volta dal Ladenburg e chia- mata anche putrescina dal Brieger, che la scoprì fra gli alcaloidi della putrefazione. La tetrametilendiammina ha senza dubbio la costituzione CH, — CH, - NH, | CH, — CH,-NH,, e la sua formazione, nel nostro caso, si spiega facilmente, se si ammette che la pirrolidrossilammina contenga una catena di atomi disposti nel seguente modo : N-C-C_-l0-C0- N. Questo fatto sebbene di grande valore, non è però sufficiente per stabilire in modo sicuro la natura chimica del composto ottenuto del pirrolo; quest’ ultimo presenta, è vero, i caratteri delle ossime, ma questi non sono sufficienti per risolvere definitivamente il problema. Le diossime dei dichetoni della serie alifatica, sono inoltre in genere, ancora poco note, e quasi nulla si sa intorno al loro compor- tamento nei processi di riduzione, segnatamente col metodo di Ladenburg. La questione venne perciò studiata partendo da altri concetti, che ci offrirono il mezzo ‘d’ arrivare a conclusioni più precise. La via più diretta, ma meno facile a praticarsi, sarebbe stata quella di cercare d’ ottenere l’ aldeide succinica. — Con- siderando però che la preparazione di questo corpo dalla pirrolidrossilammina avrebbe reso necessario un lungo lavoro, perchè finora, nella serie alifatica segna- tamente, i dichetoni non sono stati riottenuti delle luro ossime, abbiamo sospeso lo studio di questa parte del problema ed abbiamo seguito invece una via indiretta, che ci condusse a risultati perfettamente concordanti con le nostre vedute. — 393 — Se il pirrolo dà realmente per azione dell’ idrossilammina la succindialdossima, l aa'-dimetilpirrolo deve dare origine alla formazione dell’ ossima del dichetone corrispondente, cioè della acetonilacetondiossima : CH, CH, (GE NH,O0H CH, — C: NOH | > NH + =NH,+ | CHE NH,0H CH, — C: NOH. CH, CH, Le esperienze fatte, nell’ istituto chimico dell’ Università di Padova, in principio del corrente anno scolastico, dimostrarono che la reazione avviene nel senso indi- cato dalla equazione soprastante, perchè ii prodotto ottenuto è identico alla diossima dell’ acetonilacetone, preparata direttamente da quest’ ultima sostanza. Per il breve tempo che, causa il nostro trasferimento a Bologna, abbiamo potuto dedicare a questi studj, pubblichiamo per ora solamente poche esperienze, ma queste sono di già sufficienti per risolvere il punto principale del problema. Noi ci riserbiamo di ritornare sull’ argomento e di svilupparlo nel modo il più esteso. L’ aa'-dimetilpirrolo venne preparato, seguendo il metodo di C. Paal (*), per trattamento dell’acetonilacetone con ammoniaca alcoolica. Il prodotto ottenuto bolliva a 166-167° a 764,5 mm. di pressione ; la sua purezza venne accertata coll'analisi. La trasformazione in acetonilacetondiossima venne effettuata bollendo il dime- tilpirrolo in un apparecchio a ricadere con una soluzione alcoolica di clorilrato di idrossilammina in presenza di carbonato sodico anidro. Le proporzioni erano le seguenti: per 1,2 gr. di dimetilpirrolo, sciolti in 15 e. e. d’ alcool a 95%, 1,8 gr. di cloridrato di idrossilammina e 1,1 gr. di carbonato sodico. Già dopo due ore di ebollizione a b. m. si nota la formazione di un sublimato di carbonato ammo- nico nel tubo interno del refrigerante, dopo sei ore di ebollizione la reazione può considerarsi terminata. Distillando a pressione ridotta a b. m., passa 1’ alcool, che trascina quasi tutta la parte del dimetilpirrolo rimasto inalterato ed il carbonato ammonico formatosi nella reazione. Il residuo seccato del tutto nel vuoto sull’acido solforico, viene esaurito con etere bollente, che scioglie la diossima abbastanza facilmente. L’ estrazione con etere, per separare l’ ossima dal cloruro sodico, è più con- veniente che il trattamento con acqua, perchè la prima non è insolubile in que- st’ ultimo solvente. Svaporando l’ estratto etereo si ottiene un residuo alquanto co- (*) Berl. Ber. 1885, pag. 2257. TOMO X. 504 — 394 — lorato, che si purifica con una serie di cristallizzazioni dal benzolo bollente. Il composto così ottenuto ha tutte le proprietà della acetonilacetondiossima. Il nostro prodotto fondeva a 136,9 ed esattamente lo stesso punto di fusione aveva un campione di ossima, preparata direttamente dall’ acetonilacetone, per compararla con quella proveniente dal dimetilpirrolo. L’ analisi condusse, come non era da dubitarne, a numeri corrispondenti esat- tamente colla formola : CH, - C-(CH,) : NOH | CH, - C-(CH,): NOH. 0,2115 gr. di materia diedero 0,3878 gr. di CO, e 0,1614 gr. di H,0. In 100 parti: trovato calcolato per C,H,,N,0, C 50,00 50,0 ARTO 8,33 Con ciò è data la dimostrazione, che alcuni pirroli si trasformano per azione del- l idrossilammina nelle diossime dei corrispondenti y-dichetoni. La reazione ora descritta sì compierà probabilmente in due fasi, in principio potrebbe formarsi, secondo la uguaglianza già indicata, un composto instabile, che passa poi subito alla forma dell’ ossima dell’ acetonilacetone più stabile. Le due forme desmotropiche dell’ acetonilacetondiossima : CH, CH, CHi= 0. NHOH CH, — 0: NOH Lp C-. NHOH CH, — C : NOH cH, CH, forma instabile pi | forma stabile È dell’ acetonilacetondiossima sarebbero, come si vede, perfettamente comparabili alle due forme tautomere del- — 395 — l acetonilacetone : CHE CH, cH= 0-0H dn: LE LESS, CH, CH, | forma ui 1 a forma stabile i dell’ acetonilacetone. Nostra cura sarà ora di studiare ulteriormente il comportamento della diossima ottenuta dal pirrolo per preparare possibilmente la dialdeide succinica, e di speri- mentare i diversi derivati del pirrolo per vedere se la reazione con l’ idrossilammina può dirsi generale per questo gruppo di composti. Prima di porre fine alla presente comunicazione accenneremo ancora ad un’altra esperienza, che abbiamo fatto allo scopo di stabilire se l’ acetonilacetossima si com- portasse, nella riduzione col metodo di Ladenburg, in modo corrispondente alla diossima proveniente dal pirrolo. Dobbiamo fare notare che recentemente I. Tafel (*#) ha sperimentato l’ azione dell’amalgama di sodio ed acido acetico sul diidrazone dell’ acetonilacetone, ottenendo, come era da aspettarsi, la diammina corrispondente : un diamidoesano. La diossima dà per riduzione con alcool e sodio certamente lo stesso prodotto. Una parte di ossima sciolta in 100 parti d’ alcool assoluto venne trattata, prima a freddo e poi a caldo, con 10 gr. di sodio metallico tagliato in piccoli pezzetti. Il prodotto venne trattato con acqua e distillato in corrente di vapore acqueo. Il liquido alcoolico, che passa in principio, contiene disciolta l’ ammoniaca formatasi nella riduzione, l’ alealoide organico distilla invece poi assieme all’ acqua. La so- luzione acquosa venne acidificata con acido cloridrico e svaporata a secchezza. Il cloridrato così ottenuto è alquanto colorato e venne distillato con potassa per ottenere più pura la base. La nuova soluzione dette per svaporamento con acido cloridrico un sale meno colorato, che venne purificato completamente facendolo cristallizzare alcune volte dall’ alcool assoluto, in cui è notevolmente solubile a caldo. Per raffreddamento della soluzione alcolica, o.trattamento con etere, si ottenne il cloridrato bianco e cristallino, che venne seccato nel vuoto sull’ acido solforico ed analizzato. (*) Berl. Ber. 22, 1858. — 396 — Esso ha la composizione corrispondente ad una base della formola : 0,1561 gr. di materia dettero 0,2204 gr. di CO, e 0,1389 gr. di 4,0. In 100 parti: calcolato per la formola RDZ C;H,(NH,), - 2HC1 C 38,50 38,09 H 9,89 9,52 I numeri trovati non corrispondono perfettamente a quelli richiesti dalla teoria, e non è improbabile che il lieve eccesso di carbonio provenga dalla presenza di piccole tracce di dimetilpirrolidina nella base analizzata, avendo I. Tafel osservato che per riduzione dell’ acetonilacetondiidrazone, assieme al diamidoesano, si forma per eliminazione d’ una molecola d’ ammoniaca, anche la dimetilpirrolidina corri- spondente. Noi non abbiamo cercato di risolvere la questione, nè di esaminare ulteriormente i prodotti di riduzione dell’ acetonilacetossima, perchè I. Tafel sì è riservato lo studio degli alcaloidi in parola. A noi basta per ora avere dimostrato che la diossima dell’ acetonilacetone si comporta, anche da questo lato, in modo perfettamente analogo a quella ottenuta dal pirrolo, che noi riteniamo, anche per questa ragione, essere la diossima dell’ aldeide succinica. —____——=" 99 EDO ___ RISULTATO DI ESPERIENZE IDROMETRICHE SOPRA TUBI ADDIZIONALI CONICI DIVERGENTI MEMORIA III. del Prof. CESARE RAZZABONI (Letta nella Sessione delli 26 Gennaio 1890). Sopra l’ argomento della presente Memoria nel 28 Marzo 1886 e nel 24 Feb- brajo 1889, ne ho presentate altre due nelle quali dimostrando le notevoli differenze che possono verificarsi nel calcolo delle portate dei tubi addizionali di- vergenti, terminava col dimostrare la grande convenienza di sostituire alle formole per tali tubi, somministrate dalla teoria del moto lineare dei liquidi, una formula empirica producente risultati più vicini a quelli forniti dalle misure effettive. Tale formula empirica mi riuscì rappresentata dalla RIS (ERRE OEKa/avAi pei tubi continui DAS (©) RR Q,= 0,64 Kd°/ay ! pei discontinui dove d è il diametr> interno all’ origine del tubo » © la lunghezza del tubo s @ il carico K un coefficiente dipendente dall'angolo di divergenza del tubo, e che nel caso che tale angolo sia = 5°.5'.21" n» si trovò eguale a 10,66. Di questo coefficiente K assunsi fino dallo scorso anno l’ impegno di determi- narne la forma e la relazione coll’ angolo di divergenza del tubo, e mi vi accinsi subito, provvedendo a che fossero preparati 48 tubi (24 continui e 24 discontinui) TOMO X. 50? -- 398 — formanti 12 serie ciascuna di 4 tubi cogli angoli di divergenza fra loro equi- distanti, ed eguali il 1° a 5°, 5.21" , 2° a 3°.23'.34" DERE Oo ZA (0 I limiti di questi quattro angoli si riferiscono il 1° al tubo di massima diver- genza oltre del quale la pressione divenendo negativa il liquido abbandona la parete, e non ha più luogo 1’ efflusso a tubo pieno ; il 2° limite al tubo cilindrico che si può considerare come un divergente di angolo = 0. La seguente Tabella I contiene soltanto i 24 tubi continui colle loro dimensioni principali, coi rispettivi angoli divergenti e con le marche formate dalle stesse lettere maiuscole con cui furono contrassegnati nella II memoria. E si sono om- messi nella tabella medesima i tubi discontinui, stante la costanza dei rapporti delle loro portate colle corrispondenti dei tubi continui. SI OI Tabella I. Marca | DIAMETRO IN MILLIMETRI | 1 iNGHEZZA RETTA DELA ===" IN DI TuBo IRR eideno MILLIMETRI | DIVERGENZA B 12 14,67 30 ao Brit » » 13,78 » SOIA » » 12,89 » 1°.41!.47! » » 12,00 » TOO (0) 15 17,67 30 St Le » » 16,78 » SLTIZAZAL » » 15,89 » LOATAZO: » » 15,00 » MEO F 12 18,20 70) iO > » 16,15 > 3°,23'.34" » » 14,07 » 1°,41'.47" » » 12,00 » 0°. 0°. 0" G 15 21,20 70 RIE » » 19,15 » 3° 23”341 » » 17,07 » JOSA REA, » » 15,00 » OSO H 12 21,60 108 IA » » 18,40 » SUOI » » 15,20 » 10.411,47" » » 12,00 » OOO I 15 24.60 108 Beal » » 21,40 » 30,23'.34"’ » » 18,20 » 1°.41".47" » » 15.00 » OSO ZION — 400 — Questi tubi furono tutti assoggettati ad esperienze di portata sotto li tre carichi seguenti di 3",195, 2",195 ed 1",195. — Ogni portata fu ripetuta tre volte al- meno, e si rigettarono sempre quelle che di troppo differivano dalle altre della corrispondente terna. Sopra le misure così ottenute non ci è rimasto alcun dubbio, ed una conferma di questo l’ abbiamo avuto sempre dalla corrispondenza delle differenze percentuali delle portate corrispondenti od allo stesso carico, od allo stesso angolo di divergenza, od alle stesse dimensioni dei tubi. Ciò posto per la determinazione del valore K in funzione dell’ angolo divergente del tubo si è fatto il calcolo numerico di questo coefficiente per mezzo della (1), attribuendo a Q il valore della portata effettiva corrispondente od ogni carico e ad ogni tubo, di guisa che in medio si è trovato che per l’ angolo divergente 0 = 5°. 5'.21' si ha K = 10,66 0—=3°.2334" , K= 9,80 d= nta de de I AdS 00 = 790 n n » » n » Questo andamento nei valori di X in corrispondenza di quelli dell'angolo di di- vergenza ci ha condotti ad attribuirgli la seguente forma (lara. K= A(1+%»tang 0) essendo » un coefficiente costante, ed A = 7,80 il valore del coefficiente XK quando 0=0, ossia quando il tubo è cilindrico. In tale modo la formola empirica definitiva della portata di un tubo divergente risulterebbe pei tubi continui ti EL (a Q= A1+ntang 0)d°/ay/ ! e pei tubi discontinui ae (OLI Q= 0,64 A(1+xtang 0)d°/ay/ ! Per applicare queste formole dovendosi stabilire il valore numerico di » si è proceduto alla ricerca tanto desumendo questo valore per mezzo della (3) quanto per mezzo della (4). In tutti e due i modi il valore di » è riuscito costante entro limiti sufficientemente ristretti, ed il suo valore medio è stato da noi ritrovato — 401 — Da 4. In tale modo il coefficiente della portata dato dalla (3) diviene per noi (Ve seo K=7,80(1+ 4tang 0) e la corrispondente formola delle portate pei tubi continui (ROTA Q=7,80(1 +4 tang 0)d"/a VAT e pei tubi discontinui (ODIA Q= 4,992(1 + 4 tang 0)d°/a vi Per giudicare il grado di esattezza che si ottiene applicando le (7) ed (8) an- zichè le formole teoriche corrispondenti E. Q=0,/2ga per tubi continui e (LO), gi de pei tubi discontinui VI+ dove @ ed @, rappresentano le sezioni di imbocco e sbocco del tubo, presentiamo nelle seguenti Tabelle II e III i modi di fare gli opportuni confronti, avvertendo che nella Tabella II sono registrate le portate teoriche desunte dalla (9) e le cor- rispondenti effettive come si ebbero direttamente dalle misure, e nella Tabella III le effettive e quelle dedotte dalla formola empirica (7). TOMO X. 5I — 402 — Tabella II. S Carico 3,195 3 Carico 2,195 (a) HA © Portata in litvi a Portata in litri 6) Differenza | S | Differenza z Teorica | Effettiva z Teorica | Effettiva | B 1,3381 1,1643 | +0,1738 | B 1,1091 0,9700 | + 0,1391 » 1,1834 1,0773 | » 0,1061 | » 0,9787 0,8860 | » 0,0927 » 1,0331 0,9313 | » 0,1018 | » 0,8562 0,7750 | » 0,0782 » 0,8954 0,8353 | » 0,0601 |» 0,7422 0,6933 | » 0,0489 Cc 1,9414 1,7687 | » 0,1727 | C 1,6091 1,4616 | » 0.1475 » 1,7508 1,6193 | » 0,1315 | » 1,4511 1,3413 | » 9,1098 » 1,5700 1,4243 | » 0,1457 | » 1,3013 | 1,1853 | » 0,1160 » 1,3990 1,3053 | » 0,0937 | » 1,1596 1,0856 | » 0,0740 F 2,0596 1,4970 | +-0,5626 | F 1,7071 1,2297 | +-0,4774 » 1,6218 1,3136 | » 0,3082 | » 1,3442 1,0836 | » 0,2606 » 1,2308 1,0237 | » 0,2072 | » 1,0020 0,8450 | » 0,1540 » 0,8954 0.8088 | » 0,0866 | » 0,7422 0,6703 | » 0,0719 G 2,7946 | 2,1016 | » 0,6930 | G 2,3163 1,6990 | » 0,7173 » 2,2800 1,8966 | » 0,383 » 1,8900 1,5716 | » 0,3184 * 1,8118 1,5417 | » 0,2701 | » 1,5017 1,2803 | » 0,2214 » 1,3990 1,2737 | » 0.1253 | » 1,1596 1,0563 | » 0,1033 H 2,9010 1,6230 | + 1,2780 | H 2,4045 1,3350 | +-1,0695 » 2,1051 1,4953 | » 0,6098 | » 1,7448 1,2230 | » 0,5218 » 1,4366 1,1070 | » 0,3296 | » 1,1907 0,9170 | » 0,2737 » 0,8954 0,7876 | » 0,1078 | » 0,7422 0,6510 | » 0.0912 I 3,7628 2,4300 | » 1,3328 | I 3,1189 2,0116 | » 1,1073 » 2,9476 2,1460 | » 0,7016 | » 2,3602 1,7806 | » 0,5796 » 2,0596 1,6350 | » 0,4246 | » 1,7072 1,3607 | » 0,3465 » 1,3990 1,2473 | » 0,1517 | » 1,1596 1,0340 | » 0,1256 È Carico 1,195 lsni E Portata in litri 5 | Differenza | | Teorica | Effettiva | B.| 08184 | 0,7110 | +0,1074 » | 07221 | 0,6530 | » 0,0691 » | 0,6318 | 05690 | » 0,0728 » | 05476 | 05106 | » 0,0370 C | 1,1873 | 1,0757 | » 0,116 | > | 1,0707 | 0,9853 | » 0,0854| » | 0,9602 | 0,8690 | » 0,0912.| » | 08556 | 0.800 | » 00526 F | 12596 | 0,8973 | +0,3623 » | 0,9918 | 0,7890 | » 02028! » | 0,7580 | 0,6213 | » 0,1367| » | 05476 | 0,4917 | » 0,0559 | G | 1,7091 | 1,2687 | » 0,4404 » | 1,3946 | 1,1513 | » 0,2433 | » 1,1080 | 0,9357 | » 0,1723 | » | 0,8556 | 07753 | » 0,0803 H | 17743 | 0,9703 | +0,8040| » | 1,2874 | 0,8966 | » 0.3904| » | 0,8786 0.6687 » 0.2099 | » | 0.5476 | 0,4770 | » 0,0706 I | 2,3013 | 1,4707 | » 0,8306 » | 17415 | 1,2857 | » 0,4558 » | 1,2595 | 0,9880 | » 0,2715 » | 0,8556 | 07587 | » 0,0969 | | | | | | ‘408 — Tabella III. Carico 3,195 Carico 2,195 Carico 1,195 Portata in litri Portata in litri Portata in litri Differenza Differenza Differenza Effettiva | Empirica Eff-ttiva | Empirica Marca del Tubo Marca del Tubo | Effettiva | Empirica 1,1643 | 1,1332 | +0,0811| B | 09700 | 0,9390 | +-0,0310] B | 0,7110 | 0,6930 | + 0,0180 1,0778 | 1,0383 | +0,0390| » | 08860 | 0,8606 | +-0,0254| » | 0,6530 | 0,6350 | 4-0,0180 | 0,9313 | 0,9345 | — 0,0032 | » | 0,7730 | 0,7746 | +0,0004| » | 0.5690 | 0.3715 | — 0,0023 | 0,8353 | 0,8556 | — 0,0203|] » | 0,6933 | 0,6926 | +0,0007 | » | ‘0,5106 | 0,5110 | — 0,0004 1,7687 1,7706 | —0,0919 | C 1,4616 1,4676 | —0,0060 | C 1,0757 1,0828 | — 0,0071 1,6193 1,6223 | —0,0030 | » 1,3413 1,3447 | — 0,0034 | » 0,9853 0,9922 | — 0,0069 1,4243 1,4602 | —0.0379 | » 1,1853 1,2103 | — 0,0253 | » 0,8690 0,8930 | — 0,0240 | 1,3053 1,3056 | —0,0003 | » 1,0856 1,0821 | +0,0035 | » 0,8000 0,7984 | + 0,0016 1,4970 1,4005 | +-0,0965 | F 102297 1,1661 | +0,0636 | F 0,8973 0,8563 | + 0,0410 1,3136 1,2832 | +-0,0304 | » 1,0836 1,0636 | +0,0200 | » 0,7890 0,7846 | +-0,0044 1,0237 1,1550 | —0,1313 | » 0,8480 0,9574 | —0,1094 | » 0,6213 0,7062 — 0,0849 0,8088 | 1,0326 | —0,1238| » | 06703 | 08560 | —0,1857| » | 0,4917 | 0.6314 | — 0,1397 | 2,1016 | 2,1883 | — 0,0867 | G | 1,6090 | 1,8138 | —0,1148| G | 1,2687 | 1.8383 | — 0,0696 1,8966 | 20051 | — 0,1095f » | 1,5716 | 1,6619 | —0,0908| » | 1,1513 | 1,2262 | — 0,0749 | 15417 | 1,8047 | —0,2530| » | 1,2803 | 1,4959 | — 0,1156| » | 0,9357 | 1,1037 | — 0,1680 1.2737 | 1,6135 | —0,3398| » | 1,0563 | 1.3374 | — 02811 » | 0,7753 | 0.9868 | — 02115 1,6230 | 1,5609 | +0,0621|] H | 1,3350 | 1,2938 | +0,0412| H | 0,9703 | 0,9546 | +0,0157 1,4953 | 1,4392 | +0,0651| » | 1,2230 | 1,1854 | +0,0376| » | 08966 | 0,8747 | +-0,0219 1,1070 | 1,2843 | —0,0773] » | 0,9170| 10670 | —0,1500| » | 0,6687 | 0,7873 | —0,1186 0,7876 | 1,1509 | —0,3723| » | 0,6510 | 0,9540 | —0,3030| » | 04770 | 0,7039 | —0,2269| 2,4300 2,4389 | — 0,0089 | I 2,0116 2,0215 | — 0,0099 | I 1,4707 1,4916 | —0.0209 2,1460 2,2347 | — 0,0887 | » 1,7806 1,8522 | —0,0716 | » 1,2857 | 1,3666 | — 0,0809 1,6330 2,0114 | — 0,3764 | >» 1,2607 1.6672 | — 0,3065 | » 0,9880 1,2301 | —0,2421 1,2473 1,7941 | —0,5468 | » 1,0340 1,4905 | — 0,4565 » | 0,7587 1,0998 | — 0,3411 Per giudicare l’ attendibilità della formula empirica su esposta facendo tutte le — 404 — differenze percentuali, e determinando gli errori medii di tutte le esperienze e misure, si è osservata la necessità di distinguere i tubi la di cui lunghezza e divergenza è tale da rendere sensibile l’ attrito dell’ acqua sulle pareti dei tubi dagli altri. In conseguenza di questo si è osservato che i tubi non debbono oltrepassare i 4 dia- metri interni o dell’ imbocco, ed allora mentre la differenza fra le portate teoriche e le effettive può arrivare fino al 10 p.°, quelle corrispondenti alle portate ef- fettive e le somministrate dalla formola empirica non raggiunge il 2 p. %. Entro questi limiti adunque le portate empiriche sono notevolmente più esatte di quelle delle formule razionali, e ad esse conviene dare la preferenza. Quando poi il rapporto fra il diametro di imbocco e la lunghezza del tubo sia maggiore di quattro, in allora si dovrebbe tener conto della resistenza d'attrito del tubo, locchè non è compreso nè nella formula teorica, nè nella empirica, le quali consi- derano i tubi meramente addizionali, e le teorie relative dovrebbero far capo a quelle che di simile resistenza tengono il debito conto. CONSIDERAZIONI STORICO-CRITICHE VAIUOLO E SUL VACCINO del Dott. Cav. FERDINANDO VERARDINI (Letta nella Sessione delli 23 Marzo 1890.) Conseguentemente, o meglio in forza delle stragi che il Vaiuolo Arabo arrecava alla razza umana, anche le popolazioni semi-barbare cercarono modo di sottrarsi all’immane flagello od almeno ebber cura di affievolirlo. Fattesi impertanto accorte che gli scampati dal pericolo non erano più attaccati dal morbo, e posto .mente che i meno gravemente presi , in non iscarsa misura riescivano a guarigione, ferma- rono il concetto di tentare l’ innesto dello stesso umore vaiuoloso a preservarsi dalla maligna pestilenza. Questo tentativo rimonta alle epoche le più lontane e l’ adottarono in China, nel Thibet, in Persia, nell’ Arabia, e singolarmente se ne fecero propagatori i Bramini. Tuttavia i Circassi ed i Giorgiani se ne avvalsero e colla mira di garantire le loro donne dai guasti che adduce il Vaiuolo ; chè, gelosi erano di mantenerne la bellezza per la quale andavano esse nel mondo famose e ad averne un lucro per traffico infame, offrendole agli opulenti Pascià a popolarne gli Harem. (1) S' intro- dusse questa pratica in Turchia, nell’ Inghilterra e la Facoltà di Medicina di Parigi. nell’anno 1768, autorizzò il Parlamento ad accoglierla ufficialmente. L'Italia pure non fu ultima a giovarsi dell’ innesto vaiuoloso, ed il Timoni EwmanveLe (2) e Tacopo Pinarini (3) nelle loro pubblicazioni ce ne danno sicura fede, non che GrroLamo Peverini, medico a Citerna nello stato Pontificio. (4) (1) Vedi ToserH Iones — Variola and vaccination, Baton Rouge, 1884, pag. 146. (2) Epistola ad IoHannEM Woopwarb, stampata nel 1713 e trasmessa alla R. Società di Londra. (3) I. PiLARINI — Nova et tuta variolas excitandi per trasplantationem methodus. — Venezia 1713. (4) V. La Coxpamine — Memoria sulla inoculazione del Vaiuolo, Livorno 1755; e Memoria se- conda, Livorno 1759. — 406 — Il quale valente medico, da fiero oppositore che n° era stato, sulle prime, ne addivenne proselite appassionato, e mediante numerose esperimentazioni, riuscite felicemente e rese di pubblica ragione, ottenne di far ressa nell’ animo di alquanti colleghi, rimasti convinti dai fatti pratici da Lui riportati. Laonde si estese questo metodo fra noi ne’ centri più popolosi e fra le persone più intelligenti; le quali, esterrefatte e spaventate dalle morìe che avvenivano frequentemente, vi si abban- donarono fiduciose e l’ ebbero quale un insperato beneficio. Nel frattanto il celebratissimo La Coxpamine colle di Lui pubblicazioni, (da me ricordate in nota) in Francia assai ben disponeva gli animi dei Medici, e pur colà guadagnava terreno l’ innesto vaiuoloso, ed il nostro connazionale Prof. GaLLi (che dettava medicina in Pisa, e poscia fu Archiatro del Re di Francia) dopo intrapreso un lungo viaggio in Inghilterra e nella stessa Francia, coll’ idea di poter meglio e più liberamente studiare ed applicare questo metodo “ 1760 , al suo rimpa- trio superò molte contrarietà e raggiunse il fine che si era proposto: o quello di estenderne l’ effettuazione in modo singolare, convinto che era della utilità sua, massime se adottavansi alcune regole, da Lui apprese in Levante, ed a Costanti- nopoli; le quali rendevano il metodo stesso più semplice e più razionale, e se n’era persuaso attuandolo in que’ luoghi lontani Esso medesimo. Non preparava gli ino- culandi a ricevere la materia vaiuolosa, debilitandoli e purgandoli, ma accurata- mente sceglieva fanciulli sanissimi, robusti, di ottima derivazione, e con 1’ umore tolto da pustole vaiuolose, non per anco affatto mature affinchè fosse più sottile e limpido sicchè più presto ne avvenisse l’ assorbimento, con un ago praticava, una oppur due lievi punture alle braccia, preferendo di giovarsi delle pustole svilup- patesi artificialmente, piuttosto che delle svoltesi per Vaiuolo naturale o primitivo, ed alloraquando v° era luogo a poter ritenere che l’ eruzione accennava probabil- mente di trascorrere oltre, non troppo rigogliosa e quindi da riuscirne gli effetti meno gravi. Rigorosamente poi faceva isolare gli inoculati, proibendo che avessero contatto con altri sani, e pur pure con vaiuolosi; nell’ assennata dubbietà che po- tessero addivenire più dannevoli, in forza delle pestifere emanazioni, le conseguenze del praticato innesto, ed eziandio col pietoso pensiere di risparmiare agli inoculati l orrida vista de’ vaiuolosi. Narra lo SprenerL nella sua pregevolissima “ Storia della Medicina ,, conti- nuata dal Frescni — che il metodo operativo del Gatti, fece gran senso a Parigi e formò per alcun tempo il subbietto di tutti i discorsi, ed il nome di Lui suscitò viva ammirazione. — Non mancarono però le contrarie e le maligne insinuazioni a farsi strada, e molti furono gli intrighi a cui fu fatto segno il Garui, ed alla perfinita Gli lanciarono addosso l’ accusa di propagatore dell’arabica peste, e ne portarono formale querela al Parlamento. Ma una Sentenza assolutoria del Re mise .silenzio a quelle scandalose controversie, (1) se bene sostenute dagli stessi Sacerdoti, (1) Vedi GanpocnER DE Forany — Traité pratique de l’inoculation, Paris 1768. — 407 — i quali quasi sempre, si mostrarono amici dei flagelli che additano come punizione contro le nequizie degli uomini, e si mostrano accerrimi nemici dell’ alfabeto. M' affretto però di notare, a verità storica, che pur furonvi in quell’ epoca ono- revoli eccezioni e riporto le conchiusioni di tre teologi Toscani (1), l Apam, il Berti ed il Vrraci; i quali, dopo discusse le ragioni accampate pro e contro, eb- bero il coraggio di dichiararsi ad esso metodo favorevoli, ed appunto nel tempo che la Facoltà teologica di Parigi /o aveva giudicato pericoloso e nocevole ai canoni della Chiesa. Per questo voto dei preti Toscani, trovò maggior diffusione l’ innesto vaiuoloso, e dalla Toscana e dalla Romagna si propagò dappertutto in Italia, per opera spe- cialmente di Saverio ManerTI (2), di Vincenzo Anprea Levizzari (3), di un Giovanni Serarino, d’ un MicneLe Sarcone, di Francesco Vicentini, di Parroni, di Lorti, di Garpini Francesco, di Innocenzo LanerI (Piemontese), di Leone BasiLeA e di al- quanti altri. L’ innesto vaiuoloso, dirò finalmente che oltre d’ avere ottenuta 1’ approvazione, e ne posi accenno, dalla facoltà di Parigi, fu pure autorizzato mediante Decreto del Senato Veneto del 29 Dicembre 1767, dietro gli esperimenti favorevoli ottenuti nel Pio Spedale de’ Mendicanti, e tuttavia con altro Decreto dei Sopra-Provveditori e Provveditori alla Sanità, emanato il 6 Gennaio 1768, col quale s inculcava l’ uso di questa pratica preservatrice, eziandio a tutti gli Stati di terraferma (4). Cotale condizione di cose perdurò poco più oltre; indi cominciò a perdere di sua importanza, scadde di voga, in virtù di contr’ osservazioni fatte senz’ ira, e di pubblicazioni assennate di Uomini specchiatissimi; sicchè gradatamente andò scapi- tando, e da ultimo l’ innesto vaiuoloso rimase dimenticato affatto al mostrarsi di un bagliore, che ben presto addivenne luce splendida e feconda; la quale rischiarò le menti e le guidò in una via nuova e come fra breve verrò 'addimostrando, volendo procedere oltre e sviluppare queste mie disamine storiche nell’ ordine che mi sono prefisso. Nel riprendere impertanto il filo del mio discorso dico adunque che contro il metodo dell’innesto vaiuoloso sorsero critiche, addimostrative il danno che di frequente per esso ne derivava, alle riuscite incerte, e più particolarmente accen- narono alla molta probabilità che il seminìo vaiuoloso, in forza degli individui in gran numero sottoposti all’ innesto, potess’ essere causa delle frequenti epidemie vaiuolose che desolavano il genere umano, e rimanesse così infruttuosa la potenza preservativa individuale. (1) V. Tre consulti fatti in difesa dell’iunesto del Vaiuolo ecc., Milano 1763, in 4°. (2) V. SaveRIO Manetti — Dell’ inoculazione del Vaiuolo, Firenze 1761. (3) V. Levizzari — I primi successi della inoculazione nella Rezia, Lugano 1768, in 8°. (4) V. Determinazione degli Illustrissimi ed Eccellentissimi Signori Sopra-Provveditori e Prov- veditori alla Sanità; Venezia Tip. Pinelli, 1768, in 8°. — 408 — Nel novero dei più poderosi avversarii pongo subito il nome del nostro concit- tadino Giroramo Germano Azzoauipi; il quale pubblicò e diffuse una sua Lettera critica sul Vaiuolo; nella quale dopo censurati seriamente tutti i metodi preservativi sperimentati fino allora, compreso l’ innesto vaiuoloso, ed appuntandolo d’ essere causa di molti inconvenienti pericolosi, era però costretto dichiarare francamente che pur troppo non si conosceva alcun preservativo degno di fede. Rammentava la violenza del contagio, contro il quale non erano andati esenti neppure i feti racchiusi nell’ utero materno, e porgeva nota di casi occorsi a Lui stesso, e dei descritti dall’ ILpano, dal Rurscnio, dal MarcÒesini, non ommettendo di fare aperto che neppure erano risparmiati coloro che già avevano superata una prima volta la malattia, in quanto che erano stati compresi nuovamente da Vaiuolo confluente, che addusse un esito letale. Queste ed altre assennate sì, ma troppo esclusive critiche osservazioni, non mancarono però di esercitare una forte impressione nei medici d’ Italia, analoga alla determinata a Vienna per l’ opposizione del De-naEN; sicchè l’ innesto vaiuoloso perdette a mano a mano di prestigio, sebbene il giornalismo medico cercasse di sostenerlo ancora, appoggiando gli argomenti di Lurer Francesco CasteLLANI, che continuava ad esserne appassionato fautore. E qui mi pare di poter asserire che l’ostracismo a cui dall’ Azzoeupi e da alquanti altri medici, si volle condannare la pratica intorno a cui mi stò occupando, non era però nè giusta, nè generosa; in quanto che non si potevano disconoscere i non pochi beneficii ch’ aveva arrecato, e tali, come ho provato, da determinare i Governi non solo ad accoglierla, ma sì bene a propugnarne l’ utile e volerne l’ attuazione e che Sodalizii scientifici reputatissimi )' avevano approvata, che Personaggi distintissimi si avvalsero utilmente di questa pratica, specie in Inghil- terra, e basti a prova il citare il fatto di Lady Montague la quale fece innestare l’unica sua figliuola e con esito felicissimo. L’inoculazione del vaiuolo naturale era nata e s'era svolta nella mente delle popolazioni anche le più incolte, e come ne posi ricordo, per giusta analogia e per l’ osservazione molto logica e concludente che i superstiti del morbo, meno poche eccezioni, rimanevano incolumi in mezzo alla strage che persisteva e che i casi meno gravi non riescivano se non scarsamente mortali e pur essi concedevano la stessa quasi assoluta immunità dei gravissimi; l’ ebbero quindi quale gncora di salvamento, ed il giovarsi per innesto del materiale vaiuoloso levato dalle pustole dei malati meno intensamente, li guidò nella supposizione che potesse riuscire a sviluppare il morbo in misura discreta, ossia non assolutamente letale e porgere all’inoculato il benefizio della desiderata profilassi. Analogo concetto lo vediamo concepito per altre circostanze luttuose, e posto in pratica ed acclamato da illustri Scienziati del passato e di questo nostro tempo; e per non dilungarmi a portar molti nomi e fatti comprovativi l’ asserto, mi limito a dire che fu nella mente dello stesso IewxeR ed indi motivò la teoria dell’ Hawxe- — 409 — MANN e quella in oggi del celebratissimo Pasteur e della nobile schiera de’ suoi proseliti. Ho notato anche il nome dello IrnneR e con buon fondamento di ragione, in quanto che si serviva dell’innesto vaiuoloso per garantire gli uomini dal Vaiuolo e renderli incolumi da ulteriori attacchi e come vado ad addimostrare con certezza, essendomi molto occupato di esaminare attentamente le pubblicazioni di Lui, special- mente quella “ sugli effetti e sulle cause del vaiuolo vaccino (1) , e le successive, e mi sono convinto che la prima scintilla che Lo guidò alla grande scoperta fu posteriore a quel primo concetto di servirsi del vaiuolo contro il vaiuolo, e dichiaro poi anche che a questa stessa scoperta non vi fu già solo guidato dal fatto comu- memente accettato o quello della incolumità che verificava a quando a quando aversi dalle donne che mungevano vacche affette nei capezzoli da una particolare eruzione (cow-pox) ed indi dall'avere notato ciò stesso negli uomini delle Ferme che governavano cavalli compresi da piaghe alle gambe. No, questo tutto fu susse- cutivo alle cose che passo ad accennare, e che parmi meritino d’ essere bene chiarite a rettificazione storica, che mi compiaccio di trovare in parte confermata nel recente e pregevolissimo “ Traité pratique de la Vaccination Animal - Paris, 1889, compilato dal chiarissimo A. Layer, professore d’ Igiene della Facoltà di Medicina di Bordeaux. Deve adunque essere assodato che lo Ienner era della eletta schiera di quei Medici che avevano adottato lo innesto del pus vaiuoloso quale non ispregevole, anzi benefico preservativo contro le immani ruine che adduceva ln peste Arabica e che si era recato con questa missione in Glocester. Nel persuaderlo e nello attuarlo questo metodo, Gli venne fatto di verificare che alcuni da Lui innestati con umore vaiuoloso, non venivano attaccati dalla malattia. Compreso di meraviglia, si diede a rilevare la speciale condizione di questi individui, ossia ad averne un’ esatta anamnesi; per la quale Gli risultò che tutti, senz? eccezione veruna, appartenevano alla classe dei villici che in quella Contea erano costretti pel loro mestiere a mungere le vacche, od a governare i cavalli delle Ferme. Verificato questo fatto rilevantissimo e del tutto nuovo, ricercò colla sua mente indagatrice se era possibile di trovare la connessione fra causa ed effetto, essendogli già noto che esisteva sì bene una eruzione pustolosa la quale nasceva sui capezzoli delle vacche e che chiamavano da tempo lontanissimo vaivolo vaccino, ma la sua cono- scenza era storica puramente. Si diede impertanto a tutt uomo a minuti e ripetuti e variati esami ed accuratissimi; i quali, dopo infinite incertezze lo persuasero di avere finalmente trovato: che l’ umore ricavato dalle pustole del vaiuolo vaccino (1) Inquiry into the causes and effects of the variolae vaccinae. Lonnon 1798 « Further observations on the variolae vaccinae. Lonnon 1799 ». A continuation of facts and observations relative to the variolae vaccinae. Lonnon, 1800. TOMO X. 52 — 410 — innestato nell'uomo era il vero e sicuro preservativo contro il Vaiuolo naturale, e n’ebbe seguitamente la rafferma o meglio la indubbia contro-prova da molte altre osservazioni pratiche che è bello di leggere e di ponderare nelle sue cliniche ricerche, la prima delle quali gli occorse il giorno 14 Maggio 1796 sopra un fanciullo chiamato Giacomo Plipps. Il quale, vaccinato da Lui con linfa tolta da pustole vacciniche in piena attività, che aveva contratte dalla vacca alle mani, una lattajola per nome Sarah Nelmes, ne esaminò lo svolgimento che fu regolare e benignissimo. Il giorno primo di Luglio successivo, tentò l’ esperimento d' inocu- largli pus vaiuoloso, ma la inoculazione non diede risultato veruno. (1) Alquanti mesi appresso ripetè l innesto del vaiuolo, sullo stesso fanciullo, ma ancora senza successo. Laonde da questo momento con una attività singolare promulgò ed estese l’opera sua benefica, innestando con la sola e pura linfa vaccinica il maggior numero possibile di bambini e di adulti, abbandonando l’ innesto vaiuoloso. Attività che a mille doppii in Lui si svolgeva perchè sorretta dal convincimento d’ avere scoperto un vero, e per quella interna intuitiva soddisfazione che sente dentro di sè medesimo l’uomo di genio ogni qual volta strappa qualche secreto dal seno della natura e predice che li pensieri da Lui concepiti, a poco a poco meglio svolgendosi, arre- cheranno un utile ed immanchevole vantaggio all’umana famiglia. In seguito adunque, e come ne posi nota, a moltissime prove e sempre coronate dal più felice sucesso, l'innesto vaccinico (umanizzato) si divulgò con somma rapidità e fu approvato dai Medici di ogni civile Nazione, che ne osservavano, con animo sereno e libero da prevenzioni i risultamenti brillantissimi ottenuti, sicchè la causa fu totalmente vinta dallo IenneR e da’ suoi fervidi imitatori, e com’ è saputo, questa causa veramente umanitaria ebbe l’ appoggio dai Governi e dagli Scienziati da ogni parte del mondo civile. Ma non vado oltre su questa via non intendendo di tessere li particolari di questo gran fatto, e mi sto; perchè coll’ attuale studio voglio solamente guardare le cose capitali relative alla pratica della Vaccinazione, alle sue fasi ed ai progressi di Lei in faccia della Scienza e dell’ Arte. Entro questi limiti, ho fede d’ essere in grado di recare innanzi una non iscarsa utilità, singolarmente pratica, e d’ addimostrare al Governo che sento l’ obbligo di addentrarmi del mio meglio negli studi d’ Igiene, relativi alla onorevole posizione che da tempo mi favorì, o quella di Regio Conservatore del vaccino per le Pro- vincie dell’ Emilia, delle Marche e dell’ Umbria; la quale se mi viene scossa in forza dei nuovi regolamenti Legislativi, non per questo me ne mancherà altra ben degna e come ne fu data formale promessa dall’ illustre Presidente del Consiglio dei Ministri nella Seduta parlamentare delli 26 Giugno 1887, posto calcolo ch' è indi- spensabile al Governo di mantenere un servizio vaccinico Governativo ben regolato (1) Vedi IENNER op. cit. sulle cause e sugli effetti del vaiuolo delle vacche: Osservazione 16. — dll — e da un Personale intelligente e pratico, che spero autonomo (1) e dipendente dal Direttore della Pubblica Igiene presso il Ministero dello Interno ed in armonia col Medico Provinciale in ogni singola Provincia, affinchè questo possa essere in grado di meglio accudire alle molte altre e gravissime incombenze di cui è stato sopraccaricato dalla nuova Legge, del 30 Giugno 1887 - N. 4617 (2). Posta la quale non inutile digressione, perchè collegata alla natura del mio argomento, e perchè interessa in modo vitale il nostro avvenire, di Funzionarii Vaccinici Governativi, m'appresto adunque a svolgere brevemente e quasi in via sommaria la parte storico-critica del Vaccino dalla sua origine all’ oggi, a vederne le fasi principali ed anche per un poco continuo a svolgere le idee del suo immortale scuopritore. Il quale, quantunque assicuratosi sulla profilassi del vaccino spontaneo e dello umanizzato, pur non rimaneva abbastanza pago e cercò modo di chiarire tuttavia possibilmente: se il vaccino naturale (cow-pox) era una esclusiva malattia esante- matica propria solo della vacca: oppure se questa morbosa affezione poteva esserle comunicata, e da chi. Per vero, a seguito di assennate ricerche lo IennER pervenne a convincersi che era giusto il dubbio già da Lui manifestato, o quello che: il cow-pox non fosse assolutamente originario nella vacca e ne concluse che questo morbo veniva loro comunicato dal cavallo, nel cui tallone si fosse sviluppata un’ eruzione pustulosa, detta grease ed anche Iavart dai Francesi. Inoltre lanciò sì bene l’ idea che tornasse molto più attiva la virtù preservativa dell’ umore vaccino estratto dai capezzoli delle vacche ed innestato nell’ uomo, alloraquando cavalli infermi della grease ed introdottisi nelle mandrie, avevano comunicato a loro l’ infezione; oppure l’ avevano (1) Nell’ ordine del giorno proposto dal Prof. Ruata, ed accettato a quasi unanimità nel Con- gresso ultimo di Padova è detto « che venga istituita un’ Amministrazione Sanitaria affutto auto- noma, com’ è la Giudiziaria ». (2) L’illustre Prof. Mario Panizza nella Relazione che presentò alla Camera dei Deputati, e che fu approvata, alla pagina 77 così si esprime: I Signori Conservatori, Vice-Conservatori e Commis- sarii Circondariali del Vaccino, dubitano di vedere con questo nuovo disegno di Legge, in qualche modo compromessa la loro posizione. La Commissione riconoscendo in essi Funzionarii l’ alta be- nemerenza acquistata con lunghi servigi non può essere di questo avviso. E prosegue : valutato che Essi sono chiamati già a disempegnare in forma straordinaria funzioni che con la nuova Legge diventano di spettanza normale dei Medici provinciali e circondariali e e tra Essi vi sono persone che potrebbero degnamente essere assunte a queste cariche, #4 Zoro particolare compito, costituirà sempre una Sezione importante dell'Ufficio Sanitario Centrale di una Provincia. In questa Legge non si tratta di soppressione di Ufficii, ma di un riordinamento di Servizii, pei quali si ha da temere non già l’ esuberanza, ma la deficienza dal personale. Quindi non è ragionevole nell’ applicarla, possa fare a meno delle sole persone competenti, che finora nella parte esecutiva del ramo sanitario abbiano per lungo volgere d'anni spiegato un’ attività costante ed acquistata la maggiore esperienza. — Questi medesimi concetti mi furono pure comunicati dall’ illustre Sig. Prof. Comm. LUIGI PAGLIANI, Direttore della Sanità Pubblica, e come resi mani- festo nel Sesto pubblicato Rapporto ch'io diressi a S. E. ii Sig. Ministro dello Interno. — 412 — ricevuta direttamente dalle mani degli inservienti che le mungevano affetti da pustole contratte dai cavalli infermi di grease, e governati da loro presso che contemporaneamente. Ed in conformità di sempre nuove osservazioni si convinse pure che la virtù preservatrice del cow-pox addiveniva anche maggiore se nei cavalli affetti dalla grease era precorsa un’ infezione generale con febbre e sviluppo di pustole in varie parti del loro corpo, spezialmente al muso, alle labbra, e nelle femmine intorno, intorno le pudenda. E così medesimamente opinava per le vaccine; ed a sicura addimostrazione del mio asserto, e per rendere evidente l’importanza che lo IenxER annetteva alle condizioni generali febbrili che sogliono accompagnare lo sviluppo del vero cow-pox, o dello spontaneo, trascrivo le parole che si leggono nell’ Opera sua da me citata, alla pag. 39*, e sono queste “ Noi abbiamo osservato che il veleno del cavallo, comunicato direttamente alla macchina umana, non può riguardarsi come sicuro preservativo contro il vaiuolo; questa benefica proprietà appartiene alla materia prodotta sul capezzolo delle vacche, dopo che (pag. 69) hanno risentita la prima azione generale del veleno. , Ben di buon grado ho posto in chiara luce queste affermazioni del celeberrimo IennER perchè altamente l’ onorano, e perchè non è a mia cognizione siano state da altri dichiarate a Lui appartenenti; e tanto e tanto più mi compiaccio d’ averle annotate qui a storica rettificazione, mentre ho riscontrato, nell’ op. cit. del ch. Layer, che alla pagina 13*, gliele contesta con le seguenti parole “ / n° est pas douteux que Inner n a pas observé sur le vaches de Glocester le veritable cow-pox d'origine équine. C° est par la seule induction qu’ il est arrivé è deviner une pareille origine, que les experiences seules de Lov devaient ulterieurement démontrer et que beaucoup plus tard les experiences institutes aux Ecoles vétérinaires de Toulouse et de Alfort ont definitivement établie. , Le osservazioni dello IenneR accuratamente studiate dicono ben altro e ben diversamente di quanto ha opinato il ch. Layer; il quale non deve avere avuto occasione di farne un esame minuto e me lo proverebbe l’ asserto: che lo IennER ritenne che il solo umore delle gambe infette del cavallo dà origine al cow por. Fu questo un primo concetto, corretto poscia da nuove disamine e come è stato dianzi da me reso noto e come ne posi ricordo ne’ miei pubblicati Rapporti annuali diretti all’ Eccellenza del sig. Ministro dell’ Interno, alcuni de’ quali in segno di particolare attestazione di stima e di omaggio presentai pure allo stesso illustre e benemerito Professore di Igiene di Bordeaux. Che il cow-pox, fosse poi originato dall’ Horse-por n° ebbe lo IrnneR più che un'opinione scientifica un convincimento, quantunque nutrisse tuttavia il sospetto che potesse fors' anche nascere spontaneo il vaiuolo nella vacca; ma non andò molto oltre su ciò, e solo qua e là nelle sue pubblicazioni porge qualche motivo per ritenere che tal fosse il nascoso pensamento di Lui. Sopra questo argomento, ormai — 413 — esporrò le idee degli Scrittori posteriori allo IrwnwER, specie di quelli del giorno d'oggi che poterono addentrarsi a vieppiù studiarlo, in virtù di tutti que’ mezzi che ora la Scienza e l’ Arte porgono a’ suoi più valenti cultori. Il concetto che l’ origine equina del cow-por appartenesse allo Iryner, venne per quanto ne penso, addimostrato dall’ Inglese Lor, mediante la pubblicazione nel 1802 di un suo pregevolissimo opuscolo intitolato “ account of some experi- ments on the origin of the cow-pox , e tradotto in francese dal De Carro di Ginevra nell’ anno stesso col titolo “ Recit de quelques experiences sur l’ origine de la vaccine par M. Loy , che si pubblicò nella Bibliotéque Britannique. Nel 1867 il ch. Bouvirr, conosciuta la grandissima importanza dello scritto or indicato, per riguardo all’ origine del cow-por, lo illustrò presso 1 Accademia di Medicina di Parigi, sebbene fossero già note le belle osservazioni e le esperienze eseguite nel 1860 dal Larosse a Rieumes poco lungi da Tolosa e le successive della Scuola di Alfort. In quest’ opuscolo, rimasto per non poco tempo dimenticato, vi è detto..... on ne trouvera pas indifferent (pag. 4 e 5) de savoir positivement si la vaccine est una maladie originaire du pis de la vache ou du talon du cheval.... J ai trouvè cependant que l’on a en general fait trop peu d’attention d la validité des preuves qui Ze docteur Ienner a donné de la seconde de ces assertions, et que l on s' est contenté trop legerement du resultat des experiences de m. m. CoLeuan et Simons que sembloit n’ étre pas favorable è cette theorie, pour la rejeter, ou du moins pour la mettre au rang des hypothéses hazardées — Quant’ a moi, depuis quatre ans que je m' occupe avec soin de la partie théorique et pratique de la vaccination 3° ai toujours trouvé que les preuves du D.r IenneR soint infiniment plus fortes que celles de ses adversaires — Vienne, 20 Aocett 1802. Accertati così i fatti voglio qui seguitamente esporre, ad ulteriore e sicura addimostrazione della perspicacia e della singolare penetrazione di quel gran genio e sommo benefattore che fu dell’ umana famiglia, lo IexneR, che Esso dettò precetti e norme per praticare gli innesti, per distinguere la pustola vera dalla spuria, per estrarre il vaccino ed inocularlo, conservarlo, e che a maggior sua gloria, nel virus vaccinico vi scorse o per essere più esatto, divindò: che potesse esercitare anche una potenza benefica contro varie malattie; in quanto che dopo l'innesto vaccinico molte volte aveva notato che nascevano cambiamenti rilevanti nella com- page organica, il più di sovente in vantaggio dei bambini innestati, ma talfiata anche arrecando conseguenze, temporariamente, su di loro nocevoli. Ecco, in proposito, come succintamente alla pagina 59 dell’op. cit. Esso estrinseca la sua idea “ Abbiamo osservato che il corpo umano è atto a ricevere » l’'affezion febbrile del cow-pox; non sarebbe egli forse convenevol cosa l' intro- » durlo nel corpo in casi di diverse malattie croniche, colla più grande probabilità » d'un felice successo ; probabilità appoggiata sopra ben noti principii fisiologici? , Da questa dimanda traspare chiaramente, se ben miro e deduco, che lo IENNER precorse le osservazioni venute assai tempo dopo di Lui, e ricordate in varie — 414 — pubblicazioni, e specialmente addimostrative l’ utile prodotto coll’ innesto vacecinico o anche contro aleune croniche dermo-patie, e tuttavia affezioni irritativo-nervose, quale ad esempio la pertosse o coqueluche. Lo IenNER invece additò la cosa in modo puramente generico nè conosco, anzi escludo in forza de’ molti esami praticati da me sulle Opere di Lui, che toccasse di particolari e determinate infermità e come afferma l’egregio giovine sig. dott. Pesa Cnerusino (Medico in Montasola Sabina) alla pagina 41* della Riforma Medica, N. 7, del 9 Gennaio 1890, con un Articolo intitolato “ il pus vaccino nella cura della pertosse ,, e ch'io riferisco, premettendo la dichiarazione che sarò sempre pronto a disdirmi se l’ egregio nominato Collega mi porgerà argomenti di prova della esattezza della affermazione di Lui ed anzi Gliene sarei grato. Dato un sunto biografico dei Medici che proposero un’ infinità di rimedii per vincere la pertosse, accenna che Esso nella sua tesi di Laurea “ tosse convulsiva con speciale riguardo alla sua cura, 1887 , riferisce diffusamente due casi di pertosse da Lui guariti in breve tempo mercè l’ innesto vaccinico. In tale circo- stanza ricorda lo IeNNER, il quale “ aveva osservato, Egli dice, che i bambini vaccinati da poco tempo restano immuni dalla pertosse e che la vaccinazione nell’ individuo non vaccinato, e colpito dal morbo in parola, ne accorciava il decorso ; e rammenta poi particolarmente il Voce, nè sa di altri che siansi giovati di questo innesto ,. Mi compiaccio di poter dar lode a questo erudito giovane collega, e, persuaso di fargli cosa grata, colgo la circostanza per appurare un po’ più la parte storica, rendendogli noto che oltre al Vor, hanno tentato l’ innesto vaccinico contro varie infermità non pochi altri Colleghi, e può in ispecie consultare le Memorie del nostro compianto collega ed amico carissimo il dott. DexerrIo Rasi, Vice-Conservatore ch’ era del Vaccino in Bologna. Il quale, nel Bulettino della nostra Medico-Chirurgica Società, Serie 3%, Vol. 28, pag. 268 e seguenti, e nello stesso Giornale “ Serie 4%, Vol. 1, pag. 359, del 1854 , publicò alquante osservazioni pratiche sulla Vaccinazione, e narra di non poche guarigioni da Lui ottenute in non iscarso novero di svariati casi morbosi, coll’ in- nesto vaccinico; specie contro il lattime del capo nei bambini ed anche diffuso al viso ed al petto, ed eziandio riferisce il beneficio quasi insperato da Luî verificato nei bambini affetti da pertosse, non che dal Griva; sicchè ne propone la imitazione ai colleghi tutti e più particolarmente ai componenti la stessa accennata Società. Rettificato ciò proseguo il mio cammino e noto che fra le cose precipue addi- mostrative la somma intuizione dello IeyneR e di cui mi sono dato special cura di rilevare ad onore di Lui, e talune o non considerate o superficialmente, oppure negategliene da qualche scrittore del tempo trascorso ed eziandio dei contemporanei la paternità, posi accenno del sospetto, o meglio della credenza natagli che il Cow-pox potesse fors' anco originarsi nella vacca spontaneamente, e quindi non essere esclusivo effetto della materia o grease contenuta nel tallone del cavallo e conseguente ad un’ infezione generale febbrile di esso animale. — 415 — Ebbene, vediamo adesso se questa dubbietà è stata tòlta di mezzo con un assoluto schiarimento mediante osservazioni singolari eseguite intorno questo propo- sito. A raggiungere cotale intendimento mi gioverò degli studii de’ più eminenti Scrittori, esteri e nazionali che tutti si diedero intorno questa materia; studii che mi sono procurato, ossivero che sono stato in grado di esaminare, e il feci colla maggiore diligenza di cui sono stato capace, e specialmente mi avvalsi dell’ impor- tantissimo Trattato del chiarissimo Layer ch'io molto osservo ed apprezzo. Riassumendo impertanto l'insieme delle mie pazienti disamine non ho saputo trarne che quest’ unica conchiusione fondata sopra dati, molto considerabili sì, ma negativi tutti, al fine di stabilire la possibilità dello sviluppo spontaneo del comw-pox, ed è: che fu verificata la comparsa contemporanea del cow-pox in varie località e fra di loro molto distanti; nelle quali località per accuratissime indagini prati- cate si è potuto osservare che in precedenza non vi erano stati cavalli infermi della grease, o che avessero pascolato o coabitato con esse, e si poteva escludere, in forza sempre di accurate indagini, che le persone le quali le mungevano, o governavano, erano perfettamente sane e non aveano avuto relazioni o rapporti con cavalli infetti, e tuttavia che non possedevano affatto di questi animali. Tali considerazioni sono poi confortate dal parere di varii Scrittori spettabilis- simi ed avvalorate dall’ asserto autorevole di un Pearson (1), il quale dichiara senz ambagi che il cow-pox si può manifestare spontaneamente nelle vacche; dal Dunvnine che nel Devonshire; vide il vaiuolo nelle vacche senza che vi fossero cavalli infetti dalla grease od avessero Il Rorsepor ; dal WoopwiLLE, che nelle vaste praterie di Londra, ed in Inghilterra, Gli occorse il medesimo, e così dal I. Bany in Islanda, dal Arkin nelle Contee di Sommerset, Devon, Buckingam, Dorset, Norfolk, Suffolk, Leicester e Strafford. Il Bucnorz osservò il cow-por in Allemagna, nel Mecklembourg, nell’ Holstein, Brandebourg e nella Slesia (2); fu veduto in Isvizzera nelle vaste ferme di Giesen e di Erlangen, in Lombardia e se ne fece menzione della comparsa sua anche negli Stati Uniti d’ America. In Francia pure si ritenne che il cow-pox potesse sorgere spontaneo e se ne occuparono specialmente un Bousquer, un Depavr, ed in Italia il Sacco, il De-Carro, il compianto nostro egregio collega Soverini CARLO (3) io stesso come membro della Commissione Municipale di vaccinazione animale e gli egregi componenti la Commissione di Torino; e specie il ch. Prof. Bassi. Recentemente ne potè verificare un caso speciale il valente signor dottor Bowvicini (Assistente nella nostra Clinica veterinaria) che me ne diede ragguaglio con lettera che mi diresse non ha molto, e della quale cortesia di Lui gliene so grado moltissimo. (1) Vedi, PEARSON « An inquery into the history of the cow-pox1798; in 8°, pag. 116 ». (2) Further observations of the variolae vaccinae, and a continuation of facts and observations to the variolae vaccinae. 1799, Lonnon, (3) (Vedi Serie 3. V. 8.° del 1877) Memorie dell’ Accademia. — 416 — In un secondo periodo, ed alloraquando si cominciò a dubitare della possi- bilità che il vaccino coi lunghi trapassi perdesse della propria attività, le indagini per iscuoprire il cow-pox si fecero anche con maggior premura e quindi molti Autori ne descrissero casi speciali raffermativi il concetto che il vaiuolo della vacca, potesse non infrequentemente presentarsi spontaneo. In questi ultimi anni poi, in virtù di accurati e ripetuti esami sui caratteri speciali delle pustole vacciniche una spettabilissima Commissione di Bordeaux, ha dichiarato che reputa d’ essere giunta a riconoscere e distinguere il cow-por spontaneo, dal trasmesso alla vacca, mediante l’ innesto del cavallo affetto da horse-por. È di tanta e sì particolare ed alta rilevanza l’ asserzione e per la quale reste- rebbe non più in modo negativo, sì bene positivo riscluta la questione, ch'io mi sono ritenuto obbligato di richiamarla in esame, e d’ indicarne chiaramente la fonte d’ onde la trassi; la quale è sì rispettabile ed autorevole da far acquistare sulle prime la convinzione che la Scienza potesse aver fatto un nuovo ed importante acquisto. Alla pagina 21 e seguenti dell’ Opera citata del Layer ecco quanto v'è seritto relativo alla spontaneità del Cow-por e dell’ Horse-por e che brevemente riassumo: «“ Nel 1883 il Servizio municipale di Vaccinazione di Bordeaux fu in grado di riconoscere e di esperimentare due Cow-pox spontanei, ed in causa di ciò ci demmo ad uno studio serio e per primi, e per la prima volta, formulammo la distinzione la quale può essere stabilita fra i caratteri dei due cow-por: quelli che derivano dalla trasmissione dell’ Horse-por alla vacca; e quelli che nascono o sì osservano direttamente sulla vacca nella quale non vi sono stati assolutamente rapporti col cavallo ,. Le osservazioni furono praticate da una Commissione composta di personaggi reputatissimi e profondi conoscitori di questi studii speciali e furono : lo stesso Layer, un Pruwrav, un Durur, un Duranp e Pasor; e dei medici Veterinari Barrrer et Perroxny, i quali tutti si radunarono il 23 Marzo 1883 e sussecutivamente con cure scrupolose e replicate studiarono il procedimento dell’ hor:se-pox e del cow-pox, e verificarono minutamente le forme singolari delle pustole relative, che il Layer, molto opportunamente descrive ed a maggiore chiarezza riproduce anche in tavole colorate e ben disegnate nel suo importante Trattato. Essi Commissarii unanimemente vennero nella conclusione che trascrivo: Il y a deux sources naturelles du vaccin qui sont: le horse-pox et le cow-pox primitifs. L’ ombilication est le caractere spécial de tout vaccin transmis (pag. 35). Quantunque, ben volentieri io lo ripeto, mi senta sinceramente compreso del maggiore ossequio pegli illustri componenti la Commissione di Bordeaux, tuttavia dopo maturo esame e per varie ragioni ch'io reputo considerabilissime, e m’ ap- presto ad accennarne le precipue, non mi sento disposto ad accogliere la loro sentenza. Innanzi tratto osservo che la formazione dell’ ombellico non è soltanto propria — 417 — del Vaiuolo e del Vaccino, ma la si vede anche in varie altre dermopatie, nelle quali sviluppansi vescicole e pustole, alloraquando, dice l’ HegrA, i rapporti anato- mici, come il modo di svilupparsi delle efflorescenze, hanno analogie con quelle del Vaiuolo. Anzi perchè si formino tali efflorescenze ombellicate non è neppure necessario che succeda trasudamento di fluido ; perchè a dare origine a formazioni simili alle pustole vaiuolose, basta anche la raccolta della materia sebacea, parti- colarmente quand’ essa s’ arresta lungo tempo in forma fluida, come nei così detti Comedoni e nel Mollusco contagioso; ed aggiungo nell’ ectima artificialmente ingenerato. Pongo tuttavia nota che l’ ombellicazione della pustola può variare o mancare a seconda del punto in cui essa si sviluppa; ed a questo proposito sono ben degne di essere rammentate le osservazioni del Voier sulla distribuzione dei bulbi dei peli, che concorre a modificare l’ efflorescenza cutanea, a cui piacemi aggiungere la com- promissione del condotto delle glandole sebacee e sudorifere per avere ragione della surricordata ombellicatura ; la quale, ripeto, non è obbligatoria alla pustola vaiuo- losa e molte volte manca. L’ Hesra ulteriormente dichiara : (1) che l’ombellico e le pseudo-membrane esi- stono non solamente nella variola vera, ma anche nel varioloide e nella varicella ; che se osservansi più frequentemente nella variola vera, ciò dipende solamente dal più lento sviluppo delle singole efflorescenze e si può stabilire la legge: quanto mag- giore è il tempo di cui una efflorescenza ha bisugno pel suo sviluppo, tanto più securamente essa — quando è situata sopra un condotto di un bulbo di peli — prende forma ombellicata, e quanto più prontamente essa si sviluppa, tanto più globosa sarà la forma sua, massime se ha sede in uno spazio inter-follicolare. Noto da ultimo che la pustola vaccinica è composta di sepimenti simili a quelli del limone, i quali spiegano benissimo la formazione dell’ ombellico. Mentre la pustola vaiuolosa è formata da una sola cavità e talvolta offre una rete trabecolare, secondo quanto risultò a Troporo IiircENsEN e ne pose memoria nel suo stupendo Trattato di Patologia speciale, del 1888. Dall’ esposto parmi quindi rimanga, se non altro, alquanto scossa l’ assoluta af- fermazione della Commissione di Bourdeaux e se non vengono fuori ulteriori studii a schiarimento degli antecedenti, continua a rimanere l’ incertezza intorno ]a discussa materia. La quale, a mio vedere, parmi potesse esser meglio illuminata dagli esami microscopici fatti sull’ umore contenuto sia nella pustola vaiuolosa, sia nella vaccinica. A facilitare questo compito stimo non un fuori d’ opera il riportare in questo scritto le opinioni principali e recenti che si hanno in proposito, quantunque mi vegga astretto di dover premettere che esse sono ancora molto vaghe, molto inde- terminate e che non hanno approdato a conchiusioni abbastanza soddisfacenti, ma (1) Vedi HepRA — Trattato delle malattie della pelle traduzione del Loncni. Pag. 232; 1886. TOMO X. i 53 — 418 — accennato puramente a tentativi (iniziati fino dal Sacco) alcuni de’ quali però alquanto incorraggianti. Il Marorra nella Rivista Clinica e Terapeutica N. 11 e 12 del 1886 ha un importante lavoro intitolato “ Ricerche sul microparassita del Vaiuolo , dal quale ne trae le sequenti conchiusioni: 1° secondo le mie ricerche esiste costantemente nel materiale esordiente le pustole vaiuolose, che non contengono ancora pus, una sola specie di micro-organismi, ed è uno speciale micrococco, il micrococco tetro- geno; nelle pustole invece si trovano degli altri mierococchi; per lo più il micro- coccus albus, che somiglia moltissimo a quello descritto dagli altri Autori e ritenuto come il micro-parassita specifico del Vaiuolo: 2° Alcuni osservatori, il K1e8s, il Conn, il BareaGI, hanno già scorta la esistenza di un micrococco tetrogeno nel pus. Vaiuoloso; però non l’ hanno isolato, nè hanno dato ad esso l’importanza che merita, ritenendolo o come un fatto accidentale (Cohn) o come un rallentamento del processo di riproduzione per scissione e ciò afferma il BaregGiI: (1). 3° I micrococchi assai più rilevati in grandezza, descritti da qualche Autore (BirEGGI) e ritenuti come impurità nelle culture senza averli isolati e quelli stessi ch'io aveva notati per l’innanzi, seguendo metodi meno proprli di colorazione, sono dovuti probabilmente al coloramento della sostanza unitiva intermediaria, che non lascia vedere i quattro micrococchi che involge: 4° il micrococco tetrogeno, da me studiato si coltiva molto bene nella gelatina nutritiva e nell’ agar-agar, rese molto alcaline, nello siero di bue coagulato, sulle uova cotte; non si sviluppa invece sulle patate, anche se l innesto provenga da una colonia artificiale di micrococchi tetrogeni: 5° il micrococco tetrogeno del Vaiuolo vive meglio in un mezzo poco alcalino dopo le sue colture artificiali in sostanze rese meno alcaline: 6° le colonie che si ottengono con la sua coltura, sono di un bel colore giallo- arancio, lucido, spesse e rilevate sulla superficie di coltura. Il massimo spessore l’ acquistano sull’ albume delle uova cotte, potendo arrivare a quattro millimetri: 7° lo sviluppo delle colonie è lento nella gelatina nutritiva; occorre poco più di un mese perchè s’ abbia il massimo sviluppo; è rapido invece nello siero di sangue coagulato alla temperatura di 37 Centigradi: 8* il mierococco tetrogeno fonde assai lentamente la gelatina nutritiva e lo siero di sangue coagulato; la prima comincia a fondersi dopo un mese alla tem- peratura di 21 centigrado e gradatamente si fonde tutta dopo altri 20 giorni; il secondo comincia a fondersi dopo due giorni, oppure cinque, secondo che la pro- vetta si trova alla temperatura di 37, o di 21 centigrado, e si ha dopo un mese la fusione quasi completa dello siero contenuto nella provetta: (1) Vedi CarLo BarEGGI. — Sui microbi specifici del Vaiuolo, del Vacino ecc, Milano 1884. — 419 — 9° la gelatina e lo siero di sangue dopo la fusione, hanno una reazione inten- samente alcalina : 10° lo sviluppo del micrococco tetrogeno oscilla tra i 16 e 43 centigradi; il suo massimo sviluppo s' avvera a 39 centigradi: 11° gli innesti praticati anche con la settima generazione di coltura nei vitelli, producono in questi delle pustole identiche perfettamente alle vacciniche, e perciò il micrococco tetrogeno che si trova nelle pustole vaiuolose, è il micrococco spe- cifico del Vaiuolo: 12° gli innesti fatti nei cani sono negativi, anche se si vuole produrre artifi- cialmente più alcalino il loro sangue: 13* le inoculazioni nel connettivo sottocutaneo dei cani e delle cavie nella dose di 2 grammi di coltura per i primi, di mezzo grammo per le seconde, non producono alcuna lesione specifica, ciò vuol dire che il micrococco tetrogeno non ha nulla di comune neppure coi mierococchi piogeni: 14° dalla facilità di sviluppo nei mezzi alcalini si trova indicata la cura degli acidi (Il Morgagni parte 2* N. 8, del 19 febbraio 1887, pag. 105). Il Gurimann poneva negli Archivi del Vircnow dell’anno 1887 che nelle pustole recenti di Vaiuolo v’ aveva scòrte due varietà di micrococchi, il cereus e 1° albus indifferente; e lo staphylococcus pyogenus aureus, patogeno. Proseguendo oltre nelle sue ricerche, riuscì col vero pus della pustola ad isolare tuttavia altre due varietà di cocchi. Uno di un giallo verdastro citrico che si sviluppa rapidamente nell’ agar- agar alla temperatura di 36 centigradi; nella gelatina non si liquefà ugual- mente, e nel brodo alla stessa temperatura. Questo cocco è ovoide e trovasi unito in gruppi e non in catene; non è patogeno. L’ altro cocco, di mezzano volume, si riconosce dal formare alla superficie dell’ agar-agar delle colonie d’un bianco grigiastro che non rivelano nel punto d’inoculazione, e che si sviluppano lenta- mente; vegeta pure nella gelatina senza fluidificarla. Come il precedente si mostra pure disseminato in gruppi e non è patogeno. Inoltre narra il GurrmanNn che in un infermo su tre è riuscito dal contenuto delle pustole ad isolare lo staffilococco piogeno albo e conclude: che il coccus pyogenus aureus et albus, sono cagione della suppurazione delle vescico-pustole del Vaiuolo, ma che non sono però gli agenti specifici di questa malattia. Ricorda pure il chiarissimo Autore come dal Prrerrrer sia stato trovato nel contenuto delle pustole del Vaiuolo e del Vaccino, un nuovo parassita della specie degli sporozoa Leuckart, ch’ è di figura rotonda od ovoide; possiede movimenti proprii ed offre in media una grossezza di 0,020 millimetri. Anche il Prof. HawuER di Iena, nell’ anno 1870, pose nella Gaz-méd. de Paris, pag. 119 le seguenti sue considerazioni e cioè: che scoperse nel pus vaiuoloso e nell’ umore vaccinico, un micrococco che credette appartenesse all’ eurotium herbarum, ma che poscia riconobbe essere uno stato allotropico della torula refuscens, fungo che cresce abitualmente sui letami e sugli escrementi secchi, — 420 — A maggiore schiarimento storico di questa intricata ed oscura materia e per tentar pure di diradarne 1’ oscurità ho stimato cosa utile di porgere innanzi, a mano a mano che mi si è offerta l’ opportunità, agli studiosi le note principali che pazientemente ho riunite, colla speranza che possano loro valere di qualche guida; laonde e sempre con questa mira porgo contezza eziandio delle disamine del Prof. P. Pourouier le quali ho raccolte negli Archives générales de médicine, dell’ Aprile 1888 e sono le seguenti. Reputando l'Autore che il Vaccino possa scadere di sua virtù profilattica, con questo pensiere procurò d’indagarne la causa, e giunse a persuadersi che dipen- desse in molta parte dalla presenza di un microrganismo parassita del cow-por ed ottenne questi risultati che annoto e cioè: alloraquando tutto il campo vacci- nico d’ una giovenca presenta delle pustole alterate, questa giovenca deve essere scartata e deve prendersene altra ed innestata con nuovo materiale vaccinico. Se tutte le pustole non sono alterate dal parassita, cio che osservò accadere al principio, (au debut) si può fare una attenta scelta e ricusare il liquido vaccinico delle pustole alterate e si dovrà adottare una rigorosa antisepsi per impedire la propagazione del parassita stesso e così si potrà pur riuscire ad impedirne i progressivi danni. Ho riportato le osservazioni del PourquiER perchè accennano alla scoperta d’ un parassita del cow-por (senza però averlo descritto) come sarebbe stato desiderabile ; ho apposta poi anche la seconda parte delle sue osservazioni risguardanti il pro- cedimento che si dovrebbe adottare qualora questo nominato avesse invaso il campo, come Esso lo chiama, vaccinico, sebbene non condivida le sue vedute. E per fermo, se dopo l’ innesto si scorgono delle pustole non bene sviluppate, o se esaminandone il contenuto lo si trova imperfetto, altro non rimane a farsi che scartare addirittura l’ animale e giovarsene d’ altro ch’abbia perfetta e regolare la pustolazione. ; Io nel mio particolare, e così ì miei colleghi del Comitato vaccinico animale, ci siamo regolati di questa guisa e sempre mai ce ne trovammo contenti, specie attuando poi le prescrizioni da me rese note al pubblico ne’ miei annuali Rapporti onde rendere maggiormente proficua la profilassi vaccinica. Posta la quale avvertenza, noto ancora di sfuggita che nella “ Zesfsehrift fur Hygiene , Band III del 1888, sono accennati alcuni esami microscopici fatti da varii Autori; ma per non avere in essì rinvenute cose singolari ho reputato bastevole il solo indicarli, appunto a comodo degli studiosi, e senza più passo a riferire da ultimo le osservazioni microscopiche instituite nel Laboratorio del nostro illustre Prof. Craccio ed eseguite dall’ esimio e valentissimo Sig. Dott. Virrorio Mazzoni suo Assistente, al quale offersi il materiale vaccinico ed il vaiuoloso, onde sottoporlo ad accurato esame ed ecco la relazione del lodato Sig. Dott. Mazzoxi; il quale, lo dico con somma mia dispiacenza, nel preparare il pus vaiuoloso somministratogli, ed avendo disgraziatamente qualche sebbene lievissima scalfitura nella pelle delle mani, s' innestò il Vaiuolo (e lo comunicò anche alla gentilissima sua Consorte) che SOMMO fu confluente e grave (1). Mi è però stato di consolazione il vederli entrambi scam- pati dal pericolo incorso e l’ animo mio si è tranquillato interamente dall’angoscia «sofferta. — L'esame microscopico sì dell'umore del Vaiuolo vaccino, che di quello del Vaiuolo naturale, fu fatto col metodo Kock-L6rrLeR. Negli esemplari microscopici fatti col primo (Vedi fig. 1°, Ocul. 4, Obb. ‘4, Imm. omog. KoristrA, camera lucida, Obb. ZErs) si trovano in grandissima quantità dei piccolissimi micrococchi, visibili solo con forte ingrandimento, sparsi qua e là irregolarmente per tutta la preparazione, o riuniti a due a due. Oltre a questa varietà notansi ancora delle catene di streptococchi e delle zooglee di staphylococchi piogenti. Negli esemplari microscopici ottenuti coll’ umore delle pustole del Vaiuolo na- turale (Vedi fig. 2°, Ocul. 4, Obb. ‘4, Imm. omog. KorIsrKA, tubo chiuso, camera lucida, Obb. Zris) si osservano dei microccechi che per la forma e pel modo di disporsi assomigliano in tutto ai primi, meno che hanno una grandezza maggiore del doppio. Anche in questi preparati si trovano in abbondante quantità i micro- cocchi del pus. Nell’ esame diretto dell’ umore delle pustole del Vaiuolo naturale non si è potuto ricavare nessun altro risultato perchè il contenuto di un tubettino capillare riservato alle nostre disamine, era completamente disseccato, forse per difetto di chiusura. Crede poi il Dott. Mazzoni che a meglio studiare l’ arduo argomento, farà d'uopo di ricorrere a colture fatte con materiale freschissimo e raccolto in- tubi ben disinfettati e chiusi alla lampada. E questo pur mi propongo io stesso se mi basteranno le forze e se potrò ot- tenere appunto la materia atta a tale importantissimo fine. Intanto mi compiaccio di poter affermare che il risultato ottenuto dagli intra- presi esami, e come si vede chiaramente nei preparati e nelle Tavole che presento, è consono a quello ricavato dai chiarissimi Autori di cui ho tenuto discorso specie del Masotta e dello studiosissimo BarkGGI, che continua ad addentrarvisi con molta lena, nella parte che riflette il cocco o miecrococco del Vaiuolo e del Vaccino; i quali minimissimi esseri sono analoghi per forma, sicchè l’ uno par l’altro, e la sola differenza consisterebbe che nel Vaiuolo lo sviluppo di essi, (cocchi o micro- cocchi) è maggiore di quello che si riscontra nella materia vaccinica. È poca cosa, ma ripeto che bisogna aver in mente che la quistione è tuttavia intricatissima e che occorrono molte altre e pazienti indagini a tentare di diradarne l’ oscurità e quindi, come annota lo Swres Samvere nel suo pregevole lavoro storico: “ Sugli (1) Oltre l’ isolamento il più rigoroso degli ammalati di Vaiuolo, ripeto qui quanto altri Autori già affermarono e quanto io stesso replicatamente pubblicai e cioè: la necessità di rivaccinare subito tutti gli individui della famiglia e ‘possibilmente tutti gli abitanti della casa in cui sì svi- luppò il Vaiuolo. — 422 — uomini che dal nulla s’ innalzarono ai primi onori , che non solo non bisogna trascu- rare alcuna cosa, ma cercare di migliorarla. Per l' analogia adunque che sembra, fondatamente, esistere tra i microrganismi osservati nel Vaiuolo e nel Vaccino, e tenuto calcolo di altre concomitanze speciali da me qua e là considerate, e singolarmente presi in esame e ben ponderati gli studii accurati e profondi dei chiarissimi WarLomont e Hvsurs (1) (da me ricordati nel quinto mio Rapporto generale sulle Vaccinazioni eseguite nelle Provincie del- l Emilia Marche ed Umbria, diretto a S. E. il Ministro dello Interno) dai quali studii ne discende, serenamente riflettendosi, che : i cavalli ed i bovini non possono di per loro medesimi creare l’ Horse-pox od il Cow-por, ma che gli uni e gli altri debbono, per somministrare una raccolta di materia detta vaccinica, averne rice- vuto antecedentemente la semente ; e riflettendosi che la semente originaria del Vaccino, ne’ suoi rapporti col cavallo e coi boviui, altra cosa non può essere che il Vaiuolo, nasce spontaneo e piano il concetto che la paternità del Vaiuolo e del Vaccino possa essere una sola, o lo stesso Vaiuolo. Il quale introdottosi nell’ organismo di questi animali, vi subisce un’ attenua- zione, dalla quale ne risulta il materiale che s è convenuto di chiamare vaccinico, per cui non vi sarebbero come si ritiene tre virus, ma uno solo, il vaiuoloso, che l’ organismo del cavallo e quello della specie bovina, renderebbe in uno stato d’ attenuazione, la quale riesce minima nel cavallo; donde la sua maggiore potenza e come risulta dagli esperimenti praticati innestandolo nell’ uomo e valutati dallo stesso Ienner, dal Sacco, dal De Carro, dal Loy e via via, non che da me medesimo e dai miei colleghi della Commissione Municipale di Vaccinazione animale. Laonde se ne può dedurre, (Warlomont) che l’ Horse-pox s' allontana meno dal Vaiuolo, di quello nol faccia il Cow-pox; e che il cavallo offre un cattivo terreno per la col- tura del Vaccino. Dichiaro, anzi riconfermo qui quanto già pubblicai (perchè rassodo di questa guisa la sentenza or mo notata) che innestati da me dei bambini colla materia presa direttamente da una pustola d’ZMorse-por (2) ebbi per risultato delle bellis- sime pustole vacciniche, susseguite però da febbre e da locale risipola, alle braccia, di non lieve momento. Per cui di presente tanto io nel mio particolare, quanto i componenti la prenominata Commissione, alla fortunata circostanza di trovare l’Horse-por spontaneo, ci serviamo del materiale di una o più pustole e lo tra- smettiamo nell’ ubero della vacca o nello scroto dei vitellini, e ne tragghiamo un vaccino vigoroso sì, ma perfettamente adatto alla Vaccinazione, che non reca di- sturbi valutabili, e che attechisce e preserva i vaccinati ammirabilmente. Per fermo, nel Settembre u. s. (1889) avemmo la buona sorte di esaminare un (1) Vedi « Traité de la Vaccine et de la Vaccination humaine et animal. » Paris 1883. (2) Vedi ancora la Memoria citata del compianto Dott. SoveRINi — Memorie dell’ Accademia delle Scienze dell’ Istituto di Bologna, Tomo 5, Serie 3°, Anno 1874. — 423 — bel cavallo proveniente dall’ Inghilterra, che aveva tre pustole vaiuolose alle labbra ‘e molte in gola. (Horse-pox.) Il 24 detto, innestammo una vaccina ed una manza coll’ umore raccolto dalle stesse pustole, facendo cinque incisioni, circa di due cen- timetri l'una, nell’ ubero di queste bovine. L'esito riescì splendidissimo, ed otte- nemmo anche molte pustole supplementari rotonde che diedero in abbondanza del- l'umore vaccino. Con questo materiale innestammo altra vitella, praticando ventidue incisioni, ed il 1° Ottobre avemmo pur da questo innesto un abbondantissimo e rigoglioso prodotto, che ci portò esiti regolarissimi, trasmesso che fu il contenuto delle pustole nei moiti bambini che si presentarono alla Sala di Vaccinazione. Dopo questo inciso, che mi parve dovess’ essere reso noto, ripiglio il filo del mio discorso e dichiaro impertanto che in virtù delle peregrine osservazioni degli illustri Autori rammentati, la mente può essere guidata a formulare tuttavia l’ idea che 1’ Horse-por ed il Cow-pox siano malattie identiche al Vaiuolo umano e come ne hanno possa annotazione. Disponiamoci adunque fin d’ora a non disprezzare quest’ idea dell’ unicità dei virus, accarrezzata da non pochi, ed accolta pure dal perillustre Hepra nel suo Trattato, da me altrove citato (Vedi pag. 266 e seguenti T. 1), e teniamo di mira che essa a mano a mano va acquistando maggiore terreno ed accenna di rimaner vittoriosa, se poniamo calcolo ai rilevanti studii che ho riassunti; studii che si continuano alacremente, in varii de’ principali centri scientifici d’ Europa, da Uomini preclari. Un altro argomento rilevantissimo in favore, e ch'io mi dò cura di mettere in evidenza, si è che gli avversarii non mi sembra abbiano molto potenti ragioni da contrapporre, e giacchè le principali le trovo raccolte dal ch. sig. prof. GrusePPE Prorera nel suo Trattato elementare delle malattie cutanee, pubblicato in Palermo nel 1881, così le riassumo in questo luogo, e con animo tranquillo e sereno v'appongo le osservazioni critiche, le quali mi scendono dalla mente dopo averle lette e ponderate. Il virus vaccinico, dice l’egregio prof. Prorera alla pagina 747, produce forme pustolose sempre o quasi sempre, solo laddove è inoculato; mentre il virus vaiuoloso inoculato in un punto, si rivela con pustole di vaiuolo su tutta la superficie cutanea, o quasi. Ebbene, non posso davvero accogliere la sentenza che gli effetti dell’ inocu- lazione vaccinica si manifestino solo nelle località ove si praticarono le punture, ma dichiaro che esistono fatti, resi di pubblica ragione, mediante i quali rimane incontrastabilmente ed a piena evidenza comprovato che dopo l’ innesto vaccinico (specie coll’ Horse-pox (e l’ ho dichiarato poc’ anzi) susseguono espulsioni generali di pustole per tutto il corpo e gli inoculati sono compresi anche da febbre. Nei giornali scientifici Inglesi si leggono ricordati alquanti di questi casi, ed il WoopviLLe ne descrisse non pochi. A dimostrare poi che l’ innesto vaccinico non può limitare i suoi effetti alla pura — 424 — località, basta il riflettere appunto allo stato febbrile che nel terzo o quarto giorno dopo l'innesto vanno quasi sempre soggetti i bambini, oppure a malessere ed inquietudini e via via, per dover ammettere che l’ organismo loro si commosse in forza dell’azione del virus vaccinico, in proporzioni ben minime sì in confronto a quelle derivate dall'innesto vaiuoloso; sebbene però possa venire addimostrato che non infrequentemente si verificano fenomeni morbosi, anche nel Vaiuolo spontaneo, a forma lieve. Nel tempo non breve che fui Direttore del Lazzaretto de’ Vaiuolosi, nella terribile epidemia del 1870-71 ebbi a notare alquanti casi di espulsione vaiuolosa afebbrile e con non gravi disturbi degli infermi. Altra conchiusione è la seguente : I fenomeni generali sono gravi nel vaiuolo, meno poche eccezioni e minime al seguito della inoculazione vaccinica; tanto minime che alcuni hanno considerato gli effetti dell’ ino- culazione vaccinica nell’ uomo, come effetti lucale. La risposta a quest’ osservazione la si rileva in gran parte dalla precedente mia, e solo qui ripeto che i fenomeni anche minimi non possono assolutamente limitarsi ed essere dipendenti dalle località punte, ma debbono ascriversi e ritenersi causate dallo assorbimento del virus vaccinico nell’ organismo; diversamente, non potrebbe l'innesto valere a proteggere, sia pure in via temporaria, l’innestato contro il Vaiuolo naturale. E tutte le imputazioni, talvolta pur troppo giustificate dai fatti, che dopo or più or meno lungo tempo nei bambini vaccinati, che dapprima erano sani e robusti, addivennero rachitici, serofolosi, o mostrarono malattie infettive, non rendono forse manifesta l’ azione del virus sopra quei piccoli esseri umani? L’ esalazione cutanea e la polmonale, segue il ch. prof. ProretA, non trasmettono la vaccina, invece trasmettono il vaiuolo. Osservo puramente che le dottrine attuali distruggono affatto la considerazione qui sopra riportata, in quanto che non sono le esalazioni che si trasmettono, sì bene i minimi esseri parassitici che in forte quantità sprigionansi dagli organismi dei vaiuolosi e possono addurre il Vaiuolo. È opposto: che la vaccina inoculata sull'uomo (impropriamente detta dal ch. A. marcia Tenneriana, o semplicemente marcia) sugli animali bovini e cavallini, prende eguale sviluppo; mentie il vaiuolo s' inocula con effetti positivi sull'uomo solo, e sugli animali rammentati, non attechisce 0 dà piccole papule rossiccie che qualche volta pre- servano dalla vaccina, qualche volta no. E pur qui sono mio malgrado costretto a non potere accogliere le cose affer- mate, in questa quarta argomentazione, perchè contrarie a fatti replicatamente noti (vedi Hesra) ai vaccinatori, specie ai Medici veterinarii i quali osservarono che il Vaiuolo umano attechisce sia inoculato al cavallo, sia ai bovini, e dà luogo ad una eruzione vaiuolosa; solo si verifica che passato da cavallo a cavallo, il virus vaiuoloso umano s’ attenua sempre più. E così egualmente occorre ai bovini. Sì nell’uno, che nell’ altro però il virus vaivoloso umano conserva la sua identità, cioè a dire non diventa Horse-porx nell’ uno, oppure Cow-pox nell’ altro, ma si man- — 425 — tiene sempre virus vaiuoloso umano. Il celebratissimo Craauveav in una sua Memoria letta all’ Accademia delle Scienze di Parigi afferma d’ aver innestata la linfa del Vaiuolo umano nel cavallo e di avere ottenuto delle pustole vacciniche. Aggiunge che fatta l'iniezione della linfa vaccinica entro una vena del cavallo, ebbe per risultato un’ eruzione generale. Il Rirer (1840), Basizio Tare, da Kasan (1839) CreLy (1840) Senrrr (1872) Purwax di Boston (1852), Vorar d’ Amburgo riuscirono pur essi nelle loro esperimentazioni a risultati favorevoli e positivi e noto finalmente che nel 1882 il Bapcocx al dire del Senato: nel suo Manuale di Vaccinazione edito in Londra, nel 1868, si procacciò in Brigthon per 37 volte, dal 1840 in poi, la sua linfa, mediante la vaiuolizzazione di vacche. Dopo ciò tutto, credo che l’esposto serva ad oltranza a prova contraria dell’ asserto. La quinta argomentazione è la seguente: Queste forme locali della vacca e del cavallo, (intenderassi il Cow-pox e l’ Horse-pox) inoculate sui bambini non vaccinati, danno sempre vatuolo. (?) Non arrivo a comprendere il concetto di questa osservazione, poichè è saputo da tutti che il materiale del Cow-pox e dell’ Horse-pox, innestato negli umani pro- ducono il benefico vaccino e nulla più. Finalmente riporto la sesta ed ultima argomentazione ed è: che inoculando sugli” animali e sull uomo, con la stessa puntura, vaccino e vaiuolo, sì hanno costantemente gli effetti propri a ciascuna di queste malattie, senza che una abbia azione sullo sviluppo dell’ altra. Prego l’ esimio sig. Collega d’esaminare gli studii in proposito compilati da Clinici e da Patologi illustri, Stranieri ed Italiani, specie quelli di Lurer PAroLa € Dottrina vaccinica , del Bousquer “ Traitè de vaccination , e di alquanti altri di cui i nomi troverà notati in una mia Memoria, pubblicata nel Bollettino delle Scienze Mediche di Bologna, Serie 4, Vol. 3°, fino dall’ anno 1855, intitolata “ osser- vazioni risguardanti la contemporanea esistenza del Vaiuolo e del Vaccino ,. In essa rilevo che verificai casi di modificazione avvenuta in vaiuolosi, ne’ quali aveva precedentemente o contemporaneamente ai primi sintomi di sviluppo del Vaiuolo, praticata l’ inoculazione della linfa vaccinica umanizzata. Tuttavia vegga, per tacer d’altre molte citazioni, ed osservi il N. 60 dell’ Union Médicale Mardi 10, Mai 1887, “ sull’ attenuazione e preservazione del vaiolo , mediante la vaccinazione praticata durante V inoculazione , ed allora modificherà i pensieri espressi nel suo Trattato ed a questo riguardo raggruppati in esso. Laonde, rifacendomi alla teoria dell’ unicità dei virus, chiudo anche questo rilevantissimo tema affermando che parmi prudente, assennata e ragionevol cosa di non precipitare a volerla gettare all’ ostracismo senza appello, ma ho per sano consiglio d’ esaminarla con calma e con imparzialità, e d’ attendere gli ulteriori responsi che tra non molto daranno la Scienza e l’ Arte. Intanto si ponga calcolo che le osservazioni esperimentali e microscopiche del Danese Quisr, (sull’ unicità. dei virus) proseguite e rese più sustanziali dalle successive e recenti del Milanese TOMO X. i 54 — 426 — Caro D. Barga, da me già onorevolmente citato, sono degne di grande studio e di grande amore (1). Ora, secondo sempre l’ ordinamento prefissomi nel compilare l’ attuale mio studio e per offerire un complessivo e fecondo concetto di quanto precipuamente risguarda la Vaccinazione, parmi cada in acconcio di esaminare da ultimo quale dei due metodi d’ innesto sia da preferirsi, o da adottarsi esclusivamente, nel praticarla, vale a dire se, l’ umanizzato, oppure l'animale; e tanto più: trovo opportuna questa ricerca perchè forma base del nuovo ordinamento igienico, già in parte attuato dal nostro Governo, e colla fiducia che le nuove disamine che rispettosamente verrò sponendo, potessero essere in grado di chiamare le desiderate modificazioni nel Regolamento che si stà elaborando; e ciò a comune beneficio e ne fo vòti caldissimi. Affinchè poi io non dovessi essere, per progetto, ritenuto partigiano dell'uno piut- tosto che dell’ altro metodo (mantenendo immutate le mie opinioni replicatamente sottoposte ull’ Autorità ne’ miei annuali Rapporti) premetto i riassunti storici di massima rilevanza, banditi da Uomini preclari che stanno in cima del progresso e sono i pionieri della Scienza, e con essi chiudo le mie forse troppo prolisse con- siderazioni. L’ illustre HerA, “ op. cit , afferma che per isciogliere la quistione della prevalenza da darsi ai due vaccini, è indispensabile ricorrere alle statistiche; or bene, Esso saviissimamente riassume i resoconti del principale Istituto di Vaccinazione, o quello di Vienna e di questa guisa trova la più esatta soluzione del quesito. Ivi si possono esaminare, regolarmente registrate, le inoculazioni di molte discen- denze, senza interruzione continuate, e primieramente registrate dal Decarro al principio di questo secolo ; le quali furono continuate fino al presente colla linfa vaccinica umanizzata. Dichiara, che queste vaccinazioni attecchirono perfettamente sempre e preservarono così bene dal Vaiuolo, come quelle che, nel corso del tempo, si credette di dover mettere a prova, innestando direttamente i bambini colla materia presa dalle vacche. Questo fatto, prosegue, lo si può garantire perchè nello Stabilimento è man- tenuta una regola e conservato un ordine esemplari, ed in una data Sala s’ innocula solamente e sempre la stessa materia e si tengono, ben inteso, separati i Registri. Il ch. Sig. Dott. FrIspIinGER usa nei medesimi giorni soltanto la medesima linfa; laonde i risultati che vi si ottengono, possono considerarsi, sotto ogni rapporto, come prove convincenti. Conclude (e questo è importantissimo) che pur esaminato il così detto bro turchino, comparso in Londra nell’anno 1857, il quale sì fonda sui dati statistici e sui giudizii raccolti in tutta Europa, stampato per commissione del Governo (1) BarEGGI, sui microbi del Vaiuolo e del Vaccino. Milano, 1834-85. — 427 — Inglese e presentato al Parlamento, le osservazioni in esso poste concordano piena- mente con quelle dell’ Istituto di Vienna. La Vaccinazione animale scade invece nei continui trapassi ; ma non per questo deve essere dichiarata di poca utilità, specie per rinvigorire la linfa vaccinica alloraquando si ha la buona fortuna di rinvenire il cow-por naturale, e sembra allora più valevole nelle Rivaccinazioni. Dunque l’ HrsrA vede la necessità che si mantengano contemporaneamente vivi e rigogliosi i due metodi d°’ innesto. Udiamo altro celebratissimo scienziato e pratico ammirabile, il Layer, quali opinioni abbia formulate nel suo stupendo Trattato replicatamente da me encomiato. Alla pagina 303 e seguenti nel riassumere le sue idee antecedentemente poste afferma: che la Vaccinazione umanizzata per trasmissione del Vaccino da uomo ad uomo, è il metodo praticato fino dalla scoperta Ienneriana, e presenta, singolar- mente all’ inizio di sua umanizzazione, una maggiore attività del Vaccino di coltura, preso dall’ animale. Tale attività crede però che possa diminuire per determinate cagioni (che indica) per cui vede la necessità di rinvisorirla alla sua fonte d’ origine. La Vaccinazione animale non può accogliersi come esclusiva la Vaccinazione umanizzata; ma la coltivazione del Vaccino animale assicura il vero attributo del Vaccino umano, somministrandogli una sorgente sempre pura di riforma, mettendolo al coperto d’ ogni sospetto di degenerazione e di contaminazione, per cui dev’ es- sere mantenuto e protetto (1). Parole d’ oro e perfettamente consone alle pronunciate dalla Commissione no- minata in seno dell’ Accademia delle Scienze di Parigi, presieduta dal celebratissimo Hervisvx, e che induranno, mi si perdoni l’ insistenza, il Governo nostro ad acco- gliere più miti consigli, apponendo al nuovo Regolamento riforme in armonia al fior fiore degli studi a cui si danno da molti centri scientifici, i più eletti e più robusti ingegni, intorno questa branca principale di Pubblica Igiene. E su questo proposito mi gode l’ animo di qui rammentare il famoso Con- gresso Igienico tenutosi in Berlino pochi anni sono, in seno del quale fu composta una celebratissima Commissione, presieduta dal sommo Koca. Nell’ Articolo che risguarda i metodi di Vaccinazione si addivenne all’ identica conchiusione da me e da non pochi altri sostenuta, o quella: di mantenere vivi e rigogliosi i due metodi, l’umanizzato e l'animale, ed il Professor KerscHENstEINER dichiarò apertamente che la pretesa di vaccinare soltanto con linfa animale era per lo meno eccessiva. Noto in fine, e lo annotò il ch. Prof. Comm. Atronso Corrapi: che non è mai stato fatto un lavoro che illustri maggiormente la quistione della Vaccinazione e in modo. così completo e particolareggiato (colla cooperazione di avversarii della Vaccina- zione) ed i Medici Tedeschi hanno davvero ragione di guardare con orgoglio questa (1) Dunque per le cose tutte assennatamente affermate, ho maggior fede che vorrà il Governo assistere ed incorraggiare (sopravegliandoli) i benemeriti Comitati di Vaccinazione animale. — 428 — riunione e rallegrarsi delle conchiusioni formulate. (Vedi Smidt's Iahrbiicher, 1885, COVI, 198). Sono impertanto oltremaniera lieto che anche i recenti pensamenti delle cele- brità scientifiche, da me dianzi ricordate, abbiano confermato in modo splendido quanto in antecedenza e ripetutamente aveva dichiarato, e col massimo ossequio aveva posto sott’ occhi ne’ miei Rapporti generali al Governo (specie nell’ ottavo) per quanto risguarda i due metodi di Vaccinazione, l’ animale cioè e l’ umanizzato, addimostrando che l’ uno, l’ altro non poteva escludere; sì bene dovevano e debbono entrambi coadiuvarsi a più maggiore beneficio dell’ umana famiglia. Fui e mi mantengo tra i più caldi sostenitori della Vaccinazione animale ed a meglio eseguirla inventai “ la mia Lancettina coperta , che di recente ho resa più gentile e può essere facilmente pulita e fatta asettica molto meglio degli altri analoghi istrumenti. Sempre e sempre però feci ognora manifesto che sarebbe un grave errore l’ abbandonare l'innesto Ienneriano, e che esagerati furono e sono i danni che qualche rara volta si possono riscontrare, e che separato il loglio dal grano, rimane e rimarrà sempre l’ innesto vaccinico umanizzato, opportunamente rinvigorito coll’ Horse-pox, o col Cow-pox e fors’ anco col Wildox- por, ossia vaiuolo della Bufala, (1) fonte perenne di pubblica utilità. Sotto queste singolari vedute raccomando che si esaminino gli importanti documenti raccolti dal ch. Larer nell’Opera da me citata; che si esamini tuttavia la difesa recentemente fatta dall’ illustre Hervieux all’ Accademia di Parigi, non che (mi permetto di ridirlo) î miei piccoli studii, e vado sicuro che ne uscirà fuori trionfante la persuasione che di sovente furono esagerati ed in gran parte alterati i danni parziali e quasi invalutabili, confrontati coi secolari beneficii che arreca la Vaccinazione Ienneriana, ed eziandio bilanciando che talune delle malattie eruttive apparse dopo l innesto umanizzato, non inverosimilmente potevano trovare più consentanea e giusta spiegazione di quella attribuitagli. Allusi a queste particolarità perchè le ho per molto considerabili; dichiaro però che ammetto io pure e ritengo che si possa coli’ innesto vaccinico umanizzato, e talvolta coll’ animale, trasmettere principii morbosi nell’ organismo umano, specie il virus sifilitico. Ripeto però anche una volta che questi tristi avvenimenti oe- corrono spesso per incuria degli stessi Vaccinatori, anzi non mi perito a dichiarare che ciò si è verificato varie volte e pur da me medesimo particolarmente (2). (1) Il Wildox-pox, ossia Vaiuolo della Bufala, fu scoperto per la prima volta dal Prof. ORESTE e dal Dott. SapattINI di Napoli, nell’anno 1875, in quel di Carinola, e lo dichiararono, pegli effetti ottenutine, analogo al Vaiuolo delle vacche. (2) Il celeberrimo STRiMPELL alla pagina 82 del suo Trattato di Patologia speciale 1885, trad. v. 1 par. 1° dice — È probabile che colla Vaccinazione si possano trasmettere altre malattie, sopratutte la sifilide; ma ciò avviene rarissimamente, molto più di rado di quanto ritengono gli oppositori della Vaccinazione, e può essere evitata qualsiasi trasmissione, ove il IZedico che deve fare la vaccinazione prenda le debite precauzioni. — 429 — Qui giunto chiudo alla perfinita le presenti considerazioni riportando alcune conclusioni, rese già pubbliche nel mio ottavo Rapporto colla mira di richiamar maggiormente l’attenzione su di esse, e dar loro maggiore conferma; la quale addiviene autorevole, venendo ora inserite negli Atti di questo celebre Istituto delle Scienze. Nell’ accennato Rapporto: dopo avere premesso d’ essere stato il primo ed il solo fra tutti i Funzionarii Governativi a presentare la proposta di rendere obbliga- toria la Vaccinazione e di formare un Istituto vaccinogeno Governativo “ 1880 , e di avervi persistito successivamente fino a che un Dispaccio Ministeriale del 24 Novem- bre 1883 — Prot: on mi avvertì: che le proposte fatte da me erano state dal Consiglio Superiore di Sanità ritenute pel momento premature: dopo avere in esso Rapporto espressa la mia soddisfazione perchè il Governo erasi determinato di decretare, per Legge approvata del Parlamento, 1° obbligatorietà e la formazione di un Istituto vaccinogeno Governativo, alla pagina 29* posi le parole che riporto e cioè: che dobbiamo essere grati al Governo per l’ im- pianto fatto d’un Istituto vaccinogeno in Roma. Mi permisi però di soggiungere che questo Istituto non parevami (e dico adesso non mi pare) debba premere poten- temente sulle analoghe Istituzioni private, affinchè meglio si ottenga e più presto e senz’ urti il fine salutare desiderato dal Governo, ossia quello d’ impedire le troppo frequenti epidemie di Vaiuolo naturale. In genere, il troppo accentramento soffoca, annienta, distrugge il progresso, per quanto almeno pare a non pochi e molto elevati intelletti, ed è quistione certamente poi non risoluta. L'impianto d’ un Istituto vaccinogeno Governativo era indispensabile per garantire il materiale vac- cinico animale, e perchè i Sanitarii avessero sempre mai la certezza che ad ogni loro bisogno sapevano ove e come provvedersene. Questa fondazione civile, uma- nitaria e che nota fra noi un ulteriore e salutare progresso igienico, ho piena fede debba però contenersi nei limiti tracciati e non debba neppur di lontano mirare a porre in discredito le private benemeritissime Istituzioni, od a togliere gli immensi beneficii che arreca la Vaccinazione umanizzata ben regolata, diretta e conservata, come risulta da molti lavori scientifici pubblicati da spettabilissimi ed integri colle- ghi Italiani ed Esteri (1). Soggiungendo che a raggiungere il fine di far cessare, od (1) Il Sig. Prof. Ottavio Leoni, Medico capo dell’ Istituto Vaccinico dello Stato, nella sua brevis- sima comunicazione resa pubblica in Roma l’anno scorso, sulla fondazione di questo Istituto, dopo aver posto che la Vaccinazione è un mezzo quasi sicuro di prevenire la malattia del Vaiuolo, dichiara che il Governo si è determinato ad impiantarlo « in seguito delle lagnanze avanzate dai Comuni, specie li più colpiti, sull’inefficacia della linfa acquistata dagli Istituti vaccinici privati nazionali ed esteri che si erano sostituiti nel compito spettante alle Autorità provinciali, di con- servare il vaccino, e per la difficoltà d’averne sempre, e pur con grave dispendio, la quantità ne- cessaria ai bisogni delle popolazioni. » A verità storica sono spiacente di non poter accogliere le dichiarazioni del Sig. Prof. LeoxI, in quanto che da circa ormai trentacinque anni che sono stato in mezzo a tutto ciò che ha — 430 — almeno di ridurre alle minime proporzioni i danni che arreca all’ umana famiglia l’araba Lue, è indispensabile si vaccini e rivaccini continuatamente, come si fa, specie nel Belgio, in ogni tempo dell’anno, e che il Governo adotti Leggi rigorosissime analoghe ed anche più maggiori di quelle che prende per altre pestilenze, onde ottenere V assoluto e pronto isolamento degli attaccati dal Vaiuolo, e non un isolamento illusorio, ed avere sempre in ordine un Lazzaretto ed un personale adattato da valersene ad ogni particolare ed infausta circostanza. risguardato il Servizio vaccinico Municipale e Governativo (umanizzato od animale) non ho mai saputo di nessun lagno emesso dai Comuni o da privati, per mancanza di materiale vaccinico, 0 per inefficacia di sua azione; chè, n’avemmo sempre in gran copia e di eccellente qualità. Si può essere talvolta verificato in qualche Comunità la poca e forse l’inefficacia dei praticati innesti, ma per ragioni singolari e derivata da poca cura degli stessi Vaccinatori. In Italia e nei centri principali (Milano, Ancona, Bologna, Torino, Napoli ecc.) regolata la Vaccinazione da uomini dottissimi ed integri quali: un CarENZI, un Falconi, un Orsi, un MineR- vixi, un SERAFINO, un MaRGoTTA, un NOLLI, un GRANCINI e via via, chè ne potrei di molti annoverare e pur troppo di alcuni già mancati alla vita, non si é dato luogo giammai di non potere provye- dere tutti i Comuni del Regno della materia vaccinica umanizzata di eccellente qualità e spedir- ne eziandio agli estranei. Alloraquando poi sonosi costituiti privati Comitati od Istituti per l’innesto Vaccinico animale, non sonosi essi sostituiti all’ Autorità, ma hanno preso l’iniziativa per addimostrare il beneficio che arrecava cotal metodo d’inoculazione e con fatti alla mano, ed in forza di elocubrate pubblicazioni hanno comprovato l'autenticità dei beneficii medesimi ed hanno così indòtto il Governo a prendersene cura speciale. I grandi trovati che si conoscono e che fecero progredire l’umana famiglia hanno tutti il loro principio da studii privati e pur troppo non infrequentemente furono trattenuti nel loro sviluppo da inceppamenti autoritarii. E per fermo, furono appunto le iniziative particolari che determinarono il Governo ad occuparsi seriamente della Vaccinazione animale e di conoscerne il valore e, saviissimamente, dopo udito il Consiglio Superiore di Sanità, il Lanza GrovanNi, emanò il 27 Marzo I871, una Circolare (Div. 42 Sez. 2.° N.° 21300-11) che accordava l’ istituzione di Comitati per l’innesto vaccinico-animale © re- golando siffatta pratica in guisa da conoscerne esattamente i risultati, di subordinarla a certe cautele e di coordinarla alla Legislazione sul Servizio vaccinico vigente nel Regno. » Accresciuta l’importanza di questa pratica e sempre a sesnito di proposta dell’ illustre Consiglio Superiore di Sanità, uscì altra Circolare del 1° Agosto 1876 (Div.° 5.2 Sez.® 1.° N.° 21200-18) firmata dal Lacava colla quale venivano avvertiti i Sanitarii di tener nota esatta e separata degli inoculati con l'uno o con l’altro sistema, colla mira logicissima di poter fare un confronto dell'efficacia loro, specie in tempi di epidemie vaiuolose. Questa è la verità vera del come sono procedute le cose. Uonchiudo quindi, ed in relazione a quanto ho esaminato nelle attuali considerazioni sto- rico-critiche e mi permetto di rispettosamente sommettere all’ Autorità Governativa, che parmi si tenda di concedere troppo favore oggidì a questo metodo, ed a renderlo prepo- tente. A mio vedere, credo di avere addimostrato, ed in appoggio di opinamenti di cele- bratissimi Igienisti, che lo si deve considerare di grande aiuto, di grande profitto all’ inocula- zione Vaccinica umanizzata, ma. non però da essere accolto in modo esclusivo; l’ un metodo noa può nè deve l’altro eliminare, bensì debbono armonizzarsi onde riuscire a moderare il più che sia possibile e forse a togliere del tutto i mali immensi che all’uomo arreca il Vaiuolo naturale, attuando in pari tempo tutte quelle regole e quelle discipline che sono indispensabili e che non ho mancato di aver rese note ed in questa ed in altre mie pubblicazioni, secondo mie scarse pos- sibilità, ritenendo fermamente che Za Vaccinazione riesce a profilassi certissima contro il Vaiuolo naturale. Mem. Ser IV Vol x | | F Verardin. A. Ruffini, dis. dal vero. A. Baraldini, hh. Hit G.Wenk e Figli— Bologna. TRES ATTI [CHTEYOSAURUS CAMPYLODON Ja, REN GEL JD CL ADELE NELLE ARGILLE SCAGLIOSE DELL'EMILIA MEMORIA DEL PROFESSORE GIOVANNI CAPELLINI (Letta ziella Sessione delli 26 Gennaio 1890). Introduzione. La prima notizia intorno a fossili cretacei nelle Argille scagliose dell’ Emilia è dovuta all'ingegnere Gabriele Mortillet il quale, fino dal 1863, faceva conoscere il primo Inoceramo trovato nelle Argille scagliose della valle dell’Idice ed il primo Ammonite che l’ ing. Rieumès aveva staccato da un blocco di calcare argilloso (al- berese) in mezzo alle Argille scagliose nelle quali è interamente aperta la galleria di Casale, che allora si scavava, presso Porretta nella valle del Reno. L’ ing. Mortillet donava quei fossili al museo geologico di Bologna e nella sua breve Nota aggiungeva: £/ seraît fort curieua de voir la faune crétacé: se prolonger jusque dans les argiles scalieuses. Vraiment l’ Italie semble le pays des surprises paléonto- logiques (1). Dopo quella prima scoperta, altri Inocerami ed altri Ammoniti furono raccolti nelle rocce frammentarie che fanno parte delle Argille scagliose derivate principal- mente da schisti e calcari argillosi che furono lungamente assoggettati ad azioni chimiche e meccaniche, d’ onde ne resultò la nuova forma litologica ; e nell’ Emilia, in Capitanata, in Calabria e in Sicilia si ebbero dalle Argille scagliose nuove e sempre più convincenti testimonianze dei loro intimi rapporti sopratutto col Cretaceo superiore. In più circostanze davanti a questa stessa Accademia delle Scienze di Bologna (1) MOoRTILLET G. — Inoceramus et Ammonites dans les argiles scalieuses. — Atti della Società italiana di Scienze naturali. Vol. V, p. 416-18. Milano 1363. — 432 — ebbi ad esporre le mie idee riguardo alla origine e cronologia delle Argille sca- gliose, approfittando delle scoperte di nuovi fossili pei quali si andava sempre più avvalorando la opinione che gran parte delle Argille scagliose dell’ Emilia 8° aves- sero a considerare come equivalenti del Cretaceo il meglio caratterizzato del Veneto, delle Marche, dell’ Umbria e degli Abruzzi. Finalmente nella Memoria col titolo : « I Cretaceo superiore e il Gruppo di Priabona ,, riepilogai in gran parte le scoperte che erano state fatte fino al 1884 e mi ingegnai di fare apprezzare da che poteva essere derivata la confusione per la quale talvolta era stato attribuito all’ Eocene ciò che invece è da ritenersi per la massima parte come Cretaceo. La scoperta di un bello esemplare di Acanthoceras Mantelli, in mezzo alle Ar- gille scagliose di Rocca Corneta, sulla riva destra del Dardagna, mi offrì la bella opportunità di dimostrare che nelle Argille scagliose dell'Emilia non vi erano sol- tanto avanzi fossili del Senoniano e del Turoniano, ma eziandio del Cenomaniano. Coordinando, quindi, quella scoperta con le analoghe fatte precedentemente in diverse regioni della Pull ed in Sicilia, senza tacere che tutti quei fossili erano stati trovati più o meno isolati, quasi erratici, convinto che altre scoperte sarebbero venute in appoggio delle mie vedute e tenendo conto della natura litologica di quelli erratici e del loro valore paleontologico, accennai come si sarebbero potuti coordi- nare cronologicamente tutti quei diversi elementi (1). Dopo tutto, mi parve di poter formulare alcune conclusioni, tra le quali le seguenti : 1° Che nell’ Emilia vi era un complesso costituito da arenarie, calcari mar- nosi, calcari silicei, argille galestrine e scagliose, analogo litologicamente al vero Flysch eocenico superiore, ma da doversi invece ritenere come rappresentante del Cretaceo superiore. 2° Che questo complesso d’ ordinario nell’ Emilia si presenta sconvolto, pro- fondamente modificato da azioni chimiche e meccaniche, ridotto a masse preva- lentemente argillose con frattura scagliosa. 3° Che pei fossili raccolti nelle valli dell’ Idice, del Reno, del Dardagna, del Panaro e si potrebbe dire ancora del Secchia, le Argille scagliose cretacee non si possono nè si devono confondere con quelle che più evidentemente fossero da riferire all’ Eocene superiore o Oligocene. Le cose stavano in questi termini, nè io mi detti pensiero di sapere che taluno contraddiceva le mie osservazioni le quali invece trovavano favorevole accoglienza presso la maggior parte dei veri geologi in Italia e all’ Estero. Malgrado però lo scarso numero di cercatori di fossili in queste provincie e sebbene i geologi sfug- (1) CapeLLIiNnI G. — Il Cretaceo superiore e il gruppo di Priabona nell’ Apennino settentrionale e in particolare nel Bolognese; loro rapporti col Grès de Celles in parte e con gli Strati a Cluvulina Szaboi. — Memorie della R. Accademia delle Scienze di Bologna. Serie IV, Tomo V, p. 535 e seg. — Bologna 1884. — 433 — gano in generale le Argille scagliose, sapendo quanto sia difficile di potervi trovare qualche cosa di importante per accrescere le loro raccolte, di quando in quando le Argille scagliose ci fanno grate sorprese, lasciando allo scoperto qualcuno degli im- portantissimi fossili che racchiudono. Se qualche cultore delle scienze naturali ha occasione di percorrere vallate ove le Argille scagliose presentansi profondamente lacerate e denudate, nelle rocce in- cluse già interstratificate e ora ridotte a frammenti e massi più o meno voluminosi a quando a quando ha opportunità di raccogliere qualche nuovo fossile. Di tal guisa una nuova vertebra di Oxyrhina Mantelli fa raccolta in questi ultimi tempi dal Dott. Amilcare Lorenzini nelle Argille scagliose di Casale presso Bombiana ed il Signor Conte Francesco Massei nel novembre scorso scopriva nelle Argille sca- gliose della gran vallata dell’ Idice un tronco di Cicadea mirabilmente conservato e della cui importanza paleontologica e geologica dirò brevemente in seguito. Ma tutte le scoperte paleontologiche fatte fino ad oggi nelle Argille scagliose si potrebbero dire eclissate da quella che forma argomento principale di questa Memoria, se non fosse più conveniente di dire che le varie scoperte servono a spander nuova luce e a chiarire vieppiù quanto già era stato veduto precedente- mente; direi anzi che le scoperte fatte fin qui nelle Argille scagliose si completano a vicenda per togliere definitivamente ogni dubbio sulla vera corrispondenza ero- nologica di rocce state pure vedute da parecchi geologi in largo e in lungo nella regione Emiliana, ma da ben pochi esplorate accuratamente, sopratutto allo scopo di cercarvi fossili che in generale si riteneva vi mancassero affatto. Ed ora, senza dilungarmi in ulteriori considerazioni preliminari, passerò diretta- mente a dire di un fossile raccolto nello scorso anno nelle Argille scagliose del Modenese. Ichthyosaurus campylodon. Nella adunanza generale della Società geologica italiana in Bologna il i4 Aprile 1889 il professore Dante Pantanelli faceva una breve comunicazione: “ Sopra i resti di un Sauriano trovati nelle argille scagliose di Gombola nel Modenese. , Dopo avere accennato che si trattava di un frammento di mascella di Sauriano proveniente da una frana delle Argille scagliose di Gombola (Lama di Mocogno) sulla sinistra del torrente Rossena affluente di Secchia, descriveva concisamente il nuovo fossile, indicando il modo di inserzione dei denti e la loro struttura microscopica. Dopo ciò, ritenendo di aver che fare col resto di un Gavialide e non trovando modo di identificarlo con quelli già conosciuti nel terziario, per accennare alla provincia dove fu trovato proponeva di distinguerlo col nome di Gavialis mutinensis. Il professor Pantanelli dichiarando di “ non essere in grado di TOMO X. i 55 — 434 — , assegnare con certezza il sottogenere speciale al quale può appartenere , ter- minava la sua nota con le seguenti considerazioni: «“ La sua origine è probabilmente eocenica; la frana dove è stato raccolto il frammento è nel terreno eocenico ; non è però escluso in modo assoluto che possa provenire da terreni posteriori; l’ essere però benissimo conservato in modo da escludere qualunque traccia di rotolamento, depone molto in favore della sua eocenicità. Sarebbe questo il primo vertebrato trovato nelle argille scagliose del- l’Apennino settentrionale, essendo che alcuni denti di Ptychodus trovati in simili terreni sono probabilmente cretacei , (1). Dalla descrizione delle ossa mascellari (leggasi intermascellari) e da quanto il Pantanelli notava intorno alla struttura dei denti e alla loro disposizione in un solco continuo, era facile di sospettare che il frammento di rostro trovato nelle Argille scagliose di Gombola non avesse che fare col genere Gaviale, ma potesse avere ben maggiore importanza per la fauna eretacea delle argille scagliose dell’ Emilia; il sospetto per me si cambiò in certezza quando ebbi ad esaminare i modelli che l’egregio collega mi inviava per la collezione paleontologica del museo di Bologna. Che si tratti di un frammento di rostro di Ztiosauro e niente affatto di Ga- viale, si rileva appena se ne vede un disegno o un modello e meglio ancora l’ originale in cui si notano le più importanti caratteristiche di quel genere; e, se non fosse stata la novità del caso e la insistente asserzione che quel fossile era stato raccolto in derreno eocenico e in condizioni da dovere escludere qualunque traccia di rotolamento, dalla descrizione che ne aveva fatta il Pantanelli sarebbe stato facile di capire che si aveva che fare con un Ittiosauro. L’ esemplare Tav. I, fig. 1 lungo circa quindici centimetri, comprende una porzione degli intermascellari e si vedono i nasali non ancora da essi ricoperti e lateralmente spostati per subita compressione. Non vi è traccia di ossa mascellari perchè il frammento corri- sponde alla porzione mediana del rostro ove dette ossa non arrivano negli animali di quel tipo. Per ciò che riguarda la parte corrispondente delle mandibole, si vedono le due porzioni degli ossi dentarii destro e sinistro talmente ravvicinati pel margine inferiore da non scorgere tra essi traccia delle ossa opercolari o spleniali, delle quali ben poco si vede anche nella frattura trasversale, sicchè si potrebbe quasi sospet- tare che il limite della sinfisi fosse vicinissimo. Dell’ intermascellare destro vi ha un frammento lungo da 12 a 14 centimetri scheggiato anteriormente; quest’ osso presenta in tutta la sua lunghezza una gros- sezza o altezza uniforme di m. 0,045. Alia distanza di otto millimetri dal margine della fossa dentaria sulla faccia esterna corre un solco che doveva servire per il (1) PantaNELLI D.— Sopra è resti di un Sauriano trovati nelle argille scagliose di Gombola nel Modenese. — Bollettino della Soc. geol. ital. Vol. VIII p. 43-45. Roma 1889. — 435 — passaggio di un vaso e credesi anche di una diramazione del 5° paio di nervi. Sulla estremità anteriore l’ osso è incrostato, ciononostante vi si scorge la porzione radicale di un dente del quale manca ogni avanzo della corona. Da questo lato vi hanno ancora in posto sei denti e ne manca un settimo che si potrebbe supporre sia stato tolto espressamente; questi denti sono tutti più o meno danneggiati ad eccezione del più giovane tra essi che si trova essere il terzo di quelli che sussistono, contando dall’ avanti all’ indietro, e sarebbe il quinto se sussistesse quello che ritengo esportato e l’altro di cui ho accennato che resta soltanto la radice. Della mandibola, che anche negli Ittiosauri come negli altri rettili si componeva di sei ossa, abbiamo una porzione del dentario lunga da quindici a sedici centimetri (m. 0,15 a 0,16). Per la compressione laterale subita da questa porzione di rostro non si può con esattezza valutare l’ altezza vera di quest’ osso, però non deve ritenersi che fosse molto diverso dalle misure che si ottengono attualmente da quest’ osso le quali corrispondono anteriormente a m. 0,051 e posteriormente m. 0,057. Senza la avvenuta compressione ritengo che alla base di questo frammento di rostro si sarebbero pure vedute le ossa opercolari o spleniali delle due mandibole che invece si trovano serrate e confuse nella base del rostro stesso e malamente si riconoscono anche nella sezione trasversale. Sul dentario destro si contano ancora otto denti per la maggior parte assai bene conservati, se si eccettua lo smalto delle corone più o meno danneggiato. Alla distanza di m. 0,017 dal margine della fossa dentaria anteriormente e m. 0,021 nella estremità posteriore, corre pure un solco lungo il quale sboccavano diramazioni del canale dentario per passaggio di vasi e nervi. La forma di questo solco, come quella dell’ altro notato nell’ intermascellare, si può apprezzare me- diante la sezione trasversale dell’ esemplare, la quale permette altresì di rendersi conto della forma e dei rapporti delle diverse ossa che costituiscono questa porzione di rostro. Chi guarda l’ esemplare sul lato destro di cui ho fin qui parlato scorge in basso un piccolo risalto longitudinale di 4 a 6 millimetri dovuto a un abbassamento e spostamento del dentario sinistro lungo la linea sinfisiaria; entrambe queste ossa sono un poco sciupate posteriormente e sono pure da notare quattro fratture, avvenute prima della fossilizzazione, una delle quali con leggera divaricazione delle parti corrispondenti riempita dalla selce che ha contribuito alla fossiliz- zazione dell’ esemplare. A fratture analoghe deve essere attribuita la separazione di questa porzione di rostro dalle altre parti congeneri ed è molto probabile che, con accurate e pronte ricerche si sarebbero scoperti altri avanzi dello stesso animale. L’ esemplare visto pel lato sinistro presenta |’ intermascellare leggermente curvato nel senso verticale e parzialmente scheggiato nella porzione anteriore. I nasali che in questa porzione di rostro non erano ancora interamente mascherati dagli intermascellari sono spostati e rialzati per un movimento dal basso in alto che — 4396 — ha accompagnato la pressione laterale e formano quasi due piccoli gradini sul mar- gine superiore dell’ intermascellare. Ciascuno dei due nasali in questo frammento apparisce esternamente con una larghezza posteriore di millimetri 20 e restringendosi abbastanza rapidamente in avanti, alla distanza di centimetri 10 si trova già ridotto a millimetri 11; se non fossero in parte mancanti, alla estremità dell’ esemplare si ridurrebbero appena a 6 millimetri. Noto queste particolarità perchè di esse mi sono in parte giovato per calcolare le dimensioni dell’ intero rostro facendo opportuni confronti con avanzi analoghi scoperti in Inghilterra. Del resto, tanto per l’ intermascellare quanto per il dentario sinistro, non avrei che a ripetere ciò che ho già notato per le corrispondenti ossa dal lato destro; per conseguenza mi limitero a qualche osservazione sui denti, in generale da questo lato assai meglio conservati. Contansi nell’ intermascellare sette denti, però manca parzialmente il terzo, contando dall’ avanti all’ indietro, e uno ve ne ha nella estremità posteriore sdraiato e che per la sua forma sarei disposto a ritenerlo della serie superiore; verso la metà dell’ esemplare i denti superiori sono quasi nascosti dietro gli inferiori corrispondenti. Nel dentario si contano nove denti, due dei quali, uno per ciascuna delle. estremità, sono rotti e permettono di rendèrsi conto anche di interessanti loro particolarità; due dei mediani hanno la corona spuntata, gli altri sono stupen- damente conservati. Chi avesse trovato qualcuno di questi denti e non avesse avuto il talento di Owen 1l quale potè con alcuni denti fondare il genere Polyptychodon e metterlo tra ì Coccodrilli prima di averne scoperto altri avanzi e porzioni di rostro che giu- stificarono e convalidarono quella determinazione, esaminandoli superficialmente forse avrebbe potuto scambiarli con denti di una piccola specie di Polyptychodon. La buona fortuna di avere questi denti al loro posto toglie ogni pericolo di errore, essendo noto che i Crocodilia hanno i denti impiantati in alveoli distinti e non in una fossa o solco come invece è il caso degli /chthyosauria. E qui prima di dire di altre particolarità, per ciò che riguarda la inserzione dei denti e la loro struttura credo opportuno di riferire quanto ne ha già detto il Pantanelli. “ I denti y Sono impiantati in piccole cavità alveolari nel fondo di un solco continuo e pro- » Fondo circa due centimetri; cavi internamente, sono costituiti da deatina compatta » e 1canaliculi eccessivamente sottili si cominciano a scorgere nelle sezioni con 200 » diametri d'ingrandimento; lo spessore della dentina nella parte centraie in n corrispondenza alla cavità è di tre millimetri; il diametro al livello della n mascella è da 8 a 12 mm.; la lunghezza sempre allo stesso livello oscilla n tra 20 e 25 mm.; essendo d’ineguale lunghezza e spessore, dipendenti dal » loro diverso sviluppo e non da posizioni diverse sulla mascella: nel terzo inferiore n Sono lisci, nei due terzi superiori sono percorsi da cordoncini granulari diretti » Secondo l’ asse del dente e quindi convergenti all’ apice; regolarmente conici e — 437 — un po’ volti indietro terminano in punta leggermente ottusa; impiantati per la base rotonda nella cavità alveolare si sostituivano ai denti caduti, nuovi denti per di sotto direttamente, scorgendovi nella sezione frammentizia un giovane dente impiantato regolarmente sul fondo del solco e non ancora giunto al livello » esterno della mascella ,. Dopo ciò non è da maravigliarsi che il prof. Pantanelli fissatosi nel concetto di aver che fare con un Gaviale, concludesse: “ Questo » Gavialide è certamente differente da quei pochi che sono conosciuti del terziario ; » lo svessore straordinario delle ossa mascellari (sic); i solchi delle mede- » sime e i denti vicinissimi tra loro lo distinguone facilmente. (1) , A queste caratteristiche per le quali il Pantanelli riconosceva di non poter riferire con esattezza il nuovo fossile ai Gaviali già noti, avrebbe dovuto però aggiungere il modo di trovarsi dei denti in un solco continuo e profondo, non già in alveoli come nei Crocodilia. Nella struttura e forma dei denti avrebbe pure avuto da notare altre particolarità riguardo alla ornamentazione dello smalto che ricopre la corona d’ ordinario con apice liscio, quindi ancora avrebbe notato il cemento che investe abbondantemente la porzione inferiore del dente formandone la base, pe- netrando anche nell’ interno in guisa che una sezione trasversale fatta alla base dei denti di Ittiosauro presenta un anello ondulato di forma ovato-ottusa incluso in una massa di cemento. Owen ha reso conto come specialmente nell’ I. campylodon i denti presentino una base con diametro antero-posteriore maggiore del diametro laterale o trasverso e ciò in conseguenza della libertà di accrescersi della massa di cemento relativo tra un dente e un altro, fino a che le masse di due denti consecutivi sì incontrano e premono a vicenda, mentre nell’ altra direzione lo sviluppo è limitato dalla doccia ossea nella quale i denti sono allogati e distribuiti. Il Pantanelli dopo aver osservato benissimo la forma della base di questi denti (che non ha che fare con quella dei Coccodrilli) ha creduto di vedere che la sostituzione dei nuovi denti si facesse direttamente per di sotto, mentre se avesse osservato senza idee pre- concette avrebbe riscontrato che i denti degli Ittiosauri si sostituivano in ben altra maniera da quelli dei Coccodrilli e che appunto per la forma diversa della base i nuovi denti, invece di penetrare direttamente dal basso in alto, si fanno strada lateralmente dall’ interno verso |’ esterno, come Owen ha stupendamente dimostrato ed illustrato nella sua celebre Odontografia (2). Ma per tutto ciò che riguarda i denti di questa specie di Ittiosauro, sia nelle loro generalità come nelle più minute particolarità istologiche, nulla resta da fare o da dire dopo il classico lavoro pubblicato da Kipriyjanof nel 1881 e ad esso (1) FanrtaNELLI. Nota cit. Boll. Soc. geol. ital. Vol. VIII, p. 54. Roma 1889. (2) Owen R. — Odontography or a Treatise on the comparative Anatomy of the Teeth. PI. 78, Vol. II. London 1840-1845. — 438 — rinvio senz’ altro, fin d’ ora, il lettore anche per ciò che riguarda la istologia delle diverse ossa, fin quì note, dello stesso animale (1). A complemento di quanto ho finora esposto intorno ai denti e alla forma della fossa o canale nel quale sono allogati, come pure per far meglio apprezzare i rapporti dell’ Ittiosauro emiliano con quelli di Cambridge e Dover, dirò anche brevemente di ciò che si vede nella sezione trasversale, studiandola nella estremità posteriore dell’ esemplare pulito, per quanto mi fu possibile, ma senza esser libe- rato del tutto da leggere incrostazioni che parzialmente mascherano le sezioni delle ossa. La fig. 5 Tav. I è quale si ricava con un lucido dopo avere ricercato e attentamente studiato la forma delle varie ossa che compongono il frammento di rostro, tenendo conto delle notevoli modificazioni subite per la compressione e la distorsione già sopra accennata. Dalla fisura si rileva come gli intermascellari im col loro margine superiore mediano fiancheggino i nasali n, coprendoli in parte e lasciandone ancora un notevole tratto scoperto come fu già notato a suo tempo. La forma della sezione trasversale di queste ossa si ha da considerare come approssimativa, essendo facile di rilevare la loro deformazione per compressione laterale; in ogni modo si può apprezzare la forma e la grossezza della lamina alveolare, la posizione del piccolo solco che percorre longitudinalmente la faccia esterna di quelle ossa, l’ ingrossamento e terminazione del margine alveolare esterno, il modo col quale la lamina si assottiglia per formare la specie di tettoia arcuata della fossa dentaria superiore, scendendo e rapidamente ingrossandosi nel suo mar- gine interno, nella citata figura segnato /. Le sezioni rotonde segnate d si riferiscono a denti che ritengo spettare alla serie superiore. Stando le cose in questo modo si vede che la cavità nasale era quivi assai ampia, ma non ce ne possiamo fare ancora una idea esatta per le alterazioni subfte dal frammento di rostro e perchè soltanto con una sezione arti- ficiale e pulita sarei riescito a decifrare e delimitare esattamente le diverse ossa. Meno confusione si nota nella porzione mandibolare e se ne può meglio ap- prezzave la forma del dentario di che presentasi come se, nel senso della sua lunghezza, si fosse ripiegato due volte sopra sè stesso, come già ebbe a notare l' Owen ; la superficie esterna convessa è interrotta longitudinalmente dal solco s' già ricordato per il passaggio di diramazioni vascolari e nervee. Anche per il dentario la porzione della lamina che costituisce la fossa dentaria o alveolare presenta assotti- gliamento e ingrossamento /' corrispondenti a quelli notati nella lamina dell’ inter- mascellare. (1) Kiprisanor®e W. — Studien ber die fossilen Reptilien Russlands. — Mem. Ac. imp. st. Pétersbourg. 7, Ser. Bd. 28 N.° 8 st. Pétersbourg. 1881. Nen ho potuto capire perchè Kiprijauoff, a differenza di Owen e degli altri paleontologi, ab- bia scritto Compylodon invece di Campylodon. — 439 — Nella fossa alveolare si vedono in posto giovani denti e la sezione permette di valutare esattamente la profondità della fossa stessa e la sua forma corrispondente approssimativamente a quella del canale superiore. Delle ossa opercolari o spleniali mi è sembrato di vedere tracce alla base tra i due dentari e qualche avanzo anche superiormente come ho notato nella Tav. I, fig. 5, 0; ma una esatta delimitazione è impossibile senza una sezione fatta espres- samente, come non azzarderei di dire se nel frammento di rostro vi arrivava ancora la estremità dei palatini. Ho già accennato alla difficoltà di riconoscere le diverse ossa nella frattura naturale incrostata ; la difficoltà potrà scemare, ma non si eliminerà completamente una con sezione artificiale e pulita, avvegnachè le ossa in alcuni punti si sono per la compressione impastate e saldate tra loro per modo da riescirne difficile la deli- mitazione. In ogni modo basterà volgere uno sguardo alle belle sezioni di e4thyo- saurus campylodon di Cambridge illustrate da Owen (1) e non sarà difficile di ricono- scere come corrispondano esattamente a quanto sono venuto descrivendo per l’ esem- plare di Gombola. L’ Ittiosauro emiliano era un poco più giovane degli esemplari raccolti in In- ghilterra, ma le caratteristiche del genere e della specie sono così pronunziate ed evidenti anche in questo esemplare che non credo si debba distinguere neppure come varietà; pronto a modificare le mie vedute quando per ulteriori scoperte fossero i maggiori e più particolareggiati confronti. Dalla descrizione del fossile di Gombola e dalle particolarità notate nei denti, anche senza l’ aiuto delle figure sarebbe agevole di rilevare che i caratteri speci- fici dell’ Ittiosauro emiliano corrispondono assai bene con quelli riscontrati negli avanzi di rostri dello stesso rettile raccolti presso Cambridge e Dover e illustrati da Owen come spettanti ad una specie particolare del Cretaceo, da non confon- dersi con alcuna delle specie di Ittiosauri del Lias. I primi avanzi di Ittiosauriani scoperti nella Creta d’ Inghilterra furono studiati dal prof. R. Owen nel 1839 e consistevano in un frammento di mandibola con denti raccolti alla base della Creta fra Folkstone e Dover; ma quei resti e altri denti raccolti in seguito non bastarono per una evidente separazione dell’ Ittiosauro cretaceo dall’ Ichthyosaurus communis, del Lias. Nel 1845 J. Carter avendo scoperto migliori avanzi del nuovo rettile nel cretaceo inferiore dei dintorni di Cambridge, con essi potè fondare la nuova specie col nome di: /ehthyosaurus campylodon, Carter. Poco dopo, Owen avuti altri resti dello stesso animale scoperti presso Dover ne pubblicò una completa descrizione accompagnata dalle figure anche dei resti già fatti conoscere da Carter (2). (1) Owen R. — Monograph on the fossil Reptilia of the Cretaceous Formation. — Palaeonto- graphical Society. London 1851. (2) KieRIizsanore W. — Studien diber die fossilen Reptilien Russlands. 1 Theil. Gatt. Tchilgo= — 440 — I resti di Zehthyosaurus campylodon raccolti in più volte e in località diverse in Inghilterra, servirono vicendevolmente a far meglio conoscere anche le dimensioni dell'animale ; infatti Owen potè calcolare che la mandibola degli esemplari adulti, come quelli ai quali si riferiscono gli avanzi già tante volte ricordati doveva essere lunga circa m. 1,20. Ora se si considera che il frammento trovato a (Gombola corrisponie quasi esattamente a una porzione di rostro che posteriormente doveva far seguito a quello dell’ esemplare di Cambridge, tenuto conto dei denti dell’ esem- plare italiano alquanto più piccoli ma che avrebbero dovuto impicciolirsi alquanto anche nell’ esemplare inglese, calcolando approssimativamente che per le proporzioni degli intermascellari sulla estremità posteriore dell’ esemplare di Cambridge e sulla estremità anteriore del frammento di Gombola questo fosse ©4 minore di quello, si avrebbe un rostro di circa m. 0,86. D'altra parte, tenendo conto deile dimensioni dei denti raccolti nella arenaria cretacea di Sewern, i quali corrispondono assai bene con quelli dell’ esemplare emi- liano, credo di non errare affermando che il nostro Ittiosauro corrisponda asssi bene alle dimensioni indicate da Kiprijanoff nella restaurazione del cranio del- l Ichthyosaurus campylodon e pubblicata nel già ricordato lavoro Tav. IX, fig. 1. Di quella ricostruzione mi sono valso per la fig. 2, Tav. I, nella quale ho indicato con parte ombreggiata la corrispondenza del frammento di rostro, fin qui unico avanzo di questo animale scoperto in Italia; e poichè la figura stessa è 3 del vero, così si ricava che la mandibola dell’ Ittiosauro modenese doveva essere lunga m. 1,12. Nella Memoria di Kiprijanoff vi hanno diverse sezioni del rostro, di queste ho pure creduto opportuno di copiare quella che corrisponde un poco anteriormente alla estremità anteriore del frammento che ci interessa, come è indicato dalla linea punteggiata ; essa corrisponde pure alla fig. 2 della Tav. XXVI della Memoria di Owen relativa all’ esemplare di Cambridge e serve a chiarire ciò che si osserva nella sezione dell’ esemplare emiliano, Tav. I, fig. 3. La fig. 4, Tav. I, è una se zione ideale in parte e corrisponderebbe alla metà circa della lunghezza del fram mento di Gombola che mi dispiace di non aver potuto sezionare per le opportune verifiche. Si può ritenere che i mascellari e gli intermascellari complessivamente fossero armati di circa un centinaio di denti e che poco meno ve ne fossero nelle man- «dibole, quindi in totale da cento sessanta a cento ottanta denti sempre pronti per funzionare, con una provvista per sostituirsi a quelli che per circostanze diverse si rompevano o cadevano. Kiprijanoff ha valutato la lunghezza dell’ animale eguale a cinque volte quella della testa e, accettando quel calcolo basato sui rapporti già trovati con l’ altezza saurus, Kònig. Aus den Severischen Sandstein oder Osteolith der Kreide-gruppe. — Mem. Ac. imp. St. Pétersbourg. 7 Ser, B. 28, N.° 8. St. Pétersbourg 1881. — dil — di varie vertebre e con diversi elementi dello scheletro discussi anche da altri - paleontologi, bisogna concludere che ! Ittiosauro emiliano fosse lungo almeno m. 5,60. Ma i resti di Zchfhyosaurus campylodon raccolti in Inghilterra e in Russia non erano i soli avanzi che già si conoscevano di questo rettile; se di essi ho fin quì parlato quasi esclusivamente, si è perchè questi, meglio ancora di tutti gli altri resti fin quì raccolti, convengono coll’ esemplare che intendo di illustrare. Fino dal 29 settembre del 1850 il Signor Cornuel inviava alla Società geo- logica di Francia una sua breve nota intorno ad avanzi di rostro di un supposto Gaviale provenienti dal calcare a Spatanghi o Neocomiano (Infracretaceo) dei dintorni di Vassy. La nota accompagnata da figure metà della grandezza degli originali veniva . pubblicata nel Bollettino e l’autore, dopo una diligente descrizione degli esemplari, dichiarava nettamente di non sapere se avrebbe dovuto riferirli a un genere già noto e se si trattava di specie nuova, nel qual caso proponeva il nome di Vas- siacensis (1). In conclusione il bravo Cornuel che nel 1859 ebbi l’ onore di avere guida e compagno in alcune escursioni geologiche nei dintorni di Vassy che egli aveva già studiati e illustrati, sospettava che si trattasse di resti di Gaviale ma non azzardava di affermarlo, come ebbero allora a notare anche i Signori Hébhert e Michelin; oggi quei fossili sono riconosciuti come avanzi di Zehthyosaurus campylodon. Anche la porzione di rostro trovata nelle argille kimmeridgiane di Mussey a due leghe da Joinville, descritta e figurata pure da Cornuel pochi mesi dopo, evidentemente spetta ad un Ittiosnuro a lungo rostro, come è facile di con- vincersi anche dalla sola ispezione della figura !4 del vero (2). In quella nota però l autore ricordando ancora il fossile analogo del Neocomiano di Vassy lo indicò col nome di piccolo Gaviale. Più di recente l’ abate Pouech ha illustrato un importante frammento di ro- stro trovato a Bedeille, Cantone di Sainte-Croix nell’ Ariège, il quale per più rapporti merita di esser ricordato e preso in considerazione dopo la scoperta dell’ Ichthyosaurus campylodon nelle argille scagliose dell’Emilia. Nella Nota presentata dal prof. Gaudry a nome dell’ autore, nella seduta del 21 nov. della Società geologica di Francia, è accuratamente descritto il frammento di rostro assai guasto e rotolato raccolto presso Bedeille tra le pietre che da un campo vicino erano state gettate sulla strada per servire come ghiaia. Il diligentissimo geologo Pouech, col quale insieme al prof. Hebert e a parecchi colleghi della Soc. geol. di Francia anche nel 1882 toraai a studiare l’ Eocene ed il Cretaceo dell’ Ariège, dopo avere accennato per quali ragioni quella porzione di rostro di Sauriano non si poteva in modo alcuno riferire ad un Coccodrilliano ma dovevasi ritenere tra gli Ittiosauriani, per ca- (1) CornueL J. — Note sur deux portions de machoîre fossile rapportées à un Gavial ei recuillies dans le terrain Crétacé inferieur du département de la Huute Marne. — Bull. Soc. géol. de France Deuxième Série, Tom. VIII p. 170-76 Paris 1851. (2) CornueL J. — Note sur un frapment de machoîre de Gavial du terrain jurassique du de- partement de la Haute-Marne. — Bull. Soc. géol. Deux. Sér. T. VIII p. 496-09. Paris 1851. TOMO X. _ 56 — 442 — ratteri dedotti dai denti dubita ancora che possa appartenere a un genere distinto. Quanto alla provenienza, con ingegnosa argomentazione il Ponech cerea di fissare il livello geologico del piano al quale il fossile appartiene e, pei fossili raccolti nei ciottoli gettati insieme col frammento di rostro di Ittiosauro, lo giudica spettante al Senoniano (1). i Dei rapporti del Cretaceo dell’ Ariòge con una parte delle Argille scagliose dell’Emilia ho detto abbastanza nella Memoria col titolo “ il Cretaceo superiore e il gruppo di Priabona e loro rapporti col grès de Celles e gli strati a Clavulina Szaboi ,; il fossile di Gombola viene in appoggio della mia opinione che, per decifrare il Cretaceo dell’ Emilia conviene studiare accuratamente il Cretaceo dei Pirenei col quale presenta molta analogia per non dire che in parte si hanno anche le identiche forme litologiche. Il irammento trovato a Bedeille è lungo circa 12 centimetri e per curiosa accidentalità, anche per la sua posizione relativa, corri- sponde al frammento raccolto neil Emilia perfettamente conservato e non rotolato. Che poi anche l’ Ittiosauro dell’ Arièége sia da riferire all’ Ichthyosaurus campylodon e non a specie nuova, io credo che non vi sia da dubitarne e non posso a meno di esprimere la mia sorpresa che un tale ravvicinamento, o meglio una tale iden- tificazione, non sia stata notata dall’ abate Pouech e neppure dal Gaudry. Riguardo poi alla provenienza, ricordo come nell’ Ariège l orizzonte Senoniano (Grès de Celles, Rébénac ete.) non sia ovunque nettamente distinto dal piano Turoniano e dal sottostante Cenomaniano ; che anzi per assai tempo furono insieme confusi in quella regione, come è appunto accaduto per il terreno delle Argille scagliose dell’ Apennino. Per conseguenza, senza voler contrariare la determinazione della provenienza del fossile di Bedeille quale fu indicata dall’ abate Pouech, in seguito anche alle importanti osservazioni fatte da Hébert e da altri nella circostanza della Riunione straordinaria della Soc. geol di Francia a Foix nel 1882 alla quale ebbi la fortuna di prendere parte, mi permetto di sospettare che il frammento di rostro di Ittiosauro raccolto a Bedeille provenga esso pure dal Cenomaniano o da qualche lembo denudato del Gault che nell’ Arièége ha sovente potenza limitatissima. In Italia il genere Zehthyosaurus già da tempo era stato segnalato da Curioni negli schisti bituminosi di Perledo; Stoppani citò un dente raccolto nel calcare di Saltrio e Omboni riferì a quel genere alcune vertebre pure trovate a Saltrio. Nel 1882 il Barone Achille De Zigno fece conoscere un frammento di rostro di Ittiosauro raccolto erratico nel calcare ammonitico (T'itonico) presso Erbezzo. Un modello del fossile inviato dallo scopritore Cav. Stefano de Stefani di Verona al prof. R. Owen fu da questi giudicato riferibile all’ ZeW/hyosaurus intermedius di Conybeare, ma il De Zigno propende a trovarvi rapporti con gli avanzi di Ittio- (1) PouecH ABBÉ — Note sur un fragment de machoire d'un grand Saurien trouve di Bedeille {Ariège) — Bulletin Soc. géol. de France, Troisième Sér. T. X p. 79-87 Paris. 1881-82. — 443 — sauri dei terreni giuresi e cretacei di Francia illustrati da Cornuel e Pouech (1). Non pare che debbano ritenersi per avanzi di Ittiosauri quelli che come tali furono pubblicati da Oronzio Gabriele Costa. In ogni modo fin qui nessun avanzo di Ittiosauro era stato segnalato nel Cretaceo in Italia e i resti di Ichthyosaurus cam- pylodon tra i fossili delle Argille scagliose dell’ Emilia devono servirci di guida ed incoraggiamento per altre importanti scoperte. Per quanto si riferisce al piano geologico nel quale si trovarono resti dell’ Ittiosauro campilodonte in Inghilterra, Francia, Russia, Italia, è duopo concludere che non se ne incontrarono prima del Neocomiano nè al di sopra del Cenomaniano. Parebbe che il principale giacimento di questo fossile dovesse corrispondere al piano del Gault e alcuni opinano che gli avanzi trovati nella Creta marnosa, la quale segue immediatamente in serie ascendente, si abbiano da considerare come provenienti dalla denudazione di quel piano che in molti luoghi o manca o è ridotto a pochi decimetri di potenza. Per conto mio sono disposto ad ammettere, con la maggior parte dei geologi inglesi, che questo fossile si debba considerare come caratteristico della Creta marnosa, (Chalk Marl.) E qui occorre di ricordare brevemente che, ritenendo il Gault come termine superiore del sistema Infracretaceo o Suberetaceo, nel Bacino di Londra il sistema; Cretaceo propriamente detto incomincia con la Glauconia di Folkstone (Upper green sand) di circa tre metri di potenza, alla quale fa seguito superiormente la marna cloritica (Chloritie marl) della stessa potenza approssimativa. Sopra la marna cloritica vi hanno la Creta marnosa e grigia (Chalk marl e Grey chalk) con una potenza di sessanta a ottanta metri che sopportano circa tre metri di marne gialle con Belemnites plenus. Le due divisioni corrispondono la 1.° al Eotomagiano o creta glauconiosa con Pecten asper dei geologi francesi, per il Bacino di Parigi e per la Normandia; l’ altra divisione superiore corrisponde al Carentoniano o creta a Belemnites plenus, creta fossilifera di Rouen; entrambi le divisioni sono da considerarsi come veri sottopiani del Cenomaniano o piano più profondo del vero sistema cretaceo. Come ho avuto occasione di dimostrare in altra circostanza, alla Creta marnosa che sta fra il Rotomagiano e il Carentoniano vanno riferite le argille scagliose con Acanthoceras Mantelli, e gli altri fossili problema- tici o no coi quali ne sono stati raccolti esemplari nell’ Emilia; allo stesso oriz- zonte sono da riferirsi i materiali della frana di Gombola presso Pallerano (Lama di Mocogno) dai quali proviene la porzione di rostro di Ichthyosaurus campylodon, benissimo conservato in modo da escludere qualunque traccia di rotolamento. Ma qui giova pure di notare, essere per me fuor di dubbio che, anche la porzione di cranio di Coccodrillo trovato dall’ Ing. Gazzetti tra i ciottoli raccolti nel Rio (1) De-Zieno A. — Resti di Sauriani nel Lombardo Veneto. — Bollettino della Soc. geol. ital. Vol. I p. 161. Roma 1883. — Sui vertebrati fossili dei terreni mesozoici delle Alpi Venete. Acc. di Scienze lett. e Arti di Padova 1883. -- 444 — Marangone nel Modenese e della quale ha fatto cenno il prof. Uzielli in una breve nota pubblicata nel 1886 nel Bollettino della Soc. geol. Italiana (1), cer- tamente provenga essa pure da argille scagliose niente affatto eoceniche. Basta esaminare attentamente la roccia ancora aderente al fossile e tener conto della fossilizzazione di quell’ esemplare disgraziatamente molto sciupato, che tosto ci si affaccia alla mente il dubbio di aver che fare con un fossile del Gault o delle sabbie verdi cretacee; ond’ è che uno studio minuzioso ed accurato di quel rettile potrà ancora riescire di grande importanza per la geologia italiana. La confusione avvenuta sotto il nome di Flysch, tra le rocce cretacee ed eo- ceniche, per similarità di forme litologiche, fu già avvertita nelle Alpi, nei Carpazi, nel Bacino di Vienna ed io ho insistito altra volta sulla stessa distinzione da farsi nell’ Apennino, confrontandone le equivoche forme litologiche anche con le iden- tiche incontestabilmente cretacee dell’ Ariège. Bisogna aver fiducia nella paleontologia e con diligenti osservazioni si riescirà a coordinare anche i più intricati complessi litolozici e stratigrafici. I fossili raccolti nelle Argille scagliose dell'Emilia e di altre parti d’ Italia ci hanno fatto conoscere che in parte spettano al Senoniano, ma che vi hanno altresì rappresentanti del Turoniano e che certamente gran porzione di esse va riferita al Ce- nomaniano. È probabile che si scoprano avanzi anche dell’ Infracretaceo, ma è pure probabile che in generale le Argille scagliose cenomaniane abbiano per imba- samento rocce triassiche nell’ Apennino settentrionale e che le sorgenti salate, il Gas e le nafte che si fanno strada attraverso ad esse e alle sovrastanti rocce oli- goceniche e mioceniche provengano da strati triassici, come sospettava pure il Pareto, (o fors' anche dal Permiano) e seguano la via tracciata da una faglia lungo la quale penso. che siano allineate tutte le sorgenti salso-bromo-iodiche del- l'Emilia e delle Marche. Ma questo argomento meriterebbe conveniente sviluppo e profondi studi e, «per ora, mi basterà di averne appena fatto qui un brevissimo cenno. Tronchi di Cicadee. Aveva appena cominciato ad occuparmi dell’ Ittiosauro emiliano, allorchè un bel tronco di Cicadea raccolto nelle Argille scagliose del Bolognese, come ho ap- pena accennato da principio, veniva a bandire definitivamente ogni incertezza anche sulla provenienza di questi fossili cretacei dei quali fino dal passato secolo (1) UzieLLI G. — Sopra un cranio di Coccodrillo trovato nel Modenese. — Boll. della Soc. geol. ita liana. Vol. V p. 355, Roma 1887. — 445 — si raccolsero avanzi importanti nei torrenti che attraversano le Argille scagliose dell’ Emilia. Di tale scoperta credo opportuno di far breve cenno in questa circo- stanza, rivendicando altresì a Giuseppe Monti di avere pel primo nel 1755 figurato una Cicadea fossile raccolta essa pure nel Bolognese e della quale dirò diffusamente in un Javoro sulle Cicedee fossili dell’ Emilia che sto preparando in collaborazione col valente botanico Conte Solms-Laubach professore all’ università di Strasburgo. Negli ultimi giorni del novembre dello scorso anno 1889 il Sig. Conte Fran- cesco Massei mi annurziava d’ aver raccolto nelle Argille scaglivse della valle delì’ Idice, non molto distante dalla sua Villa di Ozzano, alcune pietre che egli sospettava potessero essere Cicadee fossili. Gentilmente invitato, mi recai subito alla sua casa in Bologna e verificai che si trattava effettivamente di un meravi- glioso esemplare delle solite Cicadee, disgraziatamente stato spezzato per poterlo gettare più facilmente fuori del campo ove era stato scavato. Il sig. Conte, avendo egli stesso raccolto quei resti importanti, gentilmente si offrì di guidarmi per esplorare la località ove sperava di trovare ancora qualche frammento; infatti il 3 dicembre mi recai a Ozzano e, risalendo il ramo destro del Rio Centonara che attraversa una massa importante di Argille scagliose tipiche, a m. 280 sul livello dell’ Adriatico mi fu indicato come e dove era stata scavata la Cicadea fossile. Il sig. Conte Massei ebbe a narrarmi che il 24 novembre, in compagnia del suo fattore Enrico Ghini e del caporale Lucio Rocca, passando presso un fondo detto la Torre, di proprietà del signor ingegnere Cavalieri in parrocchia di Sette- fonti, sulla strada in confine di un campo recentemente lavorato trovò i quattro frammenti di Cicadea che senza difficoltà riconobbi spettare a un unico esemplare. Della esatta provenienza potei allora accertarmi io stesso essendo riescito, con accurate ricerche, a ritrovare ancora qualche scheggia del bellissimo fossile il quale, per il perfettissimo stato di conservazione e per la roccia che in qualche punto ancora vi aderiva permette di escludere anche il più lontano dubbio che esso non fosse tuttavia la ove calò in fondo al mare cretaceo prima di essere fossilizzato. È questo adunque il primo tronco di Cicadea fossile raccolto in tali favorevoli circostanze da permetterci di affermare, una volta per sempre con tutta certezza, che dalle Argille scagliose provengono pure incontestabilmente le Cicadee fossili raccolte erratiche nei torrenti dell’ Emilia, ed esse pure servono a provare che le Argille scagliose nelle quali sono sepolte spettano al Cretaceo inferiore. Dissi che mi sarei, per ora limitato soltanto ad annunziare la importante scoperta della nuova Cicadea fossile nelle Argille scagliose e non ho in animo di intrattenermi ancora a dire delle nuove osservazioni litologiche e stratigrafiche le quali avvalorano il riferimento di quelle argille al Cenomaniano ; però non posso nè devo tacere che se la provenienza delle Cicadee fossili dalle Argille scagliose non era fin qui dimostrata. con. prove irrefragabili, non per questo tanto io che lo Scarabelli, come il Conte Solms, da tempo più non ne dubitavamo; e quantunque — 446 — qualche frammento rotolato fosse stato scoperto nei conglomerati miocenici ed anche si sospettasse la provenienza di esemplari da terrazze quaternarie, pure ci eravamo abituati a considerare quei fossili come spettanti alla Creta e si sperava sempre, da parte delle Argille scagliose, in una sorpresa come quella del 24 novembre che, unitamente all’ altra del frammento di rostro di Ittiosauro, servirà di chiave per parecchie altre scoperte non meno interessanti. La Cicadea fossile trovata presso Ozzano è una notevole porzione di tronco alta m. 0,585 con un diametro di m. 0,31; questo tronco diviso nel senso della altezza pri- ma di essere stato sepolto e fossilizzato, offre anche sotto tale aspetto una importanza tutta particolare per lo studio da farne. (1) Per la forma del tronco, per la distri- buzione dei fiori e dei pieciuoli dei quali restano avanzi o che sono scomparsi, per caratteristiche del midollo e altre particolarità, parmi di non poter dubitare che questa Cicadea sia da riferire al genere Raumeria, affine al gen. Bennettites (ex parte) di Carruthers, (2) ossia al gen. Clathropodium di Saporta (3) e poichè ritengo che si abbia a distinguere dalle specie già note, propongo, fin d’ ora, che la nuova specie ricordi il diligente raccoglitore e si intitoli: Raumeria masseiana. Ed ora dirò brevemente della Cicadea fossile figurata dal Monti e fin qui non riconosciuta da alcun naturalista. Nel 1865, trattando delle Balenottere fossili del Bolognese, feci conoscere che le prime notizie intorno a resti di Cetacei fossili erano dovute al naturalista bo- lognese Giacomo Biancani, il quale fino dal 1757 descrisse e fisurò vertebre e resti di Balenottera, nella Memoria pubblicata nel Tomo IV dei Commentarii della nostra Accademia, col titolo: De quibusdam animalium exuviis lapidefactis (4). Due anni prima nel Tomo III degli stessi Commentarii Giuseppe Monti pub- blicava, fra gli Opuscoli, un suo lavoro col titolo “ De quadam balanorum congerte , e il suo lavoro veniva corredato di una tavola disegnata ed incisa dal celebre Ercole Lelli (5). L’ esemplare raccolto nel 1754 in un torrente affluente dell’ Idice sotto Castel de Britti si trovava in una raccolta del Conte Giuseppe Ippolito Grassi e da esso fu mandato al Monti perchè lo studiasse; il Monti vi ravvisò la forma di un cono di pino e dapprima sospettò che fosse un avanzo ornamen- (1) Scamper W. — Traité de Paléontologie vegetale, Vol. II, p. 189. Paris 1869. (2) CarruTtHERS Wu. — On fossil Cycadean Stems from the Secondary Rocks of Britain. Tran- sactions of the Linnean Society of London. Vol. XXVI p. 675 London 1870 — Saporta — P/antes jurussiques. Paléontologie francaise 2° Série 8, IT p. 283. Paris 1875. (3) Il Conte prof. Solms-Laubach fu nuovamente in Bologna nei primi giornì di aprile di quest'anno per studiare questo ed altri importanti esemplari di Cicadee che verranno da esso maestrevolmente illustrate. (4) CaPELLINI G. — Balenottere fossili del Bolognese. — Mem. dell’ Acc. delle Scienze dell’ Isti- tuto di Bologna, Serie II Vol. IV. Bologna 1865. (5) Monti I. — De quadam balanornm Congerie. — De Bononiensi Scientiarum et Artium Instituto atque Academia Commentarii. Tomus tertius, p. 323. Bononiae MDCCLV. — 447 — tale di qualche antico edifizio, però avendolo mostrato a B. Beccari fu da esso assicurato che si trattava di un fossile. Fu allora che il Monti pensò ai balani e immaginò che si trattasse di un grande ammasso di resti di quelli animali e lo disse: lapideorum Balanorum insignis Congeries, descrivendolo accuratamente e con- frontandolo con altri avanzi di balani coi quali però trovava di non potere in modo alcuno identificare il suo grande esemplare. Basta leggere quella descrizione per capire che essa potrebbe benissimo adattarsi a un esemplare di Cicadea della stessa specie di quella trovata dal Conte Massei ed egualmente fossilizzata (1) Sospettai che si trattasse di una Cicadea la prima volta che, occupandomi di questi fossili, mi ricordai della tavola con balani fossili pubblicata nei vecchi Commen- tarii; leggendo allora attentamente la Memoria del Ranzani “ De tribus vegetabilibus fossilibus , nella quale è descritta e figurata una piccola Cicadea fossile raccolta tra i ciottoli del Reno Raumeria (Cycadoidea) intermedia, Ranz. sp. che ancora si conserva nel museo geologico di Bologna, fui grandemente sorpresso di non tro- varvi il più piccolo cenno intorno all’ esemplare di Cicadea che il Monti aveva giudicato un ammasso di balani (2). Il Ranzani narra come il celebre Buckland, passando per Bologna nel 1829, gli fece vedere un disegno di Cicadea fossile del Purbeck e, un anno dopo, avendo ricevuto la Memoria stampata e corredata di tavole, il Ranzani si ricordò che qualche anno prima gli era stato portato un sasso trovato in Reno che con quei fossili aveva grandissima analogia. Così ebbe origine la Memoria pubblicata dal Ranzani nel 1839, nella quale vi ha un breve cenno sui lavori allora già pub- blicati dai paleontologi sulle Cicadee fossili e piante affini e quindi una accurata descrizione del fossile bolognese accompagnata da una discreta figura in grandezza naturale. Il Ranzani non trovando modo di identificare la Cicadea bolognese con quelle illustrate dal Buckland e da altri, ma riconoscendo che stava tra la Cicadea detta macrofilla e quella nominata microfilla, la disse Cycadoidea intermedia. Intanto il Ranzani attribuisce al Buckland di avere pel primo fatto conoscere le Cicadee fossili, mentre se avesse posto mente alla lapideorum balanorum insignis Congeries del Monti e avesse letto attentamente la descrizione di quel fossile, non avrebbe mancato di fare conoscere l’ errore nel quale era caduto il suo prede- cessore; ma nel tempo stesso avrebbe potuto constatare che, da antica data, erano state raccolte Cicadee fossili provenienti dalle Argille scagliose della valle del- l’ Idice, d’ onde io pure ne ebbi già da molti anni un altro interessante esemplare. (1) Non è affatto improbabile che la porzione terminale di tronco di Cicadea trovato dal Grassi fosse una parte del tronco dell’ esemplare scoperto dal Conte ‘Massei, raccolto a breve distanza da Castel de’ Britti. Per le misure corrisponde a ciò che manca superiormente nell’ esem- plare recentemente trovato. (2) Ranzani 0. — De tribus vegetabilibus fossilibus. — Novi Commentarii Academiae Scien- tiarum Instituti bononiensis. T. Ill, p. 883. Bononiae MDUCCXXXIX. — 443 — È naturale che della Cicadea figurata dal Monti e non riconosciuta dal Ranzani, nessuno si sia accorto in seguito e ne abbia fatto menzione; ma io spero che av- verrà anche per questo ciò che è avvenuto per i Cetacei fossili dei quali, dopo la citata mia pubblicazione, la bibliografia incomincia con la Memoria di Giacomo Biancani che alcuni però confusero col mio predecessore Gian Giuseppe Bianconi. Dopo la pubblicazione della Memoria del Ranzani, parecchie Cicadee furono raccolte nel Veronese, in Toscana e nell’ Imolese, senza che si potesse accertarne la esatta provenienza; di esse farò la storia a suo tempo. Esemplari di straordi- naria bellezza furono trovati nell’ Imolese e nel Reggiano, in questi ultimi anni, in torrenti che attraversano Argille scagliose come ho accennato per l’Idice nel Bolognese e come si può ripetere per il Santerno nell’ Imolese; un meraviglioso esemplare raccolto dagli Etruschi fu trovato in una tomba a Marzabotto e già da alcuni anni gentilmente donatomi dal Conte Pompeo Aria si ammira ora sezionato nella ricca collezione paleofitologica del nostro museo. Anche delle Cicadee trovate nel Reggiano e nell’ Imolese il museo possiede importanti porzioni di esemplari e perfetti modelli per cortese condiscendenza del Senatore Scarabelli, del Cav. Iona professore a Reggio Emilia e dell’ abate D. Ferretti di S. Ruffino. La importanza che ogni giorno vanno acquistando i fossili che si raccolgono nelle Argille scagliose, la luce che si va facendo sulla cronologia di questa 1orma- zione mi induce ad accennare altresì che grande valore acquista la supposizione che talune concrezioni raccolte a Cà di Panico e altrove abbiano grandi rapporti con vere Coproliti come già ebbe ad indicare lo Scarabelli nella sua Descrizione geologica della Provincia di Forlì (1). Alcune analisi faite fare dallo Scarabelli hanno rivelato la presenza dell’ acido fosforico in quelle concrezioni e ciò non deve recare sorpresa se si riflette che si trovano nel Cenomaniano e che in parte possono essere derivate da denudazione del Gault che è l’ orizzonte della creta ove tanto abbondano i fosfati; piuttosto è da sperare che si giunga a scoprirne qualche ricco giacimento e che si riesca a poterle anche utilizzare per la industria. Fino dall'anno scorso il prof. Campari ebbe ad analizzare altre curiose concrezioni raccolte nelle Argille scagliose del Modenese e vi trovò acido fosforico; non mi consta però che quelle ricerche sieno state continuate. (1) ScanapeLi G. — Descrizione della Carta geologica del versante settentrionale dell''Apennino fra il Montone e la Foglia, pag. 23, 24. Forlì 1880. — 449 — Conclusione. Riepilogando brevemente il fin qui esposto, si può frattanto concludere per quanto è già bene accertato, che: Il frammento del rostro di Rettile raccolto nelle Argille scagliose di Gombola nel Modenese e descritto del prof. Pantanelli col nome di Gavialis mutinensis, non spetta all’ ordine Crocodilia bensì a quello che Owen denomina: “ Jehthyopterygia , da Huxley e da altri detto più chiaramente «“ Ichthyosauria , ed è riferibile ad una specie caratteristica della Creta inferiore, indicata da Carter col nome di Zehthyosaurus campylodon. Questa specie di Ittiosauro nel 1839 fu, per la prima volta, segnalata nella Creta inferiore di Dover e Folkstone; in seguito trovata nello stesso piano da Carter, nei dintorni di Cambridge, fu fatta concscere come specie distinta e illustrata da esso e da Owen nel 1845 e 1851. (1) Le Cicadee fossili raccolte fino allo scorso anno erratiche nei fiumi e torrenti dell’ Emilia provengono esse pure dalle Argille scagliose e dallo stesso orizzonte dell’ Ittiosauro campilodonte. Lo splendido esemplare raccolto nel novembre scorso dal Conte Francesco Massei nelle argille scagliose della Valle dell’ Idice tra Cia- gnano e Settefonti non permette di restare più lungamente incerti riguardo alla provenienza di tutti gli altri esemplari di tronchi di Cicadee raccolti nel Bolognese, nell’ Imolese, nel Reggiano e in Toscana. Qualche frammento rotolato può trovarsi nei conglomerati post-cretacei, ma il giacimento originario è nel Cretaceo inferiore. L’ esemplare illustrato da Giuseppe Monti nel 1755 come insigne congerie di balani, non era altro che un bel fram- mento, la porzione terminale superiore, di una Cicadea la quale per la descri- zione lasciata dal Monti corrisponde così bene anche per le dimensioni, con ciò che manca nel frammento di tronco recentemente scoperto dal Conte Massei, che io sospetto fortemente che i due frammenti fossero parti di uno stesso esemplare rotte e calate a fondo, non molto lontane l’ una dall’ altra, nel mare cretaceo e poscia fossilizzate. In quello stesso orizzonte geologico sono stati raccolti analoghi tronchi di Cicadee in Inghilterra ed in Francia ed è probabile che anche il Clathropodium foratum di Saporta, raccolto nei dintorni di Mans (Sarthe), che ha tanta analogia con alcune specie di Raumeria e Bennettites dell'Emilia, provenga dallo stesso piano. Questi fossili, recentemente scoperti o riconosciuti, confermano luminosamente ciò che annunziai nel 1884 nella Memoria col titolo: “ Il Cretaceo superiore e il Gruppo di Priabona nel- D Apennino settentrionale ecc. , e cioè : che una parte delle Argille scagliose del- l Emilia sono da ritenersi cenomaniane, come si ricavava già dalla presenza del- l’ Acanthoceras Mantelli nelle Argille scagliose di Rocca Corneta. (1) Sura WoopwarDp A. — A Symopsis of the Vertebrate Fossils of the English Chalk. — Proceedings of the Geologists' Assoc. Vol. X. N.° 5, p. 273, London 1888. TOMO X. SIL — 450 — SPIEGAZIONE DELLE TAVOLE TAVOLA I. Ichthyosaurus campylodon, Carrer. Fig. 1. — Frammento di rostro, grande al vero, visto dal lato sinistro. Fig. 2. — Ricostruzione del cranio !4 della grandezza naturale. La porzione ombreggiata corrisponde al frammento dell’ esemplare emiliano e ne indica la sua posizione relativa. Alla linea punteggiata @, corrisponde la sezione teorica fig. 3. Fig. 3. — Sezione corrispondente alla posizione del rostro nella quale i nasali vanno ad essere ricoperti interamente dagli intermascellari, come nella fig. 2 Tav. XXVI dell’ esemplare di Cambridge. Questa figura è riprodotta dalla Tav. IX della Memoria di Kiprijanoff ed è in scala doppia della fig. 2. Per la interpretazione possono servire le indicazioni relative alle sezioni 4, 5. Fig. 4. — Sezione ideale corrispondente alla metà della lunghezza del frammento figg. Fig. 5. — Sezione del frammento fig. 1, quale si rileva dall’ esame della faccia posteriore; nulla potendosi vedere nella faccia anteriore molto incrostata. im intermascellari; » nasali: /, ' lamine alveolari; s, s' solchi che per- corrono longitudinalmente le facce esterne degli intermascellari îm e dei dentarii di; d, d' denti; 0, 0' opercolari. TAVOLA II. Raumeria masseiana, Cap. e Sorms. %4 del vero POESIE Mem. Ser IV_Vol X C Capellim — Ittosauro e Cicadee fossi Fig.1 = NARA Vava 3 ZA Jit.G.Wenk e Figli—Bologna © Contoli, dis. dal vero e in pielra I C HTHYO 5 A U R US Ton eni L9° Capellini - Raumeria Masseiana - Tav. II Mem. Ser. IV Tom. X. Eliotipia Martelli - Roma. Cap. e Solms. RAUMERIA MASSEIANA RILIEVI CHATERIFORMI RIPRODUCENTI L'ASPETTO DEI TERRENI E DEI CONJ VULCANICI ALLA SUPERFICIE DI UN GRANDE DISCO D'ARGENTO DI FUSIONE PESANTE DUEMILA CHILOGRAMMI (dall’ Esposizione Internazionale di Parigi - 1889). CONCLUSIONI CHE SE NE POSSONO TRARRE SULLA FISICA COSTITUZIONE E SUI FENOMENI DINAMICI DEL GLOBO TERRESTRE DM II MORIA pn prOHn WU IGNBOMEBICGH (Letta nella Sessione delli 9 Febbraio 1890). In mezzo alla galleria o vestibolo che nel grande edificio per le sezioni stra- niere, all’ Esposizione universale di Parigi (1889), divideva la sezione Belga dal- l Austro-Ungarica, figurava sotto elegante vetrina un disco d’ argento di fusione, avente m. 1,65 di diametro ; circa m. q. 2,136 di superficie, con uno spessore medio _ di circa 9 centimetri. Il suo volume fra le due opposte superficie circolari, supposte piane, era quindi di circa m. c. 0,19224; ed il suo peso alquanto superiore a due tonnellate (s' impiegarono precisamente 2015 chilogrammi). Questa magnifica ed ampia focaccia metallica, del valore d° oltre 310 mila lire, era esposta dai Signori G. Dumonr er Frèrrs di Liegi, insieme a parecchi esemplari dei minerali di argento, oro, rame, piombo e zinco che son trattati nella loro officina metallurgica, e come campione del prodotto di argento, al titolo di 996 al mille. L'importanza che dal punto di vista minerario, tecnico e finanziario potevano avere siffatte due tonnellate di argento fuso, parvemi superata dall’ importanza scientifica della modalità colla quale esse si presentavano. È cosa notissima che mentre taluni metalli, fra i quali primi l'argento e il bismuto, si solidificano per raffreddamento, dopo di essere rimasti per un certo tempo fusi, quindi mentre sta ingrossandosi la crosticella di superficiale consolidazione pri- mamente formatasi, si vede questa crosticella rifarsi liquida in vari punti, dai quali scaturisce una certa quantità di metallo ancor fuso; il quale, traboccando, forma al- l’ intorno come dei rivoletti, delle colate, delle pustole, delle cupolette, dei bottoni, delle escrescenze fungiformi, che appunto si dissero funghi d'argento, funghi di bismuto, ete., modalità tutte derivanti dall’ accrescimento che il volume di quei metalli consegue nell’ atto del cambiamento di stato fisico; quando cioè dalla con- — 452 — dizione di liquidità (libertà di moto e di reciproco spostamento delle particelle sferiche), passa a quella d’ assettamento regolare e permanente, delle particelle sue poliedriche di solidità reale, cristallina. L’ apparenza superficiale del disco, verso la quale ho l’ onore d’invitar oggi l attenzione dei chiarissimi miei Colleghi non avrebbe potuto destare la curiosità, o l'interesse dei visitanti se non per il fenomeno fisico adesso ricordato; ma la configurazione e le proporzioni relative dei rialzi prodottisi sulla vasta sua faccia circolare, in seguito alla dilatazione del metallo fuso che si solidifica e cristallizza, riproducono tanto mirabilmente il tipo e il carattere di quei rilievi che sulla faccia della Terra e più classicamente ancora su quella della Luna, sono dovuti alla vul- canicità che anche i profani alla scienza immediatamente se ne accorgono; e coloro che s' interessano ai fenomeni maggiori ‘della dinamica molecolare; alle ragioni recondite dei sollevamenti orografici e alle manifestazioni tutte del plutonismo terrestre posson ravvisarvi una favorevolissima condizione di studio e di non infe- conde deduzioni. Chi guardi la superficie del disco può credere di aver sott’ occhio una vasta regione circolare, campo di energiche attività di plutonismo; dove in mezzo ad aree pianeggianti, or liscie e unite, ora scabre, corrugate, ineguali. variolitiche, con rialzi e bernoccoli, sorgono giogaje di montagne, erettesi per via di solleva- mento endogeno; e su queste, picchi ripidi e pittoreschi di masse eruttive ; coni vulcanici isolati o raccolti, con i loro crateri beanti e le loro espansioni di lave; ed isole vulcaniche con i loro anfiteatri a ferro di cavallo e i loro trabocchi late- vali, circhi ed orli di altri crateri vasti, depressi ed ostruiti. Sulle colate maggiori, altri piccoli crateri avventizi, e fumarole, quali in ben più grandiosa misura si vedon formarsi sulla vera lava allorchè si accumula presso i declivi dell’ Etna maestoso o dell’ elegante Vesuvio; tanto che taluni fra coloro che hanno vista questa tonda faccia del metallo, che gli alchimisti chiamarono — luna — hanno supposto che fosse davvero un fac-simile in rilievo della tonda e vajolata faccia del nostro satellite Luna. Una riproduzione al naturale, fatta di scagliola con mirabile abilità, di questo disco e delle sue montagne, può vedersi quì nel Museo universitario di mineralogia; riproduzione somigliantissima all’ originale; e di cui presento all’ Accademia alcune relative fotografie, nella proporzione di 1[10 del vero. Anzi mi è grato assai il dover far noto all’ Accademia che un così pesante ed accurato modello fu regalato, con singolare e mai abbastanza lodata generosità e cortesia, al Museo bolognese, esente da ogni qualsiasi spesa di fattura, invio, trasporto e consegna a domicilio, dal chiarissimo Sig. Ing. Gusravo Duxonr (1), il quale descrive il processo adottato per la fusione e per ottenere vistoso — il rochage —, (1) Questo egregio Signore volle altresì arricchire il bel dono con alquante copie del suo pregievolissimo lavoro, intitolato « Des affaissements du sol, produits par l exploitation houillère — — 453 — colle seguenti parole : “ Pour faire le gateau on a du faire un four spécial de plus ‘grandes dimensions que d’ abitude mais ayant la forme ordinaire. » Les barres ont eté introduites è mesure de leur fusion jusqu’ è ce que le poid ait atteint 2015 kilos; et puis, la fusion étant compléte, on a vidé les foyers ouvrant les portes du four et laissant refroidir le bloc lentement....... Des gaz nombreux s' echappent pendant ce refroidissement. Lorsque la surface a eté a peu près solidifige s' est produit de petits crateres qui se sont élevés successivement; mais dans les endroit ou la voute était la plus mince, de grandes plaques se soulevaient et donnaient lieu à des coulées et non à des cratères; tout en degageant du gaz en grande quantité. — Ce n'est que lorsque la croute a eté formés è peu près partout, renfermant sous elle les gaz qui se degageaient, que les cratères ont repris leur mouvement et qu’ ils ont pu atteindre l’altitude que vous leur voyez ,. Dirò ora in breve quali deduzioni giuste e feconde mi sembrano derivabili dallo studio delle particolarità che la superficie, e quasi direi — l’ orografia — del massello di argento, ci vien presentando. Primamente vi si osserva con incomparabile istruttività il fenomeno testè ricor- dato, della dilatazione del metallo, nell’ atto del suo solidificarsi per raffreddamento. A proposito di ciò credo bene d'’ insistere sul fatto che questa dilatazione dipende nell’argento, come in altri metalli, da due circostanze: 1° l’assettamento regolare delle particelle fisiche, solide ed isometriche nel cui prodursi realmente consiste la solidificazione, con struttura cristallina, e con allon- fanamento reciproco delle molecole generanti. 2° Lo svolgersi del gas già stato assorbito dal metallo durante la sua fusione. Questo gas, che nel caso del massello di argento poteva esser l’ossigeno dell’ aria mentre è diffusibile, quasi direbbesi solubile nel liquido metallico, non lo è nel metallo solido e cristallizzato; deve dunque separarsene nell’ atto della solidificazione; se ne se- para di fatto, producendo il noto ribollimento, generando ampolle, vacuità, pustole e tumefazioni superficiali e sfiatatoj crateriformi ; quindi cooperando all’ aumento del volume complessivo della massa in cui stavasi occluso. La prima di queste due cause, ossia l’ aumento di distanza fra le molecole, neî singoli loro gruppi generanti le particelle fisiche di solidità poliedrica e cristallina, presiede alle notissime dilatazioni dell’ acqua che si congela, del solfo, del bismuto dell’antimonio che già fusi, si rappigliano e cristallizzano; ed è pure notissimo che si può conoscere il coetficiente di questa dilatazione delle masse, per assettamento cristallogenico, tenendo conto delle diminuzioni correspettive di densità. Fino dal 1870 ebbi l'incentivo e l’ opportunità di insistere lungamente e sopra questi fenomeni dal punto di vista della genesi dei cristalli, delle cause determi- Liége 1872 », e corredato da un cospicuo Atlante; della quale opera venne offerta all'Accademia la copia che erasi depositata sul banco della I'residenza. — 454 — nanti le loro modificazioni per via di decrescimenti, e della teoria della poli- genesi (1). Sarebbe superfluo il ripeter qui cose già dette; ma non è superfluo il raccomandare fervidamente che nei trattati di fisica, di cristallografia, di mine- ralogia generale, si tenga conto di questi specialissimi fenomeni molecolari, e sì distinguano una buona volta i corpi strutturalmente e fisicamente solidi, perchè costituitisi tali nell’ atto della costituzione delle rispettive particelle fisiche di solidità, ad un dato grado di temperatura, e con dilatazione delle loro masse in via di progressivo raffreddamento, dai corpi semplicemente fattisi duri, per ulteriore e pro- gressivo avvicinamento delle molecole chimiche, entro limiti generalmente distanti. fra loro di temperatura. Le tavole 1% e 2° presentano alcuni disegni tratti da fotografie che danno l idea dell’ assieme del disco, e di alcuni dettagli. Si vede subito come sien possi- bili confronti e ravvicinamenti non compromessi al certo dali’ essere i rilievi del disco metallico infinitamente più piccoli dei coni e dei mammelloni dei veri vulcani, terrestri o lunari che sieno. Ed invero la differenza nelle rispettive misure può. parer molto vrande a noi abituati ad assumere, per istinto, le nostre personali dimensioni come unità di confronto; ma scema d’ assai nel suo significato se rife- riscasi per es. alle dimensioni assolute del globo. D’ altra parte il piecolo Stromboli e il Vesuvio sono veri vulcani, al pari del Cotopazi e del Kilauea, e l Etna è . immensamente più grande dei piccoli coni di fumarole che pullulano, per indole vera di vulcanicità, sopra i suoi vasti fianchi di lava. Eccoci al più attraente e più difficil quesito. È una mera casualità, ovvero è la conseguenza di reali analogie fra le cause determinanti la singolare, se non strana, rassomiglianza di carattere, spinta fino ai minori dettagli, fra i rilievi generati nella crosta litoide del globo, dalla vulcanicità, e quelli generati nella crosta di un metallo che si solidifica, dal dinamismo delle sue molecole e dallo svolgimento dei suoi gas occlusi? Chi vorrà, senz’ altro, giudicar casuale o indipendente una tale rassomiglianza, attribuendola ad un anormale concorso di condizioni accidentali, realizzabili una volta e poi più, negherà logicamente ogni qualsiasi interesse al fatto di cui è sede il grande disco di argento, tutt'al più accettandolo come istruttivo esempio del genere di dilatazione che si conosce proprio di quelle sostanze che si solidificano ad un grado fisso di temperatura. Ma chi piuttosto consentirà che sia possibile l’ analogia fra le cause che net due campi di lavoro molecolare, massimo nella crosta pietrosa del globo, minimo nella crosta metallica del disco, produssero analoghe modalità di effetti, troverà (1) BomBiccr L. — I fosfati e gli arseniati minerali secondo la teoria della poligenesi. Mem. Accad. Bologna, 1870. — 455 — nel fenomeno che sto illustrando alcuni ben significanti criteri, propizi a questa tesi; per esempio, gli appresso : a) Anche i vulcani propriamente detti, alti ed ignivomi, sulla crosta del globo, col loro caratteristico tipo a cono ed a cratere, si produssero, per quanto può dirne la geologia, nè più nè meno verso il cessare dell’ éra terziaria; ossia sul principio dell’ età recente, o éra moderna. Sorsero quindi, in un tempo in cui erano già divenute immensamente lontane — per ‘anteriorità - le prime solidificazioni super- ficiali, e la fase in cui sé disponeva, bensì, ma non si realizzava che con estrema lentezza il raffreddamento delle parti metalliche del globo, già difese contro un raffreddamento rapido dell’ involucro litoide incrostante ed avviluppante. Questa considerazione sulla relativa giovinezza dei vulcani richiama l' ipotesi, che per la prima volta proposi in questa Accademia, nel 1887 (1), della prevalen- tissima metallicità della massa terrestre; dalla quale ipotesi derivava per logica conse- guenza l’attribuire ciò che diciamo crosta terrestre, — e che consiste in un enorme involucro pietroso e cristallino — alle ossidazioni di quei metalli che più leggeri, più osssidabili d’ altri dovevano quasi soprannuotare ai più pesanti e trovarsi dappresso alla superficie; ed alle salificazioni successive. Dunque, il costituirsi di tal crosta pietrosa per le notate azioni chimiche doveva necessariamente coordinarsi ad un rialzo di temperatura, invece che ad un raffreddamento; ad una vera combustione superficiale. Il raffreddamento restava allora possibile soltanto nella sottostante massa planetaria, non partecipante alle chimiche reazioni di ‘periferia, le quali del resto vengono evidentemente dimostrate dalla natura e struttura delle rocce più antiche. b) Tanto nei fenomeni dei veri vulcani, che in quelli della idrotermalità contem- poranea, vediamo gas o vapori associarsi non solo alle manifestazioni ignee o ca- lorifiche dei fenomeni stessi; ma talvolta esser predominanti, fino a palesarsi massimi e potenti incentivi di eruzioni, di trabocchi lavici, di moti sotterranei e di solleva- menti circoscritti e locali. c) La comunanza, in ambedue gli ordini di fatti di macro-plutonismo e di micro-plutonismo , del fenomeno superlativamente notevole della cristallizzazione delle masse. Come nel blocco di argento, così negli ammassi di rocce, lave o graniti, diabasi od ofioliti, la cristallizzazione può spiegare, in un colla dilatazione loro e colla diminuzione delle rispettive densità, gl’ impulsi di sollevamento, gli svolgimenti di gas e di vapori e le nuove proprietà fisico-strutturali che nelle rocce fattesi cri- stalline sono l’ essenziale condizione di metamorfismo. (1) L. BowmBicci — Sulla costituzione fisica del globo terrestre; sull’ origine della sua crosta litoide e sulle cause dei moti sismici che più frequentemente vi avvengono. Bol. 1887. i * — 456 — Di quanto si è dilatata la massa metallica che stiamo esaminando? Determinato che sia il volume del disco di m. 1,65 diametro, e di m. 0,09 spessore, si ha come risultato cent. c. 192240 volume fra le due facce cir- colari del disco medesimo, supposte piane; conviene quindi calcolare ancora il complessivo volume di tutti i rilievi, cotanto multiformi e irregolari, che lo sor- montano. Credo di averlo determinato questo volume complementare con bastevole approssimazione col seguente semplicissimo processo: ho ricavato dapprima con gelatina da formatori l’ impronta esatta di tutta la superficie del disco, ossia di tutti i suoi rilievi; la gelatina calda e scorrevole vi formò al di sopra un piano circolare, livellato ; divenuta fredda e resistente, staccata dal disco, rovesciata su di un grande tavolo, pur livellato e piano, mi offrì in éncavo tutti i rilievi testè ricordati. Con un recipiente graduato a centimetri cubici, ho riempito esattamente di acqua, gl’ incavi fino all’ orlo di comune livello; e il numero dei cent. cubici occorsi per tale intento mi ha dato, con approssimazione sufficientissima, il volume cercato, colla cifra di c. c. 9285. Ho detta sufficientissima l’ approssimazione conseguita; non sarebbe tale certa- mente se lo scopo fosse stato quello di determinare il coefficiente, che dirò cristal ligeno di dilatazione del metallo ; ovvero il rapporto del volume del gas, già accluso . e poi sprigionatosi, col volume dell’ argento ineludente. Ma, nel caso in discorso, ciascuno dei due fenomeni - che contemporanei e di diversissima indole concorrono al medesimo effetto, di cui cercasi la misura - essendo indeterminato sopratutto nella sua quantità, perchè la quasi totale sfuggita del gas aprì e mantenne vacui interni, sboccanti all’ esterno, alcuni richiusi dal metallo retrocedente, altri rimasti aperti, così la misura cercata non poteva conseguirsi esatta. D’ altra parte, per le conclusioni cui mira questo studio giova considerare la cifra dei 9285 c. c. come risultante, appunto, dal comporsi di due cause distinte, una essenzialmente inerente alle masse solide, l’ altra agli svolgimenti di vapori o di gas, come nella fase eruttiva delle conflagrazioni vulcaniche. Quì un altro problema! Nelle masse non metalliche, quali sono per es. le rocce cristalline a basi di silicati, le lave ecc. è forse possibile il riscontrare una attitudine ad assorbire o immagazzinare fluidi elastici ed a ridursi pastose per via di alte temperature ? Pos- sono esse serbare acclusìi e diffusi tali fluidi, per poi farsi cristalline raffreddandosi, e nel periodo di raffreddamento aumentare di volume, cangiando di stato fisico, e lasciando sprigionare i gas, i vapori, in esse già condensatisi? Ci rispondono le fumarole de’ vulcani, quelle segnatamente delle così dette - colate -, che vanno allontanandosi dall’ orificio eruttivo; ci rispondono i conj spurii o avventizi che sorgono sulle lave di già traboccate ed i moltissimi feno- meni d’ idrotermalità, connessi col metamorfismo strutturale e cristalligeno delle rocce, le quali da esso ripetono le maggiori attitudini di espansione e trabocco; finalmente le celebri, sebben troppo avversate, esperienze del Gorini. — 457 — Il nostro disco di argento è per tali riguardi uno stupendo campione di un fenomeno parallelo a quello dei così detti — vulcanetti goriniani —; e può essere utilmente citato allorquando vogliasi fur più completa e razionale la teoria sulla costituzione fisica del globo terrestre; previa l’ accettazione di quattro concetti fondamentali : 1° Metallicità assoluta nella massa interna, sferica del pianeta ; 2.° Svolgimento ancor perdurante da essa, dell'idrogeno e di altri gas, i quali mentre era completamente fusa, e coni metalli liberi a contatto della sua atmosfera, potevano venire assorbiti, ma che per il progressivo raffreddamento solidificante, debbono poi sprigionarsene. 3.° Ossidazione di quest’ idrogeno erompente (1) e degli altri corpi gassosi o» (1) La quantità enorme d’ idregeno, prorompente dallo sferoide, avvolto quale fu ed è da un atmosfera ricca di ossigeno con altri metalloidi e vapori metallici, cui l’ alto calore impediva le rispettive combinazioni, spiega per es., mercè la sua combinazione coll’ ossigeno stesso, l'origine dell’acqua dei mari; la combinazione dei vapori di sodio e di potassio col cloro dell’ atmosfera iniziale, riduce ad una grande naturalezza la spiegazione della salinità delle acque marine, ine- rente fin dai primordi del loro distendersi sulla superficie del pianeta, come lo indica la fauna fossile delle più remote o primordiali vestigia della vita organica nell’ oceano. Basta uno sguardo al quadro sinottico che il Lapparent presenta a pag. 1260-1261 della sua opera « Traité de Géologie 1883 » (ne dò l’ estratto in appendice con poche aggiunte - dn corsivo -), per riscontrare un fatto che da solo dovrebbe poter distruggere ciò che ancora rimane delle vec- chie teorie sul vulcanismo; teorie schematicamente e sciaguratamente rappresentate, tuttodì, con un disco color fuoco che figura la sezione del globo, fatto di rocce e lave in fusione, con ‘un ar- miila che figura la crosta formatasi per raffreddamento, e colle fissure attraversanti questa crosta, le quali dando adito alle rocce fuse del centro, e scaturenti fuori, alla superficie, vorrebbero: indicare la presenza e la funzione dei vulcani! Il fatto è questo: Le emersioni di rocce cristalline — graniti, granuliti, porfidi —; i trabocchi di melafiri, di eufotidi, di serpentine; le colate di lipariti, di basalti, di trachiti, aumentano di frequenza, varietà ed intensità man mano che si fanno più recenti! Tanto è vero che da tali emersioni non si hanno veri conj, veri crateri e vere lave se non nell’èra terziaria e nella moderna (V. Appendice c. s.). Durante tutta la lunghissima epoca secondaria, veruna espansione, traboccante o eruttiva, considerevole di rocce cristalline ci è nota; nessuna eruzione propriamente detta; nessun feno- meno vulcanico! Perchè ? La spiegazione è semplice e chiara; ma soltanto la mia ipotesi ora citata, può darla: perchè non erasi ancor sufficentemente prodotta nella parte periferica dell’adunamento dai metalli fusi, ma grado a grado perdenti calore per irradiamento, quella predisposizione fisica alla solidità cri- stallina, che rende incompatibile l associazione di un gas con un metallo; che costringe quello, a. sprigionarsi, rapido, violento, dagli spazi intermolecolari trasformati, o dali’ adesione colle mole- cole non più libere, di questo. Invece: i filoni metalliferi si andaron costituendo fino dall’ éra paleozoica, o primaria, per la facile metallizzazione delle fratture che aprivano allora aditi ascendenti alla idrotermalità endo- gena. Tale metallizzazione, o produzione filoniana, si protrasse nei periodi giurassici dell’ èra secondaria, ma degradando rapidamente. — La vediamo rappresentata, in tutt’ altro modo, nei primi tempi dell’epoca terziaria mercè le iniezioni degl’impasti argilloso-scagliosi, ricchi di solfuri TOMO X. ; 58 c= Lib liquefatti, metalli o metalloidi, venuti a ‘contatto dell’ atmosfera rieca di ossigeno, appena il decrescere dello stato di dissociazione, per eccessiva temperatura, avesse rese possibili le reazioni chimiche mineralizzatrici. 4.° Variabilità di struttura con cambiamenti più o meno considerevoli di volume, generatori di sollevamenti e dislocazioni nelle parti superficiali della massa metallica, pur sottostanti allo strato ossidato, silicatizzato, esterno ed incrostante. In quest’ ordine d’ idee giova l’ insistere sulla circostanza che le ineguaglianze orografiche della superficie del suolo sono dovute solamente în parte ai solleva- menti posttivi di aree, ossia ad effetti localizzati e per lo più allineati di fratture e dejezioni, di espansioni di masse ed iniezioni di rocce eruttive. Moltissime, anzi le più vaste fra le ineguaglianze orografiche di superficie e di livello posson dirsi prodotte sul globo da avvallamenti regionali, probabilmente sempre lentissimi come quelli noti nella attualità, e con possibili alternanze di segno nelle oscillazioni ; tantochè, mentre orli di terre continentali si sollevano, altri si deprimono. Pertanto, un fatto di così grande valore trova la sua più facile esplicazione nell’ altro fatto, di sua natura certissimo, e per di più ben illustrato in parecchi dei rilievi cupuliformi del nostro disco metallico; vale a dire, # contrarsi per ritiro, ossia per diminuzione di volume, di quelle parti della massa che si sono dilatate ed espanse nel momento in cui le chimiche reazioni, sviluppanti altissime tempe- rature, e poscia le potenti forze orientatrici cristallogeniche, lavoravano a far cristal- lizzanti e solide le masse, aumentandone il volume. Esauritasi questa fase, e restando solo in azione un generale abbassamento di temperatura, le molecole e le particelle cristalline potevano e dovevano reciproca- mente avvicinarsi, adducendo nella massa una contrazione considerevole; in ragio- ne di questa, concavità sui monti e sui piani; inghiottimenti di materia che stava per traboccar da un cratere; increspamenti delle superficie già tumefatte ete. — Viene così condotto il pensiero alla Valle del Bove, sul pendio orientale dell’ Etna, alle vacuità risuonanti sotto il cono ora ignivomo di Vulcano, e al disegno ad amfiteatro o a circo di tante altre montagne a cratere. Se il disco, ferme stando le già indicate dimensioni, invece di essere d’ argento puro e fuso fosse di acqua; e se raffreddato sotto 0°, si facesse rapidamente solido di rame e di ferro, attraverso galestri, arenarie, calcari a fucoidi del cretaceo superiore e del- l’eocene. Nella formazione dei rilievi crateriformi del disco che ho voluto illustrare, e quale è descritta dal Ing. Dumont nei periodi riportati dalla sua lettera, si hanno le tre fasi di attività plutonico- molecolare, giustamente corrispondenti a quelle delle tre massime ere geologiche; dapprincipio svol- gimento copioso di gas, formazione di aperture, sfiatatoj e piccoli crateri; poi sollevamenti estesi colate senza crateri, relativa quiete mentre si andava ingrossando la crosta; divenuta questa, grossa e continua, rialzo di attività, rifusioni ed eruzioni nei crateri, ed il sorger di questi al massimo della possibile loro altezza verticale. — 459 — (cristallizzato, in istato di ghiaccio), il suo volume si accrescerebbe di un dodi- cesimo. L’ aumento effettivo di vclume sarebbe dunque di 16020 c. c.: e se questo volume, anzichè essere ripartito come uniforme aumento di spessore venisse ridotto a forma di cubo o di più cubi, si potrebbe rappresentare con un dado il cui lato avesse 25 centimetri di lunghezza; ovvero con una piramide composta da tavole quadrate, alta. ciascuna un centimetro e di superficie crescente come i quadrati dei numeri dispari da 1 a 45. Peraltro onde avere’ la quantità esatta dei cubi, data dal calcolo, si potrebbero escludere i due quadrati del 5 e del 13, ed aggiun- gere un cubo all’ apice. La pendenza dominante, nelle facce della piramide, ri- sulta di 45°. In altra e ormai lontana occasione ho addotto, discorrendo dell’ origine delle montagne, siffatto esempio della dilatazione dell’ acqua che si congela {1); e siccome mi sono riferite ad un adunamento di acqua geograficamente conosciutissimo per far vedere come sia facile il rendersi conto del sollevamento, per la dilatazione suddetta, di ciò che può corrispondere ad una vera e grande catena montuosa, così amo di riportare qui l’ intiero periodo: “ L'acqua divenendo ghiaccio, aumenta di circa un dodicesimo il suo proprio volume. » Per aver idea dell’ effetto che un simile accrescimento di volume potrebbe produrre, se avvenisse in una vasta formazione pietrosa della crosta terrestre, imma- giniamo la solidificazione cristallina di una massa di acqua abbastanza grande per essere paragonabile ad un estesissimo deposito di roccie; per esempio del nostro Adriatico, il cui volume liquido può, all’ ingrosso, o se vuolsi, convenzionalmente, ragguagliarsi a 60 trilioni di metri cubi, ammettendone di 128 mila chilometri quadrati la superficie, di 460 metri la media profondità. — Si avrebbe un aumento di volume, per dilatazione che dirò cristalligena, di 5 trilioni di metri cubi: vale a dire si avrebbe lo spostamento dal dasso all’ alto della superficie orizzontale di quel mare, lapidificato dal congelamento, per 5000 chilometri cubici, questo enor- me volume rappresenterebbe un vigore irresistibile di emersione — a freddo —, perfettamente simile a quello delle più ignee fra le roccie eruttive; e supponendolo coperto da un enorme mantello di strati, pietrosi, li solleverebbe con impulso po- tente, unicamente dovuto all’ essersi fatto di ghiaccio uno strato di acqua liquida di soli 460 metri di spessore iniziale! n Che se a quella dilatazione strutturale si aggiungesse l'effetto della espan- sione di gas già disciolti, ma dei quali la presenza non fosse più compatibile colla (1) BomBicci — Sull’ origine delle montagne — Uonfer. alla Sez. di Bologna del Club Alpino — Marzo, 1877. * — 460 — trasformata struttura; ovvero di vapori interposti e di liquidi allo stato sferoidale, come avviene sopratutto nelle lave, la citata cifra diverrebbe viemaggiormente considerevole. , Il Daubrée dimostrò praticamente che talune materie vetrose (strutturalmente analoghe ai liquidi), divenendo cristalline (come la maggior parte delle roccie eruttive) accrescono di oltre un terzo il loro volume! , Notiamo infine che se l’ aumento di volume dell’ Adriatico per la sua ipotetica congelazione invece di essere uniformemente distribuito fosse più specialmente loca- lizzato, per es. nella linea mediana, avrebbesi, in tal caso, il sorgere di una vera catena, la quale potrebbe esser lunga 800 chilometri come quel mare, alta circa mille metri, e larga sei chilometri almeno! , Dunque: Se la prima pellicola o crosticella iniziale del nostro globo si fosse prodotta per solo raffreddamento, sarebbe stata quasi esclusivamente metallica, o copiosa- mente imbevuta di metalli; ma il disco di argento e’ insegna che tale sua qualità le avrebbe permesso, appena raggiunto uno spessore di otto o nove chilometri (circa ‘4, del raggio terrestre), e mercè la solidificazione cristalligena collo svolgi- mento dei gas assorbiti, di generar gruppi montuosi con altezze assai maggiori di quello spessore! Di sollevarsi, con apparato classicamente vulcanico, in guglie e picchi in coni crateriformi, e con trabocchi vastissimi di metalli ancor fusi, e fino a dieci chilometri. Nulla di tutto questo si è finora osservato, in benchè minima parte. La Geo- logia, la Paleontologia, indicano invece bassi livelli di terre, generale sommersione di queste, sotto vastissimi, salatissimi mari; nessun documento di vera vulcanicità ! Le altre montagne ed i crateri vulcanici primitivi, costituiti di materie metalliche o compenetrati di metalli nativi, mancano completamente!! Dunque, la pellicola iniziale, la corteccia di crescente spessore sulla faccia della terra, non derivò dal rappigliamento di materie fuse; bensì dall’ ossidazione di metalli ossidabilissimi, dalla generazione di sali in gran parte fissi, come gli ‘ossidi dei principali metalli, e poco conduttori del calorico. Se poi, la vulcanicità fosse il portato diretto di un ribollimento delle materie della massa centrale, i vulcani sarebbero stati caratteristici al massimo grado per numero, per affollamento e per imponenza, nelle prime ére di genesi del pianeta; invece abbiam visto che essi sono di origine relativamente recentissima! La vulcanicità, nella Luna, rappresenta gli ultimi, ma più formidabili e gigan- teschi conati di espansioni di masse e di svolgimenti di gas occlusi, di cui sia stato sede il nostro satellite; e l’ esaurimento probabile di ogni attività endogena nella sua massa. — 461 — Se ammettasi una produzione enorme di acqua, ed una pronta costituzione di mari, appena fattasi meno rovente la superficie della terra, ciò potrebbe farci ri- chiamare in onore l'ipotesi del mare ideato dal Werner. Ma ciò sarebbe uno sproposito. Non già un mare bollente quale immaginavalo arditamente il geologo capo- scuola di Freyberg, poteva farsi dissolvente degli elementi delle rocce a base di silicati, per saturarsene e poi lasciarli cristallizzare entro di sè, e generare gneiss e granito sulle pareti e sui fondi dei bacini da esso mare sommersi! L'acqua che si andava producendo e radunando era invece il preparativo della costituzione dell’ Oceano; era l’acqua — allo stato nascente — che si asso- ciava all'enorme, immenso lavoro di ossidazione metallica, di reazioni chimiche salificanti, sopratutto silicizzanti; donde la genesi dei silicati e delle rocce idrate, primitive e cristalline di ogni categoria; era l’acqua soprariscaldata, che allo stato sferoidale, quale sappiamo e vediamo tuttodì lavorare attiva e possente nei focolari vulcanici, favoriva la modalità cristallina e la varietà mineralogica delle prime rocce insorgenti. E chissà quanto era energica, vasta, durevole, e causa di temperature localmente prodigiose, la combinazione dell’ idrogeno sprigionantesi dallo sferoide metallico, coll’ ossigeno gassoso dell’ avviluppante atmofera! Fu davvero fortuna che dalla squisita e illuminata cortesia del proprietario espositore, Sig. Ing. Giorgio Dumont, venisse conservata la forma del desiderabile disco argenteo di due tonnellate, il quale, mentre era liquefatto alla temperatura di oltre 1000°, presentava calma, unita e specchiante la sua superficie, e che nel raffreddarsi, nel cristallizzare, nell’emettere ossigeno assorbito, forse altri gas, produsse per esclusiva virtù di moti molecolari un documento istruttivissimo per ajutarci ad intender l’ indole vera della vulcanicità planetaria. ERE GEOLOGICHE AR PEN III PERIODI — 462 — ERUZIONI DI ROCCE GENESI DI FILONI - TRABOCCHI DI LAVE VULCANICHE FENOMENI DINAMICI NELLA CROSTA DEL GLOBO Era moderna ... RECENTE. Era terziaria . . Era secondaria. Era primaria ... PLIOCENICO. MIioceENICO. EocENICO. SERIE CRETACEA. SERIE GIURASSICA - OoLITE - Lias. SERIE TRIASSICA. SERIE PALEOZOICA. TERRENI PRIMITIVI AZOICI. | Vulcani laziali. Vulcani d’ Alvergna. { Basalti antichi di Alvergna. i | Trachiti e Domiti. Andesiti e Basalti. Andesiti e Daciti. Serpentine ed Ofiti. Eutotidi ed iperiti. Lipariti granitoidi. NESSUNA ERUZIONE DI VULCANI. NESSUNA ERUZIONE DI VULCANI. Filoni metalliferi a ganga quarzosa, baritica ecc. di lentissima genesi idroter- male. NESSUNA ERUZIONE DI VULCANI. Melafiri. Eufotidi. Quarziti - Silici idrotermali Giacimenti ramiferi. NESSUNA ERUZIONE DI VULCANI. Emersioni di rocce cristal- line. Graniti e Sieniti. Dioriti e Diabasi. Porfidi e Porfiriti. Melafiri. Filoni stanniferi. Silicati di alluminio con si- licati di ferro e magnesio. NESSUNA ERUZIONE DI VULCANI. Emersioni di rocce cristal- line. Gneiss. z Sollevamenti di coni vulca- nici. Eruzioni sottomarine, ecc. Sollevamento delle Ande ? Sollevamento delle Alpi. Sollevamento dei Pirenei e degli Appennini. Emerge il bacino anglo-pa— rigino Fratture e faglie nel Morvan. Ripiegamenti nelle Ardenne ecc. Corrugamento dell’ Hainaut. Ossidazioni e salificazioni alla superficie della massa metallica del pianeta. ‘eu6o[og — By © jU2M 941 ‘HI 1Ulp[eIeg y — 0104 Jep ‘5Ip 1001Quogo] INALVY9) INNO1Y IG ITOVILAG NO9 ‘09SI(Q 140 ALUVI Toe (0ISA [Ap 4 EOUO) INUOSIVALVY9 IASITIY NOD ‘OINAOUV.A 09SI(] 7] ]- I09Iquog'] | i cani ti - vl} 1Vipje1eg È y —_ 049A |Ep sip 1991quog'7 veuBojog—1)Éìy a XuaM 91! SES ti (cun ]9p 64 ED) ANOIZAYA:A IMALVY9) 3 IAGITIY [IG IMOVLIA(] NOD ‘00SI( TICO 3LUV] Sa 1°A INBEISIRIST\ | AE] — [0oIquIOg'] Ci 53 IE SA FA PRIMO CONTRIBUTO ALLA CONUSCRNZA DALLA MICROFAUNA TERZIARIA ITALIANA MEMORIA DEL Dott. CARLO FORNASINI (Letta nella Sessione del 9 Febbraio 1890). Alcuni anni or sono, il dottor Antonio Neviani, attivo cultore delle discipline geologiche, trovandosi a Catanzaro quale professore di storia naturale in quel R. Liceo, gentilmente mi mandava parecchi saggi di una marna fossilifera da lui raccolti nella Regione Incascio, a ponente della città medesima. Da qualche tempo avevo rivolto le mie ricerche di micropaleontologia all’ ana- lisi protistologica dei depositi inferiori del piiocene bolognese, e desiderando di istituire un confronto tra essi e î loro probabili corrispondenti dell’ Italia estrema, ‘avevo raccomandato al Neviani di raccogliere per me, nelle sue escursioni in Calabria, qualche esemplare delle rocce che sogliono colà essere caratteristiche della zona inferiore del pliocene. La marna inviatami dal Neviani era assai diversa da quella azzurrognola e ‘abbondantemente argillosa che sta sopra la formazione gessosa del Bolognese : era bianchiccia, ricca di calcare, conteneva nucleetti ferruginosi, possedeva, in breve, tutti quanti i caratteri di una roccia conosciutissima in Sicilia, ove accompagna la ‘zona solfifera, che i solfatai distinguono col nome di trudo. E, ciò che più m' interessava, la marna della regione Incascio, al pari dei trubi di Sicilia, era costituita per buona parte del suo volume da resti di foraminiferi microscopici, tra i quali abbondantissime le orbuline e le globigerine. Lasciando da parte la questione se i trubi, o marne bianche a foraminiferi, di Sicilia e di Calabria siano riferibili a un piano geologico distinto dall’ ordinario pliocene (come vuole il Seguenza, che ne prende argomento per il suo zancleano), o se piuttosto, come vogliono altri, siano da riguardarsi quale una facces profonda dell’ astiano, è indubitato che, riposando essi in molti casi sulla formazione gessoso- .solfifera che segnerebbe la fine del miocene, rappresentano i sedimenti più antichi — 464 — dell’ ultimo periodo del terziario. In alcuni luoghi i trubi riposano discordantemente sopra terreni molto più antichi, sopra gli schisti cristallini come nella regione Incascio: ciò significa che alla fine del miocene avvenne la sommersione dei terreni medesimi e il successivo deporsi dei nuovi fanghi pliocenici. In molti luoghi di Sicilia questi fanghi si deposero contemporaneamente allorchè si abbassò il fondo lacustre costituito dai terreni gessoso-solfiferi; nel Messinese i trubi si continuano inferiormente con depositi littorali, sabbie più o meno argillose e vere molasse contenenti grandi massi di gesso, riferibili al miocene superiore. Le prime osservazioni intorno agli elementi di origine organica che concorsero alla formazione dei trubi sono dovute a Ehrenberg, il quale nella sua “ Mikro- geologie , illustrò parecchie specie di foraminiferi provenienti da quello che egli chiamò “ calcare bianco , di Cattolica in Sicilia e che riferì al cretaceo (1). Secondo W. K. Parker e T. R. Jones, il trubo di Cattolica si sarebbe formato a una profondità di circa 90 fathoms (160 metri), e i resti di rizopodi che Ehren- berg vi osservò sono lagenidi, bolivine, globigerine e rotaline, con deficienza di miliolidi e di specie arenacee (2). Affine a quella di Cattolica per la presenza e lo sviluppo degli stessi tipi, se non delle stesse specie, è la microfauna dei trubi di Caltagirone studiata dal Seguenza (3); mentre quella delle marne bianche di Messina, esaminata prima da O. G. Costa (4) e poscia dal Seguenza medesimo (5), essendo più ricca di grandi nodosarine e meno scarsa in miliolidi e in agglutinanti, sembra avvicinarsi piuttosto al tipo delle ordinarie marne turchine plioceniche. Lo stesso dicasi dei trubi dei dintorni di Girgenti, i cui foraminiferi furono determinati dal dott. Schwager, inte- ressando anzi a questo riguardo il notare che tra le specie citate non sono rare ad incontrarsi la otalia Beccarii e la Polystomella crispa, tanto frequenti nei depositi di spiaggia del subapennino (6). In generale però i trubi sono da riguardarsi come una marna costituitasi a profondità maggiore, benchè mediocre (7), di tutti gli altri depositi pliocenici, come vere melme identiche a quelle dei mari odierni e formate per la massima parte di (1) Abhandl. Ak. Wiss. Berlin, 1838, tav. IV, fig. 6. — Monatsber., 1838, p. 176, 192. — Mikro— geologie, tav. XXVI. (2) Ann. Nat. Hist., ser. 4°, vol. IX, p. 289. (3) Mem. per servire alla descr. della Carta Geol. d’It., vol, I, p. 79. (4) Mem. Acc. Sc. Napoli, vol. II, p: 127, 367, tav. I-III. (5) Notizie succinte intorno alla costituzione geol. dei terr. terz. del distr. di Messina, p. 20. (6) Boll. Com. Geol. It., vol. VII, p. 473. (7) Tanto il Seguenza (Mem. Acc. Lincei, serie 3°, vol. VI, p. 175), quanto il Fuchs (fide Stoehr, Boll. Com. Geol. Ital., vol. IX, p. 510), trattando dell’origine dei trubi accennano ad abissi oceanici e a mari profondissimi, in cui si sarebbero deposti. A me pare, tenuto calcolo anche delle condizioni stratigrafiche, che queste melme plioceniche non siano da riguardarsi come del più profondo Globigerina Ooze, che come è noto trovasi da 500 a 5300 metri. — 465 — resti organici; dovendosi ritenere che quella parte di calcare che non si presenta sotto forma di gusci, null'altro sia che tritume dei gusci stessi dei rizopodi. Il Seguenza, al quale si deve una copiosissima messe di osservazioni sugli strati terziari medi e superiori non solo del Messinese ma anche della Calabria, descrive nel modo seguente il presentarsi in quest’ultima regione dei depositi più profondi del pliocene : “ Le marne zancleane formano una roccia ben nota in Calabria pei suoi caratteri tutti e pel suo particolare aspetto; essa è molto estesa, sopratutto sul lato orientale, forma delle colline aride, infruttuose, sovente ripidissime e disgiunte da profondi burroni generati dall'azione erosiva delle acque. Questa principale roccia del zan- cleano è più sovente bianchissima, ma spesso passa al grigiastro, al giallastro, e talvolta è zonata parallelamente alla stratificazione. Quanto alla sua costituzione, essa è sempre ricca di calcare e fa passaggio a vere rocce di calcare tenero, si stempera più o meno facilmente nell'acqua, e per levigazione dà un residuo sabbioso più o meno abbondante, costituito in parte da fina sabbia quarzoso-micacea, e in parte dai gusci calcarei di foraminiferi variatissimi, tra i quali predominano le globigerine e le orbuline. Ma i teneri gusci di questi protozoi galieggiano quando la marna viene stemperata nell’ acqua, quindi vengono da essa asportati e più non si trovano nel residuo della levigazione, e andrebbero interamente perduti, se non si ponesse cura di raccoglierli alla superficie dell’acqua stessa. Oltre le orbuline e le globigerine, vi abbondano le nodosarie e molti generi affini, mentre vi sono rari i generi a conchiglia agglutinante e rarissimi quelli a conchiglia imperforata, come sarebbero le biloculine, le quinqueloculine e gli analoghi generi , (1). Tale è appunto la marna della Regione Incascio, tali ne sono i caratteri paleon- tologici; ed è sul pulviscolo minutissimo che ho raccolto alla superficie dell’ acqua nella quale avevo immerso alcuni saggi di essa, che ho dirette specialmente le mie osservazioni. Nella tavola qui unita presento il disegno di alcuni lagenidi delicati che ho scelti tra i foraminiferi che costituiscono il pulviscolo medesimo. Ulteriori osservazioni faranno meglio conoscere quali sono le forme appartenenti a questa e ad altre famiglie che entrano come elementi principali nella microfauna dei trubi, allo scopo di stabilire i caratteri protistologici del sedimento, in relazione sopratutto colla natura di esso e colle condizioni di profondità e temperatura in cui fu originato. Intanto credo di qualche interesse notare il fatto seguente : nella marna della Regione Incascio, come in quelle corrispondenti di Ardore, Gerace, Portigliola, Valle del Messinese, Palmi e Benestare, pure in Calabria, come nelle marne di Messina, come nei trubi di Caltagirone in Sicilia, incontrasi la E/psoidina ellipsoides e sue modificazioni, genere e specie di chilostomellide la cui presenza, per quanto mi consta, non fu ancora a tutt’ oggi dimostrata, nè in formazioni più (1) Mem. Acc. Lincei, ser. 8°, vol. VI, p. 174, 182. TOMO X. 59 — 466 — antiche di quella in discorso, nè in formazioni più recenti, nè sul fondo dei mari attuali. Lagenidi fossili nelle marne bianche plioceniche della Regione Incascio presso Catanzaro. Lagena laevis Montagu sp. (Fig. 1) Vermiculum laeve Montagu 1803, Test. Brit., p. 524. Lagena laevis Brady 1884, Foram. Chall., p. 455, tav. LVI, fig. 7-14, 30. E la più frequente forse, e la più diffusa di tutte le lagene, tanto allo stato fossile che allo stato vivente. Lagena acutissima Fornasini. (Fig. 2,20). Fissurina apiculata Reuss 1862, Sitz. Ak. Wiss. Wien, vol. XLVI, p. 339, tav. VI, fig. 85. Lagena vulgaris var. fissurina (pars) Rymer Jones 1872, Trans. Linn. Soc., vol. XXX, p. 51, ta- vola XIX, fig. 6. Lagena lucida (pars) Fornasini 1888, Boll. Soc. Geol. ltal., vol. VII, p. 47, tav. HI, fig. 7. Lagena acutissima Fornasini 1889, Minute forme di rizop. retic., fig. 14. Il termine specifico apiculata va conservato per altra lagena reussiana ; e siccome non conviene riunire la specie in discorso nè alla Lagena vulgaris (L. laevis), nè alla L. lucida, ho proposto per essa una nuova denominazione. La L. acutissima è leggermente compressa, ma non carenata, e in ciò differisce sopratutto dalla L. acuta Reuss (1). Fossile nel miocene di Wieliezka e nel pliocene del Bolognese; vive a grande profondità nei mari di Giava. (1) Sitz. Ak. Wiss. Wien, vol. XLVI, p. 340, tav. VII, fig. 90, 91. — 467 — Nodosaria ambigua Neugeboren, var. annulata Terquem et Berthelin. (Elio. PSA, (6700). Glandulina annulata Terquem e Berthelin 1875, Mém. Soc. Géol, Fr., ser. 2*, vol. X, mem. 3°, p. 22, tav. I, fig. 25. Nodosaria radicula var. annulata Brady 1884, Foram. Chall., p. 496, tav. LXII, fig. 1, 2. « « « Sherborn e Chapman 1889, Journ. Micr. Soc., 1889, p. 485, tav. XI, fig. 15. Lingulina rotundata d’ Orbigny 1846, Foram. Vienne, p. 61, tav. II, fig. 48-51. Nodosaria ambigua Fornasini 1889, Foram. mioc. S. Rufillo, fig. 9. La N. ambigua tipica ha per carattere l’ avere le camere sferiche come si vede nelle figure 13, 14, 15 del Neugeboren, in quella data dal Brady (N. radicula var. ambigua) e nella mia che riproduce un esemplare di San Rufillo (1). Dalla forma tipica si passa per gradi alla varietà di Terquem e Berthelin, e le figure 16 di Neugeboren e 3 di questa memoria offrono due belli esempi di tale passaggio. Preferisco di tenere distinta questa varietà, come pure la N. ambigua, dalla N. radicula, la quale denominazione, secondo il concetto di Linneo, è più appro- priata alle forme robuste, spesso di grandi dimensioni e con camere sferiche, della N. soluta. La N. radicula (Linné-Plancus) sta alla varietà soluta come la N. ambigua sta alla varietà annulata. La Lingulina rotundata non differisce che nella forma dell’ apertura. L'esemplare rappresentato dalla figura 7 apparisce alquanto diverso dagli altri. Ciononostante ritengo che non sia altrimenti separabile da questa varietà e che sia da riguardarsi, stando alla teoria del dimorfismo, come forma B (2). Questa varietà fu rinvenuta nel mare delle isole Ki, a profondità di 129 fathoms (oltre 235 metri). Nodosaria ambigua var. subaequalis Costa. (Fig. 5). Nodosaria subaequalis Costa 1857. Mem. Acc. Sc. Nap., vol. II, p. 140, tav. I, fig. 5. » » Silvestri 1872. Atti Acc. Gioenia, ser. 3%, vol. VII, p. 93, tav. XI, fig. 260-263. Sottovarietà gracile della N. ambigua, alia quale si collega mediante la varietà annulata. (1) Denkschr. Ak. Wiss. Wien, vol. XII, p. 71, tav. I, fig. 13, 14, 15. — Foram. Chall., p. 496, tav. LXII, fig. 3. — Foram. mioc. S. Rufillo, fig. 8. (2) Secondo tale teoria, ciascuna specie sarebbe rappresentata da due forme, A e B, tra loro diverse solo nella parte iniziale: la forma A (con camera iniziale grande) sarebbe costituita da un numero minore di camere; la forma B (con camera iniziale piccola) sarebbe costituita da un numero maggiore di camere e avrebbe, in generale, dimensioni maggiori della forma A. — Intorno alla scoperta e alle osservazioni di Munier-Chalmas e Schlumberger sul dimorfismo dei foramini- feri, vedasi quanto ho esposto nel Boll. Soc. Geol. Ital., vol. V, p. 260 e vol. VI, p. 29 (nota). — 468 — Fossile nelle marne bianche plioceniche di Messina e di Reggio (Calabria), e in quelle turchine del Senese. Nodosaria pusilla n. sp. (Fig. 9, 10). Nodosaria calomorpha Fornasini 1888. Boll. Soc. Geol. Ital., vol. VII, p. 47, tav. III, fig. 9. Ha stretti rapporti di somiglianza colla N. subaequalis e colla (sec. Brady), N. calomorpha, ma, per le molto maggiori dimensioni della prima e per il minor numero delle camere della seconda, credo di doverla tenere separata da esse. Hodosaria pyrula d’ Orbigny. (Eroi) Nodosaria pyrula d’ Orbigny 1826. Ann. Se. Nat., vol. VII, p. 253. » » Brady 1884. Foram. Chall., p. 497, tav. LXII, fig. 10-12. Fossile dall’ eocene in poi. È diffusa anche nei mari attuali, e nel Mediterraneo fu trovata a profondità di 40 a 250 fathoms (73 a 457 metri). Nodosaria farcimen Soldani sp. (Beit) Orthoceras farcimen Soldani 1791. Testac., vol. I, p. 98, tav. CV, fig. O. Nodosaria (D.) fareimen Brady 1884. Foram. Chall., p. 498. Da non confondersi colla NM. farcimen secondo Silvestri (1), la quale non è altro che la N. ovicula d’ Orbigny. Fossile dal permiano in poi, e diffusissima nei mari attuali. Nodosaria consobrina d’ Orbigny sp. (Fio. 12). Dentalina consobrina d’ Orbigny 1846. Foram. Vienne, p. 46, tav. II, fig. 1-3. Nodosaria (D.) consobrina Brady 1884. Foram. Chall., p, 501, tav. LXII, fig. 23, 24. Riferisco con qualche dubbio alla specie orbignyana l’ esemplare della Regione Incascio. (1) Atti Acc. Gioenia, ser. 8°, vol. VII, p. 83, tav. X, fig. 229-242. — 469 — Nodosaria soluta Reuss sp. (Fig. 8). Dentalina soluta Reuss 1851. Zeitschr. deutsch. geol. Ges., vol. III, p. 60, tav. III, fig. 4. Nodosaria (D.) soluta Brady 1884. Foram. Chall., p. 503, tav. LXII, fig. 13-16. Esemplare di dimensioni relativamente piccole. Specie fossile dal cretaceo in poi, e abbastanza diffusa nei mari attuali. Nodosaria communis d’ Orbigny sp. (Fig. 14-16, 18, 19 (2), 21 (2)). Dentalina communis d° Orbigny 1840. Mém. Soc. Géol. Fr., vol. IV, p. 13, tav. I fig. 4. Nodosaria (D.) communis Brady 1884. Foram. Chall., p. 504, tav. LXII, fig. 19-22. Nodosarta (D.) roemeri Brady 1884. Ibidem, p. 505, tav. LXIII, fig. 1. Varietà a camere oblique della N. farcimen, di cui ha eguale la distribuzione geologica e 1’ attuale. Riferisco con dubbio a questa varietà gli esemplari rappresentati dalle figure L'ON g e Nodosaria communis var. mucronata Neugeboren. (Fig. 17). Dentalina mueronata Neugeboren 1856. Denkschr. Ak. Wiss. Wien, vol. XII, p. 83, tav. III, fig. 8-11. Nodosaria (D.) mueronata Brady 1884. Foram. Chall., p. 506, tav. LXII, fig. 27-31. Gli esemplari di questa varietà raccolti dal “ Challenger , sono quasi esclusi- vamente di fanghi profondi. Nodosaria Nevianii n. sp. (Fig. 23). La superficie di questa conchiglia appare a primo aspetto finamente striata, ma osservata a forte ingrandimento si può distinguere benissimo che trattasi non già di vere strie ma di varicosità allungate. Siffatto genere di ornamentazione riscontrasi anche nella N. verruculosa Neugeboren (1), dalla quale la N. Nevianiîi è assoluta- mente diversa per la configurazione dei segmenti e quindi per la forma generale. Il segmento iniziale dell’ esemplare illustrato è leggermente scabro ; le varicosità (1) Brady, Foram. Chall., p. 509, tav. LXIII, fig. 17, 18. — 470 — cominciano nel secondo e si fanno sempre più marcate e decise mano a mano che si passa ai segmenti successivi. Esse hanno direzione prevalentemente obliqua. La N. verruculosa fu trovata nel mare delle isole Ki, a profondità di 129 fathoms (oltre 235 metri). Nodosaria perversa Schwager. (Fig. 22). Nodosaria perversa Schwager 1866. Novara-Exp., geol. Th., vol. II., p. 212, tav. V, fig. 29. » » Brady 1884. Foram. Chall., p. 512, tav. LXIV, fig. 25-27. Anche questa specie allo stato vivente fu trovata soltanto nel mare delle isole Ki, a profondità di 129 fathoms. U Nodosaria raphanus Linné sp. (Fig. 24, 25). Nautilus raphanus Linné 1758. Syst. Nat., ed. 10°, p. 711. Nodosaria raphanus Brady 1884. Foram. Chall., p. 512, tav. LXIV, fig. 6-10. I due esemplari di cui presento il disegno differiscono alquanto dalla forma che ordinariamente s° incontra nei depositi subapennini, e differiscono pure tra loro. Non credo per altro che si possano convenientemente separare dalla medesima, di cui sono da riguardarsi come una modificazione gracile e minuta. Secondo poi la teoria del dimorfismo (vedasi quanto ho sopra accennato a proposito della N. am- bigua var. annulata), la figura 25 rappresenterebbe la forma A, la figura 24 la forma B della stessa specie. Marginulina glabra d’ Orbigny. (Fig. 20 (?), 26, 27 (2), 28-30). Marginulina glabra d Orbigny 1826. Ann. Sc. Nat., vol. VII, p. 259. — Mod. 55. » » Brady 1884. Foram. Chall., p. 527, tav. LXV, fig. 5, 6. Riferisco con dubbio a questa specie gli esemplari riprodotti nelle figure 20 e 27, i quali appaiono piuttosto come modificazioni della Nodosaria communis, meglio, come forme intermedie tra questa e la M. glabra. — Noto nell’ esemplare rappre- sentato dalla figura 26 un caso interessante d’ inversione: gli ultimi segmenti, in luogo di avere l’ apertura collocata dal lato medesimo di quella dei primi, l’ hanno rivolta dal lato opposto. — 4011 — Cristellaria crepidula Fichtel e Moll sp. (Fig. 31-33). Nautilus crepidula Fichtel e Moll 1803. Test. Micr., p. 107, tav. XIX, fig. g-é. Cristellaria erepidula Brady 1884. Foram. Chall., p. 542, tav. LXVII, fig. 17, 19, 20; tav. LXVIII, fig. 1,2. Per quanto diversi tra loro nella disposizione dei segmenti, non dubito di rife- rire i tre esemplari illustrati alla medesima specie. Nell’ esemplare rappresentato dalla figura 31, i segmenti sono molto più numerosi, e l’ iniziale (microsfera) è di dimensioni assai minori di quello degli altri due esemplari; secondo la teoria del dimorfismo si tratterebbe quindi della forma B. Polymorphina (?) sp. (Fig. 34). Riferisco a questo genere l’ esemplare illustrato, ma con dubbio, inquantochè non mi è riescito di discernere il carattere biseriale o triseriale o irregolarmente spirale delle camere, proprio delle polimorfine, colle quali, e in particolare colla P. angusta Egger (1), ha di comuue ia forma generale. Una linea percorre attorno attorno la conchiglia nel suo mezzo, ma non ha l'aspetto di una vera sutura, la cui presenza potesse far ritenere l esemplare in discorso una nodosaria biloculare. Dimorphina deformis Costa sp. (Fig. 35-37). Glandulina deformis Costa 1854. Atti Acc. Pontan., vol. VII, p. 129, tav. XI, fig. 16-18, 26. Dalle figure date da Costa, benchè lascino a desiderare, e, più che dalle figure, dalla descrizione appare che non si tratti veramente di una glandulina; anzi, dal complesso, non dubiterei di identificare colla specie costiana quella di cui offro la illustrazione. Ciò mi sembra confermato dal fatto che l’ apertura, sì nell’una che nell'altra, è in forma di fessura, come si vede dalla fig. 26 C di Costa e nella mia 37 a. La D. deformis differirebbe poi dalla D. tuberosa d’ Orbigny (2) non solo nel- l’ apertura, che in quest’ ultima è raggiata, ma anche nella disposizione dei segmenti, quantunque la stessa D. tuberosa assuma talvolta una forma meno regolare come (1) Brady, Foram. Chall., p. 563, tav. LXXII, fig. 1. (2) Modello 60. — 472 — nell’ esemplare del crag ingicse illustrato da H. B. Brady, W. K. Parker e T. R. Jones (1). SPIEGAZIONE DELLA TAVOLA Fig. 1. — Lagena laevis Montagu sp. n 2. — Lagena acutissima Fornasini . Fig. 2 a. — Aspetto orale. 3 3, 4, 6, 7. — Nodosaria ambigua Neugeboren, var. annulata Ter- quem e Berthelin . 7 n bd. — Nodosaria ambigua var. Fubagiiaalis Coi 7 » 8. — Nodosaria soluta Reuss sp. Ù 9, 10. — Nodosaria pusilla n. sp. n 11. — Nodosaria pyrula d’ Orbigny . n 12. — Nodosaria consobrina d’ Orbigny sp. n 13. — Nodosaria farcimen Soldani sp. n 14-16, 18, 19 (?), 21 (?). — MNodosaria communis ia Orvigay sp. Fig. 14 AR SAR FOA IO fai Che e : n 22. — Nodosaria perversa Sao - n 23. — Nodosaria Nevianii n. sp. » 24, 25. — Nodosaria raphanus liv Sp. 7 n 20 (P), 26, 27 (?), 28-30. — Marginulina SLA d’ Orbigay. Hig.120, 1260 ea Da28 > 29, 30 i n 31-33. — Cr istellaria cr epidula* Fico e Moll Sp. Fig. 31 32 » 33 » 34. — Polymorphina (?) sp. n 35-37. — Dimorphina deformis Costa sp. Fig. 37 a. — Aspetto orale. (1) Trans. Linn. Soc., vol. XXVII, tav. XLII, fig. 39 d. Diam. TU SALTO NIE RSI IAN ADS RAD 70 Mem.Acc.Sc.Bologna Ser IV. vol. X C. Fornasini — Rizopodi terziari. G. fornasini, dal vero E.Contoli, lit lit.G. Wenk e Figli — Bologna COLLEZIONE DI AMBRE. SICILIANE POSSEDUTA DAL MUSEO DI MINERALOGIA DELLA R. UNIVERSITÀ DI BOLOGNA (Dono del Ministero di Pubblica Istruzione nel 1889). E NUOVE CONSIDERAZIONI SULL'ORIGINE DELL’AMBRA GIALLA MEMORIA DEL PROFESSORI. LUIGI BOMBICCI (Letta nella Sessione del 9 Febbraio 1890.) Nella sala VI, a pianterreno ‘della torre che all’ Esposizione Nazionale di Torino (1884), conteneva ia grandiosa collezione Etnea, illustrante il nostro mas- simo vulcano attivo, ed il nome già illustre del mio attivissimo collega ed amico, il Prof. Comm. O. Silvestri, ammiravasi ancora, fulgida come per bagliori infocati simulanti le incandescenze vulcaniche, e ricca delle sue più rare e interessanti. varietà, una raccolta di ambre siciliane (1). Questa raccolta, di oltre 970 esemplari, con una magnifica collana di 33 sfe- roidi a gradazione di grossezze, di colori e di fluorescenze, devesi pure alle sagaci ricerche assiduamente praticate per anni ed anni, dal sopra lodato mio compagno di studî nell’ Ateneo pisano. Essa destò negli scienziati e collezionisti visitanti l’ Esposizione torinese, desiderî ed entusiasmi ; probabilmente ispirò quel mirabile libro dell’ illustre geologo natu- ralista, Prof. A. Stoppani, intitolato: L’ Ambra (2); ed in questo libro difatti a pagina 208 si legge: “ Nulla di più bello o di più fantastico nel genere, m'è occorso di vedere, » della già citata collezione d’ ambre siciliane, esposta da O. Silvestri alla mostra » di Torino del 1884. Vi ho contato circa 600 pezzi. La forma quasi esclusiva- n» mente era quella di ciottoli discoidali o ellissoidali, quasi tutti di un liscio e (1) È noto che quest'Ambra raccogliesi sopra le spiaggie del mare di Catania dove vien gettata dai cavalloni durante le burrasche, e nelle marne terziarie presso la foce e le sponde del fiume Giarretta, il Simeto degli antichi. (2) Vol. XLIV della biblioteca scientifica internazionale. Milano 1886. TOMO X. i 60 — 4714 — d’ una trasparenza perfetta. Grossezza variabile da quella d’ una grossa lente, a quella d’ un uovo di gallina, ad eccezione di due pezzi, piuttosto amorfi, che avevano forse il triplo di quest’ ultima grossezza. I pezzi fossiliferi erano circa 100, con insetti e vegetali molto cospicui. Tra i colori, sempre vivissimi, si notavano il giallo di topazio, l’ aranciato, il bruno trasparente, il rosso di fiamma e il rosso sanguigno, con screziature diverse, strisce sanguigne e riflessi opalini can- gianti, verdi o cilestrini. C’ erano anche ambre nerastre o nere, fino a sembrare talora pezzetti di gagate. Non si può descrivere quant’ era bello il contemplare sotto diversi punti di vista quel piccolo ammasso di gemme nostrane. In quel vago rimescolio di hacidi ciottoletti, 1’ ambrato più puro e trasparente passa, per gra- dazioni o per salti, al croceo più temperato, all’ aranciato più caldo, al bruno più terso, al rosso più acceso. È un cozzo, una zuffa, un arruffio brillante di colori, e di sfumature. Il mite bagliore dell’ aurora si accende nell’ oro fiammante o nel fuoco di cui il sole cadente tinge le nubi sospese nell’ aria. Il lampo del rubino e lo sprazzo di luce del topazio sfumano per dar luogo al verde del crisolito, all’azzurro dello zaffiro o al cilestrino del berillo ; ma poi tutto si fonde e si vela sotto quella specie di nebulosa, sotto quella nebbia calda e vellutata dell’ opale, soffuso di mille colori indecisi e tremuli come i sorrisi di pudica fanciulla. Oh quanto più beile delle nordiche, sono le ambre della Sicilia! Si di- rebbe che il tempo, che tutto guasta, rode, consuma in mezzo alle reliquie ne- faste, bigie, brune e nere di un mondo di scheletri, ha dimenticato le ambre, per mostrare quanto fosse più viva anche in allora la tavolozza dei soli del Mezzodì, di quella dei soli del Nord. , Tengo parola all'Accademia di questa collezione di pezzi d’ambra del Simeto. per le ragioni seguenti : 1° Essa può dirsi unica del suo genere, fra le analoghe d’ Italia e di ogni altra regione ambrifera, sia per il numero e la sceltezza dei suoi esemplari, sia, e sopratutto, per le numerose sue varietà limpide, varicolori e dicroiche o fluo- rescenti, le quali sono altrove estremamente rare, ed in Italia note soltanto nei territori con formazioni solfifere ! (1) (1) Nel Cesenate pr. Mercato Saraceno, quindi in una località circondata dai terreni solfiferi, colle miniere celebri, della Perticara, di Formignano, delle Boratelle ecc., in un terreno argilloso- marnoso, simile a quello di Sicilia, si raccolsero due bellissimi ovoidi di Ambra vera, gialla, fluo- rescente, il più grosso dei quali fu cortesemente ceduto dal i’rof. Capellini al Museo mineralogico, ed è uno dei più belli e celebri esemplari che si conoscano, di tale sostanza, È limpido, puro, di color giallo vinato per trasparenza, verde mare per luce riflessa: ha la superficie naturale rugosa, ma continua; fu spezzato da chi lo rinvenne, perciò manca di un quarto circa dei suo volume. Pesa 148 gr. e porta il N. 16168 di catalogo. — 475 — 2° Essa collezione è posseduta oggidì dal nostro Museo universitario di mineralogia. Venne donata, nel decorso 1889, per atto sommamente benigno e provvido di S. E. il Ministro di Pubblica Istruzione, Comm. Paolo Boselli, dalla munificenza del R. Governo. 3° Il copioso e multiforme suo materiale si presta ad ulteriori studî e confronti che potranno giovare assai alla storia naturale di questo édrocarduro resinoide fossile ; intorno alla quale storia sebbene sia cià stato larghissimamente scritto e discusso, da tempo molto antico e da eminenti naturalisti, pure posson farsi tuttavia nuove e non sterili considerazioni. 4° Finalmente, ne parlo, per un fatto personale ! Nei libro testè citato del Prof. Stoppani oltre i qui trascritti periodi i quali da loro soli basterebbero, per la inerente brillantissima potenza descrittiva, a dar idea deli’ assieme della raccolta in discorso, avvi pure a pag. 205, una citazione del mio nome e una frase, che sebbene molto corretta e quasi gentile, pure è aggressiva verso un’ idea mia, sull’ origine dell’ Ambra gialla; idea che sostenni in questa stessa nostra Accademia delle Scienze, fino dal 1871, e svolsi nella Memoria che s'intitola: Studi sui minerali del Bolognese. (1) Mi preme quindi di tornare sull’ argomento rimettendo in vista quei criteri e quei fatti dai quali scaturì l idea che l’ illustre professore credè di bocciare ine- sorabilmente ; fatti e criteri dei quali forse era opportuno far cenno nel libro dell’ Ambra, o con un breve periodo, o con una breve nota in fondo di pagina; o citando almeno la Memoria in cui avevo dato al mio relativo, e dirò pure ardito concetto, la più estesa giustificazione. Bcco l’ ordine degli argomenti che m' ingegnerò di svolgere convenientemente nella presente Memoria. 1° Cenno descrittivo della collezione di ambre siciliane. (Dono del Ministero di P. Istruzione.) 2° Appendice. Cenno c. s. delle ambre di giacimenti italiani già esistenti nel Museo mineralogico bolognese. 3° Fauna entomologica che potè finora determinarsi negli esemplari della serie di ambre, precedentemente descritti. 4° Considerazioni ulteriori sull’ origine e natura definitiva della vera ambra gialla siciliana e di talune varietà che possono identificarsi con questa. (1) Seduta del 12 Gennaio 1871 della R. Accademia delle Scienze dell’ Istituto di Bologna. — 476 — E Cenno descrittivo della collezione. (Dal N. 37492 al N. 38542) del Catalogo generale. DIVISIONE I. Varietà di tipo comune, ma con differenti gradazioni di colore e con notevoli particolarità. Gli esemplari sono completamente lavorati a ovoidi, a ellissoidi, a mandorle, a lenti ‘wvigonfie, ad emisferi od a cabochon, con perfetto polimento. Prevalgono in questa divisione le varietà del colore giallo più comune nell’Ambra e quasi caratteristico di questa sostanza ; ma talune sono di color giallo d’ olio chiaro e limpidissime ; altre di color rosso fuoco, vivace, altre chiare e trasparenti o trans- lucide, con nubecole o sfumature di tinta rosso cupa o rosso bruna ; altre di color rosso giacinto carico o del color bruno del vino di Malaga. Vi è scarsa o debole la fluorescenza. Vi sono rari gli es. con corpuscoli eterogenei inclusi. Vi sono degni di speciale attenzione quelli la cui tinta rosso-cupa di granato è cotanto carica da farli parer quasi neri. Ma più notevoli ancora vi sono quelli con siffatta intensità di color bruno vinato che sembrano davvero neri e opachi, come è bitume e il giajetto, sebbene si riconoscano diafani traguardandovi una luce viva, o riducendoli in lamine sottili (Es. N. 442.) Si aggiungono ai precedenti altri 61 es. per la maggior parte di color giallo d’ olio ma con gradaziori rosso-brune, o rosso-ignee, in parecchi dei quali stanno inclusi e sparsi gruppetti di corpuscoli neri, carboniosi, resti organici disfatti, indeterminabili. Sono generalmente piccoli a forma lenticolare biconvessa, circolare o ellissoidale ; nove sì presentano copiosamente compenetrati da materie eterogenee, nerastre, tanto da sembrare pellucidi e variegati in massa. Totale N. 503 peso gr. 1269. DIVISIONE II. Varietà con colorazioni di grande rarità e di notevole bellezza, associate ad una mirabile fluorescenza. Gli esemplari sono lavorati in forme simili a quelle delle serie precedenti ; per lo più a mandorla 0 ad ovoide allungato ; qualcuno presenta faccie piane, e con sezioni trasversali pianeggianti. Sono particolarmente notevoli oltre 20 es. limpidi, di color rosso-fuoco traente al cremisino, con lieve fluorescenza azzurra. Questa tinta è di gran rarità e di — 477 — pregio eccezionale. L’ es. portante il N. 37995, è stupendo, unico del suo genere, forse il più decorativo della serie. Sono pure degni di attenzione altri 25 esemplari le cui colorazioni in giallo to- pazio, in verde d’olio, in verde nebulato ecc. sono estremamente rare e ricercatissime. Colle colorazioni giallo chiare, si accompagnano per lo più le tinte azzurrognole o azzurro-verdastre di fluorescenza; ma non può darsi su tal proposito alcuna regola, potendo le gradazioni azzurre e verdi che sono le più frequenti, apparire in esemplari dei più variati colori di rifrazione o di trasparenza. Merita speciale menzione un pezzo, non grande (pesa 28 grammi), di forma irregolarmente attondata e tagliato con due sezioni piane; una di queste si presenta di un magnifico color azzurro oltremare, per fluorescenza, e tanto carico che la massa sembra appena translucida; la superficie a lievissimi rialzi, è variegata di color giallo-cera e verdiccio. Totale N. 110, peso Gr. 455. DIVISIONE III Varietà limpide di varie eolorazioni, generalmente cupe, in parte greggie con notevoli particolarità. Gli es. sono per il maggior numero tagliati a cuneo, o a bietta affilata, od a lastrine e placche a superficie parallele, col contorno allo stato naturale. Questa serie offre interesse allo studio per la intensità delle colorazioni rosso- brune, rosso-giacinto, rosso-granato carico, con parti di bel giallo ambrato, perfet- tamente limpide, altre essendo cosparse o inquinate da corpuscoli neri di materie carboniose o di origine organica. Les. N. 38142, di bel colore ambrato carico, colle sfumature rosso-brune e con notevole fluorescenza, presenta copia di bollicine di aria, diffuse nella massa. L’es. N. 33143, di color giallo limpido e luminoso, è così fittamente screpolato ed è così luccicante per una infinità di punti luminosi dati da riflessioni di luce, che ricorda l’ avventurina (Var. Ambra gialla avventurinata). Negli es. 38144,.... 38148, vedesi copiosissima l’ inclusione di materie estranee carboniose o bituminoidi, con fluorescenza nelle parti limpide e pure. Totale N. 34, peso Gr. 157. — 478 — DIVISIONE IV. Varietà insettifere, generalmente limpide, variamente colorate o dicroiche. Es. lavorati a ellissoidi, a noduletti, a mandorle, a cabochons, a lastrette, cunei ecc. (1). Fa parte di questa divisione un magnifico sferoide color giallo d’ olio chiaro, limpido in massa e fluorescente, ma tutto cosparso di particelle nerastre e scagliette e gruppetti ueri e carboniosi (N. 38048). Alcune interne screpolature v' inducono vivi riflessi e bagliori luminosi, arricchiti da bella fluorescenza verdastra. Gl’ insetti che si trovano racchiusi in questa serie di esemplari, di cui la modalità non differisce da quella prevalente nella collezione, sia per i colori, sia per le forme e grandezze son talvolta quasi microscopici, ma sono sempre discernibili. Debbo alla cortesissima adesione dell’ egregio collega Prof. C. Emery, il seguente indice sommario e provvisorio delle famiglie, e di talune specie d’ insetti che si scorgono negli es. di cui è parola; come pure, le interessanti osservazioni che si riferiscono ad alcuni casi speciali scoperti appunto da Lui, e che suppongo saranno completamente illustrati in un suo lavoro a parte. (V. Cap. II. Sono 30 gli es. distintamente insettiferi (N. 38150... 38175 ind.). I) DIVISIONE V. Noduli greggi, completamente intatti o solo in parte lucidati e segati. Questi es. presentano pochissimo modificata, anche se lavorati, la loro originaria configurazione. Sono di vario colore e di differenti gradi di trasparenza. Es. N. 20, peso Gr. 231. DIVISIONE VI. Noduli greggi più o men alterati superficialmente, serepolati o frammenti. Es. con superficie scabra o sagrinata, quasi opaca e con fratture ineguali, liscie, concoidi e riflessi luminosi, interni, che in alcuni palesano varie colorazioni e fHuvre- scenze. Alcuni sono nerastri, quasi bituminoidi o piciformi e di grande fragilità. Es. N. 258, peso Gr. 871. (1) Si è spesse volte fatta piana una parte delle superficie, per render visibile l’ insetto. La forma biconvessa essendo sfavorevole alle osservazioni. — 479 — APPENDICE Collana, costituita di 34 sferoidi appiattiti, il più grosso dei quali ha 33"" x 2509, nei due diametri ed occupa il mezzo della fila; gli altri decrescono a gradazione con 35 pallottoline interposte, tutte eguali, col diametro di 9"° circa. Questa collana sostenuta da cordoncino di seta, pesa complessivamente 170 gram. Gli sferoidi rappresentano le più scelte e tipiche varietà dell’ ambra di Catania, come es. fluorescenti, gradazioni di tinte ed inclusioni di corpuscoli carboniosi. x E scritta in catalogo colla serie dei numeri da 38507 a 38542. ID: Appendice. Cenno descrittivo delle ambre già esistenti nel museo mineralogico bolognese Sono cento trentadue esemplari, dal N. 16521 di catalogo al N. 16653, inelu- sive, oltre le serie affini di Copalina e di altre resine ambriformi, per la maggior parte insettifere. Fra gli esemplari più voluminosi e belli, della prima diecina, sono notevoli : Un armilla, o disco traforato al centro a guisa di ciambella, di circa cent. 11 di diametro ; cinque ellissoidi, più o meno simmetrici, appiattiti, od ovoidali, rigon- fiati, etc., tutti perforati, vicino al margine meno curvilineo da un foro longitudi- nale, ossia parallelo all’ asso maggiore del pezzo. Essi verosimilmente appartenevano a fibule delle quali costituivano l’ arco. Il foro lasciava passare l’ asticella di bronzo, della fibula, che era talvolta cilindrica, talvolta quadrangolare. Questi es. molto probabilmente provengono, secondo l opinione del mio egregio, insigne collega ed amico, Prof. E. Brizio, da sepolcri scoperti nella regione delle Marche. Finora dai sepoleri etruschi, felsinei, non uscirono pezzi di ambra siffatti. Il grosso pezzo lenticolare, pesante circa 240 grammi (N. di catal. 16527), fu trovato, per quanto ne asserì il mercante di minerali L. Eger di Vienna, negli ipogei etruschi di Chiusi, in Toscana. Il N. 16528, è il magnifico ovoide (incompleto per esserne stato staccato un pezzo, ad un apice, da chi lo trovò), raccolto fino dal 1874 nel terreno miocenico dei contorni di Mercato Saraceno, nel Cesenate; tutto limpido e puro, colla sua superficie greggia, e di color vinato chiaro, ma con forte fluorescenza color verde- — 480 — mare cupo nell’ interno; pesa 148 grammi. Fu donato al Museo di mineralogia dal Prof. G. Capellini, e da Lui stesso illustrato. Il N. 16529 presenta un grumetto di ambra nella molassa calcarea pur mioce- nica del Modenese; il 16530, pesa 480 grammi, è di bel color aranciato-carico sulla superficie più unita e sagrinata; ha forma appiattita, oblunga, irregolare, con parti scheggiate a riflessi quasi neri, bituminoidi — viene dal Baltico. La serie dal N. 16530 al 16537 è di es. cospicui, variati, lavorati più o meno largamente, con superficie lucidate, tratti dalle spiaggie prussiane del Baltico. Dal N. 16538 al 16541, si hanno es. provenienti dal Caspio, dalla Valacchia, dalla Galizia. La serie comprendente i numeri 16553-16652, offre cento esemplari, per la massima parte della zona ambrifera littorale di Catania, taluni di Petralia di Cefalù in Sicilia. Sonovi belle var. fluorescenti, varicolori, lavorate in parte, con superficie a polimento se grandi; se di grossezza comune completamente ridotte a forma di lenti, di ellissoidi, di mandorle, di goccie, o cabochons. Il pezzo col N. 16533 pesa 165 grammi, è limpidissimo, di un magnifico color giallo fuoco con poche fessure riflettenti la luce, con incavi superficiali, irregolari, ed una sezione piana; tutto lavorato a polimento. Lo sferoide del N. 16219 pesa 83 grammi, è chiaro limpido come olio, fluorescente con luci azzurrine, e cosparso di fiocchetti e. cor- puscoli neri, carboniosi, con fessure interne risplendenti. I 14 es. dei numeri 16620-16633, sono insettiferi; gli esemplari 16621 e 16626, contengono ancora due ragni. Gl’ insetti determinati sono formiche, generalmente alate, maschi, dei gen. Plagiolepis, Oecophylla, Cataulacus, Cremastogaster, Techno- myrmex, etc.; alcuni ditteri, un coleottero della famiglia degli Scidmenidi (esem- plare 16261); — I nove es. dal 16636 al 16644 sono notevolissimi per le non comuni intromissioni, serpeggianti, ramificate o contorte od a grumetti collegati ete., di argilla grigio-cenerina, e di materia biancastra, come di alterazione. Ricordano, per le vene flessuose e le varie colorazioni talune agate brune, variegate. Quelli con fitte e piccole fessure e con riflessi di luce ricordano le varietà dette avven- turinate. Dall’ es. 16648 al 16652 si vede un graduato e istruttivo passaggio dalle varietà rosso-cupe, che divengono quasi neree pajono opache, in massa, mentre son limpide e di color fuoco, tagliate che sieno in lastrette sottili, alle varietà di ap- parenza veramente nera, la cui tinta e limpidità scorgesi solo nelle lamine sotti- lissime, ad una viva luce, ed a quelle che al pari del pezzo col numero 16652 possono dirsi di vero bitume. Siffatte varietà bituminoidi di ambra, e i pezzi identici al bitume giudaico, solo men fragili e più omogenei, provengono da Petralia di Cefalù. In questo Museo di mineralogia avvi, a parte, un’ altra serie di ambre, con- nessa alla collezione geognostica e mineralogica dell’ Appennino bolognese (Aula Bianconi); la serie cioè di esemplari, quasi tutti della var. Sckrawfte, risultante di — 481 — N. 78 es., fra noduli intieri e frammenti, allo stato grezgio, tranne pochissimi cone sezioni parziali a polimento. Alla collezione delle ambre propriamente dette, e come categorie spettanti alla divisione dei combustibili fossili, dei loro derivati resinoidi e bituminosi, dei petroli etc., si coordina un’ottantina di es. di Copalina del Mozambico, d’ Inghilterra e d’ altre località, per la maggior parte insettiferi, con animali di altri ordini, resti vegetali, ecc.j; i pezzi sono lavorati a polimento, di varie forme e grandezze; taluni rammolliti e modellati col calore, taluni invece somigliantissimi alla vera ambra fossile. Inoltre settanta es. di altre resine fossili, e derivati da materie bituminoidi, divenuti ambriformi, fra i quali la Walcovite, la Moldawite, la Schraufite, la Vam- maite, l’ Ambrite, la Krantzite, la Gedanite, la Siegburgite, la Klinayte, e le Retiniti. Juore La fauna entomologica determinata nella serie di esemplari di ambre, precedentemente descritte. Il chiarissimo collega Prof. Emery, mi comunica quanto segue: I venticinque esemplari distintamente insettiferi, delle ambre siciliane nel museo. di Mineralogia, contengono : sei, resti ANIMALI INSETTIFERI: ANIMALI RICONOSCIUTI : 6 con resti di ditteri (12 individui) ARAONIDI 12 con resti d’ imenotteri ; cioè : 1 acaro 1 con icneumonide; individui 1 1 opilionide DICONdA prari N - i U 1 ragno 6 con formiche . . 5 18 INSETTI ZCOMINCEMITÀ ono te A 2 1 tisanuro 1 con coleotteri . . . 5 2 1 ortottero un grillo. Î 2-3 pseudonemotteri (termiti) 1 con n acaro. 5 3 3 coleotteri ( » dittero | 37 imenotteri cioè : (, coleottero 1 icnemonide 1 con ; i Ti ; (Mor cane n) 1 scavatore SNLASNO: Î 27 formiche 1 con » dittero tO 8 7 apiani | sei formiche. 1 incerto 1 con opilionide . . . 5 1 20 ditteri TOMO X. GL — 482 — IV. Alcune considerazioni sull’ origine e definitiva natura della vera Ambra gialla siciliana, e delle materie resinoidi che possono con essa identificarsi. Trascrivo il periodo intero che a pag. 205 del libro “ l’ Ambra , finisce con una espressione perentoriamente contraria al mio modo di giudicare l’ ambra gialla, non tanto nella sua iniziale formazione quanto nella sua definitiva modalità. Il Prof. Stoppani dice: “ ..... non v ha chi ignori non essere altro le ligniti che legno fossile, o meglio » ammassi ingenti di piante fossili, di cui quelle d’ alto fusto compongono la massa » principale. Nè solo l’ambra trovas: sparsa comunque in seno alla lignite, dove » le piante sono tuttavia riconoscibili come tali, trovasi ancora involta nelle pieghe » delle corteccie, o imprigionata tra gli strati lignei, che si sovrapposero e si » ravvolsero, per formare il tronco e i rami, mano mano che la pianta eresceya. » Dopo tutto questo, se ancora v ha chi possa sostenere, come il Bombicci, esser l Ambra » na specie di bitume minerale, bisogna dire che non e’ è causa così persa che non n possa trovare un valente avvocato. , Ed io rispondo: Prima di tutto, mai ho asserito che l’ Ambra sia una specie di bitume minerale! Se ho scritta una frase che può in qualche guisa autorizzare tale affermazione, ‘essa è la seguente che legoesi a pag. 161 del manuale LVI-LVII della serie Hoepli, Mineralogia descrittiva: “* lAmbra gialla.... ha molta rassomiglianza con alcune resine di conifere viventi; ma chi scrive pensa che invece di derivare dalla diretta fossilizza- zione di ciò che può aver colato da qualche pino di più antichi tempi geologici, l’ambra sia invece il risultato della ossidazione e purificazione, con successivo indurimento, di materie bituminoidi cui può esser tipo la Nafta ,. Non si esclude, dunque, nel mio modo di vedere, una derivazione endiretta ma certa dell’ambra dalle secrezioni resinose di piaute, sieno pure conifere; ma per il Prof. Stoppani è un altro affare; imperocchè Egli ritenendo che i bitumi sieno di orî- gine minerale non può conciliare l’ idea dell’ origine vegetale dell’Ambra con quella di un prodotto bitumizzato di vere resine, e le sue gradazioni di affinità con i bitumi propriamente detti. D’ altronde ho ripetutamente affermata la derivazione dell’Ambra da idrocarburi fitogenici, per es. nei seguenti periodi “ Non intendo di pregiudicare n la questione, molto meno di porre decisamente in dubbio l'origine prima degli ele- » menti idrocarburati dell’Ambra dal resno vegetale (1). ..... a questo concetto del- (1) BomBicci — Studi sui minerali del Bolognese. Mem. Accad. delle Scienze 1871, pag. 19 $. 3.° — 483 — l ispessimento e dell’ ossidazione di materiali bituminoidi con depurazione e con- centrazione successiva in nuclei ecc., non è d’ ostacolo la presenza degli insetti e delle particelle vegetali che l' Ambra talvolta racchiude; infatti non si nega che la sostanza derivi dal regno vegetale; nè che siasi formata in presenza e in con- tatto di piante; ma il dire che essa è una secrezione resinosa di un pino, emessa durante la piena vegetazione di questo, e insieme con questo fossilizzatasi, è ben altra cosa che il dirla, — al pari dei bitumi —. un prodotto secondario di reazioni operatesi mentre un deposito di vegetali fossili si andava lentamente » carbonizzando. , Nessuno negherà per es. che il latte di mucca sia il prodotto della secrezione delle mammelle di quest’ animale; ma sarebbe strano 1 indicare n come direttamente derivati dalle mammelle di mucca il formaggio parmigiano e il gorgonzola, identificando l’ origine loro e in ogni sua fase con quella del latte ; ovvero il considerare come immediati prodotti della vite, il vino, l’ alcool, l’ acido tartrico cristallizzato e via dicendo. Analosamente, i tronchi di legno petrificato del Cairo, dell’ Arizona, son deri- vati da palme e da altre piante colossali, non già le modalità agatate e diasprine, pseudomorficamente silicee di quei medesimi tronchi. Anche la materia bituminosa, nera, viscida e poligenica includente pirite di ferro, che sta nel litantrace, è sparsa dn seno alie parti già legnose di questo carbon fossile, e avvolge le fibre, imbeve gli strati lignei e corticali; ma nessuno vorrà asserire che questo copioso tipo di bitume si produsse durante la vita vegetante delle sigillarie e dei lepidodendri, piante non resinose, e per la funzione fisiologica, pro- gressiva dei loro tessuti. Dal regno vegetale derivano tanti e tanti idrocarburi fra i quali appunto quel nero e vero bitume che compenetra il litantrace grasso, che è sparso in diffusioni e in grumi, e che sta imprigionato negli strati già lignei; i quali divennero poco a poco Ziyrite, e poi, coll’ andar dei tempi geologici, litantrace propriamente detto. Ma il numero dei tipi generici di siffatti idrocarburi risulta limitatissimo qualora si considerino quelli soltanto che sono l’ immediato, naturale e costante prodotto delle funzioni fisiologiche delle piante resinifere, oltre quelli co- muni a tutti quanti i tessuti vegetali viventi. Del resto, ancorchè realmente avessi esternata l’idea che l Ambra possa classi- ficarsi fra i bitumi minerali, parmi che la mia tesi potrebbe benissimo sostenersi a patto di intendersi bene sul significato che può darsi in proposito, al vocabolo minerale; imperocchè molti e molti qualificano come minerali il petrolio, l antra- cite, il tripoli, la fosforite, var) calcari organogenici, le selei a nummuliti e a ra-. diolarie, la grafite etc. A me par cosa certa, oggi, ciò che fin ora ho creduto probabile; vale a dire che sotto il nome di Ampra GraLLa si classificano nelle collezioni, sostanze simil- mente ambriformi, ma diverse fra loro per l origine e la definitiva loro costitu-. zione; e credo che questo si faccia sopratutto da coloro che per intento essenzial- mente zoologico 0 botanico, con quella avidità d’ indagine che suol far trascurare le. — 484 — ‘condizioni accessorie o subordinate, studiano i resti d’ insetti, di aracnidi, di fo- glioline e di fiori racchiusi nelle resine trasparenti, piuttosto che la qualità spe- ‘cifica di tali resine. L’ Ambra tipica, quale si raccoglie in Sicilia, in Romagna, sul Baltico; quella che contiene acido succinico e solfo; che è dura, tenace, fluorescente, e che tanto è cercata e nota per bellezza gemmaria, per applicazioni di industria o di arte, non è che un termine della lunga serie dei prodotti d’ alterazione di residui arborei ‘che si fossilizzano, termine molto modificato, molto mineralizzato. Di tali prodotti, gli uni rimasero pressochè inalterati, quali scolarono, come resine viscose, dalle corteccie di conifere per la funzione — vitale — di attiva vegetazione di queste. Ne dànno esempio le copaline del Zanzibar, la Resina d’ Highgate, ecc., gli altri derivarono sia dalle ossidazioni, dagl’ ispessimenti, dalle variazioni chimico-molecolari di resine preesistenti, sia dalla decomposizione che per antitesi dirò — mortale —— di tessuti legnosi di piante, affini o no alle co- nifere note, ma spettanti talvolta alla flora di quelli antichi periodi, come il car- bonifero, nella qual flora le conifere mancavano, od erano minimamente rappre- sentate; di questi dànno esempi le Ambriti, la Krantzite, la Vammaite, la Walcowite, la Siegburgite ecc. Nel litantrace sta diffuso, intridente e abbondante nelle più distinte ed utili ‘qualità il bitume. Questo bitume, dove si raduna libero, dove si depura alquanto, ‘diviene translucido, e omogeneo, talvolta assal compatto e tenace. È noto che l’ alcool anidro, l’ etere, il petrolio, qualche olio volatile ed altri dissolventi, separano dal magmas che sì chiama bitume varie resine che vi si trovano mescolate più o meno intimamente, con i due idrocarburi predominanti, fino l'uno — l’ Asfaltene, volatile 1’ altro il petrolene — È noto pure che la di- stillazione secca trae dall’ asfalto una miscela gialla, oleosa, di varj idrocarburi, e materie ossigenate, che in contatto di un energico ossidante, l’ acido nitrico per esempio, si trasforma in una resina, con odore di muschio o di belzuino; miscela oleosa, separabile in due per distillazione successiva, ciascuna delle quali ha la composizione molecolare identica a quella dell’ olio di ambra, cui può ravvi- cinarsi quindi, razionalmente il suddetto olio di asfalto. Naturalmente le resine, derivanti da conifere, o da altri tipi di piante, modifi- cate e divenute fossili, non sono più resine genuine e integre; non sono peranco i veri e proprî bitumi. Ma talune varietà posson confondersi con altre della serie degli asfalti e del bitume di Giudea. Fra gli argomenti che mi sembrano tuttodì favorevoli alla mia opinione, che lambra sia una materia bituminoide, prodottasi per alterazione chimica, lenta e in grado variabile, di materia derivante da copiose secrezioni e da fossilizzazione progressiva di piante, stanno pure i seguenti: — 485 — ; L’Ambra vera, di Sicilia e di Romagna, così la Schraufite del Bolognese, si ‘trovano in posto dove si formarono altresì, e dove talvolta son tuttora copiosi gl’ idrocarburi bituminoidi; dove questi, come in Romagna e in Sicilia, si coor- dinano ai giacimenti solfiferi. — Il solfo è, frattanto, uno degli elementi chimici ‘scoperti nell’ Ambra. Nessuna vera resina, inalterata, ossia tale quale scolò dalla pianta conifera gene- ‘ratrice, presenta il fenomeno della fluorescenza. Invece, questo fenomeno è frequente e bene spesso caratteristico dei prodotti secondari di parecchi idrocarburi derivati «dal catrame, e del gruppo delle aniline, non che di taluni idrocarburi mineralizzatisi, ‘primo dei quali il petrolio. Notevole un grosso e bel pezzo d’ Ozogherite di Boryslaw in Galizia, della var. detta - marmorea - (Marmor-Ozokerit), recentemente acquistato dal Museo, nel quale taluni nuclei di cera minerale, giallo-verdognoli, translucidi, ricordano le va- rietà pellucide dell’ ambra di Sicilia, anche perchè leggermente fluorescenti. : Quel fenomeno deriva da diffusioni e reciproche dissoluzioni di sostanze affini aventi diverso potere rifrangente; le resine direttamente generate dai tessuti vegetali non possono possederla, perchè omogenee, ed isotropiche, con unità chimico-mo- lecolare. Sussiste un passaggio graduato, una transizione per così dire sfumata, ricono- scibile egreviamente nella serie di esemplari proveniente da Catania, fra l ambra più chiara, limpida e quasi identica alle resine fluenti dai tronchi di conifere viventi e l’ambra più cupa, bruna o nera in massa, alla sua volta identica a certe qualità di vero bitume. Non negherò temerariamente l’ esistenza di un pinus succinifera, di una coni- fera producente l’ ambra, scoperta dal Goeppert. Ma dato che questa conifera abbia esistito, ed abbia segregato, mentre pro- sperava l’ enorme, immensa quantità di resina che costituisce i noduletti e i blocchi di ambra gialla profusi nel mondo, pesanti talora fin oltre dieci chilogrammi, mi permetterò di meravigliarmi assai che di essa non si conoscano peranco le pinete vastissime e lignitizzate, e non si vedano ormai, nelle collezioni, nei Musei, pezzi dei suoi rami, delle sue corteccie, con grumi di ambra fra le fibre e le ischeggie. Ci sono molti pezzi di ambra cui stanno attaccati frustoli legnosi; perchè non si trovano rami o scheggioni di lignite ambrifera, con colaticci di vera ambra? Ma si citano pure pezzi di resina ambriforme includenti corolle, petali di fiori, foglioline di dicotiledoni; come entrano in ciò i pini o altre conifere ? Adduce bensì lo Stoppani i grumi e i granuli di ambra nelle ligniti; ma io obbietto primamente che quei granuli, al pari di quelli offerti dal litantrace sogliono essere di una delle moltissime resine che hanno l apparenza, non la realtà, del- — 486 — l’ambra gialla; per es. la Tasmanite, la Copalina d’ Highgate, la Walcovite, la Vollongongite, la Middletonite, la Piroretina, la Scleretinite, la Guyaquillite, ’ Am- brite, l’Antracoxeno etc.; parecchie delle quali resine, spettano agli strati di litan- trace del periodo carbonifero classico e del permiano, nei quali le conifere note riducevansi ai generi Walchia ed Ullmania, mentre la sterminata preponderanza nella flora preparante il carbon fossile, ed i suoi idrocarburi resinoidi era di mono- cotiledoni, vi erano prevalenti le felci, gli equiseti, i licopodi e via dicendo; ed os- servo che nella lignite si può rinvenir benissimo formatosi un prodotto bituminoide, giallo-chiaro e solido, ma limpido come il petrolio, nello stesso modo con cui vi si trovano gruppi di cristalli jalini di Branchite ecc., e nel litantrace grasso, dovuto. a felci, equiseti e licopodi rinviensi, abbondante, intridente e agglutinante il bitume nero, normale, e talune delle resine ambriformi, sopracitate. Non aggiungo ormai altre considerazioni; ciò che ho ereduto conveniente di ri- cordare, circa l’ origine dell’Ambra gialla, — l ambra tipica, propriamente detta, — non per velleità di discussione e molto meno per un benchè minimo risentimento, ma per esporre concetti forse non sterili nella storia naturale di questo idrocarburo, parmi sia sufficentissimo a dimostrare che la difesa della sua classazione fra è pro- dotti bituminoidi, e indiretti, della fossilizzazione delle piante resinose, non è una causa persa! Può darsi che lo divenga e irrevocabilmente; ma in seguito al trionfo di ogni obbiezione, ed allorquando si sia presentato un esemplare, almeno, di pino ambrifero, con attaccato un pezzo di vera ambra bruna e fluorescente, o nera, di sua diretta immediata secrezione; perciò derivante da esso; e quando si spieghi con argomenti irricusabili il passaggio graduato fra le vere ambre e i veri bitumi fitogenici, sia per la chimica natura e per le fisiche proprietà, sia per le particolarità accessorie, e per il tempo, il modo ed i luoghi dei loro abituali e più . caratteristici giacimenti. NUOVE RICERCHE INTORNO ALL'AZIONE DELL'ACIDO BORICO SULL'ACIDO IDROFLUOSILICICO NOTA Det Inc. Dort. ALFREDO CAVAZZI (Letta nella Sessione del 23 Marzo 1890). Lo Stolba ha il merito di aver fatto per primo l’ osservazione importante, che l'acido borico agendo coll’ acido idrofluosilicico dà luogo a deposito di silice gela- tinosa, trasformandosi in acido idrofluoborico HBoF,. Se la soluzione contiene molto di acido borico, il cambiamento avviene a poco a poco anche a tempera- tura ordinaria, ed è poi presso che istantaneo nel liquido bollente o quasi. Ebbi notizia del lavoro dello Stolba da un cenno che se ne trova nell’ Enci- -clopedia Chimica del Fremy, ove la reazione è espressa a mezzo di una equa- zione con simboli dei pesi equivalenti, la quale corrisponde alla seguente con sim- boli dei pesi atomici attuali : 3H,SiFI, + 2Bo,0, = 380, + 4HBoF1, + 2 HF! Mi nacque dubbio sulla esattezza di questa equazione in seguito ai risultamenti di alcune ricerche che io aveva pur fatto sul medesimo soggetto senza conoscere il lavoro del chimico tedesco. Egli è evidente che per stabilire una tale equazione non bastava la conoscenza qualitativa delle tre sostanze che si producono nella reazione, e conveniva riflet- tere che essa avviene realmente non coll’ anidride borica, ma coll’ acido borico, e «che tanto l’idrogene, quanto l’ossigene occorrenti alla produzione dell’ acido fluo- ridrico e della silice, potevano derivare non solo dall’acido idrofluosilicico e dal- l’acido borico, ma eziandio dall’ acqua in cui il fenomeno si compie. Nelle mie ricerche parti dalla supposizione che l’acido borico si dovesse com- portare come ossido basico rispetto all’ acido idrofluosilicico, generando idrofluosi- licato neutro di boro Bo,(SiZ},), instabile e di composizione simile all’ idrofluosilicato — 488 — di alluminio _42(SîF7,), che, secondo Deville, si forma quando l’ acido idrofluosili- cico reagisce coll’ allumina calcinata od anche col caolino. Conseguentemente, i corpi che si formano nella reazione, cioè acido idrofluoborico, silice, e acido fluo- ridrico, avrebbero dovuto essere nel rapporti ponderali corrispondenti alla decom- posizione dell’ idrofluosilicato neutro di boro a contatto dell’ acqua, secondo la equazione Bo(SiFl,),+12H,0= 3H,S:0, + 2HBoFl, + 10HF! Fuori d’ ogni ipotesi, l’ equazione chimica assumerebbe la forma seguente, al- lorchè il rapporto fra il numero delle molecole di silice idrata e quello delle mo- lecole di acido idrofluoborico che si generano nella reazione, fosse realmente di 3a 2. 2H,Bo0, + 3H,SiFI, + 6H,0= 3H,Si0, + 2HBoFI, + 10HF! La dimostrazione di questo fatto presentava difficoltà non lievi, non tanto per trovare le condizioni più acconce al modo di operare, quanto un processo di ana- lisi jl quale potesse condurre a determinare con sufficiente esattezza la quantità di due almeno dei prodotti che figurano nel secondo membro della equazione, va- riando nei diversi esperimenti le proporzioni dei corpi agenti. Come ognun vede, la differenza essenziale fra l'equazione mia e quella dello. Stolba sta in ciò, che per la medesima quantità di silice che si separa (3 molecole), in un caso si avrebbero 4 molecole e nell’ altro 2 soltanto di acido idrofluoborico. Nei seguenti esperimenti impiegai una soluzione acquosa di acido idrofluosili- cico che su cc. 10 conteneva gr. 0,6873 di detto acido, e dell'acido borico pri- vato dell'umidità in aria secca. Esperimento 1.° — Misi entro capsula acido idrofluosilicico e acido borico in quantità corrispondenti all’equazione dello Stolba, cioè cc. 50,7 dalla soluzione del primo acido, e gr. 2 del secondo ben polverizzato. Scaldai sul bagno maria, agi- tando con cannello di vetro. L'acido borico da prima sì scioglie completamente, ma quando la temperatura giunge a 80° circa, la soluzione si rapprende rapida- mente in massa gelatinosa di silice idrata. Dopo la comparsa della silice si con- tinua a riscaldare per 5 o 6 minuti. Se la quantità del deposito gelatinoso è forte, come lo è appunto nelle condizioni di questo esperimento, conviene aggiungere un poco d’acqua a fine di ottenere una poltiglia abbastanza scorrevole che viene- subito raccolta su feltro e lavata a lungo con acqua bollente, accelerando il pas- saggio del liquido a mezzo di una forte aspirazione. Sul feltro rimane la silice pura. Si scalda il liquido filtrato entro capsula su bagno maria, si aggiunge latte di barite finchè il liquido stesso acquista reazione basica forte e stabile, e si lascia raffreddare. La barite precipita. l'acido borico e- — 489 — l'acido idrofluosilicico che possono trovarsi in eccedenza, mentre il fluoborato di bario rimane sciolto. Si filtra e si lava il precipitato, così raccolto, con acqua fredda. Nel liquido filtrato, condotto ad una temperatura prossima all’ ebollizione, si aggiunge a poco a poco soluzione di solfato di potassio sino a che precipita del solfato di bario. Essendo il liquido ancora bollente, si filtra, e così resta in solu- zione il fluoborato di potassio: si lava pure il solfato di bario con acqua bol- lente. Dopo sì svapora sino a ridurre la soluzione quasi a secchezza. Durante questa evaporazione l’ idrossido di potassio, esistente nel liquido in lieve eccesso, scompone quel poco di idrofluosilicato alcalino che resta nella soluzione in causa della lieve solubilità dell’idrofluosilicato di bario a temperatura ordinaria, onde àvvi separazione di un poco di silice gelatinosa. L’alcalinità del liquido giova altresì ad impedire la scomposizione parziale dell’ idrofluoborato potassico. Dopo aver così svaporato, si versa sul residuo acqua bollente, quanto basta per sciogliere completamente l’idrofluoborato alcalino e si filtra: si concentra di nuovo sino ad avere 20 o 25 cent. cub. al più di soluzione (.4) che si lascia raffreddare dopo averla resa lievemente acida con aggiunta di qualche goccia di acido solforico. Dopo si filtra e misura con esattezza il volume del liquido filtrato, e si nota la tem- peratura ambiente. La maggior parte del fluoborato di potassio rimane sul feltro: si lava il sale due o tre volte con acqua fredda, si comprime fra carta sciugante, e poscia si ridiscioglie in acqua bollente e si svapora sino a ridurre la soluzione (5) a pochi cent. cub. (da 10 a 12). Dopo completo raffreddamento si raccoglie l'i- drofluoborato su piccolo filtro, si lava con soluzione satura alla temperatura ordi- naria del medesimo sale, si comprime fra carta sciugante, si dissecca a 100° e si pesa. Era necessario di stabilire con esattezza la solubilità del sale alla temperatura delle esperienze fatte, per sapere e determinare quanto di idrofluoborato alealimo rimaneva nelle soluzioni (4) e (2). Secondo mie ricerche a 10°, temperatura del laboratorio durante le operazioni eseguite nel mese di febbraio, 100 parti in peso di acqua sciolgono 0,31 di fluoborato potassico ; a 16°, 0,515; a 100°, 8,629. In questo primo esperimento ottenni gr. 1,181 di silice anidra, e gr. 1,641 di idrofluoborato potassico. Secondo l’ equazione dello Stolba per gr. 1,181 di silice anidra avrei dovuto ricavare gr. 3,306 di sale, e secondo la mia gr. 1,653. Negli esperimenti che seguono ho variato soltanto le proporzioni dei corpi agenti. Esperimento 2. — Impiegai come nel 1° ce. 50,7 di soluzione di acido idro- fluosilicico e gr. 4 di acido horico, cioè il doppio di quello che richiede l’equa- zione dello Stolba. Ottenni: silice gr. 1,447 e idrofluoborato potassico gr. 2,016. Secondo l’ equa- zione dello Stolba per gr. 1,447 di silice avrei dovuto ottenere gr. 4,051, e se- condo la mia gr. 2,025 di sale. TOMO X. 62 — 490 — Esperimento 3.° — Impiegai i due acidi nelle proporzioni corrispondenti alla mia equazione, cioè nel rapporto ponderale di 2 molecole di acido borico e 3 di acido idrofluosilicico, e quindi ce. 101,4=ce. 50,7 Xx 2 di soluzione di acido idrofluosilicico e gr. 2 di acido borico. Ottenni: silice gr. 1,244, e idrofluoborato di potassio gr. 1,762. Secondo la mia equazione per gr. 1,244 di silice avrei dovuto ottenere gr. 1,744 di sale. Esperimento 4° — Nel dubbio che l’acido idrofluosilicico in eccesso potesse formare dell’ idrofluosilicato acido di boro e per decomposizione di questo sale ottenere meno di acido idrofluoborico, feci agire 1 molecola di acido borico con 3 di acido idrofluosilicico, e quindi impiegai ce. 101,4 di soluzione di acido idrofluo- silicico e gr. 1 di acido borico. Ottenni: silice gr. 0,637 e idrofluoborato potassico gr. 0,866. Secondo la mia equazione per gr. 0,637 di silice avrei dovuto ottenere gr. 0,891 di sale, e il doppio secondo quella dello Stolba. Da questi risultamenti si rileva che in ogni caso la trasformazione avviene come se nella soluzione esistesse l idrofluosilicato neutro di boro, poichè il rap- porto quantitativo fra la silice e l'acido idrofluoborico che si formano nella rea- zione è quello che corrisponde a 3 molecole di silice e 2 di acido idrofluoborico, e non mai di 4. Che il detto sale si generi è probabilissimo, pur tuttavia non sono riuscito a separarlo e ad isolarlo, facendo anche agire il fluoruro di silicio sopra una soluzione di acido borieo anidro nell’ alcool assoluto, mantenuto a bassa temperatura con miscuglio di sale e ghiaccio. Aggiungendo alla soluzione alcoo- lica della benzina si produce un precipitato che ha più che altro i caratteri della silice gelatinosa, ma agitando talvolta il deposito si forma istantaneamente e il corpo da prima trasparente, a poco a poco diviene bianco conservandosi sempre gelatinoso. Sarebbe interessante di ricercare se operando nelle debite condizioni l’ idrofluo- silicato di alluminio possa fornire l'acido idrofluoalluminico della medesima co- stituzione dell’ acido idrofluoborico, imperocchè l’esistenza di questi due acidi co- stituirebbe un fatto ragguardevole rispetto al posto che il boro e l'alluminio occupano nel sistema periodico. Debbo però aggiungere che saturando completa- mente l’acido idrofluosilicico con allumina idrata sì ottiene un sale molto più sta- bile dell’idrofluosilicato di boro, talchè la sua conversione in acido idrofluoallu- minico al contatto dell’acqua, difficilmente potrà effettuarsi. Il che non esclude la possibilità di produrre questo acido con altri procedimenti: Mi è grato di rendere le maggiori grazie al nostro valente Accademico Pro- fessor Ciamician che con tanta cortesia mi ha fornito luogo e mezzi per condurre a termine questo modesto lavoro. LI SU LIL?’ AZIONE DELL IDROSSILAMMINA SUL PIRROLI INBRERIVE©PEVIRA! GIACOMO CIAMICIAN e CARLO UMBERTO ZANETTI (Letta nella Sessione del 27 Aprile 1890). In un lavoro presentato a questa Accademia nello scorso gennaio (*), abbiamo dimostrato che l’ idrossilammina agisce sui pirroli trasformandoli nelle diossime dei corrispondenti y-dichetoni. In questo modo si ottiene dall aa'-dimetilpirrolo la dios sima dell’ acetonilacetone e dal pirrolo la diossima dell’ aldeide succinica. Noi abbiamo continuato queste ricerche per vedere se fosse possibile di otte- nere dalla succinaldossima 1’ aldeide corrispondente e per studiare il comportamento degli altri derivati del pirrolo con l’ idrossilammina. I risultati delle nostre espe- rienze in proposito formano oggetto della presente Memoria. JE II difenildiidrazone dell’aldeide succinica. (Succinazone). La succindialdossima non viene sensibilmente modificata dall’ acido cloridrico a freddo ed a caldo viene decomposta profondamente. Non si presta perciò ad es- sere trasformata nell’ aldeide corrispondente. Noi abbiamo tentato di ottenere la (*) Memorie della R. Accademia di Bologna X. 389. — 492 — aldeide succinica impiegando in luogo dell’ ossima il diidrazone, ma anche questo corpo subisce coll’ acido cloridico una metamorfosi diversa da quella che deside- ravamo. Tuttavia in questo caso il prodotto di decomposizione si presta ad essere studiato ulteriormente e noi diamo nel presente capitolo la descrizione delle espe- rienze, che abbiamo fatto in proposito. Per preparare il succindifenildiidrazone non è necessario scaldare 1’ ossima con la fenilidrazina libera (*), conviene meglio trattare a caldo la soluzione acquosa della prima con una soluzione acetica della seconda. In questo modo si ottiene assai facilmente il composto idrazinico quasi puro. Una parte di ossima, sciolta in 50 parti d’ acqua bollente, venne trattata con 5 parti di fenilidrazina sciolta in 25 parti di acido acetico al 35 p. ceto. Il liquido sì intorbida istantaneamente e basta scaldarlo debolmente, fino che incomincia a colorarsi in giallo, perchè la doppia decomposizione sia completamente compiuta: CH, CH: NOT CH,-NH.NH, CH, CH:NH-.CH. NH,-0H I I et || + . CH, CH:NOR C,H,--NH-NH, CH, CH:NH-CH, NH,-0H Per raffreddamento sì separano squamette gialle, che si purificano facilmente facendole cristallizzare dall’ alcool diluito bollente. Il prodotto così ottenuto fonde a 124-125° ed ha tutte le proprietà dell’ idrazone dell’ aldeide succinica da noi descritto l’ anno scorso (#). — La quantità di idrazone puro è doppia di quella della diossima impiegata. Trattando il diidrazone a freddo, con acido cloridrico concentrato non avviene soluzione completa, il liquido si colora prima in rosso e poi in giallo, senza che la materia solida sembri notevolmente modificata. — L’idrazone non rimane però inalterato, l’ acido cloridrico ne elimina una molecola di fenilidrazina ed il com- posto solido, che sembra essere il prodotto primitivo, non è invece che cloridrato di fenilidrazina. — La reazione avviene evidentemente secondo la seguente ugua- glianza : CHE ACHEINSHTECIHE CH, — CHO | AH ORIELCIATR] +CH,N,H,- HCI, CH, — CH. N,H- C,H, CH, — CH. N,H- CH, ma ron si arresta a questa prima fase, perchè, come si vedrà, la materia che (*) Rendiconti della R. Acc. Lincei V. (2. sem.), 21 — Gazz. chim. 20, 81. — Berl. Ber. 22, 1968. (€) ISrc: — 493 — passa in soluzione non è il monofenilidrazone dell’ aldeide succinica, ma un’ altra sostanza, che contiene una molecola d’ acqua di meno. Non è possibile eliminare tutte e due le molecole di fenilidrazina che sono contenute nel diidrazone succi- nico. Se si eseguisce a caldo la reazione ora indicata, si ottengono gli stessi pro- dotti, soltanto molto più colorati e perciò più difficilmente purificabili. Noi abbiamo eseguito la decomposizione nel seguente modo, che dà risultati assai soddisfacenti: 6 gr. di idrazone vennero trattati a freddo con circa 100 ce. c. d’ acido clo- ridrico concentrato e la materia solida stemperata con cura nel liquido. Dopo qualche minuto si filtra, coll’ aiuto d’ una tromba aspirante, la soluzione clori- drica dalla parte solida che, come si è detto, non è altro che cloridrato di fenili- drazina. Il liquido dà per aggiunta d’ acqua un precipitato fioccoso abbondante, colorato lievemente in rosso. Il nuovo composto, così ottenuto, si scioglie negli acidi concentrati ma i suoi sali vengono facilmente decomposti dall’ acqua. Da 6 gr. di idrazone si ebbero 3,3 gr. di materia greggia. Per purificarla conviene bollirla alcune volte con alcool ordinario, in cui è poco solubile, e farla cristalliz- zare in fine dall’etere acetico bollente, che la scioglie con sufficiente facilità. Dalla soluzione nell’ etere acetico si ottengono, per raffreddamento, aghi raggruppati a stella, i quali si depongono più facilmente, massime se la soluzione è poco con- centrata, per aggiunta di etere petrolico. Essi sono bianchi o lievemente colorati in giallo, e fondono a 184-185° con decomposizione. I numeri ottenuti all’ analisi conducono ad una formola, che corrisponderebbe a quella del monoidrazone succinico meno una molecola d’acqua : CH N;0 ca H,0 ca CREA c I. 0,1932 gr. di sostanza dettero ©,5368 gr. di CO, e 0,1148 gr. di H,0. II. 0,1487 gr. di sostanza dettero 22,6 c. c. d'azoto, misurati a 21°,8 e 764 mm. In 100 parti: trovato calcolato per C,H,;N I. II. C 715,758 —— 15,95 H 6,60 —— 6,33 Nine MRI 4 17,72 — 494 — La formola di questo composto corrisponderebbe a quella del fenilamidopirrolo : CH= CH | >M- NHGH, CH= CH ma esso non ha le proprietà di questi corpi. (*) Prima di tutto ha un punto di fusione troppo elevato ed inoltre non arrossa il fuscello d’ abete bagnato d’ acido cloridrico ne dà la reazione di Laubenheimer. Il nuovo composto è solubile nel benzolo, nell’ etere acetico bollente e nell’ etere solforico, si scioglie difficilmente nell’ aleool ordinario e nell’ alcool metilico e meno ancora nell’ acido acetico gla- ciale; nell’ etere petrolico è quasi insolubile. È una debole base e si scioglie negli acidi concentrati senza decomposizione, da queste soluzioni viene precipitato dal- l’acqua. La sua soluzione cloridrica dà con cloruro platinico un precipitato giallo amorfo. Con acido solforico concentrato e bicromato potassico essa dà una rea- zione caratteristica, che ricorda quelle delle pirrazoline. Trattando la sua solu- zione nell’ acido solforico concentrato con un cristallino di bicromato, si ottiene un’ intensa colorazione azzurra, ed una reazione simile avviene pure con le solu- zioni solforiche diluite per trattamento con bicromato potassico. Questo comporta- mento ci fece supporre che la sostanza in questione potesse essere una didro- fenilpiridazina, formatasi dal monoidrazone succinico per eliminazione d’ una mo- lecola d’ acqua: H CHN - NHC,H, 7 | VU CH, CHAMNI — H,0= kon | CH, CHAMENDGCILE | N ZA CHO C H Ma anche a questa ipotesi si oppone il troppo elevato punto di fusione della sostanza da noi preparata. — Recentemente F. Ach (**) ottenne, nel laboratorio (*) Il fenilamido-dimetilpirrolo fonde a 90-92°; vedi L. Knorr. Berl. Ber. 22, 170 e L. Ann. 236, 294. (**) L. Annalen der Chemie 253, 44. — 495 — di E. Fischer, un composto, che è certamente un derivato piridazinico, il feni- metilpiridazone CH, C AGR CHAIN ] | CHOINDICIEI AZ co il quale fonde a 81-82°, e sarebbe certamente assai strano che la diidrofenilpiri- dazina avesse un, punto di fusione più elevato. Per riduzione del fenilmetilpiri- dazone con alcool e sodio lo stesso autore ottenne però una sostanza, alla quale egli attribuisce la formola: che ha molta analogia colla base da noi scoperta. Il composto ottenuto dal piri- dazone fonde a 200° e dà in soluzione solforica con bicromato potassico una co- lorazione azzurro-violetta. La corrispondenza fra i due composti è tale, che noi non dubitiamo che essi abbiano la stessa costituzione. Dando alla sostanza preparata dall’ idrazone succinico la formola doppia : Cd, 20207 4) si vede subito che essa non differisce dall’ altra che per contenere due metili di meno. Per decidere la questione intorno al peso molecolare del composto da noi ot- tenuto, abbiamo determinato l’ abbassamento del punto di congelarcento, che esso determina nel benzolo. L’ acido acetico non può venire impiegato, perchè non si possono ottenere soluzioni abbastanza concentrate. Noi abbiamo eseguito una serie di determinazioni variando la concentrazione fino ad operare con soluzioni quasi sature. I pesi molecolari dedotti dalle espe- rienze, che riportiamo qui sotto, sono veramente tutti inferiori a quello calcolato per la formola C,H,N,, ma pure crediamo che al composto in questione spetti realmente questa formola. Le misure fatte coll’ apparecchio. del Beckmann diedero i seguenti risultati : — 496 — I. 0,0683 gr. di materia, sciolta in 14,92 gr. di benzolo, produssero un abbas- samento di 0°,09. II. 0,1401 gr. di materia, sciolta nella stessa quantità di benzolo, produssero un abbassamento di 0°,174. III. 0,2311 gr. di materia dettero, come sopra 0°,279 d’ abbassamento. IV. 0,3439 gr. di materia produssero nella stessa quantità di benzolo un abbas- samento di 0°,402. V. 0,4684 gr. di materia sciolti in 15,19 gr. di benzolo ne abbassarono il punto di congelamento di 0°,505. IV. 0,6290 gr. di materia in 15,19 gr. di benzolo dettero un abbassamento di 0°,66. Da questi dati si calcola, prendendo per abbassamento molecolare normale delle soluzioni benzoliche il valore 49 : I. II. III. IV. V. VI. concentrazione . . . . . 0,4580 0,9390 1,5489 2,3049 3,0336 4,1409 abbassamento termometrico. 0°,090 0°,174 0°,279 00,402 0°,505 0°,660 peso molecolare . . . . 249 264 271 281 299 307 Il peso molecolare calcolato per C,,H,N, è 316, tutte le cifre trovate sono dunque inferiori al valore teorico. — La ragione di questo comportamento po- trebbe risiedere in una parziale depolimerizzazione subìta dalla sostanza in solu- zioni diluite. — Comunque sia da interpretarsi il fenomeno crioscopico, che il com- posto piridazinico presenta in soluzione benzenica, noi riteniamo che esso debba considerarsi come una difenildipiridazina, corrispondente alla dimetildifenildipiridazina ottenuta da F. Ach. La costituzione di questi corpi è certamente ancora molto oscura. Per ultimo accenneremo che il diidrazone dell’ acetonilacetone si comporta col- l'acido cloridrico in modo simile a quello dell’ aldeide succinica, ma che dà una base liquida, di cui ci riserbiamo lo studio ulteriore. SERIE 17, Qu II. Azione dell’idrossilammina sui pirroli terziari. Nell’ interpretazione che noi abbiamo dato della metamorfosi dei pirroli in. diossime per azione dell’ idrossilammina è contenuta una supposizione che finora non è stata confermata dall’ esperienza. Noi abbiamo ammesso che in questa rea- zione assieme alla diossima si formi ammoniaca: CH= CH NH,OH CH, CH:NOH > NH+ = | + NH,. cH= CH NHH CH \CHI:(NOH Di fatto si osserva durante l’ ebollizione del pirrolo con cloridrato di idrossil- ammina e carbonato sodico in soluzione alcoolica, la formazione d’ un sublimato di carbonato ammonico nel tubo del refrigerante e l’ alcool, distillato nel vuoto ad operazione terminata, contiene sempre notevoli quantità d’ ammoniaca libera. La presenza di quest’ ultima fra i prodotti della reazione non è però sufficiente per provare con rigore l’ esattezza dell’ equazione sopraindicata, perchè 1’ amino- niaca potrebbe anche formarsi per un secondario processo di riduzione dell’ idros- silammina. Per dimostrare che realmente in queste metamorfosi il nucleo pirrolico viene scisso e che l’ immino viene eliminato allo stato di ammoniaca, noi ab- biamo studiato il comportamento dei pirroli terziari. Se la nostra interpretazione è esatta in questi casi, in luogo di ammoniaca, devesi ottenere la corrispondente ammina primaria. Noi abbiamo eseguito l’ esperienza col n-etilpirrolo, il quale dà, conformemente alle nostre previsioni, / etilamina e la succindialdossima, quest’ ultima perfettamente identica al composto ottenuto dal pirrolo : CHCCA NGOHNNCHTICHSINOH | SANCHO =) *\CCHENDS: CH=CH NH,0H CH, CH:NOH L’ n-etilpirrolo, sciolto in una quantità dieci volte maggiore del suo peso di alcool al 95 p. cto, venne bollito a ricadere per 17 ore con cloridrato di idros- silammina e carbonato sodico, mescolati in rapporto d’ una molecola di etilpirrolo TOMO X. 63 * — 498 — per due di cloridrato di idrossilammina ed una di carbonato sodico anidro. A rea- zione compiuta l’ alcool venne distillato a pressione ridotta a b. m. ed il residuo ripreso con acqua. In questo modo resta indietro l’ ossima dell’ aldeide succinica, che venne riconosciuta al suo punto di fusione (173°) ed alle altre sue proprietà. La parte solubile nell’ acqua contiene, oltre all’ eccesso di idrossilammina rimasta inalterata, l’ etilammina, probabilmente allo stato di carbonato. La soluzione alca- lina dà l alcaloide cercato per distillazione con un forte eccesso di potassa. L’etil- ammina venne raccolta in una soluzione d’acido cloridrico diluito. Precipitando frazionatamente con cloruro platinico il liquido convenientemente concentrato, si riesce ad eliminare l’ammoniaca, proveniente da una parziale decomposizione del- l’ idrossilammina, e ad ottenere allo stato di sufficiente purezza il cloroplatinato di etilammina. L’ analisi di questo sale dette numeri concordanti con la formola : (C,H,NH, - HC1),PKCI, . I. 0,3014 gr. di materia diedero 0,1188 gr. di platino (*). II. 0,2828 gr. di materia diedero 0,1102 gr. di platino (*). In 100 parti: trovato calcolato per (C,H,N,) PiCI, ai 15° pAdI ___sgne_—r _ r_FTc—_ Pi 39,41 38,96 38,94 La quantità di succindialdossima ottenuta dall’ n-etilpirrolo corrisponde al 20 p. cto. della quantità del pirrolo impiegato. L’ n-etilpirrolo resiste maggiormente del pirrolo all’azione dell’ idrossilammina perchè quest’ ultimo dà la succinaldossima in ragione del 35 p. cto. Noi abbiamo sperimentato anche l’ n-fendpirrolo CIHENCEHSS ma questo composto non viene sensibilmente modificato, almeno nelle condizioni in cui si verifica la metamorfosi ossimica degli altri derivati del pirrolo. (*) Le due analisi si riferiscono a due frazioni diverse. — 493 — III. Azione dell’ idrossilammina sull’ a8'-dimetilpirrolo (metadimetilpirrolo). Il metadimetilpirrolo venne preparato dall’ acido dicarbonico corrispondente seguendo il metodo di Knorr (*), recentemente modificato da Magnanini (#*). Il prodotto da noi adoperato bolliva costantemente a 165-167°. L'operazione venne eseguita nel modo ordinario, bollendo il pirrolo con clori- drato di idrossilammina e carbonato sodico in soluzione alcoolica, nelle proporzioni sopra indicate. La trasformazione avviene sollecitamente, e già dopo 7 ore di ebol- lizione si può considerare compiuta. L’ estrazione del composto ossimico formatosi è un'operazione un po’ difficile per le strane proprietà della nuova sostanza. — Distillando la soluzione alcoolica a b. m. a pressione ridotta, assieme all’ alcool, passa in gran parte il pirrolo rimasto inalterato. Rimane indietro un residuo semi- solido, che si scioglie completamente nell'acqua. Per eliminare tutto il pirrolo, che non distilla completamente assieme all’ alecol, è conveniente fissare con un’ alcali il composto ossimico ed estrarre il liquido con etere. Dalla soluzione alcalina si ottiene l’ ossima scomponendo il suo composto metallico con anidride carbonica saturando il liquido con carbonato potassico ed estraendo nuovamente più volte con etere. L’ aggiunta di carbonato potassico è necessaria perchè l’ ossima, essendo molto solubile nell’ acqua e poco nell’ etere, non verrebbe asportata completamente da quest’ ultimo. L'estratto etereo, seccato sul carbonato potassico anidro, lascia indietro per svaporamento un liquido denso, sciropposo, colorato in bruno giallastro, che eristallizza assai difficilmente. La solidificazione di questa materia dipende da cause accidentali, che non sì possono determinare; dopo moltissimi tentativi, quando credevamo di esserci assicurati, che, in nessun modo, nè per prolungato riposo nel vuoto sull’ acido solforico, nè per trattamento coi vari solventi, fosse possibile avere il nuovo composto allo stato cristallino, ottennemmo, da un’ ulteriore preparazione, fatta con una considerevole quantità di metadimetilpirrolo, un prodotto che sponta- neamente accennava a cristallizzare. Dopo qualche giorno tutta la massa si fece cristallina e potè essere completamente purificata per trattamento con etere. Il nuovo composto ossimico, che è abbastanza solubile nell’etere quando si (*) L. Annalen der Chemie 236, 326. (7) Rendiconti in. Accademia Lincei, V.(1. sem.), 369, — Gazz. chim. 19, 252. — 500 — trova allo stato siropposo, vi si scioglie assai difficilmente quando si è solidificato. Per purificarlo lo abbiamo bollito ripetutamente con etere, ottenendo in tal modo aghetti o prismi appena colorati in giallo, che fondono a 87-90° in un liquido dello stesso colore. L'analisi condusse a numeri corrispondenti alla formola: CH,;N, 0, Ù che è quella della diossima cheto-aldeidica corrispondente al metadimetilpirrolo. La reazione avviene senza dubbio nel modo ordinario: H CH,C= CH H,NOH CH,-C=CH-N-0H HC= C(CH) H,NOH H-C=C(CH)-N-0H, H ed al composto ossimico spetta probabilmente la costituzione H-.C-.CH,- CH: NOH | H-.C.H —C:(NOH).CH,. 0,1898 gr. di sostanza dettero 0,3476 gr. di CO, e 0,1468 gr. di H,0. In 100 parti: trovato calcolato per C,H,,N,0, CO 49,94 50,00 Hsi59 8,83 Esso corrisponderebbe all’ aldeide dell'acido a-metillevulinico : CH, - CO - CH, « CH(CH), - CHO, dalla quale per azione dell’ammoniaca si otterrà probabilmente il metadimetil- pirrolo. La diossima a-metillevulinica, chiameremo così il nuovo prodotto, è solubile — 501 — nell’ acqua e nell’ alcool, poco solubile nell’ etere, ed ha tutte le proprietà delle ossime. Riduce facilmente la soluzione alcalina rameica ed il nitrato d’ argento ammoniacale. In principio questo reattivo dà un precipitato giallastro, il quale dopo pochi minuti annerisce completamente, rivestendo le pareti del vaso d’ uno strato d’ argento speculare. Esso forma un composto sodico. S'è già detto che la diossima non viene estratta dall’ etere dalle sue soluzioni negli idrati alcalini, il composto metallico, che si forma in questo modo, è solubilissimo nell'acqua e per ottenerlo allo stato solido è necessario operare in soluzione di etere anidro. Trattando la soluzione eterea della ossima, con la quantità corrispondente a due molecole di etilato sodico, sospeso nell’ etere anidro, sì ottiene subito un precipitato giallastro oltremodo diliquescente. Per purificarlo lo si discioglie nell’ alcool assoluto e lo si riprecipita con etere anidro. La materia filtrata rapidamente e seccata nel vuoto sull’acido solforico, è una polvere biancastra, che esposta all'aria va in deliquescenza, colorandosi in giallo-bruno. L’ analisi della sostanza seccata nel vuoto nell’ acido solforico fino a peso costante, dette numeri che concordano sufficientemente con la formula del composto disodico. CH, - C(NO - Na) - CH, - CH(CH,) - CH(NO - Na). 0,5126 gr. di materia dettero 0,3782 gr. di Na,S0,. In 100 parti: trovato calcolato per C,H, Na,N,0 Na 23,90 24,46 La quantità di ossima a-metillevulinica ottenuta dal metadimetilpirrolo ascende al 55 p. cto. del pirrolo impiegato. Riduzione della diossima a-metillevulinica. La costituzione dell’ ossima ottenuta dal metadimetilpirrolo viene confermata dal suo comportamento coll’ idrogeno nascente, che si svolge dall’ alcool per azione del sodio. Come dalla succindialdossima e dalla acetonilacetondiossima si ottengono rispet- tivamente la tetrametilendiammina e la dimetiltetrametilendiammina, in cui i due metili sono disposti simmetricamente, si può in modo analogo preparare dalla — 502 — a-metillevulindiossima una dimetiltetrametilendiammina, nella quale i due metili hanno nella molecola una posizione assimmetrica. La reazione è la seguente: CH, - CH — CH: NOH CH,- CH - CH,- NH, | + 4H, => | + 2H,0 o CH, — C(CH)) : NOH CH, CH(CH)) - NH, La metillevulindiossima venne trattata in so-uzione d’ alcool assoluto, impiegando per una parte di composto 40 parti d'alcool, con sodio metallico, prima a freddo e poi a caldo, fino a saturazione. Il prodotto, sciolto nell’acqua, venne distillato in corrente di vapore acqueo; il distillato alcoolico contiene segnatamente ammoniaca, mentre il nuovo alcaloide passa assieme all’ acqua. La soluzione acquosa della base venne convertita in cloridrato e svaporata a secchezza. Per togliere la maggior parte di ammoniaca, il residuo, molto colorato, venne esaurito con alcool e dopo lo svaporamento di questo, venne rimessa in libertà la base per distillazione con un’eccesso di potassa. L’alcaloide, deacquificato nel modo ordinario, passa principal- mente fra 170-178° ed ha il suo punto di ebollizione a 175°. È un liquido senza colore, che fuma all’ aria ed ha un’ odore penetrante e disaggradevole. La base venne quindi trasformata in ossalato e questo purificato mediante una serie di cristallizzazioni dall’ alcool. A tale scopo si scioglie il sale nell'acqua o nell’ alcool diluito bollente e si precipita la soluzione con alcool assoluto, in cui l’ossalato è quasi insolubile. Per raffreddamento si ottengono aghetti bianchi, che si fanno cristallizzare dall’ alcool lievemente acquificato. L’ ossalato di aB'-dimetiltetrametilendiammina forma piccoli aghetti finissimi, che fondono con decomposizione a 244°. È solubilissimo nell’ acqua ed attira 1 umidità atmosferica, per cui è necessario pesarlo in vasi chiusi. L'analisi condusse a numeri corrispondenti alla formola: CIEi(CHA:NH)ATCH%0! I. 0,1893 gr. del sale, seccato a 100°, dettero 0,3224 gr. di CO, e 0,1540 gr. di H,0. II. 0,1475 gr. dello stesso composto svolsero 17,6 c. e. d'azoto, misurato a 15°,8 ed a 757,7 mm.. — 503 — In 100 parti: trovato calcolato per C,H,,N, - CHO, = C 4645 —— 46,60 HI Rgidi04 de ie 8,74 NES zio 13,59 Il eloroplatinato si ottiene dalla soluzione del cloridrato per precipitazione con cloruro platinico. Forma dei cristallini giallo-ranciati, notevolmente solubili nel- l’acqua bollente. All analisi dette i numeri richiesti della formola seguente : 0,2180 gr. di sostanza dettero 0,0804 gr. di platino. In 100 parti: trovato calcolato per (C,H,N,)PiCI, Pi 36,88 37,01 Il cloroaurato si ottiene in forma di aghi gialli raggruppati, svaporando nel vuoto la soluzione del cloridrato con cloruro d’oro. È solubilissimo nell’ acqua. Non possiamo affermare con certezza se nella riduzione della metillevulindiossima si formi, oltre alla diammina descritta, qualche altro alcaloide, che potrebbe essere la pirrolidina corrispondente. In ogni modo la quantità di quest’ ultimo non può essere assai rilevante. Dai due dimetilpirroli sì possono ottenere mediante le reazioni da noi scoperte le due diammine corrispondenti. Noi crediamo che per non dare luogo a confusione e per evitare nomi troppo complicati, convenga riferire le due basi ai due pirroli a cui corrispondono ed alla tetrametilendiammina o putrescina. — 504 — I due alcaloidi sarebbero da chiamarsi: aa'-dimetil-tetrametilendiammina (aa'-dimetilputrescina) e aB'-dimetil-tetrametilendiammina (aB'-dimetilputrescina). CH, HC=C CH, — C(CH,) - NE, Î > NH corrisponde a. | HCSCE CH, — C(CH,)- NH, CH, aa' -dimetilpirrolo aa' -dimetil-tetrametilendiammina CH,-C=C CH,- CH — CH,- NH, > NH corrisponde a lelo OSO CH, CH(CH,). NH,. CH, aB'-dimetilpirrolo aB'-dimetil-tetrametilendiammina. Lo studio di quest’ ultimo alcaloide sarà continuato. — 505 — IN Azione dell’ idrossilammina sull’ aa'-metilfenilpirrolo. Per studiare l'influenza di radicali fenici sul modo di comportarsi dei derivati del pirrolo nella trasformazione ossimica, abbiamo fatto delle esperienze col aa'-metil- fenilpirrolo e col aa'-difenilpirrolo. Ci era già noto, per gli infruttuosi tentativi fatti in questo laboratorio dal sig. Angelo Angeli, che il tetrafenilpirrolo non viene decomposto dalla idrossilammina, e ci è sembrato interessante ricercare se i pirroli secondari, contenenti soltanto uno o due residui fenici resistessero ugualmente all’ azione dell’ idrossilammina. Dalle esperienze che descriviamo nel presente capitolo risulta, che solamente il metilfenilpirrolo dà l’ ossima corrispondente, seb- bene in piccola quantità, mentre invece il difenilpirrolo si comporta come il tetra- fenilpirrolo, rimanendo inalterato. L’aa'-metilfenilpirrolo venne preparato col metodo di Paal (*), riscaldando l’ acetofenonacetone con ammoniaca alcoolica. Il pirrolo da noi impiegato fondeva al 10155. La reazione venne eseguita nel modo più volte indicato, bollendo il pirrolo con cloridrato di idrossilammina e carbonato sodico in soluzione alcoolica, nelle propor- zioni impiegate negli altri casi. — La decomposizione del metilfenilpirrolo avviene stentatamente ed il rendimento di prodotto ossimico non supera il 25 p. cto. del pirrolo impiegato, anche prolungando l'ebollizione del miscuglio per 20 ore. Per separare l’ ossima formatasi dalla grande quantità di metilfenilpirrolo rimasto inalterato, conviene, dopo avere, come negli altri casi, distillato l’ alcool a b. m., riprendere il residuo solido con una soluzione diluita di potassa e fil- trare il liquido alcalino dal pirrolo che rimane indisciolto. Acidificando il filtrato con acido acetico si ottiene un intorbidamento lattiginoso, che dopo qualche tempo si trasforma in un precipitato cristallino, colorato in giallo rossastro. Il composto solido venne purificato facendolo cristallizzare dall’ alcool diluito con aggiunta di nero animale. Dopo una serie di cristallizzazioni si ottengono aghetti bianchi, spesso raggruppati, che fondono a 108°. Essi hanno la composizione della (*) Berl. Ber. 18, 370. TOMO X. 64 — 506 — diossima dell’ acetofenonacetone. C,H, - CONOH) - CH, - CH, - C(NOH).CH,, che non era stata prepata fin’ ora. I. 0,1485 gr. di materia svolsero 17 c. c. d’ azoto, misurati a 14° e 744,7 mm.. II. 0,1790 gr. di materia produssero 21 c. c. d’ azoto, misurato a 15° e 760,5 mm.. In 100 parti: trovato calcolato per C,,H,,N,0, ona ww = © A pegai N87 018,83 13,59 Per determinare con esattezza la natura del composto ossimico ottenuto, dal- l aa'-metilfenilpirrolo, abbiamo creduto necessario preparare la diossima dell’aceto- fenonacetone direttamente da quest’ ultimo, per compararla col prodotto derivante dal pirrolo. La diossima dell’ acetofenonacetone non è stata finora ottenuta, C. Paal (5) preparò soltanto la monossima che fonde a 122-123°. Trattando una soluzione di acetofenonacetone nell’ alcool diluito, con la quantità di cloridrato di idros- silammina corrispondente a due molecole per una del dichetone e con l' equiva- lente di una molecola di carbonato sodico anidro, si forma dopo breve tempo un'abbondante cristallizzazione di aghi, i quali dopo circa 24 ore si ridisciolgono spontaneamente nel liquido alcoolico. Separando a tempo la materia solida, è facile dimostrare, che essa non è altro che la monoossima di Paal. La soluzione alcoolica, che si ottiene dopo un lungo riposo, contiene invece la diossima. Per separarla dal liquido si tratta a caldo il prodotto della reazione con acqua fino a leggiero intorbidamento e si lascia quindi raffreddare. In principio si depone in piccola quantità una materia oleosa, ed il liquide, liberato da questa per filtra- zione, dà in fine una materia solida e cristallina, che si purifica bollendola, in soluzione d’ alcool diluito, con nero animale e facendola cristallizzare più volte dall alcool diluito bollente. Il prodotto, ottenuto in questo modo, fonde a 108° ed ha tutte le proprietà dell’ ossima preparata dall’ aa'-metilfenilpirrolo. L'analisi dette numeri corrispondenti alla formola sopraindicata. (*) Berl. Ber. 16, 2868. — 507 — I. 0,1950 gr. di materia dettero 0,4584 gr. di CO, e 0,1262 gr. di H,0. II. 0,1613 gr. di materia svolsero 18,6 c. c. d’ azoto misurato a 14°,6 ed a 768,7 mm. In 100 parti: trovato calcolato per C,,H,,N,0, PL ale CITE 64,08 FAT LO 6,80 NRE aan 13,59 L’ acetofenonacetondiossima è solubile nell’ alcool, nell’ acido acetico e nell’ etere ed è quasi insolubile nell'acqua e nell’ etere petrolico. Il benzolo la scioglie diffi- cilmente. Gli alcali caustici la sciolgono facilmente, dalle sue soluzioni alcaline precipita nuovamente per aggiunta di acidi diluiti. Noi abbiamo trattato con idrossilammina, nel modo consueto, anche alcuni eteri di acidi pirrolcarbonici, però senza ottenere il corrispondente derivato ossimico. Nè l’ etere metilico dell’ acido a-carbopirrolico nè quello dietilico dell’ acido meta- dimetilpirroldicarbonico agiscono con l’idrossilammina. — 508 — VE Conclusioni. Da quanto abbiamo esposto nella presente Memoria e da quello che abbiamo pubblicato precedentemente intorno all’ azione dell’ idrossilammina sui pirroli risulta, che la trasformazione ossimica non è una reazione generale e che non si compie nei singoli derivati del pirrolo nelle stesse proporzioni. La resistenza dei pirroli all’ azione dell’ idrossilammina varia assai con la differente natura dei radicali che ne sostituiscono gli atomi d’ idrogeno e dipende inoltre dalla posizione che occupano nella molecola. Queste differenze di comportamento si rilevano assai bene dal seguente quadro, in cui a canto ai singoli derivati del pirrolo è indicata la quantità di composto ossimico, riferita a 100 parti del pirrolo impiegato, che si ottiene nei singoli casi. I rendimenti delle diossime sono tra di loro comparabili, perchè avuti sempre in condizioni perfettamente corrispondenti, per cui, anche astraendo dal valore assoluto, che possono avere le seguenti cifre, si trova che esse esprimono la maggiore o minore resistenza, che i derivati del pirrolo offrono alla trasformazione ossimica. CH CH 4 N Pirrolo CH CH: rendimento di succinaldiossima : 35 p. cto., \ 7 NH ' CH— CH 4 N aa -dimetilpirrolo CH, - C C - CH,: rendimento di acetonilacetondiossima : 90 N 7 NH p. cto., CH—C-CH, 4 N ab'-dimetilpirrolo CH, - C CH : rendimento di a-metillevulindiossima : 55 p. N ZA 5 cto., NH — 509 — CH— CH i 4 N aa'-metilfenilpirrolo CH, - C C- CH, : rendimento di acetofenonacetondiossima : \ Z NH 25 p. cto., CH— CH 4 è aa' -difenilpirrolo C,H, - C C-C,H,: non reagisce, \ 4 NH CH, C- C - CH, 7 è c-tetrafenilpirrolo CH, - C C-CyH,: non reagisce, x / NH HC — CH 4 N etere metilico dell'acido a-carbopirrolico HC C- COOCH,: non reagisce, \ Y, NH etere dietilico dell'acido metadimetilpirroldicarbonico CH,-.C— C- COOC,H, 4 N COOC,H, - C C-CH, : non reagisce. N / NH — 510 — Pirroli terziari. HC — CH 4 N N-etilpirrolo HC CH: rendimento di succindialdiossima : 20 p. cto., N 4 HC — CH 4 Ò n-fenilpirrolo HC CH: non reagisce. NIRATA Esaminando con attenzione questo riassunto, risulta prima di tutto, che la presenza di radicali negativi rende il nucleo pirrolico più resistente all’ azione dell’ idrossilammina; basta un gruppo carbossilico o un residuo fenico per dare all’ anello pirrolico una tale stabilità da rendere impossibile la sua trasformazione in un composto costituito da una catena aperta di atomi. Inoltre si nota, che i pirroli terziari hanno maggiore resistenza di quelli che contengono l’ idrogeno im- minico, l’n-etilpirrolo dà soltanto il 20 p. cto. di succinaldiossima, mentre il pir- rolo ne dà il 35 p. cto, l’ n-fenilpirrolo è completamente refrattario alla meta- morfosi ossimica. — Questi risultati stanno in perfetta concordanza col compor- tamento chimico del pirrolo in genere, e sembra perciò che la resistenza dei pir- roli, valutata nella presente reazione, possa servire di criterio generale per giudi- care della stabilità del nucleo pirrolico nei suoi diversi derivati. Del resto se si riflette che nella trasformazione dei pirroli nelle corrispondenti diossime l’ anello pirrolico viene aperto, e che il composto risultante appartiene a tutta un’ altra classe di sostanze organiche, viene quasi spontanea la conclusione, che una mag- giore tendenza a subire questa reazione sìa indizio sicuro di una minore stabilità o resistenza del nucleo pirrolico. In questo modo la reazione da noi studiata ac- quista un notevole interesse e merita di essere sperimentata su larga scala. Una prima conseguenza di questi studi, conseguenza che difficilmente si sa- rebbe potuta prevedere, è quella, che i radicali alcoolici diminuiscono la stabilità — 511 — del nucleo pirrolico; fra tutti i corpi da noi esaminati il nieno resistente è l’aa/- dimetilpirrolo, che viene trasformato quasi completamente nella diossima dell’ ace- tonilacetone. La posizione dei radicali non è senza influenza, perchè il dimetil- pirrolo assimmetrico, l’a6'-dimetilpirrolo, dà un rendimento di composto diossimico assai inferiore a quello ottenuto dal suo isomero. Non ci nascondiamo che questi ragionamenti riposano presentemente sopra un numero di fatti sperimentali non molto grande, ma crediamo che per la loro sem- plicità meritavano d’ essere presi già ora in considerazione. La difficoltà di trovare un criterio esatto per giudicare della stabilità dei composti organici è così grande, che anche un tentativo di risolvere in modo approssimativo uno dei tanti problemi di questa questione così complessa, non è privo di interesse. Bologna. Laboratorio di Chimica generale. i iii ii i I melo. a Titeaieh B° N È Gi Me i di ad fo PEA i ho Ara tin pr ottoni hai prigioni david fo Panda, pt, ia mE , hi we Laggagi ME RITàÀ dall TE, ) Mieli vg si ur i La Vi. ii orata pegrtapi aiirnio) cechi gi ibn: levmilbtninta, piiterto SE 4 A Ro a ij È planeta Mi "el, usi, ui % i dl + Muta Matia I PRE digli AL va "IRE Ago livio dal: linate. Le deneinab 0 65 è grade ge delle di ont bui lai int Pi SAGGIO DI UNA GENERALIZZAZIONE DELLE FRAZIONI CONTINUE ALGEBRICHE AVITINDO ITAL DEL PROF, SAVAFORE PINCHERLK (Letta nella Sessione del 23 Marzo 1890). È noto che le proprietà dell'algoritmo della frazione continua si fondano tutte, in ultima analisi, sulla relazione ricorrente di second’ ordine cui soddisfano i nu- meratori ed i denominatori delle ridotte. Nasce quindi il pensiero di cercare se un algoritmo analogo si possa fondare sulle relazioni ricorrenti di ordine supe- riore al secondo; ed il Jacobi e l Hermite si sono occupati di tale questione dal punto di vista aritmetico. Però, per quanto io sappia, non si è tentato in questo ordine d'idee una generalizzazione delle frazioni continue algebriche, cioè conte- nenti una variabile. Nella presente Memoria espongo i risultati che ho ottenuti tentando una simile generalizzazione. Date p funzioni analitiche SI sì può per esse definire un algoritmo che conduce ad un’ equazione ricorrente di ordine p e si riduce allo sviluppo in frazione continua di 0,:0, per p=2; si trovano polinomî soddisfacenti alla detta equazione ed analoghi ai numeratori e denominatori delle ridotte ; in una parola, tutte le proprietà delle frazioni continue algebriche trovano un perfetto riscontro nel nuovo algoritmo. La sua utilità prin- cipale sta in ciò, che per suo mezzo si possono determinare polinomî razionali A,, A,,*** A,-, per modo che le funzioni date o siano legate dalla relazione lineare. AO VA 07), Atti pa jo ae colla massima possibile approssimazione per un grado dato delle A; precisamente TOMO X. 65 — 514 — come, mediante lo sviluppo in frazione continua, una funzione data viene rappre- i : IR, . ; E :ssentata da una frazione razionale — nel modo più approssimato possibile per un Q grado dato di P e 0. Dalla proprietà indicata derivano le applicazioni cui sì pre- sterà il presente algoritmo, e di cui alcune sono indicate alla fine di questo la- voro (*). 1. Si dice che una serie di potenze decrescenti di x è del grado 4, quando la massima potenza di x il cui coefficiente sia diverso da zero, è x?. In ciò che segue 4 si supporrà sempre intero. 2. Abbiansi p serie di potenze decrescenti di x, che indicherò con O) €) 0; rispettivamente dei gradi eve Re E (GSS dove 7,, 3 ***7,—, Sono numeri interi positivi e diversi da zero. Per queste serie vale il seguente : Teorema. “ Si possono sempre determinare, ed in un sol modo, i polinomî ra- “ zionali interi in x: A,,4%g,°°°0@ i “ rispettivamente dei gradi Pag ely Bolega,5= 0 « per modo che risulti (1) O, +0,0,+9,0,+---0,-.0,—1= Ip: “ dove 0, è una serie di potenze decrescenti di x, del grado “OH (*) Alcuni dei risultati contenuti in questa Memoria furono dati, limitatamente al caso di p=3 in un lavoro ancora inedito che ho presentato alla R. Accademia dei Lincei, sotto il titolo: « Sui sistemi ricorrenti di funzioni. » Essi vennero però ottenuti partendo da un punto di vista al- quanto diverso. — 515 — Dimostrazione. Intanto nessun termine della (1) sarà di grado superiore a zero ; perciò il numero dei termini da annullare sarà almeno PAR aa 0 ad il che ci dà un egual numero di equazioni lineari fra 1 coefficienti dei polinomî A, 4g, ---@,-, da determinarsi. Ora il numero di tali coefficienti è, per i gradi supposti dei detti polinomî, precisamente uguale a quello delle equazioni: perciò il problema è determinato qualora si mostri che il determinante dei coefficienti nel sistema di equazioni in discorso, è diverso da zero. A quest’ effetto poniamo a, PA,,f€ +00 A, 0, poi dii vr —l ROS A, = dg + Q, 0 + +10 Apr ET, (=2,3,...p— 1), infine k k Gs, Is,+1 di I 50 x x%+1 dove sì è posto per brevità Sarri tatti I coefficienti di @, si determinano mediante il sistema di ‘equazioni : VEN LES (0) dr Ir=TZ9 0 ; ò MRI 0 0) Q1.r,-19 rr, t 01,94 er+1= 9, (4) ’ . TA ’ JAR: (4) \ Fr tor, te + dr 19 ont dar dor = —9 n nelle quali non entra alcun coefficiente delle a,, @,, perchè i termini corrispon- denti nella (1) sono del grado massimo —(r,-+- 1). Ora il determinante dei coef- ficienti nel sistema (2) si riduce a , ri*l I, che per ipotesi è diverso da zero; con ciò la a, è perfettamente determinata. Suppongansi determinate allo stesso modo le a,, @,,... @,_,: dico che lo stesso — 516 — sarà della a,. Infatti i coefficienti di questa si ottengono uguagliando a zero i termini in co ao) nello sviluppo della (1); ora nelle equazioni lineari che così si scrivono entrano i coefficienti dalle @,, @,, ... @,-, 1 quali per ipotesi sono già determinati; talchè le dette equazioni sono della forma Uhr, 19": A; { ( n * Mir —29 cole Uhr,_,9 sn 1) MIO TETTO ME) SERA I O E O ROM ORIO h An.0G" + Uhn194 +1 api900 SE Uhr, 39" lo cia Uhr, _ 39 s,r1 — Ar, 1 , in numero di 7,, dove le A, A,, -— A4r,-1 sono formate linearmente coi coeffi- cienti già determinati delle @,, @,, ... @,_,. Di più, il determinante dei coefficienti nel sistema (3) si riduce a h (A)x Io h ed è essenzialmente diverso da zero. Con ciò il sistema di polinomî 4,, @,, ... @ pref è determinato univocamente, c-d-d. 3. Corollario. Se le funzioni date G, sono rispettivamente dei gradi 0, —1, —2,...—(p—l), si potranno determinare univocamente i coefficienti a,,@,, ...@,—, di cui il primo lineare in x e gli altri indipendenti da z, per modo che l’ espressione Ct 2,0, +00, + +40, risulti del grado — p in x. Può avvenire però che 0, risulti di grado anche in- feriore a — p, e ciò quando i coefficienti delle p-—1 serie date soddisfino ad una o più relazioni facili ad esprimere in forma di determinanti. 4. Dal corollario precedente si ricava l'algoritmo, generalizzazione delle fra- zioni continue algebriche, e che forma l'oggetto del presente lavoro. Perciò supponiamo date p serie di potenze decrescenti di , (4) O9, Tr Tg) cè USI — 517 — di grado indicato dall’indice cangiato di segno. Per il corollario precedente si possono determinare i coefficienti a a 1:0) 15.97 03.0) vet“ 1-0) il primo lineare in x, gli altri costanti, per modo che (O) O, + 0,0, + 49,0, + @ Aeg Dr d10, == 9, risulti del grado — p al più; ma per l'osservazione fatta essa può essere anche di grado inferiore, e per generalità indicherò con —(p + 7), r > 0, il grado di g,. Si possono allora per il teorema del n.° 2, determinare i coefficienti razionali in- teri in x ITTICA) di cui il primo di primo grado, l’ultimo di grado 7 in x, gli altri di grado zero, per modo che l’ espressione O, +4, ,O, + 02,,03+:-:+4,-—,,,0,= 0,1 risulti del grado —(p+r+-1) al più, ed eventualmente di grado inferiore —(p+r+7,), r,> 1. Di poi si determinano i coefficienti razionali interi in x: I A il primo lineare, il penultimo di grado r, l ultimo di grado r,—1, gli altri di grado zero, per modo che l’ espressione OO VO ta 0, Oo risulti del grado —(p+r+7,+-1) al più, e così via. Continuando questo pro- cedimento, si viene a determinare un sistema perfettamente definito di serie di potenze decrescenti di , (5) CORO: dotate delle seguenti proprietà : A. “« Le prime p di esse sono date, di grado dato dall’ indice cambiato di “ segno; le altre se ne deducono univocamente. , B. “ Se le prime p hanno un campo di convergenze comune, (esterno di un — 518 — cerchio di centro a = 0), quel campo di convergenza è comune a tutte le altre. , C. “ Esse sono di grado costantemente decrescente. La differenza dei gradi di due o consecutive è in generale di un’ unità, ma può eccezionalmente essere rp pr LI “ anche maggiore. , D. “ Fra p+1 funzioni o passa la relazione lineare ricorrente. (6) Oni A. n4-1 Au do. 4 n IAA COLE, = T,4-p? “ cioè le Gg, costituiscono un integrale dell’ equazione alle differenze (a) fn+p)= AREA (07 +p—_l)+---+a,,fn+1)+f@, “ i cui coefficienti sono determinati nel modo su esposto. , 5. Il sistema (5) si dirà normale quando la 0, per ogni valore dell’ indice, sarà dell'ordine — n. In tal caso la differenza fra i gradi di due o consecutive sarà a Sa- sempre di un’ unita, le a,, saranno di primo grado in x e le @,,,) @;,14—1n ranno costanti, 6. Eliminando fra le equazioni che si deducono dalla (6) dando all'indice i valori 0, 1,2,...., le G,, 0,411 Tp-4+s10:+4+;—n7 giungiamo ad una relazione della forma : (1) AO stra ATO, Aa A; ey eg, We i cui coefficienti sono razionali interi in x. Ma la 0,4, è del grado —(n+p) al più: onde le (7) si può riguardare come una relazione omogenea lineare fra le G,,0,)-.-0,—;; esatta fino ai termini dell’ordine —(n+p—1) inclusivamente. 7. Mutando nella (7) l'indice n in n—-1, a—-2,...n—p; indi moltipli- cando la prima delle equazioni così ottenute per @,_,.,3 49,3% 4,3 1) € Sot- traendo dalla (7) stessa, si ottiene p_l dor Di (4,4, — AO, at, AA IRATER A,nAn vene Ap } ma questa relazione è una conseguenza puramente formale delle (6) e (7) e vale qualunque siano i valori iniziali 0,,0,;...0,. Perciò ne saranno nulli i singoli termini, e si avrà (8) A,,-,= dda Arnt4p—ot + Ann (= 0,1,2,...p—1) p_ Ln — 519 — la quale ci dimostra che i sistemi A4,, danno altri p integrali dell'equazione alle differenze (a). 8. Facendo nella (7) l'indice n uguale successivamente a —p, —p+1,...—1, si vengono a trovare per le A,, i valori iniziali : 9) l1sek= o dai quali risulta che il determinante [Ana | è uguale all’ unità, e quindi che il sistema 4,,, d’integrali dell'equazione (a) è fondamentale. Ne segue che qualunque integrale della (a) si potrà esprimere in funzione lineare delle A4,,, a coefficienti indipendenti da n. In particolare, l' inte- grale o, viene espresso mediante la (7). Notando che almeno uno dei coefficienti @ hn nella equazione (8) è dipendente da x, e ne è funzione razionale intera, segue che al crescere di » il grado dei polinomî .A,.,, va diventando grande quanto si vuole. 9. Al $ 4 si è definito il procedimento od algoritmo con cui dalle funzioni date (4), si deduce l’intero sistema (5). Dirò che l'algoritmo è limitato quando proseguendo in esso, una delle funzioni 0,_.,, si troverà identicamente nulla, d- mitato nel caso contrario. Risulta subito dalla (7) che: “ Quando l’algoritmo è limitato, fra le p funzioni date sussiste una relazione “ lineare omogenea a coefficienti razionali. , Più interessante è la reciproca di questa proposizione: reciproca che verrà di- mostrata in appresso per il caso del sistema normale. 10. D'ora innanzi mi limiterò a considerare il caso di un sistema normale: cioè supporrò che ogni 0, sia precisamente del grado — n. L'equazione alle dif- ferenze (4) si può scrivere (6) fa p=a Se pel)àz=- o (a, gt +0, )fN+1)+f() dove ora le LA pr Se 1 e Ag.m) a In — 520 — sono costanti. Alla (5) soddisfano tanto le 0,,, quanto le 4,., +, Da essa si de- duce facilmente quale sia il grado dei polinomi ,.,4,; infatti per n<0 essi sono tutti del grado 0, come risulta dalle (9); per n > 0 il loro grado si ottiene applicando di mano in mano la (b), e si forma così senza difficoltà la seguente tabella dei gradi di essi polinomi : | h=0| 1 lo Ilie ee pl n=0 0 VORO RONNIE” 0 1 0 Leg onice 0 2 0 TEA ET 0 p—_ 2 (0) Titan ela ea. get p_1l 1 Di eco intra |uceggazvna 1 p 1 OMERO IL. Tim tie ie 1 In generale si trova senza difficoltà che il grado delle A,,, dipende da una congruenza di modulo p—1; e precisamente colla seguente regola : “ Per n=u(p_—l)+k, k=0,1,2,...-p_2 “ i gradi delle A ARIE, ATEO, deh AA, CANE UTO CARRARA DEI p—in+® “ sono rispettivamente - (10) Un utt... 0+1, w+1, &,--. L. 11. Ottenuto così il grado delle A, ,,_,,; riprendiamo la relazione (7); se in essa facciamo n=t&(p_—1)+k abbiamo per le (10), z-+-1 delle A, del grado u +1 e le rimanenti p—&#—1 — 521 — del grado u: il numero dei coefficienti di questi polinomî è dunque in tutto fiere lgenlo Essi devono annullare nella (7) i termini in CE ria) e quindi soddisfare ad un sistema di PUu+p+k equazioni lineari omogenee, che chiamerò sistema $,; il sistema dei coefficienti è dunque, in generale, determinato all'infuori di un moltiplicatore comune, dalla condizione che 0, sia del grado —(n+ p), tenuto conto dei gradi (10) delle A,. Potrebbe però nascere il dubbio che, in qualche caso, alcune delle equazioni del sistema S, fossero conseguenza delle altre, cioè che il sistema stesso fosse in- determinato. Dico che questo dubbio è da escludersi; e perciò dimostro che nella matrice del sistema $, vi è un determinante dell’ ordine pu +p+% essenzial- mente diverso da zero. 12. A tale effetto, scrivo 20 +1 (11) A,n4p > Map 40 A My pl + A ME + Mq dove 7,4, è nullo per i valori h=1,k+2,k+3,...p_1, e pongo pure (12) RR Con queste posizioni, il sistema S, prende la forma p_l (13) I (Int: + MynIro t °° MoInn—v) = hh = (o=0,1,2,..-up+epeak—_ 1). TOMO X. 66 — 522 — Indicherò con M la matrice di questo sistema; e qui converrà distinguere due casi : i 1.° Sia X>0. Il sistema S,_, è della stessa forma di S,, solo in esso m, pu, è nullo anche per #4 =%+1. La matrice del sistema S,_,, che chiamerò M', contiene una colonna in meno di M, cioè quella corrispondente al coefficiente M,4-jp4-,7 ed una linea in meno corrispondente, a v=up+p+k—1. Se ora ad M' aggiungiamo quest’ ultima linea, otteniamo un determinante di ordine up+p-+% appartenente alla matrice M, e questo determinante non è evidente- mente altro che il coefficiente di x 7®T2-4) iN 0,4-p—,; il quale coefficiente è ‘essenzialmente diverso da zero per l'ipotesi che il sistema è normale. 2.° Sia invece XK = 0. Allora nel sistema S,_, la matrice M' ha due linee e due colonne in meno di M; infatti vi mancano le colonne relative ad m,u ed ; i -‘elati T) (A) 5 I ARG a mp4, © le linee relative ‘(ad 2% ed 2 . Se ora ad M' aggiungiamo que- st ultima linea, otteniamo un determinante D essenzialmente diverso da zero per —(n4+p—1) essere il coefficiente di x in 0,4-,_,° Tornando alla matrice M e sop- primendovi la colonna relativa ad m abbiamo un determinante in cui tutti gli ob? elementi della prima linea sono nulli, ad eccezione di g,, nella u +1 colonna: questo determinante si riduce dunque al prodotto di g,, (per ipotesi diverso da zero) per il minore corrispondente, che non è altro che D. È così dimostrato che in tutti i casi la matrice del sistema $, contiene un determinante d’ ordine up +p + % essenzialmente diverso da zero, talchè il sistema non Van tiplicatore comune, c.d.d. dei coefficienti 72 è determinato senza ambiguità all'infuori di un mol- 13. Dalla dimostrazione precedente risulta che nel caso di un sistema (5) nor- male, i polinomî 4,,.,,-, Sono completamente determinati — all’ infuori di un mol- tiplicatore comune e tenuto conto del loro grado dato dalla (10) — dalla condi- zione che 0, Sia dell'ordine —(r+p). Siccome d’ altra parte essi sono anche determinati dall’ equazione alle differenze (a) unitamente ai loro valori iniziali (9), possiamo concludere che per questi polinomî si hanno due modi di definizione perfettamente equivalenti. 14. Per chiarire meglio la dimostrazione data a $ 12, daremo un esempio del come sono costituite le matrici ed i determinanti di cui sì è tenuto discorso, trat- tando un caso particolare. Facciasi dunque p=4, a=3; perciò &£=0, u=1; siamo nel secondo caso del $ 12. Il sistema S, è formato di 8 equazioni lineari omogenee fra i 9 coefficienti MASS AO RT) m m 0-0? 2.0) 3-1) 3-0 — 523 — ed ha per matrice (14) Ior Ioe Ins Itz Ise Ior Ise Is7z Is6 Si deve ora mostrare che questa matrice contiene un determinante d’ ottavo ordine, diverso da zero. Si ricorre perciò al sistema S,, alla cui matrice di 6 linee e 7 colonne aggiungendo la linea Doe Itr Ire Ior Ise Isrz Is6 6 sì ottiene un determinante D, che non è altro che il coefficiente di 27° nello sviluppo di o, ed è perciò diverso da zero; esso è (15) Diego gio (OO 0 0 Sodi da de O 0 0 Io ir Ise Isr Ise, Isz Ise Se ora nella matrice M togliamo la prima colonna, rimane un determinante di ottavo ordine che si riduce all'infuori del segno, al prodotto di D per g,, ed è perciò diverso da zero, c.d.d. 15. Teorema. “ In un’ espressione (16) È,0, pr È,0, Cana nta Ro, “ dove i coefficienti sono polinomî razionali interi in x di grado non superiore — 524 — “a A, si possono annullare al più i p(4 +1) — 2 termini di più alto grado in £; “ supposto sempre che il sistema (5) sia normale. , Dapprima si osservi che la &, non può essere di grado superiore a 4— 1, altrimenti vi sarebbe in È,0, un termine che non si distrugge con alcun altro. Facendo ora B,= 90 + rr PT ++ ET T0) se dalla (16) devono sparire le più alte potenze di x in numero di p(A4 +1) —2, avremo altrettante equazioni di condizione della forma p_1 0) I (MAI mo pn OI Tr.0Inv—2) =0 dove è supposto 7,,= 9. Questo sistema (17) di equazioni non differisce dal si- stema S,, dove sia posto (18) n=A(p—-1)—1; ma questo ammette una soluzione determinata all'infuori di un fattore ($ 12), perciò le È, non possono differire dalle 4,,,, dove n è data dalla (18). Per l’ipotesi che il sistema (5) è normale, ne segue che nella (16) non si annulla il termine in x 7! +2), e quindi il massimo numero dei termini di più alto grado che si possono far sparire dalla (16) con coefficienti di grado non superiore a_4 si ottiene facendo li. == cl nMp—1)+p—e1 ed è p(A+1)— 2, c.d.d. 16. 7eorema. “ Quando fra le p funzioni date 0,,0,;--. 0, , Sussiste una “ relazione lineare omogenea a. coefficienti razionali, ed il sistema (5) è normale, “ l'algoritmo definito a $ 4 è limitato. , Abbiasi infatti la relazione identica (19) ko, + Bo, + E e sia 4 il massimo grado delle È,. Per le ipotesi fatte e per il teorema del $ precedente, le &, non possono differire che per un fatto costante dalle 4,4, cOn n=A(p—1)—1; perciò la (19) coincide con G,4+p; la quale sarà identicamente nulla e quindi l’ algoritmo limitato, c.d.d. Ricordando l’ osservazione fatta al $ 9, segue che condizione necessaria e suf- ficiente perchè fra p funzioni analitiche passi una relazione lineare è che applicato — 525 — ad esse l’ algoritmo definito a $ 4, e supposto il sistema (5) normale, l’ algoritmo stesso riesca limitato. Nelle applicazioni vedremo alcune conseguenze di questo teorema. 17. Formando il determinante d’ ordine p A, sn AO A, n AS n A; A 3 AI A EEE de Sto GL pn si trova facilmente che esso ha per valore #1. Infatti, moltiplicando le ultime p—1 linee rispettivamente per @,.,, 4,7 %—,, ed aggiungendo alla prima, si ottiene per la (8) un determinante che, con una sostituzione circolare delle sue linee, si riduce a A,,,- Si ha pertanto Ni (— LemgA.: Ma per il sistema (9) dei valori iniziali delle A,, si vede che A, non diffe- risce dall’ unità; onde risulta che : i “ Il determinante 4, è costantemente uguale alla unità se p è dispari. Esso “ è uguale a (—1)" se p è pari. , Per p= 2 questo teorema dà la nota relazione Papi DI dal P,-P,= £L 1 fra i numeratori e denominatori di due ridotte consecutive di una frazione conti- nua. Per p=3 si ottiene un teorema già stato dato dal Jacobi. 18. Indicheremo con DEA DAI PER 0-:n? i minori dell’ ultima linea nel determinante A,, presi col proprio segno e col segno contrario secondochè p è pari o dispari. Così sarà in ogni caso Bon =|Ain 2°n AGO ATE, A nd1 È Abi, (] . ARESE, AN, > A AR — 526 — Per risparmio di spazio, questo determinante verrà scritto abbreviamente (20) Bo. = Î ARI AR, 5505 AE | 3 e la stessa notazione si userà per i determinanti analoghi che ci verrà fatto di considerare. 19. Ho avuto in altre occasioni l'opportunità di considerare accanto all’equa- zione alle differenze (a) l’altra (c) f(n—p,= Un -in-p+1 S@- parla e EE a/(01 pad) +0, —SJSM_-1)+f; che ho chiamata sua versa. Ora si può dimostrare che “ Le B,,, (@=0, 1,...p=1) soddisfano all equazione ricorrente inversa “ della (a) cui soddisfano le 4,,, se p è dispari. Se p è pari vi soddisfano « invece le (—1)"B,..- » A dimostrare questo teorema sostituisco nell’ espressione (2) della B,.,, alle A,.,-4+-p—s 1 loro valori dati dall’ equazione (8). In tal guisa la B,,, Si viene a scindere in una somma di p determinanti, di cui però p—2 si riducono a zero per avere due linee proporzionali, talchè rimane : Bon => dns | A eng coso dl A 1nbEep— 3) inf | sata | A,.m AS, SAI Astra ARTT | Dei determinanti dal secondo membro il primo si riduce a (—1))7°B,..—, come si vede facendo una sostituzione circolare delle sue linee ; il secondo, dopo fattavi pure la sostituzione circolare delle sue linee, si indichi con C,_,. Viene così (21) BIT aaa SB MENA) e me 2°0n=1 OA Se ora in C,__, si sostituisce ancora agli elementi dell’ ultima linea A,.,4-p—sg i loro valori dati dalla (8), esso si scinde in una somma di p determinanti, di cui due soli sono diversi da zero, e si ottiene analogamente alla (21): _—_ 2 (22) CA SS Ste n n—8 ° Così pure C,__, si scinde in modo analogo e ci dà (22) Gip Le (AE) Ina 0n—-3 — 527 — e così di seguito, finchè si giunge a " tere —2 (22 ) (O) prore i Pte stri (e 1)° (PC dove (Ga | Ao A DR AI, An | Ù Finalmente, sostituendo ad A,, il suo valore ricavato dalla (8) cambiando in n— p, sì ottiene (22) C-p41 Upin4+oBon—p4+: (Eee Sostituendo di mano in mano questi valori nelle precedenti fino alle (22'), (22) e (21), si ottiene la relazione sini@gna (BI 3, ail (23) Bon (I) Lg ida Uo.n—-3 O°în-—=9 x Ù zl BS pay pla BIS, nel caso di p pari, e B —_ 00% On—3 (23) Pg din 2° 0n=1 As.n—4 — do n—Bon—p+1 lu) DAB nel caso di p dispari; dove si vede che la (23') è precisamente l'equazione inversa della (8), mentre la (25) si riduce a quest’ equazione inversa sostituendovi (—1),B,., ateo 20. Cercando i valori iniziali delle B,,, si trova per mezzo delle (9) che biro 0) 8 == 00 P_-1:0 valori delle er n» negativo essendo affatto arbitrarî, potremo convenire I valori delle B,., gat do affatto arbitrarî, di riguardarli come nulli. Fatta questa convenzione, merita speciale considerazione il sistema 5 . Posto p—1-n E) FB, per p dispari, EE MNEIONPErip pari, le P,(x) sono legate dalla relazione (23') P,(£) se Gna Elo (3) rasi (PO SATA (C)) FRI NA (I SOS TESTE E ACREORANO (Co) ap Eu) — 528 — che è l'equazione inversa della (a). Le P,(£) sono polinomî razionali interi in x del grado indicato dall’ indice, per essere le 4,, di primo grado in «. Questi poli- nomî, nella teoria delle frazioni continue, sì riducono da capo ai denominatori delle ridotte : infatti per p = 2 P.(£) = (= Mi Aa e 21. È interessante di vedere se è possibile uno sviluppo di una funzione data in serie di P,(x), come avviene per il caso dei denominatori dello ridotte; in par- 0 y ES i ticolare se è possibile uno sviluppo di 20 In questo e nel seguente $ mi oc- E cuperò brevemente di tale questione, che darà luogo anche ad alcune considera- LUI DIRCI ; EA G,, zioni circa il limite per n= 0 dei rapporti DO e 7 3 “ Posto Gin = £L+ Ca) “ si ha 0° (24) È 2 > P.(0)0,(). (È) =>—- Sec x ; n=1 Dimostrazione. Dalla relazione (23') cui soddisfano le P,(x) ricavo, moltipli- cando per 0,(2) e cambiando n in n+1l: XCn— ,Pu(0)O(£) — n m41(0)On(2) sari C'n—,Pn(0)On(€) tao Pop (0)0(2) 3 indi sommando a tutti i valori di » di 1 ad m, viene ordinando rispetto a P,, P,,-.. P,—p+; @ tenendo conto delia (6) cui soddisfano le G,(2): (25) x x Cn—,P,(£)0,(2) = P,0, + 3300 AO OA n=1 n=1 3 (*) Questa formola è un easo speciale di un'altra, assai più generale, che ho data nel citato lavoro « Swi sistemi ricorrenti di funzioni. » — 529 — dove il resto È,, è dato da (26) R,,= TERMUDSS CISU O) Funi sa (e, nOn Ot) = Se per m= 00 questo resto tende a zero, si deduce immediatamente dalla (25) TUNINIDO SA, lo sviluppo (24) di 7 Sere dd) Nell'ipotesi di p = 2, cioè delle frazioni continue, questa formola si riduce a. quella data da Heine (Handbuch, T. 1, p. 292). 22. Lo studio della convergenza di questa serie presenta molte difficoltà, tanto che anche per il caso più semplice delle frazioni continue l’ Heine dando la sua forn.ola, si limita a dire che essa sarà valida sotto la condizione che il resto tenda a zero (*). Mi sembra adunque che possa offrire qualche interesse l esame anche superficiale di un caso abbastanza generale in cui si possono stabilire condizioni di convergenza per la (24). Supponiamo perciò che i coefficienti Cn) C ni As.n) 43n) Perite Un—,.mn tendano, per n = co, a limiti finiti e determinati che denoteremo rispettivamente con CMICh ORA ND Per un noto teorema del Poincaré si sa che il rapporto Pua (0): P,(x) tende, per n= co, ad avere per limite una delle radici dell’ equazione (27) t_- (ca +e)lr i+ ag7°+... +a,_,g—-1=0 ed in generale la massima in valore assoluto, e 0,-,(2): G,(2) avrà per limite, per n= 0, una delle radici dell’ equazione (28) t+a, 7 i+a,_ 7°. (ce +e) —1=0 inversa della (27). Ora 0,_,.,: 0, è sviluppabile in serie di potenze decrescenti (*) Loc. cit., p. 293. « Sobald das abzuziehende Restglied.... mit waschendem y zu Null con- « vergit, gilt die Gleichung (5.a). » sa equazione (5,4) è appunto la nostra (24) per p=2, e v sta al posto di wr, TOMO X. 67 — 530 — di 2 del grado —1 per i valori di 2 esterni ad un cerchio FR. Supponiamo che questo cerchio sia indipendente da n da un certo n in avanti: allora il limite di +: non potrà essere infinito per 2 = co. Ma dalla forma dell’ equazione (28) n si ricava subito che essa ha una radice nulla e p —1 radici infinite per 2 = co: indicata con A(2) la radice nulla per 2 = co, viene Ai (29) dio TO, Mot Si vede da ciò che 0,(2) è quell’integrale eccezionale dell’ equazione alle dif- ferenze (a) che per n= co ha per limite la radice minima in valore assoluto del- l'equazione limite (28); integrale cui ho dato il nome di distinto. Invece P,(x) rientra nel caso generale, cioè il limite di P,_,.,: P, è la radice massima in valore assoluto dell’ equazione (27). Ciò è confermato dall'avere que- sta equazione un'unica radice infinita di prim’ ordine per 7 = co, come è infinito n) , PIURAATOTO PE. pure di prim’ ordine il rapporto —"* I Ì DI P.(®) , mentre le altre radici della stessa equa- zione sono nulle per = co. Di più, la radice infinita per a = co essendo 20) x per essere inverse le equazioni (27) e (28), viene che (30) l===eS==@= Da cui segue che sotto le ipotesi fatte, e per 2, x abbastanza grandi la con- dizione di convergenza della (24) è data da Gi Queste considerazioni qui semplicemente abbozzate sulla convergenza della (24), sì troveranno svolte con tutto il rigore per il caso p=3 nel ricordato lavoro « Sui sistemi ricorrenti di funzioni. , 23. Fin qui l'algoritmo definito a $ 4 si è applicato a funzioni rappresentate da serie di potenze decrescenti della x. Giova appena avvertire come si possa — 531 — estendere l’ algoritmo medesimo a funzione date da sviluppi in serie di potenze cre- scenti. Piuttosto esamineremo il caso che la 0, sia uguale all’ unità e le altre fun- zioni siano date nella forma d’integrali definiti (y)d ‘31) of, A=1,2,3,...p—1) do dove la linea d'integrazione è la medesima per tutti i valori finiti di x ed è di lunghezza finita. Si dovrà porre (32) VEZONEO ="0 (perì L= FI 2A_2, (2) conformemente all'ipotesi fatta fin quì che la serie di potenze 0,(x) sia dell’ or- dine — &. La relazione (6) ci dà p—_1l o I > (Pa dy o) + Arato(0) PRI np) h=1 (2) donde, aggiungendo e togliendo p_l AR n + MYMP(Ndy hA=1(A) doni si ottiene N (AMPI ® LI n4-pY)P,(Y)AY € ae SOI fi E h=1(7) p—_1 DR (A4,.,4-,(©) or Ann Y)P(Y)dy È Ciro) A=1()) Notando che in questa formola i termini della seconda sommatoria sono tutti funzioni razionali intere di x, ed uguagliando separatamente le parti intere in x — 532 — e le parti contenenti sole potenze negative di x, si giunge alle formole (84) a) o fra =4 sui Fazzol0) Gay h=1(4) e p_1 (35) ca reali An a+ (PPM h=1() + san4) Da quest'ultima, poichè 0,_., è dell'ordine —(n+p) in 2, viene È h=1 | v=0,1,2,...n+p—_2. È appena necessario di avvertire l'analogia di queste formole con quelle ben note della teoria delle frazioni continue algebriche e che si ritrovano dalle nostre facendovi p= 2. Conviene notare che le equazioni (36) servono a determinare completamente i polinomî A,.,+, @ SI potrebbero assumere come loro definizioni, in quanto che sviluppando, si ritroverebbe precisamente il sistema di equazioni già indicato con &,. 24. L'espressione delle 0, in forma d’integrali definiti permette di dare una forma notevole al coefficiente dal primo termine dello sviluppo di 0,4): coeffi- ciente che ha una speciale importanza poichè dall’ essere esso diverso o no da zero risulta che il sistema è o no normale. Ricordiamo perciò come a $ 12 si sia visto che il coefficiente di #7? in 0,,--, è dato da un determinante formato coi cofficienti delle 7, , nel sistema &,. Essendosi ora supposto 0,= 1, questo determinante si semplifica, e facendo, per fissare le idee, n=u(p—1)—1 nel qual caso tutte le A4,.,4+, (@=1,2,...p—1) risultano del grado w, esso de- terminante è dato da Grstpineiep a NONO «009114 Iouys 00950 0 Gguyy cs 0 Iin+o Iiv4+i *.-9 19 Iopyo »..I93 VSS Isb+o .0 Seta Giv+g Ist+o *- +9 13 Gopyg -*+I24 Is3 Ispy+g 0933 Seno G1bynip Iitpntp—1 Sue *Iirtp Iabtntp *-*I3ntpti Isntp I3b+n+p Ce I3:ntp È — 533 — dell'ordine n+p=(u+1)(p— 1). Notando ora che Ina fe DIA)T ATE (2) sostituendo questi valori nel determinante ponendo in ogni colonna una diversa lettera d’integrazione, per esempio «,, nella 4 + 1° colonna relativa alla 0,, si ottiene h-k (37) I netpintp =/.fP,C% 2 P(£,m)P(£50) gr Ps(Csu) GPS Lgs. o GIANT 005 Loose du Kdx,g ++ dx, pd, «degno dove è al 1 ceci 1 Bloo Il E) 0 GE CHO co) dodo CIRO a Lio CAO A (GS), dia GRAZ DIRITTI TIR I IONI di PN O I pa determinante affatto indipendente dalle speciali P,, Ps, -.. P l'algoritmo. Per p= 2, si riduce al noto determinante di Vandermonde, e la (37) p—1 SUI è applicato ad una formola data da Heine. 25. In ciò che precede si è sempre considerato come dato il sistema delle p funzioni 00,3 -:.- 0, di esse si è definito l'algoritmo del $ 4 e se n’ è dedotto il sistema completo (5) delle o,-, nonchè i sistemi di polinomî ricorrenti A (a) cui essi soddisfano come anche le 0,4, ha per coefficienti le a,, che ci sono 1; di cui la prima si può supporre uguale all’ unità, e su rn—p° L equazione ricorrente fornite di mano in mano dall’ algoritmo stesso. Ciò è analogo alla questione di trovare lo sviluppo di una dala funzione in forma di frazione continua. Ma si può invece, come ho tentato in un recente lavoro (*), riguardare come data la frazione continua, e proporsi di risalire alla funzione da essa rappresentata. Analogamente, nell’ algoritmo generalizzato, si possono supporre dati i coefficienti (*) Annales de l’Ecole Normale supérieure, S. III, T. VI, 1889. — 534 — dell'equazione (a) per ogni valore di , e chiedersi se esistono le funzioni G,, 0,,..- O,—, € Se è possibile di determinarle. In ciò che segue dimostreremo come esse funzioni esistono sempre formalmente in forma di serie di potenze decrescenti di % e come i coefficienti di queste serie sono univocamente determinati : resta riservata la questione della loro convergenza, che presenta naturalmente anche maggiori difficoltà dello studio della convergenza di una frazione continua. 26. Per non complicare di troppo la scrittura moltiplicando gl’indici, farò p= 4, ma sì scorge di leggieri che il metodo è applicabile qualunque sia p. Si parte dall’ equazione (39) fnm+4)=a,fn+3)+b,fn+2)+(cc+c .)fn+1)+/f%), dove le @,, d,, €,,C°, si suppongono date per ogni n, e da quest’ equazione e dal sistema di valori iniziali (= = DO AT0 a: ARSIZIO 0 NRZIa 0) Via d',=0; d4”,=1, A4”,=0, A 10 PA 4 Oil si possono determinare senza ambiguità i polinomî A,, 4',, 4,,4'",- Ci propo- niamo ora di vedere se si possono determinare tre serie di potenze decrescenti di z, o.(€), ose), (1) degli ordini —1, — 2, —83 rispettivamente, ponendo per condizione che (40) A ne A 44% Tu or nl IO, =Tn+4 risulti del grado —(n + 4). I gradi dei detti polinomî ci sono dati dal $ 10, e precisamente : i gradi di A a A a A Ai sono rispettivamente +1 u u Semiini— oe Di tara L ut u+1 Lu ni Ri — SUI ” U ua l u+1l +1, n=I3W=52- Ciò posto, l'equazione (40) ci somministra relazioni lineari fra i coefficienti — 535 — delle serie 0,,0,, 0,, che pongo rispettivamente queste relazioni esprimono l’annullarsi dei termini di 0,4, fino al grado — (n +p—1) inclusivamente. Per brevità indicheremo queste relazioni scrivendo tra parentesi i coefficienti 9g, 9,9" di più alto indice che in esse entrano, e con- verrà distinguere tre casi secondo che è n= 0, 1, o 2 (mod. 3). 1.° Per a= 34, i polinomî A', 4", A" che figurano nella (40) sono degli ordimi u +1, &, u. Il grado di c,,., è — (34+4), si annullano dunque i coefficienti delle potenze di x fino alla — (34 + 3), e tenendo conto dei gradi delle A", A", A'"' si vede che le quattro ultime equazioni cui dà luogo la (40) sono (Gap gi, Jan) =0, (41) (Ganxor Sapys Gap )=09 (Gan 4- 31 reso giore) SE | (Gaps Fanpgo I mp4) =0. 2.° Per n= 34 +1, si ottengono collo stesso ragionamento le quattro ul- time equazioni cui dà luogo le (40) sotto la forma (e J'anxor l'ap) 30 , UA (Gappor Ia4gr 9 xo) =0; (42) Ù (Gens Fan4ar 9 43) = i Gapgi Panksr Jana) = 0 3.° Per n= 34 +2, si ottiene analogamente il sistema (Qu Gespor J'sn43) =0, (43) (Gant gr Sands I'ap4-4) =0, r "I — 0 (Ganpgo Gangs I ans) = GLI grato J'mxo) = 0. — 536 — Se si considerasse n = 3u + 3, il sistema sarebbe analogo a (41) e la prima delle equazioni sarebbe (44) (Gau45o OP 9'q4 = e così di seguito. Ora l’ esame di queste equazioni per i primi valori dell'indice dimostra che per n= 34 +1 le g,9',g° sono determinate fino all indice 4u +2 inclusiva- mente. Supponendo ciò verificato fino al sistema (40). otteniamo le 94433 9 44-33 guns dalla 3 delle (41), dalla 2° delle (42) e dalla 1" delle (43); poi le Gan4-530-- dalla 44 delle (41), dalla 3 delle (42) e dalla 2° delle (43); poi le Gip x500- dalla 1% delle (44), dalla 4 delle (42) e dalla 3* delle (43), e così via. Da ciò segue che le serie 0,,0,, 0, hanno i loro coefficienti determinati univocamente e quindi sono perfettamente determinate, astrazione fatta dalla con- vergenza. APPLICAZIONI 27. Terminerò questa Memoria con un rapido cenno di alcune applicazioni cui si presta l'algoritmo che abbiamo studiato, riservandomi di riprenderne alcune, con maggiori particolari, in altra occasione. I. Abbiasi un'equazione algebrica irriducibile di grado p— 1 in y: (45) fa, y)=0, e sia o un ramo della funzione y, regolare per € = 0 e nullo di prim’ ordine nel punto 7 = 00; si può sempre ricondursi a questo caso facendo una sostitu- zione lineare sulle variabili. Qualunque funzione o del dominio di razionalità definito dall’ equazione si può, come è noto, esprimere nella forma Ao, = A, + A,0+4,0°+--- A,_30°7° ERE dove A, A,) -.. A,» sono funzioni razionali intere delle x. Applicando alle fun- zioni 2 —_f IO E OO l’algoritmo definito a $ 4 e supposto che esso riesca normale, avremo che : “ Condizione necessaria e sufficiente affinchè la funzione 0, appartenga al — 537 — « dominio di razionalità definito dalla (45), è che l’ algoritmo stesso sia limitato. , II. Abbiasi una serie o di potenze decrescenti di x del grado —1, che sia. ramo della funzione analitica definita da un'equazione differenziale lineare d’ or- dine p—1 a coetficienti razionali. Una funzione che si possa porre nella forma — 2 do, = 40 + A, . bo, si dice, secondo l’espressione del Poincaré (*) della stessa specie di o : i coeffi- cienti A, A,, --- A,—s essendo sempre supposti razionali interi in x. Supposto che la 0, sia una serie di potenze decrescenti di x del grado —(p — 1), la con- dizione necessaria e sufficiente affinchè una tale serie appartenga alla specie di 0, è che il nostro algoritmo, applicato alle funzioni do d°c domino; Vol da?’ 000 dat 7?! O, riesca limitato. III. Sia o una funzione rappresentata da una serie di potenze decrescenti di x del grado — 1, per aitro affatto qualunque. L'algoritmo applicato alle funzioni 2 — Lo no Na si condurrà alle relazioni (7), che ora saranno della forma a 2 SE (46) A a ALITO, TURI ASO: Dania AO, TEOR C,4p) e convenendo di trascurare le potenze di di x inferiori alla —(n+p— 1)", la (46) st può riguardare come un’ equazione algebrica approssimata di grado p — 1 cui soddisfa la funzione data o. Questa equazione ha inoltre i coefficienti del grado minimo possibile per un dato grado di approssimazione. Il numero p essendo arbitrario, facendo p== 3 avremo in particolare per una data funzione o le equazioni quadratiche approssimate (47) di i dl e quindi, nello stesso modo che l’ algoritmo della frazione continua permette di rappresentare una funzione data qualunque mediante funzioni razionali sempre più approssimate, così il nuovo algoritmo per p=3 ci dà la rappresentazione della stessa funzione mediante funzioni irrazionali quadratiche P+V/9, (*) « Mémoire sur les fonctions zétafuchsiennes, » Acta Math., T. V, pag. 212 TOMO X. i 68 — 538 — sempre più approssimate. Il grado di approssimazione è facile ad ottenersi; sup- ponendo A, ed A", di grado 4 ed A', di grado u+1, la formola — SE. A Mi CATA o= 9 ya è esatta fino ai termini di ordine — (34 + 2) inclusivamente. (*) IV. Come nell’ applicazione precedente, sia 0 una serie di potenze decrescenti di x, affatto qualunque. Il nostro algoritmo, applicato alle funzioni O A cegrane | do! RITIRO ci porta a relazioni della forma do d°o CO: (48) Ago +4, tig rg Lat e convenendo di trascurare le potenze di x inferiori alla — (n+p — 1)”, la (48) si può riguardare come una equazione differenziale lineare approssimata d’ ordine p—1 cui soddisfa la funzione data o ; essa ha inoltre i coefficienti razionali in- teri e del grado minimo possibile per un dato grado di approssimazione. Per ogni funzione data si possono dunque costruire infinite equazioni differenziali lineari a coefficienti razionali, d'ordine arbitrario, cui la funzione data soddisfa con un ma- xcimum di approssimazione. II = seg TIE ho (*) Sull’ approssimazione fornita da questa formola, v. la mia nota: « Sulla rappresentazione approssimata di una funzione mediante irrazionali quadratici. » (R. C. dei R. Istituto Lombardo, maggio 1890) SULLE INCLUSIONI DI CIOTTOLI PROBABILMENTE PLIOCENICI O QUATERNARI NEI CrOssiege ED NCRSTALE DENSE RENE DI MONTE DONATO (Bologna) ARPRIENDIGE SULLA LUNGA PERDURANZA DELLE ATTIVITA MOLECOLARI ORIENTATRICI NELLE MASSE CRISTALLINE IN QUELLE SEGNATAMENTE DI SELENITE MEMORIA DEL PROF. LUIGI BOMBICCI (Letta nella Sessione delli 26 Gennaio 1890). Credo fin ora sconosciuta, o almeno non descritta, la singolarità di alcuni grossi cristalli di Selenite, a ferro di lancia, delle cave di gesso vicinissime a Bologna; i quali presentano incastrati o inclusi nelle loro masse trasparenti, omogenee, molti ciottoli e molti frammenti di calcare e d’ arenaria. Tali intrusioni non turbano minimamente la uniforme struttura e la limpidità della massa includente. Credo, altresì, importante assai questo nuovissimo fatto sotto i punti di vista della cronologia e della storia sintetica delle nostre gessaje sub-appennine; ma - sopratutto, per le deduzioni che possono logicamente scaturirne, in ordine ai fe- nomeni della cristallizzazione, sia per l’ indole delle attività molecolari, orientatrici e cristallogeniche, sia per la dimostrazione della possibilità di una lunghissima loro perduranza nelle masse minerali che ne sono il campo. — 540 — Ecco gli argomenti della seguente Memoria: I. Ricordi del carattere geognostico e dell’ età relativa delle gessaje del Bolognese. Cenno sui con-- glomerati terziari, sub-appennini, donde derivano ciottoli di calcari e di selce. II. Le marne argillose che si connettono alla formazione gessifera bolognese. Marne fogliettate ; ittioliti ed altri fossili inerenti. III. Modi con cui si presenta il fatto delle inclusioni ciottolifere nei cristalli di Selenite. IV. Natura dei ciottoli e dei frammenti, inclusi e nel detrito concomitante ai cristalli suddetti. V. Posizione dei cristalli ciottoliferi - in posto - nelle cave. Spacchi verticali, e crepacci nei banchi gessosi. VI. Modo con cui avvenne l’ intromissione di argille marnose ittiolitiche nei crepacci delle gessaje. VII. Derivazione dei ciottoli e de’ frammenti che si trovano inclusi nei cristalli. Materiali pie- trosi cui essi sembrano più affini. VIII. Processo e momento geologico, che presiedettero alla inclusione dei ciottoli di calcare e di selce, di frammenti di arenarie ecc., nei cristalli di Selenite. ConcLusIone. La posteriorità di genesi dei cristalli rispetto alla caduta di ciottoli nelle crepaccie dei banchi di gesso. La perduranza dei movimenti molecolari cristallogenici, causa pos- sente di continuati assettamenti delle particelle fisiche nei minerali e nelle rocce cristalline. APPENDICE. Cristalli dî prima e di seconda formazione nelle rocce cristalline, eruttive o me- tamorfiche. — 54l — 1. Ricordo del carattere geognostico e dell’ età relativa delle gessaje del Bolognese. I conglomerati donde derivano ciottoli di calcare e di selce. Le gessaje della zona emiliana, nella quale le masse selenitiche bolognesi del Monte Capra (Pieve di Gesso), di Gaibola, di Monte Donato, di Miserazzano, del Farneto, di Castel de’ Britti, di Settefonti ecc., sono termini intermedi e co- spicui, vennero riferite al Miocene superiore, sia per la posizione stratigrafica relativa, sia per una limitata ma sufficiente fauna, essenzialmente ittiolitica, of- ferta da marne e argille sottogiacenti o intromesse ai banchi gessosi di alcune località dalla medesima zona. I conglomerati con ciottolini silicei, — vale a dire di diaspri varicolori, grigi, nerastri, rosso-bruni, talvolta ricchi di foraminifere, e con ciottoli e ghiaje calcari, con patine nere, manganitiche invernicianti, con cementazione sabbiosa, ferrugginosa, Ù gialliccia e detriti di conchiglie fossili — sono assai più recenti. Ma nella serie stratigrafica bolognese, o nelle posizioni topograficamente spet- tanti alle zone collinesche più a Nord, verso la pianura, quindi lontane dall’ asse orografico dell’ Appennino a Sud, e dal suo multiplo crinale si vedono due prin- cipali piani di conglomerati, oltre un conglomerato quarzoso (con ciottoli di quarzo grasso dominanti e sabbie quarzose grossolane di cementazione), il quale apparisce presso Lojano e a Vado ; a Savignano presso Riola, a Casola, a Gaggio di Monte, ecc. e che spetta al Tortoniano inferiore. I due tipi sono: il C. pliocenico, talvolta d’ imponente sviluppo, con ciottoli improntati, più o men voluminosi, di calcari compatte della specie dell’ alberese, o calcare a fucoidi, e di arenarie molasse, di quarziti, con ghiaje di selce, di ftaniti, di diaspri, di serpentine ecc., quale può vedersi lungo il Rio Gemese, presso il paese del Sasso, sotto le Lagune, e sui dorsi delle colline che come spartiacque fra le vallate del Setta, del Savena, dell’ Idice, del Sillaro ecc. ecc., comprendono il monte di Badalo, il monte Adone e il monte Rumici, le Livergnane, e segnatamente, per tale riguardo, il monte di Zena o delle Formiche, e il Monte-renzo, verso S-E; ed il C. quaternario, o post- pliocenico, con ciottoli di selce assai copiosi, fra i quali quelli singolarissimi pieni di foraminifere, o nummulitici, sparsi sulle colline, a mantelli pliocenici e lembi interrotti post-terziarii, in aree circoscritte, a confini indecisi, sfumati e dispersi. Può vedersi assai distinto presso Bazzano, Bellaria, Bonfiglio e S. Martino (fra il Lavino e il Samoggia), a Gaibola, alla Croara, adiacenti a Bologna, al monte Arligo d’ Ozzano, a Pizzocalvo d’ Idice, alla Varignana (di Quaderna), a S. Lo- renzo (Sillaro) a Monte Fiebano (Santerno), sempre sull’orlo collinesco della re- gione montana bolognese. Noterò fin d’ ora che i ciottoli che apparissero imprigionati nei cristalli o negli strati di Gesso, da qualunque dei due conglomerati venissero, sarebbero sempre, in- dubbiamente, di un terreno di formazione posteriore a quella della gessaja che li contiene. — 542 — Ma dallo studio e dal confronto dei ciottoli stessi vedremo dedursene la mas- sima probabilità che essi vengano dal conglomerato quaternario più recente, di cui un lembo sovrasta, appunto, ai banchi gessosi di Monte Donato e ad altri consimili e vicini. Agli strati ed ai grossi banchi delle nostre gessaje si coordinano letti di argille marnose, talvolta verdoline, sottostanti o intercalate in basso e penetranti le spac- cature dalle quali i banchi gessosi sono dappertutto intersecati e resi discontinni 2. Le marne argillose che si connettono alla formazione gessifera, bolo- gnese. Marne fogliettate e fossili inerenti. Nelle gessaie di Monte Donato, come in altre della zona emiliana, stà interposto ai più bassi banchi della formazione uno strato di argilla marnosa, molto interes- sante perchè ferace di fossili caratteristici del miocene superiore e delle formazioni gessose di acqua dolce o salmastra. La marna di questo strato è di color grigio-cenerino, traente al verdiccio ; ed i suoi straterelli di quieta sedimentazione, sono sottili come fogli di carta, e per lo più alternano con altri, altrettanto sottili, di gesso ; i quali appariscono verdolini o bianchi laddove la roccia venga tagliata o segata trasversalmente. Raramente i singoli straterelli che rendono così fogliettata la marna dello strato, son più grossi di un millimetro; si sfaldano facilmente; e sulle superficie messe allo sco- perto colia sfaldatura è possibile trovare resti di pesci, del genere /ebias, di larve di libellule (L. doris) impronte di foglie e tracce di steli. Il primo pesciolino che venne alla luce (nel 1867), da queste nostre gessaje, e che fu subito riconosciuto dal collega Prof. Capellini per un ledias crassicauda, lo trovai appunto in una delle cave inferiori, detta - cava dei Lazzari -; oggi se ne sono raccolti e stanno in collezione più di sessanta esemplari assai ben conservati, intieri, taluni di estrema piccolezza, ma sempre ricavati dalla stessa argilla fogliettata con gesso, e dalla stessa località. Sottostanno ai banchi selenitici altri strati di marne, più o meno plastiche e fossilifere (con copiosi resti di echinodermi fra i quali notevolissimi i gen. Schizaster e Brissopsis, e di molluschi, fra i quali la Nassa semistriata ecc.); e più in basso le marne biancastre a foraminifere, con bivalvi (gen. Lucina, Lutraria ecc.), del miocene superiore (Messiniano). Riposano invece sui gessi, e sempre concordantemente le marne verdastre, ricche di globigerine, più o meno glauconifere, con piriti e filtrazioni di petrolio, ecc. Dunque, al giacimento dei gessi di Monte Donato si coordina e si connette in- timamente una fauna caratteristica dei terreni gessiferi del Miocene, delle forma- zioni lacustri o di estuario, che sull’esaurirsi di questo periodo e nella zona fattasi — 543 — subappennina, accoglievano depositi di salgemma, svolgimenti di gas sulfoidrico, genesi di idrocarburi, gessificazioni di materiali calcari; e riduzione allo stato nativo e puro di una parte del solfo. Dunque quell’ argilla, con questa sua fauna, conferma la miocenicità dei gessi; tanto se vedesi, come altrove, interstratificata ai loro depositi, quanto se la si con- sideri addirittura sovrapposta, per deposito consecutivo a quello dei gessi, ma precedente a quello del conglomerato miocenico, cui sottostà nei crepacci e nei vacui, dove le due diverse materie sono simultaneamente rappresentate. Del resto, un’ argilla verdastra glauconica, s' interpone abbondantemente ai cristalli minori di Selenite a ferro di lancia, sia presso gli spacchi, sia a distanza, e in livelli di qualche metro più bassi di quello della superficie complessiva del terreno gessifero. 3. Come si presenta il fatto delle inclusioni di ciottoli e di frammenti li- toidi, nei limpidi e voluminosi cristalli di Selenite, delle gessaje bolognesi. Che nella limpida e non di raro uniforme e continua sostanza d’ alcuni cristalli di Selenite, tratti dalle notissime cave di Monte Donato, presso Bologna, si scorgano completamente racchiusi o incastrati, ciottoli di calcare, di molassa, di selce, di diaspro, di quarzite, di serpentino, e frammenti angolosi, detritici, di calcare con- crezionato e di arenaria, bastano a metterlo in piena evidenza i settantacinque esem- plari che mi è dato di presentarne all’ Accademia, da me stesso raccolti nella cava Baratta; la qual cava sta precisamente verso il culmine del monte, dietro il grup- petto di case con osteria, situato per primo lungo la strada che da S. Ruffillo sale a Monte Donato, e dove sono appunto più numerose le case e le cave. Questi esemplari, come rilevasi dalle figure delle Tav. I e II, di corredo alla presente Memoria, copiate da due bellissime fotografie, fanno vedere come i ciottoli e i detriti sieno talvolta solo incastrati in parte nei cristalli, ora lateralmente, sulle superficie convesse e irregolari, in generale corrispondenti alle facce M ossia 110 ; ora, sulle facce piane g' = 010, naturali o di sfaldatura ; ed ora, completamente racchiusi, quasi direbbesi - immersi - nella massa omogenea e limpida dei cristalli. La istruttività delle figure e l’ illustrazione annessavi, rendono superflua una particolareggiata descrizione. Avvertirò, quindi, soltanto che parecchi es., presen- tano ciottoli poco men grossi di un uovo di gallina, come afferrati fra le spor- genze laterali dell’ angolo rientrante di geminazione. (Es. fig. 1, 3, 14 ecc.); mentre altri ne contengono di piccolissimi, per lo più di quarzo grasso e di serpentina, paragonabili a piselli, a vecce, a capocchie di spilli. I frammenti calcarei, talvolta a straterelli, di color grigio gialliccio e fra loro saldati, aderiscono alla Selenite compenetrandone in parte i cristalli (fig. 5, 11, 15); e talvolta son ridotti a scheggie di struttura testacea od a frantumi, tanto che sembrano — 544 — infitti più o meno profondamente attraverso i piani di facile sfaldatura. Lo stesso può dirsi pei detriti di arenaria giallastra e grossolana. 4. Natura dei ciottoli e dei frammenti che vedonsi inclusi nei cristalli di Selenite, e nel detrito che li circonda. I ciottoli sono di assai differenti qualità, tanto se proprii dei cristalli, quanto se liberi e sparsi nel materiale promiscuo o sabbioso che vedesi penetrato negli spacchi dei grossi banchi di gesso. Ecco 1’ indicazione delle sedici varietà che fin ora vi riconobbi : Ciottoli di quarzo grasso e di quarzite biancastra, a grana finissima, quasi compatta, con tracce di pirite. — C. di diaspro rosso, e diaspro a radiolarie. — C. di selce rossa, in parte quarzosa. — C. di selce gialliccia, giallo-lionata, compatta. — C. di selce nera, a finissime venuzze biancastre ; con patine cenerine incrostanti. — C. di ftanite nerastra, bruna, che passa alla selce nera; patina c. s. — C. di ftanite diasproide e selce, con filtrazioni e velature ocraced-ferruginose. — C. di selce piromaca bianca, o cenerina, compatta; uno di selce diasproide verde cupa. — C. di arenaria nera, a pasta finissima e quasi compatta (del terreno del macigno); patina biancastra, copiosamente incrostante. — C. di quarzite verdognola, simile ad una microgranulite, scintillata da particelle di pirite, brillanti; velature ocracee e incrostazione grigia calcarea. — C. di molassa grigia, a grani ofiolitici, del miocene medio. — C. di calcare compatto, gialliccio, venato ecc. — C. calcarei marnosi, tal- volta silicatizzati, e assal duri. Prevalgono fra questi le varietà nere, con venuzze spatiche e patine grigie o giallicce. — C. di molasse a grana fina, bianche, gialliece, grigio ecc. — C. di marna gialliccia, a grumetti concrezionati; altri di selenite cor- ie (V. assicelle N. 31285... 31300). rosa o a schegg Il calcare vi è somigliantissimo all’ alberese gialliccio, compatto, a fucoidi del- l'Appennino; ne riproduce le più frequenti varietà, a pasta unita o finamen- te granulare. Il quarzo grasso, è quale vedesi nei conglomerati quarzosi di Casio-Casola, di Castelluccio ecc., nelle sabbie grossolane di Lojano, nelle cicerchine di Burgianella, nei depositi di ghiaje quaternarie; la selce nera, o grigio-cupa, grigio-verdognola, verde-cupa, bruno-variegata, rossiccia, è quale si trova abbondante in molti luoghi delle nostre vallate appenniniche, per es. a Suviana, a Bargi, a Cà de Lolli, alla Castiglia, a Porretta, a Grecchia, e in ciottoli fluitati nella massima parte dei nostri torrenti. Il diaspro rosso e le ftaniti somigliano alle varietà con radiolarie, proprie del nostro miocene inferiore appenninico (oligoce- ne ecc.). Le arenarie nere, a pasta finissima, con pagliuzze di mica microscopiche, ricordano, anche perchè alquanto scistose, alcune var. di macigno, che a Porretta son dette — marmi neri —. Le molasse a grani verdi, ofiolitici, sono eguali a quelle di Susano, Montese, S. Maria Villiana, Montovolo, M. Arligo, S. Clemente di Sillaro, — 545 — Monteveglio ecc. La serpentina, è della var. compatta, verde-cupa, quasi nera, iden- tica a quella di cui sì trovano abbondanti i ciottolini nei conglomerati ofiolitici del miocene medio appenninico. Quasi tutti questi ciottoli si trovano più o meno completamente e copiosamente incrostati dalla già citata patina grigiastra, la quale essendo calcarea sciogliesi con effervescenza negli acidi diluiti, patina senza dubbio dovuta alle filtrazioni acquee, discendenti negli spacchi, e intridenti i materiali che in questi già si erano accu- mulati. Essa scorgesi assai distintamente nelle figure, a destra, dei ciottoli rappre- sentati nella Tav. II. (gruppi N. 31214, 31289, 31290, 31293, 31299 ecc., di collezione). Tutte queste varietà di ciottoli o ghiajuzze, trovano dunque le loro più espli- cite affinità colle varietà di molte rocce dei terreni dell’ appennino emiliano, e dei ciottoli comunemente disseminati nelle sabbie gialle del pliocene, sia in piccoli letti, di pochi centimetri nel loro spessore, sia nei Lehm più superficiali, quater- nari, dove abbondano le ghiaie silicce. È noto che fra queste stanno le bellissime e singolari selci piene zeppe di nummuliti e di altre foraminifere di cui non è ancor nota la vera provenienza. Peraltro nessun ciottolino di selce con foraminifere venne fin ad oggi scoperto fra gl’'inelusi che sto descrivendo. Invece, potei notarne al- cuni con incavi, o impronte (Es. N°. 31299 di assicella, in collezione). Questi non sono abbastanza caratterizzati da potersi identificare con i veri ciottoli improntati del grosso conglomerato pliocenico serpeggiante nella prima zona delle nostre col- line, ed attraversato dal Rio Gemese presso il Sasso, dal Rio Carbonaro sotto Mont’ Adone. Ma è da notare che certe varietà ferruginee, incrostate di ocra, con velature e dendriti di mauganite, quelle ad es. sul Monte delle Formiche sopra Zena, inducono, alla lor volta, un titolo di somiglianza fra gli uni e gli altri. I ciottoli raccolti presso i cristalli di Selenite pur ciottoliferi, sì trovarono fin ora unicamente nelle spaccature verticali della cava Baratta, sopra al posto dei cristalli suddetti, e precisamente dove si vede disegnata una figurina nella Tav. II, copiata da una fotografia della cava medesima. Ho citati i frammenti di calcare conerezionato e di arenaria simile a molassa, essi pure incastrati o racchiusi, insieme a ciottoli, nei cristalli di gesso. Il calcare, in qualche caso di struttura testacea, a sottili straterelli flessuosi e aderenti, cor- risponde ad alcune modalità delle frequenti e copiose incrostazioni stallattitiche, che rivestono quà e là i banchi gessosi, e penetrano negli spacchi inerenti. Tali incrostazioni sono assai più recenti della formazione gessifera ; anzi sono posteriori al deposito quaternario, circostante, ed è probabile che localmente, si vadano tut- todì producendo. L’ arenaria, per quanto può dedursi da frantumi piccoli e alterati, corrisponde TOMO X. 69 — 546 — a quella di certi piccoli strati di conglomerato sabbioso, pliocenico, con ciottolini di calcare e di selce. È il semplice portato dell’ agglutinamento delle sabbie gialle nei piani di stratificazione che i ciottolini calcarei rendono più permeabili e più calcariferi; forma tenui letti, o amigdale con pochissimi centimetri di spessore medio, ma che si possono ripetere in alternanza colle sabbie, e che altrove conse- guono assai maggiori grossezze. Ciò che interessa di notar qui, in proposito, si è che i ciottolini di selce nera, o bruna, o grigia, o rossa, e quelli di quarzo bianco, grasso, o di calcare, donde risulta esso conglomerato costituitosi posteriormente al terreno pliocenico delle sabbie gialle, sono identici a quelli che si vedono imprigionati nei cristalli di Selenite, e che si raccolgono nelle fenditure stesse dove questi cristalli sl svilupparono. 5. La Posizione nelle cave, dei cristalli di Selenite, includenti ciottoli e frammenti litoidi. — Le spaccature e i crepacci verticali nei banchi gessosi. La posizione, precedentemente indicata, (V. la figura di un cavatore, sul di- segno della Tav. II, per la cava Baratta), è la stessa pel giacimento dei cristalli ciottoliferi, trovati in basso, e dei ciottoli liberi, commisti a detriti sabbiosi ete., che si raccolsero più n alto dove vedesi la figurina e la linea scura di un cere- paccio. La cava Baratta consiste in una piccola depressione, a fondo pianeggiante a guisa di aja, praticata nei banchi superficiali della massa gessosa, i quali ivi ap- pariscono di uno spessore fra 8 e 10 metri. Essa è chiusa, su tre lati, da pareti di scavo, a picco e irregolarissime, con sporgenze, screpolature, cunicoli; e sul quarto lato, da povere casupole di quel villaggio. Numerosi crepacci attraversano anche in questa cava, al pari che in tutte le altre del Monte Donato e nei corrispondenti mammelloni gessosi di Miserazzano, Farneto, Castel de’ Britti, Gesso sul Lavino, ecc., i banchi selenitici, con direzione ascendente, ossia dal basso all’ alto, tendendo alla verticalità ma protraendosi con modo ineguale e irregolare. Questi crepacci, che dividono e suddividono mercè fissure divergenti e sposta- menti come per piccole faglie, i grossi banchi in minori blocchi, quasi poliedrici nel loro assieme, lasciano frequenti ed informi vacui fra le superficie in presenza ; si allargano per lo più in basso ; talvolta, aprendosi in alto, comunicano con ciò che ricuopre la massa gessosa; ve ne sono di quelli, ad es. le così dette — sprugole — nelle falde del monte gessoso di Miserazzano, la cui ampiezza basta per offrire il passaggio nelle parti addentrate della formazione; e ve ne sono di così tortuosi, complicati e protratti da costituir piccoli laberinti sotterranei, essendo natural- mente intervenute, ad ampliarli, lisciarli e spalmarli internamente le filtrazioni ora erodenti ora incrostanti delle acque di circolazione superficiale. — 547 — Abitualmente sono stretti, irregolarissimi, spalmati da pasta argillosa o mar- nosa, riempiti di detrito sia di roccia gessosa, sia del deposito terroso sovraincom- bente. È in corrispondenza appunto di tali crepacci che si vede più ampia e potente la cristallizzazione selenitica, e si raccolgono i più belli, grossi, puri e stupendi poliedri di gesso; ed è in uno spacco di tal genere, nella cava Baratta, che si. raccolsero cristalli ciottoliferi, ciottoli liberi, e frantumi di calcare conerezio- nato. Di fronte alle case, quindi a N. E. della cava, e sul dirupo più esteso (fig. 24, Tav. II) vedesi disteso sul banco gessoso un deposito stratiforme con uno spessore di circa due metri, fatto di detrito promiscuo, con tritumi di gesso, terriccio arenaceo rarissimi e piccoli ciottolini, e materiali argillosi impastati dalle filtrazioni super ficiali (fig. c. s.). È un deposito recentissimo, dovuto all’ opera degli abitauti, che ridussero, diste- sero e pareggiarono il suolo di quelle colline per intento agricolo; ciò è provato dalla presenza, alla metà circa dello spessore di questo deposito, di piccoli fuscelli di legno carbonizzato, frammenti di brace, tracce di ceneri e rottami di scaldini di fattura modernissima. Le già descritte spaccature, le grandi e le piccole crepe o fissure de’ banchi gessosi, contengono argilla marnosa le cui qualità sono identiche a quelle delle marne che vi sottostanno o sovrastano ai banchi medesimi. Giova il tenerne conto anche dal lato mineralogico. D Nelle cave più alte, per es. nella cava Baratta, le argille riempienti, 0 quasi, gli spacchi verticali son verdicce e sono disposte a intonachi, a spalmature, e pajono state fortemente compresse e laminate, tanto da esser divenute liscie, e strutturalmente scagliose; anzi quà e là scagliosissime. Compenetrano il gesso eristal- lizzato delle masse selenitiche incassanti; avvolgono e rilegano i cristalli a ferro di lancia, e colla loro più tenue e uniforme sostanza si diffondono eniro i cristalli 7) trasparentissimi di Selenite. È così che siffatti cristalli ci presentano per questa diffusione una infinita varietà di modi alcuni dei quali interessanti a notarsij per es., quando la materia argillosa tenuissima, rarefatta tanto da ricordare una nube semidiafana bian- castra e stratificata, con delicatissime sfumature, vedesi raccolta presso un lato solo del. cristallo, parallelamente alla faccia che ne limita lo spessore; quando ’ ) la nubecola d’ argilla si addensa presso il piano di geminazione (00 4), e disegna, nella sostanza diafana del cristallo, con ripetuto pavallelismo, l angolo rientrante della inerente emitropia; quando, con una leggera e tenuissima successione di straterelli diagonali e paralleli disegna invece le direzioni n = 111 delle sfaldature di intermedia facilità e nitidezza; quando, infine, contorna con diffusioni di densità — 548 — e opacità aumentanti dall’ asse ai margini dei cristalli, le aree centrali dî questi, che restano limpide e pure; tuttociò non di raro accompagnandosi con una bella tinta giallo-vinata, molto chiara e di trasparenza perfetta, talvolta a zone ben demarcate, adiacenti alle facce f = 110 dei cristalli; talvolta invece perdentesi con gradazioni sfumate in direzioni variabili. Nella collezione del Museo si notano parecchi cristalli di Selenite, grossi e magnifici, per lo più poligeminati ma colla solita legge (piano di gemin. co #'), nei quali è tanto copiosa l’ argilla, fattasi densa, aggrumata nella loro sostanza, che sembrano affatto opachi; anzi, localmente lo sono. Tuttavia si sfaldano facilmente; senonchè le superficie di clivaggio non sono piane e specchianti, bensì increspate, ondulate e interrotte. Anche i cristalli grandi, con ciottoli, ci presentano tali particolarità. È secnatamente nella cava bassa dei Lazzeri, che finora si fece palese il dive- nire injezione ascendente di una pasta argillosa ciò che nella sua originaria condi- zione è uno strato regolare di argilla biancastra e verdognola. Gli spacchi o crepacci che interrompono dal basso all'alto i banchi della cava, per l’ inegual modo e grado di spostamento dei massi contigui di frattura, e per le successive erosioni, per gli attriti ecc., divennero irregolarissimi; alle più ampie cavità fanno seguito strozzature anguste, fessure sottili, qua e là annullate dal contatto delle opposte superficie. Eccoci in presenza di un primo quesito che può formularsi così: 6. Come avvenne l’ intromissione in siffatti crepacci delle argille marnose ittiolitifere ? Evidentemente, dall’ alto al basso; o viceversa. Nel primo caso è d’ uopo immaginare, come fece già il Prof. Bianconi, che sugli strati di gesso avessero potuto raccogliersi acque dolci o salmastre, in limitati bacini o in piccoli laghi ed ivi dar luogo a sedimenti di argille ed alla fossilizzazione, in queste, dei piccolissimi pesciolini che vivevano e morivano in quelle acque medesime; fino al momento in cui un movimento del suolo, uno spostamento delle sue più superficiali stratificazioni, generando fenditure e dislocazioni, apriva sul fondo dei laghetti aditi numerosi alle loro acque; tanto che queste, inabissandosi, traevano seco le melme argillose del fondo, i resti dei lebias, delle larve di libellule, dei frustoli di vegetali; e recavano così, al di sotto di una parte di formazione gessosa la più elevata, superficiale e recente un materiale di sedimentazione anche più recente, e perciò verosimilmente del pliocene inferiore, o mio-pliocene che voglia dirsi. Le fratture dei banchi di gesso, a Monte Donato, mentre offrono argille fogliet- — 549 — tate, ittiolitifere nei loro più bassi tratti dove son altresì più allargate ed estese, non mostrano in alcun luogo, ch’ io sappia, traccia della loro discesa o colatura; mentre questa invece riconoscesi manifesta, evidentissima, pel materiale disgregato, sabbioso, e ciottolifero che fornì i ciottolini di calcare e di selce, così curiosamente imprigionati nei grossi cristalli lenticolari di Selenite. Nel secondo caso, se le argille verdoline, a lebias, sono ascese, anzi che colate in quelli spacchi, deve essere intervenuta una forza impellente della loro pastosa o plastica materia; la injezione loro, non riferibile dunque alla semplice azione di gravità ma ad una energfa meccanica locale, deve offrir qualche documento del modo con cui si produsse. Ora, basta guardar tali argille la cui delicata fogliet- tatura non si mantien regolare che in piccole misure dei pezzi che posson trarsi fuori dai gessi incassanti; la cui struttura d’ assieme è invece scagliosa al pari di quelle argille — cretacee — laddove sono più classicamente sca- gliose; che presenta flessioni, ripiegature, interruzioni, minime faglie di serepola- mento, impasti cancellanti ogni preesistente modalità strutturale e lisciature lucentis- sime, verso le pareti degli aditi in cui stanno compresse; basta vederle, copiose in basso dei crepacci ed esaurentisi in alto; basta, infine il vederle così disposte e modi- ficate fra banchi di gesso i quali infranti e smossi nella loro estensione regionale non presentano traccia, in rispondenza alle loro discontinuità, di violenze sollevatrici, o di attività idrotermali, per convincersi che la causa per la quale le argille a iebias, salirono entro gli spacchi delle masse gessose fu la più semplice, la più naturale di tutte : fu la pressione che i blocchi gessosi disgiunti esercitavano sulla pasta argillosa e plastica sottostante; la quale pressione mantenendosi verticale per le aree degli strati che direttamente la esercitavano diventava - laterale — per le zone degli strati medesimi, che in rispondenza agli spacchi ne restavano esenti. Si sollevava perciò tale pasta argillosa, iniettandosi nei tramiti angusti; e quivi subiva ulteriori e oblique pressioni, laminazioni e lisciature, stiramenti, ed impasti; trasci- nava seco detriti di gesso cristallino (Es. N. 29104, 29105), si contorceva, si ripiegava facendosi vieppiù amorfa, e si prestava dipoi e coll’andare dei tempi a servir di campo alle attrazioni molecolari generatrici di quei nuovi e grossi cristalli di selenite che sono i più belli, più variati e istruttivi di quanti se ne raccolgono nelle vaste gessaje bolognesi. Laddove il crepaccio percorso permise eziandio la discesa, quasi direi l’insaccatura, di miscele sabbiose, ghiajose e giallastre dei depositi superficiali, 1’ argilla marnosa si mescolò con queste; accolse ghiajuzze e ciottolini (Es. 29106), divenne gialliccia, di aspetto terroso, incoerente. Ma anche in tale condizione fu imprigionata nei cristalli di gesso, ora in copia sorprendente, or localizzata con simmetrie dipendenti dalla struttura fisica dei cristalli includenti, ora accompagnata da ciottoli, alla lor volta inclusi, (Es. N. 31266, 31273), ora cemen- tante e intridente una fitta congerie di cristalli a ferro di lancia (Es. N. 29106), essa pure, intromessasi, ma per via di formazione posteriore 0 seconda, ed in posto, fra le pareti di spaccatura. — 550 — Questo speciale processo di injezione di materie argillose, plastiche, o rammol- lite da acqua intridente, negli spacchi di masse solide comprimenti; processo che dipende da pressioni verticali sulle masse ancora sottogiacenti, ma laterali per quelle che sopravvenienti discontinuità sottraggono alle prime, genera un fenomeno che nell indole sua è identico, sebbene infinitamente più limitato nella sua estensione e misura, a quello pel quale ammetto siensi sollevate, injettate, fatte plastiche e classicamente scagliose nella zona emiliana e in altre, le argille delle formazioni marine del cretaceo superiore, attraverso taluni terreni terziarj sovraincombenti. 7. Donde derivano i ciottoli inclusi c. s. nei cristalli selenitici? A quali materiali analoghi sembrano più affini? Per rinvenire la situazione originaria e quindi la provenienza di materiali fluitati, e tratti a distanza dai torrenti o dai fiumi, il criterio naturalissimo che primo s' impiega consiste nello studiar la natura di quei materiali — massi, ciottoli, ghiaje, granuli arenacei ecc. — per confrontarla colla natura delle rocce del bacino idrografico nel quale essi materiali si osservano. Possono trovarsi così — in posto — ed a qualsiasi distanza le rocce che, avendo identici caratteri petrografici debbono averli forniti. Ho già precedentemente descritte le varietà dei ciottoli che fin ora trovai nella Selenite di monte Donato (pag. 544); ed il confronto conduce alla certezza che mentre la sostanza di tali ciottoli si costituì solida, litoide, massiccia in assai più antichi periodi, verosimilmente al cessare dell’ era cretacea, ed all’inizio della terziaria (selci verdi e brune variegate, grigie e nere, delle argille scagliose, piro- mache nere intercalate al macigno eocenico, ftaniti e diaspri rossi o variegati includenti serpentina diallagica, selci bionde, lionate, biancastre delle marne grigie e delle molasse oligoceniche e tortoniane, ecc.), invece la loro modalità di ciottoli per fluitazione, la loro diffusione nelle sabbie alluvionali, la loro collegazione in letti o banchi di conglomerati, son fenomeni molto recenti, il cui esaurimento spetta all’ età quaternaria; spetta all’ ultima fase del sollevamento dal mare pliocenico, dei terreni post-terziavi oggidì presenti, e distesi sulle vette delle colline subappen- nine, sui dorsi decrescenti degli spartiacque nelle nostre vallate. In altri termini: la roccia che fornì i frantumi che per fluitazione si fecero attondati e lisci, e che discese dalle montagne e si distese sulle vallate, è relativa- mente antica; invece, il deposito dei ciottoli e delle sabbie, quindi il conglomerato che ne risulta e che sovrasta ai banchi selenitici, è relativamente recentissimo. Nella cava Baratta, fra gli altri ciottoli se ne trovò uno di selce biancastra con foraminifere, identico a taluni di quelli che pieni di nummuliti sono sparsi nel Iehm quaternario, dalle colline di Bellaria nel bacino del Samoggia fino a quelle dell’Imolese, con singolare copia a Barbiano, alla Croara, a Pizzocalvo ed a — 551 — Mont’ Arligo d’ Ozzano. Peraltro, questo ciottolo non l’ho raccolto io; non oso basare perciò su tale rinvenimento un attendibile conclusione. I frantumi angolosi a scheggie, sono tutti di calcare concrezionato, a struttura testacea, i cui straterelli sottili, sovrapposti, contorti e saldati corrispo»rdono a quelli abituali nelle incrostazioni stallagmitiche e microcristalline di cui si trovano alla superficie delle masse gessose e nelle spaccature campioni di formazione anche attuale. Hanno color gialliccio ceciato chiaro; di raro si presentano in pezzi volu- minosi, con dimensioni superanti 4 o 5 centimetri. Per lo più sono pezzettini angolosi colle superficie di frattura intatte. Le sabbie gialle grossolane e 1 piccoli pezzi di conglomerato fanno palese la identità del materiale promiscuo con quello che nelle colline nostre, e di altri territori anche lontani, per es. di California-di Casteggio (Vogherese), di Pesaro (Ascoli-Piceno), concorre alla litologia tipica del Pliocene, alterna colle sabbie gialle sciolte, si coordina con i curiosi e multiformi agglomerati molassici sferoidali, mammillonari, cilindroidi o fusiformi, bernoccoluti, ecc., imitanti frutta, grappoli, ossami, membra, armi e strumenti; come ne danno es. i pezzi che si raccolgono sotto il pliocene presso Bazzano, nell’ alveo del torren- tello detto perciò il “ Rio delle Meraviglie , , ed in parecchi altri rii delle colline adiacenti. 8. Per quale processo, ed in qual momento geologico, i ciottoli di calcare e di selce e i frammenti di arenaria poterono restare chiusi nei cristalli di Selerite? Dato un corpo solido, duro, contenuto in una massa pur solida, omogenea, che lo avviluppa completamente, con illesa continuità, senza aditi o rotture, si ammette generalmente senza discussione che quel corpo preesîsteva alla massa includente; ossia, che questa si è formata su di esso, posteriormente. In una breve appendice, alla fine. di questo scritto, cerco di dimostrare la possi- bilità, non solo, ma la frequenza altresì di un fenomeno che apparisce affatto contrario alla precedente deduzione; il fenomeno cioè di un cristallo, chiuso in una sostanza solida, continua e diversa da quella di cui esso risulta, eppure costituitosi dopo alla formazione della sostanza avviluppante, perciò formatasi ante- riormente. Ciò vale a trattenere le troppo pronte o perentorie e ciecamente fiduciose appli- cazioni del sopra ricordato concetto. Pel caso dei ciottoli chiusi ne’ cristalli di Selenite, i fatti positivi da richiamarsi sono questi : a — La materia litoide dei ciottoli si formò per la maggior parte nei periodi antichi e medj dell’ era terziaria : — 552 — b — Fornì, successivamente, per le note azioni meccaniche, idrodinamiche ecc. ciottoli, ghiaje e detriti grossolani o fini; e questi materiali giunsero a far parte di una formazione alluvionale, di un conglomerato di età relativamente recentissima, post-terziaria; vi giunsero adunque dopo che si erano formate, consolidate e sol- levate in parte le masse stratificate gessose del Miocene superiore; e — Nei cristalli di Selenite, già costituiti colla loro immediata e nota solidità e omogeneità strutturale, i ciottoli, i rottami calcarei e duri, on potevano penetrare ; d — Tali materiali non potevano nemmeno formarsi entro ai cristalli, per via di azioni molecolari concentratrici, o per il lento accorrere di particelle ad un centro di attrazione. Lo nega la natura stessa e la varietà dei ciottoli, ed anche la frequentissima loro incastratura parziale, nei cristalli cui si accompagnano. e — Conseguenza logica ed innegabile: I cristalli di Selenite, con ciottoli e altri corpi pietrosi, si produssero molto tempo dopo che già si eran formate e consolidate, divenendo cristalline ecc., le masse gessose sub-appennine; e dopo è deposito del conglomerato quaternario che su talune di esse si vede disteso. Si formarono lentissimamente nelle spaccature ascendenti dei banchi gessosi, senza che risultasse turbato dalle inclusioni, impedito, interrotto il processo di assettamento regolare e simmetrico del loro continuato ineremento. i Ciò viene a confermare il già propugnato principio della — perdurante mobilità degli elementi cristallogenici delle rocce; mobilità favorita da ogni incentivo di moti molecolari e vibratorj, di perfezionamenti nelle simmetrie e orientazioni strut- turali; quindi, da ogni cambiamento di temperatura, dalle infiltrazioni e intrusioni di acque minerali circolanti o umettanti, da residui di attività chimiche, dall’ essere già i composti minerali più atti a cristallizzarsi predisposti a quel meccanismo di separazioni singole e lccalizzate che altra volta chiamai — cernita cristallogenica. La post-miocenicità della origine dei cristalli di Selenite, origine che può addi- rittura qualificarsi quaternaria, o recente ogni qualvolta essi cristalli occupino i cre- pacci dei grossi banchi gessosi e includano ciottoli e detriti nei luoghi e modi indicati, è l’unica esplicazione del fatto, a prima vista paradossale, dell’inclusione di ma- teriali di formazione recente in cristalli di assai più antica formazione. Ormai, sulla posteriorità del conglomerato fornitore dei ciottoli di selce ai cristalli di Selenite, non può cader dubbio. È cosa resa evidente dal rapporto di posizione dei due terreni, dalla natura litologica dei materiali rispettivi, e dalle correlazioni di questi materiali con altri di formazioni e terreni ben determinati cronologicamente. D'altra parte, sarebbe assurdo il sospettare che i ciottoli del conglomerato recente sieno penetrati nei cristalli preesistenti e solidi, restandovi completamente chiusi o semplicemente incastrati per una contemporaneità di genesi fra il corpo . che resta racchiuso e la materia solida che lo. include. Questa contemporaneità deve bensì ammettersi necessariamente per aver la spiegazione delle inclusioni di cristalli ben definiti, nella sostanza di altri cristalli di diversa natura; ad esempio, — 553 — per la notissima e singolare presenza nei cristalli di Quarzo limpido e jalino d’aghi rettilinei di Rutilo, isolati od a fasci irraggianti; di lamelle di Mica e di Clorite; di prismetti o fasci di Tormalina, o di grossi prismi di Topazio. In tali casi, e in un grandissimo numero di altri consimili, la materia silicea del quarzo non può avere avviluppate colla sua potente attività cristallogenica le delicatissime, esilissime e quasi libere entità dei citati minerali o di altri, per co- stituirsi in grossi cristalli, non di raro multipli o geminati, su queste entità o dopo. A più forte ragione le fibre sottili, gli aghi di minerali fragilissimi non possono avere in certo modo trafitti i cristalli di quarzo, tanto duri e compatti. Dunque, la parola contemporaneità non implica, in siffatti casìi, un fenomeno di naseita e di riunione rapida delle due diverse sostanze; suppone bensì una fase molto lunga di continuata solidificazione cristallina; tanto lunga da permettere alle particelle, per es. della Stibina, del Rutilo, o dell’ Epidoto e della Tormalina, di assettarsi e alli- nearsi poco a poco entro di una massa silicea, agitata e vibrante per dinamismo eristallino-molecolare, se non molle o gelatinoide. La quale massa disponevasi, nel medesimo tempo, per l’inerente suo lavoro di orientazioni, lento e perenne, alla produzione di un cristallo più o men limpido e voluminoso. Per le inclusioni dei ciottoli e dei frantumi di rocce nei cristalli di Selenite, dichiaro esplicitamente che una contemporaneità di questo genere è inammissibile. Sarebbe assurdo il credere al prodursi di un ciottolo nel tempo e nel luogo dove si sviluppa e s'ingrossa un limpido poliedro o una lente di Selenite; ed al suo adagiarsi su di una parte che dovrebbesi supporre già costituita, di esso .po- liedro, per aspettare che l’altra parte completante, venga a racchiuderlo. Del pari assurdo sarebbe l’ ammettere che quei ciottoli, quasi sempre interna- tissimi, e non di raro completamente immersi nella omogenea continuità cristallina dei poliedri prismatici o lenticolari di Selenite, e talvolta situati nel piano della nota geminazione (00 g'), detta — a ferro di lancia — (Es. N° 4 e 9 (31217, e 31222 di collez.° Tav. I), senza turbamento sensibile della piena regolarità e normalità di questa condizione, sien capitati ad un tratto sulla superficie di un cristallo in via di formazione, per posarvisi, soli e puliti, in uno spazio limitatissimo e forse unico, di un estesissimo giacimento. Se non che, dalla spiegazione che proclamo sola ammissibile pel fatto di cui qui si tratta, deriva logicamente questa conseguenza : Il lavoro molecolare cristallogenico, in una massa minerale che abbia già conseguita largamente la struttura cristallina, può protrarsi per lunghissimi tempi, per interi periodi geologici, con variabile intensità, con incalcolabile lentezza e potenza, 0 rinvi- gorirsi dopo intervalli di durata sconosciuta e di inerzia relativa. Ma una tale deduzione, conduce a un’ altra di non lieve significato; questa: È possibile che in una massa rocciosa, cristallina, analoga alle masse eruttive, ai nuclei o assi di rilievi orografici ecc., si scorga notevolmente cambiata in date direzioni, la struttura e la natura mineralogica della roccia; tanto da giustificar l’ idea che TOMO X. 70 — 554 — ivi esista un vero filone, intromessosi con indole eruttiva, e in età più o men posteriore a quella cui la massa attraversata può ragionalmente riferirsi; e che tutto questo dipenda unicamente dall’ essersi mutata nella direzione del simulato filone la struttura cristallina preesistente, per azioni molecolari orientatrici consecutive, con singolare grandiosità, e rinnuovamento di clementi mineralogici cristallizzati. Dico questo, imperocchè accade bene spesso di sentir parlare di filoni e di injezioni di rocce più recenti nelle masse di rocce più antiche; di filoni o vene d’ eufotide nelle serpentine; di dioriti, iperiti, diabasi, in vene o diche nelle eu- fotidi; di graniti speciali, per es. i tormaliniferi, injettati e ramificati nei graniti differenti, o senza tormaline e di origine antica; quasi che tali fatti avessero real- mente la natura che la frase di filoni injettati suggerisce o realmente cor- rispondessero per ragione di genesi alle vene spatiche o quarzose che riempiono e risaldano le fissure di spacco delle arenarie, dei calcari, e d’ altre rocce sedi- mentarie, stratificate. Per mio conto, ritengo probabilissimo che in un gran numero di casi, i così detti ammassi amigdale, filoni, o vene d'injezione, o compenetrazione di rocce che sono antiche per opera di rocce che lo sono meno, corrispondano invece a semplici e facili mutamenti strutturali mineralogici; mutamenti, avvenuti dn posto, in date direzioni, col concorso massimo se non esclusivo delle sostanze presenti nella roccia sede del fenomeno; e col favore di screpolature e di filtrazioni idriche o idrotermali, ascendenti o discendenti che sieno. Per molte rocce dei tipi diabasici o dioritici, che insieme alle eufotidi si trovano connesse e compenetrate colle ofioliti eruttive, ne ho la piena certezza (1). (1) Nella Memoria da me poc'anzi citata sulla classificazione di una collezione litologica, con quadri sinottici e catalogo sistematico (Bologna, Marzo 1884), ho riportato parecchi esempii di cristalli avviluppati o avviluppanti, per far rilevare questo fatto ancora: talvolta la parte più interna, nucleare, incrostata e tale quale si vede a fenomeno compiuto, si costituì dopo la forma- zione della massa, 0 del voluminoso cristallo ; è che, in altri casi, la costituzione delle due distinte parti di un cristallo, formato di due sostanze, ossia Za separazione di queste, ridottesìi una nella parte centrale, l’altra nella esterna o racchiudente ciò che osservasi nelle così dette uralitizza- zioni dei feldispati, avvenne con assoluta contemporaneità di fase, come quando, in una emulsione, per es. di acqua e di olio, di etere e di benzina, si separano l’uno dall'altro i due liquidi non diffusibili reciprocamente: ovvero, quando due metalli, non in lega e di differenti densità, si sepa- rano per via di liquazione. Ho indicato difatti i cristalli di Selenite racchiudenti ottaedri di solfo di prima genesi, ed eleganti filtrazioni dendritiche di questo stesso corpo, ma di seconda generazione: ed ho analo- gamente, indicati i magnifici cristalli delle Seleniti nostre, con interni veli, e nubecole argillose, la cui materia preesisteva al solfato calcico di essi cristalli, ma tratten ta da questo e disposta presso il piano di geminazione dei prismi che s’ andavasi formando, distribuita nelle loro limpide solidità con simmetrie determinate; talvolta, perpendicolarmente ai piani di più facile sfaldatura (co g'), talvolta in altre direzioni, ma sempre per azioni posteriori, o successive alla fase di prima cristallizzazione del gesso accompagnato da argilla. Ne segue che gli aggregati o di solfo cristallino, o di argilla amorfa degli esempi citati, sebbene internati, racchiusi e centrali nei cristalli di Selenite, sono di seconda formazione; e lo — 555 — CONCLUSIONE Dall’ insieme dei fatti precedentemente notati risulta evidente la dimostrazione di ciò che sarebbesi potuto ammettere anche a priori circa la presenza di ciottoli entro cristalli di Selenite. Può dunque stabilirsi : 1° Le vaste stratificazioni selenitiche, con cristalli a ferro di lancia, che vediamo oggi separate da ampi intervalli con erosioni e faglie nei dirupati uni- clinali parteciparono, esse pure direitamente, sul cominciar dei tempi quaternari, a quel lento moto regionale di spostamento delle formazioni terziarie, diretto da N. a S., che sebbene lievissimo in confronto dell’ estensione dell’area che ne era investita pur bastava a generare fratture, spacchi e screpolamenti in grandissimo numero e con infinita varietà. Esse pure divennero perciò suddivise, e subirono sensibili spostamenti. Per altro, mentre il disegno delle fratture e faglie, nella zona emiliana del- l'Appennino, in allora vicino a raggiungere il massimo del suo sollevamento, e così nelle Romagne, presso S. Marino, in Calabria ecc. è disegno grandioso, colle sue due direzioni prevalenti, una parallela all’ asse orografico della catena, con lunghis- sime fenditure serpeggianti e rialzi uniclinali caratteristici e crescenti da N. a S., l’altra perpendicolare alla prima, con valloni interposti ai contrafforti divenuti alvei profondamente incassati ed erosi dei primari torrenti, nei più alti tratti del loro corso, il disegno invece degli spacchi e crepacci negli strati cristallini gessosi pare una fitta reticolatura. Gli spostamenti sono talvolta indistinti nei banchi che li subi- rono; alcune fenditure pajono risaldate da consecutive cristallizzazioni intermedie ; il profilo di talune grandi cupole, quelle per es. di Gaibola, di Miserazzano, di Monte Donato, poco ajuta a scoprili; tuttavia il rilievo sopra il paese di Gesso (Monte Capra), ne offre un bell’ esempio, e sopratutto il masso del Farneto, fra Zena e Idice, dove gli enormi rottami degli strati, i blocchi monolitici di spaccatura con- fusamente accatastati gli uni sugli altri, nel pendio verso Zena, hanno dato luogo a grandi vacuità interne e comunicanti, donde la celebrata caverna, coi resti fittili e i sepolcri di genti preistoriche. 2° I crepacci che nelle masse stratificate gessose sono più vistosi e degni di studio, vedonsi generalmente diretti dal basso all’ alto; tendono cioè ad attraversare stesso vale per altri esempii, quelli inclusive della uralitizzazione di certi cristalli poligenici (plagioclasici), di feldispato, e della polisimmetria di cristalli, a composizione multipla o poli= genica. di pirosseno e di orneblenda. E — 556 — normalmente la stratificazione dominante ed a dividere gli strati in blocchi poliedriei ma assolutamente irregolari ed informi. 3° I cristalli di Selenite che belli voluminosi e splendidi per limpide e sco- lorate diafaneità si adunano in certe direzioni attraversanti i banchi gessosi di Monte Donato, segnano altrettante direzioni di frattura nori di raro divenute evi- denti per le intromissioni di detriti sabbionosi, ghiajosi, giallieci, con ciottoli calcarei e di selce, e da paste argillose, lisciate, non di raro scagliose e contorte, contenenti resti di Lebias, di larve della libellula Doris, e scarse filliti. 4° I cristalli ciottoliferi così formatisi nei crepacci dei banchi gessosi dopo la caduta, nei crepacci stessi e dagli strati post-terziarii sovrincombenti, di ciottoli, ghiaje, frantumi di calcare concrezionato in un colla terra sabbiosa concomitante, rappresentano una nuova, consecutiva e lentissima e recentissima cristallizzazione della materia selenitica; la qual cristallizzazione fu ivi favorita dalle vacuità nei crepacci, dall’ umidità continuamente filtrante, dalla mollezza e plasticità dell’ ar- gilla che vi si diffondeva e vi spalmava le pareti riempiendo i tramiti più ristretti. Ed invero, anche nella pasta di quest’ argilla si trovano non di raro dis- seminati bellissimi cristalli lenticolari di Selenite, geminati, completi, quasi limpidi, colla sola parte centrale lievemente inquinata da nuvolette argillose bianco-grigiastre, e sfumate (V. la ricca serie di es., nella collezione del Museo). 5° A seconda della sostanza nella quale s'andavano generando i grossi cristalli e nella quale acquistavano dimensioni non di raro colossali, inclusero ora l’ argilla finissima e verdolina, ovvero grossolana, grigia, gialliccia, arenacea; ora il mate- riale terroso, marnoso, arenaceo. Assai più di raro e solo in certi spacchi nè quali avevano potuto discendere i ciottoli sopracitati, inclusero pure questi, o li avvolsero in parte, ancorchè voluminosi e pesanti. - I materiali argillosi o fanghi di sedimento lacustre o di estuario, a straterelli molto sottili, sottostanti alla pila di strati gessosi, grossa e. premente, restavan sot- tratti alla pressione, allo schiacciamento lungo talune direzioni appena si produ- cevano fratture e dislocazioni nella pila suddetta; furono quindi costretti violen- temente, da spinte laterali, ad injettarsi in parte nelle frattare medesime e ad invaderne le cavità, dalle basse alle alte; a spalmarne le pareti col loro stri- sciamento ascensionale, qua e là ripiegandosi e accartocciandosi, facendosi lisci sulle superficie di laminazione ; le argille più omogenee divenendovi tanto scagliose quanto le argille scagliose propriamente dette. Alle spinte sollevatrici, per pressioni laterali, quindi paragonabilissime a quelle che in talune gallerie di miniere, fanno sollevare il suolo, e producono quei creeps i quali arrivano talvolta ad ostruire poco a poco le gallerie che vi sono soggette, poteva accompagnarsi un moto di spostamento perdurante, nell’area gessifera e nelle contigue. L’injezione o ascensione di materiali argilloidi, come fanghiglie a straterelli, doveva esser molto facilitata dalla loro inerente mollezza o plasticità. — 557 — Lo spessore per altro ne era limitato. Le marne fogliettate son quelle racchiu- denti resti di piccoli pesci, impronte di larve, foglie e frustoli legnosi. 6° Verosimilmente il deposito superiore, disceso in parte dall’ alto negli spacchi, è una diretta dipendenza dei conglomerati pliocenici o quaternari; lo accennano i ciottolini di selce, i frammenti del calcare concrezionato stallattitico, e la grande varietà e promiscuità degli altri ciottoli di arenarie o di calcari, di quarziti ecc., che pure vi si riscontrano. 7° Se l'argilla fogliettata, a lebias e larve di libellule, è sincrona a quelle, che al pari del tripoli sottostanno ai depositi di solfo nativo, di gesso, di sale, del miocene superiore ; se non corrisponde alle argille, similmente verdiccie, glau- conifere, con resti di pesci e di echinodermi, che stanno sopra i gessi, in val di Savena, e presso la grotta del Farneto in val di Zena, e sull’ Idice, ne viene in- discutibile la conseguenza che essa provenne dal basso per injezione forzata e relativamente rapida o violenta, acquistando caratteri strutturali somigliantissimi a quelli delie argille scagliose d’ injezione e di trabocco; essa peraltro resta di origine d’acqua dolce, ‘o d’ estuario; di deposizione miocenica superiore; di intromissione ascendente, post-terziaria. Le vere argille scagliose invece, sono di origine marina, e per l epoca della loro origine, nonchè per la relativa loro posizione, se in posto, debbono riferirsi agli ultimi periodi dell’epoca secondaria. 8° Le argille marnose a ittioliti, sottostanti alle masse gessose mioceniche superiori della zona emiliana, avrebbero riprodotto, in alcuni tratti di tale zona, segnatamente presso Bologna, densi in minima misura, ma in modo sommamente istruttivo, il meccanismo delle injezioni, degli affioramenti e dei trabocchi attra- verso spacchi e faglie di masse comprimenti, quale può riscontrarsi avvenuto clas- sicamente attraverso le vaste masse stratificate terziarie della zona subappennina emiliana e d’ altre regioni, per opera delle argille scagliose del cretaceo superiore. Le intromissioni ascendenti nelle lunghe fratture di quelle masse, in allora sommerse, ed i trabocchi perciò sottomarini di esse argille scagliose, si fanno evidenti a chi percorrendo le faglie longitudinali o trasversali nel versante nord dell'Appennino vi osservi le loro diche, coordinate colla successione graduata di allineamenti uniclinali, paralleli o quasi all’ asse orografico dell’Appenvino emiliano, e colle faglie rispettive; e vi distingua le loro espansioni, raccolte e circoscritte nelle vallicelle secondarie e nelle insenature laterali delle pendici e sotto dirupi frananti ed erosi. Quivi l'argilla scagliosa ha perduto affatto il carattere strutturale della scagliosità; imperocchè si è ridotta per lo spappolamento nell'acqua, pel consecutivo disseccamento in zolle aggrumate come fango per la vegetazione sortavi, in terra incoerente, grigiastra, in detrito polverulento ; ma è tuttavia ben ricono- scibile per la copiosa disseminazione di frammenti di calcare alberese, di aragonite, — 558 — di arnioni di pirite, di lamelle di gesso, di incrostazioni manganitiche, e per la completa assenza di fossili non rimaneggiati. Ora, le citate faglie e le citate uniclinalità rispettive possono dirsi principalmente dovute alle energie espanse sollevanti delle argille scagliose, estrinsecatesi laddove le avvenute discontinuità delle masse già comprimenti facevan possibile l’ idratarsi, il gonfiarsi e il riscaldarsi delle argille medesime, in ragione dell’ attitudine dinamica che le caratterizza. Per le argille ittiolitiche, intromesse nelle fessure dei banchi gessosi, il concetto della loro preesistenza alla sedimentazione selenitica verrebbe, da ciò che precede, completamente affermato. 9.° Resta pienamente dimostrata la possibilità che con grande potenza d’azione, sebbene con lentezza estrema di processo, si rinnuovi, si muti, sì amplifichi nelle masse rocciose cristalline, per solo dinamismo molecolare inerente, localizzato, ed eccitato da oscillazioni termiche, da umettamenti idrici, da lievi ma perenni attività dissolventi e ricostituenti, la struttura cristallina originaria e caratteristica; col- l'apparenza, o senza, di muovi consecutivi fenomeni di eruzioni idroplutoniche o filoniane. APPENDICE I cristalli di prima e di seconda formazione nelle roccie oristalline, eruttive, e metamorfiche, in ordine alla rispettiva loro cronologia. Premetto, che fino dal Marzo 1884, presentando a questa Accademia una proposta di classificazione litologica (1) basata non già sulla esagerata predomi- nanza dell’ indagine col microscopio; invece, sul criterio naturalissimo del modo di origine loro, della loro qualità mineralogica dominante e dei loro graduati passaggi insistei sulle considerazioni seguenti: (pag. 473 del volume 15 degli estratti): “ I proff. Fouquè e M. Levy, hanno applicato largamente per la distinzione delle rocce cristalline e per il loro studio cronologico comparativo, il principio dî due fasi di consolidazione: la prima fase presiederebbe al prodursi di grandi cristalli, i quali, prima del definitivo solidificarsi di tutta la massa, subirebbero azioni mec- caniche e chimiche, tanto da presentarsi poi frantumati e corrosi. La seconda fase presiederebbe invece alla formazione di cristalli più piccoli dei precedenti, allun- gati come mecroliti, microgranuliti, micro-pegmatiti, cristalliti ecc. mentre ha luogo il rappigliamento (prise) in massa, del magma litoide ,. (1) Bomgicci. — Considerazioni sopra la classificazione adottata per una collezione di litologia generale con quadri sinottici e catalogo sistematico. R, Accad. delle Sc. di Bologna 23 Marzo 1884 — 559 — Di più, stabiliscono anche questo principio che: “... i cristalli di seconda conso- lidazione si distinguono da ‘quelli della prima, per via del fatto.... qu’ il moulent CEUTA Ora, mentre io son ben lontano dal negare che in un grandissimo numero di casi si abbiano le due fasi di consolidazione, nelle rocce cristalline, e che, in correlazione con esse si abbiano 1 cristalli di seconda formazione avviluppanti o incrostanti quelli di prima o precedente origine, tuttavia credo e sostengo, che possano verificarsi altresì casi numerosi e notevolissimi, di cristalli che ne rac- chiudono o ne incrostano altri posteriormente formatisi; e casi pur interessanti e non rari, di masse cristalline nelle quali stanno disseminati cristalli, ed aggregati solidi di minerali, alla lor volta di origine posteriore - non come sostanza, bensì come forma — a quella delle rispettive masse ineludenti. Per trovar naturali questi casi; per utilizzare il loro significato nella deseri- zione e classificazione delle rocce cristalline; per mantenersi in accordo con tutto ciò che risulta dai fenomeni speciali e concorrenti all’ origine ed alla costituzione fisica delle rocce medesime, basta ammettere ed applicare con lucida larghezza, senza idee preconcette, senza giurare in verdba-magistri il principio della — perdurante mobilità degli elementi cristallogenici delle rocce (molecole e particelle fisiche primor- diali); quindi, la prolungatissima tendenza nelle loro masse ai lenti mutamenti di struttura fisica e di composizione mineralogica; la permanente potenzialità nei principali e caratteristici assettamenti regolari, e nei più voluminosi cristalli poligenici a produrre separazioni o scissioni fra singoli componenti, conseguendone la trasformazione degli imziali me non definitivi aggregati, al cui poco stabile equilibrio sogliono presiedere o l’ isomorfismo geometrico o la iso-orientazione strutturale. Peraltro, 1’ adozione e l’ applicazione generalizzata di tale principio, richiede logicamente che si ammetta, per il processo più comune e dominante delle rocce cristalline, non già la fusione o liquefazione ignea con rapide solidificazioni per raffreddamento; la quale è dimostrata improbabile e frequentemente impossibile da particolarità significantissime, per tutte le rocce non vetrificate, o prive di strutture evidentemente e copiosamente /uidali; bensì, la ?dro-termalità, attiva durante lun- ghi periodi, con lentezza e potenza di azioni chimico-molecolari, con incessante eccitamento agli assettamenti cristallogenici. Ed invero, la idrotermalità è la condi- zione meglio accertata e sperimentalmente riprodotta, di quei dinamismi alla lor volta sommamente propizi sia al lentissimo eppure attivo incremento dei cristalli delle singole specie, originatesi simultaneamente, sia al sintetico e simmetrico aggregarsi di particelle fisiche cristalline e geometricamente isomorfe, in poliedri poligenici; non che, all’ inverso fenomeno delle scissioni e delle localizzazioni multiformi di sostanze diverse, già commiste, o simmetricamente orientate fra loro, nelle loro reciproche e più o meno intime diffusioni. Conviene tener sempre presente che le litoidi solidità della crosta terrestre non — 560 — si sono costituite per raffredjdamento e rappigliamento di una materie fusa, e uni- forme, al pari delle croste che si producono sulle masse liquefatte di bismuto o di solfo. L’ammettere questo, equivarrebbe oggimai a chiudere gli occhi alla pura luce della scienza, a pigliar per vero l’ assurdo, ad oscurare le deduzioni più positive dello studio della struttura fisica della superficie del globo e dei fenomeni di cui essa è tuttodì campo attivissimo. È perciò che in altra Memoria che avrò fra momenti l onore di presentare all’ Accademia (1), ritornerò sopra la mia non ancor vecchia tesi che tutte le masse rocciose, più o men cristalline, dell’ originario involucro pietroso dello sferoide metallico sono il diretto e natural risultato delle ossidazioni e delle salificazioni inevitabilmente prodottesi sulle superficie delle miscele metalliche, in reazione chi- mica colle avvolgenti e prementi atmosfere di ossigeno e degli altri metalloidi gassosi mineralizzatori. (1) BomBicci L. — Sui rilievi crateriformi riproducenti l'aspetto dei terreni e dei coni vulcanici, alla superficie di un disco d’argento, pesante 2000 chilogrammi. — Bologna — Feb- braio 1890. — 561 — ILLUSTRAZIONE DELLE TAVOLE TAVOLA I. N.° 1. (cent. 21, 8,4). Grosso geminato, incompleto, con incrociamento di due individui, uno dei quali è intiero, predominante. Ad una estremità si vede un aggre- gato di lamelle cristalline, eon detrito calcareo, e sabbia grossolana giallastra. Un bel ciottolo ovoidale di selce biondo-rossiccia, di centim. 3 !4 circa di asse maggiore, sta impiantato nella parte superiore dell’ esemplare, attraversando il piano di geminazione. Era tutto immerso; ma venne parzialmente scoperto per metterlo bene in vista. N.° 2. (cent. 16,5,2).. Cristallo imperfetto, con tracce di geminazione, in gran parte inquinato d’ argilla grigia azzurrognola e gialliccia. Vi si scorgono sette ciottolini esterni, impiantati nella selenite più o meno profondamente. Due, più grandicelli, di calcare giallo-bruno e bianco, con dendmiti neriecie, sono fra i più istruttivi fin ora osservati. N.° 8, (cent. 6, 20,2) Grosso cristallo, assai limpido in alcune sue parti che penetrano, per geminazione, in altre meno omogenee e lievemente giallicee. Un bel ciottolo, ellissoidale che è il più grosso fra quelli trovati nei cristalli di gesso, sta ) 1 8 ) stretto, come in una morsa, verso l’ estremità superiore dell’ esemplare; è grigiastro, calcareo-marnoso , rugoso, e con piccole impronte. Un altro bel ciottolino siliceo, grigio verdognolo, sta anche più vicino alla estremità; ed un grumo di sabbia gialla calcarifera, rotto, informe, scaturisce dal mezzo della superficie di sfaldatura dell’ esemplare medesimo. N.° 4. (cent. 14, 3,2). Cristallo incompleto, di abito prismatico, con piccole appendici di geminazione con aree lungitudinali di varia limpidezza; un ciottolino calcareo di color cenerino cupo sta impiantato nell’ asse, e accanto ad una massa di confusa cristallizzazione selenitica, impura, essa pure internata. TOMO X. 71 — 562 — N° 5. (cent. 11, 4,2) Cristallo imperfetto, impuro, a tipo geminato, cui aderisce, compenetrandolo, un assai grande frammento di calcare concrezionato a straterelli, cosparso di piccoli e lisci ciottolini, prevalentemente silicei. N.° 6. (cent. circa 12,5,2)., Cristallo a ferro di lancia, imperfetto, per metà circa copiosamente inquinato di materia argillosa bianco-cenerina, con sfuma- ture allineate ecc. — Sull’ orlo della metà più trasparente stanno impiantati un ciottolino ellittico appiattito, ed una scheggia di calcare conerezionato. N.° ". (cent. 16,2, 2) Cristallo allungato sottile, irregolare, limpidissimo in parte, inquinato, argillifero tutt’ all’ intorno. Un bel ciottolino bianco-cenerino, sta tutto - émmerso - nella parte limpida; altri minori, stanno vicini ad esso e più profondi. Si osservano, inoltre, frammenti calcarei, grani sabbiosi etc., impiantati sull’ esemplare. N.° 8. (cent. 13,1,2). Cristallo a ferro di lancia, a contorno piuttosto regolare, ma incompleto; limpidissimo nella parte sua mediana, verso uno degli orli convergenti, nebulato, argillifero nel resto deila massa. Un piccolo, lucido ciottolino verde cupo, sta impiantato nel mezzo della superficie maggiore di sfalda- tura. Presso l'angolo rientrante, si vedono grumi sabbiosi, tritumi di Selenite ecc., sparsi internamente. N.° 9. (cent. 12,5,2).. Cristallo assai puro, diviso per metà, mediante la sfaldatura 009', essendo avvicinate le due metà per modo da riprodurre il tipo a ferro di lancia. In basso, presso l’ angolo rientrante, un bel ciottolino biancastro, calcareo sta impiantato nella massa di una delle due parti; se ne vede l’ impronta nell’ altra parte, con residuo sabbioso giallastro. N.° 10. (cent. 11,5,2).. Parte di grosso cristallo, impuro con diffusioni azzurrognole, argillose, arenacee, grumetti calcarei, e qualche piccolo ciottolino incluso. Due bei ciottoli di color giallo-bruno ocraceo, forse silicei internamente, stanno impiantati per oltre la metà, sulla superficie maggiore di sfaldatura. Erano completamente internati, e chiusi nel cristallo, prima che fosse aperto come ora sl vede. N.° 11. (cent. 14, 41/2, 2) Cristalloimperfettissimo, a ferro di lancia, defor- mato da intrusioni di materie terrose giallicce, con frantumi calcarei e selenitici. Un ciottolo acuminato siliceo, sta impiantato colla sua base, sull’ orlo più lungo dell’ esemplare. Vi era immerso prima che il cristallo fosse quasi dimezzato colla sfaldatura. — 563 — TAVOLA II. N.° 12. (cent. 16, 4,2) Parte di un cristallo lenticolare, irregolarmente acuminato, a tipo di ferro di lancia, limpidissimo nella sua parte centrale, ma con diffusione grigia, argillosa tenuissima presso uno dei lati. Nel bel mezzo, vedesi un grumo gessoso-argillifero, con aggregato arenaceo; in alto, un ciottolino verdo- gnolo, completamente immerso nella massa limpida e uniforme. N.° 15. (cent. 15,5,2. Doppio cristallo, per imperfetta geminazione, con una parte limpida e lievemente colorata, l’ altra con quantità di argilla inquinante. In questa stanno infitti e inclusi frantumi di calcare concrezionato; nella prima, quasi sorgessero dal piano di geminazione, si scorgono alquanti piccoli ciottolini, completamente internati. N.° 14. (cent. 16, 5,2) Cristallo c. s., imperfetto, con due ciottoli incastrati, assai grossi. Altri sassolini minori, sparsi confusamente insieme a rottami di calcare, e di selenite, N.° 15. (cent. 18, 8,2. Cristallo allungato, in parte limpido; verso l’ apice presenta un bel ciottolino discoide, e una scheggia di calcare; in basso e interna- mente, grumi di marna, ciottolini immersi, nubecole argillose ecc. N.° 16. (cent. 19, 4,2). Cristallo a ferro di lancia, con diffusioni d’ ar- gilla, framezzo ad aree limpidissime, disegnanti piani di sfaldature e di geminazione, in modo assai singolare e istruttivo. N.° 1"....20. Lamine di sfaldatura (0cg'), le quali, piuttosto sottili, si presentano come attraversate da parte a parte da alcuni ciottoli che stavano completamente racchiusi nella massa limpida dei cristalli. N.° 25. CiorroLi di diverse qualità fra quelle precedentemente descritte, (V. pag. 544). Vepura della cava Baratta (fronte a N-E), con i crepacci verticali, il luogo dei cristalli ciottoliferi e dei ciottoli liberi (sotto la figurina di un cavatore, ritto sopra un masso sporgente), e col deposito di terriccio a guisa di banco orizzontale e privo di ciottoli, citato a pag. 547. de DI d Mem Ser Vul X I. Bombicci — Tavl. lit. G.Wenk e Figli— Bologna L.Bombicct — Tav.Il. Mem Ser ]Vvol X. RE Sia acri : Tieni lit G.Wenk e Figli Bologna. ’ A Baraldini, Irt. APPLICAZIONE DI NUOVI CRITERI PER LA CLASSIFICAZIONE DELLE PIANTE TERZA MEMORIA del Prof. FEDERICO DELPINO (Letta nella Sessione ordinaria del 23 Febbraio 1890). $ 22. Classificazione delle Angiosperme. Se per le piante afille, pei briofiti, pei pteridofiti e pelle gimnosperme, in grazia dei molteplici caratteri divergenti dei loro rappresentanti, è giustificata la fiducia che un giorno o l’altro venga proposta una classificazione veramente naturale e traducibile in uno schema filogenetico accettabile, questa fiducia ci abbandona, per molti motivi, a riguardo delle Angiosperme. In questo gruppo, d'altronde naturalissimo, abbiamo la enorme falange di un 150,000 circa forme specifiche e di oltre 10,000 forme generiche. A sì grande numero si accoppia una straordinaria monotipia di caratteri. Invano si desiderano profonde divergenze morfologiche. Struttura interna ed esterna, radici, foglie vege- tative e florali, infiorescenze e fruttificazioni, stami, loggie polliniche, carpidii, placentazione, ovulazione, impollinazione e fecondazione, sono tanto fondamental- mente uniformi in quasi tutti i rappresentanti di questa vasta divisione del regno vegetale, che manca la base per trovare e stabilire una sicura classificazione naturale, e per rintracciare le partizioni dell’ albero genealogico. Da Anr. Lor. pe Jussiev fino ai giorni nostri abbiamo una grande quantità di sistemi classificatorii proposti per le angiosperme da parte di molti botanici. Ma nessuno di essi regge, e nessuno può rispondere ai più semplici ed elementari quesiti del metodo filogenetico: quali sono le forme archetipe dell’ angiosperme ? Quali Je forme collaterali? Quali le forme postume? È chiaro che la morfologia pura e semplice non basta per la soluzione di cotali quesiti. In compito tanto difficile, anche colui che può adoperare riuniti i bg e tre criteri morfologico, biologico e filogenetico, se riuscirà per avventura a deci- frare qualche non vista relazione di parentela, a dar ragione di non poche devia- zioni di forme, a segnalare forme ascendenti, discendenti, collaterali in questa o quella famiglia, o tribù, o genere, non potrà riuscire giammai a proporre un quadro fiducievole delle divisioni principali nell’ albero genealogico delle angios- perme, delle quali non ci rimangono se non pochi disordinati frammenti, e per peggior surte estremamente monotipici. Abbiamo detto giammai e persistiamo in quest’ affermazione a meno che non si riveli un qualche nuovo metodo fin qui non adoperato, o un nuovo ordine di caratteri fin qui non discoperto. In quest’ emergenza a noi non rimane che a continuare nel sentiero, in cui è già avviata la dottrina della tassonomia: vale a dire che se il senso volgare è il vero inventore delle specie, se Bauino, TournEFoRT e Linneo riescirono a costituire buoni generi, se A. L. pe Jussieu ed altri valsero a stabilire ottime divisioni delle angiosperme in tribù e famiglie, noi dobbiamo continuare lo svolgimento logico di questa dottrina scientifica, sudando nel rintracciare i naturali aggruppamenti delle famiglie, medesime; c6mpito che già con esito vario è stato tentato da LinpLey, BronenIaRT, EnpricHER, Apr. pe Jussieu ecc. Ma prima di esporre i nostri pensamenti in fatto di cotali aggruppamenti di famiglie, giova tentare, se non la soluzione, almeno una qualche risposta a parecchi quesiti fluenti dalla dottrina filogenetica. $ 253. Quali siano gli ascendenti delle angiosperme. Le forme vegetali da cui derivarono le angiosperme senza dubbio appartene- vano al gruppo delle gimnosperme. Ma con questa risposta non è che in minima parte sciolto il quesito qui proposto. Si tratta piuttosto di sapere quali fra le gimnosperme attuali abbiano caratteri meno divergenti da quelli delle angiosperme, in guisa che possano essere considerate come forme archetipe, o almeno vicine alle forme archetipe. Alcuni hanno considerato le Gnetacee come le forme affiniori alle angiosperme. Ma già abbiamo dimostrato la erroneità di siffatta opinione. Da un gineceo fra tutti il più depauperato in fatto di sviluppo carpidiale, placentario e ovulare, è impossibile che siano derivate le angiosperme, i cui fiori offrono normalmente un grande sviluppo di carpidii, placente ed ovuli, così sotto il riguardo del numero che delle dimensioni. Per lo stesso motivo sono da escludersi le tassinee. Le Podocarpee e le Araucariee, malgrado che abbiano un qualche sviluppo placentario, sono da escludersi perchè uniovulate ed antisperme. Lo sviluppo placentario è considerevole presso le Cupressinee, le Abietinee e le Salisburiee; ma anche queste sono da escludersi perchè antispermee; cioè perchè — 567 — la loro placentazione è anticarpidiale. È vero che questa è omologa alla placenta- zione centrale di alcune angiosperme; ma il fenomeno è rarissimo, e la gran maggioranza delle angiosperme offrono placentazione tipicamente laterale o mar- ginale. Dopo tante esclusioni non restano più che le cicadee; e le cicadee infatti concordano colle angiosperme nella placentazione laterale. Dei due grandi generi Cycas e Zamia soltanto il primo è pluriovulato. Adunque, poichè le angiosperme tipicamente hanno carpidii pluriovulati, la forma da ritenersi ad esse più affine è il genere Cycas. Così questo genere ha nel regno vegetale una importanza grandissima. Dal lato degli ascendenti esso ha le più manifeste attinenze colle felci, e, dal lato dei discendenti, esso trovasi a capo di due grandi serie, cioè delle gimnosperme e delle angiosperme. i Ma da una Cycas ad una pretta angiosperma, per esempio ad una Magnolia quale ampia e smisurata lacuna, la quale pure dovette essere riempiuta da un ingente numero di forme specifiche diverse, oggidì scomparse irreparabilmente dalla faccia della terra e dal novero dei viventi! Non tanto riescono incomprensibili ed inesplicate le modificazioni istologiche e morfologiche che pur appariscono ben grandi mettendo a confronto una Cycas con un’ angiosperma qualsiasi, quanto è duro e difficile spiegare per che modo e per quali gradi il processo d’impollinazione micropilare sia stato surrogato dal pro- cesso tutt’ affatto differente dell’ impollinazione stimmatica, caratteristica delle angios- perme. Una graduale commutazione del primo nel secondo è quasi impensabile, e poco meno lo è un saltuario e repentino cambiamento. Anche corre una grande differenza tra i fillomi maschili di Cycas e quelli delle angiosperme. Ma non è difficile intendere come con progrediente decremento nel volume di tali organi, e con diminuzione del numero dei sacchi pollinici fino alla ‘ stabilissima e immutabile cifra di quattro, siasi potuto attuare la forma tipica dello stame angiospermico. Così pure è facile intuire le ragioni di funzione protettiva che determinarono lo accartocciamento del carpidio, il quale in origine era piano. L’ermafroditismo florale, poco conciliabile colla indole profondamente dioica delle Cicadee, carattere generale invece delle angiosperme, non può sapersi se sia stato acquisito prima o dopo l’accartocciamento del carpidio, ossia prima o dopo la comparsa delle angiosperme. Pare più verisimile la seconda ipotesi; epperò la esposizione delle cause che possono aver tramutato la diecia primigenia nell’ erma- froditismo successivo fornirebbe l’ argomento d’ un lavoro molto interessante. — 568 — $ 24. Quali delle odierne forme angiospermiche siano da ritenersi prototipiche. Tale quesito è d’ importanza capitale per ia tassonomia nuova. Laonde giova tentarne aa ogni costo la soluzione: perocchè le forme che rispondessero ad un tipo più antico dovrebbero essere messe a capo dell’ intiera classe. Ma di quali criterii ci possiamo servire in siffatta investigazione? Il tipo delle angiosperme è tanto monotono così nella struttura istologica che nella morfologica, che realmente si desidera invano un criterio sufficiente e fiducievole. L’ unica norma che ci si presenta in questa emergenza deriva da ciò che abbiamo esposto nell’ articolo precedente. Dovrà ritenersi per forma primitiva, o almeno la più prossima alle forme primitive, quella famiglia o quel genere di piante angios- perme, ove si riveli, nella architettonica florale, la massima somiglianza coi coni femminei e maschili delle Cicadee. Ecco 1’ unica guida che possiamo avere in quest’ ardua ricerca. Procediamo per esclusione. La ricercata forma primitiva non si può certamente rinvenire fra le monoco- tiledoni. Il tipo florale centrale o predominante è qui il pentaciclico trimero. Ora questo tipo importa troppe differenze coi fiori delle Cicadee; cioè, 1° numero definito degli stami; 2° numero definito dei carpidi; 3° numero definito dei cicli florali; 4° disposizione ciclica degli organi florali. Per analoga ragione sono da escludersi, 1° tutte le aclamidee; 2° tutte le monoclamidee; 3° tutte le famiglie di piante, così corollifiore che caliciflore e talamifiore, i cui fiori sono tetraciclici o pentaciclici. Dopo tante esclusioni quali angiosperme restano a prendersi in considerazione? Quelle soltanto i cui fiori sono policiclici. Malvacee, Mirtacee, Ipericinee, Cistinee, Ternstroemiacee e famiglie affini. In molte, gli stami sembrano indefiniti. Ma veramente tali non sarebbero perchè nascono in falangi definite. Ora qualunque siasi il significato morfologico di siffatte falangi, resta sempre un enorme divario tra l’androceo di queste piante e quello delle Cicadee. Abbiamo anche un fondamentale divario nel numero definito e nella dispo- sizione monocielica dei carpidii. Adunque anche queste famiglie sono da escludersi. Rosacee. Alcuni generi di questa famiglia hanno un gineceo certamente polici- clico. Anche l’ androceo parrebbe indefinito, ma in fondo è costituito anch’ esso da un numero definito di falangi. Perciò anche le Rosacee sono da escludersi. Ciò premesso non resta più da considerare che un gruppo di piante, cioè quello — 569 — delle policarpiche e delle famiglie affini. Veggasi quali offrano maggiori omologie colle Cicadee. Anche in questo caso procederemo per via d’ esclusione. Si presenta a bella prima la convenienza di escludere tutte le famiglie mono- ciclogine, cioè Cabombee, Ninfeacee, Papaveracee, Fumariacee, Crucifere, Cappa- ridee, Resedacee, Miristicee, Laurinee, Berberidee. Si hanno residue le seguenti famiglie, cioè Menispermacee, Lardizabalee, Cali- cantee, Monimiacee, Anonacee , Schizandree, Magnoliacee, Ranuncolacee. Giova paragonare l’ architettura florale di queste piante coll’ archetipico modello offertoci dalle Cicadee. Delle Menispermacee si presenta policarpico un unico genere madagascarico, Rameya, incompletamente noto e descritto da E. Barron. Il gineceo forma invero un corpo comparabile al cono delle Cicadee (tanto più che ha caratteri di anemo- filia); ma l’androceo deve differire perchè oligomero, come in tutte le Menisper- macee. Per le stesse ragioni debbe essere escluso il genere Akebia delle Lardizabalee. Molti generi di Monimiacee e le Calicantee offrono per verità grandi omologie colle Cicadee, nei caratteri così del gineceo che dell’ androceo, ma ne differiscono per la enorme deformazione del talamo, il quale è più o meno concavo o lage- niforme. Il talamo è invece tipicamente conico nelle Ranuncolacee, Anonacee, Magno- liacee, Schizandree. Ma le Ranuncolacee differiscono dalle Cicadee principalmente per tre caratteri, 1° pel leggiero sviluppo del connettivo; 2° per la statura tipica- mente erbacea; 3° per l’ ermafroditismo florale. Nelle Magnoliacee persiste la differenza dell’ ermafroditismo florale e dell’ angustia del connettivo delle antere. Per altro sono tutte piante legnose; il talamo è allun- gatissimo tanto nella regione androceale che gineceale, a guisa dell’ asse dei coni. Vi sì aggiunge un insigne concordanza istologica, in quanto che, presso i generi Diymis e Trochodendron, il legno secondario non possiede nè vasi nè parenchima legnoso, ma consta esclusivamente di tracheidi areolate, a somiglianza del legno delle Conifere. Per la sua latissima estensione geografica ha poi singolare impor- tanza il Drymis Winteri, di cui è rappresentato il fiore nella figura 1 della tav. annessa (in sezione longitudinale). Nelle Anonacee si conservano i caratteri concordanti del talamo conico tanto nella regione degli stami come in quella dei carpidii. Di più st aggiunge il carattere di connettivi crassi oltre misura, per cui gli stami somigliano grandemente. le squame sacculifere maschili delle Cicadee. Nelle figure 2. 3, della tavola annessa sono rappresentati gli stami di due specie di Popowia. Anche qui come nelle Cicadee i sacchi pollinici sono localizzati nella pagina inferiore d’ essi stami; concordanza a mio parere di grande rilievo. Nelle Schizandree infine la rassomiglianza colle Cicadee è ancora aumentata in quanto che i fiori sono unisessuali. Segnatamente nella Kadsura japonica i fiori TOMO X. 12 — 570 — maschili (fig. 4 della tav. annessa) somigliano grandemente un cono maschile di Zamia, salvo le minori dimensioni; e i fiori femminili (fig. 5) ripetono la forma dei coni femminei gimnospermici. Di più gli stami sono squamiformi (fig. 6) e non è possibile distinguere il filamento dal connettivo. Cosifatta rete di caratteristiche concordanze appoggia fortemente la congettura che le forme angiospermiche più antiche attualmente esistenti sono reperibili nelle Schizandree, Anonacee e Magnoliacee, e che forse fra tutti i generi viventi il genere Kadsura è quello che può vantare una più alta antichità. $ 25. Invenzione d’un nuovo criterio tassonomico. Angiosperme euante e pseudante. L'unica primaria divisione delle angiosperme fin qui accettata da tutti gli autori è quella che le distingue in dicotiledoni e monocotiledoni. Ora io non intendo menomamente contrastare che le monocotiledoni non siano un gruppo naturalissimo e ben singolarizzato. Neppure intendo contrastare che siffatto gruppo non sia fondato sopra due insigni divergenze, l’ una d'ordine em- briologico (embrione monocotiledone), l’altra d’ ordine istologico (fasci vascolari chiusi e disordinati, con tutte le conseguenze istologiche che ne derivano). Quello che manca a sancire completamente una cosìfatta divisione primaria si è che manca ogni differenzazione d’ ordine morfologico, biologico e fisiologico. Gemmazione, fogliazione, radicazione, apparecchi florali, organi periantici, nettari- feri, androceali (filamenti, antere, polline), gineceali (ovario, stilo, stimma, ovuli, placentazione), disposizioni biologiche e fisiologiche per la staurogamia, per la disseminazione, sono fenomenalità identiche e identicamente disposte tanto presso le dicotiledoni che presso le monocotiledoni. Altri dirà che l’architettonica florale pentaciclica trimera è la caratteristica morfologica delle monocotiledoni. Ma tale architettonica si ritrova frequentemente anche presso le Lardizabalee e le Menispermacee. Tale distinzione poichè non fondata sopra differenziazioni morfologiche, mal- “grado la sua naturalezza, non ha per me quel grande valore che le si dà general- mente. Si deve semplicemente ammettere che le monocotiledoni formino una ben singolarizzata stirpe scaturita da un prototipo dicotiledone. E infatti perchè la distinzione delle monocotiledoni dovrebbe in tassonomia possedere un valore più grande di quello che abbiano le distinzioni di altri gruppi egualmente bene circoscritti, quali sarebbero le corolliflore, le ciclosperme ece. ? La divisione primaria delle angiosperme in dicotiledoni e monocotiledoni sa- rebbe ottima ed intangibile, se fosse conforme al vero la opinione di quei botanici — 571 — che ritengono le monocotiledoni avere sul'a terra preceduto le dicotiledoni ; oppure la opinione di coloro che ritengono essere le monocotiledoni e le dicotiledoni due serie divergenti, isolate fin dagl’inizii e distinte, scaturite indipendentemente da diversi antenati gimnospermici. Ora per me così luna quanto l’altra opinione sono grandemente errate; e tanto in seguito mi lusingo di esporre da giustificare il concetto, secondo cui le monocotiledoni non sono verisimilmente che una stirpe scaturita da una forma dicotiledone appartenente alle Ninfeacee, o Lardizabalee o altre famiglie affini. Insoddisfatto di questo criterio divisorio d’ordine puramente embriologico ed istologico, ricercai con diligenza se per avventura non si desse qualche altro cri- terio di maggior portata, giusta cui meglio dividere le angiosperme in due o pochi gruppi principalissimi. Credo di essere riuscito in questa ricerca, e ora nelle seguenti pagine propongo la divisione delle angiosperme in ewante e pseudante, mettendo a capo delle euante il gruppo delle piante policicliche, e a capo delle pseudante una divisione omo- nima della famiglia delle Euforbiacee. Appartengono alle euante tutte quelle specie i cui .fiori sono rigorosamente semplici e monotalamici, i quali cioè hanno un asse solo, in cui si svolgono con ordine acropeto e con certa legge fillotassica tutti 1 fillomi fiorali metamorfici (brattee, perianzio, stami, carpidii). I fiori delle pseudante sono invece false apparenze di fiori. In realtà sono ap- parecchi politalamici, ossia infiorescenze, talvolta arcicomposte; abbreviate per altro, elaborate e semplicizzate a segno tale da rivestire meravigliosamente l’illusoria apparenza di fiori semplici e monotalamici. L'illusione talvolta sarebbe tanto grande da non poter essere dissipata se non che da profonde ed argute disquisizioni filogenetiche. Naturalmente euante sono tutte le angiosperme prototipiche, e molte loro stirpi; fra cui tutte le monocotiledoni. Già tutti gli ascendenti gimnospermici hanno fiori improntati alla più genuina e primitiva euanzia, come è dimostrato dalla regola- rissima fillotassi dei loro conì maschili e femminei. Pseudante sarebbero invece una grande quantità di famiglie dicotiledoni; le quali sono per quanto penso, parecchie serie di stirpi discese dalle Euforbiacee pseudante. — 572 — $ 26. Teorica della pseudanzia. Preparazione ed inizii nelle Euforbiacee. Le Euforbiacee, famiglia di piante antichissime, come si può arguire dallo sviluppo straordinariamente vario e multiforme de’ caratteri florali ne’ suoi rappre- .sentanti, benchè molti di questi appartengano alla categoria delle euante, per altro in alcuni generi separati in due o tre tribù, manifestamente prepararono ed ini- ziarono la pseudanzia. Ciazio d’Euphorbia e dei generi affini. Laware, Ant. Lor. pe Jussiev, Ros. Brown, Apr. pe Jussie fra gli anteriori botanici, Roeper, WrpLer, Warmine ed altri fra i più moderni, pensarono, contro Linneo, il ciazio d’ Euphorbia essere un’ infiorescenza non un fiore, e ogni stame (artropodiato) rappresentare un fiore maschile nudo e monandro, e ogni ovario, pure con podogino artropodiato, rappresentare un fiore femmineo nudo. Payer e Barron, fra tanto accordo d’ opinioni, danno la nota discordante, e a seguito d’osservazioni organogeniche male interpretate, tentarono ripristinare l’idea di Linneo. Ma PrancHon (in seduta della Società bot. di Francia del 25 gennaio 1861), illustrò un nuovo genere australiano, da lui denominato Calycopeplus, affinissimo all’ Euphorbia, il cui ciazio, indubitabilmente omologo a quello di Euphorbia, mostra di essere non meno indubitabilmente una infiorescenza, sia perchè il fiore femmineo centrale è munito di un calice, sia perchè le 4 fa- langi staminali comprese dentro l'involucro generale (tetrafillo e tetradenio) for- mano altrettante ombrelle di fiori maschi nudi e monandri. Ros. Brown ha segnalato pure un genere australiano fin qui inedito, che ar- reca la prova essere il ciazio una infiorescenza arcicomposta, perocchè ciascuno dei fiori maschi (monandri) snll’ apice del pedicello, ossia nel punto che corrisponde all’ artropodiazione, è fornito d’un proprio calice. L'uno e l'altro genere decide la controversia definitivamente contro l inter- pretazione linneana del ciazio. Anche una specie nostrana d’ Euphorbia dà la dimostrazione della vera natura del ciazio. È l’ Euphorbia Peplis che cresce tanto copiosamente sdraiata sulle arene del littorale del Mediterraneo. Il suo ovario vedesi insediato nel centro di un calice irregolare e rudimentale ; formazione calicina che sarebbe inconcepibile se il ciazio fosse un fior semplice. Finalmente si aggiunge la considerazione delle infiorescenze di due generi affini, Synadenium e Anthostema, le quali hanno certissima omologia col ciazio d’ Euphorbia. Adunque il genere Euphorbia sarebbe veramente pseudanto, se si fosse genera- lizzata la illusione in cui caddero Linneo, Pavrr e BarzLon. Ma poichè la falsa — 573 — apparenza di fiore semplice che ha il suo ciazio oggidì non può più illudere alcuno, così questo genere va collocato fra le euante : è per altro evidente ch’ esso è un preparatore, un prodromo della pseudanzia. Basterebbe un’ ulteriore elabora- zione del suo ciazio, la soppressione di tutti i pedicelli artropodiati e delle nume- rose sue bratteole tricomorfiche, perchè la illusione in cui cadde Payer e in cui persevera ancora oggidì BaiLLon, diventasse generale e condivisa da tutti i botanici. In tal caso il genere Euphorbia sarebbe propriamente pseudanto. Poichè la teoria della pseudanzia si fonda principalmente sul ciazio del genere Euphorbia, conviene aver ben chiaro il concetto architettonico del ciazio medesimo. La sua architettura deve spiegare quella dei falsi fiori delle specie pseudante. Abbiamo in detto ciazio un involucro affatto caliciforme, gamofillo, costituito da 4 o 5 brattee lateralmente saldate, foggiato ad imbuto, terminato da 4 o 5 brevi lobi, nel cui seno si sviluppano quattro o cinque truogoli nettariferi. Nell’ interno di quest’ involucro abbiamo al centro un pedicello terminato al- l'apice da un ovario insediato sopra una strozzatura del pedicello stesso. Da que- sto centro verso la periferia irraggiano quattro o cinque falangi di stami che si sviluppano successivamente con evoluzione centrifuga in due righe. Fra luna e l’altra falange sono sviluppati parecchi tricomi fimbriati che hanno valore di bratteole (verisimilmente di parecchi ordini). La natura delle falangi staminali è interpretata da WypLer e da WARMING come quella d’ una cima scorpioide unipara. È d’ accordo con questa interpretazione fino ad un certo punto la disposizione distica degli stami in ogni singola falange. -In- fatti in molte cime scorpioidi i successivi fiori sono gli uni ordinati a destra, gli altri a sinistra. Ma io sospetto che la ordinazione distica di detti stami sia piuttosto dovuta ad una cima scorpioide bipara (1). : Una circostanza deve essere notata e tenuta a mente; ed è che le falangi staminali sono opposte ai lobi dell’ involucro, quindi alternanti colle glandole net- tarifere. Tutti gli autori vedo che in ciò sono d’ accordo, e anche le mie osserva- zioni confermarono. Il solo Pranczon assegna al suo Calycopeplus ephedroides ombrellette maschili alterne coi lobi dell’ involucro. Ma deve essere una svista, poichè Borssier, BentHAM e Hooxer, BaiLLon concordano nell’ assegnare alle cimule maschili di detto genere la controposizione ai lobi dell’ involucro. Questo rilievo è d'importanza fondamentale poichè dimostra che le singole fa- (1) BarLLon (Hist. des Plantes, V, pag. 216), descrivendo le omologhe falangi di Ca/ycopeplus, allude a « cymis plerumque bifidis ». Spesso poi, come in molte boraginee, si danno cime bipare ‘e cime unipare nello stesso individuo, secondo il maggiore o minore vigore vegetativo. Tanto nell’uno quanto nell’altro caso si avrebbe un’ordinazione di fiori distica, benchè”per causa diversa. — 574 — langi maschili del ciazio sono il prodotto ascellare di una delle 4 o 5 brattee dell’ involucro. Pseudanto maschile di Ricinus communis. È interessante registrare le interpreta- zioni proposte dai diversi autori dell’ androceo dei fiori di ricino. « Masculi flores.... Filamenta numerosissima, filiformia, inferne ramosa, coalita in varia corpora ,. Linneo, Genera plantarum, 1742. «“ Stamina numerosissima, filamentis varie coalitis et ramosis ,. A. Lor. Jussier, Genera plantarum, 1789. “ Stamina plurima, filamentis multifariam ramosissimis, antherarum loculis di- stinetis, ex apice filamenti pendulis ,. EnpLiczer, Genera plantarum, 1840. “ Stamina in receptaculo plano-convexo numerosissima, in fasciculos distinetos polyandros superne multoties dichotome ramosos connata; antherae biloculares, didymo-globosae, tota longitudine dorso adnatae. Stamina in floribus bene evolutis ultra 1000 enumeravi. Adelphiae staminum numerosae, secus peripheriam circiter decem, intus circa 5. Antherae introrsae (?). Loculi angustia dissepimenti subeon- fluentes (?) ,. Miitter Argov., nel Prodromus etc. di De CanpoLe, pars XV, sect. II. 1864. “ Stamina indefinita, filamentis ramosis, superne multoties divisis; antheris parvis didymo-globosis ; lozulis lateraliter vel extrorsum rimosis connectivo tenui tota longitudine adnatis ,. Barron, Hist. de Plantes, vol. V, p. 178, 1874. “ Stamina numerosa filamentis repetito-ramosissimis conferta, antherarum loculi distineti, subglobosi, divaricati, separ.itim filamento adfixi, longitudinaliter dehi- scentes ,. Hooker e BentHAM, Genera plantarum. Confrontando queste diciture si evince che i singoli autori interpretarono in due modi diversi i corpi androfori di ricino. Linneo, Jussieu, MiiLLer li considera- rono come adelfie di molti filamenti, liberatisi ad altezze diverse. Invece EnpLIcHER, Barron, Hooxer e BentHAM li ritennero come stami con filamento multipartito e ramificato. Un’ opinione simile a quest’ ultima è adottata da Sacns nelle varie edizioni del suo Lehrbuch der Botanik (dal 1868 in poi). Fondandosi egli sovra alcune ricerche organogeniche pubblicate da Payer, e da relative figure, ove sul talamo del fiore di ricino veggonsi emergere da prima quindici primordii disposti oscuramente in circa tre verticilli, dichiara che ogni primordio è uno stame nascente, che si svi- lupperebbe poi in un corpo multifariam ramosissimo, le cui ultime diramazioni pro- durrebbero ciascuna una normale antera con due loggie polliniche. E non esita Sacas ad ammettere che, come si danno foglie a lamina intiera e foglie partite in centinaia di lacinie, medesimamente si possono dare stami semplici (quadrisaccu- lati) e stami centifidi con ogni lacinia quadrisacculata. Ora chi riflette che in tutte quante le angiosperme lo stame è fra tutti gli organi il più definito e costante e stabile in tutte le sue caratteristiche, fra cui principalissima è l’unità della lamina, e lo sviluppo di quattro sacchi pollinici — 575 — all’ estremità di questa lamina, che giudizio potrà dare della tesi di Sacus? E più ancora che cosa debbe pensarne il filogenista che col pensiero ha seguito il pro- cesso evolutivo degli stami delle cicadee alle araucariae, alle tassinee, alle cupres- sinee, alle abietinee, alle angiosperme primitive, alie monocotiledoni, alle eufor- biacee stesse e a tutte le dipendenti pseudante, ove la lamina dello stame è co- stantemente unica (salva talvolta la bipartizione del connettivo) e ove il prodotto quadrisacculare di questa lamina è costantemente identico ? Or ecco che contro questa legge generalissima attestata dalla morfologia comparata e dal criterio filo- genetico, vedesi spuntare ad un tratto la eccezione del ricino co’ suoi stami centi- a X 4)! Credat judaeus fidi, e, invece di 4, colla media di 264 sacchi pollinici ( Apella Non ego. E sovra che fonda il Sacms questa strana tesi? Sulle figure organogeniche pub- blicate in proposito da Payer? ma la semplice ispezione delle stesse palesa chia- ramente che i cosidetti 15 primordiî non sono altro che il primo emergere di al- trettanti assi masculiflori. Ripudiata assolutamente l’insostenibile ipotesi degli stami multifidi, come con- traria ad ogni senso retto di morfologia comparata e di filogenia, restano a raf- frontare e discutere le due congetture che possono essere fatte. Una è quella già sovra riferita giusta cui ciascuna ramificazione androceale sorta dal talamo di ri- cino rappresenterebbe un'adelfia variamente sviluppata e ramosa. L'altra è quella che propongo. Ciascuna ramificazione androceale rappresente- rebbe quel che effettivamente è, vale a dire una ramificazione genuina e propria. E una diramazione inflorescenziale. L'ipotesi dell’ adelfia è definitivamente battuta dalle seguenti considerazioni. Ogni volta che si formano vere adelfie, di necessità sopra il talamo debbono emergere dapprima le antere; poi sott’ esse si organizzano inferiormente i relativi filamenti concrescendo insieme. In guisa che in ogni vera adelfia, adulta e svi- luppata, a ciascuna antere risponder deve la decorrenza del proprio filamento, seguibile dal punto ove il filamento si libera dai compagni fino al talamo su cui emerse l’adelfia stessa. Ora, se si riguarda la molteplice diramazione delle pretese adelfite, e la sottigliezza del peduncolo primario, nonchè dei peduncoli di 2°, 3° ordine ecc., già si rileva la estrema inverisimiglianza dell’ ipotesi. Se ogni adelfia consta di 50 a 70 stami riuniti, il diametro dello stipite comune dovrebbe essere 50-70 volte più grosso del diametro dei singoli filamenti anteriferi; è invece molto minore. La semplice ispezione macroscopica di ognuna delle singole ramificazioni an- «droceali di ricino, allo stato adulto, fornisce la evidenza che, quando il peduncolo primario pullulava d tre o più peduncoli secondarii, quando questi a loro volta pullulavano due o più pedicelli terziarii, e finalmente quando i terziarii pullula- vano quelli d’ ordine quarto, ancora non potevano esistere le antere, e che queste comparir dovettero soltanto in cima delle numerose dicotomie d’ ultimo grado. Co- — 576 — sifatto sviluppo affatto inconciliabile col concetto dell’adelfia, è comprovato poi dal decorso dei fasci fibroso-vascolari, i quali si biforcano ad ogni partizione di questi corpi androceali (vedi figure 8, 9 della tav. annessa). Battuta definitivamente l'ipotesi dell’ adelfia, unica teoria razionale e possibile, resta quella che ciascuna ramificazione emergente dal talamo degli antodii ma- schili di ricino rappresenti una (parziale) infiorescenza maschile arcicomposta, cioè politomica in basso, più volte dicotomica in alto (fig. 7 della tav. annessa). Rimangono a spiegare le anomalie o meglio particolarità di queste parziali infiorescenze. Le loro ultime partizioni sono di quinto, sesto o settimo grado. Si tratta d' infiorescenze arcicomposte. Per avere un così elevato grado di composi- zione, offrono una gracilità senza esempio, e sotto quest’ aspetto sono un fenomeno unico nella circoscrizione delle angiosperme. Ciò è spiegato dall’ angustia dello spazio in cui si svilupparono. Ma ciò spiega a sua volta e dà ragione della estrema depauperazione dei loro tessuti, e delle loro deboli corde vascolari. Sopra tutto vien data ragione dell'aborto totale di tutti i fillomi che dovrebbero esistere ad ogni partizione. Le infiorescenze di ricino sono nude; ma è un caso che non è troppo raro; poichè è normale nelle crucifere, nelle valerianacee, in molte capri- fogliacee, rubiacee, borraginee, solanacee ecc. Stabilito così che i corpi androfori del ricino non sono nè stami multifidi, nè adelfie ramose, bensì vere e genuine diramazioni infiorescenziali, restava a indagare e precisare quali siano veramente e come siano costituite quelle parti a cui spetta il nome propriamente di fiore. La verifica è facilissima. Ogni ultimo articolo, ogni ultima ramificazione del corpo androforo di ricino ha valore di un fiore pedicellato. Questi ultimi articoli sono tra loro perfettamente conformi come a fiori si conviene. I fiori sono monandri. In ciò somigliano quelli di ExphRordia; ma anzi sono meglio caratterizzati, in quanto che non sono nudi bensì unibratteati. Ecco come scorgesi costituito ciascuno dei suddetti ultimi articoli (fig. 10). Si estende dalla base a circa metà della lunghezza uno stipite (a), percorso da un fascio fibroso-vascolare. Dalla sommità di questo stipite parte un breve connettivo bifido (0), ciascuna partizione del quale porta una loggia d’antera (c), bisacculata, dorsifissa, di figura globoso-didima, a linea di deiscenza emiciclica. Dietro questo connettivo bifido si diparte un tenue corpo, costituito da poche cellule diafane, alquanto allungate. Ha la figura di una lacinia lineare, un poco flessuosa (d). Il connettivo bifido che solleva due loggie di antera è manifesta terminazione di uno stame completo ed ha il suo riscontro nelle betulacee, corilacee, malvacee ed in alcune tigliacee. Il tessuto sottogiacente ad esso connettivo è il rappresentante d’un filamento brevissimo ed abortivo. Il tratto assile che va dalla base sino alla inserzione di questo connettivo ha valore di pedicello florale. Esso è provvisto in tutta la sua lunghezza di un fascio fibroso-vascolare. Questo fascio si arresta per solito al punto di detta inserzione. Adunque qui abbiamo un fiore pedicellato monandro. — 5771 — Ma qual è il significato morfologico dell’appendice d ? A prima vista si può credere che sia un connettivo prolungato all'apice, a simiglianza di quello delle viole e di tante altre piante. Ma presto si scorge che questa interpretazione non ha senso, perchè dal seno d'un connettivo bifido non può giammai partire una lacinia mediana connettiva. La spiegazione che subito dopo si presenta sì è che questa lacinia rappresenti una terminazione filiforme del talamo florale, insterilita nella sua potenza generativa e mortificata all’ apice. Questa interpretazione ha il vantaggio di essere molto semplice, e parrebbe alquanto confermata dal fatto che talvolta entra in detta lacinia il fascio fibroso del pedicello fiorale, e vi si estende per un breve tratto. Ma io preferisco un’ altra spiegazione che mi sembra più consentanea alle leggi morfologiche. Essa lacinia per me rappresenta la estremità libera di una. brattea prodotta dall’ asse dell’ ordine precedente e connata col pedicello fiorale per tutta la lunghezza di questo. Si tratterebbe così d’ una brattea ascellante. Il talamo florale avrebbe poi il suo apice vegetativo (defunto, s'intende) nel seno da cui si dipartono i due bracci del connettivo e la lacinia (in e). Messa in chiaro così fatta interpretazione morfologica dei corpi androfori con- tenuti nei falsi fiori di ricino, reca meraviglia che la vera loro natura sia stata disconosciuta da tanti fitografi, trattatisti e organogenisti, a segno tale da obbligarli alla strana ipotesi di adelfie ramificate con regolarità dicotomica (locchè implica una mera impossibilità meccanica), e a quella stranissima poi di stami centifidi, proposta da Sacns, Van TiegHem e da altri. E ciò che non meno deve sorprendere sì è che nessuno ha posto mente a un organo fornito di tanta importanza morfo- logica qual si è la indicata lacinia; a un organo per di più che è affatto macro- scopico. Passi per i fitografi ai quali non può imputarsi d’ aver trascurato un organo così minuzioso. Meno scusabili sono i trattatisti i quali dalla considerazione di quest’ organo sarebbero stati indotti a scoprire la vera ragione degli antodii maschili di ricino. E neanco vedo che siasi fatto cenno di quel raro carattere morfologico che è il connettivo bifido. Vedrassi in seguito quanta sia l’importanza di questo rilievo per fondare la teorica della pseudanzia. | A completare la dimostrazione morfologica degli antodii di ricino rimane a chiarire ancora un punto. Le ramificazioni androfore sorgono dal talamo in numero di 15 a 25 circa. Nessuna è eguale alle altre, segnatamente nella potenza e pro- duttività. Alcune sono comparativamente robuste, ramose, floribonde; altre hanno vigorfa minima, producono poche dicotomie e conseguentemente pochi fiori; altre tra questi due estremi tengono ogni possibile grado di mezzo. Sorgono dalla superficie talamica affatto disordinate; alcune isolate, altre più o meno avvicinate, perfino contigue, perfino coa'escenti. Invano Payer e Barron colla organogenia alla mano affermano che le medesime nascono in tre o più verticilli pentameri alterni, l'esterno alternando coi cinque TOMO X. 73 — 578 — sepali. Il fatto è che non sono riducibili a nessun ordine nè ciclico nè spirale. Ma quest’ apparente confusione è resolubile in perfetta regolarità colla teoria seguente che senza dubbio risponde al vero. Il talamo degli antodii di ricino, pianeggiante allo stato adulto, rappresenterebbe un’ adelfia di cinque infiorescenze, ciascuna delle quali sarebbe nata all’ ascella d’ un sepalo. Così per ogni infiorescenza (politomica in basso, dicotomica in alto) si deve distinguere due livelli, il livello di fondazione e il livello di emersione. Ora nel tratto che intercorre tra l’ uno e l’ altro livello hanno avuto luogo già parecchie partizioni di varia lunghezza e vigoria come è di regola in ogni ramifi- cazione politomica. Cosicchè quando le singole partizioni emergono dalla superficie talamica, restano necessariamente disordinate quanto alla posizione (di emersione, non di fondazione), e dispari affatto quanto alla potenza. La verità di questa teoria è giustificata dalle indagini sull’ andamento e sulla partizione dei fasci fibroso vascolari. Abbiamo nella figura 11 della tavola esposto uno schema idoneo a rendere intelligibile così fatta teoria. A rappresenta il livello di fondazione; 8 il livello di emersione; C la posizione del sepalo ascellante; D la ramificazione infima dell’ in- fiorescenza ascellare avvenuta per entro la massa del tessuto talamico monadelfico; E, E', E°, E", E", cinque corpi androfori ossia infiorescenze parziali emerse dal talamo, d’ inegual potenza. S' immagini ora che cinque di siffatte infiorescenze arcicomposte nascano adden- sate in un breve spazio, ne vien fuori di necessità una figura che in tutto somi- glierà alla ordinazione e agli altri caratteri degli antodii di ricino. Così Paver e in genere gli organogenisti errano grandemente quando costatata la prima eruzione di protuberanze sulla superficie d’ una data regione organica, le battezzano col nome di primordiî di un organo o di un organismo. Gravissimo errore, perocchè ciò che essi chiamano primordi di organi nou sono che è primordii della parte emergente degli organi stessi. I veri fondamenti, i veri primordii sono, profondamente internati nel tessuto sottostante. Il bello si è che dai primordi degli organogenisti, quantunque abbiano sovente egual forma mammillare, possono poi svilupparsi svariatissime sorta di prodotti: per esempio la emersione, 1°, d’ un filloma semplice; 2° d’un cauloma semplice o ramoso; 3° d’ un’ adelfia di due o più fillomi similari uniti quando nel senso radiale o dorsiventrale, quando nel senso tangen- ziale o laterale, quando in entrambi; 4° d'un adelfia di due fillomi dissimili nel senso radiale (petalo e stame nelle Primulacee); 5° di un adelfia d’ un filloma con un cauloma nel senso radiale; 6° d’ un adelfia di più caulomi nel senso tangen- ziale (cupula della quercia), ecc. ece. Veggasi di quanti errori morfologici sia stato causa il metodo organogenico in mano di persone non sufficientemente erudite. Per averne una serqua basta scorrere qualche pagina del Lelrbuch der Botanik di Scucemen, e il lettore meraviglierà di apprendere che il pistillo delle leguminose e delle gigliacee è di natura assile, che nella corolla delle campanule la parte gamo- — 579 — petala è di ragione assile, i denti invece sono di ragione fogliare, e d’ imparare altre simili amenità. Fra queste è giuocoforza inscrivere gli stami multifidi di ricino, creduti tali da Paver, Sacus, Van Tiecnex, perchè sviluppati da un primordio. La dottrina della fillotassi fondata sullo esperimento della pila elicotetraedrica ha dato il colpo di grazia a così fatti errori degli organogenisti. È dimostrato che le foglie (che sono poi gli elementi architettonici del corpo delle piante superiori) sono fondate al centro e non alla superficie degli assi generatori. Sono organi centrali e non appendicolari; costituiti da due regioni l’ una emergente (la quale talvolta può abortire del tutto, e per l'appunto nelle infiorescenze maschili di ricino, nonchè in ogni altro caso d’ infiorescenza nuda); l’ altra fillopodiale, immersa, adelfica, coalita coi fillopodii dei fillomi prossimi. Così, dato il caso che due fillomi, per esempio un petalo ed uno stame, fondati in tutta vicinanza l uno dell’ altro, come avviene nelle Primulacee, emergano sul talamo fondendo il loro apice in una protuberanza comune, l’ organogenista il quale affermi che cotal protuberanza è il primordio d’ un organo unico commette due errori badiali; il primo di credere che un corpo risultante dalla fusione di due primordii sia un primordio semplice; il secondo di credere che sia primordio d’un organo intiero ciò che è soltanto il primordio della parte emergente. Anche per le gemme od altri caulomi sebbene meno profondamente fondati a fronte dei fillomi, il livello di fondazione riesce sempre più basso del livello di emersione, e sovente, in caso di speciali adelfie da essi contratte, Ì’ accennato disli- vello è straordinario. Voglio addurre un caso assai istruttivo che rilevai parecchi anni addietro nell’ orto botanico di Genova in un tirso di Pavia macrostachya, sul rachide del quale si sviluppa un numero indefinito di cimule due volte dicotomiche. La figura 12 (v. tavola annessa) dilucida la ineguale emersione di tre cimule C, D, E; ove si vede che per le ultime due cimule l’ ima ramificazione avvenne nel tessuto interposto tra il livello di fondazione A e il livello d’ emersione 5. Quest’ esempio illustra egregiamente la teoria sovra esposta, idonea, a spiegare la ineguaglianza e la disordinata posizione degli androfori di ricino. Anche qui il livello di emersione taglia le cimule €, D, £, in modo che le relative emergenze variano di potenza e di collocazione. È tempo ora di passare ad altro argomento. Quale e quanta è 1’ estensione della pseudanzia presso le Euforbiacee ? Mi mancano elementi per risolvere a fondo tale questione. Ecco quel che per ora posso rispondere utilizzando gli scarsi mezzi che sono a mia disposizione. Le Euforbiacee hanno fiori unisessuali. Quanto ai fiori femminei a meno che non vi siano attorno i rudimenti dell’ androceo essi certamente sono monotalamici. Adunque le Euforbiacee sono euante in quanto ai fiori femminei. Rispetto ai fiori maschili le Euforbiacee si possono distinguere in tre cate- gorie, cioè : 1.° Euante; — 580 — 2.° Euante, ma offerenti un maggiore o minore grado di preparazione della pseudanzia; 3.° Pseudante. Una parte non piccola d’ Euforbiacee senza dubbio appartengono alla categoria delle euante. Noto i generi Omalanthus, Hippomane, Maprounea, Stillingia, Excae- caria, Adenopeltis e forse tutte le Ippomanee. Inoltre i generi Mercurialis, Acalipha e probabilmente tutte le Acalifee. Parrebbe doversi qui annoverar pure molte Fillantee, dei generi Andrachne, Sauropus, Phylanthus, Putranjiva, Aporosa, Anti- desma ecc. Delle Stenolobee nel genere Jlicrantheum completando i fiori maschili coi femminili si avrebbe un’architettonica pentaciclica trimera identica a quella delle monocotiledoni; sarebbe adunque un caso di euanzia. E nella stessa tribù parecchi altri generi (Stachistemon, Ricinocarpus ecc.) sembrerebbero euanti. Nella categoria delle Euforbiacee euante, ma che preparano la pseudanzia, oltre i già menzionati generi Pedilanthus, Euphorbia, Synadenium, Calycopeplus, Antho- stema, vorrei inscrivere anche i generi Monotaris e Dalechampia, offerenti aggrega- zioni florali, che accennano a un primo passo verso la pseudanzia. Finalmente alla categoria delle Euforbiacee pseudante, oltre il Ricinus e 1’ affine genere Homonotia, parrebbe doversi ascrivere più generi di Crotonee e di Iatrofee, segnatamente quelli che hanno un androceo obdiplostemone. Uno studio approfondito sull’ architettura fiorale dei diversi generi di questa vasta famiglia, spargerebbe una gran luce su quella delle dipendenti famiglie pseudante. Ma questo studio è tuttora un desiderio inespleto, e lo sarà forse ancora per lungo tempo, atteso la grave difficoltà di avere un copioso materiale di piante viventi. $ 27. Pseudanzia nelle Malvacee e Rosacee. Marvacee. — Questa famiglia di piante disvela sotto molti aspetti una grande quantità di rapporti colle Euforbiacee. In molti generi è quasi identica la natura del frutto che consiste in una capsula policocca con mericarpi monospermi, aprentisi per deiscenza septicida ad un tempo e septifraga. Se le Malvacee e famiglie affini furono da parecchi riunite in un gruppo acconciamente denominato delle columni- fere, anche le Euforbiacee hanno una columella che a maturità si stacca dai meri- carpii. Anch' esse sono columnifere. Nella preflorazione valvare del calice, nella contorta della corolla le Malvacee riproducono caratteri di parecchi generi euforbiacei. E anco numerose sono le concordanze in caratteri secondarii desunti dagli organi di vegetazione. Affatto omologo è lo sviluppo delle stipule. Le foglie hanno sovente una lamina palmi- nervia. Il vestito dell’ epidermide è spesso egualmente peloso, tomentoso, lepidoto, — 581 — con abbondanza di peli stellati. Finalmente abbiamo perfino la concordanza in un rarissimo carattere biologico. In più specie di Urena, Hibiscus, Gossypium sui nervi principali nella pagina inferiore delle foglie si nota la presenza d’ un nettario mirmecofilo. All’infuori delle Malvacee non conosco fin qui nessuna pianta che presenti questa particolarità, ad eccezione di alcune specie del genere euforbiaceo Excaecaria. Questa multilaterale notevolissima affinità tra le Euforbiacee e Malvacee venne riconosciuta in generale da tutti i tassonomi moderni. Ma il complemento alla ricognizione dell’ affinità strettissima che vincola le due famiglie è la teoria che qui propongo cioè che i fiori delle Malvacee sono infiore- scenze androgine contratte in antodii. Le Malvacee sono pseudante e per la intel- ligenza della struttura dei loro falsi fiori conviene col pensiero riunire ed unificare i caratteri che abbiamo messo in rilievo nei ciazii di Euphorbia, e negli antodii maschili di /ticinus. Il tipo florale fin qui cognito il quale avvicini maggiormente quello delle Malvacee (escludendo le famiglie collaterali e discendenti) a mio modo di vedere è quello degli antod.i di £ic:nus, massimamente degli antodii ermafroditi che qualche volta vennero da Barron e da me osservati. Con ciò non si vuol mica affermare che le Malvacee siano discendenza immediata del genere Ricino. Soltanto è lecito proporre che il Ricino avvicini più d’ogni altra pianta l'ignoto estinto prototipo da cui discesero le Malvacee. 3 Ciò premesso passiamo alla interpretazione dell’ architettonica florale delle Malvacee. i C'interessa principalmente la composizione dell’ androceo (in colonna tubolosa monadelfica) e quella della corolla. Parecchie osservazioni feci a questo riguardo sovra specie appartenenti ai generi Malva, Althaca, Alcaca, Sida, Abutilon, Malvaviscus, Urena, Pavonia, Hibiscus. Non posso entrare in troppo numerosi dettagli; mi limito ad esporre le cose principali. Detta colonna monadelfica è costituita invariabilmente da cinque falangi alter- nisepale. Talvolta queste cinque falangi, essendo distinte luna dall’ altra mediante una esterna solcatura longitudinale, sono facilmente separabili (p. es. in alcune specie di Abutilon e Pavonia). Allora sì scorge con sicurezza che ciascuna falange è un corpo duplice, risul- tante dall’ adelfia di due mezze falangi. Gli stami vi si veggono ordinati in due serie o righe. Adunque il tubo androcealo delle Malvacee è costituito dall’ adelfia di dieci rami androfori. Gli stami ripetono mirabilmente i caratteri di quelli del ricino. Il connettivo è bifido, e ciascun braccio porta all’ apice una loggia d’ antera simile per impo- sizione, figura e linea di deiscenza a quella di ricino. Qualche volta le falangi suddette producono stami dimidiati, o tutti quanti — 582 — (Malvaviscus moltis, Pavonia spinifer, Hibiscus Rosa sinensis), oppure alcuni dimi- diati e alcuni intieri in cui cioè è discernibile sotto il connettivo bifido un filamento, spesso brevissimo. È difficile in alcuni casi il poter risolvere la questione, se tale dimidiazione sia vera e reale, oppure soltanto fittizia; cioè se abbia avuto luogo l'aborto d’ una metà dello stame, o se il fenomeno sia meramente dovuto a disso- ciazione dei connettivi per coalescenza della loro base col tubo generatore. Pare che abbia luogo quando l’ uno, quando 1’ altro processo. La duplice costituzione delle singole falangi è attestata da due nervi o fasci fibrosi che le percorrono longitudinalmente. Questi nervi per solito mandano, ad altezze diverse, un nervo che entra in uno stame, e continuano il loro corso; ma verso l’ apice si estinguono entrando nell’ ultimo stame prodotto. Gli stami, quando semplici, quardo dimidiati, sono per solito in numero scarso. Ogni mezza falange per lo più ne produce due. Così il numero più frequente degli stami per ogni fiore suol essere una ventina all’ incirca. Il tubo androceale all’ apice si diporta in due maniere. O tutta la sua sostanza passa negli stami, senza lasciar orlo veruno (Malva, Althaca ecc.). Oppure termina in un orlo sterile, spesso assai cospicuo che finisce in cinque denti, i quali corrispondono all’ apice di altrettante falangi (Ma/vaviscus, Pavonia, Hibiscus); sono adunque epipetali. In un caso ho osservato che i denti sono bifidi. Ciò conferma la duplicità di costituzione delle singole falangi. Nella fig. 13 ho rappresentato una falange di Althaea cannabina (1); di Sida Abutilon nella fig. 14; due falangi di Malvaviscus mollis nella fig. 15. Per solito gli stami sono liberati a diverse altezze. Ma nella Sida Abutilon gli stami sono tutti apicali. Sono in numero di 4 per ogni falange, completi e disposti in dicotomia, con singolare reminiscenza della terminazione degli stami di ricino (v. fig. 14). Questi sono i fatti osservati. L’' interpretazione che io ne dò è la seguente. L’androceo delle Malvacee è costituito da una società monadelfica di dieci corpi androfori, approssimati in coppie alternisepale, cioè oppositipetale. Questi corpi sono affatto omologhi ai corpi androfori di ricino, salvochè sono al confronto depauperatissimi di stami e in numero minore. In essi è analogo il (1) In questa specie si osserva una curiosa metamorfosi, avvenuta in ogni falange dei due o stami o connettivi apicali. Sono trasformati in due appendici sterili, di cui una lunghissima, sotti- lissima, che si recurva verso l’esterno sugli stami; l’altra tozza, breve, eretta. Entrambe poi sviluppano, dalla parte per cui si prospettano un fitto cuscino di peli papilliformi, i quali crescendo gli uni contro gli altri attaccano insieme l’ una all’ altra, in modo che si richiede uno sforzo non leggiero per separarle. Così la colonna androceale possiede 5 fulcri, nello scopo di essere più resistente allora quando gl’insetti pronubi vi si aggrappano, — 583 — diportarsi dei fasci fibroso-vascolari. Sono adunque a mio vedere infiorescenze (par- ziali). Questa sentenza troverebbe una conferma in quei casi ove il tubo androceale escorre in una porzione apicale sterile, coronata da cinque o dieci denti. Questa verisimilmente è una fusione di dieci terminazioni assili. Espletata la interpretazione morfologica dell’ androceo, quella rimane a discutere della corolla. Essa consiste in cinque petali alternanti coi sepali. Giusta la teoria che propongo detti petali non sono organi semplici. Hanno una costituzione duplice. L’ architettonica florale e la legge della fillotassi impon- gono questa conclusione. La quale poi è confermata da parecchie contingenze. Sovente sono assai distintamente bilobati all’ apice. In quelli di alcune specie non vì è nessun nervo medio. O se presso altre specie esiste verso la base un’ apparenza di nervo medio (nervo suturale), questo nervo verso l’ apice si sparte equamente in due. Nel Malvaviscus la duplicità dei petali (inequilateri) è manifesta. Una metà è ampia e distesa; 1’ altra metà è raccorciata e deflessa a guisa d’ orecchietta. È un carattere generico (fig. 16). Finalmente alcuni fenomeni teratologici (v. infra) confermerebbero la costituzione duplice dei petali. A taluni potrà parere strana tale proposizione, e stenteranno ad accettarla non comprendendo come un organo confezionato colla unione di due organi, possa parere unitario al pari di quelli che sono veramente uni. I sepali delle malve sono organi unitarii. Gli alternanti petali saranno organi duplici? Ma gli esempi di organi certamenti duplici, e che pure con regolarità assoluta si presentano come unitarii, sono sine numero. Voglio qui citarne parecchi e incon- testabili. Nell’ Euphordia fulgens, E. albomargirata e in altre specie le coppette net- tarifere dell’ involucro sono escorrenti in una vistosa lamina petaloide, regolarissima ed una. Eppure niente di più certo che essa è l’ unione di due appendici, una delle quali appartiene al fillo involucrale di destra, l’ altro al fillo di sinistra. Nei generi Fragaria e Potentilla il calicetto è formato di 5 filli in apparenza unitariis- simi; eppure niente di più certo che ciascuno di essi risulta dalla unione di due stipole, una appartenente al sepalo di destra, e l’altra al sepalo di sinistra. Lo stesso fenomeno accade in due delle 4 foglie nei Galium a verticilli quaterni. Resta a risolvere la questione. Ammesso che i petali delle Malvacee sono organi duplici, di cui l’una metà appartiene al centro organico di destra, l’ altro al centro organico di sinistra, di qual natura sono essi? Quale metamorfosi rappresentano ? Si possono fare due ipotesi. Ciascun petalo delle Malvacee può rappresentare l'unione o di due brattee (appartenenti ciascuna ad asse diverso), o di due rami di-tetrandri (appartenenti a infiorescenze diverse). Se ci lasciamo guidare dalla omologia coi fiori di ricino ove i corpi androfori sono affatto destituiti da forme bratteali, resta esclusa la prima ipotesi, e conviene accettare la seconda; tanto più che la vedremo dimostrata da interessanti casi teratologici. — 584 — Rimane a dilucidare l’ architettonica florale delle malvacee secondo la teorica della pseudanzia. Si premette che la posizione del pistillo è assai indipendente riguardo a quella degli organi più esterni. Ciò si comprende facilmente; quelli sono il prodotto di ‘assi laterali; questo invece è il prodotto terminale dell’ asse centrale. Di più si ha la conferma nel variabilissimo numero dei carpidii, che sovente non è in relazione al numero quino degli altri organi. Il fiore delle Malvacee è omologo ai ciazii d’ Euphorbia e con più approssima- zione ancora agli antodii maschili di ricino. Evidente è la omologia degli stami aventi connettivo bifido e loggie anterali dorsifisse con deiscenza emiciclica. Richiamisi a mente la interpretazione che diedi dell’ androceo di ricino. Esso è la prolificazione di cinque infiorescenze maschili nude fondate ciascuna all’ ascella d’ un sepalo; infiorescenze di natura dicasiale. Lo stesso è dell’androceo delle Malvacee. All’ ascella di ognuno dei cinque sepali è fondato un dicasio; ossia una cima due volte dicotomica. L'asse primario, brevissimo, tutt’ affatto immerso nel tessuto talamico, sorge verticalmente dall’ ascella del sepalo. I due rami della prima dicotomia, tutt’ affatto immersi nel tessuto talamico, tangenzialmente e orizzontalmente distesi, partono dal centro ascellare, e si dirig- gono l'uno verso il margine destro, l’ altro verso il margine sinistro del sepalo ascellante. Ivi si biforcano in direzione radiale (ossia nel senso perpendicolare alla tangente), generando ciascuno due ramicelli (seconda dicotomia). Questi ramicelli emergono dal talamo, assorgendo entrambi verticalmente. E poichè sono stati fondati radialmente, in ogni coppia uno rimane all’ esterno, l’altro all’interno. Il ramicello esterno si metamorfizza in mezzo petalo, il ramo- scello interno sì sviluppa in una mezza falange di stami. Poichè due ramicelli di seconda dicotomia prodotti a destra d’un dicasio restano per ragione di fondazione approssimati a ramicelli omologhi prodotti a sinistra dal dicasio vicino, così le due semifalangi staminali concrescono in” una falange apparentemente unitaria (ma avente stami biseriati e talvolta due denti all’ apice). Così pure i due mezzi petali, per la stessa ragione approssimati con- crescono in un petalo apparentemente unitario (ma bilobato all’ apice). Tutte le falangi staminali poi conerescono lateralmente unite, e formano il tubo staminale monadelfico, caratteristico delle Malvacee. Anche tutti i petali concrescono insieme, ma soltanto per un brevissimo tratto della loro base. Questa interpretazione morfologica trovasi lucidamente dimostrata dalla figura 17 della tavola, rappresentante lo schema di °4 d’un fiore di malvacea. Nella quale fivura A, B, C rappresentano tre sepali; PA il prodotto ascellare d’ ogni sepalo; D, D, Dtre dicasii o cime due volte dicotomiche, fondate ciascuna all’ ascella d’ un sepalo; FF una falange staminale; F mezza falange staminale; PP un petalo; P mezzo petalo. — 585 — Io non ho dubbio sulla giustezza di questa interpretazione dei fiori delle Mal- vacee. La verità n’ è dimostrata non solo da microscopiche indagini dell’ andamento dei fasci fibroso-vascolari, ma eziandio dall’ accurata ed arguta inspezione esterna e macroscopica. Così il prodotto ascellare d’ ogni «spal “gle Malvacee consiste in due mezzi petali e in due mezze falangi, collegati assieme da un sistema vascolare caulino, rappresentante una cima due volte dicotomica. Adunque è dimostrato che le Malvacee sono pseudante, e che i loro fiori sono infiorescenze contratte in antodii, architettonicamente non molto differenti dagli antodii di ricino. Nella fig. 18 è dato il diagramma d’ un antodio di malva, dove PE rappre- senta il prodotto ascellare d’ un sepalo. La teoria qui proposta è avvalorata da un caso teratologico frequentissimo. Dassi una varietà di A/caea rosea, coltivata nei giardini, a fiori mostruosi. Poco alterati o punto sono i verticilli del calicetto, del calice, dei carpidii. Ma 1’ androceo, affetto da straordinaria ipertrofia, verso il mezzo e verso l’ alto del tubo monadelfico si sdoppia in numerose ramificazioni costituite da gruppi di stami. Ora esaminando la inserzione di queste prolificazioni, si presentano esse come uno sviluppo di altret- tante gemme impiantate sul tubo stesso. Perciò il tubo si rivela come organo assile, capace d’iperblastesi, e tal fenomeno teratologico è comparabile a una cladomania. E sempre a maggior conferma della teoria, nelle basi e nei limiti delle varie partizioni cladomaniache esiste la produzione di nuovi petali a diversi gradi di sviluppo e di metamorfosi. Osservandoli con qualche attenzione e notando i nume- rosi stati di transizione in cui sì trovano, ne risulta in modo incontestabile che i petali delle Malvacee risultano dalla unione e metamorfosi di 2-4 stami, di cui metà appartiene al centro organico di destra, l’altra metà a quello di sinistra. Nella figura 19 in 4, 5, C, D abbiamo rappresentato 4 di queste forme. La esserzione poi di questi organi metamorfici alla base delle partizioni clado- maniache disvela sufficientemente la natura caulina del punto corporeo da cui emergono. Rosacre. — Una mostruosità molto analoga, che è frequentissima nelle rose doppie coltivate nei giardini, nei cui fiori profondamente alterati e petalomaniaci sì scorge una quantità di nuovi centri organici sviluppantisi dal talamo, m° indusse a congetturare che anche le Rosacee fossero pseudante. Questa famiglia di piante è ben singolare. Teoricamente i suoi fiori debbonsi avere in conto di apetali ed asepali. Ed eccone il motivo. Nelle Malvacee il calice non si è costituito entro la cerchia della famiglia, ma è stato ereditato con tutti i suoi principali caratteri di preflorazione ed elaborazione da qualche prototipo eufor- biaceo. Medesimamente il calice delle Crucifere deriva dalle Fumariacee, il calice delle Fumariacee deriva dalle Papaveracee, il calice delle Papaveracee dalle Ranun- TOMO X. 14 — 586 — colacee, e il calice di queste (contingenza tanto evidente nell’ HeWleborus foetidus, H. lividus ecc.) non è che una ulteriore elaborazione e adattazione di brattee. Il calice delle Rosacee invece non è stato ereditato da nessun’ altra famiglia precedente. È stato dllico et immediate prodotto entro la cerchia della famiglia. E di più non già per via di una ulteriore elaborazione di brattee, ma per via d’ im- mediata applicazione e metamorfosi di foglie vegetative. Questa verità è provata da due forme generiche antichissime, perpetuatesi fino a noi, le quali, se non sono prototipiche, sono certo prossime alle prototipiche. Una forma è il genere Losa. È noto il distico enigmatico: Quinque sumus fratres, unus barbatus et alter, Imberbesque duo, sum semiberbis ego. Nella successione quincunciale dei sepali di rosa dall’ esterno all’ interno, le barbe dei due più esterni riproducono un carattere di foglie vegetative, il sepalo mediano non ne riproduce più che la metà; i due sepali interni lo hanno perduto totalmente. In connessione ed a conferma di quanto qui propongo sta il frequente fenomeno teratologico, per cui i tre sepali più esterni dei fiori di rosa e qualche volta tutti e cinque ripigliano ad un tratto le forme e le dimensioni d’ una foglia vegetativa normale. Egli è perciò che il calice delle ruse, avendo una formazione di data posteriore alla prima comparsa della famiglia, deve essere contemplato come due rivoluzioni spirali di foglie vegetative. I petali delle Rosacee poi, da considerarsi come un complesso organico bipar- tibile, sarebbero pure una formazione non ereditata da altre famiglie, ma elabo- ratasi nel cerchio della famiglia propria. Adunque i fiori delle Rosacee dovendosi teoricamente avere in conto di ape- riantati, il loro androceo poliandrico deve essere considerato diviso in tante falangi ascellari quante sono le foglie involucranti (4 o 5). Ma il prodotto ascellare d’ una foglia di necessità è organicamente separato dai prodotti ascellari di altre foglie. Ne consegue che l’ androceo delle Rosacee rappresenta altrettanti o fiori o infiore- scenze maschili nude quante sono ie foglie calicine. Resterebbe al centro la termi- nazione dell'asse primario in fiore femmineo. Già per queste riflessioni si presenta probabile che i fiori delle Rosacee siano infiorescenze androgine contratte in antodio. Ma tale congettura si corrobora sempre più osservando una specie ancora più vicina delle rose alle forme prototipiche delle Rosacee. Questa specie è il R%odo- typus kerrioides (1). (1) ZuccariINI, autore di questo genere, uno dei più profondi morfologi che siano stati, senza dubbio deve avere intravveduto questa verità, e battezzandolo col nome di RRodotypus ha messo in rilievo la sua reale prototipia. — 587 — Ancora nei sepali delle rose sono pronunziati molti caratteri per cui differiscono dalle foglie di vegetazione. Questa differenza cessa affatto nel Ehodotypus. Ogni ramicello terminante in un fiore produce tre o quattro coppie di foglie opposte. Succedono poi sempre con regolare alternanza, due nodi, pure oppositifogliari, perciò decussanti, approssimati tanto da permettere che la stipola di destra della foglia del nodo inferiore si saldi colla stipola di sinistra della prossima foglia del nodo superiore. Questo è il vero inizio del calicetto che poi si ritrova’ più elabo- rato nelle Driadee. Questi. due nodi oppositifogliari sono quelli che forniscono il singolarissimo calice del IhRodotypus, i cui sepali sono vere e genuine foglie di vegetazione. Ora l’ androceo poliandrico è distribuito in quadrato, ciascun lato del quale trovasi all’ ascella di dette foglie. Qual altra retta interpretazione si può dare se ron quella che ciascuna riga ascellare rappresenti una infiorescenza maschile nuda, oppure soltanto un fiore maschile nudo, nato all’ ascella d’una foglia ? Ma si nota un’altra contingenza interessante. Il fiore femmineo centrale, com- posto di 4, 6 o più carpidii (i quali poi a maturità si cambiano ciascuno in una drupula simile a quelle di bus), trovasi attorniato da una coppa sssai rilevata, che lo separa dai 4 fiori o infiorescenze maschili. Ora per me ritengo che questa coppa rappresenta un calice del fiore femmineo. L'analisi adunque dei fiori di E/odotypus mette in chiaro che nelle Rosacee i cosidetti fiori sono antodii costituiti da un fiore femmineo centrale e da quattro o cinque assi masculiflori laterali; e resta ancora aperta l’ indagine se questi assi rappresentino ciascuno un fiore oppure un’ infiorescenza. ‘ - Rimane poi chiarito che il ricettacolo delle Rosacee, sia esso piano, o più o meno incavato a coppa o ad anfora, è una forma mista procedente da fusione del calice femmineo (disco) colle decorrenze degli stami e dei petali. I petali poi, anche nelle Rosacee, rappresentano un organo doppio, di cui una metà appartiene all’ asse masculifloro di destra, e l’altra a quello di sinistra; come è richiesto dalla legge fillotassica, e come è indicato dalla loro apicale bilo- bazione. La famiglia delle Rosacee disvela pure, sebbene in altra direzione rispetto a quella delle Malvacee, notevole affinità colle Euforbiacee, di cui forse anch’ essa è una discendenza: affinità disvelata anche da parecchi caratteri vegetativi, quali sarebbero per esempio le stipole. Le Rosacee sarebbero costituite da due serie d’ evoluzione, capitanate l’ una dal genere Rhodotypus, V altra dal genere Fosa. Il Rhodotypus sarebbe a capo delle Spireacee (con cui concorda per alcuni caratteri), colle Driadee (con cui concorda pel carattere del calicetto), colle Rubee e colle Amigdalee (con cui concorda per i carpidii drupacei). Il genere osa starebbe a capo delle Agrimoniee, Sanguisorbee e Pomacee. — 588 — La teoria della pseudanzia delle Rosacee la troveremo poi confermata dalle anomalie fillotassiche di certe sue forme generiche di cui parleremo infra. $ 28. Pseudanzia nelle famiglie dipendenti dalle Malvacee. SrercuLiacee. — Di questa famiglia ho esaminato la struttura fiorale nella Helicteres Ixora. Eccetto un leggiero grado di zigomorfia, un allungamento straor- dinario del’ asse femminifloro, a cui si sono saldati i 10 rami androfori, e la depauperazione dell’ androceo fino a soli 10 stami, non vi ha differenza colle Malvacee. La sommità androceale libera forma un breve tubo monadelfico quinquedentato, a denti bifidi, ciascun dente corrispondendo all’ apice d’ una falange staminale epipe- tala, suddivisa in due mozze falangi, ciascuna portante uno stame a filamento brevissimo con connettivo bilobato; ciascun lobo portando dorsifissa una loggia d’ antera (Fig. 20, diagramma; fig. 21, tubo monadelfico spiegato in piano; fig. 22, stame isolato). Non vi ha nessuna differenza sostanziale colle Malvacee, e anche qui è piena- mente dimostrabile la pseudanzia. Nel genere Helicteres abbiamo una forma che può passare per prototipica delle Sterculiacee, in quanto che meno si scosta dalle Malvacee. Nel genere Stereulia ed in altri i caratteri florali sono presso a poco gli stessi, salvo che è intervenuto l’ aborto completo della corolla. Bombacee. Meritano appena di essere distinte dalle Malvacee. Identici sono i caratteri del calice, della corolla, della colonna androceale. Una differenza porta sul numero degli stami ch’ è di gran lunga maggiore. Anche qui essi sono dimi- diati per sviluppo d’ un connettivo bifido. Egualmente bene si applica ad esse la teoria della pseudanzia. Bittneriacee. Non variano gran fatto dalle Malvacee quanto ai caratteri del calice e della corolla (salvo che in alcuni generi questa è abortiva). Per contro degni del più approfondito esame sono i caratteri dell’ androceo. Nei fiori di Theobroma Cacao (Fig. 25, diagramma) l androceo è di 15 membri, 10 ordinati in coppie epipetale normali, fertili. Gli altri cinque sono laminette petaloidi sterili, alquanto più internate ed episepale. Qui ha piena applicazione la teoria della pseudanzia. Il prodotto d’ ogni sepalo è visibilmente equiparato a uno staminodio al centro, a due mezzi petali, uno per ciascun late, sottoposti ciascuno ad uno stame intiero. Nei fiori di Rulingia pannosa e di altre bittneriacee (Fig. 24, diagramma) non vi ha altra differenza se non che nel luogo delle coppie di stami epipetale vi è un solo stame. Così questo stame, sebbene sia un organo apparentemente unitario, teoricamente risulta dall’ approssimazione e fusione di due stami, appartenenti a — 589 — due centri organici diversi, seguendo così precisamente le sorti del sottoposto petalo. In altre specie nei punti epipetali, invece di uno stame (come nella Rulinyia) o di 2 (come nel Teobroma), possono svilupparsi tre o quattro stami (come nei generi Abroma e Dombeya), perfin 5 0 6 stami come nei G/ossostemon. L’ architet- tonica florale non cambia affatto. Ciascuno di questi gruppi staminali, sia composto da 1 stame soltanto o da 2-3-4-5-6 stami, deve essere sempre considerato come un gruppo bipartibile, di cui l'una metà appartiene al centro organico ascellare al sepalo di destra o di sinistra. Organo veramente uno ed indivisibile sembra essere lo staminodio episepalo, che non manca giammai nelle Bittneriacee (salvochè è abortivo in alcune specie di Thomasia). Quest’ organo, di grande significato, rappresenta veramente uno stame meta- morfico. Non è rappresentato punto nelle Malvacee e costituisce la capitale diffe- renza fra le due famipiie. Io credo che la spiegazione più razionale di quest’ organo sia ch’ esso rappre- senti il fiore centrale del dicasio fondato all’ ascella d’ ogni sepalo; il quale, com- pletamente abortivo nelle Malvacee (come tante volte accade per cosifatti fiori), sia .- sviluppato nelle Bittneriacee. Ma qualunque sia la natura di quest’ organo, le Bittneriacee ci forniscono un grande insegnamento. È nel cerchio di questa famiglia che è iniziata la formazione dei fiori obdiplostemoni, dei quali tante vane spiegazioni sono state proposte fin qui da tanti autori (1). (1) Non da uno o due soltanto è stata tentata la interpretazione morfologica dei fiori obdiploste- moni. ALESSANDRO BRAUN ammetteva che fosse abortito totalmente un ciclo di stami (il più esterno), interposto tra il ciclo dei petali e quello degli stami epipetali. AUG. ST. HiLarre ammetteva che un petalo e il sovrastante stame nei fiori obdiplostemoni non fosse altro che un organo unico, sdoppiato in due nel senso tangenziale. Questo sarebbe d’ accordo col fatto che entrambi emergono dal talamo con un primordio comune. CHATIN, PAYER e HoFMEISTER pensarono che gli stami epi- petali siano fillomi intercalati e fondati dopo e tra i preesistenti (orribile eresia nella dottrina della fillotassi!). Non mancò chi propose che il ciclo degli stami epipetali fondato regolarmente dopo quello degli episepali, sia stato spostato verso l’ esterno per ragioni di pressione. DICKSON ammette che gli stami epipetali equivalgono a formazione stipulare laterale degli stami episepali; per cui ogui stame epipetalo risulterebbe dalla fusione di due organi stipolari. Ognuna di queste opinioni è soggetta a gravi critiche. La meno errata parrebbe quella di DicKson, e, quantunque non possa ammettersi che organi stipulari abbiano la potenza di produrre due sacchi pollinici, non ostante la medesima colpisce il vero nello ammettere la duplicità costi- tuzionale degli stami epipetali. La sola teorica della pseudanzia propone a mio parere una solida interpretazione, che ha per sè due fatti; il primo che gli stami epipetali, sebbene più esterni, si sviluppano più tardi degli stami interni (è naturale che ciò accada, poichè gl’interni rappresentano un prodotto dell’ asse primario, laddove gli esterni dipenderebbero da assi terziarii). Il secondo fatto consiste nella tanto frequente consociazione dentro il cerchio delle famiglie, delle obdiplostemonie monandra, diandra, ecc. colla formazione di vistose falangi epipetale bipartibili. — 590 — Se un fiore è obdiplostemone, per questo solo fatto esso va registrato fra i pseudanti. Questa è una delle conseguenze più rilevanti che si ricavano dallo studio dei fiori delle Bittneriacee. L’obdiplostemonia, dato che potesse svilupparsi in un fiore veramente semplice e monotalamico, sarebbe una solenne contraddizione alle leggi fillotassiche, poichè due cicli isomeri non possono produrre membri sovrapposti. È un mera impossi- bilità meccanica. L’ obdiplostemonia degli antodii invece è spiegabilissima, e nonchè essere in contraddizione alle leggi fillotassiche sta con esse in piena armonia. In molte famiglie affini e dipendenti dalle Malvacee e Bittneriacee vedremo comparire sovente il fenomeno della obdiplostemonia, con uniformi varianti presso i diversi generi e specie delle famiglie stesse. Per cui è conveniente distinguere parecchie sorta di obdiplostemonia; cioè le seguenti: monandra, diandra, triandra, tetrandra, poliandra, poliadelfa, secondochè addossato ad ogni petalo si trova uno stame soltanto, oppure 2, 3, 4, molti stami. Tigliacee. Questa famiglia, tanto affine per molti riguardi a quella delle Malvacee e delle Bittneriacee soggiace ad analoghe norme di struttura florale. Gli stami nume- rosissimi, a filamenti talvolta bipartiti all’ apice, sono ordinati in cinque falangi epipetale bipartibili. Notevoli sopra tutto sono i fiori del genere Molla, dove le falangi epipetale sono per sè già bell’ e partite, essendo costituite da un gruppo di stami diadelfico. Notevole è ancora questo genere, perchè, oltre le 10 falangi epipetale, produce 5 falangi episepale: in guisa che realizza una obdiplostemonia diandra, non però di stami ma di falangi staminali. Egli è perciò che nei fiori delle tigliacee debbe essere contemplata un’ archi- tettonica florale obdiplostemone. Geraniacee. Questa famiglia è stata dalla generalità dei fitografi costituita come il tipo di una coorte speciale di piante, dette gruinali. Ma la natura del frutto pentacocco a deiscenza septifraga troppo le avvicina alle Malvacee, con cui con- cordano per l’ abito dei cauli, delle foglie delle stipole, dei bottoni florali ecc. Le maggiori differenze consistono nell’ avere intiero il connettivo delle antere, e nella oligandria (da 5 a 15 stami). I fiori di Geranium sono soggetti ad obdiplostemonia monandra; per cui il prodotto ascellare di un sepalo si compone di uno stame intiero (episepalo) al centro, e, per ognuno de’ due lati, di un mezzo petalo e di un sovrastante mezzo stame. E che ciascuno stame epipetalo rappresenti realmente la unione di due organi, mi venne indicato da un caso teratologico che rilevai in un fiore di Erodium, ove ben due dei cinque staminodii epipetali erano sdoppiati (Fig. 23, diagramma). Ma la più bella dimostrazione della teoria è somministrata dai fiori di Mon- sonia, ove in luogo di uno stame epipetalo si scorge una coppia di stami. Così il genere Geranium presenta la obdiplostemonia monandra a somiglianza della bittneriacea Rulingia, e il genere Monsonia l obdiplostemonia diandra, a somi- glianza del genere Theobroma, pure delle bittneriacee. — 591 — Zigofillacee. — Questa famiglia da parecchi malamente allontanata dalle Gera- niacee, colle quali ha i più stretti rapporti sotto ogni aspetto non solo morfologico ma anche biologico, anch’ essa, precisamente come le Geraniacee presenta il fe- nomeno della obdiplostemonia monandra (nei fiori di Tribulus e ZygophyUum), e quello della obdiplostemonia diandra nel Peganum Harmala, e anche nel genere Nitraria che alcuni ascrivono a questa famiglia. Oxalidee, Limnantee, Linacee. — Vanno qui registrate non solo pella loro mani- festa affinità colle Geraniacee, ma eziandio perchè hanno fiori improntati a obdi- plostemonia monandra. Nel genere Linum gli stami epipetali sono resi rudimentarii a somiglianza del genere Eyodium. $ 29. Pseudanzia in alcuni generi di Rosacee c nelle famiglie affini. Nei generi delle Rosacee, ove l’ androceo è definito nel numero de’ suoi membri, si rileva una ordinazione dei medesimi che è contraria alle regole della fillotassi, Alcuni interpretano questa aberrazione colla teoria degli sdoppiamenti; ma su questo a mio senso prevale la teoria della pseudanzia. Vogliamo citare alcuni casi: A. Fiori decapentandri. Il prodotto ascellare d’ un sepalo è per ciascun lato 4 petalo, al centro tre stami episepali in triangolo. Es., Chrysobalanus oblongifolius (Fig. 26). i .B. Fiori decapentandri d’ altra forma. Il prodotto ascellare d’ un sepalo taglia ai lati !4 petalo e ' stame, e vi sono poi in ciclo più esterno due stami episepali. Es., Nuttalia cerasiformis, Raphiolkpis indica (Fig. 27). i C. Fiori icosandri. Stami in tre cicli. Il prodotto ascellare d’ un sepalo taglia ai lati !4 petalo e ‘4 stame del ciclo mediano. Vi sono poi, al centro, tre stami episepali in triangolo, 2 nel ciclo esterno, 1 nel ciclo interno. È il tipo più frequente. Es. più specie di Prunus e di Pyrus, Sorbus domestica, Gillenia trifoliata, Comarum palustre ecc. (Fig. 28). D. Fiori triacontandri. Stami in 3 cicli. Il prodotto ascellare d’ un sepalo taglia ai lati '4 petalo, e !4 stame nel ciclo mediano. Al centro vi sono 5 stami episepali, 2 nel ciclo esterno, 1 nel ciclo mediano, 2 nel ciclo interno. Es. Prunus Padus, diverse specie di Spiraea ecc. (Fig. 29). Osservando queste disposizioni degli stami, sembra che all’ ascella d’ ogni sepalo sia nato, nel tipo A un fiore triandro, nel tipo B un fiore tetrandro, nel tipo C un fiore pentandro, e finalmente nel tipo D un fiore eptandro. — 592 — Al postutto è verisimile che tra la pseudanzia delle Malvacee e quella delle Rosacee corra questa differenza, che cioè negli antodii delle Malvacee si abbia un fiore femmineo circondato da cinque infiorescenze maschili, e in quelli delle Rosacee si abbia un fiore femmineo circondato invece da cinque fiori. Leguminose. — Nelle Papilionacee, nella maggior parte delle Cesalpinee e anche in alcune Mimosee vi è regolare alternanza fillotassica fra il calice, la corolla e uno o due cicli di stami. Per altro la poliandria straordinaria di aleune Mimosee, e la manifesta affinità colle Rosacee rendono probabile che questa famiglia debba essere ascritta alle pseudante. Ramnacee e Ampelidee. — Alla ragione di affinità che hanno queste due famiglie colle Rosacee, aggiungendosi altresì il carattere di stami epipetali, per cui l archi- tettonica florale può essere interpretata come un’ obdiplostomonia combinata col- l'aborto degli stami episepali, mi persuaderebbero ad inscriverle pure fra le pseudante. $ 50. Probabile pseudanzia in altre famiglie meno affini alle Malvacee e Rosacee. Mirtacec, Granatee, Filadelfacee. — Domina in esse la poliandria in grado in- signe e sovente gli stami sono coadunati in falangi epipetale (p. es. nei generi Calothamnus, Beaufortia, Melaleuca ecc.). Litrariacee e Melastomacee. L° ordinazione degli stami in due cieli sembra im- prontata a regolarità fillotassica. Ma nei fiori di Lagerstròmia indica gli stami epi- petali ho notato surrogati da una falange poliandra bipartibile. Questo sarebbe un carattere di pseudanzia. Anche in alcuni generi di Melastomacee ha luogo una moltiplicazione di stami. Onagrariacee, Aloragee, Combretacee, Rizoforacee. L' androceo quando si trova al completo è obdiplostemone. Di più nel genere Oenothera abbiamo frequente il fe- nomeno teratologico della moltiplicazione dei petali; locchè, congiunto al carattere dei petali profondamente bifidi di Circaea, dà luogo ad argomentare che i petali non rappresentano organi semplici. Sovente gli stami epipetali abortiscono e allora i fiori sembrano improntati alla ordinaria regolarità fillotassica; ma sarebbe una falsa apparenza. In alcuni Combretum la obdiplostemonia si cambia di monandra in poliandra. Sassifragacee, Crassulacee, Francoaccee, Idrangee, Amamelidee. I fiori sarebbero più o meno regolarmente obdiplostemoni. Rutacee, Zantossilee, Auranziacee, Amiridee, Simarubee, Burseracee, Terebintacee. Forse tutte queste famiglie debbono essere ascritte alle pseudante, poichè nei loro — 593 — fiori predomina la obdiplostemonia monandra. In alcuni casì gli stami sono ordi- nati in falangi. . Tremandracee. Nei generi Tremandra e Flatytheca i fiori sono improntati alla obdiplostemonia monandra. Nel genere Tetratheca invece si nota l’ obdiplostemonia diandra combinata coll’ aborto degli stami episepali: quindi questa famiglia do- vrebbe essere riposta fra le pseudante. }} per ragione di grande affinità anche le Poligalacee. Malpighiacee. Nei tipi florali più completi è manifesta l’ obdiplostemonia mo- nandra; per cui non solo questa famiglia ma eziandio le affini Sapindacee, Escu- lacee, Meliantee, Eritrossilee, Acerinee, forse sono da collocarsi fra le pseudante. Ternstroemiacee. Il genere Gordonia ha cinque falangi staminali epipetale. Il genere Visnea ha fiori con obdiplostemonia monandra. Questa famiglia, in un colle più o meno affini Ipericinee, Gruttifere, Cistacee, Bixacee, parrebbe da inscrivere fra le pseudante. Dilleniacee. Sono la maggior parte poliandre in grado insigne. In alcuni generi abbiamo falangi staminali laterali ed eccentriche (Zleurandra). Nel genere Candollea gli stami nascono a 3, 4 o 5 in falangi alternipetale. Il genere Adrastea presenta nei fiori obdiplostemonia monandra. Verisimilmente appartengono alle pseudante, forse in vicinanza delle Rosacee. Mesembriantemee, Portulacacee, Cactacee. I numerosi petali e stami dei mesem- briantemi sono prodotti in cinque falangi alternisepale. Tali organi pur numero- sissimi in alcune Portulacacee e nelle Cactacee non ammettono guari altra origine. Adunque queste tre famiglie e tutte quelle che appartengono alla vasta coorte delle Ciclosperme pare che dovrebbero essere riposte fra le pseudante (Cariofillee, Paronichie, Fitolaccacee, Chenopodiacee, Amarantacee, Nictaginee, Poligonacee). $ 31. Angiosperme cuante. L’ euanzia riposa tutta sul criterio di poter risolvere la posizione dei fillomi florali in cicli o in rivoluzioni spirali, in piena concordanza colle leggi fillotas- siche. Ma questo criterio riesce non di rado di difficile applicazione. L’ euante possono essere ricchissime di stami. Dovrebbesi allora constatare se tutti gli stami siano in ordine fillotassico; ma per ragioni di pressione dall’ interno verso l’ esterno esercitata dai carpidii, o dall’ esterno verso l’ interno esercitata dai sepali, gli stami possono prendere il falso aspetto di ramificazioni. Possono, pure per ragione di pressione, originarsi degli aborti e rimanerne quindi in apparenza sconvolto l’ ordine fillotassico. Finalmente una parte degli stami può sdoppiarsi in due stami, o anche moltiplicarsi in 3, 4 o più stami: contingenze tutte che più o meno possono dif- TOMO X. 75 — 594 — ficoltare la ricognizione dell’ ordine fillotassico, allorchè Ie euante sono assai ricche di stami. Se si tratta invece d’ euante oligostemoni, in generale riesce più facile di con- statare la loro concordanza colle leggi fillotassiche. Ma anche qui talvolta alcun ciclo può abortire, e allora ne nasce una sovrapposizione che potrebbe essere male interpretata. Per esewipio io ritengo euante le orticacee, le olmacee, le pro- teacee, le lorantacee, santalacee ecc., sebbene gli stami siano opposti ai pezzi del perianzio. Ma verisimilmente è accaduto l aborto della corolla o di altro ciclo interposto. Così pure ritengo euante le Araliacee, sebbene contino alcuni generi poliandri, ove gli stami sono ordinati in falangi. Ma in questo special caso io credo che sia entrato in giuoco, non un processo di ramificazione, bensì un processo di sdop- piamenti assili, per cui due o più talami florali vengano a fondersi in un talamo unico, coordinando petali a petali, stami a stami, carpidii a carpidii. I fiori di Tupidanthes per esempio mi hanno sempre fatta la impressione di essere il risultato della fusione di due o quattro fiori, equivalenti, ermafroditici, nati sovra peduncoli sdoppiati. E per verità cosìfatto sdoppiamento è assai frequente nell’ edera, e ne ho osservato dei casi regolarissimi. Ma ciò che è teratologico negl’ individui può quandochessia divenire condizione normale in date specie e anche in dati generi affini. Checchè sia di ciò e di altre difficoltà che ostano talvolta a una sicura clas- sificazione delle angiosperme in euante e pseudante, registro dapprima tra le euante tutte quelle angiosperme che più rassomigliano le forme archetipe. Cioè le seguenti famiglie: Magnoliacee, Schizandree, Anonacee, Calicantee, Monimiacee (1), Laurinee, Miristicacee, Lardizabalee, Menispermacee, Berheridee, Ranuncolacee, Nelumbonee, Cabombhee, Ninfeacee, Papaveracee, Fumariacee, Crucifere, Capparidee, Resedacee, Citinee, Rafflesiacee, Aristolochiacee, Nepentee. Aggiungo le Begoniacee e Datiscee, il cui fiore maschile non può lasciar dubbio intorno alla sua condizione monotalamica. Coriariee. I fiori hanno cinque cicli isomeri, ordinati con perfetta alternanza. Timeleacee, E!eagnacee, Proteacee, Santalacee, Lorantacee. Nelle ultime tre fa- miglie la sovrapposizione degli stami ai sepali si spiegherebbe mediante l’ aborto d'un ciclo interposto. (1) Le Calicantee e le Monimiacee hanno senza dubbio fiori monotalamici, come é confermato dalla strettissima affinità colle Anonacee e Laurinee. Ma per avere il talamo più o meno incavato ad urna sono state da parecchi approssimate alle Rosacee. Questo ravvicinamento mi sembra erroneo, essendo basato sopra una mera superficiale apparenza ed analogia. Tanto varrebbe averle approssimate al genere cus. È facile comprendere che l’incavamento ad anfora può attuarsi tanto in talamo semplice, come in quelle delle citate due famiglie policicliche, quanto in un ricettacolo politalamico, qual sarebbe quello delle Rosacee, dei fichi ecc. — 595 — Ombrellifere, Araliacee, Cornee, Garriacee, Gunneracee, Caprifogliacee, Cam- panulacee, Lobeliacee, Goodenoviee, Stilidiacee, Composte, Brunoniacee, Caliceree, Valerianacee, Dipsacee. Tutte le corolliflore. L'androceo è costantemente monociclico e i suoi membri alternano coi petali. Tutte le piante collocate fra le aclamidee, cioè Casuarinee, Miricacee, Betulacee, Corilacee, Cupulifere, Salicinee, Liquidambaree, Platanee, Urticacee, Ulmacee, Ci- nocrambee, Ceratofillee, Callitrichinee, Saururee, Piperacee. Parecchie tribù di Eu- forbiacee, p. es. Ippomanee, Acalifee, Fillantee, Euforbiee, Dalechampiee. I fiori di tutte queste di piante sono straordinariamente oligandri. Anche la piccola famiglia delle Empetracee sembra essere euanta. Euante infine senza dubbio sono tutte le monocotiledoni, le quali, per riguardo all’ architettonica florale, avvicinano le Lardizabalee, le Menispermacee e qualche altra famiglia affine. $ 32. Angiosperme di dubbia o d’incerta sede. Stiracacee, Diospiracee, Sapotacee, Primulacee, Mirsinee, Plumbaginee, Ericacee, e tutte le numerose famiglie affini all’ Ericacee. Quanto all’ aggregazione di queste famiglie all’ uno o all’ altro dei grandi gruppi dell’ Enante e Pseudante rimango incerto. Le Ericacee sono senza dubbio obdiplostemoni, e eredo che possono essere considerate come tali le Primulacee, le Mirsinee, sebbene gli autori considerino queste come normalmente diplostemoni. Ammettendo qui la obdiplostemonia, nasce il sospetto che questa volta possa aver avuto luogo nel modo previsto da A. Braun, cioè per soppressione d’un ciclo di stami il più esterno. In alcuni generi gli stami veggonsi moltiplicati, e anche talvolta ordinati in falangi. Ma non escludo il dubbio che anche queste forme moltiplicate possano essere ridotte a normale fillotassica ordinazione. - Papajacee, Cucurbitacee, Passifloracee, Turneracee, Violariee, Parnassiee, Dro- seracee e qualche altra famiglia affine. La struttura dei fiori per lo più è redu- cibile a completa regolarità fillotassica, ma esse disvelano troppi vincoli di affinità con forme verisimilmente pseudante (Loasacee, Ocnacee, Bixacee, Cistinee). Inoltre sembrano opporre non piccole difficoltà i generi Smeatmannia e Barteria delle Passifloracee. Celastrinee, Ilicinee, Salvadoracee, Ippocrateacee. Gli organi dei loro fiori sono in regola fillotassica. Ma ciò che rende dubbia la loro aggregazione alle euante si è l'affinità loro colle Ramnacee, le quali sarebbero pseudante. — 596 — Tropeolee, Balsaminee. Non mi sono fin qui potuto formare un concetto chiaro sulla vera architettonica florale di queste piante, nè sui loro rapporti di affinità con altre famiglie. Molti autori le avvicinano alle Geraniacee ed Ossalidee; ma forse pare men giusta quest’ approssimazione. Infine mi riesce dubbia la collocazione delle Sarraceniacee e di qualche altra famiglia che non figura nel sovrasteso catalogo delle euante e pseudante. — 597 — SPIEGAZIONE DELLE FIGURE DELLA TAVOLA ANNESSA Fig. 1. — Sezione longitadinale d’ un fiore di Drimys Winteri (da Baron). Fig. 2, 3. — Stame di 2 specie di Popowia, a connettivo crasso e a loggie polli- niche ipofille (da BarLLox). Fig. 4. — Androceo di fiore maschile di Kadsura japonica (da Zuccarini). Fig. 5. — Gineceo di fiore femmineo di Kadsura japonica (da Zuccarini). Fig. 6. — Stame a connettivo crasso e a loggie polliniche subipofille di Kadsura japonica (da BarrLox). Fig. 7. — Uno dei corpi androfori dei fiori maschili di ricino. Figura in parte schematica, quanto alla complanazione delle ramificazioni (ingrand.). Fig. 8. — Sistema vascolare nella parte inferiore di detto corpo androforo (più ingrandito. Fig. 9. — Sistema vascolare in una delle ramificazioni superiori (più ingrand.). Fig. 10. — Flosculo maschile monandro unibratteato di ricino. 4, pedicello; b, connettivo bipartito; c, una delle due loggie pollinichej d, bratteola ascellante adnata al pedicello; e, punctum vegetationis del talamo defunto. Fig. 11. — Schema per illustrare la teoria della emersione dei corpi, androfori di ricino. .4, livello di fondazione; £, livello di emersione; D, ramifica- zioni immerse nel tessuto: E, E°, E, £°, E", ramificazioni emerse 0 7) D, ? D, 7 P) Fig. 12. sg01137 14. 5 ILL NULL BESTIE no MM119* Ig. 23. . 24. — 598 — corpi androfori; C, sepalo ascellante. Questa figura rappresenta ‘4 dell’ an- droceo di un antodio di ricino. — Schema dal vero rappresentante la varia emersione di tre cimule C, D, E, tolte a una infiorescenza di Pavia macrostachya. A, livello di fondazione; B, livello di emersione. — Una delle 5 falangi staminali dei fiori di Althaea cannabina. Le due divisioni apicali sono convertite in un organo fuleraceo. — Una delle 5 falangi staminali dei fiori di Sida Abutilon. — Due delle 5 falangi staminali dei fiori di Malvaviscus mollis. — Petalo bipartito asimmetrico di Malvaviscus. — Schema dimostrativo dell’architettonica florale delle Malvacee. %4 di antodio. A, B, C, tre dei cinque sepali ascellanti. D, D, D, tre (delle cinque) cimule due volte dicotomiche, fondate ciascuna all’ ascella d’ un sepalo, P, mezzo petalo. P, P, petalo intiero. F, mezza falange staminale; F, F, falange staminale. P£, prodotto ascellare d’ un sepalo. — Diagramma d'un antodio di malva. In questa e nelle seguenti fig. PR, significa sempre il prodotto ascellare d’ un sepalo. — Casì teratologici atti a dimostrare la duplice composizione dei petali delle Malvacee, osservati in un antodio mostruoso di A/caea rosea. . — Diagramma dell’ antodio di Melicteres Irora. . — Tubo monadelfico di detto antodio, spiegato in piano. . — Uno dei dieci stami di detto antodio. — Diagramma di un antodio di Erodium, per dimostrare un inizio della obdiplostemonia diandra. — Diagramma di un antodio di Rxlingia, ad esempio di obdiplostemonia monandra. . 25. — Diagramma di monia diandra. . 26. — Diagramma di . 27. — Diagramma di . 28. — Diagramma di . 29. — Diagramma di un antodio di Theobroma, ad esempio di obdiploste- 4 d’un antodio decapentandro di una Rosacea. x d’ altro antodio decapentandro nelle Rosacee. A, d’ un antodio icosandro nelle Rosacee. A d’un antodio triacontandro nelle Rosacee. — 599 — Do n îi pe, P Ù (AI a SU î Su fi ti Mu Datt Ugo Bernaroli, dis — A/Baraldimi, mo. Fig. 6 F. Delpino. FigB. zp lit.G. Wenk e Tigli— Bologna AMGCUNE OSSERVAZIONI SULL: ANALISI DELLE ACQUE SOLFOROSE NOTA del Professore DIOSCORIDE VITALI (Letta nella Sessione del 23 Febbraio 1890). Queste io ebbi occasione di fare, analizzando l’ acqua solforosa di Tabiano, loca- lità nel circondario di Borgo S. Donnino, provincia di Parma. Dirò prima di una reazione cromatica degli iposolfiti, che m’ accadde di trovare facendo in essa ricerca dei ioduri. Avendone ridotto a piccolo volume una grossa quantità, previa aggiunta di un po’ di carbonato di sodio, volli, a modo di saggio preliminare, ricercarvi il jodio mediante il nitrito di potassio e la salda d'amido. Ma con sorpresa a vece della nota colorazione azzurra ebbi colorazione gialla. Sapendo, per saggio precedente, che l’ acqua conteneva degli iposolfiti, sospettai che dessi potessero essere la causa del fenomeno. Questa supposizione trovò con- ferma nell’ esperienza, poichè bastò che ad una soluzione dilutissima d’ iposolfito sodico aggiungessi traccie di nitrito di potassio ed un po’ d’acido cloridrico di- luito, perchè subito si manifestasse l’indicata colorazione. Ma quale la ragione di essa? A mio avviso è la stessa, per cui un liquido, nel quale sì faccia ricerca di un nitrato, o di un nitrito con acido solforico e solfato ferroso, imbruna per biossido d’ azoto, che rendendosi libero si discioglie. Io credo che la colorazione gialla dipenda anche in questo caso dal disciogliersi che fa il biossido d’ azoto, proveniente dalla decomposizione dell’ acido nitroso in acido iposolforoso , reso libero dall’ acido aggiunto e non ancora decompostosi in anidride solforosa e zolfo. A conferma di ciò sta il fatto che il liquido si conserva giallo, finchè rimane limpido, cioè finchè l'acido iposolforoso non si è decomposto. Se ad una soluzione di iposolfito contenente nitrito di potassio si aggiunga qualche goccia di acido solforico concentrato si osserva tosto l’ ingiallimento, ma ben presto il liquido si fa lattescente per solfo libero e il color giallo scomparisce. Così pure basta lasciare a sè il liquido ingiallito per qualche tempo o dibatterlo a lungo e più presto TOMO X. 76 — 602 — scaldarlo leggermente, per vederlo decolorarsi, mentre si svolgono delle bollicine gazose che inazzuriscono una cartina bagnata con tintura di guaiaco. Questa reazione è abbastanza sensibile perchè essa si renda manifesta ancora in un liquido che contenga d’iposolfito sodico. Per ricercare quindi anche piccolissime 1 10.000 quantità d’ iposolfiti in un’ acqua solforosa, converrà innanzi tutto eliminare l’ acido solfidrico libero e combinato, trattandone un certo volume o con solfato di cadmio o dibattendo l’ acqua stessa con carbonato di piombo di recente precipitato ed umido ancora, filtrando, e concentrando a piccolo volume. Se vi sono iposolfiti si avrà ingiallimento per aggiunta di un po’ di nitrito di potassio e di un acido, non escluso l’ acetico. Questa reazione non è priva d'importanza anche per la ricerca dei nitriti. Uno dei metodi più comunemente impiegati per riconoscerli si è di aggiungere alla soluzione traccie di un joduro, un po’ di salda d’ amido e quindi un acido; la loro presenza è svelata da una colorazione azzurra. Ora questa reazione non ha più luogo allorchè sia presente un iposolfito. Così pure altri metodi di ricerca dei nitriti fondati sull’ azione ossidante dell’ acido nitroso falliscono la prova, allorchè sono presenti gli iposolfiti. Perciò la reazione trovata supplisce in questi casì alla mancanza delle altre. Ma la presenza dei tiosolfati, come già accennai, si oppone anche alla ricerca del jodo: per ottenere le reazioni fà d’ uopo eliminarli assoluta- mente o trasformarli in composti, che non abbiano su quelle influenza alcuna. Fra i diversi mezzi da me tentati due soli rispondono allo scopo. Il primo consiste nell’ aggiungere un po’ di carbonato sodico alla soluzione che contiene joduri ed iposolfiti ad un tempo, nell’ evaporare a secchezza e nel riprendere il residuo con alcool anidro, che non scioglie gli iposolfiti, sì bene i joduri. La soluzione aleoolica evaporata a secco lascierà un residuo, nel quale colle solite reazioni si potrà dimo- strare la presenza del jodo. Secondo l’ altro metodo si fa bollire la soluzione, in cui si ricercano i joduri, si aggiunge goccia a goccia una soluzione di permanganato di potassio fino a che il liquido cessi di decolorarne, sì evapora a secco, si riprende il residuo con poca acqua, al filtrato si aggiungono poche goccie di salda d’ amido e si evapora di nuovo a secchezza; raffreddata la capsulina si fa scorrere sul residuo una goccia o due di soluzione dilutissima di anidride solforosa; se nella soluzione primitiva erano presenti joduri, si ha colorazione azzurra. La ragione di questo metodo è palese; per l’ azione del permanganato di potassio gli iposolfiti vengono trasformati in solfati e i joduri in jodati, dai quali l'anidride solforosa rende libero il jodo. Applicando questi metodi ho potuto nell'acqua di Tabiano, che conteneva iposolfiti e joduri accertarmi della presenza di quest’ ultimi. Poichè è discorso della ricerca dei joduri, soggiungerò, che un altro mezzo da me trovato in questa circostanza per distinguere questi composti dai bromuri sono gli ipocloriti. Questi mentre ren- dono libero il jodo dai primi, altrettanto non ‘fanno per rispetto al bromo dei — 603 — secondi. Basta però aggiungere un acido, perchè anche il bromo si renda libero. L'acqua di Tabiano contiene forti proporzioni di solfato di calcio (q. 1.784 %,). Per questa circostanza la ricerca e il dosamento della silice riesce difficile, seguendo il solito metodo, raccomandato dagli analisti e dal Fresenius in ispecie. Questi prescrive di acidulare con acido cloridrico da 2-7 litri d’acqua minerale, di eva- porare a secchezza e calcinare debolmente il residuo, di umettarlo con acido clo- ridrico, scaldare per qualche tempo con poca acqua, filtrare, lavare, seccare e pesare la parte rimasta insolubile. Ora è facile il comprendere, come trattando con poca acqua il residuo ottenuto nel modo sopraindicato da più litri d’acqua, che conteneva tanta quantità di solfato di calcio, questo debba rimanere indisciolto per la massima parte atteso la sua pochissima solubilità, e mescolato alla poca silice, che l’acqua può contenere. D’ altra parte volendo eseguire la separazione converrebbe impiegare moltissima acqua, cioè quanta occorre a ridisciogliere il solfato di calcio; ciò che renderebbe difficile detta separazione. Ecco in qual modo io superai questa difficoltà. Aggiunsi all’ acqua carbonato d’ ammonio in lieve ec- cesso per trasformare i solfati e cloruri di calcio e di magnesio nei rispettivi sali d’ammonio e î loro metalli in carbonati insolubili ; filtrai ed acidulato il liquido con acido cloridrico, evaporai a secchezza, scaldai il residuo per eliminare i sali d’ammonio e lo trattai poi al modo solito per averne separata la silice. È noto come le acque solforose, quando rimangano a lungo esposte all’ aria intorbidario per solfo, che si rende libero. Ciò accade anche allorchè si fanno eva- porare per determinare il peso delle sostanze fisse, ossia il residuo fisso. Questa circostanza è causa d’inesattezza in questa determinazione, poichè col residuo fisso si pesa anche lo zolfo, che si depone e che apparteneva al gas solfidrico. L'ine- sattezza è tanto maggiore quanto più grande è la quantità di gas solfidrico con- tenuto in dette acque; oltredichè lo zolfo allo stato di massima divisione, com’ è ‘ quello che si separa in queste condizioni, si ossida facilmente, mutandosi in acido iposolforoso, solforoso, e solforico, i quali acidi agendo sugli altri sali e special- mente sui carbonati possono portare qualche alterazione sui medesimi e far variare anche il peso del residuo fisso. Ecco in qual modo si può evitare questo incon- veniente. Si fa passare nell'acqua solforosa una corrente di idrogeno purissimo fino a che tutto il gas solfidrico sia eliminato. Ma siccome l’ idrogeno, mentre scaccia l’ acido solfidrico, fa altrettanto per rispetto all’ anidride carbonica libera, e semicombinata, il che è causa per cui precipitano i carbonati di calcio e di magnesio da essa tenuti in soluzione, così è bene il far dopo passare una corrente di questa anidride, finchè detti carbonati ritornando a bicarbonati siano ridisciolti. Dopo non resta che evaporare l’acqua al modo solito per ottenere il residuo fisso. Il metodo -comunemente seguito per determinare la quantità delle sostanze organiche nelle acque potabili come pure nelle minerali consiste nell’ uso di una soluzione TI di permanganato di potassio in soluzione acida, come prescrive il — 604 — Kubel. Ma questo metodo applicato alle acque minerali e specialmente alle sol- forose della natura e composizione di quella che io ebbi ad analizzare, non è scevro da gravissimi inconvenienti e da cause di errori. Una e principalissima è la presenza di quantità più o meno grandi di acido solfidrico, sostanza che riduce anch’ essa il permanganato. Ma questa causa d'errore si può togliere facilmente, eliminando dall’ acqua il gas solfidrico, o con un sale di cadmio o con car- bonato di piombo. Ma non è così di altre cause. L’ acqua in esame conteneva iposolfiti, joduri, e piccole quantità di un sale ferroso, composti tutti che anch'essi riducono il permanganato, che, ossidandoli, li trasforma in solfati, jodati, e sale ferrico. In questo caso è necessario stabilir prima, come feci, quanto ciascuno di questi composti riduca e decolori di detta soluzione, e fatti gli opportuni calcoli, dalla quantità totale di soluzione ridotta, sottrarre quella, la cui decolorazione è dovuta agli anzidetti composti riduttori. Così anche in questi casi si può determi- nare con certa approssimazione la quantità delle sostanze organiche. Ma sarà mi- glior partito ricorrere all’ analisi elementare delle sostanze organiche contenute nel residuo dell’ evaporazione delle acque medesime, seguendo le norme suggerite a questo proposito dal Frankland. Anche al metodo di ricerca del litio in quest’ acqua, che era tanto ricca di solfato di calcio, arrecai qualche modificazione. È noto che per riconoscere e determinare quantitativamente il litio è necessario trasformarlo prima in cloruro, che si può poi facilmente separare dagli altri sali, cui può trovarsi commisto, con un miscuglio di alcol e di etere. Per effettuare questa trasformazione ecco come operai. Innanzi tutto concentrai alquanto alcuni litri d’acqua minerale, e, separati per filtrazione il solfato di calcio e i carbonati terrosi depostisi, trattai il liquido con cloruro di bario filtrai di nuovo, e al filtrato aggiunsi lieve eccesso di soluzione allungata di carbonato d’ammonio. Separato il nuovo precipitato formatosi, evaporai a secco il liquido limpido e ne scaldai il residuo fino a totale eliminazione dei sali ammo- niacali ; ripresi quest’ ultimo con poco acido cloridrico diluito, evaporai a secco a lieve calore la soluzione acida e trattai il residuo al solito col miscuglio alcoo- lico-etereo. Nell’acqua in esame determinai la quantità di gas solfidrico volumetricamente col mezzo di soluzione titolata di jodo e per pesate, trasformandolo prima in sol- furo di cadmio, poi in acido solforico e in fine in solfato baritico. La quantità totale dell'anidride carbonica fu stabilita trattando un determinato volume di acqua con cloruro di bario ammoniacale, e trasformando poscia il carbonato di bario in solfato. Col metodo di Pettenkofer si determinò la quantità di anidride carbonica libera e semicombinata. Per la ricerca e determinazione quantitativa degli altri gas diversi dal solfidrico e dalla anidride carbonica trovai utilissimo il servirmi dell’ azotometro Schiff, che riempii di soluzione al }, di potassa caustica e misi in comunicazione con un pallone di nota capacità, e pieno dell’acqua sol- forosa. Feci bollire finchè tutti i gas si fossero svolti e la soluzione alcalina nella — 605 — campanella si fosse sufficientemente riscaldata. L'acido solfidrico, e l’ anidride car- bonica sono naturalmente trattenute dalla potassa; gli altri gas diversi da questi si svolgono nella campanella. Raffreddato l’ apparecchio, misurato e corretto il volume per rispetto alla pressione e alla temperatura introdussi per mezzo del- l imbuto a chiave sovrastante alla campanella una soluzione concentrata di piro- gallolo, agitando convenientemente, ma la niuna maggior colorazione di questa soluzione e la niuna diminuzione di volume del gas, mi convinsero che 1’ acqua di Tabiano, come in generale le acque ricche di gas solfidrico, non conteneva ossigeno, e che il gas raccolto nella campanella non era che azoto, come poi confermai con altre esperienze. Le acque solforose, che contengono solo acido solfidrico libero non possono contenere arsenico in soluzione, perchè questo gas con questo metalloide forma solfuro d’arsenico insolubile. Ma la presenza dell’arsenico è possibile in quelle acque, allorchè oltre gas solfidrico, contengono, come quella di Tabiano un solfuro alcalino, nel quale il solfuro d’ arsenico è solubile. Ecco come operai per farne ricerca. Acidulai leggermente una certa quantità d’acqua con acido solforico di- luito, evaporai a secchezza ed il residuo sottilmente polverizzato feci digerire per 24 ore nell’ ammoniaca; il filtrato ammoniacale ridussi a secco, e il residuo feci bollire con acido nitrico; la soluzione nitrica evaporai a secco, scaldai il nuovo residuo con acido solforico, diluii con acqua, e il liquido sottoposi alla prova dell’ arsenico nell’ apparecchio di Marsh perfezionato dal Selmi. La parte lasciata indisciolta dall’ammoniaca trattai a caldo con acido nitrico, la soluzione nitrica evaporai a secco, e nel vesiduo riscaldato con acido solforico ricercai l’ arsenico nel modo anzidetto, ma con risultato negativo come nel primo caso. 2 n Ò "i i a Rs » d i tei. 200 e is a i n cerato i rai ge sini 1 nl È sro và Cinenviota. (RZ. cetona d dini Fab cossa RI spettatori; deva aitoiose All rire gi Too nali: catania Ace ian Pennine 8 nSbirei bl PGAAATA sg saline vata Atac erede i IDE: edteisnte lei snmimtina! “fai Biege bll atccaglizie plbrec assai sro fo siediti Rioie dA NE Fk desc sot vedi LO ù vin n) RASO Ù preci nnznià iti Pal Di if dpr TANI PUILLIONE LL ha rpg di = purea Mpa pren ln tei put arrai ch } LA Monde i Ni pirate cibi cn pera MIND CONCA Ni MURO una / n patate fb et ich i Sona srt ì Pt n dit Hees: ca Nos Rialto mpri 4 i tt “dossi sab Na se agri sa sit | Apt aria A ì ATE MÙ PT I ARI v4d, & COLI ALU cn e ti. ripanva * Soi 1 4 ba VANI tia ‘sto LA “miarite. DA A: Dpes fi ti Viti De MI 7 ù zi ui pr Ù anco sant n are FARE tape sk oneietò ‘ata PI : ì È fap, ea raitne AZIONE DELLA COCAINA SULLA CONTRATTILITÀ DEL PROTOPLASMA ES EEErNIZ5BI DEL Prof. PIETRO ALBERTONI (Lette nella Sessione ordinaria del 9 Marzo 1890). IE Azione paralizzante della cocaina sul protoplasma. In un lavoro fatto sotto la mia direzione è stato dimostrato dal Sighicelli, (1) che la cocaina applicata nell’ occhio del coniglio non solo abolisce la sensibilità, ma anche la contrattilità dei muscoli striati del bulbo oculare e quella dei muscoli lisci dello sfintere iridale. Essi infatti non reagiscono più per l’ applicazione diretta di una corrente elettrica. Anche se si applica una soluzione di cocaina sull’ intestino e lo sì eccita poi con una corrente faradica non si ha contrazione. Se Anrep e Kobert non hanno veduto un’ azione della cocaina sui muscoli dipende dalla circostanza che non portavano la soluzione di cocaina convenientemente a contatto della fibra muscolare. Invece U. Mosso (2) facendo agire nelle circolazioni artificiali forti dosi di cocaina sulla parete vasale vedeva succedere la paralisi delle loro fibre mu- scolari lisce. Se la fibra muscolare è una massa di protoplasma contrattile il risultato pre- cedentemente esposto faceva presagire che la cocaina sia un veleno protoplasma- tico nel senso fisiologico. Le osservazioni pubblicate posteriormente da Tumissis, da Carvalho, da Aducco sulla capacità che ha la cocaina, applicata sulla corteccia cerebrale di spegnerne l’eccitabilità, s1 accordano bene con questo concetto. (1) Sighicelli Celso, Contributo allo studio dell’azione fisiologica della cocaina. Ann. di Chi- mica e Farmacol. 1885, pg. 350. (2) Atti della R. Accademia dei Lincei, Vol. III — 608 — Le ricerche che passiamo a descrivere sono appunto destinate a stabilire esattamente l’ influenza della cocaina sui movimenti protoplasmatici. Movimenti protoplasmatici. Le esperienze per verificare l’ influenza della cocaina sui movimenti protopla- smatici furono numerose ed eseguite insieme ai miei allievi Ferrari e Appollonio. Tutte hanno dato concordemente il risultato che i detti movimenti cessano, anche nelle più opportune condizioni perchè si abbiano a mantenere, facendo agire solu- zioni del 0,5-2% di cocaina. 1. Larve di lepidotteri messe in detta soluzione di cocaina perdono quasi istantaneamente la facoltà di eseguire i loro velocissimi movimenti vorticosi. Ri- mettendole nell'acqua madre da cui furono tolte riprendono a poco a poco la loro attitudine a muoversi, ma in grado molto minore. Dopo 24 ore alcuni di tali orga- nismi, che sono stati pochi minuti nella cocaina presentano dei lievissimi movi- menti e danno appena segni di vitalità. Quelli lasciati nella cocaina sono morti. Si ripete l’esperienza sopra due larve di lepidotteri. Iu pochi minuti nella detta miscela di soluzione di cocaina 0,5 % e acqua, parti eguali, esse perdono la loro attività e non la riacquistano stando per mezz’ ora nell'acqua madre. 2. Dobbiamo specialmente a Frohmann (1) la conoscenza delle curiose me- tamorfosi che subiscono le cellule del sangue di gambero d’ acqua dolce, che Frohmann chiama “ Kurnerzellen, per effetto della grande contrattilità del loro pro- toplasma. Noi abbiamo approfittato di questo materiale di studio tanto opportuno. Se sì pone una goccia di sangue di gambero, mescolato ad una goccia di acqua distillata sotto un vetrino, si osservano le metamorfosi rapidissime delle cellule a grossi granuli, i quali da prima stanno raggruppati poi si distendono, seguendo i movimenti del protoplasma e scompaiono, perchè si disfanno a poco a poco. Una soluzione di cocaina al 5 © manifesta la sua azione rendendo più lento lo svolgersi di questi fenomeni; e non permettendo al protoplasma di assumere quelle forme svariate che dipendono dai suoi movimenti ameboidi. 3. Si pone la membrana nictitante della rana nell’'umor acqueo e vi si fa arrivare una corrente faradica. Quando la corrente passa si vedono le cellule delle glandule mucose, sparse sulla mictitante, rigonfiarsi, e spingersi al centro occlu- dendo il lume. Questo esperimento riesce facendo agire subito la corrente, poichè dopo poco tempo si perde la eccitabilità. Non riesce se il preparato viene montato nella soluzione di cloruro di sodio 0,75, invece che nell’ umore acqueo. Ebbene se si fa agire una soluzione di cocaina nel cloruro di sodio a 0,75% (1) C. Frohmann, Untersuchungen iùber Struktur, Lebenserscheinung ecc. Jena 1884. — 609 — nell’ occhio della rana; poi si osserva la membrana nictitante immersa nell’ umor acqueo questi movimenti mancano. Se si ripete l’ esperimento lavando l’ occhio con cloruro di sodio, senza cocaina, e montando il preparato in umore acqueo si vedrà che le cellule glandulari rispondono alla corrente. 4. Lo sperma ottenuto da testicoli di cavia e di coniglio, appena esportati all’ animale, era portato sopra un portaoggetti entro una goccia di una soluzione di cloruro di sodio al 0,75%. Altra porzione dello stesso sperma era invece por- tata sopra un portaoggetto entro una goccia della stessa soluzione di cloruro sodico, a cui in precedenza era stata aggiunta la cocaina nella proporzione del 2 “x. Coperte le preparazioni con un coprioggetti, tenuto alquanto sollevato da due setole disposte sotto ai suoi bordi, potevano essere inessi in opera obbiettivi di forza considerevole senza pericolo di perturbare il campo dell’ osservazione coi contatti accidentali tra il liquido e la lente. Gli spermatozoi nella soluzione cocainica dopo pochi minuti perdono la vivacità de loro movimenti. Essi sembrano dapprima come impaniati, o messi in un liquido denso, la coda ha un movimento assai limitato. Poi alcuni perdono affatto la mo- bilità, mentre altri la conservano più a lungo, quantunque imperfettissima. Sola- ‘4 ora, 0 più, sono tutti diventati immobili. Invece gli stessi spermatozoi mente dopo nelle soluzioni di cloruro sodico conservano anche dopo molte ore la loro sorpren- dente vivacità iniziale. In altre esperienze dopo aver montato lo sperma in una goccia di soluzione di cloruro di sodio, si introduceva nella medesima un piccolissimo cristallino di cocaina (cloridrato) e riusciva bello vedere che mano mano andava effettuandosi la soluzione della cocaina gli spermatozoi più vicini alla medesima diventavano pei primi immobili, e poi via via quelli più lontani. Gli spermatozoi di rana nelle soluzioni di cocaina 0,5-2 ° perdono rapi- damente la loro mobilità. I primi a diventare immobili sono gli spermatozoi in via di sviluppo che si presentano sotto forme diversissime. I maturi resistono più a lungo. Mentre detti spermatozoi lasciati a sè tanto nella soluzione normale che nell'acqua assumono una forma curva nel morire, quelli trattati con una soluzione di cocaina muoiono conservando la loro forma diritta. Lo stesso fatto sì osserva negli organismi inferiori, specialmente nelle anguicule. Movimento vibratile. La cocaina esercita un’ influenza paralizzante anche su questa forma di movi- mento, come risulta .da esperienze fatte principalmente coll’ epitelio vibratile di rana. Raschiando il palato della rana e sottoponendo l’epitelio direttamente all’azione della soluzione di cocaina 0,5 °, e meglio al 2 %, si osservano i fatti seguenti: TOMO X. DU — 610 — Le cellule cigliate isolate perdono quasi subito il loro movimento. Ciò sì vede bene aggiungendo alla soluzione di cocaina una piccola goccia di una soluzione allungatissima di violetto di genziana; appena la cellula è toccata dal liquido co- lorato si vede che risente l’ azione della cocaina. Le cellule cigliate in gruppo resistono più a lungo; perchè il liquido non le tocca così presto e così completamente come le cellule isolate. Talvolta il tempo necessario a chiudere ed a mettere a fuoco il preparato era sufficiente a paralizzare completamente ogni cellula; altre volte si faceva ancora in tempo per sorprendere qua e là qualche debole e lenta vibrazione, che in pochi minuti cessava. Per osservare fino dall’ inizio gli effetti della cocaina si ebbe cura di far passare qualche goccia di soluzione cocainica sotto al coprioggetti di quelle preparazioni che montate in cloruro sodico, erano già messe a fuoco e presentavano un pro- nunciatissimo movimento. Appena la goccia s' insinuava sotto il coprioggetti, si poteva osservare uno straordinario rallentamento delle oscillazioni in tutta la preparazione e special- mente verso il lato pel quale la goccia era entrata. In pochi minuti il movimento sì circoscriveva in gruppi limitatissimi di cellule, od anche in una cellula sola ; poi si faceva lentissimo, debole, quasi impercettibile, e finalmente cessava del tutto. I movimenti vibratili si conservano vivacissimi nelle soluzioni di cloruro di sodio, e ciò per molte ore; manifestissimo il movimento in quelle cellule che si presentavano di profilo; meno evidente, ma parimente vivace, in quelle che offro- no di fronte la superficie cigliata. Azione della cocaina sulla diapedesi. Come campo per le nostre ricerche intorno all’ azione della cocaina sulla dia- pedesi scegliemmo sempre il mesenterio della rana. Gli esperimenti furono con- dotti in condizioni pressochè identiche. Ogni rana veniva immobilizzata con 25 centgr. di una soluzione di curaro al 0,5%, poi disposta sul dorso ed incisa nel- l'addome sulla linea ascellare sinistra. Estratta una certa parte dell’ intestino, veniva fissata con spilli sui bordi di un foro praticato sopra un grande portaoggetti di legno. Il mesenterio così disteso offriva un’ area di circa un cent. quadr. e si ebbe anche somma cura sia di evitare le emorragie, sia di non alterare il circolo coi troppo facili stiramenti: la persistenza della corrente sanguigua in tutti i vasi, anche minimi, indicava con sicurezza Ja bontà della preparazione. Coperta la rana con carta bibula inumidita, veniva fermata sotto al microscopio, rimanendo ad una temperatura ambiente variabile in tutte le esperienze fra i 10° ed i 15° centigradi. Alcune rane preparate in tal modo servirono solamente a precisare le fasi della diapedesi nelle particolari condizioni dei nostri esperimenti: e in queste il mesen- — 611 — terio veniva irrigato con una soluzione di cloruro di sodio al 0,75 %. Altre furono destinate a dimostrare l’azione della cocaina; e in queste il mesenterio veniva irrigato con soluzioni di cloruro di sodio al 0,75 % alle quali era stata aggiunta la cocaina in proporzione del 0,5—2,0%%. Perchè poi l’ azione delle soluzioni potesse prolungarsi con pari regolarità an- che duraute la notte, venne impiegato un apparecchio semplicissimo, una specie di contagocce rigonfio nel mezzo e ad estremità capillare, il quale, sostenuto da un piede presso il microscopio, lasciava cadere una goccia di liquido sopra il mesen- terio ad intervalli regolari di 3 minuti. Ora ecco quanto si può osservare nei mesenteri irrigati col cloruro di sodio. Due ore dopo l'operazione la corrente sanguigna è notevolmente rallentata ; in qualche piccola vena e in molti capillari è completamente arrestata; e in questi sono evidenti ì globuli rossi misti quà e là a qualche globulo bianco. Nelle pic- cole vene poi e nei capillari in cui la circolazione continua, dalla 3° alla 4% ora sì nota una marcatissima disposizione marginale dei globuli bianchi, i quali sul profilo interno della parete vascolare appariscono disposti in uno strato semplice e sulla faccia superiore del vaso assumono nel loro insieme un aspetto quasi di cri- vello. Contemporaneamente nei capillari comincia la diapedesi; e dopo un’ ora circa si può sorprendere anche nelle vene piccole e medie. Essa continua fino alla morte della rana, che avviene in media dopo 24 ore. Nei mesenteri irrigati con soluzione di cocaina ai 0,5 ° si osservano precisamente gli stessi fatti. Solamente qualche capillare fin dalla 3° ora rimane per un certo tratto vuoto di globuli rossi, contenendo invece un numero più o meno notevole di globuli bianchi aderenti alle pareti. Nei mesenteri irrigati con soluzioni di cocaina al 2% si osserva anzitutto una marcata disposizione marginale dei globuli bianchi già % d’ora dopo l'operazione e senza alcun rallentamento della circolazione. Nel fenomeno hanno parte assai più globuli che non nei casi in cui si era impiegato il cloruro di sodio, e ciò spe- cialmente nei capillari. -—— Dopo la 2* ora del resto la corrente si rallenta e in qualche piccola vena e in molti capillari si arresta. Nei capillari che più non fun- zionano mancano per lunghissimi tratti i globuli rossi e spiccano invece accumuli compatti di globuli bianchi. D'allora in poi la corrente si rallenta sempre più; ma, fino alla morte dell’ animale, cioè in media per 24 ore, il numero dei globuli parie- tali non sembra nè aumentato nè diminuito. Nessun globulo si rinviene al di fuori dei vasi. Nei casi però, e furono i primi nella serie delle nostre esperienze, in cui l’a- zione della cocaina restò sospesa dopo la 12° ora i fatti sono alquanto diversi. Nell'ora 20° si trovano ancora i globuli bianchi nel lume dei capillari obliterati, ma i globuli marginali dei vasi in attività sono diminuiti di numero. Molti invece sono in via d’ emigrazione o già emigrati dai vasi. Se allora la cocaina entra di nuovo in attività, i globuli ancor aderenti alle pareti non diminuiscono più; anzi — 612 — sembra il contrario, cioè che nuovi globuli aderiscano alle pareti nelle poche ore in cui l’animale rimane in vita. Modificazioni della corrente propria muscolare e rervosa per l’azione della cocaina. Le molteplici esperienze vennero istituite sopra sartorî di rana e sciatici di coniglio. Ridotti i due sartorìî d’ una rana a due segmenti della stessa lunghezza ed immergendo l’ uno in una soluzione di cloruro di sodio al 0,6 %, l altro in una soluzione di cocaina idrocl. al 2 %, si può notare che la persistenza delle correnti è ben diversa nei due segmenti. Prendendo per misura della forza elettromotrice la deviazione galvanometrica, si ottiene per risultato che le correnti, derivate fra l’equatore geometrico ed il centro delle sezioni trasverse, si fanno più deboli assai nel segmento immerso nella cocaina che non in quello immerso nel cloruro di sodio. Così se la deviazione iniziale era per ambidue di 80°, dopo due ore pel primo è di 14°, per l’altro ancora di 60°. Come ultimo effetto si ha che nel se- gmento cocainizzato le correnti cessano dopo 6-8 ore, mentre nell’ altro sono ancora apprezzabili dopo 10-12 ore. Prendendo invece due segmenti nervosi abbastanza lunghi e tenendo l'uno di essi in una piccola camera umida, l’altro pure in una camera umida ma sospeso per l’ equatore all’ estremità d’ una pipetta ricurva piena della soluzione cocainica, si osservano risultati opposti a quelli dell’ esperienza precedente. Dopo 4 ore il segmento tenuto nella camera umida per disposizioni massimamente attive dà una deviazione di 30°, mentre il cocainizzato dà una deviazione di 50°. Per tal modo le correnti cessano nel primo dopo 10 ore, nel secondo dopo 14. Se infine si fa agire la cocaina sopra una delle due estremità d’ un segmento muscolare o nervoso, si osserva che da quel lato la sezione trasversa perde gra- datamente la negatività e finisce col farsi positiva rispetto all’ equatore. Così se le correnti derivate fra l’equatore ed una delle due sezioni erano in principio di 75°, dopo due ore le stesse disposizioni danno per la superficie cocainizzata una devia- zione di 4°, per l’altra di 40°. Dopo 4 ore, mentre questa è ancora negativa di 30°, la cocainizzata è positiva di 12°. Sospesa allora l’ azione della cocaina e lavata la sezione nel cloruro di sodio, la positività sua va rapidamente scemando e dopo due ore, unita all'equatore, non dà alcuna corrente. È però positiva rispetto all’al- tra sezione con una intensità di 10°; e tale positività si conserva fino al cessare completo d'ogni fenomeno elettrico; fino cioè dopo 10-12 ore. È notevole che tale corrente derivata dalle due sezioni è precisamente eguale per intensità a quella che si sviluppa fra la sezione non cocainizzata e l’ equatore. MR 11 ped II. Azione eccitante della cocaina sul protoplasma. Le esperienze precedenti mettono in piena evidenza l’ influenza paralizzante della cocaina sul protoplasma e valgono a spiegare sia l’ anestesia locale, sia molti fenomeni della sua azione generale. Ma è certo che tanto nell’ applicazione locale, quanto in seguito all’assorbimento della sostanza si osservano degli effetti, i quali vengono interpretati nel senso di una azione eccitante della cocaina. Così Gold- scheider (1) ha osservato che alla perdita della sensibilità precede una spiccata iperalgesia per l’ applicazione della cocaina sulla lingua. Le convulsioni, l’aumento di temperatura per l’ iniezione di certe dosi di cocaina dimostrano la sua azione generale eccitante. Abbiamo quindi cercato di indagare se l’azione eccitante della cocaina sì sveli anche per la sua maniera di comportarsi verso il protoplasma. Mentre è facile riconoscere l’azione paralizzante dalla diminuzione o dalla perdita di con- trattilità del protoplasma, non è egualmente facile riconoscere l’azione eccitante. Essa non può dedursi che dalla maggiore intensità del movimento, il quale è per sè difficile a misurarsi. Siamo riusciti ad ottenere dei risultati specialmente convincenti misurando la velocità del movimento vibratile nella rana. Fermata una rana in posizione dorsale e colla bocca ben aperta, è facile veri- ficare che particelle di carbone portate sul suo palato si avanzano con discreta celerità verso la faringe. Ora, poichè l’ avanzarsi delle dette particelle si produce pel movimento delle ciglia vibratili sottoposte, viene troppo naturale l’ idea che la rapidità con cui le particelle scorrono sul palato deve dipendere dalla rapidità dei movimenti vibratili. Tale mezzo assai comodo per misurare l'intensità dei movimenti vibratili deve del resto essere impiegato con somma cautela. Piccole quantità di liquido poste sul palato, e perfino quegli scarsi prodotti di secrezione che si possono raccogliere in brevissimo tempo, son capaci di far variare assai i risultati delle esperienze. Una particella carboniosa che attraversa il palato in un minuto può ad esempio dopo pochi minuti, e pel solo accumularsi delle secrezioni, impiegare 5 e perfino 10 minuti per percorrere la stessa strada. Per evitare queste cause d’ errore conviene quindi levare dalla mucosa ogni eccesso di liquido immediatamente prima di ogni singola osservazione. Il contatto (1) Centralbl. f. die Med, Wiss. 1886, pg. 724. — 0614 — di una carta bibula sottile corrisponde benissimo allo scopo senza ledere minima- mente l’ epitelio vibratile. È così che in un periodo di tempo abbastanza lungo si mantiene invariata la celerità colla quale vengono trasportate le particelle di carbone. Pare invece che l'inclinazione del palato non abbia alcuna influenza sulla celerità del trasporto; nè ciò si spiega difficilmente considerando la leggerezza delle particelle da trasportare. Tuttavia per essere scrupolosi è bene di tenere la rana in una posizione costante e inoltre di esperimentare sulla parte posteriore e mediana del palato, la quale si presenta ben livellata in tutta la lunghezza. Conviene far attenzione ancora al fatto che le particelle poste sul palato non cominciano a muoversi immediatamente, ma solo dopo un certo tempo e cioè dopo che lentamente si sono messe in contatto colle ciglia vibratili. È dell’ iniziarsi del movimento che si deve tenere conto nel computare coll’orologio la durata del tragitto lungo il palato. Le esperienze colla cocaina furono condotte colle precauzioni accennate. Le soluzioni di cocaina, fatte in soluzioni di cloruro di sodio al 0,75%, nonchè quella di cloruro di sodio al 0,75 %; erano versate in 4 gocce sul palato e pre- cisamente sul campo d’ osservazione; vi erano poi lasciate per 1 minuto, La ripù- litura colla carta bibula non solo seguiva ogni irrigazione, ma precedeva tutte le osservazioni quando queste si ripetevano senza nuove aggiunte di liquido. Il palato di ogni rana veniva dapprima saggiato senza l’ aggiunta di liquido. Si bagnava quindi col cloruro di sodio e poi si faceva agire la cocaina. I risultati delle esperienze sono assolutamente costanti in tutte le rane. Il rapporto tra la velocità del trasporto in condizioni fisiologiche e quella modificata dalle soluzioni anzidette resta, per prove eguali, invariata. Tra le varie rane, sono qui scelte ad esempio quelle in cui prima di far agire alcuna soluzione, il trasporto sopra una parte ben determinata del palato si faceva in 2 minuti. Le soluzioni di cloruro di sodio al 0,75‘ accelerano il movimento, in modo che il trasporto si fa in 1 min. Ciò si verifica per un periodo variabile fra 15-20 min.; poi la celerità ritorna al grado iniziale (2 min.). Il fenomeno si ripete per nuove irrigazioni. La soluzione di cocaina al 2° rallenta il movimento, in modo che il trasporto si fa in 8-10-12 minuti. Lentamente l’effetto s° indebolisce: in prove successive il . trasporto si fa in 8-4 min., e, dopo 20 minuti circa, ritorna alla velocità iniziale. È notevole che anche prolungando il contatto di questa soluzione colla mucosa per 10-30 min., l’azione è identica e va sparendo nello stesso modo. — In tutti i casi, interrompendo l’ azione della cocaina al 2°, dopo 5 minuti lavando colla soluzione di cloruro di sodio, la velocità ritorna tosto al grado iniziale. La soluzione di cocaina al 0,5% rallenta il movimento in eguale misura: solo la sua azione è di minore durata: e la velocità iniziale ritorna dopo 5-10 min. La soluzione di cocaina al 0,25 % produce invece un acceleramento del niovi- — 615 — mento: il trasporto si fa in '4 minuto. Tale acceleramento dura 3-5 minuti e dà luogo poi alla velocità iniziale. Una nuova irrigazione di cocaina al 0,25 % ripro- duce il fenomeno, il quale si ripete anche alla 3*, 4%, 5° irrigazione. Però nelle irrigazioni successive alla 1°, la velocità scema ogni volta di più, di modo che al 3°-5° minuto la velocità si fa minore della iniziale, perdurando il trasporto 2-3 minuti. In questi stadî di velocità diminuita il cloruro di sodio può portare la velocità ad 1% minuto; ma questo acceleramento relativo scompare già dopo 5 minuti per dar luogo ad un rallentamento che richiede pel trasporto 4 minuti. Anche questo rallentamento di 4 min. che succede all’ azione del cloruro di sodio è tolto da una nuova irrigazione di cocaina al 0,25%: il trasporto si fa allora di nuovo in, minuto, ma il rallentamento successivo è più pronunciato, poichè dopo 5 minuti, il trasporto si fa in 2-3-5 minuti. Dopo aver irrigato il palato con una soluzicne al 2% di cocaina, facendo agire la soluzione al 0,25% si osserva un acceleramento: il trasporto si fa in 1 min., e dopo 5 minuti la velocità ritorna al grado iniziale. Per concludere, gli effetti della cocaina sui movimenti vibratili delle cellule che sono ancora in connessione coll’ organismo vivente son diversi da quelli che si producono su cellule staccate: gli effetti paralizzanti sono passeggeri. Ma quello che è più importante, si osserva un’ azione eccitante per le soluzioni deboli. L’acceleramento infatti prodotto dalle soluzioni di cocaina al 0,25% è superiore a quello prodotto dal cloruro di sodio (il quadruplo in confronto del doppio); e l’ effetto eccitante superiore a quello del cloruro di sodio si manifesta anche dopo l’ azione della soluzione di cocaina al 2%. Però il crescente indeboli- mento successivo agli stati di ripetuta eccitazione colle soluzioni al 0,25 °/ fa pensare ad una vera azione fisiologica. Di più il fatto che l’azione eccitante dura tanto meno quanto più essa è forte fa ritenere possibile che anche le soluzioni forti pro- ducono un periodo di eccitazione il quale sia di brevissima durata. CONCLUSIONE La cocaina ha un azione eccitante o paralizzante sul protoplasma, a seconda della dose. L'effetto paralizzante è naturalmente più facile a dimostrarsi e risulta evidente da molteplici esperienze: 1. Le larve di lepidotteri e le amebe in soluzioni fisiologiche di cloruro di sodio contenenti il !4 - 2%, di cocaina perdono rapidamente il loro movimento e lo riacquistano portandole nell’ acqua madre. 2. Le grandi cellule del sangue di gambero non prendono più quelle forme svariate dovute ai loro movimenti ameboidi. 3. Le cellule delle glandule mucose sparse sulla membrana nictitante della rana non reagiscono più alla corrente elettrica. — 616 — 4. Gli spermatozoi diventano quasi subito immobili. 5. Le ciglia vibratili cessano di muoversi e di trasportare i corpi stranieri. 6. La diapedesi dei leucociti non ha più luogo. 7. La corrente muscolare e nervosa si spegne più rapidamente. Questa azione paralizzante della cocaina sul protoplasma spiega molti effetti della medesima. Prima di tutto l’ anestesia locale che produce. Ed è notevole che molti altri anestetici, ad es. il cloroformio e il fenolo, sono veleni protoplasma- tici. La perdita dell’ irritabilità muscolare, tanto dei muscoli striati, che dei lisci (Albertoni e Sighicelli, U. Mosso) e dell’eccitabilità cerebrale (Tumissis, Carvalho, Aducco ) dipende evidentemente dalla stessa azione paralizzante della cocaina sul protoplasma. Si potrebbe credere ad una differenza fra protoplasma degli elementi sensibili e motori visto che la cocaina sembra abolire la sensibilità e conservare la motilità. Ma la differenza non è che apparente e di grado; infatti Alms (1) ha dimostrato che i nervi sensibili vengono è vero prima attaccati, ma poi sono lesi i motori. Anzi la maniera di comportarsi della sostanza verso il protoplasma rende ragione anche di queste differenze perchè la rapidità degli effetti non è eguale sugli spermatozoi, sulle ciglia vibratili, sui bacteri della putrefazione. L'azione eccitante della cocaina sul protoplasma risulta dimostrata dall’aumen- tata intensità e velocità dei movimenti vibratili e dell’ azione eccitante sui muscoli. Si tratta, in tutti i casi, di un’ azione puramente fisiologica che scompare pron- tamente una volta rimossa la sostanza e ristabilite le condizioni primiere. Naturalmente da queste azioni elementari della cocaina si devono ripetere i suoi effetti generali; dal momento che tutte le funzioni dipendono dalle proprietà del protoplasma. E ben a ragione il Mantegazza aveva decantato questa sostanza come fornita di meravigliose virtù. INTONA Dopo letta questa comunicazione all'Accademia il Dott. Ugolino Mosso ha pubblicato nei Num. 1, 2, 4, 5, 6 dei giornale della Accademia di Medicina di Torino due notevoli lavori sulla cocaina, nei quali studiando la sostanza sotto altri puuti di vista descrive però molti fatti che sì accordano coi miei risultati. (1) Alms, H., Die Virkung des Cocains auf die peripherischen Nerven. Du Bois Reymond’s Arch. 1886. Suppl. B. pg. 293-310. SULLA RESISTENZA DEL VIRUS TETANICO AGLI AGENTI CHIMICI E FISICI COMUNICAZIONE PRE VENCITIÙVIA DEL PROF. GUIDO TIZZONI E DELLA D.° GIUSEPPINA CATTANI (fatta nella Seduta 13 Aprile 1890) La resistenza del bacillo del tetano ai disinfettanti è già stata studiata dal Sormani e dal Kitasato. Siccome per altro le ricerche del primo furono compiute su culture doppie invece che pure, e quelle del secondo, riferibili a materiale puro, rimasero limitate a poche sostanze chimiche e al calore umido, così noi abbiamo creduto che, stante il suo grande interesse per la pratica, tale questione meritasse uno studio ulteriore esteso a molti disinfettanti ed eseguito su culture pure, come noi abbiamo la fortuna di possederne. Ciò che ci parve tanto più interessante in quanto, come abbiamo già esposto in altra comunicazione, il nostro bacillo del tetano di fronte a quello del Kitasato, presenta qualche notevole differenza biologica. Nelle nostre ricerche sulla resistenza del virus tetanico, ci siamo valsi di stri- scioline di seta sfilacciate che, dopo essere state imbevute con colture pure e spo- rigene di tetano, erano lasciate disseccare e poi sottoposte, per diverso tempo, all’azione dei disinfettanti. Dopo accurato lavaggio in acqua distillata sterilizzata, queste striscioline erano messe in coltura in brodo sotto Idrogeno, oppure inne- state sotto la pelle di conigli. Ecco il risultato da noi ottenuto. Un buon numero delle sostanze da noi sperimentate non dispiegano veruna azione sulla vitalità del bacillo del tetano allo stato sporigeno, nemmeno dopo 24 ore o più di contatto. Queste sostanze sono : Acido fenico 5 © I È. ; Acido borico 4 “4: TOMO X. 78 — 618 — Acido salicilico in soluzione acquosa 0.25 %. Acido salicilico in soluzione alcoolica 5 %. Solfofenato di zinco 5 0%. Creolina 2 %. Cloralio 5 %. Alcool assoluto. Etere. Solfato di rame 5 %. Solfato ferroso 5 %. Permanganato di Potassa 1 %;: Cloruro di zinco 5 %. Idrossilamina 2 %. Iodoforme polverizzato. Iodolo polverizzato. ITodoforme in etere 1 su 10. Iodolo in etere 1: 10. Iodo in soluzione eterea 1 %, Essenza di cannella di Ceylan. Cloruro di ferro 5 %. Resorcina 5 0%. Acido solforico puro 3 %. Acido cloridrico puro 3 %. Acido lattico 10 %. Timolo 1 %;: Naftol 8 in alcool 5 %;: Naftol 8 parti 1 più canfora parti 2. Altre sostanze invece possono uccidere le spore del bacillo del tetano in un tempo relativamente breve, compreso entro le 10 ore. Queste sostanze più attive sono : Nitrato d’ Argento 1 %. Nitrato d’ Argento 1 %o Sublimato 1 % più Acido cloridrico 0.5 %. Sublimato 1 %. Mescolanza composta di Sublimato 1% Acido fenico 5 %. Acido clori- drico 0.5 %, Sublimato 2 %y. Acido cloridrico 1 %. Sublimato 1 %, più Acido cloridrico 0.5 %. Sublimato 1 %o Creolina 5 %. Acqua di jodio. — 619 — Acido fenico 5 % più Acido cloridrico 0.5 %. Permanganato di Potassa 1 %. Il Nitrato d’ Argento in soluzione all’ 1 % uccide le spore del bacillo del tetano in un solo minuto: in soluzione all’ 1%, in cinque minuti. Ciò che conferma anche pel tetano il grande potere disinfettante del Nitrato di Argento già dimo- strato per altri batteri nel laboratorio del Baumgarten da Gustavo Jerosch. Il Sublimato in soluzione forte (1 %) e la mescolanza di Sublimato 1%, Acido Fenico 5 %, Acido Cloridrico 0.5 % tengono subito dietro per potere disinfettante al Nitrato di Argento, uccidendo le spore del bacillo del tetano in circa 10 minuti. Il Sublimato in soluzioni meno forti, anche coll’ aggiunta di Acido Cloridrico, non uccide le spore del bacilio del tetano se non dopo un tempo piuttosto lungo. Infatti noi abbiamo ottenute delie colture da spore del bacillo del tetano state im- merse per 1 ora e mezzo in soluzione di Sublimato al 2 %, più Acido Clori- drico 1%; o per due ore in soluzione di Sublimato 1%, più Acido Clori- drico 0.5 %. La Creolina poi al 5 % uccide le spore del bacillo del tetano dopo 5 ore: dopo 6 ore l acqua di Iodio: dopo 8 ore l Acido Fenico 5 % più Acido Clori- drico 5 %; in 10 ore il Permanganato di Potassa 1 %. Delle sostanze che le colture ci hanno dimostrate inattive di fronte al bacillo del tetano anche dopo 24 ore di contatto, abbiamo eseguito esperimenti sugli ani- mali solo coll’ Iodoforme, appunto per l’ interesse speciale che queste potevano presentare, stante l’ opinione che alcuni hanno sul modo di agire dell’ Iodoforme stesso. I nostri esperimenti furono fatti inoculando sotto cute nei conigli, due o tre goccie di coltura pura del tetano, intimamente mescolate con un grammo di Iodoforme in polvere, oppure una strisciolina di seta infetta con cultura di tetano e ricoperta tutta attorno da Iodoforme in polvere nella stessa quantità di un grammo. In tutti questi esperimenti sì ebbe sempre un tetano acutissimo e mortale. Colle sostanze invece che uccidono le spore del tetano entro 10 ore, abbiamo fatto numerosi esperimenti con ciascuna di esse: in questa serie di esperimenti non presentarono disturbi di sorta gli animali inoculati con spore del tetano sot- toposte all’azione dei disinfettanti per quello spazio di tempo dopo il quale ave- vamo già visto che esse non davano più sviluppo nelle culture: e gli animali inoculati con spore del tetano immerse nei disinfettanti per un tempo di poco in- feriore a quello dimostrato necessario alla loro uccisione, hanno presentato solo pochi e leggeri fenomeni tetanici, o anche un semplice dimagramento come dopo l’inoculazione di culture del tetano molto attenuate. Questi ultimi fatti sperimentali trovano una probabile spiegazione nel ritardo grandissimo (alcune volte sino di 40 giorni) che presenta lo sviluppo delle colture inoculate con spore del tetano che furono lasciate immerse nelle soluzioni disin- fettanti per un tempo di poco inferiore a quello necessario per ucciderle. — 620 — Il bacillo del tetano offre al calore una resistenza relativamente minore che alle sostanze chimiche. Infatti per il calore umido (100.° C nell’ apparecchio di ste- rilizzazione a vapore) abbiamo veduto che le spore del bacillo del tetano sono uccise non solo dopo 5 minuti, limite assegnato dal Kitasato, ma anche dopo due minuti. Dal calore secco poi (150.°) le spore del tetano sono, caeteris paribus, uccise dopo un tempo alquanto più lungo, cioè dopo 10 minuti. I resultati da noi ottenuti dallo studio sulla resistenza del virus tetanico ai disinfettanti fisici e chimici sono alquanto diversi da quelli ottenuti dai due osser- vatori che ci hanno preceduto in queste ricerche. Infatti mentre il Sormani avrebbe proclamato l’Iodoforme come uno specifico del virus tetanico e avrebbe messo il Sublimato molto in seconda linea; nelle nostre ricerche l’ Iodoforme non si è mo- strato contro il bacillo del tetano più attivo di quello che sia riconosciuto per altri batterii patogeni; mentre invece il sublimato ha conservato sempre uno dei primi posti tra i disinfettanti, specie se reso acido coll’ aggiunta di acido cloridico. Dai resultati poi ottenuti dal Kitasato, i nostri differiscono un poco per una maggiore resistenza del bacillo del tetano da noi studiato contro i disinfettanti sperimentati dal Kitasato, cioè Acido Fenico 5 % coll’ aggiunta di acido cloridrico o no, e Sublimato 1%, egualmente acido o non acido. i Volendo ora trarre dalle nostre indagini qualche applicazione pratica, crediamo poter consigliare ai chirurghi l’ uso di soluzioni di Nitrato d’ Argento nella prima disinfezione di quelle ferite che per essere state contaminate da terra o da altri corpi estranei potrebbero dare luogo a tetano; nelle medicazioni successive e per la lavatura delle mani del chirurgo 1 uso della mescolanza indicata di Sublimato Acido fenico e Acido cloridrico, a preferenza delle soluzioni semplici di Sublimato, le quali, anche se acide, nel titolo che si possono utilizzare nella pratica, uccidono le spore del bacillo del tetano in un tempo molto più lungo della prima. Final- mente per la sterilizzazione del materiale da medicatura riteniamo, anche nel caso del tetano, il vapor d’acqua scorrente come il mezzo più sicuro ed economico. Bologna, 30 Marzo 1890. SULLO SDOPPIAMENTO COMPLETO DICIUTTE LE VAKTEBRE CEROICALI 6 DELLE PRIME: QUATTRO DORSALI CON ANENCEFALIA IN UN FETO BOVINO MEMORIA del Professore VINCENZO L. COLUCCI (Letta nella seduta del 27 Aprile 1890) Fra il gran numero dei mostri in genere, e quelli colla divisione del rachide nelle sue varie forme in ispecie, uno dei più rari, per quanto io mi sappia, è questo che oggi ho l’onore di presentare a Voi, Accademici Illustri. È desso un vitello nato a termine, donato alla Scuola Veterinaria di Parma or sono varii anni, del quale fu soltanto conservato lo scheletro naturale della testa, del collo e di una piccola porzione della cassa toracica, consistente nelle prime sei vertebre dor- sali colle relative costole e lo sterno, quelle parti appunto dove esisteva l’ anomalia che ha dato argomento alla presente nota. Prima di passare a descriverla, è per me necessario di mettere in rilievo la rarità di tale anomalia, onde venga così giustificata la descrizione, necessariamente incompiuta, che sarò per darne, costrettovi dalle condizioni del pezzo patologico tal quale io trovai nel museo di Anatomia Patologica, ivi messo e lasciato, senza alcuna notizia storica nel Catalogo, appunto perchè donato alla scuola dopo la morte dell’ Illustre Prof. Delprato, il quale di tutti gli altri preparati del Museo ebbe cura di dare sempre sufficienti notizie, per poterli illustrare. Intorno al presente mostro non posso altro riferire che quanto ho potuto racco- gliere in parte dal mio amico Prof. Giulio Valdonio, in parte da Bandini Augusto il quale, inserviente allora al laboratorio di Anatomia, ne fece la preparazione anatomica. Il collo di questo vitello si mostrava più corto, e lateralmente più grosso del normale, ed in maniera da potersi in esso riconoscere quattro facce, due laterali, — 622 — una superiore ed una inferiore, e tutte per larghezza quasi eguali fra loro. Le due laterali e la inferiore non presentavano notevoli modificazioni, ma nella supe- riore, che formava tutto un piano inclinato dall’ indietro all’ avanti fino al limite anteriore della regione frontale per cui non eravi traccia di cranio, si vedeva nel suo mezzo una specie di infossatura concava e profonda circa 3 centimetri, lunga, nella direzione del collo, 4 dita trasverse (circa 8 cent.) e larga 2. Limitata da ogni parte dalla pelle con margini rotondati e spessi, ma sprovvisti di peli all’ in- terno verso l’ infossatura; il suo piano era formato da una membrana fibrosa, premendo sulla quale si avvertiva una manifesta fluttuazione. Incisa questa mem- brana fibrosa si penetrò in una cavità piena di liquido sieroso piuttosto limpido, nel quale nuotavano frammenti di sostanza bianca come albume d’ uovo coagulato, e facilmente spappolabile fra le dita. Questa cavità terminava in avanti con un estremo stretto e chiuso, dove trova- vasi di quella sostanza bianca depositata sul piano inferiore, la quale di là span- devasi in due velamenti bianchicci che rivestivano dai due lati la superficie interna. La spessezza maggiore di questi velamenti (due millimetri) era nella parte media dei due lati destro e sinistro della cavità, dove mostravansi di tessitura quasi spu- gnosa ed imbevuti dal liquido e donde prolungavansi ancora, sempre più sottili, in basso ed in alto. Allontanati con facilità i velamenti dalla membrana fibrosa sotto- posta, si scoprirono i nervi cervicali che, attraversata la membrana, passavano ciascuno per uno dei fori di coniugazione esistenti nella parete ossea, la quale formava all’ esterno il limite immediato dello spazio in cui tutte queste parti con- tenevansi. Posteriormente terminava in una cavità imbutiforme in fondo alla quale trovavasi uno strato di tessuto bianchiecio a ricoprire il moncone del midollo spinale dorsale, di cui solo un pezzetto di 3 cent. circa esisteva, quanto appunto era stato tagliato col pezzo mostruoso, ed era normalmente costituito e colle meningi anteriormente dilatate per formare il sacco suddescritto. Il piano superiore ed infe- riore di questo non sorpassavano i limiti delle pareti laterali ossee. Le masse muscolari sembravano quasi normalmente sviluppate ai lati, meno inferiormente e poco in alto lateralmente all’infossatura, dove si notavano due bende fibrose che erano le due metà divaricate del legamento cervicale. Di tutte queste parti però non si fece accurato esame, unico scopo essendo stato quello di conservare lo scheletro. Il pezzo scheletrico conservato, consta come ho detto, della testa mancante quasi di cranio, del collo le cui vertebre tutte sono divise, e di 6 vertebre dorsali di cui 4 anche divise, e ad esse attaccate le prime 5 costole collo sterno. Di queste sole parti passerò ora a dare una descrizione possibilmente esatta, e spero che essa sarà sufficiente per poter determinare la natura della mostruosità, di cui molte pro- prietà accessorie troverebbero la loro ragione nella particolare conformazione e struttura delle parti molli circostanti, muscoli e nervi cervicali, dei quali nessuna sicura e precisa notizia ho potuto raccogliere. —. 62M Jie Non pochi sono i casi registrati di sdoppiamento della colonna vertebrale, in cui siano interessati, oltre gli archi, anche i corpi delle vertebre, e di essi citerò, come i più importanti, quello di Bryant di spina bifida addominale anteriore, di Kroner e Marchand (1) di meningocele sacrale anteriore, di Damann (2) di sdop- piamento anteriore e posteriore di tutta la colonna vertebrale, e di Cruveilhier (3) di sdoppiamento anteriore e posteriore di. tutte le vertebre cervicali e 4 prime dorsali, e tutti in feti umani. Quest’ ultimo caso è per me il più importante, col quale lo sdoppiamento delle vertebre cervicali e prime dorsali da me trovato nel vitello ha molta somiglianza, ma differisce da esso per varie particolarità che accennerò in un esame compara- tivo. Oltre questa osservazione di Cruveilhier non ho trovato altro nella letteratura Medica e Veterinaria, per quanto ho potuto estendere le mie ricerche, e perciò mi è parso interessante lo illustrare il presente caso da me osservato. Guardando lo scheletro, della testa e collo del vitello, dalla parte superiore, quale è rappresentato nella figura 1°, colpisce a tutta prima il fatto della man- canza quasi assoluta della volta del cranio, e la divisione di tutte le vertebre cervicali c e delle 4 prime dorsali d in due metà laterali, estesa pure in avanti nella porzione o apofisi basilare dell’occipitale. Le metà delle vertebre, in parte saldate in parte articolate fra loro, vengono a formare come due colonne cervicali, in vario modo contorte, limitate in avanti dalle ossa temporali molto imperfetta- mente sviluppate £ed indietro, convergendo, dalla quinta vertebra dorsale indivisa. Di tali due colonne la sinistra forma due curve, una anteriore con convessità interna fatta dal temporale e dalla metà dell’ occipitale e della prima vertebra, e una posteriore formata dalla 2%, 3%, 4°, 5°. 6°, 7° metà delle vertebre cervicali e della 1° dorsale; la destra una curva anteriore a convessità esterna formata dalla metà dell’ occipitale e della 1° vertebra, ed una posteriore meno sensibile della corrispondente di sinistra, a convessità interna formata dalla 2* alla 7° mezza vertebra cervicale, per la quale contorsione, maggiore nella metà sinistra, la testa rimane piegata a questo lato dell’ asse longitudinale, e per un angolo rientrante « che la stessa colonna, per la forte curva, fa colla prima vertebra dorsale, tutto il collo e la testa così piegata vengono deviati a sinistra. (1) Archiv. fir Gynàkologie Vol, XVII. (2) Ein Fall von Rachischisis anterior und posterior mit Hernia Diaphragmatica ecc. Inaug. Diss. Berlin 1882. Jahresbericht von Virchow und Hirsch. XVII Jahrgang. Berlin 1883. (3) Anat® Patolog® del corpo umano. Firenze 1838. — 624 — Fra le due colonne di semi-vertebre vi rimane uno spazio vuoto di forma di un parallelogrammo irregolare, o meglio di un trapezoide coi due angoli posteriori rotondeggianti, formati il sinistro dalle mezze vertebre 3°, 4%, 5%, 6* cervicale e il destro dalla 7° cervicale e dalla 1% e 2* dorsale, e coi due anteriori, di cui il destro acuto per la piegatura molto sensibile dell’ atlante sull’ occipite, ed il sini- stro dato dalla curvatura che il parietale atrofico destro wm fa prima di unirsi coll’ omonimo sinistro w', e per un poco anche da questo e dal temporale destro. Al di sotto di quest’ angolo si vede una cavità di forma allungata dall’ avanti all indietro, limitata in alto dai parietali e dalla parte anteriore del frontale; in basso dal terzo anteriore dell’ apofisi basilare indivisa dell’ occipitale, avanti a cui sta il corpo dello sfenoide; ai lati dalle piccole ali di questo e dalla parte petrosa del temporale; in avanti ed in basso dal corpo dello sfenoide e dai fori ovali abbastanza ampii, essendo, per la notevole atrofia delle srandi ali dello sfenoide, con essi fusa la fossetta ottica, e dei quali il destro, per la deviazione della testa a sinistra, trovasi quasi nella direzione dell’ asse longitudinale della colonna dor- sale; in avanti ed in alto, da una fossa imbutiforme, in fondo alla quale vi si vedono le due fossette etmoidali molto piccole, divise da un setto membranoso che rappresenta la cresta etmoidale. Oltre l assoluta mancanza della porzione squamosa dell’ occipitale, è a notarsi l’atrofia ed il coartamento trasversale dei due parietali 7, m', pel quale la loro forma quasi di una mezza luna, che si osserva normalmente nei feti bovini, sì è cambiata in triangolare, di cui il vertice corrisponde al lato convesso e la base al lato concavo trasformato in un angolo rientrante di 90°, e oltre a ciò sono en- trambe deviate obbliquamente a sinistra, di maniera che nel punto della loro reciproca unione, invece di formare col loro bordo anteriore un angolo sporgente compreso fra le due estremità superiori o posteriori dei frontali, costituiscono uno spazio angolare nel quale si adatta perfettamente una prominenza ossea data dal solo frontale sinistro. Le ossa frontali f, f' sono più corte di un terzo circa del normale ; la loro larghezza misurata dalla base dell’ apofisi orbitale è meno della metà, e fra le fossette lagrimali delle due orbite la distanza è come 7: 10 del normale. La piccolezza di queste ossa è dovuta alla mancanza dei *, della loro porzione convessa, che coi parietali e la squama occipitale forma normalmente la più gran parte della cavità cranica, la quale per ciò è ridotta a piccolissime di- mensioni specialmente in senso trasverso. I fori sopraciliari dell’ un lato sono molto ravvicinati a quelli dell altro e la loro distanza è ridotta al terzo del nor- male; le due doccie in cui essi si aprono all’ esterno ne formano una sola e larga, che si continua con quella che esiste fra i due frontali avvallati, fino alla loro unione colle ossa sopranasali. Nelle porzioni squamose dei temporali non si osservano notevoli mutamenti di forma, e solo per l’atrofia dei parietali e la deviazione in fuori della due metà dell’ occipitale sono portate in alto e ravvicinate verso la linea mediana, ma — 625 — alquanto incurvate in basso od in dentro, dimodochè le apofisi zigomatiche già ravvicinate alle orbitarie sono portate anch’ esse in alto e quasi a livello di queste. Guardato lo scheletro dal di sotto ed alquanto obbliquamente dal lato sinistro, fig. 2°, si vedono le due colonne ossee cervicali, dalla faccia inferiore ed interna la destra, e dall’ inferiore e parte interna e parte esterna la sinistra. I due angoli anteriore destro e posteriore sinistro sono bene visibili nelle loro particolarità. Della metà destra dell’ occipitale si vedono bene distinte le porzioni basilare e condi- loidea' 5, c per un rialzo alquanto ondulato, formato da uno strato cartilagineo che nel feto divide queste due parti dell’ occipitale; e bene visibili sono pure i fori condiloidei. La superficie interna della metà destra basilare e condiloidea sono nello stesso piano, in questa però è convessa dall’ indietro all’ avanti, concorrendo colla sua metà posteriore alla formazione dell’angolo anteriore destro della colonna cervicale. È notevole il fatto che la porzione basilare destra si trova quasi nella stessa linea verticale della condiloidea, per cui il condilo è volto in alto ed in fuori, mentre quello di sinistra è portato più in basso ed in addietro per la forte piegatura della colonna cervicale di questo lato, entrambi però sono in rapporto colla metà rispettiva della prima vertebra. Le apofisi stiloidi s, sono molto ravvicinate e quasi a contatto della faccia esterna dei condili dell’ occipitale divaricati e portati in fuori. Al davanti di esse, rimosso l’ ioide,, è, si vedono le due porzioni petrose del temporale molto mutate per forma da quello che si osserva normalmente in quest’ epoca dello sviluppo. Sono: schiacciate dall’ avanti all’ indietro, di modo che invece di essere mammel- lonate, come sono nei feti negli ultimi mesi di vita intrauterina, mostransi al- l'esterno ed in basso con bordo tagliente, all’ estremità superiore del quale osservasi, in quella del lato destro, il foro mastoideo rappresentato da una piccola infossa- tura cieca, ed al davanti di questa, un rudimento del condotto uditivo esterno e poscia il condotto temporale a guisa di un 4iatus allungato e strettissimo, il quale si vede ancora nell'altra di sinistra, dove manca il condotto uditivo, e rudimentale affatto è il foro mastoideo. Fra queste due porzioni dei temporali, così deformate pel divaricamento in avanti ed in alto delle parti divise dell’ occipitale, si vede il principio del piano dove vengono a convergere le due metà della colonna cervicale, e che è formato dal terzo circa anteriore dell’ apofisi basilare rimasta indivisa, essendo le sue due metà laterali riunite da uno strato cartilagineo che a forma di 7 continua con quello che le salda alla estremità posteriore del corpo dello sfenoide. La porzione anteriore di questo è, come ho detto, incurvata in alto, e le ali, grandi e piccole, atrofiche. Le ossa pterigoidee sono quasi normali come le lamine laterali dei pa- latini, di cui mancano completamente le lamine inferiori, che per un certo tratto sono rappresentate da una membrana fibrosa. I mascellari hanno la lamina esterna ossea e nei suoi normali rapporti coi zigomatici, sopranasali, lacrimali ece., e la palatina e la interna fibrosa; la volta del palato è incompleta per una ampia TOMO X. 16) — 626 — apertura (gola di lupo) che si estende fin quasi al punto di riunione dei piccoli mascellari. Di questi mancano le apofisi palatine, sostituite da una membrana fibrosa triangolare, al lato superiore e libero della quale poggia l’ estremità inferiore del vomere, che è arcuato e col suo bordo inferiore tagliente. Nulla di anormale offre il margine dentario, tranne che è osseo all’ esterno e fibroso all’ interno come tutta la porzione palatina del mascellare. Delle mezze vertebre di destra, internamente considerate, la prima, formante l'apice dell'angolo anteriore destro, è tanto compressa fra la metà dell’ occipitale e la seconda vertebra che non può vedersi in essa una faccia interna. La 2°, 3°, 4° e 5° hanno i corpi bene distinti come pure i fori intervertebrali, e la loro interna superficie non è concava ma piana, e in alcuni un po’ convessa e continua nello stesso piano con quella degli archi vertebrali corrispondenti fusi gli uni cogli altri. I corpi della 6% e 7° cervicale sono distinti, ma assai compressi, defor- mati e rimpiccioliti, come lo sono pure, ma in minor grado, quelli della 1° e 2° dorsale e meno ancora della 3% e 4°, le quali tutte concorrono a formare l'angolo po.teriore destro. La interna superficie di essi corpi e degli archi rispettivi è con- cuva, e sono bene visibili i fori di coniugazione. Distinti pure sono gli archi, di talchè si vedono bene sviluppati nella 6% e 7° cervicale, e meno nella 1° fino alla 4° dorsali. Dal lato destro, fig. 3*, la colonna cervicale sì mostra conformata ad arco colla concavità in alto, il cui estremo anteriore molto sporgente è formato dalla prima vertebra, la cui apofisi trasversa, diretta obbliquamente dall’ avanti all’ indietro e da dentro infuori, forma il punto più elevato a, e 1’ estremo posteriore dalla metà dell'arco della 7° vertebra cervicale, il cui punto più saliente è dato dall’ apofisi trasversa sporgente in modo irregolare sul resto della vertebra, c. I corpi vertebrali sono bene distinti in basso, ed in alto invece un po’ coartati fra loro e disposti in maniera da formare il limite esterno ed inferiore di una infossatura, nella quale si vedono distinti i fori intervertebrali e ch'è terminata superiormente dalle estremità delle lamine vertebrali divaricate infuori e fuse coi loro bordi laterali così da co- stituire una lamina continua e leggermente ondulata. L’apofisi spinosa della 6% vertebra cervicale non esiste, e pochissimo sviluppata è quella della 7°; nella 1% e 2% vertebra dorsale, le rispettive metà destre delle apofisi spinose sono fuse totalmente fra loro, d e per metà soltanto la 2* colla 3, e; la terza di destra corrisponde ed è saldata col suo bordo anteriore alla 2* di sinistra per quasi tutta la sua lunghezza, e così disposte tutte insieme formano una specie di doccia rivolta in avanti, prolungata e sempre più larga in basso dove coll’ arco della 4* dorsale, le cui lamine anteriormente sono pure divaricate, con- corrono a formare |l’ apertura del canale vertebrale che sbocca nello spazio esi- stente fra le due mezze colonne cervicali. L’apofisi spinosa sinistra della 3° dorsale è libera è, e quella della 4°, f è unica e prismatica triangolare, colla faccia po- steriore concava a ridosso della parte superiore dell’ arco della 5°, g. Le cinque — 627 — costole di questo lato sono irregolarmente piegate in dentro e portate in avanti insieme allo sterno, il cui estremo anteriore, anche per la cortezza del collo, è quasi al livello dell’ angolo posteriore della mandibola. Questa è più corta di circa 3 centimetri della mascella superiore, ha le sue branche alquanto grosse e incurvate indentro per cui le arcate dentarie superiori ed inferiori non sono in rapporto nor- male fra loro. Dal lato sinistro non si rilevano importanti differenze se non in quanto che le mezze vertebre costitutive la colonna cervicale sono disposte inversamente di quelle di destra e formano un arco molto incurvato, a concavità interna. Gli spazii fra i corpi vertebrali sono più ampii come pure i fori intervertebrali. Sono bene visibili da questo lato le particolarità già note delle apofisi spinose delle quattro prime vertebre dorsali. Le quattro prime costole, che sole sono rimaste di questo lato, hanno i capi articolari molto ravvicinati e formanti quasi una massa unica superiormente, per la forte curvatura delle prime 4 vertebre dorsali a formare l'angolo posteriore già descritto ; per cui esse si trovano addossate luna all’ altra ed anche alla loro inserzione sternale sono ravvicinate. Lo sterno consta dei sette pezzi ossei riuniti da sei strati trasversali di tessuto cartilagineo interposto, ma i primi cinque pezzi anteriori sono a loro volta costi- tuiti ciascuno da due pezzi laterali riuniti per uno strato cartilagineo longitudinale. Pel deviamento in avanti delle quattro costole di sinistra, i pezzi laterali di questo lato formanti lo sterno sono stati trasportati in avanti e si vedono quindi disposti alternativamente con quelli di destra. JUDE Come ebbi a notare fin dal principio di questa descrizione, il caso di sdop- piamento completo, anteriore e posteriore, della colonna vertebrale cervicale osser- vato e descritto dal Cruveilhier era per me della maggiore importanza, perchè tale mostruosità in un feto umano è somigliante assai a questa del feto bovino. Nell’ uno e nell’ altro si trovano tutte le vertebre cervicali e le prime quattro dorsali divise completamente in due metà laterali; dell’ occipitale è mancante la porzione squamosa, divise sono le parti laterali di esso, ed egualmente divaricate e conservanti gli stessi rapporti colla parte petrosa del temporale; nell’ uno e nell’ altro sono riconoscibili i corpi, gli archi e le apofisi spinose delle vertebre divise. Differiscono, perchè l'apertura lasciata dallo sdoppiamento delle vertebre, nel feto umano, formava una larga apertura, la quale, essendo coperta posteriormente dai parietali e per la sua posizione, poteva a tutta prima prendersi pel forame occipitale; mentre nel vitello, per la maggior lunghezza del collo, per la man- canza della parte squamosa dell’occipitale (proporzionatamente maggiore che nel- — 628 — l uomo) e per l’ atrofia dei parietali, avrebbesi potuto a prima vista — non tenendo a calcolo la conformazione della testa — credere ad una doppia colonna cervicale. La cavità cranica era ampia nel feto umano, perchè bene sviluppati i parietali ed il frontale, mentrechè nel vitello i primi erano piccolissimi, e la porzione del fron- tale, che concorre a formare la maggior parte di essa, mancava del tutto, e cor- rispondentemente piccola era pure la parte anteriore dello sfenoide. Manca nel feto umano la parte basilare dell’ occipitale, e solo un pezzetto osseo aggiunto alla sua metà destra fu dal Cruveilhier sospettato essere un residuo di quella, mentre nel vitello la si trova divisa nei suoi due terzi posteriori e coi normali rapporti. Le costole, corrispondenti alle quattro prime vertebre dorsali divise, sono nel feto umano regolarmente disposte, tranne le prime due di destra saldate fra loro, ap- punto perchè, come rilevasi dalla figura datane, il numero dei corpi vertebrali di questo lato è minore di uno di quelli di sinistra. Lo stesso si osserva nel vitello a si- nistra per la forte curvatura onde risulta formato I angolo esterno posteriore e per cui le parti esterne delle metà delle vertebre dorsali sono fortemente compresse e fuse fra loro. i Nel vitello mancavano affatto il cervello ed il cervelletto, mentre esistevano, benchè più piccoli della cavità cranica, nel feto umano. IV. Embriologi e Teratologi sonosi in ogni tempo dato vicendevole aiuto, ed hanno di conserva lavorato e studiato per la spiegazione delle frequenti, spesso maravigliose, e talora anco strane anomalie che occorrono ad osservarsi nella or- ganizzazione degli animali, donde non poco vantaggio se ne trae per dilucidare molte ed astruse questioni circa lo sviluppo normale del corpo. Il caso che ho ora descritto, di sdoppiamento laterale e completo delle vertebre tuite cervicali e prime dorsali, appartiene a quella categoria di mostri che van riuniti sotto la deno minazione di spina bifida, a loro volta distinti e classificati in varii gruppi, come si tentò fare da molti ed in ultimo dal Dareste, il quale riunì tutte le fessure spinali in quattro tipi principali, riferendole ad epoche embrionali diverse ed adottando come criterio la mancata od imperfetta chiusura della lamina midollare. Di tale classificazione non è d’ uopo tener qui parola, ad ognuno essendo noti gl’ importanti studi teratologici sperimentali di questo illustre scienziato, i quali sono il migliore argomento in prova della esattezza di essa, convalidata inoltre dalle osservazioni di altri illustri e valenti esperimentatori. Il mostro dunque di cui mi sto occupando è riferibile al 4° tipo della classi- ficazione accennata, di quei casi cioè, in cui per compressione totale o parziale dell’ asse cerebro-spinale esercitata dal cappuccio cefalico dell’ amnios, le meningi e la pelle possono riunirsi nella linea mediana, ma gli elementi dello scheletro restano divisi ed allontanati. — 629 — Ciò che è importante, e che di rado si è riscontrato ne’ casi di spina bifida, con o senza idrorachide, è appunto la mancanza della epidermide alla parte su- periore del collo per una estensione notevole, corrispondente all’ infossatura limitata dalle metà laterali degli archi di tutte le vertebre cervicali, dove appunto finisce nettamente l’ epidermide, restandovi a coprire quello spazio intermedio una mem- brana fibrosa, molto probabilmente rivestita da uno strato epiteliale. Ho detto che un’ analisi attenta non fu fatta di queste parti in istato fresco ; ma il non essere stato notato, che quella specie di tetto, o ponte fibroso che chiu- deva lo spazio fra le due metà della colonna cervicale. fosse composto da due membrane fibrose distinte, e l una all’ altra sovrapposta, ma da una sola piuttosto grossa e resistente, che dall’ esterno si continuava colla pelle ed internamente, sdoppiandosi, si ripiegava per rivestire la faccia interna delle mezze vertebre, nella identica maniera disposta che la dura meninge, m' induce a credere che essa risultasse formata dalla lamina fibrosa cutanea e dalla dura madre coi due foglietti aracnoidei, saldate l una all’ altra per le loro superficie contigue. L’ esistenza di questa membrana, che io dunque ritengo dover essere stata probabilmente formata dalla lamina fibro-cutanea e dalle meningi, e lo sviluppo suo compiutosi indipen- dentemente da quello delle altre parti costitutive del dorso, e della epidermide, non è di tanto facile intendimento; nondimeno a me pare potersene dare una sufficiente spiegazione, ricordando quanto venne osservato embriologicamente ed in- segnato prima dal Reichert e poscia dal Femak e confermato dal KoMiker, rispetto allo sviluppo di questa parte del corpo. Chiuso il canale midollare o neurale, pel saldarsi delle lamine del dorso, si ha il tubo midollare ricoperto dall’ epidernide; poscia per 1 allungamento delle protovertebre posteriormente (o in alto se si considera orizzontale la posizione del- l’ embrione) e pel loro consecutivo insinuarsi fra il midollo e 1 epidermide, ve- nendo a contatto e saldandosi pei margini, costituiscono il tubo fibroso, che quello riveste in totalità e rappresenta il futuro scheletro, ora perciò detto fibroso. Più tardi ancora, quando è già cominciata la condrificazione degli archi vertebrali, dalle lamine cutanee, nel punto ove esse si uniscono alle protovertebre, per un processo di proliferazione si staccano delle cellule, le quali crescendo in numero, gradatamente si avanzano in forma di strato cellulare fra la lamina muscolare ed il foglietto corneo, e poi fra questo ed il tubo fibroso del midollo fino a venire a contatto fra loro posteriormente nella linea mediana, e unendosi per completare la costituzione della pelle. Gli archi vertebrali cartilaginei progrediscono svilup- pandosi più lentamente nell’ interno della lamina fibrosa primitiva, e più tardi ancora si uniscono fra loro per formare il canale vertebrale (1). (1) KoLwxer. Embryologie de l’ Homme et des Animaux supérieurs ete. Paris 1882, pag. 225 e seg. i — 630 — Ora tenendo presente un tale insegnamento, che parmi doversi ritenere come il più esatto e razionale, essendoci dato da tre dei più illustri embriologi, credo potersi con esso dare ragione dell’ esistenza della lamina fibro-cutanea, indipen- dentemente dalla epidermide, la quale non ha potuto svilupparsi, ma rimase atro- fica per la compressione ivi esercitata dal cappuccio amniotico, ch’ è stata la causa più probabile dell’ alterazione principale dello scheletro in questo mostro. Intorno alle cause che si credono abili a determinare la divisione longitudinale intera delle vertebre, vi sono varie opinioni, le quali possonsi riassumere in quelle che ritengono come tali una compressione esterna, o interna —- idrorachide —, ed in quelle che le attribuiscono ad un arresto di sviluppo. Merita qui pure di essere ricordata l’ ipotesi della coniugazione di due metà laterali per formare il canale spinale, appunto perchè per varii anni ebbe il primato fra le dottrine te- ratologiche; ma come fece notare il Dareste (1), essa è contraria ai risultati delle osservazioni embriologiche, poichè la corda dorsale, attorno a cui si sviluppano le diverse parti costitutive delle vertebre, è perfettamente semplice e non doppia, come voleva sostenere la teoria della dualità primitiva dell’ embrione. Egli, per un fatto sperimentalmente osservato dal Serres, e prodottosi nelle mani di Gira/dés, cioè la divisione della doccia primitiva per effetto del calore, e per altri osser- vati dal Lereboullet, ha creduto potere ammettere che la causa della divisione dei corpi vertebrali possa esistere nel fatto della divisione della doccia primitiva, che può avvenire per una qualsiasi ragione. Questa opinione del Dareste parrebbe certamente la più giusta, ma non suffi- ciente a dar ragione di tutti i casi di spina bifida anteriore, in molti dei quali non sì può, senza incorrere in gravi difficoltà, far risalire 1’ origine loro alla di- visione della doccia midollare nei primordii dello sviluppo. Nella formazione del pulcino infatti si è osservato (2) che, alla 16° ora d’ incubazione, il mesoblasto si assottiglia nella parte immediatamente posta al disotto del solco primitivo, e le cellule ivi esistenti, separandosi dalle masse laterali, aderiscono fra loro in ma- niera da formare la corda dorsale. Poco prima o subito dopo della 20* ora, al davanti della ripiegatura cefalica se ne vede apparire un’altra, che è il principio di formazione dell’ amnios. Alla 24* ora circa, si chiudono le lamine dorsali, per formare il tubo midollare nella regione del collo, donde la chiusura procede in avanti, sicchè al principio del secondo giorno, la parte corrispondente alla testa è completamente chiusa. In questo tempo appaiono distinte nelle lamine protover- tebrali le protovertebre ai lati della corda dorsale, le quali poi per ulteriori cam- biamenti, da cubiche divengono piatte, ed incurvandosi si uniscono coi loro mar- gini posteriormente ed anteriormente ed includono così la corda dorsale ed in- (1) Dareste. Recherches sur la production artificielle des Monstruosités. Paris 1877. (2) Forsrer. Eléments d’ Embryologie. Paris 1877. — 631 — vestono il midollo spinale; sicchè al quarto giorno circa, trovasi formato lo sche- letro fibroso vertebrale. L’ ampios cresce rapidamente durante il secondo giorno, alla fine del quale copre già la testa ed il collo, allorquando il canale neurale è in questa parte completamente chiuso, ma non investito ancora dalla lamina fibrosa, la quale si completa, come di sopra è ricordato, dal 3° al 4° giorno. La compressione quindi dall’ amnios esercitata, non potrebbe più determinare la divisione del solco primi- tivo, il quale è ora divenuto canale midollare, e se si volesse ammettere tale pos- sibilità, altre ipctesi dovrebbonsi accampare, fra cui la più plausibile sarebbe che, compresso il canale midollare dal cappuccio, non essendo ancora riunite le lamine inferiori protovertebrali, quello potesse per la sua poca resistenza venire diviso. Attenendomi per ora a quanto di positivo si conosce circa lo sviluppo delle parti costitutive del dorso, parmi che alla interpretazione del Dareste non si possa accordare assoluta importanza per spiegare tutti i casi di sdoppiamento totale o parziale della colonna vertebrale con acefalia, dovuti indubbiamente ad un arre- sto di sviluppo per compressione esercitata dal cappuccio cefalico dell’ amnios. Non vi sarebbe, secondo io penso, altro modo per schivare ogni obbiezione e ren- dere relativamente facile l’ intendimento della teratogenesi nei mostri in discorso, che ammettere la combinazione dei due momenti genetici, cioè la rottura longi- tudinale del solco primitivo seguìta dalla compressione del cappuccio amniotico, entrambe dovute forse alla stessa anomalia di sviluppo, ch’ è difficile certamente a potersi determinare. Inoltre rimarrà sempre a vedere se, per tale rottura assai precoce, non sia più possibile la formazione della corda dorsale; o che gli ele- menti formativi di essa provenienti dalle lamine vertebrali, restino a queste ade- renti differenziandosi poscia in due metà laterali, il che pare più probabile; o se la corda, essendo già formata, possa atrofizzarsi e scomparire. Dalla descrizione fatta delle parti ossee atrofizzate della testa, e della completa divisione delle vertebre senza che di queste vi mancasse alcuna parte, anzi essen- dovi uno sviluppo piuttosto notevole delle metà dei corpi vertebrali, a me pare, non potendo escludere qual causa principale e più probabile di questa mostruo- sità la compressione esercitata dal cappuccio cefalico, di non dovere scostarmi dalla spiegazione che il Dareste ha dato circa il modo di prodursi la divisione del corpo vertebrale. Credo inoltre necessario di ammettere che lo arresto di svi- luppo dell’ amnios sia avvenuto ad un’ epoca molto vicina al principio della for- ‘mazione dell’ embrione, e prima del chiudersi in alto delle lamine cartilaginee per formare l’ arco vertebrale. La ragione di ciò sta nel fatto che, se fosse avve- nuto più tardi, la compressione da esso esercitata avrebbe impedito lo accresci- mento delle apofisi spinose, le quali invece, come gli archi vertebrali, sono nelle loro due metà compiutamente sviluppate. Oltrecciò nulla fu riferito, per quanto io abbia potuto sapere, di altra anomalia osservata nel feto, e puossi perciò rite- nere che l’ amnios, come è registrato per altri casi, abbia, dopo un temporaneo — 632 — arresto, ripreso e compiuto il suo sviluppo; e non ultima ragione di ciò, e che parmi abbastanza persuasiva, è lo sviluppo dei muscoli del collo e della pelle che lo copriva completamente nel resto della sua superficie. Un altro fatto non dev’ essere qui trascurato di far notare, e cioè che per quest’ anomalia di sviluppo delle vertebre viene nel modo più chiaro dimostrato che le apofisi spinose della 7° vertebra cervicale e delle tre prime dorsali divise in due metà uguali, constano, come tutte le altre, in principio di sviluppo di due metà, originantisi dalle due lamine cartilaginee laterali, e non da un differenzia- mento istologico della parte superiore o posteriore della membrana fibrosa (1. reuniens superior). La massa cartilaginea quindi, che normalmente trovasi in mezzo alle due estremità delle lamine laterali e che si svilupperà in apofisi spinosa, avrebbe una doppia origine per l’ allungamento continuo ed addossamento delle lamine cartilaginee primitive dell’ arco (Kéo/iker). Infatti per la compressione del cappuccio amniotico le lamine cartilaginee non si sono potuto ravvicinare, e si è completato il loro sviluppo ai lati della piega amniotica in guisa da lasciare quello spazio, limitato dalla parte superiore e dall’ avanti all’ indietro fino alla 6% ver- tebra cervicale, dalle estremità delle lamine, e dalla 7? cervicale fino alla 3° dor- sale dalle estremità delle mezze apofisi spinose. Parmi quindi poter concludere, cirea la teratogenesi, che molto probabilmente l’ amnios, per un’ anomalia od ir- regolare arresto nei suo sviluppo, nel principio di sua formazione abbia esercitato compressione sulla parte anteriore del solco midollare o neurale, ancora aperto per rottura longitudinale in esso avvenuta, ed impedito così lo sviluppo del cer- vello e delle ossa craniche, e determinata inoltre la completa divisione antero- posteriore della colonna vertebrale cervicale, e delle prime quattro vertebre dorsali. Con ciò non intendo menomamente contraddire, e neppure tenere in poco conto la spiegazione che il Cruvedhier ha data del caso molto simile al mio, da lui osservato e descritto. Egli trovò la testa del feto rovesciata in addietro, secondo ogni apparenza per trazione che il cordone ombelicale esercitava applicato sul- l’ apertura boccale, e fece derivare la divisione delle vertebre, e la particolare disposizione delle loro metà laterali a formare apparentemente la base del cranio, dalla compressione che il capo o meglio |!’ encefalocele esercitò sulla parte ante- riore della colonna cervicale. L’ A. non determina il tempo a cui fa rimontare l’ origine della formazione di tale mostruosità, ma suppone che essa sia stata nei primi due mesi di gravidanza, ed in tempo in cui era già formato ed anche ab- bastanza lungo il cordone ombelicale. Ora in tale epoca non puossi più invocare per l’ interpretazione dello sdoppiamento dei corpi vertebrali la rottura del solco midollare, e necessariamente debbonsi accampare ipotesi, come fecero il Kròner e Marchand riferendo varie possibilità di modificazioni di sviluppo, per osservazioni di altri, fra le quali è anche questa di Dareste da me adottata, senza poi averne potuto trovare alcuna sufficiente ad intendere la genesi del loro caso di menin- gocele sacrale anteriore. — 633 — Di tali ipotesi alcune potrebbero essere state accolte da me; ma, a vero dire, le ho trovate per nulla soddisfacenti, viste le attuali cognizioni embriologiche che si posseggono circa lo sviluppo della colonna vertebrale. E quindi, senza dissimu- larmi la grave difficoltà di potere con certezza stabilire il momento teratogenico, mi è sembrato di poter ritenere come la più plausibile la suddetta interpretazione che ho ammessa per questo mio caso di sdoppiamento vertebrale con anencefalia. SPIEGAZIONE DELLE FIGURE Tutte le quattro figure rappresentano lo scheletro della testa e del collo del vitello mostruoso per sdoppiamento totale di tutte le vertebre cervicali, e delle quattro prime del dorso con anencefalia. Son tutte ritratte alla metà del naturale. Fig. 1° — Le suddette parti vedute dalla faccia superiore. c, c' Le metà delle vertebre cervicali di sinistra e di destra formanti col loro reciproco saldamento due colonne in varia ed opposta maniera incurvate. d, d' Le metà sinistre e destre delle quattro prime vertebre dorsali. Le apofisi spinose delle prime 3 sono pure divise; ma le metà loro di destra sono saldate fra loro, e la terza di destra colla seconda di sinistra in maniera da formare una dcecia che si prolunga in basso sino all’ apertura anteriore del foro vertebrale. a Angolo rientrante molto acuto formato dalla piegatura in fuori della co- lonna cervico-dorsale sinistra sul resto della colonna vertebrale. oc, 0c' Le due metà della porzione condiloidea dell’ occipitale diviso. p, p' Le due porzioni petrose delle ossa temporali. t, t Le due porzioni squamose delle ossa temporali. m, m' Le ossa parietali atrofiche, coartate e deviate a sinistra. f, f° Ossa frontali più corte di un terzo circa del normale. Fig. 2° — Le stesse parti vedute dalla faccia inferiore. be, be' Le due metà dell’ occipitale — ce, c' rappresentano le metà della por- zione condiloidea —- è, d' quelle della porzione basilare. e, e' Le metà destre e sinistre delle vertebre cervicali. d, d' Id. id. delle prime 4 vertebre dorsali. s, s Apofisi stiloidi dell’ occipitale. î, î Branche superiori dell’ osso joide. TOMO X. 80 — 634 — Fig. 3* — Le stesse parti dal lato destro. a Metà destra dell’ atlante. c Apofisi trasverse della 7° vertebra cervicale. b Infossatura formata dalla piegatura in fuori ed in alto della metà destra della colonna cervicale. e' Metà destra dell’ apofisi spinosa della 7? vertebra cervicale. d Metà destra dell’ apofisi spinosa della 1% e 2* vertebra dorsale. e Id. id. della 3? vertebra dorsale. i Id. sinistra della 3° vertebra dorsale. fg Apofisi spinose indivise della 4% e 5° vertebra dorsale. Zl Le cinque costole di destra molto ravvicinate specialmente in alto, e por- tate in avanti. st Sterno. Fig. 4° — Le stesse parti dal lato sinistro. p Porzione petrosa del temporale. i Estremità superiore della grande branca sinistra dell’ osso ioide. s Apofisi stiloide dell’ occipitale. 1,7 Le metà sinistre delle vertebre tutte cervicali. 1',3' Le metà sinistre delle apofisi spinose delle 3 prime vertebre dorsali. 4',5' Apofisi spinose indivise della 4% e 5° vertebra dorsale. 21 Le quattro prime costole sinistre addossate fra loro, e portate molto in avanti per la forte compressione subìta dalle corrispondenti vertebre dorsali. Mem. Ser IV. Vol X (RColters A.Baraldini dis dal vero e in pietra lt 6 Wenk e Figli — Bologna. Pm. Ser.IV. Vol X V. Colucei e ua er TRS fig 4 ini dis lit.6 Wenk e Figli = Bologna A Baraldini dis dal vero ein pietra ht. 6 Wenk e Figl log PAGE GIRO BIbLIOTECA MATEMATICA ITALIANA DEL SECOLO XD MEMORIA BRObgEzInbRONRICCARDI (Letta nella Sessione del 23 Febbraio 1890). Il concetto generale di codesta Biblioteca, è che debba contenere la indicazione di tutte le opere matematiche pubblicate da autori italiani appartenenti al nostro secolo. Se nella compilazione della mia Biblioteca Matematica italiana, la quale si estende dall’ origine della stampa ai primi anni di questo secolo, predominò lo intendi- mento di fare opera profittevole alla storia ed alla bibliografia delle scienze esatte, ed alla biografia degli uomini che nel passato contribuirono al loro avanzamento, una biblioteca matematica del secolo XIX in continuazione di quella, dovrebbe a mio avviso intendere ad uno scopo principalmente scientifico. Cioè di noverare in ordine cronologico gli scritti pubblicati in ogni ramo di questa scienza, affin- chè coloro chi vi si applicano acquistino esatta notizia delle fonti cui attingere onde procurarsi, senza aver duopo di lunghe e laboriose indagini, completa co- gnizione dell’ origine, del successivo sviluppo e dello stato presente di ciascuna parte di essa. Imperocchè all’ avanzamento delle scienze positive giova‘ non solo il conoscere gli ultimi risultati ottenuti, ma ben anco l’analisi del processo evolu- tivo mercè il quale si sono conseguiti questi risultati negli ultimi periodi che li precedettero. E questa analisi non è tanto una pura soddisfazione del sentimento di curiosità che anima gli scienziati, quanto uno studio del metodo d’ invenzione seguìto dai precursori, che ne illumina a proseguire o ad abbreviare la via da essi tracciata. Se quindi nella mia Biblioteca matematica diedi la precedenza al catalogo alfa- betico per nomi d’autori, sembrami che in una biblioteca matematica dei nostri tempi debba tenere il primo posto il Prospetto delle opere per ordine di materie. — 636 — Il quale però, allo scopo di agevolare le ricerche degli studiosi, e ad evitare la superflua ripetizione della indicazione della stessa opera tante volte quanti sono i soggetti in essa trattati, dovrebbe essere accompagnato o seguìto da un indice per argomenti, i cui titoli con soli numeri di richiamo avessero riferimento al Pro- spetto. E valga il vero che le semplici classificazioni per materie senza il sussidio degl’ indici per argomenti, non possono fare buona prova nè manco come cata- loghi di pubbliche biblioteche. Imperocchè, oltre l’ accennato inconveniente di do- vere più volte ripetere il titolo delle stesse opere, è a considerarsi che la forma- zione di una particolareggiata classificazione per materie anche in uno stesso ramo dello scibile, dipende da criteri individuali e variabili; mentro l'indice per argo- menti è determinato dai titoli stessi del soggetto dell’opera e delle varie sue parti; ed è sempre suscettivo di maggiore perfezionamento con l'aggiunta di nuovi titoli, senza alterare l’ ordine del Prospetto generale o del Catalogo. Infine a soddisfare alle ricerche biografiche potrebbe riescire sufficiente un in- dice alfabetico dei nomi degli autori, con le sole indicazioni del luogo nativo ; degli anni nei quali vissero od in cui nacquero, se tuttora viventi; delle memorie pubblicate intorno alla loro vita ed in generale sui loro studj. Chè dei giudizi speciali e dei particolareggiati annunzi delle loro opere, ravviserei preferibile il fare menzione in calce alla indicazione, che viene data nel Prospetto generale, delle opere stesse. Queste indicazioni biografiche di ciascun autore verrebbero completate dalla serie dei numeri coi quali le rispettive sue opere sono individuate nel Prospetto. In ordine alla qualità delle pubblicazioni comprensibili in una biblioteca ma- tematica, non ho che a ripetere quanto esposi nella prefazione a quella da me pubblicata. Una delle maggiori difficoltà infatto che s’ incontrerebbe nel redigere questo la- voro è quella di ben determinare quali siano le opere che si possono comprendere nella biblioteca matematica; cioè quali opere si possono in tutto od in parte classi- ficare fra le matematiche. Avvegnachè chiaro apparisca come un ben sottile e quasi impercettibile anello di congiunzione riunisca questa ad altre scienze affini, formando così un brano della grande catena di tutte le cognizioni che costituiscono lo sci- bile umano. Sì che l’ antica sapienza immaginò le muse essere sorelle, e la scienza fisurò nella fonte edenica che in vari fiumi si partiva. “ La matematica è la scienza delle quantità : e quell’ opera dell’uomo che è diretta alla determinazione delle quantità, cioè di tutto ciò che è suscettivo d’au- mento, diminuzione e misura, è opera matematica; si aggiri essa nello infinito ideale o nel finito fenomenico, nell’ astratto o nel concreto, per dar luogo alla di- stinzione fra le matematiche dette pure e le applicate; o si occupi dell’ essere in- definito, ovvero del determinato, dello spazio ovvero del numero, per dar luogo alla distinzione fra il continuo ed il discreto. Così a cagione d'esempio, la fisica che talora si limita ad osservare le appa- — 637 — renze della natura e ad indagarne le cause, tal’ altra ne determina le leggi, e sot- topone al magistero del calcolo o di una semplice costruzione geometrica il feno- meno che prima sembrava procedere per forze occulte e variamente incerte a ca- priccio della natura. Egli è allora che la fisica prende il nome di matematica per essere distinta dalla sperimentale e fenomenica. La meccanica che ora speculativa e razionale supponendo i corpi impenetra- bili, inerti ed animati da forze motrici delle quali finge e varia a suo talento le leggi, va classificata fra le matematiche pure; ed ora instrumentale e pratica, applicando le astratte teorie alle vere forze che nella natura si rinvengono, va classificata fra le matematiche applicate ; talora sovvenendosi del puro empirismo dell’artefice discende all'analisi della costruzione di macchine e congegni che vo- glionsi anno verati fra le arti meccaniche, anzichè fra le opere della scienza. Ond’ è che per non parlare di quella parte dell’ architettura che solo si occupa della estetica degli edifizi, l’altra invece che fornisce le regole statiche della loro costruzione non è che un ramo della meccanica applicata. E come l'architettura civile, la militare, la idraulica, la navale e la orittica, cadono in parte sotto il dominio delie matematiche applicate, così la geografia, la cronologia, la nautica, in parte dipendono dalla geodesia e dall’ astronomia. L’antica scienza astrologica ben può considerarsi divisa in due parti essenzial- mente distinte. L'una si occupava di osservare e calcolare i fenomeni celesti ; l’altra per arcane e immaginose influenze dei corpi celesti sui terrestri, preten- deva divinare i futuri avvenimenti ed i destini degli uomini. Ora come nella prima parte è facile ravvisare i primordi della nascente astronomia, così l’altra vuolsi bandita da ogni ramo di vera sapienza, o noverata fra le arti ciurmatrici e fur- besche. , Queste considerazioni analogamente estese ai diversi rami delle matematiche, valgono a meglio chiarire il concetto che ritengo dovesse informare la selezione delle opere comprendibili in una biblioteca matematica del secolo XIX. Avverto però come nella incertezza che lascia talvolta la sua pratica applicazione, sia pre- feribile il comprendervi quegli scritti che sebbene a tutto rigore non si possono classificare fra i matematici, tuttavia meritano di essere conosciuti per l’ attinenza immediata storica o scientifica che hanno con questa scienza. Od in altri termini reputerei opportuno il segnalarvi quelle opere il cui studio può servire di com- plemento all’argomento trattato nelle opere che alle matematiche più strettamente sì attengono. Credo però che in codesta difficile scelta si dovrebbe procedere più rigorosi di quanto fui nella mia Biblioteca matematica dei passati secoli: perchè se le scienze fisico-matematiche nei primordi del rinascimento presentavano un carattere meno distinto delle scienze affini, e la scarsezza delle cognizioni ne scusava l’ agglome- razione enciclopedica, col progredire della scienza i diversi rami che la compon- gono più nettamente si dividono e si distinguono. Come nell’avvicinarsi ad un — 638 — oggetto che mal si discerne da lontano, a poco a poco se ne distinguono meglio le forme, i contorni e le linee che lo separano dagl’ oggetti circostanti. Sembrerebbe a primo aspetto che nella compilazione di una biblioteca mate- matica dei nostri tempi si dovessero incontrare minori difficoltà di quelle che pre- sentò la Biblioteca matematica dei secoli passati; perchè le opere da registrarvi vennero pubblicate ai nostri giorni, e direi quasi sotto i nostri occhi. Ma se si considera che il numero delle pubblicazioni matematiche è aumentato a dismisura, specie negli ultimi periodi di tempo, e che per questi non vi possono essere tutte quelle bibliografie o biblioteche particolari di città o di regioni che si hanno per le opere pubblicate nei secoli trascorsi, si riconoscerà facilmente che le difficoltà per compierla con sufficiente esattezza, non sono minori di quelle che si presen- tavano limitandola a tempi meno recenti. Però mentre la descrizione bibliografica delle più antiche e rare edizioni esige la indicazione di una quantità di particolari che sarebbe pedantesca bibliomania lo estendere alle opere più recenti, sarei d’ avviso che una biblioteca matematica del nostro secolo potesse a sufficienza raggiungere lo scopo principalmente scien- tifico cui è destinata, quando nè fra le opere di maggiore estensione, nè fra le memorie più interessanti, nè fra i minori scritti, non mancasse alcuna di quelle pubblicazioni la cui conoscenza possa riescire giovevole agli studiosi; e che la de- scrizione di ciascuna fosse fornita solo di quelle esatte indicazioni bibliografiche che bastano a comprenderne il soggetto, ad identificarla ed a rinvenirla. Tale è lo sviluppo e la estensione che di recente acquistarono le scienze esatte, che se nella mia Biblioteca matematica reputai conveniente il notare i pregi od i difetti delle opere che già erano passate nel dominio della storia, sembrerebbemi di soverchio ardimento un giudizio delle più recenti, all’ infuori del segnalare quelle che per comune consenso vennero noverate fra le classiche. Il modesto saggio che presento è limitato ad un solo ramo della scienza, nel quale ho riportato anche la indicazione delle pubblicazioni sullo stesso soggetto, di autori italiani appartenenti ai secoli precedenti; sia perchè se ne abbia sott’ oc- chio la intera serie, sia per adempiere alla promessa che ne feci in una prece- dente mia nota (1). Si comprende di leggieri che una biblioteca matematica concernente una sola nazione, non possa contribuire a raggiungere lo scopo scientifico cui è destinata, che come parte di una bibliografia generale di questa scienza. Il dotto sig. Enestròm in un recente suo scritto (2) addimostra la importanza (1) Di alcune opere di Prospettiva di autori italiani ammesse nella « Histoire de la Perspe- ctive » di M. Poudra. V. la Bibl. Math. Zeitschrift firm Geschichte der Mathematik herausgegeben von G. Enestròm. Stockholm, 1889, p. 39. (2) Sur les bibliographies des sciences mathématiques. Bibl. math. Zeitschrift fiir. Geschichte der Mathematik. Stockholm. 1890, p. 37. — 639 —. e la urgenza di una bibliografia generale delle scienze esatte; e dà ragguaglio dei lavori all'uopo divisati ed intrapresi dal sig. G. Valentin a Berlino e dalla Società matematica di Francia. Stimo però che a raggiungere la necessaria esat- tezza in un lavoro di tanta mole, giovi il premettere la compilazione, per opera di privati o di commissioni internazionali, delle bibliografie matematiche partico- lari di ciascuna nazione ; e che ed ogni modo i lavori di tutti vengono eseguiti con le stesse norme e razionalmente coordinati a quell’ unico scopo. I. ELENCO di opere a stampa pubblicate da autori italiani, intorno alla PROSPETTIVA (1). FONTI STORICHE Venturi G. B. Commentarj sopra la storia e le teorie dell’ Ottica ecc. (Vedi più oltre il n.° 53). Randoni (Architetto). Osservazioni sulla Prospettiva degli antichi. Mem. dell’ Ac. delle scienze di Torino, t. XXiX, Classe di scienze morali, 1825, p. 28. Poudra. Histoire de la Perspective ancienne et moderne. Paris, Corréard, 1864, 8.° Cremona L. Sulla storia della prospettiva antica e moderna. La Rivista etaliana, 1865, nu- meri 237-238. Narducci Enrico. Intorno ad una traduzione dell’ Ottica di Alhazen. Zioma, tip. delle sc. mat. e fis., 871, 4° — (Estr. dal Bu. del Boncompagni). Boncompagni Baldassarre. Intorno ad un manoscritto dell’ Ottica di Vitellione citato da Fra Luca Pacioli. Roma, id., 1873, 4.° (Estr. c. s.) Al Dott. Alfonso Sparagna è dovuta la traduzione della memoria di E. Wiedemann « Sul- l’ Ottica degli Arabi » Roma, id., 1882, 4.° (Estr. c. s.) Riccardi Pietro. Di alcune opere di Prospettiva di autori Italiani ommesse nella « Histoire de îa Perspective » di M. Poudra. Bibliotheca Mathematica di G. Enestròm, 1889, p. 39. CATALOGO CRONOLOGICO 1. - Eugenius Sticulus Ammiratus. Intorno alla sua traduzione dell’ Ottica di Tolomeo, veggasi 1’ articolo Siciliano Eugenio nella mia L'iblioteca matematica italiana. Questa traduzione fu poi di recente pubblicata dal com- pianto Prof. Gilberto Govi, col titolo: (1) Le opere sono ordinate secondo l’ epoca presumibile in cui furono composte, o tradotte, o commentate. 3 È Quelle segnate con (*) furono già registrate nella mia Biblioteca matematica, dove si troverà una più completa descrizione delle prime e delle successive loro edizioni. — 640 — L’ottica di Claudio Tolomeo da Eugenio Ammiraglio di Sicilia — Scrittore del secolo xx — ridotta in latino sovra la traduzione araba di un testo greco imperfetto, ora per la prima volta conforme ad un codice della Biblioteca Am- brosiana per deliberazione della R. Accademia delle scienze di Torino pubblicata da Gilberto Govi socio della stessa Accademia. Torino, stamperia Reale della Ditta G.-B. Paravia e C., 1885, 8°., fac. xx + 171 e 9 tav. (1). Veggasi il ragguaglio che ne dà il Favaro in una nota inserita nel Bullettino di Bibliografia e di Storia delle scienze matematiche e fisiche (t. x1x. 1886), nella quale sono pure indicati pa- recchi scritti che a codesta opera si riferiscouo. 2.* - Gherardo Cremonese. Opticae thesaurus Alhazeni Arabis libri septem, nune primum editi. Basileae per Episcopios, 1572, in fol. V. Boncompagni B. Della vita e delle opere di Leonardo Cremonese traduttore del secolo duodecimo. Roma. 1851, 4.° — Narducci Enrico. Intorno ad una traduziene dell’ Ottica di Alhazen. Ronua, tip. delle scienze matematiche e fisiche, 1871, 4.° Non posso dispensarmi dell’ accennare qui gli scritti, benchè inediti o smarriti, intorno alla Prospettiva, di Pietro della Francesca, di Agostino Bramantino o Bramante da Milano, di Baldas- sare Peruzzi e di Leonardo da Vinci, appartenenti all’epoca del rinascimento. Intorno a quest’ ul- timo si consultino le nozioni di Prospettiva contenute nel suo noto trattato della Pittura, 3.* - Alberti Leon Battista. Opere volgari ece. annotate e illustrate dal Dottor Anicio Bonnucci. Firenze, tip. Galileiana, 1843-49, t. 5, 8.° (v. il t. v p. 93 — Della Prospettiva. Libro uno). 4.* - Cardano Facio. Perspectiva communis. Iohannis Archiepiscopi Cantauriensis per D. Facium Cardanum. (Milano, per Pietro Cornero, 1482 (circa), in fol.). 5.* - Gaurico Pomponio. De sculptura, ubi agitur de Perspectiva ecc. Flo- rientiae, 1504, 4°. 6.* - Gaurico Luca. Io. Archiepiscopi Cantauriensis Perspectiva communis. Ve- nettis, per I. B. Sessam, 1594, fo. 7.* - Zamberti Bartolomeo. Euclidis....... Habent in hoc volumfne....... elemen- torum libros xii) ecc. Itidemq. et Phaeno. Specu. et Perspe. ecc. Venetiis. ex @edi- bus Ioannis Tacuini, 1505, fo. V. il mio « Saggio di una Bibliografia Euclidea. Bologna, 1887-88, 4° » 8.* - Pacioli Luca. Divina proportione. Opera ecc. Venetiis, per Paganinum de Paganinis, 1509, in fo. (1) Il Prof. Govi già da tempo aveva palesata la importanza di questa opera nel suo opu- scolo « Sulla opportunità di pubblicare una traduzione inedita dell’ Ottica di Tolomeo. Torno, St. Reale, 1871, 8.° » E così pure il sig. Bernardino Peyron nel suo scritto « Dell’ Ottica di Claudio Tolomeo, notizie bibliografiche ec. Torino, G. B. Paravia. 1883, 8.°, p. 12 ». Estr. dagli Att della R. Ac. delle scienze di Torino, vol. vi, 1871, p. 401; e vol. xvi, 1882, p. 205. — 641 — 9.* - Serlio Sebastiano. Il primo (ed il secondo) libro d’ Architettura. Veneta, Nicolini, s. d., in fo. 10.* - Commandino Federico. Ptolemaei Planisphaerium. Iordani Planisphaerium. Federici Commandini Urbinatis in Ptolemaei Planisphaerium Commentarius. Vene- tiis, Aldus, 1558, 4°. 11.* - Barbaro Daniello. La pratica della Prospettiva. Venetia, Borgominieri, 1568, in fo. 12.* - Bassi Martino. Dispareri in materia d’ Architettura et Perspettiva. Bre- scia, Marchetti, 1572, 4°. (V. l'art. della mia 20. mat. Ferrario Francesco Bernardino). 13.* - Barozzi Giacomo. Le due regole della Prospettiva pratica, con i com- mentarj del R. P. Maestro Egnatio Danti. Roma, Zanetti, 1583, in fo. 14.* - Danti Egnatio. La Prospettiva di Euclide tradotta ecc. con alcune anno- tazioni. Insieme con la Prospettiva di Eliodoro Larisseo. Mirenze, Giunti, 1573, 4°. 15.* - Maurolico Francesco. Photismi de lumine et umbra. Venetiis, 1573, 4°. 16.* - Benedetti Giambattista. Diversarum speculationum mathematicarum et physicarum liber. (De rationibus operationum Perspective). Taurini, haer. Nic. Be- vilaque, 1580, in fo. 17. - Lomazzo Gio. Paolo. Trattato dell’arte della pittura ed Architettura. Mi- lano, 1585, 4°. 18.* - Gallucci Gio. Paolo. I tre libri della Prospettiva comune dell’ Arcive- scovo Cantauriense tradotti et accresciuti ecc. Venezia, her. di Gio. Varisco, 1593, 4.° 19.* - Sirigatti Lorenzo. La pratica di Prospettiva ecc. Venetia, Franceschi, 1596, in fo. 20.* - Casati Curzio (e Raverta Camillo). Geometricum problema ecc. Mediolani, apud Pacificum Pontium et I. B. Picaleam, 1602, 4.° 21.* - Cardi Cigoli Lodovico. Prospettiva pratica ecc. 1612, 4.° 22.* - Barca Pietro. Avvertimenti e regole circa 1’ Architettura...... Prospettiva ecc. Milano, Pandolfo Malatesta, 1620, in fo. obl. 23. - Di Diano Ferdinando. Occhio errante dalla ragione emendato. Venezia, 4.° 24.# - Accolti Pietro. Lo inganno degl’ occhi, Prospettiva pratica ecc. Firenze, Pietro Cecconcelli, 1625, 4.° 25.* - Zannini Viola Gioseppe. Dell’ Architettura ecc. Padova, Francesco Bolzetta, 1629, 4.° ; TOMO X. 81 — 642 — 26. - Mercati Camillo. Prospettiva ecc. Roma, 1640, 4.° obl. Non ho veduto questo lavoro e non posso affermare se e come il suo contenuto corrisponda al titolo. 27.* - Bettini Mario. Apiaria universae philosophiae mathematicae ece. Bono- niae, typis Io. Baptistae Ferronij, 1641-2, 2 vol. in fo. 28.* - Idem. Recreationum mathematicarum apiaria novissima duodecim ecc. Bononiae, Ferroni, 1660, in fo. 29.* - Troili Giulio. Pratica del parallelogrammo da disegnare del P. Cristo- fero Scheiner. Bologna, G. Monti, 1653, 4.° 30.* - Contino Bernardino. La prospettiva pratica. Venezia, 1645. fo. 31.* - Guarini Guarino. Euclides adauctus et methodicus ecc. (Tr. xxvi. De proiecturis I, de Orthographia : par. II. de Stereographia). Aug. Taurinorum, B. Za- pata, 1671, in fo. 32.* - Troili Giulio. Paradossi per praticare la Prospettiva. Bologna, H. del Peri, 1672, in fo. (e con la par. 3.* ivi, Gioseffo Longhi, 1683, in fo). 33. - Guarini Guarino. Architettura civile ecc. Torino, G. F. Mairesse, 1737, fo. 34.* - Vergelli Giuseppe Tiburzio. Le due regole della Prospettiva pratica di M. Iacomo Barozzi, epilogate. Roma, Mascardi, 1684, 4.° 35.* - Dal Pozzo Andrea. Perspectiva pictorum et architectorum etc. Romae, typis Iac. Komarek, 1693, par. 2, in fo. 36.* - Spucces Biagio. Perspectivae problemata ac theoremata. Panormi, 1701, 8°. 37.* - Aidoni Agatino. Risposta ecc. con sei nuovi problemi, tra quali due sono adatti al cinque termini della Prospettiva portati da M. Iacopo Barozzi. Palermo, Tommaso Pignatari, 1706, 8°. 38.* - Bibiena Galli Ferdinando. L’ Architettura civile preparata su la Geometria e ridotta alle Prospettive. Parma, Paolo Monti, 1711, in fo. 39.* - Amato Paolo. Nuova pratica di Prospettiva. Palermo, V. Toscano, 1714, fo. 40.* - Bibiena Galli Ferdinando. Direzioni della Prospettiva teorica ecc. Bologna, Lelio dalla Volpe, 1732, 8°. 41.* - Bibiena Galli Giuseppe. Architettura e Prospettiva. Augustae, 1740, in fo. 42.* - Quadri Gio. Lodovico. Regole della Prospettiva pratica delineate in tavole a norma della seconda regola di Iacopo Barozzi ecc. Bologna, Lelio dalla Volpe, 1744, 4°. 43.* - Costa Gianfrancesco. Elementi di Prospettiva. Venezia, 1747, 4°. — 643 — 44.* - Amico Giovanni. L’ Architetto pratico, (v. Par. iv del n libro). Palermo, Angelo Felicella, 1750, in fo. 45.° - Zanotti Eustachio. De Perspectiva in theorema unum redacta. (Com. Inst. Bononiensis, t. ni, an. 1755, p. 169). Di questo anno si ha pure la ediz. italiana degli « Elementi di prospettiva di Jacquier. Roma, 1755, 8° ». 46.* - Vittone Ant. Bernardo. Istruzioni elementari per indirizzo de’ giovani allo studio dell Architettura. Lugano, Agnelli, 1760, t. 2, 4°. 47.* - Zanotti Eustachio. Trattato teorico-pratico di Prospettiva. Bologna, Lelio dalla Volpe, 1766, 4°. 48.* - O&rsini Baldassare. Della Geometria e Prospettiva pratica. Roma, Bene- detto Franzesi, 1771-2-3, t. 3, 8°. 49.* - Stellini lacopo. Opere varie. Padova, G. B. Penada, 1780-86, t. 6, 8°. (Vedi il t. m). Per affinità di argomento veggasi l’ opus. De projectionibus geometricis. Mediolani, Ios. Marelli, 4°. Fac. 4+- 80, car. con errata e 2 tav. Una nota appostavi ne dice autore G. Racagni, e ne indica la data del 1782. 50.* - Torelli Giuseppe. Elementorum Perspectivae lib. 1. Veronae, ex 0ff. Mo- roniana, 1788, 4°. 5I. - Rossi Melocchi Cosimo. Saggio teorico-pratico intorno alla determinazione delle ombre nei diversi soggetti d’ Architettura geometrica. Firenze, Tofani, 1803, 4°. 52. - Tramontini Giuseppe. Delle projezioni grafiche e delle loro principali appli- cazioni, trattato teorico-pratico. Modena, Soc. Tip., 1811, par. 2, 4.°, con tav. 53. - Venturi Giambattista. Commentarj sopra la storia e le teorie dell’ Ottica ecc. Tomo primo. Bologna, Fr. Masi e C., 1814, 4.°, con tav. (Estr. dalle Mem. dell’ Ist. nazionale Italiano, t. 1, par. n, 1813, p. 155). 54. - Bordoni Antonio. Dell’ ombra del toro, dell’ ovolo ecc. Pavia, 1815, 8°. 55. - Magistrini Giambattista. Facilis et universalis delineatio geometrica um- brarum. Bononiae, 1816, 8°. Al Magistrini è pure dovuto lo scritto: « Pantografo scenografico, ossia mezzo meccanico, semplice e rigoroso, di tradurre in prospettiva i disegni geometrici. Opus. scientifici di Bologna, t. 1, 1817, p. 289 ». 56. - Sereni Carlo. Applicazioni di Geometria descrittiva. (Inserite nelle Ri- cerche geom. ed idrom. fatte nella Scuola degl’ Ing. pontifici ecc. Milano, Giusti, 1822, 4°). 57. - Taccani Francesco. Della Prospettiva e sua applicazione alle scene tea- trali. Miano, 1825, 8.° con atl. —- 644 — 58. - Astolfi G. Elementi di Prospettiva lineare. Milano, 1825, 8°. 59. - Geometria applicata alle arti belle e alle arti meccaniche del Cav. Luigi Poletti ec, Roma, 1829, 8°, con tav. Id. seconda edizione. Roma, tip. dell'Ospizio Apost. presso Aurelj, 1846, 8°. Vol.1 di testo ed 1 di tav. V. la Sez. V. Dei piani e della Prospettiva. 60. - Mazzetti. Elementi di prospettiva lineare. Roma, 1830, 8°. 61. - Lezioni di prospettiva pratica d’ Ippolito Caffi, esposte da Antonio Bianchini. Foma, tip. delle belle Arti, 1835, 8.°, p. 48 e 16 tav. sul rame. Alcune nozioni, benchè elementari, di Prospettiva, sono contenute nella seguente opera: 62. - Istituzioni di architettura civile raccolte ed ordinate dal Conte Luigi Ponza di S. Martino ec. Torino, Giuseppe Pomba, 1836-37, 4°, par. 3 con tav. v il vol. m 63. - Trattato di geometria descrittiva di G. Monge, coll’ aggiunta della teoria delle ombre e della prospettiva, estratto dalle lezioni inedite dell’ autore per cura del sig. Brisson. Prima versione italiana del Prof. F. Corridi. Firenze, Ricordi, 1838, 8°, p. xx + 224 e 28 tav. 64. - Amati Carlo. Regole del chiaroscuro in Architettura. Milano, fr. Ubicini, 1840, fo., p. 16 e 15 tav. 65. - Codazza G. Sopra un metodo di Prospettiva pel disegno di macchine. Nota di geometria descrittiva. Como, Ostinelli, 1842, 8.°, p. 80 e 3 tav. 66. - Sereni Carlo. Applicazioni di Geometria descrittiva. Roma, Salviucci, 1846, 4°. Fanno seguito al suo Trattato di Geometria Descrittiva (Roma, 1826 e 1845, 4°). 67. - Fagnoli Giuseppe. Specimen criticae analysis de Perspectiva theoretica. Bononiae, 1849, 4°. (Est. dai Novi Com. Ist. Bon., t. 1x, p. 553). 68. - Lanciani Pietro. Elementi di Prospettiva lineare. Roma, Salviucci, 1849, 4°, con 29 tav. 69. - Cocchi Francesco. Lezioni di Prospettiva pratica, e regole abbreviatrici per disegnare le scene. Bologna, Soc. Tip., 1851, 4°. 70. - Angelini Annibale. Trattato teorico pratico di Prospettiva. Roma, Sinimber- ghi, 1862, 4° con 52 tav. TI. - Fea G. Principj fondamentali della Prospettiva lineare ed aerea. Torino, 1862, 4°, con tav. 72. - Chelini D. Delle sezioni del cono e della Prospettiva nell’ insegnamento della Geometria analitica. Bologna, 1864, 8°. Estr. dalle Mem. dell’ Ac. dell’ Ist. di Bologna, ser. 2°, t. 1, p. 441. -— 645 — 73. - Uglieni M. I principj della prospettiva lineare secondo Taylor. Giorn. di mat. (di Battaglini), vol. m, 1865, p. 338. 74. - Gallo G. (V. più oltre al n.° 88). 75. - Peri G. Applicazioni della Geometria descrittiva alle ombre, alla pro- spettiva lineare ed aerea, al taglio delle pietre e del legname ecc. Firenze, 1870, 8.°. E 2° edizione riveduta ed aumentata di un appendice contenente le projezioni delle carte geografiche e la gnomonica per Giulio Bellotti. Firenze, Felice Paggi, tip. Moder, 1884, 8°, pag. 400 ed atl. 76. - Morselli A. La prospettiva pratica. Napoli, Pellerano, 1870, 4°. obl. con 32 tav. incise. 77. - Regis Domenico. Sopra un’ applicazione dei principj di omologia alla Pro- spettiva. Gior. di mat. di Battaglini, vol. vi, 1870, p. 222. 78. - Autoriello Francesco. Corso di Prospettiva ragionata. Napoli, Stab. tipogra- fico, 1871, 8°. 79. - Bellavitis Ernesto. Elementi della teoria delle ombre. Padova, tip. del Se- minario, 1876, 8°, p. 28. 80. - Negri Camillo. Nota su di una relazione tra le linee d'ombra delle su- perficie di rivoluzione ed elicoidee ; e su alcune proprietà delle linee medesime. Atti della R. Ac. delle scienze di Torino, vol. xrv, 1878, p. 116. 81. - Damiani Almeyda G. Applicazione della Geometria elementare allo studio del disegno nelle ricerche delle projezioni, delle ombre e della prospettiva. colle nozioni sul chiaro-scuro, sul colore e sulla prospettiva aerea ecc. Palermo, 1878, 8°, con atl. di 19 tav. 82. - Tessari D. La teoria delle ombre e del chiaro-scuro, ad uso delle Uni- versità, delle Scuole d’ Applicazione degli Ingegneri, delle Accademie militari, de- gl Istituti tecnici, degl’ Ingegneri, Architetti e Disegnatori. Torino, Bocca, 1878-80, (e 2° edizione 1882), 8° con tav. Il Tessari aveva già pubblicato il suo scritto : « Sulle linee di uguale illuminazione nelle su- perficie » Ins. negli An. del R. Museo di Torino, vol. 1, 1871, p. 46. Vegyansi in particolare gli scritti del Tessari: a). Sulle regole fondamentali della Prospettiva. (Inserito nel periodico « 17 Polefecnico »). 6). Sopra la teoria della gradazione delle tinte. (Fa parte delle materie contenute nel Trattato « La teorica delle ombre »). Id. Applicazioni della geometria descrittiva. /bid., 1880 e 1882, 2 vol., 8°. Contiene « La teoria delle ombre e del chiaroscuro. Torino, 1880 ». V. il periodico: Ze:tsch. fiir Math. und Phus., xxvi Jahr., 1881, p. 134. 83. - Suini Alessandro. Elementi di Prospettiva lineare, con una critica del suo impiego nell’ arte della pittura, ad uso degli allievi Ingegneri, Architetti, Pittori, e di tutti gli amatori delle arti belle. — 646 — Operetta premiata dall’ Accademia Pontoniana di Napoli. Milano, 1880, 8°, con 11 tavole. 84. - Fuortes T. Elementi di Prospettiva lineare per gli artisti. Napoli, 1880, 8°, con atl. 85. - Becchetti T. Studio teorico-pratico delle ombre e del chiaroscuro. A ppli- cazioni al disegno geometrico ed alla prospettiva. Roma, 1881, fo. 86. - Gilli A. M. La prospettiva dei piani inclinati e di corpi liberi nello spa- zio ottenuta senza piante ed alzate coll’ uso della regola dei punti di fuga o con- corso. Chieri, 1881, in fo. obl., con 46 tav. 87. - Bellavitis Ernesto. Sull’ applicazione dei nuovi metodi di projezione cen- trale allo studio della prospettiva concorrente. Nota ecc. Padova, tip. del Seminario, 1883, 8°, p. 24. 88. - Gallo G. Corso elementare progressivo di Prospettiva pratica ad uso degli artisti e disegnatori. — (2° ediz. cor. atlante di 45 tav.). — (La 1° ediz. è del 1866). 89. - Cassani Pietro. La proiezione stereoscopica. Nota ecc. Atti del R. Istituto Veneto, t. 1, ser. vi, 1885, p. 1835. 90. - Vecchi Stanislao. La teoria geometrica attuale delle restituzioni prospet- tive. Parma, tip. Rossi-Ubaldi, 1885, 4°. 91. - Trattato elementare di geometria descrittiva e sue principali applica- zioni ecc. dei Sig. M. Borgatti e B. Zanotti, vol. 1. Torino, G. Bruno, 1885, 8°, p. 220 e tav. 63. 92. - Chizzoni Cesare. Corso completo di prospettiva lineare e teoria delle om- bre, conforme ai programmi degl’ Istituti di belle arti. Milano, Hoepli, tip. Bernar- doni, 1886, 8°, p. 254. 93. Ratto G. La visione binocolare applicata alla Prospettiva lineare con alcuni cenni della sua applicazione al bassorilievo. Genova, 1886, 8°, opus. di p. 51. 94. - D’Emilio Raffaello. Alcune osservazioni sulla proiezione stereoscopica. Ate- neo Veneto, ser. x, vol. 1, 1886, p. 71. 95. - Marchesi Salvatore. Principj fondamentali di Prospettiva lineare esposti con un nuovo metodo che ha per iscopo di condurre l'artista sul vero. Parma, L. Battei, 1888, 8°, p. 32, ed atl. di 8 tav. 96. - Regis D. Corso di applicazione della Geometria descrittiva. (Fasc. 1°. Contorno di ombre e linee di eguale illuminazione). Torino, Bocca, 1887, 8°. — 647 — II. ELENCO ‘. di Opere a stampa pubblicate da autori italiani, intorno alla Geometria descrittiva. FONTI STORICHE L’ Ing. Guido Susani in un suo scritto inserito negli Annali di statistica, an. 1846, nel dare uno sfavorevole ragguaglio del primo fascicolo del Trattato dî Geometria descrittiva di Ambrogio Robiati (Milano, G. Redaelli, 1845) espone alcuni interessanti cenni sulla storia di questa scienza. Oltre le opere più oltre citate del Flauti, del Bordoni, del Sereni e del Pasi, dà breve ragguaglio di quella assai pregiata del Codazza sulle applicazioni della Geometria descrittiva al taglio delle pietre. Della Geometria descrittiva del Taccani non giova, dic’ egli, il parlare. Mugna Giovanni. Origine e successivo sviluppo della Geometria descrittiva. Vicenza, Burato, 1872, 8.° Torelli Gabriele. Notizie storiche relative alla teoria delle trasformazioni in geometria descrit- tiva. Gior. di mat. di Battaglini, vol. x, 1875, p. 352. CATALOGO CRONOLOGICO 1. - Guarini Guarino. Euclides adauctus et methodicus etc. Aug. Taurinorum, B. Zapata, 1671, fo. — V. la citata mia nota “ Di alcune opere di Prospettiva ec. , Il Guarini si può riguardare forse il primo che siasi occupato di geometria descrittiva. V. lo Chasles, Apergu historique, p. 345. 2. - Flauti Vincenzo. Geometria descrittiva ecc. Roma, 1807. Ristampata col titolo : Geometria di sito sul piano, e nello spazio ecc. Napoli, Soc. tip., 1815, 8°. Id. terza ediz. Napoli, nella stamperia dell'a., 1842, 8°. Sul trattato « Delle proiezioni grafiche » del Tramontini, v. 1’ ELENCO I, n° 52. ll trattato del Taccani di cui sopra è fatto cenno è intitolato : Geometria descrittiva ad uso dell'artista ec. Milano, 1813, vol. 2, 4°. 3. - Trattato di Geometria descrittiva di Carlo Sereni ecc. Roma, Filippo e Ni- cola De Romanis, 1826, 4°. Id. seconda ediz. Roma, tip. Salviucci, 1845, 4°. V. lo scritto del Bellavitis « Sul trattato di Geometria descrittiva del Prof. Carlo Sereni '» inserito nel Giornale dell Italiana letteratura. (Padova, 1828). Dell’ anno 1829 si ha pure una traduzione italiana della « Geometria descrittiva di Lacroix » Firenze, 8°. } Per la traduzione italiana della « Geometria descrittiva di Monge » v, 1’ ELENCO 1, n° 63. — 648 — 4. - Scienza geometrica delle costruzioni, ovvero Geometria descrittiva di G. Scaffnit ecc. Versione dal tedesco con illustrazioni ed aggiunte di Vincenzo dr. Tuzzi. Padova, A. Sicca, 1841, 8°, p. vim+ 286, e 12 tav. Un trattatello di Geometria descrittiva forma parte degli « Elementi di matematica » di Giovanni Inghirami. V. la 2° ediz. Firenze, tip. Calasanziana, \841, t. 2, 8° con tav. 5. - Pasi C. Sunto di lezioni di Geometria descrittiva ecc. Pavia, Bizzoni, 1843-44, 8°, pag. vir+192 con 12 tav. Della stessa epoca viene pure indicato un trattato di applicazioni della Geometria deserit- tiva del Tabacchi. Padova, 1844; nonchè quello del Robiati sovracitato. (V. Fonti storiche). 6. - Lezioni di Geometria descrittiva con note contenenti i principii di Geometria superiore ossia di Derivazione, e parecchie regole per la misura delle aree e dei volumi, di Giusto Bellavitis ecc. Padova, coi tipi del Seminario, 1851, 8°. V. l’art. dell’ Azzarelli nel t. Im, p. 339, degli Ann. di matematica del Tortolini. Id. 2° ediz. Padova, M. Bruniera, 1868, 8°. 7. - Bellavitis Giusto. Sopra alcuni problemi di geometria descrittiva proposti nel Giornale “ Nouvelles annales de Mathématiques par Terquem. , vista pe- riodica dei lavori dell'Ac. di Padova, t. m e iv, 1852-53, p. 279. 8. - Regis D. Sulle corde comuni a due sezioni coniche, ed applicazioni della geometria descrittiva. Torino, 1866, 4°, con 3 tav. 9. - Peri G. Corso elementare di Geometria descrittiva. Libri tre, seguiti da un’ appendice sul metodo delle projezioni quotate. Firenze, 1869, 8°, con atl. di 24 tav. E 2° ediz. per cura del Prof. Antonio Mochi ece. Firenze, Paggi edit. (tip. Mo- der), 1882, 8°, p. 304, con atl. di 24 tav. 10. - Ad ufficiali dello Stato Maggiore Italiano è dovuta la versione del Trat- tato di Geometria descrittiva di Leroy. (Napoli, Pellerano, 1869, 8°, con atl.). 11. Geometria elementare e descrittiva. Atti del R. Ist. Veneto, ser. v, tom. un, 1875-76, p. 889. 12. - AIl’Ab. D. Mazzitelli è dovuta la traduzione italiana delle Nuove Lezioni di Geometria descrittiva di Amiot, riordinate ed accresciute di applicazioni alle ombre e del metodo dei piani quotati da A. Chevillard. (Napoli, 1875, 8°, con tav.) Vi fa seguito un’ « Appendice » Napoli, 1876. Ne fu pubblicata una 2* e poscia una 3* ediz. Napoli, 1884, 8° con | vol. di tav. 13. - Torelli G. Sei lezioni di geometria descrittiva col metodo della proje- zione centrale. Napoli, 1877, 8.°, 3 tav. 14. - Fiedler Guglielmo, Trattato di Geometria descrittiva tradotta dall’ Ing. Antonio Sayno e dal D.r Ernesto Padova. Firenze, suc. Le Monnier, 1874, 8°, 12 tav. V. l'art. di Bruno G. negli Att della R. Ac. di Torino, vol. x, 1874-5, p. 252. — 649 — Le lezioni di Geometria descrittiva date dal prof. G. Bruno (1875-76) compilate da quattro suoi alunni furono pubblicate in fo. autogr. 15. - Al Prof. Giuseppe Jung è dovuta la traduzione degli “ Elementi di Geo- metria descrittiva di R. Sturm. Milano, Hoepli, 1878, 8°, con 12 tav. , 16. - Rubino Nicodemo. Geometria descrittiva ecc. Napoli, 1880, 8°. 17. - Veronese G. - Sulla Geometria descrittiva a quattro dimensioni. Atti del R. Ist. Veneto, t. vii, ser. v, 1881-82, p. 987. 18. Aschieri F. Geometria proiettiva e descrittiva. Milano, Hoepli, tip. Bernar- doni, 1883-84, 2 vol., 8°. V. il Bull. des sciences math., Fév. 1885. E 2° ediz., ibid., 1888. Le sue Lezioni di Geometria descrittiva, date nella R. Università di Pavia, erano già state raccolte e pubblicate da E. Perondi (Pavia, 1877-78, in fol. aut.) La sua Geometria descrittiva venne ridotta ancora in uno dei volumetti della SERIE SCIEN- TIFICA DEI MANUALI HOEPLI (Miano, 1887, 32.°) 19. - Murer Vittorio. Primi elementi di Geometria projettiva e descrittiva ecc. Torino, G. B. Paravia, 1885, 8°, p. 108 ed 83 tav. V. il ragguaglio che ne dà il prof. A. Lugli nel Periodico di Matematica, 1886, p. 153. 20. - Trattato elementare di Geometria descrittiva e sue principali applica- zioni ecc. dei Sig. M. Borgatti e B. Zanotti. Vol. 1. Torino, G. Bruno, 1885, 8°, con tav. TOMO X. 82 — 650 — III. ELENCO di opere di autori italiani, concernenti alcune applicazioni della Geometria descrittiva. Disegno axonometrico (1). FONTI STORICHE Riccardi P. Cenni sulla storia della Geodesia in Italia. Bologna, 1879-84. Par. 1, capo n, $ 12. (p.113). CATALOGO CRONOLOGICO 1. - Bianconi Giambattista. Sopra uno strumento per disegnare in prospettiva. Rend. dell'Ac. dell’Ist. di Bologna, 1839, p. TT. 2. - Sella Quintino. Sui principj del disegno, e specialmente dell’ axonometrico. Milano, 1861, 8°. Questo lavoro fu tradotto in tedesco e pubblicato negli Annali di matematica di Grunert. 3. - Cavallero Agostino. Corso teorico-pratico ed elementare di disegno applicato specialmente alle macchine ecc. Torino, tip. let., 1861, 8.°, con atl. di 7 tav. in fo. obl. V. l’Effem. della pub. istruzione, n° 59, 1861, p. 974. 4. - Pareto Fritz. Applicazioni di disegno axonometrico alla rappresentazione dei corpi. Gior. dell’ ing. archit., t. xvi, 1866, p. 689 e 745. 5. - Lodi Fortunato. Teoria delle ombre applicata ai disegni geometrici di ar- chitettura. Milano, 1867, 4.° 6. - Pantanelli Dante. Disegno assonometrico. Determinazione grafica ed ana- litica dei coefficenti di riduzione dell’ unità degli assi coordinati in funzione dei lati del triangolo traccia del piano di projezione su i piani coordinati. Gior. di mat. di Battaglini, vol. vii, 1870, p. 161. (1) Gli scritti concernenti le altre applicazioni della Geometria descrittiva alla Cartografia, alla Geografia, all’ Architettura ec. verrebbero indicati negli articoli corrispondenti a queste di- verse materie. A completare questo ELeNco si consultino gli Elenchi I e n, nei quali trovansi notati pa- recchi scritti che comprendono le applicazioni della prospettiva e della geometria descrittiva al disegno. — 651 — 7. - Vecchi Stanislao. Saggio di una prospettiva axonometrica. Sta nel periodico /2 Politecnico, t. xvi, an. 1870: e tradotto nel Civilingenieur (Leipzig) 1871. V. l’altro suo scritto Sulla prospettiva azonometrica, nel Politecnico, t. x1X, 1871; e la sua memoria: Gli omolografi, inserita nel detto periodico, t. xx1x, 1881; diretta a perfezionare lo strumento immaginato dal Prof. Michelangelo Riccardi e descritto nel libro: Studj di disegno Monomalografico del march. Prof. Guido della Rosa. (Torino, 1876). 8. - Tessari D. Sopra i principi della projezione assonometrica. Torino, 1871, 8.° (Annali del R. Museo, an. I.°). 9. - Boidi G. A. Principii della scienza del disegno, ossia Guida teorico-pratica per l’ insegnamento ragionato del disegno geometrico. Torino, Baglione e c., 1872. 8°. Fac. 11+-352 e 21 tav. Più volte in seguito ristampato. 10. - Montanari Luigi. Corso elementare di disegno geometrico e di architettura ecc. (Par. I. Geometria pratica - Par. II. Geometria descrittiva) Modena, Angelo Cappelli, 1873, fo. con tav. Ristampato ibid. 11. - All’ anonimo A. D. B. è dovuta la traduzione del “ Trattato di prospettiva pratica per disegnare dal vero di G. P. Thénot ecc. , (Mrenze, F. Paggi, tip. Mo- der, 8.°, p. 136 e tav. 28). 12. - Briani Amilcare e Grassi Francesco. Corso elementare di disegno lineare geometrico di projezione, contenente la soluzione grafica dei principali problemi di geometria descrittiva. Milano, tip. S. Giuseppe, 1881, 83.°, p. 56, e tav. 31. 13. - Tessari D. Trattato teorico-pratico delle projezioni assonometriche orto- gonali ed oblique, ovvero metodo semplice e facile per eseguire qualunque ge- nere di prospettive parallele. Torno, G. B. Paravia, 1882, 8.° p. 96. e I i n) n uc AR) AS pe”. cli Li È To PRA n n Ru { gr pati eo j ” i A è RO digg DI 3 Fe e O TURATI Do b) + di ; Lera o ? Ù ù i bai 27 pan fi, Fi 5 24%, 1 7 st nibee: DAN CURA sa 1 RIRIRRRIAA riga ci Riti Li ) vite? | pag it IATA) fatt Catofurr se CONVEL Agr Mi So 199 siii PLAY ha ME a oa Ag CAT REL a ATO IO uti Ci Aapuri: te ae FA sii i. fu Ni a "a MW denti La id. ì TAR ati TE) SMR Ri a ib sn 4a istat es FI LMR sa È n 1 ® SOR ME "ADI ARIA RIO LO Moto ViTa dI Tamara pier | tut Ci RI | A EA DE SN nni Agredi 2 ag ‘pi ssiaricobtivt Uni QIAAG conti coi dara all “tin N » pù 18, Li kb. 29% ps un METANO: FTTHIoNA IT arr ati A D “MAR at ADpI ARA AL USRA MELLA È. MN affondi | ib vigile. - Agra tamil Ù dA Rao SET sE al pb pe Vi + da SIR, i di sita sii e se. n st Le a i) JA tordi dica 9 $ la N i PRIA) Lui geni an. * Siti A È A Eat è Atto Su # sd, t Y per iam oi Fs ia Solfato PE) Se f nu dt: “RE ARI di ‘itij(oò; cal'otizge dr vi aALÈ ali hi: da RENT “Albina cui | iù P 19; LR ne RL ‘HER 1 Us EURI ie ar pe Me Tak, b Mi Li i n FORSSHI n RR ERI Pan Sal in Lan ve "Da ani, i "i (* n Landl Di RECATA LOT LE RP dea: FIERA) ta Laici DIE ERA DUE PARTICOLARI: TRASFORMAZIONI PIANE QUADRA TICIE MEMORIA DERE OB RVIEELEEENTI EC (Letta nella Sessione del 12 Gennaio 1890). Nelle pagine seguenti, premesse le soluzioni di alcuni problemi preliminari con- cernenti le coniche conjugate, sono considerate le due trasformazioni quadratiche seguenti : a) Data una conica fissa K° e un punto pure fisso È nel suo piano 7, ad un punto arbitrario P di 7 si fanno corrispondere i due punti doppî della invo- luzione definita, sul raggio | EP|, dalle due coppie di punti conjugati £, P e (K°,|RP|). Ad una retta assegnata % corrisponde nella figura trasformata la conica H? che forma con K? un sistema il cui contravariante fondamentale de- genera nella coppia di punti £, H, essendo H il polo di % rispetto a K°. In par- ticolare se K° è un cerchio di centro £, le rette del piano 7 si trasformano nel sistema 00° dei cerchi ortogonali a KX°. La 17° è poi il luogo dei poli di contatto per le coniche conjugate a X° e in rispetto alle quali le due rette %, » sono reciproche. b) Date in un piano 7 una conica fissa K? ed un punto fisso È, ad ogni punto P di x facciamo corrispondere il punto armonicamente separato da È me- diante P e la polare p di P rispetto a K°. - Ad ogni retta s di 7 corrisponde la conica S° passante per £ e bitangente a K° sulla retta s. Le proprietà di questi due sistemi co? di coniche H® ed ,S°, legati intimamente fra loro, e quelle delle trasformazioni che loro danno origine conducono a risol- vere assai semplicemente i due problemi generali seguenti : a) Determinare il luogo dei poli di contatto per le coniche conjugate a una conica data K° e rispetto alle quali i poli di una retta data » cadono in una curva piana algebrica C”, dell’ ordine n e della classe # ; Y b) Determinare il luogo dei poli d’ una retta 7 rispetto alle coniche, della — 654 — serie d’ indice 2n, conjugate a X° in rispetto ai punti d’ una curva piana alge- brica Ci. Le determinazioni di questi due luoghi sono fatte completamente, nella Mem. presente, non solo nel senso Pliickeriano, vale a dire non solo sono enumerate le singolarità pliickeriane dei luoghi cercati, ma sono date per queste singolarità costruzioni effettive che sembrano non prive di qualche interesse. Una delle difficoltà principali dei due problemi indicati consisteva nel deter- minare i numeri delle coniche dei due sistemi 0°, (H?) ed (S°) che soddisfano a certe condizioni di contatto con la curva C% ; in queste determinazioni sono stato ajutato dal Ch.mo Sig. Prof. H. G. Zeurzen il quale mi fece l’ onore di in- teressarsi alle mie ricerche e facilitarmele : colgo volentieri questa occasione per esprimere la mia profonda gratitudine al celebre geometra Danese. Specializzando la curva C? si ottengono teoremi assai notevoli, relativi alle coniche ed a certe curve del 3° e del 4° ordine, i quali erano stati in parte ac- cennati in lavori anteriori del Ch.mo Sig. Prof. F. P. Rurrisi (') e miei sulle coniche conjugate (°). La C” è supposta generale dell'ordine n e nemmeno sono discussi, naturalmente, tutti i casi interessanti in cui essa abbia relazioni speciali di posizione coi punti R, (K°r) e con la conica K° : l’ argomento si presta perciò ad ulteriori sviluppi (?). Non occorre poi avvertire che, per la massima parte, le costruzioni e i teoremi indicati nel presente lavoro ne somministrano, in virtù del principio di dualità, altrettanti che abbiamo creduto inutile di enunciare. 1. Voglionsi costruire le coniche conjugate a una conica data X? e rispetto alle quali un dato punto P è polo di una data retta r. Sia R il polo di r rispetto a K° e le retta | PR| seghi X° nei punti A, B; determiniamo i punti doppî della involuzione quadratica } P, E; A, B} e sieno E, F: le coniche cercate sono le due Ri He ordinatamente conjugate a X° rispetto ad £, F. Infatti, il polo di 7 rispetto a Ki è il conjugato armonico di È rispetto ad £, Y cioè il punto P (*). Oss. Anche le due tangenti che arrivano a K° dal punto È, considerate come rette doppie, sono coniche (degeneri) cbe risolvono il problema. 2. a) Se P appartiene a K?, le due coniche Ke Le, riduconsi alla tangente K® in P, considerata come retta doppia. b) Se r tocca K°, i due punti E, F cadono nel punto È di contatto e le coniche cercate riduconsi alla » considerata come retta doppia. (1) Di alcune proprietà delle coniche conjugate, Mem. del Prof. F. P. RurrINI (Ace. di Bologna. IX,, 1888). (£) Sopra una serie particolare di coniche, d’ indice due (ibid. V,, Gennaio 1884). — Osserva- zioni analitico-geometriche sulla projezione imaginaria delle curve del 2° ordine. (ibid. VIL,, 1886). (°) Meriterebbero p. es. speciale disamina il caso in cui la C7, è dotata di punti multipli nei punti (K?r) e quelli in cui essa ha con la conica X® uno o più contatti di ordine assegnato. (4) RurrINI, Di alcune proprietà delle coniche conjugate (Mem. dell’ Acc. di Bologna IX,) $ 33. — 655 — c) Se Ped r appartengono a K°, due punti qualunque armonicamente se- parati mediante P, È sodisfano al problema, ossia per ogni conica conjugata a K° rispetto a un punto della retta | PR | la polare di è p. - risultato già noto ((). d) Se P giace sopra una delle due tangenti che arrivano a K° da PR, i due poli E, Y sono il punto di contatto di questa tangente e il conjugato armonico di questo punto rispetto a P, £. e) Se P cade in R, i due poli di contatto £, F sono riuniti in uno qua- lunque dei punti della x: per ogni conica conjugata a K? rispetto ai punti d’ una retta 7, questa e il suo polo rispetto a KX*® sono polare e polo. f) Se assumiamo per 7 la retta all’infinito si ha la soluzione del problema: costruire le coniche di centro dato Pe conjugate a una conica data X?. — Sieno B, B' i termini del diametro di K° conjugato alla direzione | RP |e sia C uno dei termini della corda passante per P e parallela a | BB |:i due punti (| BC|,|PR]), (|BC|, PE] sono i poli di contatto delle coniche cercate. 3. Suppongasi ora che, rimanendo fissa la 7, il punto P percorra una retta 4 e determiniamo il luogo dei punti £, F; in altre parole, cerchiamo il luogo dei poli di contatto (con K°) delle coniche conjugate a X° e rispetto alle quali il polo di una retta data r cade in un’ altra retta data %, ossia rispetto alle quali 7, h sono una coppia di rette reciproche: il luogo cercato potrà costruirsi prendendo sopra ogni raggio 4 uscente da £ i punti doppî della involuzione {R, (ah); (K° a) } ed è perciò una conica (fig. 1) passante pei due punti £', E" ove K° è segata da r e pei due H', H'" comuni a K° ed %; ha per tangenti in E', R', H, H' ordinatamente le rette | HR'|,|HR"|.|RH'|,|RH"|. 4. Si può del resto dimostrare facilmente che il polo di una delle due rette r, h, per es: della 4, rispetto alla conica K, conjugata a A° rispetto a un punto arbitrario A del luogo, è il punto (| ZA|, »): infatti sia (fiv. 2) x l’altro punto del luogo posto sulla retta | HA|,la polare di A rispetto a X°, cioè la @, passa per x perchè A, x sono reciproci rispetto a K°; ma il punto (| HA |, r) è conju- gato armonico di H rispetto ad A, x dunque ecc. 5. Denoteremo provvisoriamente la conica trovata nel n. 4 con K che le due coniche K°, K°, sono mutuamente associate rispetto alle due rette r, h (assi di associazione). Intanto è chiaro che i due simboli X7,, 7, sì equival- 2 e diremo rl (') A. Sopra una serie particolare di coniche ecc. $ 2. — 656 — gono cioè K?,è anche il luogo dei punti doppî delle involuzioni j H, (r9); (XK? d){ dove 5 denota un raggio variabile del fascio H; inoltre K* è il luogo dei poli di contatto per le coniche conjugate a K/, e in rispetto alle quali 7, % sono una coppia di rette reciproche; una qualunque delle due coniche X?°, Kî, è anche il luogo dei poli di contatto delle coniche conjugate all’ altra e in rispetto alle quali R, H sono una coppia di poli armonici ('). Ogni retta condotta per Ro per H sega il sistema delle due coniche X°, Kî, in quattro punti armonici, due conjugati essendo sopra una stessa conica (°): in altre parole, se due coniche sono mutuamente associate rispetto agli assi 7, 4, i poli E, H di », ” rispetto ad una di esse (a K°) sono i poli di %, » rispetto al- l’altra e il contravariante fondamentale del loro sistema si spezza in questa coppia di poli. Abbiamo dunque il teorema: Se < contravariante fondamentale del sistema di due coniche degenera in una coppia di punti, ognuna di esse è il luogo dei poli di contatto per le coniche conjugate all altra e in rispetto alle quali i due elementi del contravariante sono una coppia di poli armonici. Se di due coniche associate l’ una è un cerchio ed uno degli assi di associa- zione è la retta all'infinito del suo piano, l’altra è un cerchio ortogonale al primo e l’altro asse di associazione è l’ asse radicale dei due cerchi; si ha così una nuova proprietà del sistema di due cerchi ortogonali : I centri di due cerchi ortogonali sono una coppia di poli armonici per le coniche conjugate a ognuno di essi rispetto ai punti dell altro. — Può darsi anche una di- mostrazione diretta e molto semplice dell’ ultimo teorema. Sieno &, H i centri di due cerchi ortogonali H°, K° ed A un punto ad arbitrio sulla H? : le rette | AR |, | AH| seghino ulteriormente H® in p, x, sarà | px|= a la polare di A rispetto a K°; le polari di H rispetto alle due coniche K°, KÎ segansi sulla @ e sono armonicamente separate da A, a (*), dunque, siccome la polare di H rispetto a K° è la retta all'infinito, la polare di H rispetto a X7 sarà la parallela ed 4 bisecante il segmento AX e passerà dunque per £. 6. a) Se % passa per È la H” si spezza nelle due rette », ”: infatti le due rette r, », essendo reciproche rispetto a K?°, i poli dell’ una, rispetto alle coniche conjugate a K° rapporto ai punti dell’altra, cadono su quest’ ultima. b) Se delle due rette %, » la prima tocca X® in H, H° degenera nella coppia di rette | Z' |, | HE" |. Sieno infatti p', p'' ordinatamente conjugati ar- monici di R', E" rispetto ai due punti £, (| RR'|,7) e ai due £, (| EE], 5), cioè poniamo (| HR"|,|RR')=p, (|BR|,|RR)a=p": (') Cfr. A. Osservazioni analitico-geometriche sulla projezione immaginaria ecc. $ 9. (Mem. del- l’Acc. di Bologna. VII,). (2) Cfr. STEINER, Vorlesungen u. s. w. S. 338-339. (°) A. Sulle coniche conjugate. Teor. XIII, (Mem. della R. Acc. di Bologna, VI,). — 6570 — la H° passa per £', E", p', p'' e siccome le due tangenti che le arrivano da È coincidono nella |RH], essa si spezza nelle due rette | HE' |, HE" È c) Se h passa per uno dei due punti (Kr), per es. per £', sia E il punto ove essa sega ulteriormente la X° e pongasi (| RE]|,|ME"]|)= P: la H° tocca i lati del triangolo RHP in R', R', E. d) Se h è la retta all’ o del piano di K°, le coniche conjugate a K° ed aventi 7 per diametro hanno i loro poli di contatto (con K°) in una conica H” di centro È, omotetica a K° e tangente in R' AR" alle rette che uniscono R', E" col centro H di K°. e) Se finalmente % coincide con » la H® diviene la KÎ, conjugata a K° rispetto ad £, è bitangente a K° sulla » ed è il luogo dei poli di contatto (con K°) per le coniche conjugate a X°, passanti per È e toccanti r; ogni raggio 9 condotto per È sega X°, K° in quattro punti che si seperano armonicamente e i due punti È, (rg) sono i punti doppî della involuzione {(K°g); (K°g)} ecc. ecc. "f. Posto (|H7'E'|,|H"E'|)=X, (HB'H'|,|RE'|)=Y, (| H'E"|,|H"R'|)=Z il triangolo XYZ è l’ autopolare comune a X?, 4; i due punti (#°, dunque conjugati armonici rispetto a X, Z e pure conjugati armonici rispetto ai due (K°,| HE|), perchè ogni raggio dei fasci H, È sega H°, K° in quattro punti armonici: ma le coniche X7, X° ordinatamente conjugate a A? rispetto ad Y, Z hanno fra di loro doppio contatto nei punti doppî della involuzione j(£?y); X. Z|, dunque H® sega y negli stessi punti ove segano y le K7, X°. Se assumiamo per R, Hi punti ciclici, sarà Y il centro comune di K°, H° e quest’ultima di- viene concentrica e omotetica ad ognuna delle due coniche supplementari e coas- ciali Ae (0) 8. Lo essere una conica conjugata a una conica data X® equivale a tre con- dizioni semplici; con la costruzione della K?, siamo ora in grado di risolvere i sette problemi seguenti: Costruire le coniche conjugate a una conica duta quando sono dati: a) un elemento (punto o tangente) e una coppia di elementi reciproci omogenei b) due coppie di elementi (punti o rette) reciproci; ognuno di questi sette problemi ha quattro soluzioni; ci limitiamo a consi- derare uno dei 4 casi a) e uno dei tre casi b). Sia K° la conica data, P il punto, A, A' la coppia di punti reciproci asse- gnati: se a, a' sono le polari di A, A' rispetto a X°, costruiscasi la XK}, conju- (') Cfr. Osservazioni ecc. p. 24. TOMO X. 83 — 658 — vata a K° rispetto a P, ela K7,,, associata a K?° rispetto ad a, a': le 4 coniche cercate sono le conjugate a X® rispetto ai 4 punti d’ intersezione delle due co- Mi Che neRt, it i Se sono invece date la coppia A, A' di punti reciproci e la coppia 5, 4' di rette reciproche; i quattro poli di contatto (con K°) delle coniche cercate, sono le intersezioni di K?,, e K},. Analogamente si tratterebbero gli altri 5 casi. 9. Date dunque, in un piano 7, una conica E° e una retta fissa 7, si può fare corrispondere ad ogni retta 4 del piano 7 una conica K°,, che denoteremo semplicemente con H?, la quale è il luogo dei poli di contatto con K° delle co- niche conjugate a X° e tali che rispetto ad esse 7, » sono reciproche. Veniamo così a stabilire nel piano 7 una trasformazione quadratica (non birazionale) in ? rette del piano sono trasformate in un sistema co? di virtù della quale le co coniche H?, del quale occorre prima di procedere oltre occuparsi, e che denomi- neremo per brevità lo strato (H?°). Cominciamo col determinare la caratteristica u del sistema semplicemente in- finito di coniche H*® passanti per il punto P, sistema che diremo, per brevità di discorso, i sistema (H°, P): la caratteristica u sarà eguale al numero delle coniche del fascio, avente per punti base P, £", P e un nuovo punto @, e tali che le tangenti in R', E" si seghino nel polo H rispetto a X° della retta | d' A" | che unisce i due rimanenti punti di intersezione di KX® con la conica del fascio; ora il luogo di questi poli H è evidentemente una retta, poichè le coppie di punti A, A' sono in involuzione sulla K° e il luogo dei punti di concorso delle tangenti d’una conica del fascio in £', E" è un’altra retta; dunque il punto cercato H è quello comune a queste due rette e perciò u= 1. È poi evidente che il nostro sistema (H°, P) non contiene rette doppie e perciò 4 = 0, dunque il numero delle coniche H° le quali passano per un punto dato P e toccano in oltre una retta data, ossia la caratteristica » del sistema (H?, P) è eguale a 2. 10. Ai medesimi risultati si arriva anche con l’osservare che se, sulla | PR | è P' il reciproco di P rispetto a K° le coniche del sistema (7°, P) debbono pas- sare, oltre che per P, R', E" anche per P' e percio formando esse un fascio u = 1, v= 2. Possiamo anche dire che le coniche dello strato (#7) corrispondenti ai raggi di un fascio di centro /, formano un fascio avente per punti-base R', 2" e i due punti doppî della involuzion } F} R; (K?,|FE]) (); questi punti-base si possono anche determinare osservando che, se F" XY" sono i punti di contatto delle tangenti condotte a K° dal punto F, nel fascio vi sono due coniche degeneri, corrispondenti ai due raggi | FF'|, FF"|, le quali si spezzano (v. n. 6. 6) ordi- natamente nelle coppie di rette | 7' R'|,|F'ER'|e| FUR'|,|FUR"|; i punti base del fascio son dunque, oltre R' R", i due punti (LIB e) (CITE 2/8) () Cfr. RurEINI, l. cit. $ 32. — 659 — cioè i punti doppî della involuzione |} FP, R;j (E°, | FR]. È poi facile riconoscere che il fascio di coniche è projettivo al fascio di raggi F: infatti la punteggiata polare del fascio Y rispetto a XK? è anche la punteggiata dei poli di 7 rispetto alle coniche del fascio. 11. Il sistema oo° delle H° è intimamente legato a quello, pure doppiamente infinito, delle coniche bitangenti a X° e passanti pel punto £; ad ogni retta s, del piano di X*, possiamo far corrispondere la conica 5° che passa pel punto (fisso) R ed ha con K° doppio contatto sulla sj chiameremo questo secondo si- stema 00°: lo strato (8°). 12. a) Alla retta s, tangente K° in un punto variabile S, corrisponde la conica S° che passa & ed ha con K° contatto quadripunto (del 3° ordine) in S. b) Ad un raggio del fascio R' (0 E") segante ulteriormente £? nel punto variabile S corrisponde una conica (degenere) che si spezza nella | R£'| (o nella | RE|) e nella tangente K?° in S. c) Ai raggi del fascio È corrispondono i raggi medesimi considerati come rette doppie. 183. Determiniamo ora le caratteristiche U, Vv del sistema semplicemente infinito di coniche S° aventi i poli di contatto con X° in una retta data f ('): se 5° deve passare per un nuovo punto assegnato P, oltrechè per , la sua corda di con- tatto con K° passerà per l'uno o per l’altro dei punti doppî della involuzione {P, R; (| PE], K°)} è perciò u=2; analogamente si troverebbe » = 2. Ai me- desimi risultati si giunge con l’osservare che i numeri 4, s delle coniche dege- neri del nostro sistema semplicemente infinito sono 4 = 2, 7 = 2 e per con- seguenza u=3@4+m=? 1 PAIR 14. Rammentiamo che ,S° è il luogo dei poli della retta 7, rispetto alle coniche conjugate a K° rispetto ai punti della retta s, e può costruirsi nel modo seguente: sia A il punto d’intersezione di s con un raggio variabile a del fascio £ e sia a la polare di A rispetto a K°; la ,S° è il luogo dei punti separati armonicamente da R mediante A ed 4 (°). (') Questo sistema co' di coniche S® non è altro che la serie di coniche bitangenti a K? e pas- santi per È, p, essendo p il punto separato armonicamente da È mediante f e il polo di f rispetto a K? (Cfr. Chastes, Sections coniques, 498). (2) Sopra una serie particolare ecc. $ 14. — 660 — 15. Se X, X' sono le intersezioni di un raggio variabile x, del fascio È, con S? e con s, la punteggiata di second’ ordine £° (X,....) e la s (X.....) sono ri- ferite projettivamente (prospettivamente) l’ una all’ altra per modo che X' è il polo di R rispetto alla conica conjugata a K? rispetto ad X; i due punti (K? s) sono corrispondenti comuni per le due forme 8°, s; il punto X' corrispondente ad X è quello separato armonicamente da È mediante X e la polare di X rispetto a K°. Vogliansi ora determinare i due punti di una conica H? posti sopra una retta arbitraria s (fig. 4): i poli di È rispetto alle coniche della serie (Sì), ossia rispetto alle coniche conjugate a K° in rispetto ai punti della retta s, sono in una conica S° e questa segherà % in due punti X;, X: ai quali corrispondono, nella pun- teggiata s (X}, X,;.-..) projettiva alla \S° (XX, X4...5),, 1 due punti Xi A°5 nie segue che ogni conica H° può essere generata mediante le ,S° sul modo seguente: sia S° corrispondente alla retta arbitraria s, nello strato (5°); la H° è il luogo delle projezioni, fatte da £ sulla s, delle coppie di punti (.S° 4). Oss. In particolare per costruire gli assintoti di 17° basta projettare da £ i due punti d’ intersezione con % della conica passante per & ed omotetica a X?. 16. Le proprietà della H#? indicate nel n. 3 si ritrovano subito mediante le S?; cerchiamo i punti di H° situati sulla retta | R4'|: la .S° corrispondente a | RH'| degenera (v. n. 12, c)) nella | RH'| stessa, contata due volte, e le pro- jezioni da £ sopra %& dei due punti (S°%) coincidono in H', ossia | EH'| tocca H° in H' e analogamente si vede che H° è toccata in H" da | H"H|. Ala |BE'| corrisponde, nello strato (5°), la conica che si spezza (v. n. 12, b)) nelle due tangenti condotte a K° nei due punti (|Z'| X°): questa conica degenere ha il suo punto doppio sulla % e perciò le projezioni dei due punti (S°%), fatte da E sulla | ZF' |, si confondono in P'; la |HE'| tocca dunque H° in È' e ana- logamente | HE" | la tocca in R'". Alla | HH' | corrisponde nelle 5° la conica passante per & ed avente con X® contatto quadripunto (v. n. 12, a)) in H'; questa 8° sega | HH'| in H' e in un'altro punto ece. 17. Consideriamo ora una qualunque delle coniche, in numero semplicemente infinito, che appartengono allo strato (5°) e toccano %; sia s la corda di contatto di questa S° con X?, sia H il suo punto di contatto con f, e pongasi (| RA |, s) = S: la conica H° è ad un tempo lo inviluppo delle rette s e il luogo dei punti 4. À 18. Denoti ora S° una qualunque delle coniche, in numero semplicemente in- finito, passanti per £& ed aventi con X° contatto quadripunto in un punto varia- bile S: la H® è anche il luogo delle projezioni dei due punti (S°%) fatte da È sulla tangente K° in S. 19. Se s descrive un fascio di raggi 7°(s,, s,....) la corrispondente S° sega % in coppie di punti le quali projettate da R sopra s generano H? come prodotto di due fasci. 20. Nel sistema co delle coniche (8°, Sî,....), corrispondenti ai raggi del — 661 — fascio F'(s,, s,....), ve ne sono due (v. n. 13) che toccano la retta 4: sieno S,°, 5° queste due coniche, S,,.S, i loro punti di contatto con 7; s,, s, le loro rispet- tive corde di contatto, con K*°; è chiaro che s,, s, sono le tangenti che arrivano ad H° dal punto F e i rispettivi punti di contatto sono le projezioni di S,, SL, fatte da È ordinatamente sopra s,, s,: abbiamo così, mediante le ,S°, risoluto il problema “ condurre da un punto arbitrario le tangenti ad H?. , 21. Ora vogliamo indicare la generazione di H® mediante due fasci projettivi, uno dei quali ordinario e l’ altro involutorio, in corrispondenza (1, 2) e situati in posizione ridotta; (v. n. 22). Sia (fig. 3) A un punto variabile della 7 ed a, a' i punti di contatto delle tangenti che arrivano da A a K?: dico che i due punti (| RA], |R'a|) = o, (| BA], | R'a'|) = o' giacciono sulla H° e perciò H? è il prodotto dei due fasci È (A,....) ed E'(a, a';....) il secondo dei quali è chia- ramente involutorio, perchè a, a' sono sopra XK? conjugati nella involuzione di polo H. Infatti condotta la | R'A| a segare ulteriormente la K? in 8, saranno armonici i 4 punti a, a', 8, R' e perciò armonico il gruppo oo'Af, che è la projezione del primo fatta da £' sopra | RA]|; ma anche i due punti y, d ove la K° è segata da | RA | sono armonicamente separati, sulla K?, da a, a' dun- que il gruppo ydoo' è pur armonico e 0o' sono i punti doppî della involuzione {y,d; A, E} cioè i punti (v. n. 3) della H° situati sulla | RA]. 22. In generale il prodotto di due fasci di raggi in corrispondenza (1, 2), os- sia di due fasci uno dei quali Y è una involuzione lineare e 1° altro È una in- voluzione quadratica proiettiva alla prima, è una curva del terz’ ordine avente in F un punto semplice ed in È un punto doppio; ma per posizioni particolari dei due fasci la cubica da essi generata può spezzarsi in una retta e una conica. Supponiamo che al raggio | F&| comune ai due fasci, considerato come apparte- nente al fascio F, corrisponda, nel fascio PR, il raggio | RY°| medesimo, oltre ben- inteso a un’ altro raggio di R; è chiaro che in questo caso il raggio | FR | for- ma parte del luogo prodotto dei due fasci e la cubica si spezza in questa retta e in una conica (conica di riduzione) passante per È: diremo in questo caso, col WeyR ('), che i due fasci 7, È sono in posizione ridotta (reducirte lage). L’ altro raggio che, oltre al raggio | RF |, corrisponde ad | FR| nel fascio R, è la tan- gente in R alla conica di riduzione; i raggi di diramazione (£) di F sono, nel caso della posizione ridotta, le tangenti che: da F' arrivano alla conica di ridu- zione; i raggi che projettano i punti di contatto di queste tangenti, dal punto È, sono i raggi doppî del fascio involutorio È. (1) Theorie der mehrdeutigen geometrischen Elementargebilde u. der algebraischen Curven und Flichen als deren Erzeugnisse., pag. 15 (Leipzig, Teubner 1869). (£) Se una forma fondamentale F° è in corrispondenza (1, 2) con una forma involutoria È, diremo elementi di diramazione di F quegli elementi cui corrispondono in È coppie di elementi coincidenti, ossia cui corrispondono gli elementi doppî della forma involutoria: sono i Verzwei- gungselemente del WeEYR (loc. cit.). — 662 — 93. Ritorniamo ora ai due fasci £, E' considerati nel n. 21: al raggio | EE'|, considerato come appartenente al fascio (semplice) È, corrisponde nel fascio (in- volutorio quadratico) £', il medesimo raggio | L'E |, oltre alla tangente, diversa da | R'E|, che arriva a K° dal punto (| E£'|, 2); dunque i due fasci R, R' sono in posizione ridotta e generano una cubica che si spezza nella retta | RE'| e nella H°. I raggi di diramazione del fascio £ son quelli che projettano da È i due punti (K°%); i raggi doppî di £' son quelli che projettano gli stessi punti (K°h) dal punto P' ecc. ecc. 24. Abbiamo visto (n. 4) che se due coniche K?, H? sono mutuamente asso- ciate rispetto a due assi 4, r, il polo di y rispetto a una conica K7, conjugata a K° in rispetto a un punto arbitrario A di H°, è il punto (| BA|, ) = 4: ciò posto, proponiamoci di costruire, mediante le H°, la conica S°, luogo dei poli di una retta r, rapporto alle coniche che sono conjugate a K° rispetto ai punti di una retta s, (v. n. 14). Cerchiamo i punti di S° situati sopra una retta arbi- traria RZ : le coniche conjugate a K° e per le quali i poli di » cadono in %, son quelle conjugate a X?® rispetto ai punti di 7° (associata a X? rispetto ad r, 4); questa H° seghi s in due punti A, B: le coniche K7, K, della serie (S) son quelle in rispetto alle quali il polo di x cade in % e i punti cercati sono dunque i poli di 7, rispetto alle Kî, XK; ; ma questi poli sono ordinatamente le projezio- ni, fatte da È sopra 4, dei due punti A, 5, dunque i punti del luogo S° posti sulla retta arbitraria 7 sono (| RA], 4) = 4’, (| EB], )) = B'; ne segue che ogni conica S° può anche essere generata mediante le 7° nel modo seguente: sia H° la conica corrispondente alla retta arbitraria % nello strato (H°), ossia la conica associata a X° rispetto ad 4, x; la S° è il luogo delle projezioni fatte da E sulla 4, della coppia di punti (H°s). Oss. I. La .S° sega r nei due punti (XK°s), essendo X° la conjugata a X° rispetto ad È. Oss. II. Gli assintoti di S° si hanno projettando dal suo centro, i due punti d’ intersezione con s della conica associata a X? rispetto ad 7 ed alla retta al- Y infinito ('). Oss. III. Se supponiamo che (invece di %) sia r la retta all’ infinito e di più K? sia circolo abbiamo il teorema: se due cerchi K°, H° sono ortogonali ed è h il loro asse radicale, s una retta arbitraria del loro piano, le projezioni, fatte sopra h dal centro R di K°, dei due punti (H°s) giacciono sulla conica che passa per È e ha doppio contatto con K® sulla s. Oss. IV. La H° corrispondente alla retta s', tangente X° in uno dei due punti (K°s) per es. in S' degenera (v. n. 6 6)) nelle due rette |.S'£'|, | S'E" |, per (') Questa conica è omotetica a K® ha & per centro e tocca in R', KR" le rette |R'Z |, |R'A | essendo H il centro di K?. (v. n. 6, d)). — 663 — ciò i due punti (H°s') confondonsi in S' e la s' tocca 8° in s'; come già sa- pevamo. 25. Facciamo ora descrivere ad % un fascio di raggi 0(@....): le corrispon- denti H°,.... generano un fascio di coniche (') le quali vengono segate da s in coppie A, 4';.... d’ una involuzione quadratica ; il fascio semplice 0 {A,....) e quello involutorio R (A, A';....) son projettivi e generano come loro prodotto la S° (e la retta | #0|). Si riconosce del resto facilmente che i due fasci suddetti 0, R sono in posizione ridotta, poichè al raggio | OR |, considerato come appartenente ad O, corrispondono, nel fascio /, il raggio medesimo | RO| e la retta | R(r9)|: i due fasci generano dunque una cubica la quale si spezza nella retta | RO| e in una conica, che è la S°. I raggi di diramazione del fascio 0 sono le tangenti che arrivano a .S° dal punto 0 e i raggi doppî di R projettano da R i due punti di contatto delle indicate tangenti. La retta | R (»s)| tocca S° in R. Oss. Assumendo per £', F" i punti ciclici del piano di K? si arriva ad una nuova generazione delle coniche mediante un cerchio ed un fascio di cerchi or- tozonali ad esso. Sia XK? un cerchio di centro R ed 0 (h,....) un fascio di raggi: il fascio di cerchi che segano ortogonalmente K? sopra %,.... è segato da una retta arbitraria s in una involuzione quadratica di punti A, A';.... e la interse- zione dei due fasci projettivi 0 (4....), R(A, A';....) è una cubica la quale si spezza nella retta | OR| e in una conica S° che passa pel centro di X° è bitangente a K?° sulla s, ha per tangente in È la parallela ad s e per punti all’ infinito quelli dei raggi che projettano da È i due punti (K/s), cioè quelli dei raggi che pro- jettano da È i due punti d’ intersezione della s col cerchio (imaginario se XK? è reale) conjugato a K?. 26. Le considerazioni e î processi accennati nei $ precedenti ci permettono di risolvere le due questioni generali seguenti: a) Determinare il luogo H? dei poli di contatto delle coniche conjugate a una conica data XK? e per le quali i poli di una retta assegnata 7 cadono in una curva piana algebrica C?, d’ ordine n e di classe m. ì b) Determinare il luogo S5 dei poli di una retta data r, rapporto alle co- niche conjugate a una conica data K° in rispetto ai punti di una curva alge- brica C”. 2". Sia, al solito, R il polo di » rispetto a A°®: un raggio variabile a del fascio È segherà C7 in » punti A,4,...4,...4, e la K° in due punti (K°a); se ora prendiamo i punti doppî delle » involuzioni { R, A,; (£°a)} = 1,2,..% otterremo 2n punti del luogo H) situati sul raggio a. 28. Vogliansi determinare in generale i punti del luogo giacenti sopra una retta arbitraria sj; costruiamo la 8°, corrispondente ad s (cioè passante per È e (1) I punti-base di questo fascio di coniche sono ‘', E" e i due punti doppî della ipyolu- zione } 0, R; (KE | OR]){; (v. n. 10). — 6604 — i bitangente a X? sulla 5) e sieno P,,....P,,, i 2 punti di intersezione di X? con C”; le projezioni dei punti P, fatte da £ sulla s, sono i punti cercati. Il nostro luogo 47 è dunque dell’ ordine 2, ossia € = 2w. Oss. Se C7 ha in È un punto »- plo, la H7 contiene come parte la retta r contata (n — v) volte e perciò si spezza nella 7, contata n — »v volte, e in una curva di ordine n + ». 29. Se supponiamo che il raggio s varî in un fascio F(s....), la corrispondente S° sega C7, in gruppi di 2n punti che projettati da £ sulla s generano H? co- me prodotto di due fasci F, £. 30. Nel sistema co delle coniche .S° corrispondenti ai raggi s del fascio F ve ne sono 2 (n + m) aventi con la curva C7 un contatto semplice (bipunto) ('): le corde di contatto con K° di queste 2(n + m) coniche sono chiaramente le tan- genti che arrivano ad H7 dal punto arbitrario Y; il nostro luogo è dunque della classe 2(n + m), y= 2(n + m.. I punti di contatto con AA delle 2(n + m) tangenti che arrivano alla curva da F, sono le projezioni fatte da , sulle corde di contatto, dei punti ove la C7 è toccata dalle 2(n + m) coniche S°. 81. Sia s la corda di contatto con K° ed H il punto di contatto con C7 d’ una qualunque delle coniche in numero 004 che appartengono allo strato (8°) n 3 2 : Deco e toccano la C,: la curva H., è chiaramente ad un tempo lo inviluppo n+m) delle rette s e il luogo dei punti S= (| RZ], s) cioè delle projezioni di H, fatte da È sopra s. : 32. Sia ora S° una qualunque delle coniche, in numero 005, che passano per E ed hanno con K° contatto del terz° ordine in un punto variabile S; denoti s la tangente IK. in 198 la curva Hî" è anche il luogo delle )rojezioni fatte 8 2 ©) È ) (n+m) da E sulla tangente mobile s, dei 2» punti (S°C?). 38. Fra le coniche in numero 00? dello strato (6°) ve ne sono 6n(n — 1) aventi con la curva C7 un contatto del second’ ordine (*) (tripunto): sia S° una di queste coniche, s la sua corda di contatto con K° ed S il punto ove essa è . . ° 2 osculatrice alla C7; la s sarà una tangente stazionaria del nostro luogo Ho (1) Abbiamo visto nel n. 13 che le caratteristiche p, v, del sistema co! delle 8%, sono entrambe 2 e perciò pn+vm=2(n + wm). (2) Il numero delle coniche aventi un contatto di 2° ordine con una curva generale d’ ordine m e due contatti semplici con un’ altra curva generale d’ ordine m, fu trovato da ZEUTHEN (Nyt Bidrag til Laeren om Systemer of Keglesnit, der ere underkastede 4 Betingelser. Kj6benhavn 1865, pag. 60, formole (12, e)) essere - m(m_—-1) mim —-1) (7 +3m —8): ponendo in questa espressione m =, m1=2 si trova il numero iindicato 6 (n —1). Se la C? avesse d' cuspidi il numero delle coniche .S? diverrebbe 6 + 2d'. (1. cit. form. 12, a)). — 665 — e la projezione di ,S, fatta da £P sulla s, sarà il flesso corrispondente. La curva 2: . «fre . . . ve; ha dunque 67(n — 1) punti di inflessione e le sue singolarità sono 2(n+m) © completamente determinate, giacchè ne abbiamo trovati tre numeri pliicheriani cioè il grado 2n, la classe 2(n-+ m) e il numero dei flessi 6n(n — 1). 84. Poichè ad una retta s tangente X° corrisponde (v. n. 12, a)) nello strato (5°) la conica S° che passa per £& ed ha con K° un contatto quadripunto in $, ne segue che, se S è uno qualunque fra i 2n punti d’ intersezione della C7 con L) 3 vi en K°, la s segherà Ho projezioni fatte da £ sulla s dei rimanenti punti (C7 5°): dunque la curva in 2n punti uno dei quali è S e gli altri sono le Vi m passa per i 2n punti (C% K?) comuni alla conica K° e a C7. 2(n4+m) 35. Sia ora s un raggio arbitrario appartenente ad uno dei fasci £', £", per es. a R', e seghi ulteriormente K° nel punto S: la S° corrispondente ad s nello strato (5°) si spezza (v. n. 12, 6)) nelle due rette | E£' |, tangente K° nel punto k', e 0, tangente K° in S; sieno ora 7,,.... 7, i punti di intersezione di | R£' | con C* e denotiamo con V,....V, gli n punti (C7 0): le projezioni, fatte da È sulla s, dei punti 7° si confondono in ‘' che è perciò un punto w- plo sulla Gli altri » punti di 7°" 2 N4N , Situati sulla retta s sono le projezioni, curva Hi". 2(n4+m) fatte da £ sulla s, dei punti V. Oss. I. Che £', E" sieno sulla HESSO anche così: cerchiamo i punti del luogo situati sulla »; alla x corrisponde nello strato (5°) una conica 5° che si spezza nelle due rette | ER'|, | RE"| dunque le n intersezioni di C7 con | RR'| son projettate da £, sulla r, in £' e le altre n (intersezioni di | RE" | con C}) in RP". Oss. II. Se supponiamo che C% sia una curva generale dell’ ordine » cioè priva di punti doppî e di punti cuspidali, facendo uso delle formole di PLiicxer, punti n - pli, si può riconoscere si trova che per la curva Ho il numero dei punti doppî è m e quello delle m) CCA COMES . . . I "I . 1 cuspidi è zero; ma i due punti » - pl F', E" equivalgono ognuno ad 9 (a —- 1)n punti doppî ed è m= (n — 1), dunque la E oltre i due punti R', A" non possiede altri punti multipli. 36. Poichè ai raggi del fascio corrispondono, nello strato (5°), i raggi mede- simi considerati come rette doppie, i punti di Hg, situati su questi raggi non possono determinarsi con la seconda costruzione, cioè mediante la 5° {x. n. 28) e bisogna ricorrere alla prima (n. 27). Sia S uno qualunque dei 22 punti (K°C%) ed a la ulteriore intersezione con X? del raggio | RS|= a: la involu- zione } R, S; (K°a) } è parabolica e i suoi punti doppî coincidono in S, cioè la n a tocca H° nel punto S; dunque le 2n rette che projettano da È i 2w 2(n+m) . . . - 2 . . - punti d’ intersezione di K° con Cl toccano Ei ordinatamente in questi +) punti. TOMO X. 84 — 666 — Denoti ora # una qualunque delle m tangenti che arrivano a C? dal punto R e sia 7 il relativo punto di contatto : degli n punti (C7 #) due coincidono in 7 e o ° ° è 2n . . ° perciò fra i punti di H,, | situati sul raggio # ve ne sono 4 che cadono due a due nei punti doppî 0,, 0, della involuzione | R, T; (X?4)} e la t è una tan- gente doppia di Hei essendo 0,, 9, i suoi due punti di contatto. Le m tan- n+m)? i 1, È, 5; 5 5 9; genti che arrivano da alla curva C7 son dunque tangenti doppie di H” (o) Ù 2(n+-m) e possiamo costruirne i punti di contatto con costruzioni quadratiche. 98%. Se assumiamo per curva C7 una conica abbiamo che : Il luogo dei poli di contatto con K° delle coniche conjugate a K° e in rispetto alle x quali il polo di una retta data r cade in un’altra conica C° è una curva HI del quart'ordine, di ottava classe, avente in R', R' due punti doppî ; passa pei 4 punti (K°C°) e tocca in questi punti le rette che li projettano da È; 1 suoi dodici flessi sono le projezioni dei punti ove C° è toccata dalle coniche passanti per È ed aventi con C* contatto tripunto, projezioni fatte da R sulle carrispondenti tangenti nei punti di oscu- lazione ; queste tangenti sono le 12 tangenti stazionarie di HA . Le due tangenti che arrivano a C° dal punto È sono tangenti doppie di Hr Oss. Se assumiamo per » la retta all’ infinito del piano di K?, la Hj diviene la curva del quart'ordine indicata dal Ch.mo Prof. Rurrmi ('), la quale è dunque della ottava classe, ha i due nodi nei punti all’ infinito di K?, è toccata nei quattro punti (K°C°) dalle rette che li projettano dal centro di KX°, ha fra le sue 8 tan- genti doppie le tangenti che arrivano a C° dal centro di X?; i suoi 12 flessi sono ecc. ecc. Se C° è un cerchio di centro È la HÎ è bicircolare ecc. ece. 3S. Quando la curva C7 ha relazioni speciali di posizione con X°, P, può succedere che il luogo H si spezzi in altri di grado minore; supponiamo per es. che C° sia bitangente a K° sulla r: se sopra ogni raggio variabile a del fascio segante C° in A,, A, prendiamo i punti doppî delle involuzioni (RES PANE (60) RARE (Keo) abbiamo i quattro punti del luogo H) giacenti sulla @ (v. n. 27), ma questi 4 punti appartengono anche a due coniche U*, V®, aventi con K° doppio contatto sulla 7, e che sono inoltre polari reciproche rispetto a K? (e a X°) dunque, nel caso considerato, il luogo si spezza nelle due coniche U?, V? (©). Oss. Ricordando ora la generazione di H mediante le 5° possiamo anche dire che : i Una conica bitangente a K° sulla retta variabile s e passante per R sega un’altra (1) Mem. cit. $ 34. (è) RurFINI, loc. cit. pag. 38. — 667 — conica fissa C°, bitangente a K° sulla r, in quattro punti mobili le projezioni dei quali, fatte da E sulla s, sono in due coniche bitangenti sulla r a K° e polari reci- proche rispetto a K°. Una conica avente con K° contatto quadripunto in un punto variabile S, sega una conica fissa C° bitangente a K° sulla » in 4 punti mobili le cuì projezioni, fatte da K sulla tangente K° in S, sono in due coniche bitangenti a K° sulla » e polari reci- proche l una dell’altra rispetto a K°. 39. Se la C° passa per R la H, si spezza nella » polare li R rispetto a X?, e in una cubica (v. n. 28 Oss.) 40. Prendiamo ora (fig. 5) per C° una conica circoscritta al triangolo RAR" e sieno H', H' le due ulteriori intersezioni di C°, K°: è chiaro che il polo H della |HH'|=% rispetto a H?° giace sulla C° e la | RH|=x è la polare di (r2)= X rispetto alle due coniche X?, C°; pongasi inoltre ve lan iz Rao iiaz i la retta 7 forma parte del luogo, perchè rispetto alle coniche della serie () sono E, # polo e polare, e perciò H si spezza nella » e in una cubica IF ma È è chiaramente un punto del luogo e i 4 raggi | E2'|,| E£U]|,|RH'|,| El'"| toc- cano H/ ordinatamente nei punti R', R", H, H'" dunque 7) è della sesta classe. La cubica Ha passa pei punti diagonali X, Y, Z del quadrangolo completo A'R'"E'H" e le tangenti in X, Y, Z, È concorrono in un'altro suo punto (!); ma Y,Z sono i rimanenti punti (oltre &) della cubica situati sulla x, ed y=|ZX|,2=]| XY] toccano ordinatamente la cubica in Z, Y (v. n. 41.) dunque | &X| tocca la cubica in £, il punto X è un flesso e x è la polare armonica del flesso rispetto alla cubica. Possiamo intanto coucludere che “ #7 luogo dei poli di contatto per le comiche conjugate a K° e in rispetto alle quali il polo di s giace sulla conica C* circoseritta al triangolo RR'R' si spezza nella retta r e in una cubica HE di sesta classe la quale passa pei 3 punti R, R', R' pei due H', H'" ulteriori intersezioni di K° con C° e pei 3 vertici X, Y,Z del triangolo antopolare rispetto a K®, C° ; le tangenti alla cubica in R', R'", H', H' concorrono in È e quelle nei punti R, Y, Z concorrono in X= (rh) che è un flesso della cubica. Il rapporto anarmonico caratteristico dela cubica è eguale a quello dei 4 punti R'R"H'H"' sulla C°. , 41. Un processo analogo a quello seguito per studiare il luogo H/, serven- doci dello strato (S°), ci permette di studiare, mediante lo strato (2°), il luogo s dei poli di una retta arbitraria 7, rispetto alle coniche, della serie d’ indice 2n, conjugate a una conica data K° in rispetto ai punti di una curva piana al- , Situata nel piano di K?. m gebrica qualunque C” (3) V. ex. gr. ScHROTER. Die Theorie der cbenen Karven dritter ordungn, pag. 109. (Leipzig, Teubner 1888). — 668 — Quanti punti del luogo S5 cadono in una retta arbitraria 4? Le coniche con- jugate a K? e rispetto alle quali i poli di » cadono in % son quelle conjugate a K? in rispetto ai punti della conica H?, associata a X? rispetto ad r, 4; sieno Het. Hi punti comuni ad H°, C* : le coniche conjugate a K? rispetto a questi 2n punti son tali che, rispetto ad esse, i poli di » cadono in % e i punti cercati sono i poli di 7 rispetto a queste 2» coniche ossia (v. n. 15) sono le projezioni dei punti H# fatte da PF sopra la retta 4. Il nostro luogo è dunque d° ordine (2n, & = 2a. Oss. La determinazione del grado & della SÌ può anche farsi nel modo se- guente : le coniche conjugate a KX?° rispetto ai punti della curva C7 formano una serie semplicemente infinita che è d’ indice 2n (*); in questa serie vi sono 2r coniche degeneri e cioè le 2 tangenti a X° nei punti ove essa è segata da C7, considerate come rette doppie. Il luogo dei poli di una retta 7 rispetto alle coniche della serie è dunque in generale una curva dell'ordine 47, ma siccome questo luogo contiene nel nostro caso come parti le n rette doppie sopra indicate, il suo grado si abbassa sempre a 2n. Si può anche seguire il processo generale: cer- chiamo quanti punti del luogo giacciano sulla 7, ossia quante coniche della serie toccano », giacchè se una conica della serie tocca 7 il polo di questa retta rispetto ad essa è in 7; ora di coniche della serie toccanti 7 ve ne sono 2, vale a dire quelle conjugate a X? in rispetto ai 2n punti (C7 K°) intersezioni di C” con la conica K°, conjugata a K? rispetto ad r; dunque il luogo è di ordine 2r e i suoi punti giacenti in 7, sono le projezioni da & sopra r dei punti comuni a C% e alla conica conjugata a X° rispetto ad 7. Quest’ ultima parte del teorema è anche evidente perchè, quando % coincide con r, la H? diviene appunto X° (v. n. 6 e)). 42. Descriva ora 4 un fascio O (4, h,,....) di raggi col centro arbitrario 0: le H° corrispondenti descrivono (v. n. 10) un fascio di coniche, projettivo al primo, le quali segano la curva C7 in gruppi di 2 punti e la S5 sarà il luogo delle intersezioni dei raggi del fascio O coi gruppi di 2» raggi projettanti da Ri cor- rispondenti gruppi (C* H°). 43. Per determinare la classe 7 della curva ST cerchiamo quante tangenti le arrivano dal punto arbitrario 0: a un raggio variabile » del fascio 0 (4, #,,....) corrisponde, come sappiamo, una conica variabile 7° di un fascio di coniche; fra le coniche di questo fascio ve ne sono 2n + m aventi contatto semplice con 07 (È): sia H° una di queste 2x + m coniche, H il suo punto di contatto cen C? ; fra i 2n punti d’intersezione di H° con C” ve ne sono due riuniti in H e perciò (') Infatti le coniche della serie, che passano per un punto dato A, sono le 2» conjugate a K° rispetto ai punti d' intersezione della curva C* con la conica conjugata a ? rispetto ad A. (V. Sopra una serie ecc. $ 8). (*) Le caratteristiche p, y del sistema elementare fascio sono 1, 2 e perciò umt+yn=m+ 2n. (V. ZEUTREN, loc. cit. $ 17). — 669 — fra i 2n punti (87° h) due cadono in (| £H|,}). La # tocca Sai nel punto (| RH4|,4) e la nostra curva So è della classe 2n+m; g=2n+m. 44. Nello strato (4°) vi sono 3w (n-1) coniche aventi con la curva 0% un contatto del second’ ordine (') (tripunto); sia H#* una di queste 3 (n-1) coniche, H il punto di osculazione, % la retta corrispondente ad 7°, cioè la retta che unisce i due punti (K° 7°) diversi da P', E": dei 2n punti (4° C? ), tre coincidono in H e perciò sulla 4, nel punto (| 27 |,7), coincidono tre punti del luogo SON Nel altre parole, il punto (| RH7|,%) è un flesso ed % è la relativa tangente stazio- naria di SA che ha dunque 3n (n-1) punti d' inflessione. Oss. Poichè della SE si conoscono tre numeri pliiekeriani (l’ ordine 2%, la classe 2r + m e il numero dei flessi 3) con le formole di Priicxer se ne possono determinare i numeri dei punti doppî, delle cuspidi, delle tangenti doppie e il genere, ma possiamo osservare che in virtù del teorema di Riemanw (*), i »- q@n x ò . an genere di Si È eguale a quello di C mi È È 2 è giacchè le due curve C*, 57° si cor- entm rispondono punto a punto. 45. Cerchiamo i punti di 8°” QMmt+m situati sopra un raggio arbitrario % del fascio R: a questo raggio corrisponde nello strato (#°) la conica che si spezza nelle due rette 7, % e perciò le projezioni degli » punti (C% 7), fatte da PR sulla . . 2 h si confondono in £ che è dunque un punto n-plo per la curva 5° Qntm Per costruire gli altri n punti del luogo situati sulla /X, osservo che, se p,, ps}... n p, sono le polari respettive (rispetto a A) degli » punti comuni ad % e € ‘m9 punti cercati sono quelli ordinatamente separati armonicamente da / mediante P., p, (k==1, 2,....n): possono dunque costruirsi linearmente quanti si vogliono punti di 57, quando C7 è effettivamente tracciata. Oss. I. Che E sia, sopra la So, un punto n-plo, può vedersi anche nel modo seguente: nella serie £, d’ indice due, delle coniche conjugate a XK? in ri- (*) Il numero delle coniche che hanno con C*, contatto del second’ ordine e sodisfano in oltre ad una condizione tripla è in generale espresso da 7 A. n. (n-1) dove A è il numero delle coniche =] determinate dalla condizione tripla, da un punto e da una tangente data: ciò per il teorema di Cremona (C. I des scances de l'Ac. des Sciences 7 Novembre 1864. v. 2° p. 776); nel nostro caso A è la caratteristica o (cioè Ja seconda delle caratteristiche Cremoniane) dello strato (74?) ossia la caratteristica y del sistema semplicemente infinito (H? P), la quale fu trovata essere eguale a 2 (v. n. 9.) dunque ecc. ecc. La eccezione trovata da HALPHEN (C. E des séances de l’ Ac. des Sciences, a. 1576. v. 2° p. 537 e 886) ai teoremi di CHastLes e di CREMONA, non ha luogo quando uno dei due sistemi di condizioni si riduce a condizioni di contatto con curve date, come ap- punto succede nel caso nostro. (3) V. Satmon loc. cit. n. 364. — Se la C* è, come noi supponiamo, una curva generale del- . C n È 2 i ? sn(n_- 1 x i l’ordine », si trova che 52,4, ossia S,(4+) non ha cuspidi e possiede sant punti doppî; deve dunque avere, oltre il punto n-plo E, altri m punti doppî. — 670 — spetto ai punti della 7, ve ne sono n rispetto alle quali &, # sono polo e polare; e cioè le n coniche conjugate a £° in rispetto agli n punti (C7 7); dunque n punti del luogo cadono in DB. Oss. II. Possiamo anche dire che, se Q, è il reciproco di P, situato sul raggio variabile 4 del fascio £, i punti di SO situati sopra % sono, oltre il punto n-plo R; i conjugati ad (74) nelle n involuzioni quadratiche }(K° 2); P,, 9}. a) Ad un punto multiplo di C,, corrisponde sulla SO un punto dello stesso ordine di multiplicità. Al punto di contatto 7, con C7, di una delle w tangenti che arrivano a Ci dal punto £, corrisponde il punto di contatto con Si delliragoon | REAGAN b) Se E è sulla C7 un punto r-plo, sarà sulla Su un punto (n+ 7)- plo, ece.; p. es. se 07 è una retta a passante per A, la $,7,_, si riduce alla retta 4 contata due volte, come del resto può verificarsi agevolmente: infatti sieno P, Q due punti di 4 reciproci rispetto a K°; il polo P' di x rispetto a R chul conjugato armonico di A rispetto a P, @ (') e coincide col polo di 7 rispetto a ri per ciò P' deve essere contato due volte come appartenente al luogo. c) Se assumiamo per C7 una conica bitangente a X° sulla 7, la Bia si spezza in una conica bitangente a K° sulla » e nella conica degenere costituita dalle due tangenti che arrivano a K? dal punto A (°). d) Se C” è una conica C? circoscritta al triangolo R'E"R e sono H'H'" le ulteriori intersezioni di XK con C°, la SE si spezza nelle due tangenti | E£'|.| "| che arrivano a K° da PR e nella conica bitangente a X? sulla | H'#"| e passante per R (*): si trova così la relazione che lega la rete delle coniche circoscritte ai triangolo RE'E'" con lo strato (8°). 46. Sia 7 uno qualunque dei 2n punti d’ intersezione di K° con C* e # la tangente X° in 7": cerchiamo i punti del luogo posti sulla #; nello strato (#°) alla retta # corrisponde la conica che si spezza (v. n. 6.6)) nelle due rette | TR'|, | TE" | e questa conica degenere sega C7 in 2» punti dei quali due si confondono in 7, m 2 dunque la curva 5°" Ent n , è tangente alla conica K° nei 2» punti d’ intersezione di essa conica con la curva C, legata alla serie. mi 4". Assumendo per C; una conica C° abbiamo che: è luogo dei poli d’una m retta r rapporto alle coniche conjugate a una conica data K°, in rispetto aî punti di . x 4 . . . un’ altra conica C*, è una curva S, del quart'ordine, di sesta classe e di genere zero ; () A. Sulle coniche conjugate teor. XIII, (*) Cfr. Osserv. Analitico-Geom. $ 7. (*) Cfr. RurFINI ]. cit., pag. 37. Che il luogo sia bitangente a X° in H', H" risulta subito an- che dal fatto che alla tangente per es. in 7' corrisponde, nello strato (14°), la conica che sì spezza nelle due rette | H'R'|,|H"R"|. — 671 — î suoi flessi sono le projezioni, fatte da È sugli assi di associazione (diversi da r) dei punti di contatto con C? delle sei coniche osculatrici a C* ed associate a K° rispetto ad r; le tangenti stazionarie sono le corde, diverse da r, comuni a K° e alle sei co- niche sopraindicate. La sî tocca la conica data K° nei quattro punti (K°C°) ed è pure tangente alle tangenti C° uscenti da R. Dalle formole di Priicker risulta che S ha tre punti doppî ; sappiamo che uno di questi punti doppî è (v. n. 45) nel polo E di r rispetto a K°: dove sono gli altri due punti doppî? Sia @° la conica in- viluppo delle rette che segano le due coniche X?, C? in quattro punti armonici (cioè la conica contrariamente fondamentale del sistema X?, C°) e sieno 7, 7' le tangenti che arrivano a @Î dal punto f: sopra la retta t,i due punti K,, X, di K° e i due C,, C, della C° sono separati armonicamente e perciò la polare c, di C, rispetto a K° sega 7 in C, e la polare c, di C,, rispetto alla stessa K?°, 1 due punti corrispondenti sul raggio 7, ai due punti C,, C, cadono sega Tin C,; dunque entrambi in un medesimo punto , conjugato armonico di rispetto a C,, C,; ossia p è un punto doppio di SÌ e analogamente si vede che sopra 7' il conjugato armonico ' di È rispetto ai due punti (C°7') è l’ altro punto doppio. . . . A . 4 . Ò Possiamo dunque concludere che i tre punti doppî di S, sono È e i due punti d’ intesezione f, p' della polare di & rispetto a C* con le due tangenti che arri vano da È alla conica contravariante del sistema KX?, C°. Al medesimo risultato si arriva determinando col processo generale i punti della Sì giacenti sulla po- lare di A rispetto a C°. ; 48. Se assumiamo per A®° un circolo di centro £ si ha che :il luogo dei centri delle coniche conjugate a un cerchio dato £ rispetto ai punti di una data conica C? è una curva di quart’ordine, sesta classe e genere zero; le sue tangenti sta- zionarie sono i sei assi radicali di X? e dei 6 cerchi osculatori a C° ed ortogo- nali a X?; i flessi sono le projezioni dei punti di osculazione fatte dal centro È di K? sulle corrispondenti tangenti stazionarie: la quartica tocca il cerchio K° nei quattro punti ove ésso è segato da C°, ed ha per punti doppî il centro È di K? e i due punti d’intersezione della polare di £, rispetto a C°, con le due tan- genti che arrivano da alla conica contravariante del sistema K°, C°. ini | iS inquita, ad 8 i SUONELIZI. Visa 7 ARPRSIOE A bo Mem. Ser.IV. Vol.X. i V. Retali. A Baraldini, inc lit. G.Wenk e Figli—Bologna. SO Ni I Pa ur AA ; Gia : CONTRIBUTO ALLA TEORIA DEI SISTEMI ELASTICI IMEITINEODISZIOAN DEL PRIF., S}LVIO CANEVAZZI (CON TAVOLA) (Letta nella Sessione del 13 Aprile 1890). $ 1° — Il prof. Enrico Betti in una memoria pubblicata nel giornale. “ Il nuovo Cimento , (anni 1872-73), ha dimostrato il seguente teorema. Se sopra un sistema elastico agiscono in punti determinati (1,2,3,...k...n) dueisistemifian@fornze! PS ebRi REESE) (PS I. PL) producendo nei punti, in cui sono applicate e nella loro direzione, degli spostamenti rappre- sentati rispettivamente da d' e d''(d',d ...d,/) e (d,', 0," ...d,') la somma dei prodotti delle forze del primo sistema P' per gli spostamenti elastici corrispon- denti al secondo è uguale alla somma dei prodotti delle forze del secondo sistema P'" per gli spostamenti analoghi corrispondenti alle forze del primo, ossia ha luogo la seguente equazione DIpuoii —_ DIA 'd, (1) 0 Siano AB (Fig. 1°) una travatura reticolare, i cui nodi siano distinti coi numeri (2) P' e P' due sistemi di forze agenti nei nodi della medesima P;, P,' una qualunque delle forze dei due sistemi Ò', d'' le deformazioni elastiche dei due nodi misurate rispettivamente nella direzione delle forze P' e P" d,,0,' le deformazioni corrispondenti al nodo qualsiasi % Tr Ts gli sforzi agenti nella barra che unisce il punto o nodo p col nodo g sotto l'influenza degli sforzi esterni P', P" TOMO X. 85 — 674 — Azar An gli AMlungamenti od accorciamenti elastici provocati nella barra py (che unisce il nodo p col nodo g) rispettivamente dalle forze P' e P" (Tx Apa) 18 tensione e la corrispondeute deformazione elastica, che si pro- ducono nella barra pg quando sulla travatura reticolare non agisce che uno sforzo unitario applicato nel nodo k°° (d,‘'), lo spostamento corrispondente al nodo 4° quando il sistema di forze P' si riduce ad un'unica forza P/' agente sul nodo #2 Ang E la ghezza della barra pg €,, il prodotto dell’area della sezione A,, per il modulo di elasticità É,, cor- rispondenti alla barra pg Il teorema di Betti, detto anche teorema di reciprocità, fornisce la seguente l’area della sezione trasversale, il modulo di elasticità e la lun- equazione n U LALI I U (1) 25, Oh SUE, Le forze e le deformazioni elastiche, che si sviluppano nelle aste, che congiungono i vari nodi del sistema, non debbono entrare nella relazione (1) che si riferisce soltanto a forze esterne agenti sul sistema elastico e non ai vincoli interni, che stabiliscono la compagine del medesimo. D'altra parte ricordando che (/ sr (2) dt To ln = To la pr A pi pe Si ha identicamente la relazione n n Ip aD n T si); n (3) DIE SE III 0 PI PI 0 Pq ZARA 0 Pq EA 0 PI PI dalla quale si ricava il seguente teorema : Se in un sistema reticolato elastico sî determinano le reazioni T' e le deforma- zioni elastiche À, che hanno luogo nelle diverse barre allo stato d' equilibrio sotto influenza di due sistemi di forze P' e P', la somma dei prodotti delle reazioni elastiche T' provocate dal primo sistema di forze P' per le deformazioni omologhe 4" corrispondenti alle forze del secondo sistema P'', è uguale alla somma dei prodotti delle reazioni elastiche T"' sviluppate nelle barre dalle forze del secondo sistema per le deformazioni omologhe 4' corrispondenti alle forze del primo: che può considerarsi come correlativo al teorema del Betti, quando esso venga appli- cato ai sistemi reticolati elastici. $ 2° — Se agendo sulla travatura 48 il sistema di forze P' si fanno agire le forze P', queste producono degli spostamenti d'’, che pel principio della so- — 675 — vrapposizione degli effetti, che ha sempre luogo quando si considerano spostamenti elastici, vengono ad aggiungersi agli spostamenti d', quindi essi sono necessaria- mente compatibili coi vincoli imposti al sistema reticolato 48, in guisa che sì potrà sempre supporre che al sistema elastico in equilibrio sotto 1’ influenza delle forze P' siano dati gli spostamenti d'', di loro natura compatibili coi vincoli del sistema, e quindi tali da verificare l’ equazione delle velocità virtuali; cioè gli spostamenti d'' congiunti alle deformazioni A, debbono soddisfare alla relazione (4) DIET —_ ZT,g ha e poichè (3) DTA, = STA = ta o PI PI o PI AZ, sì ricavano immediatamente le due equazioni n T 7} n SPS e Se, 0 PI EAT o PI PI (5) 3 ULI VECI 51 Ù IL I n r vr nl, d, dl E = 31, À;n PIPA cioè : In un sistema elastico reticolato sollecitato ai nodi successivamente da due si- sistemi di forze P' e P'', la somma dei prodotti degli spostamenti dei nodi nella direzione delle forze del primo sistema e ad esse corrispondenti per le forze del se- condo sistema, è uguale alla somma dei prodotti delle variazioni elastiche causate dalle forze del secondo sistema lungo le varie barre per le reazioni elastiche corrispondenti al primo. $ 3° — Questo teorema permette di determinare con molta facilità gli sposta- menti di un nodo in una direzione qualsiasi ed il valore delle reazioni mcognite, che si sviluppano in causa di vincoli sovrabbondanti, cioè superiori in numero a quelli necessari ad assicurare la sua immobilità considerandolo come corpo rigido, sia che si tratti di vincoli esterni (nodi fissi od obbligati a rimanere su superfici determinate) oppure interni e dipendenti dalle compagine del sistema (barre. so- vrabbondanti). $ 4° — Ée tutte le forze del sistema P' sono uguali a zero ad eccezione di una P,, che supponiamo uguale all’ unità, l’ equazione (5) dà la relazione » WI (TE ab (6) ! ò, =: en — 676 — che permette di determinare secondo una direzione qualsiasi lo spostamento del nodo k”° prodotto dal sistema di forze P'' qualora siano note le reazioni elasti- che, che hanno luogo nelle barre della travatura nell'ipotesi che essa sia gravata dai carichi P''[7,, | e nell'ipotesi che agisca soltanto un carico unitario nel nodo kim diretto secondo la direzione È, '[(7,,),]. La determinazione delle reazioni 77, e (T,,). è sempre possibile ; nei sistemi a barre sufficienti è semplicissima e può farsi dipendere dalla costruzione di due figure o diagrammi reciproci o da poche equazioni algebriche in generale abbastanza semplici, nei sistemi a barre sovrab- bondanti la determinazione dells barre 7,, e (7,,), è alquanto più complessa, ma non presenta mai gravi difficoltà. $ 5° — Supponiamo che sulla trave AB nel nodo ‘°° agisca una forza uni- taria, allora le tensioni nelle varie barre sono rappresentati da (7,,),; se invece sullo stesso nodo agisce una forza P,, pel principio della sovrapposizione degli effetti la tensione 7,, sarà dato da .P.(7,,),. Se il sistema si riduce alla sola forza P.' allora la (6) diventa (1) (CIA PUT, d:E (7; 2! RAT PO 10): An ed applicando ancora lo stesso principio della sovrapposizione degli effetti per una serie di carichi P'' applicati a tutti i nodi della trave n i=n ca (3) Oni Z(0)R ZIE POLE Sal "i Ù li ri Ea An, q=l $ 6° — La determinazione delle reazioni incognite prodotte dai vincoli impo- sti al sistema riposa sul principio che calcolata la deformazione prodotta dall’ in- cognita, che chiameremo @, questa, sommata con quella prodotta dalle forze attive agenti sul sistema, deve essere uguale alla deformazione permessa dal vincolo, che si considera. Prendiamo in esame il caso di un vincolo esterno e precisamente quello in cui uno dei nodi della travatura sia fisso, come potrebbe avvenire in un ponte ad arco reticolato (Fig. 2) riposante a cerniera in A ed in B e caricato da pesi nei nodi 2, 4, 6, 8. Se si indicano un P' i pesi effettivamente gravitanti sul- l’arco e con P' una sola forza unitaria applicata in 8 e diretta secondo 48, la formola (6) ci da ita) Os — Si "CE Apa — spPiF Ta); Mei, MOB Nar 0° p= A vb Ang = Considerando ora il sistema P'' rappresentato dalla forza incognita @ diretta se- condo la retta BA ed il sistema P' da una forza unitaria agente secondo AB ed —- 677 — applicando le formole (6) ed (8) si ottiene ESD (Tn)bl, 0,= X2T LI — 0X(T pad pa i 7° ExAn i mo BARA la somma dei due valori di dz dovendo essere uguale a zero sisulta pn DTA SII Sin) Edd ST' pr) B°pq SI (CI i B'pq ER a, i=n Sl n: JIA inn (9) Q [= e i — iS q=n 1 t=1 = L = x» (T ); 2 PI DI (CD 2 PI i si AE 52] a EsAy indicando con V, il fattore di P. nella prima sommatoria della seconda forma del valore di @. $ 7° — Passiamo ora a considerare il caso di un vincolo interno, cioè suppo- miamo che nel sistema esista una barra sovrabbondante rs (la barra che unisce il nodo 7 col nodo s); la determinazione della forza, che agisce lunge la medesima si fa in modo analogo a quello usato per la determinazione della reazione &. ; TL La deformazione 4,, della barra 7s è necessariemente uguale a E 4 d'altra rs rs > parte se supponiamo tolta la barra rs ed applicati in » ed in s due sforzi uguali all’ unità, sotto l’ influenza delle forse P'' agenti ai modi della travatura gli sposta- de d,' sono dati mediante l’ equazione (6) dalle due formole SI DU (CRE UE "I (05 di ES nie En 9, po " EAT ma 4, =— (0, +0,') quindi NE A LIL Lol ( I a (CA L È wi BAD "E n EA Se il numero delle barre sovrabbondanti fosse m#m s' avrebbero tante equazioni analoghe alla (10) quante sono le barre, cioè 7, che congiunte a quelle date dalla statica dei corpi rigidi permettono di risolvere sempre il problema e di ri- solverlo in un modo solo, perchè tutte queste relazioni sono lineari rispetto alle forze incognite. $ 8° — Le formule (6) (9) e (10) si possono anche ricavare con molta faci- lità applicando i teoremi di Castigliano e Menabrea sulla proprietà del lavoro elastico di deformazione espresso in funzione delle forze. — 678 — Supponiamo che nei nodi della travatura reticolare AB agiscano delle forze P'(P;',P.'...P,'...P,') le quali daranno origine allo stato d’ equilibrio a tensioni o pressioni 7, nelle varie barre; supponiamo inoltre che nel nodo qualunque % agisca una forza qualsiasi P,, che nelle varie barre produrrà ($ 5) degli sforzi rappresentati, adottando i simboli superiori, da P,(7,,),. Il lavoro di deformazione PI'k° L di tutto il sistema sarà dato da iocal c gs II, tE LA (7, AV) LS, oa 27, CE por la (CR VI: 2 BA 2 IA, In causa del teorema di Cortigliano che le derivate del lavoro di deformazione espresso in funzione delle forze, che sollecitano il corpo, prese rispetto alle forze danno le deformazioni oi det AT) + (1) (ol bis RAS PI? kh PI PI/k_k la = DI kKPI Chiesi se (n TIA DE g= E,A,, che coincide colla formola (6). Supponiamo ora che le forze P, non sia più una forza arbitraria, ma bensì le reazione prodotta da un vincolo a cui il sistema sia soggetto e precisamente supporemo come precedentemente che sia la reazione Q sviluppata da un punto 8 di un’arco reticolato (Fig. 2) che deve rimanere fisso. In tal caso Di= 112 " 202 1 s[T, + 2T"(T,)50 + (TW 2 E,Ax . e trattandosi di vincoli invariabili (*) pel teorema di Menabrea la derivata del la- voro di derormazione espresso in funzione delle forze presa rispetto alla reazione incognita deve essere uguale a zero, cioè dL TELE (TIE — — N nba | Sg em dQ Aa Ara da cui si ricava come precedentemente (formola 9) astrazione fatta dal segno, che che nella formola (9) non è stato meno in evidenza in causa della direzione sup- posta alla forza @ "i (7, RO x." —pokpa (Qris) Q=— di Li Any o UE) — Eng PI (*) CanEvazzI -- Teoria generale della resistenza dei materiali — Vedi /7 Politecnico 1889-90. — 679 — Se il vincolo a cui è soggetto il sistema è una barra sovrabbondante 7s, nella quale agisce lo sforzo incognito 7, per quanto è stato detto precedentemente. L= - x [ca tan QI RC Do ll ria T..+ (( I) za (T,) VE] la A =—rrnwwwill PIP, 'd,' = As Si alt LEI Sr ppi TOMO X. GA GGITAL M'M'" EI 86 Jo — 682 — che può essere scritta anche nel modo seguente L Li o! dany ny) (i Die = Ax tlatla]|=M% Se si ricordano le equazioni (12) che danno le deformazioni in ogni sezione in funzione delle forze esterne alla medesima, dall’ equazione (16) si ricava il seguente teorema —- Se due sistemi di forze vengono ad agire successivamente sopra una travatura la somma dei prodotti delle forze di un sistema per gli spostamenti dei loro punti d'applicazione prodotti dalle forze dell'altro sistema è uguale alla somma dei prodotti delle caratteristiche meccaniche (sforzo normale, componente tangenziale e momento flettente) relative alle forze del secondo sistema esterne ad ogni sezione per le corrispondenti deformazioni caratteristiche od unitarie rispetto alla lunghezza dell'asse della trave (i, g, 0) della sezione considerata relative alle forze del primo sistema o viceversa. $ 10° — Da questo teorema si deduce facilmente una formola per calcolare lo spostamento d, di un punto qualsiasi di una travatura. Infatti supponiamo che le forze P" del secondo sistema si riducono tutti a zero ad eccezione di P,", che supponiamo uguale all’ unità, in tal caso l’ equazione (16) diventa (X,) (17) ces Li gio ul 22 GA EI =/ le CO) pi IV ASSI) as e nel calcolo di 0, s impiegherà l’una o l’altra formola secondo che si vuole eseguire un’ integrazione approssimata per sommatorie, o per prodotti di segmenti, oppure un'integrazione esatta applicando (se è possibile) i procedimenti analitici conosciuti. Se le forze P' del primo sistema si riducono ad un unica forza P/' agente nel nodo °° allora CH), pl 00) ie Pen od anche, osservando che in causa del principio della sovrapposizione degli effetti le componenti normali e tangenziali ed i momenti di una forza rispetto ad ogni sezione sono uguali alle componenti ed in momenti di una forza unitaria agente -- 683 — nella direzione della forza prima considerata moltiplicati per l'intensità di questa stessa forza (A) (MA) __ MA) GA EI (18) = PIA — P(d,"),. In un prodotto essendo indifferente l’ ordine dei fattori la formula (18) mostra che (d,); == (CANE equazione che contiene il principio di Maxwell cioè — jn una travatura lo sposta- mento di un punto quando la forza è applicata ad un'altro, è uguale allo sposta- mento di quest'ultimo quando la stessa forza è applicata al primo nella direzione dello spostamento prima considerato. Pel principio della sovrapposizione degli effetti si ha anche (19) d/=@),= 3 |P r0s[0A A) CIA) COL i=1 NI EA GA i 3 RE. la quale permette di calcolare la deformazione è, in qualsiasi ipotesi di carico. È opportuno osservare che le quantità (0,), sono numeri o coefficienti dipendenti dalla forma del sistema ed indipendenti affatto dalle forze P', quindi possono es- sere calcolati separatamente ed in precedenza per sostituirli poi nella formola (19) per la determinazione del valore di è, $ 11° — Se la travatura fosse soggetta a vincoli esterni l'equazione (17) offre qualunque siano i valori delle forze P'. il modo di determinare le reazioni, che si sviluppano nei medesimi; queste infatti sono date dalia condizione che la forza sviluppata dal vincolo sia tale da impe- dire qualsiasi deformazione diversa da quella permessa dal vincolo stesso. Suppo- niamo che si voglia determinare la spinta @ sviluppata nel punto B (Fig. 4) da un arco caricato da un sistema di forze P' ed appoggiato a cerniera in A ed in B. Se si immagina il punto B reso libero di muoversi nel senso AB la formola (17) ci dà dz — ZAs leg (Xa) niro = + A _ =3P.(0)), se ora sì immagina agire sulla trave soltanto una reazione @ diretta nel senso del movimento del punto B la formula (18) da yi Gna 20asf a e Al 9g. — 684 — La cerniera B essendo un punto fisso la somma dei due spostamenti dovrà essere uguale a zero, cioè (0 )0r 2a OD: da cui si ricava FAs eg (Xx) eta (PF) Sp pe (My) l (20) gii rei a E Ria 0) _ Spy Ana ZAS e (Fg __ Mo i et TRIS GA EI indicando con V il valore dei coefficienti delle forze P' nell’ espressione della rea- ‘zione Q: come appare dalla (20) i coefficienti V sono indipendenti dal valore delle forze e solo dipendono dalla forma della trave per cui possono essere deter- minati in precedenza per ogni trave e servire sempre nel calcolo di un arco, qua- lunque sia il valore delle forze che lo sollecitano. $ 12° — Le formole superiori per determinare la deformazione è, e la rea- zione incognita @ si possono ricavare con molta facilità anche applicando il teo- rema di Castigliano e quello di Menabrea sulle proprietà del lavoro di deforma- zione. Consideriamo la travatura G,, G,, ... G, Fig. 3 soggetta all’ influenza di un sistema di carichi P(P,, P, ...P,) e di un carico @ applicato sul punto qualsiasi B, il quale produrrà in ogni sezione (vedi $ 10) o, della trave un momento Q(Ix), uno sforzo normale Q(X}) ed uno sforzo toga Q(F3). L'espressione generale del lavoro di deformazione L in una travatura soggetta a sollecitazione piana e retta è Seal M° > G F 1 i tene, M° (21) 1/0 tale AT As Sostituendo nella (21) ad X, F ed M i loro valori in funzione delle forze P e della forza Q, mettendo in evidenza l’effetto dovuto particolarmente a quest’ ul- tima, risulta 09 caps got E gela, Pel teorema di Castigliano (Vedi $ 8) la deformazione del punto 8 nella direzione supposta alla forza @ dovuta soltanto alle forze P è data da dL X; Tr Mg (a, ta ml ioni o: i +FOI ur UT che corrisponde esattamente alla (17) e coincide con essa qualora si sostituiscano B con Kk. — 655 — “e prendiamo ora in esame l’arco AC B Fig. 4 e supponiamo che @ rappre- senti la reazione opposta dalla cerniera B ad uno scorrimento del punto 8 nel senso 48 sotto l'influenza delle forze P, trattandosi di un vincolo invariabile e precisamente di un punto obbligato a rimanere fisso sussiste il teorema di Mena- brea e per l’ equilibrio dovrà essere dL dQ n) 0 ossia derivando la (22) (Ka) __ (15 (Ma) (do a Mo DAfx grafia Ca Lo da cui ricavasi come precedentemente (000 ia ( Colin SAX ped + Me Je MT las CONICO (© CAIO ZAs i] Sr nia (24) Q=— Se si suppone che il punto B cada sull'asse della trave ed immaginiamo la se- zione normale 0,, sulla quale supponiamo che agisca un momento ug, ed indi- chiamo con @, la rotazione della sezione rispetto ad un asse normale al piano di sollecitazione Cosongado di indicare con (X,) (F,) (M 5) le caratteristiche mecca- niche rispetto ad una sezione qualsiasi della trave prodotto da un momento uni- tario agente sulla sezione 0, allora ber 2005. io u(n)T] 9 Si A I (25) —;2| ++ na, A e la rotazione 0, dovuta soltanto all’azione delle forze del sistema P sarà data in causa del teorema di Costigliano da de) 00) LO (26) 9) = + pe |as Se il sistema delle forze P si riduce ad una coppia di intensità unitaria agente nella sezione qualsiasi 0) secondo le convenzioni fatte superiormente la (26) di- venta (Xp(Bs) __ (Fap) (Mp(Ma) di 0ao= 2 pa GA EI — 686 — Il valore di un prodotto essendo indipendente dall’ ordine dei fattori il second o membro della (27) esprime anche il valore di (0,)z quindi si ricava l’ equazione (03)p = (0) che contiene un teorema analogo a quello conosciuto col nome di principio di Maxwell cioè: — /a rotazione di una sezione per una coppia agente su un’altra è uguale alla rotazione provata da quest’ ultima quando la stessa coppia venga ad agire sulla prima sezione considerata. DEE sip ‘1zzenaue9 9 ‘e buy Ol ‘ab a] AR] ‘IOUSEA. HUA]SIS TAp. PLIO9] Vf Omquuo — Izzes0ue9 9 XX TOA AI 495 UN teca DI UNA FORMA SINGOLARE DI NEVROSI E DELL’ USO IN ESSA DELIL’'ATROPINA AD ALTISSIME DOSI MABMOEBILA DEL PROF. GIOVANNI BRUGNOLI (Letta nella Sessione del 13 Aprile 1890). Non ha guari in una discussione avvenuta in seno della Società Medico-Chi- rurgica di qui, sull’ azione terapeutica dell’ atropina e sulla diversità della dose che ne poteva essere tollerata, destò grande meraviglia ed un senso quasi di in- credulità l’annunzio da me dato di una malata da molti anni del grande isterismo, nella quale a togliere o scemare disturbi gravi funzionali di indole sempre cre- scente si ricorre alla somministrazione nello spazio di 2 ore della ingente dose di quaranta centigrammi, e perfino di sessanta centigrammi di atropina pura in tante pillole di cinque centigrammi ognuna; colla quale somministrazione si arriva a produrre uno stato di generale tumulto, moti convulsivi, delirio, perdita di co- scienza, al quale stato tumultuario, durato due o tre giorni, subentra una calma sorprendente e la scomparsa dei gravissimi sintomi innanzi assai persistenti, o ri- correnti a brevi intervalli, come paralisi, convulsioni, accessi d' asma, palpitazioni di cuore, delirio ecc. Certamente non è da credere che a quella altissima dose siasi giunto ad un tratto ed in breve tempo. Se da prima l’ effetto portentoso si ebbe dalla dose di un milli- grammo, in seguito l’esperienza costrinse così agli aumenti da arrivare a quanto ho annunziato. Quando io vidi per la prima volta la Signora, oggetto di questa osservazione, primeggiava il fatto che il soccorso terapeutico, che riusciva a portare calma, a togliere molestissimi sintomi, era il salasso, e con questo si otteneva una tregua, un alleviamento dei gravi malori per un tempo più o meno lungo; ma poscia a grado a grado tornavano le molestie, le convulsioni, le paralisi, 1 deliri, la dispnea, — 688 — ; le palpitazioni di cuore, le emorragie dai polmoni, dall’ utero da mostrare una pletora, da indicare di nuovo il salasso che non mancava di produrre salutari effetti. In passato, e quando il salasso era la panacea universale, benchè rari, non erano rarissimi i casi di individui i quali abituati ad essere di tratto in tratto salassati, di tanto in tanto presentavano fenomeni gravi ed imponenti che soltanto si toglievano colla sottrazione di sangue; a tal chè parecchi medici erano condotti ad ammettere in alcuni individui un’abnorme riproduzione della massa sanguigna da costituire una pletora, che si riteneva causa dei disturbi funzionali gravi osservati, ed i vantaggi arrecati dalla sottrazione sanguigna confermavano questo concetto. È facile comprendere, riferendosi alle dottrine ed alle pratiche dominanti nella prima metà del corrente secolo, come anche a curare disturbi gravi e diversi d’indole nervosa si ritenesse indicata la sottrazione sanguigna. È assai palese come nei casi di nevrosi generali, in casi del grande isterismo, di epilessia, il sistema nervoso vaso-motore spessissimo entri in azione abnorme e quindi dia luogo ad iperemie, ad emorragie, dia luogo a forme apopletiche, deliranti, asmatiche da consigliare dietro le teorie e gli usi d’ allora alla pratica del salasso. Vi sono storie cliniche, le quali mostrano che talvolta il salasso in individui nevrostenici, isterici, melanconici è seguito istantaneamente da sintomi tumultuari nervosi, spesso di breve durata e talvolta da istantanea calma, e dalla completa sparizione di molestissimi sintomi da imporre che al rinnovarsi di questi si ritorni al salasso. Fra le altre citerò la storia di una singolare Nevrosi con alcune de- duzioni sul salasso generale e locale presentato a questa illustre Accademia dal Prof. Fulvio Gozzi (1), e i fatti che in seguito mi farò a riportare. Riesce abbastanza evidente che col ripetere le sottrazioni sanguigne nella massa del sangue deve di necessità diminuire la parte più organizzata, e quindi l'aumento e la riproduzione deve essere data dall’ elemento acqueo; e perciò diminuzione di crassamento, aumento di siero e quindi ja ammessa pletora riferirsi alla pletora idro- emica, e continuandosi nella pratica del salasso deve conseguirne sempre più un aumento straordinario nell'elemento acquoso e quindi un grado maggiore di idroemia. È un fatto che si è verificato nelle istorie che vado a riportare, che i disturbi funzionali gravi, che a quando a quando ricorrevano e che sembravano occasionati dalla pletora idroemica e riproducentesi a brevi intervalli ancora, a moltissimi mezzi terapeutici messì in pratica resistevano e soltanto dal salasso erano meravi- gliosamente ed istantaneamente tolti; di modo che se il medico vedendo il danno che recava con tale espediente alla crasi del sangue ristava dall’ adottarlo, vi era poi in fine trascinato dalla persistenza e pertinacia del male e dalle insistenti do- mande e preghiere degli ammalati e delle famiglie, alle quali non reggeva l'animo di vedere tanto soffrire, mentre sapevano che un mezzo vi era che portava istan- (1) Vedi Memorie, 1838, p. 42; 1839, p. 35. — 689 — taneo sollievo, ed il danno che recava era lontano e forse non bene manifesto. Gravi quesiti si presentano a chi volesse interpretare questo fatto morboso. È realmente la pletora la causa dei gravi disturbi accennati? Come avviene e per quale ragione ha luogo la riproduzione della massa del sangue tanto abnormemente da sorpassare i limiti dell’ ordinario e dar luogo allo stato di pletora? Quale è quanta parte in tanta metamorfosi ha il sistema nervoso, che d’ altra parte mostrasi così alterato ? In questi gravi tumulti isterici l’ influenza abnorme del sistema nervoso si spinge fino a modificare la composizione e riproduzione del sangue ? Ma io non procederò in tali investigazioni e dirò che fattomi alla ricerca di un mezzo tera- peutico che arrivasse a cambiare lo stato di alterata innervazione e impedire quello stato pletorico ricorrente, mi ha sembrato di avere trovato per questi casi speciali, che l’ atropina sostituiva il salasso, e lo sorpassava nei suoi salutari effetti e senza averne i danni; e di più che se col salasso non si poteva spingere tant?’ oltre la misura, e gli effetti salutari colla ripetizione scemavano, coll’ atropina, si poteva accrescere la dose e la potenza da portarla a dosi eccezionalissime. Queste deduzioni mi sembrano spontaneamente derivare dalle istorie cliniche che in breve vado ora a riportare. Credo però bene far notare che la facilità, con cui in un passato alquanto re- moto si ricorreva al salasso, avrà fatto incontrare individui i quali dirò così per abitudine hanno contratto quello stato morboso sul quale ho richiamato 1’ attenzione dei pratici. Probabilmente in oggi il salasso generale quasi interamente escluso dalla terapia non verrà usato negli stati nevrosi cui ho accennato e quindi ritengo che non più abbiano ad incoutrarsi in avvenire casi di gravi nevrosi di grande isterismo da richiedere numerose cacciate di sangue. In sua vece mi sembra sì siano insinuate le iniezioni ipodermiche di morfina, e tutte le forme e le sequele del morfinismo. Ecco i fatti clinici di questo genere che ho da riportare, e sui quali poggiano le esposte considerazioni e deduzioni. La Prima Osservazione la debbo all’ egregio amico ad un tempo mio assistente nel servizio di turno all’ Ospedale Maggiore Dott. Enrico Venturini, nostro. Ac- cademico onorario, ahi troppo presto rapitoci da morte immatura. Recatosi Egli Medico condotto in Russi volle continuare alcune esperienze terapeutiche intraprese all'Ospedale, ed Egli mi portò questo primo contingente importantissimo, che pub- blicai nel Bullettino delle Scienze Mediche (1). Compendio in breve questa istorin: Una giovane donna di 30 anni, povera e che provò tutti i disagi della vita, ancor giovanetta, in seguito di uno spavento, credendosi inseguita da un uomo brutale che attentasse al suo onore, divenne amenoroica, indi vennero in iscena sintomi assai molesti: cefalalgie, singulto, con- (1) Bull. Scienze Mèdiche, Ser. 4, Vol. I, pag. 321, anno 1854. TOMO X. 87 — 690 — vulsioni generali, sopore, dispnee, una cardialgia sì intensa da costringerla a lamentevoli grida da impressionare tutto il vicinato. Questo stato morboso che costituisce per certo una forma del grande isterismo, durava già da nove anni e le condizioni di questa infelice erano assai gravi. Molte prescrizioni terapeutiche erano state fatte e seguite rigorosamente, ma senza alcun prò. Soltanto 1’ inferma aveva trovato nel salasso un alleviamento, e la cessazione temporaria della stra- ziante cardialgia, della dispnea; di spesso vi ricorreva chiamando il flebotomo da sè, ed i salassi si andavano ripetendo richiesti dall’ acutezza dei dolori e così si calcola che fossero dai trenta, ai quaranta nel corso di ogni anno. Sottoposta all’azione dell’atropina incominciando colla dose quotidiana di un sedicesimo di grano, in seguito venne aumentata e si arrivò fino al grano (cinque centigrammi al giorno) il medicamento venne bene tollerato, producendo però i fenomeni ordinari fisiolo- gici in mite grado, e qui si noti che quella stessa atropina somministrata ad altra inferma contemporaneamente ed a metà dose, cioè ad un trentaduesimo di grano produsse gravissimi sintomi. Gli effetti salutari di questa cura furono meravigliosi, cessarono completamente e gradatamente i sintomi gravi molesti, non più si fece sentire il bisogno di ricorrere al salasso. Tornarono le forze, la nutrizione, la donna lasciò il letto, al quale da due anni era obbligata, e ritornò alla sua vita ordinaria ed alle consuete sue occupazioni. La Seconda Osservazione di questa forma speciale di malattia venne da me rac- colta e per molti e molti anni l’inferma è stata da me veduta e curata; fu uno dei primi clienti che ebbi. Incominciò la malattia quando questa donna era ancora giovinetta dell’ età di 17 a 18 anni e stava accolta in un educandato di beneficenza. Causa del male fu indicato uno spavento. La famiglia mostrava le marche di non molta robustezza e sanità, due sorelle erano rachitiche, ed alquanto pure lo era l’inferma istessa. Esordì la malattia con cefalalgia intensa, delirio, dispnea, sputi sanguigni e fin d'allora a frenare l’emoptoe fu trovato il salasso generale essere una risorsa straordinaria, almeno temporariamente toglieva le gravi molestie, gli strazianti dolori e portava una calma, ed una tregua assai rilevanti. Ma non tardava molto a ricomparire lo stato di prima, e farsi assai allarmante e così da richiedere che si tornassse allo espediente del salasso. Quando io ne assunsi la cura erano già otto anni che la donna era in preda a queste sofferenze, ed ob- bligata di continuo al letto, ma nei giorni e nelle ore di calma con assiduità at- tendeva a lavori femminili di ago, o di ricami, o di calza. Per parecchi anni l'andamento del male ebbe questa forma prevalente. Dopo un tempo più o meno lungo di calma, di 15, 20, 30 dì, un mattino la donna al suo svegliarsi era colta da intensa cefalalgia che la costringeva ad emettere spessi lagni, accompagnata da allucinazioni e delirio, palpito di cuore, ambascia. Questo stato che in quel primo giorno durava una, a due ore, sì ripeteva ogni mattina nei giorni seguenti con questo che la durata si faceva sempre maggiore e quando arrivava ad oltrepassare il mezzogiorno, non svaniva più, si faceva continuo. Era sorprendente la costanza — 691 — delle allucinazioni che aveva: Essa non era più nella sua camera, nei suo letto, ma si trovava all’ Ospedale, le sorelle erano le infermiere, la madre la infermiera capo, il padre il portinaio dell’ Ospedale, chiunque altro si presentasse era un praticante, uno studente che veniva solo per passatempo e per ischerzare ; io pure era di questo novero e soltanto mi riconosceva quando davo un colpo di tosse, allora si calmava vedendo allontanarsi quei giovani ch’ essa aveva in uggia. Una forte compressione alla fronte la sollevava momentaneamente, ma si lagnava che non si comprimesse più fortemente, invece se si toccava leggermente al sincipite e d’ intorni provava tale dolore da emettere un acutissimo grido, e sfuggirne, sem- brando che il collo rientrasse nel torace. A metter fine a questo stato di dolore e di strazi l’esperienza aveva mostrato esservi il solo salasso, ma lo stato delle forze, i caratteri di anemia facevano opposizione, però il perdurare di tanto soffrire, le calde istanze della malata, della famiglia, la quale poi dalla pratica del salasso non vedeva seguirne dannose immediate conseguenze, era giuocoforza l’adottarlo. Non appena era stata fatta la cacciata di sangue, anzi nel mentre che veniva effettuata, la malata ricuperava la retta conoscenza, cessava la cefalalgia e tornava la calma ordinaria. Il sangue estratto si mostrava assai abbondante di siero, scarso di crassamento, spesso coperto di manifesta cotenna. Più volte ho provato che la sottrazione sanguigna fosse assai scarsa, ma chiaramente si osservò che |’ accesso descritto tornava assai più presto, e talvolta riapparve dopo tre o quattro giorni. Questo fatto unito al presentarsi della mestruazione anche copiosa, all’ aggiungersi sotto l’ accesso e quando si tardava a ricorrere ul salasso, sputi e vomiti di sangue, conduceva e conduce a riconoscere una soverchia riproduzione della massa sanguigna, ed una pletora idroemica causa dei sintomi dell’ accesso. Questa fu la forma più costante che presentò la malattia, ma si osservarono poi anche periodi di tale aggravamento di male, come dispnea, oppressione da temere una prossima fine di vita. Tale stato di malattia con poche variazioni continuava da oltre 18 anni, durante il qual tempo la donna fu sempre obbligata al letto ed a nulla approdarono le molte cure mediche che vennero suggerite e messe in pratica. I salassi sì molti- plicarono così da non tenerne il numero, certamente oltrepassarono i seicento. Ad onta di tanto sperpero di sangue le condizioni generali della nutrizione in proporzione non cambiarono, e le forze, il colorito della pelle, lo stato della crasi del sangue sembrarono non risentirsene ulteriormente. Fu solamente nell’anno 1854, dopo che il Dott. Venturini mi ebbe comunicato la storia clinica che ho riportato, che mi decisi a somministrare 1’ atropina ; e se alle prime dosi date non ne conseguì l’effetto completo, desiderato, elevata la dose a cinque centigrammi ed amministrata quando incominciava od era già bene svi- luppato quell’ accesso di cefalalgia colle allucinazioni sopra descritte, allora vi pro- duceva lo stesso effetto del salasso, cioè di farlo cessare immediatamente. Anche per qualche po' di tempo l’ accesso tentò di mostrarsi, ma venne subito troncato e — 692 — più non si presentò. Dopo alcune settimane la malata riacquistò forza, migliorò nella nutrizione così da potere lasciare il letto, uscire di casa, ed a piedi con me- raviglia di tutta la contrada fare lunghi tratti di strada, recarsi alla chiesa, e da pretendersi persino al miracolo. Questa donna ha vissuto moltissimi anni, nè mai più ha avuto indizi della forma morbosa che ho descritto. Certamente la suna costituzione debole, gracile, rachitica, i pochi mezzi che aveva a procurarsi i comodi di una vita ad essa confacente, non le permisero che una salute assai cagionevole da obbligarla di tanto in tanto al letto. Morì coi sintomi di una degenerazione grassa del cuore sull’ età di 66 anni. A queste aggiungerò altra istoria la quale alquanto si discosta dalle altre due, ma che nel fatto principale vi si collega. È una signora tuttora vivente dell’età di oltre 60 anni, e che al presente non si trova in buone condizioni di salute. Nata da una famiglia ove dominavano la nevrostenia e l’ isterismo, fino da bambina colta da malattie infiammatorie, o tali giudicate dal medico curante, si ricorse al salasso, il quale spesso nella giovinezza di lei in varie circostanze fu praticato. Andata a marito seguitò la malferma salute e non di rado si ricorse al salasso che sempre era seguito da brillanti risultati. Ebbe 14 gravidanze, ma i figli nascevano morti, o morivano appena nati; nelle gravidanze non fu risparmiato mai il salasso; anzi in una di esse dal curante che riteneva che i bambini morissero per la troppa quantità di sangue che si formasse nella madre e nel feto, in ogni mese della gravidanza venne praticato un salasso anche assai abbondante, ed il figlio nato è l’ unico che abbia vissuto e che ora è uomo sano, padre di due robusti fanciulli, sofferente però di tanto in tanto di accessi di emicrania. Sia durante il periodo in cui avevano luogo le gestazioni, che in seguito la signora di tratto in tratto, cioè ogni quattro o sei mesi cadeva malata e con sin- tomi di entità, dispnea, oppressione, emoptoe ed il salasso tornava sempre il rimedio efficacissimo. Chiamato io a prenderne la cura medica mi sembrò di riscontrare in essa le condizioni morbose che sostenevano la forma morbosa delle due altre osservazioni riportate e cioè che una pletora idroemica da nevrosi di quando in quando si formasse e ne fosse la causa. Veduti gli effetti sorprendenti ottenuti dall’atropina, ricorsi a questo farmaco, sia nel periodo in cui era richiesto il salasso e per sosti- tuirlo, sia anche nel periodo antecedente per modificare l’azione del sistema nervoso e quell’ azione che deve esercitare nella riproduzione del sangue. E difatti l’atro- pina, amministrata ora colla formola ordinaria, ora di tanto in tanto e per qualche tempo con quella di granuli di valerianato di atropina di Michea, corrispose assai bene sia nel prolungare i periodi di benessere, sia nel togliere quelle turbe ner- vose, quei disturbi che per lo addietro reclamavano il salasso. - Avvenne però che questa signora incontrò una grave malattia agli occhi, vi si formò un leucoma, la vista è quasi perduta. Di questa sventura essa, e forse qual- ì — 693 — che altro, diede colpa all’ atropina, e presentatisi quei disturbi che da questa erano stati dissipati e vinti, la signora si è ostinatamente rifiutata di prenderla e piuttosto ricorre al salasso, che non manca di produrre gli effetti benefici ricordati. E così sono già parecchi anni che corrono le bisogna, quattro, cinque volte all’ anno si ricorre al salasso. In generale però la nutrizione è scadente, la signora è in preda ad un malessere indefinito, a forte melanconia, ed ora si manifestano i segni di una insufficienza mitrale. Altra assai importante osservazione clinica è quella della Sig. Annunzia Prati, la quale presenta la tolleranza delle altissime dosi di atropina di cui ho fatto cenno da principio. Essa ora è presso i 60 anni, e da 21 anni è rimasta e rimane ob- bligata al letto: le stigmate, le forme più spiccate del grande isterismo sono le note caratteristiche della malattia. I particolari anamnestici mi sono stati forniti dal Ch. nostro Vice Segretario Prof. A. Saporetti cognato della inferma, presso il quale si trova. Nell'età di 19 anni, cioè nel 1850, l’Annunzia trovandosi presente alla morte per soffocazione del primo nipotino, figlio del nominato professore, ne ricevè tale sinistra impressione che immediatamente fu colta da convulsioni che durarono due o tre ore, le quali alternandosi con uno stato di sopore e di catalessi, ripetendosi ogni dì, la tennero in letto oltre 40 giorni, dopo di che restò assai malconcia in salute per ben tre anni, indi sufficientemente si rimise e per tre anni stette bene e contenta; ma nel 1857 essa ricadde malata assai gravemente in seguito al patema provato per una malattia di entità sopravvenuta al padre suo. Alle forti convulsioni, alle cardialgie e stringimenti al cuore si aggiunsero vomiti abbondanti di sangue. Molte medicature furono esperite ; si ricorda l'applicazione di oltre venti vescicanti, di un settone alla regione precordiale, prevalendo il concetto di un vizio cardiaco. Si ricorse pure alle cavate di sangue ; ed ogni volta che si praticava il salasso si sospendevano gli accessi quotidiani di convulsioni, di sternocardia, ed i vomiti di sangue; ma questa calma non durava più di dieci o quindici giorni, poscia tor- navano i fenomeni di prima. Per oltre dieci mesi durò questa forma di male, dopo i quali tornò in salute e per dieci anni stette abbastanza bene. Ma nell’anno 1869 e fin dal mese di marzo ricomparve quello stato morboso assai grave e che dura tuttora. Le convulsioni, che si prolungavano lunghe ore, richiedevano l’ assistenza di molte persone che la difendessero e la trattenessero, e di sovente si ripetevano ; la cardialgia era straziante, si calmava alquanto dietro le compressioni fatte da robuste braccia, marcate erano le anestesie cutanee e spesso le paralisi, le soffocazioni, la sensazione di bolo isterico completavano il quadro fenomenologico del grande isterismo. Molte cure furono messe in pratica suggerite e dirette dagli egregi Colleghi di chiara ricordanza il Prof. Comm. ©. Versari, il Dott. Canuto Canuti, il Dot- tor Agostino Rossi, ma nessuna riuscì a far cessare le convulsioni a modificare l'andamento della malattia. Il salasso da prima portò quella calma duratura per — 694 — qualche giorno, come aveva fatto altra volta, ma inseguito ancora gli effetti salutari diminuirono d’ assai, e la tema e l'orrore che tanto sperpero di sangue portasse conseguenze funeste sullo stato delle forze, sulla nutrizione generale e sulla crasi del sangue lo fecero affatto proscrivere. Invitato io a visitare questa inferma nell’ anno 1875, escluso il concetto che si trattasse di un vizio organico di cuore ed ammessa una nevrosi generale, e della forma del grande isterismo, e dopo avere confrontato questo caso di malattia colle istorie che qui prima ho riportato, mi sembrò trovarvi un punto di contatto, cioè degli effetti benefici quantunque temporari che si avevano dal salasso e quindi l’indicazione di ricorrere all’ atropina. La dose consigliata fu di un milligrammo per pillola, ed alle prime amministrazioni gli effetti furono sorprendenti; ma in seguito quelle dosi non bastarono più per avere gli effetti di quiete e di calma; ed allora fu dato un maggior numero di quelle pillole, inseguito si aumentò la dose dell’atropina per ogni pillola portandola ad un centigrammo ed anche allora non bastando più questa dose ad ottenere gli effetti che si avevano prima la famiglia più di spesso fece somministrazioni e così la dose giornaliera divenne altissima. In progresso di tempo provando e riprovando colla prudenza che ben sì richiede con così potente mezzo si arrivò a seguire questa regola. Quando in- sorgono minacciosi le convulsioni, la sternocardia, il cardiopalmo e consimili, in seguito a domanda ariche della malata si ricorre all’amministrazione dell’ atro- pina e la si dà ad una dose non mai immaginata. Vengono ordinate pillole formate ognuna di cinque centigrummi d’ atropina sciolta con una o due goccie di acido acetico impastata con un estratto amaro e di queste pillole nello spazio di un’ ora ne vengono date otto, dieci e fino ad undici, cioè fino a che si appalesano sin- tomi di atropismo; secchezza e ardore di gola, dilatazione di pupilla, agitazione, delirio, smania indescrivibile, sintomi assai singolari e che in famiglia chiamano di veneficio. Dopo un’ora cade priva di sensi, e così rimane soporosa senza prender cibo o bevanda, ma solo ghiaccio per calmare la sensazione di fuoco alla gola, per due o tre giorni, dopo dei quali si sveglia ilare e contenta, sono svaniti gli accessi di convulsioni, di cardiopalmo, di sternalgia, è ritornata la sensibilità in alcune parti che erano anestetiche ed ho veduto ritornata la motilità ad un arto che da mesi era affatto paralizzato. Da prima il bisogno di ricorrere alla somministrazione dell’ atropina per far cessare gli accessi di convulsioni od altro si presentava ogni tre, o quattro mesì, indi è venuto più di rado, e perfino è stato un anno, ed anche più senza sottoporsi alla cura dell’ atropina. Le impressioni tristi, ì patemi d’animo od altro del genere risvegliano le turbe nervose descritte. Il giorno 2 dello scorso mese di febbraio venne fatta l’ultima amministrazione di centigrammi 40 di atropina in otto pillole e tutto corse come ho superiormente descritto (1). (1) Nel maggio successivo si presentò di nuovo il bisogno della somministrazione del medica- mento, furono date otto pillole, cioè quaranta centigrammi d’atropina, gli effetti non furono così — 695 — A queste notizie aggiungerò che in passato la somministrazione delle pillole fu fatta dal Laboratorio di Farmacia della R. Univerrità e dal compianto prof. Fran- cesco Selmi, e da tempo si fa dalla Farmacia Malavasi. Una volta soltanto feci una iniezione ipodermica con meno di un milligrammo d’atropina, i disturbi furono rilevanti e la malata si è sempre rifiutata a ripetere l’ esperimento. E a tale proposito aggiungerò che in una malata nella mia sezione allo Spedale Maggiore, affetta da nervosi isterica e nella quale l’atropina somministrata in pillole per la via dello stomaco era assai bene tollerata ad alta dose, non lo furono invece le piccolissime dosi per via ipodermica: il collega Sig. Dott. Luigi Mazzotti che allora era medico assistente ne fu testimonio. A queste istorie si possono aggiungere altri fatti clinici che talvolta si presen- tano nella pratica medica e che hanno relazione con quelle sebbene in lieve grado. Conosco un uomo di 37 anni, figlio di un epilettico, da anni affetto da nevrostenia, che di tratto in tratto offre rilevanti esacerbazioni, ha profluvio emorroidario tal- volta abbondante e da molti si è creduto che la perdita di sangue e una conse- guente anemia sia la causa dei disturbi nevrostenici; ma egli assicura, ed è pro- vato, che all’ abbondante perdita del sangue emorroidale sussegue una calma assai marcata, la scomparsa delle moleste costrizioni al petto, delle palpitazioni e degli esagerati timori ipocondriaci. Stato di calma e di benessere che si protrae anche per mesi, poi si ripete la fase descritta. Il medico pratico non è raro che si in- contri in consimili casi che possono come i primi essere così interpretati. Dalle istorie che ho riferito mi sembra che si possa indurre che vi è stata, o vi è una forma morbosa con accessi d’indole nervosa, i quali si tolgono col salasso, ma che dopo breve tempo ricorrono e dalle circostanze concomitanti si è indotti a supporre che un aumento della massa del sangue, una pletora ne sia la causa. Ed a spiegare come in quegli organismi debba succedere una così sovrabbondante formazione di sangue, io penso la si debba attribuire all’ alterazione del sistema nervoso. Se in quelle generali nevrosi del grande isterismo vediamo straordinaria- mente disturbata la innervazione della sensibilità, della motilità, della vita organica, la vaso motrice, è da ritenere possibile che anche 1’ innervazione che regola la riproduzione del sangue possa alterarsi e disturbarsi. Gli effetti ottenuti dall’ atro- completi come per lo passato, sia rispetto agli immediati alla presa del farmaco, sia pei successivi cioè alla calma e benessere soliti. Nei primi di agosto si è dovuto ricorrere ad una nuova somministrazione. I quaranta centigrammi non hanno prodotto quello stato ordinario di atropismo : dopo poche ore si è svegliata presentando smania indescrivibile, eccitazione delirante, dichiarando che la medicina non era stata sufficiente a produrre i suoi effetti, e chiedeva altre pillole. Si diedero altri dieci centigrammi in due pillole ed immediatamente si è completato quello stato ordinario che si è avuto per lo addietro. Serabrerebbe che la dose di 40 centigrammi che per molto tempo era sufficente a produrre l’effetto desiderato ora non lo sia più e se ne richieda un aumento. (Nota aggiunta il 10 Agosto 1590). — 696 — pina sia nel produrre gli stessi effetti del salasso, sia nel togliere in taluni casi la ricorrenza degli accessi, viene a confermare la indotta patogenesi, di attribuire cioè ad alterata innervazione la soverchia riproduzione del sangue.. Questa forma di nevrosi, che non è stata fin qui descritta per quanto a me consta, e che non saprei con qual nome indicarla se non si volesse, come la disse scherzando un collega seguendo l’ uso adottato in forme consimili, Morbus Bru- gnoli, e lo studio della quale raccomando ai Clinici ed ai Fisiologi, sarebbe per me caratterizzata. Sintomaticamente da grave disturbo del sistema nervoso consistente in alterazioni funzionali nervose le più diverse e variate, le quali si tolgono o svaniscono colla sottrazione anche copiosa di sangue. Crotopaticamente da un aumento nella massa del sangue da formare una pletora, vuoi anche idroemica, generata poi questa da una continuata abnormità di quel potere che ha l innervazione sulla riproduzione del sangue. Gli effetti che si otten- gono dall’ atropina, e la dose di questo farmaco, la quale viene tollerata soltanto in tali emergenze, mi confermano che all’ alterazione del sistema nervoso si debba la soverchia riproduzione della massa sanguigna sopraindicata. Il salasso toglie solo l’ effetto, l’ atropina toglie l’effetto e la causa. OSSERVAZIONI INTORNO AD ALCUNE PENOMENI DI EOSEORESCENZA E PLUORESCANZA INIOFECA= del professore EMILIO VILLARI (Letta nella Seduta del 27 Aprile 1890). È ben noto che i diversi raggi dello spettro hanno proprietà diverse e carat- teristiche. I raggi poco rifrangibili sono in preferenza termici, quelli di media ritrangibilità sono luminosi, e quelli molto rifrangibili eccitano le azioni chimiche. È noto altresì che ai raggi poco rifrangibili, provenienti da corpi poco caldi, s' aggiungono raggi via via più rifrangibili col crescere della temperatura. Così nella luce del Sole ed in quella dell’ arco elettrico vi sono moltissimi raggi chi- mici, e pochissimi in quella del gas, del petrolio ecc. I metalli volatilizzati dalla scintilla elettrica producono degli spettri chimici estesissimi e tali da essere in certi casi 5 o 6 volte più ampi degli spettri visibili, secondo Mascart. Îl magnesio, che brucia facilmente nell’ aria, produce una luce vivissima di un bianco speciale che tira un poco al violetto, e dà anche esso uno spettro assai ricco di raggi chimici. I fenomeni di fosforescenza e fluorescenza sono, in generale, risvegliati da raggi molto rifrangibili, e perciò hanno bisogno di sorgenti luminose di elevata tempe- ratura. Essi riescono assai bene con la luce del sole e con la luce elettrica. La luce del magnesio, essendo assai ricca di raggi molto rifrangibili, deve potersi ado- perare con vantaggio nello studio dei fenomeni di fosforescenza e fluorescenza: ed io ho appunto cercato di studiare l’azione di cotesta luce in questi fenomeni, confrontandola con quella di altre luci. Le prime esperienze furono da me eseguite studiando i fenomeni di fosfo- rescenza. Esaminai diversi corpi col fosforoseopio del Becquerel, e vidi come la loro fosforescenza riusciva assai vivace coi raggi diretti del sole. La luce Drum- mond (prodotta dall’incandescenza della calce per la fiamma del gas illuminante e dell’ ossigeno) rinchiusa nella lanterna Duboscq, rendeva debolmente fosforescente il TOMO X. 88 — 698 — solo spinello, fra le varie sostanze da me investigate. Invece, la luce del magnesio, prodotta con la nota lampada, che introducevo nella lanterna Duboscq, sebbene in condizioni non molto propizie, pure rendeva fosforescenti, e brillantemente, lo spi- nello, quindi il distene, e parecchi altri minerali in minor grado, ma sempre, assai distintamente. Talmente che la luce del magnesio è assai più adatta di quella Drummond nello studio della fosforescenza. Ma la differenza è ancora molto più cospicua ed importante pei fenomeni della fluorescenza. La luce del magnesio produce i fenomeni di fluorescenza con grande splen- dore. Un cono di detta luce, concentrato con una lente convergente, produce una fluorescenza bellissima nelle soluzioni di solfato di chinina, nella soluzione eterea di clorofilla (della menta piperina o dell’ ortica), nella soluzione alcoolica di cur- cuma, non che nel vetro di uranio, che furono le sole sostanze da me esaminate. Per osservare tali fenomeni si dispongono i diversi corpi in piatti neri od in piatti di vetro posti su fondo nero. e poscia s' illuminano con la luce del ma- gnesio, dirigendola obliquamente su di essi. In tal caso, guardando i corpi della parte medesima d’onde vengono illuminati s' osservano fluorescenti d’ uno splendore bellissimo. E ciò che concorre a rendere più spiccato il fenomeno si è, di certo, l’apparenza opalina che acquistano i corpi così esaminati, i quali sembrano quasi come opachi, ed il colore pare che venga soltanto dalla loro superficie. La cloro- filla, poi, prende intieramente l’ apparenza del sangue. La fluorescenza diventa, inoltre, nei corpi, assai più distinta e brillante quando si modera la luce del magnesio col mezzo di un vetro turchino; il quale lascia passare, in preferenza, i raggi molto rifrangibili e fluogenici riducendo, in tal modo, la luce trasmessa a quella più attiva, ed assorbendo quella meno attiva e pertur- batrice. Così i corpi su citati diventano assai luminosi e prendono sempre più un’ apparenza analoga a quella del vetro lattino, che è assai caratteristica. I medesimi fenomeni s’ osservano brillantissimi con la luce diretta del sole. L’ efficacia della luce del magnesio, in questi fenomeni è poco inferiore a quella del sole ed essa, inoltre, ha il vantaggio di potersi adoperare assai più facilmente e comodamente. In questi miei studi mi è occorso di notare un fatto che, a vero dire, non so se sia stato osservato da altri; ed io lo descriverò non avendolo trovato de- scritto nei consueti trattati di fisica. Ho osservato, adunque, che quando la luce del sole o del magnesio abbia attraversato uno strato di 3 o ‘4 em. di una soluzione di curcuma o di clorofilla, essa è incapace di rendere fiuorescente la soluzione di solfato di chinina, od il vetro di uranio; però è sempre atta a rendere fluorescente, nuovamente, la curcuma e la clorofilla. Per lo contrario la luce che ha attraversata una soluzione di 6 a 7 cm. di grossezza di solfato di chinina, rende fluorescente tanto una nuova soluzione di solfato, quanto quella di curcuma, di clorofilla, non che il vetro di uranio. Laonde si rileva, che mentre la clorofilla e la curcuma assorbono quei raggi — 699 — di luce che possono risvegliare la fluorescenza del vetro d’ uranio e del solfato di chinina, non assorbono invece tutti quelli atti a generare fluorescenza nella cloro- filla e nella curcuma. Il solfato sciolto, invece, assorbe molto meno dei raggi attivi, imperocchè la luce concentrata con una lente che ne attraversa la soluzione, in strati non molto grossi, è sempre atta a produrre fluorescenza in tutti i corpi qui sopra ricordati. Si sa, dagli studi fatti sulla fluorescenza, che i corpi fluorescenti hanno per la luce un potere assorbente, oltre quello dovuto al proprio colore, che può dirsi elettivo, per quei raggi che risvegliano in essi medesimi la propria fluore- scenza. Onde accade che la luce, quando non sia concentrata da una lente od altrimenti, risveglia la fluorescenza superficialmente soltanto. Come, adunque, ac- cade che la luce, dopo d’ avere attraversata la clorofilla e la curcuma può ren- dere ancora fluorescente una delle dette soluzioni, mentre è inattiva pel solfato di chinina ed il vetro d’ uranio? Questi fenomeni possono interpretarsi ammettendo che i raggi, i quali rendono fluorescenti i corpi su indicati non sieno per tutti i medesimi: e supponendo, altresì, che la curcuma e la clorofilla fluoriscono per mag- gior varietà di raggi che non accade pel solfato di chinina e pel vetro d’ uranio. Il che ho confermato con le seguenti esperienze. Ho osservato con uno spettroscopio a visione diretta gli spettri delle diverse luci da me adoperate e ne ho, con la scala, misurate le estensioni. Dopo di che sono passato ad osservare quali erano i raggi in preferenza assorbiti dalle varie sostanze fluorescenti, e sono pervenuto alle seguenti conclusioni. Luce solare. — Lo spettro di questa luce si estende oltre la divisione 200 a 205 del mio spettroscopio, quando non attraversa alcuna soluzione. (1) a) Si estende fino alla divisione 195 dopo avere attraversata una solu- zione limpida di solfato di chinina di 6 cm. di spessezza. b) Si estende fino alla divisione 185 a 190, nel violetto, dopo avere attra- versato un vetro d’ uranio di circa 7 mm. di spessezza. c) La soluzione pallida di clorofilla di 5 em. di spessezza assorbe moltissimi dei raggi più rifrangibili, e limita lo spettro alla divisione 138 nel turchino. Oltre di che mostrasi distintissima la stria caratteristica di assorbimento nel rosso fra la divisione 63 e 69 della scala. d) Con la soluzione di curcuma lo spettro visibile è ancora più ristretto; ed esso s’ estende soltanto fino alla divisione 108, nel verde. Luce del magnesio. — Lo spettro con questa luce, non dissimile in apparenza dal precedente, s' estende fino oltre la divisione 200 della solita scala. a) Il solfato di chinina precedente lo riduce alla divisione 185, con estesa zona violetta. (1) I corpi esaminati erano disposti fra la sorgente luminosa e la fenditura dello spettroscopio. — 700 — b) Il vetro d’ uranio, precedente, limita lo spettro alla divisione 175, con ristretta zona violetta. c) La clorofilla ne assorbe tutti i raggi visibili, oltre il turchino, e limita lo spettro alla divisione 135. d) E la curcuma lo riduce fino al principio del verde, corrispondente alla divisione 108. Luce Drummond (1). — Lo spettro di questa luce è assai debole, in confronto coi precedenti, e s’ estende fino alla divisione 180 della scala, con una ristretta zona violetta. a) La soluzione di solfato di chinina non ne assorbe una quantità percettibile. 6) Il vetro d’ uranio lo restringe fino alle divisioni 140 a 150. c) La clorofilla lo riduce fino alla divisione 130, al verde. d) E la curcuma lo limita al principio del verde, alla divisione 108 circa. Da ciò si rileva: che lo spettro della luce del magnesio ha quasi la medesima estensione di quella del sole; mentre, come è naturale, quello della luce Drum- mond è assai più ristretta e manchevole nella parte più rifrangibile. Che i raggi assorbiti dai vari corpi esaminati sono diversi per qualità e quan- tità. Lo assorbimento procede dal violetto al rosso aumentando dal primo all’ ul- timo dei corpi seguenti: Soluzione di solfato di chinina. Vetro d’ uranio. Soluzione di clorofilla. A di curcuma. Da ciò si può ritenere, con molta probabilità, che la luce che passa per le due ultime soluzioni, di sufficiente spessezza, sia incapace di produrre la fluorescenza dei due primi corpi, giacchè i raggi visibili più rifrangibili ed atti a farli fluo- rire sono stati intieramente assorbiti. Ed ho detto, con molta probabilità, perchè 1 raggi ultra violetti, non sono visibili, e perciò non vennero contemplati da me in modo diretto. Non pertanto, deve ammettersi che detti raggi rimangono assorbiti ancora dalle due ultime soluzioni, quando si pone mente che la luce che le ha attraversate è inefficace a produrre la fluorescenza nel solfato di chinina per la quale occorrerebbero, appunto, i raggi molto rifrangibili. Per ispiegare come la soluzione di solfato di chinina, ed il vetro d’ uranio non tolgono alla luce la proprietà di rendere fluorescenti le soluzioni di clo- rofilla e di curcuma, è stato necessario di osservare quali sono i raggi fluo- genici di questa sostanza. E perciò, non volendo eseguire misure di gran precisione, ho adoperato il seguente metodo semplicissimo. Ho proiettato uno spettro solare puro con le sue strie, per mezzo di una lente acromatica e di un prisma, sopra (1) Questa luce era prodotta arroventando la calce con un getto acceso di gas luce ed ossigeno, — 701 — un diaframma posto a 5 o 6 metri da questo. In prossimità del diaframma ho disposto una lente convergente di circa 40 cm. di distanza focale, in maniera da intercettare i raggi emessi dal prisma. Detta lente era coperta, sulla faccia ri- volta al prisma, di più doppi di carta, aventi una fenditura verticale larga circa un centimetro e lunga quanto tutto il diametro della lente: in maniera che sol- tanto una ristretta zona dello spettro poteva attraversare la lente. Trasportando questa lente, man mano, nelle varie regioni dello spettro, si otteneva sul diafram- ma una immagine reale ed allungata dei vari colori dello spettro. In cotesti colori introducevo le varie soluzioni, e determinavo con quali esse cominciavano a di- venire fluorescenti. E così provando più e diverse volte, venni alle seguenti con- clusioni. 1° Il solfato di chinina comincia a divenir fluorescente coi raggi indaco, e seguita con quelli più rifrangibili. 2° Il vetro di uranio comincia a fluorire coi raggi verdi, e seguita con quelli più rifrangibili. 3° La curcuma, sebbene meno facilmente sl osservi, pure può ritenersi che la sua fluorescenza comincia coi raggi verdi, e seguita con quelli verso il violetto. 4° La soluzione eterea di clorofilla diventa fluorescente con tutti i raggi dello spettro, ed il massimo effetto lo producono i raggi rossi; e rossi sono eziandio i raggi diffusi per fluorescenza dalla medesima. Laonde risulta che qualsiasi luce è sufficiente a rendere fluorescente la cloro- filla; e perciò è sufficiente che essa sia illuminata perchè possa mostrare la pro- pria fluorescenza. Anzi parmi possa dirsi che nella luce non possa distruggersi il potere fluogenico per la clorofilla senza annullare contemporaneamente anche il suo potere luminoso: come appunto accade pei poteri luminosi e termici dei raggi visibili dello spettro. La curcuma, il vetro d’ uranio ed il solfato di chinina hanno bisogno, per divenire fluorescenti, di raggi sempre più rifrangibili e limitati verso il violetto. Perciò quando la luce è priva d’ essi, tai corpi non possono fluorire. Così, la luce che è passata per la curcuma e la clorofilla è inefficace a rendere fiuo- rescente il solfato di chinina e lo è poco o punto pel vetro di uranio. Essa per contro è attiva per la curcuma e clorofilla, nelle condizioni delle mie esperienze, giacchè la curcuma fluorisce coi raggi verdi non stati assorbiti, e la clorofilla fluorisce per qualunque specie di raggi luminosi. (E # satin sei "dalia sunt LI SARE CO stà dito Ab iv all, 0 op, tn osa nia ho. glag ra aci Mica oi aaa ren "fia ti La vi so SG RL 00 fab, PI fi ri doi n ner vito piani al ernmevatne, Waslog oritoni allsb sind liner a ed îl sé avotiito ln intioge ‘olbole iibigh dirci dita indivi sii ded sog 05 gtftada olfaby ipofog: pt cri fo ata ipatlio ao | ner: niegori Onpiiplone. diga bue. diventa » tan £ attra. A Lirio Aetavib è = St : "gf tg x “‘Ridzi; Su At A gulleti ali Kiba i et Pair nigra noltalmgi “Mi i Aa meg file. no grid doo. Aa Tag NT di ni, LAI a: RES i Qin stre sa ralizal, Ue. * pra Et TORE IAT ARR A I isùR î fi dà. si PUT uit, pigerarte abtfgenalin, PN te ve De ai Agnobass ni sotto, congolgaie 15 fi Da Ù DIGA sis) De - MAURI Bat FRATE, airananioniti ‘up TORI FOMENTONE RR alii dii una banali Pea i RITI coi gii neon da aio to: A ngaontaii gonari,. fa, pool ult sdò inni senoti tank: Lat i tr astio cigiugginatii ca sallinereca, setto abito ‘mq. cs f9/ 10; dI iaia se dk esa vario Dilts î Ù rea 3 Vaupott: » pe ia de pere Para ded TO, n; gi RL ORO ssenanti Ti ear agenti i ata Ap Dr PACE DO Nes » pen nti, pisa dotata ‘negate suifetit di SAS Ag Muti Led TAR porcate diet he da dea ver sone; Ri an Tenta Loca gi pla oe + ; i Ù ii \ È Ln VOI AP RITA A d a Tee E e ERIC La 7 *= U LLO SVILUPPO DELLA THECAPHORA ATERRIMA Tui, 6 dell'UROGYSTIS PRIMULICOLA Magnus, RICERCHE SPERIMENTALI DEL EROE ESSO R.HI. GIROLAMO COCCEONI (CON DUE TAVOLE) (Lette nella Sessione del 9 Marzo 1890). La Biologia delle Ustilaginee a spore uguali e reciprocamente libere, non che di quelle a glomeruli di spore eteromorfe, è nota nella scienza in modo soddisfa- cente, anzi per alcune specie può dirsi con esattezza e completamente conosciuta, specialmente in quelle forme di Ustilaginee (come nei gen. Sorosporium, Thecaphora) in cui la sporificazione si effettua mediante aggregazioni globulose di spore omomorfe. Ma la Biografia (e per conseguenza anche le manifestazioni biologiche) il più delle volte presenta importanti e larghe lacune, che si riferiscono più specialmente a due fasi vitali, vale a dire alla formazione delle spore ed alla vita saprofitica. Appunto per questi riguardi in cui troviamo la scienza manchevole ed imper- fetta, talora in grado notabile, il presente lavoro si propone il fine di rischiarare sotto i due anzidetti punti di vista il ciclo vegetale delle Ustilaginee a glomeruli di spore uguali o quasi uguali ; e due sono i fungilli studiati sotto questi rapporti, cioè la Thecaphora aterrima Tul. e 1° Urocystis primulicola Magnus. La Memoria è divisa in 4 parti: nella 1° si studiano i fatti riferentisi allo sviluppo delle spore quiescenti (daversporen dei micologi tedeschi) della Thecaphora aterrima e alla germinazione di queste spore; — nella 2° parte si espongono i fenomeni analoghi ai precedenti, ma relativi all’ Urocystis primulicola ; — nella 3* parte si mettono a confronto i risultati di queste ricerche coi corrispondenti otte- nuti da altri osservatori in altre Ustilaginee a spore uniformi, e da questo confronto si traggono dati interessanti per la filogenesi del gruppo delle Ustilaginee a spore composte; — nella 4° finalmente vengono esposte per sommi capi le conclusioni generali tratte dalle ricerche istituite. — 704 — E Thecaphora aterrima Tul. Questa specie con certa frequenza fu rinvenuta in alcuni punti deli’ Appennino Modenese e più specialmente nelle adjacenze di Castelluccio di Moscheda, come parassita nelle spighe della Carex precox L. Esaminate le infiorescenze nei punti dove queste apparivano meno alterate, anzi approfondita la ricerca anche in quei tratti in cui le spighe si mostravano poco o nulla malate, potei riconoscere la maggior parte delle fasi, precedenti lo sviluppo dei glomeruli di spore. Ed eccone in breve i risultati. Nelle primissime fasi evolutive dei sori sporigeni sì osservavano tanti minutissimi glomeruli colorati in giallo pallidissimo, e formati di un delicato intreccio di poche ife, con membrana molto esile e contenuto protoplasmatico. Sebbene non si potesse osservare uno stadio evolutivo anteriore al precedente, pure è lecito congetturare, che il primo ed iniziale fondamento dei sori delle spore sia dato da uno o da ‘due rametti ifici al più, che insieme si intrecciano; e se fosse permesso esprimere un’ ipotesi (la quale del resto è avvalorata da alcune mie osservazioni) sarei pro- penso ad ammettere, che gl’ inizii dei glomeruli sporigeni sì compiono mediante un unico ramo ifico, il quale emette numerose e corte ramificazioni, che poi s in- trecciano e sì condensano reciprocamente fino a costituire la giovane fruttificazione. In questo ordine di idee era naturale che sorgesse il sospetto che la fondazione dei glomeruli di spore si effettuasse in una maniera analoga a quella di tante fruttificazioni ascofore; in altri termini, che lo sviluppo deì glomeruli avesse luogo mediante primordii differenziati. Per venire in chiaro di ciò si fece uso di diversi mezzi, i quali hanno dimostrata una grande utilità nella scoperta delle prime fasi evolutive degli Ascomiceti, e più specialmente si fece ricorso ai metodi del Kihlmann (1) e dell’ Oltmanns (2). Col 1° metodo le giovani sporificazioni si lasciano immerse per parecchi minuti nell’ alcool assoluto, d’ onde si trasportano in una soluzione acquosa allungata di eosina, nella quale debbono permanere per parecchie ore; poscia si osservano nella glicerina. Il 2° metodo invece, cioè quello dell’ Oltmanns, è coordinato all’ osservazione degli inizii sporigeni nelle sezioni dei sori di spore; 1 giovani glomeruli vengono induriti coll’ immersione nell’ acido osmico, e dopo ripetute lavature dette forma- (1) KraLmann — Zur Entwickelungs Geschichte der Ascomyceten {Acta Soc. pro Fauna et Flora Fennica T. XIII. Helsingfors 1888). (2) OLtmanns — Ueber die Entwickelung der Perithecien in der Gattung Chetonium (Bot. Zei- tung. XLV, 1887, pag. 13-17). — 705 — zioni sono poste nella gelatina glicerinata ; infine, indurita la gelatina nell’ alcool, la preparazione è in condizione di essere sezionata. — Tentato anche il verde di metile acetico, previo trattamento coll’ alcool assoluto, si vide tale sostanza fissarsi molto intensamente nel plasma e nel nucleo delle cellule giovanissime, poco invece nel plasma degli elementi alquanto attempati; da ultimo non si trascurò di provare anche il carmino borato di Grewacher e l’ ematossilina del Kleinenberg. Sperimentati dunque tutti i mezzi precedentemente accennati si sono resi evi- denti alcuni fatti, i quali giustificano l’ ipotesi poc’ anzi formulata. In non pochi glomeruli giovanissimi, mentre essi misuravano in diametro da 4 a 6 w, si potè osservare nel mezzo di ogni glomerulo la porzione terminale di un filamento ri- gonfiato a clava. Quest’ ifa clavata costituisce essa il primordio dei gruppi di spore della Thecaphora aterrima? Si potrebbe stabilire qualche omologia fra gli Archicarpi o gli Ascogonii di quegli Ascomiceti, nelle cui prime fasi vitali sono soppressi gli Anteridii, e l’ ifa clavata anzidetta ? — A queste quistioni non si può adeguata- mente rispondere. Un fatto però si potè sicuramente stabilire, ed è, che ie singole spore traevano origine indifferentemente da ogni tratto delle ife costituenti i glo- meruli, ed ecco in quale modo. Trascorso breve tempo, le singole ife componenti i gomitoli ifici acquistano co- lorazione bruna, il plasma diventa di un giallo carico e ad intervalli regolari manifestasi una segmentazione, per cui hanno origine tanti articoli cellulari bre- vemente cilindrici. In una fase evolutiva più inoltrata, appare in ogni cellula del glomerulo, pressochè contemporaneamente in tutte, un fenomeno di rinnovamento cellulare, per cui dapprima la membrana di ogni elemento subisce la metamorfosi gelatinosa e viene assorbita ; poscia il plasma si contrae in una massa globulosa che poi dà luogo nella periferia alla secrezione di una esile membrana. Quando tali cellule sono mature ed hanno acquistato i caratteri delle spore quiescenti delle Ustilaginee, nella parete sono differenziati due strati, uno esterno bruno, grosso e molto resi- stente, l’ altro interno senza colore ed esilissimo : il primo non è altro che l’ epi- sporio, il secondo è l’ endosporio. Consecutivamente al loro modo d’ origine le spore restano reciprocamente collegate nei glomeruli più volte ricordati. Nella maggior parte dei casi esaminati la formazione delle spore ha origine dal centro del glomerulo, e di qui lentamente progredisce nelle cellule più esterne di questo. In generale da 6 a 10 giorni erano sufficienti, affinchè i gomitoli ifici sì potessero trasformare nei sori delle spore. Procediamo ora alla esposizione dei principali risultati ottenuti dalle ricerche sulla germinazione delle spore dei glomeruli del fungillo in esame. Due furono i substrati esperimentati : l’ acqua comune e le decozioni nutritive. Nell’ acqua la germinazione effettuossi in maniera molto imperfetta e deficiente. Le spore più voluminose, tanto se situate nella parte centrale che nella esterna TOMO X. 89 — 706 — del glomerulo, sono soltanto quelle che possono germogliare, certamente perchè contengono nel loro interno una maggiore quantità di sostanza nutritiva. Dopo alcuni giorni d’ immersione nell’ acqua da tali spore viene emesso un otricello, che acquista una lunghezza di circa 3 o 4 volte il diametro del soro di spore, ed in alcuni casi si ramifica, formando corti ed esili tubetti. A questo punto la germi- nazione si arresta: il plasma confluisce neli’ apice del tubetto primario o delle ramificazioni, mentre la porzione posteriore rimasta vuota si segmenta a regolari distanze. Laonde in causa della mancanza di condizioni esterne propizie, i prodotti della germogliazione rimangono inerti a tale stadio ; anzi le porzioni di plasma, raccolte all’ estremità degli otricelli filamentosi, si contraggono, espellono dal loro seno goccioline oleose minutissime, per cui acquistano colorito giallognolo ; la parte s' ingrossa, ed infine si organizzano quelle cellule particolari quiescenti, analoghe alle clamidospore delle Mucorinee. Più volte si potè osservare un fatto curiosissimo, cioè che dove due segmenti di otricelli germinativi erano reciprocamente a contatto avveniva l’ anastomosi fra detti elementi. Il risultato di tale fatto si è che una delle due cellule anastomiz- zate era capace di germogliare e di produrre un filamento, che per regola però restava molto corto. In questa maniera tale fenomeno determinava un prolunga- mento nella germogliazione, anzi un vero risveglio di questa funzione, sospesa per la mancanza di materiali nutritivi. Trasportati alcuni glomeruli nelle soluzioni nutritive (decotti di foglie di Cares, decotti di fimo) dopo circa una giornata ha luogo la germinazione nella maggior parte (e talora in quasi tutti) degli elementi componenti i sorì sporigeni; e questa verificasi tanto nelle cellule esterne, quanto nelle interne. Dopo due giorni il pro- cesso è tanto attivo e rigoglioso, che i glomeruli quasi scompajono sotto il denso feltro di corte ife, che s° è formato. I tubetti germinativi, raggiunta una certa lunghezza, segmentano al loro apice una rilevante quantità di sporidii ovoidali-ellittici, ripieni di plasma omogeneo, i quali ben tosto si diffondono nel liquido nutritivo e formano attorno a ciascun glomerulo una specie di areola opaca, bene visibile al microscopio ad un piccolo ingrandimento. Gli sporidii entrano poscia in un ricco processo di prolificazione gemmulare, per cui sì costituiscono numerose colonie filamentose, semplici o rami- ficate, e dopo alcuni giorni tutta la gocciola nutritiva presentasi intorbidata ed opacata da questo rigoglioso processo formativo. Qualora il liquido nutritivo non venga rinnovato, allorchè esso trovasi esaurito, la gemmulazione diminuisce gradatamente ed infine scompare, ed in suo luogo subentra una germogliazione dagli sporidii di tubetti generalmente molto lunghi e per solito ramificati. Quindi, in questo periodo, si possono osservare numerosi centri di questo sviluppo miceliale, il quale si organizza attorno a tanti sporidii. Abbandonate poi a sè stesse le colture, riscontrasi come tali formazioni mice- liali si mantengano costantemente sterili ; inoltre, in concomitanza col totale esauri- — 707 — mento del substrato nutritivo, le ife miceliali anzidette, si vuotano in totalità o parzialmente del plasma, e non rimangono che pochi tratti di esse pieni di un plasma con goccioline oleose, tratti che stanno a rappresentare formazioni analoghe alle clamidospore delle Mucorinee. Per lo contrario ravvivando la gocciola di coltura con liquido nutritivo fresco, producesi un generale risveglio nella vitalità delle formazioni precedentemente de- scritte. Gli otricelli germinativi direttamente prodotti dalle spore ripvendono il processo gemmulare con molta energia; e così pure gli sporidii che giacevano inerti nel substrato per la mancanza di materiale alimentare. Un fatto interessante osservasi poi nelle ife miceliali germinate dagli sporidii, allorchè in questi la gemmazione è già soppressa; le porzioni clamidosporiformi di plasma emettono corti tubetti, i quali sono capaci di prolificare in qualche abbondanza sporidii, aventi caratteri uguali a quelli circostanti, prodotti dalle spore coll’ intermedio degli otricelli. Mentre nella primitiva gocciola nutritiva non rilevasi la minima traccia di anastomosi o di fusione, allorchè, dopo avere ravvivato il substrato, questo cade in muovo esaurimento, osservasi qua e là fra gli sporidii un’ anastomosi, per la quale si stabilisce una communicazione fra il plasma dei due elementi. Ma la fu- sione non si arresta ai soli sporidii, perchè si manifesta anche fra gli articoli (rimasti pieni di plasma) di otricelli distinti e contigui, direttamente germinati dalle spore. L’ effetto di questo fenomeno è più che mai interessante e proficuo per la vita del fungillo. Da uno o da ambidue gli sporidii (nel caso che questi siano molto grossi) viene germogliato un filamento di variabile lunghezza, il quale forma nel solo apice una catenella di sporidii secondari. — Tutte queste numerose manife- stazioni evolutive per compiersi hanno bisogno di molto tempo; infatti gli sporidii secondari non si svilupparono che dopo un mese circa di coltivazione. Questi nuovi sporidii hanno per funzione il produrre tenui miceli secondari, i quali rappresentano l’ ultima esplicazione morfologica della vitalità del fungillo ; perchè, anche aggiungendo nuovo liquido fresco alla gocciola di coltura, non si produce che un semplice allungamento nei rami miceliali precedenti. Vennero tentate numerose infezioni coi prodotti della germinazione delle spore, trasportati sopra pianticelle giovanissime di Carex, ma non si potè mai ottenere alcun risultato certo. Forse sarà necessario infettare i semi di dette piante, analo- gamente a quanto hanno ottenuto Kuhn (1) e Wolff (2) per molte Ustilaginee vi- venti sulle Graminacee ; nei quali fungilli la penetrazione dei loro germi (ossia i prodotti della germinazione delle spore) si effettua solo durante il primissimo svi- luppo della pianta ospite. (1) Kuan — Krankheiten der Culturgewachse. Berlin, 1859. (2) WoLrr — Brand des Getreides. Halle 1874. — 7108 — Ora veniamo allo studio biologico dell’ altra Ustilaginea. IUE Urocystis primulicola Magnus. Questa specie dal Prof. Pirotta (1) è stata ascritta al genere Sorosporium. Le ragioni che consigliano a mantenere il predetto fungillo nel genere a cui venne primitivamente ascritto dal Magnus appariranno nella 3* parte di questo lavoro. Ora ci limitiamo semplicemente ad esporre i fatti relativi alla germinazione ed alla formazione delle spore. Le primitive fasi di sviluppo dei glomeruli di spore, che poterono cadere sotto la osservazione, erano costituite da tante qualità di gomitoli ifici minutissimi, sui quali poi si adagiavano nuove ife, formanti una sorta di apparecchio corticante al nucleo di ife primitive. Ciò succede in queste ultime che vanno a differenziarsi in tanti elementi, che rappresentano le cellule centrali del glomerulo, in generale in piccolo numero da 2 a 6 e di rado 10, e contengono una sostanza granulosa protoplasmica, mescolata a numerose goccioline oleose. I segmenti delle ife corti- canti esterne si metamorfizzano nelle cellule o spore secondarie, le quali sono in maggior numero delle precedenti, hanno minori dimensioni e mancano di conte- nuto protoplasmatico. I fatti germinativi principali che poterono essere notati sono i seguenti. Soltanto le spore centrali si addimostrano fertili; le periferiche non danno che un semplice rigonfiamento. Nell’ acqua comune le spore emettono un lungo tubetto, il quale si ramifica, ma non forma nuove spore. Esaurito il materiale nutritivo contenuto nel plasma delle spore fertili e nelle ife da queste germinate si raccolgono circoscritte por- zioni di plasma, le quali poi si organizzano negli elementi clamidosporiformi. Invece in soluzioni nutritive (decotti di frutti di Prim/a) la germinazione com- pare molto più sollecitamente che nell’ acqua semplice. Gli elementi centrali, dopo circa 40 o 50 ore, sviluppano un otricello germinativo, che ben presto cessa dal- l’allungarsi in senso longitudinale. Colture ripetute su larga scala hanno fatto riconoscere che la sporidificazione si effettua secondo due tipi principali. Nel mag- gior numero de’ casi l’ otricello germinativo (che qui forse potrebbesi denominare promicelio) forma nel suo apice una catenella di sporidii più o meno lunga e talora ramificata; un piccolo numero di volte poi all’ apice stesso si costituiscono (1) Prrorra — Sulla struttura e sulla germinazione delle spore del Sorosporium 2 primulicola (Magnus) — Nuovo Giorn. Botan. Ital., 1881. — 709 — contemporaneamente o quasi 2, 3 e di rado 4 sporidii, che a guisa di verticillo circondano il vertice del promicelio. Di regola questi sporidii sviluppati a corona sul promicelio danno origine a catenelle cellulari non molto pronunciate. Tanto nell’ un caso come nell’ altro gli sporidii hanno gli stessi caratteri mor- fologici : si presentano ellissoidali-cilindrici, hanno la parete molto esile con plasma assai denso e finamente granuloso. Questi sporidii germogliano in una delle loro estremità e producono un fila- mento lungo poche volte il diametro longitudinale di quelli. Alla sommità di questi filamenti, che ben si potrebbero interpretare come sterigmi, si costituisce uno spo- ridio secondario, che mostrasi di forma ovoidale ed è sempre solitario. Emerge quindi che nella sporidificazione ha luogo un vero dimorfismo tanto in riguardo alla forma, quanto in rapporto all’ origine. Gli sporidii secondari emettono ife costantemente sterili, anche se viene ravvi- vato il substrato con nuovo liquido nutritivo fresco. Non si poterono poi mai osservare fenomeni di anastomosi o di fusione fra gli sporidii di primo o di secondo ordine, nè fra i segmenti dei tubetti ger- minativi. L’ unico risultato ottenuto dall’aggiunta di sostanze nutritive fresche si è, che la proliferazione gemmulare acquista maggiore energia e le formazioni filamentose prodotte dagli sporidii sono maggiormente sviluppate. Del resto, sebbene si man- tenessero le colture per oltre 7 od 8 settimane, mai si potè vedere lo svolgimento di sporidii o di conidii dalle ife formate dagli sporidii secondari. IDE Ora è importante lo stabilire un confronto o parallelo tra i fatti precedente- mente esposti, relativi alla genesi delle spore, ed alla loro germinazione nei due precedenti fungilli, ed i fatti corrispondenti riferentisi alle Ustilaginee a glomeruli di spore uguali, che appartengono ai generi Sorosporium, Thecaphora, Tolyposporium. Secondo il Woronin (1) nei generi Sorosporium e Tubercinia lo sviluppo di un glomerulo comincia con un breve rametto laterale e taluna volta con due rametti strettamente collegati; questo rudimento poscia è ricoperto di esili e numerose ife, assai ramificate, le quali intrecciandosi fittamente tra loro, danno origine ad un gomitolo, in cui non è più possibile riconoscere una differenziazione ulteriore. Quando questo ha raggiunto una determinata grandezza, il mezzo di esso risulta di un denso gruppo di cellule poliedriche, ciascuna delle quali senza ulteriore di- visione, diventa una spora; colla maturità delle spore scompare il denso contesto (1) Woronin — Beztrige zur Kenniniss der Ustilag. (Beitr. z. Morpho]. u. Phys. der Pilze von A. de Bary und Worònin. Reihe V) 1882. — 710 — di ifi avvolgenti con o senza gelatinificazione. L’ origine dei glomeruli di spore nei gomitoli è dubbia ; secondo il Frank (1) sarebbe press a poco uguale a quella del gen. Urocystis nella seguente modalità osservata dal Prillieux (2): un numero di ifi sporigeni s’ intreccia in un gomitolo ; la porzione terminale di uno o di pochi di questi filamenti formerebbe, come nel gen. T/letia, le spore, mentre la rima- nente porzione si organizzerebbe nelle cellule avvolgenti. Nel genere Tolyposporium mancano studii completi. Esaminando al raicroscopio sezioni trasverse di giovani acervoli del Tolyposporium Cocconii Mor., osservasi che il primo visibile radimento dei glomeruli delle spore era dato da tanti gomitoli incolori, globulosi od ovoidali, aventi il diametro di 10-14 4, e costituiti ciascuno dall’ intreccio piuttosto compatto di parecchi filamenti; questi gomitoli, mentre au- mentavano in volume per l'apposizione di nuove ife, assumevano una colorazione leggermente gialla, che andava poi sempre più a divenire bruna. Non si potè vedere chiaramente 1’ origine delle spore nei gomitoli, ma soltanto alcune volte rilevare, come la membrana delle singole ife si atrofizzasse progressivamente ed infine scomparisse, mentre a spese del contenuto dei filamenti si formavano le spore. Vedesi adunque che nei suoi tratti generali la genesi della sporificazione della Thecaphora aterrima è uguale a quella delle forme antecedenti. Però le ricerche superiormente esposte avrebbero un maggior complemento, avendo esse messo in rilievo, quantunque non con tutta la perfezione che sarebbe stata desiderabile, le primissime fasi evolutive dei giomeruli delle spore. Quell’ ifa rigonfiata a clava che si potè discernere nel mezzo di non pochi glomeruli, ha qui una grande importanza, perchè dimostrerebbe anzitutto il fatto, che in determinati casì i sori sporiferi traggono la loro origine da primordi differenziati; e poi perchè questa osservazione lascia aperto l’ adito ad importanti considerazioni sulla natura morfo- logica di detta ifa differenziata, considerazioni che si compendiano in una sola proposizione, vale a dire, se si possa riconoscere un'analogia morfologica e fisiolo- gica fra l’ accennata ifa e l’ ascogonio degli Ascomiceti, massimamente poi in quelle specie, in cui gli anteridii sono aboliti (p. es. Lachnea theleboloides). Ma l’ appro- fondito esame di quest’ analogia potrebbe condurre più oltre, ossia sino al sospet- tare un vincolo di parentela o di affinità fra gli Ascomiceti e le Ustilaginee ; que- stione pratica questa ancora immatura nello stato attuale delle nostre cognizioni sulle Ustilaginee. La formazione delle spore dell’ Urocystis primulicola si compirebbe secondo i modi osservati dal Winter nel genere Urocystis. Interessanti sono i raffronti che si possono fare nella germinazione delle spore di Ustilaginee a spore composte, e quelle delle due specie qui studiate. (1) Franck — Kranlkheiten der Pflanzen. 1881. (2) PrILLIEUX — Quelques observations sur la formation et la germination des spores des Urocystis (Ann. des science. nat. Sér. VI. Tom. X, 1830). — 1 — Anzitutto nel genere Sorosporium le spore germogliano lunghi tubetti semplici o ramificati, la cui parte terminale (la sola ricca di plasma, giacchè la parte po- steriore è vuota e septata) si distacca e vive indipendente per un dato tempo, ger- minando o no un nuovo tubetto (Sorosporium Saponarie), oppure tali porzioni ter- minali si anastomizzano fra loro (S. hyalinum). Nel genere Thecaphora (T. hyalina) le spore emettono tubetti che non rimangono sterili come nel genere precedente, ma sono eretti e formano all’ apice un lungo conidio fusiforme ed aereo; da questi conidii nascono nelle soluzioni nutritive micelii cogli stessi conidii, i quali si organizzano a due a due o in numero mag- giore in piccole ife fruttifere : con ulteriori colture ripetonsi e la formazione mi- celiale e quella dei conidii. Nel genere Tubercinia (T. Trientalis) le spore germinano tubetti alla cui estre- mità formasi un verticillo di conidii ovali allungati. Infine nel genere Tolyposporium le spore del 7. Junci emettono un promicelio molto septato, gli sporidii sono apicali nella cellula terminale di questo, e laterali nelle intermedie, ed hanno | apparenza di bastoncini incurvati: il Woronin non potè osservarvi sviluppo ulteriore; nel 7. Cocconi la germinazione nei fatti fondamentali concorda con quella della specie precedente, perchè nei casi più sviluppati vi si è riscontrata la formazione di sporidii lateralmente ed all’ apice di un promicelio, mostrantesi in ultimo septato ; vi sono però alcune particolarità, sebbene non molto importanti, nella ramificazione e nel numero dei setti del promicelio, nella forma degli sporidii, non che nella disposizione di questi sul tubetto germinativo. Nella Thecaphora aterrima si riscontra una ricca proliferazione cellulare (nelle soluzioni nutritive) la quale trova il suo riscontro nel solo Tolyposporium Cocconti. Nell’ Urocystis primulicola la germinazione delle spore si avvicina (nella sua forma tipica) a quella caratteristica del gen. Urocystis ; per cui, tenuto conto anche dei dati relativi alla formazione delle spore qui descritti, non esiterei a lasciare questa specie nel gen. Urocystis, come fece il Magnus, specie che, come più sopra già si disse, il Prof. Pirotta propenderebbe ad ascrivere al gen. Sorosporium. IV. Le conclusioni che derivano dalle ricerche e dalle considerazioni precedente- mente esposte, sono le seguenti : 1° Nella Thecaphora aterrima la formazione di glomeruli sporiferi si compie, secondo una probabilissima congettura, mediante un’ unica ifa clavata, la quale costituisce il primordio di detti sori. Dagli articoli ifici dei giovanissimi glomeruli le spore hanno origine in una maniera, che ricorda moltissimo il modo di forma- zione delle spore nel genere Ustilago. — 7112 — 92° Nell’ Urocystis primulicola le spore si costituiscono press’ a poco secondo il tipo descritto dal Winter nel gen. Urocystis. 3° La germinazione delle spore della Thecaphora aterrima si manifesta colla emissione di tubetti semplici o ramificati, ma sterili, se le spore sono state seminate nell'acqua semplice; ma se invece si fa uso delle soluzioni nutritive produconsi tanti tubetti, che entrano in una ricca proliferazione cellulare tanto nell’ apice quanto nei lati. Allorchè il substrato è esaurito compare il fenomeno della fusione tanto fra due sporidii, quanto fra due articoli o segmenti tuttora pieni di plasma degli otricelli miceliali. 4° Nell’ Urocystis primulicola gli elementi centrali dei sori sono i soli capaci di germinare, e si sviluppano da questi tante sorte di promicelii, che formano nel loro apice o una catenella od un piccolo verticillo di sporidii. Questi sopra un lungo sterigma germogliano sporidii secondari, i quali avendo caratteri diversi dai precedenti, danno luogo ad un vero dimorfismo nei conidii prodotti dalle spore delle specie anzidette. Mai però si osservano fenomeni di fusione o di anastomosi. 5° Nelle due specie studiate in questo lavoro i vecchi segmenti delle ife germinate dalle spore, che si conservano pieni di plasma, hanno la facoltà di tras- formarsi in elementi analoghi alle clamidospore delle Mucorinee. (0, — 7113 — SPIEGAZIONE DELLE TAVOLE TAVOLA I. Sviluppo della Thecaphora aterrima 7ul. FIGURA I. - Primissime fasi evolutive dei glomeruli di spore del fungillo, le quali si presentano sotto forma di ife rigonfiate all’ apice, ossia clavate. Xx 500. - Un glomerulo alquanto svolto nella formazione delle spore. In mezzo ad una massa plasmatica granellosa si veggono le spore in via di forma- zione. X 410. - Alcuni glomeruli adulti visti ad un piccolo ingrandimento, come si os- servano nella polvere nerastra'in cui sono degenerate le infiorescenze della Carex pracox affetta dal fungillo. X 310. - Uno dei precedenti glomeruli a forte ingrandimento. x 560. FIGURA ILL i Germinazione delle spore nell'acqua comune. - Una spora s con tubetto germinativo ramificato nella sua parte terminale in due ripieni di plasma p. X 400. Un tubetto germinativo con due segmenti pieni di plasma, intercalati da altro segmento contenente un liquido acquoso. X 400. - Una clamidospora c, con parete a doppio contorno e contenuto ricco di goccioline oleose. X 400. - Due distinti segmenti di promicelio anastomizzati fra loro. X 400. - Anastomosi dei due predetti segmenti, uno dei quali ha germogliato un tubetto germinativo #. X 400. FIGURA III Germinazione delle spore nelle soluzioni nutritive. - Un glomerulo in sezione longitudinale schematica. Le spore hanno emesso promicelii, che nell’ apice e nei lati formano sporidii, i quali poi si di- 90 TOMO X, Z — 714 — staccano ed entrano in un ricco processo di gemmulazione; per cui attorno al glomerulo si costituisce una sorta di areola, formata dagli sporidii in gemmazione. X 620. 2 e 3 - Sporidii 9g che hanno germinato un tubetto ramificato, ripieno di plasma nelle sue porzioni terminali od intercalari. X 620. 4 e 5 - Formazione delle clamidospore ce; nel N. 5 la clamidospora ha ger- minato un filamento. % 620. D Ù Copulazione degli sporidii a paja. 7 - Da un pajo di sporidii copulati g è germinato un filamento fertile. YX 620. 8 - Dalla stessa copulazione g il filamento germinato sviluppa catenelle di sporidii ovali d. X 620. 9 e 10 - Copulazione di due promicelii ; nel N. 9 r vedesi 1’ emissione di un filamento che all’ apice ha prodotto uno sporidio ovale. X 620. 11 - Germinazione di uno d di questi sporidii secondari. X 620. TAVOLA II Sviluppo dell’'Urocystis primulicola Magnus. . 1 - Un glomerulo veduto dalle superficie. X_ 560. 2 - Un glomerulo visto per trasparenza; nel suo centro si vedono le spore grandi e fertili, piene di plasma granuloso, le quali sono circondate da spore più piccole contenenti un liquido acquoso. X 560. 3 e 4 - Germinazione di due delle spore centrali nell’ acqua, con emissione di tubetto semplice N. 3, o ramificato N. 4. X 560. 5-11 - Germinazione di spore nelle soluzioni nutritive a diverse fasi evolutive. Dal N. 9 all’ 11 formazione dì verticilli di sporidii nell’ apice dei ri- spettivi promicelii. X 560. 12 - Gemmazione degli sporidii. X 560. 13-17 - Diverse fasi di germinazione degli sporidii. — Nell ultimo stadio evolutivo (16 e 17) formazione di sporidii di second’ ordine nella som- mità dei filamenti germinativi. X 560. 18-20 - Filamenti sterili (cioè senza formazione sporidiale) germinati da sporidii secondari. X 560. iis Mem. Ser.IV. Vol. X | 0. Cocconi — Sviluppo della Thecaphora atermima Tul. Tav.[. Ù i F. Morini, dis. E. Contoly, ine lit.G. Wenk e Figli — Bologna. Mem. Ser. IV. Vol X. G. Cocconi — Sviluppo dell'Uroeystis prmulicola Magn. Tav. II. - | LATI F. Morini, dis. E.Contol; inc: lit. 6-Wenk e Figli Bologna: CONTRIBUZIONE ALLA CONOSCENZA DEI FUSI MUSCOLARI MEMORIA SMP roftk SALNATORE TER IENCDIESR (CON TAVOLA) (Letta nella Sessione del 27 Aprile 1890) Non ostante i numerosi lavori pubblicati negli ultimi venti anni circa la struttura dei fusi muscolari, non conosciamo ‘ancora il valore morfologico e fisiologico di questi organi tanto singolari. Non sappiamo quali intime relazioni esistano tra essi e le colossali fibre nervose che vi arrivano in numero veramente straordinario ; nè se esistano relazioni genetiche tra essi e le ordinarie fibre muscolari, tra i fusi composti e i fusi semplici. Nè sappiamo perchè nei rettili sinora esaminati (Lacerta, Platydactylus, Trepidonotus) si trovino i fusi muscolari semplici e non i composti; mentre negli anfibi (Rana), negli uccelli (Gallus, Fringilla ecc.) e nei mammiferi (Mus, Myoxus) si trovano i composti e non î semplici. Il primo osservatore che constatò l’ esistenza di sottili fibre nei muscoli degli adulti, fu Arturo Hill Hassall, il quale le considerò come elementi in via di svi- luppo. Ho trovato questa notizia in un lavoro di Alessandro Rollett (1) nel quale è riportato un brano di Hassall che trascrivo qui integralmente, per dimostrare che la questione riguardante il meccanismo col quale le fibre muscolari aumentano di numero nell’ adulto, è più antica che il comune degli osservatori non creda: essa, infatti, si agita da circa 40 anni. Disgraziatamente, sembra ancora molto lontana dalla sua soluzione. Alessandro Rollett, adunque, si esprime così: Nell’ anatomia microscopica di Arturo Hill Hassall, a proposito dello sviluppo dei muscoli, si legge: “ Vedesi che nella fibra muscolare formata nascono continuamente nuove fibrille; anzi alcu- n n Ni fenomeni ci fanno ritenere assai probabile che si formino continuamente » non solo nuove fibrille, ma anche nuove fibre muscolari. Così non è raro l' in- contrare delle fibrille liscie ed anche delle striate, aderenti debolmente alla — 716 — superficie esterna del sarcolemma. Si possono anche scorgere costantemente pic- cole fibre muscolari attaccate alle più grandi e composte soltanto di assai poche fibrille. (Aus dem Englischen iibersetzt von docet. Otto Kohlschiitter. Leipzig OD OZ Rollet (1) trovò nei muscoli dell’ Uomo, del Bue, del Coniglio e della Rana, alcune fibre, le quali non raggiungerebbero, colle loro estremità, i tendini del mu- scolo che le contiene; ma si arresterebbero in mezzo alle altre fibre, terminandosi in punta. Dalla descrizione incompleta e dalle figure manierate dell’ autore, non si può ricavare alcun costrutto che ci chiarisca la natura di queste singolari forma- zioni. Rollett dice che non sono fibre muscolari in via di sviluppo; ma non dice che cosa sono. Come ha fatto giustamente notare Bremer (7), vi sono due sorta di fusi mu- scolari: gli uni semplici, formati di una sola fibra; gli altri composti, di più fibre. I fusi composti sono noti da più lungo tempo e furono descritti e disegnati per la prima volta da Weismann nel 1861 (2). Nel 1862, Kolliker scrisse su questo argomento un lavoro illustrato da tavole che fu pubblicato nell’anno seguente (3). Egli designa i fusi composti con i nomi: Nervenkniuel e Nervenknospen. Li osservò nella Rana e notò la somiglianza loro coi corpuscoli del tatto, sebbene da questi differiscano molto per la loro natura. Ap- pariscono, egli dice, come rigonfiamenti di fibre muscolari di mezzana grandezza e sono specialmente rimarchevoli per la loro insolita ricchezza di nuclei rotondi e per i loro rapporti con una fibra nervosa midollare molto larga che una spessa guaina circonda di lontano. Questa fibra, dopo numerosi avvolgimenti e divisioni, penetra ncl fuso, nella cui profondità si sottrae allo sguardo dell’ osservatore. Trattando i fusi con acido acetico, li trovò composti di un numero di fibre che variava da 3 a 7. Kolliker dice che se si accettasse l’ opinione di Weismann, secondo la quale i fusi sarebbero il risultato di una divisione longitudinale di ordinarie fibre muscolari allo scopo di produrre nuovi elementi, la presenza della grossa fibra nervosa che si ramifica così attivamente, sì spiegherebbe benissimo. Essa infatti dovrebbe fornire a ciascuna delle nuove fibre muscolari il relativo elemento nervoso. Paremeschko pubblicò nel 1863 un lavoro sullo sviluppo delle fibre muscolari dai nuclei muscolari della Rana (9). Le figure 5, 6, 7 della tav. I di questo lavoro e le relative spiegazioni che si leggono a pag. 120, mi fanno supporre che l'Autore abbia veduto i fusi muscolari. Egli inclina a credere che le sottili fibre _ di cui essi si compongono, derivino da una vecchia fibra il cui sarcolemma li tiene uniti. Un importante lavoro fu pubblicato nel 1863 da Kiihne, con questo titolo : Die Muskelspindeln (5). Fu lui che diede per la prima volta il nome di fusi alle formazioni di cui ora mi occupo. — 17 — Kiihne descrisse e rappresentò in questo lavoro i fusi composti del Topo casa- lingo e della Rana. Per ogni cento fibre, circa, egli trovò un fuso al quale acce- deva un’ unica fibra nervosa 3 o 4 volte più larga delle ordinarie fibre motrici. I fusi sono da lui descritti come ispessimenti più o meno rilevanti di fibre musco- lari ordinarie. La grossa fibra nervosa si divide in due che penetrano nel fuso e vi scorrono dentro rivestite della loro guaina midollare. Descrive pure molto esat- tar ente l’ inviluppo della fibra nervosa e le relazioni di esso colla guaina del fuso. Ogni fuso si compone, secondo l’ autore, di parecchie fibre muscolari completa- mente isolate o unite fra loro soltanto dalle fibre nervose comuni. Circa la funzione dei fusi, Kiihne si astenne dall’ emettere alcun parere. Un anno dopo, questo autore pubblicò una figura abbastanza esatta di un fuso semplice del Coluber natrix (6). Golgi (10) descrisse nel 1881 un pezzo di un fuso composto del bicipite bra- chiale dell’ uomo. Egli afferma che queste formazioni si trovano in molti altri muscoli dell’uomo e degli animali, senza differenza d’ età. Constano di 5, 6 od al più 8 fibre muscolari che si distinguono dalle altre: 1° per essere molto più sot- tili; 2° per essere costantemente fornite di nuclei sarcolemmatici assai più abbon- dantemente che le fibre ordinarie non siano; 3° per la costante presenza in tutta la loro lunghezza di disseminati nuclei situati entro la sostanza muscolare, molti dei quali circondati di uno straterello di granulazioni protoplasmatiche. Descrive molto esattamente la spessa guaina di queste formazioni, il fascetto di fibre nervose in essa contenuto accanto alle fibre muscolari, e lo spazio’ perifascicolare che egli considera come linfatico. Quanto poi al significato morfologico e fisiologico dei fusi, egli si esprime cosi':.... resta senza spiegazione il punto principale di questa nota, vale a dire il perchè le fibre che nello spazio in questione rimangono im- prigionate, conservino, anche nella vita adulta, i caratteri di fibre imperfettamente sviluppate. Mi limiterò a fare questo rilievo senza tentare altre spiegazioni, non volendo in alcun modo inoltrarmi nel campo delle ipotesi. Ranvier (8) descrisse nel 1878 i fusi semplici del Coluber natrix e ne rap- presentò in una nitida figura un altro della Lacerta viridis. Secondo Ranvier, il nome di fuso non conviene affatto a queste formazioni che sono piuttosto cilin- driche. La qual cosa, se vale per i fusi semplici dei rettili, non vale per i fusi composti degli uccelli, degli anfibi e dei mammiferi, i quali sono realmente fusi- formi. Ranvier descrive colla sua abituale precisione la guaina spessa e stratificata del nervo e del fuso, la quale dà a quest’ ultimo l’ aspetto dei corpuscoli del Pacini. Secondo l’ autore, il tubo nervoso si divide in due tubi secondari, la cui destinazione è varia. Talvolta uno di essi va ad applicarsi immediatamente alla superficie del fuso muscolare e vi si perde; mentre l’altro, il quale mostra le strozzature anulari caratteristiche e possiede la membrana di Schwann, rimane tra due guaine e vi percorre un cammino più o meno lungo, ora in linea retta, — 7118 — ora avvolgendosi a spirale intorno al fascio muscolare. Nell’ interno del fuso, con- tinua l’autore, si nota la serie di nuclei osservata da Kiihne, i quali sono immersi in una sostanza priva di strie. Possono giungere ad uno stesso fuso due tubi nervosi. i Ranvier rimane dubbioso circa il significato morfologico e fisiologico di queste formazioni. La loro costituzione, egli dice, ci condurrebbe a pensare che sono muscolari; ma non possiamo affermare che si contraggano, poichè non abbiamo osservato direttamente la contrazione. Sono esse delle fibre muscolari in via di svi- luppo? La loro sottigliezza relativa conduce naturalmente a questa ipotesi, ma nulla viene a confermarla..... L'esistenza delle guaine multiple, ne fa degli ele- menti assolutamente speciali. Un importante lavoro di Bremer pubblicato nel 1883 (7) ha considerevolmente accresciuto le nostre conoscenze intorno ai fusi muscolari, sebbene non pochi punti della storia di questi siano ancora molto oscuri. Bremer descrive e rappresenta in eccellenti figure i fusi semplici della Lacerta e i fusi composti della Rana e del Topo casalingo. Egli sostiene che i fusi sono fibre muscolari in via di svi- luppo. Accostandosi all’ opinione di Weismann, crede che le serie dei corpuscoli muscolari che si vedono sovente lungo i margini delle fibre, si trasformino, previa moltiplicazione per scissione dei loro nuclei ed aumento del loro protoplasma, in fusi muscolari semplici, i quali crescono per un certo tempo attaccati alla fibra madre. Da questa poi si staccano, giunti ad un certo grado di sviluppo. In questo stadio, il fuso è formato di un cilindro molto allungato di sostanza striata, avente nel suo asse una serie di corpuscoli muscolari riuniti tra loro da sottili filamenti protoplasmatici. Quando la fibra nervosa giunge al fuso, una stvaordinaria attività vitale si manifesta nel luogo in cui gli elementi nervoso e contrattile si toccano. Avviene una rapida moltiplicazione dei nuclei muscolari con fusione della sostanza contrattile e trasformazione di questa in protoplasma. L'area che sarà più tardi occupata dalla piastra motrice, prende l’ aspetto di un colossale mieloplaxo. I sottili strati di protoplasma posti tra nucleo e nucleo, sono le vie per le quali il cilindro assile si avanza ramificandosi per formare la piastra motrice della fibra muscolare adulta. Nel principio non è possibile distinguere le ramificazioni terminali del cilindro assile dal protoplasma muscolare; ma poi il protoplasma si trasforma in gran parte in sostanza contrattile e il cilindro assile si rende manifesto. I nuelei dei corpuscoli muscolari che restano invariati tra le ramificazioni assili terminali, costituiscono i così detti nuclei fondamentali della piastra motrice completamente sviluppata. Bremer descrive pure molto esattamente i sottili nervi, con mielina o senza, che formano i piccoli grappoli terminali ad una distanza ora più ora meno grande dalla piastra motrice nel maggior numero delle fibre muscolari. Questi grappoli, descritti per la prima volta da Tschiriew (11), furon da lui creduti piastre motrici in via di sviluppo. Bremer crede invece che siano apparecchi sensitivi. — 719 — Finalmente 1’ autore descrive i fusi composti della Rana e del Topo, i quali sono formati da un numero di fibre che varia da 4 a 10, circondate da una comune guaina molto spessa e nucleata. Ognuna di queste fibre possiede nel pro- prio asse una serie di nuclei, i quali, nel luogo d’ entrata del nervo, si moltiplicano e si circondano di uno spesso strato di protoplasma formatosi a spese della sostanza contrattile, come nei fusi semplici della Lacerta. L'autore sostiene che i fusi com- posti rappresentano il processo di unione tra nervo e fibre muscolari. Egli è contrario all’ opinione di alcuni anatomici. secondo la quale le fibre di questi fusi sarebbero le figlie di una fibra ordinaria spaccatasi nel senso della sua lunghezza per generarle. Secondo Bremer, le fibre muscolari del fuso composto, raggiunto il loro massimo sviluppo, si libererebbero della guaina che le aveva avvolte provvisoriamente, portando ciascuna con se un apparecchio nervoso terminale continuantesi con uno dei tubì nervosi già contenuti nel fuso. Le ricerche degli autori citati di sopra, se ci hanno fatto conoscere le forme esterne dei fusi e, fino ad un certo punto, anche la struttura delle fibre muscolari che li compongono, poco o nulla ci hanno insegnato circa la genesi di queste formazioni e le loro intime relazioni cogli elementi nervosi. Il solo ricercatore che ha seguìto questi elementi sino alla loro unione coi fusi muscolari semplici, è stato Bremer. Dalle sue descrizioni e dalle sue figure, pertanto, non si rilevano alcune importanti particolarità dei fusi della Lacerta, del Platydactylus e della Rana che io ho osservato dipoi e che esporrò qui brevamente. Sin dal 1888 (12) io ho dimostrato che i fusi muscolari semplici dei sauri hanno diversa forma e struttura nei vari periodi del loro sviluppo. I più giovani sono formati di una massa allungata di protoplasma (Fig. 8, pw), nella quale sono incastonati dei nuclei (nu). Dal margine di questa massa rivolto verso |’ elemento nervoso che è per giungere ad essa, si staccano dei corpuscoli fusiformi (we), dis- posti in serie parallela all’ asse longitudinale del fuso e uniti tra loro da brevi filamenti (/0). Essi sono destinati a stabilire e mantenere l’ unione della fibra musco- lare colla nervosa che raggiungono inviandole delle specie di pseudopodî più o meno lunghi e sottili (Fig. 1 ne; Fig. 3 n°, #'", n°"). Questi corpusccoli sono quelle stesse formazioni che si trovano lungo i cilindri assili ipolemmali delle fibre muscolari comuni e che furono da me denominati neurococchi, quando da tutti gli osservatori erano creduti rigonfiammenti dei suddetti cilindri assili. Hanno una struttura reti- colare e si colorano in violetto scuro quando sono trattati col metodo del cloruro d’ oro: abbracciano i cilindri assili ipolemmali assumendo forme e dimensioni diverse nelle quattro classi inferiori di vertebrati; e, fondendosi tra loro, formano nei Mam- miferi superiori una guaina spessa e continua intorno ai cilindri assili suddetti (13). Siccome oggi si sa che queste formazioni derivano dal protoplasma muscolare, così sarebbe forse ‘opportuno denominarle “ miococchi ,. Ciò non ostante, io con- tinuerò a designarle coll’ antico nome. — 720 — I neurococchi si allontanano poco a poco dal loro luogo d’ origine, poichè tra essi e la massa protoplasmatica che li ha prodotti, apparisce la sostanza musco- lare isotropa che formerà più tardi le zone chiare. Attraverso questa sostanza, in direzione perpendicolare all’ asse del fuso, o alquanto obbliqua, passano dei pro- lungamenti della massa protoplasmatica, i quali, differenziandosi più tardi in granuli sferici o leggermente allungati, formano le strie scure o i dischi spessi e i sottili (sostanza anisotropa) del fuso già sviluppato. Questo e le ordinarie fibre muscolari, trattate col metodo del cloruro d’ oro, mostrano le zone chiare incolore, o colorate in rosa pallidissimo; i dischi spessi, colorati in violetto scuro; i dischi sottili in roseo vivo. Nella regione o nelle regioni del fuso in cui l’ attività riproduttiva dei nuclei è maggiore, la formazione della sostanza muscolare è unilaterale: si forma cioè, totalmente, o quasi, dal lato della massa protoplasmatica rivolta verso il nervo (Fig. 1, 2 z), ove questa massa è molto spessa e situata fuori dell’ asse del fuso (Fig. 1, 2 m); mentre nelle altre regioni è ridotta ad un filo ora più ora meno sottile ed è situata in questo asse (Fig. 2, 4 m'). Mentre i prolungamenti protoplasmatici trasversali si differenziano in granuli, il filo di protoplasma che trovasi nell’ asse del fuso, si segmenta anch’ esso e si riduce in tante sferule messe in fila, formando così una stria longitudinale. I fusi semplici della Lacerta e del Platydactylus, quando hanno raggiunto la loro massima lunghezza, presentano due luoghi, ora più ora meno lontani l’ uno dall’ altro, nei quali l’ attività riproduttiva dei corpuscoli muscolari è giunta al suo massimo grado. Ivi i nuclei di diversa grandezza sono separati da spessi strati protoplasmatici, e la sostanza muscolare, priva di strie trasversali, forma un denso strato (Fig. 1 x; Fig. 2 x) tra 1 corpuscoli muscolari (m) e l’ estremità dei nervi. Una o due fibre nervose sì terminano ordinariamente in ciascuno di questi luo- ghi (Fig. 2 I, II, III). Le fibre nervose che raggiungono il fuso semplice, non an- cora bene sviluppato, della Lacerta o del Platydactylus, sono ordinariamente quattro, provenienti tutte, per divisione, da una sola fibra primitiva. In una preparazione molto ben riuscita di un fuso di Podarcis trattato col metodo del cloruro d’ oro (Fis. 1), ho osservato questo: L’ unica fibra nervosa che si recava al fuso (I), circondata da una spessa guaina di Henle, si biforcava in corrispondenza di una strozzatura anulare, secondo il solito (st). Nascevano cosi due nuove fibre, una delle quali un poco più corta dell altra: la prima (Fig. 1 Z/) si recava direttamente alla parte striata del fuso ed ivi si terminava (g'); la seconda scorreva lungo il fuso ed era formata di quattro segmenti, la cui lunghezza diminuiva gradatamente verso la terminazione nervosa (ZI, V, VI, VII). Dalla prima strozzatura anulare di questa fibra, cioè dalla più vicina alla biforcazione della fibra primitiva (st), sì staccava un segmento interanulare (ZV), il quale si recava, senza più dividersi, direttamente ai neurococchi soprastanti alla sostanza del fuso priva di strie e colorata in rosa pallido (x). Dalla seconda strozzatura (st), si staccava un cilindro assile — 21 — nudo, (9'') molto corto, il quale si confondeva con un grosso neurococco di forma ir- regolare. Finalmente, dalla estremità distale dell’ ultimo segmento (VZ/) più corto dei precedenti, usciva un sottile cilindro assile (g's), il quale penetrava nella sostanza striata del fuso. Circa la terminazione dei nervi nei fusi composti dei mammiferi, confermo in parte le osservazioni di Bremer. Ognuna delle fibre contenute in questi fusi sembra munita di una particolare piastra motrice, la cui forma si avvicina a quella delle piastre delle ordinarie fibre muscolari. Nel Myoxus avellanarius ho veduto, colla massima chiarezza, i rapporti del nervo col fuso muscolare composto. In una preparazione ben riescita di un fuso muscolare trattato col metodo del cloruro d’oro, ho osservato le cose che esporrò quì brevemente. Il fuso (Fig. 7) si componeva di cinque o sei sottili fibre muscolari, le quali, ben distinte le une dalle altre nel mezzo del fuso, sembravano fondersi insieme in una fibra colossale alle due estremità di esso. Sotto la spessa guaina che circon- dava le fibre muscolari, scorrevano due grossi cilindri assili (ec, ed), il primo dei quali, giunto all’ equatore del fuso, si ripiegava in dentro, e dopo essersi bifor- cato, sì gettava nel protoplasma internucleare delle fibre muscolari (ec'); mentre l’ altro (ed, ed'), percorso un lungo tratto del fuso, faceva gomito (ed'), si as- sottigliava (ee), tornava indietro e si gettava nel protoplasma internucleare (ef). Dal grosso cilindro assile (ed) partivano dei sottili cilindri assili (cs, cs') i quali sì terminavano pure negli strati protoplasmatici internucleari. Uno di questi sottili cilindri assili (eg) ingrossava bruscamente, e, contimnuandosi con diversi strati di protoplasma internucleare comunicanti tra loro, formava una specie di piastra mo- trice molto caratteristica (eh). Queste osservazioni dimostrano che il cilindro assile penetra nel protoplasma muscolare, per mezzo del quale esso esercita la sua influenza motrice e trofica sulla sostanza contrattile. Nei fusi composti della Rana (Fig. 5) ho veduto una terminazione nervosa consistente in un sottile cilindro assile con poche ramificazioni, il quale traversava una serie di piccoli neurococchi (#m). Questa terminazione è simile a quella che si osserva nelle fibre ordinarie degli anuri. I fusi muscolari composti sono stati trovati da me anche negli uccelli (Gallus, Fringilla ecc.). Nei fusi di questi animali si trovano piccole piastre motrici somi- glianti per la forma a quelle delle fibre muscolari ordinarie. Le fibre muscolari giovani sono unite, per mezzo di una breve fibra nervosa, alle piastre motrici delle fibre muscolari adulte (Fig. 6). Questa fibra nervosa (rp) si stende sulla fibra muscolare giovine sin dall’ inizio dello sviluppo di questa e prima che vi giungano le fibre nervose aventi un’ altra provenienza. Questo fatto importante è stato da me osservato nel Myoxus avellanarius. Esso dimostra colla massima evidenza le proprietà trofiche dei nervi che vanno dalle piastre motrici alle fibre muscolari in via di sviluppo. TONO X. 91 — 722 — Non è stata ancora dimostrata vera l’ affermazione di Bremer, secondo la quale i fusi sarebbero fibre o fasci di fibre muscolari in via di sviluppo. La cosa mi sembra molto probabile; ma finchè non si siano trovate le fasi di transizione tra le fibre muscolari adulte ed i fusi, nulla si può affermare con sicurezza circa la na- tura di questi organi. rr NIC DELLE OPERE CITATE IN QUESTA MEMORIA 1. Rorcerr — Uber freie Enden quergestreifter Muskelfiden im Innern der Mu- skeln. Sitzungsberichte d. K. K. Academie der Wissenschaften. Wien XXI Bd. Jahrgang 1856, pag. 176-180, con una tavola. 2. Wuismany — Ùber das Wachsen der quergestreiften Muskeln nach Beobach- tungen am Frosch. Zeitschrift f. rat. Med. 3. Reihe, X Bd. 1861, pag. 263. 3. KbLLixKeR — Untersuchungen iiber die letzten Endigungen der Nerven. Zeitschrift f. wiss. Zoologie XII Bd. 1863, pag. 161. 4. Kitane — Uber die Endigung der Nerven in den Muskeln, Archiv di Virchow XXVII Bd. 1863. pag. 508. Tav. XI. fig. 10. 5. Kiiane — Die Muskelspindeln. Archiv di Virchow XXVIII Bd. 1863, pag. 528-537, con una tavola. 6. Kiiume — Uber die Endigung der Nerven in den Nervenhiigeln der Muskeln. Archiv di Virchow XXX Bd. 1864, pag. 187-220, con una tavola. 7. Bramer — Uber die Muskelspindeln ecc. Archiv f. mikroskopische Anatomie. XXII Bd. 1883, pag. 318-354, con due tavole. 8. Ranvier — Legons sur l’ histologie du Système nerveux. Tom. II, 1878, pag. 313-318. — 723 — 9. ParemescHo — Die Entwickelung der quergestreiften Muskelfasern aus Muskel- kernen, Archiv di Virchow XXVII Bd. 1863, pag. 116-125, con due tavole. 10. Gorer — Annotazioni intorno all’ istologia normale e patologica dei muscoli volontari. Archivio per le scienze mediche. Vol. V. N. 11. 1881, copia a parte, pag. 15-18, con due tavole. 11. Tscnirsew — Sur les terminaisons nerveuses dans les muscles striés. Arch. de Physiologie normale et pathologique. 2 Série. Tom. VI. 12. Trincnese — Come le fibre muscolari in via di sviluppo si uniscano alle fibre nervose. Comunicazione preliminare. R. Accademia dei Lincei. Vol. II. se- rie 4°. Rendiconti. 1886. 13. Trincnese — Morfologia delle terminazioni nervose motrici periferiche dei ver- tebrati. Nota preliminare. R. Accademia dei Lincei. Rendiconti. 1885. p. 383. SPIEGAZIONE DELLE FIGURE a. Guaina del fuso muscolare. b. Guaina esterna del tubo nervoso o di Henle. c. Luogo in cui la guaina del fuso si continua con quella di Henle. cs. Cilindro assile sottile che penetra nel protoplasma internucleare. es'. Altro cilindro assile sottile che entra nel protoplasma internucleare. d. Guaina midollare del tubo nervoso. e. Cilindro assile investito dal neurococco w'". e'. Ultimo segmento interanulare di Ranvier. ec. Grosso cilindro assile che scorre tra la guaina e le fibre muscolari del fuso. ee. Luogo in cui il cilindro assile si assottiglia, tornando indietro per penetrare nel protoplasma internucleare. ef. Cilindro assile che penetra nel protoplasma internucleare. eg. Cilindro assile sottile che poi s' ingrossa e penetra nel protoplasma inter- nucleare. eh. Cilindro assile e strati diversi di protoplasma internucleare che formano una piastra motrice. f. Cilindro assile di una strozzatura anulare di Ranvier. f'. Luogo in cui si arresta la guaina midollare. — 124 — fl. Filamento protoplasmatico che unisce i neurococchi. fma. Fibra muscolare ordinaria. fmg. Fibra muscolare giovine. g. Sottile cilindro assile. g'. Luogo in cui un sottile cilindro assile si unisce alla sostanza striata per mezzo di un piccolo neurococco. g''. Cilindro assile sottile la cui estremità terminale penetra in un neurococco. g'". Grosso cilindro assile reticolato. h. Rigonfiamento somigliante ad un nucleo. i. Sostanza striata del fuso. Z. Nuclei della regione del fuso in cui è maggiore l’ attività nutritiva e ri- produttiva dei corpuscoli muscolari. “". Nuclei allungati in forma di bastoncello. . Strato spesso di protoplasma compreso tra due nuclei giovani. m'. Filamento di protoplasma nell’ asse del fuso. n. Lato del fuso muscolare rivolto verso il tubo nervoso. Questo lato è irto di punte di protoplasma, alcune delle quali raggiungono il cilindro as- sile e vi aderiscono (n', n"). n' Punta di un neurococco che investe un sottile cilindro assile terminale. n'' Punta di un neurococco che investe un grosso cilindro assile. n'"". Punta di un neurococco che si dirige verso il cilindro assile di una stroz- zatura di Ranvier. nc. Neurococchi che si staccano dal protoplasma di un fuso muscolare giovine. ne. Neurococco che dirige la sua punta verso il cilindro assile dell’ ultima strozzatura anulare del tubo nervoso. nu. Nuclei muscolari immersi nel protoplasma. o. Lato del fuso opposto a quello che guarda il tubo nervoso. In questo lato mancano i neurococchi. p. Stria longitudinale. q. Sottile strato di protoplasma tra due grossi nuclei. r. Striscie trasversali di protoplasma. rp. Ramo della piastra motrice di una fibra muscolare adulta (ima) che in- nerva una fibra muscolare giovine (mg). str. Striscie trasversali di protoplasma che raggiungono i neurococchi. s9',s9",sg'"'. Piccoli segmenti interanulari. s. Neurococchi. Sha st II ssu1 ( Strozzature anulari e cilindro assile che le traversa. st” t. Neurococco con due punte. U — 725 — . Guaina di Schwann. v. Cilindro assile diviso in 3 filamenti che s' incrociano. x. Sostanza muscolare senza strie. x J '. Eminenza gremita di neurococchi conici. \ \ IV ) Segmenti interanulari di Ranvier. VI Vo Fig. 1. — Fuso muscolare semplice di un muscolo dell’avambraccio di Podarcis muralis, trattato col metodo dell’ oro. Immersione in. sol. di Cloruro 25, 7100 lata. Si conservano i muscoli nella miscela al buio, per 24 ore; poi si pas- d’oro !vo per 10 minuti; poi in mise. acido formico e acqua distil- sano in glicerina. Metodo Grieb. 4 Disegnato alla Camera chiara. Zeiss, sist. T.QGn ) Fig. 2. — Fuso muscolare di un muscolo dell’ avambraccio di Podarcis muralis 4 trattato come sopra. Camera chiara. Zeiss, sist. FRA 2 Fig. 3.-— Fuso di un muscolo della gamba di Platydactylus mauritanicus. Trattato 2 come sopra. Camera chiara. Zeiss, sist. E Fig. 4. — Come in fig. 3. Fig. 5. — Fuso composto del gastrocnemio della Rana esculenta trattato come in i i fig. 1. Camera chiara. Zeiss, sist. 7008 U Fig. 6. — Fascio muscolare primitivo di un muscolo della gamba di Myoxus avellana= rius giovanissimo. Trattato come in fig. 1. Camera chiara. Zeiss, sist. 7.(08 U Fig. 7. — Fuso muscolare del Myoxus avellanarius giovanissimo. Il resto, come Sopra. Fig. 8. — Fuso muscolare nell’ inizio del suo sviluppo. Platydactylus mauritanicus giovanissimo. Il resto come in fig. 6. Fig. 9. — Un pezzo di fuso muscolare di Platydactylus mauritanicus. Il resto come in fig. 1. * LINCE di Ta sche 104 ui; ui det ninni Rene stando) pene eh "FRESA cai toc sora A S' Princhese TE RI | | | \ | \ | i 5 | 7 » ih “ { Ì . Ì } i Il il È i n Al 5 Il p4 Ì i I il n . 59 Ci N 4 ade A Deo Ù 5 ja . GI . ” | - } È È : 7 Sa . DI ta . Ù 3 i 3 qee. à Ri n 5 CA — 6 Ata vi " % ri Il da : 6 RICERCELE: SUL MICRORGANISNO DI INA RURMA DI PLBURITE DEL CAVALLO MEMORIA DEL PROF. ALFREDO GOTTI (con una tavola) (letta nella seduta 9 marzo 1890). Nei mesi di Settembre ed Ottobre dello scorso anno ebbi ad osservare in una scuderia di un mercante, svilupparsi successivamente parecchi casi di pleurite essudativa in giovani cavalli, già da tempo importati dalla Francia e che prima d’allora avevano goduto perfetta salute. Incominciata la malattia in uno di questi cavalli, che ne soccombeva in poco più di quattro giorni, manifestavasi poscia in altri otto alla distanza di circa 12 a 15 giorni l'uno dall’ altro. Cinque di questi ne morivano pure rapidamente; in uno la pleurite passò allo stato cronico e nei due rimanenti si ottenne lentamente una risoluzione completa. La malattia non era preceduta da malessere, da inappetenza o da altri segni prodromici; ma ad un tratto gli animali venivano sorpresi da brividi generali, il | pelo si faceva irto, erano abbattuti e mostravano affanno intensissimo associato a gemiti frequenti. A tutta prima la temperatura al retto non era elevata, anzi in qualche caso’ la riscontrai al disotto della normale (37°). I brividi perduravano ordinariamente tre a quattro ore, poscia la temperatura rettale si elevava celeremente, senza però mai raggiungere un grado notevolissimo (da 39%, a 40° al massimo). La respi- razione celere con limitatissime escursioni, quasi del tutto addominale e geme- bonda; pulsazioni arteriose deboli, frequenti con qualche intermittenza; polso car- diaco pure debole, aritmico. La essudazione alle pleure si stabiliva con una le- stezza sorprendente, difatti mi fu possibile parecchie volte, poco dopo cessati i brividi, specialmente colla percussione del costato, di constatarne l’ esistenza. In questa forma di pleurite notai fin dal primo caso una particolarità, che — 7128 — poscia verificai in tutti i successivi; la quale prima d'allora avevo riscontrato solo rare volte e mai così accentuata come in questi ammalati, ed era che in diversi punti delle due pareti costali si limitavano colla percussione zone di completa ottu - sità, separate da spazi nei quali la sonorità del costato era pressochè normale. Queste zone di ottusità sempre a limiti irregolarissimi, erano assai dolorose; mentrecchè spesse volte i tratti di costato intermedi ad esse non mostravano quasi affatto aumento di sensibilità alla pressione od era pochissimo notevole. Queste essudazioni plastiche, formantesi in punti diversi della superficie toracica, circoscrivevano spazi nei quali rapidamente si accumulava essudato liquido. Per tal modo si stabilivano tante raccolte saccate. separate fra loro da spazi abbastanza notevoli. Così osservai casi nei quali mentre esistevano indubbiamente raccolte saccate in due o più punti delle regioni alte del costato, in basso o mancavano od erano molto limitate. Ciò potei constatare già nel primo caso che mi occorse di questa forma di pleu- rite, ricorrendo alla toracentesi; che praticata in basso non si mostrò di alcun giovamento per calmare alquanto la intensa dispnea, poichè appunto mi incontrai in una piccola raccolta di essudato. Mentrecchè in questo primo caso e in alcuni degli altri successivamente occor- simi, eseguita la toracentesi a brevi intervalli a diverse altezze, dove appunto l'esame fisico del costato mi denotava esistere abbondante raccolta saccata; ne ottenevo la fuori uscita di parecchi litri di essudato limpido e giallognolo con notevole alleviamento della alterazione respiratoria. Nei casi di questa malattia seguiti da morte il corso di essa fu oltremodo spiccio e non durò mai oltre il quinto o sesto giorno. All’ apertura del petto constatai sempre estesissime alterazioni. Le essudazioni plastiche a forma di pseudomembrane bianco-giallastre, di a- spetto spugnoso, di discreta consistenza e inzuppate di liquido sieroso di un giallo citrino; limitavano spesso ampie sacche nelle quali erasi accumulato l’ essudato liquido. Queste essudazioni plastiche formanti sacche vedevansi solo sviluppate mag- giormente in alcuni punti, dove aderivano a porzioni di pleura costale e polmo- nare e restavano separati da spazi abbastanza rilevanti di pleura costale sulla quale l’essudato era ridotto ad un sottile velamento che si poteva facilmente spostare, passandovi sopra il dito o col manico del coltello e lasciava allo scoperto il tessuto pleurale di un colorito rosso cupo intenso. Porzioni notevoli di polmoni erano fortemente compressi e spinti ora in un senso ora nell’ altro a seconda della diversa sede delle maggiori raccolte saccate di essudato liquido. All’ infuori delle alterazioni polmonari inseparabili dalla compressione e dagli inzuppamenti dovuti alla presenza degli essudati pleurici e che necessariamente — 729 — conducono ad alterazioni circolatorie e ad ateletasie; nel parenchina polmonare. non riscontrai alterazioni infiammatorie primitive. Nessun versamento nel sacco pericardico, nè alcuna essudazione plastica; mio- cardio pallido e flacido. Milza normale, fegato turgido di sangue, però di consistenza ordinaria. Niente di notevole ai reni e al tubo gastro-enterico. Sangue accumulato nelle vene meseraiche, di un color rosso cupo. Limito a questi pochi cenai ciò che riguarda la parte clinica e anatomo-pato- logica di questa forma di pleurite del cavallo, poichè lo scopo del presente lavoro è quello di dar conto delle ricerche batteriologiche che feci per chiarirne l’eziologia. Già fin dal primo caso che mi occorse di questa forma di pleurite, ebbi 1’ avver- tenza di raccogliere con purezza durante il corso della malattia, mediante toracen- tesi, essudato liquido che mi servì per l’ esame microscopico. Distendendo in sottil strato una gocciolina di quest’ essudato sopra lastrine port’ oggetti e dopo essicamento alla lampada, colorando con soluzione idralcoolica molto diluita di metilvioletto, era facilissimo di mettere in evidenza uno speciale microrganismo che vi esisteva in grande quantità. Esso è costituito da filamenti sottilissimi, ora dritti, ora alquanto flessuosi, formati da micrococchi finissimi disposti a coroncina e presentanti alle loro due estremità un cocco più grosso che si colorava più intensamente degli altri. La lunghezza di questi streptococchi è molto variabile; ora sono costituiti -da dieci a dodici granulazioni ora da quattro a sei, mantenendosi però sempre molto sottili. Anche nelle pseudomembrane raccolte alla sezione cadaverica dal petto di questo primo cavallo, riscontrai in grandissimo numero questi stessi microrganismi; solo che qui, rimanendo essi impigliati nel tramite fibrinoso, riesciva meno facile il metterli in evidenza nella loro totalità. In queste pseudo-membrane, oltre agli streptococchi anzidetti, vi si trovavano pure in abbondanza piccolissimi micrococchi liberi e diplococchi. La colorazione dei preparati riesciva pure assai bene seguendo il metodo del Loffler, anzi con esso spiccavano con più nitidezza le particolarità del microrga- nismo. Anche col metodo Gramm si ottenevano lestamente buoni preparati, ma poco stabili. Ricercato il sangue, prelevandolo dal cuore e da diversi vasi del corpo, anche dopo ripetute prove usando dei metodi anzidetti di coloritura, riescii solo in alcuni preparati a mettere in evidenza pochi finissimi mierococchi e diplococchi; ma non delle forme a streptococco, quali esistevano in tanta abbondanza negli essudati del torace. TOMO X. 92 — 730 — Anche la ricerca dello streptococco nel fegato, nella milza, nei reni, mi riescì negativa e solo in questi organi, vi rinvenni, come nel sangue, pochi mierococchi e diplococchi. Occorsomi poco tempo dopo, verso gli ultimi giorni del mese di Settembre, un nuovo caso di questa forma di pleurite che pure terminò colla morte, ne appro- fittai per estrarre dal petto, colle dovute cautele antisettiche, a diverse riprese durante il corso della malattia, essudato col quale vennero ripetute le osservazioni microscopiche che confermarono pienamente i risultati ottenuti nel primo caso; come pure ne iniettai, mediante sciringa Pravaz asettica, mezzo centimetro cubo nella cavità del petto di un grosso coniglio, che aveva già servito per altre espe- rienze. ed una stessa quantità nella cavità peritoneale di altro giovine coniglio. Nel primo non osservai che tristezza e poca voglia di mangiare nel giorno successivo e poscia parve riaversi completamente, per cui per parecchi giorni non vi posì più attenzione. Nell’ altro coniglio giovine invece già nel giorno dopo alla iniezione intraperi- toneale si notarono sintomi gravissimi; ventre teso e molto dolente alla pressione, spossatezza, rifiuto d’ alimento, temperatura 41 6]10, respirazione frequente e brevis- sima. Moriva 46 ore dopo l' iniezione. All apertura del ventre riscontrai una peritonite essudativa tipica, costituita da abbondanti pseudo-membrane bianco-giallognole sulla lamina peritoneale parietale e su quella viscerale. Le anse intestinali erano agglutinate fra loro da quest’ essudato plastico, che abbondatissimo aderiva pure al grande omento e formava una sottil velatura sulla superficie del fegato e fra le incisure intralobari del medesimo, non chè sulla sicrosa peritoneale diaframmatica. Nel cavo peritoneale erasi pure raccolto in discreta quantità essudato liquido giallognolo. Nel petto, da ambo i lati sulla pleura, si erano formate in punti diversi delle esili essudazioni plastiche a forma di sottile velatura e di filamenti che qua e là passavano dalla pleura costale alla pleura polmonare. Essudato liquido in piccola quantità era raccolto nei cavi pleurali. 7 Il tessuto polmonare non presentava nessuna alterazione infiammatoria. Nel pericardio nessun versamento, nè essudazione plastica. All’ esame microscopico dell’ essudato peritoneale e pleuritico, vi sì riscontrano abbondantissimi i streptococchi cogli identici caratteri di quelli osservati nei due cavalli. Raccolto con cura l’ essudato plastico dalla cavità del ventre e da quella del petto del coniglio, coll’ aggiunta di un poco di acqua sterilizzata in un mortaio di vetro preparai una emulsione, che venne passata attraverso fina tela battista per allontanarne i grumi. — 731 — Il liquido ricavatone è ricco di streptococchi finissimi, di cocchi e di diplo- cocchi. Di questo ne inoculo: 6 centimetri cubi nella cavità del petto di un vecchio cavallo scarto in discreto stato di nutrizione, attraverso uno spazio intercostale destro, usando le ordinarie cautele di disinfezione della pelle; 112 cent. cubo nella cavità toracica di un giovine coniglio; 1[4 di cent. cubo nella cavità toracica di altro giovine coniglio; 1 cent. cubo sotto la pelle del dorso in due punti diversi di un terzo grosso coniglio. Nel vecchio cavallo per tre giorni non si ebbe a notare nessun segno di males- sere, ma il mattino del quarto giorno dopo l’ iniezione intratoracica, si rilevò che era triste, con poca voglia di mangiare e temperatura rettale alquanto elevata (39° e 7[10); respirazione più frequente; alla parte destra del costat: notevole sensibilità alla pressione, sopra una zona di circa 12 a 15 cent. attorno al punto dove avevo praticata |’ iniezione, quantunque all’ esterno non apparisca traccia alcuna di tumidezza. La percussione su questa zona era dolorosa assai e lasciava rilevare una ottusità marcata. Questo stato di cose perdurò fino a tutto il giorno successivo, poscia l’animale riac- quistò l’ appetito di prima e la temperatura ridiscese alla normale; rimanendo però per molti altri giorni sensibilità alla pressione sulla zona anzidetta del lato destro del costato, che si dileguò del tutto solo lentamente. Invece nei due conigli giovani inoculati al petto si ebbe lo sviluppo acutis- simo e tipico della pleurite essudativa e ne morivano fra le 40 alle 44 ore, presen- tando alla sezione cadaverica le caratteristiche alterazioni più sopra menzionate. Il grosso coniglio che ebbe un cent. cubo di essudato sotto la pelle del dorso non presentò segni generali di malessere, solo attorno ai due punti inoculati si formò una infiltrazione infiammatoria leggermente dolente, di consistenza pastosa e la pelle sovrastante, per una zona più larga della parte infiltrata, vedevasi erisi- pelatosa. L’esame microscopico delle alterazioni riscontrate al petto dei due conigli mostrava abbondantissimo e allo stato di purezza lo streptococco riscontrato nei cavalli, per cui me ne servii per praticare culture. Seguendo la tecnica in uso, col filo di platino feci innesti per infissione .in gelatina nutritiva lievemente alcalina e in agar. Parimenti praticai seminagioni a stria su gelatina nutritiva, su agar e su siero di cavallo gelatinizzato disposti a becco di clarinetto in tubetti d’ assaggio, non- chè sopra patate. Cogli stessi essudati praticai pure seminagioni in brodo, in gelatina nutritiva e in agar nel vuoto. Poscia alcuni tubetti tanto di gelatina nutritiva che di agar, furono seminati col sangue raccolto con purezza dal cuore di uno dei due conigli; altri tubetti — 732 — furono innestati colla polpa splenica, altri infine con quella epatica; nonchè con questi tre distinti materiali furono seminate patate. Le colture a stria in agar, fatte prelevando il microrganismo dall’ essudato plastico, tenute nella stufa a 38° vegetano con facilità e presto; invece quelle per infissione nell’agar presentano una vegetazione stentata che si mostra quasi solo verso gli strati superficiali dell’ agar dopo tre a quattro giorni di stufa a 38°. Sull’agar la coltura non presenta alcuna forma caratteristica. Lungo la stria d'innesto già nel secondo giorno di stufa si notano dei punticini bianchi ben limitati lievemente sporgenti sulla superficie nutritiva. Poscia si allar- gano con rapidità e ben presto riunendosi formano una placca biancastra a limiti frastagliati che in cinque o sette giorni copre pressocchè tutta la superficie dell’ agar. Sullo siero gelatinizzato alla temperatura da 35° a 37° la vegetazione si stabi- lisce anche più presto che nell’ agar, ma non presenta nessun carattere distinto. Nei tubi di gelatina nutritiva, lo sviluppo della cultura è lento alla temperatura dell'ambiente, ma però a poco a poco si forma abbondantemente. Nei tubi esposti nella stufa alla temperatura costante di 20° la vegetazione è più lesta. Nelle colture in superficie sì formano lungo le strie di seminagione delle serie di punteggiature di un bianco latteo così minute che si distinguono bene solo colla lente. Crescon lentamente e solo dopo 8 a 10 giorni si riuniscono sotto forma di striscioline bianche sporgenti sulla superficie nutritiva e nei limiti delle quali la gelatina si fluidifica, mantenendosi. trasparente. Negli innesti per infissione in gelatina la cultura prende costantemente una forma abbastanza caratteristica. Difatti già dopo circa 30 ore di stufa a 20°, la vegetazione si inizia sotto forma di un dischetto bianco latteo a contorni un poco irregolari, alquanto elevato e molliccio. Esso va lentamente inyrandendosi e invade circa il terzo dell’ estensione della superficie nutritiva. Nel frattanto al disotto, lungo tutto il tragitto percorso dal filo di platino, il microrganismo vegeta pure sotto forma di minutissime sferule bianche molto avvi- cinate le une alle altre. Poscia il disco superficiale della cultura si deprime nel centro, sì disgrega rapidamente in una massa semifluida ed alquanto opalina, che acquista la forma di un largo nappo prolungantesi in basso in un lungo peduncolo che termina in un ingrossamento piriforme bianco, formato dalla deposizione delle colonie più pesanti della cultura. Poscia a poco a poco gli strati più superficiali della gelatina si fluidificano, conservando però una completa trasparenza; si sovrappongono alla parte della cultura disposta a nappo, la quale per tal modo è spinta di più in più in basso e perde la sua forma. Dimodocchè le culture che datano da qualche tempo si vedono depositate sotto forma di uno straterello bianco latteo, che spicca fra la gelatina superiore fluidificata e mantenutasi molto trasparente e quella del fondo del tubetto d’ assaggio conservatasi ancora solida. — 733 — Nel brodo neutro la vegetazione è pure vigorosa e rapida, contrassegnata a tutta prima da un legger intorbidamento di tutta la massa del liquido nutritivo e poscia da esili filamenti bianco lattei che si vedono in parte nuotanti nel brodo schiaritosi ed in parte adossati qua e là alle pareti del tubetto d’ assaggio. Sulle patate la vegetazione è molto scarsa e si arresta ordinariamente dopo 20 a 24 ore di stufa a 35° ed è formata da una sottile velatura biancastra che copre una parte della superficie della patata; è pochissimo rilevata su questa ed ha contorni irregolari. Le colture ottenute in questi diversi mezzi nutritivi, al microscopio si mostrarono sempre formate da soli streptococchi affatto identici a quelli esistenti nell’ essudato plastico e liquido dei cavalli pleuritici esaminati. Solo nelle culture in brodo neutro gli streptococchi presentansi formati di elementi un poco più grandi. Delle culture praticate col sangue, colla polpa splenica e con quella epatica, restarono tutte sterili quelle fatte sull’ agar, sulla gelatina e sulle patate; quelle in brodo neutro dopo tre giorni di stufa presentarono un legger intorbidamento o all'esame microscopico vi riscontrai scarsi streptococchi caratteristici, micrococchi liberi e diplococchi in piccol numero. Le culture nel vuoto sopra gelatina e sull’ agar diedero sviluppo a poche co- lonie isolate, rappresentate da minutissime punteggiature bianche ed un poco ri- levate sulla superficie del materiale nutritivo. In quelle in brodo nel vuoto notai un intorbidamento leggerissimo dopo parecchi giorni di stufa a 38°. In tutte però all'esame microscopico riscontrai lo streptococco della pleurite del cavallo allo stato di purezza. Lo streptocoeco della pleurite equina nelle culture vecchie conserva il suo po- tere vegetativo per parecchi mesi, come ho potuto verificare con sicurezza. Infatti prelevando da culture vecchie di tre a quattro mesi, una minima quantità di mate- riale e innestandolo per infissione in tubetti di gelatina nuovi, si sviluppa costan- temente in questa una cultura colla forma abbastanza caratteristica che ho più sopra descritta. Dei casi susseguenti di pleurite del cavallo che mi occorsero, ne approfittai per rifare le osservazioni microscopiche e le culture, servendomi per quest’ ultime dell’ essudato liquido dei cavalli pleuritici ancora in vita. Ripetei così quattro successive serie di osservazioni e di culture, ottenendone un risultato sempre costante. Mancando però allora di animali adatti per sperimentare le culture ottenute, do- vetti attendere circostanze più favorevoli. Ai 28 di Settembre mi fu infine possibile di estrarre dal petto di un altro cavallo pleuritico, colle maggiori cautele di purezza, essudato contenente in ab- bondanza il solito streptococco. — 134 — Feci culture in gelatina, in agar e in brodo a contatto dell’ aria. Poscia di questo essudato ne inoculai due cent. cubi nel sacco pleurale destro di un vecchio cavallo e la stessa quantità pure nel sacco pleurale destro di un somaro di circa sette anni, deforme da un arto posteriore. Medesimamente tre conigli, due grossi ed adulti, il terzo di appena un mese d'’ età, ne ricevettero nella cavità del petto 1|2 cent. cubo per ognuno. Il vecchio cavallo non se ne risentì affatto; nel somaro invece si ebbe note- vole elevazione di temperatura al retto (39°) il mattino del giorno dopo l’innesto e poscia brividi e tremori generali. Respirazione frequentissima , breve; quindi si stabilirono tutti gli altri segni di un processo essudativo nella parte destra del costato, che nei due giorni successivi si estese notevolmente e cominciò a propa- garsi al basso del costato opposto Si svilupparono tutti i sintomi proprii della pleurite es:udativa ed a grado ele- vato, perdurando l’ alterazione respiratoria e la esagerata sensibilità al costato de- stro e alla parte bassa del sinistro per sei giorni; poscia a poco a poco si miti- garono tutti i sintomi e si ebbe allora una risoluzione completa. Dei conigli il più giovine morì di pleurite acutissima dopo 42 ore circa; uno dei conigli adulti si mostrò molto indisposto nei due giorni successivi all’ innesto intratoracico; era abbattuto, con respiro affannoso e rifiutava l alimento ; in se- guito sì riebbe del tutto e tornò vispo. L’ altro coniglio adulto presentò a minor grado dell’ altro alterazione di respiro, non era abbattuto e seguitava a mangiare. Lo uccisi nel terzo giorno successivo all’ inoculazione e alla ispezione della cavità toracica trovai le traccie di essudato plastico nella pleura costale e polmonare del lato ove avevo eseguito l’ innesto. L'altro coniglio lo uccisi dopo un mese circa dacchè si era del tutto ristabilito. Fra il costato destro e il polmone vi erano alcune aderenze rappresentate da sottili e brevi filamenti fibrosi di un bianco latteo. Pure dall'altro lato del costato ne riscontrai due. Ai 16 di Ottobre mi si presentò un nuovo caso di pleurite acutissima in un cavallo, che lo condusse a morte in 6 giorni. Il 19 Ottobre colla toracentesi estrassi essudato che era abbondantemente prov- visto del solito streptococco e ne inoculai 2 cent. e 1[2 cubi nel sacco pleurale destro di un somaro di appena due anni d’ età. Poscia con poche goccie (8 a 10) di questo stesso essudato equino, furono iniettati successivamente un grosso coniglio adulto, due cobaje, un sorcio bianco, tutti nel sacco pleurale destro, e due conigli giovani, di meno di un mese d'età, l’ uno nella cavità peritoneale, l’altro nel sacco pleurale destro. Il giovine somaro cominciò a mostrarsi indisposto nella sera (circa 12 ore dopo l'iniezione intratoracica) con febbre elevatissima (39 1]2), rifiuto di alimento, sete viva, brividi generali, frequenza di respiro. Nel mattino seguente trovai che —- 735 — si era svolta una pleurite acutissima che condusse a morte 1’ animale nelle ore pomeridiane del 24 Ottobre. Alla sezione cadaverica si costatarono notevolissime lesioni alla cavità toracica estese ai due sacchi pleurali e costituite da essudazioni plastiche a forma di pseudo- membrane bianche giallognole; versamento di essudato liquido nelle parti basse del petto e qua e là raccolte saccate di essudato, limitate dalle essudazioni plastiche. In conclusione riscontrai in questo somaro alterazioni identiche per natura e per grado, a quelle trovate alla sezione cadaverica dei diversi cavalli morti per questa forma di pleurite. Cogli essudati plastico e liquido recenti raccolti dal petto di questo somaro, ri- petei culture che mi servirono per altre prove in diversi animali, delle quali riferirò più oltre. Dei conigli inoculati, in quello adulto cui avevo praticata l'iniezione di al- cune goccie di essudato equino nel sacco pleurale destro , costatai il giorno ap- presso malessere, rifiuto del cibo, tristezza, respirazione celerissima, sensibilità esa- gerata alla maggior parte del costato destro. Questi sintomi però durarono appena due giorni e poscia l’ animale si riebbe. Allora lo uccisi e all’ apertura della cavità del petto trovai che in parecchi punti fra la pleura costale e quella polmonare, vi esistevano delle aderenze già solide. Gli altri due conigli gioveni morirono rapidamente (fra le 42 alle 46 ore ) l'uno di pleurite, l’ altro di peritonite essudative tipiche. Le due cobaje ed il sorcio bianco non mostrarono segni apprezzabili di lore Nelle molte serie di culture, eseguite a diverse riprese cogli essudati raccolti direttamente dai cavalli pleuritici o dai conigli ai quali avevo trasmessa la malattia, avevo potuto già constatare che colle culture pure di secondo o di terzo passaggio inoculate in piccola quantità nei sacchi pleurali o nella cavità peritoneale di gio- vani conigli si potevano nella maggioranza dei casi ottenere delle pleuriti e delle peritoniti tipiche che il più delle volte riescivano mortali; ma che le culture di passaggi ulteriori, quantunque nei mezzi nutritivi vegetassero rigogliosamente, o non producevano più alcun effetto o solo qualche volta davano luogo a pleuriti e peritoniti lievi, che si risolvevano in breve tempo. Ora colle colture ottenute dall’ essudato del somaro morto di pleurite speri- mentale, volli ripetere più sistematicamente esperimenti di trasmissione della ma- lattia, per confermare quanto avevo già osservato nelle prove antecedenti. Mi servii di conigli giovani (tutt'al più di un mese d’età) e di conigli adulti e non essendo stato possibile di procurarmi un cavallo giovine, sperimentai sopra un muletto di 10 mesi d’età, affetto da ernia ventrale congenita, che però non aveva influenza alcuna sopra le buone condizioni di salute del giovine animale. Il 27 Ottobre ottenuta una cultura in brodo neutro di secondo passaggio, ne ino- — 736 — culo 10 goccie nel sacco pleurale destro di due conigli giovani; 10 goccie nella cavità peritoneale di due altri conigli giovani; 12 goccie nel sacco pleurale destro di un grosso coniglio adulto e 12 goccie nella cavità. peritoneale di altro coniglio. Muoiono fra le 40 e 46 ore tre dei conigli giovani, due di pleurite essudativa acuta, uno di peritonite; l’ altro quantunque aggravato per alcuni giorni si rista- bilisce in seguito. Dei due conigli adulti quello inoculato al petto mostrasi un poco indisposto, nulla più; l’altro si mantenne apparentemente bene per due giorni poi si fece triste, col ventre teso e dolente alla pressione e morì 10 giorni dopo l'innesto mostrando alla sezione lesioni estesissime di peritonite essudativa. Li 29 Ottobre con una cultura in brodo di terzo passaggio, inoculo nel sacco pleurale destro due giovini conigli ed un grosso coniglio adulto. Poscia fatto atterrare il muletto sul lato sinistro, vi inoculo nel sacco pleurale destro due terzi di centimetro cubo di questa stessa cultura in brodo. Il mattino del 30 d. trovai il muletto triste e svogliato nel mangiare. Verso il mezzodì fu preso da tremori generali, il pelo si fece irto, respiro frequentissimo, breve, stentato, sensibilità alla pressione del costato destro non solo attorno al punto nel quale aveva coll’ ago canula trapassati i tessuti, ma per una zona molto più estesa. Verso sera la respirazione era frequentissima, piccola, gemebon- da; sensibilità esageratissima alla pressione in una larga estensione del costato destro e nel terzo inferiore circa del costato sinistro. Temperatura rettale assai elevata (40%) Nel mattino del 31 d. erano spiegatissimi tutti i sintomi di una pleurite essudativa acuta. La temperatura si mantenne sempre elevata per tutta la giornata (40 °,,), l’animale ricusava del tutto il cibo, ed era abbattuto in modo da la- sciarmi credere che dovesse morirne in breve tempo. Ma non fu così, poichè nel giorno dopo potei rilevare un sensibile migliora- mento nei sintomi generali; la temperatura rettale più bassa (39 %,), la respi- razione un poco meno frequente e non più tanto breve. Alla percussione non ri- levavasi aumentata la zona d’ottusità. Persisteva sensibilità esagerata alla pressione del costato sì a destra che a sinistra. L'animale era più sollevato e prendeva qualche poco di cibo. Da allora in poi si verificò senza interruzione un progressivo miglioramento, quantunque lento. A poco a poco i sintomi più gravi andarono mitigandosi e poscia scomparvero. In alcuni punti bassi dei due costati rimase per del tempo una sensibilità esagerata alla pressione. Dei conigli i due giovani morirono rapidamente di pleurite essudativa confer- mata alla sezione cadaverica; il coniglio adulto all'infuori di un certo malessere per due giorni, non presentò niente altro degno di menzione. I tentativi di trasmissione della malattia con culture in brodo di passaggi ul- teriori non diedero quasi alcun risultato. —- 137 — Difatti dal 3 Novembre in avanti sperimentai sui giovani conigli le culture in brodo di quarto passaggio di questo streptococco della pleurite equina e ne ebbi per risultato che di quattro conigli inoculati al petto nel solito modo e colla stessa quantità di cultura, solo in uno si sviluppò una pleurite essudativa mor- tale, gli altri tre si mostrarono indisposti per uno o due giorni e poscia si rieb- bero completamente. Così successivamente con cultura di 5°, 6° e 7° passaggio provata nei conigli giovani non ne potei osservare più alcun effetto costante. Solo usandone delle quantità più grandi vidi in qualcuno svilupparsi la malattia e morirne. Le culture in gelatina nutritiva si attenuano ancora più rapidamente di quelle ottenute in brodo. Difatti non mi fu possibile con colture di secondo passaggio in gelatina trasmettere la pleurite ai giovani conigli. Le conclusioni principali che ritengo si possano trarre dalle osservazioni e dagli esperimenti che sono venuto esponendo, sono le seguenti: -1°. Può svilupparsi nei giovani cavalli una forma di pleurite essudativa do- vuta ad uno speciale microrganismo e che è trasmissibile, coll’ innesto intratoracico di piccola quantità di essudato liquido, agli equini giovani ed ai conigli. 2°. Questo speciale microrganismo si trova costantemente e in abbondanza nell’ essudato liquido e nelle pseudo-membrane sotto forma di un sottile strepto- cocco. 3°. Esso può essere coltivato allo stato di purezza a contatto dell’ aria in diversi mezzi nutritivi artificiali, mentrecchè nel vuoto vegeta stentatamente. 4°. Seminato per infissione nella gelatina nutritiva, la cultura acquista co- stantemente una forma abbastanzn caratteristica, liquefacendo in parte la gelatina stessa. 5°. Infine coltivato allo stato di purezza nel brodo neutro riproduce, in ani- mali giovani e sani la stessa forma di pleurite, usando per l innesto di piccole quantità di una cultura di secondo o di terzo passaggio. TOMO X. 93 — 738 — SPIEGAZIONE DELLE FIGURE Fig. 1.* — Imnesto per infissione in gelatina nutritiva dello streptococco della pleurite del cavallo. Forma della cultura dopo 34 ore di stufa a 20° cent. Fig. 2.2 — Idem della cultura dopo 68 ore. Fig. 3.° — Idem dopo 7 giorni. Fig. 4° — Cultura in brodo neutro dello streptococco della pleurite del cavallo dopo 30 ore di stufa a 38° 1 Oc: 8 75 Zeiss: Im: : 35 î: 2000 |). (7 Zeiss: Im: Om 59 Ba a cor: X ) e: 9 Povanna* . x o Ht.6.Wenk e Figli — Bologna. id A. Baraldini, lit Sn ) DN I @ f i ih \ i p i 7 ) ; - Î L î : i Pi 9 (i » 7 * x ic } | N td PE PA SULL’ UFFICIO DELLE CELLULE GIGANTI NEL FEGATO DEI NEONATI E DELLE LORO ALTERAZIONI NELL’ AVVELENAMENTO PER ARSENICO NOTA del Dott. VITTORIO MAZZONI DISSETTORE NEL LABORATORIO DI ANATOMIA COMPARATA DELLA R. UNIVERSITÀ DI BOLOGNA (CON TAVOLA) (Letta nella Sessione del 15 Dicembre 1889). Le cellule giganti, che in numero più o meno grande si rinvengono nel fegato degli embrioni dei mammiferi e dei neonati, vennero da Remack (1) scoperte nel coniglio, e da lui descritte per il primo. Egli studiò tale maniera di cellule, serven- dosi dell’ indagine diretta di porzioni di fegato, che tolte dall’ animale subito dopo la morte, esaminava al microscopio in una soluzione di zucchero al 5 0g. Per tal mezzo il Remack potè osservare che molte di queste grandi cellule presentano nel centro del loro corpo protoplasmatico un ammasso nucleare in via di scissione, mentre ve ne hanno di quelle che si mostrano polinucleate, o in via di scomporsi in tante cellule figlie. Il Remack riferisce questi fatti, senza occuparsi troppo dell’ ufficio a cui da natura sono destinate queste giovani cellule. Non appena vide luce il suo lavoro, Kélliker ed Henle impresero nuove osser- vazioni sull’ argomento, e per esse manifestarono il dubbio, che le grandi cellule del Remack potessero avere un’ origine parassitaria. Schenck (2) che del pari studiò tal questione non divise la veduta del Kélliker e dell’ Henle, ma solo descrisse queste cellule gigantesche, che trovò nel fegato embrionale di alcuni mammiferi, senza interpretarne il significato del loro essere. (1) Remack — « Ueber vielkernige Zellen der Leber ». Archiv fiir anatomie, physiologie — J. Miller 1854, pag. 97. (2) Scnencx — Centralblatt £. d. medic. 1869. « Protoplasma Kòrper in der embryonalen Le- ber ». — 740 — Nel 1881 Fuà e Salvioli (1) studiando la genesi dei globuli rossi del sangue trovarono, che il fegato degli embrioni, e dei poppanti nei primi giorni di lor vita, è deputato alla fabbricazione delle ceilule rosse, le quali traggono la loro origine dallo scindersi dei grandi elementi polinueleati del Remack. Questi due valenti osservatori in appoggio della loro teoria descrissero delle forme di passaggio fra le cellule jaline, che videro formarsi dalle giganti polinu- cleate, e i globuli rossi embrionali. Io non credo, con questa mia Nota, distruggere il risultato delle accurate ricerche dei due italiani, ma desidero solo riferire quei fatti che mercè una tecnica dalla loro diversa mi venne dato osservare. Ed infatti mentre Essi per le osservazioni si valsero dei comuni mezzi fissativi e di colorazione in allora conosciuti, io mi son servito con eccellenti risultati del liquido del Flemming, modificato alcun poco nella sua composizione dal Podwyssotzki per lo studio del tessuto epatico. I neonati che meglio si prestarono ai miei studi furono gatti, conigli, cavie, ratti albini, i quali uccideva a diverse distanze di tempo dalla nascita, conser- vando alcune porzioni di fegato nel liquido del Podwyssotzki, nel quale dimoravano 48 ore, per trattarli poi come dal Flemming vien suggerito, e colorando le sezioni con la safranina dello Pfitzner. Fa mestieri che io dica fin da ora, che avendo esaminati col medesimo metodo dei fegati di neonati umani, ho potuto osservare come nell’ uomo le cellule giganti sono più scarse in numero e scompariscono assai prima in confronto agli altri mammiferi. Condizionando alcune porzioni di fegato col metodo Flemming-Podwyssotzki, ci è possibile rilevare delle particolarità di struttura sia nelle cellule epatiche che in quelle giganti, le quali particolarità difficilmente sì mostrano servendosi della tecnica comune. Ed infatti per virtù di questo liquido fissativo, gli elementi cellu- lari vengono sorpresi nelle condizioni di vita e lasciano vedere con chiarezza la loro sottile composizione anatomica. Le cellule giganti si appalesano formate da un ammasso di sostanza protopla- smatica, che può misurare dai 20 ai 60 micromillimetri, finamente granosa ed opaca, sulla quale riposano uno o parecchi nuclei. Tale sostanza è più o meno abbondante a seconda dello sviluppo della cellula, e per la sua contrattilità assume delle forme le più bizzarre, determinate o dall’ ambiente nel quale si trovano o da virtù sua semovente. Che il loro protoplasma sia dotato d’un potere semovente ce lo addimostrano alcune cellule, le quali ora riempiono perfettamente il posto che occupano, ed ora invece contraendosi lasciano vedere d’ intorno degli spazii inter- rotti da propagini con le quali si attaccano alle trabecole del fegato. Le cellule figlie, che prendono origine dallo scindersi di questi grandi elementi, posseggono (1) Fuà e Sacvioi — « Sull’ origine dei globuli rossi del sangue ». Archivio per le scienze mediche, 1881. — 141 — in massimo grado la proprietà di muoversi ed infatti, sotto forma di nuclei prov- visti d’ un sottile strato di sostanza cellulare, noi le vediamo allontanarsi dal loro posto d’ origine e migrare fra le cellule epatiche. Quando la cellula gigante ha un solo nucleo esso presentasi di figura il più di sovente elittica, d’apparenza granosa, ricchissimo di parte cromatica, che si tinge intensamente con la safranina e provvisto d’ uno o di parecchi nucleoli. Raggiunto che abbia il massimo del suo sviluppo, in allora cominciano le prime fasidi moltiplicazione diretta. La sostanza nucleare mostra alla superficie tanti piccoli rilievi o gemme, ognuna delle quali possiede sempre un nucleolo, e coll’ aumentare di grandezza tali gemme assumono la figura di veri nuclei gli uni sovraposti agli altri e riuniti da un comune ammasso centrale; finchè scindendosi fra di loro si fanno liberi nel protoplasma della cellula. Alla moltiplicazione del nucleo il più di sovente fa seguito la segmentazione cellulare o la divisione del protoplasma in due masse, sulle quali si dispongono i nuclei in numero variabile per ognuna di esse. Un’ altra maniera, per cui le cellule giganti aumentano di numero, si osserva in alcuni di questi grandi elementi, nei quali i nuclei distaccandosi dalla cellula madre sì por- tano dietro una certa quantità di protoplasma, formando così una nuova cellula, che col crescere si trasforma in una gigante. Seguite le varie fasi di sviluppo di questa maniera di cellule, rimaneva di risolvere il difficile problema riguardo all’ ufficio a cui da natura son deputati tali elementi. Io ne impresi lo studio, e qui in breve riferirò il risultato delle mie osservazioni, non già persuaso di averne trovata la soluzione, ma nella speranza che altri ed oculati osservatori ritornando sull’ argomento si cimentino a nuove e sottili indagini. Le mie ricerche furono dapprima dirette alla scoperta del modo, per cui le cellule giganti scompaiono dal fegato dei neonati entro i primi giorni di vita extra-uterina. E per esse mi fu dato di vedere, che, mentre il loro proto- plasma si perde rarefacendosi a poco a poco, finchè ne svanisce ogni sua traccia, i nuclei persistono moltiplicandosi di poi attivamente. Scomparso il protoplasma, i nuclei fatti liberi diminuiscono di volume, la sostanza cromatica si addensa in modo che si mostrano da questa quasi esclusivamente formati, e nel loro contorno appare una leggiera zona di sostanza protoplasmatica jalina, trasparentissima che si lascia tingere in giallo dall’ acido picrico. Il rimpicciolirsi dei nuclei sembra esser dovuto a che la loro parte periferica si cambia in quella piccola e chiara aureola di cui si mostrano contornati. Sifatti elementi corrispondono perfettamente alle cellule jaline descritte dal Fuà e Salvioli, a meno che io le trovai sempre, contrariamente alla loro veduta, fornite di uno o parecchi nucleoli. Tali cellule jaline, allontanandosi dal loro posto d’ origine, migrano sulle trabecole del fegato, ed in questo mentre si moltiplicano per via indiretta o cariocinetica. Subita questa prima fase di moltiplicazione esse ritornano allo stato di riposo, il nucleo aumenta di volume, le due sostanze che lo compongono, la nucleina e la plastina, si diffe- Seli (/ 0) Lee renziano chiaramente fra loro ed il protoplasma si fa sempre più spesso e granoso. In questo secondo periodo o stato di quiete, le cellule jaline presentano il loro nucleo di figura rotonda, granoso, costantemente provvisto di uno o più nucleoli, e di grandezza presso a poco simile a quelli delle cellule epatiche. Il protoplasma, che dapprima in forma di piccola zona trasparente circondava il nucleo, aumenta sensibilmente di volume, si fa granoso ed assume una figura poligona, simile a quella delle cellule del fegato; finchè progredendo ancora nel loro sviluppo addi- mostrano tali caratteri anatomici che insieme alla disposizione loro sulle trabecole epatiche le fanno assomigliare perfettamente alle giovani cellule del tessuto glan- dulare del fegato. Nei preparati microscopici, condizionati col metodo del Podwys- sotzki, si osservano così chiare queste diverse forme di passaggio da essere condotto a credere che le cellule le quali prendono origine dalle giganti polinucleate del Remack, si trasmutino in elementi epatici, concorrendo per tal modo ad aumentare il volume del fegato almeno nei primi tempi della vita extra-uterina, essendosi fin ad ora le mie ricerche limitate ai soli neonati. Delle alterazioni che patiscono le cellule giganti nell’ avvelenamento acuto per arsenico. Studiando le cellule giganti del fegato dei neonati, mì posi in mente d’ osservare se tali elementi andassero soggetti ad alterazione nell’ avvelenamento da arsenico. Ed infatti esperimentai subito l’azione di questo veleno nel fegato dei gatti e conigli. Il risultato delle mie esperienze qui in breve riassumo. To amministrai l’ arsenico ai piccoli animali servendomi del liquore del Fowler che iniettava sotto la pelle per mezzo d’una comune siringa del Pravaz. Ai gatti e conigli di un giorno bastarono poche goccie per ucciderli dopo 7 o 10 ore; ed in tutti gli animali da me per tal mezzo avvelenati, la morte avvenne in brevis- simo tempo: un solo gatto di 7 giorni sopravisse 24 ore dopo l’ iniezione d’ un grammo di liquore del Fowler. Subito dopo la morte conservai delle piccole por- zioni di fegato nel liquido del Podwyssotzki, trattandole in seguito come dianzi ho detto per lo studio delle cellule giganti. All’ esame dei preparati microscopici mi fu dato di vedere cle mentre il protoplasma delle grandi cellule del Remack, non risente veruna influenza dall azione dell’ arsenico, i nuclei invece si mostrano profondamente alterati. La nucleina sì perde rarefacendosi a poco a poco e la sua scomparsa non avviene in modo uniforme su tutta la superficie del nueleo, ma ha principio in punti limitati; cosiechè appariscono come dei vacuoli, nei quali manca completamente la parte cromatica. Di che natura essa sia la degenerazione che patiscono questi nuclei io non ho potuto determinarlo esattamente; ma è certo però che il suo ultimo e tipico risultato è quello che conduce la perdita della sostanza colorabile. — 7143 — Ed infatti si osservano alcuni nuclei nei quali non rimane più che il solo nucleolo e pochissimi granuli sparsi qua e là alla superficie, finchè ve n' hanno di quelli in cui le alterazioni sono tanto profonde che si perde ogni traccia d’intima struttura, riducendosi vescicolari e trasparenti in modo, da permettere appena di rederne visibile il loro contorno. Dove più evidenti si osservano questi fatti è in quei neonati, i quali sopravissero 12 o 14 ore almeno dopo 1’ avvele- namento. SIGNIFICATO DELLE LETTERE ADOPERATE PER LA SPIEGAZIONE DELLE FIGURE cg, Cellule giganti. nl, Nuelei liberi. ci, Cellule jaline. gcee, Giovani cellule epatiche. ce, Cellule epatiche adulte. DICHIARAZIONE DELLE FIGURE Le figure, rappresentate nella tavola qui annessa, furono disegnate col sussidio della camera lucida Abbè-Zeiss, all’ altezza del tavolino del microscopio. Fig. 1.4 — Cellula gigante del fegato di un coniglio appena nato, provvista d’ un solo nucleo e nucleolo (oc. 4. obb. 8 Koritska; tubo per metà allungato). Fig. 2: — Cellula gigante del fegato d’un gattino neonato, in cui il protoplasma ed il nucleo mostrano un accenno di divisione diretta (Medesimo ingran- dimento). Fig. 3.* e 4. — Due cellule giganti del fegato di un gatto di due giorni; nella prima il nucleo è in gemmazione, la seconda presenta nel centro un am- masso di nuclei già divisi. (Medesimo ingrandimento). Fig. 5.° — Cellula gigante polinucleata del fegato di un ratto albino appena nato. (Medesimo ingrandimento). Fig. 6.° — Altra cellula gigante del fegato di un coniglio di 6 giorni il cui proto- plasma è per dividersi in due masse. (Medesimo ingrandimento). — 144 — Fig. 7.* — Cellula gigante del fegato di una cavia di 9 giorni, vicino alla quale se ne osserva un’ altra, molto più piccola con un solo nueleo e scarso protoplasma, che per gemmazione ha avuto origine dalla prima. (Medesimo ingrandimento). Fig. 8.* — Sezione di fegato di un coniglio neonato con 3 cellule giganti in gemmazione {oc. 4 obb. 8 Koristka tubo non allungato). Fig. 9.* — Sezione di fegato di un gatto di 7 giorni nel mezzo della quale si osservano dei nuclei liberi e delle cellule jaline. (Medesimo ingrandimento). Fig. 10.* — Sezione di fegato d’ una cavia con cellule jaline in via di moltiplica- zione indiretta. (Medesimo ingrandimento). Fig. 11.* — Sezione di fegato d’un gatto di 7 giorni con cellule epatiche di nuova formazione. (Medesimo ingrandimento). Fig. 12.* — Cellula gigante del fegato d’un coniglio di due giorni morto dopo 10 ore dall’ avvelenamento per arsenico (oc. 4 obb. 8 Koristka, tubo metà allungato). Fig. 13.2 — Cellula gigante del fegato d'un coniglio di 4 giorni morto dopo 14 ore dall’ avvelenamento per arsenico. (Medesimo ingrandimento). Fig. 14.8 e 15.* -— Due cellule giganti del fegato d’ un gatto di 7 giorni morto dopo 24 ore dall’ avvelenamente per arsenico. (Medesimo ingrandimento). pe. fem. Ser V. Vol. I CIS Ù . ci V. Mazzoni. IR è lil G.Wenk e Figli—Balogna SULLA TEORIA GENERALE DELLE SUPERFICI MEMORIA DEL PROF. ERNESTO PADOVA DELLA R. UNIVERSITÀ DI PADOVA (Letta nella Seduta delli 27 Aprile 1890). Convinto della giustezza di quanto nel 1826 scriveva il GeRGONNE, che cioè: » al punto a cui siamo arrivati oggi, abbiamo assai meno bisogno di crear nuove teoriche, che di ridurre ai loro minimi termini, se è lecito così parlare, le teorie di già conosciute; principalmente ove riflettasi che, in ogni cosa, ciò che avvi di più semplice e di più generale è d’ ordinario quello che riluce per ul- timo e svelasi al pensiero ricercante la verità in amichevole accordo col bello e » col buono ,, ho seguito l'esempio dato dall’ illustre CaeLINI, che appunto dalle riportate parole del GergonNE traeva incitamento a raccorre in quel modello di ma- tematica eleganza, ch'è la sua Memoria Della legge onde un ellissoide eterogeneo pro- paga la sua attrazione da punto a punto, quanto su quell’ argomento era allora noto, ed ho pensato che uno scritto ove fossero raccolte le principali proprietà delle superficie curve, dedotte da quella teoria della derivazione covariante, della quale ha recentemente arricchito la scienza il mio amico e collega prof. Ricci, insieme ad una succinta esposizione delle fondamentali proprietà di questa, potrebbe gio- vare al progresso della geometria. Ed è in tale intendimento che ho scritto la presente Memoria, nella quale sì troverà anche tracciata la via per ulteriori ri- » cerche sullo stesso argomento (*). (*) Mentre scrivevo questo lavoro ho avuto specialmente presenti per la parte geometrica le Ricerche di Analisi applicata alla Geometria del prof. E. BeLrraMI (Giornale di Matematiche Vo- lumi II e III) e le Lezioni di Geometria differenziale del prof. L. BrancHI (Pisa, 1886); ma dopo aver presentato all’ Accademia questa memoria è venuto a mia conoscenza un bel libro del dot- tor JonHanNES KnoBLaucd Einleitung in die allgemeine Theorie der krummen Flichen (Leipzig 1888), nel quale ho ritrovato alcune delle formule, che avevo dato in questo mio scritto. Ma è facile ri- conoscere che l’indirizzo delle ricerche del dott. KnoBLaucA è diverso dal mio. Infatti io cerco basandomi sopra sole considerazioni algebriche di costruire le espressioni invariabili, che si de- ducono dalle forme differenziali, che man mano si presentano, e la geometria mi serve solo a dare una interpretazione dei risultati ottenuti. TOMO X. 94 — 7146 — 1. Sieno «,, %,;...2,,% variabili indipendenti e si consideri la forma qua- dratica differenziale (1) P= Za, .de,de, (a,,=1,,); chiameremo a il determinante di questa forma ed °° l’ elemento reciproco ad 4,, in questo discriminante, diviso per @, sicchè sarà rs __dloga i Ag ove, nel fare la derivazione, si deve considerare l’ a,, come distinto da a,,. Tutte le volte che in seguito avremo da considerare una forma quadratica differen- ziale Ze, dx.da,,c ne rappresenterà il discriminante e ce'° sarà formato colle c,, r8 come da' colle @,,. Poniamo (2) 2a — DI == RA 098 da,., S (4) (3) ds, tifa TAI TE TRI sta Za'(a 77 t rana La135 41,34 x7,;) n Se alle variabili x sostituiamo » nuove variabili y fra loro indipendenti e con- sideriamo le x come funzioni delle y, ja $ assumerà una nuova forma e conver- remo di indicare con simboli racchiusi fra parentesi le funzioni delle y, che avremo da considerare, sarà allora P= Za, dx, de, = Z(a, )dy,dy, e fra le (a.) e le a, avranno luogo le relazioni BTR SELL dx, da, (4) (a) = 2a, dy. dy. dalle quali si deducono le altre È da, dx, 5 YU VS Gana pier) * Gage come resulta da teorie note dei determinanti, od anche semplicemente dall’ osser- vare che le a sono coefficienti di una forma quadratica reciproca alla @. ATE Posto 7 LOR (2') Na, Ea a a) dy, dy, dy, avremo per le (4) (6) (4,., ) = 2, (An 0,5; ii Ut) ove, per rendere più semplice questa formola e le successive, si è scritto 4, x" Ce MAT, | 2 3 SÌ per a dda, e questa notazione la terremo anche in seguito. Moltiplichiamo t di; S questa equazione per (a')x,# e sommiamo dando a # ed a & tutti i valori da. 1 ad n, avremo Z(0,,, Dati ZA; n° 83%; + xy° 0): Y un donde, cangiando gli indici per ragione di simmetria, 095 SASA ( \ hkm (7) a, = Za, (a) — Za gg xx. pv ii Ciò posto, indichiamo con &,, il differenziale dx,, dando ad % tanti valori quanti il caleolo ci dirà opportuno, ma intendendo che tutte le É,, sieno, qualunque. sia h, tutte uguali a dx,. Analogamente con 7, si indichino i differenziali dy,, sarà (8) La = DI M;n . Se si hanno 2n° funzioni iosa o) (verletolie ol prendonottità i valori da 1 fino ad n) le prime dipendenti dalle variabili x, le seconde dalle y e fra esse ha luogo l'identità (9) ZoUso:- osb Éo ino Usor +» + 03)Mo Mot» + + Nos è diremo che la forma plurilineare, che è nel primo membro, è covariante colla (1) e dalla (9) concluderemo che si ha (10) (Una ogg 066 pa GIO 0° 5 Vediamo di dedurre dalla (9) due altre forine fra loro identiche le quali con- tengano s+ 1 serie di variabili È ed % rispettivamente. Per ciò osserviamo che essendo la (9) verificata identicamente, la possiamo differenziare considerando le y 748 — come variabili indipendenti, di modo, che sarà d7,,= 0 ed avremo Ò U, PIP: = Zio ann Eno. . bo, Eos 43 >, (UPREIRPE TC eo Ep, pr. dip. fg 9)= Ps+1 (lr) = dg ÙYss Na No? DEI o; ir ‘e poichè dalle (7) ed (8) si ha Primim!1 doh = usi Zi Nalast+1 = Mala È (@,,)(@® i i 0 Li Ly 43 uv W così sarà dU, RR x dr En MEDIE . E, 3543 p Pst1 bi k Sia: z US DANA pei, Zayy at" E, ia Enne pnbon pH ETA Eosbvs,, == Leve UU 1-2 O =) go NolNog? <> Nos sti — Yos4 ar ia a, De Va” pass Lon È Sia Eo,_ pb HH -- Boa U, Pia *** Ps? ossia, valendosi delle (8) e (10) ) Ò Ugo» rode 00) [| DA = ori Si Dione; Vo, "e * pu—xsoh41°*° Ps ( (30 0 Uta E 34 = SH (PU) ata ) SAN s i Do dy mi 2(0°)B,(Aon2:4i)( Ug, eta, ZON eee 5) \ NoN, suole Nos FI | Gs+1 Ù dunque le quantità dU, 3 = PiPe Ps co) Rf ; (11) Up aa = — Za Ira ilhmoe paga : Osti Gib sono coefficienti di una forma plurilineare con s+1 serie di variabili covariante con $, le diremo col Ricor le derivate covarianti del sistema U,,,--., rispetto alla forma gd. Le funzioni a,,;n definite dalle (3) costituiscono il sistema di coefficienti di una forma quadrilineare covariante colla @. Si osservi infatti anzitutto che si ha 4, sum Asym Is. la Arm rs — 7149 — e che esse si annullano quando due indici da una stessa parte della virgola sono fra loro i Derivando la (6) rapporto ad y, e formando con essa l’ e- spressione X(a?°)(a ) si ha PI DA) ds, 19 m RATA IAA 3 ijh 4 Za Un PO RIA|2 d; L,%, UE (4, 0) nin ZE, Ag) = vs Za,%y X, 6 5E = IE UE EA AREA ZL ijhl: sottraendo da questa equazione quella che si ottiene permutando fra loro s ed %, abbiamo (12) i CALZA (a Uitar ihyjk'i come volevamo provare. Premesse queste poche nozioni sulla derivazione covariante e rimandando alle memorie del Ricci inserite nei Vol. III e V dei Rendiconti dell’Accademia dei Lincei per uno studio più esteso di quella teoria, occupiamoci dell'argomento che più specialmente abbiamo in vista. 2. Sieno X, Y, Z le coordinate cartesiane ortogonali dei »unti dello spazio rispetto ad un dato sistema di assi e prendiamo a considerare quei punti, le cui coordinate sono funzioni continue di due variabili indipendenti %,, z,; essi appar- terranno ad una superficie sulla quale il quadrato della distanza di due punti in- finitamente vicini vien dato da (13) dei Sade dei) È i dX ove, se per brevità si scrive .X, per dal: è (14) a,=XX+Y,Y+44,. La forma differenziale (13) sarà quella per noi fondamentale, che abbiamo nel $S 1 chiamato @. Gli elementi delle linee #,= cost., x,= cost. sono dati rispettiva- mente da j/a,.de,} /0,,-dx,, quirdi il coseno dell'angolo ®, fra essì compreso, è dato da DORIA E coso = Ta==" Malian Vart» per cui è — 750 — ‘ L'area del quadrilatero compreso fra le linee g=0, &=G, x=04+6; o, = C+ E) OVE le €) 6, Sono costanti e le €.) €, Sono pure costanti ma picco- lissime, è do =|/4-€,6,. Se S è una funzione qualsivoglia di ,,, soggetta però alle condizioni di continuità e di derivabilità, la quale, quando alle variabili %,, 4, sì sostituiscono due altre indipendenti y,,Y,; 81 indica con (5), ed (S.) ne è la derivata rapporto ad y,, avremo identicamente (15) ZI Z(S)7P e la forma del primo membro sarà covariante colla (13). Covarianti colla (13) sono pure le due forme bilineari (16) DSISICHLO ; Deco ove T' è una seconda funzione di %,, x, finita, continua e derivabile. Invarianti assoluti comuni alle (13) e (16) saranno 17) Za:8.S,, Za"S.T. r8 li indicheremo con A,8, VST e li chiameremo rispettivamente parametro differen- ziale del 1° Ordine di S e parametro differenziale misto di 1° Ordine di S e T. Il loro significato geometrico è questo : Se S= cost. rappresenta un sistema di curve sulla superficie, delle quali di regola una passa per un punto qualsiasi 2,,%, € dS è l'aumento di S, quando dal punto %,, %, si passa al punto 2, +dz,, 2, + dz,, situato alla distanza dn» dal primo e sulla linea della superficie normale ad i ds © 1 : S= cost. nel punto %,,%,, sì ha vw VAS. Infatti presi sulla superficie tre punti fra loro vicinissimi di coordinate 2,, %,j 2, +d2,; + dx); tr, +dx,, a, +d%,, il coseno dell’ angolo, che i due elementi ds, ds che partono da 2,, 4, e vanno agli altri due punti, fanno fra loro, è dato da a Ate Aa Adda) + (Vo + E dada, + Y, da) + (A dot Z da Adx, +Zd1) o == dsòs __ do da, +a,(dr,da,+ dx,dx,) + 4,Adx,d, dsòs i la condizione di ortogonalità è data quindi da (18) adx,dx, + a,(d,cdr, + dr,dx,) + agdxe dr, = 0 — 51 — ed inoltre avremo die da dxr,— dada (19) send=t DE a. 3 . 5 - da S Se ora l'elemento ds appartiene alla linea S= cost., si dovrà avere 2 = — s! X, k 2 1 quindi le coordinate x, + dz,, #,+ dz, dell’estremità di dn dovranno soddisfare I equazione (a19— a 8)dr, + (a, — a,9)dr,= 0 Eliminando fra queste equazioni e le due òs= dr, + Sdr,, d=a,dr + 24,0r,0x, + 4,dr7 Ci : ds? | le dr,, dx, si avrà a) {AS Se gli elementi ds, ds appartengono alle linee S = cost., 7'= cost. si avrà i ) VST Sd, + Sda,= 0, T,dr,+1,0x,= 0 e conseguentemente cos 4 = ——__. VA ATSTATE Dalla (19) si deduce poi che il rapporto anarmonico dei quattro elementi dati dalle due equazioni 2b,,dx,dx,= 0, Ze dx dx,= 0, e che partono da uno stesso - VV punto, è dato da — - = e quindi quelle quattro direzioni formeranno yu eZb,e'° — 2V/b un gruppo armonico se l’invariante comune alle due forme è nullo. Se con a, 8, y si indicano i coseni degli angoli che la normale alla superficie nel punto x,, x, fa cogli assi delle X, Y, Z, dalle equazioni aX + BY+yZ,=0, aX+B8Y,+yZ,=0 avremo ay/a =Y4h_- YZ, B/a= ZX,—X4g; ga ANI, e ne dedurremo ( B+f=AX, a+fy°=AY, a+68=A%Z, 20 SR \ — a8=VXY, — ay=VXZ, — By= VYZ. Pongasi ora, rappresentando con a,, 8,7, le derivate di a, 8, y rapporto ad «,, bi; = d,4, Sta 8,6, 3 Vate ) LAT la forma differenziale 20,,dx,dx,, covariante alla (13), rappresenta il quadrato dell'elemento lineare della sfera di raggio uno, quando se ne facciano corrispon- dere i punti a quelli della superficie, per modo che siano fra loro parallele ie normali nei punti corrispondenti e sovra di essa si prendano per linee coordinate quelle corrispondenti alle linee x,= cost., #,= cost. della superficie. Le espres- sioni —, Za"*5,, sono invarianti assoluti e poichè rappresentano i rapporti dei coef- rs COTTE della equazione an Ob, ig 00, |=0, Vr Oh, an ob,, si riconosce facilmente che le radici di questa sono indipendenti dalla scelta delle linee coordinate. Ora se per linee %,, 7, si scelgono quelle di curvatura della su- perficie, per le formule di RoprIetrz, che sono una immediata conseguenza della definizione stessa delle linee di curvatura, avendosi ag= bg=0, PIV PV dae V Up; vediamo che quelle radici non sono che i quadrati dei raggi di curvatura, per sable 1 Late 5 cui sarà 20, a°=;{(--+—]), ossia ciò che il Cascrami ha recentemente pro- a 1 2 si LE 5 1 posto di chiamare la curvatura della superficie in quel punto, e - = ——, ossia a È 3 152 il quadrato della curvatura gaussiana, Derivando covariantemente alla (13) la forma lineare Xda + Xdr, abbiamo DX 66 men Ove Xx, e, — Za, USD, dx, donde si vede che è X.=X..; analoghe formule valgono per le Ye Z. Se per 2y7 brevità si scrive X* in luogo di -— , si ha dx da, XX DA ZZZ d, SP quindi (21) X,=X1—AX)— Y"VXY—-Z"VXZ=aaX"+BY"+ yZ") ed analogamente gr — B(AX + BY" + OVADE a y(aX° + BY"+ yZ”) : -— 7153 — ora, poichè dalla identità DMUENEE == Z(X,.,)7,7% dividendo per a si passa ad una nuova identità, così se si pone anche le A,,, per le quali si ha A4,,= A4,,, sono coefficienti di una forma qua- dratica covariante alla (13). Per questi coefficienti si hanno varie espressioni, così dalle (21) si ha i | EXas IA s VA | (22) dova REI ZI | 7 | GHZ | ed avendosi aX+BY+yZ=0, aX,+BY,+yZ,=0 sarà anche — Ag=aX+0,Y+7%4 (23) — Ag=QX+8,Y+yZ=aX,+B,Y,ty4 — Ag=a4X,+0B,Y+74g Da queste equazioni, tenendo pure conto che si ha aa + BB+yy=0, da + 86,4 yy,=0 si deducono le altre ch (a= — (@°A, +0 A,)X — (@°A, + d°4,)4, la,=— (a°A,+ a A4,)X — (@°A, + a°A,)X, e quattro analoghe per le derivate di 8 e di y; da queste otteniamo AX=(GAg Az Agg) 4, + (de d34,)4 12° 12 AX, ma (454,5 pri UA,,)% ata (2,4, Tu A A,,))4, . TOMO X. 95 (25) — 154 — Quindi, poichè muovendosi sulle Enee di curvatura, si ha ( Xda + Xdex,= p(ade, + a,4x,), (26) Ydx, + Ydx,= p(B,dr,+8dx), Zdex + Zde,= p(y,da, + ydx), così avremo a[(p +a,4°+ a, A4)dr, + (4,4! + a, A”)dr,] + + af(a,A°+a,A4)de, +(p +a,4°+dg,A”)dr]=0 e due formule analoghe, cangiando a in 8 ed in y. Ma ie equazioni TIT equivalgono alla equazione a derivate parziali, che spetta alle superficie svilup- pabili, se escludiamo che la superficie considerata sia sviluppabile, vediamo che i suoi raggi di curvatura principale sono radici dell'equazione 11 12 ll 12 can | pta,A'+a,4 a,Af'+a,A4°|=0 an4’+a,A4° p+a,4°+a,4” ‘ossia Il Ag + Pi» 105 2 + % da Gg + PAS a+ pi, Da questa equazione si deduce immediatamente che, se le linee coordinate sono quelle di curvatura, si ha (27) le ceh=023 An= — Pb — DI 1 2 e conseguentemente 4,= 0. Osservando poi che i rapporti dei coefficienti della equazione (28) Ant Po, Ag+ pos |=0, At Ph, Ant Pb sono invarianti assoluti, se ne deduce, scegliendo per linee coordinate le linee di — 7155 — curvatura, che essa ha per radici p,, p, e che si hanno le relazioni a A a E AI <=5=\=?n. ZA, b°= Za A°=—(p,+ pò). 3. La espressione Za"X., è un invariante assoluto, lo indicheremo con A,X, riservando la notazione A_,X per l’altro invariante assoluto Xdy La XgAo 4 a ’ osservando allora che si ha Il Da" A,,= — (=

nai 7 Za GA, Fer d9;A3;) 7 da dico che i secondi membri di queste equazioni sono nulli. Si moltiplichi infatti la I prima equazione per a, si avrà Va 7 SA) dA Rush OX u2 121 da, Dai =AXApTGa tx tai Ago 121 AA. 2 + ZAC circeo = 19,14 e poichè per le (24) si ha A Ire i LI ACGIPAT ERA Todi CAINO ‘così sarà i A(Ang — )=0, A ‘e poichè analogamente si troverebbe Io Ag) = “gio 0, VAns = Ag) = =0 — 165 — ‘si riconosce che deve essere A,,, = A4,y- Nella stessa guisa si mostrerebbe che «deve essere A4,,, = 4,3. Quindi poichè si ha evidentemente A,,= A4,,, si vede «che la permutazione degli indici in A4,, non ne altera il valore. Le equazioni ; dA dA x dA dA :(41') DÈ Ll + DI ds Da + Za ag A, ; % << + 2: QiannA i 3 + Za'a,9;Axy 2 1 È 2 sono note col nome di formule di Copazzi. Queste, insieme alla relazione stabilita ‘al $ 7, esprimono la condizione cui devono soddisfare le funzioni A,,} 4,3 4» per avere il significato che abbiamo loro attribuito in questa teoria. Infatti per che le A4,, abbiano quel significato devono esistere tre funzioni X, Y, Z di %,, x, tali «da verificare le sei equazioni :(42) DI uni DIE REZA 2 Us aX"+ GY"+yZ"=4,, a) 4 BY°+yZ°=A,, aX?+BY°+yZ?= A,,; ‘ora dalle (42) si ha (42) ans = ZIA" ‘e da queste sei equazioni e dalle (43) ricaviamo per le X**, Y", Z°° le espressioni (44) X*= aA4,,+ da"a,,,X, Y°=BA,+20"a,,,Yx, 4=YAnt Za" aronby È hk hh 1A Per la coesistenza di queste equazioni basta che si abbia XI —_ XI È XK? —_ X°R (e quattro analoghe mutando successivamente X in Y ed in Z), quando negli sviluppi si pongano per le X” le loro espressioni (44). Ora queste equazioni svi- luppate danno Ang — Aa) + And A, e Ary 9 2,0 X, = =0, AA Ago) + Ag 405 + hggg Ba X, = 0, ossia, poichè le (43) equivalgono alle (23), dalle quali abbiamo dedotto le (24), (Ang Ag) + (Ugg AZ0X,= 0, Ag — Ago) + (ig AZAVA, = 0, — 166 — ed oltre a queste avremo come equazioni di condizione altre quattro che se ne deducono cangiando X in Y ed in Z e contemporaneamente 4 in 8 ed in y. Mol- tiplichiamo queste equazioni per a e le omologhe per 8 e y, sommandole tre a tre, ne dedurremo, stante le relazioni IX, +BY,+yZ,=0, le altre ARSA ne e quindi. a, , = A 121? 221 212 12,12 come volevamo dimostrare. Se queste equazioni sono soddisfatte, dalle (42), (43), note che sieno le A,,, ne dedurremo, per un teorema noto di Lie (*) le X, Y,Z in funzione di %,, x, € queste saranno determinate a meno di 6 costanti arbitra- rie ; il che esprime che la superficie è allora individuata, soltanto non è fissata la sua posizione nello spazio. 9. Le formule di Copazzi sono fertili di utili conseguenze, ne indicherò alcune. Quando si scelgano come linee coordinate sulla superficie le linee di curvatura, le (41) divengono ll 22 ll i (41) dA, __ DAT 4,04, DA» _@ Antr4Agz0d04 5 È A ' = , dx, 2 dr, dr, 2 dz, 3 Sie REI: È ie ossia, se chiamiamo @,, @, le due curvature principali, vale a dire —, —, Pi Po do, AQ — 0 dloga, do, - ’ dr 2 LA __O,— 9, dloga, da, 2 dE 1 La condizione necessaria e sufficiente perchè le linee di curvatura sieno isoterme sarà dunque p d ( 1 Di d ( 1 Di ERA Lt £ —. 0 ° dx, \0, — @, dx, dx, \0, — @, d2, Questo non è che un nuovo aspetto della equazione dalla quale parte il sig. \er- cartan nella sua elegante memoria Ueder die Differentialgleichung der Oberfliichen,. welche durch ihre Krummungslinien in unendlich kleine Quadrate getheilt werden koònnen e pone subito in evidenza che la condizione è soddisfatta per le superficie a curvatura media costante. Che questa equazione equivalga a quella dalla quale (*) Vedasi SoPHus Lie Theorie der Transformationsgruppen Erster Abschnitt. Kap. 10. (Leipzig, 1888). — 167 — iu DITER : : parte il Sig. WeInGarTEN si riconosce facilmente, osservando ch’ essa esprime la condizione perchè sia un differenziale esatto od anche l’altra espressione 1 NA do, pavia line o, — 0, \ dg, dx, che si deduce da essa sottraendone il differenziale completo d log (0-0); ma questa espressione moltiplicata e divisa per ©, — @,, e tenuto conto delle (25), si trasforma nell’ altra d(0, =i d(@, + 0) d(0, + 0,) RS nda miao ‘a+ Za dy — d( 0,0,)] che è appunto quella considerata dal WeEINGARTEN. Anche il problema : trovare la condizione cui devono soddisfare le curvature principali perchè le immagini sulla sfera ottenute al modo di Gauss delle linee di curvatura, sieno un sistema di linee isoterme, è facilmente risolubile. Perchè le (41°) possono seriversi anche così (417) dlog 4, _0+9,dlogo, dlogA, @ +0, d log ©, ) b) dx, 0, O, da, de, o—®, dz, e poichè si ha dalle (27) AO, + Ong SME = ne deduciamo n diog bi, 2 GP allo: 0 MS LO: FA <= Seni Sa Ad, pe P, 4%, Li P. Pa 4%, quindi la cercata condizione sarà d 1 ser) d ( SI des) An de, * de, Po Pi da, “SL Dalla quale risulta subito che la indicata proprietà appartiene a tutte le superficie nelle quali la somma dei raggi di curvatura è costante. Questa condizione è su- — 7168 — scettibile di una trasformazione analoga a quella eseguita su quella del problema precedente ; essa equivale infatti a dire che deve essere un differenziale esatto l’ e- spressione IRON UP, + Po) UP,+ Po) UP TP )l apporta da ref 7 a) pp» quando si considera come funzione di ,; %,. Ragionando come il Wersearten ha fatto sulla espressione or ora trovata si potrà ottenere l’ equazione differenziale del quarto ordine, che spetta a questa classe di superficie. Le (41') danno anche una facile soluzione del problema : trovare la condizione. cui deve essere soggetta la curvatura totale di una superficie perchè essa sia ap- plicabile sopra una a curvatura media costante. Prendiamo su quest’ ultima due si- stemi di linee isoterme, ortogonali fra loro, per linee coordinate, il quadrato del- A 1 : l'elemento lineare sia A(def + de) e si ponga pr ul — 2c, si avranno le 1 2 relazioni dA dA di dA dA dA a mo = TR +c To ca = TE, +c gn AptAg=24c, AAg=A4g +41 e col porre 9 99 2 1 DI RIME ie a 3 log (c°4° — 4,39) ; si avrà, con facili riduzioni, 0: SC dAis_ pn dBA: e df df A,=4c+ È, A,=A4cT— R, ela do i e quindi DIE kd Ra df df if d ei ed ; da, de, dx, da, dr, de, dx, da, ossia RAAf= 0. Ma si ha R=0, ossia 4° = Ag +4, Soltanto se la superficie è una sfera (poichè prese per linee coordinate quelle di curvatura, che sulla nostra superficie pel teorema or ora dimostrato costituiscono un doppio sistema di linee isoterme, 6 Il Il 3 SUE Agna : uesta equazione dd — = —, ossia tutti i punti di quella superficie sono ombe- ) 1 Po lichi); escluso che la superficie a curvatura media costante ora considerata sia una sfera, la condizione cercata è dunque A°f= 0, ossia A° log 4° + A° log (@— K)=0 gg ove K è la curvatura gaussiana, e poichè si ha AC gg > eo questa equazione assumerà la Eni A°log(e@— K)= 4K; questa resta invariabile non solo al cangiare coordinate sulla superficie, ma anche. quando si deforma la superficie stessa, quindi è la cercata condizione cui deve. essere soggetta la curvatura totale di una superficie perchè essa sia applicabile sopra un’altra a curvatura media costante. Essa coincide colla formula già tro- vata dal prof. Ricci per le superficie applicabili su quelle di area minima, quando vi si faccia c=0. 10. Se osserviamo che si ha dl TCIÌ 1 TA 1 (45) gna (È Sr | = — Za; sl? cali (È a DI i Za” A, da, \P, Ps rs da, \P, Pa rs i HE dla 3 1 1 È È sì riconosce che l’invariante assoluto A, — +—} può esprimersi per le a,, e le. 1 2 A,» Parimente avendosi dloe K d loe K È Bee TDI ET na > T8/ e) -— 34” * (46) o AGATA da, PS Z AA A(0) si riconosce che la espressione A, log X, invariabile col cangiare le coordinate sulla superficie ed anche col deformare la superficie stessa, è esprimibile per mezzo delle a,,, 4,5) 4,,g- Ma il modo più naturale di costruire delle espressioni invariabili che contengano le 4, è di partire dalla forma cubica ZA,,é,é,é,, co- variante colla (13) e colle altre giù considerate e costruire gli invarianti assoluti comuni a tutte queste forme. (*) Le (45) e (46) si ottengono facilmente sostituendo alle derivate delle A,, le loro espres- sioni per le A,,;, si ha infatti d Pi Doni SANI Li dai la, = Za'A rs + x [a'*aP2(A,,01554 mu Asp%r,9) si A'2a"(A154 la CoA = Za'"A rsl 1 rspq d a da(A «dA, dloga Sia dloga Leu e SI E (SN AA NA XA A°°aP1(A,.A15,4 spQima) — —P— = da, °° È A 22. 3) a da, da, si (TZ ida) dx Ù da dloga ; AVA D I LISTA da, dx, come volevamo provare. TOMO X. 97 — 710 — Noterò fra questi i seguenti (*) CR A) L12122 1 AzA= glAnfAgg + 44m A 1 DI ” A,A =" lA 04000 ani 265) — 4g dalia 4, 124 P n) + 4g sera RX i) 1 (MATA = x A, 4,9 — 64,4 ,90,9%5 + 6A n Aoo(20,5 — 4,,0,9)0g + + 2A, 4354(30,,4,, — 40,7) + 94,54; di gi + + 6A 0A ggo(20,3 — 4,09) + VA 9 dp dot Agg — 64,99 Ag9t54p ] A,P [And — o AN AI FA 199, Pi — FA PP, ] l’ultimo dei quali è un invariante comune alle due forme cubiche DIANE, (P,6, Fun PE) Con queste notazioni sì riconosce che si ha N (3 SIE 1 )= AA +84, A. Pi 2 Se dalle (45) (46) si traggono i quattro coefficienti A,,y in funzione delle : È I : È A, A, e delle derivate di LE +1) e di log XK si vede come le nostre 2 1 Po espressioni invariabili potranno trasformarsi in altre che conterranno esplicita- mente le derivate delle curvature principali e quindi si presteranno meglio alla interpretazione geometrica. Così l’invariante comune alle tre forme quadratiche covarianti Za,b,531 DArsb,b,, Cia AE (Anso ho EE Ciclo A) Gi (*) Vedasi per esempio la 17° delle Lezioni di Algebra superiore di G. SaLmon. Cene l’ultima delle quali è l’ hessiano della forma cubica, è dato da an in Ami Ano =| Gig on Amm |=@4|0H dlog K 1 1 DR, 1 de, da, 2 2! 111220 AI Ag) gini — An) Ago ER C log K GALA LA —_ du dgAzg — Ugg Ag Ago Asso diva, quindi il suo annullarsi rappresenta la condizione necessaria e sufficiente affinchè i raggi di curvatura sieno uno funzione dell’ altro. Possiamo enunciare questo ri- sultato in altra forma. Si considerino nel piano tangente alla superficie in un punto qualunque le tangenti alle curve rappresentate dalle equazioni (48) DA de dA 0 i raggi di curvatura saranno funzione uno dell'altro, se le tangenti alle linee di curvatura apparterranno alla involuzione quadratica determinata dalle due coppie di tangenti alle linee (48). Quando per linee coordinate si prendano le linee di curvatura si ha da ( (49) A = Ang Ap = 4: 1 2 er consecuenza l'equazione di forma invariabile A, A= 0 si trasforma nell’altra te) q 31 do, da, — 0,) ; do, do —0,) _ = Ol, da, ua.cA da, donde si vede che con A, A=0 si può rappresentare la condizione che la diffe- renza delle curvature sia costante in ogni punto della a Se per linee coordinate si prendono le linee di un sistema @ = cost. e le loro traiettorie ortogonali w, l'equazione A,@=0 darà e se le f= cost. sono linee di curvatura, questa equazione esprimerà la condi- zione perchè queste linee sieno a curvatura costante o sferiche. Se dunque fra le equazioni | 4 An Pi | =0 A,,P =0 e 19 LU, PP, | Ì dog Ag DÌ | eliminiamo @, e $, otterremo una equazione fra le a,,, 4,,, 4, che ci esprimerà la condizione perchè la superficie abbia un sistema di linee di curvatura sferiche Quando una condizione posta ai raggi di curvatura di una superficie, sia, come negli esempi precedenti, esprimibile per mezzo di una relazione fra le A,,, 4,33 As il problema della determinazione di quelle superficie, le quali essendo applicabili sopra una data, godono di quella proprietà si potrà risolvere cercando da prima ‘quelle funzioni A,,, che, oltre al soddisfare le equazioni di Copazzi e la relazione A= 43,3, verificano la nuova equazione e determinando poscia le superficie cor- rispondenti a quelle funzioni a,,, 4,,- 8 DELLE STRUME TIROIDE ACCESSORIE ED IN PARTICOLARE DI UNA MEDIASTINICA E DI DUE CERVICALI NELLO STESSO INDIVIDUO MBEMORILTA DEL DOTTOR GIOVANNI D° ASUTOLO AJUTO ALLA CATTEDRA DI ANATOMIA PATOLOGICA NELLA R. UNIVERSITÀ DI BOLOGNA (Letta nella Seduta delli 27 Aprile 1890). (CON UNA TAVOLA) In questi ultimi decennii, in grazia delle accurate ricerche di Anatomo-patologi e di Chirurghi, a quando a quando nel collo e nelle regioni finitime si son venuti scoprendo dei tumori costituiti da sostanza tiroidea, ai quali è stato dato il nome di Strume thyreoide@ accessorie, per essere più o meno distinti e separati dalla glandola tiroidea normale. i Per lungo tempo questi gozzi accessorii vennero confusi con i tumori linfatici, e quando ne fu rivelata la vera natura, non mancarono patologi che li vol- lero ritenere perfino come neoformazioni vere e proprie. Ma per gli studii del nostro Prof. Porta (1), del Virchow (2) e di altri, si è finalmente stabilito, che essi debbono essere considerati come uno stato patologico di quelle particelle di sostanza tiroidea, che separandosi dalla massa comune nel periodo di vita embrionale e ren- «dendosi più o meno indipendenti, costituiscono ciò che va sotto il nome di g/andole tiroidee accessorie. Vedendo il WoXler (3) — uno dei più competenti e dotti scrittori in materia di gozzi — che le strume accessorie avevano rapporti poco costanti colla glandola normale, pensò bene di classificarle, e le distinse in due categorie : in vere e false. Chiamò vere tutte quelle che sono, o completamente isolate (isolirte) dalla glandola normale, o collegate (alliirte) colla medesima mediante connettivo e vasi. Denominò false tutte quelle altre, che sono unite alla glandola normale per un picciuolo più o meno grosso di sostanza glandolare e che possono essere considerate come propag- (1) Porta G. B. — Delle malattie e delle operazioni della ghiandola tiroidea. Milano 18:9, p. 8. (2) VircHow R. — Die Krankeiten Geschwilste. Bd. III, S. 13. Berlin 1863. (3) WéoLFLER A. — Zur Anat. u. Pathol. des Kropfes u. Nebenkropfes. Langenbeck's Arch. Berlin 1890. Bd. XXXX. S. 241. — T14 — gini della glandola stessa spintesi più o meno lontanamente ; come videro Bruns (1), Huber (2), Braun (3), Kocher (4), Kaufmann (5), Bruning (6), e Wolfler (1). Prescindendo ora da queste ultime, che abbiam voluto semplicemente ricordare, noi dobbiam dire che le strume tiroidee accessorie vere costituiscono un reperto non punto raro, tanto più se si consideri che non sempre la Chirurgia interviene in casi di tumori nel collo, nè sempre l’ Anatomia patologica è chiamata a decidere (#). Finora ne sono state osservate parecchie ed in sedi diverse, ora vicine alla glandola normale (dette pertanto strume thyreoide prorime) ed ora lontane da essa (dette perciò remoto, seu aberrantes). Esse sono state vedute : nella lingua, da Wolf (8) e da Butlin (9); nella regione retrofaringea, da Czerny (10) e da Weinlechner (11); nella retroesofagea, da Zenker (12); nella sottomascellare, da Demme (13), da Pinner (14), da Hafter (15), da Socîn (16), da Hanel (17); nella intralaringo-tracheale, da Ziemmsen (18), da Bruns (19), (1), (2), (3), (4), (5) sono riportati nel citato di Kaufmann (Die Struma retropharyngooesophagea. Deutsche Zeitschr. f. Chir. Bd. XVIII. S. 256. (6) Brunina — Ueber retropharyngooesophageale Strumen. Diss. Wurzburg 1866. (7) WoLerLerR — lav. cit. pag. 241. (*) Eccone una prova. Il Prof. CaseuLI V. (Riforma Medica, pag. 591, 1889) riferì alla VI Adu- nanza della Società Uhir. ital. tenutasi a Bologna nei giorni 16, 17 e 18 Aprile 1889il caso di un suo operato di asportazione del lobo destro della tiroide del peso di 320 grammi; nel qual caso si ebbero fenomeni di tetania del Trousseau dal 7° giorno in poi e che scomparvero poscia all’ appa- rire di un corpo molle elastico, rotondo nello spazio tirojoideo, che raggiunse in pochi giorni 2 centim. di diametro. Detto corpo era probabilmente una glandola tiroidea accessoria; ma, senza l’esame istologico, chi può affermarlo senz’ altro? — Il Prof. Bassini annunziò allo stesso Congresso chirurgico il caso di una ragazza da lui operata di asportazione totale del gozzo, nella quale compar- vero sintomi di cachessia strumipriva, che sparirono all’ apparizione di alcuni tumoretti ai lati del collo e delle fosse sopraclaveari, i quali risultarono composti di una forma di tessuto adenoide e da considerarsi probabilmente come iperplasie tiroidee accessorie. A questo proposito dirò che talvolta si trovano citati casi, ma senza una parola di nota. Per es. SALTIZMANN avrebbe eseguita una « Extirpation einer strumòs degenerirten accessorischen Glandula thyreoida (Finska lakaresàllsk. handl. Bd. 28. 1858) »; ma dov'era collocata questa glandola, non si sa. — Il Jahresb. di Virchow e Hirsch, che riporta la notizia bibliografica, non dice nulla. (8) Worr Run. (Hamburg) — Ein Fall von accessorische Schilddriise in der Zunge. Deutsche Med. Wochensch. n°. 31. 1 Aug. S. 638. Berlin 1889. (9) Burrin — Tumeurs glandulaires de la racine de la langue. La Sémaine méd. p. 87. Paris 1890. (10) Czerxr — cit. da Wolfler. (11) WEINLECHNER — Ueber einen bemerkenswerthen Fall. v. Schildrissenknoten. Wien. med. Blîtter 1882, n°. 50. Centralb. f. Chir. Leipzig 18S3. S. 141. (12) ZengeR — Handbuch der spec. Pathol. u. Therapie 1877. Bd. III, 1 Heft. S. 21. (13) Demme — XVI med. Bericht ueber die Thitigkeit des Jenner” schen Kinderspitales 1878. S. 61. (14) PinneR — Die antiseptische Wundbehandlung mitessigsaurer Thonerde. Mittheil. aus d. chir. Klin. zu Freiburg. 1882, cit. da Wolfer. (15) Harer — V. KocKER -- Ueber Kropf extirpation mit ihre Folgen. S. 81. Fall. 233. (16) Sociny — cit. da Wòlfler. (17) HaneL — Ueber versprengte Strumen. Inaug. Diss. Berlin 1889. S. 6. (18) Zieumsen — Struma intralaryngea. Handbuch des spec. Pathol. u. Therapie. Bd. IV. 1875. (19) Bruns — Die Laryngotomie zur Eutfernung intratracheale Neubildungen. Berlin 1878. — 5 — da Heise (1), da Roth (2) e fin nel bronco destro da Radestock (3); nella regione joidea da Iouget (Vernewil) (4)e da Liicke (5); nella cricotiroidea da Langenbeck (6); nella sopracelavicolare da Madelung (7), da Liicke (8), da Hinterstoissier (9) ecc. Solo nella regione retrosternale, a giudizio anche del Wòo/}er (10), non sono state de- scritte strume tiroidee accessorie ben certe (*), ciò che renderà degna di nota 1’ os- servazione mia. Esaminando comparativamente le varie osservazioni, si rileva che le strume tiroidee accessorie si sono presentate più frequentemente nella donna che nell'uomo, non è dato di stabilire rapporti statistici esatti, purchè le notizie non sempre furono complete. — Si sono presentate ordinariamente uniche e solo di rado multiple: Zencker ne vide una volta due nello stesso individuo, Madelung ed Hinterstoissier tre. I caratteri delle strume hanno variato notabilmente; invero oscilla : la forma loro, dalla rotondeggiante alla appiattita; la grandezza, da un’ avellana a quella d’un pugno d'uomo; il colore, dal rosso bruno al giallo ; la superficie, dalla levigata regolare alla bernoccoluta ; la consistenza, dalla fibrosa alla fluttuante. Tale variabilità di caratteri del resto si spiega facilmente, se si tien conto della sede delle strume, dell’ età in cui si sviluppano, e della varia costituzione loro. Ccsì, se la struma non è ostacolata nella sua evoluzione, la forma che avrà, sarà certamente roton- deggiante; ma se invece sarà ostacolata in qualche direzione, essa di certo sarà più o meno appiattita, come di fatto suole presentarsi nella laringe e trachea. Così pure, se data da lunghissimo tempo, la struma molto facilmente offrirà un volume notevole; se ha 1 vasi (di cui è d’ ordinario ricca) molto injettati, sarà di color (1) Heisa — Ueber Schildarisentumoren in Inneren des Kropfes und der Luftròhre. Centralb. f. Chir. 1887. S. 649. (2) Rora — cit. da Wolfler. (3) Rapesrocg — Ein Fall v. Struma intratrachealis. Beitràge zur Path. Anat. di Ziegler. 1888. p. 285. Bd. IL (4) Roueer — V. VERNEUIL — Recherches anatomiques pour servir à l’ histoire des Kystes de la partie superieure et mediane du cou. Arch. gén. de med. Vol. I. Serie V. Paris 1853. (5) Locke — Pitha. u. Billroth — Handb. der allg. u. spec. Chirurgie. IL. 1. S. 283. (6) LanGENBECK — V. KròxLEIN — Arch, f. Klin. Chir. Suppl. Heft. 3, Bd. 21, S. 131. (7) MapeLUNa — Anatomisches u. Chirurgisches iber die glandula thyreoidea accessoria Langenbeck's Arch. S. 71. Berlin 1879. (3) Locke — Lettera a Madelung. loc. cit. (9) HinrERSTOISSIER — Beitrige zur Lelire vom Nebenkropf. Wien. Klin. Wochensch. n°. 32-34. 1888. Zeitschf. f. 1898. IL S. 511. (10) WéLeLER — lav. del 1890. pag. 189. (*) KoraczeK (Breslauer &rztille Zeitschrift 23 Januar 1886: cit. da Wòolfler. 1890, pag. 193) in un malato di 74 anni operò un gozzo, della grandezza di un pugno d’un uomo, posto nel lato sinistro, e che era congiunto mediante connettivo compatto con un tumore gozzoso retrosternale, il quale nella sua parte principale constava di una cisti, e nel rimanente di un tessuto bianco omogeneo, che al microscopio risultò quale carcinoma tiroideo. ll WéocLFLER (pag. 194, lav. del 1890) non crede che sia derivato da una glandola tiroidea accessoria. — 16 — rosso più o meno cupo; se ha sofferto a degenerazione cistica, sarà fluttuante ece. Un carattere, che si presenta quasi costante, è la spostabilità delle strume. Es- sendo esse rivestite di capsula fibrosa e circondate da tessuto connettivo lasso, si comprende facilmente come esse abbiano a poter scorrere sugli organi vicini. Ciò è di molta importanza dal punto di vista clinico, giacchè insieme con gli altri caratteri, di sede, di consistenza, dell’ età in cui sì sviluppano, ecc., vale a faci- litare di molto la diagnosi differenziale con altri tumori ed a favorire benanco la diagnosi diretta di struma in qualche singolo caso. Le strume appajono d’ordinario nella pubertà; qualche volta però si son viste subito dopo la nascita (Liiche) o nel 1° anno di vita (Langenbeck), ma ciò è raro. Non conosco esempii di strume svoltesi nell’ età inoltrata. — Esse si svilup- pano lentamente, talchè spesso occorrono molti anni prima che raggiungano le proporzioni cospicue testè ricordate. La struttura delle strume accessorie varia come quella dei gozzi della glandola tiroide : alcune volte sì presenta a forma di carcinoma, di adenoma gelatinoso o di cistoadenoma papillifero carcinomatode (Hinterstoissier), ecc. Oltre a ciò le strume accessorie sono ora infiammate (Hafter), ora suppurate (Luecke), ora con degenerazione cistica (Schluter (1), Madelung). — Un carattere anatomico di qual- che rilevanza nelle strume consiste nella presenza di molti vasi venosi pericapsu- lari, e noi vogliamo ricordarlo, poichè secondo il Langenbeck, esso servirebbe a distinguere le cisti tiroidee da quelle che provengono dalle fessure bronchiali e che ne sono sprovviste. Da ultimo notiamo, che quando esistono strume tiroidee accessorie, d’ ordi- nario la glandola normale è ancor essa ammalata. Nondimeno si sono avuti dei casi in cui la glandola tiroide non era alterata affatto, e questi casì ci vennero riferiti dallo Schluter è dall’ Hinterstoissier. Qui avrebbe termine la parte generale del lavoro, se non restasse una questione: Come si spiega, che le strume tiroidee possono trevarsi in punti, ora più ora meno lontani dalla massa principale, rappresentata dalla glandola tiroidea? La spiegazione coll’ aiuto dell’embriologia moderna non è punto difficile. Mercè gli studi, di Born (2) e di Fischelis (3) sopratutto, oggi è risaputo che la glandola tiroide normale ha diverse origini, una mediana dal I arco branchiale in corrispondenza della futura radice della lingua, e due laterali nella parte posteriore del IV arco branchiale (Born) ai lati della laringe. Da questi tre punti in un certo periodo di sviluppo si veggono comparire delle gemme epiteliali, le quali poi sviluppandosi maggiormente sì ramificano, si segmentano, dando luogo ad altrettanti ammassi (1) ScaLirer — De Struma cystica accessoria. Diss. inaug. Kiliae 1857. cit. da Madelung. (2) Born - Cit. da Hertwig — Lehrbuch des Entwickelungsgeschichte des Mensch. u. der Wirbel- thiere, s. 236. Jena 1888. (3) FiscarLis — Beîtràge zur Kenntniss der Entwickelungsseschichte der Gl. Thyreoidea und GI. Thymus. Arch. f. mickr. Anat. Bd, XXV, Heft 3, 1885. — TT —- glandolari, i quali infine riunisconsi fra loro e costituiscono la glandola normale. Quando avviene la ramificazione delle gemme epiteliali, 1’ embrione ha la sua estremità cefalica molto flessa anteriormente, in guisa che la gemma mediana trovasi vicina all’ arco aortico e le regioni claveari vicine ai germi laterali. Ora è facile immaginare, che se qualcheduno di quei segmenti o acini glandolari in quel periodo di tempo si fissa ad una di queste parti, mentre allenta i suoi rapporti coll’ organo materno, esso debba trovarsi più o meno lontanamente spostato dal suo punto d'origine, quando la porzione cefalica dell’ embrione si estende e il collo s' allunga nell’ ulteriore suo sviluppo. Così si spiega la presenza delle glandole tiroidee accessorie aortiche scoperte dal Wolfler (1) nel cane e nell’ uomo e che furono poscia riscontrate anche dal Piana (2) e dal Carte (3); così si spiegano pure quelle glandoline tiroidee accessorie, che sono state osservate da alcuni nella regione sopraclaveare, ecc. — Quando poi queste glandoline s' ingrossano e divengono tumori, allora costituiscono ciò che abbiamo detto strume tiroidee accessorie. II. Passo ora a deserivere l’ osservazione mia. Una donna di 84 anni era da un biennio nell’Ospedale Maggiore di Bologna, perchè sofferente di accessi dispnoici risultato di sintomi di stasi nel dominio della. vena cava superiore. Essendo morta nel gennaio ultimo in uno di quegli accessi, alla necroscopia risultò quanto segue. Il cadavere in preda a marasma, la rigidità cadaverica quasi scomparsa; il colore della pelle giallo terreo, lo scheletro irregolare per cifosi ad arco e lieve scoliosi laterale sinistra. Nel cranio si osserva una pachimeningite ossificante, forte stasi sanguigna. meningo-cerebrale, ateromasia diffusa dei vasi arteriosi del cervello con atrofia ed edema cerebrale, non che un focolaio di rammollimento bianco nel centro semiovale del Wieussens in corrispondenza della terza circonvoluzione frontale e della frontale ascendente del lato sinistro. Nel collo la glanlola tiroide spicca moltissimo pel suo notevole volume ed è quasi completamente divisa in due nella linea mediana da un profondo solco verticale (Fig. V). Il lobo destro Ld è più voluminoso del sinistro Ls e si prolunga in basso e posteriormente sino alla fossa sopraclaveare, ricacciando all’ esterno la carotide primitiva c e la jugulare interna jd e spostando un po’ a sinistra la tra- (1) WoLeLer — Ueber die Entwickelung und den Bau der Schilddriise. Berlin 1880. (2) PIANA — Rendiconto dell'Istituto anatomo-patologico della R. Scuola Superiore di Medicina. Veterinaria di Milano. Anno scolastico 1884-85. Milano 1886. (3) CaRLE — Ueber die Extirpation der Schilddriise. Centralb. f. Phys. n. 9. 1888. TOMO X. 98 — 118 — chea e l’esofago. Esso è lungo 9 centimetri, largo al massimo 5, grosso al mas- simo 3. — Il lobo sinistro è lungo 5 centimetri, largo al massimo 4 e grosso al massimo 3 ed offre nel suo margine superiore due appendici: una verso l’ estremo interno diretta in alto ed è l’appendice di Morgagni Ap (*), che si prolunga sulla ‘cartilagine tiroide per circa 2 centimetri; l’ altra verso l’ estremo esterno, lunga ‘oltre un centimetro e grossa altrettanto, si dirige in dietro nascondendosi sotto il tronco dell’ arteria tiroidea superiore sinistra ss. Subito al disopra del lobo destro della tiroide, compreso tra questa e 1’ arteria tiroidea superiore destra, vedesi a livello del margine superiore della cartilagine tiroide un tumoretto, Z, della grandezza di una grossa avellana, di colore rosso pallido, con superficie moriforme e di consistenza elastica. Fattavi una incisione, si presenta una superficie cosparsa di una gran quantità di granuli d’ aspetto colloide, che fanno credere il tumore di natura tiroidea. Questo tumoretto ha la forma di una grossa virgola rovesciata ed è diviso dalla glandola normale per mezzo di una lamina dell’ aponevrosi media del collo. Al di sotto della glandola tiroide, lungo la linea mediana havvi un altro di simili tumori, ZI, del volume di una grossa castagna, lungo tre centimetri, largo 23 millimetri e grosso oltre un centimetro, colla base in alto e coll’ apice in basso. Esso pure ha colorito rosso pallido, consistenza elastica ed è separato dalla glandola normale mercè un profondo solco occupato da connettivo lasso e da vasi. Dalla parte mediana della sua base si vede dipartire un cordoncino fibro-vascolare Yu, che si porta in alto passando pel solco che divide la giandola normale, per giun- gere fin presso all’ appendice di Morgagni. Esaminando meglio questo cordoncino, si vede che esso contiene un ramo arterioso, proveniente dall’ arteria tiroidea supe- riore sinistra, dopo che è passata al di sotto della detta appendice, non che una cospicua vena, che dai pressi dell’appendice discende e penetra nel detto tumore. Un terzo ed ultimo di tali tumori, Z//, osservasi in mezzo a molto grasso nel mediastino anteriore, limitato in avanti dal manubrio dello sterno, che tutto lo ricopre, indietro dall’ arco aortico e dalla vena innominata sinistra, ai lati dai margini polmonari ed in basso dal pericardio. Ha la forma di un cuore, alquanto appiattito dall’ avanti all’ indietro, colla base in alto e coll’ apice in basso ; è di color rosso ciliegia per viva iniezione dei molti vasi venosi che l’ avvolgono, ed è disse- ‘ minato di piccole punteggiature grigio-giallognole quasi trasparenti. Esso inoltre (°) Il Prof. Zosa in una erudita Memoria intitolata « Ricerche anatomiche sull’ Appendice della ‘Glandola tiroidea » (Atti della R. Accad. dei Lincei. Serie III, vol. IV, pag. 317. Roma, 1879) rivendica al Morgagni la prima descrizione dell’ Appendice della Glandola tiroidea, volgarmente conosciuta col nome di piramide di Lalouette, ond’ egli propone sia chiamata Appendice della glan- dola tiroide od Appendice glandolosa di Morgagni. Nello stesso suo lavoro il Prof. Zoja ha descritto la presenza di fibre muscolari striate tanto estrinseche quanto intrinseche nell’ appendice di Morgagni. — 779 — appare lobulato e di consistenza elastica fibrosa, di grado variabile a seconda det diversi punti in cui si esplora, come nelle strume tiroidee ordinarie. Alla base è. lungo 5 centim., è alto 43 mill. e grosso 12 mill. Al taglio mostra anch’ esso un aspetto granuloso, semitrasparente, gialliccio, come i due testè descritti. Esaminando un po’ meglio i rapporti vascolari di questi tumori, si osserva che. il tumore superiore, /, è irrorato di sangue dall’ arteria tiroidea superiore destra, che gli passa di sopra soleandolo — il medio, ZI, riceve rami dall’ art. tiroidea superiore sinistra e dall’ arteria tivoidea inferiore destra, la quale per raggiungere. il tumore gira attorno al prolungamento inferiore del lobo destro portandosi dal- l'esterno verso l’ interno — l’ inferiore o mediastinico, II, infine riceve rami e. dall’ arteria tiroidea inferiore destra e dall'arteria mammaria destra, am, rt, e fors' anco dell'arteria mammaria sinistra, a voler giudicare dalla vicinanza onde quell’ arteria decorreva, ma ciò non si potè verificare, essendo stato asportato il tessuto intermedio durante l’ autopsia. — Quanto alle vene, il tumore superiore ne ha una, che va a sboccare nella vena jugulare; il medio e l’ inferiore hanno vene, che sboccano nel plesso tiroideo inferiore: qualcuna di esse dal tumoretto inedio va all’ inferiore. Tutti questi tumori mostransi avvolti dall’ aponevrosi media del collo e sono. alquanto spostabili sulle parti vicine. Nel resto del cadavere si nota, che i polmoni sono qua e là saldati alla pleura parietale, un po’ enfisematici anteriormente, e nel resto congesti ed edematosi. Il cuore è ingrandito per ipertrofia eccentrica di tutte le sue cavità; dilatata pure è l’ arteria polmonare, Ap, e molto più laorta, 40, la quale è altresì diffusamente ateromatosa. Nell’ addome infine osservasi ipotrofia senile di tutt’ i visceri. Fatto l’ esame microscopico dei 3 tumori, si trovano tutti 3 costituiti da tessuto tiroideo più o meno alterato, avvalto da una capsula piuttosto spessa di tessuto connettivo, ricca di vasi. L’ alterazione precipua consiste nell’ essere le vescicole. spesso di un volume notevole, ripiene di sostanze colloide e nel trovarsi il connet- tivo interstiziale più o meno inspessito (Fig.° II, II e IV). Da questi dati discende chiaro il concetto, che i tre tumori rappresentano altret- tante strume tiroidee accessorie; nè su ciò vi può esser dubbio alcuno, giacchè la costituzione anatomica loro, l’ esatta limitazione dalle parti vicine, i rapporti ben precisi coni vasi tiroidei, ecc., non consentono neppur lontanamente il sospetto, che si possa trattare di tumori metastatici, come videro Cohnheim, Neumann ed altri. E siccome poi esse sono completamente separate dalla glandola normale, così deb- bono essere ascritte alle vere, anzi alle isolate (isolirte) del Wolfer. Tre strume tiroidee accessorie nello stesso individuo, dopo quanto si è detto nella parte generale del lavoro, ci parlano già di un’ eventualità molto rara; ma se poi consideriamo che il fatto avvenne in una donna di piccola corporatura e di 84 anni, allora il caso apparirà tanto più raro, sapendosi che nei vecchi la glandola — 780 — ‘tiroide normalmente si atrofizza e le strume accessorie non si osservano mai, o quasi mai. Ma ciò che costituisce la singolarità dell’osservazione attuale, è senza dubbio la ubicazione della struma inferiore. Nella descrizione data di sopra abbiam fatto rilevare, che la struma era adagiata sull’ arco aortico e sulla vena innominata sinistra, non che sul pericardio. Ora noi sappiamo che in quella località nessuno mai ve ne ha riscontrate, ond’ è che essa deve aversi per un fatto unico nella scienza da aggiungere al capitolo dei tumori mediastinici. In grazia dei cennati rapporti io denomino quella struma mediastinica od aortica; per la stessa ragione potrebbe anche dirsi soprapericardiale; ma non voglio punto dirla retrosternale, perchè temo che tale espressione possa di primo acchito risvegliare nella mente ‘del lettore l’idea di uno di quei gozzi en dedans o suffocants, come li chiamano i francesi, e che sono dati o dalla ectopia della tiroide normale dietro lo sterno, come vide il Nuhn (1), o da prolungamento dei lobi laterali, come osservarono molti altri. Una certa considerazione merita pure in questo caso il rapporto delle arterie ‘colle strume. Il nostro Prof. Porta nel lavoro citato stabilì una legge generale, che finora non ha patito eccezione, vale a dire che le glandole tiroidee accessorie (donde le strume derivano), ricevono rami dalle arterie tiroidee. Ora potrebbe sem- brare una eccezione la circostanza, che alla struma inferiore il sangue arterioso proveniva anche dall arteria mammaria interna destra e fors’ anco dalla sinistra. L'eccezione però non è che apparente, se ricordiamo che Gruber (2) ha descritto arterie tiroidee ime provenienti dalle mammarie, conseguentemente iì rami mammari cche la struma inferiore riceveva, debbono essere ritenuti come arterie tiroidee suppletorie. E tanto pei rapporti vasali arteriosi quanto per la posizione delle strume, non può essere trascurata un'altra considerazione. Noi abbiam visto che la struma II, o media, era collocata nel seno dell’angolo formato dai due lobi della glandola normale, ed anzi che un fascetto fibro-vascolare, composto di un’arteria e di una vena, ne percorreva il solco per montare in alto. Abbiamo visto del pari che vasi venosi andavano dalla struma media alla mediastinica. Ora tutto questo ci dice — se mal non m'appongo — che le strume inferiori debbono essere consi- derate come mediane inferiori, provenienti probabilmente da un prolungamento dell’ istmo della tiroide (se non da tutto il medesimo), il quale poscia si divise allo stesso modo come accade talvolta nell’ appendice di Morgagni. Quanto alla forma delle strume, noto soltanto che mi è sembrata alquanto bizzarra, non avendola mai trovata descritta. E a titolo di semplice ricordo dirò, (1) Nunn — Beobachtungen und Untersuchungen aus dem Gebiete der Anat., Phys. ect. Hei- delberg 1849 S. 19. cit. da HENLE. (2) GruseR — Ueber die Arteria thyreoidea ima. Virchow's Archiv. Bd. 54. S. 445. Berlin. 1872. — 181 — che la struma superiore aveva la forma di una virgola rovesciata, la media quella di una castagna, la inferiore quella di un cuore alquanto appiattito dall’ avanti all’ indietro, indubbiamente per 1’ ostacolo che le dovettero opporre nell’ accresci- mento suo l’ aorta da una parte ed il manubrio dello sterno dall’ altra. Per ciò che si è detto nella parte generale, la coesistenza di un gozzo consi- derevole con 3 strume accessorie non ha niente di particolare; nè offre nulla di particolare la coesistenza di voluminoso gozzo con un’ affezione cardiaca ed aortica, essendo stata questa frequentemente osservata (1). Ciò che qui v' ha di interessante, è piuttosto il prolungamento notevole del lobo destro fino a raggiun- gere la fossa sopraclaveare, determinando uno spostamento della carotide e della jugulare all’ esterno, e dell’ esofago e della trachea più verso sinistra, il che poi rendeva ragione della dispnea notata. Ed io accenno specialmente, questo rapporto coi vasi, perchè giustamente Like (2) fa osservare, che da tale spostamento dei vasi e conseguentemente del vago debbono derivare non pochi disturbi al povero paziente. Da ultimo, io non saprei punto rintracciare quale sia stata la causa di tutti questi gozzi, e ordinari e accessorii. Quello che è certo si è, che se le strume accessorie si sono svolte nelle località che occupavano, è stato perchè là si erano fissate fin dal periodo di vita embrionale, e glandole tiroidee accessorie infatti non di rado furono ivi notate da varii osservatori. (1) Scaranz J. — Beitrige zur Theorie des Kropfes. Arch. f. klin. Chir. Bd. XXXIV, Heft I, pag. 92-159. Centralbl. f. Chir. S. 25. Leipzig. 1887. (2) Lucxe — Krankeiten der Schilddriise. Pitha u. Billroth. Bd. III I Abth. 6 Lief. Stut- tgard 1875. — 782 — SPIEGAZIONE DELLE FIGURE rosi L, Lingua. Ld, Lobo destro della glandola tiroide. Ls, Lobo sinistro della glandola tiroide. I, Struma accessoria superiore. II, Struma accessoria media. III, Struma accessoria inferiore, mediastinica od aortica. Ap, Appendice di Morgagni. Ao, Aorta. Ap, Arteria polmonare. ppp, Pericardio. cd, Carotide destra. cs, Carotide sinistra. ss, Art. succlavia sinistra. jd, Jugulare destra. js, Jugulare sinistra. am, Arteria mammaria destra. rt, Ramo che va alla struma III. ms, Arteria mammaria sinistra. ss, Arteria tiroidea superiore sinistra. rtss, Ramo che questa dà al lobo destro della tiroide e alla struma accessoria media. fv, Fascetto vascolare. v, Vena del lobo sinistro della tiroide, che sbocca nell’innominata sinistra. cu, Connettivo e vasi, che uniscono la struma II alla III. Fig.* II. Struma tiroidea accessoria superiore c, capsula fibrosa. mao io * > media v, vescicole glan- Rio Vo i È inferiore o mediastinica dulari. G.DAjutolo. Fig 1—X25 Fig. Il — X 25 INSULTO E. Contoli, lit. lit G.Wenk e Figli- Bologna. Pio P° Gregori, dis. — 183 — PNDTICE Membri della E. Accademia delle Scienze per Vanno 1888-89. G. Capellini — Sw primo uovo di Epyornis maximus arrivato in Italia F. Delpino — Applicazione di nuovi criteri per la classificazione delle piante ; seconda memoria S. Pincherle — Su alcune forme approssimate per la rappresentazione di Funzioni S. Trinchese — Ricerche anatomiche sulla Forestia mirabilis (Tr.)} con una tavola . D. Vitali — Alcune osservazioni sul cianuro di mercurio e sulla sua ricerca chimico-tossicologica. Idem — Sull’azione dell'acido solforico concentrato sui cloruri, bromuri, toduri alcalini in presenza di alcuni sali metallici F. Delpino — Funzione mirmecofila nel regno vegetale; prodromo d'una monografia delle piante formicarie (cont. e fine) . V. Colucci — Intorno ad un caso di ulcerazione gastrica perforante nel G. C. cavallo ; con una tavola. La ae n Cocconi — Contribuzione alla biologia dell'Ustilago ornithogali (Schmidt et Kunze) Winter; con una tavola . Ferrari — Sulla spermatogenesi nei mammiferi; con una tavola . 71 89 95 109 115 149 171 181 — 784 — F. Morini — ticerche sopra una nuova Gimnoascea ; con una tavola . Pag. 201 G. D’ Ajutolo — Della Urcterite cronica cistica ; con una tavola. 209 A. Righi — Sulle forze elementari Elettromagnetiche ed Elettrodinamiche. , 217 A. Gotti — Alcune ricerche sulle inoculazioni intravenose di virus rabico negli Ovini. BIO L. Donati — /Mustrazione al teorema del Menabrea n 267 L. Calori — Storia di un proencefalo umano notabile per le parti cefa- liche extra ed intracraniensi e pel teschio osseo ; con due tavole . » 275 G. V. Ciaccio — Intorno alle piastre nervose finali ne’ tendini de ver- tebrati ; nuove investigazioni microscopiche ; con sei tavole . > BOL C. Taruffi — Caso d’ Hypognathus antistrophus in un vitello . » 325 Idem — Caso di tricuspide embrionale in un fanciullo di 12 anni; con una tavola . > 0800 F. P. Ruffini -— Delle curve piane algebriche che hanno potenza in ri- spetto a ogni punto del loro piano ovvero in rispetto ad alcuni dei loro propri punti . pi 09 A. Righi — Sull elettricità di contatto in diversi gas pi GSS V. Colucci — Sul! endocardite vegetante ulcerosa nel porco ; con una tavola >, 361 A. Saporetti — Metodo terzo per iscoprire più speditamente che cogli altri metodi e con minore spesa gl istanti del nascere e del tramontare della Luna a Bologna e con un’ unica grande tavola n dol G. Ciamician e GC. U. Zanetti — Sulla trasformazione dei pirroli nelle diossime dei y-dichetoni corrispondenti TOSO C. Razzaboni — Risultato di esperienze idrometriche sopra tubi addizionali. , 397 HF. Verardini — Considerazioni storico-critiche sul vaiuolo e sul vaccino; con una tavola 3 405 G. Capellini -— Ichthyosaurus Campylodon e tronchi di Cicadee nelle argille scagliose dell Emilia; con due tavole Sa li . Bombicci — I rilievi crateriformi riproducenti l'aspetto dei terreni e dei conì vulcanici alla superficie di un grande disco d’ argento di fusione pesante duecento chilogrammi (dell'Esposizione Internazionale di Pari- gi-1889). — Conclusioni che se ne possono trarre sulla fisica costituzione — 7185 — e sui fenomeni dinamici del globo terrestre; con due tavole . . . . Pag. 45£ C. Fornasini — Primo contributo alla conoscenza della Microfauna ter- ziaria Italiana; con una tavola . L. Bombicci — La collezione di Ambre Siciliane posseduta al museo di Mineralogia della E. Università di Bologna (dono del Ministero di pub- blica istruzione nel 1889) e nuove considerazioni sull’ origine dell’Ambra gialla A. Cavazzi — Nuove ricerche intorno all’ azione dell’ acido Borico sul- l acido Idrofluosilicico G. Ciamician e C. U. Zanetti — Sul? azione dell’ Idrossilammina sui Pirroli . F. Pincherle — Saggio di una generalizzazione delle frazioni continue Algebriche . L. Bombicci — Sulle inclusioni di Ciottoli probabilmente pliocenici 0 qua- ternari nei grossi e limpidi Cristalli di Selenite di Monte Donato, Bo- logna. — Appendice. Sulla lunga perduranza delle attività molecolari orientatrici nelle masse cristalline in quelle segnatamente di Selenite ; con due tavole . F. Delpino — Applicazione di nuovi criteri per la classificazione delle piante; con una tavola . . Vitali — Alcune osservazioni sull’ analisi delle acque solforose . . Albertoni — Azione della Cocaina sulla contrattilità del protoplasma. — Esperienze. . Tizzoni e G. Cattani — Sulla resistenza del virus tetanico agli agenti chimici e fisici. — Comunicazione preventiva . L. Colucci — Sullo sdoppiamento completo di tutte le vertebre cervicali e delle prime quattro dorsali con anencefalia in un Feto bovino ; con tavola P. Riccardi — Saggio di una Biblioteca matematica italiana del Secolo XIX V. Retali — Sopra due particolari trasformazioni piane quadratiche. . S. Canevazzi — Contributo alla teoria dei sistemi elastici; con tavola G. Brugnoli — Di una forma singolare di Nevrosi e dell'uso in essa del- l Atropina ad altissime dosiì . TOMO X. 99 » 463: 473 487 491 513 539 565 601 607 617 621 635. 653 673 6397 — 7186 — E. Villari — Osservazioni intorno ad alcuni fenomeni di Fosforescenza e Fluorescenza 2 ROSATO BAM AI DORMIRE RE G. Cocconi — Sullo sviluppo della Thecaphora aterrima Tul., e dell’ Uro- cystis primulicola Magnus. — icerche sperimentali ; con due tavole S. Trinchese — Contribuzione alla conoscenza dei fusi muscolari; con tavola A. Gotti — Licerche sul microrganismo di una forma di Pleurite del Cavallo ; con una tavola ‘ai N N e Cabo V. Mazzoni — Sull ufficio delle Cellule giganti nel fegato dei neonati e delle loro alterazioni nell’ avvelenamento per arsenico ; con tavola . E. Padova — Sulla Teoria generale delle superficie . G. D’ Ajutolo — Delle Strume tiroidee accessorie ed in particolare di una mediastinica e di due cervicali nello stesso individuo ; con una tuvola sc» / 0) 6) » 773 ERRATA -CORRIGEKE esterna dello stomaco /eggî interna dello stomaco diffuso manifestatosi » diffuso della pelle manifestatosi concepito » accolto l’ inoculazione » l incubazione fi genoa È PA SNAre FIL FIFA LITRI pil Nu Vl A: à PO GIULI agi) Lulu D_D:5b.,)i), ») DI). >) 9), ip >» 2)» > DD JM Da DI)) ) )/) dI DIP) n°) DI ) 3 Puy 7 DD I) pu» >> >» 2%» fl CY) ep) >B >Dbo IM v) Mb)? D ))d ) Pod PD)» >>» MR VP ) > 000), ») È DI » DI) )» »)) )) DD) >> »)D )) ) D ) >) = > VD. )) ) D )) D = D ) > dd >» _2 7, Ù 3 ) »D I» DI) MO») » PID D ») » 9 d» DU D EA 4 »). \Dd)) >) DIM DI > é di) )) d )) >». ) S D. D ) Dio») D .)) pa» D. 72 PD. > ND > D ))) ) ?DID 2p> PD} im PD > D 7 7 DIA ) DPI) P_D) 2 ) DID I >) Jp > pa ). )D 4 LI ILAR I p) pp) _d D DI 1 V_S2510 JD dee >>» pan >> )) IMP 2) d9 € Ar) 2/1) IP? ID DI DOP 5») > ni) VI) >) _DbPD))D_ DI )») Db I MID 19)» My} balb»Id5 o me > ba Pan 2)» DIDP:Db »)D_ mo >) )) JP DAMNID ))) pia»: >) I Deo D) è DD) PID I PPDLD DI | Ò DIRI 1) D PIPPI I 20 > Pi» _)))) PID, > I» d i vw ” Ù. » )) DD’) >» bp PI Pd D> ) } 3 PED» To pd IC >))” > RAI I III 3) 3 di PD > » Sh 27 ) vb. >» » DID) D pe» o) \D )»» P }); Db DIEM ) 4 ì)» » E. p, Sese, » D >) ) d > } Eb mo AL » PALE p> DI va 22 dl 1 RO Sd DDD: 3 9 o ® II Casi d 2 V, - v Mo 1) 40 2404 A D)) 2 LdIIBRP__)_ è > PID. >) _P 1) _ MPA }p20 /) PYID Ò » )1Pp2 PM P » »MP>» P)} 3). PP)? 2) POT I » 2) DIL hp DD pp)?» DD }b)> 0») W222 1» >) Pd md BP 2) P Id ID Im): Dy PÒ è 3»)? TI eo 0) 230) > MOD MP 2) PL > »)»2:p )}L2 Mb PP?» Db» ) Dp pr» 42) POD Bb I PL: D P:7)) DIO PPP I Lè?d IP xp” )))) IPIPIO D) p2° ;__ o D 14) DI ID); DI» NI” mo P)p DI i) IPO DO BD )1bb bp»): P _DbDP Mep DD _DP>)> P», 5») Si» pp» 1° amo 3» DI Db») POD ai ») » PIÈ PPP) psn yi PID ))) pap» » 33 D Do dI D DD PMO ID IP ))) pp» I) bh PD DI OD © _P»PIDD)) >_d De» 2) PIED 205 _b PIP)» DD) j DP_DD DI P_P))__)}:; fn 10 70) d Ho» )») PD pay? mn Y PV) )) ) 0 peo.) JbI ) o» PP DZ D >) DD) 9) 4 BID _)PD 5) }? d dè pei») D DP_MED D WD: DI » lb 1») >>») >» DD d 1% > PD N05) » DIE) » KP /ED PP pb; )) dò > Tp DI LP. o i us i » mp Y ) Ke, » ® Md )) DIE)» » UA » i mano» © 2» MP D >>» » P_M vi PDL? ID)» d» ad») DI Sn» >) Vv 2? ». è pin)» >» uo PI D )» DI _ ))D D » DD >) Jp WI )) Doo» > 2 BI) Soto IR) DD RP) —- >> Jp »umm è») PjI 3 DI 2) 3 1 D °D Id 0 VI A »> o DB») DID LD 5 DV EA»), I » )> pl» »p> pree:? ip el’» sò map» 27» Milite è bD è Mb I» SI) mp » P i )°D ho» ) OVINI MaI » Ò » Sn Db 3» Yz) è») DD bd PID) )) > Ibm ) >» DI PIù DD VPI ) Db > > DoD): DIM d > >) > D >» DD _0)D ))_ 09D> D»> PD) _)>)P PD » p >) bp Db © > Db > » ») WB) ]) > » O > D YI )) DID >) D ))) Pb )”) P)P>»)}) >» 21D p) >}Pp)>)> MD ò: > >) DIED P) PPP») PR DD p) pppm)p )p_MD): D ) >> DID dI) DIP» 2) IODD Db, » 00 py> VP _M}: p f:>» DED P)) >)d IP)» ))) Do p> 3ID >> PP _HD > fr) Pz Ma }}}I>)) ») MD d> > RP) » PROD: >» DID» DE DR?) i I P)) Pb )) LI ) ) SISSI DI: » D DI): 2 DI,» >) I) )) DID » I?) » VOL ADDIO RIDI »» Nast > ‘22:00 p») d fe >) » ) DUO» MJ Dè PID ) >_>) » TMP D DIM ID I \d>229 > D ) > ) »22 DID ) va» ann 00) ») ) BD > DA” PIP 2) >» 29 D 2 LIE Lmpywabp B D 255)) DM pi»), DID) IRPI YI PID VI. pI) WD )) ) d ) DID Db D ) Meo DID DIDO DD ))D) 3} % dp 2)_D PID] Da DZ) 322 0 DI DIZI)) _ IIDI ya) )) PI250 I PIRIDRID 2) peo dI >) pnD)) PÒ) MD }»)]> )) Pr bp )»)PP?P UDPEmn 531 >» Im) DD» IND > 2) PP > ez )2 WI PI» Do» MM Pup 27) DIE Dib plz Db) 07 PIE 0 DO. Kip” ))) PBD_DI D>ae1b Mi.) ny p») PPP) DI» 07 iu» )»)> PPAI 220 ED W)mp My) DbpIP>):} Db» mp > i» DD) PID II TI) o 3)» _ PP: ov sp ) o P) È PPT) Vizio) »'DEMD >) ppia»» DD Db > puo 10) » PID) Pro DID DD) BpbD»» DI LOD) DD >» _Lb>D)) i a 2» li DI 209» b ER) DD PP _D) »y $_D)) __ΰ DP_)__> D_\) (4 ibm») DE RED DI » 09 Domo) ibn» » m_P 72 >) D Pa) bd Db SD) P] :P0 5 )>B ) D pe D 20) > 202 » > è» Pl» _L I) I) ) Q \ >» PD PRA DD DIDO DI ” NP DIP PP > bp) MPI, » Y DD D | o » » 226 )) D DD)» te | 2 202» © 0 3 D ? DD D D_IMD) DI ))> D_d> 9) DD) Ti» SD P) MII. » xy Ya ) > P Due)» DU PD ), > Duno») DD Mw» i D DI: Ji) 0130 2, DI) pp. DP_DID i D pap; Dn Mew Db » D», > _D VI Pd _)2 DO D Mb» 3 MID) o a Ci \Cy (O Oo © Lia = © el x ve (SI ‘ AAC È li Cè” ,, h e e ” ada 4. 4 < | Sd Pa N À pà fato o do i “Ch AAA, A bh si u re wi. do è Na “W ‘de de & AA \ PIA A LO Uh red) i A se (“4° idr _- A N ACI 2 Rosi a); UO fd _/ AA A ARIDI - den ho ei TA w "4 i Ad rt Pri ì ”< ” ANI NA ‘è \ AS Aù. DINI Ì, va 0) 3 Ò i i Ne >, = } È [el IA — pf dae Prg 1 DIM )) d: PP >> mu» >>» DI }»_P>DD MD DD) )» >>» D ib DI) R dI: i “Nt i» Do i Se wo: Pad Id Fit, «e —_ T9 DA